Prima edizione: febbraio 1982
Seconda edizione: novembre 2013
Traduzione dell’introduzione di Natale Musarra
La traduzione del testo, a cura della nostra redazione, è la stessa contenuta negli Scritti Minori, Trieste 2012.
Opuscoli provvisori n. 40
Max Stirner
Il falso principio della nostra educazione
Introduzione di Jean Barrué
Nota introduttiva alla seconda edizione
Il falso principio della nostra educazione o l’umanesimo e il realismo
Nota introduttiva alla seconda edizione
In tempi come questi, dove la funzione della scuola è sempre di più inchiavardata allo stretto indispensabile richiesto dal mercato del lavoro, da parte sua più avaro di quanto non sia mai stato, torna fondamentale la domanda: che farsene della cultura?
Nulla, verrebbe spontaneo rispondere. Se dobbiamo bruciare questo mondo vecchio e carico di melma politica, che bruci pure la cultura. Solo che per dar fuoco alle polveri non basta soltanto qualche sparuta cognizione di chimica o di balistica, non è solo un problema militare e nemmeno, per quanto possa sembrare strano, un problema di cuore. È anche un problema di testa, quindi di ragionamento, quindi, ancora e sempre, un problema di conoscenza, di cultura. La vecchia strega “ragione” tende i suoi artigli e cerca di ghermirci. Per non farci sorprendere impreparati dobbiamo rubarle il mestiere, entrare dentro di essa, impadronirci degli strumenti che possono servirci, buttare a mare il resto, per poi accingerci a fare esplodere tutto, quando sarà il momento opportuno, questa intollerante e quindi intollerabile società.
Ma la cultura, che dobbiamo possedere se vogliamo ribellarci, non ce la fornisce la scuola, non è una cultura istituzionalizzata. La scuola ha l’eterno difetto di formare bravi e ubbidienti sudditi, lavoratori, funzionari, cittadini, tutto quello che volete, non ribelli. Eppure una cosa la fornisce, involontariamente, beninteso, fornisce occasioni. Mette cioè a disposizione, di chi sa sfruttarli, alcuni strumenti che possono essere un aiuto per andare oltre nell’esproprio culturale di cui, per orecchie aperte, stiamo parlando.
E dello stesso argomento parla Stirner nel suo vecchio opuscolo. Non chiedere ma sottrarre per contrattaccare. Nessuno si sogni discorsi “entristi”, non di questo stiamo parlando. Non diventare professori o arcani distributori di conoscenza, ma uomini coscienti, quindi ribelli contro una condizione di vita che definire soffocante sarebbe poco.
Le barricate non si costruiscono con vecchie cianfrusaglie ma con nuove idee, questa è la vera dinamite dei cui bagliori si illumineranno le notti del futuro.
Trieste, 20 novembre 2011
Alfredo M. Bonanno
Introduzione
Niente pare più naturale che vedere Stirner interessato al problema educativo: i suoi studi, la sua formazione intellettuale, la carriera scelta l’orientavano per questa strada. In realtà però non fu tutto così semplice. Giovanissimo orfano di padre, una madre risposata e che doveva soccombere alla follia, una giovinezza offuscata dalla situazione familiare e la malattia: Stirner non conobbe la vita facile dello studente di famiglia agiata, di un Goethe o di un Marx. Dopo otto anni di studi secondari al liceo classico di Bayreuth, comincia a vent’anni i suoi studi universitari a Berlino e, in otto anni frequenta le università di Berlino, Erlangen, Königsberg e di nuovo Berlino. A ventotto anni, bisogna pensare, quando non si è ricchi, a farsi largo nella società, ad acquistare una indipendenza materiale: per chi ha studiato filosofia e filologia non resta che il posto di professore in un liceo. Stirner non ha niente dell’arrivista, non fa parte di quegli studenti che entrano nelle grazie dei professori, non ha né relazioni né raccomandazioni. Egli ha di già interpretato due parti nella vita: una esterna, professionale, ed una interna, la sola autentica. Questo giovanotto sempre corretto nella sua tenuta, riservato, poco flessibile, che ascolta molto e parla poco, portato all’ironia e non esente da una traccia di pedanteria, ha nonostante tutto uno spirito ribelle ad ogni legge, ad ogni idea fissa e ad ogni fantasma. Esisterà un Johann Caspar Schmidt che si guadagnerà il pane quotidiano nell’“insegnamento” ed un Max Stirner che forgerà la sua personalità, affermerà il proprio Io e si farà valere per quel che è.
No, Stirner non ebbe la vocazione dell’insegnante, e malgrado i suoi sforzi tenaci, non arrivò al professorato di liceo. Nel giugno 1834, a Berlino, le prove scritte dell’esame, condotto su cinque discipline, mettono in evidenza delle lacune, ma la dissertazione su “Le leggi della scuola” – soggetto pochissimo stirneriano! – è giudicata favorevolmente. Nell’aprile 1835 le prove orali sono nettamente insufficienti e Stirner ottiene solo la Facultas docendi limitata, che non apre le porte dell’insegnamento pubblico. Un’ultima possibilità: fare un tirocinio di un anno, non retribuito, e brigare poi per un impiego. Stirner commise senza dubbio una balordaggine scegliendo la sola Realschule esistente a Berlino, istituto dove si sperimentavano metodi differenti da quelli dei licei classici e che non era visto di buon occhio dal governo. Perciò nessuno rispose, in alto loco, alla domanda d’impiego che formulò nel marzo 1837. Non restava altro allo sfortunato candidato – a 31 anni! – che trovare un impiego nell’insegnamento privato. E dal 1839 alla fine del 1844, Stirner diviene professore di letteratura in un pensionato per ragazze della “buona società”, diretto dalla signora Gropius. Là condurrà una doppia esistenza: come Stirner frequenterà i “Liberi”, scriverà nei giornali della sinistra hegeliana, comporrà L’unico; come Schmidt commenterà le tragedie – oh! quanto morali! – di Schiller alle sue allieve attente che per altro amavano molto quel loro professore...
Come! diranno le bestie diplomate, ecco un fallito dell’università che si appresta a dissertare sui principi dell’educazione! Un professionista del fallimento che non ha mai potuto accedere al titolo di dottore, traguardo tradizionale, in Germania, per gli studi universitari regolari! Ed il Dott. Karl Marx saprà ironizzare pesantemente a tal proposito. Argomento ridicolo perché, altrimenti, sarebbero privi di ogni valore sia l’Émile di Rousseau che il celebre saggio di Montaigne sull’Institution des enfants. Sottolineamo inoltre che non interessano affatto a Stirner i programmi, i piani di studio o gli orari, cavallo di battaglia degli universitari incartapecoriti. Sa che non sono che ciance sterili destinate a mascherare il vero problema: qual è il fine della nostra educazione? Non importa tanto quel che si insegna, ma come e perché viene insegnato. Centotrent’anni sono trascorsi dall’articolo di Stirner e, da centotrent’anni, non c’è ministro di una possibile Pubblica Istruzione che abbia risposto a tale problema.
Stirner non poteva passare sotto silenzio le relazioni allievi-professore che sono elemento importante dell’insegnamento collettivo. Si può vedere qui una prefigurazione di quella coesistenza tra unici, di quella associazione di Egoisti di cui Stirner parlerá ne L’unico. Si sa che il vocabolario stirneriano distingue tra la società (Gesellschaft) e l’associazione (Verein). La società (Stato, Partito) limita la libertà ed opprime la personalità. L’associazione limita la libertà dei partecipanti ma lascia svilupparsi liberamente la loro personalità: “il fine dell’associazione, dirà Stirner, non sta nella libertà che anzi sacrifica alla individualità, ma nell’individualità medesima. Equilibrio difficile quanto quello che deve stabilirsi tra il gruppo degli allievi e il professore e che, limitando la libertà degli allievi – e del professore – non deve ostacolare l’estrinsecarsi della personalità: non si deve umiliare l’orgoglio e la dignità del fanciullo. La libertà che mi è propria mi mantiene sempre al riparo della sua arroganza. Se l’orgoglio degenera in arroganza, il fanciullo potrebbe farmi violenza. Ora, io che sono un essere libero quanto lui, non fatico nel tollerare ciò. Bisogna per questo che cerchi la mia difesa dietro il comodo baluardo dell’autorità? No, opporrò la durezza della mia propria libertà e l’arroganza dei piccoli si spezzerà da sé”. Testo perfettamente lucido che contiene la condanna senza appello del classico professore “contestato” che si rifugia nelle braccia dell’Amministrazione dispensatrice di sanzioni, punizioni e richiami all’ordine! Eppure qui la contraddizione che nasce tra le volontà antagoniste dell’allievo e del professore non si risolve secondo la dialettica hegeliana. L’elemento negativo (volontà dell’allievo) cozza con l’elemento positivo (volontà del professore), ma Stirner non sembra prospettare una sintesi (negazione della negazione), ma piuttosto una vittoria dell’elemento positivo. Il superamento della contraddizione sarebbe precisamente l’associazione, quale Stirner la definirà ne L’unico. Tale associazione non può nascere che da una fiducia reciproca che esiga dal professore ascendente morale e grande amicizia. O altrimenti bisognerebbe prospettare – ed è qui la concezione proudhoniana della contraddizione – “che l’equilibrio fra due volontà indipendenti sia passeggero, fragile, perpetuamente rimesso in causa”.
Ad ogni modo, la conclusione di Stirner delude un poco: si sentiva forse inferiore al ruolo di pedagogo ideale? Aveva forse coscienza dei conflitti esacerbati che potevano nascere tra gli allievi e se stesso? Si troveranno nelle opere di Mackay e di Ruest gli apprezzamenti della giuria all’esame orale sostenuto da Stirner: eloquio monotono che alla lunga stanca, nessun dialogo con gli allievi, lezione che langue ed addormenta. Si ritrova l’uomo che vive interiormente, al quale ripugna ogni scambio di idee con l’uditorio, che parla con se stesso: di volta in volta, pudore e timidezza. Penso – ma posso sbagliarmi! – che Stirner conoscesse i suoi difetti, che si sapesse incapace di essere quel professore ideale di cui concepiva chiaramente la missione, e che, nel caso di conflitti possibili – se non certi – con i suoi allievi, non avrebbe avuto altro da opporre che la durezza della propria libertà.
All’epoca del suo primo soggiorno a Berlino (1826-1828), il giovane Stirner aveva seguito con assiduità le lezioni di Hegel. Dal 1818 Hegel occupava all’Università di Berlino la cattedra di Fichte e, fino alla morte sopraggiunta nel 1831, appariva sempre più come la guida intellettuale delle generazioni di studenti oltre che come il filosofo ufficiale dello Stato prussiano. Non è solamente “ai Tedeschi che Hegel ha insegnato a pensare ‘storicamente’”, ma la sua influenza oltrepasserà largamente le frontiere della Prussia. Si sa con quale passione Bakunin ed i suoi amici s’immersero a San Pietroburgo nella filosofia hegeliana e come il saggio di Bakunin sulla Reazione in Germania, pubblicato nell’ottobre 1842 dalla “Gazzetta Renana”, porti il segno distintivo della dialettica hegeliana. Tutto il radicalismo filosofico tedesco da Feuerbach ai Giovani hegeliani, da Stirner a Marx, non si concepisce senza un costante ricorso ad Hegel. La filosofia hegeliana afferma l’egemonia dello Spirito: “la storia universale si compie nel regno dello Spirito [...]. Il regno dello Spirito ingloba tutto; avviluppa tutto ciò che ha suscitato e suscita ancora l’interesse umano”. Stirner si leverà nel L’unico ad una critica spietata di questa onnipotenza dello Spirito. Condannerà lo Spirito assoluto di Hegel e la sua ultima metamorfosi, l’Uomo, l’Essere generico di Feuerbach. “Il rispetto per lo Spirito – dice – perpetua l’alienazione religiosa. [...] Poiché lo Spirito non s’identifica né col mio spirito né con me stesso, mi sento obbligato ad ammettere che esso è una creazione ex nihilo, una finzione di cui sono io stesso l’autore”.
È interessante precisare in quale misura il saggio di Stirner, apparso nel 1842, mostri una rottura con l’hegelismo e quali ne sono state le tappe. Non conosciamo alcunché della vita interiore di Stirner: né confidenze fatte ad amici né corrispondenza. Il solo elemento del quale disponiamo prima dell’articolo del 1842, è la dissertazione sulle leggi scolastiche della quale Mackay ha potuto ritrovare qualche frammento. Quando Stirner tornò nel 1832 all’Università di Berlino, il professore Trendelenburg aveva rimpiazzato Hegel; anti-hegeliano convinto, tenterà di minare l’influenza del suo predecessore. Quindi, se la dissertazione di Stirner è d’ispirazione hegeliana è solo per scelta deliberata dell’autore e non per compiacenza a Trendelenburg, suo esaminatore. Quest’ultimo del resto non fece l’errore di rimproverare al candidato il suo assoggettamento a formule e concetti rigidi. La legge, dice Stirner, non può essere imposta dall’esterno, ma deve rispondere alla natura intima di ogni allievo. Bisognerebbe dunque, innanzitutto, definire il concetto di “allievo” e studiare il suo contenuto. Stirner pone a priori l’autonomia dell’allievo: dunque chi vuole assumere la direzione dell’allievo è legato alla natura ed alla individualità di questi e perde in autorità finché Scienza o Sapere rimangono un dovere riconosciuto in quanto tale. A Stirner concludere affrettatamente: “il regno della Scienza, la sua suprema missione, è la libertà”.
Tale conclusione è evidentemente ben poco hegeliana, poiché, secondo Hegel, la coscienza di sé e la realizzazione della libertà non sono che delle forme astratte dello Spirito e sono vuote di senso se le si priva del contenuto positivo delle leggi. Il Falso principio segna un nuovo passo verso la rottura con Hegel. Certo l’insieme esposto è conforme alla dialettica della triade. L’elemento positivo (il Sapere nato dall’umanismo), entra in contraddizione con l’elemento negativo (il Sapere nato dal realismo), finché il Sapere morirà e resusciterà come Volontà da compiersi nella luce scintillante della persona libera. Lo schema tradizionale hegeliano non ci deve nascondere la differenza essenziale che esiste tra la Volontà stirneriana e la Volontà hegeliana. Per Hegel l’individualità non esiste che contemporaneamente allo sviluppo dell’idea universale, non ha senso se non inserita nella Storia: l’uomo non ha autonomia reale. “Gli individui spariscono ai nostri occhi e non hanno valore se non nella misura in cui hanno realizzato quello che reclamava lo Spirito del popolo. [...] Lo Spirito del popolo non è altro che lo Spirito universale assoluto, solo esso è Unico”. La Volontà hegeliana non è quindi una volontà personale, una volontà di contestazione e di opposizione, ma una volontà di accordo con la collettività, cioè con lo Spirito del Mondo. “È assai probabile, dice Hegel, che l’individuo subisca delle ingiustizie, ma ciò non concerne la storia universale e il suo sviluppo, del quale gli individui non sono che i servi, gli strumenti”. Si nota qui quanto Stirner si distacchi da Hegel facendo della Volontà un attributo essenziale dell’individuo, tale da condurlo alla conquista della libertà e della personalità. Il saggio di Stirner, nella sua forma concisa, annuncia di già L’unico: “ogni libertà è soprattutto una auto-liberazione, infatti io non posso avere più libertà di quella che mi procura la mia personalità”.
Da notare tuttavia qualche dissonanza, una certa compiacenza verso la terminologia hegeliana, che non si ritroverà più ne L’unico. Ho in mente questo passo: “l’Umanismo ed il Realismo non hanno poteri che sul temporale. Soltanto lo Spirito che ha coscienza di sé è eterno”. Formula che si rifà un po’ troppo ad Hegel: “Lo Spirito è cosciente soltanto e nella misura in cui ha coscienza di sé”.
È importante, per evitare ogni confusione, precisare il senso del vocabolario stirneriano: umanismo, realismo, dandysmo, industrialismo, personalismo. Gli umanisti sono coloro i quali vogliono un insegnamento basato essenzialmente sullo studio delle lingue antiche e non accordano alle scienze e alla tecnologia che un credito irrisorio. I realisti, al contrario, si orientano verso lo studio delle scienze teoriche e sperimentali, in vista di una formazione tecnica e professionale. Il termine “realista” non necessita di alcuna particolare interpretazione se si considera soprattutto che in Germania per Realschule si intende sia la scuola primaria superiore, sia la scuola professionale, o più in generale ogni scuola in cui si dispensi un insegnamento “moderno” (denominazione francese per designare un insegnamento senza latino e senza greco). Stirner impiega il termine “umanismo” in un senso invece molto particolare e che evoca la vecchia espressione francese: faire ses humanités, cioè percorrere nell’insegnamento classico il ciclo delle tre classi dette d’umanistica, di retorica, di filosofia. Perciò nessun rapporto con l’Umanesimo, quella corrente di idee che nasce nel XVI secolo, con la Riforma di Lutero, con Erasmo e l’evangelismo di Lefèvre d’Etaples e continuerà con Marguerite d’Angoulême, Rabelais, i poeti della Pléiade e Montaigne. Questi umanisti erano certamente stati nutriti di lettere antiche, ma non ne avevano conservato che la forma e le eleganze stilistiche. In un secolo colmo di violenze e d’intolleranza, rappresentarono il progresso, la ragione, la tolleranza, ed affermarono princìpi pedagogici singolarmente rivoluzionari per l’epoca: tanto da risultare egualmente sospetti e alla Chiesa e alla Riforma! È spiacevole che Stirner, sospinto da una mania di semplificazione, abbia taciuto su questi precursori. Nel 1549, Joachim du Bellay pubblicò nella sua Défense et Illustration de la Langue française, un brano che stupì fortemente i “realisti” del 1842: “Pensando più volte da che derivi il fatto che gli uomini di questo secolo generalmente sono meno sapienti in tutte le scienze, tra molte ragioni trovo quella, che oserò dire la principale, dello studio delle lingue greca e latina. Perché se il tempo che consumiamo nell’apprendere le suddette lingue fosse impiegato nello studio delle scienze, la Natura di certo non sarebbe divenuta così sterile da non far partorire al nostro tempo dei Platone e degli Aristotele”. (I, 10).
E bisogna qui ricordare il celebre saggio di Montaigne sull’Institution des enfants (Saggi, I, 26) scritto nel 1579? Libero sviluppo della personalità, formazione del giudizio, condanna dell’insegnamento dogmatico che si fonda sull’autorità e che fa appello alla sola memoria, legame tra insegnamento e vita: tutto quello che Stirner reclama si trova di già in Montaigne. E non è forse stirneriano quel “discorso” di Montaigne in cui si ritrova il famoso “Fatti valere per quel che sei!” (Verwerte dich) di Stirner? “La mia arte ed il mio lavoro sono stati impiegati a farmi valere per quel che sono, i miei studi, ad apprendere a fare, non a scrivere. Ho posto tutti i miei sforzi nel creare la mia vita”. (II, 37).
Veramente gli Umanisti del XVI secolo valevano ben più dell’oblio. Ci si potrebbe stupire anche di una particolare affermazione di Stirner: il periodo che va dalla Riforma alla Rivoluzione è quello in cui trionfa l’umanismo (nel senso datogli da Stirner), ed è anche un’epoca di servilità, di assoggettamento dell’individuo. In effetti, molto prima del 1517, a trionfare era la scolastica, l’autorità di Aristotele, l’egemonia della Sorbona nel dominio della fede e delle idee. Lungi da me il pensiero di difendere la Riforma e di vedere in essa, come credeva Hegel, un passo decisivo verso la libertà. I giovani hegeliani accusavano le Chiese protestanti di avere, più ancora del cattolicesimo, asservito l’uomo: sottomissione alla gerarchia ecclesiastica nel cattolicesimo, sottomissione ancora più stretta alla coscienza nel protestantesimo. Stirner, mantenendo la promessa fatta nel suo saggio, si è trattenuto lungamente sul ruolo nefasto della Riforma, ne L’unico (capitolo intitolato “La Gerarchia”): “Dal fatto che per il protestantesimo la fede è divenuta più interiore consegue che la servitù egualmente è divenuta più interiore”. “Il protestantesimo ha propriamente organizzato nell’uomo una vera polizia occulta. Lo spione, la vedetta Coscienza sorveglia ogni movimento dello spirito, ed ogni gesto, ogni pensiero e ai suoi occhi un suo affare, un affare di coscienza, dunque un affare di polizia”. Si può allora ammettere, con Stirner, che la Riforma collabora effettivamente con l’umanismo (nel senso stirneriano) nell’accrescere la servitù, ma tra di essi non vi è altro legame reale.
Giunge il giorno in cui i sistemi filosofici, i sistemi educativi, le culture conoscono l’usura del tempo. Se ne dimentica lo spirito per conservarne la lettera. Si ripetono per abitudine formule stantie e non rimangono del passato che riti derisori presso sepolcri vuoti. Tale è stata la sorte, ci dice Stirner, dell’umanismo e del realismo: essi sono in piena decrepitezza e, cangiando di continuo, si trasformano alla fine nel dandysmo e nell’industrialismo. Ci si può stupire della scelta di questi due termini per designare le caricature dell’umanismo e del realismo: tenterò adesso di spiegare le ragioni di Stirner... con tutti i rischi di errore che ciò può comportare!
Il dandysmo ha preso vita in Inghilterra verso il 1815. Il dandy – l’origine del termine sembra sconosciuta – appartiene alla “gioventù dorata” ed è famoso per la sua suprema eleganza, l’eccentricità del suo vestire, il colore appositamente studiato del suo abito o della sua redingote. Egli aspira a divenire, come George Brummel, il Re della moda ed è, nel 1830, il modello a cui si ispirano a Parigi e nelle grandi capitali i figli di buona famiglia ed i fashionables. Parla di cavalli e di donne, è disinvolto, impertinente, ironico, volontariamente empio, ma sempre conservatore e benpensante in politica: simile al Mardoche di cui Alfred de Musset traccia il ritratto nei Contes d’Espagne et d’Italie. Lo stesso Musset viene considerato un dandy, ne ha l’aspetto esteriore, sebbene in un articolo del “Temps” giudicherà severamente l’aridità di cuore di questi giovani “che hanno imparato a fregarsene del mondo intero”. Il dandy ha frequentato i collegi classici, ha un’infarinatura letteraria, può citare dal latino, ignora tutto delle scienze ma ha fatto le sue brave dissertazioni. Musset non ha forse ottenuto un secondo premio di dissertazione latina al Concorso generale? Sì, davvero il dandy, annuncia la suprema decadenza dell’umanista: ecco perché la scelta di Stirner.
Se Stirner fosse vissuto a Parigi avrebbe potuto opporre al dandy il bousingot che, affetto da opinioni democratiche, indossa solo redingote alla brandeburghese e non porta biancheria fine e appariscente perché quella la usano solo i borghesi. Non sorrideremo di questi dettagli d’abbigliamento: di già, in quei tempi lontani, le opinioni politiche portavano un’uniforme... Stirner non aveva niente del dandy o del bousingot: si vestiva con una cura meticolosa, ma senza pretese. Ne L’unico doveva poi giudicare severamente gli studenti scalcinati che popolavano il club dei “Liberi”: “I cattivi soggetti, gli studenti chiassosi e miscredenti che sfidano ogni convenienza, non sono propriamente che dei filistei. [...] Sfidare le convenienze con fanfaronate, com’essi fanno, è ancora un conformarsi, e, se volete, un conformarsi al negativo”. Non ci stupiamo se, come racconta Mackay, Stirner venisse a volte scambiato per un dandy, “poiché già il fatto di essere vestito correttamente, sebbene semplicemente, bastava per essere trattato da zerbinotto”. Immagino che Stirner abbia messo nell’uso del termine “dandysmo” una certa ironia... e forse una punta di amarezza.
Industriale? Industrialismo? Ci si può stupire della scelta singolare di queste parole, ed è ben evidente che Stirner non intende qui il proprietario d’officina o di manifattura. Credo che bisognerebbe vedervi piuttosto un’allusione diretta alla scuola sansimoniana, come tenterò appunto di precisare. Anselm Ruest – Max Stirner, Leben, Weltanschauung, Vernächtnis, Berlin-Leipzig 1906 – insiste sulle affinità che esistevano certamente tra Stirner ed Heine: “Non vi è dubbio, Heine non aveva allora in Germania possibilmente che un solo amico, Stirner”. Essi avevano in comune l’odio per il fanatismo e per la superstizione, condannavano ambedue nel cristianesimo il rifiuto della gioia di vivere che, soffocando la sensualità calda e colorata, ha fatto dei suoi adepti dei pallidi fantasmi. Tutt’e due vedevano anche nel comunismo un’eguaglianza nella miseria ed una nuova tirannide. Heine aveva fatto conoscere in Germania le teorie di Saint-Simon che tendevano ad una riabilitazione della materia, prevedendo l’immenso avvenire della tecnica, il conseguente rovesciamento della società e la risoluzione della “questione sociale”. Teorie che si opponevano irriducibilmente all’idealismo della teoria tedesca. Allorché Saint-Simon morì, nel 1825, i suoi discepoli continuarono l’opera del Maestro ed organizzarono a partire dal dicembre 1828 una serie di conferenze, la maggior parte delle quali con la conduzione di Bazard. Redatte in seguito da Hippolyte Carnot, esse apparvero alla fine del 1830 sotto il titolo Exposition de la doctrine saint-simonienne. Verosimilmente Stirner ha conosciuto quest’opera, e sarebbe perlomeno strano se lui, che ha letto i1 primo libro di Proudhon, che ha tradotto nel 1845-1846 J. B. Say e Adam Smith, avesse ignorato Saint-Simon. Certo, nel 1842 la scuola sansimoniana, rovinata dalla follia mistica di Enfantin, non era più che un ricordo. La religione sansimoniana aveva fin dal 1832 spezzato l’unità della scuola ed Heine, allora a Parigi, poteva infischiarsene della predicazione dei preti della nuova religione in occasione dell’epidemia di colera del 1832 (vedi: articolo sull’“Augsburger Allgemeine Zeitung”, datato da Parigi, 19 aprile 1832). Non rimane da dire che l’influenza dei sansimoniani è stata immensa e che, ingegneri, finanzieri o amministratori, essi sono stati alla testa di tutte le grandi imprese del XIX secolo.
È nel 1817 – se si crede ad Enfantin – che Saint-Simon inventa la parola industriale e l’impiega correntemente: due delle sue opere portano i titoli di Système Industriel e Catéchisme industriel e, poco dopo la sua morte, appariranno le Opinions littéraires, philosophiques et industrielles. Per Saint-Simon la società ha come fondamento l’industria. Egli vede nell’uomo non il consumatore ma il produttore (o ancora l’imprenditore, l’industriale). Oppone quindi i produttori agli oziosi e la sua classe industriale – o questo partito industriale – comprende perciò tutti quelli che giocano un ruolo effettivo nella produzione: operai, ingegneri, padroni d’azienda, ai quali aggiunge i banchieri ed i lavoratori intellettuali, i sapienti, gli artisti. La produzione di cose utili è il solo fine ragionevole e positivo che le società politiche possono proporsi. Lavorare per produrre: questo è l’imperativo. La scuola sansimoniana prospetta un sistema educativo che deve scoprire e formare le capacità di coloro che avranno un ruolo di gestione e di direzione. Da qui l’insegnamento generale e professionale che conduce a tre tipi di Grandi Scuole, dalle quali usciranno gli artisti, i dotti e gli industriali propriamente detti. Ricordiamo infine che dal 1816 al 1819 Saint-Simon edita la rivista “L’Industrie” dove glorificava la classe industriale, la sola classe della società di cui noi vorremmo vedere accrescersi l’ambizione e il coraggio politico.
È evidente che questa glorificazione del lavoro, diventato per l’individuo un’idea fissa, un fantasma, si scontra con le idee di Stirner. Rinvio il lettore al capitolo de L’unico intitolato “Gli affrancati”: “il principio del lavoro ha per effetto di mantenere l’individuo che lavora nella sensazione che l’essenziale di se medesimo è il ‘lavoratore’ privo di ogni egoismo, il lavoratore che si sottomette alla supremazia di una società di lavoratori”. E Stirner si leva contro la concezione del liberalismo umanitario per il quale il lavoro ha per oggetto l’Umanità ed il suo progresso. Si comprende che “industriale”, come lo definisce Saint- Simon, rappresenta agli occhi di Stirner l’ultima – e sinistra – trasformazione del realismo; il Sapere è messo al servizio della tecnica, del progresso economico, di un’umanità astratta: non è più questione di vera cultura, di volontà libera o di personalità. Industriale, industrialismo: queste parole improntate al linguaggio corrente della scuola sansimoniana rappresentano qui i termini antitetici di dandy e di dandysmo. Ultime trasformazioni – quanto caricaturali! – di quell’umanismo e di quel realismo di cui il venerabile professore Heinsius sognava l’impossibile conciliazione.
Quel che Stirner condanna nell’umanismo e nel realismo non sono le lingue antiche o le scienze, ma l’abuso che se ne è fatto a causa di spiriti limitati e di pedagoghi abitudinari. Si può e si deve tirare fuori dagli autori greci e latini altre cose che la superstizione della forma e il culto delle eleganze sorpassate. Le critiche di Stirner contro la degenerazione dell’umanismo si ricollegano a quelle di Rabelais e di Montaigne e saranno riprese da Nietzsche: in ciò Stirner si mostrò difensore del vero ideale classico.
Il Sapere – quale che sia il rapporto dell’umanismo o del realismo – non deve essere un carico, un semplice ingombro dello spirito. Sarà assimilato liberamente e non inculcato dogmaticamente per via d’autorità, e solo così potrà divenire Volontà. Conseguentemente potrà espandersi la personalità. Ciò che Stirner intende per personalismo è appunto l’estrinsecarsi della personalità. Presso il fanciullo essa dipende dall’ambiente familiare e scolastico, ma è anche il risultato di disposizioni innate: bisogna allora che queste disposizioni non siano soffocate e che la scuola non diventi – come accade troppo sovente – la tomba delle personalità originali.
Infine è certo che non si può identificare il personalismo stirneriano col personalismo di Emmanuel Mounier che, rifiutando sia il culto hegeliano dello Stato che l’individualismo di Stirner – come pure quello di Kierkegaard – afferma che la persona è altra cosa dall’individuo o da un qualsiasi elemento anonimo di una società totalitaria, e che pertanto essa è ben al di là dell’individuale e dell’universale.
Si è così spesso parlato dell’influenza di Stirner su Nietzsche che mi si scuserà se avvicinerò una volta di più questi due nomi. Alcuni – ad esempio il filosofo von Hartmann – vedono in Nietzsche un plagiario di Stirner, il che è un modo di denigrare Nietzsche; altri, come A. Levy, negano ogni influenza di Stirner. È possibile comunque adottare un punto di vista più sfumato, quello di Ch. Andler (Nietzsche. Sa vie et sa pensée, Paris 1920): Nietzsche ha letto L’unico e tiene in grande considerazione Stirner, ma le rassomiglianze tra i due sono evidenti solo in certi scritti minori di quest’ultimo (Arte e Religione)... che erano introvabili all’epoca di Nietzsche. Tutti e due hanno la qualifica di individualisti, ma ciò non basta per confondere il Superuomo con l’Unico, e Ruest ha ragione di scrivere: “Osservando meglio ci accorgiamo che Nietzsche non può essere considerato, in alcun caso, come un continuatore di Stirner: è solamente a causa di una rassomiglianza e di un accordo fra certi temi fondamentali che si può metterli entrambi in parallelo”.
Evocare Nietzsche a proposito del saggio di Stirner è perfettamente giustificato dalle cinque conferenze (il ciclo restò incompiuto) che Nietzsche fece a Basilea sull’avvenire dei nostri istituti d’istruzione. All’età di 28 anni, professore di filologia classica all’Università di Basilea, il conferenziere conobbe in quel debutto del 1872 un grande successo: “Le mie conferenze – scrive al suo amico Rhode il 28 gennaio – hanno fatto veramente sensazione e scatenato grande entusiasmo”. Nietzsche esponeva le proprie idee senza la minima concessione: “Non conto far grazia a nessuno delle conseguenze pratiche delle mie opinioni!”. (Lettera a F. Ritschl, 30 gennaio 1872). E s’impegnava in una violenta critica dell’insegnamento secondario e superiore in Germania, insegnamento che avvilisce la cultura e forma buoni funzionari – cittadini utilizzabili, avrebbe detto Stirner – e non uomini liberi e colti. Nietzsche si batte anche contro la pretesa di esigere una cultura che sia classica e scientifica al tempo stesso. Perché è impossibile per dei giovani spiriti accedere alla cultura classica (si riferisce in particolare all’ellenismo) e possedere al tempo stesso la scienza. Non bisogna avere delle ambizioni smisurate: ci si contenterà nei licei di ispirare alla gioventù quella nostalgia che fa sognare le rive della Grecia con gli occhi dello spirito, o di preparare uno stato d’animo scientifico. Nietzsche sottolinea anche l’assurdità dell’esercizio scolastico della dissertazione praticato ad un’età troppo precoce. Quel che il maestro biasimerà nei lavori dei giovani allievi, sono gli eccessi di forma e di pensiero, tutta freschezza dovuta anzi, rivelatrice dell’individuo. Reprimendo ciò che è personale, proponendo d’autorità un modello affatto originale, il maestro soffoca la personalità: ritroviamo qui una preoccupazione essenziale di Stirner.
Così, tanto per Nietzsche che per Stirner, l’educazione dovrebbe favorire la formazione di personalità e non di funzionari servili. Scopo ultimo è condurre alla vera cultura e non a diplomi “redditizi”, fare uomini liberi e non servi di Stato, di quello Stato del quale Nietzsche ricorda ironicamente la definizione hegeliana: un organismo assolutamente perfetto.
Il Sapere, dice Stirner, ha troppo valore perché lo si impieghi per fini pratici e per fare carriera. Si potrà obiettare che vi è qui contraddizione con certe idee espresse ne L’unico: “Il Sapere è fatto per essere utilizzato. [...] Si sente spesso citare come un esempio ignobile di egoismo pratico il caso di coloro che fanno dei loro studi un mezzo di sostentamento. Francamente, colui che non sa impiegare la Scienza a nient’altro che a guadagnarsi da vivere, non tradisce che un egoismo del tutto insignificante. [...] Ma bisognerebbe essere possidenti per biasimare in ciò l’egoismo e la prostituzione della Scienza”. La contraddizione è solo apparente. Stirner condanna l’uomo concreto che fa della Scienza un’idea fissa, che ne diventa schiavo, che non sa gioire della vita e che è in preda a preoccupazioni meschine che ne soffocano la personalità, il suo Io. Bisognerebbe entrare ed uscire a piacimento dal dominio della Scienza. La Scienza non è fine a sé, è soltanto un mezzo per godere del proprio Io. Per l’egoista cosciente, per l’Unico, “ogni cosa non è che un mezzo di cui egli è, in ultima analisi, il fine”.
Un cittadino sottomesso e utilizzabile: tale è – e più ancora che all’epoca di Stirner o di Nietzsche – il figlio ideale dell’educazione ufficiale. Mai si è tanto parlato di collegare l’Università all’economia, della preparazione dei futuri quadri necessari all’espansione industriale. La tecnica moderna ha bisogno di tecnici e non di uomini liberi o di personalità volontarie. Troppi giovani proseguono studi letterari che non sono “redditizi”, che non offrono “sbocchi”. Frequenta l’Insegnamento tecnico, gli istituti tecnologici: là si sarà davvero utili e ci si “guadagnerà da vivere”! Jean Fourastié (Fallite de l’Université, Paris 1972) ha potuto riassumere così la missione dell’Universià: “La struttura dell’insegnamento superiore e le dimensioni degli istituti di insegnamento, la natura delle materie insegnate devono evolversi secondo le previsioni di impiego a medio e lungo termine, in modo da non lasciare che si creino degli scarti catastrofici tra la formazione imposta agli studenti e le mansioni che devono esercitare per sostenere il mercato nazionale ed internazionale”. È un testo che bisogna leggere pesandone tutti i termini, ed il lettore comprenderà d’un colpo perché il saggio di Stirner resti attuale, centotrent’anni dopo la sua apparizione!
Per finire dirò qualche cosa sulla prima traduzione in lingua inglese dello scritto di Stirner. Essa a apparsa nel 1967 a Colorado Springs (USA) presso l’editore Ralph Myles a cura di Robert H. Beebe, con introduzione e note di James Martin. Quest’ultimo ne analizza il testo e mostra come l’educazione concepita da Stirner sia lontana dall’immagine stereotipata e caricaturale del maestro di scuola prussiano, popolarizzata da generazioni di germanofobi. La Germania non è la sola ad essere messa in causa: e l’autoritarismo repressivo delle scuole inglesi? e la rigidità del sistema nazionale di educazione in Francia? e le scuole dei paesi comunisti? Henry L. Meucken poteva scrivere nel febbraio 1933 sul “The American Mercury”: “In ogni epoca, i pedagoghi sono stati i più mortali nemici di ogni impresa intellettuale autentica”. Nell’ottobre 1934 il professore Howard K. Beale pubblicava nell’“Harper’s Magazine” un articolo che metteva in guardia contro l’ortodossia della folla che copre volentieri di sarcasmo le novità che si dicono estremiste: “E peraltro la storia non ha forse sovente provato che sono proprio queste novità che i posteri considerano poi l’espressione della verità?”.
No, la scuola attuale non è la vita, e Jacques Barzun, l’eminente rettore della celebre università della Columbia, si esprimerà in questi termini in un discorso pronunciato nell’ottobre 1966 a Washington: “Un tempo i fanciulli usavano dire, per lo meno certuni di essi, che odiavano questo o quel professore. Oggi invece essi tendono a disprezzare tutti i loro professori indifferentemente e, man mano che il tempo passa, finiranno col pestarli di santa ragione o con l’accoltellarli. La maggior parte degli allievi, anche coloro che si comportano bene, dall’età più tenera conoscono la vanità delle scuole e dell’insegnamento. Sanno che la vita, del tutto reale, è all’esterno e che la scuola coi suoi artifici è invece del tutto irreale”.
L’educazione autoritaria e che soffoca la personalità, condannata da Stirner, è all’origine dei disordini che scuotono l’insegnamento a tutti i livelli e in tutti i paesi. Non bisogna affatto, dice Martin, incriminare i conflitti generazionali, vi è anche e soprattutto la resistenza studentesca “ai cani da guardia dell’intellighentia”, all’oppressione soffocante dello Stato militarista moderno e alla mobilitazione dell’educazione organizzata. Quarant’anni sono passati da quando Harry Elmer Barnes comparava il sistema scolastico al regolamento delle carceri: “non lasciare, a qualunque costo, evadere qualcuno”.
James Martin prospetta senza ottimismo il presente e l’avvenire degli “istituti di istruzione”. Come all’epoca di Stirner, non sono capaci di formare uomini liberi, personalità. Egli pensa che l’obbligo scolastico e l’obbligo elettivo – dei quali si parla in certe democrazie – si armonizzino perfettamente con l’obbligo di leva. E quegli uomini liberi che Stirner profetizza, molto probabilmente non appariranno che in certi circoli chiusi di autodidatti (“in an autodidacte underground”).
Devo dire che il pessimismo di James Martin non mi pare esagerato, nell’epoca dello Stato onnipotente ed onnipresente, quando ogni riforma radicale dell’educazione cozza contro imperativi economici per niente preoccupati della vera cultura. Dopo Stirner e Nietzsche, ben poco progresso è stato realizzato: perlomeno abbiamo perso le nostre ultime illusioni e ci siamo assicurati che il problema educativo non potrà essere risolto se non mediante una trasformazione totale del regime sociale ed economico in senso liberatorio, cioè nel rispetto dell’individuo e con l’abbattimento dello Stato. Nel 1972 come nel 1842, il problema educativo – il problema vitale, secondo Stirner – si pone con la stessa gravità e negli stessi termini, e non ci rimane che provare soddisfazione nel vedere ripetere le proposte e le critiche di Stirner da professori lontanissimi dallo stirnerismo. Ad esempio Georges Gusdorf (L’Université en question, Paris 1964), professore all’Università di Strasburgo, scriveva: “Nel sistema francese, l’insegnamento superiore è concepito in funzione del principio che la ricerca della conoscenza disinteressata non ha alcun interesse, poiché non serve a niente. La cultura è scusabile solo se fornisce agli interessati il mezzo di guadagnarsi da vivere il più confortevolmente possibile. Il tecnico altamente specializzato ospiterà sempre in sé un uomo limitato: sa esattamente ciò che fa, ma proprio perché non sa altro, la sua stessa attività rimane asservita ai limiti del suo ‘saper-fare’. Le Università invece dovrebbero essere il luogo privilegiato in cui l’uomo riceve la sua formazione di uomo”.
In queste poche righe riconosciamo alcune idee che Stirner sviluppa nel suo scritto. E non è forse il più bell’elogio del genio chiaroveggente di Stirner, l’attualità di queste pagine dove, nella Prussia asservita, un oscuro professore di letteratura si prefiggeva, come missione suprema dell’educazione, la formazione di uomini liberi e di personalità volontarie?
Jean Barrué
Il falso principio della nostra educazione o l’umanesimo e il realismo
Il nostro tempo si sforza di trovare una parola con la quale esprimere il proprio spirito. Si fanno quindi avanti molti nomi e tutti pretendono di essere quello giusto. Sotto tutti i punti di vista il nostro tempo mostra il più vario brulichio di parti; le aquile del momento attuale si radunano intorno all’eredità del passato, che si sta decomponendo. Vi è dappertutto una grande quantità di cadaveri politici, sociali, ecclesiastici, scientifici, artistici, morali ed altri ancora; e finché tutti questi cadaveri non saranno consumati, l’aria non sarà pura, pesante rimarrà il respiro.
Senza la nostra collaborazione il tempo non tirerà fuori la parola giusta: tutti vi dobbiamo collaborare. Se però tanto dipende da noi, allora è giusto che ci chiediamo che cosa si è fatto e si pensa di fare di noi; ci domandiamo con quale tipo di educazione si cerca di metterci in grado di creare quella parola. Si educa coscienziosamente quella predisposizione che abbiamo a diventar creatori o ci si tratta soltanto come creature, la cui natura tollera un puro addestramento? La questione è altrettanto importante quanto soltanto può esserlo una delle nostre questioni sociali; anzi è la questione più importante, perché quelle si appoggiano su questa come sul loro fondamento. Se voi siete qualcosa di valido, allora opererete anche qualcosa di valido. Ognuno sia “perfetto in se stesso”: allora anche la vostra comunità, la vostra vita sociale sarà perfetta. Pertanto noi ci preoccupiamo soprattutto di ciò che si fa di noi nel tempo in cui possiamo venire educati: il problema della scuola è il problema della vita. Ciò salta abbastanza agli occhi anche adesso. Da anni si combatte su questo terreno con un calore e una franchezza che superano quelle del terreno politico, perché non urtano contro gli ostacoli di un potere dispotico. Un venerabile veterano, il professor Theodor Heinsius che, come il compianto professor [Wilhelm Traugott] Krug, fino alla tarda età ha conservato forza e solerzia, ha cercato recentemente con un piccolo scritto di eccitare nuovamente l’interesse per questo argomento. Il titolo è: Konkordat zwischen Schule und Leben oder Vermittlung des Humanismus und Realismus, aus nationalem Standpunkt betrachtet, [Concordato tra la scuola e la vita o una conciliazione tra umanesimo e realismo, considerato da un punto di vista nazionale], Berlin 1842. Due partiti, gli umanisti e i realisti, lottano per la vittoria. Ciascuno dei due vuole raccomandare il suo principio educativo come l’autentico e il migliore per le nostre necessità. Non volendosi litigare con gli uni o con gli altri, Heinsius nel suo libretto parla con quella mitezza e spirito conciliante, che mirano a riconoscere alle due parti il proprio diritto, ma che intanto commettono la più grande ingiustizia verso la questione stessa, perché a questa si tende un servizio soltanto con una decisione tagliente. Questo peccato contro lo spirito della questione resta ormai l’eredità irrifiutabile di tutti i mediatori di poco coraggio. I “concordati” offrono soltanto un ripiego:
e come la parola d’ordine: schiavo o libero!
Anche gli dèi discesero dall’Olimpo,
e combattono sulla torre del partito.
[Georg Herwegh, Die Partei]
Prima di arrivare alle sue proposte proprie, Heinsius traccia un breve schizzo dello sviluppo storico dopo la Riforma. Il periodo tra la Riforma e la rivoluzione è quello del rapporto – il che qui voglio soltanto affermare senza motivare, perché penso di esporre la cosa più in dettaglio in altra occasione – tra maggiorenni e minorenni, tra dominanti e asserviti, tra potenti e impotenti. Per dirla in breve, è il periodo della sudditanza. A prescindere da ogni altro motivo che potesse giustificare una superiorità, la cultura – in quanto potere – sollevò chi così la possedeva al di sopra dell’impotente, cioè di chi che ne era privo. E la persona colta passò nel suo ambiente (grande o piccolo che fosse) per potente, forte, per uno che si impone: infatti costui era un’autorità. Non tutti potevano essere chiamati a tale posizione di dominio o a tale autorità; perciò anche la cultura non era per tutti, perché una cultura di tutti sarebbe stata in contraddizione con quel principio. La cultura procura una superiorità e rende signori: e così in quell’epoca di signori essa era un mezzo per dominare. Soltanto la rivoluzione spezzò il regime dei padroni e dei servi. Allora entrò in vigore il principio che ognuno doveva essere padrone di se stesso. Ciò comportò la necessaria conseguenza che la cultura, la quale rende signori, d’ora in poi doveva essere universale; e ovviamente si impose il compito di trovare ormai la vera cultura universale. Il bisogno di una cultura universale, accessibile a tutti, dovette trasformarsi in lotta contro quella cultura che testardamente si affermava come esclusiva; e la rivoluzione dovette alzare la spada anche in questo campo contro il dispotismo del periodo della Riforma. L’idea della cultura universale urtò contro la cultura esclusiva; a questo riguardo la guerra e la lotta si trascinarono attraverso fasi diverse e sotto molti nomi fino ai nostri giorni. Per le opposte posizioni, che si affrontano nei due campi avversi, Heinsius ha scelto i nomi di umanesimo e realismo, e noi vogliamo mantenerli perché per quanto non molto felici, sono però i più diffusi.
Fino al XVIII secolo, quando l’Illuminismo cominciò a diffondere la sua luce, la cosiddetta cultura superiore rimase incontestabilmente nelle mani degli umanisti e si basava quasi esclusivamente sullo studio dei classici antichi. Su un binario parallelo procedeva un’altra cultura, la quale cercava pure un modello nell’antichità e sostanzialmente equivaleva ad una notevole conoscenza della Bibbia. Il fatto che in entrambi i casi si scegliesse a propria unica materia la miglior cultura del mondo antico, dimostra abbastanza chiaramente quanto la propria vita non offrisse ancora qualcosa di pregevole e quanto noi fossimo ancora lontani dal poter creare le forme della bellezza con una nostra originalità e il contenuto della verità con la nostra ragione. Noi non dovevamo che imparare forma e contenuto: eravamo apprendisti. E come il mondo antico dominava da padrone su di noi attraverso i suoi scultori e la Bibbia, così l’esser signori e servi – il che può essere storicamente dimostrato – era la sostanza di tutte le nostre vicende; e solamente da questo carattere dell’epoca si spiega perché con tanta naturalezza si aspirasse ad una “cultura superiore” e si ambisse a contraddistinguersi per essa davanti al popolino. Chi possedeva cultura diventava padrone degli incolti. Una cultura popolare gli sarebbe stata nemica, perché il popolo doveva rimanere in “stato laicale” di fronte ai dotti signori e doveva soltanto ammirare e venerare questa signorilità, che gli era estranea. Così il romanismo continuò fra le persone colte; i suoi sostegni sono il latino e il greco. Inoltre non poté non succedere che questa cultura rimanesse del tutto formale; sia perché dell’antichità, da un pezzo morta e sepolta, potevano mantenersi soltanto le forme, direi quasi gli schemi della letteratura e dell’arte; e sia soprattutto perché la signoria sugli uomini viene acquisita e mantenuta proprio attraverso una superiorità formale: si richiede soltanto un certo grado di capacità intellettuale per essere superiori agli incapaci. La cosiddetta cultura superiore era perciò una cultura elegante, un sensus omnis elegantiae, una cultura del gusto e del senso della forma, che in fondo minacciava di scadere a cultura puramente grammaticale e che tanto profumava dei profluvi del Lazio la stessa lingua tedesca che ancor oggi si ha l’occasione di ammirare nelle più belle costruzioni di frasi alla latina, per esempio, nella Geschichte des brandenburgisch-preussischen Staates [Storia dello Stato brandeburghese-prussiano], Berlin 1842. Un libro per tutti, di Alfred Zimmermann, recentemente apparso.
Intanto dal razionalismo nasceva a poco a poco uno spirito di opposizione a questo formalismo; e al riconoscimento degli universali e stabili diritti umani si abbinava la richiesta di una formazione umana, che fosse per tutti. La carenza di un’istruzione reale e che incidesse nella vita era evidente nel modo in cui finora avevano proceduto gli umanisti. Tale carenza produsse l’esigenza di una formazione pratica. D’ora in poi qualsiasi sapere doveva diventare vita; il sapere doveva diventare qualcosa di vissuto. Infatti soltanto un sapere che si fa realtà è la perfezione del sapere stesso. Se si fosse riusciti ad introdurre nella scuola la materia della vita e ad offrire così a tutti qualcosa di utile e proprio per questo a guadagnare tutti a questa preparazione alla vita, dirigendoli alla scuola, il popolo non avrebbe più invidiato per il loro sapere fuori del comune i dotti signori e avrebbe messo fine al suo “stato laicale”. Superare lo “stato sacerdotale” dei dotti e lo “stato laicale” del popolo è l’aspirazione del realismo; e ciò supera necessariamente l’umanesimo. Il fatto di cominciare a rifiutare di far proprie le forme dell’antichità classica comportò che la signoria dell’autorità perdesse il suo nembo. Il tempo recalcitrò contro il rispetto tradizionalmente dovuto all’erudizione, come in genere si ribellò contro qualsiasi rispetto reverenziale. L’essenziale superiorità dei dotti, cioè la cultura generale, doveva diventare un bene per tutti. Ma che cos’è la cultura generale – ci si chiedeva – se non (in parole povere) la capacità di “poter interloquire su tutto” o (in parole più gravi) la capacità di padroneggiare ogni argomento? Era a tutti evidente che la scuola era rimasta indietro in confronto alla vita, perché non solo era sottratta al popolo, ma anche perché quelli che frequentavano la scuola trascuravano la cultura generale per una cultura esclusiva. La scuola non teneva buona una gran quantità di materia che la vita ci impone di padroneggiare già dai banchi della scuola stessa. La scuola – così si pensava – deve pur tracciare le linee fondamentali del nostro armonizzarci con tutto ciò che la vita ci offre; e deve pur provvedere a che nessuno degli oggetti, di cui un giorno ci dovremo occupare, ci sia completamente estraneo e resti al di là delle nostre capacità. Perciò si cercò con grande zelo la dimestichezza con le cose e le vicende del nostro tempo e si assunse una pedagogia applicabile a tutti, che soddisfacesse il bisogno a tutti comune di orientarsi nel proprio mondo e nel proprio tempo. A questo modo quelli che sono i diritti umani per principio – l’uguaglianza e la libertà – acquistarono, in campo pedagogico, vita e realtà: l’uguaglianza, perché quella cultura era di tutti; e la libertà, perché, nelle cose di cui si aveva bisogno, si diventò abili e quindi indipendenti e a se stanti.
Però comprendere il passato – il che ci insegna l’umanesimo – e afferrare il presente – il che ha di mira il realismo –, tutt’e due non conducono che al potere sul temporale e caduco. Eterno è solo lo spirito che coglie se stesso. Perciò anche uguaglianza e libertà ricevettero soltanto un’esistenza subordinata. Si poteva diventare uguali agli altri ed emancipati dalla loro autorità. Ma dell’uguaglianza con se stessi, della composizione e riconciliazione del nostro uomo temporale ed eterno, della trasfigurazione della nostra natura a spirito; in una parola, dell’unità e dell’onnipotenza del nostro io, che basta a se stesso perché non lascia sussistere nulla di estraneo fuori di sé, di tutto questo in quel principio non si poteva riconoscere alcuna traccia. La libertà appariva soltanto come indipendenza dalle autorità: però era ancora vuota di autodeterminazione e non forniva ancora i fatti di un uomo libero in se stesso, auto-rivelazioni di uno spirito senza attenzioni riverenziali, cioè al riparo dal fluttuare dei ripensamenti. Certo, chi aveva una cultura formale non doveva più eccellere sopra il livello della cultura generale e da un uomo “di cultura superiore” si trasformò in un uomo “di cultura unilaterale” (in quanto tale egli mantiene naturalmente il suo valore incontestabile, poiché qualsiasi cultura generale è destinata ad irradiarsi nelle diverse unilateralità di una cultura speciale). Ma chi aveva quel tipo di cultura che voleva il realismo non andava neppure al di là dell’uguaglianza con gli altri e della libertà dagli altri; non andava al di là del cosiddetto “uomo pratico”. È bensì vero che la vuota eleganza dell’umanista, del dandy, non poteva sfuggire alla sconfitta; ma il vincitore brillava del verderame della materialità e non era nulla di più alto di un industriale senza gusto. Il dandysmo e l’industrialismo lottano per avere in preda amabili ragazzi e ragazze e, per allettarli, si scambiano le armi, per cui spesso il dandy si presenta con rozzo cinismo e l’industriale con biancheria candida. Certo il vivo legno della mazza ferrata dell’industriale manderà a pezzi il secco bastone del dandy smidollato; ma, vivo o morto, il legno rimane legno, e se la fiamma dello spirito deve splendere, il legno deve bruciare. Ma intanto perché anche il realismo deve ugualmente perire, se esso accoglie in sé (e non si può negare che abbia la capacità di farlo) ciò che vi è di buono nell’umanesimo? Certo esso può accogliere in sé ciò che vi è di inalienabile e di vero nell’umanesimo: la cultura formale. Il che gli è reso sempre più facile attraverso il modo scientifico (divenuto possibile) e razionale di trattare tutte le cose da insegnare (ricordo soltanto, a modo di esempio, ciò che [Karl] Becker ha fatto per la grammatica tedesca); e attraverso questa nobilitazione esso potrà scacciare il suo avversario dalla sua solida posizione. Siccome tanto il realismo quanto l’umanesimo partono dal principio che qualunque educazione è destinata a procurare all’uomo una capacità; e siccome tutt’e due concordano nel dire che – per esempio – sul piano del linguaggio si devono abituare gli uomini ad usare tutti i modi di dire che servono ad esprimersi, e sul piano della matematica si devono loro inculcare tutti i modi della dimostrazione, e così via; siccome tutt’e due concordano che si debba mirare a raggiungere la maestria nel maneggio della materia, cioè ad esserne padroni, allora non potrà certo non succedere che infine anche il realismo riconosca come scopo ultimo la formazione del gusto e metta in prima linea l’attività formatrice (come in parte già ora succede). Infatti in campo educativo tutta la materia data ha il suo valore soltanto per il fatto che i bambini imparano a far qualcosa con essa, ad usarla. È bensì vero – come sostengono i realisti – che rimane impresso soltanto ciò che è utile e che serve a qualcosa; però l’utilità dovrà essere creata soltanto nel formare, nel generalizzare, nel presentare, e non si potrà respingere quest’esigenza umanistica. Gli umanisti hanno ragione nel volere principalmente l’educazione formale; hanno torto nel non trovarla nella padronanza di qualunque materia. I realisti domandano una cosa giusta quando dicono che ogni materia deve cominciare ad essere trattata a scuola; ma sbagliano, quando non vogliono considerare come scopo principale l’educazione formale. Se il realismo esercita il giusto auto-rinnegamento e non si abbandona a traviamenti materialistici, può giungere a superare così il suo avversario e insieme a mettersi d’accordo con lui. Ma perché gli siamo ostili? Il realismo depone dunque davvero il fardello dei suoi vecchi princìpi ed è all’altezza dei tempi? Tutto resta da giudicare da qui: se si riconosce nell’idea che il nostro tempo si è conquistata come la cosa più cara o se occupa un posto stazionario dietro il nostro tempo. Deve cadere quell’inestinguibile paura, con cui i realisti rifuggono dall’astrazione e dalla speculazione. A questo scopo voglio addurre alcuni passi di Heinsius, che su questo punto non cede ai rigidi realisti e risparmia a me di citarli, il che mi sarebbe pur facile. A p. 9 Heinsius dice: “Negli istituti di cultura superiore si sentiva parlare dei sistemi filosofici greci, di Aristotele e Platone, ma anche dei sistemi filosofici moderni, di Kant (che presenta come indimostrabili le idee di Dio, della libertà, dell’immortalità), di Johann Gottlieb Fichte (che mette l’ordinamento morale del mondo al posto del Dio personale), di Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Hegel, Johann Friedrich Herbart, Karl Christian Krause, e come possono altrimenti definirsi tutti gli scopritori e annunciatori di una sapienza sovrumana. Ma che cosa dobbiamo fare noi – ci si chiede –, che cosa deve fare la nazione tedesca delle fantasticherie idealistiche, che non appartengono né alle scienze empiriche e positive né alla vita pratica, e neppure giovano allo Stato? Che ce ne facciamo di un sapere oscuro, che serve soltanto a confondere lo spirito del tempo, che conduce ad essere miscredenti e atei, che divide gli animi, che fa scappare gli studenti dalle cattedre dei suoi apostoli, e che addirittura rende oscura la nostra lingua nazionale, dato che trasforma in mistici enigmi i più chiari concetti della sana intelligenza umana? È questa la sapienza che deve educare i nostri giovani a diventare uomini moralmente buoni, ad essere persone riflessive e ragionevoli, fedeli cittadini, lavoratori utili e valenti nella loro professione, mariti amorosi e padri solerti nell’impiantare il benessere della loro famiglia?”. E a p. 45 Heinsius dice: “Se guardiamo la filosofia e la teologia, che come scienze del pensiero e della fede stanno in prima linea in ordine al bene del mondo, che cosa sono diventate attraverso i loro attriti vicendevoli, ai quali Lutero e Leibniz hanno aperto la strada? Il dualismo, il materialismo, lo spiritualismo, il naturalismo, il panteismo, il realismo, l’idealismo, il soprannaturalismo, il razionalismo, il misticismo e come altro si definiscono tutti gli “ismi” astrusi di speculazioni e sentimenti eccentrici: che beneficio hanno poi arrecato allo Stato, alla Chiesa, alle arti, alla cultura popolare? Il pensare e il sapere si è certo ampliato quantitativamente; ma il pensiero è forse diventato più chiaro e il sapere più sicuro? La religione, in quanto dogma, è più pura; ma la fede soggettiva è più confusa, indebolita, infranta nei suoi sostegni, scossa dalla critica e dall’ermeneutica, o trasformata in fanatismo oppure in ipocrisia farisaica. E la Chiesa? Ohimé, la sua vita è disunione e morte. Non è così?”. – Perché i realisti si mostrano così mal disposti verso la filosofia? Perché disconoscono la propria vocazione e vogliono a tutta forza restare limitati invece di sciogliersi da ogni limite. Perché odiano l’astrazione? – Perché sono essi astratti; perché astraggono dal perfezionamento di se stessi, dallo slancio verso la verità che redime.
Vogliamo forse consegnare nascostamente la pedagogia ai filosofi? Tutt’altro! Si comporterebbero in modo piuttosto goffo. Essa venga affidata soltanto a coloro che sono più che filosofi, e perciò anche infinitamente di più che umanisti o realisti. Questi ultimi fiutano giustamente che anche i filosofi dovranno tramontare; ma non sospettano che al loro tramonto seguirà una resurrezione. Essi astraggono dalla filosofia per raggiungere senza di essa il cielo dei loro scopi; la scavalcano e cadono nell’abisso della loro vacuità: come l’ebreo errante, essi sono immortali ma non eterni. Solo i filosofi possono morire e trovare nella morte il loro vero io. Con essi muore il periodo della Riforma, l’epoca del sapere. Sì, è proprio così: il sapere stesso deve morire per rifiorire nella morte come volontà. La libertà di pensiero, di fede e di coscienza, questi splendidi fiori di tre secoli, risprofonderanno nel grembo materno della terra, affinché una nuova libertà, quella del volere, si nutra dei suoi succhi più nobili. Il sapere e la libertà del sapere fu l’ideale di quel tempo, che (in quanto ideale) è stato finalmente raggiunto all’apice della filosofia: a questo punto l’eroe costruirà a se stesso il rogo e metterà in salvo nell’Olimpo la sua parte eterna. Con la filosofia si conclude il nostro passato, e i filosofi sono i Raffaello del periodo del pensiero: in essi il vecchio principio si attua in brillante sfarzo di colori, e, ringiovanendosi, da temporale e caduco diventa eterno. D’ora in poi chi vuol conservare il sapere, lo perderà; ma chi vi rinuncia, lo conquisterà. Soltanto i filosofi sono chiamati a queste rinunce e a questa conquista: essi stanno davanti al fuoco fiammeggiante e, come l’eroe morente, devono bruciare la loro spoglia mortale affinché lo spirito imperituro diventi libero.
Per quanto si può, si deve parlare in modo piuttosto comprensibile. Infatti l’errore dei nostri giorni sta pur sempre nel fatto che il sapere resta come incompiuto e non perspicuo; nel fatto che rimane un sapere materiale e formale, positivo, e non si eleva a sapere assoluto; nel fatto che ci pesa addosso come un fardello. Come quell’uomo dell’antichità dobbiamo desiderare di dimenticare, dobbiamo bere al Lete che rende beati: altrimenti non torneremo in noi. Tutto ciò che è grande deve saper morire e trasfigurarsi con la propria morte; soltanto ciò che è miserevole raccoglie, come l’artritico tribunale della camera imperiale, atti su atti e brilla per millenni in graziose figure di porcellana, come l’intramontabile puerilità dei Cinesi.
La vera scienza trova il suo compimento, cessando di essere sapere e ridiventando un semplice impulso umano: la volontà. Così, per esempio, chi per anni ha riflettuto sulla sua “vocazione di uomo”, immergerà tutte le preoccupazioni e le peregrinazioni del suo ricercare nel Lete di un semplice sentimento, di un impulso, che da quell’ora in poi lo guiderà pian piano, nello stesso momento in cui avrà trovato quell’impulso. La “vocazione dell’uomo”, che questi ha ricercato per i mille sentieri e viottoli dell’indagine, erompe all’improvviso, appena è stata riconosciuta, nella fiamma del sapere morale e incendia il petto dell’uomo che non è più disperso nella ricerca, ma è diventato di nuovo fresco e ingenuo.
il terreno petto nell’aurora mattutina.
[W. Goethe, Faust]
Questa è la fine e insieme l’immortalità del sapere: il sapere, che ridivenuto semplice e immediato, si dice e si rivela di nuovo e in figura nuova in ogni azione come volontà. Non la volontà è originariamente ciò che è giusto, come volentieri ci vorrebbero assicurare i pratici; non si può scavalcare il voler sapere per star subito nella volontà; ma il sapere perfeziona se stesso in volontà, quando si spiritualizza e come spirito, “che si costruisce il corpo”, crea se stesso. Perciò ogni educazione, che non si prefigga questa morte e questa ascensione al cielo del sapere, porta con sé tutti i difetti della caducità, la formalità e la materialità, il dandismo e l’industrialismo. Un sapere, che non si purifichi e concentri tanto da portare a volere; o, in altre parole, un sapere che mi appesantisca soltanto come un avere o un possesso invece di fondersi completamente con me in modo tale che l’io, mobile e libero e senza l’impaccio di un possesso da trascinarsi appresso, cammini per il mondo con animo vispo; un sapere dunque, che non sia diventato qualcosa di personale, fornisce una misera preparazione alla vita. Non lo si vuol lasciare arrivare all’astrazione, che sola però garantisce la vera consacrazione ad ogni sapere concreto: infatti l’astrazione uccide realmente la materia e la trasforma in spirito, ma assicura l’autentica e definitiva liberazione. Solo nell’astrazione sta la libertà: uomo libero è soltanto chi supera il dato e riprende nell’unità del suo Io anche ciò che ne ha ricavato colla sua ricerca.
Il nostro tempo, dopo aver raggiunto la libertà di pensiero, mira a perfezionare questa libertà di pensiero fino a trasformarla in libertà di volere al fine di attuare questa libertà di volere come il principio di una nuova epoca. Perciò anche il fine ultimo dell’educazione non può più essere il sapere, ma il volere nato dal sapere; e perciò ancora l’espressione eloquente di ciò che l’educazione deve ottenere è l’uomo personale o libero. La verità stessa non consiste in altro se non nel rivelare se stessi: e a questo appartiene il ritrovare se stessi, la liberazione da tutto ciò che è estraneo, l’estrema astrazione o la liquidazione di ogni autorità, la riconquista dell’ingenuità. Ora la scuola non fornisce tali uomini veri: se pur tuttavia essi ci sono, lo sono nonostante la scuola. Questa ci fa bensì padroni delle cose e tutt’al più anche padroni della nostra natura; ma non ci rende nature libere. Ma nessun sapere, per quanto profondo ed esteso, nessun ingegno e acutezza di mente, nessuna sottigliezza dialettica ci preserva dalla meschinità del pensare e del volere. Non è davvero merito della scuola, se noi da lei non portiamo via l’egoismo. Ogni genere di vanità correlativa, ogni genere di avidità di guadagno, di ambizione, di cariche, di sollecitudine meccanica e servile, di ambiguità, ecc., si combina sia col sapere diffuso sia con l’elegante cultura classica. E siccome tutta questa istruzione non esercita alcun influsso sul nostro agire morale, spesso essa subisce il destino d’essere dimenticata nella misura in cui non serve: ci si scrolla di dosso la polvere della scuola. E tutto ciò avviene perché la cultura viene ricercata soltanto nei suoi aspetti formali o materiali o al massimo in tutt’e due, ma non nella verità, nell’educazione del vero uomo. È vero che i realisti fanno un progresso, domandando che lo scolaro avverta e capisca ciò che impara: [Friedrich] Diesterweg, per esempio, la sa lunga sul “principio della sperimentazione”. Ma anche qui l’oggetto non è la verità, ma qualcosa di positivo (in cui c’è anche da contare la religione), che lo scolaro è condotto a mettere d’accordo e in rapporto con la somma del suo rimanente sapere positivo, però senza elevarsi al di sopra del grezzo sperimentare e guardare, e senza alcun incitamento a lavorare ulteriormente con l’intelligenza, che egli ha acquistato guardando, e a produrre ulteriormente con l’intelligenza, cioè ad essere speculativo, il che in pratica equivale ad essere morale e a comportarsi da persona morale. Al contrario si pensa che debba bastare educare persone sensate; non si ha di mira in verità di educare degli uomini capaci di usare la ragione. Capire cose e dati, la cosa finisce qui: comprendere se stessi non sembra essere cosa da tutti. Così si promuove il senso del positivo, nel suo aspetto formale o anche materiale; e si insegna ad accontentarsi del positivo. Come in certe altre sfere, così anche in quella pedagogica non si lascia che la libertà si affermi, che la forza dell’opposizione si manifesti: si vuole sottomissione. Non si mira che ad un’istruzione formale e materiale; per cui dai serragli degli umanisti escono soltanto degli eruditi e da quelli dei realisti soltanto degli “utili cittadini”: entrambi però non sono che uomini sottomessi. Il nostro buon fondo di rozzezza viene violentemente soffocato e con esso lo sviluppo del sapere verso la libera volontà. Il risultato della vita scolastica è allora la pedanteria. Come da bambini ci siamo abituati ad adattarci a tutto quanto ci veniva imposto, così più tardi ci adattiamo e rassegniamo alla vita positiva, ci rassegniamo al tempo, diventiamo suoi servi e cosiddetti buoni cittadini. Ma allora dove mai, al posto della sottomissione finora alimentata, si rafforza uno spirito di opposizione? Dove mai invece di una persona che impara si educa una persona creativa? Dove l’insegnante si trasforma in collaboratore? Dove ancora l’insegnante riconosce che il sapere si cambia in volere? Dove mai l’uomo libero, e non puramente l’uomo colto, costituisce il fine dell’educazione? Purtroppo in pochi posti. Si deve diffondere la persuasione che compito supremo dell’uomo non è la cultura, la civilizzazione, ma lo svolgere un’attività propria. Verrà forse per questo trascurata la cultura? Proprio no; come non intendiamo perdere la libertà di pensiero, quando vogliamo che essa passi e si trasfiguri nella libertà del volere. Se l’uomo mette innanzitutto il suo onore nel sentire se stesso, nel conoscere se stesso e nello svolgere una sua attività – e cioè nel sentimento di sé, nella coscienza di sé e nella libertà –, allora egli mirerà da solo a bandire l’ignoranza la quale trasforma l’oggetto, che resta a lui estraneo e incompreso, in un limite e in un ostacolo per la sua conoscenza di se stesso. Se si risveglia negli uomini l’idea della libertà, i liberi si libereranno incessantemente daccapo; se invece si fa di loro soltanto degli uomini colti, allora essi si adatteranno sempre alle circostanze in modo sommamente educato ed elegante e degenereranno in servili anime da lacchè. Che cosa sono per lo più i nostri soggetti colti e ricchi d’ingegno? Sogghignanti padroni di schiavi e schiavi essi stessi.
I realisti possono vantarsi della prerogativa che essi non educano persone puramente colte, ma giudiziosi e utili cittadini. Anzi il loro principio: “Si insegni tutto in ordine alla vita pratica”, potrebbe addirittura passare per la parola d’ordine del nostro tempo, purché però essi non intendano la prassi in senso grossolano. La vera prassi non è farsi strada nella vita; e il Sapere ha un pregio più elevato che non quello di potere essere usato per raggiungere scopi pratici. La prassi suprema è piuttosto che un uomo libero riveli se stesso; e il sapere, che sa morire, è la libertà che dà la vita. “La vita pratica”! Dicendo questo, si crede di aver detto molto. Eppure gli stessi animali conducono una vita del tutto pratica, non appena la madre li ha svezzati dal loro teorico stato di lattanti; e cercano il cibo a loro piacere nei boschi e nei prati oppure vengono legati al giogo di un lavoro. Peter Scheitlin, che conosce la psicologia degli animali, potrebbe spingere il paragone ancor più innanzi fin entro il campo della religione, come si può vedere dalla sua Tierseelenkunde [Psicologia degli animali], Berlino 1840: un libro molto istruttivo, proprio perché tanto accosta gli animali all’uomo civilizzato e l’uomo civilizzato agli animali. Quell’intenzione di “educare alla vita pratica” produce soltanto uomini di princìpi, che agiscono e pensano secondo le massime, ma che non sono uomini per principio; che sono spiriti legalisti, non spiriti liberi. Completamente diversi sono invece quegli uomini, nei quali la totalità del pensare e dell’agire si muove e ringiovanisce continuamente. E ancora completamente diversi sono quegli uomini, che sono fedeli alle loro convinzioni: le convinzioni stesse restano incrollabili, non pulsano come sangue arterioso continuamente rinnovato dal cuore, si irrigidiscono – per così dire – come corpi solidi, e – anche se acquisite e non imparaticce – sono pur qualcosa di positivo e per di più passano per qualcosa di sacro. Così l’educazione realistica può aver di mira dei caratteri solidi, valenti, sani, degli uomini imperterriti, dei cuori fedeli: e questo è un guadagno incalcolabile per la nostra generazione di caudatari. Ma i caratteri eterni, la cui stabilità consiste soltanto nel fluire incessante della loro quotidiana creazione di sé, e sono appunto eterni perché costruiscono se stessi in ogni momento, e perché traggono di volta in volta il loro apparire del momento dalla freschezza che non appassisce e non invecchia mai, e dalla attività creatrice del loro spirito eterno, questi caratteri eterni dunque non escono da quel tipo di educazione. Il cosiddetto carattere sano anche nel migliore dei casi è soltanto un carattere ostinato; se deve essere un carattere perfetto, deve diventare contemporaneamente un carattere sofferente, che palpita e rabbrividisce nella felice passione di un incessante ringiovanimento e di una rinascita.
E così i raggi di qualunque educazione convergono nell’unico centro, che si chiama personalità. Il sapere, per quanto erudito e profondo o vasto e chiaro possa essere, rimane pur soltanto un possesso e una proprietà, fintantoché non si fonderà e scomparirà nel punto visibile dell’io per eromperne fuori prepotentemente come volontà, come spirito trascendente e inafferrabile. Il sapere subisce questa trasformazione allorquando cessa di stare incollato soltanto ad oggetti, allorquando diventa sapere di se stesso o – se questo sembra più chiaro – un sapere dell’idea, un’auto-coscienza dello spirito. Allora esso si muta – per così dire – nell’impulso, nell’istinto dello spirito, in un sapere incosciente, di cui ciascuno si può fare almeno un’immagine confrontandolo col fatto che egli stesso ha sublimato tante e così vaste esperienze in quel semplice sentimento, che si chiama tatto: tutto quell’ampio sapere, ricavato da quelle esperienze, è concentrato in un sapere immediato, per mezzo del quale egli sui due piedi decide il da farsi. Ma il sapere deve arrivare qui, a questa immaterialità, sacrificando le sue parti mortali e, in quanto immortale, diventando volontà.
La miseria della nostra educazione è consistita fin qui per lo più nella circostanza che il sapere non si è corretto in volontà, in attuazione pratica, in pura prassi. I realisti hanno avvertito questa lacuna, ma vi hanno messo riparo in modo miserevole formando degli uomini “pratici” senza idee e non liberi. La maggior parte dei seminaristi sono un documento vivo di questa triste piega. Dirozzati alla bell’e meglio, dirozzano essi stessi; addestrati, addestrano a loro volta. Ma ogni educazione deve diventare personale; e, partendo dal sapere, deve pur tenere costantemente presente l’essenza del sapere stesso, e cioè che esso non deve mai essere possesso ma l’io stesso. In una parola, non è il sapere che deve essere formato, ma è la persona che deve giungere al dispiegamento di se stessa. La pedagogia non deve ulteriormente partire dall’idea di civilizzare, ma dall’idea di formare persone libere, caratteri sovrani; perciò la volontà, che finora è stata violentemente soffocata, non deve continuare ad essere indebolita. Se non si frena l’impulso al sapere, perché si deve frenare l’impulso al volere? Se si coltiva l’impulso al sapere, si coltivi anche l’impulso al volere. La caparbietà e la maleducazione dei bambini ha lo stesso diritto di esistere della loro avidità di sapere. Se si stimola a bella posta questa avidità di sapere, si susciti anche la forza naturale della volontà, cioè quella di opporsi. Se il bambino non impara ad avere un sentimento di se stesso, non impara appunto la cosa più importante. Non si soffochi il suo orgoglio, la sua franchezza. Contro la sua arroganza la mia libertà resta sempre garantita. Infatti se l’orgoglio del bambino degenera in tracotanza, allora il bambino mi fa violenza: questo Io non dovrò tollerare, perché io stesso sono un uomo libero come il bambino. Ma devo difendermene attraverso il comodo baluardo della autorità? No! Se oppongo il rigore della mia libertà, allora la tracotanza dei bambini cadrà da sola. Chi è uomo completo non ha bisogno di essere un’autorità. E se la franchezza esplode in impudenza, questa perderà la sua forza di fronte al dolce potere di una donna autentica, al suo carattere materno o di fronte alla fermezza di un uomo. Si è molto deboli, se si deve chiedere aiuto all’autorità; e si sbaglia, se si crede di correggere l’impudente trasformandolo in un intimorito. Esigere timore e rispetto è cosa che, come l’epoca ormai conclusa, appartiene allo stile rococò.
Di che cosa ci lamentiamo dunque, se consideriamo le carenze della nostra odierna educazione scolastica? Del fatto che le nostre scuole sono ferme ancora al vecchio principio, quello del sapere senza volontà. Il nuovo principio è quello della volontà come trasfigurazione del sapere. Dunque nessun “concordato tra scuola e vita”, ma la scuola deve essere vita; e, nella scuola e fuori della scuola, il compito deve essere l’auto-rivelazione della persona. Tutta l’educazione scolastica sia educazione alla libertà, non alla sottomissione: essere liberi, questa è la vera vita. L’aver capito che l’umanesimo è senza vita avrebbe dovuto spingere il realismo a farsi questa convinzione. Invece, della cultura umanistica si avvertì soltanto che essa non sapeva rendere abili alla cosiddetta vita pratica (borghese, non personale); e, in opposizione a quella cultura puramente formale, ci si volse ad una cultura materiale pensando che, attraverso la comunicazione della materia utile nei rapporti col mondo, non solo si sarebbe superato il formalismo ma anche si sarebbero soddisfatti i bisogni più profondi. Ma anche l’educazione pratica resta ancora largamente indietro in confronto all’educazione personale e libera; e se quella fornisce la capacità di farsi strada nella vita, questa procura la forza di far sprizzare da sé la scintilla della vera vita; se quella prepara a sentirsi come a casa in un determinato mondo, questa insegna a sentirsi a casa con se stessi. Non è ancora tutto, se ci comportiamo come membri della società; potremo invece comportarci anche perfettamente come membri della società, solo allorquando saremo uomini liberi, persone auto-creative (che creano se stesse).
Ora, se l’idea e l’impulso del tempo nuovo è la libertà del volere, la pedagogia deve tener di mira, come suo principio e suo fine, la formazione della libera personalità. Umanisti e realisti si limitano ancora al sapere, e tutt’al più si preoccupano del libero pensiero e, attraverso una liberazione teorica, fanno di noi dei liberi pensatori. Tuttavia, attraverso il sapere, noi diventiamo liberi soltanto interiormente (una libertà, alla quale del resto mai si deve rinunciare); ma con tutta la libertà di coscienza e di pensiero noi esteriormente possiamo restare schiavi e in soggezione. E tuttavia proprio quella libertà, che è esteriore per il sapere, è per la volontà la libertà interiore e vera, la libertà morale.
Soltanto in questa cultura che è universale, perché in essa chi sta in basso si incontra con chi sta in alto, noi incontriamo la vera uguaglianza di tutti, l’uguaglianza delle persone libere: soltanto la libertà è uguaglianza.
Se si vuole un nome, al di sopra degli umanisti e dei realisti si possono mettere i “morali” (così si dice in Germania), perché il loro scopo ultimo è l’educazione morale. Ma allora sorge subito l’obiezione che costoro ci vorranno formare un’altra volta in vista di leggi di morale positiva, come in fondo è sempre avvenuto finora. Ma neppure io lo voglio solo per il fatto che è avvenuto finora; e il fatto che voglio che si risvegli la capacità di opporsi e che l’ostinazione non sia spezzata ma trasfigurata, questo potrebbe sufficientemente chiarire la differenza. Intanto per distinguere l’esigenza posta qui anche dalle migliori aspirazioni dei realisti – come, per esempio, quella che esprime il programma appena pubblicato di Adolph Diesterweg, a p. 36: “Il punto debole delle nostre scuole sta nel difetto di formazione del carattere, come è in genere il punto debole della nostra educazione. Noi non formiamo ad un modo di sentire”. Preferisco dire che noi d’ora in poi abbiamo bisogno di un’educazione personale (e non di imprimere un modo di sentire). Se un’altra volta si vogliono chiamare con un nome in “isti” coloro che seguono questo principio, per conto mio chiamiamoli personalisti.
Perciò, per ricordare ancora Heinsius, “il vivo desiderio della nazione che la scuola venga maggiormente avvicinata alla vita” resta soddisfatto soltanto se si trova la vera vita nella piena personalità, indipendenza e libertà. Infatti chi mira a questo scopo non rinuncia a nulla di quel che di buono hanno l’umanesimo e il realismo, ma li eleva e li nobilita entrambi infinitamente di più. E anche il punto di vista nazionale, che Heinsius sostiene, non può essere lodato come quello giusto, perché questo è invece soltanto il punto di vista personale. Solo l’uomo libero e personale è un buon cittadino (realisti), e anche in mancanza di una cultura specifica (erudita, artistica, ecc.) è un giudice pieno di buon gusto (umanisti).
Se, per concludere, dobbiamo esprimere in brevi parole verso quale traguardo il nostro tempo si deve dirigere, ci sia lecito formulare press’a poco così il necessario tramonto della scienza senza volontà e il sorgere del volere cosciente di sé, che si compie nello splendore solare della persona libera: il sapere deve morire per risorgere di nuovo come volontà e per ricrearsi ogni giorno da capo come persona libera.
[Das unwahre Prinzip unserer Erziehung, oder: Humanismus und Realismus (Il falso principio della nostra educazione o l’umanesimo e il realismo) fu il primo e più ampio saggio che Stirner consegnò alla “Rheinische Zeitung für Politik, Handel und Gewerbe”, edita a Köln. Comparve nei supplementi ai quattro numeri 100, 102, 104 e 109 del 10, 12, 14 e 19 aprile 1842 e fu ristampato per la prima volta da me nel I fascicolo della VI annata della “Neue Deutsche Rundschau” (Freie Bühne) del gennaio 1895 a Berlino. Era firmato “Stirner”. (Nota di J. H. Mackay)].
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