Titolo: Nuove svolte del capitalismo
Data: 2009
Note: Prima edizione: aprile 1999
Seconda edizione: settembre 2009
La conferenza tenuta a Tessalonica, unitamente al dibattito relativo, sono stati pubblicati in greco: Δυο παρεμβασεις στη Θεσσαλονίκη, Αθηνα 1995.
Opuscoli provvisori n. 21
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Introduzione alla seconda edizione

Oggi, al momento di dare alle stampe la seconda edizione di questo libretto, l’iter giudiziario del cosiddetto “processo Marini” si è definitivamente concluso. Molte le condanne, anche pesantissime, moltissime le assoluzioni. Il teorema dell’accusa – banda armata per tutti denominata ORAI (nome di fantasia inventato dai carabinieri dei ROS) – non è passato.

Chi scrive queste righe, con sentenza definitiva del febbraio 2004, è stato condannato a 6 anni e sta proprio in questi giorni finendo di scontare gli ultimi mesi di pena.

La storia della “montatura Marini” nel suo insieme deve essere ancora scritta, come l’esatto ruolo della pseudo-pentita Mojdeh Namsetchi non è ancora del tutto chiaro.

I giorni in cui si dipanerà il futuro di molti compagni sono lunghi, non bisogna quindi considerare conclusa definitivamente nessuna vicenda. Meno che mai questa, in cui l’infamia di sbirri e manutengoli e la sconsideratezza di diversi imbecilli hanno causato tanti danni che si sarebbero potuti evitare.

Dedico queste pagine a Gigi, con immutato affetto.


Trieste, 3 dicembre 2008

Alfredo Bonanno

Introduzione alla prima edizione

Nel gennaio del 1993, insieme ad un altro compagno, venni invitato in Grecia a tenere alcune conferenze presso il Politecnico di Atene e presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Tessalonica.

Alcuni dei testi qui pubblicati hanno una storia particolare che necessita di alcuni chiarimenti. Il primo testo è lo schema delle conferenze che mi accingevo a fare in Grecia; il secondo la trascrizione della registrazione su nastro della conferenza di Tessalonica; il terzo, la trascrizione di una intervista concessa al quotidiano di Atene “Eleftherotipia”. Il primo di questi testi, pur avendo lo scopo vero e proprio di una guida per le conferenze, fu da me sviluppato in forma molto dettagliata perché, d’accordo con i compagni greci, lo si distribuì ciclostilato in traduzione greca a tutti i presenti, poco prima della conferenza, sia ad Atene che a Tessalonica. Questo si rese necessario a causa delle difficoltà di una traduzione simultanea dall’italiano in greco, lingue considerevolmente diverse come struttura grammaticale.

Successivamente, nel maggio del 1993, lo stesso testo, col titolo suo originale di “Nuove svolte del capitalismo” venne da me pubblicato nel n. 72 della rivista “Anarchismo”.

Questi tre scritti hanno una loro omogeneità che li rende pubblicabili, anche in questa sede, come un tutto omogeneo, trattando della ristrutturazione capitalista e, in maniera più approfondita, delle forme di lotta insurrezionale propugnate dagli anarchici.

Una curiosità. Il penultimo paragrafo del primo testo qui pubblicato continua a portare il titolo: “L’organizzazione rivoluzionaria anarchica insurrezionale”. L’origine di questo sottotitolo, diventato successivamente tanto famoso, è un po’ curiosa e merita di essere ricordata. In effetti, avevo titolato questo paragrafo “L’organizzazione informale anarchica insurrezionale”, ma ci si trovò di fronte a difficoltà nel tradurre in greco il termine “informale”, difficoltà che non fu possibile superare prima del mio arrivo in Grecia e che indusse i compagni, nella preparazione del ciclostilato tradotto in greco, con il mio consenso fornito direttamente al telefono, a sostituire il termine “informale” col termine più generico di “rivoluzionaria”.

Nel pubblicare il testo in Italia dimenticai di ripristinare la parola “informale” che resta comunque più idonea a fare comprendere quello che sta scritto nel paragrafo in questione.

Non mi è parso utile procedere ora alla suddetta correzione tenuto conto delle chiacchiere e delle stupidaggini che sopra vi hanno ricamato gli specialisti della procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, guidati dal Pubblico Ministero Marini.

Credo sia utile passare adesso ad una breve descrizione del modo in cui le teste pensanti della Magistratura italiana e dei carabinieri hanno lavorato sul testo.

Il 17 settembre 1996 decine di anarchici vengono arrestati in Italia, comincia quella che sarà definita la “Montatura Marini”. Accuse specifiche di sequestri di persone, rapine, omicidi, detenzione di armi, ecc. Tutte avvolte in un’accusa di fondo, quella di banda armata, denominata ORAI, sigla tratta da quel mio paragrafo di cui parlavo sopra: Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica Insurrezionale.

Il processo è ancora in corso e, forse, durerà, nel suo intero ordine di gradi di giudizio, ancora per anni. Nel frattempo, invece di essere in galera, siamo stati messi in libertà da una banale questione procedurale: le teste pensanti della Procura di Roma avevano troppo da pensare, nel tentativo di giustificare una fantomatica “banda armata”, per seguire le regole del gioco, per applicare i procedimenti che la legge impone anche a loro. Risultato: pur con accuse da ergastolo, quelli che come me non hanno altre condanne da scontare sono tutti fuori del carcere.

Come il lettore spassionato – lasciamo stare gli anarchici che sanno benissimo cosa pensare – si accorgerà leggendo questi testi, non c’è in essi nessuna teoria organizzativa riguardante una determinata banda armata, ma un approfondimento sui modi organizzativi specificatamente insurrezionali. Questi riguardano la formazione dei gruppi di affinità, costituiti da compagni anarchici, l’elaborazione di un progetto rivoluzionario comune, il loro rapportarsi reciproco in una eventuale organizzazione informale, la costituzione di nuclei di base legati a realtà di massa precise, e infine il modo in cui queste tre strutture si possono raccordare insieme.

Mi rendo conto che per l’ottusa mentalità di un carabiniere, educato a vedere nel nemico la fotocopia in negativo di se stesso e della propria organizzazione, nulla esiste sotto la luce del sole che non sia fornito di organigramma, di capi, di strategie e di conquiste da realizzare. E fin qui posso capire perfino una eventuale lettura tendenziosa, ma quello che non posso capire, e che nessun lettore potrà capire, è la pretesa di affidare a un testo come quello qui pubblicato il compito di reggere un modello di banda armata che ancora continua a fermentare nel cervello della Pubblica Accusa, disposta a tutto pur di provare la nostra colpevolezza.

Disposta a tutto. Esatto, perfino a negare l’evidenza. E difatti, come appare chiaro dalle stesse carte processuali, e perfino nello stesso mandato di cattura, per necessità di cose riassunto ai minimi termini, un dubbio dovette sorgere nelle loro menti ottenebrate dal cieco bisogno di giustificare l’ingiustificabile: “Se Bonanno ha sviluppato in questo testo (“Nuove svolte del capitalismo”) la teoria di una banda armata (ORAI), ed è questo che affermiamo noi, Pubblica Accusa e carabinieri, non può essere poi andato in Grecia a parlare pubblicamente in aule universitarie di questo argomento, sarebbe illogico. E siccome il testo in questione deve per forza significare quello che noi, Pubblica Accusa e carabinieri, vogliamo che significhi, ecco che dobbiamo per forza concludere che Bonanno non è mai andato in Grecia, non ha mai fatto quelle conferenze, non ha mai scritto questo testo come scaletta e promemoria per quello che pubblicamente andava a dire a braccio”.

Sillogismo ineccepibile, solo che nega un fatto plateale, il fatto che a quelle conferenze, sia ad Atene che a Tessalonica, erano presenti centinaia di persone, che esistono le registrazioni, non solo delle conferenze ma dell’intero dibattito, che la conferenza e il dibattito di Tessalonica sono stati trascritti per intero e pubblicati in un libro uscito in Grecia (Duo parembaseiw sth YessalonÛkh, Ayhna 1995), ed infine, che esiste addirittura una prova fotografica, pubblicata il 28 febbraio 1993 dal quotidiano di Atene “Eleftherotipia” insieme alla mia intervista (il terzo degli scritti qui pubblicati).

Ma perché l’accusa vuole per forza leggere in questo testo quello che non c’è? Perché vuole a tutti i costi, anche a rischio del ridicolo, vedervi la teorizzazione di una banda armata specifica, con tanto di nome? La risposta è semplice: perché altrimenti non potrebbe condannare decine di compagni per un reato associativo – che ovviamente non esiste – ma solo per eventuali reati specifici, e solo dopo che questi siano stati singolarmente provati in base al codice penale, ecc.

I titolari dell’accusa sanno bene che questa seconda alternativa è difficile da percorrere, sanno benissimo che alcuni reati specifici si basano soltanto sulle accuse di una ragazzina subornata da loro stessi, ecco perché tanta pertinacia nel volere leggere in questo testo quello che non c’è.

Nessuna ipotesi di organizzazione informale può infatti rassomigliare ad una banda armata. Siamo su due terreni diversi. L’organizzazione chiusa, necessariamente rigida se si vuole parlare di banda armata, può essere uno strumento fra i tanti e, in certe condizioni dello scontro di classe, quando ci si trova con l’acqua alla gola, può anche essere utile come mezzo difensivo e offensivo. Per tornare ancora oggi utile, almeno nell’ambito delle caratteristiche che la storia più o meno recente ci ha fatto vedere, dovrebbe modificarsi profondamente la formazione economica e sociale che abbiamo di fronte, il capitale dovrebbe tornare sui suoi passi, alle condizioni produttive degli anni Ottanta, con una classe operaia forte e centralizzata, con una inamovibile catena di trasmissione costituita da sindacati e partiti della sinistra, tutte cose che ognuno vede bene che non esistono più. Per molti aspetti il modello organizzativo chiuso, che spera soltanto, in modo indiretto, nella generalizzazione dello scontro, non facendo nulla in questa direzione se non esportare i propri interventi attraverso i mezzi d’informazione che si sa come lavorano, questo modello organizzativo oggi corrisponde più o meno alle condizioni ideologiche sommatorie del sindacato e del partito. Se non vogliamo considerare il parallelo col partito, dobbiamo per forza prendere in considerazione il parallelo con una organizzazione che ha come proprio scopo la crescita quantitativa, il dilagare delle proprie azioni e quindi il proprio costituirsi come punta di diamante dello scontro di classe.

Certo, se gli anarchici mettono mano alla costituzione di una organizzazione specifica chiusa, lo fanno con intendimenti diversi da quelli classici, sclerotizzati dal procedere dei marxisti leninisti. E non c’è dubbio che Azione Rivoluzionaria, ai suoi tempi, costituì un tentativo in questo senso, un tentativo che ben presto esaurì la spinta iniziale verso la generalizzazione delle lotte, finendo per chiudersi nel reclutamento massiccio e nell’assommazione con le altre organizzazioni combattenti presenti all’epoca sul fronte delle lotte. Non dico che non ci siano stati, specialmente nei documenti dei primi mesi, alcuni spunti analitici di grande interesse, dico che queste analisi non solo non accettarono un approfondimento critico, ma che nel chiudersi in se stesse e nel difendersi, finirono per annullarsi e per dare spazio alla clandestinizzazione e basta. I migliori compagni, si diceva all’epoca, sono quelli in carcere, non occorreva fare altro che andare in carcere per diventare un compagno migliore.

Il fatto è semplice. Nell’elaborazione di un’analisi non si può prescindere dalla propria situazione personale. Questa, anche senza volerlo, finisce per trapelare in quella. E se uno è in carcere, si vede subito che si tratta di un’analisi che proviene dal carcere. In più, quando un compagno vede che le condizioni della realtà che gli è immediatamente vicina sono radicalmente compromesse, finisce per travalicare al di là delle stesse caratteristiche critiche dell’analisi che sta elaborando, massimalizzando le conclusioni e perfino i mezzi d’intervento e i metodi di cui si fa propugnatore. Rinchiudendosi nell’ottica asfittica di un’organizzazione clandestina anche il modo di ragionare diventa clandestino a se stesso, e questo quasi senza accorgersene.

Una volta si affermava che trovandoci in una fase pre-rivoluzionaria (nessuno però forniva spiegazioni sul perché si era in questa fase) l’unica strada da percorrere era quella dell’organizzazione armata più o meno chiusa (poi si vide nella pratica che qualsiasi tentativo di “diversità” finiva per abortire nella più classica delle chiusure). Oggi a nessuno viene in mente di dire che siamo in una fase pre-rivoluzionaria, per cui se dovessimo accettare l’ipotesi di una organizzazione armata chiusa sarebbe una nostra decisione pura e semplice, un modo come un altro di fare qualcosa, e ciò lo dico a prescindere della strana concomitanza con le palpitanti attese dell’accusa al processo di Roma.

A questo punto potrei ripetere quello che ho scritto molti anni fa, e precisamente in un articolo pubblicato su “Anarchismo” nel 1979, dal titolo “Sull’organizzazione clandestina”, facilmente reperibile da più di un decennio nel mio libro: La rivoluzione illogica (pp. 88-90), ma mi sembra inutile. Se molti non hanno presenti quelle vecchie pagine, non so che farci. Neanche io amo rileggerle, in fondo appartengono ad un’epoca diversa dalla presente. Per quel che posso ricordare mi sembra che vi accennassi al fatto che la critica dell’organizzazione clandestina chiusa non è necessariamente affermazione di semplice individualismo. La critica non è mai indebolimento, ma rafforzamento di qualcosa, però, caso strano, quando a essere criticati sono i compagni che partecipano o si fanno sostenitori, sia pure in astratto, di una forma rigida di organizzazione, ecco che la critica viene considerata come un attacco personale o un indebolimento delle proprie precarie condizioni, e quando sei davanti a compagni che si trovano in carcere, con anni di condanna sulle spalle, corri il rischio di essere linciato. Penso che il concetto di generalizzazione della lotta anche armata non sia una negazione dell’organizzazione, e penso anche che la critica dell’organizzazione clandestina chiusa non costituisce un “esporsi al massacro”. Non mi interessano queste massimalizzazioni.

L’organizzazione informale dei gruppi di affinità e il relativo sviluppo dei nuclei di base, in precise situazioni di lotte di massa, è la forma organizzativa che ritengo più utile, almeno in questo momento storico, per favorire la generalizzazione dello scontro, anche armato.


Catania, 10 ottobre 1998

Alfredo M. Bonanno

Nuove svolte del capitalismo

Sviluppo del capitalismo a livello mondiale

Sul finire degli anni Settanta, e fin dentro i primi anni Ottanta, l’assetto industriale produttivo dei Paesi più avanzati, in grado di guidare e condizionare il capitalismo in tutto il mondo, era in crisi. Il rapporto tra impianti e produttività non era mai stato peggiore. Le lotte sindacali e proletarie in genere, specialmente le manifestazioni più aggressive e violente guidate da varie strutture rivoluzionarie di classe, avevano consolidato un costo della manodopera del tutto sproporzionato ai proventi del capitale. Sembrava che tutto il sistema andasse verso il suo naturale collasso, essendo incapace di riaggiustarsi all’interno come pure non avendo la forza di ricorrere a drastiche riduzioni del costo del lavoro e dell’occupazione.

Ma di già, nella prima metà degli anni Ottanta, le cose andarono velocemente cambiando. La ristrutturazione industriale prese la strada dell’elettronica, i settori produttivi, primario e secondario, cioè agricoltura e industria, si contrassero con forti riduzioni occupazionali, mentre il settore terziario si allargò a dismisura assorbendo una parte della manodopera licenziata e attutendo quindi i contraccolpi sociali che i capitalisti temevano più di ogni altra cosa.

Insomma, non ci furono quelle sommosse e quelle rivoluzioni metropolitane che i padroni temevano, non ci fu una pressione reale e intollerabile dell’esercito proletario di riserva, ma tutto si adagiò morbidamente su di una modificazione produttiva.

Le grandi industrie sostituirono gli impianti fissi con nuovi impianti robotizzati in grado di raggiungere, con modesti investimenti, livelli di flessibilità produttiva prima impensabili. Il costo del lavoro diminuì nel suo rapporto con la produzione, senza con questo causare una riduzione della domanda, perché il settore terziario tenne ottimamente fornendo linee di reddito sufficienti a pompare il sistema capitalista nel suo insieme. La più gran parte dei lavoratori licenziati, se non proprio un’altra occupazione, riuscì a trovare un modo di arrangiarsi fra le pieghe del nuovo modello capitalista: flessibile e permissivo.

La nuova mentalità produttiva e democratica

Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il sorgere di una nuova mentalità, flessibile sul posto del lavoro, con riduzione della qualificazione professionale e aumento della domanda di piccoli lavori complementari l’uno all’altro, e principalmente senza il consolidarsi della mentalità democratica.

Le antiche illusioni gerarchiche, su cui si basavano i sogni di carriera delle classi medie e di miglioramenti salariali del proletariato, scomparvero per sempre. E ciò fu possibile grazie ad un intervento articolato a tutti i livelli. Nella scuola, con l’adozione di programmi d’insegnamento meno rigidi, più assembleari, meno carichi di contenuti, ma più adatti a costruire nei giovani allievi una personalità “morbida” in grado di adattarsi ad un futuro incerto che avrebbe fatto inorridire i loro genitori. Nella gestione politica dei Paesi capitalisti avanzati, dove un autoritarismo spesso formale si sposava con forme periferiche di democratizzazione gestionaria, dove la gente veniva coinvolta non tanto in decisioni serie, ma nelle procedure fittizie del meccanismo elettorale e referendario. Nella produzione, dove, come abbiamo detto, la scomparsa della qualificazione professionale rendeva i produttori addomesticati e flessibili. Nello stesso spirito dei tempi, che vedeva tramontare ogni velleità di certezza filosofica e scientifica, per proporre un modello “debole”, basato però non sulla ricerca del rischio e sulla scelta del coraggio, ma sull’aggiustamento nel breve periodo, sul principio che niente è certo ma tutto si può sistemare.

La mentalità democratica così costruita non contribuì soltanto alla scomparsa del vecchio, e per tanti aspetti superato, autoritarismo, ma anche alla formazione di una condizione passiva di possibili compromessi, a qualsiasi livello. Un degrado morale in cui la dignità dell’oppresso finiva per venire contrattata e svenduta dietro la garanzia di una penosa sopravvivenza. Le lotte si allontanavano e si affievolivano.

Ostacoli alla lotta insurrezionale contro il capitalismo post-industriale e lo Stato

Senza dubbio il primo ostacolo è costituito proprio da questa mentalità flessibile, amorfa, non tanto assistenzialista vecchia maniera, quanto desiderosa soltanto di trovare una nicchia dentro cui sopravvivere, lavorando il meno possibile, accettando tutte le regole del sistema, sprezzando ideali e progetti, sogni e utopie. I laboratori del capitale hanno fatto un ottimo lavoro in questo senso, dalla scuola alla fabbrica, alla cultura e allo sport, tutto collabora e concorda nel costruire individui modesti sotto ogni aspetto, incapaci di soffrire, di trovare il nemico, di sognare, di desiderare, di lottare, di agire.

Poi, condizione correlata con la precedente, il secondo ostacolo è dato dalla marginalizzazione del ruolo produttivo nell’insieme del complesso post-industriale. Lo smembramento della classe dei produttori è ormai una realtà non solo un progetto nebuloso, e questa divisione in tanti piccoli settori, spesso antitetici l’uno all’altro, produce un aggravamento della stessa marginalizzazione.

Ciò produce il superamento veloce di qualsiasi struttura tradizionale di resistenza del proletariato, partiti e sindacati in primo luogo. Questi ultimi anni [1993] hanno fatto vedere il tramonto progressivo del sindacalismo vecchia maniera, compreso quello che conservava velleità rivoluzionarie e autogestionarie, ma più di ogni altra cosa hanno fatto vedere il crollo dei partiti comunisti che pretendevano imporre la costruzione di uno Stato dove il socialismo si realizzava a partire dal controllo poliziesco e dalla repressione ideologizzata.

Di fronte a questi due colossali cedimenti, non si può dire che sia stata individuata una strategia organizzativa in grado di rispondere alle mutate condizioni della realtà produttiva e sociale nel suo complesso.

Le proposte che gli anarchici insurrezionalisti hanno avanzato, specialmente quelle che più coerentemente si indirizzano verso la costituzione di strutture informali basate sull’affinità di individui e gruppi, non sono state ancora comprese nei loro possibili sviluppi pratici, e qualche volta hanno ricevuto un’accoglienza tiepida da parte di non pochi compagni, e ciò è dovuto ad una certa ritrosia, qualche volta comprensibile, ad abbandonare antiche mentalità per applicare nuove concezioni di lotta e nuovi metodi di organizzazione.

Più avanti diremo qualcosa su questo punto che a nostro avviso rimane centrale nella lotta contro le nuove strutture della repressione e del controllo totale prodotte dallo Stato e dal Capitale.

La ristrutturazione tecnologica

La rivoluzione tecnologica contemporanea, fondata essenzialmente sull’impianto informatico generalizzato a tutti i settori della vita, sul laser, sull’atomo e sulla scienza delle particelle subatomiche, sui nuovi materiali che permettono trasporto ed utilizzo di energie prima impensabili, sulle modificazioni genetiche applicate non solo all’agricoltura e agli animali ma anche all’uomo, non si è limitata a cambiare il mondo. Ha fatto di più. Ha prodotto condizioni di imprevedibilità tali che non è possibile fare previsioni o programmi attendibili, non solo da parte di coloro che intendono mantenere lo stato di cose presenti quanto più a lungo possibile, ma anche da parte di coloro che intendono distruggerlo.

Il motivo essenziale è dovuto al fatto che le nuove tecnologie interagendo fra di loro e inserendosi in un contesto tecnologico avente una storia e uno sviluppo vecchi di duemila anni almeno, possono produrre conseguenze inimmaginabili, alcune delle quali distruttive in maniera totale, ben al di là degli effetti pazzescamente pensabili di qualsiasi esplosione atomica.

Da qui la necessità di un progetto distruttivo della tecnologia nel suo insieme, di un progetto di lotta che pensi come prima ed essenziale fase, alla distruzione, che fondi ogni suo approccio programmatico, di natura politica e sociale, sull’indispensabilità di fermare l’attuale processo altrimenti irreversibile della tecnologia.

Ristrutturazione politica, economica e militare

Nella pratica la ristrutturazione tecnologica si realizza attraverso profonde modificazioni nel settore economico. Questi cambiamenti hanno conseguenze sull’assetto politico dei Paesi a capitalismo avanzato, mentre il settore militare subisce ulteriori modificazioni sia a seguito di quanto va accadendo nel settore economico, da cui è inseparabile, sia a seguito di quanto va accadendo nel comando politico e nelle forme di reperimento del consenso.

Le nuove frontiere del capitalismo post-industriale si basano su processi di larga diffusione e su assetti continuamente in movimento. Alle vecchie concezioni statiche della produzione, legate al volano dei grandi impianti, volano capace di mettere in moto il moltiplicatore dei consumi, si va sostituendo l’idea geniale della velocità di cambiamento, della continua e sempre più agguerrita concorrenza nella produzione specializzata, nel dettaglio dotato di stile e di personalità. Il nuovo prodotto post-industriale non ha più bisogno della qualificazione della manodopera, ma viene direttamente impostato sulla linea produttiva attraverso semplici programmazioni dei robot che vi operano. Ciò consente riduzioni incredibili dei costi di immagazzinamento e distribuzione, mentre azzera i costi derivanti dall’obsolescenza dei prodotti invenduti.

Tutto ciò, da possibilità del capitale, venutasi a creare diciamo intorno alla prima metà degli anni Ottanta, è diventato scopo del capitale, precisamente sul finire di questi stessi anni Ottanta. Per cui il rispecchiamento politico dei nuovi assetti economici non poteva permanere lo stesso di prima. Da qui i considerevoli cambiamenti dell’ultimo scorcio del passato decennio e dell’inizio di quello in cui ci troviamo. Questi cambiamenti si orientano verso una preventiva e risoluta selezione degli apparati dirigenziali e di controllo, in grado di provvedere alle nuove necessità produttive, per cui molti aspetti governativi di singoli Paesi industriali avanzati hanno vissuto una stagione di maggiore autoritarismo, come è accaduto nei Paesi simbolo di un certo modo produttivo, gli USA e la Gran Bretagna. Per poi passare a gestioni politiche più articolate e flessibili, in grado di soddisfare sempre meglio le necessità economiche di tutto un insieme di Paesi che adesso va prendendo un assetto coordinato a livello mondiale.

Crollo del socialismo reale, rinascita dei nazionalismi

In una realtà capitalista arretrata non era pensabile un avvicinamento dei Paesi del socialismo reale al di là della linea del cauto e reciproco sospetto. Ma la nascita di un nuovo capitalismo, fondato su una capacità produttiva basata sull’automazione telematica a livello mondiale non solo ha reso possibile questo avvicinamento ma lo ha trasformato in un cambiamento radicale prima, e in un crollo definitivo e irreversibile, quanto indecente, dopo. Regimi fortemente autoritari, fondati sull’equivoco ideologico dell’internazionalismo proletario (o su altri equivoci più o meno apparentemente antitetici), reggono malamente le nuove necessità imposte dalla produzione e dal raccordo economico a livello mondiale. I regimi autoritari che ancora permangono, se non vogliono restare in una precaria e temporanea condizione marginale, devono aprirsi a profondi cambiamenti in senso democratico. Ogni irrigidimento costringe i grandi partner internazionali dello sviluppo industriale a irrigidirsi e a dichiarare guerra, in un modo o nell’altro.

In questo senso è anche profondamente cambiato il ruolo dello strumento repressivo militare. Si è cioè acutizzata la sua funzione repressiva interna, mentre quella esterna si è adeguata al ruolo poliziesco svolto dagli USA, ruolo che dovrebbe continuare ancora per diversi anni, fin quando nuovi crolli potrebbero intervenire e ridisegnare rapidamente nuovi equilibri altrettanto precari e pericolosi di quelli attuali.

In questa prospettiva il rinascere del nazionalismo comporta un elemento positivo, sia pure limitato, e un elemento negativo di considerevole pericolosità. Il primo è subito specificato: consiste nell’abbattimento e nel relativo smembramento dei grandi Stati. Ogni movimento che s’indirizza verso questo obiettivo è sempre da salutare come avvenimento positivo, non come movimento regressivo, anche se all’aspetto esteriore si presenta come portatore di valori tradizionali e astorici. Il secondo elemento, pericoloso al massimo grado, è dato dal rischio di una progressiva diffusione di piccole guerre tra piccoli Strati, guerre dichiarate e combattute con inaudita ferocia, capaci di causare immani sofferenze, in nome di princìpi miserabili e di interessi altrettanto miserevoli. Molte di queste guerre gioveranno ad un migliore assetto produttivo del capitalismo post-industriale, molte di esse saranno pilotate e gestite in proprio da grandi colossi multinazionali, ma in fondo esse rappresentano una malattia transitoria, una gravissima crisi epilettica, dopo la quale le condizioni sociali potrebbero evolversi o verso la costituzione di forti Stati a livello internazionale, in grado di controllare le strutture più piccole, o verso violente trasformazioni, addirittura impensabili, sempre più distruttive di ogni traccia dei vecchi organismi statali. Al momento, possiamo indicare solo per grandi linee una possibile evoluzione, partendo dall’esame delle condizioni presenti.

Possibilità di sviluppo della lotta insurrezionale di massa verso il comunismo anarchico

La fine della funzione difensiva e resistenziale delle grandi organizzazioni sindacali dei lavoratori, corrispondente al crollo del centralismo classico della classe operaia, consente oggi di esaminare in maniera differente una possibile organizzazione di lotta partendo dalle reali possibilità degli esclusi, cioè di quella grande massa di sfruttati, produttori e non produttori, che al momento si trova di già fuori dall’ambito salariale protetto o sta per essere scaraventata fuori.

In effetti, l’anarchismo insurrezionale e rivoluzionario, proponendo un modello di intervento nella realtà delle lotte che si fonda appunto sull’organizzazione di gruppi di affinità e sul coordinamento operativo di questi gruppi allo scopo di creare le migliori condizioni per uno sbocco insurrezionale di massa, incontra subito, anche presso i compagni più interessati, un difficoltà iniziale non facilmente superabile. Molti ritengono che si tratti di un atteggiamento ormai fuori del tempo, valido alla fine del secolo scorso ma oggi decisamente fuori moda. E le cose sarebbero senz’altro così se le condizioni produttive, in particolar modo la struttura della fabbrica, fossero restate le stesse di cento o anche cinquant’anni fa. Con quelle strutture, e con le corrispondenti organizzazioni sindacali di resistenza, il progetto insurrezionale, viste le mutate condizioni complessive politiche e militari a livello internazionale, sarebbe senz’altro perdente. Ma quelle strutture non esistono più. Sono anche scomparse le relative mentalità produttive, il rispetto per il posto di lavoro, il piacere della qualità del lavoro, la possibilità di carriera, il sentimento di appartenenza ad un gruppo produttivo, da cui si mutuavano i sentimenti associativi del gruppo di resistenza sindacale, che all’occorrenza poteva anche diventare gruppo di attacco per lotte più dure, per sabotaggi, attività antifascista e così via.

Ora, queste condizioni sono scomparse. Tutto si è modificato radicalmente. La mentalità di fabbrica non c’è più. Il sindacato è una palestra per affaristi e politici, la resistenza salariale e difensiva in genere è un filtro per garantire passaggi dolci a livelli di costo della manodopera sempre più adatti ai nuovi assetti del capitale. La disgregazione è dilagata fuori della fabbrica, arrivando nel tessuto sociale, spezzando vincoli di solidarietà e di significato nei rapporti umani, trasformando la gente in estranei senza volto, in automi immersi nel brodo invivibile delle grandi città o nel silenzio mortale della provincia. Gli interessi reali vengono sostituiti da immagini virtuali, appositamente create e utilizzate per garantire quel minimo di coesione indispensabile al meccanismo sociale nel suo insieme. Televisione, sport, spettacoli, arte e cultura tessono una rete in cui restano impigliati tutti coloro che stanno in pratica aspettando gli eventi, parcheggiati in attesa della prossima rivolta, del prossimo crollo economico, della prossima guerra civile.

È questa condizione complessiva che bisogna tenere presente quando parliamo di insurrezione. Noi anarchici insurrezionalisti e rivoluzionari ci riferiamo ad una condizione in atto, non a qualcosa che deve ancora arrivare, che speriamo arrivi ma di cui non siamo certi. Neppure ci riferiamo ad un modello lontano nel tempo, che come sognatori cerchiamo di ricostituire ignorando le grandi trasformazioni presenti. Noi viviamo nel nostro tempo, siamo figli di questa fine di millennio, e portatori della radicale trasformazione della società che vediamo sotto i nostri occhi.

Non solo riteniamo possibile una lotta insurrezionale, ma nella totale disgregazione dei vecchi valori resistenziali, pensiamo che questa sia la prospettiva verso cui dobbiamo incamminarci se non vogliamo accettare totalmente le condizioni imposte dal nemico, se non vogliamo diventare schiavi robotizzati, pedine senza significato nel meccanismo telematico che ci ospiterà in un futuro ormai alle porte.

Fasce sempre più consistenti di esclusi si stanno staccando da qualsiasi consenso, quindi da ogni rapporto di accettazione e di speranza in un avvenire migliore. Strati sociali che prima si consideravano stabilmente al di fuori del rischio sociale, sono attualmente coinvolti in una inconsapevole precarietà, dalla quale non possono uscire impiegando i vecchi metodi della dedizione nel lavoro e della morigeratezza nei consumi.

Gli anarchici insurrezionalisti si inseriscono proprio in questo contesto estremamente disgregato, e qui avanzano la loro progettualità rivoluzionaria.

L’organizzazione rivoluzionaria anarchica insurrezionale

Pensiamo che in sostituzione delle federazioni e dei gruppi organizzati in modo tradizionale, modelli giustificati da strutture economiche e sociali della realtà ormai inesistenti e superate, vadano costruiti gruppi di affinità, costituiti da un numero non molto esteso di compagni, legati insieme da una approfondita conoscenza personale, gruppi capaci di collegarsi fra di loro attraverso scadenze periodiche di lotta aventi lo scopo di realizzare azioni precise contro il nemico.

Nel corso di queste azioni si deve poter trovare il modo di discutere e quindi approfondire gli aspetti pratici e teorici delle possibili azioni future da realizzare.

Riguardo gli aspetti pratici ci si metterà d’accordo per le collaborazioni fra gruppi e individualità, trovando i mezzi, la documentazione e tutto quanto necessario al compimento delle azioni stesse. Riguardo le analisi si cercherà di farle circolare il più possibile sia tramite la stampa nostra, sia a mezzo riunioni e dibattiti aventi per oggetto specifici argomenti.

Il punto centrale attorno al quale fare ruotare una struttura organizzativa insurrezionale non è quindi il congresso periodico, tipico delle grandi organizzazioni di sintesi o delle federazioni ufficiali del movimento, ma è dato dall’insieme delle situazioni di lotta che diventano così attacchi contro il nemico di classe e momenti di riflessione ed approfondimento teorico.

I gruppi di affinità possono a loro volta contribuire alla costituzione di nuclei di base. Lo scopo di queste strutture è quello di sostituire, nell’ambito delle lotte intermedie, le vecchie organizzazioni sindacaliste di resistenza, anche quelle che insistono nell’ideologia anarcosindacalista. L’ambito d’azione dei nuclei di base è costituito quindi dalle fabbriche, per quel che di queste rimane, dai quartieri, dalle scuole, dai ghetti sociali e da tutte quelle situazioni in cui si materializza l’esclusione di classe, la separazione tra esclusi e inclusi.

Ogni nucleo di base viene costituito quasi sempre dall’azione propulsiva degli anarchici insurrezionalisti, ma non è formato soltanto da anarchici. Nella sua gestione assembleare gli anarchici devono sviluppare al massimo il loro compito propulsivo contro gli obiettivi del nemico di classe.

Diversi nuclei di base possono costituire coordinamenti col medesimo scopo, dandosi strutture organizzative più specifiche, ma sempre fondate sui princìpi della conflittualità permanente, dell’autogestione e dell’attacco.

Per conflittualità permanente intendiamo la lotta ininterrotta e incisiva contro le realizzazioni e gli uomini che producono e gestiscono il dominio di classe.

Per autogestione intendiamo l’indipendenza assoluta da qualsiasi partito, sindacato, clientela. Il reperimento dei mezzi necessari all’organizzazione e alla lotta deve essere fatto pertanto esclusivamente sulla base di sottoscrizioni spontanee.

Per attacco intendiamo il rifiuto di ogni patteggiamento, mediazione, pacificazione, compromesso col nemico di classe.

Il campo d’azione dei gruppi di affinità e dei nuclei di base è costituito dalle lotte di massa.

Queste lotte sono quasi sempre lotte intermedie, le quali non hanno un carattere direttamente e immediatamente distruttivo, ma si propongono spesso come semplici rivendicazioni, aventi lo scopo di recuperare più forze per meglio sviluppare la lotta verso altri obiettivi. Lo scopo finale di queste lotte intermedie resta comunque quello dell’attacco.

Naturalmente, singoli compagni o gruppi di affinità, indipendentemente da qualsiasi rapporto organizzativo più complesso, possono decidere di attaccare direttamente singole strutture, individui ed organizzazioni del capitale e dello Stato.

In un mondo come quello che si sta consolidando sotto i nostri occhi, dove il capitale informatico sta ormai saldando definitivamente le condizioni del controllo e del dominio, ad un livello di completezza senza precedenti, applicando una tecnologia che non potrà mai essere usata in altro modo che per mantenere questo dominio, il sabotaggio ridiventa l’arma classica di lotta di tutti gli esclusi.

Perché siamo anarchici insurrezionalisti

Perché lottiamo insieme a tutti gli esclusi per alleviare e possibilmente abolire le condizioni dello sfruttamento imposte dagli inclusi.

Perché riteniamo possibile contribuire allo sviluppo delle rivolte che vanno nascendo spontaneamente dappertutto, facendole diventare insurrezioni di massa e quindi vere e proprie rivoluzioni.

Perché vogliamo distruggere un assetto capitalista della realtà mondiale che grazie alla ristrutturazione informatica è diventato tecnologicamente utile soltanto ai gestori del dominio di classe.

Perché siamo per l’attacco immediato e distruttivo contro singole strutture, individui e organizzazioni del capitale e dello Stato.

Perché critichiamo costruttivamente tutti coloro che si attardano su posizioni di compromesso col potere o che ritengono ormai impossibile la lotta rivoluzionaria.

Perché piuttosto di aspettare, siamo decisi a passare all’azione anche quando i tempi non sono maturi.

Perché vogliamo farla finita con questo stato di cose, subito e non quando le condizioni esterne renderanno possibile la sua trasformazione.

Ecco i motivi per cui siamo anarchici, rivoluzionari e insurrezionalisti.

Gli anarchici di fronte alla ristrutturazione capitalista

Compagni,

prima di cominciare la relazione, una piccola parentesi dedicata a conoscerci meglio. In una conferenza si crea quasi sempre una barriera tra chi parla e chi ascolta. Per evitare questo ostacolo, dobbiamo quindi cercare di metterci d’accordo, in quanto siamo qua per fare qualcosa insieme, non solo per parlare da un lato e ascoltare dall’altro lato. E mai come davanti al problema che costituisce l’argomento da approfondire questa sera, tale comune interesse deve essere chiaro. Spesso la complessità dell’analisi e la difficoltà dei problemi, allontanano chi parla da chi ascolta, spingendo molte volte i compagni ad una ricezione passiva, che si sviluppa a tratti, come quando leggiamo un libro difficile, che ci interessa fino ad un certo punto, ad esempio il mio libro dal titolo, Anarchismo e società post-industriale. Devo confessare che se vedessi un libro come questo nella vetrina di un libraio, non so se lo comprerei.

Per questo motivo occorre mettersi d’accordo. Io penso che dietro la facciata di un argomento, di certo complesso, trovandoci fra compagni anarchici e rivoluzionari, dobbiamo essere capaci di trovare un interesse comune, quello che ci consente di impadronirci di strumenti analitici per capire meglio la realtà, per potere meglio agire. In quanto rivoluzionario anarchico, io mi rifiuto difatti di abitare due universi separati: l’universo della teoria e l’universo della pratica. In quanto rivoluzionario anarchico, la mia teoria è la mia pratica, e la mia pratica è la mia teoria.

Potrebbe non piacere un’introduzione del genere, e non piacerà sicuramente agli innamorati delle vecchie teorie. Ma il mondo è cambiato. Siamo davanti ad una nuova condizione umana, davanti ad una nuova e dolorosa realtà. Questa non consente chiusure intellettuali, non permette aristocrazie analitiche. L’azione non si differenzia più dalla teoria, e questa differenza diminuirà sempre di più. Ecco come può ridiventare importante parlare delle nuove trasformazioni del capitalismo. Perché la situazione che abbiamo davanti è di già caratterizzata da una veloce ristrutturazione.


Quasi sempre, quando ci si trova fra compagni, in situazioni come questa, ci lasciamo trascinare dalle parole, e gli anarchici hanno una particolare attitudine per le parole. Certo, siamo anche per l’azione, ma qua si tratta di parole, e spesso corriamo il rischio di ubriacarci ascoltandole. Rivoluzione, insurrezione, distruzione, sono parole. Sabotaggio, ancora una parola. Ho sentito, in questi giorni passati fra di voi, delle domande, anche fatte in malafede, per quel che ho potuto capire, ma siccome la traduzione da una lingua all’altra ha il suo peso, non voglio essere cattivo. Con le mie analisi voglio soltanto dire che non bisogna cadere nell’equivoco di pensare possibile la soluzione del problema sociale. Non credo che qualcuno dei compagni che hanno parlato con me in questi giorni ha la soluzione nel pugno, né il compagno anarcosindacalista, con la sua analisi basata sulla centralità della classe operaia, né gli altri compagni che mi sembra di capire non la condividono, ipotizzando un altro modo di intervento, insurrezionale e non sindacalista. No, nessuna di queste ipotesi può pretendere di possedere la verità, l’anarchismo se insegna qualcosa insegna questo, ad avere paura di chi possiede la verità. Il possessore di verità, anche se dice di essere anarchico, per me è sempre un prete. Ogni discorso deve essere soltanto diretto alla critica dell’esistente, e se qualche volta ci lasciamo trasportare dalle parole, è il desiderio che arriva prima di noi. Fermiamoci allora e ricominciamo a riflettere. La distruzione dell’esistente oppressivo è una strada lunga, e le nostre analisi sono un piccolissimo contributo, perché poi tutti insieme, uscendo di qua, si possa continuare l’attività distruttiva e rivoluzionaria, nella quale le chiacchiere diventano senza importanza.


Allora, cosa possiamo fare? È un vecchio problema, che gli anarchici si pongono da tempo: come venire in contatto con le masse? tanto per usare la parola che ricorre spesso in questo tipo di domanda, e che più volte mi sono sentito ripetere in questi giorni. Ora, questo problema è stato affrontato in due modi. In passato, nella storia dell’anarchismo, è stato affrontato con il concetto di propaganda, cioè spiegando alle masse chi siamo. È questo, come si capisce facilmente, il metodo seguito anche da tutti i partiti. Questo metodo, fondato sulla propaganda anarchica tradizionale, adesso, a mio personale avviso, è in difficoltà, come qualsiasi altra diffusione di ideologia. Non è tanto il problema che la gente non vuole più l’ideologia, quanto il problema che la ristrutturazione capitalista rende inutile l’ideologia, e io devo dichiarare pubblicamente in questa sede che gli anarchici stentano a capire questa realtà, e che c’è un dibattito all’interno del movimento anarchico internazionale su questo argomento. Il tramonto dell’ideologia porta all’inutilità della propaganda anarchica, intesa nel senso tradizionale. Finita la possibilità (o l’illusione, questo non lo sappiamo) della propaganda, si apre la strada del contatto diretto con la gente, delle lotte concrete, delle lotte che dicevamo prima, di tutti i giorni, ma naturalmente nessuno può salire sulle proprie spalle. Gli anarchici sono una trascurabilissima minoranza, non è che facendo la voce grossa, o usando mezzi di amplificazione pubblicitaria, possono farsi sentire dalla gente. Quindi non è questione di scegliere il mezzo di comunicazione più adatto, perché questo ci farebbe cadere un’altra volta nel problema della propaganda, e quindi dell’ideologia, ma è invece questione di scegliere il mezzo di lotta più adatto, che gli anarchici pensano sia quello dell’attacco diretto, ovviamente nei limiti umani delle loro possibilità, senza immaginarsi di essere mosche cocchiere di nessuno.

Vi prego di riflettere per due minuti sulla situazione del capitale all’inizio degli anni Ottanta. Si tratta di appena dieci anni fa. Un capitalismo in difficoltà, con alti costi del lavoro, con difficoltà nella ristrutturazione degli impianti fissi altamente costosi, con una estrema rigidità di mercato, con davanti un quadro di possibili sviluppi di lotta sociale. E invece, riflettete sulla condizione del capitalismo sei o sette anni dopo. Come è velocemente cambiato, come ha superato, in maniera inimmaginabile, le proprie difficoltà, e come si è presentato alla fine degli anni Ottanta, con un programma di gestione economica e imperialista del mondo, senza precedenti nella storia. Per il momento ha forse soltanto l’aspetto di un programma, ma si tratta di un progetto ben avviato, diretto verso la chiusura del cerchio del potere. Cosa è accaduto? Come è possibile che una situazione che appariva in difficoltà, sia stata in grado di riprendersi in maniera veloce e radicale?

Che cosa è accaduto lo sappiamo, non è l’aspetto tecnico che sorprende. Sostanzialmente si è immessa una nuova tecnologia nel processo produttivo, si è ridotto il costo del lavoro, si sono sostituiti i programmi produttivi, si sono utilizzate altre forze nuove della produzione, questo lo sappiamo. Non è qua l’aspetto sbalorditivo della ristrutturazione capitalista. Questo aspetto invece io lo vedo nella geniale utilizzazione della classe operaia. Perché era questo il punto centrale, era questo il luogo della radicale difficoltà del capitale. La genialità capitalista l’ha saputo attaccare per tagliare, smembrare, polverizzare, distribuire nel territorio, immiserire, demoralizzare, nullificare. All’inizio il capitale era di certo timoroso, aveva paura di avventurarsi su questa strada, perché operare delle riduzioni del costo del lavoro è stato sempre l’inizio di lotte sociali. Ma i suoi rappresentanti dell’accademia da tempo dicevano: questo pericolo non c’è più, o sta scomparendo, adesso è possibile mandare a casa la gente, purché lo si faccia cambiando settore di produzione, purché si sviluppino altri settori produttivi, purché la si convinca ad avere una mentalità aperta, purché la si convinca a discutere. E a questo nuovo compito del capitale sono state chiamate tutte le forze sociali: partiti, sindacati, collaboratori sociali, forze repressive, scuola a tutti i livelli, cultura, mondo dello spettacolo, mezzi d’informazione: una crociata mondiale mai vista, diretta a costruire l’uomo nuovo, il nuovo lavoratore.

Qual è la caratteristica principale di questo uomo nuovo? Non è un violento, perché è un democratico, discute, è aperto alle opinioni degli altri, ricerca aspetti associativi, partecipa ai sindacati, fa lo sciopero, simbolico, naturalmente. Ma che cosa è cambiato dentro di lui? Ha perso la sua identità. Non sa più che cosa è veramente. Ha perso la sua identità di sfruttato. Non perché sia scomparso lo sfruttamento. Ma perché gli è stata presentata una nuova visione delle cose. Della quale si sente partecipe, anzi responsabile. E in nome di questa solidarietà sociale, è disposto a nuovi sacrifici, ad adattarsi, a cambiare lavoro, a perdere la propria qualificazione lavorativa, a dequalificarsi come uomo e come lavoratore. Ed è quello che chiede il capitale, che ha sistematicamente chiesto in questi ultimi dieci anni, perché nella nuova ristrutturazione capitalista non c’è bisogno di qualificazione, ma di basse attitudini lavorative, flessibilità di idee e velocità di esecuzione. L’occhio deve essere più veloce della mente, la decisione, circoscritta e rapida: poche possibilità, pochi bottoni, massima velocità di esecuzione. Pensate all’importanza dei videogiochi in questo progetto, tanto per fare un esempio. Ecco quindi che è tristemente tramontata la centralità operaia.

Occorre però considerare che lo sviluppo del capitale non è un fatto omogeneo, quindi ci sono situazioni più avanzate e situazioni meno avanzate. Sia a livello statale che a livello geografico, a livello di zone geopolitiche di movimento, differenze nella capacità di sviluppo, che il capitale sa sfruttare, caricando di più sulla parte meno sviluppata lo sfruttamento che sta alleggerendo sulla parte più sviluppata. Che cosa è successo in effetti? Si sta costruendo un “muro”, un muro mentale, non fisico, un muro culturale, capace di separare da un lato gli “inclusi” e dall’altro gli “esclusi”, da un lato cioè coloro che ancora gestiscono il potere, e dall’altro coloro che ne saranno per sempre esclusi, intendendo con la parola “potere” in questo caso, non soltanto la gestione dello Stato, ma la possibilità di accedere a migliori condizioni di vita.

Ma cos’è che regge questo muro? cos’è che garantisce la separazione? Un diverso modo di percepire il bisogno. Perché, se voi riflettete un momento, nella vecchia concezione dello sfruttamento, sfruttato e sfruttatore desideravano la medesima cosa, solo che uno l’aveva e uno no. Se si dovesse realizzare fino in fondo la costruzione di questo muro, ci sarebbero invece due desideri diversi, di cose completamente diverse, per cui gli esclusi potrebbero soltanto desiderare quello che conoscono e che quindi è nei loro desideri perché da loro comprensibile, non quello che appartiene agli inclusi, dei cui desideri e bisogni non comprenderebbero più il significato, perché è stato loro sottratto definitivamente lo strumento culturale adatto a capirli.

Ecco cosa stanno costruendo: un automa in carne ed ossa, studiato in laboratorio. La società tecnologica di oggi, basata sull’informatica, sa benissimo di non potere portare le macchine al livello dell’uomo, perché nessuna macchina potrà mai fare quello che fa l’uomo, ed è per questo che stanno portando l’uomo al livello della macchina, gli stanno riducendo la possibilità di capire, è per questo che lo stanno a poco a poco appiattendo al minimo livello del suo patrimonio culturale, costruendogli bisogni uniformizzati.


Ma quando ha inizio il processo tecnologico di cui discutiamo? Forse nasce con la cibernetica, come è stato ipotizzato? Chi è un po’ pratico di queste cose, sa che il povero Norbert Wiener, se ha una responsabilità, ha quella di essersi messo a giocare con le tartarughe elettroniche. La tecnologia moderna in effetti nasce cento anni prima, quando un innocente matematico inglese, si mise a giocare con l’aritmetica e sviluppò il calcolo binario. Ora, andando indietro nel tempo, si possono trovare diverse origini della tecnologia moderna, ma c’è un momento preciso in cui si verifica un salto di qualità. E questo momento è quello in cui viene impiegata l’elettronica come strumento per costruire la nuova tecnologia, e di conseguenza la nuova tecnologia per perfezionare l’elettronica come strumento. È da questo momento in poi che non si sa più come andrà a finire, perché in effetti nessuno può prevedere quali conseguenze avrà l’ingresso all’interno di una nuova dimensione tecnologica. Dobbiamo capire che non si può più ragionare in termini di causa ed effetto. Ad esempio, è ingenuo, anche se possibile, dire: le grandi potenze hanno un potenziale atomico talmente alto da fare saltare il mondo. Questa stessa ipotesi, così terrificante, apocalittica, è sempre un’ipotesi vecchia, appartenente alla vecchia concezione della tecnologia, la quale si basava sul concetto di causa ed effetto. Esplodono le bombe, si distrugge il mondo. Il problema di cui parliamo noi prospetta invece una situazione estremamente più pericolosa, perché non è più una situazione prevedibile, ma è una realtà in atto, in corso di svolgimento, ed è una realtà non basata sul principio di causa ed effetto, ma su di un innesto relazionale di rapporti imprevedibili. Una nuova scoperta tecnologica, poniamo un nuovo materiale tecnologico, un nuovo materiale per la conservazione e il trasporto dell’energia, determinerebbe una serie di relazioni tecnologiche distruttive, che nessuno scienziato è adesso in grado prevedere. Potrebbe determinare una serie di relazioni distruttive, capaci di coinvolgere non solo le nuove tecnologie, ma anche le vecchie, in uno sconvolgimento radicale del mondo. È questo che è accaduto di diverso, e questo non ha nulla a che fare con la cibernetica, la quale è soltanto la madre lontana dell’incubo attuale.


Coscienti di quanto precede, ci siamo chiesti a lungo: come possiamo attaccare una realtà che ci è nemica, senza conoscerla a fondo? Ecco, a ben riflettere, la risposta non era difficile. In effetti, ad esempio, ci piace molto attaccare la polizia, ma nessuno di noi si fa poliziotto per questo. Ci si documenta: la polizia che cosa fa? che tipo di randello usa? Si mettono insieme quel poco di conoscenze che permettono ad occhio e croce di individuare il poliziotto. In altre parole, se dobbiamo attaccare il poliziotto, che è una cosa che ci piace moltissimo, non ci facciamo poliziotti per questo, ci limitiamo ad acquisire alcune conoscenze in merito alla polizia. Per attaccare la nuova tecnologia, allo stesso modo, non è necessario essere ingegneri, ma possiamo acquisire delle conoscenze abbastanza facili, tutte quelle indicazioni pratiche che ci permettono di poterla attaccare. Ma da questo problema viene fuori un altro problema, molto più importante: la nuova tecnologia non è un fantasma astratto, è una cosa concreta. Ad esempio, il sistema internazionale delle comunicazioni è un fatto concreto. Per riuscire a costruirci immagini astratte nella testa, deve distribuirsi nel territorio. È in questo campo che vengono usati i nuovi materiali, poniamo nella costruzione dei cavi di trasmissione, ed è in questo campo che diventa importante conoscere la tecnologia, non come funziona nel suo aspetto produttivo, ma come si distribuisce realmente nel territorio. Cioè dove sono i centri di gestione (che sono sempre molteplici), dove sono i canali di comunicazione, tutte cose, compagni, che non sono idee astratte, ma cose fisiche, oggetti che corrono nello spazio e che garantiscono il controllo. Intervenire con un sabotaggio in queste strutture, è facilissimo, difficile è sapere dove sono collocati i cavi.

Ci siamo quindi posto il problema della documentazione e della ricerca dei dati necessari all’attacco. Ad un certo punto diventa indispensabile conoscere la distribuzione della tecnologia. Questo, pensiamo, sarà sicuramente il problema rivoluzionario più importante dei prossimi anni.


Nella società del futuro, nella società autogestita, a cui come sappiamo fanno riferimento molti compagni, io non posso sapere se si farà uso dei computer, come non posso sapere se si farà uso di una parte considerevole o trascurabile delle tecnologie nuove, come in effetti non posso sapere nulla di tutte le altre cose che accadranno in questa ipotetica società del futuro. L’unica cosa che posso sapere, fino ad un certo punto, riguarda il presente, e riguarda gli aspetti e le conseguenze dell’uso delle nuove tecnologie, ma di questo argomento abbiamo già parlato, per cui sarebbe inutile ripetersi. Il ruolo degli anarchici, essendo quello dell’attacco, non è attacco in proprio, per conto dei propri interessi organizzativi o di crescita quantitativa. Gli anarchici insurrezionalisti non hanno alcuna identità sociale e organizzativa da difendere. Le loro strutture sono sempre di carattere informale, quindi il loro attacco, quando si realizza, non è per difendere se stessi (o, peggio ancora, per propagandarsi), ma per distruggere un nemico che colpisce tutti, ed è in questa decisione dell’attacco che si salda il rapporto tra teoria e pratica.


È un nuovo genere di capitalismo che si affaccia sulla storia del mondo. Quando si parla di neoliberalismo è di questo che si parla. Quando si parla di dominio mondiale, è di questo progetto che si parla, non delle vecchie concezioni di dominio, non del vecchio imperialismo. È davanti a questo progetto e alle sue immense capacità di dominio, che è crollato il socialismo reale. Non sarebbe mai successa una cosa del genere davanti al vecchio capitalismo. Non c’è più bisogno della divisione del mondo in due blocchi contrapposti. Il nuovo imperialismo capitalista è gestionario. Il suo progetto è di gestire il mondo per conto di un piccolo nucleo di inclusi, a spese della grande massa degli esclusi. E davanti a questi progetti, al momento attuale, tutti gli strumenti vengono impiegati, quelli nuovi, ai quali abbiamo fatto cenno, e quelli vecchi, vecchi quanto il mondo: la guerra, la repressione, la barbarie, secondo la situazione. In questo modo, adesso [1993], ad esempio, nella ex Jugoslavia, viene fatta combattere una guerra ferocissima per ridurre allo stremo le capacità di un popolo, e per potere poi intervenire davanti ad una situazione di assoluta distruzione, con un piccolo aiuto umanitario, che in condizioni di totale miseria, finirà per essere considerato un grande aiuto.

Pensate ad una situazione come quella dei Paesi della ex Jugoslavia senza la guerra. Una grande polveriera alle porte dell’Europa occidentale, ai confini del nostro Paese, a fianco della comunità europea, una polveriera pronta ad esplodere, ad esplodere come problema e come contraddizione sociale, e che nessun intervento economico potrebbe portare ai livelli di consumo occidentali. L’unica soluzione era la guerra, il più vecchio strumento del mondo, ed è stato impiegato. L’imperialismo americano e mondiale interviene in Somalia, in Iraq, ma è molto dubbio che interverrà seriamente nella ex Jugoslavia, perché la condizione di possibile rivolta, specifica di quest’ultima situazione, deve essere ridotta a zero. Uso di vecchi strumenti quindi, nello stesso momento in cui nuovi strumenti vengono usati, a seconda della situazione, a seconda del contesto economico e sociale in cui si vive.

E uno dei più vecchi strumenti dell’arsenale degli orrori è il razzismo. Per parlare della questione del razzismo, con tutti i misfatti ad esso correlati, neonazismo, fascismo, ecc., dobbiamo tornare un attimo sullo sviluppo differenziato della ristrutturazione capitalista. Bisogna capire che la ristrutturazione capitalista non può risolvere tutti i suoi problemi con un tocco di bacchetta magica, ma si trova davanti ad una situazione molto varia a livello mondiale, ed anche con livelli di tensione sociale molto differenti. Ora, le situazioni di tensione sociale fanno emergere quello che c’è di più nascosto dentro ognuno di noi, quello che abbiamo sempre messo da parte, esorcizzato. Gli elementi fondamentali del razzismo, del nazionalismo, della paura del diverso, della paura della novità, della paura dell’Aids, della paura dell’omosessuale, sono pulsioni latenti dentro di noi. Le nostre sovrastrutture culturali, la nostra coscienza rivoluzionaria, quando si mette il vestito della domenica, le cancella, le nasconde. Poi, quando si spoglia del vestito della domenica, queste cose tornano a vedersi. La bestia del razzismo è sempre presente, ed è sempre utilizzabile da parte del capitale. In situazioni come quella tedesca, con tensioni sociali sviluppate in modo rapidissimo negli ultimi anni, è un fenomeno in continuo sviluppo. Il capitale controlla il razzismo e, sotto alcuni aspetti, lo utilizza, ma per altri aspetti ne ha paura, in quanto la gestione complessiva del dominio a livello mondiale è di natura democratica, tollerante e possibilista. Nella prospettiva di utilizzo ci possono essere interessi, ideologie, paure, tutto fa parte del progetto del capitale. Non è possibile affermare con certezza che il capitalismo post-industriale sia contrario al razzismo. Noi possiamo individuare alcune tendenze di massima, ad esempio la sua democraticità, ma ecco che improvvisamente, in un contesto statale specifico, quello stesso capitalismo altamente tecnologico, utilizza lo strumento di cento anni prima: il razzismo, la caccia agli Ebrei, il nazionalismo, l’attacco ai cimiteri, quanto di più odioso e innominabile l’uomo può immaginare. Il capitale è multiforme, la sua ideologia resta sempre quella machiavellica: utilizzo contemporaneo della forza del leone e dell’astuzia della volpe.


Ma gli strumenti principali del capitalismo in tutto il mondo rimangono le nuove tecnologie, su cui bisogna fare una piccola riflessione, compagni, per ripulire il problema da tanti equivoci, e questa riflessione concerne il loro possibile impiego da parte nostra, sia pure in mutate condizioni sociali, in una futura situazione post-rivoluzionaria. Abbiamo di già visto come tra la vecchia tecnologia e la nuova ci sia stato un salto qualitativo. Intendiamo come nuove tecnologie quelle che si basano sull’informatica, sul laser, sull’atomo, sulle particelle subatomiche, sui nuovi materiali, sulle ricerche genetiche, umane, animali, vegetali. Queste tecnologie sono qualcosa di diverso, hanno poco a che vedere con la vecchia tecnologia. Quest’ultima si limitava a trasformare il materiale, a modificare la realtà. La nuova tecnologia è entrata invece dentro la realtà, non la trasforma, la crea, crea una trasformazione non solo molecolare, una possibile trasformazione molecolare, ma principalmente crea una trasformazione mentale. Pensate all’uso che si fa normalmente della televisione, come questo strumento di comunicazione sia entrato dentro di noi, nel nostro cervello, come stia modificando la nostra stessa capacità di vedere, di capire la realtà, come stia modificando i rapporti temporali e spaziali, come stia modificando la possibilità di uscire da noi stessi e cambiare la realtà. Di questo pacchetto di tecnologie moderne, i compagni rivoluzionari anarchici, nella stragrande maggioranza, ritengono che non si possa fare uso.

So benissimo che su questo argomento c’è un dibattito in corso. Questo dibattito si basa però su di un equivoco. Cerca cioè di trattare alla stessa maniera, due cose radicalmente diverse. Il vecchio sogno rivoluzionario, rappresentato, diciamo negli anni Trenta, dall’anarcosindacalismo spagnolo, era quello di attaccare e sconfiggere il potere perché la classe operaia potesse impadronirsi degli strumenti produttivi, per utilizzarli nella società del futuro, in maniera più giusta e più libera. Di queste nuove tecnologie non sarà mai possibile un uso più libero e più giusto. Perché non stanno davanti a noi in modo passivo come le vecchie tecnologie del passato, ma sono tecnologie dinamiche, si muovono, penetrano dentro di noi, sono di già penetrate dentro di noi. Se non facciamo presto ad attaccare, non riusciremo più a capire che cosa attaccare, e anziché impadronirci noi di queste tecnologie, saranno le tecnologie a impadronirsi di noi, e non sarà più la rivoluzione sociale, ma la rivoluzione tecnologica del capitale.

Non è possibile un uso rivoluzionario delle nuove tecnologie. Questo equivoco somiglia molto al vecchio equivoco del possibile uso rivoluzionario della guerra, equivoco in cui caddero compagni molto preparati agli inizi della prima guerra mondiale. Non è possibile un uso rivoluzionario della guerra perché la guerra è sempre e comunque strumento di morte, non è possibile un uso rivoluzionario della nuova tecnologia, perché la nuova tecnologia è sempre e comunque strumento di morte, quindi resta soltanto la sua distruzione, l’attacco, adesso, non domani, non quando il progetto sarà completo, non quando coloro che si stanno illudendo finiranno di illudersi, ma il sabotaggio ora, l’attacco distruttivo adesso. È questa la conclusione cui si arriva. Nel momento dell’attacco distruttivo si chiarisce e si fonda il discorso che facemmo all’inizio. È a questo punto che la teoria si salda con la pratica, che l’analisi sul capitalismo post-industriale diventa strumento di attacco contro il capitalismo, diventa strumento per l’anarchismo insurrezionalista e rivoluzionario. Puntare l’attenzione su uomini e cose che rendono possibile questo progetto di ristrutturazione del capitale, le cui responsabilità non meritano appello.

Colpire la radice della ineguaglianza, mai come oggi significa, giustamente, colpire la fonte che rende possibile la diversa distribuzione della conoscenza. E questo perché, per la prima volta, la realtà stessa è conoscenza, la produzione stessa dell’oggetto è conoscenza, per la prima volta il capitale è conoscenza. Mentre prima i centri dove la conoscenza, diciamo universitaria, si elaborava venivano considerati luoghi appartati, dove rivolgersi al momento opportuno, oggi costituiscono il centro della ristrutturazione del capitale, il centro della ristrutturazione repressiva. Quindi, attaccare giustamente, come è stato detto, la fonte che rende possibile la diversa distribuzione della conoscenza. Insisto nel dire che si tratta di un problema urgente, perché ogni differenza è possibile coglierla, comprenderla, finché uno la vede, ma quando avverrà una separazione netta tra due conoscenze prive di comunicazione tra loro, la conoscenza degli inclusi e quella degli esclusi, non ci sarà più niente da fare. Pensate al progetto di dequalificazione della scuola, pensate a come la scuola di massa, da strumento di conoscenza democratica, in vent’anni si è trasformata in strumento di dequalificazione, cioè di appiattimento della conoscenza, mentre una ristretta minoranza di privilegiati, continua ad acquisire questa conoscenza nei master specializzati, organizzati dal capitale stesso. Questo dimostra, secondo me, ancora una volta, per altra via, la necessità e l’urgenza dell’attacco.


Attacco, ma non attacco cieco, non attacco disperato e illogico, ma attacco progettuale, attacco rivoluzionario, con gli occhi aperti, per capire e per agire. Ad esempio, le situazioni in cui il capitale si realizza, in cui questo progetto genocida si realizza nello spazio e nel tempo, non sono tutte uguali. Ci sono situazioni più avanzate e situazioni meno avanzate. C’è ancora un largo spazio internazionale per le lotte di massa, un largo spazio per intervenire nelle lotte intermedie, cioè nelle lotte circoscritte, anche locali, aventi un obiettivo preciso, nate da un bisogno preciso, che non devono essere considerate questioni secondarie, perché anche queste lotte disturbano il progetto universale del capitale, e perché il nostro intervento in queste situazioni, può essere elemento di resistenza in grado di frenare lo sfaldamento della struttura di classe. Esperienze che so perfettamente sono state fatte da molti compagni presenti qui questa sera in quest’aula, nella loro personale partecipazione alle lotte. Quindi, costruzione di nuovi strumenti di intervento, strumenti capaci di incidere nella realtà delle lotte, senza il filtro della leadership sindacale o partitica, capaci di proporre un obiettivo chiaro, sia pure limitato, determinato, non universale, non rivoluzionario, un obiettivo preciso perché in determinate condizioni la gente deve dare da mangiare ai propri figli, non possiamo pretendere che tutti si sacrifichino in nome dell’universale anarchismo. Obiettivi limitati, all’interno dei quali la nostra presenza in quanto anarchici ha il compito preciso di spingere alla lotta, in quanto è soltanto la lotta che può raggiungere quegli obiettivi, la lotta diretta, autonoma, per cui, realizzato lo scopo, il nucleo si racchiude e scompare. I compagni riprendono un’altra volta lo stesso lavoro, in condizioni mutate, voltano pagina e ricominciano.

Di quali compagni stiamo parlando? di quali anarchici stiamo parlando? Molti di noi siamo compagni anarchici, ma quanti di noi sono disponibili all’attività reale, concreta, quanti sono quelli fra noi che non si fermano alle soglie del problema e dicono: noi ci presentiamo nelle lotte, suggeriamo il nostro progetto, poi i lavoratori, gli sfruttati, faranno quello che vogliono. Il nostro compito lo abbiamo finito, ci siamo messi la coscienza a posto. In fondo, qual è il compito dell’anarchico se non quello della propaganda? Di ogni problema sociale in quanto anarchici abbiamo la soluzione. Così ci presentiamo davanti alla gente che subisce le conseguenze del problema, suggeriamo la nostra soluzione, e ce ne torniamo a casa. No, questo tipo di anarchismo sta per essere definitivamente cancellato, queste residue mummie appartengono alla storia, i compagni devono assumersi direttamente e personalmente la responsabilità delle lotte, perché l’obiettivo contro cui dovrebbero lottare gli sfruttati in certe situazioni, e contro il quale spesse volte non lottano, è un obiettivo comune, perché noi siamo sfruttati come loro, non siamo privilegiati, non apparteniamo a due mondi differenti. Non c’è un serio motivo perché loro (le cosiddette masse), devono attaccare prima di noi, e non vedo perché dovremmo sentirci autorizzati ad attaccare solo nel caso della loro presenza. L’ideale, certamente, è la lotta di massa, ma davanti al progetto di ristrutturazione capitalista, gli anarchici devono sentirsi responsabili e decidere di attaccare personalmente, direttamente, non aspettando il segno della lotta di massa, perché questo potrebbe non arrivare mai, ed è qua che si colloca l’attacco distruttivo. È a questo punto che si chiude il cerchio. Cosa dobbiamo aspettare?


Quindi anche distruzione parziale. Ma è stata sollevata un’obiezione importante: spaccando un computer, cosa si conclude? Si risolve forse il problema della tecnologia? Questa domanda, importante, ci è stata posta quando abbiamo sviluppato l’ipotesi del sabotaggio sociale. Ci è stato detto: distruggendo un traliccio, quale risultato si ottiene? Innanzi tutto, l’ipotesi del sabotaggio non è tanto diretta verso l’aspetto terminale della tecnologia, quanto verso la rete di comunicazioni tecnologiche, quindi torniamo al problema della conoscenza della distribuzione tecnologia nel territorio, e se mi consentite una parentesi, è un grave errore quello avanzato con questo genere di obiezioni. Mi permetto di usare il termine “grave errore” perché è stato fatto un paragone tra quello che un’organizzazione clandestina armata pensa di fare colpendo una persona specifica e quello invece che una struttura anarchica insurrezionale pensa di fare colpendo una realizzazione tecnologica, sostenendo che dopo tutto non c’era una grande differenza. La differenza c’è, ed è grandissima, ma non si tratta di una differenza tra persona e cosa, è invece una differenza più importante ancora, perché nell’ipotesi dell’organizzazione clandestina armata, c’è l’errore della centralità, in quanto colpendo quella persona, l’organizzazione pensa di colpire il centro del capitale, errore impossibile nell’organizzazione anarchica insurrezionalista, la quale colpendo una realizzazione tecnologica (o anche un responsabile di questa realizzazione), ha la coscienza di non colpire nessuna centralità del capitale.

In Italia ci sono state, nella prima metà degli anni Ottanta, le grandi lotte di massa contro il nucleare, dove uno dei momenti principali è stato la lotta contro la base missilistica di Comiso. In questo contesto abbiamo realizzato i “nuclei di base”. Per due anni abbiamo lottato insieme alla gente, ed è stata una lotta di massa che per motivi diversi non è riuscita ad impedire la costruzione della base. Ma non è la sola lotta che noi privilegiamo, è una delle lotte possibili alle quali partecipiamo come anarchici insurrezionalisti. Una delle tante possibili lotte intermedie. In un’altra direzione, negli anni successivi, in Italia sono stati realizzati più di quattrocento attacchi contro strutture dell’energia elettrica, sabotaggi contro centrali elettriche a carbone, distruzioni di tralicci dell’alta tensione, anche tralicci di dimensione talmente grande da alimentare una intera regione. Alcune di queste lotte si sono trasformate in lotte di massa, in alcuni progetti di sabotaggio ci sono stati interventi di massa, in altri no. Compagni sconosciuti, in una notte sconosciuta, in campagna, facevano saltare un traliccio. Questi attacchi si sono diffusi in tutto il territorio nazionale, e a mio avviso posseggono due caratteristiche essenziali: costituiscono un attacco semplice e facile contro il capitale, in quanto non impiegano strumenti di alta tecnologia distruttiva, e inoltre, secondo aspetto importante, sono ripetibili. Chiunque può farsi una passeggiata in una notte senza nome. E poi è anche un’attività che fa bene alla salute. Non è vero quindi che gli anarchici hanno aspettato che siano le masse a risvegliarsi, hanno pensato in proprio a fare qualcosa. Su quattrocento attacchi di cui siamo a conoscenza, si deve ipotizzare l’esistenza di almeno altri quattrocento che non conosciamo, perché il potere nasconde questi fatti, in quanto ne ha paura. Una diffusione dell’attività di sabotaggio, in modo capillare sul territorio, non sarebbe controllabile. Non esiste esercito al mondo capace di controllare questo genere di attività. Per quello che so io, riguardo i quattrocento attacchi conosciuti, non è mai stato arrestato un compagno.


Vorrei concludere perché credo di avere parlato troppo. La nostra scelta insurrezionalista e anarchica, oltre ad essere una scelta, diciamo pure, caratteriale, una scelta del cuore, è anche una scelta della ragione, della riflessione analitica. Per quello che possiamo sapere riguardo l’attuale ristrutturazione capitalista a livello mondiale, non vediamo altro dall’intervento immediato e distruttivo. Ecco perché siamo insurrezionalisti, ecco perché siamo contrari alle ideologie e alle chiacchiere, ecco perché siamo contrari ad ogni ideologia dell’anarchismo, ecco perché siamo contrari ad ogni chiacchiera sull’anarchismo, perché il tempo delle chiacchiere è finito, perché il nemico è esattamente fuori di questa grande sala, ed è sotto il naso di tutti. Si tratta soltanto di decidersi ad attaccare, e sono certo che i compagni anarchici insurrezionalisti sapranno scegliere i tempi e i modi per attaccare il nemico, perché sulla sua distruzione si possa, compagni, realizzare l’anarchia.

Vi ringrazio dell’attenzione.

Gli anarchici e la storia

Qual è l’identità dell’anarchismo e quale la sua attualità?

Oggi, particolarmente dopo il crollo del socialismo reale, larghe possibilità si aprono davanti alle prospettive rivoluzionarie dell’anarchismo, sia considerando quest’ultimo come strumento analitico, quindi come mezzo per capire la realtà, sia come punto di riferimento organizzativo per la gente, per realizzare le lotte sociali nella pratica di tutti i giorni.

Qual è la posizione degli anarchici all’interno dell’attuale società italiana?

La situazione italiana è molto differente da quella greca, anche perché in Italia si sono vissuti vent’anni di esperienze rivoluzionarie autoritarie, caratterizzate dall’attività dei cosiddetti gruppi armati marxisti-leninisti. Il fallimento di questa strategia autoritaria, che aveva come scopo la conquista del potere, ha causato l’equivoco, nella gente, che qualsiasi lotta rivoluzionaria sia destinata al fallimento. Quindi, il compito degli anarchici, oggi in Italia, è molto difficile, perché bisogna, da un lato, chiarire questo equivoco, da un altro lato, spiegare alla gente cosa s’intende per lotta rivoluzionaria, la quale lotta, per gli anarchici, ha soltanto lo scopo di distruggere il potere. E non ci si può limitare a spiegare tutto questo a parole, ma bisogna farlo nella pratica concreta delle lotte sociali, compito che è ancora tutto da definire.

La società italiana risponde a questa analisi e qual è l’immagine che la gente ha di un anarchico in Italia?

La società italiana ha un’immagine dell’anarchismo e degli anarchici, quando ce l’ha, perché molte volte non sa nemmeno cosa siano gli anarchici, quando ce l’ha, dicevo, ha una immagine datata almeno cento anni fa, da un lato, dall’altro, ha l’immagine che forniscono i mass media, i quali spesso fanno confusione tra anarchici, autonomi e altre componenti marginali della società, come ad esempio i sottoproletari in rivolta, fino ad arrivare, certe volte, a considerare gli hooligan come anarchici sociali.

E ciò malgrado che il movimento italiano sia un movimento storico?

In questo c’è certo una incapacità degli anarchici, ma bisogna dire che non è facile distruggere un’opinione popolare che la televisione costruisce in un giorno, in una sola trasmissione. Dovete capire che il patrimonio storico del movimento anarchico italiano è scarsamente conosciuto, in quanto è diffuso fra la minoranza anarchica e gli studi universitari. La grande maggioranza della gente è nelle mani dell’informazione di massa. Con questo sistema informativo, identico a quello greco, non è possibile modificare la situazione da un giorno all’altro, ma occorre un lungo lavoro.

All’interno della pratica insurrezionale si include anche</em> <em>l’utilizzazione dei grandi mezzi d’informazione?

Si tratta di un importantissimo problema che fa vedere la differenza radicale tra due strategie rivoluzionarie ben precise. Da un lato, la strategia autoritaria, quella dei vecchi marxisti, i quali pensavano di realizzare delle azioni, il caso più clamoroso è stato il rapimento Moro, per utilizzare i mass media, e attraverso questi strumenti, fantastici, fare propaganda fra la gente. Secondo gli anarchici insurrezionalisti questa è una strategia assolutamente perdente. Gli anarchici pensano sia impossibile un utilizzo dei mass media. Un piccolo dialogo, piccolo, tenue, sottile dialogo, fra anarchici e mass media, si può avere soltanto a livello teorico, come sto facendo adesso con lei che rappresenta il più grande quotidiano greco, non a livello pratico, quando si è veramente nel corso di un’azione sociale, nel corso delle lotte sociali, in quanto, in questo caso, in modo più evidente di tutti gli altri casi, i mass media possono svolgere soltanto il ruolo di sostegno del nemico. Gli anarchici insurrezionalisti non credono possibile una informazione oggettivamente pura.

Ma tutta la gente è una preda dei mass media? E non possono questi strumenti d’informazione avere un ruolo importante per fare conoscere chi sono gli anarchici?

Non credo ci sia niente di assoluto. Nell’attività rivoluzionaria ci sono scelte che naturalmente hanno aspetti positivi e negativi. Gli anarchici insurrezionalisti hanno scelto, quando si sono trovati nelle lotte sociali, di tagliare questa comunicazione. Naturalmente questa scelta ha un costo, in termini di trasmissione dell’immagine, però io penso che vi siano aspetti positivi più importanti, in quanto permette di isolare l’attività dei mass media dalla lotta sociale, per quanto non permetta di evitare la loro attività di mistificazione. Ma su questo problema si tratta di responsabilità rivoluzionarie e in Italia non sono stati pochi i giornalisti attaccati personalmente per queste responsabilità. Insomma, in queste valutazioni non c’è niente di assoluto, ma solo scelte pratiche.

Esiste un’opinione diffusa che l’Europa stia attraversando in questo momento una sorta di Medioevo culturale. Quale è la sua opinione in merito?

Questa domanda è complessa e richiede almeno due parole introduttive di natura culturale. Proprio la diffusione del concetto di Medioevo culturale fa capire i limiti di certa informazione internazionale. Il Medioevo qua, in questa definizione, è visto in modo negativo, come “secoli bui, secoli oscuri”, cosa non vera. Chiusa la parentesi. La crisi delle ideologie ha causato anche la crisi dell’idea di progresso su cui si basava in particolar modo l’analisi marxista, basta pensare alla teoria di Lukács, cioè alla teoria in base alla quale la realtà procede deterministicamente e storicisticamente verso un avvenire migliore. Questo concetto ideologico, in passato, è stato anche condiviso da alcuni anarchici, ed è stato un errore, in quanto non è vero che la realtà procede verso il progresso, ma tutte le condizioni della barbarie sono sempre presenti. Non c’è nessuna cosa che possa garantirci contro di esse, non c’è mai un momento storico in cui possiamo dire: la barbarie è finita, il fascismo non c’è più. Noi conviviamo col fascismo, solo che adesso lo vediamo meglio grazie alla crisi delle ideologie che ci ha un poco aperto gli occhi, ma soltanto un poco. Quindi, per quel che riguarda la domanda, io condivido l’idea che adesso ci troviamo in una condizione di possibile barbarie, non del Medioevo, perché il Medioevo non era barbarico. Non condivido il concetto di “attraversare” un momento storico simile al Medioevo. Noi viviamo sempre in una condizione di possibile barbarie, ed anche di possibile libertà, solo che spetta a noi scegliere quale strada prendere, ed è questo il compito dell’attività rivoluzionaria: capire qual è la strada per la libertà e trovare i mezzi per percorrerla.

La crisi delle ideologie e la posizione di Fukujama riguardo la fine della storia, la fine delle idee. Siamo arrivati alla fine della storia? Abbiamo invece delle idee in grado di fornire delle indicazioni? E se è così quale significato dare al concetto di “fine della storia”?

Si tratta di una domanda molto articolata. Bisogna capire che cosa s’intende per storia. Non è un caso che si pone un rapporto tra neoliberalismo e storia, poiché il vecchio liberalismo era storicistico, cioè era una ideologia della storia. Questa storia è finita. Qualsiasi cosa dicano i filosofi, la crisi dell’idea di progresso, idea intesa come una linea unitaria che attraversa la realtà e il tempo, comporta necessariamente la crisi dell’ideologia della storia, non la crisi della storia, quindi non la crisi delle idee. Ma, dato che il liberalismo nuovo ha paura di una possibile futura condizione di mancato controllo sociale, mette in circolazione il fantasma della “fine della storia”, a livello d’opinione pubblica, per spingere la gente un’altra volta dentro l’ideologia della storia, che come ogni ideologia è strumento di controllo. Quindi noi non siamo arrivati a nessuna fine. Il fatto che ci avviciniamo alla fine del millennio, contribuisce ad aumentare la confusione, perché ci sono motivazioni irrazionali che rimettono in circolazione un neomillenarismo, terreno sociale pericolosissimo, dove trovano sviluppo tutti gli integralismi religiosi, non solo quello islamico, ma anche quello cristiano, in nome di un’astratta necessità di salvare l’uomo. Quindi, non “fine della storia”, ma fine dello storicismo, fine dell’ideologia della storia, difficoltà logiche all’interno delle idee dello stesso liberalismo, il quale, come nuova ideologia di dominio mondiale, non sa ancora cosa fare, perché si rende conto di non avere gli strumenti teorici adatti, mentre l’accademia, l’università mondiale, giapponese o americana, non sanno fare altro che produrre continuamente amenità di questo genere.

La storia ha un andamento ciclico o un andamento lineare?

Anche questa è una domanda difficile. Ma i lettori greci sono tutti filosofi? Non so quanto un approfondimento possa essere utile, comunque facciamo un piccolo passo indietro. Non possiamo separare il concetto di storia dall’idea di progresso. L’idea di progresso è un prodotto dell’illuminismo, cioè di quella borghesia rivoluzionaria che si apprestava a conquistare il potere. Dobbiamo capire che l’idea di progresso è una idea di potere, di gestione del potere. Ora, l’idea di progresso ha bisogno di un concetto lineare della storia. E ciò è espresso benissimo da Marx, il quale pensava che lo scontro rivoluzionario tra borghesia e proletariato sarebbe finito necessariamente con la vittoria del proletariato, perché il proletariato era destinato a realizzare la storia, applicando con ciò l’idea del suo maestro di filosofia Hegel, il quale diceva che l’idea oggettivata nel mondo avrebbe realizzato la filosofia e quindi l’avrebbe resa inutile, per cui la gente non avrebbe più avuto bisogno di pensare. E abbiamo visto come lo Stato abbia pensato, sostituendosi al pensiero della gente nei Paesi del socialismo reale. Quindi, queste idee filosofiche, apparentemente innocenti, che nascono in piccoli gruppi universitari, discusse da persone serissime, sapienti preoccupati del destino dei popoli, escono poi dalle università, camminano nella realtà e contribuiscono a costruire i campi di concentramento, a determinare i massacri di massa, le grandi tragedie storiche, le guerre, i genocidi. Ora, fatta questa premessa, torniamo al concetto lineare della storia. Cosa vi contrappongono gli anarchici? Suggeriscono il rovesciamento di una bella frase marxista, la quale diceva che il sonno della ragione genera i mostri, la barbarie. Gli anarchici dicono il contrario, è proprio la ragione che genera la barbarie, la ragione dei filosofi, degli uomini politici, dei programmatori del potere, la ragione del dominio, ed anche la ragione dell’ideologia storica, e quindi dicono che fin quando ci sarà la possibilità di costruire gli Stati e, per mantenerli, la necessità dello sfruttamento, della guerra, della morte sociale, ci sarà la possibilità della storia lineare. Quando tutto ciò cambierà, o comincerà a cambiare, finalmente ci accorgeremo che non esiste nessun movimento storico lineare, ma che, sulla base delle antiche intuizioni dei vostri filosofi del passato, ancora oggi insuperate, la realtà ha un andamento circolare, nel quale la barbarie del passato si può ripresentare un’altra volta, un movimento in cui non c’è mai nulla di vecchio e mai nulla di nuovo, ma sempre tutto diverso, senza per questo essere più progressivo o meno progressivo. Per cui ogni volta bisogna ricominciare daccapo, individuare il nemico, il nemico di classe, il nemico sociale, il potere, ed andarlo ad attaccare, sempre con nuovi modi. È un poco il lavoro di Sisifo, e gli anarchici hanno questo orgoglio di Sisifo di ricominciare daccapo, perché come lui non si arrendono mai e con questa loro forza morale sono superiori agli dèi, come lo era Sisifo.

Che ne pensa della riapparizione del nazionalismo?

Non solo riapparizione del nazionalismo, ma riapparizione della più feroce barbarie del passato. Basta pensare che, almeno per quello che scrivono i giornali, in Bosnia sono state violentate sessantamila donne, non come normalmente succede in tutti gli eserciti del mondo, perché gli stupri sono pratica normale di tutti gli eserciti, ma con lo scopo deliberato di fare nascere dei Serbi, quindi una sorta di programmazione genetica. Un’idea del genere risale veramente alla notte dei tempi e ci porta di fronte a considerazioni tragiche. Ad esempio, può essere che ci siamo illusi, anche gli anarchici, sulla originaria bontà dell’uomo, e sul fatto che sia stata la società a farlo diventare cattivo. Probabilmente dovremmo rivedere tutti questi concetti. Dovremmo diventare più acuti, dal punto di vista intellettivo, e non meravigliarci ogni volta che nella storia si ripresentano questi fatti, evitando di sperare sempre sulla bontà dei popoli. Il nazionalismo rinasce perché è dentro ognuno di noi, perché il razzismo è dentro ognuno di noi. La paura dell’uomo nero è dentro di noi, in quelle zone profonde dell’uomo, dove abbiamo paura a penetrare, dove c’è la paura del diverso, dello straniero, del malato di Aids, dell’omosessuale. Queste paure sono dentro di noi, anarchici compresi, e dobbiamo parlarne, non nasconderle sotto l’ideologia, sotto le grandi parole: rivoluzione, insurrezione, libertà. Perché tutte queste belle parole, se vengono sviluppate e realizzate nella realtà da uomini che hanno paura delle diversità, corrono il rischio di diventare strumenti del dominio futuro, non strumenti di liberazione.

Qual è il senso delle rivolte dei ghetti americani come quello di Los Angeles?

Il crollo del socialismo reale ha posto in primo piano l’apparente dominio universale degli Americani. Apparente perché non ci sono solo gli Americani. Se noi commettiamo l’errore, come mi è parso di capire nel corso di queste conferenze fatte nei giorni scorsi in diverse città greche, di gettare una luce critica soltanto sugli americani, non comprendiamo il movimento generale del nuovo imperialismo. Sì, dominio degli Americani, ma anche della Comunità europea e del colosso economico giapponese. Ma questa triarchia ha rapporti differenti, in quanto non sono più i rapporti concorrenziali che si avevano quando c’era l’impero sovietico, ma si tratta di rapporti economici a carattere imperialista-gestionario, cioè costruzione e mantenimento di un dominio del mondo. Ad esempio, la situazione nella ex Jugoslavia è comprensibile solo attraverso una nuova analisi dell’imperialismo mondiale. Non solo yankee, ma anche europeo. Pensate che la Germania dell’Ovest ha programmato nei prossimi dieci anni un investimento di migliaia di miliardi di marchi per portare la Germania dell’Est ai livelli di consumo occidentali. Si tratta soltanto di 17 milioni di persone. Ora, se un progetto del genere si dovesse fare per l’intero mondo dell’Est, dalla Russia alla ex Jugoslavia, occorrerebbe una cifra che non si può nemmeno scrivere. Non esiste potenza economica mondiale capace di realizzare un’operazione del genere, e l’imperialismo mondiale se ne rende conto. Quale soluzione allora? La guerra. Ecco perché non c’è un intervento americano nella ex Jugoslavia, perché una guerra feroce, distruttiva come quella in corso, sta portando il popolo serbo, insieme a quello croato e bosniaco, ad una condizione sociale talmente acuta di miseria, che un piccolo intervento, un piccolo aiuto umanitario, verrà considerato come un grande fatto positivo. Invece, pensate ad una situazione senza la guerra. Popoli combattivi alle porte dell’Europa, ai confini della Grecia, popoli combattivi e in miseria, con una grossissima capacità di azione sociale rivoluzionaria: quale pericolo per l’Europa comunitaria. Purtroppo l’impiego della guerra come strumento gestionario imperialista penso possa essere più esteso, e si potrebbero fare altri esempi. Diverso è invece il problema delle rivolte all’interno dell’impero americano. Teniamo conto che non è solo all’interno dell’impero americano, perché situazioni del genere si sono verificate anche a Londra. Più di dieci anni fa c’è stata la rivolta di Brixton, poi, in Svizzera, la rivolta di Zurigo, poi, ad Amburgo, in Germania. All’interno delle condizioni del capitalismo avanzato, e proprio a causa del processo di espulsione del vecchio proletariato dalle condizioni di fabbrica, c’è una fascia sempre più consistente di nuovi poveri che non ha nulla da perdere e che costituisce una miccia pronta a dare il fuoco in qualsiasi momento. Bisogna dire però che non si devono valutare al di là della loro consistenza reale queste esplosioni. Gli anarchici sono stati sempre favorevoli alle rivolte. Quando è stato possibile hanno partecipato sempre alle rivolte, dovunque. Nella società o in prigione. Dovunque, sempre dalla parte del più debole. Ma essi devono oggi evitare il rischio teorico di mettere al posto della centralità operaia di ieri una centralità di ribelli sociali. La società è un problema complesso, che non ha niente collocato al centro. Non c’è nessuna piccola parte della società capace di realizzare la rivoluzione, nemmeno i ribelli di Los Angeles, anche se ci fanno simpatia, anche se siamo al loro fianco. Dobbiamo però dire che essi costituiscono uno degli elementi, una sorta di anticipazione involontaria della possibile futura insurrezione di massa, non l’elemento principale, e questo deve essere detto chiaramente, contro tutti coloro che in maniera interessata, ci accusano di dimenticare il ruolo delle altre componenti sociali.

Qual è il rapporto tra i recenti scandali in Italia e in Grecia e la nuova gestione del potere?

Il problema degli scandali italiani, che esistono anche in Grecia, è importante, e non è un caso che siano venuti alla luce ora, in quanto essi corrispondono ad un profondo cambiamento nella gestione del potere. Il nuovo capitalismo, a livello mondiale, quindi in alcuni luoghi in modo più evidente, in altri meno evidente, più evidente negli USA meno in Grecia, ma anche in Grecia, ha bisogno di una classe politica gestionaria, non ideologicamente caratterizzata, ma tecnicamente adeguata ai nuovi compiti dell’imperialismo mondiale.

Ad esempio, una gestione del potere come quella dell’ex URSS, o tipo nazionalsocialismo, avrebbe fatto ricorso ad arresti in massa, fucilazioni in massa, ed avrebbe pulito la situazione in pochi giorni. Una gestione democratica deve fare ricorso ad altri strumenti. Cambiare la leadership è cosa difficile e gli scandali sono un ottimo strumento per operare questa sostituzione sociale della vecchia leadership con la nuova leadership tecnocratica.

Può dirci qualcosa in merito alla Gladio italiana?

Nello scontro politico qualsiasi mezzo è legittimo, come scrisse Machiavelli. Gladio è la risposta data dalla Democrazia Cristiana in Italia alla denuncia apparsa, grazie agli archivi sovietici, delle attività clandestine del Partito Comunista Italiano dopo la guerra. Non ho fatto un errore parlando di una risposta della DC, perché contrariamente a quanto si pensa non è stato il PCI a denunciare l’organizzazione armata degli USA e della DC, ma è stata la stessa DC a rivendicare la propria attività in difesa degli ideali del capitalismo, nel disperato tentativo di salvare la vecchia leadership politica, costruendole una verginità “rivoluzionaria”, nel tentativo di far vedere che persone che avevano in passato impugnato le armi, non potevano poi essersi fatte pagare dal capitale. Contrariamente agli scandali, lo scandalo di Gladio è un’operazione inversa. Mentre gli scandali economici sono diretti a distruggere la vecchia leadership, la Gladio ha cercato di salvarla. Ma non è stato possibile, perché le necessità dell’imperialismo mondiale sono più forti, e stanno finendo per prevalere.

In un giornale anarchico greco del 1896 si può leggere un interessante articolo ecologico. Cosa ne pensa del fatto che oggi lo stesso potere usa l’ecologia come strumento di ristrutturazione?

Qui occorrono due parole introduttive, visto che si fa riferimento ad un giornale del secolo scorso. L’anarchismo non è un movimento politico, non lo è mai stato, ma è un movimento sociale, portatore di idee sociali, quindi ha sempre, dal suo nascere, coperto la totalità dei problemi sociali. Se si prendono i giornali anarchici del secolo scorso, non si trova trattato solo il problema ecologico, ma si trova qualsiasi problema dell’uomo. Gli anarchici per primi hanno parlato del libero amore, dell’erotismo, dell’omosessualità, di tutti gli aspetti della vita quotidiana. Questo costituisce la forza dell’anarchismo e ha sempre fatto considerare il movimento anarchico, non oggi ma sempre, come un grande serbatoio di idee, dove tutti possono pescare, dove il potere ha pescato molte idee. Ma gli anarchici questo lo sanno perché hanno sempre messo a disposizione di tutti le proprie idee, perché, come diceva Proudhon, la peggiore delle proprietà è la proprietà intellettuale. Gli anarchici non hanno mai avuto paura che il potere gestisse le loro idee, perché sono sempre stati coscienti di essere in grado di andare avanti. Quindi, se alla fine del secolo scorso erano ecologisti in una certa maniera, in quanto erano da soli ad essere ecologisti, adesso che il potere è ecologista, che esiste l’industria portante dell’ecologia, gli anarchici non sono più ecologisti alla vecchia maniera, e non dicono più quindi che bisogna salvare la natura, ma dicono che per salvare la natura bisogna distruggere sia quelli che la inquinano, sia quelli che con mezzi statali la vogliono salvare.

Come si vede lei stesso?

Questa è una domanda che mi è stata posta vent’anni fa, proprio qui in Grecia, in situazioni politiche molto diverse, in condizioni anche fisiche molto diverse: allora ero più giovane e ho risposto: come un compagno fra gli altri compagni, ora che sono più vecchio rispondo: come un compagno fra gli altri compagni.

Ristrutturazione del capitale e nuova democrazia

Riflettere sulle rovine è attività che si addice agli intellettuali. Seduti sui resti del salotto di Catullo si guardano attorno, con l’occhio smarrito, e si chiedono cosa sia successo, come possa essere successo. Ma la meraviglia è un lusso che non possiamo permetterci.

Non appartenendo, per nostra fortuna, e anche per nostra scelta, alla benemerita categoria dei chierici, possiamo affrontare diversamente il problema, e quindi proporre domande diverse.

Prima di tutto mettiamo in chiaro il concetto di crisi. Personalmente, da diversi anni, sono andato approfondendo questo concetto in tutte le sue implicazioni, che sono varie e molto interessanti. Le “crisi” non esistono. Non sono mai esistite. Ma, di volta in volta, processi modificativi in corso sono stati chiamati con questo nome, allo scopo di alimentare intenzioni politiche o giustificare impotenze operative. Come si può vedere; non si tratta di una questione terminologica. L’idea di crisi sottintende l’esistenza di un processo lineare che, ad un certo momento, subisce un contraccolpo, come se forze improvvise, esogene o endogene al processo stesso, agissero su di esso, provocandone inaspettatamente l’arresto. Da qui la gran scienza di prevedere questi arresti, a volte sostituita dall’attesa fideistica, altre volte dalla collaborazione più o meno sanguinosa con le unghie della talpa che continua a scavare. Purtroppo questo simpatico animale non lavora per conto nostro. Il processo non è lineare, salvo che nei sogni di economisti e rivoluzionari desiderosi di attestare il proprio potere, presente o futuro. Forse non esiste un vero e proprio processo, ma tutti si brancola in un ginepraio di relazioni che ci conducono in un insieme privo di logica, o se si preferisce munito di una logica che non è quella dell’ordine e del progresso. In un contesto tanto vario e contraddittorio, dove accanto ai ritrovati tecnologici di un futuro che è di già presente, esistono e coesistono, fiorenti di una propria inestinguibile vita, atrocità e barbarie che sembravano sepolte da secoli, parlare di sviluppo è ridicolo, quindi il concetto di crisi, che nasce da quello di sviluppo progressivo, muore per autoconsunzione. Celebriamone in breve il funerale e non ne parliamo più.

È straordinario notare come tutti quelli che per decenni ci hanno assordato, e intimidito, con i loro discorsi relativi ai rapporti tra struttura e sovrastruttura, tacciono impacciati. Molti di costoro, e non parlo di chi ha fatto allegramente il proprio personale voltafaccia, affrontano il problema della politica e dei guai in cui un sistema di potere si è venuto a trovare in questi ultimi anni, staccando l’operazione intellettuale (si fa per dire, naturalmente), dalla realtà produttiva in cui questo sistema si è innestato e dove, bene o male, continua a funzionare. Ora, questo radicamento esiste, a prescindere dalle vecchie giaculatorie dialettiche, esiste e non può essere taciuto perché è caduto malamente in discredito l’antico metodo delle analisi, precipitato nel vuoto insieme al crollo delle torri del Cremlino.

Chiedersi cosa significano oggi i visibili, ma non sempre comprensibili, processi di ristrutturazione del potere, senza legare questa domanda ai processi di ristrutturazione della dimensione produttiva dei Paesi a capitalismo post-industriale, costituisce un’ulteriore operazione mistificatoria, diretta a dimostrare che tutto il male risiede nella gestione interessata del potere politico, operata da pochi lestofanti, tolti i quali dalla scena, tutto potrebbe tornare alla normalità, garantendo una reale giustizia per tutti. Su questo punto, direi di essenziale importanza, occorre sviluppare due linee di ragionamento. La prima, dovrebbe mettere in chiaro l’interesse dei gruppi di potere ad intensificare una colpevolizzazione della classe politica che ha gestito la cosa pubblica fino ad oggi in Paesi, poniamo, come l’Italia, allo scopo di stornare l’attenzione dai meccanismi reali che rendono impossibile un altro tipo di gestione politica, capace di realizzare quella giustizia sociale chiesta a gran voce dalla massa degli individui sottoposti alla pressione del dominio. La seconda, dovrebbe evidenziare la funzionalità alla nuova gestione produttiva post-industriale delle sollecitazioni verso una fittizia partecipazione dei singoli alla gestione politica della cosa pubblica.

Quindi, ristrutturazione del potere in relazione alle sempre più dettagliate richieste della nuova formazione economica e sociale dei Paesi più avanzati, e trasformazione della democrazia, sollecitando una partecipazione degli individui all’interno di meccanismi fittizi capaci di conglobare, e quindi nientificare, le idee di ciascuno e di tutti.

Tranne fasce stolidamente ritardatarie, legate a concezioni di economicismo sindacale e partitico ormai fuori da ogni significato sociale, la grande massa degli esclusi da ogni effettiva partecipazione decisionale, specialmente nei Paesi post-industriali, propone una nuova partecipazione democratica. Questa richiesta non è nata per caso, ma è stata da molti anni, diciamo quasi per due decenni, indotta attraverso i grandi mezzi d’informazione, specialmente attraverso quel complesso sistema di controllo costituito dalla televisione, dal telefono e dai computer. Per il momento siamo ancora alla fase iniziale, ma un dialogo diretto e costante è in corso tra la periferia e i centri della comunicazione. La gente telefona, interagisce con la televisione, codifica se stessa e fissa i protocolli per una ulteriore, e sempre più dettagliata, condizione dell’esistente. Ciò consente, da un lato, il controllo della grande massa degli esclusi, almeno della sua maggioranza regolare, se vogliamo usare un termine dal sapore coatto; dall’altro lato, consente di catalogare anche le opinioni di questa grande massa, di conoscerle, ma anche di pilotarle, convogliandole in diverse sintesi che interagiscono fra loro. Da qui, come tutti sappiamo, nasce un proliferare della miseria culturale dei gusti e delle scelte, una uniformizzazione delle richieste e dei desideri, quindi una maggiore possibilità di catalogare la partecipazione (apparentemente spontanea e libera) all’interno di categorie, meno significative e più rassomiglianti l’una all’altra. Da ciò, la fuga da ogni possibile diversità. Oggi è la codificazione che fa l’uomo, nel modo di vestire, di usare gli stessi oggetti, di cercare le medesime marche dei prodotti, di qualificarsi proprio in base a questa uniformità di scelta, di fare gesti uguali, di muoversi, mangiare, amare, pensare e sognare allo stesso modo. È così che stanno costruendo la futura democrazia. La dimensione politica del futuro nasce nella gente e fra la gente, ma non prima che quest’ultima venga appiattita ad un minimo comune denominatore, il quale è quello che ci vuole per consentire la flessibilità necessaria alla produzione del mondo post-industriale.

Se il vecchio mondo industriale, e la parola “vecchio” è usata nel suo esatto significato, pretendeva l’esistenza di un apparato politico fondato sull’associazionismo, sia partitico che movimentistico, come pure rivendicativo e sindacale, proprio perché legato a dimensioni massicce sul territorio, alla realtà di fabbrica, quindi ad una pretesa (a volte anche reale) condizione avanzata della classe operaia rispetto alle realtà delle altre formazioni sociali subalterne; oggi tutto ciò è tramontato. La persistenza di quelle strutture, di già in epoca recente, cioè quando avrebbero dovuto dissolversi come non più funzionali al contesto storico che le aveva prodotte, fu dovuta alla normale vischiosità di ogni struttura sociale, la quale non è disposta a suicidarsi nel preciso momento in cui le condizioni complessive dei rapporti sociali dimostrano la sua obsolescenza. Questa persistenza finì per trasformare quelle strutture in gruppi di potere sempre più rigidi e chiusi, in cui il solo scopo che ormai appariva centrale era quello di arricchirsi per continuare ad esistere, ed esistere per arricchirsi. Man mano che la vecchia funzione diventava sempre più in contrasto con le nuove condizioni della realtà produttiva, questo bisogno di assumere atteggiamenti estortivi nei riguardi di quest’ultima realtà, diventava sempre più grande e impellente. E, al contrario, man mano che i processi di ristrutturazione post-industriale rendevano “altra” la formazione economica e produttiva, diventava sempre più intollerabile per quest’ultima accettare i ricatti e le estorsioni, anche perché si poteva vedere come il servizio che la struttura politica forniva, risultasse sempre meno adeguato alle necessità produttive.

Questo è successo in Italia, ma anche in quasi tutti i Paesi a capitalismo industriale avanzato. In Spagna, dove la vecchia “Unione del centro democratico”, succeduta a Franco, ha creato le condizioni iniziali poi sviluppate dal decennio di dominio socialista. Tutti i partiti di governo in Spagna hanno fatto ricorso a forme illegali di finanziamento. Il caso emblematico, equivalente al Chiesa italiano, è costituito dal caso Guerra, un fratello del vicepresidente del governo [1993] che contrattava favori agli imprenditori per conto del Psoe. Lo stesso è accaduto con il Partito popolare, dove il caso Baseiro ha suscitato i maggiori scandali relativi alle tangenti. Anche i governi autonomi della Catalogna e del Paese basco hanno avuto i loro scandali.

Anche in Germania i casi di corruzione di uomini politici, le tangenti e i traffici illegali con la criminalità organizzata sono stati all’ordine del giorno. Gli scandali più consistenti sono quelli della Siemens di Monaco e quelli della Flick di Francoforte. Gli sgravi fiscali della Flick sono maggiori di tre milioni di marchi degli importi erogati come finanziamento ai partiti. Lo stesso accade ad Amburgo e a Brema, ma anche a Berlino [ovviamente, prima dell’unificazione tedesca] dove il “rosso” Filz è adesso diventato il “nero” Filz, ma le cose non sono cambiate. La corruzione è dilagante.

La Francia ha presentato gli stessi effetti scandalistici in materia di corruzione politica. Dal caso Luchaire, dove sono emersi gli interessi riguardanti la vendita di armamenti all’Iran, al caso Urba, finanziamento occulto al Partito socialista, al caso Bérégovoy personaggio che aveva ricevuto un milione di franchi da un finanziere non proprio pulito.

Questo elenco potrebbe continuare con la Gran Bretagna, gli Stati Uniti, la Polonia, e anche con Paesi non proprio a capitalismo post-industriale, ma direbbe in sostanza le stesse cose.

Affrontiamo adesso un altro lato del problema.

Non a caso l’intellettuale di turno ha parlato di “rivoluzione”. Senza saperlo, senza volerlo, e per motivi del tutto diversi da quello che sto per dire, ha detto una cosa giusta. In effetti, si sta verificando in questo momento una vera e propria rivoluzione politica, certamente differente da quella che avevamo sognato noi, che politica non era; una rivoluzione di certo non rintracciabile nelle codificazioni che in passato avevamo fatto delle possibili rivoluzioni politiche. Perché pensiamo si possa parlare di “rivoluzione”, sia pure politica? Per due motivi, primo, perché è saltato un sistema politico che risultava inadeguato a rappresentare gli interessi di una nuova classe dirigente, nelle cui mani la realtà produttiva nel suo insieme aveva di fatto subìto una veloce e profonda ristrutturazione. Secondo, perché è stato messo in moto un forte movimento d’opinione, il quale, per quanto mantenuto nell’ambito dei processi di controllo della partecipazione, ha pure fatto vedere, al di sotto di questa uniformizzazione, un soffuso sentimento di rivincita, di desiderio di liberazione, di atavico senso di avversione contro tutti coloro che comandano e dominano. Per quanto riguarda il primo motivo, viene in mente il processo che dette origine alla grande rivoluzione francese, dovuto proprio al fatto che il re e la nobiltà non garantivano più gli interessi della crescente classe borghese e non permettevano lo sviluppo dei commerci e delle industrie, intuizione questa che era di già stata di Turgot e che se compresa per tempo dalla classe dominante di allora, parassitaria, avrebbe dato altri indirizzi evolutivi alle trasformazioni del potere monarchico. Ma, come è chiaro da quei fatti ormai lontani, nel tempo ma anche nella nostra possibilità di capirli, una struttura dominante non si arrende solo perché viene meno la sua funzionalità al sistema che l’ha prodotta e nei confronti del quale in passato esercitava un’azione protettiva e di stimolo.

Qualcosa di più è necessario dire riguardo il secondo motivo, cioè quel movimento che si riesce a vedere al di sotto di tutti i tentativi di canalizzazione e di nientificazione che sono in corso. Questo fenomeno è ricco d’insegnamenti proprio per noi rivoluzionari, non solo per i politici che perseguono scopi diametralmente opposti ai nostri. Per prima cosa, è stato sorprendente vedere come sia crollato in pochi mesi un sistema politico di potere che appariva formidabile. E ciò fa da contrappeso al crollo, altrettanto repentino e inusitato, del sistema sovietico, cui pochi assegnavano un destino simile. Ovviamente, le due cose non sono separate tra di loro, se non altro nei modi di realizzo, ma appartengono alle necessità di quel vasto sistema di ristrutturazione del potere economico a livello mondiale. Resta comunque il fatto che niente ormai appare tanto solidamente piantato in terra da sfidare l’incerto evolversi degli eventi. E questa incertezza è entrata nel sangue di tutti noi, ed è uno dei risultati positivi cui cercava di pervenire la ristrutturazione, sollecitando il convincimento che nulla può essere garantito se non ci si accorda sulla base di interessi comuni, ovviamente gestiti dalla classe dominante in carica e con la partecipazione (fittizia) di tutti. Ma resta il fatto che l’incertezza è ormai in noi, e questo rende inquieta la gente, la sveglia, la propone alle più disparate avventure (questo sì), e potrebbe rendere più difficile il suo controllo, o almeno potrebbe rendere questo controllo altrettanto incerto come tutto il resto della realtà. Come condizione di fondo, per i rivoluzionari, l’elemento è positivo e non di poco conto. Poi, c’è anche l’odio che è venuto fuori, facilmente stornato in chiave riformista (occorre modificare le regole democratiche!), ma non per questo meno significativo, visto che ha dimostrato una considerevole capacità di “movimento”, di autogerminazione, denudando, se vogliamo, le antiche piaghe del leaderismo e della delega (i bravi giudici che guidano la rivolta degli umili!).

Ma di questo problema toccherà occuparci in altra sede, restando centrale per ogni nostra attività rivoluzionaria. Nella programmazione del fare è difatti indispensabile tenere costantemente presenti quali sono le reazioni del tessuto sociale su cui operiamo, specialmente in che modo queste reazioni fuoriescono ormai dalle classiche formule analitiche che in passato ce le spiegavano in maniera determinista.

Fra le domande essenziali che una ristrutturazione del potere oggi si pone, sta quella di come adeguare la gestione politica ai processi di trasformazione produttiva, non più a livello zonale, ma a livello mondiale. Ormai è chiaro a tutti che il capitalismo post-industriale ha assunto una dimensione globale, distribuendosi in maniera differente, secondo le situazioni locali, ma riconducendo tutto all’interno di una gestione comune. La struttura telematica della formazione economica e produttiva permette di collegare nello spazio e nel tempo elementi che prima erano irrimediabilmente staccati tra di loro. Quindi, uno sfruttamento che cerca di razionalizzare le differenze nella domanda di lavoro a livello mondiale. Una pressione enorme, sempre di più in crescendo, sulle attuali condizioni economiche degli Stati a capitalismo avanzato. Le antiche dicotomie tra sviluppo e sottosviluppo sono saltate, o stanno per saltare, e la fase di passaggio è stata segnata, a metà degli anni Ottanta, dalla diffusione dello sviluppo a macchia di leopardo, anche all’interno di zone da sempre racchiuse nell’ambito del sottosviluppo. L’irruzione del mondo dell’Est all’interno dello scacchiere economico totale del capitalismo post-industriale, ha trasferito su vasta scala questo incremento a chiazze. La cosa impedisce di applicare nette differenziazioni e produce considerevoli complicazioni nel controllo e nel recupero delle zone ad alto rischio sovversivo, in primo luogo nelle grandissime megalopoli, le quali diventano bombe ad orologeria delle quali nessuno conosce il meccanismo di disinnesco.

Risulta ridicola, a questo punto, la polemica nel bicchiere di casa nostra, riguardo una effettiva differenza politica tra “destra” e “sinistra”. La prova che questo problema non entra più nella reale possibilità di impostare nel modo migliore i meccanismi di ristrutturazione del potere, è data dal fatto che non esiste una vera e propria “destra”, almeno a livello istituzionale, ma che le istanze xenofobe e dirigenziali dei ceti dominanti sono state assunte da qualsiasi formazione politica, naturalmente spogliate dall’armamentario di folclore che contrassegnava la reazione politica in passato. Le teste rapate si caratterizzano non solo per il poco cervello che hanno, ma anche per l’assunzione di un folclore superato che culla solo i sogni di pochi dissennati, mentre non incontra, né può farlo, i consensi di larghissima parte della gente, la quale resta per necessità razzista, ma vuole che questa difesa contro i “diversi” venga fatta in maniera anonima, attraverso la garanzia di possibili posti di lavoro e non sulla base discriminatoria della poco probabile affermazione che i negri puzzano.

Lo smembramento della formazione sociale, di cui il rapporto tra individuo ormai praticamente quasi isolato, o in balia di aggregazioni transitorie, e centri gestionali della comunicazione costituisce l’aspetto più chiaro ed evidente, questo smembramento è una conseguenza della trasformazione produttiva in corso. Colpito nella condizione lavorativa, la quale almeno fino agli inizi degli anni Ottanta, costituiva elemento centrale nella costituzione della coscienza individuale, quindi anche di classe, il singolo si è trovato subitamente sbalzato in un mondo in veloce cambiamento. Il rapido avvicinarsi di ciò che prima era lontano, dovuto all’effetto della televisione, dei telefoni e della telematica integrata, ha determinato un altrettanto rapido allontanarsi di quello che ci era vicino. La condizione associativa, la tradizionale compattezza delle organizzazioni produttive, sindacali e di fabbrica, ma anche riflesse nelle strutture parallele degli antichi settori primario e terziario, si è dissolta. Il vicino, il compagno di lavoro, è diventato estraneo, straniero, se non nemico.

La polverizzazione associativa era la premessa indispensabile per la flessibilità operativa del lavoratore, e questa non poteva ottenersi se non abolendo la tirannia dello spazio e del tempo assoluti. Man mano che la vecchia corrispondenza epistolare veniva sostituita dal telefono, e questo dal tempo reale dei sistemi infotec, cambiava l’individuo stesso, si dissipava la memoria del singolo, la sua coscienza umana veniva divisa in settori, dapprima rigidi, poi sempre più inconsistenti, capaci alla fine di mescolarsi tra di loro, producendo un nuovo agglomerato di sensazioni e di giudizi di valore, sempre in corso di modificazione, sempre a velocità più elevata.

I valori del passato, la conoscenza depositaria, che si collocava in grandi contenitori di memoria, dove giaceva forse anche per anni, dando il suo contributo indiretto al momento opportuno: tutto questo che non era solo conoscenza teorica, ma anche, e forse principalmente, conoscenza pratica, padronanza di processi lavorativi, insomma tutto quello che poteva fare pensare alla possibilità, per i lavoratori, di ricostruire un mondo migliore a partire da quello vecchio; tutto questo non esiste più, si è polverizzato nella grande corsa alla procedura accelerata, all’eliminazione dell’oggetto e del soggetto, come elementi distinti, e forse contrapposti, di un meccanismo contraddittorio, ma non per questo meno ricco di prospettive e di vitalità. Al posto di questo meccanismo è rimasto solo il dominio del passaggio, il semplice movimento di qualcosa che si sposta in tempo reale, toccando, simultaneamente, il ricevente e il trasmettitore, unificandoli nella costante, reciproca, e comune, capacità di rispondere ad impulsi comunicativi semplici, veloci e codificati.

Tutto mi sembra possa essere ricondotto a questo concetto di flessibilità assoluta. La formazione produttiva, fin nei suoi impianti fissi più tradizionali e nelle sue fantastiche cattedrali dall’architettura carceraria, è divenuta flessibile. Le catene di montaggio sono governate da robot, e questi da programmi flessibili che modificano agevolmente i comandi e quindi il prodotto. Ciò che una volta richiedeva investimenti in capitali fissi per miliardi, adesso avviene in tempo reale. L’addetto si è dovuto adeguare a questa flessibilità. La qualità richiesta all’operatore, adesso, non è più la qualificazione professionale, ma l’adattabilità ad affrontare situazioni differenti, comunque codificate all’interno di un certo numero di alternative, e di trovare soluzioni ottimali nel più breve tempo possibile.

La necessità di queste condizioni flessibili ha fatto passare in secondo piano l’importanza dei settori produttivi tradizionali, agricolo e industriale, diventando questi subordinati al terziario avanzato, settore che produce e gestisce i meccanismi e le logiche in base alle quali si realizza la ristrutturazione dei primi due settori. Nel terziario è ovviamente centrale l’importanza della flessibilità. Qui, per quanto possa sembrare strano, non ci sono specialisti, ma tutti sono specializzati in poche procedure di routine, mentre lo stesso mondo allucinato dove si producono i nuovi progetti del futuro, affidato com’è alla telematica, è in sostanza ridotto a piccoli interventi applicativi, cioè all’uso più o meno sofisticato di programmi adatti a produrne altri ancora e così all’infinito. Una prova di questa idiozia generalizzata è data dal disagio che i matematici puri provano nell’entrare nel mondo della programmazione dei computer.

Queste condizioni produttive che abbiamo definito post-industriali, si stanno diffondendo a macchia di leopardo anche al di là dei Paesi industrialmente più avanzati, per cui non esistono zone che possono dirsi indenni da simili processi di mutamento. Occorre evitare di cadere nell’equivoco, funzionale ad una certa gestione del nuovo potere democratico, di considerare un’analisi del genere inadeguata a certe condizioni più “arretrate” dello sviluppo capitalista, pensando possibile l’esistenza di “zone” dove persistono vecchi rapporti e vecchie possibilità di lotta. Tutto si innesta con tutto, non ci sono condizioni isolate, ma solo modelli di maggiore o minore intensità, cioè condizioni in cui la presenza dei modelli di gestione “flessibile” sono più evidenti, e condizioni in cui sono meno evidenti.

Così la ristrutturazione di potere non poteva accontentarsi di una semplice alternanza. Oppure, di rendere possibile un più regolare ricambio periodico della classe politica. Occorreva procedere a profonde modifiche. E qui si colloca un problema nel problema. È possibile individuare una volontà esatta, un momento preciso in cui sono state prese decisioni in questo senso? Io penso di no. Non è accettabile la tesi di una minoranza specifica, attestata su condizioni di dominio stabili, capace di programmare modifiche di tale portata. Più che altro si tratta di processi che si innestano uno nell’altro e che dal precedente trovano le condizioni per procedere oltre, in maniera a volte ineluttabile. Quando si innestarono i primissimi cambiamenti a livello produttivo non si fece altro che applicare all’industria alcuni sistemi cibernetici, nel medesimo modo in cui si era da sempre applicata la tecnica alla produzione. Solo che questo tipo di tecnica possedeva capacità tali che non potevano essere capite subito in tutta la loro potenzialità. A ben riflettere, questa incognita riguarda tutta la tecnica, e più ancora le relazioni che si sviluppano fra le diverse applicazioni e l’insieme tecnologico inteso come un tutto unitario in cui nessuna parte è assolutamente autonoma, e può quindi essere espulsa senza conseguenze. Nessuno poteva prevedere le conseguenze che queste applicazioni tecniche avrebbero avuto sul mercato del lavoro. Allo stesso modo, poniamo, quando si decisero le ristrutturazioni all’inizio degli anni Ottanta, che avrebbero ridotto l’incidenza del costo del lavoro, solo dopo molte titubanze si accettarono programmi di prepensionamento e di licenziamento in massa, in quanto si continuava a temere la risposta delle lotte sociali, e ciò malgrado il teorema Tarantelli-Modigliani avesse da tempo chiarito come questa risposta probabilmente non ci sarebbe stata in presenza di strumenti governativi forti. Infine, quasi certamente, anche in assenza di una risposta efficace della classe operaia, non ci sarebbe stata una così viva capacità di ripresa del capitalismo, senza gli imprevisti effetti dell’innesto tecnologico nel vecchio corpo produttivo industriale. Insomma, una serie di effetti e di cause che nessuno poteva collegare fra di loro, ma che ha prodotto le condizioni attuali che stiamo riassumendo in una parola: flessibilità.

Quindi, non si può parlare di progetto completo e dettagliato in tutte le parti. I movimenti di potere sono spesso approssimativi e si sistemano sempre sulla linea di minore resistenza. Inoltre, sotto un altro aspetto, questi movimenti possono svilupparsi solo fino al punto in cui gli elementi che li costituiscono hanno esaurito del tutto le potenzialità che contengono. Nelle condizioni presenti, l’attuale disgregazione, su cui si sta costruendo la ristrutturazione del potere, deve arrivare alle sue estreme conseguenze, in tutti i suoi aspetti. Cioè non può estremizzarsi nell’aspetto materialmente produttivo, e lasciare intatte una mentalità e una cultura di tipo associativo. Come, per un altro verso, non può andare avanti attraverso un meccanismo politico democratico fondato su processi e valori del passato. Occorrono nuove forme della politica, allo stesso modo in cui sono state messe in atto nuove forme della produzione e della vita sociale.

Nasce quindi, ed è l’ultimo aspetto di questa relazione, il progetto di una nuova democrazia. Progetto vago come tutti i progetti di potere, ma che fondandosi su necessità di già in atto, queste ben visibili, può essere riassunto in alcuni punti essenziali.

La partecipazione è il più essenziale di questi punti. L’arroganza della casta politica del passato non è più adeguata alle mutate condizioni. Il cittadino deve partecipare, e ciò non per rendere reale la sua vita politica, che resterà un fantasma in un mondo fittizio, ma per rendere efficace il sistema decisionale di potere.

Il primo risultato della partecipazione democratica, è la nascita di un cittadino attivo, che si scrolla di dosso la vecchia disaffezione, l’apatia con cui considerava le vicende del palazzo dei veleni, dove uomini considerati superiori, indaffarati all’interno della stanza dei bottoni, manovravano la vita dei sudditi. La sfera pubblica viene sbriciolata in una miriade di possibilità di intervento. Il volontariato subentra all’istituzionalizzazione delle procedure. Una periferia propulsiva si sostituisce ad un centro decisionale ed accentratore. Il monopolio dei politici di mestiere si rompe a favore della libera iniziativa politica, dove la rappresentanza raggiunge, dentro certi limiti di credibilità, perfino ambiti circoscritti di controllo dal basso. La politica nasce in casa, viene fatta in casa. Il vecchio volantino, ieri esclusivo strumento di una minoranza d’illusi, diventa oggi strumento di partecipazione per dire la propria opinione. Tutti s’immaginano in questo modo di reinventare la gestione della cosa pubblica, di vivere dentro e accanto alle istituzioni, di non subire più le decisioni prese in alto loco. Così la stessa democrazia si allarga e ne viene razionalizzata, si presenta come uguale per tutti, in pratica e non solo in teoria, dove il sistema della maggioranza non si ritorce contro chi l’impiega perché finalmente la pluralità degli interventi rende possibile la conoscenza sulle decisioni da prendere.

Evidentemente questo nuovo pacchetto di illusioni si è prodotto da solo, quasi involontariamente, una volta smontato il meccanismo dell’aggregazione politica, in nome del quale si accettavano le deleghe a occhi chiusi, i carismi dei capi politici, le tesi dei comitati centrali, le ideologie dominanti e gli scopi di liberazione che imponevano sacrifici e morte. Scomparso tutto ciò (e queste faccende, trattandosi di fantasmi, fanno presto a scomparire) è rimasta la disgregazione flessibile, questa oggettiva, lampante, chiara, sotto gli occhi di tutti quelli che volevano veramente vedere, in quanto proveniente da un processo di svolgimento senza equivoci: il processo produttivo. E così si sono accumulate le scelte partecipative. Il bisogno di giustizia sociale, uno dei moventi di fondo di questo movimento che ha risposto con una pronta condanna del vecchio mondo politico in putrefazione, si è trasferito subito, e non poteva fare altrimenti, proprio in queste scelte partecipative. E qui è stato raccolto dai nuovi costruttori d’ideologie. Sono costoro che stanno costruendo, con materiale per altro molto facile ad essere manipolato, l’ideologia flessibile della democrazia futura.

E la nuova dimensione darà risultati positivi. Darà maggiori possibilità ad alcuni e negherà ad altri ogni possibilità. Garantirà una legalità delle procedure politiche di gestione, svilupperà i controlli, ma li farà apparire come gestiti dal basso, voluti dalla gente, garantiti dalla pluralità delle opinioni. Consentirà una maggiore sicurezza agli inclusi, separandoli sempre di più dagli esclusi, costruendo loro intorno un muro culturale invalicabile, provvedendo a nuovi bisogni specifici per la classe dominante, incomprensibili alla classe dominata. Selezionerà gli esclusi sulla base della partecipazione, graduando la tolleranza nei loro confronti in funzione degli stessi livelli partecipativi. All’estremo limite, per i non partecipanti, per i non adattabili, per gli esclusi, esclusi da tutto, ci saranno i sistemi della segregazione totale. Non tanto le vecchie carceri, quanto i nuovi sistemi carcerari col camice bianco.

Questi i programmi della ristrutturazione del potere e della trasformazione della democrazia. Contrapporsi a tutto questo fa parte di un affascinante, e indispensabile, progetto rivoluzionario, forse ancora da immaginare.

Repressione e controllo sociale

Molti di noi vivono la ristrutturazione del dominio capitalista ma non vi prestano l’attenzione che sarebbe opportuno darle. Molti pensano: in fondo la cosa mi interessa fino ad un certo punto, mi basta fare il mio volantino, i miei giornaletti, distribuire i miei bei libretti anarchici e mi metto il cuore in pace. Tutti noi leggiamo i nostri opuscoletti, i nostri giornali e ci riteniamo soddisfatti. Quello che poi sta per accadere, riguardo i processi di ristrutturazione del capitale, non so quanto ci interessa veramente.

Prendiamo il concetto di crisi. Prendiamo il problema della crisi. La crisi c’è, oppure non c’è? Il potere si sta indebolendo, oppure si sta rafforzando? Certo, sono argomenti interessanti, forse un tantino noiosi. Cerchiamo di vederli un poco da vicino.

Critica del concetto di crisi. Siamo in una situazione di crisi? Per essere in una situazione di crisi bisognerebbe che fosse vero quel processo di sviluppo lineare che ci hanno spacciato come elemento fondamentale della realtà. Siccome tale processo non è vero, secondo me non si può parlare di crisi.

Il guaio è che molti di noi sono ancora prigionieri di alcune tesi elaborate anni fa in sede marxista. Quanti si possono ritenere liberi da questo tipo di pregiudiziale, di discussione, di tesi? Lo sviluppo della storia viaggia verso determinati fini, viaggia verso l’anarchia? Ci siamo veramente liberati di questi concetti? Ciò sarebbe certamente un buon argomento di discussione. Perché è solo all’interno di queste pregiudiziali che si può parlare di crisi.

Da qui l’importanza di un’analisi della ristrutturazione del capitale, analisi che potrebbe costituire un tentativo, da parte nostra, di rielaborare alcuni concetti per cercare di capire che cosa sta succedendo, qual è la modificazione che si è venuta a creare a partire dall’inizio degli anni Ottanta, la modificazione che si è sviluppata per tutto il corso degli anni Ottanta, qual è stata la creazione delle condizioni del post-industrialismo, del capitalismo post-industriale. Su questo, sicuramente, c’è moltissimo da dire. Non so se sarà possibile farlo ora, in questa bella giornata d’inizio dell’estate.

Certo, dovremmo essere in tanti i masochisti, non soltanto io.

Prendiamo un altro aspetto. Il discorso può sembrare che salti di palo in frasca, e forse lo fa. Prendiamo la funzione dei mezzi di informazione. Molti pensano giustamente, e anche io con loro, che gli strumenti informativi come la televisione, i grandi giornali ecc., siano causa di distorsioni nella capacità di capire la realtà. Secondo me, non sono soltanto strumenti di distorsione ma anche strumenti accumulativi, nel senso che stratificano una tale quantità di informazione che rende inutile l’informazione stessa. È vero, non è vero, in che termini è vero? Cosa può accaderci se moriamo soffocati dall’informazione? Probabilmente, non riusciremo più a capire nulla e ciò nella convinzione profonda di essere finalmente informati totalmente di quello che accade. Una delle conseguenze del sovraccarico informativo di cui siamo oggetto è proprio l’appiattimento dell’informazione. Una volta, quando si sapeva una cosa, questa diventava un fatto esplosivo, perché, evidentemente, riusciva a sfuggire alla gestione totalitaria fondata sul silenzio, sulle veline della polizia. Oggi invece la velina della polizia è secondaria, quasi non esiste, si può dire.

I grandi cori di appiattimento, di uniformità delle scelte, di flessibilità delle ipotesi, tutti insieme, ci fanno sentire in grado di gestire questa informazione. Però, nello stesso tempo, siccome siamo stati privati di buona parte della capacità di capire, poiché abbiamo avuto tutti quanti una profonda riduzione culturale, determinati meccanismi ci sfuggono, non soltanto riguardo la gestione di questa informazione, ma anche riguardo il fatto stesso di esserne ricettori. Ci sfuggono e diventiamo soggetti passivi, spesso senza accorgercene. E probabilmente lo diventiamo di più quanto più ci informiamo. Questo è il paradosso verso cui ci avviamo in modo clamoroso.

Altro argomento. Lo metto così sul tappeto, come se fosse separato dagli altri, ma separato non è. Una delle caratteristiche della struttura nuova del capitale, a mio avviso, è la disgregazione, l’esplosione nel territorio. È finita la fabbrica, non c’è più la classe operaia, almeno non nelle condizioni del passato, non c’è più la catena di montaggio, c’è una struttura diversa, i robot dominano nelle strutture produttive delle grandi industrie. Tutto questo ha complessivamente sconvolto il mondo produttivo. La formazione economica è cambiata profondamente. E non solo questo, ma è cambiato anche il modo di vedere la realtà. Quel rapporto che si aveva prima, se vi ricordate, se ne avete sentito parlare (non so se l’avete vissuto personalmente), era un rapporto di tipo quantitativo: crescita delle strutture capitaliste produttive, da un lato, e, dall’altro, necessità dell’associazionismo difensivo, di tipo resistenziale, sindacale, mutuato anche dalle organizzazioni rivoluzionarie che vivevano quel tipo di dicotomia, di rottura in due parti della realtà.

Disgregandosi nel territorio, la struttura del capitale ha prodotto una mentalità flessibile, una mentalità incerta, ha prodotto la fine, la scomparsa della qualificazione produttiva, della cultura della qualificazione, e al suo posto ha generato una cultura della debolezza, dell’incertezza, della flessibilità, della possibilità. Tutte cose che sulle prime, apparentemente, sembrano belle ma che hanno causato non tanto la scomparsa del vecchio modello autoritario di sistema manageriale, quanto la sua inutilità, la sua caduta in disuso. E quindi molti, giustamente, hanno detto: è una bella cosa. E difatti lo è una cosa bella la caduta in disuso di un modello diciamo paternalista e gestionario, caduta che si è verificata non soltanto nel mondo della produzione, ma anche nel mondo della vita quotidiana, poniamo nella famiglia, nei concetti pedagogici, nel modo di vivere i propri rapporti quotidiani. Ma, contemporaneamente, si è verificato un altro processo. Questa diffusione nel territorio, questa polverizzazione, è stata recuperata all’interno di un modello progettuale fondato sulla debolezza, sul minimo sforzo, sulla flessibilità, sull’incertezza, sul fatto che nulla è sicuro, nemmeno la nostra vita di domani e quindi nemmeno la nostra collocazione produttiva nell’ambito di una formazione sociale ed economica la quale è essa stessa frutto e causa di incertezze.

Ora, è logico che all’interno di questo tipo di realtà venga revocata in dubbio la vecchia idea resistenziale. Non si può proporre una struttura classica, tradizionale, resistenziale, fondata sul quantitativo, sulla crescita aggregativa. Quindi, crollo di tutte le strutture aggregative tradizionali, anche anarcosindacaliste, e forse in primo luogo, secondo me, proprio di quest’ultime. Crollo di quel modello aggregativo e quantitativo che pretendeva di contrapporsi sul piano della forza numerica ad un capitale gestionario in forma classica.

Questo crollo significa anche scomparsa della struttura resistenziale classica, ma anche della forma partitica. Ecco quello che si verifica oggi: l’inutilità, la caduta in disuso delle forme tradizionali del partito rappresentativo di interessi politici, catena di riferimento per l’economia di un Paese. Questa nuova condizione la vediamo su tutti i giornali, ma non riusciamo a spiegarla bene, perché essa è solo in parte un annullamento di funzione. La produzione non ha più bisogno di quella struttura. Da un altro canto è richiesta di un nuovo modello di servizio. Cioè, la formazione produttiva ha bisogno di altre strutture, pure di servizio. Quali saranno queste nuove strutture, non lo sappiamo ancora bene. Se riuscissimo in questo momento a capire veramente verso dove andiamo, parleremmo in termini propositivi riguardo i concetti della nuova democrazia.

La vecchia struttura democratica crolla in questi anni, stranamente nello stesso tempo in cui si verifica la frattura nei processi tradizionali dei Paesi dell’Est, URSS in primo luogo. Il crollo di questa realtà fa entrare in fibrillazione la formazione economica e produttiva mondiale, i rapporti di scambio a livello mondiale, da cui la necessità di una modificazione, la necessità di una ristrutturazione non soltanto economica, ma principalmente politica, a livello appunto di struttura della democrazia.

La nuova democrazia si fonda sull’incertezza. Notate il rapporto del modulo politico non forte, possibilista, che apparentemente si propone aperto alla partecipazione della base, che sollecita, anzi crea, volontarismo, partecipazione libera, ed è questa la nuova forza del potere, notate questo rapporto con il concetto di flessibilità che si è instaurato all’interno della produzione. Nella fabbrica non c’è più l’operaio qualificato nella sua forma tradizionale, adesso è richiesta una qualificazione piuttosto bassa, ed una capacità di fare parecchie cose e di farle in un modo minimale, perché per mettere in moto determinati processi produttivi non occorrono grandi qualificazioni, quello che occorre è invece la flessibilità, cioè adattarsi a lavori che cambiano, non avere una grande pretesa di qualificazione personale, ecc. Questi due concetti sono importanti perché si corrispondono a vicenda e si sostengono.

Non è spiegabile, né comprensibile, verso dove andiamo, da un punto di vista politico nell’ambito dei nuovi processi democratici, se non si legge questo processo in funzione di quelle che sono state le modificazioni di già realizzate nel sistema produttivo. E non si può capire il grande successo della ristrutturazione se non si vede questa ristrutturazione nell’ambito del forte sostegno che sta avendo da parte delle modificazioni politiche in tutto il mondo: dal crollo delle ideologie dei Paesi dell’Est cosiddetti comunisti alle trasformazioni profonde nelle democrazie ormai “vecchie” dell’Occidente.

Un’ultima cosa vorrei dire. Tutto questo non accade nell’ambito dei tempi scanditi dalle vecchie concezioni produttive e politiche. Tutto questo accade all’interno di una profonda trasformazione del concetto di tempo, del concetto di spazio e, principalmente, del concetto di velocità, o di “tempo reale” come viene chiamato. Questo fatto è importante per capire quello che sta accadendo. Non è rimasto a tale riguardo tutto immobile. Non abbiamo lo stesso concetto del tempo che avevamo vent’anni fa. Questi ultimi vent’anni hanno sconvolto il mondo. Non soltanto come capacità produttiva, come capacità politica, ma l’hanno sconvolto come visione del mondo, come coscienza del mondo, e quindi principalmente come concezione dello spazio, come concezione del tempo e, infine, come concezione del proprio essere nel mondo.

Io penso che questo spieghi tanti altri aspetti che sembrano secondari, e che invece sono importanti e non solo dal punto di vista filosofico, in quanto servono a capire meglio la realtà. Pensate al concetto di “fine della storia”, di cui adesso si parla anche in Italia, mentre in altri Paesi da tempo è argomento molto più sentito. Questo è veramente un problema mal posto. Esso viene sviluppato in due modi, ambedue strumentali. Viene usato in un modo diretto per provare la persistenza del processo di sviluppo deterministico, e, in questo caso, “fine della storia” significa fine della storicizzazione di questo processo di sviluppo, nascita di un nuovo processo, diverso, che è tutto da determinare. Oppure, “fine della storia” significa fine della storia dell’uomo in quanto vicenda progressiva accumulabile nell’ambito di conquiste di libertà, ecc. In altre parole, siamo nel caos completo, nella barbarie assoluta. Ora, queste due facce del medesimo concetto, sono ambedue funzionali a teorie che cercano di portare acqua alla costruzione del nuovo potere.

Di questi problemi potremmo discutere adesso, qualora ce ne fosse la volontà.

Il compito di chi vuole sovvertire l’attuale condizione dell’esistente, non può essere programmato in tutti i suoi aspetti, anche perché appartiene ad esperienze del passato che hanno dato parecchi frutti negativi.

Ciò non vuol dire che non si deve sapere cosa fare. Modificandosi le condizioni dell’avversario, si devono anche modificare le tattiche e le tecniche di avvicinamento. Rendersene conto è difficile. Molti di noi sono portatori di modelli che ora vengono penalizzati dalla realtà. Secondo scelte che ognuno ha fatto nella vita, si predilige un certo modo di intervento nella realtà, spiegare le cose, cercare che la propria idea attecchisca, trovi sviluppo. Oppure il modo di sovvertire ricorrendo ad una violenza che sia giustificata verso chi è responsabile di determinati fatti, verso le strutture che permettono lo sfruttamento. Sono scelte che trovano tutte la mia approvazione, personale, ovviamente. Io condivido questo tipo di scelte, ma per arrivare ad una progettualità determinata, precisa, il passo è considerevole e deve essere superato attraverso l’approfondimento concreto delle modificazioni attuali.

Secondo me, per come stanno adesso le cose, più che cercare di capire il che fare, che è anch’esso importante, è più interessante capire che cosa sta accadendo. Perché da “che cosa sta accadendo” potremmo avere una grossa lezione per modificare il “che cosa fare” del passato che oggi non si può più fare.


L’ideologia illuminista, almeno agli inizi, parlava di uno sviluppo progressivo, di un’accumulazione ideale. Difatti, il concetto stesso di progresso nasce in quel torno di tempo, nel diciottesimo secolo. Ci si accorse subito, a partire da Diderot stesso, che questo processo non poteva essere qualcosa di assommativo, rimanendo tutto il resto semplicemente nella pacificazione totale. E la cosa si vide meglio quando finì il secolo illuminato, nel corso del quale quasi non c’erano state guerre, e cominciò il secolo dei massacri. Si videro già in atto movimenti profondamente contraddittori, operanti sia nella storia, sia nei singoli accadimenti. E ogni singola contraddizione, in che modo poteva essere superata? Con una riassunzione al livello superiore, con un “superamento”, risposero Hegel e il successivo coro marxista, per cui la contraddizione che emerge viene cancellata e il progresso continua a fluire come prima. Solo nei casi in cui questo non è possibile, nei casi in cui la contraddizione, arrivando a grossi livelli di esacerbazione, diventa estremamente tesa, e pertanto irrisolvibile, si ha un vero e proprio “salto qualitativo”. Sotto molti aspetti, per quel modo di vedere le cose, la “crisi” è questo salto qualitativo. Il concetto di “crisi” nasce proprio in questo momento, in quanto la crisi vera e propria è una contraddizione acuta, non una semplice contraddizione. Una contraddizione talmente grave che non riesce ad entrare in quella linea di recupero che trasforma i due elementi contraddittori e li riassume in una superiore sintesi, secondo l’idea hegeliana, ripresa dai marxisti, ecc.

Ora, la funzione del concetto di “crisi” nasce dal fatto che ci si aspetta qualcosa dalla contraddizione, qualcosa di non qualitativamente diverso, di non risolvibile. Molti si aspettano proprio la contraddizione acuta, non recuperabile. Spesso, all’interno di organismi rivoluzionari, partiti rivoluzionari o altre strutture del genere, e all’interno del movimento anarchico stesso, è stato utilizzato il concetto di crisi in questo modo, specie nei periodi di basso fermento sociale. L’attesa di molti militanti, che avevano passato la vita ad impegnarsi in determinate pratiche, davanti al fallimento, al recupero della contraddizione considerata radicale (la lotta di classe per intenderci), davanti all’impotenza dappertutto evidente dei propri progetti, trovava, in quell’attesa, un aiuto perché in ogni caso “la crisi verrà”. Mutuato in termini strettamente anarchici, equivale a dire: “comunque l’anarchia sarà”.

Certo, l’anarchia non è una “crisi”, ma essa è certamente la “crisi finale”, la crisi di questo stato di cose, della società dilaniata nella frattura di classe, e quindi anch’essa può essere vista come una crisi. Ora, io non credo a questo tipo di anarchia. Cioè, non credo ad una soluzione determinata dall’avvento di una contraddizione irrecuperabile. Perché le contraddizioni sono tutte recuperabili in quanto restano aperte, restano là, davanti a noi. Non è affatto vero che la barbarie del passato sia scomparsa, non è affatto vero che il nazismo sia finito. Questa barbarie c’è sempre. La vediamo in corso, essa è fra di noi. Non è vero che l’irrazionalismo, le paure, il razzismo, appartengono a qualcosa che è lontano da noi. Sono tutti elementi che si trovano dentro di noi, contraddizioni che ci appartengono, che fanno parte del nostro modo di essere, e che spesse volte ci scappano via, sfuggendo al nostro controllo perbenista.

Ora, tutto questo accade senza volerlo, senza che ce ne accorgiamo, accade naturalmente. Si tratta di quel novero di informazioni che trasmettiamo inconsciamente: atteggiamenti, parole, modi di pensare. Tutto questo mondo contraddittorio è costantemente aperto, non ci sono chiusure, sussunzioni a livelli superiori. Non esiste nessun movimento ideale del genere. Si tratta di una tesi che i marxisti si sono sognata (per la verità sognata da Hegel, per la prima volta).

Secondo me le contraddizioni sono sempre aperte. Conseguentemente, non regge il concetto di “crisi”. Perché la crisi che cosa era? La contraddizione estremamente acuta e non recuperabile. Ora, se non ci sono contraddizioni sussumibili, se non ci sono contraddizioni che scompaiono in un ordine superiore, sia pure pronto anch’esso ad aprirsi ad ulteriori contraddizioni, la vita è una crisi continua, cioè una contraddizione continua, quindi non esiste la crisi, almeno non nel senso marxista del termine.


In merito al concetto di “crisi” si fa spesso un poco di confusione. Ad esempio, la trasformazione del capitale, all’inizio degli anni Ottanta, è stato un fatto che nessun capitalista poteva prevedere. Nessun uomo di potere vicino alle decisioni economiche poteva pensare seriamente che si sarebbe percorso proprio quell’itinerario di rafforzamento e di uscita dalle condizioni di difficoltà in cui la formazione produttiva dei grandi Paesi industriali si trovava. Qual era la situazione all’inizio degli anni Ottanta? Essa merita di essere qui ricordata. L’appesantimento della produzione era dovuto quasi del tutto all’eccessivo costo del lavoro. Questo fatto era indiscussamente un elemento di difficoltà, quindi veniva considerato in quegli anni – e continua ad esserlo ancora – una delle cause della crisi del capitale. Infatti, l’eccessivo prezzo del lavoro imponeva di produrre a costi complessivi troppo elevati. E, d’altro canto, il capitale non poteva ridurre questo costo su due piedi, non poteva operare licenziamenti massicci da un giorno all’altro. Perché? perché evidentemente aveva paura della risposta operaia.

Erano anni di lotte considerate radicali, decisive, che non riuscirono a trovare il loro sbocco rivoluzionario, per quanto conseguente e logico potesse apparire. Pensate alle tesi delle Brigate Rosse. Quali furono gli errori per cui non si capì che quella condizione economica non poteva svilupparsi verso una esacerbazione della contraddizione, che pure era latente, portatrice di un possibile sbocco, perché è certo che di una contraddizione si tratta quando l’impresa è obbligata per contratto a produrre a costi elevati, se non altro di una contraddizione economica.

Tutto ciò poteva essere veramente una catastrofe per il capitale se, nello stesso tempo, non si fossero verificate altre condizioni, alcune del tutto imprevedibili. Se la telematica non avesse fornito la possibilità di organizzare una produzione di tipo diverso, di sostituire il secondario con il terziario in modo così massiccio, quella contraddizione poteva assumere aspetti differenti, proporre altri sbocchi, non certo in grado di assicurare una ristrutturazione pacifica del capitale.

Ma, quella contraddizione che abbiamo individuata nell’elevato costo del lavoro, contraddizione che non si deve pensare tutta interna ai problemi gestionari del capitale, ma avente invece conseguenze generali di grandissima portata, quella contraddizione, così come è stata affrontata grazie all’impiego della tecnologia telematica, si può dire con questo risolta? È stata annullata? è stata superata? No. Se noi vediamo bene, essa è ancora presente, e pertanto potrebbe improvvisamente ripresentarsi a livello delle nuove formazioni produttive, sia pure tecnologicamente avanzate. Cioè, quella vecchia contraddizione non è scomparsa. È proprio questo che voglio dire. La “crisi” nasce, si sviluppa, si acuisce, ma quando viene riassunta nel “superamento” è solo nell’immaginazione del teorico che scompare, perché è solo lui a non vederla più, mentre la realtà la porta nel suo seno, come un germe pronto a produrre frutti, ad esplodere con una forza che nessuno può prevedere.

Facciamo un altro esempio. Oggi la nuova destra si presenta con idee differenti da quelle della vecchia destra. Cioè, le strutture di potere non hanno più bisogno dell’antico ciarpame. Forse con questo il razzismo non c’è più? No. Il razzismo c’è ancora, ed è presente anche in coloro che si organizzano in quanto antirazzisti per condannare le azioni razziste contro le minoranze straniere.

Che vuol dire? Vuol dire che quel tipo di modello culturale, quella contraddizione, non sono scomparsi, esistono ancora dentro di noi in quanto costituenti una contraddizione che non può essere superata.

Le credenze nel soprannaturale sono mai state superate dai ragionamenti razionalisti dal Settecento ad oggi? No di certo. I concetti religiosi e di perfezione razionalista del dominio, che sono stati patrimonio dell’Inquisizione cattolica (e anche, sotto certi aspetti, di quella protestante), sono forse scomparsi perché non c’è più l’Inquisizione? No, non sono scomparsi, sono presenti. Ecco che si leggono in un rigo del Codice di procedura penale, emergono là, poi in un altro luogo, in un fare, in un pensare, in un agire, ed è sempre la stessa contraddizione che c’era prima, e che quindi non è scomparsa. In questo senso dico che è sbagliato parlare di “crisi”, perché parlando di crisi si intende che tutte le contraddizioni vengono superate tranne la crisi “acuta”, quella che invece consente la risoluzione definitiva della contraddizione stessa. Questo modello è stato causa di danni considerevoli. Ciò non vuol dire che dietro le contraddizioni non ci siano possibilità di trasformazioni, anzi, direi che la trasformazione è la normale fase di oltrepassamento della contraddizione.

Nell’ambito del dibattito filosofico che si è sviluppato negli ultimi ottanta anni, è stato detto chiaramente che non è il caso di parlare di “superamento” delle contraddizioni, ma che invece è più produttivo parlare di “oltrepassamento”. Quindi di non affrontare la contraddizione nel senso hegeliano (o marxista), ma di affrontarla nel senso niciano.

La persistenza della contraddizione, nel suo continuo oltrepassarsi, si coglie meglio partecipando alle diverse trasformazioni che agitano la contraddizione, senza per questo farla scomparire in una “sussunzione” senza residui.


In problemi riguardanti l’evoluzione della ristrutturazione capitalista bisogna scendere sempre dai massimi sistemi alla maggiore concretezza possibile. Riguardo quindi il nostro argomento possiamo chiederci: cosa è successo? Ecco, il capitale nelle sue idee organizzative non viaggia a lunga scadenza. Cioè, i trend economici non sono molto lunghi. Mediamente sono di cinque anni. Adesso si è scesi anche al di sotto di cinque anni. In effetti, nessuna decisione di dominio viaggia nel lungo periodo. Questo cosa vuol dire? Vuol dire che non fanno progetti, se non a brevissimo termine. Quindi, loro hanno di già capito le profonde modificazioni che, solo in parte, loro stessi hanno contribuito a realizzare. Ed hanno capito di avere bisogno di un referente politico diverso da quello che invece esisteva negli anni passati, nella sua forma istituzionalizzata e incancrenita. “Tangentopoli”, se mi è concesso questo termine, viene spiegata da tale richiesta diversa, dopo la quale precipita improvvisamente tutto un sistema di potere, com’è nella logica delle cose. Accade quasi sempre così, basta spostare una piccola leva degli equilibri precari del potere, e subito una valanga viene dietro. Ma questa leva è stata spostata (si chiamerà Di Pietro o con un altro nome), solo perché c’era bisogno di un diverso referente politico, e la nuova classe politica emergente, che ancora [1993] non si è chiaramente delineata, deve assolvere ad un nuovo compito. La richiesta del potere è quindi di uno strumento differente, ma si tratta di una richiesta che viaggia attraverso una progettualità sempre a breve termine, perché il capitale chiede una classe politica che lo sappia amministrare e che comunque gli fornisca strutture amministrative più adeguate, ma chiede sempre a breve termine, perché non ha la capacità di programmare a medio e a lungo termine.

Pensate su quale mina vagante è seduto in Italia il capitalismo. I debiti progressivi spaventosi che lo assillano sono dovuti in massima parte al pagamento degli interessi sulle somme ricevute in prestito. Una cosa assurda, economicamente parlando. Ma il capitale non se ne dà eccessivo pensiero. Sa che in ogni caso questi problemi devono essere risolti nell’ambito di un rinvio a breve termine. Quello che succederà dopo, dopo si vedrà. Questo cosa significa? Significa che il capitale stesso ha una sua concezione della “crisi”. Significa che ha capito il movimento delle contraddizioni, e lo ha capito prima di quanto non abbiano fatto coloro che in passato (come, per altro, alcuni di noi) restavano legati a modelli di analisi un poco sclerotizzati, fondati ad esempio sul determinismo rivoluzionario, ecc. Ha capito prima di noi, diciamo così, prima di alcuni di noi, che la “crisi” non esiste, almeno non esiste nei termini in cui può mettere in pericolo l’intera formazione economica e sociale. Ed ha adeguato la sua capacità e la sua struttura produttiva a questa concezione di flessibilità, come dicevamo prima.

Ecco quello che emerge in effetti dalla lettura delle decisioni politiche, delle decisioni economiche e produttive: da un lato, l’incertezza politica, dall’altro lato, la flessibilità economica e produttiva. Questi due aspetti si collegano e insieme caratterizzano le scelte del capitale a medio e a piccolo termine, caratterizzano i progetti, caratterizzano le soluzioni possibili.

D’altro canto, se si legge la storia degli ultimi settant’anni, è stato sempre così. Anche la crisi di Wall Street venne superata non solo da Roosevelt, ma principalmente da Keynes, con la tesi: “fate scavare buche e poi fatele riempire”, cioè la tesi dello Stato sociale basato sul principio di dare lavoro, anche senza scopo concreto, alla gente, oppure, detta in altri termini, “sostenete la domanda, portate i soldi nelle tasche della gente e questi soldi torneranno indietro facendo in modo che l’economia, e quindi lo Stato, si salvino reciprocamente”. Ora, questa soluzione, come lo stesso Keynes dovette ammettere, non aveva nulla di definitivo, ma semplicemente si dava lo scopo di recuperare quella contraddizione che era palese al momento di Wall Street, di recuperarla e di portarla verso il futuro, nell’ambito delle contraddizioni future. Nell’ottica del capitale questo fatto è stato sempre ricorrente. Tutti i guai, tutti i massacri che si fanno, tutte le distruzioni della natura, tutti gli inquinamenti, vengono così rinviati al futuro. Le scorie atomiche? Seppelliamole da qualche parte, poi i nostri eredi se la sbrigheranno. Creperanno? Non possiamo farci niente. Che cosa vuol dire tutto ciò? Soluzione della crisi? No, vuol dire oltrepassamento della contraddizione nel breve periodo, per non intaccare il proprio reddito del 3%. In fondo è questo il reddito ideale del capitale. Una volta era il 3,50%, il buon vecchio “reddito pubblico”, ora è il 3%. Adesso [1993] viene pagato anche il 12 o il 13% ma perché? per la questione del rischio, della difficoltà di poter fare previsioni. In fondo c’è un rapporto fra crisi, livello del reddito pubblico e livello del debito pubblico.

Qui si tratta di fatti concreti, che mi rendo conto possono anche risultare indigesti, ma sono fatti che spiegano in che modo questa discussione sulla crisi non è una questione che attiene soltanto ai rivoluzionari, ma è un fatto di tutti, un fatto della realtà. E il vedere come il capitale ha cercato di capirla per proporre rimedi, è interessante. Anche alcuni dei teorici del capitale non parlano più di crisi, o almeno non ne parlano nei termini in cui ne parlavano prima. Ed è anche interessante cercare di capire perché alcuni fra di noi continuano ad insistere sul concetto di crisi che verrà, dell’anarchia che un giorno sarà, a prescindere da qualsiasi nostra azione. Questo genere di credenza mi ha sempre profondamente sbalordito.

E qui si apre una parentesi che potrebbe avere sviluppi troppo complicati, forse non proprio adatti alla serata.

Quindi, il volontarismo non basta. Occorre un minimo di progetto, una certa concretezza, anche un minimo di rapportazione con gli altri, un cercare di adeguare il proprio desiderio, i propri sogni, la propria forza di sovversione a quella che è la contraddizione che si vuole oltrepassare (non sussumere o superare), contraddizione dentro cui si vuole entrare per operare l’oltrepassamento. Ecco, questo problema è del tutto aperto. È infatti facile cadere al di là dell’asino di S. Antonio. Troppa grazia sarebbe illudersi che sia possibile risolvere la contraddizione abbandonando semplicemente il concetto deterministico e passando – come fece Malatesta, ad un dato momento, commettendo secondo me un grossolano errore filosofico – alla concezione volontarista. No, il mondo non è così, non è bianco o nero, esso è piuttosto variegato.


Abbiamo detto che il capitale non sa quello che farà a medio e a lungo termine. Su questo argomento, cioè come affrontare le contraddizioni, non sa mai cosa fare con precisione. E qui intendo riferirmi al “capitale” inteso come insieme dei centri decisionali economici, finanziari, politici. Ma, non si tratta di centri facilmente identificabili. Per cui tutti noi continuiamo a personificare questo fantasma parlando del “capitale” come se fosse una entità precisa, invece si tratta di un flusso relazionale, di un movimento organizzativo, di una concezione della vita, oltre che di un pugno di uomini e di una considerevole quantità di ricchezza. E, continuando con questa personificazione, diciamo: il capitale non sa cosa farà a medio e lungo termine. E questo è certo, non sa dove andrà a finire. Ad esempio, nell’operazione politica di sostituzione del personale gestionario, le scelte sono sempre a breve scadenza, e l’attività di questo personale difficilmente potrà uscire dal quadro del perfettamente prevedibile. La stessa rigidità istituzionale l’impedirebbe. Senza condizioni complessive di reale eccezionalità, questo personale manterrà la propria azione nell’ambito della routine di governo e dell’amministrazione gestionaria, nulla di più.

Io posso avere però un’idea più avanzata di quella del capitale, e posso averla non perché sono più bravo, ma perché è il mio lavoro in quanto rivoluzionario. Io devo darmi un progetto, e questo progetto non ha le remore istituzionali dell’attività degli uomini di governo. Posso muovermi in avanti, posso costruire per grandi, grandissime linee. Che poi questo progetto venga penalizzato dallo svolgersi degli eventi, questo fatto è secondario, ma devo avere questo progetto. Solo il capitale può permettersi di non avere progetto, perché viaggia tranquillo, sempre nel breve periodo, basandosi sulle sue enormi attuali possibilità, e bene o male ha le sue riserve per salvarsi davanti ad un eventuale disastro temporaneo. Il capitale può quindi permettersi di non sapere, io non posso permettermelo. Io ho l’obbligo di sapere cosa farà il capitale, anche se poi quello che affermo io riguardo l’azione futura del capitale può non corrispondere alla realtà dei fatti.

Posso rispondere così alla domanda riguardante l’attività del capitale in un prossimo futuro: secondo me si tratterà di un taglio trasversale della società, al livello locale e internazionale. Un taglio basato sulla differenza tra Paesi poveri e Paesi ricchi al livello internazionale, e al livello locale un taglio trasversale basato sulla costruzione di un muro culturale, cioè sulla costruzione di una divisione tra inclusi ed esclusi all’interno del processo produttivo e direzionale basato non su di una differenza di reddito – questo è un concetto fondamentale – ma basato su di una differenza culturale, e quindi su di una differenza di bisogni e di desideri.

In fondo, cosa accadeva in passato? La vecchia lotta di classe si basava sul fatto che, con disponibilità finanziarie diverse, si desideravano le stesse cose. Io desideravo le stesse cose di Agnelli, però Agnelli aveva i soldi e io no, da cui si scatenava una lotta. Adesso, se il capitale riuscisse a costruire un muro basato su differenze culturali, per cui le idee, i bisogni, i desideri di chi sta al di qua del muro risultassero totalmente diversi da chi sta dall’altra parte, gli “esclusi”, messi da parte nel modo più radicale, non potrebbero più desiderare quello che desiderano gli “inclusi”, perché non lo capirebbero più.

Questo muro, ideale, non pratico, ma molto più robusto e invalicabile del muro di Berlino, questo muro è in corso di costruzione, e qua si sposta tutto il discorso. Per quale motivo questo ampio interesse verso la politica culturale, verso i progetti educazionali, verso la ricostruzione dei programmi? Perché questo grossissimo interesse sul modo di gestire la grande informazione? La risposta è sotto gli occhi di tutti: si vuole sottrarre ad una fascia estremamente ampia di cittadini, di sudditi, dei nuovi sudditi, la capacità culturale di capire la realtà, quella capacità che verrà consegnata solo nelle mani di una minoranza specifica di inclusi. Questa minoranza desidererà in base alla propria cultura quello che la maggioranza degli esclusi non potrà desiderare partendo da una cultura differente, ridotta ai minimi termini.

Sulla base di questa differenza radicale sarà possibile costruire un potere estremamente forte, più di quanto non sia mai stato pensabile nelle più estreme immaginazioni di un dittatore del passato. Anche Hitler aveva bisogno in ogni caso di una struttura di partito a cui delegare il proprio potere, una struttura che realizzasse lo sfruttamento e il controllo, aveva bisogno di mano d’opera. Ora la nuova possibilità che si apre all’orizzonte della ristrutturazione del capitale è molto diversa da tutto quello che è accaduto in passato.

Quanto sto dicendo costituisce di certo il mio modo di immaginare lo scenario futuro del potere. Potrebbe anche non essere questo lo sbocco della situazione attuale. E, in effetti, se andiamo oggi a interrogare i singoli specialisti che si occupano del problema nelle sue diverse sfaccettature, se scopriamo il coperchio dell’accademia, i sociologi, gli economisti, i filosofi, non appena li stringiamo nell’angolo della concretezza, tutti questi specialisti dicono stupidaggini. Una cosa sbalorditiva. Il livello culturale di questa gente, dal punto di vista della capacità di fornire uno scenario completo, o comunque ampio, di quello che è oggi il processo di sviluppo del capitale, è assolutamente inadeguato. Eppure, mettendo insieme le loro analisi, assommandole tutte e integrandole opportunamente, senza che singolarmente i loro autori se ne rendano conto, viene fuori una sorta di lavoro collettivo, non un processo dettagliato, ma una potente indicazione per la ristrutturazione del capitale. E questo fatto è sbalorditivo.

Neanche noi ci accorgiamo di questo flusso organizzativo delle idee di dominio. Non lo vediamo perché molti di noi sono ancora immersi in una cultura del passato, la quale si immaginava che i valori tradizionali restassero intatti, mentre al contrario questi ultimi si andavano velocemente modificando. Ora, lo scenario accennato prima per grandi linee, che ognuno può approfondire come vuole, si baserà sempre di più in futuro su di una nuova ripartizione di classe, fra inclusi ed esclusi, e la vera divisione tra queste due categorie non sarà di natura economica, ma profondamente di natura culturale.

Il concetto di Stato sociale, il concetto di sostegno della domanda, il concetto stesso di debito pubblico, saranno elementi che progressivamente verranno superati in tempi brevi, e non ce ne accorgeremo.

Il processo di costruzione di questo muro, sia pure nei termini generici con cui ne ho parlato, merita di certo una ulteriore chiarificazione. Non è possibile realizzarlo solo attraverso i mezzi tradizionali, ad esempio la scuola, ma occorre che questi mezzi vengano profondamente trasformati e poi inseriti all’interno di un progetto generale (sia pure vagamente dettagliato) in corso di realizzazione. In questo progetto campeggia, domina, la presenza della telematica, cioè di una tecnologia che permette un dialogo a distanza dove viene abolito il tempo e lo spazio tra strutture centrali di codificazione e di rielaborazione dei dati e strutture periferiche di accesso, di utilizzo e di partecipazione.

Quindi, composizione del dato, composizione del dato informatico, ma anche richiesta del dato stesso. Tutto in tempo reale. Esperimenti in questo senso li vediamo di già in corso. Forse non ce ne accorgiamo facilmente, ma possiamo farlo prestando un poco di attenzione: sono l’Auditel e simili. Sembrano banalità, ma non lo sono, costruiscono il progetto di domani.

Oggi siamo ancora in quella fase che vent’anni fa definivo “secondo livello” dell’informatica, cioè quello della “richiesta” del dato per incamerarlo. Ma, si potrebbe facilmente ipotizzare un terzo livello in cui c’è una sollecitazione a costruire il dato, una sorta di collaborazione creativa: compromissione e complicità.

Se adesso pensiamo possibile il discorso di un muro culturale che rende diversi i desideri delle persone, e che quindi rende impossibile una lotta di classe tradizionale, dobbiamo anche chiederci come il capitale costruisca questo muro. Lo fa ricorrendo ad una codificazione dei nostri desideri. Sapere in tempo reale, su tutti gli argomenti, di qualsiasi tipo e natura, come la pensa la gente. Ma, quello che la gente ritiene di pensare è veramente quello che pensa? Quello che la gente ha in testa è veramente il prodotto del suo pensiero? Se esistesse questa corrispondenza oggettiva tra volontà e desiderio, e se tra questi due momenti ci fosse un filtro culturale adeguato, capace di garantire una conoscenza sufficiente della realtà, allora la situazione sarebbe ideale e la nostra vita difficilmente recuperabile e controllabile da parte del potere. Purtroppo non è così.

Alcuni vecchi anarchici, poniamo cento anni fa, avevano ipotizzato una società libera in cui si potesse su ogni argomento chiedere un referendum popolare. E qualcosa del genere venne realizzato in alcuni cantoni svizzeri. Bakunin non era d’accordo, egli avanzò una critica feroce contro questa possibilità solo apparentemente libertaria.

E allora, veramente la gente pensa con la propria testa, con il proprio individuale modo di essere? Veramente riesce ad esprimere il proprio pensiero quando parla, quando usa il linguaggio? Il concetto che l’altro giorno ho sentito esporre in maniera chiara: “io amerei bene che il mio pensiero se ne andasse in giro per il mondo”. Ma quello che se ne va in giro per il mondo, sono certo che sia il mio pensiero? Io temo di no. Non lo è oggi, almeno quasi sempre non lo è del tutto, e ancora meno lo sarà domani. Quando io stesso sarò il prodotto della codificazione, la conseguenza diretta di questo processo in corso, quando non sarò soltanto quello che abita al di qua del muro, ma anche una piccola pietra di questo muro, perché il muro sarò io stesso, perché avrò contribuito a costruirlo e contribuirò a tenerlo in piedi, allora, in queste condizioni, cosa sarà rimasto del mio pensiero? Esso sarà esattamente il risultato di quello che vorranno che io pensi. Il pensiero che io liberamente sceglierò di pensare, di esprimere, sarà semplicemente la somma di quello che mi avranno fatto pensare. Se dovessero verificarsi condizioni del genere il gioco sarebbe concluso.

Ecco perché occorre andare cauti con le esaltazioni di certe tecnologie, di determinati strumenti. I quali strumenti, sia detto di passata, non vanno demonizzati, anche perché diventano sempre di più insostituibili. Però, una luce critica nel loro utilizzo non farebbe male, anche perché, oltre a rimbecillirci completamente, hanno una considerevole pericolosità sociale ed è davanti a questo pericolo che mi si drizzano le orecchie come davanti a ogni altro tentativo di condizionamento che il potere cerca di impormi.

Ora, l’impiego di questi strumenti attraverso una luce critica diventa indispensabile in funzione della loro estensione stessa. Ma occorre darsi la capacità di impiegare questa luce critica. Ad esempio, un fenomeno che oggi abbiamo tutti sotto il naso è l’accumulo dell’informazione, attraverso l’utilizzo continuo e intensivo degli strumenti informativi. Dovremmo essere più cauti. In un certo senso io mi spavento davanti a uno che legge troppi giornali, che si guarda il primo, il secondo, il terzo, il quarto telegiornale quotidiano. A lungo andare ci si rimbecillisce. Dicono tutti la stessa cosa, ma sembra che la dicano in modo diverso. In fondo non abbiamo tutti la capacità critica necessaria a discernere il grano dal loglio. Questi mischiano tutto in una zuppa indigesta e noi ci caschiamo dentro.

Davanti a questo progetto, che abbiamo sotto gli occhi, il quale progetto forse non sarà esattamente come l’ho esposto io adesso, ma ognuno può cogliere le sfumature e gli aspetti sostanziali che meglio gradisce e ricostruire un suo percorso di comprensione analitica, davanti a questo progetto, dicevo, occorre essere attenti, cauti e, infine, principalmente, aggressivi. La luce critica si spegne subito in mancanza di una aggressività analitica, capace di penetrare nella realtà, senza farsi grandi illusioni, ma neanche farsi prendere in giro dalle chiacchiere e dalle opinioni confezionate ad uso e consumo del popolo.


Prendiamo il problema della bomba fatta esplodere a Firenze [1993] nei pressi dell’Accademia dei Georgofili.

Con questa bomba, improvvisamente, un armamentario del passato si apre il passo fino a noi. Ma, per tutto quello che è stato scritto e per tutto quello che appare da come vengono presentati i fatti, probabilmente, lo Stato oggi non ha bisogno di questo tipo di armamentario. Alcuni, giustamente, hanno sottolineato che potrebbe trattarsi di bande marginali impazzite, del tipo “servizi” deviati.

Sulla imbecillità dei servizi segreti di tutto il mondo ci sono libri e documenti molto spassosi. Ce n’è uno sul Mossad, uno sul famoso MI 5 inglese che dicono cose incredibili per quel che riguarda l’incompetenza generalizzata, mentre la casistica filmica presenta gli agenti segreti come superman, ecc. Tutto ciò non ci aiuta a capire perché, per quanto stupidi possono essere, i servizi segreti non sono assolutamente folli. E poi, non sono neanche indipendenti. Quindi, cosa vuol dire quest’azione, diciamo incomprensibile, che si apre il passo e arriva fino a noi, e improvvisamente ci colpisce? Vorrei dire alcune cose, che restano ovviamente nell’ambito delle semplici ipotesi.

Mettiamo da parte quella dei servizi deviati. La bomba di Firenze può voler dire che una parte della struttura di dominio non vuole essere estromessa dal gioco, non vuole essere accantonata. Tanto per non fare nomi, non so, il benamato Andreotti, che per altro a me è stato sempre simpatico perché è un umorista molto gradevole, può darsi che non si sia soltanto limitato a dare commissioni di singoli omicidi, ma abbia voluto questa volta lavorare all’ingrosso. Però, bisogna pure ammettere che questa ipotesi non è molto ben fondata. Resta il discorso classico, diciamo quello che il potere quando si sente minacciato, a prescindere dalla parte da cui proviene la minaccia, ricorre a determinati strumenti. E gli strumenti sono quelli tradizionali del terrore: colpire indiscriminatamente. E può darsi che questa sia una delle matrici della bomba.

Può darsi che ci siano da decifrare altri aspetti. Siccome io, per cultura, per metodo, per mentalità, ma anche per reazione emotiva di fronte a fatti del genere, sono contro le dietrologie, non credo che questo sia un lavoro utile da fare. Ad esempio, è stato suggerito che con questa bomba si sia voluto colpire esattamente l’Accademia dei Georgofili, perché la cosa avrebbe un significato, sia per gli uomini che costituiscono questa struttura culturale, sia perché vi fa parte il presidente del Senato e quindi ciò potrebbe significare un attacco alle strutture istituzionali, ma siamo sempre nel campo delle ipotesi piuttosto azzardate e marginali.

Viceversa, se noi provassimo a fare un ragionamento completamente diverso? Dopotutto, quattro o cinque morti era il tetto massimo che con quella bomba si voleva raggiungere. Se avessero voluto avere cinquanta o sessanta morti bastava spostarsi di dieci metri. E non è affatto vero che quel luogo fosse più facile da raggiungere. Per chi conosce Firenze è chiaro che era più difficile arrivare là e non in piazza della Signoria. Ora, perché hanno voluto limitare i danni? Perché il tetto massimo di significatività doveva essere quello. Secondo me, siamo probabilmente davanti ad un modo particolare di gestire l’informazione, cioè ad un modo di realizzare un fatto informativo che colpisce l’immaginazione, non al classico terrorismo di Stato, come nel caso di Piazza Fontana. Non dimentichiamo che la bomba alla Banca dell’Agricoltura fu esattamente un giorno prima della firma del contratto dei chimici, che a sua volta precedette di tre giorni la firma del contratto dei metalmeccanici, con cui si spezzò definitivamente il fronte di lotta del cosiddetto autunno caldo. Quindi, là c’era un significato particolare: si voleva distogliere l’attenzione e creare un clima di solidarietà nazionale, per spingere a firmare il contratto di lavoro di queste due grosse categorie in lotta.

Qui la situazione è diversa. Qui non c’era nessun contratto da firmare. Ci si avviava verso l’estate, la piena estate. Quando mai si sono messe bombe in estate, se non nel caso di Bologna che potrebbe sempre spiegarsi con l’incidente di trasporto? Il capitalismo avanzato che gioca con gli strumenti informativi, ad un certo punto, non si limita più a passare le veline ai telegiornali, ma crea l’informazione, cioè realizza un fatto.

Non si tratta di un’ipotesi tanto peregrina. Pensate: la guerra in Bosnia. Quante delle azioni realizzate dai musulmani Bosniaci, o dai Serbi, dai Croati, o da altre strutture militari parallele, in lotta tra loro, sono vere e quante non lo sono? Quante di queste azioni sono state imposte dallo scontro fisico, dall’atavica aggressività sessuale dell’uomo in divisa verso la donna (il soldato ha sempre massacrato le donne sotto tutte le bandiere e nel corso di tutte le guerre), e quanto invece non sia stato voluto, organizzato, preparato e realizzato da ristretti gruppi di persone per mandare segnali a tutto il mondo su di una certa linea interpretativa? Io sono sicuro che qualcosa in questo senso ci sia, e che siamo davanti ad un nuovo modo di creare la realtà, di creare l’informazione e quindi poi di gestire modificazioni reali in forza di quello che si è creato, di costruire di sana pianta una cosa che non c’era, di farla diventare reale. Nel momento in cui la realtà virtuale viene costruita dai computer, nel momento in cui sogniamo di essere superman seduti nella nostra poltrona, legati come l’Alfieri, penetrando all’interno dello schermo, perché mai il potere non poteva pensare possibile portarci dentro casa una sensazionale e assolutamente inesistente notizia basata su cinque morti, questi sì concretamente esistenti, lunghi e freddi stesi sul tavolo dell’obitorio? Perché non poteva pensarlo possibile?

Naturalmente il mio è solo un suggerimento alla riflessione. Ora, mi chiedo: quante ne potranno costruire di queste stragi? E quanto diventeranno bravi nel costruirle? E, quindi, in che modo la loro bravura crescerà parallelamente alla nostra assuefazione, da cui verrà fuori la possibilità di ulteriori notizie costruite al solo scopo di esistere in quanto notizie, perché solo in questo modo possono estrinsecare tutto il loro potenziale terroristico? Che cosa verrà fuori da questo processo? Come potremo difenderci? In che modo potremo contrattaccare? Pensate in quale territorio della desolazione stiamo penetrando, e pensate al pericolo dell’abbandono, della consegna nelle loro mani di ogni residuo della capacità di capire. Qualcuno potrebbe pensare, considerando queste perdite culturali, che si tratta, di briciole senza importanza. Specialmente quando in contropartita si sta guadagnando nella capacità di premere il bottone a destra invece di quello a sinistra, il bottone giallo invece di quello rosso. I bambini di oggi, quanto sono bravi con questi bottoni e queste lucette. Quand’ero piccolo io non avevo assolutamente questa abilità nel collegare capacità decisionale, cervello, occhio e mano. Però quanto sono state pagate queste abilità che io, nella mia infanzia, non possedevo? Attenzione, stiamo penetrando all’interno di un territorio in cui tutto potrebbe essere completamente diverso da come era ieri.

Parlando del volontarismo non mi riferisco tanto ai meccanismi della volontà dell’individuo, almeno non soltanto a quelli, ma alla loro trasformazione in sistema, in pensiero teorico fondato sulle presunte possibilità illimitate della volontà. È evidentemente questo sistema che finisce per diventare dominante nelle scelte di vita. Ora, all’interno di una scelta di vita si può certo individuare il ruolo della volontà, ma anche su questo ci sarebbe molto da dire. È la volontà veramente quello che si spaccia di essere? Siamo liberi di volere, o non siamo invece obbligati a volere? Il pensiero filosofico ha una grossa discussione su questo punto, discussione che ha importanti riflessi pratici. Dicevo quindi che all’interno di una scelta di vita, oltre alla volontà del singolo si deve tenere conto delle condizioni che stanno lì, davanti all’attività del singolo che agisce, e fare partecipare all’azione queste condizioni, non metterle tra parentesi. La maggior parte di queste condizioni sono determinate dalle persone che ci stanno vicine, con cui condividiamo il nostro progetto, i nostri desideri, la nostra volontà, all’interno di quello che è il campo delle nostre decisioni più o meno volontarie.

Questa apertura, questa reciproca relazione, è un fatto che si sviluppa, è un fatto organico che cresce, che si modifica, che avverte un campo d’azione della volontà sicuramente diverso da quello che è invece il classico canone del volontarismo, poniamo nella versione di Malatesta, ecc. Le riflessioni fatte prima sulla volontà, non si ponevano direttamente come critica della capacità di decidere cosa fare, ma solo come critica della riduzione a sistema di questa capacità dell’individuo. Per quanto, anche su questo, anche sulla volontà in termini di capacità specifica del singolo, ci sarebbe molto da dire. E qualcosa l’abbiamo detto prima, quando si è posta la domanda: ma i nostri pensieri sono veramente nostri? Si potrebbe chiedere la stessa cosa riguardo la volontà: ma la nostra volontà è veramente nostra? Oppure è un meccanismo che può essere utilizzato dagli altri per farci volere quello che vogliono loro e non quello che vogliamo noi? Guardate che una intuizione di questo genere, più di cent’anni fa, l’ebbe Schopenhauer quando avvertì del rischio della volontà. La volontà è un meccanismo della coscienza che ci obbliga a continuamente volere.

“L’utopia del capitale sarebbe la non utilizzazione dei corpi, oppure la realizzazione di uno sviluppo assolutamente asettico”, mi suggerisce il mio amico Riccardo d’Este. E, in effetti, il capitale non può schiacciare o annullare definitivamente la vitalità del corpo umano. Io credo che se pure questa ipotesi estrema sia irrealizzabile, sono invece realizzabili ipotesi intermedie. Ed è questo che secondo me merita una riflessione.

Se è vero che il capitale non può annullare completamente la vitalità, può fare tante cose per abbassarla. Ed è su questo punto che dovremmo intervenire. Perché, ad esempio, adesso sta facendo una cosa: sta deculturalizzando una parte dell’umanità. Molti hanno un livello culturale che mediamente è molto più alto di quello che si aveva prima, ma in questo aumento di cultura c’è stato un abbassamento, una dequalificazione. Si sostiene che una volta c’era il 50% di analfabeti e che oggi il tasso di analfabetismo è di meno dell’1%, però in compenso il tasso di alfabetizzazione, che poi sarebbe il nostro attuale analfabetismo, è del 75, dell’80 per cento. Ci sono studenti delle università americane che, secondo alcune indagini, hanno dimostrato di avere tassi di alfabetizzazione del 92%. A questo punto, io mi chiedo: se questo progetto del capitale di sottrarci gli strumenti del pensiero non avrà conseguenze anche sul corpo? Oppure c’è una dicotomia tra pensiero e corpo? Io non credo sia possibile accettare una separazione del genere: tra spirito e materia, tra pensiero e corpo. Se mi sottraggono le idee o le capacità di capire, mi si sottrae la capacità di vivere tout court, di vivere complessivamente, anche con il corpo, in quanto non sarò più capace di desiderare quello che magari prima ero ancora in grado di desiderare. E se è pur vero, torno a dire, che il capitale non potrà mai uccidere completamente la vitalità, l’inventiva, la creatività dell’individuo, può però progettarsi un adeguamento dell’uomo alla macchina, in quanto, essendo ormai la soglia tecnologica non superabile, cioè non potendo portare la macchina al livello dell’uomo, può portare l’uomo al livello della macchina. In altre parole, non farlo diventare una macchina, ma ridurgli i livelli di inventiva, di creatività, di imprevedibilità, in modo da farlo risultare adeguato alla macchina.

Se non è quindi possibile distruggere completamente la vitalità, cioè se non è possibile distruggere l’uomo e fare dilagare il capitale senza più remore, è possibile imbarbarirlo e ridurlo al livello della macchina. E questo è di certo un grande problema anche per quanto riguarda la gestione del corpo.

Postfazione

Procedendo nella critica della mentalità politica e di tutte le connessioni ideologiche, che questa inevitabilmente si porta dietro, negli ultimi anni si è arrivati a compromettere, qualche volta, ogni visione progettuale dell’attività rivoluzionaria.

Man mano, un patrimonio di estremo interesse e significatività, si è sgretolato, e tutti presi dalle necessità di far luce sui guai altrui, in un ardore iconoclasta, abbiamo qualche volta finito per annullare tanti risultati positivi che la nostra vecchia critica, quella che, per intenderci, da sempre, in quanto anarchici portiamo avanti, aveva comunque conseguito.

I guasti del partito e della mentalità dirigista, che per alcuni rigagnoli sotterranei erano riusciti a far capolino anche nelle nostre organizzazioni di sintesi, erano dopotutto limitati e meritavano i nostri appunti critici, come ormai tutti finiscono per ammettere, solo per la loro potenziale pericolosità non tanto per quello che avevano causato, almeno considerando la cosa in termini di rallentamento della spinta rivoluzionaria.

Riflettendo a mente serena, quella spinta, se in qualche momento ci fu, e allora la si poté vedere operante nella disposizione reattiva delle masse degli sfruttati, trovò maniera di acquietarsi in altro modo e la stupidità politica di qualche anarchico, preoccupato solo di mantenere viva, ma non operante, la propria organizzazione, non era argomento tale da guastarsi il fegato, e se qualche volta anche chi scrive se lo è guastato, il motivo è da ricercarsi nello sdegno, di certo giustificato, che provano tutte le persone in buona fede quando si trovano davanti agli ideali calpestati o stornati a servire interessi meschini di piccoli individui in cerca di una identità politica, identità che certo avrebbero fatto meglio a cercare in altre organizzazioni.

Ma, allo stesso modo in cui allora alzammo la critica al di là della significatività dei nostri obiettivi, se non altro con l’intenzione di precorrere possibili future involuzioni, adesso stiamo correndo il rischio di alzare la critica coinvolgendo, nel furore distruttivo che sta accorpando inusitatamente anche i tiepidi di ieri, quei pochi punti di riferimento che dovevano essere messi in chiaro ieri e, al di là di ogni dubbio, devono essere salvaguardati oggi, trattandosi di punti di importanza essenziale.

La necessità di un progetto rivoluzionario è uno di questi punti. Oggi accade sempre più spesso che molti compagni non si fermano a riflettere bene su questo elemento essenziale per l’attività rivoluzionaria. Anzi, non è raro il caso in cui la stessa attività rivoluzionaria viene vista con sospetto e allontanata, se non altro nella sua definizione di attività caratterizzata da pratiche specifiche, in nome di un generico modo di vivere “contro”, ritenuto sufficiente perché in grado di prendere le distanze da certi dettami imposti dal potere.

La confusione, in quest’ambito, non cessa di aumentare. E con essa il non sapere cosa fare. Come pensano di porvi rimedio i tanti ospiti contrari ad un sistema da cui, spesso, ci si limita a prendere le distanze? Dalle preoccupazioni espresse in diverse occasioni non mi sembra di capire bene. Alcuni parlano della priorità dell’individuo, di tenere ben salda la necessità di partire da scelte individuali, le quali, una volta fatte, permettono processi di utilizzazione di altri individui, singoli anche loro, unici per dirla chiaramente, in grado di decidere, tramite altre scelte, accordi dettagliati e transitori.

Altri ancora da queste premesse concludono per l’impossibilità di un progetto rivoluzionario, o, almeno, per la sua improponibilità, a causa dei rischi che lo stesso potrebbe far correre alla libertà dell’individuo.

Molti altri ancora, come spesso accade la maggior parte collocandosi a mezz’aria, non sanno cosa dire, non hanno elementi per far valere le loro aspirazioni individuali, ma si lasciano affascinare dalle premesse filosofiche, oppure preoccupare dai sospetti di inquinamento delle proprie libere scelte, sospetti insistentemente avanzati, per cui aspettano che qualcuno venga a fare chiarezza.

Come mi è capitato più volte di dire, in questo campo tutto si basa su di un equivoco. Non esistono reali differenze tra le tesi che giustamente cercano di partire dall’individuo per salvaguardarne l’unicità e le altre tesi, solo apparentemente contrarie, che partono dalla necessità di un progetto comune a più individui, progetto, sia pure dentro certi limiti, chiaro, dettagliato, capace di impiegare mezzi e prospettare iniziative, articolato senza che si trasformi in un camicia di forza, fissato in accordi semplici, da concordarsi in base al principio del consenso di tutti coloro che si impegnano nel progetto stesso.


Febbraio 1994

Alfredo M. Bonanno

Nota editoriale

I testi qui pubblicati sono stati riveduti e aggiornati.

“Nuove svolte del capitalismo”, pubblicato su “Anarchismo” n. 72, maggio 1993, pp. 1-7. Si tratta della relazione di sostegno alle conferenze tenute in Grecia nel Gennaio 1993. Pubblicato anche in Il progetto insurrezionale, Ed. Il Culmine-Gas, Cuneo 1995, pp. 3-16.

“Gli anarchici di fronte alla ristrutturazione capitalista”. Conferenza tenuta nell’Università di Tessalonica (Grecia) il 7 gennaio 1993. Trascrizione della registrazione su nastro.

“Gli anarchici e la storia”. Intervista concessa al Quotidiano “Eleftherotipia”, in parte pubblicata sul “Supplemento settimanale” del 28 febbraio 1993. Trascrizione della registrazione su nastro.

“Ristrutturazione del capitale e nuova democrazia”. Relazione di sostegno alla conferenza tenuta a Rovereto il 26 giugno 1993. Relazione ciclostilata.

“Repressione e controllo sociale”. Conferenza tenuta a Rovereto il 26 giugno 1993 dal titolo: “Ristrutturazione del capitale e nuova democrazia”. Trascrizione della registrazione su nastro.

 
 

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Prossime uscite
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