Titolo: Critica del consiliarismo
Sottotitolo: e altri scritti
Data: 1987
Note: Pubblicato su “Anarchismo” n. 57, giugno 1987, pp. 14-19
Prima edizione in volume: novembre 2013
Opuscoli provvisori n. 33
SKU: opuscoli-000033
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Nota introduttiva alla seconda edizione

Complessivamente questo lavoro di Le Manach si integra con quelli che lo seguono nel presente opuscolo in una comune visione “contro” il lavoro. Forse oggi non è facile cogliere gli aspetti recuperativi del consiliarismo, visto che l’ideologia lavorista si è camuffata sotto sigle differenti, pur rimanendo con il medesimo scopo di tutelare il futuro della produzione contro ogni possibile attacco. Ma, sfatato l’equivoco terminologico, la sostanza appare in tutta evidenza. Il produttore, liberandosi dalla produzione che lo sovrasta e lo grava, opprimendolo, non ha che da perdere le proprie catene. Ogni sviolinatura restauratrice, dall’ampio ventaglio riformista all’estremismo progettuale dell’anarcosindacalismo, non può negare questa grande evidenza.

Sulla medesima linea analitica si pongono anche gli altri scritti. Il lavoro diretto a mettere in chiaro i danni che il lavorismo ha prodotto, e continua a produrre, non è mai troppo.

Tagliare col passato, ecco il movente intimo di ogni aspirazione rivoluzionaria.


Trieste, 26 ottobre 2011

Alfredo M. Bonanno

Nota introduttiva alla prima edizione

Scritta a meta degli anni Settanta questa analisi ha, per certi aspetti, fatto il suo tempo. Fra l’altro appare oggi poco chiaro il significato dell’“automazione” che Le Manach propone come alternativa al lavoro. Oggi sappiamo che le nuove tecnologie consentono una “relativa” automazione della produzione, cosa, questa, che non corrisponde affatto alla liberazione dallo sfruttamento. Nuovi orizzonti di schiavitù, infatti, si aprono davanti gli occhi istupiditi dei proletari. Ma, per molti altri aspetti, lo scritto resta valido. In primo luogo per la sua critica serrata al consiliarismo – di qualsiasi tipo – anche se quello che più di ogni altro viene preso di mira dall’autore è il consiliarismo situazionista. In fondo, per molti motivi, i situazionisti hanno portato alle sue estreme conseguenze la teoria consiliarista, facendone vedere, spesso involontariamente, la sua arretratezza e il suo modo di legarsi alle vecchie concezioni della produzione e della lotta di classe come scontro di organizzazioni quantitative.

Alfredo M. Bonanno

Critica del consiliarismo

La critica rivoluzionaria della storia deve avere per base lo sviluppo del processo reale della produzione, e ciò a partire dalla produzione materiale della vita immediata, colta, da una parte, dalle forze produttive e, dall’altra, dai rapporti di produzione che ne risultano. Omettendo nelle loro analisi questa critica materiale, i situazionisti lasciano di essa soltanto una traccia, un concetto, un’idea.

Riesel così costruisce la nozione di “Consiglio”: “Scartando le grossolane falsificazioni accumulate dalla socialdemocrazia, dalla burocrazia russa, del titismo, del ben-bellismo; e, soprattutto, riconoscendo le insufficienze delle brevi esperienze pratiche del potere dei Consigli abbozzate fino ad oggi e basandosi sulle stesse concezioni dei rivoluzionari consiliaristi”. In questo modo, Riesel non se la prende con le basi materiali della storia, col rapporto dialettico tra mezzi di produzione e rapporti di produzione, ma unicamente con le rappresentazioni ideologiche sotto le quali la storia appare agli uomini.

Anche quando riconosce le insufficienze delle esperienze pratiche del potere dei Consigli, persiste nel suo errore non vedendo che queste insufficienze non sono quelle del potere dei Consigli, ma quelle del proletariato organizzato momentaneamente in Consiglio. I situazionisti hanno torto di considerare il momento consiliarista delle lotte di classe come la finalità di queste stesse. Si vede già che non è nelle risposte, ma nelle stesse domande che c’è una mistificazione. Non sono i Consigli che determinano il movimento di negazione dei proletari, ma, inversamente, i proletari che, a partire dal processo reale della produzione materiale della vita immediata, decidono i mezzi della loro liberazione, i quali mutano nel tempo.

Ponendo il problema nel giusto modo, risulta immediatamente che i Consigli, nelle loro differenti apparizioni storiche, hanno fin dal loro sorgere motivazioni super-strutturali diverse: guerra, crisi economica, lotta nazionalista. Il legame che unisce le differenti esperienze dei Consigli è un legame storico, essi sono apparsi a uno stadio ben preciso dello sviluppo delle forze produttive: il periodo di meccanizzazione in blocco del lavoro industriale, la taylorizzazione e l’elettrificazione. Il lavoro alla catena di montaggio è legato all’esistenza di una nuova fonte di energia che è l’elettricità. Non è Lenin che ha condotto il comunismo alla possibilità dell’elettrificazione, ma l’elettricità stessa che l’ha, per così dire, elettrificato.

Al di fuori delle diverse rappresentazioni ideologiche, sotto le quali i Consigli ci vengono presentati, essi restano nella realtà prigionieri delle forme storicamente limitate dell’organizzazione del lavoro. La soggettività dei Consigli non si è liberata su una base oggettiva, ma, al contrario, ne è rimasta prigioniera. La soggettività deve essere materiale oppure resta soltanto un momento dello spirito. Volendo opporre questa soggettività all’ideologia bolscevica, i situazionisti si pongono sullo stesso piano di questi ultimi perché oppongono un’illusione ad un’altra mentre nascondono le condizioni preliminari e materiali da cui non si può fare astrazione. I Consigli sono prima di tutto Consigli di fabbrica e non possono pretendere altro che un’azione riformista nel quadro della fabbrica. Non è aprendo le porte delle fabbriche alle donne, ai ragazzi e agli abitanti del quartiere che si sopprime il loro aspetto corporativo. Al contrario, si aliena un po’ più di gente. Il problema non è mai stato quello di fare entrare l’insieme della popolazione nella produzione, ma di farne uscire quelli che ci sono ancora. Fermando la miseria, i progetti materiali dei Consigli non hanno mai inteso altro che una riorganizzazione del lavoro come funzione sociale: “Divenire noi stessi schiavi senza padroni, schiavi delle nostre macchine, del nostro lavoro, della nostra vita”.

I Consigli non sono altro che una forma storica di resistenza (partecipazione) e un momento storico dello sviluppo delle forze produttive. La loro attitudine ideologica non è che l’immagine di un ridicolo rimpianto di un periodo di umanesimo triste e misero. Non più di come non giudichiamo un individuo sulla immagine che egli si fa di se stesso, non sapremmo giudicare un tale movimento sulla coscienza che ha di se stesso. Bisogna, al contrario, spiegare questa coscienza con il conflitto che esiste tra le forze produttive sociali e i rapporti di produzione. È troppo facile immaginarsi che nella storia si tratti unicamente di presa di possesso e questo riguardo la storia del proletariato in particolare. Nella presa di possesso della società che i proletari devono compiere, si tratta di sapere se la società di cui si impadroniscono ha sviluppato delle forze produttive automatizzate, come è il caso degli Stati moderni più avanzati, o se queste forze produttive riposano unicamente sulla loro unione e sulla comunità (unione e comunità si intendono qui come divisione e interesse egoista). Se guardiamo, troviamo sempre che una formazione sociale non sparisce mai prima che si siano sviluppate tutte le forze produttive che riesce a contenere, mai dei rapporti nuovi e superiori vi si sostituiscono prima che le condizioni di questi rapporti non si siano schiuse nel seno stesso della vecchia società. Sembra inoltre evidente che la presa di possesso è condizionata dall’oggetto di cui ci si impossessa. I Consigli non possono assolutamente impadronirsi della fabbrica di un industriale che necessita di lavoro parcellizzato senza che siano, a loro volta, obbligati a sottomettersi alle condizioni della produzione. Le sconfitte delle rivoluzioni proletarie fino ad oggi non si spiegano altrimenti. I differenti apparati sindacali, bolscevichi, socialdemocratici, non sono i responsabili di queste sconfitte, come l’intende Riesel, essi sono soltanto un’espressione di queste sconfitte: quella che non sa morire. Le rivoluzioni proletarie si criticano esse stesse costantemente, ridicolizzano spietatamente le esitazioni, le debolezze e le miserie dei loro primi tentativi, sembrano non abbattere il loro avversario che per permettergli di attingere nuove forze dalla terra e risollevarsi nuovamente formidabile di fronte ad esse, indietreggiano costantemente davanti l’immensità infinita dei loro propri scopi, fino a quando non si viene a creare la situazione che rende impossibile ogni ritorno indietro. Anche se il proletariato resta integro davanti ai suoi scopi, si trascina lo stesso dietro di sé i suoi errori, le sue debolezze fossilizzate. Dopo le cooperative, i sindacati, i partiti socialdemocratici, i partiti marxo-lenino-trosko-guevaro-maoisti, gli toccherà trascinare il cadavere dei Consigli.

Gli elementi concreti di un totale sconvolgimento sono, da una parte, le forze produttive esistenti e, dall’altra, la formazione di una massa rivoluzionaria. Se queste condizioni non esistono, è assolutamente indifferente per lo sviluppo pratico che l’idea di questo sconvolgimento sia già stata espressa mille volte, come lo prova la storia del comunismo. Per la grande massa degli uomini, cioè per il proletariato, queste rappresentazioni teoriche non esistono. Per questa massa, esse non hanno neanche bisogno di essere risolte e se hanno qualche volta avuto delle rappresentazioni teoriche (come i Consigli operai), è da tempo che queste sono state dissolte dalle circostanze. Indichiamoci l’un l’altro, compagni, l’epiteto che le rimetta al loro posto.

Piuttosto che guardare attraverso le lenti consiliariste, sarebbe più importante mostrare a quali stadi siano arrivate le forze produttive e, parallelamente, mostrare quali nuovi rapporti tendono a trascinare nel seno della vecchia società, quali contraddizioni vi sollevano. Ad un certo stadio del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, con i rapporti di proprietà in seno ai quali esse si erano trasformate sino ad allora. Da forme di sviluppo, questi rapporti diventano ostacoli. Allora si apre un periodo di rivoluzione sociale. Comincia la festa. Ma quando si è ben fatta la festa, bisogna rimettersi a produrre. In quali condizioni ci rimetteremo a produrre? Non in una società che ha liquidato il lavoro con la ricchezza delle tecniche, ma in una società che è morta per non poterlo fare. La borghesia, la quale non può esistere senza rivoluzionare costantemente gli strumenti di produzione, si supera con gli strumenti che essa stessa ha creato. Forgia le armi che la mettono a morte.

Il proletariato avrà dietro di sé un mondo che è morto con l’idea dell’automazione e davanti a sé un mondo da automatizzare materialmente. Tra la società capitalista e la società comunista, si colloca il periodo di trasformazione della prima nella seconda e non è accoppiando il vocabolo “Consiglio” a quello “operaio” che si farà avanzare il grado di sviluppo che avrà raggiunto il periodo di transizione per quanto concerne la divisione del lavoro. L’abolizione di questa divisione dipende da una massa di condizioni materiali preliminari che la volontà e la lotta in armi del proletariato non sono sufficienti a realizzare. Bisogna capire bene che divisione del lavoro e proprietà privata sono espressioni identiche. Ogni nuovo stadio della divisione del lavoro, determina i rapporti degli individui tra loro per quanto riguarda la materia, gli strumenti e i prodotti del lavoro. La ripartizione degli oggetti d’uso non è che la conseguenza delle condizioni di produzione.

Il periodo di trasformazione sarà abbastanza lungo perché si installino nuove forme di potere. I rappresentanti delle nuove leggi avranno tendenza a raccontare ai lavoratori che essi sono infine realizzati, per questo non esiteranno a mettere donne nude sui banchi delle macchine, come pure a diffondere l’idea che il rumore delle macchine e dei martelli pneumatici sono musica sociale. Questi stessi diranno, l’indomani della festa, che è tempo per il proletariato di prendere in mano il proprio futuro (di rimettersi a produrre!). Ma le loro menzogne saranno materialmente demistificate attraverso la divisione del lavoro. I proletari, se vogliono realizzarsi nella loro propria negazione, non devono assumere la miseria storica, essi hanno solo una rivendicazione che non contiene in se stessa l’idea dei Consigli operai: non essere più operai, non lavorare più.

Un proletariato che non può realizzarsi nella ricchezza delle tecniche, che è ancora sottomesso alla divisione del lavoro ed è obbligato ad agire come classe, non ha che uno sbocco rivoluzionario: la pratica nichilista. È questa la sua sola maniera di essere positivo, di costruire – negandosi – il suo essere e la sua funzione di classe. Solo a queste condizioni eviteremo i diversi riformismi.

Mi sembra pericoloso vedere annegare i problemi sollevati dalla quasi ineluttabilità di uno “stadio transitorio” consiliarista e autogestito, nelle nozioni molto vaghe del tipo: controllo dei delegati attraverso la ricchezza delle tecniche, aumento immediato del piacere di vivere, tre o quattro ore per settimana di un lavoro liberamente scelto, sperimentazione attrattiva dei servizi, settori prioritari, venire a capo delle separazioni con una politica collettiva dei desideri, ecc. Tanto vale dire francamente e subito che lo stato transitorio consiliarista e autogestito è ancora un mondo dell’economia dove il “lavoro-godimento” serve ancora da misura, e dove il carattere penoso, che non è dissimulato dall’organizzazione ludica, è determinante nella definizione di questa misura. Nella società dei Consigli il diritto al lavoro è un diritto uguale per tutti, ma questo diritto uguale è un diritto ineguale per un lavoro ineguale. Non riconosce alcuna distinzione di classe perché ogni uomo è un lavoratore come un altro, ma riconosce tacitamente l’ineguaglianza dei doni individuali e, di conseguenza, la capacità di rendimento come dei privilegi naturali.

I lavoratori possono momentaneamente partecipare all’attuazione di un qualsiasi stadio transitorio, soprattutto se questo automatizza, ma per meglio distruggerlo in seguito. Il comunismo è empiricamente possibile come atto “improvviso” e simultaneo dei popoli vincenti. Ciò suppone, a sua volta, lo sviluppo universale della forza produttiva e delle relazioni universali strettamente legate al comunismo.

Poco importa che gli stadi transitori siano consiliaristi o meno, questi sono destinati ad essere abbattuti.

In una fase superiore della società, quando sarà scomparsa l’assoggettante subordinazione degli individui alla divisione del lavoro, quando il lavoro non sarà più il mezzo per vivere ma la possibilità, infine realizzabile, di una vita quotidiana senza tempi morti; quando le fonti della ricchezza collettiva scaturiranno in abbondanza, soltanto allora l’orizzonte limitato del diritto borghese, potrà essere definitivamente superato e la società potrà scrivere sui suoi indumenti intimi: “Da ciascuno secondo i suoi bisogni, a ciascuno secondo i suoi desideri”. Questa parola d’ordine fino ad oggi è la nostra ed è in questo senso che rivendichiamo l’automazione.

Invece di volere essere più consiliaristi che rivoluzionari internazionalisti, invece di pretendere di avere i delegati meglio controllati e, quindi, in fin dei conti, suonare la stessa musica, sarebbe stato meglio partire da un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi, dalle condizioni reali della lotta di classe esistente.

Non facendo questo, i situazionisti hanno reificato il contenuto radicale della lotte di classe sotto un aspetto parcellare, limitato, transitorio e utopico.

I Consigli operai (dittatura del proletariato, stadio transitorio, socialismo, società tecnico-funzionale, ecc.) sono forse la forma e il principio di sollecitazione del prossimo futuro, ma non sono, in quanto tali, lo scopo dello sviluppo umano, la forma della società umana.

Invece di dire: “La ricchezza delle tecniche di telecomunicazione, ecc., permette il controllo permanente dei delegati di base”, bisognava vedere più chiaramente che quando la diffidenza esiste verso i delegati, questo significa che essere delegato rappresenta un potere, che la possibilità di una vita quotidiana senza tempi morti necessiterebbe malgrado tutto della “funzione” di delegato, che questa funzione sarà un servizio cui ciascuno tenterà di sfuggire, che bisognerà automatizzare questa funzione al più presto possibile. Bisognava dire che quando esiste una base, la cima non è lontana e che la società di classe è soggiacente. Bisognava dire che la base deve controllare i delegati in maniera permanente, con la ricchezza delle tecniche questo significa che le ricchezze tecniche sono povere e resta solo l’idea volontaria, di questo controllo, idea che riposa su niente.

Anziché presentare alla rinfusa il rifiuto di ogni organizzazione che non sia l’emanazione diretta del proletariato che si sta negando come tale, la possibilità realizzabile di una vita quotidiana senza tempi morti, Consigli operai, autogestione generalizzata; bisognava precisare che l’autogestione, anche generalizzata, non significa niente e resta un vuoto termine se non si definisce la natura delle forze produttive. L’autogestione generalizzata non è ritenuta capace di superare le categorie economiche e può, al contrario, rafforzarle attraverso la permanenza della divisione del lavoro. L’autogestione viene presentata come medicina finale contro le contraddizioni del capitale. Gli autogestionari dimenticano molto semplicemente che la gestione non è la contraddizione essenziale della società critica, ma è la naturale conseguenza della penuria storica. Bisognava precisare che i Consigli operai sono “Consigli di operai”, legati storicamente e qualitativamente alla loro “essenza” di lavoratori parcellizzati. Essere operaio, infatti, non vuol dire essere uomo, ma compiere una funzione sociale in un quadro determinato e determinante. Non è perché gli operai si organizzano in Consigli che non sono più operai. Pretendere ciò significa fare appello a categorie autonome, come ad esempio la politica o la filosofia. Ma queste realtà autonome non tengono conto in nessun modo della realtà materiale esistente al di fuori di esse, dello stato delle forze produttive. In breve, bisognava mostrare chiaramente che l’autogestione generalizzata dei Consigli operai può essere in contraddizione con l’organizzazione sociale dei lavoratori, negando le loro condizioni passate e presenti, in contraddizione con il desiderio di una vita quotidiana senza tempi morti. Non sono i borghesi che ci alienano. Anch’essi sono alienati. L’autogestione non è sufficiente per risolvere un sistema che necessiterebbe, data la natura di questi mezzi di produzione, della divisione del lavoro mantenendo le separazioni borghesi-proletari, lavoro manuale e lavoro intellettuale, città-campagna, uomo-donna, ecc. Le categorie del pensiero (politica, economia, filosofia, ecc.) e le loro volontà non si superano se le contraddizioni materiali restano le stesse. E bisognava, ben inteso partendo da queste possibili contraddizioni, precisare che il controllo dei delegati con la sezione degli impianti non ci metteva al riparo della interruzione della corrente elettrica. Bisognava ugualmente precisare che un sistema non ha bisogno soltanto di delegati, ma che deve in più controllarli materialmente, è un sistema di schiavi, perché la trasparenza non ha eliminato il timore e la diffidenza. Noi rifiutiamo di dissolverci in un simile sistema e già ci sembra che gli siamo ostili. Quello che reclamiamo è di non lavorare più e di essere padroni del nostro tempo. Che i padroni al potere se la sbrighino da soli.

I proletari hanno niente a che vedere con ideologie che contrappongono il potere al potere, che non fanno altro che partecipare al vecchio mondo nella misura in cui ne accettano le categorie (competizione e concorrenza, in particolare). La realtà dei proletari non è la realizzazione di queste categorie, ma il loro superamento.

Se ci può essere una teoria dell’insoddisfazione presente, basata sulla rivendicazione della soddisfazione, non può esserci una teoria del futuro senza sfuggire alla falsa coscienza utopica. I nostri desideri sono prodotti storici contenuti nella realtà storica, esprimerli e volerli soddisfare immediatamente è l’espressione della dialettica che lotta contro l’alienazione. Non mediamo i nostri desideri strutturando gradevolmente il prossimo futuro. Niente mezzi termini, nessun paradiso a lunga scadenza. Quando le forze produttive preliminari non permettono la soddisfazione immediata, solo la pratica soggettiva che tende a questa soddisfazione è dialettica nella misura in cui non pretende di “autogestire” la miseria, ma spinge al massimo delle loro contraddizioni le forme produttive e i rapporti sociali i quali divengono così degli ostacoli. La sola organizzazione che vogliamo conoscere non è l’organizzazione consiliarista, ma la critica pratica, radicale e organizzata degli operai che sono stufi di essere operai, degli intellettuali che..., dei contadini che..., dei cosmonauti che... ecc. L’organizzazione non è altro che la base concreta sulla quale si eleva una superstruttura giuridica ed economica e alla quale corrispondono delle forme determinate di coscienza sociale. L’organizzazione rivoluzionaria non è altro che la tendenza a realizzare le condizioni totali di esistenza materiale che sono racchiuse nel seno stesso della vecchia società, della vecchia organizzazione. È la pratica sociale resa possibile dalle forze produttive esistenti che determina l’organizzazione sociale. Senza la prima, la seconda non saprebbe essere che ideologica (poco importa che l’idea di sconvolgimento sia stata espressa mille volte). La soggettività rivoluzionaria non deve avere il problema dell’efficacia, della volontà, della strategia. La soggettività è materiale o non lo è.

Strutturando il futuro prossimo sulla nozione di Consiglio, senza definire le basi della produzione della vita materiale in maniera pratica, a partire dalle condizioni già esistenti, i situazionisti non fanno che fondare, malgrado loro, un puro consiliarismo che è forzatamente nemico della realtà storica. Lo sviluppo delle forze produttive è una condizione pratica preliminare indispensabile, perché senza di esso è la penuria che rinasce e la vecchia società che continua. Ma se lo sviluppo delle forze produttive esiste, allora non si tratta più di imporre un sistema dottrinario, un sistema sociale di cooperazione, ma di applicare, di generalizzare e di unificare i movimenti che nascono da questo sviluppo, non si tratta più di praticare l’organizzazione, ma di organizzare la pratica.

Il nuovo movimento rivoluzionario, se pretende la scomparsa delle classi con la ricchezza delle tecniche, non deve preoccuparsi del problema dell’organizzazione sotto forma di superstrutture giuridiche ed economiche poiché si appella essenzialmente all’infrastruttura produttiva. La sua sola preoccupazione organizzativa deve essere quella della pratica immediata e radicale, considerata notoriamente sotto l’aspetto pratico del piacere. I rivoluzionari non hanno fatto altro che trasformare il mondo, si tratta adesso di viverlo.

Bisogna dare una interpretazione corretta del movimento del ’68, vedendo chiaramente come i lavoratori non abbiano espresso una tendenza consiliarista attraverso il movimento delle occupazioni. Essi non hanno occupato, si sono astenuti dal lavoro. Sono i sindacati, i partiti e i loro rivali diretti, i “gauchiste”, una minorità operaia arrivista (quadri, partecipanti alle promozioni sociali, ecc.) che, venduti ai vecchi miti del giugno ’36 (che fu anch’esso l’espressione staliniana avanzata della nozione di Consigli operai), hanno occupato le fabbriche per tagliare l’erba sotto i piedi a quelli che avrebbero voluto automatizzarle. Sono le occupazioni che stanno alla base della specializzazione rivoluzionaria del tempo attraverso l’identificazione feticista della fabbrica come ambiente sociale di domani. Solo una minoranza ha occupato con lo scopo di finirla il più rapidamente possibile con questo problema. Questi ultimi non volevano più la fabbrica, il suo comitato di sciopero o la sua assemblea generale, essi non volevano coscientemente più lavorare e desideravano sicuramente automatizzare. La grande maggioranza degli altri (la “base”), veniva in fabbrica, e con ragione, per approfittare della mensa a tariffa ridotta o per sapere quando ricomincerebbe il lavoro. Il resto del tempo era occupato agli ippodromi (quando furono riaperti), nelle terrazze dei caffè, andando a pesca, facendo visite agli amici, sistemando le auto, ridipingendo gli appartamenti ed anche facendo l’amore. Non mancava che la coscienza della possibilità dell’automazione, e ciò significa che i mezzi di produzione non appaiono chiaramente a tutti con le loro possibilità. Mentre qualche decina di imbecilli occupavano la fabbrica contro qualche decina di altri imbecilli che volevano riprendere il lavoro, la grande maggioranza viveva un week-end prolungato in quell’aria di primavera. Se i giovani operai che hanno fatto la festa sulle barricate del quartiere latino avessero avuto in testa la teoria giusta, le barricate si sarebbero fatte nei quartieri del consumo spettacolare e la polizia avrebbe dovuto assediare i quartieri dell’Opéra, i grandi boulevard, il faubourg Saint-Honoré, gli Champs-Elisées, le zone vicine ai supermercati. Non è il teatro dell’Odéon che si sarebbe dovuto occupare, ma le sale cinematografiche dei quartieri popolari come Pigalle, Gobelins, Montparnasse. Non sono solo le fabbriche che sarebbero state occupate ma anche le autostrade, le ferrovie, i ponti, gli aerodromi, i campi e i boschi, ecc., non è lo spazio dell’alienazione (la fabbrica) che sarebbe stato occupato ma il tempo storico del godimento (che il mese di Maggio sia anche un mese di Giugno, un mese di Luglio, ecc.).

I situazionisti si servono di concetti astratti (spettacolo, autogestione generalizzata, organizzazione, classe, coscienza, rivoluzione, storia, ecc.) e poi, per avere un atteggiamento materialista, aggiungono una serie di immagini che rappresentano i concetti stessi nella storia, cioè i momenti consiliaristi, che sono considerati a loro volta come i detentori, ai fabbricanti della storia si possono tranquillamente lasciare le chiacchiere. Fino a qui, ogni concezione storica o ha lasciato completamente da parte la base reale della storia o l’ha considerata come un accessorio, al di fuori di qualsiasi legame col cammino della storia. Per questo motivo la storia deve sempre essere scritta seguendo una norma situata al di fuori di essa. Nello stesso tempo si sono eliminati gli elementi materialisti della storia e si possono tranquillamente lasciare le briglia sul collo del destriero speculativo. Quando i situazionisti sono materialisti (critica della vita quotidiana, deriva, trasparenza, ecc.), non fanno intervenire la storia; mentre, quando mettono in conto la storia (i Consigli), non sono materialisti. La storia dei Consigli non è in alcun modo la storia materiale, è soltanto la storia politica, filosofica, ideologica e, al massimo, la storia della storia, la pura idea consiliarista. Quello che in effetti interessa non è la storia dei Consigli operai, ma i Consigli operai della storia.

Mettiamo che un’epoca si immagini di essere determinata da motivi puramente “autogestionari” e “consiliaristi”, anche se autogestione e Consigli non sono che le forme di questi motivi reali, gli storici accetteranno questa opinione. L’“immaginazione”, la “rappresentazione” che questi uomini determinati si fanno della loro pratica reale, si trasforma nella potenza unicamente determinante e attiva che regola la pratica di questi uomini. Ma la nostra epoca si immagina soltanto di essere determinata dall’autogestione e dai Consigli?

Invece di mettere avanti le forme organizzate del movimento rivoluzionario, sarebbe stato meglio avanzare le manifestazioni pratiche e materiali del movimento. Gli uomini sono stati sufficientemente organizzati, adesso organizziamo gli oggetti.

Lavoro, per farne cosa?

Questo mondo, sempre più totalitario, all’Est come all’Ovest, intende farci accettare l’idea che è la sola realtà possibile.

La messa in scena delle azioni rivendicative dei lavoratori e delle lavoratrici da parte dei burocrati sindacali, mano nella mano con i padroni; non è più un segreto per nessuno. Ma, come per tutti i segreti pubblici, si esita ancora a trarne le conclusioni pratiche. Come appare evidente, queste organizzazioni, che si dicono portatrici di aspirazioni al cambiamento sociale, sono diventate essenzialmente forze di inquadramento e di canalizzazione e ciò è ormai accaduto molto tempo fa.

Diversamente da quanto affermano tutti i manifesti sindacali, che chiamano i lavoratori alla lotta per i contratti allo scopo di meglio regolamentare il nostro sfruttamento; ci sembra che da più di cento anni le donne e gli uomini, via via spogliati della loro umanità dallo sviluppo del capitalismo, si stanno ribellando, non per migliorare il lavoro salariato, ma per abolirlo.

La separazione tra gli individui è diventata tanto profonda che solo il lavoro e il denaro appaiono come merce comunitaria. La colonizzazione attraverso la merce e i soldi di tutta la vita sociale, ci rende via via sempre più sottomessi alle deliranti esigenze del sistema attuale. Certo, si può trovare qualche consolazione nella “riduzione dei tempi di lavoro” e qualche piacere nei rari momenti in cui ci sembra che la luce attraversi il grigio delle nostre vite... ma chi può affermare realmente di non avere mai avvertito l’immenso vuoto di questa organizzazione sociale e di non avere, almeno una volta, provato il desiderio di distruggere tutto per ricominciare?

Dall’inizio di questa pre-storia dell’umanità, la tendenza radicale a cambiare la vita e la società cerca di farsi strada. Coloro che sono senza privilegi sanno perfettamente di non avere nulla da perdere e tutto da guadagnare da uno sconvolgimento sociale di cui essi sarebbero i veri agenti.

Il cuore del comunismo è dato dal bisogno della comunità umana. Le descrizioni degli utopisti manifestano di già il bisogno storico del comunismo facendone una esigenza immediata, conformemente alla sua natura profonda. Ma il comunismo non è stato inventato dai pensatori. È la vecchia aspirazione all’abbondanza e alla comunità che era presente nelle rivolte degli schiavi nell’antichità come in quelle dei contadini del medioevo.

La comunità umana e la fine dell’impresa capitalista come unità di vita produttiva provocano la fine dello scambio. Sopprimere il denaro che serve allo scambio non vuol dire ritornare alla forma primitiva del baratto. Gli oggetti non circolano in un senso per avere in compensazione una circolazione di altri oggetti nel senso inverso. Essi sono ripartiti direttamente in funzione dei bisogni, concepiti e prodotti per sviluppare le possibilità di attività più produttive nel senso sociale

Il comunismo è possibile solo grazie al lavoro di sgombero del terreno di già fatto dal capitalismo. Non si tratta della difesa dei proletari, ma dell’abolizione della condizione proletaria. Non porta gli operai al potere e non livella l’insieme della popolazione allo stesso reddito. Non conclude con la schiavitù del salario, il produttivismo, l’opposizione lavoro-tempo libero. Esso permette la riunificazione dell’attività umana sulla base di tutte le acquisizioni tecniche ed umane. L’operaio non è più incatenato alla fabbrica, il quadro non è più ancorato al suo tavolo da lavoro. Il bisogno di agire non è più sottomesso al bisogno di denaro.

Il tempo è una invenzione degli “uomini” diventati incapaci di amare.

“La Sociale”


[Pubblicato su “Anarchismo” nn. 53-54, settembre 1986, p. 7]

Un mondo da rigovernare?

Su questa terra nulla si sottrae al nostro pensiero e al nostro sguardo. Molto più lontano del pensiero e dello sguardo, noi scorgiamo una distesa illimitata di mondi nuovi. Ma questa illimitatezza l’abbiamo adeguata alle nostre dimensioni, abbiamo ridotto alle nostre misure ciò che all’inizio sembrava eccederle poiché il rigore del nostro metodo di pensiero non può prendere qualcosa in considerazione senza averla prima circoscritta.

Ora, il mondo in cui viviamo viene considerato il mondo dove l’uomo progredisce, agisce, lavora, un mondo che pare sia fatto dall’uomo a sua misura. Ma è anche vero che l’uomo non lo padroneggia.

Il linguaggio comune definisce con il termine di alienazione sociale la divaricazione esistente fra le persone e il loro vissuto. L’individuo diventa estraneo, e con ciò stesso impotente, nei confronti di ciò che lo circonda, dei beni che produce come dei rapporti sociali che sono in realtà il risultato della propria attività. Marx identificava l’origine dell’alienazione nel mancato possesso da parte dei lavoratori dei beni da loro stessi prodotti e quindi l’uscita dall’alienazione consisteva – secondo lui – nella ripresa da parte dei lavoratori di quei beni attraverso la conquista dei mezzi di produzione.

Non deve apparire strano se le odierne teorie sulla democrazia diretta, sull’autogoverno e sull’autogestione – vocaboli che pur avendo un’origine e significati differenti vengono impiegati indifferentemente in maniera disinvolta quasi si trattasse di sinonimi – si basano per larga parte proprio su questa concezione, naturalmente aggiornata. Il marxismo non è forse intenzionato a impadronirsi di questo mondo così com’è?

Qual è dunque il ragionamento confezionato dagli attuali sostenitori dell’autogoverno, da chi sta promuovendo un progetto politico basato sulla gestione dal basso della società? Tutto ciò che ci circonda è nostro, eppure ci sfugge. Come a dire che noi abbiamo creato questo mondo ed altri se lo stanno godendo. Di conseguenza, se desideriamo superare la distanza che ci separa da quanto ci appartiene, che impoverisce la nostra esistenza, e quindi eliminare il dominio di classe che ne è la causa responsabile, dobbiamo mirare ad accrescere il nostro controllo sia sulle condizioni immediate del nostro lavoro e sulla sua destinazione, sia sul modo di regolare l’insieme della vita in comune. Ciò si può ottenere solo se si attribuisce direttamente alle persone (che un tempo si identificavano nei lavoratori, categoria ritenuta oggi troppo limitativa per essere presa in considerazione e che si è preferito per questo sostituire con quella dei cittadini) il potere di gestire in modo autonomo le attività sociali.

In questo modo si perverrebbe ad un sistema di organizzazione di tali attività in senso più libertario, per cui le decisioni relative alla loro conduzione verrebbero prese direttamente da tutti coloro che vi hanno parte, giungendo così ad una destrutturazione dell’ordinamento statale in un sistema di autonomie locali. Semplice come bere un bicchiere d’acqua.

Eppure qualcosa non torna in questo schema perfettamente logico ed armonico.

Innanzitutto l’opposizione fra dominanti e dominati – volendo usare termini più desueti, fra padroni e servi – non può essere ridotta semplicemente al fronteggiamento fra quelli che gestiscono e quelli che sono privati della gestione. Infatti se si identifica la trasformazione radicale con una mera razionalizzazione di stampo autogestionario delle varie attività e funzioni – battezzata pretenziosamente “autogestione generalizzata” – si riduce l’intera “questione sociale”, il problema del dominio e della ricerca della libertà, ad una semplice disputa sul modo di governare l’esistente.

A chi oggi, affiorando da un lungo periodo di imbarazzato silenzio, quando non di vergognose dichiarazioni di distanza dalla conflittualità sociale, si agita sul proprio consunto seggiolino spacciando le proprie miserie degne e meritevoli di questa esistenza per prodigiosi insegnamenti sulle considerevoli possibilità di applicare l’autogestione “qui ed ora”, abbiamo nulla da dire. Fatevi avanti, tromboni e tartufi d’ogni risma, coi vostri stratagemmi formali: questo è il vostro tempo.

Agli altri, a chi si sta facendo abbindolare per comodità o per opportunismo, viene spontaneo chiedere che cosa diavolo dovremmo autogestirci di questo mondo, a parte il modo per abbatterlo.

Se l’autogestione viene considerata la conduzione di organismi o di attività da parte di chi vi opera direttamente è fin troppo banale far notare come il semplice fatto che il potere decisionale subisca una modificazione, spostandosi dall’alto in basso, non sia di per sé sufficiente a garantire un cambiamento sostanziale dell’organismo o dell’attività in questione. Una fabbrica d’armi può anche venir “autogestita” ma rimane una fabbrica d’armi. Naturalmente gli avvocati difensori dell’autogestione si oppongono a questo genere di esempi, ritenuti troppo estremi al fine di poter formulare un giudizio in merito. Questo può anche essere vero, ma il problema – armi o non armi – resta immutato. È soltanto la forma di gestione di un’attività a rendercela avversa, o la sua stessa natura?

Per quali motivi dovremmo rallegrarci dell’esistenza di fabbriche autogestite, scuole autogestite, manicomi autogestiti, banche autogestite, o quant’altro? O noi critichiamo queste strutture solo perché dirette in modo autoritario, e quindi gongoliamo non appena vengono prese in mano dai diretti interessati, oppure le critichiamo in quanto sono esse stesse strutture autoritarie, prodotto e fonte di gerarchia e disuguaglianza materiale, chiunque e comunque le gestisca. Se tutto si spostasse nelle mani di questo famoso nuovo ceto politico di cittadini capace di trascendere e di attraversare le classi sociali, con ciò si avvierebbe forse una trasformazione radicale?

Ma ammettiamo pure che il massimo delle nostre aspirazioni sia niente meno che mandare i nostri figli in una scuola autogestita; perche mai il dominio dovrebbe cederla a noi? Perché dovrebbe lasciarci ciò di cui dispone? La risposta che ci viene data è paradossale: ieri lo Stato era onnipotente, oggi e impotente. E proprio perché stiamo attraversando un periodo in cui la classe dirigente si mostra sempre più incapace di governare che proliferano con tanto successo le idee di autogoverno o di autogestione, grazie all’avvenuto tracollo della vecchia classe politica che ha offerto una possibilità insperata di sperimentazione politica e sociale.

Ciò significa che, se anche noi non siamo stati capaci di fare una rivoluzione, di strappare con la forza ciò che riteniamo ci appartenga, non dobbiamo preoccuparcene troppo. Per fortuna i nostri nemici si stanno dimostrando ancora più incapaci di noi nel perseguire i propri scopi e, chissà, potrebbero essere costretti a concederci con le buone quel che non siamo finora riusciti ad ottenere con le cattive. Naturalmente non ci concederanno proprio tutto, ma a noi, forti della nostra religiosa illusione che la società si trasformi per via di persuasione e che gli anarchici incarnino l’umanità perfetta, non resta che dare il buon esempio per scatenare il virus dell’autogestione generalizzata.

Ora, l’idea di un’autogestione che si diffonde poco a poco, goccia a goccia, attraverso la prestanza della propria forza è perfettamente coerente con quella di una liberazione graduale, da ottenere poco a poco; entrambe non concepiscono la società come totalità ed entrambe, com’è ovvio, presentano il vantaggio di rendere superflua una rivoluzione.

Perché, dopo tutto, il senso delle prospettive politiche aperte da un simile progetto è quello di attuare una rivoluzione dolce, tranquillizzante, pacifica e legale. Se tutti i “cittadini”, oramai consapevoli dell’inettitudine dei vecchi politici, sostenessero il programma autogestionario, la “rivoluzione” si farebbe da sé, implicitamente. Il soldato abbandonerebbe la divisa, l’industriale fulminato dalla competenza dei suoi operai donerebbe loro la sua fabbrica, il ministro si priverebbe dei propri privilegi per andare magari a zappare la terra, e così via. Naturalmente tutto questo non è concepibile, ma ciò non toglie che immancabilmente quando ci troviamo di fronte al verificarsi di una parvenza di autogestione di qualcosa, scatta un meccanismo che ci porta a dare importanza a simili episodi e a salutarli come concreti segnali che il dominio stia cominciando a perdere colpi. Ma quand’anche questo fosse vero, cos’è che provoca la nostra approvazione? La capacità dimostrata dalla base di poter fare a meno del vertice, oppure ciò che potrebbe accadere quando chi sta al potere si renderà conto che non può più tollerare ulteriori tentativi di “autogestione”?

Perché il gran parlare che si fa di autogestione ci pare dipenda piuttosto dalla sua pretesa abilità di sostituire una rivoluzione. In pratica, ad alimentare tante speranze sull’autogestione è la convinzione che appena gli individui diventano capaci di riunirsi liberamente e senza mediatori per affrontare i propri problemi quotidiani e per cercare di risolverli, automaticamente lo Stato inizia a dissolversi, neanche si trattasse di un ectoplasma. Da qui la possibilità di cominciare a progettare di sostituirlo con una rete di strutture autonome in grado alla lunga di svuotarlo d’ogni forma di potere. L’annosa controversia che da tanto tempo divide i fautori della distruzione e i “costruttori” è ad una svolta?

Eppure, l’autogestione dell’esistente non preannuncia affatto la scomparsa dello Stato, caso mai un suo rafforzamento. Dopo l’istituzionalizzazione di un buon numero di pratiche collettive – attraverso cui si era espressa originariamente una rivendicazione radicale alle associazioni nate da questo movimento verrà consegnata la mera gestione degli effetti delle contraddizioni che lo Stato non riusciva più ad amministrare (l’arte di arrangiarsi per sopravvivere, l’integrazione sociale, l’animazione culturale...). Una volta alleggerito degli “accessori”, potrà meglio consacrarsi all’essenziale. Così, invece di sparire, lo Stato si rafforzerà disponendo di appoggi notevoli in seno ad una “società civile” convertita in “società civica”.

È strano come siano proprio i paladini del realismo a dimenticare che autogestire la propria fabbrica, la propria scuola, il proprio lavoro non ha mai distrutto l’alienazione, per non parlare dell’autorità.

Ovviamente qualcuno cerca di giustificare questo fallimento con il fatto che le passate esperienze di autogestione si sono verificate sempre in situazioni particolari, per così dire di crisi. Ma questa spiegazione si mostra inadeguata man mano che la natura della nostra oppressione si disvela, e va più a fondo delle semplicistiche categorie economiche tanto care ai sindacalisti, ai marxisti e ai vari presunti autogestionari.

Del resto non vorremmo far credere che ciò che non ci convince nell’ipotesi autogestionaria sia soltanto una eccessiva fede nel “sublime metodo”. Quasi volessimo a tutti i costi espropriare con la forza ciò che magari potremmo avere per grazia ricevuta. La questione è altrove: perché dovremmo riprenderci questo mondo? Cosa c’è di questa esistenza che vale la pena vivere?

A differenza degli “autogestionari”, questo mondo non lo sentiamo nostro. Non reputiamo che le nostre attività quotidiane costituiscano risposte a condizioni naturali, risposte che si trovano semplicemente oltre il nostro controllo; siamo noi stessi gli autori di queste condizioni. È attraverso le nostre azioni quotidiane che si riproducono i rapporti, la cultura, l’etica di questa società, così come la sua forma sociale. Andare a lavorare per rimpinguare il proprio gruzzolo in banca non è insito nella natura dell’uomo come viceversa raccogliere il miele è nella natura dell’ape. Le autostrade, le merci, i computer non esistono in quanto rappresentanti dell’ineluttabile destino umano su cui bisogna solo riuscire a mettere sopra le mani per poterselo godere.

– Noi erediteremo il mondo – dicevano gli anarchici spagnoli durante la rivoluzione. Probabilmente è proprio perché volevano ereditare questo mondo che finirono col coniare nuove banconote e con l’entrare in parlamento. Ma noi non abbiamo creato liberamente il mondo, secondo il nostro piacere, siamo stati costretti a farlo in una determinata maniera. Quindi il mondo così com’è non è fatto a misura d’uomo – come sostengono tutti gli apologeti dell’esistente – ma a misura di un certo tipo d’uomo, timorato del potere.

Sfornare progetti per una vita alternativa, progetti che per essere credibili devono chiaramente fondarsi su ciò che si conosce, che già esiste, potrà risultare utile sempre e soltanto al dominio, che vedrà assicurata la sua perpetuazione. Oltre, naturalmente, a costituire un ottimo linimento all’inquietudine di chi preferisce accontentarsi della magra soddisfazione di queste poche briciole raccattate.

Queste considerazioni risulteranno certo incomprensibili ai concreti utopisti che sono ben radicati in questo mondo. Dal momento che rifiutiamo di ereditarlo, ci ritroviamo con nulla di concreto in mano finendo sicuramente col non sapere precisare che cosa vogliamo, giacché non ne abbiamo mai avuto l’esperienza. Tuttavia una cosa la sappiamo. Il mondo dove viviamo è soprattutto il mondo dove moriamo, dove periscono i nostri sogni e i nostri desideri. E non è possibile conciliare questi due mondi. Se il primo si offre accessibile a noi non appena riconosciamo di appartenergli, il secondo implica da parte nostra un’ostilità, una conflittualità a cui non è possibile rinunciare. La sola cosa che possiamo autogestire, qui ed ora, è la distruzione di tutto ciò che esiste.

Viviamo in un mondo miserabile. A nessuno può venire in mente di criticare chi comprensibilmente si sforza di vivere nel modo più indipendente possibile. Ma che non ci si venga a spacciare il realismo del male minore per la libertà qui ed ora. L’idea che una forma di decisione rappresenti la suprema soddisfazione del desiderio di libertà è un’aberrazione. Come si fa ad essere così ottusi da confondere il gusto della libertà con quello di un’arancia coltivata biologicamente e scambiata in maniera equa?

Maria Zibardi

[Pubblicato su “Anarchismo” n. 74, settembre 1994, pp. 38-44]

Chi ha ucciso Ned Ludd?

Fu in Inghilterra, la prima nazione industriale e, a partire dal settore tessile, la prima e principale impresa del capitale inglese, che nacque e si propagò il movimento rivoluzionario (tra il 1810 e il 1820) conosciuto come Luddismo. La sfida delle rivolte luddiste – e la loro sconfitta – fu determinante per la successiva evoluzione della società moderna. Il sabotaggio delle macchine, come arma decisiva, cominciò sicuramente prima di questo periodo; Darvall lo definisce “ricorrente” lungo tutto l’arco del diciannovesimo secolo, sia nei periodi favorevoli che in quelli difficili. E non venne certo praticato dai soli operai tessili, né soltanto in Inghilterra. I contadini, i minatori, i mugnai e tanti altri si ritrovarono insieme nell’opera di distruzione dei macchinari, spesso andando contro i propri cosiddetti “interessi economici”. Nel contempo gli operai di Eurpen e di Aix-la-Chapelle distruggevano le importanti fabbriche Cockerill, mentre i filatori di Schmollen e di Crimmitschau devastavano gli stabilimenti tessili delle loro città. E numerosi altri fecero lo stesso all’alba della Rivoluzione Industriale.

Furono comunque gli operai inglesi del settore tessile – magliaie, tessitori, filatori, cimatori, tosatori, ecc. – i pionieri di un movimento, la cui “autentica furia insurrezionale raramente fu più diffusa nella storia inglese” – come scrisse Thompson. Benché generalmente descritta come un sollevamento caotico, disorganizzato, reazionario, limitato e inefficace, questa rivolta “istintiva” contro il nuovo ordine economico ottenne parecchi successi per un certo periodo di tempo e si sviluppò con fini rivoluzionari. Fu più vigorosa nelle aree maggiormente sviluppate, specie in quelle centrali e settentrionali del paese.

“The Times” dell’11 febbraio 1812 la descriveva come “l’apparizione di una guerra aperta” in Inghilterra. Il 17 giugno 1812 il vice-luogotenente Wood scriveva a Fitzwilliam, del governo: “Ad eccezione dei molti punti occupati dai soldati, il Paese è virtualmente in mano ai fuorilegge”.

I Luddisti furono effettivamente irresistibili nella seconda decade del secolo e contribuirono a sviluppare un’etica e una coscienza di sé particolarmente forti. Come sostengono Cole e Postgate: “Indubbiamente non c’era nessuno che poteva fermare i Luddisti. Le truppe andavano su e giù senza aiuti, rese perplesse dal silenzio e dalla connivenza dei lavoratori”. Inoltre, un esame delle cronache della stampa, delle lettere e degli scritti dell’epoca, mostra come l’insurrezione fosse l’obiettivo dichiarato dei Luddisti; in un volantino distribuito a Leeds si leggeva: “Tutti i nobili e i tiranni devono essere abbattuti”. I segnali dei preparativi per una rivoluzione generale esplicita erano ampiamente visibili sia nello Yorkshire che nel Lancashire fin dal 1812.

Vennero distrutte moltissime proprietà, fra cui numerose fabbriche tessili che erano state modificate in vista di una maggiore produzione di merci qualitativamente inferiori. Infatti, questo movimento prese il proprio nome dal giovane Ned Ludd il quale, piuttosto che ridursi a compiere lo scadente lavoro che si esigeva da lui, preferì impadronirsi di una mazza e rompere i macchinari. Questa insistenza nel porre la scelta fra il controllo dei processi produttivi e la loro soppressione, infiammò l’immaginazione popolare portando ai Luddisti un sostegno virtualmente unanime. Hobsbawm dichiarò che esisteva una “traboccante simpatia per i distruttori di macchine fra tutte le fasce della popolazione”, una condizione che nel 1813 – secondo Churchill – “aveva rivelato la completa assenza di mezzi per mantenere l’ordine pubblico”.

Nel 1812 la distruzione dei telai fu giudicata un crimine capitale e per arginare il fenomeno venne via via impiegato un numero sempre maggiore di truppe, fino a superare complessivamente la quantità di quelle che Wellington comandò contro Napoleone. Tuttavia l’esercito, non solo veniva distribuito in maniera disordinata, ma spesso non era affidabile a causa delle sue simpatie e per la presenza di molti Luddisti coscritti nei propri ranghi. Non si poteva fare affidamento nemmeno sulla magistratura e sul corpo di polizia locale e persino un imponente sistema spionistico risultò inefficace di fronte alle autentiche manifestazioni di solidarietà mostrate dalla popolazione. Come era prevedibile, la milizia volontaria istituita dal “Watch and Ward Act” servì solo ad “armare i più grandi alienati” – secondo gli Hammonds – rendendo così necessaria la costituzione di un moderno sistema di polizia professionale, dal tempo di Peel.

Reclamata contro quello che Mathias definì “il tentativo di distruggere la nuova società”, un’arma con la funzione di controllare più da vicino il luogo di produzione era costituita dal sindacalismo, un valido puntello per il consenso all’ordine costituito. Sebbene sia chiaro che l’ascesa del sindacalismo, proprio come la creazione della polizia moderna, fu una conseguenza del Luddismo, va tenuto presente che una tradizione di sindacalismo da tempo tollerata esisteva fra i lavoratori dell’industria tessile e delle altre industrie già prima dei sollevamenti Luddisti. Quindi la distruzione delle macchine in questo periodo non può essere considerata come un’esplosione di disperazione da parte di lavoratori privi di ogni altro sbocco. A dispetto della mancata applicazione dei “Combination Acts” – che stabilivano l’interdizione discrezionale dei sindacati tra il 1799 e il 1824 – il Luddismo non si lasciò scoraggiare ed affrontò quindi, per un certo periodo con successo, un apparato sindacale in espansione che rifiutava di mettere in pericolo il capitale. I lavoratori, infatti, di fronte alla possibilità di scegliere tra i due, snobbavano per lo più i sindacati in favore dell’autorganizzazione diretta e di obiettivi più radicali.

È perciò evidente come il sindacalismo, durante il periodo in questione, sia stato di fatto distinto dal Luddismo e incoraggiato in quanto tale dai padroni, nella speranza di recuperare l’autonomia Luddista. Secondo uno spirito contrario all’esistenza dei “Combination Acts”, gli organismi sindacali, ad esempio, erano per lo più considerati legali: quando i sindacalisti venivano perseguiti erano al massimo condannati a pene lievi, mentre i Luddisti venivano solitamente impiccati.

Alcuni membri del Parlamento rimproverarono apertamente i padroni, in quanto responsabili della miseria sociale, perché non utilizzavano appieno il salvagente sindacale messo a loro disposizione. Questo non significa che gli obiettivi ed il potere di controllo dei sindacati fossero già allora chiari ed espliciti come lo sono oggi in tutto il mondo, ma il ruolo indispensabile dei sindacati nei confronti del capitale appariva già chiaro, alla luce della crisi in corso e della necessità che si faceva sentire di disporre di alleati per la pacificazione dei lavoratori. I parlamentari delle contee di Midlands cominciarono a sollecitare Gravenor Henson, leader del Sindacato del Corpo dei Magliai, a combattere il Luddismo – come se questo fosse necessario. Evidentemente non condividevano la sua maniera di ostacolarlo, che risiedeva più che altro in una infaticabile propaganda per estendere la potenza sindacale. Il Comitato sindacale del Corpo dei Magliai, secondo lo studio di Church su Nottingham, “diede precise istruzioni ai lavoratori per impedire la distruzione dei telai”. E il sindacato di Nottingham, il più significativo embrione di un sindacato industriale generale, si oppose nello stesso modo al Luddismo, rigettandone i metodi violenti.

Se i sindacati furono in effetti poco legati ai Luddisti, nondimeno si può affermare che essi costituirono lo stadio successivo al Luddismo nel senso che il sindacalismo giocò un ruolo essenziale nella sua sconfitta, utilizzando le divisioni, la confusione e l’esautoramento delle energie. “Sostituì” il Luddismo nello stesso modo in cui protesse i padroni dagli insulti dei ragazzi di strada e dalla lotta diretta dei lavoratori.

Fu così che il pieno riconoscimento dei sindacati, avvenuto attraverso i decreti di abrogazione dei “Combinations Acts” nel 1824 e nel 1825, “ebbe – secondo Darvall – un effetto moderatore sul malcontento popolare”. Gli sforzi in favore dell’abrogazione, condotti da Place e da Hume, ottennero un facile successo in un Parlamento immutato, col valido sostegno – sia detto di passaggio – sia dei datori di lavoro che dei sindacalisti, con la sola opposizione di uno sparuto pugno di reazionari. Infatti, nonostante tra gli argomenti conservatori di Place e di Hume figurasse la previsione di una diminuzione del numero degli scioperi dopo l’abrogazione dei “Combination Acts”, molti padroni compresero il ruolo catartico e pacificatore del sindacato e non si spaventarono più di tanto per il dilagare di scioperi che seguì alla suddetta abrogazione.

I decreti di abrogazione, beninteso, confinavano ufficialmente il sindacalismo nel suo ruolo tradizionale e marginale limitato ai salari e ai tempi di lavoro, di cui uno strascico è rappresentato dalla presenza universale di clausole sui “diritti dell’amministrazione” in seno alle contrattazioni collettive odierne.

La campagna contro i sindacati condotta da alcuni padroni alla meta degli anni Trenta dell’Ottocento, non fece che sottolineare, a suo modo, il ruolo centrale che questi ormai avevano: essa fu possibile in ragione dei successi già ottenuti dai sindacati contro la radicalità degli operai incontrollati del periodo precedente. Perciò, Lecky era nel vero quando giudicò, più avanti nel secolo, che “senza dubbio i sindacati più forti, più ricchi e meglio organizzati, furono quelli che fecero di più per ridurre i conflitti sul lavoro”; allo stesso modo, i Webbs riconobbero nel corso del diciannovesimo secolo che le rivolte operaie erano più numerose prima che venissero regolate dal sindacalismo.

Tornando ai Luddisti, non troviamo al riguardo che pochissime testimonianze ed una tradizione praticamente segreta, anche perché si dedicarono prevalentemente all’azione, in apparenza non mediata da una ideologia. Di cosa si trattava esattamente? Stearns – vicino ai fatti come solo un commentatore poteva esserlo – scriveva: “I Luddisti svilupparono una dottrina basata sulle presunte virtù dei metodi manuali”. Poco ci manca che nella sua condiscendenza non li abbia chiamati “poveri diavoli retrogradi”, sebbene ci sia in ciò che sosteneva un briciolo di verità. Ma l’offensiva dei Luddisti non fu causata dall’introduzione di nuove macchine – come comunemente si pensa – dato che questo non era ancora avvenuto nel 1811 e nel 1812, quando il Luddismo cominciò a manifestarsi. Piuttosto, la distruzione prese di mira le nuove confuse tecniche adottate con le macchine esistenti. Non era un attacco contro la produzione per motivi economici, ma innanzitutto una risposta violenta degli operai tessili (ben presto imitati da altri) al tentativo di degradarli con un lavoro inferiore: le merci scadenti – i tagli frettolosi, principalmente – ecco il problema di fondo. Se le offensive luddiste corrisposero generalmente a periodi di depressione economica, ciò era dovuto al fatto che i datori di lavoro spesso approfittavano di simili periodi per introdurre nuovi metodi produttivi. Ma è anche vero che il Luddismo non comparve in tutti i periodi di crisi, né prese piede in aree particolarmente povere. Il Leicestershire, ad esempio, fu il meno colpito da momenti di crisi ed era una zona dove venivano prodotte lane della migliore qualità; ebbene, il Leicestershire fu un importante bastione del Luddismo.

Domandarsi cosa ci possa essere di radicale in un movimento che, in apparenza, domanda “solo” l’abbandono del lavoro scadente, significa non cogliere la profondità di una ipotesi, fatta da più parti, sul legame esistente tra la distruzione dei telai e la sovversione. Come se la lotta dell’operaio per l’integrità della propria vita lavorativa possa attuarsi senza mettere in discussione il capitalismo nel suo insieme. La richiesta di abbandonare un lavoro scadente diventa necessariamente un cataclisma e nella misura in cui viene perseguita, una battaglia del “tutto-o-niente”; essa punta direttamente al cuore delle relazioni capitaliste.

Un altro elemento del fenomeno luddista generalmente trattato con condiscendenza – e fatto passare sotto silenzio – è il suo aspetto organizzativo. Si sa, i Luddisti attaccavano selvaggiamente e ciecamente, mentre i sindacati fornivano ai lavoratori la sola forma di organizzazione. Ma, in effetti, i Luddisti erano organizzati localmente e anche federativamente, raggruppando operai di tutti i settori con un sorprendente e spontaneo coordinamento. Evitando ogni struttura burocratica alienante, la loro organizzazione non fu né formale né permanente. La loro tradizione di rivolta era priva di un centro e si diffuse alla maniera di un “codice non detto”; la loro era una comunità non manipolata, un’organizzazione che contava sulle proprie forze. Tutto ciò, beninteso, fu essenziale alla base del Luddismo, alla profondità del suo radicamento. In pratica, “nessun tipo di attività repressiva dei magistrati né il rafforzamento dei contingenti militari, riuscirono a scoraggiare i Luddisti. Ogni attacco rivelava un piano e un metodo” – affermava Thompson. Un ufficiale dell’esercito nello Yorkshire si rese conto che disponevano di “uno straordinario livello di accordo e di organizzazione”. William Cobbett scrisse, su di un rapporto al governo nel 1812: “E questo è il fatto che più infastidirà i ministri. Non si riescono a trovare agitatori. È un movimento del popolo stesso”.

Tuttavia in soccorso delle autorità a un certo punto venne la leadership formatasi dei Luddisti. Il loro movimento non era del tutto egualitario, benché sia stato molto vicino ad esserlo, più di quanto sia stato prossimo a comprendere ciò che era alla sua portata e a quale breve distanza. Naturalmente, fu tra i leader che la “raffinatezza politica” emerse più nettamente, così come furono alcuni di loro in qualche caso a rivelarsi in seguito dei quadri sindacali.

Nei tempi “pre-politici” dei Luddisti – come avviene nei nostri tempi “post-politici” – la gente odiava apertamente i dirigenti. Applaudì la morte di Pitt nel 1806 e, ancor più, l’assassinio di Perceval nel 1812. Simili manifestazioni di fronte alla morte di primi ministri mettevano in evidenza la fragilità del rapporto esistente tra governanti e governati, la mancanza di integrazione tra i due.

La liberazione politica dei lavoratori era certo meno importante del loro affrancamento o del loro inserimento industriale tramite i sindacati; per questo motivo la prima procedette più lentamente. Ciononostante, è vero che una potente arma pacificatrice fu costituita dalla vigorosa propaganda fatta per interessare la popolazione alle attività legali, come la campagna per allargare la base elettorale del Parlamento. Cobbett, ritenuto da molti il più virulento polemista della storia inglese, noto per la sua “condanna senza appello dei Luddisti”, convinse numerose persone a unirsi agli Hampden Clubs favorevoli alla riforma elettorale. Gli effetti perniciosi di questa campagna riformista atta a provocare divisioni possono venir parzialmente misurati paragonando le prime energiche manifestazioni di rabbia antigovernativa, come le Rivolte di Gordon (1780) e gli assembramenti contro il Re a Londra (1795), con i massacri e gli insuccessi dei “sollevamenti” di Pentdridge e di Peterloo, che coincisero grosso modo con la sconfitta del Luddismo poco prima del 1820.

Ma tornando alla questione del lavoro e del sindacalismo, bisogna comprendere che quest’ultimo si basa sull’effettiva separazione tra il lavoratore e il controllo dei mezzi di produzione – e lo stesso sindacalismo contribuì più criticamente a questo divorzio, come abbiamo visto. Alcuni – fra cui certamente i marxisti – considerano questa sconfitta e la sua conseguenza, la vittoria del sistema industriale, come uno sbocco inevitabile ed insieme auspicabile, sebbene anch’essi ammettano che nell’esecuzione del lavoro risieda, ancora oggi, una parte significativa della direzione delle operazioni industriali.

Un secolo dopo Marx, Galbraith individua come garante del mantenimento del sistema della produttività, in contrapposizione a quello della creatività, il principio sindacale di rinuncia ad ogni rivendicazione riguardante il lavoro in sé. Ma il lavoro, nel senso inteso da tutti gli ideologi, è uno spazio chiuso alla falsificazione permanente. Perciò i moderni mediatori ignorano l’incessante ed universale esigenza luddista riguardante il controllo dei processi produttivi, benché le forme di “partecipazione operaia” vengano oggi sostenute.

Quella che inoltre viene comunemente ignorata è l’autentica sconfitta che sta all’origine della vittoria dei sindacati e che ne fa l’organizzazione della complicità, una caricatura di comunità. Le apparenze a questo livello non riescono a mascherare il sindacalismo in quanto agente dell’accettazione e del mantenimento di un mondo grottesco.

Il bilancio marxista eleva la produttività al rango di summum bonum, così come gli uomini di sinistra tacciono sulle finalità del potere diretto dei lavoratori, giungendo a sposare la causa sindacale, considerata incredibilmente come la migliore soluzione per i lavoratori senza protezione. L’opportunismo e il senso elitario di tutte le Internazionali, in pratica della storia della sinistra, vedono sbocciare i propri frutti nelle rimozioni accumulate. Quando il fascismo può richiamarsi con successo ai lavoratori in qualità di liquidatore delle inibizioni, come fa il “Socialismo d’Azione”, – in quanto rivoluzionario – deve risultare chiaro quanto è stato sepolto con i Luddisti.

C’è già chi torna a parlare di “periodo di transizione” per definire l’attuale crisi crescente, sperando che tutto si risolverà armoniosamente in una nuova sconfitta dei Luddisti. Oggi vediamo la stessa necessità di applicare la disciplina del lavoro come nei tempi passati e, forse, la stessa consapevolezza della popolazione nel significato del “progresso”. Ma è possibile che adesso siamo in grado di riconoscere tutti i nostri nemici con maggiore precisione e chiarezza, in modo che questa volta la “transizione” possa essere condotta direttamente da chi crea.

John Zerzan

[Pubblicato su “Anarchismo” n. 73, maggio 1994, pp. 17-22]

 
 

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