Titolo: Anarchismo e violenza
Data: 2013
Note: Prima edizione in opuscolo: novembre 2013
Opuscoli provvisori n. 44
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Nota introduttiva

Parrebbe una difesa contro l’accusa di pacifismo ad oltranza e in questi articoli, al contrario, viene ribaltata non solo l’accusa – assolutamente fuori luogo e per giunta proveniente da pulpiti non certo adeguati – ma viene, con grande attenzione, indicato il limite che la violenza rivoluzionaria finisce col trovare in se stessa, nel proprio fondamento morale e nell’obiettivo che deve sapersi dare di contribuire a realizzare la libertà non solo degli anarchici ma di tutta l’umanità, sfruttatori compresi.

Ora, siccome la strada è lunga, e il percorso liberatorio indicato, con relative precisazioni riguardo il reperimento dei mezzi organizzativi e dei metodi di attacco per realizzare questa violenza liberatrice, è accidentato, ci sono molti poveri di spirito che finiscono per bloccarsi nel corso delle tante realizzazioni – acquisizioni e perdite comprese – e, fermandosi, si arroccano sulla difesa di quello che sono riusciti a stringere fra le mani, e accuratamente lo difendono, diventando, con sfumature più o meno sgradevoli, piccoli “proprietari” di miserabili appezzamenti di “libertà”, mentre la libertà si contrae in un sogno ormai alimentato solo da contributi letterari, in genere di scadente qualità.

E del ritorno ai progetti di un tempo? e quella violenza che doveva scardinare le porte del vecchio mondo? È possibile che non si sia capito che ogni volta bisogna ricominciare daccapo? che non ci sono fatti rivoluzionari compiuti una volta per tutte?

Quello che Malatesta ci dice, a volte chiaramente a volte fra le righe, è proprio questo. La violenza è indispensabile, ma da sola non risolve per sempre i problemi della rivoluzione, questi si ripresenteranno sempre e quindi occorrerà sempre tornare ad attaccare i futuri sopraffattori, con una nuova violenza liberatrice, fin quando questa stessa violenza diventerà superflua per avere finalmente ottenuta la libertà non solo per gli anarchici ma per tutti.

Ci dispiace, ancora una volta, di guastare i sogni pacifici dei reduci e degli ex combattenti.


Trieste, 1 dicembre 2011

Alfredo M. Bonanno

Anarchismo e violenza

Un errore, opposto a quello in cui cadono i terroristi, minaccia il movimento anarchico. Un po’ per reazione contro l’abuso che in questi ultimi anni si è fatto della violenza, un po’ per la sopravvivenza delle idee cristiane, e sopratutto per l’influenza della predicazione mistica di Tolstoj, alla quale il genio e le alte qualità morali dell’autore danno voga e prestigio, incomincia ad acquistare una certa importanza fra gli anarchici il partito della resistenza passiva, il quale ha per principio che bisogna lasciare opprimere e vilipendere se stesso e gli altri piuttosto che far del male all’aggressore. È quello che è stato chiamato l’anarchia passiva.

Poiché alcuni, impressionati della mia avversione contro la violenza inutile o dannosa, han voluto attribuirmi, non so troppo se per lodarmi o per denigrarmi, delle tendenze verso il tolstoismo, io profitto dell’occasione per dichiarare che, secondo me, questa dottrina, per quanto appaia sublimamente altruista, è in realtà la negazione dell’istinto e dei doveri sociali. Un uomo può, se è molto... cristiano, soffrire pazientemente ogni sorta di angherie senza difendersi con tutti i mezzi possibili, e restare forse un uomo morale. Ma non sarebbe egli, in pratica e quantunque senza volerlo, un terribile egoista, se lasciasse opprimere gli altri senza tentare di difenderli? se, per esempio, preferisse che una classe fosse ridotta alla miseria, che un popolo fosse calpestato dall’invasore, che un uomo fosse offeso nella vita o nella libertà, piuttosto che ammaccar la pelle dell’oppressore?

Vi possono essere dei casi in cui la resistenza passiva è un’arma efficace, ed allora sarebbe certamente la migliore delle armi, poiché sarebbe la più economica di sofferenze umane. Ma, il più delle volte, professare la resistenza passiva significa rassicurare gli oppressori contro la paura della ribellione, e quindi tradire la causa degli oppressi.

È curioso osservare come i terroristi ed i tolstoisti, appunto perché sono gli uni e gli altri dei mistici, arrivano a conseguenze pratiche presso che uguali. Quelli non esiterebbero a distruggere mezza umanità pur di far trionfare l’idea; questi lascerebbero che tutta l’umanità restasse sotto il peso delle più grandi sofferenze piuttosto che violare un principio.

Per me, io violerei tutti i princìpi del mondo pur di salvare un uomo: il che sarebbe poi infatti rispettare il principio, poiché, secondo me, tutti i princìpi morali e sociologici si riducono a questo solo: il bene degli uomini, di tutti gli uomini.


[Pubblicato su “Anarchia” (Numero unico) Londra, agosto 1896]

Morale e violenza

“Non esiste un diritto puro, non esistono princìpi di morale superiore agl’interessi particolari delle classi antagoniste come degli Stati avversari”, dice Enrico Meledandri in un articolo pubblicato nel “Proletario” di Nuova York, che un redattore del “Libertarie” di Parigi traduce allo scopo di rispondere al nostro Luigi Fabbri, il quale in un suo cenno necrologico non aveva mostrato abbastanza reverenza per il teorizzatore della violenza, Giorgio Sorel. Ed in conseguenza di quella sua convinzione il Meledandri si rifiuta a “considerare la violenza con un senso di meraviglia ed una mentalità democratica e pacifista” ed afferma che “i sindacalisti rivoluzionari disdegnano di considerare la lotta a fondo, che la borghesia conduce per annientare in tutti i paesi il proletariato, come un attentato supremo ai famosi diritti della civiltà, del progresso e dell’eguaglianza”. E continua così manifestando il più alto disprezzo per “i principi morali” e sostenendo che in realtà la sola cosa che conta, la sola cosa apprezzabile è “la forza e la violenza, termini che spesso si fondono e si completano”.

A me pare che, malgrado le pretese rivoluzionarie e contro le intenzioni del Meledandri e forse anche quelle del suo maestro Sorel, tutto questo sia un mettere la filosofia della storia al servizio delle classi dominanti, le quali, possedendo la forza e potendo esercitare con maggior efficacia la violenza, sono le sole che vengono avvantaggiate dalla liberazione da ogni condanna morale.

Ma per fortuna la verità non è quale se la dipingono “i sindacalisti rivoluzionari” alla Meledandri; e la violenza non è il solo, né il principale fattore dell’evoluzione umana.

Certamente la storia è tutta piena di lotte e di stragi, tra popoli, tra classi, tra famiglie, tra individui. E lotte e stragi vediamo intorno a noi dovunque volgiamo lo sguardo. Ma è anche vero che se non vi fossero state che lotte e stragi, se l’odio, la concorrenza, la guerra fossero stati i caratteri esclusivi o solamente dominanti nei rapporti tra gli uomini, l’umanità non avrebbe potuto svilupparsi e progredire, anzi non vi potrebbe essere umanità propriamente detta, anche se vi fossero degli animali a sembianza umana di poco superiori o di poco inferiori ai mammiferi selvatici.

Malgrado i fiumi di sangue sparso, malgrado le inenarrabili sofferenze ed umiliazioni inflitte, malgrado lo sfruttamento e la tirannia a danno dei più deboli per inferiorità personale o per posizione sociale, malgrado insomma la lotta e tutte le sue conseguenze, quello che realmente predomina nella convivenza umana, o che almeno ne forma l’elemento vitale e progressivo, è il sentimento di simpatia, il senso di comune umanità che, nelle condizioni normali, mette alla lotta un limite oltre il quale non si può andare senza eccitare una ripugnanza profonda ed una generale riprovazione. È la morale che diviene.

Lo storico professionista della vecchia maniera può preferire come argomento delle sue ricerche e dei suoi racconti i fatti clamorosi, i grandi conflitti tra popoli e tra classi, le guerre, le rivoluzioni, le trame di diplomatici e di cospiratori; ma quello che realmente importa di più sono gli innumeri rapporti quotidiani tra individui e tra gruppi che costituiscono la sostanza vera della vita sociale. Ed è bene esaminare quello che avviene nella vita profonda, intima, costante delle masse umane, si trova bensì la lotta per l’accaparramento delle migliori condizioni di esistenza, la sete di dominio, la rivalità, l’invidia e tutte le male passioni che mettono l’uomo contro l’uomo, ma si trova pure il lavoro fecondo, il mutuo appoggio, lo scambio continuo di servizi gratuiti, l’affetto, l’amicizia, l’amore e tutto ciò che avvicina ed affratella. E le collettività umane progrediscono o decadono, vivono o muoiono secondo che predominano, o meno, i fatti di solidarietà e di amore su quelli di odio e di lotta anzi l’esistenza stessa di una qualsiasi collettività non sarebbe possibile se gl’istinti sociali, che io chiamerò le buone passioni, non predominassero sulle passioni cattive, sugl’istinti bassamente egoistici.

L’esistenza dei sentimenti d’affetto e di simpatia tra gli uomini, e l’esperienza e la coscienza dei vantaggi individuali e sociali che derivano della soddisfazione di quei sentimenti, hanno prodotto e vanno producendo delle idee di “giustizia”, di “diritto”, di “morale”, che pur tra mille contraddizioni, ipocrisie e menzogne interessate, costituiscono una meta, un ideale verso cui l’umanità cammina.

Questa “morale” è mutevole e relativa; essa varia da epoca a epoca, da popolo a popolo, da classe a classe, da individuo a individuo, ed è da ciascuno adoperata per i proprii interessi e quelli della sua famiglia, della sua classe, del suo paese. Ma, respinto tutto ciò che nella “morale” ufficiale serve a difendere i privilegi e la violenza dei dominatori, si trova sempre un residuo, che risponde agl’interessi generali ed è conquista comune di tutta quanta l’umanità senza distinzione di classe o di razza.

Il solo fatto che i privilegiati sentono il bisogno di giustificare la loro posizione, che è il risultato della forza brutale, con una specie qualunque di “morale” è già un passo importante verso una morale superiore; è già una prova che il privilegio non si sente sicuro di sé e che è destinato a sparire.

E, se la parte migliore del proletariato combatte contro le istituzioni borghesi e si sacrifica per la causa e si espone ad ogni specie di pericoli, è appunto perché è animato da un ideale superiore di giustizia umana. Levate dall’animo dei proletari il sentimento della giustizia, incitatelo ad usare la violenza senza limite e senza scrupoli, “perché così fanno i borghesi ed i governi”, e voi potrete fare dei briganti, ma non farete dei rivoluzionari, potrete, se circostanze straordinarie verranno a vostro favore, sostituire una classe ad un’altra, una nuova tirannia e nuovi privilegi a quelli che esistono oggi, ma non ci avvieremo verso l’emancipazione integrale dell’umanità, verso la società di liberi e di fratelli per la quale noi combattiamo.

* * *

La violenza è purtroppo necessaria per resistere alla violenza avversaria, e noi dobbiamo predicarla e prepararla, se non vogliamo che l’attuale condizione di schiavitù larvata, in cui si trova la grande maggioranza dell’umanità, perduri e peggiori. Ma essa contiene in sé il pericolo di trasformare la rivoluzione in una mischia brutale senza luce d’ideale e senza possibilità di risultati benefici; e perciò bisogna insistere sugli scopi morali del movimento e sulla necessità, sul dovere di contenere la violenza nei limiti della stretta necessità.

Noi non diciamo la violenza è buona quando l’adoperiamo noi ed è cattiva quando l’adoperano gli altri contro di noi. Noi diciamo che la violenza è giustificabile, è buona, “morale”, è doverosa, quando è adoperata per la difesa di se stesso e degli altri contro le pretese dei violenti; è cattiva, “immorale” se serve a violare la libertà altrui.

Pur troppo molti rivoluzionari nel fervore della lotta, irritati dalle infamie sanguinose dei governanti, nell’uso dei mezzi necessari alla lotta, o nella predicazione del loro uso hanno perduto la visione netta dello scopo per il quale combattono; ed invece di fare dei rivoluzionari coscienti hanno fatto dei violenti.

E questa non è l’ultima tra le cause che han reso possibile il fascismo.

I fascisti hanno commesso violenze ed infamie senza nome, han mostrato tale una ferocia, tale una mancanza di senso morale che, in epoche normali, li avrebbero fatti mettere al bando della società civile.

Ogni galantuomo, indipendentemente dalle sue opinioni e dalla sua posizione sociale, sente ripugnanza per certi delitti e certi delinquenti: rifugge, per esempio, da ogni contatto con un violatore di fanciulli, con un omicida per brutale malvagità, con un bastonatore di donne e d’invalidi, con una spia che per denaro tradisce i proprii compagni... salvo che non li accosti coll’animo di un medico il quale li considera come poveri matti, come ammalati meritevoli delle cure che si debbono a dei grandi disgraziati.

I fascisti hanno in cento contro uno ucciso, bastonato, tormentato, insultato donne, ragazzi, uomini invalidi ed inermi, hanno incendiato, distrutto ricchezze che erano il frutto di lunghi sacrifizi dei lavoratori, hanno ridotto in vera schiavitù popolazioni; molti di essi hanno tradito i partiti a cui appartenevano ed imperversano contro i loro antichi compagni – e malgrado tutto questo e peggio, sono considerati come uomini politici, come combattenti per una causa confessabile, e molta gente onorata, che certamente quei delitti non commetterebbe, non ripugna dallo stringer loro la mano e mantenere con loro rapporti di buon vicinato.

Si è predicato molto la violenza e poco la morale; ed il risultato naturale è stato che, quando si sono presentati dei violenti fomiti di forza adeguata o di audacia sufficiente, non hanno trovato né resistenza fisica né condanna morale.

È di comune esperienza che il violento è sempre il più facile a sottoporsi alla violenza, se trova il più forte di lui. E chi è capace di commettere una cattiva azione non si meraviglia e non s’indigna se la commette un altro; piuttosto cerca se è possibile di associarsi al beneficio.

O non si sentono dei “sovversivi” dire che non c’è da condannare i fascisti, perché, se potessero, essi farebbero contro i borghesi peggio di quello che i fascisti fanno contro i proletari?

Se questi fossero i sentimenti generali, se borghesi e proletari, se fascisti e sovversivi fossero egualmente privi di ogni ritegno morale, ci sarebbe da disperare dell’umanità, o piuttosto bisognerebbe riporre ogni speranza nella buona donnetta, che non sa di politica e di lotta di classe, ma soffre e piange quando vede soffrire.

* * *

Noi non siamo “pacifisti” perché la pace non è possibile se non la si vuole dalle due parti.

Noi consideriamo la violenza necessaria e doverosa per la difesa, ma solo per la difesa. E, s’intende, non solo per la difesa contro l’attacco fisico, diretto, immediato, ma contro tutte quelle istituzioni che per mezzo della violenza tengono la gente in ischiavitù.

Noi siamo contro il fascismo e vorremmo che lo si debellasse opponendo alla sua violenza una violenza maggiore. E siamo soprattutto contro il governo che è la violenza permanente.

Ma la nostra violenza deve essere resistenza di uomini contro bruti, e non lotta feroce di bestie contro bestie.

Tutta la violenza necessaria per vincere: ma niente di più o di peggio.


[Pubblicato su “Umanità Nova” n. 193, 21 ottobre 1922]

Risposta ad un comunista

Cari compagni,

Ho letto in “Fede” del 14 corrente un vostro articolo in risposta ad alcune note apparse sull’“Araldo” di Parigi, del 2 settembre scorso.

Indipendentemente da ciò che potrà comunicarvi l’articolista col quale polemizzate, cioè L. E. Russel, e al di fuori di quello che potrà essere il pensiero dell’“Araldo” a proposito di questa faccenda, io personalmente, come comunista, conoscendo il Russel e la sua posizione nel Partito, sento il dovere di comunicarvi quanto segue:

Credo che in linea di massima abbiate perfettamente ragione di essere urtati per quanto è stato scritto dal Russel, in un giornale comunista che – per l’arresto dei redattori di “Stato Operaio” – ritorna ad essere il solo giornale comunista in lingua italiana, acquistando quindi maggiore importanza, come organo interpretante il pensiero dei comunisti italiani, sia pur emigrati.

Credo che la pretesa mancanza di finalità, princìpi, coerenza nell’azione, ecc., ecc., attribuita dal Russel agli anarchici italiani, costituisca una “fregnaccia” “tout court”.

Ugualmente per quanto concerne la pretesa assenza di antifascismo anarchico e la pretesa direzione dei capi. Tutt’al più io credo doversi rimproverare agli anarchici italiani che al primo sorgere del fascismo e talvolta anche durante il suo imperversare, si siano attenuti troppo strettamente alla massima: “libertà di pensiero e di organizzazione per tutti”, che non ha integrale applicazione nei momenti di lotta nei quali – checché si dica e si sogni prima o dopo i periodi risolutivi – si deve, ci si sforza, di sovrapporci al nemico e – se possibile – gli si pesta il muso quando gli si sono legate le mani, anche se le regole morali o consuetudinarie non consentirebbero che ciò si facesse.

In certi momenti, dunque, sorsero discussioni inopportune, e – usiamo un termine troppo sfruttato – controrivoluzionarie, a questo proposito. In certi momenti, mentre gli elementi anarchici di provincia – ove ferveva la lotta – agivano di comune accordo e non di rado erano alla testa dei ribelli, adoperando l’attacco leale, ma tentando anche di impedire con forza una manifestazione cosiddetta pacifica, o l’organizzazione di un nucleo fascista “sorgente all’unico fine di stringere maggiori legami fra gli italiani” – così come dicono quei cari quattro gatti di fascisti all’estero – dal centro, dal giornale, dalle discussioni e dagli scritti degli elementi migliori, traspariva il dubbio – diremo – di agire eterodossicamente. E ciò poteva essere invero un sintomo di debolezza, di irresoluzione, di deplorevole estrinsecazione da ciò che era la guerriglia tragica che ovunque si combatteva.

Questo può essere anche il debole del compagno Malatesta, che del resto è un combattente che molto ha dato. Non è da escludere che il suo schietto idealismo espressione della “forma mentis” propria ai sovversivi dell’anteguerra – sia stato poco indicato per una netta definizione della condotta degli anarchici italiani verso i riformisti, i comunisti, e gli opportunisti del partito socialista. Del resto, vizio d’origine degli anarchici, è stato sempre quello di mirare all’assoluto senza attenuazioni, e per logica conseguenza di non saper scegliere fra i rimedi più influenti quello che desse maggiori garanzie di successo, che determinasse situazioni di fatto sostanzialmente più indicate per il raggiungimento delle finalità anarchiche.

Malatesta, in ogni modo, per la fiera e lunga battaglia combattuta, per l’animo generoso, raccoglie la stima e la simpatia di tutti i sovversivi, non soltanto italiani.

Ed eccomi alla conclusione: La persona che ha scritto l’insipido accenno che voi avete ribattuto è stata recentemente allontanata da un posto di responsabilità nel nostro movimento politico, sovra tutto perché affetta da terrori cronici. Seconda importantissima considerazione: la mediocrità assoluta, l’incapacità di redarre un foglio non per analfabeti, la mancanza di spirito critico, di energia.

Le sentenze di valori simili non possono quindi avere importanza alcuna. E, se a motivo di esse, nasce il pericolo che sorgano polemiche inopportune, senza ragione, e illogicamente aspre, dovere di chi sente quanta ricchezza di opere possono creare, unite nell’azione, le avanguardie proletarie – dissipare i malintesi, sconfessare i critici ed i filosofi infarinati di copertine dotte, adoperarsi per intensificare le simpatie e gli affetti che ci uniscono a tutti coloro che hanno combattuto con noi la medesima opprimente guerriglia.

Esprimo quindi il desiderio che abbiano a cessare le polemiche a riguardo dell’articolo incriminato; credo sia utile che i giornali comunisti e anarchici non valorizzino le chiacchiere senza fondamento che purtroppo non cessano di circolare nei rispettivi campi. Credo sia doveroso svolgere assieme opera di eliminazione delle ormai inutili querele che – aggravate di questioni d’altra natura dividono gli anarchici ed i comunisti francesi e quindi – per riflesso – parte degli anarchici e comunisti italiani emigrati in Francia.

Affettuosamente F.

Lione, ottobre.


I compagni di “Fede” mi usano la cortesia di mostrarmi le bozze dell’articolo di F., perché io vi faccia su, se mi pare il caso, le mie osservazioni.

Ebbene, io debbo dire che più che le sciocche menzogne del Russel, da cui è mossa l’incresciosa polemica, merita un commento l’articolo surriportato, che è scritto evidentemente con animo sereno ed intenzioni concilianti, ed appunto per questo mostra meglio quale è il vero fondamento della divergenza tra gli anarchici ed i comunisti di Stato.

Noi siamo per la libertà, la più ampia e completa libertà di pensiero, di organizzazione, di azione. Siamo per la libertà di tutti, e quindi è ovvio, senza che vi sia bisogno di ripeterlo continuamente, che ognuno nell’esercizio della propria libertà deve rispettare l’eguale libertà degli altri: se no, vi è oppressione da una parte e diritto alla resistenza ed alla ribellione dall’altra.

Ma i comunisti di Stato, alla pari e peggio di tutti gli altri autoritari, sono incapaci di concepire la libertà e di rispettare in tutti gli esseri umani la dignità che vogliono, o dovrebbero volere rispettata in loro stessi. Se parlate loro di libertà vi accusano subito di volere rispettare, o almeno tollerare, la libertà di opprimere e di sfruttare il proprio simile. E se dite di ripudiare la violenza quando eccede i limiti imposti dalla necessità della difesa, vi accusano di... pacifismo, senza comprendere che la violenza è tutta l’essenza dell’autoritarismo, come il ripudio della violenza è tutta l’essenza dell’anarchismo.

Noi siamo per principio contro la violenza e perciò vorremmo che la lotta sociale, finché lotta vi sarà, si umanizzasse il più che sia possibile. Ma ciò non significa punto che noi vorremmo che essa lotta sia meno energica e meno radicale, che anzi noi riteniamo che le mezze misure riescono in conclusione a prolungare indefinitamente la lotta, a renderla sterile ed a produrre insomma una più grande quantità di quella violenza che si vorrebbe evitare. Né significa che noi limitiamo il diritto di difesa alla resistenza contro l’attentato materiale ed imminente. Per noi l’oppresso si trova sempre in istato di legittima difesa ed ha sempre il pieno diritto di ribellarsi senza aspettare che lo si prenda a fucilate; e sappiamo benissimo che spesso l’attacco è il più valido mezzo di difesa,

Ma qui vi è di mezzo una questione di sentimento – e per me il sentimento conta più di tutti i ragionamenti.

F. parla tranquillamente di “pestare il muso al nemico quando gli si sono legate le mani, anche se le regole morali e consuetudinarie non consentirebbero che ciò si facesse”. Questo è uno stato d’animo che oramai può chiamarsi fascista, poiché i fascisti hanno purtroppo reso consuetudinario il fatto di adoperare le peggiori violenze contro chi è stato preventivamente messo nella impossibilità di difendersi, ma che, teorie a parte, mi pare indegno di uno che lotta per l’emancipazione umana.

La vendetta, l’odio persistente, l’incrudelire contro il vinto ridotto all’impotenza possono comprendersi ed anche perdonarsi nel momento dell’irritazione, in chi è stato crudelmente offeso nella sua dignità e nei suoi affetti più sacri; ma predicare sentimenti di ferocia antiumana ed elevarli a principio e tattica di partito è tutto ciò che si può immaginare di cattivo e di più controrivoluzionario. Controrivoluzionario, perché rivoluzione per noi non deve significare sostituzione di un oppressore ad un altro, del domino nostro a quello degli altri, ma elevazione umana nei fatti e nei sentimenti, scomparsa di ogni separazione tra vinti e vincitori, affratellamento sincero tra tutti gli umani – senza di che la storia continuerebbe ad essere piena di quella alterna vicenda di oppressioni e di ribellioni quale è stata sempre, con danno del vero progresso, e danno, in definitiva, di tutti quanti, vinti e vincitori.

Questo per la teoria.

In quanto poi ai fatti, i comunisti sarebbero prudenti se lasciassero in pace gli anarchici e non ci costringessero a dire quello che non è opportuno dire, ora che non si tratta di scrivere la storia ma di unire, fin dove è possibile, tutte le forze contro il nemico comune.

Perché costringerci a ricordare che fu l’“Avanti” a far la trovata dell’eroismo della viltà e furono i socialisti a predicare la calma e la sopportazione quando si era ancora in tempo per resistere con efficacia e troncare il fascismo in sul nascere, ed a trattare noi da esaltati, da “avventurieri della rivoluzione” e magari, quando avevano da fare con compagni poco conosciuti, da agenti provocatori?

Perché costringerci a ricordare come i socialisti tradirono e il movimento di Torino 1920 e quello di Ancona e quello dell’occupazione delle fabbriche e quello pro-vittime politiche? E si badi, le responsabilità dei socialisti sono comuni a quelli che poi si dissero comunisti, poiché nell’epoca di cui parliamo essi appartenevano al Partito socialista, anzi ne avevano la direzione.

Per ciò che riguarda poi la mia persona e quella che il Russel ha voluto chiamare la mia “carriera rivoluzionaria” dirò solamente che sono veramente meravigliato di sentirmi trattare da “pacifista”, perché mi ero piuttosto abituato a sentirmi fare un altro rimprovero, egualmente ingiusto, ma perfettamente opposto, quello cioè di essere propenso a sacrificare le ragioni dell’anarchismo al desiderio dell’azione, di un’azione purchessia.

Infatti g. d. di “Fede” in una, per me superficiale ed alquanto fantastica, enumerazione delle varie tendenza anarchiche non mi lascia posto che tra coloro che “vogliono la rivoluzione ad ogni costo, insieme magari col diavolo oppure con dio, non importadove sfoci… riapprossimandosi così al dopo si vedrà dei nichilisti”.

Ma lasciamo andare. Io non sono morto e la storia non si è fermata all’avvento di Mussolini al potere.

Avremo ancora occasione di guardarci nel muso.


[Pubblicato su “Fede” n. 7 del 28 ottobre 1923]

Amore e odio

Giorni or sono “Umanità Nova” pubblicando la notizia che una guardia regia veniva investita ed uccisa da un treno in manovra, commentava “Uno di meno”.

La cosa ha scandalizzato un giornale democratico di Brescia, “La Provincia”, il quale innanzi a questo fiore di beffa sanguinosa sente una disperata amarezza.

Il giornale bresciano ha ragione.

Anche noi abbiamo l’animo amareggiato da questa necessità di lotta violenta. Noi che predichiamo l’amore e combattiamo per raggiungere uno stato sociale in cui la concordia e l’amore sian possibili tra gli uomini, soffriamo più di tutti della necessità in cui siam posti di difenderci colla violenza contro la violenza delle classi dominanti. Ma rinunziare alla violenza liberatrice quando essa resta l’unico mezzo che possa metter fine alle sofferenze diuturne della gran massa degli uomini ed alle stragi immani che funestano l’umanità sarebbe farsi complici dei violenti per sordido interesse, sarebbe farsi responsabile degli odii che si lamentano e dei mali che dall’odio derivano.

Noi non sappiamo sentir odio contro le guardie regie, i carabinieri e simili sgherani. Noi sentiamo per essi profonda pietà.

Disgraziati incoscienti, per miseria, per ignoranza, o per degenerazione organica che li fa malvagi, essi han venduto la loro libertà si sono fatti schiavi volontari al servizio degli oppressori. Essi hanno delle madri, delle sorelle, dei compagni; essi hanno delle amanti e domani avranno dei figliuoli, essi potrebbero essere uomini tra gli uomini, fratelli tra i fratelli... e sono sicarii che perseguitano, torturano, ammazzano per conto di chi li paga senza la scusa della passione, senza la ragione di una convinzione o di un interesse proprio.

È possibile odiare simili sventurati?

No, noi vorremmo redimere anche loro, vorremmo redimerli per il bene loro e per l’onore della comune umanità.

Ma fino a che essi rappresentano un pericolo per tutti, fino a che essi stanno l’arme alla mano pronti ad uccidere alla minima occasione, o senza occasione, non è naturale rallegrarsi che ce ne sia uno di meno?

Odiare per amore: è la grande tragedia che agita l’anima di ogni uomo di cuore.

Combattiamo perché sia debellato, reso inutile l’odio e trionfi l’amore.


[Pubblicato su “Umanità Nova” n. 31 del 27 aprile 1920]

Noi ed i mazziniani

Il mazziniano T. Abussi mi manda da. Roma, con preghiera di pubblicazione, una lettera che vorrebbe essere una risposta ad una nota che io apposi ad altra lettera sua pubblicata nel nostro numero 50.

Io vorrei contentarlo, poiché per i mazziniani ho una simpatia particolare. Ma come fare? Non basterebbe una pagina del nostro giornale per pubblicare quello che l’Abussi scrive. Poi ci vorrebbe una pagina a me, per rispondergli. Sarebbe davvero una esagerazione!

Mi perdonerà dunque l’Abussi se pur non pubblicando la sua lettera, io me ne serva per trarne occasione a delucidare un poco le idee in discussione.

Naturalmente, io non mi dilungherò a discutere l’essenza del Mazzinianesimo. “Il Mazzinianesimo – dice Abussi — non ha fine perché ideologicamente significa il progresso continuo ed indefinito. Esso può essere un giorno l’anarchia, e chissà! forse anche qualche cosa più dell’anarchia”.

E già: se uno attribuisce a Mazzini tutto ciò che l’umanità ha concepito e concepirà di bello e di grande, allora il mazzinianesimo abbraccia tutto e risolve tutto.

Ma questa è una dolce mania di tutti gl’idolatri. Così i marxisti attribuiscono tutto a Marx, ed uno passa per marxista anche se dice che i padroni derubano gli operai (ah! dunque ammettete la teoria del plus-valore, vi gridano contro con accento di trionfo) o se afferma quella millenaria verità che per far valere la ragione ci vuole la forza. Se dite che il sole splende, i mazziniani diranno che lo disse Mazzini, e i marxisti risponderanno che lo disse Marx. Gli idolatri son fatti così.

Abussi continua: “Il mazzinianismo rappresenta la nuova forma del cristianesimo... lo umanizza e ne trasforma l’etica con la sintesi Boviana: Dio e Popolo, vindice la coscienza umana”. Uhf!

Ecco: se Abussi vuol discutere con me, deve fare il favore di parlare un linguaggio chiaro, terra terra, adatto alla mia intelligenza limitata, che è poi quella della gente per la quale scriviamo. E lasci stare Bovio, per carità! Citare Bovio è ottima cosa quando si vuol fare spalancare la bocca ai villani, ma non serve quando si vuol essere compresi. “Dio e popolo, vindice la coscienza umana”: si provi un po’ Abussi a tradurre la roboante frase in lingua volgare e si accorgerà che è tutto vento.

Ma veniamo al sodo: cioè a quello che i mazziniani vogliono fare.

Dice Abussi: “Noi crediamo che la eliminazione del privilegio possa avvenire soltanto mediante l’instaurazione di un governo che sia l’esecutore materiale della volontà del popolo. E per popolo intendiamo lavoratori tutti. Riguardo la maniera di far esprimere la volontà al popolo possiamo sempre metterci d’accordo. Noi riteniamo che, essendo difficile nelle attuali condizioni della vita sociale un’esatta distinzione dei veri lavoratori e dei veri borghesi, debbono partecipare, per un senso di umana larghezza, alla creazione del nuovo patto di convivenza sociale anche i piccoli proprietari, almeno quelli che avendo un patrimonio proporzionato (in relazione alla ricchezza collettiva) ai bisogni della famiglia, possono considerarsi lavoratori già emancipati. Ma se i lavoratori vorranno altrimenti, noi saremo anche per la partecipazione delle sole e autentiche associazioni di mestiere”.

Ma che pasticcio è questo?

Chi sono questi noi che si debbono mettere d’accordo sulla maniera di far esprimere al popolo la sua volontà?

Vogliono i mazziniani costituire una dittatura (quello che altra volta si chiamava governo provvisorio), che faccia la legge elettorale che deve regolare l’elezione della Costituente? E saranno questi dittatori che dovranno ad arbitrio loro dire chi sarà elettore e chi no? O saranno “i lavoratori”, che giudicheranno chi sono i “lavoratori autentici”? vale a dire un’assemblea, eletta non si sa con quali criterii, che deve dire chi ha diritto al voto?

E poi se, comunque espressa, la volontà del “popolo” non è unanime? avrà la maggioranza, o quella che passerà per maggioranza legale, diritto d’imporre la legge alla minoranza? Vi saranno birri, giudici, carceri, mezzi insomma, di costringere i riluttanti ad ubbidire per forza?

Veggo che non ci siamo ancora compresi.

Per fare la rivoluzione, cioè per abbattere il governo monarchico ora vigente, noi contiamo sul concorso dei repubblicani, come essi possono contare sul nostro.

Ma per fare la repubblica noi non ci stiamo davvero. Noi siamo contro la dittatura e contro la Costituente. Noi vogliamo che nell’atto stesso della rivoluzione, non appena la sconfitta del potere militare borghese ce lo permetterà, per iniziativa libera di tutte le organizzazioni operaie, di tutti i gruppi coscienti, di tutti i volontari del movimento, si pratichi subito, immediatamente, la espropriazione e la messa in comune di tutta la ricchezza esistente per procedere, senza por tempo in mezzo, alla organizzazione della distribuzione ed alla riorganizzazione della produzione secondo i bisogni ed i desideri delle diverse regioni, dei diversi comuni, dei diversi gruppi ed arrivare quindi sotto la spinta dell’idea e dei bisogni, alle intese, ai patti, agli accordi che occorrono alla vita sociale.

Parlare dei diritti che avranno o non avranno i borghesi, grossi e piccoli, dopo la rivoluzione, ci pare assurdo, poiché, dopo la rivoluzione, almeno per quanto può dipendere da noi, borghesi non ve ne saranno più. Ciò che costituisce il borghese è il fatto di possedere i mezzi di lavoro e di adoperarli, non per lavorare, ma per sfruttare il lavoro altrui; ed i lavoratori, pigliando essi possesso dei mezzi di lavoro e quindi naturalmente rifiutandosi a lavorare per altri, avranno distrutta radicalmente la borghesia, e trasformati tutti gli uomini in lavoratori.

Noi siamo comunisti, ma siamo anzitutto anarchici: ed i mazziniani possono dispensarsi dal dimostrarci i pericoli del comunismo autoritario.

Siamo per il comunismo libertario, cioè per il comunismo liberamente accettato, ed organizzato variamente secondo le varie condizioni e le varie volontà degli associati. Chi preferisce lavorare individualmente o con qualsiasi altro sistema diverso dal comunistico, deve poterlo fare, sempre che non sfrutti il lavoro altrui. Noi siamo convinti che presto la pratica mostrerà che il comunismo anarchico è il modo di convivenza sociale che meglio utilizza le forze umane e lascia più largo il campo alla libertà individuale – ma su questo l’avvenire dirà se abbiamo ragione.

Noi non vogliamo imporre nulla colla forza, e non vogliamo subire nessuna imposizione forzata.

Noi vogliamo adoperare la forza contro il governo, perché esso colla forza ci tiene soggetti.

Vogliamo colla forza espropriare i proprietari, perché essi colla forza detengono le ricchezze naturali ed il capitale, frutto del lavoro; e se ne servono per obbligare gli altri a lavorare a beneficio loro.

Colla forza combatteremo chiunque volesse per forza ritenere, o riconquistare, i mezzi per imporre la propria volontà e sfruttare il lavoro altrui.

Con la forza resisteremo contro qualsiasi “dittatura” e costituente che volesse sovrapporsi alle masse in rivoluzione. E combatteremo la repubblica come combattiamo la monarchia, se repubblica significa un governo, comunque arrivato al potere, che faccia delle leggi ed abbia mezzi militari e penali per costringere la gente all’ubbidienza.

Salvo i casi enumerati, in cui l’impiego della forza si giustifica come difesa contro la forza, noi siamo sempre contro la violenza e per la libera volontà.

Per noi l’idea fondamentale dell’anarchismo è appunto l’eliminazione della violenza nei rapporti sociali.

Concepiscono i mazziniani una “repubblica” senza leggi obbligatorie, senza forza armata, senza sanzioni penali? Una “repubblica” in cui ognuno faccia quello che vuole, alla sola condizione che non violi l’eguale liberta degli altri?

Se sì, perché non la chiamano Anarchia?


[Pubblicato su “Umanità Nova” n. 61 del 9 maggio 1920]

Ancora su anarchismo e comunismo

Ho sul tavolo da parecchio tempo dei lunghi scritti di Maxim in risposta alle osservazioni che io facevo seguire al suo articolo pubblicato nel n. 96 di “U. N.” e ad un articolo di Spartaco, apparso sul n. 75.

Lo spazio mi vieta di pubblicarli integralmente, ma vale la pena di esaminare i suoi argomenti.

Maxim parla in nome dei comunisti “della scuola russa” ed è, come i lettori si ricorderanno, per la dittatura. Ma egli ci tiene a dire che comunisti dittatoriali e comunisti anarchici sono d’accordo nel fine ultimo a cui mirano, anzi, dice addirittura che comunismo ed anarchia sono la stessa cosa. Infatti egli vuole l’abolizione dello Stato, la sparizione delle classi, la sostituzione dell’amministrazione delle cose al governo degli uomini. E sta bene: ma egli vuol giungere all’anarchia per mezzo della dittatura, e questo scava un fosso profondo tra noi e “i russi”; poiché ciò che divide i partiti più che il fine ultimo a cui vogliono giungere e la via che vogliono percorrere. Nel fine ultimo siamo d’accordo con tutti coloro che vogliono l’emancipazione umana, con tutti quelli che desiderano sinceramente il bene degli uomini: chi non dice che l’anarchia è un ideale sublime? Ne convengono persino i questori ed i magistrati, che intanto ci fanno ammanettare e fucilare.

Noi abbiamo della strada da fare insieme con gli amici di Maxim: abbiamo da fare la rivoluzione, o meglio, il primo passo della rivoluzione, che è la demolizione del regime attuale. Dopo, subito dopo, se essi son disposti a lasciare a noi la completa libertà, come noi la lasceremmo a quelli che non pensano come noi, potremo ancora coesistere in pace ed anche aiutarci scambievolmente; ma se essi volessero imporci la loro dittatura (la quale potrebbe giungere fino alla fucilazione degli anarchici come pare si sia giunti in Russia), allora, lo comprenderà l’amico Maxim, l’accordo sarebbe impossibile.

Maxim si estende sulle difficoltà della ricostruzione sociale. D’accordo; ma quello che egli dovrebbe dimostrarci è come e perché quelle difficoltà sarebbero risolte e superate da una dittatura meglio che dall’opera diretta e immediata dei lavoratori – intendendo per lavoratori, tutti quelli che col braccio e con la mente, con l’esperienza pratica e con le cognizioni teoriche concorrono alla produzione. Dovrebbe dimostrarci come e perché gli uomini più attivi, più intelligenti, più influenti sarebbero più utili al governo, dove necessariamente il meglio della loro energia sarebbe spesa negli sforzi per mantenersi al potere, anziché in mezzo alle masse lavorando, spingendo coll’esempio gli altri a lavorare e prendendo ogni specie di benefica iniziativa.

La concezione di Maxim è quella di tutti i conservatori, di tutti i reazionari: la paura, il disprezzo della massa, e la fede nella virtù taumaturgica (miracolosa) che l’“autorità” dà a chiunque ne è investito. Egli è un devoto del bastone; ma ci dicesse almeno chi deve averlo in mano questo bastone.

Dittatura del proletariato, non ci dice nulla: certo Maxim non deve intendere dittatura dei proletari, poiché egli ha dei proletari una ben magra opinione.

E allora?

Lo vuole lui il bastone, o lo vuole dare a noi?

Poiché in fondo alla questione teorica della dittatura, vi è sempre quella pratica: chi deve essere il dittatore?

Maxim dice: “È una illusione pietosa il pensare che la crisi rivoluzionaria sviluppi negli uomini il sentimento del dovere, della fratellanza e della solidarietà. Sostener ciò è far della retorica simile a quella dei patriottardi per i quali la guerra doveva essere la grande scuola, il grande lavacro dell’anima nazionale. Ne abbiamo visto i risultati: da una parte una geldra di arricchiti sui dolori e sui lutti della guerra e dall’altra una turba sulla quale il sentimento della violenza senza freno o della vigliaccheria senza vergogna hanno del pari offuscato ogni alto sentimento umano. La rivoluzione ci ridarà gli uomini come sono se non peggiorati... Ora che garanzie si hanno che da una cosiffatta umanità possa sorgere come per incanto una forma di convivenza sociale nella quale ciascuno volontariamente limiti il suo diritto là dove s’urta con il diritto altrui? Quale garanzia, per esempio, che quei famosi comitati di cittadini volontari che sorgeranno in ogni via, in ogni rione, in ogni città, in ogni regione, in ogni nazione, automaticamente per generazione spontanea, procedendo alla requisizione dei viveri ed alla loro distribuzione, alla statistica degli alloggi ed alla loro ripartizione fra tutti i cittadini nel modo più giusto, più equanime che sia dato pensare? E inoltre – poiché il problema non è solo di distribuzione ma anche e più di produzione quale garanzia che questi comitati che pur si attribuiscono di fatto un’autorità esecutiva in nome della rivoluzione, sappiano di essa poi volontariamente spogliarsi per correre all’officina ed al campo a lavorare disciplinati 10 e 12 ore al giorno per la rapida creazione di tutto ciò che abbisogna al sostentamento della rivoluzione?”.

Queste osservazioni sono piene di saggezza e di verità.

La rivoluzione, essendo per necessità di cose un atto violento, tende a sviluppare anziché a sopprimere lo spirito di violenza. Ma la rivoluzione fatta come la concepiscono gli anarchici è la meno violenta possibile e vuole arrestata ogni violenza appena cessa la necessità di opporre la forza materiale alla forza materiale del governo e della borghesia.

Gli anarchici non ammettono la violenza che come legittima difesa; e se sono oggi per la violenza è perché ritengono che gli schiavi sono sempre in istato di legittima difesa. Ma l’ideale degli anarchici è una società da cui sia sparito completamente il fattore violenza, e questo loro ideale serve a frenare, a correggere, a distruggere quello spirito di prepotenza che la rivoluzione, in quanto atto materiale, tenderebbe a sviluppare.

Il rimedio in tutti i casi non potrebbe mai essere l’organizzazione e la consolidazione della violenza in mano di un governo, di una dittatura, che non può essere fondato che sulla forza materiale e posta necessariamente alla glorificazione degli ordini polizieschi e militari.

Maxim ha un modo curioso di ragionare. Gli uomini sono cattivi, uscirebbero dalla rivoluzione forse peggiorati... dunque pigliamo degli uomini e diamo loro il potere di comandare. Non abbiamo nessuna garanzia che i comitati locali volontariamente costituitisi rinunzino a quella specie di autorità esecutiva che si sono attribuita... dunque costituiamo un comitato centrale, una dittatura, diamogli l’autorità legale di fare come vuole, dotiamolo di armi e di armati, lasciamo che crei intorno a sé una vasta burocrazia e tutta una rete d’interessi con lui solidali, e poi viviamo tranquilli che quei dittatori provvisori rinunzieranno al potere non appena il loro compito sarà finito.

Maxin ha paura delle mille piccole violenze che possono avvenire, e perciò vuole la violenza statale. Sarebbe come se uno per paura della disposizione alla violenza che la guerra ha fomentato nella psiche degli “arditi” volesse mettersi sotto la dittatura dei Cadorna o dei Graziani.

Maxim in un punto dei suoi scritti, che contraddice un poco il resto, dice: il comunismo sarà autoritario o non sarà.

Ed io rispondo che se ciò fosse vero, io direi: Non sia comunismo, ma sia la libertà. Poiché io sono comunista, noi anarchici siamo comunisti, perché pensiamo che il comunismo è mezzo alla libertà.


[Pubblicato su “Umanità Nova” n. 121 del 18 luglio 1920]

La violenza e la rivoluzione

Recentemente lo “Scampolista” dell’“Avanti” scriveva:

Gli anarchici, secondo anche le ultime dichiarazioni di Errico Malatesta, non sono fautori della violenza e non hanno di mira la organizzazione della forza rivoluzionaria per la trasformazione violenta della società capitalistica...

Da quale resoconto del processo di Milano ha potuto lo “Scampolista” mai ricavare che io non miro all’organizzazione della forza rivoluzionaria per la trasformazione violenta della società capitalistica?

Gli anarchici sono contro la violenza. È cosa nota. L’idea centrale dell’anarchismo è l’eliminazione della violenza dalla vita sociale; l’organizzazione dei rapporti sodali fondata sulla libera volontà dei singoli, senza l’intervento del gendarme. Perciò siamo nemici del capitalismo che costringe, appoggiandosi sulla protezione dei gendarmi, i lavoratori a lasciarsi sfruttare dai possessori dei mezzi di produzione o anche a restare oziosi ed a patire la fame quando i padroni non hanno interesse a sfruttarli. Perciò siamo nemici dello Stato, che è l’organizzazione coercitiva, della violenza, della società.

Ma se un galantuomo dice che egli crede che sia una cosa stupida e barbara il ragionare a colpi di bastone e che è ingiusto e malvagio obbligare uno a fare la volontà di un altro sotto la minaccia della rivoltella, è forse ragionevole dedurre che quel galantuomo intende farsi bastonare e sottomettersi alla volontà altrui senza ricorrere ai mezzi anche più estremi di difesa?

Io dissi a Milano quello che io stesso e tutti gli anarchici abbiamo ripetuto le mille volte: “La violenza è giustificabile solo quando è necessaria per difendere se stesso e gli altri contro la violenza. Dove cessa la necessità, comincia il delitto”. E se il pubblico ministero mi avesse lasciato l’opportunità di esporre alla fine del processo quali sono i nostri scopi ed i nostri mezzi, avrei dimostrato come lo schiavo è sempre in istato di legittima difesa e che quindi la sua violenza contro il padrone, contro l’oppressore, è sempre moralmente giustificabile e deve essere regolata solo dal criterio dell’utilità e dell’economia dello sforzo umano e delle sofferenze umane. Anche questa, cosa mille volte ripetuta da tutti gli anarchici.

L’attuale regime di ingiustizia e di oppressione si regge sulla violenza, sulla forza bruta delle baionette e delle mitragliatrici, e poiché la rivolta individuale, pur buona e utile quando è intelligentemente adoperata, è generalmente impotente contro la forza mastodontica dello Stato, è necessaria l’organizzazione di una forza rivoluzionaria sufficiente allo scopo.

Ma come mai i socialisti, che tante volte han fatto a gara col regio procuratore nel dipingerci quali fautori di cieca violenza, e quasi non vedevano altro nell’anarchismo che la violenza sistematica, si avvisano oggi di dipingerci come dei pacifisti che aspettano la caduta del regime capitalistico da non so quale placido tramonto?

La verità è che lo “Scampolista” è ubriaco di “dittatura del proletariato” e non concepisce la rivoluzione senza la detta dittatura. E siccome noi siamo avversi a questa dittatura che è nello stesso tempo l’oppressione e la presa in giro del proletariato da parte dei capi (starei per dire “piccolo-borghesi”, se amassi il gergo della scuola), da parte, dico, dei capi del partito che riesce a dominare e soffocare la rivoluzione, lo “Scampolista” ne deduce che “gli anarchici non hanno di mira l’organizzazione della forza rivoluzionaria per la trasformazione violenta della società capitalistica”.

Eppure lo “Scampolista” dovrebbe sapere che il voler fare o no la rivoluzione – la rivoluzione armata, violenta è stata sempre la ragione precipua dei nostri contrasti coi socialisti, che noi accusammo di parlare volentieri di preparazione rivoluzionaria, ma di opporsi poi nel fatto ad ogni possibile movimento, addormentando le masse col riformismo, col collaborazionismo e col parlamentarismo in genere.

Di grazia, combatta pure lo “Scampolista”, serenamente o no, le nostre idee; ma non ci faccia dire il contrario di quel che pensiamo e diciamo.

* * *

Carlo Scarfoglio, ch’io trattai da mentitore spudorato fino al ridicolo, risponde: “Ho citato una lettera del Malatesta. La menzogna, se c’è, è di chi ha scritto la lettera”.

Ma chi ha scritto la lettera? O piuttosto, esiste veramente questa lettera da cui risulterebbe ch’io promettevo al governo inglese di restare tranquillo se esso lasciava tranquilli gli anarchici?

Io negai nel modo più reciso (mentre lo Scarfoglio afferma bugiardamente che io non ho negato il fatto) e sfidai a pubblicare la lettera, che, secondo Scarfoglio, sarebbe apparsa in un giornale, inglese, “The Daily Mail”.

La pubblichi lo Scarfoglio se può; ed allora cercheremo chi è il falsificatore.

Intanto confermo “Mentitore spudorato fino al ridicolo”.

Lo stesso Scarfoglio nell’invocare lo stato d’assedio dice che la giurisdizione civile è di un’assoluta incompetenza in materia politica e lo prova con l’esempio dei giurati di Milano i quali hanno trovato che il direttore di “Umanità Nova” non aveva commesso incitamento al reato, mentre il gerente del suo giornale lo aveva commesso.

Nossignore il Malatesta fu assolto dai giurati, mentre il gerente, compagno Pagliai, fu condannato dai magistrati togati. La differenza è sensibile: i giurati non hanno interessi di carriera da tutelare, non dipendono dal governo e, anche se borghesi, vivono in mezzo alla gente e subiscono, per il bene e per il male, l’influenza dell’ambiente popolare. I magistrati subiscono l’influenza di chi sta al potere.


[Pubblicato su “Umanità Nova” n. 115 del 25 agosto 1921

Anarchia e violenza

Anarchia vuol dire non-violenza, non-domino dell’uomo sull’uomo, non-imposizione per forza della volontà di uno o di più su quella di altri.

È solo, mediante l’armonizzazione degl’interessi, mediante la cooperazione volontaria, con l’amore, il rispetto, la reciproca tolleranza, è solo colla persuasione, l’esempio, il contagio ed il vantaggio mutuo della benevolenza che può e deve trionfare l’anarchia, cioè una società di fratelli liberamente solidali, che assicuri a tutti la massima libertà, il massimo sviluppo, il massimo benessere possibili.

Vi sono certamente altri uomini, altri partiti, altre scuole tanto sinceramente devoti al bene generale quanto possono esserlo i migliori tra noi. Ma ciò che distingue gli anarchici da tutti gli altri si è appunto l’orrore della violenza, il desiderio ed il proposito di eliminare la violenza, cioè la forza materiale, dalle competenze tra gli uomini.

Si potrebbe dire perciò che l’idea specifica che distingue gli anarchici è l’abolizione del gendarme, l’esclusione dai fattori sociali della regola imposta mediante la forza brutale, legale o illegale che sia.

Ma allora, si potrà domandare, perché nella lotta attuale, contro le istituzioni politico-sociali, che giudicano oppressive, gli anarchici hanno predicato e praticato, e predicano e praticano, quando possono, l’uso dei mezzi violenti che pur sono in evidente contraddizione coi fini loro? E questo al punto che, in certi momenti, molti avversarii in buona fede han creduto, e tutti quelli in mala fede han finto di credere, che carattere specifico dell’anarchismo fosse proprio la violenza?

La domanda può sembrare imbarazzante, ma vi si può rispondere in poche parole. Gli è che perché due vivano in pace bisogna che tutti e due vogliano la pace; che se uno dei due si ostina a volere colla forza obbligare l’altro a lavorare per lui ed a servirlo, l’altro se vuol conservare dignità di uomo e non essere ridotto alla più abbietta schiavitù, malgrado tutto il suo amore per la pace ed il buon accordo, sarà ben obbligato a resistere alla forza con mezzi adeguati.

Supponete, per esempio, che vi accada di venire a conflitto con un qualsiasi Dumini e che egli sia armato e voi inerme, egli spalleggiato da una banda numerosa e voi solo o in pochi, egli sicuro dell’impunità e voi preoccupato dal pericolo che sopravvengano i carabinieri che vi arrestano e vi maltrattano e vi fan restare in prigione chi sa quanto tempo... e poi ditemi se sarebbe il caso di pensare ad uscire dal mal passo persuadendo il vostro Dumini colle buone ragioni ad essere giusto, buono e dolce!

* * *

L’origine prima dei mali che han travagliato e travagliano l’umanità, a parte s’intende quelli che dipendono dalle forze avverse della natura, è il fatto che gli uomini non han compreso che l’accordo e la cooperazione fraterna sarebbe stato il mezzo migliore per assicurare a tutti il massimo bene possibile, ed i più forti ed i più furbi han voluto sottomettere e sfruttare gli altri, e quando sono riusciti a conquistare una posizione vantaggiosa han voluto assicurarsene e perpetuarne il possesso creando in loro difesa ogni specie di organi permanenti di coercizione.

Da ciò, è venuto che tutta la storia è piena di lotte cruenti: prepotenze, ingiustizie, oppressioni feroci da una parte, ribellioni dall’altra.

Non v’è da fare distinzioni di partiti: chiunque ha voluto emanciparsi, o tentare di emanciparsi, ha dovuto opporre la forza alla forza, le armi alle armi.

Però ciascuno, mentre ha trovato necessario e giusto adoperare la forza per difendere la propria libertà, i proprii interessi, la propria classe, il proprio paese, ha poi, in nome di una morale sua speciale, condannata la violenza quando questa si rivolgeva contro di lui per la libertà, per gl’interessi, per la classe, per il paese degli altri.

Così quegli stessi che, per esempio qui in Italia, glorificano a giusta ragione le guerre per l’indipendenza ed erigono marmi e bronzi in onore di Agesilao Milano, di Felice Orsini, di Guglielmo Oberdan e quelli che hanno sciolto inni appassionati a Sofia Perovskaja ed altri martiri di paesi lontani, han poi trattati da delinquenti gli anarchici quando questi sono sorti a reclamare la libertà integrale e la giustizia uguale per tutti gli esseri umani ed hanno francamente dichiarato che, oggi come ieri, fino a quando l’oppressione ed il privilegio saran difesi della forza bruta delle bajonette, l’insurrezione popolare, la rivolta dell’individuo e della massa, resta il mezzo necessario per conseguire l’emancipazione.

Ricordo che in occasione di un clamoroso attentato anarchico, uno che figurava allora nelle prime file del partito socialista e tornava fresco fresco dalla guerra turco-greca, gridava forte, con l’approvazione dei suoi compagni, che la vita umana è sacra sempre e che non bisogna attentarvi nemmeno per la causa della libertà. Pare che facesse eccezione la vita dei Turchi e la causa dell’indipendenza greca!

Illogicità, o ipocrisia?

* * *

Eppure la violenza anarchica è la sola che sia giustificabile, la sola che non sia criminale.

Parlo naturalmente della violenza che ha davvero i caratteri anarchici, e non di questo o quel fatto di violenza cieca ed irragionevole che è stato attribuito agli anarchici, o che magari è stato commesso da veri anarchici spinti al furore da infami persecuzioni, o accecati, per eccesso di sensibilità non temperato dalla ragione, dallo spettacolo delle ingiustizie sociali, dal dolore per il dolore altrui.

La vera violenza anarchica è quella che cessa dove cessa la necessità della difesa e della liberazione. Essa è temperata dalla coscienza che gli individui presi isolatamente sono poco o punto responsabili della posizione che ha fatto loro l’eredità e l’ambiente; essa non è ispirata dall’odio ma dall’amore; ed è santa perché mira alla liberazione di tutti e non alla sostituzione del proprio dominio a quello degli altri.

Vi è stato in Italia un partito che, con fini di alta civiltà si è adoperato a spegnere nelle masse ogni fiducia nella violenza... ed è riuscito a renderle incapaci ad ogni resistenza quando è venuto il fascismo. Mi è parso che lo stesso Turati ha più o meno chiaramente riconosciuto e lamentato il fatto nel suo discorso di Parigi per la commemorazione di Jaurès.

Gli anarchici non hanno ipocrisia. La forza bisogna respingerla colla forza: oggi contro le oppressioni di oggi; domani contro le oppressioni che potrebbero tentare di sostituirsi a quelle di oggi.

Noi vogliamo la libertà per tutti, per noi e per i nostri amici come per i nostri avversari e nemici. Libertà di pensare e di propagare il proprio pensiero, libertà di lavorare e di organizzare la propria vita nel modo che piace; non libertà, s’intende e si prega i comunisti di non equivocare – non libertà, di sopprimere la libertà e di sfruttare il lavoro degli altri.


[Pubblicato su “Pensiero e Volontà” n. 17 del 1° settembre 1924]

Cristiano?

Nel numero del 10 aprile di “iconoclasta” (che io non ho ricevuto e veggo solo grazie alla cortesia di un amico) il compagno Virgilio Gozzoli, ripigliando una vecchia polemica intorno all’odio ed al terrore rivoluzionario, mi tratta da “comunista cristiano”. Ed io non so se debbo considerate l’inaspettata qualifica come un elogio immeritato, o come una gratuita ingiuria.

A parte la credenza religiosa, che non penso mi si voglia attribuire e, considerando il cristianesimo quale ispiratore di sentimenti etici e regola di condotta pratica, molti e varii sono i modi d’intendere la qualità di cristiano. Io conosco nella storia passata e nella vita contemporanea tanti animi nobili e dolci vite che si dicono cristiani, come so di fieri ribelli che sotto il labaro del Cristo combatterono per la libertà e la giustizia. Ma so pure che si dissero cristiani Simone di Monforte, Ignazio di Loyola, Torquemada, Lutero, Calvino; come cristiani si dicono la più gran parte dei moderni oppressori e mi domando se, riferendomi a costoro ed a tutte le persecuzioni e le stragi perpetrate in nome di Cristo, non potrei a mia volta e con maggior ragione dar del Cristiano ai truci predicatori di odio, vendetta e terrore.

Ma perché richiamarsi a Cristo ed alla storia dei suoi settatori, quando sarebbe così semplice, e ben più sicuro, il giudicare le idee e i propositi di un uomo da quello che egli stesso dice e fa?... almeno quando si tratta di uno che dice chiaramente quello che pensa ed ha sempre agito in conformità di quello che dice!

Io penso, e l’ho ripetuto le mille volte, che il non resistere al male “attivamente” cioè in tutti i modi possibili ed adeguati, in teoria è assurdo, perché in contraddizione collo scopo di evitare e distruggere il male, ed in pratica è immorale perché rinnega la solidarietà umana ed il dovere che ne consegue di difendere i deboli e gli oppressi. Io penso che un regime nato dalla violenza e che con la violenza si sostiene non può essere abbattuto che da una violenza corrispondente e proporzionata, e che perciò è una sciocchezza o un inganno il fidare nella legalità che gli oppressori stessi foggiano a loro difesa. Ma penso che per noi che miriamo alla pace fra gli uomini, alla giustizia ed alla libertà di tutti, la violenza è una dura necessità che deve cessare a liberazione conseguita, là dove cessa la necessità della difesa e della sicurezza, sotto pena di diventare un delitto contro l’umanità e di menare a nuove oppressioni e a nuove ingiustizie. Comprendo gli scoppi irrefrenabili della vendetta popolare e la loro funzione storica ma non dobbiamo, noi, incoraggiare i sentimenti cattivi che l’oppressione suscita nell’animo degli oppressi. Pur lasciando che il torrente straripi e spazzi via il triste passato, noi dobbiamo sforzarci di conservare alla lotta il carattere di lotta per l’intera redenzione umana, ispirandoci sempre all’amore per gli uomini, per tutti gli uomini, e respingendo dall’animo nostro e per quanto è possibile da quello degli altri, i torbidi propositi che la tirannia ispira e il desiderio di vendetta alimenta.

È cristianesimo questo? A me pare semplicemente sentimento anarchico, sentimento umano.

* * *

E dopo di aver detto questo, tanto per respingere da me quella qualifica di cristiano, che mi offende nelle mie convinzioni filosofiche e morali, e che par lanciata ad arte per creare l’equivoco intorno alle mie idee, io torno ad esprimere la mia vecchia opinione che tra me e certi compagni dal linguaggio feroce un vero dissenso non c’è, o è dissenso del tutto letterario.

Io ho la disgrazia – o la fortuna – di non essere un letterato. Io non so e non curo le belle frasi, non amo le amplificazioni retoriche, intendo sempre alla lettera quello che dico, e ho perciò la tendenza a prendere alla lettera quello che dicono gli altri.

Da questo si può comprendere l’effetto orripilante che fa su di me certa letteratura.


[Pubblicato su “Pensiero e volontà” n. 6 del 16 aprile-16 maggio 1925]

 
 

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