Titolo: Ditirambi di Dioniso
Note: Prima edizione: novembre 2013
Opuscoli provvisori N. 50
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Nota introduttiva

Se non scritte al di là della soglia di non ritorno, queste poesie sono state riassettate e preparate per la stampa in piena crisi. Nietzsche scrive ormai biglietti e lettere che, ai più, sono sembrati privi di senso. Lo erano veramente? Non più di quanto appaia il tentativo realizzato nel consegnare agli assennati facitori di teorie, che ormai si era lasciato alla spalle, queste riflessioni poetiche, che tali sono, in linea con quanto aveva scritto di filosofico nella sua non lunga vita.

Il fatto è che qui agisce la logica del tutto e subito, la stessa che rendeva non solo “incomprensibili” le menadi, ma che sconvolgeva l’assetto ben ordinato del mondo apollineo il quale, fra l’altro, costringeva le donne a mantenersi all’interno delle regole della cosiddetta buona creanza. E siccome tutto ciò che esce dalle regole causa fastidio, deve essere ricondotto, a ogni costo, all’interno di una spiegazione logica plausibile.

Ecco, i ditirambi di Nietzsche non sono plausibili, sono un viaggio nell’inverosimile, nell’intuizione dell’immenso che sta “oltre”, al di là del muro di cinta, dove per i commensali del limitato e del conteggiato è indigestione.

Non ho letto mai, fra le centinaia di pagine sull’opera di Nietzsche che mi è piaciuto affrontare, un solo rigo degno di rispetto riguardo i ditirambi. Nessun filosofo ha mai ardito avventurarsi al di là dell’irreversibile, ogni buon uomo tiene alla propria incolumità.

Sarà lo stesso per i pochi lettori di questi libretto? Spero di no.


Trieste, 20 novembre 2011

Alfredo M. Bonanno

Soltanto stolto! Soltanto poeta!

Nell’aria rischiarata,
quando già la consolazione della rugiada stilla
sopra la terra, invisibile e inudita
– poiché come tutti i dolci consolatori indossa
la confortatrice rugiada delicati calzari –
allora ricordi, ricordi, cuore ardente,
come fosti assetato, un tempo, come, stanco e riarso,
fosti assetato di lacrime celesti e gocce di rugiada,
mentre su gialli sentieri d’erba
tra neri alberi ti correvano intorno
malvagi sguardi serali del sole,
accecanti, ardenti, maligni sguardi del sole.



Il pretendente della verità tu? così schernivano
no! soltanto un poeta!
un astuto, rapace, strisciante animale
che deve mentire,
che sapendo, volendo, deve mentire,
bramoso di preda,
variamente mascherato,
maschera egli stesso,
egli stesso preda
questo – il pretendente della verità?...
Soltanto stolto! Soltanto poeta!
Che parla in modo variopinto,
che dalle maschere di stolto parla confusamente,
arrampicandosi su menzogneri ponti di parole,
girovagando, strisciando
su arcobaleni di menzogne tra falsi cieli –
soltanto stolto! soltanto poeta!...



Questo – il pretendente della verità?...



Non quieto, rigido, piano, freddo,
divenuto immagine,
pilastro di dio,
non innalzato dinanzi ai templi,
un guardiano di dio:
no! ostile a simili statue di virtù,
più nelle selve che nei templi di casa,
colmo di una felina spavalderia
che salta oltre ogni finestra
hop! in ogni azzardo,
fiutando ogni foresta vergine,
tu che corresti nelle foreste vergini
tra variegati e arruffati animali da preda
empiamente sano e bello e variopinto,
con labbra vogliose,
beato di scherno, beato d’inferno, beato di brama di sangue,
predando, strisciando, mentendo corresti...



Oppure simile all’aquila che a lungo,
a lungo immobile fissa gli abissi,
i suoi abissi...
– oh, come quaggiù essi
si inanellano in basso, in dentro,
in sempre più fonde profondità! –
Poi,
d’un tratto,
con volo diritto
e slancio improvviso
gettarsi su agnelli
a precipizio,
affamato, bramoso di agnelli,
adirato con tutte le anime d’agnello
furiosamente adirato con tutto ciò che ha
sguardi virtuosi, di pecora, sguardi dal vello ricciuto,
ottusi, muniti della benevolenza del latte d’agnello...



Così
come di aquila, di pantera
sono le bramosie del poeta,
sono, dietro mille maschere,
le tue bramosie, tu stolto! tu poeta!...



Tu che vedesti l’uomo
come dio e come pecora –;
sbranare il dio nell’uomo
come la pecora nell’uomo
e ridere sbranando –
questa, questa è la tua beatitudine,
la beatitudine di una pantera e di un’aquila,
la beatitudine di un poeta e di uno stolto!...



Nell’aria rischiarata,
quando già la falce della luna
verde tra rossi di porpora
invidiosa s’insinua,
– avversa al giorno,
a ogni passo segretamente
falciando amache di rose,
fino a quando esse cadono,
pallide cadono verso la notte:



così io stesso caddi, una volta,
dalla mia follia di verità,
dalle mie bramosie del giorno,
stanco del giorno, sofferente per la luce,
– caddi in giù, verso la sera, verso l’ombra,
bruciato da una sola
verità e assetato
– ricordi ancora, ricordi, cuore ardente,
com’eri assetato allora? –
che io sia bandito
da ogni verità!
Soltanto stolto! soltanto poeta!...

Tra figlie del deserto

Il deserto cresce: guai a colui che cela deserti...



Ah!
Solenne!
un degno inizio!
africanamente solenne!
d’un leone degno
o di una morale scimmia urlatrice...
ma nulla per voi,
voi dilette amiche,
ai cui piedi è concesso
a me, a un Europeo sotto le palme,
di sedere. Sela.



Meraviglioso invero!
Qui siedo ora,
prossimo al deserto e già
nuovamente al deserto tanto lontano,
ma in nulla ancora desolato:
inghiottito infatti
da questa minuscola oasi
essa spalancò sbadigliando
la sua graziosa bocca,
la più odorosa tra le boccucce:
io vi caddi attraverso,
giù dentro – tra voi,
voi dilette amiche! Sela.



Salute, salute a quella balena,
se essa fece star comodo
il suo ospite! – intendete
la mia dotta allusione?...
Salute al suo ventre dunque,
se esso era
un leggiadro ventre di oasi
simile a questo: del che tuttavia dubito.
Dal momento che vengo dall’Europa
che è la più scettica tra tutte le sposine.
Voglia dio migliorarla!
Amen!



Qui siedo dunque,
In quest’oasi minuscola,
simile a un dattero,
bruno, zuccherato, gocciolante oro,
bramoso di una rotonda bocca di fanciulla,
ma più ancora di virginei, gelidi,
taglienti incisivi bianchi come neve:
dei quali infatti
è avido il cuore di tutti i datteri ardenti. Sela.



Simile, troppo simile
ai nominati frutti del sud
giaccio qui circondato
dai giochi e dalle danze di piccoli
scarabei alati,
e insieme da ancor più piccoli
più stolti e più malvagi
desideri e capricci, –
circondato da voi,
voi mute, voi presaghe
fanciulle-gatto
Dudù e Suleika
racchiuso da una sfinge, per imbottire
una parola di molti sentimenti
(– dio mi perdoni
questo peccato linguistico!...)
– siedo qui, annusando l’aria migliore,
aria di paradiso, in verità,
aria chiara e leggera, striata d’oro,
l’aria più buona che mai
sia caduta dalla luna,
fu per caso
o avvenne per superbia?
raccontano gli antichi poeti.
Ma io scettico ne dubito,
dal momento che vengo
dall’Europa,
la più scettica tra tutte le sposine.
Voglia dio migliorarla!
Amen.

Respirando questa bellissima aria,
con nari rigonfie come calici,
senza futuro, senza ricordi,
così qui siedo,
voi dilette amiche,
e guardo la palma,
come essa simile a una danzatrice,
si pieghi e si fletta e si culli sull’anca
sì fa lo stesso se la si osserva a lungo...
simile a una danzatrice che, mi pare,
già troppo a lungo, pericolosamente a lungo,
sempre, sempre si erge su una gambetta sola?
– mi pare perciò che abbia dimenticato
l’altra gambetta?
Invano almeno
cercai il mancante
gioiello gemello
– cioè l’altra gambetta –
nelle sacre vicinanze
del suo leggiadrissimo, graziosissimo gonnellino
a ventaglio, svolazzante di lustrini.
Sì, se voi, mie belle amiche,
vorrete credermi fino in fondo
essa l’ha perduta...
Uh! uh! uh! uh! uh!
È svanita,
per sempre svanita,
l’altra gambetta!
Oh, che peccato per quest’altra graziosa gambetta!
Dove – si troverà mai e languirà abbandonata,
questa solitaria gambetta?
Nel terrore forse
di un mostruoso, rabbioso, giallo
leone dalla bionda criniera? o addirittura
già rosicchiata, scarnificata –
miseramente ah! ah! scarnificata! Sela.



Oh non piangete,
teneri cuori!
Non piangete, voi
cuori di dattero! seni di latte!
voi sacchetti dal cuore
di liquirizia!
Sii uomo, Suleika! Coraggio! Coraggio!
Non piangere più
pallida Dudù!
– O non sarebbe
qui forse il caso di qualcosa di tonificante
di tonificante per il cuore?
una consacrata sentenza?
un solenne conforto?...



Ah!
Innalzati, dignità!
Soffia, soffia ancora
mantice della virtù!
Ah!
Ancora una volta ruggire,
moralmente ruggire,
ruggire da leone morale dinanzi alle figlie del deserto!.
– Poiché il latrato della virtù,
voi fanciulle dilette,
di ogni cosa
zelo da Europei, voracità da Europei!
E qui io resto già,
come Europeo,
non posso fare altrimenti, che dio m’aiuti!
Amen!



Il deserto cresce: guai a colui che cela deserti!
Pietra stride contro pietra, il deserto divora e strangola.
La mostruosa morte guarda rovente, bruna
e mastica, – la sua vita è il suo masticare...
Uomo che la voluttà ha bruciato, non dimenticare
tu sei la pietra, il deserto, sei la morte...

Ultima volontà

Morire così,
come un giorno lo vidi morire –,
l’amico, che saette e sguardi divinamente gettò
nella mia oscura giovinezza.
Sventato e profondo,
danzatore nella battaglia –,



tra guerrieri il più sereno,
tra vincitori il più arduo,
un destino ritto sul suo destino,
duro, riflessivo, pensieroso di ciò che sarà –:



tremante perché aveva vinto,
esultante perché morendo aveva vinto –:



ordinava, mentre moriva
e ordinò che si annientasse...



Morire così,
come un giorno lo vidi morire:
vincendo, annientando...

Tra uccelli predatori

Chi volge in basso qui,
come presto
lo inghiotte l’abisso!
Ma tu, Zarathustra,
ami ancora l’abisso
fai come l’abete?



Esso mette radici, dove
il dirupo stesso rabbrividendo
guarda il profondo –,
esita sopra precipizi
intorno ai quali tutto
volge verso il fondo:
tra l’impazienza
di selvaggia frana, di impetuoso ruscello
sopportando paziente, duro, silente,
solo...



Solo!
Chi osò mai
essere ospite qui,
essere ospite tuo?...
Forse un uccello predatore:
questi si aggrappa
volentieri ai capelli
di chi saldo pazienta,
maligno, con riso folle,
il riso di un uccello predatore...
Perché così saldo?
– schernisce egli spietato:
bisogna avere ali, se si ama l’abisso...
non restare appesi
come te, impiccato! –



Oh Zarathustra,
crudelissimo Nimrod!
Poc’anzi ancora cacciatore di dio,
la rete che cattura ogni virtù,
la freccia del male!
Ora –
da te stesso catturato,
tua propria preda,
penetrato in te stesso...



Ora –
con te stesso solo,
duplice nel tuo sapere,
tra cento specchi
falso dinanzi a te stesso,
tra cento ricordi
incerto,
stanco di ogni ferita,
freddo per ogni gelo,
dalle tue stesse funi strangolato,
conoscitore di te stesso!
carnefice di te stesso!



Perché mai ti legasti
con la fune della tua saggezza?
Perché mai attirasti te stesso
nel paradiso del vecchio serpente?
Perché mai ti insinuasti strisciando
in te – in te?...



Ora un malato,
reso infermo dal veleno del serpente;
un prigioniero ora,
cui toccò in sorte il più duro destino:
che lavora curvo nel proprio pozzo,
vuoto in se stesso come una caverna
che scava in se stesso
maldestro,
rigido,
una salma –
sovrastato da cento gravami sovrastanti,
sovraccarico di te,
un sapiente!
un conoscitore di se stesso!
il sapiente Zarathustra!...



Tu cercasti il carico più pesante:
e lì trovasti te stesso –,
non ti libererai di te...



In agguato,
rannicchiato,
incapace di stare ritto in piedi!
Mi appari aggrovigliato alla tua tomba,
spirito deforme!...
E poc’anzi così orgoglioso,
su tutti i trampoli del tuo orgoglio
poc’anzi l’anacoreta senza dio,
che il suo eremo divide con il diavolo,
il principe scarlatto di ogni superbia!...



Ora –
in mezzo a due nulla
rannicchiato,
un punto interrogativo,
uno stanco enigma –
un enigma da uccelli predatori...



– essi di certo ti “risolveranno”,
già bramano la tua “risoluzione”,
svolazzano intorno a te, il loro enigma,
intorno a te, impiccato!...
Oh Zarathustra!...
Conoscitore di te stesso!...
Carnefice di te stesso!...

Il segnale di fuoco

Qui, dove tra mari l’isola crebbe,
pietra sacrificale erta e svettante,
qui sotto nero cielo accende
Zarathustra i suoi fuochi d’altura,
segnali di fuoco per naviganti sperduti,
interrogativi per coloro che hanno risposte...



Questa fiamma dal ventre grigio chiaro
– in fredde lontananze guizza la sua brama,
verso sempre più pure altezze essa piega il collo –
un serpente che si erge ritto per l’impazienza:
questo segno io posi innanzi a me.



La mia anima stessa è questa fiamma,
insaziabile di nuove lontananze
divampa alto, alto il suo quieto fuoco.
Perché mai Zarathustra fuggì animali e uomini?
Perché d’un tratto sfuggì alla terra ferma?
Sei solitudini già egli conosce –,
ma neanche il mare fu per lui abbastanza solitario,
l’isola lo lasciò salire, sul monte divenne fiamma,
cercando una settima solitudine
egli getta ora l’amo sopra il capo.



Sperduti naviganti! Macerie d’antichi astri!
Voi mari del futuro! Cieli insondati!
A tutti i solitari ora getto l’amo:
rispondete all’impazienza della fiamma,
prendete a me, pescatore su alti monti,
la mia settima, ultima solitudine! –

Il sole declina

Non più a lungo avrai sete
    riarso cuore!
Una promessa è nell’aria,
soffia da bocche sconosciute a me
    – la grande frescura viene...



Stava nel meriggio ardente su di me il mio sole:
siate i benvenuti, voi che venite
    venti improvvisi
voi freschi spiriti pomeridiani!



Va l’aria estranea e pura.
Non mi sogguarda
    con occhi obliqui
di seduttrice la notte?...
Stai forte, mio cuore ardito!
Non domandare: perché? –



Giorno della mia vita!
il sole declina.
Già sta dorata
    la piatta marea.
Calda respira la rupe:
    dormì forse qui nel meriggio
la felicità il suo sonno pomeridiano?
    Tra verdi luci
il bruno abisso innalza ancora un gioco felice.



Giorno della mia vita!
Il sole declina!
Già arde il tuo occhio
    spezzato in due,
già gocciano lacrime stillanti
    della tua rugiada,
già scorre silenziosa su bianchi mari
la porpora del tuo amore,
la tua ultima, esitante beatitudine...



Serenità, dorata, vieni!
    tu della morte
più segreto, più dolce assaggio!
– Corsi troppo veloce la mia strada?
Soltanto ora che il piede si stancò,
    mi raggiunge ancora il tuo sguardo,
    mi raggiunge ancora la tua felicità.



Tutt’intorno soltanto onda e gioco.
    Ciò che fu un tempo pesante
sprofondò in azzurro oblio,
inoperosa è ora la mia barca.
Tempesta e viaggio – come essa disimpara!
    Annegò desiderio e speranza,
    lisci giacciono anima e mare.
Settima solitudine!
    Mai sentii a me
più vicina una dolce certezza,
più caldo lo sguardo del sole.
– Non arde ancora il ghiaccio della mia vetta?
    Argentea, lieve, come un pesce
    nuota ora al largo la mia barca...

Lamento di Arianna

Chi mi riscalda, chi mi ama ancora?
    Date mani ardenti,
    date bracieri del cuore!
Già prostrata, colta da brividi,
una moribonda quasi, cui si scaldano i piedi,
scossa, ah!, da febbri sconosciute
tremante per freddi, gelidi dardi acuminati,
    da te inseguita, pensiero!
Innominabile! Celato! Tremendo!
    Tu cacciatore oltre le nubi!
Prostrata dai tuoi fulmini,
tu occhio beffardo, che dall’oscurità mi osservi!
    Così io giaccio,
mi piego, mi dibatto, tormentata
da tutti gli eterni martiri,
    colpita
da te, spietatissimo cacciatore,
sconosciuto – dio...



Colpisci più in fondo!
Colpisci una volta ancora!
Trafiggi, infrangi questo cuore!
A che questa tortura
con frecce spuntate?
Perché guardi di nuovo
inappagato del tormento umano,
con maligni, divini occhi lampeggianti?
Non vuoi uccidere,
torturare solo, torturare?
A che – torturarmi,
un maligno dio sconosciuto?



Ah! Ah!
Ti avvicini furtivo
in questa mezzanotte?...
Che cosa vuoi?
Parla!
Tu mi premi, mi incalzi
ah! troppo da presso!
Mi ascolti respirare,
il tuo orecchio spia il mio cuore,
geloso!
    – ma geloso di che?

Via! via!
perché la scala?
Vuoi entrare
nel cuore, salire,
nei miei
più segreti pensieri?
Impudico! Sconosciuto! Ladro!
Cosa vorresti rubare?
Cosa vorresti ascoltare?
Che cosa estorcere,
torturatore!
Tu – dio carnefice!
O devo io, simile al cane,
rotolare dinanzi a te?
Abbandonata, esaltata fuori di me
per te amore – scodinzolare?



Invano!
Trafiggi ancora!
Crudelissima spina!
Non cane – solo tua preda sono,
crudelissimo cacciatore!
La tua più fiera prigioniera,
tu rapinatore oltre le nubi...
Parla infine!
Tu nascosto dal fulmine! Sconosciuto! parla!
Che cosa vuoi tu, bandito, da – me?...



Come?
Prezzo del riscatto?
Quanto vuoi per il riscatto?
Chiedi molto – suggerisce il mio orgoglio!
e parla poco – suggerisce l’altro mio orgoglio!
Ah! Ah!
Me – vorresti? me?
me – tutta?...



Ah! Ah!
E mi tormenti, pazzo che non sei altro,
martirizzi il mio orgoglio?
    Dammi amore chi mi riscalda ancora?
    chi mi ama ancora?
Da’ mani ardenti,
da’ bracieri del cuore,
da’ a me, la più sola,
cui ghiaccio, ah!, ghiaccio dalle sette forme
insegna a bramare nemici,
persino nemici,
datti a me, te,
crudelissimo nemico,
arrenditi! ...



Via!
Anch’egli fuggi ora,
mio solo compagno,
mio grande nemico,
mio sconosciuto,
mio dio-carnefice!...
No!
ritorna
Con tutte le tue torture!
Le mie lacrime tutte
corrono verso te
e l’ultima fiamma del mio cuore
risplende per te.
Oh, ritorna,
mio dio sconosciuto! mio dolore!
    mia ultima felicità!...



(Un lampo. Appare Dioniso in una bellezza smeraldina)



Dioniso:



Sii saggia Arianna!...
Hai orecchie piccole, hai le mie orecchie:
poni in esse una saggia parola! –
Non ci si deve odiare, prima, se ci si vuole amare?...
Io sono il tuo labirinto...

Gloria ed eternità

Da quanto tempo già stai seduto
    sul tuo destino avverso?
Fa’ attenzione! tu mi covi ancora
    un uovo,
    un uovo di basilisco
nel tuo lungo affanno.



Perché mai Zarathustra striscia lungo il monte? –



Diffidente, ulceroso, cupo,
a lungo in agguato –,
ma, d’improvviso, un lampo
chiaro, terribile, un colpo
contro il cielo dall’abisso:
– al monte stesso si scuotono
le viscere...



Dove odio e folgore
si unirono, una maledizione
sui monti dimora adesso l’ira di Zarathustra,
come nube di tempesta striscia sulla sua strada.



Si rintani chi ha un’ultima coperta!
A letto, voi esseri delicati!
Rotolano i tuoni ora sulle volte,
trema ora tutto ciò che è trave e muro,
sussultano ora lampi e verità giallo-zolfo –
    Zarathustra maledice...



Questa moneta con cui
il mondo intero paga,
gloria –,
afferro con i guanti questa moneta,
con schifo la calpesto sotto di me.



Chi vuole esser pagato?
Coloro che si possono comprare...
Chi è in vendita, protende
grasse mani verso
questo comodo tintinnio di latta, gloria!



Vuoi tu comprarli?
tutti si possono comprare.
Ma offri molto!
fai tintinnare una borsa piena!
    – li rinforzeresti, altrimenti,
rinforzeresti altrimenti le loro virtù...



Sono tutti virtuosi.
Gloria e virtù – si accordano.
Sin quando vivrà il mondo,
pagherà il cicaleccio della virtù
con lo strepitio della gloria –
il mondo vive di questo chiasso...
Dinanzi a tutti i virtuosi
    voglio essere colpevole,
colpevole esser chiamato di ogni grande colpa!
Dinanzi a tutti i megafoni della gloria
la mia ambizione diventa verme –,
tra costoro mi prende il desiderio
di essere l’infimo...



Questa moneta con cui
il mondo intero paga,
gloria –,
afferro con i guanti questa moneta,
con schifo la calpesto sotto di me.



Silenzio! –
Di grandi cose – io vedo cose grandi! –
bisogna tacere
o parlare con grandezza:
parla con grandezza, mia estasiata saggezza!



Io guardo in alto
lì scorrono mari di luce:
– oh notte, oh silenzio, oh strepito silenzioso come la morte!...
Io vedo un segno –,
dalle più remote lontananze
– cala verso di me lenta, scintillante una costellazione...

Supremo astro dell’essere!
Tavola di eterne immagini!
tu vieni a me? –
Ciò che nessuno ha scorto,
la tua muta bellezza, –
come? non fugge essa dinanzi ai miei sguardi?



Stemma della necessità!
Tavola di eterne immagini!
– ma tu lo sai:
ciò che tutti odiano,
ciò che io solo amo,
che tu sei eterno!
che tu sei necessario!
Il mio amore si accende in eterno
solo alla fiamma della necessità.



Stemma della necessità!
Supremo astro dell’essere!
– che nessun desiderio raggiunge,
che nessun no imbratta,
eterno sì dell’essere,
eternamente sono io il tuo sì:
perché io ti amo, oh eternità! –

Della povertà del più ricco

Passarono dieci anni –
non una goccia mi giunse,
né vento umido, né rugiada d’amore
– una terra senza pioggia...
Ora prego la mia saggezza
di non farsi avida in questa aridità:
trabocca, stilla tu stessa rugiada
sii tu stessa pioggia alla selva ingiallita!



Ordinai un tempo alle nubi
di andar via dai miei monti –
dissi un tempo «più luce, voi oscure!»
Oggi le attiro perché vengano:
fate buio intorno a me con le vostre mammelle!
– voglio mungervi
voi, mucche superne.
Riverso su questa terra
calda saggezza di latte,
dolce rugiada d’amore.



Via, via, voi verità
che oscure guardate!
Non voglio vedere sui miei monti
verità acerbe, impazienti.
Indorata dal sorriso
mi si avvicini oggi la verità,
addolcita dal sole, brunita dall’amore –
coglierò dall’albero solo una verità matura.



Oggi tendo la mano
verso le chiome del caso,
saggio abbastanza per condurlo,
simile a un bimbo, e ingannarlo.
Oggi voglio essere ospitale
verso ciò che è sgradito,
con il destino stesso non voglio essere spinoso
– non è un riccio Zarathustra.



La mia anima,
con la sua lingua insaziabile,
ha già leccato ogni cosa buona e cattiva,
si è immersa in ogni profondità.
Ma sempre, simile al sughero,
essa torna a nuotare in superficie,
volteggia giocando come olio su mari bruni:
in virtù di questa anima mi si chiama beato.



Chi mi è padre, chi madre?
Mi è padre il principe abbondanza
e mi è madre il quieto ridere?
Non generò l’unione di costoro
me, animale enigmatico,
me, demone della luce,
me, dissipatore di tutta la saggezza, Zarathustra?



Malato, oggi di tenerezza,
un vento di disgelo,
siede in attesa Zarathustra, in attesa sui suoi monti, –
nella sua stessa linfa



teso dolce e cotto,
sotto la sua vetta
sotto il suo ghiaccio,
stanco e felice,
un creatore nel suo settimo giorno.



– Silenzio!
Una verità vaga sopra di me
come una nube –
con invisibili folgori mi coglie. Su
ampie, lente scalinate
sale la sua fortuna verso di me:
vieni, vieni, amata verità!



– Silenzio! –
È la mia verità! –
Da occhi esitanti,
da vellutati brividi
il suo sguardo mi coglie,
ridente, malvagio, uno sguardo di fanciulla...
Essa indovinò il fondo della mia felicità,
mi indovinò – ah! che cosa trama? –
Sta un drago purpureo in agguato
nell’abisso del suo sguardo di fanciulla.



– Silenzio! Parla la mia verità! –



Guai a te, Zarathustra!
Hai l’aspetto di uno
che abbia inghiottito oro:
ti squarceranno il ventre!...
Sei troppo ricco,
corruttore di molti!
Troppi rendi invidiosi,
troppi poveri...
Su me pure getta ombra la tua luce –
rabbrividisco: va’ via, tu ricco,
va’, Zarathustra, via dal tuo sole!...



Vorresti donare, dare via la tua abbondanza,
ma sei tu stesso il più superfluo!
Sii saggio, ricco!
Dona via prima te stesso, o Zarathustra!



Passarono dieci anni –
e non una goccia ti raggiunse?
né vento umido né rugiada d’amore?
Ma chi dovrebbe amarti,
tu troppo ricco?
La tua fortuna inaridisce all’intorno,
rende poveri d’amore
– una terra senza pioggia...



Nessuno più ti ringrazia.
Ma tu ringrazi chiunque
prenda da te:
da ciò ti riconosco,
tu troppo ricco,
il più povero dei ricchi!



Tu ti sacrifichi, ti tormenta la tua ricchezza –,
ti dedichi,
non ti risparmi, non ti ami:
tarde tormento sempre ti stringe,
il tormento di granai traboccanti, di un cuore traboccante –
ma nessuno più ti ringrazia...



Devi farti più povero,
saggio insipiente!
se vuoi essere amato.
Solo chi soffre è amato,
solo a chi ha fame si dà amore:
Dona via prima te stesso, o Zarathustra!



– Io sono la tua verità...
 
 

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