Pensiero e azione n. 15
Alfredo M. Bonanno
Machiavelli filosofo
Con aggiunte le Annotazioni di Άμφισσα
Dio, standoti ozioso e ginocchioni,
Ha molti regni e molti Stati guasti.
E son ben necessarie l’orazioni:
E matto al tutto è quel ch’al popol vieta
Le cerimonie e le sue divozioni:
Perché di quelle in ver par che si mieta
Unione e buono ordine, e da quello
Buona fortuna poi dipende e lieta.
Ma non sia alcun di sì poco cervello
Che creda che se la sua casa ruina,
Che Dio la salvi sen’altro puntello;
Perché e’ morrà sotto quella ruina!”.
Niccolò Machiavelli
Nota introduttiva
Una breve nota per questo libro che esce dopo più di mezzo secolo dalla sua prima stesura.
È stato scritto da cima a fondo per tre volte. Una prima volta quando avevo vent’anni, e il dattiloscritto andò perduto nella redazione del giornale dove lavoravo all’epoca, una seconda volta a Londra, nel 1991, dove mi ero rifugiato dopo la carcerazione per la rapina di Bergamo allo scopo di sfuggire alla probabile cattura per quelle indagini che anni dopo si sarebbero concretizzate nella cosiddetta “montatura Marini”, la terza volta adesso, mentre mi trovo in detenzione domi-ciliare perché mi sono stati revocarti gli anni dell’indulto del 1990 e quindi devo rimanere “carcerato” fino al mese di gennaio del 2009.
Machiavelli mi è stato compagno di riflessioni per tanto tempo. È un uomo duro e, nello stesso tempo, un uomo eccessivo. Non credo che queste pagine potevano trovare collocazione più acconcia nel libro dal titolo Scritti sconvenienti, in corso di progettazione. Si tratta di un autore diverso che è riuscito a parlare al mio cuore oltre che alla mia mente. Quello che me lo rende simpatico è presto detto: la visione critica della vita, la riduzione della religione a strumento di dominio, l’eccesso vitale che lo sostenne per tutta la vita.
La seconda parte del volume descrive l’ambiente culturale tra Quattrocento e Cinquecento in Italia. Si tratta di un lavoro che a suo tempo scrissi per un mio carissimo amico, oggi morto, che lo pubblicò come credette opportuno. Qui lo ripristino nella stesura originaria.
L’annotazione conclusiva è stata scritta nel lager greco di Άμφισσα dove sono rimasto detenuto per tre mesi e mezzo con l’accusa di rapina.
Nient’altro.
Trieste, 22 maggio 2011
Alfredo M. Bonanno
* * * * *
«Per stabilire regole universali, è necessario prestare attenzione, quanto più è possibile, al comportamento della natura ed aggiungervi l’esperimento come norma. Questo voglio che si capisca per quanto riguarda la natura. Accediamo alla conoscenza delle cose per la porta dei sensi, né abbiamo altro ingresso, chiusi come siamo nel corpo; come quelli, che in una soffitta hanno una sola finestra attraverso la quale entra la luce e, guardando al di fuori, non vedono più di quello che tale apertura permetta, così noi vediamo solo quello che i sensi ci permettono di vedere, benché allarghiamo la conoscenza al mondo esterno e la nostra mente colga qualcosa più al di là di quello che i nostri sensi ci mostrano; ma per quanto [la coscienza] si estenda, sono i sensi che la rendono possibile. La mente si innalza al di sopra di essi, però si appoggia ad essi». (Ludovico Vives, De prima philosophia, vol I, Anversa 1531, fogli 3-4).
«Per stabilire regole universali, è necessario prestare attenzione, quanto più è possibile, al comportamento della natura ed aggiungervi l’esperimento come norma. Questo voglio che si capisca per quanto riguarda la natura. Accediamo alla conoscenza delle cose per la porta dei sensi, né abbiamo altro ingresso, chiusi come siamo nel corpo; come quelli, che in una soffitta hanno una sola finestra attraverso la quale entra la luce e, guardando al di fuori, non vedono più di quello che tale apertura permetta, così noi vediamo solo quello che i sensi ci permettono di vedere, benché allarghiamo la conoscenza al mondo esterno e la nostra mente colga qualcosa più al di là di quello che i nostri sensi ci mostrano; ma per quanto [la coscienza] si estenda, sono i sensi che la rendono possibile. La mente si innalza al di sopra di essi, però si appoggia ad essi». (Ludovico Vives, De prima philosophia, vol I, Anversa 1531, fogli 3-4).
Introduzione di Σμόλικας
L’innovazione è progetto prima ancora di essere invenzione e fantasia, progetto che strappa al futuro lembi di probabilità e che non costruisce geometricamente conseguenze derivate da assiomi ottusi e incontrovertibili. Machiavelli lo sa e non arretra davanti alle deduzioni che sembrerebbero negare la possibilità di un controllo razionale della realtà da parte di chi si pone il problema della trasformazione sociale.
Un labirinto faticoso, ecco cos’è l’innovazione, dove ogni passo non può essere sorretto dalla protezione astratta della teoria ma, al contrario, messo a repentaglio volutamente in modo se si vuole arbitrario e perfino incoerente. È dal progetto che ci si aspetta l’individuazione delle variabili, anche di quelle improvvise, capaci di dare vita a profondi cambiamenti di prospettive, ed è nel progetto che l’innovazione si ripete identica a se stessa, cioè sempre differente nei dettagli e mai banalmente pedissequa o semplicemente didattica, conclusione mortale non tanto per la teoria, che così trionferebbe su di un cadavere, ma per la pratica.
Lo stile del progetto trasformativo, e Machiavelli lo impersona fino in fondo, è qui, nell’ironia dell’incertezza, nel modo signorile di perdere nel gioco che non ha mai fine se non quando si cristallizza in una vittoria conquistatrice, capace soltanto di suggerire prossime conservazioni. Mille complici si possono trovare nella finzione teorica, pronti a scappare via non appena il tempo volge al peggio.
In fondo è l’esperienza diretta che fa comprendere il progetto e non le sue linee teoriche più o meno articolate sulle quali c’è sempre pronta la divagazione rapsodica o la banale chiacchiera dei perdigiorno. Machiavelli se ne accorge e lo sottolinea a lungo nelle tirate ironiche riguardo l’agire che si distanzia dal pensare. Che lui fosse dalla parte dell’agire lo testimonia la corrispondenza con gli amici più che la copiosa produzione di cancelleria, e spesso è proprio in queste improvvise espressioni di rammarico o di gioia che si vede l’estro del novellatore e dell’uomo di teatro. Contrariamente a quanto spesso viene detto, non ci sono tanti ruggiti nella sua opera e nemmeno troppe seriosità. La grave materia, quel progetto trasformativo di cui discutiamo, progetto in lui di natura politica e non rivoluzionaria nel senso moderno del termine, è trattata spesso con mano felice e con demoniaca capacità di cambiare le carte in tavola. Il suo pensiero è coerente nel descrivere la realtà del potere, nell’individuare le regole che lo rendono possibile e che ne permettono la continuità, il suo progetto vero e proprio è sempre al di là di questi consigli e quindi perfino al di là dell’ipotetico “uomo di parte” che dovrebbe concretizzarli. Il suo è pensiero selvaggio, come quello che ho individuato in Stirner, ma non lo si trova nelle ricette, dove si addomestica da sé e quindi si didatticizza, ma è altrove, nell’insieme del dire e non dire, del gioco e della serietà, dell’avanzare affermazioni teoriche e del negarle spudoratamente. Un pensiero violento, certamente, ma non per come lo si è individuato finora, dietro il quale stormi di studiosi inorriditi hanno invano riflettuto sul delitto politico, al contrario, per quella sua capacità di essere al di là di ogni contingenza logica, al di là degli stessi suoi esclamativi tutt’altro che servizievoli, se ben si pensa, alla coesione del ragionamento. Qui si colloca la riflessione privilegiata di chi preferisce non fermarsi all’apparenza delle sue parole e andare dove lui colloca l’essenza più profonda del suo farsi teorico della politica, l’immenso territorio del caso.
È quest’ultimo, la remota eventualità che improvvisamente si presenta sulla scena storica, a fissare il senso del progetto, a indicare l’ovvia parzialità e la costante incompletezza di ogni affermazione che di parole si pasce e di parole muore. Ogni facile equazione è quindi messa da parte. Non è mai sfuggito ai suoi tanti lettori che Machiavelli è autore rapsodico, lontano da ogni metodo e disciplina espositiva, senza per questo essere innocente progettualmente o disavveduto praticamente. Il suo analizzare la realtà non finisce mai per concludere in modo chiaro ed evidente, nulla nelle sue divagazioni collima in maniera perfetta, c’è sempre un disavanzo, ed è per questo che mi affatico da più di mezzo secolo sulle sue pagine, trovandovi sempre nuovi e sorprendenti spunti di riflessione.
La genialità del procedere logico di Machiavelli non è un atteggiamento letterario, essa corrisponde a un suo profondo convincimento, maturatosi in lui nel corso della sua attività diplomatica e di cancelleria. Lo scorrere veloce e imprevedibile delle vicende umane gli si è prospettato davanti come un diverso grande libro della natura, visione amaramente oggettuale che precorre l’operazione che sarà compiuta più tardi da Bacone riguardo le scienze naturali. Molti sono gli ostacoli e le trappole che si allineano nel corso delle sue riflessioni, ma di questi agguati egli sembra quasi non avvedersi. La sua disposizione originale era più che altro cinica, e questo si coglie meglio nelle sue battute ironiche che nelle sue analisi politiche. Ed era amarezza seria e sottile, mai grossolana. Non erano gli uomini (e le donne) che gli tornavano contro ma gli avvenimenti della vita, quel caso imprevedibile che gli stolti chiamano fortuna. Qualcosa di molto diverso dal pessimismo che vedrà la luce secoli dopo, una visione del mondo congrua con la pratica politica del suo tempo – e di tutti i tempi – in uno con l’avversione contro ogni astuzia del pensiero che per non ammettere il proprio fallimento, o almeno i propri limiti, preferisce giganteggiare nelle illusioni ideologiche che costano poco e fanno bella figura come penne di pavone.
Machiavelli non ha geometria di pensieri. Taglia con grande accortezza ogni sistemazione metodologica, per cui a lettura ultimata di un suo libro si resta con la gola asciutta. Che cosa abbiamo sentito pervenirci attraverso i secoli? Che ha voluto dirci se il contrario di quello che dice, a volte, è più plausibile delle sue stesse affermazioni alla luce del suo modo di procedere? A queste domande non hanno dato risposte accettabili le antiche e moderne polemiche contro e a favore di Machiavelli.
Finito sullo Σμόλικας il 31 marzo 2009
Machiavelli filosofo
I
Lo studio di Machiavelli fu la mia prima ricerca vera e propria, organicamente strutturata, a cui mi dedicai a partire dal 1954. Non avevo molti strumenti a disposizione. La maggior parte degli studi precedenti, anche ad un certo livello di approfondimento, li avevo condotto tutti su problemi minimi di letteratura italiana. Messe da parte le carte, numerosissime, sulle polemiche letterarie del Settecento, di cui ben poca cosa è stata pubblicata, mi volsi a Machiavelli e ne cavai fuori circa duecento pagine. Anche di questo lavoro poco è stato pubblicato, la maggior parte l’ho lasciata nel cassetto del mio tavolo presso la redazione della Terza pagina del “Corriere di Sicilia” dove ho lavorato dalla fine del 1958 alla fine del 1959. Alcuni aspetti relativi al rapporto tra politica e religione avrei voluto utilizzarli qui, ma per una strana ironia della sorte, nel momento in cui mi dedico a questa risistemazione che non può non essere definitiva, non ho disponibili quelle parti di già pubblicate. Le condizioni attuali [1991] in cui mi trovo a lavorare mi tengono lontano dai miei libri, in un paese dove non posso neanche trovarli nelle biblioteche.
Alla fine degli anni Cinquanta, quando posi mano al primo sfoltimento di quelle iniziali ricerche su Machiavelli, mi accorsi che bene o male costituivano un’organica trattazione della sua filosofia. Ma quei pochi cui feci leggere quelle annotazioni non mi sembrarono entusiasti.
Ero da poco uscito dall’ipoteca, certo pesante, delle teorie crociane e mi accingevo a muovere i primi passi in una direzione che solo apparentemente sembrava meglio frequentata, mentre al contrario non era che luogo di scontro per mestieranti e arrivisti. Era il tempo aureo dell’esistenzialismo, delle dottrine nulliste e della malinconica e rassegnata versione positiva di Abbagnano. Le puntate fenomenologiche di Paci non avevano ancora la forza che poi trovarono qualche anno dopo, mentre il neopositivismo italiano scopriva, e ne sbandierava ai quattro venti come verità incontestabili, le continuazioni americane delle teorie viennesi.
Una seconda sistemazione, ma si potrebbe meglio definire riduzione, venne fuori a metà degli anni Settanta e la feci uscire limitatamente alla parte riguardante la fortuna su “Studi e ricerche”, rivista che in quell’epoca pubblicavo.
Di una cosa sono debitore in assoluto a Machiavelli, e tengo a precisarlo qui, del fatto d’avermi chiarito, subito e senza mezzi termini, quale è lo scopo e la sostanza della religione, la funzione di Dio, il significato e la necessità di una lotta senza quartiere contro tutti i simboli e le teorie che la reggono, in primo luogo contro il simbolo principale, l’idea di Dio.
Egli aveva certo suoi motivi, e la sua lotta, come la sua critica, non potevano essere le mie. Dapprima per una questione di epoca, poi, ben più significativamente, per una questione di mentalità. Ed è stato dalla ricerca antireligiosa e ateista che sono arrivato alla maturità del mio pensiero, e da questa maturità a quell’altra, più importante, la maturità dell’azione.
Ma anche in questa direzione, per me primaria in breve volgere di tempo, Machiavelli resta importante, sia pure in maniera indiretta. Infatti non è tanto l’ateismo che a lui interessa, una banale contrapposizione al teismo, ma la lotta al fenomeno religioso come strumento del potere, più che un ateo egli può considerarsi un antireligioso e un anticlericale. Importante è stata per me la lettura di Ernst Bloch: «Il principio nuovo nella Bibbia si identifica con la più forte eresia dello stesso figlio dell’uomo che si pone in posizione messianica all’interno di ciò che un tempo aveva il nome di Dio. Fino a poter sostenere: solo un ateo può essere un buon cristiano, e anche: solo un cristiano può essere un buon ateo; come avrebbe potuto in altro modo il figlio dell’uomo dirsi identico a Dio? Il nome romano dato più tardi aveva la stessa precisione della croce romana: atheoi infatti vennero per la prima volta chiamati i martiri cristiani alla corte di Nerone. Per i cristiani ormai sazi di superstizioni teocratiche e affamati di ben altro l’importante è di poterlo comprendere fino in profondo. E lo è anche per gli atei che non si saziano per nulla delle platitudes e del vuoto no a tutte le antiche promesse che Dio, come un buono del tesoro, ha fatto, da quando, alle spalle di un illuminismo troppo dimezzato, incominciò a levarsi la troppo completa inconsistenza del nichilismo con il suo no. E con essa sorse anche la mancanza di fuoco di ogni “verso-dove”, “a che scopo”, nocciolo, eschaton, significato, se commisurato sulla spalla del mondo umano ed extraumano, già fredda a quanto sicuramente si dice. La Scrittura è ricolma al contrario di “scotimenti contro i sostegni di questo mondo di morte”; di certo in maniera mitologica, ma purtuttavia rorida di ribellioni più tardi represse o falsificate, di sigle per valutare l’uomo e per umanizzarlo – contro il Faraone e contro l’ipostasi di un Signore che le Lamentazioni di Geremia definiscono apertamente “nostro nemico”, e che fa scongiurare a Isaia “un nuovo cielo, una nuova terra, affinché non ci si ricordi più della precedente”. Non troviamo forse qui proprio all’inizio, invano calunniato e mutato di senso per intervento ufficiale, l’episodio del serpente e il grido ribelle mai ripagato eritis sicut deus, scientes bonum et malum, con il quale viene costruita la storia al di fuori dei recinti del giardino dei semplici animali? E non è forse vero che per il Dio più tardo del roveto non c’è alcun presente, mentre esiste un futuro che ci salva da esso, un “io sarò quello che io sarò” come dinamite per la supposta rappresentazione di Dio?». (E. Bloch, L’Ateismo nel cristianesimo, tr. it., Milano 1972, pp. 31-32).
II
Ripresentare oggi il problema Machiavelli, anche se limitatamente ad alcuni aspetti essenziali, e farlo nel clima attuale dopo tante e così autorevoli interpretazioni, non è compito semplice.
Per prima cosa, sorge spontanea la domanda se tale fatica possa considerarsi legittima, se ancora oggi, nel periodo travagliato e dubbioso che attraversiamo, una voce proveniente da tanto lontano, possa avere la forza di farsi intendere. In secondo luogo, riesce difficile immaginare come, ammessa la fondatezza della prima ipotesi, la viva sostanza del discorso del fiorentino, possa essere riscoperta, ancora una volta, fuori delle vuotaggini e delle sovrastrutture che i secoli e le ideologie su di essa hanno accumulato.
Su questo problema, che è poi quello della funzione della storia come strumento: «Papà, spiegami a che serve la storia. Così, pochi anni or sono, un ragazzo che mi è molto vicino, interrogava suo padre, uno storico. Vorrei potere dire che questo libro rappresenta la mia risposta, perché non credo ci sia lode migliore, per uno scrittore, che di sapere parlare, con il medesimo tono, ai dotti e agli scolari. Ma una semplicità tanto elevata è privilegio di alcuni rari eletti. Tuttavia la domanda di quel fanciullo, di cui sul momento non riuscì gran che bene a soddisfare la sete di sapere, la conserverei volentieri qui, come epigrafe. Il problema ch’essa pone, con la sconcertante dirittura di quell’età inesorabile, è, né più né meno, quello della legittimità della storia. Se tuttavia la storia, alla quale ci richiama un’attrattiva quasi universalmente sentita, non potesse dimostrare altrimenti la propria legittimità; se non fosse insomma che un piacevole passatempo, meriterebbe davvero la fatica che spendiamo per scriverla? O dovremo sconsigliare lo studio della storia agli ingegni suscettibili di un miglior impiego, oppure la storia dovrà dimostrare di avere le carte in regola come conoscenza». (M. Bloch, Apologia della storia, tr. it., Torino 1969, pp. 23-24).
Non irruenta e sconvolgente come le prediche savonaroliane, più incisiva di quella erudita di Francesco Guicciardini, meno chiusa nella struttura dottrinale di quella di Pietro Pomponazzi, ma molto più aperta e piena di allusioni al mondo pratico e alle sue speciali condizioni di quella di un Leonardo, e quindi anche dello stesso Galileo Galilei, la voce di Machiavelli, parlando di Firenze, dell’Italia del suo tempo, ci suggerisce un discorso sul mondo, sulla generalità delle cose, quindi, sul potere, quindi anche su Dio. La sacralità del potere è problema antico. Così Hebert Spencer: «Tutte le testimonianze e le tradizioni dimostrano che i più antichi sovrani venivano considerati persone divine. Le parole e i comandi che costoro pronunciarono, nel corso della loro vita, furono in seguito considerati sacri, dopo la loro morte. I loro successori, per garantire la propria discendenza divina, imposero l’introduzione di quelli nel pantheon del gruppo, dove furono venerati e placati accanto ai loro predecessori. La più antica fra queste divinità così prodotte è il dio supremo; le altre sono divinità subordinate». (First Principles, London 1862, p. 158). Il linguaggio di Machiavelli è quello eterno della realtà. Calato nelle sue pagine, viene fuori l’uomo nuovo, nella piena affermazione della sua dignità, proprio per l’avvenuto riconoscimento di limiti e brutture che altrove andavano invece nascosti.
E da questa implacabile indagine, dirompe la nuova capacità ordinativa del potere in formazione. Forse non ancora sicuro di sé, ma in grado di scorgere le possibili linee del proprio sviluppo.
L’insegnamento di Machiavelli non è quindi quello circoscritto alle esercitazioni politiche degli orti Oricellari, non lavora in un microcosmo rinchiuso, un ghetto storico in cui le singole parti corrispondono al tutto, ma poi sfioriscono nell’impossibilità di un qualsiasi allargamento o prospettiva.
Il suo discorso si allarga all’universalità, a tutti gli uomini che gestiranno e subiranno il potere, perché possano vederne i due aspetti, quello attivo e quello passivo, e poi decidere di conseguenza, se rafforzarlo, se subirlo, se abbatterlo. Perché capiscano insomma su quali imbrogli e speciose costruzioni il potere fonda la propria possibilità di esistere, e quali funzioni, in questa prospettiva, assolvano tutti i mezzi di cui dispone, in primo luogo la religione. «Le conoscenze d’essenza – scrive Scheler – della filosofia prima in senso aristotelico, sono le vere e proprie conoscenze della “ragione”; rigorosamente distinte da quegli ampliamenti della nostra conoscenza circa il dato sensibile, che si fondano sulle conclusioni dell’“intelletto” semplicemente comunicabili. Il Verstand, ovvero “intelletto” (intellekt) è la capacità di un organismo, elevandosi al di sopra del rigido istinto innato e al di là del ricordo associativo, di adattarsi sensatamente a nuove situazioni – tutto in una volta e indipendentemente dal numero delle prove e dei tentativi, fatti precedentemente per risolvere il compito. Questa capacità la possiede non solo l’uomo, ma anche, in misura più ridotta, l’animale, per esempio la scimmia, che improvvisamente usa un bastone come prolungamento del braccio, per tirare giù un frutto. Fino a quando però l’intelletto conclusivo sta soltanto al servizio degli impulsi vitali, dell’impulso di nutrizione, di quello sessuale e dell’impulso di potere, e al servizio della reazione pratica agli stimoli dell’ambiente, non è ancora specificamente umano. Solo quando l’intelletto (nell’animale, astuzia e furbizia) passa al servizio della ragione, cioè al servizio dell’applicazione di conoscenze d’essenza, a priori, precedentemente compiute, ai casuali dati di fatto dell’esperienza, nonché al servizio di una comprensione superiore delle relazioni dell’ordinamento oggettivo dei valori, cioè al servizio della saggezza e di un ideale etico, solo allora esso diviene qualcosa di specificamente umano». (M. Scheler, Weltanschauung filosofica, in Lo spirito del capitalismo, tr. it., Napoli 1988, pp. 249-250).
Ecco perché Machiavelli mi riesce attuale, come se avesse da poco concluso la sua fatica terrena, e non come un vecchio letterato che vestendo in altra foggia, di come oggi usa, il proprio pensiero, non può arrogarsi la pretesa di capire le nostre necessità. Peraltro, tante e continue sono le alternative, tutte altamente drammatiche, che si prospettano al mondo contemporaneo.
Mi è sempre riuscito odioso il tentativo di riportare discorsi validi per il passato ad argomenti di carattere contingente, quasi si trattasse di un vestito già di moda che un sarto abile riesce a trasportare avanti negli anni. E non desidero smentirmi in questa occasione.
Penso solo a come sarebbe istruttivo, per tanta gente che tiene fra le non troppo delicate mani le sorti della nostra vita, dare una piccola lettura alle sentenze e ai pensieri di questo modesto letterato di tanti secoli fa. Avrebbero la sorpresa di scoprire svelati tutti quegli imbrogli che la loro ingenuità presume coperti dalla complicità dell’originale intelligenza politica di oggi.
III
Valido o non valido, un discorso attualizzante è sempre un discorso ragionevole, capace di suggerire soluzioni e come tale non può essere messo da parte.
Il potere non ha questa buona abitudine, accumula per l’opportunità e il momento adatti. Le parole, alle volte per fortuna, sono soltanto parole, ma giocano il loro ruolo, forse troppo spesso, nelle modificazioni della realtà, nelle strutturazioni.
Per questo, Machiavelli, che fu attento esaminatore delle modificazioni dell’epoca sua, può essere anche oggi un’interessante lettura. La sua vastità di ingegno, la perspicace ed arguta capacità di arrivare al nocciolo delle relazioni di potere, senza perdersi in chiacchiere, scoprono, scarnificandolo, il segreto comportamento dell’agire politico. «Nietzsche – scrive Giorgio Colli – fu sempre in antitesi con la sfera politica. Il suo stesso concetto di “cultura”, anche per l’influsso basileese di Burckhardt, è costituito in buona parte da questa opposizione. E la sua ostilità non si rivolge tanto contro il concetto di patria o le varie componenti strettamente politiche, quanto contro le ideologie politiche e contro tutte le intrusioni delle idee generali nella sfera politica. La separazione della cultura dalla politica è per lui una condizione essenziale per una vita sana dell’umanità, e la confusione delle due sfere, che caratterizza la storia moderna, un segno di corruzione. È nel cristianesimo che egli cerca l’origine di questa decadenza, e il suo disagio di fronte all’ideologia politica è una delle cause più importanti della sua critica al cristianesimo. La Chiesa cristiana ha preteso dalla cultura l’obbedienza a un ordinamento, più che religioso, politico del mondo. La cultura ha perduto allora la sua autonomia, si è abituata a servire, si è convinta anzi – e qui sta il peggio – che la sua natura è legata indissolubilmente alla politica. Neppure il Rinascimento, che fu la scossa più violenta in contrario, riuscì a troncare questo nesso, e ancor meno la cosa riuscì alla cultura posteriore. Il mito dell’uguaglianza, inserito dalla cultura illuministica nella sfera politica, è di derivazione cristiana: questo è uno dei pensieri direttivi di Nietzsche. Proprio là dove la cultura si atteggiava a annientatrice del cristianesimo, essa gli era più sottomessa». (La ragione errabonda, Milano 1982, p. 134).
L’epoca di Machiavelli è contrassegnata dal crescere della potenza politica dei nuovi Stati. I vecchi feudatari, e le meno vecchie corporazioni, tramontano lentamente e consegnano il modo di gestire la cosa pubblica nelle mani del potere che si va accentrando. Ha scritto Sabine: «Questi cambiamenti di pensiero e di prassi politica riflettevano quelle trasformazioni che andavano verificandosi in tutto il complesso della società europea, simili dappertutto, anche se distinte da innumerevoli differenze locali. Alla fine del quindicesimo secolo, quelle trasformazioni economiche che andavano progredendo da anni produssero un accumularsi di fatti che si risolve in un rimodellamento rivoluzionario delle istituzioni medievali. Nonostante le dottrine dell’universalità della Chiesa e dell’impero, queste istituzioni si erano basate sul fatto che la società medievale nella sua organizzazione effettiva, economica e politica, era quasi esclusivamente locale... Estendendosi e diventando i mezzi di comunicazione più facili, un sistema commerciale locale così monopolizzato e controllato non poteva più a lungo durare». (Storia delle dottrine politiche, tr. it., Milano 1962, p. 265).
Malgrado l’angolazione strettamente politica del lavoro di Machiavelli, il cui approfondimento era diretto a cogliere il funzionamento del potere più che a spiegarsi la realtà del suo tempo, tutte le sue considerazioni sono valide anche in una prospettiva più ampia.
Difatti quelle analisi si possono perfettamente riferire alla formazione dello Stato assoluto e ai meccanismi dell’assolutismo temporale della Chiesa, scontro che all’epoca di Machiavelli era ancora in atto. L’assolutismo si sgancia dalla tutela della Chiesa e cerca di costruire attorno a sé una nuova legittimazione, trovandola in riferimenti mitologici e propagandistici diretti a giustificare la figura del principe.
Partendo dal ceppo di diritto che la Chiesa si era costruito nel corso di tutto il medioevo, tenendo conto della tradizione giuridica romana, il nuovo Stato centralizzato consolida una nuova autonomia, in contrasto radicale con le pretese egemoniche del dominio papale. Situazione che non sarebbe stata possibile sviluppare fino in fondo senza i cambiamenti culturali determinati dall’opera di approfondimento laico del diritto romano.
Di fronte al diritto di Dio si individua e si perfeziona il fondamento del diritto del principe, scavando nell’insieme grandissimo di norme consuetudinarie, naturali e religiose. L’indipendenza del principe è dichiarata proprio sulla base di queste norme di diritto ritrovate e razionalmente giustificate. Ancora Colli: «Anzitutto un finalismo in cui l’oggetto non è ancora precisato (non è ancora volontà di un qualcosa) è qui al suo posto. L’istinto in sé è volontà – nello schietto senso schopenhaueriano – ma nel suo individuale tendere indistinto sin dall’inizio già indistintamente ostacolato è volontà “di potenza”. Il trionfo dell’ostacolo è il realizzarsi della potenza di un altro centro di volontà, e dal punto di vista del centro ostacolato ciò segna il sorgere dell’“apparenza” (della morale) (morale = apparenza della volontà ostacolata). (L’introdurre il concetto di “ostacolo” nel nucleo della “volontà di potenza” in qualche modo la “individua” perché presuppone un “diverso da sé”)». (La ragione errabonda, op. cit., pp. 138-139).
IV
Ma vediamo come si era svolta la vicenda del consolidamento temporale del dominio cristiano. Il pensiero riformistico agostiniano si chiudeva, come ormai sappiamo, col sogno della creazione di una società cristiana europea, e successivamente mondiale, sotto il dominio del papa e dell’imperatore, ambedue legati dai dettami della legge naturale. Ogni risposta doveva restare quindi nell’ambito delle reciproche competenze, come potrebbe oggi aversi tra i poteri che si distinguono all’interno di uno Stato costituzionale moderno, poniamo quello giurisdizionale e quello esecutivo.
Comunque, anche nel pensiero di Agostino era di già implicito, forse a causa del momento e delle particolari condizioni in cui egli rifletteva, lo sbocco del dominio cristiano sul mondo. Ben presto la formula paolina, che faceva derivare da Dio ogni potere, viene interpretata in senso restrittivo, nel senso che il sovrano è legittimo solo se agisce in quanto ministro di Dio. È quest’ultimo, e la sua logica imperscrutabile, quindi che fisseranno le direttive politiche e l’avvenire degli Stati.
In modo approfondito Karl Jaspers: «Nell’opera di Agostino studiamo i motivi della cattolicità nel loro senso più profondo. Egli ignorava ancora la sventura che sarà costituita dall’ingresso nel mondo di una Chiesa fattasi istituzione del potere politico, sventura più continua, raffinata, conseguente, spietata di tutte le altre potenze temporali di carattere transitorio. Agostino prese parte all’elevazione della Chiesa che aveva il suo passato di persecuzioni ed era stata da poco ufficialmente riconosciuta. Con l’entusiasmo che suscita una realtà straordinaria allo stato nascente, egli portò a compimento ciò che poteva costituire la coscienza ecclesiastica nella sua forma relativamente più pura, libera e completa. Nella sua opera si può trovare al livello più alto l’eterno contrasto messo in luce dalla Chiesa tra cattolicità e ragione, tra il carattere chiuso dell’autorità e quello aperto della libertà, tra l’ordinamento assoluto del mondo considerato come presenza della trascendenza e gli ordinamenti mondani relativi come quel piano dell’esserci in cui si tollerano le possibilità essenzialmente molteplici, tra il porre il centro della vita nel culto e il porlo nella libera meditazione, tra la comunione esterna della preghiera, in cui ciascuno si chiude nella sua solitudine, e la solitudine di fronte a Dio la quale nella comunicazione con gli uomini cerca di superarsi attraverso il processo infinito di quell’amore che ci fa diventare noi stessi. Ma allora è più importante per noi ricavare da Agostino le posizioni fondamentali che sono indispensabili per il nostro pensare intorno a Dio e alla libertà, per la chiarificazione della nostra anima, e quegli atti fondamentali dell’accertamento i quali conservano la loro forza persuasiva anche senza la fede rivelata. Mediante il pensiero di Agostino cogliamo il punto più profondo dell’interiorità che trascende se stessa e a partire dal quale riceviamo la guida e il linguaggio in cui gli uomini possono incontrarsi come uomini, anche se l’intenzione di Agostino sta nel compimento e nella giustificazione della solitudine assoluta dell’anima di fronte a Dio. Agostino ci fa partecipare alla sua esperienza delle situazioni-limite, dell’assenza di ogni speranza per il mondo come tale, delle perversioni della libertà umana che non hanno via d’uscita. E allora tutto questo non viene da noi accolto come un atto di libertà della ragione che cerca il suo cammino senz’alcuna garanzia, sperando solo nell’aiuto che può ricevere quand’essa fa seriamente ciò che può, ma come la certezza della grazia garantita dall’autorità ecclesiastica e dalla sua verità unica ed esclusiva. La grandezza che Agostino presenta agli uomini che filosofano sta nel fatto che noi siamo presi da una verità la quale, per il modo in cui ci prende, non è più la mera verità cristiana di Agostino. Per il filosofare indipendente, pensare assieme ad Agostino significa la coincidenza concreta ed esistenziale dei suoi movimenti di pensiero con quelli originariamente filosofici e il problema critico di sapere in che modo questi movimenti, compiuti senza alcun legame con il fondamento della fede cristiana, non sono più, probabilmente, gli stessi ma restino tuttavia veri ed efficaci. Il rapporto con il pensiero di Agostino ci lascia sempre disorientati. Se nella sua coscienza di Dio possiamo riconoscere la nostra, allo stesso tempo però (se non isoliamo alcune pagine del suo testo) essa ci appare sotto una forma estranea che ce ne allontana e la verità che ci parla dal suo profondo torna perciò ad esserci inaccettabile». (K. Jaspers, I grandi filosofi, tr. it., Milano 1973, pp. 481-482).
L’assolutismo cristiano è concepito nel massimo della sua estensione da Gregorio VII, che nel Concilio del 1080 pronuncia le famose parole: «Agite in modo, vi prego, santi padri e prìncipi, che tutto il mondo possa conoscere che, se avete potere di vincolare e sciogliere in cielo, avete potere di abolire o di sostenere in terra imperi, regni, principati, ducati, contee ed i beni di tutti gli uomini secondo i loro meriti. Re e prìncipi del mondo imparino quanto grandi voi siate e quali poteri abbiate. Temano questi piccoli uomini di disobbedire al comando della vostra chiesa». (Citato da G. H. Sabine, op. cit., p. 189).
San Bernardo conferma anche lui questa tesi riferendosi alle due spade del Vangelo: «Questa e quella spada appartengono a Pietro: quella deve essere tratta a sua richiesta, questa dalla sua mano ogni qual volta occorra. Quella che meno conveniva a Pietro è la spada che gli fu detto di riporre nella guaina. Apparteneva dunque anche a lui, ma non la doveva trarre di mano sua». (Epistulae, 256).
A seguito della lotta tra i due poteri, la Chiesa inasprisce sempre di più le sue posizioni in merito alla liceità del dominio, e quindi indirettamente anche in merito alla liceità della costrizione e della ricchezza.
È Bonifacio VII che lancia contro Filippo il Bello la Bolla Clericis laicos, per ordinare al clero francese di non pagare le tasse imposte dal re. La suprema povertà è ormai un lontano ricordo. Infine nella Bolla Unam et Sanctam, sempre dello stesso papa, si realizza quella che è stata definita «l’affermazione più dichiarata d’imperialismo che mai sia stata fatta in un documento ufficiale». (G. H. Sabine, op. cit., p. 219).
Sempre in favore dell’imperialismo papale è lo scritto di Egidio Colonna De ecclesiastica potestate, nel quale viene saltata in pieno la questione legale per riaffermare la tesi agostiniana dello Stato cristiano e della necessità di una legge cristiana in uno Stato cristiano. Egli sostiene: «... in terra tutti i poteri terreni dovrebbero essere governati e diretti dall’autorità spirituale ed ecclesiastica e specialmente dal papa, che occupa il sommo ed il più alto rango tra i poteri spirituali e nella Chiesa». (1, 5).
Il tomismo tempererà queste posizioni assolutiste, proponendo la possibilità di dare vita ad una società costituita dai due poteri e quindi cristiana, senza che il potere temporale sia suddito di quello cattolico, comunque lasciando a quest’ultimo il mezzo della scomunica, anche l’ipotesi, diciamo più democratica, di Tommaso non poteva svolgere nessun compito regolativo. L’autonomia statale è troppo circoscritta, anche se viene tratteggiato un passaggio innovativo riguardo la sovranità, la quale da Dio passa al popolo e da questo al sovrano.
Su questa strada si muoveranno diversi pensatori, fra i quali con un attacco preciso contro il papato, Giovanni da Parigi, il quale scrive: «... il principe può respingere la violenza della spada papale con la sua propria spada e così facendo non contro il papa ma contro il suo nemico e contro il nemico della società». (De jurisdictione auctoritate et praeminentia imperiali ac potestate ecclesiastica, Basilea 1566, p. 202b).
Giovanni non è il solo antagonista dell’imperialismo papale, Marsilio da Padova cerca anche lui di pervenire alla consolidazione della fondamentale legge naturale, cioè il mantenimento della pace.
Marsilio dimostra, basandosi sulle scritture canoniche, sui comandi e i consigli del Vangelo, che la Chiesa non può attribuirsi alcun potere coercitivo. Dimostra pure che la proprietà della Chiesa deriva dalla comunità e deve considerarsi come un’elargizione per il mantenimento del culto. In altri passi della sua opera principale insidia i mezzi che la Chiesa considerava a sua disposizione per l’attuazione del dominio, i quali sono ovviamente validi solo se vengono accettati pienamente e non vengono posti frequentemente in discussione. «La Scrittura evangelica – scrive Marsilio – comanda che nessuno sia mai costretto ad osservare i comandamenti della legge divina con una pena o punizione temporale». (Marsilio da Padova, Il difensore della pace, tr. it., Torino 1960, p. 733). In questo modo attacca la liceità della costrizione, così come era stata, fra gli altri, teorizzata da Agostino.
Ma anche Tommaso aveva ribadito questa necessità: «Poiché il peccato – egli scriveva – è un atto contrario all’ordine è ovvio che chiunque pecca agisce contro un certo ordine; e così dallo stesso ordine consegue che esso sia represso: e questa repressione è la pena». (Summa, 1, 2, q87, al).
In un altro passo Marsilio attacca l’autonomia di giurisdizione della Chiesa: «I decretali o decreti del pontefice romano o di altri pontefici (considerati collettivamente o distributivamente) costituiti senza averne avuto la concessione dal legislatore umano, non possono costringere nessuno alla pena o alla punizione temporale o spirituale». (Marsilio da Padova, op. cit., p. 734).
Infine, una critica anche contro l’abolizione della suprema povertà: «I beni temporali ecclesiastici che avanzano oltre ai bisogni dei sacerdoti, e che non sono necessari per il culto divino, possono essere usati in tutto o in parte, legittimamente e secondo la legge divina, dal legislatore umano per il benessere comune o pubblico, e per la difesa». (Ib., p. 737).
Con Guglielmo di Ockham si fa strada la teoria del Concilio, fondata sull’obiezione che secondo le Scritture l’azione sociale della Chiesa poteva essere decisa non dal papa, ma da un organo collegiale capace di rappresentare la Chiesa nella sua universalità, un organo appunto come il Concilio. Guglielmo considerava un’eresia il concetto di sovranità papale, mentre considerava come un’usurpazione del potere secolare l’azione politica della Chiesa. Questi temi sono sviluppati nel testo: De imperatorum et pontificum potestate, pubblicato a cura di K. Brampton a Oxford nel 1927. Ma questa riforma della posizione autoritaria della Chiesa finì ben presto per assumere un valore solo platonico.
La teoria del Concilio era propugnata da uomini poco adatti all’azione e inoltre osteggiata dalla grande forza organizzativa della Chiesa. Le posizioni di John Wyclif e Jan Hus, vennero per altro ben presto condannate proprio dagli appartenenti alla corrente del Concilio, che vi vedevano un passo troppo radicale, non essendo disposti ad arrivare fino a tanto.
Un altro membro di questo gruppo fu Francesco Zabarella, ecco come cerca di limitare la liceità di costrizione: «Perciò quando si dice che il papa ha potere sovrano, non si dovrebbe intendere che il papa sia sovrano in sé, ma solo in quanto egli rientra nel complesso della Chiesa, sicché il potere appartiene al corpo complessivo della Chiesa da cui esso deriva e al papa stesso, che appunto lo esercita come suo principale ministro». (De Schismate [postumo], Strasburgo 1515, par. l).
Interviene anche Nicolò Cusano con lo stesso obiettivo: «Di conseguenza, siccome tutti gli uomini sono naturalmente liberi, qualsiasi autorità, che distolga i sudditi dal fare il male e limiti la loro libertà col timore di sanzioni, deriva soltanto dall’armonia e dal consenso dei sudditi, sia che risieda nella legge scritta o nella legge vivente, rappresentata dal reggitore». (De concordantia catholica [1433], par. 2, 14).
V
Da parte loro i movimenti comunitari, variamente perseguitati e dispersi, manifestavano una grande vitalità sotterranea. Sia nel corso degli ultimi periodi dell’impero romano, sia nei lunghi e purtroppo scarsamente documentabili secoli del medioevo, continuarono a restare in vita con alterne vicende delle quali di tanto in tanto traspare qualche notizia.
Di molti di questi movimenti ereticali abbiamo di già accennato. Qui dobbiamo occuparci dei motivi che andarono poi a concludersi con il grande movimento di riforma luterano, motivi che fermentarono ben prima, come abbiamo detto, non smettendo mai questa sotterranea corrente d’azione e di pensiero, ma che trovarono sbocchi di massa considerevole a partire dal 1100 fino all’epoca di Machiavelli.
Ad esempio, di già nel IV secolo, gli Eutichi, diffondendosi a partire dall’Armenia, condannavano il matrimonio, il cibarsi di carni e, secondo quanto riferisce Domenico Bernino: «... le vesti femminili, e volevano che le donne conversassero con gli uomini in abito virile, (costume esecrato, e chiamato abominevole da Dio) e sotto pretesto della libertà Evangelica non ammettevano subordinazione di figliuoli a’ Padri, di servi a’ Padroni». (D. Bernino, Historia di tutte l’Heresie, vol. I, Venezia 1745, p. 278). Come si vede, non mancano mai in queste notizie le componenti sociali, ed anche i riferimenti al cibo e all’abbigliamento, tutte motivazioni che saranno costantemente patrimonio di ogni movimento comunitario.
Anche in altri movimenti di cui si ha notizia, tutti della stessa epoca, pur nella frammentarietà di quello che viene riferito da scrittori cristiani i quali non mancano, come Bernino, di inorridire puntualmente, si colgono gli elementi a cui abbiamo accennato. Riguardo gli Elvidiani, eretici sempre del IV secolo, lo stesso Bernino scrive: «Elvio fu nemico giurato della verginità, sostenendo che uguale è la gloria della vergine e della maritata. Quindi tant’oltre avanzossi l’empio bestemmiatore in temeraria baldanza, che negò la Verginità doppo il parto alla Vergine Madre di Dio. Era egli uomo di animo, e di nascita indegnissimo, e perciò deriso da S. Girolamo». (Ib., vol. I, p. 318).
E in un’altra setta, appare il materialismo greco sotto nuovi aspetti pratici. Ricorrendo sempre all’allarmata documentazione di Bernino, leggiamo: «Berillo dopo l’abiura dell’Eresia non poté supprimer la contagione propagata dall’averla esso professata... ai seguaci fattisi condottieri si aggiunsero altri, o avidi di novità; disperati di coscienza, che confondevano l’Eresia con l’Epicureismo, divulgarono concetti impropri dell’immortalità dell’Anima, asserendo, morir’ella col corpo... ». (Ib., vol. I, p. 148).
Verso la fine del millennio si diffusero i movimenti millenaristi, i quali sostenevano che prima del giudizio finale ci dovevano essere mille anni del regno di Cristo, per cui, con la fine del millennio, ci sarebbe stata anche la fine del mondo e la resurrezione dei morti. Alcune versioni parlavano dell’avvento di un altro millennio, in cui i giusti avrebbero avuto ricompense materiali, o spirituali, e su questo punto si dividevano due teorie.
La Chiesa, razionalizzando la cosa per tempo, con Agostino, aveva affermato che il millennio andrebbe considerato come una quantità simbolica di tempo, e che in questo periodo, preventivo e non successivo al giudizio, il dominio stesso della Chiesa avrebbe garantito la remissione dei peccati e la vita eterna, naturalmente a coloro che avessero accettato le sue condizioni.
Tutti i movimenti insofferenti nel riguardi del dominio della Chiesa, elaborarono una differente interpretazione, la quale trovava alimento nelle condizioni spaventose in cui si vennero a trovare le classi più povere, gli artigiani senza lavoro, i contadini senza terra, gli inurbati costretti a mendicare un improbabile salario e i diseredati che avevano perduto tutto a causa delle tasse, dell’usura, delle requisizioni militari e delle decime ecclesiastiche.
Conclude Jaspers: «Si determina così un’inquietante atmosfera di umiltà superba, di ascesi sensuale, di costanti occultamenti e capovolgimenti che attraversano la realtà del cristianesimo più che ogni altra. Agostino fu il primo a penetrare a fondo questa situazione. Egli conobbe il tormento del disaccordo interiore e dei motivi falsi e nascosti; il dogma del peccato originale ha reso assoluta questa calamità per l’esserci nel mondo e la ha in certo modo giustificata. Questa capacità di guardare nel fondo di se stesso passa attraverso il pensiero cristiano e giunge a Pascal, a Kierkegaard, a Nietzsche». (I grandi filosofi, op. cit., 482).
VI
A questa situazione si deve aggiungere il conflitto tra abitanti della città e contadini.
Su questo punto, con esattezza, Gioacchino Volpe: «Il cittadino poco ama ed apprezza il contadino. Dalla sua penna comincia ad uscire tutta una letteratura anticontadinesca che getta a piene mani lo scherno sopra i lavoratori della terra, sopra i loro difetti e le loro qualità di furberia, di cocciutaggine, di avarizia, patrimonio secolare di una gente che sa il valore del denaro sudato. Di ricambio, il contadino guarda con avversione quell’ordinamento politico ed economico che crea le usure, i monopoli, le incette, lo stesso commercio; diffida dei mercanti, dei giudici, di chi fa e di chi applica le leggi. E vive nell’attesa di cose nuove e diverse, e tende l’orecchio ai predicatori di mutamenti, accredita profeti e profezie che circolano colorite del linguaggio allegorico e fantastico dell’Apocalisse, si abbandona ogni tanto a furori di religiosità collettiva non sempre ortodossa nei riguardi della Chiesa». (Movimenti religiosi e sette clericali, Firenze 1971, pp. 115-116).
Non manca, anzi direi che è essenziale, a questa situazione di sofferenza, il bisogno intimamente religioso della povera gente di trovare una propria strada verso la liberazione dalle sofferenze, spesso confusamente identificata con la condizione terrena stessa. Il desiderio del paradiso, come fine comunque che sia di una condizione d’intollerabilità, dovette spingere molti, nella situazione di fame, di carenza di alimentazione e di vitamine, nell’oppressione dei tuguri e della sporcizia in cui si era obbligati a vivere per necessità e in fondo anche per cultura, a quelle grandi manifestazioni di misticismo collettivo che riprendevano, forse con meno cambiamenti di quanto non si sia pensato, gli antichi riti orgiastici mai del tutto scomparsi.
Anche le antiche motivazioni, che abbiamo di già visto in dettaglio, non credo siano scomparse del tutto, poniamo nel fenomeno collettivo e impressionante per partecipazione e impegno dei flagellanti medievali.
Ricordiamo quanto scrive Salomon Reinach, riguardo la flagellazione presso i Romani: «Lo scopo... è di fare passare nel corpo del paziente la forza e la vitalità sia dell’albero, sia dell’animale...». (Cultes, mythes et religions, Paris 1905-1912, vol. I, p. 180), riferendosi all’albero cui veniva legato il paziente, come alla pelle di capra o di montone con cui si ricavavano i fili della frusta. Nelle popolazioni cosiddette primitive fenomeni del genere esistono anche oggi, per non prendere qui l’aspetto sadomasochista che discuteremo altrove.
Ludovico Antonio Muratori riporta la descrizione di questo fenomeno: «Celebre ancora fu l’anno presente (1260) per una pia novità, che ebbe principio in Perugia, chi disse da un fanciullo, chi da un romito, il quale asserì d’averne avuto la rivelazione da Dio. Predicò questi al popolo la penitenza, con rappresentare imminente un gravissimo flagello del Cielo, se non si pentivano, e non facevano pace fra loro. Quindi uomini e donne d’ogni età istituirono processioni per disciplinarsi ed invocare il patrocinio della Vergine madre di Dio. Da Perugia passò a Spoleto questa popolar divozione, accompagnata da una compunzione mirabile, e di lì venne in Romagna. L’un popolo processionalmente, talora fino al numero di dieci e di venti mila persone, si portava alla vicina città, e quivi nella cattedrale si disciplinava a sangue, gridando misericordia a Dio e pace tra la gente». (Annali d’Italia, vol. VII, Milano 1744, pp. 282-283).
Il movimento si diffonde in Germania, Francia, Spagna e in altre contrade. La Chiesa interviene con condanne di vario genere, ma non arriva fino alla scomunica in quanto ci sono forti componenti al suo interno che giustificano ed esaltano simili pratiche, forse cercando di recuperare l’espressione emotiva della fede dettata dalle sofferenze.
Pietro Damiano era uno di questi difensori, affermando: «... allo stesso modo in cui possiamo volontariamente castigarci digiunando, lo possiamo fare frustandoci con le nostre mani». (Epistulae, V, 8).
Comunque, Jacopo Rainaldo, trattando del problema nei suoi Annali, dirà: «Degenerò poscia questa pietà dei penitenti in sozza eresia; benché con tanta pompa di santità e tanto bel principio avesse, dall’arte del dimonio in scelleratezza e in ribalderia si tramutò». (Annales ecclesiastici, Lucae 1756, vol. III, anno 1260, VIII).
VII
Il movimento che si ispirava a Gioacchino da Fiore affermò la possibilità di impiegare il metodo allegorico tipico delle Scritture, all’interpretazione della storia, dove veniva in questo modo identificato un movimento in tre epoche, ciascuna delle quali era presieduta da una persona della Trinità.
La prima epoca, di servitù, era sotto il Padre, la seconda epoca, di fede, era sotto il Figlio, la terza epoca, sotto lo Spirito Santo, sarebbe stata un’epoca di libertà e di gioia. Il mondo intero si sarebbe trasformato in un monastero dove tutti avrebbero cantato le lodi del Signore in un’estasi mistica. La terza epoca cominciava con una preparazione, nel corso della quale ci si doveva muovere anche a livello sociale.
Un re secolare, difatti, avrebbe castigato la Chiesa corrotta fino alla sua distruzione. Il contrasto con l’ipotesi agostiniana non poteva essere più radicale. Tracce del gioachinismo si trovano in tutte le espressioni della società del tempo, nei poeti, come Dante, ma anche nei papi più vicini allo spiritualismo, nei francescani e nelle sette apostoliche comunistiche.
La condizione della società medievale, con il progressivo indebolimento dell’autorità dell’impero e della Chiesa, parallelo ad un aumento della popolazione e a profondi cambiamenti economici, rendeva possibile la diffusione di queste idee, se non altro, da un punto sociale, fondate su di un assoluto rigetto delle ricchezze. Con Gioacchino siamo di fronte al primo tentativo coerente di individuare nella storia un percorso per stadi, tentativo che avrà una grande fortuna nei secoli futuri.
Gherardo Segarelli, viene così descritto da F. A. A. Pluquet: «Era un popolano senza istruzione e illetterato, che non potendo entrare nell’ordine di S. Francesco, si fece fare un abito simile a quello con cui si dipingono gli apostoli nei quadri. Vendette una piccola casa che costituiva tutta la sua fortuna e diede il denaro non ai poveri ma ai banditi e ai fannulloni. La canaglia si raggruppò ben presto attorno a simile capo degno di essa e costituì un insieme di uomini che presero il nome di apostolici. Erano mendicanti vagabondi che pretendevano che tutto fosse comune, anche le donne. Segarelli fece molti discepoli, l’inquisizione lo fece arrestare e bruciare, ma la setta non si estinse». (Dictionnaire des Heresies, des erreurs et des schismes, ns. tr., Paris 1847-1853, vol. II, coll. 95-96).
È sempre istruttivo seguire per questi cenni gli scrittori cattolici che nell’ingenuità del loro zelo, spesso maggiore quanto più risalgano nel tempo i loro lavori, si lasciano sfuggire importanti considerazioni non volute.
Da notare qui il fatto considerevole che Segalelli dona tutto ai fannulloni che giocano in piazza, non ai poveri, come supremo segno di dispregio per le ricchezze, e come segno di capovolgimento di qualsiasi strategia suggerita dai Padri, anche quella che si orientava verso il rifiuto delle ricchezze e la loro donazione ai poveri.
Scriveva Piero Martinetti: «Schopenhauer distingue le religioni in religioni ottimistiche e pessimistiche: queste ultime sole (cristianesimo e buddismo) sono vere religioni. Fra tutte le religioni Schopenhauer pone più in alto il buddismo, al quale riconosce il merito d’aver ripudiato il teismo, il concetto d’un essere personale creatore. Schopenhauer condanna il teismo come un’idolatria. “Il formarsi un idolo di legno, di pietra o di metallo è la stessa cosa come il formarlo con dei concetti astratti; si è nell’idolatria non appena si sta di fronte ad un essere personale, al quale si indirizzano invocazioni, sacrifizi, ringraziamenti”. Ma Schopenhauer riconosce anche il carattere negativo che ha, specialmente nelle origini, il cristianesimo, e ne proclama l’accordo con la sua filosofia. Renouvier, che ha acutamente analizzato le coincidenze profonde della filosofia di Schopenhauer col cristianesimo, definisce la sua dottrina come un’eresia gnostica del cristianesimo. Al cristianesimo egli rimprovera specialmente due cose: 1) d’aver posto il suo fondamento in un fatto storico; 2) d’aver rinnegato la stretta parentela dell’uomo con gli animali. Il protestantesimo ha giustamente riformato molti abusi del cristianesimo, ma ha errato nell’eliminazione dell’elemento ascetico e negativo, che ne è l’elemento sostanziale. (Schopenhauer, Milano 1944, pp. 20-21).
Fra Dolcino continua l’opera di Segalelli e degli Apostolici. Su questo movimento ha scritto Gioacchino Volpe: «Il contenuto sociale ed economico che, latente, esiste più o meno in fondo a tutte queste eresie o follie religiose, qui si mostra più scopertamente. Il nocciolo rompe a poco a poco l’involucro mistico. Si avvicina il tempo delle insurrezioni dei contadini francesi, tedeschi, svizzeri, delle valli trentine fin dentro i domini della Serenessima, nelle quali la religiosità e il colorito mistico saranno pur sempre un elemento essenziale, ma Cristo, la Bibbia, la Chiesa primitiva saranno addotti per giustificare esplicite rivendicazioni sociali e per fondar sul diritto divino il diritto alla libertà ed alla proprietà della terra». (Movimenti religiosi e sette clericali, op. cit., p. 120).
Il movimento si diffonde dal Trentino in Valsesia, passando per la Lombardia, dove raccoglie l’eredità dei Patarini. Fra i Patari, o Patarini, si erano nascosti anche i Catari, costretti a fuggire dalla Francia. Tutti insieme si trasferiscono nel piemontese dove si sviluppano i tratti caratteristici del dolcinianesimo. Divieto del giuramento, rispetto per Gesù e l’apostolo Giacomo, nessun obbligo di obbedienza verso nessuno, vita libera e semplice, distruzione di ogni struttura ecclesiastica, come aveva fatto Segarelli, obbligo di vivere del proprio lavoro, rifiuto delle decime.
Forse negli ultimi anni si sviluppano di più le tendenze comuniste non solo dei beni ma anche dei rapporti sessuali, concezione resa possibile dalle condizioni di vita, in piccoli gruppi, sui monti, costretti a difendersi continuamente. Ed infine il tratto più caratteristico.
Dolcino si trasforma da predicatore in guerrigliero e guida i contadini e i servi fuggiaschi dalle terre dei vescovi di Ver-celli e di Novara. Arrivò fino ad un esercito di quattromila persone, tenuto insieme dagli ideali e dalla comune passione.
Conclude Volpe: «E la sua voce dové destar un’eco limpida e robusta in certe classi della popolazione valligiana, se la commozione di quegli anni fu negli spiriti profondissima e durò a lungo e ancor oggi traspare in episodi di leggende popolari, o vibra nelle piccole contese dei partiti locali». (Ib., p. 121).
VIII
Altri problemi li crearono i francescani, specie nel movimento detto degli intransigenti.
Ha notato Felice Tocco: «Gl’intransigenti sotto meschini pretesti miravano ben più alto, a dichiarare cioè che la vita prescritta dalla regola non differisce dall’evangelica, e che ad essa si fosse conformato Gesù, e gli Apostoli, e ad essa quindi dovrebbero conformarsi non soltanto i frati Minori, ma i cristiani tutti che debbono porre l’Evangelo a norma della loro vita; il che è come dire che non solo il clero, ma tutta la Cristianità dovesse tramutarsi in un vasto cenobio francescano». (Storia dell’eresia nel Medioevo. Dai Catari a Gioacchino da Fiore, Firenze 1884, p. 518).
La politica papale nei riguardi dei francescani è stata sempre quella se non proprio del sospetto, certo dell’utilizzo con le debite distanze. Da parte loro i francescani hanno smussato tutti gli aspetti eretici della loro iniziale dottrina, lasciandoli a quelle componenti e ai movimenti eretici sostanziali che venivano in questo modo colpiti dai tribunali ecclesiastici e dall’Inquisizione, anzi prestandosi come componenti di quest’ultima a meglio assestare i colpi.
Il papato ha quindi sempre favorito il movimento francescano, fino ai limiti dell’ortodossia, quando non ne ha potuto fare a meno lo ha costretto a modificate alcuni aspetti della piattaforma teorica e dei princìpi, e ciò perché il movimento francescano costituiva un segnale, una specie di limite che non si poteva oltrepassare senza entrare direttamente nell’eresia.
Precisa bene Tocco: «Certo [Innocenzo III] non poteva respingere queste nuove forze, che gli venivano inaspettatamente in aiuto per combattere l’eresia, né si può dubitare che benedicesse il mendico d’Assisi, senza vietargli di seguitare nell’opera sua; ma non smise mai i suoi dubbi sulla regola, che a lui pareva non facesse il debito conto dei reali bisogni e tendenze della natura umana, né volle concedere una bolla di approvazione». (Ib., p. 428).
Alla fine del 1144 si incominciò a delineare nettamente il crollo definitivo di tutte quelle istituzioni medievali che, in un modo o nell’altro, avevano cercato di difendere la libertà costituzionale e parlamentare. E ciò favorì la crescita dell’assolutismo monarchico.
La Chiesa, da canto suo, potè opporre una relativa resistenza, prima di tutto perché sul piano teorico il suo era sempre un assolutismo e poneva le menti e i cuori degli uomini non davanti ad una scelta, ma davanti alla scelta tra due tipi di male altrettanto dannosi, cosa che li faceva optare quasi sempre per l’assolutismo regio che apertamente ammetterà di essersi fondato sulla forza delle armi, piuttosto che sull’assolutismo della Chiesa che continuava a nascondere la propria forza costrittiva dietro difficili argomentazioni teologiche.
Dall’inizio del nuovo secolo, l’azione sociale di controllo e razionalizzazione, condotta dalla Chiesa, intensificò i suoi aspetti negativi, nel senso, come accadde in Italia, che mentre da un canto la sua considerevole forza politica impediva a qualsiasi sovrano italiano di unificare la penisola; dall’altro, la sua relativa debolezza impediva di farlo in proprio.
Che questo processo di unificazione fosse in sé cosa positiva, resta ovviamente da discutere, ma non c’è chi non vedesse in ciò, almeno in quei tempi, un alleggerimento del duplice gioco ecclesiastico e signorile, spesso impantanato in miseri e feroci interessi locali di parte e di partito.
È proprio questo che Machiavelli rimprovera al potere ecclesiastico: «Abbiamo adunque con la chiesa e i preti noi Italiani questo primo obligo, d’essere diventati sanza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra: questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa». (Discorsi, 1, 12).
IX
La riforma protestante comprese fin dall’inizio l’impossibilità di modificare l’organizzazione della Chiesa e l’ordine dei suoi interessi terreni con l’intervento di un Concilio, per cui ricorse alla forza della monarchia.
In effetti, la riforma fu essenzialmente intimistica e spirituale, però contribuì lo stesso a limitare maggiormente il potere papale e a rafforzare l’assolutismo regio. Martin Lutero combatté contro le magnificenze della corte papale, contro la simonia e, principalmente, contro l’abolizione della suprema povertà: «...ridicolo e stolto è che il papa, su fondamenta così errate ed invalide, nel suo pastorale Decretalis si vanti di essere erede legale dell’impero, ov’esso rimanesse vacante. Ma chi gli conferì tale diritto? Forse Cristo allorché disse: “I prìncipi dei pagani sono signori, ma voi non siate come loro?”. È forse S. Pietro che gliel’ha trasmesso in eredità? Mi ripugna dover leggere ed apprendere menzogne sì svergognate, volgari e stolte dal diritto canonico, e doverle ritenere dottrina di Cristo, mentre sono menzogna diabolica. Della medesima specie è pure l’altra inaudita menzogna della Constantini donatione». (Scritti politici, tr. it., Torino 1959, pp. 171-172).
La pastorale è di Clemente V. Le parole riportate sono in Luca, 22, 25. Il famoso Constitutum, un falso clamoroso diretto a giustificare il potere temporale come eredità di Costantino, dette vita a una famosa polemica che si concluse con la dimostrazione di falsità approntata da Nicolò Cusano e Lorenzo Valla. Il documento risultò essere stato redatto nel secolo VIII, negli ambienti dello studio romano.
«Il senso della concretezza, della storicità – scrive Francesco Olgiati – è vivissimo nel Cardinale di Cusa. Da solo egli potrebbe rappresentare tutto il Rinascimento per ciò che riguarda la filosofia, perché nessuno più profondamente di lui fu pervaso e ispirato da quest’anima caratteristica di quell’epoca. Ogni e qualsiasi teoria, ogni e qualsiasi riga; lo spirito specialmente che si agita nelle sue opere, ce lo dicono in mille forme. La realtà era da lui concepita organicamente, non atomisticamente; in essa egli vedeva il regno della continuità, non della contiguità; il singolo era il centro di riferimento del tutto e il tutto era il centro di riferimento dei singoli. Egli non ammetteva che il fine dei singoli fosse separabile dal conseguimento del fine del tutto. Attraverso i singoli opera la finalità, come impulso direttivo. Non isolamento, né divisione; ma solo distinzione e connessione. La realtà era per il Cusano un’unità sistematica, organica. Per dimostrare che tale fu il suo pensiero, non c’è che da rileggerlo e da far passare, dottrina per dottrina, tutte le parti o, meglio, tutte le membra della sua concezione». (L’anima dell’umanesimo e del rinascimento. Saggio filosofico, Milano 1924, p. 457).
Ma Lutero farà presto a costituire la sua Chiesa e a ragionare di conseguenza. I tempi vanno veloci e le strutture di potere si adattano, adeguandosi al vecchio modello ecclesiale cattolico.
Di fronte all’insurrezione dei contadini e al pericolo che le iniziative di Müntzer presentavano, diventati questi insorti non povera gente che lotta per un ideale di pace, di fratellanza comunista e di libertà, ma banditi che hanno “rotto la fedeltà, la devozione, i giuramenti”, egli scrive: «per la qual cosa chiunque lo può deve colpire, scannare, massacrare in pubblico o in segreto, ponendo mente che nulla può esistere di più velenoso, nocivo e diabolico d’un sedizioso, giusto come si deve accoppare un cane arrabbiato, perché se non lo ammazzi, esso ammazzerà te e con te tutto un paese». (M. Lutero, Contro le empie e scellerate bande dei contadini, in Scritti Politici, op. cit., p. 485).
Dedicandosi e prestando attenzione, e che attenzione, alle faccende del mondo, il protestantesimo diventa sempre di più attento all’importanza dei problemi sociali e del lavoro in particolare. Dall’iniziale intimismo, al normale processo di razionalizzazione, il passo sarà di gran lunga più breve di quello compiuto dalla Chiesa cattolica in tanti secoli.
Ha scritto Max Weber: «... quando, dopo le lotte cogli utopisti fanatici, e la sommossa dei contadini, l’ordinamento storico oggettivo, in cui l’individuo viene immesso da Dio, diventa per Lutero sempre più una diretta emanazione del volere divino... Così, se il suo tradizionalismo economico era da principio il frutto dell’indifferenza, derivata da S. Paolo, più tardi è emanazione della fede nella Provvidenza fattasi sempre più intensa e che identifica l’obbedienza incondizionata a Dio coll’incondizionato adattamento alla situazione avuta in sorte». (L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, in Sociologia delle religioni, tr. it., vol. I, Torino 1976, pp. 174-175).
X
Quelle che erano le forze tradizionali del papato, troppo stanche per affrontare con qualche probabilità di successo la lotta contro lo strapotere imperiale e la frattura protestante furono raccolte e vivificate per quanto possibile dai gesuiti.
Il loro scopo era quello di sanare il dissidio coi protestanti, di fondare una supremazia essenzialmente spirituale del papa, sul tipo di quella teorizzata da Tommaso e di costruire una serie di tipici Stati cristiani, sotto l’egida spirituale del papato. In definitiva, i gesuiti, specialmente il loro polemista più efficace, Roberto Bellarmino, resero inconsistenti le pretese di ulteriore razionalizzazione da parte della Chiesa cattolica e ne assunsero in proprio la continuazione, delegando all’Inquisizione l’aspetto più direttamente repressivo.
Sottilmente Italo Mereu: «Quando si traccerà la storia della nostra unità con occhi meno obnubilati dal nazionalismo, si capirà come la prima unione dell’Italia si realizza proprio nel 1500 per merito della Chiesa. Non è opera di “garibaldini” ma di “inquisitori”». (Storia dell’intolleranza in Europa, Milano 1979, p. 49).
In un’epoca quindi di profondi rivolgimenti sociali ed economici, non solo religiosi e organizzativi, si colloca la riflessione di Machiavelli. Egli non poteva mancare di cogliere come il momento fosse favorevole agli uomini audaci e forti, pieni di iniziativa e che, principalmente, non si facessero prendere al laccio delle varie trappole religiose e morali. Forse il suo fu un proponimento giustificativo? Forse non lo fu? Non lo sappiamo. È mai possibile quantificare ciò che un pensatore deve alla sua epoca e separarlo da ciò che la sua epoca ha contratto in debiti con lui? Certamente no.
Per meglio capire questo problema: «La maggior parte di noi è abituata a pensare che il mercato – un’istituzione che ci è familiare – sia il segno distintivo dell’economia. Pertanto gli studi nel campo della storia economica generale si sono normalmente occupati delle attività di mercato e dei loro antecedenti. Come dobbiamo comportarci, quindi, una volta che si sia scoperto che alcune economie sono state regolate da principi radicalmente diversi, quando risultano sì da un lato un diffuso impiego della moneta e attività commerciali a largo raggio, ma, dall’altro lato, non c’è alcuna prova dell’esistenza di mercati o di guadagni ottenuti attraverso la compravendita? È a questo punto che dobbiamo sottoporre a esame le nostre nozioni intorno all’economia. In questi casi l’economia non può essere sottoposta all’analisi economica in quanto questa presuppone l’esistenza di un comportamento economizzante con il suo contorno di istituzioni quali i mercati regolatori dei prezzi, l’esistenza di un’unica moneta e un’organizzazione mercantile dei commerci». (Traffici e mercati negli antichi imperi, tr. it., a cura di K. Polanyi, Torino 1978, p. 55).
La figura del mercante avventuriero era ormai più che diffusa e non era quella che conosciamo oggi, non si trattava soltanto di semplici operazioni di comprare e vendere mercanzie. Erano uomini d’affari, ma anche e forse principalmente, uomini politici. E i politici, ed uomini d’affari, della Chiesa non erano da meno.
Dappertutto spaziava il concetto in costruzione del nuovo Stato. Al di sotto di questo concetto, il movimento concreto, operativo, di nuove classi emergenti, che scatenava tutti i suoi potenti mezzi di accumulazione contro i precedenti gruppi di potere, nobiltà in testa, e contro tutte quelle istituzioni religiose che, in nome di un’astratta morale, volevano soltanto imporre i propri specifici interessi di dominio.
Ha scritto Benedetto Croce: «La durezza e l’insidiosità, inevitabili nella politica e che il Machiavelli riconosceva o raccomandava pur provandone a volta nausea morale, vengono spiegate dal Vico come parte del dramma dell’umanità, che in perpetuo si crea o ricrea; o sono riguardate nel loro duplice aspetto di bene reale e di male apparente, apparenza che il bene deve prendere al lume del bene superiore, il quale dalle sue viscere stesse prorompe o s’innalza. E all’amarezza succedono per tal modo la considerazione della necessità razionale o il sentimento di fiducia nella Provvidenza, che regge le cose umane». (Elementi di politica, Bari 1925, pp. 59-60).
Forse Machiavelli opera in un microcosmo troppo ristret-to, ma forse è proprio per questo che le sue considerazioni sono analiticamente più accettabili, proponendosi ad ogni futuro potere, come decalogo di quello che il potere in definitiva è, al di là di possibili differenze di contesto.
La classe emergente è giovane e forte, viene fuori dalle nebbie di una incomposta ripartizione di autonomie periferiche, con tutti i loro margini, a volte interessanti, ma purtroppo insufficienti, di autonomia positiva. E questa classe, non guarda tanto per il sottile. Non ha ancora imparato l’arte della volpe, ha solo la forza del leone, e con questa forza sbrana e massacra per realizzare una nuova forma di accumulazione primitiva.
Machiavelli assiste alla formazione del capitale nuovo, fenomeno di grande interesse, che lo affascina e lo porta a riflettere sui percorsi storici di un continuo riciclare delle cose umane. Da qui le sue lunghe peregrinazioni nelle memorie di Roma, punta di riferimento, occasione e riscontro delle cose dell’oggi.
Scrive Max Scheler: «C’è una cosa, innanzi tutto, che distinguerà profondamente il socialismo cristiano-profetico dal marxismo. Anch’esso, in verità, trova, con Marx, che nella realtà storica europea occidentale dell’ultimo secolo esistono tendenze forti e vitali verso il comunismo costrittivo, preparate da un liberalismo e da un capitalismo eccessivi, colpevoli, anzi divenuti colpe ereditarie di secoli. Tanto in questa constatazione, quanto nella visione per cui la storia specificamente moderna è dominata in misura crescente non da idee, bensì da impulsi economici di massa, il socialismo cristiano-profetico concorda largamente con Marx e aiuta a respingere e contrastare i suoi oppositori, in particolare quelli che alla storia moderna hanno attribuito il senso di una teofania sempre crescente (Hegel) e che mettono in discussione queste tendenze vitali verso il comunismo. Ma, ben lungi dallo scorgere, in queste tendenze di fatto verso il comunismo nonché nella storia (mossa principalmente da fattori economici) dell’epoca borghese (cioè nella storia dell’epoca del tipo borghese), ben lungi dallo scorgere in ciò, dunque, risultati necessari dello sviluppo universale della storia dell’umanità, il socialismo cristiano scorge in tutto questo una caduta dell’uomo europeo – fondata su una colpa originaria libera e su una colpa ereditaria e complessiva relativa – una caduta rispetto alla vera destinazione sua e dell’uomo; e nelle tendenze di fatto verso un comunismo costrittivo esso non scorge il paradiso sulla terra, bensì in un certo senso, un castigo divino, che allude minacciosamente al futuro di un’umanità decaduta dalla sua destinazione, qualora essa non si volga liberamente a un socialismo cristiano. Nei movimenti del tempo recente, nei limiti in cui corrispondono effettivamente alle leggi marxiste, esso non scorge un movimento di progresso e di sviluppo superiore della cosiddetta umanità – con tal movimento non ha nulla e che fare, in base alla sua origine, il fenomeno, puramente europeo occidentale e americano del liberalismo e del capitalismo in generale – bensì la decadenza dell’Europa e la morte culturale dell’occidente. Anzi, da un punto di vista logico, neanche Marx ha il minimo diritto di attribuire alla storia il senso di un “progresso”, che sarebbe mosso soltanto da una cieca causalità economica. Egli ha ripreso quest’inclinazione involontariamente da Hegel. Solo che, per lo meno, in Hegel questa inclinazione è giustificata all’interno del suo sistema, che anzi l’idea divina, a suo avviso, deve dispiegarsi nella storia; in Marx, invece essa rinunzia a ogni giustificazione». (Socialismo profetico o socialismo marxista in Lo spirito del capitalismo, op. cit., pp. 214-215).
Certo, in Italia il movimento europeo di assolutizzazione del potere fu ritardato da una serie di molteplici motivi, e l’analisi di Machiavelli si pone come strumento per superare questi motivi razionalizzando una situazione piena di contraddizioni, e suggerendo quelli che possono definirsi le costanti di qualsiasi gestione disincantata del potere.
Con la sua divisione in cinque grandi Stati, l’Italia aveva non pochi segni di anacronismo, ma in essa non mancavano le indicazioni ideologiche di una tendenza verso l’ascesa di una nuova classe dominante, e non mancavano esempi di uomini forti, adeguati a interpretare il ruolo di agenti di questa ascesa.
È proprio qui che si inserisce la penetrante critica di Machiavelli e la sua disincantata riflessione politica. Nasce forse per la prima volta un centro di elaborazione analitica delle strategie e delle scelte di dominio. Per molti secoli, resterà un punto di riferimento costante per aspiranti dominatori e, in qualche caso, perfino, per aspiranti liberatori. I due estremi non sono poi così lontani, come oggi sappiamo con certezza.
«Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, alla quale corrispondono determinate forme sociali della coscienza. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale». (K. Marx, Per la critica dell’economia politica. Prefazione, in Opere complete di Marx-Engels, tr. it., vol. XXX, Roma 1972, pp. 298-299).
XI
La cultura di Machiavelli è ampia ma non enciclopedica, almeno per un uomo del suo tempo. Nulla di eccezionale. Non aspira neanche a quell’universalità che molti grandi pensatori e artisti dell’epoca raggiunsero, ultimo a chiudere la cordata incredibile, sarà poi Tommaso Campanella. Eppure i suoi interessi si estendono per mille fili in modo spesso imprevedibile. Tutti coordinati dal motivo centrale costituito dallo studio degli uomini.
Anche nelle apparenti divagazioni, come La Mandragola, osservando attentamente, si scopre sempre lo stesso interesse, il medesimo obiettivo.
Certo, nel più organizzato approfondimento delle cose dei prìncipi e degli Stati, gli parve riconoscere il campo più adatto a gettare le basi dottrinali attraverso cui dare spiegazione e logica alle sue esperienze pratiche oltre che alle meditazioni teoriche.
«Se l’esperienza estetica – scrive Gianni Vattimo – ha da essere autentica esperienza di verità per chi legge l’opera, bisogna che sia tale anzitutto per l’autore. Ma ciò equivale a dire che l’esperienza di verità è tale solo in quanto è realmente evento. Nella rappresentazione artistica la trasmutazione in forma conferisce alla cosa rappresentata più verità (più essere) di quanto essa non avesse prima, nella realtà quotidiana. A stabilire ciò è diretta tutta l’analisi che Gadamer conduce della valenza ontologica dell’immagine (Bild). Questo incremento di essere che il reale subisce nella rappresentazione non è qualcosa che riguardi soltanto la soggettività dell’artista e il suo modo di atteggiarsi; nella rappresentazione è l’essere stesso della cosa che viene realmente modificato. Tale modificazione accade alla cosa per opera dell’artista, il quale appare dunque piuttosto partecipe di un fatto che lo trascende. È quindi anzitutto l’artista che fa un’esperienza di verità in quanto incontra una realtà nuova; fa cioè un’esperienza nel senso hegeliano prima ricordato. Lo stesso, ancora più evidentemente, vale per la fruizione-interpretazione dell’opera, specie nel caso di quelle arti che richiedono “esecuzione”, come la musica e il teatro: un’opera viene realmente modificata e arricchita nel suo stesso essere dalle interpretazioni nelle quali via via rivive nel corso della storia. Anche questa rappresentazione è un “gioco” nel senso obiettivo-ontologico che a Gadamer importa sottolineare, e per il quale chi gioca è sempre in realtà giocato: chi esegue l’opera non le conferisce la sua nuova realtà, ma partecipa a un accadimento che concerne anzitutto l’opera stessa». (Introduzione a H. G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it., Milano, 1972, pp. XI-XII).
È quindi proprio al concretizzarsi in dottrina delle sue teorie politiche, spesso apparentemente disperse e pragmaticamente contingentali, che deve indirizzarsi lo studio della cultura di Machiavelli.
In questa direzione si possono osservare due movimenti. Il primo, è costituito da quella sua possibilità di utilizzare, al di là della mera erudizione cronachistica, tale che a volte non avverte nemmeno la necessità di separare bene credenze e verità, la storia antica, nel pieno della propria raggiunta maturità intellettuale e pienezza di convincimenti ideologici, e di applicare questa scienza alle sorti della sua Firenze, in una prospettiva di ben più significativa autorizzazione che sentimentalmente considerava la possibilità di una sua Italia.
Il secondo movimento, è dato dai temi che, di volta in volta, vengono trattati, temi che improvvisamente si aprono a figurazioni visive di secoli, pagine di considerevole profondità, aperte sul grande libro del mondo. Alcuni momenti, che in lui sono forse semplici intuizioni ed orientamenti iniziali, dopo diventeranno veri e propri punti di riferimento per analisti e pratici della politica.
A volte può dare l’impressione di seguire regole di prudenza, come queste di Edmund Burke: «Non escluderei del tutto le alterazioni, ma anche se dovessi mutare, muterei per preservare, grave dovrebbe esser l’oppressione per spingermi al mutamento. E nell’innovare, seguirei l’esempio dei nostri avi, farei la riparazione attenendomi il più possibile allo stile dell’edificio. La prudenza politica, un’attenta circospezione, una timidezza di fondo morale più che dovuta a necessità, furono tra i primi principi normativi dei nostri antenati nella loro condotta più risoluta. Anche la rivoluzione, l’anarchia, può essere necessaria, ma deve risultare da un ordine necessario, non mai da una autonoma scelta». (Riflessioni sulla Rivoluzione francese, tr. it., in Scritti politici, Torino 1963, p. 269). Ma non è così.
XII
Il primo moto viene fuori da una non interrotta tradizione che si riassume in lui, ma il secondo si pone quasi all’apertura di una nuova forma di tradizione che da lui si sviluppa, una tradizione filosofica.
Leggiamo le riflessioni sugli antichi ordinamenti della Repubblica romana, non in modo sistematico e nemmeno criticamente lodevole, eppure queste annotazioni disorganiche sono luogo di attenzioni precise, ricchezza di metodo e fecondità di giudizi, tali che nemmeno oggi è possibile dedurre dai pur estranei capitoli di Tito Livio.
Perfino i luoghi comuni, è quanto accade altrove, di un Medioevo nebulosamente affidato alle imprese dei barbari, diventano in Machiavelli pagine di storia da leggere attentamente per l’insegnamento che se ne può trarre su come difendersi dalle trame del potere.
Ma perché questo accade? Perché, in un’epoca di nuove e nuovissime turbolenze, un uomo, che certo non era alieno dal coinvolgimento, si rivolge indietro.
A me sembra per lo stesso motivo per cui, secoli dopo, lo farà Nietzsche. Perché la storia è vista da questi uomini diversamente da come la si considera oggi, come linearità di progresso, consensualità di movimento ideale. Nei Frammenti postumi di Nietzsche si legge: «Vivere molte cose: e insieme vivere molte cose del passato; vivere come un’unica cosa le proprie e le altrui esperienze vissute: ecco ciò che eleva al massimo una persona: persone di questo genere io le chiamo “somme totali”». (Parte prima, 1882-1884, tr. it., Milano 1982, p. 177). Qui il rapporto è innestato con la vita, e il ritorno, in qualsiasi modo lo si intenda, come movimento oggettivo o soggettivo, è sempre un movimento intrinseco alla vita stessa.
Non è il semplice utilizzo, ma la ricerca di uno strumento che permette di riflettere il presente, turbolento e spesso incomprensibile, su movimenti passati, i quali per una loro qualità di svolgimento, opportunamente scelti ed esaminati, siano in grado di fornire un sostegno e una maggiore pienezza alla vita attuale, al compito che oggi vogliamo portare a compimento.
Per Nietzsche, come prima per Machiavelli, la nuova forma del pensiero sarà storica, ma anche filosofica. Ancora Nietzsche: «Ci si rifletta ben a fondo: perché ci tuffiamo dietro a uno che dinanzi a noi cade in acqua, sebbene non si nutra alcun sentimento particolare nei suoi confronti? Per compassione: in tal caso si pensa soltanto agli altri, – risponde la mancanza di riflessione. Perché si prova dolore e disagio per uno che sputa sangue, mentre si è addirittura mal disposti e ostili nei suoi confronti? Per compassione: in questo caso, appunto, non si pensa più a sé, – dice la stessa mancanza di riflessione. La verità è che nella compassione – in ciò, intendo, che in modo fuorviante si è soliti chiamare compassione – noi certo non pensiamo più in modo cosciente a noi, ma inconsciamente ci pensiamo in un modo assai forte, come quando, se ci scivola un piede, facciamo inconsciamente, ora favore nostro, i contromovimenti più opportuni e in ciò usiamo evidentemente tutto il nostro giudizio. La disgrazia altrui ci offende, ci convincerebbe della nostra impotenza, forse della nostra codardia, se non gli prestassimo aiuto. Ovvero, essa reca già in sé una diminuzione del nostro onore dinanzi agli altri o dinanzi a noi stessi. Oppure nella disgrazia e nella sofferenza di un altro v’è un indice di pericolo per noi; e queste, già come segni dello stato di pericolo in cui l’uomo si trova e della sua fragilità, possono provocare in noi un senso di pena. Noi respingiamo questa sorta di pena e di offesa e la compensiamo con un’azione compassionevole; in essa può esserci una sottile legittima difesa o anche una vendetta. Che al fondo si pensi molto a noi stessi, lo si può indovinare dalla decisione che prendiamo in tutti quei casi in cui, alla vista del sofferente, dell’indigente, di chi è nell’afflizione, possiamo prendere un’altra strada: a non fare così ci risolviamo quando possiamo accostarci ad essi come coloro che sono più potenti, come i soccorritori, quando siamo sicuri del plauso altrui; quando vogliamo sentire qualcosa di antitetico alla nostra felicità o anche quando, mediante quella vista, vogliamo strapparci alla noia. È fuorviante chiamare compassione la sofferenza che ci viene arrecata ad una tale vista e che può essere di assai diversi tipi, giacchè in tutte le circostanze si dà una sofferenza dalla quale colui che soffre dinanzi a noi è libero: questa è una sofferenza che appartiene a noi, come appartiene a lui la sua. Ma è soltanto questa sofferenza personale che rimuoviamo da noi quando compiamo delle azioni pietose. Senz’altro noi non facciamo mai qualcosa del genere per un unico motivo: se è certo che noi in questo ci vogliamo liberare di un dolore, è altrettanto certo che in una tale azione noi consentiamo ad un istinto di piacere, – piacere che nasce alla vista di qualcosa di antitetico alla nostra situazione, all’idea di poter dare aiuto, solo che lo si voglia, al pensiero della lode e della riconoscenza nel caso che questo aiuto venga dato; piacere che ha origine nell’attività stessa del prestare aiuto, in quanto l’atto riesce e in sé reca diletto, a chi lo esegue, come qualcosa che si realizza gradualmente, ma in particolare nel sentire che la nostra azione mette fine ad un’ingiustizia che suscita sdegno (e già lo sfogare il proprio sdegno dà sollievo). Tutto ciò, incluso anche qualcos’altro di molto più sottile, è “compassione”: – come goffo piomba qui il linguaggio, con una sola parola, su una realtà così polifonica! – Che il compatire sia, invece, della stessa specie del patire, alla cui vista esso ha origine, o che abbia una comprensione particolarmente fine e penetrante per quest’ultimo, entrambe queste cose sono contraddette dall’esperienza, e chi ha magnificato la compassione proprio sotto questi due riguardi mancava appunto, in campo morale, dell’esperienza sufficiente. Questo è il mio dubbio circa tutte quelle incredibili cose che Schopenhauer riferisce sulla compassione: egli, che con ciò vorrebbe condurci a credere alla sua grande novità, che la compassione cioè – appunto quella compassione da lui così difettosamente osservata e così mal descritta – sia la fonte di ogni azione morale, sia passata che futura, – e proprio in grazia di quella facoltà che lui le ha soltanto fantasiosamente attribuito. Cosa, in fondo, distingue gli uomini compassionevoli da quelli privi di compassione? Soprattutto – per darne anche qui solo un abbozzo – il fatto che questi ultimi non hanno l’eccitabile fantasia della paura, la sottile capacità di fiutare il pericolo; inoltre la loro vanità non è offesa così facilmente quando accade qualcosa che potrebbero impedire (la prudenza che deriva dall’orgoglio impone loro di non mischiarsi inutilmente in estranee faccende, anzi da parte loro amano che ognuno sia di aiuto a se stesso e giochi le proprie carte). Inoltre essi sono più avvezzi dei compassionevoli a sopportare i dolori; e non appare loro così ingiusto che altri soffrano, dal momento che hanno sofferto loro stessi. Inoltre per loro è una condizione penosa quella di avere il cuore tenero, come per i compassionevoli lo è quella di essere stoicamente impassibili; coprono questo atteggiamento con parole di discredito, credendo che in esso sia in pericolo la loro virilità e il loro freddo coraggio, – di fronte agli altri nascondono le lacrime e se le asciugano indignati con se stessi. Rispetto ai compassionevoli sono un tipo diverso di egoisti; – ma chiamare loro malvagi per eccellenza, e buoni i compassionevoli, non è nient’altro che una moda morale, che ha fatto il suo tempo: come pure ha avuto il suo tempo la moda opposta, e che lungo tempo!». (Aurora, II, 133).
XIII
«Ancora che per la invida natura degli uomini – scrive Machiavelli – sia sempre suto non altrimenti periculoso trovare modi ed ordini nuovi che si fusse cercare acque e terre incognite, per essere quelli più pronti a biasimare che a laudare le azioni d’altri; nondimanco, spinto da quel naturale desiderio che fu sempre in me di operare sanza alcun rispetto quelle cose che io creda rechino comune beneficio a ciascuno, ho deliberato entrare per una via, la quale, non essendo suta ancora da alcuno trita, se la mi arrecherà fastidio e difficultà, mi potrebbe ancora arrecare premio... ». (Discorsi, I, Proemio).
Che Machiavelli fosse perfettamente conscio delle diffi-coltà cui andava incontro è fatto evidente da queste parole. Non solo difficoltà tecniche, di penetrazione di problemi, necessità di discernimento politico al di sopra e, spesso, contro la farragine storica, ma anche, e principalmente, difficoltà di ordine politico.
Non dovevano essere gradite queste analisi, né all’epoca in cui vennero fatte, per quei pochi che le arrivarono a conoscere veramente, né dopo, quando, col passare del tempo, ci si rese conto di quanto fosse difficile venire a patti con chi diceva la verità in faccia al mestiere del politico, con chi disvelava le reali intenzioni del potere.
Difatti diventa molto più difficile il processo di repe-rimento del consenso, processo fondamentale per qualsiasi gestione politica, anche per la più assolutistica e tiranna, quando esistono analisi che procedono ad un effettivo disvelamento dei trucchi e dei mezzi che il politico impiega per ottenere il comune assenso davanti ai suoi misfatti.
Continua Machiavelli: «Debbe, adunque, avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità; e paia, a vederlo e udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto religione. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo Stato; e mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati; perché il vulgo ne va preso con quello che pare e con lo evento della cosa; e nel mondo non è se non vulgo; e li pochi non ci hanno luogo quando li assai hanno dove appoggiarsi. Alcuno principe de’ presenti tempi, quale non è bene nominare, non predica mai altro che pace e fede, e dell’una e dell’altra e inimicissimo; e l’una e l’altra, quando e’ l’avessi osservata, gli arebbe più volte tolto o la reputazione o lo Stato». (De principatibus, in Opere Politiche, Firenze 1969, pp. 135-136).
XIV
E sarà straordinario vedere come le polemiche contro Machiavelli, tutte imbastite in nome della difesa della morale contro un simile offensore delle regole della comune convivenza, e tutte fondate anche sulle accuse di irreligiosità, sistematicamente sollevate a suo carico, non dimostrano altro che la paura di vedersi scoperte le carte, la paura cioè di coloro che stanno conducendo il gioco del potere, che questo stesso gioco venga capito da coloro che si devono soltanto limitare a subirlo.
Ecco qual è stato, realmente, nei secoli, il pericolo che la mina vagante, costituita dagli scritti principali di Machiavelli, ha causato ai desideri di tutti gli uomini e tutte le organizzazioni di potere. Ed è anche questo il motivo per cui queste e quelli si sono spesso ingegnati di recuperarlo cercando di farlo apparire, platealmente, come un vero consigliere privato di nefandezze e intrighi.
«L’osservazione del Croce, – scrive Eugenio Garin –secondo cui “le idee o valori assunti a modello o misura della storia non sono idee o valori universali, ma fatti particolari e storici essi stessi, malamente innalzati a universali”, viene ricordata da chi, autorevolmente, teorizza la riconduzione della filosofia nell’ambito pluralistico della storia, contro la vecchia pretesa di ridurre la storia sotto l’unità della filosofia». (La filosofia come sapere storico, Bari 1959, p. 93).
Ma torniamo ai suoi strumenti. Eccolo come continua: «Nondimando, nello ordinare le repubbliche, nel mantenere gli Stati, nel governare e regni, nello ordinare la milizia ed amministrare la guerra, nel judicare e sudditi, nello accrescere l’imperi, non si truova principe né republica che agli esempli degli antiqui ricorra. Il che credo che nasca non tanto dalla debolezza nella quale la presente religione ha condotto el mondo, o da quel male che ha fatto a molte province e città cristiane uno ambizioso ozio, quanto dal non avere vera cognizione delle storie, per non trarne leggendole quel senso né gustare di loro quel sapore che le hanno in sé». (Discorsi, I, Proemio).
E qui s’inserisce il concetto della funzione ritardante della religione. Machiavelli confonde questa funzione con quella parallela di razionalizzazione, in quanto vede soltanto l’idea storica di istituzioni che possono liberarsi da pesi collaterali, per procedere nel migliore dei modi. Non è ancora in possesso del concetto di progresso, ma pensa come se ne fosse in possesso.
In epoca molto più recente questa medesima idea, della religione come ostacolo, è stata sviluppata più volte: «Propongo – ha scritto Salomon Reinach agli inizi dell’Ottocento – di definire la religione: un insieme di scrupoli che ostacolano il libero esercizio delle nostre facoltà». (Orpheus. Histoire générale des religions, ns. tr., Parigi 1907, p. 4). Il pericolo di queste considerazioni, verificatosi molte volte, è quello di concludere affrettatamente che l’ostacolo religioso sia di natura irrazionale, mentre esso è sempre di natura razionale, e non è un vero e proprio ostacolo, salvo ad immaginare il progresso storico come un meccanismo determinista diretto al miglioramento, cosa quest’ultima tutt’altro che accertata e accertabile.
XV
I mezzi di cui dispone Machiavelli, anche dal punto di vista letterario, sono da lui adeguati alle condizioni necessarie alla ricerca, che si presentano ardue e sconosciute.
Nel pieno rigoglio della ricercatezza rinascimentale della lingua e dello stile, quest’uomo, che pure altrove aveva dato non pochi esempi di accettazione di alcune norme estetiche, poniamo nei Decennali, abbandona le vesti del retore, per scendere ai livelli della piazza, non lontano dal Savonarola, accanto agli uomini nuovi, pronti ad affrontare nuove battaglie.
Nota Eugenio Garin: «La storia non soffre di complessi di inferiorità; proprio perché vuol essere integrale storiciz-zazione, si propone come “filosofia”, anzi come un modo legittimo di porsi del filosofare, che riconosce il valore delle ricerche logiche, metodologiche, linguistiche, ecc., ecc., ma proclamando l’esigenza di chiarirne la genesi, i rapporti con una situazione reale, le “ragioni” storiche in tutta la complessità dell’orizzonte umano in cui sorgono. Lungi dal riconoscersi “philosophia inferior”, questa “storia” si pone molto francamente come una direzione in cui, oggi, può tentarsi ancora seriamente, in modo criticamente valido, una considerazione unitaria della realtà quale è data alla nostra esperienza». (“L’unità della storiografia filosofica”, in “Rivista critica di storia della filosofia”, XI, 1956, p. 217).
Lo stile diventa quindi disadorno, schietto, tagliente. I concetti repentini, senza fronzoli, quasi come uno che ha fretta e teme di non arrivare in tempo a completare quello che vuole dire. Esempio notevole di stile idoneo all’argomento, duro e cristallino nello stesso tempo, sono quelle pagine in cui cerca la sostanza, cioè quelle più nude ed essenzialmente dirette ad uno scopo analitico.
Per la prima volta forse, in queste pagine, l’analisi mette a nudo aspetti che prima erano andati sommersi. Sui motivi di questa separazione c’è molto da dire, e anche sulle sue conseguenze, ma questi sono movimenti della realtà, Machiavelli contribuisce a mettervi ordine, e nel farlo disvela, contrastando, e non nasconde, acconsentendo.
Sono le pagine della formulazione indiretta della sua filosofia politica. E Benedetto Croce, celiando un poco con Guido De Ruggiero: «Il De Ruggiero resta alquanto turbato dalla mia definizione della filosofia come nient’altro che “metodologia della storiografia”; ma vorrei che su di ciò si rasserenasse, perché quella definizione non sminuisce né offende la filosofia seria, e tutt’al più manda al diavolo le filosofie flosce, inconcludenti e oziose dei professori, perché i veri filosofi, se ne avvedessero o no, non hanno lavorato ad altro che a rinvigorire e raffinare i concetti per far sì che meglio s’intendano i fatti, cioè la realtà, cioè la storia». (Nuove pagine sparse, vol. I, Bari 1996, p. 159).
Non che si possa definire uno scrittore filosofico nel senso tradizionale della parola. Gli manca, innanzi tutto, la sistematicità, la diretta e costante presenza di un fine da raggiungere, la costruzione progressiva delle varie sintesi in vista di una definitiva sintesi terminale.
Tutti aspetti che anche in filosofi asistematici, poniamo come Kierkegaard e Nietzsche, si possono rimettere insieme sia pure con difficoltà. Il suo procedere pare incontri, a volte, una battuta d’arresto, e che la vera natura del suo discorso subisca cambiamenti con più frequenza di quanto non sia strettamente necessario: precettistici, storici, retorici, eruditi.
L’innalzarsi riflessivo, al di sopra del materiale raccolto, ed anche al di sopra di un primo strato di argomentazioni che sembrano stare lì, a volte, come iniziali elementi di una costruzione labirintica che non vuole indicare accessi facili ed esodi scontati, questo innalzarsi si presenta frequentemente sotto forma di divagazione, come arresto brusco, come distogliersi da pensieri differenti e forse più angosciosi.
La parola fa il suo lavoro se porta subito al sogno, all’incredibile plausibilità del diverso, sennò apre semplicemente una via al riassetto mondano e fattuale dell’azione, una forma astuta di spiegare l’inspiegabile follia di andare in cerca della verità. Non mette semplicemente in mostra indicativa quello che deve restare nascosto, essa non suggerisce una via, e nemmeno la via, questo è evidente.
Pure convenendo nella formalità regolamentare del tempo e dello spazio, salta subito al sogno, al sogno della carne, non all’estasi astratta che mette il corpo tra parentesi, a forza, imponendogli il dettato della volontà. In questi casi la teoria è danza di parole, non fuga dalla realtà per andare a nascondersi dietro l’alibi dell’indicibile.
Nel danzare la parola mette in risalto le sue componenti più nascoste, quelle che mai si sarebbero potute supporre, queste componenti si esaltano poi nel pieno dell’architettura indagante con una incredibile versatilità retorica, occupano modulandosi infinite volte, sempre in modo differente, il tempo e lo spazio designati da loro, con mille confuse e contorte ramificazioni, quasi una ubriacatura del dire, che altro non può scardinare, in altro modo, l’accesso alla riflessione filosofica.
La parola parla disponendosi a questa nuova avventura, senza per questo fornire garanzia di riuscita. L’accerchiamento ellittico del fatto storico non è mai compiuto veramente e fino in fondo, non solo per una impossibilità di completamento, ma perché la parola stessa rinvia sempre a novelle aperture, a indirizzi che sbucano altrove.
Questo accennare e mai concludere è la forza di questa parola, il suo limite e la sua gloria. Non asserisce ma abbraccia, mentre un amore soffocante è semplicemente fagocitazione e possesso imposti dalla paura di perdere. Invece la parola di cui parlo nella riflessione filosofica sa di perdere, e lavora alla sua propria inutilità, la perdita somma del dire, il deliquio dell’eccesso fatto carne nella parola, visione concreta e tuttavia sogno, libro, o meglio danza, e tuttavia occasione difficile di lettura perché è privo di coraggio e non ha in sé lo sguardo fermo del navigatore nel mare della solitudine.
Il concetto aspetta stanco e riservato, lo devo tirare per i capelli, portarlo al centro della scena che costruisco sul foglio di carta. Le riflessioni si affollano e mi soffocano, arrivano da ogni parte, fanno a pugni fra loro, non so come dare inizio, non so la prima parola che mi è indispensabile per dipanare il gomitolo. Preferisco troncare e, alla buona ventura.
Certo, l’asistematicità non è un limite. Il rifiuto di mirabili costruzioni filosofiche, anche se risulta imposto da una non precisa disposizione in tal senso, e forse nemmeno tanto dalle stesse obiettive capacità analitiche, è un modo di porsi nei riguardi della riflessione, modo che può ormai dirsi entrato definitivamente nel pensiero filosofico moderno.
Non sono i drappeggi ordinati del sistema i luoghi dove Machiavelli poteva andare a scovare le ultime risultanze del suo pensiero.
Per questo motivo, più ancora che per una mia personale indole refrattaria, mi sono subito, fin dai lontani anni delle mie prime annotazioni sulle cose di Machiavelli, indirizzato verso un rifiuto della cosiddetta critica filologica.
Può il lavoro di uno studioso, e in quell’epoca lontana ero di già convinto che questo sarebbe stato il mio destino, al di là del bene e del male o, per meglio dire, al di là di quello che in quel momento pensavo fosse il massimo del desiderabile, cioè una carriera di studi, accettata da me e riconosciuta dagli altri, può, dicevo, il lavoro di uno studioso concretizzarsi soltanto nel numero, più o meno ampio, delle sue consultazioni e delle sue ricerche bibliografiche?
Ancora Croce: «E se la storia contemporanea balza direttamente dalla vita, anche direttamente dalla vita sorge quella che si suol chiamare non contemporanea perché è evidente che solo un interesse della vita presente ci può muovere a indagare un fatto passato, il quale, dunque, in quanto si unifica con un interesse della vita presente, non risponde a un interesse passato ma presente. Il che anche è detto e ridetto in cento modi nelle formole empiriche degli storici, e costituisce, se non il contenuto profondo, la ragione della fortuna del motto assai trito: che la storia sia magistra vitae». (Teoria e storia della storiografia, Bari 1948, pp. 3-4). Come se l’uomo fosse un contenitore di libri, il cui valore si misura dal numero di volumi che contiene e dagli autori che vi è possibile reperire.
Erano gli anni in cui si insisteva su questo aspetto quantitativo, asservendo a tali bisogni anche la parte qualitativa, che pure era indubbiamente considerevole.
La scuola storicista cercava di uscire fuori dal ristretto ambito del positivismo, ma non senza cadere per alcuni versi nel medesimo errore o, almeno, in uno altrettanto limitante.
Ma quell’arte di scovare, interpretare, trascrivere, per la gioia di non numerosi lettori, seguita dalla preoccupazione di raccogliere temi, divagazioni, ricordi, nomi e date, titoli e numeri di pagine, divergenze di lezioni, statistiche, era proprio lo strumento adatto? No di certo. Dopo tanti anni ne sono convinto quanto e forse più di prima.
Un procedimento del genere danneggia la stessa ricerca. Machiavelli risulterebbe incomprensibile da questo punto di vista.
L’apertura alla filosofia, ecco il nocciolo centrale di questo lavoro.
È necessario tenere presente che l’interminabilità della ricerca ha un limite esterno a essa, sconosciuto e non rilevante per tutti gli aspetti intrinseci a una prosecuzione senza fine. È quello che provo ascoltando la parola che riflette sulle sue possibilità di capire la realtà che circonda gli echi da essa stessa prodotti.
È il presentimento che c’è nel dire della parola inarrestabile il segno interno di ciò che è assente, che sta all’esterno. L’incompletezza è incompletabile, il suo limite è la completezza assente, ciò che essa insiste a considerare obiettivo come se fosse un elemento presente.
Per me la filosofia è questo sentimento, adesso posso capirlo meglio di quando ero giovane e riflettevo sulle medesime carte che ho sottomano riprendendo questo lavoro su Machiavelli.
Valutare questo sentimento non è facile, eppure è anch’esso detto all’interno del dire, solo che non posso ascoltarlo perché è schiacciato dalla polisemia della parola che dice l’esistenza senza obiettivo per cui sarei io stesso a porre limiti e scopi, io che ho costruito mille sotterfugi per evitarli, camminamenti e labirinti, falsi e storture davanti al cui apparato la linearità finisce per non trovare la strada.
Per evitare la frustrazione che mi potrebbe venire incontro scendo in profondità, rifiuto una griglia di lettura canonica, imposta dai mezzi di cui dispongo.
Abbandono l’approccio conoscitivo e mi lascio andare al flusso dell’ascolto delle parole più estreme del vecchio fiorentino, è il grande bivio fruizionistico della teoria, non bisogna afferrarla per le braccia e scuoterla violentemente, finisce così per tacere.
Se voglio ascoltarla, la parola, come accade con la musica, devo lasciarla libera di parlare, lavorare per lei spianandole la strada, non farmi ostacolo e controllo anche io.
Non alimento ambizioni rappresentative in questo lavoro, che pretende innalzare la bandiera filosofica, e non sono disposto a consentire una sorta di autoeliminazione di comodo dei luoghi comuni, di cui esistono repertori di usi e abusi segnaletici e semantici.
Scendendo in profondità scopro una serie di livelli estensivi che si allargano a cerchi non concentrici, deformi, topologicamente immaginabili, una relazione di distanze esplicative (?) non facile da decifrare, in cui è evidente la mancanza di una interruzione, ma è difficile coglierla.
Mi allontano dall’ascolto proprio per restare nell’ascolto, ma lo sprofondamento non è una linea perpendicolare, si allarga per vie traverse e presenta labirinti costruiti sotto altri labirinti, strati di camminamenti di cui non potevo sospettare l’esistenza. Abitano queste regioni profonde della parola filosofica, diramazioni che sono anch’esse depositarie di contrasti feroci tra assenza e presenza, i luoghi comuni si accavallano e presentano costantemente il conto.
Le diramazioni non estranee alla mia intenzione esplicativa, anche se mai da me prese in considerazione, nemmeno a livello inconscio, cioè di pura e semplice memoria, di accidentale venuta in mente, esplodono e avanzano pretese non accontentabili.
Dappertutto questa follia di cui rintraccio a fatica qua e là soltanto briciole. Immagino tentativi eroici, poi mi accorgo che riscopro le medesime inesplicabilità. Resto estatico di fronte a capacità che non ho, poi scopro di averne altre al lavoro, notte e giorno. Mi prodigo e mi smarrisco nella prodigalità del pensiero che scende in profondità.
Dovevo essere più avaro, invece ho aperto me stesso a tanti rigagnoli che si sono portati via i miei deliri. Non mi è mai importato di fare carriera, per questo l’ho fatta e delle migliori, nell’unico campo che non ammette carriere, la sconfitta.
Machiavelli, in questo, mi è stato compagno di percorso. Forte mi sono pensato debole, arrivata la debolezza mi penso forte. Tutto ciò rischia di apparire grottesco a un occhio non esercitato.
XVI
L’idea di studiare la società e il suo funzionamento politico, economico, morale e così via, in maniera sistematica, è un prodotto del XVII secolo.
Alla sua origine ci stanno i paralleli con la scienza meccanica, convenientemente sviluppata anche nel Seicento e con la fisiologia umana, che da sempre ha attirato gli uomini come paragone diciamo a portata di mano. La fisica sociale riteneva potere descrivere la vita dell’uomo nelle moderne società evolute come un sistema planetario costituito da rapporti reciproci di attrazione e repulsione, perfettamente misurabili.
Così Giovanni Gentile: «G. B. Vico, miracolo di genialità solitaria, in quel periodo antistorico per eccellenza, che s’apre con l’Instauratio magna e col Discorso sul metodo, che fanno tabula rasa di tutta la scienza precedente, e si chiude con la Rivoluzione francese, che fa tabula rasa di tutte le precedenti istituzioni sociali, nel secolo dei matematici e dei naturalisti, che non conoscono storia, primo scopre l’unità del vero e del certo, o, come anche egli diceva, della filosofia e della filologia, ossia del divino che è, – come voleva Platone – e dell’umano che diviene, – ciò che Platone pure vide, ma non credé potesse conciliarsi con l’essere eterno di quello: vide quell’essere stesso, che già Cartesio aveva identificato col pensiero, muoversi con esso: giustificò, insomma, la storia, risolvendo in essa la filosofia. Innovazione profonda, che solo la critica kantiana e la filosofia che mosse da questa dovevano poi chiaramente illustrare. Finché la scienza vera, la verità è a priori, eterna, immutabile, di là dalla mente, è chiaro che una storia della filosofia non è concepibile se non come storia delle aberrazioni della mente umana dalla verità. Se la verità è, e non diviene, quel che può aver valore, sarà la filosofia, che scopre, quando lo scopre, la verità che è, non la storia che presuppone un oggetto che diviene. La natura che è, o almeno ci pare sempre quella, non ha storia. Della scienza naturale c’è una storia, ma non interessa il cultore della scienza naturale. Storia dice sviluppo; e la scienza che ha valore, la scienza che non è errore, cui giovi dimenticare, nell’intuizione platonico aristotelica è quella che non si sviluppa. La storia è processo dinamico; la scienza antica è statica. È statica, ripeto, perché la verità sua è oggetto della mente, nient’altro che oggetto; è statica, perché il suo metodo è l’analisi: due concetti che, quasi senz’accorgersene e pur con metodo rigoroso, Kant spianta dalle radici nella Critica della ragion pura. La quale dimostra che la verità è produzione della mente; e che il metodo della conoscenza è la sintesi a priori. Soggettivisti ce n’era stati prima di Kant; e anche prima di Platone; ma fermi sempre nel presupposto che la verità fosse di là dalla mente: onde la stessa verità soggettiva ne aveva fuori di sé una oggettiva, la vera, inconoscibile; epperò la prima non era propriamente verità. Il sogget-tivismo anteriore a Kant, appunto perché fondato anch’esso sul principio, espresso o tacito, dell’oggettività dell’essere, era stato sempre scettico. Scettico ancora è Hume, che prepara il problema a Kant». (La riforma della dialettica hegeliana, Firenze 1975, pp. 115-117).
L’accostamento allo studio di Machiavelli deve avvenire superando questo nostro filtro sistematico, cercando di cogliere la sua frammentarietà, spesso soltanto apparente, le comuni divagazioni e le divergenze sull’interpretazione delle fonti.
L’erudizione ha la sua importanza, ma cercando questo soltanto si sbaglia indirizzo. Machiavelli può fornire ben poco. Se si cerca qualcosa di più, come il senso della storia, il disancoramento della politica dalla morale, la funzione repressiva e ordinatrice della religione, il profondo cambiamento dei tempi nel permanere delle condizioni cicliche della storia intesa in una prospettiva ben diversa da quella del progresso. Se si cerca qualcosa che di vivo, dal passato, costantemente e non di tanto in tanto, arriva fino a noi, qualcosa che ci lega al passato, in un tutto unico, con una relazione attualizzante, allora Machiavelli è un autore da studiare.
Ha scritto Alessandro Dal Lago: «Negli autori considerati come “distruttori della tradizione” metafisica (Marx, Kierkegaard, Nietzsche), il ribaltamento o il rifiuto dell’ultimo e maggiore rappresentante della tradizione (Hegel) non significava abbandonare completamente l’idea di una conciliazione definitiva delle contraddizioni storiche. Certamente, in Marx, l’idea di comunismo, in cui si fondevano echi della filosofia politica greca e tracce ben più rilevanti dell’utopia post-illuministica, sarebbe stata soppiantata, nelle opere mature, dall’analisi del capitalismo come processo materiale, preparando le basi interpretative di una teoria della storia progressiva e processuale (come appare in molti epigoni), ma priva di qualsiasi senso della rottura storica. Oppure, in Nietzsche, il movimento progressivo e unidirezionale della volontà di potenza avrebbe cercato una difficile alleanza con l’idea ciclica di eterno ritorno. Tuttavia, queste aporie delle filosofie post-hegeliane denunciavano, nonostante tutto, la persistenza di un nucleo teorico non storicizzato, di un residuo (volta per volta tragico, antropologico o esistenziale) non eliminabile e comunque indipendente dalle vicissitudini storiche. La facoltà di scelta in Kierkegaard, l’eterno ritorno di Nietzsche, la stessa nozione di comunismo in Marx rimandavano a un senso metastorico, superiore o estraneo alla storia (e proprio in questo aspetto si rivela il carattere metafisico della loro riflessione, nonostante la pretesa di distruggere la metafisica). In un certo senso, il legame di questi autori con la tradizione cristiana si esprime in un’opposizione alla storia terrena “cosi come si è sviluppata finora” – si pensi alla critica della religione secolare e mondana in Kierkegaard, all’idea marxiana di una preistoria dell’umanità precedente il regno della libertà, alle invettive di Nietzsche contro l’evoluzionismo o il mito del progresso. In altri termini, nonostante le apparenze anti-metafisiche, l’antico ideale filosofico di un’umanità riconciliata oltre la storia (con la fede, con il mondo o con se stessa) non era tramontato». (“L’autodistruzione della storia”, in “Aut-Aut”, n. 222, 1987, pp. 5-6).
La riflessione di fondo sulle crisi politiche, che conduce il pensiero storico del Rinascimento a superare il vecchio Umanesimo, trasformando la storia da semplice esercitazione in riflessione e preparazione attiva, che tale resta la differenza tra un Bruni e un Machiavelli, non conduce però a una concezione progressista della realtà.
L’evidente tramonto di un’epoca, specie con i tremendi avvenimenti che vanno dalla morte di Lorenzo dei Medici alla calata di Carlo VIII, cioè dal 1492 al 1494, non causa l’illuminazione che ben altri avvenimenti, in ben altre epoche, determineranno nell’idea di progresso.
Così scrive Machiavelli: «Egli è cosa verissima come tutte le cose del mondo hanno il termine della vita loro. Ma quelle vanno tutto il corso che è loro ordinato dal cielo generalmente, che non disordinano il corpo loro ma tengonlo in modo ordinato, o che non altera o s’egli altera è a salute e non a danno suo. E perché io parlo de’corpi misti come sono le republiche e le sètte, dico che quelle alterazioni sono a salute che le riducano inverso i principii loro. E però quelle sono meglio ordinate, ed hanno più lunga vita, che mediante gli ordini suoi si possano spesso rinnovare, ovvero che per qualche accidente, fuori di detto ordine, vengono a detta rinnovazione. Ed è cosa più chiara che la luce che non si rinnovando questi corpi non durano. Il modo del rinnovargli è, come è detto, ridurgli verso i principii suoi; perché tutti e principii delle sètte e delle republiche e de’regni conviene che abbiano in sé qualche bontà, mediante la quale ripiglino la prima riputazione ed il primo augumento loro». (Discorsi, III, l).
XVII
Sul ritorno ai princìpi bisogna intendersi. Non è un rinvio all’autorità della tradizione, nel senso che siamo abituati a vedere nel cosiddetto pensiero conservatore. Non si tratta del buon tempo antico.
In una concezione che identifica il progresso con il bene, ogni sguardo al passato, con la dovuta nostalgia, è necessariamente posizione regressiva, negativa e reazionaria, in quanto entra in contraddizione con tutto quello che di nuovo e di creativo l’uomo riesce a fare.
Ma, in una concezione differente, quale è appunto quella circolare, concezione che non solo contrasta con l’ipotesi filosofica proiettata in avanti, ma si può considerare come diversa concezione del mondo, il giudizio non può restare identico. In questo modo di vedere le cose, il ritorno ai principi non ha nulla di reazionario.
Ecco una delle più belle pagine di Benedetto Croce: «Ho richiamato codeste formole della tecnica storica per togliere aspetto di paradosso alla proposizione: che “ogni vera storia è storia contemporanea”. Ma la giustezza di questa proposizione ottiene facile conferma, e ricca e perspicua esemplificazione nella realtà dell’opera storiografica, sempre che non si scivoli nell’errore di prendere tutt’insieme i libri degli storici, o alcuni gruppi di essi alla rinfusa, e, riferendoli a un astratto uomo, o a noi stessi astrattamente considerati, domandare quale interesse presente c’induca a scrivere, o a leggere quelle storie: quale l’interesse presente della storia che narra la guerra peloponnesiaca o la mitridatica, le vicende dell’arte messicana o della filosofia arabica? Per me, in questo momento, nessuno; e, quindi, per me, in questo momento, quelle storie non sono storie, ma, tutt’al più, semplici titoli di libri storici; e sono state o saranno storie in coloro che le hanno pensate o le penseranno, e in me, quando le ho pensate o quando le penserò, rielaborandole secondo il mio bisogno spirituale. Se, invece, ci atteniamo alla storia reale, alla storia che realmente si pensa, nell’atto che si pensa, sarà agevole scorgere che essa è perfettamente identica alla più personale e contemporanea delle storie. Quando lo svolgimento della cultura del mio momento storico (e sarebbe superfluo, fors’anche inesatto, aggiungere: di me come individuo) apre innanzi a me il problema della civiltà ellenica, della filosofia platonica, o di un particolare atteggiamento del costume attico, quel problema è così legato al mio essere come la storia di un negozio che sto trattando, o di un amore che sto coltivando, o di un pericolo che m’incombe. Posto che la contemporaneità non è carattere di una classe di storie (come si ritiene, e si ha buone ragioni di ritenere, nel classificare empirico), ma carattere intrinseco di ogni storia, bisogna concepire il rapporto della storia con la vita come rapporto di unità, non certamente nel senso di un’astratta identità, ma in quello di unità sintetica, che importa la distinzione e l’unità insieme dei termini». (Teoria e storia della storiografia, Bari 1948, pp. 4-6).
Io stesso, più di vent’anni fa, in un opuscolo destinato alla propaganda rivoluzionaria (La distruzione necessaria, 1968, seconda edizione 2003), accennavo a questo concetto, ma non erano ancora tempo e condizioni oggettive che permettessero la sua comprensione. Erano gli anni delle grandi corse al quantitativo, della generale prostrazione, degli intelletti e dei corpi, di fronte al mito del progresso che persisteva nel dare segni negativi di sé.
La dottrina dell’ideologia imperante, autoritaria o liber-taria, impediva ogni possibile considerazione differente. Erano gli anni in cui si sputava su Nietzsche e sul suo eterno ritorno che a me invece sembrava, per alcuni versi, sia pure in maniera diversa, molto vicino alle intuizioni di Machiavelli.
La corsa verso il nuovo, a qualsiasi costo, è il mezzo migliore per coprire un ripresentarsi del vecchio, un eterno ritorno inconscio di tutto quello che di putrido e meschino l’uomo si porta con sé. Nessuna cosa viene lasciata dietro, nessuna fase storica è realmente superata.
La storia, in qualsiasi modo la si considera, ce la portiamo dentro tutta, nel suo insieme, e non la lasciamo, a poco a poco, per strada. Le grandi conquiste della scienza moderna, con il loro corollario, tremendamente pratico, di applicazioni tecnologiche, sono forse un abbandono delle miserie e delle ignoranze di una volta? A me è sempre parso di no. Nelle scoperte del nuovo si cela il vecchio, e non solo la parte migliore del vecchio, ma anche la peggiore.
Tornando indietro, con l’occhio rivolto in avanti non si può certamente, come immaginava Machiavelli, separare con chiarezza le buone cose dalle cattive, non si può cioè fare agire su di noi gli effetti positivi soltanto delle buone cose, ma si può evitare, o almeno circoscrivere, l’effetto assopente dell’illusione ideologica che il mondo va, comunque, avanti verso i suoi orizzonti di benessere e felicità.
Ancora Ernst Bloch. «Così qualcosa ci spinge all’esterno e ci stimola. È questo già un chi che agisce dentro di noi, o è sufficiente essere comunque vivi, e dunque affamati? Negli animali e in ciò che ci fa a essi eguali, la fame di cibo, di compagno e di protezione cessa appena è quietata. Essa non dura ancora come negli uomini continuando a esigere, andando intorno per saziarsi, sempre con nuovi mezzi, con un nuovo verso dove e a che scopo. Già lo stesso avere a me, questo primo stimolo, è in noi non compiuto, spinge in avanti, ha il gusto del più, col pericolo di perdere anche quello che eventualmente si ha. E in una esistenza che non vaga più nell’insicurezza ma è divenuta stabile gli uomini sono diventati sempre più bramosi di novità. Ciò di certo esigeva rischi, sempre nuovi, e, ancora per lungo tempo, senza protezione. Esso non può accordarsi con il vile ma nemmeno soltanto con la lotta e l’avanzare su strade note. La forza che ci spinge sul cammino, proprio là deve permanere, senza per questo irrigidirsi. Altrimenti non v’è alcun verso dove che sazia restando fedele a se stesso. Non è per caso che la testa umana sta in alto, e guarda in faccia le cose migliori che le vengono incontro. A meno che nulla non vada più e solo il suo gioco non sia concluso». (L’Ateismo nel cristianesimo, op. cit., p. 293).
Una delle contraddizioni che quel mio piccolo libretto fece esplodere riguardava l’antifascismo. Purtroppo, essendo figli del razionalismo illuminista, siamo tutti pieni dell’ideologia del progresso e non ci accorgiamo quanto spesso questa ci tragga in inganno.
In quegli anni l’antifascismo coinvolgeva forze che poi dimostrarono, forse più di quanto non avessero fatto in precedenza, il loro intrinseco amore per la conservazione del raggiunto livello di cose. Ma nessuno se la sentiva di rifiutare il loro appoggio.
Anche gli attacchi armati, in quell’epoca felice, trovavano non solo giustificazione, ma perfino cantori, romanzieri o storici che fossero. Il grande ricordo della rivoluzione spagnola, il più ampio movimento anarchico del secolo, si mischiava con l’odio contro il fascista e santificava la lotta, spingendo persone che mai si sarebbero sognate di agire in un certo modo, verso pratiche senza dubbio pericolose ed estremiste.
Finito il fascismo in Spagna, ufficialmente con la morte di Franco, risultò molto difficile continuare la lotta contro la democrazia spagnola o di altro genere, la quale, e nessun rivoluzionario potrebbe obiettare in merito, è altrettanto oppressiva e colpevole del fascismo.
Solo che il fascismo si considerava più colpevole, e la democrazia meno. Misteriosi imbrogli filosofici del progres-sivismo. Ancora oggi, non abbiamo fatto chiarezza, e questa la si può fare, facendo un passo indietro, tornando alle origini delle formazioni politiche.
Un regime statale rigido lo consideriamo peggiore di uno flessibile, cosa senz’altro giusta in termini relativi, come possibilità di spazio per una trasformazione rivoluzionaria. Nel senso di adagiarsi meglio negli interstizi di una struttura politica di controllo più morbida, e quindi più efficace e penetrante, quali appunto sono le strutture più moderne, allora no, non possiamo essere d’accordo.
Osserviamo alcune contrapposizioni. Posizioni sociali individuali immobili con relativa impermeabilità delle classi, da un lato, mobilità fra le posizioni sociali, dall’altro lato. Relazioni gerarchiche fra le strutture economiche e sociali, da un lato, e relazione cooperativa fondata sulla divisione orizzontale del lavoro, dall’altro. Una politica dispotica contrapposta ad una politica liberale o ad un regime socialista. Un’economia corporativa contrapposta ad una pianificazione liberista. Una prevalenza del diritto penale contrapposta ad una prevalenza del diritto civile. Una cultura tradizionale contrapposta ad una cultura che assorbe le novità e le avanguardie.
Tra queste contrapposizioni, su di un piano di scelte concrete, si propende per la seconda delle alternative, ma nessuna delle due è accettabile come effettivamente migliore dell’altra. Il fatto che una cosa sia meno peggio di un’altra non può farcene sostenitori. Ne deriva che possiamo accettare l’idea di una scelta di passaggio, solo ed esclusivamente nella continuazione della critica e della lotta.
Ma questa lotta deve partire dall’ipotesi metodologica di una radicale estraneità della nostra scelta ad una ipotesi progressiva, nel senso che la scelta stessa si orienta dal peggiore al migliore e quindi partecipa al movimento verso il generale miglioramento.
La scelta è dettata sempre da considerazioni politiche e strategiche, non esprime giudizi riguardo a meccanismi estranei alla scelta stessa e interni invece all’insieme delle scelte ipotizzabili. Le prigionie ideologiche sono le più efficaci, non si riesce a venirne fuori.
E questa dell’antifascismo, con tutti i suoi lati positivi, presentava limiti che ancora oggi non sono stati del tutto chiariti. Una critica radicale del progressivismo è quindi insostituibile.
Esattamente Alessandro Dal Lago: «La differenza tra la decisione nietzscheana di andare oltre la fatalità e il sereno pessimismo di Kafka (il “sogno” di uscire dalla linea di combattimento “in una notte buia come non è stata mai”) rimanda a una stessa esperienza, l’annientamento dell’identità nello scontro tra passato e futuro, quando il soggetto (“egli”) si ponga tra loro, si situi cioè nell’attimo del presente. Ampliando il significato delle due allegorie, potremmo aggiungere che esse descrivono l’aporia del tempo storico quando la storia sia destituita di senso, di finalità. Il progresso, ovvero l’auto-creazione o auto-sviluppo della storia, svincola l’uomo dal passato per proiettarlo nel futuro, ma quando egli cerca di fissarsi nell’attimo (e cioè di essere nel presente) scopre di non-essere, mera funzione di un conflitto che gli è estraneo. Proprio nell’epoca del trionfo della storia, le aporie dello storicismo e le allegorie di un pensiero consapevole del nichilismo denunciano cosi l’impasse del tempo storico. La condizione di permanenza nel presente (l’adesso di cui parlerà Heidegger), unica condizione per la consapevolezza del passato e per il senso del futuro, è andata perduta. Il solo accesso all’eternità è la decisione, una risoluzione tanto più problematica quanto più è presa a partire dal niente del presente. È significativo che uno dei due soli luoghi di Sein und Zeit in cui Heidegger cita Nietzsche si riferisca all’anticipazione della morte nella decisione – come se si potesse sfuggire alla gettatezza nella storia, all’assenza di fine e di fini, con l’anticipazione della propria fine. Entropia del processo storico e decisione nella storia (e contro di essa) sono così gli esiti contraddittori e paradossali di una cultura e di un pensiero che avevano proclamato il trionfo della storicità». (“L’autodistruzione della storia”, in “Aut-Aut”, op. cit., pp. 12-13).
XVIII
Restiamo però nello specifico “ritorno ai princìpi” di Machiavelli.
Pico della Mirandola, nel De ente et uno, legava questa sollecitazione al rinnovamento attraverso il ritorno alle origini, riferendosi ai neoplatonici. Plotino aveva scritto: «Che cos’è il ritorno? È la contemplazione e l’impronta che gli oggetti intelligibili producono nell’anima allo stesso modo in cui la visione è prodotta dagli oggetti visibili». (Enneades, 1, 2, 4).
Più esattamente Proclo: «Ogni essere compie il suo ritorno o soltanto rispetto alla sostanza o anche rispetto alla vita o alla conoscenza: giacché o ha acquistato dalla Causa soltanto essere o ha avuto anche la vita o ha avuto anche la facoltà conoscitiva. In quanto solo è, effettua un Ritorno alla Sostanza; in quanto vive, ritorna alla Vita e in quanto conosce, alla Conoscenza». (Istitutio Theologica, 39). Ma in Machiavelli la componente neoplatonica di questo meccanismo è trascurabile, in quanto lui pone il problema dal solo punto di vista del rinnovamento possibile perché gli antichi ordinamenti, essendo originari, ed essendosi sviluppati, qualcosa di sostanzialmente solido lo dovevano pure avere.
Resta ancora da precisare che il concetto della validità degli antichi e delle loro teorie nei riguardi dell’epoca in cui si vive, vedrà un radicale mutamento solo con Francesco Bacone, mutamento che permetterà di sviluppare, successivamente, la frattura del pensiero circolare e l’inizio dell’ipotesi progressista.
In questo senso, Bacone scriveva: «L’antichità fu antica e maggiore rispetto a noi, ma per rispetto al mondo nuova e minore; ed appunto come da un uomo anziano possiamo aspettarci molta maggior conoscenza delle cose umane e maggior maturità di giudizio che da un giovane – per via dell’esperienza e del gran numero di cose da lui vedute, udite e pensate – così pure dall’età nostra (se avesse coscienza delle sue forze e volesse darsi a sperimentare e capire) sarebbe giusto aspettarsi più gran cose che dai tempi Antichi». (Novum Organum, 1, 84).
XIX
In più, lo sguardo retrospettivo che l’istituzione può dare alle sue origini, è assistito da una considerazione fortemente pessimista riguardo l’uomo e la sua intenzione morale all’interno della società. Non si tratta di una idea peggiorativa, nel senso che l’uomo diventa via via peggiore, ma solo una valutazione dell’immutabile cattiveria dell’uomo.
Purtroppo anche su questo delicato argomento le chiacchiere sono state catastrofiche. La polemica secolare, la quale voleva nascondere la reale pratica delle teorie di Machiavelli, si è spesso fatta forte di questa tesi.
Ecco cosa dice in effetti: «Sogliono dire gli uomini prudenti, e non a caso né immeritatamente, che chi vuole vedere quello che ha a essere, consideri quello che è stato; perché tutte le cose del mondo in ogni tempo hanno il proprio riscontro con gli antichi tempi. Il che nasce perché essendo quelle operate dagli uomini, che hanno ed ebbono sempre le medesime passioni, conviene di necessità che sortischino il medesimo effetto. Vero è che le sono le opere loro, ora in questa provincia più virtuose che in quella ed in quella più che in questa, secondo la forma dell’educazione nella quale quegli popoli hanno preso il modo del vivere loro. Fa ancora facilità il conoscere le cose future per le passate, vedere una nazione lungo tempo tenere i medesimi costumi; essendo o continovamente avara o continovamente fraudolente o avere alcuno altro simile vizio o virtù». (Discorsi, III, 43).
Certo, Machiavelli teneva davanti i ritratti degli uomini del suo tempo, quella congerie incredibile di banditi e svaligiatori di quadrivio che si era impadronita di diverse signorie, condottieri sotto forma di predoni e predoni sotto veste di cavalieri, anche un Sigismondo Malatesta, che poteva dargli un quadro più completo, abile ed astuto, forse anche forte, diplomatico e condottiero, ma sempre nell’ambito delle cattiverie minute, delle piccole beghe periferiche. Delle grandi vicende di conquista, sullo sfondo la faccia pietosa e pia di Ferdinando il Cattolico, gli riconfermavano la sostanziale cattiveria dell’uomo.
Non era ancora l’epoca delle successive scoperte dell’uomo buono, naturalmente buono, socialmente traviato. E non era nemmeno il tempo dei dubbi su questa tesi.
«Da tempo immemorabile, – scrive Nietzsche – per quanto sulla terra si è parlato e persuaso, la morale si è appunto dimostrata la più grande maestra di seduzione – e, per quel che concerne noi filosofi, la vera e propria Circe dei filosofi. Da che dipende allora il fatto che, da Platone in poi, tutti gli architetti filosofici in Europa hanno costruito invano? che minaccia di crollare o è già in macerie tutto ciò che essi ritenevano onestamente e seriamente aere perennius? Oh com’è falsa la risposta che ancora oggi si tiene pronta per questa domanda, “perché da tutti loro venne trascurato il presupposto, la verifica del fondamento, una critica della ragione nel suo complesso” – quella fatale risposta di Kant, che con ciò in verità non ha attirato noi filosofi moderni su un terreno più saldo e meno ingannevole! (e poi ci sarebbe da chiedere se non era, forse, un po’ singolare pretendere che uno strumento dovesse criticare la sua peculiare eccellenza e idoneità? che l’intelletto stesso dovesse “riconoscere” il suo valore, la sua forza e i suoi limiti non era addirittura un poco assurdo? –). La risposta giusta sarebbe piuttosto stata che tutti i filosofi hanno costruito sotto la seduzione della morale, anche Kant –, che la loro mira apparentemente era rivolta alla certezza, alla “verità”, ma in effetti era rivolta a “maestose costruzioni etiche”; per servirci ancora una volta dell’innocente linguaggio di Kant, che qualifica compito e lavoro suoi propri, “non troppo luminosi, ma neppure senza merito”, “lo spianare e cementare il terreno per quelle maestose costruzioni etiche”. (Critica della ragion pura, II). Ahimè, non v’è riuscito, al contrario! – come oggi si deve dire. Con una mira così entusiastica Kant era proprio il vero figlio del suo secolo, che più di ogni altro può esser definito il secolo dell’entusiasmo: ed egli, per fortuna, lo è rimasto anche in relazione ai suoi lati più preziosi (per esempio, con quella buona dose di sensualismo che infilò nella sua teoria della conoscenza). La tarantola morale Rousseau aveva morso pure lui, anche in fondo alla sua anima giaceva il pensiero del fanatismo morale, del quale un altro discepolo di Rousseau, cioè Robespierre, si sentiva e si professava esecutore, “de fonder sur la terre l’empire de la sagesse, de la justice et de la vertu” (discorso del 7 giugno 1794). D’altra parte, con un tale fanatismo da Francesi nel cuore, non ci si poteva comportare meno francesemente, più profondamente, più radicalmente, più da tedesco – se la parola “tedesco”, in questo senso, oggi è ancora permessa – di come ha fatto Kant: per far spazio al suo “regno morale” si vide costretto a disporre un mondo indimostrabile, un “al di là logico”, – proprio a tal fine aveva bisogno della sua critica della ragion pura! Detto diversamente: non ne avrebbe avuto bisogno, se per lui una cosa non fosse stata più importante di tutte: rendere inattaccabile, o meglio ancora intangibile per la ragione, il “regno morale”, – infatti sentiva troppo fortemente l’attaccabilità di un ordine morale delle cose da parte della ragione! Poiché al cospetto della natura e della storia, al cospetto della fondamentale immoralità della natura e della storia, Kant, come ogni buon tedesco dai tempi più antichi sino ad oggi, era pessimista; credeva nella morale, non perché viene dimostrata dalla natura e dalla storia, ma nonostante il fatto che dalla natura e dalla storia venga costantemente contraddetta. Si può forse, per comprendere questo “nonostante”, ricordare qualcosa di affine in Lutero, un altro grande pessimista, che una volta con tutto il suo luterano ardimento insinuò, nel cuore dei suoi amici, il pensiero che “se fosse possibile cogliere con la ragione come possa essere buono e giusto quel Dio che mostra tanta ira e malvagità, a cosa ci servirebbe allora la fede?”. Niente infatti, da tempo immemorabile, ha fatto un’impressione più profonda nell’anima tedesca, niente l’ha più “tentata”, di questa che tra tutte le argomentazioni è la più pericolosa e che per ogni vero latino è un peccato contro lo spirito: credo quia absurdum est: – con essa la logica tedesca entra per la prima volta nella storia del dogma cristiano; ma ancora oggi, dopo un millennio, noi Tedeschi di oggi, Tedeschi tardivi sotto ogni rispetto, fiutiamo qualcosa di vero, una possibilità di verità, dietro la famosa proposizione fondamentale real-dialettica con la quale Hegel, ai suoi tempi, aiutò lo spirito tedesco ad ottener vittoria sull’Europa –, “la contraddizione muove il mondo, tutte le cose sono in se stesse contraddittorie” –: noi siamo proprio, fin dentro la logica, dei pessimisti». (Aurora, Prefazione, 3).
Adesso, dopo queste parole, il povero Machiavelli sembra un immaginoso piantagrane e non un cattivo consigliere del principe.
In effetti, la conoscenza comincia ad avere un effetto attivo, cioè a partecipare effettivamente alla vita, alla mia vita, quando ho riflettuto a lungo sulla sua limitatezza come conoscenza e sulla sua possibilità di trasformarsi in qualcosa di potentemente attivo, ma ciò può avvenire parallelamente alla critica negativa e al mio tentativo di oltrepassamento della realtà balorda che mi ospita.
In effetti, la conoscenza che posseggo, da sola, non ha quella sfumatura profonda che la caratterizza come saggezza, quella levità che la solleva e la libera dalla persistenza dell’archivio e dell’accumulo, quindi tirerebbe indietro la parola e non la farebbe parlare, non le consentirebbe di dire nella presunta cattiveria o nell’estremo limite del tagliare dritto la realtà per come mi pare che sia, la ingabbierebbe nel cattivo giro delle regole e delle corrispondenze, la imbacuccherebbe per la cattiva stagione in attesa di nuove solari avventure (poco probabili).
XX
Oggi sappiamo bene come l’uomo si porti dietro i suoi fantasmi cattivi e, al momento opportuno, questi ultimi possano uscire fuori e travolgere tutti quei progetti di bontà e di fratellanza che sembravano quasi per essere realizzati.
Sappiamo anche che nulla è scontato in partenza, che l’assetto migliore delle cose sociali, il migliore modo di vivere, la diminuzione dei morbi e delle pestilenze, sono modificazioni nelle relazioni strutturali, non processi migliorativi assoluti.
Fanno vivere meglio, ma il mostro circola sempre fra di noi. È nei nostri nemici, e nella loro smania di dominio, ma è anche in noi, nelle nostre paure, nelle nostre illusioni, nei medesimi progetti di sovvertimento del dominio. Siamo schiavi o vendicatori?
Cioran. «Lo spirito avvizzisce all’approssimarsi della salute, l’uomo è invalido, o non è». Non possiamo saperlo ancora, ma con le catene serrate o con le catene spezzate, dobbiamo fare i conti con quanto di immutabile c’è dentro di noi, senza illuderci di potere esorcizzare una realtà evidente con giochi di parole o ideologie. Nessun destino è scontato, tutto è possibile. Anche la libertà.
«E si conosce facilmente – scrive Machiavelli – per chi considera le cose presenti e le antiche, come in tutte le città e in tutti i popoli sono quelli medesimi desideri e quelli medesimi umori, e come vi furono sempre». (Discorsi, XXI).
Egli ha ragione, il mondo è sempre quello, si avvoltola nel medesimo brago. Il riflesso della conoscenza dentro di me può ridurmi a un opaco saccente, libero solo di infastidire chi ascolta.
Se acquisisco la saggezza, oppure, quello che è più comune, mi avvicino a essa, non è che la conoscenza scompaia, la conoscenza specificativa, quella per intenderci delle regole e delle corrispondenze, essa è come circondata da un insieme di attenzioni, tutte mie, che la esaltano e, nello stesso tempo, la affermano, la rendono più accessibile per via di altre strumentazioni del corpo e della mente.
Tutto il mio corpo è coperto di terminali diseducati da una conoscenza possessiva e oppressiva illuminata solo dalla velocità di controllo, lo stesso per la mente, per quanto in questo caso particolare, è più difficile individuare la conoscenza in maniera schematica. E ciò da sempre, non sono venuto al mondo da solo in una landa deserta. Mi aspettavano, pronti all’uso, le braghe di tela in cui continuo a trovarmi.
In ogni caso dare e ridare vita a questi terminali diseducati è un lungo lavoro ed è proprio questo lavoro, nella sua più avanzata zona di specificazione, che è diventato quello che chiamo saggezza in atto, saggezza che sensibilizza la totalità di me stesso e mi pone davanti alla parola che dice ciò che sta per accadermi, dandomi l’impressione di essere io a farlo, come saggezza ricevuta dalla conoscenza davanti alla parola.
Il tutto del mondo, così come lo sperimento nella particolarità delle relazioni che identifico come mie, non è il tutto, in quest’ultimo c’è una inseparabilità che porta i distinti fuori di sé in una condizione di esistenza ridotta e impoverita che pretende l’accesso a una separazione che è comunque immersa nel tutto. Il tutto è padre della quantità come della qualità.
Mi balocco inutilmente, prendo misure drastiche che non sono in grado di mantenere in piedi. Guardo dall’alto in basso chi continua ad avere le mani nel fango e dimentico facilmente di avercele avute anch’io. Questo possibile movimento indica l’unica caratteristica del tutto, il suo relazionarsi, solo che questo non è dicibile, quello che sembra potersi dire è proprio quello che sto dicendo, la relazione che si esprime come parziale e si affievolisce come totale, da un lato, e come puntuale si intensifica dall’altro lato.
XXI
Il lavoro di Machiavelli s’impianta su di un supporto oggettivo, pratico, dall’accettazione di questo contesto come immutabile, dall’intraprendere lo studio di quali mezzi possono renderlo accettabile, e dentro quali limiti.
Gli strumenti gli si affinano fra le mani, dopo una più che decennale esperienza di studio, sovrapposta alla pratica giornaliera di sottogoverno, è in grado di vedere con sicurezza analitica e serena spregiudicatezza, il movimento politico del suo tempo, osservandone i riflessi nelle antiche istituzioni.
Egli cerca una nuova costruzione sociale, proprio fra l’emergere continuo delle pessime condizioni umane, allo stesso modo in cui l’altissima virtù del Savonarola stava cercando di costruire un parallelo regno del terrore in nome della rivolta contro le condizioni storiche pensate riformabili in nome di Dio e dell’astratta virtuosità sociale.
Gli altri, le comparse accumulatrici, le formiche capaci di costruire le grandi burocrazie su cui si ergono gli imperi, lavorano in una ulteriore direzione, alla costruzione della nuova chiusura signorile, monotona e illusoriamente sicura.
Paul Valéry. «Spavento, spaventato, spaventoso; silenzio eterno; universo muto, così parla di ciò che lo circonda una delle più forti intelligenze che siano apparse. Essa si sente, si raffigura, e si lamenta, come una bestia in trappola; ma che per di più s’intrappola da sola, e che eccita le grandi risorse che ha in sé, le potenze della sua logica, le virtù mirabili del suo linguaggio, per corrompere tutto ciò che è visibile e che non sia desolante. Pretende di esser fragile e interamente minacciata, e circondata da ogni parte di pericoli e di solitudine, e da ogni causa di terrore e di disperazione. Non può soffrire di esser caduta nelle reti del tempo, del numero, e delle dimensioni, e d’esser immischiata nel sistema del mondo. Non c’è cosa creata che non la richiami alla sua orribile condizione, e questa la ferisce, quella l’inganna, tutte la spaventano a tal segno, che la contemplazione non manca mai di farla urlare a morte. Essa mi fa pensare invincibilmente a quel latrato insopportabile che i cani rivolgono alla luna; ma questo disperato, che è capace della teoria della luna, leverebbe il suo gemito anche contro i suoi calcoli». (Variation sur une “Pensée”, “La Revue Hebdomadaire”, 14 luglio 1923, ristampato in Variété, Paris 1924 e in Œuvres, t. I, Paris 1962, ns. tr., p. 471).
Machiavelli non è un rivoluzionario, anzi è il contrario dell’ottimistico personaggio che di solito veste la toga del violento sostitutore di istituzioni sociali. Ma nel suo lavoro, come riflesso in uno specchio, il rivoluzionario può leggervi il comportamento del nemico, ammesso che abbia buoni occhi per capire da quale lato sta il nemico.
Che la stupidaggine può essere spesso più dannosa dell’astuzia e della frode, io che ho passato molta parte della mia vita assillato dalle continue richieste dei cretini, ne so qualcosa. Niente si salva dalla loro monotona operosità di raccoglitori d’immagini e suppellettili ideologiche.
I cretini che si credono rivoluzionari sono la peggiore specie che conosca, si ritengono sempre nel giusto e vivono nel sospetto che qualcuno scopra il trucco che usano per fingersi in grado di capire in base a quali motivi si immaginano di essere sempre nel giusto.
I fanatici sono feroci persecutori perché pensano di lavorare in proprio ma per conto terzi. Le persecuzioni peggiori avevano alle spalle Dio o una forte ideologia sostitutiva. D’altro canto una persecuzione più mite alla lunga, rendendo più difficile una ribellione o un processo intrinseco di ribellione, fa più danni ancora. La compartecipazione alla repressione ha sempre il plauso delle pecore felici di farsi tosare.
Il fatto di partire dall’immutabile cattiveria dell’uomo, non porta Machiavelli alla negazione della storia come luogo delle vicende umane. E questo ha lasciato perplessi tutti gli studiosi di origine storicista.
Non mi sembra una contraddizione, considerando il modo differente che Machiavelli aveva di considerare le umane vicende. Sulla fondatezza di questo modo, contrastante con una visione progressiva della storia, non sarà mai detto abbastanza. Per altro, le differenze tra questa posizione di Machiavelli e le altre, di poco precedenti, tipiche dell’Umanesimo sempre su questo problema dello svolgimento storico, sono evidenti, se non in merito all’idea di processo, almeno riguardo all’idea di senso che la storia può avere o meno per l’uomo.
«I revivals di vecchie ontologie – scrive Max Horkheimer – sono fra i rimedi che aggravano il male. I pensatori conservatori che hanno illustrato gli aspetti negativi della meccanizzazione e della cultura di massa hanno spesso tentato di mitigare le conseguenze della civiltà o riproponendo vecchi ideali o proponendo scopi nuovi, perseguibili senza rischio di rivoluzioni. La filosofia della controrivoluzione francese e quella del prefascismo tedesco sono esempi di questo atteggiamento; la loro critica dell’uomo moderno è romantica e anti-intellettualistica. Altri nemici del collettivismo propongono idee più progressiste, per esempio quella di una confederazione europea o quella dell’unità politica di tutto il mondo civile, avanzata da Gabriel Tarde alla fine del diciannovesimo secolo e da Ortega y Gasset al tempo nostro. Benché le loro analisi dello spirito oggettivo della nostra epoca siano molto acute, il loro conservatorismo pedagogico è certo uno degli elementi che vanno a comporre quello spirito oggettivo. Ortega y Gasset paragona le masse a bambini viziati; il paragone potrebbe piacere proprio a quei settori delle masse che sono più privi d’individualità. Il suo rimprovero ch’esse non sanno esser riconoscenti al passato è per l’appunto uno degli elementi della propaganda di massa e dell’ideologia di massa, e il fatto stesso che la sua filosofia sia intesa ad usum populi, cioè il carattere pedagogico di essa, le toglie la qualità di filosofia. Le teorie in cui si esprime una profonda visione critica dei processi storici, quando siano usate come panacee, si sono spesso trasformate in dottrine di repressione; come insegna la storia recente, questo vale tanto per le dottrine radicali come per quelle conservatrici. La filosofia non è uno strumento né un programma d’azione; può solo prevedere quale sarà il cammino del progresso, segnato da necessità logiche e di fatto; nel far questo, può anche anticipare la reazione d’orrore e di volontà di resistere che accompagnerà la marcia trionfale dell’uomo moderno». (L’eclisse della ragione, tr. it., Torino 1969, pp. 142-143).
La frammentaria varietà della riflessione filosofica non si amalgama nell’idea di un tutto omogeneo, nemmeno nella forzatura architettonica che spesso sono portato a considerare tale, se non altro per la sua consistenza di qualcosa di già detto e che sta ancora per essere detto senza che tra queste due opposte condizioni appaia un distacco incolmabile.
Non medio e non costituisco, nemmeno in queste pagine dedicate a Machiavelli, assisto al fenomeno del dire e attendo la conclusione.
Non ho però tre piani costanti di riferimento separati, l’agire, il dire o il fare e l’attendere il futuro, queste collocazioni cronologiche si sovrappongono in una distensione della coscienza che pure essendo indicata come diversa e immediata non è strettamente identificabile sempre in questo modo rigido. A volte io stesso mi stupisco di fronte a certe taglienti affermazioni di questo sbalorditivo filosofo.
In ogni caso nella riflessione, come pure nel mio personale rivolgermi al destino, si va sempre più affievolendo l’idea di progresso, intesa come parte interna e portante di un movimento che dal passato porta all’avvenire, con contenuti migliorativi. I tempi nuovi non svalutano i vecchi tempi, né questi possono dirsi superiori al destino.
Bisogna considerare il modo in cui l’avventura nella realtà ha potuto dare vita a trasformazioni che inducono il futuro a essere migliore del passato. Solo che la concezione migliorativa ammette un inaccettabile relativismo.
Quello che aspetto dal destino è una nuova possibilità, non una possibilità migliore, o che sia per forza migliore. Se i tempi passati, o vecchi, fossero necessariamente peggiori di quelli futuri, per i quali opero e attendo, ci sarebbe una separazione netta, una rottura e ciò non consentirebbe quella unità di coinvolgimento e modificazione fattiva che è tipica non solo dell’agire ma anche, dentro certi limiti, del fare.
Due coscienze che sono una sola, vista in due modi diversi, colta con logiche diverse, ma solo una. Sono sempre io, quello che affronta i rischi dell’avventura nell’azione e quello che si adatta al fare sotto la frusta dell’accumulo.
Ciò che rompo genera ciò che muore, continuazione e adeguamento, ciò che accetto con pena e sofferenza genera ciò che rompo e che scatena la mia capacità di intuire il porto adatto da cui salpare.
I tempi vecchi non possono morire perché assediano il mio cuore e la presenza dei tempi nuovi non può vincere contro di loro, perché ogni battaglia a vita e a morte comporta conquista e possesso del nemico, quindi ritorno di quest’ultimo al posto del vincitore.
Se rinuncio al possesso, e alla vittoria, riprendo sempre l’avventura da dove l’ho lasciata perché, in effetti, non l’ho mai lasciata. Non c’è una forza che spezzi in maniera radicale questa continuazione dando vita solo alla equidistante vicenda dei tempi nuovi.
Nessuna integrazione è possibile perché tutto procede legato a tutto, il frazionamento è un limite delle mie capacità di conoscere, limite che condivido amichevolmente con la capacità di dire della parola. Ci si intende perché si è figli dello stesso tempo, che non è né vecchio né nuovo. Dietro di me c’è l’inaccessibile porta del passato da cui mi allontano continuamente restando sempre allo stesso punto.
Dovrei recuperare la vista o disimparare a vedere per inoltrarmi nella desolazione della cosa. I labirinti che insisto a costruire non bastano.
XXII
Ben diversa l’idea della storia che aveva Leonardo Bruni, tanto per fare un esempio: «... se si considerano le persone anziane ricche d’esperienza in base alle cose che videro in vita loro, quanto più la storia potrà darci quest’esperienza se l’avremo letta con attenzione, perché in essa si possono scoprire fatti e risoluzioni di molte età. Da essi puoi facilmente desumere quel che devi seguire e quel che devi evitare, e la gloria degli uomini eccellenti ti spinge alla virtù. D’altra parte mi distoglievano con forza l’enorme lavoro, le notizie in parte oscure e in parte lacunose d’alcuni periodi e d’alcuni nomi, e infine la trattazione dell’aspro argomento che quasi non lascia parte all’eleganza, oltre a molte difficoltà. Alla fine, dopo molta e lunga ponderazione, ho fatto la mia scelta nel pensiero che qualsiasi fosse il motivo che m’indiceva a scrivere, era preferibile a uno stupido silenzio». (Historiarum Florentini populi libri XII, Proemio).
Oltre l’ammaestramento della virtù, il che comporta la dichiarazione a priori di una selezione didascalica degli argomenti e dei giudizi; oltre una sottolineatura delle difficoltà, il che comporta una scusante preventiva per ogni manomissione o lettura di parte di documenti e fatti ricordati; oltre tutto questo, il paragone che più regge è quello della cosa che si fa fra le tante che si potrebbero fare, sempre a preferenza dell’ozio e del fare nulla.
L’operoso Umanesimo non ammetteva altra nozione della vita se non quella del lavoro, della fatica. Machiavelli è veramente lontano.
La nostra concezione moderna di rivoluzione come fenomeno che modifica profondamente i valori di una determinata società quindi viene preceduto e seguito da una serie di profondi sconvolgimenti e radicali modificazioni, era del tutto estraneo alla mentalità di Machiavelli, allo stesso modo in cui era estraneo alla mentalità degli antichi filosofi e storici. Per costoro, e in particolare per i Greci, il concetto di tempo aveva una forma e una concezione circolare. Per l’uomo antico, la storia era prodotta dal caso, anche se poi lo storico poteva, con un’operazione interpretativa spiegare i motivi, le cause, le conseguenze dei fatti.
Questo problema è spiegato bene da Santo Mazzarino: «Il sincronismo è casuale, per Aristotele; ed in questa concezione Aristotele è eccellente interprete dell’età sua, anzi di tutto il mondo greco. D’altra parte, per ogni storico classico, il sincronismo è una forma essenziale di datazione: la vicinanza di due o più avvenimenti, sebbene casuale, dà modo di datarli. Ed insomma: un avvenimento, A si data per mezzo di un avvenimento B (e di un avvenimento C), ed a loro volta B e C per mezzo di A; è, diciamo così, una maniera “concreta” di datazione. Se oggi uno scolaro, richiesto di datare, putacaso, la nostra terza guerra di indipendenza, rispondesse che essa avvenne nell’anno in cui la Russia ruppe le relazioni con lo Stato Pontificio, il maestro riterrebbe insufficiente questa risposta; lo scolaro dovrebbe rispondere, puramente e semplicemente, “1866”. Gli è che per noi l’èra è divenuta fine a se stessa, come un dato assoluto». (Il pensiero storico classico, vol. II, tomo 2, Bari 1966, nota 555, p. 439).
In questa prospettiva, il concetto di rivoluzione non poteva essere inserito o, almeno, non poteva essere inserito nei termini in cui oggi lo consideriamo, cioè nella sua significazione politica e sociale. In questo senso i Greci usavano il termine sollevazione, mentre successivamente i Romani useranno i termini tumulto, sedizione, moto, furore popolare, ecc.
Appare evidente, come questi termini alludano a connotazioni di carattere sociale a considerazioni sulle possibili modificazioni violente, repentine, come pure a valutazioni riguardo possibili movimenti distruttivi, ma tutto ciò differisce radicalmente da quanto contengono le analisi sociali che approfondiscono oggi il concetto di trasformazione radicale, di rivoluzione.
Con questa parola i Romani, e prima di loro i Greci, consideravano una profonda modificazione ricorrente, un elemento di ripresentazione nel tempo, corrispondente quindi a quell’interpretazione particolare, cosmica, che i Greci avevano del tempo.
Esiste comunque nel pensiero antico, un concetto di cambiamento, inteso come modificazione interna, intrinseca, che si sviluppa indipendentemente da un intervento esterno con presupposti modificativi. Questo cambiamento procede parallelamente al concetto più specificatamente sociale, al concetto di insurrezione, intesa come modificazione violenta, avente carattere repentino, che si verifica a seguito di un intervento esterno, capace di revocare in dubbio i precedenti canoni di ordine, di rimettere in discussione i concetti di concordia, di coabitazione, di mutua tolleranza, di divisione di classe, ecc.
Scriveva Wilhelm Dilthey: «Conoscenza è appropriazione. Il puramente antico viene conosciuto mediante una trasposizione della connessione. L’umano o storico non ha bisogno di una tale trasposizione. Qui la connessione è un immediato. Un uomo non si riduce mai, per un altro uomo, a una semplice cosa. Questo Lei lo ha sottolineato molto bene con il rifiuto dell’analogia. Essere è un derivato della vita, una particolare manifestazione della vita». (Dilthey – Yorck von Wartenburg, Carteggio 1877-1897, tr. it., Napoli 1983, p. 297).
Nella quasi generalità dei casi, escluso le eccezioni dell’insorgere contro i tiranni, sia il concetto di cambiamento, come quello di insurrezione, sono visti in modo negativo dagli scrittori greci e latini. Il primo di essi appare come legato alla natura delle cose, quindi anche degli Stati, il secondo come legato alla natura dell’uomo, eminentemente cattiva.
Continua Mazzarino nella di già citata analisi: «L’estraneità del moderno concetto di rivoluzione alla cultura storica classica ha una sua ragione profonda: gli antichi videro nel fatto rivoluzionario soprattutto un movimento di forze e di personalità, piuttosto che il trionfo di un’ideologia: l’ideologia rivoluzionaria, qualora entri in considerazione, è inquadrata da essi nell’ambito di valutazioni morali, con riferimento a quell’ordine di cui dicevamo». (Il pensiero storico classico, op. cit., p. 257).
Se prendiamo l’insurrezione di Catilina, ci accorgiamo che l’astio con cui ne scrive la storia Sallustio: «... [egli] aveva attorno a sé, quasi come guardie, una caterva di tutte le infamie e scelleratezze», (De bello Catilinae, 15), non può essere determinato solo dall’animosità di partito. Questo può averlo indotto a non parlare della compromissione di Cesare, cui per altro aveva pubblicamente fatto riferimento Catone, ma non a scegliere il tono di condanna e di dispregio. La scelta di questo tono è dovuta proprio al fatto che comunque, a prescindere dalla posizione di partito, una rivoluzione è sempre un fatto negativo, perché sconvolge l’assetto ordinato dello Stato. Ecco perché, come è accaduto di poi a molti scrittori che ci hanno documentato sulla Comune di Parigi, Sallustio mette l’accento continuamente sul tipo di partigiani che stavano attorno a Catilina: «... uomini che con la violenza cercavano migliore sorte». (Ib., 16). Ma poi è costretto a riportare le nobili parole di Catilina: «Così ogni grazia, potenza, onore, ricchezza sono loro o di chi vogliono; a noi lasciarono le ripulse, i pericoli, le condanne, la povertà. Queste cose fin quando le patirete, uomini fortissimi? Non è meglio morire dimostrando virtù, che una vita misera e spregevole, dopo che fu ludibrio dell’altrui superbia, perdere con infamia? Ma certamente, per la fede degli dèi e degli uomini! La vittoria è in mano nostra. Vigorosa è l’età, valoroso l’animo nostro; all’incontro, in essi svigoriscono anni, ricchezze, tutto». (Ib., 20). E poi è anche costretto a descrivere il modo in cui morirono gli insorti: «... caddero a Fiesole e si vide quanta audacia vi fosse nell’animo dell’esercito di Catilina: tutti occupavano da morti il posto che avevano combattendo». (Ib., 36).
XXIII
A differenza dei teorici e degli storici romani, gli scrittori del primissimo cristianesimo, s’impadroniscono in modo fortuito del concetto di rivoluzione.
Per Tertulliano, ad esempio, l’allontanamento radicale dalle istituzioni dei padri fondatori della potenza romana, costituisce un fatto rivoluzionario, fatto che accade all’interno stesso della realtà storica costituita e che non soltanto è un prodotto del cambiamento, cioè della naturale vita e morte delle istituzioni, ma anche un prodotto della volontà dei cristiani che con la loro azione distruggevano dall’interno. Tertulliano osserva che l’antica tradizione si sta corrompendo, anzi, ai suoi tempi, appare a volte quasi distrutta, e considera questo fatto, che avrebbe terrorizzato uomini di cultura diversa dalla sua, come un fatto positivo.
Il concetto di rivoluzione diventerà positivo soltanto nel Seicento e successivamente alle due rivoluzioni inglesi. L’elemento negativo tenderà a scomparire a poco a poco. Certo, in Locke, dove comincia a farsi strada questa valutazione positiva, non si tratta ancora della rivoluzione come l’intendiamo oggi, autoritaria o antiautoritaria che sia, ma semplicemente del riconoscimento di un diritto all’insurrezione riconosciuto al popolo per restaurare l’ordine turbato da un governo inetto e tirannico.
Così Locke: «Dove la legge finisce, comincia la Tirannide, quando la legge sia trasgredita a danno di altri, e chiunque nell’autorità ecceda il potere conferitogli dalla legge e fa uso della forza per compiere nei riguardi dei sudditi ciò che la legge non permette, cessa, in ciò, di essere magistrato e, in quanto delibera senza autorità, ci si può opporre a lui come ci si oppone a un altro qualsiasi che con la forza viola il diritto altrui». (Two Treatises of Governement, II, 202).
E con maggiore penetrazione di pensiero, Walter Benjamin: «La coscienza di far saltare il continuum della storia è propria delle classi rivoluzionarie nell’attimo della loro azione. La grande rivoluzione ha introdotto un nuovo calendario. Il giorno in cui ha inizio un calendario funge da acceleratore storico. Ed è in fondo lo stesso giorno che ritorna sempre nella forma dei giorni festivi, che sono i giorni del ricordo. I calendari non misurano il tempo come orologi. Essi sono monumenti di una coscienza storica di cui in Europa, da cento anni a questa parte, sembrano essersi perdute le tracce. Ancora nella Rivoluzione di Luglio si è verificato un episodio in cui si è affermata questa coscienza. Quando scese la sera del primo giorno di battaglia, avvenne che in molti luoghi di Parigi, indipendentemente e nello stesso tempo, si sparasse contro gli orologi delle torri. Un testimonio oculare, che deve forse la sua divinazione alla rima, scrisse allora: “Qui le croirait! on dit, qu’irrités contre l’heure / De noveaux Josués au pied de chaque tour / Tiraient sur les cadrans pour arréter le jour”». (Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, tr. it., Torino 1982, p. 83-84).
XXIV
Veniamo adesso al problema principale riguardante la separazione della politica dalla morale.
Esistono differenti spiegazioni di quello che è stato chiamato un grande avvenimento di pensiero. E non c’è dubbio che per molti aspetti fu veramente tale. Forse per la prima volta, comunque per la prima volta in modo radicale e chiaro, si pose una distinzione tra politico e morale, un potente impulso di razionalizzazione venne messo in moto.
Il cardine attorno al quale gira la costituzione dello Stato moderno, nelle sue varie forme, è l’identificazione di un fondamento politico che deve essere valutato indipendentemente dalle scelte morali che prevalgono al suo interno. Politica e morale però non si sono divise il campo su cui esercitano la loro azione, che resta sempre quello della società e del vivere dell’uomo in società. Solo che, a far tempo da Machiavelli, è diventato più facile distinguere le azioni politiche da quelle morali, in base ai criteri differenti che giustificano le une e le altre.
Come ben si capisce questa distinzione è un forte strumento razionalizzante, essendo del tutto strumentale in quanto distinzione, non corrispondendo a nessuna realtà concreta la costituzione dell’uomo politico, distinto dall’uomo morale.
Ma, per il motivo contrario, anche il precedente presupposto che razionalizzava la realtà per conto della religione cristiana, inventando un uomo cristiano, era altrettanto sbagliato. Qui occorre capire che non si decide se una cosa sia meglio dell’altra. Machiavelli può essere forse più simpatico di Paolo o di Agostino, ma procede per la sua strada ugualmente e noi dobbiamo individuare l’effetto del suo lavoro, come abbiamo fatto con quello degli altri due personaggi. Gli effetti che vengono fuori sono sempre quelli della regolamentazione, cioè dell’impianto del potere sulle basi della ragione. E Machiavelli è un uomo della ragione, un precursore del dominio totale della ragione.
XXV
Aristotele aveva accennato a due compiti della politica: «Poiché è quasi impossibile – egli scriveva – che molti possano attuare la migliore forma di governo, il buon legislatore e il buon uomo politico devono sapere quale sia la migliore forma di governo in senso assoluto e quale sia la migliore forma di governo entro certe condizioni date». (Politica, 4, 1, 1288 b 21). E più avanti, precisando meglio il senso della politica come arte del governo: «Un terzo ramo della ricerca è quello il quale considera in che modo un governo è sorto e in che modo, una volta sorto, può essere conservato per il maggior tempo possibile». (Ib., 4, 1, 1288 b 27).
Anche nel semplice concetto aristotelico di governo politico c’è l’idea di una pratica attività diretta a sciogliere i problemi a prescindere da valutazioni etiche assolute. Se nell’Etica Nicomachea aveva ritenuto opportuno porsi il problema di quali scienze potessero costituire la politica allo scopo di mantenere l’ordinamento delle città, al momento opportuno intravede ma non realizza la separazione.
Machiavelli rimprovera tanta astrattezza e indecisione e scrive: «E molti si sono imaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua: perché un uomo, che voglia fare in tutte le parti e professione di buono, conviene ruini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, et usarlo e non usare secondo la necessità». (Principe, 15).
Ridurre lo scontro sociale, quindi non soltanto politico ma concretamente trasformativo, al quadro preventivo delle scelte ideologiche e morali, quand’anche fosse un giusto limitarsi nell’individuazione dei mezzi da impiegare per raggiungere lo scopo della liberazione, o comunque per incamminarsi verso di essa e non verso l’immediato e ineluttabile emergere di un nuovo potere, coscientemente individuato e perfino voluto, non sfugge all’impietosa considerazione di Machiavelli.
Nell’indugiare sul come si dovrebbe essere si può perdere di vista il problema del come si è, e ciò può far smarrire l’individuazione dell’obiettivo e le possibilità che si posseggono, facendo annegare tutto in un’indistinta nebbia ideologica.
Questo problema ha assunto caratteristiche gravissime riguardo la cosiddetta alternativa dell’illegalità, per come è stata dibattuta e realizzata o meno sul finire degli anni Ottanta del secolo scorso.
XXVI
Esaminiamo alcuni aspetti.
Esiste un’ampia fascia di comportamenti che suscita l’attenzione degli organismi repressivi statali, spesso allo stesso livello, se non di più, di quei comportamenti che si risolvono in un’azione direttamente contraria alle leggi esistenti.
Mettere in circolazione una notizia, in un dato momento, può essere molto nocivo per i progetti di controllo, almeno altrettanto nocivo, se non di più, di un’azione che rientri espressamente nei casi previsti dalla legge come reati.
Ne deriva che tra la linea formale della legalità e quella reale, esiste una differenza che fluttua in funzione dei progetti repressivi e di controllo. In relazione quindi ai rapporti tra Stato e capitale, sia da un punto di vista interno che internazionale, si identifica, di volta in volta, un livello di illegalità o, se si preferisce, un limite di legalità, che viene fissato non tanto con il ricorso a leggi precise, ma con una pratica minuta di controlli e dissuasioni i quali solo qualche volta diventano repressioni vere e proprie.
In fondo, qualsiasi critica politica rientra nei termini della legalità. Difatti essa rassoda il tessuto istituzionale e permette di superare i difetti e i ritardi determinati dalle contraddizioni del capitale e dagli aspetti eccessivamente rigidi dello Stato.
Ma, nessuna critica politica può arrivare ad un’assoluta negazione dello Stato e del capitale.
Nel caso lo facesse, come avviene con gli anarchici, si tratterebbe di una critica sociale, radicalmente negativa, e quindi non potrebbe essere considerata un contributo costruttivo al tessuto istituzionale, con la conseguenza di diventare, di fatto, qualcosa di illegale.
Vi possono essere momenti istituzionali e sociali, equilibri e contraddizioni di forze politiche ed economiche, che rendono più o meno agevole il recupero di una critica sociale di natura anarchica, ma ciò non sposta il contenuto sostanzialmente illegale di questa critica.
XXVII
Sotto un altro aspetto, anche i comportamenti che ricadano nettamente sotto il dominio del codice penale possono essere considerati diversamente alla luce di un rapporto di natura politica.
A esempio, la lotta armata di un partito combattente è senz’altro un comportamento illegale, nel senso formale del termine, ma, a un dato momento, può tornare funzionale ai progetti di recupero e di ristrutturazione dello Stato e del capitale, per cui non è da escludersi un possibile accordo tra partito combattente e Stato.
Un simile accordo non è assurdo, in quanto il partito combattente si colloca nella logica della destabilizzazione del potere in carica per la costruzione di un futuro potere, differente nell’apparenza ma identico nella sostanza. In questo progetto, dal momento in cui ci si rende conto che l’affrontamento militare non può essere continuato perché privo di sbocchi a medio termine, si può arrivare ad un accordo.
L’amnistia di cui si è a lungo discusso in Italia negli anni Ottanta per i detenuti politici, è uno di questi accordi.
Altri se ne possono ipotizzare in vista del recupero delle forme di socialdemocrazia che la sconfitta militare fa apparire come unica soluzione possibile agli occhi di coloro che fino a ieri si illudevano di sostituirsi al vecchio potere e gestirlo di sana pianta.
Come si vede, mentre la semplice critica anarchica, radicale, negativa ed assoluta nei suoi contenuti, resta sempre illegale, anche la lotta armata dei partiti combattenti può, a un certo momento, rientrare nel dominio della legalità.
Ciò prova il concetto fluttuante di legalità e come intervenga di volta in volta l’interesse immediato dello Stato a dargli un contenuto razionale adeguato ai suoi interessi.
Nell’esercizio del controllo, gli strumenti repressivi si basano in minima parte sull’esercizio della forza bruta. Nella più gran parte essi funzionano come strumenti preventivi di controllo. Questo si esercita pertanto su tutte le forme di illegalità potenziale, attraverso una serie di provvedimenti, e su tutte le forme di difformità del comportamento.
Le legalità potenziali rientrano oggi nei limiti della legge, ma permettono, all’occhio lungimirante del censore, di vedere il loro possibile sbocco. Lo stesso per le difformità del comportamento, oggi possibili oggetti di studio o di sorpresa, in quanto semplici scostamenti dalla moda imposta dai centri di produzione del consenso, domani pericoli concreti di sovversione sociale.
Ora, l’esercizio del controllo è basato sulla conoscenza dei dati: comportamenti, difformità, gusti, ideologie, azioni, ecc. Il maggior numero possibile di dati raccolti e la loro relativa elaborazione sono alla base di un’ampia gestione del controllo. Senza questi elementi di fondo, non è possibile un controllo diretto, per quanto quest’ultimo possa sembrare circoscritto.
XXVIII
Contrariamente all’opinione di alcuni, troppo superficiali sostenitori della pericolosità, anzi dell’irrealizzabilità del segreto, ritengo quest’ultimo una delle basi essenziali dell’azione rivoluzionaria.
E ciò anche utilizzando l’indiretto insegnamento di Ma-chiavelli, secondo il quale non mette conto nell’operare attribuire tutte le soluzioni a una identica eventualità, potrebbero essercene altre, magari non visibili immediatamente.
Ma questo concetto deve essere approfondito.
In primo luogo, è troppo semplicistica la considerazione che il segreto sia pensabile solo nell’eventualità di un’azione clandestina. Anche nell’attività di controinformazione, attività che prelude alle lotte intermedie, il segreto è indispensabile.
Infatti, la lotta intermedia stessa, ad esempio: un’occupazione, non è lo scopo reale, in quanto questo scopo sta dopo, nelle conseguenze che si possono sviluppare dalla lotta. Queste conseguenze non possono essere rese note nel corso del lavoro di controinformazione e, in senso stretto, non fanno parte dell’azione intermedia, ma si collocano in una fase successiva, che difficilmente potrebbe essere colta da chi partecipa alla lotta per soddisfare un suo bisogno primario immediato.
In secondo luogo, anche se possiamo dare per scontato che gli organi repressivi vengono a conoscenza di ogni aspetto della nostra lotta, non c’è motivo per cui non dobbiamo adottare il metodo di fornire quanto meno possibile informazioni al nemico. Fare le cose alla luce del sole, non vuol dire fornirle di spiegazioni a uso della polizia.
Chi ragiona in questo modo va incontro prima o poi alla propria rovina, direbbe Machiavelli, a prescindere dalle cose che sta facendo, in quanto la legalità ipotetica che oggi le contrassegna, potrebbe essere domani improvvisamente modificata.
Curando nei particolari gli aspetti della semplice comunicazione, si può rendere più difficile alla polizia cogliere il rapporto che esiste tra quelle azioni. Si tratta di una normale cautela per ritardare l’azione repressiva. L’educazione alla cautela e alla prudenza, è quindi fondamentale per ogni rivoluzionario, quale che sia l’azione che sta portando a termine.
Un minimo di riflessione su questo argomento ci porta a capire le tecniche di salvaguardia che occorre impiegare anche nella semplice redazione di un volantino, allo scopo di evitare alcuni aspetti repressivi.
E, sotto un’altra prospettiva, la conoscenza di queste tecniche ci consente di impiegare alcuni strumenti di denuncia, ed anche il disprezzo e il vilipendio, al momento opportuno, quando lo riteniamo importante, per cui il rischio che ne deriva diventa calcolato e non un semplice errore di penna o di pensiero. Come si vede, gli spazi del segreto so-no ampi e non appartengono alla sola clandestinità.
Le tante articolazioni rivoluzionarie si integrano a vicenda, anche senza sovrapporsi. Per cui, nello stesso momento, si svolgono attività dirette all’esterno, alla luce del sole, delle quali è auspicabile che tutti prendano visione, ed attività che hanno caratteristiche più specifiche.
Questa distinzione, moralmente tutt’altro che ineccepibile, è imposta dall’attuale situazione di sfruttamento e di controllo, non è voluta dal movimento, né dagli anarchici né da tutti gli altri rivoluzionari che in un modo o nell’altro, cercano di costruire le future condizioni trasformative.
Potrà anche disgustare qualche palato delicato, ma la situazione è questa e non può essere rifiutata, salvo che tornando indietro, come tanti hanno fatto, a coltivare il proprio orticello sviluppando il senso corporativo di sopravvivenza e mettendo fuori le zanne reazionarie che tenevano nascoste accuratamente.
Questa parte non visibile delle attività del movimento, non può essere considerata come qualcosa di separato, che vive di vita propria e segue regole proprie.
Convinti anche loro di ciò, i negatori della possibilità del segreto, concludono che quest’ultima attività, nella quale il segreto è appunto indispensabile, risulta non praticabile. E con ciò buttano a mare un patrimonio di potenzialità che il movimento continua ad esprimere, appiattendo tutto a semplici dichiarazioni di principio, astratte di quella medesima astrattezza su cui ironicamente rifletteva Machiavelli nella frase citata prima.
XXIX
Ma, i potenti mezzi tecnologici di cui è dotata la parte avversa, rendono possibile il segreto? Questa domanda rientra nell’ambito di quelle perplessità che sono state generate, in questi ultimi anni, da un’errata conoscenza della tecnologia e da un’altrettanto fantastica e iperbolica considerazione delle sue possibilità d’impiego.
Come ogni cosa che non si conosce, o che si conosce poco, la tecnologia di questi ultimi anni, con i suoi computer, i suoi centri automatici di ascolto, i suoi laser, i suoi radar, ha affascinato molte persone.
Non voglio affatto sottovalutare la potenzialità repressiva che i ritrovati tecnici di oggi mettono a disposizione del potere. Voglio solo dire che queste affermazioni vanno fatte con un po’di cautela, considerando che ogni strumento per funzionare è legato all’uomo e ai limiti di quest’ultimo.
Il controllo totale è il sogno che il dominio si tramanda dall’epoca più remota. In pratica, il Leviatano è irrealizzabile. Esso costituisce l’altra faccia delle preoccupazioni morali a cui faceva cenno Machiavelli.
La formazione d’un potere privo di qualsiasi possibilità di risposta, privo quindi anche di contraddizioni morali. L’ostacolo principale non è tanto la scarsa efficienza tecnica dei meccanismi di controllo e, in fondo, nemmeno la limitatezza connaturata all’uomo che è incaricato di farli funzionare, o almeno non solo quest’ultimo punto.
Il limite del controllo è dato dal fatto che per estendersi deve penetrare all’interno della mentalità del controllato. Il vero controllore non è quindi, o, almeno, non soltanto, il poliziotto, il giudice o la guardia carceraria, quanto il controllato stesso.
Chi realizza il controllo, progetta di entrare dentro la cultura del controllato, per costruirvi una serie di resistenze alla libertà, ostacoli alla lotta, impedimenti al pensiero libero. Una volta fatto ciò, sarà il controllato stesso che si censurerà azioni e pensieri. In una terza fase, infine, il controllato provvederà ad estendere il controllo, a perfezionarlo partecipando all’elaborazione dei centri tecnologici di immagazzinamento dati e di gestione delle informazioni.
Quest’ultima partecipazione, che costituisce il massimo livello ipotizzabile di controllo, diventerà possibile solo quando si saranno interiorizzati i due primi livelli, quello del controllo visto come nemico, e quello del controllo fatto penetrare all’interno di noi stessi come modello di ragionamento.
Il terzo livello, non deve essere visto come una partecipazione al funzionamento di macchine, ma come un contributo costante all’arricchimento del capitale informatico, cosa quest’ultima, che costituisce la base dell’accumulazione di domani.
In una simile prospettiva, diventa evidente che ogni settore sottratto al controllo, o difeso dal dilagare dei processi di integrazione culturale, deve essere difeso con ogni mezzo, anche facendo ricorso alle tecniche di dépistage che si basano sul segreto.
Chi si nega a priori queste tecniche, lo fa perché in modo miope le vede come maneggi indegni della morale rivoluzionaria e come romanticherie di lontana memoria. Le cose non stanno in questo modo.
Certo, sarebbe assurdo affidare messaggi ad un codice cifrato, non solo vecchio modello, ma di qualsiasi altro tipo, anche elaboratissimo, e ciò per il semplice fatto che una comunicazione, purché sia lunga due o tre righe, può essere decifrata facilmente da qualsiasi computer. Ma anche un codice semplicissimo resiste bene e non può essere decifrato, purché il messaggio sia di poche parole, e ciò perché mancano le frequenze necessarie a identificare le singole lettere alfabetiche.
Non sto qui a discutere se sia o meno utile trasmettere un messaggio, affermo soltanto che nessuno può escludere a priori che, in un dato momento, un rivoluzionario può vedersi costretto ad una comunicazione che non vuole fare sapere al nemico. È il caso che si sappia che la cosa è possibile, e che non esiste tecnologia al mondo, se il messaggio è breve, che può scoprire il più banale dei codici.
Dopo aver capito che il controllo non è soltanto un fatto repressivo ma anche, e spesso essenzialmente, partecipativo, si può valutare diversamente il problema del segreto.
Siamo noi che partecipando potremmo sanzionare il vero e proprio controllo definitivo. Se rifiutiamo la collaborazione, se ostacoliamo con tutti i mezzi la creazione di una cultura del ghetto, di un linguaggio ridotto ad uso esclusivo di coloro che sono e verranno sempre di più esclusi dalla gestione tecnologica della produzione, e quindi dal potere, allora non sarà possibile alcun controllo reale.
Non è tanto di considerare oggi quali sono i margini che lo Stato riserva al cosiddetto controllo non applicato, cioè a quelle capacità che potrebbe impiegare, anche a livello preventivo, ma che non usa per dare l’impressione di consentire almeno una zona priva di controllo. In sostanza, questa zona potrebbe esistere e potrebbe anche non esistere. È il controllo sociale nel suo insieme a essere incompleto.
Anche quello che appare nella sua somma evidenza, come ad esempio nelle carceri, è sempre un controllo incompleto, in quanto in esso manca l’accettazione da parte di chi lo subisce. Ne consegue che non è un problema di zone di ampiezza del controllo, ma un problema di qualità del controllo stesso.
La funzione del segreto potrebbe essere quindi quella di negare questa partecipazione, evitando di introiettare i valori e il linguaggio che lo Stato trasmette allo scopo di perfezionare, e non solo di allargare il controllo.
XXX
Queste considerazioni, fra le tante che si potrebbero fare intessendo l’attenzione analitica a quella trasformativa, e osservandone le contraddizioni emergenti, seguendo quindi il metodo ingenuamente produttivo di Machiavelli, sebbene permettono l’emergere di altre conclusioni, rendono leggibile in trasparenza i processi razionalizzanti suggeriti nell’indagine che stiamo conducendo, a prescindere dai pregiudizi morali, antichi e recenti, che possono risultare qualche volta ineliminabili.
Non è il caso di sposare qui né il metodo né ovviamente le conclusioni di Machiavelli, in primo luogo perché, come dovrebbe essere ormai evidente, non condivido l’analisi scientifica in se stessa, coi sistemi terroristici ricattatori di utilizzo della pretesa verità di cui si fa gestrice, a prescindere dal contenuto e dalla scelta di campo.
Quindi mi sembra inutile, o comunque scontata, la precisazione chiarificatoria di Luigi Firpo: «Figlio del tempo suo, di un’età in cui il maturo umanesimo aveva conferito una fiducia illimitata nell’indagine razionale, egli si pone di fronte alla politica in una posizione che prescinde da qualsiasi implicazione morale, per scorgervi una serie di problemi puramente tecnici. Vive nell’età delle teorizzazioni sistematiche, l’età in cui si scrivono manuali pratici su ogni oggetto: musica, algebra, duello e vita cortese, fortificazioni e congegni idraulici, grammatica e chirurgia: egli scriverà il manuale della politica, la prima teorica – nuda, scabra, essenziale – del potere. Come un fisico odierno, che progetta un ordigno atomico, risolve problemi teorici astratti, senza sentirsi quasi mai coinvolto nelle responsabilità morali di chi userà i suoi trovati per la distruzione mortale, egli indaga ed espone le leggi (perenni come quelle della natura), che guidano la volontà di potenza alla sua meta unica: il successo». (Il pensiero politico del Rinascimento e della Controriforma in Grande Antologia Filosofica, Milano 1964, vol. X, p. 315).
Con tutta la sua apparente ragionevolezza, il paragone di Firpo non regge. Prima di tutto, perché c’è una considerevole differenza tra la fisica e la politica, e il fatto che ambedue manchino, come qualsiasi altra branca dello scibile, di leggi assolute non le rende meno diverse.
La scoperta, tanto per usare un eufemismo, di Machiavelli, non può essere in nessuna maniera paragonata alla scissione dell’atomo, e meno ancora, questo dovrebbero capirlo tutti facilmente, alla fabbricazione della bomba atomica. Non è che i problemi morali stiano nella fisica, o nell’economia o nella politica, essi stanno nell’uomo, che non smette di essere tale neanche se si occupa della fabbricazione delle camere a gas.
A un tecnico può essere chiesto di risolvere un problema, per altro lontanissimo, almeno sulle prime, da possibili applicazioni, buone o cattive. Spetta a lui, alla sua personale decisione, settorializzarsi o agire da uomo. Le decisioni saranno funzioni di certe condizioni sociali e di classe, a loro volta condizionate da ideologie e appartenenze a scelte preventive, tutto questo deve essere tenuto presente, ma in ultima istanza la responsabilità è personale.
La scoperta di Machiavelli, in parte, è l’uovo di Colombo.
Gli uomini di potere non hanno aspettato il suo manuale per agire secondo le regole in esso contenute e, una volta pubblicato, forse neanche lo hanno letto pur applicando alcune di quelle regole in maniera creativa.
Scrive Elias Canetti: «Le religioni storiche mondiali portano nel sangue un presentimento delle insidie della massa. Ciò che esse desiderano è un gregge duttile. È consueto considerare i fedeli come pecore e lodarli per la loro ubbidienza». (Massa e potere, tr. it., Milano 1988, p. 21). Con ciò non si vuole minimamente discutere su quella che è stata la fortuna dell’opera di Machiavelli, sulla quale il rumore dello scandalo è passato avanti molte volte alla disputa sul contenuto reale dei libri incriminati.
C’è un passo di Nietzsche che pure non trattando questo argomento nello specifico, può risultare illuminante. Così egli scrive: «Questi uomini seri, capaci, giusti, dal profondo sentire, che ancor oggi sono cristiani di cuore, sono debitori verso se stessi di vivere una volta tanto, in via sperimentale, senza cristianesimo per un tempo abbastanza lungo, sono in debito verso la loro fede di prender in tal modo, una volta tanto, dimora nel deserto, – solo così possono acquisire il diritto di intervenire nella questione se il cristianesimo sia necessario. Intanto se ne stanno attaccati alla loro zolla e da lì maledicono il mondo che si trova al di là della zolla; sì, sono irritati e cattivi se qualcuno fa loro intendere che al di là della zolla c’è ancora il mondo, il mondo intero!, che il cristianesimo, dopotutto, è appunto soltanto un angolo! No, la vostra testimonianza non ha nessun peso, se prima non avete vissuto per degli anni facendo a meno del cristianesimo, con un onesto e fervido desiderio di persistere nel contrario del cristianesimo, finché non ve ne siate andati peregrinando lontano, molto lontano da esso. Non se vi risospinge indietro la nostalgia, ma il giudizio sul fondamento di un rigoroso confronto, il vostro rimpatrio può significare qualcosa! – Gli uomini del futuro faranno così, un giorno, con tutte le valutazioni del passato; si deve viverle volontariamente ancora una volta, e così il loro contrario, – per aver al fine il diritto di passarli al vaglio». (Aurora, I, 61).
E noi abbiamo vissuto, per buona parte del secolo passato, troppe realizzazioni brutali “in grande” di quello che Machiavelli immaginava “in piccolo”, per non essere sufficientemente in grado di capire il suo messaggio.
XXXI
Che il paragone tra tecnologia politica e tecnologia fisica non sia sostenibile, ce lo provano due considerazioni. La prima è costituita da tutta la storia della scienza politica, la quale non costituisce altro che una serie di considerazioni dettate dal senso comune, rivestite dall’aspetto esteriore di leggi o indagini scientifiche. La seconda è suggerita dalla valutazione del materiale cosiddetto scientifico che le strutture di potere utilizzano sia come copertura ideologica, che come effettiva guida per la loro azione. Credo che su questa valutazione si debba essere concordi nel trovare questo materiale addirittura ridicolo.
Basta pensare all’intrigo razzista usato dai nazisti o al miscuglio storicista usato dagli stalinisti per capire la differenza.
Con ciò non voglio dire che non siano importanti le massime di Machiavelli, ma al contrario che la loro lettura può servire anche per persone che sono contrarie al potere, in quanto da per se stesse, come semplice trattatistica politica, sono inoffensive allo stesso livello di un qualsiasi romanzo pornografico, dove uno può trovare, secondo l’indole e lo stimolo del momento, un gradevole passatempo o un profondo disgusto.
Come risposta a quegli spiriti belli che hanno trovato come scusante alle infamie letterarie del fiorentino, il fatto che non aveva mai scritto l’orrenda frase che il fine giustifica i mezzi, documento qui che in effetti quella frase fu scritta, anche se sotto forma lievemente differente: «... e nelle azioni di tutti gli uomini, e massime de’principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato: e mezzi saranno sempre iudicati onorevoli e da ciascuno laudati». (Principe, 18).
Con il che, spero di avere contributo a peggiorare la sua fama, ed anche un poco la mia.
In effetti, ho sempre pensato, col beneficio del dubbio, che nell’imprestare i propri pensieri agli altri non si deve mai escludere che Machiavelli avesse un progetto ben diverso da quello di scrivere semplicemente un manuale.
Uno scrittore di trattatistica poteva mai produrre cose deliziose come le sue commedie e le rime? Poteva mai entrare in contrasto tanto netto con il potere più forte e più rapace dei suoi tempi, quello della Chiesa?
Uno scrittore di manuali non si dà pensiero di contrastare la religione in nome dell’uomo, e su quest’ultimo soggetto non è possibile scrivere trattati. Malgrado si riferiscano all’epoca dei Greci e non al Rinascimento, date le tante somiglianze tra questi due periodi sono interessanti le parole di Giorgio Colli: «La produzione di bellezza era sentita come un dovere nativo dal cittadino che traeva i suoi primi insegnamenti ascoltando i poemi omerici, o guardando i templi della sua acropoli. Le statue o le danze cittadine offrivano la bellezza anzitutto come creazione visiva, ma il progredire dell’educazione la faceva ritrovare anche nella sfera non visiva, nei suoni, nel ritmo, nelle parole, nelle idee, ovunque cioè l’uomo, movendosi col suo agire in una sfera diversa da quella del sostentamento, della procreazione, della guerra, cioè nell’ambito di una libertà privilegiata, trovasse in quella direzione un modo individuale, ma associato ad altri individui, di vivere e di esprimersi, entro la sfera comune della bellezza. Alcuni caratteri naturali del popolo greco precisano d’altro canto questa tendenza. La frugalità innata, ad esempio, favorisce il distacco dagli istinti propriamente fisiologici, o meglio la loro limitazione. Inoltre il loro temperamento fortemente passionale trova occasioni di scaricarsi in modo adeguato, la guerra condotta con grande crudeltà, per l’uomo, e i fenomeni orgiastici collettivi, per la donna, permettendo per il resto un equilibrio generale della vita, dominata dalla potenza della bellezza». (La ragione errabonda, op. cit., pp. 246-247).
Più che un latino, Machiavelli, per certe sue eccessività di carattere, può essere considerato un greco. Le sue avventure amorose in quel di Ponte alle Grazie ne sono una deliziosa testimonianza.
XXXII
Penso che, nell’esilio dell’Albergaccio, il vecchio uomo d’azione si intristisse.
Lo amareggiava un processo evidente, da cui ricavava il modo d’essere dell’uomo, la sua innata cattiveria, consta-tazioni che lo rattristavano e l’avvilivano.
Elemento fondamentale delle sue idee è la particolare concezione dell’uomo come di qualcosa di irrimediabilmente legato agli aspetti negativi della realtà, al tradimento, allo sfruttamento, alla degenerazione degli ordinamenti sociali.
Si tratta certo di una concezione che ha un passato, che si riconnette alla considerazione teologica, sviluppata in particolare nel medioevo, dell’uomo come peccatore fin dall’origine. Ma lui non se ne dà pensiero, come non coglie il fatto che la negatività dell’uomo era un punto di vista molto diffuso nell’epoca sua.
È attraverso la sua esperienza che arriva alla conclusione che questa essenziale cattiveria dell’uomo non può essere senza riflessi sul governo e sullo Stato. Ma non come conseguenza dell’attività di sfruttamento di una piccola minoranza, piuttosto come una caratteristica generale dell’uomo astrattamente considerato.
Questo, che è senza dubbio un limite di Machiavelli, deve essere visto nell’ottica del suo tempo, nella condizione culturale complessiva, europea e italiana, in cui Machiavelli rifletteva. Ed è anche da tenere conto della condizione politica oggettiva, toscana e fiorentina, in cui le riflessioni pragmatiche e politiche di Machiavelli si innestavano, senza con questo dimenticare le personali amarezze.
«Vi sono spiriti forti, – dobbiamo tristemente ammetterlo – per i quali nonostante tutto nel complesso la vita è stata dolore e tristezza. Non vi è forse nessuno a cui in certi momenti e in certe circostanze questa conclusione non sia diventata familiare, ma che questa vita in generale sia illusoria non può razionalmente affermarsi. E se in generale le nostre idee dipendono dagli eventi, questo è tutto ciò che noi come esseri finiti abbiamo diritto di attendere; e dobbiamo rispondere che, malgrado esistano le illusioni qua e là, il Tutto non è illusione. Noi non dobbiamo raggiungere un’assoluta esperienza che per noi sarebbe nulla; abbiamo bisogno di conoscere effettivamente se l’universo è celato dietro le apparenze e se esso si fa giuoco di noi. Ciò che troviamo qui più bello e più vero, più buono e più alto, è veramente così o è in realtà diverso? II nostro criterio in altre parole è una falsa apparenza non conforme all’universo? A questo noi possiamo senza esitazione replicare: non vi è nessuna Realtà tranne che nell’apparenza, e nella nostra apparenza possiamo scorgere la principale natura della Realtà. Questa natura non può esaurirsi né essere conosciuta in astratto, e costituisce realmente questa generale caratteristica dell’universo che distingue per noi il relativo valore delle apparenze. Noi erriamo; ma la natura essenziale del mondo costituisce il nostro criterio vero di valore e di Realtà. Ciò che è più alto, più vero e più bello, migliore e più reale, questo nell’insieme vale per l’universo come per noi. Perciò più alto significa per noi una più grande quantità di quella unica Realtà, fuori della quale ogni apparenza è assolutamente nulla». (F. H. Bradley, Apparenza e realtà, tr. it., Milano 1957, p. 575).
XXXIII
Comunque, a prescindere da ogni altra considerazione, l’apertura teorica di Machiavelli si può considerare come un apporto razionalizzante verso la costituzione di quel movimento teorico che darà vita allo Stato moderno.
Sarebbe assurdo porre in relazione quelle lontane teorie, con questa o quella scelta di mezzi e valutazione strategica che ha permesso ad un gruppo di potere di arrivare a dominare uno Stato o un gruppo di Stati coalizzati insieme. Questo esame sarebbe inutile e necessariamente superficiale.
Ma è Machiavelli che per primo individua la necessità di mettere da parte le considerazioni morali nell’uso della forza, e sono i teorici moderni che ammettono ormai che la migliore definizione di Stato è quella che concerne l’uso della forza.
Un esempio pertinente, Max Weber: «Per Stato si deve intendere un’impresa istituzionale di carattere politico nella quale – e nella misura in cui – l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima, in vista dell’attuazione degli ordinamenti». (Economia e società, vol. I, tr. it., Torino 1961, p. 53). E, più avanti: «Non è possibile definire un gruppo politico – e neppure lo Stato – indicando lo scopo del suo agire di gruppo... Si può pertanto definire il carattere politico di un gruppo sociale solamente mediante il mezzo, che non è proprio esclusivamente di esso, ma è in ogni caso specifico, e indispensabile per la sua essenza: l’uso della forza». (Ib. p. 54).
XXXIV
Fatte queste considerazioni c’è ancora da tenere conto che l’analisi della religione, fornita da Machiavelli, della religione come strumento di dominio, cioè come elemento di coesione ma anche di coercizione, è ovviamente un notevole passo avanti nella considerazione precedente, del tutto comune a molti pensatori della sua epoca. Vedremo più avanti il senso e l’importanza di questa funzione individuata nella religione.
Per adesso, dobbiamo notare che, indirettamente, una volta che la religione viene riportata alla sua funzione originaria ed essenziale di strumento di dominio, risulta possibile operare una distinzione tra politica e morale, individuando all’interno della dimensione morale tutti quegli elementi etici di comportamento relazionale fra gli uomini che non devono necessariamente essere riportati alla concezione etica della religione.
In un certo senso, Machiavelli separa certamente morale e politica, ma coinvolge all’interno della dimensione politica quei concetti religiosi che vengono interpretati alla luce della tesi dell’ingegneria modificativa, della congiura sociale ai danni dello Stato.
Condivisibile la seguente tesi di Henry S. Harris, uno studioso di Gentile: «Persino una persona religiosa, se sente un qualsiasi interesse per le cose di questo mondo, deve rammaricarsi dell’intrusione dello spirito religioso nella politica terrena. Pochi, anche tra i cattolici più devoti, contesterebbero il verdetto storico che il vecchio Stato Pontificio fu uno dei principati peggio governati dell’Europa occidentale. Per un idealista attuale, più che per ogni altro, aver dato il benvenuto ad una religione politica era poco meno che pazzia. La fede “religiosa” per sua natura, per la sua concentrazione sul contenuto oggettivo della fede, tende a corrompere e distruggere i propri fondamenti soggettivi. Le guerre religiose che seguirono la Riforma, per esempio, difficilmente furono un capitolo edificante nella storia della Chiesa cristiana. Noi possiamo anche sostenere che un mondo, nel quale i massacri dei cattolici, da parte dei protestanti, o dei protestanti da parte dei cattolici, sono del tutto inconcepibili, abbia raggiunto una concezione più alta della cristianità; ma dobbiamo anche ammettere che esso è incapace dell’intenso fervore religioso che produsse le guerre e perciò distrusse se stesso in un’agonia di noia spirituale, di miseria economica e di cinismo politico». (La filosofia sociale di G. Gentile, tr. it., Roma 1973, pp. 442-443).
Machiavelli introduce il concetto che, una volta accertata la funzione pratica della religione, come funzione di sostegno del dominio, si separano da essa, sia pure per grandi linee e in forma approssimativa, tutte quelle caratteristiche che l’avevano contrassegnata prima, in modo specifico la spiritualità o, per usare un termine più noto, la componente numinosa dello stimolo religioso.
Questo aspetto viene messo in secondo piano, dopotutto Machiavelli non era un teologo rovesciato, mentre si sottolinea l’elemento razionale della religione, la presenza di un progetto se non dettagliato almeno dettagliabile, individuabile dentro certi limiti. Ed è questo progetto politico che viene considerato l’aspetto più evidente della religione.
Così scrive nei Discorsi: «E vedesi, chi considera bene le istorie romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, a animire la Plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare i rei. Talché, se si avesse a disputare a quale principe Roma fusse più obligata, o a Romolo o a Numa, credo più tosto Numa otterrebbe il primo grado: perché, dove è religione, facilmente si possono introdurre l’armi e dove sono l’armi e non religione, con difficultà si può introdurre quella. E si vede che a Romolo, per ordinare il Senato, e per fare altri ordini civili e militari, non gli fu necessario dell’autorità di Dio; ma fu bene necessario a Numa, il quale simulò di avere domestichezza con una Ninfa, la quale lo consigliava di quello ch’egli avesse a consigliare il popolo: e tutto nasceva perché voleva mettere ordini nuovi ed inusitati in quella città, e dubitava che la sua autorità non bastasse». (Cap. 11).
Gli accadimenti storici si aggirano attorno a me, ne parlo, quasi sempre con me stesso, rifletto su di loro. Lasciano spesso un’impronta nel mio cuore, ma non possono raggiungerla, il vortice stesso del dire l’impedisce.
Ogni componente dell’architettura logica con cui cerco di mettere ordine nella riflessione, portato al suo massimo incremento, esplica la sua più ampia influenza sulla parola complessiva e poi si sgretola in mille rivoli che entrano a fare parte di altre componenti, camminamenti, labirinti, falsi rintracci di piste nuove e tracce evidenti della inattingibile impronta.
Alla larga dagli specialisti e dalla loro stupida grinta, giocano con carte truccate e lo sanno. Preferisco le oscurità accidentali di chi va avanti a tentoni, di chi si sbraccia sguaiatamente senza intenzione di sedurre, ma solo perché non si dà limiti né moduli ma cerca di liberasi nell’autentico rifiuto delle cadenze militari dell’ovvio.
L’accidentalità del fare si differenzia in modificazioni che si moltiplicano all’infinito, ma essa accidentalità si trova tutta nell’ipotesi di fondo, dove costituisce una indifferenza assoluta. La religione governa ancora il mondo, ancora oggi quasi alle soglie della sua definitiva sconfitta. Nani e pagliacci ridicoli si affacciano sulla storia e tutti si appoggiano sul bastone pastorale dell’infame.
Se considero l’apparire dell’accidente una casualità devo ammettere che la stessa casualità opera anche nell’ordine che mi sovrasta, sia pure nella condizione di indifferenza che impedisce la distinzione.
Quello che mi sembra evidente è che questa indifferenza, pure non ammettendo differenza, è potenzialmente possibilità, apertura alla distruzione. Per questo motivo non c’è una necessità di mantenere tutto in quiete in attesa che le cose si aggiustino da sole. L’esistenza della coordinazione tra religione e politica è una deduzione sporca, ricavata dal mondo e, a sua volta, non è giustificabile razionalmente, esiste e basta.
XXXV
Se la principale preoccupazione di Machiavelli è l’uomo, come si potrà constatare da numerosi elementi, anche dalla sua costante polemica contro i tentativi di soffocamento attuati dalla congiura religiosa, allora il suo scrivere non è più quello freddo e oggettivo del manualista.
Il suo scopo non è più quello di individuare uno schema eterno da fornire ai tiranni, o alle repubbliche, finanche al partito comunista, se dobbiamo stare alla bella trovata di Gramsci, quanto quello di ironizzare insieme all’uomo, al singolo, sulla natura reale delle cose politiche che sono sì cose umane, ma che, per meglio individuarle nella loro pericolosità, è bene che vengano tenute separate.
Certo, il momento era particolare, quelle chiarificazioni si incentravano in una situazione che aveva bisogno della forza, ma non solo gli Stati hanno bisogno della forza, anche i singoli, gli individui, hanno bisogno di una forza sia pure diversa, ma altrettanto certa di sé, almeno in termini di coscienza. Se astuto e forte, come appunto la golpe e il lione, doveva essere il condottiero e lo stratega, il tiranno o il capo della repubblica, o i governanti, o i reggitori di Stati, non altrimenti dovevano esserlo gli uomini.
Il tempo delle prede sacrificali è finito. Si può essere sicuri che Machiavelli non parlasse un linguaggio ecumenico, non era la totalità degli uomini che teneva davanti, ma nemmeno solo Valentino, o Malatesta, anche se da questi esempi poteva, più o meno, farsi affascinare.
Insisto nell’affermare che un uomo del suo genere, principalmente un uomo di spirito, non poteva abbassarsi al rango di manualista.
Chi ha conosciuto quest’ultimo genere di uomini, sa, come me, che sono quanto di più piatto e devoto alla media si possa immaginare.
Oggi si è perso il senso della vecchia tradizione dei manuali che cominciò all’epoca di Machiavelli, ma che si diffuse realmente a tutti i livelli molto più tardi, precisamente nel secolo scorso. La Hoepli, a esempio, fece la sua fortuna, e per certi versi continua a farla ancora oggi, con questa categoria di testi. Ma, prendetene uno in mano e li avrete presi tutti. Il taglio è universale. Nessuna critica, nessun tentativo di approfondimento. La muta oggettività pretende parlare di sé. Ma oggi, la manualistica più diffusa è quella della scuola, cioè dei lavori fatti per la scuola. Storia di qualcosa, fatta in un certo modo. Quando si è scelto il metodo, che poi, senza sapere perché in questi ultimi anni è sempre una scelta orientata a sinistra, per modo di dire, si sa subito che tipo di storia si andrà a leggere.
I vecchi positivisti sono stati scalzati dai nuovi storici, questi dai loro cugini marxisti. Oggi, altri manuali stanno prendendo il posto dei vecchi. Il settore è proficuo, per editori e per autori, non lo è invece per i ragazzi che sono costretti a leggere, e a pagare, libri senza contenuto vivo e critico. La maggior parte dei cosiddetti autori, e in Italia ce ne sono molti, vista la tradizione tedesca che alimenta la nostra manualistica, sono eruditi e ignoranti, una categoria non solo vasta ma molto composita di persone che sanno molte cose, ma capiscono poco. Incredibile il settore ma-nualistico dei temi svolti e dei compendi di non so che cosa. Qui l’idiozia più ortodossa si allea con l’arretratezza dei contenuti. Il lavoratore della penna fatica per ottenere un modesto reddito e non si pone problemi.
A un livello più alto, quello della manualistica degna, i contenuti sono lì, ma sono fortemente ideologizzati, per cui, qualche volta, risultano anche un po’più critici, sempre però senza che sia presente una critica effettivamente radicale e negativa.
La compiacenza verso il dominio in carica, di qualsiasi natura questo sia, è quindi la caratteristica più importante e la dote più qualificativa del manualista. Adesso, in tutta franchezza, possiamo pensare di inserire Machiavelli in questa categoria?
XXXVI
Ma torniamo al nostro argomento. Non era quindi un manualista, ma era un servitore dello Stato. Ma era anche due altre cose, un uomo intelligente ed arguto, e inoltre un uomo amareggiato, sconfitto, messo da parte da persone che lui vedeva bene quanto gli fossero inferiori, intellettualmente in primo luogo, ed anche come capacità d’azione.
Non c’è nulla di più forte dell’amarezza, della coscienza di sé vilipesa e schernita, del vedere il riconoscimento della massa, ed anche delle cosiddette persone autorevoli, ai più imbecilli e ai meno capaci. Solo costruendo la propria vita nella prospettiva della sconfitta, ed inserendo in questa prospettiva tutti gli obiettivi, tutte le vittorie parziali, si può accettare con ragionevole distacco questo tipo di esperienze, altrimenti sono guai.
Dalla sofferenza che causano questi sentimenti, fortissima che solo chi l’ha provata può capire, non escono facitori di manuali, controllori e riconfermatori di regole. Escono, caso mai, dissacratori o estremisti. Se si vuole, estremisti nel bene o nel male, qualche volta anche al di là del bene e del male.
Così Giorgio Colli: «Nietzsche è un filosofo a metà, perché del filosofo possiede, in maniera somma e persino sovrabbondante, la capacità intuitiva, ma manca, a volte in maniera quasi incredibile, del potere di coordinare le intuizioni, e in genere di dedurre. Ora, i filosofi grandi si distinguono dai mediocri proprio per il fatto di possedere, oltre alla generale capacità deduttiva, una eccezionale dote intuitiva. Dove manca invece la capacità deduttiva – assai più volgare e comune in sé – non viene fuori un filosofo, per mirabile che sia il suo dono intuitivo. Dove appare l’intuizione senza deduzione, troviamo tutt’al più un artista. Nietzsche è un “monstrum” già per questa sua costituzione spirituale, a metà tra filosofo e poeta, e propriamente né l’uno né l’altro, già in questo un “unicum”. Ma questa è anche la ragione per cui Nietzsche continua la sua esistenza dopo la morte, è aperto verso l’avvenire perché quello che ha detto non è ancora stato spiegato, si rifiuta di essere chiuso nel passato e nella galleria dei classici, perché non è stato un “classico”, ma unicamente lo sarà (è un uomo postumo come diceva lui stesso). Si aspetta qualcuno che deduca dalle sue intuizioni quello che vi è contenuto, che le coordini, traendone l’armonia e il “sistema” che egli non poteva vedere: il deduttivo tagliato per quelle intuizioni». (La ragione errabonda, op. cit., p. 137).
Ma chi si è sempre visto debole, patteggiatore di sé con gli altri, arrampicatore di specchi, costui potrà apparire belva feroce agli altri, ma a se stesso, davanti a un tribunale che non ammette appello, sa perfettamente di essere un vigliacco. E i vigliacchi non coltivano un sentimento d’amarezza, un orgoglio ferito. I vigliacchi non hanno orgoglio.
Ecco come leggere, per quel che penso io, il seguente passo, fra i più tremendi, scritto da Machiavelli: «Secondo adunque uno principe necessita sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione, perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si difende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e lacci, e lione a sbigottire e lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione non se ne intendano. Non può pertanto uno signore prudente né debbe osservare la fede, quando tale osservanza li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E se gli uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi e non la osservarebbono a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro. Né mai a uno principe mancorono cagioni legittime di colorire la inosservanzia. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni, e mostrare quante paci, quante promesse sono state fatte irrite e vane per infidelità de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici gli uomini tanto obedisceno alle necessità presenti, che colui che inganna troverrà sempre chi si lascerà ingannare». (Principe, 18).
I commentatori ufficiali, di questo e di altri passi, nel loro atteggiamento filisteo, hanno sempre sollevato alte strida contro la fede negata, contro la promessa non mantenuta. E poi, per la coloritura dell’operazione, per l’imbroglio, per il tradimento. E se la sono presa con Machiavelli, come l’imbecille che non guarda la luna, ma solo il dito che la indica.
Ma, può mai esistere uno Stato, un potere sia pure periferico, che non applichi, più o meno coscientemente, questo modo di fare? Che non stabilisca chi sono gli amici e chi i nemici e distribuisca tutti i metodi dell’imbroglio e della rapina a favore dei primi e contro i secondi?
Carl Schmitt ha scritto: «La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di amico e nemico... essa corrisponde ai criteri relativamente autonomi delle altre contrapposizioni: buono e cattivo per la morale, bello e brutto per l’estetica e così via». (Le categorie del politico, tr. it., Bologna 1972, p. 105). Si tratta di una ripartizione discutibile, come tutte le distinzioni artificiali dell’analisi, ma indirettamente utile, perché lascia vedere un altro aspetto, grossolanamente differente, della distinzione fondamentale di classe.
Esattamente Alessandro Dal Lago: «L’impasse dello storicismo, o piuttosto, la consapevolezza che il senso della storia non è nell’accesso a un’eternità metastorica, ma nell’entropia, spiana così la strada alla cultura della decisione, e cioè alla volontà di uscita dalla storia e dalle sue aporie. Sarebbe evidentemente vano fare dei diversi tipi di decisionismo, formulati nella cultura filosofica del primo Novecento, un modello unificato. Ma è indubbio che essi rispondano, al di là dei loro contenuti specifici, a un problema comune, l’insostenibilità del conflitto. La rivolta contro la fatalità della degradazione storica ha il significato di tagliare alla radice gli elementi in conflitto, sia che essi si manifestino nel tragico o nel senso di impotenza manifesto nell’annientamento del presente. La cultura della decisione vuole avere un significato affermativo: contro la paralisi dei due tempi che si scontrano (Nietzsche), contro la passività rispetto alla gettatezza nella storia (Heidegger), contro la guerra immanente in ogni conflitto politico (Schmitt), contro le stesse resistenze al dominio della tecnica (Jünger). Se c’è un senso comune ai vari tipi di decisione, esso si manifesta nella volontà di imporre una scelta (metafisica, esistenziale, politica) che sbarri la strada all’entropia, alla caduta nel tempo. Scaturito dalla cultura della decadenza, il decisionismo vuole imporsi come antidoto alla decadenza». (“L’autodistruzione della storia”, op. cit., pp. 13-14).
XXXVII
Ma l’uomo, il singolo, colui che non vuole soggiacere agli imbrogli e alle nefandezze del potere, e in primo luogo della religione organizzata, non deve agire diversamente. Così, mancare di fede al poliziotto non può essere considerato una vera e propria mancanza di parola, un rifiuto della verità, un’accettazione dell’imbroglio e della nefandezza. Non possiamo tirare i remi in barca per evitare di bagnarli.
Non è accettabile la tesi di quel grande anarchico italiano che non condivideva l’ipotesi dell’esproprio ai fini di finanziare l’attività rivoluzionaria, perché agendo da ladri si finisce prima o poi per diventare ladri. E lavorando da lavoratore si finisce prima o poi per diventare che cosa?
Va bene che ho visto con i miei occhi gente che prima, in gioventù, sosteneva questa tesi dell’esproprio e dell’importanza dei finanziamenti per l’attività rivoluzionaria, diventare, col passare degli anni, la larva dei propri ricordi, limitandosi alla lettura dei giornali e al proprio lavoro quotidiano, ma la malinconica decisione di qualche poveretto, forse da sempre pauroso e indeciso, non costituisce nemmeno un’eccezione alla regola.
Penso che Machiavelli faccia due discorsi, ambedue diretti alla gente. Non certo a tutta la gente, che bisogna collocare questi discorsi nel tempo in cui furono fatti, ma comunque si tratta di utili considerazioni, opportunamente filtrate attraverso i secoli, importanti anche per noi.
Un primo discorso, dice che gli Stati sono fatti così e che non bisogna illudersi davanti alle loro apparenti buone intenzioni e, nello stesso tempo, non bisogna nemmeno scoraggiarsi del tutto davanti alle loro cattive intenzioni, che se le prime non sono mai reali del tutto, neanche le seconde lo sono e non possono durare a lungo e incondizionatamente.
Il secondo discorso, dice che l’uomo non può aspettarsi nulla, né dallo Stato, né da Dio. La forza la deve trovare in se stesso. E questa forza deve essere combinata con l’astuzia, non altrimenti di quanto avviene per il reggimento dello Stato. Il pio inginocchiato, come l’attuale pacifista multi-manifestante, non può che aspettare la catastrofe. Armarsi dunque. Di forza e di astuzia, di mezzi e di analisi, di decisione e di intelligenza.
Ecco le ingenue parole di Friedrich Meinecke: «Tristo, molto tristo invero è il famigerato consiglio che al principe non è necessario avere tutte le buone qualità morali, come la fede, la probità e così via, ch’egli però deve parere di averle, poiché avendole ed osservandole sempre sono dannose, parendo d’averle sono utili. Con questo egli legittimava il ribaldo ipocrita sul trono. Con le sue finalità e con i suoi princìpi fondamentali si sarebbe conciliato benissimo l’esigere dal principe anche una saldezza morale interiore, purché, nel caso d’una necessità di Stato, vi si appaiasse la forza di assumere la responsabilità del conflitto, sacrificandosi tragicamente. Ma forse siffatta soluzione del problema, quale più tardi la diede Federico il Grande, non era ancora possibile alla mentalità di quel tempo e del Machiavelli... Lo spirito del tempo amava allora ancora tracciare le vie diritte in tutti i campi della vita e alla via diritta della morale cristiana Machiavelli ne contrappose un’altra, nella sua maniera altrettanto diritta, orientata razionalmente alla esclusiva meta dell’utilità politica e la calcolò col gusto suo proprio per le conseguenze estreme». (L’idea della ragion di Stato nella storia moderna, tr. it., Firenze 1942, p. 93).
È questo un modo molto diffuso di considerare la separazione tra morale e politica pensata da Machiavelli.
Dire la verità nella fatica quotidiana è inammissibile, salvo a ridurre la parola a enunciazioni di tautologie. L’esempio estremo, qui essenziale, è quello costituito dal dire l’azione, l’attacco contro il nemico che mi sovrasta.
L’ascolto di questo dire non è univoco e costante, non si mantiene sempre compatto e coerente con le mie capacità di immedesimazione nella sua conformazione architettonica, ci sono momenti in cui mi sento quasi estraneo e momenti in cui la sua intensità è tale da travolgermi e da costringermi a distogliere l’attenzione. Rammaricazione e rimpianto.
In questi momenti di più intensa ricezione mi faccio carico di me stesso, della mia vita, della mia esperienza diversa, sono ancora una volta io stesso la mia azione, mi purifico, mi trasfiguro. Il colpo che ricevo dal dire che tocca le profondità di me stesso, è tale da avere una lunga storia nella mia vita, una vera e propria anteriorità.
Ascolto e non mi limito a derubricare semanticamente le parole che odo, vado dentro di loro. Questo punto è nuovo e apre grandi prospettive alla parola stessa, prospettive molto al di là del confine semantico vero e proprio. Occorre metterlo in azione, cioè lasciarlo agire dentro di me, non fare resistenza, non pretendere di imporre gli schemi fissi dell’amministrazione corrispondente.
Le modificazioni dell’ascolto cominciano tutte come cambiamenti fattuali, quindi succubi della parola che dice, non si aprono ad atteggiamenti nuovi, a forme di comprensione che saranno in breve paralizzate e azzerate, eppure per il momento giocano un ruolo potente nella mia disponibilità all’ascolto.
XXXVIII
Come si vede, questo mondo è pieno di pregiudizi. La morale cristiana vi appare come una strada diritta. Quante obiezioni si potrebbero avanzare contro questa semplice affermazione. Abbiamo sufficiente materiale, adesso, per considerarla addirittura ridicola.
Machiavelli, al contrario, costruisce un’altra strada diritta, ma contraria. Anche su questo si potrebbe dire a lungo. E poi, il problema del tristo consiglio. Ancora una volta si ripresenta il problema del consigliere che parla al principe, del manualista che si rivolge ad un pubblico ristretto. Certo, Machiavelli era anche questo, cioè un deluso che chiacchierava, e beveva, e andava a donne, e faceva atroci scherzi, come solo questi, questa volta sì, tristissimi toscani sanno fare, e parlava negli orti Oricellari, teneva banco fra gli amici, e forse anche fra qualche spia, e poi s’indirizzava ai Medici, e anche ci sperava sopra, ed aveva l’occhio professionale per la politica di tutti i giorni, sulle questioni di palazzo.
Ma, al di là di tutto questo ciarpame contingente, procedevano altre considerazioni. Non consigli, né ricette, né manuali. Questa è una lettura di origine storicista e i motivi di essa sono evidenti.
Meinecke scrive il suo libro sulla Ragion di Stato dopo la prima guerra mondiale e l’idea precedente, che aveva avuto, e a lungo sviluppata, di una felice coabitazione, nella Germania di quell’epoca imperiale, tra la forza e la moralità, era finita per venirgli meno.
Il fallimento dell’illusione tedesca, seguito alla prima guerra mondiale, lo spinse a considerare i conflitti tra forza e morale, cui il libro è dedicato, e a pensare di suggerire un superamento attraverso l’idea della Ragion di Stato. La soluzione è classica per questi pensatori della legittimità del potere, ed è anche comica, quando si considerino tutte le riflessioni che portano al conflitto tra essere, cioè la forza, e dover essere, cioè la morale.
Tra kratos e ethos si deve necessariamente, a loro dire, trovare uno spiraglio, una giusta commistione, un equilibrio. La ragion di Stato appare loro come un principio di condotta capace di fare superare questa sostanziale scissione, in quanto in esso tutto quello che appartiene alla natura si mescola con quello che appartiene allo spirito.
Il richiamo a Federico il Grande è utile per capire come il problema per Meinecke, e per molti studiosi dello stesso tipo, non sia tanto quello del contrasto tra morale e forza, quanto quello dell’assunzione della responsabilità dell’uso della forza da parte dello Stato. Questa gente lavora realmente alla costruzione dello Stato moderno, ma moderno non nel senso in cui lo consideravano gli illuministi, cioè fondato sulla divisione dei poteri, o i teorici della lotta di classe in senso dialettico.
Si tratta di un lavoro in vista della costruzione di quello che è stato giustamente chiamato totalitarismo democratico. Guai se in questa prospettiva si desse troppa larghezza al concetto di astuzia. La programmazione delle malefatte è sempre faccenda marginale nella gestione del potere moderno, la quale può articolarsi, come vediamo tutti i giorni, in un mare di scandali, sopravvivendo proprio perché tutti sono convinti che si tratti della responsabilità di questo o di quello, ma non della responsabilità del potere.
Lo Stato va bene, occorre solo perfezionarlo, allargando e specificando, sempre meglio, la responsabilità degli organi che lo costituiscono. Ora, come appare evidente, questi organi sono sempre costituiti da uomini che, con tutte le loro debolezze e cupidigie, prendono decisioni e le applicano. La responsabilità che questi uomini si assumono, di volta in volta, assolve lo Stato e perpetua il potere.
Prendiamo per un attimo in considerazione il problema del Fondo Monetario Internazionale, attraverso cui i Paesi meno sviluppati continuano a essere sfruttati dalle grandi potenze industrializzate, più o meno le stesse che una volta erano le potenze imperialiste in senso stretto. Solo che adesso il meccanismo è realizzato con nuovi mezzi. Uno di questi è di certo l’indebitamento verso l’estero. Il modello di sviluppo che viene proposto a questi Paesi, spesso impacchettato dalle grandi scuole di economia delle più avanzate università americane, inglesi, giapponesi e tedesche, si basa sulla produzione industriale.
Così questi Paesi si accingono a fare degli investimenti nel settore industriale, cioè comprano macchine a prezzi alti, pagandole con l’esportazione di prodotti agricoli o estrattivi, i cui prezzi vengono mantenuti bassi da una precisa politica di rapina. Queste sono decisioni politiche di grandi Stati, ma sono anche decisioni di uomini, che si assumono in proprio, senza nessuna attenuante, neanche quella dell’ideale reazionario, la responsabilità di condannare a morte milioni di persone.
Per chi si trova in una condizione di miseria e di arretratezza, il miraggio dello sviluppo industriale, sul modello dei grandi complessi pieni di ciminiere e di inquinamento, modello per altro in forte crisi di accettazione, può ancora costituire un allettamento. Si spera così in future possibilità di esportare beni a prezzo migliore. Così i Paesi meno sviluppati incorrono nella trappola dei debiti.
Una volta, prima degli anni Settanta, a concedere questi prestiti erano soltanto i governi e le organizzazioni internazionali, adesso sono anche le banche. Infatti il grande afflusso di dollari, successivo alla crisi petrolifera degli anni Settanta, mise le banche europee e americane davanti alla necessità di cercarsi un mercato per i depositi che affluivano provenienti dai Paesi dell’area araba del petrolio. Il mercato si trovò proprio nei Paesi meno sviluppati. Vennero quindi incrementati i prestiti, favorita la richiesta, e questi Paesi si trovano adesso indebitati fino al collo e non in grado di pagare neanche gli interessi.
I Paesi meno sviluppati sono pertanto con poche fabbriche, qualche centrale nucleare, grandi devastazioni territoriali e profondi sconvolgimenti culturali. Le possibilità di vendere i prodotti restano inconsistenti.
A rendere ancora più tragica la situazione dei Paesi debitori si è inserita la politica economica monetarista applicata nei primi anni Ottanta dagli Stati Uniti, in base alla quale si pensava di potere incidere sull’inflazione ricorrendo quasi soltanto a modificazioni dei tassi d’interesse. In poco più di un decennio i tassi internazionali sono così saliti dal 7 al 16 per cento, facendo peggiorare sempre più la situazione di questi Paesi debitori.
L’innalzamento dei tassi negli Stati Uniti, sollecitò gli investimenti verso quel Paese, da ciò un aumento della domanda di dollari in tutto il mondo, e un continuo aumento del prezzo del dollaro. Ora, siccome quasi tutti i prestiti di cui discutiamo sono liquidati in dollari, i versamenti delle rate devono essere fatti in dollari, da qui un aumento dei costi dei rimborsi.
Abbiamo quindi, che aumento dei tassi d’interesse, aumento del prezzo del dollaro e peggioramento della ragione commerciale di scambio, cioè rapporto tra prodotti naturali e prodotti industriali, fa diventare sempre più grave la situazione dei Paesi meno sviluppati.
Se a questa situazione si sommano le fughe dei capitali da questi Paesi, in quanto chi dirige prima o poi ruba e mette i soldi nelle banche svizzere, le quali fughe incidono all’incirca per il 20 per cento della circolazione dei debiti stessi, e se si considera che il 40 per cento dei prestiti è indirizzato all’acquisto di armi, si capisce come non sia possibile nessuna via di sviluppo, per quanto contraddittorio e miserabile questo possa essere.
L’analisi delle funzioni del Fondo Monetario Internazionale, che regge e regola tutti i passaggi di capitale diretti verso le nazioni più povere, si potrebbe approfondire meglio, ma proverebbe soltanto che per continuare lo sfruttamento dei Paesi che una volta erano colonie, non si è arretrato davanti a niente. Distruzione di colture, sterilizzazione forzata delle donne, vendita di prodotti contaminati, e ogni altra nefandezza.
Non c’è dubbio che in questa straordinaria esperienza negativa del Fondo Monetario Internazionale ci siano le responsabilità di economisti come Milton Friedman e compagni, e questo lo sanno in molti e forse potrebbero anche saperlo gli esponenti stessi della scuola di Chicago.
Quello che sanno in pochi è invece che alla base di questo ragionamento, diciamo alla lontana ma non tanto lontano da essere inefficace, ci fu un movente di natura morale. Non di morale spicciola, del tipo: aiutiamo questi poveretti a produrre da soli i beni di consumo durevole, che sarebbe stata di già una grossa stupidaggine o una colpevole negligenza, ma di morale molto più complessa. Forse è utile tracciare questa piccola storia.
Il monetarismo si contrappone storicamente alla politica keynesiana del sostegno artificiale alla domanda, o politica assistenziale. Vi si contrappone per una ragione morale, in quanto non intende premiare con un sostegno i motivi che hanno determinato una crisi economica, specialmente con sostegni che poi sarebbero emissione di carta moneta, in quanto essi possono causare più danni che altro.
Inoltre, con questa politica verrebbero anche premiate le condotte errate degli imprenditori e penalizzate quelle più prudenti di coloro che invece a causa di una oculata gestione economica potrebbero superare da soli la crisi.
Da qui il suggerimento di una politica semplice, basata su graduali aumenti della quantità di moneta e un incremento del tasso pari all’incremento che di anno in anno raggiunge il reddito reale della nazione. In questo modo, richieste sindacali troppo eccessive dovrebbero essere frenate dall’insufficienza monetaria. Lo scopo sarebbe quello di creare un’economia sana, da cui verrebbero espulsi gli operatori non corretti o inefficienti.
Nella pratica, anche i monetaristi sono andati oltre sia col movimento dei tassi, sia riuscendo ad applicare la loro tesi solo in condizioni di estremo controllo sociale, come in Cile. Non sempre i moralisti hanno l’occhio esercitato per scoprire i mali della società, e quasi mai i loro rimedi sono privi di dolori.
XXXIX
Vediamo adesso come riflette sul problema specifico di Machiavelli uno dei suoi studiosi più attenti, anche se non uno dei più profondi: «Il fine e il mezzo sono tutt’uno nella unità dell’azione – scrive Benedetto Croce – verità che la famigerata massima del fine che giustifica il mezzo ora riduce a una tautologia e ora avvelena e corrompe con la teoria casistica della direzione, ossia dell’infingimento dell’intenzione. Ma l’intenzione deve essere schietta e reale e non artificiale e finta, chiara a sé stessa e non ingannare o illudere sé stessa, entrare sul serio nel dramma della vita e non rappresentare la commedia. In virtù della sua unità d’azione da compiere è soggetta interamente alla coscienza morale né ad essa si sottrae e può essere sottratta in parte alcuna. E le accadrà di dover eseguire atti severi, dolorosi a chi li esegue ma voluti e approvati dalla sua coscienza, accompagnati dall’angoscia che desidera, e pur non vuole, che gli sia allontanato quel calice. Ma, per l’opposto verso, se egli mai a quell’atto sta per frammischiare un calcolo qualsiasi di privata utilità o di personale compiacimento, se sta per lasciarsi andare, nell’impresso moto, alla severità alla crudeltà, la coscienza morale lo arresta e lo corregge e, se a ciò non riesce o mal riesce, lo avverte del punto a cui è trascorso, ed egli ne rimane turbato e invano tenterà sofismi per giustificarsi innanzi a sé stesso e ricorrerà a labili immagini per celare o colorire altrimenti il suo peccato... Il Machiavelli, come lo Hegel e coloro che li seguirono, commisero o accennarono a commettere l’errore di considerare tali atti contrari al costume o gravi ai cuori pietosi, come falli morali, laddove rispondevano in effetto al concreto dovere morale; e insieme di “scusare” o “assolvere” così questi come taluni atti realmente contrari alla morale con quelle attenuanti e quelle assoluzioni che si usano nei giudizi dei tribunali, ma che non hanno luogo nella sfera morale». (Filosofia e Storiografia, Bari 1949, pp. 149-150).
L’analisi individuale è interessante perché riflette, a differenza di molti altri illustri sovvenzionatori delle patrie idee, il conflitto di coscienza di chi è chiamato a compiere alcuni atti, se non altro contrari al comune senso di rispetto verso la vita degli altri e le cose degli altri.
Ma bisogna pure intendere in che modo Croce colloca questa unità d’azione, e in che modo il problema della differenza tra fine e mezzo venga visto dall’interno di questa unità.
Se il fine non può mai giustificare il mezzo, nemmeno l’unità d’azione può farlo, salvo che non si voglia parlare in astratto, per esercitazione letteraria. Esiste un’intenzione che sia effettivamente schietta, oppure, all’interno dei processi del volere si addentra, minaccioso e terribile, il progetto dell’ingegneria sociale? Nessuno può dire che le cose stiano in un modo o nell’altro.
Certo, molte cose si possono giustificare, nell’individuo, annebbiando il giudizio dietro la scusante sociale. Il peso di questa, nello sviluppo del singolo, è notevole ma, in fin dei conti, non può eliminare del tutto la possibile azione autonoma della volontà. E, se questa si realizza, il mezzo deve essere scelto in piena responsabilità e, con questa responsabilità, si è segnata l’ala estrema dei segni tangibili del fine. Al di là resta soltanto il sogno.
La moralità non è quindi nell’unità, che tutto ciò potrebbe risultare giustificazione a posteriori del fatto che è e che quindi non può essere diversamente.
Tornerebbe allora il discorso di Meinecke, dell’essere che si contrappone al dover essere. Ambedue le cose non reggono, come non regge una ipotetica unità di ambedue, sono fittizie cognizioni di un meccanismo perverso, sia esso dialettico o lineare, non ha importanza. Se l’azione si realizza in un asservimento al fine, se la scelta dei mezzi sarà da quello condizionata, nessuna scusante potrebbe tornare assolutoria nei riguardi del singolo, supremamente ancora di più nei riguardi degli Stati e delle loro propaggini.
L’angoscia del singolo, o la crisi istituzionale dello Stato, sono turbamenti che ripristinano, o sono diretti a ripristinare, l’originaria possibilità di superare il contrasto nell’unità dell’azione. Ma questa è delittuosa, similmente all’involontaria, si fa per dire, non conoscenza del fine che si vuole raggiungere.
Nessuno è innocente. Né chi si distoglie beato dalla lotta, considerando che lo scontro è faccenda della forza, inusitato, per lui, terreno di misurazione. Né chi individua e raggiunge impieghi di mezzi e progetti di fini. Le responsabilità sono in ambedue i casi differenti ma sussistono in pieno. Ancora una volta, nessuno è innocente.
XL
Sull’onda del riflusso di questi ultimi anni [Ottanta], sono stati messi in circolazione diversi comunicati di appartenenti alle passate cosiddette organizzazioni combattenti, adesso dissociatisi, nei quali si invocava il rispetto per la vita, sollecitando coloro che ancora continuavano nelle azioni contro lo Stato e il capitale, a non uccidere.
In uno di questi comunicati, del marzo del 1987, si leggeva: “Non v’è storia della salvezza, compagni assassini, che possa proseguire se si spezza una vita”. In questo modo si taglia quel contesto complessivo che rendeva comprensibili, se non giustificabili, le azioni di attacco, anche quando queste prevedevano, addirittura si ponevano come obiettivo, l’uccisione di un responsabile dello sfruttamento.
Adesso la vita viene considerata come un fine in se stessa, un valore assoluto, e non più un valore posto in relazione alle condizioni sociali in cui si vive. Ne viene fuori una visione astratta della vita, adatta ad essere calata nella morale che in questo momento fa comodo.
Lo sfruttamento e l’oppressione non esistono più, come non esiste più la possibilità d’insorgere contro chi prende posizione per una realtà di disuguaglianza e di miseria generalizzate.
La vita a cui questa esortazione si riferisce, rende implicito il perpetuo mantenimento della schiavitù, quindi non è altro che sopravvivenza, è essa stessa un attentato contro la vita. La prova di ciò è data dal fatto che i firmatari di questo documento non s’indignano pensando a quante vite hanno stroncato proprio col loro tradimento, a quante ne hanno vendute allo Stato, direttamente o meno, per salvare la propria.
Su questo argomento, essi preferiscono tacere. Ma tutto sta scritto nel cuore di coloro che hanno visto svendere la propria lotta, tradire la propria amicizia e la solidarietà. Chi si avvale di una tesi del genere fa proprie quelle stesse motivazioni sulla vita, sostenute da tutti i movimenti reazionari e religiosi che si sono succeduti sulla scena politica degli ultimi due secoli.
Penso non sia possibile dare un valore astratto alla vita, perché significherebbe sacralizzare un limite astraendolo dal comportamento sociale concreto, produttore in fondo di ogni possibile valore.
C’è una differenza, per me, tra la vita di chi ammazza per professione, perché convinto di compiere il proprio dovere difendendo lo Stato, la proprietà e i privilegi, e la vita di chi insorge e si ribella consapevolmente per difendere se stesso e proporre una trasformazione radicale della società. Queste due vite non si equivalgono affatto. Non possiamo fare entrare ed uscire la morale a nostro piacimento dai giudizi sociali e politici.
Con questo non si vuole giustificare il mezzo dell’omicidio per raggiungere lo scopo della rivoluzione. Nessuna vita, neanche quella del poliziotto, vale uno scopo qualsiasi, di natura sociale ed economica. Ed è questa considerazione complessiva della realtà che rende impossibile un’azione terroristica da parte di rivoluzionari coscienti del proprio essere uomini in lotta per un mondo migliore.
Nessun mondo migliore si costruisce sui morti e sul terrore. E questa non è una contraddizione.
Al contrario, è il punto di partenza per un’azione cosciente e critica all’interno della lotta sociale. Fissare una differenza concreta al di là dell’astrattezza, nei riguardi di coloro che si assumono certe responsabilità dello sfruttamento, è un fatto, se si vuole spiacevole, ma necessario, in assenza del quale ogni azione resterebbe bloccata dall’esistenza di un limite esterno opportunamente sacralizzato.
Andare in cerca della pelle dell’avversario politico per creare una condizione di paura e incidere in questo modo sulle sue decisioni, è non soltanto un metodo assurdo, ma anche moralmente in contrasto con la regola fondamentale che non tutti i mezzi sono in grado di fare raggiungere lo scopo di un mondo migliore di quello in cui viviamo attualmente.
Il ritorno a una concezione sacrale della vita, come quella tratteggiata dai dissociati, è una regressione comprensibile in quanto corrispondente ad un passo indietro della coscienza dei singoli che prima lottavano contro una realtà ingiusta e responsabile di ingiustizie. In chi si distacca dalla lotta e abbandona i compagni con cui divideva le sue esperienze, spesso traumatizzanti, si radica ben presto un senso di colpa, che dapprima si traduce in un ripensamento dei propri convincimenti di una volta, poi, sentendosi vinto nella propria dignità, il dissociato finisce col sottomettersi all’autorità dei valori dominanti, cercando una via d’uscita e di giustificazione.
Ancora una volta, la morale serve da scudo alle proprie responsabilità. Ed è per questo che tutti coloro che si riparano dietro di essa, lanciano messaggi di pace nella speranza che qualcuno ne tenga conto, se non altro per dare un senso alle loro decisioni.
XLI
Tornando alle possibili interpretazioni della tesi di Machiavelli sul comportamento politico, direttamente in relazione con l’ipotesi crociana, si trova Gramsci e le sue considerazioni sul Principe come idea del partito.
C’è subito da dire, a questo proposito, che ancora una volta si finisce per leggere Machiavelli alla luce di un presupposto morale. Gli si attribuiscono cioè intenzioni pedagogiche e politiche nel senso di indottrinamento ideologico, mentre risultano sempre più evidenti, man mano che si sviluppa il concetto di fondo della separazione tra politica e morale, le sue intenzioni indirette, il suo voler parlare attraverso lo specchio dell’oggettività delle cose, attraverso l’evidenza che da sola riluce senza bisogno di didascalie.
Nel loro sogno di un processo storico oggettivo, fuori della portata dell’uomo, di cui quest’ultimo può essere, nel massimo delle sue capacità volontariste, strumento e mezzo di realizzazione dei supremi disegni del destino, o dello spirito, non si accorgono di fare torto proprio a quelle premesse materiali che pure dovrebbero essere alla base di ogni storicismo, premesse che poi finiscono per scomparire nel grande vortice del processo immaginario che attribuiscono alla realtà.
Ma vediamo cosa dice Antonio Gramsci: «Il moderno principe, il mito-principe, non può essere una persona reale, un individuo concreto; può essere solo un organismo; un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione. Questo organismo è già dato dallo sviluppo storico ed è il partito politico: la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendano a divenire universali e totali. Nel mondo moderno solo un’azione storico-politica immediata e imminente, caratterizzata dalla necessità di un procedimento rapido e fulmineo, può incarnarsi miticamente in un individuo concreto (invece) il moderno Principe, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno Principe stesso e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo. Il Principe prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo moderno e di una completa laicizzazione di tutta la vita e tutti i rapporti di costume». (Note sul Machiavelli, Roma 1971, pp. 20-21).
Questa analisi penso dovrebbe avere due interpretazioni. Ambedue presupponenti il fatto che si tratta di pure ovvietà. In altre parole, o l’analisi di Gramsci significa qualcosa che è scontata in partenza, qualcosa che appartiene alle moderne evoluzioni dei processi storici, il partito è un fatto che solo un uomo del ventesimo secolo può interpretare secondo lo schema proposto da Gramsci, oppure non è altro che un insieme di vuote considerazioni su quello che Machiavelli avrebbe potuto dire e che, in sostanza, non ha detto. Di questo modo di lavorare sono pieni i libri di storia e di filosofia.
In fondo, di quello che il pensatore che si esamina ha detto, all’esaminatore importa molto poco. Egli ha davanti la propria tesi e cerca collaboratori, vicini e lontani, testimoni, spesso poco probabili, di avvenimenti e modi di vedere le cose che non possono essere condotti in avanti da una fantastica macchina del tempo.
Un’altra interpretazione delle analisi di Gramsci mi sembra sia quella della divaricazione, presente in Machiavelli, tra politica e religione, problema subordinato a quello della parallela divaricazione tra politica e morale, ma per noi altrettanto importante.
E qui si deve sottolineare il fatto che Gramsci sembra volere attribuire al principe-partito la possibilità di ricondurre all’interno della dimensione laica aspetti e funzioni di natura religiosa. Si avrebbe allora un elemento religioso laicizzato. Qualcosa di simile era stata denunciata da Max Stirner, quando parlava del pericolo di trasferire armi e bagagli di Dio dal paradiso in terra, criticando la facile soluzione approntata da Feuerbach.
In effetti, e non sappiamo se Gramsci si rendesse conto in pieno delle relative implicanze, il processo di laicizzazione del mito comporta tutta un’operazione di reperimento del consenso, quindi di controllo e di esercizio del dominio.
Solo ai marxisti, sostenitori di una dicotomia in corso di radicalizzazione, tra proletariato e borghesia, poteva venire in mente di dare connotazioni positive a questo senso di marcia, a questo passaggio. Occorrerebbe comunque vedere meglio il senso di positività che si coglie nelle righe di Gramsci, cioè vedere meglio il modo in cui questo senso si collega con la visione complessiva del processo produttivo inteso, naturalmente in maniera non determinista, in termini di formazione economica e sociale.
XLII
Sul piano puramente filosofico non è facile individuare le componenti originali che danno vita al pensiero di Machiavelli. Prima di tutto perché egli non può considerarsi filosofo in senso stretto, per cui non si preoccupa di dare indicazioni in merito alle fonti del proprio pensiero, poi perché ormai si è quasi certi che le sue letture non dovevano essere particolarmente approfondite per quanto riguarda gli aspetti tecnici della disputa filosofica dei suoi tempi.
Il riconoscimento del valore dell’uomo, elemento centrale del Rinascimento, si apriva a una ripresa dell’interesse religioso che tornava in questo modo direttamente ai princìpi, saltando il medioevo e seguendo in ciò il ritorno, postulato anche in campo politico, a una ripresa dello studio della natura a partire dalla magia.
Magia e astrologia costituiscono il completamento dello studio dell’uomo, l’altro aspetto della politica. Non si tratta di commistioni religiose, ma di un approfondimento della materia, che oggi a noi sembra incredibile, ma che nel Rinascimento sembrava potere colmare il passo tra natura e Dio. L’uomo può forzare la natura, adeguandola alle proprie necessità.
Antesignana della scienza e perfino della tecnologia, la magia permette all’uomo di incidere nel determinismo cieco di tutte le cose inserendosi nel processo della corruzione e della generazione, nelle sfere degli elementi. In questo modo, trovavano spiegazione razionale, e quindi venivano ordinati nell’ambito delle cose possibili gli eventi eccezionali e miracolosi, che non rompevano più, come si pensava prima, l’ordine naturale delle cose, ma semplicemente ne modificavano la connessione causale.
Il soprannaturale non era altro che la realizzazione di possibilità interne alla natura. Con Marsilio Ficino, ad esempio, l’unificazione neoplatonica di naturale e soprannaturale comporta il pericolo di imprigionare l’uomo in balia di potenze cosmiche che apparivano naturali soltanto per definizione.
Alla liberazione di questo possibile imprigionamento lavora Giovanni Pico della Mirandola, che cerca di cogliere un legame universale tra l’uomo e tutte le cose, senza il pericolo del condizionamento al meccanismo deterministico della natura. La soluzione egli la trova nell’essere l’intelletto umano tutto in potenza, quindi in grado di potere divenire tutto quello che vuole, entrando in relazione autonomamente con le cose esistenti e non fissandosi in una relazione determinata. La magia diventa in questo modo lo strumento che nelle singole individuazioni del reale permette di stabilire il contatto e di riprendere la propria autonomia, forzando il naturale corso degli eventi.
XLIII
Il centro dell’aristotelismo rinascimentale, alla metà del secolo in cui vive e lavora Machiavelli, è Padova, centro che primeggia nei riguardi di Bologna alla quale, invece, spetta maggiore influenza nel campo degli studi giuridici.
È appunto a Padova dove si sviluppa l’aristotelismo del Rinascimento, sotto l’aspetto dell’averroismo. Sappiamo come l’averroismo sia dottrina filosofica che rigetta i punti principali del dogma cristiano, in modo particolare la tesi di una vita ultraterrena, negando l’immortalità dell’anima. Altra tesi fondamentale dell’averroismo è la negazione della creazione del mondo, con la relativa eternità del mondo stesso.
Tutte queste posizioni, assieme a quelle sulla fortuna e sulla natura dell’uomo, e particolarmente in Machiavelli, si possono ritrovare nel concetto di ritorno alle origini, il quale pur avendo una genealogia neoplatonica viene utilizzato con dichiarati intenti naturalistici. Un altro degli strumenti che elabora l’averroismo rinascimentale è costituito dalla rivendicazione del dominio della ragione sulla sfera dei valori religiosi.
Diventa così possibile per Machiavelli ricondurre la religione nella dimensione più strettamente tecnica di strumento politico da utilizzare per la costruzione e il mantenimento del potere. Egli va molto di più sul concreto, al di là delle dispute accademiche dell’epoca, ma comunque da queste trova come si è visto un considerevole alimento di pensiero.
Con Pietro Pomponazzi le possibilità della ragione vengono individuate e limitate. Ciò è molto importante come apertura alla funzione regolativa che la ragione avrà nel mondo moderno. Problemi come la natura dell’anima, la fortuna e la funzione delle religioni, di cui vediamo subito l’eco all’interno del pensiero di Machiavelli, non avevano altro scopo che di costruire uno strumento in grado di spiegare la realtà, e principalmente ordinarla.
L’attacco principale che la religione subisce in questo periodo è proprio questo, costruito attorno allo strumento della ragione. L’uomo ridimensionato, capace di utilizzare i mezzi che possiede, a livello umano e non a livello di diretta coesistenza divina, in cui la religione trovava modo di risolvere tutte le sue antinomie, è proprio l’uomo nuovo.
La religione può diventare strumento pratico, anche di governo, solo perché ha perso l’antica coesistenza col Dio della fede, ed è diventata pratica rituale, cui bisogna fare ostacolo per costringerla all’interno di un territorio non offensivo. La tesi tomistica dell’anima per natura immortale e sotto un certo aspetto preciso mortale, viene ribaltata.
Pietro Pomponazzi scrive: «... l’anima umana, essendo la più alta e la più perfetta delle forme materiali... è la forma che comincia e finisce insieme col corpo e in nessun modo può operare o esistere senza di quello, e possiede soltanto un modo di operare e di esistere... È possibile pure per sua natura nelle facoltà organiche e materiali, cioè sensitive e vegetative. Ma essendo essa la più nobile delle entità materiali ed al limite delle entità immateriali, ha un certo odore di immaterialità, ma non per sua natura». (Tractatus de immortalitate animae, tr. it., Bologna 1954, p. 110).
Pur movendosi con attenzione nel terreno minato del suo tempo, Pomponazzi chiarisce bene l’impossibilità di pervenire a una fondazione dell’immortalità dell’anima partendo da Aristotele come, fondando l’ideologia di dominio della Chiesa trionfante, a suo tempo aveva supposto Tommaso d’Aquino.
E questa impossibilità è un prodotto del tempo rinascimentale. Lo scopo è quello di inserire perfettamente l’uomo all’interno dell’ordine naturale delle cose. E qui si erge l’ostacolo del determinismo astrologico, che Pomponazzi sostiene contro la critica di Pico. Egli si rende conto perfettamente di questa difficoltà e cerca di venirne fuori, ma non ci riesce e questo segna il limite del suo pensiero. Il sapiente non può fare altro che accettare il piano empirico delle cose che non può essere spezzato. La libertà umana può trovare un suo fondamento all’interno di un altro tipo di determinismo, quello del quadro fornito dalla ragione. È il discorso razionale che diventa presupposto della libertà.
XLIV
Machiavelli, da parte sua, si indirizza verso riflessioni abbastanza lontane dalle preoccupazioni filosofiche dell’epoca sua e di quella immediatamente precedente. L’originalità delle notazioni politiche forniscono elementi per la costruzione di una nuova naturalità.
Egli ricerca i processi che si svolgono nella realtà, sotto gli occhi di tutti. In questo senso è sperimentale, lui e il suo metodo. Questa originalità lo porta a una considerazione della storia, del formarsi e del modificarsi delle cose dell’uomo, in cui la volontà gioca un ruolo primario.
L’elemento religioso, una volta naturalizzato, rientra in questo processo, allo stesso livello delle altre componenti, senza avere la pretesa di costituire una variabile esterna o indipendente.
Lo svolgersi delle cose è visto come movimento. Si tratta del movimento cui sono sottoposte tutte le cose. Questo movimento ha caratteristiche circolari e segna il ritmo di tutte le cose e della storia. Machiavelli si chiede se è un movimento necessario, cioè determinista. E risponde in modo affermativo.
Ben poco possiamo fare contro la fortuna, contro il fato, contro il destino. Quello che possiamo fare lo dobbiamo trovare all’interno della volontà dell’uomo, la quale con la sua azione può modificare le trame del destino. In questo modo, si modifica la realtà. Studiando le cose, l’uomo ne trae strumenti per questa modificazione, e fra questi c’è anche quello religioso.
Attinenti queste parole di Vittorio Mathieu: «Senza dubbio Schopenhauer – come Leopardi [e si potrebbe aggiungere anche Machiavelli] – fa anzitutto appello alla nostra esperienza del dolore. E che i dolori nella vita prevalgono fortemente, non solo sugli sperati piaceri, ma anche su quello stato di tranquillità che per Schopenhauer – come per Epicuro – è il piacere vero (nonché su ogni eventuale condizione d’indifferenza) è indubbiamente vero; e non solo nella grande maggioranza delle persone, ma anche in quei pochissimi che a ragione consideriamo (relativamente) fortunati. Questo, però, non decide ancora nulla fin quando rimanga un puro fatto, e non si dimostri che, di diritto, le cose non dovrebbero andare così che, cioè, nella sofferenza c’è qualcosa che “non dovrebbe” essere. Tutti gli esseri cercano naturalmente il piacere e fuggono il dolore: ma perché il fallimento quasi completo dei loro sforzi in tal direzione assuma l’importanza di un fallimento cosmico occorrerebbe che quel fine edonistico che essi si propongono fosse un fine giustificato. Schopenhauer pensa tutto il contrario. Nulla, nel mondo, fa supporre una natura posta in essere per la soddisfazione degli individui che ne fanno parte; e, d’altro canto, l’aspirazione edonistica di questi ultimi non è che la conseguenza di un modo di vedere le cose del tutto inadeguato; di vederle, cioè, dal punto di vista di una volontà particolare, il quale non può aver nessuna pretesa di essere il giusto punto di vista sulla realtà, perché, anzi, è tutto il contrario. Nulla di strano, dunque, che da questo punto di vista le cose non vadano come ci si augurerebbe. Ma che cosa dimostra ciò?». (“La dottrina delle Idee in A. Schopenhauer”, in “Filosofia”, Torino, Ottobre 1960, pp. 547-548).
Lo stimolo quindi ad una indagine naturale applicata alle cose umane, finiva per mettere in mostra quello che la selezione dell’indagatore portava alla luce. Sulla natura cattiva dell’uomo ci sono documenti allo stesso modo che sulla sua natura buona.
Anzi, separando ulteriormente, sempre sulla scia di questa distinzione diciamo cominciata da Machiavelli, si troverà poi quel filone ottimista che individuerà nell’uomo originario la bontà e nelle istituzioni la degenerazione. Tutti questi tagli a cui si riduce l’utilizzo del mezzo storico, forniscono sempre razionalizzazioni pronte all’uso, e quest’uso è sempre di natura repressiva.
Così l’imprevedibile Nietzsche: «In un primo tempo gli uomini si sono immaginati e inscritti nella natura: ovunque vedevano se stessi e i propri simili, cioè i loro sentimenti malvagi e capricciosi, come nascosti tra nubi, temporali, fiere, alberi e piante: allora essi inventarono la “cattiva natura”. Poi venne un tempo, in cui gli uomini si immaginarono di nuovo al di fuori della natura, il tempo di Rousseau: si era così sazi l’uno dell’altro che assolutamente si voleva avere un angolo del mondo in cui l’uomo non potesse sopraggiungere col suo tormento: si inventò la “buona natura”». (Aurora, I, 17).
Da questo lato Machiavelli svolge un ruolo storico e sociale, nei limiti dell’evento possibile, questo è chiaro, in quanto la sua possibile e sottintesa forza regolamentatrice, potrebbe anche determinare altri svolgimenti. Le raccolte da lui suggerite, e sottolineate, sono evidentemente reali, esistono come possibili momenti d’uno sviluppo storico, ma non sono la storia, né tanto meno la realtà. Difatti non esistono essi soltanto, e il fatto che Machiavelli li abbia considerati importanti e ne abbia tratto alcune conseguenze, appartiene al suo modo di vedere la realtà e la storia in particolare.
XLV
Certo, un politico che volesse fondare la propria attività sulla base di un’ipotetica bontà innata dell’uomo, si troverebbe a mal partito, in quanto non esiste possibilità politica di gestione degli Stati se non quella che presuppone un sospetto e che questo sospetto sia fondato sulla intenzione, per prima cosa, di sfruttare gli altri, decisione che fa parte intrinseca di ogni nozione di potere.
Volendo escludere questa pregiudiziale, per me tutt’altro che acclarata, ne viene fuori la necessità di distruggere qualsiasi potere. La politica e i suoi accorgimenti, basandosi come sappiamo sulla forza, deve rendere cattivi gli uomini, o almeno agire come se fosse capace di renderli tali, in quanto l’ipotesi di monopolio della forza è giustificata pragmaticamente soltanto dalla cattiveria umana, non da altro.
La decisione politica può quindi tenere conto della innata cattiveria umana, e regolarsi di conseguenza, ma non può tenere conto dell’avversa fortuna. Il volontarismo di Machiavelli è messo in chiara evidenza nei suoi numerosi interventi contro il fatalismo religioso, ma in definitiva oltre che in un invito, spesso appassionato, all’azione, non trova alcuno sbocco concreto, almeno per quel che riguarda il problema dell’avversa fortuna.
Aristotele aveva definito il caso, o la fortuna, nel seguente modo: «... una causa accidentale nell’ambito di quelle cose che non accadono né in modo assolutamente uniforme né frequentemente e che potrebbero accadere in vista di un fine». (Fisica, II, 5, 197a, 32).
Machiavelli non è in grado di valutare bene da un punto di vista esterno alle cose stesse le conseguenze di una decisione. Il suo naturalismo lo conduce comunque all’interno dei rapporti della realtà e dei movimenti interni a quest’ultima. Non possiede un metro ideologico a priori di valutazione. Ciò lo costringe a insistere ripetutamente sulla necessità del fare, per contrastare la fortuna.
Di fronte alla necessità, al destino, che mette davanti agli occhi l’accadere nudo e crudo, c’è il mio essere in ascolto con tutte le mie accettazioni o le mie rinunce, le mie superficialità a bocca aperta e le mie tristezze in lacrime, insomma tutto me stesso nel subbuglio inquieto della immediatezza e nella memoria altrettanto inquieta della diversità.
Sono pronto ogni volta a ricominciare daccapo, è questa la forza di cui parla Machiavelli. Quando mi rendo conto che il dire esplicativo, la chiarificazione profonda che non si appaga di sciacquii superficiali, non riuscirà mai a raggiungere la totalità completa dell’azione, non posso fare altro che scendere nella decisione, fino al suo più remoto e oscuro fondamento per costringerla a dire che devo fare, ma non posso costringerla a comunicare ciò come se fosse una mia conoscenza di già acquisita.
Ciò rende inerte il mio proposito, il mio accumulo di materiali di fronte a questa decisione. Devo essere anche io coinvolto e nel coinvolgimento trovare il coraggio per andare fino in fondo. Così la parola che dice la realtà che mi fronteggia mi mette in relazione con le effettive capacità di mettere in campo le mie esperienze conoscitive e anche il mettermi in gioco, senza reticenze e senza paure.
Non basta che io diventi, di fronte alla parola che dice qualcosa di diverso in generale, occorre che io mi apra all’antica esperienza diversa, alleni la parola all’inconcepibile e all’indicibile, mi faccia carico di ogni suo limite e di ogni sua difficoltà, la difenda dagli assalti della volontà di controllo.
È questo il vero e proprio approfondimento della parola, e così i suoi vari strati si svelano e mettono a disposizione il proprio dire l’azione, indirettamente, mentre il dire sembra produrre parole sul più convenzionale dei modi sintattici. Le querule giustificazioni sono ferite insanabili che un normale cinismo continua a medicare.
In questo senso i suggerimenti pratici di Machiavelli riguardo alla gestione del potere, sono tutti suggerimenti attivi, ed egli si rammarica molto dell’infortunio occorso al Valentino da cui trae conseguenze in merito alle sue future disgrazie. Non potendo mai sapere a priori quali saranno le conseguenze di un astenersi dall’agire, si può considerare utile agire sempre, determinando il massimo delle modificazioni possibili nell’ambito della realtà.
XLVI
In Machiavelli c’è un rifiuto di tutte le religioni, di tutti i dogmi che sono alla base delle diverse religioni. Egli esemplifica questo rifiuto facendo vedere come l’azione dei fondatori delle religioni sia legata sempre ad un progetto di potere.
In tal senso, porta l’esempio di Savonarola, il quale aveva senza dubbio il dono della miracolosa capacità di tribuno, anche il dono di prevedere gli svolgimenti politici del momento storico in cui si trovava ad agire, e da queste capacità ne seppe trarre profitto, facendosi credere inviato da Dio, colui che parlava al posto di Dio. E con le favole più incredibili attirò fanaticamente la popolazione. Al momento della nascita del movimento religioso, nota Machiavelli, è l’intelligenza che produce lo strumento, poi questo si limita a camminare da sé. Cessa così il miracolo del prodotto dell’intelligenza e si solidifica lo strumento grezzo da impiegare nella gestione del potere, il dogma.
Ciò è sempre una menzogna scriteriata. Anche se si esprime in maniere differenti è sempre contraddittorio, ed è modificabile secondo le necessità di coloro che l’impiegano come mezzo di direzione politica. Costoro sono ovviamente impostori che si presentano come facitori di miracoli, come realizzatori di nuove prospettive, come solutori di problemi insolubili. In sostanza non fanno altro che solidificare il potere.
Non è la religione che concorre allo sviluppo dell’uomo, ma è l’uomo che crea la religione, inventandosela a seconda dei suoi progetti di dominio. In questa prospettiva, l’uomo lavora a costituire, a creare nel tempo, le condizioni per un utilizzo ottimale degli strumenti religiosi da impiegare nella prospettiva di dominio.
Naturalmente Machiavelli non inventa nulla, soltanto riporta coraggiosamente in vita considerazioni che risultavano essere come nuove per l’epoca sua e, in fondo, sono sempre nuove, quando concorrono a chiarire i meccanismi del potere. E questo può farsi in molti modi, non certamente soltanto con quello scelto da Machiavelli.
Scriveva Polibio: «[Potente a Roma è la religione]... ciò parrà strano a molta gente. In quanto a me, stimo ciò essere stato fatto in utilità della moltitudine. Infatti, se la città potesse racchiudere solo uomini savi, quest’istituzione potrebbe non essere stata necessaria. Ma ogni moltitudine essendo leggera e piena di sregolate passioni, di collere sragionevoli, di desideri violenti, rimane solo trattenerla con terrori misteriosi simili a timori tragici. Perciò a me pare che gli antichi non senza forti motivi né per caso introducessero nella moltitudine queste credenze degli dèi e degli inferni». (Historiae, 6, 56). Il che mi sembra un ragionare da fedele precursore di Machiavelli.
Anche Aristotele aveva detto qualcosa di simile quando discutendo della divinità degli astri aggiunge: «Il rimanente è stato fantasticamente aggiunto per convincere i molti, per le leggi, per ordine pubblico». (Metafisica, 11, 8, 13).
Sesto Empirico, riporta l’opinione di Critia, uno dei trenta tiranni di Atene: «Gli antichi legislatori finsero la divinità come una specie di ispettore delle azioni umane, sia buone che cattive, affinché nessuno recasse ingiuria o tradimento al suo prossimo, per paura di una vendetta degli dèi». (Adversus mathematicos, 9, 54).
E Montesquieu, raccogliendo l’eredità di Machiavelli: «Non furono né il terrore, né la pietà, che stabilirono la religione presso i Romani, ma la necessità a cui sono sottoposte tutte le società di averne una... Trovo questa differenza tra i legislatori romani e quelli degli altri popoli, che i primi fecero la religione per lo Stato, e gli altri lo Stato per la religione... Quando i legislatori romani stabilirono la religione, essi non pensarono per nulla alla riforma dei costumi, né a dare princìpi di morale... Non ebbero che uno scopo generale, quello di ispirare ad un popolo, che non aveva paura di nulla, la paura degli dèi, e di servirsi di questa paura per condurlo secondo i propri desideri». (Grandeur et décadence des Romains. Lettres persanes et œuvres choisies, ns. tr., Parigi 1866, pp. 179-182).
XLVII
Ciò che sembrerebbe fondare per sempre la religione, le fornisce invece una base soltanto transitoria, in quanto con l’esistenza le dà il motivo della propria distruzione.
Questa tesi, caratteristica del Rinascimento, della circolare nascita e distruzione delle religioni, viene legata da Machiavelli allo sviluppo possibile di futuri strumenti da usare per differenti domini.
Così Schelling: «Siamo certo abituati a chiamare le stelle corpi celesti, ma chiunque rifletta un poco a riguardo si convincerà facilmente che l’astro vero e proprio – ad esempio la terra – o che la terra come ente puramente astrale e cosmico doveva esserci prima delle singole cose corporee che si trovano in essa o su di essa, e che quindi la terra come astro, astrum, non è corporea. L’astro vero e proprio, il vero e proprio sé di ciò che è denominato altrimenti corpo celeste in una mera concezione esteriore e puramente parziale non può essere alcunché di materiale ma solo un che di sovracorporeo. Ora appunto questo sovracorporeo, questo puro astrale, l’astro vero e proprio era ciò che fu considerato divino. Ciò che solo veniva originariamente inteso, voluto non era un che di concreto, ma il puro B, cioè quel puro essere archetipico, che, una volta uscito allo scoperto, non potrebbe apparire che distruttivo rispetto all’essere successivo, formato; appunto ciò che deve farsi materia di una potenza superiore, affinché sorga l’essere singolo, concreto. Il nudo essere (senza forma) è vuoto e deserto rispetto alla pienezza e alla varietà dell’essere formato successivamente, per questo all’inizio del Genesi è detto: “La terra (appena creata) era vuota e deserta”. Non si possono sussumere le stelle sotto alcuna categoria dell’essere concreto; esse non sono né enti inorganici né enti organici, non pietre né piante né animali. Non la natura, ma ciò che è ancora prima e al di sopra della natura è venerato in esse. La coscienza qui si rivolse ad una regione superiore al di sopra della natura, in quanto l’astro stesso appartiene ad una sfera superiore rispetto alla semplice natura. Chi non prova riluttanza a definire le stelle opere della natura nello stesso senso in cui chiamiamo così senza esitazione le altre cose? E inoltre notevole che il nome “astro” è formato analogamente a quei termini di cui non si costruisce volentieri il plurale. In tutto ciò che è astrale solo uno è l’autentico astro, e questo uno era oggetto di quell’antica religione, che fu la prima effettiva coscienza dell’uomo. Il culto originario non valeva solo per le singole figure in cui quell’essere archetipico appariva scisso, le stesse stelle, ad esempio il sole e la luna (questo culto degli astri materiali ha una data successiva e vedremo in seguito come avviene il passaggio ad esso), dunque il culto originario non si riferì immediatamente alle stelle, a queste singole figure in quanto tali, ma solo a quel puro essere stesso, che certo era già scisso, ma intimamente era ancora sempre quel principio positivo, la cui forma da lungo tempo sublimata nel mondo esteriore dona proprio come prodotto di tale sublimazione l’essere individuale: quel principio che appunto per questo non può essere contemplato con il senso della vista, perché, per essere visibile, deve esser già stato visto. Se dunque questo fu il senso della più antica religione astrale, siamo autorizzati a risalire a partire da questo senso di nuovo all’indietro all’origine, dal che segue di per sé che: 1) la più antica umanità non poteva essere ricondotta dalla visione sensibile a quell’elemento astrale, che non poteva essere contemplato sensibilmente, in quanto esso è appunto ciò che non può essere contemplato sensibilmente. Tantomeno: 2) ci si sentirà propensi ad affermare che quell’antichissima umanità aveva riconosciuto questo principio archetipico dell’essere con l’intelletto, così come certamente noi lo riconosciamo con l’intelletto. Sarà dunque anche necessario ammettere che la più antica umanità fu spinta in quella sfera del puramente astrale solo da un passaggio interiore, per quanto per lei stessa inconcepibile, e che ciò che credette e venerò propriamente nelle stelle non fu l’aspetto materiale, mobile, ma fu piuttosto il principio, il fondamento intimamente nascosto di tutto il moto celeste o siderale. Devo ancora aggiungere una prova, da cui a mio giudizio si chiarifica in modo inconfutabile che questa antichissima religione non poggiava su una rappresentazione soggettiva ma su di un fondamento reale a cui la coscienza era sottoposta. Prima voglio tuttavia sintetizzare nuovamente la mia teoria della religione astrale; è importante che voi comprendiate con chiarezza questo primo grado del processo mitologico». (Filosofia della mitologia, tr. it., Milano 1990, pp. 36-37).
Machiavelli tiene conto delle intuizioni sviluppatesi nella cultura rinascimentale riguardante la natura delle cose e la forza intrinseca che le muove. Si tratta di una contrapposizione tra la logica divina e la logica naturale della realtà.
L’antica presenza offuscante del divino, la quale se poteva svolgere una funzione nell’ambito del potere degli Stati, non poteva non degenerare impedendo una visione oggettiva della realtà, viene in questo modo radicalmente messa da parte.
La spinta razionalizzante sviluppa un altro passo in avanti. Nelle cose non c’è più una presenza divina, ma c’è solo una tendenza a specificarsi, a muoversi, a moltiplicarsi, a diffondersi, a dilagare. È la naturalità dei corpi, nella sua concretezza, che permette questo andamento circolare di sviluppo. In molti autori dell’epoca, questa forza naturale delle cose è considerata sempre un’elargizione divina, comunque è di già un passo avanti che venga individuata come elemento attivo della realtà.
L’avere contrastato questo movimento, secondo Giorgio Colli, spinge Nietzsche alla critica della religione cristiana: «La sua stessa grande polemica contro il cristianesimo non si rivolge tanto contro il cristianesimo primitivo (a parte l’attacco contro la pietà, che in fondo è un attacco a Schopenhauer con la fedele applicazione del pensiero di Schopenhauer, poiché la pietà non è tanto un sentimento animale quanto un sentimento umano mediato e condizionato dalla ragione) quanto contro la Chiesa cristiana, che innalza su un piedestallo la ragione e disprezza l’animalità. Ugualmente, in Nietzsche, l’attacco contro il mondo moderno (uguaglianza, benessere eccetera) è un attacco contro il predominio astratto della ragione». (La ragione errabonda, op. cit., pp. 128-129).
Questa forza delle cose si dovrebbe identificare con la potenza, quindi con la possibilità del mutamento, attivo o passivo, in meglio o in peggio e la correlativa possibilità di resistere a qualsiasi mutamento.
Nella Metafisica (5, 12, 1019a, 15), Aristotele sviluppa quegli aspetti che sono passati senza modificazione in quasi tutta la storia della filosofia. Il Rinascimento li ricevette quindi intatti. Ma qui, il ruolo della potenza viene modificato, in quanto si accentua l’aspetto del passaggio all’atto, piuttosto che la semplice forma delle cose, cioè il fine immanente che esse hanno secondo Aristotele. Da notare quindi l’aspetto attivistico di tutte queste considerazioni. La potenza che resti mera possibilità, non viene presa in considerazione e finisce per diventare impossibile, una contraddizione logica.
Se ogni modificazione della realtà, sostengono i pensatori rinascimentali, che in qualsiasi modo si rifanno ad Aristotele, per potersi realizzare deve dipendere da un fine che si trova fuori della realtà stessa, per cui scompare ogni senso nell’azione dell’individuo e ogni possibilità d’autonomia per l’individuo stesso.
Se le cose non hanno in se stesse una capacità attiva, un elemento propulsivo di natura energetica, che li spinge verso l’esterno, verso l’altro da sé, non si può parlare di cambiamento effettivo nelle sostanze, l’uniformità assoluta sostituirebbe la molteplicità del reale e lo scopo, pur continuando a riflettersi su questo genere di sostanza, non avrebbe più la capacità di procurare modificazioni.
XLVIII
La conclusione rinascimentale riguardo la natura della realtà è quindi che esiste un rapporto armonico esterno, in funzione del quale la sostanza si armonizza a partire da una potenzialità intrinseca attiva. Questo rapporto ha le caratteristiche dell’armonia.
In questo senso, concludeva il De fato Pietro Pompo-nazzi, scrivendo: «... se ammettiamo che le anime umane siano mortali, come io sono convinto che pensassero gli Stoici, non ne deriva, a mio parere, alcun inconveniente. Infatti, se l’anima è mortale, non è più crudele che alcuni siano oppressi da altri, alcuni dominino ed altri servano, e anche che uno divori l’altro, di quanto lo sia il fatto che il lupo divori la pecora e il serpente uccida gli altri animali. Se infatti l’uno di questi due fatti serve all’armonia dell’universo, anche l’altro ha la stessa funzione; giacché, se non ci fossero tali mali, si toglie anche il bene». (De fato, tr. it., Bari 1973, p. 21).
Riguardo al problema della fortuna, è stato notato che esso costituisce una sorta di contraddizione nel pensiero di Machiavelli. Riguardo al Principe, a esempio, Federico Cha-bod ha messo in rilievo il fatto che tutto il libro ha uno sviluppo logicamente consequenziale, mentre l’ultimo capitolo si presenta come un cedimento nei riguardi del sentimento. Mi sembra che lo sviluppo del libro non presenti questa contraddizione. In effetti, la fortuna è padrona di una parte degli accadimenti umani, ma anche la volontà gioca il suo ruolo nella prospettiva di modificazione.
La funzione della volontà può quindi essere quella correttiva nei confronti di un comportamento irregolare della realtà, cioè un comportamento che fa presentare eventualità non proprio prevedibili.
Così, gli elementi irrazionali vengono accettati come possibili, in un certo senso messi nel conto, e quindi razionalizzati. In questo modo, l’uso strumentale della religione assume un ulteriore significato. In altre parole, da elemento irrazionale, pensato come agente in modo autonomo, controllore e giudice esterno, lo si determina alla partecipazione regolativa di avvenimenti non prevedibili, all’interno di una forma logica precisa, quella del mantenimento del potere.
Così Schopenhauer: «Vi è poi un’altra dottrina originaria ed evangelica del cristianesimo, che Agostino, col consenso dei capi della Chiesa, sostenne contro le sciocchezze dei Pelagiani, e che Lutero, com’egli stesso dichiara esplicitamente nel suo libro De servo arbitrio, cercò di purificare dagli errori e di porre in evidenza, la dottrina, cioè, che la volontà non è libera, ma originariamente soggetta all’inclinazione al male; che perciò le sue opere sono sempre peccaminose e manchevoli, e non possono mai soddisfare la giustizia; che, infine, non mai le opere, ma solo la fede salva; questa stessa fede però non deriva da un proposito o da una libera decisione; bensì dall’azione della grazia, senza la nostra partecipazione, come se ci venisse dal di fuori». (Il mondo come volontà e rappresentazione, I, 70).
XLIX
Machiavelli mantiene un atteggiamento non solo antireligioso nei riguardi del cristianesimo, ma quasi pagano. Il suo suggerimento non è diretto ad una trasformazione dello Stato in senso religioso, ma, al contrario, ad una valutazione della religione in senso laico, come strumento del potere. Agisce in lui anche l’antica critica pagana nei confronti del cristianesimo, in base alla quale questo ha influenzato negativamente l’antica virtù statale e ha trasformato gli uomini in esseri deboli e privi della forza che una volta caratterizzava le repubbliche greche e romane.
Oggi sappiamo come questa forza politica sia un’illusione dell’ottica storica, sappiamo come qualsiasi gestione del potere abbia caratteristiche abbastanza uniformi e come sia illusorio idealizzare la democrazia greca, allo stesso modo in cui è illusorio idealizzare le virtù romane della repubblica.
Occorre anche ricordare che uno degli scopi di Machiavelli è quello di riflettere all’interno di quella concezione della natura che si andava consolidando nell’epoca sua, risultato considerevole di tutta la prima metà della filosofia rinascimentale.
La posizione dell’uomo, all’interno di questa concezione della natura, assumeva grande importanza, ma nello stesso tempo metteva in luce anche la naturalità umana, cioè il fatto che anche l’uomo faceva parte del medesimo processo naturale, quindi poteva essere esso stesso manovrato, allo stesso modo in cui si manovrano le forze naturali, attraverso la magia e perfino attraverso l’imbroglio.
Proprio nell’ultimo libro di Tito Livio esaminato da Machiavelli, al paragrafo 40, si legge della storia di un auspicio che, pur essendo inventato, risulta essere favorevole solo per il fatto di essere stato enunciato. A chi gli faceva notare il fatto, il console Papirio rispose che poiché l’auspicio era fatto in modo da annunciare cose favorevoli al popolo e all’esercito romano, era un buon auspicio.
I Greci e i Romani avevano una differente attitudine riguardo all’utilizzo dei segnali divinatori. Li impiegavano sempre a proprio vantaggio, ma seguivano due strade differenti.
«Presso i Greci, scrive Auguste Bouché-Leclercq, l’auspiciante poteva accontentarsi del primo segnale, se era favorevole, o lasciare passare quelli cattivi per attenderne uno migliore. Poteva ancora, cosa più sicura e che divenne d’uso ordinario, farsi annunciare prima da un suo assistente in quale direzione gli uccelli volavano e come cantavano, e se questo corrispondeva con un augurio positivo accettarlo come definitivo. Questo annuncio, renuntiatio, si faceva secondo una formula sacramentale e costituiva un auspicio equivalente in tutto e per tutto all’auspicio reale». (Histoire de la divination dans l’antiquité, vol. IV, ns. tr., Parigi 1879-1882, p. 202).
Mentre i Greci, per come appare, modificavano la forma delle pratiche religiose, i Romani modificavano la sostanza lasciandone intatta la forma. Per la dichiarazione di guerra, come sappiamo, si doveva scagliare un giavellotto nel campo nemico. Quando i nemici erano lontani, si prendeva un prigioniero, gli si faceva acquistare un piccolo campo al Flaminio e qui si scagliava il giavellotto rituale, rendendo giusta la guerra.
Allo stesso modo, poiché gli auspici erano obbligatori quando si iniziava una battaglia, e dovevano essere favorevoli, e poiché dovevano farsi soltanto sul Campidoglio, il capo d’un esercito che combatteva in terre lontane, faceva costruire un piccolo Campidoglio e qui provvedere agli auspici, che poi utilizzava come visto prima.
L
Con Machiavelli si riflette in modo chiaro, forse per la prima volta, sul modo in cui queste manipolazioni attengono anche all’uomo, e su come anche quest’ultimo possa essere sottoposto ai processi che avvengono nelle forze della natura.
La concezione della natura come insieme di fatti esclusivamente terreni, ha un’importanza notevolissima, in quanto ci si avvicina ai fenomeni, che s’inizieranno a misurare fra poco, senza la lente deformante della religione.
Ciò permetterà il passo regolamentativo dell’individua-zione all’interno dell’insieme di questi fenomeni di leggi e forze meccaniche, passo che darà uno sviluppo considerevole nel senso della scoperta di un mondo nuovo. Sconsacrazione della natura e quindi parallela sconsacrazione dell’uomo.
Questa impietosa visione della realtà umana, parallela a quella della natura, mette a fuoco le negatività dell’uomo. Le qualità positive sembrano passare in secondo piano. Non che la religione avesse la funzione di valorizzare i comportamenti etici dell’uomo, ma ne interpretava le vicende in una prospettiva che poteva anche giustificarle, ponendone la logica interna in rapporto ad un piano del tutto diverso, quello ultraterreno.
Con queste considerazioni, e quindi anche con quelle di Machiavelli, il discorso etico viene momentaneamente abbandonato nell’ambito delle riflessioni religiose, e sull’uomo si sviluppano le constatazioni più immediatamente visibili, e la storia, interpretata in questo modo, appare un susseguirsi di violenze e disastri. Ecco perché l’uomo in Machiavelli appare come un essere esclusivamente violento, prevaricatore e cattivo.
La costruzione d’uno Stato forte deve tenere da conto questa natura malvagia, tanto le qualità positive dell’uomo, di cui dal punto di vista del potere non saprebbe cosa fare, possono essere sempre recuperate con l’utilizzo dei rapporti religiosi, impiegati come strumenti di governo.
Un equilibrio tra astuzia e forza è pensabile solo manovrando l’uomo spregiudicatamente, tenendo conto della sua sostanziale cattiveria, e tenendo conto principalmente del fatto che gli uomini dei piccoli torti si vendicano, dei grandi non possono.
Lo strumento che viene consegnato nelle mani del futuro sviluppo storico, è fortemente razionalizzante, mettendo in luce le possibilità concrete della costruzione del nuovo Stato e del movimento politico relativo. Con Machiavelli, per la prima volta, la conquista del potere e la sua gestione ottimale diventa un fine riconosciuto. Ha scritto Mario Albertini: «Il carattere politico dell’azione umana emerge quando il potere diventa un fine, viene ricercato in un certo senso per se stesso, e costituisce l’oggetto di un’attività specifica». (La politica e altri saggi, Milano 1963, p. 9). Con Machiavelli si entra nella storia moderna, con tutti i problemi che questo comporta. Il mondo antico è defini-tivamente tramontato.
«Che l’uomo sia un composto di due nature, lo dimostriamo mediante un altro principio egualmente incontestabile, e cioè che non esiste un solo essere che vada spontaneamente incontro alla sua distruzione, tutto al contrario, fanno i loro sforzi per salvare e conservare, per quanto dipende da loro, la propria esistenza. Posto questo principio, quando si osservano certi uomini darsi la morte, si comprende ben chiaramente che non è la parte mortale del loro essere che si dà la morte, bensì una parte differente e migliore che non può perire con il corpo, e che non gli è subordinata, come invece accade in tutte le specie mortali che sono legate e sottomesse ai corpi, e quindi incapaci di sopravvivergli quando questi periscono. Perché se questa parte del nostro essere dipendesse dal corpo, non gli opporrebbe resistenza sino a giungere a un tale eccesso di violenza, e neppure in altre cose di minimo conto. Ma avendo un’essenza propria e che sussiste per se stessa, nel momento che ha giudicato che la vita comune con l’elemento mortale non le sarebbe più utile (che abbia giudicato bene o male poco importa), essa uccide questo corpo come qualcosa che le è estraneo e si libera così d’un compagno che le appariva malvagio e inadeguato».
(G. G. Pletone, Traité des lois, tr. fr., Paris 1858, p. 243)
L’ambiente culturale tra Quattrocento e Cinquecento in Italia
Il secolo più significativo della nostra storia letteraria è certamente il Quattrocento. Anche senza mettere da parte completamente la lezione di Giuseppe Toffanin, e anche se non si vuole modificare l’assetto organizzativo storiografico, c’è da ripercorrere un territorio, o per meglio dire, i territori, cambiando la prospettiva interna (storia di forme, di generi, di poetiche, intervallata da più consistenti tentativi monografici) con un’altra prospettiva, che per intenderci chiamerò esterna, ma che in realtà, più che lo sfondo, rappresenta il movente strutturale delle modificazioni cui abbiamo assistito.
Se si guarda, anche nel classico modo pratico e quantitativo, ai suoi luoghi di nascita e di diffusione, la letteratura del primo Cinquecento (più particolarmente dei primi quarant’anni) appare evidentemente divisa fra due grandi regioni o punti di riferimento sociopolitici: Firenze, con appendici toscane, e le corti padane, alle quali si deve aggiungere la ormai contratta Napoli tardo-aragonese e spagnola e, in veste di grande spazio collettivo, la corte pontificia romana.
Più tardi, dopo gli anni Trenta, questo spazio sarà catturato da Venezia, ma con presupposti politici e forme di rapporto assai diversi: infatti, a parte le soste di intellettuali aggregazione culturale nazionale, nella progressiva eclissi delle corti, luogo d’incontro, nel delicato momento della formazione, di umanisti e filosofi, di naturalisti e di medici da ogni parte d’Italia.
Il riaffiorare, dopo l’interruzione umanistica, degli antichi centri universitari, da Padova a Bologna, da Pisa a Pavia, è uno dei molti segnali della modificazione dei rapporti di fondo e della crisi della nascente classe dirigente borghese che dà all’ultimo cinquantennio del secolo spunti di restaurazione medievale, di ritorno alla feudalizzazione, di nuovo l’inserimento dei funzionari nelle varie burocrazie statali torna a passare attraverso un organico cursus studiorum, di nuovo la cultura scientifica dei naturalisti torna a scindersi, a divaricare i suoi spazi dalla filologia e dalla retorica, dalle arti del vivere sociale, tra le quali l’estetica cinquecentesca comprendeva l’arte poetica.
E anche in questo senso, la scuola di Padova fu all’avanguardia; e non è forse un caso che proprio qui cominci a ricevere le prime attenzioni esegetiche la Poetica aristotelica, emergente strumento di controllo e di uniformazione “scientifica” del proliferante sperimentalismo che aveva contrassegnato la ripresa dell’esperienza “volgare” a far tempo dalla fine del Quattrocento.
La critica moderna si indirizza così, con una generazione di tecnici capaci di approfondire l’analisi delle forme, le tecniche retoriche, le strutture e l’organizzazione del testo, a leggerne i nomi, ci si accorge che pochi sono estranei all’area dello Studio di Padova e alle sue immediate adiacenze (da Sperone Speroni a Francesco Robortello, da Vincenzo Maggi ai toscani Benedetto Varchi e Alessandro Piccolomini). Ma non c’è soltanto un’istanza scientifica, magari assorbita dalle antiche tradizioni aristoteliche, c’è anche, e più di tutto, il bisogno di un nuovo tipo di organizzazione degli spazi culturali, implicitamente il senso crescente d’una modificazione di princìpi e di istituti teorico-politici, che coinvolge le più attente avanguardie intellettuali.
L’enorme numero di commenti, di dibattiti, di tentativi esegetici che la Poetica sviluppa, nel giro di poco più di quarant’anni, quando fino a quel momento era bastato per secoli Orazio, è tra l’altro il segno che, insieme alle forme istituzionali ereditarie della letteratura, sono in crisi, e quindi vengono cambiate, anche le collocazioni e le funzioni degli intellettuali, un tempo salvaguardate da pregiudizi irrazionalistici e religiosi o da particolari riconoscimenti di pubblica utilità.
Qui si discute proprio dell’utilità di ciò che essi producono, della poesia e della letteratura in questione, tra edonismo e moralismo, tra poesia come gioco, come dilettosa invenzione, e poesia come messaggio etico-morale, come dottrina primaria dei valori, il dibattito fu lungo e acceso.
Tutto sommato alla fine del secolo, alle soglie del Seicento, era la prima tesi a prevalere quasi ovunque, fuorché a Firenze, tra gli eredi degli intellettuali di fine Quattrocento, e in alcune singolari esperienze accese di antagonismo religioso e spirituale (Bruno e Campanella).
Bisognava anche dare istruzioni, offrire parametri tecnici e formali, indirizzi di strutture e di mantenimenti istituzionali, a una attività e a dei produttori alla ricerca di spazi diversi, una volta crollato il carattere liberale e gratuito delle ideologie pedagogiche quattrocentesche, una volta tramontata la possibilità storica di un simile modello di rapporto fra attività umanistiche, creazione artistica e potere.
La Poetica rappresenta non solo una disponibile miniera da cui cavare modelli, ma a sua volta un modello che autorizza a separare, analizzare, ricostruire a parte il profilo sistematico dei “generi” e delle relative implicazioni o differenziazioni formali. In breve, fu l’autorizzazione ad istituire una scienza della poesia unita alla Retorica, una scienza quindi della letteratura, che le restituisse una posizione e una funzione identificabile nel ciclo dell’esperienza cognitiva, accanto alla dialettica, alla logica, alla stenografia e alle scienze naturali stesse, ivi compresa la ragioneria. In secondo luogo, la Poetica rappresentava anche una via di liberazione dalla dipendenza nei riguardi dei prototipi, classici o trecenteschi, verso i quali già serpeggiava qualche inquietudine pericolosa, come un remoto indizio di polemica.
Ciò che appunto intravide nell’opera aristotelica la generazione di intellettuali attivi a Padova intorno agli anni Quaranta, nell’Accademia degli Infiammati prima di tutto, fu l’offerta di un procedimento riduttivo, secondo i parametri di un naturalismo sistematico e razionale, all’interno di una “funzione”, come la si definiva, fino ad allora dilatabile in senso fuori ruolo, nel mito pseudo-platonico dell’illuminazione e dell’onniscienza demiurgica, un mito che da qualche tempo era mediato da una consuetudine di ritorno verso l’ossequio regolamentare, di normalizzazione imitativa. A esempio, gli ultimi sbocchi creativi degli umanisti, dal De partu Virginis di Sannazaro alla Christias di Marco G. Vida, ruotanti a Roma negli anni prima del “sacco”.
Ricerca di formule e retroscena di una vita impoverita, sottomessa a una regolamentazione formale di forme metastoriche, quasi incapace, una volta morto, e non solo fisicamente, Ludovico Ariosto, di ricongiungersi alla propria, sempre più turbata realtà, ostacolata dall’arrivo di schemi statici e monotematici, malgrado i non pochi traumi che aveva attraversato il periodo precedente.
Strumento di un’operazione riduttiva, approccio a una differente identificazione delle forme e delle competenze professionali dei produttori di forme, l’esegesi della Poetica rivelava, in quella generazione, anche un disagio non sempre organicamente decifrabile, almeno per quanto riguarda la sua genesi, che non fu certo univoca.
Si diffondeva, evidenziandosi in alcune punte di avanguardie accademiche, una sorta di spinta alla modificazione dei tradizionali rapporti tra modelli culturali classici e prassi letteraria.
A tratti questa tensione poteva anche manifestarsi in rigetti, sintomi di insofferenza antiumanistica o antitrecentesca, nel caso di modelli “volgari”, ma molto più spesso si palesava come tendenza al perfezionamento e alla revisione in senso attuale delle forme classiche, attraverso tutta una serie di programmi teorici di costituzione poetica o attraverso opere-manifesto come la Canace di Sperone Speroni o l’Orbecche di Giovan Battista Giraldi Cinzio, esempi inarrivabili di attività artistica che vive sotto il segno della sperimentazione di un disegno critico, arte che si presentava subito come tautologia bella e buona.
In questo periodo di sperimentazioni e di tentate conciliazioni tra differenti ipotesi e modelli formali, rimase coinvolto, com’è ben noto, anche quello che seguendo Francesco De Sanctis si potrebbe definire il “mondo intenzionale” di Torquato Tasso.
Affiorava così, aebbene a livelli astratti, una condizione di antagonismo nascosto verso il passato, una sorta di insofferenza parimenti distribuita, sia verso la recente esperienza intellettuale tardo-quattrocentesca, nei suoi risvolti caotici, e nei suoi risvolti più accesamente idealistici, che verso il perpetuo assedio degli esemplari più antichi, da escludere Petrarca, e forse no almeno fino ad un certo punto; una condizione difficilmente valutabile da un punto di vista ristretto, sempre più difficilmente riconducibile, come puntualmente è stato fatto nell’Ottocento, ad un semplice riflesso di problemi congiunti, quali la sudditanza dell’Italia nei riguardi della Spagna e le sospette insistenze repressive della politica culturale tridentina.
La verità è che l’indagine storica deve abbandonare queste macroscopiche considerazioni per rivolgere attenzioni più minute e articolate ai vari punti confluenti, attraverso un’analisi reale delle tante e complesse alterazioni che già da prima avevano investito o predisposto i sotterranei tessuti sociali e politici.
In caso contrario c’è il rischio, non solo che tutta questa inquietudine rimanga un indistinto fenomeno marginale, ma che da qui nascano periodizzazioni errate e etichette di moda approssimative il cui fondamento risiede proprio nell’assunzione a livello esplicativo di ciò che ancora deve essere chiarito.
La presentazione dei gruppi sociali e dei relativi modelli di intellettuali dovrà qui essere sommaria. Vale la pena però di tentare uno sforzo nella direzione di questo multiforme panorama, dagli anni in cui le divaricazioni si fanno più nette, cioè dagli anni a cavallo fra i due secoli.
In questi anni, i gruppi sociali che costituiscono rispettivamente il primo livello di richiesta e in vario modo la stessa sollecitazione produttiva, il termometro di organizzazione interna, di espansione o di sclerosi delle forme, sono prevalentemente la tarda borghesia comunale fiorentina e le aristocrazie aggiunte alle varie corti o continuamente in movimento dall’una all’altra. In entrambi i casi le due denominazioni esprimono un modello d’organizzazione politica, un ambiente ideologico e un tipo di processo mentale, più che singole condizioni sociali degli intellettuali operanti in quegli ambiti o la somma collettiva del pubblico.
Nell’uno e nell’altro caso infatti possono verificarsi casi di assunzione nella cerchia sia di intellettuali che di strati di pubblico subalterni, naturalmente nei limiti della loro acculturazione.
Sono due circuiti contigui, ognuno però con una sua storia e un suo spazio prospettico, insieme differenziati e interagenti, a volte contrastanti e a volte confluenti, mai tanto che non si possano segnare in ogni caso visibili linee di specificazione, zone di particolarità altrove inammissibili.
Se si guarda a esempio alla storia di alcuni “generi”, come il romanzo, è facile constatare che dopo la deformazione dovuta a Luigi Pulci, la cultura toscana non ha più prodotto, almeno fino all’espatriato, e perciò fuori contesto, di Luigi Alamanni, un solo romanzo o poema eroico classificabile a un qualche livello di dignità formale. Mancata risposta, si direbbe, a una mancata richiesta, che investe anche le prime forme prosastiche del romanzo, le riduzioni o nuove trascrizioni “cortesi” di modelli boccacceschi secondari, come il Filocolo, il romanzo arcadico e il romanzo bizantino. È un’eccezione solo apparente, in quanto richiesto da un mercato culturale prevalentemente padano, il rifacimento dell’Orlando Innamorato di Matteo Maria Boiardo da parte di Francesco Berni.
Tutta una zona di letteratura destinata a una fruizione evasiva, avventurosa, liricheggiante, lacrimevole, sembra esclusa dai circuiti della cultura borghese del tardo comunalismo.
In qualche modo, anche le forme liriche codificate da Pietro Bembo avranno difficoltà poi a far breccia, non mancano certo, da quello dello stesso Alamanni a quello di Benedetto Varchi, canzonieri molti ricchi di autori fiorentini, ma si tratta spesso di un costume fatto rientrare, particolarmente dopo il 1540, da intellettuali che avevano fatto tirocinio a Padova sotto la pratica del bembismo, a esempio Benedetto Varchi, Ludovico Martelli, Giovan Battista Strozzi, ecc.
A Firenze, il loro petrarchismo regolamentare trovò sempre la resistenza di strutture mentali incerte tra lo storno giocoso o satirico del mito formale, tipico dell’Accademia degli Umidi, e un prevalente impegno ideologico e moralistico, intriso talvolta di feroci infiltrazioni savonaroliane e di residue tensioni repubblicane.
Sono esclusi da questo elenco, in quanto individualmente estranei al modello, sia Michelangelo che Giovanni Della Casa, protagonisti comunque d’una drammatizzazione della coscienza lirica assai lontana dai presupposti esornativi e mitizzanti dentro cui il petrarchismo era tornato a codificarsi. La penetrazione del modelli è forse più forte nelle culture comunali circostanti, Lucca di Giovanni Guidiccioni e di Chiara Matraini, Siena di Claudio Tolomei, Perugia di Francesco Beccuti, ciascuna delle quali richiederebbe un discorso a sé.
Tenendo conto del profilo dei modelli tutelari, il Cinquecento fiorentino è dantesco quanto il Cinquecento “cortese” e comunque extra-toscano è prevalentemente petrarchesco, con tutto quello che queste diverse scelte implicavano, tenendo anche conto di una certa radicalizzazione che si andò sviluppando tra i progetti culturali che in esse emblematicamente si identificarono.
Il secolare dibattito che ha preso il nome di “questione della lingua” e che, per quanto attutito, attraverserà tutto il Seicento, fino a fare confluire alcuni dei suoi fermenti nell’area dei dibattiti illuministici sempre rinnovati, fu prima di ogni cosa un segnale, invadente, esplosivo, degenerante nella futilità accademica quanto si vuole, ma in sé tutt’altro che puramente formale, di un permanente stato di conflittualità, tra culture che affondavano la propria coscienza storica e la propria ideologia sociale su terreni e su livelli di pubblico fortemente differenziati.
Per una esperienza intellettuale come quella cinquecentesca, che ereditava dal Quattrocento umanistico l’obbligo modellistico e istituzionale di codificare le proprie scelte su parametri esemplari, il dibattito sui modelli si trasformò naturalmente in una sorta di campo d’azione su cui andavano a scaricarsi, travestiti in teorie formali o in gerarchie di simboli, fermenti di fondo e discriminanti di struttura assai più forti di quelli che sembra contenere l’oggetto del dibattito in sé.
I gruppi di intellettuali che via via si andavano organizzando o sfaldando nello spazio di questa variegata geografia sociale e politica sono dunque di due tipi: da una parte, gli eredi dell’esperienza comunale conclusiva divisi da persistenti lacerazioni politiche, da inquietudini religiose e da una lotta tra ipotesi di potere che si placherà soltanto con l’avvento di Cosimo I.
Anche dopo comunque, un po’ per la resistenza delle formazioni ideologiche preesistenti ai cambi di struttura politica, un po’ perché sotto la copertura sempre più stagnante e sottilmente controllora, accentratrice di consensi, del potere granducale, continuava a vivere una classe mercantile relativamente fiorente e non del tutto feudalizzata, i caratteri principali della cultura comunale di questo periodo si trasformeranno lentamente, anche se la loro sopravvivenza somiglia ad una vicenda di arroccamenti e di clausure, non solo non c’è più in questa seconda metà del secolo la primitiva capacità di espansione, ma sopravviene anzi un processo involutivo, di natura municipalistica, in cui le vecchie istanze già egemoniche sembrano, più che contratte, mummificate, preservate sotto vetro. Si pensi, tanto per fare un esempio, al carattere fortemente arcaicizzante che il naturalismo borghese assumerà, alla fondazione dell’Accademia della Crusca, in occasione delle polemiche sopra la Gerusalemme Liberata.
Anche i giochi formali di certo popolarismo espressionistico, che avevano vivificato, perfino in Angelo Poliziano, la fase di riscoperta quattrocentesca del proprio ambito cittadino, forse non senza compiacenze e calcoli politici, questo almeno in Lorenzo, tendono a cristallizzarsi in formule esemplari, in una falsificata grammatica gergale, di fondo sostanzialmente conservatore, come accade nell’Ercolano di Varchi.
Anche la tradizione realistica, nella ristrettezza crescente degli spazi teorico-formali e nell’irrigidimento delle stratificazioni di classe, specie dopo la fine delle libertà politiche, resisterà assai più come modello critico che come spazio creativo, non solo non trova mercato la narrativa contemporanea, basta pensare alle Cene di Anton Francesco Grazzini, ma, a parte i tentativi editoriali di Vincenzo Borghini, fino al Settecento nessuno troverà il modo di riesumare e fare circolare un esemplare così autonomo come Franco Sacchetti; perfino intorno al Boccaccio, dopo le castrazioni imposte dalla Curia romana e dopo l’imbalsamazione filologica di Francesco Salviati, sembra verificarsi una caduta di interesse, e ciò mentre a Venezia si stampava una edizione ogni due anni delle Piacevoli notti di Giovanni Francesco Straparola.
L’altra ipotesi, quella cioè che all’inizio del secolo si definiva “cortigiana” e poi “italiana”, in esplicita antitesi con la denominazione “fiorentina” o “toscana” che gli intellettuali borghesi intendevano imporre alla lingua letteraria nazionale, segue un flusso d’espansione che investe presto tutti i principali centri di produzione culturale.
Si tratta di una espansione che passa attraverso una congerie di polarizzazioni e attraverso una continua alternativa di illusioni politiche che proliferano, decadono, si rigenerano altrove, sulla spinta di una classe di intellettuali relativamente nuova, che risale dagli ancora recenti isolamenti feudali dei padri verso ipotesi di coesione plurinazionale, più o meno esplicitamente sostenute dal mito di un potere saldo, aggregante, ben collegato alle grandi centrali europee, munificamente illuminato, capace di supportare, sia pure in forme miniaturizzate che restavano le sole reali, il confronto con i modelli di organizzazione centralizzante che si andavano affermando nell’orizzonte europeo, in Francia, in Spagna, nella stessa Inghilterra.
Il primo Stato in cui quel mito trovò una parziale verifica politica, di conseguenza il primo Stato in cui, fin dagli anni 1450-1460, si segue la crescita di un nuovo tipo di rapporto tra intellettuali e corte, è forse il Regno di Napoli, tra Alfonso e Ferrante d’Aragona.
Qui, per la prima volta, pur mantenendo e anzi potenziando la funzione decorativa assunta dal Petrarca a Milano, da Dante in esilio e addirittura dai poeti della prima scuola, gli intellettuali allargano, come individui e come gruppo, la loro funzione subalterna, fino a farsi non solo redattori ma protagonisti affiancati nelle scelte politiche e militari determinanti, compartecipi di una dose del potere, suggeritori di modelli comportamentali, interpreti della pratica di governo, mediatori tra storiografia e politica, propagandisti del centralismo assoluto contro i residui di dispersione baronale.
Gli intellettuali borghesi della repubblica fiorentina, gli ultimi difensori della democrazia comunale, da Bernardo Rucellai a Niccolò Machiavelli, molte cose appresero e molte ne avrebbero potute apprendere dal monarchico Giovanni Pontano, consulente aragonese.
E questo perché Napoli fu la prima, se non forse l’unica ipotesi, presto abortita, di organizzazione moderna dello Stato, in Italia: se allo Stato moderno si doveva arrivare, sul modello francese o inglese, centralizzando il potere e recidendo il maggior numero di baronie, di situazioni municipali, di privilegi settoriali, impedendo forti concentrazioni di gruppi e di interessi antagonisti, promovendo all’apparato burocratico intellettuali fedeli piuttosto che residui di vecchie gerarchie tendenzialmente centrifughe o compromesse con precedenti forme di gestione, fatalmente nostalgiche dello Stato feudale di modello angioino.
Si intende che questa nuova funzione alla quale l’intellettuale si sente chiamato a Napoli, nella Roma dei primi pontefici umanisti, a Ferrara, a Urbino, perfino nella irrequieta Milano di Ludovico il Moro, non si esauriva in un semplice sbocco di carriera, in un nuovo tipo di caccia all’ufficio.
Qualcuno qui potrebbe ritornare con la memoria agli amari affanni e alle giocose beghe burocratiche di Ludovico Ariosto, che sognava semmai l’autosufficienza della propria finzione di poeta. Si trattava di una generale modificazione della prassi, di una modificazione di prospettive in cui restavano coinvolti, al di là delle vocazioni individuali e dei singoli livelli di autocoscienza, i rapporti col pubblico, le strutture dell’educazione formale, l’universo possibile delle sperimentazioni e dei contenuti, in definitiva l’uso e la definizione stessa di letteratura.
La prima esplicita indicazione riguardo agli indirizzi formali e l’ambiente sentimentale della nuova classe intellettuale, il primo tentativo di normalizzazione strutturale dei vari dinamismi sperimentali che a fine Quattrocento s’erano esercitati sulla lingua dei modelli classici volgari e latini, l’Arcadia di Jacopo Sannazaro, fu rapidamente adottata come esemplare di una letteratura nuova, ponte tra gli esemplari trecenteschi e una prossima stagione che l’autocoscienza cortigiana degli intellettuali non riusciva ancora a precisare, ma che tuttavia si sentiva diversa, fondata su istanze ideologiche e su richieste di pubblico incomparabili ai prototipi comunali.
Non conterò qui le smentite che quel mito, della centralizzazione politica e culturale, subì via via da Urbino a Mantova, da Napoli a Milano, da Roma a Ferrara, tuttavia, a parità di impotenza egemonica, a parità di disdette politiche, il gruppo che in quel mito si identificò, e che nel suo proiettarsi sopravvisse rincorrendolo fino nel Piemonte sabaudo, fu, di fronte alla generale evanescenza di autentiche alternative di potere nel variopinto carro italiano, il gruppo guida della unificazione culturale ed intellettuale, e quindi anche ideologico-formale, che si verificò lungo tutto il Cinquecento, a livello di classi sociali dominanti.
Se si guarda, tra fine secolo e primo Seicento, non solo al frenetico movimento di intellettuali da un capo all’altro d’Italia, ma alle loro zone di formazione e di provenienza, alla rapida dilatazione e acclimatazione dei loro prodotti, si deve concludere che esiste un modulo di trasporto, non geografico né soltanto politico, costituito da una larga omogeneità di classe; ed è questo, più che i vari luoghi dove li condusse la loro spesso illusoria ricerca di potere, di benessere, di gloria o di stabilità, l’elemento coagulante dove si disperdono o si attenuano i caratteri tipici, il punto di mediazione delle antiche eterogeneità culturali.
Anche per questo il Seicento è il primo secolo in cui il dibattito culturale è sostenuto da tutto il territorio italiano.
Si prenda in considerazione l’origine dei suoi intellettuali più rappresentativi: Giambattista Marino (Napoli), Tommaso Campanella (Calabria), Galileo Galilei (Pisa, e non Firenze), Gabriello Chiabrera (Liguria), Alessandro Tassoni (Emilia), Federico Della Valle (Piemonte), Emanuele Tesauro (Piemonte), Scipione Errico e Giuseppe Artale (Sicilia), Carlo Dottori (Padova); una più vasta campionatura non farebbe che confermare questa mappa, nella sua inedita vastità.
Per la prima volta nella nostra letteratura, è difficile indicare per questo secolo centri in cui si elabori una vera e propria egemonia culturale. Se c’è un’egemonia, è, almeno fino alla prima metà, un’egemonia di classe, e questa classe è l’aristocrazia delle corti o degli eredi di vecchie nobiltà e di famiglie borghesi più o meno rifeudalizzate.
Questo è, come si potrebbe affermare, il quadro fenomenologico della situazione: da questo si dovranno trarre, senza precipitare troppo, le necessarie conseguenze sul piano delle strutture ideologiche e su quello dei caratteri sociali e politici, da cui derivò l’unificazione della letteratura e in generale della cultura critica ed estetica in Italia.
Dal Romanticismo in poi in modo programmatico, ma già prima, con Giuseppe Baretti e col gruppo del “Caffè”, si afferma, in termini di accusa, che la letteratura italiana ha caratteri aristocratici, usa strumenti formali astratti e perciò tanto più resistenti alla modificazione, ai rinnovamenti della comunicazione. In effetti, non solo furono aristocratiche le premesse ideologiche della sua elaborazione, nella fase di estensione dai prototipi comunali al territorio nazionale che da quei prototipi, da quella forma politica, non era stato investito, ma fu sociologicamente aristocratica la classe che servì da veicolo per quell’estensione.
L’incredibile privilegio, unico nella cultura europea, che ci consente di leggere autori trecenteschi, a livelli di cultura media, con scarni apparati di note, mentre in Inghilterra e in Francia si traducono, nasce da una sovrapposizione di fattori peculiari, tra i quali i caratteri di classe del gruppo di intellettuali che provocò nel tempo la fusione delle forme letterarie sono certo i prevalenti.
Da noi si verifica, e se ne sentono ancora le conseguenze, un processo esattamente contrario a quello da cui nacquero altrove le letterature moderne, dal Seicento in poi, in altre parole l’appropriazione, la decantazione, la modificazione di antichi prototipi formali nati in area mercantile e non ancora borghese da parte di gruppi intellettuali di matrice aristocratica.
Se resta abbastanza vero che la nostra lingua letteraria tecnicamente si fonda sui modelli toscani trecenteschi, è altrettanto vero che l’uso e la manipolazione di quei modelli restano storicamente affidati ad una coscienza di classe e ad una visione del mondo radicalmente diversa dall’ambito in cui quei modelli erano stati prodotti.
Questa inversione di tempi, rispetto al profilo classico delle successioni che si verificano in area europea proprio nel corso del Seicento, è la matrice di fondo di tutti i fenomeni di arretramento, di sclerosi, di progressiva esclusione, che la nostra cultura deve registrare, nel commisurarsi con le più avanzate culture europee contemporanee; ma a sua volta, ovviamente, è forma di uno specifico destino storico.
I residui della civiltà intellettuale borghese, nella misura in cui rimasero, come prevalentemente rimasero, chiusi nell’ottica municipale, asserragliati in difesa di una proposta egemonica sconfitta fin dall’ultimo Quattrocento, innamorati della propria immagine, sedotti fino all’arcaismo dai miti del naturalismo comunale, finirono per costituire, nel periodo tra la costituzione dell’Accademia Fiorentina, nel 1541 e quella dell’Accademia della Crusca, nel 1583, più un ostacolo che una reale alternativa a questo tipo di espansione.
Fino a giustificare l’insofferenza con cui buona parte dei centri culturali non toscani accolse, intorno al 1613, l’uscita del Vocabolario della Crusca, come una anacronistica gabbia richiusa sopra una ribollente inquietudine dinamica.
Allo scopo di comprendere di più la capacità di ristrutturazione omogenea, il potenziale coagulante che gli intellettuali cortigiani ebbero, è bene che al di sotto della storia di forme che è stata fin qui tracciata, si traggano alcuni fili, che riportano alle ragioni storiche e ai mondi, ai centri attraverso cui la loro egemonia andò costituendosi.
Queste ragioni storiche prendono corpo nella seconda metà del Quattrocento, si manifestano, a livello di esperienze formali, nel transito della cultura e delle educazioni umanistiche verso nuove ipotesi di letteratura volgare.
L’itinerario individuale di alcuni intellettuali di educazione umanistica, da Jacopo Sannazaro allo stesso Poliziano, dal giovane Bembo fino ai tanti testimoni intermedi di questa stagione, già allora si incaricava di precostituire una serie di antefatti che neppure i più fedeli al latino poterono poi ignorare o respingere, senza cimentarsi in un confronto, dal quale comunque l’ipotesi volgare finiva per imporsi come alternativa sempre più dilagante, e sia pure a livello quantitativo, ben oltre quei generi, dalla lirica alla narrativa al romanzo, che avevano costituito in pieno Quattrocento, salvo rare eccezioni, la sua riserva scarsamente pregiata e nello stesso tempo il suo limite estremo di tolleranza.
La possente alternativa volgare era stimolata, nel ventennio a cavallo tra i due secoli, da una sempre più marcata tensione unificante, nell’ambito delle forme letterarie che lungo il Quattrocento erano sopravvissute affidandosi agli alterni impasti dei vari volgari illustri regionali o micro-statali. Tale fenomeno – di cui il passaggio tra prima e seconda Arcadia, sul filo del toscano letterario può essere considerato l’episodio inaugurale, le revisioni del Furioso il più significativo – appare sostenuto da una pressione centripeta che non è tanto orientata in senso geografico, ma piuttosto in senso regionale.
Anche se non mancarono poli di attrazione, come la corte pontificia romana, almeno in qualche decennio ai primi del secolo, l’istanza unificatrice corre attraverso i circuiti sempre meglio saldati di gruppi di avanguardie intellettuali disseminati in ordine sparso in un grande numero di formazioni statali.
Si tratta di un flusso che oltrepassa il protezionismo implicito nella dinamica laurenziana degli equilibri tra poteri autonomi e si manifesta nel transito e nello scambio sempre più ravvicinato ed aperto di esperienze ideologiche e formali collettive, costruite anche in funzione di una loro esportabilità e potenziale reciprocità, in uno spazio di mercato che, al livello di una certa classe di intellettuali legati a formazioni signorili e cortigiane, comincia a identificarsi con tutta l’area italiana, a parte i ritardi di alcune periferie e appendici non ancora inserite, come il Piemonte e, in parte, la Sicilia.
Da questo flusso resta soltanto lambita, e poi sostanzialmente isolata, proprio Firenze, l’antica matrice di prototipi “volgari”, attanagliata dalla lunga crisi del suo sistema municipale e dai conflitti sempre più dilanianti tra i suoi contrapposti gruppi di potere.
I produttori della cultura borghese sono intellettuali di nuovo modello, di nuova estrazione sociale e politica, nei quali una formazione umanistica ormai canonica, ma non per questo neutra e priva di antagonismi intellettualistici, di toni elitari, sommandosi a una provenienza eccentrica rispetto al primitivo nucleo fiorentino, a una coscienza intellettuale formata in ambiti chiusi e non comunicanti con lo spaccato sociale sottostante, produceva una prospettiva mentale sostanzialmente inedita, in gran parte da riscoprire, e della quale non si possono qui segnare che alcuni connotati salienti, indicativi quanto inevitabilmente generici.
Il principale di essi, forse il prevalente a livello di scelte formali, risulta da una malcelata diffidenza o meglio inadattabilità a convergere ed assorbire come propria, all’atto del restauro tardo-quattrocentesco, la linea della cultura municipale borghese, nell’integrità della sua vicenda. Dante, Petrarca, Boccaccio costituiscono un esempio, prima che come tali Bembo li assumesse nelle Prose, portatori di esperienze sicuramente esemplari. Dante anzi gode in alcuni critici cortigiani, come Vincenzo Calmeta, di un apprezzamento più generoso di quello che troverà nel critico veneziano.
Questi primi prototipi si aggirano però, per la critica, e per la stessa coscienza storica cortigiana, in una dimensione estraniata da contesti reali, da ogni specificità di tempi e di ambienti, tendono cioè, come più tardi in Bembo, a radicalizzarsi, come i modelli latini della civiltà umanistica, prima di Poliziano.
Tra l’altro, per quanto riguarda il destino delle forme realistiche, sarà bene ricordare che in questo suo ciclo stagionale la cultura “cortese” dava vita nei suoi luoghi segreti, a più copie del Filocolo e dell’Ameto che del Decameron, cioè ripercorreva con più intima vocazione proprio quella zona dell’esperienza intellettuale e formale del Boccaccio che la cultura toscana tenderà poi a mettere sempre più in sordina, fino a espungerla completamente.
C’è da dire inoltre che quei prototipi, per quanto variamente pregiati, non assunsero mai, agli occhi dell’intellettuale cortigiano la funzione polarizzante ed esclusiva che più tardi, e altrove, la lezione di Bembo tenterà di imporre.
La seconda facciata, alla quale la prima si collega, dalla quale anzi dipende, risulta da una larga coscienza, non ovunque carica degli stessi sensi e tuttavia ovunque percepibile, d’essere attori e propulsori di un esordio intellettuale incomparabile ai precedenti trecenteschi.
La fisionomia e la dimora mentale di questo tipo di intellettuale, talvolta risentita a causa di un impegno tra confidente e aggressivo nelle ragioni, per quanto convulse, del presente, emergeva spesso da zone di ritardo e di clausura tra provinciale e feudale, da matrici culturali stancate da un lungo autunno e solo da poco rinnovate, attraverso l’affermazione nazionale della pedagogia umanistica e la diffusione unificante dei suoi metodi, con tutta la loro carica connaturata di rottura e di antagonismo nei confronti del periodo storico immediatamente precedente.
Tanto che molti, riandando al proprio specifico ambiente, potevano prospettarsi la propria vicenda culturale ed esistenziale sullo schermo di un passato appena intravisto, emergente da un fondo opaco di costume e di prassi intellettuale.
Questo è il caso di Baldassarre Castiglione, solo per restare a un intellettuale tra i più rappresentativi del gruppo e di questo periodo, che polemizzando con i vecchi cortigiani nostalgici della feudalità provinciale vanta i traguardi del proprio tempo, in particolare la nuova qualità delle sue scelte formali, la nuova coscienza estetica e anche l’ambito esistenziale di cui la sua generazione, quella dei nati nella seconda parte del Quattrocento, era stata insieme portatrice e testimone.
In relazione a questi connotati, affiorava in questo nuovo modello di intellettuale, quasi ovunque nell’Italia “cortigiana”, l’accentuata coscienza di una emergente alternativa sociale e formale, cioè di una potenziale capacità mediatrice e risolutrice del gruppo, tra modelli municipali e popolari e autorità d’archetipi classici: una mediazione capace di ottenere, a breve scadenza, una nuova qualità espressiva e se non proprio una nuova lingua, come alcuni sostennero nei primissimi decenni, almeno un catalogo ampliato di forme, in sostanza una nuova letteratura, fatta di presenze molteplici ma anche del superamento di ogni singola affluenza, attraverso una nuova distribuzione delle carte.
Prevaleva, sempre in questa prima fase, la richiesta di controlli meno irrigiditi, all’atto della produzione, e di una distribuzione più varia e capillare del prodotto letterario, entro una gamma di destinazioni capaci di attingere i più disparati livelli di ricezione, sullo sfondo di una rete di pubblico che si fa oggettivamente sempre più fitta e articolata, con il moltiplicarsi di partecipazioni un tempo fuori orizzonte, dai ginecei intellettuali disseminati nelle diverse corti ai funzionari periferici dei vari microcosmi statali, primi avventurosi fruitori di un incipiente mercato del libro come oggetto di brevi manipolazioni su richiesta e di godimenti evasivi di rapida saturazione.
Il tempo ci ha sottratto – ma qualche esemplare si annida ancora nelle più antiche biblioteche – l’infinita serie di epigoni che ebbe il Boccaccio “minore” e lo stesso Sannazaro, i vari Amorosi Peregrinaggi – una promessa non mantenuta o dispersa da Calmeta, – le varie Siracuse e Mergelline che adornarono per tutto il secolo le mense dei vari centri “cortesi”. Per cui, da un lato una spinta all’integrazione e all’ibridismo, più che alla distinzione, già cara invece a Lorenzo e al purismo toscano, tra forme umanistiche e forme volgari, dall’altro, a livello di strutture letterarie e di risultati stilistici, una tendenza a rimescolare le gerarchie dei generi e a sperimentare su archetipi anche non canonici le possibilità di una diversa, più libera e più rarefatta fruizione dei modelli.
Questa tendenza ad immergersi, a tutti i livelli, nella hýbris della propria stagione, una certa impalpabile noia che vi si coglie verso ogni riconversione al passato, in parte è legata alla fase ascendente di questa formazione culturale, alla sua tensione dinamica e ristrutturante, in parte risale come una matrice genetica dal fondo sociologico retrostante, cioè da un carattere tipico di questa cultura “cortese” in quanto cultura di dominio e comunque condizionata da strutture gerarchiche fisse: dalla sua preferenza per una memoria antologica, mitica e archetipa, dei propri valori, piuttosto che per una memoria di tipo storico.
Da qui la difficoltà a cogliervi una nostalgia di tempi reali – il buon tempo antico della borghesia, sempre localizzabile in una cronologia d’eventi – che non si siano trasformati, come nell’Arcadia di Sannazaro o nella ariostesca “gran bontà dei cavalieri antiqui”, in tempi assoluti. Dalla stessa matrice risale anche il carattere lirico e comunque tendenzialmente antirealistico di questa ipotesi culturale.
Questa convergenza di esperienze formali già disparate verso un mercato socialmente unificante, questa disponibilità a sollecitazioni molteplici, con implicita tendenza, assai spesso, al disordine produttivo, alla rapida consunzione ed estinzione dei formulari, il frequente esporsi di molti scrittori, e non tutti minimi, alla voracità di certi consumi e di certe mode, lasciava stratificare livelli di coscienza, modelli critici assai contrastanti, accompagnati da alterne graduatorie di convenzione.
Affiorano continuamente stadi di incertezza sperimentale, da cui restava coinvolto al tempo dei suoi Asolani, perfino un intellettuale rigoroso come Bembo.
In queste prime forme di cultura cortigiana, un aspetto non secondario è dato da un lato dal loro connaturato attualismo e dinamismo sperimentale, dall’altro dalla frantumazione geografica e politica che le insidia e dalla conseguente labilità dei loro agganci. Al fondo di strutture tanto instabili è inoltre da ricordare una certa insanabile provvisorietà e oscillazione di orientamenti, di cui è segno non ultimo la gestazione spesso lunga e tribolata di tutti i suoi prodotti più esemplari, dall’Arcadia al Furioso.
Da qui anche un accavallarsi di strati, di stadi differenziati di sperimentazione, con fatale tendenza di quelli primitivi a scendere sempre più in basso, nel corso del secolo, fino ad usi abusivi, dall’avanguardia all’appendice, come avviene appunto per il tipo di prosa lirica introdotto e nuovamente codificato da Sannazaro e destinato a imprevedibili sbocchi, nell’area della letteratura di consumo.
Nell’intreccio inestricabile di relazioni precarie, di equilibri faticosi e di strutture puntellate una all’altra, negli anni tra la fine del Quattrocento e il 1530 c’erano state troppe parabole brevi e troppe crescite strozzate, perché un sistema culturale ad esso intersecato non risultasse carico di squilibri, di repentine metamorfosi e di ripensamenti, di dispersioni e di ripiegamenti malinconici.
Il profilo è così frastagliato e contempla alternative tanto estreme che non è stato facile riconoscere che certi avvallamenti e certe cime fanno tuttavia parte dello stesso sistema montagnoso e cioè che Ariosto ha più parentele strutturali con Sannazaro e addirittura con Serafino Aquilano che con Michelangelo o Francesco Guicciardini. Vivere spazi storici comuni non avvicina quanto invece distingue l’aver radici in una formazione sociale e in una struttura ideologica diversa.
Dopo il ’10 e nel caso di Bembo anche prima, quando da più parti si cominciò a meditare un’altra volta sulla caotica condizione di questa esperienza troppo spesso giocata su ritmi di improvvisazione e su istanze caduche, certe linee di tensione che si erano non dico confuse, ma provvisoriamente appaiate, tornarono ad articolarsi entro scelte più aderenti alle premesse ideologiche e alle istanze culturali da cui provenivano, da un lato emerge, entro il rinascente sistema delle forme volgari, la tendenza umanistica di più tipica tradizione retorica e ciceroniana, volta a ricostituire, anche qui, traguardi di primati formali, costituzioni esemplari di sistemi espressivi, canoni selettivi capaci di procurare mediazioni non empiriche e sicure decantazioni, cioè un più lento e controllato dinamismo nell’operazione di rinnovamento della lingua letteraria, Bembo sarà, con le sue Prose, il padre promotore di questa linea, il suo interprete più sicuro, il suo garante più autorevole.
Ecco la rinnovata proposta umanistica dei tempi lunghi e della metastoria dell’atto formale, che tornava anche con funzione sanatoria sul moto sussultorio ed estroverso della prima esperienza cortigiana, contrapponendosi ai suoi tempi brevi, alle sue ipotesi ancora parzialmente naturalistiche e al continuo accendersi delle sue sperimentazioni.
Ma è anche chiaro – e lo sarà presto anche agli intellettuali toscani – che non solo questo primo tempo della letteratura cortigiana è in gioco. Ancora più colpita, e in modo definitivo, dalla proposta di Bembo, sarà l’ipotesi egemonica avanzata dalla cultura toscana alla fine del Quattrocento, con Lorenzo e con lo stesso Poliziano.
La scelta di modelli trecenteschi, per quanto toscani, mentre offriva a tutti un disponibile parametro unitario, arrestava ogni ipoteca naturalistica ed ogni tipo di centralizzazione dell’uso, sganciando la lingua letteraria dal flusso delle alternative empiriche o stagionali, immobilizzandone il movimento binario attraverso un rigoroso campo di codificazioni formali.
Per conferma dei tanti equilibri instabili che percorrono questa stagione, il mito del latino che sembrava entrato in crisi alla morte precoce di quasi tutti i più grandi umanisti quattrocenteschi, da Angelo Poliziano a Ermolao Barbaro, a Giovanni Pico, proprio nel ventennio tra gli anni Dieci e Trenta ha una improvvisa rifioritura a Roma, alla corte dei due papi medicei, Leone X e Clemente VII, che tra l’altro proprio in quegli anni si avviava a diventare, come dicevamo, il più importante centro cortigiano, una volta decaduta Napoli, Milano, la stessa Urbino, per non parlare dell’incipiente crisi delle corti padane.
Qui faranno capo, con Jacopo Sannazaro tornato completamente “latino” dal proprio esilio in Francia, con Bembo stesso, con Jacopo Sadoleto, con Marco Girolamo Vida, con Marcantonio Flaminio, cioè con i più importanti umanisti del tempo – tutti virgiliani e ciceroniani – miriadi di piccoli portatori di un modello di cultura certo stanco ma ancora capace di gestire una superficie sovrastrutturale non trascurabile.
Se si pensa alla qualità di certi personaggi che vi furono coinvolti, dal Sannazaro al Bembo, dall’Ariosto al polemico Erasmo, si deve concludere che alcuni tra i migliori ingegni europei, per un periodo più o meno breve della loro vita, credettero o reagirono alla centralità di questa cultura umanistica romana, ideologicamente pontificia.
All’indomani del “sacco”, Roma era coperta di una grande quantità di fogli manoscritti, cartigli e pergamene che avevano contenuto l’effimero Parnaso di una enorme colonia di Arcadi prima maniera, centinaia delle loro vite si erano intersecate e attraversate in quei decenni, provenendo da molto lontano, fino a estinguersi poco dopo, alla soglia degli anni Quaranta, lasciando tracce più o meno marcate ma sempre più opache.
Alcuni fuggirono o finirono tragicamente, altri tornarono alle remote province da cui erano venuti o si integrarono, dopo gli anni Trenta, in più solide e più arcigne strutture di potere, non pochi poi si ritroveranno difensori dell’ecumenismo e dell’ortodossia alle scadenze del Concilio tridentino. Qualcuno infine ricevette il trauma della violenza e dell’accusa morale come uno stimolo o una rivelazione catartica finendo i suoi giorni in partibus infidelium o, come Marcantonio Flaminio, sotto l’arcigna tutela dell’Inquisitore.
Ma la smobilitazione del centro romano, dopo il “sacco”, non investì solo questi e altri grossi protagonisti. Fu anche la fine e l’esilio – qualcuno trovò ancora qualche piccolo spazio in Francia o in altre corti – di uno sterminato stuolo di aggregati medi, che avevano popolato Roma prima del “sacco”, poeti di tenui occasioni, mitografi del vivere ameno, epitalamisti, bucolici dalle trasparenti e ufficiali allegorie, lamentosi epigrammisti, esoterici e cabalisti dai labirinti encomiastici e senza spessore, innografi dalle stravolte prospettive, capaci di fare convergere le più vistose metafore storiche sulla più marginale delle occasioni e incapaci di cogliere e di far risalire alla coscienza reale anche il più macroscopico segno premonitore. La tempesta riformatrice invitava ad accelerare il gioco conviviale in sé privo di senso.
Inutile fare nomi: sono tutti lì, nella Coryciana, nel poemetto De poetis urbanis di Francesco Arsilli, nel postumo catalogo delle loro sventure che fu il De infelicitate literatorum. Del resto, la poesia latina durerà ancora a lungo, dopo di loro, in Italia e in Europa.
Tale appendice quattrocentesca pone comunque un problema, se, tra i gruppi fin qui descritti, non si debba annoverare e distinguere anche un gruppo tenacemente legato ai lampi tardivi della pedagogia, della filologia, dell’imitazione umanistica, dotato di caratteri propri, di propri centri e anzi capace, per qualche decennio ancora, di imporre i propri canoni e le proprie misure ideologiche.
È indubbiamente una questione spinosa, anche perché solo l’ottica parziale che s’è perpetuata nella nostra storiografia letteraria dall’Ottocento in poi ha potuto lasciar credere che le forme umanistiche avessero ormai uno spazio marginale nell’insieme della nostra letteratura, e che il pullulare di una poesia, di una storiografia e d’un dibattito critico, etico, religioso, in latino, fosse da considerare tra i fenomeni di ritardo e di sclerosi sopravviventi in ambiti provinciali o in organizzazioni particolarmente restie a ogni tipo di ricambio.
Il che è tutt’altro che vero sotto il profilo quantitativo, deviante sotto il profilo qualitativo, se appena si pensa che erano proprio queste centrali umanistiche a mantenere i contatti con la grande filologia europea, con gli ingegni più inquieti, con gli ideologi più acuti, tra quanti si aggiravano nello spazio della Riforma, da Erasmo a Juan Luis Vives, da Guillaume Budé a Tommaso Moro, se si tratta di una letteratura di convenzione europea, quanto a diffusione e possibilità di comunicazione, non per questo è meno italiana quanto a problemi e ottica.
Una storia della letteratura italiana nel Cinquecento non sarà mai completa e realmente tale, se non tornerà ad intersecarsi nel suo tessuto con una realtà e una compresenza forte, in continua comunicazione con le sue forme, quale fu la letteratura in latino dello stesso periodo: dalla poesia alla storiografia, dalla saggistica e dal dibattito estetico alla filologia.
Vale la pena di ricordare che proprio alle Poetiche latine – da Francesco Robortello a Giulio Cesare Scaligero, da Antonio Riccoboni a Francesco Berni – fu affidata la diffusione europea del nuovo classicismo, senza parlare dell’influenza enorme di molti nostri lirici.
Riguardo alla possibile distinzione e separazione di un gruppo latino e tardo-umanistico, diremo che essa è senza dubbio possibile e consistente, sul piano orizzontale, un po’ meno su quello verticale delle radici sociologiche e delle caratteristiche ideologiche più marcate.
Mi spiego con un esempio. Ho già ricordato quella singolare galleria di umanisti scomparsi che è il dialogo di Piero Valeriano, De infelicitate literatorum. Era stato sotto Leone X tra gli animatori dell’Accademia Romana – il centro più fervido e ricercato dell’umanesimo pontificio – poi tra i testimoni del “sacco”, nel 1527. Sullo sfondo di una Roma ancora convalescente, un gruppo di sopravvissuti compie una specie di doloroso scrutinio di sventure, storiche e recenti, toccate a uomini di lettere, ed è quasi la sigla di una stagione conclusa con la catastrofe politica.
Con tipica presbiopia umanistica, l’età felice si svela ai loro occhi quando è trascorsa e si può già vagheggiare nel passato, solo che ora il passato è prossimo, appena diviso dal recente dramma. Gli uomini che qui si piangono, trucidati o dispersi, furono attori e testimoni di un’età d’oro che con loro si chiude – la stessa aria di congedo da un tempo irripetibile, aleggia nella “Lettera dedicatoria” di Baldassarre Castiglione al suo Cortegiano.
Ciò che qui mi interessa comunque rilevare è che, al di là della polemica sull’uso del volgare, l’umanesimo cortigiano, ciceroniano e virgiliano, converge anticipandoli in parte sui criteri di delimitazione cronologica e di dislocazione geografica e sociale che erano stati e saranno tipici della cultura “cortigiana” volgare, puntando in definitiva sullo stesso spazio storico per esprimere la propria autocoscienza e il proprio distacco dagli archetipi.
Un simile processo di appropriazione, estensione e decantazione segnava, da parte della cultura “cortigiana” volgare, l’espandersi del dibattito coevo sull’uso dei modelli storici o naturali; e anche in quel caso, i sessanta o ottanta anni dalla metà del Quattrocento in poi costituivano lo spartiacque di un versante in ascesa, un deciso voltar di pagina rispetto al proprio trascorso ambiente.
L’identificazione tra i due spazi temporali finisce così per risultare tanto compatta, che neppure la diversità dei modelli culturali cui essa si applica basta a smentirne il fondo omologo, una coscienza di classe può comportare modelli culturali diversi e le più ricche articolazioni, in questo senso, ma difficilmente devia dallo spazio che le appartiene e che sente determinato, qualificato dalla propria emergenza storica.
Per la stessa ragione a Firenze gradualmente tornava la nostalgia dell’aureo e puro Trecento. C’è qui una sorta di moltiplicazione di rinascimenti – quello vagheggiato dal Castiglione e quello sognato da Piero Valeriano – che però si collocano sullo stesso fondo storico e si attrezzano su identiche strutture sociali e politiche.
Da questa periodizzazione si espresse, ai vari livelli teorici che qui interessano, una spinta dinamica concorde, che trova più o meno consapevolmente le sue radici alla metà del Quattrocento, nel tempo in cui entrò in crisi il separatismo politico degli Stati italiani, quando il confronto cominciò ad aver per oggetto la supremazia tra sistemi collegati.
Si incontravano così, in questa identificazione di spazi, ideologie che a prima vista possono apparire inconciliabili, come quelle che da un lato fanno capo al mito umanistico del grande restauro, dall’altro alle inquietudini attualistiche e sperimentali, alle concezioni antinormative e scarsamente proclivi alla sacralità delle forme, che affiorano dalla cultura cortigiana volgare.
Ma per la verità, se questi ultimi caratteri possono apparire, e in parte furono, una risposta della nuova vitalità cortigiana all’ottica difettosa del più tradizionale umanesimo, in realtà questa cultura accoglieva tra le sue premesse l’avvento delle forme umanistiche come momento centrale della propria acquisizione di coscienza e come diga tra presente e passato trecentesco, municipale e borghese.
Anche sul terreno più pratico dell’utilizzazione delle offerte linguistiche e formali, mentre la cultura fiorentina andava rivendicando purezze originarie, autonome da preservare.
Le scelte cortigiane riconoscevano invece – e lo riconosceranno fino a Torquato Tasso e fino ad Alessandro Tassoni – un prima e un poi distinti dalla riscoperta dei modelli classici, parlavano di una persistente gracilità qualitativa e quantitativa del volgare letterario, della necessità di arricchirlo e nobilitarlo riversandovi il magistero formale degli scrittori latini, anche dei meno classici e frequentati; e il loro ritorno, galleggiando in sospensione sulle forme più antiche e municipali, costituiva anche il reagente per una diversa periodizzazione o suddivisione di territori storici.
Viene forse dall’omologia di questo fondo la fortuna e la relativa facilità con cui Bembo riuscì a mediare le due contrapposte istanze, che erano del resto le componenti essenziali della sua formazione.
Proprio dopo il primo decennio, negli anni in cui appunto Bembo si apprestava ad aggredire insieme le sue oscillazioni sperimentali e l’insistenza egemonica del naturalismo toscano, la cultura cortigiana tendeva a mitigare notevolmente nella pratica e a far convergere verso più controllati equilibri le istanze e le inquietudini che l’avevano attraversata nei tumultuosi decenni della sua formazione.
Sono gli anni in cui Ariosto decide la revisione formale e specificamente linguistica del Furioso e in cui Castiglione si affatica alle redazioni del suo Cortegiano, dove continua teoricamente a polemizzare con ogni costrizione normativa mentre va tecnicamente appropriandosi di strutture sintattiche e di forme ortografiche sempre più aderenti alla lezione del toscano letterario, tanto che a qualche critico toscano, più tardi, sembrò opportuno saltare sopra le sue prese di posizioni teoriche e annoverarlo tra i testi di lingua.
La verità è che col declino sussultorio di certi entusiasmi politici, con la fine di certe ipotesi più fermentanti, il rischio d’una dispersione pluralistica e d’una degradazione degli ambiti formali si era fatto sentire, insieme al monito di Bembo, e tuttavia è proprio questa la fase in cui l’ideologia cortigiana acquista maggiore estensione e più ricca consapevolezza critica.
Cercando di individuare codici formali più stabili, spazi sperimentali più sicuri, e nella stessa completa accettazione del toscano letterario come matrice prevalente della lingua letteraria, il gruppo trova finalmente gli strumenti per una sempre più larga appropriazione di territori.
Tanto che la denominazione iniziale, di fronte all’acquisizione di un circuito nazionale ormai completo, tende per un comprensibile gioco di ipostasi a regredire di fronte ad una nuova e più estensiva definizione, dove i caratteri di classe si sciolgono – proprio perché si sono già affermati – in una etichetta puramente geografica.
Sono gli anni in cui progressivamente – dapprima per opera di Gian Giorgio Trissino, poi per adozione collettiva del gruppo – il concetto di lingua cortigiana si trasforma nel concetto di lingua italiana, in contrapposizione ancora una volta apparentemente geografica, in realtà sociale e politica, oltre che di classe, con la definizione “fiorentina” o “toscana” degli intellettuali borghesi, da Niccolò Machiavelli ad Agnolo Firenzuola, da Pier Francesco Gianbullari a Giovanbattista Gelli, ecc.
Prima accoppiato poi sempre più solo, l’aggettivo “italiana” assorbe e afferma sullo spazio nazionale la teoria linguistica, ma diciamo più largamente la cultura letteraria e la dottrina critica che fin qui abbiamo tratteggiato allo stato di genesi, come fermento di una nuova classe di intellettuali verso l’egemonia. In essa, più che una concreta tensione politica unitaria, resa precaria da ben note ragioni, agiva insomma una sorta di coscienza di gruppo, che fu capace per un certo arco di tempo di proiettarsi oltre la fragilità degli assetti politici bene individuabili, verso ipotesi di coerenza ideologica e verso una conseguente gestione interstatale di alcuni spazi sovrastrutturali, dalla lingua letteraria alle aspettative di costume, dalla pianificazione dei rapporti col potere a quella dei canoni formali, fino alle soglie di una sorta di “comunità estetica” che d’allora in poi non si disgrega più.
Il saldarsi e il rafforzarsi su piani regionali, di questa coscienza di classe alternativa, in concorrenza con le crisi di regime che ne paralizzarono il dinamismo e la capacità espansiva, finì per costituire il limite più resistente a quel rilancio della cultura e delle forme borghesi che le classi magnatizie fiorentine, ancora attraverso Lorenzo, avevano tentato di imporre a livello nazionale, tra gli anni Settanta e Novanta.
Da espansionistica che allora era stata, l’abile formula – e le abili pratiche – di politica culturale che rivendicava all’uso fiorentino una priorità storica ed una centralità attuale si avvia, attraverso una lunga fase interlocutoria costituita da larghe zone di rispetto per i maggiori classici trecenteschi, verso un arroccamento difensivo che culmina nella ben nota polemica tra Torquato Tasso e la Crusca, con i suoi strascichi trentennali.
Ecco il potenziale dinamico che si esprimeva, negli anni della sua genesi, da questo modello di cultura d’ambito signorile e “cortese”, per quanto breve e accidentato fosse poi lo spazio storico attraverso cui riuscì a liberare la propria capacità alternativa. Ho già suggerito alcune delle ragioni per cui molti di questi caratteri decadono intorno agli anni Trenta e nel periodo immediatamente successivo.
Su tempi più o meno brevi, con varie fasi ed esiti territoriali, si fanno notare i mutamenti che tolgono spazio all’autonomia dell’iniziativa municipale e borghese e che rendono breve – dalla fine del Quattrocento al 1530 – anche l’illusione di iniziativa politica della classe cortigiana e dei suoi incerti centri di potere.
Sono i decenni in cui, con rare eccezioni come Venezia e l’emergente Piemonte, tutta la vita e la pratica politica italiana si fanno subalterne, più chiuso l’orizzonte delle scelte, più difficili e talvolta dolorosi i rapporti dell’intellettuale con un potere, che quanto più si rinchiude in ambiti di scarsa incidenza provinciale, tanto più si fa esigente, arcigno, spesso aggressivo, talvolta addirittura persecutorio, comincia a infittirsi il catalogo delle esistenze tragiche, i caratteri sembrano farsi più irrequieti, litigiosi, ipertesi.
È la sintomatologia variamente decifrata di un malessere che ha molte radici e molti decorsi. La corte offre sempre meno protezioni gratuite e sempre più impieghi, ma onerosi, subalterni, spesso mortificanti. Il potere da condividere o coadiuvare si fa ovunque sempre più formale, intimorito da molteplici ombre, politiche e religiose.
Per quanto il mito dell’Italia sia ancora duro a morire nella cultura europea, le grazie spesso vetuste di tanti suoi mediatori si esportano con sempre maggior difficoltà, tra guerre e turbamenti religiosi.
Dalle cattedre universitarie degli umanisti professionali si ascoltano ogni anno discorsi sempre più apocalittici sulla crisi degli studia humanitatis, e in effetti essi subiscono, nei ruoli, progressive, inesorabili retrocessioni, tanto che, quando alla fine del secolo se ne assunsero il patrocinio le nuove scuole gesuitiche, neppure nelle università dotate di relativa libertà politica e religiosa – come Padova – ci furono reazioni degne di nota.
Tutto questo mentre nel resto d’Europa gli studi di filologia classica conoscevano forse la loro stagione più fervida.
La crisi arrivò a tal punto, che spesso i rettori degli Studi dovettero andare a cercarsi lettori d’umanità in Spagna, in Francia, in Portogallo. Sembra un episodio secondario in un quadro a grosse linee, ma non lo è, se soltanto si pensa ai riflessi di questo calo della domanda e della qualità sul mercato del lavoro intellettuale, alla dispersione di forze potenziali, alla crisi regressiva e subalterna che questo rigetto impose ai produttori di forme che non fossero o economicamente e socialmente autonomi o rapidamente integrabili in una burocrazia.
La rifeudalizzazione copre come può questi spazi vuoti rinviando le classi intermedie e le piccole nobiltà periferiche alle arti naturali e a quelle dell’amministrazione civile – torna di nuovo l’epoca dei medici, dei legali, dei matematici, insomma dei tecnici – creando nei centri più remoti e appartati una proliferazione di Accademie dove l’esercizio della poesia, del dibattito estetico, il culto dei classici, in certi casi anche quello delle scienze naturali, si fa quasi passatempo, sfogo e privilegio di caste locali, appartate, separate quasi sempre dai contesti specifici, di qui talvolta gli ingegni migliori o più inquieti partono per la grande avventura nelle corti.
L’estensione geografica si paga con l’irrigidimento sociale, il livellamento delle forme e la creazione di una cultura letteraria relativamente omogenea a livelli interregionali si scontra con la creazione di ristrette accademie, di circoli intellettuali quasi sempre socialmente esclusivi, sullo sfondo di una sempre più ampia degradazione dei contesti politici ed economici.
Non c’è città o grosso borgo che non inauguri, tra fine Cinquecento e primo Seicento, la sua o le sue Accademie: la storia della letteratura e della cultura secentesca si interseca quasi completamente con la loro storia.
Il fenomeno era stato inaugurato tra le più organizzate avanguardie del pieno Cinquecento, a Padova, a Firenze, nella Cosenza di Bernardino Telesio, il Seicento ne costituisce la conferma, cioè la riprova della necessità strutturale, e insieme la sua degradazione.
Ma il fenomeno non s’arresta qui e giunge, com’è ben noto, oltre le soglie del Romanticismo. Detto questo, come dimenticare che questi nodi di iniziative collettive furono spesso anche le centrali di propulsione e diffusione di tutte le inquietudini estetiche, di tutte le battaglie scientifiche, di tutte le sperimentazioni formali che fanno del Seicento un secolo decisivo nella storia della diffusione culturale moderna?
Del resto, quando una nuova organizzazione di classe comincerà ad affacciarsi, verso la fine del secolo, come eco attardata della crescita coeva delle borghesie europee, è ancora qui che compirà le sue prime prove, per limitarsi a ricordare che la fortuna di Rousseau comincia da un concorso all’Accademia di Digione.
In questo spazio sopravvivono, si trasformano, si cristallizzano e sostanzialmente si annullano, gli stimoli che un nuovo gruppo di intellettuali aveva ricevuto, tra fine Quattrocento e primo Cinquecento, dalla rottura di vecchie egemonie e di vecchi ritardi, dal progressivo riconoscersi e dalla conseguente autocoscienza di una classe che nel passato non aveva sperimentato, se non per remoti embrioni, la realtà comunale e borghese e che dal futuro si attendeva la sanzione politica della propria crescita oltre gli spazi municipali o piccolo-feudali.
Il che fu soltanto in parte. E già subito dopo il “sacco” di Roma, fin dagli anni Trenta e Quaranta, è facile scorgere, nelle stesse zone e negli stessi ambiti, un andamento regressivo della sua spinta dinamica, leggibile a livello di letteratura in una più attenta selettività nelle scelte formali, in una accentuata chiusura degli imbocchi sincronici che venti anni prima erano stati almeno teoricamente aperti alla lingua letteraria.
Segno tra tanti di una incipiente frattura tra l’esercizio letterario e quelle tensioni di pubblico che ad un propugnatore non privo di attitudini teoriche, come Castiglione, avevano offerto l’argomento di base per una richiesta di radicali interventi, nell’ambito della tradizione. Quando parlava in nome di un crescente commercio politico, ideologico, formale, capace di aprire transiti nuovi ad una nuova classe di intellettuali proiettati su territori nazionali, quando cioè parlava in nome del sogno di dominio del suo gruppo.
Rovesci ritardatari erano emersi del resto anche prima, ben prima talvolta, nell’ambito dell’esperienza cortigiana, come presentimenti di fine stagione legati ad uno specifico ambito o come effetti di cadute repentine dell’illusione e dell’attesa, dalla tardiva dedica del Cortegiano a certo sconcertante affollarsi di simboli ambigui e confusi nei Cinque Canti dell’Ariosto, per non risalire a quell’antifrasi elegiaca del vivere sociale e politico che era già l’Arcadia, territorio di fuga e di esilio da una realtà di cui non è facile leggere, sotto lo schermo lirico, tutte le implicazioni.
Comunque quell’esperienza aveva in pratica imposto, almeno nella sua fase geneticamente più viva, nel momento espansivo della sua ristrutturazione, una diagnosi conciliante e ottimista del sistema di forze da cui era emersa, per quanto fragile e compromissorio potesse poi apparire, diagnosi confermata nelle pagine più significative del Cortegiano, dove essa appare insieme antitetica e complementare, rispetto a quella sostanzialmente tragica che prima Niccolò Machiavelli, poi Francesco Guicciardini ricaveranno, sia pure con contrastanti proposte, dalla fine della gestione democratico-borghese a Firenze.
[1970], [1985], [2006]
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«Pensa nel profondo della mente».
(Cusano, De docta ignorantia, I, 3)
Annotazioni di Άμφισσα
Ho tante volte letto e riletto, negli ultimi sessant’anni, il libro essenziale di Machiavelli che sopra tutti gli altri mostra come egli non sapesse bene i suoi conti. I conti della serva sono tutte le volte al di qua o al di là di un uomo del genere.
Alleanze a progetti organizzativi, pratiche politiche e sotterfugi di cancellerie gli erano congeniali, essendo il suo pane quotidiano, ma l’uomo era oltre, abitava in cuore suo un altro territorio, non quello del sogno o dell’utopia, non quello dei sentimenti, della personale amicizia o inimicizia, della vita insomma.
E nel mettere mano al libro maledetto la sua convinzione è una, la necessità della forza, nella malignità politica e nella dabbenaggine dei più solo la forza può opporre, se non un rimedio, almeno un freno temporaneo per trovare altre soluzioni. Farsi pecore impreparate e matte è consegnarsi al nemico. Alla fine nemmeno un ordine militare nuovo, fondato su cittadini consapevoli e non su prezzolati mercenari, sembrava accontentarlo.
In questa coscienza amaramente realistica stanno i massacri che i suoi occhi avevano visto, il dolore e la morte padroni non solo di Firenze ma di tutta l’Italia, la disfatta di Venezia, la ferocia del papato.
Un fantoccio gli viene tra le mani, anzi due fantocci: Cesare Borgia e il suo boia, don Micheletto. Li studia e li usa, di quest’ultimo, lordo di sangue e di nefandezze, ne sollecita l’assunzione nella milizia fiorentina, come una sorta di spauracchio per fare paura a coloro che mettevano paura. Ma l’uomo Machiavelli e il suo piccolo, micidiale libro, sono al di qua, stanno rintanati nell’amarezza di lotte sistematicamente portate alla sconfitta. Sconfitta propria, non quella altrui e perfino della città simbolo del suo teorizzare politico, la sua Firenze. È la sconfitta propria il tema implicito del libro, nessuna guida alla ribalderia tirannica, o a un supposto nuovo principe collettivo capace di guidare il popolo ai suoi migliori destini.
La sconfitta arriva quasi senza accorgertene, anche se l’hai perseguita per tutto il tuo operare, alla fine nel vederla nei panni suoi, presentarsi quasi con naturalezza e cortesia, ti scuote nel midollo delle ossa. È un incontro che stenti a riconoscere e reagisci quasi pretendendo una sorta di clandestinità logica, un chiamarti fuori, mentre è proprio quello che volevi da tempo e che da tempo costruivi. Machiavelli tesse nel suo piccolo libro il fluido essenziale dell’epoca che gli appartiene, la ferocia bruta della forza, respira l’aria che i suoi contemporanei respiravano, impura e nebbiosa, e ce la fa respirare. Non so se avesse veramente voglie manualistiche, i suoi lettori – e sono legione – l’hanno avute e continuano ad averle. Credo invece che ci fosse in lui la fredda determinazione filosofica di aprire il cuore dell’uomo per mettervi a nudo se non proprio il boia Micheletto, almeno il suo padrone. Il fatto è che in questo cuore, nel vostro come nel mio, albergano distese sterminate pullulanti di fantasmi ordinati ed effimeri. La visione della perdita nella prospettiva della rammemorazione è difficilmente cicatrizzabile, rimane comunque una lacerazione che tutte le spiegazioni riguardo al vero significato delle illusioni non possono modificare. L’azione spiegata non è l’azione agita, ciò, che può sembrare banale, è carico di conseguenze e di ferite nella immediatezza, più di quello che si possa immaginare.
Machiavelli è l’immediato fattivo, entra nelle cose, non se ne tiene lontano, non si mette in salvo. Se avesse parlato in nome di una teologia o di una ideologia qualsiasi, sarebbe stato un noioso precettista, non avrebbe detto nulla, sarebbe finito ormai nella polvere della storia morta, dove giacciono una a fianco all’altra tante buone intenzioni. Ma non è delle buone intenzioni che abbiamo bisogno. Migliaia di libri sono stati scritti partendo dalla bontà dell’uomo, ora pascolano allo stato brado nelle praterie del nulla. Quel libretto è invece ancora là, e con esso continuiamo a fare i conti perché possiede il miracolo della immediatezza, ci parla ancora in maniera integra dell’orrore e della morte, ma anche dei colpi mancini della fortuna che possono azzerare la forza sino a rinchiuderla in catene in una qualsiasi prigione spagnola. Ho vissuto gli orrori di un palazzo simile, piccolo e nascosto, essi sono conosciuti, sia pure da pochi addetti ai lavori. Non è un segreto. Ogni abitante stritola e viene stritolato, servitù e paura. Orrore. Per molti sopravvivere non ha senso, nessuna implorazione ha spazio, né viene espressa. La mano delle tenebre finisce per seppellire palazzo e abitanti. La vergogna resta, ma dei sopraffattori ormai non c’è traccia. Passeggiando nei dintorni, qualche giorno fa [2010], mi era sembrato di riconoscerne uno, ma devo essermi sbagliato. I fantasmi non esistono. Salvarsi, cercare di salvarsi davanti a un pericolo è un ottimo sistema per aumentare i rischi. Scrive Giorgio Colli: «Nella scienza, solo il presente conta, il passato non è servito ad altro che a prepararlo. Perché lo stesso non dovrebbe avvenire per la filosofia, che si muove per mezzo della ragione come la scienza? Quindi prendiamo il passato, tiriamone fuori qualche bella frase, e non abbiamo paura di maltrattarlo perché è innocuo. E per quel che riguarda i punti di partenza, da cui in qualche modo bisogna pur sempre prendere le mosse, collochiamoli almeno in un passato recente, dominabile. Così ci siamo sbarazzati dell’aspetto più sgradevole della filosofia, da quel sentirsi imbarazzati di fronte a un passato che non si riesce a dominare. Ma siccome la scienza è anche scienza storica, ebbene, del passato occupiamoci come di un oggetto di conoscenza, purché sia chiaro che come valore di vita esso può servire soltanto in quanto costituisce un frammento che, attraverso la continuità organica della storia, prepara e quindi chiarisce il nostro presente valore della vita. O anche consideriamo il passato come del tutto estraneo al valore della nostra vita presente, come vero oggetto di scienza. O infine, se siamo davvero malati di scienza storica, e vogliamo stare in compagnia di coloro che lo sono, diciamo che la filosofia ormai è appunto questo studio scientifico del passato, e che parlare di vita è vuota retorica. Del resto, non è solo l’analogia con la scienza che suggerisce di fissarci al presente, ma è l’analogia con la vita organica, con lo sviluppo organico – o dialettico – dell’umanità, che è talmente testimoniato da tutto quello che ci circonda, talmente spontaneo e naturale da essere “selbstverständlich”. In breve, l’umanità progredisce, o almeno la scienza progredisce, la filosofia è una scienza, dunque anche essa progredisce, quindi nella filosofia l’importante non è il passato ma il presente, e inoltre se nella filosofia vogliamo essere qualcosa, bisogna unirci a quelli che nel presente fanno filosofia, magari non a tutti ma ad alcuni – magari ai più influenti – per farci sostenere ed eventualmente per combattere assieme ad essi contro altri. Tutto questo è molto naturale e comprensibile, ha persino molte probabilità di essere giusto, e del resto così avviene anche negli altri campi e non soltanto nella filosofia. Soltanto, per interrogare col vecchio Socrate, c’è forse qualcuno che sappia rispondere – senza poter essere confutato – alla domanda: che cos’è la filosofia? Sarà difficile allora far valere l’analogia con la scienza. Mi si perdoni questa tirata “old style”. Ma anche l’analogia con l’organico vale sino a quando non si possa dubitare che l’organismo sia in decadenza. Si può davvero escludere questo? La convenienza personale poi di stare attaccati saldamente a un presente, d’altro canto, non prova nulla né a favore né contro il passato. Sentite ad esempio quest’altra interpretazione del passato filosofico (suggerita da una conoscenza storica modestamente intesa come ancella): un’ipotesi di lavoro, diciamo, arbitraria come quella, ma direi più svincolata dalla vanità dell’uomo contemporaneo. La filosofia umana più unitaria e molteplice a un tempo, più profonda e più vera, più consolidata da un’esperienza ricca e libera dalle impennate individuali, convalidata da una continuità di duemila anni, è quella indiana». (La ragione errabonda, Milano 1982, pp. 139-141). La spudorata dichiarazione di inutilità dell’agire coglie di sorpresa, eppure ritengo che sia il più controverso ed estremo contributo alla lotta contro il nemico, il messaggio più carico non di contenuto ma di presagi che sono riuscito a trasmettere. Il libero gioco delle inutilità mi pone nell’oltrepassamento ed è una sorta di visione onirica, frutto, almeno in parte, degli sforzi rammemorativi per dare corpo all’aporia dell’uno che è e non può non essere. Solo così riesco ad annullare gli ultimi resti delle ambizioni di conquista. Machivelli in questo è stato fonte inesauribile.
L’implicito riferimento che circola continuamente nei capitoli del libretto di Machiavelli può essere colto e anche perduto, molti lettori hanno vissuto queste alternanze, infatuazioni e disillusioni, per poi, a volte in maniera improvvisa, riaffiorare con dolorosa sensazione di malessere. Può essere che in ognuno di noi ci sia un assassino? Non è possibile, è certo. Possiamo tenerlo a bada, educarlo al rispetto degli altri, di alcuni altri, non di tutti gli altri, ma la violenza è sempre là, non la si può esorcizzare col ricorso a un ideale pacifista o naturalisticamente buono. Non appena ci imbattiamo in uno sproloquio del genere, ecco dolorose e repentine ricomparire le parole di Machiavelli, e con le sue parole il quadro intatto dei massacri che costellano la storia dell’uomo.
Certo, l’amore è là e regge il mondo, gli soffia nel meccanismo biologico e lo sollecita ad andare avanti, ma non appena sorgono gli interessi dei pochi a contrapporsi agli interessi dei molti, il libretto di Machiavelli torna a farsi avanti. Ecco Nietzsche: «Per amore, siamo dei gran delinquenti nei confronti della verità, dei ladri e dei ricettatori incalliti che fanno esser vero più di quel che ci appare vero, – perciò il pensatore, di tempo in tempo, deve sempre spingere le persone che ama (non saranno proprio quelle che lo amano) a fuggire affinché mostrino il loro pungiglione e la loro malvagità e cessino di sedurlo. Pertanto le buone qualità del pensatore avranno la loro luna calante e crescente». (Aurora, V, 479). Desiderio e infinito, i due poli con i quali misuro diversamente la parola, una volta che torno dall’afasia dell’azione, desiderio illimitato e infinito sconosciuto prendono insieme uno spazio percettivo immaginario dove la parola trova ridondanze rammemorative inusitate, profondità irripetibili e, al tempo stesso, indicibili. Queste parole ritrovate nella rammemorazione si nutrono di una logica bizzarra provvista di relazioni consociative non facilmente districabili, dove la rigidità causale è messa in soffitta senza fare rumore. Il filosofo tedesco è più vicino a Machiavelli, e alla sua fredda determinazione, di quanto non si creda comunemente.
Non sto parlando spinto dall’immaginazione febbricitante di qualche imbecille reazionario, parlo da amante della libertà, e come portatore di libertà sono andato nei cimiteri e ho visto i morti e i moribondi, le crudeltà inanellate con passione, direi quasi con arte, ho visto la miseria immensa dell’uomo rintoccare con la solita campana dell’irrimediabilmente di già compiuto. Il pigolio di un passero sembra a volte un miracolo e la sua abilità a volare fra il filo spinato continua a sbalordirmi, ma la foresta umana porta corpi appesi ai rami, impiccati, squartati, stuprati. Le buone parole sono solo quelle che in frettolose preghiere meccanicamente gli stessi massacratori recitano, per passare in fretta al prossimo massacro.
Machiavelli non è un suggeritore, è un provocatore. Non alleggerisce, appesantisce. Non illude, disillude. Certo, non parla per orecchie ovattate, per cervelli ottusi, eppure dice la parola giusta al momento opportuno, cioè quando uno meno se lo aspetta. Per una umanità attardata su filastrocche confortanti, è un impatto troppo forte, le sue parole non sono sufficienti a sollevarla dalla desolazione – ma quali parole lo sono? – però costituiscono lo stesso una sfida beffarda che continua a sciamare da quelle poche pagine. La conclusione è sempre rinviata, non è un libro che fornisce una tesi e conclude con una soluzione, è una colluttazione, un corpo a corpo.
Il movimento Machiavelli continua a sgorgare vivo da quelle pagine, non è possibile dichiararlo esaurito una volta per tutte. Ne veniamo investiti e a volte siamo quasi certi di riuscire a dominarlo, cioè a farcene una ragione di quelle tesi che scavano dentro il nostro buon senso e perfino dentro le nostre speranze progressive di un futuro migliore. Poi, aprendo il giornale, ogni mattina, ci accorgiamo di esserci sbagliati. Le nostre illusioni si ridimensionano e si imbrogliano, anzi sprofondano nel nulla. Così, restando sorpresi di noi stessi, facciamo l’esperienza del male, questa condizione umana, e dobbiamo essergli grati di averci permesso a buon mercato questa esperienza che, in altre condizioni, poteva costarci cara.
Qualcosa di simile l’ho ritrovato nella impervia lettura, apparentemente facile, di Schopenhauer. Precisa Vittorio Mathieu: «Il calcolo edonistico dei piaceri e dei dolori, che dà una somma algebrica spaventosamente negativa, non può dunque essere una dimostrazione della tragicità dell’esistenza, anche se Schopenhauer spesso sembra presentare così le cose. Sostenerlo implicherebbe una petizione di principio in favore del punto di vista edonistico, illegittima anche se, di fatto, esso può considerarsi implicito nel comportamento di ogni essere. Ma chi dice che il bene debba identificarsi con il piacere e il male con il dolore? Solo una volontà “accecata” dal suo inserimento in un punto di vista particolare. Se questa finalità soggettiva è illegittima, mentre oggettivamente l’esistenza determinata è priva di senso, non vi può essere neppure una tragicità oggettiva, ma solo un tormento soggettivo fondato su una falsa premessa. La tragicità c’è solo dove qualcosa che dovrebb’essere non è e qualcosa che non dovrebb’essere è: ma donde trarre la norma di quel “dovrebbe” se oggettivamente tutto ciò che è fosse privo di senso? La storia di un pazzo narrata da un idiota non avrebbe nulla di tragico. Il fatto è che le cose non stanno così, e che l’esistenza è, al contrario, la storia di un pazzo narrata da una persona intelligente. Appunto per questo è tragica. Se, infatti, abbandoniamo una concezione soggettivamente edonistica e, posto che vogliamo continuare a parlar di piacere, lo concepiamo al modo, per dirla in breve, di Aristotele, come il semplice segno della felice riuscita di un’operazione secondo natura, allora la considerazione dei piaceri e dei dolori non potrà più ingannarci. La ricerca del piacere non sarà più aspirazione a qualcosa di vano, bensì a una felice realizzazione secondo natura; e lo scacco che essa quasi sempre subisce rivelerà l’errore nel punto di vista e nel modo in cui, di solito, quella ricerca è condotta. Ma non si dimentichi che di errore si può parlare solo se, sia pure in linea di remota eventualità, una possibilità di non sbagliare sussiste: quindi, nel nostro caso, solo se l’esistenza ha un qualche senso, ovvero solo se c’è una qualche “natura” da realizzare. E, forse, appunto perché ci mostra il male alla sua radice e in tutta la sua ampiezza, e lo estende a una scala cosmica, e ci fa sentire quanto intimamente esso sia legato al valore stesso della vita, forse appunto per questo la lettura di Schopenhauer è così consolante». (“La dottrina delle Idee in A. Schopenhauer”, in “Filosofia”, op. cit., pp. 548-549). Tra il lupo cattivo, il drago di fuoco e tutto l’armamentario delle fiabe bisogna inserire le Madri, Lilith, per esempio, l’inquietante Lilith. Thomas Mann e il bambino nudo che corre sulla spiaggia. C’è in tutto questo un rumore di fondo che non posso decifrare con esattezza, ora è un urlo desolato, ora è un ronzio che contiene indecifrabili parole. La parola per decifrare questo ronzio dovrei trovarla all’interno della rammemorazione, a volte temo che possa essere andata perduta. Per molti motivi la voce dell’uno che è finisce per rimanere incomprensibile. Eppure sarebbe una nuova sistemazione della consapevolezza immediata, più pronta e più aperta alle future intenzioni che prepareranno l’oltrepassamento al momento vulnerabile e inaccessibile.
A volte il passo è perfino contraddittorio, e tale appare a una lettura sprovveduta, come nel caso della malattia di Cesare Borgia, ma si tratta di entrare dentro le motivazioni essenziali, e qui, nel caso in specie, è della fortuna che si parla, della fortuna che si vendica, riassunta nella evenienza della malattia. Eppure il messaggio è puntuale. Nemmeno l’estrema crudeltà è in effetti estrema, c’è sempre qualcosa di più estremo, cioè il caso o, per meglio dire, il caos che caratterizza le umane vicende.
E mai queste vicende sono tanto crudeli quanto appaiono nella contorta e deambulante illusione politica. Machiavelli lo sa e lo ricorda nei Capitoli “ciascun fuggir le corti e stati debbe”, che è ben strana e contorta considerazione per un uomo che frequentazioni ebbe, e continue, con i maggiori del suo tempo, governanti e massacratori compresi. Ma era fatto così, quest’uomo che rabbrividiva a Verona di fronte agli orrori della guerra vera e propria e poi non si peritava di accettare l’uso programmatico di don Micheletto. Separare non è possibile il flusso umorale che attraversa tutta la sua opera, non solo il libretto, che tanta brava gente ha fatto fremere, dal valore filosofico e metodologico delle sue riflessioni, a volte improvvise – qua e là – sempre taglienti, lame di coltello che penetrano e slanci e analogie impensabili, rischiosi e a volte perfino contraddittoriamente capovolti, per il semplice piacere dello scrivere e, perché no, dell’aggirarsi confuso (apparentemente, ma non troppo) e incerto, in attesa della metamorfosi decisiva. Ci sono riflessioni che si attardano nella crudezza dei tempi e degli uomini, meditate fino in fondo e poi subitamente messe via, come se nello stesso sbarazzarsene ci fosse una conclusione ancora più profonda e umorale di quelle prime mosse abbandonate a se stesse. Scrive Cioran: “Fallire è un desiderio riuscito”. L’agente passivo insito nella produttività dà vita a una sorta di autosservazione degli scopi, del tutto infondata, almeno riguardo alla corrispondenza dei protocolli. Lo sforzo del fare si divide tra sollecitazione all’accumulo e resistenza alle conseguenze di inglobazione. Del resto, la pratica liberatoria dell’inganno e dei camminamenti labirintici non è solo dilatoria ma intende porre un freno vero e proprio nei riguardi degli automatismi fattivi.
Le vicende della fortuna, che poi è malignità degli uomini e non più cattivo volere degli dèi, sono aperte in sequenze disordinate di immagini, che si contrappongono alle misure ordinate degli uomini, con le quali questi ultimi si illudono a quelle di porre valido riparo. I momenti della vita di grandi uomini sono ondeggiamenti di fili d’erba in balia del vento, mentre la logica muta dello scorrere del tempo azzera e ricompone in nuovi mosaici l’eterno e medesimo gioco del caos. Così W. Dilthey. «Nel passato si è cercato di penetrare la vita in base al mondo; ma c’è solo la via che procede dall’interpretazione della vita al mondo, e la vita esiste solo nell’Erleben, nell’intendere e nella comprensione storica. Noi non rechiamo nella vita alcun senso del mondo. Noi siamo aperti alla possibilità che il senso e il significato sorgano soltanto nell’uomo e nella storia. Ma non nell’uomo singolo, bensì nell’uomo storico. Poiché l’uomo è un essere storico». (Critica della ragione storica, tr. it., Torino 1982, pp. 213). Che vale la grande pomposità della storia se poi sappiamo bene lo scheletro che cerca di nascondere e del quale, di tanto in tanto, viene fuori un osso polito? Machiavelli è un meteorite cangiante, troppo arguto per restare nei panni curiali, troppo ansioso di agire, sia pure contropelo, per non cercare di adattarsi – senza mai riuscire del tutto – al servizio dei potenti. Una produzione perennemente attiva di pensieri, la maggior parte sconvolgenti, si accavalla nella sua testa. Non una tesi, che ogni tentativo di riassumere la sua filosofia in una formula è risibile cosa, ma un flusso continuo, come di una fonte rigogliosa e inarrestabile. Ci sono processi di pensiero, anche restando nel libro maledetto soltanto, che appaiono quasi automatici, nascono per la necessità intrinseca della realtà che è l’oggetto di essi, non interpretano, non alleggeriscono o gravano, tanto le cose hanno una carica eversiva che parla da sola, basta non mettersi a chiacchierare d’altro, come fanno purtroppo in tanti e quasi senza accorgersene.
Ecco perché in Machiavelli non ci sono dimostrazioni, o premesse e conclusioni logicamente legate assieme in maniera indissolubile. La sua parola si muove grazie a una spinta endogena alle cose di cui parla, non alla corrispondenza fra ciò che è e ciò di cui egli insiste a parlare. Non ci sono soste in questo flusso, non si ammettono riprove, ripensamenti sì, contraddizioni e strane scoperte fatte per caso (o così sembra) e lasciate lì, a luccicare al sole. Quest’uomo aveva fretta, scrivendo per sé non sospettava di scrivere per tutti, muoveva il mondo che lo attorniava staccando il putridume politico da quello morale e dichiarandoli entrambi infondati, ma ridendo dentro di sé di ogni tentativo di fondare questi due letamai in maniera incontrovertibile.
Il pupazzo Cesare Borgia è simile al teschio che i padri della Chiesa tenevano sul tavolo dove scrivevano i loro poderosi tomi per ricordarsi, prima di ogni cosa, della insensatezza del proprio lavoro. L’intreccio con il massacratore e il suo boia è stupefacente di per sé, mai furono accoppiati macellai di simile lordura, e Machiavelli siede in mezzo a questi due, entra nelle loro vicende e ne esce non per esperienza retorica ma per la naturale via delle cose. Gli accadimenti si accavallano alle riflessioni, e queste a quelli. Si entra in un progetto di assassinio e si esce con un massacro in piena regola. Le vicende umane sono altro? Forse. Ma il procedere bieco e frastagliato della vita umana nei suoi rapporti collettivi è forse qualcosa di diverso? Ci sono digressioni tenere tra un assassinio e un altro ma non costituiscono da sole un ritmo rassicurante, non acconsentono a divagazioni pedagogiche, almeno fin quando il fatto stesso del vivere insieme non sarà stato cambiato. E chi darà il via a questa interruzione e all’inizio del vivere comune basato su regole fraterne, prive di violenza e di dominio? Machiavelli non lo sa e non se ne cura. Il progetto italiano – qualsiasi cosa ne pensino gli esegeti in carica – è risibile utopia, in ogni caso legata sempre alla forza, all’organizzazione di una forza militare prima di tutto, una forza non necessaria. Noi, che su questo punto, se non altro per motivi temporali, ne sappiamo più di lui, non vi vediamo che una mutazione dei procedimenti di massacro. Un boia entra, uno esce. La storia è sempre quella. Voglio dire che Machiavelli non è mai paradossale, non gli occorre esserlo. Ancora Cioran: “Il nemico è quello che mi somiglia di più”. Il saluto sull’apertura è uno dei punti più difficili da cogliere, non ancora oltrepassamento non è più immediatezza, eppure queste contrapposizioni sono troppo radicali in quanto il coinvolgimento comincia prima nel fare, non si è ancora liberato dal fare, ed è in parte elemento dell’agire, cioè consolida la puntualità dell’azione. Conosco il fare, rammemoro l’agire, non conosco né rammemoro in modo adeguato il saluto, il passaggio tra le due coscienze. Come mi porto dietro qualcosa? In che modo ne faccio a meno? Domande ancora con risposte non del tutto soddisfacenti. Il saluto è una esperienza transizionale di già privata di spazio. La soglia si configura fisicamente come apertura e posso agghindarla con le maschere delle mie intuizioni più complesse, ma non è più uno spazio vero e proprio a causa del suo carattere paradossale. La vitalità dell’azione non è ancora ravvivata dalla qualità e il ricordo del possesso come unica esperienza possibile è troppo vicino per non bloccare il contatto di già in corso col territorio della realtà. Alla fine, se non propriamente nel salto, evento traumatico quasi sempre troppo eccessivo e abbastanza raro, a intervenire è uno stacco deciso, un violento passaggio coinvolgente fornito non solo da un carattere paradossale ma anche creativo. È questa diversità che contrassegnerà la condizione attiva.
È nella natura dell’uomo essere tanto pernicioso a sé e agli altri? Machiavelli non se ne cura più di tanto, non è di un credo qualsiasi che va in cerca, guarda quello che gli sta davanti e lo commisura con i tempi andati e vi scopre parallelismi e differenze, non apparizione di un nuovo movimento di liberazione dalla schiavitù che costringe a uccidere e ad essere uccisi. L’ironia e il cinismo sono armi terribili se bene impiegate e Machiavelli sa come usare la prima per parlare del secondo, e non è certo parco di capacità per vedere bene e cinicamente come conciare per le feste le pietose debolezze degli uomini.
Collegare, e quindi restringere, il libretto malefico di cui ci occupiamo alle vicende della casa medicea in quel di Firenze, o a Roma, è operazione storiografica pertinente anche se resta miope. L’ariosa ansia di questo inestricabile scritto vuole tutt’altra attenzione di lettura, e altri lettori cerca, proiettato, forse malgrado il suo autore, nei secoli avvenire. Impertinente e spregiudicato lui, l’autore, come di chi ne ha di troppo delle incombenze d’ufficio e non vuole di certo annoiarsi fra le proprie poco sudate carte. Egli ha fretta, si è detto, e non lo nasconde, anzi lo sottolinea, e proprio qui, in queste forti pagine maledette, non lo preoccupa nemmeno l’alto impegno dell’analogia, del paragone colto e adunato intorno alle cose come sostegno e salvaguardia. Qui l’assimilazione dei fatti è immediata e non sottoposta al fastidioso tedio della costruzione metodologicamente corretta del trattato di teoria politica, come se ne vedranno molti nei secoli a venire, sui quali però è calata silenziosamente la polvere del tempo. La fretta di Machiavelli è dovuta all’ansia di fare presto di fronte al periglioso evolversi, e fortunoso, degli accadimenti. Non ha tempo da perdere chi ama il proprio tempo personale e di questo ne fa il quadro pubblico di un tempo collettivo. Assimilazione diretta e immediata per passione, non per necessità o dovere d’ufficio. Questa simbiosi tra uomo d’azione e filosofo è fatto raro e posso documentarlo personalmente avendo scritto la maggior parte delle mie pagine seduto su di una pietra puntuta. Non dico nulla delle condizioni in cui scrivo la presente pagina, potrebbero sembrare impossibili, invenzione di un vecchio pietoso di sé e delle proprie piaghe.
Andiamo oltre.
Lo stile è di Machiavelli, è l’uomo Machiavelli tutto per intero. È uno dei rari casi in cui non è materialmente possibile ricostruire un percorso di prestiti o saccheggi. L’occhio di tanti scrittori politici (o storici, che all’epoca era più plausibile definizione) guarda la superficie delle cose, quello di Machiavelli scende con rapidità nei tratti inconfondibili di connessioni e cause, effetti e stacchi prepotenti o distinzioni inavvertite e per questo motivo inarrestabili. Questo modo di scrutare con occhio svelto e attento, disilluso, le cose, non rende conto delle minuzie, attacca i fili più importanti con rapidità e non indietreggia mai, quali che siano le conseguenze a cui arriva. Non è la logica, in qualsiasi maniera scientifica, che glielo impedisce, ma è il suo essere uomo, il suo modo di essere uomo, uomo Machiavelli non filosofo Machiavelli che tesse con comodo la sua rete di cause ed effetti. Risibile e povera cosa sarebbe allora stato questo libretto. Tale modo di essere il proprio verbo, di dire quello che si è parlando delle cose e degli uomini, ha qualcosa di terribile e fosco, non alletta ma serve più frequentemente a creare nemici. L’occhio dell’imbecille è sempre acquoso e indirizzato verso terra, non può accettare un vivido bagliore, anche se passeggero, la sua visione deforme è perfettamente adeguata alla propria imbecillità. Così Max Horkheimer: «I valori e le idee sono inseparabili dalle parole in cui si esprimono, e, come abbiamo accennato sopra, lo studio del linguaggio è uno degli aspetti più importanti del lavoro filosofico. Attraverso le trasformazioni subite dal valore e dal contenuto delle parole si può ricostruire la storia della nostra civiltà. Il linguaggio riflette i desideri degli oppressi, le sofferenze della natura; esso scatena l’istinto mimetico. La trasformazione di questo istinto nel medium universale del linguaggio significa che forze potenzialmente distruttive sono messe al servizio della riconciliazione; in questo consiste il fondamentale e intrinseco antagonismo tra filosofia e fascismo. Il fascismo trattò il linguaggio come uno strumento di potere, come un mezzo per conservare nozioni che sarebbero state poi impiegate ai fini della produzione e della distruzione, così in pace come in guerra. Alle tendenze mimetiche represse si impedì di trovare adeguata espressione nel linguaggio, ed esse vennero usate come un mezzo per spazzar via ogni opposizione. La filosofia aiuta l’uomo a placare le sue paure aiutando il linguaggio a svolgere la sua funzione genuina, che è quella mimetica, la sua missione di rispecchiare le tendenze naturali. La filosofia, come l’arte, riflette la passione nel linguaggio e così la trasferisce alla sfera dell’esperienza e della memoria. Se si dà alla natura la possibilità di rispecchiarsi nel regno dello spirito, contemplando la propria immagine essa raggiunge una certa serenità. Questo processo è alla radice di ogni forma della cultura, in particolare della musica e delle arti plastiche. La filosofia è lo sforzo consapevole di fondere tutto ciò che sappiamo per esperienza o intuizione in una struttura linguistica in cui tutte le cose saranno chiamate col loro giusto nome. Tuttavia si aspetta di trovare questi nomi non in parole e frasi isolate – secondo il metodo indicato dalle dottrine delle sette orientali, e di cui conservano traccia le storie bibliche riguardanti il modo in cui furono battezzati cose ed uomini – bensì nel continuo sforzo teoretico di sviluppare la verità filosofica. Questo concetto della verità – chiamare le cose col loro vero nome – permette alla filosofia di combattere, se non di superare, gli effetti demoralizzanti e mutilanti del formalizzarsi della ragione. I sistemi classici della ragione oggettiva, come quello platonico, appaiono insostenibili perché sono glorificazione di un ordine inesorabile dell’universo, e quindi mitologici; ma a questi sistemi più che al positivismo dobbiamo render grazie per aver mantenuto viva l’idea che la verità consiste nella corrispondenza del linguaggio alla realtà. I fondatori di quei sistemi sbagliarono però nel credere che avrebbero raggiunto la rispondenza di linguaggio e realtà in sistemi perenni, e sbagliarono anche nel non capire che, per il fatto stesso di vivere in un regime di ingiustizia sociale, sarebbe stato loro impossibile formulare un’ontologia rispondente a verità. La storia ha dimostrato che tutti i tentativi di questo genere non approdano a nulla». (L’eclisse della ragione, tr. it., Torino 1969, pp. 155-156). Machiavelli non commette questo errore pur sposando la tesi della stretta corrispondenza con le cose. Il riflesso empatico derivato dall’intuizione segna profondamente il contraddittorio mondo del fare, entra, ogni singolo movimento intuitivo, nei recessi più remoti e interstiziali dell’accumulo e mette a repentaglio connessioni e corrispondenze dapprima considerate al sicuro dal punto di vista protocollare. Niente altro si muove con questa capacità compenetrativa, nemmeno la stessa rammemorazione, anche se i due movimenti, come quello diretto alla costruzione dei camminamenti, finiscono necessariamente per incontrarsi. In ognuno di questi incontri o intersecazioni il fare segna una condizione di disagio in cui accumula l’inquietudine. Sullo sfondo la paura di non riuscire non solo nella completezza, che qualsiasi fare metabolizza in breve tempo, ma di sublimare alcuni motivi mitici in una organizzata, e ridicola, parodia religiosa allo scopo di sostituire la completezza con una rielaborazione dei piani conoscitivi, divisi in questo modo tra spirituale e positivo. Non si può parlare di scarsa considerazione dell’accumulo come luogo della conoscenza. Questo rimane sempre un punto di riferimento costante, anche se la validità delle corrispondenze che lo reggono deve essere ogni volta criticamente revocata in dubbio. Di fronte a una pretesa crescita monolitica lineare, contrappongo un dissidio permanente in grado di penetrare, conoscendoli fino in fondo, negli interstizi che la superficialità della codificazione culturale non vede.
Ebbene, di questi dettagli, che tanto hanno angustiato la mia vita e continuano a farlo nei miei tardi giorni, Machiavelli non si cura. Sono per lui fastidi passeggeri a paragone di quelli derivatigli dall’idiozia dei grandi, che pure sfiora e con i quali ha commercio. Nel libretto principesco avanza con brio, con il taglio dell’uomo “di basso stato” come sentiva di essere, conscio della propria forza di pensiero. Affronta problemi che fanno tremare le vene e i polsi e che hanno intralciato tutta la speculazione filosofica e politica successiva, e non se ne cura, brio e leggerezza di tono che non arretrano neanche davanti all’ignominia palese. Il gesto dell’azione mi lascia stupito, mi libera dell’affollato isolamento del fare e mi proietta nella condizione diversa dell’agire. Non posso nemmeno balbettare, della grande familiarità con la parola, adesso il silenzio si è assiso accanto a me e ascolta la nuova morsa che ci sigilla insieme, siamo nel territorio della realtà e la mia puntualità non è altro che l’azione, l’attacco contro il nemico. È questa assenza di sollecitazioni all’accumulo che mi fa nascere a vita diversa, che dilata la mia coscienza proprio nell’estremo livello della concrescenza, della compenetrazione, della interpretazione. Lo spazio è remoto, anche nel senso di Erwin Straus. L’azione non mi contiene, non è uno spazio contenitore, non è una scatola, e non è altro se non la somma non quantitativa delle mie risorse conoscitive messe in atto. Questa è una somma molto strana che non accetta divisioni o spartizioni relazionali. Gelosa della propria puntualità è con l’uno che è che si confronta, accettandone la voce e il volto, misteriosi entrambi e remoti, viventi senza modi di essere o modulazioni riscontrabili qui e ora e non più dopo e oltre. Se questo è un delirio bisogna che io l’accetti, è in nome di questo delirio che ho fatto tesoro delle mie accorte accumulazioni, che ho soggiornato così a lungo nei pressi dell’archivio.
Nello scontro di fondo tra popolani e ottimati, il laico Machiavelli parteggia per i primi e parla così di un principe che da questi ultimi si guardi, fosse pure un principe teocratico che attorno a sé aduna baroni e cardinali. Altro, assolutamente altro, dei piagnoni savonaroliani, altre le sue parole, altre da quelle dettate dalla petulanza dei potenti. Non c’è in esse una promessa risolutiva, non l’indicazione di uno sbocco rivoluzionario affidato a un capopopolo di cui si avevano esperienze non certo positive, non il segno del sacrificio terreno – sul piano politico – per guadagnarsi la felicità in un paradisiaco altrove. Le sue parole grondano sangue ma non travalicano nel grottesco che ogni intellettuale corre il rischio di incontrare quando di buzzo e buono si mette a tagliare teste nei suoi scritti. Le sue parole fondano una tesi politica e sono immerse nella melma com’è giusto che sia, trattando di melma. Nessuna luce utopica, sarebbe stato un suicidio del libro e del suo autore. Riflettendo oggi su queste pagine antiche, il vuoto non mi fa paura, è il falso pieno del fare che mai si riempie che mi atterrisce, la vanga e la piccola pala del mio secchiello di latta con cui giocavo in riva al mare con Agostino. Le semplici relazioni dimenticate, che dormono ormai assuefatte sotto la persistente tensione del controllo protocollare, una volta risvegliate a nuova vita dall’appello dell’oltrepassamento, risveglio involontario perché non si presenta mai come un richiamo all’ordine, non sono semplici come appaiono nella confusione accorpata dell’accumulo. Al di là del loro frantumarsi in elementi di fondo, avvertiti ma non intesi completamente, c’è una sorta di accelerazione allucinatoria che mi porta a indirizzarmi verso la volontà con una presunzione alleggerita, con domande di accumulo che spesso risultano prive di senso. La risposta razionale a queste domande può perfino apparire ridicola, mentre, se ci faccio attenzione, può corrispondere perfettamente a una impalpabile intuizione altra, una segnaletica in ombra, per il momento del tutto indecifrabile.
Nella melma si agitano le figure della melma, e il popolo soffre conseguentemente delle azioni che da queste figure vengono realizzate. In Machiavelli non c’è nessuna concupiscenza della malvagità, egli è complice altrove, nella pratica di media levatura, nelle carte di segreteria, nei legati e nelle relazioni, ed è ben contento di questa complicità, che ha così modo di vedere da vicino la melma agitarsi e ribollire. Mai occhio di scrittore politico fu più avido del suo, registrava per ricordare e ricordava per riferire. A chi? Ai suoi committenti istituzionali? Certo, in piccola parte anche a quelli, ma prima di tutto a se stesso, nell’ininterrotto dialogo con se stesso. E qui, nel chiuso di un cerchio perfetto, non c’era che lui e il suo pensiero costante, come munire della forza necessaria un principe capace di liberare Firenze, prima di tutto, e poi il resto d’Italia, sottraendoli alle prepotenze degli ottimati, cioè dei suoi nemici personali e di classe.
Certo, c’è qualche spirito affine a cui confidare quel subbuglio che doveva esserci di continuo nella sua mente, ma sono pochi e non condividono questa visione caotica e globalmente riottosa nei riguardi di ogni ordine divino, scandalizzandosi o attribuendo lo stesso libretto malefico allo spirito bizzarro dell’autore e non alle sue intenzioni politiche, filosofiche in primo luogo. In ogni caso a isolarlo era ancora di più il suo rifiuto di un municipalismo a ogni costo, perché la sua italiana visione politica – che tanti petti tisici di idee ha fatto a lungo battere – era prima di tutto Firenze e Roma, forse al di là delle contingentali fortune medicee. E ciò è riflessione valida anche considerando i discepoli e gli amici degli Orti per altro con passato politico contrastante se non in termini di dominio, almeno di partito. Cleto Carbonara ha scritto a proposito del fondamento degli schieramenti umanistici: «La filosofia dell’esperienza trae questo nome dal suo oggetto. Oggetto del filosofare è infatti l’esperienza, ossia il sapere umano nella sua più vasta accezione e la filosofia stessa è il pensiero riflessivo e critico, che riconosce e predica il valore delle diverse forme del sapere o meglio dell’attività della mente in genere. Come l’atto spirituale si pone ora, per esempio, come arte, ora come scienza, ora come attività economica, o morale, o religiosa, e via dicendo, il filosofo media, col suo pensiero, l’immediatezza dell’arte, della religione, dell’economia, ecc., e ne mette in luce il significato e il valore. Mediando l’attività dello spirito in tutte le sue forme, la filosofia non s’irrigidisce in sistema, non si chiude in una cerchia di schemi categoriali fissi, dialettizzantisi in un ordine ben determinato e immutabile, non cade, in altri termini nell’apriorismo dogmatico, ma non accetta neppure la posizione del reale come posizione d’ingenua trascendenza: la filosofia dell’esperienza reagisce, dunque, al dommatismo in tutte le sue forme e può credersi, in breve, l’erede legittima delle più vitali correnti del pensiero moderno. Idealismo nella sua essenza, trascendentalismo nel suo rigore logico, essa non deforma la visione della vita secondo rigidi schemi preconcetti, ma interroga l’esperienza, e ad essa si rimette, per slargare indefinitamente il proprio orizzonte speculativo». (La filosofia dell’esperienza e la fondazione dell’umanesimo, Napoli 1961, pp. 232-233). Il che misura bene la distanza di tutto questo da Machiavelli. Riorganizzare la produzione dei fatti significa interiorizzarli, cioè introdurre nella coscienza immediata non solo meri fatti ma anche altri fatti che a quelli si aggiungono sotto forma di riflessioni. Questo permette una più idonea approssimazione critica alla fase interpretativa, da un lato, e dall’altro permette l’approfondimento della presenza coatta della volontà e delle conseguenze limitative che ne derivano. L’homo faber resta sempre avvolto nell’illusione di una possibile completezza, ma persegue più strade. L’incandescenza della compresenza attiva dell’uno che è e della mia puntualità, non è esprimibile. In sede rammemorativa la parola parla, e confusamente non determinatamente, dell’azione, non si sofferma mai in maniera intenzionale sulla compresenza citata. L’esasperazione e l’implacabilità dell’uno induriscono la concretezza della puntualità ma, nello stesso momento, la feriscono crudelmente, mi feriscono, nella immaginaria compattezza del mio corpo. Il trauma dell’oltrepassamento non merita immedesimazione, sono portato a lasciarmelo alle spalle. Saluto sul rogo dell’apertura, e via, non posso continuare a tastarmi con le mie dita incerte gli organi interni che nemmeno conosco e che se li vedessi mi farebbero ribrezzo.
In fondo Machiavelli era imprevedibile. Lancia un terribile strale contro il gonfaloniere Soderini morto, eppure era sotto di lui che aveva lavorato, portandosi dietro perfino l’assunzione del massacratore di professione Micheletto. Ma negli Orti, compagni e amici più giovani lo guardano come maestro, eppure è lui che, ormai in altri lavori impegnato, alacremente come sempre, considera sé e il proprio impegno teorico come di un altro pianeta. Il filo del suo tessere è sempre quello del libretto malefico, anche se l’argomento nei Discorsi si allarga o nelle Commedie divaga. Parte dalle cose, non da scorci o fantasmi appena intravisti da qualche parte, o semplicemente letti o sentiti in trasferimenti di riflessioni o pensieri altrui. L’occasione è sempre plasticamente presente, la si può vedere in azione e nel lettore, perfino in quello superficiale, facendo cogliere l’essenza del problema e dimenticare la miseria dell’oggetto che sfuma sul fondo. Perderebbe di vista la filosofia di Machiavelli chi dimenticasse, sia pure per un attimo, che il suo lavoro è mettere le cose al posto che loro compete, brutalmente a volte, cinicamente, sempre però tenendo conto che il tiranno va colpito con la mano di Bruto. Chi ha pensato a una scuola per tiranni futuri si è bendato gli occhi da se stesso, non ha voluto vedere né leggere bene. Non è un caso che l’antimachiavellismo nasce con l’Alamanni, discepolo e frequentatore degli Orti Oricellari.
Machiavelli è in fondo un ospite di questa accademia e ospite contraddittorio, opera una indiscussa influenza ma non se ne cura, va diritto per la sua strada, raccoglie consensi e allievi ma sa bene che tutto si basa su di un equivoco di fondo, nessuno è in grado di scrutare la sua molteplice prospettiva umana e filosofica. Monumentale contraddizione, la politica esige l’insignificanza della trattazione e la falsità dell’oggetto. Machiavelli invece lavora nella melma, e non c’è cosa più concreta se si riflette sulle conseguenze che la politica ha per tutti coloro che non hanno i mezzi per difendersi e contrattaccare. Gli ottimati, la classe dominante, in quella melma trova la fonte e la forza per continuare il proprio dominio. In questa faccenda da bassifondi, anzi da cloache, la fantasia è lo strumento peggiore, e gli scrittori politici, specie quelli che si reputano rivoluzionari, ne sono ricchi e ne abusano. Accedere alle variazioni fantastiche avrebbe avuto una conseguenza puerile e meschina, nella migliore ipotesi uno scadimento cronachistico, mentre il passo è quello del filosofo che disprezza la politica, anche se ci sono in circolazione molti animali ibridi che si definiscono filosofi politici. Non è il caso di Machiavelli. Nelle sue analisi, anche quelle terribili del malefico libretto, emana una luce che investe le cose senza deformarle, mettendole in condizione di essere comprese dal lettore, perfino da quello distratto, senza cavarle fuori dalla loro naturale oscurità che le caratterizza e le rende umane, elementi che costituiscono il mondo umano compresa la politica, niente escluso. Gli elementi di contrasto sono trattati con naturalezza fino ad apparire quasi inessenziali, poi improvvisamente appaiono le cause che quegli elementi hanno messo in moto, la fortuna cieca, madre del caos delle vicende umane, e la ferocia che delle umane cose è perenne compartecipe. Continua Carbonara: «Esplicitamente parlando, io non accetto il sapere come l’equivalente mentale della realtà in sé delle cose, ma ritrovo il valore di verità internamente allo stesso atto costitutivo della scienza, nella coerenza interna con cui il conoscere e il pensare costituiscono il proprio edificio. Se accettassi, credendo nell’in sé, la definizione della verità come adaequatio rei et intellectus, ricadrei nell’antico dommatismo, perdendo il dominio di me stesso, della mia vita mentale e del suo sviluppo. La realtà non può essere affermata (conosciuta o pensata) se non in funzione della mia esperienza e l’esperienza è tale se riconosce se stessa, se rifluisce cioè nella presenza di sé a sé della mente, se si fa consapevolezza che è coscienza di sé e dell’altro, è coscienza che si fa autocoscienza e viceversa. Ponendo questo primo principio fondamentale, in virtù del quale la filosofia dell’esperienza si ricongiunge all’idealismo, io non sono però né creatore né distruttore del mondo. Possiamo allora chiederci: la filosofia dell’esperienza è idealismo? Sì – rispondiamo – per il fondamentale principio ispiratore, per il concetto base che è l’atto di pensiero autocosciente; no, perché respinge ogni dommatismo o apriorismo dialettico, tetradico o triadico che sia. Ci chiediamo ancora: è realismo? No, nel significato dommatico e trascendentistico del termine; sì, perché la sintesi a priori esprime l’unico modo con cui la realtà sussiste e si rappresenta a se stessa. Ancora: è, la filosofia dell’esperienza, naturalismo? No, se per tale s’intende la concezione di un mondo che sia opaco al pensiero e trascenda l’uomo e la sua coscienza (natura in sé); sì, se s’intende valorizzare la natura nell’unico modo con cui si può parlare di natura, e cioè non prescindendo dalle condizioni per cui la natura diventa conoscibile e pensabile (e tali sono le condizioni trascendentali della coscienza e delle forme strutturali dell’esperienza). Restano così superate le antinomie polemiche, invero soltanto apparenti, per la denominazione dell’indirizzo filosofico fondato sull’esperienza. Una questione essenziale è la seguente: si può parlare di metafisica in seno alla filosofia dell’esperienza? Si può affermare la realtà in sé delle cose? È un punto, questo, di estrema importanza, ma la domanda così formulata nasconde una ambiguità che bisogna subito denunziare. L’idealismo critico – si è detto – non distrugge la realtà del mondo e può quindi, aggiungiamo, affermare la realtà delle cose. Ma la validità dell’affermazione dipende dallo spirito con cui è fatta: se si pretende porre un’inseità assoluta, valida di là da qualsiasi rapporto col pensiero, si ricade nel dommatismo, e l’affermazione non è legittima; se, viceversa, si parla della realtà del mondo ma con la consapevolezza del rapporto ineliminabile del mondo con la coscienza, l’affermazione è legittima e pienamente valida». (La filosofia dell’esperienza e la fondazione dell’umanesimo, op. cit., pp. 235-237). La puntualità stessa, nel suo concrescere di fronte all’uno che è, è abbagliante desolazione, riflessa dal territorio della realtà. Prima di tutto è silenzio, silenzio privo di accesso alla voce dell’uno. Ma è anche caduta a precipizio di quella regione del senso che aveva accompagnato il viaggio fino all’oltrepassamento. La nave è ormai in mare aperto e io vedo bene davanti ai miei occhi l’ondata gigantesca che sta per abbattersi su di me e ho piena in me la sensazione di non essere capace di farvi fronte. Ho alleggerito troppo la mia imbarcazione, mi dico, oppure l’ho alleggerito troppo poco. Non so. Non c’è salvezza per me se non rafforzando la velatura e indirizzandomi proprio verso questa spaventosa ondata. E questa ondata è l’uno che è. Io sono libero di fare e nello stesso tempo non sono libero. Tra queste oscillazioni l’inquietudine si insinua e mi rode il cuore, ogni oscillazione del pendolo mi sembra più vicina, più pericolosamente vicina, mentre sono sopraffatto dalla concretezza dei protocolli che mi controllano, guardiani della mia custodia coatta. La prospettiva di liberazione grazie al possesso della conoscenza è confusa, evanescente e a ogni atmosfera che si crea con le ulteriori acquisizioni, si intorbida sempre più. C’è alle soglie dell’apertura un passaggio stretto, una notte oscura, un profondo risucchio indietro, un assedio a qualcosa di impalpabile, una vergognosa impotenza che improvvisamente mi pietrifica. Quell’io così pieno e consistente, adesso è malinconicamente incerto, sia pure per un attimo, incertezza che resta componente residua del mio corpo. Non sono nella realtà e non sono nella immediatezza fattiva. Lo spezzarsi dell’unità temporale mi dà i brividi, ogni balenio delle desolazioni che mi attende, non ancora puntualità, è premonizione sigillata di lande aride ancora soltanto immaginate. La mia puntualità mi guarda dall’esterno, mentre il mio non essere ancora ciò da cui vengo guardato, mi proietta verso una fine incombente, la fine del mondo da me creato.
La monotona e tenebrosa condizione delle cose è racchiusa in questo loro essere caoticamente oscure, incomprensibili, indifendibili. Machiavelli vi penetra con un andamento apparentemente incerto, ma con affermazioni insopprimibili. Lontano dalla filosofia prima, aristotelicamente intesa, lo era sempre stato, come lontano era dal greco che amici suoi in carcere esercitavano a fondo. Filippo Strozzi traduceva Polibio e ne commentava i passi più difficili con Francesco e Piero Vettori. Niente tradizione ellenica quindi, con l’illusione dell’identità dei corpi e della comunicazione sociale democratica, per ricordare Pericle e la guerra del Peloponneso. Distante la greca filosofia come distante l’utopia neoplatonica di un Antonio Brucioli, che parla di un viaggio con Magellano alle isole Molucche, in particolare alla fantastica isola di nome Matthieu. Se nel discorso di Ciompo nelle Istorie fiorentine ci può essere un ricordo dell’utopia in questione, nulla c’è in Machiavelli di quello che allora metteva in questione l’Europa sulla scia di Erasmo e di Moro, e sulle discussioni più o meno teoriche riguardanti il tirannicidio.
I modelli valgono per quel che sono, riferimenti transitori, poche note udite senza continuità logica, un improvviso sollevarsi di pulviscolo di stelle nell’immensità dello spazio. Se si risolvono in margini, ingombrano la visuale e fissano la parte nuova di quelle poche note in una intera sinfonia che è altro, pur grande che sia il suo valore, da quello che cerco di dire. Machiavelli non ha modelli, meno che mai li ha quando li indica come esistenti, palpabili davanti a sé, quando quasi si limita a fare commentari attorno ad essi, anche in questo caso tradisce e scivola via, come condotto altrove dal caso. Qualche accenno monco, come se si fermasse un attimo a riflettere, ma poi appare evidente che non di una riflessione si tratta né di un po’ di respiro nella corsa rompicollo che lo caratterizza. Eccolo fermarsi davanti a qualcosa di sottinteso, ma sottinteso per chi?, per noi di certo, non per i suoi contemporanei – e fiorentini – maestri di giochi di parole e di sapido discorrere, per nulla intimoriti davanti alla cruda realtà delle cose. Ha scritto Max Scheler: «In tutto l’ateismo (nel senso più lato) precedente, dei materialisti, positivisti, ecc., l’esistenza di un Dio veniva considerata in sé come desiderata, ma come o non dimostrabile o altrimenti direttamente o indirettamente non concepibile, ovvero come contestabile da parte del corso del mondo. Kant, che riteneva di aver contestato le dimostrazioni dell’esistenza di Dio, tuttavia faceva dell’esistenza di un oggetto corrispondente all’idea razionale “Dio” “un postulato valido in generale della ragione pratica”. Qui, in questa nuova teoria, invece si dice: potrebbe forse essere che, in senso teorico, vi sia qualcosa come un fondamento dell’universo, un ens a se – non ha importanza che questa X sia pensata in maniera teistica o panteistica, in maniera razionale o irrazionale –, tuttavia non ne sappiamo nulla. Ma, del tutto indipendente dal sapere e dal non sapere, ciò che è decisivo è un altro elemento: un dio non può né deve esistere a causa della libertà, della responsabilità, del compito – a causa del senso dell’esistenza dell’uomo. Nietzsche ha scritto una frase raramente compresa in maniera completa: “Se vi fossero degli dèi, non sopporterei di non essere un dio; quindi, non vi sono dèi”. Qui l’ateismo postulatorio – l’immagine opposta più rigorosa rispetto al teismo postulatorio di Kant – è espresso per la prima volta in maniera rigida. Nel capitolo 21 dell’Etica di N. Hartmann, intitolato Teleologia dei valori e metafisica dell’uomo, questo “ateismo postulatorio della responsabilità” viene condotto alla sua altezza suprema e si tenta di fondarlo in maniera scientificamente rigorosa; soltanto in un mondo meccanico, ovvero in un mondo non costruito teleologicamente, un essere etico, una “persona” ha possibilità d’esistenza. In un mondo che sia stato prodotto in base a un piano da una divinità o nel quale una divinità, al di fuori dell’uomo, disponga in qualche modo del futuro, l’uomo come essere etico, come persona, è annullato. “Si deve scegliere: o teleologia della natura e dell’ente in generale, o teleologia dell’uomo”. Ovvero: qualora il mondo sia in qualche modo essenzialmente uguale all’uomo (e questo – ritiene Hartmann – è l’elemento che assumono tutte le teologie fin qui esistite), allora va smarrita la specificità dell’uomo nella sua posizione cosmica, allora l’uomo viene privato dei suoi diritti. Non è la determinazione causale, non è il meccanismo a privarlo dei suoi diritti; al contrario il meccanismo gli offre la possibilità d’imprimere nella realtà ciò che egli ha visto nell’ordinamento, rigorosamente oggettivo, delle idee e dei valori dell’essere ideale. Anzi, il meccanismo è lo strumento della sua libertà e delle sue decisioni sovrane, autonomamente responsabili. Ma ogni predeterminazione del futuro, che ponga un essere al di fuori di lui, annulla l’uomo in quanto tale. Heinrich Kerler ha espresso una volta questi concetti (in una lettera all’autore di queste pagine) in maniera ancora più temeraria: “Che m’importa del fondamento dell’universo se, in quanto essere etico, io so chiaramente e saggiamente ciò che è bene e ciò che devo fare? Se vi è un fondamento dell’universo e qualora esso debba concordare con ciò che io comprendo come bene, allora esso sarebbe stimato come un mio amico; se invece esso non concorda, allora gli sputerò addosso, anche se esso spappola me e i miei scopi come essere esistente». (Lo spirito del capitalismo, tr. it., Napoli 1988, pp. 285-286). La morte è nel fare, nel mondo dell’accumulo, e il destino la ignora, non può indicarmela o propormela, la volontà l’impedisce o vuole l’esclusivo controllo della sua gestione. Quando il tempo è finito, e l’ora della morte ha ucciso tutte le sue sorelle e i giorni futuri, se sono nell’azione essa è un bruciare tutte le mie carte subitamente, una rinuncia totale senza angoscia o titubanza. Se sono nel fare non voglio bruciare tutto in una volta e interrogo il destino e tento di scongiurare gli aruspici per un verdetto positivo. Da un lato la monade imbattibile che nella realtà incontra la fiammeggiante falce della morte, dall’altro un povero straccio di vecchio che nel fare ingoia con disgusto dieci pillole al giorno per darsi l’illusione di vivere. L’azione, anche se sembra pericolosamente consanguinea della morte, anche se convive con la mia morte, di fatto l’allontana, manca del tutto in essa quell’apparato archeologico che porta con sé il corteggio mortale dominante nel fare coatto. L’inquietudine regna sovrana su quest’ultimo meccanismo oleato che raccoglie il sangue che cola dal patibolo, svolge il suo compito e distribuisce i suoi avvertimenti fino alla soglia dell’apertura, gettando lo sguardo al di là ma non riuscendo a capire come si possa morire diversamente. L’accumulo, la stessa conoscenza iperproduttiva, è contro natura. Tutta la vita ho cercato di acquisire, di possedere, di essere quello che gli altri non sono, quindi di essere diverso da quello che sono io stesso. Ora che sono vecchio e che continuo a ricevere pugni in faccia dalla realtà, che potrei rispondere al me stesso che avverte l’enorme distanza che mi separa dalla natura?
Non ci sono riferimenti duplici, cioè resi trasferibili altrove grazie alla copia procurata analogicamente. Solo accidentalmente, ed è infortunio di scrittura e non volontà o metodo analitico di riflessione. La realtà è talmente oscena e coperta di melma che appare inattendibile all’odio riposato dell’uomo dabbene, poco vigorosa, ed ecco la fortuna dei romanzi, fino ai nostri attuali massacri televisivi quotidiani. Per Machiavelli la chiave per entrare nella realtà, e nei suoi meccanismi produttivi, è la stretta osservazione della realtà stessa, obbligandolo a parlare in modo che siano le cose a dire le cose, senza nessun espediente analogico, espediente di cui erano piene le pagine dei suoi acculturati contemporanei. La scienza è nelle cose, non si trova in una sintesi che determina a priori le condizioni in cui le cose devono essere non solo capite ma anche semplicemente esistere di per sé. La lingua deve adattarsi alle cose, farsi dura, inflessibile, memorabile, dominare l’immaginazione incanalandola nel compito del dire e non in quello del dire-sopra, cioè del sopraffare dicendo. Se l’immagine ricreata delle cose è troppo ridondante, sarà forse (non è certo) grande lo scrittore, ma di una grandezza guadagnata a scapito delle cose. Essa deve quindi proporre la connessione universale delle cose, dove si tratta di un universo i cui confini sono segnati dalle cose stesse, le quali si estendono fin dove hanno ragione intrinseca di estendersi, in quella correlazione che tutte insieme le lega. Cogliere questa corrispondenza è precisamente il compito primo e ultimo della filosofia di Machiavelli, non c’è un’altra e più pettoruta concezione filosofica in lui, ecco perché sono stati in tanti a parlare di questa filosofia, cercandola in metafisici confini poco praticabili, e in pochi ad approdare a qualcosa di concreto.
Da giovane, anzi da giovanissimo, mi imbarazzava molto questo problema, c’è o no una filosofia nelle opere di Machiavelli? Domanda, insieme a tante altre, della mia verde età. Adesso che sono vecchio non me la pongo più. Bambinate. Pensando in molti a una funzione ornamentale della filosofia, come di gigantesco bubbone floreale ingigantitosi poi a dismisura – era questo più o meno l’arroccamento dei professori della mia gioventù – non potevano ovviamente rinvenire questa universalmente nota fioritura nel rigido e scomodo Machiavelli. Vi trovavano invece annotazioni politiche, didascalie per futuri dominatori, partiti rivoluzionari e quant’altro. La filosofia no. Il terreno troppo impervio avrebbe favorito filosofi come Leopardi o Schopenhauer, ma questo sarebbe stato scorretto. Chi parla di melma deve restare nella fogna. Nessuna letteratura “contro” qualcuno è tanto sterminata quanto l’antimachiavellismo. Afferma Darius Milhaud: “Le teorie sono soluzioni innumerevoli di un problema indeterminato”.
C’è nel modo di procedere di Machiavelli un profondo senso dell’intenzione, al di là della semplice osservazione o dello studio, per quanto si vuole esteso, delle cause. Andando all’essenza intima della realtà, non si cura di dare conto del paesaggio che circonda e in fondo giustifica il suo percorso di ragionamento. Non diletta né impartisce lezioni, scarnifica l’orrendo, sonda la melma, mette le mani nel ventre della bestia umana, le sue non sono operazioni dilettevoli. Anche se provviste di un tessuto speculativo queste operazioni non per questo ne danno conto, lo mettono in mostra, se ne dilettano a sottolinearlo come qualcosa di autonomo in se medesimo completo e autodefinito. Quest’ultima pomposa operazione è sistematicamente denunciata come mancante dai rifacitori di Machiavelli, i quali avrebbero voluto un trattato di filosofia, non un pericoloso libretto tra le mani, un trattato di cui discutere fra specialisti ma che tutti gli altri non avrebbero mai preso in mano. Ciò di cui Machiavelli non si cura è proprio di questa filosofia dell’esattezza, cacciatrice di minuziose scoperte e quindi in grado di incappare meglio di altre in pericolose esitazioni e colpevoli sviste. Egli procede libero nell’individuare cause ed effetti, reciprocità e corrispondenze. Non tiene conto di nessuna gabbia metodologica, spesso è proprio la contraddizione a rivelare l’entità e la portata di una convinzione significativa, e ancora più spesso le cose denunciano rapporti rivelatori proprio quando sono contrastate dall’approccio teorico piuttosto che favorite dal tecnicismo indagativo. L’orrido apre la strada al possibile altro, a una felice convivenza umana? No. Non è questo che suggerisce Machiavelli. Eppure molto si dovrebbe dire in questa direzione.
Estranee alle frequentazioni di Machiavelli le esercitazioni retoriche sulla società perfetta del futuro, progressivo o subitaneo che sia quest’ultimo, dovuto alla savia composizione dei dissensi o alla radicale distruzione del potere. Sono anarchico e di tali conforti me ne intendo, sognatore come tutti gli anarchici non ho mai voluto dare il mio personale contributo a ingrassare simile granaio. Il pane che ne deriva non l’ho mai cotto né mangiato. Di architetture a tutto tondo, sul come l’umanità liberata reggerà nel futuro le sue sorti, non me ne intendo. Sono più basso di statura e i miei occhi, ormai occhi di vecchio, non arrivano a vedere tanto lontano. Per la verità i miei occhi anche quando erano giovani non avevano di mira contabilità utopiche, i vari livelli stratificati in maniera libera di una società perfetta mi sono sempre parsi esercitazioni per spiriti deboli, incapaci di guardare fisso in faccia la bestia peggiore che esiste in natura, l’uomo. Se lo si guarda bene si scopre sempre l’assassino, anche se poi con questo brutto ceffo si possono fare meravigliose realizzazioni, perfino generose e alternative, ma sempre pronte a precipitare nel baratro dell’orrido. Scrivono Ludovico Geymonat e Giulio Giorello: «Il campo dove l’applicazione di una mentalità critica, antidogmatica, produce le conseguenze più singolari è quello della politica, dove tale mentalità sgretola la tendenza dominante ad accogliere taluni princìpi come capaci, da soli, di discriminare gli Stati che meritano la qualifica di civili da quelli incivili. Per illustrare gli effetti derivanti dall’applicazione anzidetta, può essere sufficiente esaminare molto in breve la retorica più diffusa che avvolge il cosiddetto principio di libertà, facendone un principio metafisico. A rigore il termine “libertà” non denota un concetto preciso, se non si specifica l’ostacolo che si frappone alla piena attuazione dei nostri bisogni o desideri, e che l’uomo libero si propone appunto di abbattere. Occorrerà pertanto distinguere vari tipi di libertà a seconda degli ostacoli ai quali ci si riferisce; di carattere economico, culturale, fisico, ecc. Invece quando si parla del principio generale secondo cui “bisogna a qualunque costo salvare la libertà”, si ritiene di non dover fare ulteriori specificazioni, ed è proprio questa indeterminatezza che sta all’origine del fascino del principio stesso e che gli fornisce un carattere assoluto. Se però noi analizziamo con attenzione i numerosi appelli alla libertà che siamo soliti udire intorno a noi, ci accorgiamo facilmente che essi sono tutt’altro che indeterminati; si riferiscono infatti alla libertà politica, nella forma sanzionata dai princìpi della rivoluzione francese. Questa precisazione ha l’indubbio merito di dare un senso rigoroso al concetto retorico di libertà e ai discorsi che vertono su di esso, ma dovrebbe anche servire (il che purtroppo non accade) a dissolvere l’alone metafisico che stava all’origine del suo fascino». (Le ragioni della scienza, Bari-Roma 1986). Tutto appare grigio e umbratile se mi volgo indietro fermandomi nel punto dell’apertura, l’abbandono favorisce l’intuizione ma il problema vero è che la seconda deve per forza precedere il primo. Nel meccanismo ripetitivo del fare coatto non c’è modo di rispecchiare il mondo da me creato, quello che confusamente riesco ad intuire, la volontà lo impedisce e lo soffoca. L’abbandono deve prendere il sopravvento perfino al di là della stessa interpretazione. Muovere dal tema della separazione, per un desiderio di totalità nell’uno e attraverso la realtà, non è direttamente comprensibile, difficilmente può costituire la base per un articolato progetto produttivo, difatti non si rispecchia in niente che non sia un rinvio all’infinito, un desiderio prostrato di completezza. Detronizzare la ragione è solo apparentemente difficile, in fondo nasconde terreni friabili su cui non è possibile costruire. La continuità tra immediatezza e coscienza diversa è una idea controintuitiva, dipende da un simultaneo svolgersi di costruzione accumulativa nella fattività coatta e di frangenti distruttivi che radicalizzano l’interpretazione critica negativa fino a renderla inutilizzabile per il fare stesso. L’intenzione si articola in sollecitazioni contestuali specifiche che fronteggiano la produzione di senso, mentre prende corpo, di fronte a un’articolazione volontaria che cerca di sfuggire alle regole e ai protocolli, una diversificazione fortemente intuitiva. Molto viene perso dall’accumulo e dalla specificazione intuitiva, una sorta di apoptosi o caduta delle foglie. L’apertura verso la realtà e l’oltrepassamento sarebbero incomprensibili e quindi inaccessibili senza questo scremarsi ambivalente che prelude a saldature ignote, concessioni qualitative unitarie e irripetibili.
La condanna di chi cerca la libertà è quella di ricominciare sempre daccapo, in modo circolare, ricorrente, senza inizio e senza fine, senza guida e senza fantasime di definitezza. Le cose evolvono caoticamente, un misto di logica e di fortuna direbbe Machiavelli, un caos concreto, che presenta continuamente un paradigma diverso, mai uguale a quello che volonterosi scriba hanno registrato in passato. Non c’è un orientamento valido per sempre. La libertà per prima agisce su se stessa rendendo presto inaccettabili le sue realizzazioni per carenza di libertà, inabissandole nel caos delle cose, dove tocca agli amanti suoi, della libertà, trovare un nuovo e a volte radicalmente diverso orientamento. Machiavelli cerca la sua strada e non la trova, da amante della libertà, non certo da ottimate, non la trova e se ne angustia, per quanti tentativi possa avere fatto e strade tentate, alcune inconcepibili per uomini dal palato debole. E la ricerca deve continuare testarda, come la sua, incidendo sulle cose, entrando nelle cose, fisicamente, non solo a chiacchiere, rendendosi parte delle cose, che queste non sono un amalgama indistinto, per l’appunto ci sono il popolo e ci sono gli ottimati, la qualcosa significa, in altre parole, prendere la parte degli esclusi per portare avanti la ricerca di sempre nuovi orientamenti nelle cose. Affermava Furio Jesi: “Almeno in qualche circostanza un po’ di manicheismo sarebbe opportuno; se non altro nella misura in cui costringerebbe a pesare (non diciamo subito ad accettare) ciò che Nikolaj Berdjaev trasse dalla concezione di Dostoevskij: La libertà dell’uomo non può essere accolta se viene da un ordine forzato, come un suo dono. La libertà umana deve precedere tale ordine e tale armonia. Che cos’è la rivolta, se non l’affermazione di questo principio?”. Non rispondendo alla domanda fondamentale, tutto qui?, metto in dubbio la qualità nel suo insieme, il massimo livello compenetrativo che è quello della libertà. Apro allora le mie ali e plano sul mondo da me creato, indifferente come un mendicante che si è servito alla tavola del re. Riprendo il mio fare coatto e nello stesso tempo, essendo adesso temporalizzato il mio essere a scadenza, guardo con occhio più attento e più indagatore al mio destino. Anche se mi sento un traditore della libertà, so che sono portatore di una scompensazione che solo il destino può capire, non la realtà così banalmente attaccata al suo essere produttiva di forze oggettuali. L’estremità oggettuale del destino può cogliere la mia inutilità, nuova e diversa contraddizione inquieta che si è venuta a collocare nella mia immediatezza, e dialogarci. Di fronte al mio dire rammemorabile, rivolto al destino, e che solo il mio destino coglie in pieno come parola, anche se dimessamente presentata come guazzabuglio semantico, io non sto bene nel corpo della mia immediatezza. Quasi niente di questo nuovo dire permane nelle collocazioni garantite dai protocolli, questa mossa immensa, che qualcuno insiste a osservare semanticamente, mi è estranea, solo la voce del destino, filtrando attraverso di essa, arriva fino a me e mi fa riflettere, conoscenza permettendo, sul dire che concerne l’agire, l’esperienza terribile nel territorio desolato della realtà. La saggezza non agisce, non ne è in grado, ma sa e lo dice alla parola col suo silenzio diafano, e la parola lo dice nella forza della rammemorazione. Accetto in ogni caso questa condizione che mi fa visitatore della saggezza, ne ammiro i limiti e lo svuotamento, so che contemporaneamente un mondo complesso, quello che da me creato, continua a muoversi dentro e fuori di me, e che i miei svuotamenti per gli altri sono tutt’altro che convincenti. Ma io non voglio convincere nessuno, mi basta riuscire a ritornare in me nella scomparsa della conoscenza, nella saggezza, guardando la parola in silenzio, aspettando la sua apertura, il suo dischiudersi a mille livelli incontrollati.
In Machiavelli l’osservazione si acuisce man mano che scema e viene penalizzata la sua attività politica professionale. Forse anche prima in lui si erano aperti i vasti orizzonti della motivazione filosofica e la decisione di non accettare né la lezione di Ficino né quella di Poliziano. Insomma nessun neoplatonismo filosofico e nessuna direzione univoca di ragionamento, al contrario una rete, anzi una ragnatela di corrispondenze, racchiusa in circa tre lustri di intenso spazio culturale, indicazione di una molteplicità di segni intervenuta a raccogliere gli stimoli di un ambiente letterario e perfino editoriale (Giunti), ma più di tutto di una sua tendenza a porsi al centro di una scena immaginaria certo, eppure concreta, dove le cose, le vicende politiche che immergono nella melma le cose, in mancanza di un criterio stabile, di un orientamento univoco, danzano esacerbando il caos che le produce senza sosta. Per cui l’apparire del nuovo trova questo straordinario filosofo-pratico immerso nel vecchio di cui attende ancora la realizzazione pratica, come se l’arsura del deserto dove le cose deambulano senza tregua confondesse vecchio e nuovo in un unico ballo osceno provvisto di musica dissonante con ogni passo o ogni approccio rappacificante. Il nuovo sfugge alla sua prosa diretta e si traveste di vecchio, ma la sensibilità del filosofo coglie questo camuffamento perché per primo è lui a metterlo in atto nel momento in cui lascia che il nuovo gli scivoli tra le dita. Scrive Renato Cristin: «Facendo riferimento alla distinzione ricoeuriana tra metafora viva e metafora morta, la figura dello specchio sembra trovarsi in una posizione che abbraccia entrambe le dimensioni. Il suo arco oscillativo è teso fra la concezione platonica, neoplatonica e della mistica altomedievale da un lato, secondo cui lo specchio rappresenta il tramite statico che riflette la perfezione della verità divina, e quella eraclitea, leibniziana (e bergsoniana) dall’altro, in cui lo specchio restituisce il movimento inesauribile del mondo. Nella prima Io specchio è la proiezione delle ombre della caverna: specchio immobile. Nella seconda è il riflesso di uno scorrere: miroir vivant perpétuel (Leibniz). Se la nostra sensibilità filosofica postmetafisica ci presenta lo specchio raffigurato dal neoplatonismo come metafora morta, cioè usurata e svuotata di energia evocativa di una realtà effettuale, l’immagine dello specchio suggerita dall’itinerario che possiamo ricondurre a Leibniz (e a Eraclito) ci restituisce una metaforica relativamente viva: qui lo specchio diventa espressione della Weltoffenheit, dell’apertura del concetto al mondo, dell’irruzione della vita nel pensiero. La metafora dello specchio usata da Heidegger e da Husserl ricade proprio in questo secondo ambito. Per entrambi lo specchio è mondo, apertura, vissuto: entrambi rielaborano, pur in forme diverse, il concetto leibniziano secondo cui “non c’è alcunché d’incolto, di sterile, di morto nell’universo”. In Heidegger, Spiegel è uno Spiel, un gioco, un ricorso dinamico tra il lato negativo e quello positivo dell’essere, fra l’essere come unità e come molteplicità. Lo specchio è gioco fra spazio e tempo, riflesso di quell’ambito in cui l’essere ereignet-sich. Certo qui emerge una maggiore prossimità per esempio alle Spiegel-gedichte rilkiane che al processo con cui Husserl razionalizza questa metafora. Il movimento resta però analogo: il fenomeno del mondo si impone e circoscrive un campo di ricerca completamente nuovo rispetto alla tradizione. In esso la metafora dello specchio recita un ruolo importante: mondo come gioco di specchi, dice Heidegger, e Husserl sembra assentire: “nel mondo si suddividono cose fisiche, che hanno le proprietà di ‘corpi propri’, e collegati a queste ci sono oggetti psichici — o, come potremmo anche dire, ‘monadi’, la cui meravigliosa proprietà consiste nel rispecchiare l’intero mondo e nel rispecchiarsi reciprocamente, nella forma cioè delle loro rappresentazioni, dei loro Erlebnisse conoscitivi. Una parte del mondo non è dunque soltanto una parte, essa è uno specchio vivente (lebendiger Spiegel), rappresentante, conoscente del restante mondo, anzi: del mondo intero”. Osserviamo soltanto che, pur respingendo la prensione oggettivante della rappresentazione dualistica, Husserl propende per un rispecchiamento di tipo teoretico e conoscitivo, mentre Heidegger, nella sua ontogonia, si ritrae dal pensiero rappresentativo risolvendo la figura dello specchio nell’evento dell’essere». (“La monade, l’eco, l’arcobaleno. Heidegger, Husserl e il concetto leibniziano di sostanza”, in “Aut aut”, 1981, nn. 223-224, pp. 232-233). La parola che innesta il processo rammemorante sviluppa percorsi quasi sempre trascurati, automaticamente, a volte, gli stessi labirintici contorcimenti datati attorno alla volontà, vengono ripercorsi senza produrre le vecchie significazioni, come se i solchi precedentemente scavati siano stati coperti dal processo attivo di trasformazione senza predilezione per questa o quella traccia di protocollo. Lo scontro tra questi percorsi semantici, apparentemente simili, dà vita a scontri di identità che possono essere risolti solo liberandosi dai condizionamenti del fare come presupposto del dire. Tutto ciò non è una garanzia contro la cecità e l’intolleranza nei riguardi di una rottura possibile delle mura che garantiscono la coazione. Non appena intravedo l’apertura verso la realtà, sulle prime la paura mi rigetta indietro, tra le braccia della volontà coatta, e ciò per proteggere proprio quel patrimonio conoscitivo che mi aveva portato a interpretare in senso attivo la disponibilità conoscitiva a cogliere il mondo. Non appena sono sul punto del saluto questo desiderio di garanzia e protezione si affievolisce e la mia capacità di dire parimenti si attenua o scompare. Lo sguardo lungo dell’uno che è mi fa improvvisamente intuire che è il vuoto, il suono che da quel vuoto proviene non è avvertito nel campo, e ridonda cristallizzando e sedimentando una proiezione del fare che la volontà cerca in tutti i modi di cancellare. Questo universo fattivo non interviene che raramente nel fare immediato, ma si acuisce quando l’inquietudine cerca di prendere il sopravvento. Il risultato è uno sciogliersi del fare dall’interno, un logorio inaspettato delle sue difese, un distacco dai risultati e dallo scopo dapprima essenziale della completezza.
Il non dire, il mancare di dire, è il genio nascosto del dire, l’arcana esplosione di splendori che nessuno saprebbe ripetere perché non appartengono alla parola ma alla sensibilità di chi è nelle cose, raccolto nel raccogliere, fermo nel procedere, veloce e violento. Ciò per prima cosa significa sacrificio del sistema. Machiavelli è scrittore che lotta contro le giustapposizioni sistemiche, eppure forse nessun altro filosofo come lui è stato sottoposto ai bombardamenti di coloro che a ogni costo volevano, e vogliono, racchiuderlo in un sistema. La sua era falsa modestia, quella dei tanti machiavellisti è pretesa dettata da superbia ottusa e scolasticamente rinforzata. Machiavelli potrebbe rispondere di essersi accontentato di agire anche quando l’azione gli era stata tolta di mano. E questo spiegherebbe quelle tante volte in cui il suo dire sembra adombrato di moti dell’anima non proprio gradevoli. Chi agisce opera quindi ben al di là delle pie intenzioni dei suoi critici, ha quasi sempre pazienza limitata, si muove in maniera discontinua, accelera e rallenta secondo ciò che gli passa per la testa, non osserva le regole ortopediche di chi osservando guarda in orizzontale.
Il contrasto non può essere che feroce, e comico a volte. L’azione è filosofia in fieri, non accetta riconoscimenti dinastici, non vuole spartire le proprie responsabilità con chi non sa nemmeno che vuol dire mettere in gioco la propria vita. Per gli astanti, i benefacenti contemplatori dell’ombelico, il proprio non quello del mondo, pensare l’azione significa perdere il sonno, e a nessuno garba non riuscire a dormire. Per converso nessuno può insegnare a un altro come mettere a rischio se stesso, se vuole vivere, e in che modo il simulacro di vita della cancelleria, che pure, e contraddittoriamente, allettava Machiavelli, non sia che un non vivere. E, in effetti, le prime stille di concentrazione filosofica caddero su Machiavelli proprio mentre l’agire politico ufficiale volgeva al termine. E siccome è proprio degli uomini del suo stampo non distribuire la propria vita per compartimenti stagni, eccolo che le cose della melma oscena entrano nella sua filosofia, e di questo se ne compiace, anzi ne ravviva i colori e perfino le estremizza, non si nasconde dietro il dito di un rifiutare da rinnegato. Così Heidegger in una famosa annotazione: «Se qualcuno, per esempio davanti al giudice, rende una “falsa testimonianza”, non è detto che si stia sbagliando, anzi, proprio in tal caso non deve affatto sbagliarsi, bensì, per testimoniare il falso, a maggior ragione deve conoscere il “vero stato dei fatti”. Il falso qui non è l’erroneo, ma l’ingannevole, il fuorviante. Il falso è dunque in primo luogo la cosa non autentica, in secondo luogo l’asserzione scorretta, che a sua volta può essere un’asserzione errata, cioè errante, oppure un’asserzione fuorviante. Noi però diciamo “falso” anche un uomo; si dice: “La polizia ha preso l’uomo sbagliato”. In questo caso il falso non è nè il falsificato nè l’errante, e nemmeno il fuorviante, bensì l’uomo “sbagliato”, che non è “identico” a quello cercato. Quest’ “uomo falso”, che lo è effettivamente in quanto è l’uomo sbagliato, può però essere ugualmente “senza falsità”: vale a dire che non v’è affatto bisogno che egli sia un uomo “falso” nel senso di colui che, subdolamente e in ogni occasione, sia nel suo comportamento sia nei suoi atteggiamenti, si è votato all’inganno. “Falso”, nel senso di subdolo, lo diciamo anche di un animale. Tutti i gatti sono falsi. Das Katzenhafte, il “gattesco”, è il falso; perciò in tedesco si dice Katzengold, oro falso, e Katzensilber, argento falso. Appare dunque evidente che il falso non è ogni volta la stessa cosa. Intuiamo tuttavia che queste diverse modalità del falso fanno pur sempre riferimento in qualche modo alla stessa essenza fondamentale. Ma questo stesso rimane indeterminato. Anche il termine greco pseùdos, che traduciamo abitualmente con “falso”, possiede una molteplicità di significati differenti. Ce ne rendiamo subito conto se per esempio dobbiamo chiarire che cos’è uno “pseudonimo”. Questo forestierismo è composto da ònoma, nome, e da pseùdos, anzi per la precisione da pseudès. Tradotto alla lettera, uno “pseudonimo” è un “falso nome”. Ma lo è davvero? Assolutamente no. Se un impostore si attribuisce un nome aristocratico e viaggia sotto “falso nome”, non “porta” alcuno “pseudonimo”. Il nome aristocratico in effetti deve soltanto coprire quello che il suo portatore è “in verità”. Tuttavia il “falso nome” dell’impostore non è nemmeno un mero nome di copertura. Quest’ultimo viene utilizzato ad esempio per un’impresa militare, come nel caso dell’“operazione Michael” sul fronte occidentale dell’ultima guerra. Un nome siffatto si limita a coprire qualcosa, e ciò che copre non deve in alcun modo venire alla luce. Viceversa, il nome assunto dall’impostore non si limita a coprire la “vera natura” del suo portatore ma, coprendo, deve al tempo stesso far apparire il portatore in una “magnificenza” che naturalmente gli spetta tanto poco quanto il nome stesso. A differenza di ciò lo “pseudonimo” non è nè soltanto un falso nome nè un nome di copertura, e nemmeno un nome meramente ingannevole. Lo “pseudonimo” – ovviamente quello conforme all’essenza – deve sì coprire l’autore, eppure al tempo stesso deve in un certo qual modo farlo apparire, e per la precisione non (come nel caso dell’impostore) quale ciò che in verità non è, bensì quale ciò che effettivamente è. Fu così che nel 1843 Kierkegaard pubblicò a Copenaghen uno scritto intitolato Timore e tremore. Lirica dialettica di Johannes de Silentio. Questo Signor di Silenzio voleva in tal modo comunicare qualcosa di essenziale su di sé e sulla sua attività di scrittore. Analogamente, fra gli “pseudonimi” dei due scritti Briciole filosofiche (1844) ed Esercizio del Cristianesimo (1850) sussiste un nesso essenziale. Il nome dell’autore del primo suona Johannes Climacus; il secondo fu pubblicato da Anti-Climacus». (M. Heidegger, Parmenide, tr. it., Milano 1999, pp. 75-76). Il silenzio sgradevole della realtà devo affrontarlo con il coraggio del coinvolgimento, non posso rivolgermi a tutto quello che come zavorra ho abbandonato sul molo di partenza. O sono capace di affrontare l’estrema solitudine dell’agire, o devo seguire la scia della rinuncia, quello che mi riconduce al fittizio mondo dell’abbraccio cautelativo. Più mi faccio risucchiare indietro dalla freddezza del cuore, che così si chiude alle fortune alternate e controverse dell’intuizione, e più vengo divorato in fretta dal desiderio di concludere. La mia impazienza fattiva mi serve da falso obiettivo e da effervescente distrazione intesa in senso pascaliano. Sono così pietrificato e non voglio ammetterlo, pallide ombre in fondo alla caverna mi passano davanti agli occhi e io continuo a vederle come la sola realtà possibile. Che mi indica la presenza intuita dell’uno che è? Che mi dice la sua intrasferibilità da questa parte, in quella immediatezza che mi imprigiona? Questo senso che mi ottunde le orecchie fino ad assordarle, come può ascoltare, senza pregiudizio e senza parentesi fortunate ma incostanti, quel flebile segnale? Quando molte dolorose occasioni di esperienza modificativa si affacciano nella mia coscienza immediata, occasioni del fare stesso e delle sue incomprese contraddizioni, non è forse la follia di quel segnale che si fa viva? Non sono forse i modelli e i confini della quotidianità che vengono clamorosamente sfondati?
Non è certo audace la sua speculazione filosofica, metodologicamente parlando essa quasi non esiste, è audace il suo restare nelle cose, non aggirarle o spacciarle per quello che non sono. Le stesse lontananze o separazioni – famosa quella tra politica e morale – sono a sprazzi, coagulate in poche righe, quasi incisi più che dimostrazioni, mai tediose o tendenziose, esse dicono e vanno avanti, oppure e meglio, esse fanno dire le cose e non vi si soffermano più del necessario. Non resta mai fermo sul colpo, non raddoppia, è troppo lento il ritmo del ritornare su ciò che si è detto, la sua morbosità altezzosa glielo impedisce, la pagina stessa sembra bruciare sotto la sua penna veloce e non certo per l’intersecarsi di realtà e immaginazione, intendendo quest’ultima nella limitata prospettiva della banale invenzione. Egli ha una forza fulminea che gli fa cogliere quello che sono le cose, il resto stenta ad apparire nei non molto affettati capitoli del libretto malefico. Quale che sia l’argomento preso in esame, che sempre di melma si tratta, le sue parole risuonano da un capo all’altro della pagina e producono nel lettore quello che lo scrittore esattamente voleva che producessero, cioè la diretta apprensione delle cose, non la loro interpretazione o condanna o giustificazione. Machiavelli non sorprende mai fino in fondo, lo si conosce subito per quello che è, non è da scoprire in lui la riflessione che era sfuggita nel grande mare delle dimostrazioni, tutto ciò non esiste, si scoprono invece le cose come non si poteva immaginare che fossero, e si rimane folgorati. I piani della realtà sono molteplici e si scoprono tutti in una volta in quel piccolo libro maledetto, ma qualcuno può sempre sfuggire, ed è allora ritrovamento prezioso. Mi accade da sessant’anni.
Quale il significato? È veramente quel verminaio che è stato descritto da una inarrestabile legione di antimachiavellici? Certo è un libro per pochi, ma non per nessuno, come quello di Nietzsche. Dico subito che non è libro per politici e nemmeno per filosofi, è un libro per uomini d’azione, consiglia ma non conclude, impartisce suggerimenti ma non vincola, non rivela segreti, non risponde a ipotesi astratte. È un piccolo libro compatto e forte che parla delle cose dell’uomo, e le cose dell’uomo, a causa del suo inevitabile vivere in società, sono radicate nella melma. È un libro che parla di politica, quindi di melma. A causa della sua durezza, poche righe di questo malefico libretto valgono quanto un intero trattato di Hobbes. Dieci righe non giustificano, non ne hanno la possibilità, o sono efficaci o non lo sono, non si prestano a diventare monumenti filosofici, sono un lampo memorabile che si ricorda per il suo splendore e per la tragica scena che è riuscito a illuminare. L’incisione sanguinante che la volontà riesce a descrivere con precisione toponomastica su di me grazie al fare coatto è la mia solitudine, alla quale posso rinunciare abbassandomi fino ad immergermi nella sofferenza urlante che mi circonda, anche qui, ora, in carcere [2010]. Il muro che costruisco è prodotto dal fare, mi salva la vita, ma mi espone a sempre più impensabili provvedimenti dell’imprevisto. Devo abbandonarlo o eseguirlo fino in fondo, finisco per dare la mano alla volontà. Alla fine, all’angolo, alla svolta radicale, che così appare davanti al mio occhio stanco, trovo sempre la guardia armata sugli spalti. Se rifiuto il fare, riconoscendo nel dominio della ragione volitiva l’emblema coatto del carcere dove vivo, alimento un’aspirazione inarrestabile al rifiuto della conoscenza, come se questa potesse aumentare a dismisura le mura che mi circondano e divorarmi nella sua terribile significazione rendendomi evanescente, insignificante, dissolvendomi. Tutto quello che mi circonda, l’oggettualità tangibile di una istituzione totale diventa esistenza enigmatica, imprevedibile. La consistenza mortale del mondo mi si rivela senza mezzi termini, senza sfumature. Lo spazio si contrae dentro di me e non è l’occhio l’artefice di questi spasmi di paura. Continuo a vedere porzioni di spazio, ma i significati si sovrappongono fino a scontrarsi uno con l’altro. Il fare è la riproduzione simbolica di questo spazio, caricato di senso, senza che mai risulti possibile un movimento che lo cristallizzi definitivamente in oggetto. Il meticoloso ripresentarsi del prodotto si carica di un altro genere di significati e non prepara la realtà, anzi se ne allontana titubante e timoroso. Il prodotto non è l’oggetto, questo è stato tagliato per potere essere percepito, l’antico referente, ciò che dovrebbe rappresentare è ormai remoto. Quello che ho qui, che mi circonda a portata di mano, eminentemente espresso dalla prigione che mi ospita è una sommatoria cinicamente abominevole di pezzi staccati, che la paura mi suggerisce come mettere insieme.
Singoli personaggi e accadimenti, Cesare Borgia o una progettazione di massacri, sono stati isolati e anatomizzati, perdendo in questo modo quella connessione con il tutto che nel piccolo libro costituisce un capolavoro. Questo intreccio è il vero contenuto filosofico che importa a Machiavelli e che dovrebbe importare anche a noi, altrimenti tutto si disperde nella riprovazione morale o nella valutazione dei guadagni e delle perdite. Così è accaduto che provveduti esegeti abbiano lasciato ristagnare la filosofia che sta sotto perdendone il senso, facendola sfiorire in una puntuale trattatistica di costume, magari scritta a bellaposta per sbalordire l’inaccorto lettore. Non è certo compito degli esegeti di mestiere mettere le mani a mollo nella melma, loro rimangono di solito al sicuro in attesa della pensione, ma è compito nostro, di coloro che dell’azione hanno fatto metodo e sostanza di vita. Molti lettori di Machiavelli hanno evitato questa discesa agli inferi, ignorando bellamente l’intreccio in questione. Così hanno trattato Machiavelli come letterato e non come filosofo e uomo d’azione, rimanendo da parte invece di entrare dentro una giungla di corrispondenze che li avrebbe tramortiti. E questa omissione ha svalutato il loro lavoro e gettato su Machiavelli la luce sinistra di un facitore di parole in vena di estremismi.
L’intreccio di cui parliamo è verticale, cioè produce e si produce nel senso della profondità. E questa condizione nel piccolo libro non è mai un fatto accidentale, è presenza costante dal primo all’ultimo capitolo. Bisogna caso mai notare i rari momenti in cui la tensione si abbassa, quasi gangli di un reticolo di cambiamenti che accedono a tematiche e moduli riflessivi contrastanti se non proprio antitetici. Non è qui il migliore Machiavelli, ma non è nemmeno il più trascurabile. Ogni esercizio di profondità, specie nella melma, richiede capacità speculative enormi in grado di spezzare la piattezza asfissiante delle cose umane, processo che non può essere esente da momenti di cambiamento di ritmo. L’esattezza dei contorni tende ad aumentare in questi casi, ed è cattivo segno in operazioni di profondità. Poi torna il tagliente ritmo consueto, torna il risalto globale, la scarna considerazione del particolare, ed è ancora una volta il migliore Machiavelli che ricompare. Uscendo da simili accidenti ritmici si avverte che il suo sentimento del proprio compito è potentemente accresciuto, la lena riprende inalterata. Un desiderio mi può travolgere come il mare in tempesta senza che lo scrosciare delle onde riesca ad avvertirmi in tempo del pericolo. Una rammemorazione senza fine non mi riporta a un qualche splendore desolato, solo la realtà può farlo, con la mia personale complicità. La puntualità nell’azione è oscura e luminosa nello stesso tempo, non resiste all’identificazione forzata di una dimensione temporale, se insisto va via con un rapido dietrofront inatteso e imprevedibile. Andata via un’altra ne ricostruisco, una fenice nuova risorge dalle ceneri vecchie. Cercare di fissarla in un movimento circoscritto non è possibile, e quando la rammemoro viene fuori una sorta di esaltazione appassionata che il fare prende per la realtà della desolazione specifica del territorio attivo. Il permanere del silenzio nella puntualità dell’agire è al di fuori del tempo, quindi non può essere misurato né come intensità né come estensione. Il riferimento è l’uno che è.
Machiavelli non attende questi incroci privilegiati in senso negativo, non fa nulla per riposare la sua vivace capacità di osservazione, si limita a lavorare ininterrottamente, il resto lo fa la profondità della sua penetrazione nelle cose. Occorre che certi rapporti politici, sopiti nella melma consuetudinaria, si risveglino alla presa di coscienza, non quella di chi li osserva da lontano, ma di chi li vive dall’interno. Il popolo prima di tutto, che soffre le conseguenze di una sperequazione feroce e inalterata nella storia. Così Machiavelli nell’approfondire qualifica, cioè fa parlare le cose e queste rivelano la loro essenza interna, rapporti di forza, dove i più forti dominano e i deboli soccombono. A chi osserva questo processo non appare visibile nessun disvelamento, non c’è un aprire finalmente gli occhi alla realtà politica che è immersa nella melma, tutto sembra che scorra via normalmente, come è normale che accadano i massacri nelle vicende della bestia umana, come è normale il mestiere del boia di Cesare Borgia. Non è amarezza quella di Machiavelli, che mette a nudo queste atrocità, è sguardo attento, profondo, pieno di quella nettezza che viene solo dalle cose stesse.
Occorre insistere su questo straordinario incontro fra le cose, materia politica, e quanto Machiavelli di questa materia riesce a fare entrare nel suo libro. C’è un limite fisiologico nello scrivere ed è l’ovvia interpretazione di quello che viene detto. Machiavelli non può fare eccezione, ma la snellezza e la spregiudicatezza di questa dimensione interpretativa è la sua particolarità, come se le cose, la materia melmosa di cui si occupa, sgorgassero ininterrottamente dal suo pensiero, quindi dalla sua vita, che non è possibile questo genere di separazione. Così, l’interpretazione sfuma sullo sfondo man mano che Machiavelli procede nelle cose, per cui queste ultime e i loro rapporti si stagliano nettamente – materia adesso capace di dettare le condizioni della propria esistenza – e informano con la loro forza primordiale ciò che nel volgere dei secoli sono state, simbolo e oggetto simboleggiato, rimescolamento del tutto che nella parte si trova e viceversa. La profondità della prospettiva attuale, nata con il respiro stesso della filosofia di Machiavelli, diventa molteplicità dei piani temporali, sovrapposizione di esempi e occasioni per andare altrove, per conto proprio.
La pulizia del dire, da sola, non basterebbe a frenare l’implicita interpretazione, c’è il riscontro temporale che affronta e dimensiona a suo piacimento il muoversi autonomo delle cose. La filosofia è qui, in questo passaggio che conduce al di là della contingenza, che impedisce al libretto di Machiavelli di restare nei limiti tradizionali della trattatistica. Sotto un altro punto di vista ecco alcune riflessioni sulla filosofia della vita: «D’altra parte, in un altro senso, Bergson restringe la libertà a momenti di crisi, a momenti di volontà forte, in cui la nostra persona è impegnata interamente: “Momenti della nostra esistenza in cui abbiamo optato per qualche decisione grave, momenti unici nel loro genere, e che non si riprodurranno più, così come, per un popolo, non ritornano le fasi scomparse della sua storia”. L’atto libero è, dunque, l’atto di cui l’io solo sia stato l’autore. Ma precisamente questi atti sono rari. La causa della maggior parte dei nostri atti è estranea al nostro io reale, e va cercata nell’automatismo, nell’abitudine, o nell’imitazione. E ancora, qui, ciò che vale per noi vale per la vita intera: la vita si sviluppa come un cammino verso la libertà, ma un cammino disseminato d’ostacoli, in cui lo scacco, sotto forma di morte, è la regola, per le specie così come per gli individui. L’automatismo della materia è in agguato ad ogni passo. Questi due punti di vista non sono opposti: gli atti liberi sembrano, forse, pochi numericamente, nel nostro io attuale e nella sua natura attuale, rispetto agli atti automatici o agli esseri caduti nell’automatismo. Ma l’attuale non costituisce che una sezione della durata: la sezione dell’atto; e l’automatico è stato, a suo tempo, qualcosa di libero. Esso è una deviazione momentanea nel cammino verso la libertà. Sicché l’atto libero non si confonde con uno dei nostri momenti privilegiati: affonda nel nostro essere tutto intero, nelle profondità della persona, la cui punta ha, o dovrebbe avere, il compito di agire e di creare. Noi siamo realmente noi stessi nel sogno come nella veglia: ancor più, perfino, se crediamo a Freud. E perché, tuttavia, non sarebbe privo di assurdità considerare il sonno come il momento in cui siamo liberi? Perché dormire significa cessar di agire, sottrarsi, con la natura stessa, alla possibilità di agire. Due condizioni son dunque richieste per l’atto libero: una condizione di totalità e una condizione di azione». (A. Thibaudet, Le Bergsonisme, ns. tr., Paris 1939, pp. 246-247). L’intero coinvolgimento riduce fino ad azzerarla la mia capacità produttiva e interpretativa. Prima dell’apertura, o se si preferisce, del salto, c’è un attimo di sospensione dove tutto sembra contrarsi nel calore della vita, della condensazione estrema, della solitudine. Ma come dire questo calore? L’interpretazione è un veicolo che fa l’eterno viaggio dall’oggettualità alla parola e ritorno. I punti di riferimento sono protocolli che di volta in volta vengono scelti come indirizzo peculiare della critica negativa. L’interpretazione non pensa alla realtà, allo stesso modo in cui la rammemorazione non parla della realtà. L’archetipo del fare è il movimento percettivo, la separazione tra quantità e qualità. Non riesco mai a chiudere il prodotto nelle indicazioni programmatiche dell’archetipo, devo ricorrere alle mie capacità di fromboliere dalla inesausta vena inventiva. Lo stimolo interpretativo allarga gli atteggiamenti interiori del produttore, crea linguaggi paralleli a quello asfitticamente sclerotizzato del fare. Entra nelle dissolvenze emotive e nella persistente aridità del controllo volontario. Il linguaggio delle immagini e quello del corpo si concentrano nella interpretazione raggiungendo tensioni non facilmente riconducibili ai protocolli. Le geografie della normalizzazione sono sempre riproducibili dal costante controllo della volontà. Nella puntualità che raggiungo nell’azione realizzo nel territorio della realtà un alto livello di slancio vitale, una vera e propria inconoscibilità contestuale del mondo da me creato, una penetrazione approfondente che scava in me stesso, nel più intimo della familiarità di me stesso e qui si trova l’uno che è, il contrappeso e il punto di riferimento della mia puntualità. Tra di loro non c’è un punto di collegamento, solo un fronteggiarsi reciproco, un continuo estraniarsi e compenetrarsi. L’apparente immobilità è solo quello che non è possibile vedere come fare, che sarebbe visibile nel fare come semplice vedere. Le risonanze interiori alla mia puntualità sono ripristini e dissolvenze continue, concrescenza di liberazioni e intuizioni. Quello che manca è l’apparente e falso calore comunicativo che l’oppressione volontaria trasmette.
Filosoficamente parlando gli accadimenti passati – sia pure anche essi immersi nella melma umana – sono materia del profondo. Quello che assicura questo scambio è la mano ferma di fronte all’interpretazione, il freno che non cessa mai di operare, mentre le cose parlano da sole e intessono un discorso implicito e in corso d’opera con i tempi passati e con quelli a venire. C’è più di quanto si pensi dei Discorsi nel libro capitale di Machiavelli, c’è più di un isolato fantoccio come Cesare Borgia. Sarebbe difatti risibile un paragone solo, campeggiante su un cumulo di cadaveri. I secoli e l’enorme spettacolo cruento delle vicende umane sono i veri protagonisti, e con essi il loro accavallarsi mostruoso, che nessuna sensibilità di cuore può tollerare se non assistita dal polso fermo dell’uomo d’azione. E Machiavelli non solo tollera questa visione apocalittica, evidente nelle cose e parallelamente nascosta e misteriosa, ma ne trae riflessione e pensamento, prima di tutto per se stesso, poi per coloro che sanno ascoltarlo. Ecco quello che le cose profonde dicono, continua ad accrescersi la mostruosità mentre, per converso, sul piano della presa di coscienza di questo limite, l’uomo sembra sordo a qualunque insegnamento e continua a pascersi di melma.
Senza paura di irriverenza Machiavelli è ancora, in età matura, ché il volumetto malefico è prodotto maturo, scanzonato e scomposto come era in gioventù, naturalmente dal punto di vista strettamente letterario. Certo, lo era anche nella quotidianità, e questo conta in quanto avrebbe potuto mettere per redigere i suoi testi i panni curiali che dopotutto metteva nel proprio ufficio. Egli era invece per una lezione libera proveniente dalle cose e per una vita meno servile. E questa realtà pesa senz’altro sul rifiuto delle scelte filosofiche ellenizzanti, diffuse a Firenze nella sua gioventù, rifiuto che mantenne per tutta la vita. Fuori di dubbio che questo distanziarsi non aveva motivi religiosi, solo che non condivideva le scelte e le stesse critiche della teocrazia dei neoplatonici, da Ficino in giù. Anche se questa corrente aveva una risonanza europea, la prospettiva non lo allettava, cercava nelle cose, più in basso di quelle altezze dove avevano fissato la loro dimora i critici filosofici della tradizione biblica e cristiana. Gli interessava il groviglio degli intrighi e il sangue della bestialità politica, non la visione contemplativa, e questo per tutta la vita non solo nella giovinezza. In fondo per Machiavelli la scelta di Roma al posto di Atene dimostra un interesse per la politica, cioè per l’uso della forza, e nessun interesse per la filosofia greca rivissuta in Italia, a partire dal secondo Quattrocento, in chiave neoplatonica. Dall’altra sponda occorre tenere presenti i motivi della coincidenza: «Perché Nicolò Cusano ha creduto di poter sostenere la dottrina oscura ed inquietante della coincidenza? In realtà egli s’è lasciato adescare da una analogia. Tra la conoscenza intellettuale e la conoscenza razionale egli pone la stessa differenza che c’è tra la conoscenza razionale e quella sensibile; il paragone dei colori, che per il senso costituiscono una diversità, mentre sono unità per la ragione, è molto suggestivo; ma si rende conto il Cusano che in questo caso egli si eleva all’ordine logico, dal concreto all’astratto, e che al termine della sua ascesa egli applica a Dio l’idea più generale, o per lo meno, che egli pone Dio in una regione che è superiore alla più generale delle astrazioni? Egli pensa, invece, che Dio è l’essere sopraeminente, cui nulla s’oppone, l’essere nel quale coincidono i due contrari, atto e potenza, portati al loro grado infinito, o, meglio, l’essere che è al di là dell’atto e della potenza; in questo senso Dio ha un’esistenza ben diversa dall’esistenza logica di un’astrazione. Il Cusano ha avuto dunque un primo torto, di passare dal logico al reale; senza aver giustificato il passaggio. Egli ha avuto anche il torto di credere che, pure nell’ordine logico, il principio dell’identità dei contrari si applichi alla verità intellettuale. Senza dubbio, il genere abbraccia le specie diverse; ma le specie si distinguono fra loro per certe particolarità. Il genere supremo non è una specie, perché al di sopra di lui non c’è alcun altro genere, ed anche perché, essendo semplice, non include differenze; esso tuttavia conserva un carattere positivo, per il quale esso è e si oppone al non essere. Così pure avviene nell’ordine del reale: Dio è l’essere supremo, posto quanto si voglia al di sopra della creatura, diverso da essa quanto si voglia, ed intimo ad essa profondamente, in quanto ne è il creatore; ma, comunque, resta il fatto che egli è. Che l’essere sia o non sia la sua essenza, egli o esiste o non esiste. E se al vertice del pensiero e al vertice delle cose esistere e non esistere coincidono, allora usciamo dal dominio della speculazione per entrare in quello del sogno. Questa è la chimera fondamentale della filosofia cusaniana, in virtù della quale egli sperava di rinnovare il pensiero umano. Egli l’applica anche alle matematiche e, qualunque cosa n’abbiano pensato i suoi illustri contemporanei, Regiomontano, Peuerbach e Toscanelli, l’idea era feconda e doveva portare alla nascita del calcolo infinitesimale. Ma le matematiche sono opera del nostro spirito: non si può passare dai valori irreali della matematica al reale metafisico senza cadere nei più strani paradossi. Anche dopo Nicolò da Cusa, né per la via “progressiva” né per quella “regressiva” l’essere e il conoscere coincidono: il pensiero divino si degrada nelle cose; e il pensiero umano, facendo forza sulle cose e su se stesso, è tanto impotente a risalire fino al pensiero divino, che il vertice suo è costituito dalla “dotta ignoranza”, e, come Petrarca, Francesco d’Assisi, Giovanni Dominici, anche il Cusano è stato indotto a preferire alla scienza la virtù e la fede. Si vede quanto sia fragile l’unità e perciò la solidità del sistema filosofico del Cusano». (E. van Steenberghen, Le cardinal Nicolas de Cues, ns. tr., Paris 1920, pp. 446-447). La ricerca della realtà è abbandono del circolo vizioso della produttività, il che potrebbe a volte essere facile, ma è anche fuga dal controllo della volontà, il che è certamente difficile. Nella prima parte occorre una forte critica negativa, nella seconda questa non è sufficiente e occorre costruire quei percorsi ingannevoli che portano in strade false la volontà. Ricercare, attuare, fallire e ricominciare a cercare, sono itinerari complessi e non sempre realizzabili. A volte dolorosamente mi arrendo e il posto dove scrivo non facilita certo il mio progetto. La straziata immanenza che mi circonda mi porta via con sé, a volte, non è mai estranea alle mie resistenze e alle mie difese. Devo comunque dare costantemente una risposta al dolore e al male che qui vagolano liberamente e ingigantiscono e diventano nocciolo e tema di tutte le quotidianità. Mi accorgo a stento della estrema potenza di un autoconcentrarmi fatale e terribile di fronte alla solitudine della realtà, di fronte all’azione. Mi accorgo che le cautele di cui sono comunque portatore involontario, sono incontrollabili e imprevedibili, non mi trattengono, mi sfiorano soltanto. La mia puntualità rifiuta ogni forma di aiuto nella profonda oscurità della solitudine in cui sto agendo. Mi sono trovato spesso in queste condizioni e ho cercato di costringere il silenzio a dirmi qualcosa, a gridare all’interno della notte oscura del silenzio stesso, niente. Posso immaginare e pensare quanto voglio la mia esperienza diversa, ma prima di tutto devo concretamente viverla in me, non come qualcosa fuori di me che posso osservare e studiare da lontano. Se mi trincerassi dietro la dimensione insondabile dell’assolutamente altro, avrei solo la ridondanza delle risposte confortanti la mia fedeltà ai protocolli. Devo irrevocabilmente andare in un’altra direzione.
La pratica dottrinaria e profetica non era fatta per Machiavelli, meno che mai ogni atteggiamento religioso o divinatorio di stampo savonaroliano. Era incapace di intenerirsi davanti ai grandi sogni prodotti da ideali collocati nell’al di là, ogni religione, peggio ancora ogni teocrazia, lo rendeva vigile e ribelle, ogni intenerimento metafisico lo faceva sferzante e beffardo. Considerava questi modi di porsi di fronte alle cose come una fuga o, peggio ancora, come una menomazione di pensiero. Vedeva in essi, nello stesso tempo, uno strumento per attrarre proseliti al partito degli ottimati, sia quest’ultimo nella versione principesca che repubblicana. Non aveva di fronte una innocua versione dei flussi e dei riflussi della filosofia greca in Italia, ma l’egemonia culturale fiorentina di fronte alla pregnanza politica romana molto più incisiva sul piano concreto della politica europea. Insomma, la ricerca del bene, intesa filosoficamente, non era fatta per lui, temeva che questa potente patina offuscasse l’amara realtà delle cose, producendo modelli astratti al posto della conoscenza e mettendo in circolazione una massa di emozioni nobili quanto fantastiche e illusorie.
Prendere le distanze – anche senza dirlo a parole, ma registrandolo nelle scelte di campo – da uomini come Pico o Ficino, o dallo stesso Marcello Virgilio, suo capoufficio, non era facile, ma era in gioco una lotta ben più importante di qualsiasi disputa filosofica, la visione concreta e reale della politica, cioè delle cose melmose che si adagiano sul fondo del cuore degli uomini per condurli alle mete che la loro bestialità indica come eccellenti. Un nuovo bigotto era alle porte e non aveva neanche il coraggio o la spudorata fermezza di un Savonarola. Atene era trasportata a Firenze, e viceversa, almeno politicamente, ma la lotta non era solo letteraria, Roma non aveva le legioni di un tempo ma le ambizioni erano ancora forti. Bisognava leggere in queste e in altre ambizioni senza farsi soggiogare dal culto delle idee neoplatoniche, dai sogni utopici di un possibile mondo perfetto. E se c’era un uomo che poteva accostarsi alle cose in maniera disincantata, questo era Machiavelli, e se c’erano strumenti a portata di mano per rendere intelligibili quelle cose, sia pure attraverso il velo deformante della melma, questi erano in possesso di Machiavelli, sia dal punto di vista delle scelte culturali e letterarie che da quello della pratica attiva. In più, a far da partito per Machiavelli, c’era una sua radicale discordanza con ogni orpello e ogni eleganza di stile, l’uomo era crudo e tagliente – lo si vede nelle lettere personali – e il suo stile era esattamente come lui. Buffon aveva ragione. Così Carl Gebhardt, «Omnis determinatio est negatio, ogni determinazione formale significa negazione: non si può esprimere più radicalmente il sentimento della vita e del Barocco, che pone ogni valore nell’infinità, che vede in ogni forma solo l’irrompere della negazione dell’infinità. Come Alberti delimita il Rinascimento col concetto di “concinnitas”, così Spinoza ha espresso in questa proposizione la formula del Barocco. Anche l’altra linea essenziale del Barocco, quella dinamica, caratterizza la filosofia di Spinoza, anche se questo carattere sia completamente misconosciuto dall’interpretazione dello spinozismo come un panteismo matematico, che risale a Windelband e, oltre a lui, a Lotze. Chi trova l’essenza di ogni cosa singola in uno sforzo (= conato), ha inteso il mondo non staticamente ma dinamicamente. A ciò corrisponde anche il fatto che Spinoza trova l’essenza della corporeità non nel mero riempire spazio da parte della materia, ma nella sua propria attività, l’essenza dell’idea non in un mero esser dato al modo delle immagini sulla parete, ma nella sua spontaneità. Dio non è lo spazio metafisico di tutte le cose, ma “actuosa essentia”, essenza attiva, dinamica. Nel terzo essenziale segno caratteristico del Barocco sta il problema dello spinozismo: nella tragicità del Barocco. Come giunge il finito all’infinito? La religione del Barocco, religione dell’infinità che si contrappone alla religione di ciò che ha una sua forma, luteranesimo e calvinismo, ha fatto il tentativo di una soluzione, così come l’ha prefigurata la mistica spagnola e sistemata il gesuitismo. In quanto l’uomo esce da sé sulla via dell’estasi, si unisce con la divinità, passa dal finito nell’infinito. Gli Exercitia spiritualia di Sant’Ignazio hanno in qualche forma indicato la strada della perfezione religiosa (ultima grande reviviscenza del Cristianesimo che il mondo conosce); l’arte del Greco ha creato i simboli di questa estasi, in quanto lascia che la divinità si emani sulla terra in un turbine cosmico, e che l’uomo si sforzi di salire verso il sopraterreno con magica attrazione. L’aspirazione verso l’infinito della Controriforma come della religione del Barocco supera nell’emanazione e nell’estasi l’abisso della Trascendenza. Se questo superamento sia effettivo o illusorio, se anche la religione del Barocco sia illusionismo nel più ampio dominio, come l’arte, della quale essa si riveste, questo può deciderlo solo l’esperienza vitale e non la scienza. Questa assoda soltanto che la tragicità del Barocco, la quale trova nelle opere mature di Michelangelo la sua più imponente espressione, non era stata risolta senza residui attraverso un sistema dell’estaticismo spagnolo. Essa deve assodare che il mondo conosce ancora un altro tentativo di soluzione, che ebbe luogo in Olanda: Rembrandt e Spinoza. La soluzione che essi hanno dato del mondo non sta sul piano della trascendenza ma dell’immanenza; la loro soluzione quindi non è estatica ma mistica. La religione di Sant’Ignazio è stata una delle possibilità del Barocco, lo spinozismo ne è l’altra». (Introduzione a Spinoza, tr. it., Roma 1925, pp. XVIII-XIX). La catastrofe del fare è ineluttabile, o si concretizza in un oltrepassamento, o sigilla i limitari della tomba e i contrassegni onirici del cimitero. La solitudine della realtà consegna alla puntualità attiva la compattezza insondabile dell’uno che è, questa è una diversa esperienza del vuoto dove si muovono fantasmi e ombre che ricordano, deformandole, le false certezze del fare. Dilato la mia puntualità ma non posso che agire trasformando il mondo da me creato evitando di farmi risucchiare. La volontà è una forza cieca che attira verso di sé ogni fare, ogni movimento modificativo della coscienza immediata. Lasciata a se stessa costruisce muri sempre più alti e controlli sempre più dettagliati. Le armi della ragione sono il vero collante che la regge, anche se all’occhio intuitivo esterno può sembrare spinta solo dalla cieca forza di tutto comprendere e sottomettere. Attenersi al fare, racchiudersi nel presunto guscio della salvaguardia, è un attenersi al programma della propria morte. Il fare travolge e spezza tutto, non può spezzare se stesso, per ottenere questo occorre un processo e una forza esterni al fare stesso. Per dare spazio all’intuizione della qualità occorre disincarnarsi, spezzare ogni equilibrio, ma non con la forza del fare che spezza e ripristina, ma con l’abbandono al coinvolgimento che coraggiosamente va verso l’apertura. Ma ci vuole una punta di abbandono vero e proprio in questa tipologia di coraggio, anche se non è mai dato sapere se a prevalere sia l’abbandono o il coinvolgimento, ammesso che si possano fare distinzioni di questo tipo e di questa sottigliezza. Queste lontananze sono in sostanza movimenti circolari.
A ben pensare, nell’utopia ricreativa, che tanto ci consola oggi come ieri (forse oggi meno di ieri), c’è qualcosa di affligente. Nessuno ignora infatti che si tratta di una invenzione, di una maschera, di una barba posticcia, ma tutti fanno seriamente finta di credere possibile ciò che è possibile solo nella fantasia. La viltà umana è mista al coraggio, la melma al sublime, l’uomo è più profondo di quello che i filosofi hanno immaginato, ma queste cose sono mischiate insieme e se si toglie il bene per renderlo vivente e agente da solo, capace di espandersi fino a coprire tutto il mondo, non si cancella per questo la viltà e la melma, anzi queste sopravanzano qualsiasi ciancia e fanno in modo di apparire esse stesse la significanza umana più alta. Machiavelli sceglie da solitario di parlare di questa parte malvagia, che poi è parte predominante se non proprio esclusiva nel campo del vivere in società, e non si cura di dare conto del sublime, del bene, di quello che a volte l’uomo riesce a realizzare di grande e di buono, lascia che di questa parte, qualora ci fosse qualcosa da dire, se ne occupino altri, i partigiani del bello e del perfetto. Il suo carattere e la sua coscienza di sé non gli permettono altra scelta. Approva quindi a viso aperto questo scontro con la melma e non indietreggia di un passo, e non perché, come a volte gli è stato rimproverato, faccia una scelta parziale e partigiana. Eppure è proprio questa parte che si rivela nelle cose sotto le sue mani, che vibra in tutte le sue fibre, orride, d’accordo, Machiavelli sarebbe stato il primo ad ammetterlo.
L’altra parte sta seguendo strade ormai nuove nei percorsi letterari veneziani di Bembo e napoletani di Sannazaro. Il che significa la nascita di una lingua volgare diversa e più articolata del fiorentino, una lingua che ormai mette conto chiamare italiana. A Machiavelli sarebbe parsa sprecata nelle esercitazioni letterarie, in lui infatti ribolliva l’idea nuova di una corrispondenza intima e segreta tra lingua e cose che con una lingua specifica – non col latino o meno ancora col greco antico – possono essere dette. La melma non ammette artifici, risponde con la chiusura più netta a qualsiasi tentativo di farla diventare una categoria filosofica suscettibile di essere catalogata e giustapposta in adiacenze universitarie. Machiavelli si ribella alla letteratura fine a se stessa, ama divertirsi, spirito caustico e irriverente, ma l’oggetto dei suoi studi non ammette che venga agghindato per apparire diverso da quello che è. Le esercitazioni lo esasperano, lui corre al concreto e non crede nella politica come categoria dello spirito, non la considera argomento simile all’amore o all’odio, ai sentimenti che balenano e scompaiono nel cuore degli uomini. Le cose di cui si occupa, le cose politiche che vengono fuori dal vivere in società, non sono sentimenti, né belli né brutti, sono melma umana, entrano in quella caverna che esiste nel profondo di ognuno di noi, dove nascondiamo le atrocità di cui siamo capaci e che spesso solo il caso ci impedisce di compiere. Per converso, come non c’è un uomo naturale, buono come il successivo selvaggio di Rousseau, non c’è nemmeno un uomo politico, e Machiavelli è un uomo politico meno del suo fantoccio Cesare Borgia. La sua capacità di fare emergere i livelli massicci di melma di cui l’uomo è capace non significa che questi lo entusiasmino, anzi lo angustiano. Ma non si arresta, non cessa il suo impegno. Il potere è questa bestia scatenata, il boia e il freddo calcolatore, ambedue costruiscono Stati e opprimono uomini riducendoli in schiavitù. Aspirare a un idillio in questo clima e in queste condizioni è pura fantasia da letterato, complice volontario a volte perfino mal pagato. Questa complicità, che si nasconde negli anfratti della cultura umanistica, per arrivare in alcuni alla delazione vera e propria, stomaca Machiavelli. Scrive Alessandro Dal Lago: «In primo luogo, infatti, la cultura laica e razionalistica non è auto-fondata, ma manifesta per così dire in ogni sua piega le proprie origini religiose. In quanto cultura del superamento, ovvero cultura che trova il proprio senso nella mancanza di fini e di senso, essa realizza in parte, illegittimamente, la trascendenza cristiana, privandola del suo senso, la divinità. Lo stesso discredito della natura – o meglio il discredito di una natura perenne, che non sia una mera funzione delle operazioni scientifiche – è di evidenti origini cristiane: con la differenza decisiva, però, che nel cristianesimo, la natura è logicamente subordinata alla creazione divina, mentre nel pensiero moderno la natura è subordinata all’autocreazione umana. Al tempo stesso, il cristianesimo è venuto a patti, nell’evoluzione dell’Occidente, con il suo erede illegittimo, e cioè con il razionalismo mondano. Benché la cultura occidentale sia irreversibilmente segnata dall’impronta religiosa, la religione ha perso un’autorità diretta sulle cose della terra. Per effetto di questa duplice realtà, il mondo moderno è al tempo stesso cristiano e non cristiano, razionalistico e irrazionalistico. Il prodotto maturo di tale ambivalenza è l’insensatezza come coagulo di diverse sfere di senso, cristiane e non cristiane (tali appaiono il “politeismo” weberiano, la “paralisi” alle origini del decisionismo, la credula incredulità analizzata da Löwith. Ma proprio la coesistenza di varie sfere di senso è la condizione che, per Löwith, è al tempo stesso il prodotto dell’illegittimità della cultura e la base, indubbiamente ristretta, per un diverso atteggiamento etico del pensiero. La rivendicazione del kosmos non appare come la riproposizione di una condizione di equilibrio irripetibile, ma come la misura dell’entropia presente. Se, nel saggio giovanile su Heidegger e Rosenzweig, Löwith poteva contrapporre alla decisione heideggeriana, fondata sul nulla, il senso dell’eternità che animava l’opera del grande pensatore ebraico, nei suoi ultimi saggi egli appare consapevole dell’impensabilità filosofica di un ordine perenne. L’orizzonte del pensiero contemporaneo è essenzialmente instabile. Nel suo ambito, le moderne “divinità”, le sfere di senso contrapposte, non si battono in una lotta a morte, ma coabitano in una sorta di impaziente tolleranza. Il sapere scientifico ha rinunciato, fin dall’inizio del secolo, a porre il problema del senso, così come la fede religiosa non pretende più – almeno nell’Occidente secolarizzato – la guida degli affari umani. Sapere e fede non sono che i coabitanti di un mondo disincantato. Di fronte all’opacità culturale in cui è sfociata l’illegittimità moderna, la filosofia può solo ricostruire i processi storici di lungo periodo e illuminare le condizioni moderne della contingenza. Su questo sfondo, la scepsi löwithiana non si propone certamente di reimporre il senso di una natura immutabile perduto da millenni. Piuttosto – come negli esiti della riflessione di Weber, Burckhardt o Valéry – si pone come paziente indifferenza, come saggezza quasi orientale, nei confronti del mondo. Essa vi scopre con una suprema ironia quella cultura della medietà orientale, dell’essere saggiamente nel mezzo, che il cristianesimo e il razionalismo hanno sempre disprezzato. La tonalità zen che Löwith sottolinea nell’ultimo Valéry ha il significato di un ironico richiamo alla saggezza cosmica in un mondo e in una cultura che si sono preclusi una concezione unitaria del cosmo. Nulla esclude che questa saggezza – lontana sia dall’arroganza razionalistica sia dalla pretesa sempre ricorrente di restituire un potere mondano alle religioni storiche – possa costituire il punto d’avvio per ripensare il nostro mondo comune, il mondo del Mitmensch». (“L’autodistruzione della storia”, in “Aut-Aut”, op. cit., pp. 19-20). La non certezza ha avuto considerevoli ondeggiamenti nella immediatezza fattiva, ma nei limiti della contingenza e della casualità, elementi che non contraddicono radicalmente le ipotesi protocollari. L’azione non è una emancipazione dal fare, in fondo neanche il salto lo è, perfino al di là del punto di non ritorno. Non mi interessa lottare per la conquista di un metodo, questo lo posseggo facendo e riflettendo, conoscendo e tornando a dire di questa conoscenza. Eppure è anche questo stesso metodo che può sigillare la mia bara fattiva. La ragione è processo lineare che al proprio fondo sviluppa controcorrenti subdole, difficili da conoscere e quasi impossibili da controllare. La ragione collabora, l’intuizione distoglie, svia, argomenta ambiti sconosciuti, che possono sempre essere riportati sotto il suo dominio, ma che non sono direttamente impiegabili per la segregazione. Il chiostro ragionativo produce materiali che contribuiscono all’azione, ma non è questo il suo vero scopo. In fondo quei materiali sono semplicemente stornati dalla destinazione originaria per la quale erano stati prodotti. L’ascolto indifferenziato della voce dell’uno che è avviene per ridondanza, quindi grazie a un flusso ininterrotto che la puntualità dell’azione non è in grado di identificare come trascorrere temporale. Solo l’esperienza diversa, quindi il vivere la qualità nell’azione, propone precise intuizioni linguistiche che si avventurano in ricezioni approssimative, alcune volte veri balbettii, altre volte semplici lallazioni, che poi saranno elementi della rammemorazione, forse senza mai raggiungere la forza di una configurante unità semantica. Non si può parlare di completamento tra immediatezza e diversità, anche se senza la prima non c’è la seconda, e ciò perché la prima può morire soffocata senza raggiungere la seconda, come accade nella eventualità del mancato coinvolgimento.
Arranca per contro il letterato di questi primi decenni del Cinquecento, arranca e cerca di accaparrarsi protezioni e prebende. Il tema politico è trattato così in modi non diversi dagli altri temi della letteratura, dal mito alle fantasie dell’Arcadia, dalle vicende del ciclo della Chanson de geste alla trattatistica più trita e ottusa. Machiavelli resta in disparte, non ammette questa compartecipazione, anche se doveva per forza esserne cosciente, se non altro per motivi d’ufficio, dove la tradizione più rigida perdurava al cambiare di regimi. Poi l’esclusione e la svolta operativa, il pauroso libretto e i Discorsi, le cose finalmente cominciano a parlare e noi le ascoltiamo ancora a bocca aperta, seduti sui pioli delle nostre scale bibliografiche, sempre timorosi di non scandalizzarci abbastanza.
Sarà il letterato Benjamin ad affermare che nel campo della politica bisogna avanzare menando colpi d’ascia a dritta e a manca senza guardare in faccia nessuno. È tipico di queste affermazioni radicali l’atteggiamento massimalista, au-dessus de la mêlée, spesso senza neanche preoccuparsi della portata concreta di quello che si afferma. Machiavelli non avrebbe mai sottoscritto una frase del genere, era troppo uomo d’azione a perdersi in simili banalità. I suoi colpi d’ascia sono concreti e vengono inferti facendo venire fuori le cose che giacciono accucciate in quella caverna profonda di cui dicevamo prima. E quando queste cose vengono fuori il colpo d’ascia non è affidato alle mani deboli dello scrittore, sia pure Machiavelli stesso, ma al popolo che insorge. E allora sono lacrime e sangue, e spesso in questa forza collettiva che si sveglia non c’è modo di distinguere e prendere le distanze dalla forza precedente, che nella melma opprimeva. «L’essenza linguistica delle cose è la loro lingua, questa proposizione, applicata all’uomo, suona, l’essenza linguistica dell’uomo è la sua lingua. Vale a dire che l’uomo comunica la sua propria essenza spirituale nella sua lingua. Ma la lingua dell’uomo parla in parole. L’uomo comunica quindi la sua propria essenza spirituale, in quanto essa è comunicabile, nominando tutte le altre cose. L’essenza linguistica dell’uomo è quindi di nominare le cose. Perché le nomina? A chi si comunica l’uomo? Prima di rispondere a questa domanda, bisogna esaminare ancora una volta la questione, come si comunica l’uomo. Bisogna porre una differenza profonda, un’alternativa di fronte a cui si smascheri senza fallo la concezione essenzialmente falsa della lingua. Comunica l’uomo il suo essere spirituale mediante i nomi che dà alla cose? Oppure in essi? Nel paradosso di questa domanda è già la sua risposta. Chi ritiene che l’uomo comunichi il suo essere spirituale attraverso i nomi non può per contro ritenere che sia il suo essere spirituale, che egli comunica, poiché ciò non accade attraverso nomi di cose, attraverso parole con cui designa una cosa. E può invece ritenere soltanto che egli comunichi un oggetto ad altri uomini, poiché ciò accade mediante la parola con cui designò una cosa. Questa opinione è la concezione borghese della lingua, la cui vacua inconsistenza risulterà sempre più chiaramente in seguito. Essa dice che il mezzo della comunicazione è la parola, il suo oggetto la realtà, il suo destinatario un uomo. Mentre l’altra teoria non conosce alcun mezzo, alcun oggetto, alcun destinatario della comunicazione. Essa dice, nel nome l’essere spirituale dell’uomo si comunica a Dio. Il nome ha, nel campo della lingua, unicamente questo significato e questa funzione incomparabilmente alta, di essere l’essenza più intima della lingua stessa. Il nome è ciò attraverso cui non si comunica più nulla e in cui la lingua stessa assolutamente si comunica. Nel nome l’essenza spirituale nella sua comunicazione è la lingua stessa nella sua assoluta interezza, là soltanto vi è il nome, e là vi è il nome soltanto. Il nome come patrimonio della lingua umana garantisce quindi che la lingua stessa è l’essenza spirituale dell’uomo, e solo perciò l’essenza spirituale dell’uomo, solo fra tutti gli esseri spirituali, è interamente comunicabile. È ciò che fonda la differenza fra la lingua umana e quella delle cose. Ma poiché l’essenza spirituale dell’uomo è la lingua stessa, egli non può comunicarsi attraverso di essa, ma soltanto in essa. L’estratto di questa totalità intensiva della lingua come essenza spirituale dell’uomo è il nome. L’uomo è colui che nomina, e da ciò vediamo che parla da lui la pura lingua. Ogni natura, in quanto si comunica, si comunica nella lingua, e quindi in ultima istanza nell’uomo. Perciò egli è il signore della natura e può nominare le cose. Solo attraverso l’essenza linguistica delle cose egli perviene da se stesso alla loro conoscenza, nel nome. La creazione di Dio si completa quando le cose ricevono il loro nome dall’uomo, da cui nel nome parla solo la lingua. Si può definire il nome come la lingua della lingua, purché il genitivo non designi il rapporto del mezzo, ma quello del medio, e in questo senso certamente, poiché parla nel nome, l’uomo è il soggetto della lingua, e perciò stesso l’unico. Nella designazione dell’uomo come parlante, che è evidentemente, per esempio secondo la Bibbia, il datore dei nomi. E come l’uomo avrebbe chiamato i vari animali viventi, quello sarebbe stato il loro nome, molte lingue racchiudono in sé questa conoscenza metafisica». (W. Benjamin, Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, tr. it., in Angelus Novus, Torino 1982, pp. 56-57). L’intuizione mi fa cogliere una parte forse minima e trascurabile di ciò che mi sta cogliendo nel movimento intuitivo, sono io stesso questo movimento nel suo complesso, ma non perciò avverto nei suoi dettagli questo accadere dentro di me, i miei piedi, potrei dire, sono ancora troppo radicati nella condizione immediata. Anche se non colgo una mia personale, e volontaria, resistenza nel cogliere che mi porta via, a causa della pochezza della mia intuizione, sono certo che non posso essere estraneo a questo viaggio appena iniziato. Il fare nell’agire è distante e immobile, non più voci, solo detriti di ricordi che tardano a scomparire e che insistono per occupare un non luogo che non è il loro. Sono infradiciato e immerso nel fango fino ai fianchi, ma sono io anche se respiro in un modo che non conoscevo. Figure si muovono davanti a me e mimano noncuranza solo perché non mi hanno visto, fluttuano nell’aria e camminano inoffensive o incuranti delle tante offese procurate prima. Solo io sarò veloce nel fango. C’è una qualche mancanza cruciale nei rapporti protocollari, ma non me ne avvedo, lo so e non me ne importa niente, adesso sono nel fango che presenta increspature bianche, come se fosse una mousse. Io sono vivo. Più forte il mondo conoscitivo del fare e più forte la potenza diversa che si scatena nell’oltrepassamento. Mantenere aperto l’accesso al territorio della realtà è impossibile, ogni ricominciamento è rammemorazione e ripristino delle condizioni protocollari. La percezione continua nel suo compito separativo e le relazioni misurano conferme o dissonanze con i protocolli, mentre l’oggetto totale viene prodotto comunemente come qualsiasi altro oggetto, come espressione oggettuale, espressione della propria vulnerabilità temporale e del proprio distacco dal destino intuito nell’esperienza altra. Il centro della produzione coatta torna ad essere quello conoscitivo, cioè possessivo, da cui deriva la consapevolezza che solo la sicurezza del fare può darmi le garanzie sufficienti alla sopravvivenza.
Il grande lavoro dei topi bibliotecari ha portato alla luce un ambiente umanistico che potrebbe avere influenzato il libretto di Machiavelli, esultando poi, per quel che riguarda i Discorsi, di riferimenti e modelli. Ma di quale Livio parlano? Non lo so. Quello che so è che gli sforzi di Machiavelli si integrano a vicenda e sono opere originali sotto ogni aspetto. Nessuna opera che si collochi, nascondendovisi, sulla scia di maniera può aspirare a essere letta come quella di questo autore esecrato dai più, capito da pochissimi, elogiato da pochi. Il fondo oscuro dell’uomo, la caverna dei desideri di massacro e delle spaventose aspirazioni di dominio, non sono luoghi di netta separazione, la melma affiora continuamente, anche in forme molteplici e complicate la cui elaborazione elegante e sobria è affidata quasi sempre a letterati di professione che si mettono al servizio dei massacratori. Il nefasto e il disgustoso si veste così di una patina accattivante, la politica riceve la cresima dell’istituzione religiosa e l’investitura del cavaliere medievale. Il tanfo di sordido e di marcio sembra attenuarsi, ma è solo una impressione. Dura poco. Le cose che si agitano sul fondo hanno bisogno di prendere corpo e verniciarle continuamente le rende più feroci e bestiali. Meglio prenderle di petto, affrontarle direttamente per quello che sono.
Machiavelli non corteggia la bestia né la colora di sfumature ancora più nefande. Si limita a fissare corrispondenze tra fatti e condizioni oggettive dell’essere uomo che vive in società, null’altro. È questa cosa qua la politica, questa melma, non occorrono interventi per peggiorarne l’aspetto e meno che mai, questo è ovvio, per migliorarlo.
Ma qual è la fonte della melma? Da dove arriva questa immane bestialità? Dall’uomo, certamente, ma solo da lui? Può essere che questa bestia in fondo trascurabile nell’universo abbia il monopolio del male? E poi, che ruolo giocano i sentimenti non politici, quelli che possiamo riassumere nell’imprecisa parola “amore”? Senza l’uomo la realtà sarebbe priva di melma? Non si può rispondere a questa triste domanda, perché ogni risposta sarebbe sospetta provenendo comunque dall’uomo, sia pure il migliore degli uomini. La risposta è nella necessità di vivere in collettività. Costruirne di migliori è certo un compito necessario, anche se arduo e poco remunerativo, ma solo a condizione di non accettare questa prospettiva progressiva come una soluzione definitiva. Non ci sono soluzioni del genere nelle ipotesi filosofiche che gettano lo sguardo nel baratro della politica. «Lo stato di natura – scrive Locke – è governato dalla legge di natura, che obbliga tutti: e la ragione, ch’è questa legge, insegna a tutti gli uomini, purché vogliano consultarla, che, essendo tutti eguali e indipendenti, nessuno deve recar danno ad altri nella vita, nella salute, nella libertà o nei possessi, perché tutti gli uomini, essendo fattura di un solo creatore onnipotente e infinitamente saggio, tutti servitori di un unico padrone sovrano, inviati nel mondo per suo ordine e per i suoi intenti, sono proprietà di colui di cui sono fattura, creati per durare fintanto che a lui piaccia, e non ad altri; e, poiché siamo forniti delle stesse facoltà e partecipiamo tutti d’una stessa comune natura, non è possibile supporre fra di noi una subordinazione tale che possa autorizzarci a distruggerci a vicenda, quasi fossimo tutti gli uni per uso degli altri, come gli ordini inferiori delle creature sono fatte per noi». (Secondo trattato sul governo, in Trattati sul governo e altri scritti politici, tr. it., Torino 1983, pp. 228-229). Le condizioni imprevedibili e desolate della realtà sono quasi sempre caratterizzate da relazioni estreme che alla luce del recente fare potrebbero sembrare patologiche. Sensazioni comuni, vista, udito, olfatto, si trovano trasformate di fronte a una improvvisa assenza di spazio o di fronte a quello che sulle prime mi appare come un immenso territorio desolato. La realtà mi suggerisce subito il bisogno di aggrapparmi a qualcosa di certo. La funzione della conoscenza, la sua funzione attiva, comincia qui. Il fare è possesso e accumulo, forza e materiale da costruzione, ma è anche una sponda a cui aggrapparmi quando prevaricano l’inquietudine e la paura. Ma aggrappandomi al fare nego la spinta propulsiva verso l’oltrepassamento che questo potrebbe darmi. Il fare si adatta e può continuare all’infinito a padroneggiare il mondo da me creato se non interviene una rottura altrettanto fattiva. Però questa sottodeterminazione non può durare a lungo, non ci sono energie neutre e prive del conflitto iniziale di natura percettiva. Il fare non si presenta mai realmente svuotato di energia produttiva e di iniziative paradigmatiche.
Machiavelli lo sa e va avanti quasi da solo. Maestro – contro l’opinione di alcuni – non lo fu mai, non negli Orti e neppure fra gli amici più fidati, troppo alta la sua prospettiva riguardo alla lingua, quindi tagliata fuori dall’umanesimo fiorentino boccheggiante, troppo profonda la sua pretesa riguardo alle cose della melma, nessuna concessione. Egli fu solo, pur nel commercio dialogico ed epistolare, praticamente solo. È da questa solitudine che gli venne la tensione del libretto di cui ci occupiamo, tensione che può sembrare rugginosa ma è soltanto forte, tensione che non si inceppa, che non accetta di essere studiata come un congegno a orologeria. Leggerlo a volte è sgradevole e non ricorda lo scrittore delle commedie, la sua prosa può sembrare malfatta, ma è il riflesso opaco della melma, non è la struttura del discorso. Quelle cose non potevano essere dette altrimenti, non è una esercitazione letteraria, devono lasciare un solco nel lettore e glielo lasciano. Il suo lavoro di scrittura ci interessa poco qui ma si deve tenere presente se si guarda alle cose che ne costituiscono l’oggetto primario. Nella massa dello scritto, di più nei Discorsi, ci sono di certo allentamenti, come capita a tutti coloro che usano la penna, ma non annebbiano il resto, anzi rendono più vivido il senso delle forti espressioni che segnano fino in fondo il tracciato dalla caverna profonda dell’orrore alla superficie, dove ogni altro modo di dire potrebbe solo servire a coprire e a deformare le vergogne umane.
L’uomo uccide, straordinaria attitudine di questo strano animale, e quasi sempre toglie la vita dell’altro per imporre la propria volontà, è come l’irraggiungibile ala della morte che passa e lascia una cosa senza vita e a chiamarla, a darle capo e necessaria forza, è l’uomo stesso contro l’altro uomo. Questa spaventosa possibilità è intrinseca alla forza che si agita all’interno della caverna dove bolle la melma. I riferimenti di Machiavelli sono a volte lampi improvvisi, staffilate irresistibili, ed hanno in ogni caso una vernice grigia che riflette perfettamente le cose di cui parla, le sue fatiche, le sue disillusioni, i suoi isolamenti. Raramente la materia fecale politica ha trovato tanta corrispondenza di dire, quasi sempre gli scrittori politici sono tutt’altro. Storicamente condizionati, titubanti, prudenti, benpensanti, idealisticamente stupidi, non mancano mai di pensarsi come maestri di vita, quando non sono altro che le proprie insonnie che ci raccontano. Machiavelli si erge invece sulla mediocrità della politica e di chi di politica si occupa, sprofonda in temi scabrosi disertati dai più, non impallidisce di fronte all’orrido della caverna, non sembra subire la stanchezza che prende tutti coloro che non vedono diradarsi le nubi nel cielo plumbeo delle agitazioni di potere, non si lascia distogliere dalle insipide prospettive di conquista e di gestione del potere, non acconsente però alle molteplici complicità, non è mai meschino, non si lascia invadere dalla natura che affronta, anzi ogni ostacolo rinnova la sua forza e il suo ardore. «L’interesse – scrive Jean-Marie Guyau – è l’unica regola valida sia per gli individui che per le nazioni. Possiamo finalmente capire perché i pirroniani ed i sostenitori di una morale dogmatica discutano tra di loro senza poter mai giungere ad un accordo, in quanto i primi considerano le tradizioni e le leggi dei popoli come diverse e contraddittorie, mentre gli altri vedono in esse unicamente armonia ed unità. Secondo Epicuro, sia gli uni che gli altri sono nel giusto: infatti l’universale consiste nella ricerca del maggiore interesse possibile; e poiché un certo numero di interessi (come, a esempio, il non uccidere o non ridurre in schiavitù, ecc...) sono gli stessi per tutti, ne consegue che gli articoli del tacito contratto che tutelano questi interessi saranno press’a poco uguali per tutti gli uomini. D’altra parte vi è un numero infinito di altri interessi che variano di epoca in epoca e da paese a paese: le leggi ispirate da questi saranno dunque mutevoli e particolari. Per quanto riguarda il primo punto della questione, gli assertori del dogmatismo sono nel giusto; per quanto concerne il secondo, invece, hanno torto: “In generale il giusto è uguale per tutti, poiché vi è sempre qualcosa di utile nella società basata sullo scambio” (ed in alcune leggi che sono le condizioni immediate di tale società). I concetti che qui esprime Epicuro corrispondono a quelli degli utilitaristi inglesi, e su questo punto costoro non hanno fatto altro che imitare la dottrina del loro antico maestro. Dal momento che il giusto è semplicemente l’interesse della società sanzionato dalla legge, quando quest’ultima non rappresenta più tale interesse, potrà essa tuttavia rappresentare la giustizia? Bisognerà forse adeguarsi ad essa ciecamente e senza speranza di progresso? In nessun modo, dice Epicuro, ed anche in ciò egli si distingue dagli scettici: la legge non ha solamente valore in quanto è legge e forza, ma anche perché è strumento di realizzazione della massima utilità: “Ciò che tra le cose considerate come giuste è riconosciuto utile alla società basata sullo scambio, è di per se stesso giusto, sia esso valido o meno per tutti. E se qualcosa è stabilito dalla legge, ma non se ne trae alcun vantaggio per la società basata sullo scambio, tale cosa non ha più la natura del giusto”. (Diog. L., X, 151-152)». (La morale d’Epicure et ses rapports avec les doctrines contemporaines, ns. tr., Paris 1878, pp. 148-149). L’azione mi sconvolge la vita nella sua accezione più semplice e più ampia. Dà improvvisamente una svolta necessaria ai miei moduli e li priva di senso. O, meglio, questi continuano a essere stracarichi di senso, ma sono io che non lo tengo più in mano fino a disperare di continuare nel processo produttivo lineare. Il sapere mi circonda e mi alletta, nell’ambito immediato, con le sue baluginanti spezzettature. Ma l’esperienza altra, in questi ghirigori, resta muta, non è l’astrazione che può commuoverla, occorre l’inequivocabile intuizione. Verificare l’esistenza dei protocolli è vano, questi si presentano e accampano i loro diritti in modo catastroficamente autonomo. Non c’è che una passione contrastante, quella che mi proietta verso la diversità. È in questo modo, proprio nell’accingermi a cogliere intuizioni assolutamente altre, che la tetra realtà dei protocolli mi colpisce come un pugno in faccia. Verso l’altro, l’assolutamente altro, il mio rapporto col mondo da me creato continua ad esistere, ma è come destrutturato, calato in quella circumnavigazione della realtà che mi moltiplica le possibilità sotto gli occhi. L’azione è il mondo nella puntualità dell’agire. Il fatto è il mondo nella molteplicità del fare, non si tratta, come qualcuno ha malamente supposto, di nichilismo e solipsismo, ma solo di lettori ciechi o preconcetti. Il fare inteso come universo completo e autonomo ha la medesima logica dei cimiteri, è solo una condizione impoverita, una formulazione asettica che usa uno dei tanti rasoi filosofici per paura di scoprire più di quello che si possa immaginare.
Un maestro della prosa nuova, il volgare ormai non più soltanto fiorentino, che ha di già il sopravvento sul latino e sul greco dei dotti. Appuntita, questa prosa, è certo un modello difficile da seguire, difatti non è stato seguito, non è un sismografo adeguato ai movimenti tellurici delle cose che affronta, non ha l’esaltazione pseudoeroica dei letterati, non lascia intravedere la disillusione sofferta del suo autore. Le cose sono così nella nuova prosa di Machiavelli in una loro vita concreta, pesantemente concreta, maturata con la necessaria pregnanza dei tempi che non ammettevano duplicazioni o chiarimenti suppletivi. O si diceva la cosa oscena che corrisponde esattamente alla politica o non si diceva, ricamandoci sopra qualcosa di Cicerone o di Polibio. Machiavelli dice senza ingorghi o addensamenti, fluidifica l’immenso materiale umano che affoga nella melma, ci mette in condizione di avere notizia di un pianeta di solito lasciato all’oscuro per paura o per pietà. Quello che questa prosa porta con sé è il contenuto della caverna, con una elaborazione filosofica di questo contenuto. La filosofia sta prima non dopo, sta nella melma di cui parla non nelle parole che parlano della melma. Ed è quindi filosofia della politica, non oscuro sostegno di manutengoli che lavorano per un padrone avaro, ma elogiatore libero di esprimersi fuori e dentro le righe, senza lasciarsi abbattere dalla ferocia con cui gli uomini difendono la loro melma.
Ecco, se considero la politica, la vedo come una malattia che l’uomo respira quando è obbligato a condividere l’aria con gli altri, un appestarsi costante che non ha neanche la capacità di puzzare. Per cogliere la puzza della politica bisogna avere il naso adatto, e forse Machiavelli l’aveva. Viveva fra politici e poi, nella solitudine, ambiva a tornare fra i politici, ma non era un politico, lo si vede da quello che della politica dice e da come lo dice. Le cose della caverna bruciano nelle sue pagine e scendono nel lettore impietrito come annunci di morte. Machiavelli parla di qualcosa di fisicamente palpabile, per questo è filosofo, non letterato o perdigiorno. È filosofo perché arrischia se stesso parlando del contrario di quello che l’uomo dovrebbe essere, cioè di come l’uomo è. Solo che l’uomo in generale (nel suo minuscolo mondo di sopravvivenze fasulle) e il politico in particolare, non vogliono arrischiare nel gioco che cerca di vedere che c’è nella melma di cui Machiavelli parla, di vedere fino in fondo, per cui inalberano un sorriso stereotipato e vanno avanti incuranti degli spasimi che dovrebbero avvertire e che non avvertono, incalliti come sono dall’uso (sia pure minimo) della finzione e del potere. La melma taglia a fette il corpo dei politici prima ancora della loro morte, li incartapecorisce nell’orrido, li abitua all’osceno, li gonfia di stupido orgoglio, scatena le reazioni dei loro fittizi interessi, li chiude nella caverna e li sommerge. Machiavelli descrive questi movimenti alternativamente, in positivo e in negativo. Li fa vivere nel loro venire in essere e li inquadra nel loro triste condursi fino in fondo, fino alla morte. L’allentamento del controllo coatto sperato dalla volontà attesta anche le inibizioni e i blocchi che producono la standardizzazione del fare. Ne viene fuori una conoscenza più aperta che affronta, proprio nel campo e sotto l’occhio vigile della volontà, il problema del senso e dei limiti del desiderio. La barriera contro la paura, l’ansia, la ricerca delle nicchie di garanzia, non possono essere individuate soltanto nel fare. Insistente, senza prospettive radicalmente diverse, mi sento prigioniero della mia stessa oggettualità, ogni specificazione mi fa capire meglio quello che sono e, nello stesso tempo, mi fa desiderare di non esserlo. L’ambivalenza della conoscenza accumulata raggiunge a volte tensioni insostenibili. Ribadire la propria identità fattiva è un difficile relazionarmi con me stesso, destinato a frantumarsi prima o poi. Alla lunga i protocolli si usurano proprio a causa della loro eccessiva rigidità, il fare cerca di sostituirli ma si tratta di una esperienza di salvazione che non sempre riesce. Tagliare di netto è non solo indispensabile ma costituisce l’unico propellente utopico da impiegare, e le conseguenze mettono in luce tutte le rughe di maturità di ogni corrispondenza.
Aggirarsi nel deserto umano è il lavoro di Machiavelli. Per questo riprende e collega fili che la riflessione del passato aveva lasciato pendenti nel vuoto, un lavoro sordo a ogni lusinga letteraria, ed è proprio non riservando sonorità stravaganti che viene fuori un capolavoro. Altrove lavori l’ingegno o il mestiere. Nelle parole del libretto malefico c’è una durezza che non suppone indugi, un presentarsi non al giudizio dei posteri – che questo è diviso in maniera equidistante – ma al fare rivoluzionario, o meglio all’agire. Ecco pertanto la necessaria perentorietà del dire, l’affermazione al posto dell’ipotesi. Non perché Machiavelli si ritenesse in possesso di una verità evocabile a piacere, col semplice gioco delle parole, al contrario, spesso appare dolorante e triste, forse più della materia che è costretto a maneggiare. Atrocità e morte, ecco cosa giace dietro la politica, dietro l’ordine degli Stati e la dottrina dei sapienti. Come potrebbe la sensibilità dello scrittore, e perfino la sua indole caustica, farsi strada fra i cadaveri, dialogando con un massacratore? Non potrebbe. Difatti in Machiavelli c’è solo la verità delle cose, per quello che lo sforzo di un uomo come lui poteva produrre. È naturale che nessuno può salire sulle proprie spalle, ma lui non cerca nemmeno di immaginare una eventualità del genere, si interessa d’altro. Avere rispetto perfino per la melma e farla parlare per come può e deve, ecco il segno della forza e della pietà. È questa misera cosa l’uomo, non ciò che luccica sotto le luci del potere, questa è una crosta che viene via non appena si forza il gioco e si costringe il potere a farsi avanti.
Non è facile smascherare chi alle maschere è aduso, occorre metterlo alle corde, provocare la sua reazione vasta e scomposta. Machiavelli mette a mal partito lo schieramento logico e filosofico della politica, e lo fa costringendo a venire avanti le cose che di solito operano nella melma ma non costituiscono la facciata perbenista del politico. Ciò produce un contrasto feroce e senza mezzi termini come una catastrofe che sconvolge da cima a fondo il tessuto segreto della caverna delle miserie umane. Ogni affondo produce una risposta, le cose non restano inerti, contrattaccano venendo alla luce, e la luce indagativa del piccolo libro di cui ci occupiamo, le chiama a una nuova disposizione fuori del complice segreto. E questo continuo movimento tra il contesto del libro unico nel suo genere e le cose è forse il motivo più spettacolare che il lettore provveduto finisce prima o poi per rinvenire e fare proprio. E questo, tutto questo meccanismo, non è artificio di composizione, è nelle cose stesse e nella sollecitazione provocatoria. Questa non risiede in un piano perfettamente architettato ma piuttosto nel fluire stesso del dire di Machiavelli, nello svolgersi del suo pensiero filosofico. Ciò significa che se il progetto nel suo complesso può essere uno dei tanti, il dettaglio è micidiale, opera in profondità per ogni singolo momento in cui si sviluppa. Sono i dettagli la vera materia geniale dell’opera, si sente nei singoli strali lanciati a colpo sicuro e micidiale che scopre la sostanza della politica, cioè la forza bruta che la regge, le ragioni della forza vincente, nient’altro. Il lampo di questi strali è percepibile come un temporale in corso di svolgimento. Non è un agglomerarsi a tratti ma uno scatenamento continuo. William S. Burroughs: “Imbroglioni di tutto il mondo, c’è solo un allocco che non potete fregare: quello che c’è dentro di voi”. L’accesso alla follia non è contrassegnato solo dal salto oltre il punto di non ritorno, ma anche dalla individuazione di presenze non regolari all’interno delle cosiddette regolarità della ragione. Le fantasie di onnipotenza nascono nei meandri protocollari e sono cariche di senso, ne sanno qualcosa tutti coloro che hanno lottato in banali ambiti ristretti, contro qualsiasi tipo di conformismo. Il coinvolgimento può essere seriamente danneggiato e perfino impedito da movimenti del fare diretti a produrre un anticonformismo d’accatto legato a simboli e apparenze, più che a disponibilità di strumenti conoscitivi da interpretare e mettere a frutto nell’oltrepassamento. Coinvolgersi e partecipare non sono sinonimi, spesso costituiscono l’inizio di due strade che si indirizzano in luoghi lontani tra loro. Un mondo pulsante di colori, di vibrazioni, di ritmi primari che si possono confondere con l’assenza temporale delle intuizioni, sono spesso prodotti del fare, spacciati per autenticità e contrapposti, globalmente, all’artificiosità fattiva. Anche qui la carenza conoscitiva può ricoprire di grigio e tornare a irreggimentare sotto altri aspetti quello che appariva come un accostarsi all’oltrepassamento.
Sono le cose a costituire il tessuto della politica con la sua trama di richiami, di connotazioni implicite, di riverberi che si spiegano vicendevolmente. La registrazione di Machiavelli non fa che attendere al varco quelle rivelazioni della politica e dare loro corpo organico leggibile in maniera essenziale. Il lusso che le cose si permettono nella profondità della melma è qui, nella registrazione, schema e rigidezza privi di qualsiasi civetteria. La costruzione sta altrove non è opera dell’ingegno metafisico, non alberga nella filosofia, quindi non respira i miasmi del dogma, è nelle cose e qui sarebbe rimasta, rintanata sul fondo, priva di solidità di rapporti e continuamente metamorfosando se stessa nella pratica quotidiana della miseria e dell’orrore. Machiavelli dà vita alla costruzione vera e propria che si sostituisce alla prima, fluida e inconsistente, e fissa una volta per sempre un quadro che non è banale insieme di espedienti da tagliagole ma forza filosofica in atto senza con questo giustapporre nulla alle cose, facendo loro dire quello che altrimenti non avrebbero mai potuto dire. L’artificio geniale sta in questo dichiararsi compartecipe di nefandezze che altri non solo non avrebbero rivendicato come normale tessuto dell’agire umano in società, ma avrebbero accuratamente nascosto.
Che lo voglia o meno questa condizione triste del vivere in società, con me stesso in balia di uomini da niente che la politica sospinge in alto sull’onda del potere, è impressa sulla mia pelle a fuoco. È un marchio che perdura nel tempo e ci contraddistingue tutti come schiavi, esseri succubi, quasi diventati insensibili, capaci solo di porre il capo sotto la mannaia. Tutto quello che facciamo, se non alziamo la testa ribellandoci, è correre il rischio di ripetere un modello ottuso e melanconico. L’impressione incisa sul nostro corpo è il riscontro della melma politica e ci fa riconoscere a quale categoria di schiavi apparteniamo. Machiavelli, pur provenendo dalla pratica politica attiva, era radicalmente altro, ospite dell’epoca sua, rispondeva come poteva, con ragionamenti ma più ancora con strali e frecciate, impietosi questi due mezzi, irripetibili se non per amore filologico. Questo ospite del suo tempo era però uno dei più attenti e pronti nel comprendere quello che si andava raccogliendo di nefando. Ma non si limitava ad aborrirlo, sarebbe stato uno dei tanti umanisti che nella tradizione classica non vedevano solo un modello ma più di tutto un rifugio. È invece nel nuovo che si produce, nella caverna di ognuno di noi, nella profondità oscura che lui fa incidere la propria filosofia. Ne risulta un incedere continuo e scabro, nervoso come la materia stessa che è oggetto dell’incisione. Tutto in Machiavelli è nervoso e veloce, non c’è tempo – né nella sua vita né nel suo scrivere – ma non è un fenomeno filologico, piuttosto è un modo di accostare la realtà prescelta, non qualsiasi realtà. Il sogno politico repubblicano, alimentato fin dall’epoca cancelleresca, è dietro le quinte, non appare, quindi non qualifica il libretto – come sconsideratamente è stato creduto – né in un senso né nell’altro, non c’è l’ideale, quale che sia, non l’utopia o il lasciarsi andare a una sorta di sogno a occhi aperti, c’è il mistero delle cose, l’evolversi profondo di sommovimenti che lo attraggono irresistibilmente. Così Günther Anders: “Non c’è nulla che sia altrettanto caratteristico di noi, uomini d’oggi, quanto l’incapacità di rimanere up to date, al corrente con la nostra produzione, dunque di muoverci anche noi con quella velocità di trasformazione che imprimiamo ai nostri prodotti e di raggiungere i nostri congegni che sono scattati avanti nel futuro (chiamato “presente”) e che ci sono sfuggiti di mano”. La creatività, pescando nel torbido e oscuro mondo del fare, dove io creo ciò che mi sta di fronte in quanto mondo, procura una consistente soddisfazione personale che spesso corre il rischio di giocare un ruolo surrogato riguardo al desiderio vero e proprio di completezza e di oltrepassamento. Niente è più delittuoso del nascondersi sotto il mantello del fare creativo, capace di cambiare la realtà. Il segno remoto dell’uno mi coglie come una sorta di desiderio impensabile, mi permette di aprire una porta dietro la quale rumoreggia un oceano in tempesta. Non so ancora se sarò in grado di oltrepassarla quella porta, so che comincio ad avvertire qualcosa di assolutamente diverso della mia immediatezza, e ciò come se si trattasse di qualcosa già visto. Un qualcosa che mi sta davanti e mi fronteggia, mi aggredisce, mi offende se non mi muovo nella sua direzione, qualcosa che tocca strati della mia intimità immediata che credevo al sicuro. La ragione è attaccata dalla voce remota dell’uno e viene quindi a scontrarsi con i movimenti interni alla produzione, che intendono collocarla su di un piedistallo di garanzie protocollari. Faccio in questo modo un passo indietro di natura prospettica e organizzativa, mi inoltro in un antagonismo che non è tanto contro la ragione, quindi tutto interno alla immediatezza e ai suoi protocolli, ma è contro la volontà. Si tratta di riflessioni conoscitive che cercano nuovi indirizzi e strade non battute per mettere in difficoltà i controlli coatti.
Dare conto delle infamie che brulicano nel mondo sotterraneo della politica necessita di polso fermo e cervello sano, si corre altrimenti il rischio di farsi trascinare da questi sommovimenti pensandoli come fantasmi non come cose vive e concretamente operanti. Ogni considerazione bandisce volutamente tutti gli aspetti caricaturali dell’orrido, sia quelli che lo esacerbano nel grottesco, sia quelli che lo travestono nella favola consolatoria. Leggere questo libretto guarisce da ogni velleità utopica, da ogni astratta fantasia che si annida nel cervello di coloro che si pensano intellettuali. Ecco il punto, o meglio, ecco uno dei punti. La genia malefica degli intellettuali è anch’essa immersa – e compartecipe in primo grado della sua produzione – nella politica, ma non vuole ammettere l’esistenza recuperatoria dei tanti animaletti retorici che si infiltrano come subdoli ragni nel suo ragionamento. Per cui si ritrovano, gli intellettuali, brulicanti di supposte soluzioni, di geniali alternative, insomma una baldoria di funerali. Incapaci di pulizia e di nettezza, sono proprio quelli per i quali la lettura di Machiavelli è sfortunata vicenda destinata a più sfortunata conclusione.
L’intellettuale è recalcitrante per convinzione e convenienza, il suo reale modo di essere lo porta a nascondere la realtà non a portarla alla luce, farla parlare, ma vuole nasconderla con frasi cariche di effetto, fulminanti, amalgamate in maniera di venire alla luce a spese delle cose e in modo diverso da ogni altro tentativo del genere fatto da un esemplare qualsiasi della medesima specie. Non c’è occasione in cui questa attitudine non venga alla superficie, fosse pure un breve necrologio, essa è irrefrenabile. Sottolinea Goethe: “L’oscurità si oppone all’azione della luce, e la luce si oppone all’azione dell’oscurità. In entrambi i casi il colore sorge. Il buio è un fenomeno, così come lo è la luce: non si tratta di un nulla. Se il buio fosse il nulla, guardando nel buio non si avrebbe la percezione della sensazione delle tenebre”. L’immediatezza non può essere considerata un propulsore attivo, la sua è una condizione fattiva che ricorda il problema dello specchio. L’autoconservazione è un indirizzo primario garantito attraverso la produzione ma attraversa la fase essenziale dell’inquietudine, della mancanza di completezza. È il vuoto che si riflette nello specchio, il vuoto del fare per il fare, il terrore che nessuna scoperta dietro l’angolo fattivo può produrre quella costruzione immaginaria capace, alla fine, di profilarsi allo specchio e fornire un minimo di garanzia. Posso anche cristallizzare percorsi alternativi, ma alla fine devo concludere che questa strada, interna all’immediatezza, è senza via d’uscita. L’apertura non ha un impianto fisso nell’immediatezza, le perturbazioni del fare non corrispondono ai suoi segnali perturbativi, le contraddizioni del fare non sono le stesse dell’apertura. L’interpretazione non chiarisce queste ultime che restano fuori della sua sfera d’azione ancora unitaria e utilitarista. L’unità del produrre si spezza continuamente ma non nega l’ideale di se stessa come processo completabile. L’apertura invece non ha niente di unitario e non è mai in grado di considerare se stessa come una porta aperta verso la completezza. Che la parola parli non è una grande scoperta, anche se penso che un approfondimento in questa direzione moltiplichi di svariati piani la rammemorazione, spesso troppo strettamente sigillata in modo monotematico. Questo parlare non lo sento ponendomi semplicemente davanti alla parola, ma facendo attenzione, sempre all’interno delle condizioni protocollari, a come si riferisca o riesca a farmi intuire un movimento totale, il battito dell’uno che è. L’azione è rammemorata nei suoi dettagli, fra i quali si insinuano le ridondanze dell’uno, non sulle mie occasioni di ripensarla attraverso la lente deformante del fare. Non ho mai desiderato una guida, anche se ho sempre avuto la certezza che mi avrebbe risparmiato un mucchio di lavoro. Se sono quello che sono, però, lo devo proprio a quel mucchio di lavoro, che poi ho spesso buttato via, o mi sono illuso di buttare via. Che farmene dei miei studi di segni, di accadimenti linguistici, di gerghi, di duplicazioni significanti? Sono soltanto apparenze.
Machiavelli è l’opposto esatto. Parla delle cose della melma e lo fa in profondità con espressioni che possono stagliarsi isolate e con valutazioni che tagliano contropelo, cioè non hanno nulla di aforistico. Rivela i segreti più sanguinosi della politica, quelli di cui tutti avrebbero vergogna e lo fa schiettamente rifiutando ogni gioco di parole, ogni imprecisione verbale, che potrebbe farli sembrare momenti esoterici della condizione umana e invece non sono altro che questa stessa condizione nella sua banale oscenità. Una volta detti questi segreti, che dapprima rimbalzano sulla faccia attonita di chi li ascolta da non pochi secoli, dopo diventano parte della melma di cui sono in fondo composti, e qui ritrovano il loro posto e possono tornare alle macabre usate faccende. Non ho la pretesa di pensare possibile, una volta per tutte, uno svelamento attuato dal libro malefico, per cui una lettura si pone e il lettore ne viene sconvolto per sempre, sarebbe assurdo, voglio però sottolineare la capacità di irradiare attorno a sé, tipica del lavoro di Machiavelli, una diversa consapevolezza della politica. Poi, ed è inutile ribadirlo, gli interessi personali del lettore prevalgono sulla lettura e tutto potrebbe tornare a ricoprirsi della patina dell’indifferenza.
Incastonandosi improvvisamente in tutt’altre riflessioni l’effetto Machiavelli tende a svanire e tornano le chiacchiere con il gesto letterario che nella finzione vuole apparire solenne ed è solo grottesco, dato che sempre della melma intende parlare. La miseria e l’orrido squallore dell’assassinio esplodono nelle parole e le deformano. Non c’è modo di accostarsi a queste modulazioni profondamente umane se si eccettua quello usato da Machiavelli, il resto sono cianfrusaglie retoriche. Dietro lo splendore fittizio delle parole, perfino dietro l’assetto paludato di una coerente (con se stessa) costruzione filosofica, sta la noia e la truffa, ci si prende in giro reciprocamente – scrittore e lettore – per passare il tempo o per darsi un abito convenevole alla materia trattata. Ma quale potrebbe mai essere questo abito se non le stilettate di Machiavelli? L’immensità dell’abisso dove si dibatte la miseria umana non è esorcizzabile con nessuna formula proveniente dall’alchimia retorica, essa è un velo di oscena ottusità che copre la visuale di tutti noi, nessun escluso, in quanto di questo immane delitto siano tutti complici. Scrive Cioran: “Quando si è divorati da un tale appetito di sofferenza che per soddisfarlo occorrerebbero migliaia e migliaia di esistenze, si riesce a immaginare da quale inferno sia dovuta sorgere l’idea della trasmigrazione”. L’intuizione fornisce un flusso continuo alimentando l’immaginazione e il mio modo di creare il mondo. Ma questa metafora è ingannevole, in quanto potrebbe fare pensare a un rifornimento univoco e rigido, bene identificabile. Non è così. Non è possibile identificare una visione unitaria di questo tipo. I risvegli intuitivi non sono un vento che gonfi le vele della mia nave, l’orizzonte è ancora quello chiuso del posto che mi cattura, le vele al contrario restano flosce e il sartiame pendente. Il destino si nasconde nella conoscenza, non potrei vederlo venirmi incontro se non fossi io stesso quella conoscenza e quel destino. Esso non si nasconde veramente, anzi si disvela a volte in maniera evidentissima, sono io a essere cieco e sordo, intontito dalla paura e dalla conformità ai protocolli. Quando lo colgo, ecco occhi blu che mi guarda, è lui che si avvicina alla mia immediatezza stanca, è lui che mi porge una mano, che mi tira la barba, che mi immerge in un lungo soliloquio senza fine. Non ho risposte adeguate che non mi sembrano difesa a oltranza più che vera e propria apertura. Scandagliare le mie resistenze, camaleonticamente nascoste negli interstizi, è compito produttivo prima, cioè fattivo di conoscenza, e interpretativo poi, cioè decifratore di enigmi e oscure malinconie. Risposte che sembravano chiare in prima battuta, alla fine risultano attese velate di malinconia, di ripetizioni e ridondanze ossessive, dissociazioni completamente impossibili.
Nessun mistero è tanto profondo quanto quello che circonda l’assassinio. Di colpo, ma sempre premeditatamente, un uomo soccombe e un altro impone la propria forza, o la forza della protesi in suo possesso, e gli strappa via la vita. Questo genere di orrore popola e qualifica la politica di cui discute Machiavelli, e allo stesso modo oggi questa melma ci soffoca tutti. L’assassinio dilaga e uccide con mille accorgimenti, impara a strappare e a portare via la vita, la dignità, l’orgoglio, la volontà, la speranza, la bellezza, la bontà, la sapienza, tutto è ucciso, a poco a poco o in massa, e il mistero – a parte le parole di Machiavelli e la sua filosofia a colpi di accetta – persiste indisturbato.
Il taglio che interrompe, a partire dall’asfissia della schiavitù lavorativa, è nel fango che fa riferimento, una costellazione sommersa che amiamo definire politica. Quante vite stroncate da una legge o da una sentenza? E non parlo di esecuzioni di Stato, parlo di irradiazioni di conseguenze. Il politico non se ne avvede, seduto com’è su di un cumulo di teschi. Lo stesso accade al rivoluzionario che preme il grilletto per fare crescere quantitativamente la propria organizzazione. Diversa la situazione non politica del vendicatore che spegne l’esistenza di un oppressore o di un provveditore di oppressori e quella di chi difende la propria libertà. Solo in questi casi l’assassinio – che tale resta – non fa parte della melma a cui ci riferiamo. Non esiste modo di parlare di questi problemi, le parole non sono adatte, le azioni veramente liberatorie hanno un linguaggio non dicibile, Machiavelli si mantiene al di qua, parla di ciò che è rivestibile di parole, e proprio per questo attira le attenzioni occhiute dei letterati. Sottolineiamo qui, ancora una volta, quello che è il suo lavoro che qualcuno considera limitato e che invece dilaga su orizzonti che la filosofia raggiunge difficilmente. Carlo Michelstaedter: “Vorrei dirvi: Sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a pancia a terra, sradicavo una barbabietola e la rosicavo terrosa”. L’inciampo intuitivo arriva all’improvviso, contro ogni speranza per quanto incandescenti possano essere le sollecitazioni fattive. La sensibilità alle condizioni di controllo, il rigetto ora flebile ora temerario della volontà, produce modulazioni del fare che nonostante tutto, cioè malgrado l’accomodamento protocollare provvisorio, restano in attesa di un radicale rigetto critico negativo. Sfuggire al controllo volontario causa a volte uno slittamento semantico che mette fuori sesto anche lo sforzo interpretativo. Il territorio della realtà mi circonda e circoscrive, additando alla incomprensione assoluta la mia puntualità attiva. Non sfigurata da assurdi tentativi di spiegazione, questa puntualità è remota a ogni risposta frenetica, a deliri di onnipotenza o allucinazioni ritardanti e riduttive. Semplicemente è, con quella carica di energia che la qualifica e la rende in grado di entrare in una coscienza diversa, dove le vecchie stigmatizzazioni sono ormai inafferrabili. La puntualità è un distretto oscuro dove le meditazioni antiche, le antiche conoscenze, trovano tout court nuova e inimmaginabile collocazione.
Ma da cosa ricava Machiavelli questa sua capacità? Dall’esposizione pericolosa e sprezzante alla vita politica stessa, con le mani nella fanghiglia, non per sentito dire. Qui trova il materiale già pronto, quello che deve mettere di suo è il coraggio e la straordinaria capacità di sintesi. Ne deriva un complesso articolarsi che resiste al tempo e al volgere delle epoche. La consistenza del suo dire procede intatta ed è questo che continua a stupire. Altrove, nei Discorsi a esempio, c’è una sorta di concessione all’impresa nel suo insieme, direi un sottofondo architettonico, qui, nel Principe, tutto è giocato nella volontà dell’immediato e nella dismisura caotica delle cose.
La dismisura è il ritmo del libretto malefico, non ci sono digressioni superflue, solo improvvise aperture a possibili – ma incredibili – riferimenti. Ogni movimento eversivo che viene proposto risulta alla fine incongruo, ma è là a costruire una sorta di movimento interno al sottofondo poltiglioso della caverna politica, dove non c’è modo di cogliere le differenze a partire dal buono e dal cattivo, oppure dal bello e dal brutto. La piatta compattezza melmosa accorpa tutta la realtà sotto la cappa uniforme dell’infamia e non accetta contrasti se non riconducibili a nuove ricomposizioni. Machiavelli è indefettibile, non ricompone, apre e lascia aperta la breccia, caso mai vi infila dentro un altro contrasto, ancora più feroce. Cogliere la maledizione politica non è facile, non ci sono respiri o radure metafisiche dove riposare, si va avanti travolti da un fascio di onde fangose, e occorre chiedersi perché si è scelta questa lettura e non si è rimesso nel cantuccio dove giaceva il libretto di Machiavelli. «La vera “angoscia” pascaliana è quella del pensiero che non è più certo di dominare il suo oggetto, o ancor più esattamente, che non si sente più capace di umanizzare quell’oggetto, di stabilire fra esso e la creatura vivente un rapporto soddisfacente. Si potrà ancora assegnare all’uomo un posto in cui vivere senza essere schiacciato, in un mondo ormai senza misura con lui? Questa domanda, Pascal se la porrà con un’insistenza che ha potuto far credere che egli non fosse mai sfuggito alla sua fascinosa ossessione. Ed è vero che egli non ha mai smesso, mediante lo sforzo sostenuto del suo pensiero, di ricostruire un universo in cui l’uomo non fosse schiacciato. Rendere alla creatura la sua “taglia”, restituirle una “situazione”, aprire al suo sguardo una veduta suscettibile di sottrarla alla paura: tale è il fine dell’apologetica pascaliana. Ma conviene di non fermarsi alle tappe preliminari di questa ricerca. Né la paura evocata, né gli attacchi contro la ragione, né la raffigurazione della miseria umana sono fine a sé stessi. Pascal non si confonde con nessuno dei suoi procedimenti; siano passivamente seguiti o consapevolmente concertati, egli li ordina a un fine che li sorpassa: a quella quiete e a quella gioia di cui la parte propriamente cristiana dell’Apologia doveva descrivere i segni». (A. Béguin, Pascal par lui-même, ns. tr., Paris 1952, pp. 45-46). C’è una regione estrema dell’agire dove il taglio con ciò che è stato oltrepassato è più radicale. L’apertura è alle mie spalle, davanti a me la desolazione, sono io stesso l’azione, la scheggia che strazia dopo avere negato tutte le modulazioni del compromesso e della corrispondenza. Sono senza inquietudine, sono al di là di ogni possibile inquietudine, ricordo del mondo angosciante da cui provengo. Sono al di là di ogni immagine crudele del mondo. Di fronte all’uno che è, perfino la mia coraggiosa puntualità è nulla, non sono Farinata, sono un venticello di aprile del tutto trascurabile in queste latitudini. Il deserto della realtà corrisponde con la solitudine emozionale della mia mano alzata, pronta a colpire con un gesto condizionale portatore di inesorabile aggressività. I miei occhi sono due fessure invisibili, sformati e sfigurati dalla concentrazione dovuta al coinvolgimento, vedo solo l’angoscia lancinante e imprevista negli occhi del nemico che ha attinto il suo stupore mortale, la disperazione e l’impotenza.
Il fatto è che tutti abbiamo contratto debiti con le cose della mota e quindi tutti veniamo presi e trascinati via dal violento acquazzone che sconvolge il nostro perbenismo più o meno peloso. Avevamo sognato una vita indifferente, seppure amara? Ora sappiamo che quel sogno era inconsistente perché in un luogo maledetto, il luogo dove giacciono le cose della politica, qualcuno sta rimescolandole, e leggendo questo rimescolio non possiamo che tacere e abbassare la testa o alzarla gridando la nostra passione per la libertà. Ma essendo tutti, senza eccezione, compartecipi di quell’assassinio continuo che è la politica, siamo come prigionieri di noi stessi, della nostra stupida malvagità, delle promesse non mantenute, del lavoro che ci strangola. Così siamo freddi ed estranei uno all’altro, chiamiamo amore il possesso e non sappiamo cosa sia il dono. Ogni turbolenza all’orizzonte ci inquieta e ci induce a rincantucciare il capino sotto la piccola ala del nostro essere galline da cortile. Machiavelli ci rende infelici, e la lettura del libretto malefico anche di più. Vi sentiamo un’atmosfera fredda ed estranea, l’agitarsi di un vento che minaccia di diventare impetuoso, e quasi vorremmo che questa denuncia della nostra oscenità non fosse mai stata scritta. Alcuni continuano a leggere questa trappola per topi ma lo fanno con cautela, mentre furtivamente assentono al recupero, da ogni lato proveniente, del suo autore. Essere antimachiavellici oggi sa di stantio, ma quanti hanno capito le condizioni delle cose politiche di cui Machiavelli parla? Non molti. Questa è la sua filosofia, una dura denuncia contro una potenza nemica, agente nelle tenebre della melma.
Le titubanze che alimentiamo da sempre nei nostri cuori riguardo all’uso della forza hanno origini remote. Sappiamo tutti della potenza nemica opprimente, ne abbiamo visto le conseguenze e abbiamo esaminato le cause, eppure non facciamo che malvolentieri il passo successivo. Che ci succede? È che anche noi risentiamo dell’abiezione, anche le idee di libertà e di uguaglianza devono fare i conti con quelle cose della politica. Il rigetto il più delle volte si mantiene a livello epidermico. Il nemico va bene, sappiamo dov’è, e a volte sappiamo perfino come potremmo colpirlo, ma procurarci i mezzi per attaccare con la forza necessaria, ebbene questo è un altro discorso. La bestia melmosa rientra nella nostra decisione, perfino risale al nostro convincimento, e ci fornisce gli alibi della titubanza, dichiarandosi, in quanto bestia, motrice della Storia e forse anche delle nostre motivazioni più profonde.
Così ci disarmiamo prima di armarci, accettiamo gli alibi che i promotori intellettuali della nostra vergogna ci propongono, ci universalizziamo appiattendoci, affratellandoci al nemico ci limiamo le unghie per paura di fargli male. Nulla è chiaro in questo modo, ogni progetto si ridimensiona da solo nella mediocrità, si appiattisce fino a esalare l’ultimo respiro. L’assassinio – nelle sue varie forme – lo perpetriamo o collaboriamo con coloro che lo perpetrano, ma non lo vogliamo ammettere. Noi siamo i liberi e i portatori di libertà, la politica non ci concerne. E invece no, Machiavelli lo dice senza mezzi termini. Gli assassini siamo noi. Il potere siamo noi che lo rendiamo possibile. «Ma la storia di Dio è, fin dalla prima pagina della Bibbia, una storia di sconfitte. La creazione, in quanto altro da Dio, comporta dunque almeno la possibilità di opporsi alla volontà di Dio, la possibilità della colpa e della morte: immediatamente dopo la ribellione di Adamo ed Eva, la Bibbia racconta l’assassinio di Abele compiuto dal fratello Caino. Entra così la morte, che Dio “non ha creato” (Sap. 1, 13). S’instaura, nel momento stesso della creazione, una condizione di estrema precarietà. A rigore, Dio, essendo giusto, dovrebbe impedire l’ingiustizia, annientare coloro che compiono il male, come quando, è scritto nel libro dell’Esodo, di fronte alle colpe degli ebrei usciti dall’Egitto rifiuta di accompagnare il suo popolo». (S. Quinzio, La sconfitta di Dio, Milano 1992, p. 39). Gli artigli del fare, spietatamente mi circondano e mi convincono che la mia realtà, vera, è questo moncone artefatto, il resto non deve interessarmi, devo fare di tutto per diventare altro da quello che sono, migliore, superiore e ciò mentre pregiudizi di ogni tipo negano nei fatti stessi quello che il fare predica possibile, la completezza. La catastrofe la intravedo nella nullità intrinseca di quello che riesco a stringere tra le braccia, i miei possessi disseccano al sole le loro vane membra, mentre terrificanti sentenze di condanna vengono emesse contro ogni tentativo di andare verso qualcosa di diverso. La desolazione della realtà è affollatissima se paragonata al deserto delle relazioni immediate, dove ogni connotazione qualitativa viene fatalmente falsificata. La puntualità dell’azione è sequenza infinita tutta interna a se medesima, interminabile, crudele separazione del mondo da me creato. Nel coinvolgermi in essa perdo la mia identità da sempre catturata e cancellata dalla volontà, mentre i miei occhi restano aperti al deserto e dal deserto disperatamente traducono una voce ignota, quella dell’uno che è. Sono suoni morenti nella loro fragilità, impervi alla chiarificazione, intensi, carichi di un peso che è esattamente quello della completezza che nulla può alleggerire. Sono pronto a scattare nell’azione proprio perché sono pietrificato a qualsiasi movimento governato dalle idiosincrasie del fare.
I promotori della bestialità umana siamo anche noi, con il nostro estremismo parolaio, con il nostro attendere che l’agire venga a bussare alla nostra porta mentre sbucciamo piselli. Almeno l’intellettuale puro, e quindi bestia per eccellenza, sa che nessuno mai busserà alla sua porta, ma gli altri, che fanno costoro per non sentirsi morire? Che fanno per illudersi di vivere? Niente. Accettano una distorta rifrazione dei primi e ne raccolgono gli escrementi, fanno dilagare le misere esegesi di quelli in ripetitività asinine, ragliando contenti della propria subalternità. Sono questi che formano la parte intrinseca degli ingranaggi della politica, forse ne costituiscono la parte più sommersa nella corruzione, e noi con loro, se restiamo silenziosi per malintesa fraterna connivenza. Machiavelli non appartiene a questa schiera di bertucce ghignanti, ecco perché la sua parola mantiene sempre la medesima compattezza misteriosa e alchemica delle cose della politica. La sua coraggiosa immersione nel profondo della caverna dei massacri, gloria e forza della sua parola, è bestiale come bestiale è la melma che copre le cose di cui parla. Tutti i capolavori sono quello che devono essere, niente può spostarsi in loro o sostituirsi senza che decadano a faccenduole da esercitazione retorica. Stanno là e non li si può smuovere, è la filosofia che ruota attorno ad essi, non viceversa. Machiavelli non tratta della bestialità politica come di una mostruosità del profondo. Ne parla qui, sul desco dove si discutono le vicende della quotidianità, dove ne va della vita di tutti. L’oscura profondità della bruttura è costretta a venire a galla, a rimescolarsi, a capovolgersi in maniera che le cose dell’assassinio non siano più altrove, nella bestialità mostruosa di cui l’uomo è capace, ma qui, fra noi, ed ecco perché non ne arrossiamo, anzi cerchiamo di giustificare quelle cose come necessarie alla vita in società. Machiavelli, al contrario, le denuda, non le mette da parte e non ne prende le distanze. Il fatto è che la mostruosità, più che la bontà, è l’ornamento più comune e smagliante dell’uomo. Deprecarlo è stupido come lamentarsi del maleodorante e nerastro ribollire del fango. L’incontro, tra chi attende speranzoso la sua porzione di melma e chi soggiace al gioco oleoso della profondità avviene nella comune passione per la bestialità. Il luogo di questo incontro è nelle cose di cui parla Machiavelli.
Perché la lettura di Machiavelli, in particolare del suo libretto malefico, è fondamentale, tanto da potere avvertire subito in chi si occupa di problemi sociali l’ignoranza o la familiarità con quel testo? Perché Machiavelli è uno scrittore adulto, privo di remore e di scrupoli, non è un navigatore nel mare delle ingenuità, la melma politica la esamina con una vocazione irresistibile, non essendoci costretto se non nella pratica di cancelleria, dove attraverso le sue relazioni non appare l’intento veramente suo se non per barbagli occasionali. Egli guarda avanti, non vuole essere un qualsiasi raccoglitore di cognizioni attorno a dei fatti che sono grandi come montagne per le conseguenze che provocano, mentre le cognizioni rimangono piccoli spauriti topolini. Scrive disgustato disgustando, e questo perché è filosofo e non mestatore politico, non è né falso né esagerato, quello che in lui può sembrare eccessivo o stravagante, è solo l’insieme delle cose politiche, l’agitarsi continuo della poltiglia. Essendo uno scrittore del futuro, anche parlando di cose che il futuro conoscerà in correlazioni diverse, sono sempre le medesime cose immerse nella medesima melma che il futuro conserverà, ed ecco perché la filosofia di Machiavelli è filosofia attuale ed ecco perché di lui non si è perso il ricordo e neppure il fascino. Questa filosofia è oggi traducibile con facilità nella nostra condizione presente solo apparentemente più complessa, mentre è soltanto più caotica. Ma Machiavelli è signore del caos, il suo procedimento diretto alle cose mette in moto effetti obliqui, meditazioni sull’assassinio che fanno paura oggi, forse più che all’epoca sua. «Descartes affrontava la fisica da matematico: facendo affidamento sulla sapienza onnipotente di un Dio, di cui ha d’altronde stabilito l’esistenza mediante una deduzione di andamento geometrico, egli si attribuisce il diritto di decidere in anticipo che i fenomeni dell’esperienza riceveranno la forma delle equazioni che meglio soddisferanno l’intelligenza con la loro semplicità e la loro universalità. Di Pascal, al contrario, si è tentati di dire che porta anche in matematica lo spirito del fisico; il mondo intelligibile dei geometri possiede, ai suoi occhi, una natura intrinseca: conviene di osservarne gli effetti, prima di tentare di penetrarne il principio. Descartes è nel segreto del linguaggio, chiaro e distinto, affatto razionale, che Dio ha prescritto all’universo di parlare: egli può dunque dettare a priori le soluzioni della cosmologia. Pascal, anche davanti agli oggetti della matematica, è come davanti a una lingua sconosciuta di cui bisogna districare il caos apparente, come davanti a un libro misterioso di cui si tratta, come dirà del Vecchio Testamento, di scoprire “la chiave della cifra”». (L. Brunschvicg, Blaise Pascal, ns. tr., Paris 1953, p. 190). Nell’azione non riesco a sentire come mio il mio essere puntuale, né lo posso sentire come estraneo. Non sono io a possedere quella realtà che è la sua solitudine e la sua desolazione, io sono la puntualità, non quest’ultima è un mio possesso. Sono contagiato dalla realtà, abbagliato, calamitato, terrificato, ma non sono altro di questa diversa condizione e questa condizione diversa non è altro da me. La grande solitudine dell’agire ha una corrispondente, quasi sempre trascurata, la piccola solitudine del fare, annegata, quest’ultima, nella radicale mancanza di alternative alla conoscenza protocollare. O mi assoggetto al controllo, o mi getto nelle braccia del silenzio e della incomprensione. Non posso sostenere questa lacerazione per arenarmi nella sorgente stessa dell’inquietudine scambiandola per la soluzione radicale del mio desiderio di completezza. Dominata dalla realtà, l’azione è vertigine complessa e articolata in mille contraddizioni, senza più gli equilibri e le disillusioni del fare. Non c’è nulla da comprendere, agire è esattamente il contrario. L’azione esce dal fare ma non ne mostra alcuna conseguenza effettuale, non posso identificare nel fare la causa dell’azione. Milioni di persone fanno più di quello che dovrebbero fare. Interrompere la parola nel suo compito estremo richiede una sufficiente fiducia nelle proprie capacità, e ciò accade o nell’estremo rigoglio delle ridondanze o nella stringatezza altrettanto estrema che prelude al silenzio. Costringere a parlare la parola è compito estemporaneo e rapsodico, non potendo legarsi a nessuna norma retorica artificialmente costruita a questo scopo.
Niente nel suo modo di dire le cose della politica fila liscio, ogni momento la filosofia propone un nuovo modo di lavorare in profondità, proiettato verso il futuro. Non ci sarà più occasione né per Machiavelli né per i suoi tanti lettori di accostarsi alle cose della melma fino a penetrarle nella loro spaventosa profondità. Il distacco dell’occhio svagato dell’umanesimo appare qui più evidente. Sono messi a nudo i nervi dell’uomo, di qualunque uomo, non dell’uomo cattivo che l’uomo buono può guardare con supponenza a distanza di sicurezza.
Nel libretto che ci occupa, malvagio o meno che sia – deponiamo alfine questo luogo comune – è messa sotto la potente luce filosofica l’inclinazione dell’uomo verso la malvagità, la sua pratica costante e coerente dell’assassinio. Questa è una passione, così almeno appare a Machiavelli, la passione della forza, strumento primario del potere, da un canto, ma anche della liberazione dal potere. Antitesi irrisolvibile che anime candide rinviano continuamente ma non affrontano. Forse si potrebbe chiamare vizio questo bisogno di vivere in società, ma è vizio che si ripresenta sempre più consistente e abbarbicato al desiderio e al bisogno dell’altro, che tutti avvertiamo. Nella pulsione verso la società c’è il lato avvincente dell’amore, segreto o rivelato a chiare lettere, ma non resiste a lungo, un movimento per quanto lieve della mota collettiva lo precipita nella misteriosa caverna della politica. Si può distinguere qui quanto si vuole fino ad arrivare alla sottigliezza, ma è impresa vana. Il più tenero degli uomini è sempre a un passo dalla fossa melmosa. Machiavelli lo sa e ne fa oggetto della sua filosofia. Riguardo a Schopenhauer, Piero Martinetti ha scritto: «Il male radicale, che è causa di tutti gli altri mali fisici e morali, è la volontà dell’individuo separato, questa è la colpa che ciascuno porta con sé nascendo. La dipendenza dell’intelletto dalla volontà è propriamente la disposizione intellettiva corrispondente allo stato di schiavitù, in cui la volontà è dispersa in infiniti individui che sono in opposizione fra loro. Ma di mano in mano che la conoscenza si libera, essa adempie sempre più il suo vero compito, che è di ristabilire l’unità della volontà: nel grado più alto, alla conoscenza perfetta corrisponde la estinzione della volontà separata, la liberazione. La giustizia, la carità, l’eroismo, tutto ciò, che vi è di grande e di nobile nella vita umana, è già una parziale negazione di questo voler vivere egoistico e procede dall’elevazione della conoscenza al di sopra della semplice concatenazione empirica e cioè dalla conoscenza intuitiva dell’unità interiore delle volontà singole. Vi è già tra la pietà e la rinunzia religiosa una transizione insensibile: la via della liberazione è in prima linea la via della conoscenza del dolore. Nella contemplazione estetica scompare già il soggetto individuale limitato e subentra il soggetto senza volontà ed eterno del conoscere. La differenza, che vi è tra il contemplatore della bellezza e il liberato, è che questa contemplazione è solo un quietivo momentaneo e la liberazione è la conquista della pace definitiva ed assoluta. Appena occorre dire che il suicidio non è una liberazione. Il suicidio è ancora in generale un atto violento di affermazione; colui, che si uccide, vorrebbe vivere, ma in altre condizioni. Però Schopenhauer non lo disapprova completamente: egli lo trova perfettamente naturale quando è l’ultimo atto di rinunzia religiosa». (Schopenhauer, op. cit., p. 12). La puntualità dell’agire pulisce il colpo d’occhio da tutte le stucchevolezze alle quali sono stato educato dal fare. Mi tuffo in me stesso ed è da me stesso, con i miei occhi soli, che progetto la puntualità attiva. Quello che regge qui il vero e proprio confronto con l’uno che è, è proprio l’improbabilità puntuale, la sua consistenza mitica, così travolgente da fare passare lo stesso oltrepassamento in secondo piano. L’ispirazione di questo contrasto e di questa commisurazione si trova nella realtà, nel suo desolato territorio. L’intuizione, se cade in un terreno fattivo fertile, cioè rinvigorito da produzioni accettabili della volontà e da contraddittorie produzioni che la volontà è costretta a combattere, produce conseguenze interpretative di grande portata, tali da sconvolgere i ritmi e le modalità consequenziali che governano le corrispondenze relazionali. Di fronte a certi costrutti volontari fortemente concentrati sui vincoli del possesso, si arena ogni tentativo di accesso alla diversità. Si tratta di condizioni realmente patologiche che assumono l’aspetto della più banale delle normalità. Si vive e si muore così franando continuamente in ogni progetto che si presenta sempre sotto l’aspetto tetro di ultima soluzione. Le illusioni si sovrappongono alle passioni e queste a quelle, cancellandosi a vicenda. Le intermittenze intuitive, che si posseggono come gli scatti di umore o le aritmie nei battiti del cuore, alla fine registrano solo molteplici scacchi crudeli.
A volte non c’è neanche modo di precisare l’oggetto del contendere, le modulazioni del potere, il mezzo – l’assassinio – fa da padrone allo scopo – il potere – e lo condiziona facendo apparire il secondo termine, lo scopo, come impregnato dell’inconveniente del mezzo. In poche pagine Machiavelli si sbarazza però del suo problema. Il potere è forza, quindi è assassinio. I politici si illudono di nascondere le loro mani sporche di sangue, ma non ci riescono. Ogni discorso adulatorio, o anche semplicemente riduttivo, riguardo a questa affermazione, non riesce a nascondere la coda. Machiavelli non ammette queste titubanze, le considera difetti del dire non del fare, nell’azione politica, condanna quest’ultima come inane tentativo. Gli uomini, delle piccole offese si vendicano delle grandi non possono – cito a memoria – ed è un sasso lanciato nello stagno del perbenismo. Chi attacca il nemico deve colpire, ogni titubanza, ogni tentennamento, ogni incertezza sono altrettanti errori e si pagano a caro prezzo. Il nemico si vendica. Nessuno meglio di me che scrivo queste righe [2009] lo può testimoniare dal fondo del peggiore carcere che esiste in Grecia. Una debolezza la si paga e il rivoluzionario non mette in gioco solo se stesso, ma anche il proprio progetto. Il potere sa bene la verità di questa frase di Machiavelli, e se qualche volta accetta di mostrarsi debole lo fa perché non può farne a meno, il suo calcolo politico gli suggerisce che la strada migliore è quella della debolezza. Su questo punto ci sarebbe molto da dire riguardo alla gestione democratica del potere. Così Victor Cousin: «La filosofia, in Pascal, interrogando male la ragione, non ne ottiene che risposte incerte; e incapace di decidersi, si precipita in tutti gli abissi dello scetticismo. Ma l’uomo, in Pascal, non si rassegna allo scetticismo del filosofo. La sua ragione non può credere, ma il suo cuore ha bisogno di credere. Ha bisogno di credere in un Dio, non un Dio astratto, principio ipotetico dei numeri e del movimento, ma in un Dio vivente, che ha fatto l’uomo a sua immagine, e che possa accoglierlo dopo questa breve vita. Pascal ha orrore della morte, come dell’ingresso nel nulla; cerca un asilo contro la morte con tutte le potenze della sua anima, con tutte le debolezze della sua ragione disarmata. Pascal vuol credere in Dio, e non potendo farlo con la sua cattiva filosofia, in mancanza di possederne una migliore e di avere sufficientemente studiato e compreso Descartes, respinge ogni filosofia, rinuncia alla ragione e si rivolge alla religione. Ma la sua religione non è il cristianesimo degli Arnauld e dei Malebranche, dei Fénelon e dei Bossuet, frutto solido e dolce dell’alleanza della ragione e del cuore in un’anima ben fatta e saviamente coltivata: è un frutto amaro, sbocciato nella regione desolata del dubbio, al soffio arido della disperazione. Pascal ha voluto credere e ha fatto tutto ciò che era necessario per finire per credere. Le difficoltà che incontrava, non le ha superate la sua ragione, ma le ha scartate la sua volontà. Una tale apologia del cristianesimo sarebbe stata un monumento tutto particolare, che avrebbe avuto per vestibolo lo scetticismo e per santuario una fede tetra e malsicura di sé stessa. Un simile monumento sarebbe forse convenuto a un secolo malato come il nostro; avrebbe potuto attrarre e ricevere Byron convertito, Faust o Manfred, uomini lungamente preda degli orrori del dubbio e decisi a liberarsene a qualunque costo. Ma gli spiriti calmi e ordinati del XVII secolo non avrebbero saputo che farsi d’una simile opera. Per loro, la religione era il coronamento della filosofia, la fede lo sviluppo più legittimo della ragione vivificata e illuminata dal sentimento. Lo scetticismo di Pascal sarebbe stato loro di scandalo più che di lezione. Anche oggi i Pensieri sono forse più dannosi che utili; essi diffondono l’avversione per la filosofia ben più che il gusto della religione; essi guastano l’anima più che illuminarla e pacificarla; e la fede che ispirano, figlia della paura piuttosto che dell’amore, è inquieta e agitata come quella di questo, sublime e infelice genio». (“Rapport à l’Académie française sur la necessité d’une nouvelle édition des Pensées de Pascal”, ns. tr., “Journal des Savants”, aprile-novembre 1842, p. 541 e sgg.). Lo sguardo puntuto della mia penetrazione puntuale nel territorio della qualità fronteggia la ferma presenza dell’uno che è, anche se non ha la forza di interiorizzazione che la coscienza immediata aveva prima dell’oltrepassamento. Quello che manca adesso, alla enorme potenzialità attiva, è la capacità di introspezione. Io sono l’attore agente, non la coscienza mutila che guarda agire me stessa di fronte al prevedibile scontro con le corrispondenze e i protocolli. La defaillance dell’oltrepassamento, se reiterata, a lungo produce una sensazione di naufragio. Si tratta di una categoria forse troppo sfruttata, ma il viaggio di una nave naufragata è per forza di cose impossibile a riprendere se prima il relitto non è trascinato al molo di partenza. L’eccesso, se insisto a restringerlo nei panni dismessi del fare, è assurdo. È un produrre in più, di più del più, un azzerarsi in se stesso programmando l’ulteriore incredibile aggiunta. Rafforzo in questa maniera la separazione della produttività modificativa, la bizantineggio, l’antropomorfizzo, la completo nel pieno della sua possibilità di incompletezza.
Non è un accumulo di parole che ci si aspetta accostandosi a Machiavelli, quanto uno stratificarsi delle cose dove le parole si addentrano costruendo concetti che sono cose essi stessi, non semplici superfetazioni. Scarseggiano gli aggettivi di sorpresa e di incitamento, tutto è affidato quasi sempre ai sostantivi, difatti le cose non sono mai misteriose ma è il mistero che le costituisce nel fondo della caverna. Solo per un intellettuale ozioso le cose della politica possono essere avvincenti, per chi è nelle cose stesse e in esse si muove furtivamente, l’assassinio è pane quotidiano, non cessando per questo di essere l’estrema bestialità umana, il segno costante e immutato dei tempi che pure avanzano inevitabilmente verso una conclusione, se non altro quella della nostra propria morte. Scrivo in un posto infernale che sarebbe eufemistico definire prigione, i muri lordi di fango alto tre dita, il pavimento quasi inesistente, gli insetti di ogni genere che banchettano al posto mio con quello che resta di me stesso, tutto ciò mi dà una piccola idea della caverna degli assassini che covo e nascondo dentro di me. Che filtra attraverso queste mura al di là dei quali, in lontananza, riesco a vedere il Parnaso? L’essenza estrema del pensiero filosofico, la confusione concorde dei sistemi che hanno avuto tanta parte nella mia vita e che ora, a un passo dalla morte, in questi tardi anni, sono come lande sconfinate e sconosciute. A volerne parlare non saprei che dire, con Machiavelli non mi accade tutto ciò, mi resta vicino. Lui vedeva tutto questo e non se ne meravigliava, scelta che stento a seguire come un discepolo pauroso. Qui l’uomo è nudo, senza orpelli o giustificazioni, qui è politica tutto, anche la gavetta sporca dove mangio perché non posso lavarla mancando l’acqua da tre giorni. Non sono note di colore, è solo una piccola parte di quello che mi circonda mentre mi affatico su queste pagine. «Pascal ha instaurato il metodo conosciuto, ai nostri giorni, col nome di metodo d’immanenza, nel senso che si rivolge al cuore dell’uomo per fargli, non solo comprendere, ma desiderare, ritrovare, sentire, nella sua stessa miseria la sua grandezza, nella sua cupidigia la carità, nella sua giustizia l’ordine di Dio, e per risvegliare dall’intimo in lui quell’aspirazione all’infinito che niente di finito può colmare, quel bisogno del soprannaturale che la natura intera non riuscirebbe a soddisfare. Ma d’altra parte, parimente, con un’energia senza pari, Pascal condanna ogni dottrina d’immanenza. Egli mostra che tra l’ordine degli spiriti, il più alto della natura, è l’ordine della carità, che è soprannaturale, c’è una distanza “infinitamente infinita”, dunque una vera discontinuità. E ciò è ancora perfettamente giusto; perché, se si può dire, in un certo senso, che la soprannatura porta a compimento la natura, è ugualmente vero che non si passa dalla natura alla soprannatura per gradazione continua: la soprannatura non deriva dalla natura; ancor meno si riduce ad essa. Ecco perché le vere prove della religione cristiana, Pascal non le cerca in noi, non le cerca nella natura, ma in fatti che sorpassano la natura: le profezie, i miracoli, la perpetuità». (J. Chevalier, Pascal, ns. tr., Paris 1949, pp. 308-309). Il dire rammemorativo può dilagare nelle estensioni variopinte del precedente scavo labirintico che aveva come propria ragione sufficiente l’accerchiamento della volontà, oppure può intensificarsi all’estremo, dove il segno perde ogni superfluo significato. La Pietà Rondanini, a esempio. Questa capacità di intensificazione è un avviso del destino, che sta mandando segnali precisi, la vita tossisce i suoi ultimi palpiti e in questo c’è quella sorta di frivolezza di cui parlava Proust. La puntualità nell’azione ha qualcosa della visione panoramica di cui ha parlato Bergson, anche se il punto di morte è solo un accidente secondario. Qui non sono più ammessi i deliri immaginativi, quel sentimentalismo che guarda e deforma, a proprio uso e consumo, i momenti del fare. La puntualità può avere, nella realtà, un’aridità inconsueta, un taglio del tutto sconosciuto al fare coatto, agli accomodamenti rituali tipici del mondo delle attese dove un fare pietrificato accumula conoscenza da utilizzare per scopi bene individuati. Che poi questa apparente fluidità e ricchezza di obiettivi si riveli una patetica illusione, questo è un altro problema.
Perché scriveva Machiavelli? Non per un committente, come nelle Istorie, non per amici o nemici, non per i discepoli degli Orti. Scriveva prima di tutto per se stesso, come si è detto, poi per qualche uomo d’azione, qui e là nel corso dei secoli, che tale era la sua acuta vista. Non che questi pochi rivoluzionari hanno o avranno perso i loro giorni nelle pagine del libretto malefico, ma il modo di porsi di fronte alle cose era quello, era il loro esattamente come per Machiavelli. Un messaggio spedito al futuro (o al passato passando per il futuro). Perfino la condizione losca del libretto può avere giocato il suo ruolo, chi a esso si accosta deve prima fare i conti con questa periferia balorda che nel migliore dei casi suggerisce indifferenza e allontanamento se non condanna vera e propria. Il fatto è che nel Machiavelli di queste pagine c’è un aut-aut a cui non si può sfuggire, una sfida a vedere diversamente le cose della caverna dei massacri nella loro profondità, a svolazzare lontano e remoto come un uccello. Machiavelli sa che ciò non è possibile al lettore che non sia un provato tartufo, ma il lettore non lo sa e annaspa cercando una ciambella di salvataggio per nuotare meglio, fosse anche quella dell’infamia che chiude gli occhi per non vedere l’orrore.
Al contrario, nel piccolo libro dinamitardo non ci sono appigli, non c’è niente di tonico, tutto è radicale e sconvolgente, come la vista di un uomo a bocca e occhi spalancati, abbandonato da poco dalla vita. Una imprevedibile sorpresa sembra scritta nella sua faccia sgomenta, la sorpresa di avere capito, alla fine, quanto tenue sia il filo che tiene in piedi questo pupazzo che chiamiamo uomo. La sibilante certezza di Machiavelli è un sigillo sulle cose, queste non verranno mai più dette altrettanto chiaramente. Essa prevede i tempi futuri e chiude i tempi passati, collegamento e crocevia, un unico movimento all’insegna dell’infamia umana e della pratica dell’assassinio. È la sua voce a scandire questa mancanza di cesura tra passato e presente, tra quello che è accaduto e quello che continua ad accadere, e nella voce si avverte l’asprezza della novità e lo stremo delle forze di chi sa di ripetere la stessa tragedia infinite volte detta in altrettante guise. La solitudine del suo dire è nelle parole stesse, nella lingua che impone al lettore preferendola al latino dei trattati, è nella spavalderia di scoperchiare un antro degli orrori che nessun perbenismo idealistico potrà ricoprire più come prima. L’uomo è l’animale che tortura, che penetra nell’altro uomo uccidendo, maneggiando senza curarsene troppo quella gracile cosa che è la vita. E questa non è una prerogativa della tirannia ma nostra, di noi tutti che ci portiamo tale contrassegno nella solitudine del cuore. Così Hegel: «È... vano il rimprovero mosso alla filosofia spinoziana che essa uccida la morale; essa conduce invece all’alto risultato, che tutto il sensibile non è se non limitazione, e che c’è soltanto un’unica vera sostanza, e che la libertà dell’uomo consiste nel contemplare questa unica sostanza e nell’indirizzarsi nel suo sentire e nel suo volere all’eterno uno. Piuttosto a questa filosofia si può giustamente muovere il rimprovero di concepire Dio soltanto come sostanza, e non come spirito cioè come concreto. In tal modo si viene a negare anche l’indipendenza dell’anima umana, mentre nella religione cristiana ogni individuo appare destinato alla beatitudine. Qui invece l’individuo spirituale è soltanto un modus, un accidente, non un che di sostanziale. Il che ci conduce ad un giudizio generale della filosofia spinoziana, nel quale occorre mettere in rilievo tre punti di vista. In primo luogo lo spinozismo è accusato, per esempio dal Jacobi... d’essere ateismo, perché Dio e il mondo non vi sono distinti: egli farebbe della natura un Dio reale, ovvero abbasserebbe Dio a natura, sì che Dio sparirebbe e rimarrebbe posta soltanto la natura. Ma il vero è che Spinoza non contrappone Dio e natura, sibbene pensiero ed estensione; e Dio è la unità, non l’uno dei due ma la sostanza assoluta, in cui è piuttosto sommersa la limitatezza della soggettività del pensiero e della natura. Coloro che inveiscono contro Spinoza, si comportano come se stesse loro a cuore Dio; ma a codesti avversari non è quel Dio che preme, sibbene alcunché di finito, loro stessi. Fra Dio e il finito, cui noi apparteniamo, possono pensarsi tre specie di rapporti: 1. che soltanto il finito sia, che noi soltanto si sia, che Dio invece non sia; è l’ateismo in cui il finito è considerato in senso assoluto ed è il sostanziale; 2. che soltanto Dio sia: il finito è in verità nulla; mero fenomeno, apparenza; 3. Dio è, e anche noi siamo, che è un cattivo congiungimento sintetico, un paragone di comodo. È il modo di comportarsi della rappresentazione di ritenere che ciascun lato sia altrettanto sostanziale quanto l’altro, che Dio sia venerato e sia al di là, ma anche le cose finite abbiano un essere... Spinoza si eleva al di sopra di codesto dualismo; e altrettanto fa anche la religione, se trasformiamo le rappresentazioni in pensieri. L’ateismo della prima maniera, in cui gli uomini pongono come un ultimo l’arbitrio della volontà, la loro vanità, le cose finite della natura, e il mondo si perpetua nella rappresentazione, non è il punto di vista di Spinoza, per il quale Dio solo è l’unica sostanza, mentre il mondo non è che affezione o modo di essa. Se si tien presente che Spinoza non distingue Dio dal mondo, dal finito, è dunque esatto dire che lo spinozismo è ateismo in quanto egli afferma che la natura, lo spirito umano, l’individuo è Dio, esplicato in una guisa particolare... È tuttavia inesatto chiamare ateo Spinoza soltanto perché non distingue Dio dal mondo. Con altrettanta o più ragione lo spinozismo potrebbe dirsi piuttosto acosmismo, in quanto in esso non il sistema cosmico, l’essenza finita, l’universo, ma soltanto Dio è considerato sostanziale e gli si attribuisce vita perenne. Spinoza afferma che ciò che si chiama mondo non esiste affatto: è soltanto una forma di Dio, non è niente in sé e per sé. L’universo non ha vera realtà: tutto è gettato nell’abisso dell’unica identità. Non c’è quindi nulla nella realtà finita; questa non ha verità alcuna; secondo Spinoza, quello che è è soltanto Dio. È adunque vero tutto il contrario di quanto si sostiene da coloro che incolpano Spinoza di ateismo: se mai in lui c’è troppo Dio... Il sistema di Spinoza è il panteismo e monoteismo assoluto elevato nel pensiero. Lo spinozismo è adunque ben lontano dall’essere ateismo nel senso consueto della parola ma è tale nel senso che Dio non è inteso come spirito... Secondo: il metodo adoperato da Spinoza nell’esposizione della sua filosofia è il metodo dimostrativo della geometria, quello di Euclide, in cui appaiono definizioni, spiegazioni, assiomi e teoremi. Già Cartesio aveva affermato che le tesi filosofiche vanno trattate e dimostrate matematicamente, che debbono avere la stessa evidenza delle matematiche. Il metodo matematico, a cagione della sua evidenza, si ritiene il migliore... ma esso non serve per un contenuto speculativo... Si può dare ragione a Jacobi, che la dimostrazione conduce allo spinozismo, quando con essa si designi unicamente il procedimento del conoscere intellettualistico. Ma in generale Spinoza è un punto talmente importante della filosofia moderna, che in realtà si può dire: o tu sei spinoziano, o non sei affatto filosofo. Parrebbe dunque che il metodo dimostrativo matematico di Spinoza sia unicamente un difetto della forma esteriore; invece è l’errore fondamentale di tutta la sua concezione. Questo metodo misconosce la natura del sapere filosofico e l’oggetto di esso; infatti la coscienza e il metodo della matematica sono meramente formali, quindi affatto disadatti alla filosofia... la dimostrazione è bensì fatta e si deve restarne convinti, ma la realtà non è afferrata col concetto. Si tratta di una rigida necessità della dimostrazione, cui manca il momento dell’autocoscienza; 1’io scompare, vi si dilegua affatto, non fa che consumarsi. Il procedimento di Spinoza è adunque indubbiamente esatto; ma la singola proposizione è falsa, in quanto esprime un solo lato della negazione. L’intelletto ha determinazioni che non si contraddicono; esso non può soffrire contraddizioni. Orbene, la negazione della negazione è contraddizione; infatti, poiché essa nega la negazione in quanto semplice determinatezza, da un lato è affermazione, dall’altro però negazione in genere; e questa contraddizione, che costituisce il razionale, manca a Spinoza. Gli manca la forma infinita, la spiritualità, la libertà». (G. W. F. Hegel, Lezioni di storia della filosofia, tr. it., Firenze 1943, vol. III, 2, pp. 109-110). La parola con cui cerco di dare conto qui della puntualità non è parola rammemorante, che prende in considerazione l’esperienza diversa, essa è fragile navicella per attraversare con grandi stenti il mare immenso della incomprensione, goccia a goccia, scintilla a scintilla. Eppure questa inconsistenza foggia i miei strumenti, li leviga passandoli sulle mie ferite sanguinanti, per farli diventare duri come il cristallo, capaci di dire e bruciare senza lasciare traccia. Ma dire che cosa? Dire la puntualità che si riflette nell’uno che è. In questa riflessione c’è una insistenza che ricompone continuamente se stessa, priva di scopo, in quanto quello annunciato, il riflettersi nell’uno, è chiaramente un espediente e un modo di fare sentire l’odore di bruciato che si sprigiona dallo svanire di questa parola nel fuoco stesso di una testimonianza impossibile, in modo straziante fuori portata. Ogni domanda di accesso rivolta all’uno che è, diretta, resta ovviamente senza risposta. Sarebbe tutto troppo facile se non fosse così. Ogni groviglio di pensieri che faticosamente costruisco con la mia abilità fattiva, è sistematicamente respinto e disseminato in immagini e monconi di parole. Ogni momento questo guazzabuglio si frange e si ricompone assumendo forme insondabili e oscure, negazioni che la stessa critica negativa stenta a riconoscere o a interpretare. L’uno che è, è inattaccabile da questo lato, il fare che cerimoniosamente chiede, non lo intacca né lo coinvolge, la sua estraneità è assoluta. Le mie domande si distruggono da per se stesse e, non conducendo da nessuna parte, si infrangono non sull’uno che è, ma su se stesse, distrutte dal loro medesimo senso segreto, ignoto perfino a me che le pongo. Soffermarsi sull’apertura e guardare indietro accennando al saluto, l’ho paragonato al gesto di addio del suppliziato. È il momento in cui temo che non ci sia via di scampo al precipitare nel coinvolgimento più cieco, disperatamente negatorio di ogni conoscenza fattuale. È il momento in cui cerco in fondo al mio cuore quel motivo per cui l’umana incomprensione si erge come idra dagli abissi o suona come diapason insostenibile per le mie orecchie. Sono salpato con grande energia e mi perdo nel cercare una qualche zattera di salvataggio.
Machiavelli taglia in modo irreversibile il mondo della melma politica interpretato in mille occasioni, quel mondo però non può essere interpretato e quelle interpretazioni non sono altro che fantasie collaterali, senza contatto con la caverna umana dove la mota bolle continuamente. Un contesto edulcorato è come una caramella, non può mai sostituire un pasto vero e proprio, serve solo come passatempo. Alimentare languori sulla povertà politica della società è tempo perso oppure, se opera ben fatta, progetto letterario di altra natura. Niente di più lontano dalle intenzioni di Machiavelli di costruire un sarcofago sopra la caverna degli orrori umani, nemmeno una scala di servizio. Non ci sono ricami o damaschi che non finiscano prima o poi per tradire quello che nascondono pudicamente. I tagli delle diverse corrispondenze sono sempre sorprendenti, Machiavelli non si smentisce mai, non mette baldacchini o colonne alle proprie intenzioni, le deposita semplicemente davanti alle cose, senza graduare l’approccio in modo artificioso. Trascurare un singolo dettaglio del misterioso mondo della fanghiglia significa per lui tradire la propria concezione filosofica, come se volesse condannare qualcuno e assolvere qualcun altro. La politica ha tombe riverite e coperte di alloro, ma sempre della stessa melma si tratta, uguale a quella che copre le più trascurate. Machiavelli lascia che l’erba cresca sui trattati elogiativi e giustificativi, le cose che vivono al di sotto della melma, nella loro nauseabonda condizione, non sono giustificabili né elogiabili. Molte di queste cose, anche l’assassinio, forse in primo luogo l’assassinio, non sono quasi mai state al centro dell’attenzione né degli assassini né dei loro elogiatori più o meno retoricamente provveduti. Tutto si è svolto nell’antro delle dimenticanze. Ci si dimentica facilmente di ciò che è sgradevole non appena si è riusciti a mettere un velo sufficiente a coprirlo. Machiavelli non dimentica. Il suo dire persiste anche oggi con la stessa affilata capacità di penetrazione e tutto è pregnante non conoscendo incuria o trascuratezza, ma nemmeno perdono.
I competitori ostili e i facili elogiatori – in fondo quale la differenza se non riescono entrambi a cogliere la filosofia dell’orrore umano? – sono legione, si estendono come una vegetazione tropicale e ripetono una musica più o meno simile che sembra venire da un loggione isolato non udibile se non vi si presta attenzione. In fondo è l’amore che vince il tempo o l’insegnamento che sconfigge l’empietà umana. Balocchi per orecchianti di politica.
C’è qualcosa di lacerante in questa banale constatazione. In breve non c’è modo di sfuggire a Machiavelli. Il tempo va via veloce e sembra non avere potere su quel malefico libretto, ciò è conseguenza dell’essere l’uomo sempre uguale a se stesso, lupo per l’altro uomo. Naturalmente questo non è un giudizio di Hobbes, banale trascriverlo qui, è la pratica della vita e delle illusioni educative e tradizionalmente dicotomiche. La società nuova costruita su una montagna di cadaveri potrà far vivere l’uomo libero? L’anarchia è metodo di lotta, qui e ora, cristallizzata in un luogo ideale, dove l’uguaglianza alla fine riposerebbe su guanciali di piume, potrebbe non avvedersi della caverna che l’uomo alberga in se stesso, così com’è individuata da Machiavelli. L’occhio acuto dell’anarchico potrebbe svagare subito su di un panorama di putti e pecorelle, Arcadia nuova, dove ci sarebbe comunque la morte nascosta dall’edera e dal fogliame secco ai piedi della quercia. I radiosi incontri libertari sono sogni che aiutano a vivere con i piedi nel fango. «Dobbiamo eliminare di nuovo dal mondo la molta, falsa grandiosità, perché essa è contro la giustizia, cui tutte le cose dinanzi a noi hanno diritto! E a tal fine è necessario non voler vedere il mondo più disarmonicamente di quanto è!». (F. Nietzsche, Aurora, I, 4). Nel coinvolgimento metto in gioco la totalità di me stesso, quantitativamente intesa, questo è ovvio, ma senza riserve mentali e senza inganni. In caso contrario non faccio altro che avvoltolarmi nella fanghiglia che ospita da tempo immemorabile i miei pavidi tentativi di oltrepassamento. La rinuncia alla lotta, anche se si dipana su molteplici piani di mancato intervento, è morte interiore, interruzione di contatti con la vita, raggomitolarmi nella paura della notte e negli incubi del giorno. Torno a un’accettazione platonica di ombre e simulacri, eppure mi sento portatore di una camaleonticità fattiva. Ho avuto paura, sono un vigliacco, ho cercato di guardare negli abissi e nemmeno sono stato capace di restare con gli occhi aperti. Il mio gesto inatteso era atteso da qualche cosa che l’ha bloccato. Le convenzioni protocollari e le illusioni di sicurezza che le accompagnano misurano non solo gli equilibri della mia creazione del mondo, ma anche, e principalmente, le mie distrazioni e le mie indifferenze, il mio lasciarmi vivere e il mio lasciarmi morire. Ogni riflessione appena appena altra, si limita a lambire l’orlo dell’abisso, non si accorge neanche del magma che vi bolle dentro. Le mie fragili parole si limitano a volte a singhiozzare sui danni della perduta qualità e non dicono nulla delle quantità che posseggo e su cui potrei puntare i piedi non per una radicale e razionale inversione di rotta, ma per un semplice istante di sbalordimento.
La sconfitta è il destino dell’uomo, la morte lo personifica con tutta semplicità. Arriva sempre come l’amante segreta, che nessuno ha mai visto in faccia. L’anarchico deve amare la sconfitta – evidentemente non la morte – perché tutti i suoi tentativi si concludono sempre in qualcosa di diverso dall’anarchia, qualcosa contro cui deve prima o poi lottare nuovamente. Ecco perché l’insegnamento delle cose di cui parla Machiavelli è fondamentale. L’uomo è una bestia politica e tanto basta. Si possono escogitare metodi e progetti molto articolati ma soltanto la sconfitta anarchica li caratterizza nel loro contenuto di libertà. Il loro implicito mettere ordine è un appello al potere, quindi ripresenta l’antica melma da cui l’anarchico si era allontanato sulle ali della fantasia. Qui non ci sono eccessi o salti qualitativi, Machiavelli è leggibile in questa direzione. Non fornisce, come sappiamo, una soluzione, anche se indica l’astuzia e la forza come strumenti indispensabili. Preso in sé questo suggerimento è banale. Perde la propria banalità una volta immerso nella politica delle cose.
Nessuno è maturo per uccidere, come nessuno è maturo per essere ucciso. Eppure la politica procura questa maturità a buon mercato. Qualsiasi imbecille è capace di giocare questo infame gioco, e di esservi giocato. La ricostruzione delle cose della politica svela queste corrispondenze allo stesso tempo in cui svela il modo per accostarsi a loro con la filosofia, cioè con un metodo per capire, non con un insieme letterario di chiacchiere utili alla gestione del potere.
Tutto questo sta all’interno dell’uomo e si proietta all’esterno, atteggiamenti, idee, oggetti, tutti convenientemente immersi nel putridume politico. Le figure che descrivono questo complesso sono considerevolmente approfondite dal lato che si potrebbe definire oggettivo, di meno Machiavelli si addentra nel lato soggettivo ma il raccordo è lo stesso comprensibile per noi oggi, uomini dell’epoca psicoanalitica. «I risultati particolareggiati della psicoanalisi che devono diventare importanti per la psicologia generale sono troppo numerosi per poterli elencare in questa sede. Voglio ancora accennare soltanto a due punti: il modo inequivoco in cui la psicoanalisi rivendica il primato nella vita psichica ai processi affettivi, e la dimostrazione di una misura insospettata di perturbazione e abbagliamento affettivo dell’intelletto sia nei normali che nei malati». (S. Freud, L’interesse per la psicanalisi, in Psicanalisi. Esposizioni divulgative, tr. it., Torino 1963, p. 78-79). Nel fatto, in ogni singolo fatto, è inserita la morte, la prospettiva e l’esperienza della morte. Ci sono fatti che respingono, un divertimento, questa presenza ai margini, ci sono fatti, come il rumore di fondo che mentre scrivo mi raggiunge di una chiave che chiude la porta di una cella vicina alla mia, che la pongono a una vicinanza che non sarebbe errato definire angosciosa. L’inquietudine mi insegue fino alla soglia dell’apertura, mi dà la vertigine e mi continua a tenere in un vortice inarrestabile che a poco a poco erode il senso di quello che ho fatto e contro cui combatte un’epica lotta il mio coraggioso coinvolgimento. Se restassi esternamente in bilico sarei morto. La morte è la solitudine della realtà, quindi è la vita assoluta, negazione di ogni apparente vita coatta. Nell’agire immerso nella totalità dell’uno che fronteggio con la mia puntualità, vivo e agisco perché sono in fondo una parzialità che affronta la qualità fino a un certo punto, il punto di non ritorno. Il salto mi porterebbe a una morte sconosciuta, indeclinabile anche per la stessa qualità. Quando la spinta all’oltrepassamento si dirada, quando si affievoliscono i motivi critici di rigetto dei colpi inferti dalle condizioni fattive protocollari, avanza la decifrazione della morte, non parlata dal destino ma fatta dalla produzione coatta e controllata nei minimi dettagli dalla volontà. È la morte mia e del mondo da me creato, il crollo della fiducia in me stesso, la fine di ogni fuga in avanti, verso l’assolutamente altro. È la morte incombente, la vita che raccoglie le sue povere carabattole e se ne va.
Al centro della caverna sta un nucleo imprecisabile e continuamente obbligato da strane variazioni. Questo nucleo mostruoso ognuno lo vive e lo vede a modo suo, tante sono le facce che presenta quanti gli uomini che lo prendono di fronte come un nemico. Il resto dell’umanità convive col mostro e non se ne avvede. Matura così nella sua ombra e si acconcia a respirare il suo alito fetido. Nessun sospetto ha questa umanità restante del fatto, palese di per sé, che il mostro produce e gestisce le cose della politica e che queste cose ci ospitano tutti, anche coloro che sanno e che hanno il coraggio di guardalo in faccia senza tremare.
Machiavelli mi dice tutto questo movimento, delle cose e degli uomini che quelle cose rendono fanaticamente insopportabili, e rivela in questo suo dire l’impronta unica di una filosofia che non ha paura di accettare l’impegno estremo, fare parlare quello che tutti preferiscono resti in silenzio. Siamo qui agli antipodi del trattato dove tutto va detto per tutto tacere, qui al contrario si tace di tutto il resto, i giri di parole e le dimostrazioni autoreferenti, e si parla solo di ciò che è essenziale, cioè delle cose della politica, dove l’uomo mette a nudo la propria bestialità indubitabile. Tendere a distinguersi da tale condizione umana rende la vita, fino all’estremo limite della spossatezza fisica, una sequenza di avventurose scelte – qualcuno direbbe avventate – e nello stesso tempo richiede una lucidità fuori misura. Non il malanimo di chi si ritiene dalla parte giusta della vita, quale che sia questa parte, ma la profondità di coscienza di chi sa di lavorare alla propria sconfitta e che ha torto chi pensa di avere ragione da solo, di essere il solo portatore della verità. Machiavelli è sarcastico come non mai quando attacca il misticismo che lascia da parte le cose e si affida a qualcosa di superiore nominando questo qualcosa proprio paladino. La sconfitta è il punto di arrivo che Machiavelli intravede ma non accetta, la sconfitta dell’uomo è la sua sola possibile conquista che non gli si rivolta contro azzannandolo come farebbe la bestia della melma, che non gli apre le braccia perché essa è orribile megera e rischierebbe di spaventarlo, ma è scopo e meta, se questi due concetti avessero un senso, nella vita, non essendo inglobabili nella medesima abiezione e restando necessariamente fuori della caverna. «Questa prefazione [ad Aurora] giunge tardi, ma non troppo tardi, che cosa importa, in fondo, cinque, sei anni? Un libro del genere, un problema del genere, non ha alcuna fretta, inoltre noi due siamo amici del lento, io come il mio libro. Non siamo stati invano filologi, forse lo siamo ancora, maestri cioè della lenta lettura, alla fine si giunge anche a scrivere lentamente. Adesso non fa parte soltanto delle mie abitudini, ma anche del mio gusto – un gusto malizioso forse? – non scrivere più niente, che non conduca alla disperazione ogni genere di gente che “ha fretta”. La filologia infatti è quell’onorevole arte che da colui che la venera esige soprattutto una cosa, trarsi in disparte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento –, in quanto è un’arte e una competenza di orafi della parola, che deve compiere soltanto lavori finissimi che richiedono cautela e non raggiunge nulla, se non lo raggiunge lento. Ma proprio per questo essa è oggi più necessaria che mai e proprio perciò ci attira e ci affascina assai fortemente, nel cuore di un’epoca del “Lavoro”, voglio dire: della fretta, dell’indecente e sudaticcia precipitazione, che vuol “sbrigarsela” subito con ogni cosa, anche con ogni antico e nuovo libro: – essa stessa non se la sbriga così facilmente con una qualsiasi cosa, essa insegna a leggere bene, cioè lentamente, profondamente, con riguardo e precauzione, con pensieri reconditi, lasciando porte aperte, con dita e occhi delicati... Miei pazienti amici, questo libro desidera per sé soltanto perfetti lettori e filologi: imparate a leggermi bene! –». (F. Nietzsche, Aurora, Prefazione, 5). Non sono un fiore che fiorisce solo una volta e muore, sono per più stagioni, sempre diverso e fiorisco come nient’altro fiorisce, anche se qualcuno mi scambia volentieri per un cardo spinoso. Su questo cardo si è posato lo sguardo di occhi blu e l’ha fatto diventare una rosa rossa. Adesso la fragilità che si profila all’orizzonte e la scheggiata pochezza potrebbero scalfire il mio coraggio. Tornare graffiante e altero, sdegnoso dell’altrui incolumità e della mia, uno scatto di reni ormai stanchi. Temerario, non ho paura di essere risucchiato negli abissi dove soggiornano i lugubri rintocchi delle campane a morto. Mettere a dormire i miei sogni, è tempo di andare via verso un ulteriore infinito ignoto. Non posso che ascoltare la voce di fondo del braccio dove mi trovo, voci e allucinazioni, rumori di chiavi e bestemmie, una vasta area tematica che cerca di aggredirmi. Insisto nel fronteggiare l’uno che è, una dissolvenza mortale. È come una tensione che segna i vari livelli del proprio concrescere con il dare vita a tutta un’altra serie di tensioni. Ogni conoscenza si riassume in se stessa e riassume in sé tutte le altre. Posso guardare dall’esterno questo confrontarsi e restare disperato e interdetto. Dicono, queste concrescenze, qualcosa che non è nel mondo da me creato, anche se sono io quella puntualità confrontante, solo che non è immediatezza ma diversità e io non so che dire a questa forza trasformatrice che l’azione farà vivere.
Acquisire per perdere è progetto antitetico a quello politico, non si mischia con tutto ciò che pittorescamente si rimescola nel fondo della caverna, viaggia in senso inverso, capovolge i valori e nasconde quanto di positivamente accumulabile è necessario alla vita. L’antipolitico è uomo che ha pur sempre, come ho ricordato, i piedi nella melma, ma è alieno ai diritti e ai poteri che i propri stessi possedimenti gli permetterebbero. Non rinuncia alla politica a parole, ma la guarda con l’occhio disincantato di Machiavelli, puntigliosamente azzera quello che acquisisce, anche se la mancata acquisizione di una conoscenza sarebbe per lui – questo sì – un vero fallimento e non una sconfitta. La differenza è fondamentale. Fallire è un volere acquisire senza riuscirci, una sorta di dandismo, rimanere sconfitto è la conclusione necessaria di un progetto ricco di acquisizioni.
Ma cos’è veramente una sconfitta, o meglio una vita sconfitta? Essere catturato in un paese straniero nel corso di una rapina in banca andata male a più di settant’anni? Non necessariamente. Questo fatto è un accidente, ma si inserisce nelle realtà che caratterizzano una vita impolitica, sia pure con i piedi nella melma delle acquisizioni. Quello che c’è di irrinunciabile in questo accidente è non il suo accadere – al contrario, tutto poteva andare bene – ma il suo essere implicito nelle stesse acquisizioni precedenti, nelle altre sconfitte non conclusive per banale faccenda cronologica. Uno non può sapere quando la sua vita avrà termine ma a settantatré anni non può illudersi con un’attesa troppo lunga e in ragionevoli condizioni fisiche. Ecco perché guardo il luogo incredibile dove mi hanno rinchiuso, sommario ed elevazione a potenza di tutte le nefandezze che ho visto in vita mia, e mi accorgo che è questo il volto vero della sconfitta. Non avevo pensato a qualcosa di comodo o di gradevole, nel restare sul terreno quasi colpito a morte c’è poco di piacevole, ma non immaginavo questa mostruosità che lacera senza che nessuno batta ciglio, quotidianamente, duecentocinquanta giovani corpi e il corpo di un vecchio. «Ciò che è sorprendente nella scienza è l’opposto di quel che è sorprendente nell’arte del prestigiatore. Questo infatti vuole convincere a vedere una causalità assai semplice, laddove in verità è all’opera una causalità assai complicata. La scienza, invece, ci obbliga ad abbandonare la credenza in causalità semplici, proprio là dove tutto appare così facile da comprendere e noi siamo i giullari dell’apparenza. Le cose “più semplici” sono assai complicate, – di ciò non ci si può meravigliare abbastanza!». (F. Nietzsche, Aurora, I, 6). È inarrestabile l’accerchiamento della volontà, anche se nella immediatezza emergono solo a tratti i segnali lasciati dai frammenti delle tecniche impiegate nell’aggiramento. Questi camminamenti, a volte segreti, a volte scoperti, lasciano intendere uno spaesamento progressivo che può condurre anche a un feroce ripristino dell’ordine, non solo all’oltrepassamento. La straordinarietà dell’esperienza diversa, per quanto debolmente filtrata dalla rammemorazione, non può arrivare a dare luce creativa straordinaria al mondo che faccio tutti i giorni. Lo sconvolgimento radicale, affievolito nel ripristino dell’ordine delle corrispondenze, anche se non torna più all’appiattimento originario non per questo può dirsi buono a interpretare correttamente le illusioni della caverna. La separazione conoscitiva, prima di tutto percettiva, conduce a una dissociazione costituzionale del percepito. La linea su cui si rafforza questa fascia produttiva non può essere risanata, nel campo, che dal più assoluto ebetismo, rinuncia patologica a percepire il mondo, anche una piccola parte di esso. Questa mancanza di autoriferimento è quindi da escludersi dalle mie considerazioni, per quanto estemporanee possano essere le lacerazioni prodotte dal fare coatto.
Non avendo nessuna tendenza per l’esaltazione mistica me ne dolgo fisicamente, anche se filosoficamente riconosco il crocevia finale della mia vita con una certa neutralità, e colgo anche la distanza che mi separa dalla politica, che mi ha separato per tutta la vita. Agli antipodi della scuola anarchica del passatempo suggerisco di dedicare migliore studio alle miserie dell’uomo e minore impegno al banale fare quotidiano. Quest’ultimo potrebbe alla lunga rivelarsi un alibi per l’esistenza delle miserie in questione. Alla fine sarebbe una sorta di rescissione con l’amata società benpensante o malpensante che sia, un isolamento recalcitrante e apparentemente odioso, sempre meglio però della insipienza politica.
Non sto suggerendo un modello, Machiavelli con il suo fantoccio fa lo stesso, sto misurando le distanze tra l’essere e l’apparire. Eppure so che volendo essere, quindi possedere quelle conoscenze necessarie a poterlo fare, non si può evitare di tenere i piedi nella politica, conoscere è convivere con i tempi propri e col mondo che ci ospita, quel mondo che si conosce, e ciò produce ai bordi della caverna la schiuma della mota che attira tanta gente. Non conoscere non salva affatto dal baratro, anzi si diventa stupidamente sempre più pesanti fino a precipitare sul fondo alimentando il nucleo duro della bestialità umana.
L’apparire è squisitamente politico. Nella mente di chi gestisce con parsimoniosa attenzione la propria vita, spendendo sempre meno di quello che acquisisce, la politica occupa un posto di primo piano. Chi appare è bene accolto, è visto ed è in vista, ha accesso alle occasioni giuste, dice la cosa che gli altri vorrebbero ascoltare e che di fatto così ascoltano. Costoro fanno ma non agiscono, per tornare qui a una mia prediletta distinzione. L’essere è sovranamente impolitico, non è ricevuto bene da nessuna parte, dà fastidio, sollecita distinzioni e riflessioni scomode, fa vedere la coda che ognuno si porta dietro, non accetta l’abiezione della melma. «Nel caso che l’ottemperare ad un precetto morale dia un risultato diverso da quello che è promesso ed aspettato, e che l’uomo ligio alla morale non incontri la felicità promessa, ma, contrariamente all’aspettativa, infelicità e miseria, allora resta sempre la scappatoia del coscienzioso e del pauroso: “qualcosa è stato sbagliato nell’esecuzione”. Nel peggiore dei casi un’umanità profondamente sofferente ed oppressa decreterà addirittura che “è impossibile adempiere bene al precetto, noi siamo in tutto e per tutto deboli e peccatori e in fondo in fondo incapaci di moralità, di conseguenza non abbiamo neanche alcuna pretesa alla felicità e al successo. I precetti e le promesse morali sono dati per esseri migliori di quel che noi siamo”». (F. Nietzsche, Aurora, I, 21). Sull’apertura vedo, davanti a me, il sentiero emozionale che mi porterà a racchiudermi nella mia puntualità, lo vedo e vedo anche la sua incommensurabile distanza dall’abisso dell’uno che è. Infrangere l’ultima barriera, l’ultimo velo trasparente, richiede una enorme forza contraria a qualunque nostalgia di ordine e sicurezza. La vita dell’uno che è provoca una radicalizzazione della puntualità, emozionalmente è questa la profonda diversità di una nuova forza intuitiva. La punta estrema in cui mi sono concentrato estende e amplia le mie capacità intuitive, non le fa solo straordinariamente diverse. Ho una visione puntuale dell’azione e quella visione sono io che mi confronto con l’uno che è, non qualsiasi contrapposizione provvisoria. Drasticamente inquadro l’azione che di per sé è flusso estremamente complesso e fluido, ma non per me che sono la punta estrema più vicina all’uno, non per me che sono radicato nella mia interiorità.
Machiavelli è per l’essere e contrasta l’apparire. Questa conclusione potrà sembrare paradossale ma è l’unica deducibile da un libretto che in molti hanno maledetto senza capirlo. L’estrema rarefazione del suo porsi di fronte alla politica è essere che nega l’apparire, e ciò spiace alla quasi totalità dei lettori. Da qui l’aria malfamata che per costoro sembra venire dagli scritti di Machiavelli, in particolare dal Principe. Sarà questo ad avermi reso, sessant’anni fa, un assiduo lettore di quelle poche pagine? Non lo so, ma all’epoca leggevo anche Croce, che mi facevo prestare dalla biblioteca della scuola, con scandalo e sconforto dei miei insegnanti che consideravano quei libri non adatti alla mia età. E Croce era stato, fin sul letto di morte, un attento lettore di Machiavelli, anche se non lo aveva capito, immergendolo nel suo ginepraio di distinzioni. Le mie attenzioni erano invece dirette al testo e, sconoscendo la storia di Firenze e dell’Italia del Quattrocento e Cinquecento, non mi rimaneva che l’impressione diretta. All’inizio c’era forse una certa sollecitazione scandalistica, poi svanita questa, almeno una decina d’anni dopo, la presa diretta con l’universo Machiavelli, un’impressione determinante per il mio futuro modo di vedere l’impegno e la lotta rivoluzionaria.
Seminata questa passione, oltre che nel terreno poco fertile di Croce, in quello più ampio delle crescenti letture, non scomparve del tutto la sensazione di disagio, come se le letture di Machiavelli, e le considerazioni scritte su di lui che andavo accumulando, fossero una sorta di malattia di cui vergognarmi. Penso che tutti i lettori veri di Machiavelli – quelli veri non quelli occasionali – abbiano avuto questa sensazione e l’abbiano dovuta superare.
Per fare un esempio, avevo studiato come tanti il suo metodo ma i miei risultati mi apparvero subito modesti, non certo superiori a ciò che passava il convento. Il fatto è che i filosofi hanno sempre considerato questo grande filosofo come uno scrittore politico, quindi non filosofo. Conclusione ridicola ma ferrea. Stato di minorità sancito da santa accademia. «Una volta si cercava di giungere al sentimento della magnificenza e signoria dell’uomo, additando alla sua origine divina: questa adesso è divenuta una via proibita, poiché alla sua porta, insieme ad altre orribili bestie, sta la scimmia e piena di comprensione digrigna i denti come per dire: non oltre in questa direzione! Così ora si tenta la direzione opposta: la strada verso cui si dirige l’umanità deve servire a dimostrare la sua magnificenza e signoria e la sua affinità con Dio. Ah!, anche così non serve a niente. Alla fine di questa strada sta l’urna funeraria dell’ultimo uomo e dell’ultimo becchino (con l’iscrizione: “nihil humani a me alienum puto”). Per quanto in alto possa svilupparsi l’umanità – e forse alla fine si ritroverà più in basso di quanto non fosse all’inizio – non si darà per lei alcun trapasso in un ordine superiore, allo stesso modo come la formica e la forfecchia al termine della loro “vita terrena” non si innalzano all’affinità con Dio e all’eternità. Il divenire trascina dietro di sé ciò che è stato: perché mai in questa eterna commedia dovrebbe esistere un’eccezione per un qualsiasi piccolo astro e ancora per una piccola specie vivente in esso! Basta con questi sentimentalismi!». (F. Nietzsche, Aurora, I, 49). Il fare sente il bisogno dell’agire, la sua incompletezza patologica lo sollecita all’inquietudine. L’agire ha bisogno concreto del fatto, ma non sente bisogno del fare. Ma questo volgersi al mondo da me creato non è uno sconvolgimento, uno smentire l’azione, è un prepararsi ad andare avanti attraverso la rammemorazione. La pienezza dell’azione non può essere detta, questo è ovvio, ma mille fili si dipartono dal ritorno all’azione nell’ambito del dire che è parte preponderante del fare. La contemplazione della bellezza, a esempio nel caso di un’opera d’arte, è una spinta rassicurativa contro l’angoscia persecutoria causata dall’inquietudine. Cerco un conforto contro il fallimento della completezza, da cui il successo delle corrispondenze armoniche. Solo la presa di coscienza di questo fatto, da Aristotele in poi fuori discussione, in un’epoca seguente alla generale crisi dei valori ottocenteschi della scienza, ha arruolato la dissonanza sotto l’insegna della medesima funzione. Il fare è dominato da imperativi concreti, produrre è produrre secondo corrispondenze protocollari precise, l’agire è assente da questo genere di concretezza misurabile e temporalizzata, esso è ancora più denso e concreto, si riassume in un unico momento inscindibile, dove ogni particolare entra nell’altro in una sorta di implosione fino a costituire una punta che penetra la realtà nel più intimo della sua desolazione. Sono solo col ginocchio sinistro immobilizzato, mi manca lo sfondo del cielo quando si confonde col deserto. Beethoven e l’Appassionata.
Il fatto è che per leggere e capire Machiavelli, in particolare il libretto malefico di cui parliamo, bisogna avere intenzioni proprie tutt’altro che lodevoli nei riguardi di questa società e di ogni altra società che getta le sue fondamenta nella politica. Ognuno può, nel proprio cantuccio caldo, tenere questo libretto in mano come faceva France, e sognare una società diversa, con i piedi per aria. I baloccamenti sono gradevoli, aiutano a vivere e anche a morire. Queste intenzioni bisogna averle nella pratica non nelle millanterie dei sogni. Ogni adoratore di fanfaluche potrebbe allora essere un buon lettore di Machiavelli. Non è così.
Avere una cattiva fama, tenere a distanza di sicurezza gli adulatori, depistare i partigiani pronti a voltare gabbana, i cacciatori di gloria e quelli che l’hanno acquisita la gloria, disprezzare i benpensanti e il loro esatto contrario, evitare, fare all’occasione i commedianti per sapere smascherarli quando si atteggiano a fustigatori dei costumi. Un programma ambizioso.
Dopo tutto cos’è la rivoluzione se non una colossale beffa giocata ai padroni della politica?
Finito nel carcere di Άμφισσα (Grecia) il 20 dicembre 2009
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