Titolo: Viaggio nell’arcipelago occidentale
Note: Opuscoli provvisori N. 67
Prima edizione: ottobre 1978
Seconda edizione: maggio 2015
SKU: opuscoli-000067
Dimensioni: cm 10 x 10,5
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Nota introduttiva alla seconda edizione

Datato? Non proprio se non ci si limita a guardare la data della prima edizione e si fa uno sforzo per inoltrarsi nella lettura.

Uno sforzo? Sì, proprio uno sforzo, che oggi non si ha più l’occhio per scritti come questo. Gradevoli, fascinosi nello stile – i parenti francesi sono dietro l’angolo, ma si tratta di una parentela anomala – condensati, ingannevoli spesso, banali mai.

L’arcipelago su cui si svolge una perigliosa navigazione, quella dell’autore, ma anche del lettore non superficiale, è lo stesso dove anche oggi, dopo trentacinque anni, annaspiamo con difficoltà. Non siamo neppure in grado di misurare, adesso, con approssimazione sufficiente, quali condizioni di deriva ci circondano, come emergere afferrandoci all’egoismo e non lasciandoci imbrogliare da venditori di cravatte in difficoltà issati a governatori dei nostri destini, come guardare senza paura la nostra stessa soggettività che pure urge e non accenna minimamente a darsi una calmata, come scavare nei rapporti di affinità per costruire gli attacchi contro il nemico che sappiamo inderogabili. Oppure no?

Se qualche traccia di un possibile percorso resta nei nostri cuori, spesso nemmeno visibile da occhi resi troppo miopi da infagottamenti d’accatto, possiamo riprendere il filo di un discorso che non ci apparirà, allora, e solo allora, né remoto né sibillino.


Trieste, 24 aprile 2014

Alfredo M. Bonanno

Presentazione

Questo scritto è in parte la rielaborazione e la scelta dell’essenziale di un pamphlet realizzato nel 1974 dai membri del nucleo informale californiano di “For Ourselves”: The Right to be Greedy (capp. 2-3), e in parte una prima sintesi di appunti del sottoscritto relativi ad un lavoro sul carattere sociale capitalista che andrà possibilmente sviluppato in seguito.

Non mi sono minimamente preoccupato di limare quelle discontinuità e quei nodi ancora da sviluppare e risolvere che considero contributo fondamentale di ogni peripezia che si voglia critica. Così come sono rimaste evidenti le differenze nel modo d’uso del linguaggio tra le parti semplicemente tradotte e le parti scritte da me. Ne è risultata comunque una omogeneità di contenuto tale da permettermi di fondere senza fratture passi tradotti e non anche all’interno di uno stesso paragrafo.

Primi cenni di riflessione sul carattere capitalista e sulle condizioni in cui un soggetto si trova ad operare tendendo a liberarsi dal processo di addomesticamento che pesa su ciascuno di noi in misura crescente. Sulla necessità che la rivoluzione coinvolga gli stessi modi di comprendere il mondo, che arrivi a spaccare gli schemi di una conoscenza i cui modi chiudono ormai concretamente, attraverso l’ideologia materializzata, troppe dimensioni del vivente.

La rivoluzione, in quanto rovesciamento di prospettiva, riattraversa coscientemente i territori del linguaggio badando a non consegnarsi ai nuovi specialisti che ancora una volta la volessero monopolizzare.

Perciò anche ricerca ed invenzione di una scrittura psicodrammatica nell’intento di rompere l’abitudine alla logica binaria, affinché la parola non si riduca definitivamente al ruolo di kapò a cui troppo spesso viene consegnata.

Esplorazione del limite verso la qualità, la quale si ripropone come valore solo dopo aver sostituito le categorie filosofiche dei valori corporei. I “nuovi” valori – rivoluzione culturale – non possono uscire se non direttamente dall’esperienza corporea della specie biologica in rivolta.

In questa confusione l’apporto della nostra specifica critica come contributo soggettivo alla passione crescente per il progetto di una vita sociale piena e trasparente.

Sergio Ghirardi

* * * * *

Un ringraziamento profondo a tutti coloro i cui deliri, la cui paranoia, le cui miserie, le cui falsità, le cui latitanze, la cui passione sono stati un decisivo incentivo, una costante correzione, uno stimolo a tener duro fottendosene di tutti i domatori di scimmie e di tutti gli incantatori di lucertole.

I. Appunti di deriva

“Responsabile del disgusto non è tanto l’esaurimento dei sensi, quanto l’istituzionale, il lecito e l’inquadrato, la falsa immanenza del piacere in un ordine che lo allestisce e che lo rende mortalmente triste nell’attimo in cui lo prescrive”.

Adorno

1. Fissiamo sulla mappa un punto: il nostro presente, con le sue miserie, le sue voglie, le sue paure, le sue esplorazioni.

Un contesto: l’ambiente sociale nel quale ci muoviamo.

Il riprodursi dell’identico e il sopravvivergli del diverso, dell’imprevisto, del fantastico, del creativo, dello spontaneo in lotta per spaccare le rigidità di una immediatezza che riproduce fedelmente il copione, recuperando allo spettacolo l’ideologia della spontaneità.

Una volta per tutte: la spontaneità va conquistata nella critica pratica di una immediatezza che è sempre inquinata dalla presenza condizionante delle dinamiche del potere.

Vanificata l’illusione di una visione del mondo gauchiste, vana per il suo stesso essere falsa coscienza del superamento, i reduci dell’ideologia ultrasinistra che non si siano radicalizzati hanno accentuato il loro estremismo, ponendosi ancora all’interno del delirio capitalistico come antitesi al di qua del superamento: la barbarie. Socialismo e barbarie.

I cascami avvizziti della voglia di presente, che aveva fatto esplodere nel ridicolo ogni sorta di intellettualismo durante il periodo qualitativo delle lotte sociali negli anni Sessanta, stanno rivalutando ottusamente un edonismo consumistico con cui pretenderebbero di mettere a tacere ogni voce che non si voglia trasformare in un sorriso complice verso tutte le forme di godimento alienato. Ne risulta l’apologia della pubblicità, ne consegue anziché il contrapporsi all’ideologia del lavoro e del sacrificio ricercandosi come soggetti di un progetto qualitativo, l’accettazione passiva della sopravvivenza rinnovata per il tramite dei canali alternativi previsti dal potere. Le emozioni appassionate, l’amore, l’odio, la rabbia, il dolore, la gioia profonda, in fondo tutte le emozioni forti, maniacali, sono diventate sospette, fuori gioco. Tutto ha da essere soffice nella logica binaria di una realtà sociale consegnata al manicheismo: p38 ed esecuzioni reciproche da un lato e quotidianità alienata dall’altro.

Attualità e mobilitazione della miseria come immagine ed attitudine speculare e conseguentemente opposta e coincidente all’ideologia del rifiuto totalitario. L’assuefazione di una purezza cristiana con cui siamo drogati da millenni continua a lavorare tanto meglio quando il regno del cielo e il regno della terra si trovano riuniti in una sola Chiesa, la prima storicamente in grado di spingere le masse dei fedeli verso il sacrificio totale, l’umiliazione assoluta. La religione-politica scomunica i pazzi eretici. Per tutti gli altri o la gioiosa accettazione del tutto nella moltiplicazione nauseante di feste dell’unità nel fittizio, o il rifiuto del tutto astratto al di sopra della contraddizione che è la nostra sola realtà storica ma con cui è peccato sporcarsi le mani.

Le nostre sante mani vergognose della nostra genitalità.


2. L’estremismo, malattia infantile di un comunismo di cui il leninismo è stata l’ideologia cancerogena, si oppone alla radicalità profonda, alla ricerca nel sociale del bambino sano che è il soggetto rivoluzionario.

Estremismo significa in ultima analisi non credere neppure alla possibilità di un mondo radicalmente altro da questo, significa intrinsecamente riformismo in quanto accettazione del principio di realtà, impotenza a far delirare i codici del potere fino al punto di non concepire di meglio che di gestirlo: ora tocca a noi!

Contro tutto questo non si tratta di teorizzare la pazzia ma di rischiarla coscientemente se è in gioco la nostra integrità di esseri umani.

Molti di quelli che ieri rischiavano “eroicamente” la loro rispettabilità di cittadini facendosi schedare dalla loro polizia per il fatto di essere in loco, ma mai per aver contribuito ad un eccesso, si riconoscono facilmente oggi come i più strenui difensori della nuova normalità, fatta di qualche nuova parola ideologica con cui confezionare la riproposta identica del complesso di tutte le antiche miserie.

Mentre la radice della realtà sociale contemporanea viene messa in discussione, oggi come ieri, soltanto a partire da una negazione che ci veda come soggetti, che frantumi gli specchi delle proiezioni spettacolari per muoversi finalmente al di là di uno specchio dove lo spessore delle emozioni sia la critica pratica della pesantezza delle catene emozionali.

Fuori dalle situazioni costruite soggettivamente non c’è che il palcoscenico della pseudo-comunità i cui registi emanano il potere-capitale a cui sono stati finora assoggettati gli esseri umani.


3. Chiunque abbia qualità da esplorare e da vivere avrà già smesso di leggere. Ma non si senta umiliato chi sta leggendo come non mi ha umiliato lo scrivere.

Vivere il presente è totalmente altro dal sopravvivere all’assenza di presente in cui si dibattono i neocultori della barbarie e del suo bricolage edonistico.

Il minimo comun denominatore della moderna barbarie è la mercificazione totale: mode interscambiabili sia il lusso della povertà che la povertà del lusso.

Camicette rammendate volutamente o volutamente riesumate, liturgie sessuali in cui i corpi si grattano fingendo orgasmi nella fretta di finire per poter continuare la fuga; svendere tutto nella liquidazione sottocosto della propria soggettività rimasta sconosciuta a se stessa.

E allora la deriva tiene i suoi diari di bordo. I suoi momenti di riflessione. Il coraggio critico delle proprie sconfitte, delle delusioni, delle solitudini oltre le quali, quanto più è cosciente tanto più sa cogliere meglio la volta successiva.


4. Riappropriazione e riscoperta di potenzialità perdute che solo l’oscillazione soggettiva, cioè di chi si cerca come proprio centro di vita sociale, può esplorare i rapporti intersoggettivi.

Finalmente l’innescarsi della perversione di un meccanismo che ci imprigiona nel labirinto dandoci l’illusione di scegliere strade la cui sola vera alternativa presuppone lo scoprire la luce del sole e il suo calore.

Perversione dunque contro tutto il moralismo che ci ha fatto interiorizzare la vergogna per i nostri gesti senza senso; guarda caso sempre e solo i gesti non produttivi, tutti i gesti gratuiti, cioè senza prezzo, tutto quanto non si iscriva immediatamente in qualche modo nella ferrea partita doppia del potere.


5. L’intero ciclo storico della cultura apollinea è trascorso.

Dalle sue origini, quando la filosofia greca parlava ancora in senso ammirato di “mania”. Fino ad oggi, al suo crepuscolo, quando il termine è immediatamente evocatore di disagio, imbarazzo, immagini di esibizionisti nudi sotto l’impermeabile subito allontanati da sé con sorrisi dondolanti di commiserazione. Niente ha più da essere maniacale non perché tutto è libero ma perché tutto deve essere morbosamente previsto, sotto controllo. La vita come la sua coscienza, la conoscenza, è ben chiusa in laboratorio meglio che in ogni altro carcere. E la divina mania del conoscere, dell’esplorare con i propri corpi le potenzialità molteplici della nostra natura umana, proibita in quanto blasfema, in quanto pretesto per uscire dal laboratorio durante le ore di lavoro-lezione. Cioè 24 ore su 24.

Con una scienza così chi ha bisogno di polizia?

Persino il voyeur è ben meno insulso di quelli che lo deridono, è un poco meno latitante a se stesso di quelli che si gonfiano il gozzo andando fieri e volitivi verso la totale accettazione della normalità.

Ma c’è ben altro da proporsi e da proporre spaccando il “vitro” in cui è imprigionata la vita.

Conoscere con il corpo, esplorare la vita in tutte le rotte che il sestante duttile della nostra sensibilità e della nostra fantasia ci fa tracciare sulla mappa psicogeografica della soggettività.

“Dioniso, il dio pazzo abbatte i confini; libera i prigionieri; abolisce la repressione; e abolisce il ‘principium individuationis’ sostituendogli l’unità dell’uomo e l’unità dell’uomo con la natura”. (N. Brown).


6. “La deriva si presenta come una tecnica del passaggio veloce attraverso ambienti diversi. Il concetto di deriva è indissolubilmente legato al riconoscimento di effetti di natura psicogeografica e all’affermazione di un comportamento ludico-costruttivo, fatto che da tutti i punti di vista lo oppone alle nozioni classiche del viaggio e della passeggiata”. (I. S.).


7. “...La situazione è fatta così per essere vissuta dai suoi realizzatori. Il ruolo di ‘pubblico’, se non passivo perlomeno figurante, dovrà diminuire sempre di più, mentre aumenterà la parte di coloro che non possono essere definiti attori ma piuttosto ‘viveurs’, dando un significato nuovo a questa parola”. (I. S.).


8. Fino ad un blak out che non abbia più bisogno del buio per illuminare le menti di quanti si affannano a prevedere tattiche ed a manipolare organizzazioni anziché rendersi disponibili a tempo pieno a se stessi e a tutte le occasioni di gioco soggettivo che si presentino o vengano inventate.

L’unico obiettivo strategico della vera guerra è il piacere soggettivo goduto senza tempi morti nella socialità ritrovata, nella negazione pratica della organizzazione totalitaria del non vissuto.

I fulmini di New York sono stati trasformati in un’arma rivoluzionaria dai soggetti che hanno saputo vedere nel buio, in una notte in cui per la prima volta forse, le vacche si sono dipinte dei colori dell’arcobaleno.

“Noi non siamo cospiratori che vogliono in un giorno determinato, iniziare una rivoluzione o massacrare dei princìpi, ma non siamo neppure pecore pazienti che portano la loro croce senza fiatare”. (Marx- Engels).


9. Chi siamo dunque, da dove veniamo, dove andiamo?

La nostra rivoluzione non potrà finire dopo nessuna sconfitta perché essa è la vita stessa della specie, non si arresterà dunque neppure dopo una qualche vittoria a godere dei nemici sconfitti. La vera guerra tende ad una pace carica della forza energetica in processo nel corpo stesso della specie.

Si tratta di liberarla dalla socialità incarcerata distruggendo l’apparato cadaverico che ci separa dalla vita.

L’intreccio dei fili di tutti i colori che sostengono la soggettività di ciascuno, forma la corda robusta da cui la comunità umana penzola ancora come una possibilità. Lo stesso realizzarsi della storia della specie. La sua rivolta, la sua realizzazione sociale, il suo corpo organico.

II. L’egoismo comunista

“Il comunismo è l’abolizione positiva della proprietà privata, dell’autoalienazione umana, ed è così la reale appropriazione della natura umana attraverso l’uomo ed in favore dell’uomo”.

(Marx, Manoscritti 1844)

10. L’avidità nel suo significato profondo è la sola base possibile di una società comunista.

La repressione dell’egoismo non può infatti essere realizzata compiutamente se non distruggendo la soggettività umana, estinguendo la stessa specie umana, dal momento che l’egoismo è un momento essenziale della soggettività umana. La sua repressione significa semplicemente che esso ritorna in una duplice forma segreta. Se non può esprimersi liberamente, l’egoismo si troverà un mercato nero. Se non viene tenuto in considerazione in rapporti trasparenti, l’Io represso si dividerà in due: un io immaginario, una organizzazione personale delle apparenze, una persona, e un io sottomesso che complotta sotto questa armatura caratteriale.

Contrariamente alle affermazioni dei cosiddetti “comunisti”, da Lenin fino a Mao, la repressione dell’egoismo non potrà mai essere la base di una società comunista. Anzi, la concezione repressiva del “comunismo” perde proprio il punto centrale del progetto.

Essa non afferra l’importanza qualitativa del momento egoistico. Il che è vero anche rovesciando il discorso; partendo dalla critica immanente dell’ideologia altruistica: se io muoio il mondo muore per me. Senza vita io non posso amare un altro. In ogni modo ciò che viene perso nella “teoria” – e nelle sue rappresentazioni ideologiche – viene nondimeno conservato nella pratica, e in particolare con l’ausilio della super-ideologia la cui base reale è l’egoismo dello Stato capitalista burocratico (della burocrazia dello Stato capitalista). Questa ideologia del proprio sacrificio serve meravigliosamente al fine di estrarre plusvalore dal proletariato.

L’attuale negazione dell’egoismo gretto è un elemento del superamento (aufhebung): [“Superare (aufheben) ha questo doppio significato: tenere, risparmiare, conservare, ma anche: fare, tagliare, finire... Preservare include l’elemento negativo di qualcosa rimosso dalla sua immediatezza e quindi da un essere determinato esposto ad influenze esterne in modo da poter essere preservato. Quindi ciò che è superato è anche preservato; ha perso la sua immediatezza e non è in questa situazione annullato”. (W. F. Hegel, Scienza della logica)]), della transizione da una forma di egoismo limitato ad una forma di egoismo sviluppato qualitativamente.. L’espansione primitiva dell’egoismo è stata contemporaneamente la morte della comunità primitiva. Ma la sua ulteriore espansione si risolverà nuovamente in una comunità.

È soltanto nel momento in cui l’avidità accenna infine (o meglio, di nuovo) a dirigersi verso la comunità che si deve prendere la sua strada.

A questo punto la vecchia verità cristiana che nessuna forza terrena può resistere all’avidità umana, ricompare dalle nostra parte delle barricate.


11. È stata la lotta relativa alle possibilità del loro crescente benessere che ha fatto a pezzi le tribù primitive e la comunità di villaggio.

Lo sviluppo del modello patriarcale, la crescita delle relazioni di scambio, dell’usura, della schiavitù, del debito, e della guerra possono essere fatte risalire a questa lotta radicale. È solo quando lo stesso motivo che originariamente ha provocato la dissoluzione della comunità comincia a premere per la ricostituzione della comunità, che la comunità può essere ricostituita.

La causa di questo processo è semplicemente la lotta per una vita migliore. È questo l’unico motivo irresistibile della storia umana: solo il desiderio egoista può annullare gli effetti disumani della sua peripezia storica.

È solo quando quello stesso momento soggettivo, attraverso lo storico approfondirsi della sua possibilità, si rivolta contro la sua attuale reificazione – cioè il capitale (proprietà privata, appropriazione privativa, esclusione; società come associazione di estranei, in breve la totalità dell’alienazione) – che si arriva alla possibilità della grande trasformazione.

Non c’è alcun dubbio che le persone siano corruttibili, ma sappiamo per esperienza diretta che ci sono valori più tentanti, più seducenti del denaro, del capitale, del potere; al punto che nessun essere umano genuinamente avido potrebbe resistere al loro allettamento. Ed è proprio su questa caratteristica umana di seducibilità che si fonda la possibilità della rivoluzione comunista. La rivoluzione non è altro che l’accelerazione diffusa della seduzione naturale insita nel processo vitale.

Al contrario ci hanno educato ad associare sempre l’avidità con l’isolamento, con il privato, semplicemente perché ognuno sotto il dominio del capitale è condannato ad inseguire l’avidità in questo modo alienato. L’avidità non è ancora conosciuta nelle sue potenzialità.

Una cattiva avidità è un residuo dei tempi della scarsità naturale. I suoi desideri si rappresentano sotto forma di consumi, potere, sesso reificato ed ancora più astrattamente come denaro ed immagini.

I mass media lavorano per convincerci che si tratta delle sole cose acquistabili e ci dicono in mille modi che solo quelle poche miserabili cose meritano di essere possedute. La sopravvivenza di un’avidità surrogato della potenziale totalità di cui varrebbe la pena di essere avidi, è propagandata sotto forma di ideologia da tutte le persone che controllano l’accesso alla miserabile ricchezza dell’epoca. Tra di loro i nuovi profeti-sociologi della speranza umanistica ci propongono un rinnovato ascetismo che ci conferma nella trappola.

Oggi noi soffriamo nella nostra vita quotidiana di essere forzatamente complici del mantenimento di questa scarsità, questa assoluta povertà di scelte.


12. La prospettiva dell’egoismo comunista è la prospettiva di quell’egoismo che desidera soprattutto gli altri, di quell’egoismo che desidera al di sopra di tutto gli altri soggetti; di quell’avidità che è avida di amore – dal momento che l’amore è la totale appropriazione dell’uomo da parte dell’uomo.

Il nostro rovesciamento in fatto di prospettiva a proposito dell’egoismo, il nostro détournement dell’avidità e lo scandaloso effetto che esso produce volontariamente nelle coscienze dominanti, non è mero trucco formale né un arbitrario gioco di parole.

Le parole, proprio a causa dei loro significati, sono una parte reale della storia, della materia storica e del processo storico. Abbandonarle ai loro usurpatori, inventare nuove parole o usarne altre a causa della difficoltà di restituire loro il vero significato, vuol dire abbandonare il terreno al nemico. Si tratterebbe di una rinuncia teorica e pratica che non possiamo sopportare. Una simile attitudine aggiungerebbe soltanto confusione alla confusione su cui si fonda l’ordine stabilito.

Il nostro rovesciamento di prospettiva, al contrario, va verso una chiarificazione all’interno dei termini reali della confusione. È già un atto rivoluzionario al livello delle condizioni soggettive di rivoluzione: la prospettiva rovesciata, la prospettiva ribaltata è la prospettiva stessa della rivoluzione.

L’ideologia è complicità del significante con il potere. Il valore d’uso dell’ideologia sta nell’essere un utensile dello sfruttamento – l’ideologo usa l’ideologia per forzarti a subire il suo egoismo al di sopra del tuo, in nome dell’altruismo, della morale, dell’interesse generale. La riscoperta di una connotazione rovesciata di concetti come “avidità” o “egoismo” – i due difetti fondamentali considerati universalmente tali dalle due estreme rappresentazioni del capitalismo moderno (ideologia del capitalismo privato e del capitalismo di Stato) il quale sta cercando di confinare la totalità delle possibili opposizioni nell’universo limitato delle sue pseudo-opposizioni binarie – è un atto rivoluzionario perché sottolinea con precisione il punto della loro essenziale unità, il punto esatto di partenza per un movimento rivoluzionario il quale, tendendo oltre, rompe simultaneamente con entrambe le rappresentazioni.

Qualcosa di analogo è la nostra espropriazione del termine “comunismo”, dal momento che si tratta di espropriare gli espropriatori: il “mondo libero” non è libero ed il “mondo comunista” non è comunista.

Noi usiamo il concetto di “società comunista” per intendere il diretto opposto di ciò che si traveste come tale nel mondo contemporaneo, cioè il capitalismo di Stato burocratico.

Ciò che le società classiche del capitalismo privato occidentale – esse stesse in evoluzione verso una forma di capitalismo di Stato – hanno in comune con i poteri “orientali” nella diffusione di questa menzogna è tutt’altro che casuale e non deve perciò sorprendere la coincidenza. È piuttosto soltanto uno tra gli innumerevoli aspetti di una cooperazione tra antagonisti che rivela l’essenziale unità nascosta che lega insieme questi pseudo-opposti. La vera società comunista comincia con l’appropriazione della totalità della società da parte di tutti i “produttori associati” per cui il suo primo atto non può che coincidere con l’espropriazione della totalità che il capitale gestisce nella separazione e nell’alienazione. E si legga naturalmente il termine “produttore” nella sua accezione generale e allargata e non nel ristretto senso economicistico a cui è stato ridotto dall’aberrazione del lavoro salariato.


13. L’uomo pauperizzato tipico della società capitalistica, il cosiddetto uomo “avido”, è l’uomo che si eccita solo di fronte al denaro, che si interessa soltanto a frammenti di altra gente, a comprare la loro abilità, i loro servizi, i loro prodotti, mentre il resto rimane “estraneo ai suoi affari”. Egli vive in un mondo di prostituzione che è un mondo di proletari.

Egli è il maestro di quella appropriazione parziale dell’uomo da parte dell’uomo che è lo sfruttamento.

L’uomo ricco, l’uomo avido della società comunista è l’uomo che ha scoperto come appropriarsi della “cosa” più ricca intorno, l’oggetto più interessante e di valore: il soggetto a cominciare dall’appropriazione di esso in quanto tale. È l’uomo che ha socialmente dominato la possibilità insieme con le condizioni necessarie di questa totale appropriazione dell’uomo da parte dell’uomo, la coerenza della cui vita sociale è il bisogno stesso dell’uomo da parte dell’uomo.

Qui sta il segreto contenuto nell’affermazione che la negazione del capitale è la realizzazione della vera ricchezza, soggettivamente ed oggettivamente.

L’egoista comunista, la persona genuinamente avida, desidera altri soggetti. L’egoista gretto, lo sfruttatore, vuole solo qualcosa da loro.

Una società ricca in soggettività è la sola società veramente ricca. E la ricchezza in soggetti, in soggettività, in esseri umani praticamente e creativamente potenti è in ultima analisi la sola vera ricchezza per il soggetto.

La logica del valore di scambio, del valore di scambio della merce è la logica profonda dell’egoismo gretto.

Nella società comunista “la forma materiale, indipendente della ricchezza scompare e la ricchezza si manifesta come la semplice attività degli uomini. Ogni cosa che non sia il risultato dell’attività umana, del lavoro, è natura e in quanto tale non è ricchezza sociale. Il fantasma del mondo delle merci scompare e si manifesta semplicemente come la sparizione continuata e l’oggettivazione continuamente riprodotta del lavoro umano. Tutta la ricchezza materiale solida è soltanto la materializzazione transitoria del lavoro sociale, cristallizzazione del processo di produzione la cui misura è il tempo, la misura di uno stesso movimento”. (Marx, Teorie del plusvalore).

In ultima analisi tutto ciò che hai da dare è il tuo stesso essere. Il tuo Io è il tuo solo dono. Se tu non ti possiedi, se sei forzato a venderti, tu non hai niente da dare ad un altro individuo, ad un altro Io.

Nella società comunista lo scambio deve diventare chiaramente e pienamente ciò che è sempre stato nell’essenziale: scambio di soggetti.


14. “Troppi cadaveri cospargono le strade dell’individualismo e del collettivismo. Sotto due ragioni apparentemente opposte, ha infierito un identico brigantaggio, una identica oppressione dell’uomo ridotto all’isolamento”. (Vaneigem, Traité).

È necessario sottolineare ancora l’assurdità delle astrazioni unilaterali di “individuo” e “società” e delle ideologie fondate su questo carente “individualismo” (egoismo) o sul cosiddetto socialismo (collettivismo)?

Noi possiamo essere individui soltanto socialmente.

Noi possiamo essere sociali solo individualmente.

Gli individui costituiscono la società.

La società costituisce gli individui.

Scavando abbastanza a fondo nell’individuo si troverà la società. Scavando abbastanza a fondo nella società si troverà l’individuo. L’una non può esistere senza l’altro. Nel cuore della società sta il suo opposto: l’individuo; nel cuore dell’individuo sta la sua antitesi: la società. Dobbiamo parlare dell’individuo sociale. Entrambi gli astratti universali, sia “società” che “individuo”, trovano il loro superamento espressivo nell’individuo sociale. L’ego è preminentemente ed essenzialmente sociale; la società è preminentemente ed essenzialmente egoista.

Ci si autoproduce solo socialmente; la società è autoproduzione; cioè la società è il solo possibile ambito della produzione di soggetti. Non si può mai parlare di “ego” senza implicare di parlare ugualmente di società.

L’ego esiste soltanto in associazione con altri soggetti. Non a caso il termine latino coscientia significa letteralmente “conoscenza in comune”.

La soggettività è essenzialmente intersoggettiva, cioè essenzialmente sociale.

Il principio: “non voglio nient’altro che me stesso”, il principio dell’autoaffermazione dell’egocentrismo diventa il principio della vita quotidiana nella società comunista, una volta che sia divenuto attuale socialmente che “l’altro è una parte necessaria di me stesso”. Una volta che la natura sociale dell’ego e la natura di ego della società siano diventate una palpabile e trasparente verità dell’esperienza.


15. Il capitalismo di Stato nega e reprime il capitale privato. L’ideologia collettivista – socialismo unidimensionale –, così essenziale al maoismo e a tutta l’ideologia rivoluzionaria, è in generale in sintonia con il progetto di repressione messo in atto dal capitale nel suo complesso con la repressione del capitalismo privato e dell’accumulazione privata, insieme con le tendenze caratteriali che a ciò si accompagnano: efficienza alienata e robotizzazione burocratica. Lo slogan maoista “umilia il tuo ego” non diversamente dal “compi il dovere e taci” di fascista memoria, trova realizzata la sua essenza nei mass media che umiliano di fatto la soggettività di ciascuno. L’effetto comune di tutte queste tecniche va nel senso di inibire l’emergenza dell’egoismo comunista nel proletariato domestico; una forma di egoismo che la burocrazia, cosciente o no, confonde sempre con l’egoismo borghese.

Del resto bisogna arrivare a vedere lo stesso fenomeno della privatizzazione come l’espressione dell’individuo sociale prodotto dalla società contemporanea.

È essenziale comprendere l’ideologia antisocialista come la verità sociale della società capitalistica in quanto essa è appunto una società antisociale. Al punto che la socializzazione della società, dove governa la società capitalistica, è il progetto specifico della rivoluzione sociale. In una società antisociale il progetto radicalmente sociale è il centro stesso della sovversione, il punto in cui il potere si sgretola.

Le ideologie antisocialiste sono fondate sulla miseria dell’associazione (noia collettiva, aggregazioni, inautenticità, complicità, ecc.) sotto le condizioni contemporanee, cioè sulla miseria della associazione come alienazione e complicità nell’estraniamento. L’espressione compiuta della povertà scandalosa della vita sociale si manifesta come mondo di forestieri (alleati/nemici) che si scannano indifferentemente con occhiate cariche di odio o sorrisi senza spessore.

Un soggetto comunista disprezza la persona grettamente egoista che sceglie senza esitazioni la soddisfazione immediata, privata, che si gratta i propri pruriti superficiali contrabbandandoli per piacere, ma non assume il punto di vista ideologico del “gauchismo”, intrappolato continuamente nella falsa scelta tra il seguire i suoi propri desideri immediati e sacrificarsi per i suoi ideali.

Ciò che un comunista rifiuta dell’edonismo “borghese” è il suo esser ridotto alla soddisfazione privata in quanto essa non è abbastanza soddisfacente. Per l’egoista comunista questo modo falsamente egoista di soddisfarsi nel privato – la vita alienata – è un diretto ostacolo alla realizzazione della propria dilatata passione comunista.

Ogni “collettivismo” dalla nostra parte è individualista.

Ogni “individualismo” dalla nostra parte è collettivista.


16. “Niente per me è più importante di me stesso”. È questo un postulato classico dell’egoismo sostenuto da Max Stirner. Ma in Stirner questa intuizione non ha saputo arrivare a comprendere tutto quanto l’ego ha da essere per essere adeguato alla realtà. Cioè tutti gli altri ego che mutualmente lo costituiscono e lo producono; in breve la società.

Si tratta di una carenza di autocoscienza. Stirner non conosceva la sua vera identità, non si conosceva come essere sociale, ovvero non riconosceva la società come suo ego compiuto.

Non si può comprendere nulla senza comprendere la validità del momento egoistico. Quando la mia vita è al palo ogni cosa è al palo per ogni individuo sociale. Se mi lascio sacrificare permetto che tutto il mondo sia sacrificato. Se io sono perduto, tutto il mondo è perduto per me.

Ogni volta che una persona muore, un intero mondo muore.

La comunità degli egoisti è la sola possibile comunità non fondata sulla repressione.

L’egoismo comunista indica la sintesi tra individuo e collettivo, proprio come una società comunista è l’attuale soluzione materiale e sensibile alla contraddizione storica tra interesse “particolare” e “generale”, una contraddizione generata dallo sfaldamento della società in classi sociali.

L’egoismo privato è l’egoismo in conflitto con la sua stessa essenza. Ma questo diventa veramente visibile, e perciò pieno, soltanto quando le condizioni necessarie all’appropriazione gretta – spesso confusamente riunite sotto la categoria ambigua della “scarsità” – siano saltate e siano maturate le condizioni per una più piena, più estesa appropriazione.

Specificamente ciò significa le condizioni per l’appropriazione degli altri in quanto soggetti (reciprocità) in opposizione all’appropriarsene meramente come oggetti (sfruttamento). Così per esempio la presente crisi, la crescita di povertà e disperazione che essa significa, è stata principalmente una maggiore regressione a questo riguardo, limitando drasticamente la base sperimentale quotidiana che per un breve periodo – all’aprirsi della “prosperità” degli anni Sessanta – aveva portato la critica ad intuire la verità.


17. Ciò di cui evitiamo di essere immediatamente coscienti è che il prevalere della forma gretta ed impoverita di egoismo, di autogratificazione, è contemporaneamente profondamente mescolata con il suo opposto; con la rinuncia all’autogratificazione; che l’avidità che normalmente sperimentiamo è una avidità radicalmente mescolata con la sua stessa negazione, con l’amara rinuncia all’avidità, basandosi essa stessa, come deve, sulle grette condizioni di piacere acquistabili al momento e in particolare già comprese nell’acquisto, sotto le condizioni di estrema privazione e fatica. In particolare, la forma di piacere che è esclusa, il segreto che si cela autonegato nel cielo dell’egoismo privatizzato, è la negazione di tutti i piaceri sociali, il piacere comune di una spontanea aggregazione, il calore della solidarietà umana, l’esuberanza di una autentica festa – il piacere di associarsi e la soddisfazione sociale in generale. I resti di tutto ciò sono confinati nel cerchio sempre più stretto della famiglia mononucleare, essa stessa nucleo sopravvissuto, adattato al capitale, delle società fraterne a comunismo primitivo dei tempi andati e delle loro “famiglie allargate”, che rende pubblica la sua finale autocritica nelle crescenti tariffe di divorzio, dal momento che il divorzio è riconosciuto e ufficialmente definito “estraniamento”. E ciò specialmente nei paesi capitalisti avanzati – cioè nei paesi che hanno raggiunto i livelli avanzati di alienazione sociale.

Il restare indietro nell’appropriazione delle più recenti condizioni di “non scarsità”, di potenziale e (a qualche livello) già attuale abbondanza, è il contesto nel quale il presente stadio storico della “dialettica dell’egoismo” deve essere compreso. Il momento positivo del primo movimento “Hip” (e di quel momento i professionisti del parassitismo stradale, gli hippie, non sono in nessun modo gli eredi) – la totale emergenza libidinale che incominciò negli anni Sessanta, e che ora nella recessione degli anni Settanta, è di nuovo scomparsa – è comprensibile in parte come l’inizio dell’appropriazione di queste umane condizioni.


18. La radicata illusione di tutte le ideologie pie ed ascetiche è che dal momento che lo sfruttamento è l’appropriazione parziale dell’uomo da parte dell’uomo, la via per liberare il mondo da questo “peccato” stia nell’istituire la non appropriazione dell’uomo da parte dell’uomo, piuttosto che nella totale appropriazione; che la via della negazione del desiderio (“pacificazione”) sia la sua repressione piuttosto che il suo arricchimento: non toccarmi che io non ti toccherò. La logica della privazione. Il problema della miseria dell’egoismo gretto permette solo due soluzioni: la sua esagerazione fin dove strabordano i suoi stessi limiti; la sua espansione finché diventi uno con la totalità, riscoprendo precisamente il suo supporto opposto e ciò che esso formalmente escludeva, oppure la sua repressione e con essa, evidentemente, il regno senza fine della forma presente, che è ciò che la sua repressione storica ha realizzato così a fondo: il regno dell’umiliazione.


19. Il comunismo non è l’autorepressione dell’egoismo. È solo quando l’egoismo gretto vuole andare oltre se stesso per le sue ragioni più profonde, quando esso trova le sue ragioni interne; quando vede cominciare la sua stessa rovina, la sua disfatta, l’autosconfitta che lo porta alla sua stessa fine, che il comunismo comincia.

L’egoismo privato è storicamente la sua stessa rovina. Il suo esercizio porta alla sua stessa socializzazione, cioè all’egoismo sociale. Il comunismo è la ragione dell’egoismo soltanto in virtù del fatto di essere una forma più alta di egoismo; la forma più alta di egoismo. L’egoismo gretto, l’ideologia dell’autogratificazione e dell’autorealizzazione e la pratica dell’autogratificazione e dell’autorealizzazione esclusiva diventano ad un certo livello del suo sviluppo, un impedimento proprio dell’autogratificizione e dell’autorealizzazione. Diventano il limite principale ed il massimo ostacolo ai suoi stessi obiettivi. Esso diventa una barriera contro se stesso. È l’autonegatività che risveglia il desiderio del suo stesso superamento, uno spostamento in accordo con se stesso, con la sua essenza, e nei suoi stessi termini, fondato sulla possibilità della comunità della gratificazione come l’ampliamento illimitato della gratificazione. Questa è l’autocritica immanente all’egoismo gretto. La sentenza di morte che esso pronuncia su se stesso. Così la negazione determinata dell’egoismo gretto può solo avvenire attraverso il suo stesso sviluppo organico. Cioè può essere soltanto autonegazione.

La “felicità a spese di altri”; l’esclusione della felicità altrui dalla propria apparirà di qui in avanti come una base miserabile; come l’opposto della felicità, come miseria, e in quanto proprietà privata come abbondanza di povertà, se messa a confronto con le possibilità qualitative cresciute segretamente nella contraddizione della stessa società contemporanea.

Il comunismo comincia con la comprensione dell’egoismo esclusivo come autocontraddizione storica e perciò come limitato: condannato a perire – in quanto non “eterna natura umana”, ma, al contrario, autoannullantesi, transitoria condizione innaturale – in quanto condizione antisociale dell’uomo precedente l’autocompletamento storico della specie umana.

Il comunismo comprende l’egoismo borghese come contenente ed implicante la sua stessa negazione storica, come contenente la sua stessa negazione in embrione, contenente i semi della sua stessa distruzione in virtù del suo essere falso a se stesso.


20. Lungo tutta la linea, coscientemente o no, “prima io” è sempre stato il modello necessario della pratica di ciascuno. Ciascuno in ogni momento della propria vita, coscientemente o no, agisce a qualche livello nel suo proprio interesse. Del resto ogni altro atteggiamento sarebbe inconcepibile, impossibile.

Il masochista, impossibilitato a seguire i suoi desideri direttamente, usa la mediazione della sofferenza. Cerca nella morale, nelle grandi cause, nell’ideologia, il piacere in quanto significato della sofferenza di subordinare se stesso tramite le sue proiezioni.

Attraverso una morale idealistica egli sfugge al fatto di non conoscersi come soggetto e centro della propria pratica, così egli pone il suo centro fuori di se stesso come una generalizzazione irrigidita che significa “decidere per lui”. Facendo così egli fa l’errore di pensare che la coerenza con il suo ideale è sempre la coerenza con il suo interesse per se stesso.

L’egoismo comunista determina la negazione della negazione dell’egoismo primitivo (egoismo gretto). Ma la dinamica del processo – in quanto negazione immanente ed autocritica e mai esterna o meccanicistica – deve essere soprattutto sottolineata contro ogni metodo coercitivo e burocratico.

L’egoismo socializzato, l’egoismo comunista è l’autonegazione dell’autonegazione dell’egoismo capitalista. Questa seconda negazione è essenziale allo stesso egoismo gretto non meno della prima, la quale produce la sua antitesi: moralismo, antiegoismo, altruismo. Questa seconda negazione è necessaria all’egoismo gretto per mantenere le sue stesse premesse umane una volta giunti alle soglie del suo superamento. Con essa si arriva finalmente alla negazione dell’altruismo, arma assoluta del cristianesimo e di tutte le ideologie della sofferenza, al superamento di tutte le separazioni con la negazione di ogni tecnica di seduzione, e in particolare del metodo dell’umiliazione e del rimprovero.

Il metodo del rimprovero è tipico della forma dell’egoismo gretto e della sua antitesi, l’altruismo. Consiste nell’espellere le proiezioni della psiche, nel creare appigli nella testa della vittima per facilitare manipolazioni (“il trattamento”) da parte delle autorità e degli ideologi di ogni sorta; si tratta di instillare sottomissione, di favorire la scissione nella vittima tra il senso del dovere e il senso della propria inclinazione; di favorire il senso di colpa di un autocontrollo alienato. Contro queste tecniche di repressione la seconda negazione favorisce la riappropriazione di sé nell’unità dell’io: il centrarsi anziché dell’alienazione, dell’autocontrollo cosciente.

Questa è la sola formazione dell’io capace di autogestione.

In sintesi contro ogni apologia dell’egoismo gretto, si tratta di affermare a chiare lettere che l’egoismo comunista e non l’altruismo è il vero opposto dell’egoismo gretto; che l’egoismo comunista e non l’egoismo gretto è il vero opposto dell’altruismo. L’egoismo comunista è il rifiuto unitario di entrambi, e in questo senso è la loro prima unitaria affermazione.


21. “Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e conflitti di classe, avremo un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti”. (Marx-Engels, Manifesto).

La società comunista è concepibile soltanto basandosi sulla risonanza degli egoismi. Essa si fonda sulla coesione degli egoismi mentre finora l’egoismo si è manifestato come la forma di separazione e privatizzazione per eccellenza.

L’essenza della risonanza degli egoismi è questa: l’altra persona è parte della tua ricchezza.

La risonanza degli egoismi è l’unità, la sintesi dell’interesse particolare e generale: la società comunista.

La coesione della società comunista, dal momento in cui se ne sono create le condizioni è concepibile su questa base: che la comunità, la società, la stessa associazione di soggetti è il più alto valore personale che ciascuno individuo sociale possiede. Cioè che le relazioni sociali sono il valore più grande e la più grande ricchezza. La stessa relazione sociale diventa il significato unitario, unificato ed universale, verso il conseguimento di ogni fine, verso la gratificazione di ogni bisogno, diventando così un fine in se stessa.

III. Soggettività radicale

“La lunga rivoluzione ci indirizza verso l’edificazione di una società parallela opposta alla società dominante e in procinto di sostituirla; o meglio verso la costituzione di microsocietà coalizzate, veri focolai di guerriglia in lotta per l’autogestione generalizzata. La radicalità effettiva autorizza tutte le varianti, è la garanzia di tutte le libertà”.

(Da: Seguito a “Voi ve ne fottete di noi? non ve ne fotterete a lungo)

22. Mentre la banalità ideologica afferma il contrario è soltanto la gente più avida che non può mai essere comprata. Il soggetto radicale “alza il suo prezzo” fino a trascendere completamente il regno del valore di scambio e con esso di tutte le appropriazioni parziali.

Il problema centrale delle relazioni sociali comuniste potrà trovare soluzione soltanto nell’accentuarsi della dinamica della risonanza delle passioni vissute soggettivamente. Tutto il gran parlare di “necessità storiche” e di “inevitabilità” riesce solo a fare di questa mistica necessità uno pseudo-soggetto e a distogliere l’attenzione dei soggetti reali, noi stessi. La società comunista è storicamente determinata a diventare realtà solo nella misura in cui noi siamo soggettivamente diretti e determinati a realizzarla. E questo non nega affatto che una siffatta soggettività abbia le sue necessarie condizioni oggettive le quali possono solo svilupparsi storicamente.

Il soggetto rivoluzionario è l’egoista cosciente – qualitativamente autocosciente – che si pone in antagonismo agli egoismi incoscienti e condizionati dal sistema di valori perpetuato dall’ideologia.

La soggettività radicale, cioè l’egoismo comunista, o l’individuo sociale realizzato, è l’universale concreto emergente della nostra epoca. È il particolare che è potenzialmente ovunque.

La soggettività radicale è la nostra radice profonda, la radice di ciò che noi tutti abbiamo in comune, la base reale della comunità. La vera soggettività – la radice umana primitiva – potrebbe essere soltanto rivelata in quanto fine definitiva della preistoria come l’emergere delle potenzialità stesse di quella preistoria e come la base nascosta del suo superamento. “Io non sono nulla ma devo essere tutto”. (Marx).


23. “Tutte le soggettività differiscono tra di loro benché tutte obbediscano ad una identica volontà di realizzazione. Si tratta di mettere le loro verità al servizio di questa inclinazione comune, di creare un fronte unito della soggettività.

“Il progetto di costruzione di una società nuova non può perdere di vista questa duplice esigenza: la realizzazione della soggettività individuale sarà collettiva o non sarà; e ‘ciascuno combatte per ciò che ama’: questo si chiama parlare in buona fede. Combattere per tutti non è che la conseguenza”. (Saint-Just).

Non ci si salva da soli, non ci si realizza isolatamente. È possibile che raggiungendo una qualche lucidità su di sé e sul mondo, un individuo non riveli in quelli che lo circondano una volontà identica alla sua, una stessa ricerca a partire dallo stesso punto di appoggio?

Come tutte le forme di potere gerarchico differiscono fra di loro e sono tuttavia identiche nelle loro funzioni repressive, allo stesso modo tutte le soggettività differiscono tra loro e tuttavia sono identiche nella loro volontà di realizzazione integrale. È a questo titolo che conviene parlare di una vera “soggettività radicale”.

Tutte le soggettività, uniche ed irriducibili, hanno una radice comune: la volontà di realizzarsi trasformando il mondo, la volontà di vivere tutte le sensazioni, tutte le esperienze, tutte le possibilità. A gradi diversi di coscienza e di decisione questa volontà è presente in ogni uomo. La sua efficacia dipenderà evidentemente dall’unità collettiva che saprà raggiungere senza perdere la sua molteplicità. La coscienza di questa unità necessaria nasce da una sorta di riflesso di identità, movimento inverso dell’identificazione. Con l’identificazione si perde la propria unicità nella pluralità dei ruoli; con il riflesso di identità, si rinforza la propria plurivalenza nell’unità delle soggettività federate.

Il riflesso di identità fonda la soggettività radicale. Lo sguardo che viene dal cercarsi ovunque negli altri.

“Quando ero in missione nello Stato di Tehou”, dice Confucio, “vidi dei piccoli maiali che poppavano la madre morta. Dopo poco trasalirono e se ne andarono. Sentivano che essa non li vedeva più e non era più simile a loro. Ciò che essi amavano nella loro madre non era il suo corpo, ma ciò che lo rendeva vivo”.

Allo stesso modo, ciò che io cerco negli altri è la parte più ricca di me che essi mantengono in loro stessi. Potrà il riflesso di identità diffondersi ineluttabilmente? Non è una cosa che vada da sé. Tuttavia le condizioni storiche attuali ne creano la predisposizione.

Nessuno ha mai messo in dubbio l’interesse che gli uomini mettono nell’essere nutriti, alloggiati, curati, protetti dalle intemperie e dalle disgrazie. Il compimento di questo anelito comune è stato ritardato dalle imperfezioni della tecnica, molto presto trasformate in imperfezioni sociali. Oggi l’economia pianificata lascia prevedere la soluzione finale dei problemi di sopravvivenza. Ora che i bisogni di sopravvivenza sono sul punto di essere soddisfatti, quantomeno nei paesi industrializzati, ci si accorge che ci sono anche delle passioni di vita da soddisfare, che la soddisfazione di queste passioni riguarda l’insieme degli uomini e, più ancora, che un insuccesso in questo settore rimetterebbe in causa tutte le acquisizioni della sopravvivenza. I problemi di sopravvivenza, lentamente ma immancabilmente risolti, sempre più si distinguono dai problemi della vita, lentamente e immancabilmente sacrificati agli imperativi della sopravvivenza. Questa separazione facilita le cose; la pianificazione socialista si oppone ormai all’armonizzazione sociale.

La soggettività radicale è il fronte comune dell’identità ritrovata.

Quelli che sono incapaci di riconoscere la loro presenza negli altri si condannano ad essere sempre estranei a se stessi. Io non posso niente per gli altri se gli altri non possono niente per loro stessi. È in questa ottica che vanno riviste delle nozioni come quelle di “conoscenza” e di “riconoscimento”, di “simpatico” e di “simpatizzante”.

La conoscenza non ha valore che se sfocia nel riconoscimento di un progetto comune: nel riflesso di identità. Lo stile di realizzazione implica conoscenze molteplici, ma queste conoscenze non sono nulla senza lo stile di realizzazione. Come i primi anni dell’Internazionale Situazionista hanno mostrato, i nemici principali di un gruppo rivoluzionario coerente sono i più vicini per la conoscenza e i più distanti quanto al vissuto e al senso che ne danno. Allo stesso modo, i simpatizzanti si identificano al gruppo e, perciò, lo ostacolano. Essi comprendono tutto tranne l’essenziale, tranne la radicalità. Essi rivendicano la conoscenza perché sono incapaci di rivendicarsi loro stessi.

Appropriandomi di me stesso, esproprio gli altri della loro presenza su di me, permetto dunque che si riconoscano in me. Nessuno si sviluppa liberamente senza diffondere la libertà nel mondo. Io faccio mio senza riserve il proposito di Cœurderoy: “Io aspiro ad essere me, a rinnovarmi senza ostacoli, ad affermarmi solo nella mia libertà. Che ciascuno faccia come me. E non tormentatevi più allora per la salvezza della rivoluzione; essa si troverà meglio nelle mani di tutti che nelle mani dei partiti”.

Niente mi autorizza a parlare in nome degli altri, perché io non sono delegato che di me stesso, e nondimeno, io sono costantemente dominato da questo pensiero, che la mia storia non è soltanto una storia personale, ma che io servo gli interessi di innumerevoli uomini vivendo come vivo e sforzandomi di vivere più intensamente, più liberamente. “Ciascuno dei miei amici è una collettività che ha smesso di ignorarsi, ciascuno di noi sa di agire per gli altri agendo per sé. Solo in queste condizioni di trasparenza può rafforzare la partecipazione autentica”. (Vaneigem, Traité).


24. “Non si tratta di liberare l’Io, si tratta di liberarsi dell’Io, liberando così la storia dal principio. E questo fin da ora. Non c’è nulla da attendere. Il tempo è questo tempo, il tempo della fine del dolore è il tempo in cui il dolore si fa intollerabile”. (Cesarano, Manuale di sopravvivenza).

E la liberazione dell’Io contro l’annichilimento che diventa la proposta dominante e subdola comincia dal ritrovarsi come soggetti della propria vita, come critici feroci di tutte le proposte di ricomposizione nel fittizio che l’ideologia ci propone.

Negli ambienti pseudo-radicali tenuti insieme dai cascami di un vitalismo artistico-filosofico in putrefazione, vitaminizzati dai deliri linguistici attraverso i quali, azzerato ogni senso, tutto è formalmente permesso data la totale assenza di contenuti corporei, in questi ambienti, sintomo di una sconfitta storica ancora da superare, si trovano esplicitamente i meccanismi di addomesticamento i più raffinati, l’accettazione spumeggiante e godereccia dell’assenza di piacere, la tragedia resa digeribile dalla sua umiliazione in farsa continua.

Essere soggetti radicali passa per lo spazzare via questi cimiteri colorati, per l’aggregarsi negli incontri e nelle situazioni in cui sia possibile l’espressione di sé.

Solo nel riflesso di identità con gli altri soggetti si spacca il muro delle solitudini di ciascuno e solo nel bloccare il clima terroristico che ci impedisce di esprimerci senza rappresentazioni spettacolari ci si può cominciare a proporre in un rapporto intersoggettivo. Smettere di frequentare le riunioni di una qualunque aggregazione politica non vuol dire tornare o andare per la prima volta, ad ammazzare il tempo nei salotti, bensì cominciare a riappropriarsi del proprio vissuto, delle proprie fantasie, dei propri bisogni. Ovunque. La realtà quotidiana ci dà la misura del salire dell’alienazione e dell’addomesticamento, quando si noti come sia ormai dominante l’imbrigliamento dei modi spazio-temporali della nostra lotta: la rivoluzione è concepita nella fraseologia dominante come un lavoro, o meglio come il prodotto di un lavoro, il quale per la sua stessa natura deve guardarsi bene dall’invadere la sfera del tempo libero. Quando non si imbocca al contrario la via stakanovista per la quale la rivoluzione è vissuta come un lavoro a tempo pieno: i forzati della rivoluzione. La rivoluzione che dovrebbe abolire il lavoro salariato concepita come lavoro.

Si vive la separazione tra il tempo delle riunioni politiche, dei gruppi di autocoscienza, di tutte le liturgie della trasformazione fittizia e la ossessiva riproduzione dell’identico. Serate conviviali atrocemente inquinate dall’assenza di vissuto autentico e orari di lavoro ideologico scanditi dagli slogan estremistici contro lo “sfruttamento”.

La schizofrenia più spinta tra un Jekyll identico e ripetitivo nel suo “tempo libero” e un Hyde impegnatissimo alla rivoluzione nel suo lavoro “straordinario”.


25. Si tratta di costruire ovunque le situazioni che ci permettano di ribaltare questo rovesciamento assurdo delle prospettive umane. Di cominciare l’esplorazione del territorio che ci separa dalla comunità umana aggregandoci criticamente in microsocietà di soggetti federati che si riconoscano in un progetto comune. Si tratta di anticipare un profondo rovesciamento di prospettive come presupposto di una società unitaria nella quale ogni possibile valore strettamente privatizzato sarà confinato nell’insignificante, e sarà vissuto come gretto e insoddisfacente in confronto con il valore della propria esistenza sociale in ogni individuo sociale.

In una società comunista, in accordo con il suo significato, la forma di rapporto diventa la totale appropriazione dell’uomo da parte dell’uomo.

Gli individui sociali si appropriano l’un l’altro reciprocamente come soggetti e da ogni punto di vista, attraverso tutte le forme di relazione umana – parlando insieme, producendo insieme, facendo l’amore insieme, ecc. e i frutti della loro appropriazione, cioè loro stessi, nella loro ricchezza sviluppata, diventano così la loro proprietà comune dell’insieme della società e di tutti gli altri individui sociali.

La maggior amputazione degli individui contemporanei è la loro incapacità al piacere.

Le nostre vite quotidiane sono essenzialmente pauperizzate perché noi siamo aperti al mondo, e quindi al piacere (così come al dolore), soltanto in maniere grette e limitate. Queste sono le difese coatte, le armature caratteriali, connesse ad un mondo sovraccarico di dolore, un mondo di sofferenza, che era ed è il mondo della povertà con la sua lotta per la sopravvivenza, la sua guerra “di tutti contro tutti”, dove essere aperti è essere deboli ed essere deboli è diventare una vittima.

La profonda contraddizione dell’egoismo borghese si acutizza e diventa cosciente nell’ambito di quell’insorgente mondo di pienezza e di piacere che la stessa società borghese, durante la sua fase di prosperità del suo ciclo economico, ha anch’essa fantasticato; cioè solo quando i muri che tengono chiusa la sofferenza cominciano ad essere percepiti nell’esperienza quotidiana, come muri che escludono il piacere. La lotta contro l’organizzazione sociale della sofferenza e per l’organizzazione sociale del piacere è la lotta rivoluzionaria.


26. Nel processo rivoluzionario la lotta è la lotta per il piacere; il piacere è il piacere della lotta.

Oggi la gente si reprime reciprocamente con la pochezza del proprio desiderio; la povertà dei bisogni sociali; la carenza di un pieno egoismo, di una piena avidità.

Dalla profondità del nostro egoismo chiediamo la profondità dell’egoismo di tutti. Una positiva autocoscienza umana può essere soltanto egoismo senza sensi di colpa, un egoismo che non esclude il piacere degli altri ma, al contrario, se ne appropria come suo stesso piacere, lo include propriamente per sue egoistiche ragioni. L’egoista che prova sensi di colpa per i suoi desideri gretti fa resistenza a se stesso senza superarsi, oppone una parte della sua stessa energia al suo stesso progetto. Il sacrificio di sé è sempre cristiano. È la perdita della propria soggettività e il costruirsi all’interno di una armatura caratteriale sadomasochista.

L’espansione dell’egoismo non riguarda solo il progetto di autoidentità in ogni momento, ma anche l’ampliamento di ogni soggetto dei suoi possibili momenti. Il sacrificio di un futuro più grande piacere in vista di un piacere inferiore più immediato è ancora assolutamente sacrificio; non viceversa. L’individuo responsabile decide per se stesso ciò che è suo massimo interesse contro ogni morale che voglia decidere per lui.

La teoria e la pratica soggettiva di un egoismo amplificato non possono convivere con nessuna ideologia edonistica non diversamente che con alcuna sorta di puritanesimo. Esse sono inseparabili dalla coscienza profonda del piacere e delle possibilità qualitative di esso sviluppate nel processo storico, nell’espansione delle capacità umane, dei bisogni e delle loro possibilità di soddisfazione.

La soggettività autocosciente delle proprie potenzialità, la cosciente ed effettiva direzione di sé in sé e nel mondo, è un piacere estetico soggettivo. È l’arte della vita oltre la morte dell’arte.


27. “La passione dell’amore offre il modello più puro e più diffuso di comunicazione autentica. Accentuandosi, la crisi della comunicazione rischia appunto di corromperla. La reificazione la minaccia. Bisogna vigilare affinché la prassi amorosa non divenga un incontro di oggetti, occorre evitare che la seduzione rientri nei comportamenti spettacolari.

“Fuori della via rivoluzionaria non esiste amore felice”. (Vaneigem).

Una esperienza sessuale orgasticamente potente è il vero archetipo della risonanza degli egoismi; l’immediata unità di piacere ricevuto e dato.

Io non voglio solo una vita sessuale più piena; io voglio che tutta la mia vita sia una “vita sessuale”. La socialità dell’uomo trova nella socievolezza e nella solidarietà sessuale la sua massima efficacia. Il bisogno sessuale rivela più profondamente ed immediatamente di ogni altro bisogno l’ottusità dell’egoismo gretto; il bisogno di toccare un’altra persona, il corpo di un altro; di essere fisicamente vicini, di accarezzare ed essere accarezzati.


28. “Il conflitto tra civilizzazione e sessualità è causato dal fatto che l’amore sessuale è un rapporto tra due persone, nel quale una terza non può che essere superflua o di disturbo, mentre la civilizzazione è fondata sulla relazione tra larghi gruppi di persone”. (Freud, Il disagio della civiltà).

Lo stesso Freud non riesce a concepire l’avidità umana se non nei termini del suo dominio più gretto. Non arriva a concepire la possibilità di costruire una situazione sociale in cui diventi naturale ragionamento ed emozione umana il seguente: i frutti della tua appropriazione, del tuo consumo di energia fisica ed emozionale è qualcosa dalla quale io sono escluso a livello di immediatezza, dell’immediato consumo: se tu mangi una pera, io non posso mangiare proprio quel morso di quella pera; se tu partecipi amore a questa persona io sono escluso dal parteciparti me stesso proprio in quel momento. Ma questo non è affatto un problema per me perché anch’io sono impegnato altrove, con lo stesso progetto e pratica di arricchimento di me stesso insieme ad altri. Più tardi, quando torneremo insieme la tua appropriazione autonoma e l’arricchimento che tu ne derivi, torneranno a me diventando un maggiore appagamento ed una mia maggiore appropriazione nella mia appropriazione di te.

Oggi noi dobbiamo essere gelosi l’uno del piacere dell’altro, non perché i nostri piaceri sono così tanti e così grandi ma perché essi sono così scarsi e così pochi. Abbandonata la riva della povertà e della scarsità, la mia gelosia priverebbe soltanto me stesso, la mia esclusione dal tuo piacere escluderebbe soltanto il mio piacere accresciuto una volta diventato capace di trovare piacere nel tuo piacere.

Nel regno della povertà la tua energia è una minaccia per me, il tuo sviluppo avviene a spese del mio, in generale, la tua crescita è la mia sottrazione. Mentre nel regno dell’abbondanza qualitativa nella cui realizzazione sta il superamento di ogni morale sessuale, la tua energia è la mia energia, la ricchezza crescente del tuo essere è la mia ricchezza e ognuno dei tuoi poteri umani è una moltiplicazione dei miei. Così la contraddizione tra il mio piacere e il tuo, il conflitto tra il mio benessere e il tuo si rovesciano nell’opposto: una sintesi, un’identità, un rafforzamento reciproco, un’amplificazione reciproca, vera e propria cassa di risonanza degli egoismi sociali.


29. Il primo movimento delle donne è stato uno dei pochi ambiti di una parziale emergenza autocosciente della soggettività radicale all’interno della sinistra. Le donne che lo hanno espresso hanno rifiutato di metter da parte la lotta contro la loro specifica oppressione fino a “dopo la rivoluzione”.

Se gli esseri umani si sono reciprocamente ridotti a pseudo-oggetti sessuali, si sono reciprocamente reificati da un punto di vista sessuale, questo non è stato che uno dei modi di una generale disumanizzazione e desoggettivizzazione. Il crescere di questa specifica reificazione, del “sessismo”, come il primo movimento delle donne lo ha definito, può trovare risposta solo nell’opporre la forma della soggettività sessuale alla sua forma reificata, e l’egoismo sessuale in espansione, in quanto opposto al dovere sessuale, all’autosacrificio sessuale e allo sfruttamento sessuale.

La critica del sessismo scade in ideologia femminista se si riduce in astratto controsessismo, sfruttamento rovesciato attraverso la manipolazione ideologica del senso di colpa maschile, l’astinenza sessuale o il lesbismo moralistico.

La comunità fondata sul sesso è ancora una comunità fittizia; è ancora la dominazione sull’individuo e sui suoi desideri da parte dei suoi rappresentanti ideologici, attraverso categorie astratte e qualità eterne.

La pseudo comunità delle “sorelle” – assunta ed imposta moralisticamente – è ancora una comunità fondata sull’oppressione e sulla repressione della soggettività radicale; la rappresentazione e l’imposizione di una determinazione astratta per definire un gruppo di persone – in questo caso il sesso femminile – ancora una volta contro la loro particolarità e la loro cosciente autodeterminazione.

I leader sono di tutti i sessi oltre che di tutti i colori.

Quanta umiliazione dovrà ancora essere subita per arrivare a capire che un capo, sia pure con lo stesso colore della pelle o lo stesso tipo di ghiandole sessuali, riduce comunque ad oggetti quanto ogni altro capo?


30. Lo sviluppo di una autogestione generalizzata da parte di soggetti radicali è stato finora impedito dall’incapacità generalizzata all’autogestione in quanto carenza di soggettività. È il dominio del terrore al pensiero della libertà: soggettività surgelata, la personalità autoritaria.

Essa prende usualmente la forma di una terribile paura e sfiducia negli altri in ogni possibile situazione di autogestione rivoluzionaria.

La personalità autoritaria è essenzialmente la persona servile, la personalità che ha bisogno di autorità, che non sa cavarsela se non riferendosi ad essa. Questa struttura caratteriale cela la sua essenza nel ruolo del maestro; rivela la sua essenza nel ruolo dello schiavo.

La società capitalistica è una società fondata sulla riproduzione allargata dell’abitudine alla sottomissione, sulla continua espropriazione della soggettività attraverso il lavoro salariato. Il proletario è l’uomo assolutamente desoggettivizzato, lo pseudo-soggetto riproducente lo pseudo-oggetto capitale. La pratica rivoluzionaria non può che risultare dalla riappropriazione della propria soggettività radicale. Dalla riproduzione allargata di aggregazioni di soggetti radicali.

Oltre il bisogno di autorità stanno l’autorità dei bisogni e quella dei desideri.


31. In ogni rapporto gerarchico sia il dominatore che il dominato pagano il loro prezzo. E il prezzo pagato per la “gloria del comando”, in realtà per il potere, è ben pesante. Ogni tiranno è limitato dai suoi obblighi. È condannato a trascinare il suo peso morto del potenziale creativo addormentato nei sottomessi, lungo tutta la strada della sua scalata gerarchica. Il suo potere non è neppure paragonabile alla ricchezza di energia, di piacere che si libera volontariamente nel gioco totale quando tutti partecipano al gioco.

Il prezzo della propria autorità sugli altri è la somma complessiva dell’accettazione della stessa autorità su se stessi.

In una società autogestita la prevenzione dello squallore comune, di una prassi sociale scadente, dipendono non dall’ipotesi che non ci sia alcuna autorità, bensì che ciascuno sia una autorità dove i suoi propri bisogni e desideri, i suoi propri interessi, lo riguardano. L’autorità naturale esprime l’interesse allargato di sé, il proprio interesse sociale.

Soltanto una totale abbondanza non centralizzata e multilaterale dello scambio critico pratico tra soggetti e del confronto sociale potrà riprodurre una società siffatta. Nella società comunista ciascuno dovrà essere il suo proprio esperto nel saper vivere. Il saper vivere è il problema generale della teoria della pratica fissata soggettivamente. Vivere è quindi opposto alla mera sopravvivenza e al morire nella supposizione eroica della voglia di vivere (la sindrome dei bei perdenti). Vivere non ha niente a che vedere con la morale. Niente se non la sua abolizione.


32. La teoria della pratica, la critica unitaria di ogni ideologia, deve contemporaneamente essere la critica di ogni possibile moralismo. Ogni morale è espropriazione ed alienazione del soggetto. Ogni morale è un totem psichico, un feticcio – oggetto mentale –, al quale il feticista morale subordina se stesso, si prostra, e arriva ad offrire se stesso in sacrificio.

Ogni ideale è soggettività separata, una parte dell’io tagliata via, espulsa, congelata. La formazione di un ideale morale è allo stesso tempo una perdita di mobilità e di manovrabilità soggettiva; un vero e proprio mutilarsi nella danza della vita. La morale è un povero sostituto dello strumento dell’intelligenza pratica. Surrogato della stessa autocoscienza.

Le proiezioni della mia soggettività coltivate dai sensi di colpa spuntano fuori dalla mia testa come tante occasioni offerte ad ogni manipolatore, ogni ideologo che vuole avere presa su di me e la cui specializzazione è l’abilità di percepire queste occasioni.

Solo quando io dissolverò i miei sensi di colpa, quando mi sarò liberato dalla vergogna del mio egoismo, quando concepirò il mio egoismo come il mio solo “dovere” prendendomi cura di me come mia prima necessaria responsabilità sociale – solo allora sarò soggettivamente libero.

La critica del rapporto totemico, del feticismo totemico, in quanto proiezione, conduce al cuore di ogni ideologia morale, notando che ogni ideologia è in ultima analisi una morale e un piano sociale per la riproduzione e lo sfruttamento del senso di colpa.

È il mio senso di colpa nei confronti dei miei desideri che mi rende suscettibile di uno sfruttamento ideologico da parte di altri e che mi costringe a produrre scuse e giustificazioni nei termini dell’ideologia dominante (l’ideologia da cui mi lascio dominare). Il trucco dell’ideologia consiste nel ripresentare i desideri in una forma pseudo-universale, nei termini di un qualche astratto “interesse generale”. Per riconciliarmi con l’ideologia io devo rendermi bugiardo. È un gioco da perdenti, ci si trova a giocare sul terreno preparato in anticipo dai robot specializzati.

Mentre la teoria critica – intelligenza della pratica umana, conoscenza dei significati, dei metodi e delle conseguenze – è il valore d’uso delle generalizzazioni pratiche; il valore d’uso della morale è quello dell’ideologia: dominare gli altri, tendere a realizzare ciò che si vuole in un modo grettamente egoista, rappresentandosi i desideri come disinteressati ed universali, in un clima dove l’egoismo trasparente e la trasparenza intorno ai desideri non è tollerata, anzi è castigata.


33. Non sono soltanto le tendenze e i desideri grettamente egoistici che sono continuamente repressi nella vita quotidiana della società privatizzata, ma anche e soprattutto le tendenze cosiddette altruistiche e disinteressate: aggregazione naturale, solidarietà umana spontanea, partecipazione ed empatia, semplice socialità ed amore.

L’energia vitale prodotta quotidianamente in ogni essere umano tende alla soddisfazione sociale e se non viene soddisfatta socialmente si rivolta contro se stessa, diventa depressione, nichilismo, ecc.

Mentre nelle società tribali queste “tendenze disinteressate” formavano la base della sopravvivenza sociale, nella nostra società tardo-capitalistica supersviluppata queste emozioni non emergono più se non eccezionalmente ed occasionalmente. In quelle vaste accumulazioni di capitale costante e variabile che sono le “cities”, la continua e costante repressione di tutte le tendenze spontanee è sempre più una necessità di sopravvivenza. Sempre più raramente sulla strada, dei momenti di comunicazione sociale contagiano gli estranei. Ogni estraneo è visto soprattutto come un nemico. E questi brulicanti formicai sono un mondo di estranei.

La crescita del fenomeno di massa della violenza, gli assassini senza un movente esplicito, possono essere compresi come la totale trasparenza di ciò che è sempre stato essenziale a questa società, arrivata ai suoi estremi storici: anche la lotta di tutti contro tutti sta diventando armata, come vuole lo spettacolo.

Una volta anestetizzati, a cominciare dai primi anni di vita dell’individuo, i desideri e le tendenze sociali possono normalmente venir rievocati soltanto artificialmente ed in maniera coatta. Fino a convincersi che queste emozioni devono venir rinforzate con la manipolazione del senso di colpa (morale).

Chiunque manifesti ancora queste tendenze e i desideri che le sottendono nella loro forma diretta, spontanea, nell’età adulta, è immediatamente sospetto, o al limite considerato ingenuo o pazzo per il suo apparente idealismo e/o infantilismo. Queste tendenze emozionali sono viste infatti come una debolezza di cui vergognarsi. E nella società dell’estraneamento indubbiamente lo sono a meno che un individuo sviluppi una piena coscienza di queste tendenze e del loro contesto sociale, appropriandosene come parte del progetto rivoluzionario.


34. Io ascolto la critica perché sono avido. Ascolto la critica perché sono egoista. Non mi lascerei mai nelle mani di un altro, al suo potere psicologico. L’atteggiamento egoista critico è un valore d’uso o non è nulla; valore d’uso in riferimento al soggetto che lo adopera. Si tratta di non perdere il proprio tempo a criticare qualcuno che non ci interessa. Ogni altro atteggiamento sarebbe un servizio reso ad un ideale, ancora una volta una proiezione morale della propria passione critica, critica scaduta in liturgia della critica.

L’atteggiamento critico egoista tende a rinforzarmi soggettivamente nel mutuo interesse del mio Io e della mia critica, per il beneficio della nostra comune ricchezza e del nostro comune progetto. È un atteggiamento immanente: critica di me stesso nel mio proprio interesse. E perché questa critica sia possibile, perché la critica di qualcuno mi interessi, mi devo riconoscere in esso; dobbiamo condividere un interesse comune, quindi una comunità concreta.

La nostra soggettività è la nostra autoscoperta ovunque e sempre. Noi dobbiamo riconquistare noi stessi costantemente. Accorti del fatto che anche l’egoismo comunista può essere trasformato in ideologia e che il diritto all’avidità può essere facilmente rivoltato in una nuova morale se io lascio che qualcuno mi ordini, in nome del mio stesso interesse, di desistere da una qualunque attività che io abbia liberamente intrapreso, sulla base del fatto che sarebbe “oggettivamente sacrificale”. Se ciò accadesse la scena finale sarebbe probabilmente questa: qualche burocrate con la pistola puntata che dice: “In nome del tuo interesse comunista, cioè del proletariato come totalità, abbiamo stabilito che è meglio per te che noi ti uccidiamo”. Kronstadt insegni.


35. Dal punto di vista della soggettività radicale il gioco che non sia il libero gioco della costruzione di situazioni ricade nello spettacolo come terapia che conferma l’armatura caratteriale che ci blocca nei nostri ruoli.

L’ideologia stessa è un “gioco”, la corazza caratteriale è giocare un ruolo compulsivo, l’autospettacolo temporalizzato.

Gioco, corazza, ideologia, ruolo, carattere si sciolgono in un solo concetto nel bianco candore dell’atto della loro comprensione come esperienze vissute e come prassi interpersonale che ci ruota intorno.

L’Io spettacolare – l’autorappresentazione – si produrrà necessariamente finché lasceremo prevalere la dissonanza degli egoismi, la totalità delle condizioni di povertà e di scarsità e quindi finché la gente non riuscirà a fare ciò che vuole abbastanza spesso da essere trasparente l’una con l’altra potendo chiedere semplicemente ciò che vuole, e finché non si potrà o vorrà correre il rischio di chiedere, sfuggendo la trasparenza sia per paura della sofferenza del rifiuto che per la disperazione dei bisogni, preferendo perciò carpire quando è possibile della circolazione della mediocrità, dal sotterfugio, dall’inganno, da trappole e trucchi.

La presentazione spettacolare di sé nella vita quotidiana, l’organizzazione personale delle apparenze (particolarmente coatta e involontaria nell’armatura muscolare), la piccola bugia, questi sono i sintomi della latitanza dalla via della realizzazione del desiderio. Nella loro parte cosciente essi saranno riprodotti finché la trasparenza critica non riuscirà a lavorare meglio. Nei loro aspetti più inconsci (la parte coatta) essi sono il marchio della repressione e della dominazione, l’abbaiare tremebondo del cane bastonato bloccato in una posizione.

L’armatura caratteriale è la forma della complicità della gente nello spettacolo, ma certo non sarà il sentirsi colpevoli circa il proprio carattere ad eliminare il problema.

Non possiamo liberarci che nello sviluppo delle nostre soggettività federate, nella costruzione di nuclei microsociali ruotanti attorno ad un vissuto trasparente.

Noi siamo nella direzione della liberazione sociale solo quando si può dire di ciascuno di noi che è diventato così ribelle, così incoercibile, così senza ruoli che non può essere guidato se non da se stesso.

IV. Punti di rotta nei rapporti intersoggettivi

“Le feste qui valgono la pena di essere viste. Credo che non sprechereste il vostro tempo. Sono meno tristi di tutte le altre feste. È quello che c’è di meglio qui le feste”.

(Ivan Chtcheglov, Lettere da lontano, dall’Ospedale psichiatrico in cui è recluso)

36. Il progetto di soggettivizzazione non può che riguardare noi stessi nei nostri rapporti interpersonali quotidiani.

Un incontro. Per esemplificare: una donna, un uomo.

L’ipotesi della coppia cardine come centro moltiplicatore delle potenzialità di comunicazione erotica di ciascuno nei confronti del mondo. Ma per poter parlare di coppia cardine è presupposto che due soggetti abbiano almeno innescato una critica radicale dei rapporti neo-familiari, si siano posti di fronte la possibilità del superamento del tabù dell’incesto verso un rapporto di sororizzazione. Un rapporto tra sorella e fratello non più imprigionato dagli schemi familiari che costringano l’amore alla esogamia formale. Allora ci si muove oltre la negazione del tabù, verso il suo superamento attraverso il riconoscimento della fratellanza in quanto progetto comunitario fondato sulla passione. Una volta fondata la coppia cardine nel vissuto di ciascuno, ogni rapporto potrà essere esplorato nella libertà: non più tabù omosessuali, non più possibili infedeltà, menzogne e sotterfugi, oltre il regno dell’umiliazione nella moltiplicazione comunitaria del piacere di tutti.

Ma per ora troppo spesso l’immagine della coppia cardine si svilisce in vuota ideologia, in figura retorica autovalorizzativa in cui si perpetua il sogno senza corpo del superamento delle proprie miserie, l’incapacità di sputare sull’edonismo in nome della qualità del piacere. Si conferma allora l’ideologia con lo scadimento del progetto di circolazione libera del piacere in solidarietà tra impotenti in cerca di potere. Si riproduce il gioco in cui Abele uccide Caino, lo veste con i suoi abiti e lo fa passare al mito come il fratello cattivo che non ama lavorare e non vuole quindi passare dal nomadismo alla condizione stanziale. Il lupo passa alla storia come l’agnello. La strategia della tensione ha già le sue radici nel mito.

Si ricade allora nel ritmo coatto di seduzione e abbandono: il gioco del massacro nel massacro del gioco.

E prima di godersi cinicamente la scena dell’abbandono il seduttore ideologico sa sfoderare tutta la sua sensibilità alienata: rispetto a se stesso perché vorrebbe il piacere vero che sta nella reciprocità e da cui si sente escluso dal momento che non sa vivere l’altro se non con gesti di espropriazione. Rispetto agli altri perché la sua seduzione è fatta di sensibilità capitalizzata, di attenzione estrema a ciò che gli altri si aspettano per stupirli, convincerli, intrappolarli. Ma non sa mai porsi sensibilmente di fronte all’altrui sensibilità, sentire gli altri come soggetti. In quanto tali sono sempre suoi nemici, nemici della sua impotenza orgiastica.

Quanta dolcezza sa rappresentare il seduttore ideologico quando mette in scena lo spettacolo dell’amore. E quanta invidia sotto i suoi sorrisi di seduzione. La comunicazione si riduce ad essere arma di seduzione spettacolare perché oltre lo spettacolo egli non sa appassionarsi con un minimo di continuità. Quando i soggetti critici si esprimono egli ne ha paura e nello stesso tempo si infastidisce del loro esserci. Quando qualcuno cerca di far luce sulle ambiguità, di penetrare il mistero di cartapesta delle promesse di amore mai mantenute, degli slanci di passione congelatisi nell’imbarazzo una volta che l’opera di seduzione sia stata compiuta, della furiosa gelosia di ogni gesto di amore appassionato di cui si sa incapace, per il seduttore ideologico non c’è di meglio da fare che offendersi ed andarsene altrove, dove il suo gioco non sia ancora stato scoperto.

A questo punto tutta la sua sensibilità è svanita, restano il suo livore e il suo terrore, su cui mente sempre a se stesso. Allora diventa trasparente che i soggetti non lo interessano minimamente. Vuole solo dei complici con cui sentirsi potente. Per questo si “innamora” di tutti a prima vista ma non riesce ad amare nessuno che sia già passato sotto le forche caudine della sua seduzione.

E che non ci si senta al sicuro da queste miserie solo per il fatto che il proprio sesso ufficiale è quello femminile.


37. “La fratellanza si forma dopo che i figli maschi sono stati espulsi dalla famiglia; quando si associano nel deserto, lontano da casa, lontano dalle donne. La fratellanza è un sostituto della famiglia, un sostituto della donna, alma mater”. (N. Brown).

E poco importa in questo senso il sesso di chi compie l’operazione. Troppo femminismo lavora per azzerare queste differenze senza superarle. La fratellanza stessa è una madre: sorellini e fratelline.

La famiglia, se si scambiano i ruoli ma si riproduce la struttura gerarchica – il potere –, sostituisce al potere del padre quello del fratello/sorella maggiore e si perpetua nella superficialità della trasformazione come liturgia sociale. Carattere sociale.

Si tratta di rinascere e ciò non può avvenire se non confrontandosi con il potere che da ogni rapporto cola a segnare le ferite e le separazioni dei partner.

Un tempo Dioniso, il dio dell’eterna giovinezza, era il nato due volte. Anche il Cristo quando rinasce diventa imbarazzante per le Chiese: non gli si danno più di quaranta giorni per sparire per sempre. Affinché il paradiso non si realizzi per noi qui sulla terra, facciamolo ascendere in cielo, povero cristo. Chiamato in curia per essere interrogato è stato visto volare in cielo in un alone di mistero dalla finestra del quarto piano.

Per ora l’ambito della coppia cardine è ancora impraticabile oltre il rischio di grossolane cadute, miserie e squallore, eppure è già uno dei fronti contemporanei.

In questo senso l’uso della deriva psicogeografica dirotta l’esplorazione della normalità alla ricerca di un qualche altro “luogo”. È la vera frontiera. Il momento dell’incontro è il momento in cui si giocano le sorti del nostro essere sociale, in cui l’Io esplora la possibilità del noi.

Anni fa a Katmandu qualcuno mi ha detto che anticamente nella lingua nepalese l’Io e il Tu non esistevano; c’era noi e voi. Non so quanto ci sia di vero, ma il dubbio non toglie nulla al fascino di una socialità soggettiva oltre il conflitto tra individuo e collettivo. Oltre le lezioni del passato si tratta di dare un senso storico vissuto al nostro presente.


38. “La danza della vita, tutta la storia del nostro vagare, in un labirinto di errore, il labirinto di questo mondo. Il nostro vagare nel deserto: Israele; Enea e la sua banda di fratelli alla ricerca di Roma; Bruto e la sua banda di fratelli alla ricerca dell’Inghilterra; la banda dei pellegrini, tutti uniti in una sola nave, per sfuggire nel deserto la faccia del drago, dall’Inghilterra alla Nuova Inghilterra. L’esodo è una iniziazione. Nei miti totemici degli aborigeni Australiani i due fratelli hanno due funzioni: vagare da luogo a luogo e iniziare i giovani; e il loro vagare è imitato dal vagare nella boscaglia dei giovani appena circoncisi”. (N. Brown).

Ma dove continuare l’esodo, con quale rituale iniziarsi ora che la vera guerra fredda ha congelato ogni sorriso sui volti dei fratelli rivali?

Quale amore può sovvertire il nostro sepolcro di sepolti vivi ora che l’odio non ha quasi più territorio da esplorare? Si tratta di sfuggire all’accerchiamento.

Il potere che ha trasportato per un po’ l’immagine della sua “potenza” nei rendez-vous cosmici si è affrettato a ritornare sulla terra quando si è accorto di aver lasciato trapelare ai suoi schiavi la segreta verità che nel senso tradizionale la vita del pianeta sta per essere interamente colonizzata.

Ma allora gli schiavi cominciano a pretendere la libertà.

Marcia indietro: è la crisi, il dopoguerra in vitro. Il ritorno della carenza accuratamente sceneggiata. Non c’è più petrolio/marmellata finché non starete buoni.

E in questo clima la coppia si scardina sembrando un lusso esplorare le possibilità di superare la sopravvivenza.

La famiglia si rinsalda nella miseria riproponendo la barbarie: matrimonio (euforia), e separazione (depressione).

La ricerca di nuovi rituali, cioè di un linguaggio sociale che esprima la voglia profonda del corpo della specie, trova sulla sua strada una rimodernata liturgia di sacrificio a cui il vecchio corpo è fin troppo abituato.

Quando il mondo, esplorato completamente secondo i vecchi schemi, ha cominciato ad offrirsi in una nuova dimensione di esplorazione psicogeografico-sociocentrica come del tutto inesplorato, il potere ha subito agito per ridurre all’impotenza i soggetti emergenti di questa avventura, prospettando il suo deterrente apocalittico in quanto ricatto della miseria.

Qui qualcuno può non farcela più, può averne abbastanza.

Qualcuno può arrivare al suicidio. Non resta che rispettarlo come parte della nostra sconfitta continuando l’esplorazione con sempre maggiore passione.


39. Con la regressione matrimoniale attualizzata si ricade a tempo pieno nell’alternarsi di seduzione e abbandono proprio quando i primi passi dell’esplorazione segnavano sulla mappa l’esistenza del territorio inesplorato di un possibile amore incestuoso tra fratelli che godano della reciproca autonomia.

Pur senza frettolose apologie: “Il sadomasochismo è un ciclo infinito, vizioso; in cui si confondono soggetto e oggetto; ruolo attivo e passivo, maschile e femminile si scambiano, nel desiderio e perseguimento dell’oggetto intero, combinato. Si scambiano i ruoli e gli abiti: travestitismo”. (N. Brown).

Nella coppia bloccata nella liturgia (ogni liturgia, anche quella modernizzata che comprende l’adulterio), il sadomasochismo si costituisce e si riproduce. La famiglia mononucleare con la sua nevrotica fecondità è il sintomo del montare dell’istinto di morte. È verificato che le specie animali in condizioni di pericolo oscillano dal suicidio specifico (blocco totale della riproduzione) ad un incredibile aumento dell’incremento demografico. L’angoscia in connessione al funzionamento della tiroide aumenta la fecondità sia maschile che femminile. Il nesso tra angoscia e addomesticamento fa sì che tra le specie addomesticate ci siano le più prolifiche.

In questo senso la pillola anticoncezionale limita la nascita di sopravvissuti ma non restituisce la vita perduta.

Lo stesso vale per l’aborto.

Gli antiabortisti si spingono oltre nel delirio, fino alla necrofilia di chi reclama la libera produzione di automi che soffrano espiando nella sopravvivenza di non poter mai nascere.


40. Se la coppia cardine urge – anch’essa nell’ambito della contraddizione attuale – in quanto prefigurazione concreta di una socialità contemporanea resa latitante dal dominio dell’ideologia, è verso l’obiettivo del superamento stesso della coppia in quanto superamento definitivo delle separazioni che impediscono alla soggettività di generalizzarsi in una società erotica: verso una comunità ampia quanto la specie umana.

Se la coppia cardine è una ipotesi del superamento della separazione dell’io di entrambi, spaccato nei ruoli di amanti solitari – solitudine che non spartisce nulla con la difesa di una intimità che potrebbe trovarsi a proprio agio dappertutto –, il superamento della coppia si potrà realizzare compiutamente solo con il materializzarsi della comunità umana oltre l’alternarsi eccitante e pauroso di una pienezza che sfugge e di un vuoto che incombe.

Oggi è importante per la coppia che si vuole cardine saper innescare soggettivamente e reciprocamente l’alternarsi ritmico di riunione e separazione. Separarsi tranquillamente e con affetto e riunirsi con gioia e desiderio una volta che il rapporto si ponga oltre la fase di innamoramento.

Divenire altri e riscoprirsi uguali nelle diversità, re-innamorandosi ogni volta delle peripezie e delle passioni che hanno mutato, arricchendolo, il partner.

In questa reciprocità e autonomia – la cui realizzazione è un primo obiettivo di una vera lotta rivoluzionaria – vive la possibilità della continuità dell’amore oltre le catene del rapporto coatto e l’umiliazione della solitudine. Oltre il ghetto neofamiliare e quello informale dato dal susseguirsi di incontri casuali superficiali.


41. Coppia – accoppiamento/incontro – continuità.

Opposizione e sovrapposizione di antiche separazioni. La più vecchia di tutte, e in tutte presente, quella tra essere e divenire.

Accoppiamento come venirsi incontro, muoversi l’uno verso l’altro fino a toccarsi. E continuare a farlo finché non ci si è convinti di aver toccato del tutto il vero corpo dell’altro. Questa fase di innamoramento è il tempo di un amore finché c’è avventura.

Fino a formare la coppia nel momento in cui si stabilizza la continuità emozionale di quel contatto. Ma l’essere di ciascuno può affermarsi veramente solo nella dinamica permanente della propria soggettività. Oltre ogni amputazione, ogni fissità. E l’essere di ciascuno nell’ambito di una totalità negata non può esprimersi se non come negazione del non essere: divenire. Oppure come simbiosi mimetica e spettacolare con la totalità fittizia dell’essere dominante: non essere.

L’essere dominante – il capitale – dentro e fuori di noi, ci impone, in quanto potere sociale e principio di realtà, la scelta tra il divenire altri e l’essere in lui. Il ricatto impera: tagliarsi le mani sui fili spinati del ghetto totale o guardarli restando seduti nel cortile del carcere. E al primo taglio per essersi avvicinati al filo è ben difficile che il richiamo dell’addomesticamento con le sue rassicurazioni nel fittizio, non paralizzi la voglia del divenire. O che non trasformi questa voglia in qualcosa di diverso, di snaturato rispetto alla totalità che la spinge, riducendola alla ripetitività di un’illusione. È la paralisi del divenire per l’iniezione di qualche compiacente ideologia.

Senza una rottura radicale dello sviluppo non potrà esserci che la continuità di un divenire addomesticato. Ma questa rottura non può effettuarsi se non quando tutte le condizioni soggettive e alcune fondamentali di quelle oggettive siano presenti.

Su questa impasse muore l’estremismo che proprio in quanto estremità dell’essere non può mai divenire altro senza autoeliminarsi.


42. Il solo modo di essere nel divenire è essere altro, ma non ci può essere altro senza la spaccatura storica e psicogeografica dell’attuale continuità del non essere: “Quelli che parlano di rivoluzione e di lotta di classe senza riferirsi esplicitamente alla vita quotidiana, senza comprendere quello che vi è di sovversivo nell’amore e di positivo nel rifiuto delle costrizioni, costoro hanno in bocca un cadavere”. (Vaneigem, Traité).

In questo senso le barricate cominciano già in noi o non sono che uno scenario del conflitto spettacolare che ci separa dalla vera guerra: quella contro il capitale totale, colto come struttura attuale del progresso oltre le sue divisioni nell’economico, nel politico e nel personale e le terribili frittate che si fanno manipolando questi ingredienti: dal lottarmatismo allo psicoanalismo.

Il peggior prodotto della schiavitù è la democrazia. Tesi che non si dà come supporto a nessuna forma di dittatura ma che vuole sottolineare la continuità dittatoriale del potere in progresso.

“I signori senza schiavi”, padroni di un’abbondanza qualitativa (e perciò egualitaria e non per giustizia ma per piacere), non si sono finora mai affermati oltre il filo spinato con cui è stata imprigionata la poesia rivoluzionaria. Solo l’utopia ha mantenuto in vita – concretamente tutte le volte in cui la poesia è scesa nelle strade, è entrata nelle case, ha saputo sconvolgere, sia pure per brevi periodi, l’urbanistica e l’organizzazione del ghetto, dimostrando di essere veramente realizzabile – la tensione al vivere oltre il vivibile addomesticato; costretta continuamente ad evadere pericolosamente da un ghetto di rabbia, dolore, pazzia e suicidio, terra di nessuno oltre il politico, oltre lo spettacolo nel quale non c’è emancipazione ma soltanto un ottuso sindacalismo del non essere.


43. I proletari sono stati espropriati due volte: prima della loro forza lavoro e della propria vita, poi della qualità delle loro lotte, addomesticate nella pentola a depressione della sopravvivenza più volgare. Perché la scissione sta appunto tra non essere e divenire. Perché forse l’essere comunista potrà esistere solo come sintesi e superamento di questo scontro sempre rimandato. Non più divenire del non essere, ma suo divenire per la prima volta essere, cioè soggetto. Punto di inversione che diventa possibile soltanto nel sociale. Per ora a caro prezzo: la discontinuità. In piena contraddizione.

Non c’è continuità nella coppia se non nel conflitto tra coppia chiusa e sua negazione quotidiana. Se non nel superare continuamente la menzogna di essere ancora insieme quando ci si lascia, se poi si torna insieme non avendo trovato nulla di qualitativo nel deserto anziché spinti dalla passione di ritrovarsi. Quando si ha sete tutte le bevande si equivalgono. Equivalenza delle merci.

La coppia può costruirsi cardinalmente solo nell’abbondanza di partner appassionati, la cui spinta sia quella poderosa della circolazione dell’energia vitale e non quella asfittica di un maggior scambio di soli liquidi seminali.

La fine del perpetuarsi del senso unico soggetto-oggetto è realizzabile soltanto alzando il livello minimo accettabile della comunicazione al livello di rapporti intersoggettivi.

Le semplici novità sul mercato finiscono per deludere eludendo il vero problema: riuscire a raggiungere Narciso anziché scappare inseguendolo. E non sembra che l’inizio.

Non si può godere senza finzioni dell’autonomia dei propri partner finché non siano state abolite le condizioni che ci fanno vivere l’altrui autonomia come espropriazione. La coppia cardine si pone allora non come la soluzione, ma come il ponte che tenta di collegare l’assenza di continuità in ogni rapporto con la continuità da realizzarsi in una comunità in cui tutti i rapporti continuino a livello intersoggettivo.

Se da un lato la comunità non esiste ancora, dall’altro la sua assenza non è più sopportabile. Qui, in questa contraddizione, si ri-nasce rivoluzionari o si muore. Oltre le parole.

Del resto essere già oltre individualmente è una menzogna autovalorizzata resa possibile dall’essere sempre rimasti assenti: nella passione, nell’orgasmo, nell’amore, nel vissuto.


44. La contrapposizione tra potenza e impotenza sopravvive sotterranea a tutti i conflitti nel rapporto interpersonale.

Potenza e impotenza sono contemporaneamente dati corporei specifici e valori culturali sulla cui ideologia si fonda l’addomesticamento.

Potere spinto dall’impotenza o potenza che si esprime in quanto antipotere: nessuno è estraneo al conflitto che si gioca su questa linea spartiacque. Ma su ogni riflessione che affronti il tema di potenza e impotenza è ora di pretendere una chiarezza emotiva che è rimasta, insieme a tutto il linguaggio erotico, ben lontana dal sex-shop contemporaneo.

C’è un’impotenza fondata proprio sull’erezione fallica e sulla vaginalità femminile, così come c’è una potenza che si esprime al massimo livello comunicativo attraverso la genitalità. Ogni assolutizzazione sia fallocentrica che clitoridea testimonia della perdita della propria centralità soggettiva, ogni assolutizzazione è un aspetto dell’ideologia dell’impotenza con cui si conferma ogni gerarchia di potere.

La vera critica non può mai invitare all’amputazione, piuttosto all’eccesso in cui l’ubriacarsi dei soggetti significhi farsi carico dei propri desideri più nascosti.

Facciamoci sognare se vogliamo davvero partecipare potentemente alla nostra espansione orgastica.


45. Il programma del capitale in quanto dominio autonomizzato, è far funzionare maggiormente tutti i corpi nell’assenza, in una loro riduzione a rotelle del meccanismo. In questo senso è importante distinguere la qualità critica della tesi di W. Reich sulla genitalità e sul carattere dal loro uso ideologico con cui si cerca di restituire un fascino impossibile ad una sopravvivenza miserabile. Nella misura in cui l’essere umano è abbrutito ed espropriato di se stesso, caratterialmente rigido, emozionalmente appestato, la genitalità alienata esprime proprio la sublimazione fallica dell’uomo-capitale. Uomo riproduttivo. È fondamentale ricostituire il nesso esistente tra il funzionamento dei corpi e la passione amorosa che sottende lo stesso funzionamento, se non si vuole oliare la stessa macchina con cui veniamo decimati. Ed è contro ogni interpretazione mistica, nell’esplorazione soggettiva corporea della nostra passione, che si sviluppa la risposta specifica al meccanismo alienante. L’intuizione feconda dell’io diviso che coglie il mondo come macchina mostruosa ha da sfondare l’autismo che lo imprigiona nelle categorie poliziesche della psicoanalisi e della psichiatria per tradurre in prassi rivoluzionaria la sua sofferta insofferenza. La distruzione della macchina.

Mentre i poliziotti con le divise nuove e le nuove tecniche di repressione diffondono l’apologia del delirio e della separazione, i matti possono cominciare a parlare la lingua della loro passione ogni volta che ne abbiano la forza. Nessuna apologia della pazzia ma il suo superamento radicale contro l’ideologia che ne nobilita la tragedia confermandone la sofferenza.

I matti soggettivi restituiranno ai matti oggetto la parte di cui sono stati espropriati. Per la moltiplicazione di un piacere socializzato che non può realizzarsi se non nella reciprocità.


46. I nostri corpi cominciano a dare una risposta attiva. Ad amarsi nel qualitativo di un erotismo non più rarefatto nelle sublimazioni o massacrato nella corporeità volgarizzata, ma riscoperto nella profondità di una passione che si sta dimenticando. La vittoria del capitale passa su questa amnesia caratteriale ormai più che su divieti sessuofobici.

Da un lato l’allargarsi quantitativo del corporeo nell’involucro “sesso”: si scopa di più, poligamia permissiva, adulterio democratizzato, pornocomunicazioni.

Dall’altro lo svanire qualitativo del corporeo: la passione annegata in litri di sperma, l’amore misurato in numero di erezioni o di lubrificazioni vaginali, in quantità di partner – collaboratori aggregati alla comune miseria.

Mentre la potenza corporea comincia orgasticamente quando i gesti del corpo hanno come supporto e spinta un magnetismo spontaneo che i corpi degli amanti sanno ben distinguere dalla liturgia sessuo-meccanica democratizzata.

Il tentativo di uscire per la porta della quantità mostra il suo volto mostruoso di volgare accumulazione. L’addomesticamento produce una sua critica addomesticata con la quale gli insoddisfatti dei vecchi consumi s’illudono di rompere con la noia pretendendone di nuovi.

Riflesso orgastico condizionato. Eiaculazioni con musica-cassette incorporate nel cervello. Vieni siamo belli e liberi. Film di Lelouche con musiche di Gaber o dei Pink Floyd.

La famiglia – il racket degli equilibri instabili – si aggiorna per non venir sostituita. La grande famiglia cristiano-produttiva ingoia con gioia pseudo-comunitaria chiunque si presenti alla sua porta e lo defeca con gli occhi spinti nel vuoto. E a questo punto guai a chi sgarra!

La liturgia non ammette il diverso se non per recuperarlo meglio all’identico.

La nostra soggettività è il “diverso” che nessuna ideologia può recuperare. L’addomesticamento non può consistere che nell’uccidere il soggetto difensore del corpo di ciascuno dell’espropriazione; consiste nell’avvelenare i corpi.

Contro la riduzione dei rapporti appassionati tra soggetti critici a liturgie e complicità neofamiliari, l’aggregarsi qualitativo di soggetti è il nemico irriducibile dell’addomesticamento.


47. C’è il punto in cui il non avere più niente da perdere muta nell’avere finalmente qualcosa di qualitativo da non perdere e a cui non si è più disposti a rinunciare: noi stessi.

Di qui comincia la possibilità dell’amore/rivoluzione.

Gioco sovversivo nel sociale. Ed è il solo obiettivo minimale a cui si può arrivare da soli. Attraverso la negazione delle complicità che testimoniano l’assenza di amore. Certo la negazione può affondare fino alle proprie radici – e forse non può evitare di farlo –, fino alla solitudine. Perché in realtà solo nella solitudine non si può essere più soli di così. Ma la solitudine nel gruppo e nella coppia è ben più angosciante.

La solitudine può insegnare ad usare le liane che permettono all’urgenza degli incontri di verificarsi ma insegna anche fino in fondo quanto sia nostra l’esigenza di una continuità non miserabile. Si tratta di non privilegiare nessuna strada e di percorrere tutte quelle che la nostra passione critica ci indica all’esplorazione.

All’amore si arriva partendo da se stessi – amore di sé – o non si arriva. Ma l’oltre presuppone l’altro/gli altri. Il gretto egoismo dell’avere più cose non ci aiuta a cogliere il senso del pensare a noi stessi, essere veramente egoisti perciò amare. Non cercando quindi di ricostruire spettacolarmente nel consumo degli altri, “i nostri grandi amori”, un’identità spezzata all’origine. Mentre si tratta di ri-nascere imparando ad arrivare agli altri nell’intersoggettività anziché come prede/predatori che possono solo bruciare l’ossigeno togliendo l’aria alle emozioni profonde. E senz’aria prima di soffocare insieme non restano che le banalità più ambigue: “Sei così importante che non può finire...”, mentre si tratterebbe di cominciare; “Tu sei la mia vita...”, mentre urgerebbe la costruzione di situazioni in cui sentirsi esistere in sé e negli altri in quanto riflesso di identità.


48. La voglia di soggetti comunisti nei rapporti intersoggettivi si appaga solo con una pratica critica conseguente. Cioè con la negazione soggettiva della forma familiare dei rapporti e la costruzione di situazioni rivoluzionarie. Su questa rotta la coppia cardine è il nucleo microsociale minimo sul quale si possa contare; dal quale partire per la moltiplicazione delle unità federate delle microcomunità rivoluzionarie. La coppia cardine è una possibilità semplice. A ciascuno scoprire le sue alternative preferibili. Nessun momento parziale può essere obbligatorio nella realizzazione del progetto totale. La radicalità delle scelte è il minimo comun denominatore che unisce le azioni differenziate dei soggetti. Si tratta di partire dalla critica pratica dell’illusione che la comunità esiste già, coscienti che la negazione di questa società antisociale è una prima affermazione della vita.

Non abbiamo da perdere nulla se non le catene emozionali che ci recludono nel regno dell’economia autonomizzata. Abbiamo da prenderci il mondo del piacere socializzato.

V. Coordinate per l’attraversamento della situazione contemporanea

“Se la logica della falsa coscienza non può conoscere se stessa in modo verace, la ricerca della verità critica sullo spettacolo deve essere anche una critica vera. Bisogna che lotti praticamente fra i nemici irriconciliabili dello spettacolo, ed ammetta di essere assente là dove essi sono assenti. Le leggi del pensiero dominante sono il punto di vista esclusivo dell’attualità, che riconosce la volontà astratta dell’efficacia immediata, quando essa si getta verso i compromessi del riformismo o dell’azione comune di rottami pseudo-rivoluzionari. In tal modo il delirio si è ricostituito nella posizione stessa che pretende di combatterlo. Al contrario, la critica che va al di là dello spettacolo deve saper attendere”.

(Debord, La società dello spettacolo)

49. Qualunque espressione di un movimento che voglia eccedere lo spettacolo contemporaneo criticandolo radicalmente, deve avere dalla sua parte la coscienza del fatto che l’individuale e il collettivo si oppongono quotidianamente nel regno del fittizio al fine di impedire al soggetto di emergere.

Si tratta di partire dall’individuo che non sopporta più di esserlo e non dall’apologia dell’individuo o dalla sua negazione. Dalla coscienza di essere radicalmente soli; di non poter essere più divisi di così.

La soggettività, oltre il superomismo di Nietzsche che finisce per confonderla troppo spesso con l’individualità, va vista appunto come superamento di quest’ultima, come espressione dell’essere sociale dell’uomo, della sua vera natura sinteticamente opposta e critica di ogni formula binaria, di ogni schematismo filosofico. Come anche opposta e critica di ogni “coincidentia oppositorum”, di ogni filosofia del sacrificio rimodernata in sociologia per mascherare l’usura dell’ideologia cristiana nelle sue forme arcaiche.

“Le nostre idee sono nella testa di tutti”. (I. S.).

Le teste di tutti noi sono coinvolte in una società spettacolare che ottunde la soggettività polarizzandola.

Allora ci attende, ma non potrà aspettare a lungo, un profondo lavoro critico di decondizionamento degli ego che riassuma in sé tutta la qualità sovversiva del movimento rivoluzionario contemporaneo. Il progetto di una socialità soggettiva non può aspettare a realizzarsi le pur imminenti rovine del vecchio mondo. Il superamento delle condizioni attuali ha da ramificare le proprie radici già nella situazione presente.


50. Contro il sindacato internazionale dei computer, che ci chiede di aspettare la prossima Seveso, di gioire per la bomba capace di uccidere gli esseri umani lasciando intatti gli oggetti, di identificarci in un progresso fondato sull’inquinamento di tutta la vita del pianeta, contro una società cibernetica che opera secondo lo schema autoritario per cui la decisione finale spetta comunque agli esperti, contro questo zombi socio-tecnologico, la soggettività di ciascuno può cominciare a cercare negli altri soggetti il proprio riflesso di identità, associandosi nella negazione della delirante proposta di autodistruzione della specie implicita in questo progresso.

L’istinto di morte che regna sulla democrazia totalitaria, come sulle sue varianti pseudo-comuniste, diffonde il fascismo caratteriale dilagato fino alla realizzazione di intere metropoli-lager, di immensi ghetti urbani nei cui tuguri forniti di televisione si diffonde la vecchia menzogna: il lavoro rende liberi.


51. La prima denuncia dell’assurda alienazione connessa alla generalizzazione del lavoro salariato ha imposto per un intero ciclo di lotte la necessità, da parte del movimento rivoluzionario, di una negazione del lavoro espressasi purtroppo nei limiti dell’estremismo. La soggettività in fieri degli anni Sessanta ha potuto riconoscersi nel disprezzo profondo per il lavoro, finendo però spesso nella sterile apologia del non lavoro. Oltre questa alternativa binaria, la negazione radicale di ogni attività costituitasi per e nella riproduzione di questa società ha da realizzarsi in un rovesciamento di prospettiva che cominci a creare le condizioni per l’attività sociale liberata.

Il sabotaggio sistematico di ogni attività che si proponga la riproduzione di questo sistema sociale alienato trova il suo senso rivoluzionario in una soggettività che si ricerchi contemporaneamente anche in quanto aggregazione attiva di negazione e superamento. Anche su questo piano c’è una profonda necessità di oltrepassare la logica binaria e l’ideologia che essa secerne.

Ognuno ha da cominciare a costruire la sua cattedrale ridicolizzando gli architetti capaci solo di immaginare chiese e cimiteri.

Sociologi e psicologi a la page, abituati a formulare ipotesi ardite su ogni tematica fittizia, evitano di indicare nel rifiuto del lavoro e in una traduzione nella ricerca e nella socializzazione di modi di sopravvivenza negatori del processo di valorizzazione, il centro di una attività rivoluzionaria soggettiva.

La coscienza che il nostro lavoro non ci appartiene ha le sue radici a monte dell’espropriazione materiale del tempo di lavoro. Non si tratta dunque di liberare il lavoro né di liberarsi astrattamente dal lavoro, bensì di emanciparsi da entrambe queste parzialità riappropriandosi totalmente della propria attività vitale.


52. “L’amore, il lavoro e la conoscenza sono le fonti della nostra vita. Dovrebbero anche governarla”. (W. Reich).

In una società umana non sarebbe il caso di commentare un’affermazione di così limpida chiarezza.

La mostruosità dell’apparato che ci separa dalla comunità, si misura anche dal fatto che ci costringe a ulteriori precisazioni, a distinguo antiideologici.

Tutta la conoscenza funzionale della vita sta combattendo una battaglia organica per la vita stessa che cerca di conoscere. Il lavoro è alienato, la conoscenza è alienata, l’amore è alienato. Contro la totalità dell’alienazione l’associarsi di soggetti radicali ha come progetto il realizzarsi del progetto della libera circolazione del piacere. Per far diventare finalmente possibile l’autogestione generalizzata di soggetti aggregati nell’amore, nel lavoro, nella conoscenza.

Senza il rovesciamento di prospettiva, che solo il salire della pressione soggettiva sul reale può affermare, il contributo alla crescita degli esseri umani da parte di soggettività emergenti nel qualitativo della critica rischia di rimanere un fenomeno emarginato e ghettizzato quando non se ne prospetti la possibilità di un recupero spettacolare e ideologico da parte del potere.


53. La critica di questa società antisociale è già nelle teste di tutti. La soggettività di ciascuno, il cominciare a riconoscersi oltre la propria individualità separata è il passo che ci immette nel progetto rivoluzionario che deve riportare l’uomo nel proprio corpo per reinventarlo libero.

La verità è l’esserci della vita oltre la sopravvivenza anche se ci è ancora difficile saper bene che cosa la vita sia oltre la critica della vita quotidiana in cui siamo imprigionati.

Ogni discorso definitivo sulla verità è un bluff che pretende di s-piegarla ai suoi voleri di tiranno. La rappresentazione in cui si finge di voler scoprire la vita mentre se ne fa l’autopsia.

La conoscenza razionale dominante – apollineo sclerotizzato – è conoscenza di cadaveri. Conoscenza di laboratorio.

Filosofia mortuaria di belle statuine senza soffio vitale. La stessa figura dell’osservatore neutro denuncia la pretesa di non soggettività dello “scienziato”. Si rende necessario spezzare il circolo vizioso che irrigidisce ogni intuizione in un prodotto surgelato sopravvissuto alla sua morte nel frigorifero-obitorio della razionalità automatizzata.

C’è da riflettere caldamente sul fatto che l’aggettivo “freddo” si accompagni alla razionalità nello stesso modo in cui l’irruzione delle emozioni nella coscienza venga identificata ed esorcizzata nelle fiamme della follia. C’è un aut aut inaccettabile nello spettacolo sociale tra: razionalità, rappresentazione, compromesso, principio di realtà / energia vitale, corporeità effettiva, totalità, principio di piacere.

Una spontaneità autocosciente, in quanto fluire dell’energia non più impedita nella sua continuità di flusso ha da spezzare il ricatto espresso da questa scelta obbligata.


54. Nel procedere dell’esplorazione diventa urgente liberare la soggettività di tutte le cadute ideologiche della teoria rivoluzionaria. E in primo luogo, proprio per rispettarne e coglierne fino in fondo la portata rivoluzionaria, è necessario compiere definitivamente un’opera di distanziamento critico dalla teoria del proletariato ottocentesco che è anche la sua unica possibile rivalutazione. Il proletariato come soggetto si è frantumato in troppi fuochi fatui e in troppe manipolazioni. È stato la vittima di troppa buro-demo-stalinocrazia. La sconfitta del movimento operaio si pone come il presupposto della coscienza rivoluzionaria contemporanea.

La forma attuale del dominio capitalistico si è stabilizzata al di sopra delle classi sociali classiche che pure sopravvivono nei loro caratteri secondari. Cosicché il capitale è cointeressato alla gestione dell’ideologia operaista, illusione con cui si condiscono le miserie del ruolo operaio una volta sconfitto il movimento operaio classico.

Mentre una gran parte dei lavoratori, abbrutiti nel loro ruolo, intossicati nel corpo e nella mente dalle scorie ideologiche del capitale che gli vengono vendute come lusso conquistato, difendono, con i loro sacrifici e la loro produttività beatificata dai partiti dei lavoratori, la continuità del sistema sociale che si realizza sul loro addomesticamento, è nella struttura familiare dei rapporti interpersonali generalizzata a tutti i livelli del sociale che si forgiano gli uomini massa del capitale. Casa e lavoro. La famiglia cibernetica ha assunto fino in fondo il ruolo di centro di alienazione sociale in cui il ricatto dell’affetto cristallizzato inchioda alle carenze affettive necessarie al capitale per riprodursi negli uomini. L’ideologia della “Grande famiglia” unisce le industrie ai rapporti diretti tra le persone, gestiti con gli stessi criteri valorizzativi.

L’uomo riproduttore di capitale è imbrigliato in una ragnatela sociale in cui gli stessi rapporti tra genitori e figli si sono ridotti a rapporti produttivi allargati, a scambio di equivalenti miserie, dove l’essere insieme scandisce il tempo ciclotimico in cui i soggetti espropriati di ogni tempo creativo – il solo tempo libero – alternano il tempo pieno della produzione al tempo vuoto degli hobby e della comunicazione spettacolare.

Mentre lo Stato – totalitario per sua intrinseca natura – si ecumenizza nel totem democratico e la proprietà privata si dissolve realizzandosi nella privatizzazione generalizzata e nell’assenza di soggettività, la famiglia, femministizzata e hippizzata, si irrobustisce come scheletro a cui si attacca la poca carne necessaria al fantasma capitale per crescere su se stesso. Tutti i rapporti sociali capitalistici sono rapporti neofamiliari. La crescita cancerosa del tessuto familiare e delle sue complicità ha fatto perdere definitivamente alla famiglia patriarcale le sue antiche corporeità che ne facevano l’ambiguo luogo di incontro della repressione e dello sfruttamento bieco della donna almeno con l’abbozzo di una prima comunità umana in fieri, ha soffocato gli slanci comunitari circolanti nella tribù ed ha generalizzato cinicamente la solitudine di ciascuno nell’obbligo di essere sempre insieme nel fittizio.

Il soggetto rivoluzionario che si va costruendo nell’emergere prepotente – contro le ambigue manovre del suo recupero (tutte le forme di pseudo-autonomia) – di un ego socializzato e socializzante, non può porsi se non a partire dalla critica totale del sociale capitalistico che l’ha mutilato nei diversi ruoli perdenti.

I lavoratori potranno insorgere uscendo contemporaneamente in maniera rivoluzionaria dallo schematismo classista che non aiuta più a capire appieno le condizioni presenti, ma ben attenti a non regredire ad una visione pre-classista antistorica con il ridicolo rischio di restituire ai resti putrescenti delle vecchie classi dominanti uno spazio e una agibilità storicamente chiusi.

L’uomo, impedito nella vecchia categoria del “borghese”, non si emancipa nella categoria del “proletario” ma nel cogliersi come soggetto sociale nel rifiuto di ogni categoria.

Il proletariato come soggetto comincia ad affermarsi negandosi nel suo ruolo di riproduttore di questa società.

Lo sfruttamento operaio esiste perché continua ad esistere il sistema produttivo che su di esso è fondato. Tutto è ancora vero, ma in un senso organicamente diverso dal passato. È questa differenza la connotazione specifica della contemporaneità. La società senza classi diventa possibile a partire dalla negazione radicale di una società antisociale che ha materializzato il suo dominio oltre le classi.

È il porsi definitivamente della questione sociale oltre le angustie della politica.

Molto resta da fare, ma niente potrà essere fatto che non parta da noi, per noi stessi. Per la fine dell’era cristiana. Per la morte dei tempi morti che ci separano dalla vita.


55. Nei primi movimenti delle donne e di quegli uomini che rivendicano se stessi oltre ogni possibile sindacalismo cresce il filo rosso di una rivoluzione sociale che il giacobinismo di due secoli ha impedito nei suoi movimenti riducendoli al politico.

La continuità sotterranea di tutte le rivolte storiche contro il potere nelle sue diverse forme e aggregazioni, dalle jacquerie ai movimenti ereticali, dalle rivolte degli schiavi alle rivolte nei ghetti urbani contemporanei, è stata attraversata e confusa dal peso della vittoria politica della borghesia. Tutto il periodo contrassegnato dal crescere dei moti politici, cioè fino dalla rivoluzione francese stessa, è stato segnato dalla riduzione progressiva al politico dell’esigenza grandiosa della rivoluzione sociale. È il prezzo altissimo pagato anche dai rivoluzionari di ottobre costretti a combattere su due fronti contemporaneamente come nel caso di Machno. La sconfitta stessa del movimento operaio rivoluzionario ha avuto tra le sue cause la perdita di quei nessi con la terra che facevano della rivoluzione comunista la rivoluzione totale della specie ben oltre l’industrialismo, nel senso di una integrale e organica appropriazione della natura.

Oggi il movimento comunista ha da tornare a rivendicare il mondo contrapponendosi alla proposta cibernetica democratizzata del mostro in progresso.

In questo senso si pone come centrale il ritrovare un profondo rapporto con la terra intesa nel suo senso più ampio, come ambiente naturale della specie, come insieme delle condizioni nelle quali la comunità umana possa finalmente realizzarsi. Non si tratta certamente di tornare alle fatiche e alla schiavitù del tempo ciclico contadino.

Non sarebbe né auspicabile né possibile.

Si tratta di ritrovare tutte quelle potenzialità che l’addomesticamento ha ottuso: i nostri sensi, il linguaggio complessivo della vita che il progresso alienato ha progressivamente inaridito. Si tratta da quelle condizioni di riprendere la qualità in esse racchiusa. Si tratta di realizzare il regno dell’uomo sulla natura anziché l’assassinio della natura, e quindi anche il proprio suicidio, da parte dell’umanità alienata.

La transizione tra l’assenza odierna di comunità e la comunità piena della specie umana sarà colmata o dall’apocalisse biologica o dalla vittoria della rivoluzione realizzata dalla riuscita dei tentativi di aggregazione di soggetti umani sottrattisi criticamente al gioco ipnotico dell’autodistruzione.

Nuovi villaggi sorgeranno come agli albori di una nuova civiltà, mentre si diffonde già la decomposizione dell’urbanistica del capitale.

Ogni utensile strappato al suo uso alienato, ogni costruzione inventata dagli uomini per gli uomini, restituirà senso alle cose se manovrata da soggetti vivi.

Nei nuovi villaggi (e per villaggio si intenda qui ogni possibile forma di aggregazione realizzata sulla base del rovesciamento di prospettiva), dove le attività delle città e della campagna, selezionate accuratamente con l’esclusione di tutte quelle nate per il processo di valorizzazione capitalistico, si mescoleranno continuamente oltre ogni separazione, si incomincerà a concretizzare la forma molteplice della comunità a venire.

La comunità non c’è ancora ma ne è presente in eccesso il bisogno spinto dalla sua stessa assenza. E il bisogno spinge all’azione non appena si fa cosciente.

Ogni villaggio, mobile o parzialmente stanziale, sarà comunque diverso, come diverse sono le peripezie critiche e le creatività dei soggetti che lo possono realizzare.

Vecchi paesi abbandonati, quartieri occupati, agglomerati mobili, tende o case in legno, carovane, tutti gli oggetti restituiti ai soggetti, potranno contribuire al ribaltamento di prospettiva in atto.

Contro questo progetto, totale in quanto spinto dall’accentuarsi del processo di proletarizzazione generalizzato, la cui autocoscienza soggettiva è la differenza qualitativa nei confronti di ogni ideologia controculturale o alternativa, si alza la muraglia cinese della burocrazia cibernetica e dei suoi eserciti armati di mitra, di computer e di carte bollate.

Tutto il periodo di transizione sarà segnato inevitabilmente dalla precarietà delle realizzazioni soggettive e dalla lotta per la loro difesa e rafforzamento.

Dalla necessità del porsi del sociale come continua lotta per una comunità che si muoverà trasformandosi e rinascendo oltre e altrove ogni momento.

La forza bruta del capitale – la sua energia nucleare – ha contro soltanto e niente meno che l’energia vitale di cui l’uomo è un detentore soggettivo nel cosmo.

La radicalità della critica pratica totale del quotidiano potrà funzionare da uppercut che sgretolerà tutti gli spigoli polizieschi dell’alienazione.

Che i soggetti si associno, che si prepari il corpo e la mente per il grande viaggio.

L’avventura è assicurata oltre lo spettacolo.


56. La questione sociale viene a giocarsi come guerriglia costruttiva di una società che il capitale totale nega. E lo scontro ha un suo primo momento decisivo nella lotta contro l’invasione nucleare con cui il capitale si appresta a concludere tragicamente l’addomesticamento. Se il progetto nucleare nel suo complesso sarà vincente non sarà possibile evitare il più cupo pessimismo.

Certamente tra le forme di resistenza all’inquinamento nucleare si esprimono anche tutti gli esotismi e i trasformismi del riformismo e dell’estremismo politico. Ma ciò non toglie che il rifiuto deciso dall’escalation nucleare sia un primo punto fermo per la rivoluzione sociale.

Una volta passato il progetto nucleare la stessa ipotesi di un mutamento di rotta, del rovesciamento di prospettiva, si troverà a dipendere dagli sciamani della casta cibernetica, detentori del meccanismo di innesco e disinnesco delle centrali nucleari.


57. Che l’uomo del risentimento stia ben attento a non esorcizzare come pacifismo la critica della violenza di cui ci stiamo facendo i soggetti. Che sputi sugli umori maligni e acidi di impotenza orgastica che la “psicopatologia del non vissuto quotidiano” fa crescere nei corpi capitalizzati.

Essere critici contro tutte le forme di questa violenza addomesticata, ghettizzata, politicizzata, urge come necessità di una violenza biologica che il corpo della specie in rivolta sente salire quotidianamente come sua risposta specifica all’umiliazione cancerogena a cui è sottomesso.

La violenza che ci riguarda è tutta quella che esprime la voglia di superamento della situazione attuale e non quella che si attua come sterile vendetta, è la violenza che l’intelligenza fa all’ottusità, mostrandole le sue mostruose radici.

Oltre le nebbie nichiliste complici involontarie del capitale, l’alternativa resta tra terrorismo o rivoluzione sociale.

Nessuno vuole dimenticare ciò che ha sofferto, gli oltraggi subiti. Non ci si propone di sorridere ai carnefici ma di smettere di partecipare all’inutile massacro. Si tratta di difendere con le unghie, con i denti, con qualunque arma, il movimento in crescita della soggettività comunista. Si tratta di chiudere con il livore nichilista che non riesce a fare i conti se non con la morte.

Noi dobbiamo assalire la preistoria alle sue radici, anziché tagliare spettacolarmente, con gesta da conquistatori, i fiori avvizziti che essa fa crescere nei nostri ghetti.

Ma sia chiaro a tutti che a questa sfida non ci si potrà sottrarre con nessuna metafisica, se non dopo aver accettato e interiorizzato la sconfitta della rivoluzione.


58. Se questa sia un’epoca che finisce o che inizia sarà essenzialmente la pratica degli esseri umani a stabilirlo; l’affrontarsi o no della questione sociale che urge se pure strozzata dai nodi scorsoi dell’alienazione politica.

È certo comunque che il cogliersi oltre lo spettacolo non è potuto avvenire finora se non in maniera transitoria, discontinua. La nostra realtà è la contraddizione e in essa soltanto è già possibile cogliersi nella tensione che spinge oltre di essa.

Per questo conviene guardare con tutta la diffidenza critica di cui siamo capaci a coloro che teorizzano la critica fuori dalla contraddizione anziché raccontarci le loro peripezie qualitative nella tensione dialettica ai limiti della stessa contraddizione. Chiunque, in qualche modo, si ponga come sciamano dispensiere di verità preziose al “volgo malato e miserabile”, tradisce la fuga da se stesso nella proiezione sugli altri delle proprie miserie. Non meno di chi si batte cristianamente il petto vomitando nauseanti apologie del progresso di questo presente.

I nostri gesti mancati, i nostri progetti frustrati e le nostre analisi stentate hanno da ritrovare l’avidità qualitativa con la quale esprimere senza limiti né false modestie la fame di senso e di critica che scava i nostri corpi.

Il movimento di rifiuto dell’esistente si pone come rivoluzionario solo facendo piazza pulita dei suoi preti che pretendono di inventare un nuovo potere collettivo nella prospettiva mafiosa di poterlo gestire come avanguardia.


59. Emerge nella soggettività generalizzata e socializzata il corpo rivoluzionario della questione sociale: il proletariato come soggetto.

Oltre l’ambiguità di un termine “proletariato”, storicamente legato alla sconfitta storica del movimento operaio rivoluzionario. Ambiguità comunque necessaria a porre sul terreno della critica sia l’esigenza di non sfuggire la propria storia sia quella di non riprodurre fantasmi, ma di uscire dai propri incubi per dare finalmente un corpo cosciente ai propri sogni.

Quando potremo finalmente sentire come superata dall’esprimersi di una soggettività radicalmente eccessiva, l’affermazione di Marx che “il mondo possiede da tempo il sogno di una cosa di cui deve soltanto possedere la coscienza per possederla realmente”?

Solo una risposta appassionata potrà essere esauriente.

Si tratta di approfondire i colori e i sapori della propria esigenza partecipando all’esplorazione.

E qui si pone il problema della necessità che la pratica soggettiva riesca ad incidere sul mondo oltre il ghetto microcosmico. Ma questa preoccupazione non può essere affrontata che in sede pratica. Affrontando la contraddizione della propria soggettività in conflitto con le proprie latitanze.

Sento personalmente la priorità della critica del quotidiano contro l’affermazione del bricolage delle frustrazioni e della terapia, non come scelta individuale ma come costante connessione tra il mio desiderio personale e la necessità impellente di un rovesciamento delle condizioni sociali nelle quali ci muoviamo. E non credo affatto sia una mia preoccupazione individuale, anche se preferisco esprimerla come mia perché è proprio in me che la sento.

È su questa strada che si incontrano i primi compagni, e spesso dolorosamente si perdono, ci si perde; primi momenti intensi di vissuto che si succedono a illusioni, delusioni, mutamenti di rotta, paure. E non posso che lasciare alla fantasia di ciascuno il compito di completare una lista di possibilità da cui niente può essere escluso per chiunque abbia percorso anche minimamente i territori inesplorati oltre lo spettacolo contemporaneo.

Fino all’altro ieri i filosofi avevano interpretato il mondo, ieri hanno cercato di cambiarlo senza riuscirci, oggi la coscienza di questo fallimento può portare alla disperazione ma anche alla voglia di capire che cosa ha impedito al sogno di diventare coscienza e realtà.

E questa riflessione non porta più alla filosofia in quanto separazione intellettuale, ma spinge criticamente in mezzo alla gente, nel mondo, perché il nel confronto tra ogni soggetto e il mondo, si intravedono i primi segni tangibili della comunità umana.

Una comunità che presupponendo i soggetti pone come prioritaria attività rivoluzionaria dell’epoca il costruirsi nella critica pratica in quanto soggetti rivoluzionari.

Cioè i soggetti di una critica sociale radicale della società dello spettacolo.

Appendice. Sulla nuova miseria della filosofia

Mentre questo pamphlet era già finito da un pezzo, in attesa di trovare la via della stampa oltre le censure dell’editoria scolastica, sono emerse tendenze ideologiche che ho preferito distanziare immediatamente con un minimo di puntualità.

Mi riferisco in generale alla tendenza della negazione nichilista della soggettività e in particolare alla tendenza pubblicitaria dei cosiddetti nuovi filosofi.

Mi limiterò a denunciare le tesi ideologiche dell’antisoggettivismo, ben cosciente della necessità di lavorare al chiarimento del concetto di carattere sociale e insieme a quello di natura. [Cfr. l’attività di J.-P. Voyer a partire da Reich modo d’uso]. L’antisoggettivismo fonda le sue affermazioni su una amnesia, un blocco. E il blocco favorisce la menzogna che inchioda la soggettività ad una fierezza retorica: Sancho Panza ha inventato il suo Don Chisciotte; e il gioco è fatto: di mulini a vento è pieno il regno di ideologia.

L’antisoggettivismo è ormai passato dai fogli specializzati della psicosociologia nichilista marginale a quelli del salotto apocalittico della terza pagina del “Corriere della Sera”. Qui lividi figuri deridono beatamente questi “nuovi soggetti fieri di essere nuovi e di essere soggetti” i quali avrebbero trovato in Foucault, il Foucault letto da questi ottusi specialisti del risentimento da salotto, chi li fa definitivamente scomparire rossi di vergogna per aver osato tanto.

Chi esprime l’esigenza teorica e la lotta pratica della soggettività (nel senso descritto lungo tutto l’arco del lavoro che precede queste note) può esser fiero soltanto di cominciare a non vergognarsi più di niente, di non accettare più, almeno a livello cosciente, nessuna delega su se stesso. Oltre questo non c’è né motivo né esigenza di nessuna fierezza. Anzi in un contesto sociale antiorgastico la sofferenza condisce la peripezia del piacere soggettivo più di qualunque altra; la contraddizione è l’ambito nel quale ricercandosi ci si ritrova spesso soltanto al negativo.

I soggetti non sono nuovi se non nella coscienza di sé spinta proprio dalla loro reclusione in una società antisociale.

L’ideologia antisoggettiva poggia le sue basi di fragile modernismo sulla distorsione della critica dell’umanesimo. La necessità di criticare radicalmente l’umanesimo in quanto legato alla nozione di sacrificio, prende facilmente la mano al nichilista che non vede più l’umano, non vede più la natura. Umanista fino all’estremo, il nichilista identifica l’umanesimo – negazione derisoria dell’umano – con l’umano. Per lui negare l’uno significa immediatamente negare l’altro. Più in generale per la falsa coscienza del nichilista gli animali, le piante, le relazioni tra gli esseri viventi – in una parola la vita biologica – sono diventati l’elemento inquinante del grande meccanismo – Dio.

Egli si propone con un leggero anticipo sui tempi reali il progetto stesso del capitale. È il suo utopista “radicale”. Ha accettato fino in fondo il ricatto della logica binaria e di fronte al dato inoppugnabile che la soggettività non è mai emersa in forma liberata ne trae la certezza intellettuale della sua inconsistenza, del suo essere mera idea. Ma per arrivare a questo bisogna aver ben a fondo dimenticato se stessi, essere arrivati a vergognarsi del proprio essere fino ad identificarlo con il mostro, con il nemico e quindi negarlo in maniera suicida.

È il pessimismo la nozione attorno alla quale il capitale recupera alla morale i suoi critici titubanti, non meno di quanto l’ottimismo funziona da base apologetica della società attuale.

Il nemico è in noi e noi siamo nel nemico. Oltre ogni pessimismo o ottimismo, fierezza o vergogna. La scelta di una qualunque parte dell’io diviso fa comunque il gioco della schizofrenia dominante.

Contro ogni umanesimo e ogni antiumanesimo i soggetti concreti hanno da rivendicare il diritto di superare le proprie parzialità attraversando la propria contraddizione. L’umano che ci interessa, ciò di cui essere umanisti è la materializzazione dei nostri sogni.

Non ho intenzione di descrivere il soggetto liberato che non ho ancora conosciuto, mi interessa vivere la tensione alla libertà che già abita e incita a muoversi il soggetto negato. Umano è quanto urge irrealizzato negli esseri umani; in ultima istanza è umana la soddisfazione del bisogno, la realizzazione del desiderio nel piacere dentro e oltre il bisogno soddisfatto.

A far quadrato contro questa dinamica naturale sta l’ideologia materializzata di un’intera civiltà, un coro livido di nichilisti, di Hitler, di Stalin, di Mocenigo in ognuno di noi, dei nostri corpi corazzati e pronti a gustare il prossimo sterminio da realizzare in nome del progresso e, seconda fase della stessa operazione, su cui piangere poi lacrime di coccodrillo.

Non intendo prefigurare il soggetto. Lo sento pulsare in me, discontinuo, pauperizzato, sconfitto, imprigionato ma essenzialmente vivo, emergente in una carezza, un urlo, un gesto di rifiuto, un momento di coscienza; oscillante tra la sofferenza e gli attimi di piacere che già si materializzano nella critica pratica. Perciò scommetto sulla reciprocità, sul desiderio in cerca di risonanza, sulla lotta dei soggetti contro tutto questo stato di cose, sul fatto che sotto l’individualità di ciascuno si muove il soggetto: l’essere sociale dell’uomo. Scommetto sul fatto che i Gulag-Lager-Città-Fabbrica si fanno per rinchiudervi qualcosa; scommetto sul quid-soggettività. Senza alcuna certezza di vittoria, finché resterà la voglia di giocare.

Ma qualcosa voglio aggiungere a proposito di coloro che, tardivamente pentiti di aver perduto i loro vent’anni pregando Mao, sperano di ritrovarli facendo nuova la vecchia filosofia. E in realtà rinnovandone la miseria.

La “nuova filosofia” sceglie beatamente il polo del negativo all’interno della logica binaria: “Un moralista? Perché no? In questo libro ho tentato soltanto di pensare fino in fondo il pessimismo in Storia”. (Levy, La barbarie dal volto umano).

Il potere è l’indefinibile, il noumeno inafferrabile, ciò di cui non si sa nulla. Ora la volontà di mettere in crisi le coordinate sclerotizzate della comprensione del potere sarebbe altamente apprezzabile se non fosse che l’intento socratico trova subito i suoi “platoni” pronti al recupero: “Questo saggio mira proprio a porre le basi di una nuova teoria del Potere...”. (Ib.).

Nel fare del potere un’immagine irreale e una totalità inaggirabile occorre contemporaneamente porsi di fronte al problema del suo prodursi nel processo reale: è necessario scoprire la psicobiologia del potere se non se ne vuole rifare una metafisica.

Levy non si accorge (o non vuole) del fatto che gli sfugge una definizione caratteriale del potere subito dopo essersi impegnato ad esorcizzare in due parole ogni pregnanza di quel discorso sul carattere sociale che trova in Reich la prima riflessione profonda.

“È bastato mettere Reich all’ascolto della libido materialistica... – dice Levy – per inventare l’ideologia del desiderio”.

Reich è il trucco su cui poggia l’ideologia del desiderio. E con questo tutta l’appassionata attività critica di Reich viene archiviata. Ma ecco che dopo poche righe il nuovo filosofo ci “spiega” che “...occorre descriverlo [il potere] come un riflusso, un tanfo di corpo malato, sporco fin dall’origine e spontaneamente terrorizzato”. (Ib.). Prescindendo dal discutibile “spontaneamente”, di questo terrore colto all’origine – del processo di civilizzazione / addomesticamento, aggiungo io – non una parola; esso è dato cinicamente a priori. Ed è invece proprio di questo terrore che si deve indagare, ciò di cui abbiamo urgenza di far luce. Ma su questo punto la nuova filosofia è più vecchia che mai, corazzata, repressa e repressiva.

Ecco coerentemente la parola d’ordine di Levy per una generazione pietrificata: “Torcere il collo all’ottimismo e alla sua ilare ragione, corazzarsi di pessimismo e stordirsi di disperazione”.

Egli ci propone ciò di cui già siamo vittime, per quanto si voglia partecipi: ci propone di autoriprodurre il meccanismo che ci ha pietrificato nelle nostre corazze caratteriali.

Come non andare a questo punto al concetto di peste emozionale?

A costo di passare per un “reichiano” e come tale venir esorcizzato, io denuncio l’azione mafiosa ordita nei millenni concretamente dal potere – con l’appoggio fattivo di tutti i suoi miserabili sgherri massacratori e ideologi – di rimozione di tutto ciò che era ed è sua critica radicale.

Da Socrate a Giordano Bruno, da Marx a Reich, fino ad oggi si è continuato a mistificare e recuperare della critica sociale tutto quanto non eccedeva le barriere dell’individualità o l’astrazione dell’idea; è stato ucciso o dimenticato quanto si poneva come critica sociale dell’autorità, come soggettività radicale. Sono sempre i peggiori ad appropriarsi dei fatti qualitativi: basti pensare alla Comune di Parigi come simbolo di tutto il filo rosso della rivoluzione sociale, recuperata alle angustie miserabili della politica.

I nomi di tutti gli uomini potrebbero figurare qui in un elenco degli espropriati perché è la parte di soggettività che è in ognuno che la cultura dominante sempre poliziescamente combatte: la critica eccessiva.

Socrate è stato ucciso, questa è l’essenza del suo messaggio filosofico; a Giordano Bruno è stata strappata la lingua, è stato bruciato sul rogo, poi gli si è fatta una bella statua; Reich è ancora oggi guardato come un povero pazzo da tutti i poliziotti sociologi e riduttori psicanalitici della sua intuizione cosmica.

È una della menzogne più grossolane di tutta la storia della cosiddetta cultura. Eppure circola massiccia se si escludono rarissime voci di dissenso non ascoltate. Reich è morto in un normalissimo carcere della democratica americana.

Marx ha vissuto fuggendo di nazione in nazione per buona parte della sua vita. Ma ora Glucksman, dal microfono messogli a disposizione dalla democrazia cibernetica ci dice che è stato solo un padrone del pensiero. Un filosofo borghese. E tanto ci basti.

È un’operazione balorda e riduttiva che mistifica ancor più anziché demistificare: dal vangelo marxista nascono per antitesi le tesi dei nuovi Lutero; si inizia l’epoca della riforma marxista assolutamente dimentica di cui lo stesso Marx aveva intuito la necessaria autocritica di affermare: “Io non sono marxista”.

E poi di Marx – come di chiunque – ci interessa la radicalità che eccedeva le sue corazze, i suoi errori, le sue miserie. Ci interessa il suo patrimonio soggettivo di critica e pratica della teoria. Una radicalità vissuta che ha contribuito a metterlo al bando della “società civile”.

Ora la sua enorme mole di lavoro è la base su cui opera e si valorizza l’industria culturale: Il capitale è il capitale.

Oltre questa puntualizzazione l’esigenza di uccidere un morto non poteva venire se non da chi per anni ne ha adorato il cadavere ideologico.

E una operazione analoga si va facendo con Nietzsche, il pazzo, il sifilitico, il nazista e poi, svelato il complotto, il poeta, il lungimirante, la vittima. Ma vittima di chi? E quante volte ancora?

Stalinismo e Destalinizzazione, Mao e la banda dei quattro, Nixon e Kennedy, fascismo e antifascismo, Torino e Juventus, Stato e BR.

Tutti i “sistemi civili” – cioè tutte le strutture del potere – si drappeggiano nella loro parata quotidiana in una bandiera per il bene e in una parte per il male.

Ben venga la lotta armata dei gruppi clandestini che permette di identificare un diavolo contro il quale stringersi a coorte.

Contro il quale rinfocolare il senso di decomposizione della nazione, della società! Questi nemici arcaici dello Stato sono i soli che tornano a dargli un senso, a rigenerare un’ideologia positiva dello Stato proprio quando il senso di disgusto e di noia per il non vissuto cominciavano a preparare il terreno per ben altri eccessi qualitativi. Invece si torna a vedere un diavolo che ormai sembrava abitare soltanto gli incubi di Paolo VI.

Ma che identikit avrà fatto del diavolo il buon vecchietto del Vaticano? Pio XII o Giovanni XXIII?

E a chi avrà pensato Glucksman costruendo il suo padrone-nemico, la sua banda dei quattro? A Fichte, Hegel, Marx e Nietzsche o piuttosto alla Cina?

“La storia non esiste”, dice Levy, nuovo profeta dell’apocalisse, inchiodandoci implicitamente alla preistoria.

Poi precisa: “Non esiste come progetto e luogo di rivoluzione”.

Il che è del tutto negato dal fatto inoppugnabile che il Progetto utopico ha costantemente premuto e fasciato la preistoria, condizionandola in tutto il suo divenire. Ma evidentemente il non-luogo del progetto rivoluzionario, sempre concretamente presente, non è abbastanza materiale per essere visibile al nuovo filosofo antimaterialista.

Condivido la tesi che la “storia del capitale è né più né meno lo spiegarsi dell’Occidente come mondo e come storia”, ma è proprio l’origine di questa dinamica ideologica che va affrontata rifiutando di partecipare agli esorcismi mistici con cui gli sciamani del capitale ce lo presentano come magia inspiegabile.

Levy appiattisce il corpo stesso del desiderio riducendolo ad un suo ritorno come ideologia del represso. Elimina cioè la dinamica reale del fenomeno riducendolo ad uno schema devitalizzato: desiderio = ideologia del desiderio = ideologia.

Che equivale a dire che la repressione non esiste.

Ma se la repressione non esiste, se siamo felici e soddisfatti, qual è la causa della tragedia contemporanea?

“La tecnica, il desiderio e il socialismo: ecco le tre figure matrici della tragedia contemporanea”.

È un circolo vizioso, ben più sicuro delle mura di un castello, quello in cui è rifugiato il Principe.

Il totalitarismo è uno stato del politico in cui per la prima volta il Principe si prende per sovrano”.

Levy trascura il processo di materializzazione dell’ideologia, ignora l’intuizione incarcerata nelle sue affermazioni: per la prima volta l’ideologia si fa carne. Ma non si preoccupa il nostro filosofo di capire il come e il perché.

Come e perché “il totalitarismo comincia precisamente quanto si concretizza la tradizione suprema, quando si incarna una legittimità che restava fino al quel momento innominabile?”.

La storia della soggettività negata e la scoperta dei modi usati dal potere in questa negazione rimandano alla stessa struttura, al carattere del potere. È nato prima il potere o l’impotenza? O si tratta di un parto gemellare che la potenza ingorgata ha partorito? L’ingorgo dei sogni dei soggetti, l’accumularsi di frustrazioni, di non vissuto regolato lungo tutto il processo di civilizzazione dal funzionamento del Super Ego ha trovato nel nazismo una valvola ideologica per l’esplorazione del suo spaventoso accumulo di repressione. Non la prima né l’ultima. Lo stesso dicasi per lo stalinismo e per tutte le varianti storiche della peste emozionale [sul concetto di “peste emozionale” cfr. i lavori di W. Reich.]: ecco allora la forma mistica dell’ideologia nazista, le adunate oceaniche dove il liquido amniotico si trasforma in sangue, ma anche la mistica accettazione della condanna ai processi dell’era stalinista. Mistica naturalmente garantita dall’uso di ogni tecnica di tortura.

Ecco la particolare violenza antisemita dei Tedeschi se paragonata a quella ben meno convinta degli Italiani; diversità sì motivata da un diverso rapporto con lo Stato, ma questo a sua volta da una diversa struttura del superego del carattere, dalla formazione di una differente concentrazione di repressione emozionale nel carattere sociale dei due popoli. Ecco la robotizzazione dei gesti, il rituale corazzato della liturgia fascista, così spesso riprodotto identico dai servizi d’ordine dei gruppi “rivoluzionari”.

E allora ci si rifugia nella democrazia, questo mostro che imprigiona i profughi da tutte le dittature nella sua gelida logica di mercato, nella sua dittatura della quantità. E ci si stupisce ottusamente dei “Berufsverbote”, delle leggi speciali di polizia, dimostrando fino in fondo che non si riesce a far altro che accettare e dimenticare, drogati di ideologia.

Dimenticare da sempre che l’esplosione della violenza è prodotto ed espressione di corazze e contemporaneamente la rottura incontrollata di una diga che è stata imposta contro natura; esattamente l’opposto del fluire naturale dell’energia vitale e sociale.

C’è nella violenza la profonda quanto involontaria denuncia di questo ingorgo. È l’esplosione di un eccesso di energia accumulata: del cancro sociale di cui questa società è malata non si possono accusare i sintomi espliciti ed estremi di questo male.

Essi sono il segno visibile del male nascosto e perpetrato proprio da tutti quei mostri che realizzano le condizioni per l’esplosione di quella sintomatologia che tanto accanitamente quanto ipocritamente combattono.

Nella guerra in vitro che caratterizza oggi lo spettacolo a cui tutti siamo chiamati a partecipare c’è una strana simpatia inconscia ma ben visibile tra i tecnocrati della sovversione e i tecnocrati dello statu quo: lo scontro è sempre ammirevolmente giocato tra veri uomini, seri, votati alla causa, uomini (e poche donne) di carattere.

Nel dominio reale del capitale l’ideologia lavora per la definitiva negazione di ogni rapporto naturale. Si tratta di puntualizzare che la natura non è un dato ontologico fissato; essa si trasforma ed è trasformata, è l’insieme degli elementi cosmici, la materialità del reale. Non è ciò che precede la civilizzazione ma piuttosto ciò che la civilizzazione trasforma continuamente.

La civilizzazione è nel contempo un processo che si innesca in qualche momento nella natura; è la dinamica della natura presa in mano dall’uomo. Naturale è la dinamica della funzione biologica vitale contro natura l’ingorgo.

Mi colpisce e mi fa riflettere l’omologia tra il mito cristiano del peccato originale, dell’uscita dal paradiso terrestre e la nascita del processo di civilizzazione. L’uomo mangia dei frutti dell’albero della conoscenza, vuole diventare Dio, possedere la natura, cioè il paradiso terrestre, ma in questo tentativo viene espulso dal padrone del paradiso. Prima del peccato l’uomo è parte incosciente del paradiso, dopo il suo tentativo soggettivo, il peccato, egli viene condannato al lavoro. Il che significa che la coscienza si produce nel regno della mancanza e che il regno del piacere è soggettivamente impedito all’essere umano.

È la prima scelta obbligata: sottomessi a Dio, cioè oggetti, o soggetti della propria sofferenza, l’obbligo del lavoro.

Nel bisogno di venir fuori da questo aut aut l’essere umano arranca diviso fin dal mito arcaico. Credo si debba cogliere i nessi che collegano il mito, antica giustificazione del potere, con l’ideologia contemporanea se si vuole tentare di risalire fino all’identità soggettiva che in entrambi è negata. Si tratta di cogliere già nel mito la presenza del desiderio concreto – non la sua ideologia – come elemento della soggettività che la religione, da buona polizia delle anime, ha trasfigurato in serpente, accusando insieme la donna di complicità nella caduta.

Ancora una volta si pone come centrale l’imperativo di uscire dall’era cristiana. E per farlo concretamente abbiamo anche da ripensare tutto il cammino che ci ha portato fin qui, sull’orlo del baratro, ma anche in vista di un nuovo continente, avendo il coraggio di rovistare fin nelle radici mitiche della nostra storia, rompendo la dicotomia mistico-meccanicista tra “anima” e “corpo”, tra materia e forma.

Quello che risulta, irriducibile alla miseria della nuova filosofia, è l’essere soggettivo dell’uomo ed è questo che ho voluto sottolineare nello specifico di questo distanziamento dai mistici di Dio-Capitale, dai suoi teologi.

Il nostro secolo sta vivendo la guerra fredda dei cent’anni. La pace apparente in cui lo spettacolo tridimensionale del Capitale si va stabilizzando su montagne di cadaveri.

I nuovi filosofi ne intuiscono il fetore, ma rifiutandosi di tentare l’esplorazione delle radici, richiudendosi nell’intermundia di una nuova morale, continuano ad annusare e a proporre il fiore mortale.

L’elemento più pericoloso, ideologico, sta nel modernismo, nella fascinazione che questa attualità devitalizzata può esercitare su troppi moribondi, fino a farli morire, intossicati di ideologia.

Da perfetto figlio del suo tempo Levy sa sfiorare molti dei nodi cruciali dell’epoca. Levy sa leggere e cogliere. Coglie e incanala verso il vecchio mondo. Si dice contro tutti i recuperi, ne addita le mille possibilità, le più traverse, e poi fa tornare tutto all’uno che genera il mondo contemporaneo. Dio-Capitale ha trovato il suo evangelista. Per tutto il percorso del suo scritto è un continuo esaltare negativo del capitale. La sua vera e propria apocalisse.

L’elemento totalmente assente è la soggettività umana. Il molteplice è puro accidente. Agostinianamente tutto torna all’uno. Esiste solo per emanazione.

Eppure la soggettività negata concettualmente affiora inevitabilmente oltre le corazze del dovere in cui Levy la imbriglia. È presente come desiderio implicito in tutti i suoi: occorre, bisogna, dobbiamo, farebbero meglio, ecc. L’obbligo si manifesta come faccia contratta, negazione speculare dell’esigenza di libertà.

Il soggetto esiste, pur senza abolire il dubbio.

Ma il dubbio è il dubbio sul farcela. È la scommessa contro il mostro in noi e fuori di noi. Sul dispiegarsi della natura né buona né cattiva – biologica – o sulla morte sua e nostra. Sulla vita che sfugge ancora nonostante tutto all’orologio totalitario. In qualche modo. Che Levy lo voglia o no. Nessuno vive il presente solo perché spera nel futuro, né solo perché corazzato in una nuova morale. In ogni attimo c’è – nonostante il delirio aumenti e la miseria soffochi – ancora già presente il corpo della libertà e con esso la possibilità del rovesciamento di prospettiva. Da un respiro all’orgasmo il funzionamento del corpo tende alla coscienza e viceversa. Che, funzioni bene o male, tanto o poco, che stia per fermarsi o per rompere le corazze, sono tutti aspetti di quel dubbio, di quella scommessa su cui nonostante tutto – oltre ogni ottimismo e ogni pessimismo – si gioca la possibilità della rivoluzione, culturale e sociale, finalmente sottratta al monopolio mafioso dei professionisti, al binocolo rovesciato del politico.

 
 

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