Seconda edizione: giugno 1999
Terza edizione: aprile 2007
Quarta edizione: marzo 2024
Edizione inglese: Palestine, mon amour, Elephant Editions, London s.d.
Pensiero e azione n. 9
Alfredo M. Bonanno
Palestina, mon amour
Quarta edizione
In mancanza di una introduzione alla terza edizione
Ancora oggi, senza titolo alcuno
Introduzione all’edizione inglese
I nodi di un problema senza soluzione
Le giustificazioni di uno Stato teocratico
La scarsa conoscenza del problema
Lotta insurrezionale in Palestina
I palestinesi continuano a morire
L’orrore dell’abitudine all’orrore
Boicottiamo i prodotti israeliani
Come si diventa quelli di ieri
L’aspetto ovvio dell’impensabile
Dietro i fantasmi di Carpentras
La comunità, dalla sperimentazione alla sopravvivenza
Lettera critica di Antonio Lombardo
L’oscura chiarezza delle parole
Il garbuglio del gendarme mondiale
Un groviglio difficile da sciogliere
La barbarie, strada per strada
In mancanza di una introduzione alla terza edizione
Cari compagni,
il vostro invito di tornare, insieme, sugli scritti da me raccolti nel libretto Palestina, mon amour, mi ha fatto riflettere non poco. Tornare sui propri passi non è cosa che mi piaccia molto, sono, difatti, un pessimo lettore dei miei stessi libri e quando sono costretto a curare una seconda edizione patisco le pene dell’inferno.
Il problema è però un po’ diverso del solito. In effetti la questione ebraico-palestinese, o come meglio la si possa identificare in una delle tantissime formule parimenti traditrici, me la porto dentro da un quarto di secolo, quindi non si può dire che non sia mai tornato sui miei passi, riflettendo e a volte perfino rimpiangendo scelte fatte e scelte non fatte, accettazioni e rifiuti, slanci d’amore e raffrenamenti di odio. Di tutto ciò non ho pensato minimamente di fare un bilancio nel libretto di cui discutiamo. Che senso avrebbe avuto un bilancio?
Mille cose mi vengono in mente adesso, e di ognuna di esse vorrei mettervi a parte, poi mi rendo conto che molte di queste cose, sensazioni, timori, gioie, speranze, esperienze, amici e compagni visti nel loro momento estremo della vita, quando le parole si arrestano di fronte all’unica realtà possibile, quella conclusiva, persone sconosciute, donne, bambini, un teatro della vita incredibile, anche perché lontano, lontanissimo, da tutto quello che costituisce in genere l’esperienza che ci porta a riflettere, a razionalizzare, a distinguere. Ma, di queste cose, come parlarvene? Non oso, sembrerebbero, adesso, nel freddo degli entusiasmi placati, nella distanza di contrasti poco comprensibili, quasi un alibi, un surrogato alla comprensibilità vittoriosa, quella che della ragione se ne fa uno scudo e un campo minato.
Eppure, nelle contraddizioni e nelle titubanze, di cui non potete non avere colto la presenza disturbatrice fra le righe del mio piccolo libretto, io resto me stesso, e mi raccora molto il dovervi contraddire, ad esempio, nel precisarvi che il paragone posto da me tra l’evoluzione storica del cristianesimo primitivo e il passaggio degli ebrei israeliani da perseguitati a persecutori sussiste pienamente. Questo ribadire, con il suo possibile rinvio a documentazione che io stesso ho pubblicato in decine di articoli su varie riviste (storiche) e che penso di fare uscire in un volume (all’origine di tutto ciò ci sono le ricerche per la mia tesi di laurea del 1966), mi dà palesemente torto, perché quel lontano accadimento mi perviene, faticosamente, attraverso un incrociarsi di testimonianze e di studi che sono tutti ben saldi nella loro logica dettata dalla ragione dominante, mentre questi fatti, alcuni dei quali, nella piccolissima parte di quel che ho vissuto personalmente, mi rimpallano continuamente nel cervello come un’ossessione.
In questo senso, se mi consentite, avete ragione, il raccostamento di queste due esperienze è innaturale, in quanto, per me, uomo del ventesimo secolo, l’origine del cristianesimo resta soltanto un’esperienza dell’intelletto, quando invece il problema ebraico-palestinese, è anche ben altro.
Come distinguere il mito dalla realtà storica, consentitemi di rinviare il problema a un altro incontro futuro con la vostra ospitale cortesia, per il momento mi preme andare avanti. Io metterei da parte la questione del mito che senz’altro gli ebrei hanno contribuito a costruire su loro stessi, anche perché questa faccenda si muove in due complicatissime direzioni. La catastrofe non è soltanto subita ma anche cercata dalla religione ebraica. In ogni caso, perfino l’olocausto resta un segno di Dio, un particolare rapporto che Dio ha col suo popolo prediletto. Potete obiettare, e a ragione, che questa tesi è quella dell’oltranzismo tradizionalista, e sarei costretto a concedervi la fondatezza dell’obiezione, ma per mille vie, nella quotidianità dei singoli fatti, quel concetto mitico della parola di Dio filtra nella singolarità della condizione di uno Stato teocentrico, bene o male accettato, se non introiettato, perfino dalle componenti laiche. Mi sono accorto che il laicismo dei laici ebrei non è lo stesso di qualsiasi altro laicismo. La lontananza da Dio non è mai assoluta, qualcosa resta.
A porre l’equazione ebreo-perseguitato, di cui sottolineate l’importanza, è di certo la leadership tradizionalista ebraica, ma non si può dire che non trovi corrispondenza in molti altri ambienti. Ho conosciuto ebrei sefarditi provenienti dall’Etiopia che avevano lasciato il loro paese per andare nella “Terra dei padri”, non erano integralisti, e meno che mai sionisti, erano gente come tanta altra gente, ma erano ebrei e non volevano perdere l’occasione storica di vivere accanto ad altri ebrei nel luogo predestinato dal Signore. Nella loro terra di origine erano dei privilegiati? No. Non ho mai incontrato sefarditi che lo fossero, ma questo – mi si potrebbe rispondere – è ovvio in quanto si tratta, nella quasi totalità, di paesi poveri. Diverso il caso degli askenaziti. Integrati, perfino a livelli altissimi di comando in paesi come gli Stati Uniti, si tengono sempre in contatto fra di loro, e quando si sono staccati definitivamente dalla comunità ideale degli ebrei, allora il problema non si pone, in quanto non sono certo loro che vanno in Israele per abitarci definitivamente, lasciando la propria condizione privilegiata d’origine.
Quindi, in un modo o nell’altro, gli afflussi d’immigrazione in Israele, almeno fino a qualche anno fa, erano di natura che definirei “obbligata”, o si trattava di gente messa in condizione di scappare via (Marocco, Algeria, Russia), o di persone che sentivano veramente il bisogno religioso (e soltanto in subordine etnico) di recarsi a vivere in Israele. Non per nulla la fascia oltranzista, lo zoccolo duro della lotta contro i palestinesi, è venuta sempre dai sefarditi, cioè dagli ebrei poveri che, sia detto tra parentesi, sono il serbatoio inesauribile della polizia e dell’esercito.
Qui non si tratta di un pensiero astratto, che non subisce condizionamenti, pregiudizi, luoghi comuni, e che non partecipa del processo di formazione dell’opinione pubblica. Si tratta di un sentimento religioso ben concreto che si acquatta nella vita dell’ebreo che si ricorda di essere tale, e che lo spinge verso l’esperienza dell’“ondata” verso il primo Israele, la grande ondata colonizzatrice che avrebbe dovuto fare fiorire il deserto col lavoro delle braccia. Il fatto che oggi ci siano pochissimi disposti a rimboccarsi le maniche nelle comuni agricole e moltissimi disposti a sfruttare il lavoro mal pagato dei palestinesi, è il contrappeso della questione. Allo stesso modo in cui il soldato che abbraccia il mitra di fabbricazione israeliana si mette in testa il copricapo tradizionale ma, in fondo al suo cuore, spera molto di più che funzioni il mitra (per altro ottimo) e non la “potenza” che lui crede racchiusa nel copricapo.
Non bisogna dimenticare che le resistenze più forti per la costituzione di un esercito israeliano e per i relativi finanziamenti vennero proprio dai tradizionalisti, ai quali sembrava di contrastare il volere di Dio l’avere a disposizione un esercito capace di vincere una guerra.
Non so se avete notato che il pezzo intitolato “Chi è l’ebreo”, del 1986, non era mai stato pubblicato, e questo non è stato per caso. Molti dei problemi contenuti in quel pezzo non solo non mi soddisfano, nella loro proposizione (di soluzione nemmeno se ne parla), ma mi inquietano anche oggi e sono certo che continueranno a farlo.
Ho letto il vostro excursus storico sugli ebrei e non so cosa dirvi. Molti dei dati che indicate li conoscevo, molti no. Dev’essere sicuramente come dite voi, da parte mia quando parlavo di persecuzione, come mi pare corretto, intendevo non tanto lo sterminio radicale nazista, ma anche una condizione di particolarità in cui una popolazione, più o meno determinata etnicamente e circoscritta, si viene a trovare. Per particolarità intendo il ricorso a certe pratiche ad esclusione di altre. Per me – e per molti altri che la pensano come me, alcuni dei quali in grado di dimostrare meglio di me quello che pensano – si deve considerare persecuzione, o discriminazione, anche il privilegio concesso in epoche storiche molto ampie, agli ebrei, di prestare denaro, o l’altro privilegio di costruire dei quartieri specifici solo per loro, dei ghetti che in certe epoche venivano chiusi e difesi, e in altre epoche si aprivano a una migliore corrispondenza con il resto della popolazione. Questa realtà dell’attività degli ebrei nel campo dei prestiti monetari (concessione specifica della Chiesa), dei ghetti, delle persecuzioni basate sulla “limpidezza del sangue” (Spagna), attraversa sistematicamente la storia e fa da contrappeso ai riferimenti da voi citati.
Partendo dalle condizioni codificate dalla ragione per come le conosciamo, un mondo difettoso ma che si può sistemare, le modulazioni, in fondo, della socialdemocrazia che prevede in base alla legge di progresso di fare felici tutti gli uomini, non solo mi sono trovato in contrasto radicale con i miei personali convincimenti anarchici, ma anche con i miei amici ebrei con cui ho passato nottate a discutere dell’argomento.
Che c’entra questo discorso? Secondo me c’entra. Voi parlate di un mio metodo e di una mia impostazione dei problemi. Ecco, io non so bene quali essi siano, se usciamo un attimo dalle formule grossolane che servono per introdurre i problemi e successivamente approfondirli. Come fare a separare la religione nei riguardi del popolo ebraico, non quello storico della Bibbia, ma quello di oggi, che vive in Israele? Lo si può fare benissimo, ma si corre il rischio di non capire quella realtà. Non solo perché si tratta di uno Stato teocratico, ma perché la quasi totalità degli ebrei che vivono in Israele oggi si sentono ebrei (in caso contrario non sarebbero là) e sentirsi ebrei significa avere a che fare con la religione ebraica. Certo, mi si potrebbero ricordare le nuove generazioni, nate in Israele, le quali si trovano là non per loro scelta, ma perché figli di famiglie ebraiche, e qui potrei rispondere sul modo in cui è organizzata una famiglia ebraica, sul ruolo dell’educazione nella famiglia e nella scuola, sulla funzione essenziale del rito, sull’oggettivazione della cerimonia religiosa, ecc. Non voglio dire che il conflitto ebraico-palestinese si spiega “soltanto” con la religione, sto dicendo che è un aspetto essenziale, primario, che non può essere messo da parte.
Certo, se voi definite “teocrazie” la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, posso anche capire il perché ma non condivido questa valutazione, non per negare il ruolo svolto dalla religione in quei paesi, e dappertutto nel mondo, ma perché una precisazione che non precisa è meglio evitarla. Per me la teocrazia è un’altra cosa, almeno penso che sia un’altra cosa. Sul mito del popolo eletto da Dio, riferendosi agli inglesi, confesso la mia ignoranza.
Devo ammettere che riguardo il rapporto tra la vecchia sudditanza dei palestinesi nei riguardi dei paesi dell’Est e la nuova nei riguardi di un certo integralismo islamico non ho una documentazione recente. Ho applicato semplicemente il modello precedente, da me conosciuto direttamente, in funzione alla nuova situazione che si è venuta a creare dopo il declino del blocco dell’Est. Non perché non tenessi presente il fenomeno insurrezionale dell’Intifada (come sarebbe stato possibile?), ma perché conosco le posizioni di Hamas e le scelte non intelligenti fatte in epoca non troppo lontana (1992, ad esempio). Personalmente penso che un’altra causa dell’Intifada, forse quella più importante, è l’estrema povertà della maggior parte della gente. Basta pensare che a Gaza, in un territorio di circa un chilometro e mezzo quadrato vivono 90.000 persone. Nel mese di dicembre i dati in circolazione nella stampa internazionale (discutibili quanto si vuole) parlavano di una disoccupazione dell’80 per cento, con punte del 95 per cento nel campo di Jabalia. Sono cifre che per quanto incerte, mettono paura. Oggi, la vita dei palestinesi è caratterizzata sia dall’insicurezza (il governo israeliano sta continuando con i finanziamenti ai coloni per nuovi insediamenti) e dalla chiusura. Lo spazio si sta sempre di più restringendo anche per i palestinesi che vivono in Israele, in particolare per quelli di Gerusalemme.
Penso che da quello che ho scritto qui, diciamo nella maniera che queste considerazioni mi sono venute alla mente, che poi è l’unico modo in cui mi accade di riflettere su questo particolare problema, appaia chiaro che non ho mai impiegato metodi preconcetti o attirato qualcuno in tranelli morali per poi bastonarlo in santa pace. Sulla questione di Torino mi rendo conto che, a parte il riferimento a un mio “relativismo morale”, avete colto esattamente il problema, ma non avete notato che si trattava di una polemica con chi vedeva in quel banalissimo fatto quasi un attacco agli intoccabili privilegi degli ebrei. Il relativismo è una posizione filosofica che non condivido. Ma questa è un’altra storia.
Se mi consentite un’ultima annotazione, penso che questo problema, nella sua angosciosa complessità, richieda un raccorciamento delle distanze. Non può essere messo sotto il lentino del microscopio. Troppi massacri, troppa ferocia è andata sedimentandosi da quelle parti, e sotto gli occhi impassibili di tutti. Un esodo come quello in corso nel Kosovo è appena il dieci per cento di quello che è accaduto ai due milioni e mezzo di palestinesi costretti a lasciare le loro case verso paesi praticabili (come la Siria) ma anche non praticabili (come il Libano). Di fronte a queste sofferenze le parole fanno difetto. Tutte le parole.
Con amicizia,
Trieste, 5 agosto 2003
Alfredo M. Bonanno
N.B. Nell’aprile del 2004, appena entrato nel carcere di Trieste, ho scritto un testo abbastanza approfondito sul male radicale, sul progetto di distruzione totale degli ebrei, studiato e parzialmente posto in atto dai nazisti. In questa occasione, per la prima volta, ho raccontato – non so perché ma mi è venuto su spontaneamente, senza alcuna remora, forse a causa del trovarmi in prigione, ma forse per l’estrema radicalizzazione della lotta tra israeliani e palestinesi – la tortura che ho subito a opera degli uomini del Mossad nel lontano 1972. Non credevo possibile che questo racconto, per altro raccorciato in poche righe e senza indicazioni non necessarie, potesse interessare qualcuno. Dopo averlo visto scritto sulla pagina, mi sono accorto che interessava me. Un angelo impazzito aveva azzerato il mondo. Il deserto era il risultato, un orrendo geroglifico incomprensibile. Le indicazioni della catastrofe sono il portato più comprensibile della conclusione. Il trionfo della mediocrità è garantito, il mondo trionfa continuamente su se stesso, strato su strato. La storia è testimonio inattendibile e nauseante. Ritiene che ci siano intervalli nella mediocrità, che qualcuno in essa lasci il segno della propria geniale intelligenza. Invece i segni discontinui sono solo la conseguenza di un aumento di stupidità. Una massa greve e repellente, indurita dai tentativi ripetuti invano, una delusione senza sosta, ferita che scende in profondità, tutto questo mi grava sul cuore. Niente brividi, sono sempre io, anche quando getto uno sguardo nell’abisso. Oltre il gelo e il male della vita che quotidianamente mi assilla, oltre lo sgomento e la malinconia, oltre la rabbia dei giusti e la malvagità degli stupidi, oltre le menzogne che aiutano a sopravvivere, oltre i meschini scopi che giustificano i feroci mezzi, oltre gli ideologi e i massacratori, placidamente si distende la realtà, sicura, incontaminata, priva di spiegazioni scribacchiate in tutta fretta da mezzani inconcludenti. Scarafaggi, serpi, cavallette e la polvere falsamente furiosa di sognatori e poeti che la realtà disperde ai quattro venti.
Inserisco in questa terza edizione il testo indicato sopra.
Trieste, 22 gennaio 2007
Alfredo M. Bonanno
Nota alla seconda edizione
Esaurita in pochi mesi la prima edizione di questo libretto se ne è resa necessaria una seconda, che esce liberata, almeno mi auguro, della maggior parte degli errori che avevano funestato la prima.
Mi sarebbe piaciuto dar conto qui delle tante discussioni che a voce e per lettera ho avuto con i compagni che hanno sviluppato non poche critiche al mio lavoro.
Forse lo farò in una prossima edizione, forse non lo farò mai. Si vedrà. Qui mi sembra interessante notare che non sono uscito del tutto malconcio dal ginepraio dove sono andato a ficcarmi. Dopo tanti anni, l’odio accumulato e le delusioni assorbite con apparente noncuranza, non hanno cancellato il mio entusiasmo, nei fatti, intendo, più che nel riordino delle idee.
L’identità ebraica, nella sua contorta visione della vita, nella sua concezione del mondo che colloca al centro di tutto un Dio molesto quanto altri mai, e da questo trauma originario riversa nella propria storia una giustificazione e perfino un amore per la catastrofe, resta uno degli elementi essenziali da cui partire per comprendere perché nessun quartiere verrà dato alle rivendicazioni palestinesi.
Per un altro verso, altrettanto doloroso è stato per me constatare che l’itinerario intrapreso dai palestinesi non è per nulla quello che auspicavano tanti anni fa. Politici e profittatori stanno lavorando a costruire uno Stato che per forza di cose sarà forse peggiore del suo nemico di sempre.
L’unica speranza resta l’insurrezione popolare, che di già comincia a profilarsi contro gli stessi governanti dei Territori, fantocci in divisa che una volta, non tutti beninteso ma la maggior parte di loro, sembravano persone in carne ed ossa, uomini e donne degni di fiducia e di rispetto.
Ma il tarlo politico rode e mina in profondità tempre e caratteri che sembravano inattaccabili a qualsiasi lusinga. L’“autonomia” dei Territori ha avuto il risultato di trasferire in mani palestinesi il controllo dell’ordine pubblico. Adesso è la polizia palestinese a controllare e reprimere tutto, perfino la stessa Intifada. Israele sta risparmiando i costi altissimi di questo controllo e le spese militari e politiche di una occupazione sempre più difficile da mantenere. Gli interessi del nuovo governo israeliano si indirizzano ora verso la conquista di Gerusalemme Est, tradizionale zona di insediamento palestinese.
Se si tiene conto della grande presenza di coloni israeliani nei Territori cosiddetti liberati si arriva a una facile previsione: aumento degli scontri. Alla fine del 1988 i coloni in Cisgiordania erano aumentati da 110.000 a 145.000 e quelli di Gaza da 3.000 a 5500.
Al di là di tutto, perfino delle considerazioni sviluppate in questo libro, i sogni di un tempo continuano a farmi battere il cuore.
Catania, 2 giugno 1999
Alfredo M. Bonanno
Ancora oggi, senza titolo alcuno
C’è una particolarità nella lotta del popolo palestinese che ha da sempre affascinato e coinvolto tutti coloro che l’hanno avvicinata per capirne le motivazioni: questa particolarità è data dal fatto che dall’altro lato della barricata ci sono i perseguitati di ieri, anzi di sempre, gli ebrei.
Ascoltando solo la voce della ragione non c’è da meravigliarsi: spesso i perseguitati si sono trasformati in persecutori, basta pensare alle sorti del cristianesimo primitivo che, nell’evolversi di tre secoli, raggiunge il potere e inizia la repressione sistematica di tutte le voci dissenzienti. La storia presenta molti casi di questo mutar di casacca: divenuti dominanti, i cristiani distruggono i pagani, sui templi di ieri sono costruite le chiese di oggi. E, molto più recentemente, non c’è forza politica, per quanto travagliata sia stata la sua vicenda di avvicinamento al potere, che una volta raggiunto quest’ultimo non si sia lanciata nella più spietata delle repressioni. Ma, per capire il conflitto palestinese-israeliano, non è solo la voce della ragione che bisogna ascoltare.
Gli ebrei sono sempre stati al centro dell’attenzione, hanno da sempre riscosso sospetti e simpatie, spesso più sospetti che simpatie. Cacciati da ogni dove, sulla base di insinuazioni e accuse spaventose, hanno per forza di cose riscosso la simpatia di tutti gli uomini di cuore, di tutti coloro cioè che non amano i pogrom, le uccisioni in massa, i massacri di inermi, i giudizi sommari basati sulle impressioni e sulle chiacchiere. Spesso la chiusura mentale degli ebrei, la loro visione della vita fondata su di un rigorismo religioso diretto ad escludere il resto del mondo come impuro e peccatore, ha reso difficile la vita di queste simpatie, ma poi l’enormità del debito storico nei loro confronti, accresciutosi nelle vicende dell’ultima guerra mondiale fino a raggiungere livelli di metodicità prima impensabili, ha ripristinato quelle simpatie e ricostituito una nuova forza di coesione internazionale capace di sostenere e di sviluppare la causa degli insediamenti ebraici in Palestina, a prescindere da qualunque altra considerazione.
Molti gli elementi che hanno reso, per tanti anni, Israele il punto di riferimento di un sostegno internazionale. I massacri nei campi di sterminio nazisti, l’impostazione socialista e libertaria dei primi insediamenti, le teorie fondate sul comunismo libertario dei primi kibbuzim, la coabitazione inizialmente pacifica con gli arabi, giusta risposta alla tradizionale ospitalità di questi popoli. Poi gli interessi sono cresciuti a partire dalla fine della seconda guerra mondiale. Interessi fondati sulla divisione del mondo in blocchi contrapposti, interessi americani da un lato e sovietici dall’altro, interessi economici in una zona geografica ricca di giacimenti petroliferi e aperta all’attenzione dei grandi Stati imperialisti.
Gli israeliani hanno risposto accettando il ruolo di custodi dei progetti occidentali di dominio del mondo, tenendo a bada col proprio esercito tutti i movimenti degli Stati arabi confinanti, diretti spesso a sopraffarsi l’un l’altro in vista della gestione delle enormi ricchezze petrolifere e a giocare sullo scacchiere internazionale ora un ruolo di sostegno, ora di contrasto, con gli schieramenti contrapposti dei grandi Stati. A spingere il popolo ebraico su questa strada nella terra d’Israele è stato da una parte il movimento sionista, sostenitore di un oltranzismo che ha pochi riscontri nella storia mondiale delle organizzazioni politico-religiose e, dall’altra parte, le grandi lobby ebraiche americane e internazionali, ma principalmente statunitensi, che sono state in prima fila nel sostegno economico dello Stato israeliano. Proprio queste lobby, capaci di condizionare la politica americana specialmente nei lunghi anni del dominio repubblicano, hanno spinto gli Stati Uniti a coinvolgere il piccolo ma agguerrito Israele nel ruolo subito fatto proprio di gendarme americano del Medio Oriente.
Tutto ciò ha ridato fiato alle trombe antisemite mondiali e ha costruito un insieme indigesto di teorie antiebraiche vecchie e nuove. In questo nuovo concentrato di stupidaggini si innestano i revisionismi storici, le tesi dirette a negare l’olocausto, i nazionalismi arabi incapaci di considerare il popolo israeliano come fratello e pacifico convivente nel medesimo territorio. Da parte sua questo popolo, dopo avere attraversato una storia millenaria di persecuzioni e di stragi, adesso non ha fatto tesoro delle esperienze passate ed è diventato un ostaggio nelle mani di uno Stato teocentrico, quindi di una delle peggiori organizzazioni statali fra quelle escogitate dalla mente dell’uomo. La paura di essere ancora una volta ributtato a mare, quindi obbligato a riprendere la via dell’esilio, lo ha spinto nelle braccia dei mestatori interni ed esterni, nelle trame sioniste a livello interno e internazionale, nelle strategie di dominio internazionale degli Stati Uniti.
Ecco innestato un crescendo malefico che niente ormai può spezzare, se non un processo realmente rivoluzionario. Nessuna discussione è possibile, e chi ha vissuto, sia pure per brevi periodi, l’esperienza di vita e di approfondimento teorico con gli ebrei può confermarlo. Nessuna proposta teorica può smontare il meccanismo dell’accerchiamento e della paura, che si avvita da secoli su stesso senza soluzione di continuità. Anche in quest’ultimo scorcio di anni Novanta, dopo la caduta del muro di Berlino e il disgelo sopravvenuto allo scioglimento del Patto di Varsavia, la situazione di blocco resta invariata sotto ogni profilo. Le rivendicazioni del nazionalismo arabo in generale, e di quello palestinese in particolare, fanno troppa paura, e non mancano dalle due parti i sostenitori della tesi, facile ma traditrice, del “buttiamoli tutti a mare”.
L’esperienza dello Stato palestinese, o dell’“Autorità palestinese” come alcuni preferiscono chiamarla, è lì a comprovare questa impossibilità. Anziché proporre una coabitazione basata sul rispetto reciproco e sulla struttura delle comuni libertarie, sentimento che non è ancora del tutto sopito in una certa sinistra israeliana, e che corrisponde, sia pure in modo diverso, alla tradizione di ospitalità e di libertà dei popoli arabi, in primo luogo del popolo palestinese, si è preferito seguire la strada indicata dai politici dell’OLP, in particolare da Arafat, vero e proprio uccisore delle istanze reali di libertà del popolo palestinese e realizzatore di uno Stato fantasma, adatto solo a garantire il potere personale di un piccolo uomo afflitto da manie di grandezza.
Sul piano della paura, intensificatasi nell’ambito israeliano, i giochi sono ormai fatti e solo una radicale estensione della guerra civile in corso, estensione da svilupparsi fino nel centro del potere religioso ebraico, può indicare un oltrepassamento delle condizioni del conflitto. Tutti hanno paura di tutti. Gli israeliani hanno paura delle rivendicazioni palestinesi che per loro significherebbero la perdita di molti privilegi (mano d’opera a basso costo, espropriazione delle case degli arabi costretti ad andare via, sovvenzioni statali, ecc.). I palestinesi hanno paura degli israeliani che li vogliono buttare a mare, che li vogliono (e in larga parte lo hanno già fatto) sradicare dalla loro terra costringendoli a prendere la via dell’esilio nei campi di concentramento del Libano e della Giordania. La paura alimenta le condizioni estreme di scontro. I suicidi palestinesi si lanciano carichi di bombe nei mercati israeliani, negli autobus, nelle scuole. Altrettanto fanno gli esaltati israeliani, esponenti della destra religiosa che ormai è al potere e che ha fatto vedere con quali armi intende affrontare la “coabitazione” col popolo arabo: colonizzazione forzata, sfruttamento, controllo, repressione.
Da questa situazione non si torna indietro. Troppi morti in ogni famiglia, in ogni gruppo di famiglie, in ogni settore della vita sociale. Troppi morti, troppo dolore, troppo sangue. Tutto questo non può essere cancellato da una stretta di mano, da un Camp David qualsiasi. Anche all’interno della sinistra israeliana, oggi all’opposizione ieri al potere (ma la cosa non ha radicali differenze), la classe più emarginata degli israeliani, i sefarditi, cioè gli ebrei originari d’Africa, e quindi aventi una carnagione di colore più o meno scuro (ma pur sempre di religione ebraica), invece di prendere una posizione favorevole al colloquio e all’accordo sulla base di pari diritti con i palestinesi, si trova arroccata sulle posizioni più estremiste a causa della paura di perdere la possibilità di restare in Israele e di vedersi costretta al ritorno nei paesi di origine, paesi dove la maggior parte dei suoi appartenenti troverebbe la morte. In questo modo non è difficile che i membri più oltranzisti delle organizzazioni religiose ebraiche siano di origine sefardita, costituendo la manovalanza più feroce dell’esercito e della polizia impiegata nelle repressioni.
Nell’altro campo, la nuova polizia palestinese, i germogli infausti del nuovo Stato, gli uomini politici dell’OLP, insediati al governo di un popolo martoriato da quarant’anni di esilio e di persecuzioni, mettono in pratica tutte le forme del potere. Torturano, uccidono, giustiziano, condannano senza fare complimenti il proprio stesso popolo. Compagni di lotta che fino a qualche anno fa partecipavano alle azioni più arrischiate, oggi sono giudici, custodi delle carceri, poliziotti, comandanti dell’esercito, guardie del corpo, agenti del servizio segreto. Nei territori liberati, per concessione del governo israeliano, l’OLP rappresenta la forza repressiva di uno Stato che ancora non è al massimo delle sue possibilità di governo, ma che si avvia sulla strada di tutti gli Stati. I ruoli si invertono, il potere si rinnova, il metodo resta. Ma, per i milioni di palestinesi rimasti nei campi, per gli esiliati di sempre, per coloro ai quali sono state sottratte la terra e l’identità, che per le grandi masse contadine è il rapporto con la terra di origine, questo modo di gestire le cose si chiama tradimento, un orribile tradimento. Da qui la paura di vedersi imprigionati per un altro mezzo secolo nei campi di concentramento, traditi dai propri rappresentanti (cosa che a constatare di persona fa sempre molto male), attaccati dai raid israeliani, coinvolti in un gioco politico di cui non capiscono le cause e non vedono fino in fondo i possibili effetti.
Ancora una volta la paura, da ambo i lati, condiziona il futuro spingendo ciecamente verso uno scontro sempre più feroce e senza mediazioni. L’insurrezione popolare palestinese fa paura prima di tutto agli uomini politici di Gaza e della Cisgiordania, fa paura più di tutti ad Arafat che vede l’impossibilità di controllarla, fa paura infine al governo israeliano, ma fa paura, e questo è il nodo fondamentale, anche al popolo israeliano che in questo modo, vedendosi attaccato fin dentro le proprie case, nel terreno dove ognuno ama sentirsi al sicuro, si appella ai propri governanti chiedendo un maggior controllo, una più accurata repressione. Il cerchio si stringe ancora una volta sempre più stretto.
Non c’è modo di fare previsioni, e queste, se fatte, potrebbero essere smentite da fatti non visibili nell’attuale momento di massima incertezza. Un cambiamento, più che prevedibile, alla guida del governo israeliano lascerebbe le cose come stanno, a parte qualche cambiamento formale, specialmente nelle chiacchiere.
Lasciarsi alle spalle il sogno di libertà di un popolo attaccato e distrutto da parte di uno Stato teocratico, erede dell’antica ferocia teologica, lascia l’amaro in bocca. Possibile che tanti sacrifici, tanti morti, tanto sangue sono stati inutili? Possibile che ci siamo ingannati ieri nello scegliere il campo da sostenere nel nostro intervento più o meno radicale, più o meno diretto, più o meno in prima persona, e continuiamo a ingannarci oggi? Possibile che le difficoltà di ieri nel trovare il coraggio necessario per attaccare il meccanismo di guerra israeliano (gli ebrei, sempre loro, oppure un povero popolo di perseguitati soggetto alle mire espansioniste e militari di un pugno di criminali al potere?) sono state superate nel senso sbagliato? Possibile che il risultato degli sforzi di ieri è visibile solo nei bottoni lucidi dei nuovi poliziotti palestinesi, o nel ghigno feroce di un ebreo sefardita che grida “buttiamoli a mare”? Non lo so.
Questo libretto non propone una risposta, mi è sembrato più interessante fermarlo a una riproposizione di problemi.
Negli ultimi dieci anni, periodo a cui si riferisce la gran parte degli scritti qui inseriti, ho dibattuto questi dubbi nel mio cuore, guardando a volte il cielo della notte e individuando, una ad una, le medesime stelle di un tempo passato. La loro luce continua a brillare imperturbabile sui guai degli uomini.
Catania, 17 dicembre 1997
Alfredo M. Bonanno
Introduzione all’edizione inglese
Nessuno è in grado di capire cosa sta accadendo in terra di Palestina. Nemmeno chi ha seguito per tanti anni le vicende sanguinose della storia dei popoli che abitano laggiù. Tutti si fronteggiano con sospetto e odio, non soltanto gli uomini e le donne, i bambini e i vecchi, ma anche la polvere delle strade, il fango che le riempie nelle giornate di pioggia, il caldo asfissiante e il tanfo della calura.
Sono noti a tutti i termini diciamo “ufficiali” della controversia. Gli israeliani hanno cacciato via i palestinesi dalle loro terre, ma questo è cominciato tanto tempo fa che ormai ci sono cinquantenni nati nelle baracche dei campi. Accordi più o mano ridicoli tra Stati hanno ridato al popolo cacciato via una parte dei territori, ma qui non si vive. La miseria è tale che se non si lavora in Israele si muore di fame. I coloni della seconda ondata sionista si sono arricchiti con lo sfruttamento della manodopera palestinese a basso prezzo, con l’affitto gratuito dei campi nei territori che adesso dovrebbero costituire il nuovo Stato di Palestina. Tutto ciò non solo non coglie il nucleo centrale del problema, ma non ne descrive neanche la minima parte. Tutto ciò aveva un senso forse all’epoca della prima insurrezione popolare del popolo dei “territori”, quella delle pietre. Ora ci si avvia verso una libanizzazione sempre più feroce.
Nessuna delle due parti in causa può retrocedere, pena un conflitto interno, una guerra civile che sarebbe distruttiva in quanto permetterebbe all’avversario una vittoria quasi certa sul piano militare. Ed ecco che i colpi reciproci si susseguono senza interruzione. Ognuno usa le armi che possiede: i palestinesi si fanno saltare in aria con il proprio carico di bombe, gli israeliani bombardano con gli aerei le case dei Territori. Le mappe di pacificazione, gli accordi internazionali, le garanzie dell’ONU e il “rammarico” di Bush non valgono niente. Il problema si sviluppa, incancrenendosi, secondo un ritmo suo proprio, un ritmo che può essere intuito solo da chi ha familiarità con situazioni del genere. L’odio fa presto a crescere quando si vive nella condizione in cui vivono i palestinesi, quando si hanno le prospettive che hanno loro, cioè nessuna prospettiva, quando non ci sono speranze per i propri figli, per il futuro del luogo in cui si è nati. E non è vero che questo odio, così feroce e per noi quasi incomprensibile, è alimentato dall’estremismo integralista. Come è possibile vedere, la maggior parte di questi giovani che si fanno saltare in aria con la propria bomba hanno compiuto gli studi, hanno un diploma o una laurea – qualche volta ottenuti all’estero –, sono padri e madri di famiglia, hanno figli. Ma non hanno speranze. Hanno visto che davanti ai loro occhi non c’è altro che la prospettiva dell’odio contro il nemico che imprigiona, bombarda, tortura. D’altra parte tutti vivono nell’angoscia di saltare in aria mentre vanno al lavoro, mentre ballano in una discoteca, mentre dormono nelle proprie case. Anche qui un odio cieco e senza alternative spinge a chiedere al governo maggiore forza nella repressione. Perfino le ali più illuminate del Partito laburista israeliano (nato nel 1968 dal Mapai, una delle forze sioniste che sostennero i primi insediamenti), tacciono per paura di perdere la propria base elettorale. Molti vedono nel Likud (il partito di destra che letteralmente significa “consolidamento”) l’unica forza che può guidare il paese contro i palestinesi.
Parlare di pace in queste condizioni è un modo come un altro, spesso l’unico modo elegante, per tirarsi fuori, per mantenere le proprie mani pulite e la propria coscienza sporca.
Massacri organizzati dei palestinesi, come quelli di Sabra e Chatila, del settembre 1982, a opera dei cristiani-maroniti, oppure come quelli del settembre (nero) 1970, ordinati da re Hussein di Giordania, che durarono fino all’aprile del 1971 causando 4600 morti e 10.000 feriti, sono sempre possibili, ma causerebbero, se eseguiti da parte di Israele o da qualche suo intermediario armato, una totale destabilizzazione della zona. Mentre scrivo queste righe Israele ha attaccato alcune postazioni presunte palestinesi in Siria, il momento è dei peggiori.
Non si vede nessuna prospettiva di pace. La soluzione ideale, almeno per quel che possono pensare tutti coloro che hanno a cuore la libertà dei popoli, è un’insurrezione generalizzata, una Intifada che parta dal popolo israeliano, capace di abbattere le istituzioni che lo governano e di proporre al popolo palestinese, direttamente e senza intermediari, una pace fondata sulla collaborazione e sul reciproco rispetto. Ma, per il momento, questa prospettiva è veramente un sogno. Prepariamoci al peggio.
Trieste, 8 ottobre 2003
Alfredo M. Bonanno
I nodi di un problema senza soluzione
Le giustificazioni di uno Stato teocratico
Quando la Gran Bretagna cominciò a indirizzare gli ebrei verso la Palestina, a partire dal 1917, già nelle dichiarazioni contenute in un memorandum di Lord Balfour si poteva leggere come gli interessi del sionismo internazionale fossero di gran lunga più importanti della sorte di “70.000 arabi con tutti i loro desideri e pregiudizi”.
Da quel momento cominciò l’occupazione della terra palestinese e la costituzione di una “Patria nazionale ebraica”, ricostruita sulle tracce storiche e religiose. Nel 1935 gli ebrei erano già 400.000, di fronte a 900.000 arabi. Quando, nel 1948, si costituì lo Stato israeliano vero e proprio, cominciarono gli scontri, le persecuzioni, gli esodi di massa degli arabi. A tutti gli immigrati ebrei era promessa non soltanto la nazionalità, ma anche una delle case lasciate dagli arabi nella loro fuga.
La nuova politica repressiva impostata dallo Stato d’Israele veniva a sostituirsi alla precedente politica dell’Havlagh (limitazione) e aveva bisogno di una giustificazione morale, anche per convincere gran parte degli ebrei che ancora sentiva sulla propria pelle la repressione nazista.
Questa giustificazione fu trovata nel concetto di shoah (catastrofe). Non solo quella subita a opera dei nazisti, ma anche quelle altre che avevano attraversato la storia del popolo ebraico. In questo modo, si collegava la catastrofe più recente, lo sterminio a opera del Terzo Reich, con la nascita di uno Stato israeliano: shoah vetekumah (catastrofe e rinascita).
Un altro mito venne anche rimesso in circolazione: quello dell’eroismo (gevurah), il cui simbolo rimaneva l’insurrezione del ghetto di Varsavia. Si collegava, così, in modo apologetico, la ribellione contro una nuova, possibile, catastrofe (il ritorno degli arabi nelle loro case), con quella rivolta e si otteneva il concetto nuovo di shoah ve-gevurah, catastrofe ed eroismo.
Questi elementi furono mischiati in seguito in tanti modi per ottenere, all’interno del movimento sionista, quella miscela micidiale, alimentata dalla propaganda degli estremisti di destra e dei fanatici religiosi, che doveva spazzare via gli entusiasmi egualitari di una parte considerevole dei primi immigrati in terra d’Israele.
Il rifiuto arabo
Una volta liberatisi dai turchi, gli arabi palestinesi non vollero essere dominati né dagli inglesi, né dai nuovi arrivati sionisti. Ma questo rifiuto riguardava (e riguarda anche oggi) la gestione della loro vita da parte di uno Stato, sia esso britannico o israeliano. Essi volevano costituire una comunità palestinese mettendo insieme le diverse componenti arabe dislocate nel territorio. Ma non avevano nulla da obiettare all’inserimento di comunità diverse dalla loro, come era avvenuto nel 1920 con gli Armeni, fuggiti alla persecuzione turca. Quello che non volevano, e che non vogliono, era ed è uno Stato israeliano (o britannico) che li domini.
Per questo motivo, i palestinesi, non si opposero subito all’insediamento degli ebrei, almeno fino a quando questo non prese la forma del movimento politico sionista avente lo scopo di instaurare lo Stato israeliano. E questa opposizione araba divenne tanto più dura quanto più diventava chiaro il progetto statale ebraico, nascosto dietro le teorizzazioni egualitarie delle comunità agricole libere e federate.
L’opposizione interna
Nel movimento sionista c’è stato sempre, e sotto certe forme c’è ancora oggi, un’opposizione interna che si è sviluppata come tendenza a costituire in Medio Oriente, e particolarmente in Israele, una sorta di socialismo libertario. Questa tendenza continua a sostenere anche il rifiuto della costituzione di uno Stato ebraico. Si tratta di una posizione che partiva, all’origine, da una possibile collaborazione tra arabi e israeliani, suggerendo una contrapposizione di classe più reale che non quella astratta (e purtroppo produttrice di funeste conseguenze) fondata sulla contrapposizione nazionalista. Si trattava della distinzione tra il modello di una società collettivista e libera (almeno in prospettiva), fondata sulla struttura produttiva dei kibbuzim, e il modello della società oppressiva fondata sul capitalismo di Stato di tipo sovietico. La scelta di una libera federazione produttiva antistatale, autogestita, resta ancora l’unica strada per avviarsi verso la soluzione del problema in Medio Oriente.
La scarsa conoscenza del problema
In Europa non si possiede un adeguato livello di conoscenza del problema palestinese e neppure di quello israeliano. Non esiste, a livello dei mille aspetti dei vari settori che interessano lo scontro politico e sociale in corso, dall’Iran al Libano, dalla Siria all’Egitto, non esiste nemmeno a livello dei due popoli che si fronteggiano in Palestina e in Israele.
Riguardo ai palestinesi le notizie sono sempre intaccate dal pregiudizio ideologico, almeno per quanto riguarda il loro orientamento propagandistico. Quello che si sa è fornito dai rappresentanti ufficiali palestinesi, i quali parlano e agiscono come il governo di uno Stato, quindi hanno un’attendibilità alquanto modesta.
Che l’arrivo degli ebrei sia stata un’operazione diplomatica e militare è fuori discussione, ma è anche da sottolineare il fatto che i palestinesi, prima della guerra, erano sotto il dominio turco e non furono, all’inizio, del tutto contrari a questo arrivo che poteva sembrare un aiuto contro la dominazione guidata dal partito dei Giovani turchi. Certo, tutto ciò non giustifica il comportamento dello Stato israeliano, le sue necessità di espansione militarista e di occupazione violenta, ma fa capire meglio il desiderio dei palestinesi di liberarsi da ogni dominio, quale che sia, ieri quello dei turchi, oggi quello d’Israele.
Anche sulla comunanza “semitica” si è molto giocato, ma bisogna ammettere che ciò vuol dire poco al di là del fatto che questi popoli sono linguisticamente imparentati, cosa addirittura trascurabile oggi, quando l’ebraico moderno è da tutti pronunciato con forme gutturali molto attenuate, quindi all’occidentale, mentre coloro che lo pronunciano con le forme gutturali classiche (vicine all’arabo), ad esempio gli ebrei provenienti dallo Yemen, sono considerati “terroni” e sottosviluppati.
Anche per gli ebrei vale lo stesso discorso della conoscenza superficiale. In Italia conosciamo pochissimo la cultura ebraica. C’è sì una cresciuta attenzione verso l’ebraismo, ma più che altro si tratta di una moda culturale ristretta e pilotata quasi esclusivamente sui grandi autori ebrei, Heine, Roth, ecc., oppure Freud, di cui recentemente c’è stata quasi una riscoperta in questa direzione. Ma il resto è nascosto. La religione ebraica è stata rimossa e rinchiusa nei luoghi di culto. Ora, per l’ebraismo, essendo inseparabile la religione dalla cultura, ne deriva che anche questa è stata rimossa. Non sappiamo quasi nulla del rapporto tra religione e potere politico, della funzione dei rabbini, del cuore della tradizione ebraica che tanto spazio ha nella coscienza del popolo israeliano. Non è un caso, per esempio, che i trattati della Mishnah e i Due Talmud non sono mai stati pubblicati in Italia.
In questo modo, l’idea che ci facciamo dell’ebreo, anche a livello di massa, è spesso quella fornita dall’iconografia antisemita.
L’equivoco dell’occupazione
Una delle prime e più fortunate operazioni militari israeliane si chiamò “fatto compiuto” e, considerandola alla luce di quello che è accaduto successivamente, lascia bene capire la mentalità dei primi pionieri. Uomini, donne e bambini che avevano poco da perdere e tanto da guadagnare. Si sentivano (ed alcuni di loro si sentono ancora) fieri del fatto di essere disposti a farsi massacrare e invece, nella realtà dei fatti, da massacrati sono diventati massacratori. L’orrore del passaggio, da una parte all’altra di questa orribile barricata, non li sfiora nemmeno.
C’è da precisare, almeno per quel che mi riguarda, che il popolo israeliano ha acquisito il diritto naturale a vivere indisturbato nel suo territorio, quali siano state le origini del costituirsi della sua entità numerica e demografica come popolo e dello stesso territorio. Questo è un punto fermo della presente analisi e, penso, dell’intenzione di chi lotta a fianco del popolo palestinese, senza essere per questo nemico del popolo israeliano. Da tale consolidazione naturale di un diritto emerge la valutazione da dare a un’occupazione avvenuta, in massa, intorno al 1947 e negli anni successivi, e il modo di differenziarla da un’occupazione avvenuta successivamente, cioè quella dei territori della Cisgiordania e di Gaza.
La propaganda dello Stato israeliano tende invece ad accomunare queste due occupazioni, permettendo così agli eredi del sionismo di assumere l’atteggiamento di padri fondatori e di continuare a diffondere l’equivoco del Eretz Israel. I sionisti di oggi, che si consideravano consegnati dalla storia alla nostalgia, si ritrovano colonizzatori. Qual è, secondo questa gente, la differenza fra l’occupazione di Jaffa e quella di Hebron?
A me sembra che esiste una differenza fondamentale. Le prime occupazioni, a prescindere dalle intenzioni sioniste (per altro, di una parte del sionismo ufficiale) di costruire subito lo Stato centralizzato, furono determinate più che altro dall’arrivo di masse di Luftmensch, di uomini erranti, obbligati durante l’esilio a fare lavori marginali e professioni pagate male, i quali arrivati nella loro “terra promessa” potevano, di fatto, limitarsi a vivere accanto agli arabi, coltivando la terra in comunità e in collettività socialiste libertarie. Si trattava, quindi, con tutti i limiti e le contraddizioni relative a un afflusso di grandi masse di stranieri, di un’occupazione di lavoratori che, da se stessi, si dedicavano al lavoro della terra, per poi estendere la produzione anche agli altri settori dell’attività umana.
L’occupazione della Cisgiordania e di Gaza è cosa diversa. I nuovi occupanti non hanno la scusa dell’ideale dei loro padri, per quanto discutibile poteva essere stato. Essi sono attratti dalla seduzione prosaica di grandi appartamenti a basso prezzo, i quali si trovano ad appena venti minuti da Gerusalemme e a un’ora da Tel-Aviv, dalla disponibilità illimitata di mano d’opera poco pagata (gli abitanti dei ghetti arabi), dalla possibilità di non lavorare più e di diventare non più chaluzim (pionieri), ma colonizzatori, sfruttatori del lavoro degli altri, della povera gente, senza risorse e senza futuro.
La giustificazione
E tutto ciò è giustificato con il richiamo alla situazione di necessità. Ein Brera: non abbiamo altra scelta! Si tratta di un’ideologia che è ora sostenuta dal governo israeliano, ma che è anche condivisa dalla sinistra di quello schieramento politico, ed è l’ideologia del pessimismo, un’attitudine fondamentale della cultura ebraica, che noi non comprendiamo perché non conosciamo questa cultura. Si tratta di un pessimismo storico, della convinzione di una primordiale maledizione che pesa sul popolo d’Israele, per cui qualunque cosa faccia, quest’ultimo avrà su di sé l’ostilità di tutti e sarà lasciato nel più completo isolamento.
Certo, questa ideologia deriva dal millenario isolamento degli ebrei, dalle persecuzioni subite, ma rende, nei fatti, estremista e incosciente la politica dello Stato israeliano, anzi, come non mai e come in nessun altro posto, rende pericoloso lo Stato israeliano stesso.
La situazione economica
Israele è il paese che per abitante sostiene da decenni il peso militare più alto al mondo. Ciò vuol dire tanto. I prezzi salgono vertiginosamente ogni anno, la bilancia commerciale è sempre in debito di miliardi di dollari e nel 1994 superava la metà del prodotto nazionale lordo, il bilancio dello Stato è quasi uguale al prodotto nazionale, quando non lo supera di molto. Lo Stato israeliano può fare fronte ai suoi impegni solo grazie ai capitali esteri.
L’impossibilità di pagare le sue importazioni ha reso impossibile ogni autonomia di gestione. Da qui la dipendenza totale dagli Stati Uniti. Prima le cose andavano diversamente, ma dopo la guerra del giugno 1967, e poi sempre di più a partire da quella dell’ottobre del 1973, la dipendenza è aumentata. L’inflazione del periodo 1977-1978 ha bruciato praticamente tutte le risorse del paese.
In base alla sua politica sionista, Israele è obbligato a dare non solo una patria a tutti coloro che vi si recano in quanto ebrei, ma anche un lavoro e un minimo di tenore di vita (assistenza sociale, medica, ecc.). Ciò comporta spese immense, assolutamente non proporzionate alle sue reali possibilità economiche. Le motivazioni ideologiche passano così avanti alle decisioni di razionalizzazione dell’economia. La sicurezza del Paese è un altro dei motivi che impediscono le decisioni strettamente economiche. Essendo sempre sull’orlo di una guerra, non si possono prendere misure economiche troppo rigide che metterebbero in maggiore evidenza le componenti di classe della società israeliana, le quali esistono ma devono essere tenute sotto “controllo ideologico”. Le spese militari sono circa il 30 per cento della produzione totale, mentre per gli altri paesi industrializzati, nei casi limite, non si supera il 18 per cento. L’esercito consuma il 15 per cento del prodotto industriale e impiega il 20 per cento della mano d’opera. Ogni uomo è obbligato, dai 22 ai 55 anni, a compiere il servizio di un mese ogni anno nell’esercito, nelle unità di riserva, pratica di cui non è possibile misurare il danno in termini di costi industriali e produttivi.
Oltre agli Stati Uniti, Israele è aiutato dai fondi della diaspora ebrea. Si calcola che tale afflusso è di circa 500 milioni di dollari all’anno. Vi sono poi le sottoscrizioni del prestito internazionale israeliano, collocate in massima parte negli Stati Uniti.
Le differenze sociali
Per quanto Stato teocratico, quindi con fortissime motivazioni “ideali” e ideologiche, Israele ha un notevole crinale interno basato su di una discriminante di classe.
La differenza di fondo è quella fra ebrei sefarditi ed ebrei askenaziti. I primi, chiamati anche “neri”, in opposizione ai “bianchi”, sono quelli venuti dal Marocco, dall’Egitto, dall’Algeria, dall’Iraq, dalla Tunisia, dalla Siria, dallo Yemen, ecc. Nei loro confronti esiste una discriminante profondamente razzista, imposta dagli ebrei askenaziti, che sono quelli di provenienza occidentale. Questi si fanno forti, per prima cosa, del fatto di avere subito la catastrofe dell’olocausto.
I sefarditi hanno aumentato la loro presenza dopo essere stati costretti a fuggire dai paesi d’origine a seguito dell’acuirsi del conflitto arabo-israeliano. Di cultura diversa dell’occidentale essi erano, in fondo, i più portati per una socializzazione della produzione e per un’accettazione dei valori comunitari. Arrivarono invece in un momento in cui questi valori, presenti da tempo nella società israeliana, stavano per essere rapidamente soppiantati dalle nuove necessità della militarizzazione e dell’urbanizzazione forzata. Furono quindi inseriti nelle città, subirono un’occidentalizzazione obbligata e rapida, e finirono discriminati a livello culturale e linguistico.
Adesso costituiscono la fascia più povera della società israeliana, e la base più oltranzista contro gli arabi, e i palestinesi in particolare, di cui temono le ritorsioni, sull’esempio delle aggressioni subite nei paesi che si sono lasciati alle spalle. La loro paura più grande è quella di essere rispediti nei paesi d’origine, come conseguenza di un possibile accordo con i palestinesi, paesi dove non hanno più radici e dove sarebbero immediatamente rinchiusi nei campi di concentramento o massacrati in massa.
A parte, abbiamo la formazione della classe dominante, che si colloca quasi esclusivamente fra gli askenaziti e che riassume le élite dei diversi settori che si vanno sempre di più orientando verso un comportamento da “falco”. È verso di loro che si rivolge lo slogan molto efficace, scandito nel corso delle manifestazioni contro la politica del governo: askenaziti = askenazisti.
Data la struttura del paese e l’ideologia dominante a fondamento religioso e mistico, un sollevamento sociale di tipo industriale avanzato non è pensabile: manifestazioni di massa, scontri con la polizia, mobilitazioni, ecc., non sono come altrove. Ciò non significa che manchino le contrapposizioni alla situazione in atto nei territori occupati.
Esiste anche qualche tentativo di struttura clandestina, come la Ma’atz, che ha realizzato sabotaggi per fare sentire la protesta dei quartieri più diseredati. Anche le attività illegali nel senso tradizionale del termine sono cresciute moltissimo in questi ultimi anni. Lo stesso si dica per il teppismo spicciolo che imita quello delle grandi metropoli e per l’hooliganismo degli stadi.
Una delle caratteristiche dei quartieri della capitale è proprio il senso di frustrazione, dell’inutilità della vita, specialmente presso i giovani.
L’insieme appare molto contraddittorio. Ciò non toglie che si potrebbe stimolare, oggi, una lotta di massa capace di riproporre i valori iniziali del socialismo libertario. Forse sarebbe indispensabile tornare a diffondere gli insegnamenti dei teorici dell’ebraismo comunitario, come Martin Buber.
Un atteggiamento pratico
Ma, in una situazione di lotta durissima, come quella palestinese, non ci si può limitare a consigliare i libri di Buber, o di Kropotkin, come soluzione del problema. Occorre fare altro.
Penso che il nemico numero uno, l’ostacolo principale da abbattere, sia oggi lo Stato d’Israele, il suo essere Stato, in quanto tale. È per questo che diventa indispensabile sostenere la lotta del popolo palestinese.
Penso anche che un potenziale nemico del popolo palestinese e anche, evidentemente, del popolo israeliano, siano l’OLP e lo Stato palestinese in costruzione. Per questo non ho mai sostenuto l’OLP e le sue posizioni filo-stataliste.
Occorre pertanto essere contrari sia allo Stato israeliano che allo Stato palestinese, per quanto la lotta contro il primo, che esiste ed è operante, si pone in termini pratici, mentre contro il secondo, che è solo in nuce [1989], si pone in termini politici.
Occorre sostenere la costituzione di una federazione di comunità di lavoratori, palestinesi e israeliani, libere di federarsi a proprio piacimento, di darsi i propri programmi, di fare le scelte organizzative e produttive, fuori delle ingerenze pelose dei grandi Stati e in particolare degli Usa.
È necessaria una collaborazione pratica e ideale, produttiva e culturale, tra il popolo palestinese e quello israeliano, perché si ponga fine a un conflitto nazionale e di razza che non ha ragione di esistere in quanto, in quelle terre, c’è posto per tutti e due i popoli, conservando e oltrepassando le differenze di razza, cultura, religione, tradizioni.
Occorre essere a fianco del popolo palestinese, ma anche a fianco del popolo israeliano, specialmente delle fasce più diseredate e miserabili dei due popoli che una politica internazionale di grandi interessi e sfruttamento spinge al reciproco massacro.
[Pubblicato su “Provocazione”, n. 19, febbraio 1989, pp. 6-7 col titolo: “Palestina”]
Una strana tesi
Circola una tesi abbastanza diffusa che tende a giustificare l’operato repressivo degli israeliani, inserendolo in un movimento complessivo di controllo e repressione del popolo palestinese diffuso in tutto il Medio Oriente.
I palestinesi sono massacrati un po’ da tutti, arabi compresi, perché dovrebbero astenersi solo gli israeliani, rifiutando di difendersi?
Si tratta di una tesi classica, impiegata tutte le volte che si vuole allontanare qualcuno dalla lotta contro un obiettivo preciso: in questo caso la macchina militare israeliana per com’è impiegata contro i palestinesi. Di per sé questa tesi può essere sposata anche dal Mossad, e questo sia detto senza ombra di polemica.
Nella smania culturale (si fa per dire) di volere prendere alla radice la verità, non ci si accorge che questa tesi in fondo giustifica il massacro allo stesso modo in cui una volta si giustificava il colonialismo affermando che i popoli “selvaggi”, lasciati a se stessi, si sarebbero uccisi fra loro – cosa che ha avuto e ha alcuni elementi di fondatezza, ma che usata come schermo per il colonialismo serviva solo a nascondere il genocidio e lo sfruttamento sotto l’aspetto della presenza difensiva e umanitaria.
Alcuni compagni, sostenitori inaspettati di questa tesi, vedono la ribellione dappertutto, ma insistono a non vederla nei territori occupati, anzi, al contrario, l’insurrezione di tutto un popolo, in questi territori, contro il massacro costante e giornaliero di giovani, donne e bambini, contro la distruzione delle case ad opera dell’esercito israeliano, contro la tortura, i campi di sterminio, ecc., è per questi compagni solo l’aspetto di una lotta nazionalista, un modo come un altro di mandare la gente a morire per la patria, quindi da non rilevare come fatto di per sé rivoluzionario.
Si potrebbe, senza mezzi termini, mandare a quel paese questi “amanti della verità”, non ritenendo opportuno accennare a un argomento che, per come resta sotto gli occhi di tutti, non ha bisogno di molte bubbole da “piccola enciclopedia in compendio”.
Per quanto mi riguarda, in due parole, schiette e, spero, semplici, la situazione si presenta così. – C’è uno Stato (Israele) aggressivo e militarista come altri mai che vuole uccidere un popolo (quello palestinese). Ci sono politici (Arafat, ecc.) che si sono autonominati rappresentanti di questo popolo al solo scopo di costituire uno Stato che in breve potrebbe diventare altrettanto militarista e aggressivo del primo. Una soluzione possibile sarebbe lo scioglimento dello Stato israeliano e l’impedimento della nascita dello Stato palestinese, il tutto parallelamente alla formazione di comuni libere e altre strutture autogestite di palestinesi ed ebrei insieme, aventi diritto tutti alla terra e, principalmente, a un reciproco rispetto in nome della libertà.
Sarà certamente un ragionamento semplicistico e anche utopico, ma non credo che, tirate le somme, ci si possa trovare a sostenere, in quanto anarchici, una prospettiva diversa.
Cercare puntualizzazioni e dettagli in un contesto molto difficile, molto contraddittorio e, specialmente, trovare vere e proprie corresponsabilità per alleggerire l’attuale posizione d’Israele, questo può sembrare, quanto meno, una cosa di cattivo gusto.
Mettiamo da parte la “preoccupazione culturale”, anche solo per un momento, e forse vedremo le cose più chiare. I massacri che gli israeliani stanno portando a perfezione sono davanti agli occhi di tutti. Chi cerca in un modo o nell’altro di coprirli, di giustificarli o anche solo di minimizzarli, è anche lui un massacratore. Allo stesso modo, la rivolta di un popolo ridotto alla fine è davanti agli occhi di tutti. Chi non la vuole vedere per andarsene alla ricerca di “rivoluzionari” che non si trovano fra la gente comune che continua a buttare sassi contro i carri armati, distoglie gli occhi perché non vuole muoversi nella giusta direzione. (*)
Per quanto possono essere molteplici i nemici presenti e futuri del popolo palestinese e del popolo israeliano, oggi non c’è alcun dubbio che bisogna fare qualcosa per aiutare la rivolta dei palestinesi contro il militarismo d’Israele. Fare qualcosa significa muoversi, agire, qui, subito, dappertutto, colpendo gli interessi d’Israele e non stare a discutere fino a quando l’ultimo palestinese sarà ucciso.
(*) Mi riferisco a due articoli pubblicati su “Provocazione” n. 16 del settembre 1988. Dal primo, dovuto a Gianfranco Bertoli, dal titolo “Troppo isterismo contro Israele”, traggo i seguenti passi che mi sembrano particolarmente significativi.
«L’attuale ventata di ostilità antiebraica sta assumendo toni isterici perché alimentata da una propaganda esasperatamente faziosa che ottenebra la capacità di giudizio, nel suo attribuire univocamente ad Israele ogni colpa e responsabilità storica per una tragica realtà che trova origine ed alimento in un complesso concorso di cause.
«[…] La “Questione palestinese”, una drammatica vicenda intorno alla quale ruotano diversificati interessi che hanno spesso ben poco a che vedere con sentimenti di autentica solidarietà per quel Popolo e con le preoccupazioni per il suo destino. Le “scelte di campo” operate in questi anni dall’intera classe politica che detiene il potere in Italia, obbediscono a calcoli e motivazioni di vario genere e tutte ben poco “nobili” (interessi economici legati al petrolio, agli investimenti e alle partecipazioni industriali e commerciali, appalti nelle forniture di materiale militare, ambizioni ad un ruolo internazionale nell’area mediterranea e, non ultima, la possibilità di cogliere la buona occasione per offrire alle masse sfruttate un bersaglio di comodo verso il quale indirizzare una rabbia che potenzialmente cova sempre ma che, una volta sapientemente deviata verso un “capro espiatorio” distante, viene preventivamente resa innocua).
«Questo e solo questo offre una convincente spiegazione allo scatenarsi dei mezzi televisivi e di tutta la grande stampa in condanne e demonizzazioni di Israele, le cui colpe (che pure ci sono e sono innegabili) vengono enfatizzate ed evidenziate con una insistenza ed una energia che sono senza precedenti. Quando in realtà si tratta di uno Stato che è, senza alcun dubbio, oppressivo come ogni altro Stato, ha le sue gravissime colpe specifiche, rischia veramente una involuzione in senso sempre più autoritario, ma che non sarebbe onesto pretendere di presentare come una incarnazione del “male assoluto”, eliminato il quale si avrebbe il trionfo del “bene”».
Dal secondo articolo, dovuto ad Antonio Lombardo, dal titolo “Contro le mistificazioni su Israele”, traggo i seguenti passi che mi sembrano di considerevole interesse.
«Ogni volta che Israel compartecipa al massacro del popolo arabo-palestinese arrivano immediatamente lettere agli ebrei italiani […]. Io dico che questo è nazismo, è razzismo. La questione “Israel-Palestina” non è una questione degli ebrei, è una questione di tutti e non c’entra un fico secco che uno sia o non sia ebreo.
«[…] massacro di palestinesi ad opera di: OLP filo siriani, Hezbollah filo iraniani che sparano con armi israeliane sui palestinesi degli stessi campi del 1982; gli sciiti di Amal che nel dicembre 1987 hanno fatto le stesse identiche cose – nei campi palestinesi – che noi vedevamo fare alla Tv dai soldati israeliani; i comunisti del PC libanese e i drusi che hanno salutato la “liberazione dall’OLP” del Libano. Inoltre, il servizio “Fara Falastin” del ministero degli interni siriano denunciato da Amnesty International per avere costruito e gestito campi di concentramento per palestinesi nel deserto di Siria. Certo! Le colpe degli Stati arabi non devono giustificare le colpe di Israel. Né il militarismo israeliano deve essere una giustificazione o ridimensionamento dello stesso identico militarismo antipalestinese dei “fratelli arabi”. Oppure, se per Israel è una Logica, per gli Stati arabi è una Contraddizione (sic!)».
[Pubblicato su “Provocazione”, n. 16, settembre 1988, pp. 6-7 col titolo: “Non chiudiamo gli occhi”]
Lotta insurrezionale in Palestina
Quello che lo Stato israeliano continua a fare nei territori occupati di Gaza e di Cisgiordania risponde pienamente alla logica della guerra di occupazione, a quella logica distruttiva che tutti i militari apprendono sui banchi del corso preparatorio.
La costante denuncia di quanto avviene sarebbe pratica normale per gli anarchici, se non trovasse a riceverla uno strano territorio culturale.
Se parlassimo della situazione sudafricana, di quello che i bravi bianchi di Botha fanno ai neri in quel paese accusato di razzismo [scritto prima della caduta dell’apartheid], la cosa sarebbe pacificamente accolta. Ma, parlando di quello che fanno gli israeliani, allora il fatto è diverso. Il motivo è evidente. Gli ebrei hanno subìto il genocidio voluto dai nazisti, quindi, in un certo senso, riscuotono per definizione la nostra simpatia.
Nessuno nega questa simpatia, che è anche la nostra. Qui non si tratta degli ebrei, ma dello Stato israeliano e, certamente, anche di quei suoi sudditi che si prestano a realizzare nei fatti la politica di sterminio nei riguardi dei palestinesi.
Per esempio, non rende più chiara la situazione che c’è nei territori in cui è in corso un’insurrezione popolare, il fatto che ogni giorno ci siano da uno a più morti fra i palestinesi. No, ormai abbiamo fatto, come si dice, il callo. Vedendo le cifre nel loro complesso, appare però un significato diverso.
In quest’ultimo anno [1988] sono stati uccisi 405 palestinesi (fonte palestinese) mentre una fonte del ministero della difesa israeliano parla di 392 uccisioni. Pensate, anche considerando buona la cifra ufficiale israeliana, si tratta di più un morto al giorno. Per i feriti le fonti palestinesi parlano di circa 20.000 feriti, mentre il ministero sopra citato ne denuncia 3640.
Al minimo, pur sempre dieci feriti ogni giorno. Nell’altro campo, tenendo conto dei dati del ministero della difesa israeliano, si hanno 11 israeliani uccisi, 402 feriti fra i coloni e 703 feriti fra i soldati. Si tratta di cifre che parlano da sole.
A questi dati c’è da aggiungere (sempre secondo fonti israeliane): 20.000 arrestati, 4.000 detenuti senza processo, 5521 prigionieri nei campi di concentramento, 138 abitazioni distrutte con la dinamite per rappresaglia, 32 espulsi, 137 giorni di coprifuoco in un anno, con un periodo continuo di 42 giorni, solo per il 1988.
Sotto un altro profilo, l’insurrezione è costata a Israele 250 milioni di dollari di spese militari aggiuntive, 750 milioni di dollari di perdite del prodotto interno lordo, il 14 per cento in meno del turismo, una perdita complessiva del prodotto nazionale lordo di oltre il 25 per cento.
L’insurrezione sta mettendo in serie difficoltà Israele. Ma queste difficoltà, ben al di là di quelle strettamente economiche o politiche, sono anche, come dire, di immagine. Israele sta ricorrendo a mezzi e a procedure che fanno rapidamente svanire l’immagine di simpatia e di solidarietà che gli ebrei si erano costruiti con le sofferenze e con le repressioni esercitate a loro danno da tutti i poteri nei secoli passati. Diventando oppressori diventano “antipatici”, e questo, oggi, conta molto.
Da quel giorno del dicembre 1987, quando quattro pendolari palestinesi furono uccisi e sette feriti nei loro pulmini travolti da un mezzo militare pesante israeliano, è scoppiata la rivolta. Le strade si sono riempite di ragazzi e di giovani. È quella che sarà chiamata l’Intifada. In testa, sulle barricate, ci sono gli Shebab, i ragazzi nati dopo il 1967, nati nelle baracche e nei campi di concentramento, nati sotto l’oppressione militare d’Israele. Da quel giorno, da quei quattro morti iniziali, l’insurrezione non si è mai più fermata. [Rivedo questo testo per la stampa alla fine del 1998 e le cose non sono mutate, l’Intifada continua ancora].
I mezzi di questa insurrezione sono quelli classici, quelli che tanti sapientoni politici, anche di casa nostra, avevano dichiarato ormai superati visto che ci si avvia verso l’era virtuale del post-moderno. Ma la rivolta non può fare a meno di partire dalle cose che ha a portata di mano, in questo caso dalle pietre. Poi il sabotaggio, con mezzi rudimentali e semplici, poi il boicottaggio delle sigarette e delle bibite israeliane, poi la disobbedienza civile, gli scioperi.
Da parte sua lo Stato israeliano mena colpi durissimi. Lo stesso fanno i coloni che sparano in proprio sui dimostranti e compiono atti di vandalismo nei villaggi.
Inermi palestinesi sono uccisi a bastonate. Quattro ragazzi del villaggio di Salim presso Nablus sono seppelliti vivi da militari israeliani. I gas sono impiegati regolarmente. Si calcola che a causa di ciò più di 1800 donne palestinesi sono state obbligate ad abortire. L’acqua e la luce sono tagliate nei villaggi insorti. Quando è ucciso a Tunisi Abu Jihad, la manifestazione successiva è subito stroncata dagli israeliani: sedici morti. Nei territori sono tagliati i telefoni. È vietato attraversare il confine. Sono bloccati i rifornimenti di benzina e gasolio. La raccolta delle olive è bloccata. Sono introdotte le pallottole di plastica, già impiegate in Irlanda dall’esercito di occupazione inglese.
In questi ultimi mesi [1989] è stata riscontrata un’altra forma subdola di distruzione. Ordigni misteriosi al fosforo, della forma di tavolette di cioccolata o di giocattoli, sono lasciati cadere nei territori occupati da soldati o da coloni israeliani per ferire i ragazzi. Non appena raccolto da terra, l’oggetto esplode. Nel solo mese di dicembre ci sono stati cinque casi di ferimenti del genere a Nablus. Solo il 10 novembre [1988] scorso, 24 abitazioni sono state rase al suolo con i bulldozer a Jiftlik, nella valle del Giordano, dopo che gli abitanti sono stati invitati a raccogliere le loro povere cose sui carri. Una settimana prima quindici palazzine di Taibe erano state fatte saltare. Gli abitanti deportati.
Sembra proprio di vedere il medesimo copione del ghetto di Varsavia. Spesso la storia si ripete, anche rovesciata.
Da parte sua Shamir ha dichiarato che intende dare un “nuovo slancio” agli insediamenti di coloni nei territori.
Con tutto ciò, nonostante l’evidenza di questi fatti, c’è ancora chi continua, anche fra gli anarchici, a trovare scuse di ogni genere per giustificare l’azione repressiva d’Israele. È bene che i compagni tengano in evidenza i fatti per come sono per decidere sulle cose che bisognerebbe fare, qui e subito.
[Pubblicato su “Provocazione”, n. 18, dicembre 1988, p. 3 col titolo: “Repressione e lotta insurrezionale in Palestina”]
I palestinesi continuano a morire
Sui giornali di tutto il mondo ormai non fa più notizia il fatto che giornalmente i palestinesi continuano a morire.
Si tratta di trafiletti che annegano nel mare di argomenti freschi, alcuni dei quali, purtroppo, registrano massacri di portata anche maggiore, in tutte le parti del mondo. Gli sport più interessanti per l’uomo restano la guerra e la morte.
Non potendo, com’è naturale, interessarsi di tutto quello che accade, spesso, ci si indirizza verso questa o quella situazione, e si cerca di fare qualcosa, se non altro a livello di controinformazione, cioè si cerca di correggere quei danni che la disinformante stampa quotidiana produce.
Sul problema palestinese dobbiamo rilevare l’importanza di una lotta insurrezionale che sta mettendo in gravi difficoltà uno degli eserciti più forti del mondo, quello israeliano.
Questa caparbia volontà di liberazione è snaturata non solo dalla propaganda sionista – cosa naturale – ma anche dalla propaganda di tutti coloro che pur dicendosi amanti della libertà e della verità non si rendono conto che chi si trova davanti al cannone di un carro armato, o si trova rinchiuso in un ghetto sottoposto a continui bombardamenti, non ha molto tempo né volontà per riflettere sui grandi princìpi della verità e della libertà. Deve, per prima cosa, attaccare per sopravvivere, deve difendersi perché lo stanno uccidendo, non può aspettare che tronfi esaltatori della ricerca culturale trovino modo di spiegare che ci sono delle ragioni profonde che fanno muovere i carri armati.
Spesso molti interventi sul problema palestinese sono stati di questo tipo, scritti diretti a prendere le distanze e puntualizzare vicendevoli torti e ragioni, allo scopo di ricondurre la possibilità di una lotta solidale, qui e subito, nell’alveo semplice e semplicistico di una discussione culturale. Non mancano, dappertutto, nemmeno in Palestina, posizioni collaborazioniste e pacificanti, ripensamenti tiepidi che cercano di fare di tutto per lasciare le cose come stanno, permettendo agli ebrei di allargare ancora i loro insediamenti e ai palestinesi di continuare a vivere nei ghetti.
Ma, sul terreno della lotta reale, i palestinesi continuano a morire, mentre dall’altra parte, dietro le corazze insormontabili dei loro carri armati, gli ex perseguitati di ieri applicano gli stessi metodi dei loro antichi persecutori: distruggono le case dei sospetti, torturano nelle prigioni, deportano, uccidono nelle strade, seviziano, ecc.
La misura di come i palestinesi potrebbero prendere in considerazione il comportamento collaborazionista, è data dal trattamento che stanno riservando a chi collabora con l’esercito israeliano. Alla fine d’agosto [1988], nel giro di pochi giorni, quattro di loro sono stati uccisi perché informatori pagati da Israele. Qualche giorno dopo, un quinto è stato fatto a pezzi a colpi d’ascia. Misure drastiche, certo, ma che danno il senso di ciò che questo popolo sta soffrendo.
A certi livelli il senso di pietà e d’umanità scompare.
[Pubblicato su “Provocazione”, n. 16, settembre 1988, p. 9]
Contro i coloni israeliani
Una rivolta spontanea di studenti e lavoratori palestinesi – della striscia di Gaza, nei territori occupati – che si sono ribellati [1987] contro i coloni israeliani, in particolare contro i proprietari delle industrie e contro i dirigenti dell’economia di occupazione, oltre, evidentemente, contro la forza militare nemica. In breve tempo sono spuntate le barricate e il lancio di pietre contro i militari e i civili israeliani.
I soldati hanno risposto con colpi definiti intimidatori, i civili (i coloni dell’occupazione) usando le armi. Bilancio: un morto e due feriti fra i palestinesi. Si tratta di una studentessa uccisa mentre, con altre cinquanta ragazze di un collegio femminile di Manfaluti, stava facendo un blocco stradale contro i coloni ebrei residenti nella zona.
[Pubblicato su “Provocazione”, n. 9, novembre 1987, p. 16 col titolo: “A Gaza i palestinesi insorgono contro i coloni israeliani”]
L’orrore dell’abitudine all’orrore
Ben più impressionante dell’orrore è l’abitudine all’orrore. L’indignazione che si addormenta e tace. Quando tutto sembra normale. È il caso della repressione contro i palestinesi nei territori occupati.
Un segno di questo assuefarsi, lento ma costante, è dato dal fatto che la rivolta palestinese, quella dei sassi e delle armi improvvisate, non “fa più notizia”.
Un altro segno è dato dall’accettazione, fatta da più parti, delle ragioni del conflitto. Quelle di parte palestinese si contrappongono a quelle di parte israeliana. Molti si augurano, e qualche volta in buona fede, che la bilancia si metta al fine in parità e che tutto si sistemi. Voto o non voto, in Israele, si spera che le cose si sistemino.
In qualunque modo vadano a finire queste “cose”, quale che sia la soluzione che si sceglierà, o che si sarà obbligati a scegliere, nessuna cosa al mondo potrà cancellare il senso dell’orrore di questi mesi [1989], il senso del più profondo degli orrori, quello del martire che diventa carnefice, del perseguitato che si fa persecutore. Per quanto possano essere abili i difensori d’Israele – e se ne trovano, come sappiamo, anche fra gli anarchici – non possiamo dimenticare la bambina palestinese di tre anni uccisa col gas nel campo profughi di Khan Yunis dai soldati israeliani. Non possiamo dimenticare il bambino di cinque anni ucciso a Nablus dai proiettili di plastica e quello di 14 anni ucciso qualche giorno prima, mentre giocava davanti alla propria casa, sempre da colpi sparati dall’esercito di occupazione israeliano. Non possiamo dimenticare gli squadroni della morte, costituiti da coloni che assassinano di notte i giovani palestinesi indicati come responsabili della rivolta. E molte altre cose non possiamo dimenticare.
In queste condizioni, possiamo soltanto meravigliarci della strana insistenza con cui si cerca di coprire queste responsabilità. Comprendiamo come questo accada a livello politico, ma non comprendiamo come possa accadere a livello di compagni che dovrebbero avere una maggiore sensibilità a difesa dei perseguitati, lasciando perdere le sottili distinzioni e la ripartizione delle responsabilità.
[Pubblicato su “Provocazione”, n. 17, novembre 1988, p. 4 col titolo: “L’orrore”]
No allo Stato palestinese
Sullo slancio dell’insurrezione popolare nei territori occupati di Gaza e Cisgiordania, l’OLP ha costituito lo Stato palestinese.
Quello che certamente è visto da molti come un evento positivo non può che essere considerato da noi come un arretramento, uno sviamento dall’indirizzo giusto e produttivo che le lotte palestinesi avevano preso negli ultimi mesi.
L’apparato burocratico dell’OLP è intervenuto, e non si può dire che non ci siano state le complicità di quegli Stati islamici che vedono di buon occhio la nascita di una entità statale palestinese in Medioriente, ed intervenendo, ha posto la più seria ipoteca allo sviluppo delle lotte in senso antistatale, che poi sarebbe l’unico sviluppo possibile nei riguardi della realtà ebraica insediata nella medesima zona.
La presenza di uno Stato palestinese, per quanto fantomatico questo appaia oggi, potrà condurre solo a sterili accordi diplomatici, internazionalmente condizionati, accordi che renderanno impossibile una pacifica convivenza tra due comunità – quella palestinese e quella israeliana – le quali, ambedue, hanno diritto a vivere nel proprio territorio.
Con tutte le probabilità di questo mondo, l’azione dello Stato palestinese si indirizzerà verso quei canali che sono usuali per ogni Stato: rafforzamento militare, intervento armato generalizzato, trasformazione di possibili accordi diplomatici in strumenti di ritorsione e di minaccia.
La strada ora percorsa dagli ebrei è lì a insegnare quanto possano fare presto gli sfruttati e gli oppressi, se irreggimentati da funzionari statali, a trasformarsi in sfruttatori e oppressori.
La lotta di liberazione dei palestinesi, per com’è stata condotta negli ultimi quarant’anni, avrà avuto dei chiaroscuri di maggiore o minore intensità, ma non ha mai perduto, nemmeno nei momenti delle peggiori azioni di ritorsione (ad esempio, l’azione contro l’aeroporto di Lot), il valore della rivolta popolare. Certo, anche in quelle condizioni passate, c’era dietro l’angolo la mano delle organizzazioni, e dell’OLP in primo luogo, ma si trattava in fondo di una mano strumentale che poteva essere scartata, che non condizionava tutti in nome di un codice preciso, fissato nel consesso delle nazioni di tutto il mondo.
Non sappiamo quanto, anche in un momento d’unanime consenso, queste nazioni di tutto il mondo, USA in testa, possano realmente fare per il popolo palestinese che continua a morire, a essere torturato. Non possono certo entrare nelle questioni interne dello Stato israeliano, se non altro per il medesimo motivo di diritto internazionale che rende sovrani, e quindi insindacabili, gli Stati di tutto il mondo. Insindacabile Israele nel suo “diritto” di continuare ad opprimere il popolo palestinese, e insindacabile la Palestina nel suo “diritto” di non essere oppressa, occupata, distrutta, uccisa, torturata, ecc. Ognuno avrebbe i suoi “diritti” e di questo si potrebbe fare usbergo solo attraverso la forza delle proprie (e delle altrui) armi. Faccenda che si sa dove può condurre.
Lo Stato così costituito potrebbe essere un grosso ostacolo nella lunga e difficile strada della liberazione del popolo palestinese. Se non altro perché chi soffre difficilmente capisce cose del genere, le quali possono sembrare sfumature. Il costituirsi di un’organizzazione è spesso visto come un fatto positivo. Si diventa più forti. Si può contrattare da pari a pari con tutte le altre nazioni del mondo. E se fosse proprio questo il modo per fornire una contrattazione apparente e una sostanziale continuazione dell’oppressione? E se il permesso dato ad Arafat di diventare capo di Stato non fosse altro che un modo diplomaticamente valido di lavarsi le mani?
Nessuno può escludere che le cose non stiano in questo modo. Alla fine, gli applausi che in casa nostra sono andati al nascente Stato palestinese, sono arrivati da parti contraddittorie: dal Ministero degli Esteri e da organizzazioni di compagni che certo non si muovono nell’aria dei ministeri. Da cosa dipende questa coralità d’intenti? In primo luogo dal fatto che ambedue, ministri e rivoluzionari autoritari, viaggiano sulla medesima lunghezza d’onda: la grandezza dell’organizzazione fa la forza del movimento di lotta e, da questa forza, viene fuori la vittoria. Questo ragionamento, che non è mai stato il nostro, non può quindi portarci a condividere la gioia che tanti provano per la nascita dello Stato palestinese.
C’è di più. Secondo noi, l’ineffabile Andreotti [1988] denuncia molto bene il senso di questo fatto. Lo Stato palestinese diventa un ottimo interlocutore diplomatico. Le pressioni si faranno per via diplomatica. Si cercherà di far capire ad Israele, quello che quest’ultimo Stato, chiuso nella logica teocentrica, non può capire. Tanto, ad Andreotti e allo Stato italiano, e a tutti gli Stati del mondo, cosa importa della sorte di cinque milioni di palestinesi?
Lo stesso per i rivoluzionari tardo-autoritari di casa nostra. Cosa potevano proporre di diverso? Forse un intervento diretto contro lo Stato israeliano? Forse un sostegno diretto all’insurrezione palestinese nei territori occupati? Certo che no! Adesso che lo Stato c’è, anche per questi ultimi pionieri della struttura a ogni costo ci sarà modo di organizzare sostegni all’ombra del modello già visto.
Pensiamo che la situazione non sia migliorata con la decisione di Algeri. Vera o irreale che questa sia stata. L’unica realtà su cui indirizzare i nostri sostegni, su cui riflettere agendo, è quella costituita dalle centinaia di giovani che resistono a colpi di pietra contro i carri armati israeliani che stanno occupando la loro terra. Una realtà per niente diplomatica o statale.
[Pubblicato su “Provocazione”, n. 18, dicembre 1988, pp. 1-2]
Oltre l’orrore, lo schifo
Non amo citare e descrivere tutti i dettagli repressivi che lo Stato studia e mette in atto per fermare la ribellione degli oppressi. Si tratta di un’affettazione tipicamente inglese che poi, alla fin fine, è inefficiente dal punto di vista del “che fare”. Questa volta però si rende necessaria un’eccezione. Un breve catalogo dei mezzi particolarmente atroci impiegati in questo momento [1989] contro l’insurrezione palestinese nei territori occupati, penso che dovrebbe gettare nella più profonda costernazione qualsiasi individuo dotato di un minimo di dignità.
Le bombe lacrimogene normali, come quelle usate in Italia, sono caricate con il cloroacetofenone, che è di già pericoloso ad una certa concentrazione in ambienti chiusi, quelle usate in Palestina sono caricate con il diclorobenzilidene, che è letale, spesso, anche in ambienti aperti se raggiunge una concentrazione di un chilogrammo per cinquanta metri cubi. Da tenere conto che i bambini sono più esposti a questi pericoli, specie in condizione di malnutrizione come si trovano di certo i bambini palestinesi.
Il vecchio spandigas della capacità di circa due chili e mezzo è stato sostituito con la 606 Jumbo che distribuisce quattro chilogrammi di gas e dalla 303 a palle di gomma che lanciate rimbalzano indietro spandendo il gas e non possono essere raccattate. Adesso l’esercito israeliano possiede anche la versione 909 che è sparata da un’arma da fuoco fino a 150 metri e che unisce l’effetto del gas a quello dell’impatto cinetico della bomba sul corpo di chi la riceve. Trattandosi in massima parte di vecchi, donne e bambini le conseguenze sono facilmente immaginabili.
I pallettoni di gomma dura, sperimentati dapprima in Irlanda, ora vengono regolarmente utilizzati in Palestina e negli ultimi 22 mesi [giugno 1989] hanno causato più di 30 morti. Si tratta di palle uniche di gomma che sostituiscono il piombo nelle cartucce da caccia del 12, cioè con un calibro 18 mm. Certe volte questi pallettoni di gomma hanno un interno metallico e quindi sono quasi sempre mortali a una distanza di meno di 70 metri.
Una speciale macchina, di recente costruzione, risponde alle pietre lanciate dai ragazzi palestinesi con altre pietre, sparate a raffica e in gran quantità.
Una macchina, definita “la lavatrice”, montata su un’autoblindo getta uno spruzzo di schiuma di 200 litri. Questa schiuma solidifica immediatamente murando vivi coloro che sono raggiunti dal getto.
Le ricognizioni di controllo sono adesso fatte da elicotteri radiocomandati che si possono abbassare senza correre il rischio, che prima correvano gli elicotteri normali, di essere abbattuti anche da un colpo di pietra bene assestato.
Uno speciale ricognitore ultraleggero è stato messo a punto per vigilare sulle campagne: un biplano che costa poco più di 12 milioni, vola alla velocità di 180 chilometri all’ora e richiede soltanto 16 ore di addestramento al volo.
Sono impiegati anche i ricognitori senza pilota, cioè degli aeromodelli radiocomandati, sui quali è montata una telecamera che trasmette immagini al centro operativo. Hanno una velocità di circa 75 chilometri orari e volano per non più di 25 minuti.
A questi mezzi ultrasofisticati si devono aggiungere i mezzi normali che entrarono in azione dal primo momento degli scontri. Uno degli eserciti meglio equipaggiato e più efficiente del mondo, sta cercando – per altro senza riuscirci – di schiacciare un popolo inerme che si ribella lanciando pietre. Sono stati impiegati tutti gli orrori del genocidio classico: deportazioni in massa, campi di concentramento, massacri indiscriminati, distruzione di abitazioni singole e di interi gruppi di case, fucilazioni sul posto, violenze, stupri, assalti alle moschee, attacchi contro la Croce rossa, stragi predeterminate, impiego di squadroni della morte costituiti da coloni e soldati senza uniforme. E l’elenco potrebbe continuare, ma sarebbe un elenco déjà-vu.
Attenti, cari compagni, in questo momento si ripresentano le medesime condizioni storiche di sempre, quasi che l’umanità, almeno in tempi brevi (che poi sarebbero millenni) non riesca ad uscire dal suo rondò della morte. Molti di coloro che oggi sollevano distinguo storici, o vogliono insistere su distinzioni, anche valide, ma che sono troppo lontane nel tempo per vedere bene qual è la realtà di oggi, cioè la realtà di un popolo che sta morendo tra la quasi totale indifferenza, possono somigliare a quei borghesi che prima della Comune di Parigi del 1871 si schierarono a favore dei dubbi di Mazzini e poi, nei giorni dei massacri, sentirono il bisogno di confortare le loro tesi scendendo nelle strade per andare a cavare gli occhi con i puntali degli ombrelli ai comunardi morti. E, allo stesso modo, a quelle brave persone che vicino Dacau, durante lo sterminio degli ebrei, presentarono un esposto alle locali autorità perché il fumo della “fabbrica” uccideva gli uccellini che nidificavano negli alberi dei dintorni. Sono le stesse che oggi tornano a fare i distinguo e a parlare degli “aspetti positivi” del nazismo.
Il fatto importante da notare, ancora una volta, è che c’è un tempo degli approfondimenti e delle teorie, ma c’è un tempo in cui l’uccello di Minerva deve andare a dormire, ed è questo il tempo dell’azione e della distruzione del nemico.
[Pubblicato su “Provocazione”, n. 21, giugno 1989, p. 5]
Boicottiamo i prodotti israeliani
In questi ultimi tempi [1988] le iniziative di solidarietà con la lotta del popolo palestinese si stanno estendendo.
L’ultima è quella del consiglio dei delegati “Coop” della regione Emilia e del Veneto che il 12 aprile, con una lettera alla direzione, chiedeva la sospensione dell’acquisto dei prodotti israeliani: pompelmi, avocado, datteri. La direzione, in perfetta sintonia con la sua mentalità di mercato, rispondeva picche affermando che: “Imporre ai consumatori scelte e valutazioni politiche attraverso una selezione preventiva dei prodotti in vendita sarebbe una limitazione della libertà di scelta e d’espressione (sic!)”. Ridicolo. E ancora più ridicolo è stato il ripiego del consiglio d’azienda che, dopo un incontro con la direzione, ha ritirato la richiesta di boicottaggio e, anziché passare a forme di lotta più incisive, si è limitato a distribuire un volantino che chiedeva al consumatore di non acquistare quei prodotti. Sostanzialmente, la posizione dell’azienda è stata accettata.
Qualcuno ha deciso però di scegliere altri metodi. Telefonate anonime sono pervenute alle redazioni di diversi quotidiani, avvertendo che alcune partite di pompelmi Jaffa erano state avvelenate, come forma di solidarietà con i palestinesi. La notizia ha scatenato un po’ di panico e tanta imbecillità.
Da un lato, assessori regionali alla sanità, sindaci, USL, diramavano comunicati per avvertire del pericolo, dall’altro qualcuno non trovava di meglio che “consigliare i rivenditori di gettare via i pompelmi con un aspetto poco rassicurante e limitarsi a vendere quelli che hanno un bell’aspetto”.
Le telefonate hanno creato un certo scompiglio un po’ dappertutto in Italia, da Civitavecchia a Caserta, da Milano a Roma, ecc.
Pare comunque che per ora si sia trattato solo di una minaccia non messa in pratica, dato che le analisi fatte sui pompelmi non hanno rivelato alcuna traccia di veleno.
Immaginiamo cosa accadrebbe se si cominciasse ad attaccare in modo più serio gli interessi dello Stato d’Israele, e non solo i suoi prodotti, ma anche le aziende che in qualche modo lo sostengono, le agenzie di viaggio, ecc.
[Pubblicato su “Provocazione”, n. 13, aprile 1988, p. 1]
Una molotov a Torino
Se di una cosa bisogna parlare riguardo al fatto della molotov contro la libreria “Luxemburg” di Torino, è proprio della totale uniformità delle reazioni. Fa piacere veramente vedere come responsabili comunali, regionali e statali, a prescindere dal colore dei rispettivi partiti, rispondono all’unisono condannando il “vile gesto di intimidazione e intolleranza”. Fa anche piacere constatare come a questo coro angelico si associano anche le varie associazioni radicali e gli estremisti di ogni sfumatura, fino ad arrivare agli autonomi dei collettivi torinesi (non sappiamo se proprio tutti) e, dulcis in fundo, agli anarchici. A quanto sembra dai giornali, perché tutto quello che sappiamo al momento di scrivere questa nota lo ricaviamo proprio da questi fogli così bene “informati”, anche il gruppo “Berneri” di Torino pare abbia sentito il bisogno di condannare il “risorgere del razzismo nazista”. E la cosa è plausibile, se si tiene conto del tono e del contenuto dei comunicati del gruppo “L. Fabbri” di Forlì (*) e di alcuni gruppi anarchici milanesi (**), che riproduciamo nella nota in calce. Tanta uniformità di intenti conforta veramente e fa stare bene. Che autorità e “rivoluzionari” si diano la mano è sempre un fatto che fa sperare per il futuro.
Noi invece abbiamo dei dubbi. Non sappiamo alcune cose e lo diciamo apertamente. Di altre cose, che sappiamo con certezza, parliamo e non restiamo zitti per paura o per conformismo.
Quello che non conosciamo è la stesura effettiva della rivendicazione. Il fatto di firmare – se la cosa è vera per come l’hanno fornita i giornali – con una nuova sigla anarchica specifica, appunto, “Gruppo (o Gruppi?) anarchico rivoluzionario” (alcuni giornali parlano di “anarchici rivoluzionari”) avrebbe di certo reso indispensabile la presenza di una sia pur tenue traccia di analisi sui motivi e sulle ragioni del gesto (che ci sono e di cui accenneremo brevemente qui appresso). Il fatto di lanciare una breve telefonata, con in mezzo una sigla del genere resta il momento meno credibile di tutta la faccenda. Non sappiamo poi se il riferimento all’OLP (alcuni parlano di “viva l’OLP”) sia vero, e se è vero è anche questo un altro elemento di dubbio. Quale anarchico, in fondo, potrebbe gridare una cosa del genere? Si può mai pensare che un compagno non sappia che l’OLP è un governo in piena funzione, un governo (con la sua destra e la sinistra) che dirige un futuro Stato e che gestisce le azioni di un’intelligencija fra le più avanzate del mondo arabo? Certo che no.
Fatte queste ammissioni di ignoranza, ci sono le cose che sappiamo. Sappiamo perfettamente che la lotta contro lo straripante potere d’Israele e i suoi progetti di sterminio del popolo palestinese (che ha poco a che vedere con l’OLP) non sono un “fatto” che sta accadendo in quel lontano Paese, ma un fatto che riguarda tutti noi, tutti coloro che hanno a cuore i destini dell’uomo (e degli uomini), anche quelli del popolo israeliano (che ha poco a che vedere con gli interessi dello Stato d’Israele). E questo avere a cuore quelle situazioni porta alcuni di noi a volere intervenire, fattivamente e non solo con gesti più o meno simbolici, o con una battaglia di dichiarazioni più o meno di condanna dell’operato dei fascisti che dominano lo Stato israeliano. L’indignazione che prende ognuno di noi, e che certamente avrà preso anche i compagni (di questo possiamo dirci certi) che hanno steso le dichiarazioni sopra citate, quando vediamo gli attacchi della polizia e dell’esercito israeliano contro bambini, donne, vecchi, una popolazione del tutto inerme o armata di sole pietre che lotta per vivere, per non morire schiacciata dentro ghetti che sono solo il lontano ricordo di quello che una volta erano i luoghi della vita quotidiana: ecco, questa indignazione sta alla base della nostra valutazione positiva dell’azione. Sì, valutazione positiva, anche se restiamo soli ad affermare ufficialmente (perché a quel che ci risulta, ufficiosamente molti compagni si sono dichiarati favorevoli all’azione stessa), non abbiamo paura ad ammettere che la distruzione di una libreria filo-israeliana non è un fatto che ci turbi più che tanto di fronte a quei fatti che ci turbano realmente.
Certo, non sappiamo se questi compagni sono o no anarchici, se sono più o meno a conoscenza della storia dell’anarchismo, delle motivazioni e delle teorie degli anarchici (molti compagni, specialmente fra i giovani, sono anarchici prima ancora di prendere coscienza di molti problemi reali ed anche storici che stanno alla base dell’azione anarchica e della teoria dell’anarchismo), quello che sappiamo è che l’obiettivo da attaccare, scelto fra i diversi possibili obiettivi, ci pare giusto. Chiunque, in questo momento, difenda gli interessi dello Stato israeliano, andrebbe attaccato, possibilmente con un’opportuna spiegazione dei modi e degli scopi di quanto fa. Da parte sua, chiunque, in questo momento tanto delicato, intende difendere gli interessi del popolo israeliano, che sono senz’altro anche i nostri interessi, che non si differenziano dagli interessi del popolo palestinese, deve poterlo fare, però a condizione che sappia spiegare in che modo, da un punto di vista di classe, questi interessi del popolo israeliano si differenziano da quelli dello Stato israeliano. Facendo, al contrario, una semplice esaltazione della “cultura” ebraica e della religione ebraica, elementi che oggi fondano e rendono possibile l’esistenza stessa dello Stato d’Israele, si fa un servizio agli assassini e ai massacratori che stanno non solo uccidendo il popolo palestinese, ma anche tiranneggiando e illudendo il popolo israeliano.
Per comprendere il clima che si respira a Torino, informiamo che, dopo l’attentato alla libreria “Luxemburg”, è stata effettuata una perquisizione alla casa occupata “El Paso” da parte della polizia. Inoltre alcuni compagni fermati la stessa notte mentre affiggevano un programma di video di “El Paso”, sono stati portati in questura dove sono rimasti fino alle ore sette del mattino.
(*) Ecco il testo di Forlì: «Il Gruppo Anarchico “Luigi Fabbri” di Forlì, appresa la notizia dell’attentato alla libreria “Luxemburg” di Torino, rivendicato da un sedicente gruppo di “anarchici rivoluzionari”, sente il dovere morale di prender posizione inequivocabilmente contraria sia all’attentato stesso che alla rivendicazione che l’ha seguita. All’attentato, perché trova insensato e antilibertario l’uso di questo tipo di violenza contro posizioni differenti e contrarie alle proprie. Alla rivendicazione, perché considera non consono ai princìpi anarchici l’adesione alla politica militarista dell’OLP. Nel contempo, esprime la propria solidarietà al popolo palestinese, il quale si trova attualmente oppresso dal militarismo dello Stato israeliano. Ma tale solidarietà non può essere confusa né con sentimenti di razzismo antiebraico né con atti di violenza incondizionata contro modi di pensare diversi dai nostri. Alle parole si risponde con le parole, fuori da ogni pratica di censura e di repressione. – Forlì, 15 aprile 1988. Per il G.A. “Luigi Fabbri”, Andrea Papi».
(**) Ecco il testo di Milano: «In seguito all’attentato subito la notte scorsa a Torino dalla libreria Luxemburg, di Angelo Pezzana, in considerazione anche del fatto che, secondo quanto riferito dai mass-media, la responsabilità dell’attentato sarebbe stata rivendicata da un non meglio precisato “gruppo di anarchici”, le sottoindicate iniziative anarchiche di Milano hanno inviato ad Angelo Pezzana il seguente telegramma: “Esprimiamoti nostra solidarietà di fronte a vile attentato contro libreria Luxemburg ennesimo segno di intimidazione intolleranza antisemitismo contro cui anarchici da sempre si battono stop aldilà di possibili divergenze ideologiche ti siamo vicini in battaglia per libertà di espressione“. – Redazione “A Rivista Anarchica”, Libreria Utopia, Centro Studi Libertari, Circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa”».
[Pubblicato su “Provocazione”, n. 13, aprile 1988, p. 5]
Nuove iniziative palestinesi
Nell’ambito dell’insurrezione in corso da più di sette mesi [1988] nei territori occupati di Gaza e della Cisgiordania, accanto al persistere degli scontri con l’esercito di occupazione israeliano, si è inserito un nuovo strumento di attacco. Più di venti incendi sono stati appiccati a colture e a boschi israeliani. Nonostante il controllo puntuale e feroce dei militari e dei coloni israeliani, sono andate distrutte diverse centinaia di ettari. Una fabbrica di olio di semi è anch’essa stata incendiata completamente, insieme a un impianto di irrigazione. A Tel Aviv infine è stata incendiata un’industria tessile. Tutto ciò ha avuto inizio a metà giugno.
Qualche settimana prima si erano avuti degli attacchi contro impianti elettrici, cabine di distribuzione e tralicci di alta tensione. Questi attacchi avevano causato diversi blackout nelle città più importanti d’Israele: Gerusalemme, Tel Aviv, Nablus, Betlemme e nella stessa striscia di Gaza.
Per gli amanti della natura che eventualmente si sentissero male davanti a notizie che parlano di incendi di boschi e distruzione di innocenti piante, dobbiamo precisare che anche da parte israeliana ci sono novità repressive. Adesso i palestinesi in rivolta, armati solo di pietre e di qualche rudimentale bottiglia molotov, sono affrontati con i gas tossici che, fino ad ora, secondo le cifre accertate dalla Croce Rossa Internazionale (organismo certo non di parte palestinese) hanno fatto decine di vittime.
[Pubblicato su “Provocazione”, n. 15, luglio 1988, p. 3]
Come si diventa quelli di ieri
Le vicende del Mein Kampf si fanno sempre più stupefacenti. Dopo il tentativo del Land bavarese di bloccare la pubblicazione del libro di Hitler in Danimarca, sembra che stia per uscire in Israele la sua prima traduzione completa in yiddish a cura di una casa editrice ebraica specializzata in testi universitari.
Occorre che i giovani abbiano una documentazione di prima mano, dicono i redattori delle edizioni Academon. E di certo il testo di Hitler la fornisce questa documentazione, in quanto, contrariamente a quello che dicono i negatori contemporanei del progetto di sterminio totale degli ebrei, quel libro parla con precisione e in dettaglio di quello che i nazisti avrebbero realizzato. Ma questo potrebbe costituire interesse troppo ristretto e poco credibile, specie considerando che la classe dirigente ebraica è molto colta e conosce le lingue, per non parlare del tedesco in particolare, per cui poteva benissimo documentarsi senza ricorrere ad una traduzione in yiddish.
Un altro motivo potrebbe essere stato dettato dalla necessità di rispondere a una richiesta del “libro” a livello di massa, richiesta che all’interno dello Stato ebraico non si limita solo alla classe dominante, quella colta degli askenaziti, ma anche alla classe più modesta e sfruttata, quella dei sefarditi, la quale costituisce la massa che preme per il mantenimento e lo sviluppo della colonizzazione selvaggia dei territori palestinesi occupati.
Nello straordinario miscuglio di idee in cui viviamo oggi, non è strano che i lettori futuri del Mein Kampf siano proprio gli ebrei, neri per giunta.
[Pubblicato su “Canenero”, n. 16, 24 febbraio 1995, p. 5]
Non solo bottoni
Una polizia è sempre una polizia per il semplice motivo che uno Stato, sia pure sbrindellato come quello palestinese, è sempre uno Stato.
Ora, per chi a suo tempo ha lottato (ognuno nel suo piccolo può aver dato il suo contributo) per l’ideale di liberazione del popolo di Palestina, la cosa riveste un particolare significato. Il pensare che compagni di lotta, di quella lotta che dilagava come una febbre epidemica un po’ dappertutto, in Europa e altrove, oggi vestano la divisa con i bottoni lucidi, scimmiottata su quella dei cop inglesi, è molto indigesto.
Ma la polizia non veste solo divise, non si lucida soltanto i bottoni, controlla, reprime, manganella e, all’occorrenza, spara e uccide senza pensarci due volte.
Gaza non è una città grande, ha poche strade asfaltate e quelle che non lo sono rassomigliano più di tante altre del mondo arabo a piccoli vicoli di villaggio. Nella zona dove c’era lo Shin Beth israeliano, adesso ci sono i poliziotti di Arafat. Non solo i poliziotti, ma anche il tribunale, il carcere e i servizi segreti. Tutto in piccolo, tutto scarsamente efficiente, ma l’intenzione è quello che conta.
Che fine ha fatto l’Intifada?
Continua, ovviamente, contro i nuovi padroni e contro i vecchi. Così, ragazzi e ragazze sono arrestati, portati nell’edificio polivalente della repressione statale palestinese, interrogati da poco accondiscendenti investigatori, giudicati da improbabili giudici. Sono i bambini, appena un poco più cresciuti, nati nei campi di concentramento.
Che potrà mai dire loro l’illuminata direzione strategica del Leader massimo?
Allo stesso modo in cui impiegammo anni a convincerci che gli israeliani erano torturatori pur essendo usciti da poco dai campi di sterminio, adesso impiegheremo chissà quanto tempo per capire che alcuni dei palestinesi, vecchi compagni di ieri, possono diventare torturatori di oggi.
La realtà si evolve ed evolvendosi cambia le maschere con cui gli uomini si nascondono per recitare ognuno il proprio ruolo. Ma, dietro la maschera, il ruolo cambia e nessuno se n’accorge.
[Pubblicato su “Canenero”, n. 20, 24 marzo 1995, p. 2]
La polizia palestinese
A Gaza il re è nudo. L’insurrezione delle pietre e della disperazione adesso si rivolge contro la nuova polizia palestinese, armata da Arafat per mantenere l’ordine e la pace, nell’interesse, in primo luogo, dei padroni israeliani.
La polizia è sempre polizia. I vecchi fedayin se ne stanno accorgendo a loro spese. E su quelle strade polverose, dove molti di noi hanno lasciato il cuore, è pianto e disperazione come non mai.
[Pubblicato su “Canenero”, n. 5, 25 novembre 1994, p. 7]
Da Marx alle uri
Molte cose sono cambiate in Palestina. Molte altre sono rimaste tali e quali. La miseria e l’odio dilagano come sempre, specialmente l’odio verso gli occupanti, cioè i soldati di Israele, tuttora presenti nei Territori.
Che c’è di più naturale dell’odio contro gli invasori? Solo politici che si sono venduti al nemico, e che hanno contrattato la possibilità di un governo interno, e di un fantoccio di Stato, contro la continuazione di una lotta più efficace, possono pensarla diversamente. Molti palestinesi, per diversi motivi, non sono disposti ad accettare una convivenza che si basa sulla tutela degli interessi del più forte.
Questo spiega il diffondersi di una resistenza interna allo stesso neonato Stato di Palestina, e che si presenta quasi del tutto sotto le insegne di Hamas, di certo il gruppo armato più consistente, dotato di mezzi considerevoli, com’è apparso dall’esplosione di qualche giorno fa [1995], che ha fatto saltare in aria il suo arsenale.
Non c’è nulla di più facile da quelle parti di trovare un ragazzino, dai dodici ai sedici anni, nato e cresciuto nella miseria e nella violenza dei campi di concentramento, disposto ad ascoltare discorsi che negano la validità delle scelte di Arafat e del progetto di una Palestina libera coesistente con un libero Israele. Nulla di più facile che spingere questo ragazzino a un’azione suicida.
È quello che fanno sistematicamente gli uomini del “Izz al-Din al-Qassam”, il “Braccio armato di Dio”, che ragazzini non sono e che da fanatici religiosi preparano alla morte santa e alla guerra contro l’infedele.
Venticinque anni fa, in condizioni di certo non migliori di quelle attuali, la lotta dei palestinesi soggiaceva, quasi integralmente, a un altro tipo di indottrinamento, quello marxista.
Allora, intermediari dalla barba fluente promettevano aiuti in denaro e armi, adesso preti islamici promettono la vita eterna in un paradiso zeppo di uri.
[Pubblicato su “Canenero”, n. 22, 7 aprile 1995, p. 2]
L’aspetto ovvio dell’impensabile
Le basse colline della parte orientale di Gerusalemme permettono un certo refrigerio che altrove, nella città bassa e nelle strette strade del centro, spesso non è possibile trovare. Come dappertutto, i benestanti locali vi hanno dimora.
L’espansione verso Oriente resta quindi quella degli insediamenti signorili. Sulle colline i poveri sefarditi non ci abitano. Ma, ormai, non ci abitano neanche i residenti palestinesi. Anzi, il processo di espropriazione si va allargando sempre di più. Molti villaggi arabi della fascia esterna, specie della periferia nord e di quella collocata ad est, sono stati inseriti nella fascia urbana dal sindaco della città e considerati parte integrante di Gerusalemme, quindi soggetti a espropriazione. Per fare funzionare meglio questa procedura, adesso viene sempre più frequentemente fatto ricorso alle accuse di far parte, sostenere, o comunque conoscere, estremisti palestinesi.
La faccenda ricorda molto da vicino certe tecniche impiegate dai nazisti in Germania per togliere le proprietà agli ebrei. La grande maggioranza degli israeliani (per ironia della sorte questa maggioranza iperconservatrice non è composta solo di askenaziti, ma anche e, direi, principalmente di sefarditi, cioè della parte più povera della popolazione ebraica) è d’accordo con questa politica di confisca e annessione, perché convinta che in questo modo si spengano le mire dei palestinesi di considerare Gerusalemme capitale del loro Stato.
Da parte sua, Moshe Zimmerman, capo dipartimento di studi tedeschi all’Università ebraica di Gerusalemme, ha dichiarato che la maggior parte dei ragazzi ebrei cresciuti a Hebron, in Cisgiordania, quindi negli ex territori occupati che adesso sono sotto giurisdizione palestinese, sono convinti di appartenere a una razza superiore, esattamente come pensava la gioventù hitleriana.
Lo studioso ha documentato questa affermazione con una ricerca condotta su diverse canzoni e poesie che i ragazzi e i bambini di Hebron hanno composto in onore di Baruch Goldstein, l’autore del massacro avvenuto alla tomba dei patriarchi qualche mese fa [1995].
Moshe Zimmerman, che ha da poco curato l’edizione in ebraico del Mein Kampf di Hitler, ha risposto a coloro che lo accusavano di favorire con ciò la diffusione dell’ideologia nazista in Israele, che il razzismo viene diffuso fra gli ebrei proprio attraverso la lettura della Bibbia fatta dagli estremisti del sionismo.
[Pubblicato su “Canenero”, n. 25, 5 maggio 1995, p. 9]
Il miracolo del peggio
L’uso di processi sommari è ormai corrente per la magistratura palestinese entrata in funzione a Gaza. Le torture e le spaventose condizioni della carcerazione sono anch’esse fatti quotidiani cui la gente non riesce ad abituarsi. Tutto sembra tornare utile al mantenimento del fantasma di potere che Arafat si è trovato fra le mani. Uno straccio di potere che però, come tutti i poteri, funziona sempre allo stesso modo: incarcerando, torturando, uccidendo.
So che sono molti quelli che non possono evitare di sorprendersi. Cos’è rimasto della rivoluzione dei loro sogni? Cosa dei sacrifici e dei tanti morti? Tutto inutile?
Certo, per coloro che si erano illusi che la costruzione di uno Stato palestinese potesse essere la strada più facile, o il minore dei mali, per arrivare alla liberazione del popolo palestinese, la delusione deve essere cocente, non per chi scrive, che avendo avuto modo di approfondire meglio la conoscenza e la composizione della leadership di Arafat, da molti anni ne denuncia l’ideologia conservativa e la pratica di controllo e repressione.
Svestito dalla sua uniforme di guerrigliero dietro le linee, il vecchio Yasser oggi è praticamente nudo. Non ha altro da mettere sulla bilancia che l’eccesso di stupidità di alcuni componenti di Hamas, i quali, non riuscendo a capire come fare a meno dell’Iran e dell’internazionale integralista islamica, ripropongono nel corso dei decenni la medesima ottusità a causa della quale altre forze palestinesi, ieri, non riuscivano a capire come fare a meno del marxismo (e quindi anche degli aiuti in armi e soldi dei paesi dell’Est).
Il primo risultato potrebbe essere quello di prendere, senza ritorno, la strada di una sempre più feroce repressione. In questo modo Arafat finirebbe per restare isolato nel seno stesso della sua gente, e favorire lo sviluppo dell’integralismo, l’altra faccia della medaglia, triste conclusione fanatica di ogni disponibilità alla libertà e alla pace. Il secondo risultato sarebbe quello di trasformarsi sempre più nel gendarme automatizzato degli israeliani, che in questo modo gli farebbero fare tutto il lavoro più sporco.
Che cosa resterebbe allora della cultura palestinese e della mentalità aperta e libera di un popolo che, in un’epoca poi non tanto lontana, accolse i primi insediamenti degli ebrei in maniera amichevole e ospitale, invitandoli a lavorare insieme in un’intenzione di reciproca convivenza, mentalità e disposizione di spirito che sono ancora oggi presenti nel pensiero e nella cultura palestinesi, ma per quanto tempo ancora? Il lavoro fatto ieri dagli israeliani per distruggere ogni coabitazione e per instaurare il loro dominio assoluto sugli antichi ospiti viene così continuato da coloro che vogliono semplicemente capovolgere la situazione, per instaurare il proprio dominio assoluto.
Ogni battaglia fra diversi aspiranti dominatori passa sopra una montagna di cadaveri. Il boia è sempre al lavoro.
[Pubblicato su “Canenero”, n. 26, 12 maggio 1995, p. 2]
I motivi dell’integralismo
Quando nel Settecento acquistammo l’ideologia del progresso, ci venne dato in regalo anche un sottoprodotto, l’illusione che questo progresso potesse essere opera soltanto di un pensiero laico, un pensiero che avesse posto da parte la religione. In altre parole, gli illuministi pensavano, con Voltaire in testa, che eliminando la fede religiosa si sarebbero ridotti i contrasti e le guerre, gli odi, le persecuzioni, i massacri.
Tutta la cultura cosiddetta di sinistra, rafforzata in modo scriteriato a far tempo dalla fine degli anni Sessanta, si può ricondurre sotto queste premesse, andando da un acceso anticlericalismo e ateismo, fino ad una sorta di dialogo con le forze progressiste del cattolicesimo e del protestantesimo. Si è trattato di una tipica illusione culturale, di cui lo scientismo razionalista è responsabile. Non bastano, come ho sostenuto fin dall’inizio degli anni Sessanta, né un semplice ateismo, né un corrispondente anticlericalismo, quando questi siano espressione di un cieco razionalismo. Occorre che l’uomo cresca all’interno del rifiuto di Dio, con una sua personale responsabilità, con un coinvolgimento individuale nella lotta contro l’autorità. Stato e Dio, come giustamente diceva Proudhon, qui si danno la mano e si aiutano reciprocamente. Ma la responsabilizzazione dell’individuo non è avvenuta all’interno del pensiero laico. Anzi, si è verificato proprio quello che temeva Stirner, cioè Dio è stato trasferito dal cielo in terra con tutti i suoi bagagli. Si è negato Dio in nome della scienza, o della ragione, o ancora peggio in nome del partito, o dello Stato. In qualche posto si è abolita la religione su decreto ministeriale.
L’illusione progressiva faceva vedere tutto ciò come un passo avanti nella linea ineluttabile dello sviluppo teorico. Meglio che al posto delle chiese ci fossero musei, biblioteche, piscine e sale di conferenze. Meglio, senza dubbio, perché le chiese sono non soltanto luoghi da dove si diparte un insegnamento lesivo della dignità umana, ma anche occasioni per il rafforzamento delle forze più autoritarie e repressive. D’accordo, ma se la religione viene soppressa per decreto ministeriale, in nome di un pensiero che pretende vedere in ciò una decisione positiva, perché cammina nel senso della liberazione, cioè va verso l’avvenire, che non può non essere anarchico, allora siamo in errore.
Purtroppo non c’è nessuna certezza che la storia vada verso l’anarchia. La frase di Bovio si inserisce nell’ideologia positivista del suo tempo. Una lotta contro la religione deve essere condotta parallelamente a una lotta contro lo Stato, non si può delegare quest’ultima a una “kulturkampf” bismarkiana di nuovo conio, sarebbe una tragedia, come di fatto è stata una tragedia. Il sentimento degli oppressi troverebbe con molta facilità la via verso la religione, intesa come conforto degli umili, come speranza di una vita migliore, almeno nell’aldilà, e il compito dei preti (di ogni genere) tornerebbe a farsi facile, aureolandosi di martirio. Niente di più produttivo per far sorgere gli integralismi, con tutto il loro seguito di rigidi condizionamenti, di gente che vede la madonna, di manifestazioni di massa e così via.
Ecco perché una lotta contro Dio e contro la Chiesa, un ateismo e un anticlericalismo conseguenti, devono sempre partire da una corretta impostazione di classe, da un’analisi della realtà economica, che quella lotta non può considerare come elementi estranei, comunque da rimandarsi alla ruota della storia che viaggia a favore del progresso. Gli intellettuali hanno avuto sempre questa ingiustificata pretesa laica, hanno pensato che loro potevano interessarsi di una critica specifica, atea o anticlericale, mentre spettava ad altri interessarsi, in concreto, dell’azione rivoluzionaria. Ciò dimostra, oggi più che mai, la miseria e la codardia degli intellettuali, e di coloro che anche non essendo intellettuali, per la loro preparazione superficiale da dilettanti, si fanno affascinare senza capire.
La barbarie non è una presenza storica passata, non appartiene agli orrori che ci siamo lasciati alle spalle, cammina al nostro fianco. Non è soltanto l’integralismo risorgente, il neofascismo o l’antisemitismo, ma è barbarie principalmente il nuovo assetto mondiale fondato su una discriminazione che diventa sempre più netta, non solo tra paesi, ma anche tra classi nell’ambito di ogni realtà statale. È barbarie la credenza cieca in una scienza che non può salvare l’uomo e forse nemmeno il pianeta, che ha contribuito tranquillamente all’accumulo delle armi atomiche e dei gas letali, con la stessa capacità inventiva con cui ha prodotto nuovi medicinali e nuove malattie. E barbaro è ancora un pensiero che crede a un meccanismo animistico, sotterraneo e determinato, che gioca e scava per conto dei miserabili e degli sfruttati, all’interno del percorso storico. Sono credenze con le quali non si può arginare il dilagante integralismo. Tutti coloro che, in grandi masse, specialmente nei paesi islamici e in quelli orientali, ma anche in Italia, si affacciano adesso, proprio a seguito delle modificazioni politiche di questi ultimi mesi, alla visione diretta della situazione economica mondiale, possono cadere vittime degli imbrogli altrui e delle proprie speranze. I laici algerini, come i loro corrispondenti moderati degli altri paesi islamici, non possono fronteggiare l’ondata integralista con chiacchiere ideologiche, potrebbero farlo solo migliorando le condizioni economiche oggettive della gente, ma spesso questo non viene fatto, perché interessi internazionali e condizioni oggettive bloccano ogni possibilità.
L’integralismo religioso si sta sviluppando anche nei paesi orientali, dopo le modificazioni avvenute nel comunismo “reale” degli Stati, tutt’altra cosa del comunismo come l’intendiamo noi, ma questo è ovviamente un altro argomento. Qui, la spinta dell’integralismo wojtyliano, sta facendo risorgere diversi integralismi locali e, indirettamente, anche l’integralismo islamico, con conseguenti tensioni nazionaliste di notevole importanza. Come effetto indotto c’è un risveglio anche in Italia del cattolicesimo integralista che potrebbe alimentarsi sempre di più in movimenti localistici che prima o poi sboccherebbero in un congiungimento con i movimenti cattolici di base.
Le prospettive di uno sviluppo dell’integralismo religioso sono tutt’altro che trascurabili. Occorre darsi strumenti di critica che siano efficaci e non accettino l’equivoco determinista, che ha portato acqua solo alla costituzione di dittature statali (fasciste e comuniste), e nemmeno l’equivoco del razionalismo scientifico, che ha portato il mondo alle condizioni attuali di impoverimento e distruzione. Potremmo andare incontro ad una rinascita della religione con manifestazioni non solo di massa, significative di uno stato di malessere, ma anche con un rafforzamento del dominio delle varie Chiese, con tutte le conseguenze negative di cui è sempre stato capace.
Ecco perché è bene cominciare subito a lottare non aspettando che qualcun altro lo faccia al nostro posto.
[Pubblicato su “Provocazione”, n. 25, agosto 1990, p. 12]
Dietro i fantasmi di Carpentras
L’antisemitismo, che ha avuto nei secoli diverse espressioni, sia teoriche che di massa, si è anche concretizzato in riflessioni storiche e filosofiche dirette a provare i motivi dell’odio verso un popolo considerato come non-popolo, e in pratiche di annientamento, pogrom e genocidi vari.
Volendo fare una distinzione, per quanto incerta e discutibile, questo movimento irrazionale di paura e di incertezza verso gli ebrei ha preso storicamente due forme: la prima, più antica e più articolata, è quella religiosa, la seconda, più schematica e più recente, è quella razzista. Se gli esiti di queste due aberrazioni sono stati spesso identici, non erano identici i punti di partenza, e nemmeno l’impiego di alcuni mezzi di attacco e distruzione contro il popolo dell’antica Israele sparso per il mondo.
So bene che esistette una “teoria del sangue”, cattolica, sviluppatasi subito dopo la “reconquista” spagnola e avente lo scopo di smascherare, con un dato di fatto, le conversioni al cattolicesimo supposte strumentali, ma essa restò subordinata, nell’ambito della teologia cristiana, alla teoria dominante che sosteneva la tesi della “grande colpa”, cioè il deicidio. La tesi razzista, invece, sviluppatasi in tempi più recenti, ha avanzato pseudo teorie scientifiche per giustificare la necessità di distruggere gli ebrei, ma non solo questi, in quanto nella stessa tesi veniva ritenuta necessaria anche una riduzione al livello subumano di popoli non ebrei, ma ritenuti inferiori, come i popoli slavi. È stato affermato che con l’invasione della Russia i nazisti scatenarono di fatto la terza guerra mondiale, sia per diversità di metodi impiegati (ad esempio, la presenza di commissari politici nell’esercito, l’eliminazione in massa dei prigionieri, ecc.), sia per diversità di scopo, cioè vasti spostamenti di popolazioni, assoggettamento in massa alla schiavitù, ecc.
Ma, soltanto la tradizione antisemita del cattolicesimo ha riservato una particolare attenzione ai cimiteri ebraici. Dietro il macabro gesto, inutile e stupido, di Carpentras, ci sta in pieno tutta la cultura cattolica degli ultimi duemila anni. La pratica di dissotterrare i morti era normale per il cattolicesimo e veniva impiegata nei riguardi degli eretici di cui si disseppelliva il cadavere impalandolo su di un apposito trespolo allo scopo di procedere al suo processo davanti ai tribunali inquisitoriali. Spesso, come lo stesso san Giovanni Crisostomo sollecitava, si rendeva necessaria questa pratica per cacciare via dai luoghi consacrati i cadaveri degli ebrei convertiti, sulla cui confessione si erano successivamente avute le prove (con quali mezzi, lo si può immaginare!) di una strumentalità dell’abiura, avente lo scopo di evitare le persecuzioni. In questo caso i corpi dissepolti venivano gettati in massa in una fossa comune, fuori dai terreni consacrati, e coperti con calce. Pratiche di disseppellimento simili, con motivazioni altrettanto abiette, si trovano citate in senso favorevole, per quel che ricordo, anche nelle terribili lettere di san Girolamo, uno dei peggiori fanatici dell’agiografia cristiana e cattolica, ma anche in scritti molto più pacati e riflessivi di quel sant’Ambrogio, maestro e affascinatore di sant’Agostino.
Senza andare tanto lontano nel tempo, esiste la documentazione di un triste dibattito tenuto nel corso del Concilio Vaticano Secondo, quindi appena l’altro ieri, dove la proposta di togliere la preghiera “Pro perfidis Judaeis” della messa del Venerdì Santo trovò molti ostacoli e dette vita ad una specie di trattazione organica del moderno antisemitismo cattolico.
C’è da sorprendersi?
[Pubblicato su “Provocazione”, n. 25, agosto 1990, p. 12]
Chi è l’ebreo?
Non è facile rispondere a questa domanda, né queste vecchie riflessioni hanno la pretesa di farlo. La domanda, proprio perché in grado di fornire moltissimi esiti, risulta mal posta, almeno per la mentalità razionale che ognuno di noi si porta dietro come la borsa della spesa.
Più facile rispondere a domande del tipo: che fa l’ebreo? Quali i suoi comportamenti religiosi, politici, culturali, sociali, sessuali, ecc.? Molti si sono sbizzarriti a dare risposte a tutto ciò. La sociologia è la scienza che ha sempre una risposta per ogni domanda idiota.
Eppure, in molti di noi, resta sul fondo una certa inquietudine. Letture vecchie e meno vecchie, specialmente personaggi di romanzi, da Rebecca a Rocambole, sono lì a suggerirci una particolare figura, quasi la vediamo questa figura, la possiamo seguire con gli occhi della mente. Mette una certa apprensione, per come si disegna questo quadro inquietante. L’ebreo non esce bene da questo tratteggio. Per carità, siamo democratici e possibilisti, antirazzisti prima di tutto, poi siamo anche progressisti, in una parola siamo brave persone di sinistra, rispettosi dell’uguaglianza, pronti a difendere apertamente gli oppressi con tutte le nostre forze. Eppure dentro di noi si muove un sottile senso di disagio. Il fatto è che noi comprendiamo perché l’ebreo è stato sempre, e dappertutto, degradato, umiliato, cacciato, ucciso. Comprendiamo, ma non sappiamo bene spiegarci il perché.
Deve esserci qualcosa nell’ebreo, ecco la conclusione a cui arriviamo. Ed è questo convincimento, oscuro e mai del tutto palesato nei suoi dettagli, che costituisce la base dell’antisemitismo.
Io non detesto gli ebrei, metto fatica pure a immaginare come hanno fatto a teorizzare, prima, e attuare, dopo, il loro sterminio sistematico, mi si raggela il sangue quando mi capita fra le mani qualche estratto degli illeggibili scritti antiebraici, eppure non riesco a togliermi di dosso questo disagio.
So benissimo che gli ebrei sono uomini come tutti gli altri, condividono le stesse passioni degli altri, commettono gli stessi errori, sono ricchi e poveri come dappertutto nel mondo, intelligenti e stupidi, secondo come il caos originario decide che siano nell’assoluta mancanza di regole e predestinazioni.
So tutto ciò, ma sono inquieto lo stesso. Gli ebrei sono sporchi. Andiamo, siamo seri! Che genere di discorso è questo? Lo metto da parte, non c’è dubbio che è un discorso idiota, ma poi lo sento ripetere attorno a me, nel tram, o nella elaborazione enfaticamente democratica delle chiacchiere di cortile che si chiamano mass-media. Questa generalizzazione rafforza la mia opinione (chissà quando, da piccolo, per la prima volta sentii affermare questa valutazione di sporcizia?), non c’è dubbio che deve risalire alla mia infanzia. Gli ebrei sono spilorci. Per carità! Smettiamola con questi luoghi comuni. Eppure, non c’è battutaccia che non ne tenga conto in tutti gli ambienti. I compagni non fanno eccezione, tranne nei casi in cui sollevano arcigni la testa smettendo di sorridere, allora sono politicamente corretti e basta, ma questo è un altro discorso. E gli Scozzesi, e i Genovesi? Anche loro sono spilorci. Chi non ha fatto un’esperienza del genere in vita sua? Quasi tutti, e quasi tutti vi diranno che hanno trovato, equamente distribuiti, genovesi spendaccioni e genovesi spilorci, e rideranno della battuta: “Se un genovese si butta dalla finestra, seguilo”. Ma nessuno ride se la stessa battuta la si riferisce a un ebreo. Su questo terreno, tutti abbiamo il carbone bagnato.
Sarebbe un errore considerare queste preoccupazioni come poco importanti. In effetti esse fanno parte dell’armamentario di ridicolaggini messo in atto da secoli dall’antisemitismo, insieme alle favole sul popolo deicida, sull’odio degli ebrei verso il mondo che non è ebreo come loro. Nessun ragionamento dietro queste affermazioni, e nessun ragionamento, per un altro verso, potrà mai confutarle fino in fondo.
Dire che gli ebrei non sono una razza significa dire una verità tanto evidente da risultare perfino stupida. Basta dare un’occhiata all’eterogeneità delle componenti che costituiscono oggi Israele per convincersi subito. Eppure non solo gli antisemiti, ma molta gente che non sa che cosa pensare degli ebrei, e che genericamente nutre nei loro confronti qualche sospetto, come sempre accade contro tutto quello che non si conosce bene, li considera una razza a parte. A parte, ecco il punto.
Nemmeno gli ebrei si considerano una razza, ma si considerano a parte, eccome. Provate ad affermare che gli ebrei sono come tutti gli altri uomini e vedrete che se per alcuni questa affermazione non è altro che una banalità, per altri essa è un’enormità da non condividere, e fra questi ultimi si devono collocare anche gli ebrei. In definitiva, l’ebreo non si considera come tutti gli altri. Prima di ogni altra cosa, prima della sua umanità, c’è il suo essere ebreo, un essere umano ebreo.
Questo fatto è legato alla religione ebraica e, in particolare, alla forza con cui in questa religione si esprime la tradizione. Se la tesi principale, profondamente comica, degli antisemiti è che un ebreo tedesco non potrà mai capire Goethe perché estraneo allo spirito germanico, o un ebreo francese per lo stesso motivo non potrà capire Racine, mi sembra più fondata la tesi contraria, quella che formulo, per quel che mi consta, qui per la prima volta: nessuno che non sia ebreo può capire lo spirito dell’ebraismo.
Che il prussiano Rocker abbia imparato l’yiddish per organizzare, da rivoluzionario anarchico, gli ebrei londinesi, non vuol dire che abbia capito il problema dell’ebraismo.
È quindi solo parzialmente vera la tesi che l’ebreo è un uomo che gli altri considerano ebreo, sostenuta, a suo tempo, anche da Sartre.
L’isolamento, i ghetti, l’attribuzione in esclusiva fatta originariamente dalla Chiesa cristiana agli ebrei della possibilità di commerciare il denaro, il disprezzo nei loro confronti, tutto ciò non fa ancora l’ebreo, è solo tutto quello di cui dispone l’antisemita per costruire la “sua” immaginaria figura di ebreo. Il resto lo compie l’ebreo stesso, ed è questo resto che occorre tenere presente.
Mi si dice che l’ebreo non può costituire una unità di natura religiosa, sia perché la sua storia è costellata di una continua dissoluzione durata venticinque secoli, sia perché al posto di legami effettivi, cioè di rapporti che si solidificano in comunità vera e propria, e non solo nella fittizia soluzione di un qualsiasi Stato politico, si sono sempre avute delle coperture sentimentali tra gruppo e gruppo, dei legami ideali, a volte del tutto fantastici. Di fronte ad una religione forte come il cristianesimo, capace di affrontare le riforme e la frattura con l’Oriente senza snaturarsi, anzi rafforzandosi in quanto unità e forza politica, l’ebraismo si è andato sempre più spiritualizzando in una religione intimistica dalla forte carica simbolica, che consente la vita di raggruppamenti politici accanto a sé, improntando questi ultimi del proprio totalitarismo integralista e ringhioso.
Queste analisi sono in gran parte sbagliate e in minima parte giuste. Sono sbagliate in quanto nelle varie diaspore, dalla cattività babilonese alla dominazione persiana, fino alla conquista romana, e poi già nella storia, all’interno delle varie realtà storiche locali, gli ebrei hanno mantenuto una propria identità separata. Il fatto che questa loro identità si sia salvata quasi esclusivamente grazie al filtro religioso, invece di indebolire le varie comunità, come si è affermato analizzando il fenomeno con l’occhio politico occidentale ed evoluto, con l’acume di Machiavelli, per esempio, le ha rafforzate, ma a modo loro. Di già lo stesso movimento cristiano delle origini dette vita a una separazione radicale tra i gruppi ebraici dell’emigrazione e quelli della Giudea, e questo per il prevalere di una forma religiosa ad alto contenuto intimistico, quindi considerata dai soliti analisti politici una forma debole. Tanto poco debole è questa forma religiosa dell’ebraismo che risulta capace di attraversare tutto il Medioevo convogliando in sé grandi ricchezze di pensiero, di arte, di esperienze di vita, di riflessioni teologiche e mistiche, patrimonio che si riverserà successivamente sull’intero ebraismo, a prescindere dalle ripartizioni migratorie.
La tradizione, a poco a poco, prende il posto del passato nazionale vero e proprio. L’ebreo tedesco si sentiva tedesco, e restava sbalordito davanti all’enucleazione radicale attuata dai nazisti dal corpo sociale tedesco dell’epoca, ma questo sentirsi tedesco apparteneva ad una sorta di sfera pubblica separata, in una sfera più intima, e proprio per questo molto più forte, egli si sentiva ebreo. Mentre nel sentirsi tedesco cercava di ridurre l’integrazione nella società al minimo indispensabile, nel sentirsi ebreo portava al massimo questa integrazione, proprio perché la prima la considerava un’esteriorità inevitabile e la seconda una interiorità fortemente voluta. La religione ebraica, sempre più col passare dei secoli, è diventata così il sostrato su cui si regge la società degli ebrei in mancanza di un sostrato costituito dalle tradizioni di carattere nazionale.
Difatti, nel costituirsi in Stato israeliano, la maggior parte degli ebrei, fin dalle prime ondate, non avvertì mai la mancanza di una base storica effettiva, un legame immediato e ininterrotto con i luoghi della terra promessa, ma colse solo il segno del ritorno e della profezia mantenuta, la grande conferma di quanto inevitabilmente costituiva un segno di Dio, allo stesso modo in cui le catastrofi della diaspora e dell’olocausto, anche quelle, erano state un segno del rapporto particolare di Dio col suo popolo eletto.
A questo riguardo è interessante dire qualcosa della rivolta razionalistica che dalla metà del secolo scorso si conclude nei primi decenni di questo secolo. Si tratta del movimento detto dell’haskalah (cultura). Lo scontro tra questo movimento, costituito da poeti, musicisti, matematici, scienziati e storici, e i sostenitori della tradizione ebraica, fu durissimo e dette vita a una pubblicistica razionalista diretta a impiegare la ragione nell’esame dei fatti della vita umana, portando la propria critica anche dentro le mura dei ghetti, impiegando a volte un crudo ed efficace realismo. Questa spinta verso un mondo migliore, più giusto, spiritualmente più ricco, contrastava drammaticamente con la cruda descrizione della grigia realtà del ghetto, fatta di umiliazioni e di appiattimento alle tradizioni religiose. A cogliere meglio questo contrasto è la satira di Jehudah Loeb Gordon, di Joseph Pel, di Ischq Ertel, che attaccano le superstizioni e i lati ridicoli del culto. La rivista di Peretz Smolenskin, “Ha-Shachar” (“Il Mattino”), tratteggiava benissimo il panorama dei ghetti ebraici russi e attaccava non solo gli aspetti del fanatismo religioso, ma anche i lati inquietanti del modello di vita quotidiana. Eppure, questa satira non arriva al nocciolo della questione, non tocca la presunta “rivelazione” del Dio assoluto che guida Israele verso la vittoria. Nessun critico osa spingersi tanto oltre. Lo stesso pensiero ateo di Roger Martin du Gard predilige attaccare il cristianesimo e, in particolare il cattolicesimo, ma non tocca mai il Talmud. La figura sociale del prete, da cui la larga pubblicistica anticlericale dovuta agli ebrei, non prende mai in considerazione il rabbino.
Di già, con l’intensificarsi dei pogrom, specialmente in Russia, alla fine del secolo scorso, questo filone letterario critico comincia ad attenuare i suoi colori. Prende il sopravvento la rivalutazione dei valori tradizionali dell’ebraismo, e il motivo è facile a comprendersi, di fronte alla repressione e alla catastrofe gli ebrei finiscono per ritrovarsi, ancora una volta, uniti, proprio nell’olocausto.
Gli eredi dell’haskalah saranno così gli iniziatori del movimento Hibbat Sion (Amore di Sion), che prenderà sempre di più colori nazionalisti. Uno dei principali ideologi del sionismo è Ahad Ha’am (Asher Ginzberg), ucraino, il quale nel suo libro Al Parashat Derakim (Al bivio), fonda il sionismo sotto l’aspetto teorico e spirituale. Essendo continuatore del precedente razionalismo critico, questo filone nazionalista non è alieno da una critica della quotidianità ebraica, perfino dall’impiego di un certo humor riguardo il modo di pensare dell’ebreo medio, di cui sottolinea i tic e molti degli aspetti paradossali di cui ho fatto cenno prima.
L’unità si continuerà a rafforzare in terra di Palestina. Unità non solo politica, che questo forse non corrispondeva alle speranze dei primi coloni, i soli coloni degni di questo nome, ma anche comunitaria e sociale, oltre che religiosa, e quest’ultimo punto, mai esaminato fino in fondo dai cosiddetti scrittori laici del movimento della rinascita nazionale, finirà per diventare assolutamente prevalente.
Mi sembra più esatto dire che l’ebreo è colui che si considera ebreo e quindi agisce e si comporta in base alla sua coscienza di ebreo, dove trova un posto essenziale, se non proprio dominante, il movente religioso. A rafforzare questo convincimento di essere ebreo è anche, e non si tratta di un apporto secondario, il comportamento degli altri che, considerandolo ebreo, adottano verso di lui atteggiamenti che conferiscono a quelle scelte originarie il consolidamento di un vero e proprio status sociale.
Togliere all’ebreo la sua condizione ebraica, la sua vita nella tradizione, il suo sentirsi facente parte di una comunità ideale e religiosa, prima ancora che nazionale, anche quando non si trova fisicamente nel territorio dello Stato di Israele, significa snaturarlo, e fare ciò potrebbe essere operazione altrettanto disastrosa quanto quella che cerca di equiparare le differenze fra gli uomini in nome di un malcompreso egualitarismo.
L’uguaglianza è un’idea che si fonda sulla giustizia, sulla libertà, sulla verità. Come tutte le idee che sono veramente tali, e non invece frutto di opinioni messe in movimento dal gioco dell’informazione quotidiana, deve essere continuamente fatta propria. Non c’è una definizione conclusiva, una presa di posizione, una dichiarazione programmatica, insomma una qualsiasi chiacchiera, che possa fermarla in maniera assoluta in una formulazione valida per tutti, non c’è niente che possa fare diventare l’ebreo uguale a me. Io non sono ebreo, e mi manca questa potente esperienza, questa intima connessione con qualcosa che è altro della possibile esperienza religiosa che posso fare nel mio mondo non ebraico. E questa mancanza non posso sostituirla con la semplice decisione di leggere i testi dello chassidismo o i miti della Qabbalah. Il fatto essenziale, e penso che ogni ebreo possa convenire con me, è che io non sono ebreo.
[1986]
Il movimento dei kibbuzim
Con gli arrivi in terra di Palestina sempre più numerosi a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, il movimento dei kibbuzim si allargò a macchia d’olio. Quello che prima era un esperimento, divenne un tentativo, seriamente organizzato, di ristrutturare la società in base alla coesione interna di nuovi modelli organizzativi. Questi modelli usufruivano delle esperienze del passato, sia teoriche che pratiche, ma si presentavano di fronte ad un problema del tutto nuovo, se non altro per le considerevoli dimensioni che andava prendendo.
Nasce così il villaggio comunitario, un insieme di comunità di produzione e consumo che propone una integrazione di agricoltura, industria e artigianato. Queste comunità si uniscono in una Confederazione. Almeno uno dei punti preso in considerazione da Kropotkin come causa del non funzionamento delle comuni, l’isolamento, viene così superato.
Dietro questo villaggio comunitario ci sono delle esperienze teoriche e pratiche, ma molto viene qui improvvisato dai coloni che, almeno agli inizi, cercano di fare partecipare, pienamente corrisposti, anche la popolazione arabo-palestinese alle loro iniziative. I sogni, a questo punto iniziale, sono molti, le fantasie utopiche anche: una nuova società sembra alle porte, fondata su nuovi rapporti familiari e personali, un uomo nuovo, un nuovo mondo erano, forse, gli obiettivi più o meno dichiarati.
I primi pionieri, teorici e applicatori di quanto stiamo dicendo, i chaluzim, avevano in mente qualcosa del genere, ma sullo sfondo di questa rete di comunità libere che volevano allargare a tutto il territorio disponibile si poteva, fin dall’inizio, cogliere una contraddizione, si poteva vedere l’idea nazionale, la ricostituzione dello Stato ebraico su base territoriale e nazionale, il germe di ogni male futuro.
Che in molti di questi chaluzim ci fossero delle istanze socialiste, la cosa non ha poi questa importanza che è stata più volte sottolineata. Le teorie di Owen e di King erano presenti insieme a quelle, per l’argomento specifico, molto più importanti di Proudhon, Kropotkin e Landauer. Ma non è questo il punto.
La kwuza, la comunità di villaggio, su questa base era destinata a essere inglobata dallo Stato e a seguire, per vie diverse, il tragico destino delle collettività spagnole. Le teorie di Kropotkin sul mir e sull’artel russa, la lettura di Marx e dei parziali tentativi compiuti da quest’ultimo per spiegare il funzionamento e il destino delle comunità agricole (importante la risposta alle domande di Vera Zasulič), non erano sufficienti per risolvere i problemi posti dalla nuova realtà. L’inglobamento statale divenne inevitabile quando la kwuza smise di essere creatrice di nuovi interessi, produttrice di una vera e propria vita comunitaria ricca di problemi, ma anche capace di realizzare soluzioni. Adeguandosi nel semplice adempimento dei compiti quotidiani, l’iniziale impulso si spegneva a poco a poco. Nel momento in cui la chaluziut si accontentò di essere se stessa, cioè una piccola élite depositaria del titolo di colonizzatrice originaria, arrivò puntuale la sua sconfitta.
Questa scoppiò con l’incremento della crisi nell’intero insediamento in terra di Palestina. Il paese dell’alija, dell’ascesa, divenne il paese dell’arricchimento di piccoli gruppi sprovvisti di qualunque pulsione ideale. Accanto alla chaluziut originaria, che ancora manteneva una visione chiara delle proprie motivazioni socialiste, nasceva via via un’altra chaluziut incompleta, desiderosa semplicemente di vivere meglio nella terra considerata dei “propri padri”. La divisione razzista tra askenaziti e sefarditi divenne sempre più evidente e importante, man mano che crescevano gli arrivi degli ebrei di colore. Le comunità, crescendo e differenziandosi, si sottrassero sempre di più a qualsiasi motivazione ideale.
Non che questi nuovi arrivati si sottraessero ai loro obblighi di lavoro, al contrario, spesso i sefarditi erano fra i più radicali negli impegni presi (anche quando fanno i poliziotti essi sono fra i più rigidi e ligi al regolamento), ma il fatto è che il loro interesse primario era la sopravvivenza, qui e subito, nel migliore dei modi, anche per fuggire ai rischi di un fallimento che li avrebbe costretti a fare ritorno alle terre d’origine dove ad attenderli c’era soltanto la morte. Le motivazioni ideali, di un socialismo comunitario e federalista, coordinato a livello nazionale, partecipativo con gli arabi-palestinesi, senza la presenza di uno Stato, se c’era agli inizi, in molte di queste strutture produttive, diciamo di nuovo conio, in breve finì per scomparire.
Non si deve pensare che questa situazione sia solo quella dei kibbuzim, anche le moschawim, le colonie operaie industriali si trovano nella medesima situazione, molte di loro hanno abbandonato la composizione originaria, parzialmente individualista, per accettare non un accordo più profondo, e quindi federato in modo corretto dal punto di vista sociale, con le altre forme di organizzazione comunitaria, ma al contrario un rapporto diretto, e quindi un diretto sovvenzionamento, con lo Stato israeliano.
Degli originari kibbuzim rimangono solo le ceneri.
[1986]
La comunità, dalla sperimentazione alla sopravvivenza
In questi ultimi anni Ottanta si è cercato di vedere nella comunità un modo di vita alternativo, corrispondendo questo desiderio di ricerca all’acutizzarsi del livello di difficoltà nella lotta sociale. La strada verso la rivoluzione, apparendo sbarrata, e non vedendosi possibilità immediate di una vittoria delle forze progressiste e rivoluzionarie sulla reazione conservativa dello Stato, questa strada la si è cercata anche nella comunità. Così questi luoghi appartati sono stati considerati non solo come situazioni reali, capaci di esprimere idee diverse, ma anche di soddisfare bisogni fondamentali, esigenze personali e collettive, moventi etici e culturali, insomma di diventare punti di riferimento per molti, al di là della divisione tradizionale e difficilmente rimovibile tra personale e politico.
Non si può negare che dietro questi desideri alternativi si nasconda un bisogno diffuso di diversità. Proprio di fronte al tramonto della speranza di profonde modificazioni collettive nella struttura sociale trova più ampio respiro la preoccupazione di non farsi travolgere dalla dilagante ristrutturazione, dal sempre più ampio articolarsi della desistenza a qualsiasi livello. Continuare la lotta rispettando i propri bisogni essenziali, visto per altro che di cambiamenti macroscopici, almeno al momento, non è il caso di parlare.
Parlando delle esperienze riguardanti la Comunidad del sur, Ruben Prieto dice: «Queste nuove formazioni societarie organizzano l’azione sociale per autogestire fondi, produzione e consumo, come pure diversi servizi o per unirsi in comune secondo determinate esigenze di vita. Attraverso tutto questo ribollire, in certo modo marginale (però nello stesso tempo contrapposto ai valori dominanti e agli apparati di potere) si evidenza l’emergenza di un nuovo discorso utopico, credibile e verificabile. Nelle loro realizzazioni più radicali le comunità mirano alla promozione dell’identità individuale e di libere forme organizzative, ad una esaltazione dell’autonomia, della partecipazione e della creatività, alla fiducia in ogni progetto di sviluppo basato sulle tecnologie dello sviluppo capitalista, ponendo un forte accento sulla cultura del quotidiano e sull’azione dal basso verso l’alto e dal particolare al generale». (“La Comunidad del sur” in “Volontà”, marzo 1989, p. 56).
Da questa citazione si ricavano princìpi generalissimi che possono andare bene, e di fatto vanno bene, proprio a causa della loro non specificità. In fondo, quello che dovrebbe caratterizzare una collettività comunitaria, separata dalle direttive statali, dovrebbe essere la sua diversità, cioè la diversità delle sue proposte, non la semplice esistenza in quanto comunità separata dal resto del sistema societario nel suo insieme. Questa affermazione, che può sembrare banale, tocca invece il punto più importante del problema. La questione oggi non è tanto il vivere in comunità, cosa che certo ha i suoi lati difficili, e anche il suo aspetto di sfida a un modello generalizzato di normalità, ma il vivere in maniera diversa, vivere la propria vita in maniera diversa, non il vivere la stessa vita degli schiavi del capitale in modo cambiato, cioè con ritmi differenti, che spesso sono anche peggiori, con sforzi personalizzati, che spesso costituiscono un supersfruttamento, con nomenclature e ideologie differenti.
Accontentarsi di difendersi dentro queste strutture somiglia molto al chiudersi nei ghetti, nella tana di cui parlava Kafka. Queste istanze finiscono per prendere quasi sempre due strade, che a ben esaminare riconducono nella stessa piccola piazza del ghetto. La prima, più liscia e diritta, è quella della desistenza. Niente da fare. Il nemico è troppo grosso. Tanto vale ripiegare sulla semplice diffusione delle nostre idee, che poi sono le migliori, e non insistere nell’attacco che produce solo aumento della repressione e ulteriori difficoltà per tutti. La seconda, più tortuosa e difficile, è quella che passa attraverso la proposta organizzativa delle comunità.
Spesso si parla di questo concetto comunitario, ma quasi sempre senza cognizione di causa, cercando di presentarlo come qualcosa che non sia circoscrivibile in un impianto geografico e nemmeno riconducibile a scelte che soddisfano solo alcuni bisogni, sia pure fondamentali. In maniera molto confusa si fa riferimento a un modo diverso di concepire la vita, per cui la comunità dovrebbe avere una capacità interna per sfuggire ai pericoli della sclerosi conservatrice, della ripetizione di sigle vuote, delle chiusure, innestando un continuo processo di rinnovamento culturale.
Questa comunità, di cui non si dice molto in termini di struttura, è considerata come la coagulazione di un sentimento partecipativo, e non come un bisogno di ripiego. Penso però che quando la tensione comunitaria non si viva dall’interno, quindi come assoluta dimensione sperimentale e utopistica, ma la si colga invece come male minore di fronte al male peggiore costituito dalla società statale, si aprono le porte a un altro bisogno comunitario, quello di fuggire di fronte alle proprie responsabilità, il che costituisce esattamente il contrario di ogni coinvolgimento e di ogni possibile apertura verso la diversità.
Perché pensiamo possibile questa cattiva coscienza, cioè un ricorso allo strumento della comunità come ripiego e non come esperienza viva e diversa? È semplice. Prima di tutto, la lotta rivoluzionaria è fatto organizzativo, qui e subito, non semplice sviluppo culturale, e questo senza fare riferimento a modelli che non ci appartengono, i quali di culturale, appunto, hanno solo il nome. Lo scontro sociale non ammette ritagli o incavi da ottenere con operazioni fittizie, elaborate all’interno del filone più inquinato e contraddittorio del pensiero filosofico. L’uomo della diversità paga sempre di persona, ed è quindi cosciente che deve affrontare sacrifici, cioè posposizioni di problemi, rinvii di soddisfazioni di bisogni. Chi decide di attaccare realmente il dominio degli oppressori non può poi ragionevolmente pensare che questi ultimi lo lascino tranquillo all’interno delle sue ideali tensioni di libertà e di uguaglianza. Se quest’uomo vuole veramente che questi luoghi del vivere comunitario siano minimamente praticabili, e non solo esercitazione filosofica, per giunta contraddittoria e inquinata da incongruenze specifiche, deve dare segno di buona volontà, cioè muoversi contro il dominio in maniera attiva, non andandosi semplicemente a rinchiudere.
Ma perché si riconnette un valore positivo alla comunità? Semplicemente per il suo distaccarsi dalla società? La risposta non può essere così semplice. Mettendo da parte gli usi specifici che del concetto di comunità hanno fatto Platone, Fichte ed Hegel, c’è da tenere presente l’analisi dei marxisti della comunità primitiva con la quale ha inizio la storia dell’umanità, che dovrebbe ricostituirsi in una comunità finale, con cui si concluderebbe la storia del proletariato e della lotta di classe. Questo necessarismo filosofico raggiunge la sua massima vis comica, e purtroppo tragica, nelle teorie di Stalin sulla comunità, le quali fanno bella mostra accanto alle teorie dei nazionalsocialisti che sono stati non solo teorici, ma anche realizzatori, naturalmente a forza, di una comunità di cultura e di popolo a carattere sacrale.
Fin qui siamo nell’ambito di un significato degenerativo del concetto di comunità. Esiste però un’altra elaborazione di questo concetto, sempre eseguita nelle officine delle accademie padronali, ed è proprio a questa che si sono avvicinate le ipotesi di lavoro alternative in questi ultimi anni. Si tratta del concetto di comunità non come entità sovraindividuale, ma come particolare legame fra individui, in altri termini come comunità sociale. Un interesse comune che finalizza i rapporti individuali. La sua formulazione più dettagliata è quella di Ferdinand Tönnies, che risale al 1887, in cui la comunità viene presentata come un organismo naturale, all’interno del quale si sviluppa una specie di volontà collettiva diretta a soddisfare prevalenti interessi collettivi. In questo organismo, le pulsioni e gli interessi individuali si atrofizzano al massimo, mentre l’orientamento culturale tende a diventare chiuso fino a scadere, ben presto, nella dimensione sacrale. La solidarietà nei riguardi di tutti i membri è globale. La proprietà è comune. Il dominio, almeno nei termini in cui lo si concepisce oggi, è assente.
Il modello che Tönnies tenne presente per questa analisi, per molti versi interessante, è quello della società rurale europea così come si realizzò nel villaggio contadino. Oggi non esiste più. Da parte sua, Kropotkin, che in parte attingeva alle tradizioni del mir russo e ad altra letteratura antropologica, specialmente di lingua inglese, teneva presente un modello abbastanza simile. Penso che l’errore sia stato quello di pensare che un certo modo di agire spontaneo, davanti al verificarsi di avvenimenti disgregativi dell’ordinamento societario, fosse specifico delle situazioni comunitarie, oppure fosse il portato storico di un sentimento comunitario addirittura presente più in certi popoli e meno in altri. Si è anche pensato che alcune istituzioni comunitarie fossero riuscite a filtrare attraverso la grande distruzione operata dallo Stato moderno, permanendo intatte all’interno di strutture oggi visibili come, ad esempio, la famiglia, i gruppi familiari di parentela, i gruppi di vicinato, le cooperative, ecc. Tutto ciò era, e resta, un grossolano errore. Allo stesso modo è erroneo affermare in assoluto, senza valutare le singole condizioni e le epoche, che la comunità è un’unione sentita dai membri, mentre la società è soltanto capita attraverso un ordinamento istituzionale.
Tutto ciò non intacca le differenze, che ci sono e che vanno rilevate concretamente, e non in astratto, come non intacca i sentimenti di solidarietà, di uguaglianza, di rifiuto del dominio e della proprietà individuale che possono essere avvertiti, in condizioni specifiche, da persone che vivono in una comunità. Allo stesso modo in cui non intacca il fondamento del concetto di autorganizzazione, di creatività e di progettualità spontanea di chi si contrappone al dominio, in modo attivo, e ne subisce le conseguenze. I dubbi qui vengono avanzati riguardo l’utilità e l’utilizzabilità del concetto comunitario astratto, sperando che dal suo impiego vengano le soluzioni dei problemi sociali. Per quello che è attualmente la situazione del dominio capitalista nella società post-industriale, non si può considerare la comunità (che al suo interno sarebbe realizzabile solo nell’aspetto di isola periferica) come un’indicazione di valore necessariamente superiore a quello della società comune o normale. Non possiamo quindi considerare la comunità come un’idea astratta facente parte del patrimonio culturale del progresso contro la reazione. Queste ripartizioni così nette determinano sempre confusioni ed equivoci. A dimostrazione di quest’ultimo punto sta il fatto che anche i movimenti reazionari, come ad esempio i nazisti o gli antisemiti che li precedettero, organizzarono moltissime comunità. Il marito della sorella di Nietzsche era uno di questi organizzatori.
Sotto altri profili c’è il problema che non è facile liberare la comunità, allo stato attuale, dai pregiudizi sacrali, messi avanti dai portatori di verità. Ciò causa una distorsione dell’innegabile solidarietà che si diffonde al suo interno. I residui di bandiera o di sigla, con le loro pesantezze ideologiche, giocano brutti scherzi. Non è neanche facile separare dal concetto di comunità il suo fondamento originario, appunto rurale e contadino, con tutto l’insieme di elementi ormai lontani nel tempo e certamente in contrasto con una situazione generale di profonde modificazioni tecnologiche. Parlando dello sviluppo dei kibbuzim, Avraham Yassour ha scritto: «I kibbuzim economicamente più floridi passano da una modesta economia di sussistenza a una prosperità che consente l’attribuzione di budget individuali e produce sciovinismo settoriale e dipendenza dal lavoro salariato e dalla permanenza dei detentori di cariche. Questi nuovi aspetti del kibbuz non lo definiscono come comunità, ma costituiscono una minaccia nella misura in cui sono collegati alla fase di prosperità economica. Alcuni kibbuzim sono passati dalla comunalità (l’intima ed etica comunione dell’antica kwuza) alla funzionalità». (“I kibbuzim analizzano i kibbuzim”, in “Volontà”, marzo 1989, pp. 78-79). Più penetrante e critica la valutazione di Vivian Silverg la quale scrive: «Si potrebbe ritenere che poiché tutti i lavori nei kibbuzim hanno egual valore, la divisione per sessi del lavoro sia irrilevante. Ma non è poi così: l’attività educativa non conferisce più lo status di un tempo, mentre il lavoro che produce denaro è molto più considerato. Il denaro che fa funzionare i kibbuzim deriva quasi sempre dal lavoro maschile. E comunque l’assegnazione del lavoro secondo i criteri sessisti resta un’ingiustizia e un affronto profondo al senso dell’egualitarismo». (“Egli creò l’uomo e la donna”, in “Volontà”, marzo 1989, p. 92).
Penso che questo problema della comunità debba essere ancora più approfondito. Per esempio, il passo successivo potrebbe essere quello di ricondurre il problema ai suoi elementi esterni. La comunità va bene, ma per che cosa? Questa domanda assume adesso aspetti fondamentali. Una comunità di produzione, agricola o cittadina, ma quasi sempre agricola, può diventare una comunità di sopravvivenza. Lavorando, più o meno, si può anche raggiungere l’obiettivo. Ma che obiettivo sarebbe questo? Soltanto l’altra faccia del ghetto, la riproduzione di se stessi come animali da lavoro, come produttori e basta. Occorre per forza una motivazione ideale. Ma questa non può riassumersi in un generico appello alla lotta contro lo Stato e la società statalizzata. Bisogna che questa pulsione ideale, questa spinta utopica, sia interna alla stessa dimensione comunitaria, allo strumento che si è scelto. Occorre cioè che si sia scelto proprio quello strumento perché si pensa, attraverso di quello, di uscire dalla comunità, di sconvolgere gli altri con la propria diversità, tutti gli altri, anche quelli che nulla sanno di organizzazioni comunitarie. Ma la propria diversità non può riassumersi semplicemente nel fare parte di una comune, perché qui l’esistenza è quasi sempre talmente miserabile da invogliare piuttosto alla pietà che all’esempio. Deve essere quindi qualcosa d’altro.
Il seguente passo di Alberto Ruz Buenfil dimostra quanto si sia lontani dal problema che sollevo: «La società ecologica sarà necessariamente egualitaria, non gerarchica e decentrata. In questo contesto si inserisce il progetto di nuove forme di raggruppamento sociale, comuni e comunità, associazioni volontarie civili, reti di cooperative. Finora si è pensato alla campagna come ideale collocazione di questi esperimenti. Bisogna invece cominciare a concepirli all’interno della città, come collettivi, cooperative di consumo, artigianali, nuove tribù, bande, associazioni di quartiere, consigli operai, scuole e cliniche olistiche. Tutto questo per costruire una società parallela che rimpiazzi pacificamente la società nucleare competitiva, ecocida, militarizzata, superin-dustrializzata e imperialista». (“I tempi delle comuni”, in “Volontà”, marzo 1989, pp. 108-109). Ecco, questo passo è proprio quanto di più limitato e insignificante si possa oggi dire sul problema, quanto di più ideologico, superficiale, filosoficamente necessitato e stupidamente meccanicistico si possa affermare. È proprio leggendo dichiarazioni di questo genere che si capisce fino in fondo di quali intenzioni è alimentata la pretesa buona fede dei sostenitori del movimento comunitario.
Non essendo possibile tutto ciò, non c’è nulla da sostituire pacificamente alla società e allo Stato che la difende militarmente, come se fosse una buona vecchia dama cui si frega elegantemente il posto. Resta la domanda: in che cosa deve consistere la diversità della vita comunitaria, visto che non può consistere nella comunità stessa, che diversità non è? Le comunità del secolo scorso e i loro sostenitori avevano capito questo problema e applicavano nei limiti del possibile tutti i loro sforzi in questa direzione. Poniamo, il libero amore costituiva un problema nel problema, un’utopia all’interno del problema tecnico di mandare avanti la comunità.
[1989]
Postfazione del 1998
Le due ultime decisioni del governo israeliano di Netanyahu sono state quelle di allargare l’insediamento degli ebrei, oltre che a Oriente, anche alle località a ovest della città di Gerusalemme, occupate dagli arabi palestinesi, e di continuare a favorire l’insediamento di nuovi coloni nei territori occupati.
Sul piano puramente politico, di politica internazionale, queste due decisioni si risolvono in una netta violazione degli accordi di Oslo, il che non ci sorprende più di tanto. Non c’è accordo, con gli Stati Uniti e con l’Unione Europea, che Israele non ha disatteso, nella sua strategia di rafforzamento proprio e di distruzione del popolo palestinese, e non ne faremo qui oggetto di una notazione particolare.
Ma queste due decisioni, nel momento in cui tutti i segnali politici mondiali sembrano consigliare a Benjamin Netanyahu di ammorbidire la sua politica di falco, lasciano intendere, più di qualunque altro discorso teorico, di che pasta è fatto questo governo, quale prezzo è disposto a pagare lo Stato d’Israele per mantenere fede ai propri programmi militari e religiosi.
L’unica mossa che i potentissimi Stati Uniti sono riusciti a fare (la lobby ebraica in quel paese resta forte, e continua a condizionare questo genere di decisioni), è stata quella di un blando dissenso da questa politica di guerra, dichiarandosi estranei a essa (almeno a parole) e suggerendo all’Unione Europea di fare qualcosa per dissuadere gli israeliani dal continuarla, senza per altro arrivare a misure troppo rigide, come potrebbe essere, ad esempio, un embargo simile a quello caduto su Libia e Iraq.
In effetti, in questo momento, la Cisgiordania e Gaza sono sotto uno statuto di dipendenza da Israele e, dal punto di vista economico, si sono trasformati in un abisso incolmabile che costa molto di più di quello che gli Stati europei collaboranti, e lo stesso Israele, sul piano finanziario, dovrebbero essere disposti a pagare.
Ma Israele non può cedere nemmeno di un centimetro. Tutta la sua politica, specialmente degli ultimi anni, sembra, agli occhi laici di un osservatore cosiddetto obiettivo, suicida, e difatti lo è, ma non lo è per un ebreo.
Non bisogna commettere l’errore di pensare che se al posto di un governo di destra, in Israele, ce ne fosse uno di sinistra, le cose andrebbero diversamente. Sarebbe la medesima cosa, forse in forme meno rigide e più adeguate all’attuale debole posizione di questo anomalo Stato nello scacchiere degli equilibri internazionali.
Ciò azzera le chiacchiere di coloro che ritengono possibile un’alternativa alla situazione israeliana, restando in piedi le incrollabili caratteristiche teocentriche di questo Stato. Delle due cose l’una: o scompare lo Stato israeliano teocentrico, dando vita a formazioni di altro genere, federaliste, aperte alle possibilità di una coabitazione comunitaria con gli arabi palestinesi, ed eventualmente con altri popoli, oppure ancora una volta gli ebrei andranno incontro a una catastrofe.
Ma forse la shoah è proprio quello che aspettano, secondo le previsioni dei loro profeti. Come smentirli?
Senza titolo
I
Troppa luce quella notte. Occorreva il buio di scorciatoie complici, di vialetti solitari, per alzare la mano, per trovare il coraggio di alzare la mano e fare buio nel proprio cuore.
II
Come placare gli odi se non ci sono che loro, oltre a menzogne e debolezze dimenticate? Per incantesimo meraviglioso avanzare con tremolante lanterna piena di curiosità, imparando, conoscendo. Ma c’è il canto delle rane che mi riporta indietro, nel fango, da dove non mi muovo da tempo, in attesa, come il serpente.
III
Liturgie ricorrenti dilatano il tempo nel cerimoniale, aspettando il miracolo che cambi l’acciaio in amore. Un’idea della bellezza, dalle singole gocce di nitroglicerina. Silenzio. Ripongo accuratamente i pezzi nelle custodie, sarà per un’altra volta.
IV
Ha scintillato a sufficienza l’ala nera del corvo. Adesso che cala la luce, vedo chiara la finestra lontana, sbrecciata nel palazzo distrutto, quasi. Un’ombra piange la morte dell’amico, poi si alza e guarda il sole basso all’orizzonte, prima di morire a sua volta.
V
Troppo lenta, finì per sedersi a terra, aggiustandosi l’abituccio sulle gambe malferme. Sembrava non respirasse, immobile fra le foglie cadute dai rami alti. Lo chador non permetteva di vedere le lacrime irrevocabili.
VI
Alla fine restammo soli, aspettando. Bisognava telefonare, prima che fosse troppo tardi. L’altro taceva guardando il faro non lontano, il faro del sogno, chiuso da ogni lato. Alte mura soleggiate sottolineavano la stonatura della luce mancante. La vita moriva lì dentro, se la vita è speranza lì dentro non c’era più. Solo la logica dei torturatori.
VII
Le buone cause non si riconoscono. Se le guardi in faccia, attentamente, non sono più buone. Soffocano con giustificazioni non richieste, pregano di restare alla superficie, di non affondare il coltello, o piangere.
VIII
Spalle al muro, accerchiato da ogni parte, alla curva della strada, dopo il ponte, nessuna possibilità, e sono felice.
IX
I figli prediletti degli dèi sono qua, davanti ai miei occhi e passano il tempo a cacciare le mosche. Le attuali sferzate del dominio militare non sembrano sfiorarli. Sono qua per aiutarli ad aprire gli occhi e a guardare tutto questo sangue.
X
Tra il boschetto e il mare qualche cespuglio rado e le piante raso terra dei cocomeri. Una cavalla morta non lontano dal campo e le impronte lasciate nella sabbia dai cadaveri trascinati via. Il dolore se lo portano i minuti, a poco a poco, nel leggero vento senza storia.
XI
In fondo alla bettola un vecchio sdentato guarda nel vuoto. Ha capito che sono italiano e i suoi ricordi non devono essere buoni. Ha i capelli corti come un carcerato e la testa rotonda, solo la faccia mantiene una certa pienezza e i suoi occhi guardandomi saettano una parte di quei ricordi amari. Le mie utopie così corpose si rivelano fragili e scarne sotto quegli occhi, leggende di famiglia capaci di fare scappare gli scarafaggi. Canta, mia fede inconcussa, canta le tue favole, questo vecchio non vuole ascoltarle, ma tu canta lo stesso, singhiozza le tue speranze e i tuoi orgogli. Squaderna qui, nel fondo di questa bettola, che è poi il fondo del mondo. Non lamentarti, i beccai vanno e vengono, quegli occhi restano.
XII
Venuto per sollevarli della loro umiliazione, sono qua a vederli seduti in fondo a una bettola, pazzi canuti che cantano sottovoce, tra i denti, un canto che non è di rassegnazione, un canto capace di intimidire la morte governata dalla classe al potere.
XIII
Sul ponte poco solido, gettato sul baratro, c’era poco da fare. Passare correndo tutti i rischi o tornare indietro. Avventura e sicurezza non stanno insieme, nemmeno passione e ordine. Sono andato avanti, sono sempre andato avanti.
XIV
Le code dei satiri hanno smesso di intrecciarsi, non si sentono più le cornamuse, né il sangue si riscalda nelle vene delle menadi. Sonnambuli soprappensiero avanzano nella nebbia con le mani piene di acquisti di Natale pensando a come chiudere le orecchie alle urla di dolore. Sono gli eredi delle rovine, hanno alle spalle un universo brutale e stupido, espressamente fatto da loro, massa inerte che non riesce a vedere il proprio destino.
XV
Uomini malconci e donne angosciate sotto l’ombra della cattedrale. La crudeltà della repressione è tangibile nell’aria come sofferenza intollerabile che il sangue dei repressori uccisi non allevia. Nessuno da queste parti canta vittoria, solo le ossa dei morti aspettano sepoltura.
XVI
Calcolo aritmetico della virtù, fatto da grassi mercanti arricchiti alla scarsa luce di lampade in stanze senza aria e senza luce.
XVII
Sotto il fico selvatico, giù nella timpa, l’asino sventrato rantolava al sole del pomeriggio.
XVIII
I gabbiani, goffi e impettiti, incedono nella fredda luce del mattino, incuranti della folla sotto i portici. Qualche briciola di umanità non desta il loro interesse, forse sospettano un imbroglio.
XIX
Gli edifici rosseggianti e fraudolenti li avevo lasciati alle spalle, nella evanescente periferia sterminata, adesso solo prati e boschetti, fiori e rovine, un luogo ideale per scomparire.
XX
Nell’ora più quieta della notte ho riletto gli antichi versi della rivolta, i denti del drago, uno alla volta. L’assalto al cielo continua, ma io sono quasi cieco e mi schernisco contro il sole che mi ferisce gli occhi stanchi, nessuno può fermare il disastro che si avvicina, nemmeno le capriole delle farfalle.
XXI
La quercia arrogante è stata colpita dal fulmine e agonizza fumante, non si considera distrutta, continua a vivere e, a poco a poco, un germoglio fiorisce fra i denti dei vecchi rami bruciacchiati. Anche i pessimisti devono ammettere che non mi arrendo facilmente.
XXII
La dignità e l’orgoglio di lavoratori col berretto calato sugli occhi, mentre tangheri in divisa di occupazione li spingono con i calci dei fucili. L’atmosfera tetra mostra il volto imbronciato della morte. La stanchezza e la mancanza di sonno segnano i volti di questi lavoratori che viaggiano assieme a me sull’autobus mattutino, eppure fra loro, forse con le labbra serrate, qualcuno sta all’erta nel silenzio più assoluto. La goffaggine di qualcuno non impedisce a meccanismi perfetti di esplodere nel luogo e nel momento più opportuni.
XXIII
Una bomba a orologeria purga la flemma dei controllori in divisa accanto ai reticolati che bloccano una strada senza nome. Nel letargo della danarosa utilità nessuno là attorno sente i singhiozzi dei feriti. L’adrenalina mi porta lontano fra lenzuoli puliti e nuovi conformismi affettati di ribellione.
XXIV
Gli occhi iniettati di sangue sottolineano la sua disperazione a chi non vuole capire. È il prezzo terribile per tutti coloro che brancolano verso la morte nelle biblioteche.
XXV
Aveva il pugno grosso e con quello colpiva la faccia del ragazzo che lo affrontava, riducendola a sangue e pus. Cadendo sotto le botte feroci del poliziotto, il ragazzo stringeva uno straccio nelle mani, uno straccio macchiato di sangue e null’altro. Il poliziotto, colpito al petto, cadde a faccia in giù, morto.
XXVI
Accattivante, mi faccio il giro dei quattro cantoni senza trovarlo. Eppure deve essere là, con la sua solita aria malinconica. C’è solo un tipo schiumante di rabbia, che resta fermo sulla soglia di un portone e guarda a destra e a sinistra, poi cade a terra fulminato. Il futuro ha smesso di agitarsi per lui.
XXVII
Sarebbe dovuto durare poco, un breve soggiorno in un appartamento a studiare il comportamento dell’uomo. Foto, ingrandimenti, abitudini, gusti. Una lunga passeggiata in periferia, una stupida strada di casermoni abitati da operai e qualche supermercato per operai. Era quasi entusiasta quando si rese conto di quello che, inaspettato, stava per accadergli.
XXVIII
Nessuno accettava compromessi né si trovava d’accordo. Fu una lunga e spiacevole discussione, assai triste, occhi pieni di odio fuori luogo, violento e amaro.
XXIX
La macchina poliziesca che rappresentava è fracassata. Adesso giace per terra a faccia in giù mentre il disegno macchiato del sangue dilaga sul selciato. La sua vita violenta è finita, per sempre. Nessuna macchina ha difese perfette, c’è sempre un piccolo forellino da qualche parte. Il sogno di giustizia sociale non passa certo da questa pozza gaglioffa e umida, oppure sì?
XXX
In condizioni disperate ho continuato a rispondere con educazione, era inevitabile se volevo passare inosservato. Insoddisfazione. Quanto era accaduto mi rovinava tutto quello che avevo progettato negli ultimi giorni con maniacale giansenismo. Non vale la pena ricordare i dettagli. La morte è un avvenimento che quasi sempre non merita commenti.
XXXI
Non sono pronto, non sono mai pronto. Sono sempre più avanti dell’essere pronto. Sto aspettando, questa è l’unica necessità, sto aspettando quello che ancora non ho fatto.
XXXII
Nessuna felicità sul corpo dei nemici. Giacciono nella loro fossa e alimentano la terra. Solo un buon odore di erba raccolta da poco. A sbranare non c’è completamento, si comincia e non si finisce mai. Nulla può essere trascurato ed è assurdo pensare a progetti completi di tutto punto, sangue compreso.
XXXIII
I parassiti sedevano nella via principale, nei caffè ancora intatti del centro, fumando le lunghe pipe o respirando nei condotti di raffreddamento. Trafficavano anche dormendo. Piccoli mercanti grigiotopo come le loro case, desiderosi solo di comprare e di vendere, pance supernutrite, e tutto intorno macerie e lutti, balocchi sventrati e strade dall’incancellabile puzza di cadavere.
XXXIV
Il campo di stoppie non lontano poteva facilmente prendere fuoco, e sarebbe stato un disastro. Con tenerezza compiaciuta avevo legato le due estremità della morte, stringendole bene coi denti. Poi avevo spinto il grosso corpo del materiale verso la sua ovvia destinazione. Dovevo solo aspettare.
XXXV
Applaudiva estasiato. Non era certo un critico severo, la sua conoscenza concerneva un altro genere di musica la cui esecuzione necessitava di strumenti non disponibili. Sarebbero arrivati più tardi.
XXXVI
Il droghiere era gelido e grintoso, i suoi occhi opachi non riflettevano che il vetro degli occhiali spessi. Eppure si stava comportando da giovane sciocco. Non bastano i peli grigi per dare un senso alla propria vita. Il poveretto non si rendeva conto che qualcuno ne stava tagliando il filo senza avvertirlo.
XXXVII
La foresta della morte rintrona delle urla alle porte della città bucherellata. Detesto il ricordo di quell’aria soffocante, un inferno di richiami e lamenti. Il dolore inconsolabile nelle facce di coloro che dovranno fare a forza i becchini. Qui tutto muore, continuamente, in piena desolazione e senza neppure l’ululo sordo dei gufi che di solito da queste parti non mancano mai. L’alba di gennaio non è particolarmente fredda.
XXXVIII
Gli uccelli fermi in riva al lago, bloccati a gruppi multicolori, come giocattoli in un negozio per bambini, una favola per sopire i gemiti di dolore provenienti da un popolo torturato, a morte. Non molto lontano, una macina di mulino trasformata in un tavolo da obitorio con fragili corpi, accatastati a testa e piedi in modo da non cadere. I campani delle capre si sentono ancora e la luna puntuale, e la sessa puntuale, tutto sembra in ordine.
XXXIX
Anche le agavi stentano a fiorire da queste parti, mentre il vento del mare fa mulinelli nelle oasi con le loro poche palme. Dio canta una melodia nella voce che corre nel vento, ripetendo le parole del meuzzin, uniti vinceremo fino al giorno della morte. Che strano, perfino la morte vogliono tesaurizzare, il martirio è per molti l’unica soluzione plausibile. I profeti hanno parlato.
XL
Contadini antichi fra i filari di cocomeri, sguardi duri e ingenui, le speranze di sempre trattenute da braccia nerborute.
XLI
I gabbiani bianchi e viola fanno da sentinella lungo i grossi agglomerati di scogli nerastri. Nel mare non profondo cerco l’innocenza di questi pescatori che mi hanno accompagnato nella notte delle rinunce. Loro non ci pensano, lavorano pescando, e lavorano duro.
XLII
Il mio passo silenzioso è quello dell’angelo che non regala carezze nell’aspra salita verso la città.
XLIII
Le acque ferme del porto e la barca che va via con piccoli colpi di remo. È stata dipinta di blu scuro e sa di salsedine e di legno marcio. Penso, divagando di continuo, misericordia se mi cogliessero di sorpresa. Lo sciacquio non accenna a smorzarsi, sembra una cantilena che preannuncia il sonno. Il mio uomo è puntuale e calma l’irrequietezza dei lunghi minuti di attesa.
XLIV
L’ombra che mi cammina a fianco non parla, sono abituato a un sostegno taciturno ma fermo, uno di quelli su cui puoi contare. L’ombra è raggiunta sotto un vecchio ciliegio in una notte di brezza leggera. Per sempre. Non un nome né un segno. Nessuno a dire qualcosa con la fredda fermezza dei burocrati.
XLV
Dietro gli alberelli a filari, i sepolcri provvisori, segni dei miei giorni appassionati. Non c’era nessuno che avesse certezze più forti delle mie, anche i morti avevano le loro, la differenza evidentemente non era qui.
XLVI
Nel baluginare del mattino, depredare i resti della continenza e della guardinga attenzione, come quando si va a pesca, con un corale senso del dovere, senza smanie e distacchi eccessivi, senza quei preludi di favola che ognuno legittimamente può aspettarsi.
XLVII
Fra l’intrico delle canne aspetto il segno, lo aspetto a lungo, non arriva. La nebbia scende bassa e pesante, una calma assoluta viene giù dalla montagna come un’alluvione. Andare via è sempre una decisione difficile.
XLVIII
I colori del fiume, smorti nel giorno senza luce, solo il vento anima l’attesa, sempre quella. Il lamento è ancora lo stesso, remoto, come se qualcuno piangesse l’assurda velleità di tutto questo dolore.
XLIX
Senza colori, il sole abbacinante, niente cielo e niente da sognare. Solo un fuoco non molto lontano, che vedo mentre resto appiattito nella forra.
L
L’insidia si avvicina attenta, movenze animali, da queste parti piuttosto comuni. La luce è devastata dal bosco ceduo, non è possibile nemmeno fermarsi a bere nel cavo della mano, dissenteria in agguato. Da una radura la montagna visibile sullo sfondo, cupa.
LI
Nel cielo di dicembre, le case sberciate di una città bianca aspettano l’arrivo dei pezzi di legno con cui si rabberciano i buchi. Un saluto dall’inferno col cuore in attesa.
LII
L’oscurità mi attende rispettando i soliti rituali. Mi muovo bene in queste condizioni prive di qualsiasi commiserazione. Eppure ero venuto portatore di speranze millenarie. La giustizia è fuggita prima del mio arrivo, non mi ha aspettato.
LIII
Strade senza pace, lumi nascosti dietro tende sempre abbassate, rumori lontani, timidi, rituali prudenti nella brezza della sera. Gli uccelli disorientati non sanno fare il nido sul filo spinato, la loro antica speranza torna a essere disillusa.
LIV
La strada polverosa, piena di sassi e buche opportunamente separati, bambini stanchi delle proprie espressioni di innocenza che non vogliono più piangere, madri che stentano a mantenere il passo di corsa dei funerali, ossa abbandonate nei precipizi degli esclusi. Ero un figlio dell’alba.
LV
L’uomo spara nascosto dentro una vigna, un breve tratto di piccole piante, non filari orgogliosi e rigogliosi, un tratto sperso tra le spighe di grano e la zizzania. Bisogna aspettare a morire.
LVI
Il vento insiste sulle foglie fino a sera, poi cade di colpo, è l’ora di muovere. Tutti gli uccelli tacciono come se una mano tenesse loro serrata la bocca. Sembra di sprofondare nei millenni, nulla ricorda la tecnica che in pochi attimi potrebbe scatenarsi dal fardello che mi porto dietro.
LVII
Il mare non lontano incide senza sosta gli scogli inespressivi e neri, metto a terra il fardello, nessuno lo noterà fino al sorgere del mattino, quando sarà troppo tardi per porre rimedio. I volti scavati dei sofferenti non muovono un muscolo, non si accorgeranno di niente e la loro agonia non migliorerà.
LVIII
Il respiro si svuota accelerando il passo e si spegne come un fuoco sotto la pioggia. Non mi trovo in condizione di tornare indietro, adesso è solo un problema di puntualità. È stupefacente come la morte sia sempre in regola con le scadenze.
LIX
Vivere ascoltando nenie, brani agiografici, racconti edificanti e antiche leggende. Vivere e morire leggendo qualche pagina ogni giorno e le sere il prodigio del sonno, puntuale. Mansueto agnello con occhi pietosi. Il sapore di foglie bagnate nella bocca arida.
LX
Adesso so che esisti, prima eri solo un nome su un pezzo di carta e una foto in bianco e nero, ritagliata da un giornale, sbiadita. La luce della notte illumina i tuoi ultimi passi.
LXI
Una piccola moschea e un campanile stentato e approssimativo. Entro frettoloso fra due pioppi fuori tempo, portandomi dietro la borsa degli attrezzi. Il verde del prato resta luminoso malgrado le mie intenzioni che posso rivelare soltanto in sordina, mentre uno scorcio di cielo indica con determinazione quello che farò domani.
LXII
Mi immagino una dolce melopea, e fremiti antichi al momento dello sbarco, remi in alto, vela quadrata senza vento. Sono anch’io nello stesso porto, nella stessa spiaggia, per un sogno di libertà uguale al loro, che senso ha qualche migliaio di anni di differenza. I passeri nel cielo, vicino le piante dei cocomeri, sono sempre quelli. Mi sento un filo di paglia con un piccolo brivido felice. Aspetto la fioritura di marzo, adesso ho il tempo. Prima arrivavo, mordevo, andavo via. Ora posso guardare attentamente l’ultimo chiostro del monastero ortodosso, la sua cupola rotonda, i libri ammuffiti alle pareti della piccola biblioteca, le parole che dovrei conoscere e che stento anche a compitare. Ma sono tornato. Sono loro, i cattivi, che sono andati a nascondersi, anche se ancora, al mercato, nei pressi della scuola militare, vedo qualche faccia in giro che non mi piace. Ora sono qui, nella stessa zolla, ma se facessi quello che facevo prima inevitabilmente mi metterebbero a marcire da qualche parte. Penso che abbiano solo il desiderio di dimenticare. Non tutti, fortunatamente. C’è ancora qualcuno con gli occhi tempestosi e limpidi e mi immagino che sia venuto per me, qui, in questa vecchia bettola di paese, invece è solo un assetato.
LXIII
Le baracche sono ricoperte di pittura bianco sporco, non si distinguono molto dalle case che ho visto nelle oasi, fatte di pietra e argilla. Il terreno è fangoso anche se non piove da mesi, tutte le acque sporche sono gettate in strada. La sporcizia invade l’aria, l’odore è terribile e ondeggia a zaffate instabili. Solo le facce sono scure e scolpite duramente, anche quelle dei bambini, queste ultime sempre coperte di mosche. Vecchi, vestiti di stracci, molti macilenti, quasi privi di denti, gesti posati, poche parole, aspettano che la gente dia loro qualcosa, qualsiasi cosa. Nei caffè c’è un livello più alto di benessere, gente, rumore, sempre le eterne mosche, molti siedono attorno a un albero che a me sembra un carrubo su cui evidentemente è stata costruita una casa. Fuori città, periferia, allodole e un campo pieno di fiorellini blu e papaveri, le pozzanghere contrassegnano le caratteristiche dell’oasi di mare. Il cielo è incredibilmente blu, brutale e non ammette compromessi. Ancora case in rovina, segnali di guerra, la guerra dei massacri e delle uccisioni porta a porta. Il mare a sinistra, gli olivi a destra. I filari degli alberi sono interrotti di tanto in tanto da siepi di fichi d’India, mi sento a casa ma non lo sono. Sono uno straniero presuntuoso e tronfio, portatore infetto di libertà. Il mio compagno porta il nome della pietra, è un omone con un caffettano marrone, anche se è di Siracusa, ha l’aspetto malandato di chi sta male col fegato, palpebre gonfie, occhi assenti. So che tiene un pugnale sotto la camicia e che lo accarezza continuamente. Qualche mese dopo non riuscirà a usarlo.
LXIV
Una boscaglia fitta, buia, intricata, dove un sentiero ridotto ad acquitrino separa alberi nodosi per antiche malattie da un fondo oscuro di vegetazione piena di spine e foglie scure. Gli stridii di uccelli sconosciuti aumentano l’impressione di paura, come se una massa di poveri disgraziati si lamentasse di insopportabili dolori. Una parte che ferisce, impietosamente, e che non si cura di quello che potrei fare io, le mie speranze, le mie illusioni. Forse perché non so guidare un carro armato.
LXV
Il villaggio è quasi deserto, popolato solo dalle ombre delle case e da qualche passante frettoloso e preoccupato, non è l’ora adatta per andarsene in giro, né il luogo è scelto bene, né l’epoca triste e angosciata da oscuri fantasmi di guerra civile. Alcune viuzze medievali, strette e oscure, aspettano come luoghi di agguati ideali, mentre una pioggia leggera e continua bagna tutto. Restare denuncia una insistenza maniacale sul proprio intento, anche il silenzio sembra sconsigliare questa testardaggine fuori luogo. Da ogni angolo affiora un lembo di muro dimenticato, la morte eletta a sistema di governo, rassegnatamente accettato da tutti. Eppure fuggire via sarebbe una sorta di tradimento. L’indomani è l’ossessione della solenne frenesia religiosa, una processione come sfida morbosa lanciata alla miseria.
LXVI
Nella notte urlano i cani della sabbia, la voce del deserto. Misteriosi urli che mi riportano indietro nel tempo, nelle colline leggere algerine dove non è possibile fermarsi a lungo senza correre il rischio di restarci per sempre. Sono rimasto seduto sul ciglio della strada per il Marocco, aspettando che il colore rosso del cielo diventasse grigio. Avevo una leggera ferita alla schiena, temevo che il sangue, il mio odore, avrebbe attirato i cani, non sono venuti. Mi ha dato un passaggio un camion di una comune della zona, guidato da un algerino appassionato di Tom Robbins e Timothy Leary.
LXVII
Chi ha subìto una tortura pensa spesso a questo vergognoso accadimento. Lo faccio anch’io. Penso a prima, quando vengono preparati gli strumenti, e a dopo, quando tutto è finito. Non penso mai al dolore, nessuno riesce veramente a pensare a quel mentre in cui è stato tutt’uno col torturatore. Il pensiero mi fa troppo ribrezzo e preferisco fermarmi a un prima o a un dopo. Così la paura del prima è sempre presente come oggetto, un secchio, un punteruolo, uno straccio, un coltello, un imbuto, un portacenere, un sottopancia di cavallo. Così, lo sgomento del dopo è sempre legato al tempo, quanto ne è passato? Durerà ancora? Perché si sono fermati?
LXVIII
Strade maleodoranti nella calura della sera, un fabbricante di caramelle pallido e grosso, con un grembiule sporco, capelli neri e sporchi, contorti sulla testa come una corona. La grazia infantile di una vecchia in grado di ospitare solo marinai e soldati, uomini di bocca buona. Un corpo seminudo dal sonno pesante.
LXIX
Per quanti anni ancora l’indomani sarà uguale all’oggi, in questo buco tutto torna sempre uguale.
LXX
La notte incombe sulle colline circostanti coprendo gli innumerevoli occhi che spiano la vita.
LXXI
Mille mostri albergano tutto attorno alla montagna rannuvolata. Attendono di sfoderare gli artigli.
LXXII
La mia ferita, piccola, insanabile. Il bisogno di lavare il mio corpo stanco, brulicante di bestie carnivore, piccolissime, che si attorcigliano per meglio penetrare nella carne. Ogni bestia munita di coltello, e pinze e punteruoli, animata da spirito di vendetta, o di paura?
LXXIII
Dolci avvallamenti e le stelle nel cielo, due punti di riferimento, poi più nulla nelle profondità inutili. Una roccia a picco, il mare là sotto, un agguato del destino.
LXXIV
Il seno degli alberi è oscuro, il verde sta altrove. È là che andrò a finire un giorno, e quel giorno sarà fornito di notte, e l’alba succederà, e poi ancora la notte. Tutto ciò è indifferente.
LXXV
La veste blu del nomade nella lontananza selvaggia e ignota. Interminabili declivi sabbiosi, sterposi, deserti. Solitudini mistiche e distese immense, aperte al niente assoluto. Raccoglimento inconscio, serenità intuita negli occhi tristi di chi sa di non potersi liberare.
LXXVI
La macchia mediterranea e la sua struttura ossea sassosa. La solitudine non ha dimore per gli stupidi.
LXXVII
Un cavaliere dell’irreale ha il volto emaciato, ardente, la sua spada è infernale. Mi irrita vedermi in questa prospettiva.
LXXVIII
Nel deserto il vento, ora più forte ora più fievole, lugubre. Cento dossi uniformi, collinette selvagge, distrutte, come dopo un cataclisma. Correre, correre sempre, una corsa irrefrenabile, fantastica. Una buona corsa.
LXXIX
Un forestiero gentile nascondeva in tasca la morte, e non era la prima volta.
LXXX
La vibrazione segreta di ogni fibra resta nascosta nel mio occhio socchiuso che guarda la folle corsa della morte, sospesa ancora ma già inebriante.
LXXXI
Il tremore della luna sull’acqua, il vento che solleva la polvere sulla strada, il cupo scrosciare dell’onda, tutto questo concerto accompagna il mio silenzio. Unica presenza, le stelle.
LXXXII
Scruto inquieto la cupa desolazione della pianura, nemmeno un segno di presenza umana. Eppure so che qualcosa laggiù si muove, inquieto, anche se non so come definirlo, questo qualcosa. Un’onda che si incresta sull’infinita desolazione del deserto?
LXXXIII
Poche pecore sorvegliate da due cani e un prato con fiori splendidi. Ho le spalle appoggiate a un albero e gli occhi bene aperti, la pianura è grande e la pioggia è cessata da poco. Nessuno si aspetta un arcobaleno.
LXXXIV
Lontano da casa guardo le nuvole oltre le rupi che delimitano il deserto. I miei libri, la mia stanza, sono qua con me, lontani, remoti, i miei figli, non avrei potuto ospitarli fra questa solitudine, mi avrebbero reso in breve carne per corvi. Io abito qui solo, dappertutto come uccello di un bosco frondoso e posso guardare con attenzione l’uomo che remoto all’orizzonte si muove lentamente e non sa di essere nel mio cannocchiale. Lui non sa e sembra assorto nei suoi pensieri.
LXXXV
Vado avanti fra incomprensibili ostacoli, fra nemici che non vedo, fra movimenti che il mio occhio non coglie. Seguo la linea fumante dell’orizzonte bagnato dalla calura di luglio. Ho controllato i colpi della mia ruota e mi sento sicuro. Il chiavistello è già saltato, non mi resta che concludere e poi andare via. L’appuntamento sulle rocce non può essere rimandato. L’olmo è un albero solitario.
LXXXVI
Il mio mestiere mi ha condotto qui, su questo solitario sentiero polveroso, non ho merci da offrire, né sorrisi o consolazioni, sono il messaggero della sera afosa e greve e non ci sono fontane in vista, né giovani donne con anfore piene di acqua fresca. La desolazione è nel sentiero e mi contrassegna, incide sul mio passo l’assenza assoluta, la sterpaglia che non posso chiamare con un nome conosciuto, che non mi risponde come fa la semplice pietra, sono un uomo solo e non conosco le loro parole né so se esistano. Ecco, la mia solitudine fa concorrenza a questo sentiero dove mi trovo, la mia epigrafe l’ho sotto i piedi, ecco perché sarebbe una suprema menzogna pensarla in un altro luogo. Non posso fermarmi a contemplare qualche sasso, un pezzo di marmo, andare oltre, sempre oltre. Solo il mare cancella e ricopre, scopre e conserva per sempre. Il mare, in fondo, è stato la mia avventura, sono sempre salpato da qualche punto lasciando sul molo le mie tante zavorre, ed è il mare che scelgo, laggiù, subito a sinistra.
LXXXVII
Le rovine di un tempio greco, col suo bravo pendio, la fonte alla quale bevo, una trama di mito legata come una fitta rete di pescatore. Attorno, il sole, troppo violento, copre il capo di un eroe qualsiasi, antico, crollato sotto colpi magistrali di qualche spada di bronzo. L’uomo beve da una specie di borraccia che tiene al collo, personifica un turista, lo fa abbastanza bene, direi, non per il mio occhio esercitato, l’edera alle sue spalle, sul muro, sembra un tessuto artificiale, un arabesco di immagini divine. È un riflesso dell’antica epoca che da qualche parte risiede ancora qua. Macerie e colonne plurimillenarie. L’uomo adesso cammina appena più veloce verso una silhouette di donna. So perché sono là, insieme, non lo saranno più.
LXXXVIII
Sento l’orrore alitarmi sul viso, non è la paura ma qualcosa di più sottile, che mi penetra fino in fondo. Un viottolo melmoso nella periferia di una città assediata, coperta di filo spinato, di ali di fiamma. I morti aspettano, senza sapere di aspettare, una impossibile pietà. Nessuno conosce la pietà qui, una marea fangosa ha coperto tutto. Scomparse le antiche piume su cui adagiavo i miei pensieri di libertà, ora mi riparo dentro una casa sventrata da due granate, la seconda per essere più sicuri, per non lasciare niente di incompiuto. La selva si sta impadronendo di queste rovine, interi quartieri sono avvolti nella furia della tormenta, dopo tutto questa città è una città dove comincia a fare freddo.
LXXXIX
Reggevo sulle spalle una grande responsabilità sotto i cedri, l’avere cancellato me stesso, mentre accanto a me pugni alzati riassumevano grossolanamente quello in cui credevo anch’io con mille attenzioni, in modo diverso. Per me un’utopia astratta, per me venuto a inchiodare sul campo gli assiomi a priori dell’esattezza e della certezza. I miei ruggiti di verità, adesso mi appaiono forsennato tambureggiare su petti robusti. Perché il cielo non si copre di nubi? Perché in queste occasioni un segno non arriva, mosso da una forza di verità e giunge fino ai decrepiti cardi per bruciarli del tutto e avvertire? Niente è più stupido di aspettare un segno del genere, non ci sono luoghi dove la speranza si nutre senza il mio impegno, luoghi balsamici che l’allattano premurosi, le attese languiscono sgomente della propria incapacità. Attorno solo sguardi torvi che sostengono atteggiamenti bellicosi, specialisti in massacri senza nemmeno l’alibi di provenire da qualche frequentazione di biblioteca. Compiango l’oppresso e agisco al suo fianco, lui guarda altrove, non rivolge come me gli occhi verso la libertà e basta, a lui hanno detto che solo la sua terra oppressa deve essere libera. E forse è giusto che sia così. Perché dovrebbe egli dare spiegazioni a me che pretendo difenderlo dalla prepotenza planetaria? E i suoi nemici, che ammiravo, adesso sono miei nemici e avanzano a testa bassa e sempre più si immergono in questo mare di odio. La dignità nel fango, calpestata lo era e continua a esserlo, solo i piedi sono cambiati, adesso i calpestati di una volta si sono fatti calpestatori di se stessi prima di tutto. Non vedo più il fuoco sacro della ricerca nei loro occhi, nemmeno in quelli dei miei compagni, troppo sangue ha riempito le strade fangose dei villaggi, troppi morti, troppo orrore perché tutto questo possa improvvisamente placarsi. Forse il tempo che non ha confini cancellerà il ricordo di tanto vaneggiamento, ma i miei occhi, diventati ormai stanchi, continuano a scorgere gli stessi visi lungo la via del deserto, gli stessi visi di bambini in procinto di essere uccisi. Dove sono finiti i miei sogni? Pensavo continuassero a fiorire sotto i cedri. Non è così.
XC
I vapori si addensano in prossimità dell’aurora ed escono dalla terra magicamente, qui sono nati i più antichi miti del mondo e il senso del sacro, misto di paura e di bellezza. Potessi stringere nelle mie mani questo antico messaggio, proprio di fronte alla prima nave e ai primi solchi, nave del mito d’oro. Invece ho solo una sete bruciante e mi sento anchilosato. Perché sono venuto qua con il vento del mattino? Perché questa bruma non dirada, perché insiste nel nascondere il mio uomo, che se ne va al suo quotidiano lavoro di massacro. È un funzionario come tanti: ordine e pulizia. Si vede, un poco, che è contento del destino del suo paese. Anela a guadagnare lo stipendio, ma io non ho stipendi da guadagnare, fortunatamente sono uscito da quel guado amaro, ora dedico la mia vita a quella del mio uomo, ma lui questo non può saperlo. È perciò che se ne va spedito, come non avesse pensieri. Dovrebbe averne.
XCI
Ho visto un avvoltoio con le sue ali rotanti levarsi non lontano da dove giacevo immobile. Questi uccelli non commettono errori, non si avvicinano a un essere vivente, ma a un moribondo sì, e aspettano pazienti che si decida. Ciascuno percorre un suo cammino, accanto a me qualcuno è giunto al punto in cui poteva arrivare, è morto e quindi non può salutare l’uccello che aspetta, né invitarlo al banchetto. Il pasto non è ancora iniziato perché ci sono io, e io non sono ancora morto.
XCII
Ricordo il deserto, un animale in movimento che inghiotte tutto quello che trova, è solo questione di tempo, nessuna strada è al sicuro, non c’è progetto che può andare a segno con certezza. E pensare che c’è qualcuno che viene qui in vacanza, pensando di divertirsi. Solo qui invece si trasforma la pienezza dell’odio, o dell’amore, che poi è lo stesso. Ho imparato a disprezzare le comodità per poi pentirmi di quello che avevo appreso, l’umiltà è una condizione di sopravvivenza.
XCIII
La cascata spumeggia e respinge sdegnata ogni tentativo di addomesticarla. Scogli puntuti la difendono come irsuti giganti secolari e custodiscono l’abisso che porta in seno. Poco più lontano il lago tranquillo e gli uccelli dei tanti colori, stratificati, immobili. Non c’è vento né movimento. Tutto qui tace come laggiù urla e strazia. Il mio destino è simile a questo contrasto. Ho sempre scritto fino a tardi la notte prima di agire, come se il mio tempo stesse per scadere, pugile stanco che teme di andare al tappeto ed essere contato.
XCIV
Sento l’umidità e il freddo prendermi a poco a poco, non posso farci niente. È da ore che osservo il pescatore assorto alla sua lenza. Aspetto l’arrivo della donna che deve condurlo via. Non occorre molta astuzia per pulire le fogne, basta avere lo stomaco fermo per resistere ai conati di vomito. Tutto ciò è frutto di un’analisi obiettiva, un’operazione di piccoli dettagli e infinita pazienza. Partito con grandi progetti di sommovimento sociale, ho capito che niente può fondarsi sull’infezione e la cancrena. Che conta guardare la luna e respirare a fondo l’odore del mare, se circolano mostri come il pescatore e la donna bruna che lo porterà via? Non posso farmi allettare dal cielo che si perde nell’acqua, ho altro a cui pensare io, la nostalgia non è un sentimento che posso permettermi, sarebbe come se mi alzassi in piedi a salutarli, non mi consentirebbero di fare un passo.
XCV
Un popolo fiero in miseria, sofferente in terra straniera, massacrato, immerso nel sangue che riempie le stradine sterrate dei campi dove è stato ammassato per fare spazio ai perseguitati di ieri, oggi persecutori. Un cerchio dentro l’altro le fiamme dell’oppressione bruciano la libertà, è un sortilegio, non c’è tesoro che puoi tenere difendendolo, lo puoi solo condividere, se pensi di stringerlo forte stringi solo la tua miseria. Qui non ci sono occhi gentili, solo sguardi sospettosi di uomini armati che cercano di sopraffarsi reciprocamente. Non si può uscire da questo cerchio infernale se non con la libertà. Sono portatore di libertà? Non lo so, stringo anche io un’arma in mano e le angosciose antinomie della mia filosofia non modificano la mia condizione. Attacco per difendere i poveri oppressi, però non mi nascondo l’orrore di colpire ancora una volta i medesimi corpi che ieri sono stati colpiti. Scavando più a fondo, dove posso puntare i piedi?
XCVI
Cento e cento pensieri si abbattono su di me, tempesta e grandine. Conto i rovesci uno per uno e sono abbondanza, trabocco, piena. Eppure resisto come un vecchio scoglio eroso, mentre rivoli scorrono lungo il mio corpo segnato dal coltello, dalla velleità altrui di piegarmi. Si sono presentati mostri e facce pulite, insieme un’ottima compagnia di miserabili, aspettando di vedermi cedere, ma rimanevo fermo sotto l’ascia minacciante, sotto il pezzo di legno, la corda, l’acqua salata, lo straccio bagnato. Incubi ignobili che solo l’uomo sa sibilare con la sua mente educata alla perfidia, quanto sarebbe stata più corretta una buona zampata di belva feroce, netta, risolutiva, pulita. Invece la tortuosità mentale dei torturatori non ha limiti, specie quando si è educata alla scuola di chi la tortura l’ha subita.
XCVII
Mi sono acconciato a ogni esperienza, punire e perdonare sono le più terribili, sempre difficile è l’essere pellegrini della giustizia, quella personale intendo, non la macchina da circo. La mia giustizia che guarda il nemico negli occhi, il mio nemico, e lo vede attraverso grandi deformità e oscuri presagi imposti dalla condizione di oppressione. L’orrore non ha confini e non può essere ramazzato tutto dalla parte del nemico, solo le parole riescono a fare ciò, ma si tratta di banale pulizia ideologica. La realtà danza diversamente, si presenta bella e multiforme, ma nasconde in sé il male, l’ottusità e la stupidaggine del male, un cerchio che si muove lentamente ma si muove, inganna e getta fiori al tuo passaggio. L’orrore attira sulla soglia gaia del suo palcoscenico e accende luci false che risplendono a giorno, come fare per non lasciarsi ingannare? Non c’è una regola per alleviare la pena, ci sono dolori che non si leniscono. Impossibile, l’orrore sorride sulle miserie del cuore umano, sulla suprema bellezza come sulla deforme fissità dell’ignoranza, sorride.
XCVIII
Nella generale miseria che vedo qui, attorno a me, arti tagliati, quarti di uomo portati via, afferrati da una forza gigantesca, non c’è nobiltà di ideali, solo dolore e morte. Non c’è speranza di un migliore avvenire, neanche di vita, c’è solo il peggio, tacito e funesto, un peggio che dilaga e si moltiplica mentre qualche fantasma in camice sporco da macello arranca a dritta e a manca. Eppure tutto questo è stato fatto dall’uomo per umiliare l’uomo, la bestia non arriva a tanto, colpisce se ha fame, si sazia e va via, non storpia a freddo per motivi non presenti nella sua furiosa zampata, il suo segno è pulito, innocente, quello dell’uomo causa il vomito. Dove è la giustizia che ho sognato? Dove è andato a sboccare il fiume sacro del mio furore iconoclasta? Il mio cuore puro e le mie mani pie sono annegati nel fango lurido che mi circonda. Non ci sono davanti a me le limpide distese del deserto che sognavo né l’altissimo cielo azzurro, c’è soltanto il sole primordiale che galleggia sul caos forse per rigenerare da questo orrore una nuova vita, forse per indugiare ancora alimentando il prossimo orrore.
XCIX
Una piccola lampada ormai giallognola getta stupida luce sulle scale di legno. Di sotto la porta un altro filo di luce. L’avaro aspetta con calma di sentire bussare alla sua porta, sa che chi è in arrivo non ha alternative, è un cravattaro lui, e in questo paese i cravattari sono peggiori dei loro consimili italiani, sono più untuosi e sottili. Non vanno in gita a Nizza, non hanno nemmeno l’automobile o un conto in banca, non usano assegni, solo la velata minaccia. Una corrente d’aria nel corridoio indica che la porta si è aperta. Non l’ho nemmeno sentito entrare, eppure non sono lontano, il corridoio è breve ma buio. Entro anch’io, senza bussare, il nostro amico fa il cappellaio e ha molti copricapo messi a infeltrire, è un lavoro lungo e noioso. La mia visita fa scappare via l’ospite, spero non abbia ancora pagato. Lui, l’avaro, resta al suo tavolo di lavoro, seduto con l’ago in mano. Lui sa perché sono venuto.
C
La lampadina smaltata dello scaldabagno a gas è l’obiettivo da raggiungere, nell’ammezzato, senza un fruscio. Un lavoro lento e delicato, alieno da possibili confusioni. L’impiegato è tornato a casa, siede nella sua poltrona solitaria. Non ha moglie né figli, chi sposerebbe un massacratore? Sotto lo scaldabagno, una pila di giornali vecchi.
CI
Dietro la finestra guardo le nubi invernali che si sono date raduno. Figure nere passano quasi correndo, qualcuna sosta sotto un balcone per trovare riparo. Nessuno si accorge dell’uomo che avanza con l’impermeabile scuro. Adesso si ferma anche lui sotto un balcone. Man mano che la strada si svuota, sotto il vento che la colpisce da cima a fondo, l’impermeabile resta sempre più solo, visibile come una montagna nel deserto. Provo una certa soddisfazione a constatare in che modo accorto e preoccupato si guarda attorno. Cerca me, sono io la sua preoccupazione, è me che cerca. Scrutando attraverso gli scrosci di pioggia. È ricciuto e scuro il mio uomo, è bene esercitato nel fisico e nella capacità di resistenza, eppure so che in questo momento ha paura, vorrebbe essere altrove. Anch’io, se è per questo, vorrei essere altrove. Ma sono qua.
CII
Il segretario ha una piccola rivendita di dolci a fianco della sinagoga. Arrotonda lo stipendio, che non deve essere alto, e soddisfa la sua passione per i fanciulli. Sono molti a frequentare il piccolo bazar. È un uomo giovane, pallido, dai lineamenti regolari, ma è ributtante il suo modo di trasformarsi quando si avvicina un ragazzo, sembra si liquefaccia in una massa molliccia e disgustosa. Il secondo mestiere del segretario, a dirla tutta, non è la vendita dei dolciumi, ma è quello di informare la polizia. In un paese come questo è un mestiere pericoloso ma retribuito bene. L’uomo gravita attorno ai ragazzi, con la polizia parla delle storie che questi si lasciano scappare e così ha una sorta di salvacondotto. Oggi il segretario ha chiuso per l’ultima volta alle sue spalle la porta imbottita della piccola rivendita di dolci. Non parlerà più con la polizia, non giocherà più sporco, non farà più nulla se non marcire lentamente in pasto ai vermi compassionevoli.
CIII
L’uomo è puntuale, alle nove del mattino è sempre all’inizio della strada, i negozianti potrebbero regolare su di lui l’apertura delle saracinesche. Sembra non avere un pensiero al mondo, solo io so che di pensieri ne deve avere molti, visto il mestiere che fa. Non si ferma mai più del necessario. Cammina con passo leggero, atletico. Fuma, si ferma per accendere una sigaretta. Usa un bocchino, orrida abitudine che gli deriva dal proprio lavoro. Tutti i torturatori fumano col bocchino, la sigaretta è un’arma potente. Solo chi li ha visti all’opera può saperlo.
CIV
Le donne di qui siedono la sera con i loro grembiuli di cotone bianco e chiacchierano una incomprensibile cantilena. Hanno lavato la verdura che servirà per cena e tagliato il formaggio a pezzetti, bianchi piccoli pezzi sulla verdura verde. Hanno le loro case in ordine, queste donne, e non si affannano a capire cosa fanno i mariti, i figli, i padri, quando la mattina si affibbiano il cinturone e controllano la sicura dell’automatica prima di metterla nella fondina.
CV
Nel cortile una scala interna porta a un piano rialzato. Vi abitano operai e povera gente che va a lavorare puntuale ogni mattina. Anche il mio uomo ha le scarpe scalcagnate e fa il giro dei negozi nel quartiere, con la sua borsa a rete, un pezzo da museo. Qui è ancora in uso. Poi torna, porta in casa la spesa ed esce con le scarpe cambiate. Ora indossa un lungo pastrano e gli anfibi. Ha uno sguardo allucinato, ora va al suo vero lavoro. È uno degli specialisti nel trattamento sporco e maleodorante degli intrattabili. Tiene i suoi attrezzi da lavoro in una specie di cantina dove i suoi superiori non scendono mai. Loro hanno abiti un poco migliori e non amano la merda di cui è coperta la scala di pietra che scende giù, in fondo. Spesso gli ospiti fanno gli scalini tutti in una volta.
CVI
Il piccolo ristorante offre solo antipasti e vino, il proprietario è un grasso e sudato uomo in maniche di camicia, sta leggendo un giornale mentre qualcosa bolle nella cuccuma di ferro smaltato di bianco con i bordi blu. Sembra tutto tranquillo, il posto e i pochi avventori distratti che mangiano lentamente bevendo tè. Eppure basterebbe un piccolo segnale per vederli balzare tutti in piedi, un gesto, un rumore. La loro faccia tranquilla è troppo seria per essere vera, è una maschera simile a quella del proprietario. Uno scricchiolio della scala che porta in cantina li fa voltare tutti in una volta, sembra la scena teatrale di una cattiva commedia. Il silenzio è una cortina che nasconde le nefandezze di questo posto. Spazzato via.
CVII
Una piccola piazza sconosciuta. L’uomo l’attraversa con passo spedito, non ci sono automobili, poche persone frettolose dirette alla stazione degli autobus. Di certo lui ha un altro obiettivo, non sembra avere incertezze. Sta andando al lavoro. A casa ha rifatto il letto, cambiato la lampada, verificato l’arma di ordinanza e l’ha posta sotto l’ascella. Non la userà, non l’ha mai usata, si occupa di altre incombenze, lui è uno specialista. Lavora con le teste della gente in catene, le usa come quelle delle bambole snodabili.
CVIII
Gli uomini con i baffi, seduti attorno al piccolo tavolo rotondo, odorano di resina. Sono distratti, con le gambe stese. Non hanno cappello e sono provvisti tutti di pochi capelli scuri. Uno di loro tamburella con le dita sul piano del tavolo. Adesso uno ha accavallato le gambe e acceso una sigaretta. Sembrano innocui, con le loro pance lardellate, eppure non è vero, anche questi signori hanno un passato pesante. Fra le loro specialità c’è l’impiccagione clandestina. Non sembrano molto diversi da tanti altri macellai segreti. Il sole li ha soltanto abbronzati un po’ di più, dettagli minimi. In fondo nessuno li rispetta, sono solo dei manichini. Tollerati nella bettola, gli altri fingono di guardare altrove, fuori delle tendine bianche. Eppure loro hanno una pazienza incredibile, bevono il proprio bicchiere di tè e attendono, attendono di andare al lavoro.
CIX
Si è alzato il colletto del giubbotto, è un gesto riflesso che fa sempre arrivato all’altezza della coltelleria, uscendo di casa e prendendo a sinistra. Non credo sia per ripararsi dal freddo. A quest’ora la città è spopolata, è mattino avanzato, gli impiegati sono negli uffici, le massaie devono ancora uscire per la spesa. Questo sobborgo della città è come se fosse disegnato in bianco e nero. I rari passanti vanno di fretta. Il suo lavoro sta nell’ascoltare il silenzio degli altri, i bisbigli, le parole dette sotto voce, visto come lo vedo io somiglia a un sagrestano. La sera attraversa un cortile esterno per entrare in un ufficio con particolari caratteristiche. Non dimentica nulla nei suoi rapporti. Molti hanno avuto a che fare con quei rapporti, appesi a testa in giù.
Gli ebrei e il male assoluto
Alcune lettere
Carcere di Trieste, 29 giugno 2004
Carissimo Antonio,
ho da tempo ricevuto il tuo articolo “Riflessioni sul giorno della memoria e sull’antisemitismo” e le tue poche righe dove mi dicevi che prima di rispondere al mio invio del 4 giugno del saggio su “Gli ebrei e il male assoluto” mi invitavi a leggere l’articolo tuo.
Le tue tesi sono molto dettagliate e convincenti, la sola che non mi convince è la tesi che afferma essere lo Stato israeliano uno Stato occidentale come tutti gli altri, con tutte le caratteristiche relative. Ecco, io penso che oltre a tutto questo ci sia qualcosa in più. Una componente teocratica a me sembra esistente e non è di trascurabile importanza. Tutto quello che ho scritto si basa su questa “particolarità” affascinante degli ebrei, azzerarla sarebbe una stortura storica, oltre che inutile. Israele, come Stato ebraico, è diverso dalle democrazie occidentali, e questo senza nulla togliere all’uguaglianza fraterna di tutti gli uomini e alla nefasta identità criminale di tutti gli Stati.
Aspetto tue notizie. Spero che la prossima volta ti possa scrivere con un computer.
Un abbraccio,
Alfredo
Carcere di Trieste, 4 agosto 2004
Carissimo Antonio,
oggi ho fatto il colloquio con Annalisa e con Antonio, il mio figlio grande, e così ho saputo che sei tornato a casa.
Ho, ovviamente, avuto la tua lettera-risposta al mio scritto, che ho letto più volte e, in merito alla quale ho preso degli appunti.
Ti risponderò in maniera articolata spero non appena mi daranno il computer (è da almeno un mese che me lo devono dare qui in cella). Aspettiamo quindi un poco.
Per tutto il resto non mi posso lamentare. L’avvocato Venturino verrà a fine mese a parlare qui con me un paio di giorni in modo da impostare – se possibile – una revisione del processo per rapina (Roma) che è veramente una ignominia logica. Speriamo bene.
Non so se ti ho di già scritto prima dicendoti di avere avuto i francobolli. Ti ringrazio.
Un fraterno abbraccio,
Alfredo
Carcere di Trieste, 28 febbraio 2005
Carissimo Antonio,
ho da qualche giorno la tua del 20 e le cartoline allegate che spedisco ad Alfredino direttamente a poco a poco.
Sì, non ho il computer e forse non lo avrò, ma mi difendo scrivendo a mano, ho quasi completato il 20° (ventesimo) quaderno. Dodici li ho già fatti uscire e dati ad Annalisa per non tenerli qua.
Il tentativo di uscire in semilibertà è stato respinto dal giudice, il carcere riproverà verso la prossima estate, ma io nutro poca fiducia, questo carcere è particolarmente “chiuso”, ma per me è un sacrificio che faccio volentieri per stare vicino al bimbo. Se fossi stato a Rebibbia sarei già uscito almeno alla detenzione domiciliare.
Ogni tanto rileggo le tue riflessioni critiche sul mio scritto su “Gli ebrei e il male assoluto” e avrei tante cose da dire, ma mi viene una sorta di groppo in gola e preferisco passare ad altro. È un argomento che mi tocca profondamente e non vorrei sprecare i tuoi preziosi suggerimenti critici in banali considerazioni mie. Forse un giorno ti risponderò approfonditamente, in un’altra condizione oggettiva e di spirito.
A proposito della “mente” di Gramsci, parlando qui con un “comunista” (a suo dire), uomo di teatro venuto per una conferenza, a una mia obiezione che lo aveva messo al tappeto sul concetto di “verità”, mi ha chiesto (scherzando) quanti anni di condanna mi avessero dato, alla mia risposta: “7 anni e 4 mesi”, ha risposto: “Ti hanno dato poco, dovevano darti molto di più”. Ovviamente scherzava. Ma la verità salta fuori così.
Se riesci, mandami qualche francobollo da 62 cent.
Ti abbraccio con l’affetto di sempre,
Alfredo
Trieste, 12 novembre 2006
Carissimo Antonio,
ti scrivo a mano perché ho la stampante rotta.
È giunto il tempo di provvedere alla terza edizione aggiornata e accresciuta di Palestina, mon amour.
Vorrei inserire non solo il mio testo “Gli ebrei e il male assoluto” ma anche la tua “Lettera critica”, oltre ad alcune poche lettere mie che hanno preceduto questi due testi.
Poiché io scrivevo a mano non ho copia delle mie lettere, ti prego di spedirmi le fotocopie.
Inoltre – spero che tu l’avrai – mi devi spedire una fotocopia della copia che ti spedii del mio scritto perché differisce alquanto (poco, ma importante) dalla copia in mio possesso. Spero che farai questo per me al più presto. Vorrei inserire anche il tuo scritto sul giorno della memoria ma non sono del tutto convinto [questo scritto, dal titolo: “Riflessioni sul giorno della memoria e sull’antisemitismo”, pubblicato su “Alba” nel marzo 2004, non è stato inserito nel presente volume], ci rifletterò sopra. Vediamo che ne verrà fuori.
Naturalmente ho scritto altra roba più aggiornata che aggiungerò anche.
Aspetto tue nuove e ti ringrazio di cuore come sempre,
Alfredo
Gli ebrei e il male assoluto
Il massacro sistematico e organizzato di grandi masse di persone è molto diffuso nella storia umana. L’esempio di milioni di ebrei uccisi nei campi nazisti è solo uno dei più conosciuti. Riguardo gli armeni anche oggi si dibatte per costringere la Turchia a riconoscere i massacri attuati agli inizi del secolo scorso. Il genocidio ebraico possiede alcune caratteristiche che non si riscontrano in altri massacri, mentre ha aspetti in comune con altri che sarà bene sottolineare.
Un massacro di massa, per essere tale, deve essere organizzato, deve cioè possedere un fondamento ideologico, non può affidarsi all’esplosione di un momento che lo esaurirebbe come una fiammata. I progrom sono massacri, hanno una base ideologica, ma solo quando si moltiplicano nel tempo e si estendono nello spazio sono massacri del tipo che considero qui.
Una minoranza è spesso vittima di gruppi più forti. Interessi finanziari, predonerie e accaparramenti sono stati spesso coperti da motivi razziali per giustificare l’attacco e tenere vive le conseguenze. Gruppi i cui componenti si lasciano a poco a poco penetrare da favole come quelle relative al sangue, alla patria, al suolo sacro, alla razza, finiscono per trovare così una coesione che altrimenti non avrebbero. La coesione dà l’illusione della forza e della fondatezza delle proprie convinzioni, per cui il gruppo si autostima e riversa questa nuova energia sui propri componenti che alimentano così il patrimonio favolistico dettagliandolo e arricchendolo di aspetti pseudoscientifici.
La menzogna pura e semplice non è sufficiente. I Protocolli dei Savi di Sion sono stati un elemento dell’odio contro gli ebrei, ma non si potevano reggere da soli, occorreva un clima, una cultura, un mito. Bisogna capire questi tre elementi.
Il clima antisemitico attraversa buona parte della storia. Gli ebrei sembrano avere una sorta di carisma per attirarsi le antipatie della gente che non li conosce e non li accetta, proprio a causa di questa mancata conoscenza, ma anche per alcuni aspetti della loro tradizione non facilmente comprensibili. In epoche remote alcuni di questi elementi sono stati usati dagli stessi ebrei per approfondire le loro peculiarità e trarre da ciò un profitto economico o di semplice riconoscimento come unità separata, socialmente caratterizzata da un modo di vita differente. Si tratta di aspetti riguardanti la religione, la lingua, l’abbigliamento e perfino il modo di provvedere all’alimentazione. Ogni popolo ha le sue abitudini sociali e queste lo caratterizzano, ma gli ebrei hanno fatto qualcosa di più, hanno cercato di essere una componente a se stante, sia pure in alcuni aspetti spesso periferici, ma non hanno mai accettato una integrazione totale. Questa è stata di certo una loro forza, che suscita il mio entusiasmo etico, ma che non mi impedisce di considerare come queste scelte forti sono state alla base del clima sociale che si è venuto consolidando attorno a loro nel corso dei secoli.
Questo clima possiamo definirlo come lo spirito dell’ebraismo, non per sé, cioè come fatto oggettivo dominante le comunità ebraiche singolarmente prese, o a livello globale, ma per gli altri, per i non ebrei, per gli spettatori che colgono prima i dettagli e poi la sostanza. Più questi spettatori, nella storia, sono stati non in grado di cogliere il fondo culturale di quegli aspetti discriminatori fissati dagli ebrei per distinguersi dai non ebrei, più si venivano a creare le condizioni delle reazioni isteriche della paura di massa. È su questo aspetto e su queste reazioni che si sono innestate le invenzioni e le propagande antisemite.
L’atmosfera che sto descrivendo comprende anche oggi due movimenti divergenti, ma non antitetici tra loro, uno verso la mitologizzazione delle impressioni, cioè il loro rinvio a un complesso di cause ed effetti ricco di fantasie che si perdono nella notte dei tempi, nei miti del sangue e della razza, un altro verso la copertura pseudoscientfica affidata a invenzioni sociologiche o biologiche prive di un minimo di serietà. Questi due movimenti sono parimenti fantastici ma producono effetti su due fasce di ricettori, la fascia meno colta e quella mediamente acculturata. Non è difficile rinfocolare le paure degli oppressi e, spesso, specialmente nei momenti di incertezza o di frazionamento di classe, condurle verso obiettivi capaci di farle sfogare a spese di alcune minoranze che per la loro stessa scelta di vita mettono paura. I ceti mediamente acculturati, specie le fasce che attingono a una cultura fatta di opinioni e di approssimazioni, vengono così coinvolti in un insieme di pseudoteorie che hanno di scientifico solo la formulazione seriosa. La scienza ha molti limiti, e spesso li ho sottolineati, ma è altra cosa.
La deprivazione culturale alimenta il clima di cui sopra e nasconde la pochezza di molti che sono per l’uguaglianza e la fraternità, ma solo a parole, avendo più bisogno nella sostanza di affidarsi a miti e favole, non a fatti concreti e idee produttive di azioni. Gli ebrei hanno una cultura che deve essere conosciuta e approfondita se si vuole evitare di ritrovarsi pro o contro soltanto per sentito dire.
I massacri di massa sono possibili solo in condizioni di deprivazione culturale. Non solo gli esecutori devono essere dei bruti, ma anche gli organizzatori devono esserlo, pena l’esaurimento delle singole esplosioni contro le minoranze. Una massa informe, come oggi osserviamo anche nelle cosiddette democrazie avanzate, può essere irreggimentata – per restare nel tema – pro e contro gli ebrei con facilità.
Il fatto che grandi intellettuali come Céline, Pound o Heidegger abbiano scelto posizioni antisemite, più o meno variegate, non nega la tesi precedente, ma va spiegato. L’avventura di un grande intellettuale può a volte evolvere verso un progressivo allontanamento dalla realtà, dalle concretezze della realtà. Il tempo in cui ognuno di loro vive è allora filtrato da fantasie che finiscono per diventare sempre più ossessive, il filosofo reinterpreta il mondo e si scopre il solo a capire quello che agli altri sfugge e se ne inorgoglisce a dismisura, il poeta riporta in vita le epopee del passato e se ne innamora, i miti, gli eroi, i simboli, le alchimie e le magie di un tempo antico ritornano nei suoi versi, il romanziere ricostruisce un mondo degradato e vi si immerge, demiurgo e compartecipe del dolore.
Questa non è una scusante e l’abiezione di cui si sono macchiati gli intellettuali di cui sopra non può essere cancellata, ma non può nemmeno quest’ultima travalicare annientandola nella loro opera. Qui deve e può essere tenuto presente come compagna fastidiosa della lettura, perché non c’è divisione tra quello che si pensa e quello che si fa, ma la grandezza dell’opera resta la stessa. Su questo argomento, fin dal 1956, quando per la prima volta lessi i Saggi critici di Pound, non ho mai cambiato opinione.
A parte le dovute eccezioni, la massa media degli intellettuali benpensanti era e resta disponibile a una tolleranza di facciata e a un antisemitismo di antiche origini. Oggi sono molti che pensano alla diversità degli altri, ebrei compresi evidentemente, ma principalmente in questi ultimi anni gli arabi, in termini di integrazione. Se vuole venire nei nostri paesi civilizzati – si fa per dire – questa gente deve accettare le nostre regole e rinunciare alle proprie che non sono, in termini di civiltà, paragonabili con le nostre.
Si potrebbe obiettare che, a far tempo della fine dell’olocausto, gli ebrei non ricevono più forti sollecitazioni a integrarsi e che sono considerati ovunque cittadini come tutti gli altri. Si parla così di cittadino italiano di fede ebraica e non di un ebreo italiano, per fare un esempio, ma questa attenzione terminologica non è sostanziale, attiene alla regola e tocca solo marginalmente il clima di cui sopra. L’educazione generalizzata di questi ultimi decenni si presenta possibilista e democratica, almeno in larghissima parte, ma si tratta di una patina che è facile scrostare via, proprio a causa della sua stessa inconsistenza e superficialità che condivide con quasi tutti gli altri aspetti della formazione culturale. Un qualunque avvenimento che metta in moto reazioni di paura collettiva, una guerra, un aumento eccessivo dei prezzi, un calo considerevole dell’occupazione, bastano perché quelle reazioni razziste sopravanzino sulla patina antirazzista. La favola del complotto ebraico è sempre dietro l’angolo.
Da parte loro gli ebrei danno una mano. Vediamo come. Uomo di scelte radicali, l’ebreo o condivide fino in fondo queste scelte o non è più ebreo, alcuni aspetti marginali irreversibili della sua originaria appartenenza sbiadiscono in breve tempo. Ma, in questo caso, sarebbe proprio un’accentuazione razzista continuare a parlare di ebreo. L’autenticità del suo essere ebreo non è quindi in qualche cromosoma o nelle cellule del suo sangue, ma nella sua cultura e nel suo modo di vivere che a quella cultura si impronta. E la religione è parte essenziale di questa cultura.
Io non sono ebreo e, per un certo periodo della mia vita, ho combattuto in armi lo Stato di Israele, ma non sono mai stato contro gli ebrei o, ancora peggio, razzista. Ho visto morire ebrei e ho pianto per loro, ne ho visto morire altri e ho gioito della loro morte. I primi erano poveretti che commuovevano l’animo mio, pure indurito dalle circostanze e dalle scelte di fondo non prive di sfumature ideologiche, i secondi erano boia fra i peggiori e della loro morte l’umanità non poteva che rallegrarsene. La mia non era, e non è ancora, a distanza di più di trent’anni, una separazione netta. Non so trovare, e non voglio trovarla, una sentenza assolutoria per i buoni e una di condanna per i cattivi. Non sono un pubblico ministero e non sono un avvocato difensore, ma ebrei mi hanno cacciato la punta del coltello nei genitali per torturarmi ed ebrei mi hanno aiutato, difeso e salvato. Gli uomini sono tutti uguali, la differenza di cui parlo qui è di un altro genere.
E non è neanche vero che i peggiori, i torturatori e i boia, erano dominatori, classe superiore o difensori di pretesi diritti allo sfruttamento, erano spesso i più disgraziati e miseri, sefarditi che più di ogni cosa temevano la fine della protezione statale di cui godevano. Il reietto impaurito è spesso più miserabile ancora del dominatore, il realista è più feroce del re in persona.
La cultura aiuta a determinarci da soli ma, nello stesso tempo, permette la determinazione che arriva dall’alto, consente il potere e lo alimenta, pure nella possibilità di frenarne la prepotenza e l’arbitrio. Il prevalere delle capacità di determinarsi da sé caratterizza la cultura nel senso positivo della parola. Ma non tutta la cultura è un coacervo unico e inestricabile, ci sono formazioni culturali abbastanza bene caratterizzate, munite di connotazioni univoche prevalenti e omogeneità identificabili. La cultura ebraica ne è un esempio corposo.
La favola del popolo eletto è una componente di questa cultura. Se non la teniamo presente finiamo per perdere la strada. Un ebreo è tale se si ritiene appartenente al popolo eletto da Dio, con cui l’essere supremo ha fissato un patto primitivo e originario. Questa opinione discriminatoria è avvertita in modi e sfumature diversi dagli ambienti ebraici e dai singoli individui, quando cessa di esistere come convincimento non si può più parlare di ebrei e di ebraismo. Il laico è ebreo, e può anche convincersene solo grazie ad una sottile venatura di razzismo che non confesserebbe mai. La religione è questione fondamentale per un ebreo.
Un ebreo può benissimo essere pacifista, democratico e osservante, perché ritiene che la storia del mondo vada verso un futuro in cui i popoli, finalmente pacifici, serviranno lo stesso Dio e vivranno in pace senza più conflitti e amarezze. Ma questa prospettiva non revoca in dubbio il fatto primigenio, cioè i comandamenti del Dio che mantengono un significato specifico per gli ebrei, ma posseggono anche un valore etico universale.
Nell’ebreo la propria determinazione attuale, di uomo libero, deve potersi sposare con una determinazione più antica, quella che gli uomini di una volta, sempre presenti in spirito, i profeti, Abramo in particolare, riuscirono a darsi accettando il patto con Dio. Questi uomini della tradizione accettarono, e accettando si determinarono, ma potevano rifiutarsi, potevano dire di no a Dio. Potevano evitare di farsi carico di un fardello così pesante. Non l’hanno fatto. Per amore di giustizia e di verità si sono sobbarcati un peso di sofferenze e di miseria, si sono fatti carico di tutte le pene dell’umanità.
Una volta che questo ragionamento è fatto, qualunque sofferenza è non dico accettata, ma capìta. Essa, in ogni modo, viene da Dio. Ne deriva che nessun ebreo è al sicuro da se stesso. Per quanto alta possa essere la sua posizione sociale è sempre esposto alla sofferenza che lui stesso può decidere di infliggersi.
Questo concetto è difficile da spiegare ma deriva da quell’altro concetto che fissa nella estraneità alla società ospitante dell’ebreo una delle sue caratteristiche essenziali. Max Weber e Hannah Arendt hanno parlato di paria. Non so se la definizione dell’ebreo come paria sia esatta, penso che l’estraneità di cui sopra c’entri comunque in qualche modo.
Sono convinto che questa libera scelta abbia bisogno di appoggi che la rendano meno libera. Nessuno è isolato, un atomo galleggiante nel mare sociale. Ne deriva che ogni ebreo cerca gli altri ebrei, li vede come riferimento e sostegno. Ciò avveniva e avviene nella diaspora, come nelle comunità ebraiche di tutto il mondo, ma raggiunge il massimo nello Stato di Israele.
Questa condizione ha sfumature diverse ma non è generalizzata. Ogni integrazione dell’ebreo deve fare i conti con questa convergenza. Più gli appoggi si realizzano – solo per fare un esempio, l’esercito con la stella di David – più le chiusure si esacerbano. Queste chiusure portano alla conclusone che l’essere ebrei è una disgrazia che bisogna contrastare con la forza e con il rafforzamento della propria condizione di accerchiati. In grande, nello Stato israeliano, e in piccolo nel singolo individuo o gruppo familiare, accade che ci si senta un po’ impacciati nei propri panni, un po’ fuori posto. A qualsiasi livello sociale può accadere che l’ebreo si senta un outsider, per cui la sua sensibilità lo fa stare male, come un ospite non accetto.
Dobbiamo tenere presente che anche il povero mendicante ebreo, numericamente prevalente nei paesi dell’Est, ha un fondamento culturale omogeneo senza paragoni con l’equivalente emarginato dei paesi più sviluppati economicamente. Anche la stessa cultura massificata e deprivata, che oggi dappertutto sperimentiamo, è meno impoverita fra gli ebrei. E questo deriva dalla presenza centrale della religione, dal peso che la cultura religiosa ha nel quotidiano dell’ebreo. Non so se ci sono ebrei analfabeti, credo che le due condizioni siano incompatibili.
Per quale motivo non c’è un vero e proprio movimento rivoluzionario ebraico? Questa domanda merita un chiarimento. Ci sono stati sia il movimento libertario delle comuni in Israele, sia la partecipazione di ebrei a movimenti di resistenza e di opinione radicale in molti paesi del mondo, ma ciò è altra faccenda. Ci sono stati migliaia di rivoluzionari e di teorici della rivoluzione di origine ebraica, ma un movimento rivoluzionario ebraico è altra cosa. Perfino un movimento anarchico ebraico, che per le sue infinite varietà e sfumature potrebbe non essere rivoluzionario nel senso classico della parola, ha sempre avuto un’esistenza grama. Il motivo deve cercarsi nella particolare condizione dell’ebreo e della società ebraica, per non parlare dello Stato ebraico. Questa particolarità è il rapporto con la religione, con maggiore precisione con l’ebraismo. Ma non solo la religione, penso che abbia contato molto anche il considerarsi differente e avulso da parte dell’ebreo stesso, il suo sentirsi sempre fuori luogo, ospite spesso non amato di una società estranea. Intendo qui per movimento rivoluzionario anche la versione autoritaria di formazioni politiche dirette alla conquista del potere. So bene che il termine rivoluzionario non è appropriato, ma il problema sta altrove.
Tutte queste considerazioni sto sviluppandole per definire in diversi modi l’esclusività ebraica. Si tratta di una diversità culturale molto complessa e con sfumature non facilmente coglibili. Non si comprenderebbe il problema del genocidio senza questa specificità. Essa non fu estranea a quel fenomeno.
Torniamo al clima di cui parlavo prima. La società, sia pure quella più evoluta, continua a considerare l’ebreo un corpo estraneo, anche quando ricopre funzioni sociali elevate ed è benestante, la sua estraneità è avvertita e spesso sottolineata, sebbene in questi ultimi decenni questa eventualità sia meno comune. Sono cioè sempre meno coloro che ammettono apertamente di considerare l’ebreo estraneo al corpo sociale di cui fa parte.
Quando l’ebreo si inserisce all’interno di ambienti molto elevati socialmente, sia per le sue doti personali, sia per i suoi soldi, se non abbandona formalmente e sostanzialmente il suo essere ebreo, è considerato un estraneo, una presenza non accettabile. Non sto parlando di quando ci si trova davanti ai segni dell’ortodossia ebraica, ma in generale. Non è di certo un ragionamento che molti accetterebbero, ma una reazione inconscia che trova però riscontro nel modo stesso in cui l’ebreo affronta i rapporti con le persone del suo stesso livello sociale.
Il giusto risalto che le comunità ebraiche di tutto il mondo danno oggi all’olocausto è fondato non tanto sulla paura che un simile evento si possa ripetere, ma sul fatto che esse stesse sanno che la loro assimilazione non è assoluta e non sarà mai una garanzia contro eventuali futuri massacri. L’assimilazione e l’integrazione totali costituiscono certo una soluzione oggi praticabile e propongono una efficace risposta al problema dell’esteriorità dell’ebreo, ma devono essere totali e non possono escludere l’eventualità puramente razzista, cioè oggettiva, di una futura discriminazione fondata sul fantasma mai esistito della razza ebraica. Inoltre l’ebreo è restio all’integrazione totale per molti motivi, per la sua cultura e il suo passato di reietto, che non vuole disnegare, per la sua religione e gli aspetti simbolici che l’accompagnano, aspetti essenziali quanto la spiritualità stessa che la fonda, per i rapporti con le comunità ebraiche che non sono soltanto di amicizia ma si fondano sul ricordo della comune sofferenza e sulla necessità di preservare questo ricordo.
Da un altro punto di vista, l’estraneità degli ebrei a ogni società ospitante, nei limiti in cui questa estraneità si può cogliere come reazione adeguata della singola comunità o di gruppi più ampi e non dell’individuo isolato, non comporta automaticamente una disposizione contraria al potere. Non è vero che nella millenaria storia della diaspora ebraica non ci sia stata mai una commistione tra ebrei e potere. Non penso qui soltanto ai finanziamenti dei gruppi dominanti, ai grandi banchieri che sovvenzionavano le guerre dei re e neppure ai piccoli usurai che strozzavano la povera gente e che continuano a strozzarla. So bene che questi mestieri non sono più una peculiarità ebraica, se mai lo sono stati. Sto parlando della partecipazione diretta al potere, non tanto attraverso la personale identificazione nella persona del singolo uomo di appartenenza ebraica, ma della chiamata del potere rivolta alla comunità israelitiche per gestire insieme il potere.
Molte volte, anche in tempi recenti, e di certo nel caso dell’olocausto, il potere si è rivolto alle élite dominanti all’interno delle comunità ebraiche per ottenere ascolto e sostegno. Questi gruppi coinvolti riscuotevano fiducia presso gli aguzzini e difatti non disillusero quasi mai questa fiducia. Certo non è possibile identificare queste minoranze con tutti gli ebrei, e qui non si vuole affermare nulla del genere, ma si tratta di una piccola parte significativa, se non altro per il peso finanziario che garantiva privilegi non trascurabili.
Nelle comunità ebraiche sembra potersi identificare un duplice movimento di potere, da un lato la fascia più agiata, dall’altro la teocrazia dei dotti, in ambedue i casi si tratta di notabili in contatto diretto con i centri del potere statale. Questo movimento incrociato si può notare oggi sia a livello dello Stato israeliano, sia a livello internazionale. Basta pensare ai prestiti e alle sovvenzioni per sostenere l’esistenza di Israele come realtà statale.
Questa realtà politica non nega il modo di sentirsi degli ebrei fuori del mondo, il loro considerarsi radicalmente slegati da ogni rapporto con gli altri popoli. La tradizione e il culto hanno una importanza in Israele, oggi, che non si riscontra altrove, costituiscono il punto di forza di questo Stato e la sua derivazione diretta dalle comunità ebraiche di cui è la logica conseguenza in chiave burocratica e di potere. Ciò senza nulla togliere al processo di secolarizzazione democraticamente orientato a sinistra, sul modello europeo e anglosassone.
La conseguenza più vistosa di questo sentirsi fuori del mondo, tornando alla situazione in cui venne organizzato l’olocausto, cioè l’Europa dominata dal razzismo e dai fascismi, fu che gli ebrei si vennero a trovare fuori del contatto con le masse europee, delle grandi masse di lavoratori e delle non meno grandi masse dei diseredati. La loro preoccupazione più forte fu quella di non disturbare troppo il dominio statale, di cui si sentivano ospiti, allo scopo di ottenere protezione contro le esplosioni di antisemitismo che lo stesso dominio rendeva possibili e a volte organizzava contro di loro. In questo modo si può cogliere una parte di responsabilità anche nel non avere per tempo organizzato una efficace resistenza o, almeno, vie di fuga più agevoli.
Un altro elemento di responsabilità si può cogliere nel rifiuto delle comunità ebraiche occidentali di accogliere come partecipi della stessa sorte gli ebrei dell’Est, a volte accusati della loro miseria e delle loro migrazioni forzate, di essere una delle cause dell’antisemitismo. Più la tendenza a considerare l’ebraismo una convinzione religiosa si faceva strada presso gli ebrei occidentali, e più il fondamento della religione ebraica come chiamata di Dio, caratteristica degli ebrei dell’Est, contribuiva ad allargare il baratro.
Nella situazione di Israele oggi c’è l’antico sentimento ebraico di separazione, esso agisce in profondo e più vistosamente essendo Israele uno Stato e non una comunità per quanto grande. L’antico recinto della legge è diventato un muro di cemento.
Ma veniamo adesso al male.
Il male è uno stato d’animo, non un fatto. Come stato d’animo può essere esternato e, attraverso la comunicazione, allargato a dismisura, diffuso a livello di massa. Ci sono però delle cose da precisare. Se il male non è un fatto, nessun fatto è un male. Uccidere non lo è, rubare, stuprare, ecc. Affermazione pesante. Fare diventare un male questi fatti lo si può solo fissando delle regole, le quali stabiliscono che essi sono un male e condannandoli fissano una sanzione. Fissare regole è una caratteristica della civiltà. Lo Stato d’animo del civilizzato è quello che ha presente queste regole e le infrange ammettendo fatti considerati mali da chi ne ha coscienza. Il punto essenziale sta in questo averne coscienza. Ma la vera civiltà non è quella che fissa regole quanto quella che educa a coltivare stati d’animo che cercano di caratterizzare altri fatti in cui l’altro è compartecipe in noi e gode e soffre con noi. Io non posso uccidere, stuprare, ecc., in quanto questa prospettiva necessita di uno stato d’animo che non posseggo più. Mille regole non mi fermerebbero, solo io stesso posso fermarmi e decidere che lo stupro è solo una manifestazione della mia miseria e della mia impotenza, che l’omicidio può avere un senso solo a certe condizioni, come risposta a un attacco che ho subìto, non come sostituzione della mia incapacità di rispondere altrimenti all’offesa. Lo stesso per tutti gli altri fatti che sono universalmente considerati come male.
Qualcuno potrebbe dire che anche queste sono regole, solo che nascono non da un’autorità esterna a me, fissata una volta per tutte, ma dagli effetti che la cultura ha sulla mia capacità organica di delineare stati d’animo. Una volta acquisita questa cultura, i miei stati d’animo vengono prodotti di conseguenza e condizionati da quelle regole imposte dal dominio. Un bruto libero, privo di regole, ha stati d’animo rudimentali, non ha cultura se non rarefatta al massimo, non rispetta le regole perché non ha motivi per rispettarle o negarle. Naturalmente questo bruto assoluto non esiste se non come ipotesi limite, ma lo si può costruire dotandolo di poche regole.
Costruire un bruto che al posto della cultura abbia solo regole, poche e chiare, è compito di alcuni settori dello Stato. L’esercito è uno di questi settori ed è uno strumento per fabbricare bruti. L’ambiente democratico pone ostacoli, sia pure blandi, a questa produzione, allora settori più ristretti si riservano questo compito. In alcuni casi questa costruzione di bruti deve essere fatta crescere per fare fronte alle esigenze di controllo e repressione. Questa è la situazione dello Stato totalitario.
Ma i bruti non bastano, occorrono anche la partecipazione spontanea, il coinvolgimento, il consenso. A questo compito provvedono miscugli ben dosati di propaganda e intimidazione, senza escludere la concessione di particolari benefici e privilegi.
Tutto questo presuppone l’esistenza di regole. L’olocausto non sarebbe stato possibile senza le leggi dello Stato nazista che fissavano l’esistenza di cittadini di seconda categoria, fra cui gli ebrei, con diritti ridotti o azzerati.
I bruti si scatenano, ma hanno bisogno di punti di riferimento. I bruti, perfezionati nella loro brutalità, costituiscono una minoranza che ha il compito di dare inizio alla brutalità, di stimolarne la diffusione e farne vedere la possibilità, Occorrono però due altri elementi: un clima sufficientemente generalizzato e una cultura ridotta al limite, o standardizzata o resa schiava di idee rigide e immerse nella favola. Nel caso della Germania nazista si deve concludere che l’antisemitismo si è sposato con un numero notevole di altre componenti: il razzismo generalizzato, la paura sociale, l’accerchiamento geografico, le conseguenze della prima guerra mondiale perduta, la visibilità negativa degli ebrei, ecc. Tutti elementi che giocarono un ruolo interagendo fra di loro per realizzare il massimo della brutalità in un popolo in cui il livello culturale medio era considerevole.
Questo paradosso merita una spiegazione. Se la Germania era un paese di alta cultura, i ceti sociali coinvolti direttamente nell’avventura nazista non erano certo molto colti. Non mancarono aberrazioni di grandi intellettuali, come si è visto (nel fascismo italiano, Giovanni Gentile), ma ciò non sposta il problema. Pur non essendo ceti sociali molto colti erano sempre partecipi di una vita sociale di grande cultura. Qui si inserisce una sotto-cultura, immersa nelle nebbie della favola e del mito, della magia, della tradizione, con tutto il coacervo di nazionalismo, patriottismo, razzismo, ecc. La costruzione di questa sottocultura è più facile di quanto si pensi, basta vedere l’odierna larghissima diffusione di oroscopi e astrologia, di per sé costituenti interessi innocui, ma facilmente inseribili in un clima aggressivamente irrazionalista. Comunque una conclusione semplice sarebbe errata. All’origine della situazione che produsse l’olocausto non c’è l’irrazionalismo. Non è la pseudo-cultura la causa, questa è caso mai uno degli elementi che lo resero possibile.
Ancora una volta un pacchetto culturale, sia pure fortemente deprivato, venne messo a disposizione di strati sociali marginalizzati o fortemente danneggiati dalle condizioni post-belliche, per compattarli e spingerli fortemente verso un falso obiettivo: i diversi, gli ebrei in particolare, con il doppio scopo di dare a questi ceti uno sfogo immediato e di creare un clima di terrore capace di causare, nei cittadini non ebrei, una maggiore sicurezza per il fatto di non essere ebrei.
Mentre, da un lato, le fasce superiori delle classi non riuscivano né a gestire la produzione né a impostare una lotta, sia pure rivendicativa, diretta a salvare almeno il potere d’acquisto dei salari, le fasce inferiori, ormai lontane dall’antico potere di acquisto delle proprie linee di salario, vedevano la possibilità di un profitto in queste nuove forze politiche che parlavano di sangue e di patria.
Su quello che una volta si chiamava sottoproletariato ci sarebbe molto da dire e non è così certo che lo si possa tirare con facilità a dritta e a manca, c’è però una componente di disponibilità, in questa fascia sociale fra le più variegate e contraddittorie, che presenta una pericolosità reazionaria non trascurabile. I lazzaroni che a Napoli fecero fallire la rivoluzione giacobina del 1799 sono un esempio. La diffusione del tifo calcistico oggi ne è un altro, anche se sembra agli antipodi. I teppisti reclutati dalle SA per attaccare i negozi degli ebrei in Germania, un altro esempio. Le masse della civilissima Francia che incitavano a uccidere gli ebrei durante il caso Dreyfus, ancora uno. I tagliagola britannici del corpo speciale del generale Simon Lovat, un altro. I sefarditi israeliani di oggi, un altro ancora.
A motivare queste masse sottoproletarie non sono necessariamente gli interessi di classe, e ciò per molti motivi. Prima di tutto esse non costituiscono una classe nel senso vero e proprio del termine, e meno che mai lo costituiscono oggi, in un’epoca in cui le classi tradizionali sono state definitivamente smembrate. Proprio questa vaga determinazione causale propone a ceti lontani da rapporti fissi di salarizzazione avventure politiche subalterne, a volte sollecitate da promesse mitiche e falsificazioni grossolane.
Per tornare al periodo nazista, se si osservano le origini del reclutamento si può notare che la base del partito si fondava sui reduci del conflitto mondiale e sulle squadre paramilitari, oltre che sull’ex base dei partiti socialdemocratico e comunista. La crisi economica aveva sottratto al primo di questi due partiti la possibilità di lottare per miglioramenti salariali, e quindi la sua stessa ragione di esistere (in uno con i sindacati), la iniziale collaborazione con i nazisti aveva demoralizzato il secondo e ridotto al minimo le forze militanti in grado di realizzare un movimento di protesta. La maggior parte della base del Partito comunista tedesco era costituita da disoccupati che alla fine decise di chiedere un posto di lavoro, o almeno una possibilità di sopravvivenza, a quelle forze che sembravano poterli garantire.
La dispersione della base dei partiti in questione fu spaventosa, non solo a causa della disoccupazione, ma anche per il particolare accanimento repressivo. Nessuno era in grado di prevedere che i metodi impiegati dai nazisti non erano che una piccola parte di quello che sarebbe accaduto dopo. Molti, al contrario, pensavano di chiedere non solo un posto di lavoro alle autorità in carica, ma anche protezione contro i soprusi, e fra questi molti illusi ci furono anche gli ebrei.
Emblematico il fatto che i nazisti colpirono e quasi distrussero dapprima il Partito comunista, lasciando stare il Partito socialdemocratico, per cui i membri della base di quest’ultimo pensarono che passata l’ondata repressiva tutto sarebbe finito lì. Qualche mese dopo le squadre speciali naziste attaccarono e distrussero le organizzazioni socialdemocratiche e i sindacati. Anche a causa della separazione che c’era tra dirigenti e base, essendo i partiti della sinistra tedesca dell’epoca molto burocratizzati, non si riuscì a trovare una risposta adeguata. L’unica risposta poteva essere l’insurrezione di massa ma ormai, dopo la distruzione del Partito comunista, l’unico ad avere le idee chiare in merito, era troppo tardi. Dopo, la sconfitta dei socialdemocratici mise a tacere tutto. La resistenza tedesca fu una serie di tentativi propagandistici e di attacchi veri e propri, come sabotaggi e attentati, mai in grado di impensierire veramente il potere legittimamente in carica.
Il totalitarismo è una forma di potere che radicalizza al massimo la repressione e il controllo. Può fare ciò attraverso forme democratiche in cui il meccanismo elettorale è opportunamente utilizzato e indirizzato, oppure con un colpo di Stato. In ogni caso, la gestione del totalitarismo ha bisogno di regole, anzi più lo Stato estremizza il suo intrinseco modulo di dominio e più queste regole sono rigide ed evidenti. Una delle regole essenziali del totalitarismo è la distinzione dei sudditi in categorie protette e categorie prive di protezione. In queste ultime possono poi ricavarsi categorie destinate allo sterminio.
Per un altro verso, il totalitarismo azzera il gioco politico democratico, ormai inutile, e ripiega sulla gestione essenzialmente burocratica dello Stato. Il partito unico è lo strumento corrente di questa forma di dominio, ovviamente gli appartenenti al partito si suddividono in categorie disposte a piramide in funzione dell’affidabilità che mostrano e sono tutte sottoponibili a controllo e repressione, ma sono comunque protette. Le restanti categorie, o singoli individui, rimangono privi di protezione.
Le regole si irrigidiscono giuridicamente non solo con il passaggio della funzione legislativa all’esecutivo, fatto operativo nelle stesse realtà cosiddette democratiche, ma anche con ordinanze e provvedimenti che organi periferici molto affidabili, a ciò delegati, prendono di concerto con il potere centrale. Questa generalizzazione di rigidità permette un impiego inusitato della repressione in modo da generare il terrore nelle categorie non protette e a causa di questa non protezione indicate come pericolose.
Non bisogna commettere l’errore che queste categorie sono senza protezione perché pericolose, ma è vero il contrario, esse sono senza protezione e quindi diventano pericolose. La repressione totale non può scatenarsi fino in fondo in una situazione in cui anche i fuorilegge hanno diritto a un minimo di protezione, sia pure formale. Questa situazione, tipica dell’assetto democratico, richiede per il potere un enorme dispendio di energie per realizzare il controllo attraverso sostegni ideologici, miglioramenti sociali, ecc.
Il terrore è quindi lo strumento più semplice e immediato del totalitarismo, ma esso per venire costruito ha bisogno di tutte quelle condizioni di cui abbiamo discusso prima. Per impiegare il terrore occorrono però delle regole che differenziano in modo chiaro le categorie sociali. Quindi a caratterizzare il totalitarismo non è tanto il terrore, come estrema organizzazione della violenza repressiva, quanto le leggi che fissano l’esistenza di individui inferiori, di seconda categoria.
È stato affermato che il terrore non realizza nessun fine politico, il che è vero. Prima di tutto, il terrore è un mezzo del potere, mezzo se si vuole estremo e limitato perché contraddittorio, ma sempre strumento politico. Il totalitarismo, che usa il terrore, è un sistema politico, sia pure rudimentale. Eliminando qualsiasi opposizione politica, il totalitarismo ha bisogno di cercare lo scontro altrove, in genere in una guerra aggressiva. A parte questo, la miseria a cui è destinato ogni regime totalitario è fatto evidente di per sé.
Fra le condizioni che resero possibile lo sterminio degli ebrei nella Germania nazista è stato il convincimento degli stessi ebrei che la protezione dello Stato nei loro confronti, sia pure limitata, alla fine, non sarebbe mancata. Questo tragico errore si estese fino all’ultimo e comprese anche la collaborazione di molti responsabili di comunità ebraiche. Il rispetto delle regole, da un lato, quello nazista, era una tragica farsa, dall’altro, quello degli ebrei, era un non meno tragico errore.
Seguire le regole può essere scelta mortale.
Seguire le regole è condizione essenziale del male, la ragione è la strada perché il male possa realizzarsi nel mondo, dilagare e arrivare a quel male assoluto che rinuncia a uno scopo, che ha in se stesso, nel proprio prodursi, il proprio scopo. Uccidere milioni di ebrei era privo di senso, lo sterminio degli armeni in Turchia tra il 1915 e il 1918, gli stermini stalinisti in URSS, le pulizie etniche nella ex-Jugoslavia, le guerre di ogni tipo fatte dagli Stati, sono tutti privi di senso.
Uomini ragionevoli, persone comuni come l’inquilino della porta accanto, realizzarono questi massacri di massa e continuano a renderli possibili. Il bruto è amministrato da questi burocrati, la macchina dei massacri è una macchina organizzativa di grande complessità. L’IBM collaborò con la Germania nazista per realizzare la schedatura degli ebrei, le tecnologie avanzate vennero impiegate a questo scopo.
Ora, ogni burocratizzazione è una forma di razionalizzazione. Il punto centrale è qui, l’elemento del ragionamento sviluppato in queste pagine è l’organizzazione razionale della realtà, di tutta la realtà. Probabilmente alla base di questo uso estremo della ragione c’è una paura tutt’altro che ragionevole, ma è della ragione che qui si indicano i limiti.
C’è da chiedersi, per restare nell’argomento, se tutta la propaganda antisemita sia ragionevole. La risposta è no, essa è un miscuglio indigesto di favole e paure, ma le regole in base alle quali quella propaganda poté contribuire ai massacri degli ebrei erano prodotte dalla ragione, espressione giuridicamente valida di un popolo di cultura.
Prodotta la regola, fissata in un modo più o meno coatto sulla carta ufficiale, questa si carica di una razionalità intrinseca che obbliga al suo rispetto e consente la sua applicazione. Uomini e bruti, tutti si sentono costretti ad applicarla e mettono in pace quel che loro resta della coscienza. Producendo regole che mettono fuori delle regole una parte dell’umanità, si dà la base legittima per sollecitare alle logiche conseguenze estreme tutti coloro che credono nelle regole, vittime comprese.
Il male assoluto è il male senza scopo se non quello di seguire le regole. In questo modo non si azzera soltanto il nemico che mette paura e che si svuole distruggere, ma si azzera anche se stessi.
Il totalitarismo svuota le regole di quella pur minima traccia di positività, annulla gli effetti concreti e costruttivi della ragione, rende privi di senso gli spunti creativi dell’irrazionalità. Non solo annientando completamente il nemico lo rende assolto, cioè lo comprende con sé, lo annulla e annullandolo annulla se stesso. Il totalitarismo si autodistrugge.
[2004]
Lettera critica di Antonio Lombardo
Subito mi sono chiesto: perché non sugli zingari?
Perché lo hai scritto, se non per mettere una cornice alla tua storia? Perché una considerazione sul totalitarismo – questo dovrebbe essere il titolo del tuo scritto, e non la ebraicità che presa a sé non c’entra un fico – non l’hai fatta sul popolo rom, sugli zingari, che hanno il pregio, davvero libertario, oltre quello del comportamento sociale, di non sviluppare un programma nazionalistico?
Questi hanno subìto l’emarginazione prima, la condanna e le sanzioni e infine l’olocausto con la stessa intensità, seppure nella quantità appena dopo di quella ebraica, non si sono assimilati e rimangono ancora oggi considerati un pericolo pubblico, con l’aggravante di non poterli relegare neppure teoricamente in uno spazio nazionale, ma poi mi sono letto tutto lo scritto ed ho capito che c’è il tuo interesse personale che va al di là dell’interesse storico o politico attuale.
Intanto il meccanismo del massacro ha qualcosa di industriale, con la stessa logica economica che regola il mercato e l’organizzazione del lavoro: aumento del carico di lavoro su ogni lavoratore a minor costo, libertà di selezione del materiale umano ed azzeramento del conflitto, con un qualcosa in più, la sindrome di Stoccolma che affligge chi, pur lamentandosi dell’espressione dello sfruttamento, non ne mette in dubbio la logica e la fa propria fino a difenderla da chi tenta, propone, ricerca una lotta di liberazione individuale e possibilmente sociale.
Eppure esiste l’unicità dell’olocausto che lo rende imparagonabile con altri massacri, esso è stato coerente, ideologicamente lineare, ed è stato la pratica della teoria, attuato con metodo ingegneristico ed architettonico e calcolato al centesimo del biglietto pagato regolarmente alle ferrovie del Reich per fare viaggiare milioni di persone, tra cui mio padre, verso lo sterminio.
Hai cominciato bene il tuo scritto sull’analisi del concetto di massacro, è sistematico, poggiato su ideologia e non sulle fisime di un dittatore del momento: in effetti l’olocausto, o più comprensibilmente la shoah, annientamento dell’essere, era poggiato su un letamaio innaffiato da secoli. Eppure vi è tra le righe già dal primo foglio, e poi rimarcato nelle prime pagine, un concetto espresso in: “Da parte loro gli ebrei danno una mano”, che paragono nel mio pensiero all’espressione di un padre di famiglia di fronte alla figlia violentata di sera: “Si ostinava a uscire in minigonna”. Tu stesso sapresti cosa rispondere a un padre del genere.
Ti sei infilato in un’analisi di ebraicità ferma all’800: religione e nazionalismo, che non ha corrisposto se non nel sionismo, non era certo espressione delle comunità Yiddish, non era il respiro di milioni di ebrei europei ai quali non fregava nemmeno di essere iscritti alle comunità e solo il 20% frequentava le sinagoghe, tutto questo prima che il nazismo obbligasse ad essere ebreo per forza. Inoltre non corrisponde, questo tuo misto di nazionalismo e religione, neppure alla società israeliana attuale. Temo che anche tu sia caduto nella confusione dei termini “ebreo”, “israelita” e “israeliano” e nella confusione peggiore di parlare di ebrei come sionisti, quindi finire col parlare del comportamento dello Stato d’Israele. Gli esempi di intellettuali e maestri che cadono nelle stupidaggini sono presenti nelle tue stesse righe ed anche un mio scrittore amato come Saramago è caduto nell’equazione Auschwitz-Israele, si vede che la tua analisi sul distacco intellettuale dalla realtà è ancora adesso azzeccata.
Non sapevo di questa tua esperienza mediorientale e mi ha aperto il cuore che non ti trascini vendette riconoscendo l’uomo al di là dell’essere israeliano o arabo. È vero quello che dici: sono i comportamenti umani, che poi divengono sociali, ad avere importanza, questa è l’essenza della ricerca e questa ti riconosco non da ora. Qui sta il problema, ma anche la soluzione.
Tu dici: “L’autenticità del suo essere ebreo non è quindi in qualche cromosoma o nelle cellule del suo sangue, ma nella sua cultura e nel suo modo di vivere che a quella cultura si impronta. E la religione è parte integrante di questa cultura”.
Non so davvero chi sia ebreo e chi no, e in fondo non me ne importa nulla, se devo parlare di ebrei penso agli iscritti alle Comunità israelitiche e a chi vuole esserlo individualmente – come anche tu dici: “La cultura aiuta a determinarci da soli”. Il dato religioso so che non è essenziale, se non come rimasuglio di radici lontane non attualmente giustificative. Se invece devo parlare di israeliano so che non vuol dire di per sé ebreo, il 20% degli israeliani non sono ebrei, ancora meno chi lo è di religione israelita. Se devo parlare del conflitto mediorientale, Israel-Palestina tu sai qual è il mio pensiero: che una lotta giusta, necessaria, e di liberazione come quella di un popolo oppresso ha poggiato su basi profondamente ed esplicitamente contrarie ad un processo di liberazione per sua stessa ammissione: fino al 15 novembre 1988 non ha mai riconosciuto il diritto eguale dell’altro popolo oppresso alla terra, semplicemente non esisteva. Inoltre i Protocolli dei Savi di Sion e il Mein Kampf erano libri diffusi negli anni Trenta fino a 20 anni fa tra le organizzazioni di lotta arabe, e tutt’oggi li puoi trovare. Su queste basi ideologiche non potevo stare coi “filopalestinesi” e non voglio. Condivido le lotte parallele dentro le rispettive società contro i rispettivi Stati e contro le rispettive autorità, nessuna degna di rispetto, una uguale all’altra ed ognuna di questa “favole” a cui dare energie e figli e sangue.
La soluzione sarà quando le lotte di liberazione interne troveranno punti comuni per sentire che si possono fare azioni comuni contro queste autorità, sia israeliane che palestinesi, e costruzioni comuni di comportamenti che derivano da un comune processo di liberazione, altrimenti sarà una separazione consensuale coabitativa, ma nessuno potrà mai fisicamente buttare a mare o sterminare l’altro, perfino in questi momenti di tragedia ognuno lo sa. Quindi non sono concepibili paragoni nazisti, piuttosto sono concepibili proposizioni positive dopo le analisi. Mentre in Israele questi comportamenti di critica radicale allo Stato e alle autorità militari esistono, seppure con problemi di rapporti di forza, nella Palestina devono scontrarsi con una gestione ancora camorristica, anni Settanta cutoliani, del territorio: chi gestisce i miliardi del vile finanziamento degli Stati arabi può fare del bene aprendo asili, dando pensioni, garantendo scuole e case, e può pretendere l’uso di tuo figlio per la “causa”.
Se si pensa alla diversità di vita di 150 anni fa, all’assimilazione che distingueva in classi, ed ancora ai Risorgimenti nazionali, che mentre si liberavano dei rispettivi Imperi non riconoscevano una identità ebraica, e neppure zingara se vogliamo, fino a riprodurre le stesse emarginazioni di sempre, allora capiamo perché il sionismo, in tempi di Risorgimenti nazionali, rispondeva anche al bisogno del Risorgimento ebraico. L’analisi dell’Arendt sul totalitarismo è attualissima, ed è l’analisi di quella parte sociale, come tu hai ricordato, che non viene – anzi che non deve essere – riconosciuta.
Detto questo non mi fermo alla prima riga: il sionismo come tutti i movimenti rivoluzionari nazionalistici ha in sé la castrazione della libertà, la costruzione dello Stato nazionale con la riproduzione di tutte le strutture autoritarie di uno Stato nazionale: carceri, tribunali, esercito, tasse e controllo sui cittadini. Vedi il Fronte nazionale in Algeria, vedi il Partito comunista in Vietnam, vedi la stessa Autorità palestinese nei Territori. Eppure tu lo ricordi: il movimento Yiddish creò una esperienza libertaria unica, ancora presente in Israele e nelle società di lingua inglese, seppure non esca più l’ancor recente Problemen. Inoltre il movimento operaio ebraico negli Stati Uniti era parte del sindacalismo rivoluzionario e libertario. Di certo, per essere rivoluzionario nel termine di eguaglianza e socialità come il movimento anarchico propugna, e tu anche qui ricordi, deve liberarsi da termini circoscritti, deve liberarsi dal nazionalismo ma anche dalla etnicità. In effetti i gruppi anarchici che hanno superato la guerra jugoslava lavorano su questa prospettiva e gli anarchici presenti in Israele che lottano con gli arabi contro il muro in Cisgiordania ricordano nei loro scritti di non avere una “causa palestinese” da appoggiare perché non hanno nessuna “causa israeliana” da difendere.
Se vuoi, Alfredo, ci sono speranze possibili e vissute ed ancora oggi viventi, che possono essere proposte come rivoluzionarie dentro le guerre. Questa è la pace proponibile.
Un’ultima e non ultima considerazione su tutto il tuo scritto: tu stesso non ami l’assimilazione così come non ami l’identità culturale che si presenta come nazione, eppure ami l’unicità di ogni uomo, quindi anche di un gruppo umano che voglia essere unico, perché allora non sottolineare tutte queste diversità – sia di uno che voglia assimilarsi ad una cultura indigena, sia chi voglia testardamente restare per i cazzi suoi – come una libertà?
Che sia una libertà è storicamente provato dal tipo di reazione che ogni gruppo decide di prendere anche di fronte a tragedie e sterminii. Se è vero che il massacro è responsabilità di chi lo programma e lo compie – ed è vero quello che dici: “Il totalitarismo è il male assoluto perché azzera anche chi lo fa” – (ti accorgi che c’è molto di Arendt in quello che dici?) il tipo di reazione al massacro rimane ancora una sfera di libertà delle vittime. Milioni decisero che era meglio seguire gli ordini del boia sperando di farcela ancora, altri tentarono una resistenza e valutarono i rapporti di forza per cedere ed obbedire ancora sperando di farcela, e mio padre fu fra questi e ce la fece, altri decisero che era meglio morire che vivere senza dignità, altri fuggirono, altri rimasero... fu così dalle invasioni persiane, dalla Babilonia, alcuni decisero di rimavervi, altri decisero di tornare a Gerusalemme, altri si dispersero nel Mediterraneo... insomma anche questa fu una libertà di movimento che noi tutti riconosciamo senza porci problemi di cittadinanza né di conseguenze filosofiche.
Orani, 21 luglio 2004
Notazioni sulle differenze
Ma come dire queste differenze? Perché in definitiva qui c’è di fronte a noi, me e te che parliamo, il problema di ciò che è indicibile.
Devo svegliare la parola a una vita diversa, renderla aperta alle infinite possibilità del destino. Questo compito non è di sostegno a una qualsiasi conclusione della vita, alla lettura di ciò che si è riuscito a muovere nel senso dell’azione, e nemmeno nel senso del caso, una qualunque conclusione quale che sia, tanto tutte conducono alla morte. È la mia vita nell’azione che la parola deve riuscire a dire, non accettando l’equivoco del dettaglio o la benedizione fattiva del di già accaduto, lontano, nella inamovibilità dell’immodificabile. Il destino parla la parola dell’azione, non il dire superficiale che si ha a volte occasione di trovare di già pronto, parla profondità raggiungibili solo se sono di già presenti in me stesso, nel lavoro di svuotamento di ogni luogo comune, di ogni certezza acquisita, di ogni tranquillità confortante.
Il punto estremo del destino è il rantolo di morte e questo è la voce che ho ascoltato provenire da tanto lontano, voce che non ha nulla da dire, ormai, perché è stato già detto tutto. La profondità dell’orrore azzera qualsiasi profondità, diventa semplicemente banale affermazione della supremazia provvisoria della forza bruta. La saggezza di chi si è trovato di fronte alla multiformità dell’orrore non si agghinda di parole, neppure il destino. La possibilità nuova non parla, parlerà poi, quando andrà per la sua strada e sarà altro di ciò che il destino ha assegnato al vecchio marinaio seduto sul molo ad aspettare un vascello che forse mai più partirà. Forse ci saranno altre possibilità, forse tutto è stato incluso, non è dato saperlo.
Il destino non educa, non può né sa farlo, il destino conduce alla fine, dove le navi affondano e marciscono lentamente, silenziosi monumenti di un attivo modo di trasformare il mondo. Si pone a questo punto il problema del contenuto tra il silenzio e la parola.
Il silenzio del destino, la strozzatura, l’urlo afono della realtà è l’estensione estrema della conoscenza che, posta davanti alla parola la blocca, rinchiudendola nel suo metabolico e codificato campo espressivo. Scendere nella profondità della parola, nel senso in cui l’intendo qui, è fare a meno della conoscenza, e quindi di tutte le contraddizioni che ne conseguono, svuotare l’archivio, diventare saggio e non colto mangiatore di concetti e rifacitore di piatti freddi. Perché la parola si apre, nei suoi livelli intimi, solo di fronte alla saggezza? Perché questa sa porre le domande nel giusto modo e nell’occasione migliore. Perché sa chiedere con la mano tesa dando lievemente, non imponendo una conquista e riducendo l’altro a strumento delle proprie costruzioni. Ciò fa sentire la parola indispensabile nell’essere essa stessa l’altro, nel mostrare come la quasi dicibilità è praticamente indicibilità essa stessa. Qui nasce l’arte di fare parlare la parola, qualcosa di più di una semplice richiesta, e qualcosa di completamente diverso da una spaventosa effrazione. Questo segreto è custodito dalla conoscenza, ma portato alla luce dalla saggezza. La costruzione di un rapporto nuovo tra conoscenza e parola, tale da concludere per il silenzio, l’antico silenzio sbalordito, molto di più di una semplice interpretazione critica negativa, i primi rudimenti della comprensione dell’indicibile nascono forse in questo terreno, ma il processo penetra a fondo nella natura stessa della conoscenza, nel modo in cui questa si dispone nei miei confronti di conoscente e nei confronti dei rapporti epistemologici e rituali che la tengono in piedi.
Riguardo il funzionamento della saggezza che mi fa cogliere l’indicibile ne so tanto poco quanto il funzionamento della conoscenza. Qui la presenza che si appella accumulandosi, là la rarefazione dei contenuti, il tacere di questa o quella nozione, l’astenersi dell’imporre una via, una soluzione, il mettersi in ascolto. Anche di questo ascolto ne so poco, non è l’abbandono alla spaventosità dell’accadere che si avvicina, ma una ricerca sospendendo la mia inveterata mania di tagliare a fette la realtà specificandola. Il senso comodo e piacevole, confortante nella distretta, che riempie la conoscenza, comincia a venire meno nella saggezza, il saggio è folle perché insensato, visto che si fonda solo su se stesso, sul silenzio di ciò che continua a essere presente ma che è stato tolto via, lasciato altrove, abbandonato alle distanze che le paure collettive cercano in tutti i modi di mantenere intatte con i vari “giorni” della memoria.
Il saggio intraprende così ad ascoltare il silenzio, pieno di altro genere di contenuti. Adesso ha trovato un maestro diverso, non si rivolge più alla scienza dell’accumulo ma a quella dell’assenza, chiede alla parola ciò che la parola non vuole dire, le chiede di aprirsi, di portare alla luce terrori che la conoscenza non possedeva, regolata dalle sue sincronie troppo perfette per destare sorpresa. Il saggio si sorprende della vita ogni giorno, del sole che sorge e della pioggia che cade, non sa nulla in merito, che gli importa coprirsi o liberarsi degli abiti superflui, non è questo che chiede alla parola, chiede una relazione nuova, un’amicizia profonda, intensa, un’affinità e una intesa complice, per ascoltare il dire che non mancherà di arrivare riguardo l’agire. Il saggio apre alla parola il suo cuore, ma la parola non può leggere l’impronta della memoria che è assenza pura, egli vorrebbe che ciò avvenisse, ma la parola, aprendosi nelle sue più intime profondità, disegna una traccia attorno all’impronta utilizzando le tracce del ricordo già esistenti e interpretandole alla luce della nuova profondità sollecitata.
[2004]
Il messaggio nella bottiglia
Figli dell’epoca che poteva legittimamente definirsi appartenente al libro, caratterizzata dal libro, ci avviamo ad assistere alla rapida scomparsa di quest’oggetto. Faccenda sconvolgente per chi ha posto al centro della propria vita la carta stampata, o almeno un’attività che non poteva dissociarsi dalla carta stampata, trovando da questa alimento e impulso. Come disillusione, non c’è male. Il declino l’abbiamo davanti a noi, nell’atmosfera che respiriamo, per quanto non molti riescano a coglierne il profumo di cimitero.
Il silenzio. Ecco l’alternativa. Adesso che le case e le strade sono ingombre di macerie, mi sembra stupido parlare ancora di Werther. Potremmo farlo, ma forse siamo troppo smagati per questi giochi. Non possiamo impedirci di ascoltare la sofferenza della porta accanto, il ritmo delle decisioni giornaliere, cui dovremmo pur dir qualcosa, non solo dare cenno della nostra bancarotta. Il cerchio si sta per chiudere. Dopo, di cosa parleremo? Qui, non solo tutti i libri sono stati letti, e non solo la carne è triste, ma anche tutti i libri sono stati scritti. L’insistenza tenace e stupida nella fede alla carta stampata potrebbe nascondere un secondo fine, meno glorioso ma più pratico, quello di fuggire davanti alle condizioni immediate, ai contorni della realtà, per cercare il grembo accogliente di sentimenti immaginari, costruzioni ipotetiche, comunque docili e ragionevoli anche quando balzano con repentini slanci irosi.
La contraddizione c’è stata sempre, nel dividersi in parti diseguali tra letteratura e vita, tra scritto e azione. Va bene, nell’ambito del finalismo che malgrado tutto entra di soppiatto nella migliore delle analisi non c’è differenza, ma nella realtà la differenza invece c’è, e come, per chi subisce le condizioni di una dicotomia ineliminabile. La teoria abita un pianeta, la pratica ne abita un altro. Poi, entrambe, entrano in comunicazione. Niente di inventato nell’una, niente nell’altra, la realtà vi domina incontrastata. Ma a quale prezzo? La rigidità, il rigorismo, in base ai quali la virtù oltraggiata, in nome di millenni di sfruttamento, osa alzare la mano giudicante. Anche in questo caso, repentinamente, i due pianeti si incontrano di nuovo.
Bene o male abbiamo abitato questi due pianeti, e nel modo corretto. Corretto, non migliore. Quindi, non cedendo né alle sollecitazioni letterarie, né a quelle politiche. Abbiamo le carte in regola. Niente carriera, in nessun campo, né giornalistico, né universitario, né editoriale, né partitico. La purezza prima di tutto. E va bene, possiamo costruirci un monumento con tutta la purezza che ci aleggia attorno. Ma qui il problema è diverso. Consegnando i libri ai livelli più avanzati dell’approntamento, mi accorgo che adesso corrono il rischio di non trovare destinatario. La cosa era prevista, almeno fino ad un certo punto, ma non nella dimensione che minaccia di prendere. Un crollo come quello che si prospetta per i prossimi decenni era impensabile. Ma è anche la cosa più giusta cui pensare, se non si vuole gettare in mare la bottiglia vuota, senza neanche l’ipotetico messaggio al futuro. Quale futuro? Quale messaggio?
Lo scritto, comunque sia, si indirizza a un’ipotesi di vita umana, una vita probabile, non sicura, ma immaginabile. Un contesto sociale in cui lo stimolo ha ancora la sua funzione, il suggerimento, il chiarimento e perfino la propaganda e la risibile testimonianza, hanno la loro funzione. Ragionevole programma, che per altro è entrato fin dal primo giorno in contrasto con se stesso e quindi ridimensionato. Ma un fondo di contatto c’era. La proposta sovvertiva, si immaginava cioè di arrivare a sovvertire, le condizioni storiche della ragione, questo ampio mantello sotto cui si sono commesse le peggiori mostruosità del mondo, quindi riversava anche su di sé gli effetti dissacratori delle proprie elementari intenzioni. Tutto era previsto, formulari e tutto il resto, espedienti, ingenuità e sviluppi originali. Tutto in regola, almeno secondo i gusti, e perfino secondo i mezzi. Ma qui l’argomento è altro ancora.
Crolla il libro, qualsiasi possibile libro. Nelle condizioni attuali del mondo, con i grandi sconvolgimenti che si attuano tutti i giorni, con la veloce riscrittura mensile della storia e della geografia, si guarda ad altri mezzi di espressione. Non più a un mezzo, non solo vecchio e superato, ma anche compromesso con la dottrina che ha giustificato, e in parte continua a reggere, questo e l’altro mondo, ogni tipo di dominio e prevaricazione, sotto ogni bandiera.
La gente è stufa di biblioteche e depositi d’obitorio, è stufa della storia, è stufa di ogni cosa che ricordi anche lontanamente il passato sostenuto dalle ideologie. Non sa che anche questa è un’ideologia, ma nessuno può dirglielo, non ascolterebbe. Non ha ascoltato in passato le poche voci sparse, poi sommerse dalla marea uniformante della dialettica marxista. Non ascolta oggi. Non possiamo fingere, scrivendo, che in questi ultimi anni non sia successo niente. Cercando di spiegare quello che è successo, proprio nel mentre lo spieghiamo, cerchiamo di farlo apparire come se non fosse mai successo. Il compito dell’analisi, di ogni analisi, è sempre questo. Sigillare la realtà nel non accaduto.
Nuove coperture ideologiche si rendono necessarie, e c’è chi sta provvedendo a fabbricarle. Nuovi mezzi, adeguati agli attuali sviluppi della comprensione, si stanno approntando, una nuova analisi dei princìpi e delle applicazioni pratiche, meccanismi e accumulazioni, istituzioni e idee. Normale lavoro di manutenzione, se non fosse per la rimessa in causa di un mezzo che sembrava stesse eterno al centro dell’attenzione comunicativa. Ma era evidentemente una illusione dei chierici, tutti intenti al loro classico parlottio. Una tradizione fittizia, che di sghembo arrivava oltre il ghetto, filtrata dai grandi organismi editoriali, cui rispondevano pattuglie isolate di produzione periferica, dirette a scimmiottare condizioni e forme di quel proficuo somigliarsi.
L’umanesimo di fondo viveva alle spalle di un equivoco mai portato all’incasso. La neutralità del sapere, o comunque la possibilità di mantenerlo in frigorifero, in attesa che la realtà facesse il resto. Un galoppo sotto le frasche, altro che neutralità. L’ombra della foresta non protegge, espone. Non potendo far altro, qualche volta espone al ridicolo. Al ridicolo dell’esperimento minimale, del rumoreggiare della tempesta in un bicchiere.
Il rifiuto delle cerimonie altolocate della macchina culturale, anche al più modesto livello dell’impegno universitario, ha avuto un senso nella vita di molti di noi, e non sarò io qui a rimetterlo in discussione. Ma, considerandolo adesso, dalla sponda del non ritorno, mi sembra che in esso sia mancata una risposta positiva. Ci si è accontentati solo dell’aspetto negatorio. Avremmo dovuto svilupparlo noi quel sapere, che spesso vent’anni fa era ancora da costruire, sulle spoglie teoriche e storiche di un passato impreciso che due decenni di distanza dalla fine della guerra non riuscivano a trasformare in cosa viva. E avremmo dovuto usarlo nelle nostre cose, e nei nostri strumenti. Senza la macchina e senza le sue garanzie, questo è ovvio.
Siamo stati capaci di fare questo lavoro? Penso di no. Quali sarebbero oggi le condizioni del crollo se quel lavoro fosse stato fatto? Non è dato saperlo. Certo, potevano anche essere differenti. Ma non è questo il punto. La verità è che non abbiamo saputo fare il nostro lavoro, che non era solo quello di dire, ma di dire sapendolo dire, trovando il modo di dirlo, non accantonando problemi di metodo di fronte all’urgenza dei contenuti, i quali, strano a dirsi, adesso che vediamo le cose con la dovuta chiarezza della distanza, potevano anche aspettare. Abbiamo alimentato in questo modo il terrorismo dei contenuti, l’anima nera del senso dilagante, perché della loro sostanza si pascessero inappagabili visceri provvisori. Così, ci siamo mutuati a nostro esclusivo beneficio, nostro di piccoli fogli cosiddetti alternativi, un’autorevolezza cerimoniale, proveniente dal riciclaggio degli oggetti prodotti in accomandita col nemico.
La rivoluzione frattanto si scambiava le parti col potere, terminologie in primo luogo. Forniva e riceveva, bilancio altamente attivo, quindi in perdita. A vendere molto di questa roba, tipo “qualità della vita” per intenderci, ci si rimette. Meglio comprare. Ma nell’acquisto bisognava presentarsi con impegni tecnici che ormai nessuno sapeva assolvere, vista l’improvvisa, e predatata, riduzione dei flussi. A leggere un “comunicato” rivendicativo vengono i brividi, e si può capire meglio oggi come questi comunicati giocarono il loro triste ruolo nel travestire un’energia realmente rivoluzionaria, agghindandola per come venne mostrata, e quindi spettacolarizzata e uccisa, nel corso di quindici anni. Ci si facevano i complimenti, reciprocamente. Si mostravano muscoli intellettuali prefabbricati a un pubblico di dementi, racchiuso nelle roccaforti accademiche, quindi anche politiche, che imparava a leggere ideologia liquida.
Si doveva approfittare di più delle dissonanze, approfondire fino in fondo i disequilibri e gli sconcerti teorici, non averne quasi paura, un timore reverenziale derivante dalle mancate congratulazioni dei gestori dell’ordine culturale vigente. Per cui non ci si allontanava mai abbastanza dalla carreggiata comune, anche a costo di diventare, questa volta con un buon motivo, veramente illeggibili. Si mantennero idilli che oggi appaiono sconcertanti, scambi che avremmo potuto evitare, segni di riconoscimento delle altrui pietà compromissorie, che in fondo indicavano un’incerta coscienza della propria rigidità.
Solo adesso comprendiamo fino in fondo l’infondatezza dell’ipotesi scientifica su cui abbiamo giurato in passato, la superiore validità dei dati di fatto. Il nuovo potere è stato costruito su questi dati di fatto, e noi abbiamo lavorato bene in questa direzione. Razionalizzando siamo stati razionalizzati, da perfetti razionalisti. Andando in cerca della verità abbiamo trovato quella degli altri, usata da loro a perfetto uso e consumo delle migliori intenzioni gestionarie. La certezza di trovare la verità per tutti, quella di tutti, la verità che è rivoluzionaria, ci ha impedito di guardare dove mettevamo i piedi. Quel poco che abbiamo indicato, criticamente, in questa direzione, non è stato sufficiente.
Avessimo teso al rigore metodologico, almeno adesso avremmo potuto piangere con un occhio. I frutti porcini, nei loro limiti, avremmo potuto sgranocchiarli lentamente nei secoli a venire. Neanche qui siamo stati all’altezza del compito che ci attendeva. Gli altri, poveri dementi, dietro le loro sacrosante vicissitudini dialettiche, non potevano anche volendo venire a capo di nulla, sembravano, e per molti aspetti, pur nel generale frastornamento attuale, continuano a sembrare, teologi legati alla categoria del dogma. Del loro rigore, che per certi versi era diamantino più di quello degli altri, cioè dei depositari della precedente tradizione accademica, non è rimasto nulla. Quel poco che c’è risulta inutilizzabile. Ma il nostro, dov’è?
Non ci siamo castrati a favore del lettore, e abbiamo fatto bene, ma non l’abbiamo neanche portato con noi, verso un’orientazione diversa, verso possibilità di letture intertestuali. Fornendo sbocchi e aperture alle formalizzazioni imperanti, non siamo andati al di là delle battute di spirito, quelle dei migliori, non certo dei peggiori, che gli imbecilli non sono mai mancati, e anche questo bisogna dire, ma con le arguzie non ci si indirizza verso l’approfondimento. Il saggetto lieve e apparentemente succoso, capace di dare l’impressione di conoscere a fondo la realtà, cotta e cruda, tanto da passarci sopra a volo d’uccello, è rimasto l’ideale apodittico cui ci siamo sempre attenuti, tranne qualche rara eccezione, per altro subitamente messa in sospetto. C’erano le premesse, ma non abbiamo saputo costruire una Gaia scienza. Nessuno di noi ha avuto una sufficiente leggerezza di piede.
Adesso la parola è messa in crisi da un insieme di risposte tecnologiche alle urgenze del dominio. Scade d’importanza, tende ad atrofizzarsi, a incasellarsi in gerghi settoriali. Fine di un’epoca, di un miraggio, ma anche di uno strumento. Il protocollo passa al computer, che abbisogna di una struttura sintattica differente. Tramonta lo stile, viene fuori un uomo nuovo, le due cose non sono state mai separate. La fede classica nella pagina stampata tramonta con esso. Non tanto lo sostituisce la parola parlata, quanto il gergo espressivo, il rumore denso di contenuti potenziali, esplicitabili, forme inesauribili, la costruzione automatica dell’immagine, che il cervello esegue alla perfezione, senza bisogno del modello, anzi allontanandosi sempre più da questo. Quando finalmente il percorso sarà compiuto, vedendo una casa in campagna, smarrita e dimenticata fra le colline, ci chiederemo cos’è quel rudere. Il libro è stato un lungo episodio? Comincia un ritorno a riduzioni medievali dell’espressione, forse più dense? Non lo possiamo sapere, nessuna risposta presuntiva reggerebbe al riscontro velocissimo e implacabile dei decenni. Il millennio potrebbe chiudersi con una sentenza di morte.
Non è vero che solo l’analisi ha bisogno dello scritto. O della formula matematica. Anche l’inquietudine che distilla dall’intuizione, ne ha bisogno. L’angusta dimensione dello scritto è disciplina, quindi costrizione a esprimersi. Si paga una tassa, questo è vero, ma si può contrattare sull’ammontare. Nel corso delle trattative qualcosa viene fuori, anche di vivo. Per carità, niente di eccezionale. Un libro, bene o male, in questo modo lo si può ancora ipotizzare. Un insieme di occasioni, nient’altro.
Si badi bene, fornire occasioni non vuole essere una sorta di versione nichilistica della Werk, ma un tentativo di recuperare l’espressione senza pretesa di completezza, senza delimitare il mondo che ci circonda, codificandolo strettamente nei limiti necessariamente armonici di un libro. Così il nichilismo, salvato dalle ingenuità di una aspettativa autentica, ridiventa nichilistica attesa di una conclusione che non può esserci avendo negato il fondamento certo da cui partire. Per la parola, l’ammissione scritta è ineluttabile come il dogma. Quando vogliamo disperderla per paura di ubbidire a quest’ultimo, dobbiamo ritagliare episodi unilaterali, incapaci, per quanto li riguarda, di fotografare il nostro lavoro in una sbiadita immagine di immobilità. Le occasioni si forniscono e ci vengono fornite, senza che la nostra scelta, per altro sempre provvisoria, costituisca un filo da cui partire per sigillare il sarcofago. Prendiamo su di noi nuove e differenti responsabilità, prendiamo con noi anche la paura, l’antica compagna di viaggio, che la convenzione dello scrivere esorcizzava fin dalle prime righe, gettando le basi del metodo comunicativo attraverso cui far passare i contenuti. Adesso, improvvisamente, ci sembra insostituibile l’impegno di accogliere espressioni come tentativi di rifiuto. Rifiuto di esprimere sentenze, giudizi, assoluzioni e condanne. Rifiuto del mondo costituito e sigillato, cui la parola afferisce, in ogni caso, in qualsiasi modo venga confezionata. Un continuo rifiutare e un continuo accettare. Dire fuori della verità, coscienti finalmente dello scarto irrecuperabile, senza preconcetti per il non adatto, l’inesprimibile. Interloquire con la maschera. Un programma incerto, che nel realizzarsi si programma per ulteriori mancate realizzazioni.
Meno timidezza, infine. La ricerca dell’interlocutore, al di là delle rovine, è manifesto bisogno di appoggio. Ci vuole coraggio a sigillare la bottiglia prima di gettarla in mare. Il coraggio delle fede, brutta faccenda per degli atei. Fede nella ragione incombusta, capace di attraversare i territori del silenzio. Fede nella parola occhio di fuoco, capace di far nascere la bellezza e la morte. Fede nella coscienza occhi obliqui, che scintilla nella sua luce innaturale. E, ancora, dignità, rifiuto del riflusso angelicante. Così, ogni domanda ottiene la sua risposta, anche dal vuoto dell’altra sponda. Tutti si sono rifiutati di traghettare, il viaggio è andato via inutilmente. Sgravato dei suoi compiti, occhio di fuoco ha deposto il remo. Adesso lo scritto fluisce lievemente, privo di complesse motivazioni giustificatrici.
Oggi comunque non si può contribuire a riaffermare, e poi per quanto tempo?, il primato della parola, con tutta la tradizione giudaica e cristiana che si porta dietro. In quanti modi si possono leggere, e sono state lette, le vicissitudini di Odisseo e di Enea? Esse sono sempre là, catturate da un testo, ma la molteplicità le accompagna, dettata dalle condizioni affioranti dalle proprie peripezie. Il discorso può intricarsi quanto si vuole, ma il lettore sente la vicenda come sua, presente, perché quel destino si ripete continuamente, l’obbligo della vendetta, l’ineluttabilità morale della coerenza, l’ordine fondato sull’uomo e non sulle istituzioni, prima di tutto. Oltre il libro, quindi, ritroviamo il contenuto, disperso in mille frammenti letterali, coperto dalle ingiurie delle espressioni commerciali, raccolto e respinto cento, mille volte.
Avremmo dovuto rafforzare il mestiere di lettore? No, non di questo siamo responsabili. Niente che diventi professione e abilità statutaria può interessarci, al contrario, se questo è andato al diavolo, tutto va per il meglio. Ma ci sono molti modi per leggere un libro, e chi non ha più questa possibilità perde una parte di se stesso, della potenza che avrebbe potuto avere, della sensibilità che lo avrebbe potuto rendere diverso. Chi non ha letto le pagine di Stendhal in cui Julien stringe per la prima volta, protetto dalle foglie del tiglio agitate dal leggero vento notturno, le mani della donna desiderata, avrà perduto una delle poche occasioni per capire cos’è il desiderio. E chi non ricorderà quella pagina quando l’occasione della vita gli presenterà lo stimolo e il fremito della carne, avrà letto invano quelle pagine e forse ricevuto invano qualsiasi altra lezione sulla natura umana. Allo stesso modo, gli resterebbero muti l’incontro di Priamo e Achille nell’Iliade e l’apprendimento della morte in uno dei Saggi più belli di Montaigne. E lo scandalo della lettura sarebbe per lui passato inutilmente. La registrazione cronologica degli avvenimenti di una vita si manterrebbe così a debita distanza da qualsiasi guizzo di vitalità, e questa potrebbe essere una ricetta per sopravvivere e, alla lunga, inavvertitamente morire.
La banalità della lettura può attribuirsi a colpa degli scrittori, al loro amore per il successo e il denaro. Il mercato commerciale del libro produce il paperback usa e getta, questo riduce la lettura al livello del quotidiano. Il contenuto prima di tutto. Vogliamo sapere come va a finire. Non facciamo che ci fate pensare troppo? Così ci siamo ingaglioffiti tutti. Adesso assistiamo alla processione dei simboli riflessi, cui non possiamo porre rimedio. La spigliata politica di produzione e consumo obbliga a scrivere poche pagine, e a leggerne di meno, sempre dietro il filtro della pubblicità redazionale, svergognatamente definita recensione. Ma questo per la crema della lettura, per quel raro animale in via di estinzione che con uno slancio di desiderio continuiamo a chiamare lettore. Poiché anche nel campo del paperback, riguardo la lingua italiana, siamo lontanissimi dai livelli produttivi dell’inglese, tanto per fare un esempio. E qui, in mancanza d’altro, il raffronto quantitativo s’impone.
Le necessità del controllo dissuadono dalla lettura, favorendo la superficialità dell’impressione, dell’approssimazione, insomma di quella capacità duttile e flessibile che adegua l’individuo a conoscere sempre di meno ma a risultare sempre più in grado di avere risposte idonee di fronte a situazioni ben precise, in genere codificabili a priori, sia pure per grandi linee.
Con le dovute eccezioni, un controllo attraverso la lettura è più difficile di uno tramite la musica, le arti visive e la televisione in particolare. Educando e strutturando la domanda di un certo prodotto, si può anche ridurre la pericolosità del libro, ma non la si può eliminare del tutto. Può anche darsi che la scomparsa della parola stampata si accompagni a una definitiva separazione degli esclusi. La compagnia di un breve scritto, poco impegnativo, distrae. La frequentazione di una grande opera, tiene occupati. Certo, non garantisce nessun risultato positivo, non mette niente a disposizione che sia facile raccogliere con un gesto e portare via, ma apre grandi possibilità non sempre accessibili in altro modo.
Non c’è dubbio però che la riflessione, per sua natura, provvede alla razionalizzazione della vita, quindi a una categorizzazione che spesso risente di quanto si è andato accumulando nella cultura che i libri persistono qualche volta a mummificare. Ma c’è anche da dire che una possibile apertura sostitutiva, una diversità, nasce nel medesimo territorio, in quelle zone amplissime della cosiddetta sapienza dimenticata, nascosta da quell’accumulazione che la polvere delle biblioteche ha provocato. La vita è altrove, questa è la prima affermazione che viene in mente, ed è vero, ma può anche essere uno scongiuro per non assumersi responsabilità, per rinunciare a strumenti che una volta posseduti non ci consentono più di sottrarci all’azione. E può anche essere di no, molto più semplicemente forse può essere che bastano i muscoli e quel poco di cognizioni che riusciamo a raccattare qui e là, prestando una superficiale attenzione a quello che procura il potere. L’attore che recita la sua parte conosce questa incertezza, questa paura. Forse è questa veste che conviene indossare. Dopo tutto non sappiamo se veramente questa vita sia un sogno. Ci sentiamo trascinati da un flusso incomprensibile, cui bisogna bene o male dare un nome, e nominandolo crearlo a immagine delle nostre possibilità e delle nostre abitudini, se non dei nostri desideri. Nessuno si sottrae a questo fiume che tutti ci porta via. La lettura non facilita direttamente la vita, spesso l’ostacola pesantemente. Anche nell’ipotesi della razionalizzazione, che poi è la più sicura, costruisce un catalogo nominalista, un’identificazione estraniante, una fede oggettuale. Tutto ciò a volte si paga in maggiore desiderio di concretezza, in un terribile bisogno di arrivare alle conclusioni, perfino in pedanteria.
E siamo stati pedanti. In passato abbiamo spesso voluto presumere nel lettore un adeguamento di contenuti che non era reale. Da qui l’ipotesi di un semplice complemento a quei contenuti, telegrafica trasmissione di altri contenuti, a loro volta resi indifferenti alle condizione esplicative. La teoria, dichiarata presente, come lo spirito oggettivo, veniva in questo modo considerata superflua. Nessuno ormai si ricorda dove sia andata a finire. Svalutata la funzione, anche lo strumento doveva inaridirsi.
L’artificialità di tanti suggerimenti, la legnosità di tante articolazioni pratiche, non sono state alternative all’accademia, il più delle volte ne hanno rappresentato la semplice decomposizione. L’estraniamento dei comunicati si trasferiva, fornendo linfa mortale, nei testi interpretativi, prospettati alla storia. Come mai non si sono avuti né romanzi, né poesie degni di questo nome, ma solo intrecci avventurosi di bassa lega sociologica? Una risposta ovvia sarebbe quella che non c’è produzione artisticamente significativa se tutto viene filtrato attraverso l’ottica populista. Con il volere attingere direttamente alla radice del male, mostrandone il funzionamento in maniera scoperta, si uccide il contenuto stesso, violentato nella rarefazione dell’atmosfera politicizzata, dove ogni causa appare nella nettezza brutale della plausibilità. Le didascalie impediscono una vera e propria fruizione, imponendosi come unica alternativa possibile, come occhio vigile dell’autore che richiama all’ortodossia prima di tutto, costringendo il lettore ad adeguarsi, sotto pena di futilità e perbenismo.
Così abbiamo costruito legioni di indifferenti. Sostanzialmente d’accordo con le tesi esposte, ma indifferenti a un reale approfondimento, il quale non può non passare anche attraverso una rimessa in questione del modo di espressione e del contesto in cui questo si realizza. Siamo stati capaci di fornire un ritmo diverso della vicenda? L’indignazione morale era il massimo dell’intensità retorica che i più provveduti cercavano coscientemente di ottenere. In altri casi, anche quando le tesi di fondo reggevano, mancava loro un riferimento anti-naturalistico, quel gioco opportuno in grado di fare uscire l’evidenza dal discorso indiretto, quell’abilità nel saper far parlare gli attori del dramma e non solo l’autore, evitando quindi una pesantezza gessosa che ha finito per farci complici di un rigetto programmato nelle stanze del potere. Non abbiamo saputo far venire avanti i meccanismi dello sfruttamento e della violenza statale, ne abbiamo solo parlato, anche a lungo, e ci siamo impantanati in una massa di dati.
Le rovine fra cui scrivo sono prodotte principalmente da questa coscienza nuova, che sento svilupparsi dentro di me, coscienza che la gestione della cultura nelle mani solidissime del potere è collaborazione al terrore e alla morte. Come può uno strumento che sembrava essere la strada verso la libertà, diventare strumento e giustificazione della barbarie? La cosa è possibile perché la barbarie è fra di noi, non sta alle nostre spalle, non appartiene ai sotterranei dell’Inquisizione, ma vive con noi. Belsen non è un ricordo, un monumento e qualche fotografia. È un’esperienza sempre rinnovata, anche nella terra di coloro che vennero messi dentro i forni. La cultura non cancella, anzi esalta la barbarie, la raffina, la rende logica e razionale.
Come continuare a scrivere libri in queste condizioni?
Il misterioso universo culturale che ci sta di fronte non può più essere attaccato con strumenti positivisti. Le più evidenti inutilità vanno quindi mantenute, non soppresse in nome di una superiore armonia razionale. Ciò lascia la parola scritta, e non solo questa, ma qualsiasi opera dell’uomo, senza sviluppo orientato, afflitta da contraddizioni, ma proprio per questo in grado di contrastare la strada alla storia del potere, da cui emerge, come un frutto polposo, la cultura dominante, strumento e prodotto nello stesso tempo, causa ed effetto. Ma l’uomo è anche questa cosa qui, questa oscenità storica, questa produzione del potere che bisogna scrostare, liberare, e ciò non può essere fatto che traendo alla superficie tutto quello che sta sotto, simulacro compreso. La via della ragione non è praticabile come una strada maestra, conosciuta da tutti. Il potere ne ha sviluppato le estreme conseguenze, piantando dovunque il suo contrassegno. Adesso non possiamo ripercorrerla se non accettando la ratio degli altri, di coloro che gestiscono la verità. Ma noi che siamo prima di tutto distruttori, finiamo per essere in cattiva compagnia.
L’istinto rivoluzionario di pulizia, la distruzione innanzi tutto, è certo componente essenziale dell’azione trasformativa della realtà, ma non può considerarsi, di per sé, custode e portatore della verità. La realtà è sempre più complessa di come la si riesce a pensare, e ciò vale per qualsiasi condizione ipotizzabile, non solo per lo sfruttamento. Ribellandosi a quest’ultimo, si deve avere intuito e colpo d’occhio per ribellarsi anche alla obiettivazione riduttiva che ogni espropriatore tende a mettersi in tasca.
La realtà è sempre avvolta in veli che dobbiamo scoprire, interpretare, squarciare, ma non possiamo considerare questo compito come un elenco soddisfacente e completo di cose da fare. La cultura gestisce questi veli, naturalmente per conto del potere, ma il rapporto non si chiude lì, non c’è un territorio separato, almeno non fino a oggi e non in modo netto. La nostra vita abita due luoghi che possiamo ancora unificare, solo che ci devono apparire se non altro come tracce. La riappropriazione è processo molteplice. Farlo coincidere con una semplice riduzione all’evidente mi sembra pericoloso, perché estremamente semplice. L’evidenza è la condizione a più alto contenuto ideologico, basti pensare alla pubblicità, al linguaggio dei giornali sportivi, al turpiloquio del ghetto.
Ma per cogliere l’esistenza del velo, della copertura, si deve essere coscienti del possibile strumento culturale che li realizza. Se non si è se stessi velo, non si può svelare l’altro, perché non se ne ha nemmeno cognizione elementare. L’ipotesi della copertura è qualcosa di più del semplice argomentare teorico, è creazione pratica capace di distanziarsi da ogni contingenza ideologica, condizione ineliminabile per rimuovere veramente quel velo. Ogni via diretta è ancora una volta ripresentazione del divieto, assunzione e giustificazione.
L’unico modo di parlare della tortura, due secoli dopo Beccaria e Voltaire, per chi è stato torturato, è quello di evitare il discorso diretto. Solo che il sospetto sulle capacità progressive dell’uomo emerge continuamente, riportando davanti agli occhi il gelido mestiere dei torturatori, la loro spassionata professionalità, e questo finisce per gettare un sospetto sulle possibilità stesse della cultura di sconfiggere la barbarie. Perfino potrebbe affacciarsi l’atroce idea di una collaborazione tra cultura e barbarie in nome della comune matrice ragionevole. Niente fino a questo momento garantisce l’infondatezza di quest’ultima inquietante ipotesi.
È tempo quindi che cessi l’illusione che ci siamo costruiti intorno al libro e alla sua funzione. È tempo che, se lo scrivere vuol farsi strumento dell’agire, si vada incontro ad altre soluzioni.
Ma quali?
Un libro, una volta pubblicato, cammina sospinto di vita propria, habent sua fata libelli, e sarebbe bene non dimenticare: pro captu lectoris. Proprio quello che adesso ci pare necessario rimettere in discussione.
Bisogna quindi costruire libri che tali non sono, oppure che lo sono solo in via provvisoria. Una sorta di work in progress, un’occasione di intervento e non solo di riflessione, di intervento attivo, capace di modificare il testo stesso, di riprendere dalle mani dell’autore il filo del discorso per continuarlo, non solo per ascoltarlo.
I libri che proponiamo sono quindi vere e proprie prove di stampa, mantenendosi incompleti e provvisori. Non possono andarsene in giro con una loro proposta conchiusa, sigillata nella formula sacramentale dell’arte tipografica. Nulla di quanto è contenuto in queste “prove” deve essere considerato definitivo. Un’occasione non è certezza, una possibilità può svilupparsi e fiorire su sentieri imprevedibili, ma può anche soffocare nell’inattività, nel rifiuto. Abituati al silenzio religioso delle loro stanze, legioni di lettori devono rendersi conto che qualcosa sta cambiando, che il mondo viaggia più velocemente del sottile fascino della parola scritta che arriva a loro attraverso il libro.
Ecco perché su queste nostre prove di stampa suggeriamo al lettore di scrivere, di annotare tutte le riflessioni che vengono in mente, di progettare ricerche e sperimentazioni, connessioni e ripensamenti. La nostra speranza è che in questo modo il testo possa rivivere in collaborazione con il lettore, costruendo, di volta in volta, decine di libri diversi, capaci di modificarsi nel tempo, capaci di adeguarsi al cangiar dell’umore e delle esperienze.
Per questo motivo e nella pretesa forse infondata di contribuire a mettere in moto il volano dell’altrui interesse, inserisco aggiornamenti dei testi, precisazioni destinate a meglio collocarli nel contesto teorico e pratico in cui vennero redatti, progetti personali di ulteriori letture, ricerche, valutazioni. Mi rendo conto che questa parte aggiuntiva potrebbe essere vista come un tentativo di prevedere le possibili reazioni attive dei lettori, e prevedendole, sostituirle, sigillando ancora una volta, in maniera indiretta, l’univocità del libro, sia pure mascherata sotto la forma della provvisorietà. Ma l’avere qui messo in luce questo pericolo, che comunque esiste in ogni caso, anche quando ci si limiti a lasciare i testi da soli a galleggiare nel loro antico brodo, penso possa ridurre le sue conseguenze.
Il tentativo che qui si cerca di realizzare è quello di invertire i ruoli del testo, inteso quest’ultimo come coagulazione della parola scritta in irrimediabili modi definitivi. E con questa inversione, articolare quei ruoli in convergenze di significati, non più intenzioni programmatiche, confini e territori da difendere. Il lettore non può venire a capo di queste rappresentazioni se non trasportando se stesso nel movimento che le riassume, convertendole in possibilità molteplici, quindi incontrollabili fino in fondo. Ma immaginare questa eventualità attiva come compito del lettore, significa portarlo con noi da questa parte del lavoro in corso, in modo che anch’egli possa partecipare all’impossibile completamento.
Così, potremo essere in tanti a gettare in mare il messaggio nella bottiglia.
[Opuscolo stampato su carta gialla e allegato ad Alfredo M. Bonanno, Anarchismo e società post-industriale, Catania 1993]
Dal più profondo della notte
Il concetto di resistenza ai soprusi e alle ingiustizie del potere è un concetto modesto. Prende in considerazione l’estremo limite delle possibilità umane di far fronte all’oppressione del più forte. Per questo motivo non ha mai riscosso le simpatie dei rivoluzionari più accesi, che si sono immaginata la soluzione del problema sociale come faccenda da risolversi in un sol colpo.
Non che il desiderio di uno scontro radicale e definitivo sia controproducente, anzi spesso è proprio un sogno irrealizzabile nella sua interezza quello che guida gli uomini verso la liberazione. Ma c’è anche l’altro aspetto, quello che faticosamente si fa luce dal fondo della notte.
È accaduto molte volte che di questo aspetto ci siamo dimenticati. Abbiamo da esso quasi distolto lo sguardo, considerandolo secondario e banale aggiustamento di condizioni sofferenti, come di un malato che si giri nel letto del dolore senza trovare requie.
Una riflessione più adeguata mi pare necessaria.
La resistenza che viene fuori da alcune risposte di massa è oggi il segno di un malessere diffuso che non accenna a mitigarsi. Così come appare e si realizza non ha possibilità di sbocco, se non quella di venire racchiusa all’interno di una risposta controllata e determinata dalle organizzazioni rappresentative (partiti e sindacati della sinistra) che oggi più che mai hanno bisogno di nuova linfa per riaggiustare la propria immagine di fronte agli occhi di tutti. L’opposizione di Sua Maestà ha bisogno di questa resistenza, mentre, al contrario, la resistenza che si sta diffondendo come dissenso, ma anche come aperta risposta nelle strade e nelle piazze, non ha bisogno dell’opposizione istituzionalizzata.
Rapporti che comprendiamo benissimo e dentro la cui logica non vogliamo entrare.
D’altro invece vogliamo parlare in queste poche righe. Proprio del movimento collettivo che si sviluppa in modo semplice e diretto incontrandosi, scegliendo la piazza e la strada per vedersi, per dire e fare qualcosa insieme. Il concetto di occupazione, anzi di “blocco” di un luogo pubblico (per esempio, autostrada, strada statale, ferrovia, ecc.) non è privo di interesse. Non tanto per le immediate conseguenze a livello di risultati, ma proprio per la logica che lascia vedere al di sotto.
Volere “bloccare” qualcosa appartiene alla logica del sabotaggio, alla logica di quell’antico sfruttato che togliendosi lo zoccolo di legno (in francese, sabot) dal piede lo gettò per primo negli ingranaggi della macchina per bloccarla e ridurre così il ritmo della produzione che lo stava uccidendo.
È quindi essenziale il concetto di “blocco” in quanto implica, sia pure simbolicamente per il momento, il desiderio di “fermare” qualcosa che ci sta uccidendo. Ecco pertanto che i pensionati scendono in piazza per chiedere di togliere il blocco delle pensioni. La cosa è certamente recuperata e strumentalizzata dall’esecutivo politico e sindacale, ma resta il “blocco”, il segno di una sosta nel processo produttivo, di cui la strada non è soltanto simbolo, ma anche strumento e prodotto nello stesso tempo.
Non è un caso che l’attenzione dei responsabili politici di queste iniziative sia costantemente diretta a mettere in bella evidenza le richieste, per altro ineludibili, di coloro che scendono nelle piazze, mentre mai viene preso in considerazione il problema vero e proprio del “blocco stradale”, come arresto di un meccanismo omicida e come espressione del desiderio diffuso di sabotaggio.
Una vasta generalizzazione di “blocchi”, in ogni settore dell’attività produttiva, causerebbe danni e imbarazzi enormi ai gestori del potere, ben al di là di una immediata e completa accettazione delle singole relative richieste avanzate come cause di quei blocchi.
Non mi sembra si sia riflettuto abbastanza su questo problema.
[1993]
Guerra globale
Gli Stati Uniti continuano nel loro progetto di guerra globale. Il ruolo di Stato più forte del mondo li spinge a questo e le condizioni economiche in cui tutto il pianeta ormai si trova rende questa prospettiva senza ritorno.
Bush è il leader responsabile di una nazione che è ormai costretta a intraprendere la strada di una continua guerra: ieri l’Afghanistan, oggi l’Iraq, domani altri Stati e così via.
Molti pensano che la scelta degli Stati Uniti sia dettata dalla necessità di sconfiggere il cosiddetto “terrorismo” degli “Stati canaglia”, cioè di quegli Stati che sostengono e finanziano pochi gruppi intenzionati ad attaccare i centri di potere internazionale che, in questa fase storica, si trovano in sostanza nelle mani del capitalismo americano. Questo è vero solo in parte. La connessione, se esiste, tra i gruppi che hanno attaccato New York, radendo al suolo le torri simbolo del dominio finanziario USA, e Stati conniventi, riguarda leadership di dominio che poco o nulla hanno a che vedere con le popolazioni che subiscono lo sfruttamento in Afghanistan (poco è cambiato in questo paese), in Iraq, come negli stessi Stati Uniti. La confusione serve soltanto a giustificare la guerra, ma non ha nessuna logica alla base. Alle intenzioni belligeranti di Bush non serve una logica.
L’America deve fare la guerra. Ecco il vero problema, la deve fare per finanziare le sue fabbriche di armi, per utilizzare l’esercito, per mettere le ali alla propria economia, trasformandola parzialmente in una economia di guerra capace di sconfiggere la paura principale del capitalismo in quel paese: la crescita concorrenziale di altri mercati, crescita in grado di ridurre il reddito del capitale USA nel mondo. La guerra è l’attività produttiva principale dell’economia americana, lo è sempre stata, a partire dalla seconda guerra mondiale, si può dire che non c’è stato un periodo di tempo di più di tre anni in cui questo grande paese non sia stato in guerra in qualche parte del mondo. Non è quindi il solo problema del “petrolio”, ma l’intera economia statunitense deve essere protetta con la guerra, altrimenti è l’inflazione e la relativa disoccupazione galoppante, il crollo del mito americano, e la messa in discussione dell’intero modello dell’economia globalizzata.
Il mondo arabo è certamente (quasi del tutto) in fermento, ma non è sufficientemente omogeneo per diventare uno dei partner privilegiati nella zona del Medioriente. Bush pensa che spezzare ogni tentativo di coalizione araba può significare un modo di controllare le economie (quasi tutte basate sul petrolio) di questi paesi e quindi anche le loro prospettive di crescita e di miglioramento. Viste le difficoltà in cui si trova Israele (tradizionale gendarme in quelle zone per conto degli USA), l’intervento diretto americano è obbligato.
Ma non si può giocare brutalmente la carta della guerra, occorre trovare degli “alleati”. La Gran Bretagna, che da secoli occupa militarmente l’Irlanda del Nord applicando in quel paese i peggiori metodi repressivi, è uno di questi. La Spagna, che fa lo stesso nel Paesi Baschi, è il secondo in ordine d’importanza. Che strane coincidenze. Ma gli inglesi e gli spagnoli non possono essere d’accordo con le decisioni criminali dei loro leader politici, e sapranno come rispondere al momento opportuno. In ogni caso, al momento attuale, Bush salva la faccia che poteva essere messa in discussione dalle decisioni di Francia e Germania (il paraculismo di Berlusconi non merita neanche un commento). I motivi per cui Chirac e Schroeder non sono diventati alleati di Bush sono poco lodevoli. Non sono (com’è evidente) contro la guerra, ma sono contro ogni possibilità di incremento del potere economico e politico degli Stati Uniti, hanno la piena coscienza di essere loro i paesi più forti dell’Europa Unita e quindi non aspettano altro per porsi come coalizione alternativa allo strapotere americano.
No alla guerra degli Stati è la sola risposta possibile in questo momento, risposta per altro che è la sola possibile sempre e dovunque. Non un vago pacifismo umanitarista che è contro la guerra perché non c’è l’avallo dell’ONU (miserrima foglia di fico per spiriti deboli e parrocchie con niente cannoni da benedire), ma un’attenta risposta agli sfruttatori e ai dominatori di ogni genere. La guerra è certo l’elemento su cui si basa il mondo in cui il dominio globale dell’economia ci fa vivere, ma se di guerra si deve parlare è della nostra guerra che ci facciamo sostenitori, la guerra proletaria, la guerra senza bandiere, quella che può in qualsiasi momento muovere all’attacco di ogni struttura di potere, di ogni sfruttatore, di ogni oppressore, di ogni gestore delle vite altrui.
La rivoluzione resta ancora, come sempre, la sola strada possibile da percorrere. E il momento in cui il padrone è più debole è quando mostra le miserie delle proprie intenzioni, quando – come in questo caso – attacca, fa la guerra, mascherandosi dietro le cosiddette buone intenzioni.
Noi vogliamo abbattere Saddam (osceno dittatore) ma anche Bush (dittatore non meno osceno), che si differenzia dal primo solo per il fatto che per fare le stesse cose ha bisogno di un maggiore schieramento diplomatico, di qualche chiacchiera in più, di qualche fantoccio alleato, di un povero mentecatto come Berlusconi a cui scrivere una lettera di ringraziamento per il sostegno se non altro morale.
Le sfumature che differenziano Bush da Saddam sono proprio lievi, ecco perché proprio in questo momento essi ci appaiono assai simili non solo agli “interventisti” Blair e Aznar, ma anche agli “astensionisti” Chirac e Schröder.
In fondo i padroni sono tutti uguali, anche se indossano abiti con coloriture diverse. Non bisogna dimenticarlo.
[Pubblicato senza titolo su “Contro le guerra, contro la pace”, n. 1, 13 marzo 2003]
Un laboratorio di sovversione
L’insurrezione in atto in Albania [1997], visibile nella sua estensione spontanea e distruttiva è fatto sorprendente.
Coglie di sorpresa tutti.
In primo luogo gli uomini e le strutture del potere. Quando questo movimento di profonda sovversione si mette in moto e dilaga, le condizioni di instabilità e precarietà dell’ordine statale si mostrano in tutta la loro consistenza. Una macchia d’olio che sorge improvvisamente in più punti e che si alimenta delle stesse contraddizioni del potere, non si arresta facilmente, come qualche benpensante ritiene, con qualche colpo di fucile bene assestato.
Si sorprende la gente, che non crede ai propri occhi, a quello che accade, alla non certezza quotidiana di potere prendere l’autobus in orario o di trovare l’ufficio postale aperto, il posto di lavoro (per chi ce l’ha) o la fila dell’assistenza, calma e pacifica, dietro la porta di una chiesa qualsiasi.
Ma a sorprendersi sono gli stessi anarchici. Altrove, sparsi nel mondo, dediti ad approfondire teorie o a distinguersi gli uni dagli altri in base ai livelli metafisici della reciproca supposta impurità, hanno altro a cui pensare. L’insurrezione bussa alla porta, ma loro sono sordi a rispondere, lenti ad aprire l’uscio.
L’incredibile insurrezione albanese non fa eccezione, sorprende su tutta la linea. Con una differenza. Il potere, a livello internazionale, sa quello che deve fare. Gli insorti sanno anche loro quello che devono fare, se non altro nei limiti di quello che stanno facendo. Gli anarchici, sparsi in tutto il mondo, continuano a leggere giornali e a seguire la televisione, chiedendosi cosa si potrebbe fare. Dopo tutto il fare è la prima cosa che viene in mente a una persona sensata quando si trova di fronte a un avvenimento sorprendente, sia che questo faccia paura, sia che apra il cuore alle più grandi speranze.
Ma sapere che fare non è facile.
La risposta del potere, sia a livello locale che a livello internazionale, è stata se non proprio immediata almeno coerente con i propri interessi da difendere. Il partito al governo, sapendo di dovere prima o poi cedere il proprio posto, ha fatto di tutto perché questo accadesse il più1501 tardi possibile, costruendo così le basi per una ritirata strategica che potrebbe costituire il punto da cui partire per un ritorno in massa ai posti che si sono dovuti lasciare.
A livello internazionale, il capo dei gendarmi ha deciso che questa volta siano le nazioni più direttamente interessate al futuro sviluppo economico dell’Albania a provvedere: Italia, Grecia, Turchia. L’Italia in primo luogo, da sempre presente fin dalla sua ignobile storia passata, ha accettato di buon grado se non altro per mostrare i muscoli, cominciando con l’affondare una nave zeppa di povera gente, uccisa senza battere ciglio, e finendo con l’incagliare l’incrociatore orgoglio della nostra marina militare sulle secche delle spiagge zeppe di profughi pronti a partire.
Malgrado queste goffaggini, un’operazione di polizia è routine per un governo, ed è di questo che si è trattato. I padroni di ogni genere, dal piccolo proprietario di una fabbrica di cappelli che pagava i suoi, diciamo così, “operai” un quinto di quanto li avrebbe pagati in Italia, ai grandi gestori dell’economia mondiale (la non mai sufficientemente lodata Banca di Roma in testa), si erano di già spartiti in anticipo i soldi incautamente investiti dagli albanesi nei due anni precedenti all’insurrezione.
Ma veniamo a questi soldi, sui quali tanto si è detto. La Banca di Roma, tramite i suoi intermediari internazionali, in primo luogo americani, ha gestito una raccolta strepitosa di fondi con la promessa di interessi iperbolici. In effetti l’operazione, da un punto di vista capitalista, non faceva una piega. Alcuni giornali hanno parlato di “catena di S. Antonio”, ma il paragone non calza. Il gioco consisteva nel pensare possibile una svalutazione della moneta albanese ancora più alta di quella poi verificatasi a causa dei freni imposti dalle paure politiche americane. Da qui l’impossibilità di pagare quegli interessi, i quali man mano che l’operazione andava avanti erano cresciuti fino all’inverosimile, travalicando nell’ambito della truffa vera e propria.
Anche gli albanesi, povera gente in base alle condizioni economiche del loro paese, avevano quindi qualche piccolo risparmio, e perfino qualche risparmio più grosso quando dalla loro miseria avevano avuto modo di alzarsi fino ai traffici più lucrosi che la situazione geografica e politica venutasi a creare rendeva possibile.
Tutto andato nelle casse della Banca di Roma e dei suoi complici internazionali. Da qui i primi focolai di rivolta. Ho ascoltato le reprimenda di alcuni rivoluzionari che non capiscono che “tono” possa avere una rivolta che nasce dal desiderio di rientrare in possesso dei propri soldi. È evidente che costoro non hanno capito i meccanismi oggettivi e soggettivi che alimentano la sorpresa, la frustrazione, lo sdegno, l’odio, la rivolta, l’insurrezione generalizzata.
Non dico che ci siano dei modelli da seguire per capire questi meccanismi in modo certo. Quando la frattura si opera tutto dilaga in maniera incontrollabile, ed è quello che è accaduto.
Solo che l’insurrezione non è un avvenimento “puro”. Non può essere considerata nel tempo come un processo lineare che si sviluppa e cresce fino alla vittoria (ma quale vittoria?), o si riduce e si spegne fino alla sconfitta (ma quale sconfitta?). Il vero punto del problema resta qui, salvo a non volere dare una lettura agiografica di qualsiasi movimento popolare che prenda le connotazioni insurrezionali.
Dalla rivolta alla sua generalizzazione insurrezionale il passo non è breve e non è senza conseguenze. Non tutto procede spontaneamente, né linearmente. Anche in Albania, ai primi giorni e dai primi assalti alle carceri e alle caserme, ci si è indirizzati, via via, verso richieste globali più moderate come ad esempio la nomina di un governo, nuove elezioni parlamentari, dimissioni del direttore della radiotelevisione di Stato, e tutte le altre normali richieste di salvaguardia personale (amnistia, nessun procedimento contro gli insorti, ecc.).
Su questo punto, che assume contorni di estrema importanza e tragicità, occorre fermare un attimo la nostra attenzione. Molti compagni pensano che il “Che fare?” in questi casi sia proprio la partecipazione fisica diretta ai movimenti insurrezionali, insomma muoversi e fare il percorso inverso degli emigranti clandestini. Andare là, imbracciare il fucile e fare a chi spara per primo.
Questa visione è quanto meno superficiale. Non si può piombare dal cielo in un contesto estraneo, a rischio di farsi prendere per nemici e impiccare al palo più vicino. Occorre prima dei fatti avere dei contatti organizzativi, contatti anche minimi, non grandi compagini operative, ma la modesta conoscenza di qualcuno, e di qualcuno che sia in grado di capire come veramente stanno le cose, si rende necessaria.
Questa affermazione non deve sorprendere, in quanto dopo la caduta del muro di Berlino, il disgregamento economico e politico dell’impero russo, doveva necessariamente produrre, e altre ne produrrà, situazioni simili all’Albania o alla Bosnia, dai Balcani fino all’intera periferia della Russia, e perfino nella stessa Russia.
Solo la presenza di un punto di riferimento sul posto può giustificare una partecipazione diretta che non si traduca in un terribile fallimento a priori. Ma questa presenza, diciamo attiva, quindi armata e cosciente del proprio essere una presenza rivoluzionaria, può da sola dare un sostegno considerevole alla rivolta nella sua veloce trasformazione in insurrezione generalizzata?
La risposta non è facile. Certo, alcune cose possono essere denunciate con chiarezza fin dal loro verificarsi, ad esempio la costituzione di bande chiuse guidate da capi provenienti da strutture del potere passato. La presenza di elementi della polizia segreta nemica nei confronti dei quali qualsiasi giuramento di fedeltà non può essere tenuto per valido. I tentativi di riorganizzazione dei partiti politici autoritari, di destra e di sinistra. I controlli e le repressioni sulle forme autogestite che prendono corpo in materia di organizzazione dei servizi o della produzione.
Nello stesso tempo, la diffusione di approfondimenti teorici e pratici aventi uno scopo non solo teorico o direttamente politico (ad esempio, una dettagliata critica delle strutture autoritarie dei partiti comunisti, e anche delle forme non meno autoritarie dei governi democratici), ma anche informativo sui movimenti strutturanti che si stanno costituitendo all’interno del movimento insurrezionale vero e proprio. Solo così diventa possibile un raccordo internazionale e lo sviluppo, o almeno la partecipazione attiva, del movimento insurrezionale in altre situazioni geograficamente diverse ma aventi caratteristiche similari.
Affidare tutto all’intelligenza della rivolta non è la mia conclusione, come sembra essere quella dei compagni che hanno scritto questo opuscolo, i quali però si chiedono anche loro: “Da che parte l’uscita?”.
Non sto parlando di organizzazioni specifiche, sindacati o consigli operai, ma di una presenza attiva, di una partecipazione coordinata che possa fare restare vivo il valore teorico delle barricate, allargandolo se possibile, non aspettando fiduciosi che il suo fuoco interno lentamente finisca per spegnersi.
Dopo tutto, la grande speranza di ognuno di noi, non è forse quella di non essere impreparati di fronte alla prossima rivolta? E che cosa di meglio allora di contribuire a far crescere queste rivolte dovunque cominciano, fin d’adesso, a manifestarsi concretamente i segni premonitori della rabbia e dell’odio verso ogni forma di sfruttamento e di oppressione?
Carcere di Rebibbia, luglio 1997
[Introduzione ad Albania. Laboratorio della sovversione, Pont St. Martin 1998, pp. 3-8. Edizione inglese: London 1999. Edizione spagnola: s.l. 2005]
La liana di Feral Faun
Il libro di Feral Faun ha molto da dire, molto di più di quello che appare da una semplice lettura dell’indice, ma richiede una particolare disposizione del lettore, una disposizione a comprendere, più che a documentarsi.
Difatti, come raramente accade con la cultura (anche “radical”) americana, qui non ci sono soltanto “informazioni” (per la verità, quando queste ci sono, lasciano da parte riferimenti a fonti e ad autorità varie che testimonino qualcosa al posto dell’autore), ma ci sono “idee”, il che costituisce un fatto notevolmente inquietante. Quanti di noi sono pronti ad affrontare delle idee? Non lo so. Chi non vuole mettere in gioco le proprie certezze, apprenderà da questo libro molte riconferme, sia pure vestite in altro modo. Si convincerà così di valutazioni e critiche di cui era convinto a priori, e rovinerà l’opera del suo autore o, almeno, quello che a me sembra l’intendimento di quest’opera, lo scopo remoto e quasi nascosto fra le righe, rovinerà cioè la sollecitazione a guardare diversamente la realtà.
“Any of us could spend years in the wilderness”, afferma Feral, riferendosi alla possibilità, offerta a chiunque di noi, di essere veramente nella realtà, di cui il “selvaggio deserto” è solo la condizione limite, il momento in cui è possibile verificare veramente se siamo in grado di rompere il nostro legame con la società, il cordone ombelicale che ci addomestica e ci garantisce. Ecco perché si tratta di un libro rivoluzionario, perché non interpreta la realtà, ma cerca di portarci dentro il lettore, come dentro, sia pure per quella durata di cui non è documentabile alcuna percorrenza temporale, vi è stato anche il suo autore.
Non si tratta di afferrare saldamente la liana che Feral ci lancia dal suo albero e gettarci nella mischia, non c’è nessun atteggiamento selvaggio – che questo non è “dicibile”, non può essere racchiuso in una formula – ma tutto ruota attorno ad un concetto differente della realtà, di qualsiasi realtà. Come sempre è accaduto a tutti i turisti che se ne vanno in giro per il mondo, anche in posti “selvaggiamente inaccessibili”, questa brava gente, lasciata la bottega dove ha svernato in preda al delirio accumulativo, si scatena con alcune riserve di sicurezza: è opportunamente attrezzata, ha una guida, si è portata i bagagli da casa. Da questo spettacolo osceno, sembrerebbe facile non “fare” il turista: potremmo cioè commettere l’errore di pensare che basterebbe non avere queste riserve di sicurezza, non provvedersi di attrezzi, non avere una guida, non portarsi i bagagli da casa. Feral, se ho ben capito quello che lui dice, ci spiega che questo comportamento sarebbe soltanto stupido. Infatti, e su questo sono d’accordo, non basta andarsene in luoghi selvaggi se si continua a vedere questi luoghi con quello che ci hanno messo in testa. Così anche la natura contribuisce ad addomesticarci. “Nature domesticates – scrive Feral – because it transforms wildness into a monolithic entity, a huge realm separate from civilisation”. Lo stesso per qualsiasi concezione “militante” ecologista decidessimo di scegliere. “Ecologists – even “radical” ecologists – play right into this. Rather than trying to go wild and destroy civilization with the energy of their unchained desires, they try to save wilderness”. Il che costituisce uno squarcio di luce su tanti dibattiti inconcludenti avviati da tempo sui nostri fogli (e anche su quelli del potere).
Non c’è dubbio che una prima (non accorta) impressione, leggendo questo libro, potrebbe essere quella di trovarsi davanti a un “primitivista”. E, se vogliamo, è proprio questo che molti hanno registrato come impressione dei tanti pezzi che qui pubblicati erano di già usciti (anche in Italia) in diversi giornali e riviste. Io non so se lo stesso Feral non si sia, come dire, convinto, di essere lui stesso, con questa sua passione per la “fauna selvaggia”, intendendo per fauna, in primo luogo, l’uomo, di essere, dicevo, un “primitivista”. Certo, che qui, quando ti lancia la liana, qualcosa del genere resta. Il deserto maligno, the evil wilderness, solo a lui scopre (from my own experiences wandering in wild places) la sua vera essenza, e solo a lui rende non necessario o eccessivo quell’intero universo di prodotti e suppellettili che permettono la sopravvivenza in luoghi selvaggi. Tutto ciò suona molto vicino a chi avendo fatto un’esperienza diversa, non si rende più conto del fatto che quell’esperienza aveva avuto origine da un certo itinerario logico, da certi approfondimenti critici e da certe decisioni teoriche, ma è molto contento di affermare che per lui, secondo la sua personale esperienza, le cose sono andate diversamente. Per carità, questa non è una critica, ma solo un’osservazione diretta a suggerire al lettore che qualche volta perfino lo stesso autore mette degli ostacoli all’approfondimento delle sue stesse idee. Ostacoli volontari? Non si può dire. Il fatto è che questa concezione del mondo, come entità assolutamente unitaria, è qualcosa che da questa parte dell’oceano siamo molto ben attrezzati a valutare, mentre suona stupefacente che invece ci venga dalle esperienze americane, non ultime proprio quelle delle passeggiate (o escursioni? quest’ultima parola fa più impressione) nei boschi di Thoreau, fra le sequoie millenarie. L’avere scavato dentro il risorgente mito della natura selvaggia americana è uno dei meriti del libro.
La liana di Feral, a cui ci eravamo avvinghiati all’inizio di questa avventura introduttiva, adesso, osservata da vicino, si rivela non appartenente in maniera specifica al mondo vegetale, al mondo delle avventure esotiche, a quell’universo “naturale” verso cui le voci dei nostri sogni ci chiamano in continuazione dicendoci di abbandonare le pene quotidiane in cui viviamo. La liana di Feral è una riscoperta del significato dell’uomo, dell’uomo nella sua totalità.
Ciò conduce a una diversa valutazione del rapporto uomo-natura. Non c’è dubbio che agli inizi, e quindi nella stessa considerazione del “selvaggio”, la natura sia considerata come un essere vivente isolato, ma non contrapposto a quell’altro essere vivente, debole e privo di tutto (o quasi) che è l’uomo. La conquista tecnologica separa l’uomo da questa unità nel terrore e crea una separazione in un altro tipo di terrore, attraverso la presenza intermediatrice della religione. Esce così la storia dell’uomo come qualcosa di separato dalla natura. I concetti greci di fæsiw e lñgow sono contemporanei e nascono proprio per separare l’uomo da qualcosa che viene così prodotto tecnologicamente: dal nuovo concetto di natura. Dal vecchio concetto di “Natura mater” si passa al concetto di possesso e di padronanza della natura. Quest’ultima viene così catalogata, studiata, spezzata in piccole porzioni tassonomiche, allo scopo di poterla rendere (illusoriamente) suscettibile di servire all’uomo come regno da dominare e da sfruttare.
Tutto il pensiero contenuto in questo libro si articola attorno a una “energia vitale” (vital energy) che l’addomesticamento della civiltà addormenta e uccide. Il selvaggio, inteso in modo esatto, non come le caricature da cartolina illustrata che vengono messe in circolazione dalle agenzie di turismo, non è tollerato dalla società, quest’ultima, per garantire la propria sopravvivenza e il mantenimento dell’ordine, tende a eliminarlo. Così scrive Feral: “Civilization will not tolerate what is wild in its midst. But I never forgot the intensity that life could be. I never forgot the vital energy that had surged through me. My existence since I first began to notice that this vitality was being drained away has been a warfare between the needs of civilised survival and the need to break loose and experience the full intensity of life unbound”.
Ma cos’è questa “energia vitale”? Feral non ce lo dice con precisione, ma il concetto si ricava in molti luoghi del suo libro. Lo si ricava così, come ogni concetto portante, da considerazioni indirette che mancherebbero di senso se private della base logica fornita proprio da quel concetto portante. La risposta violenta all’attacco e al controllo cercati costantemente dal potere, i tentativi di liberarsi dai condizionamenti addomesticati attuati dalla civiltà in tutte le occasioni della nostra vita, non possono essere considerati come una risposta in termini di difesa. Se così fosse, sarebbe una difesa perdente, molto meglio una difesa capace di partire dall’accettazione del dominio per ricavarvi dentro una nicchia di sopravvivenza. Invece quella ribellione, contrariamente a quanto pensano i pacifisti, per i quali, appunto, il modo migliore di difendersi è quello della nonviolenza (violenza e nonviolenza qui si equivalgono), è “the aggressive, dangerous, playful attack by free-spirited individuals against society”. E la caratteristica di questo attacco è la sua natura insurrezionale. Nella tesi qui sviluppata non si tratta di qualcosa che è direttamente visibile, cioè di qualcosa che si traduce in comportamenti costanti, codificati, in progetti e programmi di attacco, ma si tratta di quella “energia vitale” di cui parlavamo prima.
Non so se Feral si sia reso conto fino in fondo delle conseguenze radicali di questo pensiero, a partire dal modo stesso in cui queste idee sono fruibili da quei lettori che avranno il coraggio di addentrarsi fino in fondo nelle sue elaborazioni, come abbiamo detto, non facendosi cogliere di sorpresa dall’aspetto più plateale e immediato del “primitivismo”. Però, se questo è un sentiero di percorrenza, o forse qui andrebbe meglio l’idea heideggeriana di radura nella foresta, alla fine del quale si trova una luce capace di illuminare in modo diverso i dettagli e i contorni delle singole tesi, non c’è dubbio che l’unità del mondo riproduce in sé, come tentativo di oltrepassamento, la costante distinzione tra ciò che è trasformabile e ciò che resta prodotto così com’è dalla logica del potere. L’unità del mondo, quindi anche il concetto di natura non distinto da quello di uomo, o di deserto non distinto da quello di città giapponese ad alta tecnologia urbana, ecco, se questa unità ha un senso, quest’ultimo lo si deve trovare proprio all’interno dell’oltrepassamento, nella fase cioè in cui tutta la tensione personale, la selvaggia vitalità, l’energia vitale, sono in atto, stanno per trasformare le condizioni dell’addomesticamento. Se invece ci si illude che questo oltrepassamento possa, come accadeva nell’ipotesi marxista, essere un netto e crudo superamento, arrivando quindi a una situazione del tutto libera da qualsiasi addomesticamento, quest’ultima situazione di arrivo sarebbe proprio quella a più alto indice di addomesticamento, quella in cui non ci si accorge nemmeno di essere addomesticati. Con buona pace di tutte le energie vitali e di tutti i selvaggi di questo mondo.
Quindi, non perdiamo il filo del nostro ragionamento, l’avventura, per essere tale, è sempre un’avventura in corso, se diventa un’avventura e basta, una condizione totale di avventura, è istituzione solidificata, in cui il selvaggio istinto vitale si è tradotto in condizionamento senza limiti, senza misure di contrasto, senza attacchi e senza speranze. Quando Feral dice: “All social relationships have their basis in the incompleteness produced by the repression of our passions and desires, their basis is our need for each other, not our desire for each other”. Non vuole certo dire che l’abolizione della società può essere presa in considerazione come un obiettivo da raggiungere in modo completo, una condizione umana che finalmente si viene a sostituire a quella caratterizzata dall’incompletezza prodotta dalla repressione delle passioni e dei desideri. Cancellare questa repressione è un processo, un oltrepassamento, non una condizione che si trova semplicemente dietro l’angolo contrassegnata dall’addomesticamento. Anche mettendo le cose in regola, in base al pensiero di Stirner, cioè basandosi sull’“utilizzo dell’altro”, non sul “bisogno dell’altro”, non riesco a vedere tutto ciò come qualcosa di definitivo. Tutto quello che conosco di definitivo nel mondo, si trova al cimitero, e anche là ci sono più sorprese di quanto non immagini una disordinata fantasia rivoluzionaria. Se sono perfettamente d’accordo con l’affermazione che “social roles are ways in which individuals are defined by the whole system of relationships that is society in order to reproduce society”, e che quindi “society is thus the domestication of human beings, the transformation of potentially creative, playful, wild beings who can relate freely in terms of their desires into deformed beings using each other to try to meet desperate needs, but succeeding only at reproducing the need and the system of relationships based on it”, non posso accettare questo come qualcosa di completamente realizzabile, in base a quel principio stesso di unità uomo-natura che esclude ogni separazione perché funzionale al dominio.
Questo punto mi sembra essenziale. Se noi riteniamo possibile una condizione di vita in cui l’esplosione dell’energia vitale (selvaggiamente insurrezionale) sia istituzionalizzata nella propria permanenza, cioè sia diventata (finalmente) un fatto compiuto, non facciamo altro che completare, in un perfezionamento inimmaginabile, il lavoro dell’addomesticamento, diventiamo addomesticatori di livello superiore. Era la disavventura occorsa al pensiero marxista, per cui, sulla scia delle tesi hegeliane, il proletariato, vincitore nella sua lotta con la borghesia, realizzava la propria scomparsa, la fine della società divisa in classi e la fine della filosofia, cioè del pensiero teorico che aveva saputo riflettere questo movimento contraddittorio nelle fasi del suo sviluppo storico. Di questo schema era rimasto prigioniero lo stesso Stirner, che nell’utilizzo dell’altro (come ricorda Feral, non valutando che sempre di utilità in questo modo si tratta) aveva fondato l’unione degli egoisti come condizione libera del futuro, da realizzarsi sulla base delle energie (vitali?) messe in moto dall’insurrezione personale, ma comunque da realizzarsi una volta per tutte. Oggi non si può più prestare fede a modelli che lasciano intravedere un futuro ben chiaro, sia pure quello di una condizione capace di dare spazio alla “Fullness of the passions”.
Ma forse queste considerazioni sembrano denunciare una eccessiva preoccupazione da parte mia, forse Feral non ha per niente in mente qualcosa di completante, un concetto di liberazione definitiva, e di certo ci sono dei punti del suo libro che farebbero intendere in questo senso lo sviluppo del suo pensiero. Nel momento in cui scrive: “The playful violence of insurgence has no room for regret. Regret weakens the force of blows and makes us cautious and timid”, intende chiudere con il passato, cioè non ammette possibile uno sguardo retrospettivo sul di già fatto nel corso del movimento insurrezionale che l’individuo libera al proprio interno, caratterizzandolo come gioiosa violenza della ribellione: nessun rimpianto, non ha altro significato. Ma chi non ha rimpianti, non ha nemmeno storia, la quale storia è in effetti uno sguardo retrospettivo su quello che si è fatto al posto di quello che si sarebbe potuto fare, e la differenza è sempre una triste elencazione di errori da non ripetersi in futuro. Ecco, chi non ha questa passione necrofila, ma invece ne coltiva nell’animo un’altra, viva e distruttiva, radicata nel presente, in un eterno presente di rivolta contro qualsiasi progetto altrui di codificazione e regolamentazione della propria vita, costui non ha nemmeno futuro.
Purtroppo la cultura che ci asfissia ha imposto questa mancanza di futuro come modello negativo proponendo, al suo posto, una progettualità modificativa fondata sull’a poco a poco, sul metodo suggerito da Popper in sede scientifica, metodo fondato su progressive ipotesi e successive confutazioni. Tutto il mondo in cui viviamo si fonda, oggi, su queste teorie dell’accomodamento. Il carbone ardente è passato nelle mani di pochi che, come Feral, si stanno bruciando le dita nel disperato tentativo di sostenere la tesi della unitarietà del mondo, della sua imprescrittibile inscindibilità, pena un’accettazione senza condizioni del modello di idee dominanti. Ciò è scomodo, e fa storcere la bocca, ma è anche reale, cioè coerente con l’ipotesi di partenza. Distruggendo qualsiasi supporto ordinativo non possiamo averne uno di riserva da sostituire a quello che distruggiamo, altrimenti la nostra distruzione non può definirsi veramente tale. Quando Durruti affermava, nei primi mesi della rivoluzione spagnola, che i lavoratori possono distruggere tutto perché hanno tutto fatto e quindi tutto possono rifare, si riferiva ad una condizione globale che non esiste più, che è definitivamente tramontata.
Lo stesso problema emerge riguardo le affermazioni contenute in “The cops in our heads”. Qui Feral espressamente dice: “The attempt to make a moral principle of anarchy distorts its real significance. Anarchy describes a particular type of situation, one in which either authority does not exist or its power to control is negated. Such a situation guarantees nothing – not even the continued existence of that situation, but it does open up the possibility for each of us to start creating our lives for ourselves in terms of our own desires and passions rather than in terms of social roles and the demands of social order. Anarchy is not the goal of revolution; it is the situation which makes the only type of revolution that interests me possible – an uprising of individuals to create their lives for themselves and destroy what stands in their way. It is a situation free of any moral implications, presenting to each of us the amoral challenge to live our lives without constraints. Since the anarchic situation is amoral, the idea of an anarchist morality is highly suspect. Morality is a system of principles defining what constitutes right and wrong behaviour”. Io vedo in questa frase un’implicita conferma di quello che vado sottolineando ma, nello stesso tempo, vedo anche una contraddizione. Forse sarò eccessivamente permaloso, ma non mi sembra problema da poco. La conferma è tutta nel movimento che nulla garantisce, nella situazione aperta, anche se basata sulla negazione dell’autorità. Ma questa situazione, d’altra parte, non può chiudersi in una condizione di negazione dell’autorità di già realizzata, ciò sarebbe contraddittorio. Difatti, Feral si accorge del problema e dice che l’anarchia non è, né può essere, lo scopo della rivoluzione, ma al contrario la situazione (starei per dire, personale) che rende possibile la rivoluzione. E questo mi trova d’accordo, ma questa condizione può definirsi “amorale” solo se resta in questa prospettiva di oltrepassamento che non matura mai in una condizione “futura” di carattere definitivo, in caso contrario questa condizione “unitaria” e definitiva tornerebbe ad avere bisogno delle regole morali che organizzano e reggono in modo permanente qualsiasi condizione unitariamente definitiva, sia pure nei limiti e con le caratteristiche in cui la permanenza ha senso nelle cose umane.
Gli sbirri nella nostra testa, come l’addomesticamento, di cui sono un riflesso o un simbolo, se si preferisce, costituiscono, tutti insieme, il contraltare di quel concetto di “natura selvaggia” che si differenzia dalla natura e che rende possibile la civiltà come produttrice delle tecniche che modificano la natura in qualcosa di artificiale e di godibile, con prudenza e poste le dovute distanze. Tutto è coerente in questo quadro, su cui Feral si sofferma a lungo e in dettaglio, a volte in modo appassionante.
Ed è all’interno di questa coerenza che egli scrive: “There can be no programmes or organizations for feral revolution, because wildness cannot spring from a program or organization. Wildness springs from the freeing of our instincts and desires, from the spontaneous expression of our passions. Each of us has experienced the process of domestication, and this experience can give us the knowledge we need to undermine civilisation and transform our lives”. E questa affermazione non può essere contraddetta. Ma solo a condizione che tutto resti fermo nell’oltrepassamento mai definitivo, nel movimento di liberazione che non realizza la cosa liberata come altro da sé, in un desiderio di scatenamento di “energia vitale” che continua a fluire come da fonte inesausta. Il gioco funambolico del pensiero di Feral è tutto qui, in questo passaggio che non avviene mai, in questa tensione che mai si solidifica, in queste barricate che mai cessano di sparare, in questa violenza che mai si cheta. Bene. Come soliloquio non c’è male. Affascina e redime dalle preoccupazioni di ogni giorno. L’individuo che si erge da solo contro il male, con la fiaccola in pugno e con la scure, come diceva un indimenticabile compagno, è immagine da iconografia anarchica di tutto rispetto. E sono molti gli anarchici che sognano questa privilegiata condizione. Non del privilegio dell’élite, per carità, ma del privilegio di chi ha stretto nelle proprie mani la verità e con questa forza sovrumana sta svellendo il mondo dalle proprie radici. E gli altri? Feral non è tanto circoscritto a una lettura superficiale di Stirner da non capire che il passo successivo deve essere per forza quello di raggiungere gli altri, quello di una comunità di insorti individuali, di un insieme di individui che stanno sviluppando la propria personale insurrezione. Ma questa condizione non è ricavabile da nessuna esperienza concreta. Non c’è nulla nel mondo dell’addomesticamento che ci può far concludere per l’ineluttabilità di questa condizione di privilegio, di oltrepassamento in corso.
Mi spiego meglio. Se qualcuno decide di fare qualcosa, questo qualcosa, in un modo o nell’altro, è a sua portata di mano, cioè, sia pure in negativo, esso si trova davanti a lui, è visibile, comprensibile, anche se si tratta della più strana e della più remota delle fantasie utopiche. Se io decido di rompere le catene dell’addomesticamento, posso deciderlo solo perché le catene e l’addomesticamento sono qui, davanti a me, perché soffro io stesso le conseguenze di questo addomesticamento e i segni delle catene sono sulla mia pelle. Questa interpretazione storicistica, se vogliamo chiamarla così, della rivolta sta alla pari con quell’altra innatista, che assegna al carattere delle persone la possibilità di ribellarsi, affermando che vi sono individui che sono nati con il gene della rivolta, e altri più acquiescenti che si accomodano accettando le regole della civiltà come limiti del proprio comportamento. In fondo, anche questo elemento genetico, discutibile per quanto si vuole, sta proprio lì, se non davanti, dentro l’individuo in questione, ed è l’elemento di cui discutiamo, l’elemento che fa leva per scatenare la ribellione.
Andiamo avanti. Messa in qualsiasi modo si voglia, c’è quindi un riconoscimento che l’individuo deve fare, cioè prendere coscienza che questo qualcosa, di qualsiasi cosa si tratta, si trova davanti o dentro di lui, e ammettere anche che accettando le due ipotesi in una volta, come comunemente viene fatto, ci sono delle interrelazioni tra i due momenti, quello genetico e quello storico, insomma il ribelle nato sopporta meno di chi ribelle non si sente l’addomesticamento e le catene. Per cui si torna a quell’unità complessiva dell’uomo, all’interno della quale le distinzioni operano, ma fino a un certo punto. Se ne ricava che l’insurrezione individuale è possibile solo quando questi due elementi ci sono e s’incontrano vivificandosi a vicenda. E Feral, ritengo, ha voluto lasciare per accertata questa condizione, peraltro abbastanza comune. Solo che questa stessa condizione non può essere sottoposta a nessuna condizione a priori, non ci sono regole che la reggono, se non quelle che potrebbero essere fornite da un ulteriore addomesticamento, quello successivo all’avvenuta rottura delle catene, quindi in una nuova condizione liberata in cui il ribelle finisce per adeguarsi alla realtà dei suoi sogni, finalmente solidificata in qualcosa di stabile di fronte ai suoi occhi.
Escludendo questa ipotesi, come di fatto Feral la esclude, resta soltanto questo continuo rifiorire di riconoscimento del nemico, individuazione dello stimolo individuale all’insurrezione e interrelazione di questi due elementi, così all’infinito. A mio avviso, con tutta l’ammirazione per quello che Feral dice, questa situazione minaccia di trasformarsi in uno stallo. C’è il rischio che permanendo sempre sulle barricate si perda di vista anche il senso di quello che si sta facendo. Non è vero che la libertà sia qualcosa della quale non si può pensare nulla. Oppure, detta diversamente, che tutto quello che si può pensare della libertà siano solo specificazioni parziali che di regola vengono definite come “le libertà”, assegnazioni di limiti propri e altrui. So che tutto questo non è vero. So che l’insensato è proprio colui che trova la strada giusta verso il chicco di grano, in un mondo che continua a razzolare seguendo logiche dominanti più o meno raffazzonate su improbabili aggiustamenti. Ma questo insensato, pur nel dilagare del suo cuore gonfio di odio verso il padrone delle catene, verso la logica dell’addomesticamento, questa bestia che vuole insorgere al di là e contro tutte le regole – perché la libertà è prima di ogni altra cosa assenza di regole – questo insensato ha uno scopo, e questo scopo non è quello dell’utilità, sia pure l’utilità teleologica di un mondo senza catene e senza addomesticamento, ma uno scopo ben preciso, ed è quello di fare scomparire per sempre il mondo in cui la sofferenza si concretizza nell’uso delle catene e la stupidità nell’impiego dell’addomesticamento.
Questo scopo, lucente come un sole, è costituito da ciò di cui non si può pensare nulla di meglio, quindi comprende in sé ogni strategia del particolare, ogni logica dell’aggiustamento, e perfino quella dello scontro parziale e della parziale conquista di libertà. E non c’è dubbio che questa realtà felice, della quale nulla può pensarsi di meglio, può essere pensata, anche se non vista o sperimentata, e non può essere fatta consistere nella sola scomparsa delle catene o nella rottura dei legami che l’addomesticamento aveva sigillato. Essa è qualcosa di più, qualcosa di sempre più grande e meraviglioso. E questo qualcosa non può essere offuscato dall’intelligenza che cerca una specificità nell’oltrepassamento, cioè una specificità metodologica, in quanto quel qualcosa di più comprende (o dovrebbe comprendere) questa specificità, come momento che continuamente oltrepassa senza cancellarlo, allo stesso modo in cui essa comprende le catene e l’addomesticamento, proprio nel loro significato più intimo, e non le confonde con il suggerimento dei dominatori che vogliono farli passare per mezzi che rendono possibile una vita migliore.
Se la libertà fosse solo un sogno, la mancanza di futuro sarebbe un grosso buco nero, e tutto si ridurrebbe a vivere nel modo migliore l’esperienza delle catene e dell’addomesticamento, oppure, dall’altro lato, l’esperienza della propria insurrezione. Ma, vista in questi termini, e dando per scontato che ogni possibilità di valutazione tra un peggio e un meglio è determinata da leggi che fanno parte proprio dell’addomesticamento, e che rendono possibili le catene, non ci sarebbe maniera di distinguere. Si andrebbe alla cieca, forse guidati solo dal lume genetico, verso un’accettazione o verso una ribellione, equidistanti fra loro come i secchi dell’asino di Buridano.
Se scegliamo per la ribellione lo facciamo perché qualcosa nel futuro c’è, e non solo nel passato (genetico e storico, compresa la rispettiva conversione). E c’è qualcosa che non è solo un parto della nostra intelligenza, un pensiero e nulla più, perché se così fosse l’altro pensiero, cioè la logica dell’accettazione e dell’addomesticamento, avrebbe uguale significato di scelta, si limiterebbe a rappresentare l’altro secchio e basta. In questo caso, e nella migliore delle ipotesi, io morirei di sete e di fame, come l’asino di Buridano.
Invece le cose non stanno così, invece io scelgo, e se scelgo lo faccio perché valuto che la rottura delle catene e la scomparsa dell’addomesticamento, insieme, siano movimenti che mi lanciano verso una prospettiva diversa, mi inseriscono in un processo di oltrepassamento di una condizione attuale che odio profondamente, che mi fa schiavo e che offende la mia capacità di valutazione, cioè il mio gusto. Pur definendomi selvaggio e amante del deserto vero (non quello dei turisti), pur lasciando intendere fra le righe, senza mai ammetterlo, un certo qual “primitivismo”, tutto ciò non è altro che un insieme di scelte e può scegliere solo colui che ha gusto, e il gusto, l’amore, il desiderio, sono espressioni di quella coppia genetico-storica che continua a costituirci e che sollecita ad andare avanti. Quando penso alla libertà, alla libertà senza specificazioni, quella che non ha nulla di meglio oltre di sé, è tutto me stesso che metto in quel pensiero, e la sua concretezza, cioè la concretezza del pensiero, è proprio data dalla mia presenza, dal mio coinvolgimento in esso. Non sono un sognatore che parla delle sue visioni, ma uno sperimentatore che si cala in queste visioni e per esse è disposto a giocarsi la vita.
L’ammissione di una condizione di libertà come questa non è ricavabile attraverso i soliti procedimenti della ragione, cioè non è una deduzione ragionevole di quelle che sono le nostre esperienze quotidiane (catene e addomesticamento), ma nasce altrove, nasce in quel luogo dell’interrelazione genetico-storica in cui vivono i nostri impulsi più radicali, i nostri desideri più sfrenati, i sogni dell’amore eterno che nulla può mai appannare, né tanto meno cancellare, il gusto per le avventure selvagge, insomma tutto quello di cui parla Feral e anche quello di cui non parla. Se io mi limito a riflettere a freddo su questa realtà, non arriverò mai a convincermi non solo della sua esistenza, ma anche del fatto che vale la pena di coinvolgermi in essa, mettendo a rischio la mia tranquillità che le catene garantiscono e la cultura dell’addomesticamento rende più o meno digeribile. Se supero questo livello (e quanti miliardi di persone non lo superano!), ciò accade perché divento irragionevole, metto da parte ogni valutazione e agisco di conseguenza. Ma questo mettere da parte ogni progetto, ogni gusto, e perfino ogni desiderio e ogni amore, non è possibile, nella pratica, in modo totale, in quanto quel selvaggio che si aggira liberamente fra le sequoie americane, l’abitatore dell’albero, lanciando la sua liana, mi lancia un oggetto d’amore, mi lega a sé con amore, con la speranza di portare con sé, su quell’albero della libertà, un altro selvaggio come lui, perché la vita nella libertà sarebbe povera cosa se fosse assolutamente un territorio della desolazione, se non consentisse rapporti che come tutto quello che intercorre fra esseri umani è affidato al gusto, al desiderio, all’amore, al piacere, ma anche all’odio, alla paura, all’inquietudine, ecc.
Io non penso che quella liana possa essere il segno di un’assolutezza consolidata una volta per tutte. Non penso che da questi scritti di Feral si possa ricavare l’impressione che la condizione selvaggia sia qualcosa di più di una “energia vitale” in atto, cioè di una pulsione verso la libertà. Certo, quella libertà è ciò che di meglio non si può avere, cioè la totalità della libertà, assoluta condizione libera, senza limiti e senza remore, di nessun ordine, nemmeno morale o estetico. Bene, ma questa totalità, una volta presa in considerazione, è pensabile come assoluto soltanto quando la si pensa in movimento, cioè come qualcosa di incommensurabilmente completo che non è mai del tutto completo, in caso contrario, in quanto infinito, se la si pensa come assoluto non è più pensabile. La libertà è un infinito crescente, altrimenti si deve ammettere che io stesso, finalmente libero, resterei imbambolato nell’idiozia più totale: la libertà assoluta come cancellazione assoluta dell’uomo. Anche la totalità è pertanto una totalità in corso di svolgimento, una totalità in atto, ma totalmente presente nel momento in cui la penso. È di certo questa totalità che ho in mente quando penso alla libertà assoluta, ed è questa totalità che distrugge qualsiasi limite e qualsiasi addomesticamento. Non si tratta però di un infinito sigillato una volta per tutte, ma di un infinito che si sviluppa. Se lo pensassi come infinito chiuso penserei Dio, sostituendo una parola con un’altra, e questo infinito assoluto, capovolgendosi nel concetto di tirannia assoluta, mi caccerebbe fuori dal mio coinvolgimento, obbligandomi ad adorarlo come l’assolutamente altro da me.
Quindi, se siamo d’accordo con questa idea di libertà, assoluta e in atto, non c’è motivo per non ammettere, pur nella sua assolutezza, processi di avvicinamento, tutti egualmente presenti nella totalità in atto, in quanto tutti attivi nell’oltrepassamento delle condizioni di sudditanza dettate dalle catene e dall’addomesticamento. C’è qualcosa di contraddittorio in questo? Io non credo.
In fondo, questa preoccupazione si racchiude tutta nella decisione del progetto. Può la totalità della mia ribellione selvaggia e della libertà, intesa esattamente nel modo in cui l’ha tratteggiata Feral in questi scritti, può, e la domanda è fondamentale, collegarsi con un progetto? Oppure quest’ultimo, appartenendo al mondo dei limiti e delle regole, all’addomesticamento contro cui si ribella la “selvaggia pulsione”, deve essere considerato qualcosa da abbattere, in uno con le altre creazioni del potere? Domande che ne contengono un’altra: può un progetto realizzarsi proprio contestualmente all’insurrezione selvaggia di cui parla Feral? Oppure quest’ultima, per sua costituzione intima, non ammette progetti, per cui qualsiasi traccia progettuale deve cancellarsi come residuo d’addomesticamento?
Consentitemi di sviluppare questa serie di problemi che mi appaiono non trascurabili.
Se io nego il passato, e quindi mi acceco storicamente, ed è posizione metodologica che mi procura alcuni mezzi d’attacco, essenzializzando la mia forza distruttiva, se io nego la storia – come è stato detto in questa nota introduttiva – finisco per non avere nemmeno futuro. Di per sé questa decisione non è negativa che per i palati guastati dagli hamburger di MacDonalds. Ma questa assenza di futuro non è un buco nero, non è l’assenza che non è qui presente, come elemento che rende forte e penetrante la mia capacità di distruzione del mondo che mi opprime. Anzi, al contrario, si tratta di un’assenza che avverto presente. In quanto mancanza di qualcosa, essa non è un “assurdo”, cioè non è qualcosa che non posso capire, in caso contrario, se dovesse ridursi a questo assurdo, sarebbe una fede di natura mistica, qualcosa che in certi casi e sotto certe condizioni potrebbe anche avere connotati eversivi ma che non ammetterebbe scopi distruttivi e pratici.
Quindi quel vuoto è ripieno di tante cose, e più vado avanti nella mia ribellione, più quell’infinito totalmente presente in me, l’infinito della libertà nella sua espressione totale, prende corpo e mi parla, mi dice del sogno della mia vita, perché è la mia vita che qui è in gioco, non uno dei tanti giochi possibili che posso giocare nella mia vita. Spezzando il rapporto col passato, ribellandomi a tutte le attenzioni dell’addomesticamento, spezzando le catene, non faccio altro che presentarmi nudo di fronte al futuro, ma questa nuova nudità è tutto quello che ho, e questo possesso totale è anche la totalità della libertà, senza residui, senza parti nascoste o conti in banca di riserva. Se sono tutto ciò, sono uno che la libertà la sente nelle proprie vene, la sente circolare nel proprio avvampare sia pure per un attimo, nella stanza piena di libri, davanti allo sguardo severo di una rivoluzionaria d’altri tempi. Non è l’occasione, il luogo fermo nel tempo, a cui accedere di tanto in tanto con il ricordo, ma se stessi nella propria totalità, sempre, il proprio amore che non può essere tagliato a pezzetti, un poco qua e un poco là, ma che permane tutto intero sempre, totalità che resta totale pure accrescendosi, allo stesso modo in cui possiamo sperimentale l’infinito solo se cancelliamo dalla mente l’ipotesi di qualcosa che esiste staticamente per intero, come la totalità di tutto quello che può esistere. Ma questa totalità sarebbe sterile se non riuscissi a mettere fuori una mano e allargarne la portata. Io, l’avventuriero dell’incredibile, capace di oltrepassare l’infinito, così come sono capace di vivere la libertà e non lasciarmi garantire dalla sua presenza.
In questa tensione assoluta colloco il mio progetto. Non nelle vane distinzioni che assegnano gradi o livelli di procedura al fare. Io delineo percorrenze nell’assoluto, urlo e salto di gioia, e indico solo qui, questa piccola porzione della realtà: un sorriso, una stretta di mano, una passeggiata fra le lucciole nelle ombre della sera, e non posso farci nulla se qualcuno guarda il dito e si accorge solo dei gradi della percorrenza, quei gradi, quelle occasioni di specificità, sono altrettanti occasioni illusorie, vestono a festa un’idea che vive altrove, sono analisi, anche sopraffine, di qualcosa che se visto nelle sue singole parti non è altro che brutale realtà, mentre la linfa vitale di quel qualcosa sta altrove, sta nell’illusione che la regge, che la ragione può soltanto infiacchire e mascherare di serietà scientifica.
È la luce della libertà, la sua “selvaggia” totalità che si riflette nel progetto e che lo rende vano nel mondo, perfettamente inutile. Quanti guardano quel progetto sotto la sua veste quantitativa, si chiedono che senso abbia. Perché tanta fatica per fermarsi a metà? Il loro intuito li porta a guardare solo il dito, la luna è troppo lontana e difficile a capire. Ma, ditemi in tutta sincerità, è questo un buon motivo per non avere un progetto?
Io ne ho tanti nel mio cuore, e non so farli diventare fantasmi parlanti, oggetti di fascino per gli altri, se non vestendoli di abiti dimessi: analisi, valutazioni di fatti, condizioni organizzative, radici di certezze vigorosissime per il mondo degli addomesticati, leggibili tuttavia in altro modo per coloro che si ribellano. Non penso che questi sforzi costituiscano ostacolo alla ribellione, penso che devono però essere compresi per quello che sono: i riflessi della totalità, assolutamente indicibili se non nel modesto linguaggio dell’esperienza progressiva.
E qui pongo un’ultima domanda, con la quale chiudo questa nota introduttiva: può la totalità che portiamo nel cuore, la selvaggia esperienza di cui parla Feral, essere detta in altro modo che ricorrendo al linguaggio, il quale resta pur sempre racchiuso nei limiti dell’esperienza progressiva? Dopo tutto, gli scritti qui contenuti non sono altro che parole. Quello che c’è al di là delle parole, che le parole tradiscono più che mettere in luce, lo dobbiamo rintracciare nel nostro cuore, a costo della nostra vita, altrimenti quelle parole, pur restando le stesse, perdono ogni significato e rientrano nella circoscritta e misera esperienza del dire. Per il progetto è la stessa cosa. Parole, solo parole, che spetta a noi leggere diversamente.
È insensato pensare che di un concetto, fatto appunto di parole, esauriamo tutto il suo contenuto nel momento in cui lo leggiamo o lo comprendiamo. Quel contenuto agisce di per sé, entra in noi, diventa carne e sangue, nervi e paure, gioie e sogni, illusioni e inquietudini, è questo il congruo destino delle parole, altrimenti tutto resterebbe sempre al livello dell’imbecille estaticamente immobile nell’osservazione del dito.
Tutti i miei sogni sono un sogno solo, e questo sogno contiene tutte le parole che me lo fanno sognare. Senza limiti.
[Introduzione a Feral Faun, Feral revolution, London 2000, pp. 7-26]
Parafulmini e controfigure
Esce la seconda edizione di questo fausto librettino che segna, oscuramente e senza sollevare polvere, la chiarificazione originaria degli orientamenti insurrezionali all’interno del movimento anarchico italiano. Intendo qui, a scanso di equivoci, parlare dell’insurrezionalismo anarchico rivoluzionario, non delle aspettative ultratriturate di quel gigantesco movimento di massa che dovrebbe, in un gran giorno, distruggere tutto l’esistente, o quanto basta per mettere le cose in regola, e dare vita alla società anarchica. Di questo secondo modo di concepire l’insurrezionalismo non c’è traccia in questo libretto, se non come rinvio alla generalizzazione dello scontro, la quale potrebbe benissimo abortire in un nulla di fatto – o in una spaventosa repressione – non essendoci garanzia alcuna.
Quindi, in queste poche, auree, paginette si muovono i primi passi per mettere in evidenza alcune critiche, all’epoca [1977] diventate urgentissime, nei riguardi delle cosiddette organizzazioni armate (combattenti o meno).
Voglio sperare che la presente ristampa sia utile anche a tutti coloro che mai le lessero volendo, in cuor loro, alimentare una santificazione di comportamenti guerriglieri che se da un lato iniziarono con buoni auspici, dall’altro, a causa di esacerbazioni politiche, finirono per prendere una svolta tutt’altro che accettabile. Mi riferisco alla grande esperienza teorico-pratica di Azione Rivoluzionaria. E le critiche qui sollevate contro le posizioni che velocemente si andavano delineando all’interno di questa stessa organizzazione, in pochi mesi di attività e di riflessione analitica, furono formulate, nell’ordine del tempo, in maniera contestuale, mentre i ferri erano caldi, e non riposarono affatto né su pietismi nei riguardi di compagni morti o prigionieri, né su illusioni del tipo: “spariamo anche noi”, quindi anche noi “vinceremo”.
Chi firma questa introduzione (autore, insieme ad altri compagni, del libretto), ebbe a indicare lo slogan “solo sparando si vince”, e intende riconfermare qui quella remota affermazione che nel 1972 gli costò due anni e due mesi di carcere, infatti è proprio sparando che si vince. Ma che vuol dire vincere? Non certamente conquistare qualcosa. Vincere vuol dire sbarazzare il campo di un certo numero di ostacoli (uomini e cose), per cominciare una nuova partita, la costruzione di un mondo nuovo, libero da ogni potere e da ogni sopruso, un mondo che non può uscire tutto intero da una “vittoria”, ma che probabilmente costerà altre lotte, altro sangue, altre malcomprensioni, ecc. Sparando si vince solo se si considera questa vittoria un primo, modesto assai, passo verso l’inizio di qualcosa di veramente grandioso, ma che sta oltre, al di là di calcoli politici o di misurazioni di forze, al di là dell’eclatante azione che oggi può affascinarci, ma non convincerci fino in fondo. La lotta che si sviluppa verso la sua generalizzazione insurrezionale, e quindi rivoluzionaria, è faccenda che va per le lunghe e non può racchiudersi nel concetto asfittico di “vittoria”.
Lo stesso per la cosiddetta “giustizia proletaria”. Più volte sono tornato su questa definizione, parlando di Azione Rivoluzionaria, e sono stato rimbeccato, ma occorre tenere conto che si tratta di un concetto datato che, a suo tempo, sottolineava l’urgenza di una pratica non di certo centrale: mettere al loro giusto posto, cioè pancia per aria, i responsabili di specifici soprusi, senza con ciò volere instaurare una più “alta” concezione di giustizia (tribunali corretti, leggi giuste, sentenze opportune – tutta paccottiglia che non ci ha mai interessato), ma solo un’opera di pulizia, indispensabile, perfino su larga scala, nel momento in cui il processo di generalizzazione dello scontro insurrezionale sta per prendere il suo avvio in modo significativo. In condizione di conflitto intermedio, questo genere di risposta a particolari condizioni repressive può considerarsi pratica di grande significato, se non altro come preparazione ai compiti futuri, molto più difficili e articolati. Dopo tutto, proprio in questo “trascurato” libretto si trova una critica al concetto di “giustizia proletaria”, limitata però, a mio avviso correttamente, alla possibile confusione con un più specifico concetto di giustizia, quella per intenderci dei tribunali che ci colpiscono tutti i giorni.
Altri problemi vengono alla luce. La “clandestinizzazione”, come si diceva allora, è uno di questi. Racchiudersi a riccio, tagliare i contatti con quella condizione umana che è tanto difficile ricucire continuamente di fronte ai costanti tentativi del potere di isolarci? Certo, specializzarsi è sempre la strada più corta per ottenere risultati concreti e immediati. Ma questi risultati sono proprio quello che ci occorre? Abbiamo davvero bisogno di una controprova che ci faccia vedere quanto siamo bravi? Cambiare identità, modo di vita, luoghi di frequentazione, costruirsi attorno un universo fittizio, fatto di sopravvivenza e decisione militare, tutto questo è possibile, ma non ci priva di qualcosa di essenziale: di quello che siamo veramente, di quello che possiamo essere veramente? Mi sembra che oggi questo problema, e queste domande, trovano risposte diverse da quelle che vennero avanzate sul finire degli anni Settanta. Resta però ben presente un risvolto inedito. Non riuscire a integrare al meglio la propria vita con quello che si ritiene sia il proprio progetto rivoluzionario è una ben strana contraddizione. Si vive in maniera allucinata quella che dovrebbe essere un’avventura nel vero senso della parola. È questa la situazione per cui, prima o poi, si annunciano i rammarichi e i risentimenti. La pienezza vitale di cui ci si era illusi di avere la chiave sfiorisce come un fiore reciso. In tempi come i nostri, quando quasi dappertutto ci sono compagni con l’amaro in bocca, c’è di che riflettere su questo punto. Che ne hanno fatto (alcuni) della loro vita?
E poi, l’icona. Da difendere, costi quel che costi. Il santino, la griffe, il giuramento a una bandiera. Chi si rifiuta di fare questo è destituito di credibilità. Come ha osato fare marcia indietro? E quando ci fa notare che non si può fare marcia indietro nei riguardi di qualcosa con cui non è mai stato d’accordo, il balenio dell’icona torna maliziosamente a farsi luce. Non si discute, si propone semplicemente una dichiarazione di fede. Ora, senza ombra di dubbio, è innegabile l’importanza di un’organizzazione specifica anarchica che sia in grado di fronteggiare le condizioni dello scontro. È altrettanto fuor di dubbio che alla costruzione di questa organizzazione ognuno di noi, secondo la propria storia, e l’epoca in cui ha svolge la propria attività rivoluzionaria, contribuisce – chi più, chi meno. E qui sto riferendomi a compagni anarchici e rivoluzionari, non agli imbratta fogli e ai chiacchieroni. Ma è altrettanto fuori di dubbio che quando l’organizzazione specifica prende forme degenerative, come quelle che a partire da un certo momento della sua vita prese Azione Rivoluzionaria, la critica si impone, e non c’è appello ai sentimenti che può convincermi del contrario.
Questo libretto, che comprende testi redatti ben prima delle tristi conclusioni finali di Azione Rivoluzionaria, si inseriva in una vicenda in corso, quando era ancora possibile un dibattito. Non avrebbe avuto senso se scritto nell’ambito di decisioni che trovarono sbocco conclusivo nell’unione delle organizzazioni combattenti.
E, per vedere la luce, è chiaro che le premesse erano tali da permettere un ragionevole fondamento alle obiezioni avanzate. La gestione pubblicitaria degli attacchi, tanto per fare un esempio. Anche qui – come nella redazione dei “Comunicati” – il modello iniziale (discusso e per un breve momento fatto proprio) dell’Angry Brigade divenne ben presto solo uno sbiadito ricordo. La laconicità, la secchezza, l’incisività di quel modello – unico in tema di “gestione” delle azioni e di “rapporti” con la stampa – vennero sommerse dalla pretesa di “spiegare”, attitudine tipicamente professorale che ancora oggi tarda a scomparire, se non nella mente di certo nel desiderio di tanti compagni.
Poi, le azioni importanti, se non proprio eclatanti (ad esempio, il sequestro Moro), significative, le azioni che riempiono le pagine dei giornali. Questa la scelta di un’organizzazione specifica, ma l’averla intrapresa, il non essersi limitati alle piccole azioni di attacco e di sabotaggio, significa non tanto una svista o un difetto di funzionamento organizzativo, quanto una scelta di campo e, visto da un’altra angolatura, una inevitabile involuzione verso la “chiusura” organizzativa. Se le piccole azioni sono generalizzabili con facilità (come si è visto per tutti gli anni Ottanta e per la metà e più degli anni Novanta), non altrettanto si può dire per le azioni più importanti (anche senza fare ricorso al modello del sequestro Moro), le quali nella loro distanza geometricamente militare dalla gente possono solo causare un tifo da stadio e null’altro.
La critica delineata in questo libretto (e in altri miei scritti coevi, parimenti stigmatizzati nei “Comunicati” di Azione Rivoluzionaria) resta ancora oggi valida, riferendosi a qualsiasi modello organizzativo di struttura armata specifica anarchica. In ogni caso, trattandosi di argomenti di grande importanza e di inesausta attualità, penso che vadano meditati a fondo, da compagni seri.
[Introduzione a “Insurrezione”, Parafulmini e controfigure, Catania 2001, pp. 3-5]
La Comune di Parigi
Il 2 novembre 1870 si conclude la guerra franco-tedesca con la pesante e inaspettata sconfitta dell’esercito francese a Verdun. Cominciata poche settimane prima questa guerra aveva fatto conoscere al mondo la potenza militare della piccola Prussia e, nello stesso tempo, l’inutilità dell’opposizione parlamentare, non di certo marginale nel parlamento prussiano. In quasi tutta la Germania, il partito di Bebel e Liebknecht aveva cercato di impedire che le masse operaie tedesche partecipassero a una guerra contro i fratelli francesi, ma l’iniziativa si concluse con un clamoroso fallimento. Non solo la guerra non fu impedita, ma il successo di Bismarck (i suoi imbrogli diplomatici si conobbero solo molto tempo dopo) venne considerato come il primo gradino per la scalata al potere europeo da parte della grande Germania.
Il movimento operaio francese aveva cercato di rispondere per tempo, ma anche qui l’opposizione proudhoniana non aveva avuto la forza di fermare la superbia del militarismo francese che si considerava invincibile.
In effetti, come doveva apparire chiaro in breve tempo, a partire dalla sconfitta della fine di settembre del 1870, con i prussiani in marcia travolgente su Parigi, non era certo un’opposizione parlamentare quella che poteva fermare la rovina del popolo francese.
Lione insorge il 26 settembre 1870 e, proclamando la “Federazione rivoluzionaria delle comuni” sotto l’influenza teorica e pratica di Bakunin, dichiara “abolita” la “macchina amministrativa e governativa dello Stato”. Ma questa iniziativa non basta: essa viene schiacciata sotto la repressione del governo provvisorio.
Di fronte al peggioramento delle cose, dopo la sconfitta definitiva di Sedan, dove lo stesso Napoleone III viene fatto prigioniero, è lo stesso popolo di Parigi a insorgere e a proclamare, il 18 marzo 1871, la “Comune”.
Che significato hanno, per noi oggi, questi fatti che sono lontani nel tempo, oggi che l’unità europea vede a braccetto capi di Stato francesi e tedeschi darsi la mano in un abbraccio fra massacratori di professione solo temporaneamente disoccupati?
Il testo che ripubblichiamo, dopo più di trent’anni, venne redatto da un giovane anarchico catanese, allora facente parte del gruppo “Lega Comunista-Libertaria”, di cui non mette conto ricordare qui qualcosa di più del suo triste destino: professore universitario della Repubblica. Comunque, siccome quel testo qualche validità la contiene ancora, eccolo qui con la presentazione del sottoscritto che all’epoca ebbe l’onere di redigere la prima introduzione.
Oggi vediamo con chiarezza quello che forse trent’anni fa ci sfuggiva: l’iniziativa popolare, per come si manifestò nel corso dei pochi mesi di vita della Comune non ha importanza “soltanto” per quello che in quel breve lasso di tempo venne realizzato, ma anche per quello che venne alimentato in potenza, cioè per quello che venne fatto vivere come nucleo essenziale di un fatto non del tutto comprensibile agli occhi dei contemporanei e, a dire il vero, nemmeno degli eredi che su di esso rifletteranno esattamente un secolo dopo.
Mi sembra opportuno qui riportare, non ricorrendo a citazioni letterali, ma fidandomi della memoria, il giudizio sulla guerra franco-prussiana che Marx esprimeva in una lettera a Engels, lettera contestuale alle prime vittorie di Bismarck: la vittoria del cancelliere – scriveva Marx da Londra – corrisponde alla nostra vittoria in quanto rende possibile il rafforzamento della borghesia tedesca a cui, per logica (la logica dialettica, evidentemente, tanto cara ai marxisti) corrisponde il rafforzamento del proletariato tedesco. Inoltre, a questa vittoria corrisponde anche la sconfitta dei proudhoniani (leggere: gli anarchici) i quali sostengono un insurrezionalismo che porta soltanto alla disgregazione del proletariato.
Tutti sanno che l’evolversi degli eventi parigini condusse i fondatori della dittatura del proletariato ad ammorbidire le loro posizioni riguardanti una conquista più o meno legalitaria del potere da parte delle organizzazioni proletarie, arrivando a considerare positivamente l’insurrezione parigina e vedendo in essa l’unico freno possibile alla svendita degli interessi del popolo francese da parte del governo riparato a Versailles, mano militare interna dei prussiani. Ma questa modificazione non fece loro perdere di vista che in ogni caso lo scatenamento della violenza insurrezionale è un fatto soltanto “limitatamente” positivo, in quanto dà vita a processi non facilmente controllabili.
Ecco perché oggi torna utile riflettere ancora su quei lontani avvenimenti parigini. Non più fissando l’attenzione sull’abilità degli operai messa in mostra nel gestire la zecca o nel difendere gli interessi della Banca di Francia o nel fare funzionare il servizio postale, oppure di anarchici a tutta prova (come Élie Reclus) nel dirigere la Biblioteca nazionale, ma riflettendo sugli aspetti che per tanto tempo sono stati considerati di secondo piano, se non decisamente negativi. L’insurrezione ci accompagna quasi quotidianamente negli accadimenti mondiali, e molti che una volta la consideravano un modello di lotta sorpassato o comunque minoritario e facilmente recuperabile, si stanno ricredendo.
Gli avvenimenti di marzo portavano nelle strade di Parigi una umanità dolorante che non si era mai vista. La borghesia (secondo la testimonianza di Vilfredo Pareto) ne fu addirittura terrorizzata. Più che gli scontri veri e propri, le barricate e le distruzioni, come l’abbattimento della colonna Vendôme eretta a ricordo delle vittorie di Napoleone, fatti che interessarono solo una parte dei quartieri della città, quello che fece veramente paura fu l’autorganizzazione di una realtà sovversiva che non si immaginava potesse fare da sé. Dai luoghi più reconditi e miseri di Parigi uscirono le forze vive di quella parte della società da sempre destinata alla fame e all’ignoranza. E questa gente non andava tanto per il sottile, anche se i tentativi di frenarla partirono subito da quelle componenti – politici, letterati, avvocati – che in questi casi riescono a mettersi alla testa di ogni iniziativa per darle il “giusto” freno e indirizzarla verso quelle contrattazioni che nella loro logica (ancora una volta la logica del potere) può dare i migliori frutti. Difatti, anziché attaccare subito Versailles, utilizzando i cannoni che si trovavano a Parigi, e impiegando le forze militari che potevano avere facilmente ragione dei resti di un esercito umiliato e sconfitto, questi “capi proletari” fecero di tutto per rallentare le cose e permettere al governo provvisorio di riorganizzarsi e, con l’aiuto dei prussiani, schiacciare la Comune con migliaia di morti e millenni di condanne a morte e alla deportazione nelle isole d’oltremare.
Sotto questo aspetto, quasi del tutto sconosciuto, molto resta da approfondire riguardo gli avvenimenti insurrezionali parigini del 1871. Poco sappiamo degli espedienti innovativi messi in atto per resistere nelle strade della capitale e per contrattaccare, costringendo i nemici alla ritirata, come poco sappiamo riguardo le tesi di coloro che, all’interno dell’insurrezione stessa, espressione delle forze popolari più radicali, non volevano limitarsi alla stesura di proclami e poesie, ma volevano distruggere l’intera città (espressione nel quadrilatero tra la Sorbona e il Lussemburgo della ricchezza della borghesia francese) piuttosto che consegnarla nelle mani dei vincitori. Mi sembra che si possa individuare all’interno degli accadimenti di marzo, specialmente nelle prime settimane di lotta per le strade, una “potenzialità inespressa” di natura insurrezionale che costituisce un riferimento per tutti noi, e questo ben al di là dei modi concreti in cui essa riuscì ad esprimersi. In fondo ogni insurrezione si collega senza saperlo a tutte le insurrezioni precedenti, in quanto quasi sempre l’iniziativa popolare, di fronte alle condizioni repressive che nel loro mutare per molti aspetti si ripresentano sempre uguali, si sviluppa in maniera coerentemente autonoma, rigetta (almeno sulle prime) qualsiasi guida più o meno colorata politicamente, e non aspetta il segnale della lotta da parte di un quale che sia gruppo di specialisti.
In questa direzione anche il presente libretto può dare un sia pur modesto contributo.
[Introduzione a Parigi 1871. La comune libertaria, Trieste 2003, pp. 5-8. Una nuova edizione di questo libretto esce per le nostre edizioni nella collana Opuscoli provvisori (n. 3)]
Muoversi o stare fermi?
Gli anarchici e i rivoluzionari sono tali non perché lo dicono loro o scrivono articoli e programmi firmandoli con frasi a effetto, ricordi del passato e simboli dell’anarchismo, sono tali perché vogliono fare qualcosa contro gli oppressori, cioè vogliono denunciare e attaccare i sistemi repressivi e tutti coloro che li tengono in piedi.
Per capire fino in fondo questa semplice affermazione occorre fare un altro passo. Prima di attaccare occorre sapere chi e cosa attaccare e occorre capire perché attaccare e come.
In caso contrario si agisce come un toro infuriato che carica a casaccio finendo prima o poi per essere abbattuto.
Come si può fare a sapere chi attaccare e cosa? Semplicemente documentandosi. Il capitale e lo Stato si stanno rapidamente trasformando. L’elettronica consente rapide ristrutturazioni nella produzione e nel controllo. I grandi industriali si stanno distribuendo nel territorio collegati con terminali e cavi telematici. Tutto il pianeta sta per essere coperto di una rete fitta di comunicazioni che costituisce il fondamento della produzione economica attuale e, quindi, anche dello sfruttamento attuale. Ecco che sappiamo cosa e chi attaccare.
Come si può fare a capire perché attaccare? Anche questo è semplice. L’industria di una volta poteva essere conquistata dalla rivoluzione e utilizzata dopo a scopi produttivi di pace. L’industria di oggi, nella massima parte elettronificata, con addetti ai lavori privi di conoscenze operative reali, non potrà essere utilizzata se non in piccola parte. Certamente non potrà utilizzarsi il grande complesso elettronico di comunicazione su cui si basa la produzione-repressione di oggi, ecco perché occorre subito cominciare ad attaccarlo e a distruggerlo, sia pure in quella proporzione che è adatta alle nostre attuali possibilità.
Tra muoverci e stare fermi, noi preferiamo muoverci. La ristrutturazione attuale, che ha rafforzato le capacità produttive del capitale, ha nello stesso tempo aperto delle falle. Questa enorme rete telematica che attraversa il territorio di ogni nazione industriale avanzata è certo una di queste falle.
Colpiamo dentro. Con piccole azioni, non con grandi operazioni militari che sono fuori della nostra portata materiale e fuori della logica del nuovo capitale. Sono proprio le piccole azioni distruttive, i sabotaggi, disseminati nel territorio, l’arma più seria per combattere oggi contro il nemico di classe.
[1988]
Elogio dell’opinione
L’opinione è la merce più diffusa. Tutti la posseggono e tutti la utilizzano. La fabbrica dell’opinione interessa un’ampia fetta dell’intera produzione economica, il suo consumo occupa molta parte del tempo delle singole persone. La qualità principale dell’opinione è la sua chiarezza.
Diciamo subito che non ci sono opinioni oscure. O si è per il sì, o si è per il no. Le sfumature e le ambivalenze, le contraddizioni e le dolorose confessioni di incertezza, le sono estranee. Da qui la grande forza che l’opinione fornisce a coloro che la usano, che la consumano per le loro decisioni, che la impongono alle decisioni altrui.
In un mondo che si avvia sempre più velocemente verso i binari del positivo/negativo, del bottone rosso e del bottone nero, la riduzione a questa logica semplificata è fattore importante dello sviluppo, forse della stessa convivenza civile. Cosa ne sarebbe del nostro futuro se continuassimo a reggerci sulle crudeltà irrisolte delle vaghe ambivalenze? Come potremmo essere utilizzati, come potremmo continuare a produrre?
Quando la possibilità reale di scelta si riduce, proprio in quel momento viene fuori la chiarezza. Sa bene cosa fare solo colui che ha idee chiare, ma le idee non sono mai chiare, ed ecco sorgere chi ce le chiarisce, chi fornisce strumenti facili e comprensibili: non discorsi ma quiz, non approfondimenti ma alternative binarie. Il giorno o la notte, niente crepuscoli o aurore.
In questo modo ci chiedono di dirci favorevoli o contrari a qualcosa. Non ci fanno vedere gli aspetti del problema, ma solo una costruzione altamente semplificata. Dirsi per il sì o per il no è semplice, ma della semplicità che nasconde e fa svanire la complessità, non che la comprende e la spiega. Nessuna complessità può difatti essere spiegata se non rinviando ad altre complessità. Non ci sono soluzioni di problemi, ma occasioni di riflessione, di conoscenza, di incontro. Gioie dell’intelletto e del cuore che la proposizione binaria cancella e sostituisce con l’utilità del corretto decidere.
E siccome nessuno è tanto stupido da credere che il mondo si regga su due trampoli logici, quello positivo e quello negativo, dovendo pur esserci un luogo specifico degli approfondimenti, un luogo in cui le idee riprendono il sopravvento e la conoscenza riguadagna il terreno perduto, ecco che sorge il desiderio di delegare ogni approfondimento agli altri, a coloro che suggerendoci soluzioni semplici sembrano custodire l’elaborazione della complessità come fatto di già accaduto, e quindi che si designano come testimoni e depositari della scienza.
Così il cerchio si chiude. Gli stessi semplificatori si presentano come garanti della fondatezza dell’opinione che si chiede, del suo corretto prodursi in forma binaria. Essi sembrano essere coscienti del fatto che l’opinione, una volta sedimentata, distrugge ogni capacità di comprendere l’intricato tessuto che gli sta sotto, lo svolgersi complesso dei problemi della conoscenza, l’interazione frenetica dei simboli e dei significati, dei riferimenti e delle intuizioni.
Il manipolatore della chiarezza distrugge il tessuto delle differenze, lo annacqua nell’universo binario del codice, dove la realtà appare possibile soltanto in due soluzioni: la lampadina accesa e la lampadina spenta. Il modello riassume la realtà, cancella le sfumature di quest’ultima e la suggerisce in formule statistiche preconfezionate, pronte al consumo. Non esistono più progetti di vita ma semplici simboli che sostituiscono i desideri e duplicano i sogni facendoli diventare bi/sogni.
La crescita quantitativa delle informazioni di cui disponiamo non permette di uscire dall’ambito delle opinioni. Allo stesso modo in cui il maggior quantitativo di merci in un mercato, con tutte le possibili e superflue varietà del medesimo prodotto, non significa ricchezza o abbondanza, ma soltanto spreco mercantile, così l’aumento di informazioni non fa crescere qualitativamente l’opinione, non produce cioè una vera capacità di decidere tra il vero e il falso, il buono e il cattivo, il bello e il brutto, se non riducendo questi aspetti alla rappresentazione di un modello dominante.
Nella realtà non esiste da un lato il buono e dall’altro il cattivo, ma tutta una sfumatura di condizioni, di casi, di situazioni, di teorie e di pratiche che solo una capacità di comprendere può cogliere, cioè una capacità di usare l’intelletto con le dovute presenze correttive fornite dalla sensibilità e dall’intuizione. La cultura non è un ammasso di informazioni ma un sistema vivo e spesso contraddittorio in base al quale conosciamo il mondo e noi stessi, un processo a volte doloroso, e quasi mai soddisfacente, con cui realizziamo quei rapporti che costituiscono la nostra vita e anche la nostra capacità di vivere.
Cancellando tutte queste sfumature ci ritroviamo nelle mani una curva statistica, un andamento illusorio prodotto da un modello matematico, non una realtà frazionata e sconvolgente. L’opinione ci fornisce quindi sicurezza, da un lato, ma dall’altro ci impoverisce e ci priva della capacità di lottare, finendo per convincerci che il mondo è più facile di quello che è. Tutto ciò nell’interesse di chi ci domina. Una massa di sudditi soddisfatti e convinti di avere la scienza dalla loro parte: ecco di cosa hanno bisogno per realizzare i futuri progetti di dominio.
[Pubblicato su “Canenero”, n. 16, 14 febbraio 1995, p. 4]
L’oscura chiarezza delle parole
Chi scrive, forse più ancora di chi parla, è chiamato a chiarire, a portare luce. Posto un problema – che di qualcosa chi scrive deve pure occuparsi, in caso contrario le sue sarebbero riverenze prive di senso –, questo problema viene illuminato dall’uso delle parole, da un uso particolare, in grado di organizzarsi nel bozzolo di certe regole e in vista di una prospettiva da raggiungere.
Chi legge, forse più ancora di chi ascolta, non coglie le singole parole, ma il loro significato nell’ambito di quelle regole che le organizzano e di quella prospettiva che affermano di voler raggiungere.
Per quanto tenue possa essere il senso di quello che si scrive (o si dice), chi legge (o chi ascolta) non svolge il ruolo di ricettore passivo. Il rapporto assume spesso le sembianze del conflitto, all’interno del quale due universi differenti tra loro si scontrano. Ma questo scontro non è basato su un’intenzione attiva, dal lato dello scrivente (o dicente), e una passiva, dal lato dell’udente (o leggente). I due movimenti sono contrari solo in apparenza. Il lettore partecipa dello sforzo dello scrittore, e lo scrittore di quello del lettore. Anche se i due movimenti sono separati tra loro, non lo sono più nel fatto, su cui poco si è riflettuto, che chi scrive è pur sempre lettore (contemporaneo) del testo che sta scrivendo, e chi legge è anch’esso scrittore (contemporaneo) del testo che sta leggendo.
Qui vengono commessi due errori. Il primo è quello in cui incappa lo scrivente, il quale leggendosi mentre scrive pensa di capire quello che sta scrivendo, e non si rende conto che spesso la sua comprensione è dovuta non alla chiarezza del testo ma alla coincidenza lettore-scrittore, che nel fatto puntuale dell’organizzare parole secondo un progetto raggiunge il massimo livello. Il secondo è quello che capita al leggente, il quale, immaginandosi nell’atto di scrivere il testo che sta leggendo, si rifiuta di accettare scelte terminologiche per lui impensabili, e non si rende conto che spesso la non comprensibilità del testo che legge è dovuta non tanto alla poca chiarezza, quanto al fatto che lui l’avrebbe scritto in maniera diversa.
Quello che sembra sfuggire a questo rapporto binario è il terzo elemento, cioè l’argomento di cui si discute. La realtà esaminata con le parole è un diaframma che se da un lato aiuta a organizzare le parole in un certo modo (accettandone alcune e respingendone altre), dall’altro opera un’azione deformante riguardo l’impiego delle parole accettate. Nessuna parola è neutra, ma ognuna, organizzandosi all’interno dei concetti, contribuisce a trasferire nel lettore (e, con modalità ancora differenti, nell’ascoltatore) un’ipotesi di diffrazione della realtà esaminata (di cui si scrive o si parla).
Di per sé non esiste quindi una parola chiara e una oscura, non esiste la possibilità di gettare definitivamente un cono di luce sulla realtà, chiarendola una volta per tutte. La parola, una volta staccata dalla realtà cui si riferisce, quindi dalla scelta fatta dallo scrivente (o dal parlante) ma sulla base delle suggestioni della realtà esaminata, non significa più niente, scompare, e con essa scompare la sua possibilità di essere qualcosa, un mezzo del pensiero e dell’azione, un elemento capace di legare insieme gli uomini o di dividerli. Il dizionario è come un deposito di parole. Esse se ne stanno allineate lì, negli scaffali, alcune usate di continuo, altre solo raramente, tutte parimenti disponibili, ma solo alcune di esse in grado di coordinarsi insieme secondo le intenzioni di chi sceglie e le suggestioni della realtà che si vuole vestire di parole.
Solo che noi possiamo capire le parole, e quindi decidere se ognuna di esse è o non è, per noi, “chiara”, a condizione di avere dimestichezza con queste operazioni di abbigliamento. Non ci sono le parole da un lato, oggetti morti, racchiusi nei dizionari, e la realtà dall’altro, dove gli oggetti singoli esistono a fianco di parole, oggetti anch’essi, ma tutto alla rinfusa e senza rapporto. Esistono flussi di significato, cioè procedimenti operativi nel corso dei quali gli elementi della realtà (che qui per comodità possiamo chiamare “oggetti”) ricevono significato per noi, vestendo l’abito linguistico. Non c’è la sedia separata dalla parola che la significa, e le differenti parole cui fanno ricorso le diverse lingue riconfermano questo tentativo come flusso di significato, proponendo sfumature filologiche che attraverso la storia dei millenni spesso fanno emergere incredibili percorsi, straordinarie avventure.
Vestire la realtà è quindi la primaria attività dell’uomo, la condizione per agire, azione anch’essa, forma essenziale dell’azione, in quanto (fatto su cui si riflette poco) il pensiero stesso è processo linguistico di abbigliamento della realtà. Cosa potremmo “fare” senza la capacità di “leggere” la realtà? Ci troveremmo di fronte ad una massa oscura di presentimenti e di paure. La questione più importante non è quella della maggiore chiarezza (parole più facili, vestiti più dimessi, linearità nelle corrispondenze), quanto, e forse al contrario, quella della maggiore ricchezza (parole diverse contrastanti i luoghi comuni, vestiti di colori più vivaci, incertezza delle corrispondenze). La parola è anche incantamento, meraviglia, gioiosa invenzione, fantasma, evocazione di qualcosa d’altro, qualcosa di sempre diverso, non sigillo del di già veduto, riconferma delle proprie certezze.
Lo scopo del dire (e dello scrivere) non è quindi quello di “chiarire”, ma quello di “arricchire” la realtà, quello di sollecitare all’imprevedibile, al non scontato. Chi comunica non ha l’obbligo di darci ricette di accomodamento, panacee per le nostre paure, riconferma delle nostre conoscenze, ma può anche sentirsi disponibile a suggerire percorsi difficili, di fare balenare incertezze e pericoli.
Libero, chi vuole sentirsi al sicuro in casa propria, di interrompere la lettura o di turarsi le orecchie.
[Pubblicato su “Canenero”, n. 22, 7 aprile 1995, p. 4]
Radiografia di un avvenimento
Nella società postindustriale un avvenimento non si presenta mai come un oggetto esterno e chiuso in se stesso, di cui si sappia qualcosa e quindi di cui si possa dire qualcosa.
In sostanza l’elaborazione di un linguaggio sufficientemente critico, in grado di parlare di un determinato avvenimento, nelle condizioni attuali, non è possibile. Qui sto provando a farlo, possiedo un linguaggio affinato in un ventennio di esercitazioni politiche e sociali, ma non posso dirmi effettivamente certo di possedere uno strumento adeguato a parlare di un avvenimento come quello che per comodità d’intendere posso anch’io chiamare “mani pulite”. In effetti l’uso di un linguaggio diverso dovrebbe consentirmi di accedere a conclusioni diverse, ed è proprio quello che voglio fare, ma le mie parole rinviano a una ridondanza complessiva che è quella dell’ascolto quotidiano, per cui esse attraversano una infinità di altre scritture, e quindi di altre letture, dove si ripercuotono fino ad estinguersi nel proprio significato originario.
Dovrei potermi mettere sulle tracce del motivo generatore, del tratto fondamentale dell’avvenimento, insomma pervenire alle sue radici. Ma come fare? Come superare l’enorme barriera continuamente crescente delle parole?
E quando fossi in grado di individuare l’etimo nascosto dell’avvenimento, come garantirmi che quell’intuizione non mi sfugga di mano diventando incomprensibile a causa del movimento stesso delle chiacchiere che continuano a prodursi?
Posseggo un metodo in grado di indicarmi la strada verso la scoperta dei punti di forza dell’avvenimento senza alcun rispetto per le capacità espressive della fonte che lo trasmette e la sua potenza di coinvolgimento a livello di massa? Oppure sono costretto a vedere scomparire davanti a me il significato umano di tutto quello che accade?
Parlando di qualcosa che è essenzialmente parola, perché qualunque avvenimento di cui abbiamo la pretesa di discutere finisce per essere costituito da parole e non da fatti concreti, o almeno da parole che hanno finito per prevalere sui fatti, si contribuisce a questo spossessamento. Un furto ai danni della collettività, continuato nel tempo, colossale, spettacolare, a volte indegnamente perpetrato, l’azione di una banda di politici corrotti e corruttori e di uomini d’affari corruttori e corrotti, tutto ciò, una volta detto, scade d’importanza, si affievolisce fino a venire messo in forse, mentre, per un altro senso, la parola monta e dilaga, attraversa la realtà, la plasma, la condiziona, la produce. Pochi casi come questo dei politici italiani corrotti e corruttori esemplificano con grande evidenza la nuova condizione della realtà postindustriale.
All’interno dei facitori di discorsi, anche anarchici se per questo, circola un’illusione che tarda a morire, si pensa possibile un discorso oggettivo su di un avvenimento, ipotizzando il taglio netto di un segmento della realtà, un fatto in quanto tale su cui riflettere, da interpretare e in merito al quale subito dopo consigliare i lettori riguardo un da farsi successivo, un ulteriore segmento ipotizzato distaccabile dal primo, ad esso quasi sempre contrapposto, come due pugili che si guardano in cagnesco e aspettano il suono del gong per partire all’attacco.
Che qualcosa di simile sia possibile, nel chiuso delle chiacchiere che ci palleggiamo reciprocamente, è certo. Ma il problema si pone quando ci chiediamo se, oltre ad essere possibile, un discorso del genere sia anche significativo, contenga cioè informazioni adeguate allo scopo cui è indirizzato dal suo autore. L’illusione di significatività ha prodotto, in passato, e minaccia di continuare a produrre, simulacri di discorso, assemblaggio di pezzi legati insieme in una macchina infelice, incapace di funzionare. E questa macchina descrivendo la realtà s’inceppa nel suo essere estranea a se stessa, abbassandosi fino a diventare ancella di una schiacciante razionalità del reale che ha bisogno solo di una ulteriore critica per diventare perfetta in sé, completa e giustificata. Quindi, o lontananza o collaborazione, anche critica, che tanto nulla sembra disturbare il complesso produttivo dell’avvenimento.
Nell’insieme di movimenti produttivi dell’avvenimento, il discorso diverso cerca di sottolineare la corrente più congeniale alla tesi da dimostrare. Ciò non è fatto per carità di patria, né per riconfermare ipotesi teoriche che da per se stesse reggerebbero anche al di fuori del fondamento fornito da un avvenimento concreto, ma è fatto per sottolineare quel processo logico interno alla realtà che si presuppone non sia visibile.
Riflettendo bene, dietro questa attuale intenzione, camuffata con i segni della brillantezza analitica, ci sta per intero la vecchia tesi controinformativa, che oggi non sembra fecondata da nessuno ma che continua a fare figli e non per partenogenesi. La chiarezza prima di tutto. Dateci la verità in pillole, per fare. Voi che sapete leggere e scrivere dietro le righe, che dietro tutto trovate e svelate sempre qualcosa, svelateci la verità, perché indottrinandoci possiate metterci nelle condizioni di agire.
A far definitivamente giustizia di tutto questo, come di tanti altri aspetti della realtà, ci ha pensato il capitale.
Il reticolo semantico dentro cui s’inchiavarda l’avvenimento, oggi non è più traducibile in chiarezze. Prima di tutto perché l’avvenimento stesso è trattato nei tanti quadratini di cui il reticolo si compone, con chiarezza e distinzione, come voleva a suo tempo Cartesio.
In questo modo, il movente iniziale scompare, scomposto in una moltitudine di moventi, ognuno dei quali produttore di sviluppi suoi non sempre coordinati con quelli dell’altro movente subordinato. Questa sorta di polisemia produce un movimento distruttore di significato che annulla reciprocamente gli apporti di ogni movente all’interno dell’avvenimento nel suo insieme, fin quando l’avvenimento scompare e viene fuori un continuo rampollare di significati costantemente in grado di compensarsi e autoeliminarsi reciprocamente.
L’errore, in questo modo, lungi dall’essere un elemento estraneo alla composizione logica dell’evento, ne viene a fare parte, anzi si sostituisce alla matrice originaria, quasi sempre scarsa e insignificante di per se stessa, e dilaga al suo posto. Così qualche volta l’avvenimento che circola, anzi la stessa griglia fondamentale su cui concrescono le successive correzioni, è costituito da uno o più errori dell’avvenimento archetipo, ma tali da risultare vere e proprie felici intuizioni, punti di svolta dell’avvenimento, non importa se voluti o involontari.
Non c’è pertanto legittimità logica nella pretesa di distinguere nettamente tra parola violentatrice, messaggio affidato alle grandi immagini che tutto appiattiscono nella gestione di massa, e parola interpretatrice, che aiuta all’azione essendosi sottratta all’abbraccio soffocante della prima. Tale distinzione, in fondo, non è mai veramente esistita, anche se la claustrale scelta militante può a volte averci fornito l’occasione per mettere in pace la nostra coscienza. L’incertezza derivava da una diversa gestione dell’avvenimento, adeguata ai tempi morti di un capitale non ancora padrone del tempo reale, non ancora in grado di costruire la realtà solo parlandone e obbligato ancora a produrla all’interno della rottura insanabile tra produzione dell’oggetto e suo rivestimento linguistico.
Procedere a una collazione delle differenze, basata su di un numero altissimo di raffronti oggettivi, raffronti per altro tutti da individuare e difendere da possibili contestazioni in loco, sarebbe lavoro vano, essendo spesso ogni divaricazione dalla linea normale del presunto avvenimento originario uno scostamento del tutto trascurabile, infinitesimale. A parte il fatto che questo metodo sarebbe annullato dalla presunzione oggettiva di riuscire a distinguere tra verità e falso.
A questo punto ci si può chiedere perché continuare, se quello che diciamo corre il rischio di risultare incomprensibile, e quindi, per ricevere legittimità significative, obbligato ad accettare le regole del gioco, diventando funzionale all’avvenimento creato, elemento in fondo marginale di un gioco in cui non potremmo che essere giocati da una forza senza limiti superiore a noi.
La domanda non sarebbe mal posta. Il rischio c’è ed è sotto gli occhi di tutti. Cosa potremmo dire dell’avvenimento “mani pulite”? Cavillare sul titolo giornalistico che non ci convince? Discutere con poca o molta competenza del nuovo giustizialismo che si profila alle porte, sistema dottrinale e di potere che da sempre ha fornito supporti popolari e deliri di massa alle dittature di ogni tipo? Forse potremmo indicare i percorsi passati dell’avevamo detto? Oppure dell’avevano detto? Povere Brigate Rosse, quanto ci paiono ingenue, viste col senno del poi.
Forse l’appello alle emozioni, l’appello retorico allo sdegno per la virtù ferita e conculcata, potrebbe essere un modulo diverso? Oppure, dato che altri lo sviluppano fino in fondo, il nostro vano insistere sembrerebbe un modesto obolo alla tesi della ricostruzione? Forse il discorso togato, quello della ristrutturazione della democrazia, l’analisi internazionale che si cala nella dimensione italiana, il venir meno delle necessità atlantiche e quindi il cedimento della vecchia classe politica corrotta e corruttrice? Ma tutto ciò ci passa sotto gli occhi. Quali i destinatari dei nostri discorsi? Quale la novità di essi? Quale la loro funzione? Dovremmo diventare i facitori di una nuova “Selezione” per lettori anarchici?
E le nostre idee, rivoluzionarie e libertarie, le idee della lotta e dell’insurrezione, come si pongono di fronte all’avvenimento e al suo continuo fluire, al suo continuo farsi avvenimento, al suo rifiuto di restare fermo per un attimo per essere inquadrato per bene dalla nostra analisi?
Temo che si ricolleghino grazie a una serie di considerazioni inevitabilmente destinate a suonare massimaliste e di maniera. Una serie di affermazioni scontate che implicitamente dimostrano, nella loro asettica rarefazione, come le nostre analisi, per essere altro, devono finire per tacere, per abbracciare il silenzio. Perché, cosa altro sarebbe se non silenzio, l’affermare una tesi rivoluzionaria di fronte all’avvenimento di cui parliamo?
Non sarebbe forse un morale, moralissimo grido di estraneità, un disperato e inutile tentativo di far sapere che noi siamo l’estremo lembo della purezza, l’incontaminata isola dove l’ideale continua a regnare incontrastato?
La lontananza tra le due parole non potrebbe essere maggiore. Diffidenza verso l’avvenimento, quindi, e diffidenza verso noi stessi come parlatori dell’avvenimento, occasionali artefici di una possibile collaborazione. Una estrema ed energica volontà di essere altri, anche a rischio di non riuscire ad esprimere quello che vogliamo dire che, nelle intenzioni nostre, potrebbe essere tutt’altro che il silenzio.
Come spezzare la produzione dell’avvenimento? E come, spezzandola, proporre una svolta significativa, una nostra svolta? E come evitare che questa svolta venga ripresa dall’avvenimento stesso e riciclata nel processo di significazione? Ecco le tre domande fondamentali che suggeriamo alla riflessione di tutti. Vediamo di dare qualche risposta, provvisoria beninteso.
Un avvenimento fruito nella sua totalità, un avvenimento complesso e completo, per come oggi ci viene costruito sotto gli occhi, è qualcosa in movimento, che possiamo possedere impegnandoci in mille modi, o lasciando che altri proponga noi stessi come oggetto passivo di un impegno di ricezione. In pratica è quello che facciamo tutti i giorni, leggendo i giornali, più di uno, guardando i notiziari televisivi, più di uno.
Ma in questo modo l’avvenimento ha l’apparenza del movimento vitale, cioè di cosa che nasce sotto i nostri occhi. In effetti, esso muore sotto i nostri occhi, muore come fatto vivo e viene riprodotto continuamente come accadimento storicizzato, sia pure nella tempestività della cronaca, ma racchiuso ormai in una lontananza senza spazio e senza tempo, proprio perché questi sono stati aboliti dalla contestualità della trasmissione telematica. La potenza dell’avvenimento, come fatto che colpisce gli uomini, che ha un impatto con le coscienze, in primo luogo per quello che il fatto rappresenta, seppure esistita fin dal primo momento, con lo svolgersi della sua storicizzazione quotidiana, si affievolisce, l’ingiustizia si trasforma in battibecco. La continua riproduzione dell’avvenimento significa liquidazione di ciò che il fatto poteva significare, forse ha significato, sia pure per un attimo.
Il processo complessivo di gestione dell’avvenimento attraverso la parola non deve contenere nulla che non sia immediatamente dicibile, il fatto è sempre posteriore alla possibilità di trasformarlo in parole. Può darsi anche che l’uomo non sia più capace di produrre fatti indicibili, quei grandi fatti di fronte ai quali il silenzio è la sola attestazione di significatività. Così, spesso, sempre più spesso, gli avvenimenti appaiono come depositi fossili della vitalità del dire. Quello che fluisce acquistando senso ai nostri occhi, e alle nostre orecchie, è la continua ripetizione della chiacchiera. Le parole si modulano sui fatti, ma non ci sono che pochissimi fatti capaci di rendere mute le parole.
Come spezzare questo processo?
Facendo rivivere l’avvenimento. Spezzando il circolo impotente della sua riproduzione automatica.
Questo non può avvenire con le parole, in quanto l’avvenimento è sempre fatto di parole. Deve quindi avvenire con l’azione. Ma esiste un’azione che non sia fatta anch’essa di parole? Certo che no. Ogni azione è anch’essa avvenimento, e come tale non sfugge alla regola della riproducibilità attraverso la parola. Quindi, l’avvenimento che spezza l’avvenimento precedente è anch’esso sottoposto alle medesime regole e viene prima o poi catturato, se un altro avvenimento non lo incalza sulla strada del precedente, fino a rendere più difficile il processo di recupero attraverso la parola. La creatività dell’azione che spezza l’avvenimento è quindi l’elemento che viene recuperato attraverso la parola, parlandone in àmbiti via via sempre più ampi, fino alla macroscopica capacità dei grandi mezzi d’informazione. E non c’è modo di evitare questo recupero, però c’è anche da dire che più questa creatività è aliena dal far perno, fin dal suo porsi in atto, cioè in azione, sulle parole, più ha possibilità di spezzare l’avvenimento di fondo su cui essa s’innesta. Con buona pace dei vecchi comunicati a cui l’archeologia rivoluzionaria affidava la spiegazione delle proprie azioni.
Nulla garantisce alla creatività uno statuto privilegiato nell’ambito della parola. Le regole sono sempre quelle dell’archivio, dove ogni cosa trova spiegazione e sistemazione. Ma la fruizione può avere momenti diversi, dove l’atteggiamento di supina ammirazione s’interrompe per fare posto a una sorta di lieta maneggevolezza dell’avvenimento, sempre comunque distante almeno fin quando non viene deciso di tagliare la sospensione dello spettatore. Ma, per mantenerci nell’ambito di questa distanza, che è la condizione reale più diffusa, la gioia creativa del fruire può anche significare rimaneggiamento e inserzione di nuovi elementi, questa volta voluti e coordinati, estranei per accurata scelta all’avvenimento, non per naturale movimento interno all’accumulazione della parola.
Contrariamente a quanto si è creduto finora, abbacinati dalla chiara e distinta mania persecutoria degli analisti cartesiani, di cui siamo stati indegni eredi per tanti anni, non è affatto essenzializzando l’avvenimento che forniamo un servizio all’azione, e ciò perché ogni essenzializzazione in quanto razionalizzazione è fatto della parola, quindi semplice aggiunzione mai di per sé chiarificatoria una volta per tutte. E, nell’ambito attuale del processo che stiamo esaminando, di crescita a dismisura dell’avvenimento, anche una semplice chiarificazione diventa elemento dell’alone deformante globale.
Potrebbe essere invece l’apporto creativo, e deliberatamente contrario a ogni pretesa di chiarificazione, il passo diverso per andare, se non oltre, almeno in senso inverso a quello della dilagante normazione.
Così potremmo creare una selva quanto più ampia possibile di modificazioni e varianti dell’avvenimento, tutte create da noi, volute in maniera diversa, in grado di ingannare la ridondanza normativa dell’avvenimento. Se non altro mi sembra un’ipotesi da discutere. Ed è proprio questa selva di modificazioni e varianti che tengo presente quando parlo di azione o almeno di preparazione all’azione.
La svolta significativa all’avvenimento su cui si è innestata l’azione, è quindi data dall’azione stessa?
Fino a un certo punto. Potrebbe non esserci un rapporto diretto, in termini di causa ed effetto. Il primo elemento che l’azione deve curare non è tanto lo sconvolgimento del processo riproduttivo, quanto l’inserimento ad altro titolo nel processo stesso, evitando il labirinto delle parole, il reticolo delle opportunità linguistiche o gestendoli diversamente. La svolta può determinarsi e può non determinarsi. Possono nascere altre azioni e anche queste avere una loro estraneità al meccanismo che gestisce l’avvenimento di fondo, quello su cui si sta operando, e allora l’insieme di tutte queste azioni ha più probabilità di produrre svolte significative, costringendo il meccanismo di produzione a sforzi considerevoli per riprendere il controllo della situazione e la gestione dell’avvenimento e delle azioni che ormai, inaridendosi, sono anch’esse diventate contorno dell’avvenimento.
Si deve quindi concludere che non esiste un modo per evitare il recupero di questa svolta? In linea di massima il recupero è sempre possibile. Sarebbe illusorio prospettare scopi tanto complessi e a lunga scadenza a un progetto rivoluzionario che deve fare i conti con meccanismi talmente potenti di recupero e di controllo. Comunque, trattandosi di effetti a largo raggio, e non può essere altrimenti se si vuole pensare alla presenza di una svolta vera e propria nell’avvenimento di fondo, possiamo anche ipotizzare la trasformazione radicale dell’avvenimento e quindi l’impossibilità del sistema di recupero e controllo di arrivare alla gestione completa e soddisfacente dell’avvenimento stesso. Ma queste affermazioni restano tutte da verificare, caso per caso.
[Pubblicato su “Anarchismo”, n. 73, maggio 1994, pp. 8-13]
Una questione di metodo
Che ci sia in ognuno di noi un bisogno profondo di far conoscere i propri pensieri è faccenda ormai fuori discussione. La cosa più segreta e impenetrabile, il limite che nessuna macchina elettronica per quanto sofisticata può superare, noi decidiamo, spontaneamente, di metterlo da parte. Vogliamo farci conoscere, vogliamo far sapere agli altri quello che siamo e come la pensiamo. Su ogni cosa abbiamo le nostre opinioni, tanto più radicate e irriducibili, quanto più queste opinioni sono superficiali e approssimative.
Per il fatto stesso che siamo noi a pensare in un certo modo riteniamo che questo sia il solo modo giusto e corretto di pensare. E ci meravigliamo altamente che gli altri non capiscano, e, spesso, siamo portati a concludere per chissà quale congiura o tradimento o vigliaccheria.
Questo modo di fare è umano, quindi molto diffuso.
Anche coloro che si presentano sotto le vesti sacerdotali del possibilismo pluralista, sotto sotto hanno la loro sacrosanta opinione e nessuno potrà spostarla di un solo piccolo millimetro.
Considerati da questo aspetto siamo come universi chiusi, totalmente privi di possibilità di comunicazione. Ci aggiriamo senza un criterio logico, a dritta e a manca, in balia delle nostre impressioni che, di volta in volta, scambiamo per fatti oggettivi.
Certo, queste nostre opinioni non sono accidentali, nascono dalle nostre relazioni con la realtà (gli altri individui, le cose, le strutture, le forme sociali, ecc.), ma sono parte di noi stessi, anzi esse sono proprio uno degli aspetti più visibili di noi stessi.
Gli altri ci vedono come un complesso di opinioni, in nessun caso ci prendono sul serio al cento per cento. Il modo in cui ragioniamo, la scelta delle parole, il modo in cui ci vestiamo, come mangiamo, come facciamo l’amore, le nostre reazioni inconsce, tutto ciò è visibile agli altri e dà loro indicazioni più o meno precise sulla nostra individualità.
Il processo attraverso il quale gli altri ci conoscono è quindi un processo di individuazione, in base al quale siamo individui noi stessi.
Appare evidente come una vasta rete di rapporti di estrema incertezza e approssimazione porta alla costruzione di un dato che molte volte consideriamo assolutamente certo.
Ognuno di noi dovrebbe partire quindi da una riflessione di questo tipo: a) le mie opinioni sono poco sicure, b) gli altri mi vedono attraverso le loro opinioni che sono altrettanto poco sicure delle mie.
Cosa fare?
Tenere presenti i nostri limiti e quelli degli altri.
Ecco un buon metodo.
Ognuno di noi si è costruito un suo modo di essere e di questo processo costruttivo è più o meno cosciente. Si tratta di qualcosa che somiglia alla propria situazione di classe, ma con alcune varianti fra le quali la più importante è data dal nostro desiderio di vederci diversamente, di illuderci di poter rappresentare sulla scena sociale uno spettacolo più importante. In qualsiasi punto ci troviamo dello spazio sociale siamo portati a considerare quelli che ci stanno dietro meno importanti di quelli che ci stanno davanti. Se le nostre condizioni oggettive non consentono di metterci davanti a quelli che ci stanno davanti almeno possiamo sempre illuderci di farlo con relativa facilità.
Questo esercizio di fantasia non conosce confini. L’operaio che compra la macchina costosa si illude allo stesso modo del dirigente industriale che si atteggia a imprenditore. L’uomo politico che prende decisioni sul futuro della nazione si illude di dominare la scena della storia, allo stesso modo dello scienziato che considera definitiva la sua scoperta illudendosi di avere catturata la realtà.
Anche i rivoluzionari si illudono. Non tanto sulla vastità dei progetti, che questa è forse una delle cose più concrete dell’attività rivoluzionaria, collegandosi a quei salti qualitativi che pur essendo sempre presenti non sono mai prevedibili, quanto nelle piccole cose. Nella vita di tutti i giorni, nel mantenimento di distanze impossibili, nell’analisi di fatti lontani e sconosciuti, nella gestione delle proprie capacità, nell’uso del proprio coraggio, nel senso del ridicolo e in tante altre cose.
E in momenti di stanca, quando le acque della piena sociale defluiscono, queste illusioni pesano come pietre.
Anche i rivoluzionari vogliono essere più avanti degli altri, più estremisti, più efficaci, più concreti. Essi hanno poi un mito radicato in profondità: quello del “poverismo”. Mi si consenta l’uso di questa orribile parola (per altro costruita per l’occasione) perché esprime bene il senso dello spettacolo cui il rivoluzionario vuole partecipare. Il suo status astratto è quanto più lontano possibile dai codici del comportamento corrente, quindi deve essere non solo “diverso”, ma anche “povero”, per dare il segno di avvicinamento alla classe inferiore. Da qui un culto del “poverismo” che alcune volte rasenta il ridicolo della spettacolarità. Guai a non accettare questo codice. Si è guardati di traverso, con sospetto e irritazione.
Chiuso nella gabbia delle proprie incertezze e dei propri luoghi comuni, anche il rivoluzionario si adagia verso le soluzioni più facili, finisce per accondiscendere agli atteggiamenti che consentono la riproduzione di un cliché. Cede così davanti alle opinioni degli altri e si fa incasellare in “certezze” e in modi d’essere precostituiti. Agisce solo in funzione di quello che gli altri pensano di lui ed evita accuratamente di urtare la suscettibilità dominante con la propria azione. Il gusto alla moda per le scappellate di cortesia diventa preponderante, per poi scadere in rissose colluttazioni quando la maschera cade e si viene scoperti per quello che si è: perbenisti sotto mentite spoglie.
Per uscire da una situazione del genere bisognerebbe impiegare un metodo critico capace di individuare la reale consistenza di ogni nostra opinione.
Ognuno di noi parte da alcune certezze. Bene. Sottoponiamole a una critica radicale. Scopriremo che una grossa parte di queste certezze è fondata su impressioni e non su dati di fatto. Approfondiamo queste impressioni, facciamo un piccolo inventario dei dati di fatto, arriveremo alla sbalorditiva scoperta di quanto fragili siano le fondamenta del nostro giudizio.
Scendiamo all’interno delle nostre impressioni, vi scopriremo come esse siano a loro volta frutto di altre impressioni mescolate con un numero irrisorio di dati di fatto. Approfondiamo ogni dato di fatto che siamo riusciti a separare dalle nostre impressioni, scopriremo sempre al suo interno una componente di incertezza, un giudizio soggettivo, una valenza ideologica.
Cosa concludere?
Nessuna paura. È proprio quando si è criticamente certi dei propri limiti che ci si sente più forti e si possono costruire meglio le proprie azioni.
In effetti esistono due modi di avvicinarsi alla realtà: uno intuitivo e l’altro deduttivo, uno che si fonda sul cuore e l’altro che si fonda sul ragionamento, e sono ambedue sbagliati.
L’intuitivo tutto cuore che crede di capire subito la realtà, di “sentirla”, che ha la presunzione di potere fare a meno dei dati di fatto, resta in balia delle proprie e delle altrui opinioni. Fa simpatia, come la fanno tutti i Don Chisciotte di questo mondo, ma gli manca la serietà, la precisione, l’informazione che in un rivoluzionario sono indispensabili.
Il deduttivo tutto cervello finisce per inaridire se stesso e la propria azione. È spesso scettico e sofisticato, presuntuoso per eccesso di informazione, mentre gli manca l’entusiasmo necessario per mettere a frutto il patrimonio di dati di fatto. Anch’egli è quindi vittima delle proprie opinioni.
Mi è stato rimproverato di essere spesso troppo rigido nel presumere che i compagni possano arrivare tutti a certe conclusioni perché in grado di svolgere tutti certe analisi. Almeno in tempi brevi, mi è stato detto, non tutti sono in grado di capire subito gli elementi essenziali di un problema legato all’azione rivoluzionaria.
Penso che ciò sia vero. Esistono compagni più dotati e compagni meno dotati per l’analisi teorica e per la selezione pratica delle informazioni. E ciò si vede chiaramente nel fatto che sono quasi sempre gli stessi compagni a fare le analisi, a scrivere gli articoli, i volantini, a lanciare le idee per gli interventi nella realtà, ecc. Ma gli altri non per questo debbono concludere per un’accettazione supina o per un rigetto di principio. Con un approfondimento critico – anche se in tempi un poco più lunghi – possono sempre arrivare a fare chiarezza fra le proprie opinioni e i dati di fatto e cogliere gli elementi di errore che, intrinseci alle opinioni, impedivano una netta cognizione dei dati di fatto.
Questo si può pretendere. Un compagno deve avere il coraggio di fare ciò, altrimenti resterà sempre vittima dei propri fantasmi.
Al contrario ci sta davanti una triste realtà. Gli approfondimenti di molti compagni sono tutt’altro che critici, sono classiche arrampicate sugli specchi, oppure ottusità silenziose che si fanno del proprio tacere un alibi per non venire allo scoperto davanti a se stessi. Altre volte sono patetici utilizzi di strumenti mai impiegati prima per spiegare prese di posizione che avevano una sola spiegazione: la mancata conoscenza dei dati di fatto. Invece della critica si assiste a un dilagare di opinioni, alcune gradevoli e simpatiche, altre pretestuose e stupide, ma tutte accomunate nella lontananza dalla realtà.
E così, sfuggendo a ogni obiettivo concreto, le opinioni si scontrano con altre opinioni ed è sempre rumore e acqua smossa nel pantano dei ranocchi.
[Pubblicato su “Anarchismo”, n. 44, dicembre 1984, pp. 2-3]
Il garbuglio del gendarme mondiale
Quali strumenti possiede lo Stato più forte del mondo? Strumenti per offendere, s’intende, ma anche per difendersi e per imporre i propri interessi a tutti gli altri Stati? Di certo, le armi, le bombe atomiche, le grandi portaerei che solcano gli oceani pronte ad attaccare in lungo e largo le coste a rischio, e i sommergibili, e i missili intercontinentali, e tutto il resto. Ma questi strumenti li possiede anche un impero in decomposizione come la Russia, dove restano allo stato dormiente, semplice spauracchio per improbabili equilibri internazionali, e anche materiale di contrattazione per aiuti e sovvenzioni. Più il mercato si allarga, in quest’ultimo paese, e più esso diventa dipendente dai giri d’affari internazionali, per cui le antiche idee di grandezza militare tramontano e ad altri vengono affidati i compiti sempre più gravosi di gendarme mondiale.
Non è detto che gli Stati Uniti possano assumersi questo incarico a lungo, per cui attraverso l’ONU e la NATO cercano di trasferire una parte del peso finanziario dell’operazione su altri Stati che traggono beneficio delle operazioni di polizia internazionale.
Solo che i piccoli Stati, bellicosi e in balia di lotte intestine fomentate sia dall’esterno che dall’interno, teatro di scontri tribali o di clientela, hanno imparato a non avere paura delle grandi decisioni, reboanti e fastidiose, di pacifismo mondiale redatte dall’ONU, come pure dei timidi movimenti bellici realizzati dalla NATO. In fondo, queste strutture hanno fatto il loro tempo e non sono in grado di affrontare, con convinzione e concretezza, il sempre crescente numero di guerre civili che stanno ormai costellando l’intera carta del mondo.
L’inefficacia della politica internazionale dei grandi Stati è dimostrata dal suo esaurimento e dalla sua progressiva sostituzione con gli accordi economici, che gli Stati più forti impongono in mille maniere a quelli più deboli. Non è un caso che tutti gli attuali ministri degli esteri nei paesi più avanzati industrialmente non siano uomini politici di carriera, ma economisti prestati alla politica.
Un garbuglio irrisolvibile, in termini di controllo mondiale. Le prospettive restano quelle di un crescente dilagare delle condizioni di anomalia sia dello scontro bellico in senso stretto che delle condizioni di sopravvivenza o di miseria in cui versa la maggior parte della popolazione del globo. Più forte e solo si erge il massiccio gigante americano, più si dimostra impotente, ma neanche i suoi miserabili alleati possono godere della condizione d’instabilità all’imboccatura del porto di Rodi, le macerie del colosso potrebbero ritrovarsele in casa propria.
[Pubblicato su “Canenero”, n. 8, 16 dicembre 1994, p. 8]
Bosnia
Più si parla di una notizia e meno se ne dice.
Questa regola aurea del giornalismo non cessa di funzionare, anzi diventa sempre più evidente quando si tratta di argomenti che si sviluppano per mesi, e anche per anni, e quando si tratta, come nel caso della guerra in Bosnia, di massacri di massa che ci vengono messi sotto il naso proprio al momento di andare a tavola, tramite i telegiornali più importanti.
Sulla guerra in Bosnia si è detto tutto o quasi tutto. Si è detto delle uccisioni, degli stupri, delle feroci persecuzioni razziali, si è detto dell’incapacità delle Nazioni Unite di porre fine al massacro, della inutilità delle trattative diplomatiche. Si continuano a elencare le meritevoli intenzioni di chi volontariamente cerca di portare aiuti alle popolazioni colpite, medicine e vitto, si precisano le responsabilità e gli equilibri non mantenuti, si delineano gli interessi nazionali e internazionali che ormai sono diventati tanto confusi da sfumare in un caos più o meno omogeneo. Ma dietro tutte queste parole, e immagini, e poi ancora parole e ancora immagini, non c’è un briciolo di serietà. Non tanto di serietà informativa, che questa non esiste diciamo quasi per principio, ma di serietà propositiva, cioè di reale interesse a far luce proponendo non una soluzione quanto una strada per capire meglio le cose e quindi, se del caso, per indicare una via di intervento.
Non c’è occasione che non si è colta per evitare di dire qualcosa, coprendo questa intenzione reale di nascondere sotto un fiume di retorica e di parole. Così viene dato spazio allo sciopero della fame dei bambini che rifiutano la merenda per inviare i soldi del buono mensa relativo ai bambini bosniaci affamati, iniziativa lodevole sul piano umano ed educazionista, ma poco più che inutile sul piano reale delle cose. Sottolineare questa congiura internazionale dell’informazione non è forse pratica gradevole ai palati ormai infetti di tanti lettori di teleromanzi e telenovelle, ma è anche cosa da fare. Fin quando ci addormenteremo la coscienza con semplici petizioni di principio o anche con più radicali, ma altrettanto inefficienti se non proprio collaboranti, iniziative volontarie di sostegno e solidarietà, non capiremo dove sta il problema, e non avendolo capito non potremo cominciare a fare veramente qualcosa.
Cosa aspettiamo a dire che quella guerra è la nostra guerra? Che siamo stati noi a scatenarla e non una qualsiasi delle parti in causa più o meno responsabile delle altre? Perché troviamo difficoltà ad ammettere che il nostro perbenismo ci impedisce di andare oltre una carità pelosa? Perché non diciamo apertamente che tranne una minuta minoranza non riusciremmo a distinguere chiaramente tra un bosniaco in fuga dalla sua terra e uno zingaro che da sempre abbiamo identificato nelle figure abiette del mendicante e del ladro di bambini? Ci toccano il tasto sensibile della nostra falsa coscienza ma si guardano bene dal sollecitare una azione vera e propria, poniamo contro i responsabili di quella guerra che sono anche qui da noi. Che ne pensate, tanto per fare un esempio, delle nostre fabbriche di armi che danno da mangiare a migliaia di operai ma che producono la metà dell’armamentario che sta uccidendo migliaia di uomini, donne e bambini in Bosnia? Oppure le cose sono separate? Oppure la nostra carità pelosa può esimerci dal domandarci cosa dobbiamo fare di quelle fabbriche e degli operai che vi lavorano e del loro corporativo perbenismo e dei sindacati che lo difendono e di tutto il resto?
[Pubblicato su “Anarchismo”, n. 73, maggio 1994, pp. 14-15, col titolo: “Come non dire la Bosnia”]
La trappola cecena
Vano sarebbe inoltrarsi in una spiegazione dei fatti ceceni avente la pretesa di dar conto di tutto. Il problema è complesso e, nei prossimi mesi [1995], potrebbe coinvolgere aspetti sempre più intricati e difficili da capire.
Le intenzioni fondamentaliste dell’Islam, almeno per il momento, non appaiono in primo piano, ma sono presenti. Così il ruolo dell’esercito russo, cui bisogna pur dare l’impressione di tornare all’antica trascorsa importanza. Se i generali ci sono, devono lavorare, e il lavoro dei generali è la guerra. I militari, con tutte le loro passate prerogative e i loro antichi privilegi, non possono adesso fare la coda insieme alle massaie per qualche rapa e un cavolfiore. Potrebbero mettersi in testa idee malsane. Infine, il pericolo di un dilagare delle rivendicazioni indipendentiste, di una rottura delle fragili convenzioni associative tra Stati partner usciti dall’antica compagine dell’URSS, la perdita del controllo da parte della Russia, l’impoverimento delle sue di già precarie condizioni economiche, e tutto il resto.
Ma detto questo non si è detto ancora nulla. Due considerazioni ci sembrano interessanti. La prima riguarda l’impotenza dei movimenti pacifisti internazionali guidati, direttamente o indirettamente, dalle istituzioni. Dall’ONU alla più piccola associazione di volontariato, è venuta fuori la nullità assoluta, non tanto il disinteresse, che questo non appena si valicano le soglie di casa spesso è totale, ma proprio la coscienza di non poter fare nulla, nemmeno organizzare una spedizione di soccorso, nemmeno guardare una cartina geografica per rendersi conto di dove si trova Grozny.
La seconda considerazione riguarda invece l’impossibilità della guerra intesa nel senso militare classico. Ancora una volta un esercito imponente e dotato di mezzi di grande efficacia viene umiliato nello scontro diretto da un popolo in armi. Non voglio specificare le ragioni del governo ceceno di contrapporsi all’invasione russa, non mi interessano, né mi riguardano. Voglio sottolineare la forza di resistenza e la capacità organizzativa della gente che si rivolta contro l’idea dell’occupazione militare nemica. Questa forza rende risibili le pretese militari classiche, fondate sul concetto di conquista, controllo e gestione dei territori occupati.
La riflessione merita un approfondimento. Qualunque conquista militare si basa su di una collaborazione locale, su di un governo servizievole, su di una burocrazia e una polizia locali, capaci di mantenere l’ordine in nome del conquistatore. In tempi lunghi, si basa anche su di un travaso di valori, dal conquistatore al conquistato, in modo che quest’ultimo faccia proprie le idee e riconosca giusti i metodi dell’ex nemico. Tutto questo, che definiamo colonizzazione militare, ha fatto il suo tempo, e anche all’epoca della sua più ampia utilizzazione non riuscì mai ad essere soddisfacente.
Senza citare i casi del Vietnam o dell’Afghanistan, clamorosi come fallimenti militari di potentissimi eserciti d’occupazione, andando indietro si deve considerare un fallimento militare non solo l’occupazione nazista dell’URSS, conclusasi con il rovesciamento del fronte a Stalingrado, ma perfino l’occupazione della Francia, da tutti considerata una “vittoria” militare, che costò alla Germania anni di costante impegno per frenare le sempre più insistenti azioni del maquis.
La colonizzazione fondata sulla conquista militare è stata sempre inadeguata, specie se la si confronta con i più efficaci risultati della colonizzazione economica.
Ora, il ricorso a un mezzo tanto rozzo dimostra due cose: le condizioni di instabilità politica ed economica della Russia, e la necessità di impiegare comunque e in ogni caso l’esercito. Elementi questi che potrebbero determinare in futuro contraddizioni molto più gravi di quella attuale riguardante la piccola Cecenia.
[Pubblicato su “Canenero”, n. 10, 13 gennaio 1995, p. 3]
Un groviglio difficile da sciogliere
In una zona non molto lontana da casa nostra da anni si scannano. Con ferocia e pertinacia. Si scannano come solo uomini accecati ormai del tutto dall’odio e dalle reciproche (e a questo punto necessarie) vendette sanno fare.
Quando un groviglio di sentimenti e interessi (più i primi e meno i secondi), quando gli stupri si sono accavallati agli stupri, i massacri ai massacri, le distruzioni alle distruzioni, ogni tentativo di spiegare è del tutto inutile. Forse anche comprendere è inutile.
Chi vive la tragedia, dopo un poco, si cala del tutto nella dimensione della vendetta e della tenuta dei propri motivi. Ognuno, a questo modo, ha qualcuno da vendicare e buoni motivi per continuare a combattere e a morire.
Queste sono le condizioni della guerra civile.
Ed è veramente da imbecilli, da grossi imbecilli, andare lì e guardare le cose con gli occhi dell’osservatore, mezzo spaventato e mezzo disilluso, ricordando i propri schemi mentali e quando questi saltano (prima o poi, in questi casi, qualsiasi schema mentale salta) gridare come un ossesso che se il migliore amico ha potuto sparare a freddo contro la testa di un ceceno barbuto e sconosciuto, il mondo non ha più motivo per andare avanti. Tanto vale, ragiona l’imbecille di turno, andato là con i soldi di qualche giornale (di sinistra o di destra, non ha importanza), tanto vale accorrere in massa, porre fine alla tragedia, sollecitare (sono le tesi di molti che di faccende del genere non hanno mai capito un accidente), sollecitare l’arrivo salvifico della cavalleria americana, inglese, italiana e perfino spagnola.
Ma, andare a sciogliere un garbuglio del genere, costa prezzi che nessuno Stato può pagare.
Perciò, nei vicoli e nelle strade di campagna, nel fango e sotto il cielo stellato, si continuerà a sparare e a uccidere.
Fino in fondo.
[Pubblicato su “Canenero”, n. 29, 2 giugno 1995, p. 2]
La barbarie, strada per strada
Un grande Stato incarica il proprio esercito di invadere e occupare militarmente una piccola repubblica dichiaratasi indipendente. Quella che fino al giorno prima era faccenda politica e militare o, ricordando parole famose, una continuazione della politica con altri mezzi, il giorno dopo diventa risposta popolare, gente in armi, difesa di ogni strada, di ogni piazza, di ogni casa. E non c’è chi non partecipi, se non altro col cuore, per i piccoli aggrediti dal gigante invasore. È accaduto col Vietnam, è accaduto con l’Afghanistan. Sta accadendo con la Cecenia.
Quando gli invasori dilagano nel piccolo territorio occupato a colpi di cannone, e distruggendo, massacrando, stuprando, avanzano fino a dichiarare la terra invasa loro conquista, sono un esercito vincitore e la parte loro avversaria è un esercito sconfitto. Non appena si profila una risposta, non appena cioè – come sta accadendo in Cecenia – piccoli gruppi armati si trasferiscono in territorio russo e qui colpiscono uomini e cose, questi gruppi sono terroristi.
Non mi interessa distinguere che cosa è terrorismo e che cosa non lo è, spesso l’uso di questo termine ha valenza soltanto politica e serve a squalificare l’azione del nemico, indicandolo alla pubblica opinione come bandito che si deve sconfiggere con tutti i mezzi a disposizione, con le leggi speciali, con il massacro e, prima di ogni cosa, con la condanna morale.
E non mi interessa nemmeno stabilire se il gruppo islamico che ha condotto l’attacco contro la cittadina di Budionnovsk sia costituito da specialisti della guerriglia, da ex guardie del corpo o da semplici contadini che vogliono dare una risposta sanguinosa agli invasori, colpendo nel loro stesso territorio. Quando si scatenano questi conflitti non si sa dove si va a finire.
La ferocia – per altro soltanto assopita nel cuore dell’uomo, di tutti gli uomini – non tarda mai a risvegliarsi. Ferocia e barbarie crescono e dilagano. Nell’osservarle all’opera contro di noi, scatenano risposte inizialmente di difesa, poi di distruzione incontrollata, per cui noi stessi diventiamo feroci e barbari. È questione di tempo. I buoni sentimenti, la pietà, il rispetto per le idee dell’altro, finiscono per scomparire. Come potrebbero vivere in un terreno su cui scorre il sangue? Come si può discutere con gli aggressori, se non a colpi di fucile?
Al di là delle motivazioni integraliste dei dirigenti ceceni o delle preoccupazioni economiche di Eltsin, e anche al di là delle paure dei grandi Stati padroni del mondo, che non vogliono stuzzicare troppo il colosso russo (dopo tutto possessore del più grande deposito atomico dopo quello americano), la risposta armata dei Ceceni potrà continuare a lungo in futuro e forse riuscire a trovare appoggio in altre situazioni non molto diverse. Fino a quando?
[Pubblicato su “Canenero”, n. 32, 23 giugno 1995, p. 2]
Andare via
Prendere in considerazione quanto è stato abbandonato, improvvisamente messo da parte, lasciato sul posto come un oggetto senza significato. Tutto arriva senza preavviso. Quello che sto facendo da tempo, da tanto tempo, diversi giorni sono tanto tempo, ora non posso farlo più, devo andare altrove. Altrove può significare poche decine di chilometri o in un altro continente, non so mai con sufficiente preavviso dove mi troverò.
Vengo privato dall’esperienza di assistere al disastro, le condizioni in cui mi trovo non possono reggere a lungo, di sentire questo disastro, di vederlo, di viverlo. La notte scorsa, prima della partenza, mi sono illuso di potermi appagare di una cerchia stabile di vita, di una casa, di una famiglia. Ogni tanto ritornano queste immagini sfocate, remote. Le devo allontanare, forse si tratta del pericolo peggiore da affrontare in un posto come questo. L’indifendibilità del luogo è soffocante, tutto qui mi ricorda quarant’anni nel deserto, la proscrizione, la dannazione, il roveto infuocato, anche chi si dedica come sempre ai lavori di una sperduta fattoria di campagna ha un senso di provvisorietà, me li immagino dormire con la valigia sotto il letto.
Loro sono qui per la libertà. Anche io sono qui per la libertà. Chi si è ingannato di più? C’è un luogo fisico privilegiato dove si collocano i difensori della libertà? Non credo che ci sia. Nessuno nasce schiavo e nessuno nasce padrone, molte condizioni concorrono alla formazione di queste categorie e queste stesse condizioni frastagliano in mille modi le apparenti omogeneità dei risultati. Ognuno sta seduto sul proprio diritto come su un trono e non se ne cura, si sente al sicuro e non sa che tutto traballa, i troni più di ogni altra cosa al mondo. Sono venuto nel mondo della follia, dove tutti hanno ragione e tutti torto, dove tutti pensano che la loro ragione avendo più forza di quella dell’avversario finirà per trionfare. Ma questa ragione, e l’altra, sono basate tutte su luoghi comuni, la tradizione, l’originarietà del lungo e della terra, la nazione, la lingua, la sofferenza, i milioni di morti, la prima ondata di coloni che svangano la terra si può dire quasi con le mani, gli alberi dei giusti, l’ospitalità, il lavoro in comune, il sogno di una nazione sorella di un’altra nazione senza barriere di regione e di lingua. Tutto ciò me lo sono portato dietro, trascinato nel mio ridicolo bagaglio, e ora l’osservo tagliato a pezzi sotto i miei occhi, in questa strada polverosa, sotto un sole non immaginabile, un incantesimo che a poco a poco si sta sbriciolando senza riuscire a scuotere la mia radicata convinzione di essere nel giusto.
Nessuno nasce sfruttato o padrone, le condizioni esterne partecipano a questa distinzione e per le loro grandissime variazioni producono uno schieramento molto variegato. Ho visto fotografie dei campi dove lunghi casermoni di legno allineati si susseguivano a fontane comuni per porci e uomini. Altre fotografie mi hanno fatto vedere condizioni simili in campi nemici. I padroni stanno annidati in luoghi sicuri, dall’una e dall’altra parte, non hanno indosso i panni cenciosi dei proletari. Da un lato la necessità di una ospitalità forzata, dall’altro lato il mito della prima ondata di coloni, il lavoro in comune, il sacrificio come ricompensa del pane quotidiano. Che ci sto a fare qui? Le condanne dell’al di là, diffuse un tempo, ora un poco di meno in grado di preoccupare, sono state sostituite da al di qua provvisti di dolori e ingiustizie di gran lunga maggiori. Passano i mesi e mi rendo conto, o almeno mi pare, di cercare di sfuggire a un giudizio di condanna. Come qualunque responsabile desidero soltanto che la mia responsabilità non affiori, non sono portatore di libertà, non per il sostegno ideologico che so così bene offrire a me stesso. Colpevole e innocente di tutto questo lo sono in eguale misura, qualunque cosa faccia. Il massacro è tanto evidente, sono stato a Chatila, per non riuscire a decidere su questa atroce dicotomia. Occorre essere coscienti dei propri limiti e delle proprie possibilità. Qui il coraggio è merce che costa poco perché abbonda da ogni parte. Gettare in faccia al nemico un’accusa di viltà è ridicolo.
La grande forza della vita, anche questa si vede dappertutto, anche nei cimiteri a cielo aperto, anche di fronte ai cadaveri fatti a pezzi. Al di là c’è la rinuncia a tutto questo per accettare la vita, per non farsi pezzo di carne morta. Se poi dovesse accadere proprio a me non me ne accorgerei nemmeno. La morte è anch’essa una merce inflazionata, come se volessi indicare a me stesso con un contrassegno di incorporeità, vivo qui, in questo buco, e non ho altro al di fuori di me stesso, nemmeno lo spazio che occupo provvisoriamente con la mia mole corporea, a stretto rigore, mi appartiene, l’ho preso a prestito. Non possiedo assolutamente nulla. Gli ammennicoli da offesa e da difesa come corpi estranei si dissanguerebbero nella disillusione mentre restano muti nella speranza. Gli urli di vittoria che alzano al cielo nell’orgia dell’ideologia mi dicono tanto poco che in quelle occasioni mi tappo le orecchie. Voglio penetrare solo nella libertà. In quello che porto con me, solo nel mio unico possesso. Piccolo possesso munito però di una grande struttura armonica che mi avvolge come un’armatura. E a questo possesso amoroso faccio condividere il mio destino, compresi tutti i pericoli e le malcomprensioni. Quando mi confronto con essa sono momenti di analisi impietose. Perché sono venuto qui? A che fare? Che cosa può trasformare una pietra libera, pesante quanto un carico di ideologia, resta solo una pietra, ma è una pietra capace di scatenare tutte le gradazioni del bene e del male. Non sono scappato a nascondermi dietro mille alibi, primo fra tutti la mia posizione sociale, la mia ricchezza, per non essere annientato. Ma ho scelto di espormi dove l’annientamento è più apertamente facile. Forse è un modo come un altro per sfuggire alle proprie responsabilità, mettersi sotto il tiro nemico. Morire su di un campo di battaglia è la cosa più stupida del mondo. Morire in un’imboscata è perfino ancora più stupido. Non ci sono certezze, solo provvisorietà.
Domani partirò, oppure stasera stessa, con un carico meno pesante.
[2006]
Senza
Possedere qualcosa è un indice di perfezione, anche una piccola, minuscola, cosa, una pietra, un oggetto, un vecchio quaderno sdrucito con appunti a matita: non mi posso fidare di una penna che potrebbe cadermi per terra e tradirmi. La matita è più sicura. Sono qualcuno proprio perché sono perfettamente in possesso di questa matita e di questo quaderno. Senza di loro non sarei perfetto. Sono loro la mia perfezione. Mi ricordano che esisto al di qua di questo posto, che sono al di qua, o al di là?, insomma sono esistito in un mondo dove c’era libro e dove c’era da studiare. Non che qui manchi lo studio, indispensabile e necessario come qualsiasi altro studio, ma si tratta di uno studio diverso. Si tratta di movimenti, cambiamenti di prospettiva, lunghi percorsi in fila indiana, uno dietro l’altro, uno a controllare l’altro. Uno studio di centimetri e di centinaia di metri, di certezze e di ripensamenti, di scalate con il fiato in gola, di discese a rotta di collo.
Il coraggio della natura, il mio coraggio, è stato sottoposto a un’accurata selezione, ho parlato a lungo con lui, me lo sono fatto sedere davanti, come un amico (non tanto amico) e gli ho detto chiaro e tondo che qui non si trattava dell’audacia della giovinezza, per altro non più acerba, ma di un coinvolgimento di tutto quello che mi costituisce, della totalità di me stesso. Ha tralignato un poco, come tralignano milioni di persone quando arrivano di fronte alla verità. Non c’è modo di tornare indietro, né di andare avanti senza chiarire questo punto essenziale. Il coraggio è la totalità di me stesso, non mi posso appoggiare su nessuna protesi. Anche quella tecnologica, per altro non proprio sconvolgente, è traditrice, e viene meno proprio nel momento opportuno. Coraggioso e infervorato, ardente del sacro fuoco della libertà. Ho impostato così la mia discussione con l’interlocutore alquanto frastornato da questo bombardamento di parole. Io solo combatterò, solo io cadrò, ebbi a pensare al grande poeta che scrisse queste parole in una pessima poesia, e non mi uscirono dalla bocca, ne ebbi un poco vergogna, meglio così.
Affrontare un rischio, anche grande, un rischio mortale, un rischio in cui la possibilità di cedere la propria vita in cambio di qualcosa è altamente possibile, ma non sapere per che cosa la si mette in gioco richiede la coscienza di un rischio ancora più alto. La libertà è certo un bel progetto, ma le mie critiche del determinismo non potevano essere rimaste senza effetto. Dietro la parola poteva nascondersi il fantasma di un’altra forma di dominio della volontà. Volere la libertà a tutti i costi, anche a costo della propria vita, è un impegno molto pericoloso, non tanto per la morte quasi certa, ma per l’inganno che può celarsi dietro la parola.
Per questo motivo ho fatto alzare il coraggio dalla sua sedia e ho invitato a sedersi il portatore di libertà. Questo giovane uomo mi somigliava in maniera inquietante. Parlava e indirizzava verso di me il suo braccio proteso, la sua intelligenza era vivace e molte parole ingegnosamente cercavano di nasconderla per non offendermi, per non mettermi in difficoltà. Mi pareva di capire che questo giovane guerriero non volesse diventare uno strumento nelle mani dei conquistatori, futuri e presenti, non poteva sembrargli accettabile. Oscuri stati d’animo mi spingevano a parlare con lui, a porre domande, a fare sfoggio con lui, proprio con lui, della mia cultura, dei miei mezzi conoscitivi e perfino del mio coraggio vero, non quello fasullo delle barricate. Chissà perché sono rimasto zitto ad ascoltare. Ma il giovane uomo dai capelli neri aveva finito di parlare, adesso mi guardava fisso ed era come se aspettasse qualcosa, non una parola, anche lui, penso, non sapeva che farsene delle parole, ma un cenno, un movimento del viso, di quelli che toccano il cuore, qualche contrazione delle labbra, una smorfia capace di conquistarmi a lui, alla sua causa.
Ormai il reciproco silenzio stava diventando imbarazzante. Speravo mi afferrasse una mano, me la stringesse, come per dichiarare con questo gesto di amicizia di appartenere allo stesso gruppo, alla stessa tribù, ai seguaci del silenzio, se non altro. Ma non ci fu nessuna stretta di mano. L’essere entrambi avversari della gloria, che è seguace di coloro che amano il possesso, non poteva avere bisogno di spiegazioni.
Le mie mancanze mi tengono abbracciato così strettamente che mi sento una figura possente, agile e forte, eppure la lotta non è ancora iniziata, la vera e ultima lotta con me stesso per azzerare i fortilizi di controllo della volontà, tutto quello che io stesso ho apprestato per rendere inespugnabili i miei possedimenti. Liberare la libertà è lo scontro più difficile che si possa immaginare, si tratta di un impegno continuo e spossante, per evitare di cadere nella propria trappola, diventando un avventuriero qualsiasi dove il cambiamento, anche radicale, non è altro che una questione di parole. Questa lotta non ammette riduzioni di impegno, neppure ammette raggiri, falsità o menzogne. La verità, come la libertà, deve essere stanata dal suo nascondiglio, dagli altari dove è predicata e incensata, deve uscire all’aperto, rafforzarsi nella mancanza di possesso, e così non essere la libertà di qualcosa ma soltanto la libertà, e nemmeno la verità di qualcosa ma la verità.
È questa lotta che affronterò e a cui dedicherò la mia vita. Ecco perché ho con me un quaderno e una matita. Un appunto di troppo, in questo genere di scontri, potrebbe essere un tradimento.
[2006]
Scampato
Molti sono dei rivoluzionari, vengono qui credendo di offrire qualcosa, quello che hanno. Solo che il più delle volte si sbagliano sul loro possesso. Credono in un mutamento dell’ordine sociale, ma non hanno idee riguardo l’ordine che vorrebbero sostituisse quello vecchio. Vedendo con i loro stessi occhi cosa accade quando l’ordine crolla, qualsiasi ordine, anche quello più feroce, entrano in fibrillazione e si danno a pensare curiose combinazioni e aggiustamenti per mettere su, abborracciata alla meno peggio, qualsiasi altra forma di ordine, purché funzioni, almeno nell’immediatezza. I più pronti a chiarirsi le idee in questo senso sono i marxisti.
Sono pronti alle manovre di sottobanco e alle politiche di piccolo cabotaggio, non si disgustano facilmente né delle prime né delle seconde. Ciò non toglie che alcune azioni pratiche, strettamente limitate, possano scampare alla catastrofe. In genere si tratta di azioni di breve durata, in cui è il coraggio a prevalere sul giudizio o sull’intelligenza. In queste azioni la caratteristica principale è di dare inizio a qualcosa, e di avere bisogno di qualcuno che poi lo possa continuare e sviluppare ulteriormente. In sé possono avere anche elementi sobillatori e irrispettosi della morale corrente, ma si tratta solo di spunti, mai di conclusioni o di affermazioni che possano condurre a conclusioni. Ogni ipotesi fondata sulla non esistenza attuale di qualcosa di preciso, in altre parole, ogni proposta che avesse in sé le caratteristiche dell’utopia, veniva accettata per amore di discussione, poi sottoposta a un terrificante disossamento, che faceva rimanere in vita solo fantasmi semplici e crudi, non difficili da eliminare o da svalutare, in quanto privi di tutti quei significati articolari che rendono corposa una proposta e quindi accettabile almeno in parte. Non si può togliere carne da uno scheletro.
Riflettendo poi sulla condizione presente, sulle possibilità di liberazione in una situazione disperata, di fronte a un nemico mille volte più forte e nascosto dietro la bandiera splendida e luminosa dell’olocausto, non si vedevano che volti sfiniti, espressioni ottuse, facce irrigidite dal dolore e dalla sorpresa, visibili scoramenti. Per contro, sul piano delle cose da fare, non c’era neanche tempo di riflettere troppo. Per la prima volta in vita mia mi trovavo a imparare e a mettere in pratica nello stesso tempo. Una massa di nozioni tecniche, indefinibile a tutta prima, prendeva corpo sotto i miei occhi, immersa in una fossa di sentimenti appiattiti, labirintici, dove non c’era spazio per il mio coraggio di élite, per la mia anima pura, per il tempo della mia natura incontaminata. Non ho visto nessuno antro di fate da quelle parti, tutto il mio antico materiale onirico si materializzava in immagini da incubo. Non ricordo qui quello che ho visto perché sembrerebbe incredibile. In un cadavere c’è sempre l’unicità della vita che ha vissuto, sia pure una povera vita, un piccolo balenio trascurabile, ma c’è anche nella carne morta questa fierezza, la quale finisce per emergere se si guarda bene. Ecco, questo mancava, non c’era che carne morta e nessun geroglifico contrassegnava l’itinerario dei miei sogni. Tutto era materia viscerale, carnale, costantemente in putrefazione. Non c’era tempo per seppellire i cadaveri. Il contenuto delle budella, appena uscito, si avviluppava in un contorno originale, imprevedibile, la materia fisiologica la si poteva guardare per ore affascinati senza scoprirvi né vita né bellezza, solo la ripugnanza della ripetitività. Capisco come fanno ad abituarsi i maneggiatori di cadaveri per mestiere.
Molti erano morti lottando con le unghie, con i coltelli, con una spatola, un pezzo di ferro, uno spiedo da cucina, ed erano morti combattendo contro le mitragliatrici dei carri armati, non in qualche battaglia medievale affrontando una catapulta. Dappertutto quasi una ossessione della corporeità e della vitalità, entrambi abbracciati nell’unica realtà rimasta, la morte. Per portare con sé, nel proprio cuore, qualcosa da impiegare contro questi massacratori, bisogna registrare questa realtà, senza cercare di capirla, senza porsi troppe domande che non otterrebbero che ingenue risposte, troppo coinvolgenti per essere ricordate. Immedesimandosi troppo si è presi dapprima da una sensazione di rigetto, da vomito fisico, da conati irrefrenabili, poi da una calma quasi irrispettosa, una sorta di noia che è una specie di istupidimento, i muscoli della faccia e della bocca si contraggono in una sorta di sorriso senza significato, come per dire: “Che cosa ci faccio qui io? Perché non è toccata a me la stessa cosa?”. Solo per una questione di tempo, poche ore, forse nemmeno una giornata, e non avremmo potuto fare molto nemmeno noi contro i carri armati.
Sono qua e ho paura di avere troppo interesse per il mio modo di respirare, indice certo che sono ancora in vita, ho vergogna nei riguardi dei morti, come se i miei malcerti sentimenti potrebbero disturbarli. Mi sento ipocrita, io, liberatore, davanti a questo cimitero a cielo aperto. Qui tutto è all’opposto dei princìpi morali per cui mi sono visto obbligato a venire qui. Una dura lezione. Quello che noi nascondiamo qua sotto le stelle. La barbarie cambia bandiera facilmente e non è facile inseguirla per combatterla. Si nasconde dietro commendatizie di lungo corso, dietro sfruttamenti secolari alla fine venuti a noi e capaci di produrre ulteriore barbarie. Qui non ci sono tipi asociali o psicopatici, ci sono persone normalissime che sventrano e tagliano a pezzi vecchi e bambini. Normalissime dal loro punto di vista, beninteso. Solo che esaminando questo loro punto di vista sono in grado di fare un salto indietro per lo schifo di quello che hanno fatto, mentre mi sento meno sicuro riguardo le motivazioni che li hanno spinti a fare quello che hanno fatto. Il mio essere liberatore mi rende fragile nella giustificazione e troppo lineare nelle condanne. Forma quasi una crosta su di me e mi tiene al caldo. Questa crosta mi disgusta.
[2006]
Il regno della morte
È gestito dagli antichi torturati, venuti qui a torturare, impiegando ciò che altrove hanno imparato molto bene. Sullo sfondo, l’utopia comunitaria degli antichi illusi, dei padri di tutto questo. Nella carne attuale, nel sangue che scorre nelle vene di tutti, di quell’utopia resta ben poco. Alcuni orpelli qua e là, il viale dei giusti, il muro del pianto, le sinagoghe, i viottoli e le grandi strade simili, troppo simili, a quelle europee. L’emarginazione, evidente, la distanza e il razzismo, perfino fra di loro, essendocene di bianchi e di neri. La miseria dell’uomo trova qui un riscontro esatto, indimenticabile. Più ancora di una visita ad Auschwitz e a Birkenau.
Il fruscio e il respiro soffocato degli antichi inseguimenti, delle retate notturne, la paura resa sostanza della propria carne, non sono stati ancora cancellati dopo tanti anni. Ecco perché la ferocia si è sostituita alla ferocia. Non che andasse perdonato l’imperdonabile, solo che non si incorporasse la ferocia nel proprio modo di vedere le cose, di organizzare la società. Che ne è stato dell’antico afflato libertario? Bisognava fare le cose diversamente, parlare di quella ferocia, non trasformarla in un brusio indistinto che penetra dappertutto e brucia il troppo parlare in una forma di silenzio ciarliero.
Non c’era bisogno di materializzare l’antica ferocia in nuova potenza militare, perché non si ripetesse mai più quello che per secoli era accaduto. La potenza militare è madre di un mondo in cui non puoi sollevare la testa senza essere colpito. Non puoi vivere irrigidito sempre nella paura che ritorni l’immondo sistema di una volta. Devi scioglierti e non supporre che tutto il mondo ce l’ha con te, perché fai parte del popolo eletto. Ci sono troppi errori in questo ragionamento per essere corretti tutti, ma da qualche parte bisogna pure cominciare. Vivere è andare oltre, conservare il passato, qualche cifra, luoghi appositamente delegati, libri di storici, scuole e università dove si ripetono sempre le stesse cose, testimoni oculari che a poco a poco perdono la memoria e calpestano e frustrano il proprio desiderio di ricordare. Alla fine o regna il silenzio e la ricostruzione che tiene conto dei bisogni dell’altro, in uno sforzo comune senza differenza di razza e di origine, oppure si ricostruisce nella ferocia e nella paura.
La ferocia verso l’altro, perfino verso l’orrido torturatore che deve essere abbattuto e non può essere perdonato, nasconde sempre un briciolo di paura, ecco perché queste operazioni di bassa giustizia non possono durare a lungo, ma devono essere risolte nel più breve tempo possibile, altrimenti si costruisce un nuovo mondo basato sulla ferocia e sulla paura. Fatto quello che va fatto, processi e sentenze sono farse indegne che scimmiottano una giustizia che non può reggersi sulle spalle dei massacratori, non bisogna pensarci più, non bisogna innalzare mausolei o sentieri dei giusti. Tutto ciò rigira il coltello nella piaga e ripresenta il pericolo all’orizzonte, alimentando sentimenti di rivalsa, di difesa a qualsiasi costo, anche a costo dell’ingiustizia e della ferocia. In questo modo il cerchio non si chiude mai.
A difesa della propria sicurezza si ergono allora mura difensive, ci si racchiude in cerchi di ferro e di fuoco, e così si finisce per diffidare di tutto quello che non è tangibile e controllabile, munito di contorni precisi. Ma la vita non può essere fatta fiorire in questi giardini interni, in queste serre a riscaldamento artificiale, privi di aria respirabile. La vita è uno stupendo affresco che cambia giorno per giorno, che mostra caratteri e atteggiamenti diversi, che fa diverso l’uomo ogni giorno, anche quando manifesta la sua tenebrosa e sensuale inattitudine alla pace e alla calma. La lotta va bene, rinnova le forze dell’uomo e della sua coscienza, spinge il mondo a un radicale miglioramento, la ferocia no, ne fa uno strumento programmato e pieno di paura che indietreggia non appena vengono a mancare le regole che impostano questa ferocia sulla base della produttività di mercato. La lotta è vita, la ferocia nella lotta la svilisce a comportamento repressivo disumano, applicazione stupida di modelli studiati a tavolino da pochi saccenti irresponsabilmente determinati nella loro mente pseudo-scientifica.
Ecco che le schiere dei dominati dalla ferocia non sono scomparse nella notte della tempesta, non sono andate via definitivamente con le categorie filosofiche di un pensiero ridicolo nella sua infantile meccanicità. Sono tornate, con i loro elmetti lucidi di foggia diversa, col loro passo cadenzato su diversa marcia, sono tornate queste schiere senza nemmeno sbandierare nuove categorie morali, solo raffazzonando una copertura tanto per non perdere la faccia, una copertura fondata sulla difesa del “ne abbiamo prese tante è ora il momento che a qualcuno dobbiamo darle noi”, l’esercito che millenni or sono faceva tremare il mondo con l’aiuto di Dio.
Un luogo dove vivere a fianco di un altro popolo, collettivamente, in comunità agricole o tecnologiche, lavorando in pace, ecco l’utopia della prima ondata. La seconda ondata, che si cerca di accomunare alla prima, è costituita da semplici colonizzatori che cacciano la gente dalle loro terre con la forza, utilizzando a volte l’aiuto indiretto e ben retribuito di eserciti stranieri. Gli elmetti sono cambiati ma le teste che li indossano no, sono rimaste le stesse.
Ecco perché sono qui, perché sono un liberatore. Ma è tanto difficile essere un liberatore, perché sotto ogni elmetto si nasconde una testa che sembra diversa da quella di una volta, che si poteva colpire con tutta coscienza di cuore, questa testa ragiona diversamente, almeno cerca di ragionare diversamente, oppone elementi che si fondano sulla propria sopravvivenza e non sulla pura oppressione in nome della purezza della razza. In fondo il razzista è un nemico feroce ma più lineare, i suoi ragionamenti se non movessero il vomito sarebbero faceti, questo che ho davanti non è un razzista, questo ha un elmetto diverso, e ragiona diversamente, anche se fa le stesse orribili cose dell’antico possessore dell’elmetto con la croce uncinata. Le fa ma ne parla in maniera diversa. Possono le parole modificare le cose che si fanno? Non lo so, certe volte lo possono, e molti cadono in questo equivoco. Io stesso ho sentito spesso tremare il mio dito indice sul grilletto.
[2006]
La verità
È la verità che mi ha spinto fin qui. La verità. Come un bambino ho sollevato il lembo di ciò che sconoscevo e ho scoperto la verità. Così mi sono ribellato con violenza a tutti coloro che volevano convincermi che stavo sollevando solo un lembo della verità. E l’altro lembo? Non mi importa di quello che l’altro lembo nasconde, non può nascondere la verità. Questa è una sola, e se sta da questa parte, come è possibile che si trovi anche dall’altra? Sarebbe uno stupido relativismo, e ho combattuto ogni filosofia del genere a partire dall’epistemologia neopositivista, grimaldello con cui ho scassinato la cassaforte crociana.
La verità e la libertà sono la stessa cosa, detta con due parole diverse. Non posso essere libero senza essere vero e, viceversa, non posso essere vero senza essere libero. Ma nessuno, che io conosca, nemmeno me stesso, è libero, in assoluto, può avere un pezzetto di libertà, anche codificata dalla legge, ma del tutto libero non lo è mai, quindi non è mai vero. Può essere parzialmente vero, in quello che fa o dice ci sarà sempre un pezzetto di libertà, e questo pezzetto avrà il suo valore, ma non ci sarà mai la libertà.
Sono venuto qui per cercare la verità tutta intera. Ci sono situazioni estreme in cui non ci sei che tu e la verità, tutto il resto del mondo scompare. Quando hai davanti una persona con gli occhiali tondi e scuri che impugna uno stiletto con cui ti sta bucherellando i coglioni, non ci sono più incertezze. La verità sta lì, davanti a te, ha il viso un po’ gonfio di questo maneggiatore di stiletti, tutto il mondo si riassume nella forza che sta imprimendo col polso al manico del suo stiletto. Lo spingerà fino in fondo, si limiterà a farmi dei piccoli buchetti per saggiare la mia forza di resistenza al dolore? In ogni caso, tutto è là, la tua vita è là, non c’è mai stato un prima e mai più ci sarà un dopo. Che cosa potrebbe accadere che aggiunga una sfumatura a questa verità assoluta? Mi sto illudendo? Mi trovo di fronte a un tizio che sadicamente ama usare il suo stiletto e si sta esercitando sui miei coglioni? Sono qui per caso? Eppure io so che chi mi guarda da dietro le sue spesse lenti nere e rotonde è un agente del Mossad e che l’esercizio del punteruolo è quello che questi specialisti della tortura fanno per spingere la gente a parlare. So anche che è questione di minuti, che fra pochi minuti cercherò di parlare, di inventarmi una storia qualsiasi, in gergo si dice di vendere un paio di scarpe vecchie. Non sono però un bravo venditore e non mi sono mai trovato in situazioni del genere. Chissà come me la caverò?
Ho paura, una paura distaccata, come se guardassi dall’esterno quello che mi sta accadendo, una paura fredda che ha origine dentro di me, nello scorrere del sangue nelle mie vene. La velocità di questa corsa sta rallentando, sono in preda a una specie di delirio iniziato non appena sono arrivati i primi colpi, uno strano delirio che rasenta la bramosia di provare gli affondi più significativi. Non è un particolare apprezzamento del mio coraggio, anzi è l’inizio di un dubbio sulla mia forza e quindi anche sul mio coraggio. Forse non l’ho messo veramente alla prova, forse tutte le chiacchiere che mi sono fatto, e che mi sono state fatte, non andavano nella giusta direzione. Noto che la tensione dei nervi, non dello scorrere del sangue che comincia a bagnarmi le gambe, mi sta facendo sudare. È forse il suggello che fra poco urlerò di dolore e di disperazione? Nel pantano vicino un batrace si fa sentire, so che sta apprezzando il mio comportamento. Pochi minuti ed è tutto finito. L’uomo dagli occhiali neri e rotondi non ha più lo stiletto in mano, sta annaspando l’aria cadendo nel migliore dei modi all’indietro. Gli manca metà testa a partire dal naso in giù.
Forse non avrei resistito. Millimetrici accordi impossibili da rinnegare emergono dal nulla e dettano la legge del caso, la buona e venerata legge che interviene nel momento migliore. Quando non interviene nessuno può mettersi a discutere sul suo mancato intervento. La verità si era improvvisamente sbriciolata in mille ipotesi. L’uomo dagli occhiali tondi e neri, ora con le braccia spalancate, non è più la verità, è una ipotesi, si inscrive nella possibilità che le cose sono andate in un certo modo, che i compagni sono arrivati prima che lui continuasse il suo lavoro di cesello e che io cominciassi a gridare come un tenore dell’opera lirica. Chi può dirlo? Se la prima era la verità, la seconda costituisce la menzogna della vita, io che gonfio il petto come il batrace che ha segnalato l’arrivo dei miei salvatori, che garantisco della mia integrità rivoluzionaria, che affermo davanti a tutti, anche davanti a me stesso, che avrei preferito farmi tagliare a pezzetti ma non parlare. Non lo so. Dove sta la verità non lo so. Le buone intenzioni sono agganciate e legate strettamente alle cattive, intrecciate costituiscono il tessuto profondo delle nostre fole, delle storie che raccontiamo la sera accanto al fuoco, per destare l’attenzione sopita di chi ci ascolta. L’apparenza riveste con le sue luci multicolori la verità e la nasconde, non le permette di farle vedere la luce. Sono le mie chiacchiere che mettono in campo dei forse un poco contorti, ma di certo abbastanza fondati. E se le cose fossero andate diversamente? Fino a quale punto sarei stato capace di arrivare? L’eroe di cartapesta si rigira nella sua corazza di cartone e non riesce a prendere sonno.
[2006]
Non ho lasciato a casa i pregiudizi
Lo avevo promesso e non l’ho fatto. Dopo tanto tempo passato a guardare gli errori degli altri, gli imprigionamenti dentro le fortezze epistemologiche, le difese a oltranza di punti di vista presi per caso, agganciati con uno spillo, adesso pensavo di essere arrivato fino qua, dentro questo caldo infernale, con pochi bagagli. Non è vero, il bagaglio che mi è rimasto è sempre troppo pesante. Non che la verità sarebbe un bagaglio vuoto, il rifiuto di ogni asserzione dogmatica non provata, mentre le affermazioni probabiliste fanno bene al fegato, non ho mai pensato qualcosa del genere. Anche queste sono malate di pregiudizio, una malattia che alligna dappertutto. Io conosco come venirne fuori, ma non è detto che la mia cura funzioni. L’azione è il riassunto immediato e compatto, la totalità della vita di un uomo, non ammette riporti o rinvii, non accetta compromessi che potrebbero risolversi in futuro in un modo nuovo di aggiustare le contraddizioni. Leggendo dentro le affermazioni dei filosofi, grossi e piccoli, in fondo su questo punto non c’è differenza, tutti sono d’accordo nel mantenere eretta una barriera, una differenza di salvaguardia. Altro è il pensiero, altro è il fare. Su questo punto si potrebbe anche essere d’accordo, ma l’agire? Non si può accorpare fare e agire. Ci sono dei momenti nella vita di un uomo dove tutto è riassunto in una spunta splendente, in un diamante talmente sottile che taglierebbe l’aria facendola sanguinare. Quel diamante è fatto di carne e di sangue, taglia il mio nemico ma ferisce anche il mio cuore. La pericolosa libertà globale di cui gode questa azione è dovuta al fatto che tutte le distinzioni sono fasulle, ipotesi pregiudiziali che suggeriscono piuttosto di colpire alla cieca e non di vedere attentamente dove menare i colpi.
Il nemico di cui parlo è il nemico della vita, quindi della mia vita come della sua. Lui non lo sa, perché è immerso nella bambagia che gli copre le orecchie e non può ascoltare le mie parole, per altro non sa leggere il mio linguaggio troppo tenero per i suoi occhi abituati ai complessi trattati della grande deduzione logica. Mi resta con tutto questo indefettibilmente nemico. Prima di collocarmelo di fronte, nello scontro che ne varrà della sua o della mia prevalenza, cerco ancora di parlare, ma è come menare fendenti al buio, si sente solo fischiare la lama, non si possono né preparare né parare i colpi. Tutto lo scontro è artefatto, deformato dal mondo che mi circonda e circonda il mio nemico, un mondo di marionette che si immaginano di vivere.
Se impongo la mia vita, così come essa appare a me stesso, degna o non degna di essere vissuta, allora l’altro è costretto a oppormi la sua vita, tutta la sua vita, o a scappare via. Non si tratta di avere ragione o torto, non è un giudizio di cui sto parlando, non è della verità che qui si taglia una fetta per metterla nella carta oleata. La vita non può essere tagliata a fette, esiste tutta in una volta, o esiste o non esiste, e vi sono dei movimenti che la sostengono e altri che la indeboliscono. Si tratta di vedere fino a che punto il rafforzamento della vita, della mia vita, possa venire fuori da un’affermazione di forza o da una rinuncia, da un’affermazione di debolezza.
Ho avuto un momento di debolezza nella mia vita. Ero giovane, troppo giovane, ma questa che suona come giustificazione è solo un mero dato anagrafico. Ho detto no alla vita. Poi mi sono ripromesso di non farlo più, di accettare la sfida del destino sempre a fronte alta, con aperto coraggio. Ho mantenuto questo giuramento? Non lo so, ci sono momenti nella vita in cui il limite tra coraggio e paura, tra forza e viltà, è tanto sottile che non sai mai se sei nell’ambito del coraggio o in quello della paura, se sei un codardo o un coraggioso. In fondo il coraggio stesso è un modo di non ammettere di avere paura.
Purtroppo i filosofi ci hanno insegnato, malevoli gufi, che molti limiti e molte regole, le corrispondenze e le relazioni che costituiscono e perpetuano il mondo, sono talmente indispensabili alla vita che senza di essi la vita stessa non sarebbe possibile. Che grave delitto questi parrucconi hanno commesso. Che delitto contro la vita. Frequentatori del negativo si sono illusi che dal nulla potesse sorgere qualcosa, per poi tornare al nulla. Ma perché questo spreco? La qualità non si origina dalla quantità, non più di quanto questa possa originarsi dall’altra. I due movimenti sono insieme e vengono separati per dare vita a un mondo fittizio, quello della percezione che nessuna anima venduta di filosofo può realmente considerare la vita reale. La ricerca dell’altro è una ricerca dell’unità, della ricomposizione, nei limiti in cui questa può essere realizzata dall’uomo nel mondo.
Il resto non l’ho messo nel mio bagaglio, e ho fatto bene.
[2006]
Fuori
Nascondersi ha molti aspetti, molte maschere e molte verità. Ci sono verità che servono solo per nascondersi. La libertà come valore è una di queste verità. Mi sono fatto portatore di verità e mi sono nascosto dietro questo enorme macigno. Così ho visto passare tanti coraggiosi per scherzo, soldatacci da marionetta, pronti a fuggire al primo accenno di pericolo. Ho sempre avuto in gran sospetto i facinorosi e i vocianti, i prevaricatori a parole che al momento opportuno si trovano sempre in un altro posto. Gli invadenti mi danno la nausea, specialmente quando cercano di entrare dentro di me con domande: “Che ne pensi di Leopardi”. Occasionisti che si forniscono così a basso prezzo di occasioni per parlare di quello che hanno letto la sera prima. Ne ho incontrati nel pieno del pericolo e reagivano allo stesso modo, rilanciavano senza avere i soldi bastevoli per coprire la posta. Avventati, non coraggiosi, incapaci di odiare, quando per attaccare il nemico bisogna essere capaci di odiarlo. Per poi scordarsene, senza passare la vita a odiarlo, e ricordarsene al momento opportuno, e poi tornare a pensare alla bellezza della vita, dell’amore, dello struggimento d’amore, non di quattro chiacchiere notturne in un quadrivio.
Mi nascondo perché non voglio conoscermi, non voglio conoscermi perché dovrei venire fuori, allo scoperto, affrontare il pericolo, e il mio fare da gradasso è una copertura. Ne ho visto in opera, e forse ne ho messo in opera, non potrei giurarci, ma ne sono quasi sicuro. Sono stato portatore di libertà e ne ero fiero. Questo semplice fatto mi avrebbe dovuto fare insospettire. Essere fiero di qualcosa che si sta facendo, quando non è ancora fatta, è una ipoteca che preclude ogni uscita futura, dovrò necessariamente esserne fiero in futuro, qualunque cosa accada. Ecco perché sono raffinato nella ricerca delle giustificazioni, multiforme nei rinvii, delicato e sottile nelle differenziazioni. Invece tutto procede allo stesso modo. Anche ora, che mi sento debole, pretendo ancora di spezzare il collo di una persona con due dita. Non ne sarei capace, ma lo pretendo, ed è per questo che sono un buffone travestito da liberatore. Persone migliori di me hanno raggiunto piccole conclusioni e adesso moriranno per difenderle e io non posso essere là con loro, né lo voglio.
[2006]
Uno Stato è uno Stato
Uno Stato è uno Stato, non c’è verso di venirne a capo. Ha le sue regole e da queste non può deflettere. La democrazia è stata imbrigliata in modo da fare il minore danno possibile con il massimo risultato. Partiti politici e sindacati si coordinano con gruppi di opinione e di pressione per fare in modo che chi ha il potere economico nelle mani non lo usi in modo troppo scellerato.
Ciò avviene anche in Israele. Eppure qui c’è qualcosa che stona. Se questo qualcosa non stonasse, se tutto fosse normale, cioè se ci si trovasse davanti a uno Stato come tutti gli altri, i problemi sarebbero molto più facili e, se non risolvibili, indirizzabili alla comune amministrazione, come gli altri Stati. Invece Israele è uno Stato speciale, ha alle spalle l’esperienza del “male assoluto”, come lo chiamo io o, come di solito è chiamato, dell’olocausto. Questa esperienza non passa, appartiene a un passato che non può essere storicizzato. Altri popoli hanno subìto esperienze simili, in altri posti gli stessi ebrei, gli armeni, gli indiani d’America, ma solo alcuni, e di recente, stanno riportando in luce gli aspetti di olocausto impliciti nella loro distruzione di massa. Gli ebrei l’hanno fatto da subito.
Perché? Perché si ritengono un popolo particolare, predestinato da Dio a subire ogni sorta di persecuzione per i propri errori. In parte, gli stessi ebrei si considerano responsabili dell’olocausto, ed è stato questo il motivo per cui alcuni di loro collaborarono a suo tempo con i nazisti offrendo gli elenchi dei loro compagni o sottoscrivendo ingenti versamenti in denaro nella speranza che tutto tornasse alla “normalità”. Ed è anche per questo che molti di loro criticarono quelli, non pochi, che cercarono di organizzare la resistenza armata contro i nazisti che volevano distruggerli tutti, fino all’ultimo.
Alcuni hanno sostenuto che è sbagliato parlare di “male assoluto”, io penso che invece sia giusto, perché se la morte che si vuole infliggere all’avversario è male, l’intenzione, anche soltanto parziale, di distruggere un popolo (e i nazisti andarono avanti nelle loro intenzioni), è un male radicale. Distruggere un popolo significa impedire che si sviluppi nel tempo la sua unità etnica e storica, che comprende non solo le persone fisiche che lo costituiscono, ma principalmente la sua cultura, le sue tradizioni, la sua storia, i progetti che i singoli individui da quel patrimonio potranno trarre fuori, guardando a un avvenire che chi mette mano a tale genere di distruzione vuole azzerare.
Non ritengo sia accettabile assegnare a un simbolo il ricordo di un fatto del genere, talmente grave da dovere essere ricordato per sempre, ogni giorno e ogni momento nella vita di ogni uomo, ebreo o no che sia, quindi non sono d’accordo con giornate rammemorative o simboli più fisicamente individuabili, tipo i viali alberati dei giusti. Ognuno la pensa come vuole su questo punto, ma il ricordo deve essere anche rivolto a quello che quel popolo – e ciò nel corso di centinaia di anni – ha subito, e non si tratta di un episodio eccezionale e isolato. Non c’è dubbio che Israele, ponendosi come punto di riferimento statale per tutti gli ebrei di tutto il mondo, si sia assunto tutte le responsabilità attuali di uno Stato come tutti gli altri stati, e nessuna scusa in questo senso può essere messa in campo facendo aggio sull’olocausto.
Per molti aspetti questa storia, se si vuole alla rovescia, ricorda l’uso strumentale che è stato fatto della Resistenza in Italia, per cercare di cancellare i comportamenti del fascismo, sia prima che durante la seconda guerra mondiale. Un fatto positivo non cancella un fatto negativo, la storia non è una partita di pallone, dove si vince o si perde ma si può anche pareggiare. I meriti della Resistenza, quella vera s’intende, e non i certificati falsi redatti a posteriori, sono quelli che sono, non possono ricostruire verginità a nessuno. Ho conosciuto molti compagni che avevano continuato a combattere “dopo” che era stata dichiarata la fine del conflitto dallo Stato italiano. Questi compagni vennero condannati a centinaia di anni di carcere per banditismo, rapine, omicidi. Specialmente gli anarchici, non difesi da nessuno. Un solo esempio, i compagni di Carrara: Petrini, Mariga, Re e tanti altri si fecero ognuno più di trent’anni di carcere. I comunisti, difesi dal partito e da avvocati come Terracini, si fecero da cinque a dieci anni di carcere, alcuni andarono poi ad affrontare indicibili sofferenze e a morire in Russia, patria del socialismo.
Non ci sono azioni che possono caratterizzare per sempre un popolo, come lo stesso per un singolo uomo. Se uno è stato coraggioso una volta, se un popolo è stato perseguitato per centinaia di anni (come senza dubbio il popolo ebraico), ciò non garantisce quell’uomo, o quel popolo, contro una futura canagliata. L’uomo può diventare un torturatore e una spia, il popolo può cadere nelle mani di governanti non molto diversi da quelli di una volta, magari formalmente diversi, ma nella sostanza ugualmente desiderosi di comandarlo e di ingannarlo.
[2006]
La guerra e la pace
Gli ultimi anni [1982] si sono sempre di più caratterizzati per una presenza costante nella pubblicistica di ogni tipo (compresa quella anarchica) sul tema della guerra. La guerra si avvicina, sta per scoppiare, i due grandi blocchi internazionali contrapposti si stanno indirizzando verso la guerra: facciamo di tutto perché non scoppi, facciamo di tutto perché il mondo non vada in malora, distrutto dalle fondamenta a causa delle pazze velleità dei nostri governanti e dei loro sciocchi servitori.
Come spesso accade, quando affrontiamo un argomento che scatena, fin nel nostro intimo, una complessa reazione di sentimenti e paure, non siamo stati – almeno mi pare – in grado di approfondire adeguatamente il problema nei suoi aspetti sia pratici che teorici.
È necessario, infatti, quando ci si accinge a lottare contro un nemico che ci minaccia, chiedersi cosa vuol fare il nemico, perché il massimo di notizie possibili sulle sue azioni ci fornirà il massimo di occasioni per rintuzzarlo, difenderci, passare al contrattacco. Ecco, a me sembra che non ci siamo posti con chiarezza una domanda fondamentale: che cos’è la guerra? Non ce la siamo posti perché tutti crediamo, chi in un modo chi nell’altro, di sapere perfettamente cos’è la guerra e quindi di essere in grado di fare quanto necessario per combattere coloro che intendono realizzarla in tutto il mondo o in piccole zone limitate e circoscritte.
In realtà, invece, non abbiamo le idee chiare. Che queste idee le abbia poco chiare la stampa padronale ha poca importanza, perché non è certo da questa che possiamo trarre quanto ci bisogna per produrre quel minimo di analisi che ci necessita per dare coerenza e significato alla nostra azione antimilitarista.
Al contrario, leggendo una gran parte della stampa anarchica sembra di leggere “La Repubblica” o “L’Espresso” riveduti e corretti, quando non sembra di leggere una rivista di diritto internazionale, con poche modifiche di linguaggio e qualche ingenuità in più.
Per le idee padronali non si tratta tanto di mancanza di chiarezza, quanto di interessi grossolanamente evidenti: la guerra rappresenta per le classi dominanti un mezzo per garantire, dentro certi limiti, la continuazione del dominio. Ma per chi si pone contro il dominio, cosa significa la guerra nella sua spaventosa concretezza?
Per i padroni la guerra è una semplice accelerazione nell’impiego di mezzi che sono praticamente in corso di applicazione da sempre. Gli eserciti esistono, le bombe ci sono, le armi pure. Le guerre sono in atto ininterrottamente da sempre, scoppiando qua e là, secondo una geografia e una logica che seguono le regole dello sviluppo e della sopravvivenza del capitale. I padroni non hanno grandi problemi analitici da risolvere. Essi non possono scatenare la guerra per il semplice motivo che non hanno mai smesso di farla. Per coloro che intendono lottare contro la guerra, la cosa è diversa. La loro lotta, infatti, si dispiega attraverso un ventaglio di interventi e di azioni che sono realizzabili solo in funzione della propria capacità di svelare il meccanismo che regge il fenomeno della guerra.
Questo ventaglio è determinato, a sua volta, dai propri interessi di classe, dalle limitate concezioni che si possiedono sui fenomeni sociali e politici, dalla propria visione ideologica della realtà, ecc., e ciò anche in una situazione come quella presente in cui si parla dell’eventualità (non sappiamo quanto vicina o lontana) di una guerra nucleare capace di distruggere tutti e tutto in pochi attimi.
In linea teorica tutti dovrebbero essere contro la guerra, specialmente contro la guerra che oggi è diventata possibile, in quanto tutti sono esposti al pericolo dell’annientamento. Ma allora come si spiega che non tutti sono contro la guerra? Come si spiega che i governanti trovano sostenitori e realizzatori della loro follia? Si spiega col fatto semplicissimo e fondamentale della divisione di classe. È evidente che la guerra non fa paura a tutti, oppure non fa paura a tutti nello stesso modo. È chiaro che molti, vicini alle leve del dominio e legati allo sfruttamento, se non padroni o dominatori essi stessi, si fanno passare la paura della guerra con la prospettiva del rafforzamento della propria situazione di privilegio.
Da ciò deriva che le elucubrazioni che questa gente produce, sia nei giornali che attraverso le emittenti, non possono che rispecchiare il desiderio di far considerare la guerra come una cosa immediata. Esistono certamente possibilità che ciò sia vero, ma a tale conclusione dovremmo arrivarci da soli e non facendoci trainare dalle idee pilota di chi gestisce il potere.
Ritorna quindi l’importante quesito – che cos’è la guerra? Le pubblicazioni correnti, e anche i fogli anarchici, finiscono per diventare stupidi mezzi di ripetizione di quello che sostiene la propaganda di regime. Ci dicono che la guerra è vicina. Ripetiamo che dato che la guerra è vicina, bisogna fare tutto il possibile per allontanarla, per impedirla, perché gli anarchici sono stati da sempre contro la guerra e perché la guerra è una tremenda calamità che colpisce tutti, che non ha vincitori ma soltanto vittime, che costituisce un delitto contro l’umanità.
Argomenti bellissimi e profondamente morali che hanno un solo difetto: non spostano i programmi di genocidio del potere e non dicono nulla di nuovo alla gente.
Facciamo l’ipotesi che più correntemente si è verificata nella storia e che ha travolto – in passato – fior di anarchici della migliore levatura intellettuale. Come si è detto, siamo tutti contro la guerra (a parole). Anche i più convinti sostenitori delle virtù risolutive del conflitto armato tra gli Stati non hanno mai trovato il coraggio di affermarlo apertamente, tranne in qualche vano delirio, subito rintuzzato da collaboratori più avveduti e sagaci. Chi prepara la guerra è sempre uno dei propagandisti più accesi della pace. Di più. Egli imposta la sua propaganda di pace sul fatto che bisogna a tutti i costi fare il possibile per salvare i valori della civiltà, valori che risultano sistematicamente minacciati da quanto avviene nel campo avverso. (A sua volta l’avversario agisce e opera nello stesso senso). Bisogna fare di tutto per impedire la guerra e, spesso, si finisce per convincere la gente che dovendo fare di tutto si può anche fare la guerra per impedire una catastrofe più grossa. Allo scoppio della guerra che per prima si chiamò mondiale, Kropotkin, Grave, Malato e altri illustri anarchici giunsero alla conclusione che bisognava partecipare alla guerra per difendere le democrazie (francese, in primo luogo) attaccate dagli imperi centrali (Germania, in primo luogo). Questo tragico errore fu possibile, e sempre sarà possibile, perché si fece, allora, la stessa considerazione che si va facendo oggi: non si sviluppò un’analisi anarchica ma ci si affidò a una rielaborazione anarchica delle analisi fornite dagli studiosi e dai divulgatori al servizio dei padroni. Per cui si arrivò alla conclusione che la guerra restava sempre una tragedia immensa e terribile, ma era da preferirsi al più grave danno che sarebbe venuto da una vittoria del militarismo teutonico. Certo, non tutti gli anarchici furono ciechi davanti le gravi deviazioni di Kropotkin e compagni, Malatesta reagì violentemente scrivendo da Londra, ma il male era fatto e determinò, a sua volta, conseguenze non trascurabili su tutto il movimento anarchico mondiale.
Allo stesso modo oggi molti compagni anarchici non si fermano alle superficialità imperdonabili che si possono leggere su alcuni nostri giornali e riviste, ma approfondiscono meglio il problema.
Torniamo un momento alle affermazioni generiche che abbondano dappertutto. Non è certamente con gli appelli alla fraternità universale, all’umanità, alla pace, al valore della civiltà, che si possono mobilitare le forze realmente disponibili a combattere contro lo Stato. Altrimenti per quale motivo, quando ci troviamo all’interno dei problemi relativi allo scontro sociale ed economico (disoccupazione, case, scuole, ospedali, ecc.) evitiamo accuratamente di ricorrere a banalità del genere? Adesso che ci occupiamo della guerra siamo di colpo autorizzati forse a far scadere le nostre analisi al livello delle generalizzazioni degli umanitaristi radicali?
Il fatto è che ricorriamo a questi luoghi comuni, che hanno come denominatore il concetto di paura, perché non sappiamo cosa fare, né cosa dire, né che cosa sia in realtà – oggi, nell’attuale situazione politica italiana ed europea e mondiale – il fenomeno della guerra.
Presi dal panico per questa nostra incapacità, profondamente consci che né la nostra gloriosa tradizione antimilitarista (con le eccezioni viste sopra), né tutto il bagaglio altrettanto glorioso del pensiero anarchico, ci possono salvare, ricorriamo al laboratorio analitico del potere. E allora ci trasformiamo in dilettanti studiosi di problemi internazionali. I nostri fogli si riempiono di riflessioni, a dir poco comiche, sui rapporti tra USA e URSS, tra Nato e Patto di Varsavia, tra paesi del Medio Oriente ed Europa, i problemi economici si intersecano con le strategie militari, i dati tecnici relativi alle bombe A, H, N, si mischiano nelle nostre pagine (e nella nostra testa) agli effetti della propaganda psicologica. Ne viene fuori una grande confusione che dà la misura reale di quanto siamo lontani dalla realtà dello scontro e di quanto ogni nostro tentativo di avvicinarci manchi il bersaglio. Allora diventiamo pateticamente boriosi. Insistiamo nel costruire le nostre analisi con sempre maggiori dati, presi a prestito dai manuali del potere, e spieghiamo alla gente che la paura fa novanta. Non ci rendiamo conto che così facendo risultiamo funzionali a quella parte dello schieramento padronale che oggi gioca proprio sulla paura per ottenere due risultati fondamentali: distogliere l’attenzione delle masse sfruttate dal sempre più pesante sfruttamento che le aspetta e prepararle, perché no, proprio alla guerra. Non dimentichiamo che il modo migliore di spingere all’accettazione di una guerra è quello di diffonderne la paura. Domani, con pochi sapienti aggiustamenti nella propaganda di regime, questa paura della guerra totale si trasformerà facilmente nella voglia e nel desiderio di accettare una guerra limitata per impedire la guerra totale, e chissà che non si trovi un novello Kropotkin (fra i tanti neokropotkiniani che infestano i nostri fogli anarchici) capace di sostenere la necessità della piccola guerra di fronte alla guerra totale (dopo tutto, “piccolo è bello”).
Certo, noi anarchici siamo contro tutte le guerre, piccole o grandi che siano, ma una volta che ci limitiamo a impostare il nostro discorso esclusivamente, o fondamentalmente, sulla paura veniamo a collocarci all’estrema sinistra del capitale, fornendo a quest’ultimo lo spiraglio di cui necessita per attenuare il dissenso che autonomamente si produce all’interno della massa degli sfruttati.
Di più, una volta che sviluppiamo appieno la nostra critica alla guerra atomica totale e facciamo vedere come siano terribili gli effetti delle bombe atomiche di ogni ordine e grado, e una volta che aggiungiamo come semplice corollario che noi siamo non solo contro la guerra atomica ma contro ogni tipo di guerra tra Stati, perché ogni guerra è un genocidio, un misfatto abominevole, un delitto contro l’umanità, continuando con simili luoghi comuni, risultiamo contraddittori e dannosi. Forniamo infatti elementi fondati, scientifici e concreti contro la guerra atomica (questi ce li passa lo stesso capitale), ma ci limitiamo ai soliti luoghi comuni umanitari per quanto concerne la guerra non atomica, spingendo involontariamente la gente (che giustamente ha una ripulsa contro i luoghi comuni umanitari) a predisporsi per un rifiuto della guerra atomica e per una probabile accettazione della “piccola guerra”. E chissà che non sia proprio questo ciò che il capitale vuole da noi.
Poiché non si può mettere in dubbio la nostra buona fede, non resta che approfondire l’argomento e chiedersi come sviluppare meglio la propaganda contro la guerra.
Nel momento in cui approfondiamo questa parte del problema ci accorgiamo che la guerra costituisce un momento particolare della strategia generale di sfruttamento realizzata dal capitale.
Spieghiamoci. Per gli Stati esistono aspetti ufficiali che scandiscono la differenza tra stato di guerra e stato di pace sul piano del diritto internazionale. È ovvio che questo tipo di differenza non può interessare gli anarchici, i quali per cogliere una situazione reale di guerra non dovranno aspettare che sia lo Stato “A”, tramite la sua diplomazia, a consegnare una dichiarazione di guerra allo Stato “B”. Compito degli anarchici è principalmente quello di spezzare, per quanto possibile e per il maggior tempo possibile, la cortina ufficiale che gli Stati stendono davanti gli occhi dei popoli per sfruttarli, ingannarli e portarli al macello. Per far ciò, quindi, non possiamo aspettare che le formalità del diritto internazionale siano compiute, dobbiamo precorrere i tempi e denunciare la situazione reale di guerra anche quando non esista uno stato di guerra ufficialmente riconosciuto.
Il sospetto che non sia possibile stabilire un confine netto tra guerra e pace è venuto, per la verità, anche agli stessi teorici del potere. Clausewitz, ai suoi tempi, si vide costretto a sviluppare un’analisi della guerra come “continuazione della politica con altri mezzi”. Anche studiosi contemporanei (Bouthoul, Aron, Sereni, Fornari, ecc.) si sono resi conto del problema e hanno cercato di cogliere l’elemento che consente una differenziazione, sia pure minima, tra stato di guerra e stato di pace. Dopo l’esame degli elementi caratterizzati dalla conflittualità armata, dai fenomeni di massa, dai processi di tensione dell’opinione pubblica – tutti elementi che non sono specifici dello stato di guerra soltanto – questi studiosi hanno dovuto concludere che ciò che caratterizza la guerra è il suo carattere giuridico e che questo carattere risulta essere atipico nei confronti della struttura giuridica che regola gli Stati belligeranti in “tempo di pace”. In altre parole, la guerra risulta caratterizzata dalla legittimazione a uccidere, legittimazione realizzata attraverso la sfera giuridica che, di regola, in tempo di “pace” non tutela né l’omicidio né la strage.
Si vede chiaramente che i criteri che distinguono la guerra dalla pace non sono quelli che gli anarchici possono considerare validi. Noi non siamo disposti ad ammettere che lo “stato di guerra” ufficialmente dichiarato dal potere statale sia indispensabile per individuare, denunciare e attaccare una “situazione reale di guerra”. E, da parte sua, lo Stato sa benissimo che l’aspetto ufficiale della “dichiarazione” di guerra non fornisce che un semplice alibi giuridico per un allargarsi dei processi di morte che esso, di regola, persegue come caratteristica specifica del suo proprio esistere. Lo Stato è strumento di sfruttamento e di morte, quindi è strumento di guerra. Dire Stato, significa dire guerra. Non esistono Stati in guerra e Stati in pace. Non esistono Stati che vogliono la guerra e Stati che vogliono la pace. Tutti gli Stati, per il semplice fatto della loro esistenza, sono strumenti di guerra. Per convincersi di ciò, e per superare l’obiezione di chi ci accusa di facile massimalismo, basta pensare al fatto, ovvio, che non saranno il numero dei morti, la specificità dei mezzi usati, il terreno dello scontro, lo scopo che i belligeranti si prefiggono, a determinare una differenza tra lo “stato di guerra” e lo “stato di pace”. Uccidere sistematicamente una decina di lavoratori al giorno sul posto di lavoro è fenomeno di guerra che soltanto dal punto di vista del numero differisce (per quanto ci riguarda) dai morti che si rinvengono a migliaia su di un campo di battaglia. Sotto questo profilo non esiste possibilità di individuare una “situazione reale di pace” sotto il regime del capitale, ma soltanto un fittizio “stato di pace” che equivale, in pratica, a una “situazione reale di guerra”.
La guerra è quindi un’attività dello Stato che non caratterizza un periodo transitorio e circoscritto della sua esistenza, ma costituisce l’essenza stessa della sua struttura per quanto noi ne possiamo avere cognizione attraverso l’esperienza dei processi di sfruttamento. Cadono così le illusioni socialdemocratiche del disarmo unilaterale, del pacifismo perbenista, della nonviolenza borghese. Chi sostiene soltanto la tesi del pacifismo e con ciò si batte per impedire che lo Stato scateni una guerra è sostanzialmente un reazionario che sostiene la guerra costante dello Stato preferendola a un’altra guerra (per lui diversa) ma che in sostanza non ha nulla di diverso, essendo praticamente un’estensione del conflitto su scala leggermente o notevolmente più ampia.
Si spiega così che partiti al governo (PSI) e partiti che hanno tradito l’ideale dei lavoratori (PCI) o partiti che alimentano le velleità umanitarie della borghesia (Radicali) possono fare, con grande faccia tosta o con stupida ignoranza della realtà, discorsi contro la guerra. In pratica i loro discorsi garantiscono la continuità della guerra reale, preparando le masse all’accettazione di ulteriori (sempre possibili) allargamenti della guerra in vista di evitare una guerra sempre più grande che viene così rinviata all’infinito mentre si sviluppa e si mantiene lo stato oggettivo di conflitto.
Questi concetti dovrebbero essere – e in fondo, di fatto, sono – più o meno accettati da tutti gli anarchici. Però, come appare da molti articoli e interventi pubblicati negli ultimi anni nella nostra stampa periodica, si scivola con troppa facilità sul tema della guerra come qualcosa che si può evitare e che costituisce, di per sé, un obiettivo di lotta capace di coalizzare le forze rivoluzionarie.
È stato detto che, improvvisamente, in quest’ultimo periodo ci siamo venuti a trovare davanti un pericolo di conflitto mondiale, un pericolo più grande di quello registrato in passato. È stato detto che bisogna fare subito qualcosa contro la guerra mondiale che si avvicina, contro l’aumento degli armamenti atomici da parte USA e da parte URSS. È stato detto che vi sono momenti nella vita di un popolo o di un continente, in cui i problemi sociali, economici e politici vengono sovrastati da esigenze ben più pressanti e superiori che si richiamano a categorie assolute, quali la sopravvivenza. Quest’ultima affermazione – che abbiamo letto su “Umanità Nova” (n. 30, del 1981) – è quanto di più incredibile ci sia toccato leggere. Essa fa il paio con un’altra perla, sempre su “Umanità Nova” (n. 29, del 1981), la quale, a conclusione di un grido di allarme contro la guerra, afferma che gli anarchici non possono fare altro che proporre un’alleanza “culturale” (sic!). È stata poi sviluppata un’analisi molto dettagliata di politica internazionale che farebbe ridere se non stringesse il cuore nel vedere a che punto si è ridotto il movimento anarchico italiano. In altri fogli, altre analisi, forse più sofisticate, ma sempre piene della superficialità che sembra dilagare, fogli che lanciano strilli di allarme contro gli Stati che si apprestano alla guerra, fogli che rispolverano il proprio antimilitarismo confinandolo all’interno di una platonica protesta contro gli eserciti, le armi e le guerre, mentre non si accorgono che l’insieme stesso dei discorsi che avanzano non è altro che una forma imbellettata di socialdemocrazia. Più ingenuamente un altro articolista parla di “spiraglio” riferendosi a Comiso e alla decisione del governo italiano di farvi collocare i Cruise americani. Ma “spiraglio” per chi? Forse per il movimento anarchico?
Battersi contro la guerra va bene. Battersi contro il militarismo, contro le bombe, gli eserciti, i generali, va bene. Battersi contro l’installazione dei missili va bene. Ma se questo diventa il solo e unico livello di intervento nella realtà, se questo è il solo “spiraglio” che resta aperto al movimento anarchico, mentre tutti gli altri interventi sono ormai impossibili e non forniscono aperture di nessun genere, bisogna chiedersi cosa sta succedendo, e non buttarsi a capofitto nell’attività che sola ci resta possibile.
Se negli altri settori di intervento abbiamo difficoltà (e nessuno può negare che queste difficoltà ci siano), se lo stesso movimento nel suo insieme stenta a ritrovare le sue strutture, le sue componenti, i suoi militanti, se il dialogo operativo aperto con le altre componenti del movimento rivoluzionario reale, superando le diffidenze altrui e nostre, adesso è muto e sordo, malgrado gli sforzi fatti e il prezzo altissimo pagato, se il livello della pubblicistica anarchica è paurosamente basso, se gli stessi libri anarchici si diffondono sempre meno all’interno del movimento, c’è da chiedersi: l’accettazione della tematica della guerra, anche da parte nostra, e la mancata giusta collocazione di questa tematica all’interno della logica specifica dello Stato, non è forse una conseguenza della nostra sopravvenuta incapacità di indirizzarci verso la realtà delle lotte?
La progressiva e vertiginosa atrofizzazione di quei pochi strumenti di intervento che eravamo riusciti a darci negli anni passati, dopo tanti sacrifici e lotte, non è forse uno degli elementi che contribuiscono a farci considerare il problema della guerra come centrale e prioritario, come separato e sovrastante gli altri problemi, che la nostra lotta contro il potere ci pone giornalmente davanti?
E così facendo, cioè mettendo la testa sotto la sabbia delle nostre debolezze, e affrontando il problema della lotta contro la guerra senza quel minimo di struttura militante che prima possedevamo e che ora non abbiamo più, non corriamo il rischio di essere – una volta di più – i velleitari portatori di un’ideologia massimalista che risulta comoda soltanto al capitale?
Queste domande possono non essere condivise da molti compagni, però restano insolute come altrettanti punti che richiedono un approfondimento e una discussione.
Mi pare necessario un approfondimento delle condizioni generali dello scontro di classe e un riesame della funzione che gli anarchici possono svolgere all’interno dello scontro stesso, sia come movimento specifico, sia come capacità organizzativa in termini di strutture rivoluzionarie esterne, in grado di esprimere la potenzialità del movimento generale degli sfruttati.
È urgentissimo individuare le nostre debolezze, la persistenza delle nostre antiche paranoie, la stagnante ideologizzazione che inquina molti settori del nostro movimento, le infiltrazioni socialdemocratiche e perbeniste, le titubanze sulle azioni da intraprendere, la smania del giudizio a priori, la chiusura chiesastica e maniacale, i residui dell’aristocraticismo che ci faceva considerare monotoni portatori della verità. Se dobbiamo ricominciare daccapo, e non è certo l’ottusità di Sisifo che ci manca, ricominciamo nel migliore dei modi, facendo piazza pulita degli antichi errori.
Portando alle estreme conseguenze un’analisi sulle nostre possibilità effettive di lotta non ci allontaniamo affatto dall’impegno antimilitarista e dal problema della guerra, al contrario, siamo in grado di dare una risposta ben più precisa e significativa, un’indicazione e un progetto di intervento ben più dettagliati di quanto non accada in questo momento che ci vede soltanto fornitori di rimasticature teoriche della borghesia e farneticatori dozzinali di un massimalismo umanitarista che tutti possono condividere e proprio per questo nessuno è disposto a sostenere.
[Pubblicato in Elementi per la ripresa di una pratica anarchica dell’antimilitarismo rivoluzionario, Forlì 1982, pp. 13-22, col titolo: La guerra, la pace e l’azione anarchica oggi. Pubblicato anche in Aa.Vv., La guerra e il suo rovescio, Torino 1991, pp. 75-85]
Anarchici contro il muro
Il muro sta lì, dove prima non c’era. È un manufatto orribilmente gigantesco, continua modulandosi per centinaia di chilometri, allargandosi al di là dei “limiti confinari” più o meno internazionalmente accettati, cresce in altezza e si trasforma in trincee ed altre strutture tutte parimenti dirette a isolare il “nemico”.
Conosco bene alcuni dei luoghi fisici dove esso si innalza, Tulkarem, a esempio, Qalqiliya, a Gush Etzion a sud di Gerusalemme.
Ma non è questo il punto. Un muro è costruzione di sassi e cemento. Una trincea è una buca scavata per parecchi metri nel suolo e assistita dal filo spinato, un meccanismo elettronico, una porta girevole, sono tutti oggetti muti, voluti dalla paura e imposti dalla forza. Non sono loro il punto essenziale di una distanza umana che da tanto tempo si sta scavando tra israeliani e palestinesi, fino a diventare quasi incolmabile.
Alla base di questa distanza ci sta la paura nei riguardi di chi avrebbe, un tempo tanto remoto da sembrare ormai arcaico, potuto lavorare insieme ai coloni della “prima ondata” e che a poco a poco è diventato, se non proprio nemico armato, manovalanza a basso costo da utilizzare. E poi, lentamente, nel dipanarsi dei decenni e degli errori, o degli imbrogli, politici e internazionali, come nel defilarsi di leader di ogni colore (e partito e parte), quella paura è diventata oggetto consolidato, ben più alto e duro dei muri di qualsiasi specie.
Come fare ad accostarsi a chi si è incattivito nel rifiuto e nell’asfissia, a chi sguazza nel fango dei campi, a chi alimenta la folle ideologia del “buttiamo tutti a mare”, a chi spara al cielo denso di nubi i suoi qassam fabbricati nel cortiletto di casa? E, in senso contrario, come fare ad accostarsi a chi vede nel muro, e nei suoi dettagli uno più orribile dell’altro, l’unica difesa contro un nemico dipinto sempre in maniera aggressiva, sempre come qualcuno maldisposto a ogni accordo? Cosa dire di certe manifestazioni in difesa della segregazione?
A mio avviso non bisogna limitarsi a circoscrivere il problema a una questione di propaganda. Non si tratta soltanto di denunciare l’abuso commesso con la costruzione di più di settecento chilometri di muro, né della vergogna di questa ghettizzazione che agli ebrei, più di tutti al mondo, dovrebbe dire qualcosa di orribile e inaccettabile. Ma occorre fare un passo ancora più avanti.
Non bisogna limitarsi a lavorare insieme ai palestinesi, cercarli come fratelli e non come nemici da addolcire mostrando come non tutti gli ebrei sono favorevoli a questo mostro di cemento armato che grida vendetta di fronte al cielo. Ma occorre fare un passo ancora più avanti.
E in che cosa dovrebbe consistere questi passo?
Nell’attacco. All’inizio dimostrativo, per carità! Non voglio parlare di attacco risolutivo, che in fondo di questo genere di attacchi solo l’illusione militarista si nutre fino a fare indigestione. Ma di attacco contro gli obiettivi concreti che fondano, alimentano, garantiscono, giustificano e finanziano la gestione di una mostruosità come il muro di cui stiamo discutendo.
Non basta definirsi “anarchici contro il muro”, se poi il muro rimane di fronte al nostro naso come l’emblema della ineluttabilità storica delle decisioni di chi sta al potere, di chi ha usurpato le originarie istanze libertarie dei primi insediamenti israeliani.
Grandi azioni? Migliaia di persone portate in piazza? Fraternizzazioni tra ebrei e palestinesi in modo da far tremare i vetri della Knesset? Sì, eventualmente anche questo, ma non solo.
Dopo tutto gli anarchici sono storicamente stati in grado, anche da soli, di realizzare azioni di attacco che, nel loro piccolo e nella loro riproducibilità, hanno significato una grande indicazione per coloro che subiscono l’emarginazione, lo sfruttamento e il genocidio.
E quest’ultima parola, credetemi, non è stata scelta a caso.
Il fatto è che la realtà sta davanti ai nostri occhi, non occorrono grandi teorie o particolari spiegazioni tecniche o strategiche. Allo stesso modo non occorrono straordinarie illuminazioni nei riguardi di quel pugno di donne e di uomini che hanno preso coscienza della sua esistenza. Spesso questa fondamentale condizione di esistenza – il prendere coscienza di una condizione di sopruso che qualcuno soffre, pochi o molti individui, singoli o popoli, questo è problema che viene dopo – una volta messa in atto non la ferma più nessuno.
E chi potrebbe fermare la nostra azione, la nostra azione di anarchici?
Abbiamo forse bisogno del segno carismatico di un capo qualsiasi? Di una direzione strategica fatta di quattro imbecilli autodichiaratisi punti di riferimento? No di certo.
Siamo noi che dobbiamo attaccare. Il resto sono solo elementi di supporto, indispensabili ma non primari.
Sappiamo qual è il delitto che offusca i nostri orizzonti sotto la luce del sole. Sappiamo chi sono i miseri che ne pagano quotidianamente le conseguenze. Sappiamo chi sono i responsabili, al di là di divisioni di bandiere o di scelte religiose più o meno radicate nell’atavismo dei nostri padri.
Non ci serve altro.
[Febbraio 2012; Introduzione a U. Gordon e O. Grietzer (a cura di), Anarchists Against the Wall. Direct Action and Solidarity with the Palestinian Popular Struggle, Chico, CA 2013]
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