Titolo: Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista
Data: 2009
Note: Prima edizione: marzo 1999 Seconda edizione: settembre 2009
Edizione inglese: For an anti-autoritarian insurrectionist International, Elephant Editions, London 1993, pagine 24.
Opuscoli provvisori n. 14
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    Introduzione alla seconda edizione

    Introduzione alla prima edizione

    Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista (Proposta per un dibattito)

      Parte Prima: (Spunti per un’analisi)

        Le ragioni di una scelta di area geografica

        Le condizioni della sinistra tradizionale

        Nessun ripiegamento

        Nessun contenitore ideologico

        Il conflitto tra Paesi ricchi e Paesi poveri

        L’irrompere dell’irrazionale nell’ambito del politico

        L’impossibilità del capitale avanzato

        Conclusione provvisoria

      Parte Seconda: (Spunti organizzativi)

        Un’organizzazione informale

        Un’occasione organizzativa

        Un programma minimale

        Due discriminanti essenziali

        Primi passi organizzativi

    Alcune personali considerazioni

      Perché un’organizzazione internazionale informale, antiautoritaria e insurrezionalista che si sviluppa a partire dal Mediterraneo.

      Cosa significa informale

      Cosa significa insurrezionale

      Cosa significa antiautoritaria

    Ai compagni dei Paesi dell’Est

      Le radici storiche

      Le nuove condizioni del capitale

      Superamento delle vecchie concezioni organizzative anarchiche

      Gruppi di affinità

      Nuclei di base

      Lotte di massa

      Lotte specifiche

      Lotte di liberazione nazionale

      Perché siamo anarchici insurrezionalisti?

    Individuo, gruppo di affinità, insurrezione

    Gruppi di affinità, organizzazione informale, insurrezione

    Interventi al Convegno di Velletri

    Nota editoriale

Introduzione alla seconda edizione

L’idea, semplice e facilmente comprensibile, di una organizzazione informale raggruppante, appunto in maniera informale, compagni e gruppi antiautoritari a livello internazionale, contenuta in questo libro, non ha riscontrato nella pratica il successo di partecipazione e approfondimento che avrebbe meritato.

Chiedersi il perché è vana esercitazione retorica.

I tempi non sono ancora maturi.

Inserisco in questa seconda edizione la trascrizione della registrazione su nastro dei miei interventi al Convegno di Velletri del dicembre 2000 dedicato all’argomento in questione.

Anche quell’occasione può essere considerata un fallimento.


Trieste, 25 ottobre 2007

Alfredo M. Bonanno

Introduzione alla prima edizione

Pensare a una serie di rapporti stabili fra compagni nell’ambito del bacino del Mediterraneo, nucleo essenziale da cui partire verso una possibile maggiore ampiezza futura, anche al di là degli iniziali limiti geografici, è stato un sogno accarezzato per lunghi anni.

Non un feticcio organizzativo qualsiasi, una sigla forte e altisonante, che come un manichino spaventapasseri tenesse lontano i malintenzionati repressori e attirasse le anime pure degli anarchici desiderosi di conoscersi, ma qualcosa di concreto, di reale, capace di andare al di là degli aspetti formali, o, se si preferisce, di bandiera, per essenzializzare il problema.

Tentativi in questo senso ce ne sono stati tanti, tutti animati da una prospettiva più ampia, più generica, quella che di regola alimenta gli incontri fra compagni a livello internazionale, una conoscenza importante per entrare in possesso, in maniera diretta, di quelle notizie che solo chi abita in un posto preciso possiede. Gli aspetti repressivi, quasi sempre, molto meno anche le iniziative di lotta, intese queste ultime nel senso preciso del termine, cioè quando siamo noi, proprio noi, a prendere in mano il gioco e a condurlo a modo nostro.

Pur non nascondendomi l’importanza di questi interessi informativi e degli sforzi che tutti abbiamo fatto, e continuiamo a fare, per svilupparli, pur condividendo la necessità di fare circolare quanto più materiale è possibile in questo senso, in modo che si sappia che succede nei vari Paesi dove ci sono compagni con cui si è in contatto, non c’è dubbio che questa fondamentale attività non è tutto quello che si può fare.

Allo stato delle cose, per quanto possa sembrare incredibile, una fitta rete di fogli e foglietti, di giornali e periodici, rete ricca di notizie, quasi sempre riguardanti la repressione, ma anche qualche attacco diretto contro i responsabili e gli oggetti concreti che rendono possibile il dominio, esiste e svolge benissimo il suo compito. Un tessuto sotterraneo si è sviluppato in questi ultimi anni, in grado di corrispondere perfettamente, o quasi, alla richiesta d’informazione avvertita da tutti i compagni. In questo senso, possiamo dire che i giornali tradizionali, portavoce, nelle diverse situazioni, delle forme classiche dell’organizzazione anarchica, sono proprio quelli che meno partecipano a questo movimento spontaneo, polverizzato in mille iniziative che non è possibile racchiudere in un’intenzione di sintesi.

Ma, ancora una volta, non è questo il punto.

Anche lo scambio d’informazione, e perfino la conoscenza reciproca, diretta e personale, può risultare una panacea come un’altra, un surrogato dell’azione. Io mi drogo d’informazione quotidianamente, attraverso i giornali e la televisione, e continuo così a farlo attraverso i contatti privilegiati che riesco ad attingere con i compagni dei diversi Paesi stranieri con cui entro in contatto. Certo, lo faccio in buona fede, anzi mi do molto da fare per mettere insieme questa seconda dose d’informazione, che non posso cogliere semplicemente girando il bottone della televisione o aprendo il giornale del mattino. Spesso la stessa difficoltà di reperimento di questo secondo tipo di materiale informativo, la fatica e il costo dei viaggi, lo scrivere lettere e il conoscere esotici compagni stranieri, fatto quest’ultimo che mi riempie il cuore di gioia e di mal represso orgoglio, tutto questo alla fine mi impedisce di esercitare sul mio comportamento quel minimo di luce critica che è sempre indispensabile tenere accesa.

Che me ne faccio di questa informazione, diciamo così, privilegiata? Dopo avermela rigirata fra le mani, l’unica cosa che mi viene in mente (ce ne sarebbero altre, ma non saprei da dove cominciare) è di passarla ai compagni, perché si diffonda quella informazione, e così il mio iniziale e personale privilegio diventi patrimonio comune, quanto più possibile generalizzato.

Lodevole pensiero, ma anche questo costretto ad una triste conclusione: e dopo?

E dopo, altra informazione, altri spazi, altri viaggi, altri incontri con altri più o meno esotici compagni, altro rigirarmi fra le mani altre carte e, alla fine, altri passaggi verso quella mitica generalizzazione informativa che dovrebbe essere il lievito della rivoluzione. Dovrebbe, perché di fatto non lo è, non lo è se resta sola, se manco dell’essenziale, se manco di un progetto.

Ecco il punto. Tutto crolla, o almeno si ridimensiona in una gradevole ninnananna adeguata a salvarmi la vita, se manco di un progetto. Ma nessun progetto mi viene fornito come supplemento al pacchetto informativo. Allo stesso modo, non posso andarmelo a cercare per le medesime strade e con gli stessi mezzi che percorro e adopero nella ricerca di quei contatti che mi riempiono, e mi salvano, la vita. Il progetto è dolorosa e sconcertante esperienza personale, bisogno primario di chiedere e chiedersi: perché?, slancio per andare oltre, ancora più avanti, ben al di là di quello che arrivando come latte e miele sembra a tutta prima in grado di soddisfare la mia sete informativa.

Non dico che questo dèmone, una volta ospitato nel proprio cuore, sia in grado di chiudere la porta a qualsiasi altra faccenda, dico solo che insisterà altamente per ottenere di più, e non quantitativamente (altra informazione, altra carta, altri guai, altre belle notizie d’attacco), ma qualitativamente, diventando intransigente, chiedendo di più e proponendo di più.

In fondo, l’adeguarsi, com’è facile capire, non è che il segno della propria inadeguatezza. Io non posso permettermi di chiedere idee e progetti a chi mi trasmette informazioni, sarebbe implicitamente una delega e un gesto scorretto, specialmente per un anarchico, potrei suggerire io un territorio di approfondimento, verso cui indirizzare quel flusso d’informazioni così ricco, che invece mi limito a sponsorizzare in maniera passiva, o a farne carne della mia carne in maniera passionale, ma per fare ciò, per avanzare un passo ancora su questa strada, occorrerebbe il dèmone che mi detta dentro, ed anche il contenuto di questo dettato, la sostanza del progetto. Mancando questa sostanza, e non avendo mai sentito dentro di me la necessità di fornirmi di tutti gli strumenti idonei a farla venire alla luce, non posso fare altro che tacere, ripiegando su una posizione di minore rischio.

Forse nelle pagine precedenti, come spesso mi accade, sono andato al di là delle mie intenzioni. Non tutti i compagni si pongono passivamente di fronte all’arrivo del flusso informativo da loro stessi sollecitato e reso operante. Molti pensano che la stessa circolazione delle notizie sia progetto rivoluzionario e, dentro certi limiti, hanno ragione, però anche questi compagni devono convenire che il progetto può essere ben più ampio e, principalmente, per essere considerato tale, deve possedere la caratteristica dell’iniziativa, deve cioè essere un nostro progetto di attacco e distruzione dell’ordine esistente. Può, di sicuro, avere anche dimensioni circoscritte, e perfino microscopiche, ma questa caratteristica la deve possedere in pieno fin dal primo momento della sua elaborazione.

Può anche darsi, e non posso escluderlo, che molti compagni abbiano un progetto di massima, diciamo un indirizzo verso lo sviluppo e la crescita quantitativa del movimento anarchico, inteso in senso largo, e pur non appartenendo ad un’organizzazione specifica di sintesi, si sentano in grado di legare quel loro impegno nella ricerca dei contatti informativi con quel loro progetto di crescita, pur restando quest’ultimo racchiuso nella nebulosità di uno sviluppo rinviato sempre ad un domani più prolifico di risultati dell’oggi. Può darsi, ma non è questo il progetto di cui discuto.

Se dentro di me il dèmone mi detta, a volte confusamente e perfino contraddittoriamente, una sollecitazione distruttiva, e se questo bisogno primario, che in me è come quello dell’aria che respiro, si concretizza in visioni apocalittiche di masse insorte che azzerano gli intrighi e le sostanze del dominio, non posso nascondere che tutto ciò potrebbe solo essere un bel sogno, o un incubo, a seconda dei punti di vista.

Sarebbe stupido andarmene in giro a parlare ai compagni di queste visioni notturne che mi induriscono l’animo e mi trascinano all’azione, al massimo tutto ciò potrebbe giustificare le mie azioni di fronte a me stesso, rendermele comprensibili e quindi realizzabili, ma il progetto è qualcosa di più e qualcosa di meno.

È qualcosa di più, perché traduce in termini pratici e teorici quegli impulsi e quei desideri, perché li fa vivere come processi sociali possibili legandoli alle condizioni effettive del nemico di classe e alle sue trasformazioni nell’organizzazione del dominio. È qualcosa di meno, perché nel fare ciò rimpicciolisce l’afflato possente del dèmone e lo porta nell’ambito del discorso tecnico, persuasivo e perfino un poco pedante.

In ogni caso, sia ricorrendo alle semplici immagini dell’ira, che tutto vorrebbero azzerare dell’immondo nido di guai in cui viviamo, sia costruendo le linee di un progetto insurrezionale specifico, non mi sono mai sentito in grado di pensare, le due strade, come un possibile completamento dei contatti e della fruizione del flusso informativo di cui sopra. Dall’altro lato, più spesso di quanto non si pensi, avvertivo negli altri lo stesso interesse e la stessa passione che si agitavano in me, però non mi riusciva di legare i due momenti, avvertivo sempre una sorta di salto logico inaccettabile che mi faceva ripiegare con prudenza. Così, spesso finivo per abitare due universi separati, e con me tanti altri, quello informativo e quello progettuale. A volte volevo fare in fretta a sbrigarmi del primo per dedicarmi al secondo, persistendo nell’immagazzinarli separati.

Sarebbe inesatto dire che il problema venne risolto riflettendo sui possibili sviluppi della situazione sociale, economica e politica dei Paesi del Mediterraneo dopo il crollo dell’impero sovietico. Inesatto, ma indicativo.

La riflessione cominciò proprio da lì. Senza stare ad approfondire i problemi dei nuovi Paesi emergenti dalla decomposizione del socialismo reale, sembrano a prima vista più che probabili situazioni di estremo disagio generalizzato non solo nelle fasce più miserabili, ridotte al lumicino delle risorse, ma anche in quelle che una volta erano le classi medie, privilegiate dalla piramide gestionaria dello Stato onnicomprensivo, ed ora abbandonate a se stesse, a un destino se non di miseria, di degrado sociale e quindi di abbassamento delle prospettive alle quali erano state da sempre educate.

A partire dal 1990 questa situazione è diventata evidente, poi ingigantitasi sempre più, frenata solo dallo sporadico e casuale intervento umanitario delle organizzazioni internazionali, dal braccio secolare degli Stati Uniti e dall’occhiuta carità della rinnovata Germania.

Molti di noi, a partire diciamo dagli anni Sessanta, siamo stati abituati a considerare circoscritti alla Spagna, alla Francia, alla Gran Bretagna, alla Germania, alla Svizzera i rapporti internazionali con gli altri compagni anarchici. Dopo la caduta del fascismo spagnolo, iniziative interessanti di attacco vennero a cessare di fronte all’equivoco di una rinascita spettacolare del movimento anarchico iberico, rinascita maldestramente gestita nel corso di questi due decenni appena trascorsi, ma che nelle sue speranze di forza popolare quantitativamente significativa aveva, fin dall’inizio, bloccato qualsiasi tipo di attacco contro la nuova democrazia spagnola, considerata una possibile controparte per un dialogo gestionario della cosa pubblica.

Le tristezze di queste valutazioni politiche portarono compagni dapprima impegnati, e seriamente, nell’antifascismo e nella cosiddetta lotta clandestina, a limitarsi ad un sostegno esterno delle forze democratiche di sinistra, se non a un’accettazione del voto come strada verso progressivi miglioramenti utili agli sfruttati.

Ma, anche accantonando queste miserie, e prendendo in considerazione la lotta più radicale, o almeno tale in apparenza per il suo sistematico ricorso alle armi, nessuna delle esperienze partite con intenzioni libertarie, dovute alla considerevole presenza di anarchici, si può dire che si sia conclusa con una vera e propria sperimentazione organizzativa e metodologica diretta a spezzare il cliché del partito armato. Dal M.I.L. al G.A.R.I., da Action Directe al 2 Giugno, fino ad Azione Rivoluzionaria, l’avvitamento è stato per un irrigidimento delle posizioni di partenza, con l’eccezione, forse, dell’Angry Brigade, per quel che è dato sapere. Senza nulla togliere all’interesse e alla validità di tali esperienze.

Diciamo che la continuazione “antifascista” in seno a esperienze di organizzazioni armate specifiche di matrice libertaria, non è stata senza conseguenze. La mentalità “reclutatrice”, conseguenza della visione quantitativa come simbolo di forza e presenza nella realtà, indirizzandosi verso il chiuso del proselitismo da sigla facile da ricordare (AR nell’elenco alfabetico viene prima di BR), tagliava inconsapevolmente la strada alla generalizzazione dello scontro, anzi, alla fine, vedeva ogni sforzo verso la polverizzazione nel territorio delle azioni armate, come un elemento disgregatore e quindi negativo. Il massimo dell’indecenza è toccato al grido: “Unità delle organizzazioni combattenti”.

Nel senso contrario, nel senso cioè dello “Stiamo arrivando”, di cui si era fatta portatrice l’Angry Brigade, non si fece molto, anche per la mancanza in tanti compagni del coraggio di sperimentare, per cui si preferiva ripiegare su strutture più “solide”, in apparenza, come, per esempio, Action Directe, evitando la preoccupazione di mettersi a pensare dove potesse mai condurre una esperienza del tipo “Stiamo arrivando”, senza sapere in effetti cosa fare e dove andare a parare.

Eppure, a fianco di queste esperienze, e fin dentro di esse (se non altro a livello di dibattito teorico), ci sono state decine di migliaia di piccole azioni, corrispondenti nei fatti al desiderio diffuso, se non proprio generalizzato, di attaccare il nemico in mille modi diversi, non pretendendo di colpirlo nel cuore che non esiste, e neanche nei centri operativi essenziali che seppure esistono si coprono uno con l’altro. E queste azioni, quasi sempre non rivendicate, oppure assistite da fantasiose rivendicazioni e da improbabili sigle, avevano solo lo scopo di allargare l’attacco armato, fare vedere come esso fosse possibile a prescindere da strutture verticistiche più o meno chiuse, e in fondo come lo si potesse proporre quale strumento rivoluzionario generalizzabile, in certi casi, a tutta una situazione di lotta. Nessuna intenzione di crescita quantitativa.

L’anarchismo insurrezionalista nasce qui, in questo rifiuto del ricatto quantitativo e nell’intrapresa delle piccole azioni come modello rivoluzionario di intervento nella realtà. Ma, per molti motivi, nasce qui e resta confinato ad esperienze quasi esclusivamente dell’Europa occidentale, con l’ulteriore restrizione dei diversi settori nei quali sembra prendere corpo e incanalarsi: la liberazione animale, l’antinucleare, la solidarietà internazionale verso i popoli oppressi in maniera particolarmente feroce, ecc. Un progetto generale stenta a prendere piede, e meno che mai ad indirizzarsi verso Paesi europei con un altro genere di esperienza alle spalle e altri problemi da affrontare.

Se l’anarchismo insurrezionalista propone un metodo di attacco diffuso nel territorio, sembrerebbe a tutta prima la proposta progettuale più adeguata alle condizioni, a volte prossime all’anomia, presenti in molti Paesi dell’Est. Forti conflitti di base caratterizzano queste condizioni: una classe operaia in sfacelo ma ancora fortemente legata ad obsoleti luoghi di produzione, una classe dirigente velocemente indirizzata verso una inevitabile proletarizzazione, un vertice politico instabile e senza più l’alibi ideologico che in passato l’aveva aiutato a superare tanti momenti critici. Eppure non riusciamo a farci intendere. Anzi, in molti Paesi, come la Russia, è proprio il movimento anarchico tradizionale, l’anarcosindacalismo e l’archinovismo, che prendono piede, ripercorrendo i tristi itinerari spagnoli di dieci anni prima. Forse alcuni percorsi storici sono inevitabili?

Non credo, ma i fatti sono così, si presentano così. La riscoperta della propria identità rivoluzionaria, specie per le nuove generazioni, non è mai un movimento lineare, ma un processo contraddittorio che si sviluppa in maniera contorta e che per questo costa molto di più in termini di lacrime e sangue. Forse l’uomo, come diceva Bakunin, non ha ancora trovato una strada diversa per ribellarsi, e si attarda alla ricerca del mezzo migliore, rovistando nella cantina degli orrori passati.

Venendo sempre più a contatto, sia pure attraverso la stampa, ma qualche volta anche grazie a notizie che riescono a farsi largo fra le mille remore e le malcomprensioni che persistono, non ultima la barriera delle lingue, ci si rende conto che in questi Paesi la metodologia insurrezionalista non è un metodo fra i tanti, e neppure un progetto ben delineato, quanto una necessità alla quale non c’è modo di ovviare diversamente. Se finora le insurrezioni sono state espressioni circoscritte del malcontento popolare, fra poco potrebbero diventare incendio generalizzato, inarrestabile, in grado di determinare ripercussioni non facili a controllarsi nel resto dell’Europa, regioni mediterranee in particolare.

Questo ragionamento, in molte occasioni rigirato come un calzino, ci ha portato, in occasione del Convegno di Trieste, del 1990, ad avanzare una proposta organizzativa fondata su di un progetto insurrezionale. Le risposte che si sono avute alla lunga non sono risultate incoraggianti, anche perché presentate all’interno di un contesto dove dominava un altro modo d’intendere l’incontro stesso, il parlare fra compagni, il prendere contatto per la prima volta con esperienze lontane dalle proprie. Forse in quella occasione si lasciò che prevalesse (e come si poteva fare diversamente?) l’ideologia del siamo tutti anarchici, cerchiamo tutti uniti di raccogliere l’eredità della sinistra socialista e del mondo da essa creato, un mondo di orrori e torture, togliamo da questa esperienza tragica lo Stato, liberalizzandola a partire dall’economia, e ci resterà come l’oro in fondo al crogiolo alchemico, il comunismo anarchico.

Di certo le cose non stanno a questo livello di facilità. L’anarchia è altra faccenda, passa prima di tutto per una profonda trasformazione dell’individuo, e questa trasformazione non può aversi senza la crescita della coscienza, quindi senza l’avvento di una nuova capacità – prima inesistente – di organizzare la propria vita e il proprio mondo in modo radicalmente diverso. Non c’è solo da togliere il marcio della mela, c’è proprio da buttarla via.

Nella differente considerazione del che fare?, ecco che in quell’incontro, mi sembra, leggendo gli Atti (Est: laboratorio di libertà?, Milano 1992), ché all’epoca mi trovavo nel carcere di Bergamo, finisca per affiorare un malinteso di fondo. Nel Convegno ognuno parlava una diversa intenzione programmatica e si aspettava, per converso, di essere capito, cosa che naturalmente non poteva accadere nei limiti temporali di un momento destinato più che altro a conoscersi personalmente e senza nessun progetto discusso prima, di comune accordo, e dentro certi limiti condiviso. Si perpetuava così, all’ingrosso, il rito celebrato al minuto della perenne ricerca di contatti e informazioni. Questi contatti c’erano, finalmente visibili in carne e ossa, le informazioni anche (la grande madre Russia di nuovo in campo sotto i simboli dell’anarchia), ma non si poteva andare oltre, e chi voleva farlo, e cercò di farlo, dovette sembrare ai più, per quel che è stata la mia impressione di lontano spettatore, un marziano.

Qualcosa di diverso, pensarono in molti, un incontro che possa concretizzarsi su di una base teorica precisa, non solo circoscritta nei temi e nei progetti metodologici, ma perfino geograficamente. Il Mediterraneo come luogo di intersecazione di problemi comuni a tanti popoli e Paesi, ma problemi capaci anche di riverberarsi come effetto e come punto di riferimento sulle condizioni di lotta di Paesi geograficamente lontani.

Ma qualcosa di continuativo, che fosse capace di mantenere in vita un flusso informativo retto da un progetto comune, un progetto che concretizzasse nella pratica, e nelle diverse situazioni, l’anima insurrezionale lasciandosi alle spalle ogni illusione di sigle reboanti e di conteggi a mano armata.

L’idea dell’incontro, fra compagni dei diversi Paesi del Mediterraneo, più incontri nel tempo, cominciava a prendere corpo. E, parallelamente, la necessità che questi incontri non fossero la gigantografia dei contatti individuali dedicati quasi soltanto alla reciproca conoscenza e allo scambio d’informazione. In essi occorreva affrontare anche il problema del progetto insurrezionalista, problema complesso e difficile da porre sul tappeto in modo chiaro, ma che la realtà, da canto suo, s’incaricava ogni giorno di più di porre in evidenza.

Che fare? Che fare in casi come la Bosnia, come l’Albania, la Romania, l’Armenia, la Cecenia? Che fare? E ancora, che fare in casi come l’Algeria, la Palestina, Israele? Che fare? Quante situazioni bisognava vedere passare sotto i nostri occhi prima di capire cosa fare?

L’Internazionale insurrezionalista, come idea e come progetto nasce da questo flusso di problemi.

Per tanti motivi, non ultimi quelli repressivi, ma anche per le tante incomprensioni fra compagni che in questi ultimi anni sembra abbiano reso più corrusco del solito il non mai limpido cielo del movimento anarchico, non si è arrivati al primo passo, quello di una riunione preparatoria del Convegno iniziale dell’Internazionale.

Mi auguro che questo libro possa costituire una spinta per andare avanti, per tornare a parlare del problema e per arrivare là dove si era pensato di arrivare.

Che, alla fine, la voglia di fare prevalga sulle remore e sui sospetti.


Catania, 13 dicembre 1998

Alfredo M. Bonanno

Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista (Proposta per un dibattito)

Parte Prima: (Spunti per un’analisi)

Le ragioni di una scelta di area geografica

Esistono molti modi di guardare al Mediterraneo, mare ricco di popoli, di tradizioni, di cultura e di storia, ma anche di guerre e massacri ininterrotti.

Nel momento in cui quest’area geografica è coinvolta, ancora una volta, in giochi politici forse peggiori di quelli del passato, è senza dubbio importante riflettere sulle condizioni sociali, economiche e politiche che s’innestano le une con le altre e fra di loro interagiscono, producendo situazioni di estrema tensione, ma mettendo a disposizione di tutti i rivoluzionari un vastissimo campo d’intervento. Siamo certi che, come per il passato, ma in maniera differente e perfino più feroce, ancora una volta in questo luogo del vecchio mondo, lo scontro di classe troverà una delle sue storiche personificazioni, prendendo forze e consistenze che allo stato attuale delle cose non possiamo immaginare in tutti i dettagli, ma che certo non rispetteranno le divisioni rigide di una dottrina sociale ormai segnata dal tempo e dalle cattive esperienze storiche.

La fine della contrapposizione tra i due blocchi delle superpotenze, quello sovietico e quello americano, è stata tanto veloce, e per certi aspetti inaspettata, da non poterci consentire in tempi brevi di focalizzare il nuovo ordine di problemi che ne viene fuori. Primo fra tutti la scomparsa dell’alibi della guerra globale, quella che avrebbe dovuto, e potuto, sconvolgere il pianeta in un’atmosfera da fine della civiltà, riducendo la vita un’altra volta all’interno delle caverne dalle quali l’uomo era uscito fra stenti di ogni genere. Che poi quel conflitto fosse più teorico che pratico, la cosa non faceva molta differenza, contribuendo a controllare molte contrapposizioni reali, specialmente quelle di classe, che avrebbero potuto far soffiare venti sovversivi di rinnovamento rivoluzionario in tutti i Paesi e, in primo luogo, in quelli a capitalismo avanzato. Anche quando ci si muoveva all’interno di un’ottica di diffusione dei nuclei rivoluzionari minoritari, quindi in un’ottica di per sé riduttiva e destinata a perdere nella inevitabile guerra militare che ne sarebbe venuta fuori, si teneva sempre presente, come remora assoluta, il fatto di non disturbare più di tanto gli equilibri internazionali per evitare di ritrovarsi un’altra volta sull’orlo della guerra atomica, come all’epoca della crisi di Cuba. I movimenti rivoluzionari metropolitani, mutuanti schemi di partito non certo idonei alla liberazione, si proponevano l’idea, per certi aspetti puramente platonica, di importare nella metropoli i focolai di resistenza proletaria tipici del Terzo Mondo, ma non perdevano di vista un discorso articolato sui limiti e sui pericoli di un sovvertimento istituzionale operato all’interno di uno dei principali Stati industriali a capitalismo avanzato. Questa è stata una delle più pesanti remore poste a molti tentativi che avrebbero potuto forse prendere strade diverse e coinvolgere grandi massi in prospettive di reale liberazione.

Le recenti vicende dell’Europa dell’Est si sono svolte in maniera tale, e continuano a svolgersi, da costituire un crescendo di alta drammaticità, senza che si possa vedere in quale modo i popoli che stanno subendo le conseguenze di regimi dittatoriali e repressivi quanti altri mai, potranno alleviare le proprie sofferenze. Perché di questo si tratta. Minoranze di potere cercano di sostituirsi ad altre, ormai superate, sul piano ideologico e su quello pratico, e nel far questo utilizzano ogni mezzo, in primo luogo un mal posto principio nazionalista, per spingere i popoli ad affrontarsi in guerre civili che producono solo morte e desolazione.

Purtroppo, la guerra civile è una strada obbligata, sulla quale ci si deve comunque incamminare in ogni occasione storica di profonda e radicale trasformazione. Non è quindi la guerra civile in se stessa che ci spaventa, e che ci preoccupa, ma il modo in cui questo mezzo viene impiegato per raggiungere obiettivi di potere, la strumentalizzazione della gente, i sacrifici innominabili ancora una volta richiesti ai popoli per soddisfare minoranze di potere che lottano tra loro.

La guerra civile come male necessario, come condizione di supremo sconvolgimento interno ad un Paese, scatenatasi per risolvere in maniera radicale, se non proprio una volta per tutte, il contenzioso sociale accumulatosi nel corso di decenni, è, diciamo, una condizione fisiologica della rivoluzione sociale, una sorta di malattia infantile che la società in corso di formazione deve attraversare. Ma si tratta di guerra civile che vede lo scontro tra opposti interessi reali, quelli della classe dominante, assistita dai suoi tradizionali giannizzeri, e quelli della classe dominata, forte delle sue capacità creative e del proprio coraggio. Ben altro è invece lo spettacolo di guerra civile che possiamo vedere adesso [1993] proprio al centro del Mediterraneo, nei territori della ex Jugoslavia, dove si scontrano interessi reali, certamente, ma dappertutto soffocati da coperture ideologiche, oppure egemonizzati a scopi politici e di potere militare, da gruppi che non vogliono abbandonare le condizioni privilegiate del dominio.

Qui, l’imperialismo dei Paesi più ricchi, in primo luogo l’imperialismo gestionario americano, cerca di controllare la situazione, fiaccando le possibili intenzioni liberatorie di popoli che potrebbero prendere vie diverse e quindi costituire un primo focolaio di rivendicazioni sociali e di potenzialità rivoluzionarie in piena Europa. Non c’è dubbio che si andrà verso nuove condizioni di sfruttamento in questi territori, dove la miseria e l’arretratezza economica segnano livelli impensabili per le agevolezze sia pure fittizie dell’Occidente autodefinitosi opulento. E questo discorso non vale solo per la ex Jugoslavia, ma anche per tutti i Paesi una volta appartenenti all’impero sovietico e adesso forniti di una più o meno stabile autonomia o indipendenza statale. La rete complessiva di questi Paesi è attualmente fornita da un’economia precaria, in primo luogo la Russia, la quale ha bisogno degli investimenti occidentali e giapponesi se vuole decollare su modelli per altro ormai conclusosi malamente nella stessa esperienza capitalista. Quindi, un futuro tutt’altro che roseo, il quale può forse essere considerato positivo soltanto agli occhi di chi ha vissuto una vita di stenti in nome di un presunto ideale di rivoluzione proletaria. Ma i bisogni elementari, la stessa sopravvivenza, incalzano alle porte e popoli combattivi come gli Albanesi, i Croati, i Serbi, gli Sloveni, i musulmani Bosniaci, non sarebbero rimasti con le mani in mano se non fossero stati catturati nell’equivoco di una lotta fra etnie e fra religioni. Da qui l’interesse per l’imperialismo gestionario di mantenere in piedi guerre di religione e contrasti nazionalisti, con l’evidente motivazione di meglio controllare le zone più difficili, in particolare modo nel Mediterraneo.

Il Mediterraneo quindi come luogo di ulteriore sviluppo di questi conflitti, apparentemente a sfondo nazionalista, ma in sostanza basati su problemi di natura sociale, economica e solo in minima parte etnica. È molto probabile che nel Mediterraneo si svilupperanno, nei prossimi anni, conflitti in grado di acutizzare le tensioni in atto, intensificando i flussi migratori, producendo ulteriori e non facilmente immaginabili scompensi economici e sociali.

È con questo teatro di prossimi scontri sociali, ormai in atto in alcune zone ma che ben presto potrebbero generalizzarsi, che gli anarchici e i libertari contrari ad ogni forma di lotta per il potere e ad ogni interesse di dominio e di sfruttamento, dovrebbero entrare in contatto per coordinare meglio la resistenza nei riguardi dei progetti egemonici in corso e organizzare le condizioni migliori per passare ad un attacco contro questi centri di potere, allo scopo di garantire per tutti condizioni accettabili di vita, di sviluppo e progresso.

Le condizioni della sinistra tradizionale

Semplicemente ridicole. L’offensiva conservatrice, ha visto la sinistra mondiale arretrare fin quasi a scomparire. Il numero dei partiti socialisti che sono nell’Internazionale socialista è cresciuto, a seguito di recenti iscrizioni, ma la forza reale di questa organizzazione è assolutamente nulla. Nella maggior parte dei casi, senza portare avanti i modelli “socialisti” del Medio Oriente che hanno esacerbazioni proprie poco comprensibili per un occidentale, questi partiti socialisti partecipano del potere e sono proprio quelli che stanno gestendo il passaggio dalla vecchia alla nuova conservazione. Lo stato sociale scompare del tutto, mentre sorge un capitalismo informatico di nuovo conio, ben più pericoloso del vecchio reaganismo e del vecchio tatcherismo.

Questa crisi non può spiegarsi solo col crollo dell’URSS. Sarebbe troppo facile. Per altro la sinistra, specialmente europea, non ha mai avuto, almeno in tempi recenti, unità di intenti ed ha sempre flirtato con il capitalismo tecnocratico più avanzato. La crisi è quindi più una crisi di ideali che una crisi reale. Questi partiti, e questi uomini, caduto l’alibi del comunismo di Stato sovietico, si sono venuti a trovare esposti nel loro compito di garantire, direttamente o indirettamente, il buon funzionamento dei meccanismi di sfruttamento e di estrazione del ricavato del capitale. Con questa crisi sono scomparse le grandi aspirazioni ideali della lotta tradizionale della sinistra, sia pure con le sue contraddizioni e i suoi errori tattici e strategici, quella lotta che consentiva di vedere possibili l’uguaglianza, la fine dello sfruttamento, la liberazione dell’uomo, la formazione di una società in cui gli individui e popoli potessero vivere senza ammazzare o essere ammazzati.

In effetti, la logica di classe, nel senso tradizionale del termine, cioè come spiegazione dei movimenti interni ad una ripartizione strettamente economica del fenomeno sociale, è del tutto superata. Tutte le organizzazioni politiche che insistono ad attardarsi su spiegazioni meccaniciste di questo tipo, sono destinate a scomparire, penalizzate non solo dal loro ristretto obiettivo riformista, ma anche dall’incapacità di comprendere che il tessuto sociale tradizionale si è definitivamente sdrucito. I movimenti di massa odierni si richiamano a obiettivi che non sono strettamente di classe, cioè non hanno come immediato referente un elemento della società divisa in classi, al contrario si presentano – si basi bene solo a livello superficiale, perché la sostanza delle cose non è cambiata, ma anche questo livello ha la sua importanza – con un interesse sociale generalizzato, come se l’attacco del potere contro la parte più debole dello schieramento di classe, si riuscisse a vederlo, sia pure in forma ridotta, a livello complessivo. Ciò ha fatto riemergere dalle nebbie di un passato che si pensava ormai dimenticato per sempre due elementi, i quali potrebbero determinare un nuovo e più interessante conflitto: da un lato, l’individuo con i suoi diritti, la sua identità culturale e il proprio bisogno di liberazione contro ogni tipo di oppressione; dall’altro, l’inquietudine irrazionale che ci prende tutti e che fa reagire in maniera assurda davanti alla diversità che pretende, giustamente, imporre i suoi diritti. Il rifiorente razzismo trova qui la sua spiegazione.

In questo nuovo territorio di lotte, dove la gente si mobilita in nome della difesa ecologica del pianeta, contro la carestia nel mondo, contro l’imperialismo economico, ma anche partecipando a lotte fondate su nazionalismi, e quindi biecamente strumentalizzate da élite di potere, il ruolo della sinistra tradizionale è definitivamente, e tristemente, tramontato.

Per molti aspetti, il modello di resistenza sindacale e genericamente corporativo del passato, è stato inghiottito dal meccanismo uniformante del capitale informatico. La tecnologia postindustriale ha preso definitivamente il sopravvento, ed ha ridotto, cancellando le chiacchiere ideologiche, il compito di queste organizzazioni di sinistra, partiti socialisti più o meno classici, al loro ruolo semplice e bieco: sostenere e garantire lo sfruttamento e il dominio.

Nessun ripiegamento

Non consideriamo il Mediterraneo come un ripiegamento, un rientro nella dimensione originaria nostra, una ricerca di radici comuni con altri popoli da mettere in conto per valorizzare scelte riduttive. Al contrario, pensiamo che la coscienza della propria condizione storica, quindi anche la coscienza della propria collocazione geografica, politica, economica e sociale, siano punti di partenza per superare il frammentarismo a cui potrebbe definitivamente costringerci una gestione totalmente informatizzata del capitalismo.

Non è possibile risollevarsi dall’isolamento individuale a cui ci stanno obbligando, richiamandosi ad un vano, e perfino utile al potere, universalismo retorico, che fa dell’uomo una entità sovrareale, quindi ideologica, entità in nome della quale possono tornare plausibili e quindi accettabili sacrifici e sottomissioni.

Se qualcosa abbiamo imparato dalla lezione di questi ultimi anni, è che non ci si può coprire gli occhi con la semplice messa sul tappeto dei problemi sociali. Una volta ci si presentava alla ribalta, si indicava la propria collocazione sociale – operaio, borghese, sottoproletario – e si iniziava a dettagliare il proprio intervento, quello che si era riuscito a fare e quello che ci si proponeva, in un ambito sociale ritenuto ben fisso, davanti alla nostra azione. Adesso le cose stanno diversamente. L’ideologia non ci fa più velo, quindi non ci riteniamo soddisfatti quando parliamo in termini economici dello sfruttamento, ma vogliamo entrare dentro i meccanismi stessi di questo processo complesso e difficile, il quale non è soltanto economico, e in futuro anzi potrebbe diventare sempre meno economico, quanto invece è psicologico, per non dire etico e perfino immaginativo. Gli esclusi di oggi, e ancor più quelli di domani, sono prima di tutto individui, poi sono anche operai desalarizzati, o sottoproletari in balia del marasma sociale delle grandi metropoli. Oggi tornano davanti agli occhi i quadri di miseria e di avvilimento cui ci aveva abituato la letteratura inglese del secolo scorso: epidemie che si consideravano facente parte del catalogo degli orrori del passato, tornano con nomi più o meno nuovi, l’alcolismo miete un numero di vittime sempre crescente, mentre il cancro uccide in un anno più di tutte le guerre precedenti al presente secolo.

Il conflitto sociale tende oggi a discriminarsi non in base a una linea economica o di classe, quanto invece ad una differenziazione, per altro crescente, di natura culturale e, in subordine, naturale. Il rischio che oggi corrono gli esclusi non è tanto quello di essere sfruttati, quanto quello di essere disumanizzati, cioè ridotti al ruolo di appendici più o meno consapevoli delle macchine. Naturalmente, più questa disumanizzazione si estende, più diventa facile usare l’imbroglio delle guerre di religione o etniche, e il potere ha sempre un suo interesse ad alimentare queste guerre che stroncando la resistenza degli esclusi e imbrogliandoli sul loro destino, li rendono disponibili al consenso.

In questa situazione, specialmente in un contesto vario e multiforme come quello del Mediterraneo, bisogna andare alla ricerca delle differenze, non per appianarle con improbabili integrazioni, ma per esaltarle e liberarle dalle contrapposizioni fittizie, le quali sono utili soltanto alle intenzioni gestionarie del potere.

Nessuna ideologia microcomunitaria, con la quale coprirsi gli occhi per non vedere la miseria alla quale i vari riduzionismi che ci vogliono fare accettare ci stanno costringendo. Nessuna difesa del generale a spese del particolare, della modernità a spese della tradizione. Non ci riferiamo in questo modo a comunità specifiche da salvaguardare in nome dei loro antichi principi, che nel frattempo sono andati a farsi benedire, sconvolti dal processo di appiattimento voluto dal capitale avanzato. Quando queste condizioni ci sono, esse, per avere la nostra attenzione, devono costituire elemento da cui partire per l’avventura sovversiva della resistenza, da una parte, e dell’attacco, dall’altra. In caso contrario, ogni remora tradizionalista, diventa ulteriore elemento di coesione e di cementazione del nuovo potere, che sul vecchio modello di vita costruisce le nuove illusioni di fraternizzazione comunitaria.

Nessun contenitore ideologico

Alla stessa maniera, non proponiamo un insieme di contenitori ideologici. Niente proposte dirette ad accordare validità a pregiudiziali teoriche astratte, non calate nelle condizioni presenti, nella loro specificità, nella considerazione di ciò che oggi può e deve intendersi come area mediterranea di conflittualità sociale.

La libera circolazione soltanto di gusci vuoti delle vecchie ideologie, in primo luogo anche quella dell’anarchismo perbenista e pluralista del passato, non produce che l’impressione di un movimento rivoluzionario, non la sua vera ed efficace realtà.

Ciò non vuol dire che ricerchiamo un abbassamento della tensione ideale, intesa come chiarimento e circolazione delle idee, dei grandi princìpi di libertà e di uguaglianza. Al contrario, vuol dire che vogliamo concorrere a chiarificare e a mettere in fuga tutti quei tentativi di turbare la capacità rivoluzionaria e trasformativa di questi princìpi, di queste idee.

In un mondo che sta vivendo il crollo rovinoso delle più forti ideologie del passato, non possiamo abbandonarci a vaghe malinconie, né supporre di trovare soluzione ai problemi fuggendo di fronte alle mutate condizioni della storia del mondo. E questo è quello che stanno facendo tutti coloro che i nome di un malcompreso individualismo, o in nome di una obiettiva naturalità di alcuni grandi problemi del pianeta, stanno scappando di fronte alle nuove difficoltà di affrontare il problema del conflitto sociale.

Il conflitto tra Paesi ricchi e Paesi poveri

A noi sembra uno dei poli essenziali dello scontro di classe degli anni futuri nel Mediterraneo. In tutto il mondo questa confrontazione potrebbe sostituire quell’altra, che ormai siamo abituati a considerare come superata, quella cioè tra comunismo e capitalismo. Solo che mentre quest’ultima era puramente formale, non essendoci differenza fra le forme gestionarie e di mercato del capitale, il conflitto tra Paesi ricchi e Paesi poveri viene ad assumere una più consistente realtà.

E molti di questi Paesi poveri, o comunque allo stato attuale delle cose sostanzialmente poveri, si affacciano sul Mediterraneo. Le intenzioni dei Paesi avanzati di trasferire le loro strutture capitaliste in questi Paesi avevano il solo scopo di mantenere una crescita diseguale, crescita sulla quale si è da sempre fondato lo sfruttamento internazionale. Adesso, in un processo di veloce trasformazione si potrebbero modificare alcuni degli aspetti del problema della distribuzione delle ricchezze, e spaventosi e colossali conflitti potrebbero svilupparsi all’ombra della paravento etnico o dell’integralismo religioso.

Il mercato delle armi costituisce uno dei punti essenziali di una politica tradizionale di sfruttamento e di sottomissione che potrebbe velocemente modificarsi nei prossimi anni. Ciò metterebbe gli Stati più arretrati, ma che per decenni si sono irrobustiti sotto l’aspetto militare, in condizione di scatenare continue guerre periferiche, fino ad arrivare a conflitti di portata complessiva, nell’ambito del Mediterraneo, area geografica che mantiene, sotto molti aspetti, l’antica importanza.

Nell’ambito dei Paesi di area islamica, questo conflitto prende connotazioni integraliste religiose, e la cosa ha grande importanza in quanto questa crescita corrisponde ad una rimessa in questione del dominio dei laici filo-socialisti, o filo-marxisti. La distinzione antica dell’Islam tra amico e nemico, tra fedele e infedele (“mu’min” e “kafir”), corrisponde a quella tutta moderna tra oppresso e oppressore (“mustad” e “mustakbird”). È all’interno di quest’immenso laboratorio teorico dell’Islam militante che appaiono preoccupanti corrispondenze tra guerra civile e guerra militare, tra guerra dei popoli per liberarsi e guerra degli Stati per imporre il proprio dominio. E l’integralismo musulmano trova buona presa quando fissa il parallelo tra gli oppressori e gli infedeli, e il conseguente parallelo tra questi ultimi e i Paesi occidentali più avanzati e quindi più ricchi. La miseria ha sempre occhi miopi ed è cattiva consigliera.

L’integralismo islamico, per altro alla pari con altri integralismi, come ad esempio quello cattolico, sta rispondendo all’isolamento e ai sospetti di ogni parte del mondo, con un considerevole irrigidimento delle proprie posizioni, anche a seguito delle posizioni assunte dalla cosiddetta rivoluzione iraniana. In particolar modo si verificano chiusure mentali, che per altro sembrerebbero fare a pugni con la tradizione di civiltà e tolleranza specifica del mondo musulmano, le quali finiscono, a livello politico, per trasformare l’islamismo in una teodicea di dominio, in un regime totalitario. Così, tutti gli aspetti della vita quotidiana vengono non più regolati come massime di virtù, ma irreggimentati come condizioni terrene per ottenere determinati favori, se non la pura e semplice sopravvivenza.

I possibili esiti di questo movimento politico di recupero specifico dei Paesi musulmani, potrebbero essere: una possibile esplosione a livello di massa, movimento capace di trascinare milioni di persone verso una dilagante guerra di religione; oppure, una implosione, cioè un regresso dell’attuale crescita dello stesso integralismo. Essendo, quasi sempre, la geografia dell’attuale islamismo, disegnata interamente nell’ambito di Paesi poveri, o comunque anche se facoltosi delle ricchezze pervenute dal petrolio, non in grado di sfuggire all’ipoteca dell’imperialismo gestionario americano e mondiale, la guerra di religione che ne deriverebbe potrebbe percorrere itinerari paralleli ad una vera e propria guerra di liberazione sociale. Ma si tratta di ipotesi non sempre vicine alla realtà.

L’irrompere dell’irrazionale nell’ambito del politico

È quello che sta accadendo sotto i nostri occhi, ogni giorno di più.

Primo, il nazionalismo, che fa ribollire il grande mosaico etnico della fascia europea dell’ex impero sovietico e dei Paesi del vecchio mondo del socialismo reale. Si tratta di pulsioni irrazionali che servono ad accendere la miccia di reali conflitti economici e sociali, conflitti per il dominio, ma anche lotte popolari per cercare una soluzione ai problemi più impellenti della miseria e della sopraffazione. Una volta scatenate, queste pulsioni non si allevieranno facilmente e proporranno sempre più pressanti inviti alla guerra e alla lotta di liberazione nazionale, in cui non sarà facile distinguere dove finisce il militarismo degli Stati e comincia la naturale, e giusta, necessità di liberazione dei popoli.

Secondo, l’integralismo islamico (sostenuto indirettamente dagli altri integralismi religiosi che vi si oppongono facendolo in questo modo crescere e legittimandolo), che fa irrompere una dimensione teologica “vecchia maniera” all’interno del mondo politico moderno, presentando posizioni e interpretazioni che sembravano appartenere al passato museo degli orrori. Come alternativa agli orrori laici dei regimi socialisti e marxisti, alcuni dei quali non disdegnano adesso di presentarsi come veri difensori dei credenti, confondendo sempre di più il quadro, non c’è che dire. Al peggio veramente non c’è fine.

Terzo, l’individualismo laico vecchio stampo, liberal-sociale, forse non in grado di percorrere nuovi indirizzi, ma certo in grado di suscitare pulsioni verso una sorta di religione dell’io, una sacralizzazione dell’astrattezza umana, che diversi anni fa sembrava ormai sconfitta, e per sempre. Se è vero che oggi bisogna liberarsi dai vecchi schemi che hanno fatto il loro tempo, in base ai quali ragionavamo fino ad ieri, come se avessimo davanti la verità sacrosanta, se oggi nessuno più accenna ad un’analisi partendo da dicotomie ridicole come quella tra borghesia e proletariato, è anche vero che non possiamo farci sostenitori di un astratto umanitarismo naturalistico. Non possiamo, in altre parole, parlare di difesa della natura, di salvaguardia dell’uomo contro i pericoli della tecnica, di resistenza contro ogni processo di deculturalizzazione imposto dal potere, se non inseriamo tutto questo all’interno della realtà sociale specifica che prendiamo in esame, la quale, per quanto possa variare, andando dai Paesi più avanzati dal punto di vista economico a quelli più arretrati, presenta sempre una costante: la divisione di classe tra dominanti e dominati, tra inclusi ed esclusi.

L’impossibilità del capitale avanzato

Forse i capitalisti più illuminati si rendono conto della polveriera che si sta accumulando alle porte del benessere europeo, e fin dentro la propria casa, nelle affollate strade piene di negozi di generi di consumo delle capitali europee. Ma, anche se questa presa di coscienza di estendesse al massimo grado, il capitalismo non è in grado di risolvere il problema economico dei Paesi poveri.

Non può farlo per le difficoltà in cui si trovano quasi tutti i sette Paesi più sviluppati del mondo, a cominciare dagli USA, e compresa la Germania, la quale investirà nei prossimi dieci anni qualcosa come mille miliardi di marchi nella ex DDR allo scopo di portare un Paese, che non era proprio fra i più poveri, a livello occidentale. Tenendo conto delle proporzioni, e pensando che l’ex DDR ha quasi diciassettemilioni di abitanti, mentre la sola fascia occidentale dell’ex impero sovietico ne possiede più di duecento, si può avere un’idea di quale impossibile cifra occorrerebbe per sollevare le sorti di queste economie. Per non parlare del Nord Africa e delle dissestate economie del Medio Oriente. Il problema è pertanto economicamente irrisolvibile, e quindi si svilupperà sulla base delle sue naturali conseguenze: aumento dell’immigrazione, della povertà dei Paesi poveri, dei conflitti etnici, sociali, economici, delle guerre e dei massacri.

La fine del secondo millennio comincia a somigliare sempre di più alla fine del millennio precedente.

Conclusione provvisoria

Problemi comuni pensiamo possono essere affrontati su di un terreno comune, teorico ed organizzativo.

I punti di una possibile discussione da approfondire sono i seguenti:

Considerando che la conflittualità economica e sociale nell’area del Mediterraneo, andrà sempre di più ad acutizzarsi invece di alleggerirsi;

Considerando che i movimenti, i gruppi e gli individui che hanno a cuore la libertà e la salvaguardia degli popoli e dei singoli, per questo solo motivo hanno interessi comuni;

Considerando che il tragico fallimento delle ideologie e delle organizzazioni della sinistra tradizionale è ormai un fatto avvenuto e non una tragica prospettiva;

Considerando che diventa sempre più urgente darsi una organizzazione internazionale fra le diverse realtà che si affacciano sul Mediterraneo;

Proponiamo a tutti gli individui, tutti i gruppi e tutti i movimenti interessati di entrare in contatto con il gruppo promotore sottoindicato [all’epoca della prima pubblicazione di questo testo, a questo punto era indicato il nome del gruppo promotore, ovviamente adesso non più valido].

Parte Seconda: (Spunti organizzativi)

Un’organizzazione informale

L’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista si propone come organizzazione informale.

Che cosa consideriamo come “organizzazione informale”?

Un insieme di individui, gruppi, strutture, movimenti, e ogni altra forma più o meno stabile di rapporti fra persone, che cerca di entrare reciprocamente in contatto, cioè di approfondire una reciproca conoscenza.

Il primo elemento di ogni organizzazione informale non è quindi dato dalla nascita di una precisa struttura, con individuazione di persone e compiti da assolvere, con divisione del lavoro e con incarichi di coordinamento o altro. Il primo elemento di ogni organizzazione informale è nella conoscenza reciproca.

L’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista è quindi basata su di un progressivo approfondimento della reciproca conoscenza fra tutti i suoi aderenti. Questa sarà senz’altro una conoscenza rivoluzionaria in quanto s’indirizzerà allo scambio di quelle informazioni sul reciproco lavoro che ogni componente, ogni gruppo e ogni struttura ecc., sta svolgendo nella propria realtà. A questo scopo tutti gli aderenti dovranno indirizzare al gruppo promotore la documentazione che riterranno necessaria (giornali, opuscoli, libri, volantini, manifesti ecc.) per avere notizia della propria attività. In contropartita dovranno tradurre nella propria lingua il testo del presente documento e inviarlo a tutti i gruppi, nazionali e internazionali, con i quali sono in contatto.

In questa maniera si metterà in moto la prima fase organizzativa informale, costituita dalla diffusione della presente Proposta per un dibattito.

Un’occasione organizzativa

Adesso qualche idea su cosa intendiamo per “occasione organizzativa”.

Pensiamo che l’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionale non debba prefiggersi uno scopo quantitativo, cioè una semplice crescita numerica dei suoi aderenti. Questa crescita potrà esserci solo se i partecipanti troveranno utile reciproci contatti per approfondire, ognuno sulla base delle proprie affinità, personali e politiche, una reciproca conoscenza, per un lavoro comune.

Ma questi contatti, diciamo così, saranno occasionati dall’esistenza dell’Internazionale, ma non saranno vincolati in alcun modo da essa. I singoli partecipanti cercheranno, partendo dalla reciproca conoscenza, all’interno dell’Internazionale, i propri compagni, costruendo insieme a questi il proprio percorso di affinità, che può quindi escludere tutti gli altri, con i quali, pur aderendo alla medesima organizzazione non ci si sente legati a causa dell’assenza di questa affinità.

Appare quindi più chiaro il concetto non quantitativo di organizzazione. Quest’ultima, non avendo le caratteristiche delle organizzazioni formalizzate, non si pone obiettivi di crescita, quindi non pretende riassumere al proprio interno, come in un minuscolo laboratorio sociale, l’intera realtà delle lotte, nelle sue diverse espressioni nazionali e internazionali. Vuole invece limitarsi, fin dal momento della sua nascita, a costituire un punto di riferimento, un’occasione di incontri e di scambi, di conoscenze reciproche e di legami di affinità, di simpatia, di affetto, e ciò allo scopo non di creare una cerchia allargata di amici, ma allo scopo di mettere a disposizione di quelli che lo desiderano le esperienze di tutti gli altri per allargare le possibilità di lotta e quindi la capacità rivoluzionaria di incidere sulla realtà.

Un programma minimale

Per questo motivo non proponiamo una piattaforma o un programma dettagliato, non suggeriamo procedure di adesione e possibili organigrammi in cui dividere il lavoro e gli stessi rapporti fra aderenti.

Lasciamo la massima libertà a tutti di trovare la propria strada, di costruire il proprio itinerario diretto alla ricerca dei propri compagni, con cui stringere accordi e relazioni più significative, naturalmente con l’unico obiettivo plausibile, quello di una intensificazione e di un miglioramento delle attuali condizioni di lotta.

Per questo stesso motivo, mancando un programma di fondo conosciuto in tutti i dettagli, ogni aderente non potrà sentirsi obbligato a partecipare alla lotta di un altro aderente, verso il quale ovviamente non ha potuto, o non ha voluto, approfondire una reciproca conoscenza allo scopo di determinare una reciproca affinità. In altri termini, non vogliamo costituire un partito internazionale, ma una serie di rapporti internazionali, una grande occasione perché tutti coloro che vi troveranno il proprio interesse potranno sviluppare al massimo grado questi rapporti.

Due discriminanti essenziali

Poniamo però due discriminanti essenziali, peraltro contenute nella stessa denominazione dell’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista. E ciò non perché vogliamo essere settari o vogliamo precludere eventuali possibilità ad alcuni a favore di altri.

Lo facciamo perché vogliamo evitare di perdere tempo noi, e non vogliamo farne perdere agli altri.

La prima discriminante è l’antiautoritarismo.

Riteniamo che tutte le organizzazioni rivoluzionarie che scelgono le strutture autoritarie al proprio interno come metodo per rapportarsi, e al proprio esterno come metodo di lotta, siano più o meno funzionali al potere che pretendono di combattere. Nel migliore dei casi queste organizzazioni finirebbero per abbattere un potere in carica per sostituirlo. Per tale motivo discriminiamo queste organizzazioni fin dall’inizio invitando tutti coloro che si riconoscono in queste scelte e in questa pratica a non entrare in rapporto con noi. In ultimo, pensiamo che ormai sia venuto il tempo per rifiutare radicalmente ogni velleità autoritaria nella lotta rivoluzionaria. Il mondo è pronto per esperienze di genere diverso.

La seconda discriminante è l’insurrezionalismo.

Riteniamo che la pratica di lotta più adeguata allo stato attuale del conflitto di classe in quasi tutte le realtà, ma in modo particolare nella realtà mediterranea, sia quella insurrezionale. Intendiamo per pratica insurrezionale l’attività rivoluzionaria che intenda prendere l’iniziativa della lotta e che non si limita all’attesa o alla semplice risposta resistenzialista agli attacchi del potere. Gli insurrezionalisti non condividono quindi tutte le pratiche quantitative tipiche dell’attesa, cioè i progetti organizzativi che prevedono di aspettare gli esiti di una crescita quantitativa prima di intervenire nelle lotte, e che in tale attesa si limitano soltanto al proselitismo e alla propaganda, oppure ad una sterile e innocua controinformazione, ormai fuori del tempo. Anche in questo senso, con questa nostra scelta insurrezionalista, non vogliamo discriminare nessuno. Vogliamo solo ricorre allo strumento che ci è più congeniale e, nello stesso tempo, allo strumento che riteniamo più adatto alle attuali condizioni dello scontro, specialmente nell’area che ci interessa di più, nell’area del Mediterraneo.

Primi passi organizzativi

Gli interessati, dopo essersi messi in contatti col Gruppo promotore, se d’accordo con la proposta, devono riprodurre nella loro lingua, se diversa dall’italiano, questo documento e inviarlo a tutti i compagni e i gruppi con cui sono in contatto, proponendosi come punto di riferimento per eventuale scambio di precisazioni, chiarimenti, documentazione e quant’altro necessario. Spetterà a loro decidere se fare entrare in contatto questi gruppi con il gruppo promotore o se gestire direttamente il rapporto

Ai fini del funzionamento futuro, e dello sviluppo, dell’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista, le due strade non si escludono a vicenda e possono essere percorse parallelamente.

La pratica ci dirà se queste scelte di metodo daranno buoni frutti oppure no.

In seguito, speriamo fra non molto, il secondo momento organizzativo importante, dovrebbe essere la convocazione di un primo Convegno Internazionale Antiautoritario Insurrezionalista, da farsi in un luogo e ad una data da concordarsi, occasione quest’ultima di grande importanza per approfondire la reciproca conoscenza e per scambiarsi le relative esperienze di lotta.

Alcune personali considerazioni

Il motivo di queste note è quello di approfondire alcuni problemi relativi all’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista che nel corso di alcune conversazioni fra compagni avute nei mesi scorsi [1996], mi sono sembrati interessanti. Come si vedrà, non si tratta di grandi questioni, ma di sfumature che mantengono comunque tutto il loro peso e che potrebbero costituire ostacolo alla comprensione di quello che occorre fare per organizzare al meglio il preconvegno d’autunno.

Perché un’organizzazione internazionale informale, antiautoritaria e insurrezionalista che si sviluppa a partire dal Mediterraneo.

Il Mediterraneo non è il centro del mondo. Come ogni altro angolo del pianeta ha sue caratteristiche e specificità sociali, etniche e politiche, ma non sono elementi tali da tagliare fuori contatti o rapporti operativi con compagni, singoli o organizzati, che si trovano in situazioni geografiche lontane dalle sue coste.

Certo, come si è precisato nella iniziale Proposta per un dibattito, nella parte riguardante gli “Spunti per un’analisi”, alcune ipotesi di sviluppo conflittuale delle tensioni esistenti oggi in quest’aria fanno prevedere un interessante “discorso comune”, ma non è questa la cosa più importante.

Per un altro verso, è stato fatto notare: “Che senso ha un’organizzazione internazionale che si limiti, nel momento del suo proporsi come possibile struttura di raccordo fra diverse situazioni, ad una precisa area geografica? Il suo stesso dirsi ‘internazionale’ non dovrebbe proiettarla al di là di ogni possibile confine geografico?”.

Ambedue queste obiezioni sono fondate. I Paesi che si affacciano sul Mediterraneo hanno alcune caratteristiche comuni che, con maggiore o minore intensità, potrebbero incidere profondamente nello sviluppo futuro delle lotte sociali al loro interno. Nello stesso tempo, l’organizzazione di cui abbiamo parlato nella Proposta è un’organizzazione informale, quindi esiste nel momento in cui si stringono degli accordi in vista di fare delle cose, non si propone come punto di riferimento organizzativo stabile.

Non c’è dubbio che un’organizzazione munita di strutture fisse, quindi con un’ipotesi operativa di fondo legata alle tradizionali concezioni dell’anarchismo di sintesi, una volta concepita come “organizzazione internazionale” non potrebbe, se non a rischio di un’insanabile contraddizione interna, proporsi come limitata ad un’area geografica. Mentre, al contrario, un’organizzazione informale, la quale, nell’ipotesi dei suoi propositori, ha maggiori possibilità di operare in alcune precise aree geografiche, allo scopo di interessare tutti alle proprie iniziative, e quindi allargare al massimo il ventaglio delle proprie possibilità operative future (l’unico motivo valido per cui l’organizzazione informale esiste e opera), può benissimo scegliersi una precisa area geografica e ciononostante definirsi internazionale a tutti gli effetti.

Essendo l’azione l’unica linfa vitale dell’organizzazione informale, quest’ultima per esistere deve radicarsi nella situazione che, almeno in linea ipotetica, rende più agevole l’azione, e da questa situazione svilupparsi al massimo (quindi anche a livello internazionale) nel proprio compito di fornire “occasioni organizzative”. Nel caso invece di un’organizzazione di sintesi, se quest’ultima si definisce “internazionale” non può limitarsi a nessuna area geografica in quanto dal momento che essa viene costituita esiste in maniera perfetta in tutte le sue parti (le sue future modificazioni saranno solo di natura quantitativa), e se essa si definisce “internazionale” deve avere strutture che prendono in considerazioni ogni parte del mondo.

Cosa significa informale

Nella Proposta più volte citata definivamo come “organizzazione informale”: “Un insieme di individui, gruppi, strutture, movimenti, e ogni altra forma più o meno stabile di rapporti fra persone, che cerca di entrare reciprocamente in contatto, cioè di approfondire una reciproca conoscenza”. (“Parte seconda, Spunti organizzativi”).

Non c’è dubbio che se il concetto di informalità non viene definitivamente chiarito da questa definizione, una cosa almeno da essa esce chiara: la caratteristica cioè che l’organizzazione informale non ha caratteri di stabilità.

Per questo stesso motivo l’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista non poteva scegliere di costituirsi in una Federazione. Se questo concetto ha un senso per gli anarchici lo mantiene come sinonimo di associazione di comuni e comunità (ma anche singoli individui o piccolissimi gruppi), spesso autosufficienti, completamente liberi di fissare le condizioni dell’associazione. Libero accordo quindi, ma sempre accordo che stabilisce la costituzione di una struttura fissa, dalla quale si potrà sempre uscire quando lo si vorrà, senza per questo fare diventare meno fissa la struttura stessa. La federazione è quindi un’associazione di libere individualità, o gruppi, o strutture, o movimenti, fissata una volta per sempre.

L’organizzazione informale non è fissata una volta per sempre, quindi non può essere “costituita” con un atto formale.

Contrariamente a quanto è stato detto e scritto, il primo Convegno dell’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista, non sarà un Convegno “costitutivo”. In quel futuro Convegno, che mi auguro vedrà la presenza di moltissimi compagni di ogni parte del Mediterraneo e del mondo, non ci sarà nessuna “costituzione”, in quanto l’Internazionale dei nostri sogni sta di già operando nel momento in cui rende possibili contatti, rapporti, ecc., cioè nel momento in cui realizza la sua natura di “occasione organizzativa”, senza che ci siano atti ufficiali di costituzione.

Il Convegno che dovremo organizzare, e a cui ci prepariamo a destinare tutti i nostri sforzi futuri, sarà quindi una grandissima “occasione organizzativa”, non una sede per dar vita ad un’organizzazione, la quale essendo informale nel momento in cui sta operando (e il Convegno sarà il momento del suo massimo operare) esiste di già senza che nessuno si debba dar pensiero di costituirla.

Cosa significa insurrezionale

Potrei ancora una volta rifarmi alla Proposta, ma non mi sembra necessario. L’elemento che caratterizza un’organizzazione insurrezionalista non è soltanto il metodo della lotta, che è quello basato sulla conflittualità permanente, ma anche il proprio strutturarsi in quanto organizzazione. A stretto rigore di termine un metodo fondato sulla conflittualità permanente potrebbe essere impiegato anche da un’organizzazione di sintesi, capace però di applicare, tutte le volte che si rende utile, una decisione di attacco. Certo, la cosa è difficile in quanto, prima o poi, la mediazione necessaria all’obiettivo della crescita quantitativa finirebbe per prendere il sopravvento, comunque non c’è una contraddizione logica a priori. Al contrario, questa contraddizione c’è nel caso di una struttura informale, basata sui rapporti di affinità, la quale struttura non può essere fissata rigidamente una volta per tutte, sotto pena di vedere svanire il metodo insurrezionale proprio nel momento che lo si costringe a muoversi in maniera contraria alla propria natura.

L’insurrezione non può essere proposta come metodo da parte di una struttura rigida, sotto pena di trasformarsi in uno dei tanti modelli di attacco politico alla realtà di potere in carica.

L’organizzazione informale non può quindi non essere insurrezionalista.

Cosa significa antiautoritaria

Se l’antiautoritarismo ha un senso deve arrivare fino in fondo alla piaga, cioè penetrare tutti gli strati del potere, anche quelli che si nascondono dentro le stesse strutture cosiddette rivoluzionarie.

Ora, un’organizzazione rigida, fornita di strutture permanenti, capaci di funzionare in vista di obiettivi diversi (per carità, tutti rivoluzionari!), capace di provvedere alla stesura di programmi e progetti, analisi e documenti, una struttura che si sviluppa e cresce quantitativamente nel tempo, insomma un’organizzazione come si deve, non può non presentare alcuni aspetti di potere.

Chi si considera antiautoritario può entrare in una sorta di compromesso con se stesso e ritenere che anche queste strutture siano utili per raggiungere la distruzione del potere maggiore che ci opprime, e tante volte questo ragionamento è stato fatto. Ma non può nascondere che si tratta di un compromesso.

L’antiautoritarismo non può non essere informale.

Gli aspetti propositivi e progettuali dell’insurrezionalismo anarchico in una prospettiva di organizzazione informale internazionale.

Non è certo mia intenzione contribuire in questa sede alla stesura di un programma. Non c’è dubbio però che alcune riserve mentali vanono sciolte.

L’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista è un’organizzazione informale, quindi chi vi partecipa non può aspettarsi di avere di fronte un organismo capace di risolvere i suoi problemi, una sorta di super-singolo cui attingere per tutte le deficienze che non mancano di affacciarsi sempre nel proprio agire quotidiano, in altre parole l’Internazionale di chi parliamo non è un sindacato, né intende diventarlo malgrado ogni possibile allettamento aggregativo.

L’occasione organizzativa, almeno per come la penso io, resta la grande possibilità di dell’Internazionale, e questa occasione non può andare sprecata in attese fuor di luogo che possono solo alimentare equivoci e disillusioni.

Conoscere i propri compagni è la grande occasione propositiva che l’Internazionale dovrebbe rendere possibile. Ma ogni conoscenza non può esserci data gratuitamente dall’esterno, da un grande contenitore incaricato una volta per tutte di secernere e di vagliare, di giustificare e garantire. Nulla di tutto questo. L’occasione rende possibile la conoscenza, ma quest’ultima richiede impegno e correttezza nel nostro stesso proporci, nel presentare noi stessi, singoli individui, per quello che siamo, e nel cogliere, nel saper cogliere esattamente, quello che gli altri compagni sono. Da questo lavoro, lungo e difficile, ben più significativo di relazioni e documenti, analisi e risoluzioni, viene fuori l’aspetto progettuale dell’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista, aspetto quindi non codificato da una decisione collettiva, sia pure quella approvata da un’assemblea per quanto ampia possibile, ma dagli accordi dei singoli con i singoli, in base alla scoperta e all’approfondimento di quelle affinità che non mancheranno di venire alla luce nel corso dello svolgimento dell’“occasione”.

Il resto, ogni sedimentazione non strettamente necessaria, sarebbe solo un conforto per spiriti deboli, un fantoccio per chi ama giocare con le sigle e con i codici. Nulla di tutto questo può interessarci.

Ai compagni dei Paesi dell’Est

Le vicende politiche ed economiche che si stanno svolgendo in tutti i Paesi dell’Est europeo hanno consentito un risveglio dell’anarchismo che speriamo sia ricco di idee e soprattutto di azioni.

Ci indirizziamo così a tutti quei compagni interessati a sviluppare la lotta anarchica insurrezionalista e ad approfondire la relativa analisi teorica, proponendo i seguenti punti di riflessione teorica e pratica:

Le radici storiche

L’anarchismo che sta risvegliandosi nei Paesi dell’Est europeo può essere spinto a pensarsi come l’erede storico dell’anarchismo precedente alla definitiva presa del potere da parte dei Bolscevichi o almeno alla fine della seconda guerra mondiale. Ci sono anche compagni che pensano sia indispensabile ritornare alle proprie origini organizzativi anarchiche intese in senso.

Ora, se è certo importante tutelare e forse riscoprire le teorie e le azioni dei compagni che ci hanno preceduto, non è indispensabile ripercorrere le stesse strade organizzative, alcune delle quali sono ormai superate dalle difficoltà che i tempi attuali ci mettono sotto gli occhi tutti i giorni.

Le nuove condizioni del capitale

Il nemico è profondamente cambiato. Al vecchio imperialismo diviso in due potenti blocchi mondiali, si sta sostituendo un capitalismo telematico sovranazionale che è stato definito come capitalismo postindustriale. La struttura stessa della classe dei lavoratori sta cambiando attraverso processi di ristrutturazione che fra qualche anno si verificheranno anche nei Paesi dell’Est europeo. È a questo neocapitalismo, che non ha più come centro la fabbrica, che l’ex imperialismo sovietico insieme agli altri Paesi dell’ex socialismo reale si sta avvicinando, cambiando pelle e mutando bandiera e chiacchiere ideologiche per superare le pericolose condizioni economiche del comunismo di Stato.

Superamento delle vecchie concezioni organizzative anarchiche

Per far fronte alle mutate condizioni della lotta di classe, l’anarchismo deve intraprendere una critica radicale delle sue vecchie forme organizzative: quella specifica di sintesi e quella di massa anarcosindacalista. Per evitare il ripetersi del fallimento della rinascita della CNT spagnola, spentasi dopo un iniziale falso rigoglio, occorre fin dal primo momento vedere se le federazioni anarchiche tradizionali, basate su di un programma di sintesi politica, siano ancora adatte a funzionare come strumento di lotta sociale, ed occorre anche vedere se il sindacato sia strumento adatto per la lotta economica.

Noi pensiamo di no.

Gruppi di affinità

Pensiamo che in sostituzione delle federazioni e dei gruppi organizzati sul modello classico anarchico, vadano costruiti gruppi di affinità, costituiti da un numero limitato di compagni, stretti insieme da una reciproca e diretta conoscenza personale, capaci di collegarsi fra di loro attraverso scadenze periodiche di lotta dirette a realizzare azioni precise contro il nemico di classe.

Nel corso stesso di queste occasioni di lotta si deve trovare il modo per discutere ed approfondire gli aspetti teorici e pratici riguardanti sia le azioni future da realizzare, sia le analisi da fare circolare all’interno dei diversi gruppi d’affinità. Il punto centrale, attorno cui fare ruotare il rapporto organizzativo di questi gruppi, non è quindi il Congresso periodico (tipico delle organizzazioni di sintesi), ma le diverse situazioni di lotta che devono essere nello stesso tempo attacchi concreti contro il nemico di classe e momenti di riflessione.

Nuclei di base

Pensiamo che in sostituzione delle strutture sindacali, anche anarcosindacaliste, ormai fuori della logica conflittuale moderna, vanno costituiti dei nuclei di base nelle diverse situazioni sociali: fabbriche, quartieri, scuole, ghetti sociali; nuclei capaci di agire all’interno delle diverse lotte intermedie: rivendicazioni salariali e normative, occupazioni di fabbriche, scuole, case, collegamenti tra i diversi settori sociali, iniziative antimilitariste, iniziative ecologiche, ecc.

Ogni nucleo di base vede la partecipazione degli anarchici ma non è costituito soltanto da anarchici, quindi la gestione è assembleare, situazione in cui gli anarchici devono svolgere il loro ruolo di forza propulsiva contro il nemico di classe. Singoli nuclei di base o coordinamenti di più nuclei con un medesimo scopo, si possono dare una forma organizzativa più specifica fondata su principi ben chiari:

a) conflittualità permanente, cioè lotta ininterrotta ed efficace, anche se adeguata alle condizioni dello scontro di classe;

b) autogestione, cioè indipendenza assoluta da qualsiasi partito, sindacato, clientela. Il finanziamento deve venire solo da sottoscrizioni spontanee fatte da tutti gli aderenti;

c)attacco, cioè rifiuto di ogni patteggiamento, mediazione, pacificazione, compromesso.

Lotte di massa

Le lotte di massa sono quasi sempre lotte intermedie che non hanno un immediato carattere distruttivo, ma si propongono invece un obiettivo di rivendicazione, avente lo scopo di recuperare più forze per sviluppare la lotta. Lo scopo finale delle lotte intermedie resta sempre quello dell’attacco. I nuclei di base sono gli strumenti più adatti ad organizzare queste lotte.

Lotte specifiche

Singoli compagni o gruppi di affinità, indipendentemente da qualsiasi rapporto organizzativo più complesso, rapporto che può esserci o può anche mancare, possono decidere di attaccare direttamente singole strutture, individui ed organizzazioni del capitale e dello Stato. In un mondo come quello in cui viviamo, dove il capitale informatico sta ormai costruendo le condizioni per un controllo e un dominio senza precedenti, tramite l’impiego di una tecnologia che non potrà mai essere usata in altro modo se non per mantenere questo dominio, il sabotaggio ridiventa l’arma classica di lotta degli anarchici.

Lotte di liberazione nazionale

In modo particolare nelle situazioni dei Paesi dell’Est europeo questo tipo di spinta popolare deve vedere presenti gli anarchici, senza che per questo si debba rinunciare all’ideale internazionalista dell’anarchismo. Ogni smembramento dei grandi Stati, secondo la fondamentale tesi bakuninista, è sempre un passo avanti verso la liberazione. Dovrebbero pertanto essere facilitati e sostenuti tutti i movimenti di liberazione nazionale diretti contro l’egemonia dell’URSS e degli altri grandi Stati dell’Est europeo.

Perché siamo anarchici insurrezionalisti?

Perché lottiamo insieme agli sfruttati per alleviare e possibilmente abolire le condizioni di sfruttamento.

Perché riteniamo possibile contribuire a sviluppare le rivolte che vanno nascendo in insurrezioni di massa e quindi in vere e proprie rivoluzioni.

Perché vogliamo distruggere un assetto capitalista del mondo che attraverso la ristrutturazione informatica è diventato tecnologicamente utile soltanto ai padroni.

Perché siamo per l’attacco immediato e distruttivo contro singole strutture, individui e organizzazioni del capitale e dello Stato.

Perché critichiamo costruttivamente tutti coloro che si attardano su posizioni di compromesso col potere o che pensano impossibile la lotta rivoluzionaria.

Perché piuttosto di aspettare. siamo decisi a passare all’azione anche quando i tempi non sono maturi.

Perché vogliamo finirla con questo stato di cose, subito e non quando le condizioni esterne ce lo permetteranno.

Ecco i motivi per cui siamo anarchici, rivoluzionari e insurrezionalisti.

I suddetti punti di riflessione, necessariamente sintetici, possono essere approfonditi direttamente con i compagni che si richiamano all’anarchismo insurrezionalista.

Individuo, gruppo di affinità, insurrezione

Se vogliamo capire qual è la possibilità d’impiego e di sviluppo di uno strumento come il gruppo di affinità, e quindi anche dell’organizzazione informale e insurrezionale, dobbiamo cercare di capire perché suggeriamo di usare questo strumento. Se questo problema ci interessa, dobbiamo approfondirlo, in caso contrario, se non ci interessa, scade d’importanza il perché usiamo questo strumento, il perché lo riteniamo più adeguato alla realtà.

Quando si esamina uno strumento organizzativo e rivoluzionario, questo strumento non ci viene imposto per virtù teorica, ma lo scegliamo noi, con una nostra decisione, sia individuale che collettiva, e lo scegliamo perché ci sembra possa essere strumento più adeguato di altri, e quindi strumento capace di incidere meglio di altri sulla realtà che ci opprime. La decisione che ci porta a questa conclusione spesso non è chiara. Molti si sentono attirati da un fatto sentimentale, o romantico, irrazionale, o soltanto di gusto, e quindi s’indirizzano verso l’organizzazione insurrezionale e non verso l’organizzazione di sintesi, la struttura quantitativa. Questa scelta a priori è bellissima, ma non vale come approfondimento dell’impiego, dell’utilizzo di uno strumento rivoluzionario. Per avere questo approfondimento, se lo riteniamo importante, occorre che si capisca perché, mutate certe condizioni oggettive della realtà che ci sta davanti, questo strumento risulta, diciamo, più adeguato alla lotta rivoluzionaria di quanto non lo sia lo strumento anarcosindacalista, o sindacalista rivoluzionario.

Di per sé, la scelta non garantisce nulla. Perché mai alcuni di noi si dicono insurrezionalisti? Perché la parola è più bella? Perché ritengono che l’insurrezione costituisca uno strumento più adeguato? Per qual motivo i gruppi di affinità, al posto dell’organizzazione di sintesi? Sono moltissime le forme che gli uomini hanno scoperto per mettersi insieme. Perché pensiamo che il gruppo di affinità sia l’organizzazione migliore?

Non possiamo rispondere a queste domande, e quindi andare avanti, se non arriviamo a capire cosa è cambiato negli ultimi anni. La struttura del capitale, la formazione economica e sociale che ci sta davanti, è infatti diversa di quella degli anni Sessanta, e di quella che era agli inizi degli anni Ottanta. Io non dico di passare tre giorni a discutere di economia politica, però questi aspetti più tecnici non mi sembrano tanto diversi da quello che qui ci interessano. In caso contrario, dovremmo concludere: a me piace l’insurrezione perché piace l’insurrezione.

Io penso che la conoscenza non può far paura. Caso mai può infastidire: uno dice basta, mi sono seccato, il problema mi risulta antipatico, fermiamoci, cambiamo argomento. Ma paura, no. Approfondire gli aspetti teorici non è mai controproducente. Badiamo bene, con un poco d’intelligenza: non siamo qui per leggere un trattato di economia politica o di storia contemporanea. Però, mi rifiuto di ammettere che la riflessione di cui parliamo sia scollegata dai nostri interessi.

È chiaro che determinati strumenti l’uomo li ha usati in tante occasioni della sua storia. Ma le sperimentazioni di natura sociale, anarchica, rivoluzionaria, ecc., estrapolate dal contesto storico in cui furono realizzate per la prima volta, significano la stessa cosa? Penso di no. Infatti, non è vero che manca qualunque contatto tra la realtà che ci sta davanti e le sperimentazioni che noi facciamo. Il contatto c’è, ed è talmente forte che l’idea, il desiderio, lo sforzo, anche il volere andare contro qualunque evidenza, tutto questo, penso, non è avulso dal contesto in cui ci si trova. Non è estrapolabile, non lo si può mettere tra parentesi.

Quindi, quando si parla del concetto di adeguatezza, non si tratta di un concetto di subordinazione dei propri desideri alla realtà, nel senso che metto da parte i miei desideri, le mie aspirazioni e i miei gusti, per risultare adeguato alla realtà: questo lo fanno i politici. È l’ideologismo funzionalista che impone di accantonare i propri gusti, per mettere in campo lo strumento più efficiente disponibile. La nostra è un’altra scelta di campo. Quando si parla di adeguatezza rivoluzionaria, non ci si riferisce ad una adeguatezza funzionalista. Evidentemente ci si riferisce ad un’altra adeguatezza, nel senso che la scelta, la propria scelta, probabilmente oggi, per la prima volta, potrebbe risultare più adeguata (ma non è certo) alla realtà. La scelta informale mi piace e mi sarebbe piaciuta anche nell’Ottocento, quando, per quel che si conosce, sicuramente non era adeguata alle condizioni dello scontro.

Potrebbe essere interessante riflettere su questo punto. Spesso in passato ci siamo portati dietro un carico pesante, un ostacolo per ogni progetto rivoluzionario, un peso determinato proprio dalle nostre scelte, adesso, e in un futuro non lontano, potremmo trovarci nella situazione in cui le nostre scelte, forse per la prima volta, potrebbero essere comprensibili, e noi, al contrario, non essere affatto preparati a ciò. Ecco una domanda delicata: ma noi riusciamo veramente a fare oggi un discorso alla gente, a farci capire dalla gente? Domanda non inutile in quanto le nostre tesi, nel breve volgere di qualche anno, potrebbero essere le più adeguate, se non le uniche in grado di sconvolgere l’assetto in cui viviamo. In questa eventualità, riusciremo ad essere all’altezza di questo compito? Non lo so. Quasi sempre non ci poniamo neanche questo problema. Ci basta sapere che siamo diversi, che siamo anarchici, che comprendiamo quello che gli altri non capiscono, che siamo i soli depositari della verità. La realtà, nel suo insieme, si avvia invece verso trasformazioni che potrebbero essere incomprensibili, proprio per gli anarchici che oggi si ritengono molto più rivoluzionari della gente comune. Provate a fare un discorso qualsiasi, un discorso di tutti i giorni, che non sia un argomento canonico, che non sia un argomento specifico delle nostre solite riflessioni rivoluzionarie, provate a parlare di una cosa qualunque, vediamo se dietro il senso comune della gente non c’è a volte una maggiore capacità di capire che cosa fare, quale punto attaccare. Spesso noialtri, con tutta la nostra sofisticheria rivoluzionaria, non ci arriviamo.

Questo intendo dire. Noi abbiamo, probabilmente, una mentalità da minoranza, e oggi la realtà si sta trasformando in modo tale da potere fare risultare non adeguata questa mentalità. Magari era adeguata una volta, quando le condizioni della struttura che bisognava combattere erano diverse. Negli anni Trenta, i compagni anarchici che andavano in Spagna per partecipare alla rivoluzione spagnola, andando là, cosa trovavano? Trovavano una situazione organizzata dall’esercito repubblicano, e quindi erano obbligati a fare violenza alle proprie idee, perché riconoscevano che, in fondo in fondo, anche all’interno di strutture autoritarie e militariste, si poteva fare qualcosa per combattere il male maggiore. Si facevano violenza, accettavano un contesto a cui non potevano non essere estranei, e spesso venivano ammazzati senza neanche potersi difendere.

Cosa vuol dire tutto ciò? Vuol dire che potremmo trovarci in situazioni diverse, non del tutto incomprensibili, ma difficili da capire, come potrebbero essere quelle della guerra civile. Ora, noi siamo in grado di capire queste situazioni? E come possiamo capire queste situazioni se l’unico ragionamento che ci portiamo dietro è quello che l’insurrezione ci sta bene e basta, senza però mettere dentro il ragionamento l’analisi che cerca di spiegare perché mai oggi si stanno verificando queste possibilità, perché mai la guerra civile di qualche anno fa nella ex Jugoslavia è stata diversa da quella che c’era in Spagna negli anni Trenta.

La guerra civile è certo una condizione particolare, ma non è poi tanto particolare. La guerra civile la viviamo tutti, siamo tutti in una situazione di guerra civile. A parte questo, che è un problema specifico e che potremo forse approfondire in seguito, decidendo da quale lato esaminarlo, è importante la situazione in cui ci si trova, sia quella della guerra civile, o quella della sopravvivenza in una condizione di conflittualità di classe più o meno visibile.

Uno può certo dire: perché mai ci poniamo questi problemi? Ma non porli significa tornare indietro nella posizione della minoranza, la quale, conscia della propria elevatezza intellettuale e morale, non ha problemi. Per cui, nella situazione mutata, non sa cosa fare, come è accaduto altre volte, e finisce per accodarsi al carro di quelli che sanno di più.

Da quello che si è capito nelle discussioni di ieri sembrava venir fuori il bisogno di chiarire meglio il rapporto che c’è tra il voler fare le cose, o comunque intervenire nella realtà, certe volte con un’urgenza addirittura massima, una sorta di pressione dentro di noi, il volere fare le cose, dicevo, e il cercare di fare pervenire, su questo voler fare, una luce teorica che possa meglio indirizzare il fare stesso. Veniva fuori così, dagli interventi di ieri, un bisogno, comunque un desiderio, di stabilire meglio, di approfondire, il rapporto tra quello che si può definire “teoria” e quello che si può definire “pratica”, tra teoria e azione, tra un modo di trasformare la realtà, di intervenire nella realtà, e il modo di pensarci su.

Questo è un problema teorico, ed ha la sua importanza, ma non è staccato dal problema pratico di come organizzarsi, attraverso le differenti forme in base alle quali ci si rapporta, ci si mette insieme, e si decide che cosa si vuole fare. C’è un rapporto importante, che spesso abbiamo preso in considerazione, riguardante il modo in cui funziona la volontà in ognuno di noi, il fatto di decidere di fare una cosa e la realtà che ci sta davanti. Soltanto in teoria la volontà è padrona del mondo. Noi possiamo volere qualunque cosa, e spesso nei nostri sogni ci immaginiamo di riuscire a sconvolge il mondo. Poi, se appena appena sottoponiamo questo desiderio, questo sogno della volontà, ad un’analisi più approfondita, ad un’analisi critica, ci rendiamo conto del fatto che gli ostacoli che si frappongono tra il nostro volere e la possibilità di realizzarlo, non sono tanto legati a qualcosa che ci sta davanti, che ci impedisce di realizzare quello che vogliamo fare, quanto, molto spesso, a qualcosa che sta dentro di noi, a cattiva o imperfetta cognizione del voler fare.

Di certo, c’è un rapporto tra conoscenza e volontà, tra capacità di conoscere e capacità di volere. Su questo argomento, che è uno dei punti più delicati dell’analisi della volontà, secondo me, gli anarchici si sono qualche volta abbandonati a non poche superficialità.

Non è tanto semplice mettere chiarezza in questi problemi. Da un lato, stabilire che noi possiamo volere qualunque cosa, e da questo dedurne che, comunque e in ogni caso, siamo in grado di scegliere la strada migliore per realizzare quello che è più efficace, e, dall’altro lato, affermare che dobbiamo volere solo quello che ci sta più a cuore, quello che coglie meglio i nostri desideri. Chi è chiamato ad operare questa distinzione? Qui c’è una enorme confusione.

La prima causa di questa confusione è senz’altro la sottovalutazione che alcuni di noi fanno dell’approfondimento teorico della realtà. Molti di noi pensano che questo elemento, cioè la “teoria”, sia un elemento aggiuntivo, che quando sarà nel tempo, nel corso dell’azione, nello svolgimento del nostro fare, arriveremo comunque a capire, a possedere e a gestire. Mentre può anche essere il contrario, cioè può verificarsi che la capacità di agire, di gestire la propria volontà, e quindi di realizzare l’azione, sia inquinata, ridotta, ostacolata proprio dalla non chiarezza della conoscenza, dal mancato approfondimento della conoscenza.

Quindi, la differenza tra pratica e teoria, tra teoria e azione, se la esaminiamo da questo punto di vista, tende a scomparire. L’esercizio della volontà, nella capacità di trasformare, è subordinato alla capacità di capire. Tra agire e capire non c’è differenza, perché le due cose si compenetrano talmente che noi finiamo per potere agire nei limiti in cui riusciamo a capire, e capire nei limiti in cui riusciamo ad agire. Allora è logico che chi si chiude in una torre d’avorio e cerca di capire la realtà, non capisce nulla, perché alla fine riesce a capire soltanto quello che sta attorno alla propria biblioteca. L’importanza dell’azione non è soltanto in funzione della trasformazione del mondo, ma principalmente per la trasformazione di noi stessi e della nostra stessa capacità di capire. Ma, quest’ultima possibilità di trasformare, è subordinata a quello che riusciamo a capire, perché soltanto riuscendo a capire possiamo poi agire per trasformare il mondo e continuare a capire, per continuare ad agire. Questa connessione dimostra che non c’è una differenza tra teoria e pratica. Tutte le volte che uno pensa: “va bene, questa analisi teorica non mi interessa”, dovrebbe sottoporre la sua affermazione ad un minimo di approfondimento critico.

Dicevamo ieri: le trasformazioni che ci sono state negli ultimi anni, non sono faccende che non ci riguardano, faccende che attengono ad un mondo della teoria che viene gestito dai nostri nemici o, nella migliore delle ipotesi, da qualcuno di noi che sa comunque mettere le mani in pasta, e a cui noi deleghiamo (per giunta, certe volte, con pressanti richieste, scadenze e tempi brevi, e condizioni di chiarezza e leggibilità) il compito di far venire fuori qualcosa da usare come strumento per la nostra azione. No, non funziona, così non può mai funzionare, non ha mai funzionato così.

Se noi adesso facciamo un salto logico e parliamo del concetto di “affinità”, dobbiamo subito dire che l’affinità non è la simpatia, non è l’amicizia, non è l’amore, non è la sensibilità di pelle, come certe volte viene chiamata, non è lo stare bene con una persona, non è il riuscire ad andarci insieme al cinema, a letto, ecc., ma è un’altra cosa, una cosa in più. Ma cos’è questa cosa in più? L’affinità, per come l’intendo io, viene fuori da un approfondimento del rapporto con l’altro, approfondimento che significa una maggiore conoscenza dell’altro, quindi, sulla base del concetto che dicevamo prima, una maggiore capacità di capire la realtà. Noi riusciamo a verificare, a identificare, un’affinità con l’altro in funzione della nostra capacità di capire la realtà che circonda l’altro e noi stessi. Se non abbiamo questa capacità di capire il mondo che ci circonda, quindi di conoscerlo, non riusciamo a capire l’altro. L’altro non è un atomo separato da quel mondo che è anche il nostro mondo, e se ci sono differenze nel rapporto tra il mondo e l’altro, e il mondo e noi, queste differenze devono essere conosciute perché si possa parlare di affinità.

Quando parliamo dell’affinità come di qualcosa basato sugli interessi comuni a me e all’altro, cosa sono questi interessi comuni? Sono il portato di una risposta che l’altro vuole dare nei confronti di una condizione sociale complessiva, non solo economica, che lo opprime. È in funzione di questa sua capacità di risposta nei confronti della realtà, che l’altro è per noi conoscibile. Non in base agli aspetti esteriori: uomo, donna, alto, basso, bello, brutto, ecc. Tutti questi ulteriori elementi possono essere importanti, ma non sono risolutivi. Io, ad esempio, mi sono trovato ad avere un’altissima affinità con persone con le quali non avrei neanche pensato di andare insieme al cinema, perché mi irritavano, ma si trattava di persone, di compagni, cui riconoscevo la presenza di un’affinità operativa e teorica con me, ed è con quelli che volevo fare qualcosa, anche se, spogliati da quella particolare condizione di affinità, per altri aspetti, non sarei stato nemmeno in grado di toccarli con un dito. Ma è mai possibile una cosa del genere? È possibile, io la vedo come una cosa possibile. Spesso si cade nell’equivoco di pensare che l’affinità sia ricavabile da quelle sensazioni, da quell’affabilità, da quella disponibilità, da quella sorta di tolleranza che molte volte è l’effetto di una maschera, di un atteggiamento, di una pregiudiziale ideologica, nei cui confronti anziché avere un sospetto si casca nella trappola dell’accettazione.

Quindi, tornando al discorso di prima, il primo elemento dell’affinità è la conoscenza. Ora, conoscenza vuol dire approfondimento teorico, vuol dire tutto il discorso che si è fatto prima: capacità di agire, di trasformare la realtà per capire e di capire per trasformare la realtà. Secondo me, il discorso sull’individuo, il discorso sull’affinità, e da questi ad arrivare al discorso sull’insurrezione, al discorso sulle possibilità organizzative, delle quali spero parleremo più avanti, tutti questi discorsi devono, o meglio, dovrebbero partire da un minimo di conoscenza riguardante i meccanismi: soggettivi, intersoggettivi, oggettivi e interoggettivi. Cioè funzionamento dell’individuo, funzionamento dei rapporti con gli altri individui, funzionamento della realtà.

Mi accorgo, da alcune vostre obiezioni, che quello che ho detto ha sollevato più problemi di quanti pensavo di contribuire a risolvere con le mie parole. Ad esempio, il problema della conoscenza. Qui qualcuno ha ritenuto opportuno ricordarci che non esiste una conoscenza assoluta. E questo è vero. Senza scomodare i concetti filosofici del relativismo, che per altro si sa che cosa valgono, penso che questa affermazione sia condivisibile. Difatti, non avevo per niente l’intenzione di riferirmi ad una conoscenza assoluta. Parlando di conoscenza intendevo evidentemente la conoscenza nei termini in cui questa operazione è praticabile. L’assoluto non ci appartiene. Quando parliamo di conoscenza, spesso, parliamo anche di oggettività. Forse l’ho detto anch’io, se ben ricordo, ma nel dirlo mi sono io stesso impaurito. È difatti un termine che fa paura, a causa del sottofondo di assolutezza che non riesce a nascondere. Una conoscenza oggettiva, bella e radicata fuori di noi, è lontana dal mio modo di vedere le cose. Conoscenza, più specificatamente, nel caso del concetto di affinità, è tutto quello che entra in una prospettiva pratica di azione. Di questo stiamo parlando non in astratto, in sede puramente filosofica, ma nella concretezza del metterci insieme per valutare quali sono le possibili realizzazioni attive di trasformazione della realtà. Questo tipo di conoscenza è necessariamente legato ad un processo di continua trasformazione, cambiamento, modificazione. Mi sembrava implicito nel concetto da me espresso, forse poco chiaramente.

Mentre, per nulla è implicita la divergenza di opinione che si ha in merito al concetto di affinità. Ad esempio, quando qualcuno dice che non gli è mai capitato di considerare possibile una qualche attività con una persona verso la quale non nutre una certa simpatia, non tiene presente che questa simpatia viene proprio dalla conoscenza, e una persona che sulle prime sembra distaccata e fredda, poi si rivela ricca di sentimento e quindi simpatica.

Qui stiamo cercando di fare un passo avanti, non nel senso di abolire il reciproco sentimento di simpatia – se questo c’è, sarà di certo una ricchezza – o di annullare le tendenze personali che spesso sono frutto del nostro modo di essere più intimo. Si sta invece cercando di vedere se è possibile, oltre a quello, nell’ambito dell’affinità, che per me costituisce un punto di partenza, avere un altro tipo di affinità, se si vuole più circoscritto, a volte finalizzato più specificamente ad ottenere determinati risultati.

Si tratta di un’ipotesi di lavoro che sostengo da tantissimi anni. Non è un modo per così dire “pulito”, anarchico, per identificare i fini da raggiunge o i mezzi da impiegare. Non si tratta di questo. Non si tratta di mettersi d’accordo col diavolo per raggiungere i propri scopi. Mi pongo solo una domanda: esiste una sola l’affinità possibile? Oppure ci sono altri livelli di affinità, più circoscritti, che, dal punto di vista delle cose da fare, possono anche essere considerate interessanti? Ci si mette d’accordo per fare una cosa, ma non devo passare la mia vita con chi voglio fare quella cosa. Considerare questi livelli parziali di affinità come non esistenti, e pensare invece che solo quando c’è un’affinità bellissima e totale si può parlare giustamente in termini di affinità, è restrittivo e non contribuisce ad allargare le nostre possibilità di azione, ma le rinchiude nei confini ristrettissimi dell’eccezionalità dei sentimenti. In realtà, ci troviamo spesso di fronte ad ordini differenti di affinità. Se accettiamo solo il livello massimo, e solo questo consideriamo come affinità vera e propria, ci troviamo di fronte ad un’impossibilità di operare il passaggio tra affinità e organizzazione informale.

In altri termini, succede che io posso avere un bel rapporto con i compagni del mio gruppo di affinità, ma non riuscire a risolvere il problema di entrare in contatto con altri compagni e altri gruppi di affinità, insomma con altri individui che non hanno il mio stesso tipo di affinità. Io posso essere estremamente selettivo con due, tre, quattro, cinque compagni, ma nei riguardi di tutti gli altri, su che cosa posso basare, nei fatti, questa selettività, se non chiudendomi irrimediabilmente? Su cosa posso basarmi per dare vita ad un’azione più ampia, insieme ad altri, che non hanno con me (né io con loro), un grandissimo livello di affinità?

Qualcuno potrebbe dire: a me non interessa. A me interessa soltanto che mi vada bene il rapporto con due, tre, cinque compagni che mi stanno vicino e nei confronti dei quali ho un’affinità più importante e più significativa, un’affinità direi di pelle, un’affinità basata sulla sensibilità reciproca, mentre quell’altra affinità non mi interessa.

Vediamo di capire da che cosa viene caratterizzato il passaggio dal gruppo di affinità all’organizzazione informale. Forse dall’esistenza di un’affinità diversa? Forse da un’affinità che qui possiamo indicare come qualitativamente più scadente, nei confronti di una più intensa, quella cioè del piccolo gruppo ristretto? Oppure c’è un altro elemento? A me non sembra possibile fare il passo organizzativo più ampio basandosi su di un elemento qualitativamente più scadente. A me non interessa l’aspetto quantitativo, o meglio non mi interessa soltanto l’aspetto quantitativo. So, per certo, che se si è in pochi non si riesce a fare nulla, ma non è affatto sicuro che quando si è in troppi si riesca a fare meglio.

Qual è allora l’elemento che potrebbe caratterizzare questo passaggio, che potrebbe portare l’individuo a quell’associazione che per lui, per quella che è la sua sovranità individuale, potrebbe anche costituire un sacrificio, o comunque una restrizione, però ripagata col pregio di avere differenze più intense, orizzonti d’azione più ampi? Qual è questo elemento?

Secondo me, questo elemento va cercato nell’aspetto progettuale. Grazie al progetto, quell’affinità che apparentemente prima sembrava più scadente, più modesta, più circoscritta, viene rivalutata ad un livello qualitativo differente. Perché il progetto, per definizione, è elemento proiettato verso il futuro, verso una cosa che non c’è ancora, mentre l’affinità, nella sua valutazione, è proiettata verso il passato, verso qualcosa che c’è di già, anche se circoscritta.

Ora, noi dobbiamo guardare ai nostri rapporti, alle conoscenze e a tutto il resto, per quanto riguarda l’affinità, ma la progettualità, questa spinta propulsiva di trasformazione verso il futuro, ha una qualità diversa, ed è da questo aspetto che ci arriva l’altro apporto qualitativo, quello che può sollevare e modificare le modeste capacità dell’affinità di partenza.

Ma come funziona questo rapporto? A me non sembra che si possano cogliere aspetti direi aritmetici, una sommatoria di qualità tra l’affinità e il progetto. C’è da fare una cosa? ci si mette insieme, la si fa. Tutto questo avviene anche nelle organizzazioni classiche, di sintesi, nelle strutture autoritarie. Il partito, ad esempio, ha le sue sedi, raccoglie i militanti, fa un congresso, prende le sue decisioni. Ma non è questo il nostro problema. Il nostro problema è, nello stesso tempo, più semplice e molto più complesso. Più semplice, perché burocraticamente non esiste, più complesso, perché richiede l’approfondimento di determinate tematiche alle quali, essendo noi in ogni caso figli della quantità, non siamo abituati.

Così ci immaginiamo il progetto come un prodotto della quantità: ottenere determinati risultati, fare in modo che la gente faccia certe cose. Poi, sistematicamente, quando abbiamo fatto e realizzato quello che è nelle nostre capacità di fare e realizzare, ci accorgiamo di essere stati penalizzati perché la gente non fa quello che abbiamo detto di fare, non riusciamo a raggiungere i nostri obiettivi. E allora? allora pensiamo che la nostra azione non ha avuto senso, è rimasta priva di significato, perché abbiamo sempre, nella nostra testa, la concezione quantitativa del progetto, non una concezione qualitativa.

Il problema, quindi, non è soltanto quello dell’affinità, perché questo riguarderebbe solo ciò che abbiamo in casa, nei suoi diversi livelli, ma principalmente quello del passaggio all’azione, del passaggio verso la trasformazione progettuale della realtà.

È pertanto il progetto che ci aiuta a capire meglio l’affinità. Dal progetto, il quale riguarda il futuro, cioè non riguarda quello che siamo ma quello che vorremmo essere, quello che vorremmo fare non quello che abbiamo di già fatto, ci arriva una differenza, ed è questo aspetto che dobbiamo capire meglio. A noi sembra che, ad un certo punto, una somma aritmetica di affinità produca una affinità più grossa, una sorta di supergruppo. Tutto questo è assurdo. La somma di più affinità non produce nulla, produce estraneità, se non è cementata da un progetto, cioè da qualcosa che ancora non c’è, che deve ancora venire, quindi da una radicale incognita, da una differenza sostanziale.

Le affinità sono elementi del conosciuto, e più sono conosciute meglio possono essere valutate, cioè appartengono a quello che noi siamo. Ora, non vorrei che qualche filosofo scettico mi precisasse che noi non sappiamo cosa siamo. Ma, mettendo questo problema da parte, possiamo dire che sapendo meglio chi siamo, e cosa vogliamo fare, l’affinità si prolunga e trova la sua vera e propria realizzazione nelle cose che vogliamo fare. È questo il vero e proprio terreno della conoscenza, dove sperimentiamo noi stessi e gli altri e quindi, nello sperimentarci e nello sperimentare, conosciamo noi e gli altri, diamo fondamento all’affinità.

È chiaro che se io dovessi limitarmi al solo discorso dell’affinità e basta, sceglierei l’affinità più completa, quella più significativa. Perché mai dovrei penalizzarmi? Perché dovrei parlare con qualcuno con cui non ho un’affinità totale? Probabilmente, a tale livello, troverei ben poche persone, in tutta la mia vita, con cui poter parlare, e con queste persone starei benissimo. Qui però stiamo cercando di fare un passo avanti, in funzione del progetto che ci interessa. Non perché questo sia un modo intelligente per volermi legare al carro della finalizzazione, un trasformare la mia azione da ricerca della bellezza della vita in rassegnazione all’economicità del fare. Non è questo. È chiaro che se voglio vivere una vita perfetta, può anche darsi che non troverò nemmeno due persone con cui parlare, forse soltanto me stesso. Forse, non lo so, nemmeno me stesso. Quindi, la progettualità trasforma il concetto di affinità e consente di vedere meglio il passaggio tra gruppo di affinità, nella sua specificità anarchica, e organizzazione informale.

Non vedo in che modo questo passaggio possa essere – come è stato fatto, certamente in malafede, – ricondotto a qualcosa di simile all’organizzazione di sintesi, se non addirittura di peggio, dal punto di vista del controllo e dell’autoritarismo organizzativo. Mi sembra tutto un discorso di lana caprina. L’organizzazione di sintesi non tiene affatto conto delle differenze, anzi tende a sintetizzarle, cioè a trasformarle in assenza di differenze, in modo da potersi ergere a rappresentante di quello che sta all’esterno, cioè delle differenze ormai sintetizzate. Le varie commissioni, ad esempio, di una organizzazione di sintesi, servono come elementi di riciclaggio e di trasformazione delle differenze del mondo esterno. Tutto questo che c’entra con l’organizzazione informale?

Nichilismo. I nichilisti ammazzarono lo Zar. Oggi, quando su certi giornali (anche di movimento), leggiamo che gli anarchici che fanno certe azioni sono “nichilisti”, non si tratta altro che della polvere dei luoghi comuni. Ma, a parte queste stravaganze senza importanza, seriamente parlando, che cosa possiamo considerare come distruzione? Per rispondere a questa domanda occorre porsi altre domande preventive: che cosa si è costruito, che cosa ha costruito l’uomo? E poi, quello che il mondo è, per come l’ha voluto e realizzato l’uomo, è inserito in una progressione di miglioramento? Oppure, in effetti, non è così e questo aspetto è uno dei tanti prodotti dell’ideologia del progresso? Insomma, noi anarchici pensiamo che l’anarchia sarà, a prescindere dalle nostre azioni, oppure questa anarchia futura è soltanto un’ipotesi, ipotesi che potrebbe anche non realizzarsi? La nostra azione, il nostro intento, spesso anche il nostro sacrificio, anche i compagni che sono morti lottando, ecc., sono morti nella certezza che il loro progetto sarebbe andato in porto in futuro? Oppure sono morti nell’incertezza, nel dubbio, e malgrado questo, hanno affrontato la morte?

Se fosse vera la famosa frase di Bovio, basterebbe sedersi sulle rive del fiume e aspettare il passaggio dell’anarchia. E se le cose non stessero così? E se il mondo non andasse verso il miglioramento? E se oggi non stessimo meglio di cinquant’anni fa, e cinquant’anni fa meglio di cento anni fa e così via? E se questa ideologia del progresso fosse tutta un imbroglio? E se i barbari fossero, anche oggi, accampati alle nostre porte? E se questi barbari fossimo noi stessi? E se la distruttività e la barbarie, insieme alla più assoluta mancanza di qualunque concetto di miglioramento, fossero la vera realtà? E se tutto ciò diventasse una nostra ipotesi di lavoro, non finiremmo per vedere tutto in maniera diversa?

Non c’è un patrimonio sacrale messo da parte, un patrimonio assalito dai barbari, i quali non sanno cosa sostituire al suo posto. Ne deriva che mancando questo oggetto positivo, fissato deterministicamente una volta per tutte, la distruzione assume un altro significato. Dall’azione distruttiva stessa può nascere una diversa composizione degli equilibri e dei contrasti, non semplicemente un futuro migliore. Il futuro potrebbe essere migliore e potrebbe non esserlo. Nulla è garantito. Questa impossibilità di determinare il futuro è una condizione dell’uomo, ed egli ne ha coscienza immediata, come di un problema attuale che incombe su di lui, problema di cui non può trovare soluzioni definitive. Da qui viene la necessità della distruzione, dal fatto che non possiamo determinare il futuro attraverso piccoli aggiustamenti. Se pensiamo a quanti lager, quanti massacri sono stati fatti in nome dell’ideologia del progresso, viene da ridere pensando alle ipotetiche strategie nichiliste del simpatico dinamitardo antizarista. Si tratta di una cosa minima, paragonata a quello che è stato fatto in nome dell’ideologia del progresso.

Quindi, oggi, definirci nichilisti perché sosteniamo la necessità di distruggere lo stato di cose attuale, è semplicemente ridicolo.

C’è un rapporto tra insurrezione e distruzione, e a cogliere questo rapporto è un fatto organizzativo. Bisogna infatti vedere il modo in cui pensiamo l’insurrezione. Se la pensiamo in modo mitico, una sorta di Grand jour, in cui chissà perché combinandosi certi umori astrali ci troviamo nella piazza insieme alle grandi masse, finalmente in grado di distruggere ogni forma e ogni residuo di Stato e, quindi, instaurare l’anarchia; oppure se la pensiamo diversamente. Ci sono stati di certo momenti insurrezionali nella storia, piccoli e anche grossi fatti insurrezionali, talmente significativi da restare come chiari punti di riferimento, ma il loro rapporto con lo svolgimento progettuale dei singoli individui che si pongono come avversari dichiarati e attivi delle istituzioni, non è rimasto per nulla chiaro.

Ad esempio, noi abbiamo con la società in cui viviamo un rapporto di accettazione di certi valori, di determinati codici, se non altro linguistici, oltre che morali. Il fatto di essere anarchici non ci rende immuni da questa accettazione. L’idea di ordine, in fondo, l’abbiamo radicata dentro di noi. Il fatto che la rifiutiamo teoricamente, non vuol dire che non la presupponiamo. L’ordine noi lo presupponiamo. Io faccio un progetto presupponendo certe coincidenze ordinative che do sempre per scontate, dall’autobus all’angolo, di cui conosco gli orari, fino al linguaggio che uso per farmi intendere, ai codici che maneggio, quasi sempre senza accorgermene. È l’idea di ordine che regola il mondo. Difatti, l’ipotesi estrema che noi immaginiamo con la parola “anarchia”, la vediamo come una condizione in cui ci sarà l’ordine senza i costi che quest’ordine oggi comporta: in primo luogo lo sfruttamento e, poi, tutte le altre cose che sappiamo bene. Un’ipotesi di ordine assolutamente nuova, assolutamente diversa. Un ordine nuovo, anzi, come dicevano i vecchi padri dell’anarchia: “il solo ordine possibile”. Come vediamo, in pratica, noi non riusciamo a sfuggire a questa idea. E difatti, quando parliamo di distruzione, e ce ne preoccupiamo, immaginiamo che questa distruzione, disturbando l’ordine dei valori attuali e non essendo in grado, in quanto fatto parziale, di garantire l’instaurazione di un ordine nuovo, non si vede quale diritto possa avere di mettere mano in faccende che a noi, in fondo in fondo, tornano utili.

E quindi, cosa vorremmo? Una distruzione che colpisca la realtà esistente, ma in grado di instaurare un ordine nuovo. L’insurrezione è qualcosa di più complesso. Essa non parte solo da una distruzione dell’ordine esistente, rapporti sociali in genere e in primo luogo, ma parte da ognuno di noi, tanto è vero che il termine corretto dovrebbe essere inteso come insurrezione dell’individuo, il quale insorge contro il modo in cui gli vengono serviti i valori in base ai quali viene garantita una vita sicura, ma indegna di essere vissuta.

La chiave dell’insurrezione è sì quella distruttiva, ma letta attraverso il mettersi a rischio, il mettersi in gioco, primariamente e individualmente. Il fatto distruttivo stesso produce un senso di soddisfazione che tende a decrescere man mano che ci si avvicina alla sua radicalizzazione, cioè man mano che esso diventa più significativo, cogliendo gli elementi individuali di chi lo realizza. L’estetica della distruzione scompare allora per far posto ad un rifiuto della più elementare attività esterna, rifiuto che ci lascia al chiuso delle eterne sicurezze della nostra coscienza.

L’insurrezione ha quindi anche un lato di tipo razionale, cioè può essere sottoposta ad una analisi che ne studia gli aspetti, i momenti, gli sviluppi. Ha anche le parti documentative, formative, educative. Ma, per quanto estese siano queste parti, non siamo mai preparati di fronte alle condizioni che fanno emergere l’insurrezione: o siamo entusiasti in eccesso, o siamo critici in difetto.

Occorre spendere qualche parola sulle trasformazioni sociali che ci sono state in questi ultimi anni. Noi viviamo in un mondo che non è uguale a quello di vent’anni fa. Tutto è cambiato. Alcuni aspetti sono talmente cambiati da essere irreversibili. Il potere di oggi non ha nulla a che vedere con quello di venti o cento anni fa. Se gli anarchici, cento anni fa, si potevano illudere veramente di avere la possibilità, una volta liberate dagli attuali padroni, di gestire in maniera diversa le ricchezze accumulate, in una maniera basata sull’ordine nuovo, oggi un’idea del genere è del tutto irrealizzabile. Oggi, l’inserimento della tecnologia, le modificazioni tecnologiche che si sono verificate, rendono assolutamente impossibile una gestione libertaria, o liberatrice, o liberatoria, o liberante, della struttura tecnologica attuale. Solo la nostra cattiva conoscenza del problema ha potuto ingannarci in merito.

Ecco cosa abbiamo pensato: va bene, ci impadroniamo dei computer e gestiamo il resto. C’è una fabbrica, che facciamo? andiamo in questa fabbrica la quale, poniamo, produce automobili e gli facciamo fare biberon. La cosa non è possibile. Oggi, nel fenomeno produttivo visto nella sua complessiva estensione, si sono inseriti elementi tecnologici che, interagendo fra di loro, rendono impossibile una gestione differente da quella attuata dal capitalismo dominante. Alcune scelte produttive sono quindi irreversibili, per cui il concetto di distruzione è oggi un concetto metodologicamente aderente alla realtà, e non viene proposto perché ci piace distruggere.

C’è una differenza essenziale con la situazione del tessitore francese che, nel secolo scorso, buttava lo zoccolo dentro la macchina che lo stava tartassando con i suoi ritmi (zoccolo in francese si dice “sabot”, da cui la parola sabotaggio) per fermarla, in quanto quei ritmi erano troppo veloci e lui aveva bisogno di qualche attimo di riposo. Il concetto di riguadagnare una parte della propria forza fisica per potere, da un lato, continuare a lavorare, e dall’altro, avere maggior tempo per respirare e riflettere su cosa si può fare, questa concezione, limitata al semplice atto distruttivo, oggi è per forza più ampia. Adesso, non si tratta più di riguadagnare una parte del tempo che viene sottratto dai padroni. Su questa linea lo stesso potere è d’accordo, sono gli stessi gestori della produzione economico-politico-sociale che sono d’accordo a dare più spazio al produttore e maggiore flessibilità all’organizzazione del lavoro, a dire alla gente: decidete voi gli orari di lavoro, il modo in cui volete farvi sfruttare, purché diate questo livello di produzione, livello che può essere anche “autogestito” in uno con gli interessi del capitale. Verso questa strada ci si indirizza.

Pensate a un contesto produttivo del genere “isola”, dove circa cinque persone, comunque un piccolo gruppo, lavorano e si controllano a vicenda, in cui non c’è capoturno, in cui non ci sono segnatempi, in cui tutti sono amici, tifano per la stessa squadra di calcio, abitano nella stessa zona, le cui mogli si frequentano, i cui figli vanno nella stessa scuola, pensate ad un contesto del genere: un lavoratore potrebbe gettare il proprio, sia pure metaforico, zoccolo nella macchina allo scopo di sabotarla? Gli altri compagni lo bloccherebbero subito. È di questa realtà che stiamo discutendo, di questo fatto. Quando parliamo di distruzione, non dobbiamo avere presente soltanto lo stereotipo di una banda di dissennati che scende nelle strade, che svaligia negozi rubando bottiglie di champagne.

Se parliamo di fatto distruttivo dobbiamo, prima, capire in che modo oggi si può combattere contro le trasformazioni di un sistema produttivo capitalista, un sistema che ha utilizzato la tecnologia più avanzata per rigenerarsi in maniera tale da costituire un insieme irreversibile, dalle cui scelte non si torna indietro. Siamo di fronte ad un sistema produttivo, quindi economico e sociale, che non può essere utilizzato in modo diverso da quello in cui viene utilizzato dalle intenzioni capitaliste. L’unica cosa che resta da fare è, pertanto, quella di sfasciare tutto. Il problema non può essere risolto diversamente.

Se vogliamo quindi parlare di insurrezione, di progetto insurrezionale, dobbiamo tenere conto delle idee, delle azioni dei compagni anarchici, non perché con questo vogliamo racchiudere il problema nel microcosmo di poche persone, ma perché è qui che possiamo misurare il grado di conoscenza del problema e il grado di coscienza di coloro che se lo pongono.

Facciamo un esempio di qualcosa di catastrofico per il capitale, altrettanto e forse più catastrofico di un incidente nucleare. Parliamo di quello che può accadere ad una banca.

Una volta le banche come funzionavano? Funzionavano in base a strutture di controllo e gestione del denaro. Il sistema economico di un Paese è fondato sulle banche. Questo sistema in un grande Paese industriale è legato, in modo più intimo, con le banche. Il sistema economico mondiale è quello che può far morire, da una settimana all’altra, milioni di persone. Se siamo d’accordo con queste affermazioni, abbiamo un’idea dell’importanza e della delicatezza delle strutture creditizie per il moderno capitale internazionale.

Una volta c’era un modo di sabotaggio che si chiamava “a bocca aperta”. Consisteva in questo: denunciare certi dati segreti della banca. Ad esempio, alcuni impiegati distribuivano al pubblico un pezzettino di carta dove c’erano scritti i saldi dei più grossi conti di deposito. La conoscenza di queste notizie risultava piuttosto spiacevole ai titolari dei conti che vedevano messa in piazza l’entità della propria ricchezza, con tutte le conseguenze che ne potevano derivare. Ciò li spingeva a ritirare i fondi tutti in una volta, creando quello che tecnicamente si chiama un “panico bancario”.

Oggi, una grande banca, poniamo la Banca di Roma, non ha un solo centro-dati dove custodisce i movimenti bancari di tutti i clienti, ma ha cinque archivi, collocati in cinque posti diversi. Ora, per quanto possono essere sicuri e segreti, questi cinque archivi, sul piano puramente teorico, non sono immuni da una distruzione. Se si distruggessero tutti e cinque, salterebbe il sistema contabile della banca a causa dell’impossibilità di ricostruire i movimenti creditizi e finanziari di tutti i clienti. Si avrebbe un panico bancario, questa volta senza precedenti, salterebbe la banca, salterebbe l’intero sistema bancario italiano, salterebbe l’intero sistema bancario mondiale, con un riflesso immediato in borsa, perdite bestiali, e tutto il resto. Un danno incalcolabile per il capitale nel suo complesso.

Loro sanno perfettamente su quale bomba atomica sono seduti, però non fanno nulla perché non hanno altra scelta che quella di ridurre al minimo i rischi di un crollo totale, senza poterli cancellare del tutto. Hanno operato una scelta tecnologica irreversibile, la quale ci espone tutti a rischi gravissimi. E non è detto che sappiano fino in fondo quello che stanno facendo, perché le conseguenze di queste scelta sono soltanto in minima parte prevedibili. È certamente affascinante questo mondo che ci sta davanti. Come si può continuare a vivere con una bomba tecnologica che può esplodere in qualsiasi momento? Ad esempio, se noi consideriamo il meccanismo internazionale delle borse valori, vediamo come l’inserimento della telematica ha reso possibile un migliore controllo e una maggiore tempestività nel calcolo delle quotazioni. Ciò ha ridotto, da un lato, i rischi di crolli considerevoli, del genere “Venerdì nero”, che non si potranno verificare con la facilità di una volta, ma ha, dall’altro lato, aperto molte possibilità per un altro genere di pericoli di cui si conoscono solo in piccola parte gli sviluppi e le conseguenze sugli aspetti produttivi del sistema nel suo insieme.

Assistiamo ad una profonda trasformazione dell’organizzazione produttiva, non solo nei mezzi di produzione, ma anche nello spazio. C’è stata una esplosione nello spazio dei luoghi che in passato erano chiusi e difesi perché dedicati alla produzione. Questo modo di trasformare la fabbrica è interessante in quanto, adesso, ci mette in condizione di vedere una struttura produttiva che corrisponde perfettamente all’attuale polverizzazione della classe operaia. Non è un caso che si siano verificati questi fatti paralleli, come non è un caso che sia finita l’ideologia del centralismo operaio, e che i partiti tradizionali siano scomparsi. Stare a discutere se sia nata prima la decisione del capitale di smantellare la fabbrica, quindi polverizzarla e telematizzarla, oppure la fine dell’ideologia del centralismo operaio, del partito guida, della cinghia di trasmissione sindacale, è una discussione di lana caprina. La realtà è una: oggi queste strutture non sono quelle di una volta, sono diverse, e quindi devono essere anche diverse le nostre capacità teoriche e pratiche di attaccare gli interessi che le tengono in piedi. Se noi ci immaginassimo la produzione come era vent’anni fa, quindici e in alcuni casi dieci anni fa, commetteremmo un errore.

Non si tratta solo del fatto che la fabbrica è stata aperta, smontata e polverizzata nel territorio, non si tratta solo del fatto che sono stati invertiti i rapporti direttivi interni e i progetti di conquista dei mercati, ma principalmente che la fabbrica è stata telematizzata. Da qui, una sorta di smaterializzazione della fabbrica o, per il momento almeno, una sua non più stretta adesione al territorio. La Fiat non è più solo a Torino, ma è in Russia come in Argentina e in altri Paesi del mondo. Tutte queste parti della vecchia fabbrica sono collegate per via telematica.

Pensate a come è stato risolto il problema dello stoccaggio. Questo è un problema centrale per le grandi industrie. Lo stoccaggio dei pezzi di ricambio incideva per circa il 25% sui costi produttivi di una impresa automobilistica. Oggi, invece di avere dei grandi mausolei collocati in alcuni luoghi precisi (per l’IBM il deposito dei computer si trovava a Bordeaux, a Stoccolma e a Melbourne, solo in questi tre grandi centri), ogni sede dell’impresa in questione, poniamo dell’IBM, anche la più remota, ha il suo piccolo magazzino con scorte di materiale volte senza rapporto immediato con l’eventuale consumo locale. Per cui, se all’IBM di Rovereto, o di Trento, serve un pezzo, gli addetti a questo lavoro digitano il codice relativo a quel pezzo sul computer e vedono direttamente dove il pezzo si trova, in qualsiasi parte del mondo. L’ordine di consegna parte in tempo reale e l’indomani, per via aerea, viene fatta la spedizione. L’aumento dei costi dovuto al trasporto è di gran lunga meno alto della gestione dei grandi magazzini centrali e periferici dotati dell’infinità dei pezzi di cui si compone una macchina complessa come un’automobile o un grande computer IBM.

Io mi chiedo: si tratta soltanto di un calcolo economico, di un progetto diretto a risparmiare sui costi di gestione? Oppure temevano un attacco diretto contro questi grandi depositi, attacco facilmente realizzabile sulla base di quelle che erano le condizioni del passato?

Se oggi volessimo attaccare e distruggere uno dei grandi depositi di computer dell’IBM non sapremmo dove andare. Però, voltando la frittata, oggi è possibile, con una semplice operazione di taglio, bloccare le comunicazioni dei cavi ottici che attraversano tutto il territorio, bloccare le comunicazioni tra le grandi banche, le grandi centrali elettriche, le grandi industrie. Non è quindi, come una volta, che si sentiva il bisogno di gettare lo zoccolo nella macchina per bloccarla, adesso il bisogno distruttivo è fondato su motivazioni diverse, ed occorrono ben altre documentazioni che non il semplice moto dell’animo dettato dalla fatica fisica.

La conoscenza del funzionamento e della composizione delle strutture produttive è importante per cercare di adeguare l’attacco alla realtà trasformata.

L’elemento di coordinazione che oggi ci unisce tutti è la tecnologia. E questo fatto non è senza conseguenze, visto che comunichiamo essenzialmente attraverso mezzi tecnologici. La prima di queste conseguenze è una riduzione del linguaggio.

Ora, siccome l’impiego di certe macchine e la loro diffusione sono possibili soltanto se si attua questa riduzione del linguaggio, non potendo alzare il livello delle macchine a quella che è la soglia del senso comune degli individui, si deve abbassare la capacità degli individui al livello delle macchine.

Si apre qui un tema interessante. Per il potere, nell’ambito della sua diffusione mondiale, il fatto di cui sopra, costituisce un progetto cosciente oppure no? C’è il progetto di ammutolire una parte degli uomini, privarla del linguaggio, della parola? Ad esempio, il processo di sostituzione dell’immagine, del colore e del suono al posto della parola è un processo di sintesi. Questo tipo di operazioni appartengono all’innesto della tecnologia.

La perdita del linguaggio potrebbe determinare l’esclusione di una parte dell’umanità, quindi la ricomposizione di una divisione di classi su basi diverse. Ci sarebbero allora: da una parte i “parlanti”, dall’altra i “muti”, e siccome il desiderio, che è la base della rivolta, è possibile soltanto nell’ipotesi che si sappia cosa desiderare, oltre al fatto che non si possieda quello che si desidera, la rivolta potrebbe non esserci più, se non si è in grado di parlare, di pensare, di desiderare.

Facciamo attenzione. La storia è stata contrassegnata dalla lotta di classe tra coloro che si ribellavano e quelli che possedevano. Ma i primi, perché si ribellavano? perché non possedevano quello che vedevano essere in possesso degli altri, e in più perché capivano questo possesso degli altri, perché il linguaggio che dava significato e segno alla cosa posseduta dagli altri, era linguaggio comune anche ai non possessori. Ma una volta che i possessori di oggi riuscissero a stabilire un linguaggio diverso, per esempio una parola esclusivamente comprensibile a quelli che possiedono, per gli “inclusi”, e un’altra parola, questa sì immiserita, per coloro che non posseggono, per gli “esclusi”, parola quest’ultima piena zeppa di immagini, di suoni e di colori, quanti se ne vogliono, capace di qualsivoglia flessibilità di intenzioni, cosa potrebbero mai desiderare gli esclusi? Ecco il sorgere di una contrapposizione netta, ma incomprensibile, un vero e proprio muro invalicabile, impossibile a distruggere.

Questo può di certo avvenire attraverso la tecnologia e, per quel che ci riguarda, fa capire meglio la non utilizzabilità rivoluzionaria della telematica e di ogni forma tecnologica avanzata. Quindi, non è tanto il problema di dire: a me piace il televisore, oppure io ritengo rivoluzionario non averlo.

Veniamo ad un altro esempio. Alcuni affermano che oggi, nel campo musicale, è possibile fare in tre persone, con l’aiuto della tecnologia, musica che prima, per farla, occorrevano decine di persone. A questa affermazione si potrebbe obiettare: la musica che si ottiene in tal modo è musica o è una cosa diversa, che si differenzia dalla musica da un punto di vista culturale? C’è un abbassamento di qualità, di linguaggio musicale? Perché, se non si coglie più nessuna differenza, può anche essere che la malattia è in uno stadio molto avanzato e che non si tratta più di un cambiamento di gusto musicale, ma di una sopravvenuta miseria che si mantiene ormai inavvertita.

La capacità del potere di ridurre il linguaggio appartiene a quelle sue capacità, per fortuna piuttosto circoscritte, di programmare la propria attività. Il controllo della funzione del linguaggio è un imperativo per il potere, non solo per gli sviluppi futuri del dominio, ma anche per le sue attuali necessità. Un’indicazione importante ci viene dalle trasformazioni del settore lavorativo. In questo campo, la trasformazione tecnologica ha modificato la domanda di una volta. La qualificazione che oggi viene richiesta nei posti di lavoro si è modificata. Mentre prima si aveva la necessità di una piccola quantità di gente con qualificazione media, di una grande, grandissima, quantità di lavoratori con una scarsissima qualificazione e di una piccola quantità con altissima qualificazione, adesso la curva si è modificata. Si ha sempre necessità di una piccola quantità di lavoratori con alte capacità produttive, mentre quella che è cresciuta a dismisura è la richiesta di persone che hanno una qualificazione media che attiene a parecchie attività, a differenti e flessibili capacità di adattamento. Quindi, non una qualificazione specialistica, ma una educazione a rendersi disponibili, a partecipare, a discutere. Per fare questo, a partire dalla scuola, hanno dovuto modificare i programmi, i corsi di studio. Oggi, in molte facoltà universitarie, stanno facendo dei corsi sperimentali in cui vengono abbinati studi che in passato era impensabile mettere insieme: ad esempio, una preparazione di tipo matematico ed elettronico con una preparazione contemporanea di tipo umanistico e filosofico. Categorie che, in passato, di regola, restavano ben separate. Chi si interessava di materie letterarie non capiva nulla di problemi matematici, se non nel caso di rare eccezioni individuali. Adesso, invece, siamo di fronte a programmi precisi. Loro hanno interesse a creare una classe dirigente che possegga una preparazione di questo tipo, in base alla quale gestire il lavoro di persone ormai educate soltanto alla visualizzazione di diverse possibili alternative.

L’allenamento alla visualizzazione è un’attività ormai primaria della scuola e, attraverso questa, entra nel mondo del lavoro e qui che diventa progetto concreto. L’abbassamento culturale della scuola non è una conseguenza, delle lotte del Sessantotto, del “sei politico”, o almeno non lo è del tutto. Esso è ormai un progetto abbastanza chiaro, imposto dalle scelte e dalla logica del capitalismo postindustriale.

Torniamo adesso al discorso della musica. Quando dico che in passato il musicista leggeva lo spartito (o lo scriveva) non mi riferisco a nessuna arte misterica. Si tratta di una lingua come un’altra, che si apprende con un lavoro di sei mesi. Il non averla appresa non dequalifica chi non la conosce, solo gli sottrae un mezzo culturale, uno strumento di conoscenza. Io penso che più mezzi possediamo e meglio possiamo agire.

Sul concetto di guerra civile si hanno spesso delle idee piuttosto schematiche. Si parte, per poter capire il concetto di guerra civile, da certe esperienze che sono storicamente ben precise, alcune in corso di svolgimento, altre definitivamente rinchiuse nella storia. Più che altro, la guerra civile è una condizione complessiva che ormai si può dire avvolge la totale situazione del mondo oggi. Per capire che differenza c’è tra la condizione di scontro e di guerra civile, per come esiste in Paesi come l’Italia o come gli Stati Uniti, e quella che c’è in atto, poniamo, nella ex Jugoslavia, occorre fare un minimo di approfondimento.

La differenza tra la guerra civile e la guerra militare tra Stati, la guerra classica come è stata definita dalla storia e dai teorici, era fondata sul fatto che, in quest’ultima, c’erano precisi elementi di ufficializzazione dello scontro bellico: la dichiarazione di guerra, la sospensione di determinate garanzie internazionali, il subentrare del diritto di guerra al diritto cosiddetto civile, l’autorizzazione all’omicidio di massa, e tante altre cose. Col passare del tempo, specialmente nel corso degli ultimi vent’anni, si è visto che l’utilizzo della guerra ufficialmente dichiarata, come strumento di gestione internazionale dei rapporti fra gli Stati, era sempre meno pratico, sempre meno utile. Le grandi delusioni e le cocenti sconfitte subite da grossi complessi mondiali repressivi, come lo Stato americano e quello sovietico, hanno insegnato, se non altro, che bisognava valutare diversamente lo strumento della guerra. Ed allora, siccome questo strumento è, ovviamente, uno strumento ineliminabile nella gestione dello Stato, anziché insistere sulla guerra classica si è passato ad un altro concetto di guerra.

Quest’altro concetto di guerra è camuffato attraverso tutta una serie di dichiarazioni, cioè è protetto, è tutelato da dichiarazioni che gli Stati fanno continuamente: appelli alla tolleranza, al pacifismo, al reciproco rispetto. Appelli, come dire, superficiali, che hanno trasformato apparentemente la politica degli Stati militaristi in politica di Stati pacifisti, la qual cosa è un’assurdità in quanto non si capisce come uno Stato, ad esempio l’Italia, per restare nei problemi di casa nostra, affermi di essere per la pace mondiale, insista contro lo sviluppo delle guerre in atto in tutto il globo e poi continui a fabbricare armi, a venderle, a finanziare gli eserciti, a finanziare le ricerche militari, e tutto il resto. È chiaro che non si sta scoprendo nulla dicendo che lo Stato è essenzialmente uno Stato di guerra, uno Stato criminale, sempre, in ogni tempo, e sotto qualsiasi forma si presenti. Adesso la situazione si è modificata. Dal punto di vista sostanziale, non dal punto di vista formale.

La guerra civile è la guerra che ha modificato alcune componenti di valore. E qua bisogna intendersi. Se ci ricordiamo di quello che è stato detto ieri sulla condizione e sull’importanza dei valori tenuti presenti nella società, l’importanza di questi valori si è andata disgregando come capacità di reggere il controllo. Pensiamo, ad esempio, al crollo delle cosiddette ideologie. Ciò ha causato parecchie difficoltà nella gestione degli Stati. Le ideologie servivano come elementi di controllo e di coesione. Una ideologia debole serviva per un certo tipo di controllo, un’ideologia forte, come, ad esempio, l’ideologia degli Stati del socialismo reale, serviva per un altro tipo di controllo e di coesione. Questi crolli hanno determinato conseguenze considerevoli. Altri cambiamenti nei valori che reggono il controllo sociale, sono stati imposti dalle modificazioni di natura economica e sociale all’interno degli Stati. Il potere è passato da un’alta concezione (come dicevamo ieri) della qualificazione professionale ad una valutazione trascurabile e secondaria. Ha sottratto così all’individuo lavoratore il suo futuro di qualificazione, l’ambito all’interno del quale quest’ultimo si riconosceva come specialista, con un suo linguaggio, una sua volontà di capire il mondo, una sua capacità di interpretarlo e di strutturarsi il futuro suo e dei suoi figli. E, sottratto tutto questo, ha sostituito questo futuro di “certezze” con un futuro di dubbi, di incertezze, di perplessità, di paure, un futuro basato sulla flessibilità, cioè sulla necessità che il lavoratore diventi da soggetto qualificato un soggetto che si deve adattare. In questo modo, ha creato una situazione di panico, una situazione di incertezza. E questa incertezza porta il lavoratore a considerare il futuro non come pericolo prevedibile e controllabile, ma come pericolo fondato sull’incertezza e quindi imprevedibile e incontrollabile.

C’è un altro elemento che è venuto a crollare, quello costituito dalle certezze fornite dalla scienza, certezze di prevedibilità del futuro, garanzie che comunque le cose, nel futuro, possono migliorare (perché anche questo è venuto a mancare). Abbiamo, in questo modo, un altro elemento di pericolosa rimessa in discussione della stabilità e dell’equilibrio, una volta canoni fuori discussione. Teniamo presente che questo venir meno dei grandi canoni di certezza dei valori della scienza, era stato, in un certo senso, dalla scienza stessa previsto e teorizzato, ma, solo in tempi recenti, quella previsione astratta, racchiusa nei libri dei teorici e degli scienziati, è passata nella pratica, cioè è stata realizzata in termini di strumenti tecnologici e di impostazione di massa, come diffusione a livello massiccio dell’idea di incertezza.

Per chiarirci meglio. L’idea di incertezza la scienza non l’ha scoperta adesso, l’ha scoperta all’inizio del secolo, però ha impiegato circa ottant’anni per fare passare quest’idea dalla fase di teorizzazione alla fase di realizzazione tecnologica, e questa dimensione tecnologica di incertezza si realizza adesso, contemporaneamente, come progettazione di mezzi tecnologici incerti e utilizzo incerto degli stessi mezzi. Prima sussisteva una strana contraddizione. La scienza, in sede teorica, sosteneva che il mondo era basato sull’incertezza, mentre la tecnologia, fino a trent’anni fa, diceva esattamente il contrario. Possiamo prevedere, quest’ultima affermava, la scienza è misura non è altro, e così forniva garanzie. Adesso, siamo in un’altra situazione. L’itinerario degli ultimi quarant’anni si è chiuso, la scienza ha concluso il suo progetto tecnologico, il braccio armato della scienza ha realizzato quella che era l’ipotesi di lavoro della scienza stessa e sta producendo un individuo nuovo, in balia del suo panico, della sua incertezza, della sua paura.

È logico che questo individuo nuovo si veda meglio nei giovani, cioè in quella fascia di età nella quale ci si aspetta più pesantemente, più urgentemente, qualcosa dal futuro. Spesse volte, quando fanno un’analisi delle fasce giovanili della società, gli anarchici sono portati, specialmente i compagni più giovani, a trasferire la propria coscienza rivoluzionaria, il proprio veder le cose, all’esterno, come se tutti avessero la possibilità di vedere il mondo così come lo vedono loro. Non è così. Se per molti di noi l’incertezza del futuro può diventare elemento di stimolo alla sua trasformazione, quindi risultare reale spinta rivoluzionaria, per molti non è così, è semplicemente paura, semplicemente panico, semplicemente incertezza del futuro, non più stimolo. No future, dicevano molti giovani americani fra gli insorti di Los Angeles di qualche anno fa. Questo è il contesto che definiamo di guerra civile.

Quindi, non è tanto il fatto che non ci siano in Italia, o a Los Angeles, o a Brixton, o a Friburgo, i cecchini alle finestre, quest’ultimo è un aspetto, se volete, macroscopico e secondario del problema, quanto il concludere, il portare alle estreme conseguenze un itinerario che, nel momento in cui è in corso, è di già, esso stesso, guerra civile e non lo diventa nel momento in cui il cecchino apre la finestra e spara. La guerra civile non è data solo da questo fenomeno, essa è determinata principalmente dal crollo dei valori sui quali la convivenza del passato si reggeva e in base ai quali valori, all’interno di quella convivenza, si parlava di guerra soltanto nel momento in cui c’era una dichiarazione ufficiale delle potenze internazionali. Adesso il concetto di guerra si allarga alla guerra civile.

Se nel 1936, per aversi le condizioni spagnole della guerra civile, ad un certo momento, fu necessario un golpe fascista, un “pronunciamento” dell’esercito spagnolo, in caso contrario non ci sarebbe stata nessuna guerra civile, ciò dipese dal fatto che la situazione era diversa. Infatti, è possibile parlare di guerra civile, nel contesto spagnolo del 1936, solo a seguito del tentativo di presa del potere da parte dei fascisti. Adesso, la situazione sociale è tutta un’altra cosa. Oggi, per poter parlare di guerra civile, non c’è bisogno di un’insurrezione armata dell’esercito che cerchi di impadronirsi del potere, e quindi di una risposta popolare a questo tentativo, oggi siamo automaticamente in una condizione di guerra civile e possiamo parlare in termini di guerra civile, per cercare di capire che fare.

Per quanto strano possa sembrare, se noi non sappiamo cosa fare in questo contesto in corso di svolgimento (poniamo il contesto italiano di oggi), nel momento in cui si dovessero affrontare situazioni per noi incomprensibili, o scarsamente catalogabili nell’ambito dei luoghi comuni che abbiamo in testa, basati sulle analisi del passato, se non siamo in grado di rispondere coerentemente e correttamente alla situazione di oggi, ancora meno saremo in grado di farlo qualora la situazione evolvesse verso condizioni estremamente chiare di guerra civile, come quelle della ex Jugoslavia.

In definitiva, il ragionamento dovrebbe essere questo. Sul piano della reale composizione dei rapporti di forza, non c’è differenza se non di quantità tra la situazione di guerra civile che c’è oggi [1994] nella ex Jugoslavia e quella che c’è negli Stati Uniti, in Russia o in Italia. Sul piano meramente quantitativo, quindi sul piano della macroscopicità dei fenomeni, la differenza c’è, però siamo tutti sulla stessa strada, ci stiamo tutti indirizzando verso la stessa conclusione. Pertanto, trovandoci in una situazione, diciamo, differente, ma solo dal punto di vista quantitativo, i problemi sono identici. Se non sappiamo cosa fare oggi, ancora meno sapremo cosa fare domani, in quell’altra condizione.

Torno a ripetere, la sostanziale situazione di guerra civile in cui viviamo tutti, anche in Paesi che apparentemente non sono in situazione visibile di guerra civile, dipende dal venire meno di alcuni valori. Questo venire meno determina una condizione differente di convivenza. Al posto della convivenza forte, basata su di un rapporto di quasi-certezze, non dico di certezze, perché di certezze assolute non si è mai parlato, ma di quasi-certezze, cioè di possibile prevedibilità del futuro, si ha adesso un valore debole, di incertezza del futuro. Questo fatto determina di per sé una conflittualità differente all’interno della società. Determina cioè la formazione di una società che si basa su di una conflittualità incerta, incostante, fondata su categorie che non sono quelle classiche della rivendicazione, della certezza del bisogno e quindi della certezza dell’obiettivo da raggiungere. Quando tutto diventa confuso, quando chi scende in piazza non sa che vuole, perché non c’è un obiettivo chiaro da raggiungere, quando i desideri che spingono a scontrarsi sono dettati nebulosamente da stimoli, da sensazioni, allora, in questa situazione, siamo di già nell’ambito della guerra civile.

Mi si potrebbe giustamente obiettare che anche nelle lotte del passato, nelle insurrezioni del passato, c’era questa componente di incertezza, questa componente di instabilità, o non chiarezza, per quel che riguarda gli obiettivi, per cui si potrebbe dire che anche nel passato c’erano delle oscurità nei progetti di lotta. Ed è vero, ma oggi si tratta di un’incertezza diversa, filtrata direttamente dalle condizioni complessive della società. Il milione di persone in piazza, adesso, non sa perché c’è, non sa cosa è venuto a chiedere. In passato, la gente che partecipava a quelle stesse manifestazioni, sapeva cosa chiedeva. Anche le strutture che organizzano queste manifestazioni, i cosiddetti partiti, i cosiddetti sindacati, se le osservate attentamente, sono in preda ad una sindrome di incertezza, non hanno più la coscienza della propria forza, sanno di non rappresentare più nulla, se non se stesse, la propria burocrazia che non vuole scomparire. Questo segno di incertezza è una conseguenza della caduta dei valori “forti” e quindi è causa, e conseguenza, della situazione complessiva di guerra civile. La stessa manifestazione di un milione di persone che scende in piazza oggi, pilotata dalle stesse facce pallide dei sindacalisti, non è la stessa di vent’anni fa, perché vent’anni fa non solo la gente che scendeva in piazza, ma anche i dirigenti, avevano una coscienza non tanto dei risultati da ottenere, ma almeno di quello che si immaginavano di potere ottenere. Adesso, nessuno s’immagina più niente. Adesso, si viaggia nell’ambito del medio e del piccolo cabotaggio. Secondo me, questo modificarsi della composizione dei valori di una società trasforma la convivenza civile e la porta verso una condizione di conflittualità, di guerra civile.

Probabilmente, non è possibile individuare un elemento della società in cui questo fatto avviene con assoluta certezza, se non nei casi limiti, come quello della ex Jugoslavia, in cui, venendo a crollare determinati rapporti, tutto diventa più chiaro. Teniamo presente comunque che, anche nei casi di estrema evidenza del problema della guerra civile, se esaminate bene la situazione, anche nella guerra in Bosnia, soltanto alcuni elementi di valore sono crollati, ma, nella quasi totalità dei casi, violentemente e velocissimamente, si è provveduto a sostituirli con altri elementi.

Se consideriamo il ruolo dell’etnia, la sua funzione di controllo e di recupero, il modo in cui è stata usata nello scontro civile in Bosnia, si capisce subito la veloce sostituzione di un nuovo elemento ideologico di valore al posto di altri ormai scomparsi. Da un altro punto di vista, se esaminiamo la funzione della solidarietà internazionale, per come si è sviluppata fino a questo momento, si vede l’intenzione di sostituire un punto di riferimento che è venuto a mancare. Anche nello scontro più feroce, più radicale, ci sono dei limiti di riferimento dai quali riaffiora l’intenzione di non azzerare la convivenza civile. Anche gli scontri ferocissimi che ci sono fra gli eserciti, all’interno della dimensione così chiara della guerra civile, hanno certe caratteristiche di normalità, o, comunque, di normalizzazione. Non esiste un iter che sia assolutamente avulso da qualunque valore, e non esiste (interpretazione che erroneamente si potrebbe dare al contesto in cui viviamo noi), situazione saldamente fondata su valori certi, una volta per tutte, solo perché non c’è il cecchino che spara dalla finestra.

Quello che mi fa paura è il dilagare della logica del progressivismo. Se noi analizziamo una situazione differente, una situazione da cui sono stati sottratti i valori, e l’analizziamo con in testa l’ipotesi del valore progressivo, otteniamo il risultato che per forza uno deve pigliare partito, e quindi affermare che la situazione di anomia attuale è necessariamente migliore della situazione precedente di maggiore rigidità normativa. Ma perché peggiore o migliore? È semplicemente diversa, quindi non deve essere sottoposta ad un giudizio, ma essere solo affrontata diversamente. Certamente potrebbe andare verso una barbarie più feroce di quelle del passato, e in questo sono d’accordo con quanti sottolineano simile pericolo, ma perché mai ciò dovrebbe essere visto come un tradimento dei grandi destini della storia? Al contrario, noi dobbiamo imparare a sottrarre questi giudizi all’ipoteca progressivista, perché in caso contrario ricadiamo sempre nei luoghi comuni dell’“era peggio prima” o del “sarà meglio dopo”. Invece è sempre, e semplicemente, diverso. In futuro potremmo andare incontro ad una barbarie inimmaginabile, verso la quale gli strumenti del passato non avranno alcuna efficacia, come pure le nostre analisi, se le ancoriamo a quelle dimensioni deterministiche.

A volte, ho quasi paura a parlare di questi argomenti perché vengono sempre, come dire, caricati di una valenza di positività o di negatività. Se parlo, per esempio, di alcuni scontri, anche ferocissimi, che si sono verificati in certi contesti, alcuni dei quali li ho visti in corso di svolgimento e ai quali ho anche, qualche volta, partecipato, sentendomi spesso come un marziano all’interno di certe situazioni, non metto mai da parte le difficoltà che ho incontrato nel cercare di capire. Ma, non volendo tacere, per il semplice fatto che ne parlo sembra come se quei fatti avessi in simpatia, come se li guardassi in maniera acritica. Invece ne parlo perché si tratta di fatti dolorosi, gravissimi, che sono là, sotto gli occhi di tutti. Secondo me, la barbarie sta al nostro fianco, non sta alle nostre spalle. Quindi, essendo accanto a noi, in qualsiasi momento può cominciare a camminare con noi, o forse a precederci, non lo so.

A proposito del “dialogo”, secondo me, c’è una differenza, ad esempio, tra la filosofia del dialogo che circolava trent’anni fa, e quella che circola oggi. Non è la stessa cosa. Spesso, facciamo una sovrapposizione inesatta. In una condizione di valori “forti”, il dialogo significa una cosa, in una condizione di anomia, o comunque di valori discutibili, “deboli”, significa un’altra cosa. Chi parte da un elemento comune di discussione, in base al quale presuppone che l’avversario abbia i suoi stessi mezzi, però, nello stesso tempo, si considera talmente forte da poter superare la fase di rimessa in discussione, perché in ogni caso sa cosa fare, ebbene, costui dialoga in certi termini. Chi si trova invece in una condizione di incertezza, e sa che l’avversario ha come lui problemi di instabilità, non sa bene cosa fare attraverso la discussione, quindi, per lui, l’ipotesi stessa di dialogo è completamente diversa.

Oggi siamo in quest’ultima condizione di dialogo. Quando il potere fa il suo discorso permissivo, nelle sue parole si intravede l’ipotesi democratica, ma non per questo si sente forte, tanto da potere dare il massimo spazio alle sue parole e ai progetti che ne derivano. In fondo, le sue ultime carte da giocare sono sempre il controllo e la repressione. Ma è a conoscenza anche di un suo piccolo vantaggio di partenza, quello fornito dal fatto di avere sottratto all’ipotesi iniziale di comunicazione una considerevole parte di contenuto. Per cui, cosa c’è nel dialogo di oggi? Semplicemente il simulabile. Non si sta discutendo realmente, si sta discutendo fittiziamente. Se voi esaminate le prime pagine di qualunque quotidiano, esse si possono saltare: non significano nulla, sono quattro pagine piene di nulla. Se noi guardiamo la televisione: il telegiornale che dura mezz’ora, per ben venti minuti non dice nulla. Non è che non dice nulla perché negli altri dieci minuti dice qualcosa, ma solo perché in quei primi venti minuti sta parlando di una cosa che non esiste, che è assolutamente priva di significato. È logico che tutto quello che avviene all’interno di queste discussioni, di queste pagine di giornale, non ha nulla di autoritario dal punto di vista classico, non viene impostato in modo tradizionale, tranne piccole sbavature, in fondo marginali. Al contrario, tutto viene espresso in forma possibilista, politicamente corretta. Non c’è nulla che sia eccepibile, è tutto ineccepibile, però non dice niente lo stesso.

È questo il dialogo di cui parliamo oggi. Un dialogo in cui le decisioni sono state trasferite altrove. Oggi, alla testa del ministero degli esteri dei grandi Stati, non c’è un generale dell’esercito, ma c’è un economista. Questo dice molto sulla modificazione dei rapporti di forza internazionali fra Stati. Ci si è trasferiti dall’uso della forza in senso classico, all’uso della forza in senso moderno, attraverso i meccanismi economici.

Gruppi di affinità, organizzazione informale, insurrezione

Nell’elenco proposto dagli organizzatori sono indicati argomenti che possiamo considerare di massima genericità. Come, per esempio, qual è il rapporto tra gruppi di affinità e organizzazione informale. Prima, bisognerebbe avere le idee più chiare su che cos’è lo stesso progetto insurrezionale. Proporrei pertanto un approfondimento di questo aspetto. Ecco una prima domanda: “Ma questo progetto insurrezionale è un qualcosa che ci immaginiamo come fatto esclusivamente nostro, o è qualcosa che pensiamo possa interessare anche la gente nelle diverse situazioni sociali”?

Di certo, anche il concetto di “gente” meriterebbe un approfondimento. Quando parliamo di “gente” a che cosa ci riferiamo? Quale che sia il senso di questa parola, quale che sia l’entità sociale a cui ci riferiamo, con la parola “gente” non intendiamo riferirci ad altri compagni anarchici, in caso contrario non ci capiamo più. Quando diciamo che il progetto insurrezionale può prevedere un discorso da fare alla gente sul territorio, un discorso di tipo concreto, realizzativo, ma anche di tipo organizzativo, quindi programmatico, proiettato nel tempo, quando diciamo che questo progetto potrebbe, teoricamente, coinvolgere delle persone, intendiamo riferirci a qualcuno cui magari non interessa nulla dell’anarchia o dell’anarchismo.

Siamo d’accordo su questo, oppure no? Oppure si ritiene che una scelta del genere non fa parte di un progetto insurrezionalista anarchico, in quanto gli anarchici l’insurrezione se la devono fare da soli?

Continuando con queste domande bisognerebbe, secondo me, chiedersi: “Quando parliamo alla gente, perché parliamo? solo per dire: questa è la nostra tesi, noi la pensiamo così, voi fate quello che volete”? Oppure parliamo alla gente per illustrare la nostra interpretazione di un problema che interessa tutti?

Si tratta di argomenti che meriterebbero una precisazione prima di intraprendere il discorso sull’organizzazione informale. In fondo, il progetto insurrezionale non è qualcosa che viene dopo, automaticamente, ma risulta condizionato da scelte e da posizioni teoriche che lo precedono. Se consideriamo, al contrario, che il nostro interesse va solo all’insurrezione dell’individuo, alla creazione dei gruppi di affinità, ai rapporti tra individuo e gruppo di affinità, ai rapporti tra gruppi di affinità e organizzazione informale, se vogliamo restare nel nostro cortile, potremmo creare un meccanismo che pur funzionando bene finirebbe per funzionare a vuoto, oppure esaurirsi come autoconferma di noi stessi in quanto anarchici, capaci di fare delle cose che poi la gente non riesce non capire.

Il progetto insurrezionale potrebbe anche essere “altro”, diciamo, potrebbe avere una ulteriore fase in cui noi ci presentiamo in una certa realtà, che si realizza nel territorio (territorio è una parola equivoca), comunque, si realizza nello spazio, si concretizza in fatti fisici, all’interno dei quali fatti fisici stanno dei progetti repressivi. Questi progetti repressivi interessano la gente. Ecco, bisogna sapere come interveniamo in questi progetti repressivi.

Vedo, forse non chiaramente, un ostacolo da chiarire. Pensiamo che questo ulteriore argomento costituisca qualcosa di intimamente legato con le tematiche da affrontare in questa “Tre giorni”, cioè con la struttura specificatamente anarchica dei gruppi di affinità, con l’organizzazione informale? Pensiamo quindi che sia questo il punto essenziale da cui partire per un progetto che realizzi nel territorio un movimento di natura insurrezionale insieme alla gente?

In queste occasioni di approfondimento teorico, dovremmo fare uno sforzo tutti quanti per cercare di visualizzare alcune differenziazioni. Cioè fare uno sforzo, anche di tipo ipotetico, immaginare con la mente, dando per scontato molti aspetti di fondo, visto che siamo fra di noi e che quindi si deve lasciar come presupposto il fatto che i compagni presenti sanno che cosa significano determinati modi di concepire la lotta rivoluzionaria e anarchica. Se, viceversa, per ogni proposta che si fa, per ogni riferimento si vedono mille sfaccettature, probabilmente novecentonovanta di queste sfaccettature non è il caso di approfondire qui. Quando poco fa è stata fatta una differenza, schematica quanto si vuole, e forse anche irreale, ma non credo poco importante da discuterne, riguardo il fatto se il progetto insurrezionale sia qualcosa che noi diciamo alla gente, in un contesto specifico, o qualcosa che facciamo insieme alla gente, mi è sembrata interessante, una differenza che non possiamo fare cadere nel silenzio. Questa differenza, questa scelta di parole, non è accidentale. Ad esempio, c’è una considerevole differenza di intervento tra il lavorare in strutture che comprendono la presenza della gente, come è stato fatto a Comiso, oppure in condizioni di piazza in cui si dice qualcosa alla gente, come è stato fatto a Trento nel recente intervento contro la venuta del Papa. Sono due situazioni diverse, che schematizzate in astratto magari non sono ripetibili, non sono riconducibili ad un modello prefissato, ma non per questo si possono confondere tra loro. Qualcuno giustamente ha detto: “Non è perché si è fatto in un modo una volta, si deve fare sempre nella stessa maniera”. Pienamente d’accordo, ci mancherebbe. Però qua, in questa sede, non stiamo ipotizzando le mille sfaccettature di come si possa realizzare un progetto, stiamo cercando di vedere se è possibile una fase di progettualità precisa. Ecco, questo è il punto.

Andando nello specifico, quando in questo discorso inseriamo la questione delle azioni polverizzate nel territorio, non parliamo d’altro, soltanto allarghiamo il problema, per cui diventa necessaria una ulteriore schematizzazione, in caso contrario non ci si capisce più. Non c’è alcun dubbio che il modello di azioni polverizzate nel territorio, quando venne proposto, e venne proposto attraverso fatti realizzativi non semplicemente sulla carta, significava un discorso del tipo: “Non ci interessano le grandi azioni che trovano ospitalità nelle prime pagine del giornali, ma che lasciano distanti tanti compagni con la voglia di fare, i quali, davanti a quel tipo di azioni, concludono di trovarsi di fronte a faccende di natura militare e pertanto irripetibili”. In quel caso, non volevamo costruire uno schema a priori, da applicare in ogni caso e in qualunque occasione. Il concetto di “azioni ripetibili, o riproducibili” aveva un significato preciso in un certo momento storico. Significava, cioè, che non c’era bisogno di ripresentare il modello “rapimento Moro”, che magari era piaciuto a molti compagni, ma che pochissimi erano stati in grado di ripetere. La piccola azione era invece un’altra cosa. Riflettendo bene è chiaro che non abbiamo inventato nulla. Negli ultimi venticinque anni sono state fatte centinaia di migliaia di piccole azioni di attacco, tutte azioni non rivendicate. Ora, la piccola azione, avendo la capacità di svilupparsi di per se stessa, parla ai compagni un discorso più semplice e più diretto, per cui certe cose si sviluppano da sole nel tempo, senza suggerimento diretto, senza accordo organizzativo e senza programma dettagliato.

Il grande tema delle “piccole azioni” fa parte del progetto insurrezionale, anzi ne costituisce il tessuto di fondo, l’anima sotterranea, ma non risolve il progetto tutto in se stesso. Il progetto insurrezionale costituisce un passo avanti, proiettato verso il futuro, un elemento che, come ho detto qualche volta, garantisce di meglio fondare l’affinità e, pertanto, consente di proiettarsi in maniera più efficace verso la stessa organizzazione informale. I compagni che vogliono fare delle cose vedono il gruppo di affinità, o il livello dell’organizzazione informale, come strumenti per potenziare questa loro individuale capacità, non come qualcosa di strutturato da cui aspettarsi indicazioni e programmi, scelte e giustificazioni a posteriori. Quindi, il discorso delle piccole azioni è certamente un discorso che può essere fatto “anche” alle persone, ed è discorso che ha i suoi contenuti, un discorso che fa parte del progetto insurrezionale, ma è anche un discorso specifico che, per il momento, si può mettere tra parentesi, proprio per facilitare l’approfondimento teorico del problema organizzativo.

L’intervento a Comiso, come venne realizzato? Qualcuno potrebbe dire: “Il modello di Comiso venne realizzato dodici annui fa, in che cosa ci interessa oggi?”. Io penso che quel modello può essere interessante anche oggi. Il modello di Comiso venne realizzato nel momento in cui sorse il problema della costruzione della base missilistica. Si trattava di un problema venuto a cadere su di un territorio abitato da circa 350.000 persone. Questo avvenimento potrebbe ripresentarsi nel tempo. Qui, ad esempio, ci sarà il problema della Val di Susa e dell’Alta Velocità. Francamente di questi problemi di qui alla gente che sta in Sicilia non importa nulla, e così, probabilmente, a quelli della Valle non interessava nulla della questione della base di Comiso, malgrado tutte le chiacchiere fatte sulla pericolosità dell’energia atomica. Chernobyl allora era di là da venire.

Ora, il modello di intervento quando noi iniziammo il nostro lavoro a Comiso era quello basato sul classico “Comitato” di lotta, dove c’erano dentro tutti quanti: gli anarchici, i residui di Lotta Continua, i verdi, le frange di Autonomia, il Partito Comunista. Non c’era il Partito Socialista perché favorevole alla base, solo per quello. C’erano tutti. Noi, quando andammo a Comiso, dicemmo subito che quel tipo di baraccone da fiera non ci interessava, che volevamo fare una cosa da soli. Così gli anarchici ci mettemmo da soli proponendo un progetto che, a mio avviso, costituisce ancora oggi un modello di intervento rivoluzionario. Non si disse: “Adesso noi andiamo a Comiso e, siccome siamo i portatori della verità rivoluzionaria, spieghiamo alla gente quali sono i rischi, ecc., poi salutiamo tutti quanti, baciamo una guancia e l’altra guancia e ce ne andiamo, ce ne torniamo a casa”. No, siamo rimasti due anni sul posto. Cioè, per due anni abbiamo cercato di parlare alla gente, di coinvolgere l’intero movimento sulla questione di Comiso, quindi non abbiamo fatto un discorso soltanto alla gente, ma abbiamo fatto un discorso su due livelli: uno alla gente, sul territorio, usando tutte le tecniche che in questi casi si possono usare, e che abbiamo recentemente ripetuto a Trento, e uno a tutto il movimento. I comizi, per esempio, non sono stati fatti soltanto a Comiso e dintorni, ma un po’ in tutta l’Italia per cercare di coinvolgere la gente al fatto di Comiso, lo stesso per le conferenze e per gli altri mezzi di diffusione delle nostre tesi: manifesti, volantini, interviste alle radio, e tutto il resto.

Ora, fermandoci a questa fase dell’intervento a Comiso, siamo ancora al livello che abbiamo impiegato a Trento, cioè siamo andati là e abbiamo parlato con la gente. Ma a Comiso abbiamo fatto un passo ulteriore, ed è questo il problema che dovremmo affrontare qui. Abbiamo contribuito a costruire delle strutture dirette a mettere insieme la gente, strutture non anarchiche. Attenzione: strutture non anarchiche. Questo è il punto. Là si chiamarono “Leghe”, in futuro si potrebbero chiamare diversamente. Strutture che costituivano un punto di riferimento pubblico a cui la gente poteva rivolgersi. Prendemmo una sede, costituimmo un “Coordinamento” di queste strutture che andavano nascendo un po’ dappertutto. Strutture che per tutto il tempo che durò l’iniziativa non superarono mai, singolarmente prese, la forza quantitativa di tre, quattro, cinque persone, solo alcune delle quali compagni. Ed è questo il punto che bisogna capire bene. In quanto strutture quantitative di tipo insurrezionale, costituivano un punto di riferimento perché nel momento in cui fosse scattata la molla (che poi non scattò) diretta ad occupare e distruggere la base missilistica, la gente sapesse dove andare, con chi prendere contatto, nelle diverse realtà di ogni singolo centro, fino nei piccoli e piccolissimi Paesi della zona. E questo lavoro a Comiso lo facemmo tutti insieme, non soltanto i compagni insurrezionalisti. Questi se ne fecero carico in prima persona, restando là per due anni, ma venne interessato tutto il movimento anarchico, con tutte le contraddizioni, i distinguo, le chiacchiere, le gelosie, le tensioni, le ignoranze, che tutti conoscono. Ma il movimento venne interessato e, fino all’ultimo, si cercò di metterlo in condizione di intervenire efficacemente nella lotta di Comiso.

Certo, un intervento di questo tipo ha caratteristiche molto limitanti. Solo il fatto di restare per anni in un posto e sviluppare un lavoro capillare con la gente, spesso con risultati risibili a livello quantitativo, fa passare la voglia a chiunque. Inoltre, un lavoro del genere limita altre cose che si potevano fare all’epoca e che a causa della situazione di Comiso non vennero fatte. Ma si tratta di cose non fatte solo per scarsa virtù personale, o per scarsa capacità, non perché si disse: “Non facciamo queste cose perché danneggiano il nostro progetto”. In conclusione, per quel che riguarda Comiso e i nostri rapporti col movimento anarchico nel suo insieme, alla fine si vide che non c’era una maturità, una capacità di risposta adeguata al livello dello scontro proposto a Comiso. Forse qualche anno dopo il movimento raggiunse questa maturità e questa capacità, ma al momento dell’intervento a Comiso, mostrò tutte le sue carenze.

Il modello di Comiso, quello cioè in base al quale si interviene in una realtà e si creano strutture organizzative che sono punto di riferimento per la gente del posto, resta un modello di grande interesse nell’ambito del progetto insurrezionale. Occorre però fare attenzione al senso da dare al concetto di “gente”, e a tutte le contraddizioni concernenti la possibilità di determinare le fasce degli sfruttati, degli esclusi, ecc. A Comiso si sono verificati dei casi emblematici. All’inizio la gente che doveva subire gli espropri era ferocissima, poi intervennero gli accordi separati con gli enti pubblici chiamati a gestire l’operazione. Bastò che questi alzassero il prezzo dei terreni espropriati e subito l’accordo venne raggiunto, in barba a tutte le dichiarazioni ferocissime fatte prima. Non è quindi facile identificare la fascia di persone disposta a fare qualcosa anche se direttamente colpita dal fenomeno.

Quindi, se vogliamo approfondire questo aspetto, dobbiamo discutere meglio di queste strutture di base, in caso contrario, se si preferisce non parlare di questo, possiamo limitarci al modello che abbiamo proposto nel corso dell’intervento fatto qualche giorno fa nella zona di Trento e Rovereto, dove abbiamo parlato alla gente, limitandoci a dire: “A noi il Papa non piace”.

Quello che conta è quindi avere un obiettivo da raggiungere, un’ipotesi progettuale da realizzare. A Comiso poteva essere quella di distruggere la base, a Trento poteva essere quella di impedire la venuta del Papa, o comunque di ostacolarla. Conclusi questi interventi, raggiunti o non raggiunti gli obiettivi, a me non interessa nulla della gente di Comiso o di Trento. Anzi, posso dire che considerandola in quanto responsabile non secondaria della propria situazione, questa gente mi fa schifo. Sarebbe impossibile ipotizzare un rapporto continuativo con essa, diciamo di carattere quantitativo, cioè di crescita aggregativa, in altre parole, un rapporto basato sui moduli del partito. Nessuno di noi ha interessi a rapporti del genere. Per cui, distrutta o no la base, venuto o meno il Papa, basta con la gente di Comiso e di Trento.

Ma non si deve dimenticare che il discorso di cui parliamo attiene al tentativo di raggiungere gli obiettivi di cui sopra “insieme alla gente”, oppure, per quel che riguarda l’intervento a Trento, mettere a conoscenza della gente una certa analisi riguardante un’istituzione repressiva. Per altre vie, si potrebbero avere altri interventi: distruggere la base da soli, impedire, da soli, la venuta del Papa, ma si tratterebbe di altri modi di intervenire, che qui, in questa sede, mettiamo tra parentesi.

Trovare limitato questo tipo di intervento è facile, ma, allo stesso modo, si potrebbe trovare limitato un attacco diretto sul territorio, ad esempio, l’abbattimento di un traliccio. Mille critiche parziali possono essere indirizzate contro quest’ultimo fatto, critiche dirette ad illustrare la sua eccessiva limitatezza come fatto distruttivo, la sua facilità di recupero da parte del potere, e tutto il resto. Allo stesso modo, mille critiche possono essere fatte al modello di Comiso o di Trento. Non c’è dubbio che tutto può essere recuperato. Ma a me interessa, sia nel caso del traliccio che in quello del modello di Comiso o di Trento, che questi interventi possano essere ripetuti, realizzati in mutate condizioni, con diverse persone, perché lo sviluppo di queste azioni ha un senso rivoluzionario proprio quando prende la forma di fatti considerevoli, ripetuti nel tempo e nello spazio, in mutate condizioni.

Perché chiudersi in una negazione critica assoluta affermando (cosa che potrebbe essere vera): “Non possiamo far nulla perché la gente non ci segue”, oppure, “Non ci interessa fare le cose con la gente perché in ogni caso questa non ci seguirebbe”. Le cose che facciamo da soli, e quelle che cerchiamo di fare insieme alla gente, sono di certo diverse dal punto di vista del metodo, ma solo apparentemente sono diverse dal punto di vista degli obiettivi rivoluzionari da raggiungere. Spesso si integrano a vicenda.

Inoltre, il fatto che la gente minaccia di non seguire le nostre indicazioni non deve essere visto come un freno assoluto. A me farebbe paura il contrario. Non ho intenzione di diventare lo specialista né di un intervento simile a quello di Comiso (con grande seguito popolare), né di abbattere tralicci (tutto solo nella notte).

Sulle scelte fatte nell’intervento a Comiso sono state avanzate molte critiche anche riguardanti il taglio di questi interventi, taglio che è stato definito, non senza ragione, di natura “populista”.

A Comiso, i compagni anarchici presenti operarono una scelta, decisero cioè di elencare alcuni argomenti che pensavano potessero fare maggiore presa sulla gente: la prostituzione, il rincaro degli affitti, la circolazione della droga, l’aumento in generale del costo della vita, ecc. Infatti, era proprio questo che si disse alla gente: vengono gli americani, portano i dollari, quindi aumenterà tutto, ecc. Argomenti questi che, specialmente fra i giovani, contrariamente a quello che si può pensare, fecero larghissima presa. Ma questi argomenti non restarono mai isolati nel corso di tutto il lavoro. I comizi, e le tante conferenze che furono fatte, non solo nella zona di Comiso e Ragusa, ma anche un po’ in tutta l’Italia, non si basarono mai solo su questi punti, anzi essi vennero diciamo messi da parte, o dati per scontati, tutte le volte che fu possibile svolgere un’analisi più approfondita. Il fatto che qualcuno ha notato (giustamente) che perfino il Vescovo di Ragusa riprese i nostri argomenti, sta a testimoniare, da un lato, il taglio populista degli stessi (di già ammesso), ma anche la larghissima diffusione del lavoro dei compagni nella zona. Infatti, in una intervista rilasciata ad un giornale locale il Vescovo parlava non solo dei nostri argomenti, ma li ripeteva nello stesso ordine in cui noi li avevamo esposti nei volantini e nei manifesti messi in circolazione. Ma queste argomentazioni, diciamo così da platea, vennero inserite all’interno di un discorso specificamente anarchico, e ciò per diversi motivi. Ogni intervento parlava dell’antimilitarismo, anche perché era necessario far capire cosa significasse la base missilistica, cosa volesse dire la presenza degli americani, quale fosse la funzione della Nato, quale quella del Partito socialista (si tratta di zone a maggioranza politica socialista e comunista), ecc., e quindi ogni volta quelle tesi di fondo venivano inserite nel contesto teorico dell’antimilitarismo. E siccome questo discorso era fatto da anarchici, dobbiamo dar credito che si trattasse di un discorso antimilitarista anarchico. Inoltre, non è vero che non si fecero altri discorsi, in quanto restavano da chiarire tutti i problemi di metodo. E il metodo non si riassume solo nel concetto: distruggiamo la base o facciamo la raccolta delle firme (come dicevano i Verdi), ma si specifica proprio negli aspetti organizzativi. Quando abbiamo suggerito l’ipotesi delle Leghe, abbiamo dovuto spiegare i concetti di autonomia dai partiti o forze economiche, di autogestione della struttura, di conflittualità permanente, ecc. Tutte le volte che si facevano degli interventi si spiegavano questi concetti di fondo, inserendo nella proposta le tesi populiste di cui sopra. La scelta delle tesi populiste può adesso essere criticabile quanto si vuole ma, a suo tempo, dipese dalla scelta che presero i compagni, riuniti in un momento preciso, in una situazione storica precisa, con tutti i limiti che questo comporta. In situazioni diverse, con apporti di altri compagni, si sarebbero potute prendere decisioni diverse e realizzare tagli differenti d’intervento.

Ad esempio, per fare un esempio concreto, se si parla del treno ad Alta Velocità, non ci si può limitare solo agli aspetti tecnici di questo contesto, ma bisogna fare un discorso sulla tecnologia, uno sui rapporti tra tecnologia e società, un altro sulla militarizzazione della tecnologia e quindi del territorio attraverso l’uso di tecnologie avanzate, ecc. Si deve cioè inserire un approfondimento di ordine generale nel contesto specifico dell’Alta Velocità, in caso contrario, il discorso distruttivo specifico risulta privo di fondamento, sembra che si faccia il discorso distruttivo perché ci piacciono i botti, tutto qui. Non ci si può limitare a parlare dei danni alle colture, o al territorio, nell’ambito del problema dell’Alta Velocità, ma occorre dire qualcosa in merito anche alla stessa velocità, quindi ai problemi scientifici e tecnologici che ne derivano. Non è vero che tutto si può ridurre all’analisi tradizionale in termini di classe, perché non è vero che alla cosiddetta povera gente immaginare di fare il percorso da Torino a Lione in un’ora non interessa, e questo anche se non faranno mai in vita loro quel percorso, o non saliranno mai su di un treno. Al poveraccio fa piacere solo immaginare che esiste un mezzo talmente veloce, vede il fatto nello stesso modo fantastico e immaginario con cui segue le corse delle grandi auto sportive. E allora, potrebbe chiedersi: “Perché questi pazzi vogliono fare una cosa del genere? Perché vogliono impedire la costruzione di un treno così veloce?” Non sono soltanto gli inclusi ad essere interessati all’Alta Velocità, ma anche gli esclusi, in quanto non è vero che gli esclusi la pensano tutti come noi su di un progetto del genere.

Anche negli interventi recenti fatti a Trento e a Rovereto, il taglio scelto per i comizi era un taglio molto diverso da quello classico dell’anticlericalismo. Si trattava di un taglio che riportava all’interno dell’analisi anticlericale la critica al potere e quindi l’analisi dei rapporti tra Chiesa e potere. Forse altri compagni avrebbero scelto un altro taglio, un altro intervento, più classico, diretto ad accentuare di più gli aspetti irrazionali della religione, non so, ad esempio, la madonna che piange, o gli imbrogli pseudo scientifici dei miracoli, ecc. Noi abbiamo scelto la strada dell’analisi dei rapporti tra Chiesa e potere. Altri potrebbero dire, ma perché non avete scelto quell’altra strada, che era magari più comprensibile per la gente? Però, io, parlando alla gente nelle piazze, non ho avvertito che non mi si capiva.

L’importante è riuscire a dire le cose che ci interessano in modo che la gente ci capisca, quindi trovare una maniera da ottenere questi due risultati, senza che l’uno vada a scapito dell’altro. Senza scegliere argomentazioni scarsamente significative, o scarsamente assistite da una riflessione anarchica, per farsi capire dalla gente. Quando questo accade, è proprio perché uno non ha altro in mente, e questo aspetto è di certo una tragedia senza limiti. Nel contesto di Comiso, senza volere fare processi a persone che non sono presenti, molte volte si è stati costretti ad accettare una parte di queste analisi perché in molti compagni c’era un animo populista di cui non riuscivano a fare a meno. Per quanto riguarda i comizi, in genere, io sono dell’idea che chi parla deve prima mettersi d’accordo con i propri compagni su quello che deve dire. Se è d’accordo a parlare di certi argomenti, in un certo modo, deve accettare anche l’opinione e le posizioni degli altri, in caso contrario non fa il comizio. Spesso io mi sono trovato nella condizione di fare un comizio, perché lo ritenevo importante in una certa situazione, parlando di aspetti e fornendo un taglio della realtà che in parte non condividevo. Mi sembra normale tutto ciò, anche se qualche volta può essere sgradevole.

Quindi, l’indispensabile semplificazione degli argomenti e del taglio linguistico di certi interventi pubblici non deve andare a scapito dei contenuti anarchici. Certe volte, i compagni che partecipano ad una determinata iniziativa di questo tipo possono scegliere un taglio più vicino agli aspetti populisti nella speranza di raccogliere una maggiore comprensibilità emotiva e immediata, ma queste sono scelte che possono anche essere preferite qualche volta, non possono diventare un principio assoluto, per cui tutte le volte che ci si trova in una situazione di dar vita a strutture organizzative di base, di tipo insurrezionale, per forza bisogna scegliere argomentazioni, termini e tagli di discorso elementari o privi di contenuti anarchici. La scelta fatta a Comiso dei quattro o cinque punti, fra i quali era compresa la prostituzione o l’aumento del fitto delle case, ecc., non ha mai impedito che si facesse il discorso sull’antimilitarismo anarchico, o un’analisi sulla funzione di gendarmeria internazionale della Nato. In più, voglio ricordare che l’intervento a Comiso ebbe la durata di due anni e, nel primo anno, si fece un convegno internazionale antimilitarista anarchico, quindi è chiaro che una impostazione di ordine molto più complesso e articolato venne fatta. Resta poi assegnata ai compagni che fanno il lavoro nella pratica, la decisione di scegliere i tagli che vogliono, o che reputano più adeguati. In fondo, non è affatto scontato che un taglio più semplice sia più comprensibile alle persone che ci ascoltano. Ma questo è un problema vecchio quanto il mondo. Quando parliamo ci poniamo sempre il problema della comprensione da parte di coloro a cui parliamo, e quindi affrontiamo sempre il non facile nodo di scegliere l’argomentazione più semplice o quella più articolata. Ma si tratta di un problema che a priori non ha soluzione. Di volta in volta, va calibrato a seconda delle situazioni.

Suggerirei, a questo punto, un altro ordine di riflessioni che spesso, parlando con i compagni, non risulta molto chiaro.

L’esistenza dei gruppi di affinità è esperienza che viviamo quasi tutti i giorni per cui, bene o male, sappiamo cosa sono, anche se ognuno ha le sue idee su che cosa può essere l’affinità, ecc., o il funzionamento del gruppo di affinità, articolazioni abbastanza complesse, ma delle quali abbiamo sufficiente conoscenza. Quello che invece conosciamo di meno è il nascere, l’agire e il concludersi di un’organizzazione informale. Ecco, molti mi chiedono, ad esempio: “Ma questa organizzazione informale ha una vita nel tempo? Una sua autonomia di struttura? Non sarebbe meglio che l’avesse questa autonomia di struttura, perché così costituirebbe un punto di riferimento superiore ai singoli gruppi, quindi capace di fornire un supporto di natura operativa?” Ora, tutte queste domande hanno come obiettivo quello di avere una maggiore capacità di azione. Parliamo chiaramente. Ogni gruppo, come ogni individuo, ha i suoi limiti non solo nell’ordine delle idee, ma ha i suoi limiti principalmente nell’ordine dei mezzi e delle conoscenze. È quindi chiaro che ogni compagno desideroso di fare pensa che sia auspicabile una struttura che abbia una capacità superiore a quella del singolo gruppo in cui lui si riconosce, o del singolo individuo. Questo discorso si avvicina, pericolosamente, all’idea dell’organizzazione rigidamente strutturata. Cioè, ci allontaniamo dall’organizzazione informale e la forma comincia a diventare struttura. Organizzazione informale vuol dire non soltanto organizzazione non ufficiale, non munita di sigle, non destinata a durare nel tempo al di là della cosa che si sta facendo, ma vuol dire anche organizzazione priva di struttura. Si tratta di un argomento non facile. Molti di noi sanno benissimo che storicamente ci sono state organizzazioni di tipo rigido, e che queste organizzazioni hanno agito, nel bene come nel male, con risultati positivi o risultati negativi, scelte sbagliate e con esperienze, perché no, utili, interessanti. Ma, secondo me, c’è una radicale differenza, che occorre mantenere con chiarezza, tra organizzazione informale e organizzazione rigida. È chiaro che l’organizzazione informale, secondo me, è contrassegnata dall’intenzione di quello che si vuole fare in più gruppi, o individui, che hanno un’affinità fra loro e che si mettono insieme in vista di realizzare un determinato progetto. Quale che sia questo progetto ne parleremo dopo, se parlare alla gente, se coinvolgerla, ecc. Questa struttura può durare parecchio tempo, ad esempio i due anni del Coordinamento delle Leghe di Comiso, che era un’organizzazione informale, e può durare pochissimo tempo, ad esempio i dieci giorni dell’intervento nel Trentino. Quindi, non c’è una questione di permanenza nel tempo a prescindere dalle cose che si vogliono fare, ma l’organizzazione informale nasce, vive e muore in funzione della cosa che si vuole fare. L’organizzazione strutturata rigidamente è un’altra cosa, essa ha certe caratteristiche, ha certe disponibilità, ricerca la disponibilità di certi mezzi, finisce per dilagare nella mentalità e nella pratica di tanti compagni, finisce per diventare struttura indipendente dai gruppi di affinità e per imporre un suo programma, un suo progetto. Questa differenza è importante che venga chiarita in quanto molti compagni pensano che l’organizzazione informale sia una sorta di organizzazione un poco più semplificata.

Il secondo punto che volevo approfondire è questo. L’organizzazione informale, nel momento in cui ci si trova davanti ad un progetto che intende realizzare un fatto attraverso l’accordo e la collaborazione reciproca di più gruppi e compagni, il quale fatto non necessariamente prevede la costituzione di strutture di base autonome, autogestite, delle quali entreranno a far parte persone che anarchiche non sono, quindi, come è accaduto a Trento e a Rovereto, dove non siamo andati per organizzare la gente ma solo per dire le nostre idee riguardo la venuta del Papa, in questa eventualità l’organizzazione informale è, diciamo, monovalente, ha una sola direzione, per cui viene caratterizzata esclusivamente dal modo in cui i compagni si pongono di fronte al fatto da realizzare e decidono insieme come realizzarlo. Nel momento in cui ci troviamo nella situazione di dar vita a delle strutture di base, delle strutture in cui entrano anche non anarchici, allora l’organizzazione informale ha una doppia valenza: da un lato, ha la valenza di rapportarsi con i gruppi di affinità, e, dall’altro, ha la valenza di essere punto di riferimento anche di tipo organizzativo per le strutture autonome di base. Questa capacità di cerniera, all’interno dell’organizzazione informale, la devono realizzare gli anarchici, presenti sia nei gruppi di affinità che nelle strutture autonome di base. Non possono averla persone che non sanno bene, con chiarezza, tutti gli aspetti del progetto. È importante che si abbia coscienza di questa duplice azione da svolgere all’interno di una organizzazione informale, funzione estremamente significativa, in quanto, spesso, nella pratica, sorgono problemi riguardo il funzionamento dell’organizzazione informale come insieme di gruppi di affinità e riguardo la sua caratterizzazione specifica di fronte ai generici nuclei autonomi di base. Distinzioni a volte complesse che spesso non si vedono in modo chiaro.

Quindi, i connotati del progetto insurrezionale adesso appaiono un poco più chiari per quel riguarda i mezzi organizzativi da usare. Non si tratta solo di quello che vogliamo fare, ma anche del modo in cui vogliamo che funzioni l’organizzazione informale. Non è che se noi andiamo in un posto, come ad esempio nel caso della Valle dove c’è il problema dell’Alta Velocità, e costruiamo delle strutture autonome di base alle quali possono fare riferimento le persone, non è che queste strutture sono una cosa e l’organizzazione informale è un’altra cosa, e noi siamo altro ancora. Quando, come anarchici, partecipiamo ad un’iniziativa siamo del tutto nell’iniziativa stessa, non abitiamo mondi differenti. In altri termini, dobbiamo essere capaci di non sovrapporci alle persone perché possessori di una maggiore padronanza del mezzo organizzativo, oppure perché in grado di manovrare meglio le idee o le pretese ideologiche con le quali ci contraddistinguiamo. Non possiamo far pesare i nostri scopi onnicomprensivi, con i quali riusciamo a spiegare il mondo, come elemento decisivo per stabilire cosa fare e come farlo. Le strutture cui diamo vita insieme alla gente vivono grazie ad una sorta di polmone che respira, e questo polmone è proprio l’organizzazione informale. Spesso, mi sono trovato con compagni che invece dicevano: “Un momento, noi siamo anarchici, per cui l’organizzazione informale che vogliamo è un’organizzazione informale anarchica insurrezionale, quindi al suo interno facciamo un discorso, poi, quando siamo all’interno delle strutture di base, ne facciamo un altro”. Si tratta di un modo di fare che apparentemente sembra buono, ma che nella pratica risulta disastroso, perché si finisce per fare due discorsi e per costituire davanti alla gente esattamente la brutta copia dei partiti, delle strutture autoritarie, che si presentano sul posto e fanno due discorsi, il loro e quello da proporre alla gente. Difetti che non sono facili da individuare.

Nel momento in cui si inizia un intervento in un posto e lo si sviluppa, il discorso che si fa dovrebbe essere non dico uniforme, nel senso che tutti i compagni dovrebbero dire la stessa cosa, ma abbastanza coerente. Dovrebbe cioè aversi una sorta di omogeneità nelle cose che si dicono, e si fanno, non solo nei comparti delegati a fare un discorso “pubblico”, ma anche nelle cose che si fanno separatamente, alla spicciolata, dalle singole discussioni, agli interventi specifici parziali, alle azioni di attacco polverizzate nel territorio, fino ad arrivare ai volantinaggi, ai dibatti di quartiere e a tutto il resto. Certo, questa omogeneità non può essere assoluta, e nemmeno sarebbe auspicabile una soluzione del genere. Ognuno viene lasciato alla sua personale preparazione, al suo desiderio, alla sua spontaneità. Però, in questi contesti, un minimo di coordinazione è indispensabile. È importante che le grandi, le grandissime scelte d’intervento, vengano rispettate. Ad esempio, siamo andati a Trento e nelle zone vicine per l’intervento contro l’arrivo del Papa e si è detto di non fare il discorso classico, e povero, dell’anticlericalismo in cui grosso modo si intrecciano le vicende del prete, della perpetua, gli imbrogli della religione, le madonne che piangono, insomma tutto l’armamentario dell’anticlericalismo, forse simpatico, ma destinato a restare monco, parziale. E si è concluso per un discorso più approfondito, per approfondire il rapporto tra Chiesa e potere. Ora, io non dico che uno che ha fatto un discorso di massima lo debba poi rispettare dall’A alla Z, fino in fondo, però certamente questo è un accordo che deve essere tenuto presente. Nel Trentino è accaduta qualche sbavatura in questo senso. Secondo me, nel contesto complessivo dell’intervento di Trento queste sbavature sono state poco importanti, se non proprio marginali, attenendo a sfasature di tempo o di concetti, più che a cose fatte o da fare. Certo, se ci fossimo trovati in una mutata condizione d’intervento, destinata a durare nel tempo, con il progetto di costituire organismi di base diretti a coinvolgere la gente, allora queste sbavature avrebbero avuto conseguenze molto più serie. In una situazione dove si costituiscono strutture autonome di base, un errore nella scelta dei tempi riguardo le cose da dire o le cose da fare può avere conseguenze disastrose. Per restare, comunque, nell’esempio del Trentino, tra i comizi e le conferenze con cui si è cercato di approfondire il rapporto tra Chiesa e potere e alcune scritte sui muri, o alcune azioni operate due o tre giorni prima di quando andavano fatte in base agli accordi, c’è una sbavatura piuttosto considerevole. Se io faccio un discorso basato sui rapporti tra Chiesa e potere non posso poi andare a scrivere sui muri: “Cloro al clero”. Il compagno che scrive quella frase, nel momento in cui la scrive, deve pure chiedersi se quello che sta scrivendo non ha una distanza troppo grande da quello che è stato deciso di dire. Mentre, la scritta, e le azioni, e tutto il resto, potevano diventare logiche, e consequenziali, quindi perfettamente accettabili all’interno dell’omogeneità dell’intervento, se fossero state fatte alla fine, quando il discorso complessivo era ormai concluso e si trattava solo di lasciare il segno di un “buon” ricordo nella gente, alla nostra maniera, ovviamente. Le conseguenze di queste sbavature, come ho detto, sono state, in quel contesto, assolutamente trascurabili, in quanto la gente non venne mai coinvolta all’interno del nostro discorso, per cui frastornarla con frasi del genere: “Sgozza il parroco”, del tutto diverse dalle scelte di fondo dell’intero intervento, non era poi così grave, visto che il disturbo più importante era costituito proprio dal nostro modo di impostare l’intervento stesso, in base al quale eravamo lì solo per dire che a noi il Papa non piaceva, senza curarci di vedere a quanta parte della gente del Trentino il Papa poteva piacere o meno. Ben diverso sarebbe stata la conseguenza nel caso in cui noi fossimo stati là in vista della costituzione dei nuclei autonomi di base. Comunque, secondo me, il mantenere un certo taglio che sia concordemente accettato da tutti i compagni, fin quando si sviluppa tutto l’intervento è uno dei punti essenziali del modello insurrezionale. Quindi la capacità di ogni compagno di sapere e di capire quello che deve fare, a prescindere dai discorsi che vengono ufficializzati attraverso gli strumenti di comunicazione scelti, è indispensabile.

I compagni sono tutti diversi uno dall’altro. Ognuno ha le sue idee, il suo carattere, le sue preferenze, trova maggiore o minore gioia nel fare una cosa in modo differente da un altro compagno, in caso contrario saremmo tutti quanti fatti in copia. Il progetto insurrezionale dovrebbe avere la capacità di ospitare tutte queste pulsioni di liberazione, di gioia, di distruzione, di trasformazione, tutte, nessuna esclusa, dalla più piccola alla più grande. Perché siamo insurrezionalisti? Perché abbiamo questo punto di partenza, perché non abbiamo preclusioni che venga raggiunta anche la massima possibilità dell’attacco, perché sappiamo che nel momento insurrezionale se c’è da fare delle cose che coinvolgono in modo globale la nostra vita e il nostro futuro, non facciamo un passo indietro, in caso contrario non saremmo insurrezionalisti, non saremmo un’altra cosa. Ecco le difficoltà di una collaborazione con altri compagni che la pensano diversamente da noi, ecco perché spesso questa collaborazione non è possibile. Ora, cosa succede se il progetto insurrezionale che viene posto sul tappeto, nel momento che lo si studia, prevede delle limitazioni o delle gradualizzazioni, sia pure di natura temporale? Le limitazioni, ognuno non le deve cercare da sé? Eppure io non ci vedo nulla di strano che una persona a cui piace distruggere subito una chiesa si metta d’accordo con altre persone che la vogliono distruggere domani invece di oggi. Però ci sono delle difficoltà. Sulle prime sembra una faccenda facile. Molti dicono, ma non c’è alcun problema. E invece il problema sorge sempre, in quanto viene astratto dal contesto e in linea di principio l’anarchico dice: “Un momento, siccome io voglio sempre e in qualunque momento bruciare la chiesa, non voglio che ci siano scadenze”. È chiaro che in questo modo non ci si può mettere d’accordo. Non si vuole impedire nulla a nessuno, si vuole solo porre sul tappeto degli accordi che poi dovrebbero essere mantenuti. Sarebbe diverso se si dicesse, come faccenda di principio, che è vietato bruciare la chiesa. In questo caso, il compagno che ha questo desiderio non trova interesse a partecipare perché evidentemente quel progetto ha altre intenzioni, del tutto diverse dalle sue.

Quindi, il progetto insurrezionale dovrebbe potere ospitare qualsiasi pulsione, qualsiasi desiderio, capacità di espressione, la qual cosa non ha nulla a che vedere con l’ipotesi di un gruppo armato separato che si inserisce, fa un discorso anche attraverso un volantino, e poi realizza fatti militari. Non siamo più nell’ambito della tensione e dei desideri, siamo nell’ambito di un progetto di altro tipo. Certo, potrebbero anche essere compagni anarchici ma la cosa non basta, si sarebbe sempre nell’ambito di un’organizzazione rigida che non entra nel discorso. Mentre è da notare che nell’ambito del progetto insurrezionale non ci possono essere delle preclusioni a priori di tipo quantitativo, del genere: “Siccome con questa azione si corre il rischio di prendere vent’anni di carcere, allora non la si fa”. Ecco, questo tipo di considerazioni non dovrebbero essere tenute presenti, o comunque non dovrebbero avere peso nelle decisioni e nelle scelte da prendere. Nell’ambito di queste condizioni, chi ha il desiderio di fare un’altra cosa la deve soltanto coordinare all’interno del progetto insurrezionale, e per coordinarla questo compagno deve intervenire all’interno del progetto, non restare chiuso nelle proprie tesi e poi, al momento opportuno, fare piovere quella sua azione come un corpo estraneo al progetto. In quest’ultimo caso non si potrebbe più operare nessuna coordinazione. Questa eventualità è proprio da escludere a priori.

Un progetto insurrezionale si fonda su un certo metodo ma parte da un’analisi della situazione su cui si vuole intervenire. In caso contrario non si può nemmeno parlare di progetto e ancor meno di progetto insurrezionale. Sarebbe infatti assurdo ipotizzare un progetto insurrezionale che tiene conto soltanto del metodo e non si cura della specificità della situazione sulla quale si prepara ad intervenire. Questa analisi deve avere la capacità di superare la dimensione locale, specifica, della realtà in cui si vuole intervenire, e collegarsi con la situazione economica e politica complessiva, con gli sviluppi tecnologici in corso e con tutto quello che è necessario per rendere comprensibile una realtà che nelle sue caratteristiche locali non è mai completamente avulsa da un contesto più ampio. Insomma presentare il problema in modo che abbia una concezione ampia (che normalmente si trova in tutti i nostri interventi), mentre i partiti, le associazioni ambientaliste, ecc. non fanno queste analisi, in genere si limitano a trattare di interessi specifici e, spesso, localistici. Per esempio, restando nel problema dell’Alta Velocità, questa analisi nostra non può essere affidata soltanto a una dichiarazione di principi metodologici, deve essere molto estesa, deve prendere il problema non solo nello specifico, ma legarlo a quelli che sono gli sviluppi complessivi del capitale oggi, perché si fa una cosa del genere, perché per loro è essenziale finanziare questo progetto, non solo nella Valle ma anche in altri posti. Ogni elemento di questa analisi è destinato a fare capire alla gente qual è la nostra mentalità, il nostro modo di procedere e, in un certo senso, costituisce la giustificazione di fondo della metodologia proposta. Questo significa di già una proposizione del problema. Quindi esposizione di quelle che sono le condizioni ambientali, territoriali, in modo da sapere, per quel che riguarda la Valle, quanto è lunga, quanto è larga, la sua composizione biofisica e sociale, la struttura dei Paesi che vi si trovano, quanto dista un Paese dall’altro, se ci sono zone impervie di montagna, se le comunicazioni sono facili, se ci si può spostare o meno agevolmente. Questi elementi permettono di ragionare con maggiore chiarezza su quello che si può fare.

Infine, quale modello si propone alla gente? Non si può semplicemente dire che ogni gruppo interessato fa quello che vuole. Ma, se ogni gruppo può fare quello che vuole nell’ambito dell’intervento in questione, perché mai si dovrebbe coordinare con gli altri gruppi? Il fatto stesso che accetta una condizione preventiva di ordine metodologico, e questo è ben messo di già in evidenza: autonomia dai partiti, conflittualità permanente, ecc., non è libero di fare quello che vuole. Occorre quindi che si coordini. E questo coordinamento è giustificato dal fatto che si cerca una prospettiva d’azione comune con gli altri.

E ancora, come verranno fatti gli interventi nel territorio? Come si parlerà alla gente? Saranno fatti interventi classici, del tipo: volantinaggi, banchetti, ecc., oppure si prevedono altri tipi di interventi. Stiamo parlando sempre di interventi propositivi. Per me è poco importante la valutazione da cui si parte, che la gente è contro il treno ad Alta Velocità. Si tratta di un discorso poco importante, che tale resta se non viene verificato nella realtà, in base alla proposta che si farà, una proposta analiticamente fondata, che deve avere un approfondimento di natura anarchica. Fatto questo primo passo, poi si vedrà quello che la gente vuole fare. Non lo si può dare per scontato.

Ogni intervento insurrezionale, come quello ad esempio prospettato nella Val di Susa, ha caratteristiche specifiche che partono dallo specifico zonale e si irradiano all’esterno. I canali attraverso cui si irradiano queste caratteristiche sono di due tipi: un canale teorico in generale che riguarda l’argomento principale di cui si parla, in questo caso i rapporti tecnologia-potere, e un canale pratico che riguarda tutti i supporti che dall’esterno arrivano per rendere possibile il progetto, supporti di natura tecnica, finanziaria, economica, gestionaria, imprenditoriale, ecc. Quindi, i raccordi vanno sempre rapportati nello specifico. Faremmo un errore se pretendessimo di estrapolare da questo specifico un discorso più ampio attraverso l’aspetto teorico, solo perché l’Alta Velocità è una conseguenza dei rapporti tra tecnologia e potere, in quanto nello stesso tempo essa è anche una cosa precisa, cioè una realizzazione di processi di accelerazione dei sistemi di comunicazione. Secondo me, questa specificità il progetto non la può perdere attraverso una sua collocazione nell’ambito dei rapporti tra tecnologia e potere.

Se noi parliamo di un progetto insurrezionale che ha una sua specificità, non possiamo allontanarci da questa specificità. Quindi, qualunque azione viene fatta in un altro posto deve sapersi riferire a questa specificità. Senza con questo negare il fatto che nel momento in cui i compagni realizzano delle azioni in altri posti, diversi dal contesto territoriale in cui si sta sviluppando il progetto insurrezionale, possono ovviamente inserirle in altre azioni sulle quali stanno lavorando, in altri progetti, e questo inserimento può allargarsi a dismisura, può raggiungere tale livello da diventare un progetto insurrezionale di tipo assolutamente nuovo.

Bisogna tornare sull’argomento, cioè tornare ad una iniziativa come questa, con i medesimi temi. Per quanto in questi tre giorni si sia andato avanti in questo tipo di analisi ancora, ad esempio, sul funzionamento di un’organizzazione informale sappiamo molto poco. Si è detto qualcosa sull’organizzazione informale dal punto di vista di aggregati temporanei di gruppi di affinità. Però, su che cosa accade quando si inseriscono all’interno dell’organizzazione informale i nuclei di base, abbiamo detto poco. Lo stesso si è detto poco su come funziona un progetto insurrezionale nel momento dell’organizzazione finale del fatto distruttivo, nel caso in cui ci si trovi di fronte a componenti abbastanza numerose di persone che non sono anarchiche. Per concludere io sono dell’opinione di ripresentare, per la prossima riunione, il medesimo elenco di argomenti, in vista di un maggiore approfondimento teorico.

Interventi al Convegno di Velletri

27 dicembre 2000

L’occasione che incomincia stasera e che penso continueremo domani, è per l’appunto un’occasione. Con tutti i limiti che essa presenta a mio avviso è parecchio importante, perché secondo me, non siamo qua per una delle tante riunioni che ognuno di noi ha vissuto nella sua vita di compagno, nella sua maturazione rivoluzionaria, ma c’è una caratteristica particolare che giustifica la sigla forse reboante che ci siamo dati come Internazionale, che ricorda anche aspetti del passato che non hanno nulla a che vedere, comunque, con l’occasione specifica che stiamo vivendo stasera e che vivremo domani.

Che cosa è allora questa particolarità, perché è di questo che dovremmo cercare di avere cognizione e coscienza. Non è stabilire che cosa siamo in grado di fare, darci dei progetti, in questa sede, non è nemmeno essere in grado di potere manifestare a quelli che ci ascoltano o con cui potremo approfondire reciprocamente delle discussioni, che cosa siamo in grado di fare. O che cosa abbiamo come potenzialità, come attività inespressa, che non riesce a prendere corpo e per cui io chiedo la collaborazione al compagno: che ne pensi di questa cosa? E lui mi risponde: sì, in effetti anch’io avevo pensato una cosa simile, facciamola insieme. Non è nemmeno questo.

È un’occasione di particolare intensità rivoluzionaria, secondo me, che merita un’attenzione, appunto perché è particolarmente intensa, un’attenzione particolare. Dovremmo cercare di vivere questi pochi momenti insieme come una iniziazione particolare, dovremmo toglierci dalla mente quelle che sono le nostre esperienze di tante riunioni in cui abbiamo parlato delle stesse cose, in cui abbiamo discusso tante volte che cos’è l’organizzazione informale, perché esistono le lotte intermedie, come parteciperemo, come potremo inglobare le persone all’interno dei nostri progetti rivoluzionari e insurrezionali.

Ma in fondo siamo veramente convinti di avere una carta vincente con la parola insurrezione oppure questa parola la utilizziamo perché ci è simpatica, minaccia provvedimenti che prenderemo contro il capitale, oppure ci inganniamo fra di noi. Oppure siamo insurrezionalisti perché ci piace il suono di questa parola.

Ecco, queste cose ce le dobbiamo dire perché non siamo qua per prenderci ancora una volta in giro tra di noi. Non siamo qua per mostrare, per indicare le medaglie che ci siamo procurati sul campo, nelle lotte che abbiamo fatto e che cosa abbiamo costruito nel passato, siamo davanti all’incognita del futuro. Noi siamo in una situazione in cui inizieremo qualcosa di assolutamente diverso, o non inizieremo nulla, o quello che vivremo sarà un aborto senza significato. Dipenderà da noi, da cosa riusciremo a capire, da cosa riusciremo a proporre e anche a sentire dentro di noi, quali corde del cuore si metteranno in movimento.

Potrebbe mettersi in movimento ad esempio il sospetto e io voglio delle garanzie da chi mi ascolta, voglio sapere chi è, voglio sapere cosa fa, cosa ha fatto principalmente, a quale realtà appartiene, da quale nube del passato mi viene incontro per parlare con me e molte volte sento che viviamo in tempi duri, l’ideologia del sospetto ci ha preso a tutti un poco la mano, ma non è questa la disposizione di spirito che dovremmo mettere sul tappeto qua. Dovremmo cercare di vedere se è possibile pensare diversamente.

Ora sulle prime quando avevo cominciato a riflettere su che cosa mi sarebbe piaciuto dire questa sera, pensavo che volevo mettere il dito un poco sulla piaga di questa specifica situazione di stasera, la riunione di stasera ad esempio ha una mancanza evidente: mancano i compagni stranieri, manca la partecipazione, ci sono pochissimi compagni, due, tre. Mancano gli Spagnoli, mancano i Greci, i tanti Greci che sembrava fossero interessati a questa iniziativa. Ma poi ho pensato non è questo il problema, il concetto del rapporto internazionale fra compagni, può avvenire anche tra compagni che abitano e vivono nella stessa situazione locale, perché occorre riuscire a iniziarsi ad una capacità immaginativa, una capacità fantastica diversa e vedere il compagno che magari riusciamo a vedere tutti i giorni in una luce del tutto differente.

Perché è di questo che si deve discutere questa sera, non della differenza che c’è fra una situazione locale o internazionale o di come si possa trasferire nella situazione locale che io vivo, la situazione repressiva internazionale. Questo ha detto bene C., da questo punto di vista il fatto della lotta spagnola contro il FIES è una cosa che mi tocca personalmente e conseguentemente io la voglio inserire e personificare, incarnare nella realtà locale che vivo. Siamo d’accordo, ma non è questo l’argomento di stasera, secondo me; l’argomento di stasera è solo apparentemente simile, ma in realtà non lo è per nulla. L’internazionale, come occasione internazionale appunto, propone un discorso diverso, propone cioè che io, nella mia realtà, sviluppi non solo la lotta specifica che si sta verificando, non soltanto questo. E che quindi incida nella mia realtà locale, colpendo obiettivi in modo distruttivo che sono in un modo o nell’altro riferibili a quella lotta. Parliamo del FIES in Spagna, ad esempio le auto di produzione della Seat che vengono vendute in Italia. Tanto per fare un esempio.

Nella situazione in cui ci troviamo in questo momento, stasera e domani, cerco di cogliere la chiave per capire in che modo io posso intervenire con la mia azione nel contesto internazionale, in che modo posso attaccare una situazione repressiva. Qual è, secondo me, questo modo di attacco. McDonald’s mi sta avvelenando ed io butto la pietra contro un negozio di McDonald’s. Il FIES sta distruggendo fisicamente i compagni e io distruggo la macchina della Seat. Va bene, queste sono cose interessanti, ma l’attacco secondo me, ed è questa la base essenziale del ragionamento di questi giorni, deve avere l’iniziativa. Devo pigliare io l’iniziativa, devo essere io a capire che cosa posso colpire, non come risposta ad un fatto repressivo che sto ricevendo, perché non occorre nessuna particolare efferatezza dei fatti repressivi per muovere all’attacco.

Il capitale, lo Stato, esistono e per il semplice fatto che esistono, fossero pure le prigioni modello ideali del mondo, sarebbero da distruggere alla stessa maniera. Il capitalista, anche il più illuminato, fosse pure Olivetti o Bentham, sarebbe lo stesso da eliminare. Quindi non occorre un particolare comportamento odioso, repressivo, estremamente feroce della controparte, del nemico per giustificarne moralmente l’eliminazione, la sua semplice esistenza è sufficiente, quindi non occorre una risposta perché se io gioco di rimando, gioco in seconda battuta come si diceva una volta, sono sempre all’inseguimento del progetto nemico. Il progetto me lo devo costruire io, devo essere io a individuare quali sono le possibili modificazioni in corso che si stanno realizzando nei progetti di repressione e anche di gestione amministrativa, economica e sociale del capitale. È questo il nostro compito, è questo a cui può veramente corrispondere una organizzazione internazionale informale come potrebbe essere questa. Cioè capire, intuire, farsi iniziare all’interno di una dimensione differente in cui siamo noi per la prima volta a pigliare l’iniziativa, siamo noi a stabilire quale parte del capitale colpire, perché non occorrono giustificazioni, non occorre dirsi: guarda quanto è cattivo questo poliziotto, guarda come si è comportato male quel carceriere, guarda che in quel carcere hanno picchiato i compagni e allora noi facciamo un qualcosa, no, la semplice esistenza della controparte già merita assolutamente in pieno la nostra capacità d’intervento.

Ma perché questo è difficile da capire, perché di conseguenza è più difficile intervenire? Badate bene che io non sto negando la validità, l’importanza, la fondatezza di un intervento di seconda battuta, come può essere una risposta contro la repressione, non dico questo. Sto dicendo che in questa sede un discorso di collaborazione internazionale in quanto occasione di discussione e di approfondimento, dovrebbe vertere secondo me su questo argomento, molto complicato, però importantissimo: come prendere l’iniziativa. Per potere fare questo passo occorre avere una capacità di approfondimento dei problemi che in questo momento non è molto diffusa.

Allora che cosa succede: succede che per comodità di utilizzo, per comodità diciamo di impiego – perché il compagno giustamente ha una gran voglia di fare – si entra nel ragionamento un po’ perverso che solo quando riceviamo un fatto repressivo rispondiamo.

Rispondere alla repressione è una cosa importante, come ho detto, ma ciò non dovrebbe essere l’argomento di discussione stasera perché se no torniamo con le vecchie discussioni che abbiamo fatto per tanti anni, mentre qua è una cosa diversa. Bisognerebbe parlare di un’altra cosa, la quale altra cosa, potrei anche dire la più grande delle cazzate, dovrebbe essere in che modo riuscire a prendere l’iniziativa perché il fatto di potere avere un rapporto con il compagno greco che io conosco, adesso lo conosco anche meglio, l’ho sentito, adesso io mi metto a discutere con lui per come rispondere ad una situazione repressiva che sta accadendo in Grecia, è una cosa che ha la sua importanza ma non è l’argomento di cui bisogna parlare stasera.

L’oggetto è come, parlando con lui o con decine di compagni greci, possiamo sviluppare insieme un’azione in cui gli anarchici prendono loro l’iniziativa, attaccano loro un aspetto inusitato, non previsto della repressione e quindi, non come fatto repressivo ma come fatto di esistenza della repressione, dello Stato, del capitalismo. Lo Stato che esiste là, che è una parte assolutamente capovolgibile del potere: in quanto Stato greco diventa Stato italiano, Stato internazionale, globalizzazione dello Stato, delle multinazionali, tutti la stessa cosa, è un prisma che si gira da qualsiasi lato lo vedi e vedi sempre lo stesso problema, sempre la stessa cosa.

Ma per prendere noi l’iniziativa occorrono degli accordi a livello di collaborazione internazionale. Per fare questo bisogna capire che cosa c’è dietro le trasformazioni del processo produttivo, del processo capitalistico e anche del processo di controllo e di amministrazione in corso. Perché, e tutti possiamo essere d’accordo su questo, mentre è più facile indicare il nemico nella sua parte più esposta (in quella in cui, voglio dire, si comporta “male”, la parte più feroce e quindi anche più arretrata, giusto?), è più difficile indicarlo nella parte più avanzata, dove è più nascosto, dove la sfumatura è più sottile. Tutti noi possiamo ben capire che le conseguenze peggiori, dal punto di vista del controllo e della repressione, non sono dove agiscono le parti più feroci, perché queste saranno sistemate dal capitale stesso, ma sono le parti più nascoste quelle più difficili da capire, quelle in corso di evoluzione, ed è là che il capitale gioca la sua carta vincente per potere gestire ed amministrare il futuro, ed è là che noi dobbiamo colpire, cercando di capire verso dove sta andando il capitale.

Non che sia sbagliato denunciare e quindi cercare di fare qualcosa per indicare i fatti repressivi più feroci, non è sbagliato in sé ma non è, secondo me, l’argomento di stasera. Io per questo posso benissimo dire esattamente quello che ha detto C. prima: i compagni in Spagna fanno il loro lavoro, io non vado necessariamente in Spagna, faccio a casa mia un intervento per quanto riguarda il sostegno, la collaborazione internazionale, ecc. Ma questi, secondo me, sono discorsi che abbiamo fatto sempre, li abbiamo fatti da venticinque anni almeno, da trenta anni a questa parte con tante sfumature, ma l’Internazionale è un’altra cosa.

È un contesto all’interno del quale i compagni dovrebbero entrare in rapporto tra di loro per prendere per la prima volta l’iniziativa e colpire quella parte del nemico che è in corso di evoluzione, voglio dire, la parte più pericolosa, la parte peggiore ma la meno visibile, quindi meno individuabile che richiede più impegno. È per questo che nasce la logica della collaborazione perché io da solo non ci posso arrivare, nella mia dimensione circoscritta. Perché non posso capire che cosa a livello internazionale sta facendo il capitale, mentre avendo i rapporti realmente, sostanzialmente internazionali, con tanti compagni posso usufruire dell’esperienza di altri contesti.

Non c’è bisogno di dire se occorre spostarsi o meno, viaggiare, non è questo il problema, la cosa più importante è il discorso di collaborazione internazionale per cercare di capire dove sta andando il nemico. Che cosa sta realmente facendo. Perché, per restare nell’ambito del carcere, che è una cosa che ci tocca tutti personalmente, come giustamente ha notato il compagno, il carcere come struttura di repressione, che poi non è affatto la struttura come ci immaginiamo noi terminale o la più feroce di tutti, ci sono strutture molto più feroci, la società per esempio è un carcere più feroce del carcere specifico... va bene... ma questa è una cosa più complicata... Il carcere come struttura di repressione, dicevo, nei suoi aspetti evolutivi, è estremamente difficile capirlo. Ad esempio è molto facile cogliere il guardiacarcere che è picchiatore e che fa parte della squadra di pronto intervento del carcere che picchia tipo Cassandra Crossing con la tuta protettiva totale, perché ora si spaventano delle malattie infettive... quindi, questo è facile capirlo, è facile anche illudersi di farsi capire meglio dalla gente, perché quando noi facciamo il volantino e diciamo: “Ah!, in effetti guardate quanto sono cattivi questi guardiacarcere che stanno torturando questi nostri compagni in galera”, la gente... ragazzi non ci pigliamo per il culo, lo sappiamo benissimo, la gente nella stragrande maggioranza dei casi dice: “Certo per essere in carcere qualcosa hanno fatto”. Questo è quello che pensa la gente. Però noi che cosa facciamo, ci illudiamo che indicando la piaga, il punto dove la piaga è più purulenta e più visibilmente tocca gli aspetti emotivi della persona, la gente si coinvolga a fare qualcosa nei confronti del carcere. Sono trent’anni che discutiamo di questo argomento. Ed io sono d’accordo a discuterne, a fare qualcosa e a denunciare questo aspetto, però non in questa sede.

In questa sede bisogna parlare del carcere ma come carcere evolutivo. Della funzione ad esempio del volontario dentro il carcere. Questo è il peggiore dei nostri nemici che si trova dentro il carcere, che sta operando per trasformare la struttura carceraria e non è quello che tortura, ma è quello che avvolge, che ti mette la vasellina, che ti consente di sopravvivere, che ti fa vedere il carcere come una cosa prospetticamente possibile dove tu puoi effettivamente realizzare la tua vita anche se sei chiuso a chiave. Le strutture carcerarie vanno in questa direzione. Questo per fare soltanto l’esempio che riguarda il carcere.

Dobbiamo colpire, dobbiamo colpire anche in questa direzione, dobbiamo colpire... anche i gruppi musicali, ad esempio. I gruppi musicali che vanno a suonare dentro il carcere e che sono gli stessi che suonano dentro le nostre sedi occupate, sono le stesse persone. Questi concorrono a costituire quello che chiamo “carcere in evoluzione”, concetto che a volte non è comprensibile. Sono gli stessi personaggi che vanno là dentro e cantano le stesse merde e queste persone dobbiamo considerarle meno pericolose del torturatore?

Il carcere è solo un aspetto del problema, non c’è soltanto il carcere c’è, ad esempio, il fatto produttivo, la trasformazione della società, il modo in cui stanno snaturando i valori che avevano un senso sino ad ieri e domani non ce l’avranno più. L’aspetto tecnologico, l’uso delle tecnologie avanzate, la telematica. Tutti questi aspetti apparentemente hanno dei momenti positivi ma analizzandoli questi aspetti positivi non sempre si rivelano effettivamente tali, questo è un compito che dovrebbe avere un’occasione come quella di oggi. In questo senso io ho sempre inteso (almeno dal 1993 ad ora, da quando si parla di questa benedetta forma organizzativa) come oggetto dell’organizzazione informale antiautoritaria insurrezionalista.

Quindi non chiacchiere, non parole, ma sforzi comuni cercando di capire dov’è la parte più seria, più pericolosa e quindi più necessitante di un intervento distruttivo, immediato. E questo possiamo farlo cominciando da oggi e anche sperando che ci sia un futuro per altri incontri come questo, diversi da questo, con maggiori presenze di compagni anche dall’estero.


28 dicembre 2000

Mi riallaccio al discorso che ha fatto G. prima, in effetti, quando si cominciò a parlare per la prima volta di una struttura informale a livello internazionale, nel 1992, l’idea era quella di proiettarla in una situazione più ristretta, ma nello stesso tempo più di carattere internazionale, cioè di focalizzarla per quello che erano le prospettive di evoluzione degli scontri sociali nell’ambito del Mediterraneo dell’est. Perché questa scelta? Perché all’epoca, e anche oggi, la situazione in quella fascia, dopo le vicende di Berlino, andava velocemente trasformandosi e si potevano, diciamo, prevedere non molto difficilmente fortissime tensioni in breve volgere di tempo, alcune delle quali si sono puntualmente verificate.

Il bisogno che si sentiva nei compagni che cominciarono a riflettere, quindi praticamente otto anni fa, su questo problema era quello di non essere impreparati di fronte ad una situazione che si stava sviluppando non molto distante dall’Italia e che poteva rendere possibile, contrariamente a quanto accadeva da cinquant’anni a questa parte, intervenire realmente e concretamente in una situazione di carattere insurrezionale. Perché è accaduto qualche volta, per non dire molte volte, che situazioni oggettivamente insurrezionali di fatto ci vedessero presenti però come corpi estranei. Affascinati dall’aspetto esteriore del movimento insurrezionale in corso si partecipa a volte perché siamo spontaneamente dei ribelli. Ecco, partecipare in questo modo a situazioni che ci vedono oggettivamente estranei, perché non partecipi delle tensioni, non interni a quella situazione di sviluppo delle tensioni insurrezionali, in fondo significa essere solo dei corpi estranei, e anche corpi molto sospetti.

E invece stavolta ci si voleva preparare prima, nel senso di essere in grado di potere contattare preventivamente le situazioni che avevano oggettivamente la possibilità di svilupparsi in senso insurrezionale, contattare se era possibile compagni, entrare in rapporti con loro sia pure minimali e al momento opportuno intervenire attraverso di loro sul posto, andare fisicamente sul posto e partecipare finalmente, come si faceva una volta, come ad esempio facevano Malatesta e i suoi compagni anche prima del 1872, cioè prima della Banda del Matese, andando in Bosnia a partecipare all’insurrezione bosniaca che si stava sviluppando in quel momento.

Era pane quotidiano per gli anarchici insurrezionalisti e Malatesta all’epoca era realmente insurrezionalista.

Dunque, questo era il progetto, però questo non toglie che l’evolversi successivo delle discussioni, i vari tentativi che sono stati fatti di dar vita ad un primo incontro come questo, a partire dal 1993-1994, ostacoli di natura personale legati a reciproche mal comprensioni e ostacoli di natura non personale ma repressiva, legati agli interventi dello Stato, arresti e carcerazioni più o meno lunghe, ecc., ci abbiano impedito di dare vita subito a questo progetto. Però l’anima di questa iniziativa, fra le tante anime di questa iniziativa, permane quella di guardare con un occhio privilegiato alla situazione dei Paesi che si trovano ad Est, perché è di là che presumibilmente dovrebbe venire una sollecitazione di natura insurrezionale.

Quindi ricerca di contatti in quella direzione. Ecco perché il discorso fatto in questo momento risulta stridente, nel senso che stenta a partire, perché manca il referente effettivo, mancano i compagni, comunque vogliamo definirli, compagni insurrezionalisti.

Una delle obiezioni che si fecero a suo tempo, e che poi vennero ripetutamente rifatte perché le risposte evidentemente non erano soddisfacenti, era la seguente: ma come, un’organizzazione internazionale che si focalizza su una parte del territorio internazionale, sul Mediterraneo, per giunta il Mediterraneo dell’Est, perché mai questa contraddizione?

Allora si spiegò dicendo che praticamente il fatto che si prospettava come possibile evoluzione insurrezionale nei confronti dei Paesi dell’ex impero sovietico o comunque afferenti al Mediterraneo dell’est, aveva natura e importanza di carattere internazionale. Per due motivi: primo perché nulla di quello che accade, anche in epoche passate, in questa zona del Mediterraneo ha carattere localistico; secondo, perché oggi non c’è nulla che abbia carattere localistico in quanto il capitale ha carattere internazionale e qualunque cosa accade, in un qualunque punto del mondo, ha carattere internazionale per la struttura globalistica della gestione economica mondiale. Conseguentemente l’obiezione non era fondata. Ecco, rivolgersi a questo tipo di problematica, in questo momento, può sembrare anacronistico, in quanto siamo tutti, quasi tutti almeno, non solo Italiani, ma penso nella grande maggioranza tutti della zona vicino a Roma, quindi il discorso scade di importanza da un punto di vista della sollecitazione internazionale, però, di per sé, il discorso resta lo stesso importante, sia pure in modo teorico, e si ricollega con quello che è stato detto ieri o almeno quello che ho cercato di dire ieri, non so se sono stato sufficientemente in grado di farlo capire, ed è che praticamente una struttura di questo genere sollecita una collaborazione internazionale e una conoscenza reciproca, uno scambio di apporti internazionali di natura differente.

Sì, molti di questi argomenti, come ha fatto l’elenco G. poco fa ripetendo quello che era scritto sull’invito, come organizzazione informale, affinità, lotte intermedie, ecc., strutture di base, nuclei di base, ecc. sono stati negli ultimi dieci anni ripetuti fino alla noia e anche oltre. Però, a mio personale avviso, non mi pare il caso di ripigliarli adesso, proprio perché qui invece dovrebbe emergere un tipo di discussione diversa che è quella che ho cercato di accennare ieri sera, che è quella di fare vedere in che modo è possibile un incontro, un raffronto, una collaborazione, e non sprecare quindi anche un’occasione come questa collegandola invece soltanto nella funzione repressiva della gestione del capitale. E difatti questa era l’idea originaria del tipo di struttura che si stava proponendo: quella di guardare non alla statica fotografia di come era nel 1992 la situazione dei Paesi dell’Est e del Mediterraneo, ma al contrario di vedere come si potevano evolvere quelle situazioni, essendo che poi non è che ci voglia la palla di vetro per vedere, in tempi brevi, per carità, non in tempi lunghi, come si possano evolvere le strutture repressive e i processi di gestione del capitale, e come si possano evolvere anche le risposte che la gente può dare a livello insurrezionale, di massa, a livello di sollevazione di massa, e come potremmo intervenire.

Tenete presente che si era nel periodo dell’intervento in Bosnia, che poi si andò sempre di più incancrenendo, era passato da poco l’intervento in Iraq, ci si avviava verso la Serbia e verso l’Albania, situazioni che poi si sono puntualmente verificate.

Ora, in un contesto come quello di oggi, questa problematica può sembrare un po’ astratta perché manca la controparte, la discussione con i compagni che potrebbero dirci qualcosa, però era questo quello che si voleva fare con un incontro di questo tipo. In effetti, in passato, più volte ci siamo trovati davanti a situazioni in cui abbiamo vissuto da spettatori movimenti di natura insurrezionale. Noi in fondo viviamo da spettatori una situazione come quella che si sviluppa in Palestina, la leggiamo sui giornali, abbiamo vissuto da spettatori la situazione dell’Albania, della Bosnia, della stessa Serbia. Ma perché? Molti dicono, giustamente, come risposta alla propria coscienza: ma se io non sono capace di pulire i bicchieri a casa mia posso andare a lavare i piatti in Albania? Che è risposta anche interessante però nello stesso tempo è risposta riduttiva perché gli anarchici non fanno una distinzione netta fra casa propria, l’Albania o Detroit o Seattle, non fanno questa differenza.

Ecco che torna secondo me importante la riflessione: prendere l’iniziativa. Prendere l’iniziativa significa sbarazzarsi il cervello dalle condizioni precedenti, che sono luoghi comuni ma, se io non sono in grado di valutare qual è la situazione nelle carceri italiane perché mi devo interessare delle carceri turche? Sì, è discussione giusta, però non regge. Non regge perché cammina sul filo del minore sforzo e del massimo risultato che non ci appartiene, noi non siamo sostenitori dell’utilità, non è vero?

Molti dicono: c’è il problema della lingua. Io vado in Grecia e non parlo greco conseguentemente sembriamo tante statuette, mute. Ebbene ci sarà sempre modo di potersi intendere, con qualche gesto, con qualche scritto, con qualche balbettio in inglese, c’è sempre modo, c’è sempre un compagno che conosce le lingue. Quindi questi problemi strumentali in fondo non esistono, quello che invece esiste è la testa, il problema della testa, è l’idea, l’idea di essere disposti ad accedere con la mente ad un progetto di tipo diverso.

Qui si sta parlando di questo perché io non ho alcun interesse a dare il mio personale contributo ad un dibattito di ordine metodologico che ritengo di già esaurito. Perché su problemi come l’affinità, come la lotta intermedia di natura insurrezionale, con tutto il resto, principalmente sull’informalità, secondo me s’è detto di tutto e anche di più. Ora chi non è in grado di reperire questi testi, questi documenti o non era presente a questi dibattiti, sono faccende sue, se li va a cercare, a me non interessa, il problema è che qui occorre andare avanti, occorre pigliare l’iniziativa, occorre che la prossima insurrezione non ci veda distanti, non ci veda remoti. E la prossima insurrezione, io non ho la palla di vetro, ma qui chiunque può arrivare a queste conclusioni, accadrà sistematicamente e fra poco.

Perché accadrà? Perché in una certa fascia ci sono tensioni enormi, se voialtri semplicemente pensate che un funzionario, un colonnello dell’esercito russo che prima era considerato un persona di un certo status sociale, con certe possibilità, all’epoca del regime, adesso ha uno stipendio di fame. Pensate quale tensione può esserci all’interno di forze armate di questo enorme impero di cui ancora noi non conosciamo quasi nulla. Questa esplosione di tensione repressiva, perché questa gente certamente cercherà di difendere i propri privilegi e quindi riverserà il fatto repressivo su una massa di milioni, di decine di milioni di diseredati che fa pressione verso le frontiere dell’ovest, questa gente determinerà necessariamente dei contrasti, contrasti che si allineeranno sul concetto di guerra civile non di lotta di classe, nel senso classico a cui tragicamente siamo legati.

Non c’è più infatti la dimensione classica di una struttura produttiva che viene a muoversi all’interno di una richiesta di miglioramento nell’ambito della produzione stessa. Questo è in parte tramontato, se non del tutto, mentre c’è un’enorme richiesta, un enorme potenziale di persone prive quasi di tutto, scacciate anche dalle loro case, dalle loro terre – voi pensate ad una situazione come quella dei Curdi – persone che premono alle frontiere e prima o poi sfonderanno e se sfondano, verranno qua e ci porteranno proposte di cui non capiremo i contenuti.

Ora è puerile che davanti a queste situazioni noi ci continuiamo a baloccare con i problemi di casa nostra, che sono importantissimi, per carità, ma che sono autoreferenziali. Io ho paura che molte cose di quelle che facciamo tutti, io per primo, siano di natura autoreferenziale, nel senso che faccio quindi esisto. Io mi faccio il volantino e lo distribuisco quindi io sono un anarchico che ha fatto il volantino e lo ha distribuito, quindi esisto come anarchico. Ma guardate che non è così. Io non sono nulla. Non è che non sono nulla perché il volantino non è nulla, che potrebbe in quanto goccia fare traboccare il vaso dell’insurrezione, della rivoluzione mondiale. Ma non sono nulla se credo che questo possa accadere in maniera certa.

Ecco, dobbiamo schiodarci da questa dimensione, da questa prospettiva determinista. È uno sforzo che in linea teorica tutti dobbiamo fare. Uno sforzo di natura individuale, ovviamente, però è anche uno sforzo verso cui si indirizza questo tipo di riunione. Ecco perché considero questa riunione importante: perché è la prima volta in cui, nel movimento anarchico, si parla e si partecipa ad un contesto in cui ci si propone una cosa assolutamente differente.

Forse io la vedo in modo sbagliato, non voglio dire che devo avere ragione per forza, però a me sembra che dal primo momento in cui si è parlato di questa iniziativa il progetto era: osserviamo dove sta andando il capitale, magari non nelle sue grandi evoluzioni e trasformazioni di globalizzazione o mondializzazione, all’epoca queste parole erano sconosciute, e l’affermazione si può verificare leggendo i listini di borsa. Magari non in questo senso, ma soltanto vediamolo nell’aspetto più vicino a casa nostra che è questo punto nevralgico dei Paesi che occupano la zona dell’Est e del Mediterraneo, perché da là ci verranno delle sollecitazioni di natura insurrezionale...

Quindi, allora, si pensò che era necessario non restare sempre spettatori, non restare sempre remoti ad una eventuale situazione insurrezionale. Certo c’erano stati casi precedenti in cui qualcuno di noi era stato presente a fatti di questo tipo, ma erano presenze accidentali, eravamo cioè assolutamente estranei e quindi pericolosamente sospetti, perché la gente che insorge e vede una persona per prima cosa la prende per un poliziotto, tanto per non sbagliare, perché è un estraneo, non sanno chi è, dice: e questo che fa? Poi casomai gli riuscisse di spiegare di non essere un poliziotto, lo vede come una persona che è là perché vuole provare il brivido della pietra lanciata contro la polizia, quanto meno. Chi lo spiega che invece si tratta di un compagno con un obiettivo molto più ampio?

Invece qui bisogna cercare di avere questo tipo di relazioni internazionali, e insisto sul termine “internazionali”, per cui questa riunione è propedeutica evidentemente ad una ulteriore riunione, anche se più ristretta o più larga di questa, a me non interessa, in cui ci siano i rappresentanti di queste forze anarchiche insurrezionaliste antiautoritarie internazionali con cui dialogare al di là di sospetti, mal comprensioni e fatti vari, con cui dialogare per non essere estranei quando si svilupperanno quei processi insurrezionali che sono facilmente prevedibili.

Qualcuno ha detto, giustamente, perché andare a fare, come accade nel Chiapas, del turismo rivoluzionario, chiamiamolo così, insurrezionale, quando noi potremmo realizzare, ognuno nel proprio contesto, un processo di solidarietà rivoluzionaria nei confronti di situazioni di lotta che stanno altrove? È stato detto questo, grosso modo.

Innanzitutto qua stiamo parlando di un’altra cosa, e vediamo di che cosa stiamo parlando. Innanzitutto la questione del turismo è un fatto che ci ha fatto riflettere parecchio in passato. In effetti portare, come diceva la RAF , il Vietnam in Germania, nelle grandi capitali tedesche, si è rivelato fallimentare perché il Vietnam non si poteva portare nelle grandi capitali tedesche. Ed era nella ideologia del gruppo armato clandestino, di tipo specifico marxista-leninista ortodosso, realizzare questo fatto. In effetti che cosa tu puoi portare del Vietnam nelle grandi capitali tedesche? L’informazione, che all’epoca si chiamava controinformazione. Tu fai notare, a chi ti sta ad ascoltare, determinati processi repressivi che accadono altrove nel mondo. Questo è importante ma è circoscritto, e comunque non è di questo che si dovrebbe interessare l’Internazionale. Quindi: autolimitarsi alla controinformazione, per usare una parola vecchia, è un lavoro importante ma non è quello di cui dovremmo parlare in questa sede.

Fare di più, che sarebbe l’ipotesi dell’organizzazione armata clandestina, cioè a dire realizzare fisicamente le macerie, il processo repressivo, la morte che accade nel Vietnam, realizzarla a Berlino o realizzarla ad Amburgo, è certamente un fatto che ha la sua importanza, le sue caratteristiche e anche le sue limitazioni. Non è questo che dovremmo chiarire qua. Allora di che cosa dovremmo parlare? Del turismo rivoluzionario? No, nemmeno di questo. Perché di fatto le condizioni insurrezionali di cui abbiamo parlato, e che era possibile pensare, erano quelle di avere a priori dei rapporti reali, concreti, di scambio, non soltanto culturale e di approfondimento, ma anche fisico, di conoscenza, recarsi in determinati posti, ecc. Perché di questo stavamo parlando, giusto o sbagliato che sia.

Perché i compagni che hanno questo tipo di scelte, questo tipo di interessi, questo tipo di pulsioni, al momento opportuno si rechino sul posto e sul posto realizzino il loro Vietnam. Sul posto attacchino quella realtà facendo un’esperienza di vita considerevole che sicuramente non è né meglio né peggio, ma è sicuramente diversa da quella che può fare il tedesco in Germania, l’italiano in Italia, il romano a Roma, l’abitante di Forlimpopoli a Forlimpopoli. Io la penso così ed è a questo che mi riferisco.

Sarà un’esperienza circoscritta anche questa, per carità, però non esistono esperienze totali. Io non credo che ci siano esperienze che, in fondo in fondo, siano da privilegiarsi nei confronti di altre. Semplicemente esistono compagni che aspirano, hanno gioia, desiderano, come dire, come fatto di vita, come qualcosa che è dentro di loro, vivere certe esperienze e che quindi finiscono per privilegiare queste esperienze nei confronti di altre. Però non sono le esperienze in se stesse a fare la differenza, ma è l’essere là e partecipare significativamente, quindi dal di dentro, con una serie di rapporti e conoscenze, partecipare all’insurrezione, attaccare là il nemico.

Ci possono comunque essere compagni che hanno questo tipo di pulsione, questo tipo di interesse e non lo realizzano perché non c’è la struttura adeguata che può permettere a priori, non a posteriori nel momento in cui la pasta è cotta, ma prima, quando ancora si deve mettere nella pentola, quando c’è ancora lo spazio per potere conoscere, approfondire, prepararsi. Ecco, questi compagni se sono disponibili, e io so che ce ne sono perché hanno parlato con me tante volte, è questa la loro sede, è di questo che stavamo parlando. Non soltanto di questo, per carità, perché in attesa di questo si può fare un gran discorso di altre cose. Però non c’è dubbio che l’Internazionale sta per proporre un discorso di questo tipo.

Ecco perché abbiamo usato il termine “Internazionale Insurrezionalista”? L’insurrezione è una fenomeno caratterizzato dalla gente che si muove, noi possiamo dare una mano ma è la gente che deve riuscire a sbaraccare la situazione.


29 dicembre 2000

Compagni e compagne, ricominciamo? Qual è la vostra opinione? Bisogna dedurre che altri sono andati via o sono impegnati ad affrontare altri argomenti. Noi che facciamo aspettiamo? In caso contrario, se vogliamo cominciare, io vorrei sollevare due problemi che ho avuto modo di affrontare più approfonditamente nella relazione che ho presentato e che è stata distribuita. Il primo riguarda il fatto che normalmente quando i compagni si occupano di un problema particolare si immergono quasi completamente in quel problema, cioè a dire, nella parte che in quel momento li occupa, li interessa e spesso corrono tutti il rischio di perdere le connessioni, i riferimenti, i raccordi che sono evidentemente indispensabili per far capire come quel problema non sia avulso da un contesto generale il quale allarga il problema e lo rende nello stesso tempo forse più difficile, ma sicuramente più significativo. E se non sbaglio mi pare che facevo l’esempio delle biotecnologie, oppure si potrebbe magari fare l’esempio del problema carcerario; che è un problema che si presenta nel momento in cui lo affrontiamo davanti ad una sollecitazione repressiva a cui dobbiamo rispondere, problema particolare in quanto ha caratteristiche particolari. Ad esempio per restare sul problema delle biotecnologie occorre che ogni compagno, la cosa è stata fatta molto bene da diversi compagni in questi ultimi tempi, si munisca di una documentazione sui processi repressivi in corso, di gestione e di amministrazione della nostra vita da parte del capitale o del potere in generale e cerchi una possibilità di risposta in questa direzione. Però esaminando questa massa documentativa che di giorno in giorno continua a crescere, documentazione che è fornita sia da strumenti nostri di movimento, come anche da strumenti della più ampia opinione che si trovano in circolazione, dove spesso riusciamo ad attingere anche notizie interessanti per quanto spesse volte acritiche, questa massa di opinioni ci porta a diventare noi stessi, stranamente, certe volte, degli specialisti. Noi abbiamo una documentazione, poniamo sulle biotecnologie, non abbiamo una documentazione su un altro problema; oppure se ci interessiamo di carcere sappiamo parecchio sul carcere in generale e sulle varie condizioni repressive nei vari Paesi o anche magari in Italia, ma non sappiamo di altri problemi. E allora io mi chiedo: questa situazione corre il rischio di diventare scarsamente significativa da un punto di vista rivoluzionario ed anarchico, in quanto contribuisce a far conoscere una parte del processo repressivo staccandolo, separandolo da quella che è la globalità del processo repressivo stesso. Ad esempio sulla questione delle biotecnologie, spesso non emerge il processo che sta alla base dello sviluppo biotecnologico, che è un processo di separazione di classe. Cioè gli interessi che garantiscono e rendono possibile lo sfruttamento, attraverso il ricorso a queste particolari tecnologie, sono interessi di classe. Quindi non è vero che le biotecnologie sono dannose a tutti indiscriminatamente, perché questo è il ripetersi nel tempo del vecchio equivoco del nucleare. Il nucleare è dannoso a tutti quanti, muore Agnelli e muoio anch’io. La cosa non è vera, Agnelli non muore. Il nucleare come la biotecnologia non è dannoso ad Agnelli. A me interessa poco che lo sia anche per Agnelli, ma perché non è dannoso? Perché la differenza di classe che c’è alla base, la separazione di classe, consente di realizzare quelli che sono i progetti repressivi, di sfruttamento, di accumulazione del denaro, del capitale da parte di Agnelli, per personificare in questo caso il capitale italiano, il quale ha proprio questo scopo: quello di realizzare i suoi sviluppi nel processo delle biotecnologie. Il nostro scopo qual è? Semplicemente quello di denunciare questo processo in corso, cosa che spesso molto meglio di noi fanno anche altre espressioni politiche, ma sarebbe anche quello di realizzare un intervento di natura distruttiva, un intervento che cerchi di frenare, non soltanto di controinformare. Di danneggiare, di colpire, di attaccare, quelli che sono i responsabili, uomini e cose, di questo tipo di realizzazione dello sfruttamento. Ora per fare questo dobbiamo partire da un discorso di analisi di classe, quindi da un discorso complessivo. Ora … più ci addentriamo nella disponibilità di dati, di informazioni, e meno siamo in grado di fare un discorso di natura complessiva, cioè un discorso effettivamente di classe. Ad esempio se voi riflettete sul problema del carcere, la dimensione nostra nel modo che ci comportiamo nei riguardi del carcere, l’accumulo di informazioni che mettiamo in circolazione, che cerchiamo spesse volte affannosamente anche di possedere per cercare di capire, rende in alcuni casi la concezione del problema del carcere, esclusivamente specialistica. Ad esempio, un discorso che è stato fatto proprio a Roma per quanto riguarda le carceri di Roma, era quello che dal di dentro della situazione dei detenuti del carcere di Rebibbia, venivano delle indicazioni di distruzione del carcere. Di distruzione di massima ma, anche di rivendicazioni parziali, sostenute attraverso una lotta che si è protratta negli ultimi anni, con alterne vicende e che ha visto una manifestazione di scioperi, di scioperi semplici, scioperi più complicati, scioperi della fame e così via… Ma l’analisi di fondo di questa situazione non era quella di fornire l’espressione effettiva di che cosa significa il carcere all’interno di una società come quella in cui noi viviamo. La funzione del carcere, che cosa vuole dire in Italia 58.000 corpi che sono rinchiusi oggi in carcere. 58.000 signor nessuno che sono in carcere, non venti, trenta, cinquanta individui in condizioni particolari o particolarmente significativi. Ecco, questo tipo di analisi, spesse volte, più noi ci addentriamo all’interno del problema del carcere o del problema delle biotecnologie o in altri problemi, e più perdiamo la dimensione complessiva, la dimensione globale dei problemi stessi. Il carcere ad esempio, evidentemente uno strumento repressivo, come è stato ovviamente chiarito abbastanza bene qua anche in diversi interventi, è un elemento che ci viene messo davanti per farci paura, per frenarci nelle nostre attività rivoluzionarie, anche questo, però non è soltanto questo. Ecco, la seconda parte dell’analisi, spesse volte viene a mancare. Il tentativo di portare la discussone ad un livello più complesso, cosa significa: forse vuol dire perdersi in chiacchiere? Perché molte volte si dice: qua ci vuole chiarezza. Un compagno giustamente ha detto: “Io mi sentirei contento se uscendo di qui dentro, riuscissi a dire a me stesso: ho le idee più chiare”. Molte volte si sente avanzare questa richiesta. E allora, cosa significa? Che è una cosa più chiara, riflettiamo un poco su questo argomento: ma cosa è la chiarezza, le cose chiare quali sono? Quelle che ci appaiono ben distinte, separate tra di loro. Una cosa chiara è innanzitutto una cosa munita di confini ben determinati, per essere chiara. Perché se no, non è chiara è sfocata, giusto? La fotografia che non è messa a fuoco bene viene male, perché? Perché è sfocata, perché i confini non sono chiari. Ma i confini che cosa sono? Sono legami, sono convenzioni, accordi, cioè prigioni, muri di carcere.

Le cose chiare sono la base su cui si costruisce il potere. Il potere è fatto di cose chiare. Pensate alla chiarezza del catechismo. La Chiesa si costruisce su cose chiare. Non mangia chiacchiere complicate la Chiesa. Quando ci si invita tutti quanti a riflettere su cose che sono difficili, sono complicate, sono cose che cominciano a diventare sfocate. Non è perché si è amanti delle sfocature o amanti delle sfumature, ma perché si odiano le distinzioni, perché le distinzioni sono foriere di muri di carceri. Perché la chiarezza che ci portiamo in tasca, contenti e tranquilli, è soltanto una menzogna.

Pensate a quanto sono tranquilli coloro che invece hanno sposato l’ideologia della certezza, che si sono affidati ai partiti che avevano la verità in tasca, ai conquistatori del potere per conto del proletariato. Quanto erano certi e in quanti lager sono andati a finire. Queste sono le certezze.

Quando ci si mette a riflettere su problemi che hanno delle difficoltà, è con delle sfumature che si ha a che fare. Ora tutte le analisi, tutte le riflessione che si indirizzano verso un tentativo di cucire insieme connessioni, raccordi, corrispondenze, significanze, cause ed effetti che sono remoti fra di loro, che non sono immediatamente evidenti sono molto difficili. Tutti i tentativi che cercano di squarciare il velo delle coperture, degli imbrogli, delle ideologie, sono necessariamente confusi.

Nessuno può pensare di uscire di qua con la chiarezza in tasca, perché sarebbe come pensare, in modo erratissimo secondo me, di uscire di qua con la verità in tasca.

Quindi noi non abbiamo verità ma solo ipotesi di ragionamento. E quanto più ci allontaniamo dalla specificità, tanto più non ci limitiamo soltanto a dire che il carcere è il luogo dove la gente viene torturata e resa idonea alla morte. Il carcere comincia così a diventare significativo, e comincia a diventare una cosa che è espressione, è portato e sostegno della società in cui viviamo, nel momento che comincia a complicarsi, a diventare una cosa sfocata. Quando noi penetriamo dentro il carcere ci chiediamo: che significa questo carcere, che vuol dire, cosa sta dentro queste mura? Come respira questo universo carcerario, attraverso che cosa, perché tiene nella assoluta inattività migliaia, decine di migliaia di persone, la maggior parte giovanissimi? Il crimine peggiore che possa essere commesso: un corpo giovane costretto a stare chiuso in pochi metri quadrati senza far nulla. Pensate a una tale mostruosità. Più noi entriamo all’interno di queste mostruosità più ci rendiamo conto che il carcere ci scappa dalle mani, il concetto classico di carcere ci sfugge e invece accediamo a un concetto più ampio di carcere. Perché quello che nel carcere succede, succede nella società. Noi viviamo una vita carcerizzata. Fuori, qualcuno poco fa diceva: “Non sono più in libertà, vengo messo nel carcere”. Mi veniva da ridere, perché io non mi sento in libertà quando sono fuori del carcere, mentre a volte mi sento libero anche quando sono in carcere. Perché sono questioni piuttosto complicate a determinarsi. Non è la chiave del carceriere che mi può far sentire in carcere; ma fuori, certe volte, quando vedo certe cose su cui non sono capace di intervenire, mostruosità che vivo continuamente, quotidianamente, mi sento peggio di essere in carcere.

Ecco quando vi si invita a riflettere su questi aspetti poco chiari, nebulosi, aspetti da sviscerare, da approfondire al posto dei luoghi comuni forniti dalle definizioni chiare. Ecco, allora la cosa comincia a diventare complicata. Eppure è uno sforzo che dobbiamo fare, cioè dobbiamo educarci a vivere nella complicatezza perché la nostra vita si basa sulla complessità non sulla semplicità.

Soltanto chi detiene il potere ha necessità di trasmettere dati chiari e semplici, perché chi deve eseguire ordini deve avere indicazioni chiare e semplici per non fare confusione. Noi altri non dobbiamo né trasmettere ordini né cercare di eseguire ordini ma dobbiamo cercare di ragionare con la nostra testa. Nel momento che ragioniamo nessuno dei nostri ragionamenti è chiaro e distinto ma tutto comincia a diventare confuso. Quindi io non è che sto suonando un inno alla confusione o alla difficoltà, sto dicendo che se vogliamo passare dalla specificità dei singoli momenti in cui, spesse volte, siamo portati a selezionare, a sezionare la realtà, dobbiamo cercare di fare questo sforzo per capire che la connessione verso la globalità, verso la totalità, è una cosa complicata.

L’altro aspetto era quello delle lotte intermedie, quelle che sono state definite così. Noi siamo anarchici insurrezionalisti e quindi siamo rivoluzionari però non è che intendiamo muoverci soltanto nel momento in cui ci sarà la rivoluzione e saremo in grado di distruggere tutto quanto. Evidentemente ci muoviamo quotidianamente in situazioni che sono tutt’altro che rivoluzionarie. Questa a suo tempo, con una terminologia che pare sia stata accettate da parecchi, è stata definita come una situazione in cui si verificano delle lotte intermedie. Noi interveniamo in queste situazioni di lotte intermedie ma siamo portatori di un nostro metodo che è quello appunto di natura insurrezionale che ha sue caratteristiche, che conosciamo perfettamente e di cui non è il caso di approfondire qua il discorso, perché se ne è parlato proprio fino alla nausea. Però queste lotte intermedie, a loro volta, possono essere significative se si estrinsecano nell’ambito di quelli che sono i metodi rivoluzionari e possono anche non esserlo se finiscono per nascere, svilupparsi e morire.

Se proviamo a pensare a tutte le cose che sono state dette sulla eventuale funzione di una organizzazione informale di tipo internazionale, come quella di cui stasera stiamo discutendo, senza perdere di vista il nostro obiettivo, è stato detto più volte che doveva essere possibilmente uno strumento per renderci più forti. Cioè per metterci in contatto più facilmente fra di noi, fra compagni di diversa situazione geografica, anche remota, anche lontana. Di Paesi diversi, di situazioni diverse. Avvicinandosi man mano, dopo alterne vicende, a questa scadenza, nell’arco di otto anni, contatti con compagni di tanti altri posti ce ne sono stati tanti. Però erano tutti contatti non finalizzati ad un carattere operativo.

Motivi molteplici hanno impedito poi la presenza di compagni che magari si erano detti interessati, anzi addirittura alcuni interessatissimi, a questa scadenza. I quali presenti in questa sede, stasera, avrebbero potuto dire la loro su questo argomento in termini più concreti. Questo non è accaduto. Ma non possiamo strapparci i capelli. Possiamo, però, riflettere sul fatto che i motivi che hanno determinato questa assenza, sono una cosa, un’altra è che questo tipo di struttura organizzativa informale se ha un significato, perché potrebbe pure non averlo e noi potremmo per otto anni aver alimentato una grossa illusione, è sempre quello: fare entrare in contatto fra loro i compagni di situazioni geografiche diverse, in modo che si possano realizzare più facilmente, perché io non dico che in un altro modo non siano realizzabili (ognuno fa come vuole), accordi per sviluppare lotte in comune, in collaborazione. In modo che le lotte stesse abbiano una maggiore significatività, siano più prontamente conosciute, più significativamente realizzate. Questi erano gli scopi, come dire, minimi, che a me sembrano abbastanza concreti, questi erano gli strumenti.

L’internazionale dovrebbe essere uno strumento di lotta, uno strumento che dovrebbe funzionare. Mancando la materia concreta, questa sera, non si può nemmeno verificare se questa struttura può o meno funzionare. È questo, in termini di concretezza, cioè quello che ci eravamo proposti, non può essere portato nel banco delle verifiche pratiche. Ora, dire io conosco delle persone in Grecia…Certo che conosco dei compagni in Grecia! Però il fatto che i compagni greci non siano qua, tutti quelli che conosco io, ma sia presente soltanto un compagno rende inutile, questa sera, operativamente e anche significativamente, la mia conoscenza precedente dei compagni che sono in Grecia e così in tanti altri posti.

Però, l’assenza di questa sera e quindi il fatto che stentiamo a renderci conto di che cosa stiamo parlando, rende inutile anche la stessa iniziativa? Questa è una domanda alla quale io non so dare una risposta. Io penso che possa anche essere utile, però qualcuno potrebbe dire: “No, stiamo solo perdendo tempo perché sono soltanto chiacchiere in quanto manca l’aspetto concreto”. Ma a questo io non so cosa rispondere perché, ripeto, tutte le conoscenze che ognuno di noi ha, sia generiche in tutto il mondo, con compagni, ecc., sia specifiche, cioè conoscenze di compagni conosciuti in particolare per questo tipo di problema, cioè l’organizzazione informale di cui stiamo parlando stasera, non posso dire che abbiano per me, in questo momento, un significato di natura concreta operativa. Perché non essendo qui presenti, non posso verificare questa conoscenza, cosa essa significa per me e per loro, cosa ha significato in passato per me e per loro. E in questa sede se fossero stati presenti, si sarebbe potuto, separatamente e con i mezzi di discussione opportuni, magari progettare qualcosa insieme.

Ciò significa che anche la riunione di questi tre giorni è stata tutto tempo perso, è stata soltanto esercitazione e gargarismo da intellettuali? Questo io non lo so, ci posso mettere un punto interrogativo. Personalmente posso avere le mie idee. Penso che possiamo cavare una parte di utilità da questo tipo di riunioni capendo che si sta parlando di una cosa in cui ci sono delle caratteristiche di novità. Una cosa un poco diversa. Abbiamo accennato all’aspetto di cercare di vedere l’Internazionale come uno strumento che può consentire di prendere l’iniziativa, di intervenire duramente quindi in modo distruttivo nei processi di ristrutturazione del capitale, come movimento in corso. Però questo può essere solamente una bellissima chiacchiera, può essere una cosa assolutamente priva di senso se non ha un riscontro nella realtà.

Spetterà ai giorni ed ai mesi futuri verificare.

Nota editoriale

Riporto le indicazioni dei giornali e delle riviste dove alcuni dei pezzi qui pubblicati sono usciti per la prima volta. Vista la frequenza e l’eterogeneità degli pseudonimi talvolta impiegati, gli stessi non vengono segnalati. Per lo stesso motivo non vengono segnalati i casi di articoli non firmati. Per il fatto di essere qui riprodotti, senza altra indicazione, s’intendono tutti scritti da me.

Tutti i testi qui pubblicati sono stati riveduti e aggiornati.


“Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista. Proposta per un dibattito”. Pubblicata la prima volta su “Anarkiviu” n. 29, pp. I-VIII. Traduzione inglese sullo stesso numero di “Anarkiviu”, pp. IX-XII. Testo pubblicato anche in Il progetto insurrezionale, Ed. “Il Culmine-Gas”, Cuneo 1995, pp. 28-48. La traduzione inglese in opuscolo col titolo: For an anti-autoritarian insurrectionist International, Elephant Editions, London 1993, pagine 24.

“Alcune personali considerazioni”, riprodotto in fotocopia e distribuito al Convegno di Torino del 25 e 26 Maggio 1996.

“Ai compagni anarchici dei Paesi dell’Est”. Volantino di due pagine distribuito in occasione del Convegno di Trieste del 14-17 aprile 1990. Pubblicato anche su “Provocazione” n. 24, giugno 1990, pp. 4. Di questo testo esiste una traduzione inglese in volantino di due pagine, anch’essa distribuita al Convegno di cui sopra.

Individuo, gruppo di affinità, insurrezione. Interventi al Convegno di Rovereto sullo stesso tema del 24-26 dicembre 1994. Trascrizione della registrazione su nastro.

Gruppi di affinità, organizzazione informale, insurrezione. Interventi al Convegno della Val Pellice sul medesimo tema del 12-14 maggio 1995. Trascrizione della registrazione su nastro.

Interventi al Convegno di Velletri del 27-28-29 dicembre 2000. Trascrizione della registrazione su nastro.

 
 

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