Seconda edizione: novembre 2023, Piccola biblioteca
Il capitolo “Malatesta e il concetto di violenza rivoluzionaria” è stato pubblicato in Errico Malatesta. A centocinquant’anni dalla nascita. Atti del Convegno anarchico, Napoli 5-6-7 dicembre 2003, Edizioni La Fiaccola, Ragusa 2007, pp. 118-134.
Piccola Biblioteca n. 1
Alfredo M. Bonanno
Errico Malatesta e la violenza rivoluzionaria
Malatesta e il concetto di violenza rivoluzionaria
Nota introduttiva
Niente come la lettura di questi miei interventi al Convegno anarchico di Napoli su Malatesta del dicembre 2003 può dare l’idea di come ogni tentativo di fornire giustificazioni o condanne riguardo il concetto di violenza rivoluzionaria sia soltanto un tentativo fallito in partenza. La violenza rivoluzionaria non abbisogna delle mie giustificazioni e non può essere intaccata da qualsiasi tipo di condanna, anche se quest’ultima proviene dalle fila stesse degli anarchici.
In fondo il pacifismo è anch’esso un falso problema e non merita di essere confutato ricorrendo a molte parole.
Il mio sforzo non aveva, e non ha nemmeno qui, in questa sede, l’intenzione di fornire argomenti giustificativi alla violenza rivoluzionaria. Solo voleva, e continua a farlo, fornire un contributo al pensiero e all’attività rivoluzionaria di Errico Malatesta. Troppo spesso si sono dette tante cose infondate e troppo spesso si è arruolato questo anarchico sotto una qualsiasi bandiera di parte se non di partito. Ecco, come tutti i veri rivoluzionari, Malatesta non si curava di mettere ordine fra le sue carte e affrontava i problemi man mano che si presentavano nella realtà, pronto sempre a cercare la riprova nello scontro sociale piuttosto che in un sillogismo teorico.
La guerra sociale continua, la violenza rivoluzionaria è soltanto l’espressione più immediatamente percepibile del suo svolgimento, non la sola e, sotto certi aspetti, nemmeno la più importante.
Affido queste pagine all’attenzione del lettore. Ne faccia buon uso, ma non si aspetti da esse quello che non possono dare.
L’appuntamento più importante è sempre sulle barricate.
Trieste, 26 novembre 2008
Alfredo M. Bonanno
Malatesta e il concetto di violenza rivoluzionaria
Non sono uno storico e quindi non parlerò da storico. Il mio interesse per Malatesta risale a più di trent’anni fa, quando curai l’edizione annotata de L’anarchia. La lettura degli scritti più noti di Malatesta e dell’antologia curata da Richards aveva sollecitato la mia attenzione. In particolare mi ero trovato, con stupore, di fronte a un anarchico che non faceva ricorso da un lato al buon senso accomodante di chi vuole farsi capire dalle masse, dall’altro lato al reboante linguaggio di chi sente ma non ammette l’influsso delle avanguardie letterarie e filosofiche. Malatesta mi dette l’idea di un uomo informato e privo dell’intenzione spesso proterva di impressionare l’ascoltatore. Ma più di tutto mi colpì il suo linguaggio. Semplice ed efficace. Il suo ragionare pacato ma stringente. Di fronte a un Galleani che riempiva di suoni ricercati le mie orecchie o di uno Schicchi che faceva ricorso a effetti retorici di cui non sentivo bisogno, Malatesta appariva un uomo concreto, un rivoluzionario che voleva distruggere ma anche costruire, che possedeva una considerevole cultura ma non voleva mostrarla senza che ce ne fosse bisogno.
Approfondendo la lettura dei suoi scritti mi venne opportuno riflettere sui processi che conducono alla costruzione di un leader. Niente in Malatesta sollecitava a questa infausta designazione, eppure il comportamento dei compagni, più ancora di quello dei suoi avversari, lo chiudeva in questa disagevole armatura. Mi ricordo che in qualche posto ho letto di un Lenin d’Italia, ma la memoria potrebbe farmi difetto, quindi non sottolineo qui l’increscioso parallelo, però mi torna l’obbligo di sottolineare che perfino nel manifesto redatto per pubblicizzare il presente Convegno sta scritto che Malatesta “fu uno dei rivoluzionari più famosi del suo tempo”, come se la cosa possa interessare a chi oggi (ma anche all’epoca) volesse accostarsi alla sua opera. La fama è faccenda del potere, è costruita e utilizzata da quest’ultimo. Il nostro compito – almeno così mi pare – accostandoci a un compagno, quale esso sia, più o meno di tanti altri egli abbia “fatto” o “pensato” (interessante questa differenza, se esiste, ma non chiara), non è certo quello di partire dalla sua fama, che dovremmo lasciare agli articoli abborracciati dai giornali, ai libri di storia diretti a confermare la supremazia dei vincitori, ai dossier della polizia. Il fatto è che molti di noi, non dico tutti, hanno bisogno di un leader, sentono come non del tutto cancellato l’antico spirito gregario, si sottomettono al giudizio di chi guarda più lontano, per poi saltargli addosso al primo cambiamento del vento. È quasi certo che la rivoluzione non si farà se prima non si saranno fatti i rivoluzionari.
Le riflessioni che seguiranno saranno dettate da alcuni passi degli scritti di Malatesta. Ho scelto questi passi secondo un criterio di comodo, nel senso che ho preferito prendere in considerazione quelli più chiari riguardo l’indispensabilità della violenza rivoluzionaria, le caratteristiche di questo tipo di violenza e il suo fondamento morale. Trattandosi di problemi di grande importanza molti potranno sottolineare l’illegittimità di questo metodo. Che senso ha – sento di già dire – estrapolare alcuni pensieri di Malatesta traendoli fuori dal loro contesto storico e perfino redazionale o linguistico per prenderli in considerazione come se potessero pretendere a una vita autonoma, gemme isolate capaci di splendere senza ulteriori supporti o incastonature. Il fatto è che ho sempre ritenuto che questa obiezione e il metodo che sta alla sua base e che la giustifica sono fondati solo quando ci si trova davanti a un teorico che sviluppa il suo pensiero in modo organico e progressivo e a questo si limita, lasciando che tutto quello che ha da dire (e da fare) si raggrumi nella propria produzione teorica. Ma per un rivoluzionario la faccenda è diversa. Quando Malatesta scriveva qualcosa si rivolgeva a un referente preciso che grosso modo possiamo considerare come il movimento rivoluzionario anarchico del suo tempo. Non scriveva per approfondire il proprio pensiero o per renderlo ancora più completo ed esauriente. Non pretendeva partire da quello che aveva detto in qualche altro momento (in un prima ipoteticamente fissato all’interno del processo storico) per arrivare a qualcosa che avrebbe detto in un momento successivo (anche questo fissato in un futuro più o meno a breve o a media scadenza). Ogni suo pensiero era fruito direttamente, immediatamente dai compagni che lo ascoltavano, lo leggevano o comunque ne venivano a conoscenza. E questo pensiero, isolatamente considerato, agiva sulle coscienze di quei compagni, i quali usufruivano di quei contenuti facendoli propri e quindi mettendoli in grado di agire all’interno della propria visione della vita, rendendoli sangue del proprio sangue, pulsione dei propri desideri, anima dei progetti in corso di realizzazione. Nessuno di loro si chiedeva in che modo e dentro quali limiti quel pensiero si collegasse con quanto Malatesta aveva detto in un certo suo scritto o discorso o articolo e così via.
Quando Camille Desmoulins sale su di un sedia e infiamma la piazza contro la monarchia, sono le sue parole che hanno presa sulla folla, che incitano alla conquista e alla distruzione della Bastiglia, non quello che lui aveva detto in cento altre occasioni o quello che dirà dopo. Quando Saint-Just pronuncia le parole “Luigi contro di noi” sono proprio queste quattro parole che segnano la fine del re e della monarchia, non le teorie del giacobino sui destini morali della rivoluzione borghese.
Capisco che questo ragionamento può non essere condiviso, ma è proprio qui che occorre riflettere bene se non si vuole ridurre ogni occasione come questa a un vuoto e superfluo dibattersi di giudizi storicamente datati o vagamente considerati come strumenti per ammaestrare la vita. Noi anarchici non abbiamo necessità che i rivoluzionari del passato, e Malatesta in primo luogo, ci parlino attraverso la massiccia e organicamente ben definita globalità del loro pensiero. Lasciamo che di questo aspetto si prendano cura gli storici di professione, amanti del dettaglio e nel dettaglio pronti a morire affogati. Lasciamo che la singola parola risuoni nel nostro cuore con la stessa viva efficacia con cui risuonava nel cuore di chi quella parola scriveva o di chi l’ascoltava o la leggeva. Lasciamo che siano i nostri desideri (e i nostri bisogni di oggi) a servirci da interpreti e non la coltre culturale che di regola serve a procurare alibi e a spegnere entusiasmi.
Quello che chiediamo a Malatesta, e a tanti altri compagni come lui, è una scintilla, una luce improvvisa, una occasione per riflettere prima di agire, una piccola aggiunta. Non chiediamo di ragionare al nostro posto, di costruire per noi un progetto completo in tutte le sue parti. Non vogliamo che sia il passato a metterci in grado di capire il presente. Il contributo della storia è certamente importante ma non è la sola cosa di cui manchiamo. Spesso più questo contributo tende a ingrandirsi più si vogliono accumulare altri dati, altre documentazioni, altre riflessioni, mentre il momento dell’azione si allontana di conseguenza sempre di più. Il nemico contro cui dobbiamo lottare è davanti ai nostri occhi, costruisce e progetta le condizioni dello sfruttamento di oggi e di domani, non si ferma a giustificare lo sfruttamento di ieri, non frequenta aule universitarie che per meglio colpirci e renderci incapaci di capire i nuovi modelli repressivi. Se chiedessimo a Malatesta una risposta per ognuno dei nuovi elementi grazie ai quali sta prendendo forma il nuovo potere, non si avrebbero risposte utilizzabili. Ma qualcosa possiamo chiedere, e questo qualcosa, in modo particolare, prende la forma della riflessione morale.
Ecco perché il concetto di violenza in Malatesta è stato scelto da me in questa relazione per discuterne assieme a voi, nel modo più semplice possibile, ma anche nel modo più chiaro.
Gli anarchici sono contro la violenza. È cosa nota. L’idea centrale dell’anarchismo è l’eliminazione della violenza dalla vita sociale; è l’organizzazione dei rapporti sociali fondati sulla libera volontà dei singoli, senza l’intervento del gendarme. Perciò siamo nemici del capitalismo che costringe, appoggiandosi sulla protezione dei gendarmi, i lavoratori a lasciarsi sfruttare dai possessori dei mezzi di produzione o anche a restare oziosi ed a patire la fame quando i padroni hanno interesse a sfruttarli. Perciò siamo nemici dello Stato che è l’organizzazione coercitiva, cioè violenta, della società. Ma se un galantuomo dice che egli crede che sia una cosa stupida e barbara il ragionare a colpi di bastone e che è ingiusto e malvagio obbligare uno a fare la volontà di un altro sotto la minaccia della rivoltella, è forse ragionevole dedurre che quel galantuomo intende farsi bastonare e sottomettersi alla volontà altrui senza ricorrere ai mezzi più estremi di difesa?… La violenza è giustificabile solo quando è necessaria per difendere se stesso e gli altri contro la violenza. Dove cessa la necessità comincia il delitto... Lo schiavo è sempre in istato di legittima difesa e quindi la sua violenza contro il padrone, contro l’oppressore, è sempre moralmente giustificabile e deve essere regolata solo dal criterio dell’utilità e dell’economia dello sforzo umano e delle sofferenze umane. (“Umanità Nova”, 25 agosto 1921).
Sulle prime Malatesta sembra restringere la giustificazione dell’uso della violenza alla dimensione difensiva. La sola violenza giustificata è quella con la quale ci si difende da un sopruso. Ma poi aggiunge: chi si trova in condizioni costanti di legittima difesa, cioè lo sfruttato, è sempre giustificato ad attaccare chi lo sfrutta, tenendo conto dell’utilità di questo attacco e delle sofferenze umane che esso inevitabilmente comporta. Quindi non sta parlando in astratto della “violenza”, come purtroppo accade tanto spesso fra i compagni – diatriba che alimenta tanti degli equivoci del pacifismo – ma parla nella concretezza di classe della condizione in cui si trovano tutti coloro che sono legittimati moralmente a usare la violenza. Che poi quest’uso della violenza vada incontro a una condanna sancita dalle leggi in vigore, questo non è argomento che può interessare l’anarchico. Resta la valutazione pratica, l’utilità dell’azione violenta e le sofferenze che causa. Malatesta non è un seguace di Mach, però vista la sua cultura filosofica, e visto che le idee empiriocriticiste non erano estranee al clima culturale italiano degli anni Venti, può anche aver tenuto presente questo riferimento, ma si tratta di una utilità più concreta, non di quella generale che veniva suggerita dall’economicismo filosofico. Purtroppo nessuna azione compiuta dagli sfruttati, singolarmente o collettivamente considerati, può avere a priori una garanzia di utilità. Questo metro – e lo stesso Malatesta lo dice in altri posti quando afferma di preferire chi agisce troppo a quelli che aspettano e finiscono per non fare nulla – ha una sola spiegazione. L’azione violenta deve assolvere tutte le condizioni logiche che la rendono moralmente fondata, ma non può prevedere tutte le conseguenze del proprio venire in essere. Le condizioni logiche sono prima di tutto la situazione personale e collettiva di chi insorge violentemente contro il nemico di classe, poi l’identificazione quanto più esatta possibile di questo nemico, la scelta del mezzo da impiegare e lo studio di quanto necessario per ridurre al minimo quella sofferenza umana che costituiva la seconda parte delle preoccupazioni di Malatesta. Tutto questo si chiede a chi agisce, e tutto questo può essere considerato sotto il senso lato e non specifico di “utilità”. Infatti, solo rispettando queste condizioni fino in fondo, in altri termini scegliendo bene gli obiettivi e i mezzi, facendo attenzione anche ai minimi particolari che potrebbero determinare un eccesso di sofferenza imputabile a trascuratezza o superficialità, l’azione può essere letta come risposta alla repressione e allo sfruttamento e non abbisognare di giustificazioni posteriori sempre spiacevoli e spesso incomprensibili per la gente. Non è certo poco importante che spesso alcune azioni di attacco hanno necessità di una spiegazione. I realizzatori stessi se ne rendono conto e suggeriscono questa spiegazione in quella che comunemente si è convenuto chiamare “rivendicazione”. Purtroppo, quasi sempre, queste rivendicazioni – salvo casi esemplari – sono incomprensibili ai più, dannose per ogni chiarificazione dell’azione stessa, indicanti la poca chiarezza delle idee di chi le ha scritte e altre cose ancora. La leggerezza di mano non è quasi mai presente in questi documenti che confermano il fatto che l’azione non riesce a parlare da per se stessa. Questa difficoltà dell’azione di cui discuto qui è imputabile a una carenza analitica nella scelta dell’obiettivo, dei mezzi per raggiungerlo, ecc., in una parola denuncia una carenza di ordine morale. Chi ha chiare le cose da fare non possiede questa lungimirante acutezza di vista per dono del caso ma solo perché ha valutato tutte le possibilità che umanamente era possibile valutare. Anche in questa eventualità le cose possono andare storte, ma si tratta di un rischio che dobbiamo correre se vogliamo agire.
Vi sono certamente altri uomini, altri partiti, altre scuole tanto sinceramente devoti al bene generale quanto possono esserlo i migliori tra noi. Ma ciò che distingue gli anarchici da tutti gli altri si è appunto l’orrore della violenza, il desiderio ed il proposito di eliminare la violenza, cioè la forza materiale, dalle competenze tra gli uomini. Si potrebbe dire perciò che l’idea specifica che distingue gli anarchici è l’abolizione del gendarme, l’esclusione dai fattori sociali della regola imposta mediante la forza brutale, legale o illegale che sia. Ma allora, si potrà domandare, perché nella lotta attuale contro le istituzioni politico-sociali, che giudicano oppressive, gli anarchici hanno predicato e praticato, e predicano e praticano, quando possono, l’uso dei mezzi violenti che pur sono in evidente contraddizione coi fini loro? E questo al punto che, in certi momenti, molti avversari in buona fede han creduto, e tutti quelli in mala fede han finto di credere che il carattere specifico dell’anarchismo fosse proprio la violenza? La domanda può sembrare imbarazzante, ma vi si può rispondere in poche parole. Gli è che perché due vivano in pace bisogna che tutti e due vogliano la pace; ché se uno dei due si ostina a volere colla forza obbligare l’altro a lavorare per lui ed a servirlo, l’altro se vuol conservare dignità di uomo e non essere ridotto alla più abbietta schiavitù, malgrado tutto il suo amore per la pace ed il buon accordo, sarà ben obbligato a resistere alla forza con mezzi adeguati. (“Pensiero e Volontà”, 1 settembre 1924).
Ancora una volta Malatesta ci conduce lontano dalla diatriba teorica sulla violenza o sulla non violenza. Gli anarchici sono per l’eliminazione della forza bruta nei rapporti sociali, ma nelle condizioni presenti della lotta predicano e praticano, quando possono, l’uso di mezzi violenti. Ciò non accadeva solo ai tempi di Malatesta ma anche oggi. Anche oggi gli anarchici sostengono la necessità dell’uso della violenza per attaccare il nemico che opprime e reprime. Perché due vivano in pace occorre che siano disposti reciprocamente a rispettare la pace. Oggi il potere ha perfezionato gli apparati ideologici e propagandistici attraverso i quali diffonde l’idea di pace mentre, nella sostanza, pratica e prepara la guerra. Oggi, meno chiaramente che ai tempi di Malatesta, occorre fare uno sforzo di penetrazione analitica per entrare dentro questi meccanismi di copertura che ci tengono sotto controllo, che ci numerano, registrano, amministrano, soffocano. Che l’oppressore parli di pace non vuol dire che sia veramente portatore di pace. Questo gli anarchici lo sanno, ma non sempre risulta loro facile compiere il passo successivo, quello dell’azione violenta, dell’attacco. Giustamente Malatesta parla di “dignità di uomo”, ed è proprio questo che spinge molti a ribellarsi, e la risposta è a volte talmente incontrollata che diventa incomprensibile per molti. Ma non bisogna fermarsi agli aspetti esteriori, bisogna andare dentro i fatti e persino dentro quegli attacchi che non potendo raggiungere l’osso si fermano a scalfire la pelle, che non potendo colpire fino in fondo si limitano a intaccare i simboli. La ricerca dei mezzi “adeguati” di cui parlava Malatesta non è sempre possibile, molto più spesso il sangue agli occhi sale prima che il cervello risponda alle domande della mente. Perché condannare queste espressioni di violenza contro i simboli del potere? Potrebbero essere fine a se stessi e quindi tornare rapidamente in quelle vaste aree del recupero che sono accuratamente sovvenzionate dal potere. Ma potrebbero andare oltre. Alla larga dai manutengoli.
La lotta contro il governo si risolve, in ultima analisi, in lotta fisica, materiale. Il governo fa la legge. Esso dunque deve avere una forza materiale (esercito e polizia) per imporre la legge, poiché altrimenti non vi ubbidirebbe che chi vuole ed essa non sarebbe più legge, ma una semplice proposta che ciascuno è libero di accettare e di respingere. Ed i governi questa forza l’hanno, e se ne servono per potere con leggi fortificare il loro dominio e fare gl’interessi delle classi privilegiate, opprimendo e sfruttando i lavoratori. Limite all’oppressione del governo è la forza che il popolo si mostra capace di opporgli. Vi può essere conflitto aperto o latente, ma conflitto v’è sempre: poiché il governo non si arresta innanzi al malcontento ed alla resistenza popolare se non quando sente il pericolo dell’insurrezione. Quando il popolo sottostà docilmente alla legge, o la protesta è debole e platonica, il governo fa i comodi suoi senza curarsi dei bisogni popolari; quando la protesta diventa viva, insistente, minacciosa, il governo secondo che è più o meno illuminato, cede o reprime. Ma sempre si arriva all’insurrezione, perché se il governo non cede, il popolo finisce col ribellarsi; e se il governo cede il popolo acquista fiducia in sé e pretende sempre di più, fino a che l’incompatibilità tra la libertà e l’autorità diventa evidente e scoppia il conflitto violento. È necessario dunque prepararsi moralmente e materialmente perché allo scoppio della lotta violenta la vittoria resti al popolo. (Il Programma Anarchico, luglio 1920).
Lo scontro, precisa Malatesta, è qualcosa di fisico, di concreto, di materiale. Non si tratta di un confronto di idee, non si tratta di fare conoscere quali sono le interpretazioni della vita che reggono le basi della cultura anarchica e libertaria. Questo punto di partenza è certo importante, diffonde una concezione non violenta, pluralista, contraria all’autorità e al dominio, ma è solo l’anticamera di qualcosa che sta oltre. Il progetto del potere è quello di imporre le sue condizioni, non si limita soltanto a illustrarcele, fa vedere concretamente come chi non accetta le regole imposte è considerato “fuorilegge” e colpito con sanzioni più o meno serie, comunque in grado di mettere paura e di convincere la gente all’obbedienza. La risposta degli oppressi può essere più o meno forte, più o meno organizzata, e in questo suo disporsi secondo variazioni molteplici e differenziate si contrappone alle modificazioni che il potere produce sia nell’oppressione e nel controllo come nelle libertà parziali che è comunque costretto a concedere. Malatesta credeva, ai suoi tempi, che il movimento verso l’insurrezione fosse processo quasi inevitabile causato dalla contraddizione tra quello che il potere è disposto a concedere e quello che gli oppressi sono disposti a sopportare. Questa analisi risentiva di una considerazione delle contraddizioni sociali mutuata dall’hegelismo marxista, oggi vediamo molto meglio che le cose non stanno così. Le capacità di recupero del capitale sono sempre imprevedibili e dipendono dalla potenza delle nuove tecnologie, il potere gestisce con maggiore facilità le contraddizioni e non sembra che tra queste se ne possa individuare una più consistente delle altre da indicare come insuperabile. Il movimento insurrezionale viene di certo alimentato dalla radicale incompatibilità tra autorità e libertà, ma per realizzarsi occorre una preparazione pratica che possa partire da condizioni contraddittorie parziali, a volte anche minime, sicuramente sanabili dal nemico, ma che possono essere momenti insurrezionali per procedere verso la rivoluzione. Fra le righe Malatesta mette l’accento sulla preparazione dell’insurrezione e lo colloca su due aspetti: la preparazione morale e quella materiale. Ora non c’è dubbio che se la prima è conseguenza di una crescita della coscienza rivoluzionaria, la seconda non può essere altro che l’apprestamento di una pratica insurrezionale che nasce e si acquisisce col tempo nella lotta quotidiana e non nell’attesa di un apocalittico e improbabile scontro finale. Occorre sbarazzare il campo dall’iconografia che vuole l’insurrezione una faccenda di barricate e di lotta di grandi masse decise ad arrivare alla resa dei conti. Anche i piccoli movimenti locali possono assumere connotazioni insurrezionali, anche le lotte intermedie, se le condizioni in cui prendono corpo sono quelle dell’autonomia dalle forze politiche, della conflittualità permanente e dell’attacco.
Questa rivoluzione deve essere necessariamente violenta, quantunque la violenza sia per sé stessa un male. Deve essere violenta perché sarebbe una follia sperare che i privilegiati riconoscessero il danno e l’ingiustizia dei loro privilegi e si decidessero a rinunciarvi volontariamente. Deve essere violenta perché la transitoria violenza rivoluzionaria è il solo mezzo per metter fine alla maggiore e perpetua violenza che tiene schiava la grande massa degli uomini. (“Umanità Nova”, 12 agosto 1920).
La strada verso la libertà non può essere percorsa in carrozza, occorre rendersi conto che si tratta di un percorso sanguinoso e difficile, capace di turbare i sogni di coloro che pur aspirando alla giustizia e all’uguaglianza vorrebbero che queste dee scendessero dall’Olimpo senza far troppo baccano. Malatesta è un rivoluzionario e non ha motivo di alimentare queste illusioni. Sa che la violenza è dolorosa ma sa anche che è necessaria. Ma non è questo il punto esatto in cui si dovrebbe porre l’attenzione oggi. Nella frase in questione c’è il concetto di “violenza transitoria”, cioè di una risposta radicale ed estrema, ma limitata nel tempo, alla regola dei dominatori che pretende governare per sempre. Ciò lascia intendere l’ipotesi di un “passaggio”. I mezzi di produzione dalle mani dei pochi sfruttatori andranno nella mani di tutti per l’abolizione di ogni sfruttamento. Purtroppo oggi non si è più in una condizione sociale così netta e apparentemente (ma solo apparentemente) facile da capire. Le attuali condizioni produttive non consentono un utilizzo rivoluzionario diretto, cioè non è più possibile impiegare in modo diverso i mezzi di produzione una volta avvenuto l’evento espropriativo. La tecnologia rende altamente improbabile un uso finalmente giusto delle risorse che il capitale ha accumulato. Il livello di distruzione oggi necessario è di certo molto più grande e profondo di quello che poteva essere ai tempi di Malatesta. Le difficoltà di svellere abitudini e condizionamenti sono tantissime e lo stesso processo rieducativo potrebbe richiedere sforzi e lotte inimmaginabili. Il recupero di nuove forme di gestione e di amministrazione centralizzate, che potrebbero presentarsi sotto aspetti e camuffamenti non smascherabili immediatamente, proporrebbe una “transitorietà” dell’impiego della violenza con tempi molto lunghi. La coscienza di questo difficile cammino alimenta tante perplessità e dà spazio alle riflessioni perbeniste di chi aspetta che le cose si aggiustino lentamente, senza tendere troppo la corda. Lottare concretamente contro le forme attuali di questo inglobamento ideologico e culturale è un processo violento non più rimandabile.
Anche noi abbiamo l’animo amareggiato da questa necessità di lotta violenta. Noi che predichiamo l’amore e che combattiamo per raggiungere uno stato sociale in cui la concordia e l’amore sian possibili tra gli uomini, soffriamo più di tutti della necessità in cui siam posti di difenderci colla violenza contro la violenza delle classi dominanti. Ma rinunziare alla violenza liberatrice quando essa resta l’unico mezzo che possa metter fine alle sofferenze diuturne della grande massa degli uomini ed alle stragi immani che funestano l’umanità sarebbe farsi responsabili degli odii che si lamentano e dei mali che dall’odio derivano. (“Umanità Nova”, 27 aprile 1920).
L’autorizzazione morale all’impiego della violenza rivoluzionaria si trova proprio nella necessità del suo impiego. Questa necessità trova origine dal pericolo in corso che miliardi di uomini e donne corrono a causa dell’oppressione e dello sfruttamento. Se fosse soltanto una scelta tra la pace e la violenza gli anarchici per primi sceglierebbero la pace, essendo sostenitori dell’amore e della fratellanza universale. Ma non si tratta di una scelta. Essi, come tutti coloro che sono animati dalla volontà di far finire l’odio che strazia l’umanità, sono obbligati a scegliere la violenza. Certo, i sostenitori dell’oppressione, coloro che la esercitano direttamente e coloro che da essa ne traggono beneficio, difficilmente condividerebbero questa conclusione. Anzi, più si va verso una società capace di amministrare il dominio attraverso la pace sociale, più ci si accorge che i discorsi ideologici si fanno sottili, tutti gli oppressori parlano di pace e di fratellanza, tutti accusano chi vuole liberarsi dall’oppressione di intolleranza e di violenza (a questo proposito è stato coniato apposta il concetto spurio di “terrorismo”). La pressione esercitata sulla formazione pubblica dell’opinione corrente è tale che molti (la gran massa della gente) sono seriamente convinti di essere tolleranti anche quando partecipano nel modo più diretto allo sfruttamento e alla repressione. La società in cui viviamo, e via via quella che sta profilandosi sempre più con chiarezza per i prossimi decenni, è scarsamente definibile con i canoni rigidi della divisione in classi dell’epoca di Malatesta. Eppure, nonostante queste cresciute difficoltà, ci si può dire certi che da qualche parte il nemico continua a costruire i suoi paradigmi di potere, e che milioni di suoi collaboratori rendono possibile l’applicazione di questi paradigmi. Colpire queste trame e gli uomini che le realizzano è proprio trarsi fuori dalla responsabilità che finisce per cadere su tutti coloro che non attaccando si rendono complici della realizzazione di quei progetti di potere. Ma perché questa responsabilità derivante dal non agire, dal lasciare che le cose continuino ad andare come vanno, quindi di non affrontare fino in fondo le conseguenze repressive inevitabili di un’azione per forza di cose violenta, perché mai questa valutazione morale deve considerarsi autoevidente? Questa domanda è importante. Infatti può essere benissimo che il proprio modo di non partecipare, di astenersi (poniamo limitandosi a non votare) possa essere considerato un modo sufficiente per tagliare il cordone ombelicale di quella responsabilità. Difatti siamo in questo caso di fronte a una vera e propria azione positiva diretta a intralciare il meccanismo repressivo o gestionario che ci sovrasta. Io penso che le persone devono sentirsi responsabili (non venire giudicati tali da qualcuno) solo di ciò che sanno. Se qualcuno è veramente convinto che basta (poniamo) non votare per assolvere al suo crimine partecipativo nei riguardi delle istituzioni, allora è giusto che in buona fede si ritenga assolto da qualsiasi responsabilità. Ma quale persona appena appena informata sulla realtà che tutti ci ospita può arrivare a queste conclusioni senza ridersi in faccia da solo? Più egli avanza nella conoscenza della società in cui vive, più si documenta e si aggiorna, e più il suo cuore insorge contro i palliativi che la mente raziocinante aveva trovato per mettere a tacere la coscienza. Solo che spesso i nostri interessi quotidiani: la famiglia, la carriera, i soldi, ecc., ci fanno velo e gli sforzi per spostare questo velo non sono quasi mai adeguati alla luce abbagliante che esso nasconde, alla fine ci convinciamo da soli che gli unici responsabili dello sfruttamento e dell’oppressione sono soltanto gli sfruttatori e gli oppressori, e voltandoci dall’altra parte continuiamo il nostro sonnellino pomeridiano.
Noi siamo per principio contro la violenza e perciò vorremmo che la lotta sociale, finché lotta vi sarà, si umanizzasse il più che sia possibile. Ma ciò non significa punto che noi vorremmo che essa lotta sia meno energica e meno radicale, ché anzi noi riteniamo che le mezze misure riescono in conclusione a prolungare indefinitamente la lotta, a renderla sterile ed a produrre insomma una più grande quantità di quella violenza che si vorrebbe evitare. Né significa che noi limitiamo il diritto di difesa alla resistenza contro l’attentato materiale ed imminente. Per noi l’oppresso si trova sempre in istato di legittima difesa ed ha sempre il pieno diritto di ribellarsi senza aspettare che lo si prenda a fucilate; e sappiamo benissimo che spesso l’attacco è il più valido mezzo di difesa. Ma qui vi è di mezzo una questione di sentimento – e per me il sentimento conta più di tutti i ragionamenti. (“Fede!”, 28 ottobre 1923).
Da quanto detto prima, considerando l’insieme delle riflessioni avanzate, può sembrare che io voglia sostenere una mia personale predilezione per la violenza. L’oppresso – e sono le precise parole di Malatesta – proprio perché tale si trova sempre in stato di legittima difesa, in altri termini egli è legittimato moralmente a ribellarsi, e ciò senza che dall’altra parte la repressione venga portata all’estremo, faccia cioè diventare intollerabile la situazione oggettiva in cui l’oppresso vive. Questo punto è importante. Esso getta una luce consistente sulla decisione del ribelle di attaccare il nemico che lo reprime. Non è indispensabile che egli venga a trovarsi con l’acqua alla gola, cioè che venga preso a fucilate. Ma allora cos’è necessario? La risposta è ovvia, è necessario che egli faccia propria la coscienza della situazione in cui si trova, cioè acquisisca la capacità di leggere tra le righe ideologiche che il potere mette in essere per imbrogliare prima ancora di opprimere o di sopprimere. Per cui, più questo approfondimento si sviluppa, più penetra nelle linee interessate del repressore di turno, e più la ribellione scatta pur nell’apparente condizione di tollerabilità repressiva messa in atto dal potere. D’altro canto abbiamo spesso notato come la coscienza rivoluzionaria man mano che si sviluppa ha come scopo quello di attaccare il nemico che con la propria azione repressiva l’ha fatta venire alla luce, non arrivando alla determinazione di questo attacco essa finisce, prima o poi, per mordere se stessa. A volte ciò può portare a un estremismo muscolare che ritiene tutto riconducibile a una questione di forza militare. Chi cade in questo equivoco accetta come terreno dello scontro di classe l’elemento che di solito è privilegiato proprio dal potere. Un allargarsi dell’intervento violento, in condizioni che non sono rivoluzionarie, produce una chiusura del mondo in cui agisce il ribelle e un esacerbarsi della specializzazione degli interventi. Questi due orientamenti sono in breve captati dal potere che sa benissimo come intervenire. L’intensificarsi delle azioni violente realizzate da una minoranza di ribelli non corrisponde necessariamente a un allargarsi del processo di ribellione, quest’ultimo aspetto è legato ad altre condizioni, la maggior parte di natura economica che la ribellione può solo sottolineare ma non promuovere. Ci possiamo quindi trovare di fronte a un progressivo isolamento della ribellione e al presentarsi della necessità di un autoriconoscimento. In altre parole le azioni di attacco vengono intensificate per continuare a esistere come entità di ribellione munita di una certa coscienza rivoluzionaria e di un progetto più o meno specificato nei suoi dettagli. Continuando in questa direttrice si scappa via per la tangente, la realtà sfugge completamente di mano e la visione specialistica tende a riprodursi nella propria ottica militarista. Se l’oppresso è sempre in diritto di ribellarsi, la coscienza rivoluzionaria necessaria perché questa ribellione diventi fatto concreto lo deve assistere fino in fondo, cioè deve anche indicare i limiti e la significatività delle azioni che intraprende.
Gli anarchici non hanno ipocrisia. La forza bisogna respingerla colla forza: oggi contro le oppressioni di oggi; domani contro le oppressioni che potrebbero tentare di sostituirsi a quelle di oggi. (“Pensiero e Volontà”, 1 settembre 1924).
Malatesta non si illude che a fare la rivoluzione siano gli anarchici da soli, che la prossima rivoluzione sarà quella definitiva, quella sociale, quella anarchica. Sa che potrebbe quasi sicuramente essere indispensabile tornare a battersi contro i futuri oppressori. Oggi noi sappiamo che questa prospettiva è molto fondata, proprio perché molti si illudono di potere utilizzare, in maniera diversa beninteso, le forze produttive del capitale, cosa di cui dubitiamo fortemente. Ne segue che molti cosiddetti rivoluzionari, rispolverata la loro vocazione repressiva, cercheranno di gestire la cosa pubblica in nome dei propri interessi e delle proprie ideologie. Contro costoro la lotta non potrà che essere la continuazione di questa precedente, altrettanto feroce e difficile. Molti hanno concluso da questa prospettiva che essendo gli anarchici, più o meno, la voce nel deserto, tanto vale che si dedichino a questo compito, quello di fare da Cassandra, senza mettere troppo le mani nel fango delle cose concrete, degli attacchi distruttivi da realizzare a cominciare da oggi e non da rinviare a domani, tanto prima o poi sarebbero costretti a riprendere l’analisi critica dei risultati raggiunti e a ricucire l’organizzazione di lotta precedente. In altre parole, non potendo plausibilmente la propria rivoluzione (qui ragioniamo all’in grande) essere quella buona è necessario tenersi alla larga in attesa di sottolineare con la matita rossa e blu gli (inevitabili) errori degli altri. Se questo vale per la “rivoluzione”, pensate per le lotte parziali, per le cosiddette “lotte intermedie”, pensate per ogni singola insurrezione che non può fare a meno di cominciare in un punto qualsiasi dello scontro di classe.
[A proposito dei fatti del Diana] io dissi che quegli assassini sono anche dei santi e degli eroi; e contro questa affermazione protestano quei miei amici, in omaggio a quelli che essi chiamano gli eroi ed i santi veri che, a quanto pare, non si sbagliano mai. Io non posso che confermare quello che dissi… Basta con le sottigliezze. L’importante è di non confondere il fatto con le intenzioni, e nel condannare il fatto cattivo non trascurare di rendere giustizia alle buone intenzioni. E questo non solo per rispetto alla verità, non solo per pietà umana, ma anche per ragioni di propaganda, per gli effetti pratici che il nostro giudizio può produrre. Vi sono, ci saranno sempre fino a che dureranno le condizioni presenti e l’ambiente di violenza in cui viviamo, degli uomini generosi, ribelli, super sensibili, ma privi di riflessione sufficiente, che in date circostanze sono soggetti a lasciarsi trascinare dalla passione e a colpire alla cieca. Se noi non riconosciamo altamente la bontà delle loro intenzioni, se non distinguiamo l’errore dalla cattiveria, noi perdiamo ogni presa morale su di loro e li abbandoniamo ai loro ciechi impulsi. Se invece rendiamo omaggio alla loro bontà, al loro coraggio, al loro spirito di sacrifizio, noi possiamo per la via del cuore arrivare alla loro intelligenza, e fare in modo che quei tesori di energia che sono in loro sieno adoperati in pro della causa in modo intelligente, buono ed utile. (“Umanità Nova”, 24 dicembre 1921).
Il ribelle insorge e indirizzando il colpo contro il nemico abbatte degli innocenti. È accaduto al teatro Diana nel 1921 ma io ho in mente adesso l’attacco di Gianfranco Bertoli contro la questura di Milano in via Fatebenefratelli e ai morti che la sua bomba straziò sul selciato. Il discorso di Malatesta è pacato ma deciso, è un discorso responsabile senza cadere nell’isteria. Mette l’attenzione sui compagni autori del fatto, li conosce, sa che sono bravi compagni e che si sono sbagliati. Sa che può capitare di commettere un errore. Bertoli lancia la sua bomba dentro il portone della questura ma un poliziotto la respinge con un calcio e questa scoppia fra la gente che davanti aspettava di entrare per delle pratiche amministrative. A suo tempo – non conoscendo Bertoli e analizzando la sua autobiografia pubblicata da “Gente” – io stesso avevo definito condannabile la sua azione perché non c’era modo di individuare nella storia della sua vita le caratteristiche di un individualista stirneriano, come sembrava che lui stesso si dichiarasse. Solo quasi trent’anni dopo ho potuto correggere il mio errore quando, entrato in contatto epistolare con lui, ho potuto conoscerlo meglio e vedere le qualità del compagno che non apparivano invece dallo scritto autobiografico di trent’anni prima. Malatesta ha la conoscenza opportuna, sa che Mariani, Aguggini e gli altri sono compagni conosciuti e affidabili, quindi sa di trovarsi di fronte a un deprecabile errore, e affronta questo delicato argomento. Lamenta e si addolora per i morti ma anche lamenta e si addolora per la sorte dei compagni, per la responsabilità che si sono assunti e che del resto sono pronti a sostenere pagando di fronte alla cosiddetta giustizia. Quello che conta, egli dice, sono le intenzioni. Ma le intenzioni non erano pavimento dell’inferno? Certo, è proprio questo che afferma la morale borghese, sempre pronta a saltare addosso agli effetti, a vedere i risultati, a collocare il proprio giudizio sul metro economicistico. Questa coloritura morale la ritroviamo qualche volta fra gli anarchici stessi, i quali hanno chiesto, a Mariani, a Bertoli: “A chi può giovare questo tipo di azione?”. Soltanto alla repressione. Ecco la risposta. E da lì la conclusione dilaga senza più ritegno. È sempre la repressione che si giova di ogni azione che intende attaccare il nemico, che intende fare sentire un po’ più da vicino alle sue orecchie il gesto non proprio amichevole del ribelle. Quante sono le dichiarazione di estraneità che puntualmente si presentano di fronte a qualche avvenimento che esce appena dalle righe dell’ortodossia opinionista? Contarle non interessa a nessuno. Sono segno di sottigliezza politica di sicuro, ma anche di miopia morale. Malatesta invece corre il rischio di scendere all’inferno e parla delle intenzioni. Sa che queste non salvano della responsabilità (morale) gli assassini – perché di assassinii si tratta – ma sa anche che tacere, o peggio ancora accodarsi alle reprimenda dei tartufi, negherebbe lo stesso principio propagandistico dell’anarchia militante, tutti gli sforzi che giornalmente facciamo per convincere la gente della necessità di ribellarsi e attaccare il nemico che opprime e che sfrutta.
McKinley, il capo dell’oligarchia nord-americana, lo strumento e difensore dei grandi capitalisti, il traditore dei Cubani e dei Filippini, l’uomo che autorizzò il massacro dei scioperanti di Hazleton, le torture dei minatori dell’Idaho e le mille infamie che ogni giorno si commettono contro i lavoratori nella “repubblica modello”, colui che incarnava la politica militarista, conquistatrice, imperialistica in cui si è lanciata la grassa borghesia americana, è caduto vittima della rivoltella di un anarchico. Di che volete che noi ci affliggiamo, quando non fosse per la sorte riserbata al generoso che, opportunamente o inopportunamente, con buona o cattiva tattica, ha dato se stesso in olocausto alla causa dell’uguaglianza e della libertà? Lo ripetiamo in questa, come in tutte le occorrenze analoghe: poiché la violenza ci circonda da tutte le parti, noi, continuando a lottare serenamente perché finisca questa orribile necessità di dover rispondere colla violenza alla violenza, pur augurandoci che venga presto il giorno in cui gli antagonismi d’interessi e di passioni tra gli uomini si potranno risolvere con mezzi umani e civili, serbiamo le nostre lacrime ed i nostri fiori per altre vittime che non siano questi uomini i quali, mettendosi alla testa delle classi sfruttatrici ed opprimenti, assumono la responsabilità ed affrontano i rischi della loro posizione. Eppure si son trovati degli anarchici che han creduto utile e bello l’insultare all’oppresso che si ribella, senza avere una parola di riprovazione per l’oppressore che ha pagato il fio dei delitti che aveva commesso o lasciato commettere! È aberrazione, è desio malsano di avere l’approvazione degli avversari, o è malaccorta “abilità” che vorrebbe conquistare la libertà di propagare le proprie idee, rinunziando spontaneamente al diritto di esprimere il vero e profondo sentimento dell’animo, anzi falsificando questo sentimento fingendosi diversi da quello che si è? Lo faccio con rincrescimento, ma non posso esimermi dal manifestare il dolore e l’indignazione che han prodotto in me e in quanti compagni ho avuto occasione di vedere in questi giorni, le inconsulte parole che “L’Agitazione” ha dedicato all’attentato di Buffalo. “Czolgosz è un incosciente!” – Ma lo conoscono essi? – “Il suo atto è un reato comune che non ha nessuno dei caratteri indispensabili perché un atto consimile possa ritenersi politico!”. Credo che nessun pubblico accusatore, regio o repubblicano, oserebbe sostenere altrettanto. Infatti, v’è forse qualche motivo per giudicare Czolgosz animato da interessi o rancori personali?… Già, è improprio parlare di delitto in casi simili. Il codice lo fa, ma il codice è fatto contro di noi, contro gli oppressi, e non può servire di criterio ai nostri giudizi. Questi sono atti di guerra; e se la guerra è delitto, lo è per chi in essa sta dalla parte dell’ingiustizia e dell’oppressione. Possono essere, sono, delinquenti gl’Inglesi invasori del Transwaal; non lo sono i Boeri, quando difendono la lor libertà, anche se la difesa fosse senza speranza di riuscita. “L’atto di Czolgosz (potrebbe rispondere “L’Agitazione”) non ha avanzato per nulla la causa del proletariato e della rivoluzione; a McKinley succede il suo pari Roosevelt e tutto resta nello stato di prima, salvo che la posizione è diventata un poco più difficile per gli anarchici”. E può darsi che “L’Agitazione” avrebbe ragione: anzi, nell’ambiente americano, per quanto io ne sappia, mi pare probabile che sia così. Ciò vuol dire che in guerra ci sono le mosse indovinate e quelle sbagliate, ci sono i combattenti accorti e quelli che, lasciandosi trasportare dall’entusiasmo, si offrono facile bersaglio al nemico e magari compromettono la posizione dei compagni; ciò vuol dire che ciascuno deve consigliare e difendere e praticare quella tattica che crede più atta a raggiungere la vittoria nel più breve tempo e col meno di sacrifizi possibile; ma non può alterare il fatto fondamentale, evidente che chi combatte, bene o male, contro il nostro nemico e cogli stessi intenti nostri, sia nostro amico ed abbia diritto, non certo alla nostra incondizionata approvazione, ma alla nostra cordiale simpatia. Che l’unità combattente sia una collettività o un individuo solo non può cambiar nulla all’aspetto morale della questione. Una insurrezione armata fatta inopportunamente può produrre un danno reale o apparente alla guerra sociale che noi combattiamo, come lo fa un attentato individuale che urta il sentimento popolare; ma se l’insurrezione è fatta per conquistare la libertà, nessun anarchico le negherà la sua simpatia, nessuno soprattutto oserà negare il carattere di combattenti politico-sociali agli insorti vinti. Perché dovrebbe essere diversamente se l’insorto è uno solo? “L’Agitazione” ha ben detto che gli scioperanti han sempre ragione, ed ha detto bene, quantunque sia evidente che non tutti gli scioperi siano consigliabili, perché uno sciopero non riuscito può, in date circostanze, produrre scoraggiamento e dispersione delle forze operaie. Perché quello che è vero nella lotta economica contro i padroni non lo sarebbe nella lotta politica contro i governanti, che col fucile del soldato e le manette dei gendarmi vogliono asservirci a loro stessi ed ai capitalisti? Qui non si tratta di discutere di tattica. Se si trattasse di questo io direi che in linea generale preferisco l’azione collettiva a quella individuale, anche perché sull’azione collettiva, che richiede qualità medie abbastanza comuni, si può fare più o meno assegnamento, mentre non si può contare sull’eroismo, eccezionale e di natura sua sporadica, che richiede il sacrificio individuale. Si tratta ora di una questione più alta: si tratta dello spirito rivoluzionario, si tratta di quel sentimento quasi istintivo di odio contro l’oppressione, senza del quale non conta nulla la lettera morta dei programmi, per quanto libertari siano gli affermati propositi; si tratta di quello spirito di combattività, senza di cui anche gli anarchici si addomesticano e vanno a finire, per una via o per l’altra, nel pantano del legalitarismo… È stolto, per salvare la vita, distruggere le ragioni del vivere. A che possono servire le organizzazioni rivoluzionarie, se si lascia morire lo spirito rivoluzionario? A che la libertà di propaganda, se non si propaga più quel che si pensa?… (“Il Risveglio socialista-anarchico”, 28 settembre 1901).
Rispondendo a Luigi Fabbri che aveva definito l’uccisione del presidente americano atto inqualificabile e malgesto di incosciente, si preoccupa prima di tutto di affermare con fermezza la legittimità di qualsiasi attacco contro l’oppressore. È proprio all’anarchico attentatore che pensa, non alle conseguenze repressive che l’atto in questione avrebbe inevitabilmente scatenato. Non prende le distanze, ma si schiera subito a fianco del ribelle. Si fa sostenitore della violenza perché la violenza possa finire al più presto, perché possa finire la necessità di rispondere alla violenza con la violenza. Lamenta che anarchici hanno potuto insultare l’oppresso che si ribella e definisce questo atteggiamento come malsano desiderio di avere l’applauso degli avversari. Ecco un punto su cui bisognerebbe fermare la nostra riflessione. Non c’è condivisione possibile da parte del nemico in questa guerra di classe, non ci sono né regole, né onore delle armi, forse più feroce della stessa repressione materiale è quella che si attua facendo ricorso alle menzogne, alla disinformazione, alle calunnie.
Il nemico attacca mettendoci “fuori legge” (preventivamente) e “fuori logica” (successivamente). Afferma che ogni ribellione alle autorità costituite è un andare contro leggi fatte apposta per garantire la convivenza comune, non capisce come tutto questo possa accadere, come ci possano essere persone che non condividano il migliore dei mondi possibili, comunque l’unico mondo perfettibile attraverso le riforme e i miglioramenti. Il fatto è che la logica della ribellione non gli appartiene, è faccenda del tutto incomprensibile per lui, e di questo bisogna farsene una ragione. Non possiamo attaccarlo e pretendere che il potere condivida le regole di questo attacco, anche perché si tratta di un attacco che segue regole diverse da quelle che sostengono i processi della violenza oppressiva. Se ci convinciamo di ciò finiamo per renderci conto che le nostre azioni di attacco contro il potere sono “illogiche”. Non ha senso – cioè non ha senso per la logica del potere e dei benpensanti che dal potere vengono pasciuti – che Czolgosz spari a McKinley, se a un qualsiasi McKinley può sempre succedere un Roosevelt. E che questa considerazione venga fatta dal nemico è più che giusto, quello che duole è che spesso viene fatta anche da non pochi compagni. Che senso ha abbattere un traliccio, o milleduecento (quanti negli ultimi quindici anni ne sono stati buttati giù in Italia) se poi l’Enel ne costruisce altrettanti e in fretta? Che senso ha darsi da fare se questo darsi da fare si riduce poi a uno sgonfiare il palloncino del figlio del maresciallo? Per capire quale possa essere il senso dei piccoli attacchi diffusi nel territorio bisogna accettare una logica diversa da quella dei padroni e del potere. Ma accettare una logica diversa spesso fa a pugni con quanto di più connaturato possediamo col nostro modo di essere, cioè col nostro modo di pensare. Noi siamo quello che pensiamo e pensiamo quello che siamo. Possiamo di certo pensare qualcosa che mai faremmo o saremmo, ma questo pensiero non alberga a lungo nella nostra mente, come fantasia del sabato sera svanisce alle prime luci del lunedì. Malatesta parla di combattenti accorti e meno accorti, di quelli che frenano il proprio entusiasmo e di quelli che da questo si lasciano trascinare, ma non si accorge che la valutazione è fatta dall’interno di una misura che non ci appartiene. Quando ci muoviamo nell’azione che cerca di avvicinarsi quanto più possibile al nemico per inquietarlo nelle sue certezze, ogni calcolo di convenienza, ogni valutazione tattica, ogni conoscenza tecnica e ogni approfondimento teorico possono assisterci, possono stare tutti al nostro fianco e illuminarci la strada, ma l’ultimo tratto, quello che solleva l’animo dagli indugi finali, che tutto stringe nell’attimo in cui si supera la propria frattura morale, lo dobbiamo fare da soli. Qui ognuno è solo con la propria coerenza morale, con la propria coscienza rivoluzionaria, con il proprio desiderio di farla finita con l’oppressione e lo sfruttamento. Che importa se dall’azione viene fuori un gesto approssimativo, qualcosa che la luce logica dell’abbagliante non contraddittorietà valuterà un “malgesto di incosciente”, siamo noi che quell’azione abbiamo fatto, siamo noi che abbiamo preso la responsabilità non solo dell’azione in se stessa ma anche di tutte le valutazioni di convenienza, di tattica, ecc. E siamo noi che abbiamo deciso di portarla a compimento.
La nostra azione, in fondo, siamo noi stessi.
Trieste-Catania, novembre 2003
Scaletta dell’intervento al Convegno su Malatesta
Non sono uno storico
Un uomo assennato e informato
“Uno dei rivoluzionari più famosi del suo tempo”
Il bisogno di leader
La questione della violenza: Una coperta che ognuno tira a suo modo
La completezza di un pensiero e il contributo teorico di un rivoluzionario
I limiti di un ragionamento come il mio
Lasciamo che la singola parola risuoni, qui, ancora una volta
Il passato non può metterci in grado di capire il presente (illusione storicista)
I nuovi modelli repressivi hanno bisogno di analisi nuove
Ma qualcosa possiamo chiedere a Malatesta
Primo pezzo (leggere)
Lo schiavo è sempre in istato di legittima difesa, è legittimato ad attaccare
Valutazione pratica: l’utilità dell’azione violenta
L’economicismo estraneo ai rivoluzionari
Non ci può essere una garanzia a priori assoluta
L’azione deve assolvere a tutte le sue premesse logiche
La necessità di una spiegazione a posteriori è indicazione quasi sempre di approssimazione
Secondo pezzo (leggere)
Se si vuole conservare la propria dignità di uomini e di donne
La repressione nuova e la funzione dell’informazione
Terzo pezzo (leggere)
Processo inevitabile verso l’insurrezione (tesi di Malatesta) oggi il problema è diverso
Preparazione morale all’insurrezione
Preparazione concreta all’insurrezione
Quarto pezzo (leggere)
Concetto di violenza transitoria
Scomparsa della tesi tradizionale del passaggio
Inutilizzabilità dei mezzi di produzione
Quinto pezzo (leggere)
La necessità della violenza è la sua autorizzazione morale
Rifiutarsi di attaccare è diventare responsabili dello sfruttamento
Autoconvincimento della sufficienza dell’astensione e crescita della coscienza rivoluzionaria
Sesto pezzo (leggere)
Il sentimento e la decisione del ribelle di attaccare
Approfondimento delle condizioni sociali e la frattura morale
Distacco degli attacchi dalla realtà
Autogratificazione
Settimo pezzo (leggere)
La lotta violenta non risolve tutti i problemi non è una questione di fede e non ci sono illusioni taumaturgiche
Continuazione della lotta anche al di là del fatto risolutivo della rivoluzione
Parzialità dei risultati della lotta
Ottavo pezzo (leggere)
Considerare le intenzioni vere del ribelle ecco ciò che conta
Chiedersi: “a chi può giovare” è domanda che accetta la logica del potere
Nono pezzo (leggere)
L’autoevidenza etica della ribellione
La logica dello sfruttato e quella dello sfruttatore
Logica e linguaggio
Assoluta estraneità e errori nella pretesa di fare condividere le nostre idee all’avversario
La efficienza geometrica del potere e dei suoi possibili sostituti e le piccole azioni diffuse nel territorio
L’accortezza secondo la logica del potere
L’avventatezza dell’attacco, limiti e splendori di un malgesto incosciente
Convenienza, tattica e sentimento
La nostra azione, in fondo, siamo noi stessi
Intervento a braccio
Ho portato con me queste copie della mia relazione perché... si sente bene... ho portato con me queste relazioni ciclostilate perché quello che dirò è un po’ diverso da quello che ho scritto, essendo il mio intervento a braccio, sebbene ne segua lo spirito e anche in alcuni passi la stesura. È bene quindi che chi è interessato abbia anche la redazione originale. Per questo abbiamo fatto queste copie.
Io non sono uno storico, quindi non vi parlerò da storico. Sono un curioso della vita, un curioso della realtà. Vi parlerò di alcuni aspetti della vita e della realtà che interessano penso tutti, e anche gli anarchici. Alcuni di questi aspetti li trarrò riflettendo su certe parole di Malatesta.
Malatesta era un rivoluzionario famoso. Ce lo ricordano i compagni organizzatori nel testo del manifesto programmatico. Un rivoluzionario famoso, cosa significa? È famoso perché la controparte, il nemico, lo rende famoso. Un anarchico non può essere famoso perché gli anarchici lo seguono, lo ascoltano, si interessano alle sue azioni, ma perché c’è una cassa di ridondanza che è stata ben delineata dal compagno che mi ha preceduto, con la parola piuttosto generica “stampa”. Comunque non è solo la stampa, tutti gli strumenti organizzativi del potere ruotano attorno alla sua attività e la deformano, la rendeno mostruosamente altra. Così, quella persona, diventa famosa.
Questo per quanto riguarda il nemico. È chiaro che noi non possiamo cogliere il suggerimento del nemico. Per me Malatesta non era un compagno famoso, non era il più grande rivoluzionario dei suoi tempi, era ed è un compagno mio, che mi appartiene, che nei momenti in cui ho avuto delle perplessità, delle sofferenze, in cui mi sono trovato da solo fra le mura di un carcere, leggere le sue pagine – come le pagine di Kropotkin, ad esempio, Le memorie di un rivoluzionario – mi è stato di grande aiuto. Sono state importanti quelle pagine per me, quelle sue parole, perché me le sono portate nel cuore. Non perché mi hanno dato un suggerimento programmatico, o perché mi venivano da un uomo che la stampa e il potere avevano definito: “un grande uomo”.
Questo per ciò che riguarda il potere. Ma, a rendere famoso un compagno, a rendere conosciuto un compagno, ad apporre su di lui i riflettori deformanti di una visione mostruosa pari a quella che il potere ci costruisce addosso, siamo anche noi stessi, siamo noi che costruiamo il leader, siamo noi che costruiamo compagni dai quali ci aspettiamo indicazioni, quando queste indicazioni le dovremmo trovare da noi, dentro di noi, nelle nostre letture ma principalmente nelle nostre prese di coscienza.
È stato anche detto, poco fa, che la mia scelta di parlare del concetto di violenza rivoluzionaria è stata una scelta che richiamava l’attenzione, quindi rendeva la relazione più appetibile. Ebbene, credetemi, qua si tratta soltanto di un caso. Quando sono stato invitato a partecipare al Convegno, ho semplicemente detto che io nel corso di trenta e più anni che mi interesso di Malatesta, dall’epoca in cui ho curato l’edizione annotata de L’Anarchia, mi sono interessato particolarmente di questo aspetto, cioè di come Malatesta, nello svolgimento della sua attività, è stato quasi obbligato ad affrontare il problema della violenza rivoluzionaria.
È chiaro che mi dovete dare un po’ di credito perché io opererò un taglio all’interno del corpus completo del pensiero malatestiano, sia per motivi di spazio e di tempo, sia per motivi di interessi personali. La mia sarà una lettura di comodo di Malatesta, quindi sarà facile criticare chi opera una scelta come questa mia. Naturalmente, se volessimo avere un’idea complessiva del pensiero di Malatesta, non potremmo tagliare dei piccoli lacerti, metterli sul tavolo anatomico e disquisirci sopra. Ma questa operazione può invece esserci utile, con tutti i limiti che essa comporta, se facciamo in modo che la parola di Malatesta risuoni qui dentro e che abbia un senso per noi, che scuota qualcosa dentro di noi, che ci faccia vivi, non dei fantasmi di qualcosa che è passato e definitivamente morto nell’anno del decesso del povero Malatesta.
In più, se io leggo un passo di Malatesta, non sono davanti a un passo di un filosofo più o meno dell’azione – qui ci sarebbe tanto da dire ma non è il luogo per farlo –, non sono davanti a un passo di un filosofo e quindi per capirlo sono costretto a ricorrere a quello che ci sta dietro, all’ipotesi teorica che sorregge quel passo. Noi ci dobbiamo mettere, leggendo questi passi di Malatesta, nella condizione di chi li lesse nel momento in cui furono scritti, di come risuonarono nella mente e nel cuore di quei compagni che li lessero all’epoca, perché il lavoro del rivoluzionario, e quindi anche quello di Malatesta, è proprio questo: parlare ai compagni, contestualmente, in un dato momento, perché in quel momento occorre per l’azione che il problema venga chiarito e approfondito, venga fatto emergere nelle sue complessità interne e scuotendo anche l’ascoltatore, non soltanto indottrinandolo o pretendendo di indottrinarlo.
Poi, come ho detto, io non solo non sono uno storico, ma non sono nemmeno uno storicista. Io non penso che dalla storia, quindi anche dall’opera di Malatesta, possiamo aspettarci un insegnamento. L’aspetto profetico della storia non mi interessa. Io non credo che l’insieme degli scritti di Malatesta sia un punto di riferimento per noi, oggi, può essere un’occasione di lettura, un incidente di percorso, la sollecitazione a una riflessione, a un’attualizzazione, non un punto costante di riferimento. Noi non siamo né cristiani che leggono la Bibbia in un certo modo, né marxisti che leggono Marx in un certo modo. Penso che non lo siamo.
Quindi, consentitemi di leggere il primo passo di Malatesta. Egli scrive nel 1921. Guardate che tutti questi scritti, la loro maggior parte, sono redatti intorno agli anni Venti, quindi siamo piuttosto lontani dall’epoca di Ravachol.
Gli anarchici... (vedere a p. ??).
Lo schiavo è sempre in stato di legittima difesa, è sempre legittimato ad attaccare. Sempre. Questo avverbio apre un discorso immenso. Però Malatesta, almeno in questo passo, lo restringe questo immenso discorso e suggerisce, non impone ma suggerisce, che questa legittimazione etica all’azione di attacco contro il nemico di classe, sia regolata in un certo modo dai valori pratici dell’utilità. L’azione deve essere utile, cioè deve contribuire ad alleviare la repressione, ad alleviare il dominio o, comunque, deve fare capire alla controparte nemica, che non si è del tutto inermi.
Malatesta, pur essendo un uomo molto informato dal punto di vista filosofico, contrariamente a quanto pensano tanti, non è un seguace delle teorie economicistiche. Non lo è perché è un volontarista, perché come vedremo dopo dà molto spazio al sentimento umano, al cuore, e certe volte molto di meno al cervello, alla teoria. L’economicismo si basa sulla tesi di Mach che affermava come nella realtà la natura segua sempre la strada più breve, e quindi, estrapolando questa tesi filosofico-scientifica e portandola nella realtà sociale, qualunque azione dovrebbe seguire la strada più breve, ottenere il risultato maggiore con il minimo sforzo. Tutto ciò non è nelle ipotesi di Malatesta. Allora perché suggerisce l’utilità? La suggerisce per ridurre quell’avverbio di cui parlavamo prima, che se lasciato a se stesso lascerebbe aperta una porta sostanzialmente senza limiti.
È chiaro, d’altro canto, che Malatesta si rende conto che non ci può essere una garanzia a priori. Se uno mette mano all’azione, decide di farla pagare a chi continuamente lo fa soffrire, può valutare tutti gli aspetti di questa sua decisione, aspetti strategici, tattici, pratici, tecnici, tutte le conseguenze, non può però garantire in assoluto che da questa sua azione non venga fuori un imprevedibile movimento caotico capace di conseguenze quali, ad esempio, l’aumento della stessa sofferenza, l’aumento della repressione. Esattamente quindi il contrario di quello che si presupponeva potesse venire fuori dall’ipotesi di partenza.
Se noi vediamo, spesse volte, tante realtà di attacco che ci passano sotto gli occhi, ci accorgiamo che, partite da buone intenzioni, arrivano a conclusioni discutibili, ed è vero che hanno bisogno di una spiegazione, quello che comunemente passa sotto il nome di “comunicato”, un commento esplicativo. Possiamo essere sicuri che più si ha necessità di una spiegazione e meno l’azione di attacco contro il nemico è andata a buon fine, per cui possiamo dire che questa azione nella sua realizzazione ha avuto dei problemi. Malatesta si pone la questione di cui parliamo ed è pertanto in questo senso che dovremo leggere le frasi riguardanti l’economia e l’utilità dello sforzo umano diretto ad attaccare.
Il secondo passo sarebbe questo:
Vi sono certamente... (vedere a p. ??).
Qua bisognerebbe – secondo me ovviamente, trattandosi di letture che possono essere fatte in tanti modi e io le faccio a modo mio – bisognerebbe sottolineare il concetto di “dignità”, molto importante. In fondo, che cosa ci spinge a prendere coscienza della nostra condizione di sfruttati e di oppressi? Ci spingono la sofferenza fisica, la fame? Molto raramente, ormai. Di sicuro non noi. Certo queste sono molle molto potenti che spingono strati e condizioni sociali più arretrati, i quali trovano sbocco in maniere che difficilmente si possono riassumere soltanto nel concetto di coscienza rivoluzionaria anarchica. Ma gli anarchici coscienti, presa, interiorizzata questa sorta di malattia profonda che è la coscienza rivoluzionaria a che cosa fanno appello se non alla propria dignità ferita, alla propria dignità di uomini? Che cosa può mai spingere un anarchico ad attaccare il nemico che lo offende, ben al di là delle condizioni eventuali di privilegio, di compartecipazione in cui ci hanno messo, e che tolleriamo perché in fondo non ne possiamo fare a meno?
La nuova repressione è diversa da quella del passato. Malatesta direbbe, non c’è bisogno che si arrivi alle rivoltellate per insorgere, per attaccare, ma qua non si tratta di rivoltellate. La repressione nuova è ben diversa, ci coinvolge, ci porta dentro, ci porta nel consenso, ci fa condividere una realtà sociale che dovremmo rigettare ma che non possiamo perché mille legami, mille aspetti, da quello del lavoro, principalmente, alla famiglia, alla interpretazione etica della nostra vita e del mondo in cui viviamo, ci obbligano ad accettare. Reagire contro questa condizione è sempre più difficile, perché sempre più lontana e remota, sempre più imperscrutabile questa valutazione etica di noi stessi e della nostra vita, della nostra prospettiva di vita.
E chi si muove, chi attacca, o chi semplicemente manifesta il proprio dissenso, viene immediatamente collocato all’interno di un fascio di luce repressiva ben precisa, sempre di più dettagliata. Pensate al concetto di terrorismo, elaborato negli ultimi trent’anni, come si è velocemente sviluppato in forme sempre più evanescenti, sempre più fumose, sempre più lontane dall’oggettiva significanza di questa parola, di questo concetto, come è andato crescendo tutto ciò. Pensate che mi risulta che in non so quale liceo alcuni ragazzi hanno scritto una frase sulla lavagna riguardante la faccenda di Nassyria, e sono stati immediatamente schedati, interrogati dai carabinieri, e così via. Pensate a quale punto assurdo arriva la repressione.
I compagni arrestati qualche giorno fa, e quelli che sono sotto processo, anzi che siamo sotto processo, perché anche io lo sono, al terzo grado, in Cassazione, compagni che sono stati condannati con ergastoli e con trent’anni, per non citare i miei sei anni di condanna che restano una banalità di fronte alle loro pene da scontare. Si tratta di compagni che si trovano sotto potenti riflettori. Non appena si muovono fanno scattare gli aspetti preventivi della repressione e gli aspetti successivi. Pensate a quanti di noi trovano continuamente dentro casa, nelle automobili, le spie elettroniche della polizia, quanti di noi sono costretti continuamente a rinvenire e smontare questi oggetti, per poi ritrovarseli un’altra volta. Pensate a quanti di noi, in questo momento, hanno in corso processi, o più che processi procedure di indagine che si vanno accumulando nelle varie procure. Perché tutto questo? Non perché hanno realizzato chissà quale accadimento rivoluzionario, ma perché sono, siamo, consentitemi l’immodestia, siamo portatori di un concetto rivoluzionario che disturba, probabilmente, io penso, per la sua potenzialità, non certo per la sua efficacia operativa. Per la sua potenzialità in quanto lascia intendere che siamo in grado di suggerire quell’autorganizzazione delle masse rivoluzionarie che è la cosa, in fondo, da un punto di vista repressivo, che disturba sicuramente il sonno del potere.
Ma torniamo al nostro amato Malatesta. Nel terzo pezzo che leggiamo lui scrive:
La lotta contro... (vededere a p. ??).
Io non sono d’accordo con la sostanza del discorso di Malatesta, perché nella sostanza c’è un meccanismo che non mi piace. C’è un meccanismo inevitabile, come se qualcosa all’interno del processo di contrapposizione fosse meccanicamente destinato ad evolversi verso lo scontro finale. Io non lo penso, però mi piace, nel pensiero di Malatesta, che malgrado la persistenza, come dire, il residuo archeologico – che per i suoi tempi non era nemmeno tale – di un meccanismo che ricorda probabilmente quelle vecchie strutture hegeliane e marxiste del movimento per contraddizioni, c’è un’altra cosa, più importante, c’è il fatto volontariamente determinato, che mette sotto attenta osservazione il processo preparatorio. Guardate che contrariamente a quanto sembra, a quanto si è convinti, e anche io, almeno dentro certi limiti, ne sono convinto, noi non viviamo in un momento di tragica stasi, ma io penso che sotto queste chete acque dell’acquiescenza, si sommuove sempre qualcosa, qualcosa che si evolve non secondo il meccanismo citato da Malatesta, ma si evolve in una maniera caotica, imprevedibile, e che questo qualcosa può prendere, in realtà sia pure ristrette, ma non per questo anatomicamente separate, la forma dell’insurrezione popolare. Pensate a piccoli accenni, come può essere il movimento incredibilmente significativo che c’è stato recentemente in Basilicata, e anche altri casi, lo sciopero selvaggio di Milano. Piccole cose, ma nello stesso tempo significative. Pensate a quanto può essere fragile questa mostruosa costruzione governativa, statale che ci opprime, quanto può essere fragile. Mi ricordo. Scusate se parlo dei miei ricordi, ma sono vecchio e dovete avere un poco di pazienza. Mi ricordo che quando sono stato prelevato dalla polizia nel corso delle lotte di Comiso [1982-1983], sono stato portato davanti al prefetto di Ragusa, e questo mi disse: “Insomma, ragazzi – all’epoca eravamo ragazzi – che volete fare con la base militare, la volete distruggere veramente?”. Risposi: “Veramente noi vorremmo entrare dentro e sfasciare tutto”. Ed egli: “Se venite con la gente, potete farlo, se siete da soli non ve lo consiglio”. Uomo di governo, uomo di apparato, il prefetto mi stava dando indicazioni chiare, necessarie per lo Stato e il potere. Non si può affrontare – i tempi scelbiani degli anni Sessanta erano lontani – non si può affrontare a colpi di mitragliatrice il popolo in rivolta, oppure semplicemente mentre sta facendo una manifestazione. Il popolo. Si possono affrontare a manganellate, e anche a colpi sporadici di rivoltella, i compagni col passamontagna, questa è un’attività molto diffusa. Visto che noi abbiamo una costante frequentazione di polizia, mi ricordo che pochi giorni dopo i fatti di Genova del 2001, un poliziotto che mi faceva la perquisizione a casa, a Trieste, diceva: “Quanto ci siamo divertiti a Genova”. Per loro è come andare a far casino allo stadio. Ma non quando c’è la gente, quando ci sono i bambini, ecc. Pensate un po’ alle connessioni mediatiche a livello mondiale. Pensate, per quanto riguarda le azioni repressive, a come vengono sottoposte all’attenzione dell’opinione pubblica. Pensate agli effetti che avrebbe un’azione repressiva a livello di massa sulla formazione dell’opinione. Noi siamo retti, governati attraverso la formazione dell’opinione e quindi attraverso la gestione dell’informazione. Cosa che da Berlusconi, no, Berlusconi no perché non capisce nulla, ma dai suoi collaboratori in giù, è perfettamente conosciuta.
Secondo me, pertanto, prepararsi all’insurrezione come fatto possibile è sempre bene. Studiarne i metodi, concretamente, ci suggerisce Malatesta. Questo non vuole dire andare sulle barricate, come dire: va bene, facciamola noi questa insurrezione, non si tratta di questo. Non sarebbe una insurrezione in questo caso, sarebbe solo una manifestazione di desideri, un gesto di odio, di rabbia, quello che volete, del vaso pieno che trabocca, tutto questo va bene ma resterebbe una cosa limitata. La preparazione è di ordine morale – diceva Malatesta – ed è preparazione concreta. Darsi gli strumenti, di ragionamento e di azione, questo ci suggerisce Malatesta.
Andiamo al quarto pezzo.
Questa rivoluzione [Malatesta si riferisce a un discorso precedente in cui parlava dei diversi tipi di rivoluzione]... (vedere a p. ??).
Anche qua devo confessare che c’è un concetto che non mi trova d’accordo, il concetto di transitorietà. Qua siano all’interno del corpo – secondo me, forse gli specialisti di Malatesta mi bacchetteranno – del suo pensiero. Per Malatesta l’idea di transitorietà è importante. Il processo rivoluzionario è un processo che si pone e ci pone in una condizione di passaggio tra la vecchia società dell’oppressione e la nuova società libera del futuro. Malgrado il meccanismo implicito in questo ragionamento, che Malatesta preleva dai laboratori scientifici in circolazione all’epoca – teniamo conto che qui dentro c’è anche la conoscenza scientifico-filosofica dell’epoca, il meccanicismo scientifico dell’Ottocento, insomma tante cose che ovviamente è superfluo discutere adesso ma che sono importanti per capire il motivo per cui egli parla di “transitorietà”, non si tratta della transitorietà della dittatura del proletariato, badiamo bene, non si tratta affatto di condizioni in cui gli anarchici prendono e gestiscono il potere, per una periodo sia pure transitorio, ovviamente non possiamo addebitare a Malatesta un concetto così spurio e denso di significati tragici – malgrado tutto ciò egli insiste nel parlare di transitorietà. Oggi sappiamo come la società sia fondata su una serie di questi movimenti transitori, dove non c’è mai nulla di definitivo.
Quindi la violenza non ci garantisce nulla. Non è che il concetto della rivoluzione, avendo queste caratteristiche violente, riesce a risolvere il problema della gestione oppressiva della società e trasformare questa gestione in qualcosa di autonomamente libero. Non siamo davanti a una garanzia, secondo me non c’è mai nulla di sicuro. Difatti la molla che fa scattare la partecipazione di ognuno di noi, il mettere in gioco la propria vita, non è la certezza di quello che ci attende. Intendiamoci chiaramente, ragazzi, non è che noi siamo anarchici così come potremmo essere monarchici o berlusconiani. L’anarchismo è un modo di essere diverso, non è dato da una diversa opinione, ma è un radicale convincimento diverso. Noi siamo anarchici perché siamo diversi, diversi perché abbiamo preso coscienza, perché dentro di noi, dentro il nostro cuore, battono sentimenti diversi. Le nostre analisi ricevono una luce attraverso questo battere del cuore, questo sincronismo continuo che ci dice: “Guarda che tu sei nella società sbagliata, e che se non fai qualcosa perché questa società diventi, sia pure in parte, faccenda diversa, sia pure nebulosamente diversa, se non fai qualcosa in questa direzione, sei una merda”. E questo, badate, ve lo dite ognuno di voi, come me lo dico io, continuamente, ed è questa la molla, la dignità offesa, che ci spinge ad agire. Malatesta lo sapeva perfettamente.
Io non so se è giusto o sbagliato di per sé. Ma di cosa stiamo parlando? Stiamo parlando del fatto che il processo rivoluzionario si possa riassumere nella fase di passaggio della distribuzione dei mezzi di produzione. Io non so se sia questa la fase significativa della rivoluzione. Non lo so perché, per quello che posso capire di economia, i mezzi di produzione, per come si sono trasformati nel corso della gestione capitalista in cui viviamo tutti immersi bel al di là del naso, sono qualcosa di irrecuperabilmente perduto per noi. Il futuro non può utilizzare questi mezzi di produzione. Questo è il mio convincimento, ed è discutibile trattandosi di argomento che meriterebbe ben altri approfondimenti. Il capitale si è trasformato, se non altro a partire dagli anni Ottanta, con l’innesto dei processi informatici, in modo tale da non potere essere utilizzato. Quindi, secondo me, l’unica strada è quella di cominciare a distruggerlo. Questa è ovviamente la mia opinione, che vale quanto il due di coppe quando la briscola è a oro.
Parliamo del quinto pezzo.
Anche noi abbiamo... (vedere a p. ??).
Corresponsabili. Ecco balenare un altro concetto portante, secondo me, portante non solo per Malatesta ai suoi tempi, ma portante per noi oggi, il concetto di corresponsabilità.
Ognuno è responsabile delle proprie azioni. Corresponsabilità che vuole dire? Vuol dire che io critico il comportamento del compagno, se lo vedo insipiente e lo bacchetto? È forse questo il concetto di corresponsabilità? È forse un suggerimento perché io passi la mia vita a vedere quello che fanno gli altri e non quello che io stesso, nella mia miseria quotidiana, faccio? È forse questo il concetto di corresponsabilità? Non di certo, amici miei, perché ognuno è responsabile per quello che fa. Per cui, se un compagno ritiene che il suo astensionismo elettorale sia l’effettiva ed efficace azione contro il nemico di classe, solo lui può valutare la fondatezza di questa scelta, di questa sua opinione. Non può essere che qualcuno gli dica: “No, guarda, tu sei circoscritto, sei limitato, guarda che l’astensionismo elettorale è solo una piccola manifestazione di dissenso, non è bastevole perché si possa parlare di azione rivoluzionaria”. Questo concetto, che sembra peregrino, è invece estremamente importante, perché è molto diffuso all’interno del movimento il fatto di guardare nel piatto del commensale che sta vicino. Io sono stato tante volte accusato di avere inveito a destra e a manca, con questo e con quello, ma se qualcuno che si è spesso risentito, offeso, delle mie reprimende, le avesse lette per quello che oggettivamente sono, avrebbe anche capito che contenevano una parte iniziale in cui era sempre, costantemente, detto: “È estremamente importante il lavoro fatto da tutti i compagni, nei limiti della propria decisione di agire, anche il lavoro di informazione, di chiarimento, qualsiasi lavoro”, e che l’unica cosa che non mi trovava d’accordo era che questo lavoro, per avere migliore significatività esso stesso, per essere messo in una luce migliore, avesse bisogno di prendere le distanze – guardate che Malatesta dirà la stessa cosa tra poco – avesse bisogno di dire “Noi siamo questo ma non siamo quello”. Perché mai, era questo ciò che mi scatenava, spesse volte, ovviamente, in maniera inconsulta, perché i moti dell’animo non sono controllabili fino in fondo, siamo uomini, non siamo macchine. Ognuno è libero di fare il proprio lavoro rivoluzionario come crede, ma non è, secondo me, libero di indicare quello che fa un lavoro diverso dicendo: “No, quel tipo di lavoro non si fa, non è anarchico farlo”. Perché spesso, con queste apparentemente innocenti indicazioni, si forniscono al carabiniere ottime scorciatoie per arrivare prima nella strada maestra della repressione.
Un altro pezzo di Malatesta, che è del 1923.
Noi siamo per principio... (vedere p. ??).
Dice Malatesta, e questo si commenta da sé. Quante tesi vengono sviluppate perfettamente nella loro espressione e poi piombano giù, cadono davanti al fatto che chi le ha sviluppate, nella propria vita, non ha quella partecipazione totale, quel coinvolgimento del cuore che invece rendono significative quelle tesi, apportando loro la luce dell’umanità che dovrebbe essere presente in ogni sviluppo teorico, se non vogliamo che quest’ultimo diventi una semplice esercitazione universitaria.
In fondo, per agire, c’è da superare una soglia. Parliamoci chiaro, è una cosa che io fisicamente sento. Noi abbiamo delle soglie che ci circondano. Se io allungo la mano per toccare il petto nudo di mia sorella, avverto qualcosa che non funziona, ed è una “soglia”. Se io allungo la mano per impadronirmi di un oggetto che si trova sul banco di un orefice, se io entro – come mi è accaduto personalmente – io sono stato condannato per rapina a mano armata, quindi so perfettamente che vuol dire – in una gioielleria con la rivoltella in mano, devo superare una soglia, e non è la soglia del negozio del gioielliere, ma è una soglia psicologica che mi sta dentro. Cioè, devo superare una frattura morale.
In fondo noi abbiamo introiettato degli schemi rigidi. Se io al cinema mi siedo nella mia poltrona e sfioro il braccio di chi è seduto accanto a me, subito chiedo scusa, perché avverto una barriera che ho superato senza volere, una soglia che abbiamo introiettato da tanto tempo, da centinaia di anni, che mi fa divieto di toccare il corpo, sconosciuto, di chi mi sta vicino, e se lo faccio devo ovviamente scusarmi. Queste soglie che ci circondano ci impediscono anche di concretizzare realmente quello che affermiamo a parole, di realizzare nella nostra vita quotidiana quello di cui pur ci diciamo convinti. Se noi questa soglia non la superiamo – ovviamente non sto facendo un discorso di incitamento al furto, alla rapina o all’incesto – restiamo prigionieri di piccole cose minute della nostra quotidianità. In particolare sto riferendomi alla soglia precisa che separa quello che diciamo da quello che effettivamente siamo, che separa quello di cui siamo convinti da quello che effettivamente facciamo, che separa il volere essere dall’essere, rapporto che faceva morire dal ridere Hegel. Uno è quello che è, banalità tautologica di grande difficoltà a capire. Noi siamo quello che siamo e il volere essere qualcosa di diverso ci frega continuamente. Noi non dovremmo essere qualcosa di diverso da quello che siamo, io non vi sto dicendo di prendere coscienza e di diventare finalmente anarchici, perché voi siete anarchici, ma siete anarchici solo se siete anche capaci di diventarlo. Io sono anarchico solo se sono capace di diventarlo, se mi sforzo continuamente di diventare anarchico, non perché lo sono una volta per tutte e basta. Come se qualcuno un giorno mi avesse dato la patente di anarchismo.
Stiamo per finire, non vi prendete paura.
Adesso un breve passo di Malatesta del 1924.
Gli anarchici non hanno... (vedere p. ??).
E questo è veramente importante perché significa che la lotta violenta non si risolve con la rivoluzione. La lotta degli anarchici non finisce con la rivoluzione. Gli anarchici non sono sicuri di andare verso una società liberata, dove finalmente saremo tutti fratelli e in cui il senso stesso della parola anarchismo o anarchia verrebbe a mancare, perché in una società libera, in cui tutti sono liberi, che senso ha definirsi anarchici.
E invece perché io penso che avremo sempre bisogno di dirci, e di agire, da anarchici. Perché la società cosiddetta liberata avrà sempre bisogno degli anarchici in quanto dovrà essere sempre spinta verso un miglioramento che da sola potrebbe non realizzare.
Un altro pezzo riguardante i fatti del Diana. Si tratta della bomba che alcuni anarchici misero in un locale a fianco al teatro Diana causando il crollo di un muro e la morte di diverse persone.
[A proposito dei fatti del Diana] io dissi che… (vedere a p. ??).
Era un argomento delicato. Pensate che anche la stessa compagna di Malatesta era stata coinvolta in questo avvenimento. Qui Malatesta manifesta un grande equilibrio, senza svendere nessuno, senza inveire contro nessuno. Un uomo isolato. Io ho visto – essendo stato carcerato a San Vittore – le celle dove si trovava Malatesta, perché fanno passare anche oggi i detenuti davanti a questi tuguri ormai dismessi, che si trovano nella vecchia parte del carcere, per una sorta di corvée iniziatica e per terrorizzarli. Si tratta di celle bassissime simili a quelle usate dall’Inquisizione siciliana e che in Sicilia prendevano il nome di “dammusi”. In una di queste celle era prigioniero Malatesta e nonostante l’età e le condizioni di malattia dovute allo sciopero della fame, riusciva a trovare l’equilibrio intellettuale e morale per non saltar su con una condanna e una presa di distanza da quegli avvenimenti certamente delicati. Pensate agli equivoci determinati in epoca non lontana da noi dall’azione di Gianfranco Bertoli contro la questura di Milano, nel 1973. Nel corso dell’inaugurazione di un monumento al commissario Calabresi, l’uccisore di Pinelli, questo compagno, Gianfranco Bertoli, getta una bomba dentro l’atrio della questura, la bomba viene fatta rimbalzare dal calcio di un poliziotto che si trovava lì dentro e uccide quattro o cinque persone ferendone una trentina. Allora si scatenò un dibattito ferocissimo, e io stesso intervenni, non condannando l’azione, ma parlando di Bertoli e dicendo che quello che lui diceva di sé in una sorta di memoriale pubblicato dal settimanale “Gente”, settimanale per altro fascista, su decisione del suo avvocato, era incompatibile, inconciliabile con il concetto di “anarchico stirneriano”. Questo allora mi bastò, e ne faccio qui pubblicamente ammenda, per giudicare l’azione di un compagno e non cercare di capirla, cosa che invece riesce a fare Malatesta con molta più capacità e intelligenza rivoluzionaria di me.
E devo anche dire che lui conosceva Mariani e gli altri, mentre io non conoscevo Bertoli, e forse questa potrebbe essere una scusante, ma non lo è fino in fondo.
Successivamente, avendolo conosciuto per lettera e avendo intrattenuto con lui un carteggio di quasi due anni mi sono reso conto di trovarmi davanti ad una persona debole che mi ha fatto il grande dono di farmi capire che non è soltanto della forza che ho bisogno per insorgere e attaccare, anche singolarmente, il potere, ma che anche un debole può farlo.
Ora, se mi consentite, leggiamo l’ultimo pezzo di Malatesta, e abbiamo finito. Questo pezzo è importante perché costituisce la risposta che Malatesta dà a un articolo pubblicato su “L’Agitazione” da Fabbri. Questo articolo di Fabbri sviluppava una critica abbastanza feroce, anzi molto feroce, dell’azione dell’anarchico Czolgosz, che aveva ucciso con due pistolettate il presidente degli Stati Uniti McKinley.
McKinley, il capo dell’oligarchia… (vedere a p. ??).
Non trovo le parole adeguate per concludere dopo la lettura di questi passi di Malatesta. Io ci vedo una critica radicale del fatto che noi non possiamo pretendere di condividere qualcosa con il nostro nemico. Noi viviamo in una realtà in cui condividiamo quasi tutto con il nostro nemico, condividiamo tanto e così profondamente che parliamo la stessa lingua. Il linguaggio ci accorpa tutti e ci fa simili al nemico che ci opprime perché siamo obbligati a ragionare allo stesso modo. Cioè, quando noi cerchiamo, nel giornale che parla di quello che facciamo, e più spesso di quello che il redattore si immagina che noi stiamo per fare, e in questo cerchiamo di trovare un contenuto, una significatività, quale essa sia, siamo su una strada sbagliata perché il nemico non può parlare di noi in una maniera che non sia a esso congeniale, a esso e per esso significativa.
Dovremmo cominciare, secondo me, a renderci conto che abbiamo bisogno di una logica diversa. Non si può essere rivoluzionari e parlare e ragionare come fa il carabiniere. La parola ha un limite. Non è vero che noi, attraverso la parola riusciamo a dire quello che pensiamo, ma spesso attraverso la parola siamo capaci di nascondere, nel modo più occulto possibile, quello che pensiamo. Non è una frase mia questa, è una frase di Nietzsche con cui egli riusciva a darci una indicazione importante su questo punto così delicato che apre veramente le soglie del futuro. Il futuro sarà sempre di più riservato a un contrasto di gestione della significatività, non solo dei fatti, e quindi dell’informazione, ma anche dei concetti, di quello cioè che riusciamo a capire della realtà. E finché pretendiamo di utilizzare la parola, finché pretendiamo che la parola traduca in modo oggettivo i nostri pensieri, finché questa pretesa permane esattamente identica a quella di chi ci opprime, noi, secondo me, siamo sulla strada sbagliata.
Qua Malatesta ci dà una piccola indicazione. Ovviamente si tratta di un secolo fa, però ce la dà questa indicazione e dice: “Non può esserci accettazione di quello che dice il potere”. Stiamo attenti, perché se noi cerchiamo di essere simpatici al potere, di smussare quello che facciamo, quello che diciamo, perché il potere in un certo senso ci dia spazio, ci consenta che questo fare e questo dire possano continuare, siamo sulla strada sbagliata.
Questo concetto, in altre parole, che cosa significa? E anche questo Convegno stesso non può fare eccezione, anche quello che sto dicendo io non scappa a questa regola. Io sto parlando. Perché ho voluto parlarvi e non leggere la mia relazione, perché nella relazione mi illudo di essere riuscito a scrivere qualcosa che in un certo senso condivido, però quanto ho nascosto di quello che in effetti avrei potuto dire e non ho voluto dire. Mentre parlando, attraverso la parola, questo pericolo è minore, perché c’è una comunicatività, un afflato, un sentimento che cerchiamo di far passare dall’uno all’altro, quando ci stringiamo la mano, quando ci abbracciamo, ed è questo il momento più significativo, di maggiore tensione anarchicamente valida fra compagni, che ci fa sentire vicini, certamente al di là di quello che riusciamo a scrivere o a teorizzare in uno scritto.
Vorrei lasciarvi così e ringraziarvi dell’attenzione.
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