Traduzione italiana dell’edizione della Casa editrice sociale, Milano 1921, riveduta e corretta
Prima edizione di “Anarchismo” [ristampa fototipica]: Catania 1978
Seconda edizione: Trieste 2012
Pëtr Kropotkin
Parole di un ribelle
Introduzione di Alfredo M. Bonanno
Nota introduttiva alla seconda edizione
Prefazione di Kropotkin alla prima edizione italiana [Casa editrice sociale, Milano]
“Non si corre perché si ha paura, si ha paura perché si corre.
Fermati ed anche la paura si calmerà”.
William James
* * * * *
Nota introduttiva alla seconda edizione
Un libro di lotta, tagliente come una lama, non un testo scientifico, come ci si aspetterebbe da Kropotkin. Qui c’è il combattente, non il geografo e lo scienziato sociale. C’è l’uomo che ha alle spalle una lunga attività clandestina, un’evasione dalla prigione – fra le peggiori – zarista, e che sta accingendosi ad assaggiare quelle della democratica Francia. Insomma un uomo d’azione.
Pur non essendo una lettura direttamente attualizzabile, mutate le condizioni storiche che oggi ci circondano da ogni parte, asfissiandoci e non alimentando le speranze di cui invece questo libro è intessuto, rimane lettura fraternamente fruibile. Dietro ogni affermazione, più o meno condivisibile che sia, si sente un cuore che batte insieme a quello dei miseri e dei minimi, e anche un dente pronto ad azzannare i superbi cavalcatori della tigre proletaria scatenata (la Comune di Parigi era faccenda di appena dieci anni prima), oltre che l’eterno nemico di sempre, i detentori del capitale, i massacratori di un passato recente e meno recente. I feroci difensori della rivoluzione parigina del 1871 misero al muro in pochi mesi 85 controrivoluzionari (tra spie, provocatori e altra gentaglia, compreso l’arcivescovo della capitale). Nello stesso periodo di tempo a Versailles fucilarono 17.000 comunardi. Che stupefacente bilancio. Guai a fidarsi della bontà d’animo dei borghesi. Quando i cadaveri tappezzarono il muro dei federati, al cimitero di Père Lachaise, le bella gente della città – che durante gli scontri nella zona sud, nei pressi, appunto, del cimitero, si trovava a Bois de Boulogne ad assistere a un concerto di Johann Strauss – forza trascinatrice della musica – andò a cavare gli occhi dei morti ancora insepolti con i puntali degli ombrelli.
Kropotkin non ci dice queste cose, forse troppo truculente, ma ci fa capire che non bisogna esitare nel colpire il nemico, quando se ne ha l’occasione, in caso contrario le conseguenze da pagare sono incommensurabilmente più orrende di qualsiasi immaginazione, anche la più efferata. Lo stesso per i mezzi, e gli sforzi, e la dedizione, necessari nel preparare l’insurrezione che favorirà – elemento certamente non decisivo in assoluto ma radicalmente necessario – la prossima rivoluzione.
Tutto qua. E non è poco, con i tempi che corrono.
In altre parole, è un libro d’azione e per l’azione.
Le grandi teorie, compresa quella “presa nel mucchio”, che in altri luoghi tanto mi ha fatto storcere il muso, qui sono solo adombrate di passaggio. Prima di tutto occorre attaccare e distruggere il nemico, espropriare le sue ricchezze e rendergli impossibile la vendetta che ferocemente è innestata da secoli di barbarie nel suo sangue infetto.
Il resto sono teorie che possono riscaldare il cuore solo degli anarchici da passeggiata scolastica.
Trieste, 13 febbraio 2012
Alfredo M. Bonanno
Prefazione di Kropotkin alla prima edizione italiana [Casa editrice sociale, Milano]
I primi capitoli di questo libro, scritti nel 1879, parlano della rivoluzione sociale come di un fatto imminente. Il risveglio del proletariato, manifestatosi allora in Francia, dopo il lutto della Comune; l’estensione presa dal movimento operaio nei Paesi latini; lo slancio della giovinezza russa e la propaganda rapida delle idee socialiste compiuta in Germania, benché i Tedeschi fossero rimasti a lungo refrattari al socialismo francese; infine, le condizioni economiche dell’Europa, tutto lasciava presagire prossima la venuta d’una grande rivoluzione, sociale, europea. Rivoluzionari e moderati erano allora d’accordo nel predire che il regime borghese, scosso dalla rivoluzione del 1848 e dalla Comune di Parigi, non poteva resistere lungamente agli attacchi del proletariato europeo. La rovina si produrrebbe prima della fine del secolo. Coloro che combattevano la nostra tattica rivoluzionaria, opponendole il parlamentarismo, non volevano lasciarsi sorpassare e predicevano in base ai calcoli esatti del numero di votanti, che ancor prima dei popoli latini e della fine del secolo, avrebbero conquistato la maggioranza nel parlamento tedesco, decretata l’espropriazione e compiuta la rivoluzione sociale con la scheda.
Eppure ci si dice ora – dagli uni con tristezza e dagli altri con aria di trionfo – “noi siamo già nel ventesimo secolo e la rivoluzione promessa si aspetta sempre!”. Si potrebbe quasi credere – anzi e stato detto nel campo dei ricchi – che il trionfo della borghesia è più sicuro di quanto non sia mai stato. I lavoratori paiono aver perduta la speranza in una rivoluzione, e, accontentandosi di mandare alcuni rappresentanti nei parlamenti, contano d’ottenere così dallo Stato ogni sorta di favori.
Le loro stesse domande si limitano a piccolissime concessioni da parte degli sfruttatori. Il lavoratore, convertito alla democrazia sociale, osa tutto al più sperare, che un giorno diventerà un salariato dello Stato una specie di infimo funzionario che, dopo venticinque o trent’anni di lavoro e di sottomissione, percepirà una piccola pensione.
Quanto alle mire più larghe, alla rivoluzione che prometteva di agitare tutte le idee e di cominciare un’era nuova di civiltà, realizzando l’avvenire di benessere, di dignità, di indipendenza, d’eguaglianza – intravisto un momento dal lavoratore per i suoi figli – tutto questo, ci si dice oggi, non è che fantasia. Si è anzi costituita una scuola di socialisti, che in nome d’una scienza tutta particolare, pretendono provare che la rivoluzione oggi è un non senso. “Disciplina, sottomissione ai capi – e tutto ciò che può esser fatto per l’operaio lo sarà dal parlamento. Dimenticate il fucile, dimenticate il 1793, il 1848 e il 1871, aiutate i borghesi ad impadronirsi di colonie in Africa e in Asia, sfruttate con loro il negro e il cinese, e si farà per voi quanto si può fare... senza incomodare troppo la borghesia. E tutto questo a un solo patto: quello di dimenticare la parola, l’illusione di rivoluzione!”.
Ebbene, tutti questi signori, non si affrettano un po’ troppo a trionfare? Anzitutto, noi siamo appena entrati nel ventesimo secolo; e se dieci, vent’anni contano molto nella vita di un individuo, contano ben poco o nulla nel succedersi degli avvenimenti storici.
Un fatto di un’immensa importanza come la rivoluzione sociale non potrebbe dunque ritardare di alcuni anni?
No, non ci siamo ingannati quando, venticinque anni fa, vedevamo venire la rivoluzione sociale. Essa è tanto inevitabile, quanto lo era un quarto di secolo prima. Solamente, dobbiamo riconoscere che allora non avevamo penetrato a fondo il movimento di reazione che derivò dalla disfatta della Francia nel 1870 e 1871 e dal trionfo dell’impero militare tedesco. Non avevamo saputo misurare la durata dell’interruzione che stava per prodursi nel movimento rivoluzionario europeo in seguito a tale disfatta e a tale vittoria.
Se la guerra del 1870-1871 avesse semplicemente tolto la supremazia militare alla Francia per darla alla Germania, le sue conseguenze dal punto di vista dello sviluppo del movimento socialista-rivoluzionario sarebbero state nulle.
Ma tale guerra aveva ottenuto un bel altro effetto, quello di paralizzare per trent’anni la Francia. Infatti, come mai la Francia poteva evitare un quarto di secolo di militarismo, non sottomettersi a Roma per tema d’una guerra intestina, non lasciarsi ingannare dall’alleanza franco-russa – essa, che aveva a Metz, a due o tre giorni da Parigi, non una semplice fortezza, ma un campo trincerato, da dove un mezzo milione d’uomini perfettamente equipaggiati, con un’artiglieria formidabile, potevano essere diretti contro la capitale, ventiquattro ore dopo o piuttosto prima della dichiarazione della guerra? Minacciata da una triplice, e poi quadruplice alleanza, pronta a dilaniarla, la Francia fino a questi ultimi anni si sentì ogni giorno alla vigilia di un’aggressione, dopo che il fiore della gioventù francese era stato decimato sui campi di battaglia e nelle vie di Parigi. I suoi traviamenti erano inevitabili e fatali, anzi, gettando uno sguardo sul passato – noi che abbiamo combattuto giorno per giorno clericalismo, militarismo e cesarismo – noi confessiamo d’ammirare una cosa, ed è che la Francia abbia potuto attraversare un’epoca sì triste, senza cadere nelle braccia di un nuovo Cesare.
Bisogna proprio che la forza della corrente rivoluzionaria sia ben più potente di quanto non pare a coloro che non sanno esaminare a fondo gli avvenimenti – se l’avventura di Boulanger, sostenuta dall’enorme potenza dei banchieri anglo-americani, dai clericali e dai realisti dell’Europa intera, è finita malgrado tutto così miseramente; se la Francia non è divenuta clericale, mentre l’Inghilterra si “cattolicizza” tanto bene e la Germania pare voglia mettersi per la stessa via; se noi vediamo infine la Francia, al termine di questi dolorosi anni, ridivenuta se stessa, rinascere alla vita e produrre una giovane e bella generazione, che sta per riprendere il posto dovutole nel movimento di rinnovazione del mondo civile.
Si scagli, fin che si vuole, l’anatema sui rivoluzionari ardenti, soprattutto sugli anarchici che seppero rilevare il vessillo rosso, tenere sveglia la Francia e a volte eliminare dall’arena politica coloro che si preparavano a cedere il posto ad altri reazionari, più brutali ancora nella loro reazione; si maledica fin che si vuole! La storia dirà che è grazie alla loro energia, all’agitazione nutrita con il loro sangue, che fu contenuta la reazione europea. Il partito rivoluzionario, per quanto debole numericamente, ha, in realtà, dovuto spiegare un’energia immensa, selvaggia, per frenare la reazione interna ed esterna. Certo, non avevamo esagerato tale forza, perché senza di essa cosa sarebbe avvenuto di noi?
E lo stesso pensiero si applica, in modo quasi identico, alla Spagna e all’Italia. Chi tra noi avrebbe predetto che in Spagna si tenterebbe di ristabilire la tortura dell’Inquisizione contro gli operai ribelli? Chi avrebbe previsto le mitragliate di Milano? Eppure, si è osato tanto! Osato solamente, perché la risposta dei lavoratori seppe calmare gli “arrabbiati”.
Oggi solamente noi possiamo renderci conto di tutto l’arresto prodotto in Europa dalla guerra franco-germanica. La peggiore delle disfatte del 1870-1871 fu data dall’eclisse intellettuale della Francia.
La necessità in cui si trovò la nazione francese di pensare anzitutto a preservare la sua esistenza, il suo genio popolare, la sua influenza civilizzatrice, la sua esistenza come nazione, paralizzava il pensiero rivoluzionario. L’idea di una insurrezione evocava quella di una guerra civile, che sarebbe terminata con le armi dello straniero, accorso in difesa dell’ordine borghese. Inoltre, tutto quanto la Francia aveva avuto di più energico, di più ardente, di più generoso – tutta una generazione era morta nella grande lotta incominciata dopo lo scontro di Parigi. Tutta una giovane generazione di rivoluzionari, attratti a Parigi sotto l’Impero, era perita nei massacri compiuti in seguito alla caduta della Comune. L’intera vita intellettuale in Francia doveva subirne il contraccolpo. Essa decadde, diminuì, rimase in balia di impotenti, di malati e di timorosi.
Lo schiacciamento della Francia significava lo schiacciamento di una nazione già posta alla testa non solo della civiltà, ma di tutto il periodo vissuto dall’Europa dal 1848 al 1870. L’Europa retrocedeva al 1849, al 1830. La Germania vittoriosa stava per prendere la direzione intellettuale che era appartenuta sino allora alla Francia e in gran parte all’Italia – e benché avesse dato al mondo un certo numero di pensatori, di poeti e di scienziati, essa non aveva nessun passato rivoluzionario. Nel suo sviluppo politico e sociale, si trovava al punto in cui era stata la Francia sotto Luigi Filippo. Il governo rappresentativo, introdotto in Germania nel 1871, l’attirava come una cosa nuova, e se aveva avuto, in [Wilhelm] Weitling e nei suoi continuatori, alcuni comunisti ardenti, in maggioranza profughi, il movimento socialista vi era stato trapiantato da poco, e per questo motivo doveva attraversare le stesse fasi che in Francia: il socialismo di Stato di Louis Blanc e il collettivismo statale, che [Constantin] Pecqueur e [François] Vidal avevano formulato per la repubblica del 1848.
In tal modo lo spirito dell’Europa discese sino al livello ove si trovava al tempo di Blanc perdendo a un tempo la chiarezza e la semplicità dello spirito latino. Assunse inoltre il carattere “centralizzatore”, contrario allo spirito latino, ma imposto da quello tedesco. In Germania, l’unione dei piccoli Stati in un solo Impero, era stato il sogno di ben trent’anni.
Parecchie altre cause potrebbero essere menzionate ancora per spiegare la forza della reazione. Una tra esse, è l’estensione coloniale. Oggi, la borghesia europea non si arricchisce più solamente del lavoro degli operai del proprio Paese; ma, profittando della facilità dei trasporti internazionali, ha dovunque dei servi e degli schiavi: nell’Asia Minore, in Africa, nelle Indie, in Cina. I tributari sono tutti gli Stati meno progrediti. I borghesi d’Inghilterra, di Francia, d’Olanda e del Belgio diventano sempre più gli usurai dell’universo, vivendo di tagliandi di rendita. Stati interi sono taglieggiati dai banchieri di Londra, di Parigi, di New-York, di Amsterdam. Così, per esempio, la Grecia, l’Egitto, la Turchia, la Cina; e tra poco si potrà dire altrettanto del Giappone, a cui dei cari alleati prestano al 7%, esigendo un’ipoteca su tutti i suoi proventi doganali. Per tal modo, si fa facilmente qualche concessione all’operaio europeo: lo Stato nutrirà volentieri i suoi figli a scuola, darà loro anche una pensione a sessant’anni compiuti – a condizione d’aiutare i borghesi a conquistare dei servi e a rendere gli Stati in Asia e in Africa vassalli della Borsa.
Infine, si sarebbe pur dovuto menzionare lo sforzo antirivoluzionario fatto da tutte le chiese cristiane, ma venuto soprattutto da Roma, per arrestare con tutti i mezzi l’onda minacciosa della rivoluzione. L’assalto dato al materialismo, la guerra mossa con tanta abilità alla scienza in generale, la scomunica delle opere e degli uomini, praticata così assiduamente da tante leghe mondane, politiche e religiose – tutto questo dovrebbe essere ricordato per dare un’idea dell’immensa organizzazione contro-rivoluzionaria, adoperata per combattere la rivoluzione. Ma ciò non è che secondario di fronte al fatto dominante a cui accennavamo prima: lo schiacciamento della nazione francese, il suo esaurimento temporaneo e il dominio intellettuale della Germania, che, malgrado tutte le qualità ammirevoli del suo genio e del suo popolo, per la forza stessa della sua posizione geografica e del suo passato, era trenta o quarant’anni più indietro della Francia.
In tal modo, pure la rivoluzione fu ritardata. Ma è forse una ragione per dire che essa è rinviata indefinitamente? – Nulla di meno vero, nulla di più assurdo d’una tale affermazione.
Un fatto notevole si è prodotto nello sviluppo del movimento socialista. Come si diceva un tempo delle malattie infiammatorie, è rientrato nell’organismo, ove si trova allo stato latente. Il lavoratore vota; segue le bandiere nelle processioni politiche, ma il suo pensiero è altrove. “Tutto questo, non è quanto ci vuole”, dice a se stesso. “È l’esteriore, il decoro soltanto”. Quanto all’interiore, alla sostanza – rumina, aspetta a decidersi. E, intanto, costituisce le sue unioni di mestiere internazionali, al disopra delle frontiere. – “Diffidate di queste unioni”, dicevano l’altro giorno i membri d’una Commissione, nominata da uno degli Stati del Canada. “Diffidate: ciò che sognano i lavoratori, in queste unioni federate, è di impadronirsi un giorno di uno Stato americano, di un territorio, di proclamarvi la rivoluzione e di espropriare – senza compenso alcuno – tutto quanto troveranno necessario per vivere e lavorare”.
“Sì, senza dubbio, votano, vi obbediscono”, dicono i borghesi tedeschi ai dirigenti del partito democratico sociale; “ma non fidatevi troppo! Respingeranno voi stessi il giorno della rivoluzione, se non diventerete allora ben più rivoluzionari di quanto non lo siete oggi. Venga la rivoluzione, e sarà sempre il partito più avanzato che avrà il sopravvento e vi obbligherà ad andare avanti. Voi dirigenti, voi sarete diretti!”.
E da ogni parte gli stessi segni dei tempi attirano la nostra attenzione. Il lavoratore vota, manifesta, in mancanza di meglio – ma nell’universo intero un altro movimento, ben più serio, si prepara e matura nel silenzio. [Louis Auguste] Blanqui diceva un giorno che vi sono a Parigi 50.000 uomini, operai che non vanno mai a nessuna riunione, né appartengono a una società qualsiasi – ma che venuta l’ora, scendono nelle strade, si battono e fanno la rivoluzione. La stessa cosa pare si produrrà oggi in seno ai lavoratori del mondo intero.
Essi hanno la loro idea, un’idea propria, e lavorano con ardore per dar corpo un giorno a questa idea. Non ne parlano nemmeno, si comprendono. In un modo o nell’altro sanno che un giorno bisognerà prendere il fucile e muovere guerra ai borghesi. Come? Dove? In seguito a quale avvenimento? Chi lo sa! Ma questo giorno verrà, e non è lontano. Ancora alcuni anni di sforzi, e l’idea dello sciopero generale avrà fatto il giro del mondo. Essa sarà penetrata dovunque, suscitando dovunque aderenti e entusiasmi... E allora?
Allora si vedrà di quale avvenimento converrà profittare! E ça ira! – ça ira, e balleremo e faremo ballare per inaugurare un nuovo mondo. I nostri nemici credevano d’aver seppellito così bene tutti questi sogni, che i nostri amici stessi si domandavano se, in realtà, il seppellimento non fosse ben riuscito... Ed ecco che l’idea, sempre la stessa, quella che faceva battere i nostri cuori trent’anni fa, risuscita, più viva, più giovine, più bella che mai: l’espropriazione per scopo, e lo sciopero generale come mezzo di paralizzare il mondo borghese in tutti i Paesi ad un tempo.
Ma allora è la rivoluzione sociale, che viene ora dal soffio stesso del popolo, dai “bassi fondi”, dove tutte le grandi idee hanno sempre germinato, quando un’idea nuova diventava necessaria per rigenerare il mondo?
Sì, è la rivoluzione sociale. Preparatevi perché riesca, trionfi, produca tutti i suoi frutti, semini tutte le grandi idee che ci fanno battere il cuore e fanno progredire il mondo.
Maggio 1904
Pëtr Kropotkin
La situazione
Decisamente, noi ci avviamo a grandi passi verso la rivoluzione, verso un sommovimento che, scoppiando in una regione, va propagandosi, come nel 1848, nelle altre vicine, e mentre scuote la società attuale nelle sue viscere, finirà certo col rinnovare le fonti della vita.
A conferma della nostra idea, non abbiamo bisogno di invocare le testimomanze di un celebre storico tedesco, G.-G. Gervinus (Introduction a l’Histoire du dix-neuvième siècle, Paris 1876), o di un filosofo italiano assai conosciuto, Giuseppe Ferrari (Histoire de la raison d’État, Paris 1860): entrambi dopo aver scrutato nella storia moderna, concludevano nella fatalità di una grande rivoluzione verso la fine di questo secolo. Dobbiamo osservare soltanto il quadro che si è mostrato ai nostri occhi negli ultimi vent’anni; non abbiamo cioè che da guardarci intorno.
Constateremo allora che due fatti predominanti risaltano dal fondo grigiastro della tela: il risveglio dei popoli, di fianco alla manchevolezza morale, intellettuale ed economica delle classi regnanti, e gli sforzi impotenti delle classi superiori, sforzi di agonizzanti, per impedire tale risveglio.
Sì, il risveglio dei popoli.
Nell’officina soffocante, come nella bettola oscura, sotto il tetto del granaio, come nella galleria piovosa della mina, si elabora oggi tutto un mondo nuovo. In queste masse sconosciute, che la borghesia disprezza e teme, dal seno delle quali è sempre partito il soffio che ha ispirato i grandi riformatori, i problemi ardui dell’economia sociale e dell’organizzazione politica si prospettano l’uno dopo l’altro, si disputano e ricevono le loro nuove soluzioni, dettate dal sentimento della giustizia. Le piaghe della società attuale si toccano nel vivo. Nuove aspirazioni si producono, nuove concezioni si abbozzano.
Le opinioni si intrecciano, variano all’infinito; ma due idee prime già risuonano sempre più distintamente in questo ronzio di voci: l’abolizione della proprietà privata, il comunismo, da una parte, dall’altra l’abolizione dello Stato, il Comune libero, l’unione internazionale dei lavoratori. Due voci che convergono verso un medesimo scopo, l’uguaglianza, e non intesa questa come l’ipocrita formula, scritta dalla borghesia sui labari e sui codici per meglio asservire il produttore; ma nel senso dell’uguaglianza reale: terra, capitale, lavoro per tutti.
Le classi regnanti si sforzano di soffocare queste aspirazioni, di imprigionare gli uomini, di sopprimere gli scritti; ma l’idea nuova penetra negli spiriti, si impadronisce dei cuori, come un giorno il sogno della terra ricca e libera in Oriente soggiogò i servi, quando essi accorrevano nelle fila dei crociati. L’idea può sonnecchiare un istante; se le si impedisce di mostrarsi alla luce, essa può minare il suolo, ma per ricomparire ben presto, più vigorosa di prima. Si consideri solo il risveglio del socialismo in Francia, questo secondo risveglio nel breve spazio di quindici anni. È come un’onda, che caduta un momento, si innalza di nuovo e più minacciosa. E dopo che un primo tentativo di porre in pratica l’idea nuova sarà compiuto, l’idea sorgerà e apparirà agli occhi di tutti in tutte le sue semplici attrattive. Che un solo tentativo riesca, e la coscienza della propria forza darà ai popoli uno slancio eroico.
Questo momento non può essere procrastinato. Tutto lo avvicina: la stessa miseria, che costringe l’infelice a riflettere, e persino l’inerzia forzata, che strappa l’uomo pensante alla cerchia ristretta dell’opificio, per spingerlo nella via, ove egli apprende ad un tempo i vizi e l’impotenza delle classi dominanti.
E frattanto, che cosa fanno queste classi dominanti?
Mentre le scienze prendono uno slancio, che ci ricorda il secolo passato alla vigilia della grande rivoluzione; mentre arditi inventori aprono ogni giorno nuovi orizzonti alla lotta indetta dagli uomini alle forze ostili della natura, la scienza sociale borghese resta muta; essa rimastica le sue vecchie teorie.
Progrediscono forse queste classi regnanti nella via pratica? Nemmeno per sogno. Esse si ostinano con accanimento ad agitare i labari dei loro vessilli, a difendere l’individualismo egoista, la concorrenza dei singoli e delle nazioni, l’onnipotenza dello Stato accentratore.
Esse passano dal protezionismo al libero scambio e da questo a quello, dalla reazione al liberalismo e da questo a quello, dall’ateismo al bacchettonismo e viceversa. Sempre paurose, con lo sguardo rivolto al passato, di più in più incapaci di realizzare qualcosa di veramente duraturo.
Le loro opere sono una continua smentita formale delle promesse.
Esse avevano promesso di garantire la libertà del lavoro e ci hanno dato gli schiavi dell’officina, del padrone e del capo fabbrica. Si erano incaricate di organizzare l’industria e di garantire il benessere e ci hanno apportato le crisi interminabili e la miseria; invece dell’istruzione ci hanno ridotto all’impossibilità di istruirci; invece della libertà politica, ci hanno trascinato di reazione in reazione; invece della pace, ci hanno lanciato nelle guerre e in guerre senza fine.
Esse hanno dunque mancato a tutte le loro promesse.
Ma il popolo è stanco; si domanda a quale punto si trova, dopo essersi lasciato sì a lungo burlare e governare dalla borghesia.
La risposta è nella situazione economica attuale dell’Europa.
La crisi, che già costituiva una calamità passeggera, è divenuta cronica. La crisi del cotone, metallurgica, degli orologi, tutte le crisi oggi si incatenano l’un l’altra e si installano in permanenza.
Oggi si contano in Europa molti milioni di operai senza lavoro; decine di migliaia vagano di città in città mendicando, o si sollevano per domandare minacciosamente pane e lavoro. Come i contadini del 1787 gironzolavano nelle vie a migliaia, senza trovare nel ricco suolo di Francia, accaparrato dagli aristocratici, un lembo di terra da coltivare e una zappa per rimuoverlo, così oggi l’operaio rimane con le braccia inerti, senza trovare la materia prima e lo strumento, necessari per produrre, monopolizzati da un pugno di neghittosi.
Industrie fiorenti uccise subito, grandi città come Sheffield, rese deserte. Miseria in Inghilterra, soprattutto in Inghilterra, perché appunto là gli economisti meglio applicarono le loro dottrine; miseria in Alsazia; la fame in Spagna, in Italia. Disoccupazione dappertutto; e con essa gli stenti o piuttosto la miseria: fanciulli lividi, donne invecchiate di cinque anni alla fine di un inverno, malattie che diradano a grandi colpi di falce le schiere lavoratrici, ecco a che cosa siamo giunti con il loro regime.
Ed essi vengono a parlarci di superproduzione? E come? Quando il minatore che accumula montagne di carbone, non ha di che accendere il fuoco nei momenti rigidi dell’inverno? Quando il tessitore che produce chilometri di stoffa, deve rifiutare una camicia ai suoi bambini laceri? Quando il muratore che edifica palazzi, alloggia in una stamberga e l’operaia, che confeziona splendide bambole abbigliate, non ha che uno scialle consunto per difendersi dalle intemperie?
Ed è questo che si chiama organizzazione dell’industria? O non si deve piuttosto pensare all’alleanza segreta dei capitali per soggiogare con la fame l’operaio?
Il capitale, che è prodotto dal lavoro della specie umana, accumulato nelle mani di pochi, fugge – ci si dice – l’agricoltura e l’industria, per mancanza di sicurezza.
Ma dove va dunque a rannicchiarsi, quando esce dalle casseforti?
Vi sono impieghi più vantaggiosi! Esso ornerà gli harem del sultano; andrà ad alimentare le guerre, a sostenere la Russia contro la Turchia e nello stesso tempo questa contro quella.
Oppure un bel giorno servirà per fondare una società di azionisti, non rivolta ad una produzione qualsiasi, ma diretta semplicemente a fallire vergognosamente dopo due anni, appena i parrucconi fondatori si saranno ritirati portando con sé i milioni che rappresentano il beneficio dell’idea.
O anche questo capitale si userà nella costruzione di ferrovie inutili, nel Gottardo, nel Giappone e magari nel Sahara, perché i Rothschild fondatori, l’ingegnere capo e l’imprenditore vi guadagnano qualche milione.
Ma soprattutto il capitale si lancerà nell’aggiotaggio: il gran gioco di Borsa. Il capitalista speculerà sulle oscillazioni fittizie del grano e del cotone; speculerà sulla politica, sui rialzi prodotti da qualche rumore di riforma o di nota diplomatica; e molto spesso – questo lo si vede ogni giorno – gli stessi agenti del governo trufferanno grazie a queste speculazioni.
L’aggiotaggio uccidente l’industria, ecco ciò che si dice amministrazione intelligente degli affari. Ed è per questo, dicono loro, che noi dobbiamo mantenerli.
In breve, il caos economico è completo, e perciò non può durare a lungo. Il popolo è stanco di subire queste crisi provocate dalla rapacità delle classi dominanti: egli vuol vivere lavorando, e non sopportare annate di miseria, lenite dalla carità che umilia, per godersi poi due o tre anni di lavoro estenuante, più o meno sicuro qualche volta, ma sempre molto mal retribuito.
Il lavoratore si accorge dell’incapacità, delle classi governanti: incapacità di comprendere le sue aspirazioni novelle; incapacità, di dirigere l’industria; incapacità di organizzare la produzione e lo scambio.
Il popolo decreterà ben presto la caduta della borghesia. Prenderà i propri affari nelle sue mani, appena che si presenti il momento propizio.
Questo momento non può tardare, per gli stessi mali che affliggono l’industria e il suo arrivo sarà affrettato della decomposizione degli Stati, decomposizione galoppante ai nostri giorni.
La decomposizione degli Stati
Se la situazione economica dell’Europa si riassume in queste parole: caos industriale e commerciale e fallimento della produzione capitalista; la situazione politica si caratterizza così: decomposizione galoppante e fallimento prossimo degli Stati.
Percorreteli tutti, dall’autocrazia militare della Russia all’oligarchia borghese della Svizzera, non ne troverete uno solo (eccettuate forse la Svezia e la Norvegia) che non marci a grandi giornate verso la decomposizione e per conseguenza verso la rivoluzione. Vecchi impotenti, dalla pelle grinzosa e dai piedi tremanti, rosi da malattie costituzionali, incapaci di assimilarsi le correnti di idee nuove, essi dissipano quel po’ di forze che loro rimane, vivono a spese dei loro anni già contati e accelerano sempre più la caduta accapigliandosi tra loro come vecchi borbottoni.
Una malattia incurabile li rode tutti: e cioè la malattia della vecchiaia, della decadenza. Lo Stato, questo organismo col quale si abbandona nelle mani di alcuni la gestione in blocco di tutti gli affari di tutti, questa forma di organizzazione umana, ha fatto il suo tempo. L’umanità elabora già nuove forme di raggruppamento.
Dopo aver toccato il loro punto culminante nel diciottesimo secolo, i vecchi Stati europei descrivono oggi la parabola discendente; essi precipitano nella decrepitezza. I popoli – soprattutto quelli di razza latina – aspirano alla demolizione di quel potere che non fa che impedire il loro libero sviluppo. Essi vogliono l’autonomia delle province, dei comuni, delle associazioni operaie legate tra loro non da un potere che si imponga, ma dai legami delle mutue convenzioni, liberamente accettate.
Questa la fase storica in cui entriamo; nulla potrà impedirne la realizzazione.
Se le classi dirigenti potessero avere coscienza della loro posizione, cercherebbero di assecondare, prevenendole, queste aspirazioni. Ma invecchiate nelle tradizioni, senza altro culto che quello dell’alta borsa, esse si oppongono a tutta forza a questa nuova corrente di idee; e così fatalmente ci conducono a uno scontro violento. Le aspirazioni si faranno strada, ma al rombo del cannone, al crepitio della mitragliatrice, al luccicare degli incendi.
Allorché, dopo la caduta delle istituzioni del medioevo, gli Stati nascenti facevano la loro apparizione in Europa e si affermavano, si ingrandivano con la conquista, con l’astuzia, con l’assassinio, essi non si ingerivano ancora che in una piccola cerchia d’affari umani. Oggi lo Stato è giunto ad immischiarsi in tutte le manifestazioni della nostra vita. Dalla culla alla tomba, esso ci serra nelle sue braccia. Ora come Stato centrale, ora come Stato-provincia o cantone, ora come Stato-comune, egli segue tutti nostri passi, appare in ogni angolo di via, ci opprime, ci tiene, ci tribola.
Legifera su tutte le nostre azioni. Accumula montagne di leggi e di ordinanze, nelle quali l’avvocato più scaltro non sa raccapezzarsi. Crea ogni giorno nuove ruote che adatta sinistramente alla vecchia carcassa riverniciata e giunge a formare una macchina così complicata, bastarda e pesante, da rivoltarla contro quegli stessi che si sforzano di spingerla.
Crea un’armata di impiegati, veri ragni dalle dita adunche, che vedono l’universo solo attraverso le sudice invetriate dei loro uffici e non lo conoscono che per mezzo dei loro scartafacci e formulari assurdi; – una banda nera che non ha che una religione, quella dello scudo – non ha che un pensiero, quello di appiccicarsi a un partito qualunque, nero, violetto o bianco, purché garantisca un massimo di salario per un minimo di lavoro.
I risultati – li conosciamo sin troppo. Vi è un solo ramo dello Stato che non esasperi coloro che disgraziatamente hanno da fare con esso? Un solo ramo nel quale lo Stato, dopo tanti secoli di esistenza e di rimpasti, non abbia dato prova di completa incapacità?
Le somme immense e sempre crescenti che gli Stati prelevano dai popoli non bastano mai. Lo Stato vive sempre a spese delle generazioni future; si indebita e da per tutto marcia verso la rovina.
I debiti pubblici degli Stati d’Europa hanno toccato la cifra immensa, incredibile, di più di cento miliardi ovvero cento mila milioni di franchi. Se tutte le entrate degli Stati fossero impiegate, fino all’ultimo soldo, per coprire questi debiti, esse non sarebbero sufficienti allo scopo da qui a quindici anni. Ma lungi dal diminuire, questi debiti aumentano ogni giorno. È nella forza delle cose che i bisogni degli Stati vadano sempre al di là dei loro mezzi. Lo Stato, necessariamente, cerca di estendere le sue attribuzioni; ciascun partito al potere ha l’obbligo di creare nuovi impieghi per i suoi clienti: ciò è fatale.
Dunque i disavanzi e i debiti pubblici vanno e andranno ancora crescendo, pur in tempo di pace. Se poi scoppiasse una guerra qualsiasi, immediatamente i debiti degli Stati aumenterebbero in una proporzione immensa. È un’ascensione indefinita, data l’impossibilità di uscire da questo dedalo.
Gli Stati marciano a tutto vapore verso la rovina, verso la bancarotta; e non è molto lontano il giorno in cui i popoli, stanchi di pagare annualmente quattro miliardi di interessi ai banchieri, pronunceranno il fallimento degli Stati e inviteranno questi banchieri a vangare la terra, se vogliono sfamarsi.
Chi dice “Stato” necessariamente dice “guerra”. Lo Stato cerca e deve cercare di esser forte, più forte dei suoi vicini; se no, diventerà un giocattolo nelle loro mani. Esso cerca necessariamente di indebolire, di impoverire gli altri Stati, per imporre loro la propria legge, la propria politica, i propri trattati di commercio, per arricchirsi a loro spese. La lotta per la preponderanza, che è la base dell’organizzazione economica borghese, è pure il fondamento dell’organizzazione politica. Per questo la guerra è divenuta oggi la condizione normale dell’Europa. Guerra prusso-danese, prusso-austriaca, franco-prussiana, guerra d’Oriente, guerra in Afghanistan si succedono senza interruzione. Nuove guerre si preparano: la Russia, l’Inghilterra, la Prussia, la Danimarca sono pronte a scatenare le loro armate e stanno per venire alle mani, vi sono già cause di guerra per trent’anni.
Ora la guerra significa inerzia, imposte crescenti e debiti che si accumulano e più ancora uno scacco morale per gli Stati. Dopo ciascuna guerra, i popoli si accorgono che lo Stato dà prova di incapacità, anche nella sua attribuzione principale; a mala pena sa organizzare la difesa del territorio ma, pur vittorioso, subisce uno scacco. Pensate soltanto alla fermentazione di idee che è nata dalla guerra del 1871 in Germania e in Francia; guardate al malcontento sollevato in Russia dalla guerra d’Oriente.
Le guerre e gli armamenti uccidono gli Stati; essi accelerano il loro fallimento morale ed economico. Ancora una o due grandi guerre, esse daranno il colpo di grazia a queste macchine corrotte.
A fianco della guerra esterna, la guerra interna. Accettato dai popoli alla condizione di essere il difensore di tutti e specialmente dei deboli contro i forti, lo Stato oggi è divenuto la cittadella dei ricchi contro gli oppressi, del proprietario contro il proletario.
A che cosa serve questa immensa macchina che chiamiamo Stato? Serve forse a impedire la spoliazione dell’operaio da parte del capitalista, del contadino, da parte del proprietario di terre? Oppure ad assicurarci il lavoro? o a difenderci dall’usuraio? o a fornirci il nutrimento quando la donna non ha che dell’acqua per calmare il bimbo che piange al suo seno avvizzito?
No, mille volte no! Lo Stato è il protettore dello sfruttamento, della speculazione, della proprietà privata – che è frutto di spoliazione. Il proletario, che ha solo le sue braccia per far fortuna, nulla può attendersi dallo Stato; non troverà in esso che un organismo creato per impedire ad ogni costo la sua emancipazione.
Tutto per il proprietario neghittoso, tutto contro il proletario lavoratore; l’istruzione borghese che corrompe il fanciullo fin dalla tenera età, inculcandogli i pregiudizi antiegualitari; la chiesa che turba il cervello della donna; la legge che impedisce lo scambio delle idee di uguaglianza e di solidarietà; il danaro, ove occorra, per corrompere colui che si fa apostolo della solidarietà dei lavoratori; la prigione e la mitraglia a discrezione per chiudere la bocca a coloro che non si lasciano corrompere: ecco che cosa è lo Stato!
E questo durerà? potrà durare? Evidentemente no. Una classe intera dell’umanità, quella che tutto produce, non può sostenere continuamente un’organizzazione stabilita soprattutto contro di lei. Dovunque – sotto la brutalità russa, come sotto l’ipocrisia gambettista – il popolo malcontento si ribella. La storia dei nostri giorni è la storia della lotta dei governanti privilegiati contro le aspirazioni d’uguaglianza dei popoli. Questa lotta forma la principale preoccupazione dei governanti; essa dirige i loro atti. Non i princìpi, non le considerazioni di bene pubblico determinano oggi l’apparire di una legge o di un provvedimento governativo, ma le ragioni della lotta contro il popolo per la conservazione del privilegio.
Da sola questa lotta basterebbe per scuotere la forte organizzazione politica. Ma quando essa si svolge in Stati che già volgono verso la decadenza per fatalità storica; quando questi Stati precipitano a tutto vapore verso la rovina e, quasi non bastasse, si aggrediscono l’un l’altro; quando infine lo Stato onnipossente si rende odioso a quegli stessi che protegge; quando, insomma, tante cause concorrono verso un fine unico, l’esito della lotta non può mettersi in dubbio. Il popolo, che è la forza, saprà vincere i suoi oppressori; la caduta dello Stato non diviene che una questione di tempo, e il filosofo più tranquillo intravede i bagliori di una grande rivoluzione che si annuncia.
La necessità della rivoluzione
Vi sono fasi nella vita dell’umanità in cui il bisogno di una scossa formidabile, di un cataclisma, che rinnovi la società fin dalle sue fondamenta, si impone sotto tutti i rapporti. In questi tempi ogni uomo di cuore comincia a dirsi che le cose non possono andare in tal modo; che c’è la necessità di grandi avvenimenti che tronchino bruscamente il filo della storia, gettino l’umanità fuori dalla via fangosa in cui si è abbattuta e la lancino verso vie nuove, verso l’ignoto, alla ricerca dell’ideale. Si sente la necessità di una rivoluzione, immensa, implacabile, che sconvolga non solo il regime economico basato sullo sfruttamento brutale, sulla speculazione e sulla frode, che rovesci non solo la scala politica poggiata sul dominio di alcuni a base di astuzia, di intrigo e di menzogna; ma rinnovi pure la società, nella sua vita intellettuale e morale, la scuota dal torpore, ne rifaccia i costumi, apportando in mezzo alle passioni vili e meschine del momento il soffio vivificatore di passioni nobili, di slanci elevati, di generosi sacrifici.
In queste epoche, in cui la mediocrità orgogliosa soffoca ogni intelligenza che non si piega davanti ai pontefici, in cui la moralità meschina del giusto mezzo fa la legge e la bassezza regna vittoriosa – in queste epoche la rivoluzione diventa un bisogno – gli uomini onesti di ogni classe della società invocano la tempesta, perché essa bruci con il suo soffio ardente la pestilenza che ci invade, spazzi la muffa che ci rode, distrugga con la sua marcia furiosa tutti gli avanzi del passato che ci pesano addosso, ci intristiscono, ci privano d’aria e di luce, perché essa dia infine al mondo intero un nuovo soffio di vita, di gioventù, di onestà.
Non è più solamente la questione del pane che si impone ai nostri tempi; è una questione di progresso contro l’immobilità, di sviluppo umano contro l’abbrutimento della vita, contro il ristagno fetido della palude.
La storia ci ha conservato il ricordo di un’epoca simile, quella della decadenza dell’impero romano; l’umanità ne attraversa oggi una seconda.
Come i Romani della decadenza, noi ci troviamo di fronte a una trasformazione profonda che si opera negli spiriti e non richiede più che delle circostanze favorevoli per tradursi nei fatti. Se la trasformazione si impone nel campo economico, se essa diviene un’imperiosa necessità nel dominio politico, essa si impone ancora di più nel dominio morale.
Senza legami morali, senza certe obbligazioni, che ciascun membro della società si crea verso gli altri e che ben presto diventano in lui abitudini non vi è possibilità di associazione. Così noi troviamo questi legami morali, queste abitudini sociali, in tutti i gruppi umani; li vediamo sviluppati e messi rigorosamente in pratica presso le tribù dei primitivi, testimoni viventi di ciò che l’umanità intera fu agli esordi.
Ma la disuguaglianza delle fortune e delle condizioni, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il dominio delle masse da parte dei pochi, tali cause sono venute a minare e a distruggere, nel corso degli anni, questi prodotti preziosi della vita primitiva delle società. La grande industria basata sullo sfruttamento, il commercio basato sulla frode, il dominio di quelli che si intitolano “Governo”, non possono più coesistere con i princìpi di morale basati sulla solidarietà di tutti, che noi incontriamo ancora presso le tribù ricacciate ai confini del mondo politico e civile. Quale solidarietà può esistere infatti tra il lavoratore e il capitalista che lo sfrutta? tra il capo dell’esercito e il soldato? tra il governante e il governato?
Così vediamo che alla morale primitiva, ispirata al sentimento dell’identificazione dell’individuo con tutti i suoi simili, viene a sostituirsi la morale ipocrita delle religioni; queste cercano con sofismi di legittimare lo sfruttamento e il dominio e si limitano solamente a biasimare le manifestazioni più brutali dell’uno e dell’altro. Esse sciolgono l’individuo dalle sue obbligazioni morali verso i suoi simili, e ne impongono solo verso un Essere Supremo – un’astrazione invisibile di cui si possono scongiurare le ire e accattivarsi le grazie, pagando bene quelli che si dicono suoi servitori.
Ma rapporti sempre più frequenti si stabiliscono oggi tra individuo e individuo e i gruppi, le nazioni, i continenti finiscono con l’imporre all’umanità nuove obbligazioni morali. E a misura che le credenze religiose sfumano, l’uomo si accorge che per essere felice, deve imporsi dei doveri non già verso un essere sconosciuto, ma verso tutti coloro con i quali entrerà in relazione. L’uomo comprende sempre più che il benessere dell’individuo isolato non è possibile; che questo non può ricercarsi se non nel benessere di tutti, nel benessere della razza umana. Ai princìpi negativi della morale religiosa: “non rubare, non uccidere, ecc.”, sostituiscono i princìpi positivi, infinitamente più larghi e ogni giorno più grandi della morale umana. Ai divieti di una divinità, sempre violabili, salvo a placarla più tardi con offerte, si sostituisce questo sentimento di solidarietà, con ciascuno e con tutti, che dice all’uomo: “se vuoi essere felice, fai a ciascuno e a tutti ciò che vorresti fosse fatto a te stesso”. Questa semplice affermazione, una induzione scientifica, non ha più nulla a che fare con le prescrizioni religiose, schiude di colpo un orizzonte immenso di perfettibilità, di miglioramento della razza umana.
La necessità di rifare le nostre relazioni su questo principio, così sublime e così semplice, si sente ogni giorno maggiormente. Ma nulla si può fare e nulla si farà in questo senso, finché lo sfruttamento e il dominio, l’ipocrisia e il sofisma, resteranno le basi della nostra organizzazione sociale.
Mille esempi potrebbero essere citati in appoggio. Ma ci soffermeremo su uno solo – il più terribile – quello dei nostri figli. Che ne facciamo nella società attuale?
Il rispetto dell’infanzia è una delle migliori qualità che si sono sviluppate nell’umanità, a misura che essa compiva la sua marcia faticosa, dallo stato selvaggio al suo stato attuale. Quante volte si è visto, infatti, l’uomo più depravato disarmato dal sorriso di un fanciullo? Ebbene questo rispetto si dilegua al giorno d’oggi e il bambino diviene presso di noi carne della macchina, se non oggetto per soddisfare passioni bestiali.
Noi abbiamo visto recentemente come la borghesia massacrasse i nostri fanciulli facendoli lavorare lunghe giornate nelle officine. Li uccide nel fisico e quasi non bastasse la società, imputridita fino al midollo, li uccide anche nel morale.
Riducendo l’insegnamento ad un’invariabile ripetizione, che non soddisfa in alcun modo le nobili passioni e quel bisogno di ideale che si manifestano ad una certa età nella maggior parte dei nostri giovani, la società fa sì che ogni natura, per poco che sia indipendente – per poesia o per fierezza – prenda in odio la scuola, si raccoglie in se medesima o cerca altrove uno sfogo alle sue passioni. Gli uni chiedono ai romanzi la poesia che loro manca nella vita; si nutrono di questa letteratura immonda, fabbricata dalla borghesia per se stessa, a due o a quattro soldi la linea e finiscono, come il giovane [François] Lemaitre, per aprire un giorno il ventre o per tagliare la gola a un altro fanciullo e questo allo scopo di diventare assassini celebri. Gli altri si abbandonano a vizi esecrabili e solo i ragazzi del giusto-mezzo, quelli che non hanno né passioni né slanci né sentimenti di indipendenza, arrivano senza incidenti usque ad finem, e forniranno poi nella società un contingente di buoni borghesi dalla morale meschina, che non ruberanno fazzoletti ai passanti, ma che spenneranno – onestamente – i loro clienti, che non hanno passioni, ma che fanno alla chetichella visita alla sgualdrina per “non mangiare sempre la stessa minestra”, che marciranno nel loro pantano, gridando contro chiunque oserà toccare la loro muffa.
Ecco il destino del fanciullo! Quanto poi alla donna, la borghesia la corrompe fin dalla tenera età. Letture assurde, bambole abbigliate come donnine allegre, costumi ed esempi edificanti della madre, discorsi da retrobottega, nulla mancherà per fare della ragazza una donna che si venderà al migliore offerente. E lei fin dalla fanciullezza semina intorno a sé cancrena: i ragazzi operai non guardano forse con invidia questa bimba ben acconciata, dall’incedere elegante, cortigiana a dodici anni? Ma se la mamma è virtuosa – alla maniera in cui lo sono le buone borghesi – sarà ancora peggio. Se la ragazza è intelligente e appassionata, apprezzerà ben presto nel suo giusto valore questa morale a doppia faccia, che consiste nel dire: “Ama il tuo prossimo, ma derubalo quando puoi, sii virtuosa, ma fino a un certo punto, ecc.”, e imbevuta di questa atmosfera di moralità da tartufo, non trovando nella vita nulla di bello, di sublime, di entusiasmante, si getterà a capofitto nelle braccia del primo venuto purché soddisfi le sue brame di lusso.
Esaminate questi fatti, meditatene le cause e diteci se non abbiamo ragione di affermare che occorre una rivoluzione terribile per estirpare i mali dalle nostre società – fin nelle loro cause prime – poiché sino a quando le ragioni della cancrena rimarranno nulla sarà guarito.
Finché avremo una casta di oziosi, mantenuta dal nostro lavoro, con il pretesto che essi sono necessari per dirigerci, questi oziosi saranno un focolaio continuo di pestilenza per la moralità pubblica. L’uomo fannullone e abbrutito, che conduce la vita sempre in cerca di nuovi piaceri, colui nel quale il sentimento della solidarietà verso gli altri uomini è ucciso dai princìpi stessi della sua esistenza e i sentimenti del più vile egoismo sotto nutriti dalla pratica medesima della vita – quest’uomo penderà sempre verso la sensualità più abietta, avvilirà tutto ciò che lo circonda. Con il suo pacco di scudi e con gli istinti da bruto prostituirà donne e fanciulli, prostituirà l’arte, il teatro, la stampa – gli esempi oggi non mancano – venderà il suo Paese, i suoi difensori e, troppo debole per uccidere lui stesso, manderà altri a uccidere il fior fiore della sua patria, il giorno in cui avrà timore di perdere il pacco di scudi, unica fonte delle sue gioie.
Questo è inevitabile e gli scritti dei moralisti nulla cambieranno. La peste è nei nostri focolari, bisogna distruggerne la causa, dobbiamo procedere a ferro e a fuoco, non dobbiamo esitare. La salute del genere umano ne dipende!
La prossima rivoluzione
Nei capitoli precedenti siamo giunti alla conclusione che l’Europa scende per un piano inclinato verso un sommovimento rivoluzionario.
Lo studio dei modi di produzione e di scambio, come sono venuti organizzandosi nelle mani della borghesia, mostra che siamo di fronte a uno stato di cose colpito da una cancrena inguaribile, e vedendo la mancanza di qualsiasi base scientifica e umanitaria, lo sperpero folle del capitale sociale, la sete del lucro spinta fino al disprezzo assoluto di tutte le leggi della socialità, la guerra industriale in permanenza, il caos; noi abbiamo salutato l’appressarsi del giorno in cui il grido: la decadenza della borghesia! risuonerà su tutte le labbra, con quella stessa unanimità, che nei tempi scorsi caratterizzava la proclamazione della decadenza delle dinastie.
Lo studio dello sviluppo degli Stati, della loro missione storica e della decomposizione che li corrode oggi, mostra altresì che questo sistema di aggruppamento ha compiuto nella storia tutto ciò che era in suo potere e si sfascia oggi sotto il peso delle sue proprie attribuzioni, per cedere il posto a nuove organizzazioni basate su nuovi princìpi, in rapporto diretto con le tendenze moderne.
D’altra parte, coloro che osservano con attenzione il movimento delle idee in seno della società attuale, sanno benissimo con quale ardore il pensiero umano lavora oggi alla revisione completa degli apprezzamenti che ci furono tramandati dai secoli passati e alla elaborazione di nuovi sistemi filosofici e scientifici, destinati a diventare la base delle società future. Non è più solamente il doloroso riformatore che, estenuato da un lavoro superiore alle sue forze e da una miseria superiore alla sua pazienza, critica le vergognose istituzioni di cui subisce il peso e sogna un avvenire migliore. Ma è pure lo scienziato, il quale, benché cresciuto negli antichi pregiudizi, impara a poco a poco a disfarsene e prestando orecchio alle correnti di idee che vanno penetrando le intelligenze popolari, se ne fa un giorno il portavoce, l’enunciatore. “La scure della critica abbatte a grandi colpi l’eredità a noi lasciata a titolo di verità; filosofia, scienze naturali, morale, storia, arte, nulla è risparmiato da questo lavoro di demolizione” – gridano i conservatori. No, nulla, neppure le stesse basi delle vostre istituzioni sociali – la proprietà e il potere – attaccati tanto dal paria dell’officina quanto dal lavoratore del pensiero, dall’interessato al cambiamento come da colui che indietreggerebbe spaventato il giorno in cui vedesse le sue idee rivestire una forma, scuotere la polvere delle biblioteche e incarnarsi nel tumulto dell’attuazione pratica.
Decadenza e decomposizione delle forme esistenti e malcontento generale; elaborazione ardua delle forme nuove e desiderio impaziente di un cambiamento; slancio giovanile della critica nel campo delle scienze, della filosofia, dell’etica, e fermento generale dell’opinione pubblica; d’altra parte, indifferenza fiacca o la resistenza criminale di coloro che detengono il potere e che hanno ancora la forza e, a scatti, il coraggio di opporsi allo sviluppo delle idee nuove.
Tale fu sempre lo stato della società, alla vigilia delle grandi rivoluzioni; tale è oggi ancora. Non è più l’immaginazione esaltata di un gruppo di turbolenti che viene ad affermarlo; è l’osservazione calma e scientifica che lo svela; per cui gli stessi i quali, per scusare la loro colpevole indifferenza, si compiacciono di dire: “Stiamo tranquilli, il soffitto non sta per cascare”, gli stessi poi si lasciano sfuggire la confessione che la situazione si inasprisce e che non sanno dove si andrà. Soltanto, dopo di essersi rassicurati con questa confessione, si volgono altrove e di nuovo si mettono a ruminare senza pensiero.
“Ma questa rivoluzione fu già, tante volte annunciata!”, sospira accanto a noi il pessimista; “io stesso vi ho creduto un momento, e nondimeno essa non arriva!” – non è ancora matura. “Due volte la rivoluzione fu sul punto di scoppiare, nel 1754 e nel 1771”, ci dice uno storico parlando del diciottesimo secolo (stavo quasi per scrivere nel 1848 e nel 1871). (Felix Rocquain, L’esprit révolutionnaire avant la Révolution, Paris 1878). Per non essere scoppiata allora, essa è divenuta più potente e più feconda alla fine del secolo.
Ma lasciamo dormire gli indifferenti e brontolare i pessimisti: abbiamo altro da fare. Chiediamoci quale sarà il carattere della rivoluzione che tanti uomini presentano e preparano, e quale deve essere la nostra attitudine in presenza di ciò.
Non faremo profezie storiche: né lo stato embrionale della sociologia, né lo stato attuale della storia, la quale, secondo l’espressione di Augustin Thierry, “non fa che soffocare la verità sotto formule di convenzione”, lo permettono. Limitiamoci dunque a porre alcune questioni semplicissime.
Possiamo ammettere, non fosse che per un istante, che questo immenso lavoro intellettuale di revisione e di riforma che si opera in tutte le classi della società, possa essere calmato da un semplice cambiamento di governo? E che il malcontento economico, ingrossandosi e diffondendosi di giorno in giorno, non cerchi di manifestarsi nella vita pubblica, appena le circostanze favorevoli – la disorganizzazione dei poteri – si presenteranno in seguito a un qualsiasi avvenimento?
Porre tali questioni, significa risolverle? Evidentemente no.
Possiamo credere che i contadini irlandesi e inglesi se intravedono la possibilità di impadronirsi del suolo desiderato da tanti secoli e di scacciare i signori che detestano così cordialmente, non approfitteranno della prima conflagrazione per cercare di realizzare i loro desideri?
Possiamo credere che la Francia al momento di un nuovo 1848 europeo, si limiterà a scacciare il Gambetta del giorno per sostituirlo con un Clemenceau, e non cercherà di vedere ciò che il Comune può fare per migliorare le sorti dei lavoratori? Che il contadino francese, vedendo il potere centrale disorganizzato, non cercherà di impadronirsi dei pingui prati delle sue vicine, le sante monache, come pure dei campi fecondi dei grossi borghesi che, essendo venuti le une e gli altri a stabilirsi accanto a lui, non hanno mai cessato di arrotondare le loro proprietà? Che non si schiererà dalla parte di coloro che gli offriranno un appoggio per attuare il suo sogno di lavoro assicurato e ben ricompensato?
E si può credere che il contadino italiano, spagnolo, slavo, non farà altrettanto?
Si può pensate che i minatori, stanchi delle loro sofferenze e dei massacri a colpi di grisou – che sopportano ancora, sotto gli occhi della truppa, ma mormorando – non cercheranno di eliminare i proprietari delle miniere, se si accorgeranno un giorno che la truppa disorganizzata mette cattiva volontà ad obbedire ai suoi capi?
E lo stesso il piccolo artigiano, rannicchiato nelle tenebre della sua tana umida, con le dita gelate e lo stomaco vuoto, mentre si dibatte da mane a sera per trovare di che pagare il panettiere e nutrire le sue cinque bocche, tanto più amate quanto più si fanno livide a forza di privazioni? E, quell’uomo che ha dormito sotto il primo portico incontrato, perché non ha potuto pagarsi il lusso di dormire per un soldo nel dormitorio comune, credete che essi non desidererebbero vedere un po’ se in quei palazzi sontuosi non si trova un angolo asciutto e caldo per alloggiarvi la famiglia, certo più onesta di quella del grosso borghese? Che essi non desidererebbero vedere nei magazzini del Comune abbastanza pane per tutti coloro che non hanno imparato ad essere poltroni; abbastanza abiti che vestano le magre spalle dei figli del lavoratore come le carni molli dei figli del grosso borghese? Credete che coloro che vestono di cenci non sappiano che si troverebbe nei magazzini di una grande città largamente di che supplire alle prime necessità di tutti gli abitanti, e che se tutti i lavoratori si applicassero alla produzione di oggetti utili, invece di diventare tisici nella confezione di oggetti di lusso, ne produrrebbero abbastanza per tutto il Comune e per tanti altri Comuni vicini? Infine, si può ammettere che queste cose, dette e ripetute ovunque e sorgenti spontaneamente su tutte le labbra nei momenti di crisi (ricordiamoci dell’assedio di Parigi!), il popolo non cerchi di metterle in pratica il giorno in cui se ne sentirà la forza?
Il buon senso dell’umanità ha risposto a queste domande:
La prossima rivoluzione avrà un carattere di generalità che la distinguerà dalle precedenti. Non sarà più un Paese che si getterà nella tempesta, saranno i Paesi dell’Europa. Se un tempo la rivoluzione localizzata era possibile, oggi, con i vincoli di solidarietà che si sono stabiliti in Europa, dato l’equilibrio instabile di tutti gli Stati, una rivoluzione locale è diventata impossibile, qualora duri un certo tempo. Come nel 1848, una scossa prodottasi in un Paese, guadagnerà necessariamente gli altri, e il fuoco rivoluzionario incendierà l’Europa intera.
Ma, se nel 1848 le città insorte potevano ancora nutrire fiducia nei cambiamenti di governo o in riforme costituzionali, non è più il caso oggi. L’operaio parigino non si aspetterà, da un governo, fosse quello della Comune libera, il compimento dei suoi desideri: si metterà egli stesso all’opera, dicendosi: “sarà tanto di fatto”.
Il popolo russo non aspetterà che una Costituente venga a dotarlo del possesso del suolo che coltiva; per poco che speri di riuscire, cercherà lui stesso di impadronirsene; lo cerca già, ne sono prova le sommosse continue. Altrettanto avverrà in Italia, in Spagna; e se l’operaio tedesco si lascia burlare un certo tempo da coloro i quali vorrebbero che tutto si facesse per telegramma da Berlino, l’esempio dei suoi vicini e l’incapacità dei suoi dirigenti non tarderanno ad insegnargli la vera via rivoluzionaria. Il carattere distintivo della rivoluzione prossima sarà dunque questo: “dei tentativi generali di rivoluzione economica, fatti dal popolo, senza aspettare che questa rivoluzione cada dall’alto come la manna del cielo”.
Ma... noi vediamo già il pessimista, con un maligno sorriso sulle labbra, venirci a fare “alcune obiezioni, alcune obiezioni soltanto”. Ebbene, noi l’ascolteremo e gli risponderemo.
I diritti politici
La stampa borghese decanta tutti i giorni e in tutti i toni il valore e la portata delle libertà politiche, dei “diritti politici del cittadino”: suffragio universale, libertà di stampa, di riunione, ecc., ecc.
“Dal momento che avete queste libertà”, essa ci dice, “a che giova insorgere? Le libertà che possedete non vi assicurano forse la possibilità di tutte le riforme necessarie, senza che abbiate bisogno di ricorrere al fucile?”. Analizziamo dunque ciò che valgono queste famose “libertà politiche” dal nostro punto vista, dal punto di vista della classe che non possiede nulla e non governa nessuno, che ha pochissimi diritti e molti doveri.
Noi non diremo già, come fu detto altra volta, che i diritti politici non hanno nessun valore. Sappiamo benissimo che dopo i tempi del servaggio e anche dopo il secolo scorso, certi progressi sono stati attuati: l’uomo del popolo non è più l’essere privo di tutti i diritti come un tempo. Il contadino francese non può essere frustato nelle strade, come lo è ancora in Russia. Nei luoghi pubblici, fuori della sua officina, l’operaio, soprattutto nelle grandi città, si considera uguale a ogni altro cittadino. Il lavoratore francese infine non è più quell’essere privo di tutti i diritti umani, considerato già dall’aristocrazia come una bestia da soma. Grazie alle rivoluzioni, grazie al sangue versato dal popolo, ha acquistato certi diritti personali dei quali non vogliamo diminuire il valore.
Ma noi sappiamo distinguere e diciamo che vi sono diritti e diritti. Alcuni tra essi hanno un valore reale, altri non ne hanno affatto, e coloro che cercano di confonderli non fanno che ingannare il popolo. Vi sono diritti, come, per esempio, l’eguaglianza del bifolco e dell’aristocratico nelle loro relazioni private, l’inviolabilità corporale dell’uomo, ecc., che furono strappati di viva forza, e sono abbastanza cari al popolo per farlo insorgere se venissero violati. Ve ne sono altri, come il suffragio universale, la libertà di stampa, ecc., per i quali il popolo fu sempre indifferente, perché sente perfettamente che questi diritti, i quali servono così bene a difendere la borghesia governante contro le usurpazioni del potere e dell’aristocrazia, non sono che uno strumento nelle mani delle classi dominanti per mantenere il loro potere sul popolo. Questi diritti non sono nemmeno diritti politici reali poiché non salvaguardano niente per la massa del popolo; e se li fregiano ancora di quel nome pomposo, è perché il nostro linguaggio politico non è che un gergo elaborato dalle classi governanti per loro uso e nel loro interesse.
In realtà, che cos’è un diritto politico, se non uno strumento per garantire l’indipendenza, la dignità, la libertà di coloro che non hanno ancora la forza di imporre agli altri il rispetto di questo diritto?... Quale ne è l’utilità se non è uno strumento di emancipazione per coloro che hanno bisogno di essere emancipati?
I Gambetta, i Bismarck, i Gladstone non hanno bisogno né di libertà di stampa né di libertà di riunione, poiché essi scrivono ciò che vogliono, si riuniscono con chi loro aggrada, professano le fedi che a loro garbano: costoro sono emancipati, sono liberi. Se bisogna garantire a qualcuno la libertà di parlare e di scrivere, la libertà di associarsi, è appunto a coloro che non sono abbastanza potenti per imporre la loro volontà. Tale è stata anzi l’origine di tutti i diritti politici.
Ma, da questo punto di vista, i diritti politici di cui parliamo sono forse fatti per coloro che ne hanno bisogno?
Certamente no. Il suffragio universale può qualche volta proteggere fino a un certo punto la borghesia contro le usurpazioni del potere centrale, senza che essa abbia bisogno di ricorrere costantemente alla forza per difendersi. Può servire a ristabilire l’equilibrio fra due forze che si disputano il potere, senza che i rivali siano ridotti a prendersi a coltellate, come si usava un tempo. Ma non può essere di nessun aiuto se si tratta d’abbattere o anche solo di limitare il potere, di abolire il dominio. Eccellente strumento per risolvere in modo pacifico le dispute fra governanti – quale utile può avere per i governati?
La storia del suffragio universale non è forse fatta per dircelo? Finché la borghesia ha temuto che il suffragio universale divenisse, nelle mani del popolo, un’arma che potesse rivolgersi contro i privilegiati lo ha combattuto accanitamente. Ma il giorno in cui fu provato, nel 1818, che il suffragio universale non è da temere e che al contrario, con esso, si conduce benissimo un popolo a bacchetta, lo ha subito accettato. Ora è la borghesia stessa che ne assume la difesa, perché comprende che è un’arma eccellente per mantenere il suo dominio, ma assolutamente inefficace contro i privilegi della borghesia.
Lo stesso dicasi per la libertà di stampa. – Quale fu l’argomento più concludente agli occhi della borghesia in favore della libertà di stampa? – La sua impotenza! Sì, la sua impotenza. [Émile] de Girardin ha scritto un libro intero su questo tema: l’impotenza della stampa. “Un tempo – egli dice – si bruciavano gli stregoni, perché si commetteva la bestialità di crederli onnipotenti; oggi si commette la medesima bestialità con la stampa, perché creduta, essa pure, onnipotente. Ma non è vero: essa è altrettanto impotente quanto gli stregoni del medioevo. Dunque non si perseguiti più la stampa!”. Ecco il ragionamento che già faceva de Girardin. E quando i borghesi discutono fra loro sulla libertà di stampa, quali argomenti portano a favore? “Vedete, dicono, l’Inghilterra, la Svizzera, gli Stati Uniti, dove, pur essendo la stampa libera, lo sfruttamento capitalista è meglio stabilito che in qualunque altra contrada e il regno del capitale è più sicuro che in ogni altra parte. Lasciate che si pubblichino, dicono ancora, le dottrine pericolose. Non abbiamo noi tutti i mezzi per soffocare la voce dei loro giornali senza ricorrere alla violenza? E poi, se un giorno, in un momento di effervescenza, la stampa rivoluzionaria divenisse un’arma pericolosa, ebbene!, quel giorno si sarà sempre in tempo ad abbatterla di un sol colpo, sotto un pretesto qualsiasi”.
Per la liberta di riunione, identico ragionamento. – “Diamo piena libertà di riunione”, dice la borghesia: “essa non nuocerà ai nostri privilegi, ciò che noi dobbiamo temere, sono le società segrete e le riunioni pubbliche sono il miglior mezzo per paralizzarle. Ma, se in un momento di sovreccitazione, le riunioni pubbliche diventassero pericolose, avremmo sempre i mezzi per sopprimerle, perché possediamo la forza governativa”.
“L’inviolabilità del domicilio? – Perdio! scrivetela nei codici, gridatela sui tetti!” – dicono i furbi della borghesia. “Noi non vogliamo che degli agenti vengano a sorprenderci nelle nostre case. Ma istituiremo un gabinetto nero per sorvegliare i sospetti; popoleremo il Paese di spie, faremo la lista degli uomini pericolosi e li terremo d’occhio. E quando avremo subodorato un giorno che le faccende si guastano, allora senza tanti complimenti, infischiandocene, arrestiamo i cittadini nelle loro case, facciamo perquisizioni, frughiamo! Ma soprattutto diamo prova d’audacia, e se alcuni gridano troppo forte, imprigioniamoli pure e diciamo agli altri: “Che volete, signori! così vuole la guerra! E ne saremo lodati!”.
“Il segreto della corrispondenza? – Dite dovunque, scrivete, gridate che la corrispondenza è inviolabile. Se il capo di un ufficio di campagna apre una lettera per curiosità, destituitelo immediatamente, scrivete in grosse lettere: “Che mostro! che delinquente!”. State attenti affinché i piccoli segreti che ci confidiamo dall’un all’altro nelle nostre lettere non possano essere divulgati. Ma se ci consta di un complotto ordito contro i nostri privilegi, allora non esitiamo; apriamo tutte le lettere, nominiamo mille impiegati a tale scopo, se è necessario, e se a qualcuno salta in mente di protestare, rispondiamo francamente, come lo ha fatto ultimamente un ministro inglese, fra gli applausi del parlamento: “Sì, signori, è con il cuore stretto e con il più profondo disgusto che noi facciamo aprire le lettere; ma è esclusivamente perché la patria (cioè l’aristocrazia e la borghesia) si trova in pericolo!”.
Ecco a che cosa si riducono queste cosiddette libertà politiche.
Libertà di stampa e di riunione, inviolabilità del domicilio e di tutto il resto se il popolo non ne fa uso contro le classi privilegiate. Ma il giorno in cui comincerà a servirsene per abbattere i privilegi – tutte queste sedicenti libertà saranno messe da parte.
E ciò è ben naturale. L’uomo non ha altri diritti all’infuori di quelli conquistati a viva forza e che è pronto a difendere a ogni istante con le armi in pugno.
Se non si frustano uomini e donne per le vie di Parigi, come si fa a Odessa, è perché il giorno in cui il governo osasse tanto, il popolo farebbe a pezzi gli esecutori. Se un aristocratico non si apre più il passo nelle vie a colpi di bastone, distribuiti a destra e a sinistra dai suoi servi, è perché i servi del signore che ne avessero l’idea sarebbe accoppati sul posto. Se una certa uguaglianza esiste fra l’operaio e il padrone nelle strade e negli stabilimenti pubblici è perché l’operaio, con le passate rivoluzioni, ha un sentimento di dignità personale che non gli permette di sopportare l’offesa del padrone, e non già perché i suoi diritti sono scritti nelle leggi.
È evidente che nella società attuale, divisa in padroni e servi, la vera libertà non può esistere; e non potrà esistere finché ci saranno sfruttatori e schiavi, governanti e governati. Ciò non vuol dire però che fino al giorno in cui la rivoluzione anarchica verrà a spazzare via le distinzioni sociali, noi desideriamo vedere la stampa imbavagliata, come lo è in Germania, il diritto di riunione annullato come in Russia, e l’inviolabilità personale ridotta a ciò che è in Turchia. Per quanto schiavi del capitale, vogliamo potere scrivere e pubblicare quel che ci pare e piace, vogliamo riunirci e organizzarci come ci piace – precisamente per scuotere il giogo del capitale.
Ma è tempo di comprendere che non è alle leggi costituzionali che bisogna chiedere questi diritti. Non è in una legge – in un pezzo di carta, che può essere lacerato alla minima fantasia dei governanti – che andremo a cercare le garanzie di questi diritti naturali. È solamente costituendoci come forza capace di imporre la nostra volontà, che perverremo a fare rispettare i nostri diritti.
Vogliamo avere la libertà di dire e di scrivere quel che ci piacerà meglio? Vogliamo avere il diritto di unirci e di organizzarci? Non è a un parlamento che dobbiamo andare a chiedere il permesso; non è una legge che dobbiamo mendicare al Senato. Siamo una forza organizzata, capace di mostrare i denti ogni volta che a un individuo qualsiasi salta il ticchio di restringere il nostro diritto di parola e di riunione; siamo forti e potremo stare certi che nessuno oserà più disputarci il diritto di parlare, di scrivere, di stampare e di riunirci. Il giorno in cui avremo saputo stabilire una intesa tale fra gli sfruttati che saremo capaci di uscire nella strada, in parecchie migliaia, a difesa dei nostri diritti, nessuno oserà più disputarci né questi né altri diritti ancora che sapremo rivendicare. Allora, ma allora solamente, avremo acquistato quei diritti che potremmo mendicare invano per decine di anni alla Camera; allora quei diritti ci saranno garantiti in altra maniera, ben altrimenti sicura, che se li scrivessero di nuovo su pezzi di carta.
Le libertà non si concedono, si prendono.
Ai giovani
I
È ai giovani che qui voglio parlare. I vecchi – vecchi di cuore e di spirito, si intende – mettano perciò da parte il mio libro senza affaticare inutilmente la vista in una lettura che non comprenderebbero.
Immagino che siete giovani da diciotto a vent’anni; che avete terminato il vostro tirocinio professionale o i vostri studi, e state per entrare nella vita. Immagino che avete lo spirito libero dalle superstizioni che si cercò di instillarvi; che non avete paura del diavolo e non andate a udire le fandonie dei preti; e, ciò che più importa, immagino che non siete di quei zerbinotti, tristi prodotti di una società decrepita, che vanno per le vie pavoneggiandosi con i pantaloni alla moda e con la faccia da scimmiotti, e che a questa età non hanno sete che di godimenti brutali... immagino, insomma, che siete giovani dal cuore ardente ed entusiasta ed è perciò che vi parlo.
– Cosa voglio diventare? vi sarete chiesti tante volte. Io so che questa è una delle prime domande che si presentano al momento di entrare nella vita. Difatti quando si è giovani si capisce che non è per farne un sistema di sfruttamento che si è studiato da parecchi anni – a spese della società, notate bene – un’arte o una scienza, e bisognerebbe essere ben corrotti, ben guasti dai vizi, per non aver mai sognato un più o meno lontano avvenire nel quale applicare la vostra intelligenza, le vostre attitudini, il vostro sapere a vantaggio di quelli che gemono oggi nella miseria e nell’ignoranza.
Siete di quei giovani che hanno sognato ciò, ebbene, vediamo cosa farete per realizzare il vostro bel sogno.
Io non so in quale condizione siete nati. Forse, favoriti dalla sorte, avete fatto studi scientifici, per diventare medico, avvocato, letterato, scienziato, artista; un vasto campo vi si apre dinanzi ed entrate nella vita con larghe cognizioni e con provate attitudini – ovvero, siete onesti operai, e le vostre cognizioni scientifiche si limitano al poco appreso a scuola; ma avete però potuto conoscere da vicino la dura e faticosa esistenza che conducono oggi i lavoratori.
Mi fermo alla prima ipotesi, verrò poi alla seconda; ammetto dunque che avete ricevuto una educazione scientifica. Supponiamo che volete diventare... medico.
Insomma un uomo vestito con il camiciotto dell’operaio verrà a cercarvi per visitare un’ammalata. Egli vi condurrà in una di quelle viuzze dove allungando la mano potete toccare la casa del vicino dirimpetto; salite in mezzo a un’aria corrotta e, al chiarore vacillante di una lampada, due, tre, quattro, cinque scale coperte di lordura. In una camera triste e fredda trovate l’ammalata stesa su un pagliericcio, coperta di luridi cenci. I fanciulli pallidi, lividi, tremanti sotto i loro stracci, vi guardano con gli occhi spalancati. Il marito ha lavorato per tutta la vita, dodici o tredici ore al giorno; ora è disoccupato da tre mesi. La disoccupazione non è rara nel suo mestiere; essa si ripete periodicamente tutti gli anni; ma altre volte quand’egli era senza lavoro, la moglie guadagnava venti soldi al giorno, forse lavando le vostre camicie; ora sono già due mesi che è ammalata e la miseria batte alla povera casa.
Cosa consiglierete, signor dottore, a quella povera ammalata, voi che avete indovinato che la causa della malattia è l’anemia generale, la mancanza di buon nutrimento e d’aria pura? – Una buona bistecca ogni giorno? Un po’ di moto all’aria libera? Una stanza sana e bene arieggiata? – Che ironia! Se l’avesse potuto, l’avrebbe già fatto senza aspettare i vostri consigli!
Se avete il cuore buono, se la vostra parola è franca, e il vostro sguardo onesto, quella famiglia vi racconterà una serie infinita di miserie. Vi dirà che dall’altra parte del tramezzo quella donna che tossisce tanto crudelmente è una povera stiratrice; che una scala più sotto tutti i fanciulli sono ammalati di febbre; che la lavandaia del pianterreno non arriverà nemmeno a primavera; che nella casa vicina si sta ancora peggio.
Cosa direte a tutti questi ammalati? – Buon nutrimento, cambiamento di clima, lavoro meno pesante?... Vorreste potere dire tutto questo, ma non ne avete il coraggio, e uscite di là con il cuore spezzato e una bestemmia sulle labbra.
All’indomani, mentre pensate ancora a quelle strazianti miserie, un servitore in livrea viene a cercarvi con una carrozza. È per la padrona di un ricco palazzo, per una dama spossata dalle notti insonni, che spende tutta la sua vita nel farsi bella, nelle visite, nelle danze, nelle contese con un marito imbecille. Le avete consigliato una vita più attiva, un cibo meno pesante, passeggiate all’aria aperta, calma dei nervi e un po’ di ginnastica, per sostituire la mancanza di lavoro produttivo!
Una muore perché in tutta la sua vita non ha mai potuto riposarsi né mangiare abbastanza; l’altra langue perché in tutta la sua vita ha mangiato troppo e non ha mai lavorato...
Se siete uno di quei caratteri frolli che si rassegnano a tutto, che alla vista dei dolori più strazianti si consolano con un sospiro o un bicchiere di vino, allora vi abituerete presto a questi contrasti, e spinto dalla natura egoista non avrete più che un’idea, quella di collocarvi fra i gaudenti per non trovarvi fra i miserabili. Ma se voi siete “un uomo”, se in voi a ogni sentimento risponde un atto di volontà, e l’animale non ha sopraffatto l’essere intelligente, allora verrà il giorno che tornerete a casa vostra dicendo: “No, tutto ciò non è giusto, non deve essere così. Non si tratta di guarire le malattie, bisogna prevenirle. Un po’ di benessere, un po’ di sviluppo intellettuale basterebbero a togliere la metà delle malattie e la metà degli ammalati. Vadano dunque al diavolo le medicine! Aria, cibo, lavoro meno gravoso, ecco ciò che ci vuole. Senza questo la professione di medico non è che un inganno, una frode”.
Quel giorno avrete compreso il socialismo. Vorrete conoscerlo da vicino, e se l’altruismo non è per voi una vana parola, se applicate allo studio della questione sociale la severa indagine del naturalista, finirete per trovarvi nelle nostre file, e lavorerete, come noi, alla rivoluzione sociale.
Ma, forse, direte: “Vada al diavolo la pratica! – Voglio consacrarmi alla scienza pura come l’astronomo, il fisico, il chimico. La scienza porterà sempre i suoi frutti, almeno nelle future generazioni!”. Bene! Però intendiamoci prima su ciò che cercherete nella scienza. Sarà semplicemente per il piacere – immenso è vero – che ci dà lo studio dei segreti della natura e l’esercizio delle facoltà intellettuali? In questo caso io vi domanderò quale differenza passa fra lo scienziato che coltiva la scienza per passare piacevolmente la vita e l’ubriacone che pure cerca nella vita il piacere individuale e lo trova nel vino? Lo scienziato ha certamente scelto una fonte di soddisfazioni, perché la scienza gliele procura intense, più durevoli, ma è tutto qui! L’uno e l’altro, lo scienziato e l’ubriacone, hanno lo stesso scopo egoista, il piacere individuale.
Ma no, voi non volete vivere come un egoista. Lavorando per la scienza, volete lavorare per l’umanità, ed è con questa idea che volete guidarvi nella scelta delle vostre ricerche…
Bella illusione! E chi non l’ha accarezzata un momento questa illusione, quando per la prima volta si consacrava alla scienza!
Ma allora, se realmente pensate all’umanità se è a essa che mirate con i vostri studi, una obiezione formidabile vi si alza davanti, perché, se avete rettitudine di giudizio, vedrete subito che nella società attuale, la scienza non è che un oggetto di lusso, che serve ad abbellire la vita di pochi e resta assolutamente inaccessibile alla grande massa dell’umanità.
Difatti è più di un secolo che la scienza ha stabilito esatte nozioni cosmiche, ma quanti sono che le posseggono e che hanno acquistato uno spirito di critica veramente scientifico? A mala pena qualche migliaio d’uomini perduti in mezzo alle centinaia di milioni che vivono ancora tra pregiudizi e superstizioni degne dei barbari, e quindi esposti a restare vittime degli impostori religiosi.
Se poi gettate uno sguardo su ciò che la scienza ha fatto per elaborare le basi razionali e morali, troverete che essa insegna come dobbiamo vivere per conservare la salute del corpo, come mantenere in buona condizione le popolazioni, come raggiungere la felicità intellettuale e morale, ma tutto il progresso immenso fatto verso questi scopi, non è forse rimasto per i più come lettera solo nei nostri libri? E perché? – Perché oggi la scienza non è fatta che per pochi privilegiati, perché l’ineguaglianza sociale che divide l’umanità in due classi, quella dei salariati e quella dei possessori del capitale, fa sì che tutti gli insegnamenti sulla vita razionale siano come un’ironia per i nove decimi dell’umanità.
Potrei citarvi molti altri esempi, ma sarò breve: uscite soltanto dal gabinetto di Faust dove i vetri polverosi e anneriti lasciano appena passare sui grossi volumi un tenue raggio della immensa luce del sole, e guardatevi intorno: a ogni passo troverete voi stessi la prova di quanto dico.
Ora non è più il tempo di accumulare nascostamente la verità e le scoperte scientifiche. Anzitutto importa diffondere le verità acquistate con la scienza, farle entrare nella vita, renderle proprietà comune. Occorre che tutti possano assimilarle, applicarle; che la scienza cessi d’essere un lusso, che diventi la base della vita di tutti, così vuole la giustizia.
Dirò di più, è lo stesso interesse della scienza che lo impone. La scienza non fa progressi se non quando ogni nuova verità trova un ambiente preparato a raccoglierla. La teoria dell’origine meccanica del calore, enunciata nel secolo scorso, quasi negli stessi termini adoperati da [Gustave-Adolphe] Hirn e da [Rudolf] Clausius, restò per ottant’anni sepolta nelle memorie accademiche, finché le cognizioni fisiche non furono abbastanza diffuse per creare un ambiente capace di comprenderla e accettarla. Tre generazioni dovettero succedersi perché le idee di Erasmus Darwin sulla variabilità della specie, fossero favorevolmente accolte dalla bocca del pronipote, e venissero ammesse dagli scienziati accademici, non senza la pressione della pubblica opinione. Lo scienziato, come il poeta e l’artista, è sempre il prodotto della società nella quale vive.
Ma, se entrate in quest’ordine di idee, capirete che anzitutto bisogna modificare profondamente questo stato di cose che condanna lo scienziato ad accumulare le verità scientifiche e quasi tutti gli uomini a restare quello che erano cinque, dieci secoli fa, cioè schiavi e macchine, incapaci di comprendere e assimilare i dati e le scoperte della scienza. Il giorno in cui sarete penetrato da questa idea vasta, umanitaria e profondamente scientifica, avrete perduto il desiderio della scienza pura. Vi metterete alla ricerca dei mezzi capaci di operare questa trasformazione, e se porterete nelle vostre ricerche l’imparzialità che vi ha guidato nelle investigazioni scientifiche, abbraccerete necessariamente e logicamente la causa del socialismo; abbandonerete i sofismi e verrete a schierarvi fra noi, stanco di lavorare a procurare godimenti a questo piccolo gruppo di soddisfatti che gode già tanto, e metterete le vostre cognizioni e l’opera vostra al servizio degli oppressi.
E siate certi che allora il sentimento del dovere compiuto e il vero accordo stabilito fra i vostri sentimenti e le vostre azioni, vi faranno scoprire in voi stessi forze e attitudini di cui non avevate nemmeno sospettato l’esistenza. E allorché un giorno – che non è tanto lontano, qualsiasi cosa dicano i vostri professori – allorché un giorno la modificazione per la quale avete lavorato si opererà, allora traendo nuove forze dal lavoro scientifico collettivo e con il potente concorso delle falangi di lavoratori che verranno a mettere le loro forze al suo servizio, la scienza prenderà un nuovo slancio, in confronto al quale il lento progresso dei nostri giorni sembrerà un semplice esercizio di scolari.
Allora soltanto potrete godere della scienza; questo godimento sarà per tutti.
II
Se terminate i vostri studi di diritto e vi preparate per l’avvocatura, e pure facile che vi facciate delle illusioni sul vostro avvenire, io ammetto che siate dei buoni, di quelli che conoscono l’altruismo. Pensate forse così: “Consacrare l’esistenza a una lotta senza posa contro tutte le ingiustizie; dedicarsi costantemente al trionfo della legge, vera espressione della giustizia umana: ecco la mia vocazione. Dove trovarne una più bella?”. Ed entrate nella vita pieni di fede, pieni di entusiasmo per la vocazione che avete scelta.
Ebbene, apriamo a caso la cronaca giudiziaria e vediamo ciò che ci dice la cruda realtà.
Ecco un ricco proprietario; egli domanda lo sfratto di un contadino che non gli ha pagato l’affitto. Dal punto di vista legale non c’è da esitare: poiché il contadino non paga, deve andarsene. Ma, se analizziamo il fatto, ecco ciò che troviamo. Il proprietario ha sempre sciupato le sue rendite in allegri banchetti, il contadino ha sempre lavorato; il proprietario non ha fatto nulla per migliorare le sue terre, e nondimeno la loro quotazione si è triplicata in cinquant’anni, grazie al maggiore valore acquistato con il tracciato di una ferrovia, con le nuove strade comunali, con il prosciugamento delle paludi, con il dissodamento del terreno incolto; e il contadino che ha contribuito più di tutti a dare questo maggiore valore alla terra, è rovinato: caduto nelle unghie dell’esattore, schiacciato dai debiti, non può più pagare il proprietario. La legge, sempre dalla parte della proprietà, è esplicita: essa dà ragione al proprietario. Ma voi, a cui le funzioni giuridiche non hanno ancora soffocato il sentimento della giustizia, voi, cosa farete? Domanderete forse che si getti sul lastrico il povero contadino – è la legge che lo vuole – o domanderete che il proprietario restituisca al contadino tutto il maggiore valore ch’egli ha dato alla terra? – è l’equità che l’impone. – Da quale parte vi metterete? per la legge, ma contro la giustizia, o per la giustizia, ma contro la legge?
E quando degli operai avranno fatto sciopero, senza avvertirne il padrone quindici giorni prima, da qual parte vi metterete? Dal lato della legge, che è per il padrone, che approfittando della crisi ha potuto realizzare guadagni scandalosi (vedi processo di Reims del 1881), o contro la legge, ma per gli operai che a quel tempo avevano un salario di 2,50 franchi, e vedevano languire le loro donne e i loro figli? Difenderete questa ipocrita affermazione della legge sulla “libertà delle contrattazioni”, oppure sosterrete l’equità, per la quale un contratto conchiuso fra colui che ha ben mangiato e colui che vende il suo lavoro per mangiare, fra forte e debole, non è un contratto libero?
Eccovi un altro fatto. Un giorno a Parigi un uomo gironzola attorno a una macelleria, ruba un pezzo di carne e fugge. Viene arrestato e interrogato, si sa così che è un operaio disoccupato che digiunava da quattro giorni, lui e la sua famiglia. Si supplica il macellaio di perdonargli, ma il macellaio vuole il trionfo della giustizia! Lo fa citare, e il pover’uomo è condannato a sei mesi di carcere. Così vuole la cieca Giustizia. – E la vostra coscienza non si deciderà contro la legge e contro la società, vedendo simili condanne che si ripetono tutti i giorni?
Oppure domanderete l’applicazione della legge contro quest’uomo, che, spregiato, maltrattato fin dall’infanzia, cresciuto senza udire mai una parola di simpatia, ha finito con l’uccidere il suo vicino per rubargli uno scudo? Domanderete per lui la ghigliottina, o, ciò che è ancora peggio, vent’anni di carcere, quando lo sapete più malato che delinquente, e che in ogni caso il suo delitto ricade sulla società intera?
Domanderete che si gettino in prigione gli operai, che in un momento di furore incendiano la fabbrica dove faticano giorno e notte senza guadagnare tanto da vivere? Che si mandi ai lavori forzati l’uomo che ha sparato contro un assassino coronato? Che sia fucilato il popolo insorto che pianta sulle barricate la bandiera dell’avvenire?
No, mille volte no!
Se “ragionate”, invece di ripetere ciò che vi fu insegnato; se analizzate e spogliate la legge da queste nubi di finzioni che la circondano, per nasconderne l’origine – questa legge che è il diritto del più forte, e la cui sostanza è sempre stata la consacrazione di tutte le oppressioni, retaggio della storia sanguinosa dell’umanità, sentirete un supremo disprezzo per questa legge. Capirete che restando al servizio della legge scritta vi mettete ogni giorno più in opposizione con la legge della coscienza; e siccome questa lotta non può durare, o farete tacere la vostra coscienza e diventerete un birbante, o romperete il legame della tradizione e verrete a lavorare con noi per l’abolizione di tutte le ingiustizie economiche, politiche e sociali.
Ma allora sarete socialista, sarete rivoluzionario.
E voi, giovane ingegnere, che applicando la scienza all’industria credete di migliorare le condizioni dei lavoratori, sapete quanti disinganni, quante delusioni vi aspettano?
Voi consacrate la vostra giovane energia allo studio del progetto di una ferrovia, che strisciando sull’orlo dei precipizi e forando il cuore dei giganti di granito, congiungerà due popoli separati dalla natura. Una volta all’opera vedrete in quella tetra galleria centinaia di operai decimati dalle privazioni e dalle malattie, e ne vedrete altri ritornare alle loro case, portandovi appena qualche soldo e i germi manifesti della tisi, vedrete i cadaveri umani segnare ogni metro di avanzamento della vostra ferrovia, mentre i grassi banchieri che sono rimasti tranquillamente a casa senza fare nulla si godranno i lauti dividendi; e quando avrete terminata la vostra ferrovia, la vedrete diventare una strada per i cannoni degli invasori...
Voi dedicate la vostra gioventù a una scoperta che deve semplificare la produzione e dopo molti sforzi e molte notti insonni, giungete finalmente alla vostra preziosa scoperta. Ne fate la prova e il risultato supera le vostre stesse speranze. Diecimila, ventimila operai saranno gettati sul lastrico! Quelli che restano, in maggior parte fanciulli, sono ridotti allo stato di macchine! Tre, quattro, dieci padroni faranno fortuna e sguazzeranno nell’oro... E questo che voi avete sognato?
Infine se studiate i recenti progressi industriali, vedete che la cucitrice non ha guadagnato nulla, proprio nulla, con la scoperta della macchina per cucire, che l’operaio del Gottardo muore di anchilostoma sebbene vi siano le perforatrici a corona di diamante, che il muratore, il manovale mancano di lavoro a fianco degli ascensori Giffard – e se discutete i problemi sociali con quella indipendenza di spirito che vi ha guidato nei problemi tecnici, arriverete necessariamente a questa conclusione: che sotto il regime della proprietà privata e del salario, ogni nuova scoperta, lungi dall’aumentare il benessere del lavoratore, non fa che rendere la schiavitù più dura, il suo lavoro più brutale, la disoccupazione più frequente, le crisi più acute, e colui che possiede già tutti i godimenti è il solo che ne approfitta.
Cosa farete quando sarete arrivato a questa conclusione? – o cercherete di fare tacere la vostra coscienza con dei sofismi; e, rinunciando ai vostri bei sogni di gioventù, cercherete di impadronirvi, per vostro uso, dei mezzi per godere la vita: e entrerete allora nelle fila degli sfruttatori; o, se avete cuore, direte: “No, non è il tempo di fare nuove scoperte. Lavoriamo prima a trasformare il regime di produzione; quando la proprietà individuale sarà abolita, ogni nuovo progresso industriale sarà un beneficio per tutta l’umanità; e tutta questa massa di lavoratori, oggi ridotta allo stato di strumento, allora sarà costituita da esseri ragionevoli che applicheranno all’industria la loro intuizione, sostenuta dallo studio ed esercitata dal lavoro manuale; e allora il progresso tecnico prenderà uno slancio tale che farà in cinquant’anni ciò che oggi non possiamo nemmeno sognare”.
E cosa dirò al maestro di scuola – non a colui che considera la sua professione come un mestiere noioso e ingrato, ma a colui che, circondato da un’allegra schiera di fanciulli, si sente felice sotto i loro sguardi vivaci, in mezzo ai loro sorrisi, e cerca di svegliare in essi quelle idee umanitarie che egli stesso accarezzava quando era giovane?
Spesso io vi vedo triste e so perché corrugate le ciglia. Oggi il vostro scolaro prediletto, che a dire il vero non è molto versato in latino, ma che non ha perciò minore buon cuore, leggeva la leggenda di Guglielmo Tell; e la sua voce tremava, i suoi occhi brillavano, quando recitava pieno di entusiasmo questi versi di Schiller:
Davanti allo schiavo che spezza la sua catena,
Davanti all’uomo libero, non tremare!
Ma rientrato in casa, sua madre, suo padre, suo zio, lo hanno sgridato duramente per la mancanza di riguardo usata verso il signor curato, o verso la guardia campestre, gli hanno cantato per un’ora l’antifona della “prudenza, del rispetto alle autorità, della sottomissione”, e hanno fatto tanto che egli ha messo da parte Schiller per leggere invece: “L’arte di far fortuna nel mondo”.
E poi, appunto ieri vi si diceva che i vostri scolari hanno fatto cattiva riuscita: uno non fa che sognare spalline da ufficiale, l’altro col suo principale ruba il magro salario degli operai, e voi che avevate messo tante speranze in quei giovani, riflettete ora alla triste contraddizione che esiste tra la vita reale e la vita ideale!
Vi riflettete ancora! ma prevedo che fra due anni, dopo essere passato da delusione in delusione, metterete da parte i vostri autori preferiti, finirete col dire che Tell era certamente una brava persona; ma un po’ matto; che la poesia è una cosa eccellente accanto a un buon fuoco, specialmente dopo una giornata di scuola, quando si ha piena la testa di regole di aritmetica, ma che dopo tutto i signori poeti vagano sempre nelle nubi e i loro versi non hanno niente a che fare né con la vita reale né con la prossima visita dell’ispettore…
Oppure i vostri sogni di gioventù diventeranno la ferma convinzione dell’uomo maturo. Vorrete l’istruzione larga, umanitaria, per tutti, nella scuola e fuori della scuola, e vedendo che è impossibile ottenerla nelle attuali condizioni sociali, vi rivolgerete ad assalire le basi stesse della società borghese. Allora, licenziato dal ministero, lascerete la scuola, e verrete fra noi, verrete con noi per dire agli nomini meno istruiti di voi ciò che lo studio ha di seducente, ciò che l’umanità deve essere, ciò che l’umanità può essere. Voi verrete a lavorare con i socialisti alla trasformazione del regime attuale, nel senso dell’uguaglianza, della solidarietà, della libertà!
Infine, voi, giovane artista, scultore, pittore, poeta, musicista, non avete osservato che il fuoco sacro che inspirava i vostri celebri predecessori, manca a voi e ai vostri compagni? che ora l’arte è triviale, che regna la mediocrità?
E potrebbe essere diversamente? La gioia d’aver ritrovato il mondo antico, di essersi ritemprati alle sorgenti della natura, che fece i capolavori del Rinascimento, non esiste più per l’arte contemporanea; l’idea rivoluzionaria l’ha lasciata fredda finora e, in mancanza di idea, essa crede di averne trovata una nel realismo. Così si diverte a fotografare a colori la goccia di rugiada o a imitare i muscoli di un bue, o a dipingere, in prosa o versi, le turpitudini di un’orgia, o lo spogliatoio d’una donna galante.
Ma, se così è, che farci? direte voi.
– Se il fuoco sacro che voi dite di possedere, non è che uno scarso lucignolo, allora continuerete a fare come avete sempre fatto, e la vostra arte degenererà ben presto nel mestiere di decoratore per i saloni dei bottegai, di scrittore per farse o libretti d’opera o appendici per giornali; sdrucciolerà rapidamente per questa china...
Ma, se realmente il vostro cuore batte all’unisono con quello dell’umanità, se, vero poeta, avete l’orecchio per intendere la vita, allora, davanti a questo mare di dolori di cui l’onda sale fino a voi, davanti a queste popolazioni morenti di fame, a questi cadaveri ammucchiati nelle miniere, a questi corpi mutilati giacenti confusamente ai piedi delle barricate, davanti a questi convogli di esiliati che vanno a seppellirsi fra le nevi della Siberia o nelle sabbie delle isole tropicali, davanti alle grida di dolore dei vinti e alle orge dei vincitori, all’eroismo in lotta con la viltà, agli impeti sublimi e alle basse cattiverie – non potrete più restare indifferente; verrete a schierarvi dalla parte degli oppressi; perché saprete che il bello, il grande, il sublime, la vita insomma, sono dalla parte di quelli che combattono per la luce, per l’umanità, per la giustizia!
Ma voi mi interrompete dicendomi:
– Diavolo, se la scienza astratta è un lusso e la pratica della medicina un’apparenza; se la legge è un’ingiustizia e le scoperte meccaniche un mezzo di speculazione; se la scuola in lotta con la pratica è certa di rimanere vinta, e l’arte senza l’idea rivoluzionaria non può che tralignare, cosa mi resta da fare?
Ebbene, vi rispondo:
– Un lavoro immenso, più seducente di tutti, un lavoro nel quale le vostre azioni saranno in perfetto accordo con la vostra coscienza, un lavoro che può sedurre e trascinare i caratteri più nobili e più forti.
Qual è questo lavoro? – Ve lo dico subito.
III
– O transigere continuamente con la propria coscienza e finire un giorno per dire a se stessi: “Perisca l’umanità, purché io possa avere tutti i godimenti e profittarne finché il popolo sarà tanto bestia da permetterlo”; – o schierarsi con i socialisti e lavorare con essi per una trasformazione completa della società. Questa è la conseguenza necessaria che abbiamo fatta, questa sarà sempre la conclusione logica alla quale dovrà arrivare ogni individuo intelligente, purché egli ragioni onestamente su ciò che succede intorno a lui, purché egli sappia darsi una ragione dei sofismi che la sua educazione borghese e l’opinione interessata di quelli che lo circondano vanno sussurrandogli all’orecchio.
Una volta arrivati a questa conclusione, la domanda: “Che fare?”, viene naturalmente da sé.
La risposta è facile.
Uscite da questo ambiente nel quale siete stato allevato, e dove si usa dire che il popolo non è che una massa di gentaglia, venite verso questo popolo e la risposta sorgerà da se stessa.
Vedrete che dappertutto, in Francia come in Germania, in Italia come negli Stati Uniti, dappertutto dove esistono privilegiati e oppressi, si prepara in seno alla classe operaia un lavoro gigantesco allo scopo di spezzare per sempre la schiavitù imposta dal feudo del capitalista e di gettare le fondamenta d’una società basata sulla giustizia e sull’uguaglianza. Al popolo di oggi non basta più esprimere i suoi lamenti con una di quelle strazianti melodie che cantavano i servi nel diciottesimo secolo, e che il contadino slavo ripete ancora; il popolo di oggi lavora con la piena coscienza di ciò che fa e lotta contro tutti gli ostacoli per la sua emancipazione.
Il pensiero popolare si affanna costantemente a indovinare cosa si deve fare, perché la vita invece d’essere una maledizione per tre quarti dell’umanità, diventi una felicità per tutti; egli affronta i più ardui problemi della sociologia e cerca di risolverli con il suo buon senso, con il suo spirito d’osservazione, con la sua dura esperienza. Per intendersi con gli altri miserabili suoi pari, il popolo cerca di unirsi, di organizzarsi. Si costituisce in società, sostenute penosamente con lievi contributi; cerca di intendersi attraverso i confini, e meglio di tutti i filantropi retorici, prepara il giorno in cui saranno impossibili le guerre fra i popoli. Per sapere cosa fanno i suoi fratelli, per meglio conoscerli, per elaborare le sue idee e diffonderle, sostiene – a prezzo di quali sacrifici e di quante privazioni! – la stampa operaia. Finalmente, quando l’ora è venuta, si leva e tingendo con il suo sangue le barricate, si slancia alla conquista di quelle libertà che più tardi i ricchi e i potenti sapranno corrompere in privilegi per ritorcerle ancora contro di lui.
Quanti sforzi continui! Che lotta incessante! Che lavoro sempre ricominciato, ora per colmare i vuoti fatti dalle diserzioni, conseguenze della stanchezza, della corruzione, delle persecuzioni; ora per rifare le fila diradate dai fucili e dai cannoni!, ora per riprendere gli studi interrotti bruscamente dalle stragi in massa!
I giornali sono creati da uomini che hanno dovuto rubare alla società briciole di istruzione, privandosi del sonno e del cibo; l’agitazione è sostenuta con danari tolti allo stretto necessario, spesso dal puro pane; e tutto ciò con la continua apprensione di vedere la propria famiglia ridotta nella più squallida miseria, appena che il padrone si accorgerà che “il suo operaio, il suo schiavo è un socialista”!
Ecco ciò che voi vedrete andando nel popolo.
E in quella lotta senza fine, quante volte il lavoratore annientato sotto il peso degli ostacoli, si è domandato invano: – “Dove sono dunque questi giovani che hanno ricevuto l’istruzione a nostre spese, questi giovani che noi abbiamo nutrito e vestito mentre studiavano? per i quali con la schiena curva sotto i pesi e con il ventre vuoto, abbiamo costruito tante case, tante accademie, tanti musei? per i quali con volto livido abbiamo stampato quei bei libri che noi non possiamo nemmeno leggere? – Dove sono questi professori che dicono di possedere la scienza umanitaria, mentre per essi l’umanità vale meno di qualche rara specie di vermi? questi democratici che parlano di libertà, e non difendono mai la nostra, calpestata ogni giorno? questi scrittori, questi poeti, questi pittori, tutta questa schiera di ipocriti insomma, che parlano al popolo con le lacrime agli occhi, e non sono mai stati fra noi per aiutarci nei nostri lavori?”.
Gli uni vanno beandosi nella loro vile indifferenza; gli altri, i più, disprezzano “la canaglia”, e sono pronti a gettarsi su essa, se vuol toccare i loro privilegi.
Ogni tanto, spunta, è vero, qualche giovane che sogna fucili e barricate e cerca scene a sensazione, ma egli diserta la causa del popolo quando si accorge che la via delle barricate è lunga, che il lavoro è faticoso, e che su questa via le corone di alloro che egli cerca sono sparse di spine. Più spesso sono gli ambiziosi insaziati, che dopo aver fallito nei primi tentativi, cercano di accattivarsi i voti del popolo, ma che più tardi saranno i primi a tuonargli contro appena vorrà applicare i princìpi da essi professati; forse anche facendo sparare i cannoni, quando oserà muoversi prima che essi, i capi, gli abbiano dato il segnale.
Aggiungete alla sciocca ingiuria, il superbo disprezzo, la vile calunnia da parte del maggior numero, e avrete tutto ciò che il popolo riceve dalla gioventù borghese come aiuto nella sua evoluzione socialista.
E dopo tutto ciò vi domanderete ancora: “Che fare?”, allorché tutto un esercito di giovani troverebbero da applicare la forza delle loro giovani energie, delle loro intelligenze, per aiutare il popolo nel lavoro immenso che ha intrapreso!
Voi, amanti della scienza pura, se siete penetrati dai princìpi del socialismo, se avete compreso tutta l’importanza della rivoluzione che si prepara, non vedete che tutta la scienza deve essere rifatta per metterla in accordo con i nuovi princìpi; che si tratta di fare in questo campo una rivoluzione molto più importante della riforma scientifica del XVIII secolo? Non comprendete che la storia – oggi favola prestabilita sulla grandezza dei re, dei grandi uomini e dei parlamenti – è tutta da rifare dal punto di vista popolare, dal punto di vista del lavoro compiuto dalle masse nelle evoluzioni dell’umanità? Che l’economia sociale – oggi consacrazione della speculazione capitalista – è tutta da elaborasi di nuovo, tanto nei suoi princìpi fondamentali quanto nelle sue innumerevoli applicazioni? Che l’antropologia, la sociologia, l’etica devono essere rifatte completamente, e che le stesse scienze naturali, studiate sotto un nuovo aspetto, devono subire una modificazione profonda nel modo di concepire i fenomeni naturali e nel metodo di esporli?
Ebbene, fatelo! Mettete le vostre cognizioni al servizio di una buona causa. Ma soprattutto venite ad aiutarci con la vostra logica stringente per combattere pregiudizi secolari, per elaborare la sintesi d’una migliore organizzazione sociale; soprattutto insegnateci ad applicare ai nostri ragionamenti l’ardimento della investigazione scientifica e, predicando con l’esempio, mostrateci come si sacrifica la vita per il trionfo della verità!
Voi medici, ai quali la dura esperienza ha fatto capire il socialismo, non stancatevi di dirci oggi, domani, ogni giorno e in ogni occasione, che l’umanità cammina verso la sua rovina se resta nelle attuali condizioni di esistenza e di lavoro; che le vostre medicine resteranno impotenti contro le malattie finché i nove decimi dell’umanità vivranno in condizioni assolutamente contrarie a ciò che vogliono la scienza e l’igiene; quali sono le cause dei mali che si devono eliminare, e come ciò si possa fare. Venite dunque col vostro coltello a sezionare con mano sicura questa società in decomposizione, per dirci che vi può essere una esistenza razionale e, da veri medici, venite a ripeterci che non si deve esitare davanti all’amputazione di un membro in cancrena il quale può infettare tutto il corpo.
Voi che lavorate per applicare la scienza all’industria, venite a dirci francamente il risultato delle vostre scoperte; fate intravedere a quelli che non osano ancora lanciarsi arditamente verso l’avvenire, quanto il sapere sia gravido di nuove invenzioni, come potrebbe essere fiorente l’industria quando fosse posta in migliori condizioni, quanto l’uomo potrebbe produrre se lavorasse sempre all’aumento della produzione. Portate dunque al popolo il concorso della vostra intelligenza, del vostro spirito pratico e del vostro talento d’organizzazione, invece di metterli al servizio degli sfruttatori.
Voi poeti, pittori, scultori, musicisti, se avete compreso la vostra vera missione e gli interessi stessi dell’arte vostra, venite a mettere la penna, il pennello, lo scalpello, al servizio della rivoluzione. Raccontateci, con il vostro stile immaginoso, o con i vostri quadri sorprendenti, le titaniche lotte dei popoli contro i loro oppressori; infiammate i giovani cuori di quel potente soffio rivoluzionario che animava i nostri antenati; dite alla donna ciò che ha di bello l’attività del marito, se egli consacra la vita alla grande causa dell’emancipazione sociale. Mostrate al popolo ciò che la vita attuale ha di turpe, e fategli toccare con mano le cause di queste turpitudini; ditegli ciò che sarebbe una vita razionale, se non urtasse a ogni passo contro l’inettitudine e le ignominie dell’ordine sociale attuale.
Insomma, voi tutti che avete cognizioni e talento, se avete cuore, venite, voi e le vostre compagne, a mettervi al servizio di quelli che ne hanno maggiormente bisogno. E sappiate che se venite, non come maestri ma come compagni di lotta; non per governare ma per ispirarvi in un ambiente nuovo che cammina alla conquista dell’avvenire; non per insegnare ma per comprendere le aspirazioni delle masse, per indovinarle, per formularle, e poi lavorare continuamente, senza posa, e con tutto lo slancio della gioventù, a farle entrare nella vita – sappiate che allora, ma allora soltanto, vivrete una vita perfetta, una vita razionale. Vedrete che ogni sforzo fatto in questa via, porta largamente i suoi frutti; – questo sentimento di accordo fra i vostri atti e la voce della vostra coscienza, vi darà forze che non sospettavate nemmeno in voi stessi.
La lotta costante per la vita, per la giustizia, per l’uguaglianza, in mezzo al popolo cosa volete di più bello nella vita?
IV
Ho dovuto impiegare tre lunghi capitoli per dimostrare ai giovani della borghesia che davanti al dilemma loro posto dall’esistenza, essi saranno costretti, se coraggiosi e sinceri, a schierarsi con il socialismo e abbracciare con noi la causa della rivoluzione sociale. Questa verità è così semplice! Ma, parlando con quelli che hanno subito l’influenza della vita borghese, quanti sofismi da combattere, quanti pregiudizi da vincere, quante obiezioni interessate da confutare!
Certamente posso essere più breve parlando a voi, giovani del popolo. La forza stessa delle cose vi spinge a essere socialisti, appena avete il coraggio di ragionare e di agire secondo i vostri ragionamenti. Infatti, il socialismo moderno è scaturito dalle profondità stesse del popolo. Se alcuni pensatori, venuti dalla borghesia, portarono la sanzione della scienza e l’appoggio della filosofia, il fondo delle idee che essi hanno enunciato non è con ciò meno un prodotto dello spirito collettivo del popolo lavoratore. Questo socialismo positivo e razionale dell’Internazionale, che è oggi la nostra migliore forma, non è forse stato elaborato nelle organizzazioni operaie, sotto la diretta influenza delle masse? E gli scrittori che hanno dato il loro consenso a questo lavoro di elaborazione, non hanno fatto altro che trovare la formula delle aspirazioni già viventi fra i lavoratori.
Uscire dalle fila del popolo lavoratore, e non consacrarsi al trionfo del socialismo, è dunque disconoscere i propri veri interessi e rinnegare la propria causa e la propria missione storica.
Vi ricordate del tempo quando, ancora fanciulli, nelle uggiose giornate di inverno scendevate a giocare nella triste viuzza della vostra casa? Il freddo vi pungeva le carni attraverso i leggeri vestiti e il fango riempiva le vostre ciabatte sgangherate. Allora di già, quando vedevate passare da lontano quei fanciulli paffuti e vestiti riccamente che guardavate con aria sdegnosa, sapevate benissimo che essi, tanto lisciati e accarezzati, valevano meno di voi e dei vostri compagni, per intelligenza, per buon senso, per energia. Ma più tardi, quando doveste rinchiudervi in una tetra officina, dalle cinque o le sei del mattino, e stare dodici ore presso una macchina rumorosa, macchina voi pure, seguire giorno per giorno, per anni interi i suoi movimenti automaticamente spietati – in quel tempo là, loro andavano tranquillamente a studiare nei collegi, nelle scuole, nelle università, e ora, quegli stessi fanciulli, meno intelligenti, ma più istruiti di voi, diventati vostri padroni, godranno tutti i benefici della civiltà... e a voi cosa vi aspetta?
Voi entrate in una misera abitazione tetra e umida da dove cinque o sei creature brulicano nello spazio di pochi metri quadrati; dove vostra madre, affaticata dall’esistenza, invecchiata più per gli stenti che per l’età, vi offre per cibo pane, patate, e un liquore nerastro che chiamano caffè; dove per tutta distrazione avete ogni giorno la stessa domanda da farvi, quella di sapere come pagherete domani l’usuraio, e dopo domani il padrone di casa!
Non basta! dovrete trascinare la stessa esistenza miserabile che vostro padre e vostra madre condussero per trenta o quarant’anni! Lavorare tutta la vita per procurare ad alcuni i conforti del benessere, del sapere, dell’arte, e tenere per voi l’eterna pena del tozzo di pane? Rinunciare per sempre a tutto ciò che rende la vita così bella per consacrarsi a procurare tutti i piaceri a un manipolo di oziosi? Consumarsi nel lavoro e non conoscere che gli stenti, o anche la miseria, quando la terribile mancanza di lavoro verrà nel vostro mestiere? È questo che desiderate nell’esistenza?
Forse vi rassegnerete. Non vedendo alcuna uscita alla vostra triste condizione, forse direte fra di voi: “Intere generazioni hanno subito la mia sorte, e io, che non posso mutarla, la subirò ugualmente! Animo, dunque, lavoriamo e procuriamo di vivere alla meglio”.
Sia pure! Ma allora la vostra esistenza stessa verrà a istruirvi.
Un giorno sarà una crisi dell’industria, una di quelle crisi non più passeggere, come altre volte, ma che annientano tutta un’industria, che gettano nella miseria migliaia di lavoratori, che decimano le famiglie degli operai. Lotterete come gli altri contro questa calamità. Ma vi accorgerete ben presto che vostra moglie, i vostri figli, i vostri amici soccombono a poco a poco alle privazioni, deperiscono a vista d’occhio e, privi di cibo, privi di cure finiscono per stendersi su un miserabile giaciglio, intanto che la vita allegra risuona nelle vie inondate di sole della grande città noncurante di quelli che muoiono di stenti. Comprenderete allora ciò che questa società ha di ributtante, penserete alle cause della crisi e il vostro sguardo scruterà tutte le profondità di questa iniqua legge che espone migliaia di uomini alla cupidigia di un pugno di fannulloni; comprenderete che i socialisti hanno ragione quando affermano che la società attuale può e deve essere trasformata totalmente.
Un altro giorno, allorché il padrone con una nuova riduzione di salario, cercherà di rubarvi ancora un soldo per ingrossare d’altrettanto il suo capitale, voi protesterete; ma egli vi risponderà con arroganza: “Se non siete contento andate a pascolare l’erba”. Comprenderete allora che il padrone, non solo cerca di tosarvi come una pecora, ma vi considera ancora meno di un animale qualunque; che non contento di tenervi fra le sue unghie per mezzo del salario, aspira a rendervi schiavo sotto tutti i rapporti. Allora, o curverete la schiena e, rinunciando al sentimento della dignità umana, finirete per subire tutte le umiliazioni; e il sangue vi salirà alla testa, avrete orrore della china fatale sulla quale sdrucciolate, e risponderete, e gettato sul lastrico comprenderete allora che i socialisti hanno ragione quando dicono: “Rivoltati! rivoltati contro la schiavitù economica che è la causa di tutte le schiavitù!”. Allora verrete a prendere il vostro posto nelle fila dei socialisti e lavorerete con per l’abolizione di tutte le schiavitù: economiche, politiche, sociali.
Un giorno conoscerete la storia della fanciulla della quale amavate tanto lo sguardo sincero, la persona snella e la parola vivace. Dopo aver lottato per anni e anni contro la miseria, ha abbandonato il villaggio natio per venire in città. Sapeva che qui la lotta per l’esistenza sarebbe stata dura, ma sperava almeno di guadagnarsi onestamente il pane. Ebbene, conoscete ora la sorte che ha incontrato. Corteggiata da un giovane borghese, si è lasciata sedurre dalle sue belle parole e si è data a lui con tutto l’ardore della gioventù per vedersi poi abbandonata dopo un anno con un bambino sulle braccia. Sempre coraggiosa, non ha cessato di lottare; ma in questa lotta ineguale, contro la fame e il freddo, ha perduto ed è morta in ospedale... Cosa farete allora? Scaccerete lontano ogni ricordo doloroso con queste stupide parole: “Non è la prima e non sarà l’ultima che finisce così” e la sera, insieme con altri compagni brutali, andrete in un caffè a offendere con oscene parole la memoria della povera fanciulla, oppure questo ricordo vi turberà il cuore; cercherete l’infame seduttore per gettargli in faccia il suo delitto, penserete alle cause di questi fatti che si ripetono ogni giorno e capirete che non cesseranno fin quando la società sarà divisa in due campi, nell’uno i miserabili, nell’altro gli oziosi, i gaudenti dalle maniere educate e dagli appetiti brutali. Capirete che è ormai tempo di colmare questo abisso di separazione e correrete a schierarvi fra i socialisti.
E voi, donne del popolo, resterete fredde davanti a questo racconto? Accarezzando la testa bionda di questa bambina che si stringe alle vostre vesti, non penserete mai alla sorte che l’aspetta se lo stato attuale della società non cambia? Non penserete mai all’avvenire che è riservato alla vostra giovane sorella, ai vostri fanciulli? Volete che i vostri figli debbano vegetare come ha vegetate il padre, senz’altra cura che quella del tozzo di pane, senz’altra gioia che quella della taverna? Volete che vostro figlio, vostro marito restino sempre in balia del primo venuto che ha ereditato dal padre un capitale da sfruttare? Volete che restino sempre gli schiavi del padrone, la carne da cannone dei potenti, il letamaio che serve da ingrasso per i campi dei ricchi?
No, mille volte no! So che il vostro sangue si è acceso quando avete saputo che i vostri mariti dopo avere cominciato uno sciopero hanno finito per accettare, con il cappello in mano, le condizioni dettate superbamente dal grasso borghese! So che voi avete ammirato le donne spagnole che andavano in prima fila a presentare i loro petti alle baionette del soldati durante le sommosse! So che ripetete con rispetto il nome di quella donna che piantò una palla nel petto del tiranno che oltraggiava un socialista prigioniero. E so pure che il vostro cuore batteva d’entusiasmo quando leggevate che le donne di Parigi si riunivano sotto una pioggia di obici per infiammare i loro uomini all’eroismo.
Lo so e perciò non dubito che pure voi finirete per venire a raggiungere quelli che lavorano per la conquista dell’avvenire.
Voi tutti, giovani sinceri, uomini e donne, contadini, operai, impiegati, soldati, comprenderete i vostri diritti e verrete con noi! Verrete con i vostri fratelli a preparare quella rivoluzione che abolirà tutte le schiavitù, spezzerà tutte le catene, romperà le vecchie tradizioni, aprirà nuovi orizzonti e stabilirà finalmente nella società umana la vera uguaglianza, la vera libertà, il lavoro di tutti e per tutti – il pieno godimento per tutti del frutto del lavoro, il pieno godimento di tutte le facoltà, la vita razionale, libera e felice!
E non venite a dirci che siamo un piccolo manipolo, troppo debole per raggiungere il grande scopo che ci proponiamo.
Contiamoci e vediamo in quanti siamo a sopportare l’ingiustizia. Contadini, che lavoriamo la terra degli altri e che mangiamo segale per lasciare il frumento al padrone, siamo milioni di uomini; siamo così numerosi che da soli formiamo la massa del popolo. Operai che tessiamo la tela e il velluto per vestirci di cenci, siamo pure moltitudini immense; e quando il fischio delle locomotive ci permette un momento di riposo inondiamo le vie e le piazze come un mare muggente. Soldati che veniamo condotti con il bastone, che riceviamo le palle mentre gli ufficiali ricevono le medaglie, poveri imbecilli che finora non abbiamo saputo fare altro che fucilare i nostri fratelli, ci basterà fare dietrofront per vedere impallidire questi pochi uomini gallonati che ci comandano. Noi tutti che soffriamo oltraggiati siamo la turba immensa, siamo il mare che può tutto inghiottire. Quando lo vorremo, basterà un momento e giustizia sarà fatta.
La guerra
Ben triste è lo spettacolo offerto in questo momento dall’Europa, ma è nel medesimo tempo molto edificante. Da una parte un andirivieni di diplomatici e di mezzani, che aumenta a vista d’occhio ogni volta che l’aria comincia a puzzare di polvere sul vecchio continente. Le alleanze si fanno e si disfanno; si negozia, si vende il bestiame umano per assicurarsi alleati. “Tanti milioni di teste che la nostra casa garantisce alla vostra; tanti ettari per pascerli, tanti porti per esportare la loro lana!”, e il tutto sta nel sapere meglio imbrogliare gli altri in questo mercato. È ciò che, in gergo politico, si chiama diplomazia.
D’altra parte gli armamenti non hanno mai termine. Ogni giorno ci porta delle nuove invenzioni per meglio sterminare i nostri simili, nuove spese, nuovi prestiti, nuove imposte. Blaterare di patriottismo, fare dello sciovinismo, alimentare gli odi internazionali, diventa il mestiere più lucroso in politica, nel giornalismo. Neppure l’infanzia a stata risparmiata: i bambini sono arruolati in battaglioni, cresciuti nell’odio del tedesco, dell’inglese, dell’italiano; ammaestrati all’obbedienza cieca per i governanti del momento, siano essi azzurri, bianchi o neri. E quando suonerà per loro il ventunesimo anno, verranno caricati come muli di cartucce, di provvigioni, di utensili; si darà loro in mano un fucile e impareranno a camminare a suon di tromba, a sgozzarsi come belve a destra e a sinistra, senza mai chiedersi: perché? con quale scopo? Abbiano davanti a loro affamati tedeschi o italiani, oppure i propri fratelli ammutinati a causa della carestia, la tromba suona, bisogna uccidere!
Ecco il risultato di tutta la saggezza dei nostri governanti ed educatori! Ecco tutto ciò che hanno saputo darci per ideale, e questo in un’epoca in cui i diseredati di tutti i Paesi si tendono la mano attraverso le frontiere!…
“Ah! non avete voluto saperne del socialismo? Ebbene, avrete la guerra – la guerra di trent’anni, di cinquant’anni!”, diceva Herzen dopo il 1848. E l’abbiamo; se il cannone cessa un istante di rombare nel mondo è per riprendere lena, è per ricominciare altrove peggio di prima, mentre la guerra europea – la mischia generale dei popoli – minaccia di scoppiare da dieci anni, senza che se ne conosca il perché, con chi?... contro chi?... in nome di quali princìpi? con quale interesse ci si sta per battere?
Nei tempi andati, se vi era una guerra, si sapeva, almeno, perché ci si faceva uccidere. “Il tale re ha offeso il nostro, sgozziamo quindi i suoi sudditi!”. “Il tale imperatore vuol togliere al nostro delle province? moriamo dunque per conservarle a Sua Maestà Cristianissima!”. Si guerreggiava per le rivalità dei re. Era da stupidi, perciò i re non potevano arruolare per una causa simile che alcune migliaia di uomini. Ma perché dunque popoli interi stanno oggi per avventarsi gli uni contro gli altri?
I re non contano più nelle questioni di guerra. Vittoria non se la prende a male per gli insulti che le vengono prodigati in Francia: per vendicarla gli Inglesi non si muovono, e ciononostante potete affermare che fra due anni, Francesi e Inglesi non si sgozzeranno a vicenda per la supremazia in Egitto? – La stessa cosa, dicasi dell’Oriente. Per quanto autocrate e cattivo despota, per quanto grande si immagini, Alessandro di tutte le Russie trangugerà tutte le insolenze di [Gyula] Andràssy e di [James, marchese di] Salisbury, senza muoversi dal suo covo di Gatchina, finché i finanzieri di Pietroburgo e gli industriali di Mosca – sono essi che si chiamano oggi i “patrioti” – non gli avranno intimato di muovere le sue truppe.
E questo perché in Russia come in Inghilterra, in Germania come in Francia, non si combatte più per fare piacere ai re; si combatte per l’integrità delle rendite e l’aumento delle ricchezze dei potentissimi signori Rothschild, Schneider, compagnia d’Anzin, per ingrassare baroni dell’alta finanza e dell’industria.
Alle rivalità dei re si sono sostituite le rivalità fra società borghesi.
Infatti si parla bene ancora di “preponderanza politica”. Ma traducete questa entità metafisica in fatti materiali, esaminate come la preponderanza politica della Germania, per esempio, si manifesta in questo momento e vedrete che si tratta semplicemente di preponderanza economica sui mercati internazionali. Ciò che la Germania, la Francia, la Russia, l’Inghilterra, l’Austria cercano di conquistare in questo momento non è il dominio militare: è il dominio economico. È il diritto di imporre le loro merci, le loro tariffe doganali ai vicini; il diritto di sfruttare i popoli non progrediti nell’industria; il privilegio di costruire ferrovie presso coloro che non ne hanno e di diventare con questo pretesto i padroni dei mercati: il diritto, infine, di togliere di quando in quando a un vicino, sia un porto per attivare il proprio commercio, sia una provincia per smerciarvi l’eccedenza dei prodotti.
Quando ci battiamo oggi è per assicurare ai nostri grandi industriali un beneficio del trenta per cento, ai baroni della finanza il dominio della Borsa, agli azionisti delle miniere e delle ferrovie delle rendite di centomila franchi. Di modo che, per poco che fossimo conseguenti, sostituiremmo le aquile delle nostre bandiere con un vitello d’oro, i loro vecchi emblemi con un sacco di scudi e i nomi dei nostri reggimenti, presi in prestito una volta dai prìncipi del sangue, con quelli dell’industria, della finanza: “Terzo Schneider, decimo d’Anzin, ventesimo Rothschild”. Si saprebbe almeno per chi si sgozza.
Aprire nuovi mercati, imporre le proprie merci, buone o cattive, ecco il fondo di tutta la politica attuale, europea e continentale – la vera causa delle guerre del secolo decimonono.
Nel secolo scorso, l’Inghilterra fu la prima a inaugurare il sistema della grande industria per l’esportazione. Essa accumulò i suoi proletari nelle città, li aggiogò ai telai perfezionati, centuplicando la produzione, e incominciò ad ammucchiare nei suoi magazzini montagne di prodotti. Ma queste merci non erano destinate ai pezzenti che le fabbricavano. Pagati quanto basta per vivacchiare e moltiplicarsi, cosa potevano mai comperare coloro che tessevano i cotoni e le lane? E le navi inglesi partivano per solcare l’oceano in cerca di compratori sul continente europeo, in Asia, in Oceania, in America, sicure di non trovare concorrenti. La miseria, una miseria nera, regnava nelle città, ma il fabbricante e il negoziante si arricchivano a vista d’occhio; le ricchezze sottratte all’estero si accumulavano nelle mani dei pochi, e gli economisti del continente applaudivano e invitavano i loro compatrioti a seguire il medesimo esempio.
Già alla fine del secolo scorso, la Francia cominciò a fare la medesima evoluzione. Essa pure si organizzava per la grande produzione in vista dell’esportazione. La rivoluzione, trasferendo il potere, spingendo verso le città i pezzenti della campagna, arricchendo la borghesia, venne a dare un nuovo slancio all’evoluzione economica. Allora la borghesia inglese se ne commosse ancora più che delle dichiarazioni repubblicane e del sangue versato a Parigi; assecondata dall’aristocrazia, dichiarò una guerra a morte alla borghesia francese che minacciava di chiudere i mercati europei ai prodotti inglesi.
È nota la fine di tale guerra. La Francia fu vinta, ma essa aveva conquistato il suo posto sui mercati. Le due borghesie, inglese e francese, hanno anche fatto per un momento una commovente alleanza: si riconoscevano sorelle.
La Francia, però, oltrepassa ben presto lo scopo propostosi. A forza di produrre per l’esportazione, essa vuole accaparrarsi i mercati senza tener conto del progresso industriale che si propaga lentamente da Occidente verso Oriente e guadagna nuovi Paesi. La borghesia francese cerca d’allargare la cerchia dei suoi benefici. Subisce, per diciotto anni, il dominio del terzo Napoleone, sperando sempre che l’usurpatore possa imporre all’Europa intera la sua legge economica e non l’abbandona che il giorno in cui si accorge che non ne è capace.
Una nuova nazione, la Germania, applica il medesimo regime economico. Essa pure spopola le campagne e accumula i suoi affamati nelle città, raddoppiandone in pochi anni la popolazione. Incomincia a produrre in grande. Una industria formidabile, armata di macchine perfezionate e assecondata da un’istruzione tecnica e scientifica seminata a piene mani, accumula a sua volta prodotti destinati non già a coloro che li producono ma all’esportazione, all’arricchimento dei padroni. I capitali si accumulano e cercano impieghi vantaggiosi in Asia, in Africa, in Turchia, in Russia: la borsa di Berlino rivaleggia con quella di Parigi, e vuole dominarla.
Un grido si ripercuote allora in seno alla borghesia tedesca: unificarsi sotto qualsiasi bandiera, fosse pure quella della Prussia, e approfittare di questa potenza per imporre i suoi prodotti e le sue tariffe ai vicini, per impadronirsi di un buon porto sul Baltico, sull’Adriatico se possibile! Spezzare la forza militare della Francia che minacciava, vent’anni prima, di fare la legge economica in Europa, dettando i suoi trattati commerciali.
La guerra del 1870 ne fu la conseguenza. La Francia non domina più i mercati: è la Germania che cerca di dominarli, ed essa pure, per la sete di lucro, tenta di estendere sempre più il suo sfruttamento, senza tenere conto delle crisi, dei crac, dell’incertezza e della miseria che rodono il suo edificio economico. Le coste dell’Africa, le messi della Corea, le pianure della Polonia, le steppe della Russia, le pusztas dell’Ungheria, le valli coperte di rose della Bulgaria, tutto eccita l’ingordigia dei borghesi tedeschi. E ogni volta che il negoziante tedesco percorre pianure appena coltivate, città dove regna pur sempre la piccola industria, corsi d’acqua non ancora utilizzati, il suo cuore sanguina alla vista di tale spettacolo. Nella sua immaginazione, si rappresenta come saprebbe lui ricavare sacchi d’oro da quelle ricchezze incolte, come curverebbe quegli esseri sotto il giogo del suo capitale. Giura dunque di portare un giorno la “civiltà”, cioè lo sfruttamento, in Oriente. Intanto, cercherà di imporre le sue merci, le sue ferrovie all’Italia, all’Austria, alla Russia.
Ma queste si emancipano a loro volta dalla tutela economica dei vicini, entrando a poco a poco nell’orbita dei Paesi “industriali”; le loro giovani borghesie non chiedono di meglio che arricchirsi anch’esse con l’esportazione. In pochi anni la Russia e l’Italia hanno fatto un salto prodigioso nell’estensione delle loro industrie, e non potendo il contadino, ridotto alla miseria più squallida, comprare le nuove merci, è pure per l’esportazione che i fabbricanti russi, italiani e austriaci cercano di produrre. Abbisognano quindi di mercati, e quelli d’Europa essendo già occupati, è nell’Asia o nell’Africa che sono costretti a cercarne, condannati necessariamente a battersi per mancanza di intesa nella divisione dei grossi guadagni.
Quali alleanze potrebbero mantenersi in questa situazione, creata dal carattere medesimo che danno all’industria coloro che la dirigono? L’alleanza della Germania e della Russia è pura convenienza; Alessandro e Guglielmo possono abbracciarsi quanto vogliono, ma la borghesia nascente in Russia detesta cordialmente la borghesia germanica, e questa la paga della stessa moneta. Ci ricordiamo del grido generale sollevato dalla stampa tedesca, quando il governo russo aumentò di un terzo i suoi diritti d’entrata. “La guerra contro la Russia – dicono i borghesi tedeschi e gli operai che li seguono – sarebbe da noi ben più popolare ancora della guerra del 1870!”.
Ma che! Questa fastosa alleanza della Germania e dell’Austria non è anche essa scritta sulla sabbia e le due potenze – le due borghesie – sono forse molto distanti da un serio litigio a proposito delle tariffe? E le due sorelle gemelle, l’Austria e l’Ungheria, non sono pure sul punto di dichiararsi una guerra delle tariffe, i loro interessi essendo diametralmente opposti quanto allo sfruttamento degli Slavi meridionali? E la Francia stessa, non è essa divisa da questioni di tariffe?
Sì, certo, voi non avete voluto il socialismo, e avrete la guerra. Ne avrete per trent’anni di guerra, se la Rivoluzione non verrà a porre fine a questa situazione altrettanto assurda quanto ignobile. Ma, bisogna ben dircelo: arbitrato, equilibrio, soppressione degli eserciti permanenti, disarmo, tutte queste cose sono bei sogni, ma senza alcuna portata pratica. La rivoluzione sola, dopo aver rimesso gli utensili, le macchine, le materie prime e tutta la ricchezza sociale nelle mani del produttore e riorganizzata tutta la produzione in modo da soddisfare i bisogni di coloro che producono tutto, potrà mettere fine alle guerre per i mercati.
Ciascuno lavori per tutti e tutti per ciascuno, ecco la sola condizione per condurre la pace in seno alle nazioni, che la chiedono con alte grida, ma a cui viene negata dagli incettatori attuali della ricchezza sociale.
Le minoranze rivoluzionarie
– “Tutto quello che affermate è giustissimo” – ci dicono spesso i nostri contraddittori. – “Il vostro ideale del comunismo anarchico è eccellente e la sua realizzazione condurrebbe davvero il benessere e la pace sopra la terra; ma sono pochi coloro che lo desiderano, lo comprendono e hanno la fede necessaria per lavorare al suo avvento! Voi non siete che una piccola minoranza, deboli gruppi disseminati qua e là, perduti in mezzo a una massa indifferente, e avete di fronte un terribile nemico, bene organizzato, in possesso di eserciti, capitali, istruzione. La lotta che avete intrapreso trascende le vostre forze”.
Ecco l’obiezione che sentiamo continuamente da parte di alcuni nostri contraddittori e spesso da parte di alcuni dei nostri amici. Vediamo dunque quel che c’è di vero in questa obiezione.
Che i gruppi anarchici non siano che una piccola minoranza, paragonati alle decine di milioni di abitanti che popolano la Francia, la Spagna, l’Italia, la Germania – nulla di più vero. Tutti i gruppi rappresentanti una nuova idea hanno sempre cominciato dall’essere minoranza. Ed è molto probabile che come organizzazione resteremo minoranza fino al giorno della rivoluzione. Ma è questo forse un argomento contro di noi? In questo momento gli opportunisti sono la maggioranza; dovremmo per caso diventare opportunisti? Fino al 1790 la maggioranza era fatta di realisti e costituzionalisti: dovevano forse per questo, i repubblicani dell’epoca, rinunciare alle loro idee repubblicane e diventare anche loro realisti, allorquando la Francia marciava a grandi giornate verso l’abolizione della regalità?
Poco importa che, come numero, siamo minoranza.
La questione non sta nel numero, ma nel sapere se le idee del comunismo anarchico sono conformi all’attuale evoluzione dello spirito umano, soprattutto tra i popoli di razza latina. – Ma su questo non si possono avere dubbi. L’evoluzione non si produce nel senso dell’autoritarismo, ma nel senso della più completa libertà dell’individuo, del gruppo produttore e consumatore, del comune, dell’associazione, della federazione libera. L’evoluzione si produce non nel senso dell’individualismo proprietario, ma nel senso della produzione e del consumo in comune. Nelle grandi città il comunismo non spaventa più nessuno. Si tratta, beninteso, del comunismo anarchico. Nei villaggi l’evoluzione si produce nel medesimo senso e, salvo varie parti della Francia poste in condizioni speciali, il contadino tende già, sotto parecchi rapporti, a servirsi in comune degli strumenti di lavoro. Per questo, quando esponiamo alle grandi masse le nostre idee, quando parliamo in forma semplice, comprensibile, appoggiati da esempi pratici, della rivoluzione quale l’intendiamo, siamo accolti da applausi nei grandi centri industriali, come nei villaggi.
E potrebbe essere altrimenti? Se l’anarchia e il comunismo fossero stati il prodotto di speculazioni filosofiche, fatte da sapienti nell’ombra dei loro studi, certo questi due princìpi non troverebbero eco alcuna. Ma queste due idee sono nate dalle viscere stesse del popolo. Sono l’enunciato di ciò che pensano e dicono l’operaio e il contadino, quando, lasciando un giorno o l’altro la quotidiana tradizione, si mettono a sognare un avvenire migliore. Sono l’enunciato della lenta evoluzione prodotta negli spiriti durante il corso di questo secolo. Sono la concezione popolare della trasformazione che deve operarsi ben presto, apportatrice di giustizia, di solidarietà, di fratellanza nelle città, nelle campagne. Nate dal popolo, sono acclamate dal popolo ogni qualvolta siano esposte in modo comprensibile.
E in ciò sta appunto la loro intima forza e non già nel numero degli aderenti attivi e organizzati, che sono abbastanza coraggiosi per affrontare i pericoli della lotta e le conseguenze alle quali si va incontro col lavorare per la rivoluzione popolare. Questo numero aumenta ogni giorno e continuerà ad aumentare; solo alla vigilia stessa della sollevazione diverrà maggioranza, da minoranza qual è al giorno d’oggi.
La storia, infatti, ci dice che coloro i quali sono stati minoranza alla vigilia della rivoluzione, divengono forza predominante il giorno della rivoluzione, se rappresentano la vera espressione delle aspirazioni popolari e se – altra condizione essenziale – la rivoluzione dura un certo tempo, necessario all’idea rivoluzionaria per spandersi, germinare, fruttificare. Poiché, non dimentichiamolo, non è con una rivoluzione di un giorno o due che arriveremo a trasformare la società nel senso del comunismo anarchico: un sollevamento di corta durata può rovesciare un governo per sostituirlo con un altro, può sostituire Jules Favre a Napoleone, senza cambiare nulla nelle istituzioni fondamentali della società. È tutto un periodo insurrezionale di tre, quattro, cinque anni forse, che noi dovremo attraversare per compiere la nostra rivoluzione nel regime della proprietà e nel modo d’unione sociale. Sono occorsi cinque anni di insurrezione permanente, dal 1788 al 1793, per abbattere in Francia il regime feudale fondiario e l’onnipotenza della regalità: ne occorreranno ben tre o quattro per abbattere la feudalità borghese e l’onnipotenza della plutocrazia.
Ebbene, è soprattutto durante questo periodo d’eccitazione, quando lo spirito lavora con velocità accelerata, quando tutti, dalla città sontuosa alla capanna oscura, prendono interesse alla cosa comune, discutono, parlano, cercano di convertire gli altri, che l’idea anarchica, seminata oggi dai gruppi esistenti, potrà germinare, dare i suoi frutti e precisarsi nella grande massa degli spiriti. Allora, gli indifferenti di oggi diverranno partigiani convinti della nostra idea.
Tale fu sempre il cammino delle idee e la grande rivoluzione francese può servire d’esempio.
Certo, questa rivoluzione non è stata così profonda come quella che noi sogniamo. Non ha fatto che rovesciare l’aristocrazia e sostituirla con la borghesia. Non ha toccato il regime della proprietà individuale: al contrario, l’ha rinforzato e ha inaugurato lo sfruttamento borghese. Ma ha raggiunto un immenso risultato con l’abolizione definitiva della servitù per mezzo della forza, un mezzo ben più efficace della legge di non importa quale abolizione. Ha aperto l’era delle rivoluzioni, che da allora si susseguono a intervalli tanto più brevi quanto più si avvicina la Rivoluzione Sociale. Ha dato al popolo francese quell’impulso rivoluzionario senza il quale i popoli possono stagnare per secoli sotto l’oppressione più abietta. Ha lasciato al mondo una corrente di idee feconde per l’avvenire; ha risvegliato lo spirito di rivolta, ha dato l’educazione rivoluzionaria al popolo francese. Se, nel 1871, la Francia ha fatto la Comune, se oggi accetta volentieri l’idea del comunismo anarchico, mentre le altre nazioni sono ancora nel periodo autoritario o costituzionalista, attraversato in Francia prima del 1848 o forse anche prima del 1789, è perché alla fine del secolo scorso essa ha attraversato i quattro anni della grande rivoluzione.
Ebbene, ricordiamoci del triste quadro che offriva la Francia qualche anno prima della rivoluzione e che debole minoranza erano coloro che sognavano l’abolizione della monarchia e del feudalismo.
Il contadino era immerso in una miseria e in un’ignoranza tali che difficilmente possiamo farcene oggi un’idea. Perduti nei villaggi, senza comunicazioni regolari, ignorando quanto avveniva a venti leghe di distanza, questi esseri curvi sotto l’aratro e chiusi in tuguri appestati, sembravano votati a eterna servitù. Il comune accordo era impossibile e, alla minima insurrezione, la truppa era pronta a sciabolare gli insorti, a impiccare i sobillatori vicino alla fontana, su di una forca alta diciotto piedi. Era già gran cosa se oscuri propagandisti percorrevano i villaggi e soffiavano l’odio contro gli oppressori e risvegliavano la speranza nei pochi individui che osavano ascoltarli. Era già molto se il contadino si azzardava a domandare del pane e una qualche diminuzione di imposte. Se volete convincervene, consultate solamente i cahier (le suppliche) dei villaggi.
Quanto alla borghesia, la sua caratteristica era soprattutto la viltà. Individui isolati, rarissimi, si azzardavano talvolta ad attaccare il governo e risvegliavano lo spirito di rivolta con qualche atto d’audacia. Ma la grande massa della borghesia curvava vergognosamente la schiena davanti al re e alla sua corte e davanti al nobile, al servo del nobile. Si leggano solamente gli atti municipali dell’epoca e si vedrà di quale vile bassezza erano impregnate le parole della borghesia prima del 1789. La più ignobile viltà spira dalle queste parole, qualsiasi cosa ne pensino Louis Blanc e gli altri adulatori di questa borghesia. I pochi rari rivoluzionari dell’epoca, allorché gettano uno sguardo intorno a loro, provano una profonda disperazione, e Camille Desmoulins affermava con ragione: “Eravamo a Parigi appena una dozzina di repubblicani prima del 1789”.
E nondimeno, quale trasformazione tre o quattro anni dopo! Da quando la forza della regalità viene un po’ scossa dalla marcia degli avvenimenti, il popolo comincia a insorgere. Durante tutto il 1788 non sono che piccoli e parziali moti di contadini, come oggi i piccoli scioperi parziali, essi scoppiano qua e là su tutta la superficie della Francia; ma a poco a poco si estendono, si generalizzano, divengono più aspri, più difficili da vincere.
Due anni prima, si osava appena domandare una diminuzione del canone (come oggi si domanda un aumento di salario). Due anni dopo, nel 1789, il contadino vuole ben altro. Un’idea generale sorge: quella di scuotere completamente il giogo del nobile, del prete e del borghese proprietario. Non appena il contadino si accorge che il governo non ha più la forza di resistere alla sommossa, insorge contro i suoi nemici. Uomini risoluti cominciano ad appiccare il fuoco ai primi castelli, mentre la grande massa, ancora sottomessa e paurosa, aspetta che le fiamme dei castelli brucianti sulle colline montino fino alle nubi, per impiccare i ricevitori di imposte alle stesse forche da cui penzolarono i precursori della Jacquerie. Ma questa volta la truppa non accorre a reprimere l’insurrezione: essa è occupata altrove, e la rivolta si propaga da casolare in casolare e, in breve, la metà della Francia è in fiamme.
Mentre i futuri rivoluzionari della borghesia si prosternano ancora in ginocchio davanti al re, mentre i grandi personaggi della futura rivoluzione cercano di spegnere il movimento con briciole di concessioni, i villaggi e le città insorgono ben prima della riunione degli Stati Generali e dei discorsi di [Honoré de] Mirabeau. Centinaia di sommosse (Taine ne conosce trecento), scoppiano nei villaggi prima che gli armati di picche e di alcuni cattivi cannoni si impadroniscano della Bastiglia.
Da quel momento, è impossibile contenere la rivoluzione. Se essa fosse scoppiata solamente a Parigi, se non fosse stata che una rivoluzione parlamentare, sarebbe rimasta annegata nel sangue e le orde della contro-rivoluzione avrebbero portato la bandiera bianca di villaggio in villaggio e di città in città, massacrando i cittadini e i sanculotti. Ma fortunatamente, fin dal principio, la rivoluzione aveva preso un altro carattere. Era scoppiata, quasi simultaneamente in mille luoghi, in ogni villaggio, in ogni borgo, in ogni grande città delle province insorte, le minoranze rivoluzionarie, forti della loro audacia e del sostegno tacito che trovavano nelle aspirazioni del popolo, marciavano alla conquista del castello, del municipio, della Bastiglia, terrorizzavano l’aristocrazia e l’alta borghesia, abolivano i privilegi. La minoranza cominciava la rivoluzione e con lei trascinava la massa.
Così sarà per la rivoluzione di cui prevediamo l’avvicinarsi. L’idea del comunismo anarchico, rappresentata oggi da deboli minoranze, precisandosi sempre più nello spirito popolare, farà il suo cammino nella grande massa. I gruppi sparsi dovunque, per quanto poco numerosi, ma forti dell’appoggio che troveranno nel popolo, leveranno lo stendardo rosso dell’insurrezione. Questa, scoppiando contemporaneamente in mille punti del territorio, impedirà lo stabilirsi di un governo qualsiasi che possa intralciare gli avvenimenti, e la rivoluzione continuerà fino a che abbia compiuto la sua missione: l’abolizione della proprietà privata e dello Stato.
Quel giorno la minoranza di oggi sarà popolo, la grande massa insorta contro la proprietà e lo Stato sarà passata al comunismo anarchico.
L’ordine
Sovente ci si rimprovera di aver accettata per divisa la parola anarchia, che fa così paura a tanti spiriti. “Le vostre idee sono eccellenti” – ci si dice – “ma confessate che il nome del vostro partito è scelto male. Anarchia, nel linguaggio corrente, è sinonimo di disordine, di caos; questa parola sveglia nell’anima l’idea di interessi cozzanti fra loro, di individui che si fanno la guerra, e non possono riuscire a stabilire l’armonia”.
Cominciamo, anzitutto, dall’osservare che un partito d’azione, un partito che rappresenta una tendenza nuova, ha raramente la possibilità di scegliere egli stesso il suo nome. Non sono gli gueux (pezzenti) del Brabante gli inventori di questo nome, divenuto più tardi così popolare. Nomignolo dapprima – e nomignolo ben trovato – fu rilevato dal partito, generalmente accettato e ben presto divenne il suo appellativo glorioso. Si converrà, a ogni modo, che questa parola racchiudeva tutta una idea.
E i sanculotti del 1793? – Sono i nemici della rivoluzione popolare che hanno lanciato questo nome, ma non racchiudeva anch’esso tutta una idea, quella della rivolta del popolo cencioso, stanco di miseria, contro tutti quei realisti, sedicenti patrioti e giacobini, ben messi, ben azzimati, che malgrado i loro discorsi pomposi e l’incenso bruciato davanti alle loro statue dagli storici borghesi, erano i veri nemici del popolo, poiché lo disprezzavano profondamente per la sua miseria, per il suo spirito libertario e di uguaglianza, per la sua foga rivoluzionaria?
Lo stesso dicasi per il nome di nichilisti, che ha tanto preoccupato i giornalisti e ha dato luogo a tanti giochi di parole, buoni e cattivi, fino a quando non si è compreso che non si trattava d’una setta barocca, quasi religiosa, ma d’una vera forza rivoluzionaria. Lanciato da [Ivan] Turgenev nel suo romanzo Padri e figli, fu rilevato dai padri che si vendicavano con questo soprannome della disobbedienza dei figli. Questi ultimi l’accettarono, ma quando, più tardi, si accorsero che si prestava a malintesi e vollero liberarsene, era impossibile. La stampa e il pubblico non volevano indicare altrimenti i rivoluzionari russi. D’altra parte, il nome non è affatto mal scelto, poiché racchiude un’idea: esso esprime la negazione di tutto l’insieme dei fatti dell’attuale civiltà, basata sopra l’oppressione di una classe sull’altra; la negazione dell’attuale regime economico, la negazione del governo e del potere, della politica borghese, della scienza ufficiale, della moralità borghese, dell’arte posta al servizio degli sfruttatori, dei costumi grotteschi o detestabili di ipocrisia, di cui i secoli passati hanno dotato la società presente – in una parola, la negazione di tutto quanto la civiltà borghese oggi circonda di venerazione.
Lo stesso per gli anarchici. Quando nel seno dell’Internazionale, sorse un partito che negava l’autorità nell’associazione e si ribellava contro l’autorità sotto qualunque forma, questo partito si chiamò dapprima principio federalista, poi antistatista o antiautoritario. A questa epoca evitò pure di darsi il nome di anarchico. La parola an-archia (così la si scriveva allora) sembrava riattaccarsi troppo al partito dei proudhoniani, di cui l’Internazionale combatteva in quel momento le idee di riforma economica. Ma è precisamente per questo, per gettare della confusione, che gli avversari si compiacquero di usare quel nome; inoltre, esso permetteva di dire che il nome medesimo di anarchici prova che il loro unico intento è di creare il disordine e il caos, senza pensare al risultato.
Il partito anarchico si affrettò ad accettare il nome che gli si dava. Insistette dapprima sul piccolo tratto di unione fra “an” e “archia”, spiegando che sotto questa forma, la parola “an-archia”, d’origine greca, significava assenza di potere e non disordine; ma poi, ben presto, l’accettò tale e quale, senza dare una fatica inutile ai correttori di bozze, né lezioni di greco ai suoi lettori.
La parola è dunque ritornata al suo significato primitivo, comune, espresso in questi termini, nel 1816, da un filosofo inglese, [Jeremy] Bentham: “Il filosofo, che desidera riformare una cattiva legge – diceva egli – non predica contro di essa l’insurrezione... Il carattere dell’anarchico è tutto diverso. Egli nega l’esistenza della legge, ne rifiuta la validità, eccita gli uomini a misconoscerla come legge e a sollevarsi contro la sua esecuzione”. Il senso della parola è divenuto oggi più largo: l’anarchico nega non solo le leggi esistenti, ma qualunque potere costituito, qualunque autorità; tuttavia l’essenza è restata la medesima: l’anarchico si ribella – e comincia da ciò – contro il potere, l’autorità sotto tutte le forme.
Ma, questa parola, ci dicono, sveglia nello spirito la negazione dell’ordine, portando l’idea di disordine, di caos.
Cerchiamo, tuttavia, di intenderci. Di quale ordine si tratta? È dell’armonia che sogniamo noi anarchici? dell’armonia che si stabilirà liberamente nelle relazioni umane, quando l’umanità cesserà di essere divisa in due classi, di cui l’una sacrificata a profitto dell’altra? dell’armonia che sorgerà spontaneamente dalla solidarietà degli interessi, quando tutti gli uomini formeranno una sola famiglia, quando ciascuno lavorerà per il benessere di tutti e tutti per il benessere di ciascuno? Evidentemente no. Coloro che rimproverano all’anarchia d’essere la negazione dell’ordine non parlano di questa armonia dell’avvenire; essi parlano dell’ordine come lo si concepisce nella nostra attuale società. Vediamo dunque che cosa è quest’ordine che l’anarchia vuole distruggere.
L’ordine, ciò che essi intendono per ordine, è per i nove decimi dell’umanità l’obbligo di lavorare per procurare il lusso, le gioie, la soddisfazione delle passioni più esecrabili a un pugno di fannulloni.
L’ordine è, per questi nove decimi, la privazione di tutto quanto è condizione necessaria d’una vita igienica e di uno sviluppo razionale delle attività mentali. Ridurre i nove decimi dell’umanità allo stato di bestie da soma, viventi giorno per giorno, senza osare mai di pensare alle gioie procurate all’uomo dallo studio delle scienze, dalla creazione artistica – ecco l’ordine!
L’ordine è la miseria, la fame divenuta lo stato normale della società. È il contadino irlandese morente di fame; è il contadino di un terzo della Russia morente di difterite, di tifo, di fame in seguito alla carestia, in mezzo ai mucchi di grano che si spediscono all’estero. È il popolo d’Italia ridotto ad abbandonare le sue lussureggianti campagne per girare attraverso l’Europa in cerca del traforo di una galleria qualunque, dove rischierà di farsi schiacciare dopo essere riuscito a vivere qualche mese in più. È la terra tolta al contadino per l’allevamento del bestiame che servirà a nutrire i ricchi; è la terra lasciata incolta piuttosto di restituirla a colui che altro non domanda se non di coltivarla.
L’ordine è la donna che si vende per nutrire i suoi figli; è il fanciullo ridotto a starsene chiuso in una fabbrica o a morire d’inedia; è l’operaio ridotto allo stato di macchina. È il fantasma dell’operaio insorto sulle soglie dei ricchi; è il fantasma del popolo insorto alle porte dei governanti.
L’ordine è un’infima minoranza elevata agli scanni governativi, che si impone con ciò alla maggioranza e alleva i suoi fanciulli per occupare più tardi le stesse funzioni, onde mantenere i medesimi privilegi con la camorra, la corruzione, la forza, il massacro.
L’ordine è la guerra continua fra uomo e uomo, fra mestiere e mestiere, fra classe e classe, fra nazione e nazione. È il cannone che non cessa di tuonare in Europa, è la devastazione delle campagne, il sacrificio di intere generazioni sui campi di battaglia, la distruzione in un anno delle ricchezze accumulate durante secoli di rude lavoro.
L’ordine è la servitù, l’incatenamento del pensiero, l’avvilimento della razza umana, mantenuto con il ferro e la frusta. È la morte improvvisa per il grisou, la morte lenta per avvelenamento di centinaia di minatori lacerati e sepolti ogni anno dalla cupidigia dei padroni, e mitragliati, inseguiti con le baionette non appena osano lamentarsi.
L’ordine, infine, è l’annegamento nel sangue della Comune di Parigi. È la morte di trentamila uomini, donne e fanciulli, squarciati dagli obici, mitragliati, sepolti nella calce viva sotto i selciati di Parigi. È il destino della gioventù russa, murata nelle prigioni, sepolta fra le nevi della Siberia, e della quale i migliori, i più puri, i più devoti rappresentanti muoiono sul capestro del boia.
Ecco l’ordine!
E il disordine – quello che essi chiamano disordine? È la sollevazione del popolo contro questo ordine ignobile, per spezzare le sue catene, distruggere ostacoli e marciare verso un avvenire migliore. È ciò che l’umanità ha di più glorioso nella sua storia.
È la rivolta del pensiero alla vigilia delle rivoluzioni; è il rovesciamento delle ipotesi sanzionate dall’immobilità dei secoli precedenti; è l’esplosione di tutto un fiotto di idee nuove, di invenzioni audaci; è la soluzione dei problemi della scienza.
Il disordine è l’abolizione della schiavitù antica, l’insurrezione dei comuni, l’abolizione del servaggio feudale, i tentativi d’abolizione del servaggio economico.
Il disordine è l’insorgere dei contadini contro i preti e i signori, bruciando i castelli per fare posto alle capanne, sbucando dalle tane per balzare al sole. È la Francia che abolisce la monarchia e assesta un colpo mortale al servaggio in tutta l’Europa occidentale.
Il disordine è il 1848 che fa tremare i re e proclama il diritto al lavoro. È il popolo di Parigi che combatte per una idea nuova e che pur soccombendo sotto i massacri lascia all’umanità l’idea della Comune libera, le spiana il cammino verso la rivoluzione di cui sentiamo l’avvicinarsi e il cui nome sarà Rivoluzione Sociale.
Il disordine – quello che essi chiamano disordine – sono le epoche durante le quali intere generazioni sopportarono una lotta continua e si immolarono per preparare all’umanità un’esistenza migliore liberandola dalla servitù del passato. Sono le epoche durante le quali il genio popolare si sviluppa liberamente e fa in pochi anni passi giganteschi, senza i quali l’uomo sarebbe rimasto allo stato di schiavo antico, di essere strisciante, avvilito nella miseria.
Il disordine è lo sbocciare delle più belle passioni e delle più grandi affezioni, è l’epopea dell’amore supremo dell’umanità!
La parola anarchia, che implica la negazione dell’ordine, invoca il ricordo dei momenti più belli della vita dei popoli, non si addice se non a un partito che marcia alla conquista di un avvenire migliore.
La Comune
Quando noi diciamo che la rivoluzione sociale deve farsi con l’affrancamento dei Comuni e che solo i Comuni, assolutamente indipendenti, liberi dalla tutela dello Stato, potranno darci l’ambiente necessario alla rivoluzione e il mezzo di compierla, ci si rimprovera di volere richiamare in vita una forma della società sorpassata che ha fatto il suo tempo. “Ma il Comune, si dice, è un fatto d’altri tempi! Cercando di distruggere lo Stato per sostituirlo con i Comuni liberi rivolgete gli sguardi al passato: volete ricondurci in pieno medioevo, riaccendere le guerre antiche, distruggere le unità nazionali, così faticosamente conquistate durante il corso della storia!”.
Ebbene, esaminiamo questa critica.
Constatiamo anzitutto che qualunque paragone con il passato non ha che un valore relativo. Perché la nostra Comune sia realmente un ritorno verso il Comune medioevale, bisognerebbe che noi riconoscessimo che il Comune potrebbe ancora rivestire le forme di sette secoli or sono. Ora, è evidente che, stabilendosi ai nostri giorni, nel nostro secolo di ferrovie e di telegrafi, di scienza cosmopolita e di ricerca della verità pura, il Comune avrebbe un’organizzazione differente da quella avuta nel dodicesimo secolo, per cui saremmo in presenza di un fatto assolutamente nuovo, posto in condizioni nuove e che necessariamente porterebbe conseguenze, in modo assoluto, diverse.
Inoltre, i nostri avversari, difensori dello Stato sotto varie forme, dovrebbero ben ricordare che noi possiamo muovere a loro un’altra somigliante obiezione.
Potremmo dire, e con maggior ragione, che essi hanno lo sguardo rivolto al passato, poiché lo Stato è pure una forma tanto antica quanto il Comune. C’è solo questa differenza: mentre lo Stato rappresenta nella storia la negazione di ogni libertà, l’assolutismo e l’arbitrio, il patibolo e la tortura, la rovina dei suoi sudditi; è invece appunto nell’affrancamento dei Comuni e nella sollevazione dei popoli e dei Comuni contro gli Stati, che troviamo le più belle pagine della storia. Certo, trasportandoci verso il passato, non sarà verso un Luigi XI, verso un Luigi XV o verso Caterina II che volgeremo gli sguardi; ma sarà piuttosto sui Comuni o le repubbliche di Amalfi e di Firenze, di Tolosa e Laon, Liegi e Courtray, Amburgo e Norimberga, Pskov e Novgorod.
Non si tratta dunque di appagarsi con parole e sofismi. Bisogna studiare, analizzare da vicino e non plagiare [Émile de] Laveleye e i suoi zelanti allievi che si limitano a dirci: “Ma la Comune è il medioevo! per conseguenza è condannata”. “Ma lo Stato è una storia di delitti”, risponderemmo noi, “dunque, con maggior ragione, è condannato!”.
Fra il Comune del medioevo e la Comune che potrebbe stabilirsi oggi, e forse si stabilirà ben presto, vi saranno differenze essenziali: tutto un abisso aperto da sei o sette secoli di sviluppo dell’umanità e da faticose e rudi esperienze. Esaminiamo le principali.
Qual è lo scopo principale di questa “congiura” o “comunione” che perseguono nel dodicesimo secolo i borghesi della città? – Certo, è ben limitato. Lo scopo è di liberarsi dalla signoria. Gli abitanti, mercanti e artigiani, si riuniscono e giurano di non permettere a “chicchessia di far torto a uno di essi e di trattarlo ancora come servo”; è contro i suoi antichi padroni che il Comune si leva in armi. “Comune – dice un autore del dodicesimo secolo, citato da Augustin Thierry – è una parola nuova e detestabile che significa gli individui tassati non pagano più che una sola volta all’anno la rendita dovuta al proprio signore. Se essi commettono qualche delitto, vengono assolti con un’ammenda legalmente fissata; e quanto alle imposizioni di denaro che si usa infliggere ai servi, ne sono completamente esenti”.
È dunque, in realtà, contro il signore che si ribella il Comune del medioevo. E dallo Stato cercherà d’affrancarsi la Comune di oggi. Essenziale differenza, poiché – ricordiamocene – fu lo Stato, rappresentato dal re, che, più tardi, accorgendosi che i Comuni volevano fare atto di indipendenza davanti al signore, mandò i suoi eserciti “per castigare” – come dice la cronaca – la “pazzia di questi sfaccendati che, grazie al Comune, minacciavano di ribellarsi e di sollevarsi contro la corona”.
La Comune futura saprà che non può più ammettere superiorità che non vi possono essere altri interessi, al di sopra dei suoi, che quelli della Federazione liberamente costituita con le altre Comuni. Essa sa che non vi può essere un termine medio: o la Comune sarà assolutamente libera di darsi tutte le istituzioni che vorrà e di fare tutte le riforme e rivoluzioni che troverà necessarie, o essa resterà quel che fu fino a oggi, una semplice succursale dello Stato, inceppata in tutti i suoi movimenti, sempre sul punto di entrare in conflitto con lo Stato e sicura di essere vinta, nella lotta che ne avverrebbe. Essa sa che deve infrangere lo Stato e sostituirlo con la Federazione, e agirà in tal senso. Oggi le piccole città non sono più sole a levare la bandiera dell’insurrezione comunale. Differenza essenziale, quante altre mai, sono Parigi, Lione, Marsiglia, Cartagena, e ben presto tutte le grandi città, che innalzeranno lo stesso vessillo.
Con l’affrancarsi dal signore, il Comune del medioevo si liberava pure dai ricchi borghesi, che, con la vendita delle mercanzie e dei capitali, si erano conquistati ricchezze private nel seno della città? – Niente affatto! Dopo aver demolito le torri del signore, l’abitante della città, vide ben presto drizzarsi, nel Comune medesimo, le cittadelle dei ricchi mercanti che cercavano di soggiogarlo; e la storia interna dei Comuni del medioevo è quella di una lotta accanita fra i ricchi e i poveri, lotta che, necessariamente, finisce con l’intervento del re. Essendosi l’aristocrazia sviluppata sempre più nel seno stesso del Comune, il popolo, ricaduto di fronte al ricco signore esterno, comprese che non aveva più nulla da difendere nel Comune; per cui abbandonò i ripari eretti per conquistare la sua libertà, e che, per effetto del regime individualista, erano divenuti bastioni di un nuovo servaggio. Nulla avendo da perdere, lasciò ai ricchi mercanti la cura di difendersi, e costoro furono vinti: effeminati dal lusso e dai vizi, senza l’appoggio del popolo, dovettero in breve cedere alle intimazioni degli araldi del re e rimettere loro le chiavi della città. In altri Comuni, furono i ricchi medesimi che aprirono le porte della loro città agli eserciti imperiali, regi o ducali, per sfuggire alla vendetta del popolo, pronto a colpirli.
Ma la prima preoccupazione del Comune del diciannovesimo secolo non sarà quella di porre fine alle disuguaglianze sociali? di impadronirsi di tutto il capitale sociale accumulato nel suo seno e di metterlo a disposizione di coloro che vogliono servirsene, per produrre e aumentare il benessere generale? La sua prima cura non sarà quella di spezzare la forza del capitale e di rendere per sempre impossibile la creazione dell’aristocrazia che originò la caduta del comune del medioevo? Andrà a prendere come alleati il vescovo e il monaco? Infine, imiterà quegli avi che cercavano nel Comune solo la creazione di uno Stato nello Stato? che, abolendo il potere del signore o del re, non sapevano fare di meglio che ricostituire, fin nei minuti particolari, sempre il medesimo potere, dimenticando che questo potere, pure essendo limitato alle mura della città, avrebbe però conservato ancora i vizi del suo modello? I proletari del nostro secolo, imiteranno forse quei fiorentini che, pur abolendo i titoli nobiliari o facendoli portare come marchio di infamia, lasciavano nascere nel contempo la nuova aristocrazia dell’alta borsa? Faranno infine come gli artigiani, che, arrivati al Palazzo civico, devotamente imitavano i loro predecessori e ricostituivano la scala di quei poteri che avevano rovesciato? Cambieranno dunque solo gli uomini senza toccare le istituzioni?
Certamente no. La Comune del diciannovesimo secolo, forte della sua esperienza, farà meglio. Sarà comune non solamente di nome. Non sarà unicamente comunalista, ma comunista; rivoluzionaria in politica, lo sarà pure nelle questioni di produzione e di scambio. Non sopprimerà lo Stato per poi ricostituirlo, ma molte Comuni daranno l’esempio, abolendo il governo di procura e astenendosi dal confidare la loro sovranità alle sorprese dello scrutinio.
Il Comune del medioevo, dopo aver scosso il giogo del suo signore, cercò forse di colpirlo nell’intimo della sua forza? cercò di aiutare la popolazione agricola aiutando il servo della gleba, sprovvisto di armi, e mettendo le proprie armi al servizio di quegli infelici che invece guardava superbo dall’alto delle sue mura? – Oh, no! Retto da un sentimento puramente egoista, il Comune del medioevo si racchiuse fra i bastioni. Quante volte chiuse gelosamente le porte e levò i ponti in faccia agli schiavi imploranti rifugio e li lasciò massacrare dai signori, sotto i suoi occhi, alla portata dei suoi archibugi? Fiero delle sue libertà, non cercò di estenderle a coloro che gemevano all’esterno. Ed è a tal prezzo, a prezzo di conservare la servitù dei vicini, che molti Comuni ricevettero la propria indipendenza. E poi, non era l’interesse dei ricchi borghesi comunali vedere i servi della pianura restare avvinti alla gleba, senza conoscere industria né commercio, forzati sempre a ricorrere alla città per rifornirsi di ferro, metalli, prodotti industriali? E allorquando l’artigiano voleva stendere la mano al disopra della muraglia che lo separava dal servo, che cosa poteva fare contro la libertà del borghese onnipotente, conoscitore dell’arte della guerra, difeso da mercenari agguerriti?
Ma oggi, quale differenza! La Comune di Parigi vittoriosa, si sarebbe limitata a darsi delle istituzioni municipali più o meno libere? Il proletariato parigino spezzando le sue catene avrebbe fatto la rivoluzione sociale a Parigi, prima, nei comuni rurali, poi. La Comune di Parigi, anche quando sosteneva la lotta in difesa di se stessa, ha nondimeno detto al contadino: “Prendi la terra, tutta la terra!”. Non si sarebbe limitata alle parole, e i suoi figli gagliardi avrebbero saputo anche portare le armi nei più lontani villaggi, per aiutare il contadino a fare la sua rivoluzione: cacciare i detentori del suolo e impadronirsene per renderlo a coloro che vogliono e sanno fecondarlo.
Il Comune del medioevo cercava di circoscriversi fra le sue mura: la Comune del secolo diciannovesimo cerca di estendersi, di universalizzarsi. Al posto dei privilegi comunali, la Comune crea la solidarietà umana.
Il Comune medievale poteva limitarsi fra le sue mura e, fino a un certo punto, isolarsi dai suoi vicini. Allorquando entrava in relazione con altri comuni, queste relazioni si limitavano, sovente, a un trattato per la difesa dei diritti urbani contro i signori, o a un patto di solidarietà per la mutua protezione dei dipendenti nei viaggi lontani. E quando vere leghe si formavano, come in Lombardia, in Belgio, in Spagna, queste leghe, poco omogenee, troppo fragili per la diversità dei privilegi, si scindevano ben presto in gruppi isolati o soccombevano sotto gli attacchi degli Stati limitrofi.
Quale differenza con i gruppi che si formerebbero oggi! Una piccola Comune non potrebbe vivere otto giorni senza essere costretta dalla forza delle cose a mettersi in relazioni correnti con i centri industriali, commerciali, artistici, e questi centri a loro volta, sentirebbero il bisogno di aprire le loro porte agli abitanti vicini, delle comuni limitrofe, delle città lontane.
Che una grande città proclami domani “la Comune”, abolisca nel suo seno la proprietà individuale e introduca il comunismo completo, cioè il godimento collettivo del capitale sociale e degli strumenti di lavoro e dei prodotti del lavoro compiuto e, dato che non è isolata da eserciti nemici, dopo qualche giorno i convogli di carri arriveranno ai mercati, i fornitori spediranno da porti lontani i loro carichi di materie prime; i prodotti delle industrie delle città, dopo aver soddisfatto i bisogni della popolazione, cercheranno i compratori in tutto il mondo; gli stranieri verranno in folla e i contadini e gli abitanti delle città vicine racconteranno nelle loro case la vita meravigliosa della libera città, dove ognuno lavora, dove non vi sono poveri e oppressi, dove tutti gioiscono dei frutti del proprio lavoro, senza che alcuno faccia la parte del leone. L’isolamento non è più da temersi: i comunisti degli Stati Uniti non hanno tanto da lamentarsi dell’isolamento delle loro comunità, quanto dell’intrusione della borghesia dei dintorni nei loro affari comunali.
Il commercio e lo scambio, atterrando i limiti delle frontiere, hanno anche distrutto le mura delle antiche città, essi hanno stabilito quella coesione che mancava nel medioevo. Tutti i punti abitati dell’Europa occidentale sono così intimamente legati fra di loro che l’isolamento è, per essi, divenuto impossibile: non vi è villaggio, anche appollaiato sulla cornice d’una montagna, che non abbia il suo centro industriale e commerciale verso cui gravita e con cui non può rompere.
Lo sviluppo dei grandi centri industriali ha fatto di più.
Ancora ai giorni nostri, lo spirito di campanile potrebbe eccitare tante gelosie fra due Comuni vicini, impedire la loro alleanza diretta e accendere anche lotte fratricide. Ma se queste gelosie possono effettivamente impedire la federazione diretta di questi due Comuni, è per mezzo dei grandi centri che questa federazione si stabilirà. Oggi, due piccoli municipi vicini non hanno spesso nulla che li unisca direttamente: le poche relazioni che mantengono, servono piuttosto a fare nascere conflitti che a stringere legami di solidarietà. Ma tutti e due hanno già un centro comune con il quale sono in frequenti relazioni, senza il quale non potrebbero esistere; e malgrado tutte le gelosie di campanile, si vedranno costretti all’unione per mezzo della grande città, dove si forniscono e dove portano i loro prodotti; ciascun di essi dovrà fare parte della medesima federazione, per mantenere le relazioni con questo focolaio di richiamo e unirsi attorno a esso.
E nondimeno questo centro, anche volendolo, non potrebbe assumere una preponderanza dannosa sulle Comuni che lo circondano. Grazie alla infinita varietà dei bisogni dell’industria e del commercio, tutti i luoghi abitati hanno già parecchi centri i quali si riannodano e, a misura che i loro bisogni si svilupperanno, essi si riannoderanno a nuovi centri adatti a soddisfare le nuove necessità. I nostri bisogni sono così vari, nascono con tale rapidità, che ben presto una sola federazione non basterà per soddisfarli tutti. La Comune sentirà dunque la necessità di stringere altre alleanze, di entrare in un’altra federazione. Membro di un gruppo per l’acquisto delle sue derrate alimentari, la Comune dovrà farsi membro di un secondo gruppo per ottenere altri oggetti necessari, per esempio, i metalli, e poi ancora di un terzo o di un quarto gruppo per le stoffe e le opere d’arte. Prendete un atlante economico di qualsiasi Paese e vedrete che non esistono frontiere economiche: le zone di produzione e di scambio dei diversi prodotti si penetrano mutuamente, si avviluppano, si sovrappongono. Così le federazioni di Comuni, se seguissero il loro libero sviluppo, verrebbero presto ad avvilupparsi, incrociarsi, sovrapporsi, formando una rete ben più compatta, “una e indivisibile”, di quella dei gruppi statali riuniti come le verghe in fascio attorno alla scure del littore.
Così, ripetiamolo, coloro che vengono a dirci che le Comuni, una volta liberate dalla tutela dello Stato, cozzeranno fra loro e con guerre intestine si distruggeranno a vicenda, dimenticano una cosa: cioè il nesso intimo già esistente fra le diverse località, grazie ai centri di gravitazione industriale e commerciale, grazie alla moltitudine di questi centri e alle incessanti relazioni. Essi non si rappresentano ciò che era il medioevo con le sue città chiuse, con le sue carovane costrette a trascinarsi su strade difficili, sorvegliate dai signori briganti; essi dimenticano queste correnti di uomini, di merci, di lettere, di telegrammi, di idee, di affezioni che circolano nelle nostre città come le acque di un fiume dalla sorgente perenne: non hanno idea precisa della differenza fra le due epoche che cercano di paragonare.
D’altra parte, la storia non ci prova forse che l’istinto di federazione è già divenuto uno dei bisogni più incalzanti dell’umanità? Basta che lo Stato si trovi un giorno, per una ragione o l’altra, disorganizzato; basta che la macchina oppressiva si indebolisca nelle sue funzioni, perché le libere unioni sorgano. Ricordiamoci delle federazioni spontanee della borghesia armata durante la grande rivoluzione. Ricordiamoci di quelle federazioni che, spontanee, sorsero in Spagna e salvarono l’indipendenza del Paese, quando lo Stato era scosso fin nelle fondamenta dagli eserciti conquistatori di Napoleone. Dal momento che lo Stato non può più imporre l’unione forzata, l’unione sorge essa stessa, secondo i bisogni naturali. Rovesciato lo Stato, dalle sue rovine sorgerà la società federata, veramente una, veramente indivisibile ma libera e sempre più affratellata dalla sua stessa libertà.
Ma non è tutto. Per il borghese del medioevo il Comune era uno Stato isolato, nettamente diviso dagli altri dalle sue frontiere. Per noi la “Comune” non è una agglomerazione territoriale; è piuttosto un nome generico; sinonimo di gruppo di uguali che non conoscono mura né frontiere. La Comune sociale cesserà ben presto d’essere un tutto precisamente delimitato. Ogni gruppo della Comune sarà necessariamente attratto verso gli altri gruppi affini delle altre Comuni; si unirà, si federerà con essi, con legami per lo meno solidi come quelli che lo riannodano ai suoi concittadini, costituirà una Comune di interessi, i cui membri sono sparsi dentro mille città e villaggi. Un individuo troverà la soddisfazione dei suoi bisogni unendosi con altri individui degli stessi gusti e abitanti cento altri Comuni.
Già oggi le società libere cominciano a coprire tutto l’immenso campo dell’attività umana. Non è più soltanto per soddisfare i suoi gusti scientifici, letterari o artistici che l’uomo, appena è in grado di farlo, costituisce società. Non è più soltanto per la lotta di classe che si determina una unione.
Si troverebbe difficilmente una sola delle svariate e multiple manifestazioni dell’attività umana che non sia già rappresentata da società liberamente costituite, e il loro numero aumenta sempre più, invadendo ogni giorno nuovi campi d’azione, sino a quelli che prima erano considerati un’attribuzione speciale dello Stato. Letteratura, arti, scienze, insegnamento, commercio, industria, traffico, divertimenti, igiene, musei, imprese lontane, spedizioni polari, difesa stessa del territorio, soccorso ai feriti, difesa contro gli aggressori e i tribunali medesimi… ovunque noi vediamo l’iniziativa privata avanzarsi e rivestire la forma di società libere. È la tendenza, il tratto distintivo della seconda metà del diciannovesimo secolo.
Questa tendenza, sviluppandosi liberamente e trovando un nuovo campo immenso d’applicazione, servirà da base alla società futura. Con liberi gruppi si organizzerà la Comune sociale e questi gruppi medesimi rovesceranno le mura e le frontiere. Saranno milioni di Comuni non più territoriali, ma in grado di tendersi la mano attraverso i fiumi, le catene di montagne, gli oceani; unendo gli individui e i popoli sparsi ai quattro punti del globo in una medesima e sola famiglia di uguali.
La Comune di Parigi
I
Il 18 marzo 1871 il popolo di Parigi insorgeva contro un potere generalmente disprezzato e detestato e proclamava la città di Parigi indipendente, libera, appartenente a se stessa.
Questo rovesciamento del potere centrale si fece senza nemmeno la messa in scena ordinaria di una rivoluzione: non si ebbero fucilate, né rivoli di sangue sparsi dietro le barricate. I governanti si eclissarono davanti al popolo armato, disceso nelle strade: la truppa evacuò la città, i funzionari si affrettarono a fuggire a Versailles, portando con sé tutto quello che potevano portare. Il governo evaporò come una pozza d’acqua putrida al soffio di un vento di primavera, e il 19 Parigi, versata appena una goccia di sangue dei suoi figli, si trovò libera dal lezzo che appestava la grande città.
E pur tuttavia la rivoluzione così compiuta apriva un’era novella nella serie delle rivoluzioni, per le quali i popoli marciano dalla schiavitù alla libertà. Col nome della Comune di Parigi nacque un’idea nuova, chiamata a diventare il punto di partenza delle rivoluzioni future.
Come sempre avviene per le grandi idee, essa non fu il prodotto delle concezioni di un filosofo, di un individuo: nacque dallo spirito collettivo, uscì dal cuore di un popolo intero; ma fu vaga all’inizio e molti fra quelli che la realizzarono e che diedero per essa la vita non l’immaginarono allora come oggi la concepiamo; non si resero conto della rivoluzione che inauguravano, della fecondità del nuovo principio che cercavano di mettere in esecuzione. Solo con l’applicazione pratica si cominciò a intravederne la portata futura, solo col lavoro intellettuale che si operò dopo questo nuovo principio andò sempre più precisandosi, si determinò e apparve in tutta la sua lucidità, la sua bellezza, la sua equità e l’importanza dei suoi risultati.
Da quando il socialismo aveva preso un nuovo slancio nel corso dei cinque o sei anni che precedettero la Comune, una questione preoccupava soprattutto gli elaboratori della prossima rivoluzione sociale, la questione di sapere quale sarebbe stato il modo di raggruppamento politico delle società più propizio alla grande rivoluzione economica che l’attuale sviluppo dell’industria impone alla presente generazione e che deve consistere nell’abolizione della proprietà individuale e nella messa in comune di tutto il capitale accumulato dalle generazioni precedenti.
L’Associazione Internazionale dei Lavoratori diede questa risposta. Il raggruppamento non deve limitarsi a una sola nazione; deve stendersi al disopra delle frontiere artificiali. E ben presto questa grande idea penetrò nei cuori dei popoli, si impadronì degli spiriti. Perseguitata poi dalla lega di tutte le reazioni, essa ha nondimeno vissuto, e non appena saranno distrutti gli ostacoli posti al suo sviluppo, alla voce dei popoli insorti, rinascerà più forte che mai.
Ma restava da sapere: quali sarebbero le parti integranti di questa vasta Associazione?
Allora, due grandi correnti di idee si trovarono di fronte per rispondere a tale questione: lo Stato popolare da una parte, dall’altra l’Anarchia.
Per i socialisti tedeschi lo Stato deve prendere possesso di tutte le ricchezze accumulate e darle alle associazioni operaie; organizzare la produzione e lo scambio, vegliare sulla vita, sul funzionamento delle società.
La maggioranza dei socialisti di razza latina, forti dell’esperienza, rispondevano che uno Stato simile – pure ammettendone la possibilità assurda dell’esistenza – sarebbe stato la peggiore delle tirannie; ed essi, a questo ideale copiato dal passato, opponevano un nuovo ideale, l’an-archia, cioè l’abolizione completa degli Stati e l’organizzazione dal semplice al composto dei produttori e dei consumatori per mezzo della federazione libera delle forze del popolo.
Fu ben presto ammesso, anche da alcuni “statalisti” meno imbevuti di pregiudizi governativi, che, senza dubbio, l’Anarchia rappresenta una organizzazione di molto superiore a quella dello Stato popolare; ma, dicevano, l’ideale anarchico è talmente lontano da noi, che per il momento non dobbiamo preoccuparcene. D’altra parte, mancava alla teoria anarchica una formula concreta e semplice a un tempo, per precisare il suo punto di partenza, dare corpo alle sue concezioni, dimostrare che esse poggiano su di una tendenza realmente viva nel popolo. La federazione delle corporazioni di mestieri e di gruppi di consumatori al disopra delle frontiere e all’infuori degli Stati attuali sembrava ancora troppo vaga; ed era facile a un tempo intravedere che essa non poteva comprendere tutta la diversità delle manifestazioni umane. Bisognava trovare una formula più netta, più chiara, che avesse i primi elementi nella realtà delle cose.
Se non si fosse trattato che di elaborare una teoria: poco importano le teorie! avremmo detto. Ma finché un’idea nuova non ha trovato il suo enunciato netto, preciso e derivante dalle cose che esistono, non si impadronisce degli spiriti, non li inspira al punto da lanciarli in una lotta decisiva. Il popolo non si getta verso l’ignoto, senza appoggiarsi su un’idea certa e chiaramente formulata che serva d’appoggio al punto di partenza.
Questo punto di partenza, la vita medesima si incaricò di indicarlo.
Durante cinque mesi, Parigi, isolata dall’assedio, aveva vissuto di vita propria e aveva imparato a conoscere le immense risorse economiche, intellettuali e morali di cui dispone: aveva intravista e compresa la sua forza di iniziativa. Nel medesimo tempo aveva visto che la banda di chiacchieroni al potere nulla aveva saputo organizzare, né la difesa della Francia né lo sviluppo all’interno. Aveva visto il governo centrale ostacolare tutto quello che poteva fare nascere l’intelligenza di una grande città. Aveva compreso di più ancora: l’impotenza di un governo, qualunque sia, a riparare ai grandi disastri, a facilitare l’evoluzione pronta a compiersi. Aveva subito durante l’assedio una spaventosa miseria, la misera dei lavoratori e dei difensori della città, a fianco del lusso insolente dei fannulloni, e aveva visto fallire, grazie al potere centrale, tutti i tentativi per mettere fine a quel regime scandaloso. Ogni volta che il popolo voleva prendere un libero sviluppo, il governo gli appesantiva le catene, gli attaccava la palla al piede, e l’idea naturale nacque che Parigi doveva costituirsi in Comune indipendente, con il potere di realizzare fra le sue mura quanto gli veniva dettato dal pensiero del popolo.
Questa parola: la Comune, sfuggì allora da tutte le bocche.
La Comune del 1871 non poteva essere che una prima prova. Nata alla fine della guerra, accerchiata da due eserciti pronti a darsi la mano per schiacciare il popolo, non osò lanciarsi interamente sulla via della rivoluzione economica; non si dichiarò francamente socialista, non procedette all’espropriazione dei capitali, né all’organizzazione del lavoro e neppure a un censimento generale di tutte le risorse della città. Non spezzò neanche la tradizione dello Stato, del governo rappresentativo e non cercò di effettuare nella Comune quella organizzazione dal semplice al complesso che inaugurava, proclamando l’indipendenza e la libera federazione delle Comuni. Ma è certo che se la Comune di Parigi fosse vissuta qualche mese ancora sarebbe stata inevitabilmente spinta, per la forza delle cose, verso queste due rivoluzioni. Non dimentichiamo che la borghesia ha impiegato un periodo rivoluzionario di quattro anni per passare dalla monarchia temperata alla repubblica borghese, e non possiamo stupirci nel vedere che il popolo di Parigi non ha superato di un sol tratto lo spazio che separa la Comune anarchica dal governo dei saccheggiatori. Ma sappiamo altresì che la prossima rivoluzione, in Francia e senza dubbio anche in Spagna, sarà comunalista, riprenderà l’opera della Comune di Parigi al punto in cui venne interrotta dalle stragi fatte da Versailles.
La Comune cadde, e sappiamo come la borghesia si vendicò della paura che il popolo le aveva fatto, scuotendo il giogo dei suoi governanti. Essa provò che vi sono realmente due classi nella società moderna: da una parte l’uomo che lavora, che dà al borghese più della metà di quanto produce e che tuttavia giustifica troppo facilmente i delitti dei suoi padroni; dall’altra parte, il fannullone, animato dagli istinti della bestia feroce, odiante il suo schiavo, pronto a massacrarlo come una selvaggina.
Dopo aver circondato il popolo di Parigi e chiuse tutte le uscite, essi lanciarono i soldati abbrutiti dalla caserma e dal vino, e dissero loro in piena Assemblea:
“Uccidete quei lupi, quelle lupe e quei lupetti!”. E al popolo dissero: “Checché tu faccia, perirai! Se ti si prende con le armi alla mano – la morte! Se deponi le armi – la morte! Se colpisci – la morte! Se implori – la morte! Da qualunque lato tu volga gli occhi: a destra, a sinistra, davanti, indietro, in alto, in basso – la morte! Tu non sei solamente fuori della legge, ma fuori dell’umanità! Né l’età né il sesso potrebbero salvarti, né tu né i tuoi. Morirai, ma prima assaporerai l’agonia di tua moglie, di tua sorella, di tua madre, delle tue figlie, dei tuoi figli, anche nella culla! Andremo sotto i tuoi occhi a prendere il ferito dell’ambulanza per finirlo a colpi di sciabola, di baionetta e con il calcio del fucile. Lo tireremo, vivente, per la gamba spezzata e il braccio insanguinato, fino a gettarlo nel fosso, come un involto sudicio che urla e soffre.
“La morte! la morte! la morte!”. (Citiamo da: Arthur Arnould, Histoire populaire et parlementaire de la Commune de Paris, Genève-Bruxelles 1878).
E poi, dopo l’orgia sfrenata sopra le montagne di cadaveri, dopo lo sterminio in massa, la vendetta tanto meschina quanto atroce che dura ancora, lo staffile, le manette, i ferri nella stiva, le frustate e il randello degli aguzzini, gli insulti, la fame, tutte le raffinatezze della crudeltà.
Il popolo dimenticherà queste grandi opere?
“Vinta, ma non doma”, la Comune rinasce oggi. Non è più solamente un sogno di vinti che carezzano nella loro immaginazione un bel miraggio di speranza; no! La “Comune” diventa oggi lo scopo preciso e visibile della rivoluzione che romba già vicino a noi. L’idea penetra le masse, dà loro una bandiera e noi contiamo fermamente nella generazione attuale per compire la Rivoluzione sociale nella Comune, per finirla con l’ignobile sfruttamento borghese, per liberare i popoli dalla tutela dello Stato, inaugurare nell’evoluzione della specie umana un’era novella di libertà, di uguaglianza, di solidarietà.
II
Dieci anni ci separano già dal giorno in cui il popolo di Parigi, rovesciando il governo dei traditori, che si erano impadroniti del potere alla caduta dell’Impero, si costituiva in Comune e proclamava la sua indipendenza assoluta (scritto nel marzo 1881). E tuttavia è ancora verso questa data del 18 marzo 1871, che si volgono i nostri sguardi, è a essa che si annodano i nostri migliori ricordi; è l’anniversario di questa memorabile giornata che il proletariato dei due mondi si propone di festeggiare solennemente, e domani sera, centinaia di migliaia di cuori operai batteranno all’unisono, fraternizzando attraverso le frontiere e gli oceani, in Europa, negli Stati Uniti, nell’America del Sud, al ricordo della rivolta del proletariato parigino.
L’idea per la quale il proletariato francese ha versato il suo sangue a Parigi e ha sofferto sulle spiagge della Nuova Caledonia, è una di quelle idee che da sole racchiudono in sé tutta una rivoluzione, una idea larga che può ricevere, sotto le pieghe della sua bandiera, tutte le tendenze rivoluzionarie dei popoli in marcia verso il loro affrancamento.
Certo, limitandoci a osservare solamente i fatti reali e palpabili compiuti dalla Comune di Parigi, dobbiamo dire che questa idea non era abbastanza vasta e non abbracciava che una parte minima del programma rivoluzionario. Ma, se osserviamo, invece, lo spirito che ispirava le masse del popolo nel movimento del 18 marzo, le tendenze che cercavano di venire alla luce e che non ebbero il tempo di passare nel campo della realtà, perché, prima di sbocciare, furono soffocate sotto montagne di cadaveri – comprenderemo allora tutta la portata del movimento e le simpatie che esso ispira nel seno delle masse operaie dei due mondi. La Comune entusiasma i cuori, non per quello che ha fatto, ma per quanto promette un giorno di fare.
Da cosa deriva questa forza irresistibile che attira verso il movimento del 1871 le simpatie di tutte le masse operaie? Quale idea rappresenta la Comune di Parigi? E perché questa idea è così attraente per i proletari di tutti i Paesi, di qualunque nazionalità?
Facile è la risposta. La rivoluzione del 1871 fu un movimento eminentemente popolare: fatta dal popolo essa ha trovato nella grande massa popolare i suoi difensori, i suoi eroi, i suoi martiri – ed è soprattutto questo carattere “canaglia” che la borghesia non le perdonerà giammai. E a un tempo, l’idea madre di questa rivoluzione – vaga, è vero, incosciente forse, ma nondimeno ben pronunciata, visibile attraverso ogni suo atto – è l’idea della rivoluzione sociale, che cerca di stabilire infine, dopo tanti secoli di lotta, la vera libertà e la vera uguaglianza per tutti.
Era la rivoluzione della “canaglia” in marcia per la conquista dei suoi diritti.
Si è cercato, è vero, si cerca ancora di snaturare il senso di questa rivoluzione, e di rappresentarla come un semplice tentativo per riconquistare l’indipendenza di Parigi e così costituire un piccolo Stato nella Francia. Nulla di più falso. Parigi non cercava di isolarsi dalla Francia, come non cercava di conquistarla con le armi; non ci teneva a rinchiudersi fra le sue proprie mura, come un benedettino in un chiostro, né si inspirava a uno ristretto spirito di campanile. Se Parigi reclamava la sua indipendenza, se voleva impedire l’intrusione nei suoi affari di ogni potere centrale, è perché vedeva, in questa indipendenza, un mezzo di elaborare tranquillamente le basi dell’organizzazione futura e compiere nel suo seno la rivoluzione sociale, una rivoluzione che avrebbe completamente trasformato il regime di produzione e di scambio basandolo sulla giustizia, che avrebbe modificato completamente le relazioni umane basandole sull’uguaglianza e che avrebbe rifatto la morale della nostra società dandole per fondamento i princìpi dell’equità e della solidarietà.
L’indipendenza comunale non era dunque per il popolo di Parigi che un mezzo, e la rivoluzione sociale era il suo scopo.
Questo scopo sarebbe stato raggiunto certamente se la rivoluzione del 18 marzo avesse potuto seguire il suo libero corso, se il popolo di Parigi non fosse stato sbaragliato, sciabolato, mitragliato, sventrato dagli assassini di Versailles. Trovare un’idea chiara, precisa, comprensibile per tutti e che riassumesse in poche parole quello che bisognava fare per compiere la rivoluzione, tale fu, infatti, la preoccupazione del popolo di Parigi sin dai primi giorni della sua indipendenza. Ma una grande idea non germina in un giorno, per rapida che sia l’elaborazione e la propagazione delle idee durante i periodi rivoluzionari. Le occorre sempre un certo tempo per svilupparsi, penetrare nelle masse, tradursi in azione, e questo tempo è mancato alla Comune di Parigi.
Le è mancato, tanto più che, dieci anni or sono, le idee del socialismo moderno, attraversavano esse stesse un periodo transitorio. La Comune è nata, per così dire, fra due epoche di sviluppo del socialismo moderno. Nel 1871, il comunismo autoritario, governativo e più o meno religioso del 1848 non influiva più sopra gli spiriti pratici e libertari dell’epoca nostra. Dove trovare oggi un parigino che acconsenta a rinchiudersi in una caserma falansteriana? D’altra parte, il collettivismo che vuole accoppiare il salariato alla proprietà collettiva, restava incomprensibile, poco attraente, irto di difficoltà nella sua applicazione pratica. E il comunismo libero, il comunismo anarchico albeggiava appena; a stento osava affrontare gli attacchi degli adoratori dell’autoritarismo.
L’indeterminatezza regnava negli spiriti, e i socialisti medesimi non avevano l’audacia di compiere la demolizione della proprietà individuale, privi come erano di uno scopo ben determinato. L’inganno finì per trionfare con il ragionamento che gli addormentatori ripetono da secoli: “Assicuriamoci prima la vittoria, vedremo poi il da farsi”.
Assicurarsi prima la vittoria! Quasi ci fosse il mezzo di costituirsi in Comune libera senza toccare la proprietà! Quasi ci fosse il mezzo di vincere i nemici fintanto che la grande massa del popolo non è direttamente interessata al trionfo della rivoluzione, solo col mostrarle che da essa dipende il benessere materiale, intellettuale e morale per tutti! Si cercava di consolidare prima la Comune, rimettendo a più tardi la rivoluzione sociale, mentre l’unico procedimento era quello di consolidare la Comune per mezzo della rivoluzione sociale!
Lo stesso dicasi per il principio governativo. Proclamando la Comune libera, il popolo di Parigi proclamava un principio essenzialmente anarchico; ma siccome a quell’epoca l’idea anarchica non era che debolmente penetrata negli spiriti, si fermava a metà strada e, nel seno della Comune, ci si pronunciò ancora per il vecchio principio autoritario, dandosi un Consiglio della Comune, copiato dai Consigli municipali.
Se noi ammettiamo, davvero, che un governo centrale è assolutamente inutile per regolare i rapporti delle Comuni fra di loro, perché ne dobbiamo ammettere la necessità per regolare i rapporti mutui dei gruppi componenti una Comune?
Il governo nella Comune non ha più ragione d’essere di un governo al di sopra della Comune.
Ma nel 1871, il popolo di Parigi, che ha rovesciato tanti governi, era solo alla prima prova di rivolta contro il sistema governativo medesimo: per cui si abbandonò al feticismo governativo e si diede un governo. Se ne conoscono le conseguenze: mandò i suoi figli al Palazzo di Città. Là, immobilizzati, in mezzo alle cartacce, costretti a governare, mentre l’istinto comandava loro di essere e di marciare con il popolo; costretti a discutere quando bisognava agire, perdendo l’ispirazione che viene dal contatto continuo con le masse, si videro ridotti all’impotenza. Paralizzati dalla lontananza dal focolaio delle rivoluzioni, il popolo, paralizzavano essi medesimi l’iniziativa popolare.
Generata durante un periodo di transizione, allorquando le idee di socialismo e di autorità subivano una modificazione profonda, nata sul finire d’una guerra, in un fuoco isolato, sotto i cannoni dei Prussiani, la Comune di Parigi dovette soccombere. Ma, per il suo carattere eminentemente popolare, diede inizio a un’era novella nella serie delle rivoluzioni e, per le sue idee, fu precorritrice della grande rivoluzione sociale. I massacri inauditi, vigliacchi e feroci con i quali la borghesia ha celebrato la sua caduta, la vendetta ignobile esercitata dai carnefici, per nove anni, sui loro prigionieri, quelle orge di cannibali hanno scavato, fra la borghesia e il proletariato, un abisso che non si colmerà mai più. Alla prossima rivoluzione il popolo saprà quello che l’aspetta se non riporta una vittoria decisiva, e agirà di conseguenza.
Infatti, noi sappiamo ora che il giorno in cui la Francia sarà piena di Comuni insorte, il popolo non dovrà più darsi un governo e da questo aspettare l’iniziativa delle misure rivoluzionarie. Dopo aver dato un buon colpo di scopa ai parassiti che la rodono, si impadronirà di tutta la ricchezza sociale per metterla in comune, secondo i princìpi del comunismo anarchico. E allorquando avrà abolito la proprietà, il governo e lo Stato, si costituirà liberamente, secondo le necessità che gli verranno dettate della vita medesima. Spezzando le sue catene e rovesciando i suoi idoli, l’umanità marcerà allora verso un avvenire migliore, senza padroni né schiavi; e conserverà solo la venerazione di quei nobili martiri che hanno pagato con il sangue e le sofferenze i primi tentativi di conquista della libertà.
Le feste e le riunioni pubbliche organizzate il 18 marzo in tutte le città, dove vi sono gruppi socialisti costituiti, meritano tutta la nostra attenzione, non solo come una manifestazione dell’esercito proletario, bensì come un’espressione dei sentimenti che animano i socialisti dei due mondi. “Ci contiamo” così meglio che con tutte le schede immaginabili, e formuliamo le nostre aspirazioni in piena libertà, senza lasciarci influenzare da considerazioni di tattica elettorale.
Certo i proletari riuniti in quel giorno nei comizi, non si limitano più a fare l’elogio dell’eroismo del proletariato parigino e a gridare vendetta contro le stragi di maggio. Pur ritemprandosi nel ricordo della lotta eroica di Parigi, essi vanno più a fondo: discutono l’insegnamento che bisogna trarre dalla Comune del 1871 per la prossima rivoluzione; si domandano quali furono gli errori della Comune e questo non per criticare gli uomini, ma per fare risaltare come i pregiudizi sulla proprietà e l’autorità, che regnavano allora nel seno delle organizzazioni proletarie, abbiano impedito all’idea rivoluzionaria di sbocciare, svilupparsi, rischiarare il mondo dei suoi vivificanti bagliori.
L’insegnamento del 1871, ha giovato al proletariato del mondo intero e, rompendo con i vecchi pregiudizi, i proletari hanno detto chiaramente e semplicemente come essi intendono la rivoluzione.
È ormai certo che la prossima insurrezione delle Comuni non sarà semplicemente un moto comunalista. Quelli che pensano ancora che bisogna stabilire la Comune indipendente, e poi, in questa Comune, fare prove di riforme economiche, sono oltrepassati dallo sviluppo dello spirito popolare. È con atti rivoluzionari socialisti, abolendo la proprietà individuale, che le Comuni della prossima rivoluzione affermeranno e costituiranno la loro indipendenza.
Quel giorno in cui, a seguito dello sviluppo della situazione rivoluzionaria, i governi saranno spazzati via dal popolo e la disorganizzazione si produrrà nel campo della borghesia, che si regge solamente grazie alla protezione dello Stato, quel giorno – e non è molto lontano – il popolo insorto non aspetterà che un governo qualsiasi decreti, nella sua saggezza inaudita, delle riforme economiche. Abolirà egli stesso la proprietà individuale con l’espropriazione violenta, prendendo possesso, nel nome del popolo intero, di tutta la ricchezza sociale accumulata dal lavoro delle generazioni precedenti. Non si limiterà a espropriare i detentori del capitale con un decreto che resterebbe lettera morta, ma ne piglierà possesso immediato e stabilirà i suoi diritti utilizzandolo senza ritardo. Si organizzerà da solo nelle officine per la produzione, cambierà il suo tugurio con un alloggio salubre nella casa del borghese; cercherà di utilizzare immediatamente tutte le ricchezze accumulate nelle città; ne prenderà possesso come se queste ricchezze non gli fossero mai state rubate dalla borghesia. Una volta scomparso il barone industriale che preleva il bottino sull’operaio, la produzione continuerà a sbarazzarsi degli ostacoli che l’inceppano, abolendo le speculazioni che l’uccidono e l’imbroglio che la disorganizza, e trasformandosi conformemente alle necessità del momento sotto l’impulso che le verrà dato dal lavoro libero. “Mai si lavorò in Francia come nel 1793, dopo che la terra fu strappata dalle mani dei signori” – dice [Jules] Michelet. – Mai si è lavorato come si lavorerà il giorno in cui il lavoro sarà divenuto libero, e ogni progresso del lavoratore sarà sorgente di benessere per la Comune intera.
In merito alla ricchezza sociale si è cercato di stabilire una distinzione e si è perfino arrivati a dividere il partito socialista a proposito di questa distinzione. La scuola che si chiama oggi collettivista sostituendo al collettivismo dell’antica Internazionale (che non era se non il Comunismo antiautoritario), una specie di collettivismo dottrinario, ha cercato di stabilire una distinzione fra il capitale che serve alla produzione e la ricchezza che serve a soddisfare le prime necessità della vita. La macchina, l’officina, la materia prima, le vie di comunicazione e il suolo da un lato; le abitazioni, i prodotti fabbricati, gli abiti, le derrate dall’altro. Gli uni destinati a diventare proprietà collettiva e gli altri invece secondo i dotti rappresentanti di questa scuola, a restare proprietà individuale.
Si è cercato di stabilire questa distinzione. Ma il buon senso popolare l’ha ben presto eliminata. Ha compreso che tale distinzione è illusoria e impossibile da stabilire. Viziosa in teoria, essa cade davanti alla pratica della vita. I lavoratori hanno capito che la casa che ci ripara, il carbone e il gas che bruciamo, il nutrimento che brucia la macchina umana per mantenere la vita, il vestito che l’uomo indossa per preservare la sua esistenza, il libro che legge per istruirsi, e anche il diletto che si procura, sono parti integranti della sua esistenza, tutte necessarie al successo della produzione e allo sviluppo progressivo dell’umanità, come le macchine, le manifatture, le materie prime e gli altri agenti della produzione. Essi hanno compreso che mantenere la proprietà individuale per queste ricchezze, sarebbe perpetuare l’ineguaglianza, l’oppressione, lo sfruttamento, paralizzare senz’altro i risultati dell’espropriazione parziale. Passando sopra gli ostacoli messi sul loro cammino dai teorici del collettivismo, marciano senz’altro verso la forma più semplice e più pratica del comunismo antiautoritario.
Effettivamente, nelle loro riunioni, i proletari rivoluzionari affermano chiaramente il loro diritto a tutta la ricchezza sociale e la necessità d’abolire la proprietà tanto per i valori di consumo come per quelli di riproduzione. “Il giorno della rivoluzione, c’impadroniremo di tutta la ricchezza, di tutti i valori accumulati nelle città e li metteremo in comune”, dicono gli oratori della massa operaia e gli ascoltatori confermano con il loro unanime consenso.
“Che ognuno prenda nel mucchio quel che gli abbisogna, e siamo sicuri che nei granai delle nostre città ci sarà abbastanza cibo per nutrire tutti fino al giorno in cui la produzione libera prenderà il suo nuovo sviluppo. Nei magazzini delle nostre città vi sono abbastanza abiti per coprirci tutti, accumulati là senza smercio, accanto alla miseria generale; vi sono anzi abbastanza oggetti di lusso perché tutti possano scegliere a loro piacimento”.
Ecco come – stando a quanto si dice nelle riunioni – la massa proletaria comprende la Rivoluzione. – Introduzione immediata del Comunismo anarchico e libera organizzazione della produzione. Sono due punti stabiliti e perciò le Comuni della rivoluzione che rumoreggia alle nostre porte non ripeteranno gli errori delle precedenti Comuni che, versando il loro sangue generoso, hanno aperto la via per l’avvenire.
Il medesimo accordo non si è ancora stabilito – senza però essere lontano dallo stabilirsi – su di un altro punto, non meno importante, e cioè sulla questione del governo.
È noto che due scuole sono in prospettiva, completamente divise sopra questa questione. Bisogna – dicono gli uni – il giorno medesimo della Rivoluzione costituire un governo che si impadronisca del potere. Questo governo, forte, potente e risoluto, farà la Rivoluzione, decretando questo e quello e costringendo all’obbedienza dei suoi decreti.
– “Triste illusione! – dicono gli altri. Qualunque governo centrale, incaricandosi di governare una nazione, essendo fatalmente composto di elementi disparati, conservatore per la sua essenza governativa, non sarebbe che un impedimento alla rivoluzione. Non farebbe che intralciare la rivoluzione nelle Comuni pronte a marciare in avanti, senza essere capace di ispirare del soffio rivoluzionario le Comuni retrograde. – Lo stesso nel seno di una Comune insorta. O il governo comunale non farà che sanzionare i fatti compiuti, e allora sarà un ingombro inutile e pericoloso; o vorrà agire di testa sua: esso regolerà ciò che deve liberamente elaborare il popolo stesso per essere durevole; applicherà teorie laddove bisogna che tutta la società elabori le forme nuove della vita comune, con quella forza di creazione che sorge nell’organismo sociale, quando spezza le sue catene e vede aprirsi davanti a sé nuovi e larghi orizzonti. Gli uomini al potere impediranno questo slancio senza nulla produrre di quanto sarebbero stati capaci di produrre essi medesimi, se fossero rimasti in mezzo al popolo a elaborare con l’organizzazione nuova invece di chiudersi nelle cancellerie ed esaurirsi in dibattiti oziosi. Esso sarà un impedimento e un pericolo; impotente per il bene, formidabile per il male; dunque non ha ragione d’esistere”.
Per naturale e giusto che sia questo ragionamento, tuttavia urta contro i pregiudizi secolari, accumulati, accreditati da coloro che hanno avuto interesse a mantenere la religione del governo a fianco della religione della proprietà e della divinità.
Questo pregiudizio, l’ultimo della serie: Dio, Proprietà, Governo, esiste ancora ed è un pericolo per la prossima rivoluzione. Ma si può già constatare che esso va in rovina.
“Noi faremo i nostri affari senza aspettare gli ordini di un governo e non ci curveremo più davanti a coloro che vorranno imporsi a noi, sotto forma di prete, di proprietario o di governo”, dicono già i proletari. Conviene dunque sperare che se il partito anarchico continua a combattere vigorosamente la religione del “governatorismo” e se non devia esso stesso dalla sua strada, lasciandosi trascinare dalle lotte per il potere, conviene sperare, diciamo, che nei pochi anni che ci rimangono fino alla Rivoluzione, il pregiudizio governativo sarà sufficientemente scosso da non essere più capace di trascinare le masse su di una falsa strada.
Una spiacevole lacuna esiste però nelle riunioni popolari, e che noi teniamo a segnalare. Ed è che nulla, o quasi nulla, è stato fatto per le campagne. Tutto si è limitato alle città. La campagna pare che non esista per i lavoratori delle città. Gli stessi oratori che parlano del carattere della prossima rivoluzione evitano di menzionare le campagne e il suolo. Essi non conoscono il contadino, né i suoi desideri, e non osano parlare in suo nome. Occorre insistere a lungo sul pericolo che ne deriva? – L’emancipazione del proletariato non sarà possibile finché il movimento rivoluzionario non abbraccerà i villaggi. Le Comuni insorte non potrebbero resistere neppure un anno, se l’insurrezione non si propagasse a un tempo nei villaggi. Quando l’imposta, l’ipoteca, la rendita saranno abolite, quando le istituzioni che le prelevavano saranno disperse ai quattro venti, è certo che i villaggi comprenderanno i benefici di questa rivoluzione. In ogni caso sarebbe imprudente contare sulla diffusione dell’idea rivoluzionaria delle città nelle campagne senza preparare dapprima le idee. Bisogna sapere oggi cosa vuole il contadino, come è intesa la rivoluzione nei villaggi, come si pensa di risolvere la questione spinosa della proprietà fondiaria. Bisogna dire da principio al contadino ciò che si propone di fare il proletario della città, suo alleato, e che non ha da temere da lui misure nocive all’agricoltore. Bisogna che, dal canto suo, l’operaio delle città si abitui a rispettare il contadino e a marciare insieme a lui di comune accordo.
Ma per fare questo i lavoratori devono imporsi il dovere di aiutare la propaganda nei villaggi. Occorre che ogni città vi sia una piccola organizzazione speciale, un ramo della Lega Agraria, per la propaganda fra i contadini. Bisogna che questo genere di propaganda sia considerato come un dovere, né più né meno della propaganda nei centri industriali.
Gli inizi saranno difficili, ma ricordiamoci che ne dipende il successo della rivoluzione. Questa non sarà vittoriosa che il giorno in cui il lavoratore delle officine e il coltivatore dei campi marceranno, strette fraternamente le mani, alla conquista dell’uguaglianza per tutti, portando il benessere tanto nei casolari come negli edifici delle grandi agglomerazioni industriali.
La questione agraria
I
Una questione immensa preoccupa in questo momento tutta l’Europa. È la questione agraria, la questione di sapere, cioè, quale forma nuova di possesso e di coltura del suolo ci riserva un avvenire prossimo. A chi apparterrà il suolo? Chi lo coltiverà e come lo si coltiverà? Nessuno porrà in dubbio la gravità del problema. Nessuno negherà neppure – se ha seguito attentamente quanto avviene in Irlanda, in Inghilterra, in Spagna, in Italia, in certe parti della Germania e in Russia – che questa questione sorge realmente, oggi stesso, nella sua intera grandezza. Nei miserabili villaggi, nel seno di quella classe di coloni, così disgraziata fino a oggi, si prepara un’immensa rivoluzione.
La più forte obiezione che è stata fatta al socialismo consisteva nel dire che, se la questione sociale interessa gli operai della città, essa non ha ragione di esistere per le campagne; che, se gli operai della città accettano volentieri le idee di abolizione della proprietà individuale e si appassionano per espropriare gli industriali e i padroni delle officine, non è la stessa cosa per i contadini; questi ci dicevano diffidano dei socialisti, e qualora gli operai delle città tentassero di effettuare i loro piani, i contadini saprebbero presto metterli in riga.
Confessiamo che, trenta o quarant’anni fa, questa obiezione aveva qualche apparenza di giustezza, almeno per certi Paesi. Una specie di benessere in una regione, molta rassegnazione in un’altra, facevano sì che i contadini manifestassero davvero poco o niente malcontento. Ma oggi non è più cosi. La concentrazione degli immobili nelle mani dei più ricchi, lo sviluppo sempre crescente di un proletariato nelle campagne, le gravi tasse con cui gli Stati schiacciano l’agricoltura, l’introduzione nell’agricoltura della grande produzione industriale a macchina, la concorrenza americana e australiana, infine lo scambio più rapido delle idee che penetrano al giorno d’oggi fino nei casolari più isolati, tutte queste circostanze hanno fatto sì che le condizioni della coltura cambiassero a vista d’occhio negli ultimi trent’anni: oggi l’Europa si trova in presenza di un vasto movimento operaio che l’infiammerà interamente fra non molto per dare alla prossima rivoluzione una portata ben altrimenti grande di quella che avrebbe avuto limitandosi solo alle grandi città.
Chi non legge le notizie d’Irlanda, sempre le medesime? La metà di questo Paese è in rivolta contro i signori. I contadini non pagano più la rendita ai proprietari del suolo; quelli stessi che lo vorrebbero non l’osano, paurosi di dovere risponderne alla Lega Agraria, potente organizzazione segreta che si ramifica nei villaggi e punisce coloro che mancano alla sua parola d’ordine: “rifiuto delle rendite”. I proprietari non si azzardano a esigere il prezzo di affitto. Se volessero incassare le rendite che sono a loro dovute in questo momento, dovrebbero mobilitare centomila poliziotti e provocherebbero la rivolta. Se un proprietario qualsiasi si propone di espellere un contadino, deve ricorrere almeno a un centinaio di gendarmi, poiché incontra la resistenza, ora passiva, ora armata, di parecchie migliaia di contadini vicini. Se riesce, non trova poi nessun colono che corra il rischio di occupare il podere. E se infine ne trova uno, costui sarà presto forzato a sgomberare, perché il suo bestiame sarà sterminato, il grano arso, lui stesso condannato a morte dalla Lega o da qualche altra società segreta. La situazione diventa insostenibile per gli stessi proprietari; in certi distretti il valore delle terre è ribassato di due terzi; in altri i signori non sono più proprietari che di nome; essi non osano nemmeno soggiornare nelle loro terre senza la protezione di una squadra di poliziotti accampati alle porte entro garitte di ferro. Il terreno resta incolto, e durante l’anno 1879 lo spazio delle terre coltivate è diminuito di 3.000 ettari; la diminuzione dei raccolti per i proprietari, secondo il “Financial Reformer”, non è meno di 250 milioni di sterline.
La situazione è così grave che Gladstone, prima di giungere al potere, aveva preso, di fronte ai rappresentanti irlandesi, l’impegno formale di presentare un progetto di legge per cui i grandi proprietari attuali del suolo sarebbero stati espropriati per ragioni di utilità pubblica, e il suolo, dopo essere stato dichiarato proprietà della nazione intera, venduto al popolo in lotti estinguibili in 25 anni. Ma è chiaro che una legge simile non sarà mai votata dal parlamento inglese, poiché porterebbe, nello stesso tempo, un colpo mortale al principio della proprietà fondiaria in Inghilterra. Non vi è modo dunque di prevedere che il conflitto possa terminare con una soluzione pacifica. Può darsi che un’insurrezione generale dei contadini venga scongiurata ancora una volta, come lo fu nel 1846; ma restando identica la situazione, o peggiorando, è da prevedere che non è lontano il giorno in cui il popolo irlandese non avrà più pazienza, dopo tanti dolori e tante promesse mancate. Che l’occasione propizia si presenti in seguito a una disorganizzazione momentanea del potere in Inghilterra e il contadino irlandese, spinto dalle società segrete, sostenuto dalla piccola borghesia campagnola che amerebbe suscitare, a suo profitto, un nuovo 1793, uscirà infine dal tugurio per fare quello che molti agitatori gli consigliano al giorno d’oggi; passerà la sua torcia sopra i castelli, raccoglierà per suo conto il grano dei signori e, cacciando i loro agenti, demolendo i confini, s’impadronirà di quelle terre a cui aspira da molti anni.
Se ci trasportiamo a un’altra estremità del continente, in Spagna, troviamo una situazione analoga. In Andalusia e nella provincia di Valencia, dove la proprietà fondiaria è concentrata in poche mani, legioni di contadini affamati, uniti fra di loro, fanno una guerriglia senza tregua né grazia ai signori. Con la complicità delle tenebre gli armenti del proprietario sono sterminati, le piantagioni bruciate a centinaia di ettari alla volta; le biche ardono, e colui che denuncia alle autorità gli autori di questi atti, come l’alcade che osa punirli, cade sotto i pugnali della Lega. Nella provincia di Valencia c’è lo sciopero permanente dei piccoli coloni per il rifiuto delle rendite, e guai a colui che osasse mancare a questo mutuo impegno! Una forte organizzazione segreta, con proclami affissi di notte sugli alberi, ricorda continuamente ai congiurati che tradendo la causa generale sarebbero crudelmente puniti con lo sterminio delle messi e degli armenti e spesso anche con la morte.
Nei Paesi in cui la proprietà e più suddivisa è lo Stato spagnolo medesimo che si incarica di provocare il malcontento. Esso schiaccia il piccolo proprietario con imposte nazionali, provinciali, municipali, ordinarie e straordinarie, cosicché sono a decine di migliaia i piccoli poderi confiscati dallo Stato e messi all’asta senza trovare compratori. La popolazione delle campagne è completamente rovinata in più di una provincia, ed è la fame che spinge bande di contadini a radunarsi e rivoltarsi contro le imposte.
Situazione identica in Italia. In molte province l’agricoltore è completamente rovinato. Ridotto alla miseria dallo Stato, il piccolo proprietario colono non paga più le imposte e lo Stato sequestra, spietatamente, il campicello dell’agricoltore. Durante un anno solo, 6.644 piccole proprietà, del valore medio di 99 lire, sono state confiscate. Quale meraviglia se in queste province la rivolta si trova allo stato cronico! Talora è un fanatico religioso che si trascina dietro migliaia di contadini, e questi settari non si disperdono se non sotto il piombo dei soldati; talvolta infine, sono bande di campagnoli affamati che si presentano davanti al municipio e domandano, minacciando di rivoltarsi, pane e lavoro!
Non si dica che questi fatti sono isolati! Le rivolte dei contadini francesi fino al maggio 1789, erano forse frequenti? Meno numerose e coscienti all’inizio, non furono la trama, il fondo, sul quale sorse più tardi la rivoluzione delle grandi città?
Infine, all’estremità orientale dell’Europa, in Russia, la questione agraria si presenta sotto un aspetto che, per molti riguardi, ricorda la situazione in Francia prima del 1789. La servitù personale è stata abolita, e ogni comune agricolo si trova in possesso di terre, ma esse sono, nella maggior parte, così cattive o in quantità così insufficiente e così gravate del tasso di riscatto o del canone da pagare dal Comune al signore, canone sproporzionato al valore dei terreni, così colpite dalle imposte dello Stato, schiaccianti il coltivatore che oggi i tre quarti almeno dei contadini si trovano ridotti alla più spaventosa miseria. Il pane manca, e basta un solo cattivo raccolto perché la fame imperversi su vaste regioni e decimi le popolazioni.
Ma il contadino non subisce più questa situazione, senza mormorare. Nuove idee, nuove aspirazioni verso un avvenire migliore germinano nelle campagne, messe a contatto dei grandi centri, mediante le strade ferrate. Il contadino aspetta da un giorno all’altro che un avvenimento qualsiasi venga ad abolire il riscatto e il canone, e lo rimetta in possesso di tutto il suolo che considera come appartenente a lui di diritto. Se un Arthur Young percorresse oggi la Russia, come percorse la Francia nel 1789, ascolterebbe quei medesimi desideri, quelle stesse parole di speranza che ha notato nel suo libro di viaggi. In certe province, una sorda agitazione si manifesta con una guerriglia contro i signori, e basterebbe che degli avvenimenti politici gettassero la disorganizzazione nel potere, e sovreccitassero le passioni, perché gli affamati dei villaggi, aiutati ed eccitati dalla piccola borghesia campagnola che si costituisce con una rapidità prodigiosa, comincino una serie di rivolte agrarie. Allora, scoppiando queste rivolte, senza un piano definito e senza organizzazione estesa a tutta la superficie del territorio, ma propagandosi da tutti i lati, incrociandosi, spossando gli eserciti e il governo, trascinandosi per anni e anni, potrebbero inaugurare e dare forza a una immensa rivoluzione, con tutte le sue conseguenze per l’Europa intera.
Ma, se la questione agraria sorge con queste forme grandiose nei Paesi suddetti, se la vecchia Europa si trova un giorno circondata, come in un cerchio di ferro, da queste rivolte di contadini, se l’espropriazione dei signori si effettua largamente in queste contrade; il centro d’Europa, o i Paesi cosiddetti civili, non ne risentirebbero il contraccolpo? L’affermazione non potrebbe essere dubbia. E quando avremo analizzato, in un prossimo paragrafo, la situazione agraria in Inghilterra, in Francia, in Germania, in Svizzera; quando avremo studiato l’influenza potente di un nuovo elemento che fa già lanciare grida d’allarme in Inghilterra, cioè la produzione del grano come nelle grandi industrie in America e in Australia; quando avremo gettato uno sguardo sulle nuove idee che invadono il cervello dei contadini nei Paesi considerati come le piazzeforti della civiltà, vedremo allora che la questione agraria sorge, sebbene con forme diverse, davanti all’Europa intera, in Inghilterra come in Russia, in Francia come in Italia. Vedremo che la situazione attuale diventa impossibile e non può durare a lungo; che non è lontano il giorno in cui la società dovrà trasformarsi sin dalle fondamenta, e dare luogo a un nuovo ordine di cose: un ordine di cose in cui sarà modificato profondamente il regime della proprietà e della coltura, il coltivatore del suolo non sarà più, come al giorno d’oggi, il paria della società, ma saprà prendere il suo posto al banchetto della vita e dello sviluppo intellettuale, a fianco di tutti gli altri; e i villaggi, non più antri di ignoranza, diverranno il centro da cui si irradieranno nel Paese il benessere e la vita.
II
Nel paragrafo precedente abbiamo visto in quale situazione deplorevole, o piuttosto spaventosa, si trova il coltivatore del suolo, il contadino, in Irlanda, in Spagna, in Italia, in Russia. Non si possono più avere dubbi su questa materia: la rivolta agraria è all’ordine del giorno in questi Paesi. Ma pure in quelli che si lusingano di essere civili, come l’Inghilterra, la Germania, la Francia e anche la Svizzera, la situazione dell’agricoltura diventa sempre più difficile.
Ecco, a esempio, l’Inghilterra. Duecento anni fa era ancora un Paese in cui l’agricoltore, lavorando la terra che gli apparteneva, godeva di un certo benessere. Oggi è il Paese dei grandi proprietari, favolosamente ricchi, e di un proletariato agricolo ridotto alla miseria.
I quattro quinti di tutto il suolo arabile, cioè 23.976.000 ettari, sono proprietà di un pugno di 2.340 grandi proprietari; 710 lord possiedono un terzo dell’Inghilterra; un marchese viaggia 30 leghe sopra le sue terre, un conte possiede un’intera provincia; mentre il resto dei proprietari, cioè mezzo milione di famiglie devono accontentarsi di meno di un terzo di ettaro ciascuno, una casa e un piccolo giardino.
2.340 famiglie hanno redditi favolosi, da centomila fino a dieci milioni di sterline ogni anno; il marchese di Westminster e il duca di Bedford prendono 25.000 sterline al giorno, cioè più di 1.000 sterline all’ora – più che un operaio nel corso di un anno – mentre centinaia di migliaia di famiglie di agricoltori non riescono a guadagnare, a prezzo di rudi fatiche, da 300 a 1.000 sterline all’anno. L’agricoltore, colui che fa produrre la terra, si ritiene felice se, dopo giornate di quattordici e di sedici ore di lavoro, riesce a guadagnare dai 12 ai 15 franchi per settimana, giusto il necessario per non morire di fame.
Fortune scandalose e spese insensate da parte del fannullone. Miseria perpetua per il coltivatore.
I fabbricanti di libri vi diranno certamente che, grazie a questo accentramento della proprietà in poche mani, l’Inghilterra è diventato il Paese di cultura più intensa e più produttiva. I grandi lord non potendo essi medesimi coltivare le terre, le danno in affitto, sotto forma di parcelle abbastanza grandi a coloni, e questi coloni hanno fatto dei loro poderi dei modelli di agricoltura nazionale.
Questo era vero qualche tempo fa, oggi non lo è più.
Anzitutto, spazi immensi di terra restano assolutamente incolti o sono trasformati in parchi, perché, in autunno, il signore possa farvi delle cacce grandiose con i suoi invitati. Migliaia di uomini potrebbero trovare cibo su quelle terre ma il proprietario non ne ha cura; non sapendo come spendere la sua fortuna, si concede il lusso d’avere un parco di parecchi chilometri quadrati e toglie la terra alla coltura.
Immensi campi, prima coltivati, sono stati trasformati in vaste praterie per l’allevamento del bestiame e dei montoni. Migliaia e migliaia di coltivatori, sono stati cacciati dai signori; e i loro campi, che nutrivano il popolo, sono stati trasformati in praterie che servono oggi a produrre buoi, cioè carne, il cibo dei ricchi. La quantità di terra seminata va sempre diminuendo: nel 1866, nel 1869, l’Inghilterra seminava a grano 1.600.000 ettari, oggi sono 1.200.000 (scritto nel 1880). Quindici anni fa produceva 26 ettolitri per ettaro, oggi ne produce 22 (cifre date dal “Times” il 13 ottobre 1880).
Anche i coloni che coltivano spazi da 50 a 100 ettari e più, questi piccoli borghesi, desiderosi di diventare ricchi a loro volta per vivere una vita comoda grazie al lavoro degli altri, sono oggi in parte rovinati. Schiacciati di rendite dalla rapacità dei signori, non possono più migliorare le loro colture e tenere fronte alla concorrenza dell’America e dell’Australia; i giornali, infatti, sono pieni di inserzioni di vendita all’asta di questi poderi. Così si riassume la situazione agraria. La grande massa del popolo è cacciata dal suolo e sospinta verso le grandi città e i centri manifatturieri, dove gli affamati si fanno una concorrenza sfrenata. Il suolo è nelle mani di un pugno di signori che percepiscono profitti favolosi e li gettano ovunque, con un lusso insensato, improduttivo. Gli intermediari, i fittavoli, cercano di diventare piccoli signori ma, rovinati dalle rendite eccessive, sono pronti a fraternizzare con il popolo per strappare la terra ai grandi proprietari. Tutta la vita del Paese risente di questa situazione anormale della proprietà fondiaria.
Quale meraviglia che il grido: “Nazionalizzazione del suolo!” divenga oggi il grido d’unione di tutti i malcontenti? La grande Lega della terra e del lavoro domandava già, nel 1869, che tutte le terre dei grandi signori fossero confiscate dalla nazione intera, e questa idea guadagna ogni giorno terreno. La Lega dei lavoratori delle campagne, forte di 150.000 membri, che dieci anni fa non aveva altro scopo all’infuori dell’aumento del salari, mediante lo sciopero, oggi domanda, essa pure, lo spossessamento dei signori.
Infine, la Lega della terra irlandese comincia a stendere le sue ramificazioni nella Scozia e in Inghilterra e ovunque trovi simpatie. Ora, è noto il procedere di questa lega. Essa comincerà col dichiarare che le rendite da pagarsi ai grandi proprietari siano ridotte di un quarto, per decisione della Lega. Impedirà, con ogni specie di piccoli mezzi e con la forza, al bisogno, di espellere colui che non pagherà se non i tre quarti della sua rendita. Terrorizzerà coloro che avranno la viltà di pagare tutta la rendita. Più tardi, quando le forze saranno organizzate, dichiarerà che non si deve pagare più nulla al signore, e armerà il contadino per tradurre in atti la sua volontà. Giunto il momento, farà come hanno fatto i contadini francesi dal 1789 al 1793: obbligherà i signori, col ferro e col fuoco, all’abdicazione dei loro diritti sulla terra.
Quale sarà la nuova forma di proprietà, passata la rivoluzione in Inghilterra? Sarebbe difficile prevederlo, poiché la portata della rivoluzione dipenderà dalla durata dell’epoca rivoluzionaria, e soprattutto dalla forza d’opposizione che le idee rivoluzionarie incontreranno da parte dell’aristocrazia e della borghesia. Una cosa certa è che l’Inghilterra marcia verso l’abolizione della proprietà individuale del suolo, e che l’opposizione incontrata da questa idea, da parte dei detentori della terra, impedirà che la trasformazione si operi senza scosse; per fare valere la sua volontà, il popolo inglese dovrà ricorre alla forza.
III. La Francia
I miei lettori francesi della campagna rideranno di gusto, leggendo ciò che dicono di loro nei bei libri che i signori deputati e gli economisti fanno stampare nelle grandi città. È scritto in questi libri che i contadini francesi sono quasi tutti ricchi e perfettamente lieti della loro sorte; che hanno abbastanza terra, abbastanza bestiame, che la terra dà loro molto profitto; che pagano facilmente le imposte, d’altronde così leggere, e che il prezzo d’affitto del suolo non è elevato; che fanno ogni anno delle economie e non cessano di arricchirsi.
I contadini risponderanno, io penso, che questi chiacchieroni sono degli imbecilli, e avranno ragione.
Esaminiamo, infatti, di quali elementi si compongono i ventitré o ventiquattro milioni di persone che abitano le campagne, e vediamo quanti ve ne sono che hanno ragione di essere felici della loro sorte e che non vorrebbero nessun cambiamento.
Abbiamo anzitutto 8.000 grandi proprietari (40.000 persone circa comprendendovi le famiglie) che possiedono, soprattutto nella Piccardia, in Normandia, nell’Anjou, beni che fruttano dai dieci ai duecentomila franchi per anno e più.
Costoro, certamente, non possono lagnarsi. Dopo aver passato i mesi dell’estate nei loro domini, e dopo aver incassato il valore di quanto hanno prodotto i rudi sforzi dei lavoratori salariati, dei piccoli coloni o dei mezzadri, vanno a spendere quel denaro nelle città. Qui si ubriacano di champagne con donne alle quali gettano il denaro a due mani e spendono in un giorno, nei loro palazzi, quanto potrebbe nutrire tutta una famiglia durante una mezza annata. Oh! costoro, infatti, non hanno da lamentarsi; se si lamentano, lo fanno a causa del contadino che diviene ogni giorno meno maneggevole e rifiuta di lavorare per nulla.
Di questa gente, non parliamo. Diremo loro una piccola parola il giorno della rivoluzione.
Gli usurai, i mercanti di bestiame, i “mercanti di beni”, questi avvoltoi che piombano sui villaggi e che, giunti dalla città con un piccolo sacco per sola fortuna, se ne vanno proprietari e banchieri; i notai e gli avvocati che fomentano processi; gli ingegneri e la banda di impiegati di ogni specie che succhiano largamente dalle casse dello Stato e da quelle dei Comuni allorché questi, spinti dagli interessati, si indebitano per abbellire il villaggio intorno alla case del signor sindaco, in una parola tutta questa gentaglia che considera la campagna come un ricco paese di selvaggi buono da sfruttare, non ha ragione di essere malcontenta. Si vada a parlare loro di modificare qualche cosa: si opporranno con tutte le loro forze. Per mantenere gli usurai occorrono contadini che si rovinano facendo cambiali; coloni che si impoveriscono in processi, dei Jacques-bonhomme (nome che si dà ai contadini in Francia) che si lasciano succhiare dai ragni che li circondano. Agli impiegati occorrono Comuni che si lascano guidare a bacchetta dal sindaco, uno Stato che saccheggia fondi pubblici. Quando il contadino sarà rovinato, andranno in Turchia, in Cina, se del caso. L’usura non ha patria.
Costoro, è chiaro, non si lamentano. Ma quanti sono? – 500.000? Un milione forse, famiglie comprese? Sono fin troppi per rovinare in qualche anno i nostri villaggi, ma poca cosa per resistere quando il contadino volgerà contro di loro la sua forza.
Poi vengono quei proprietari che possiedono dai 50 ai 200 ettari. Costoro, in maggioranza, non sanno certo la causa del loro malcontento e se si propone loro di cambiare qualche cosa, la prima idea che avranno chiara è quella di chiedersi se rischiano di perdere quanto possiedono. Quelli fra di loro, momentaneamente nell’imbarazzo, sperano di “riuscire un giorno” in una speculazione fortunata, in un impiego lucrativo aggiunto al mestiere d’agricoltore, in un ricco parente che un bel mattino si suiciderà, ed ecco ritornato il benessere. Generalmente però, le privazioni sono loro sconosciute, il lavoro anche. Non sono essi che coltivano le terre, ma contadini pagati 250 o 300 franchi all’anno, ai quali fanno fare un lavoro che ne vale mille. Questi proprietari, senza dubbio, saranno i nemici della rivoluzione; essi sono già i nemici della libertà, i fautori dell’ineguaglianza, le colonne dello sfruttamento. Costituiscono, è vero, un nucleo abbastanza considerevole – forse 200.000 proprietari, 800.000 persone, con le loro famiglie – e oggi sono una forza reale nei villaggi. Lo Stato dà loro molta importanza, e l’agiatezza di cui godono conferisce nel Comune un’influenza della quale non mancano di trarre profitto. Ma che cosa diverranno davanti all’onda dell’insurrezione popolare? Certo non saranno capaci di resistere: prudentemente in casa, aspetteranno gli effetti della tempesta.
Coloro che possiedono da 10 a 50 ettari sono più numerosi della classe precedente. Da soli ammontano a 250.000 e più, circa 1.200.000 persone con le loro famiglie; possiedono quasi un quarto della superficie arabile della Francia.
Questo nucleo costituisce una forza considerevole per la sua influenza nelle campagne e per la sua attività. Mentre i precedenti abitano spesso in città, costoro lavorano essi stessi nei campi; non hanno rinnegato il villaggio e fino a oggi sono restati ancora contadini. Ebbene, è soprattutto sul loro spirito conservatore che contano i reazionari.
Certo vi fu un tempo, nella prima metà del secolo, in cui questa categoria di coltivatori godeva di una certa agiatezza, ed era naturale che questa classe, uscita dalla grande rivoluzione e decisa anzitutto a conservare quanto vi aveva guadagnato, rifiutasse ostinatamente qualunque trasformazione temendo di perdere le sue conquiste. Ma da qualche tempo le condizioni sono cambiate. Mentre, in certe parti della Francia (il Sud-Ovest per esempio), i coltivatori di questa categoria godono ancora di un certo benessere, nel resto del Paese si lamentano già delle ristrettezze. Essi non fanno più economie, e diviene loro difficile ingrandire le proprietà, smembrate continuamente dalle divisioni. Nel medesimo tempo non trovano più particelle da affittare alle condizioni vantaggiose d’una volta. Oggi bisogna che paghino prezzi favolosi per la locazione della terra.
Possedendo piccoli appezzamenti disseminati ai quattro capi del comune non possono rendere la cultura abbastanza proficua per sopportare gli aggravi che pesano sul coltivatore. Il grano dà poca cosa e l’allevamento del bestiame lascia un magro profitto.
Lo Stato li schiaccia di imposte e il Comune anche: carro, cavallo, trebbia, concime, tutto è tassato; i centesimi addizionali ammontano a parecchi franchi e la lista delle imposte diviene così lunga come sotto la monarchia. Il contadino è tornato la bestia da soma dello Stato.
Gli usurai li rovinano, la cambiale li tormenta, l’ipoteca li schiaccia, il manifatturiere li sfrutta facendo pagare il minimo utensile tre o quattro volte il prezzo di fabbricazione. Essi si immaginano ancora di essere proprietari dei loro campi, ma in fondo non sono che tenutari: il lavoro che fanno ingrassa l’usuraio, nutre l’impiegato, serve a comperare vesti di seta finissima alla moglie del fabbricante e a far fare la bella vita a tutti gli oziosi della città.
Credete voi che non lo comprendano? Ma via! Lo capiscono a meraviglia, e appena se ne sentiranno la forza, coglieranno l’occasione per sbarazzarsi una buona volta di questi signori che vivono a loro spese.
Con tutto ciò non abbiamo tuttavia che la decima parte degli abitanti delle campagne. E il resto? Il resto sono circa 4.000.000 di capi famiglia (circa 18.000.000 di persone) che possiedono proprietà, da 5 a 3 ettari ciascuna, sovente un ettaro e spessissimo nulla. E sopra questo numero, 8.000.000 di individui, hanno tutte le difficoltà immaginabili a sbarcare il lunario, coltivando due o tre ettari, cosicché, ogni anno, debbono mandare a decine di migliaia i figli e le figlie a guadagnare faticosamente il pane nella città; sette milioni non hanno, per proprietà, che miserabili campicelli – la casa e un piccolo giardino, oppure, non possiedono nulla, e guadagnano la vita, evidentemente durissima, come salariati; infine, 1.000.000 si compone semplicemente di affamati, di morti di fame, che vivacchiano alla giornata, nutrendosi di pane secco o di patate... quando ce n’è. – Ecco il grosso dell’esercito campagnolo francese.
Questa grande massa non conta nulla nei calcoli degli economisti. Per noi essa è tutto. È essa che fa il villaggio; il resto non è che accessorio; funghi parassiti che spuntano nel vecchio tronco d’una quercia.
Date le differenze notevoli che si constatano nelle cifre concernenti la proprietà in Francia, riproduciamo qui alcuni passaggi di un articolo di Eugene Simon, pubblicato nel 1885, in un numero di propaganda della “République Radicale”:
“Lasciando da parte la superfice occupata dalle proprietà costruite e dai giardini, che per un milione di ettari, conta 8 milioni di proprietari, il territorio agricolo della Francia, a dispetto dell’opinione corrente e dei soliti cliché, appartiene a un numero di individui più ristretto di quel che si pensi. Secondo Sanguet, presidente della Società di topografia frazionale, che ha voluto fare per noi delle ricerche mai fatte prima, probabilmente, su 8.547.285 proprietari che si contano in Francia 4.392.500 non pagano che una quota al di sotto di 5 franchi, molto spesso irrecuperabile e non godono insieme che del 5,1% del totale del reddito fondiario. Tanto vale non parlarne.
“Poi viene una serie di 2.993.450 proprietari paganti una quota da 5 a 30 franchi, cioè una media di 13 franchi che si dividono il 22,5% del reddito territoriale, ciò rappresenta proprietà talmente minuscole che i possessori possono aggiungere spesso al loro titolo quello di proletario. – Una terza categoria conta 1.095.850 proprietari paganti delle quote da 30 a 300 franchi e si ripartisce il 47% del reddito totale. Cioè per ciascuno di essi una media di 1.730 franchi. – Una quarta e ultima parte comprende infine 65.525 proprietari paganti delle quote da 300 franchi in su e godenti, essi soli, del 25,4% del reddito fondiario, cioè per ciascuno una media di 15.700 franchi. È la grande proprietà. Ora, siccome le terre che costituiscono la grande proprietà, foreste, lande, pascoli, ecc., fruttano molto meno delle altre, si può dire che questi 65.525 proprietari, benché non godano che di un quarto del reddito totale, possiedono in realtà più della metà del territorio. È quel che risulta ugualmente da uno studio dei più interessanti sopra la statistica internazionale del 1873, pubblicato da Toubeau nella ‘Revue Positive’ del luglio-agosto del 1882. Secondo questo pubblicista, circa 40 milioni di ettari sono fra le mani dei proprietari grandi e medi, estranei all’agricoltura. Dei 10 milioni rimanenti, 2 milioni, divisi in grandi poderi di 200 ettari in media ciascuno, sono coltivati direttamente da quelli che il possiedono, e 4 milioni di ettari si trovano ripartiti fra 2 milioni circa di contadini...
“Ma è al di sotto di 5 ettari, di 2 soprattutto, e anche di un ettaro, che il frazionamento si accentua, si moltiplica e assume proporzioni quasi spaventevoli. Le parcelle sono allora tanto miserabili da essere difficile, se non impossibile, il coltivarle, e impoveriscono invece di arricchire coloro che le possiedono. – Ogni anno se ne vendono, mediante licitazioni, per un totale di 15 a 17 mila ettari, a un prezzo insufficiente per coprire le spese.
“In realtà, sui nostri 50 milioni di ettari, non ve ne sono più di 7, compresi i 10.000 poderi di 200 ettari l’uno e le terre di cui parlavo, che appartengano a coloro che li fanno direttamente fruttare. Per tutto il resto, si può dire che vi è un solo padrone: l’ozioso, il possidente, lo straniero.
“Disastrosa per l’agricoltura, questa situazione non lo è meno per la popolazione: dei 7-8 milioni di lavoratori che popolano le nostre campagne, deduzione fatta di 11 milioni di fanciulli e di invalidi, ce ne sono solo 1.754.994 che coltivano essi stessi i loro beni, cioè che possiedono abbastanza per vivere, senza essere costretti a lavorare su altre terre. Per tutto il resto, coloni, mezzadri o braccianti, fossero anche proprietari di qualche campicello, si può chiamarli con lo stesso nome: proletari, dal momento che i loro mezzi di esistenza dipendono dal capriccio e dalla cupidigia del rentier e sono obbligati a emigrare o a sottomettersi alla sua volontà.
“È impossibile immaginare uno stato di cose più detestabile e più funesto.
“Più di 40 milioni di ettari, è utile ripeterlo, sono nelle mani di persone estranee all’agricoltura. Ne risulta, dice Toubeau, che una grande parte di questa superficie è sistematicamente condannata ora all’inerzia totale, ora parziale. I grandi proprietari, avendo altre ricchezze al di fuori dei loro domini e non trovandosi affatto nella necessità di farli produrre, usano del diritto di lasciarli incolti”.
Ebbene, è di questi contadini che si dice che sono ricchi, assolutamente lieti della loro sorte, contrari a ogni cambiamento, sempre nemici dei socialisti!
Constatiamo anzitutto che ogni qualvolta abbiamo parlato ai contadini, dicendo tutto il nostro pensiero e in un linguaggio comprensibile, essi non ci hanno voltato le spalle. È vero che noi non abbiamo parlato loro di nominarci al posto di deputato o semplicemente di guardia campestre; non abbiamo esposto le lunghe teorie del socialismo sedicente scientifico; non li abbiamo esortati nemmeno a mandare i loro figli a Parigi, per bazzicare gli avvocati della Camera; non gli abbiamo soprattutto consigliato di rimettere i loro appezzamenti nelle mani di uno Stato che distribuirebbe il suolo ai suoi favoriti, secondo la fantasia di un esercito di impiegati. Se avessimo detto tali bestialità, ci avrebbero voltate le spalle e con ragione.
Ma quando abbiamo esposto ciò che intendiamo per rivoluzione, ci hanno sempre dato ragione rispondendo che le nostre erano precisamente le loro idee.
Ebbene, ecco quanto abbiamo detto ai contadini e quanto continueremo a dire:
“Un tempo, il suolo apparteneva ai comuni, composti di coloro che coltivavano la terra essi stessi, con le loro braccia. Ma, con ogni sorta di frodi, la forza, l’usura, l’inganno, le speculazioni sono riuscite a impadronirsene. Tutte quelle terre che appartengono oggi al signor tale erano una volta terre comunali. Oggi il contadino ne ha bisogno per coltivarle e per nutrirsi, lui e la sua famiglia, mentre il ricco non le coltiva egli stesso e ne abusa per darsi al lusso. Bisogna dunque che i contadini, organizzati in Comuni, riprendano queste terre, per metterle a disposizione di coloro che vorranno coltivarle.
“Le ipoteche sono un’iniquità. Per avervi prestato del denaro nessuno ha diritto di appropriarsi della terra, poiché essa non ha valore se non grazie al lavoro compiuto dai vostri padri quando l’hanno dissodata, quando hanno costruito i villaggi, fatto le strade, prosciugato le paludi; essa non produce che grazie al vostro lavoro. L’Internazionale dei contadini si farà dunque un dovere di bruciare i titoli di ipoteca e di abolire per sempre questa odiosa istituzione.
“Le imposte che vi schiacciano sono divorate da bande di impiegati, non solo inutili, ma assolutamente nocive. Dunque, sopprimetele. Proclamate la vostra indipendenza assoluta, e dichiarate che sapete sbrigare i vostri affari meglio dei signori in guanti di Parigi.
“Vi occorre una strada? ebbene, gli abitanti delle Comuni vicine si intendano fra di loro ed la faranno meglio del Ministero dei lavori pubblici. – Una strada ferrata? I comuni interessati di una regione intera la faranno meglio degli appaltatori che accumulano milioni facendo cattive strade. – Vi abbisognano scuole? le farete bene voi stessi al pari dei signori di Parigi e anche meglio di loro. Lo Stato non ha nulla a che vedere in tutto questo: scuole, strade, canali saranno meglio fatti da voi stessi e con minore spesa.
“Sarà necessario difendervi contro invasori stranieri? Sappiatevi anzitutto difendere voi stessi e non confidate giammai questa cura a generali che, senza dubbio, vi tradiranno. Sappiate che mai un esercito ha saputo arrestare un invasore e che, invece, il popolo, il contadino, quando aveva interesse a conservare la sua indipendenza, ha sopraffatto i più formidabili eserciti. Vi abbisogneranno utensili, macchine? Vi intenderete con gli operai delle città che le manderanno in cambio dei vostri prodotti, al prezzo di costo, senza passare per l’intermediario di un padrone che si arricchisce rubando all’operaio che fa l’utensile e al contadino che lo compera.
“Non temete la forza del governo. Questi governi, che sembrano così formidabili, crollano sotto i primi urti del popolo insorto. Se n’è visto più di uno sgretolarsi in poche ore ed è da prevedere che, fra qualche anno, delle rivoluzioni scoppieranno in Europa e scuoteranno l’autorità. Approfittate di questo momento per rovesciare il governo – ma soprattutto per fare la vostra rivoluzione, cioè per cacciare i grandi proprietari e dichiarare i loro beni proprietà comune, per demolire gli usurai, abolire le ipoteche e proclamare la vostra indipendenza assoluta, mentre la stessa cosa faranno gli operai nelle città. Allora organizzatevi, federandovi liberamente per comuni e per regioni. Ma state in guardia, non lasciatevi togliere il beneficio della rivoluzione da ogni specie di individui che vorranno passare per benefattori del contadino: fate voi stessi, senza aspettare nulla da nessuno”.
Ecco quello che abbiamo detto ai contadini, e l’obiezione che ci hanno fatta non toccava la base delle nostre idee, ma concerneva solo la possibilità di metterle in esecuzione.
“Benissimo, ci rispondevano; tutto ciò sarebbe eccellente, purché i contadini potessero intendersi fra di loro!”.
Ebbene, lavoriamo dunque affinché possano intendersi! Propaghiamo le nostre idee, seminiamo a piene mani degli scritti che le espongano, lavoriamo a stabilire i legami che mancano ancora fra i villaggi e, venuto il giorno della rivoluzione, sappiamo combattere con essi e per essi!
Questo giorno non è tanto lontano come generalmente si crede.
Il governo rappresentativo
I
L’osservazione delle società umane, nei loro tratti essenziali, astraendo dalle osservazioni secondarie e temporanee, ci mostra che il regime politico al quale esse sono soggette, è sempre l’espressione del regime economico esistente nel seno della società. L’organizzazione politica non cambia secondo le voglie dei legislatori: può, è vero, cambiare nome; presentarsi oggi sotto forma di monarchia, domani sotto forma di repubblica, ma non subisce modificazioni rilevanti; si attaglia e sta al regime economico, di cui è sempre l’espressione e nel tempo stesso la consacrazione, il mantenimento.
Se qualche volta, nella sua evoluzione, il regime politico di un dato Paese si trova in ritardo con la modificazione economica che vi si opera, allora è bruscamente rovesciato, rimaneggiato, rimodellato in modo tale da adattarsi al regime economico che si sviluppa. Ma d’altra parte accade che, se per una rivoluzione questo regime politico precorre la modificazione economica, esso resta allo stato di lettera morta, di formula scritta sulle carte, senza applicazione reale. Così la dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, qualunque sia stata la sua importanza nella storia, non è che un documento storico, e le belle parole: Libertà, Uguaglianza, Fraternità resteranno allo stato di sogno o di menzogna, scritte sui muri delle chiese e delle prigioni, finché la libertà e l’uguaglianza non diverranno la base delle relazioni economiche. Il suffragio universale sarebbe stato inconcepibile in una società basata sulla servitù, come il dispotismo in una società che avesse per base ciò che si chiama libertà di contratto ed è piuttosto libertà di sfruttamento.
Le classi operaie dell’Europa occidentale l’hanno ben compreso. Sanno, o indovinano, che le società continueranno a soffocare nelle istituzioni politiche esistenti finché l’attuale regime capitalista non sarà rovesciato. Sanno che queste istituzioni, quantunque rivestite di bei nomi, sono sempre la corruzione e il dominio del più forte eretti a sistema, il soffocamento di tutte le libertà e di ogni progresso: sanno che l’unico mezzo per abbattere questi ostacoli è di stabilire le relazioni economiche sopra un nuovo sistema, quello della proprietà collettiva. Sanno infine che, per fare una rivoluzione politica profonda e duratura, bisogna fare una rivoluzione economica. Ma, per lo stesso intimo legame che esiste fra il regime economico e quello politico, è evidente che una rivoluzione nel modo di produzione e di ripartizione dei prodotti non potrebbe operarsi, se non si facesse del pari una modificazione profonda di quelle istituzioni che, generalmente, si designano con il nome di istituzioni politiche. L’abolizione della proprietà individuale e dello sfruttamento che ne deriva, lo stabilirsi del regime collettivista o comunista, sarebbero impossibili se volessimo conservare i parlamenti o i re. Un nuovo regime economico esige un nuovo regime politico, e questa verità è così ben compresa da tutti che, infatti, il lavoro intellettuale operato oggi nelle masse popolari, si attacca indistintamente ai due lati della questione da risolvere. Ragionando sull’avvenire economico, esso studia pure l’avvenire politico, e a lato delle parole Collettivismo e Comunismo stanno queste altre: Stato operaio, Comune libera, Anarchia; oppure: Comunismo autoritario o anarchico, Comune collettivista.
Regola generale: “Volete studiare con frutto? Cominciate dall’immolare a uno a uno i mille pregiudizi che vi furono insegnati!”. – Queste parole, con le quali un astronomo celebre cominciava i suoi corsi, si applicano ugualmente a tutti i rami dello scibile umano: molto di più ancora nelle scienze sociali che nelle scienze fisiche; poiché nel campo di quelle, sin dai primi passi, ci troviamo di fronte a una folla di pregiudizi ereditati dai tempi passati, di idee assolutamente false, lanciate in mezzo al popolo per meglio ingannarlo, di sofismi cavillosamente elaborati per falsare il suo giudizio. Abbiamo così da fare tutto un lavoro preliminare, per proseguire con sicurezza. Ora, fra questi pregiudizi, ce n’è uno che merita soprattutto la nostra attenzione, non solo perché è la base di tutte le nostre istituzioni politiche moderne, ma perché ne rintracciamo le orme nella quasi totalità delle teorie sociali poste innanzi dai riformatori. Esso consiste nel credere in un governo rappresentativo, in un governo di procura.
Verso la fine del secolo scorso, il popolo francese atterrava la monarchia, e l’ultimo dei re assoluti espiava sul patibolo i suoi delitti e quelli dei predecessori.
Pareva che precisamente a quell’epoca, quando tutto quello che la rivoluzione faceva di buono, di grande, di duraturo, veniva compiuto energicamente degli individui o dei gruppi, e grazie alla disorganizzazione e alla debolezza del governo centrale; pareva, dico, che da allora in poi il popolo non sarebbe più rientrato sotto il giogo di un nuovo potere, basato sugli stessi princìpi dell’antico e tanto più forte perché non corroso dai vizi del potere del passato.
Tutt’altro. Sotto l’influenza dei pregiudizi governativi e lasciandosi ingannare dalle apparenze di libertà e benessere che accordavano – si diceva – le costituzioni inglese e americana, il popolo francese si affrettò a darsi una costituzione, poi delle costituzioni che cambiò spesso, variandole infinitamente nei particolari, ma che si basarono tutte su questo principio: governo rappresentativo. Monarchia o Repubblica poco importa! il popolo non si governa da se stesso, ma è governato da rappresentanti scelti più o meno bene. Proclamerà la sua sovranità, per affrettarsi a cederla. Eleggerà, in un modo qualsiasi, deputati che sorveglierà più o meno, e saranno questi deputati che si incaricheranno di regolare l’immensa diversità degli interessi e delle relazioni umane, così complicati nel loro insieme, su tutta la superficie della Francia!
Dopo, tutti i Paesi dell’Europa continentale hanno avuto la stessa evoluzione. Tutti hanno rovesciano, una dopo l’altra, le monarchie assolute e tutti hanno scelgono la via del parlamentarismo. Perfino i dispotismi dell’Oriente seguono adesso la stessa strada: la Bulgaria, la Turchia, la Serbia, provano il regime costituzionale; in Russia anche si cerca di scuotere il giogo di una camarilla per sostituirvi il giogo temperato di una assemblea di delegati.
E, quel che è peggio, la Francia, inaugurando vie novelle, ricade pur sempre negli stessi errori. Il popolo, disgustato dalla triste esperienza della monarchia costituzionale, la rovescia un giorno e l’indomani si affretta a rieleggere un’assemblea di cui non cambia che il nome e a essa confida la cura di governarlo... libera di venderlo a un brigante che chiamerà l’invasione dello straniero sulle feconde pianure di Francia.
Vent’anni dopo, ricade ancora nello stesso errore. La città di Parigi è libera, abbandonata dalla truppa e dai poteri, ma non cerca di sperimentare una nuova forma che renderebbe facile lo stabilirsi di un nuovo regime economico. Felice di avere cambiato la parola Impero con quella di Repubblica e questa in Comune, il popolo si affretta ad applicare ancora una volta, nel seno della Comune, il sistema rappresentativo. Falsifica l’idea nuova con la tarlata eredità del passato. Consegna la sua propria iniziativa nelle mani di un’assemblea di eletti più o meno a caso e affida a loro la cura di quella riorganizzazione completa delle relazioni umane che, sola, avrebbe potuto dare alla Comune la forza e la vita.
Le costituzioni, periodicamente stracciate, se ne vanno come foglie morte trascinate nel fiume da un vento autunnale! Non importa, si ritorna sempre ai primi amori; la sedicesima costituzione stracciata, se ne rifà una diciassettesima!
Infine, anche in teoria, vediamo riformatori che, in materia economica, non si fermano davanti a una trasformazione completa delle forme esistenti, e si propongono di sovvertire da cima a fondo la produzione e lo scambio e di abolire il regime capitalista.
Ma non appena si tratta di esporre – in teoria – il loro ideale politico, non osano toccare il sistema rappresentativo; sotto forma di Stato operaio o di Comune libera, essi cercano sempre di conservare a ogni costo questo governo di procura.
Tutto un popolo, una razza si attengono ancora ostinatamente a questa sistema.
Fortunatamente la luce si fa su tale oggetto. Il governo rappresentativo non è applicato solamente in Paesi che prima conoscevamo appena. Esso funziona o ha funzionato sulla grande arena dell’Europa occidentale, in tutte le forme possibili, dalla monarchia temperata sino alla Comune rivoluzionaria; e, accolto con grandi speranze, ovunque è diventato purtroppo un semplice strumento di intrighi, di arricchimento personale, o di inciampo all’iniziativa popolare e allo sviluppo ulteriore. La religione della rappresentanza ha lo stesso valore di quelle delle superiorità naturali e dei personaggi regi. Più ancora, si comincia a capire che i vizi del governo rappresentativo non dipendono dalle ineguaglianze sociali e che, applicato in un ambiente dove tutti gli uomini hanno un uguale diritto al capitale e al lavoro, produce gli identici risultati funesti. E si può tranquillamente prevedere il giorno in cui questa istituzione, nata, secondo la felice espressione di John Stuart Mill, dal desiderio di garantirsi contro il becco e le grinfie del re degli avvoltoi, cederà il posto a una organizzazione politica nata dai veri bisogni dell’umanità, e dall’ammissione che il migliore modo di essere liberi è quello di non essere rappresentati, di non abbandonare le cose, tutte le cose alla Provvidenza o agli eletti, ma di farle noi stessi.
Questa conclusione sorgerà pure, noi lo speriamo, nel lettore quando avremo studiato i vizi intrinseci del sistema rappresentativo, quali siano il nome e l’estensione dei gruppi umani dove è applicato.
II
“Premuniti dai nostri costumi moderni contro i prestigi della regalità assoluta – scriveva Augustin Thierry nel 1828 – ve ne sono altri dai quali dobbiamo guardarci e cioè quelli dell’ordine legale e del regime rappresentativo”. (Lettres sur l’histoire de France, Bruxelles 1858). Bentham diceva quasi la stessa cosa. Ma a quell’epoca, le loro avvertenze passarono inosservate. Si credeva allora al parlamentarismo e si rispondeva a quei pochi critici con questo argomento, abbastanza plausibile in apparenza: “Il regime parlamentare non ha ancora detto la sua ultima parola; non deve essere giudicato finché non avrà per base il suffragio universale”.
Il suffragio universale è stato poi istituito. Dopo essersi lungamente opposta, la borghesia ha finito per capire che non avrebbe compromesso il suo dominio e ha deciso di accettarlo. Negli Stati Uniti, il suffragio universale funziona già da circa un secolo nelle condizioni volute di libertà, ed è stato pure applicato in Francia, in Germania. Ma il regime rappresentativo non è cambiato; è restato quello che era al tempo di Thierry e di Bentham; il suffragio universale non l’ha migliorato, i suoi vizi sono divenuti più stridenti. Per questo non sono soltanto i rivoluzionari come Proudhon che lo criticano aspramente; sono anche i moderati, come Mill, come Spencer, che gridano: “Attenti al parlamentarismo!”. Tutto il pubblico ha potuto apprezzarlo e, basandosi su fatti generalmente noti e risaputi, si potrebbero – in questo momento – comporre dei volumi sui suoi inconvenienti, sicuri di trovare eco nella massa dei lettori. Il governo rappresentativo è stato giudicato e condannato.
I suoi fautori – e ve ne sono in buona fede, se non di buona riflessione – non mancano di far valere i servigi che questa istituzione avrebbe reso. Al sentirli, è al regime rappresentativo che noi dobbiamo le libertà politiche di cui fruiamo al giorno d’oggi, sconosciute altra volta sotto la defunta monarchia assoluta. Ma, ragionando così, non si scambia forse la causa con l’effetto o, piuttosto, uno dei due effetti simultanei con la causa?
In fondo, non è il regime rappresentativo che ci ha dato, e neppure garantito, le poche libertà conquistate da un secolo. È il grande movimento del pensiero liberale, sorto dalla rivoluzione, che le ha strappate al governo nel tempo stesso della rappresentanza nazionale; ed è ancora questo spirito di rivolta, di libertà, che ha saputo conservarle malgrado e contro i continui strappi reazionari dei governi e degli stessi parlamenti. Il governo rappresentativo non dà libertà reali e, per sua natura, si uniforma mirabilmente bene al dispotismo. Le libertà bisogna quindi strappargliele come ai re assoluti; e una volta strappate bisogna ancora difenderle contro il parlamento come un tempo contro il monarca, giorno per giorno, palmo a palmo, senza mai disarmare, ciò riesce solo quando c’è nel Paese una classe agiata, gelosa delle sue libertà, e sempre pronta a difenderle con l’agitazione extraparlamentare contro il minimo arbitrio. Laddove questa classe non esiste, laddove non vi è libertà di difesa, le libertà politiche non esisteranno, che ci sia o no una rappresentanza nazionale. La Camera stessa diviene un’anticamera del re. Testimoni i parlamenti dei Balcani, della Turchia, dell’Austria.
Si usa citare le libertà inglesi e si associano volentieri, senz’altra riflessione, al parlamento. Ma si dimentica con quali metodi, di carattere puramente insurrezionale, ognuna di queste libertà fu strappata ai parlamenti medesimi. Libertà di stampa, critica della legislazione, libertà di riunione, d’associazione – tutto è stato estorto al parlamento con la forza, con l’agitazione che minacciava di trasformarsi in sommossa. Fu praticando le trade-union e lo sciopero contro gli editti del parlamento e le impiccagioni del 1813, fu saccheggiando, or sono cinquant’anni appena, le manifatture, che gli operai inglesi hanno ottenuto il diritto di associazione e di sciopero. Fu uccidendo, con le sbarre dei cancelli di Hyde-Park, la polizia che ne difendeva l’accesso, che il popolo di Londra, ora non è molto, affermava ancora, contro un ministero costituzionale, il diritto di manifestare nei parchi e nelle vie della capitale. La borghesia inglese difende le sue libertà non per mezzo di parlamentari, ma con l’azione extraparlamentare, mobilitando centomila uomini che grugniscono e urlano davanti alle case dell’aristocrazia o del ministero. Quanto al parlamento, esso calpesta continuamente i diritti pubblici del Paese e li opprime senz’altro come un re, non appena scorge davanti a sé una massa non pronta alla sommossa. Che cosa sono divenute, infatti, l’inviolabilità del domicilio e il segreto delle lettere da quando la borghesia ha preferito rinunciarvi per ottenere dal governo un simulacro di protezione contro i rivoluzionari?
Attribuire ai parlamenti ciò che è dovuto al progresso generale, immaginare che basterà una Costituzione per avere la libertà, è un peccare contro le più elementari regole del giudizio storico.
D’altronde, la questione va posta altrimenti. Non si tratta di sapere se il regime rappresentativo offra qualche vantaggio sul regno di un servidorame sfruttante a suo profitto i capricci di un padrone assoluto. Se venne introdotto in Europa, vuol dire che esso rispondeva meglio alla fase di sfruttamento capitalista attraversata nel diciannovesimo secolo, che adesso volge al suo termine. Esso offriva, senza dubbio, più sicurezza all’imprenditore industriale, al commerciante, ai quali trasferiva il potere caduto dalle mani dei signori.
Ma la monarchia pure, a lato di formidabili inconvenienti, poteva offrire qualche vantaggio sul regno dei signori feudali. Essa pure fu un prodotto necessario della sua epoca. Dobbiamo noi, per questo, restare sempre sotto l’autorità di un re e dei suoi servi?
Ciò che interessa a noi, uomini della fine del XIX secolo, è di sapere se i vizi del governo rappresentativo, non sono così stridenti, così insopportabili come lo erano quelli del potere assoluto; se gli ostacoli che oppone allo sviluppo ulteriore delle società, non sono, per il secolo nostro, così fastidiosi, come lo erano gli ostacoli opposti dalla monarchia nel secolo scorso; in fine, se un semplice rimpasto rappresentativo può bastare alla nuova fase economica di cui prevediamo l’avvento. Ecco quanto si tratta di studiare, invece di discutere eternamente sopra la missione storica del regime politico della borghesia.
Ebbene, una volta che la questione è posta in questi termini, non vi è più alcun dubbio possibile sulla risposta.
Certo, il regime rappresentativo, questo compromesso con l’antico regime, che ha conservato al governo tutte le attribuzioni del potere assoluto, sottomettendole, bene o male, a un contrasto popolare più o meno fittizio, questo sistema ha fatto il suo tempo. Oggi è un impedimento al progresso. I suoi vizi non dipendono dagli uomini, dagli individui al potere; essi sono inerenti al sistema e sono tanto profondi che nessuna modificazione potrebbe adattarlo ai bisogni nuovi dell’epoca nostra. Il sistema rappresentativo fu il dominio organizzato dalla borghesia e scomparirà con essa. Per la nuova fase economica che si annuncia, noi dobbiamo cercare un principio diverso di quello della rappresentanza. La logica delle cose lo impone.
E anzitutto, il governo rappresentativo soffre di tutti i difetti inerenti a qualunque specie di governo. Ma lungi dall’indebolirli, non fa che accentuarli e crearne dei nuovi.
Una delle più profonde espressioni di Rousseau sui governi in genere, si applica al governo elettivo, come a tutti gli altri. Per consegnare i propri diritti nelle mani di una assemblea eletta, non bisognerebbe, invero, che essa fosse composta da angeli, da esseri sovrumani? E ancora le grinfie e le corna spunterebbero presto a questi esseri eterei, non appena potessero governare il bestiame umano.
Simile in questo ai tiranni, il governo rappresentativo, si chiami parlamento, convenzione, Consiglio della Comune, o abbia un altro titolo più o meno ridicolo; sia nominato dai prefetti di un Bonaparte o arciliberamente eletto da una città insorta – il governo rappresentativo cercherà sempre di estendere la sua legislazione, di rinforzare il potere ingerendosi dappertutto, uccidendo l’iniziativa dell’individuo, del gruppo, per sostituirla con la legge. La sua tendenza naturale inevitabile sarà di prendere l’individuo dall’infanzia, condurlo di legge in legge, di minaccia in castigo, dalla culla alla tomba, senza mai liberare la preda dalla sua alta sorveglianza. Si è mai veduta un’assemblea eletta, dichiararsi incompetente in qualsivoglia materia? Più essa è rivoluzionaria e più si impadronisce di quanto non le compete. Legiferare sopra tutte le manifestazioni dell’attività umana, immischiarsi fin nei minimi particolari nella vita dei “suoi sudditi”, – è l’essenza stessa dello Stato e del governo. Creare un governo costituzionale significa costituire una forza che fatalmente cercherà di impadronirsi di tutto, regolamentare tutte le funzioni della società, senza riconoscere altro freno all’infuori di quello che potremo opporgli, di quando in quando, con l’agitazione o l’insurrezione. Il governo parlamentare – l’ha abbastanza provato – non fa eccezione alla regola.
“La missione dello Stato – ci hanno detto per meglio accecarsi – è di proteggere il debole contro il forte, il povero contro il ricco, le classi laboriose contro le classi privilegiate”. Sappiamo come i governi hanno compiuto questa missione; l’hanno compresa al rovescio. Fedele alla sua origine, il governo è sempre stato il protettore del privilegio contro quelli che cercano di liberarsene; il governo rappresentativo in specie ha organizzato la difesa, con la connivenza del popolo, di tutti i privilegi della borghesia, commerciale e industriale, contro l’aristocrazia da una parte, contro gli sfruttati, dall’altra – modesta, garbata, educata con gli uni, feroce con gli altri. Per questo la minima delle leggi protettrici del lavoro, per anodina che sia, non può essere strappata a un parlamento che dall’agitazione insurrezionale. Si ricordino le lotte sostenute e l’agitazione fatta per ottenere dai parlamenti inglesi, dal Consiglio federale svizzero, dalle Camere francesi, alcune cattive leggi sulla limitazione delle ore di lavoro. Le prime di questo genere, votate in Inghilterra, non furono estorte che mettendo dei barili di polvere sotto le macchine.
D’altronde, nei Paesi in cui l’aristocrazia non è stata detronizzata da una rivoluzione, signori e borghesi si intendono a meraviglia. “Tu, signore, mi riconoscerai il diritto di legiferare e io starò a guardia del tuo castello” – dice il borghese, e fa da guardiano, finché non si sente minacciato.
Sono occorsi quarant’anni di un’agitazione che, a intervalli, metteva il fuoco alle campagne, per fare decidere il parlamento inglese a garantire al colono i miglioramenti da lui fatti sul suolo preso in affitto. Quanto alla famosa “legge agraria”, votata per l’Irlanda, è stato necessario, Gladstone stesso lo ha confessato, che il Paese facesse un’insurrezione generale, si rifiutasse fermamente di pagare le rendite e si difendesse contro gli espropri con il boicottaggio, gli incendi, le esecuzione dei lord, prima di forzare la borghesia a votare questa povera legge che ha l’aria di proteggere il Paese affamato contro i lord affamatori.
Se si tratta di proteggere gli interessi del capitalista, minacciati dall’insurrezione o solo dall’agitazione – oh! allora il governo rappresentativo, organo del dominio del capitale, diviene feroce, ci colpisce e lo fa con più sicurezza e maggiore viltà di qualunque despota. La legge contro i socialisti in Germania vale l’editto di Nantes; e né Caterina II dopo la jacquerie di [Emel’jan] Pugaciov, né Luigi XVI dopo la guerra delle farine, diedero prova di tanta ferocia come quelle due “assemblee nazionali” del 1848 e del 1871, i cui membri, gridavano: “Uccidete i lupi, le lupe e i lupetti”!, e all’unanimità meno un voto si felicitavano con i soldati ubriachi di sangue per i loro massacri!
L’anonima belva dalle seicento teste ha sorpassato Luigi XI e Giovanni IV.
E lo stesso avverrà finché ci sarà un governo rappresentativo, che sia regolarmente eletto o che si imponga fra i bagliori dell’insurrezione.
O l’uguaglianza economica si farà nella nazione, nella città; e allora i cittadini liberi e uguali non vorranno abdicare ai loro diritti nelle mani di nessuno; quindi cercheranno un nuovo modo di organizzazione che permetta loro la gestione dei propri affari.
O vi sarà ancora una minoranza che dominerà le masse sul terreno economico – un quarto stato, composto di borghesi privilegiati – e allora povere masse! Il governo rappresentativo, eletto da questa minoranza, agirà per essa e legifererà per mantenerne i privilegi, procedendo contro i ribelli con la forza e il massacro.
L’analisi di tutti i difetti del governo rappresentativo esigerebbe volumi interi ma, anche limitandoci solo ai più essenziali, usciremmo dai limiti di questi capitoli. Ce n’è uno, però, che merita di essere ricordato.
Strana cosa! Il governo rappresentativo si proponeva di impedire il governo personale: esso doveva rimettere il potere nelle mani d’una classe e non più di un individuo. E tuttavia ha sempre avuto per tendenza di ritornare al governo personale, di sottomettersi a un solo uomo.
La causa di questa anomalia e ben semplice. Infatti dopo aver armato il governo di mille e mille attribuzioni che oggi gli si riconoscono, dopo avergli confidato l’insieme della gestione di tutti gli affari che interessano al Paese con un bilancio di qualche miliardo, era forse possibile affidare alle chiassate parlamentari la gestione di questi innumerevoli affari? Bisognava dunque nominare un potere esecutivo – il governo – che fu investito di attribuzioni quasi regie. Che miserabile autorità, invero, quella di un Luigi XIV, che si vantava di essere lo Stato, in confronto di quella di un governo costituzionale dei giorni nostri!
È vero che la Camera può rovesciare questo governo, ma per fare cosa? Per nominarne un altro che sarebbe investito dei medesimi poteri, e che sarebbe costretta a rovesciare otto giorni dopo, se fosse conseguente? Quindi, finché il Paese non strilla troppo forte preferisce mantenerlo, e quando lo rinvia è per richiamare quello che aveva rovesciato due anni prima. Così fa l’altalena: Gladstone-Beaconsfield, Beaconsfield-Gladstone, ciò che in fondo non cambia nulla nel Paese, sempre governato da un uomo, il capo del gabinetto. Ma quando trova un uomo abile, che gli garantisce “l’ordine”, cioè lo sfruttamento all’interno e gli sbocchi all’estero, allora si sottomette a tutti i suoi capricci, lo arma sempre di nuovi poteri. Qualunque sia il suo disprezzo per la Costituzione, quali siano gli scandali del suo governo, li subisce; se lo attacca su questioni accessorie, gli dà carta bianca in tutte le cose di una certa importanza. Bismarck è un esempio vivente; Guizot, Pitt e Palmerston lo furono per le generazioni passate. Questo si capisce: ogni governo ha una tendenza a diventare personale, ha la sua origine e la sua essenza. Che il parlamento sia per censo o eletto dal suffragio universale, che sia nominato esclusivamente da lavoratori e composto di lavoratori, esso cercherà sempre l’uomo al quale abbandonare la cura del governo, al quale sottomettersi. Finché confideremo a un piccolo gruppo tutte le attribuzioni economiche, politiche, militari, finanziarie, industriali, ecc., ecc., di cui lo corrediamo oggi, questo piccolo gruppo tenderà, necessariamente, come un distaccamento di soldati in campagna, a sottomettersi a un capo unico. Questo, in tempi di calma. – Ma che si accenda la guerra alle frontiere, che una lotta civile si scateni all’interno, e allora il primo ambizioso venuto, il primo avventuriero abile, impadronendosi della macchina dalle mille ramificazioni che si chiama amministrazione, si imporrà alla nazione. L’Assemblea non sarà più capace di impedire l’azione di cinquecento uomini presi a caso nella strada: anzi, essa paralizzerà la resistenza. I due avventurieri, portanti il nome di Bonaparte, non sorsero per caso. Essi furono la conseguenza inevitabile della concentrazione dei poteri. Quanto all’efficacia delle chiacchiere nella resistenza ai colpi di Stato, la Francia ne sa qualche cosa. Ancora ai nostri giorni, è stata forse la Camera che salvò la Francia dal colpo di Stato di [Patrice de] Mac-Mahon? Sono stati – lo sappiamo oggi – i comitati extraparlamentari. Citeranno ancora l’Inghilterra? Ma che questa non si vanti troppo di avere conservato intatte le sue istituzioni parlamentari nel corso del XIX secolo! Ha saputo evitare, è vero, durante questo secolo, la guerra di classe; ma tutto induce a credere che l’avrà più tardi, e non occorre essere profeti per prevedere che il parlamento non uscirà intatto da questa lotta: cadrà, in un modo o nell’altro, secondo la marcia della rivoluzione.
E se vogliamo, nella prossima rivoluzione, lasciare spalancate le porte alla reazione, alla monarchia forse, non abbiamo che da confidare gli affari nostri a un governo rappresentativo, a un govverno armato di tutti i poteri. La dittatura reazionaria, a tinte rosse dapprima, si mostrerà sotto il suo vero colore, senza farsi aspettare, non appena si sentirà meglio in arcioni. Essa avrà a sua disposizione tutti gli strumenti di dominio, e troverà tutti pronti al suo servizio.
Sorgente di tanti mali, il regime rappresentativo non rende, almeno, qualche servizio allo sviluppo progressivo e pacifico della società? Non ha, forse, contribuito al decentramento del potere che si imponeva nel nostro secolo? Forse ha saputo impedire le guerre?
Non potrebbe prestarsi, in date circostanze, a sacrificare una vecchia istituzione per evitare la guerra civile? Non offre, almeno, qualche garanzia, qualche speranza di progresso, di miglioramento interno?
Che amara ironia in ognuna di queste domande e in tante altre che sorgono non appena si giudica l’istituzione! Tutta la storia del nostro secolo è fatta per provare il contrario.
I parlamenti, fedeli alla tradizione regia e alla sua trasfigurazione moderna, il giacobinismo, non hanno fatto che concentrare i poteri nelle mani del governo. Funzionarismo a oltranza – questa diventa la caratteristica del governo rappresentativo. Dal principio di questo secolo si grida decentramento, autonomia, e non si fa che accentrare, uccidere le ultime vestigia dell’autonomia. La Svizzera stessa subisce questa influenza, e l’Inghilterra vi si sottomette. Senza la resistenza degli industriali e dei commercianti, oggi si dovrebbe chiedere a Parigi il permesso d’uccidere un bue a Brives-la-Gaillarde. Tutto passa, a poco a poco, sotto l’alta direzione del governo. Non gli manca più che la gestione dell’industria e del commercio, della produzione e del consumo, e i democratici socialisti, accecati dai pregiudizi autoritari, sognano il giorno in cui potranno regolare nel parlamento di Berlino il lavoro delle industrie e il consumo di tutto il territorio della Germania.
Il regime rappresentativo che si dice tanto pacifico, ci ha forse preservati dalle guerre? Mai si è tanto sterminato come sotto il regime rappresentativo. Occorre alla borghesia il dominio sui mercati, e questo dominio non si acquista se non a spese degli altri, con gli obici e la mitraglia.
Occorre la gloria militare agli avvocati e ai giornalisti, e non vi sono peggiori guerrafondai dei guerrieri da camera. I parlamenti non si prestano tuttavia alle esigenze del momento? alla modificazione delle istituzioni superate? Come ai tempi della Convenzione, per estorcere ai membri null’altro che la sanzione dei fatti computi bisognava mettere loro la sciabola alla gola, così oggi per strappare ai “rappresentanti del popolo” la minima riforma, bisogna ricorrere all’insurrezione.
Quanto al miglioramento del corpo eletto, non si è mai vista tanta degradazione dei parlamenti come ai nostri giorni. L’istituzione decade e peggiorerà quindi continuamente. Si parlava del marcio parlamentare al tempo di Luigi Filippo. – Parlatene oggi ai pochi onesti perduti in quei pantani e vi diranno: “Ne ho la nausea!”. Il parlamentarismo non ispira che il disgusto a quanti l’hanno visto da vicino.
Ma non si potrebbe migliorarlo? Un elemento nuovo, l’elemento operaio, non gli infonderebbe nuovo sangue? – Ebbene, analizziamo la Costituzione stessa delle Assemblee rappresentative, studiamo il loro funzionamento e vedremo che nutrire questi sogni è tanto ingenuo quanto sposare un re a una contadina, nella speranza di avere una generazione di buoni piccoli re!
III
I difetti delle Assemblee non ci meravigliano se riflettiamo un solo momento sul modo con cui si reclutano e funzionano.
Occorre che faccia qui il quadro, tanto disgustoso e ripugnante e che conosciamo tutti, il quadro delle elezioni? Nella borghese Inghilterra e nella democratica Svizzera, in Francia come negli Stati Uniti, in Germania come nella Repubblica Argentina, questa triste commedia non è dovunque la stessa?
Occorre raccontare come gli agenti e i comitati elettorali “fucinino”, “guadagnino”, “intessino” un’elezione (tutto un gergo da borsaioli), seminando a dritta e a manca promesse politiche alle riunioni, personali agli individui; come essi penetrino nelle famiglie, adulando la madre, il fanciullo, accarezzando talvolta il cane asmatico o il gatto dell’elettore? Come si spendano nei caffè, convertano gli elettori e prendano i più muti per intavolare con essi delle discussioni, simili a certi compari scrocconi che vi spingono a giocare “alle tre carte”? Come il candidato, dopo essersi fatto desiderare, appaia infine in mezzo ai suoi “cari elettori”, con il sorriso benevolo, con lo sguardo modesto, con la voce melliflua, simile alla vecchia megera affittacamere di Londra, che cerca il locatario con il più dolce sorriso e i più angelici sguardi? Occorre enumerare i programmi bugiardi – tutti bugiardi – non importa se opportunisti o socialisti rivoluzionari, ai quali il candidato stesso, per poco che sia intelligente e conosca la Camera, crede come alle predizioni dell’almanacco “Le Messager Boiteux” e nondimeno li difende con una foga, un accento di voce, un sentimento degno di un pazzo o di un attore da fiera? Non per nulla il teatro popolare non si limita più a darci Bertrand e Robert Macaire, come semplici scrocconi, tartufi o truffatori di banca, ma aggiunge a queste eccellenti qualità, quella di “rappresentanti del popolo” in cerca di suffragi e di elettori.
Occorre, infine, citare le spese delle elezioni? Tutti i giornali ci informano abbastanza in merito. Occorre riprodurre la lista di spese di un agente elettorale, sulla quale figurano braciole di montone, panciotti di flanella e acqua sedativa, spediti dal candidato bonaccione “a quei bravi ragazzi” dei suoi elettori? Occorre ricordare anche le spese di mele cotte e di uova marce “per confondere il partito avverso”, che pesano sui bilanci elettorali degli Stati Uniti, come le spese di affissioni calunniatrici e di “manovre dell’ultima ora”, che hanno già una parte tanto onorevole nelle nostre elezioni europee? E quando il governo interviene con i suoi “posti”, i suoi centomila “posti” offerti al maggiore offerente, i suoi nastri cavallereschi detti “sputacchi”, i suoi spacci di tabacco, la sua alta protezione promessa alle bische e ai lupanari, la sua stampa svergognata, le sue spie, i suoi truffatori, i suoi giudici e i suoi agenti...
No, basta. – Lasciamo questa mota, non rivoltiamola. Limitiamoci semplicemente a formulare questa domanda: Vi è una sola passione umana, la più vile, la più abietta di tutte, che non venga suscitata in tempo di elezioni? Frode, calunnia, sfrontatezza, ipocrisia, menzogna, tutto il putridume che giace sul fondo della bestia umana, ecco lo spettacolo che ci offre un Paese spinto nella baraonda elettorale!
Così è e non può essere altrimenti, finché vi saranno elezioni per darsi dei padroni. Supponete pure dei lavoratori, degli uguali, che si mettono in testa un bel giorno di darsi un governo, e sarà la stessa cosa. Non si distribuiranno più braciole; si distribuirà l’adulazione, la menzogna, e le mele cotte serviranno ancora. Che cosa si vuole ricavare di meglio quando si mettono all’incanto i propri sacri diritti?
Che cosa si domanda, infatti, agli elettori? Di trovare un uomo al quale si possa confidare il diritto di legiferare su quanto hanno di più sacro: i loro diritti, i loro fanciulli, il loro lavoro! E si resterebbe meravigliati che due o tremila Robert Macaire vengano a disputarsi questi diritti regi? Si cerca un uomo al quale si possa confidare insieme ad altri usciti dalla stessa lotteria, il diritto di prendere i nostri fanciulli a ventuno o a diciannove anni, se così gli piace; di chiuderli per tre anni, ma anche per dieci, se lo preferisce, nell’atmosfera putrida della caserma; di farli massacrare, quando e dove vorrà, cominciando una guerra che il Paese sarà forzato a fare, una volta iniziata. Potrà aprire o chiudere le Università a suo piacimento; obbligare i genitori a mandarvi i figli o rifiutarne loro l’accesso. Nuovo Luigi XIV, potrà favorire o, se lo preferisse, uccidere un’industria; sacrificare il Nord per il Mezzogiorno o viceversa; annettere una provincia o cederla. Egli disporrà nientemeno che di tre miliardi all’anno, che strapperà alla bocca del lavoratore. Avrà ancora la prerogativa regia di nominare il potere esecutivo, un potere che, finché sarà d’accordo con la Camera, potrà essere altrettanto dispotico e tirannico della defunta monarchia. Poiché, se Luigi XVI non comandava che a qualche decina di migliaia di funzionari, esso ne comanderà a centinaia di migliaia; e se il re poteva rubare alla cassa dello Stato qualche misero sacco di scudi, il ministro costituzionale dei nostri giorni, con un sol colpo di borsa ne intasca “onestamente” milioni.
E si resterebbe meravigliati nel vedere tutte le passioni scatenarsi, quando si cerca un padrone per investirlo del potere? Ai tempi in cui la Spagna metteva il suo trono all’asta, ci si meravigliava forse nel vedere i filibustieri accorrere da tutte le parti? Finché durerà questa messa all’asta dei poteri regi, nulla potrà essere riformato: l’elezione sarà la fiera delle vanità, il mercato delle coscienze.
D’altronde, anche quando si assottigliasse il potere dei deputati, anche quando lo si frazionasse facendo di ogni comune uno Stato in miniatura, tutto resterebbe tale e quale. La delegazione è ancora comprensibile quando si tratta, di cento o duecento uomini che si incontrano tutti i giorni al lavoro, nei loro affari comuni, e si conoscono a fondo gli uni e gli altri. Dopo aver discusso sotto tutti gli aspetti un affare qualunque decisione presa, scelgono qualcuno e lo mandano a intendersi con altri delegati sopra questo affare speciale. Allora la scelta si fa con piena cognizione di causa e ognuno sa quel che può confidare al suo delegato. Questo delegato, d’altronde, non farà che esporre davanti ad altri delegati le considerazioni che hanno indotto i suoi mandanti a tale conclusione. Non potendo imporre nulla, cercherà l’accordo e ritornerà con una semplice proposta che i mandatari potranno accettare o rifiutare. – È così che è nata la delegazione: all’epoca in cui i comuni mandavano i loro delegati verso altri comuni, essi non avevano diverso mandato. – E così fanno ancora oggi i meteorologi, i demografi nei loro congressi internazionali, i delegati delle compagnie delle strade ferrate e le amministrazioni postali dei diversi Paesi.
Ma che cosa si domanda agli elettori? Si domanda a dieci, ventimila uomini (centomila con lo scrutinio di lista) che non si conoscono affatto, non si vedono mai, non hanno il minimo affare in comune, di intendersi sulla scelta di un uomo. E quest’uomo non sarà incaricato di esporre un affare preciso o difendere una risoluzione concernente un dato affare specifico. No, egli deve essere capace di fare tutto, di legiferare su qualunque cosa, e la sua decisione fa legge. Il carattere originario della delegazione si cambia interamente ed essa diventa un’assurdità.
Questo essere onnisciente, che si va cercando oggi, non esiste. Ma ecco un onesto cittadino che riunisce certe condizioni di probità e di buon senso con un po’ di istruzione. Sarà l’eletto? Evidentemente no. Appena venti persone del suo collegio conoscono le sue eccellenti qualità. Egli non ha mai cercato di farsi la réclame, disprezza i mezzi abituali di fare rumore attorno al proprio nome, non raccoglierà mai più di 200 voti, anzi non sarà neppure candidato e si nominerà un avvocato o un giornalista, un buon parlatore o un pennaiolo che porteranno al parlamento i loro costumi del foro e della stampa e andranno a rafforzare il bestiame votante del ministero o dell’opposizione, oppure sarà un negoziante, avido di darsi il titolo di deputato pronto a sobbarcarsi la spesa di 10.000 franchi per conquistarsi una notorietà. E là dove i costumi sono eminentemente democratici, come negli Stati Uniti, laddove i comitati si costituiscono facilmente e controbilanciano l’influenza della fortuna, si nominerà il peggiore di tutti, il politicante di professione, l’essere abietto divenuto oggi la piaga della grande Repubblica, l’uomo che fa della politica un’industria, che la pratica secondo i procedimenti della grande industria: réclame, gran cassa, corruzione.
Cambiate come volete il sistema elettorale, sostituite lo scrutinio regionale con lo scrutinio di lista, fate le elezioni a due turni come in Svizzera (parlo delle riunioni preparatorie), modificate quanto volete, applicate il sistema nelle migliori condizioni di equità – tagliate e ritagliate i collegi – il vizio intrinseco all’istituzione resterà. Colui che saprà riunire più della metà dei suffragi (salvo rarissime eccezioni, nei partiti perseguitati) sarà sempre l’uomo zero, senza convinzioni – colui che sa accontentare tutti. È per questo – [Herbert] Spencer l’ha già notato – che i parlamenti sono così mal composti. La Camera, egli dice, è sempre inferiore alla media del Paese, non solo come coscienza, ma anche come intelligenza. Un Paese intelligente si rimpiccolisce nella sua rappresentanza. Si potrebbe proporre di essere rappresentato dai balordi, non sceglierebbe peggio. Quanto alla probità dei deputati, sappiamo quel che vale. Leggete soltanto quel che ne dicono gli ex ministri che li hanno conosciuti e apprezzati.
Peccato che non vi siano treni speciali, perché gli elettori possano vedere la loro “Camera” all’opera. Ne sarebbero presto disgustati. Gli antichi ubriacavano i loro schiavi per insegnare ai fanciulli la ripugnanza per l’ebbrezza. Parigini, andate dunque alla Camera a vedere i vostri rappresentanti per disgustarvi del governo rappresentativo!
A questa accozzaglia di nullità, il popolo abbandona tutti i suoi diritti, salvo quello di destituirla ogni tanto e di nominarne altre. Ma siccome la nuova assemblea, nominata con lo stesso sistema e incaricata della stessa missione, sarà così cattiva come la precedente, la grande massa finisce per disinteressarsi della commedia e si limita a un rimpasto, accettando nuovi candidati che sanno imporsi.
Ma, se l’elezione è già impregnata di un vizio costituzionale, non riformabile, che cosa dire del modo con cui l’assemblea adempie al suo mandato? Riflettete solo un minuto e vedrete subito l’impossibilità del compito che le imponete.
Il vostro rappresentante dovrà emettere un’opinione, dare un voto sopra tutta la serie, variante all’infinito, di questioni che sorgono in questa formidabile macchina: lo Stato centralizzato.
Dovrà votare la tassa sui cani e la riforma dell’insegnamento universitario, senza avere mai messo piede nell’Università, senza conoscere un cane di campagna. Dovrà pronunciarsi sui vantaggi del fucile Gras e sul posto da scegliere per le scuderie dello Stato. Voterà sulla fillossera, il guano, il tabacco, l’insegnamento primario e il risanamento delle città; sopra la Cocincina e la Guaina, sui tubi dei camini e l’Osservatorio di Parigi. Non ha mai visto i soldati, se non alle riviste, ma ripartirà i corpi d’armata; non ha mai conosciuto un solo arabo, ma farà o cambierà il Codice fondiario musulmano in Algeria. Voterà per lo shako o il kepi secondo i gusti della sua sposa. Proteggerà lo zucchero e sacrificherà il grano. Ucciderà la vite credendo di proteggerla, voterà il rimboschimento contro il pascolo e proteggerà il pascolo contro la selva. Sarà competentissimo in materia bancaria. Sacrificherà un canale a una strada ferrata, senza sapere troppo in quale parte della Francia si trovino l’uno e l’altra. Aggiungerà nuovi articoli al codice penale, senza averlo mai consultato. Proteo onnisciente e onnipotente, oggi militare, domani porcaro, quindi a volta a volta banchiere, accademico, spazzino, medico, astronomo, fabbricante di droghe, conciapelli, negoziante, secondo gli ordini del giorno della Camera, egli non esiterà mai. Abituato dalla sua funzione di avvocato, di giornalista o di oratore di assemblee pubbliche, a parlare di ciò che non conosce, voterà sopra tutte queste e altre questioni e altre ancora, con la sola differenza: mentre con il giornale divertiva solo il portinaio pettegolo e alle assise svegliava con la sua voce solo giudici e giurati sonnolenti, alla Camera la sua opinione stabilirà la legge per trenta o quaranta milioni di abitanti.
E siccome gli è materialmente impossibile avere un’opinione sui mille oggetti per i quali il suo veto fa legge, ciarlerà con il suo vicino, passerà il tempo al caffè, scriverà lettere per riscaldare l’entusiasmo dei “cari elettori”, mentre un ministro leggerà un rapporto irto di cifre allineate per la circostanza dal suo capo-ufficio; e al momento del voto si pronuncerà pro o contro il rapporto, secondo il segno del capo del suo partito.
Così una questione di ingrasso di maiali o di equipaggiamento di soldati non sarà per i due partiti del governo e dell’opposizione, che una scaramuccia parlamentare. Essi non si domanderanno se i maiali hanno bisogno di ingrasso, né se i soldati sono già sopraccarichi come i cammelli del deserto – la sola questione che li interesserà sarà quella di sapere se un voto affermativo è utile al proprio partito. La battaglia parlamentare si impegnerà sulla schiena del soldato, dell’agricoltore, del lavoratore industriale, nell’interesse del governo o dell’opposizione.
Povero Proudhon, immagino il suo disgusto, quando ebbe l’ingenuità infantile, entrando nell’assemblea, di studiare a fondo ciascuna delle questioni poste all’ordine del giorno. Portava alla tribuna cifre, idee; non lo si ascoltava nemmeno. Le questioni sono tutte risolte prima della seduta, con questa considerazione così semplice: è utile o nocivo al partito? La conta dei voti è fatta; i disciplinati si registrano, gli indisciplinati si scandagliano e si contano accuratamente. I discorsi non si pronunciano che per la messa in scena, sono ascoltati solo se hanno valore artistico o si prestano allo scandalo.
Gli ingenui si immaginano che Roumestan [personaggio del romanzo di Alphonse Daudet, Numa Roumestan, Paris 1881] ha entusiasmato la Camera con la sua eloquenza, mentre Roumestan, dopo la seduta, calcola, con i suoi amici come potrà mantenere le promesse fatte per ottenere il voto. La sua eloquenza non era che un inno d’occasione, composto e cantato per divertire la platea e mantenere la sua popolarità con frasi roboanti.
“Strappare un voto!”. Ma chi sono dunque coloro che strappano questi voti, le cui schede fanno pendere da un lato o dall’altro la bilancia parlamentare? Chi sono coloro che rovesciano e rifanno i ministeri e regalano al Paese una politica di reazione o di avventure all’estero? Chi decide tra il governo e l’opposizione?
– Costoro sono chiamati giustamente “i rospi del pantano”! Quelli che non avendo nessuna opinione, pendono sempre fra il sì e il no, fluttuano fra i due partiti principali della Camera.
È precisamente questo gruppo, una cinquantina di indifferenti, senza alcuna convinzione, che vanno e vengono fra i liberali e i conservatori, lasciandosi influenzare dalle promesse, dai posti, dall’adulazione o dal panico – questo piccolo gruppo di nullità, dando o rifiutando i suoi voti, decide di tutti gli affari del Paese. Sono essi che fanno le leggi o le rimandano negli archivi. Sono essi che sostengono o rovesciano i governi e cambiano la direzione della politica. – Una cinquantina di indifferenti dettano la legge al Paese – ecco a quanto si riduce, in ultima analisi, il regime parlamentare. Ciò è inevitabile, qualunque sia la composizione del parlamento, che sia gremito di stelle di prima grandezza e di uomini integri, la decisione apparterrà sempre ai rospi del pantano! Nulla cambierà finché spetterà alla maggioranza fare la legge.
Dopo aver brevemente indicato i difetti costituzionali delle assemblee rappresentative, ora dovremmo mostrare queste assemblee all’opera. Tutte, dalla Convenzione fino alla Comune del 1871, dal parlamento inglese alla Scupcina serba, sono affette da nullità. Le leggi migliori non sono state – secondo l’espressione di Buckle – che l’abolizione di leggi precedenti; ma a tanto non si può giungere che con le picche del popolo, con mezzi insurrezionali. Ci sarebbe tutta una storia da scrivere, ma trascenderebbe i limiti del nostro studio.
D’altronde, chiunque sa ragionare, senza lasciarsi traviare dai pregiudizi della nostra educazione viziosa, troverà egli stesso abbastanza esempi nella storia contemporanea del governo rappresentativo. E comprenderà che non importa se il corpo rappresentativo sia composto di operai o di borghesi, sia anche largamente aperto ai socialisti rivoluzionari, esso conserverà tutti i difetti delle assemblee rappresentative. Questi non dipendono dagli individui, ma sono inerenti all’istituzione.
Sognare uno Stato operaio, governato da un’assemblea elettiva, è il più malsano dei sogni che ci possa inspirare la nostra educazione autoritaria.
Come non si può avere un buon re, né con Rienzi né con Alessandro III, così non si può avere un buon parlamento. L’avvenire socialista, in una direzione affatto diversa, aprirà all’umanità nuove vie, tanto nell’ordine politico, come nell’ordine economico.
IV
IV È gettando un colpo d’occhio sulla storia del regime rappresentativo, la sua origine e la maniera con la quale l’istituzione si è snaturata a misura dello sviluppo dello Stato, che noi comprenderemo come ormai fatto il suo tempo, esaurita la sua funzione, essa deve cedere il posto a un nuovo modo d’organizzazione politica.
Non rimontiamo troppo indietro; prendiamo il dodicesimo secolo e la liberazione dei Comuni.
Nel seno della società feudale si produce un gran movimento libertario. Le città scuotono il giogo della signoria. I loro abitanti “giurano” la mutua difesa; si costituiscono indipendenti al riparo delle loro mura; si organizzano per la produzione e lo scambio, l’industria e il commercio; creano quelle città che per tre o quattro secoli serviranno da rifugio al lavoro libero, alle arti, alle scienze, alle idee – e getteranno le fondamenta di questa civiltà di cui ci gloriamo oggi.
Lungi dall’essere di origine puramente romana, come hanno preteso [François] Raynouard e [Philippe] Le Bas in Francia (imitati da Guizot e, in parte, da Augustin Thierry), Eichhorn, Gaupp e [Friedrich von] Savigny in Germania; lungi dall’essere d’origine puramente germanica, come afferma la scuola brillante dei “germanisti” i Comuni furono un prodotto naturale del medioevo e dell’importanza sempre crescente dei borghi come centri di commercio e di industria. È per questo che, simultaneamente, in Italia, nelle Fiandre, nelle Gallie, in Germania, nel mondo scandinavo e nel mondo slavo, dove l’influenza romana è nulla e la germanica quasi non conta, vediamo sorgere nella stessa epoca, cioè nell’undicesimo e dodicesimo secolo, queste città indipendenti che vivranno tre secoli di una vita potente e più tardi diverranno gli elementi costitutivi degli Stati moderni.
Patti di borghesi che si armano per la difesa si danno all’interno un’organizzazione indipendente dai signori temporali o ecclesiastici, come pure dal re – le città libere fioriscono ben presto dietro i loro bastioni, e quantunque cerchino di sostituirsi al signore nel dominio dei villaggi, ispirano anche a questi il medesimo soffio di libertà. Nous sommes homes eum il sunt. “Noi siamo uomini come loro”, cantano ben presto i campagnoli, facendo un passo di più verso la liberazione dei servi.
“Asili aperti alla vita del lavoro”, le città libere si costituiscono all’interno come leghe di corporazioni indipendenti. Ogni corporazione ha la sua giurisdizione, la sua amministrazione, la sua milizia. Ciascuno è padrone dei suoi affari, non solo in ciò che concerne il suo mestiere o il suo commercio, ma in tutto ciò che lo Stato si attribuirà più tardi: istruzione, misure sanitarie, infrazione dei costumi, affari penali e civili, difesa militare. Corpi politici, nello stesso tempo che industriali o commerciali, le corporazioni sono unite fra loro dal forum. – Il popolo è riunito al suono della campana nelle grandi occasioni, sia per giudicare i dissidi fra corporazioni, sia per decidere sugli affari riguardanti tutta la città, sia per intendersi sulle grandi imprese comunali che richiedono il concorso di tutti gli abitanti.
Nel Comune – soprattutto agli inizi – nessuna traccia di governo rappresentativo. La strada, la sezione, tutta la corporazione, tutta la città al completo, prendono le decisioni non a colpi di maggioranza, ma discutendo fino a che i partigiani di una delle due opinioni presenti finiscono per accettare di buon grado – non fosse che a titolo di prova – l’opinione prevalente.
L’accordo esisteva? La risposta è nelle loro opere, che non cessiamo di ammirare senza potere sorpassarle. Tutto ciò che è restato di bello della fine del medioevo, viene da queste città. Le cattedrali, monumenti giganteschi che raccontano la storia e le aspirazioni dei Comuni, sono l’opera di quelle corporazioni. Lavoranti per passione, per amore dell’arte e della loro città (non è con i fondi municipali che si sarebbero potute pagare le cattedrali di Reims, di Rouen), rivaleggianti per abbellire i palazzi civici, per elevare i bastioni.
È ai comuni liberati che dobbiamo la rinascenza dell’arte, è alle corporazioni di mercanti, spesso a tutti gli abitanti della città che contribuivano ognuno personalmente all’equipaggiamento di una carovana o di una flotta, che dobbiamo quello sviluppo del commercio che produsse ben presto le leghe anseatiche e le scoperte marittime. È alle corporazioni di industriali, scioccamente screditate poi dall’ignoranza e dall’egoismo degli imprenditori industriali, che dobbiamo la creazione di tutte le arti industriali di cui beneficiamo oggi.
V
Ma il comune del medioevo doveva perire. Due nemici lo attaccavano contemporaneamente: uno interno, esterno l’altro.
Il commercio, le guerre, il dominio egoista sulle campagne, contribuivano ad accrescere la disuguaglianza nel seno del Comune, a spossessare gli uni e arricchire gli altri. Per qualche tempo, la corporazione impedì lo sviluppo del proletariato nel seno della città, ma ben presto fu vinta in una lotta ineguale. Il commercio, sostenuto dalle razzie, le guerre continue di cui la storia dell’epoca è piena, arricchivano gli uni, impoverivano gli altri; la borghesia nascente cercava di fomentare la discordia, di esagerare la disparità di fortuna. La città si divise in ricchi e poveri, in “bianchi” e a “neri”; la lotta delle classi fece la sua apparizione e con essa lo Stato nel seno del Comune. A misura che cresceva l’impoverimento dei poveri, asserviti sempre più ai ricchi dall’usura, la rappresentanza municipale, il governo di procura, cioè il governo dei ricchi, si instaurava nel comune. Esso si costituì in Stato rappresentativo, con cassa municipale, milizia assoldata, condottieri armati, servizi pubblici, funzionari. Stato esso stesso, ma piccolo Stato, doveva diventare ben presto preda del grande Stato, che si costituiva sotto gli auspici della monarchia. Minato all’interno, fu difatti inghiottito dal nemico esterno – il re.
Mentre le città libere fiorivano, lo Stato centralizzato si costituiva di già.
Esso nacque lungi dal rumore del forum, lungi dallo spirito municipale che ispirava le città indipendenti. Fu in una città nuova, a Parigi, a Mosca, ammassi di villaggi, che si consolidò il potere nascente della regalità. Che cos’era il re fino ad allora? un capo banda come gli altri. Un capo il cui potere si estendeva appena sulla sua masnada di briganti e che prelevava un tributo soltanto su quelli che volevano comperare la pace. Finché questo capo era rinchiuso in una città, fiera delle sue libertà comunali, cosa poteva fare? Non appena, da semplice difensore delle mura, cercava di diventare padrone della città, il forum lo cacciava. Egli si rifugiava dunque in un’agglomerazione nascente, in una nuova città. Là, traendo la ricchezza dal lavoro dei servi, non incontrando ostacoli nella plebe turbolenta, cominciava con il denaro, la frode, l’intrigo e le armi, il lento lavoro di agglomerazione, di accentramento che le guerre dell’epoca, le invasioni continue, favorivano straordinariamente – quasi direi imponevano simultaneamente a tutte le nazioni europee.
I Comuni, già in decadenza, già Stati fra le loro mura, gli servirono di obiettivo e di modello. Non si trattava che di conglobarli a poco a poco, di appropriarsi degli organi, di farli servire allo sviluppo del potere regale. È quanto fece la monarchia, con forza cauta agli inizi e sempre più brutale a misura crescevano le sue forze.
Il diritto scritto era nato, o piuttosto coltivato, nelle carte dei Comuni. Esso servì da base allo Stato. Più tardi, il diritto romano venne a dargli la sua sanzione, nel tempo stesso in cui sanzionava l’autorità regia. La teoria del potere imperiale dissotterrata dai glossari romani, fu propagata a beneficiò del re. La Chiesa, dal canto suo, si affrettò a coprirla con la sua benedizione e, dopo avere fallito nel tentativo di costituire 1’impero universale si alleò con il re, grazie al quale sperava di regnare un giorno sulla terra.
Durante cinque secoli la regalità prosegue questo lavoro lento di agglomerazione, ammutinando i servi e i Comuni contro il signore, e più tardi schiacciando i servi e i Comuni con l’aiuto del Signore, divenuto suo fedele suddito. Essa comincia col lusingare i Comuni, ma aspetta che le guerre intestine le aprano le porte, le lascino le casse che vuoterà – e i bastioni che popolerà di suoi mercenari. Essa procede tuttavia, di fronte ai Comuni, con cautela: riconosce certi privilegi, anche quando li asservisce.
Capo di soldati, che gli obbediscono solo se non gli lascia mancare di bottino, il re è sempre stato circondato dal consiglio dei suoi sottocapi, che nel quattordicesimo e nel quindicesimo secolo formano il suo Consiglio della Nobiltà, a cui più tardi si accoppia un Consiglio del clero. E, a misura che il re riesce a mettere la mano sui Comuni, invita alla sua corte – soprattutto in epoche critiche – i rappresentanti delle “sue buone città”, per chiedere loro dei sussidi. E così nascono i parlamenti. Ma – notiamolo bene – quei corpi rappresentativi, come la sovranità stessa, non avevano che un potere limitatissimo. Ciò che si domandava loro era solo un soccorso pecuniario per una data guerra; e questo soccorso – una volta votato dai delegati – bisognava fosse ratificato ancora dalla città. Quanto all’amministrazione interna dei Comuni, la sovranità non aveva nulla a che vedere. “La tal città è pronta ad accordarvi un dato sussidio, per respingere la tale invasione. Essa consente di accettare una guarnigione per servire di piazzaforte contro il nemico”, ecco il mandato netto e preciso del rappresentante dell’epoca. Quale differenza con il mandato illimitato, universale, che affidiamo ai nostri deputati!
Ma l’errore era fatto. Nutrita dalle lotte fra ricchi e poveri, la sovranità si costituirà sotto il manto della difesa nazionale.
Ben presto, vedendo lo sciupio dei loro sussidi alla corte regale, i rappresentanti dei Comuni cercano di regolarli. Essi si impongono alla sovranità come amministratori della cassa nazionale; e in Inghilterra, appoggiati dall’aristocrazia, riescono a farsi accettare come tali. In Francia, dopo il disastro di Poitiers, stavano già per arrogarsi gli stessi diritti; ma Parigi, sollevata da Étienne Marcel, è ridotta al silenzio, contemporaneamente alla Jacquerie, e la sovranità esce dalla lotta con forze nuove.
D’allora in poi, tutto contribuisce all’affermarsi della monarchia, all’accentramento dei poteri nelle mani del re. I sussidi si trasformano in tasse e la borghesia si affretta a mettere al servizio del re il suo spirito d’ordine e di amministrazione. La decadenza dei Comuni, che soccombono uno dopo l’altro davanti al re; la debolezza dei contadini, ridotti sempre più al servaggio – economico se non personale –, le teorie del diritto romano dissotterrate dai giuristi; le guerre continue – fonte permanente d’autorità –, tutto favorisce la consolidazione del potere regio. Erede dell’organizzazione comunale se ne impadronisce per ingerirsi di più nella vita dei sudditi, cosicché può esclamare con Luigi XIV: “Lo Stato sono io!”.
Dopo la decadenza, l’avvilimento dell’autorità regia caduta nelle mani delle cortigiane – che cerca di rialzarsi sotto Luigi XVI con misure liberali all’inizio del regno, ma è destinata a soccombere ben presto sotto il peso dei suoi misfatti.
Che cosa fa la Grande Rivoluzione quando colpisce con la sua scure l’autorità del re?
Ciò che ha reso possibile questa Rivoluzione, è la disorganizzazione del potere centrale, ridotto in quattro anni all’impotenza assoluta, alla parte di semplice registratore dei fatti compiuti; e la spontanea azione delle città e delle campagne, che strappano al potere tutte le sue attribuzioni col rifiutargli le tasse e l’obbedienza.
Ma la borghesia, che teneva il mestolo in mano, poteva accomodarsi a questo stato di cose? Essa vedeva che il popolo, dopo avere abolito i privilegi dei signori, stava per attaccare quelli della borghesia urbana e campagnola, e cercò e riuscì a domarlo. Per questo si mise a caldeggiare il governo rappresentativo, e lavorò durante quattro anni con tutta la sua forza d’azione e d’organizzazione, per inculcare alla nazione queste idee. Il suo ideale era quello di Étienne Marcel: un re che, in teoria, è investito di un potere assoluto, e in realtà, si trova ridotto a zero da un parlamento composto evidentemente dai rappresentanti della borghesia. L’onnipotenza della borghesia con il parlamento, sotto il manto della sovranità, ecco il suo scopo. Se popolo le ha imposto la Repubblica, è a malincuore che essa l’accetta e se ne libera il più presto possibile.
Attaccare il potere centrale, spogliarlo delle sue attribuzioni, decentrare, spezzare il potere, sarebbe stato abbandonare al popolo i suoi affari e correre il rischio di una rivoluzione veramente popolare. Per questo la borghesia cerca di rinforzare maggiormente il governo centrale, di investirlo di poteri che il re medesimo non osa sognare, di concentrare tutto fra le sue mani, di sottomettergli tutto da un capo all’altro della Francia – e poi di impadronirsene con l’Assemblea Nazionale.
Questo ideale giacobino è ancora oggi l’ideale della borghesia di tutte le nazioni europee, e il governo rappresentativo è la sua arena.
Questo ideale può essere il nostro? I lavoratori socialisti possono sognare di rifare negli stessi termini la rivoluzione borghese? Possono sognare di rinforzare, a loro volta, il governo centrale, di renderlo padrone di tutto il dominio economico e di confidare le redini di tutti i loro affari politici, economici, sociali, al governo rappresentativo? Ciò che fu un compromesso fra la sovranità e la borghesia, può essere l’ideale del lavoratore socialista?
Evidentemente no.
A una nuova fase economica corrisponde una nuova fase politica. Una rivoluzione così profonda quale è quella sognata dai socialisti non potrebbe rientrare nelle forme della vita politica del passato. Una società nuova, basata sull’uguaglianza delle condizioni, sulla proprietà collettiva degli strumenti di lavoro, non potrebbe adattarsi – nemmeno per otto giorni – al regime rappresentativo, né ad alcuna delle modificazioni con cui si cercherebbe galvanizzare questo cadavere.
Simile regime ha fatto il suo tempo. La scomparsa è oggi inevitabile, come lo fu nei tempi scorsi, l’apparizione. Esso corrisponde al regno della borghesia. È con questo regime che la borghesia regna da un secolo e scomparirà con esso. Se vogliamo la Rivoluzione Sociale dobbiamo cercare il modo di organizzazione politica che corrisponderà al nuovo modo di organizzazione economica.
Questo modo, d’altronde, e già tracciato. È la formazione, dal semplice al composto, di gruppi che si costituiscono liberamente per la soddisfazione di tutti i bisogni multipli degli individui nella società.
Le società moderne seguono già questa via. Ovunque la libera associazione, la libera federazione, cercano di sostituirsi all’obbedienza passiva. Si contano già a decine di milioni questi gruppi liberi, e ogni giorno ne sorgono dei nuovi. Essi si stendono e cominciano già a coprire tutti i rami dell’attività umana: scienza, arti, industria, commercio, soccorsi, perfino la difesa del territorio e l’assicurazione contro il furto e i tribunali, nulla sfugge loro. Questo sviluppo continua e finiranno per abbracciare tutto quello che il re e il parlamento si erano arrogati.
L’avvenire appartiene alla libera associazione degli interessati e non all’accentramento governativo, alla libertà e non all’autorità.
Ma prima di delineare l’organizzazione che sorgerebbe dal libero raggruppamento, dobbiamo attaccare ancora tanti pregiudizi politici di cui siamo imbevuti. È quel che faremo nei prossimi capitoli.
La legge e l’autorità
I
– “Quando l’ignoranza è nel seno delle società e il disordine negli spiriti – le leggi divengono numerose. Gli uomini aspettano tutto dalla legislazione, e siccome ogni legge produce un nuovo disinganno, essi sono indotti a domandare continuamente alla legislazione ciò che può risultare soltanto, dall’opera loro, dalla loro educazione, dallo stato dei loro costumi”. – Non è certo un rivoluzionario colui che ha scritto ciò e nemmeno un riformatore. È un giureconsulto, [Victor] Dalloz, autore della raccolta delle leggi francesi, conosciuta sotto il nome di Répertoire de législation, de doctrine et de jurisprudence, Paris 1845-1865. Eppure queste parole, quantunque scritte da un uomo che era egli stesso un fabbricante e un ammiratore delle leggi, rappresentano perfettamente lo stato anormale delle nostre società.
Negli Stati attuali una legge nuova è considerata come un rimedio per tutti i mali. Invece di riformare da se stessi il male, si comincia col domandare una legge che vi metta riparo. La strada tra due villaggi e impraticabile? il contadino dice che ci vorrebbe una legge sulle strade comunali. La guardia campestre ha insultato qualcuno approfittando della viltà di coloro che le portano rispetto? l’insultato dirà che ci vorrebbe una legge che ordini alle guardie campestri di essere garbate. Il commercio e l’agricoltura languono? “Bisogna fare una legge protettrice”: così ragionano il coltivatore, l’allevatore di bestiame, il mercante di grano; e perfino il rivenducolo di stracci vecchi domanda una legge che protegga il suo piccolo commercio. Il padrone ribassa i salari o allunga la giornata di lavoro? “Ci vuole una legge che rimedi a ciò”, esclama il deputato in erba; invece di dire all’operaio che c’è un altro mezzo ben più efficace di “rimediare a ciò”, ed è di riprendere al padrone quello che egli ha rubato a intere generazioni di operai. Insomma, sopra ogni cosa una legge! una legge sulle strade, una legge sulle mode, una legge sulla virtù, una legge per opporsi a tutti i vizi e a tutti i mali che derivano solo dall’indolenza e dalla viltà degli uomini!
Siamo tutti talmente pervertiti da un’educazione che sin dall’infanzia cerca di sedare lo spirito di indipendenza e di promuovere quello di soggezione; siamo talmente pervertiti da questa vita trascinata sotto la sferza della legge che regola tutto: la nascita, l’educazione, lo sviluppo, l’amore, le amicizie, che alla fine, se continua così, perderemo ogni iniziativa, ogni abitudine di ragionare con la nostra testa! Sembra ormai che le società abbiano smarrito la coscienza che si possa vivere in modo diverso che sotto il regime della legge, elaborata da un governo rappresentativo e applicata da un pugno di governanti; e quando per caso esse arrivano a emanciparsi da questo giogo, il loro primo pensiero è quello di riprenderne subito un altro. “L’anno I della Libertà”; non è mai durato più di un giorno, perché dopo averlo proclamato, l’indomani stesso gli uomini si ricacciano sotto il giogo della Legge e dell’Autorità!
Sono migliaia d’anni che i governanti ripetono di continuo in tutti i toni: “Rispetto alla legge, obbedienza all’autorità”! E in questo sentimento il padre e la madre allevano i figli; e la scuola lo fortifica, cercando di mostrarne la necessità ai fanciulli, a poco a poco, mediante ritagli di scienza bugiarda abilmente ammanniti; facendo un culto dell’obbedienza alla legge; unendo il Dio e la legge dei padroni in una sola e identica divinità. L’eroe della storia che essa fabbrica, è colui che obbedisce alla legge, colui che la difende contro i ribelli.
Più tardi, quando il fanciullo entra nella vita pubblica, la società e la letteratura, con l’opera di ogni giorno e di ogni istante, come la goccia d’acqua che scava la pietra, continuano a inculcargli lo stesso pregiudizio. I libri di storia, di scienza politica, d’economia sociale rigurgitano di questo rispetto della legge. Hanno perfino chiesto aiuto alle scienze fisiche e, introducendo in queste scienze di osservazione un linguaggio falso, preso a prestito dalla teologia e dall’autoritarismo, sono pervenuti abilmente a confonderci la mente, sempre allo scopo di mantenere il rispetto della legge. La stampa serve allo stesso scopo; infatti non c’è articolo nei giornali che non propaghi l’obbedienza alla legge, mentre poi la terza pagina constata ogni giorno la sua imbecillità, e mostra come è trascinata nel fango da coloro che debbono applicarla. Insomma il servilismo verso la Legge è fatto virtù e dubito che vi sia un rivoluzionario il quale non abbia cominciato nella sua giovinezza col difenderla dai cosiddetti abusi, che ne sono l’inevitabile conseguenza.
E anche l’arte si unisce alla pseudo-scienza; l’eroe del pittore, del musicista, dello scultore copre la Legge con lo scudo, e con gli occhi di fuoco e le narici dilatate è pronto a colpire con la spada chiunque osi toccarla. A essi si innalzano templi, si consacrano grandi sacerdoti che i rivoluzionari stessi osano appena toccare; e la rivoluzione viene a spezzare una vecchia istituzione sempre con una legge che cerca di consacrare l’opera sua.
Questa congerie di regole di condotta, che ci legarono prima alla schiavitù poi al servaggio e finalmente al feudalismo e alla sovranità, e che formano la Legge, ha sostituito quei mostri di pietra ai cui piedi si immolavano le vittime umane, e che lo schiavo antico non osava nemmeno rasentare per timore di essere ucciso dai fulmini del cielo.
Questo culto si è stabilito specialmente dopo il trionfo della borghesia, dopo la grande rivoluzione francese. Sotto l’antico regime pochi parlavano di leggi, eccettuati Montesquieu, Rousseau, Voltaire per opporle all’arbitrio del re e dei suoi servi; perché allora bisognava obbedire ai cenni di costoro sotto pena di essere imprigionati o impiccati. Ma durante e dopo la rivoluzione, gli avvocati giunti al potere fecero del loro meglio per consolidare questo principio, su cui dovevano fondare il loro regno futuro. E la borghesia l’accettò come un’ancora di salvezza per opporre una diga al torrente popolare; e la pretaglia si affrettò a santificarlo, per salvare la barca che rovinava tra le onde del torrente; e il popolo infine lo accettò, come un progresso contro l’arbitrio e la violenza del passato.
Bisogna immaginare con uno sforzo della mente il secolo diciottesimo per comprendere questo fenomeno. Bisogna aver sentito piangere il cuore al racconto delle atrocità che a quell’epoca perpetravano i nobili onnipossenti contro gli uomini e le donne del popolo. Per comprendere quale futile influenza magica le parole: “Uguaglianza davanti alla legge, obbedienza alla legge, senza distinzione di nascita e di fortuna”, dovevano esercitare, un secolo fa, sullo spirito dell’uomo asservito. Egli, che fino allora aveva sofferto un trattamento bestiale, che non aveva avuto alcun diritto, e non aveva ottenuto giustizia contro gli atti più rivoltanti del nobile, se non a patto di vendicarsi uccidendolo e, facendosi impiccare, si vedeva tutelato da questo principio, almeno in teoria, almeno in diritto, come uguale del suo signore. Quale che fosse questa legge, essa intanto prometteva di colpire ugualmente il signore e il plebeo, proclamava l’uguaglianza, davanti al giudice, del ricco e del povero.
Questa promessa era una menzogna, e noi lo sappiamo; ma a quell’epoca era un progresso, un omaggio reso alla verità. E perciò quando i salvatori della, borghesia minacciata, i Robespierre e i Danton, basandosi sugli scritti dei filosofi borghesi, i Rousseau e i Voltaire, proclamarono “il rispetto della legge è uguale per tutti” – il popolo, il cui slancio rivoluzionario cominciava già ad affievolirsi contro un nemico sempre più solidamente organizzato, accettò il compromesso. Si piegò sotto il giogo della Legge, per salvarsi dall’arbitrio del signore.
In seguito la borghesia non ha cessato di utilizzare questa massima, la quale, insieme al principio del governo rappresentativo, riassume la filosofia del secolo borghese, il diciannovesimo. L’ha professata nelle scuole, ha creato la sua scienza e la sua arte con questo obiettivo, l’ha ficcata dappertutto, come il pinzochero inglese che vi ficca sotto la porta i suoi testi religiosi. Ed è riuscita tanto nel suo intento che oggi spesso assistiamo a questo fatto esecrabile: quando al risvegliarsi dello spirito critico gli uomini vogliono essere liberi, cominciano col chiedere ai loro padroni di proteggerli meglio, modificando le leggi create dai padroni stessi.
Ma i tempi e le coscienze da un secolo sono cambiati; dappertutto si trovano ribelli che non vogliono più obbedire alla legge senza sapere da dove essa viene, qual è la sua utilità, da dove deriva l’obbligazione di obbedirle e il rispetto che si ha per essa. La ribellione matura in una “Rivoluzione” e non in una sommossa appunto perché i ribelli dei nostri tempi sottomettono alla loro critica tutte le basi della società, venerata sinora e, prima di tutto, questo feticcio – la Legge.
Ricercano la sua origine e trovano, ora un Dio prodotto dai terrori del selvaggio, stupido, meschino e cattivo come i preti che si fanno forti della sua genesi soprannaturale; ora il sangue, la conquista con il ferro e con il fuoco. Studiano il suo carattere e trovano per tratto distintivo l’immobilità che sostituisce lo sviluppo continuo del genere umano. Domandano come la legge si mantiene e scoprono le atrocità del bizantinismo e i delitti dell’Inquisizione; le torture del medioevo, le carni vive tagliate a pezzi dalla frusta dell’aguzzino, le catene, la mazza, la scure al suo servizio; i sotterranei delle galere, le sofferenze, i pianti e le maledizioni.
E anche oggi – sempre la scure, la corda, il fucile e le prigioni; da una parte, l’abbrutimento del prigioniero ridotto allo stato di belva nella gabbia, e dall’altra un giudice spoglio di tutti i sentimenti che formano la parte migliore della natura umana, il quale vive come un visionario in un mondo di finzioni e applica la ghigliottina con l’incoscienza del pazzo-morale, senza dubitare nemmeno dell’abisso di degradazione in cui è caduto di fronte a coloro che condanna.
Vediamo una genia di legislatori, priva di qualsiasi competenza, che votano oggi sul risanamento delle città e non hanno la minima nozione di igiene; che regolano domani l’esercito e non conoscono un fucile; che legiferano sull’insegnamento, sull’educazione e non hanno saputo mai dare ai loro figli un insegnamento qualsiasi o un’educazione onesta; che sentenziano a dritto e a rovescio, ma non dimenticano mai la pena che colpirà il diseredato, la prigione e le galere che colpiranno degli uomini mille volte meno immorali di loro.
Vediamo infine il carceriere che perde ogni sentimento di uomo, il gendarme che si atteggia a cane da presa, la spia che si compiace di se stessa, la delazione cambiata in virtù, la corruzione eretta a sistema; tutti i vizi insomma, tutti i lati cattivi della natura umana, favoriti, coltivati per il trionfo della Legge.
Vediamo ciò, e pertanto, invece di ripetere scioccamente la vecchia formula: “Rispetto alla legge”, gridiamo: “Negazione della legge e dei suoi attributi!”. Che si confrontino soltanto i misfatti compiuti in nome di ciascuna legge e i benefici che ha potuto recare, e si conoscerà la giustizia profonda del nostro grido.
II
La legge è un prodotto relativamente moderno, perché l’umanità ha vissuto per secoli e secoli senza bisogno di leggi scritte, e nemmeno semplicemente impresse in simboli, sulle pietre all’entrata dei templi.
All’epoca i rapporti tra gli uomini erano retti da costumi semplici, da usi e abitudini che la costante ripetizione rendeva venerabili, e che ciascuno acquisiva dalla sua infanzia, allo stesso modo in cui imparava a procurarsi il nutrimento per mezzo della caccia, della pastorizia o dell’agricoltura. Tutte le società umane attraversarono questa fase primitiva, e anche oggi gran parte di esse mancano di leggi scritte.
I popoli meno civili hanno costumi e un “diritto consuetudinario” – come dicono i giuristi –, hanno abitudini e questo basta per mantenere i buoni rapporti tra i membri del villaggio, della tribù, della comunità. Avviene lo stesso anche tra noi civilizzati: basta che si esca dalle grandi città per vedere che le relazioni tra gli abitanti sono ancora regolate non dalla legge scritta dai legislatori, ma dalle vecchie usanze generalmente accettate.
I contadini della Russia, dell’Italia, della Spagna, e in buona parte anche della Francia e dell’Inghilterra, non hanno la più lontana idea della legge scritta. Essa entra nella loro esistenza solo per regolare i rapporti con lo Stato; quando invece si tratta di regolare i rapporti tra loro, talvolta molto complicati, applicano sempre vecchie usanze. E un tempo succedeva lo stesso per l’umanità intera.
Quando studiamo i costumi dei popoli primitivi, vediamo due tendenze diverse.
Poiché l’uomo non vive da solo, in lui si elaborano sentimenti, abitudini utili alla conservazione della società e alla propagazione della specie.
Senza questi sentimenti sociali, senza la pratica della solidarietà, la vita in comune sarebbe stata assolutamente impossibile, e non li stabilisce la legge, perché sono anteriori a ogni legge; non li prescrive la religione, e infatti si trovano presso tutti gli animali che vivono in società. Essi si sviluppano di per sé, per forza di cose, come quelle abitudini che l’uomo ha chiamato istinti nelle bestie; derivano da un’evoluzione utile e anche necessaria, perché conserva la società nella lotta per l’esistenza che deve sostenere.
I selvaggi finiscono per non mangiarsi a vicenda quando si accorgono che è più vantaggioso dedicarsi a una coltura qualsiasi, che permettersi una volta all’anno il gusto di assaggiare la carne di un vecchio nemico.
Nel seno di tribù libere, che non conoscono né leggi né capi, secondo il racconto di parecchi viaggiatori, i membri di uno stesso clan smettono di accoltellarsi a ogni questione, perché l’abitudine di vivere in comune ha finito per sviluppare in essi un certo senso di fratellanza e di solidarietà, e preferiscono rimettere a terzi la composizione delle loro querele. L’ospitalità dei popoli primitivi, il rispetto per la vita umana, il senso di reciprocità, la pietà per i deboli, la dedizione, sino al sacrificio di sé per il bene degli altri, che si comincia a praticare prima verso i bambini e gli amici, poi verso tutti i membri della comunità, tutte queste doti si formano nell’uomo prima della legge e all’infuori della religione, come negli altri animali socievoli. Tali sentimenti e tali costumi non sono inerenti alla natura dell’uomo (come dicono i preti e i metafisici) ma sono il risultato della vita in società.
Ma insieme a questi usi, necessari alla conservazione della società e della specie, si formano altri desideri, altre tendenze, e quindi altre abitudini e altri costumi, il desiderio di dominare sul prossimo, di imporgli la propria volontà, di impadronirsi delle ricchezze appartenenti alla tribù vicina; di assoggettare altri uomini per godere senza lavorare – questi desideri personali, egoisti, creano un’altra corrente di abitudini e di costumi.
Il prete da un lato, questo ciarlatano che sfrutta la superstizione e che, dopo essersi liberato egli stesso dalla paura del diavolo, la diffonde tra i suoi; il guerriero dall’altro, questo rodomonte che spinge all’invasione e al saccheggio dei vicini per tornare carico di bottino e con un seguito di schiavi; entrambi si danno la mano e riescono a imporre alle società primitive costumi barbari, tendono a perpetuare il dominio sulla massa e, valendosi dell’inerzia, della paura, dell’ignoranza che avvilisce la folla, e grazie alla ripetizione costante dei medesimi atti, arrivano a fissare quei costumi che saranno alla base della loro supremazia.
A tale scopo si avvalgono prima dello spirito di adattamento, così forte nell’uomo, e che nei fanciulli e nei popoli selvaggi raggiunge un grado tanto alto quanto negli animali. Poiché l’uomo, specie quando è superstizioso, ha sempre paura di cambiare lo stato attuale e venera generalmente ciò che è antico.
“I nostri padri hanno fatto così; sono vissuti alla meglio; ci hanno allevati; non furono infelici; fate lo stesso!”. Così dicono i vecchi ai giovani, quando minacciano di cambiare qualche cosa. L’ignoto li agghiaccia e preferiscono aggrapparsi al passato, anche quando rappresenta la miseria e la schiavitù.
Si può anzi aggiungere, che quanto più l’uomo è infelice, tanto più teme di cambiare qualche cosa per paura di accrescere la sua infelicità. Bisogna che un raggio di speranza e qualche ora di benessere penetrino dentro il suo tugurio, perché cominci a volere di meglio, a criticare la vecchia maniera di vivere e a desiderare un cambiamento. Finché questa speranza non l’ha invaso, finché non si è affrancato dalla tutela di coloro che lucrano sulle sue superstizioni e sulle sue paure, preferisce rimanere nella vecchia situazione. E se i giovani vogliono cambiarla soltanto di poco, i vecchi gettano un grido d’allarme contro gli innovatori. Un selvaggio si farebbe uccidere prima di violare il costume del suo paese, perché sin dall’infanzia gli hanno ripetuto che la minima infrazione agli usi stabiliti gli porterebbe disgrazia, e perderebbe l’intera tribù. E anche oggi quanti economisti, politicanti e pseudo-rivoluzionari agiscono sotto la medesima impressione, aggrappandosi a un passato che fugge! Quanti non fanno altro che cercare precedenti! Quanti caldi innovatori si dimostrano semplici copisti delle rivoluzioni passate!
Questo spirito misoneista che ripete la sua genesi dalla superstizione, dalla debolezza e dalla poltroneria, fece in ogni tempo la forza degli oppressori; e nelle società primitive fu abilmente sfruttato dai preti e dai capi militari, perché perpetuava i costumi favorevoli ai loro interessi che così riuscivano a imporre alle tribù.
Finché questo spirito conservatore, abilmente sfruttato, bastava ad assicurare ai capi la violazione della libertà altrui, finché le sole ineguaglianze fra gli uomini erano quelle naturali, non ancora accresciute e ingigantite dall’accentramento delle ricchezze e del potere – non c’era alcun bisogno della legge e dell’apparecchiatura formidabile dei tribunali e delle pene sempre crescenti.
Ma quando la società, si divise a poco a poco in due classi nemiche – l’una che cerca di imporre la propria supremazia e l’altra che cerca di sbarazzarsene – allora cominciò la lotta. E il vincitore cercò di immobilizzare il fatto compiuto, di renderlo indiscutibile, santo e venerabile, per mezzo di tutto quello che i vinti onorano del loro rispetto. E apparve la legge sanzionata dal prete e servita dall’arma del guerriero. Essa tende a fissare i costumi favorevoli alla minoranza dominatrice, e l’autorità militare si incarica di assicurarle l’obbedienza.
E al tempo stesso il guerriero in questa nuova funzione trova un mezzo per fortificare il proprio potere; poiché non rappresenta più la semplice forza brutale, ma la difesa della legge.
Ma, se la legge non fosse che un insieme di prescrizioni vantaggiose soltanto alla classe dominatrice, troverebbe gravi difficoltà a farsi accettare e ubbidire.
Ebbene, il legislatore confonde in un codice unico le due correnti di costumi di cui abbiamo parlato finora: le massime che contengono i princìpi di moralità e di solidarietà elaborati dalla vita in comune e gli ordini che devono conservare per sempre l’ineguaglianza.
I costumi assolutamente necessari all’esistenza stessa della società sono mescolati nel codice alle pratiche imposte dai dominatori, ma con finissima abilità. “Non uccidere!”, dice il codice e “paga la decima al prete”, si affretta ad aggiungere. “Non rubare!”, dice il codice, e subito dopo: “colui che non pagherà l’imposta sarà multato”.
Ecco la legge con il suo duplice carattere, che conserva ancora ai nostri tempi. La sua origine è il desiderio dei dominatori di perpetuare i costumi, gli interessi, i privilegi della loro casta; il suo carattere è l’abile confusione dei costumi utili alla società, che non bisognano di alcuna legge per essere rispettati, con i costumi nocivi alla massa e utili ai dominatori, che non possono essere mantenuti se non con la paura dei supplizi.
Abolite la proprietà privata, che sorge dalla frode e dalla violenza sotto l’auspicio dell’Autorità, e la Legge non avrà più titoli al cospetto degli uomini. Figlia della forza e della superstizione, instaurata nell’interesse del prete, del conquistatore e del ricco padrone; deve sparire del tutto nel giorno in cui il popolo spezzerà le sue catene.
Ce ne convinceremo ancora di più analizzando, nel paragrafo che segue, lo sviluppo ulteriore della legge sotto gli auspici della religione, dell’autorità e del regime parlamentare dei nostri giorni.
III
Abbiamo visto come la legge è sorta dai costumi e dagli usi stabiliti e come, sin dal suo principio, si forma mediante l’abile connubio dei costumi necessari alla conservazione della specie e della società con altri costumi, imposti da coloro che si avvalgono delle superstizioni popolari e del diritto della forza. Questo duplice carattere determina il suo sviluppo ulteriore presso i popoli più civili. Ma mentre il nucleo dei costumi sociali raccolti nel codice subisce una lenta e debole trasformazione nel corso dei secoli, l’altra parte si sviluppa potentemente, a vantaggio delle classi dominatrici e a danno delle oppresse. Solo ogni tanto i dominatori si lasciano strappare una legge qualunque che sancisce, almeno in apparenza, una certa garanzia per i diseredati. Ma allora questa legge non fa che abrogarne una anteriore, fatta a vantaggio del privilegio. “Le migliori leggi, dice Buckle, furono sempre quelle che abrogarono leggi precedenti”. Ma quanti sacrifici di opere e di sangue ogni volta che si deve distruggere un’istituzione che serve a tenere il popolo nella schiavitù! Per distruggere le ultime vestigia del servaggio e dei diritti feudali, per annientare la potenza della corte, la Francia dovette passare attraverso quattro anni di rivoluzione e venti di guerre. Per abolire la più piccola fra le leggi ingiuste che il passato ci lega in retaggio, ci vogliono anni e anni di lotta, e la maggior parte di esse non spariscono veramente che nei periodi rivoluzionari.
I socialisti hanno già fatto parecchie volte la storia dell’origine del capitale. Hanno raccontato come sia sorto dalle guerre e dal saccheggio, dalla schiavitù, dal servaggio e dallo sfruttamento moderno. Hanno dimostrato come, ben nutrito dal sangue dell’operaio, abbia a poco a poco conquistato il mondo. Devono rifare la stessa storia per l’origine e lo sviluppo della Legge. Lo spirito popolare, che precede come sempre gli uomini di studio, fa già la filosofia di questa storia e ne fissa i princìpi essenziali.
Fatta per assicurare il prodotto dell’usurpazione e dello sfruttamento, la legge ha seguito le fasi di sviluppo del capitale: fratello e sorella gemelli, hanno proceduto a mani strette, nutrendosi tutti e due dei dolori e delle miserie umane. E la loro storia è quasi la stessa in tutti i Paesi d’Europa: variano episodi ma il fondo è comune, in Francia, in Germania, in Inghilterra e nelle altre nazioni europee.
Ai suoi primordi la legge era il patto o il contratto nazionale. Al Campo di Marte le legioni e il popolo stringevano il patto; e il campo di Maggio dei comuni primitivi della Svizzera è ancora un ricordo di quell’epoca, malgrado tutte le alterazioni introdotte dalla mescolanza con la civiltà borghese e accentratrice. Certamente questo contratto non era sempre liberamente accettato, perché il forte e il ricco fin d’allora imponevano la loro volontà; eppure trovavano un ostacolo ai loro tentativi di prepotenza nella opposizione della massa popolare. Ma a misura che la Chiesa da un lato e il signore dall’altro riuscivano ad asservire il popolo, il diritto di legiferare passava dalle mani della nazione a quelle dei privilegiati. La Chiesa estendeva il suo potere; forte delle ricchezze che colmavano i suoi scrigni, si inseriva sempre più nella vita privata e, con il pretesto di salvare le anime si impadroniva del lavoro dei servi, prelevava le imposte su tutte le classi, estendeva la sua giurisdizione. Anzi, ingrandendo il numero delle pene, si arricchiva in proporzione dei delitti commessi, poiché il prodotto delle ammende si accumulava nel suo tesoro. Le leggi non riguardano più gli interessi nazionali: sembrano emanate più da un concilio di fanatici religiosi che da legislatori, osserva uno storico del diritto francese.
Contemporaneamente, a misura che il signore estende il suo potere sui lavoratori dei campi e gli artigiani delle città, diviene anche giudice e legislatore. Infatti i monumenti di diritto pubblico del decimo secolo sono trattati che regolano gli obblighi, i servizi e i tributi dei vassalli del signore. I legislatori di questa epoca sono un pugno di briganti che si moltiplicano e si organizzano per il brigantaggio, che esercitano ai danni del popolo che diventa sempre più pacifico man mano che si dedica all’agricoltura. Essi sfruttano a proprio vantaggio il sentimento di giustizia del popolo; si atteggiano a giustizieri, si fanno un reddito applicando la giustizia a loro profitto e formulano le leggi che serviranno a mantenere il dominio.
Più tardi queste leggi, raccolte e ordinate dai savi e dai pratici del diritto, serviranno da fondamento ai nostri codici moderni. E noi dovremmo, secondo alcuni, accettare senza discussione l’eredità del prete e del barone!
La prima rivoluzione, quella dei Comuni, non riuscì ad abolire che una parte di queste leggi; poiché le Carte dei Comuni affrancati sono in maggior parte un compromesso tra la legislazione signorile ed episcopale e i nuovi rapporti creati nel seno del Comune libero. E tuttavia, quale differenza tra queste leggi e le nostre di adesso! Il Comune non si permetteva di imprigionare o di ghigliottinare i cittadini per una ragione di Stato: esso si limitava a espellere colui che cospirava con i nemici del Comune e a radergli la casa al suolo. E per la più parte dei pretesi “crimini e delitti”, imponeva semplicemente delle multe; si trova anche che il Comune del secolo XII praticava nel suo sistema giudiziario questo principio così equo, ma dimenticato ai nostri giorni, che tutto il Comune risponde per i misfatti commessi da ciascuno dei suoi membri. Gli uomini di allora, consideravano il delitto come un accidente o una disgrazia – è l’idea del nostro contadino russo – e negando il principio della vendetta personale, predicato della Bibbia, comprendevano che la colpa di ogni misfatto ricade fatalmente sulla società intera. Ci volle tutta l’influenza della Chiesa bizantina che importava in Occidente la crudeltà raffinata dei despoti dell’Oriente, per imporre ai costumi dei Galli e dei Germani la pena di morte e i supplizi orribili che si infliggeranno più tardi ai pretesi delinquenti; ci volle tutta l’influenza del Codice civile romano – sorto dalla putredine della Roma imperiale – per imporre quelle idee sulla proprietà fondiaria illimitata che distrussero il costume comunista dei popoli primitivi.
È noto che i Comuni liberi non poterono mantenersi e diventarono preda della monarchia. E a misura che questa cresceva in prepotenza, il diritto di legislazione passava sempre più nelle mani della camorra di corte. L’appello alla nazione non si faceva che per sanzionare le imposte volute dal re. Dei parlamenti, convocati a due secoli di intervallo, secondo il beneplacito e il capriccio della corte, dei “Consigli straordinari”, delle “Assemblee di notabili” nelle quali i ministri ascoltavano appena le “lagnanze” dei sudditi, ecco che cosa erano i legislatori. E più tardi ancora, quando tutti i poteri saranno accentrati in una persona che dice “lo Stato sono io!” è nel segreto dei “Consigli del sovrano”, secondo la fantasia di un governo o di un re imbecille, che si fabbricano gli editti a cui bisogna obbedire sotto pena di morte. Tutte le garanzie giudiziarie sono abolite; la nazione è schiava del potere reale e di un branco di cortigiani; le pene più terribili, la ruota, il rogo, lo scorticatoio, le torture di ogni specie, prodotti della fantasia malata di monaci e di pazzi furiosi che cercano la loro voluttà nelle sofferenze delle vittime: ecco i progressi che caratterizzano quest’epoca.
L’onore di avere cominciato la demolizione di questo ammasso di leggi, che il feudalismo e la sovranità ci avevano trasmesso, spetta alla grande Rivoluzione. Ma essa, dopo avere demolito alcune parti del vecchio edificio, rimise il potere di fare le leggi nelle mani della borghesia, la quale, a sua volta, incominciò a emanare un nuovo cumulo di leggi destinate a perpetuare il suo dominio sulle masse. Nei parlamenti essa legifera senza fine e montagne di cartaccia si accumulano con sorprendente rapidità. Ma che cosa sono in sostanza tutte queste leggi?
La maggior parte non ha che uno scopo: quello di proteggere la proprietà individuale, vale a dire le ricchezze acquistate per mezzo dello sfruttamento dell’uomo, di aprire nuovi campi di operazione dal capitale, di sanzionare le nuove forme che prende lo sfruttamento mano a mano che il capitale accaparra nuove branche dell’attività umana: ferrovie, telegrafi, luce elettrica, industrie chimiche, letteratura, scienza, ecc. Il resto delle leggi, in fondo, ha sempre lo stesso scopo, cioè la difesa della macchina governativa, che serve ad assicurare al capitale lo sfruttamento e il monopolio delle ricchezze prodotte. Magistratura, polizia, esercito, istruzione pubblica, finanze, tutto serve lo stesso dio: il capitale; tutto ha lo stesso scopo: quello di proteggere e facilitare lo sfruttamento del lavoratore da parte del capitalista. Analizzate tutte le leggi fatte dopo la Rivoluzione, e non vi troverete altro. La protezione delle persone, che si pretende essere lo scopo vero della legge, non vi occupa che un posto impercettibile; poiché nelle società moderne gli attacchi contro le persone, motivate direttamente dall’odio e dalla brutalità, tendono a sparire. Oggi, se si uccide qualcuno è per derubarlo, raramente per vendetta personale.
E se questo genere di crimini e di delitti va sempre diminuendo, non è certo merito della legislazione: è allo sviluppo umanitario delle nostre società, alle nostre abitudini sempre più socievoli, non già alle prescrizioni legislative che dobbiamo quella diminuzione. Si abroghino domani tutte le leggi che riguardano la protezione delle persone, cessi domani ogni azione giudiziaria per crimini contro le persone, e il numero degli attentati fatti per vendetta personale o per brutalità non aumenterà di una sola unità.
Si obietterà, forse, che da cinquant’anni si sono fatte molte leggi liberali. Ma analizziamo queste leggi, e si vedrà che esse non sono che l’abrogazione di leggi che ci erano state consegnate dalla barbarie dei secoli precedenti. Tutte le leggi liberali, tutto il programma radicale si riassumono in queste parole: abolizione delle leggi diventate scomode per la stessa borghesia, ritorno alle libertà dei comuni del dodicesimo secolo estese a tutti i cittadini. L’abolizione della pena di morte, il giurì per tutti i “crimini” (la giuria, e più liberale di oggi, esisteva nel dodicesimo secolo), la magistratura eletta, il diritto di messa in stato di accusa dei funzionari, l’abolizione degli eserciti permanenti, la libertà di riunione, tutto ciò che si dice invenzione del liberalismo moderno, non è che un ritorno alle libertà che esistevano prima che la Chiesa e il re sottomettessero l’umanità.
La difesa dello sfruttamento – diretta mediante le leggi sulla proprietà, e indiretta mediante la conservazione dello Stato – ecco dunque l’essenza e la materia dei codici moderni, ecco lo scopo del costoso meccanismo legislativo. È tempo però di non accontentarsi più di frasi vuote e di guardare in fondo alle cose. La legge che al principio si disse essere una raccolta di costumi utili alla società, non è più che uno strumento per mantenere lo sfruttamento e il dominio dei ricchi oziosi sulle masse laboriose. La sua missione civilizzatrice è nulla; essa non ha che una missione: mantenere lo sfruttamento.
Ecco quello che ci insegna la storia dello sviluppo della legge. È per questo che dobbiamo rispettarla? – Certamente no. Essa non ha più diritto al nostro rispetto di quanto non l’abbia il capitale, che è il prodotto del brigantaggio. E il primo dovere dei rivoluzionari sarà di fare un falò di tutte le leggi esistenti, come dei titoli di proprietà.
IV
Se si studia la miriade di leggi che reggono l’umanità, si vede facilmente che esse possono essere divise in tre categorie: protezione della proprietà, protezione del governo, protezione delle persone. E analizzando queste tre categorie, si arriva per ciascuna a questa conclusione: Inutilità e danno della legge.
In quanto alla protezione della proprietà, i socialisti sanno che cosa pensarne. Le leggi sulla proprietà, non sono fatte per garantire all’individuo o alla società il godimento dei prodotti del loro lavoro. Sono fatte, al contrario, per derubare al produttore una parte di ciò che produce, e per assicurare ad alcuni quei prodotti che hanno rubato sia ai produttori, sia alla società tutta intera. Quando la legge stabilisce, per esempio, i diritti del signor tal dei tali sopra una casa, essa stabilisce il suo diritto non già sopra una capanna che ha fatto da se stesso, né sopra una casa che ha costruito con il concorso di alcuni amici; – se si trattasse di questo, nessuno gli avrebbe contrastato quel diritto. Invece la legge stabilisce i suoi diritti sopra una casa che non è il prodotto del suo lavoro, primo perché l’ha fatta fabbricare da altri, ai quali non ha pagato tutto il valore dell’opera loro, e poi perché questa casa rappresenta un valore sociale che non ha potato produrre da solo: la legge stabilisce i suoi diritti sopra una parte di ciò che appartiene a tutti in generale e a nessuno in particolare. La stessa casa, eretta in Siberia, non avrebbe il valore che essa ha in una grande città, e il suo valore presente proviene dal lavoro di cinquanta generazioni che hanno costruito la città, che l’hanno abbellita, provveduta di acqua e di gas, di passeggiate, di università, di teatri, di magazzini, di ferrovie e di strade rotabili che vanno in tutte le direzioni. Riconoscendo dunque i diritti di un tale sopra una casa a Parigi, Londra, o Rouen, la legge gli aggiudica, ingiustamente, una parte del prodotto del lavoro di tutto il genere umano. E appunto perché questa appropriazione è un’ingiustizia evidente (carattere comune, del resto, a tutte le forme di proprietà); che ci vuole un arsenale di leggi e un esercito di soldati, poliziotti e giudici per sostenerla contro il buon senso e il sentimento di giustizia inerente all’umanità.
Ebbene, la metà delle nostre leggi – i codici civili di tutti i Paesi – non hanno altro scopo che quello di mantenere questa appropriazione, questo monopolio, a profitto di alcuni contro l’intera umanità. I tre quarti degli affari giudicati dai tribunali non sono che litigi tra monopolizzatori: due ladri che si contendono il bottino. E una buona parte delle nostre leggi criminali ha pure lo stesso scopo, perché esse mirano a mantenere l’operaio sottoposto al padrone.
In quanto a garantire al produttore i prodotti del suo lavoro, non c’è legge che se ne occupi. Ciò è tanto semplice e naturale, ed è entrato tanto nei costumi e nelle abitudini dell’umanità, che la legge non l’ha nemmeno pensato. Il brigantaggio aperto, con le armi alla mano, non è compatibile con i nostri costumi. Il lavoratore non contrasta mai a un altro il prodotto delle sue fatiche; se vi è qualche dissidio, essi lo compongono per mezzo di terzi senza ricorrere alla legge; e non c’è che il proprietario che esiga da un altro una parte di ciò che egli ha prodotto – la parte del leone. In quanto all’umanità in generale, essa rispetta dappertutto il diritto di ciascuno su ciò che ha prodotto, senza che per ciò vi sia bisogno di leggi speciali.
Tutte queste leggi sulla proprietà, che ingrossano i codici e giovano tanto agli avvocati, non avendo altro scopo che quello di proteggere l’appropriazione ingiusta della ricchezza sociale a vantaggio di pochi, non hanno alcuna ragione di essere e i socialisti rivoluzionari sono ben decisi a farle sparire il giorno della Rivoluzione. Noi possiamo infatti, in piena giustizia, fare un gran falò di tutte le leggi che riguardano i cosiddetti “diritti di proprietà”, di tutti i titoli di proprietà, di tutti gli archivi – insomma di tutto ciò che si riferisce a questa istituzione, che presto sarà considerata una vergogna nella storia dell’umanità, come lo sono la schiavitù e il servaggio dei secoli passati.
Ciò che abbiamo detto delle leggi sulla proprietà, si applica completamente alle leggi che servono a mantenere il governo, cioè alle leggi costituzionali.
È un altro arsenale di leggi, di decreti, di ordinanze, di pareri, ecc., che servono a proteggere le diverse forme di governo. Sappiamo perfettamente – gli anarchici lo hanno spesso dimostrato – che la missione di tutti i governi, monarchici, costituzionali e repubblicani, è di proteggere e di mantenere con la forza i privilegi delle classi possidenti: aristocrazia, clero e borghesia. Un buon terzo delle nostre leggi – leggi “fondamentali”, leggi sulle imposte, sulle dogane, sull’organizzazione dei ministeri e delle cancellerie, sull’esercito, la polizia, la chiesa, ecc., e ce ne sono decine di migliaia in ogni Paese – non serve che a conservare, rabberciare e sviluppare la macchina governativa che, a sua volta, serve interamente a proteggere i privilegi delle classi possidenti. Analizzate tutte le leggi, osservatele nella loro azione giornaliera, e vi accorgerete che non ce n’è una sola da conservare, cominciando da quelle che abbandonano i comuni all’arbitrio del parroco, del grosso borghese paesano e del sottoprefetto e finendo a quella famosa costituzione (la 19a o la 20a dal 1789) che ci regala una Camera di cretini e porta borse, che preparano la dittatura di un avventuriero, se non il governo di un re travicello.
Insomma, rispetto a tali leggi non può esserci dubbio. Non solo gli anarchici, ma anche i borghesi più o meno rivoluzionari sono d’accordo su questo, che il meglio che si possa fare di tutte le leggi sull’organizzazione del governo è di accendere un buon falò.
Resta la terza categoria, che è la più importante, perché è intorno a essa che esistono maggiori pregiudizi: le leggi per proteggere le persone, per punire e prevenire “i crimini”. Infatti, se la legge gode ancora di una certa stima, è perché si ritiene assolutamente indispensabile alla sicurezza dell’individuo nella società. Sono queste leggi che si sono sviluppate dal nucleo dei costumi delle società umane, di cui si avvalsero i dominatori per sanzionare il loro dominio. L’autorità del capo-tribù, delle famiglie ricche, dei comuni, del re, si fonda sulla funzione di giudici che esercitavano; e anche oggi, trattandosi della necessità del governo, si parla specialmente del suo ufficio di giudice supremo. – “Senza governo gli uomini si scannerebbero tra di loro”, dice il logico di campagna. “Lo scopo finale di ogni governo è quello di dare dodici giurati galantuomini a tutti gli accusati”, diceva [Edmund] Burke.
Ebbene, contro tale massa di pregiudizi, è tempo di dire altamente che questa categoria di leggi è tanto inutile e nociva quanto le altre.
Anzitutto è noto che i due terzi e spesso anche i tre quarti di tutti i reati contro le persone ricevono l’impulso dal desiderio di usurpare le ricchezze altrui. Dunque, il giorno in cui la proprietà privata cesserà di esistere, questa immensa categoria sarà costretta a sparire.
“Ma, ci dicono, senza leggi punitive vi saranno sempre selvaggi che attenteranno alla vita dei cittadini, che meneranno un colpo di coltello a ogni litigio, che vendicheranno la minima offesa con un omicidio”. Ecco il ritornello che ci cantano quando mettiamo in dubbio il diritto di punire che esercita la società. Eppure possiamo opporre una cosa inconfutabile come questa: la severità delle pene non diminuisce il numero dei delitti. Impiccate, squartate, se vi pare, gli assassini, e il loro numero non diminuirà.
Gli statistici e i giureconsulti sanno che mai una diminuzione di severità nel codice penale produsse un aumento di attentati contro la vita dei cittadini. Mentre se il raccolto è abbondante, se il pane costa poco, se la stagione è bella, il numero degli assassinii diminuirà subito. La cosa certa è, la statistica lo dimostra, che la somma dei reati aumenta e diminuisce in proporzione del prezzo delle derrate e del tempo buono o cattivo.
Non diciamo che tutti gli assassini sono ispirati dalla fame, niente affatto; ma quando il raccolto è abbondante e il prezzo delle derrate è modico, gli uomini, più tranquilli, meno miserabili del consueto, non si lasciano trasportare dalle selvagge passioni, e non piantano un coltello nel petto dei loro simili per un motivo da niente.
Inoltre, è noto che il timore della pena non impedisce mai ad alcun delinquente di compiere i suoi misfatti. Chi vuole uccidere il suo vicino per vendetta o per miseria, non si ferma a discutere troppo sulle conseguenze; e non esiste assassino che non si lusinghi di sfuggire alla punizione. D’altronde, ciascuno rifletta da solo sui delitti e sulle pene, sui loro motivi e le loro conseguenze, pensi con la testa libera da pregiudizi, e arriverà necessariamente a questa conclusione:
“Senza parlare di una società in cui l’uomo riceva una migliore educazione, in cui lo sviluppo di tutte le sue facoltà e i mezzi di valersene gli procurino tanti piaceri che non cercherà di perderli con un assassinio – senza parlare della società futura, ma della presente, anche tra questi miserabili prodotti della miseria che ci circonda – il giorno in cui nessuna pena fosse inflitta ai delinquenti, il numero degli assassini non si accrescerebbe di uno solo; anzi è molto probabile che diminuirebbe, specie quello dei recidivi abbrutiti dalle prigioni”.
Ci parlano sempre dei benefici della legge e degli effetti salutari delle pene. Ma hanno mai cercato di paragonare questi benefici con la degenerazione che le leggi e le pene stesse diffondono tra gli uomini? Che si faccia la somma di tutte le malvagie passioni suscitate nell’animo degli spettatori dalla vista delle pene atroci che si infliggono nelle nostre strade!
Chi dunque ha svegliato e ingigantito gli istinti della crudeltà nell’uomo (istinti sconosciuti agli animali, poiché l’uomo è divenuto l’animale più feroce della terra), se non il re, il giudice e il prete armati della legge, che facevano tagliare a pezzi le carni vive, che versavano la pece bollente sulle ferite, disarticolavano le membra, schiacciavano le ossa, spaccavano l’uomo in due, per conservare la loro autorità? Ma si calcoli dunque tutto il torrente di corruzione versato nella società dallo spionaggio, favorito dai giudici e pagato sontuosamente dal governo sotto pretesto di scoprire i delitti. Si penetri nelle galere e si studi la sorte dell’uomo, privo di libertà, mescolato ad altri corrotti che si peggiorano a vicenda, si ricordi che le nostre prigioni, con tanti sforzi di progresso, più si riformano e più diventano detestabili; i moderni penitenziari-modello sono cento volte più corruttori delle torri medievali. Si pensi infine quale corruzione, quale depravazione dello spirito è mantenuta nell’umanità da queste idee di obbedienza – essenza della fede – di pene, di autorità che ha il diritto di giudicare e di punire all’infuori della coscienza; da queste funzioni di carnefice, di carceriere, di spia, insomma da tutto questo immenso apparato della Legge e dell’Autorità. Si rifletta su tutto questo e si riconoscerà che la Legge e le pene sono abomini da distruggere.
D’altronde i popoli meno civili, e perciò meno imbevuti di pregiudizi autoritari, hanno perfettamente compreso che il “criminale” è un disgraziato, e che non bisogna frustarlo, incatenarlo, e farlo crepare nel fondo di una prigione, ma sollevarlo con cure fraterne, con trattamento umano, con frequentazione di gente onesta ed educatrice. E noi speriamo che la prossima rivoluzione getterà questo grido:
“Bruciamo la ghigliottina, abbattiamo le prigioni, licenziamo il giudice, il poliziotto, la spia – questo fiore del fango sociale – trattiamo da fratello colui che per impulso di passione avrà danneggiato il suo simile; e soprattutto togliamo ai grandi delinquenti, a questo frutto mostruoso dell’ozio borghese, il modo di fare mostra dei loro vizi sotto forme seducenti; e siamo sicuri che non avremo più da lamentare che pochi delitti nella nostra società. Ciò che produce la delinquenza, oltre all’ozio, sono la Legge e l’Autorità; le leggi sul capitale, sul governo, sulle pene e sui reati; l’autorità che le emana e le attua!”.
Ne abbiamo abbastanza di leggi e di giudici. La libertà, l’uguaglianza e la pratica della solidarietà sono il solo riparo efficace che possiamo opporre agli istinti antisociali di alcuni di noi.
Il governo rivoluzionario
I
Tutti coloro che hanno un cervello e un temperamento alquanto rivoluzionario sono perfettamente d’accordo sulla necessità di abolire i governi attuali, affinché la libertà, l’uguaglianza e la fraternità non siano più vane parole e divengano realtà viventi, in quanto ogni forma di governo è sempre stata una forma d’oppressione a cui bisogna sostituire un nuovo modo di raggruppamento libero. Invero, non occorre essere innovatori per arrivare a questa conclusione; i difetti attuali del governo e l’impossibilità di riformarli sono troppo evidenti per non balzare agli occhi di qualunque osservatore ragionevole. E quanto a rovesciare i governi, è noto a tutti che in certe epoche ciò può farsi senza troppe difficoltà. Vi sono momenti in cui i governi crollano quasi da soli, come castelli di carta, sotto il soffio del popolo insorto. Lo si è ben visto nel 1848 e nel 1870, e lo si vedrà quanto prima.
Rovesciare un governo, è tutto per un rivoluzionario borghese. Per noi, non è che l’inizio della Rivoluzione Sociale. La macchina dello Stato disfatta, la gerarchia dei funzionari disorganizzata e incapace di muoversi in un senso o nell’altro, i soldati privi di ogni fiducia nei loro capi – sbaragliato, insomma, l’esercito dei difensori del capitale – è allora soltanto che comincia per noi la grande opera di demolizione delle istituzioni che servono a perpetuare la schiavitù economica e politica. Una volta conquistata la possibilità di agire liberamente, che faranno i rivoluzionari?
A questa domanda solo gli anarchici rispondono: – “Niente governo, l’anarchia!”. Altri dicono invece: – “Un governo rivoluzionario!”. Essi non si differenziano che sulla forma da dare a questo governo eletto con il suffragio universale, nello Stato o nella Comune. Altri affermano la dittatura rivoluzionaria.
“Un governo rivoluzionario!”. Ecco due parole che suonano stranamente all’orecchio di coloro che si rendono conto di ciò che deve significare la Rivoluzione Sociale e di ciò che significa un governo. Due parole che si contraddicono, si distruggono l’una con l’altra. Si sono visti, infatti, dei governi dispotici – per la sua essenza qualunque governo abbraccia la reazione contro la rivoluzione e tende necessariamente al dispotismo –, ma non si è mai visto un governo rivoluzionario, e a ragione.
La Rivoluzione – sinonimo di “disordine”, di rovesciamento in pochi giorni di istituzioni secolari, di demolizione violenta delle forme stabilite di proprietà, di distruzione delle caste, di trasformazione rapida delle idee ammesse sulla moralità, o meglio sull’ipocrisia che la sostituisce, di libertà individuale e di azione spontanea – è precisamente l’opposto, la negazione del governo, sinonimo di “ordine costituito”, di conservatorismo, mantenimento delle istituzioni vigenti, di soppressione di ogni iniziativa e azione individuale. E nondimeno, sentiamo continuamente parlare di questo merlo bianco, come se un “governo rivoluzionario” fosse la più semplice cosa del mondo, tanto comune e conosciuta da tutti come la sovranità, l’impero o la teocrazia.
Che i sedicenti rivoluzionari borghesi predichino questa idea – si comprende. Sappiamo cosa intendono per Rivoluzione. È semplicemente un rimpasto della repubblica borghese: l’occupazione da parte dei cosiddetti repubblicani degli impieghi lucrativi, riservati oggi ai bonapartisti o ai realisti. È al più il divorzio fra la Chiesa e lo Stato, sostituito dal concubinaggio dei due, il sequestro dei beni del clero a profitto dello Stato e soprattutto dei futuri amministratori di questi beni, magari il referendum, o qualche altro arnese del genere... Ma non possiamo spiegarci che rivoluzionari socialisti si facciano apostoli di questa idea, se non supponendo di due cose l’una. O coloro che l’accettano sono imbevuti di pregiudizi borghesi che hanno assorbito, senza accorgersene, dalla letteratura e soprattutto dalla storia, fatta a uso della borghesia dai borghesi e, penetrati ancora dello spirito di servilismo prodotto dai secoli di schiavitù, non possono neanche immaginarsi liberi; – oppure non vogliono questa Rivoluzione di cui hanno sempre il nome sulle labbra e si accontenterebbero di un semplice ammodernamento delle istituzioni attuali, a condizione di essere elevati al potere, pronti a vedere più tardi quel che sarà necessario fare per ammansire “la bestia”, cioè il popolo. Essi l’hanno con i governanti di oggi, perché ambiscono al loro posto. Con costoro non vogliamo ragionare; lo facciamo solo con quelli che si ingannano in buona fede.
Cominciamo dalla prima delle due forme preconizzate di “governo rivoluzionario”, il governo eletto.
Il potere regio, o altro genere di potere, è rovesciato, l’esercito dei difensori del capitale è in scompiglio; dovunque il fermento, la discussione della cosa pubblica, il desiderio di marciare in avanti. Le idee nuove sorgono, la necessità di cambiamenti seri è compresa, bisogna agire, bisogna cominciare senza pietà l’opera di demolizione, per spianare il terreno della nuova via. Ma che cosa ci si propone di fare? – Convocare il popolo per le elezioni, eleggere in seguito un governo, confidargli l’opera che tutti e ognuno dovrebbero fare di spontanea iniziativa!
È quello che fece Parigi, dopo il 18 marzo 1871 – e mi ricorderò sempre – diceva un amico – di quei bei momenti di liberazione. Ero disceso dalla mia camera ben alta del quartiere latino, per entrare in questo immenso club all’aria aperta, che riempiva i boulevard da una estremità all’altra di Parigi. Tutti discutevano sulla cosa pubblica; ogni preoccupazione personale era dimenticata; non si trattava più di comprare, né di vendere; tutti erano pronti a lanciarsi corpo e anima verso l’avvenire. Alcuni borghesi pure, trasportati dall’ardore universale, vedevano con gioia aprirsi il mondo nuovo: “Se bisogna fare la Rivoluzione Sociale, ebbene, facciamola! mettiamo tutto in comune; noi siamo pronti!”. Gli elementi della Rivoluzione erano là; non si trattava che di metterli in azione. Tornando alla sera nella mia stanza, dicevo a me stesso: “Com’è bella l’umanità! Non la si conosce e la si è sempre calunniata!”. Poi vennero le elezioni, i membri della Comune furono nominati, e la potenza di abnegazione, lo zelo per l’azione a poco a poco si spensero. Ognuno tornò alle faccende abituali, dicendo: “Ora abbiamo un governo onesto, lasciamolo fare”. Il resto è noto.
Invece di agire da se stesso, di marciare in avanti, e spingersi arditamente verso un nuovo ordine di cose, il popolo pieno di fiducia nei suoi eletti, lasciò loro la cura di prendere ogni iniziativa. Ecco la prima conseguenza, risultato fatale delle elezioni. Che faranno dunque questi governanti, in cui tutti avevano fede?
Non vi furono elezioni più libere di quelle del marzo 1871. – La grande massa degli elettori non provò mai un più vivo desiderio di mandare al potere gli uomini migliori, gli uomini dell’avvenire, rivoluzionari. Ed è quel che fece. Tutti i più noti rivoluzionari furono eletti con maggioranze formidabili; giacobini, blanquisti, internazionali, le tre frazioni rivoluzionarie si trovarono rappresentate nel Consiglio del Comune. L’elezione non poteva dare un governo migliore, ma tutti sanno il risultato. Rinchiusi nel Palazzo Municipale, con la missione di procedere secondo le forme stabilite dai governi precedenti, questi rivoluzionari ardenti, questi riformatori si videro colpiti di incapacità e di sterilità. Con tutta la loro buona volontà e il loro coraggio, non seppero neanche organizzare la difesa di Parigi. È vero che oggi se ne dà la colpa agli uomini, agli individui, ma non furono questi la causa dello scacco, bensì il sistema applicato.
Infatti, il suffragio universale, quando è libero, può dare al più un’assemblea rappresentante la media delle opinioni che circolano in quel momento nelle masse; e questa media, all’inizio della rivoluzione, non ha generalmente che un’idea vaga, molto vaga, dell’opera da compiere, senza rendersi conto del modo con cui cominciare. Ah! se la maggioranza della nazione, della Comune, potesse intendersi, prima del movimento, sopra ciò che ci sarebbe da fare non appena rovesciato il governo; se questo sogno di utopisti da studio potesse essere realizzato, non avremmo mai avuto rivoluzioni sanguinose: la volontà della maggioranza della nazione essendo espressa, il resto si sarebbe sottomesso senz’altro. Ma non è così che procedono le cose. La Rivoluzione scoppia ben prima che un’intesa generale abbia potuto stabilirsi, e coloro che hanno un’idea precisa di quel che ci sarebbe da fare all’indomani del movimento, non sono in quel momento che una piccola minoranza. La grande massa del popolo ha solo un’idea generale dello scopo che vorrebbe vedere realizzato, senza ben sapere come avviarsi verso questo scopo, senza avere troppa fiducia nella marcia da seguire. La soluzione pratica non si troverà e preciserà che quando il cambiamento sarà già cominciato, sarà il prodotto della Rivoluzione medesima, del popolo in azione – oppure sarà nulla, il cervello di alcuni individui essendo assolutamente incapace di trovare quelle soluzioni che non possono nascere se non dalla vita popolare.
È questa situazione che si rifletterebbe nel corpo eletto dal suffragio, quando non vi fossero tutti i vizi inerenti ai governi rappresentativi in genere. Pochi uomini che incarnano l’idea rivoluzionaria dell’epoca, si trovano annegati fra i rappresentanti delle scuole rivoluzionarie del passato, o dell’ordine di cose esistente. Questi uomini, che sarebbero tanto necessari in mezzo al popolo e precisamente in quelle giornate di rivoluzione per seminare largamente le loro idee, per fare agire le masse, per demolire le istituzioni del passato, si trovano inchiodati là, in una sala, a discutere infinitamente, per strappare concessioni ai moderati, per convertire nemici, mentre non vi è che un solo mezzo per imporre loro l’idea nuova: metterla in esecuzione. Il governo si cambia in parlamento, con tutti i difetti dei parlamenti borghesi. Invece di essere un governo “rivoluzionario”, diventa il più grande ostacolo della Rivoluzione, e per non immobilizzarsi, il popolo si vede così costretto a congedarlo, a destituire coloro che acclamava ieri ancora come i suoi eletti. Ma non è più tanto facile. Il nuovo governo, si è affrettato a organizzare tutta un’altra scala amministrativa per estendere il suo dominio e farsi obbedire, non intende lasciare il posto così facilmente. Geloso di mantenere il suo potere, vi si aggrappa con tutta l’energia di un’istituzione che non ha avuto ancora il tempo di cadere in decomposizione senile. Deciso a opporre la forza alla forza, per sloggiarlo non vi è che un mezzo, quello di prendere le armi, di rifare una Rivoluzione per scacciare coloro nei quali si era riposta ogni speranza.
Ed ecco la rivoluzione divisa! Dopo aver perduto tempo prezioso in tentennamenti, essa finisce col perdere le sue forze in divisioni intestine fra gli amici del giovane governo e quelli che hanno visto la necessità di sopprimerlo! E tutto questo per non avere compreso che un sistema nuovo domanda nuove forme; che non è aggrappandosi alle forme antiche che si opera una Rivoluzione! Tutto questo, per non avere compreso l’incompatibilità tra Rivoluzione e governo, per non avere intravisto che il secondo – sotto qualunque forma si presenti – è sempre la negazione della prima e che all’infuori dell’anarchia non vi è Rivoluzione. Lo stesso dicasi per quell’altra forma di “governo rivoluzionario” tanto vantata – la dittatura rivoluzionaria.
II
I pericoli ai quali si espone la rivoluzione, se si lascia dominare da un governo eletto, sono così evidenti che tutta una scuola di rivoluzionari rinuncia completamente a questa idea. Essi comprendono che è impossibile a un popolo insorto darsi, mediante elezioni, un governo che non rappresenti il passato e che non sia un ceppo attaccato ai piedi del popolo, soprattutto quando si tratta di compiere quella immensa rigenerazione economica, politica e morale che chiamiamo Rivoluzione Sociale. Essi rinunciano dunque all’idea di un governo “legale”, almeno nel periodo che è in corso una rivolta contro la legalità, e preconizzano la “dittatura rivoluzionaria”.
– Il partito – dicono, che avrà rovesciato il governo, si sostituirà con la forza al suo posto. Si impadronirà del potere e procederà con metodo rivoluzionario. Prenderà le misure necessarie per assicurare il trionfo dell’insurrezione; abbatterà le varie istituzioni; organizzerà la difesa del territorio. Per coloro che non vorranno riconoscere la sua autorità – la ghigliottina; per coloro, popolo o borghesia che rifiuteranno di obbedire agli ordini che darà per regolare la marcia della Rivoluzione – ancora la ghigliottina. Ecco come ragionano i Robespierre in erba, coloro che della grande epopea del secolo scorso non ricordano che i giorni della sua fine, e coloro che hanno appreso solo i discorsi dei procuratori della repubblica.
Per noi anarchici, la dittatura di un individuo o di un partito, in fondo, è la stessa cosa, definitivamente condannata. Sappiamo che una Rivoluzione Sociale non si dirige con lo spirito di un uomo o di un gruppo. Sappiamo che governo e Rivoluzione sono incompatibili; l’uno deve uccidere l’altra, qualunque sia il nome dato al governo: dittatura, sovranità o parlamento. Sappiamo che la forza e la verità del nostro partito stanno nella sua formula fondamentale: “Nulla si fa di buono e di durevole senza la libera iniziativa del popolo, e ogni potere tende a ucciderla”; per questo i migliori dei nostri, se le loro idee non dovessero più essere vagliate dal popolo che le deve mettere in esecuzione e diventassero padroni di questo arnese formidabile che è il governo – in modo da muovere tutto a modo loro – otto giorni dopo bisognerebbe pugnalarli. Sappiamo dove conduce qualunque dittatura, anche la meglio intenzionata – alla morte della Rivoluzione. E sappiamo, infine, che questa idea di dittatura, il prodotto malsano del feticismo governativo, ha sempre perpetrato la schiavitù, come il feticismo religioso.
Ma oggi, non è agli anarchici che ci rivolgiamo. Parliamo a quei rivoluzionari di governo che, grazie ai pregiudizi della loro educazione, si ingannano in buona fede e non domandano di meglio che discutere. Parleremo ponendoci dal loro punto di vista.
Innanzi tutto un’osservazione generale. – Coloro che predicano la dittatura non si accorgono generalmente che sostenendo questo pregiudizio preparano il terreno ai loro carnefici di domani. Gli ammiratori di Robespierre farebbero proprio bene a ricordarsi di una sua parola. Egli non negava il principio della dittatura. Ma... – “Guardatevene bene” – rispose bruscamente a Marat, quando questi gliene parlò. “Brissot sarebbe dittatore!”. Sì, Brissot, il furbo girondino, nemico accanito delle tendenze uguagliatrici del popolo, difensore idrofobo della proprietà (che in altri tempi aveva qualificato come furto), Brissot che avrebbe tranquillamente rinchiuso all’Abbazia Hébert, Marat e tutti i giacobini moderati!
Ma questa frase data del 1792. All’epoca da tre anni la Francia era in piena rivoluzione! Di fatto la sovranità non esisteva più; non restava che darle il colpo di grazia; il regime feudale era già abolito. – Tuttavia anche all’epoca, mentre la Rivoluzione si svolgeva liberamente, è ancora il controrivoluzionario Brissot che aveva più probabilità di assumere la dittatura! E cosa sarebbe avvenuto prima, nel 1789? Mirabeau sarebbe stato riconosciuto capo del potere! L’uomo che mercanteggiava con il re per vendergli la sua eloquenza, ecco chi sarebbe stato elevato al potere in quei giorni, se il popolo insorto non avesse imposto la sua sovranità, appoggiata con le picche, e se non avesse proceduto con i fatti compiuti della Jacquerie, rendendo illusorio ogni potere costituito a Parigi o nei dipartimenti. Ma il pregiudizio governativo acceca così bene coloro che parlano di dittatura, che preferiscono preparare la dittatura di un nuovo Brissot o di un altro Napoleone, piuttosto che rinunciare all’idea di dare un altro padrone agli uomini che spezzano le loro catene!
Le società segrete del tempo della Restaurazione e di Luigi Filippo hanno potentemente contribuito a mantenere il pregiudizio della dittatura. I borghesi repubblicani dell’epoca, sostenuti dai lavoratori, hanno fatto una lunga serie di cospirazioni per rovesciare la monarchia e proclamare la repubblica. Non rendendosi conto della trasformazione profonda che doveva operarsi in Francia, anche perché un regime repubblicano borghese potesse stabilirsi, essi credevano che mediante una vasta cospirazione avrebbero rovesciato un giorno la monarchia, si sarebbero impadroniti del potere e proclamato la Repubblica. Per quasi trent’anni, queste società segrete non hanno cessato di lavorare con una fede senza limiti, una perseveranza e un coraggio eroici. Se la Repubblica è naturalmente uscita dall’insurrezione del febbraio 1848, è grazie a queste società e alla propaganda col fatto che fecero, durata trent’anni. Senza i loro nobili sforzi fino a oggi sarebbe stata impossibile la Repubblica.
Il loro scopo era dunque di impadronirsi del potere e di assumere la dittatura repubblicana. Ma, beninteso, non vi sono mai riusciti. Come sempre, per l’inevitabile forza delle cose, non fu una cospirazione che rovesciò la sovranità. I cospiratori avevano preparata questa caduta, seminando largamente l’idea repubblicana; i loro martiri ne avevano fatto l’ideale del popolo. Ma, l’ultima spinta, quella che rovesciò definitivamente il re della borghesia, fu ben più vasta e più forte di quella che poteva venire da una società segreta; essa venne dalla massa popolare.
Il risultato è noto. Il partito che aveva preparato la caduta della monarchia non riuscì a salire i gradini del Palazzo municipale. Altri, troppo prudenti per correre i rischi della cospirazione, ma più conosciuti, più moderati, stavano aspettando il momento per impadronirsi del potere, per prendere il posto che i cospiratori credevano di conquistare al rombo delle cannonate. Pubblicisti, avvocati, parolai che cercavano di farsi un nome, mentre i veri repubblicani tempravano le armi o morivano al bagno, si impadronirono del potere. Gli uni, già celebri, furono applauditi dai gonzi; gli altri si spinsero da soli e furono accettati, perché il loro nome non rappresentava nulla, all’infuori di un programma di accomodamento con tutti.
Non si venga a dire ch’era difetto di spirito pratico nel seno del partito d’azione; che altri potranno fare meglio... – No, mille volte no! È la legge, come quella del moto degli astri, che il partito d’azione resta escluso dal potere, mentre gli intriganti e i parlatori se ne impadroniscono. – Essi sono più conosciuti dalla grande massa che dà l’ultimo colpo, e riuniscono più suffragi, poiché, con o senza scheda, per acclamazione o mediante le urne, in fondo è sempre una specie d’elezione tacita che in questi momenti si fa per acclamazione. Essi sono acclamati da tutti e, in special modo, dai nemici della Rivoluzione, che preferiscono spingere avanti delle nullità, e l’acclamazione riconosce così come capi coloro che, in fondo, sono nemici del movimento o a esso indifferenti.
L’uomo che più di qualunque altro fu l’incarnazione di questo sistema di cospirazione, l’uomo che per fede in questo sistema passò tutta la vita in prigione, lanciò, alla vigilia della sua morte, queste parole che sono tutto un programma: “Né Dio né Padrone”.
III
Immaginare che il governo possa essere rovesciato da una società segreta e sostituito da questa – è l’errore nel quale sono cadute tutte le organizzazioni rivoluzionarie, nate in seno alla borghesia repubblicana dal 1820 in poi. Ma abbondano altri fatti per mettere questo errore in evidenza. Quanta fede, quanta abnegazione e quanta perseveranza si sono viste spiegare dalle società segrete repubblicane della Giovane Italia – e tuttavia, quel lavoro immenso, tutti quei sacrifici compiuti dalla gioventù italiana, davanti ai quali impallidiscono anche quelli della gioventù russa, tutti i cadaveri ammucchiati nelle fortezze austriache, tutti gli impiccati e i fucilati, non servirono che a dare il potere ai furbi della borghesia e alla casa sabauda.
Lo stesso avviene in Russia. È difficile trovare nella storia un’organizzazione segreta che abbia ottenuto, con così pochi mezzi, i risultati immensi conseguiti dalla gioventù russa, che abbia dato prova di un’energia e di un’azione tanto potenti come il Comitato Esecutivo. Esso ha fatto crollare un colosso che sembrava invulnerabile, lo zarismo; e ha reso il governo autocratico ormai impossibile in Russia. E tuttavia, quanto sarebbe ingenuo supporre che il Comitato Esecutivo diventerà padrone del potere il giorno in cui la corona di Alessandro III verrà trascinata nel fango. Altri, i prudenti che lavorano per farsi un nome, mentre i rivoluzionari preparano le bombe e muoiono in Siberia, altri – gli intriganti, i parlatori, gli avvocati, i letterati che a intervalli versano una lacrima ben presto asciugata sulla tomba degli eroi e si spacciano per amici del popolo – ecco coloro che occuperanno il posto vacante del governo e grideranno: Indietro! agli “sconosciuti” che avranno preparata la Rivoluzione.
È inevitabile e fatale, e non può essere altrimenti. Poiché non sono le società segrete, neppure le organizzazioni rivoluzionarie, quelle che danno il colpo di grazia ai governi. La loro funzione, la loro missione storica è di preparare gli spiriti alla Rivoluzione. E quando gli spiriti sono preparati – grazie alle circostanze esterne favorevoli – l’ultima spinta viene non dal gruppo iniziatore, ma dalla massa rimasta estranea alle ramificazioni della società segreta. Il 1° agosto Parigi resta sorda agli appelli di Blanqui. Quattro giorni più tardi proclama la caduta del governo; ma non sono più i blanquisti gli iniziatori del movimento: è il popolo, sono milioni di cittadini che detronizzano il Decembrista e acclamano gli istrioni, i cui nomi da due anni riempiono le loro orecchie. Quando la Rivoluzione sta per scoppiare, quando tutto fa presagire i moti, il cui successo è già divenuto certo, allora mille uomini nuovi, sui quali l’organizzazione segreta non ha mai esercitato un’influenza diretta, vengono ad appoggiare il movimento, simili a uccelli di rapina calati sul campo per dividersi le spoglie delle vittime. Questi aiutano a dare l’ultimo colpo e non è fra le fila dei cospiratori sinceri e inconciliabili, ma fra gli equilibristi della politica che scelgono i nuovi capi i tormentati dall’idea che un capo è necessario.
I cospiratori che mantengono il pregiudizio della dittatura, lavorano dunque incoscientemente a fare salire al potere i propri nemici.
Ma, se quanto abbiamo detto è vero per le Rivoluzioni, o piuttosto per le sommosse politiche – è molto più vero ancora per la Rivoluzione che noi vogliamo – la Rivoluzione Sociale.
Lasciare che si stabilisca un governo qualunque, un potere forte e ubbidito, significa ostacolare sin dal principio la marcia della Rivoluzione. Il bene che potrebbe fare questo governo è nullo, il male immenso. Infatti, di che si tratta, che cosa intendiamo per Rivoluzione? – Non di un semplice cambiamento di governo, si tratta della presa di possesso, da parte del popolo, di tutta la ricchezza sociale, dell’abolizione di tutti i poteri che hanno sempre intralciato lo sviluppo dell’umanità con decreti governativi, è così che questa immensa Rivoluzione economica può essere compiuta. Abbiamo visto, nel secolo scorso, il dittatore rivoluzionario polacco [Tadeusz] Kosciuszko decretare l’abolizione della servitù personale; – la servitù dura ancora, ottant’anni dopo quel decreto. (Proclama del 7 maggio 1794, promulgato il 30 Maggio. – Se il decreto fosse stato messo in esecuzione, la servitù personale e la giustizia patrimoniale sarebbero state abolite di fatto). Abbiamo visto la Convenzione, l’onnipotente Convenzione, la terribile Convenzione, come dicono i suoi ammiratori – decretare la divisione per testa di tutte le terre comunali riprese ai signori. Come tanti altri, questo decreto restò lettera morta, perché, per metterlo in esecuzione, bisognava che i proletari delle campagne facessero una nuova Rivoluzione, e le Rivoluzioni non si fanno a colpi di decreti. Perché la presa di possesso della ricchezza sociale da parte del popolo divenga un fatto compiuto, occorre che il popolo si senta forte e sicuro, scuota la servitù alla quale è abituato, agisca di testa sua e proceda arditamente senza aspettare ordini da nessuno. Ora, la dittatura, anche quando fosse la meglio intenzionata del mondo, impedirà precisamente tutto questo, pur essendo incapace di fare progredire in altro modo la Rivoluzione.
Ma, se il governo – fosse anche un governo rivoluzionario ideale – non crea una forza nuova e non presenta alcun vantaggio per il lavoro di demolizione che dobbiamo compiere, possiamo ancor meno contare su di lui per la susseguente opera di riorganizzazione. Il cambiamento economico che risulterà dalla Rivoluzione Sociale sarà così immenso e profondo, dovrà mutare talmente tutte le relazioni odierne basate sulla proprietà e lo scambio – che è impossibile, a uno o a pochi individui, elaborare le forme sociali che devono reggere la società futura. Questa elaborazione di nuove forme sociali non può farsi che con il lavoro collettivo delle masse. Per soddisfare l’immensa varietà delle condizioni e dei bisogni che nasceranno il giorno in cui la proprietà individuale sarà abolita, occorre la flessibilità dello spirito collettivo del Paese. Qualunque autorità esterna non sarà che un inciampo, un impedimento a questo lavoro organico da compiersi e, quindi, una fonte di discordie e di odi.
Ma è tempo di abbandonare questa illusione, tante volte smentita e tante volte pagata a caro prezzo, di un governo rivoluzionario. È tempo di dire, una volta per tutte, e di ammettere questo assioma politico, che un governo non può essere rivoluzionario. Si parla della Convenzione; ma non dimentichiamo che le poche misure di carattere un po’ rivoluzionario prese dalla Convenzione, furono la sanzione di fatti compiuti dal popolo, che in quei giorni dominava tutti i governi. Come ha detto Victor Hugo, nel suo stile colorito, Danton spingeva Robespierre, Marat sorvegliava e spingeva Danton e Marat stesso era spinto da Cimourdain – personificazione dei club degli arrabbiati e dei ribelli. Come tutti i governi che la precedettero e la seguirono, la Convenzione non fu che una palla di piombo ai piedi del popolo.
I fatti che la storia insegna in proposito sono così chiari riguardo l’impossibilità di un governo rivoluzionario e i mali prodotti da coloro che usurpano un tale nome, che sembra quasi inesplicabile l’accanimento con cui una sedicente scuola socialista vuole mantenere l’idea di governo. Ma la spiegazione è semplice. Quantunque si dicano socialisti, gli adepti di questa scuola hanno una concezione diversa della nostra sulla Rivoluzione che dobbiamo compiere. Per essi – come per tutti i radicali borghesi – la Rivoluzione sociale è tanto lontana che è quasi inutile curarsene oggi. Ciò che sognano in fondo al cuore, pur non osando confessarlo, è tutt’altra cosa. È la fondazione di un governo simile a quello della Svizzera o degli Stati Uniti, che faccia qualche tentativo per affidare allo Stato ciò che ingegnosamente chiamano “servizi pubblici”. Qualche cosa a metà tra l’ideale di Bismarck e quello del sarto eletto alla presidenza degli Stati Uniti. Un compromesso, fatto anticipatamente, tra le aspirazioni socialiste delle masse e gli appetiti dei borghesi. Essi vorrebbero l’espropriazione completa, ma non si sentono il coraggio di tentarla, la rimandano al secolo prossimo e, prima della battaglia, patteggiano con il nemico. Per noi, che sentiamo avvicinarsi il momento di colpire mortalmente la borghesia, e prevediamo prossimo il giorno in cui il popolo si impadronirà di tutta la ricchezza sociale, riducendo all’impotenza la classe degli sfruttatori; non ci può essere esitazione. Ci getteremo corpo e anima nella Rivoluzione Sociale e siccome su questa strada un governo, qualunque sia il berretto con cui si camuffi, è sempre un ostacolo, combatteremo le arti degli ambiziosi e ce ne liberemo a misura che cercheranno di imporsi per governare i nostri destini.
Basta con i governi; largo al popolo, all’anarchia!
Tutti socialisti!
Da quando l’idea socialista ha cominciato a penetrare in seno alle masse operaie, si produce un fatto interessante. I peggiori nemici del socialismo, avendo compreso che il miglior mezzo per contenerlo è di passare per suoi aderenti, si affrettano a dichiararsi socialisti. Parlate con uno di quei grossi borghesi che sfruttano senza misericordia l’operaio, l’operaia e il fanciullo; parlategli delle scandalose disuguaglianze delle fortune, delle crisi e della miseria che generano; parlategli della necessità di modificare il regime di proprietà, per migliorare la situazione degli operai; e, se il borghese è intelligente, se cerca di “arrivare” in politica, e soprattutto, se siete il suo elettore, si affretterà a dirvi:
“Perbacco! ma anch’io sono socialista!” – Questione sociale, cassa di risparmio, legislazione sul lavoro – sono perfettamente d’accordo con tutto ciò! Ma sapete? Non mutiamo tutto in un giorno, camminiamo adagio!”. E vi lascia per andare a spillare “adagio” qualche soldo di più “ai suoi operai”, nella previsione delle perdite che un giorno potrà arrecargli l’agitazione socialista.
In altri tempi vi avrebbe voltato le spalle. Oggi cerca di farvi credere che condivide le vostre idee, per sgozzarvi più facilmente appena ne avrà l’occasione.
Questo si è verificato soprattutto nelle ultime elezioni in Francia (scritto nel settembre 1881). Bastava che in una riunione elettorale si sollevasse la questione del socialismo, perché chi cercava suffragi si dichiarasse, lui pure, partigiano del socialismo – del vero socialismo – beninteso del socialismo dei prestigiatori.
I due terzi dei delegati hanno fatto comprendere agli elettori che intendevano occuparsi alla Camera della questione sociale. Clemenceau si è dichiarato socialista, Gambetta non sarebbe stato lontano dal farlo, se non avesse intravisto la suprema felicità di stringere un giorno la mano a qualche maestà; Bismarck, lui, non esita affatto; egli si dichiara più socialista di tutti gli altri, il socialista per eccellenza; e in Inghilterra sovente accade di sentir dire che, se Beaconsfield fosse vissuto, avrebbe certamente “risolto la questione sociale “. Perfino gli ecclesiastici si spacciano per socialisti. Il predicatore della Corte di Berlino predice il socialismo, e in Francia i corvi pubblicano una rivista nella quale dichiarano di possedere il socialismo autentico. Sembra pure (secondo i giornali inglesi) che lo zar, da quando ha fatto deporre sulla sua tavola (da scrivere, ben si intende) un pezzo di pane nero fatto con erba e un po’ di farina, per ricordargli continuamente qual è il cibo dei contadini russi, si è immaginato di possedere il vero socialismo e, si dice, non aspetti che la benedizione di Bismarck e dei patriarchi d’Antiochia e di Costantinopoli per cominciare l’applicazione delle sue dottrine socialiste.
Insomma, tutti socialisti! Incettatori che speculano sul prezzo del pane per comperare gioielli alle mogli; padroni che fanno morire di tisi le operaie e di inedia i fanciulli; potenti che imprigionano a Berlino e impiccano a Pietroburgo; gendarmi che perquisiscono – tutti costoro, se frugano le nostre carte, se imprigionano e impiccano i socialisti, se massacrano le operaie e i fanciulli, se imbrogliano in politica e in finanza – non lo fanno che per celebrare il trionfo del vero socialismo!
Ebbene, vi sono ancora socialisti tanto ingenui da intonare canti di trionfo a questo spettacolo. – “Il signor tale si è dichiarato socialista; il signor Gambetta ha riconosciuto l’esistenza della questione sociale! Ancora una prova che l’idea guadagna terreno”, si affrettano ad annunciare nei loro giornali. – Come se avessimo bisogno della sanzione di chicchessia per sapere che l’idea socialista guadagna terreno nel popolo.
Quanto a noi questo spettacolo ci affligge invece di rallegrarci. Da una parte, ci prova che la borghesia cospira per snaturare il socialismo, proprio nello stesso modo che in altri tempi snaturava l’idea repubblicana; e, dall’altra, ci prova, che coloro i quali furono considerati finora come socialisti, oggi lasciano il socialismo, rinunciando alla sua idea madre, e passano nel campo della borghesia, pur conservando, per mascherare il voltafaccia, l’etichetta di socialisti.
Quale fu, infatti, l’idea distintiva, l’idea-madre del socialismo?
– L’idea della necessità di abolire il salariato, di abolire la proprietà individuale del suolo, delle case, della materie prime, degli strumenti di lavoro, in una parola del capitale sociale. Chiunque non riconosceva questa idea fondamentale, chiunque non la praticava nella sua vita privata rinunciando a sfruttare gli altri – non era riconosciuto socialista.
“Ammettete la necessità di abolire la proprietà individuale? Ammettete la necessità di espropriare, a beneficio di tutti, gli attuali detentori del capitale sociale? – Sentite il bisogno di vivere conformemente a questi princìpi?”. Ecco quanto, in altri tempi, si domandava al nuovo venuto, prima di stendergli la mano come a un socialista.
Evidentemente, ponendo tali questioni, non si chiedeva, se riconoscevate la necessità di abolire la proprietà individuale fra duecento o fra duemila anni! Non si fanno domande inutili, su quanto conviene tentare fra duecento anni! Allorché si parlava di abolire la proprietà individuale, se ne riconosceva da subito l’impellente necessità e si capiva benissimo che bisognava farne il tentativo il giorno stesso della prossima Rivoluzione. – “La prossima Rivoluzione – dicevano i socialisti dieci anni fa (e coloro che sono restati socialisti lo dicono ancora – non deve essere più un semplice cambiamento di governo, seguito da qualche miglioramento della macchina governativa: – essa deve essere la Rivoluzione Sociale”. Questa convinzione della necessità di prepararsi per l’espropriazione al momento della prossima Rivoluzione, costituiva l’idea-madre del socialista; era questa che lo distingueva da tutti coloro che ammettono la necessità di qualche miglioramento nella sorte dell’operaio e talvolta finiscono anzi con il riconoscere che il comunismo è l’ideale della società futura, ma che non ammettono di certo che si cerchi di realizzarlo dall’oggi al domani.
Col professare questa idea, il socialista era sicuro di non essere confuso con i suoi nemici, era sicuro che il nome di socialista non fosse truffato da coloro che vogliono semplicemente la conservazione dello sfruttamento attuale.
Oggi non è più così. In seno della borghesia si è formato un nucleo di avventurieri i quali, comprendendo che senza indossare l’etichetta socialista non sarebbero arrivati mai a salire i gradini del potere, non tardarono a trovare il modo di farsi accettare dal partito senza adottarne i princìpi. Con loro, per lavorare nello stesso senso, vi sono poi tutti quelli che sanno che il mezzo più facile per vincere il socialismo è di fare deviare la sua azione.
Disgraziatamente, vi sono stati socialisti, socialisti d’altri tempi, desiderosi di unire attorno a loro tutta la gente possibile, pronta ad accettare l’etichetta socialista, che si sono affrettati a spalancare le porte e a facilitare l’entrata ai falsi convertiti. Essi stessi hanno rinunciato all’idea-madre del socialismo e, sotto i loro auspici, si costituisce oggi una nuova specie di sedicenti socialisti, che dell’antico partito hanno conservato solo il nome.
Simili a quel colonnello della gendarmeria russa, il quale diceva a uno dei nostri amici, che lui pure trovava ammirevole l’idea comunista, ma che non potendo essere realizzata prima di duecento o forse cinquecento anni, bisognava, aspettando, incarcerare il compagno nostro per punirlo della propaganda comunista fatta; simili, ripeto, a questo colonnello di gendarmeria, essi dichiarano doversi rimandare l’abolizione della proprietà individuale e l’espropriazione a un avvenire lontano, perché tutto questo oggi è un romanzo, un’utopia, e per ora non bisogna occuparsi che di riforme realizzabili. Aggiungono pure che coloro i quali si ostinano nell’idea di espropriazione sono i loro peggiori nemici.
“Prepariamo, dicono, il terreno, non per espropriare il suolo, ma per impadronirci della macchina governativa, che ci permetterà di migliorare più tardi, a poco a poco, la sorte degli operai. Prepariamo per la prossima Rivoluzione, non la conquista delle officine, ma la conquista dei municipi”.
Come se la borghesia, restando detentrice del capitale, potesse lasciar fare esperienze di socialismo, anche quando riuscissero a impadronirsi del potere! Come se la conquista dei municipi fosse possibile senza la conquista delle officine!
Le conseguenze di questo voltafaccia si fanno già sentire.
Quando avete a che fare con uno di questi socialisti, non sapete più se parlate con un signore simile al colonnello della gendarmeria russa, oppure con un socialista autentico. Per dirsi tale pare basti ammettere che un giorno, fra mille anni, la proprietà potrà forse diventare collettiva, e che intanto bisogna votare per qualcuno che domanderà alla Camera la riduzione delle ore di lavoro. – La differenza fra il socialismo del suddetto colonnello di gendarmeria e quello del neo-socialista, diventa impercettibile. Tutti socialisti! L’operaio che non ha il tempo di leggere una trentina di giornali alla volta, non saprà più dove sono i suoi socialisti, e dove i suoi nemici, i saltimbanchi dell’idea socialista. – E nel giorno della Rivoluzione, dovrà subire dure e sanguinose prove, prima di potere discernere gli amici dai nemici.
Lo spirito di ribellione
I
Il modo di concepire la Rivoluzione francese, quale è adottato in questi articoli, differisce della versione ufficiale. Devo dire dunque alcune parole al lettore per giustificarlo. Secondo gli storici ammiratori della borghesia, il grandioso dramma della Rivoluzione si è svolto principalmente nelle grandi città e, soprattutto, nell’arena parlamentare. Il popolo delle campagne insorge pure durante i primi mesi, dopo che Parigi gliene ha dato il segnale con la presa della Bastiglia; brucia qualche castello, ed ecco tutto. Se più tardi accadono ancora alcune sollevazioni, di cui si cerca di attenuare l’importanza, non si tratta più certamente che di briganti al soldo della controrivoluzione, i quali fomentano il disordine. Potevano forse volere il disordine gli onesti repubblicani, i patrioti, dopo che i grandi princìpi del 1789 erano stati proclamati e la Rivoluzione era stata così bene avviata per mezzo della Costituente, della Legislativa e della Convenzione?
Secondo noi, invece, le insurrezioni dei contadini nelle campagne e dei pezzenti nelle città cominciano ad accentuarsi sin dal 1788; diventano più numerose nelle campagne e acquistano un carattere preciso – per l’abolizione dei diritti feudali! – dai primi mesi del 1789, continuando sino al 1793. Se la borghesia si mostra audace in maggio-luglio 1791, se il 4 agosto l’aristocrazia rappresenta la commedia del “sacrificio dei suoi diritti sull’altare della patria” – è perché fin da febbraio la Francia delle campagne è già in rivolta; non paga più i tributi, tumultua contro i signori; nello stesso tempo coloro che vengono chiamati “la canaglia delle grandi città” sono anch’essi in fermento. L’insurrezione parigina durata dall’11 al 14 luglio 1789, quella di Strasburgo e di altre grandi città, non sono per niente quei movimenti ben regolati che si vuole credere, non sono semplici proteste contro la caduta di [Jacques] Necker; ma vere sollevazioni di cui la borghesia sa impadronirsi per incanalarle, dirigerle, e con esse abbattere la monarchia.
Ciò che nel 1789 accade nelle campagne e nelle città continua durante i quattro anni della Rivoluzione. Jacquerie (insurrezioni dei contadini) più volte ripetute nei villaggi, continue sollevazioni nelle città.
Basterebbe, per convincersene, consultare, per esempio, la relazione presentata da [Henri] Grégoire nel gennaio o febbraio 1790 in nome del Comitato feudale. Vi si nota già quanto, a quell’epoca, le Jacquerie fossero estese. E, per comprendere in quale modo dovessero inevitabilmente continuare allo scopo di abolire il riscatto dei canoni feudali e ottenere la restituzione ai Comuni delle terre usurpate dai signori, basterebbe citare il decreto del 18 giugno 1790 – decreto che ordinava ancora il mantenimento di alcune “decime sia ecclesiastiche che feudali”, nonché il pagamento, sino al riscatto, dei tributi agricoli, campestri e terrieri e altri canoni pagabili “in natura”, e nello stesso tempo proibiva a chiunque di cagionare tumulti in occasione della riscossione delle decime, ecc., sia con scritti, sia con discorsi, sia con minacce, sotto pena di essere punito come perturbatore della pubblica quiete. Questo decreto, promulgato dieci mesi dopo la famosa notte del 4 agosto, quasi un anno dopo la presa della Bastiglia, dimostra abbastanza ciò che il contadino avrebbe perso se le insurrezioni popolari non fossero continuate.
Per questo [Hippolyte] Taine, per quante ingiurie scagli contro il popolo, probabilmente per pagare un tributo allo stile accademico, si avvicina molto alla verità quando parla di cinque o sei Jacquerie che si succedettero, durante la Rivoluzione. In fondo l’insurrezione dei contadini è durata più di quattro anni – dal 1788 sino al 1793 – fintanto che la Convenzione, riconoscendo finalmente i fatti compiuti e abrogando i precedenti decreti che concernevano i diritti feudali, e le lettere comunali, non ordinò la restituzione ai Comuni delle terre usurpate dai signorotti, e questo a vantaggio di tutti i contadini, proprietari e proletari, e non abolì definitivamente, non solo i diritti feudali ma anche il riscatto di questi diritti, imposto della Costituente. Come tutte le Jacquerie, anche questa non è né universale né continua; ma si estingue e riprende vigore; muore in una località per rinascere in un’altra; muta di posto come durante la guerra dei contadini del sedicesimo secolo.
Senza questa sollevazione, coadiuvata dalle insurrezioni cittadine, la Rivoluzione sarebbe incomprensibile: sarebbe anche stata impossibile. Il grande storico del diciottesimo secolo, [Friedrich] Schlosser, aveva molto bene intuito questa difficoltà. “Come mai Robespierre ha potuto dominare così la Francia?”. Domandò un giorno all’abate Grégoire; e Grégoire rispose con queste parole che riassumono bene la situazione: “Robespierre non era solo – ogni villaggio aveva il suo Robespierre!”. E avrebbe detto ancora meglio, se avesse soggiunto: “Il suo Marat e il suo club degli arrabbiati”.
Così soltanto fu reso possibile il rovesciamento del potere assoluto. Mentre i contadini insorgevano, tentando di raggiungere il loro scopo, mentre i sanculotte (i pezzenti, la cosiddetta canaglia) delle città, cercando a tastoni un nuovo avvenire, rovesciavano poteri stabiliti, impedendo pure la costituzione di un potere forte – la borghesia potette innestare sulla rivoluzione popolare la sua rivoluzione, la quale le permise di abbattere la monarchia e di impadronirsi per suo conto del potere governativo. Coloro che si scandalizzano all’idea che i loro antenati borghesi abbiano fatto la rivoluzione appoggiandosi su quei miserabili che oggi insultano, farebbero meglio a consultare le fonti della storia, invece di limitarsi alle riproduzioni, più o meno ben condite, di episodi della Histoire Parlementaire de la Révolution française [Paris 1834-1838] di [Philippe] Buchez e [Prosper] Roux e del “Moniteur”. Apprenderebbero allora come i loro antenati, che nella storia ufficiale appaiono così corretti, non indietreggiassero di fronte all’invio di manifesti e opuscoli incendiari nelle campagne “sotto il sigillo dell’Assemblea nazionale”, e come si recassero in cerca di alleati per le loro dimostrazioni sin nelle bettole più equivoche dei sobborghi. Il signor Taine, anch’egli si mostra veramente ingrato insultando questi “giacobini” (per lui tutti i rivoluzionari sono giacobini), i quali facevano le elezioni a colpi di randello: a essi appunto egli deve di non esser più suddito di S. M. il Re.
Quanto alle insurrezioni che precedettero lo rivoluzione e che si succedettero durante il primo anno, il poco che ho potuto dire in questo spazio ristretto è il risultato di un lavoro più ampio, al quale ho accudito dal 1877 al 1878 al British Museum di Londra e alla Biblioteca Nazionale di Parigi, lavoro che non ho terminato, nel quale mi proponevo di esporre le origini della Rivoluzione e degli altri movimenti d’Europa. Coloro che volessero dedicarsi a tale studio – che è della più grande importanza – farebbero bene a consultare, oltre alle opere conosciute di Baudot, Doniol, Leymarie, Bonnemère, Hippeau, Babeau, ecc., le quali trattano della situazione in generale prima della Rivoluzione, le memorie e le storie locali, come quella di Combes sulla città di Castres, di Sommier per il Giura, di Vie e Vaisselle, continuata da Du Mège, per la Linguadoca; di Du Chatelier per la Bretagna; di Clerc per la Franca Contea; di Strobel, continuata da Engelhardt, per l’Alsazia; e soprattutto le opere di [Charles] Heitz, di Leymarie per il Limosine; di Montdésir per il Limosine e per il Quercy; di Lafont per il Mezzogiorno, ecc. Comunque non pensiamo di potere ricostituire con i soli documenti sopra citati una storia completa delle sommosse che precedettero la Rivoluzione. Per far ciò, non vi è che un mezzo, quello di rivolgersi agli archivi dove, malgrado la distruzione delle carte feudali, ordinata dalla Convenzione, certamente si potranno trovare fatti importantissimi. Fra gli altri citerò il fascicolo di carte specialmente consacrate a questo scopo, il quale si trova negli Archivi nazionali, e di cui dobbiamo la conoscenza a un professore russo, il signor Karèev, autore di un’opera sui contadini francesi prima della Rivoluzione. Furono probabilmente queste carte e altri documenti che permisero a Taine di dire con molta ragione che almeno trecento sommosse si verificarono in Francia prima della presa della Bastiglia, e di fare menzione, disgraziatamente in una sola riga, delle società segrete, le quali esistevano fra i contadini prima della Rivoluzione e al cominciare di essa.
Quanto ai mezzi di agitazione usati dalla borghesia a Parigi, al principio della Rivoluzione, e oggi pudicamente rinnegati, mi sono soprattutto lasciato guidare dall’opera eccellente di [Theodore] Felix Rocquain, L’esprit révolutionnaire avant la Révolution, [Paris 1878], opera che non so raccomandare abbastanza a coloro che non cercano soltanto conclusioni anticipatamente dedotte.
Nella vita delle società vi sono epoche in cui la Rivoluzione diviene una imperiosa necessità, in cui si impone in modo assoluto. Idee nuove germogliano dappertutto, cercano di farsi luce, di trovare un’applicazione nella vita, ma si urtano continuamente con la forza di inerzia di coloro che hanno interesse a mantenere l’antico regime; soffocano nell’atmosfera asfissiante dei vecchi pregiudizi e delle tradizioni. Le idee apprese sulla costituzione degli Stati, sulle leggi dell’equilibrio sociale, sulle relazioni politiche ed economiche dei cittadini fra di loro, non resistono più alla critica severa che li sradica ogni giorno, in ogni occasione, nei saloni come nella bettola, nelle opere del filosofo come nella conversazione quotidiana. Le istituzioni politiche, economiche e sociali cadono in rovina; edificio divenuto inabitabile, imbarazza, impedisce lo sviluppo dei germi che si producono nei suoi muri screpolati e nascono d’intorno.
Un bisogno di vita nuova si fa sentire. Il codice di moralità stabilito, quello che governa la maggior parte degli uomini nella loro vita quotidiana, non sembra più sufficiente. Ognuno si accorge che tale cosa, considerata nel passato come equa, non è che una clamorosa ingiustizia, la moralità di ieri è riconosciuta oggi come immoralità rivoltante. Il conflitto fra le idee nuove e le vecchie tradizioni scoppia in tutte le classi della società, in tutti gli ambienti, persino nel seno della famiglia. Il figlio entra in lotta con il padre: trova ributtante ciò che suo padre trovava naturale durante tutta la sua vita; la figlia si ribella contro i princìpi che sua madre le trasmetteva come il frutto d’una lunga esperienza. La coscienza popolare insorge tutti i giorni contro gli scandali che si producono in seno alla classe dei privilegiati e degli oziosi, contro i delitti che si commettono in nome del diritto del più forte, o per mantenere i privilegi. Coloro che vogliono il trionfo della giustizia, coloro che vogliono mettere in pratica le idee nuove, sono costretti a riconoscere che la realizzazione delle loro idee generose, umanitarie, rigeneratrici, non pare aver luogo nella società, tale e quale com’è costituita: comprendono la necessità d’una tormenta rivoluzionaria che spazzi tutto questo putridume, vivifichi con il suo soffio i cuori assopiti e apporti all’umanità il sacrificio, l’abnegazione, l’eroismo, senza i quali una società si avvilisce, si degrada, si decompone.
Nelle epoche di corsa sfrenata verso l’arricchimento, di speculazioni febbrili e di crisi, di rovine immediate di grandi industrie e dell’estendersi effimero di altri rami di produzione, di fortune scandalose accumulate in qualche anno e dissipate non meno rapidamente, si scorge che le istituzioni economiche, che presiedono alla produzione e allo scambio, sono lungi dal dare alla società il benessere che sono chiamate a garantirle, si scorge che ci conducono precisamente a un risultato contrario. Invece dell’ordine generano il caos, invece del benessere la miseria, l’incertezza del domani; invece dell’armonia degli interessi, la guerra, una guerra perpetua dello sfruttatore contro il produttore e di sfruttatori e produttori tra loro. Si vede la società scindersi sempre più in due campi ostili e suddividersi nel medesimo tempo in migliaia di piccoli gruppi che si combattono l’un l’altro. Stanca di queste guerre, stanca delle miserie che esse generano, la società si mette alla ricerca di una nuova organizzazione, domanda ad alte grida un riordinamento completo del regime della proprietà, della produzione, dello scambio e di tutte le relazioni economiche che ne derivano.
La macchina governativa incaricata di mantenere l’ordine esistente funziona ancora. Ma, a ogni giro dei suoi ingranaggi usati, si incaglia e si arresta. Il suo funzionamento diviene sempre più difficile e il malcontento causato dai suoi difetti, aumenta senza sosta. Ogni giorno fa sorgere nuove esigenze. “Riformate questo, riformate quello!” si grida da tutte le parti. – “Guerra, finanze, imposte, tribunali, polizia, tutto è da rinnovare, riorganizzare, ristabilire su nuove basi”, dicono i riformatori. E intanto tutti comprendono che è impossibile rifare, rinnovare la benché minima cosa, poiché non si può rifare una parte senza rifare il tutto, ma in che modo, dato che la nostra società è divisa in due campi apertamente ostili? Soddisfare i malcontenti, sarebbe crearne dei nuovi.
Incapaci di lanciarsi nella via delle riforme, poiché sarebbe impegnarsi nella Rivoluzione; nello stesso tempo troppo impotenti per darsi con franchezza alla reazione, i governi ricorrono alle mezze misure, che non possono soddisfare nessuno e non fanno che suscitare nuovi malcontenti. Le mediocrità che si incaricano in queste epoche transitorie di condurre la barca governativa, non pensano che a una sola cosa: arricchirsi in previsione dello sfacelo prossimo. Assaliti da tutte le parti, si difendono malamente, commettono bestialità su bestialità, e riescono ben presto a spezzare l’ultima ancora di salvezza; annegano il prestigio governativo nel ridicolo della loro incapacità.
In queste epoche, la Rivoluzione si impone. Essa diventa una necessità sociale; la situazione è una situazione rivoluzionaria.
Quando studiamo nei nostri migliori storici la genesi e lo sviluppo delle grandi scosse rivoluzionarie, troviamo ordinariamente sotto questo titolo: “Le cause della rivoluzione,” un quadro sorprendente della situazione alla vigilia degli avvenimenti. La miseria del popolo, l’incertezza generale, le misure vessatorie del governo, gli scandali odiosi che provocano i grandi vizi della società, le idee nuove che cercano di venire alla luce e si scontrano con l’incapacità dei sostenitori dell’antico regime – nulla manca. Contemplando questo quadro, si finisce per convincersi che la Rivoluzione era proprio inevitabile, che all’infuori dei fatti insurrezionali non c’era altra via d’uscita.
Prendiamo, per esempio, la situazione prima del 1789, come ce l’insegnano gli storici. Vedete il contadino lagnarsi delle gabelle, delle decime e dei canoni feudali, e giurare nel suo cuore un odio implacabile al signore, al monaco, all’incettatore, all’intendente. Vedete i borghesi lagnarsi d’aver perduto le loro libertà municipali e caricare il re di tutto il peso delle loro maledizioni. Sentite il popolo biasimare la regina, ribellarsi al racconto di ciò che fanno i ministri e ripetere a ogni istante che le imposte sono intollerabili e le tasse esorbitanti, che i raccolti sono cattivi e l’inverno troppo rigoroso, che i viveri sono troppo cari e gli incettatori troppo voraci, che gli avvocati di villaggio divorano le messi del contadino, che la guardia campestre fa il tirannello, che anche la posta è male organizzata e gli impiegati pigri... Insomma, niente va bene, tutti si lagnano. “Non può più durare, finirà male!”, si dice da tutte le parti.
Ma da questi pacifici ragionamenti all’insurrezione, alla rivolta, vi è un abisso, quello che separa, presso la maggior parte dell’umanità, il ragionamento dall’atto, il pensiero dalla volontà, dal bisogno di agire. In che modo questo abisso è stato colmato? Come mai gli uomini che ieri ancora si lagnavano tranquillamente della loro sorte, fumando le pipe, e che salutavano umilmente la guardia campestre o il gendarme di cui avevano sparlato un minuto prima – come mai alcuni giorni più tardi, quegli stessi uomini hanno potuto afferrare le falci e le mazze ferrate per recarsi ad assalire nel suo castello il signore, ieri ancora tanto terribile? Per mezzo di quale incantesimo, questi uomini, che le donne accusavano con ragione di essere vili, si sono trasformati oggi in eroi, muovono sotto il grandinare delle palle alla conquista dei loro diritti? Come mai queste parole, già tante volte pronunciate, e che si perdevano nell’aria come il vano suono delle campane, si sono infine trasformate in atti?
La risposta è facile.
– È l’azione, l’azione continua, ripetuta incessantemente, delle minoranze, che opera questa trasformazione. Il coraggio, lo spirito di sacrificio, l’abnegazione, sono altrettanto contagiosi quanto la paura, la sottomissione e il panico.
Quali forme prenderà l’agitazione? – Le forme più varie volute dalle circostanze, dai mezzi, dai temperamenti. Ora lugubre, ora beffarda, ma sempre audace; ora collettiva, ora puramente individuale, essa non trascura nessuno dei mezzi che ha nelle mani, nessuna circostanza della vita pubblica, per tener sempre desto lo spirito, per propagare e formulare malcontento, per eccitare l’odio contro gli sfruttatori, per deridere i governanti, dimostrare la loro debolezza, e soprattutto e sempre, risvegliare l’audacia, lo spirito di ribellione, predicando con l’esempio.
II
Quando una situazione rivoluzionaria si produce in un Paese, senza che lo spirito di ribellione sia ancora sufficientemente risvegliato nelle masse per tradursi in manifestazioni tumultuose sulla piazza, oppure in ammutinamenti e sollevazioni, – è per mezzo dell’azione che le minoranze riescono a risvegliare questo sentimento di indipendenza e questo soffio d’audacia, senza i quali nessuna rivoluzione potrebbe compiersi.
Uomini di cuore, che non si contentano di sole parole, ma che cercano di metterle in esecuzione, caratteri integri, per i quali l’atto e l’idea formano una sola cosa, per i quali il carcere e la morte sono preferibili a una vita incoerente con i loro princìpi: uomini intrepidi che sanno che bisogna osare per riuscire – ecco le sentinelle perdute che incominciano la battaglia, molto prima che le masse siano sufficientemente eccitate per innalzare apertamente la bandiera dell’insurrezione e lanciarsi, con le armi in pugno, alla conquista dei loro diritti.
In mezzo ai lamenti, alle chiacchiere, alle discussioni teoriche, un atto di ribellione, individuale o collettivo, si produce, riassumendo le aspirazioni predominanti. È possibile che a tutta prima la massa resti indifferente.
Pur ammirando il coraggio dell’individuo o del gruppo iniziatore è possibile che essa segua di primo acchito i savi, i prudenti, che si affrettano a tacciare quest’atto di “follia” e dire che si tratta di pazzi, di teste calde “che compromettono tutto”. Essi avevano così bene calcolato, i savi e i prudenti, che il loro partito, proseguendo lentamente nella sua opera, sarebbe arrivato fra cento, duecento, trecento anni, forse, a conquistare il mondo intero, ed ecco che l’imprevisto se ne immischia: l’imprevisto, beninteso, è ciò che non è stato previsto da loro, i savi e i prudenti. Chiunque conosce un tantino di storia, e possiede un cervello per quanto poco equilibrato, sa perfettamente che la propaganda teorica della Rivoluzione si traduce necessariamente in fatto, molto prima che i teorici abbiano deciso che il momento di agire è venuto: tuttavia, i savi teorici si indignano contro i pazzi, scomunicano e lanciano loro l’anatema. Ma i pazzi trovano simpatie, la massa del popolo applaude in segreto alla loro audacia ed essi trovano imitatori. A misura che i primi vanno a popolare le prigioni e i bagni penali, altri vengono a continuare l’opera: gli atti di protesta illegale, di ribellione, di vendetta si moltiplicano.
L’indifferenza è ormai impossibile. Coloro che, in principio, non domandano nemmeno cosa vogliono i “pazzi”, sono costretti a occuparsene, a discutere le loro idee, a schierarsi pro o contro. Per mezzo dei fatti che si impongono all’attenzione generale, l’idea nuova si infiltra nei cervelli e conquista proseliti. Uno di questi fatti fa in qualche giorno più propaganda che migliaia di opuscoli.
Soprattutto suscita lo spirito di ribellione, fa germogliare l’audacia. – L’antico regime, armato di poliziotti, di magistrati, di gendarmi e di soldati sembrava saldo come la vecchia fortezza della Bastiglia e, essa pure, pareva inespugnabile agli occhi del popolo inerme, accorso sotto le sue alte mura, coronate di cannoni pronti a far fuoco. Ma tosto ci si avvede che il regime stabilito non ha la forza che si supponeva. Un atto audace basta per incagliare per alcuni giorni la macchina governativa, per scuotere il colosso; una sommossa ha messo sottosopra tutta una provincia, e la truppa, sempre così imponente, ha dovuto indietreggiare dinanzi a un pugno di contadini, armati di pietre e di bastoni; il popolo si accorge che il mostro non è così terribile come si credeva, comincia a intuire che pochi sforzi energici basteranno per atterrarlo, la speranza nasce nei cuori, e ricordiamoci, che, se l’esasperazione spinge spesso alle sommosse, è sempre la speranza, la speranza di vincere, che fa le Rivoluzioni.
Il governo resiste, incrudelisce con furore. Ma, se un tempo la repressione uccideva l’energia degli oppressi, ora, in epoca di effervescenza, produce l’effetto contrario. Dà ai ribelli l’eroismo, provoca nuovi atti di ribellione, individuali e collettivi, atti che si estendono di terra in terra, si generalizzano, si sviluppano. Il partito rivoluzionario si rinforza di elementi che fino ad allora gli erano ostili, o che si snervavano nell’indifferenza. La disorganizzazione sconvolge il governo, le classi dirigenti, i privilegiati: gli uni spingono alla resistenza, gli altri si pronunciano per le concessioni, altri ancora giungono persino a dichiararsi pronti a rinunciare per un momento ai privilegi, allo scopo di calmare lo spirito di ribellione, salvo poi a dominarlo più tardi. La coesione del governo e dei privilegiati è svanita.
Le classi dirigenti possono tentare ancora di ricorrere a una reazione furiosa. Ma non è più il momento; la lotta diventerà più acuta, e la rivoluzione che si annuncia sarà più sanguinosa. D’altronde, la minima concessione fatta dalle classi dirigenti, per il fatto che arriva troppo tardi ed è strappata con la lotta, non fa che eccitare maggiormente lo spirito rivoluzionario. Il popolo, che prima si sarebbe accontentato di quella concessione, ora si accorge che il nemico indietreggia, prevede la vittoria, sente crescere l’audacia, e quegli stessi uomini che prima, schiacciati dalla miseria, non facevano che sospirare di nascosto, rialzano la testa e si lanciano con fierezza alla conquista di un avvenire migliore.
Infine la Rivoluzione scoppia, tanto più violenta quanto più la lotta precedente è stata accanita.
L’indirizzo che prenderà la Rivoluzione dipende certamente da tutta la somma delle varie circostanze che hanno determinato l’arrivo del cataclisma, può essere previsto precedentemente, secondo la forza d’azione rivoluzionaria spiegata nel periodo preparatorio dai diversi partiti avanzati.
Il tal partito avrà meglio elaborato le teorie che preconizza e il programma che cerca di realizzare, l’avrà molto propagato con la parola e con lo scritto. Esso non ha però sufficientemente affermato le sue aspirazioni alla luce meridiana, sulla piazza, con atti che siano la realizzazione del suo proprio pensiero; ha avuto la potenza teorica ma non la potenza d’azione; oppure non ha agito contro coloro che sono i suoi principali nemici, non ha colpito le istituzioni che mira a demolire; ha poco contribuito a svegliare lo spirito di ribellione, oppure ha trascurato di dirigerlo contro ciò che cercherà soprattutto di colpire nel momento della rivoluzione. Ebbene, questo partito è poco conosciuto; le sue affermazioni non si sono sufficientemente infiltrate nella massa del popolo non essendo state ripetute continuamente, ogni giorno, con atti il cui rimbombo echeggiasse nei casolari più isolati; non sono passate nel crogiolo della folla e della piazza e non hanno trovato la loro espressione semplice, che si riassume in una sola parola divenuta popolare; gli scrittori più zelanti del partito sono conosciuti dai loro lettori come pensatori di merito; ma non hanno né la reputazione né la capacita dell’uomo d’azione; e il giorno che la folla scenderà in piazza, seguirà piuttosto i consigli di coloro che hanno, forse, idee teoriche meno chiare e aspirazioni meno vaste, ma che conosce meglio perché li ha visti agire.
Il partito che più avrà fatto agitazione rivoluzionaria, che più avrà manifestato vitalità e audacia, sarà più ascoltato il giorno in cui bisognerà agire, bisognerà mettersi alla testa per compiere la Rivoluzione. Quello che non avrà avuto l’audacia di affermarsi con atti rivoluzionari nel periodo preparatorio, quello che non avrà avuto una forza di pulsione abbastanza potente per ispirare agli individui e ai gruppi il sentimento d’abnegazione, il desiderio irresistibile di mettere in pratica le loro idee (se questo desiderio fosse esistito, si sarebbe trasformato in atti molto prima della presenza della folla in piazza), quello che non ha saputo rendere popolare la sua bandiera e palpabili e comprensibili le sue aspirazioni – quel partito avrà pochissima probabilità di realizzare la benché minima parte del suo programma; sarà sopraffatto dai partiti d’azione.
Ecco ciò che insegna la storia dei periodi che precedettero le grandi rivoluzioni. La borghesia rivoluzionaria l’ha perfettamente compreso: essa non trascurava nessun mezzo d’agitazione per suscitare lo spirito di ribellione, quando cercava di demolire il regime monarchico; il contadino francese del secolo scorso lo comprendeva istintivamente quando agiva per l’abolizione dei diritti feudali, e l’Internazionale agiva d’accordo con questi stessi princìpi quando voleva suscitare lo spirito di ribellione in seno ai lavoratori delle città, e dirigerli contro il nemico naturale del salariato – il padrone degli strumenti di lavoro e delle materie prime.
III
Ci sarebbe uno studio da fare, molto interessante, attraente, e soprattutto istruttivo – uno studio sui diversi mezzi di agitazione ai quali i rivoluzionari hanno dovuto ricorrere nelle diverse epoche, per accelerare l’avvento della Rivoluzione, per dare alle masse la coscienza degli avvenimenti che si preparano, per meglio indicare al popolo i suoi principali nemici, per suscitare l’audacia e lo spirito di ribellione. Sappiamo benissimo perché la Rivoluzione è divenuta necessaria, ma non è che per istinto e a tentoni che arriviamo a indovinare come le Rivoluzioni sono germogliate.
Lo stato maggiore prussiano ha pubblicato ultimamente un’opera per l’uso dell’esercito sull’arte di vincere le insurrezioni popolari, e insegna, in quest’opera, come l’esercito deve agire per sparpagliare le forze del popolo. Oggi si vuole colpire bene, scannare il popolo secondo le regole dell’arte. Ebbene, lo studio di cui parliamo sarebbe una risposta a questa pubblicazione e a tante altre che trattano il medesimo soggetto, qualche volta con meno cinismo. Esso insegnerebbe come si disorganizza un governo, come si rialza il morale di un popolo avvilito, schiacciato dalla miseria e dall’oppressione.
Finora, simile studio non è stato fatto. Gli storici hanno raccontato le grandi tappe attraversate dall’umanità nel cammino verso la sua emancipazione, ma hanno prestato poca attenzione ai periodi che precedettero le Rivoluzioni. Assorbiti nei grandi drammi che tentarono di abbozzare, non diedero al prologo che una rapida scorsa, ma è il prologo che interessa soprattutto.
Eppure, quale quadro più sorprendente, sublime e bello di quello degli sforzi fatti dai precursori delle Rivoluzioni! Quale serie incessante di tentativi compiuti dai contadini e dagli uomini d’azione della borghesia prima del 1789; quale lotta perseverante sostenuta dai repubblicani, dopo la restaurazione dei Borboni nel 1815, sino alla loro caduta nel 1830; quale attività da parte delle società segrete durante il regno del grosso borghese Luigi Filippo! Che commovente quadro quello delle cospirazioni degli Italiani per scuotere il giogo dell’Austria, dei loro eroici tentativi, delle sofferenze inenarrabili dei loro martiri! Quale tragedia lugubre e grandiosa sarebbe quella che raccontasse tutte le peripezie del lavoro segreto intrapreso della gioventù russa contro il governo e il regime fondiario e capitalista dal 1860 fino ai giorni nostri! Che nobili figure sorgerebbero davanti al socialismo moderno dalla lettura di questi drammi; quanti sacrifici e abnegazioni sublimi e, nello stesso tempo, quale istruzione rivoluzionaria, non più teorica ma pratica, tutti esempi da seguire!
Non è qui che possiamo intraprendere un simile studio. Dobbiamo dunque limitarci a scegliere qualche esempio, con lo scopo di dimostrare come operavano i nostri padri per l’agitazione rivoluzionaria, e quale genere di conclusione può essere dedotta da un simile studio.
Getteremo un colpo d’occhio sopra uno di questi periodi, quello che precedette il 1789 e, lasciando da parte l’analisi delle circostanze che hanno creato, verso la fine del secolo passato, una situazione rivoluzionaria, ci limiteremo a rilevare qualche procedimento di agitazione impiegato dai nostri padri.
Due grandi fatti si sprigionano come risultato della Rivoluzione del 1789-1793. Da un lato, l’abolizione della autocrazia reale e l’avvento della borghesia al potere; dall’altro lato, l’abolizione definitiva del servaggio e dei canoni feudali nelle campagne. I due fatti sono intimamente collegati fra di loro, e l’uno senza l’altro non sarebbe riuscito. E queste due correnti si riscontrarono già nell’agitazione che precedette la Rivoluzione; l’agitazione contro la monarchia in seno alla borghesia e l’agitazione contro i diritti dei signori fra i contadini.
Diamo un colpo d’occhio su tutte e due.
Il giornale, in quell’epoca, non aveva l’importanza che oggi ha acquistato; era l’opuscolo, il libello di tre o quattro pagine che lo sostituivano. Per conseguenza, gli opuscoli e i libelli pullulavano. L’opuscolo mette alla portata delle masse le idee dei precursori, filosofi ed economisti della Rivoluzione; il libello fa agitazione attaccando direttamente i nemici principali: il re e la sua corte, l’aristocrazia, il clero. Il libello non espone teorie; mette alla gogna e colpisce con il ridicolo.
Migliaia di foglietti raccontano i vizi della Corte, la spogliano dei suoi decori bugiardi, la mettono a nudo con tutti i suoi vizi, la sua dissipazione, la sua perversità, la sua stupidità. Gli amori reali, gli scandali della Corte, le spese pazze, il Patto di carestia – questa alleanza dei potenti con gli incettatori di grano per arricchirsi affamando il popolo, ecco il soggetto di questi libelli. I libellisti sono sempre sulla breccia, e non lasciano sfuggire nessuna circostanza della vita pubblica per colpire il nemico. Purché si parli di qualche fatto, il libello è là per trattarlo senza riguardi, alla sua maniera. Per questo genere di agitazione si presta meglio del giornale. Il giornale non è una piccola impresa, e si usano molti riguardi per non sommergerlo; la sua caduta danneggia spesso tutto un partito. Il libello non compromette che l’autore e lo stampatore, e poi – andate a cercare l’uno e l’altro!…
È evidente che gli autori di questi libelli e fogli volanti cominciano, anzitutto, a emanciparsi dalla censura; perché se a quell’epoca non si era ancora inventato il comodo sistema del gesuitismo contemporaneo, “il processo per diffamazione”, che rende vana ogni libertà di stampa – si aveva, per mandare in prigione gli autori e gli stampatori, la lettre de cachet, brutale, è vero, ma in tutti casi, chiara. Ed è per questo che gli autori cominciarono a emanciparsi dalla censura stampando i loro libelli sia ad Amsterdam, sia non importa dove – “a cento leghe dalla Bastiglia, sotto l’albero della Libertà”. Così non esitano a picchiare sodo, a vilipendere il re, la regina e i suoi amanti, i grandi della corte, gli aristocratici. Con la stampa clandestina la polizia aveva un bel perquisire presso i librai, arrestare gli strilloni – gli autori sconosciuti sfuggivano alle persecuzioni e continuavano la loro opera.
La canzone – troppo franca e veritiera per essere stampata, ma che fa il giro della Francia trasmettendosi a memoria, è sempre stata uno dei mezzi di propaganda più efficaci. Si scagliava contro le autorità costituite, beffeggiava le teste coronate, seminava perfino nel focolare domestico il disprezzo della monarchia, l’odio contro il clero e la nobiltà, la speranza di vedere presto spuntare il giorno della Rivoluzione.
Ma è soprattutto ai manifestini da appiccicare ai muri che gli agitatori ricorrevano. Il manifestino fa più parlare di sé, provoca un’agitazione più grande di quella dell’opuscolo. I manifestini, stampati o scritti, appaiono non appena si produce un fatto che interessa la massa del pubblico. Strappati oggi, riappaiono domani, facendo arrabbiare sbirri e governanti. “Ci è sfuggito il vostro avo, ma voi non ci sfuggirete!”. Legge oggi il re in un foglio incollato sui muri del suo palazzo. Domani è la regina che piange di rabbia leggendo sui muri i particolari della sua vita scandalosa. È allora che matura l’odio giurato più tardi dal popolo verso la donna che avrebbe freddamente sterminato Parigi pur di restare autocrate. I cortigiani si propongono di festeggiare la nascita del Delfino, i manifestini minacciano di mettere a fuoco i quattro angoli della città, e seminano così il panico, preparano gli spiriti a qualche cosa di straordinario. Oppure, annunziano che, nel giorno dei festeggiamenti, “il re e la regina saranno condotti sotto buona scorta sulla piazza di Grève, poi andranno al Municipio a confessare i loro delitti e saliranno sul rogo per essere bruciati vivi”. – Il re convoca l’Assemblea dei Notabili, e immediatamente i manifestini annunziano che “la nuova compagnia di commedianti, scelta dal signor di Calonne (primo Ministro), comincerà le sue rappresentazioni il 29 di questo mese e darà un ballo allegorico intitolato ‘La Botte della Danaidi’”. Oppure, diventando sempre più violento, il manifestino penetra persino nel palco della regina, annunziandole che i tiranni saranno tra breve giustiziati.
Ma è soprattutto contro gli incettatori di grano, contro i fittavoli generali, gli intendenti, che si fa uso del manifestino. Ogni volta che vi è fermento nel popolo, i manifestini annunciano la notte di San Bartolomeo per gli intendenti e i fittavoli generali. Il tal mercante di grano, il tal fabbricante, il tale intendente, detestati dal popolo, vengono così condannati a morte “in nome del Consiglio del popolo”, in nome del “Parlamento popolare”, ecc., e più tardi, quando l’occasione di una sommossa si presenta, è appunto contro gli sfruttatori, i cui nomi sono stati spesso pronunciati, che si scaglia il furore popolare.
Se si potessero riunire tutti gli innumerevoli manifestini incollati sui muri delle case durante i dieci, quindici anni che precedettero la Rivoluzione, si comprenderebbe l’immensa efficacia di questo genere di agitazione per preparare il sollevamento. Gioviale, motteggiatore sulle prime, il manifesto diventa via via più minaccioso a misura che si avvicina l’ora di agire; sempre vivo e pronto a rispondere a tutti i fatti della politica corrente e alle disposizioni di spirito delle masse, eccita la collera, il disprezzo, fa il nome dei veri nemici del popolo, suscita nel seno dei contadini, degli operai e della borghesia l’odio contro gli sfruttatori, annuncia l’avvicinarsi del giorno della liberazione e della vendetta.
Impiccare o squartare in effige, era un uso molto comune nel secolo scorso, ed era anche uno dei mezzi più popolari di agitazione. Ogni volta che un po’ di effervescenza agitava gli spiriti, si formavano assembramenti sediziosi che portavano un fantoccio, il quale rappresentava il nemico del momento, e impiccavano, bruciavano o squartavano questo fantoccio. “Ragazzate!”, diranno i pretesi saggi che si credono tanto ragionevoli. Ebbene, l’impiccagione di [Jean-Baptiste] Reveillon, durante le elezioni del 1789, quelle di [Joseph] Foulon e di [Ferdinand] Bertier [de Sauvigny], mutarono completamente il carattere della Rivoluzione che si annunciava, non furono che l’esecuzione reale di quanto era stato preparato da lunga data, con il giustiziare fantocci di paglia.
Sopra mille esempi ecco alcuni:
Il popolo di Parigi non amava [René de] Maupeou, uno del ministri cari a Luigi XVI. Ebbene, un giorno si formano dei gruppi di gente, delle voci gridano nella folla: “Decreto del parlamento che condanna il signor Maupeou, cancelliere di Francia, a essere bruciato vivo e le sue ceneri sparse al vento!”. Subito la folla accorre verso la statua di Enrico IV con un fantoccio che rappresenta il cancelliere, rivestito di tutte le insegne; che viene bruciato fra le acclamazioni. Un altro giorno si impicca a un fanale il fantoccio dell’abate Tersay in costume ecclesiastico e con i guanti bianchi. A Rouen si squarta in effige lo stesso Maupeou; e quando i gendarmi impediscono alla folla di radunarsi, questa si limita a impiccare per i piedi un simulacro di incettatore a cui sfugge il grano dal naso, dalla bocca, dalle orecchie.
Quanta propaganda si fa con questi fantocci! Una propaganda molto più efficace della propaganda astratta, la quale non parla che al piccolo numero delle persone convinte.
L’essenziale, per preparare le sommosse precedenti la grande rivoluzione, era che il popolo si abituasse a scendere nelle vie, a manifestare le sue opinioni sulla piazza, a sfidare la polizia, la truppa e la cavalleria. Perciò i rivoluzionari di quell’epoca non trascuravano nessuno dei mezzi di cui disponevano per attirare la folla nelle strade, per provocare assembramenti di popolo.
Ogni circostanza della vita pubblica di Parigi e delle province veniva utilizzata in tale modo. Quando l’opinione pubblica riesce a ottenere dal re il licenziamento di un ministro odiato, si fanno feste senza fine. Per attirare la gente si bruciano petardi, si lanciano razzi “in tale quantità che in alcuni luoghi si cammina sul cartone”. E se il denaro manca, per l’acquisto, si fermano i passeggeri ben vestiti e si domanda loro “cortesemente, ma con fermezza”, dicono i contemporanei, qualche soldo “per divertire il popolo”. Poi, quando la massa è compatta, gli oratori prendono la parola per spiegare e commentare gli avvenimenti, e i club si organizzano all’aria aperta. E, se la cavalleria o la truppa sopraggiungono per disperdere la folla, esitano a impiegare la violenza, contro uomini e donne pacifiche, che arrestano la foga dei soldati, mentre i razzi scoppiano davanti ai cavalli e alla fanteria fra le acclamazioni e le risate del pubblico.
Nelle città di provincia sono qualche volta gli spazzacamini che se ne vanno nelle vie, facendo la parodia del letto di giustizia del re; tutti quanti scoppiano dal ridere vedendo quell’uomo dalla faccia sudicia che rappresenta il re o la regina. Gli acrobatici giocolieri riuniscono sulla piazza migliaia di spettatori, e lanciano, in mezzo ai racconti faceti, le frecciate all’indirizzo dei potenti e dei ricchi. Un assembramento si forma, i discorsi si fanno via via più minacciosi e allora, guai all’aristocratico la cui vettura dovesse apparire sul luogo della scena: egli sarebbe certamente malmenato dalla folla.
Che lo spirito lavori solamente in questo senso – e quante occasioni gli uomini intelligenti trovano allora per provocare assembramenti, composti prima da chiassoni, poi da uomini pronti ad agire in un momento d’effervescenza.
Dato tutto questo, da una parte, la situazione rivoluzionaria, il malcontento generale, dall’altra, i manifestini, i libelli, le canzoni, le esecuzioni capitali in effige, si capirà come la popolazione imbaldanzisse e gli assembramenti divenissero sempre più minacciosi. Oggi è l’arcivescovo di Parigi che viene assalito in un crocevia; domani è un duca o un conte che rischiano di essere gettati nel fiume; un altro giorno, la folla si diverte a fischiare al loro passaggio i membri del governo, ecc., ecc.; gli atti di ribellione si moltiplicano all’infinito, nell’attesa del giorno in cui basterà una scintilla perché l’assembramento si trasformi in sommossa e la sommossa in Rivoluzione.
– “Era la feccia del popolo, gli scellerati, i fannulloni che insorgevano”, dicono oggi i nostri storici autorevoli. – Ebbene sì, infatti non era fra la gente agiata che i rivoluzionari borghesi cercavano i loro alleati. Giacché questa si limitava a lamentarsi solamente nelle sale di ricevimento, salvo poi a prostrarsi vilmente, un minuto dopo, dinanzi all’autorità. – È proprio nelle taverne di cattiva fama dei sobborghi che si recavano i borghesi in cerca di compagni, armati di randelli, quando si trattava di fischiare Monsignore l’arcivescovo di Parigi, – non si offendano gli autorevoli storici che oggi negano questi fatti.
IV
Se l’azione si fosse limitata ad attaccare gli uomini e le istituzioni del governo, la grande Rivoluzione sarebbe mai stata quel che essa fu realmente, cioè una insurrezione generale della massa popolare – di contadini e operai – contro le classi privilegiate? Sarebbe durata quattro anni? Avrebbe potuto sconvolgere la Francia, fino nelle sue viscere? Poteva trovare quel soffio invincibile che le dette la forza di resistere ai re “congiurati”?
Certamente, no. Che gli storici cantino, finché vogliano, le glorie dei “signori del Terzo Stato”, della Costituente e della Convenzione, sappiamo benissimo quale è stata la realtà dei fatti. Sappiamo che la Rivoluzione non avrebbe approdato ad altro che a una limitazione microscopicamente costituzionale del potere reale, senza intaccare il regime feudale, se la Francia agricola non si fosse sollevata e non avesse mantenuto, per quattro anni interi, l’anarchia, l’azione rivoluzionaria spontanea dei gruppi e degli individui, emancipati da ogni tutela governativa. Sappiamo che il contadino sarebbe rimasto la bestia da soma del signore, se la jacquerie non avesse infierito dal 1788 sino al 1793 – sino all’epoca in cui la Convenzione fu costretta a consacrare per mezzo di una legge ciò che i contadini avevano già realizzato con i fatti: l’abolizione senza riscatto di tutti i canoni feudali e la restituzione ai Comuni dei beni che a essi erano stati rubati dai ricchi sotto l’antico regime. Invano si sarebbe potuto attendere giustizia dalle Assemblee, se i cenciosi e i pezzenti (sanculotte) non avessero gettato sulla bilancia parlamentare il peso dei randelli e delle picche.
Ma non è per mezzo dell’agitazione contro i ministri, né con l’affissione dei manifesti contro la regina, che si potevano indurre i piccoli villaggi a insorgere. Questa sollevazione fu certamente il risultato della situazione generale del Paese, ma fu preparata anche dall’agitazione fatta, in mezzo al popolo e diretta contro i suoi nemici immediati: il signore, il prete-proprietario, l’incettatore di grano, il grosso borghese.
Questa agitazione è molto meno conosciuta della precedente. La storia di Parigi è stata fatta, ma quella del villaggio non è stata mai cominciata seriamente. La storia non si è nemmeno occupata del contadino, ma il poco che sappiamo ci basta per formarcene un’idea.
Il libello, il foglio volante, non penetravano nel villaggio: il contadino, in quell’epoca, non leggeva o quasi. Ebbene, è per mezzo di immagini stampate, o dipinte a mano, semplici e comprensibili, che si faceva la propaganda. Poche parole accanto a queste immagini, e subito nell’immaginazione popolare si architettava un romanzo intero sul conto del re, della regina, del conte di Artois, della signora di Lamballe; del “patto di carestia”, dei signori, “vampiri che succhiano il sangue del popolo”, e questo romanzo, percorrendo i villaggi, preparava gli spiriti.
Altrove, erano manifesti fatti a mano, affissi su un albero, che eccitavano alla ribellione, promettendo l’avvicinarsi di tempi migliori, e narrando le insurrezioni scoppiate nelle province, all’altra estremità della Francia.
Sotto il nome di “Jacques” si costituivano nei villaggi gruppi segreti, sia per incendiare i granai dei signori, sia per distruggere i loro raccolti e la loro cacciagione, sia per metterli a morte; e molte volte si trovava nel castello un cadavere trapassato da un coltello, che portava questa iscrizione: Da parte dei Jacques!
Un cocchio pesante scendeva lungo un pendio franato, conducendo il signore nel suo dominio. Ma due passanti, aiutati dal postiglione stesso, lo legavano e lo facevano rotolare in fondo a1 precipizio, e nella tasca del signore si trovava una carta con la scritta: Da parte dei Jacques!
Oppure un giorno, al crocicchio di due strade, si scorgeva una forca, la quale portava questa iscrizione: “Se il signore osa percepire le imposte sarà impiccato a questa forca. Chiunque oserà pagarle al signore, subirà la medesima sorte!”. E il contadino non pagava più, se non era costretto dalla forza pubblica, felice, in fondo, di avere trovato un pretesto per non pagare. Sentiva che vi era una forza anonima che lo sosteneva; si abituava all’idea di non pagare, di ribellarsi contro il signore, e presto infatti non pagava più e strappava al signore, con le minacce, la rinuncia a tutte le tasse. Continuamente si vedevano nei villaggi manifesti che annunciavano come, da quel momento in poi, non vi fossero più tributi da pagare, come si dovessero incendiare i castelli e i catasti (registri della imposte), come il “Consiglio del Popolo” avesse emanato un decreto in tal senso, ecc.
“Pane! Non più tributi né tasse!”, ecco la parola d’ordine che si faceva correre nelle campagne: parola d’ordine comprensibile per tutti, che toccava il cuore della madre, i cui figli, da tre giorni, non avevano mangiato, che penetrava nel cervello del contadino, tribolato dalla gendarmeria, che gli strappava il pagamento della imposte arretrate.
– “Abbasso gli incettatori!”, e i magazzini di costoro erano attaccati, i convogli di grano bloccati e la sommossa si scatenava nella provincia. “Abbasso il dazio!”, e le barriere venivano bruciate, gli impiegati accoppati e le città, mancando di denaro, si ribellavano contro il potere centrale che lo richiedeva.
“Al fuoco i registri della imposte, i libri dei conti, gli archivi municipali!”, e gli scartafacci bruciavano nel luglio 1789, il potere si disorganizzava, i signori emigravano e la Rivoluzione estendeva sempre più il suo cerchio di fuoco.
Tutto quello che avveniva sulla grande scena di Parigi non era che un riflesso di quanto accadeva in provincia, della Rivoluzione che, durante quattro anni, rumoreggiò in ogni città, in ogni villaggio, e nella quale il popolo, più che dei lontani nemici del potere centrale, si occupò dei suoi nemici più prossimi, cioè degli sfruttatori e delle sanguisughe locali.
Riassumiamo. – La Rivoluzione del 1788-1793, che ci presenta su vasta scala la disorganizzazione dello Stato per mezzo della Rivoluzione popolare (eminentemente economica, come tutte le Rivoluzioni veramente popolari), ci serve così di insegnamento prezioso.
Molto prima del 1789, la Francia presentava una situazione rivoluzionaria. Ma lo spirito di ribellione non era ancora abbastanza maturo, perché la Rivoluzione scoppiasse. È dunque allo sviluppo di questo spirito di insubordinazione, d’audacia, di odio contro l’ordine sociale, che i rivoluzionari impiegarono i loro sforzi. Mentre i rivoluzionari della borghesia dirigevano i loro attacchi contro il governo, i rivoluzionari popolari, quelli di cui la storia non ha nemmeno conservato i nomi, gli uomini del popolo preparavano la loro sommossa, la loro Rivoluzione, con atti di ribellione diretti contro signori, agenti del fisco e sfruttatori di qualsiasi specie.
Nel 1788, quando l’avvicinarsi della Rivoluzione si preannunciava con serie di insurrezioni della massa del popolo, la monarchia e la borghesia cercarono di dominarla facendo qualche concessione; ma si poteva forse acquietare l’onda popolare con gli Stati Generali, con le concessioni gesuitiche del 4 agosto o con gli atti miserabili dell’Assemblea Legislativa? Era possibile acquietare in tal modo una rivolta politica, ma non si poteva domare facilmente una rivolta popolare. E la marea saliva sempre. E, attaccando la proprietà, nello stesso tempo si disorganizzava lo Stato, si rendeva ogni governo assolutamente impossibile, e la ribellione popolare, diretta contro i signori e i ricchi in generale, ha finito, come si sa, in capo a quattro anni, con lo spazzare via la monarchia e l’assolutismo.
Questo cammino è quello che tutte le grandi rivoluzioni percorrono. E tale sarà anche il cammino e lo sviluppo della prossima Rivoluzione, se dovrà essere – come noi siamo persuasi – non già un semplice mutamento di governo, ma una vera Rivoluzione popolare, un cataclisma che trasformerà da cima a fondo il regime della proprietà.
Teoria e pratica
Quando discutiamo l’ordine di cose che, secondo noi, deve sorgere della prossima rivoluzione, ci si dice sovente: “Tutto questo è teoria, di cui non dobbiamo preoccuparci. Lasciamola da un canto e occupiamoci di cose pratiche (di questioni elettorali, per esempio). Prepariamo l’avvento della classe operaia al potere e, più tardi, vedremo ciò che potrà fare la rivoluzione”.
Un fatto certo però ci permette di dubitare dell’equità e anche della sincerità di questo ragionamento, ed è che quanti se ne servono, hanno già la propria teoria pronta sul modo di organizzazione della società all’indomani, o piuttosto il giorno stesso, della rivoluzione e mentre pretendono di non fare gran caso alle teorie, tengono fermamente alla propria, la propagano e tutta l’azione che vanno esercitando, non è che una logica conseguenza. In fondo, le parole: – “Non discutiamo di questioni teoriche”, si riducono a queste altre: “Non mettete in discussione la nostra teoria, ma aiutateci ad attuarla”.
Infatti, non si trova articolo di giornale in cui l’autore non parli delle sue idee sull’organizzazione sociale, come egli l’intende. Le parole “Stato operaio”, “organizzazione della produzione e dello scambio da parte dello Stato”, “collettivismo” (limitato alla proprietà collettiva degli strumenti di lavoro e ripudiante la messa in comune dei prodotti), “disciplina di partito”, ecc., tutte queste parole si trovano continuamente negli articoli dei giornali e negli opuscoli. Coloro che sembrano negare qualsiasi importanza alle teorie fanno l’impossibile per propagare le loro. E mentre noi evitiamo questo genere di discussioni, altri propagano le loro concezioni e seminano i loro errori, contro i quali bisognerà lottare un giorno. Per citare un solo esempio basterà ricordare La quintessence du socialisme [Gotha 1875] di Albert Schaeffle, questo libro fatto da un ex-ministro austriaco che, con il pretesto di difendere il socialismo, mira solo a salvare l’ordine borghese dalla rovina. È vero che il libro, non celando abbastanza le orecchie dell’ex-ministro, non ha avuto nessun successo fra gli operai francesi e tedeschi; ma tuttavia le sue idee, condite con qualche frase rivoluzionaria per farle meglio trangugiare, sono propagate tutti i giorni.
Dopotutto è ben naturale che allo spirito umano ripugni profondamente intraprendere un’opera di demolizione senza avere un’idea, sia pure sommaria, di quanto si potrebbe erigere dopo. – “Si istituirà una dittatura rivoluzionaria”, dicono gli uni. – “Si nominerà un governo, composto di lavoratori, e gli si affiderà l’organizzazione della produzione”, dicono gli altri. – “Si metterà tutto in comune nelle Comuni insorte”, dicono i terzi. – Ma tutti, senza eccezione, hanno comunque una concezione dell’avvenire, che è loro più o meno cara; e questa idea agisce, coscientemente o no, sul loro modo d’azione nel periodo preparatorio attuale.
Non solo non abbiamo quindi nessun interesse a evitare tali “questioni di teoria”; ma, se vogliamo essere “pratici”, dobbiamo necessariamente fin da oggi esporre e discutere sotto tutti gli aspetti il nostro ideale di comunismo anarchico.
D’altronde, se non lo facciamo ora, durante il periodo di tranquillità relativa che attraversiamo – quando dovremo esporre, discutere e propagare questo ideale?
Forse il giorno in cui, tra il fumo delle barricate, sulle macerie dell’edificio rovesciato, occorrerà provvedere senz’altro a un nuovo avvenire? Bisognerà avere già una risoluzione pronta e una ferma volontà per metterla in esecuzione. Allora non ci sarà più tempo per discutere. Bisognerà agire nel momento stesso, sia in un senso che in un altro.
Se le precedenti rivoluzioni non hanno dato al popolo francese tutto ciò a cui aveva diritto, non è certo per avere troppo discusso sullo scopo della rivoluzione, di cui sentiva l’avvicinarsi. La cura di determinare questo scopo e di vedere ciò che vi sarebbe da fare, è stata sempre abbandonata a certi capi, che hanno, ed è logico, tradito invariabilmente il popolo. Non bisogna credere che il popolo avesse una teoria già fatta – non ne aveva alcuna. La borghesia, nel 1848 e nel 1870, sapeva di impadronirsi del potere, di farlo sanzionare con le elezioni, di armare il piccolo borghese contro il popolo e, disponendo dell’esercito, dei cannoni, delle vie di comunicazione e del denaro, era pronta a lanciare i suoi mercenari contro i lavoratori, il giorno in cui questi avessero osato rivendicare i loro diritti. Essa sapeva ciò che stava per fare il giorno della Rivoluzione.
Ma il popolo non sapeva nulla. Nella questione politica, ripeteva con la borghesia: “Repubblica e suffragio universale” nel 1848; nel marzo1871 diceva con la piccola borghesia: “La Comune!”. Però, nel 1848 come nel 1871, non aveva un’idea precisa di quello che occorreva intraprendere per risolvere la questione del pane e del lavoro. “L’organizzazione del lavoro”, questa parola d’ordine del 1848 (fantasma risuscitato ultimamente sotto un’altra forma dai collettivisti tedeschi), era un termine così vago che non diceva nulla; lo stesso dicasi del collettivismo dell’Internazionale nel 1869 in Francia. Se nel marzo del 1871 si fosse domandato a tutti coloro che lavoravano all’avvento della Comune, quello che bisognava fare per risolvere la questione del pane e del lavoro – si sarebbe ottenuta una terribile cacofonia di risposte contraddittorie! Occorreva impossessarsi delle fabbriche in nome della Comune di Parigi? Si potevano prendere le case e proclamarle proprietà della città insorta? Bisognava raccogliere tutti i viveri e organizzarne la distribuzione? Si dovevano proclamare tutte le ricchezze ammucchiate a Parigi, proprietà comune del popolo francese e applicare questi mezzi potenti alla liberazione di tutta la nazione? – In seno al popolo non vi era nessuna opinione precisa su tante questioni. Preoccupata dei bisogni della lotta immediata, l’Internazionale aveva negletto di discuterle a fondo. – “Voi fate delle teorie, dei romanzi”, si rispondeva a quanti volevano occuparsene, e quando si parlava di Rivoluzione sociale, non era definita che da parole vaghe, nebulose, come Libertà, Uguaglianza, Solidarietà.
Lungi da noi l’idea di elaborare un programma completo in vista di una rivoluzione. Un programma simile non farebbe che intralciare l’azione, molti ne approfitterebbero anzi per servirsi di questo sofisma: “Dal momento che non possiamo realizzare il nostro programma, non facciamo nulla, risparmiamo il nostro sangue prezioso per un’occasione migliore”.
Sappiamo benissimo che ogni moto di popolo è un avviamento verso la rivoluzione sociale. Risveglia lo spirito di rivolta, abitua a considerare l’ordine stabilito (piuttosto il disordine stabilito) come eminentemente instabile; e occorre la sciocca arroganza di un parlamentarista tedesco per domandare: “A che è servita la Grande Rivoluzione o la Comune?”. Se la Francia forma l’avanguardia della Rivoluzione, avendo il popolo francese lo spirito e il temperamento rivoluzionario, lo si deve al fatto di avere compiuto tante rivoluzioni disapprovate dai dottrinari e dai balordi.
Ma ciò che importa è determinare lo scopo che ci proponiamo di raggiungere. E non solo determinarlo, ma segnalarlo con la parola e con gli atti, in modo da renderlo eminentemente popolare, così popolare che il giorno del movimento sia sulle labbra di tutti. Compito molto più grande e necessario di quanto non si immagini generalmente; poiché se questo scopo è chiaro, vivente davanti agli occhi di una infima minoranza, non è tale invece per la grande massa, trascinata in tutti i sensi dalla stampa borghese, liberale, comunalista, collettivista, ecc.
Da questo scopo dipenderà il nostro modo d’azione, presente e futuro. La differenza fra il comunista anarchico, il collettivista autoritario, il giacobino e il comunalista autonomista, non è solo nelle loro concezioni di un ideale più o meno lontano. Essa non aspetta a manifestarsi il giorno della rivoluzione, ma appare oggi stesso, sopra ogni cosa, ogni apprezzamento, sia pur minimo. Il giorno della rivoluzione il collettivista, partigiano dello Stato, correrà a installarsi nel Municipio di Parigi, da dove emanerà i suoi decreti sul regime della proprietà; cercherà di costituire un governo formidabile che metta il naso dovunque, fino a stabilire e decretare il numero di galline allevate nel più piccolo villaggio. Il comunalista autonomista si recherà a sua volta al Municipio e, formando lui pure un governo, tenterà di ripetere la storia della Comune del 1871, proibendo di toccare ancora la santa proprietà, finché il Consiglio della Comune non abbia giudicato opportuno farlo. Il comunista anarchico, invece, andrà senz’altro a impossessarsi delle fabbriche, delle case, dei granai, di tutta la ricchezza sociale, e cercherà di organizzare in ogni Comune, in ogni gruppo, la produzione e il consumo, al fine di provvedere a tutti i bisogni delle comuni e del gruppi federati.
Questa medesima differenza si estende fino alle più piccole manifestazioni della vita e dell’azione quotidiana. Chiunque cerchi di stabilire un certo accordo fra il suo scopo e i suoi mezzi d’azione, si avvede che il comunista anarchico, il collettivista di Stato e il comunalista autonomo si trovano in disaccordo sopra tutti i punti dell’azione immediata.
Questa differenza esiste; non cerchiamo dunque di ignorarla. Anzi, ognuno esponga francamente il suo scopo, e la discussione che si fa continuamente, ogni giorno e ogni momento, nei gruppi – non nei giornali, essendo questa sempre personale – elaborerà nel seno delle masse popolari un’idea comune, attorno alla quale un giorno potrà raggrupparsi la folla.
Nell’ora attuale, noi abbiamo qualche campo d’azione comune, sui quali tutti i gruppi possono agire d’accordo. È il terreno della lotta contro il capitale e quello della lotta contro il sostegno del capitale – il governo. Qualunque sia la nostra idea sull’organizzazione futura della società, vi è un punto incontrastato per tutti i socialisti sinceri: – l’espropriazione del capitale deve risultare dalla prossima rivoluzione. Dunque ogni lotta che prepari questa espropriazione deve essere unanimemente sostenuta da tutti i gruppi socialisti, a qualunque tendenza appartengano. E più i diversi gruppi si incontreranno su questo terreno comune e su tutti quelli che le circostanze medesime ci indicheranno, più facile sarà stabilire l’accordo su quanto bisognerà fare durante la Rivoluzione. Ma, ricordiamoci bene, che un’idea, più o meno generale, non può sorgere dalle masse il giorno della conflagrazione, se noi non esponiamo senza sosta il nostro ideale di società che aspettiamo dalla rivoluzione. Per essere pratici, non stanchiamoci di ripetere ciò che i reazionari di tutti i colori hanno sempre chiamato “utopie, teorie”. Teoria e pratica devono identificarsi, se vogliamo riuscire.
L’espropriazione
I
Non siamo più i soli a dire che l’Europa è alla vigilia di una grande rivoluzione. La borghesia, dal canto suo, comincia ad accorgersene e lo constata nei suoi giornali. Il “Times” (1882), non uso ad allarmarsi, lo riconosce in un suo articolo, veramente degno di nota. L’organo della City, deridendo coloro che predicano le virtù spartane del risparmio e dell’astensione, invita la borghesia a riflettere piuttosto sulla sorte che è data ai lavoratori nella nostra società, e a vedere quali concessioni si possono fare, poiché essi hanno tutto il diritto di essere malcontenti. Il “Journal de Genève” – questo vecchio peccatore – si affretta pure a riconoscere che decisamente la repubblica non si è abbastanza occupata della questione sociale. Altri ancora, il cui nome stesso ci ripugna, ma che sono pur sempre espressione fedele della grossa borghesia e dell’alta finanza, si impietosiscono della sorte riservata, in un avvenire molto prossimo, al povero padrone, che sarà obbligato a lavorare come i suoi operai, oppure constatano con spavento che l’onda delle collere popolari sale intorno a loro.
Gli avvenimenti recenti nella capitale dell’Austria, la sorda agitazione che regna nel Nord della Francia, gli avvenimenti d’Irlanda e di Russia, i moti di Spagna, e mille altri indizi che tutti conosciamo; il vincolo di solidarietà che unisce i lavoratori di Francia fra loro e con quelli degli altri Paesi, questo vincolo impalpabile che, in un dato momento, fa battere all’unisono i cuori dei lavoratori e li stringe in un fascio solo, più formidabile dell’unione di fatto, rappresentata solo da un comitato qualunque – tutto questo non fa che confermare le previsioni rivoluzionarie.
Infine la situazione in Francia, pervenuta di nuovo alla fase in cui tutti i partiti aspiranti al potere sono pronti a darsi la mano per tentare un colpo; la raddoppiata attività dei diplomatici che predicono l’avvicinarsi della guerra europea, tanto più sicura quanto più è stata rinviata; le conseguenze inevitabili di questa guerra, che sarebbero necessariamente l’insurrezione popolare nei Paesi vinti e conquistati; tutti questi fatti insieme, in un’epoca gravida di avvenimenti, ci fanno prevedere che siamo sensibilmente vicini al giorno della Rivoluzione.
La borghesia comprende ciò e si prepara a resistere – con la violenza, poiché non conosce né vuole conoscere altri mezzi. È decisa a resistere a oltranza e a fare massacrare centomila operai, duecentomila, se le occorre, cinquantamila donne e fanciulli, per mantenere il suo dominio. Non è certo davanti l’orrore del massacro che indietreggerà, come l’ha in modo audace provato al campo di Marte nel 1790, a Lione nel 1831, a Parigi nel 1848 e nel 1871. Per questa gente tutti i mezzi sono buoni pur di salvare il capitale e il diritto all’ozio e al vizio.
Il suo programma d’azione è fissato. Possiamo dire altrettanto del nostro?
Per la borghesia il massacro è già tutto un programma, dato che vi sono soldati – poco importa se francesi, turchi, tedeschi – a cui affidarlo. Poiché essa non cerca che di mantenere ciò che esiste, di prolungare lo statu quo, fosse pure per soli quindici anni in più – riducendo tutta la questione a una semplice lotta armata. Ma tale questione ha un valore più grande per i lavoratori, che vogliono precisamente modificare l’ordine di cose esistente. Per loro il problema non è così odiosamente semplice, è invece vasto, immenso. La lotta sanguinosa alla quale dobbiamo essere preparati non meno della borghesia, non è però che un incidente della lotta che dobbiamo fare al capitale. Non ci servirebbe a nulla terrorizzare la borghesia, per poi lasciare tutto nel medesimo stato. Il nostro scopo è più largo, le nostre mire più alte.
Si tratta di abolire lo sfruttamento dell’uomo. Si tratta di porre fine alle iniquità, ai vizi, ai delitti che risultano dall’esistenza oziosa degli uni e dalla servitù economica, intellettuale e morale degli altri. Il problema è immenso; ma, dal momento che i secoli scorsi hanno lasciato questo problema alla nostra generazione, e siamo noi che ci troviamo nella necessità storica di lavorare alla sua intera soluzione, dobbiamo accettare il compito. D’altronde, non abbiamo più da cercare a tastoni la soluzione. Essa, come il problema, ci è imposta dalla storia; è stata proclamata, si proclama altamente in tutti i Paesi d’Europa e riassume lo sviluppo economico e intellettuale del nostro secolo. È l’Espropriazione; è l’Anarchia.
Se la ricchezza sociale resta fra le mani dei pochi che la possiedono oggi; se l’officina, il cantiere e la manifattura rimangono proprietà del padrone; se le strade ferrate, i mezzi di trasporto continuano ad appartenere alle compagnie e agli individui che li hanno accaparrati; se le case della città come le ville dei signori restano in possesso dei loro proprietari attuali, invece di essere poste, appena scoppiata la rivoluzione, a disposizione gratuita di tutti i lavoratori; se i tesori accumulati, sia nelle banche, sia nelle case dei ricchi, non ritornano immediatamente alla collettività – poiché tutti hanno contribuito a produrli – se il popolo insorto non si impadronisce di tutte le derrate e le provvigioni ammucchiate nelle grandi città, e non si organizza per metterle alla portata di tutti coloro che ne hanno bisogno; se la terra, infine, resta di proprietà di banchieri e usurai – ai quali appartiene di fatto, se non di diritto – e se i grandi appezzamenti non sono tolti ai grandi proprietari e messi a disposizione di tutti coloro che vogliono lavorare il suolo; se, inoltre, si costituisce una classe di governanti che ordinano ai governati; l’insurrezione non sarà una rivoluzione e bisognerà ricominciare da capo. L’operaio dovrà rimettere la testa sotto il giogo, che aveva scosso per un momento, e subire di nuovo la frusta e il pungolo del padrone, l’arroganza dei capi, il vizio e i delitti degli oziosi – senza parlare del terrore bianco, delle deportazioni, delle esecuzioni, della danza sfrenata dei massacratori sui cadaveri dei proletari.
L’espropriazione – ecco dunque la parola d’ordine che si impone alla prossima rivoluzione, sotto pena di fallire nella sua missione storica; l’espropriazione completa di tutti coloro che hanno il mezzo di sfruttare gli esseri umani; la restituzione alla comunità di tutto quello che può servire a sfruttare gli altri.
Fare in modo che ognuno possa vivere lavorando liberamente, senza essere forzato a vendere il suo lavoro e la sua libertà ad altri che accumulano ricchezze con il lavoro dei servi, ecco quanto deve compiere la prossima rivoluzione.
Dieci anni fa, questo programma (almeno nella sua parte economica) era accettato da tutti i socialisti. Chi si diceva socialista l’ammetteva, e l’ammetteva senza reticenze. Ma d’allora in poi, tanti cavalieri d’industria sono venuti a sfruttare il socialismo nel loro interesse personale, e hanno così ben lavorato per ridurre questo programma, che oggi non restano che gli anarchici per mantenerlo nella sua integrità. Lo si è mutilato, colmato di frasi fatte, che possono essere commentate a volontà, secondo il piacere di ognuno; e lo si è ridotto così, non per gli operai – se l’operaio accetta il socialismo, lo accetta generalmente intero – ma semplicemente per essere graditi alla borghesia e per prendere posto fra le sue file. È dunque ai soli anarchici che incombe l’immenso compito di propagare, fino negli angoli più inaccessibili, questa idea dell’espropriazione, senza contare su nessuno.
Sarebbe un errore funesto credere che l’idea di espropriazione sia già penetrata negli spiriti di tutti i lavoratori e sia divenuta per tutti una di quelle convinzioni per cui l’uomo integro è pronto a sacrificare la vita. No, certo. Ve ne sono milioni che non ne hanno mai inteso parlare, se non dalla bocca degli avversari. Anche fra coloro che l’ammettono, quanto sono scarsi quelli che l’hanno esaminata sotto i diversi aspetti e in tutti i particolari! Sappiamo, è vero, che soprattutto al momento della rivoluzione, l’idea dell’espropriazione avrà il più alto numero di aderenti, quando tutti si interesseranno della cosa pubblica, leggeranno, discuteranno, agiranno e quando le idee più concise e più nette saranno soprattutto capaci di trascinare le masse. E sappiamo altresì che se durante la Rivoluzione solo due partiti stessero di fronte, la borghesia e il popolo, l’idea di espropriazione sarebbe accettata subito dal popolo, non appena fosse lanciata da un piccolo gruppo. Ma, oltre alla borghesia, dobbiamo contare altri nemici della rivoluzione sociale. Tutti i partiti bastardi, sorti tra la borghesia e i socialisti rivoluzionari; tutti coloro che, quantunque sinceri, sono penetrati nondimeno fino al midollo da una qualche timidezza di spirito, conseguenza necessaria di tanti secoli di rispetto per l’autorità; infine, tutta la gente della borghesia che cercherà di salvare dal naufragio una parte dei suoi privilegi, gente che, per il momento, sarà pronta a sacrificare qualcosa (salvo a riprenderla più tardi); tutti questi intermediari dispiegheranno la loro attività per spingere il popolo a lasciare l’arrosto per fumo. Si troveranno migliaia di persone per ripetere che è meglio accontentarsi di poco e non perdere tutto; altre che cercheranno di fare perdere tempo e di spostare lo slancio rivoluzionario in vani attacchi contro cose futili e uomini insignificanti, invece di assalire direttamente le istituzioni; che vorranno atteggiarsi a Saint-Just o a Robespierre, invece di imitare il contadino del secolo scorso, cioè prendere la ricchezza sociale, utilizzarla subito e stabilire i suoi diritti su questa ricchezza facendone beneficare il popolo intero.
Per evitare questo pericolo, non c’è che un mezzo: lavorare incessantemente, fin d’ora, a seminare l’idea di espropriazione con tutte le nostre parole e tutti i nostri atti; riconnettere ognuna delle nostre azioni a questa idea-madre; fare penetrare la parola “Espropriazione” in ogni comune e villaggio del Paese, perché sia discussa e diventi per ogni operaio, per ogni contadino, una parte integrale della parola “Anarchia” – e allora, ma solamente allora – saremo sicuri che il giorno della Rivoluzione, essa uscirà da tutte le labbra, si eleverà, espressione formidabile di un popolo intero, che non vorrà spargere il suo sangue invano.
Ecco l’idea che si manifesta in questo momento fra gli anarchici di tutti i Paesi, sul compito che loro incombe. Il tempo stringe, e per ottenere tanto risultato occorrono nuove forze e dobbiamo raddoppiare di energia, poiché, senza questa, tutti i sacrifici e gli sforzi del popolo sarebbero nuovamente perduti.
II
Prima di esporre il nostro modo di vedere sull’espropriazione, dobbiamo rispondere a una obiezione, debolissima in teoria, ma molto diffusa. L’economia politica – la pseudo-scienza per eccellenza della borghesia – non cessa di vantare su tutti i toni i benefici della proprietà individuale. – “Vedete, dice, i prodigi che compie il contadino non appena diventa proprietario del suolo che coltiva; vedete come zappa e rimuove il suo campicello, che raccolti ricava da un terreno sovente ingrato! Vedete, infine, ciò che l’industria ha saputo realizzare da quando si è liberata dagli inciampi, dalle maestranze e dalle giurie di mestiere! Tutti questi prodigi sono dovuti alla proprietà individuale”.
È vero che dopo aver fatto questo quadro, gli economisti non concludono: “La terra a chi la coltiva!”, ma si affrettano a dedurre: “La terra al signore che la fa coltivare dai salariati!”. Pur tuttavia, pare che un buon numero di persone si lascino ingannare da questi ragionamenti e li ripetano senza riflessione alcuna. Quanto a noi “utopisti” – appunto perché siamo “utopisti” – cerchiamo di approfondire, di analizzare, ed ecco ciò che troviamo.
Riguardo al suolo, constatiamo pure che la sua coltura migliora non appena il contadino diventa proprietario del campo che coltiva. Ma i signori economisti a chi paragonano il piccolo proprietario fondiario? – forse al coltivatore comunista? Forse, per esempio, a una di quelle comunità di doukhobors (difensori dello spirito) che, giunti sulle rive dell’Amour, mettono in comune il bestiame e il lavoro dei giovani, fanno passare l’aratro tirato da quattro, cinque paia di buoi sui cespugli di quercia, costruiscono tutti insieme le loro case e si trovano, fin dal primo anno, ricchi e prosperi, mentre l’emigrante singolo e isolato, che aveva cercato di arare un bassofondo paludoso, mendica allo Stato qualche chilo di farina? Forse a una di quelle comunità americane di cui ci parla [Charles] Nordhof che, dopo aver dato a tutti i comunisti, cibo, vesti e alloggio, rimettono una somma di cento dollari a ciascuno dei membri, uomo o donna, perché possano comprarsi lo strumento di musica, l’oggetto d’arte, il ninnolo che non si trova nei magazzini della comune?
No! ricercare, accumulare i fatti contradditori allo scopo di spiegarli, per appoggiare o rigettare la propria ipotesi, è utile a un Darwin; la scienza ufficiale preferisce ignorarli. Essa si appaga di paragonare il contadino proprietario, con il servo, con il mezzadro, con il fittavolo!
Ma il servo, quando lavorava la terra del signore, sapeva già prima che il signore gli avrebbe preso l’intero raccolto, salvo una magra porzione di saggina e di segala, appena sufficiente per tenere insieme la carne e le ossa; sapeva che per quanto sudasse a lavorare, venuta la primavera, si sarebbe trovato costretto a mescolare erbe alla sua farina, come fanno ancora i contadini russi, come facevano i contadini francesi prima del 1789! Sapeva di essere oggetto delle persecuzioni interessate del padrone se avesse avuto la disgrazia di arricchirsi un poco. Preferiva dunque lavorare il meno possibile. E ci meravigliamo di vedere i nipoti di questo contadino coltivare infinitamente meglio da quando sanno che potranno mettere nel granaio, per loro conto, i raccolti?
Il mezzadro presenta un progresso sul servo. Sa che la metà del raccolto gli sarà presa dal proprietario del suolo, e dunque è sicuro che almeno l’altra metà gli resterà. E malgrado questa condizione – ripugnante per noi, giustissima agli occhi degli economisti – perviene a migliorare la coltura, per quanto è possibile, con il solo lavoro delle braccia.
Il colono, se ha un fitto non troppo oneroso e assicurato per un certo numero d’anni, se gli permettono di risparmiare qualche cosa per migliorare la coltura, o se possiede qualche capitale circolante, fa ancora un passo di più sulla via dei miglioramenti. E infine il contadino proprietario, se non è carico di debiti per l’acquisto del podere, se può creare un fondo di riserva, coltiva ancora meglio del servo, del mezzadro, del fittavolo poiché sa che, salvo le imposte e la parte leonina del creditore, avrà per lui quanto caverà dalla terra con il rude lavoro.
Ma da questi fatti si può concludere solo che nessuno ama lavorare per gli altri e che la terra non sarà ben coltivata fintanto che il coltivatore si vedrà, in un modo o nell’altro, privato della parte migliore della sua messe da un fannullone qualunque – signore, borghese o creditore – o dalle tasse dello Stato. In tutto questo, però, non si può trovare il minimo termine di paragone tra la proprietà individuale e il possesso collettivo, a meno di volere tirare a ogni costo conclusioni da fatti che non contengono neppure gli elementi di partenza.
Tuttavia da questi fatti c’è altro da dedurre.
Il lavoro del mezzadro, del colono di cui parliamo, e soprattutto quello del piccolo proprietario è più intenso di quello del servo e dello schiavo. Eppure né col sistema della mezzadria, né con quello del fitto, né con la piccola proprietà l’agricoltura prospera. Si poteva credere, mezzo secolo fa, che la soluzione della questione agraria si trovasse nella piccola proprietà fondiaria, poiché veramente il contadino proprietario cominciava allora a godere di una certa prosperità, tanto più notevole perché seguiva alla miseria del secolo precedente. Ma questa età d’oro della piccola proprietà fondiaria è presto svanita. Oggi il contadino, possessore di un piccolo podere, stenta a sbarcare il lunario. Egli si indebita, diventa preda del mercante di bestiame, del mercante di terra, dell’usuraio; la cambiale e l’ipoteca rovinano interi villaggi, ancora più delle formidabili imposte prelevate dallo Stato e dal comune. La piccola proprietà si dibatte miseramente, e se il contadino conserva ancora il nome di proprietario, in fondo non è che il gerente dei banchieri e degli usurai. Crede di liberarsi un giorno dai suoi debiti e questi invece aumentano. Per poche centinaia di agricoltori che prosperano, sono milioni quelli che non usciranno dalle morse dell’usura che grazie alla rivoluzione.
Da dove viene, dunque, questo fatto stabilito, provato dai volumi di statistiche, che rovescia completamente le teorie sui benefici della proprietà?
La spiegazione è semplice. Non sta nella concorrenza americana, posteriore a tale fatto; e neppure nelle tasse: riducetele, il processo rallenterà, ma sarà solo fermato a mezza via. La spiegazione è nei progressi che l’agricoltura ha cominciato a fare da una cinquantina d’anni in Europa, dopo essere rimasta durante quindici secoli stazionaria. È ancora, fino a un certo punto, nei crescenti bisogni dell’agricoltore stesso, nelle facilità di prestito che gli offrono le banche, l’officina, i sensali, i nobilucci della città per metterlo nelle loro reti; e infine nei prezzi così elevati della terra, accaparrata dai ricchi, sia come proprietà per diporto, sia per i bisogni dell’industria o del traffico.
Analizziamo il primo di questi fattori, il più generale agli occhi nostri. Per far fronte ai progressi dell’agricoltura, per poter vendere allo stesso prezzo di colui che coltiva a macchina e ottiene maggiori raccolti grazie ai concimi chimici, oggi il contadino deve avere un certo capitale che gli permette di realizzare alcuni miglioramenti nella coltura. Senza un fondo di riserva non c’è agricoltura possibile. La casa si sgretola, il cavallo invecchia, la vacca non dà più latte, l’aratro arrugginisce, il carro si spezza; bisogna ripararli, sostituirli. Inoltre, bisogna ancora aumentare il bestiame, procurare uno strumento perfezionato, migliorare il campo. Tutto questo esige subito qualche biglietto da mille che il contadino non può mai trovare. Che cosa fa allora? Ha un bel praticare “il sistema dell’unico erede”, che spopola la Francia, ma non arriva a trarsi d’impaccio. Finisce quindi col mandare il figlio in città – ad aumentare il proletariato urbano, e lui stesso si ipoteca, si indebita, ritorna servo – servo del banchiere, come una volta lo era del signore.
Ecco, la piccola proprietà odierna. Coloro che la glorificano sono in ritardo di mezzo secolo: ragionano su fatti osservati cinquant’anni fa, ignorano la realtà del presente.
Questo fatto così semplice, che si riassume in due parole: “Niente agricoltura senza fondo di riserva”, racchiude un insegnamento, sul quale farebbero bene a riflettere i “nazionalizzatori del suolo”.
I partigiani di Henry George, se riuscissero domani a spossessare tutti i lord inglesi delle loro proprietà, a distrIbuire queste terre, in piccoli lotti, a tutti coloro che vogliano coltivarle, a ridurre il più possibile il prezzo del fitto o anche a sopprimerlo; vi sarebbe un aumento di benessere durante venti o trent’anni, ma poi bisognerebbe tornare da capo.
La terra richiede cure. Per ottenere ventinove ettolitri di frumento per ettaro, come a Norfolck, e fino a trentasei o quarantadue ettolitri – un raccolto simile non è più favoloso – bisogna togliere la ghiaia, prosciugare, scavare il suolo, sostituire la marra al piccone, comprare concimi, mantenere le strade. Bisogna dissodare per fare fronte ai maggiori bisogni di una popolazione in aumento.
Tutto ciò esige spese e una quantità di lavoro che una famiglia da sola non può fornire – ed è per questo che l’agricoltura rimane stazionaria. Per avere i raccolti che si ottengono già con le colture intensive, bisogna spendere qualche volta per prosciugamenti, in un mese o due, quattro o cinque mila giornate di lavoro (ventimila franchi) sopra un ettaro solo. È quanto fa il capitalista ed è quanto non può fare mai il piccolo proprietario con il misero gruzzolo che riesce a raggranellare, privandosi di tutto quanto è necessario alla vita di un essere veramente umano. La terra richiede il lavoro vivificante dell’uomo, per farle rendere abbondanti raccolti, ma le braccia sono scarse. Rinchiuso per tutta la vita nelle caserme industriali, egli fabbrica tessuti per i rajah dell’India, per i possessori di schiavi in Africa, per le mogli dei banchieri; tesse per vestire gli Egiziani, i Tartari del Turchestan, quando non passeggia con le braccia incrociate attorno alle officine silenziose – e intanto la terra resta incolta e non produce quanto è necessario al benessere di milioni di uomini. La carne è ancora oggetto di lusso per venti milioni di Francesi.
Oltre a quelli che lavorano quotidianamente la terra, questa esige ancora milioni di braccia in certi periodi per migliorare i campi, per togliere la ghiaia dalle praterie, per creare con l’aiuto delle forze della natura un suolo fertile, per abbicare a tempo le ricche messi. La terra richiede che la città mandi le sue braccia, le sue macchine, i suoi motori, mentre questi motori, queste macchine, queste braccia restano in città o disoccupate o impiegate a soddisfare la vanità dei ricchi del mondo intero.
Invece di essere sorgente di ricchezza per il Paese, la proprietà individuale è divenuta causa di inciampo nello sviluppo dell’agricoltura. Mentre pochi studiosi aprono nuove vie alla coltura della terra, questa resta stazionaria su quasi tutta la vasta superficie dell’Europa, e questo a causa della proprietà individuale.
Ne consegue forse che la Rivoluzione Sociale deve rovesciare tutti i limiti e le siepi della piccola proprietà, demolire orti e giardini e farvi passare sopra l’aratro a vapore, per introdurre i benefici problematici della grande coltura, così come sognano certi riformatori autoritari?
Da parte nostra ci guarderemo bene dal farlo. Non toccheremo affatto il podere del contadino, finché lo coltiva lui stesso coi suoi figli, senza ricorrere al lavoro salariato. Esproprieremo tutta la terra non coltivata dalle braccia di coloro che ne sono i detentori attuali. E quando la Rivoluzione Sociale sarà un fatto compiuto, quando l’operaio delle città non lavorerà più per un padrone ma per i bisogni di tutti, le squadre operaie, allegre e gioconde, si recheranno in campagna a dare alle terre espropriate la coltura con le loro mani e a trasformare in pochi giorni le brughiere incolte in fertili pianure, apportando la ricchezza al Paese, fornendo a tutti – “prendine, ne resta” – i prodotti ricchi e variati che la terra, la luce, il calore, porgeranno benignamente all’uomo. Quanto al piccolo proprietario, credete che non comprenderà i vantaggi della coltura comune, quando li avrà sotto gli occhi? che non domanderà anche lui di entrare a fare parte della grande famiglia?
L’aiuto saltuario che le schiere dei disoccupati cenciosi di Londra, gli hop-picker, danno oggi al coltivatore del Kent; l’aiuto che la città porge qualche volta al villaggio all’epoca della vendemmia, sarà dato per la coltura, come oggi è dato per il raccolto. Industria eminentemente periodica (gli speculatori del Far West l’hanno mirabilmente compreso), che domanda in certe epoche un aumento di braccia, per il miglioramento del suolo, ben più che per il raccolto, l’agricoltura, divenuta coltura in comune, sarà il nesso per unire la città al villaggio: essa ne farà un solo giardino, coltivato da una sola famiglia. I Mammoth-Farm e altri posti degli Stati Uniti, dove la coltura è praticata oggi su larga scala da migliaia di poveri, occupati per pochi mesi e rinviati non appena il lavoro e il raccolto sono terminati, saranno trasformati in luoghi di svago per i lavoratori industriali.
L’avvenire non appartiene alla proprietà individuale, al contadino legato al podere che lo nutre appena, ma alla coltura comunista. Essa sola – sì, essa sola – può ricavare della terra quanto abbiamo diritto di domandarle.
È forse nell’industria che troveremo i benefici della proprietà individuale?
Non dilunghiamoci sui mali che generano nell’industria la proprietà privata e il capitale. I socialisti il conoscono abbastanza. Miseria del lavoratore, incertezza del domani, anche laddove la fame non batte alla porta, crisi, disoccupazione, sfruttamento della donna e del fanciullo, deperimento della razza. Lusso malsano per gli oziosi e stato di bestia da soma per il lavoratore, privato dei mezzi di partecipare alle gioie del sapere, dell’arte, della scienza; tutto questo è stato già detto tante volte e così bene, che è inutile ripeterlo qui. Guerre per l’esportazione e il dominio dei mercati, guerre interne, eserciti colossali, bilanci mostruosi, sterminio di intere generazioni. Depravazione morale degli oziosi, falsa direzione da essi data alla scienza, alle arti, ai princìpi etici. Governi divenuti necessari per impedire la rivolta degli oppressi; la legge e i suoi delitti, i suoi carnefici e i suoi giudici; l’oppressione, la soggezione, il servilismo che ne risultano, la depravazione riversata sulla società; ecco il bilancio della proprietà individuale e del potere personale da essa generato.
Ma, nonostante tutti questi difetti, tutti questi mali, forse la proprietà privata ci rende qualche servizio che compensi i suoi lati cattivi? Forse, data la bestialità umana di cui ci parlano i dirigenti, essa è ancora il solo mezzo per fare progredire la società? Le dobbiamo forse il progresso industriale e scientifico del nostro secolo? Alcuni “scienziati” osano sostenerlo. Esaminiamo su cosa si basano le loro affermazioni e i loro argomenti.
I loro argomenti? Il solo, l’unico che facciano vedere, eccolo: “Guardate, dicono, il progresso dell’industria in cento anni, da quando si è liberata dagli inciampi governativi e corporativi! Osservate le ferrovie, i telegrafi, le macchine che sostituiscono ognuna il lavoro di cento, di duecento persone, fabbricando tutto, dal motore che pesa centinaia di tonnellate, ai ricami più fini! Tutto ciò è dovuto all’iniziativa privata, al desiderio dell’uomo di arricchirsi!”.
Certamente, i progressi compiuti nella produzione delle ricchezze da cento anni in qua sono giganteschi, ed è per questo pure – notiamolo di sfuggita – che oggi si impone una corrispondente trasformazione nella ripartizione dei prodotti. Ma è proprio all’interesse personale, alla cupidigia intelligente dei padroni che noi dobbiamo tali progressi? Non vi sono proprio altri fattori, molto più importanti, che hanno potuto produrre gli stessi risultati e hanno compensato anzi i dannosi effetti della rapacità degli industriali?
Questi fattori li conosciamo tutti. Basta nominarli per farne risaltare la loro importanza. Per primo il motore a vapore, comodo, maneggevole, sempre facile da fare funzionare, che ha rivoluzionato l’industria. Poi la creazione delle industrie chimiche, il cui sviluppo è divenuto così importante che, a detta dei tecnici, ci dà la giusta misura dello sviluppo industriale di ogni nazione. Esse sono interamente un prodotto del nostro secolo; ricordatevi ciò che era la chimica nel secolo scorso! Infine tutto il grande movimento d’idee, avvenuto dalla fine del diciottesimo secolo in poi, liberando l’uomo dalle strettoie metafisiche, gli ha permesso appunto di fare le scoperte fisiche e meccaniche che hanno rifatto l’industria. Chi oserebbe dire di fronte a questi fattori possenti, che l’abolizione delle maestranze e delle giurie di mestiere fu più importante per l’industria delle grandi scoperte del nostro secolo? E date queste scoperte, chi, d’altra parte, oserebbe affermare, che un modo qualunque di produzione collettiva non avrebbe saputo profittarne ugualmente, e più ancora, dell’industria privata?
Quanto alle scoperte medesime, bisognerebbe non avere mai letto le biografie degli inventori, non averne mai conosciuto uno solo, per supporre che siano spinti dalla sete del guadagno! La maggior parte sono morti sulla paglia ed è noto come il capitale e la proprietà privata, hanno ritardato l’applicazione, il miglioramento delle grandi innovazioni.
D’altronde, per sostenere su questo terreno i vantaggi della proprietà individuale contro il possesso collettivo, bisognerebbe ancora provare che quest’ultimo si oppone ai progressi dell’industria. Senza questa prova, l’induzione non ha valore alcuno. Ora, tale tesi è precisamente insostenibile, per questa sola e buona ragione, che non abbiamo mai visto un’associazione comunista, avente il capitale necessario per gestire una grande industria, opporsi all’introduzione di nuove invenzioni. Al contrario invece, per quanto imperfette siano le associazioni, le cooperazioni, ecc., che abbiamo visto sorgere, per quanti difetti abbiano, non hanno mai avuto quello di restare sorde al progresso industriale.
Avremmo molto da ridire sulle diverse istituzioni a carattere collettivo, provate da un secolo a questa parte. Ma – cosa notevole – il più grande rimprovero che possiamo fare loro è precisamente quello di non essere state abbastanza collettive. Alle grandi società di azionisti che hanno tagliato gli istmi e forato le montagne, rimproveriamo soprattutto di avere costituito una nuova forma di padronato anonimo e di avere seminato di ossa umane ogni metro dei loro canali e delle loro gallerie; alle corporazioni operaie rimproveriamo la costituzione di un’aristocrazia di privilegiati che domandano solo di sfruttare i loro fratelli. Ma né le une né le altre possono venire accusate di spirito di inerzia, ostile ai miglioramenti dell’industria. L’insegnamento che deduciamo dalle intraprese collettive fatte fino a oggi, è che esse hanno tanto maggiori probabilità di riuscita, quanto minori ne hanno l’interesse personale e l’egoismo dell’individuo di sostituirsi all’interesse collettivo.
Risulta dunque, da questa analisi, forzatamente troppo breve, che quando si vantano i benefici della proprietà individuale è in base ad affermazioni di una superficialità veramente ridicola. Non preoccupiamocene oltre misura: cerchiamo piuttosto di determinare sotto quale forma deve presentarsi l’appropriazione di tutti della ricchezza sociale; tentiamo di precisare la tendenza della società moderna e, appoggiandoci su questa base, tentiamo di scoprire quale forma può prendere l’espropriazione al momento della prossima rivoluzione.
III
Nessun problema è più importante e noi invitiamo tutti i nostri compagni a studiarlo sotto ogni aspetto, a discuterlo continuamente, in vista della realizzazione, che presto o tardi si imporrà. Da questa espropriazione, bene o male applicata, dipenderà la riuscita definitiva o l’insuccesso temporaneo della rivoluzione.
Infatti nessuno fra noi può ignorare che qualunque tentativo di Rivoluzione è condannato fin dall’inizio se non risponde agli interessi della grande maggioranza e non trova mezzo di soddisfarli. Non basta possedere un nobile ideale. L’uomo non vive solo di alti pensieri e di superbi discorsi, gli occorre anche il pane; il ventre ha più diritti ancora del cervello, poiché nutre tutto l’organismo. Ebbene, se all’indomani della Rivoluzione le masse popolari non hanno che frasi al loro servizio; se non riconoscono con fatti di un’evidenza chiara, lampante, che la situazione si è trasformata a loro vantaggio; se il rovesciamento non ottiene che un cambiamento di persone e di formule, non vi sarà nulla di fatto. Non resterà che una disillusione di più. E nuovamente ci metteremo all’opera ingrata di Sisifo, rotolante il suo eterno macigno!
Perché la Rivoluzione sia qualche cosa di più che una semplice parola, perché la reazione non ci riconduca subito, l’indomani, alla situazione della vigilia, occorre che la conquista di oggi meriti di essere difesa; è necessario che il cencioso di ieri non sia più così miserabile. Basti ricordare gli ingenui repubblicani del 1848, che avevano messo “tre mesi di miseria al servizio del governo provvisorio”. I tre mesi di miseria furono accettati con entusiasmo e non si mancò di pagarli, a tempo debito, con le mitragliatrici e con le deportazioni in massa. I disgraziati avevano sperato che penosi mesi d’aspettativa sarebbero bastati alla redazione di quelle leggi di salvezza, che dovevano trasformarli in uomini liberi e assicurare, unitamente al lavoro, il pane quotidiano. Invece di domandare, non sarebbe stato più sicuro prendere? Invece di fare mostra della propria miseria, non era preferibile porvi un termine? Non è che il sacrificio non sia una gran bella cosa, ma abbandonare a una sorte infelice tutti quelli che si schierano con noi non è sacrificarsi, è tradire. Sta bene che i combattenti muoiano, ma che la loro morte sia utile! Che gli uomini di fede si sacrifichino, è anche giusto, ma che la massa almeno approfitti del loro olocausto!
Solo l’espropriazione generale può soddisfare la moltitudine dei sofferenti e degli oppressi. Dal dominio della teoria bisognerà farla entrare nel campo dell’applicazione pratica. Ma perché risponda al principio di soppressione della proprietà privata e di restituzione di tutto a tutti, bisogna che su compia in vaste proporzioni. In piccolo, non si vedrebbe che un volgare saccheggio; in grande è l’inizio della riorganizzazione sociale. Senza dubbio, saremmo del tutto ignari delle leggi della storia se immaginassimo che, a un tratto, un intero Paese possa divenire il nostro campo d’esperienza. La Francia, l’Europa, il mondo, non si faranno anarchici per un’improvvisa trasformazione; ma noi sappiamo anche che, da una parte, la follia dei governi, le ambizioni, le guerre e le bancarotte, dall’altra, l’incessante propaganda delle idee, avranno per conseguenza grandi rotture di equilibrio, cioè rivoluzioni. In quei giorni noi potremo agire. Quante volte i rivoluzionari sono stati sorpresi dagli avvenimenti, senza utilizzarli per la loro causa, vedendo sfuggire la fortuna propizia senza afferrarla!
Ebbene, quando questi giorni verranno, e spetta a noi affrettarne la venuta, quando tutta una regione, grandi città con i loro sobborghi, si saranno sbarazzate del governo, la nostra opera è completamente tracciata; occorre che tutte le macchine e tutti gli strumenti di lavoro siano resi alla comunità, che il patrimonio sociale detenuto dai singoli Paesi passi nelle mani dei suoi veri padroni, di tutti, affinché ognuno possa partecipare largamente al consumo, pur facendo in modo che la produzione possa continuare in quanto è utile e necessaria alla vita sociale, la quale, invece di essere interrotta, acquisterà così una ben maggiore energia. Senza gli orti e i campi che ci danno le derrate indispensabili alla vita, senza i granai, i depositi, i magazzini, che racchiudono i prodotti accumulati dal lavoro, senza le fabbriche e le officine che forniscono le stoffe, i metalli lavorati, i mille oggetti dell’industria e dell’arte, come pure i mezzi di difesa, senza le ferrovie e le altre strade di comunicazione che ci permettono di scambiare i nostri prodotti con le comuni libere dei dintorni e di combinare i nostri sforzi per la resistenza e per l’attacco siamo spacciati fin dal principio, soffochiamo come il pesce fuori dell’acqua, che non può più respirare quantunque l’immenso oceano dell’aria lo circondi.
Ricordiamoci il grande sciopero degli operai delle strade ferrate, che ebbe luogo alcuni anni or sono in America. La grande massa del pubblico riconosceva che la loro causa era giusta; tutti erano stanchi dell’insolenza delle Compagnie, e si auguravano di vederle ridotte alla mercè dei loro dipendenti. Ma quando questi padroni delle strade e delle locomotive, ebbero sospeso il servizio, quando tutto il movimento di scambi venne interrotto, quando le merci e i viveri di ogni genere raddoppiarono il prezzo, l’opinione pubblica mutò opinione. “Le Compagnie ci rompono braccia e gambe, ma sono pur sempre preferibili a questi balordi di scioperanti che ci lasciano morire di fame!”. Non dimentichiamolo! Dobbiamo salvaguardare tutti gli interessi della folla e soddisfare a un tempo ai suoi bisogni come pure ai suoi istinti di giustizia.
Tuttavia, non basta riconoscere il principio, bisogna applicarlo.
Ci si ripete spesso: “Provate dunque a togliere il pezzo di terra al contadino, la capanna al bracciate e vedrete come vi riceveranno: a calci e con i forconi”. Benissimo! Ma noi l’abbiamo detto, non prenderemo né il lotto di terra né la bicocca. Ci guarderemo dall’attaccare i nostri migliori amici, coloro che senza saperlo oggi saranno certamente i nostri alleati di domani. L’espropriazione si farà a loro profitto. Sappiamo che esiste una media di ricavati: chi ne ha in meno soffre la carestia, chi ne ha in più gode del superfluo. In ogni città, in ogni paese, questa media differisce; ma l’istinto popolare non si ingannerà di certo e, senza che sia necessario stabilire statistiche su delle carte e riempire di cifre una serie di volumi, il popolo saprà ritrovare il suo bene. Nella nostra bella società una debole minoranza si è aggiudicata la maggior parte dei redditi nazionali, si è fatta costruire i palazzi di città e di campagna, accumula nelle banche e sotto il suo nome i valori monetari, i biglietti e le cartacce di ogni specie, che rappresentano il risparmio del lavoro pubblico. È là che converrà prendere, per liberare di un colpo e l’infelice contadino che ha ogni zolla di terra gravata da un’ipoteca, e il piccolo bottegaio che vive continuamente sulle spine in previsione delle cambiali, delle obbligazioni, dell’inevitabile fallimento, e tutta la lamentevole folla che non ha il pane per domani. Anche se indifferente alla vigilia, tutta questa moltitudine potrà forse ignorare il giorno dell’espropriazione se da essa dipende restare libera o ricadere nella miseria e nell’eterna ansietà? Oppure avrà ancora l’ingenuità, invece di liberarsi da se stessa, di nominare un governo provvisorio di persone dalle agili mani e dalle buone lingue? Oppure non si darà pace fintanto che non avrà sostituito con nuovi padroni gli antichi? Che compia la sua opera, se vuole che sia compiuta; l’affidi a delegati, se preferisce essere tradita!
La ragione non è tutto, lo sappiamo. Non basta che gli interessati arrivino a comprendere il loro interesse, che è quello di vivere senza continue preoccupazioni per l’avvenire e senza l’umiliazione di obbedire a dei padroni; bisogna altresì che le idee relative alla proprietà siano mutate e che la morale corrispondente si sia modificata nello stesso senso. Occorre ammettere senza esitazioni né reticenze morali, che tutti i prodotti, l’insieme del risparmio e degli utensili, sono dovuti al lavoro solidale di tutti e non hanno che un solo proprietario: l’umanità. Bisogna vedere chiaramente nella proprietà privata ciò che essa è in realtà, un furto cosciente o incosciente del patrimonio di tutti e impadronirsene senz’altro, quando l’ora della rivendicazione sarà suonata. Nelle rivoluzioni anteriori, quando si trattava di sostituire un re con un nemico della sua famiglia, o di sostituire avvocati “alla migliore delle repubbliche”, i proprietari succedevano ai proprietari e il regime sociale non cambiava. Anche gli avvisi: “Morte ai ladri!”, che si mettevano sulle porte di tutti i palazzi, erano in perfetta armonia con la morale corrente, e più di un povero diavolo fu fucilato per aver preso uno scudo del re o un pane del fornaio, come esempio della giustizia del popolo.
La degna guardia nazionale, incarnante tutta l’infame solennità delle leggi che gli incettatori hanno redatte per la difesa delle loro proprietà, mostrava con orgoglio il cadavere steso sui gradini del palazzo, e i suoi colleghi l’acclamavano come vendicatrice del diritto. Questi avvisi del 1830 e del 1848 non si rivedranno più sui muri delle città insorte. Non vi è furto possibile, laddove tutto appartiene a tutti. “Prendete e non sprecate, poiché tutto ciò vi appartiene e ne avrete bisogno”. Ma distruggete senz’altro quanto deve essere rovesciato, le Bastiglie e le prigioni, i forti rivolti contro le città e i quartieri insalubri, dove avete per così lungo tempo respirato un’aria pregna di veleno. Installatevi nei palazzi e negli alberghi e fate un falò con i mucchi di mattoni e di legno fradicio che furono le vostre sentine. L’istinto di distruzione, così naturale e così giusto perché al tempo stesso istinto di rinnovamento, sarà largamente soddisfatto. Quante cose invecchiate da sostituire! Non è forse tutto da rifare, case, città, macchinario agricolo e industriale, il materiale della società intera?
A ogni grande avvenimento della storia corrisponde una relativa evoluzione della morale umana. Certo, la morale degli uguali non è quella del ricco caritatevole e del povero riconoscente. A un nuovo mondo occorre una nuova fede, ed è un mondo nuovo che si annuncia. I nostri avversari stessi lo ripetono continuamente: “Gli dèi se ne vanno! I re anche! Il prestigio dell’autorità scompare”. E chi sostituirà gli dèi, i re, i preti, se non l’individuo libero, fiducioso nella sua forza?
La fede ingenua se ne va.
Largo alla scienza!
L’arbitrio e la carità scompaiono.
Largo alla giustizia!
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