Seconda edizione, Edizioni Anarchismo, aprile 2007
Terza edizione: novembre 2013
Edizione inglese: The Anarchist Tension, London 1998
Edizione tedesca: Die anarchistische Spannung, München 1997
Edizione spagnola: La tensión anarquista, Paris 1997
Edizione belga in lingua inglese: The anarchist tension, Gent 2007 Testo della conferenza dal titolo “Anarchismo e democrazia” tenuta a Cuneo il 28 gennaio 1995 presso la sala riunioni del locale Liceo Scientifico “Giuseppe Peano”.
Opuscoli provvisori n. 7
Alfredo M. Bonanno
La tensione anarchica
Nota introduttiva alla seconda edizione
Il processo in base al quale la tensione anarchica verso la libertà svuota se stessa della conoscenza non è mai ricordato come uniforme, non avviene tutto in una volta. La presa di coscienza non è un sacco che si vuota, alcuni elementi della conoscenza raffrenante non sono dettagli che si tolgono via a proprio gradimento, altri non possono essere tolti che con grande difficoltà e, non appena tolti, cercano in tutti i modi di ritornare al proprio posto. La paura di restare in balia dell’ignoto rimane forte. Sono portato, ed è naturale, a considerare più importanti gli elementi conoscitivi che tolgo via con maggiore difficoltà, ma questa purificazione non assegna una graduatoria né qualitativa né quantitativa. La parola, di fronte a questi sforzi, ha reazioni sue, non risponde mai in modo adeguato alla follia della tensione distruttiva, difatti non può quest’ultima presentarsi come progetto progressivo e dettagliato. La sua danza ricorda più quella del dio delle donne che la sapienza dominatrice di Atena. Non potendo presentare un progetto distruttivo completo in ogni sua parte, se non per grandi linee, troppo vaghe alla fin fine, devo ammettere che in assenza di regole ogni progetto comporta in sé qualcosa di ridicolo, la tensione corre il rischio di contrastare la parola invece di sollecitarla ad aprirsi. Ciò è costante nei casi in cui la preparazione liberatoria della tensione è ancora troppo esile di fronte al peso complesso dell’accumulo che la conoscenza minaccia di presentare come ricatto. Un errore può essere commesso nella sopravvalutazione del processo di avvicinamento al silenzio e la parola può non coglierlo, in questo caso si inizia una analisi dettagliata che prenderà movimenti complessi, contorti e che si modificherà profondamente di fronte alle ulteriori proposte della tensione più avanzata. A volte, quando le titubanze hanno il sopravvento, transitorio se vogliamo, comunque in grado di raffrenare l’istinto e gli impulsi più generosi, la tensione non è sufficientemente silenziosa e lascia che la conoscenza la gonfi di sé, la parola si accorge dell’invasione o delle condizioni premature, e crea dei falsi punti di riferimento per non azzerare completamente il lavoro già fatto dalla tensione stessa. Nessuna idea è talmente forte da resistere senza danni a questo ritorno della volontà di mettersi in salvo. È difficile cogliere i motivi della distruzione, radicale, che l’anarchismo propugna con tanta certezza, una volta che si deve mettere da parte lo scopo di questa distruzione, qualsiasi scopo, non regnando che l’inutilità nel baratro che accoglie i movimenti disorganizzati della tensione individuale, e molto più ampiamente, della tensione collettiva verso la libertà.
La tensione è aprire il proprio cuore all’imprevisto, lasciare così che la conoscenza propria e altrui scappi via per il mondo, che ognuno faccia quello che gli aggrada, strame o no, tanto lei non è né l’uno né l’altro. Grandi filosofi come Aristotele o Bruno sono caduti al servizio, anche transitorio, dei potenti, per non dire delle utopie di Platone, ma non potevano aprire la loro conoscenza, erano troppo gelosi e troppo parziali per non limitarsi ad assolvere fino in fondo l’arrogante e stupido compito di reggere il candelabro.
Rinuncio malvolentieri alla conoscenza e ai benefici che ne ho tratto per tutta la vita. Anche nelle peggiori condizioni in cui mi sono venuto a trovare essa riceveva un inchino dal nemico e, diciamo, un trattamento di favore. Anche quando sono stato torturato, i colpi erano peggiori solo quando il torturatore non sapeva chi fossi, poi diventavano più leggeri, quasi vergognosi. Rinunciare a questa essenza conoscitiva che mi pervade e che mi mostra quale sono essendo penetrata a fondo, anche se vestito di stracci come i Cinici, non è del tutto possibile, è una lunga lotta, e quando credo di essere arrivato a una buona condizione di svuotamento, ecco che l’antica tabe rispunta dove meno me l’aspetto. La distruzione non sarà mai possibile se non staccherà il contatto con questi legami che trovano la propria radice occulta proprio nel tessuto connettivo della conoscenza. Eppure è un’amara necessità rinunciare ad essa, anche all’ultimo, quando il suo respiro si fa corto e i suoi progetti di controllo sono scarnificati fino all’osso, permane una traccia di contenuto e di senso.
In fondo la tensione verso la radicale distruzione dell’esistente è follia che mi fa paura, come farla entrare in moduli conoscitivi rassicuranti?
Non sto parlando ovviamente dell’estasi vuota, impossibile perché dovrebbe riempirsi totalmente di qualcosa che non è da qualche parte ma si propone soltanto come movimento, appunto come tensione verso qualcosa, la libertà, eppure sto parlando di qualcosa che inceppa la parola e la rende incomprensibile se non vista nella prospettiva dell’azzeramento totale, del silenzio che circonda l’azione ormai completa in tutte le sue parti, condizione di svuotamento che fa spazio e libera dalle pretese di conquista che la conoscenza aveva sostenuto per decenni. L’insegnamento che viene da questa condizione pericolosa e insostenibile, eppure desiderata come nient’altro con tanta forza, è che la conoscenza chiude per sempre il cuore dell’uomo e lo sostituisce con il calcolo, con la convenienza, la conquista, il possesso. Rinunciare a tutti questi aspetti e conservare la conoscenza e le sue corrispondenze è impossibile. Prova ne è che la parola balbetta solo il piatto linguaggio della quotidianità, oppure, a volte, timidamente si avventura nelle mutate condizioni che la tensione rende possibili.
La tensione è il sapere della qualità, silenzio che ascolta la voce del destino, voce che non può tardare malgrado le mille occasioni dispersive che nella notte della conoscenza ghiacciano le sue intenzioni. Ma poi essa arriva, ed è l’agire che illumina la notte, e la stessa parola riprende finalmente il messaggio libero staccandosi da quello coatto, dimenticandone la triste necessità. La tensione e la conoscenza, questi due aspetti, l’agire e il fare, si separano e si riunificano, non posso considerarle estranee, solo nemiche, esse galoppano una a fianco dell’altra, come la vita e la morte.
Trieste, 9 marzo 2007
Alfredo M. Bonanno
Nota introduttiva alla prima edizione
Nell’immediatezza – ma anche nei limiti – della prosa tipicamente orale che caratterizza questa trascrizione, emerge con passione un’idea, forse l’unica, che ci accomuna tutti in qualità di individui in conflitto con quest’ordine di cose.
È la tensione anarchica: quel sentimento che brucia il dualismo tra teoria e azione, pratica e pensiero, e che costantemente infiamma i nostri sogni ed i nostri gesti volti a un radicale cambiamento dell’esistente. È la gioia di chi lotta senza quiete per liberarsi da tutte le catene, è la folgorazione di chi si rende conto delle autorità che ci opprimono e non può più fare a meno di ricercare e gustare per sempre il nettare di una vita libera e degna d’esser vissuta.
È, in ultima analisi, una dichiarazione estrema di amore e di rabbia...
Lontani dal voler creare bibbie e predicatori, alieni ad ogni forma di idolatria e mitizzazione, iconoclasti per definizione, atei in tutti i sensi, abbiamo da sempre rifuggito e rifiutato qualsiasi aspetto dell’autoritarismo che vorrebbe renderci odiosa l’esistenza, a cominciare da quello più subdolo e pericoloso: quello che può nascere da noi stessi. Niente leggi, quindi, né ordini precostituiti o certezze, e tantomeno paraocchi preconfezionati, ma solo i più liberi e spontanei accordi...
Questo avevamo in mente quando abbiamo dato vita al progetto di un Laboratorio Anarchico per sperimentare antiautoritariamente le nostre tensioni, su questo scommettiamo quotidianamente dentro come fuori quelle quattro mura, e questo abbiamo ancora bene in mente ora, nel proporre un testo che non sia nulla più che uno stimolo per accrescere noi stessi e, nel caso, per riconoscersi in qualcun altro.
Laboratorio Anarchico di Sperimentazione Antiautoritaria
La tensione anarchica
Cominciando a parlare, io sono sempre piuttosto imbarazzato, almeno all’inizio. E questo imbarazzo aumenta riguardo quello che erroneamente si chiama una conferenza o, come più modestamente la si cerca di camuffare, una conferenza-dibattito. Dopo tutto si tratta di un discorso di qualcuno che viene da fuori, magari di un’altra generazione, come se piovesse dal passato, qualcuno che sale su questa cattedra, fa un discorso, e quindi somiglia stranamente, e pericolosamente, a chi vi martella il cervello per altri scopi, con altre intenzioni. Se fate un poco di attenzione, però, dietro questa somiglianza esteriore, nei concetti che adesso seguiranno, ci sarà una considerevole differenza.
Il primo di questi concetti è costituito dalla domanda: che cos’è l’anarchismo? E siccome io so per certo, perché li conosco personalmente, che qui dentro ci sono moltissimi anarchici, è strano che io prenda, in questo momento, un problema del genere. Se non altro gli anarchici dovrebbero pur sapere cos’è l’anarchismo. E invece tutte le volte occorre riprendere il discorso proprio dalla domanda: che cos’è l’anarchismo? Seppure in poche parole. Perché? Normalmente non accade questo in tutte le altre espressioni della vita, in tutte le altre attività, in tutti gli altri pensieri, chi si definisce o si considera, e anche con un certo fondamento, qualcosa, di quel qualcosa è certamente a conoscenza.
Ecco, gli anarchici invece si pongono sempre il problema: che cos’è l’anarchismo? Cosa significa essere anarchici? Perché? Perché non è una definizione che una volta raggiunta si possa conservare in cassaforte, mettere da parte e considerare come un patrimonio a cui attingere a poco a poco. Essere anarchici non è l’aver raggiunto una certezza, l’aver detto una volta per tutte: “Ecco, io, finalmente, da questo momento, sono in possesso della verità e, come tale, se non altro dal punto di vista dell’idea, sono un privilegiato”. Chi ragiona in questo modo è anarchico soltanto a parole. L’anarchico è invece chi mette in dubbio realmente se stesso in quanto anarchico, in quanto persona, e chi si chiede: “Che cosa è la mia vita in funzione di quello che io faccio e in relazione a quello che penso? Quale rapporto riesco giornalmente, quotidianamente, a mantenere in tutte le cose che faccio, un modo di essere ancora una volta anarchico e non entrare in accordi, piccoli compromessi quotidiani, ecc?”.
L’anarchismo non è quindi un concetto che si sigilla con una parola come una lapide funeraria. Non è una teoria politica. È un modo di concepire la vita e la vita, giovani o vecchi che siamo, anziani o ragazzini, non è una cosa definitiva: è una scommessa che dobbiamo giocare giorno per giorno. La mattina, quando ci alziamo dal letto e mettiamo i piedi per terra, dobbiamo avere un buon motivo per alzarci, se non l’abbiamo, siamo anarchici o non lo siamo, non significa nulla. Tanto meglio se restiamo a letto coricati, a dormire. E, per avere un buon motivo, dobbiamo sapere come agire, perché per l’anarchismo, per l’anarchico, non c’è una differenza tra l’agire e il pensare, ma c’è un continuo rovesciarsi della teoria nell’azione e dell’azione nella teoria. Ecco che cosa differenzia l’anarchico da qualunque altra persona che ha una concezione della vita diversa e che cristallizza questa concezione della vita in un pensiero politico, in una pratica politica, in una teoria politica.
È questo che normalmente non vi viene detto, è questo che non è scritto sui giornali, è questo che non è scritto sui libri, è questo in merito al quale la scuola tace gelosamente perché questo è il segreto della vita: non separare definitivamente il pensiero dall’azione, le cose che si sanno, le cose che si capiscono, dalle cose che si fanno, dalle cose attraverso le quali noi agiamo.
Ecco cosa differenzia un uomo politico da un rivoluzionario anarchico. Non le parole, non i concetti, e, consentitemi, sotto certi aspetti nemmanco le azioni, perché certe azioni non è il loro estremo concludersi in un attacco – poniamo radicale – che le differenzia e le caratterizza, non è nemmeno la giustezza della scelta dell’obiettivo che le qualifica, ma è il modo in cui la persona, il compagno che realizza queste azioni, riesce a farle diventare momento espressivo della propria vita, caratterizzazione specifica, significato, valore per vivere, gioia, desiderio, bellezza, non realizzazione pratica, non bieca realizzazione di un fatto che mortalmente si conclude in se stesso e determina il poter dire: “io oggi ho fatto questa cosa” lontano da me, alla periferia della mia esistenza.
Ecco, questa è una differenza. E da questa differenza ne emerge un’altra, secondo me considerevole. Chi pensa che le cose da fare stanno fuori di lui e si realizzano in tanti successi o insuccessi – cosa volete, la vita è fatta a scale: un poco si scende, un poco si sale, c’è quando le cose vanno bene, c’è quando le cose vanno male – ecco, chi pensa che la vita è fatta di queste cose: ad esempio, la figura classica del politico democratico (per carità, una persona con cui si può discutere, un tipo simpatico, tollerante, che ha aspetti permissivi, che crede nel progresso, nel futuro, in una società migliore, nella libertà), ecco, questa persona così combinata, vestita magari senza doppiopetto, senza cravatta, così casual, una persona che da vicino sembra un compagno e che da sé si dichiara un compagno, questa persona può essere benissimo anche un poliziotto, non cambia nulla. Perché no? ci sono poliziotti democratici, è finita l’epoca dell’uniformità della repressione, oggi la repressione ha aspetti simpatici, ci reprimono con tante idee brillanti. Ecco, questa persona, questo democratico, come possiamo caratterizzarlo, come possiamo individuarlo, come possiamo vederlo? E se davanti agli occhi ci mettono un velo che ci impedisce di vederlo, come possiamo difenderci da lui? Identificandolo attraverso questo fatto: che per lui la vita è realizzazione, la sua vita sono fatti, fatti quantitativi che si dipanano davanti ai suoi occhi e nient’altro.
Quando parliamo con qualcuno non possiamo chiedergli la tessera di appartenenza. Spesse volte, attraverso le sue idee, finiamo in una grande confusione e non capiamo più nulla, perché siamo tutti parlatori simpatici e progressisti, tutti elogiamo la bellezza della tolleranza e così via. Come facciamo ad accorgerci che abbiamo davanti il nemico, il peggiore dei nostri nemici? Perché almeno dal vecchio fascista ci si sapeva difendere, picchiava lui e, se eravamo bravi, picchiavamo anche noi, più forte di lui. Adesso è cambiata la storia, è cambiata la situazione. Ormai, pescare un fascista picchiatore diventa magari difficile. Però questo soggetto che stiamo cercando di delineare, questo democratico che troviamo a tutti i livelli: nella scuola o al Parlamento, per strada o nella divisa di poliziotto, come giudice o come medico, questo soggetto qua ci è nemico perché lui considera la vita in un modo diverso da come la consideriamo noi, perché per lui la vita è un’altra vita, non è la nostra vita, perché noi per lui siamo extraterrestri e non vedo perché lui debba essere considerato abitante del nostro stesso pianeta. E questa la linea che ci divide da lui, perché la sua concezione della vita è di natura quantitativa, perché lui misura le cose come successo, o se volete anche come insuccesso, ma comunque sempre dal punto di vista quantitativo e noi la misuriamo in un modo diverso, ed è su questo che dobbiamo riflettere: in che maniera per noi la vita ha qualcosa di differente, di qualitativamente differente.
Allora, questo signore così bene disposto nei nostri confronti ci riversa addosso una critica e dice: “Sì, gli anarchici sono simpatici, però sono inconcludenti, cosa hanno mai fatto nella storia, quale Stato è stato (con la “s” minuscola in questo secondo caso) anarchico? Hanno mai realizzato un governo senza il governo? Non è una contraddizione una società libera, una società anarchica, una società senza potere?”. E questo masso critico che ci piove addosso, certamente, ha una grossa dimensione, perché in effetti anche in quei casi in cui gli anarchici sono andati molto vicini a realizzare le loro utopie costruttive di una società libera, come ad esempio in Spagna o in Russia, esaminandole bene, quelle costruzioni sono piuttosto discutibili. Sono certamente rivoluzioni, ma non sono rivoluzioni libertarie, non sono l’anarchia.
Quindi, quando questi signori ci dicono: “Voi siete degli utopisti, voi anarchici siete degli illusi, la vostra utopia non si può realizzare”, noi dobbiamo dire: “Sì, è vero, l’anarchismo è una tensione, non è una realizzazione, non è un tentativo concreto domani mattina di realizzare l’anarchia”. Però dobbiamo anche potere dire ma voi altri, egregi signori democratici che siete al governo, che ci regolate la vita, che pretendete di entrare nelle nostre idee, nei nostri cervelli, che ci governate attraverso l’opinione quotidiana che costruite nei giornali, nelle università, nelle scuole, ecc., voi signori cosa avete realizzato? Un mondo degno di essere vissuto? Oppure un mondo di morte, un mondo in cui la vita è un fatto appiattito, privo di qualità, senza significato, un mondo in cui si arriva ad una certa età, alla soglia della pensione, e ci si chiede: “Ma che cosa ho fatto della mia vita? Che senso ha avuto vivere tutti questi anni?”.
Ecco che cosa avete realizzato, ecco che cos’è la vostra democrazia, che cos’è il vostro concetto di popolo. State governando un popolo, ma che vuol dire popolo? Il popolo che cos’è? È forse quella piccola parte, manco tanto consistente, che va alle votazioni, alle elezioni, che vota per voi, che nomina una minoranza, la quale minoranza nomina poi un’altra minoranza ancora più piccola della prima che ci governa in nome delle leggi. Ma queste leggi cosa sono se non espressione degli interessi di una piccola minoranza specificatamente indirizzata a fare risultare in primo luogo le proprie prospettive di arricchimento, di rafforzamento del potere e così via?
Voi state governando in nome di un potere, di una forza che vi viene da cosa? Da un concetto astratto, avete realizzato una struttura che pensate possa essere migliorata... ma come, in che modo nella storia è stata migliorata? Qual è la condizione in cui oggi viviamo se non una condizione appunto di morte, di appiattimento della qualità? Questa è la critica che dobbiamo fare rimbalzare contro i sostenitori della democrazia. Se noi anarchici siamo utopisti, lo siamo come una tensione verso la qualità; se i democratici sono utopisti, lo sono come una riduzione verso la quantità. E, alla riduzione, all’incartapecorimento vissuto nell’àmbito di una dimensione del minimo danno possibile per loro e del massimo danno accettabile per la grande quantità delle persone che risultano sfruttate, a questa realtà miserabile, noi contrapponiamo la nostra utopia che almeno è un’utopia della qualità, una tensione verso un futuro diverso, radicalmente diverso da quello in cui viviamo ora.
Quindi tutti i discorsi che vi vengono rivolti da qualcuno che vi parla in nome del realismo politico, quando gli uomini di Stato, quando i professori (che sono i servitori degli uomini di Stato), quando i teorici, i giornalisti, tutti gli intellettuali che transitano in aule come queste, coi loro discorsi vi parlano le parole calme e tolleranti dell’uomo realista, affermando che tanto non si può fare diversamente, che la realtà è quella che è, che bisogna fare sacrifici, ecco, questa gente vi sta imbrogliando, vi sta imbrogliando perché è vero che si può fare diversamente, perché è vero che ognuno di noi può insorgere in nome della propria dignità ferita davanti all’imbroglio, perché è vero che ognuno di noi si può sentire imbrogliato perché finalmente può prendere coscienza di che cosa stanno facendo a suo scapito e insorgendo ognuno può cambiare non soltanto, nei limiti in cui è possibile sapere, la realtà delle cose, ma può cambiare la propria vita, può farla diventare degna di essere vissuta, può alzarsi la mattina, mettere i piedi per terra, guardarsi allo specchio e dire: “Finalmente le cose sono riuscito a cambiarle, almeno per quel che mi riguarda”, e sentirsi un uomo degno di vivere la propria vita, non un burattino nelle mani di un burattinaio che nemmanco è possibile vedere bene per sputargli in faccia.
Ecco perché gli anarchici tornano continuamente a parlare di che cos’è l’anarchismo. Perché l’anarchismo non è un movimento politico. È anche questo, ma come aspetto secondario. Il fatto che il movimento anarchico storicamente si presenti come un movimento politico non vuol dire che l’anarchismo come movimento politico esaurisca tutte le potenzialità anarchiche dell’esistente. L’anarchismo non si risolve nel gruppo anarchico di Cuneo, di Torino o di Londra o di tante altre città, ecc. Non è quello l’anarchismo. Certo, là ci stanno anche i compagni anarchici e ci sta, io mi auguro, o almeno si dovrebbe presumere che ci sia, quel tipo di compagno che singolarmente ha incominciato la propria insurrezione, che si è reso conto, ha preso coscienza del contesto di obbligo e di coazione all’interno del quale è costretto a vivere. Però l’anarchismo non è soltanto questo, ma è anche quella tensione della vita, quella qualità, quella forza che riusciamo a fare uscire da noi stessi cambiando la realtà delle cose. E l’anarchismo è l’insieme di questo progetto di trasformazione unito al progetto che si realizza all’interno di noi stessi, col progredire del nostro personale cambiamento. Non si tratta pertanto di un fatto quantitativamente storicizzabile, non è un fatto che si realizza semplicemente nello svolgimento del tempo e che si fa vedere attraverso determinate teorie, attraverso alcune persone, attraverso certi movimenti e anche, perché no, attraverso ben precise azioni rivoluzionarie. In questa somma di elementi c’è sempre qualcosa in più, ed è questo qualcosa in più che fa vivere continuamente l’anarchismo in maniera diversa.
Quindi, tra questa tensione, che dobbiamo sempre secondo me conservare dentro di noi come tensione verso il diverso, verso l’impensabile, l’indicibile, verso una dimensione che dobbiamo realizzare e che non sappiamo bene in che modo, e il quotidiano delle cose che facciamo e possiamo fare, dobbiamo sempre mantenere un rapporto, una relazione precisa di cambiamento, di trasformazione.
Il primo esempio che mi viene in mente su questo argomento è ancora un altro elemento contraddittorio. Pensate al concetto di problema: “ci sono problemi da risolvere”, questa è una frase classica. Abbiamo tutti problemi da risolvere, la vita è un problema da risolvere, il vivere è un problema, qualunque aspetto della realtà, dalla propria condizione sociale, dal dovere spezzare un cerchio che ci circonda, alla semplice vicissitudine che quotidianamente affrontiamo, tutto ciò lo consideriamo un problema. Ma i problemi sono risolvibili?
E qua c’è un grosso equivoco, perché? La struttura che ci opprime suggerisce l’idea che i problemi sono risolvibili e che è essa a risolverli. E, di più, questa struttura suggerisce l’esempio (credo che molti dei presenti siano studenti) dei problemi che si risolvono in geometria, in matematica, ecc. Ma questo tipo di problema, il problema della matematica, che viene considerato come un esempio del problema risolvibile, non è altro che un falso problema, per cui è possibile risolverlo perché nel momento in cui lo affrontiamo la risposta è già contenuta nella proposizione del problema stesso, cioè la risposta è una ripetizione del problema, in forma diversa, o, come si dice tecnicamente, una tautologia. Si dice una cosa e si risponde con la cosa stessa, per cui, grosso modo, non c’è soluzione nel problema, ma c’è una ripetizione del problema in forma diversa.
Ora, quando si parla di risolvere un problema che interessa la vita di tutti noi, la nostra esistenza nel quotidiano, si parla di problemi che hanno una complessità che non si può racchiudere all’interno di una semplice ripetizione del problema stesso. Ad esempio, se diciamo: “il problema della polizia”, l’esistenza della polizia per molti di noi costituisce un problema. Non c’è dubbio che il poliziotto è uno strumento di oppressione attraverso il quale lo Stato ci impedisce di fare determinate cose. Come si fa a risolvere un problema del genere? Esiste la possibilità di risolvere il problema della polizia? La domanda, di per sé, si rivela inconsistente. Non esiste la possibilità di risolvere il problema della polizia. Però, dal un punto di vista del ragionamento democratico, esiste il problema di risolvere alcuni aspetti del problema della polizia, democratizzando le strutture, trasformando la mente del poliziotto e così via. Ora, pensare che questa sia una soluzione del problema del controllo e della repressione è quanto meno stupido, oltre che illogico, infatti non è altro che un modo di modulare la repressione secondo gli interessi del potere, secondo gli interessi dello Stato. Difatti, se oggi serve una polizia democratica, domani potrebbe servire una struttura di controllo e di repressione molto meno democratica di oggi e la polizia direbbe ancora una volta come ha fatto in passato: obbedisco, magari espellendo o eliminando dal proprio interno rarissime e marginalissime minoranze che la pensano diversamente.
Quando dico polizia intendo qualunque struttura repressiva, dai carabinieri alla magistratura, qualunque espressione dello Stato che serve semplicemente come aspetto di controllo e di repressione. Come vedete, quindi, i problemi sociali non sono risolvibili. L’imbroglio, da parte delle strutture democratiche, di pretendere di risolvere i problemi, è un imbroglio che fa vedere come non esiste nessuna affermazione del pensiero politico democratico che si regga su un minimo di realtà, su di un minimo di concretezza. Tutto si basa sulla possibilità di giocare sull’equivoco che le cose comunque nel tempo si possano aggiustare, si possano trasformare in meglio, si possano sistemare. È su questa sistemazione che si basa la forza del potere, ed è su questa sistemazione che i dominanti si reggono nei tempi medi e nei tempi lunghi. Cambiano le carte, cambiano i rapporti e noialtri aspettiamo che avvenga quello che loro ci hanno promesso, cosa che non avviene mai, perché questi miglioramenti non si verificano mai, perché il potere resta, cambiando e trasformandosi nella storia, resta sempre lo stesso, resta sempre: un pugno di uomini, una minoranza di privilegiati che gestisce le leve del dominio, che fa i propri interessi e tutela le condizioni della supremazia di chi sta al comando, di chi continua a dominare.
Ora, noi che cosa abbiamo come strumento per contrastare questo stato di cose? Ci vogliono controllare? E noi rifiutiamo il controllo. Certo, questo possiamo farlo, senza dubbio lo facciamo, cerchiamo di minimizzare i danni. Però, in un contesto sociale, il rifiuto del controllo è valido fino a un certo punto. Possiamo circoscrivere certi aspetti, possiamo strillare quando veniamo colpiti ingiustamente, però è chiaro che ci sono determinati luoghi del dominio dove regole che si chiamano leggi, cartelli che si chiamano recinzioni, uomini che si chiamano poliziotti ci impediscono di entrare. Non c’è dubbio, provate ad entrare in Parlamento, e vedrete cosa vi succede, non so. Non si possono superare determinati livelli, determinati controlli non possono essere evitati.
Allora, noi a questa situazione che cosa contrapponiamo? Semplicemente un sogno? Un’ipotesi di libertà, che per giunta deve anche essere formulata piuttosto correttamente, perché non possiamo dire: “La libertà degli anarchici è semplicemente una riduzione del controllo”. In questo caso cadremmo nell’equivoco: “Ma dove si deve fermare questa riduzione del controllo? Forse ad un controllo minimo?”. Ad esempio, lo Stato diventerebbe legittimo in quanto Stato, per noi anarchici, se invece di essere lo Stato oppressore di oggi fosse, poniamo, l’ideale Stato minimo dei liberali? No di certo. Quindi non è questo il ragionamento da fare. Non è quindi costituito da una limitazione del controllo quello che possiamo cercare di ottenere e di raggiungere, ma da un’abolizione del controllo. Noi non siamo per una maggiore libertà, una maggiore libertà si dà allo schiavo quando gli si allunga la catena, noi siamo per l’abolizione della catena, quindi siamo per la libertà, non per una maggiore libertà. E la libertà vuol dire assenza della catena, vuol dire assenza dei limiti con tutto quello che da questa affermazione viene fuori.
La libertà è concetto non soltanto difficile e sconosciuto, ma è un concetto doloroso, ed invece ci viene spacciato come concetto bellissimo, dolce, riposante, come un sogno che è talmente lontano da farci stare bene come tutte le cose che in quanto lontane costituiscono una speranza, una fede, una credenza. In altre parole, quell’intoccabile che risolve i problemi di oggi non perché in effetti li risolve ma perché semplicemente li copre, li appanna, li modifica, impedendo così una chiara visione di tutti i guai che abbiamo oggi. Va bene, un giorno saremo liberi, va bene, siamo nei guai, ma all’interno di questi guai c’è una forza sotterranea, un ordine involontario che non dipende da nessuno di noi, che lavora al nostro posto, che poco a poco farà modificare le condizioni di sofferenza in cui viviamo e ci porterà una dimensione libera in cui vivremo tutti felici. No, la libertà non è questa cosa, questo è un imbroglio, questo è un imbroglio che somiglia molto, e tragicamente, alla vecchia idea di Dio, l’idea di Dio che ci aiutava tante volte, ed aiuta anche oggi tante persone nella sofferenza, perché queste si dicono: “Va bene, oggi soffriamo, però nell’altro mondo staremo meglio”, anzi come dice il Vangelo gli ultimi saranno i primi, conseguentemente questo capovolgimento rincuora gli ultimi di oggi perché saranno i primi di domani.
Se noi spacciassimo per reale un concetto di libertà di questo tipo, culleremmo le sofferenze di oggi, metteremmo una piccola medicazione sulle piaghe sociali di oggi, esattamente allo stesso modo in cui il prete con la sua predica, con il suo ragionamento, mette una piccola medicazione sulle piaghe dei poveri che lo stanno ad ascoltare, che si illudono che il regno di Dio li solleverà dalle sofferenze. È chiaro che gli anarchici non possono fare lo stesso ragionamento, la libertà è un concetto distruttivo, la libertà è un concetto che comprende l’assoluta eliminazione di qualunque limite. Ora, la libertà è un’ipotesi che deve restare dentro il nostro cuore, ma nello stesso tempo deve farci capire che se noi vogliamo la libertà dobbiamo essere pronti ad affrontare tutti i rischi della distruzione, tutti i rischi della distruzione dell’ordine costituito in cui viviamo. La libertà non è un concetto che può cullarci in attesa che si sviluppino miglioramenti a prescindere dalla nostra reale capacità di intervento.
Per renderci conto di concetti di questo tipo, per renderci conto dei rischi che si corrono nel maneggiare concetti pericolosi di questo tipo, dobbiamo essere in grado di costruire dentro di noi delle idee, di avere delle idee.
Anche su questo punto ci sono equivoci considerevoli. È in circolazione l’uso di considerare come idea qualunque concetto che abbiamo in mente. Uno dice: “mi è venuta un’idea”, e in questo modo cerca di identificare che cos’è un’idea. Questa è l’ipotesi cartesiana dell’idea che si contrapponeva a quella platonica dell’idea come punto di riferimento astratto, lontano, ecc. Però non è questo il concetto a cui ci riferiamo noi quando parliamo di idea. L’idea è un punto di riferimento, è un elemento di forza che trasforma la vita, è un concetto che è stato caricato di valore, è un concetto di valore che diventa concetto di forza, qualcosa che è capace di sviluppare in maniera differente il nostro rapporto con gli altri, tutto questo è l’idea. Ma, in effetti, la fonte attraverso cui ci pervengono gli elementi perché noi possiamo elaborare idee di questo tipo, qual è? La scuola, l’accademia, l’università, i giornali, i libri, i professori, i tecnici e così via, la televisione. Ma attraverso questi strumenti di informazione e di elaborazione culturale che cosa ci arriva? Ci arriva un cumulo più o meno considerevole di informazioni, il quale piove su di noi a cascata, ribolle come dentro una pentola, dentro di noi, e ci fa produrre delle opinioni. Noi non abbiamo idee, abbiamo opinioni.
Ecco la tragica conclusione. Ma l’opinione che cos’è? È un’idea appiattita che è stata uniformata per adeguarla a grossi quantitativi di persone. Le idee di massa o le idee massificate sono opinioni. Il mantenere queste opinioni è importante per il potere perché è attraverso l’opinione, la gestione dell’opinione, che si ottengono determinati risultati, non ultimo, ad esempio, il meccanismo della propaganda attraverso i grandi mezzi d’informazione, la realizzazione dei procedimenti elettorali, ecc. La formazione delle nuove élite di potere non avviene attraverso le idee, ma avviene attraverso le opinioni.
Contrapporsi alla formazione dell’opinione cosa vuol dire? Vuol dire forse acquisire un maggiore numero di informazioni? Cioè, contrapporsi all’informazione con una controinformazione? No, ciò non è possibile perché in qualunque maniera si rigira il problema non possiamo avere la capacità di mettere contro il grandissimo numero di informazioni da cui siamo bombardati quotidianamente, la nostra controinformazione in grado di “svelare”, attraverso un processo di dietrologia, la realtà che è stata “sostituita” da quella chiacchiera informativa. Non possiamo operare in questo senso. Quando facciamo questo lavoro, in brevissimo tempo vediamo che è inutile, non riusciamo a convincere le persone.
Ecco perché gli anarchici hanno affrontato criticamente il problema della propaganda. Sì, certamente, come vedete qui c’è un tavolinetto ben fornito, come succede dappertutto quando si fanno iniziative e conferenze di questo tipo. Ci sono sempre i nostri opuscoletti, ci stanno sempre i nostri libri. Siamo stracarichi di giornali e siamo bravissimi a fare quel tipo di pubblicistica. Ma non è solo quello il lavoro che dobbiamo fare e quando quel lavoro facciamo, esso non deve contenere elementi di controinformazione, o se li contiene si tratta di fatti accidentali. Quel lavoro è diretto essenzialmente, o dovrebbe essere diretto, a costruire un’idea o poche idee portanti, poche idee forza.
Facciamo un solo esempio. Negli ultimi tre o quattro anni si è sviluppata la vicenda che i giornali, con una parola orrenda, chiamano di “tangentopoli” o di mani pulite, e così via. Ora, tutta questa operazione che cosa ha costruito nelle persone? Ha costruito l’opinione che la magistratura è capace di aggiustare le cose, di fare condannare i politici, di cambiare le condizioni, quindi di portarci dalle vecchie concezioni tipiche della prima Repubblica italiana a quelle nuove della seconda Repubblica italiana. È chiaro che questo processo, questa opinione, è molto utile, ad esempio ha permesso la crescita di una “nuova” élite di potere, che ha sostituito quella precedente. Nuova per modo di dire, nuova fino a un certo punto, comunque con certe caratteristiche di novità e con tristi ripresentazioni di vecchie abitudini e di vecchi personaggi. In questo modo funziona l’opinione.
Ora, se voi pensate a paragonare questo processo di formazione di un’opinione che ha dato utili considerevoli solo per loro, alla costruzione di un’idea forza quale potrebbe essere un’analisi approfondita del concetto di giustizia. La differenza è abissale. Ma che cosa è giusto? Ad esempio, è stato giusto, certamente, per molti e lo abbiamo considerato giusto anche noi che Craxi sia stato costretto a rinchiudersi nella sua villa tunisina. La cosa è stata simpatica, ci ha fatto anche ridere, ci ha fatto anche stare bene, perché quando i maiali di questo livello finiscono per essere messi da parte è una cosa simpatica. Ma è questa la vera giustizia? Ad esempio, Andreotti si trova in difficoltà, pare che si sia baciato sulle guance con Riina. Notizie di questo tipo di certo ci ispirano simpatia, ci fanno stare meglio, perché un porco come Andreotti non c’è dubbio che dava fastidio anche a livello fisico, semplicemente a guardarlo in televisione. Però è questo il concetto di giustizia? Guardate che a livello di Di Pietro e di Borrelli c’è un tifo da stadio. Che vuol dire un tifo da stadio? Vuol dire che milioni di persone sono state coinvolte nel processo di uniformazione dell’opinione.
Mentre il concetto di giustizia su cui noi dovremmo cercare di riflettere è differente. Il concetto di giustizia a cosa ci dovrebbe portare? Ci dovrebbe portare ad ammettere che se è responsabile Craxi (o Andreotti), allo stesso titolo come lui, sono responsabili gente come Borrelli e come Di Pietro. Perché se il primo era un uomo politico gli altri sono magistrati. Concetto di giustizia significa fissare una linea di demarcazione tra chi è sostegno e alibi e forza del potere e chi a questo si contrappone. Se il potere è ingiusto in quanto la sua stessa esistenza lo rende ingiusto, se tutti i tentativi alcuni dei quali abbiamo visto prima si rivelano degli imbrogli per giustificare se stessi, qualunque uomo del potere, più o meno democratico, qualunque cosa faccia sta sempre dall’altra parte della giustizia.
La costruzione di un concetto di giustizia di questo tipo è evidentemente la formazione di un’idea, di un’idea che non si trova sui giornali, di un’idea che non viene approfondita nelle aule delle scuole o nelle aule universitarie, che non può costituire elemento di opinione, che non può portare la gente a votare. Anzi, questa idea porta la gente ad essere in contrapposizione con se stessa. Perché davanti al tribunale di se stesso ognuno si chiede: “Ma io, davanti all’idea di giustizia, quando mi sembra bello quello che fa Di Pietro, in che modo mi pongo, anch’io mi faccio mettere nel sacco, anch’io sono uno strumento di opinione, anch’io sono il terminale di un enorme processo di formazione del potere e quindi anch’io divento non soltanto schiavo del potere ma complice del potere?”.
Finalmente ci siamo arrivati, siamo arrivati alle nostre responsabilità. Perché se è vero quel concetto da cui siamo partiti che per l’anarchico non c’è differenza tra la teoria e l’azione, nel momento in cui questa idea di giustizia si fa luce in noi, se questa idea illumina sia pure per un attimo il nostro cervello, questa luce non potrà spegnersi mai più, perché ogni momento, qualunque cosa noi penseremo, ci sentiremo colpevoli, ci sentiremo complici, complici di un processo di discriminazione, di repressione, di genocidio, di morte, dal quale processo non potremo mai più considerarci estranei. Come possiamo definirci allora rivoluzionari, anarchici? Come possiamo definirci sostenitori della libertà? Di quale libertà parliamo se abbiamo dato la nostra complicità agli assassini che stanno al potere?
Vedete come è differente e critica la situazione di chi immediatamente riesce, per analisi approfondita della realtà o semplicemente per caso o per disgrazia, a fare penetrare nel proprio cervello un’idea così chiara come l’idea di giustizia. Idee di questo tipo non ce ne sono moltissime. L’idea di libertà, ad esempio, è la stessa cosa. Chi per un attimo pensa che cosa è la libertà, non può accontentarsi di fare qualcosa perché possano aumentare un pochino le libertà della situazione in cui vive. Da quel momento in poi lui si sentirà colpevole e cercherà di fare qualcosa per alleviare il proprio senso di sofferenza. Si sentirà in torto per non avere fatto qualcosa fino a quel momento, e da quel momento entrerà nelle condizioni di una vita diversa.
In fondo, con la formazione dell’opinione cosa vuole lo Stato? Il potere cosa vuole? Sì, certamente, vogliono creare un’opinione media perché poi da questa si possano realizzare certi movimenti tipo delega elettoralistica, formazione delle minoranze di potere e così via. Però non vogliono soltanto questo, vogliono il nostro consenso, vogliono la nostra approvazione, e il consenso viene reperito attraverso determinati strumenti, specialmente di natura culturale. Ad esempio, la scuola è uno dei serbatoi attraverso i quali viene reperito il consenso e si costruisce la futura manodopera di natura intellettuale, e non soltanto intellettuale.
Le trasformazioni produttive del capitalismo di oggi necessitano di un tipo di uomo differente da quello di ieri. Ieri, fino a poco tempo fa, c’era bisogno di un uomo che avesse una sua capacità professionale, un suo orgoglio di questa capacità, una sua qualificazione professionale. Adesso la situazione è abbastanza cambiata. Il mondo del lavoro chiede una qualificazione media, anzi piuttosto bassa, e chiede qualità che una volta non solo non erano presenti ma neanche pensabili, ad esempio la flessibilità, l’adattabilità, la tolleranza, la capacità di intervenire a livello assembleare.
Mentre una volta, per fare un esempio specifico, la produzione di grandi aziende era basata sulla realizzazione delle grandi linee di produzione basate sulle catene di montaggio, adesso si hanno strutture differenti o robotizzate, o costruite sulla base delle isole, di piccoli gruppi che lavorano insieme, che si conoscono, che si controllano a vicenda e così via. Questo tipo di mentalità non è soltanto la mentalità della fabbrica, non è soltanto “l’operaio nuovo” che stanno costruendo, ma è “l’uomo nuovo”: un uomo flessibile, con idee medie, piuttosto opaco nei suoi desideri, con una riduzione fortissima di livello culturale, con un linguaggio impoverito, con letture standardizzate che sono soltanto quelle, sempre quelle, una capacità di ragionamento circoscritta contrapposta a una capacità elevatissima di sapere decidere in tempi brevi tra il sì e il no di una alternativa, di sapere scegliere tra due possibilità, un bottone giallo un bottone rosso, un bottone nero, un bottone bianco. Ecco, questo tipo di mentalità stanno costruendo. E dove lo stanno costruendo? Lo stanno costruendo nella scuola, ma lo costruiscono anche nella vita di tutti i giorni.
Che se ne faranno di un uomo del genere? Gli servirà per potere realizzare tutte le modifiche che sono importanti per la ristrutturazione del capitale. Gli servirà per potere gestire meglio le condizioni e i rapporti di domani. Come saranno questi rapporti? Essi saranno basati su modificazioni sempre più veloci, sull’appello alla soddisfazione di desideri assolutamente inesistenti ma pilotati e voluti in una maniera determinata all’interno di piccoli gruppi via via sempre più consistenti. Questo tipo di uomo nuovo è esattamente il contrario di quello che noi possiamo desiderare e pensare, il contrario della qualità, il contrario della creatività, il contrario del desiderio reale, della gioia di vivere, il contrario di tutto questo. Come possiamo combattere contro la realizzazione di quest’uomo tecnologico? Come possiamo lottare contro questa situazione? Possiamo aspettare che arrivi un giorno, un bel giorno, per mettere il mondo a soqquadro, quello che gli anarchici del secolo scorso chiamavano “la grande soirée”, la grande serata o il gran giorno – “le grand jour” –, in cui forze imprevedibili finiranno per prendere il sopravvento ed esplodere in quel conflitto sociale che tutti aspettiamo e che si chiama rivoluzione per cui tutto cambierà e sarà il mondo della perfezione e della gioia?
Questa è un’ipotesi millenarista. Adesso che si avvicina la fine del millennio potrebbe anche riprendere piede. Ma le condizioni sono differenti, non è questa la realtà, non è questa attesa che ci può interessare. Ci interessa invece un altro intervento, un intervento molto più piccolo, più modesto ma capace di fare qualcosa. Noi, in quanto anarchici, siamo chiamati a fare qualche cosa, siamo chiamati dalle nostre responsabilità e da quello che dicevamo prima. Nel momento in cui quell’idea si accende nella nostra mente, non l’idea dell’anarchia, ma l’idea della giustizia, della libertà, quando queste idee si accendono nella nostra mente e quando attraverso queste idee riusciamo a capire come l’imbroglio che ci sta davanti, che potremo definire, oggi come non mai, un imbroglio democratico, che cosa facciamo? Ci dobbiamo dare da fare e questo dare da fare significa anche organizzarsi, significa creare quelle condizioni di rapportazione e di riferimento tra di noi anarchici che devono essere diverse da quelle che erano le condizioni di ieri.
Oggi la realtà è cambiata. Come dicevamo prima, stanno costruendo un uomo differente, un uomo dequalificato e lo stanno costruendo perché hanno bisogno di creare una società dequalificata. Ma, dequalificando l’uomo, hanno tolto dal centro della concezione della società politica di ieri quella che era la figura del lavoratore. Il lavoratore ieri sopportava il peso peggiore dello sfruttamento. Per questo motivo si pensava che dovesse essere lui, come figura sociale, a dare inizio alla rivoluzione. Basta pensare all’analisi marxista. In fondo, tutto Il capitale di Marx è dedicato alla “liberazione” del lavoratore. Quando Marx parla dell’uomo, vuole intendere il lavoratore, quando sviluppa la sua analisi sul valore, parla di tempi di lavoro, quando sviluppa la sua analisi sull’alienazione, parla del lavoro. Non c’è una cosa che non riguardi il lavoro. Ma ciò perché nell’analisi marxista, ai tempi in cui veniva sviluppata, il lavoratore restava centrale, la classe lavoratrice effettivamente si poteva ipotizzare come centro della struttura sociale.
Sebbene con analisi diverse, anche gli anarchici si sono avvicinati a una considerazione abbastanza simile per quel che riguardava la posizione del lavoratore come centro del mondo sociale, la classe lavoratrice come centro. Pensiamo all’analisi anarcosindacalista. Per gli anarcosindacalisti si trattava soltanto di portare alle estreme conseguenze il concetto della lotta sindacale, svincolarlo dalla più ristretta dimensione della rivendicazione sindacale, per poterlo sviluppare fino alla realizzazione, attraverso lo sciopero generale, del fatto rivoluzionario. Quindi la società di domani, la società liberata o anarchica, secondo gli anarcosindacalisti, non era altro che la società di oggi libera dal potere, con le stesse strutture produttive di oggi, però non più nelle mani del capitalista ma nelle mani della collettività che le amministrava collettivamente.
Questo concetto oggi non è assolutamente praticabile per diversi motivi. Prima di tutto, perché le trasformazioni tecnologiche che sono state realizzate non consentono un passaggio semplice e lineare dalla società precedente, attuale, in cui viviamo, a una società futura in cui desidereremmo vivere. Questo passaggio diretto è impossibile per un motivo molto semplice, ad esempio la tecnologia telematica non potrebbe essere utilizzata in una forma liberata, in una forma liberatoria. La tecnologia e le implicazioni telematiche non si sono limitate soltanto a realizzare determinate modificazioni all’interno di certi strumenti, ma hanno trasformato anche le altre tecnologie. Poniamo, la fabbrica non è la struttura della fabbrica di ieri con in più l’aggiunta del mezzo telematico, ma è la fabbrica telematizzata, che è completamente un’altra cosa. Teniamo conto che di tutti questi concetti naturalmente possiamo parlare in modo molto generale perché richiederebbero parecchio tempo per essere approfonditi meglio. Pertanto l’impossibilità di utilizzare questo patrimonio, e quindi questo passaggio, cammina parallelamente alla fine del mito della centralità della classe operaia.
Adesso, in una situazione in cui la classe operaia si è praticamente polverizzata, non esiste la possibilità dell’utilizzo dei cosiddetti mezzi di produzione che si dovrebbero espropriare. E allora, qual è la conclusione? Non resta altra conclusione possibile che questa massa di mezzi di produzione che abbiamo davanti deve essere distrutta. Abbiamo solo la possibilità di passare attraverso una drammatica realtà di distruzione. La rivoluzione che possiamo ipotizzare, e della quale per altro non siamo certi, non è la rivoluzione di ieri che si immaginava un semplice fatto, che poteva addirittura accadere soltanto in un giorno o in una bella serata, ma una lunga, tragica, sanguinosissima vicenda, che potrà passare attraverso processi inimmaginabilmente violenti, inimmaginabilmente tragici.
Ed è verso questo tipo di realtà che ci avviamo. Non perché questo sia il nostro desiderio, non perché ci piace la violenza, il sangue, la distruzione o la guerra civile, le morti, gli stupri, la barbarie, non è questo, ma perché è l’unica strada plausibile, è l’unica strada che le trasformazioni volute da chi ci domina e da chi ci comanda hanno reso necessaria. Si sono indirizzati loro verso questa strada. Non possiamo, adesso, con un semplice volo del nostro desiderio, una semplice immaginazione, cambiare qualcosa. Allora, se nell’ipotesi passata, in cui esisteva ancora una forte classe operaia, ci si poteva illudere di quel passaggio, ci si organizzava di conseguenza. Ad esempio, le ipotesi organizzative dell’anarcosindacalismo prevedevano un forte movimento sindacale che, penetrato all’interno della classe operaia ed organizzatone la sua quasi totalità, realizzasse questo esproprio e questo passaggio. Non essendoci più questo soggetto collettivo che probabilmente è stato mitico fino dal suo nascere, e che adesso comunque non esiste nemmanco nella sua stessa trascorsa visione mitica, che senso avrebbe un movimento sindacale di natura rivoluzionaria? Che senso avrebbe, e che senso ha, un movimento sindacale anarcosindacalista? Nessun senso.
Quindi la lotta deve partire da altri posti, deve partire con altre idee e deve partire con altri metodi. Ecco perché noi abbiamo sviluppato da circa quindici anni una critica del sindacalismo e dell’anarcosindacalismo, ecco perché noi siamo e ci definiamo anarchici insurrezionalisti. Non perché pensiamo che la soluzione siano le barricate. Le barricate casomai possono essere una tragica conseguenza di scelte che non sono le nostre, ma siamo insurrezionalisti perché pensiamo che l’azione dell’anarchismo debba necessariamente affrontare problemi gravissimi che non sono voluti dall’anarchismo ma che sono imposti dalla realtà che i dominatori hanno costruito, e che non possiamo cancellare con un semplice volo del nostro desiderio.
Un’organizzazione anarchica che si proietta verso il futuro dovrebbe quindi essere più snella. Non può presentarsi con le caratteristiche pesanti, quantitativamente pesanti, delle strutture del passato. Non può porsi attraverso una dimensione di sintesi, come ad esempio l’organizzazione del passato in cui la struttura organizzativa anarchica pretendeva di riassumere la realtà al proprio interno attraverso determinate “commissioni” che trattavano i vari problemi, commissioni che poi prendevano le proprie decisioni all’interno di un congresso periodico annuale il quale si pronunciava sulla base di tesi che magari risalivano al secolo scorso. Tutto questo ha fatto il suo tempo, non perché è passato un secolo da quando è stato pensato, ma perché la realtà è cambiata.
Ecco perché noi sosteniamo la necessità della formazione di piccoli gruppi basati sul concetto di affinità, gruppi anche minuscoli i quali sono costituiti da pochi compagni che si conoscono, che approfondiscono questa conoscenza, perché non ci può essere affinità se non ci si conosce. Ci si può riconoscere affini soltanto appunto approfondendo gli elementi che determinano le differenze, frequentandosi. Questa conoscenza è un fatto personale, ma è anche un fatto di idee, di dibattiti, di discussioni. Ma, in forza del primo discorso che abbiamo fatto questa sera, se vi ricordate, non c’è approfondimento di idee che non sia anche pratica di cose da fare insieme, di azioni, di realizzazioni di fatti. Quindi, tra l’approfondimento delle idee e la realizzazione dei fatti c’è un continuo travaso reciproco.
Un piccolo gruppo costituito da compagni che si conoscono e che si identificano attraverso un’affinità, un piccolo gruppo che si riunisse soltanto per fare quattro chiacchiere la sera sarebbe un gruppo non di affinità ma un gruppo di simpatici sodali che riunendosi la sera possono parlare di qualunque cosa. Viceversa un gruppo che si riunisce per discutere, ma che discutendo si mette insieme per agire e che agendo contribuisce a sviluppare la discussione la quale portata avanti si trasforma in altre occasioni di agire, questo è il meccanismo dei gruppi di affinità. Quale può essere poi il modo in cui i gruppi di affinità possono entrare in contatto con altri gruppi di affinità nei riguardi dei quali non è necessaria la conoscenza approfondita che è invece indispensabile all’interno del singolo gruppo? Questo contatto può essere assicurato dall’organizzazione informale.
Ma che cosa è un’organizzazione informale? Fra i diversi gruppi d’affinità che entrano in contatto fra di loro, per scambiarsi idee e fare delle cose assieme, ci può essere un rapporto di natura informale e quindi la costruzione di un’organizzazione, anche amplissima a livello territoriale, anche di decine, e perché no? di centinaia di organizzazioni, di strutture, di gruppi, i quali hanno una caratteristica informale che è sempre quella appunto della discussione, del periodico approfondimento di problemi, delle azioni da realizzare e così via. Questa struttura organizzativa dell’anarchismo insurrezionale è differente dall’organizzazione di cui avevamo discusso prima a proposito delle forme dell’anarcosindacalismo.
Ma questa analisi delle forme organizzative, detta qui in poche parole, meriterebbe un approfondimento, cosa che non posso fare nell’àmbito di una conferenza. Una organizzazione del genere, infatti, resterebbe a mio avviso soltanto un fatto interno al movimento se non si realizzasse anche in rapporti con l’esterno, cioè attraverso la costruzione di gruppi di riferimento esterni, di nuclei esterni basati anch’essi su di una caratteristica informale. Non è necessario che questi gruppi di base siano costituiti soltanto da anarchici: al loro interno potrà partecipare la gente che intende lottare per raggiungere determinati obiettivi, sia pure circoscritti, purché basati su alcune condizioni essenziali. Prima di tutto la “conflittualità permanente”, vale a dire gruppi che hanno la caratteristica di attaccare la realtà in cui si trovano, non soltanto di aspettare l’ordine di qualcuno. Poi la caratteristica di essere “autonomi”, cioè di non dipendere e di non avere rapporti con partiti politici o con organizzazioni sindacali. Infine la caratteristica di affrontare i problemi singolarmente e di non proporre piattaforme sindacali generiche che inevitabilmente si tradurrebbero nella gestione di un mini-partito o di un piccolo sindacato alternativo. Il riassunto di queste tesi può sembrare piuttosto astratto ed è per questo che prima di chiudere voglio fare un solo esempio perché nella pratica alcune di queste cose si capiscono meglio.
Nel tentativo che è stato fatto, nei primi anni Ottanta, per cercare di impedire la costruzione della base missilistica americana a Comiso è stato applicato un modello teorico di questo tipo. I gruppi anarchici che sono intervenuti per due anni hanno costruito le “Leghe autogestite”. Queste leghe autogestite erano appunto gruppi non anarchici che operavano nel territorio e che avevano come unico scopo quello di impedire la costruzione della base distruggendo il progetto in corso di realizzazione.
Le leghe erano quindi nuclei autonomi con le seguenti caratteristiche: avevano come unico scopo quello di attaccare e distruggere la base. Quindi non avevano una serie di problemi, perché se si fossero posti una serie di problemi sarebbero diventate dei gruppi di sindacalisti aventi lo scopo, poniamo, della difesa del posto di lavoro, o di trovare un lavoro, oppure di risolvere altri problemi immediati. Invece, avevano come scopo soltanto quello di distruggere la base. La seconda caratteristica era la conflittualità permanente, cioè dal primo momento in cui questi gruppi vennero costituiti (non erano gruppi anarchici, ma gruppi di persone all’interno dei quali c’erano anche degli anarchici), dal primo momento in cui vennero costituiti, dicevo, questi gruppi entrarono in conflitto con tutte le forze che volevano costruire la base, senza che questa conflittualità fosse determinata o dichiarata da organismi rappresentativi o responsabili dei gruppi stessi. E la terza caratteristica era l’autonomia di questi gruppi, vale a dire che essi non dipendevano né da partiti, né da sindacati e così via. Le vicende della lotta contro la costruzione della base in parte sono conosciute in parte no. E qua non so se sia il caso di riprendere la loro storia, volevo soltanto riferirmi ad esse a titolo di esempio.
Quindi l’anarchismo insurrezionalista deve superare un problema essenziale, per essere tale deve superare un limite, se no resta soltanto l’ipotesi di un anarchismo insurrezionalista. Cioè, i compagni che fanno parte dei gruppi di affinità e che quindi hanno operato quello che dicevamo prima, quell’insurrezione di natura personale, quella illuminazione che dentro di noi produce le conseguenze di un’idea forza che si contrappone alla chiacchiera delle opinioni, ecco, questi compagni, entrando in relazione con altri compagni, anche di altri posti, attraverso una struttura di tipo informale, fino a questo punto hanno realizzato soltanto una parte del loro lavoro. Ad un certo punto devono decidersi, devono superare questa linea di demarcazione, devono fare un passo da cui poi non è facile tornare indietro. Devono entrare in rapporto con persone che anarchiche non sono, in funzione di un problema che è intermedio, che è circoscritto (la distruzione della base di Comiso, per quanto fantastica quest’idea potesse essere, o interessante, o simpatica non era di certo l’anarchia, non era di certo la realizzazione dell’anarchia). Cosa sarebbe successo se si fosse realmente riusciti ad entrare dentro la base ed a distruggerla? Io non lo so. Probabilmente nulla, probabilmente tutto. Non lo so, non si può sapere, nessuno può saperlo. Ma la bellezza della realizzazione di quel fatto distruttivo, non si trova nelle sue possibili conseguenze.
Gli anarchici non garantiscono nulla delle azioni che realizzano, ma identificano le responsabilità di persone e le responsabilità di strutture e quindi, in base ad una decisione, si determinano all’azione, e da questo momento in poi si sentono sicuri di sé, perché quell’idea di giustizia che agisce dentro di loro illumina l’azione, fa vedere le responsabilità di una persona, di più persone, di una struttura, di più strutture e quindi le conseguenze di queste responsabilità. Qui si colloca la determinazione ad agire degli anarchici.
Però, una volta che agiscono insieme ad altre persone, devono anche cercare di costruire organismi sul territorio, organismi, cioè, che hanno la capacità di restare in piedi, di causare delle conseguenze nella lotta contro il potere. Non dobbiamo dimenticare infatti, ed è importante questa riflessione, che il potere si realizza nello spazio, cioè il potere non è un’idea astratta. Il controllo non sarebbe possibile se non ci fossero le caserme di polizia, se non ci fossero le carceri. Il potere legislativo non sarebbe possibile se non ci fosse il Parlamento, se non ci fossero i parlamentini regionali. Il potere culturale che ci opprime, che costruisce l’opinione, non sarebbe possibile se non ci fossero le scuole e le università.
Ora, le scuole, le università, le caserme, le carceri, le industrie, le fabbriche sono luoghi che si realizzano nel territorio, sono zone circoscritte all’interno delle quali noi possiamo muoverci soltanto se accettiamo determinate condizioni, ovvero se accettiamo il gioco delle parti. Noi siamo qui dentro perché abbiamo accettato il gioco delle parti, altrimenti non saremmo potuti entrare. Questo è interessante. Possiamo utilizzare anche strutture di questo tipo, ma nel momento dell’attacco questi luoghi ci sono proibiti. Se fossimo entrati qui dentro con l’intenzione dell’attacco, la polizia ce l’avrebbe impedito, mi pare chiaro.
Ora, siccome il potere si realizza nello spazio, il rapporto dell’anarchico con lo spazio è importante. Certamente l’insurrezione è un fatto individuale e quindi, in quel sito nascosto di noi stessi, la sera quando ci stiamo addormentando, pensiamo: “Va bene, in fin dei conti le cose tanto male non vanno”, perché uno si sente in pace con se stesso e si addormenta. Ecco, in questo luogo particolare che è privo di spazio, ci muoviamo come vogliamo. Ma, poi, dobbiamo pure trasferire noi stessi nello spazio della realtà e lo spazio, se voi ci pensate bene, è quasi esclusivamente sotto la tutela del potere. Quindi, movendoci nello spazio, portiamo con noi questi valori d’insurrezione, questi valori rivoluzionari, questi valori anarchici e li misuriamo in uno scontro in cui non siamo soli.
Dobbiamo individuare pertanto quelli che sono gli obiettivi significativi e se questi ci sono, e guarda caso questi obiettivi ci sono sempre e dappertutto, contribuire a creare quelle condizioni perché la gente, gli sfruttati, sulla pelle dei quali quegli obiettivi si stanno realizzando, facciano qualcosa per impedirli.
Questo processo rivoluzionario, secondo me, è di natura insurrezionale. Non ha uno scopo (questo è importante) di natura quantitativa, perché la distruzione dell’obiettivo o il dettaglio del progetto non possono essere esauriti in termini quantitativi. Capita che mi si venga a dire: “Ma quante lotte abbiamo fatto negli ultimi vent’anni, trent’anni”, e in quante occasioni ho fatto questo discorso anche io stesso e quante volte mi sono sentito dire: “Ma quale risultato abbiamo ottenuto?”. Anche quando qualcosa è stato realizzato, la gente dopo nemmeno si ricorda degli anarchici. “Gli anarchici? Ma chi sono questi anarchici, i monarchici? Forse quelli del re?”. Le persone non si ricordano bene. Ma che importanza ha? Non è di noi che si devono ricordare, ma si devono ricordare della loro lotta perché la lotta è la loro. Noi siamo un’occasione nella lotta. Noi siamo un di più.
Nella società liberata, nell’anarchia ormai conclusa, quindi in una dimensione del tutto ideale, gli anarchici, che invece sono indispensabili nella lotta sociale a tutti i livelli, avrebbero soltanto il ruolo di spingere sempre più oltre le lotte, eliminando anche le più piccole tracce del potere e perfezionando sempre di più la tensione verso l’anarchia. Gli anarchici sono quelli che abitano un pianeta scomodo in ogni caso, perché quando la lotta va bene ci si dimentica di loro, quando la lotta va male li si accusa di essere responsabili, di avere fatto la lotta in un modo cattivo, di averla portata a cattive conclusioni. Nessuna illusione allora in merito a possibili risultati quantitativi: se la lotta che viene realizzata da un punto di vista insurrezionale è corretta, va bene, e i risultati, se ci sono, possono essere utili per la gente che l’ha realizzata, non certamente per gli anarchici. Non bisogna cascare nell’equivoco, in cui purtroppo molti compagni sono cascati, di pensare che il risultato positivo della lotta possa tradursi in una crescita dei nostri gruppi, perché questo non è vero, perché questo sistematicamente si traduce in una disillusione. La crescita dei nostri gruppi, e la crescita dei compagni da un punto di vista numerico, sono cose importanti ma non possono avvenire attraverso i risultati ottenuti, quanto piuttosto attraverso la costruzione, la formazione di quelle idee forza, di quei chiarimenti di cui parlavamo prima. I risultati positivi delle lotte e la crescita anche numerica dei nostri gruppi sono due cose che non possono essere legate da un processo di causa ed effetto. Possono essere in connessione tra loro, possono non esserlo.
Vorrei dire due parole ancora prima di concludere. Ho parlato di che cosa è l’anarchismo, di quali sono gli equivoci che ci vengono messi continuamente davanti, dei modi in cui si sta trasformando la struttura di potere che chiamiamo capitalismo moderno, capitalismo post-industriale, di alcune strutture di lotta degli anarchici che oggi non sono più accettabili, del modo in cui oggi ci si può contrapporre a quelle che sono le realtà di potere, e infine ho parlato delle differenze tra l’anarchismo tradizionale e l’anarchismo di oggi.
Vi ringrazio.
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