Seconda edizione: L’arrembaggio, Trieste 2002
Terza edizione: aprile 2007
Quarta edizione: novembre 2013
L’Introduzione alla prima edizione si trova pubblicata ne La dimensione anarchica, seconda edizione, Edizioni Anarchismo, Trieste 2007, pp. 349-354
Opuscoli provvisori n. 3
Parigi 1871. La Comune libertaria
Introduzione alla seconda edizione
Il 2 novembre 1870 si conclude la guerra franco-tedesca con la pesante e inaspettata sconfitta dell’esercito francese a Verdun. Cominciata poche settimane prima questa guerra aveva fatto conoscere al mondo la potenza militare della piccola Prussia e, nello stesso tempo, l’inutilità dell’opposizione parlamentare, non di certo marginale nel parlamento prussiano. In quasi tutta la Germania, il partito di Bebel e Liebknecht aveva cercato di impedire che le masse operaie tedesche partecipassero a una guerra contro i fratelli francesi, ma l’iniziativa si concluse con un clamoroso fallimento. Non solo la guerra non fu impedita, ma il successo di Bismarck (i suoi imbrogli diplomatici si conobbero solo molto tempo dopo) venne considerato come il primo gradino per la scalata al potere europeo da parte della grande Germania.
Il movimento operaio francese aveva cercato di rispondere per tempo, ma anche qui l’opposizione proudhoniana non aveva avuto la forza di fermare la superbia del militarismo francese che si considerava invincibile.
In effetti, come doveva apparire chiaro in breve tempo, a partire dalle sconfitte della fine di settembre del 1870, con i Prussiani in marcia travolgente su Parigi, non era certo un’opposizione parlamentare quella che poteva fermare la rovina del popolo francese.
Lione insorge il 26 settembre 1870 e, proclamando la “Federazione rivoluzionaria delle comuni” sotto l’influenza teorica e pratica di Bakunin, dichiara “abolita” la “macchina amministrativa e governativa dello Stato”. Ma questa iniziativa politica e non rivoluzionaria non basta: essa viene schiacciata sotto la repressione del governo provvisorio.
Di fronte al peggioramento delle cose, dopo la sconfitta definitiva di Sedan, dove perfino Napoleone III viene fatto prigioniero, è lo stesso popolo di Parigi a insorgere e a proclamare, il 18 marzo 1871, la “Comune”.
Che significato hanno, per noi oggi, questi fatti che sono lontani nel tempo, oggi che l’unità europea vede a braccetto capi di Stato francesi e tedeschi darsi la mano in un abbraccio fra massacratori temporaneamente disoccupati?
Il testo che ripubblichiamo, dopo più di trent’anni, venne redatto da un giovane anarchico catanese, allora facente parte del gruppo “Lega Comunista-Libertaria”, di cui non mette conto ricordare qui qualcosa di più del suo triste destino: professore universitario della Repubblica. Comunque, siccome quel testo qualche validità la contiene ancora, eccolo qui con la presentazione del sottoscritto che all’epoca ebbe l’onere di redigere la prima introduzione.
Oggi vediamo con chiarezza quello che forse trent’anni fa ci sfuggiva: l’iniziativa popolare, per come si manifestò nel corso dei pochi mesi di vita della Comune non ha importanza “soltanto” per quello che in quel breve lasso di tempo venne realizzato, ma anche per quello che venne alimentato in potenza, cioè per quello che venne fatto vivere come nucleo essenziale di un fatto non del tutto comprensibile agli occhi dei contemporanei e, a dire il vero, nemmeno degli eredi che su di esso rifletteranno esattamente un secolo dopo.
Mi sembra opportuno qui riportare, non ricorrendo a citazioni letterali, ma fidandomi della memoria, il giudizio sulla guerra franco-prussiana che Marx esprimeva in una lettera a Engels, lettera contestuale alle prime vittorie di Bismarck: la vittoria del cancelliere – scriveva Marx da Londra – corrisponde alla nostra vittoria in quanto rende possibile il rafforzamento della borghesia tedesca a cui, per logica (la logica dialettica, evidentemente, tanto cara ai marxisti) corrisponde il rafforzamento del proletariato tedesco. Inoltre, a questa vittoria corrisponde anche la sconfitta dei proudhoniani (leggere: gli anarchici) i quali sostengono un insurrezionalismo che porta soltanto alla disgregazione del proletariato.
Tutti sanno che l’evolversi degli eventi parigini condusse i fondatori della dittatura del proletariato ad ammorbidire le loro posizioni riguardanti una conquista più o meno legalitaria del potere da parte delle organizzazioni proletarie, arrivando a considerare positivamente l’insurrezione parigina e vedendo in essa l’unico freno possibile alla svendita degli interessi del popolo francese da parte del governo riparato a Versailles, mano militare interna dei Prussiani. Ma questa modificazione non fece loro perdere di vista che in ogni caso lo scatenamento della violenza insurrezionale è un fatto soltanto “limitatamente” positivo, in quanto scatena processi non facilmente controllabili.
Ecco perché oggi torna utile riflettere ancora su quei lontani avvenimenti parigini. Non più fissando l’attenzione sull’abilità degli operai messa in mostra nel gestire la zecca o nel difendere gli interessi della Banca di Francia o nel fare funzionare il servizio postale, oppure di anarchici a tutta prova (come Elie Reclus) nel dirigere la Biblioteca nazionale, ma riflettendo sugli aspetti che per tanto tempo sono stati considerati di secondo piano, se non decisamente negativi. L’insurrezione ci accompagna quasi quotidianamente negli accadimenti mondiali, e molti che una volta la consideravano un modello di lotta sorpassato e comunque minoritario e facilmente recuperabile, si stanno ricredendo.
Gli avvenimenti di marzo portarono nelle strade di Parigi una umanità dolorante che non si era mai vista. La borghesia (secondo la testimonianza di Vilfredo Pareto) ne fu addirittura terrorizzata. Più che gli scontri veri e propri, le barricate e le distruzioni, come l’abbattimento della colonna Vendôme eretta a ricordo delle vittorie di Napoleone, fatti che interessarono solo una parte dei quartieri della città, quello che fece veramente paura fu l’autorganizzazione di una realtà sovversiva che non si immaginava potesse fare da sé. Dai luoghi più reconditi e miseri di Parigi uscirono le forze vive di quella parte della società da sempre destinata alla fame e all’ignoranza. E questa gente non andava tanto per il sottile, anche se i tentativi di frenarla partirono subito da quelle componenti – politici, letterati, avvocati – che in questi casi riescono a mettersi alla testa di ogni iniziativa per darle il “giusto” freno e indirizzarla verso quelle contrattazioni che nella loro logica (ancora una volta la logica del potere) possono dare i migliori frutti. Difatti, anziché attaccare subito Versailles, utilizzando i cannoni che si trovavano a Parigi, e impiegando le forze militari che potevano avere facilmente ragione dei resti di un esercito umiliato e sconfitto, questi “capi proletari” fecero di tutto per rallentare le cose e permettere al governo provvisorio di riorganizzarsi e, con l’aiuto dei Prussiani, schiacciare la Comune con migliaia di morti e millenni di condanne alla deportazione.
Sotto questo aspetto, quasi del tutto sconosciuto, molto resta da approfondire riguardo gli avvenimenti insurrezionali parigini del 1871. Poco sappiamo riguardo gli espedienti innovativi messi in atto per resistere nelle strade della capitale e per contrattaccare, costringendo i nemici alla ritirata, come poco sappiamo riguardo le tesi di coloro che, all’interno dell’insurrezione stessa, espressione delle forze popolari più radicali, non volevano limitarsi alla stesura di proclami e poesie, ma volevano distruggere l’intera città (espressione nel quadrilatero tra la Sorbona e il Lussemburgo della ricchezza della borghesia francese) piuttosto che consegnarla nelle mani dei vincitori. Mi sembra che si possa individuare all’interno degli accadimenti di marzo, specialmente nelle prime settimane di lotta per le strade, una “potenzialità inespressa” di natura insurrezionale che costituisce un riferimento per tutti noi, e questo ben al di là dei modi concreti in cui essa riuscì ad esprimersi. In fondo ogni insurrezione si collega senza saperlo a tutte le insurrezioni precedenti, in quanto quasi sempre l’iniziativa popolare, di fronte alle condizioni repressive che nel loro mutare per molti aspetti si ripresentano sempre uguali, si sviluppa in maniera coerentemente autonoma, rigetta (almeno sulle prime) qualsiasi guida più o meno colorata politicamente, e non aspetta il segnale della lotta da parte di un quale che sia gruppo di specialisti.
In questa direzione anche il presente libretto può dare un sia pur modesto contributo.
Trieste, 24 febbraio 2002
Alfredo M. Bonanno
Parigi 1871. La Comune libertaria
Quando Napoleone III finì per cadere nel tranello di Bismarck e accettò la guerra che lo doveva portare ad una fine ingloriosa, certamente poteva immaginare che il popolo di Parigi, che fino ad allora si era mostrato non troppo condiscendente verso la sua politica, avrebbe preferito alla resa ignominiosa di fronte al nemico la via dell’insurrezione popolare.
In effetti Luigi Bonaparte, riflettendo un poco su cosa era stato in passato il popolo di Parigi, senza dubbio non avrebbe preso così alla leggera questa avventura.
Già prima Parigi aveva dimostrato come ogni rivoluzione che scoppiava in essa non potesse assumere un carattere sufficientemente incisivo se non diventando proletaria. E ciò si dimostrava molto pericoloso in quanto, una volta ottenuta la vittoria, il proletariato non poteva fare a meno di presentare le proprie rivendicazioni.
Esse erano sì confuse, ma, sia a causa delle circostanze in cui erano avanzate – in un momento, cioè, in cui gli operai erano in armi – sia per il fatto che da un punto di vista tattico la borghesia si trovava nell’impossibilità di opporre un aperto rifiuto, non erano certo da prendersi alla leggera e contenevano addirittura una minaccia per l’ordinamento sociale vigente. Ecco, quindi, che per i borghesi si imponeva l’imperativo di disarmare gli operai, togliendo così forza alle loro rivendicazioni. Gli operai che avevano fino ad allora vinto, in una nuova lotta venivano sconfitti.
Il primo e classico esempio di questo modo di procedere è dato nel 1848.
Allora i liberal-borghesi, allo scopo di prevalere maggiormente sul governo per ottenere una riforma elettorale che avrebbe assicurato il predominio della loro classe, non esitarono a fare appello al popolo. Ma gli operai, che fin dal 1830 avevano assunto più coscienza di classe di quanto la borghesia e gli stessi repubblicani sospettassero, non fecero altro, al momento di maggiore tensione nella crisi tra il governo e l’opposizione, che scendere in piazza e dare battaglia. La Repubblica sociale sorse per loro mano. Ma gli operai armati adesso erano pericolosi. I repubblicani borghesi al governo gettarono la maschera e, una volta assicuratisi una schiacciante superiorità di forze, li provocarono e li spinsero all’insurrezione: fu un massacro.
Da quanto detto si può vedere come sin da allora gli operai parigini avessero assunto una coscienza di classe: una coscienza di classe sufficiente per renderli pericolosi agli occhi della borghesia ma non tanto da far loro condurre la lotta fino in fondo in modo da spezzare decisamente il potere borghese. D’altra parte era stata la stessa borghesia a favorire l’intervento del popolo in armi in maniera da appoggiarsi su esso e non il proletariato che, prendendo coscienza della propria condizione, autonomamente decideva di sollevarsi.
Alla vigilia della dichiarazione di guerra a Parigi l’atmosfera era molto tesa.
Già con l’assassinio di Victor Noir ad opera di un cuginastro di Luigi Bonaparte, Pierre Napoleon Bonaparte, si era creato un clima pre-rivoluzionario. Il corteo funebre fu un corteo di uomini in armi, decisi a tutto alla minima provocazione. Ma l’occasione mancò.
Frattanto il governo distoglieva l’attenzione dell’opinione pubblica dai preparativi per la guerra montando una campagna diffamatoria contro i rivoluzionari, ordendo attentati e complotti: tutto era buono per travolgerli rendendoli così inoffensivi. Furono “trovate” delle bombe in luoghi compromettenti: donde il processo di Blois. Ma tutto fu preparato così maldestramente che i rivoluzionari accusati, malgrado condannati, ne uscirono trionfanti, mentre il governo accumulava discredito.
L’Impero questa volta aveva sbagliato il calcolo puntando sul processo di Blois, fatto contemporaneamente alla dichiarazione di guerra appunto per farla approvare.
La guerra, una volta iniziata, andava di male in peggio: i dispacci dimostrano chiaramente l’inefficienza, la disorganizzazione e la codardia di coloro che avrebbero dovuto condurla.
La borghesia o, meglio, la burocrazia imperiale con a capo Luigi Bonaparte mostrava sempre più di non essere in grado di difendere i propri interessi, di essere arrivata ad un punto tale di disfacimento da non essere più capace di salvare la nazione dai Prussiani di Bismarck.
La rivoluzione era nell’aria, e l’affrettava la stessa decomposizione del regime bonapartista. Anche Marx ormai lo considerava già condannato: “Qualunque sia la conclusione della guerra tra Luigi Bonaparte e la Prussia l’ultima ora del Secondo Impero è suonata”.
I repubblicani pensavano che solo la Repubblica poteva salvare la Francia: decisero di armarsi e per far ciò assaltarono la caserma dei pompieri in rue de la Villette. Ma la polizia, preavvertita, si scagliò su di loro. Ancora una volta tutto era finito, ma l’occasione sarebbe ritornata.
Intanto le sconfitte si accumulavano mentre il governo continuava ad annunciare vittorie. Ma il 3 settembre si apprese della sconfitta di Sedan: l’imperatore era prigioniero.
Ai parigini non importava che l’imperatore fosse prigioniero: ora era in pericolo la stessa Parigi. Il 4 settembre venne proclamata la Repubblica e il governo giurò di non arrendersi e di combattere fino all’ultimo. Il popolo in questo frangente accordò ai deputati parigini del vecchio corpo legislativo di costituirsi in “governo di difesa nazionale”. Ma ciò fu concesso in quanto tutti i parigini atti alle armi erano entrati nella Guardia nazionale e, sebbene non fossero armati, pur tuttavia potevano esercitare una notevole influenza. Su questo punto vi è contrasto tra la tesi di Engels, secondo la quale tutti i parigini erano armati, e la versione d Louise Michel la quale afferma: “Si chiedevano armi, e il governo le rifiutava: forse mancavano per davvero: si viveva di promesse”. Anche Boris Nikolevskij e Otto Maenchen-Helfen, Karl Marx, tr. it., Torino 1969) affermano che “molti ufficiali si opponevano all’armamento della ‘plebe’ e particolarmente all’armamento degli operai”. La discordanza è giustificabile considerando il fatto che Engels la sua introduzione alla Guerra Civile in Francia l’ha scritta prima degli altri due lavori e quindi non ha potuto documentarsi a sufficienza, come potevano fare altri.
Il principale compito della Repubblica doveva essere quello di continuare la lotta ad oltranza contro i Prussiani (lotta che l’Impero e la burocrazia di Napoleone non erano riusciti a condurre in maniera onorevole). Essa trovava credibilità nell’insofferenza e nel disprezzo con cui veniva considerato l’Impero, il quale fino ad allora si era avocato il compito, togliendo loro il potere politico, di proteggere la borghesia contro gli operai e di proteggere gli operai contro i borghesi. Ora con la disfatta non solo non gli era più possibile adempiere a tale funzione, ma – a causa del malcontento generale – si profilava il pericolo che si scatenasse una vera e propria rivoluzione sociale ad opera degli operai e del proletariato di Parigi. La rivolta avrebbe certo trovato terreno nel sentimento nazionalistico di difesa contro i Prussiani, ma chi assicurava la borghesia che, una volta sconfitto il nemico esterno, le armi del proletariato, che nella lotta avrebbe frattanto elevato la propria coscienza di classe, non si sarebbero rivolte contro il nemico interno, la borghesia e i funzionari imperiali?
Occorreva dunque tenere in pugno il malcontento e cercare di incanalare la furia popolare verso obiettivi non troppo pericolosi: la borghesia avanzata, rappresentata dai repubblicani, non tardò a capire la situazione. Ed ecco i motivi della Repubblica.
È chiaro quindi che con la Repubblica del 4 settembre ancora il movimento popolare non aveva assunto un carattere di classe: dimostra ciò il fatto che al governo provvisorio si vennero a trovare, accanto agli esponenti dei rivoluzionari, personaggi come Gambetta.
Questa caratteristica si nota anche nel fatto che la Repubblica veniva immaginata come la panacea di ogni male: si credeva che ormai vi fosse la “libertà” e tutti si ripetevano: “Poiché abbiamo la Repubblica cambieremo quelli che non valgono nulla”. (Louise Michel). Ma la Repubblica è un nome vuoto che può prendere significato solo quando si sa chi sono e quale collocazione di classe hanno coloro che fanno il governo e se effettivamente il popolo ha la possibilità di cambiare “quelli che non valgono nulla”. Proprio questa possibilità mancava: il governo e la borghesia non volevano saperne di consegnare le armi al proletariato perché capivano benissimo che la loro posizione era abbastanza forte di fronte al proletariato disarmato ma non altrettanto in caso contrario. “Nulla era mutato, tutto il meccanismo era lo stesso tranne i nomi”, e perché ciò? Era stato “il potere a mutarli” così si esprimeva Louise Michel e non sbagliava di molto. Quindi nel governo provvisorio, nel quale vi erano rivoluzionari e borghesi repubblicani, questi ultimi finirono col prendere il sopravvento. I rivoluzionari, frattanto, costituirono il comitato centrale dei venti dipartimenti e in ciascuno di essi vennero istituiti dei sotto-comitati di vigilanza: questi organi cominciarono a contrapporsi al governo e questa volta ne facevano parte solo operai rivoluzionari.
Alla notizia di questi avvenimenti il Consiglio generale dell’Internazionale capì come nuove e magnifiche prospettive si presentassero alla classe operaia. Mandò il suo saluto alla giovane Repubblica ma non al governo provvisorio, governo composto anche da Orleanisti dichiarati e “repubblicani della classe media, su alcuni dei quali l’insurrezione del giugno 1948 aveva lasciato le indelebili impronte”. (Nikolaevskij e Maenchen-Helfen). Marx tuttavia giudicò che il dovere più immediato degli operai fosse quello di difendere la neonata Repubblica. Il secondo Manifesto, redatto da Marx, esortava gli operai francesi a fare il proprio dovere di cittadini: ormai non si trattava di combattere per il Bonaparte e le sue aspirazioni territoriali contro Bismarck, ma di difendere la Repubblica dalla rapacità dei Prussiani i quali avevano svelato i propri fini e trasformato una guerra da loro iniziata come difensiva in guerra apertamente predatoria e imperialista. Era evidente che la classe operaia non doveva dimenticare i suoi interessi, ma il suo compito attualmente doveva essere di trarre maggior profitto dalle circostanze favorevoli. Bisognava approfittare di tutte le libertà e di tutte le circostanze per sviluppare l’organizzazione della classe operaia. Un’azione indipendente di essa si sarebbe potuta sviluppare soltanto in seguito, dopo aver permesso che i borghesi facessero la pace con i Prussiani. Engels aveva la certezza che la classe operaia “avrebbe avuto bisogno di tempo per organizzarsi”. Quindi Marx e Engels esortavano gli operai di Parigi ad astenersi da qualsiasi azione prima della fine della guerra.
Così, mentre Marx si sforzava di prevenire ogni velleità di abbattere il governo provvisorio, Bakunin e i giacobini si adoperavano a fare l’opposto, considerando anzi la caduta di quel governo come il loro compito più urgente. Bakunin non credeva, come Marx, che la classe operaia avrebbe dovuto aspettare la fine della guerra per tentare la rivoluzione: così facendo si sarebbe permesso alla borghesia di passare indenne per quel periodo che la vedeva maggiormente indebolita a causa della guerra e per la perdita del suo supporto tradizionale: l’Impero. Con la fine della guerra la borghesia avrebbe potuto prendere di nuovo in pugno la situazione, ricostituire un esercito regolare, facendo liberare i prigionieri dei Prussiani e quindi spezzare il tentativo insurrezionale operaio. D’altra parte se questi tedeschi, condannati alla schiavitù e propaganti ovunque il flagello del dispotismo, avessero vinto, la causa del socialismo sarebbe stata perduta. Ma la sconfitta si sarebbe potuta evitare se la Francia si fosse ripresa in tempo, se cioè la rivoluzione si fosse estesa rapidamente in Francia. La sola possibilità di salvezza era quella di trasformare la guerra imperialista in guerra rivoluzionaria. “Annientata come Stato, la Francia non poteva più rinascere a una potenza nuova, a una nuova grandezza, non più politica questa volta, ma sociale, che mediante la rivoluzione”. (Bakunin).
Quando si seppe della caduta dell’Impero, Bakunin ritenne venuto il momento di dare battaglia. Il 28 settembre 1870 insieme ai suoi occupò l’Hotel de Ville di Lione proclamando la Comune rivoluzionaria. Il cui primo articolo diceva: “La macchina amministrativa e governativa dello Stato, diventata imponente, è abolita. Il popolo di Francia rientra nel pieno possesso di se stesso”. Ma l’iniziativa fallisce a causa della scarsa organizzazione.
Quando a Londra arrivò la notizia della proclamazione della Repubblica, il Consiglio generale dell’Internazionale assunse la guida del movimento che chiedeva il riconoscimento da parte dell’Inghilterra del governo repubblicano. Frattanto Engels, nei suoi articoli sulla “Pall Mall Gazette”, difendeva energicamente la causa della Francia e cercava di dimostrare agli inglesi come un loro intervento militare sul suolo francese avrebbe potuto esser coronato dal successo: “Trentamila soldati britannici sbarcati a Cherbourg o a Brest e congiunti all’esercito della Loira, basterebbero per dare a quest’esercito una forza che esso non ha mai avuto in tale misura”. Engels si entusiasmò talmente dei propri piani da proporsi di andare in Francia a mettere la propria persona a disposizione di Gambetta. Ma Marx lo dissuase.
Intanto in Francia il governo repubblicano continuava la guerra, o meglio, fingeva di continuarla, giacché era chiaro ai borghesi come il loro compito fosse quello di pervenire alla pace con il minor danno possibile. Trochu, quattro mesi dopo l’inizio dell’assedio, dichiarò ai sindaci di Parigi: “La prima domanda rivoltami dai miei colleghi la sera stessa del 4 novembre fu questa: – può Parigi, con qualche probabilità di successo sostenere un assedio dell’esercito prussiano? Non esitai a rispondere negativamente”. Dunque “la sera stessa della proclamazione della Repubblica era noto ai colleghi di Trochu che il ‘piano’ di Trochu era la capitolazione di Parigi”. (Marx). Ma il governo personale di Thiers, Favre e Co. non aveva interesse e anzi temeva di prendere apertamente tale posizione di fronte al proletariato. Ciò avrebbe potuto causare quella rivoluzione sociale che essi temevano in sommo grado. Così gli impostori “decisero di guarire Parigi della sua eroica follia con un regime di carestia e di violenza e nel frattempo ingannarla coi loro manifesti roboanti”. (Marx).
D’altro canto i Prussiani continuavano l’avanzata: il 1° settembre erano sotto i forti, il 19 nella piazza di Châtillon. Già a Parigi correvano voci di tradimento del governo. “Ma più la situazione si faceva grave, più ingigantiva l’ardore della lotta”. (L. Michel). Il Comitato Centrale dei venti dipartimenti espose la propria volontà con un manifesto rosso, che fu in seguito strappato dai poliziotti. Esso diceva: “Leva in massa! Accelerazione dell’armamento! Approvvigionamento!”. In risposta tornarono a circolare, come al solito, voci di vittoria.
Però il 30 ottobre un cauto manifesto affisso dal governo faceva intravedere la notizia della capitolazione di Metz e l’abbandono di Le Bourget. Così il contrasto e il malumore nei confronti di questo governo, accusato di tradimento e di vigliaccheria, esplose e il 31 ottobre battaglioni di operai diedero l’assalto all’Hotel de Ville, sede del governo, facendo prigionieri alcuni esponenti di esso. Ma la mancanza di parola del governo e il sopraggiungere di alcuni battaglioni di borghesi fece fallire il tentativo. Si ritornava ai metodi dell’Impero: le prigioni furono riempite, le sortite proibite.
Il 3 novembre, appunto in seguito a questi fatti, si ebbe un plebiscito e le elezioni municipali: si decise di continuare la difesa. Il governo continuò però a comportarsi ambiguamente e a condurre di male in peggio le operazioni militari.
Il 28 gennaio 1871 Parigi, affamata, capitolò e concluse un armistizio nonostante le inumane pretese di Bismarck. I forti furono abbandonati, le armi dei reggimenti di linea e della Guardia mobile consegnate.
Non c’era davvero alcun altro mezzo di salvare la Francia? Si era veramente tentato di tutto? Se già prima anarchici, giacobini e rivoluzionari blanquisti avevano accusato il governo di tradimento, ora, dopo l’armistizio, queste accuse diventavano molto più plausibili di prima. Migliaia di operai e di piccolo-borghesi cominciarono a prestar orecchio a quegli accusatori domandandosi se essi non avessero avuto ragione sin dal primo momento. Si andava chiarendo che la borghesia non era stata in grado nemmeno di difendere il territorio francese e che essa, nel dilemma di scegliere “tra il dovere nazionale e l’interesse di classe” (Marx) non avesse esitato un momento ad optare in favore di quest’ultimo. Il governo avrebbe potuto continuare la guerra ma per far ciò avrebbe dovuto armare completamente la “plebe” e gli operai, non essendo più sufficiente la sola Guardia nazionale. Far ciò, però significava suicidarsi come classe. I Prussiani, si pensava, erano nemici di oggi, ma avrebbero potuto essere gli amici o gli alleati contro la rivoluzione di domani. Il governo provvisorio, insomma, temeva un’insurrezione, e tale timore contribuì a fargli affrettare la conclusione dell’armistizio.
Ancora le masse parigine non avevano chiara coscienza di tutto ciò, ma avevano come un presentimento, un senso di diffidenza che aspettava solo una spinta per divenire vero e proprio odio di classe; il proletariato allora avrebbe compreso come il nemico principale non fosse la Prussia, ma la borghesia indipendentemente dalla nazione di appartenenza. Ancora si era fermi ad un punto di vista nazionalistico e tutto era stato fatto per difendere la Francia dall’aggressore esterno.
La capitolazione stabiliva l’elezione di un’Assemblea nazionale entro otto giorni, la quale avrebbe dovuto decidere della pace e della guerra. Ma quando a Bordeaux il 13 febbraio si aprì questa assemblea, i rurali, che grazie ai brogli elettorali erano in maggioranza, credettero bene di ratificare, senza neanche discuterli, i preliminari di pace così da avere le mani libere per combattere contro Parigi. In effetti chi doveva pagare il conto? “Era solo con l’abbattimento violento della Repubblica che gli accaparratori della ricchezza potevano sperare di riversare sulle spalle dei suoi produttori il costo di una guerra che essi stessi, gli accaparratori, avevano provocato”. (Marx).
Vi era un solo ostacolo affinché questo piano venisse portato a compimento: Parigi. Il disarmo di Parigi si imponeva come una necessità vitale.
Nella notte tra il 17 e il 18 marzo Thiers ordinò al generale Lecomte di recarsi con un corpo di armata a Montmartre per impadronirsi dell’artiglieria della Guardia nazionale. Ma i parigini accorsero e si lanciarono sui soldati: “Mentre il generale Lecomte comanda il fuoco sulla folla, un sottufficiale, uscendo dalle file si pone davanti alla sua compagnia e grida più forte di Lacomte: ‘calcio in aria’. I soldati obbediscono. Era Vardeguerre, che fu per questo fucilato dai versagliesi. La rivoluzione era fatta”. (L. Michel). Era l’alba del 18 marzo 1871.
Comunemente si crede che la rivoluzione parigina del ’71 sia stata un movimento completamente spontaneo, non organizzato né preparato: ciò non corrisponde alla realtà.
Tuttavia Bakunin non prese parte alla preparazione: dopo il fallimento dell’insurrezione di Lione, tutte le speranze da lui riposte nella Francia si erano affievolite, per non dire annullate: “non ho più alcuna fiducia nella rivoluzione in Francia, questo paese non è più per nulla rivoluzionario”. Ciò nonostante egli era ancora dell’avviso che solo “la rivoluzione sociale avrebbe potuto salvare il popolo francese”. Ma i suoi amici e seguaci questa volta non lo ascoltarono: se a Lione si era fallito, ciò era dovuto al fatto che non ci si era preparati a sufficienza: per questo i parigini non erano ancora insorti e stavano preparando la loro rivoluzione. La battaglia era imminente: essi mettevano ordine nelle loro fila.
Chi erano i gruppi politici e gli uomini che si preparavano all’insurrezione?
Innanzi tutto bisogna citare Varlin, anarchico di ispirazione bakuninista, che si dedicò completamente alla causa della classe operaia. Aveva amicizie anche tra gli intellettuali giacobini: era quindi l’uomo più adatto a stabilire il contatto politico tra questi e gli anarchici.
Appena seppe della proclamazione della Repubblica, Varlin, che era a Bruxelles, si recò subito a Parigi e riprese la parte preponderante in seno al Consiglio federale dell’Internazionale. Le sezioni parigine dell’Internazionale erano molto disorganizzate ed ancora deboli. Varlin capì però che non era il momento per cercare di organizzarle e rafforzarle, perché urgeva mirare dritto allo scopo: rovesciare il governo e preparare la rivoluzione. Un accordo con i giacobini era certo più importante. Non si era a conoscenza dei termini di questo accordo, comunque da allora in poi anarchici e giacobini mantennero la loro alleanza sino alla fine della Comune.
Chi erano questi giacobini? “Ci sono dei giacobini avvocati e dottori come il sig. Gambetta… vi sono poi giacobini sinceramente rivoluzionari: gli eroi e gli ultimi rappresentanti onesti della fede democratica del 1793, capaci di sacrificare la loro unità e la loro autorità tanto amate alla necessità della rivoluzione… Questi giacobini magnanimi vogliono il trionfo della rivoluzione innanzi tutto. Ma siccome non c’è rivoluzione senza masse popolari e siccome in queste è oggi eminentemente sviluppato l’istinto socialista, i giacobini non possono più fare altra rivoluzione che non sia economica e sociale; e così giacobini di buonafede, lasciandosi vieppiù trascinare dalla logica del movimento rivoluzionario, finiranno per diventare socialisti loro malgrado”. (Bakunin).
Il gruppo dei giacobini era capeggiato da Charles Delescluze e Felix Pyat. Essi, malgrado la loro buona volontà e la loro fede, non ebbero il tempo, nell’incalzare degli avvenimenti, di sopprimere e superare una serie di pregiudizi borghesi contro il socialismo, cosicché la loro azione ne risultò come frenata, inibita, anche se poi vennero trascinati dagli avvenimenti e finirono per avvallare ciò che il popolo credeva opportuno fare.
Un altro gruppo numeroso era rappresentato dai blanquisti i quali possedevano una coerenza ed efficienza non facilmente riscontrabili in altri gruppi. Erano nella maggioranza socialisti per istinto rivoluzionario: così si comprende come nel campo economico furono da loro trascurate parecchie cose. Non si concepisce, ad esempio, il sacro rispetto che li caratterizzò davanti alle porte della Banca di Francia. Essi comunque si preoccuparono esclusivamente dell’azione insurrezionale e dei metodi di lotta rivoluzionari. Educati alla scuola della cospirazione, ritenevano che un numero relativamente piccolo di uomini decisi ed organizzati ferreamente potesse impadronirsi del popolo e mantenerlo fino a quando non fosse riuscito a lanciare la massa del popoli nella rivoluzione. Erano quindi i fautori dell’accentramento più energico e dittatoriale. Per fortuna, malgrado fossero la maggioranza, non ebbero influenza nella Comune. Essi furono responsabili degli atti e delle azioni politiche, mentre dei decreti economici furono responsabili in prima linea gli anarchici, comprendendo sotto questo nome i bakuninisti e i proudhoniani.
Non bisogna dimenticare che la Comune coincise con la fase più acuta del conflitto Marx-Bakunin in seno alla Prima Internazionale e che le sezioni francesi di quest’ultima erano nettamente orientate a favore del secondo il quale, sebbene non fosse presente, aveva a Parigi, tramite Varlin e i suoi amici, molta influenza, non nel senso che a Parigi si aspettavano le sue direttive, ma che ci si ispirava a lui e al suo collettivismo nel prendere le più importanti iniziative economiche.
Certo è, comunque, il fatto che né Marx né Engels ebbero alcuna influenza sulla Comune. Engels scrisse in seguito a Sorge: “L’Internazionale non ha mosso un dito per favorire la Comune”. Varlin, è vero, era uno dei due segretari del comitato federale parigino dell’Internazionale, ma non fu in tale qualità che lavorò per la Comune. I verbali delle sedute del Consiglio federale non contengono quasi accenno del movimento che poi sfociò nella Comune. Qualcuno dei membri influenti dell’Internazionale prese certo parte attiva all’instaurazione di essa, ma il Consiglio generale di Londra, di cui faceva parte Marx, non mosse davvero un dito. “Non un documento, non una lettera di Marx o Engels, anche fra quelle di carattere più confidenziale, contengono il minimo accenno che possa far credere che l’insurrezione parigina sia stata incoraggiata e meno che mai organizzata a Londra”. (B. Nikolaevskji e O. Maenchen-Helfen, op. cit.).
All’alba del 18 marzo, quando Thiers tentò, per mezzo di Lecomte, di disarmare la Guardia nazionale, scoppiò l’insurrezione. Già da tempo, però, Varlin aveva avuto contatti con la Guardia nazionale per organizzarla. Egli si sbagliò di poco sulla data, in quanto il tentativo del governo l’anticipò di qualche giorno. Il 1° marzo quindici circondari su venti decisero di affidare il potere al Comitato centrale della Guardia nazionale, il quale era stato riconosciuto da 215 battaglioni su 256: la Comune era di fatto proclamata.
Il popolo di Parigi, ormai padrone di sé, pensò di eleggere un Consiglio municipale e fissò la data per il 26 marzo. In tale data avvenne l’elezione e due giorni dopo vi fu l’insediamento e la proclamazione della Comune.
Ecco la dichiarazione fatta alla prima seduta della Comune:
“Cittadini,
la nostra Comune è costituita: il voto del 26 marzo sanziona la Repubblica vittoriosa.
Un potere vigliaccamente oppressore vi aveva preso alla gola, voi dovevate nella vostra legittima difesa respingere questo governo che voleva disonorarvi imponendovi un re. Oggi i delinquenti, che voi non avete voluto nemmeno perseguitare abusano della vostra magnanimità per organizzare alle porte della città un focolare di cospirazione monarchica: invocano la guerra civile, mettendo in opera tutte le corruzioni, accettando tutte le complicità osando mendicare persino l’appoggio dello straniero.
Noi ci appelliamo, contro questi raggiri al giudizio della Francia e del mondo.
Cittadini, voi ci avete dato degli statuti che sfidano tutti i tentativi. Voi siete padroni del vostro destino e forte del vostro appoggio, la rappresentanza che avete eletta riparerà ai disastri del potere caduto.
L’industria compromessa, il lavoro sospeso, i trattati di commercio paralizzati stanno ora per riavere nuovo vigoroso impulso. Fin da oggi è stabilita l’attesa deliberazione sugli affitti, domani avrete quella sulle scadenze.
Questi saranno i nostri primi atti.
Gli eletti del popolo altro non domandano, per il trionfo della Repubblica, che di essere sostenuti dalla vostra fiducia.
Quanto ad essi faranno il proprio dovere.
La Comune di Parigi, 28-3-1871”.
Aggiunge Louise Michel: “Fecero infatti il loro dovere, occupandosi di tutto quanto poteva assicurare la vita della folla, ma la prima sicurezza avrebbe dovuto essere quella di vincere la reazione”. I reazionari, il giorno stesso della rivoluzione del 18 marzo, erano fuggiti da Parigi e si erano attestati a Versailles. Il tentativo di marciare su Versailles fu comunque effettuato il 3 aprile. Ma ormai era troppo tardi: Thiers aveva avuto il tempo di organizzare l’esercito, facendo persino liberare i prigionieri catturati durante la guerra dai Prussiani. Scrive Marx a Kugelmann: “Se soccomberanno la colpa sarà soltanto della loro bonarietà” e a Liebknecht “se i parigini sono sconfitti, sembra che sia per colpa loro, ma è una colpa che in realtà deriva da eccessiva onestà. Il Comitato centrale e poi la Comune hanno lasciato a quel nefasto aborto di Thiers il tempo di concentrare le forze nemiche, 1) perché han fatto la pazzia di non voler scatenare la guerra civile, come se lo stesso Thiers non l’aveva già scatenata con il tentativo di disarmare a forza Parigi… 2) per non avere l’aria di usurpare il potere, hanno perduto tempo prezioso a eleggere la Comune, la cui organizzazione, ecc., ha preso ancora del tempo, mentre bisognava impiegarlo per marciare su Versailles subito dopo la disfatta della reazione a Parigi”. Sì, questi parigini, sui quali la reazione lanciava i più feroci insulti, accusandoli dei più atroci misfatti e che la stampa internazionale tacciava come pazzi sanguinari, ebbero solo il torto di essere troppo generosi. Furono libertari fino all’ultimo, coerenti con il loro umanitarismo fino al sacrificio della propria persona. Dopo il 18 marzo, perfino i sergents de ville, invece di essere disarmati e imprigionati, poterono mettersi in salvo a Versailles. Gli uomini d’ordine non furono neanche molestati, e anzi ebbero la possibilità di riunirsi e occupare qualche forte posizione all’interno di Parigi. Le prigioni, invece di chiudersi questa volta con dentro gli oppressori del popolo, si spalancarono e a tutti fu concessa la libertà. Questa indulgenza e generosità degli operai armati fu capita come un segno di debolezza, e il 22 marzo una turba di bellimbusti reazionari cercò, con la scusa di una dimostrazione pacifica, di fare quello che a Thiers con i suoi cannoni non era riuscito. Quando la Guardia nazionale si parò loro innanzi, sparando una sola salva, li mise in fuga. E ancora una volta gli operai furono generosi: ebbero pietà e la maggior parte neanche mirò giusto, ma sparò in aria. E poi? Non si prese nemmeno la briga di arrestarli, di perseguitarli o almeno cacciarli fuori da Parigi.
Solo verso la fine della Comune, quando i versagliesi fucilavano indiscriminatamente chiunque cadesse nelle loro mani, e sparavano a vista su vecchi, donne e bambini, solo allora i parigini fucilarono i prigionieri e gli ostaggi: ma solo perché questo era il mezzo per intimorire Thiers e non farlo eccedere nelle stragi. “La vita degli ostaggi è stata sacrificata centinaia di volte nelle continue esecuzioni di prigionieri a cui i versagliesi si abbandonavano… Thiers è il vero assassino dell’arcivescovo Darboy”. (Marx). Da Parte sua Thiers, quando capì che il decreto della Comune del 7 aprile che ordinava rappresaglie non era che una vuota minaccia, e che, dopo i primi giorni esso non veniva più applicato, allora non esitò a riprendere la fucilazione in massa dei prigionieri.
Un errore ben più grave fu quello di non avere voluto impadronirsi delle riserve auree e monetarie della Banca di Francia. “Il governo, fuggendo a Versailles, aveva lasciato le casse vuote”, narra Louise Michel. “Gli ammalati negli ospedali, il servizio di ambulanza e funerario erano senza risorse; gli uffici in disordine. Varlin e Jourde ottennero quattro milioni dalla Banca, ma le chiavi erano a Versailles, e non vollero forzare le casseforti: chiesero allora a Rothschild un credito di un milione che fu versato alla Banca”. Cosa spinse Rothschild a concedere tale finanziamento? Probabilmente questa decisione fu influenzata in maniera determinante dalla pressione esercitata dalla borghesia francese cui premeva innanzi tutto che le riserve della Banca non fossero lese. La semplice concessione del prestito da parte di Rothschild avrebbe consentito ai comunardi di continuare la resistenza senza ricorrere alle riserve della Banca, sino a quando non fossero state a disposizione le forze militari sufficienti per abbatterli definitivamente. Non è da escludere che lo stesso Bismarck, così come aveva aiutato Thiers restituendo i prigionieri di Metz e Sedan allo scopo di ricostituire l’esercito per combattere contro Parigi, facesse pressione su Rothschild perché concedesse il prestito in nome della solidarietà borghese.
Eppure l’impadronirsi delle riserve della Banca avrebbe potuto aiutare molto nella lotta contro la borghesia: solo in questo caso essa avrebbe premuto su Versailles perché concludesse la pace o almeno si trattassero meno duramente i comunardi. In definitiva il controllo della Banca di Francia avrebbe dato loro una forza di contrattazione ben più grande di quella che poteva dare la sola forza militare. Avrebbe anche significato avere i mezzi finanziari per alimentare la rivoluzione non solo a Parigi, ma anche nel resto della Francia.
Siffatto errore si può spiegare solo per il perdurare di certi pregiudizi borghesi in alcuni settori dello schieramento rivoluzionario, come i giacobini e i blanquisti che da poco tempo avevano radicalizzato le proprie posizioni, e anche per il fatto che i comunardi peccarono di ingenuità politica, data la loro inesperienza, essendo i protagonisti del primo tentativo rivoluzionario del proletariato.
Comunque, come già detto da Marx, un errore fondamentale fu quello di perdere tempo nell’eleggere legalmente la Comune, invece di marciare subito su Versailles. Ciò avrebbe permesso di far retrocedere almeno il fronte della battaglia in modo da creare uno spazio vitale intorno a Parigi, necessario non solo per il vettovagliamento, ma indispensabile perché così sarebbero state possibili le comunicazioni con il resto della Francia. I tentativi rivoluzionari che vi furono in altre città (Marsiglia, St. Etienne, Narbonne, Le Creusot, Bordeaux, Montpellier, Tolosa, Grenoble, ecc.) avrebbero potuto essere meglio organizzati e coordinati tra loro, oltre al fatto che avrebbero potuto trarre beneficio dalla conoscenza della verità su ciò che accadeva a Parigi. Invece intorno ad essa fu fatto un cordone sanitario e le fu impedita ogni comunicazione, mentre i veri rivoluzionari non sapevano niente di ciò che effettivamente accadeva, se non le calunnie dei giornali borghesi.
Altre incertezze ebbero i comunardi, anche se esse non furono determinanti come le precedenti, e decisive per l’esito della lotta. Ad esempio, per loro restò intoccabile il concetto della proprietà privata: le industrie capitalistiche non furono sequestrate né distrutte (si montò perfino la guardia dinanzi a loro) sebbene alla fine gli operai finirono per impadronirsi di quelle aziende che erano state abbandonate dai proprietari fuggiaschi.
Pur tuttavia, malgrado i limiti su accennati, a partire dal 18 marzo “balza fuori preciso e netto quel carattere di classe che fino ad allora era stato spinto nella penombra dalla lotta contro l’invasione straniera”. (Engels). Il momento nazionalista era ormai superato: lo dimostra il fatto che la Comune in uno dei suoi primi proclami dichiarò che le spese di guerra dovevano essere pagate da coloro che erano stati i veri autori di essa. Ciò significa che il popolo parigino aveva fatto una netta distinzione tra borghesia e classi sfruttate, ed era giunto alla consapevolezza, non più istintiva ma teorica, della contrapposizione fra i propri interessi e quelli della classe dominante. Si era usciti dalla indistinzione ideologica della precedente fase nazionalistica e si era compreso come dietro allo “Stato” francese che combatteva contro lo Stato prussiano non stessero tutti i francesi, ma solo la borghesia.
Ma come era avvenuta questa crescita di coscienza delle masse? Era forse calata dall’alto? No: “i nostri amici socialisti di Parigi hanno pensato che essa [una rivoluzione sociale] non poteva essere fatta e condotta al suo completo sviluppo che mediante l’azione spontanea e continuativa delle masse, dei gruppi e delle associazioni popolari”. (Bakunin). Erano convinti che l’azione delle masse doveva esser tutto: “tutto ciò che gli individui possono fare è di elaborare, di chiarire, e di propagare le idee corrispondenti all’istinto popolare e, di più, di contribuire coi loro sforzi incessanti all’organizzazione rivoluzionaria della potenza naturale delle masse. Ma nulla oltre a ciò; tutto il resto non può e non deve essere fatto che dal popolo stesso; altrimenti si arriverebbe alla dittatura politica, cioè alla ricostituzione dello Stato, e per una via indiretta, ma logica, si arriverebbe alla restaurazione della schiavitù politica, sociale ed economica delle masse popolari”. (Bakunin). È proprio tutto ciò quello che temevano i comunardi, appunto per timore di lasciare vuoti di potere popolare, dei quali avrebbero potuto approfittare i falsi rivoluzionari attribuendo a se stessi la gestione degli interessi popolari, possibilmente in nome di un presunto maggior livello di coscienza.
Ma il tipo di maturazione che ebbe allora la classe operaia, la progressiva radicalizzazione della lotta e il coinvolgimento in essa di ceti piccolo borghesi dimostrano un altro aspetto estremamente interessante: soltanto nella lotta pratica e nello scoprire non più a livello ideologico, ma nella prassi, le contraddizioni del sistema borghese, che a una formale libertà associa sempre una reale repressione e sfruttamento della classe operaia, i proletari prendono coscienza totalmente della propria collocazione di classe. Solo dopo che la contraddizione esplode nella realtà, essa può sboccare completamente nella coscienza degli individui e si trasforma da ideologia e teoria rivoluzionaria in prassi sovvertitrice della società costituita.
Allora, quando si verificano queste circostanze, anzi quando la situazione reale è pregna di contraddizioni strutturate in maniera tale da essere innescate anche da una piccola miccia e non facilmente controllabili e componibili a livello più alto, anche un obiettivo apparentemente non rivoluzionario può avere una carica che lo porta a diventare tale. Il nazionalismo che caratterizzava gli operai francesi prima della rivoluzione del 18 marzo non era certo un elemento rivoluzionario in sé, anzi poteva essere considerato un puntello, un fattore per stringere attorno alla borghesia guerrafondaia tutta la nazione francese e fare così passare in secondo piano le contraddizioni interne che opponevano gli operai ad essa. Si poteva rivelare un supporto per la politica espansionistica di Luigi Bonaparte il quale tentava, con un vecchio stratagemma caro alle classi dominanti, di unificare il paese contro il nemico esterno e così superare le difficoltà interne con un bagno di sangue, naturalmente di proletari e operai.
Non fu così: borghesia e burocrazia si rivelarono incapaci non solo di risolvere le contraddizioni sociali, ma anche di condurre una guerra, tale era il disfacimento e la decadenza in cui ormai versavano. La guerra, che doveva salvarle dalla rivoluzione sociale, si stava per rivelare la loro tomba, il nazionalismo, di cui prima avevano gioito, una trappola mortale. Tanto più pericolosa, questa trappola, quanto più essi cercavano di soffocarla, fino a quando non furono costretti a gettare la maschera e a concludere un armistizio. Il loro nemico ormai non era più il prussiano, ma il parigino armato non solo di fucile ma di una coscienza rivoluzionaria che nella lotta si era potuta sviluppare.
La Comune ha ancora un altro significato: essa ci dice che la classe operaia, una volta impossessatasi del potere, “non può continuare a governare la vecchia macchina dello Stato; che la classe operaia, per non perdere di nuovo il potere appena conquistato, da una parte deve eliminare tutta la vecchia macchina repressiva già sfruttata contro di essa e dall’altra deve assicurarsi contro i propri deputati e impiegati, dichiarandoli senza nessuna eccezione e in ogni momento revocabili”. Non si tratta quindi di trasferire da una mano all’altra il potere dello Stato, di mettere al posto dei burocrati bonapartisti dei burocrati che dovrebbero fare gli interessi del popolo, ma che poi finiscono per fare solo i propri. Né si tratta di affidare fideisticamente (o attribuirsi autoritariamente e unilateralmente) a una avanguardia la gestione della rivoluzione proletaria “in attesa che” il proletariato maturi la propria coscienza politica. Ciò significherebbe riprodurre una nuova struttura di potere, permettere che nel vuoto di potere reale lasciato dalla classe operaia si coagulino nuovi interessi di classe e nuovi privilegi. “L’idea di Marx è che la classe operaia deve spezzare, demolire la macchina statale già pronta e non limitarsi semplicemente ad impossessarsene”. (Lenin, Stato e rivoluzione). Ma spezzare e demolire lo Stato non significa costruirne uno nuovo proletario, in sostituzione di quello vecchio. Per Stato non si intende solo lo Stato borghese, ma ogni tipo di Stato, anche quello “popolare”: “Non fu dunque una rivoluzione contro questa forma di potere statale, legittimista, costituzionale, repubblicano, imperiale, questa fu una rivoluzione contro lo stesso Stato, questo aborto soprannaturale (surnaturel) della società”. (Marx).
Questo è l’insegnamento principale della Comune e questa era la strada verso la quale essa si stava avviando se la reazione non avesse prematuramente soffocato il suo tentativo. Là “il socialismo rivoluzionario ha tentato una prima manifestazione magnifica e pratica” (Bakunin); essa fu “la prima rivoluzione in cui la classe operaia fu apertamente riconosciuta come la sola classe capace di iniziativa sociale” (Marx): fu essenzialmente “un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe degli accaparratori, la forma politica finalmente scoperta nella quale si poteva compiere l’emancipazione del lavoro”. (Marx). La Repubblica non esprimeva soltanto l’aspirazione a superare la vecchia forma monarchica del dominio di classe, ma il dominio di classe medesimo e la Comune fu il tentativo di realizzare appunto tale aspirazione. Ma il fatto che Parigi si era ribellata a Thiers, il quale voleva restaurare un dominio di classe sotto forma di Repubblica e così continuare, in maniera ammodernata e riveduta, la politica di Luigi Bonaparte, questo fatto ora doveva essere “trasformato in una istituzione permanente”.
“Il primo decreto della Comune quindi fu la soppressione dell’esercito permanente e la sostituzione ad esso del popolo armato” (Marx). Veniva così a cadere uno dei pilastri su cui si basava tradizionalmente l’autorità dello Stato e il popolo in armi assicurava la continuità rivoluzionaria essendo solo esso garante di se stesso.
I consiglieri municipali, eletti a suffragio universale, erano responsabili e revocabili in qualsiasi momento.
Inutile dire che erano in maggioranza operai. Essi non avevano una funzione parlamentare, ma dovevano rappresentare un organismo di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo. Questo non significava distruggere le organizzazioni rappresentative, ma sostituire ad un organismo parlamentare borghese, in cui la libertà di lavoro e discussione finisce per tramutarsi in inganno, un organo di lavoro: cioè i parlamentari dovevano essi stessi lavorare, applicare le proprie disposizioni, verificarle e quindi, in prima persona, risponderne ai loro elettori, i quali potevano in ogni momento destituirli. E per evitare il carrierismo e l’arrivismo, i comunardi, oltre alla revoca, applicarono un metodo infallibile: per tutti i servizi e per ogni professione si pagava soltanto lo stipendio che ricevevano gli altri operai. I benefici, le prerogative caratteristiche degli alti funzionari dello Stato scomparirono insieme ad essi.
Anche la polizia finì di essere un corpo separato dalla società, strumento del governo centrale e facilmente manovrabile dalle classi dominanti; venne spogliata da ogni attribuzione politica e trasformata in un organo responsabile e sempre revocabile dalla Comune. “Non solo l’amministrazione municipale, ma tutte le iniziative già appartenenti allo Stato, passarono nelle mani della Comune”. (Marx).
La Comune “si preoccupò anche di spezzare la forza di repressione spirituale, il potere dei preti, togliendo ogni investitura e espropriando tutte le chiese in quanto corpi possidenti”. (Marx). I preti così perdevano ogni forma di mantenimento a spese dello Stato e dovevano vivere delle elemosine dei loro fedeli.
Tutti gli istituti di istruzione furono aperti al popolo gratuitamente e non più formalmente. L’ingerenza dello Stato e della Chiesa fu eliminata.
“I funzionari furono spogliati da quella finta indipendenza che non era servita ad altro che a mascherare la loro soggezione abietta a tutti i governi successivi”. (Marx). I magistrati e i giudici furono elettivi, responsabili e revocabili come tutti gli altri funzionari.
La Comune di Parigi doveva essere il modello sulla base del quale si dovevano organizzare tutti i grandi centri della Francia, passando dal vecchio governo centrale all’autogoverno dei produttori. Essa sarebbe stata, dunque, la forma politica anche del più piccolo villaggio e ovunque l’esercito permanente avrebbe lasciato posto alla milizia popolare con un periodo di servizio estremamente breve, in maniera da evitare il formarsi di una nuova casta di militari e di un potere contrario agli interessi del popolo. “La Comune portava con sé, come conseguenza naturale, la libertà municipale locale, ma non più come contrappeso al potere dello Stato ormai diventato superfluo”. (Marx). Quindi per il solo fatto che esiste la Comune il potere dello Stato diventa superfluo: e questo è il vero senso di quando Marx afferma che non ci si può solo impadronire della macchina dello Stato o di quando Lenin scrive che bisogna “spezzarla”. La Comune, cioè, essendo una “leva per distruggere le basi economiche su cui riposa l’esistenza delle classi, e quindi il dominio di classe”, è anche una leva per distruggere lo Stato in se stesso il quale su quelle si fonda. E, d’altra parte, che Stato sarebbe quello in cui l’esercito permanente scompare, la polizia finisce di avere un compito repressivo, la Chiesa viene resa autonoma e non parassita, i funzionari revocabili in ogni momento, i salari uguali a quelli operai, l’istruzione gratuita, ecc.? Che Stato sarebbe uno Stato che ormai ha perso ogni attributo tipico di esso? Ecco il significato della parola estinguersi: lo Stato si sarebbe estinto, ma non per fare posto ad un altro organismo repressivo, che poi altro non sarebbe che un altro Stato: la macchina statale sarebbe stata spezzata in maniera definitiva solo per lasciare che la società civile, gli operai, i contadini e il popolo in genere si governassero da sé, senza nessuna delega né sottomissione.
In questo consiste il significato profondo dell’esperienza della Comune, ed è per questo che una sconfitta della classe operaia viene ancora celebrata.
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