Titolo: Autodifesa al processo di Roma per banda armata, ecc.
Sottotitolo: Seconda edizione riveduta e corretta con l’aggiunta di Liber asinorum
Note: Pensiero e azione N. 42
Prima edizione:
Prima parte: aprile 2000
Seconda parte: maggio 2000
Fatte le dovute eccezioni, Lupus in Fabula, Torino 1997
Liber asinour, prima edizione: settembre 2000
Seconda edizione in un unico volume: maggio 2015
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    Nota introduttiva alla seconda edizione

  PARTE PRIMA

    Nota introduttiva alla prima edizione

    Dichiarazione rilasciata alla Corte di Assise di Roma il 30 novembre 1999

    Memoria difensiva presentata al Giudice della Udienza Preliminare di Roma l’8 marzo 1997

    Montatura

    I giustizieri in toga

    Fatte le dovute eccezioni

      Il sogno e la realtà

      Due piccoli giudici in quel di Roma

      Una ragazzina

      La Batracomiomachia

      Dell’assenza e del chiamarsi fuori

      Non è successo nulla (cosa volete che sia il carcere per gli anarchici?)

      Le due strade

      Altre due strade, questa volta più ardue a percorrere

      Nel guado

      Possiamo uscire dal guado?

      Amarezza e disillusione

      Resta solo una cosa da fare

  PARTE SECONDA

    Interrogatorio condotto dal Pubblico Ministero Marini il 15 dicembre 1999

    Intervista rilasciata a Radio Onda Rossa il 20 novembre 1997

  DOCUMENTI VARI

    Note al testo del ROS

      Nota 1

      Nota 2

      Nota 3

      Nota 4

      Nota 5

      Nota 6

      Nota 7

      Nota 8

    Note per l’Avv. Paolo Venturino relative alla difesa al processo Marini

      Sequestri

      La collaborante

      Vincere o perdere

      Professore

      Solo aspetti concreti

    Dalla sentenza di primo grado della Corte di Assisi di Roma del 31 maggio 2000

      Dichiarazioni di Mojdeh Namsetchi

      Attendibilità della collaboratrice. Premessa metodologica. Valutazione della chiamata in correità e in reità.

      Attendibilità intrinseca. Ruolo del maresciallo Farino. Il cd. “documento Marimpietri”.

      Attendibilità estrinseca. Riscontri. Valutazione delle dichiarazioni ai fini della sussistenza delle fattispecie associative.

    Dalla sentenza di secondo grado della Corte di Assisi di Appello di Roma del 1° febbraio 2003

      Altri processi

      Ancora processi

    Indagini

      Procura della Repubblica di Firenze, Ordine di perquisizione n. 3138/94/21 del 19 novembre 1994, pp. 2.

      Marcello Monteleone, Procura della Repubblica di Roma, Mandato di perquisizione, 28 febbraio 1995, pp. 2.

      Procura della Repubblica di Cuneo, Mandato di perquisizione del 13 marzo 1995, pp. 2.

  PARTE TERZA

    LIBER ASINORUM

      Quello della porta accanto

      La vita è una busta

      La bocca di fuoco

      Il risentimento

      L’identità

      Il

      In vitro

      La solitudine del distruttore

      C’è qualcosa che il nostro

      Ad animos permovendos

      Quello che si è e quello che non si è

      A volte qualcosa si

      L’alba ai vetri

      La pentola, la poltrona, il lettone

      Anche se non lo

      Per un certo

      Di per

      Dar di cozzo agli asini

      L’insurrezione

      L’abbaglio

      Il chierichetto

      La notte ha molte

      Il manicheo

      La bacchetta della fata

      Il riconoscimento

      Un ostacolo

      Un mercurio concitato

      La questione “militare”

      Una stupida tensione di muscoli

      La

      Evitate di ragliare, se vi riesce

      La sbrecciatura

      Il fine e il mezzo

      Il domatore

      Quousque tandem

      Mettiamo che gli asini smettano di ballare

      Un funzionario

      Tutto quello che non è

      Postfazione da non leggere (riservata soltanto al distruttore e alle sue facce asinine)

  APPENDICE

Nota introduttiva alla seconda edizione

Ci sarebbe da riprendere qui la vexata quaestio della difesa in tribunale da parte di anarchici. Ne ho parlato a lungo in altro luogo, e forse più del dovuto, per il semplice fatto che essendo un frequentatore di tribunali mi sono posto il problema, diciamo a partire dal 1972.

Anche oggi, e ne è passato di tempo e tante brave persone, fidati compagni e perfino pagliacci provvisti di contrassegno cerchiato, sono sfilati sotto i miei occhi, anche oggi la penso in maniera semplice. Ci sono casi in cui è inutile provare a difendersi in tribunale, casi in cui si è presi sul fatto, in un’azione di attacco che è andata male, e quindi è meglio – sempre a mio avviso, naturalmente – restarsene in galera piuttosto che presenziare a una farsa che ci risulta estranea e assurda. Ma ci sono casi in cui la montatura da parte del potere è non solo evidente, perché questo mezzo repressivo è quasi sempre impiegato contro gli anarchici, ma è anche male pensata e peggio realizzata. Ora, in questi casi, lo scopo stesso della montatura è quello di aggravare la condizione penale degli accusati, cioè fare in modo di tenerci in galera il più possibile, sottraendoci alla lotta che fuori possiamo condurre con maggiore efficacia. È in quest’ultimo caso che occorre farsi sentire in tribunale. Ed è di un caso come questo che parleremo nel presente volume.

Togliamo subito di mezzo l’obiezione, più superficiale che stupida, di coloro che per anni ci hanno assordato dicendo che in questo modo “riconosciamo” l’autorità del tribunale, la sua legittimità morale. Minchiate. Noi non riconosciamo niente del genere con la nostra presenza. Accettiamo il fatto che siamo prigionieri di una forza maggiore della nostra, che siamo in una condizione non rivoluzionaria, che non c’è in corso una lotta per distruggere (più o meno definitivamente) il nemico che ci opprime, ma che nonostante tutto ciò non intendiamo venire meno alla nostra scelta di vita, essere anarchici, quindi contrari a ogni forma di autorità, di repressione, di dominio, e tutto il resto, quindi anche a quella forma che prende corpo nell’apparato giudiziario.

Parole sprecate, me ne rendo conto. In effetti questi ragionamenti sono talmente elementari che qualsiasi compagno, che non sia obnubilato da deformazioni ideologiche, può farli da sé senza prendersi la briga di leggerli adesso fino in fondo. Eppure si tratta di ragionamenti che è necessario collocare qui, in anteporta a questo libro, perché gli equivoci svolazzano ancora fra gli anarchici, allegramente intenti, alcuni, per carità, non tutti, a sciacquarsi la bocca con le chiacchiere del “processo politico”.

Certo, e anche qui sono costretto a prevenire una obiezione da trivio, so bene che tanti non usano queste parole, ma preferiscono gonfiare i muscoli asserendo che nessun tribunale può giudicarci. Il fatto è, però, che i tribunali, con o senza di noi, continuano a giudicarci perché hanno dalla loro parte la forza del dominio, la ragione del più potente, e dalla nostra abbiamo soltanto la coscienza di essere dalla parte della libertà, della rivoluzione, della distruzione di questo mondo di merda, ed è per continuare a essere quello che siamo che occorre impedire, anche ricorrendo a una difesa in tribunale, quel surplus di danno che il nemico vuole infliggerci.

Mi rendo conto che per fare questo con un minimo di dignità non basta fare ricorso a quattro affermazioni di principio, di natura biecamente ideologica, con la quale contrastare decisioni altrettanto biecamente fondate sul principio del potere. Non è uno scontro tra verità e menzogna quello che ci interessa, nemmeno uno scontro tra repressione e liberazione, tra dominio e anarchia. Ci interessa soltanto ridurre i danni per ritornare al più presto alla lotta, senza svendere, neanche in minima parte, la nostra coscienza rivoluzionaria e anarchica.

Aggiungo che non sempre questa difesa – io preferirei parlare di autodifesa – è possibile, bisogna cercare di capire, fin dalle prime battute processuali, come è composto il fronte del nemico. Molto massimalismo rigido che occhieggia sprovveduto nell’animo di tanti compagni non si rende conto di questo, vede una compattezza e una rigidità in questo nemico che, in effetti, quasi mai è presente. Ecco, cercare di mettere una zeppa logica, e opportunamente motivata, su dati di fatto ricavati da contraddizioni specifiche delle indagini, può essere utile. Nel caso in cui ci si trovi di fronte a una singola persona, quasi sempre si tratta di un GIP, queste possibilità si riducono.

Lo stesso si riducono, o si annullano, quando ci si trova di fronte a inquirenti motivati ideologicamente (destra e sinistra si equivalgono). Mi è accaduto di trovarmi davanti due PM (Monti e Rossi) a Parma nel 1980, per l’inchiesta su Azione Rivoluzionaria, e mi sono subito reso conto che davanti alla loro premessa di essere dei “compagni”, e che quindi con loro si poteva parlare liberamente, l’unica soluzione era quella di rifiutarsi di parlare e di tornarsene in carcere non appena possibile.

Invece, nel caso che ci occupa, cioè nella prima seduta del processo di Roma per banda armata, ecc., che adesso si è soliti definire “processo Marini”, il primo giorno, non appena entrato nella gabbia della corte d’Assise, ho visto un grosso gatto bianco che scorazzava liberamente in aula. Ora, la presenza di un gatto non è fatto usuale in un’aula di tribunale. Dopo, non appena entrata la Corte, ho visto che il presidente indossava sotto la toga, aperta, un grosso pullover nero pieno di peli bianchi, evidentemente provenienti dal gatto di cui sopra. Subito dopo ho avuto modo di vedere per la prima volta il PM Jonta e il suo aiuto Marini. Ora il primo di questi due accusatori mi dette l’impressione di un uomo piccolo e insignificante, il secondo invece sembrava un attore cinematografico, era vestito con un doppio petto elegante e, cosa notevole, aveva i capelli bianchi accuratamente cotonati. Dopo il primo giorno Jonta non comparve più in aula, evidentemente si rese conto, da persona intelligente, che le cose non potevano andare bene per l’accusa, e lasciò a sbrigarsela il suo aiutante, il non molto intelligente dott. Marini. Comunque fin dalle prime battute mi resi conto che tra il presidente, amante dei gatti, e l’elegantone dell’accusa, non potevano esserci amorosi sensi convergenti, cosa che poi ebbi modo di vedere confermata per tutta la durata del processo.

Ora, inserirsi con un’autodifesa, come si potrà vedere leggendo questo libro, aveva, da parte mia, lo scopo di evitare l’accusa di “banda armata”, inesistente, salvo a volere accettare come valida e operativa un’organizzazione creata dai carabinieri del ROS, che avevano inventato l’acronimo ORAI traendolo dal titolo di un paragrafo di un mio articolo (“Nuove svolte del capitalismo”) pubblicato su “Anarchismo”.

Nessuna autodifesa risultò invece possibile in appello dove il disegno di condanna a priori e l’accettazione di qualsiasi tipo di contraddizione fu palese fin dal primo momento, quando cioè il Ministero promosse di livello Marini per consentirgli di assumere l’accusa anche nel grado superiore. Ma anche qui, pur condannandomi per la rapina di Roma, non fu loro possibile condannarmi per banda armata e di ORAI quasi non si parlò più. Lo Stato provvederà poi, da par suo, ad aggiustarsi le carte e a impostare le future imputazioni con l’accusa di “associazione sovversiva”.

Ma c’è un altro aspetto, doloroso e disgustoso insieme, del quale in questa seconda edizione del presente libro voglio parlare. Innanzi tutto inserisco nella Terza parte il mio opuscolo dal titolo Liber asinorum e qui ne spiego il motivo.

Tre compagni anarchici, una compagna e due compagni per la precisione, di cui per un innato e forse mal riposto pudore persisto nel non volere fare i nomi, ma che se vogliono possono farsi sentire pubblicamente in qualunque momento, e rivendicare così la loro infamia e la loro imbecillità, hanno affermato, alla presenza di altri compagni anarchici e (forse) anche di altre persone che anarchiche non sono, che io ero (e quindi sono, visto che da questo mestiere non si esce da vivi) un agente segreto del SISMI. Lascio ai lettori le considerazioni da trarre. Non so da chi hanno avuto questa idea, dove è stata architettata una simile spettacolare infamia e su che cosa (sospetti, fantasie, comportamenti?) si è basata. Per la verità da quasi un decennio questa immonda menzogna non viene più soffiata in giro, ma io non voglio metterla a tacere, almeno per quelle che sono le mie possibilità. Ecco perché ripubblico Liber asinorum, ecco perché affronto in questo libro il problema dell’imbecillità. In effetti il punto è questo, almeno secondo le mie deduzioni e le mie personali illazioni, perché non di altro sono in possesso se si escludono le testimonianze di compagni molto attendibili e di sicura sincerità che hanno sentito personalmente queste tre stupide carogne dire le loro stupide carognate. Da qualche punto questa “imbeccata” è arrivata, non può essere stata un parto puro e semplice della loro microscopica capacità intellettuale. Gente molto più abile di loro avrà pensato di mettere in circolazione questa fantastica notizia di una mia appartenenza al SISMI. Questa gente ha, in un modo o nell’altro, conosciuto questi imbecilli, uno o tutti e tre, questo non è possibile saperlo, e il gioco è stato fatto. Le probabili fonti “intelligenti” di questa fangosa infamia possono essere o la polizia (di qualsiasi genere) o qualche struttura delle vecchie organizzazioni armate autoritarie, alle quali, in passato, la mia attività può avere fatto ombra. In fondo, sia in un caso o nell’altro, sempre di strumenti repressivi si tratta. Solo che, conoscendo bene l’anima semplice di questi tre imbecilli, essi non avrebbero mai accettato una illazione del genere da parte della polizia, mentre potevano accettarla da qualche fonte capace di presentarsi con la maschera fasulla (ma per gli stupidi non identificabile) di rivoluzionario.

Invito tutti i compagni che eventualmente avessero sentito ancora bofonchiare in qualche sacrestia anarchica infamie del genere a mettersi in contatto con me. Nei pochi anni che mi restano ancora da vivere vorrei avere il piacere di incontrare faccia a faccia questi imbecilli, o almeno quelli che fra loro ancora posseggono una faccia, e sputargli addosso tutto il mio disgusto.

Con buona pace dei tanti abbracci e baci che in passato hanno avuto la spudoratezza di sbavarmi addosso.


Trieste, 18 marzo 2014

Alfredo M. Bonanno

PARTE PRIMA

Nota introduttiva alla prima edizione

Scrivo queste righe introduttive quando ancora non si conosce l’esito giudiziario del primo grado del processo in corso presso la Corte d’Assise di Roma, processo che impropriamente, fin dal suo inizio, è stato definito come “processo Marini”, dal nome del Pubblico Ministero che conduce l’accusa.

Sulle prime avevo pensato di fare uscire questo libretto, e il successivo che è parte integrante della mia “Autodifesa”, dopo la sentenza, anche per dire qualcosa sulla decisione che i giudici prenderanno.

Mi sono reso conto poi che questa intenzione era del tutto assurda. Che cosa me ne importa di quello che i giudici decideranno? Decidano quello che vogliono, spetterà semmai a me prendere la decisione definitiva, al momento opportuno, beninteso. Una condanna è decisione unilaterale di chi gestisce il potere, e non è certo per questo che impedirà la mia vita futura, in qualunque modo vadano le cose.

Ho rilasciato questa dichiarazione, contenuta integralmente in questo libro, e ho risposto all’interrogatorio del Pubblico Ministero Marini, qui contenuto, anch’esso integralmente, perché mi si accusava di qualcosa che a mio avviso faceva a pugni con tutte le mie teorie, sostenute negli ultimi trent’anni. In primo luogo di essere il “capo” e il “teorizzatore” di una banda armata di stampo autoritario. Se fossi stato accusato soltanto di reati specifici non avrei di certo affrontato queste fatiche che, sia pure sul piano strettamente dialogico, per me sono state molto pesanti. Mi sarei limitato a negare o a rivendicare, a seconda dei casi. Il modo invece in cui è stata impostata l’accusa mi ha costretto a prendere la parola per precisare quale è stato da sempre il mio pensiero riguardo l’organizzazione della lotta rivoluzionaria.

La necessità dello scontro, nel corso dei movimenti relativi alla sua maggiore o minore generalizzazione, può rendere indispensabile la formazione di organizzazioni specifiche anarchiche armate, diventando, a un certo momento, queste ultime strumenti essenziali e insostituibili di quella generalizzazione che, di per sé, resta l’unico obiettivo rivoluzionario praticabile per un anarchico insurrezionalista, almeno per come la vedo io. Ma questa necessità non potrà mai partire capovolgendo l’ordine dei movimenti. Non potrà cioè essere sforzo dell’immaginazione che, travalicando di netto le condizioni reali dello scontro, presuppone possibile la semplice imposizione della mano armata per trasmutare la realtà. Ciò, a volte, quando si arriva agli estremi dell’assoluta mancanza di idee concrete sul che fare pratico e organizzativo, quindi teorico e programmatico, rischia di diventare perfino ridicolo.

Habent sua fata libelli.


Trieste, 6 marzo 2000

Alfredo M. Bonanno

Dichiarazione rilasciata alla Corte di Assise di Roma il 30 novembre 1999

Se mi è consentito, nel corso della presente dichiarazione cercherò di chiarire cosa vuol dire per me rispondere o non rispondere alle vostre eventuali domande. E... voglio, Signor Presidente, la vorrei pregare di avere, come anche lor signori, un po’ di pazienza sia per la difficoltà di articolare quello che sto per dire, sia, purtroppo, per la lunghezza e anche, forse, la difficoltà, la pesantezza di quello che dirò.

Questo è stato uno dei motivi che mi ha fatto riflettere a lungo sul rilasciare o meno questa dichiarazione, non essendo nel mio interesse, e nemmeno nella mia abitudine, parlare per il piacere di parlare.

Io penso che sia importante cercare di arrivare a chiarire alcuni elementi di natura teorica che stanno a fondamento di una parte considerevole delle accuse che mi sono state rivolte dal Ministero Pubblico. Quindi, la particolare difficoltà e la lunghezza di quello che dirò non dipende tanto dalla quantità di cose che ho da dire, quanto dalla difficoltà per me stesso di arrivare ad esprimermi, a cercare un livello, diciamo, semplice e nello stesso tempo non riduttivo.

[Presidente]: Non banale.

Non banale, appunto, e non penalizzante per i contenuti. Mi sono chiesto, prima di decidermi a questo passo per me importante, forse uno dei passi più importanti di tutta la mia vita, se era possibile, Signor Presidente, una discussione degna di questo nome tra un rivoluzionario e una Corte di Assise, tra un Giudice e un accusato; o se il ruolo reciproco, che ognuno di noi veste, non facesse aggio alla stessa capacità, alla stessa disponibilità di capire, in primo luogo a me stesso, se non mi impedisse cioè di rendermi disponibile seriamente e fino in fondo a dire come la penso.

Certo, non c’è dubbio che io sono in una radicale contrapposizione nei vostri confronti, però, nello stesso tempo, penso che la contrapposizione sia una dimensione di fatto, una dimensione reale, non una qualche cosa che ha bisogno per esistere, per prendere corpo, per essere visibile, per avere il suo significato, di accorgimenti retorici, di luoghi comuni, di momenti della memoria del passato che tutti lor signori sanno benissimo, solidificati in comunicati, slogan, sigle, riassuntati, punteggiati.

Di solito, l’accusato, in un processo penale, o tace o si difende, la legge glielo consente, io, con il vostro permesso, ho scelto di non tacere e di non difendermi.

[Presidente]: Di non?

... difendermi. Quindi quello che dirò non vuole essere un comunicato, vuole essere qualcosa di più, voglio approfondire questa mattina, nel più breve tempo possibile, ma non proprio in brevissimo tempo, una parte consistente della mia vita; in fondo le mie idee, il mio modo di vedere il mondo, la mia Weltanschauung, questa stessa Weltanschauung è la mia vita. Dovete, nello stesso tempo, cercare di capire che io mi trovo in un’aula di Giustizia, non sono in una cattedra universitaria, non sto facendo una conferenza; sono quindi di già anche a livello fisico [a causa della disposizione degli scranni] un pochino più in basso di voialtri, vi vedo più in alto, vi vedo come dominatori, devo cercare di farmi coraggio.

[Presidente]: Io userei il termine: siamo in una posizione più elevata perché siamo distaccati...

…questo...

[Presidente]: e guardiamo tutto dall’alto...

…e questo signi...

[Presidente]: …perché proprio distaccati…

…e, mi consenta, Signor Presidente io penso che…

[Presidente]: …non darei la sua impostazione di dominio…

…io penso

[Presidente]: …ma di distacco, di separazione, di disinteresse.

Se mi consente cercherò di arrivare proprio dove lei mi ha preceduto, per chiedermi se è possibile questa posizione che dice lei. Innanzi tutto, quindi, io ho difficoltà per il luogo dove mi trovo: un’aula di Giustizia e ho difficoltà perché devo parlare di me stesso. Non potete sapere quanto sia difficile parlare di sé, in una situazione come questa, riassumere la propria vita (io ho sessantadue anni), riassumere tutta la propria vita in una punta di spillo.

E quindi, tornando a quello che, Signor Presidente, dicevo all’inizio, io vorrei chiarire che sono disponibile a rispondere a eventuali domande successive a queste dichiarazioni che riguardano le mie idee e i fatti della mia vita, non sono invece disponibile a rispondere a domande che riguardano fatti di altre persone, idee di altre persone, anche qualora queste persone fossero miei coimputati. Lo dico subito, questo, per evitare una noiosa ripetizione di “non rispondo”, “non voglio rispondere” e così via, mentre sono più che disponibile a parlare di me stesso.

Mi ricordo che il GIP [Giudice per le Indagini Preliminari] nella seduta che ci fu a suo tempo [8 marzo 1997], quando eravamo tutti ancora in ceppi, temeva che io fossi soltanto disponibile a leggere – come lui lo chiamava – un proclama oppure un comunicato. Io personalmente sono stato sempre contro i comunicati. I comunicati hanno una pesantezza ideologica che va al di là di quello che cercano appunto di comunicare, di dire. Ne abbiamo letto troppi in passato e non so quanto queste letture siano state utili a chi le ha fatte e a chi le ha capite. In fondo, io penso che ci sia un rapporto fra chi si trincera dietro la stringatezza apparentemente significativa, martellante, di un comunicato, e certe ristrettezze ideologiche. La stessa visione progettuale, la stessa concezione della vita, si racchiude in quel comunicato e lì spira, morendo, perché non è capace di vivere diversamente. Quindi io ho sempre, scusatemi, ho sempre considerato il comunicato come qualcosa di fuorviante. Ma vorrei che capissimo cos’è un comunicato, forse io lo do per scontato e questo non è giusto. I comunicati sono quei testi che in genere un certo tipo di organizzazione del passato, o anche del presente – non voglio entrare in particolari che non mi riguardano – forniva all’opinione pubblica, alla grande informazione, per dare corpo ideologico, sostanza esplicativa, a certe azioni. Per me il comunicato costituisce una protesi immaginaria, cioè sostiene qualcosa che è stato già fatto, in un modo irreale, lo porta in una dimensione non concreta. Ancora meno significato avrebbe, secondo me, in questo contesto, la lettura di un comunicato.

Perché vi sto frastornando con questa storia del comunicato? Che senso ha visto che non devo leggere un comunicato? Perché vorrei portarvi su un altro livello, un’altra dimensione del pensiero, un altro modo di concepire la vita e nello stesso tempo anche un altro modo di concepire il rapporto interlocutorio che, sia pure a distanza, dovremo stabilire stamattina fra noi. Dovrei cioè arrivare a fare capire quello che voglio dire attraverso un discorso più articolato, un discorso che potremmo definire piano, semplice. Questo discorso io l’ho fatto a me stesso tante volte nella mia mente, spesso lo faccio la sera prima di addormentarmi. Io non sono un ribelle, non sono mai stato un ribelle, io sono un rivoluzionario; non so se ricordate la bellissima frase di Brecht, quando dice: “dalle biblioteche escono i massacratori”, ebbene, io esco dalle biblioteche, sono un massacratore con il cervello, non sono il ribelle di una sola giornata. Tutta la mia vita ha come scopo la rivoluzione, almeno negli ultimi trent’anni. In effetti, io vengo da un’esperienza diversa. Quant’è difficile parlare di se stessi! Sono stato impiegato di banca per dieci anni e otto mesi, sono stato dirigente industriale per sette anni, ho diretto un industria farmaceutica...

[Presidente]: Insomma, è stato un capitalista.

No, capitalista no, però servitore dei capitalisti sì. Sono questa persona, sono stato questa persona, capace di laurearmi e poi, non una volta ma diverse volte, troncare questa attività perché l’ho ritenuta intollerabile, ingiustificata. Perché ho maturato, con il passare degli anni, chiarezze che la mia non ribellione di base mi impediva di capire altrimenti.

Sono qua quindi perché sono sdegnato, sdegnato intellettualmente prima di tutto. Io mi rifiutai di parlare, di rispondere alle domande che il dottor Marini mi rivolse la mattina che mi interrogò in carcere. A microfono chiuso, poi..., il dottor Marini è un uomo d’onore, se lo ricorderà sicuramente, gli chiesi se lui avesse scritto il testo dell’ordine di custodia cautelare, lui mi disse di no ma che lo condivideva come articolazione. Io definii quel testo disonesto, cosa vuol dire il termine disonesto, quale parametro comune potrei avere io con un Pubblico Ministero? Quello che a me sembra disonesto al Pubblico Ministero potrebbe tranquillamente sembrare onestà. Ma cosa è l’onestà? Forse chi mette la mani nella tasca altrui è un disonesto? Per moltissimi lo è, per me il concetto di disonestà è un’altra cosa. È il non avere interesse, preoccupazione, perché il concetto che si afferma, l’idea che uno ha in mente, che prende corpo attraverso le parole, che si trasforma in concetto e viene portata sulla carta o sulla voce, abbia corrispondenza con la realtà: questo per me è disonesto. Ecco perché sono sdegnato, sono sdegnato per alcune delle accuse che mi sono state rivolte. Vediamo adesso quali sono queste accuse che in particolare si riassumono in un’accusa associativa. Io mi rendo conto che le mie idee possono sembrare remote, o comunque difficilmente condivisibili, non sono qua evidentemente per fare opera di propaganda, non voglio convincere nessuno, io voglio comprendere e se comprendo meglio io l’occasione può essere buona anche per voi, anche per Lei, Signor Presidente, può essere che anche Lei possa capire e comprendere meglio, tutti e due possiamo dirimere insieme un equivoco che probabilmente c’è stato, forse.

Il mio sforzo per cercare di capire quale meccanismo si è mosso al di sotto di una parte delle accuse che mi sono state rivolte, forse non lo riuscirò a portare a buon fine, e allora, in questo caso, sarò stato sicuramente colpevole di avere fatto perdere del tempo a lor signori. Ma per arrivare a capire questo meccanismo, e il mio sdegno, bisogna anche cercare di capire in che modo io valuto l’uso dell’intelletto, l’uso della ragione. Mi ricordo che c’è scritto nella “Annotazione” redatta dai carabinieri, in un passo che citerò dopo, l’avverbio “ragionevolmente”. Si legge a pagina 21 (comunque vedremo dopo, perché tornerò su questo argomento) che io “ragionevolmente” dovrei essere il capo di una organizzazione. Ma che vuol dire “ragionevolmente”? Quale ausilio chiede il carabiniere estensore di questo testo alla ragione per sostenere che io sono il capo di quell’organizzazione? Chiede conforto perché senza volerlo non si sente sicuro. Però, in tanti anni di utilizzo delle parole, e di frequentazioni con persone che usano la parola anche per mestiere oltre che per piacere, mi sono reso conto che probabilmente molti aspetti di essa costituiscono delle illusioni. Noi siamo veramente convinti di vestire la realtà, i fatti con le parole, siamo veramente convinti che le parole siano il rispecchiamento di fatti della realtà? La mia è ovviamente una domanda provocatoria.

Tornando al discorso del mio rifiuto di rispondere all’interrogatorio del dottor Marini, mi sono rifiutato perché ritenevo il documento che avevo sotto gli occhi (avevo solo il mandato di cattura) non adeguato. Dopo, avendo più disponibilità di documenti, più carte, ascoltando, ecc., ecc., mi sono reso conto che qualcuno in qualche posto aveva commesso un errore. Ora, siccome qua non si tratta di fatti nel senso tecnico del termine: tale giorno, a tale ora, il signor Tizio era o non era davanti alla porta del signor Caio? È chiaro che questo è un fatto che può essere, sia pure in maniera indiretta, comprovato, mentre qui si tratta di teorie.

Da più di trent’anni affronto quotidianamente la repressione per sostenere le mie idee e certamente, signori, io non sarei arrivato all’età di sessantadue anni per rinnegare queste idee qua, oggi, davanti a voialtri; sarei, certamente, se fossi disposto a una cosa del genere, uno spregevole individuo.

Ma, nello stesso tempo, non sono uno stupido, non sprecherei qui il mio tempo, e non approfitterei della vostra benevolenza, se non fossi veramente convinto che qua c’è qualcosa che non funziona nell’accusa. Nell’accusa per quanto riguarda l’aspetto teorico. Al contrario, se io fossi veramente il teorico di quella organizzazione di cui l’Accusa mi dà credito, io lo riconfermerei qua, lo rivendicherei qua davanti a voialtri e così abbrevierei la fatica del Ministero Pubblico. Perché invece non lo faccio? Perché non sono quelle le mie idee.

Cosa è successo? Cominciamo a prendere in esame un aspetto, facciamo un esempio: io pubblico accusatore ritengo di trovarmi davanti a manifestazioni di fatto attribuibili a un’organizzazione armata. Ma che cos’è un’organizzazione armata? Un pugno di persone che si danno una struttura clandestina, si forniscono di mezzi, armi, soldi e decisioni e agiscono contro il nemico di classe, frase classica, spiega o non spiega, ma alla fine ha poca importanza. Certo ci possono essere dei fatti... che indirettamente fanno supporre, più o meno fondatamente, che questo pugno di persone, queste armi, questi fatti, questi accordi, questi teorici, queste risoluzioni strategiche, esistano. E allora giustamente il responsabile del processo statale di repressione procede perché deve svolgere il suo mestiere; oppure può esserci magari una situazione in cui questi fatti attengono a manifestazioni che si potrebbero definire fra di loro difficilmente collegabili, non riconducibili all’interno di un ragionamento univoco, ci manca come si suol dire un collante, una cosa che li tenga insieme. In questo caso l’ipotesi dell’organizzazione armata dovrebbe scomparire, invece non scompare. È importante questo punto. Perché l’ipotesi non scompare? L’ipotesi resta perché una volta che è formulata essa resta, vive di vita propria, se voialtri passate il tempo a leggere il mandato di arresto e l’“Annotazione”, vedrete la straordinaria creazione di un’organizzazione armata che, per il semplice fatto che se ne parla, esiste. Se ne parla, cioè gli estensori dell’“Annotazione”, i carabinieri estensori fanno riferimento all’organizzazione citata prima, ne parlano, e così la vedono camminare, la fanno diventare un fatto visibile, palpabile, che collega e riassume, incolla, tutto un processo di ragionamento basato soltanto su di un’affermazione iniziale.

Secondo la logica comune, almeno, se io provo l’esistenza di una cosa, la cosa sussiste, prende corpo, si gonfia di sostanza, cammina, se invece non riesco a provarla la cosa dovrebbe scomparire. Per i carabinieri la cosa non scompare, semplicemente resta una ipotesi non giustificata, ma siccome se ne è parlato continua a camminare e a produrre effetti, effetti significativi ai fini dell’accusa, almeno presumo.

Questo ragionamento, nella logica che si insegna a scuola, si chiama ragionamento oggettivante: io faccio un’ipotesi e, per il semplice fatto che riesco a formularla, l’ipotesi si regge. Parlo di un’organizzazione armata, certo non esiste organizzazione armata che non abbia un nome, gli attribuisco un nome, ed ecco che piglia corpo quest’organizzazione armata. Che nessuno abbia mai usato questo nome se non i carabinieri del ROS, non certamente famosi per le loro attività rivoluzionarie, ha poca importanza, esiste perché io la nomino. Questo ragionamento tipicamente idealista della realtà creata semplicemente dalla parola deve essere sottolineato in questa sede, secondo me, deve essere tenuto presente perché corrisponde esattamente agli antipodi di quello che è il mio modo di vedere la vita, il mio modo di constatare la realtà attraverso quella corrispondenza fra idee e fatti che si rifiuta di fermarsi soltanto alle idee.

Se io accettassi l’ipotesi fatta dal Signor Presidente della Corte poc’anzi, quando diceva che lor signori non sono dominanti nei miei confronti, ma semplicemente al di là delle parti, se io accettassi questa ipotesi, presupporrei la possibilità di chiamarsi fuori dalla realtà. E invece non è possibile, signori miei, chiamarsi fuori. Avete sentito spesso l’accusa quando ha portato qui dentro, in questa aula, i fantasmi del sangue, della strage, della distruzione, del caos, della morte: questo significa retorica passionale. Indiscussamente il dottor Marini è un uomo d’onore, certamente si è reso conto di avere calcato la mano sull’aspetto retorico della scelta delle parole, dei quadri tratteggiati. Dappertutto in Europa, se non nel mondo, si aggira un fantasma costituito da un pugno di anarchici, questo fantasma vuole distruggere il mondo, magari fosse così, magari fosse così!

[Presidente]: Ci sarebbero allora due fantasmi: quello del comunismo e quello dell’anarchia.

Quello ha fatto una brutta fine, il primo, speriamo che il secondo non faccia la stessa fine, e spero di spiegare il perché non può fare la stessa fine. Però i fatti di cui qua dovremmo pur occuparci non sono come delle mele che si mettono in un cesto e quando il cesto si riempie si definisce un cesto di mele, i fatti si ricollegano fra di loro, i fatti nudi e crudi non esistono, sono visti e vissuti dagli uomini nella loro vita, i fatti entrano nella nostra vita, penetrano dentro di noi, ci trasformano, le nostre idee sono sangue, noi siamo i fatti, i nostri fatti, quello che noi facciamo.

Ecco perché io a un certo punto non sono stato in grado di fare il dirigente industriale, perché quello che pensavo non corrispondeva più con quello che facevo; le soluzioni erano due: la schizofrenia assoluta o la rottura, non è possibile chiamarsi fuori. Ecco perché non penso che sia per me possibile definire semplicemente con l’affermazione: “non esiste, non mi interessa, non mi riguarda”, l’accusa che mi viene rivolta di appartenente, addirittura di capo di una “banda armata”, ecco perché sono sdegnato! Perché queste accuse si indirizzano non a fatti da me compiuti, si indirizzano alla mia vita, si indirizzano alla totalità della mia persona, si indirizzano a quanto di più intimo esiste in me.

Consentitemi, non voglio arrivare a che voialtri possiate lontanamente condividere, sia pure in piccola parte, il mio modo di vedere le cose, eppure ciò sarebbe assolutamente essenziale per poter capire in che situazione mi vengo a trovare, per capirlo in modo non dico chiarissimo, ma, almeno in parte, chiaro.

Come ho detto, io sostengo una assoluta compenetrazione del sapere e del fare, dell’attuazione pratica e della consapevolezza delle cose che facciamo. Mi si può dire: queste sono teorie su cui tutti siamo d’accordo. Non credo. Per la visione anarchica della vita non c’è una separazione tra il sapere e il fare, tra la teoria e la pratica, non c’è un luogo della teoria e un luogo della pratica, le due cose sono assieme, l’azione è essa stessa teoria, e la teoria è essa stessa azione, se è realmente teoria e non una creazione astratta del pensiero che pretende diventare realtà nel solo momento che viene formulata. Ecco perché armato di pistola una mattina, con un mio compagno, sono andato in una gioielleria di Bergamo per fare una rapina, ecco perché l’Accusa vi ha detto: “badate, queste sono persone pericolosissime, Bonanno armato di una pistola lunga così l’ha spianata sotto il naso di un gioielliere per cercare di impadronirsi di quello che normalmente si chiama il maltolto”. Io non voglio tediarvi con le mie tesi, su che cosa sia veramente il maltolto, non è questo il nostro campo di discussione.

Viceversa vorrei farvi riflettere sul fatto che se io non sono disponibile ad accettare il lavoro (pur avendo per diciassette anni pieni della mia vita contribuito alla produzione del capitale e dello sfruttamento, dei soldi e dell’arricchimento, non certamente mio, non ero un capitalista, Signor Presidente, bensì un servo dei capitalisti, che è un’altra cosa), quindi se io decido questo, e questo lo decido nel mio cervello e nel mio cuore, se non sono un imbroglione con me stesso, e sappiamo per certo che nessuno riesce a mentire a se stesso (io posso mentire davanti a voialtri, ma non posso mentire davanti a me stesso, l’unico tribunale davanti al quale non è possibile mentire, nessuno di noi può farlo!); se io, quindi, non voglio mentire a me stesso e voglio guardarmi allo specchio, sia pure allo specchio di una cella di isolamento, senza avere ribrezzo di me stesso, per tutti questi motivi dovevo entrare in quella gioielleria armato di una pistola così, anche se poi, cosa volete che vi dica, certo, non è facile fare una rapina! E difatti non è che sia andata poi così bene la rapina di Bergamo. Sono stato condannato a cinque anni, mi pare cinque anni e otto mesi.

Quindi, le teorie determinano conseguenze sulla realtà, ed è giusto, dal punto di vista del Ministero Pubblico, che le teorie vengano perseguite, ed è sbagliato, è fuorviante quando qui dentro stesso è stato detto: “noi non perseguiamo le teorie”, non è vero, a parte il fatto che il codice lo dice chiaramente, a parte il fatto che in trent’anni io ho avuto decine di processi per le mie teorie, a parte il fatto che se qualche volta sono stato assolto, altre volte sono stato anche condannato, quindi non è vero che le teorie non vengono perseguite, e giustamente (dal punto di vista dell’Accusa), giustamente vengono perseguite le idee perché hanno conseguenze sulla realtà.

Per agire tutti noi abbiamo bisogno di capire, per prendere una decisione. Lor signori avranno bisogno di un insieme di cognizioni, di dati di fatto, di discussioni, che consentiranno di arrivare a una conclusione; cancellando questo aspetto, squisitamente analitico, non potete arrivare a una conclusione. Ecco quindi, pervenuto ad un certo punto della mia vita, il rifiuto del lavoro e della mia posizione sociale.

Tenete presente, e scusate se mi permetto, se insisto su ciò per un momento: io non sono un ribelle, sono stato sempre quello che tristemente si definisce il primo della classe, e resto sempre la stessa persona! Il rifiuto del potere da parte mia, quindi il rifiuto di tutte le attrattive del potere, i soldi, lo status sociale, il riconoscimento, la possibilità di fare carriera, le cattedre... non è stato semplicemente una conseguenza del ragionamento, ma anche una questione di cuore. Ad un certo punto, dentro ognuno di noi, le idee cominciano a trovare corpo, a maturare, forse col passare degli anni, non lo so, certuni impiegano anni e non lo....non lo so.

In fondo, se riflettiamo un poco, la nostra vita di che cosa è fatta? Di informazioni, oggi lo sappiamo per certo, il capitale non è più costituito da aspetti finanziari quanto da aspetti informativi, quotidianamente riceviamo una serie massiccia di notizie che dai teorici della democrazia è stata definita a pioggia. Su di noi piovono milioni di informazioni quotidiane, ma quale è lo scopo di questo processo informativo? Tenerci aggiornati su situazioni sulle quali non abbiamo assolutamente la capacità di intervenire. Noi abbiamo soltanto opinioni, ecco, ci costruiscono delle opinioni. Questa è la condizione democratica in cui viviamo.

Quindi, noi viviamo in una realtà democratica che mi consente stamattina di essere qua, di parlare con la Corte, di potere esprimere idee che certamente non sono né semplici da un lato e nemmeno correnti dall’altro lato. Certamente, se fossimo in una condizione di dittatura, come lo si era, poniamo, cinquant’anni fa, di più, settant’anni fa, non sarebbe stato possibile. Però noi paghiamo un prezzo, attenzione, alla condizione democratica in cui viviamo. Non c’è dubbio che, da certi punti di vista, è una condizione progressiva, significativamente progressiva, ma il prezzo che paghiamo può essere altissimo. L’induzione dell’opinione ci priva di quello che ha significato per la vita di ognuno di noi, di quello che potremmo definire le nostre vere e proprie idee. Abbiamo opinioni generiche su tutte le cose, perché esse ci sono molto utili per poter rispondere agli appelli democratici che ci vengono rivolti: il voto, la partecipazione alla vita della nazione, ognuno secondo il proprio livello, la propria condizione. Ma, in fondo, dentro di noi, sappiamo che la libertà di locomozione, il fatto che io ieri sera ho preso il treno a Catania per venire qua, e nessuno mi ha disturbato: non c’erano carabinieri ad aspettarmi alla stazione all’arrivo. Tutto ciò è libertà di qualcosa! Ma non è la libertà. Il fatto che io possa dire qua la mia, oggi, è libertà di parola, di qualcosa, è una libertà ma non è la libertà. Ma, dentro di noi, per capire e dare un senso a queste libertà, dobbiamo avere l’idea di libertà, l’idea fondamentale, radicata dentro di noi, di libertà, perché se non abbiamo questa idea quelle libertà non sono altro che accidenti, occasioni che ci vengono fornite, accidenti di libertà che riescono a farci dormire la notte, tranquilli, che riescono a farci sentire al di sopra delle parti, che riescono a farci chiamare fuori.

Dal 1972, l’anno in cui per la prima volta sono stato arrestato con l’accusa di istigazione alla rivolta e apologia di reato, e quindi condannato a due anni e due mesi per due articoli pubblicati su un giornale, da allora ad oggi sono stato condannato svariate volte e sono stato assolto anche parecchie volte, sempre per reati a mezzo stampa, escluso la rapina di Bergamo, che non dobbiamo dimenticare, perché costituisce un giro di boa fondamentale della mia vita. Sono stato condannato a due anni e due mesi, quindi, per questi articoli pubblicati su un giornale che si chiamava “Sinistra Libertaria”, del 1972. Sono stato condannato poi nel 1979 ad un anno e mezzo per un libro che come titolo portava La gioia armata, e in altri processi per gli stessi reati assolto varie volte. Io so bene che i reati di istigazione alla rivolta, apologia, ecc., non fanno parte delle accuse che qui mi vengono rivolte, però sono importanti per far capire qual è il mio modo di considerare il rapporto che esiste fra le mie idee, quindi il mio lavoro teorico, e la realtà.

Se mi consentite: le mie idee sono state viste qualche volta, e potrebbero essere considerate anche in questa sede (per questo voglio puntualizzarle meglio), come una istigazione. Se io analizzo, ad esempio, la formazione e le trasformazione del capitale negli ultimi venti anni, facendo vedere alcuni movimenti che sono stati fatti, di ristrutturazione, e quindi di rafforzamento, mi si potrebbe, come è stato fatto tantissime volte, accusare di istigazione a colpire le realizzazioni del capitale. Ma il capitale non è un’astrazione, è fatto di uomini e di cose. Ecco che nel concetto di istigazione c’è quasi il senso di una mala azione, come se fosse una cosa brutta, come di chi nascosto, al sicuro, lanci il sasso e poi nasconda la mano. Ecco, questo secondo me non è pensabile, almeno per quel che mi riguarda. Il rapporto fra istigatore e istigato io non l’ho mai visto come un rapporto tra un’azione attiva e un’azione passiva, in forza di quel ragionamento che si è fatto prima, tediandovi probabilmente a lungo, sulla non possibilità di stabilire una differenza netta tra teoria e azione.

In fondo l’istigazione non esiste per me: o quello che una persona, un rivoluzionario, afferma, approfondendo un problema, ha una rispondenza nella realtà, cogliendo elementi significativi, o non ce l’ha. Nel primo caso, chi riceve il messaggio, e lo approfondisce, agirà come meglio crederà opportuno, nel secondo caso saranno parole gettate al vento, senza significato alcuno, perché appunto frutto di elucubrazioni di una mente malata, probabilmente, o che ha interessi diciamo di natura soltanto teorica. Il compito di una teoria anarchica non può essere quindi quello dell’istigazione, ma quello dell’approfondimento dei problemi. Per lo stesso motivo non c’è nelle mie teorie, nei miei scritti, l’esaltazione acritica di qualcosa. Ogni punto viene, nei limiti della mia possibilità, approfondito criticamente.

Il concetto stesso di apologia nasce con l’attività di alcuni Padri della Chiesa, quindi a partire dalla Patristica, e viene usato fino a Tertulliano, cioè a dire alla vigilia della conquista del potere da parte della Chiesa. Tertulliano è l’ultimo Padre della Chiesa che viene definito apologeta, per lui tutto va bene all’interno delle comunità cristiane, tutto si ha in comune, tranne le donne, tutto è perfetto, in esse si realizza il cielo in terra. Appena cinquant’anni dopo, con la Chiesa al potere, quindi con Cipriano, immediatamente ci sono delle teorie critiche: non è vero che tutto va bene nelle comunità, c’è gente che si impadronisce dei soldi dei fratelli, ci sono i battesimi di massa e così via. Perché in appena cinquant’anni questa differenza? Questo è un problema storico che non ci riguarda, però è questa la differenza che c’è fra l’apologia acritica e la critica specifica dei vari problemi. Cipriano può permettersi la critica perché lui ha davanti una situazione in cui non è più necessario imbrogliare la gente, deve semplicemente chiarire, perché ormai si sente sicuro.

Ora, nella “Annotazione dei carabinieri del Raggruppamento operativo speciale di Roma, datata 23 aprile 1996” [in seguito citata come “Annotazione”], a pagina 21, c’è scritto: «Oltre a quanto enunciato, di assoluta rilevanza per la delineazione della struttura dell’organizzazione rivoluzionaria anarchica insurrezionalista in esame, risulta un articolo dal titolo “Nuove svolte del Capitalismo”». Ora, questo articolo mio... eccolo qua, è – secondo l’Accusa – l’elemento centrale, il testo fondamentale di un’organizzazione armata, clandestina, che si chiamerebbe “ORAI”... Organizzazione Rivoluzionaria... scusate, perché non è facile…

[Presidente]: Anarchica.

...Anarchica Insurrezionale, lei lo sa meglio di me. Io ne sono il capo, però...

[Presidente]: Ho il capo di imputazione.

...dunque, se la Corte è d’accordo, Signor Presidente, io vorrei leggerlo, questo articolo, non è molto lungo...

[Presidente]: Scusi, è l’articolo in cui si parla dei gruppi, di attività?

L’articolo è fondamentale, a dire della stessa “Annotazione”, non sono parole mie. Se siamo d’accordo.

[Presidente]: Sì, lei legga le parti essenziali insomma, le parti più importanti.

Senta, le dico di più: siccome, come spiegherò dopo, questo articolo costituisce la scaletta di alcune conferenze da me tenute in Grecia nel 1993, ed è esso stesso striminzito, quindi richiederebbe caso mai la spiegazione di alcuni punti che mi rendo conto possono risultare oscuri. Se Lei è d’accordo.

[Presidente]: Bene, allora proceda.

Bene! [Qui di seguito vengono citati alcuni passi dell’articolo “Nuove svolte del capitalismo”, originariamente pubblicato su “Anarchismo” n. 72 del maggio 1993, pp. 1-7, poi inserito nel libro dallo stesso titolo, seconda edizione, Trieste 2009, pp. 14-29]. «Sul finire degli anni Settanta, e fin dentro i primi anni Ottanta, [stiamo parlando della situazione italiana] l’assetto industriale produttivo dei paesi più avanzati, in grado di guidare e condizionare il capitalismo in tutto il mondo era in crisi. [Non dimenticate che questo testo è costituito dalla scaletta per le conferenze da tenere in Grecia. Vi ricordate la situazione italiana di quegli anni ormai lontani, la pesantezza del lavoro, essenziale alla produzione vecchio tipo, la rigidità delle catene di montaggio, le difficoltà dell’Alfa Romeo, sono cose che abbiamo vissuto tutti...]. Il rapporto tra impianti e produttività non era mai stato peggiore. Le lotte sindacali e proletarie in genere, specialmente le manifestazioni più aggressive e violente guidate da varie strutture rivoluzionarie di classe, avevano consolidato un costo della manodopera del tutto sproporzionato ai proventi del capitale [in quel periodo]. Sembrava che tutto il sistema andasse verso il suo naturale collasso, essendo incapace di riaggiustarsi all’interno come pure non avendo la forza di ricorrere a drastiche riduzioni del costo del lavoro e dell’occupazione.

«Ma di già nella prima metà degli anni Ottanta, le cose andarono velocemente cambiando. La ristrutturazione industriale prese la strada dell’elettronica, i settori produttivi primario e secondario, cioè agricoltura e industria, si contrassero con forti riduzioni occupazionali, mentre il settore terziario si allargò a dismisura assorbendo una parte della manodopera licenziata ed attutendo quindi i contraccolpi sociali che i capitalisti temevano più di ogni altra cosa. [Io non penso che sia necessario spiegare questo testo fino a questo punto. È giusto?].

«Insomma, non ci furono quelle sommosse e quelle rivoluzioni metropolitane che i padroni temevano, non ci fu una pressione intollerabile dell’esercito proletario di riserva, ma tutto si adagiò morbidamente su di una modificazione produttiva.

«Le grandi industrie sostituirono gli impianti fissi con nuovi impianti robotizzati, in grado di raggiungere, con modesti investimenti, livelli di flessibilità produttiva prima impensabili. Il costo del lavoro diminuì nel suo rapporto con la produzione, senza con questo causare una riduzione della domanda, perché il settore terziario tenne ottimamente fornendo linee di reddito [cioè a dire salari] sufficienti a pompare il sistema capitalista nel suo insieme [cioè a dire sostenere la domanda]. La gran parte dei lavoratori licenziati, se non proprio un’altra occupazione, riuscì a trovare modo di arrangiarsi tra le pieghe del nuovo modello capitalista: flessibile e permissivo. [Certo che, come introduzione a un testo che deve, perché è questo che ci aspettiamo, formulare la tesi di fondo di un’organizzazione armata clandestina, mi pare quanto meno anodina, va bene!].

«Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il sorgere di una nuova mentalità, flessibile sul posto del lavoro, con riduzione della qualificazione professionale e aumento della domanda di piccoli lavori, complementari l’uno all’altro, e principalmente senza il consolidarsi della mentalità democratica.

«Le antiche illusioni gerarchiche, su cui si basavano i sogni di carriera delle classi medie e di miglioramenti salariali del proletariato, scomparvero per sempre. E ciò fu possibile grazie ad un intervento articolato a tutti i livelli. Nella scuola, con l’adozione di programmi di insegnamento meno rigidi, più assembleari, meno carichi di contenuti, ma più adatti a costruire nei giovani allievi una personalità “morbida”, in grado di adattarsi ad un futuro incerto che avrebbe fatto inorridire i loro genitori. Nella gestione politica dei paesi capitalisti avanzati [pure l’Italia in questo numero], dove un autoritarismo spesso formale si sposava con forme periferiche di democratizzazione gestionaria [ci riferiamo a due cose, al governo Craxi, parlando chiaramente, e alla nascita del sindacalismo di base, ai Cobas], dove la gente veniva coinvolta non tanto in decisioni serie, ma nelle procedure fittizie di un meccanismo elettorale e referendario. Nella produzione, dove, come abbiamo detto, la scomparsa della qualificazione professionale rendeva i produttori addomesticati e flessibili. Nello stesso spirito dei tempi che vedeva tramontare ogni velleità di certezza filosofica e scientifica per proporre un modello “debole”, basato però non sulla ricerca del rischio e della scelta del coraggio, ma sull’aggiustamento nel breve periodo, sul principio che niente è certo ma tutto si può aggiustare».

Questo è il concetto di mentalità democratica. Il paragrafo continua parlando ancora di mentalità democratica. Queste trasformazioni strutturali del capitale hanno reso necessaria tutta una serie di riflessioni su quella che possiamo definire l’azione rivoluzionaria. E hanno fatto emergere alcune considerazioni su nuove difficoltà sconosciute all’attività rivoluzionaria supponiamo di cento anni fa, come dicevamo poc’anzi. Ricordate la differenza tra dittatura e democrazia? Essere rivoluzionario in una condizione di dittatura sotto molti aspetti è più facile, sotto altri aspetti è più difficile. Quindi continuiamo a leggere questo testo fondamentale di un’organizzazione armata clandestina. «Senza dubbio il primo ostacolo è costituito [ostacolo della lotta insurrezionale] da questa mentalità flessibile [che è andata insinuandosi nella realtà in cui viviamo, una mentalità] amorfa, non tanto assistenzialista vecchia maniera, quanto desiderosa soltanto di trovare una nicchia dentro cui sopravvivere, lavorando il meno possibile, accettando tutte le regole del sistema, sprezzando ideali e progetti, sogni e utopie. I lavoratori del capitale hanno fatto un ottimo lavoro in questo senso, dalla scuola alla fabbrica, alla cultura e allo sport, tutto collabora e concorda nel costruire individui modesti sotto ogni aspetto, incapaci di soffrire, di trovare il nemico, di sognare, di desiderare, di lottare, di agire.

«Poi, condizione correlata con la precedente, il secondo ostacolo è dato dalla marginalizzazione del ruolo produttivo [cioè dal tramonto della cosiddetta centralità della classe operaia] nell’insieme del complesso postindustriale. Lo smembramento della classe dei produttori ormai è una realtà e non solo un progetto nebuloso, e questa divisione in tanti piccoli settori, spesso antitetici l’uno all’altro, produce un aggravamento della stessa marginalizzazione.

«Ciò produce il superamento veloce di qualsiasi struttura tradizionale di resistenza del proletariato, partiti e sindacati in primo luogo. Questi ultimi anni hanno fatto vedere il tramonto progressivo del sindacalismo vecchia maniera, compreso quello che conservava velleità rivoluzionarie e autogestionarie [il cosiddetto sindacalismo di base], ma più di ogni altra cosa [questi ultimi anni] hanno fatto vedere [il tramonto o] il crollo dei partiti comunisti che pretendevano imporre la costruzione di uno Stato dove il socialismo si realizzava, in sostanza, a partire dal controllo poliziesco e dalla repressione ideologizzata [il socialismo reale].

«Di fronte a questi due colossali cedimenti, non si può dire che sia stata individuata una strategia organizzativa in grado di rispondere alle mutate condizioni della realtà produttiva e sociale nel suo complesso.

«Le proposte che gli anarchici insurrezionalisti hanno avanzato, specialmente quelle che più coerentemente si indirizzano verso la costituzione di strutture informali basate sull’affinità di individui e gruppi, non sono state ancora comprese nei loro possibili sviluppi pratici…».

Fermiamoci un attimo. Stiamo attenti, perché adesso vorrei azzardare un’ipotesi: a me sembra che la lettura di questo testo da parte dei signori carabinieri (devo riferirmi a loro sulla base della firma che è apposta sulla “Annotazione”) sia stata fatta, come dire: quando troviamo la parola “organizzazione” fermiamoci là, quando la parola “organizzazione” non c’è non ci fermiamo. Quindi facciamo attenzione a quello che stiamo dicendo, giusto? Comunque, tornando al problema, possiamo dire che di fronte ad esso ci sono state delle difficoltà di comprensione, non si può dire che sia stata individuata una strategia organizzativa in grado di rispondere alle mutate condizioni della realtà produttiva e sociale nel suo complesso. Gli anarchici, io stesso in particolare (parlo qui in prima persona), mi sono chiesto tante volte se riuscivo a vedere i fatti colossali che da dieci anni a questa parte passano sotto gli occhi di tutti, se riuscivo a vedere qualcosa di realmente significativo in essi, qualcosa che nasce nel mio cuore e nella mia mente. Le proposte teoriche qui illustrate, gli anarchici insurrezionalisti le hanno avanzate specialmente con maggiore coerenza riguardo la costituzione di strutture informali, basate sull’affinità di individui e di gruppi, ma esse non sono state ancora comprese nei loro possibili sviluppi pratici, quindi parlare di strutture informali significa riferirsi a raggruppamenti di gruppi informali che non si danno una struttura fissa. Vedremo più avanti questo concetto che qua si accenna soltanto. L’informalità cos’è? Essa consiste nell’assenza di caratteristiche permanenti nel tempo, nell’assenza di riferimenti rigidi. Per il momento questo concetto può bastare. E riguardo l’affinità di individui e gruppi? L’affinità è la qualità del rapporto tra persone che si conoscono, quindi essa è un insieme di conoscenze che riguardano il passato, compagni che decidono di discutere, di agire, fare qualcosa insieme. A me sembra che non ci sia qui nessun discorso di tipo organizzativo centralista, perché poi in fondo è di questo che si discute, Signor Presidente.

Leggevo, quindi, che le proposte teoriche di cui sopra «non sono state ancora comprese nei loro possibili sviluppi pratici, e qualche volta hanno ricevuto un’accoglienza [piuttosto] tiepida da parte di non pochi compagni, e ciò è dovuto a una certa ritrosia, qualche volta comprensibile, ad abbandonare vecchie mentalità per applicare nuove concezioni di lotta e nuovi metodi di organizzazione».

Queste vecchie organizzazioni di lotta sono le organizzazioni federate, le organizzazioni che da cento e passa anni danno corpo al movimento anarchico internazionale, più avanti svilupperemo una critica su questo punto, che a mio avviso rimane centrale nella lotta contro le nuove strutture della repressione e del controllo del capitale. Di questo punto organizzativo parliamo più avanti.

«La rivoluzione tecnologica contemporanea, fondata essenzialmente sull’impianto informatico generalizzato a tutti i settori della vita, sul laser, sull’atomo, sulla scienza delle particelle subatomiche, sui nuovi materiali che permettono trasporto ed utilizzo di [nuove] energie prima impensabili, sulle modificazioni genetiche applicate non solo all’agricoltura e agli animali, ma anche all’uomo, non si è limitata a cambiare il mondo. Ha fatto di più. Ha prodotto condizioni di imprevedibilità tali che non è possibile fare previsioni o programmi attendibili, non solo da parte di coloro che intendono mantenere lo stato di cose presenti quanto più a lungo possibile, ma anche da parte di coloro che intendono distruggerlo».

Qui mi riferisco alla tesi abbastanza diffusa oggi che se è possibile, dicono gli stessi tecnici del potere, prevedere l’evoluzione di una singola tecnologia, non è possibile prevedere le conseguenze che una singola tecnologia nel suo sviluppo, poniamo la trasformazione genetica, può avere su altre tecnologie già esistenti, anche tecnologie del passato, conseguenze che nessuno francamente può prevedere.

«Il motivo essenziale è dovuto al fatto che le nuove tecnologie, interagendo fra loro e inserendosi in un contesto tecnologico avente una storia e uno sviluppo vecchi di duemila anni almeno, possono produrre conseguenze inimmaginabili, alcune delle quali distruttive in maniera totale, ben al di là degli effetti pensabili di una esplosione atomica. [Il testo continua]: da qui la necessità di un progetto distruttivo della tecnologia nel suo insieme, di un progetto di lotta che pensi come prima ed essenziale fase alla distruzione, che fondi ogni suo approccio programmatico, di natura politica e sociale, sull’indispensabilità di fermare per sempre l’attuale processo altrimenti irreversibile della tecnologia, in particolare della tecnologia telematica».

Non dimentichiamo, Signor Presidente, il discorso che abbiamo fatto, perché se no ci perdiamo, non si tratta di sposare idee incondivisibili, si tratta di capire che c’è scritto qui, in questo scritto.

«Ristrutturazione politica, economica e militare. Nella pratica, la ristrutturazione tecnologica si realizza attraverso profonde modificazioni nel settore economico. Questi cambiamenti hanno conseguenze nell’assetto politico dei paesi a capitalismo avanzato, mentre il settore militare subisce ulteriori modificazioni sia a seguito di quanto va accadendo nel settore economico, da cui è inseparabile, sia a seguito di quanto va accadendo nel comando politico e nelle forme di reperimento del consenso».

Tutto il paragrafo continua in questo senso. Non sto a spiegarvi come avvengono queste trasformazioni politiche, economiche e militari. Quindi fino... diciamo al quarto paragrafo, se non sbaglio, c’è stato soltanto un piccolo accenno al rapporto tra organizzazione, gruppi informali e affinità, questi tre concetti di cui parleremo meglio dopo. Il paragrafo successivo parla del crollo del socialismo reale, della rinascita dei diversi nazionalismi di cui abbiamo esempi sotto il naso quotidianamente. Adesso ci avviciniamo al paragrafo che può essere più significativo: quello che tratta della possibilità di sviluppo della lotta insurrezionale di massa verso il comunismo anarchico. Questo è il titolo del settimo paragrafo. In esso emerge un concetto importante: quello di “massa”. Che cosa è il concetto di massa? Parrebbe una cosa che sappiamo tutti quanti, e invece questo concetto un minimo di approfondimento lo richiede, specialmente oggi, dopo le esperienze degli ultimi vent’anni. Prima si parlava molto facilmente di classi, avendosi fenomeni sociali sotto gli occhi caratterizzati fortemente da comportamenti di classe: la classe operaia, la classe marginalizzata, il sottoproletariato, ecc. Le trasformazioni, di cui molto maldestramente ho dato cenno prima, hanno causato rapporti, trasformazioni talmente radicali, smembramenti e marginalizzazioni, esclusioni, che non sto qui ad approfondire, sarebbe troppo tedioso. Oggi è più corretto, secondo me, anziché parlare di classe, parlare di “esclusi” e di “inclusi”, cioè a dire di una parte dominante e di una parte che viene, sempre più, marginalizzata ed esposta a quelle che saranno le conseguenze di ogni genere, le quali, domani, ricadranno sempre più su coloro che non hanno la possibilità di potere decidere della propria vita. Qui si tratta di grandi numeri, stiamo parlando di masse. Quando si tratta di una lotta insurrezionale di massa, davanti agli occhi mi viene sempre la Comune di Parigi: decine di migliaia di persone che scendono in strada. Mi ricordo che da ragazzino ho letto le parole del marchese Pareto, grandissimo economista italiano di lingua francese, che vide cosa scese nelle strade, quale marea di deformità sociali per la prima volta la borghesia europea vedeva sotto il suo naso, quale paura si prese...

[Sospensione]

 


[Presidente]: Eravamo arrivati al concetto di massa.

Il concetto di massa è centrale nel nostro discorso. Quando mi riferisco al concetto di massa, non intendo la classe nel senso delle specificazioni di una volta, fortemente ideologizzate, come siamo stati abituati per tanto tempo, ma alla massa considerata come quantità considerevole di persone che a un certo momento si muove, scende in piazza e determina una situazione imprevedibile. Tenete presente che il rivoluzionario è quello che meno di tutti riesce a capire cosa sta succedendo…

[Presidente]: …che prima di tutti?

No, meno di tutti. Può sembrare un paradosso, ma non lo è. Perché il rivoluzionario è in genere una persona piena di schemi, piena di progetti, di modi di interpretazione, la gente invece no.

[Presidente]: Non è all’avanguardia il rivoluzionario?

...e l’avanguardia spesse volte...

[Presidente]: Una volta si diceva che il rivoluzionario era l’avanguardia della massa operaia.

...della classe operaia, comunque gli anarchici non si sono mai considerati avanguardia di nulla. Il considerarsi avanguardia appartiene a concezioni che non sono specifiche degli anarchici, ad altre persone, ad altre visioni politiche, ad altri modi di vedere le cose, modi, come dicevo prima, fortemente ideologizzati. Ma, tornando al discorso di massa, la prima volta che la massa in epoca moderna si manifesta nella storia, senza stare a scomodare Spartaco, l’insurrezione degli schiavi, in epoca moderna, è nel 1871, quando scende in piazza una tipologia di individui, anche dal punto di vista fisiognomico, di persone che normalmente non vanno per la strada, ecco, e l’aristocratico Pareto si intimorì parecchio e trovò parole molto dure nei confronti di chi aveva reso possibile quel fenomeno. Ecco, io mi riferisco a questa massa quando parlo di insurrezione. E l’insurrezione è sognata dai rivoluzionari, immaginata dai teorici, desiderata da una ristretta minoranza di persone che hanno preso coscienza, ma realizzata dalla massa, quella è l’insurrezione, il resto possono essere progetti, desideri, cioè a dire pensieri non ancora vestiti di parole, quindi qui, in questo testo, si sta parlando di questa cosa, cioè della massa. Si sta accennando, per la prima volta in tutto l’articolo, al concetto di massa. Ma continuiamo la lettura.

«La fine della funzione difensiva e resistenziale delle grandi organizzazioni sindacali dei lavoratori, corrispondente al crollo del centralismo classico della classe operaia, consente oggi di esaminare in maniera differente una possibile organizzazione di lotta, partendo dalle reali possibilità degli esclusi, cioè da quella grande massa di sfruttati, produttori e non produttori, che al momento si trovano di già fuori dall’ambito sindacale protetto, o stanno per essere scaraventati fuori».

Di chi si sta parlando qui? Ci si chiede, io, anarchico, chiedo a me stesso: cosa posso fare davanti a questi fenomeni di marginalizzazione? Sempre più persone perdono il lavoro, perdono la propria identità. L’essere lavoratore, fino a poco tempo fa, forniva non soltanto un salario, ma forniva uno status. Il lavoratore si identificava con la società, con la ditta con cui aveva il rapporto di lavoro, si identificava con la propria qualificazione. Adesso, dalla scuola all’università, in qualunque situazione formativa si chiede soltanto flessibilità, adattabilità, modificabilità, non si chiede più la qualificazione di una volta, per motivi che sarebbe lungo approfondire in questa sede, ma che comunque sono sotto gli occhi di tutti quanti, che cosa si può fare?

«In effetti [continua il mio articolo] l’anarchismo insurrezionale e rivoluzionario, proponendo un modello di intervento nella realtà delle lotte che si fonda appunto sull’organizzazione di gruppi di affinità, e su un coordinamento operativo di questi gruppi allo scopo di creare migliori condizioni per uno sbocco insurrezionale di massa, incontra subito presso i compagni interessati una difficoltà iniziale non facilmente superabile».

Cosa vuole dire, per un profano, per chi si trova all’esterno di questa serie di problemi, suggerire un modello più agile, un modello di rapportazione differente, che non sia quello classico dell’anarchismo tradizionale basato sulla federazione, sul congresso annuale o biennale quello che sia, un congresso che approva un determinato programma, che discute determinati problemi, che divide gli intervenuti in determinati settori, con commissioni di studio, ecc.? Tutto questo, secondo me, appartiene al passato, perché mima una parte di quella che era l’anima partitica del movimento anarchico internazionale, il quale, pur essendo contrario alla istituzione partito, in fondo in fondo, ne subiva l’influenza. Ma perché ne subiva l’influenza? Perché viveva, esso stesso come movimento anarchico, l’ideologia del quantitativo, della crescita quantitativa, del fatto che solo se si è in tanti si diventa significativi. Ma adesso che le condizioni reali del capitale si sono trasformate, esso ci sta dando un’indicazione nella stessa lotta che conduce contro di noi. Questa lotta del capitale contro di noi è infatti diversa, non si basa più sulla centralità operaia, non ammette più qualificazioni, non cerca più la crescita sul posto di lavoro, non più lo status riconoscibile, non più riconoscimento di professionalità; ma al contrario cerca la flessibilità, la variabilità. Ecco, a tutto ciò noi dobbiamo contrapporre un’organizzazione più agile, fatta appunto di gruppi piccoli, di persone che si conoscono e che si coordinano in funzione di una realtà di lotta di massa, ecco il punto centrale, Signor Presidente, su cui bisogna riflettere, qua si parla di un’organizzazione insurrezionale di massa, qua si teorizza la possibilità per gli anarchici di intervenire in situazioni di lotta, spingendo verso uno sbocco di natura insurrezionale e distruttiva, qua si parla, se mi è consentito, Signor Presidente, di qualcosa di molto più grosso, di molto più significativo di una banale, limitata, circoscritta, banda armata.

[Presidente]: Ma, per quanto riguarda la realtà delle cose, i nuclei di base e i coordinamenti che funzione avevano?

Ci arriveremo...

[Presidente]: Intendo sul piano della teoria, perché lei ha impostato tutto...

No, no, mi scusi, no, Signor Presidente: sul piano della pratica, sul piano della pratica, se no perdiamo di vista quello che abbiamo detto prima... sul piano della teoria lineetta pratica... Abbiamo perso una mattinata su questo argomento, non per nulla, dico bene! Comunque, ci arriveremo subito a questo problema.

Quindi, per il momento, io vorrei sottolineare questo rigo: «per uno sbocco insurrezionale di massa». Cioè a dire, sbocco che significa? Significa condurre verso l’insurrezione situazioni che oggettivamente hanno caratteristiche di sofferenza, perché ci sono grossi quantitativi di persone che avvertono una condizione non certamente felice, per sollecitare, per sviluppare questa condizione verso la possibilità di ribellarsi contro chi realizza questa situazione di sofferenza.

Apriamo una piccola parentesi: qui non si tratta di condividere quello che dico io, o di non condividerlo. Sarebbe veramente allucinante, da parte mia, un’operazione di convincimento, di persuasione, perché molti giustamente potrebbero chiedersi: ma guarda questo pazzo che viene qua a dirci che la gente sta male, che vuole esacerbare le condizioni di malessere, per portarle addirittura ad un attacco distruttivo contro il potere. Perché l’insurrezione, parliamoci chiaramente, è questa, la gente va in piazza per sfasciare le cose, non per aggiustarle, poi, attraverso la dimensione distruttiva, si realizza la possibile alternativa di trasformazione diversa, verso una condizione diversa. Quello che sto dicendo io appartiene quindi a una dimensione non soltanto altra, della modesta, circoscritta, specifica, banda armata, ma appartiene ad un problema di natura rivoluzionaria che è certamente un grosso problema per lo Stato, perché lo Stato non può trincerarsi dietro l’alibi e dire: queste sono le teorie, conseguentemente è legittimo che chi le sostiene possa continuare a farlo, infatti lo può fare soltanto perché ipotizza in astratto la possibilità che esistano teorie che non hanno conseguenze sulla pratica. Certo, non spetta a me stabilire quali sono le conseguenze per quanto, a questo proposito, io porterò come documentazione due casi specifici di organizzazione pratica della realtà, cioè di strutture insurrezionali di massa. Ma subito dopo, per il momento continuiamo con l’articolo in questione.

«Molti ritengono che [la dimensione insurrezionale] sia ormai un atteggiamento fuori del tempo, valido alla fine del secolo scorso [Ottocento] ma oggi decisamente fuori moda. E le cose sarebbero senz’altro così se le condizioni produttive, in particolar modo la struttura della fabbrica, fossero restate le stesse di cento e anche cinquant’anni fa». E qua il paragrafo continua parlando di queste possibilità diverse che si riconnettono invece a quello che accadeva centocinquant’anni fa, con quelle strutture e con le corrispondenti organizzazioni sindacali di resistenza di allora. Se fossero ancora valide le strutture del passato, classe operaia centralizzata, forti partiti socialisti, sindacati non semplici cinghie di trasmissione ma effettivi rappresentanti di quelle che sono le richieste della classe degli sfruttati, se questo fosse ancora esistente, visibile davanti a noi, il discorso insurrezionale sarebbe da lasciare da parte, trattandosi di un fatto, come dire, di improvvisa anomia del potere, qualcosa che può funzionare o non funzionare, con tutta la critica possibile. Invece nel mondo di oggi ci troviamo davanti ad una trasformazione che rende necessaria, riporta un’altra volta sotto la luce critica del rivoluzionario, di chi ha a cuore questi problemi, la dimensione dell’attacco insurrezionale, e lo riporta sotto una luce critica differente.

«Ora [continua l’articolo] queste condizioni [cioè le strutture a cui ci riferiamo sopra: sindacati, partiti, e vecchie strutture rigide del capitale] sono scomparse o sono profondamente trasformate. La mentalità di fabbrica non c’è più. Il sindacato è una palestra per affaristi e politici, la resistenza salariale e difensiva in genere è un filtro per garantire passaggi dolci a livelli di costo della manodopera sempre più adatti ai nuovi assetti del capitale. La disgregazione è dilagata fuori della fabbrica, arrivando nel tessuto sociale, spezzando vincoli di solidarietà e di significato nei rapporti umani, trasformando la gente in estranei senza volto, in automi immersi nel brodo invisibile delle grandi città o nel silenzio mortale della provincia». E qui il paragrafo continua con la medesima analisi di prima. «Non solo riteniamo possibile una lotta insurrezionale, ma nella totale disgregazione dei vecchi valori resistenziali pensiamo che questa sia la condizione verso cui dobbiamo incamminarci se non vogliamo accettare totalmente le condizioni imposte dal nemico, se non vogliamo diventare schiavi robotizzati, pedine senza significato nel meccanismo telematico che ci ospiterà in un futuro ormai alle porte».

Dopo c’è il paragrafo che diventa praticamente il punto centrale, secondo il testo della “Annotazione”. Il paragrafo si intitola “L’organizzazione rivoluzionaria anarchica insurrezionale”, per quanto incredibile possa sembrare questa titolazione del paragrafo ha una sua storia...

[Presidente]: Corrisponde a quello che c’è scritto nell’imputazione? Sì.

Sissignore, ma, mi consenta...

[Presidente]: No, siccome lei aveva detto prima che era un termine che non era stato mai usato se non...

No, ma sa cosa è stato fatto...

[Presidente]: ...dall’estensore delle annotazioni…

… veda, mi scusi, Signor Presidente, ma, anche lei, posso permettermi?

[Presidente]: Sì, sì, dica pure.

… anche lei casca nell’equivoco di attribuire alla titolazione del paragrafo la singolarità specifica di un “termine”. Lei dice...

[Presidente]: Sì, ma io non calcolo l’equivoco, io metto in evidenza questa situazione, perché lei chiarisca il punto…

...ma sa perché è diventato, come dice lei, un termine, perché gli sono state messe le maiuscole. Se lei piglia lo stesso paragrafo del mio articolo [a p. 5], ci mette le maiuscole, diventa un’organizzazione. È facile come scherzo, si usa normalmente nei giochi delle tre carte, lo fa chi è pratico di scrivere, roba di questo tipo. Qua c’è un paragrafo: si chiama “L’organizzazione rivoluzionaria anarchica insurrezionalista”, basta cambiare le iniziali con le lettere maiuscole e il gioco è fatto.

Mi posso permettere una piccola divagazione? Questo testo, come dimostrerò dopo, era una scaletta destinata a delle conferenze che ho fatto nelle università greche, nel 1993...

[Presidente]: In Grecia, sì.

Bene, in greco moderno esiste un problema per tradurre la parola informale. Quando spedii la scaletta delle conferenze [in questione] perché loro la potessero tradurre in greco, fare una sorta di ciclostilato, distribuirlo alla gente per alleviare gli eventuali problemi di traduzione in diretta dall’italiano in greco. Io non conosco il greco moderno quindi era necessario tradurre...

[Presidente]: Il greco antico lo conosce?

Oh, Dio mio, lei mi mette in imbarazzo.

[Presidente]: No, siccome ha detto che conosce...

...non dimentichi che sono stato il primo della classe sempre, giusto? Quindi...

[Presidente]: ...appunto.

Quindi... in effetti la titolazione originale era: “L’organizzazione informale anarchica insurrezionalista” che sarebbe più logico dal punto di vista del discorso, però siccome non si poteva usare questa parola si decise di sostituire “informale” con “rivoluzionaria”. Chiusa la parentesi. Fu mia stupidaggine, nel ripubblicare in Italia questo testo, non riportarlo alla sua stesura originaria. Mi chiedo quale sarebbe stata l’organizzazione se invece di esserci la parola “rivoluzionaria” ci fosse stata la parola “informale”: Oiai. Oiai sarebbe stato più difficile farla camminare con gli stessi piedi di Orai.

Quindi, leggiamo questo testo, posso, Signor Presidente?

[Presidente]: Le è consentito, le è consentito.

«Pensiamo che in sostituzione delle federazioni e dei gruppi organizzati in modo tradizionale, modelli giustificati da strutture economiche e sociali della realtà ormai inesistenti e superati, vadano costituiti gruppi di affinità costituiti da un numero non molto esteso di compagni, legati insieme da una approfondita conoscenza personale. [Qui stiamo parlando di gruppi assolutamente alla luce del giorno. Sono compagni anarchici che fanno un lavoro nei quartieri, nelle strutture produttive, un lavoro nelle scuole, in tutte le situazioni. A questi compagni si suggerisce, da parte mia, di non ricorrere all’organizzazione di tipo classico (federazioni e gruppi federati), ma alla costituzione di gruppi più snelli, basati ovviamente su una diretta ed approfondita conoscenza personale, gruppi, attenzione perché qua siamo proprio con il dito nella piaga], gruppi capaci di collegarsi tra di loro, attraverso scadenze periodiche di lotta [anche sottolineato], aventi lo scopo di realizzare azioni precise contro il nemico».

Scadenze periodiche di lotta significano situazioni sociali di scontro. Non dimentichiamo che prima è stato utilizzato il termine “massa”, situazioni in cui la gente si trova in condizioni di sofferenza, condizioni precarie, perché subisce un particolare sfruttamento. Ad esempio, parlerò di due situazioni in cui questo metodo è stato applicato: nell’organizzazione dei ferrovieri del Compartimento di Torino, nel 1977, e a Comiso durante il tentativo di impedire la costruzione della base, la base missilistica americana, nel 1983. Ecco di cosa stiamo parlando, stiamo parlando di queste cose.

Quindi, gruppi anarchici specifici, gruppi anarchici, non di persone qualsiasi, ma gruppi di anarchici basati su di una approfondita conoscenza personale, capaci di collegarsi fra di loro per intervenire in una situazione di lotta oggettiva, specifica, nel corso della quale azione si deve trovare anche il modo di discutere, e quindi di approfondire, gli aspetti pratici e teorici. Non dimentichiamo la non possibilità di distinzione delle teorie dalle diverse azioni future da realizzare. Riguardo gli aspetti pratici ci si metterà d’accordo per le collaborazioni tra gruppi e individualità, cioè tra gruppi e compagni che non vogliono far parte di un gruppo, ma agiscono da soli (per me costituiscono un gruppo anche se singoli individui). Non solo, trovando i mezzi, la documentazione, tutto quanto necessario al compimento delle azioni, riguardo le analisi si cercherà di farle circolare il più possibile, sia a mezzo della stampa, sia a mezzo di riunioni e dibattiti aventi per oggetto specifici argomenti. Il punto centrale attorno al quale fare ruotare la struttura organizzativa insurrezionale è costituto dalla condizione di sofferenza individuata, dalla situazione di tensione sociale, chiamiamola come vogliamo, quello è il punto di riferimento, il punto centrale attorno a cui fare ruotare la struttura organizzativa insurrezionale.

Ma qual è questa struttura? Un insieme di gruppi di affinità che si mettono d’accordo fra di loro per intervenire in una realtà di massa. Quindi il punto centrale non è il congresso periodico, di cui dicevamo prima a proposito delle federazioni del passato e anche del presente, ma esso è costituito dall’insieme delle situazioni di lotta, le quali possono anche essere diffuse nel territorio. Può esserci una sola situazione, come è accaduto a Comiso o come è accaduto poniamo a Torino, o in altri posti, o più situazioni collegate fra loro.

I gruppi di affinità possono, a loro volta, contribuire alla costituzione di nuclei di base e qua veniamo a una ulteriore chiarificazione. I gruppi di affinità sono costituiti esclusivamente da anarchici, perché sono gruppi anarchici e basta, i nuclei di base non sono costituiti da anarchici, ma sono costituiti da persone che hanno il problema da affrontare davanti ai propri occhi. A Comiso chiamammo questi nuclei di base col nome di “Leghe”, quando ancora il leghismo era lontano, ricordandoci delle leghe nostre, le leghe siciliane del secolo scorso [Ottocento]. Quindi i nuclei di base sono strutture minimali formate da persone non anarchiche, per quanto al loro interno possono pure esserci gli anarchici. Principalmente si tratta di persone che non hanno una coloritura politica, ma hanno soltanto un problema da risolvere, perché qui non stiamo parlando di un’organizzazione parasindacale. Il nucleo di base non si sostituisce al sindacato, non paga il pullman per portare la gente alle manifestazioni, ma cerca di diventare un punto di riferimento per mettere insieme, per coagulare discussioni, progetti a livello di massa, ovviamente con un intervento dei gruppi anarchici.

[Presidente]: Organizzato da chi il nucleo di base?

I nuclei di base sono organizzati dagli anarchici ma con la gente. Quindi i gruppi di affinità possono a loro volta contribuire, mi segue, Signor Presidente?

[Presidente]: Sì, sì.

...contribuire vuol dire partecipare alla costituzione dei nuclei di base, non farli da se stessi, perché ciò sarebbe un duplicato del gruppo di affinità, giusto? Lo scopo di queste strutture, cioè dei nuclei di base, è quello di intervenire nelle lotte intermedie, cioè a dire in una lotta salariale, in una occupazione di fabbrica, in qualunque altra situazione di massa in cui si verifica una condizione di sofferenza sociale. Essi hanno pertanto lo scopo di sostituire, nell’ambito della lotta intermedia, le vecchie organizzazioni assistenziali di natura sindacale. Anche quelle che insistono sull’ideologia anarcosindacalista, che oggi sarebbero ad esempio i Cobas, le organizzazioni sindacaliste di base.

L’ambito delle azioni dei nuclei di base è costituito quindi dalle fabbriche, per quel che di queste rimane, dai quartieri, dalle scuole, dai ghetti sociali e da tutte quelle situazioni in cui si materializza l’esclusione della classe, la separazione tra inclusi ed esclusi. Mi sembra, Signor Presidente, che queste siano parole chiarissime, non hanno possibilità di essere interpretate diversamente. Ogni nucleo di base viene costituito quasi sempre dall’azione propulsiva degli anarchici insurrezionalisti i quali sollecitano, chiariscono, partecipano, ma poi si fermano se la gente dice: “no, questo argomento non ci riguarda, noi non vogliamo fare le cose come suggerite voi ma vogliamo farle, che so io, con il partito comunista di una volta, o con i sindacati, non lo so”. In questo caso gli anarchici si fermano, non possono obbligare la gente a far qualcosa. Ma non sono costituiti solo da anarchici i nuclei di base, se no non avrebbe senso, sarebbe un duplicato del gruppo di affinità. Nella sua gestione assembleare, il nucleo di base si riunisce e decide, gli anarchici costituiscono al suo interno una ridotta minoranza, ma devono sapere sviluppare al massimo il loro compito propulsivo contro gli obiettivi del nemico di classe, per quanto poi (trovando un eventuale ostacolo nella gente) si devono fermare perché non possono andare oltre.

Diversi nuclei di base, come è accaduto nell’esperienza di Comiso, che adesso vedremo, si possono dare loro stessi un coordinamento sul territorio, per meglio raggiungere il medesimo scopo, dandosi così strutture organizzate più specifiche, ma sempre fondate sui tre princìpi che vedremo: la conflittualità permanente, l’autogestione e l’attacco. Questi tre princìpi sono importanti. Per conflittualità permanente intendiamo la lotta ininterrotta e incisiva contro le realizzazioni e gli uomini che gestiscono il dominio di classe, quindi non c’è la dimensione sindacale in cui occorre l’autorizzazione dei dirigenti sindacali per poter fare una lotta, ma chiunque, discutendo all’interno del nucleo di base, può dire: “secondo me si potrebbe fare questa cosa”, se questa cosa viene accettata si fa perché la dimensione conflittuale non deve essere autorizzata da nessuno. Per autogestione intendiamo indipendenza assoluta da qualsiasi partito o sindacato o clientela per il reperimento dei mezzi necessari all’organizzazione di cui stiamo parlando, perché stiamo parlando di un’organizzazione costituita da nuclei di base, di gente che si trova in una determinata situazione di sofferenza, e quindi si prospetta una lotta intermedia. Il reperimento dei mezzi necessari all’organizzazione e alla lotta deve essere fatto pertanto esclusivamente sulla base di sottoscrizioni spontanee. Però, come testo fondante di una banda armata non mi sembra male, Signor Presidente. Per attacco intendiamo il rifiuto di ogni patteggiamento, di ogni mediazione, pacificazione, compromesso con il nemico di classe. In definitiva, il campo di azione dei nuclei di base e dei gruppi di affinità è costituito dalle lotte di massa.

C’è un paragrafo isolato [nell’articolo di cui discutiamo] che recita: «Il campo d’azione dei gruppi di affinità [questo paragrafo si trova a pagina 6 seconda colonna] e dei nuclei di base è costituito dalla lotta di massa».

Ma, signori miei, fermiamoci un attimo... o le parole hanno un senso oppure io sto per tendervi un tranello micidiale, vi sto imbrogliando in maniera indegna, sto imbrogliando voialtri o, molto più grave, sto imbrogliando me stesso.

[Presidente]: Non si illuda troppo.

Io sto dicendo, se fosse così, se fosse così starei per imbrogliarvi, il fatto di riuscirci è un altro discorso.

Queste lotte, le lotte di massa, sono quasi sempre lotte intermedie. Esse non hanno un carattere direttamente e immediatamente distruttivo, ma si propongono spesso come semplici rivendicazioni: difesa del salario, occupazione di una fabbrica, impedire la costruzione della base dei missili Cruise a Comiso.

[Presidente]: A Comiso.

Aventi lo scopo, queste lotte, di recuperare più forze per meglio poi sviluppare la lotta verso altri obiettivi. Lo scopo finale delle lotte intermedie resta dunque sempre quello dell’attacco. Non dimentichiamo che noialtri non siamo, io non sono un funzionario di partito, io sono un rivoluzionario. Il mio scopo non è tanto quello di trovare lavoro alla gente, a me personalmente non interessa nulla che la gente trovi un lavoro, mi interessa molto di più lottare insieme alla gente che cerca un lavoro, perché la voglio spingere a continuare successivamente a prendere coscienza del fatto che impiegando certi metodi, lo Stato recalcitra, fa un passo indietro e quindi la voglio spingere a capire l’importanza di continuare l’attacco fino alla distruzione totale dello Stato. Questo è il mio progetto. Evidentemente, nei limiti della sua realizzabilità. Naturalmente singoli compagni, o gruppi di affinità, indipendentemente da qualsiasi rapporto organizzativo più complesso, possono decidere di attaccare direttamente singole strutture e individui e organizzazioni del capitale e dello Stato. Chiunque, in quanto anarchico, ha il diritto di decidere da solo quello che va fatto, nessuno gli può dire che ha sbagliato, anche perché se no la libertà diventa un gioco di parole, diventa il gioco delle tre carte. Noi costruiamo un enorme lavoro di tipo programmatico, poi insieme alla gente facciamo un’azione qualsiasi, se un compagno non è d’accordo, decida lui quello che va fatto, da solo, da solo. Non c’è qualcuno che è messo in minoranza e viene quindi scomunicato da un contesto collettivo. Questo si vuol dire qui [nell’articolo in questione]: è sempre possibile per qualunque anarchico decidere da solo, perché è lui che deve rispondere davanti al tribunale della propria coscienza.

Ma continuiamo la lettura: «In un mondo come quello che si sta consolidando sotto i nostri occhi, dove il capitale informatico sta ormai saldando definitivamente le condizioni del controllo e del dominio a un livello di completezza senza precedenti, applicando una tecnologia che non potrà mai essere usata in altro modo che per mantenere questo dominio, il sabotaggio ridiventa l’arma classica di lotta di tutti gli anarchici, di tutti gli esclusi». La parola sabotaggio viene dal francese sabot che vuol dire zoccolo, perché, due secoli fa, quando si impiantarono le prime spolette meccaniche, i tempi di lavoro erano talmente pesanti e talmente lunghi che gli operai spesso cadevano sfiniti, allora, prima di cadere sfinito, un operaio prese uno dei propri zoccoli e lo buttò nella macchina bloccandola. Quindi dal termine sabot viene la parola “sabotaggio”, quando cioè si attacca la singola macchina, il singolo strumento repressivo che si ha davanti, perché veramente non se può più, perché si è arrivati all’estremo limite. Secondo me il sabotaggio costituisce ancora oggi uno degli elementi essenziali della lotta di massa, può essere diffuso, può allargarsi, questa è una mia opinione, una mia tesi.

E poi [nell’articolo in questione, a p. 7] c’è un elenco di risposte alla domanda: perché siamo anarchici insurrezionalisti? Se volete lo leggiamo, per quanto non sia essenziale alla mia tesi: «Perché lottiamo insieme a tutti gli esclusi per alleviare e possibilmente abolire le condizioni di sfruttamento imposte dagli inclusi. Perché riteniamo possibile contribuire allo sviluppo delle rivolte, che vanno nascendo spontaneamente dappertutto, facendole diventare insurrezioni di massa e quindi vere e proprie rivoluzioni. Perché vogliamo distruggere un assetto capitalista della realtà mondiale che grazie alla sua ristrutturazione informatica è diventato tecnologicamente utile soltanto ai gestori del dominio di classe. Perché siamo per l’attacco immediato e distruttivo contro le singole strutture, individui o organizzazioni del capitale e dello Stato». Questa è la nostra teoria, per questo un’organizzazione... un’organizzazione armata, clandestina, ci sta stretta di spalle, è un abito che non riusciamo ad indossare. Questo più o meno con qualche piccolo...

[Presidente]: I nuclei di coordinamento, se ne parla in questo scritto?

Sì, non dei nuclei direttamente, si parla dei coordinamenti. Sì, se ne parla quando si dice che i nuclei di base, se la necessità lo richiede, in quanto come è stato a Comiso [questi nuclei, cioè le Leghe] erano decine in tutto il territorio del ragusano, possono darsi un coordinamento, e difatti le Leghe si dettero un coordinamento con sede a Comiso, perché così si potesse discutere... insieme.

[Presidente]: e siamo nel millenovecent...

1983, 1982-1983, due anni.

[Presidente]: ...e lo scritto che lei ha letto è stato stampato quando?

È stato stampato nel 1993.

[Avv. Venturino]: Chiedo scusa, Signor Presidente, il documento che legge il signor Bonanno è allegato a una...

[Presidente]: Sì, sì, abbiamo tante cose, ma ormai è meglio che precisi lui.

[Avv. Venturino]: Sì, avevo pregato... di portarlo all’udienza, credo che sia...

[Presidente]: 1993, sì.

Se c’è qualcosa da chiarire, siccome reputo… forse, non lo so, a torto, non saprei, che questo testo [per come è stato usato] è assolutamente fondamentale...

[Presidente]: Sì, sì, lei ha fatto bene a leggere il contenuto.

Se ci sono dei punti...

[Presidente]: Edito nel 1993, va bene.

Questo testo [l’articolo di cui sopra] è stato pubblicato nel 1993 ed è stato redatto pure nel gennaio del 1993 per quelle conferenze di cui parleremo dopo.

Ora, torniamo un attimo alla banda armata. Ecco, l’Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica Insurrezionale [O.R.A.I.] non esiste. Sia detto in modo chiaro, essa è ipotizzata per la prima volta (ed è la prima volta che io in vita mia l’ho sentita) a pagina 5 della “Ordinanza di custodia cautelare”. La prima volta l’ho letta là. Anche perché era l’unico documento che mi dettero in mano quando mi arrestarono. A pagina 21 della “Annotazione” è indicata come “Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica Insurrezionale in esame”. Ora, se riflettiamo un attimo, che cosa significa: “in esame”? Cosa si esamina? Si esamina una cosa che non esiste? Usereste la parola, il termine “in esame”, per esaminare un sogno, un’ipotesi, l’ipotesi non si esamina, la si fornisce di corpo, reale, affinché viva, quando diventa reale la si sottopone a un esame. L’esame che cosa è? È un’assurdità se fatto su qualcosa che non esiste. Ma siccome di questa organizzazione se ne è parlato a pagina 5 del mandato di cattura, a pagina 21 della “Annotazione” se ne dà scontato esame.

A pagina 41 della “Annotazione” invece è scritto: «In considerazione delle surriportate emergenze investigative può ragionevolmente ritenersi che Bonanno Alfredo Maria ricopra nell’ambito dell’organizzazione un ruolo di rango superiore essendone il promotore, per averla creata portando a conoscenza di terzi lo scellerato ed indiscriminato programma criminoso ed espletando funzioni di organizzatore, in quanto svolge, con condotta perdurante, attività essenziali ed infungibili per assicurare l’efficienza dell’associazione in relazione alle finalità che la stessa persegue ed alla struttura organica e funzionale che concretamente essa ha assunto».

Che potrei dire, Signor Presidente?

[Presidente]: Ecco, lei potrebbe [dire] questo: esisteva una struttura associativa?

L’ho già detto, non esiste... è la prima cosa che ho detto. Di essa si parla a pagina 5 della “Ordinanza di custodia cautelare”, e siccome è ipotizzata a pagina 5, a pagina 21 della “Annotazione” se ne fa un esame, come di cosa già... di corrente circolazione e a pagina 41 [della stessa “Annotazione”] si stila, in dubbio italiano, questo testo, tutto molto ragionevolmente. Io non credo sia necessario commentare questo testo. Ora un’organizzazione del genere non esiste, Signor Presidente, io sfido chiunque in quest’aula o altrove, in sede processuale o successivamente, a dimostrare il contrario. Invece qua mi si accusa che l’ho teorizzata io, no? È per questo che alzo alto lo sdegno. Il mio sdegno...

[Presidente]: Veda, siccome si è parlato qui in aula di un’organizzazione formata da due livelli, uno occulto e uno palese, il livello palese si manifestava attraverso la propaganda e il livello occulto invece si realizzava con il movimento dei nuclei che effettuavano espropri e altre azioni illegali. Lei su questa accusa che cosa ha da dire? Io mi permetto di prospettare tale circostanza, perché è su questo che la causa gira.

Io penso che questo discorso si spieghi molto semplicemente con la medesima tecnica applicata per quanto riguarda la banda armata tout court, essa si è detta esistente ed esiste, se ne è parlato, la si critica, la si dà per scontata, ed ecco che esiste, cammina con i suoi piedi. Si è detta esistente... l’articolazione in due livelli, ed ecco che esiste. Mi si è accusato di essere il capo [di questa organizzazione], ma voialtri pensate... ho sessantadue anni, e posso in quanto anarchico lasciare passare l’accusa infamante di essere capo di qualcosa? E peggio ancora [l’accusa] di appartenere a un’organizzazione che non condivido.

[Presidente]: Sa perché? Perché tra l’altro qualcuno ha riferito che lei sapeva tutto di tutto, tutto anche in tema di rapine da compiere.

...di tutto, scusi?

[Presidente]: Di tutto, sì.

...quello l’ho sentito, dopo no.

[Presidente]: ...che si rivolgevano a lei come punto di riferimento, come fonte di consigli, consigli naturalmente organizzativi in relazione almeno alla commissione di reati. Non so se lei è stato sempre presente in aula, ma qualcuno ha detto proprio così, che lei sapeva tutto in ordine alle rapine da compiere. È vero o non è vero?

Non è vero questo, perché praticamente le ripeto, ognuno ragiona con la sua testa, se parliamo di anarchici, se parliamo di altre persone non voglio nemmeno entrare in argomento... per gli anarchici non è assolutamente possibile...

[Presidente]: Non risponde a verità, non...

...però, aspetti un attimo, io non intendo, come ho detto sin dal primo momento, sottrarmi alle mie responsabilità. Se un compagno viene da me e mi dice: “tu che ne pensi dell’ipotesi di realizzare un attacco contro la Banca di Stato del Tanganica”, io sono pienamente d’accordo con un’ipotesi del genere. Però in che modo questo si differenzia dal discorso che facevamo prima sulla questione del concetto di istigazione, del rapporto tra istigato e istigatore? Lei [Signor Presidente] seriamente pensa che un compagno anarchico venendo da me, abbia bisogno del mio beneplacito, per così dire, se vuole fare la rapina alla Banca di Stato del Tanganica? Ma stiamo scherzando? Ecco, è importante comprendere la dimensione di vita delle persone di cui stiamo parlando. Altrimenti si applica un modello magari validissimo in altre situazioni, a esempio nei casi in cui il povero cerca di riprendere quello che gli è stato tolto. Io ne ho conosciuti a centinaia in galera, stavo per dire migliaia, e so come ragionano: il piccolo rapinatore, il piccolo ladro, persone certamente di gran cuore, persone umanamente bellissime, certe volte, ma che spesso hanno bisogno di un punto di riferimento, di qualcuno che li guidi. Ma in questo caso stiamo parlando di anarchici, Signor Presidente. Lei può pensare che un anarchico venga da me a chiedermi l’autorizzazione morale a fare le cose per cui lui è anarchico, è come se mi chiedesse l’autorizzazione a respirare, perché per un anarchico la distruzione del capitale, di cui la Banca del Tanganica rappresenta un’ipotesi, è essenziale.

Ora, tutta la mia vita negli ultimi trent’anni è stata dedicata a combattere principalmente contro la mentalità autoritaria e, guarda caso, mi ritrovo seduto su questa sedia a discutere di un’accusa [per me infamante] di essere capo di qualcosa, e questo è quanto di peggio mi poteva capitare. Non quindi del fatto che mi si accusa, come credo appaia nelle carte dell’Accusa – e di questo parlerà il mio Avvocato – della responsabilità di una rapina commessa a Roma, ecc., di cui io non so nulla. Capisco queste cose, sono un pregiudicato per rapina. Fanno una rapina, a esempio, a Mantova, e mi fanno fare i riconoscimenti, non trovo nulla di strano in questo.

Però, mi consenta, Signor Presidente, c’è [in tutta questa storia] qualcosa di strano, qual è questa stranezza? Non è tanto che la mia immacolata coscienza di anarchico sia turbata dal fatto che qualcuno ha detto che potrei essere capo di un’organizzazione, quanto che si possa pensare che tutto quello per cui ho combattuto negli ultimi trent’anni della mia vita sia riconducibile a una striminzita, miserabile, ristretta, condizione di banda armata, secondo come è stata teorizzata nella “Annotazione” di cui abbiamo parlato. È questo che mi muove molto di più allo sdegno.

Quindi, la banda armata è cosa troppo piccola per racchiudere il nostro desiderio di libertà, il nostro desiderio di sconvolgere l’esistente. La banda armata, come, Signor Presidente, probabilmente lei stesso, io non so, ha avuto esperienza nella sua carriera di vedere, di constatare, di esaminare, di leggere, di giudicare, è altra cosa. Lei probabilmente si sarà trovato davanti a individui differenti, per carità, compagni anche loro, ma con un diverso modo di concepire le cose e sostenitori non soltanto di un certo modo di concepire il potere, diverso dal potere in carica, ma desiderosi di sostituirsi al potere in carica, ovviamente con tutte le legittimità della violenza trasformativa, rivoluzionaria, ecc., ma si tratta di un’altra cosa, Signor Presidente. La banda armata, così come viene teorizzata dai carabinieri nella “Annotazione”, può soltanto sostituirsi al potere, generare un potere di tipo diverso, non può distruggerlo, difatti non a caso in tutta questa “Annotazione” si parla di organigramma, di capo, di struttura centralizzata, noi, invece, vogliamo distruggere il potere, non lo vogliamo sostituire.

Nell’accusa sono stati indicati i miei rapporti con Azione Rivoluzionaria, un’organizzazione armata libertaria che era attiva alla fine degli anni ’70. Nella mia memoria difensiva, che lei, Signor Presidente, dovrebbe avere, a pagina 4 dichiaro la mia assoluta estraneità, però, per cercare di capire in che modo debba essere intesa questa mia estraneità a quella organizzazione, peraltro ormai storicamente ben delineata, vorrei leggere alcune righe di un mio articolo pubblicato sulla rivista “Anarchismo” numero 21, alle pagine 146-147. Io scrivo in questo testo: «Il fenomeno della lotta armata [questo articolo, precisiamolo, datiamolo, è del 1978, è stato pubblicato nel maggio-giugno 1978, quindi siamo alla fine degli anni ’70 e porta il titolo: “Di alcuni problemi fra i tanti”] non è costituito che in minima parte dalle realizzazioni delle organizzazioni armate, cosiddette “storiche” [ad esempio, le BR], quelle che magari trovano modo di realizzare le manifestazioni più eclatanti, ma, al contrario, [il soggetto è sempre “il fenomeno della lotta armata”] è costituito da un vastissimo comportamento illegale e antiautoritario che minaccia di diffondersi in modo incontrollato, e questo lo Stato lo sa benissimo, come bene lo sanno anche quelle organizzazioni politiche e pseudo-rivoluzionarie (ma sostanzialmente controrivoluzionarie) che cercano, in tutti i modi, di cavalcare la tigre di questo comportamento generalizzato. Ridurre il problema della lotta armata oggi [1978] in Italia a quello che fanno o non fanno le BR o a quello che ha fatto o che riuscirà a fare AR...» cioè “Azione Rivoluzionaria”, organizzazione a cui mi si accusa di avere appartenuto, e io per questo sto parlando di questi problemi, per questo motivo, non è un excursus storico il mio...

[Presidente]: Sì, sì, abbiamo capito.

«...è assurdo e privo di senso. [Quindi ridurre il problema della lotta armata a quello che fanno le BR o AR è privo di senso]. Significherebbe riproporre, con tutta l’autorità dell’analisi rivoluzionaria, lo schema di ragionamento che torna utile alla gestione spettacolare che del fenomeno della lotta armata il capitale cerca di dare oggi nel mondo (senza peraltro ben riuscirvi). [Uso dei mass-media e così via].

«È solo nei termini in cui questo comportamento antiautoritario e antillegale tende a generalizzarsi [ecco il punto essenziale, la rottura, diciamo, fra il mio modo di vedere le cose e quello di Azione Rivoluzionaria] che si avvicina alla fase che si vuole definire pre-rivoluzionaria, e non, come alcuni sostengono, che questa fase rende logico quel comportamento. Il guaio è che molti compagni, tanto bravi a individuare il peccato antiautoritario negli altri, non sono poi altrettanto bravi nel vedere il vizio nel proprio ragionamento, pur essendo questo vizio della stessa natura autoritaria che temono tanto negli altri. Infatti, questi compagni, quando fanno riferimento alla necessità che la lotta armata trovi giustificazione solo nella fase pre-rivoluzionaria, hanno in mente un modello organizzativo clandestino che è proprio quello realizzato oggi dalle BR, e non riescono a convincersi che esistono altri modelli organizzativi, traenti giustificazione proprio dal comportamento illegale generalizzato. Occorrerebbe maggiore riflessione su questi problemi, e, possibilmente, un minore quantitativo di giudizi a priori. È chiaro, infatti, che se il modello BR è anche possibile che esista in una realtà che non manifesta i segni di un comportamento illegale che tende alla generalizzazione su larghi strati in corso di criminalizzazione, non è possibile che altri modelli organizzativi, che proprio da quel comportamento trovano origine, esistano in momenti che non rendono possibile il diffondersi del comportamento illegale stesso.

«Ora, nel diffondersi di questo comportamento, anche i compagni più critici non possono chiudere gli occhi, tanto è vero che molte volte è possibile vedere poderosi recuperi operati da alcuni di quei compagni che avevano manifestato le idee più peregrine sull’argomento, dando indicazioni poi sonoramente smentite dai fatti. Se ciò è vero, è vero anche che da questo stato di cose si sta producendo la condizione per una maggiore generalizzazione del comportamento stesso e, quindi, dell’alzarsi del livello dello scontro e quindi, se si preferisce, della fase pre-rivoluzionaria.

«Occorre anche dir qualcosa sul problema che non è possibile una considerazione uniforme di questa fase [1978]. Alcuni compagni s’immaginano che essa debba assumere sempre le condizioni della presa del palazzo d’inverno [tipo: conquista del potere, rivoluzione russa, e così via], altri che essa debba scaturire soltanto da un acutizzarsi delle condizioni di crisi della gestione capitalista dell’economia, altri pensano che debba prima verificarsi un disequilibrio a livello internazionale o uno spostamento degli interessi delle zone d’intervento in cui risulta diviso il globo. Tutte queste opinioni sono valide, ma non possiamo mettere, singolarmente, in dubbio il fatto che il nostro compito rivoluzionario, in quanto anarchici, è quello di spingere gli sfruttati alla ribellione...». Come si vede, io, nel 1978, scrivevo esattamente le stesse cose che scriverò nel 1993...

[Presidente]: Alla rivoluzione, non alla ribellione, direi.

...alla ribellione...

[Presidente]: E sì, perché siccome prima aveva distinto tra ribelle... e rivoluzionario...

...io non sono ribelle, purtroppo, non ci posso fare nulla, ma qui intravedevo il compito degli anarchici nello spingere gli sfruttati alla ribellione...

[Presidente]: Va bene.

«...[quindi, spingere] ...alla lotta contro gli sfruttatori e non quello di stare ad almanaccare sulle possibilità di vittoria delle nostre organizzazioni in caso di scontro». Quindi non ci interessa la vittoria.

[Presidente]: Sì.

«Qualcuno ingenuamente si chiedeva cosa sarà di AR in caso di vittoria delle BR. Francamente questi dubbi amletici ci lasciano interdetti [non ci interessano]. Possibile non si sia ancora capito da quale parte sta il compito rivoluzionario degli anarchici? Possibile che ancora si torni a ragionare nei termini dell’etichetta organizzativa, per cui AR, solo per il fatto di aver messo una bella frase di Durruti in testa al suo documento più ampio e analitico, debba considerarsi la sola alternativa possibile alle BR? Possibile che non si comprenda che la vera e sola alternativa è la lotta armata generalizzata, spinta fino a livello insurrezionale, fatto ben più significativo delle più elevate realizzazioni delle organizzazioni storiche?».

Questo scrivevo nel 1978. E così Azione Rivoluzionaria rispose, in un suo contributo, pubblicato sulla stessa rivista [“Anarchismo”], nel numero 25, del gennaio-febbraio 1979 [p. 15]: «Ci riferiamo ad alcuni articoli apparsi di recente su “Anarchismo”, in cui dopo avere constatato il generalizzarsi del comportamento illegale e il carattere pre-rivoluzionario della fase attuale, si vuole alfine dire una parola chiara su quelli che devono essere i compiti rivoluzionari degli anarchici. Date le premesse ci si sarebbe aspettati una risposta del tipo: “gli anarchici devono cominciare a ribellarsi”. Niente di tutto ciò, gli anarchici [secondo “Anarchismo”, cioè secondo il mio scritto] devono spingere gli sfruttati a ribellarsi. Nell’interpretazione malevola ciò può voler dire: è la solita vecchia solfa, i leninisti, gli stalinisti, gli operaisti si ribellano, perché gli anarchici devono limitarsi a spingere gli altri? Chi spingerà gli anarchici? Non si troveranno fuori della storia ancora una volta? Nell’interpretazione benevola, spingere gli sfruttati a ribellarsi nell’unico modo possibile, ribellandosi, e non con i fiumi di inchiostro. Diamo per buona quest’interpretazione e andiamo avanti. A meno di un ritorno a vecchie riforme di individualismo (rispettabili se praticate, ma discutibili), ribellarsi significa organizzarsi se non ci si vuole esporre al massacro e se si vuole dare un minino di continuità e di luce all’azione. Nel numero 21 [di “Anarchismo”], si salta quest’inezia con un volo nel nulla, e si scrive: “gli anarchici devono capire che la sola [qui si riporta quello che ho detto io nell’articolo citato sopra, in altre parole ci si chiede: che cosa significa allora quello che ha detto Bonanno? Ecco cosa si chiedono questi di AR] alternativa alle BR non è un’organizzazione anarchica (AR o chicchessia), ma la lotta generalizzata armata, spinta sino al livello insurrezionale, fatto ben più significativo delle più elevate realizzazioni delle organizzazioni storiche”. Che significa? «Niente [ecco, si chiede Azione Rivoluzionaria: che cosa significa? punto di domanda, niente, virgola], o qualcosa di peggio, [virgola] merda o giù di lì. Da una parte si consumano fiumi di inchiostro di morotea “cauta attenzione” alle organizzazioni “staliniste” per metterne in luce le potenzialità controrivoluzionarie, poi si scopre che il problema non è quello di organizzare le forze non leniniste, ma di “generalizzare” la lotta. Visto che gli anarchici non hanno ancora preso posizione, organizzare le forze non leniniste non fa parte appunto di quella generalizzazione? Al di fuori di ciò, che senso ha dire che la generalizzazione è un’alternativa? Da quel che si sa, gran parte di questa “generalizzazione” è stata veicolata e promossa dalle organizzazioni leniniste che ne detengono, a ragione, l’egemonia, o questi compagni anarchici pensano che tutta questa gente che si ribella sia puro frutto del nulla o della lettura della rivista? o pensano, come i critici di Milano, che il fuoco insurrezionale brucerà tutte le forze che hanno appiccato il fuoco per lasciare libera espressione alla critica critica?».

Quindi, questa è la posizione di Azione Rivoluzionaria nei miei confronti, secondo me ogni commento è superfluo. La lettura di questi due testi riguarda la mia personale risposta ai miei rapporti con Azione Rivoluzionaria che si sono conclusi, come ha sentito... Signor Presidente, con la parola di Cambronne.

Ora [passando ad altro, a una sorta di elenco contenuto] nella mia lettera citata a pagina 14 della “Annotazione”, lettera datata 30 novembre...

[Presidente]: Lettera indirizzata a...

...non mi ricordo perché ... comunque lo dicono loro...

[Presidente]: Alla RAI forse?

Comunque, non mi interessa il destinatario. In questa mia lettera del 30 novembre 1992, c’è un elenco, riportato come ho detto dai carabinieri nella loro “Annotazione”, un elenco che è interessante, secondo me. Ecco come lo presentano i carabinieri: «L’intervento del Bonanno dovrebbe invece vertere su: ostacoli allo sviluppo di una lotta insurrezionale contro il capitalismo postindustriale e lo Stato; ristrutturazione tecnologica; ristrutturazione politica e militare; (crollo del socialismo, vari nazionalismi, implicazioni relative, teoriche e pratiche); possibilità di sviluppo della lotta insurrezionale di massa verso il comunismo anarchico; possibilità di costruire una rete di organizzazioni insurrezionali di massa a livello internazionale, mezzi e obiettivi. In chiusura della missiva, il Bonanno precisa che il loro progetto si inserisce perfettamente in quello “mediterraneo”, ecc.». Siccome è stato ripreso qua, adesso, non mi ricordo dove, questo riferimento “a livello del Mediterraneo”, ecco, vorrei spiegare che il discorso in quella sede era di eventualmente allargare il rapporto tra nuclei di base, coordinamento dei nuclei di base, anche a livello internazionale, non soltanto nelle singole realtà locali. Come si vede da questo elenco, affiora sempre il medesimo discorso sulla organizzazione di massa, organizzazione di lotta insurrezionale di massa.

Ora, riguardo queste conferenze che vennero da me tenute al Politecnico di Atene e alla facoltà di lettere dell’Università di Tessalonica, nel gennaio del 1993, a pagina 22, se Lei prende, Signor Presidente, a pagina 22 della “Annotazione”... è detto: «Non si tratta, quindi, [questo “quindi” è significativo] di interventi pubblici [questi di cui stiamo parlando, conferenze fatte nelle Università greche] come indicato in calce all’articolo [si riferisce a “Nuove svolte del capitalismo”, di cui abbiamo parlato a lungo sopra], ma di manifestazioni “interne” alla realtà antagonista greca, peraltro in stretto contatto con l’associazione in esame». Il Redattore della “Annotazione” si trova davanti a un problema. Egli si chiede: “Qua le cose sono due: o questo testo che noi abbiamo letto, quello delle Nuove svolte del capitalismo ...

[Presidente]: Sì.

...o è [come il Redattore della “Annotazione” insiste] la base per un’organizzazione armata clandestina, e allora certamente Bonanno non poteva farne argomento di discussione nelle Università greche, oppure non lo è e, se non lo è, tutta l’impalcatura del ragionamento [accusatorio] casca”. Quindi, da buon logico, deduce: «questi interventi non sono stati interventi pubblici come indicato in calce nell’articolo [perché nell’articolo c’è scritto interventi fatti in Grecia], ma manifestazioni interne alla realtà antagonistica anarchica greca».

È importante questo passo, Signor Presidente, perché, come lei troverà nella documentazione presentata... io, in quella occasione, ho rilasciato un’intervista al giornale greco “Leftherotypia”, giornale che sarebbe l’equivalente del nostro “Corriere della Sera”. Lei dovrebbe avere una copia del numero contenente l’intervista, pubblicata nell’inserto settimanale a colori, dove si parla appunto di queste conferenze, dove ci sono due mie fotografie, una davanti e una a tergo e così via. E ci sono anche le riproduzioni fotografiche delle copertine di alcuni libri miei. E quindi c’è, come dire, una prova oggettiva, non dico tanto... perché il giornale possa costituire una prova, quanto perché ci sono le fotografie. Fare un fotomontaggio di queste cose diventa veramente plateale. E quindi queste conferenze ci sono state...

[Presidente]: Cioè lei dice: è una conferma che le conferenze erano pubbliche…

...pubbliche...

[Presidente]: All’Università di Tessalonica.

...e al Politecnico, all’Università di Atene, il famoso Politecnico di Atene, oltre che alla Facoltà di Lettere dell’Università di Tessalonica. Questo docu... questo giornale è in suo possesso Signor Presidente, in caso contrario glielo do, se vuole glielo posso pure dare, ma...

[Presidente]: In questo momento non posso controllare perché, per controllare, dovrei stare venti minuti a... ce lo abbiamo? Ah, è questo?

[Avv. Venturino]: Presidente, io ho avuto cura di far portare un fascicolo...

[Presidente]: Abbiamo dimostrato l’efficienza della nostra Cancelleria. Ce lo abbiamo, non è lo stesso?

[Giudice a latere]: Sì, sì, è lo stesso, c’è anche la stessa copertina.

[Presidente]: Sì, ma ce lo abbiamo, se la può tenere la...

Ma, d’altro canto, perché l’estensore della “Annotazione” incappa in una cosa così clamorosa? Perché evidentemente ha la necessità di dimostrare che quel testo, di cui ha fatto oggetto centrale, diciamo, della sua tesi accusatoria, deve per forza costituire la base per un’organizzazione clandestina. In più la totalità delle conferenze è stata pubblicata in greco in un libro, che sempre si trova lì, ed è questo qua... dal titolo [in greco moderno] Due conferenze a Tessalonica... libro che appunto contiene soltanto le conferenze a Tessalonica, ma con il relativo dibattito...

[Presidente]: Sì, eccolo qua, è questo.

Ora [passiamo ad un] altro argomento. A pagina 18 della “Annotazione” c’è scritto: «Dal 13 al 15 maggio 1988, [ebbe corso] in Forlì un convegno antimilitarista organizzato dalla FAI, Bonanno Alfredo… [ed altri] che avevano invitato [e poi continua tra virgolette e in corsivo, quindi deve trattarsi di una qualche citazione, ma non documentata] i proletari a fare propria l’azione diretta sovversiva fuori e contro ogni delega, venivano accusati di terrorismo dagli oratori ed estromessi dal congresso». Su questo punto, nel dossier dovrebbe esserci una dichiarazione della Federazione Anarchica Italiana la quale sostanzialmente dice, io cito qua [da una copia del documento in mio possesso]: «I recenti fatti repressivi amplificati dalla stampa... [si riferisce agli arresti del settembre 1996].

[Presidente:] Sì.

...sulla base dei comunicati della Magistratura e del Ros, rappresentano una articolazione furbesca delle nuove tecniche di controllo sociale basate sulla invenzione di appartenenze, congressi, espulsioni, ruoli di comodo».

[Presidente]: Espulsioni che non si sono mai verificate?

...esattamente, «in particolare la FAI non ha tenuto un congresso a Forlì [non era un congresso della FAI, mi dispiace per l’estensore della “Annotazione”] nel 1988. Nel proprio patto associativo non prevede l’espulsione a maggior ragione nei confronti di chi non ha mai aderito ad essa...».

[Presidente]: eccetera eccetera…

...quindi, questo... Ma passiamo ad altro.

Ora, tra i miei tanti processi [a mio carico] di cui le accennavo prima, Signor Presidente, ce ne è uno significativo che riguarda il problema del sabotaggio e in particolare un volantino pubblicato sulla rivista “Anarchismo”, nel numero 55, alle pagine 13 e 14, [in questo volantino, prendendo spunto] dall’incontro Gorbaciov-Reagan, si diceva: «Se si fossero messi d’accordo cosa sarebbe cambiato?». E, più sotto: «Invece, segando appassionatamente». Nella pagina seguente [cioè la p. 14] si trova riportata la traduzione di un volantino tedesco che indicava il modo e la tecnica per segare un traliccio dell’alta tensione. Io sono stato imputato, in una serie di processi [nei diversi gradi], per questa pubblicazione qui. In primo grado sono stato assolto, in secondo grado condannato a otto mesi, poi una sentenza della Corte di Cassazione mi ha rigettato il processo alla Corte di Appello di Catania con questa motivazione, di cui mi sembra importante leggere due righe, perché ci aiuta a capire il funzionamento...

[Presidente]: Ho sotto gli occhi la sentenza.

...scusi, ci aiuta a capire il funzionamento [del meccanismo applicato dai carabinieri] di dar vita a qualcosa che non esiste per farla poi camminare da sé. Quello che è accaduto qua [nel processo di Roma, che ci occupa]. La Corte di Cassazione dice: «In ordine al denunziato travisamento del fatto sollevato nel rapporto dei carabinieri di Torino si legge testualmente: in data 11 novembre 1987 che è apparso sul quotidiano “La Stampa” un articolo di cronaca dal titolo “Segato traliccio che alimenta centrale nucleare di Bologna”, visto il contenuto dell’articolo – dice il rapporto dei Carabinieri – e le modalità operative attuate dai sabotatori, si ha l’impressione che gli autori abbiano preso lo spunto da un articolo pubblicato a pagina 13 e 14 della rivista “Anarchismo”…» [quello che abbiamo visto prima]. E la sentenza della Cassazione continua: «Nel citato rapporto i verbalizzanti prospettarono dunque solo una ipotesi fondata su una loro opinione che avrebbe dovuto essere verificata in sede giudiziaria, corroborata da prove, e che invece, senza controllo alcuno, è stata trasformata in una tesi e ritenuta attendibile. [Il procedimento, come si vede, è sempre quello]. Orbene, se il travisamento di fatto che può inficiare di nullità una sentenza, in quanto ne vizia i presupposti logici, deve inerire, come più volte affermato da questa Corte suprema, ad elementi di decisivo rilievo ed, inoltre, per poter essere valutato in sede di legittimità, deve consistere nel dare per scontato un fatto manifestamente escluso dalle risultanze probatorie o nel denegare la sussistenza di elementi pacificamente acquisiti al compendio probatorio, deve dirsi che, nella fattispecie in esame, i giudici di merito hanno dato per scontato che, secondo i carabinieri, l’incriminato articolo di stampa ha determinato il sabotaggio di un traliccio di alta tensione, fatto escluso manifestamente dalle risultanze processuali. La circostanza travisata è essenziale in quanto da essa dovrebbe trarsi la prova dell’idoneità dell’articolo a istigare altri al reato e, dunque, il denunciato vizio di legittimità è sussistente». Ed ecco che mi si condanna a otto mesi, mentre la Corte di Appello di Catania, in sede di un ulteriore processo, accetta la tesi della Cassazione e mi assolve.

[Presidente]: Definitivamente?

Definitivamente.

[Presidente]: Non ci fu appello contro, ricorso in Cassazione contro la...

No, dopo no, no. Insomma è finita là la cosa , non...

[Avv. Venturino]: Signor Presidente, mi scusi se intervengo, volevo chiedere al signor Bonanno di chiarire, anche per i Giudici popolari, tutto questo processo, qual è il tema, perché i Giudici popolari non lo conoscono, la questione dei tralicci, altrimenti risulta poco chiaro questo discorso.

[Presidente]: Ma perché dice che non lo conoscono i Giudici popolari, guardi che conoscono tutto i Giudici popolari.

[Avv. Venturino]: Anche del processo sui tralicci? Per questo fatto?

[Presidente]: Da quanto tempo ci vediamo noi in quest’aula? Mi sembra da più di un anno.

Comunque, secondo me, la questione dei tralicci ci aiuta su due argomenti: l’argomento del sabotaggio e l’argomento della non connessione logica fra lo scritto e il fatto. Questo mi interessa da un punto di vista...

[Presidente]: Abbiamo la sentenza.

Sì. Ora, un altro piccolo elemento... perché tutti questi elementi, diciamo, che sembrano scollegati l’uno con l’altro, ci aiutano a capire meglio il modo in cui è stato condotto il lavoro critico, perché di tale tipo di lavoro si tratta, dall’estensore della “Annotazione” in quanto, per la prima volta probabilmente in vita sua, l’estensore della “Annotazione” si è trovato davanti al tentativo di dare corpo, fondare, analizzare, approfondire una teoria, non dei fatti, e quindi si è trovato in difficoltà, io mi rendo conto, ma non è compito mio aiutare i carabinieri.

Ora, per passare ad altro, a un certo punto nella “Annotazione”, a pagina 23, si legge tra parentesi, riportando abbastanza esattamente una mia frase: «Riguardo le analisi, si cercherà di farle circolare il più possibile a mezzo della stampa nostra», come a dire, espressione per noi [anarchici] molto corrente, per “stampa nostra” si intende i nostri giornali. E l’estensore tra parentesi precisa: «Nota del Redattore: intesa la stampa nostra come pubblicistica a circolazione interna». Io per tanto tempo mi sono chiesto: ma perché questa preoccupazione di chiarire, di specificare questa cosa? Invece è importante, perché, giustamente, cosa sarebbe un’organizzazione armata clandestina, se non avesse una stampa clandestina? Ma, guarda caso, “Anarchismo” ha l’autorizzazione del Tribunale di Catania numero 434 del 14 gennaio 1975, (e lo stesso gli altri giornali anarchici hanno le loro registrazioni), indicazione che in più si trova riportata, come previsto dalla legge, su ogni fascicolo. In più vengono consegnate otto copie alla Prefettura. Come mai improvvisamente invece tutta questa attività, peraltro ineccepibile, viene considerata clandestina? Oppure sarebbe meglio dire viene clandestinizzata?

Prima di chiudere, mi pare che si sia fatto tardi, vorrei soltanto portare a sua conoscenza, Signor Presidente, questi due esempi [organizzativi] a cui ho fatto riferimento prima: quello del Compartimento dei Ferrovieri di Torino, di cui qui c’è il documento organizzativo del Nucleo Autonomo di Base, del primo Nucleo Autonomo di Base che si costituì a Torino...

[Presidente]: Nel millenovecento...

...glielo dico subito, 1977.

[Presidente]: 1977?

...esatto... perciò abbastanza prima che si parlasse correntemente di Cobas o di altro... ora, in questo piccolo documento, di cui ho accennato nella “Memoria difensiva” a pagina 8, si legge ciò che riguarda la costituzione del Nucleo Autonomo di Base. Stiamo parlando di un’organizzazione dei lavoratori Ferrovieri di Torino che nel 1977 trovò un certo sviluppo, che cercò anche di allargare la propria capacità di incidere nelle lotte, che in quel momento si stavano sviluppando a Torino, collegandosi con altri settori abbastanza simili, come ad esempio i lavoratori degli autobus, dei trasporti urbani. A noi interessa stabilire però perché qui si parla di Nucleo Autonomo di Base, perché questo ci può essere utile per capire meglio il concetto di cui abbiamo parlato prima, no?

Il documento in questione, che porta come titolo: Organizzazione del nucleo autonomo di base, è stato pubblicato in opuscolo (Edizioni MAB, Torino) nel 1977 ed è da questa edizione che cito i passi seguenti: «Il Nucleo si pone come organizzazione che intende distinguersi dai sindacati confederali e dai sindacati autonomi. La sua autonomia qualifica la struttura che intende darsi un senso antiburocratico. È basato, quindi, sulla eliminazione della delega permanente e sulla negazione della professionalità dei rappresentanti. Tutta la base è impegnata nella lotta contro i padroni e i loro servitori. Questo impegno di lotta è costante e non è limitato ai soli periodi dello sciopero fissati da organismi precisi. Ogni componente il Nucleo Autonomo di Base si considera permanentemente in lotta contro il padrone e i suoi servitori, siccome appunto questi ultimi sono perennemente in lotta contro i lavoratori nel tentativo di perpetuare lo sfruttamento. Il Nucleo Autonomo di Base non è legato a nessuna ideologia sindacale o partitica, mentre la propria posizione antipadronale lo qualifica, in modo chiaro e senza dubbi, come strumento che i lavoratori si danno per la propria emancipazione. L’attività di propaganda e la realizzazione delle lotte precise, dirette a ottenere risultati ben identificati, e l’impiego di certi mezzi per realizzare queste lotte – mezzi di pressione sulla controparte – costituiscono un elemento di ulteriore chiarificazione sia per coloro che entrano a far parte del Nucleo Autonomo di Base, sia per i padroni che intendono considerarlo, insieme ai loro servitori, come un nemico di classe. L’adesione al Nucleo Autonomo di Base è la logica conclusione per tutti coloro che si considerano traditi dai vari organismi sindacali e desiderano continuare la lotta contro lo Stato-padrone, allargandola in una prospettiva che non poteva essere in alcun modo quella delle forze sindacali».

[Presidente]: Ma è stato lei a scriverlo?

Sì, sono stato io.

[Presidente]: Ah, è stato lei.

Sì. Perché diceva che non sono stato io?

[Presidente]: No, perché volevo sapere se l’idea del Nucleo di base era una idea sua...

Sì.

[Presidente]: ...o invece lei lo aveva già utilizzato, aveva utilizzato questo concetto...

...no, questo [testo] l’ho redatto io...

[Presidente]: Ecco, fin dal millenovecento... [1977]

No, un momento, sempre, quando dico l’ho redatto io è con un poco, forse, di presunzione. L’ho redatto discutendo con parecchie e parecchie persone che erano compagni e non compagni...

[Presidente]: Voglio dire che l’idea è sua, quella del Nucleo di Base? Questo volevo dire. Perché se non fosse stata sua...

...non avrebbe senso...

[Presidente]: ...allora lei lo avrebbe detto?

Certo. Quindi, alla pagina finale, alla pagina 14, sempre del Documento [organizzativo] dei Ferrovieri di Torino c’è scritto: «Il Nucleo Autonomo di Base è un organismo di lotta per la difesa dei Ferrovieri che intende affermare il principio di autonomia della lotta. Per questo nega validità ai sindacati e denuncia la loro collusione col potere. In base al principio dell’autonomia, il Nucleo Autonomo di Base afferma la necessità della conflittualità permanente all’interno della realtà produttiva e la necessità di esportare le caratteristiche essenziali della lotta verso l’esterno, onde sfuggire alla chiusura corporativa. Gli obiettivi di questa comunicazione all’esterno sono l’utenza e i settori produttivi collaterali». Come si vede, sono i medesimi concetti di cui si parla nel mio articolo: “Nuove svolte del capitalismo”, che dovrebbe invece costituire la base di un’organizzazione clandestina. Qua siamo abbastanza lontanucci secondo me.

Se mi è consentito, Signor Presidente, ecco adesso parlerei di questo...

[Presidente]: Abbiamo il documento...

...lo stesso modello, come vede, questo stesso modello venne realizzato a Comiso, dove non c’erano Nuclei di Base, ma erano chiamati... cioè erano le stesse strutture ma erano chiamate Leghe Autogestite. Queste dettero vita, essendo parecchie, in quanto in tutto il ragusano, per due anni, si costituirono decine di queste Leghe, dettero vita, dicevo, a un coordinamento di cui, come lei vede, nell’opuscolo che contiene il Documento organizzativo delle Leghe Autogestite, pubblicato a Catania nel 1982, c’è anche l’indirizzo di Comiso, e anche il numero di telefono.

[Presidente]: Sì.

Signor Presidente, se mi consente una piccola digressione. Nel corso di questi due anni di propaganda nel ragusano, e a Comiso in particolare, all’ingresso del Petrolchimico di Gela siamo stati fermati dalla polizia e portati in Questura. Gli operai del Petrolchimico fecero intervenire i loro dirigenti sindacali per fare... per chiedere che cosa era successo. La polizia, come succede spesso, calcando la mano, disse loro che eravamo dei terroristi e che quindi era per questo che ci avevano fermato, ma giustamente gli operai, nella loro ingenuità, dissero: “ma come mai ci sono dei terroristi che hanno pure l’indirizzo e il numero di telefono?”, insomma tutto ciò parve a loro molto strano.

Quindi io non vi tedio ancora, però vorrei richiamare la vostra attenzione sulla pagina 4, dove si legge: «Che cos’è la Lega autogestita? È un’organizzazione autonoma di lotta che raccoglie tutti coloro che hanno realmente e sinceramente l’intenzione di impedire la costruzione della base. […]. I princìpi generali sono: Conflittualità permanente. La lotta contro la costruzione della base può avere risultati positivi solo a condizione che sia costante, ininterrotta ed efficace. Una lotta saltuaria, sporadica, legata ad interventi occasionali finirà per risultare perdente. Autogestione. Le Leghe autogestite, cioè, non dipendono da alcuna organizzazione, partito, sindacato, clientela, ecc. Non ricevono soldi se non provenienti dalle sottoscrizioni spontanee degli stessi aderenti alle Leghe. Su questa loro autonomia si fonda la loro forza. Attacco. Le Leghe rifiutano i discorsi di mediazione, di pacificazione, di sacrificio, di accomodamento, di compromesso. Esse sostengono la necessità di un attacco contro gli interessi padronali che stanno realizzando il progetto criminale degli USA». Come si vede, i princìpi sono i medesimi, Signor Presidente, che lei trova nell’articolo di cui...

[Presidente]: Sì, anche questo opuscolo è stato compilato...

...sempre...

[Presidente]: Principalmente da lei, no?

...princip... bravo, è la parola esatta, sì. Ora, perché gli anarchici? Prima di chiudere lasciatemi dire due cose, mi sono chiesto perché gli anarchici, perché? Perché il 12 dicembre la bomba a piazza Fontana? Perché l’assassinio di Pinelli? Che significa? In fondo io non sono tanto stupido da non rendermi conto che gli anarchici, nella realtà sociale italiana e internazionale, oggi, che cosa costituiscono? Meno che nulla. Forse più un fantasma che una realtà. Una idea che non è capace di realizzarsi nello sviluppo quantitativo, sembrerebbe un’utopia. Io invece penso che gli anarchici siano molto pericolosi, Signor Presidente, perché rappresentano, a livello di coscienza, il desiderio che ognuno di noi ha di una vita diversa, di una vita libera, senza la tristezza che quotidianamente ognuno di noi sperimenta, una vita bella, appassionatamente più bella. E per questo non hanno paura di dire che sono nemici dello Stato. Certo, da soli non possono avere quella pericolosità che la scelta di tanto nemico meriterebbe, però ci sono degli alleati incredibilmente potenti degli anarchici, e questi si nascondono fra la gente, fra la gente comune, fra la gente che ha bisogno di trasformare la propria vita, la propria situazione. Basta un piccolo cenno, una piccola cosa imprevedibile che potrebbe succedere. Non sono i partiti, non sono le grandi ideologie repressive, non sono i grandi progetti di conquista del potere che significano per la gente qualcosa nel momento in cui si gioca la propria vita. Ecco, gli anarchici, in questo contesto, significano qualcosa. Difatti, tutte le volte che c’è la possibilità, per la gente, di poter prendere coscienza... non del modo di vedere la vita [tipico] degli anarchici, ma del modo particolare in cui gli anarchici vedono la vita, questo modo diventa qualcosa per la singola esperienza di ogni individuo. Non occorre leggere i libri scritti dagli anarchici, non occorre sapere cosa vuol dire la differenza tra gruppo di affinità e nucleo di base, queste sono faccende da specialisti.

È questo che fa paura, il fatto che l’anarchico potrebbe essere il compagno di strada di milioni di persone, che ad un certo momento, al di là delle barriere ideologiche della stessa situazione di classe, potrebbero scendere in piazza. E allora sì che lo Stato avrebbe paura.

[Presidente]: Possiamo dare la parola al Pubblico Ministero per qualche eventuale domanda?

[Dott. Marini]: Vorrei chiedere una sospensione, breve, Signor Presidente.

[Presidente]: Una breve sospensione, va bene, dieci minuti però.



L’interrogatorio del Pubblico Ministero viene rinviato al 15 dicembre 1999.

 


[Dichiarazione rilasciata alla Corte di Assise di Roma il 30 novembre 1999. Trascrizione della registrazione su nastro]

Memoria difensiva presentata al Giudice della Udienza Preliminare di Roma l’8 marzo 1997

Io sottoscritto Alfredo Maria Bonanno, imputato nel procedimento in corso n. 8447/95 insieme ad altri, con la presente Memoria voglio contribuire a fare chiarezza su di un elemento dell’accusa che ritengo fondamentale.

Premetto che non è mia intenzione entrare nel merito delle singole imputazioni. Provvederà a ciò il mio avvocato. Premetto pure che non voglio entrare nei tanti casi dell’Ordinanza in cui l’ipotesi “a priori” dell’esistenza di una “banda armata” viene impiegata per spiegare alcuni fatti. Anche questo sarà compito degli avvocati.

Mi limito a negare nel modo più assoluto l’esistenza di una “banda armata” denominata “Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica Insurrezionale”, basata secondo l’ordinanza del GIP sulla costituzione di “Gruppi di Affinità”, di “Nuclei di base” e “Coordinamenti”. E poiché nell’ordinanza in questione, a pagina 5, si afferma che tale organizzazione è stata da me “teorizzata”, mi vedo costretto a dichiarare nella maniera più chiara possibile che non ho mai teorizzato nulla del genere, né nei miei scritti, pubblicati su giornali, riviste e libri, né nelle mie conferenze, dibattiti o comizi pubblici.

Sfido chiunque a provare il contrario.

Qui mi interessa ribadire che quanto ho scritto nell’articolo “Nuove svolte del capitalismo”, ritenuto dagli inquirenti la base teorica dell’“Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica Insurrezionale”, non riguarda minimamente una “Banda armata clandestina” e ciò per due motivi. Primo, perché una semplice lettura del testo chiarisce meglio di qualunque commento il suo contenuto. Secondo, perché trattandosi di una bozza per le conferenze da me tenute in alcune Università greche nel 1993, non potevo certo parlare di fronte a centinaia di persone di come organizzare una “Banda armata clandestina”.

Anche il redattore del ROS si è trovato di fronte a questo problema e ha sciolto il nodo tagliandolo di netto, affermando cioè che quelle conferenze non ci sono mai state. Affermazione da me dimostrata falsa. E non ci poteva essere altra conclusione possibile per il redattore della “Annotazione”, in caso contrario, cioè ammettendo le conferenze greche, doveva pure ammettere che il contenuto del mio articolo era quello che il suo titolo affermava, un excursus della teoria che vado sostenendo da almeno vent’anni.

Ma qual è questa teoria?

Cerco qui di riassumerla in poche righe.

La ristrutturazione del capitalismo e dello Stato, con il largo impiego delle tecnologie telematiche, ha talmente trasformato dall’interno i cosiddetti mezzi di produzione (settori industriali, commerciali, dei servizi, ecc.) da rendere questi mezzi inutilizzabili da un punto di vista rivoluzionario. Nel caso quindi di una rivoluzione non saremmo più di fronte alla situazione che si è verificata altre volte in passato, cioè un passaggio dai vecchi poteri ai nuovi poteri rivoluzionari e una gestione da parte di questi ultimi a seconda delle proprie teorie, cioè sia in vista della stabilizzazione di un nuovo potere (autoritari marxisti), sia in vista di una immediata abolizione di ogni tipo di potere (antiautoritari anarchici). Insomma, i mezzi di produzione, a seguito delle trasformazioni tecnologiche attuali, sono inutilizzabili e quindi vanno distrutti, a partire da adesso, senza aspettare il momento rivoluzionario.

In questa prospettiva si inserisce la concezione insurrezionale dell’anarchismo che spinge gli anarchici a prendere coscienza della trasformazione del capitale e dello Stato e a organizzarsi in piccoli gruppi chiamati “gruppi di affinità”.

Ma che cos’è l’affinità? L’anarchismo non è soltanto un progetto politico e sociale, ma è anche un modo diverso di vedere la vita. Per questo motivo deve partire dal singolo individuo e non da programmi ideologici confezionati. I rapporti tra anarchici sono quindi, prima di tutto, personali. Sono rapporti tra individui che amano la libertà. Questi rapporti si fondano sulla reciproca e profonda conoscenza. Solo la conoscenza può verificare se c’è affinità di vedute, e quindi se si può fare qualcosa insieme. Un gruppo di affinità è quindi un insieme di compagni (anche piccolo, ad esempio due persone) che si conoscono e hanno individuato alcune affinità sia di vita quotidiana che di analisi politica o economico-sociale. Questo gruppo studia, riflette, vive, attacca il potere, scegliendo in modo assolutamente autonomo le maniere e gli obiettivi di questa sua attività anarchica, senza capi e senza programmi teorici confezionati altrove.

Certe volte, nella loro vita, i gruppi di affinità, oppure anche singoli compagni anarchici, si trovano ad affrontare problemi più complessi, come ad esempio partecipare a delle lotte di massa contro certi obiettivi. In questo caso danno vita a delle organizzazioni informali.

Ma che cos’è un’organizzazione insurrezionalista informale? È l’aggregazione temporanea di singoli anarchici, di gruppi di affinità e di persone che non sono anarchiche ma che hanno interesse a partecipare ad una lotta specifica per rivendicare i propri diritti oppure per impedire che dei soprusi vengano commessi. Due soli esempi significativi: il Movimento autonomo di base dei ferrovieri del Compartimento di Torino, che durò circa un anno; il Coordinamento delle Leghe autogestite contro la costruzione della base missilistica di Comiso, che durò due anni.

Prima di concludere voglio sottolineare tutto il mio sdegno per il tentativo di farmi passare come “capo” di un’organizzazione, quale essa sia.

In quanto anarchico sono contro tutti i capi, e, su questo punto, tutti gli anarchici sono d’accordo senza eccezioni. Nessun anarchico accetterebbe quindi di fare parte di una struttura munita di un organigramma gerarchico. La grande ricchezza dell’anarchismo è il suo profondo desiderio di libertà e l’altrettanto profondo disprezzo per tutte le gerarchie e tutti i poteri, anche quelli che si dicono rivoluzionari.

Personalmente ho lottato tutta la vita contro la mentalità autoritaria anche quando prendeva la forma della cosiddetta sinistra rivoluzionaria. Ai partiti armati ho sempre indirizzato la mia critica puntuale.

Una “banda armata”, un’organizzazione armata clandestina è troppo poca cosa per racchiudere il mio desiderio di libertà e la mia voglia rivoluzionaria di distruggere il potere, sarebbe come racchiudermi in una stanza quando posso avere davanti agli occhi il libero orizzonte privo di nuvole.

Il potere va distrutto, non conquistato. Chi pensa di poterlo conquistare per poi distruggerlo ne rimane prigioniero per sempre, come i recenti fatti storici testimoniano con triste chiarezza.

Il progetto rivoluzionario di cui parlo è quello di lottare insieme alla gente per farla insorgere contro ogni sopruso e ogni repressione. Quello che muove gli anarchici è il desiderio di un mondo migliore, di una vita migliore, di una dignità e una morale che l’economia e la politica hanno distrutto.

È per questo che gli anarchici fanno paura.

È per questo che vengono rinchiusi in carcere.

È per questo che vengono considerati pericolosi: per quello che pensano e per quello che fanno.

Per quello che pensano: è cosa chiara. Il nostro pensiero è assolutamente antistatale. Che cosa volete che faccia lo Stato? Appena gli è possibile, ci impedisce di continuare a muoverci in quella società condizionata e senza ideali dove potremmo rappresentare la scintilla per una ribellione. Certo, potremmo anche non essere così pericolosi, ma non si sa mai.

Per quello che fanno. Ogni anarchico è responsabile per le azioni che intraprende nella sua vita, dai fatti minimi della vita quotidiana, ai fatti spesso più complessi, dell’attacco contro lo Stato, le istituzioni e gli uomini che lo concretizzano.

Non esiste una responsabilità collettiva.

Ogni anarchico si sceglie i propri compagni di lotta, spesso sulla base dell’affinità, oppure su altre basi teoriche che solo lui è arbitro di approfondire, e va avanti, fino in fondo, fino al carcere, fino alla morte.

Per questo gli anarchici non accettano etichette confezionate da altri, ad altri funzionali. Non accettano di essere considerati partecipanti di un’organizzazione come quella descritta dalla “Ordinanza di custodia cautelare” che di certo gli estensori hanno visto all’opera in altre occasioni, occasioni che non ci riguardano, né possono riguardarci.

Montatura

Gli anarchici sono nemici dichiarati dello Stato e di tutte le concrete realizzazioni istituzionali che quest’ultimo si dà per controllare e reprimere. Questa dichiarazione di principio, pur nella sua astrattezza, è una delle caratteristiche essenziali dell’anarchismo e non è mai stata messa in dubbio.

Lo Stato sa benissimo che gli anarchici sono i suoi irriducibili nemici, coloro che, più o meno efficacemente, lo combatteranno fino alla fine.

Ma sa anche che, proprio per questa posizione di totale e radicale inimicizia, gli anarchici non possono trovare alleati nella loro lotta contro lo Stato, se non nella partecipazione spontanea degli individui desiderosi di cambiare le condizioni di oppressione in cui viviamo tutti.

Lontani da ogni gioco di potere, diamantini nella loro cristallina purezza di idee, gli anarchici hanno costituito da sempre la spina nel fianco di ogni Stato, dal dispotico al democratico, da qui la particolare attenzione che gli organi gli polizia di ogni genere hanno avuto nei loro confronti.

E poiché polizia e magistratura sanno bene che gli anarchici, anche se alieni dal cercare alleanze politiche, riescono lo stesso a riscuotere la simpatia di coloro che non si sono definitivamente venduti, eccoli con tutti i mezzi a cercare di coinvolgerli in azioni che spesso non possono essere opera loro, non tanto per motivi di fatto ma proprio per scelte di fondo, per motivazioni di principio.

Gli anarchici sono vicini a chi subisce l’oppressione spesso senza sapere come reagire, e questo lo sanno tutti. La loro vicinanza è qualche volta ideale, ma altre volte dà una mano all’attacco contro gli interessi dei dominatori. Il sabotaggio costituisce un esempio facile da seguire, specialmente quando è realizzato con mezzi semplici e quindi risulta alla portata di tutti. Ciò disturba.

Gli anarchici hanno occhi aguzzi per individuare i luoghi dove le realizzazioni del dominio diventano appena appena visibili, e qui colpiscono. Il loro modo di procedere è sempre facilmente riconoscibile perché diretto ad essere riprodotto nella maniera più ampia possibile. Non hanno la pretesa di individuare cuori sensibili dello Stato o di arrogarsi la competenza di colpirli. Ciò disturba.

Gli anarchici non accettano “sovvenzioni” e sostegni, per la loro lotta trovano da soli i propri mezzi. Di regola ricorrendo all’aiuto dei propri compagni, con sottoscrizioni o altro. Non amano prostituirsi. Per questo non hanno il sacro rispetto per la proprietà dei ricchi. Quando qualcuno di loro, a titolo personale, perché così ha deciso, bussa alla porta di qualche banca, se qualcosa va male è pronto a pagare le conseguenze. Vivere liberi ha i suoi costi. Ciò disturba.

Ma alcune cose non sono disposti a farle. Non sono disposti ad ammazzare la gente indiscriminatamente, come fanno gli Stati nelle guerre ed anche nei periodi di cosiddetta “pace”. Non accetterebbero mai la semplice idea di una strage indiscriminata di persone.

Allo stesso modo gli anarchici sono contro il carcere [nell’opuscolo la parola “carcere” è stata erroneamente sostituita con “potere”, fatto che rende il testo di difficile comprensione – ho ripristinato la parola esatta], qualsiasi carcere, anche quello che i sequestratori infliggono ai sequestrati in attesa che si decidano a pagare le somme richieste per il riscatto. Chiudere a chiave un uomo è pratica avvilente. [Molte discussioni sono sorte dalla stesura di questo paragrafo in cui affermo la mia personale avversione ai sequestri di persona. Resta comunque il fatto innegabile che io mi sono arrogato la pretesa di parlare a nome “degli anarchici”, quindi di tutti gli anarchici, cosa che non solo era (ed è) errata, ma che ingenera equivoci. Il fatto che io sia contro la pratica dei sequestri non mi dava evidentemente il diritto di presupporre condivisibile da tutti gli anarchici questa mia presa di posizione. E di questo mi scuso formalmente. Per la verità mi scuso dal 1996, e l’ho fatto verbalmente con compagni che hanno avuto la cortesia di sollevare con me questa obiezione in modo, diciamo, amichevole, presupponendo in me quella buona fede alla quale qualsiasi compagno dovrebbe avere diritto in qualsiasi polemica. Ve ne sono altri, per altro a me vicini come modo di considerare la lotta e l’impegno rivoluzionario, che hanno ritenuto opportuno non darmi il credito di questa buona fede. Naturalmente mi scuso anche con loro, ma non sono disposto ad andare oltre].

Un’altra cosa che gli anarchici rifiutano è una struttura clandestina armata, dotata di organigramma, di regole di funzionamento, di progetti politici e tutto il resto. Quello che il linguaggio comune insiste nel definire “banda armata” è lontanissimo dall’idea che gli anarchici si fanno della propria contrapposizione allo Stato, contrapposizione che se qualche volta può anche essere violenta – e quindi armata – non sarà mai rigidamente fissata su canoni che risultano in definitiva mutuati dalla stessa struttura che si vuole combattere.

Tutte le montature che negli ultimi decenni sono state costruite contro gli anarchici hanno quindi seguito due direttrici: da un lato gli organi dello Stato hanno tenuto presente l’estrema pericolosità di un modello di vita e d’azione che, se appena appena si generalizzasse o venisse conosciuto in maniera adeguata, potrebbe sconvolgere il presente assetto della società degli addormentati e dei consenzienti; dall’altro lato hanno cercato di indicare gli anarchici come responsabili di stragi, di sequestri, di banda armata: proprio quello che gli anarchici non possono decidere di fare.

Ma perché lo Stato cerca di “usare” gli anarchici? Perché con il loro modo di essere contrari a ogni compromesso e ad ogni connivenza politica con gli attuali e con i futuri dominatori si prestano benissimo ad essere utilizzati in questo senso. Chi troveranno che li difenderà? Chi sposerà la loro causa? Nessuna persona dabbene potrebbe farlo, ed è proprio per tenersi buone le persone dabbene che lo Stato controlla, ruba, massacra e tutto il resto.

Certo, lo Stato potrebbe accontentarsi di mettere in carcere gli anarchici semplicemente accusandoli di comportamento antisociale, di professare una dottrina pericolosa, di vilipendio degli organi istituzionali, di apologia di reati vari, di incitamento alla rivolta. Decine e decine, per non dire centinaia, di processi del genere sono stati celebrati e non ci sono mai state condanne serie: da qualche mese a qualche anno.

Ma gli anarchici disturbano la quiete dorata dei benestanti, possono costituire la piccola fiamma che fa divampare l’incendio, e con i tempi che corrono occorre tenere pronta una strategia adeguata per metterli completamente fuori gioco.

Ecco venire alla luce un sig. Antonio Marini, sostituto procuratore in quel di Roma. Un signore dai denti aguzzi e dal cervello fertile nell’inventare storie. Ha alle spalle l’esperienza di processi come quelli per il caso Moro o per l’attentato al Papa, quindi non c’è persona più adatta di lui per la bisogna: mai e poi mai potrebbe capire come ragionano gli anarchici e di cosa – a termini di legge – essi sono costantemente responsabili.

Ecco quindi l’egregio Marini porsi sulla scia dei suoi illustri predecessori e costruire il suo teorema: gli anarchici sono i responsabili di migliaia di azioni contro lo Stato e contro le sue propaggini economiche che negli ultimi anni si sono diffuse in tutto il territorio nazionale. Ora, il teorema fa acqua. Come si fa a dimostrare che pochi anarchici hanno buttato giù centinaia di tralicci o incendiato le filiali Standa del sig. Berlusconi? Non lo si può. Occorre quindi che li si ponga al centro di ben altre faccende, più grandi: stragi non ce ne sono a portata di mano (in futuro non si sa, vedremo!), ma ci sono i sequestri. Ecco quindi attribuire loro il fatto, davvero sconvolgente, di avere avuto mano in tutti i più importanti sequestri degli ultimi anni. Che importa che moltissimi anarchici sono contro qualsiasi forma di prigionia: questo il buon Marini non lo sa. Posto il teorema, condito con il corollario della banda armata, si trova anche una giovane che sostiene di conoscerli gli anarchici, di conoscerli bene, di avere persino fatto una rapina con alcuni di loro. Il resto verrà da sé. Andiamo signori, si parte per l’ennesima sceneggiata.

A suo tempo furono le bombe alla Fiera campionaria di Milano. Alcuni compagni anarchici di Milano vennero accusati di strage e tenuti in carcere per quasi un anno. Al processo tutto si sgonfiò. Montatura.

Poi la strage di piazza Fontana, con decine di morti. Gli anarchici responsabili. L’uccisione di Pinelli, buttato giù da una finestra della questura di Milano. Oggi la stessa magistratura, dopo un quarto di secolo, ha dovuto ammettere che a mettere le bombe furono i servizi segreti dello Stato democratico italiano. Montatura.

Nel 1980 decine di arresti in tutta l’Italia di anarchici che vengono accusati di rapine, di banda armata e di insurrezione contro lo Stato. L’inchiesta non supera nemmeno la fase istruttoria. Montatura.

Dal 1984 al 1988 almeno quattro tentativi di coinvolgere gli anarchici nella faccenda dei tralicci dell’alta tensione tagliati un po’ dappertutto in Italia. Dai tanti processi celebrati nei diversi gradi dal primo alla Cassazione nessuna condanna. Montatura.

Nel 1989 tentativo di costruire un’associazione sovversiva dopo l’arresto di alcuni compagni anarchici nel corso di un tentativo di rapina. L’azione giudiziaria abortisce. Montatura.

Nel 1991 clamorosa operazione diretta a coinvolgere un presunto gruppo “Anarchismo e provocazione” nel sequestro Silocchi. Il gruppo si rivela inesistente, mentre esistono da molto tempo sia una rivista che si chiama “Anarchismo” che un giornale che si chiama “Provocazione”. Il tentativo di dare vita a questa macchinazione abortisce. Montatura.

Nel 1994 perquisizione a Firenze della redazione del settimanale anarchico “Canenero” (negli stessi locali poco prima era stata rinvenuta una microspia) e consegna di tre avvisi di garanzia ad altrettanti compagni per reati relativi agli attentati incendiari contro la Standa di Berlusconi. Anche in questo caso l’inchiesta non supera neanche la fase istruttoria. Montatura.

Eccoci qua.

 


[Pubblicato in Con ogni mezzo necessario. Dossier sulla nuova Inquisizione, Paris 1996, pp. 1-4]

I giustizieri in toga

Perché gli anarchici? Domanda fondata: perché gli anarchici? Una trascurabile minoranza di individui contrari a tutto, incuranti di prendersi cura di se stessi, cioè di accaparrarsi protezioni e benevolenze.

Perché mai uomini seri, anzi serissimi, del tetro colore delle nottole care a Minerva, dovrebbero fare carte false per metterli in difficoltà? Per condannarli a decenni di carcere?

Possibile che non ci siano, fra le pieghe ammuffite dei codici italiani, leggi sufficienti a frenarli “secondo le regole”, secondo le regole democratiche che uomini comme il faut si sono date e che pretendono imporre a tutti come strumenti di civile convivenza?

Certo, gli anarchici rompono la monotonia concorde del plauso generale al regime che va coagulandosi come il sangue in una ferita mortale. Rompono l’orizzonte di acquiescente certezza nelle capacità dei governanti di fare le fortune dei governati. Rompono.

Bisogna metterli a tacere, e per farlo occorre un bavaglio adatto.

Fra gli uomini in toga c’è un uomo particolare, mi sia consentito questo aggettivo che potrà sembrare fuor di luogo. Quest’uomo particolare si chiama Vigna, Pierluigi Vigna, integerrimo e occhiuto sbirro in toga e codino nero. Non ama gli anarchici. Ebbene, che c’è di strano? Quali sono stati mai i procuratori della repubblica innamorati degli anarchici? Ma questo procuratore, che officia in quel di Firenze [1996], li ha in odio nel vero senso della parola, un odio sopraffino, di quelli che sembrano uscire diretti diretti dalle disavventure familiari, sapete, uno di quegli odi che mandano il sangue agli occhi, che fanno afferrare il coltello di cucina e giù: zacchete, tagliare la gola alla propria moglie. No, il magistrato Vigna è troppo integerrimo e troppo colto per alimentare odi del genere, almeno non in modo diretto; e poi chi scrive nulla sa, né la sua inadeguata fantasia riesce ad immaginare, delle disavventure familiari del procuratore Vigna: può solo ipotizzarle. Ma, cosa volete che sia un’ipotesi, andiamo, per farla ergere a causa di tanto accanimento?

Eppure questo intento persecutorio, questo velo all’intelligenza, per non dire alla vista, è documentabile: attraversa la storia giudiziaria degli anarchici degli ultimi vent’anni e, di per sé, non è mai arrivato ad azzannare fino in fondo, fino alla carne e all’osso. Qualche morso qua e là, niente di grave. Adesso i progetti di Vigna si fanno all’in grande, come si confà ad un procuratore capo [oggi capo dell’antimafia, nota redatta nel gennaio 2000], ufficio elevato nella graduatoria dei fornitori delle galere repubblicane.

Ma, come ogni artista, Vigna ha bisogno di aiutanti, di collaboratori, di altri uomini come lui, animati del sacro fuoco della verità. E, di recente, ha trovato questi uomini. Il loro motto potrebbe essere quello di Giacomo Casanova: “Vincasi per virtù o per inganno, il vincer sempre fu laudabil cosa”.

Il primo aiutante del famelico Vigna si chiama Antonio Marini ed esercita la sua professione a Roma. Magistrato di non più tenera età, alle soglie della pensione, continua a mordere in qualità di sostituto procuratore, e ha accumulato nella sua carriera istruttorie di processi importanti come quelli concernenti il rapimento di Moro da parte delle Brigate Rosse, e quello contro l’attentatore del Papa. Ora, Marini vuole chiudere la sua carriera con una grande abbuffata di anarchici. Non che lui sappia chi sono e cosa vogliono gli anarchici (dovere minimo, che si può chiedere persino ad un procuratore della repubblica), la cosa non lo interessa, gli basta che ci sia qualcosa da mettere sotto i denti: si fosse trattato di turchi o cristiani per lui sarebbe stata la medesima cosa. I suoi denti così vogliosi si sono invece rifiutati di mordere quando si è trattato di fare qualcosa contro i generali argentini golpisti, responsabili dell’uccisione e della tortura di centinaia di italiani in Argentina. In questo caso ha deciso il non luogo a procedere.

Il secondo aiutante è un giovane magistrato di Carrara che esercita la sua professione a Trento. Si chiama Giardina, Bruno Giardina, e nella sua città d’origine ha ben avuto occasione di conoscere gli anarchici e quindi di sapere cosa vogliono e chi sono. Lui sì che lo sa, ma si guarda bene dal proporre obiezioni alla strategia voluta dall’alto (Vigna), messa a punto da Roma (Marini) ed eseguita – fino a questo momento [1996] – in quel di Trento, attraverso la gentile collaborazione (via cavo) di una ragazzina che si è autoaccusata di avere partecipato ad una rapina assieme a degli anarchici, causando ipso facto la condanna di questi ultimi, ecc., ecc. Giardina è giovane e alquanto rozzo nelle movenze processuali, ma il progetto regge. Oggi qualsiasi cosa i pentiti dicano regge a sufficienza, salvo poi a costringere i responsabili alle debite distinzioni quando si tratta di mandare in galera persone come Andreotti. E siccome nessun anarchico si chiama Andreotti, il problema non si pone.

Ma non tutti i progetti repressivi riescono fin nei particolari. Le assurde invenzioni di Vigna, le coordinazioni sbirresche di Marini e le pantomime di Giardina appaiono sempre di più per quello che sono: infondate. I compagni condannati non hanno commesso quelle rapine.

Restano le altre accuse: “banda armata” in primo luogo. Qui la costruzione metafisica dovrebbe assurgere a livelli lirici. A nessun raccontatore di frottole è mai riuscito. Gli anarchici non accettano di essere intruppati in una “banda armata”, la loro riottosa indipendenza di pensiero e d’azione lo impedisce. Vigna lo sa e tace; Marini non lo sa e parla, Giardina conta quanto il due di coppe.

Nessuno aiuta gli anarchici. Questo lo sappiamo bene, ed è proprio per questo che siamo anarchici, per non dovere accettare aiuti pelosi da nessuno. Per lo stesso motivo nessuno sa che farsene della verità, altra faccia, ancora più sbiadita, della giustizia. Non alziamo la voce quindi per la verità contaminata o per la giustizia violentata, della sorte di queste donzelle da postribolo non ce ne importa nulla. Ci facciamo sentire perché questa volta l’artificio accusatorio ha raggiunto il massimo della spudoratezza. Le invenzioni contro gli anarchici questa volta sono talmente grosse da risultare visibili perfino all’occhio reso miope dall’obbedienza e dalla fede nelle virtù progressive di chi ci governa. Insomma, quando le balle sono proprio grosse, anche gli orbi possono vederle.

Nessuno aiuta gli anarchici, forse nemmeno l’evidenza, che facilmente si può coprire col colpo d’ala di una ragazzina male indottrinata da frettolosi sbirri in vena di fantasie erotiche. Ma il caso può loro venire in aiuto. Sì, proprio il caso, l’evento imprevedibile. La grande forza repressiva di un uomo potente come Vigna improvvisamente si è incrinata. Il processo Pacciani è stato un fiasco colossale. I suoi metodi sono finiti davanti agli occhi di tutti. Per Marini ci sono degli esposti per la sua tolleranza eccessiva nei riguardi dei generali argentini. Come al solito Giardina continua a contare quanto il due di coppe.

Oggi [1996] in Italia tira un’aria non proprio favorevole alla magistratura. Certo, ci sono motivi politici di fondo che hanno fatto sollevare questo vento contrario alle toghe. Sappiamo benissimo che si tratta di un tentativo di rintuzzare le velleità di dominio che si sono andate formando nel potere giudiziario. Dopo le fortune di Di Pietro e compagni a Milano, ogni giovincello in toga e pettorina sogna di diventare Ministro degli Interni. La distruzione della vecchia classe politica non ha del tutto fatto scomparire gli interessi gestiti da essa, uomini di potere e di borsa sono rimasti ai loro posti e, portando avanti nuovi fantocci politici, stanno ricucendo i vecchi interessi. Craxi non è stato ancora sepolto in Tunisia [nota redatta nel marzo 2000: adesso sepolto in Tunisia lo è davvero] e le sue ceneri non sono state ancora disseminate al vento del deserto. Una lunga mano continua a tessere trame e disegni. E il nemico di questa lunga mano, nemico occasionale, badiamo bene, nemico di oggi, non nemico radicale, ma pur sempre nemico, è la magistratura.

Come vanno le cose nel mondo! La magistratura in difficoltà per avere appena appena mozzicato gli interessi del potere politico ed economico.

Adesso non deve fare altro che rientrare nel proprio alveo. A spingerla indietro, fra mille contorsioni e mille chiacchiere inutili, è proprio la destra, mentre la sinistra la difende, pensando di trarre ancora un ulteriore profitto dalla distruzione della vecchia classe politica con la quale aveva pur convissuto e grufolato per decenni. Cosa importa? Che ci importa di quello che fanno questi fantasmi nell’ambito del loro palcoscenico di marionette? Le responsabilità degli uni valgono quelle degli altri. Dei loro progetti sarebbe impresa ardua vedere le differenze. Destra? Sinistra? L’unico aspetto utile di tutta questa imbrogliata vicenda di lotte di Palazzo è che una spregevole montatura come quella organizzata da Vigna, Marini e soci contro gli anarchici, in questo momento, non ha più possibilità di decollare.

Per fortuna il tempo dei giustizieri in toga è passato di moda.

 


[Pubblicato in Con ogni mezzo necessario. Dossier sulla nuova Inquisizione, Paris 1996, pp. 38-41]

* * * * *

“‘Pigliate quei quattro capponi [disse Agnese a Renzo], poveretti! a cui dovevo tirare il collo, per il banchetto di domenica, e portateglieli; perché non bisogna mai andar con le mani vote da que’ signori. Raccontategli tutto l’accaduto; e vedrete che vi dirà, su due piedi, di quelle cose che a noi non verrebbero in testa, a pensarci un anno’. Renzo abbracciò molto volentieri questo parere; Lucia l’approvò; e Agnese, superba d’averlo dato, levò, a una a una, le povere bestie dalla stia, riunì le loro otto gambe, come se facesse un mazzetto di fiori, le avvolse e le strinse con uno spago, e le consegnò in mano a Renzo; il quale, date e ricevute parole di speranza, uscì dalla parte dell’orto, per non esser veduto da’ ragazzi, che gli correrebber dietro, gridando: lo sposo! lo sposo! Così, attraversando i campi o, come dicon colà, i luoghi, se n ‘andò per viottole, fremendo, ripensando alla sua disgrazia, e ruminando il discorso da fare al dottor Azzecca-garbugli. Lascio poi pensare al lettore, come dovessero stare in viaggio quelle povere bestie, così legate e tenute per le zampe, a capo all’in giù, nella mano d’un uomo il quale, agitato da tante passioni, accompagnava col gesto i pensieri che gli passavan a tumulto per la mente. Ora stendeva il braccio per collera, ora l’alzava per disperazione, ora lo dibatteva in aria, come per minaccia, e, in tutti i modi, dava loro fiere scosse, e faceva balzare quelle quattro teste spenzolate; le quali intanto s’ingegnavano a beccarsi l’una con l’altra, come accade troppo sovente tra compagni di sventura”.

(Alessandro Manzoni, I promessi sposi)

Fatte le dovute eccezioni

Fatte le dovute eccezioni, non sembra che la situazione sia chiara.

Ognuno pensa di averla capita fino in fondo, ognuno si è fatta la sua idea e non è disposto a metterla in dubbio. Ognuno guarda l’altro con sospetto, anzi col sospetto tipico di chi sa di avere ragione. Ognuno non capisce perché l’altro la pensi diversamente, visto che dovremmo essere tutti accorpati sotto l’egida d’un anarchismo che si rivela troppo vago, a quel che sembra, per darci un punto solido su cui puntare i piedi.

Ho avuto questa sensazione leggendo lettere e articoli di giornale, ricevendo bigliettini e comunicazioni verbali.

Forse queste pagine contribuiranno ad approfondire qualche riflessione fra compagni, forse saranno destinate solo a una lettura superficiale, forse non riusciranno, quel che è peggio, a non essere prese per quelle che sono, uno scritto mio, e, come tale, non diverso da quello che ognuno si aspetta che sia, appunto, uno scritto mio.

Questo, naturalmente, fatte le dovute eccezioni.

Il sogno e la realtà

Il mondo ribolle dappertutto, e in questo calderone ci sono anche le nostre idee, quelle teorie, e fantasie, e illusioni e sogni che abbiamo accarezzato per anni. Per anni siamo stati tutti intenti ad approfondire la teoria e la pratica dell’insurrezione ed abbiamo anche realizzato dei fatti concreti: uno per tutti la nostra presenza a Comiso negli anni 1982 e 1983 (ma si potrebbe andare prima e anche dopo, col pensiero).

Ora il mondo ribolle di fatti insurrezionali, e questi sono sotto gli occhi di tutti, non c’è bisogno di ricordarli qui.

Abbiamo anche discusso, per anni, di affinità e di come rapportarsi fra di noi in gruppi minuscoli basati sulla reciproca conoscenza (affinità vista nelle radici che affonda nel passato) e sulla comune progettualità (affinità vista nelle speranze che proietta nel futuro). Abbiamo anche discusso di come intervenire nella realtà delle lotte con organizzazioni informali e nuclei di base capaci di raccordare la nostra azione anarchica e insurrezionale con il bisogno della gente di risolvere alcuni problemi e quindi fronteggiare al meglio gli effetti immediati della repressione.

Non mi interessa tornare qui su questi problemi, ma centinaia di ore dedicate a discutere in dibattiti, “tre giorni”, conferenze, e migliaia di pagine di opuscoli, libri e giornali, sono ancora là, tracce di un agire che non può essere scomparso del tutto.

Fatte le dovute eccezioni.

Due piccoli giudici in quel di Roma

Due ometti ben vestiti, frequentatori per mestiere del palazzo di Giustizia di Roma, hanno deciso di arrestare alcune decine di compagni e incriminare qualche altra decina con tutte le accuse reperibili nel Codice Penale, condite in cima con la bella trovata di una “Banda armata” anarchica.

Di per sé, l’iniziativa non è né nuova, né desta meraviglia. Almeno per quel che mi riguarda.

I Giudici fanno il loro mestiere, i Carabinieri il loro, ecc. Ce ne sono, individualmente presi, dei peggiori e dei migliori, garantisti e forcaioli, imbroglioni e corretti. Non è questo il punto.

Gli anarchici, che vogliono distruggere il mondo attuale senza nemmeno l’alibi di impadronirsi dei mezzi di produzione (inutilizzabili al punto in cui li ha ridotti il capitale informatico che gestisce la vita odierna), non vedo perché debbano gridare allo scandalo per l’attività di due piccoli uomini in quel di Roma.

Certo, abbiamo gridato allo scandalo, per l’utilizzo allegro di una ragazzina, per le accuse prive di logica con cui ci hanno arrestato, per l’invenzione di una “Banda armata” che non è mai esistita. E va bene. Abbiamo accentuato i toni della riprovazione, perfino morale, di questo comportamento “fuori le regole” degli ometti romani, ma, finito l’effetto retorico, dobbiamo ammettere (e se qualcuno si è autoconvinto è bene che si deconvinca al più presto) che questo fare degli gnomi romani è normale, anzi normalissimo.

Gli anarchici fanno paura, non solo per quello che hanno fatto, non solo per la loro attività insurrezionale, ma per la loro potenzialità teorica e pratica, per il punto di riferimento che potrebbero costituire per gli sfruttati insorti. Ed esempi di insurrezione popolare sono dappertutto nel mondo, fin troppo vicini a casa nostra per non destare preoccupazioni.

E quand’anche non fosse così? Quand’anche questi folletti romani avessero solo paura del nome (foschi ricordi si accavallano confusamente nella loro mente), come dargli torto? Diciamolo chiaramente: gli anarchici fanno paura al potere, ed è giusto (per il potere, ma anche per gli anarchici) che le cose stiano in questo modo.

Siamo noi gli ultimi che potremmo portare alle estreme conseguenze, in un dato momento, la rivolta degli esclusi.

Gli anarchici fanno paura.

Una ragazzina

Reclutata dai Carabinieri, una ragazzina poco più che ventenne sta recitando, da qualche parte, sotto la protezione di una selva di baionette, la parte della “pentita”.

Se la cosa non fosse in se stessa profondamente ridicola, susciterebbe perfino un moto di compatimento.

Povera ragazzetta, messa in mezzo da un lupo in veste di carabiniere innamorato, trascinata nel fango di scelte che avrebbero potuto, forse, non essere le sue, scelte che ora ha abbracciato definitivamente e che è obbligata a seguire fino in fondo pena l’interruzione dello stipendio e della protezione poliziesca.

Me l’immagino questa ragazzina, spaurita, in un angolo della stanza degli inquirenti, costretta a imparare a memoria, date e luoghi, fatti e movimenti, racconti e deduzioni, parole e teorie, tutti problemi che per lei sono stati da sempre qualcosa di sconosciuto e di estraneo.

Non riesco a non vederla se non come una povera disgraziata che gente senza scrupoli ha tirato in un ballo troppo pericoloso, segnandone definitivamente la vita.

Addio, mia povera ragazza. Avresti potuto essere una donna come tutte le altre, un essere umano. Sei e sarai per sempre un relitto di quella stessa società che qualcuno, dissennato e mascalzone, ti ha invitato a difendere contro gli aggressori, contro i barbari anarchici, per te venuti dal nulla.

La Batracomiomachia

Nel pantano, le rane scatenarono una furiosa battaglia contro i topi. Dapprima non si accorsero nemmeno di averla cominciata. Tutto venne, diciamo, in modo naturale. Si dette la stura ai lontani rancori del limo, il profondo limo dove si acquattano fantasmi e rancori. Dibattendosi le rane nelle prime avvisaglie dello scontro, la mota del pantano si sollevò e rancori e fantasmi vennero a galla.

Ora, di per sé, le rane sono animali accondiscendenti, accettano fra di loro il dibattito e le opinioni, stanno qualche volta ad ascoltare perfino pazientemente, e spesso sbottano in qualche dissenso, subito placato in nome del comune appartenersi al mondo delle rane, che poi altro non è che il magno pantano che si estende dal ciglio della strada all’inizio del campo.

Ma quando i topi attaccano, una battaglia è una battaglia. Solleva cipigli severi, stendardi e bandiere, fa marciare con fierezza e invita a prendere posizione.

Andiamo, ranocchi del mio cuore, quante volte ci siamo immersi insieme nella mota e ne siamo risaliti candidi come caramelle alla menta!

“Poi che da’ granchi a rintegrar venuti
Delle ranocchie le fugate squadre...
Del topo furo abbattuti
Gli ordini...
Sparse l’aste pel campo e le berrette
E le code topesche e le basette.
Sanguinosi fuggian per ogni villa
I topi galoppando in su la sera,
Tal che veduto avresti anzi la squilla
Tutta farsi di lor la piaggia
nera...
Non se n’erano appena i granchi accorti,
Quando lor furo addosso, e con gli ulivi
Stessi, senza guardar dritti né torti,
Voleangli ad ogni patto subito morti,
Se in difesa [dei topi]
Non giungeva il parlar, che con eterna
Possanza il mondo a suo piacer governa”.

(Giacomo Leopardi, I paralipomeni della batracomiomachia

Dell’assenza e del chiamarsi fuori

Che uno, ad un certo punto, voglia dedicarsi come Candide e il suo maestro Pangloss a coltivare patate mi sembra una cosa giusta. Quello che mi sembra curioso è che se gli arriva il boato del terremoto di Lisbona si senta di già in corsa in tutto e per tutto.

Questo significa avere della realtà una concezione astrale, retta dalla propria stella guida. Sacerdos in aeternum. Anarchici per sempre, anche coltivando patate nel minuscolo orticello di casa propria.

Per carità, fatte le dovute eccezioni.

Non è successo nulla (cosa volete che sia il carcere per gli anarchici?)

E allora? Siamo stati arrestati, in molti, e arrestati con accuse da ergastolo. E allora? È un fatto fra i tanti che ci capita, adesso, nel corso della nostra lotta, a vita e a morte, col potere.

Il carcere è il luogo dove gli anarchici, spesso, vengono rinchiusi quando cominciano a diventare pericolosi. E pericolosi lo sono per quello che pensano e per quello che fanno.

Per quello che pensano, è cosa chiara. Il nostro pensiero è assolutamente antistatale. Che cosa volete che faccia lo Stato? Appena gli è possibile, ci impedisce di continuare a muoverci in quella società condizionata e senza ideali dove potremmo rappresentare la scintilla per una ribellione. Certo, potremmo anche non essere così pericolosi, ma non si sa mai.

Per quello che fanno. Ogni anarchico è responsabile per le azioni che intraprende nella sua vita, dai fatti minimi della vita quotidiana, ai fatti spesso più complessi, anche se non più difficili, dell’attacco contro lo Stato e le istituzioni e gli uomini che lo concretizzano.

Non esiste una responsabilità collettiva.

Ogni anarchico si sceglie i propri compagni di lotta, spesso sulla base dell’affinità, o anche su altre basi teoriche che solo lui è arbitro di approfondire, e va avanti, fino in fondo, fino al carcere, fino alla morte.

Gridare allo scandalo per fatti di tale ovvietà non mi sembra possibile.

Non c’è dubbio che quando il comportamento dello Stato è esso stesso illegale, falso, contraddittorio con le sue stesse leggi, c’è in tutti, e quindi anche negli anarchici, un moto dell’animo, un disgusto, una profonda pena per i livelli infimi cui può arrivare l’uomo, insomma una sorta di rifiuto morale di tutto quello che si profila davanti, ma non di più.

Lo Stato e i suoi servitori è anche tutto questo: inganno e ignominia. Noi voliamo più alti, altre sono le nostre prospettive, altri i sogni che ci portiamo nel cuore.

Le due strade

Ma, poiché non siamo del tutto convinti che i giochi siano chiusi completamente e che lo Stato abbia vinto, sia pure questa piccola battaglia in corso, poiché pensiamo che ci possano essere ancora delle possibilità, perfino tecniche, a nostro favore, ci difendiamo.

Fatte le dovute eccezioni, naturalmente.

Ci difendiamo e contrattacchiamo punto per punto. Sottolineiamo gli aspetti errati nella struttura logica delle accuse complessive e individuali che ci vengono messe a carico.

Il castello di teoremi, costruito per chiuderci in galera per decenni, in effetti non è molto ben architettato. Gli ometti di Roma non hanno lavorato al cento per cento delle loro possibilità. Ci sono varchi dentro cui possiamo ficcarci. Primo fra tutti il varco che potrebbe far saltare per aria l’accusa principale, quella di “Banda armata”.

Questo ragionamento è ovviamente il mio e so che non è da tutti condiviso. Bene, spero di avere ragione io, non tanto per il piacere di avere ragione, ma perché la caduta di questa accusa ridurrebbe di molto la possibilità di una condanna complessiva a livelli di pena considerevoli.

Inoltre, essendo il teorema dell’accusa fondato su alcuni scritti miei, nei quali sostengo tesi assolutamente antitetiche al concetto di “Banda armata”, la faccenda mi tocca personalmente e intendo fare di tutto per chiarirla fino in fondo. Ma è ovvio che non sono certo di essere capace di farmi ascoltare. Potrebbe accadere, come molti compagni sostengono, che non ci sia spazio per una simile difesa davanti ai giudici. Bene, ne prenderò atto al momento in cui questa preclusione si verificherà.

Non prima.

Questa mia posizione non è condivisa da molti. Sono contento che ci siano tanti compagni a pensarla in modo diverso. Ovviamente, decideranno per loro come io decido per me.

Due strade che poi così diverse non mi appaiono. Difatti, se io rifiuto di spiegare qualcosa a un giudice, pensando (molto giustamente) che potrebbe non capire e neanche accennare a capire quello che dico, non per questo accetto la sua tesi, non per questo sottoscrivo le accuse che mi vengono rivolte. Anzi, come molti compagni sottolineano, la forza del rifiuto delle tesi dell’accusa è tanto più alta quanto più rigidamente e con forza si rifiuta di entrare in precisazioni davanti al giudice. Ben detto.

Le due strade, come si vede, dovrebbero essere parallele per tutti, fatte le dovute eccezioni, naturalmente.

Altre due strade, questa volta più ardue a percorrere

Riguardano gli altri, il mondo esterno, quel mondo nei cui confronti dobbiamo decidere con chiarezza come comportarci.

Di per sé vogliamo che gli altri sappiano. Nella specificità del come far loro sapere, non tutti abbiamo le idee chiare.

Possiamo qui, per fare un poco di schematismo gratuito, dividere le cose che si potrebbero fare in due strade, questa volta tutt’altro che parallele.

La prima strada s’inerpica in alta montagna. Sviluppa la tesi dell’attacco generalizzato nei termini in cui è stato approfondito molte volte. Ma qui il gioco potrebbe diventare duro e la generalizzazione tardare. Ne deriverebbe la conclusione logica di farsi carico personalmente di sollecitare la generalizzazione, scegliendo via via obiettivi sempre più significativi, e sempre più consistenti anche dal punto di vista del metodo, ottenendo come risultato di fare allontanare quella generalizzazione che è stata da sempre il nostro scopo. Sulla cima della montagna reciteremmo alla fine la farsa delle tragedie del passato.

La seconda strada s’avvia verso la pianura dove tutto è più facile. Sviluppa la tesi del coinvolgimento di quegli strati di opinione che ancora esistono nel Paese e che sono più o meno disponibili a sposare tutte le cause perse di questo mondo, anche la nostra quindi, purché la proposta venga fatta in modo opportuno, senza truculenze e senza settarismi. Insomma, dovremmo presentarci come i perseguitati di turno o, almeno, come coloro che pur volendo attaccare lo Stato non lo hanno di fatto attaccato e che innocenti soffrono la galera ingiustamente.

Le due strade, divergenti fra loro, mi appaiono ambedue non praticabili. Penso che non saranno pochi i compagni a condividere questa mia valutazione, fatte le dovute eccezioni, naturalmente.

Nel guado

Restare nel guado svuota qualunque nostra azione. O siamo capaci di trovare un’altra direzione verso cui convogliare i nostri interventi, o dobbiamo accettare una delle due strade viste prima, quella che porta verso le cime più alte, o quella che s’indirizza verso la pianura.

Ma prima dobbiamo chiederci: possiamo uscire realmente dal guado? Oppure è nostro destino restare prigionieri di questa indecisione?

Da come si sono messe le cose non si può dire che ci siano speranze per uscire fuori dalla condizione di indecisione in cui ci troviamo.

Le diatribe del pantano non sono la malattia, sono un sintomo. Lo stesso per le esacerbazioni organizzative. Si poteva fare chiarezza in maniera semplice, riflettendo su tutto quello che si è discusso e fatto in questi ultimi cinque anni.

Non essere stati capaci di farlo indica qualcosa. Decisione ferma di non accettare la discussione? Semplice superficialità teorica? Intristimenti personali? Chi può dirlo con certezza?

Nessuno, fatte le dovute eccezioni, naturalmente.

Possiamo uscire dal guado?

Allo stato attuale delle cose, con molte difficoltà.

Paghiamo, come altre volte, in altri momenti, le carenze teoriche e il pressappochismo di molti di noi, come pure le velleità parolaie di chi sa spiegarsi il mondo solo nel proprio gergo da quartiere periferico. Paghiamo anche la doppia anima di chi vorrebbe che le proprie idee si diffondano, e le proprie pratiche, ma non ha veramente cuore fino in fondo di fare in modo che questo accada, per cui finisce per decidere sempre lui quello che va fatto finendo per risultare incomprensibile.

Così, non ci muoviamo. Se prendiamo un piccolo viottolo di montagna, fatti pochi metri, pensiamo di avere risolto il problema e gridiamo allo scandalo se tutto l’orbe terraqueo non coglie al volo quello che volevamo dire. Naturalmente, vediamo il passo successivo, e l’erta che s’inerpica, ma ci fermiamo in tempo perché in fondo sappiamo che quella strada, con le sue assolate conflittualità militari, non è mai stata la nostra.

In maniera inversa. Non appena ci abbassiamo al livello della pianura, e prendiamo una qualsiasi strada tutta lineare e semplice da percorrere, e diciamo qualcosa in questo senso, subito ci facciamo prendere dai rimorsi. Ma che diavolo stiamo facendo? Possibile che non si possa fare altro dal vecchio modello “Piazza Fontana = Strage di Stato” dove la parte di sostegno venne svolta in pieno dal Partito comunista? Naturalmente, vediamo il passo successivo, e la strada che scorre via come l’olio, ma ci fermiamo in tempo perché anche in questo caso sappiamo che quella strada, con le sue piagnucolose conflittualità politiche, non è mai stata la nostra.

Fatte le dovute eccezioni, le cose stanno così.

Amarezza e disillusione

Ad esprimere un moto dell’animo ne va sempre della propria testa, diceva lo zio Walt. E per lunghi mesi questo moto dell’animo me lo sono tenuto per me, leggendo in trasparenza le notizie che mi arrivavano dall’esterno, leggendole cioè con la trasparenza dell’amore per i miei compagni, non con l’occhio critico che di solito impiego in simili letture.

Perché questa ritrosia? Forse perché mi trovo in carcere? Fatte le dovute eccezioni, penso che tutti mi crederanno se dico di no.

Non è certo il carcere che può farmi diventare reticente. Non tanto con gli altri quanto con me stesso. È proprio la situazione nel suo insieme.

Che senso hanno avuto, viste col senno del poi, le tante serate passate insieme a discutere e ad approfondire problemi su problemi? E i dibattiti pubblici, e le pagine dei libri, degli opuscoli, delle riviste, dei giornali?

Capisco che qualcuno possa non essere mai stato interessato a questi approfondimenti, ma allora perché aspettare “questa” situazione per tirare fuori le sue idee “assolutamente altre”? Poteva farlo anche prima, dare il suo contributo, fare capire dove gli altri sbagliavano, dove s’erano imbarbariti, dove si erano arenati senza sbocchi pratici.

Ecco che cosa mi causa amarezza e disillusione.

Resta solo una cosa da fare

Fatte le dovute eccezioni, penso che tutti i compagni saranno d’accordo con me nell’ammettere che la nostra situazione si può affrontare solo attaccando.

Ma che vuol dire attacco? Quale strada scegliere? E fino a quale punto percorrerla?

Ecco il problema. Penso che ognuno debba decidere come ha sempre fatto, scegliendo i suoi compagni. Non ci sono ricette prefabbricate. Fatte le dovute eccezioni, nessuno pensa di avere l’arma vincente in mano.

Se l’affinità legava alcuni di noi fra loro, questa, venendo a mancare, potrebbe diventare un peso insopportabile.

Se l’obiettivo è comune: il nemico che ci opprime; se il metodo è comune: quello dell’attacco; non ci sono motivi per cui ognuno non percorra la sua strada, fino in fondo.

Senza titubanze.

Fatte le dovute eccezioni, naturalmente.

 


[Alfredo M. Bonanno, Fatte le dovute eccezioni, Torino 1997]

PARTE SECONDA

Interrogatorio condotto dal Pubblico Ministero Marini il 15 dicembre 1999

[Presidente]: Possiamo incominciare?

Signor Presidente, una breve, piccola nota iniziale di natura metodologica, per evitare di fare confusione. Se mi consente vorrei rileggere tre righe della mia dichiarazione della volta scorsa, del 30 di novembre, che voglio ribadire in questa sede, ed è questa: «Sono disponibile – dicevo – a rispondere a domande eventualmente relative a dichiarazioni che riguardano le mie idee e i fatti della mia vita. Non sono invece disponibile a rispondere a domande che riguardano fatti di altre persone, idee di altre persone, anche qualora queste persone fossero miei coimputati». Lo dico per evitare che tutto si trasformi in continue ripetizioni.

[Presidente]: Non possiamo impedire al Pubblico Ministero o a qualche avvocato di porre delle domande, e lei appunto risponderà su questo punto...

Sa perché mi permetto di fare questa obiezione iniziale, per evitare che magari tutto l’interrogatorio si trasformi in un “non voglio rispondere” e dare l’impressione di una... se mi consente un piccolo esempio: a pagina 55 della “Annotazione” dei carabinieri [in relazione alla rapina della Banca dell’Agricoltura di cui sono accusato], viene fatto un elenco di persone che si afferma io conosca, ad esempio un certo *, un certo *, un certo *, io queste persone non le ho mai viste, quindi non le conosco, ma se mi si dovesse chiedere espressamente se le conosco, sarò costretto, per un motivo di principio, a dire che non voglio rispondere.

[Presidente]: Ho capito, però, veda, molte domande... lei pensa che tutte le domande sono fatte contro di lei e contro gli imputati...

No, anche se fossero a mio favore...

[Presidente]: ...ci sono delle domande che sono a favore anche di altre persone che sono qui imputate, quindi, veda, se qualche domanda verrà fatta dal Presidente non è detto che questa domanda sia con un taglio accusatorio, potrebbe essere una domanda fatta per favorire, per verificare la verità in relazione a posizioni singole.

In quel caso, se mi è consentito, sempre in nome di questo principio a cui io non voglio derogare, vuol dire che correrò il rischio di assumermi la responsabilità di non fare questo favore a un mio coimputato.

[Presidente]: Allora, adesso la parola al Pubblico Ministero, mi sembra.

[Marini]: Io innanzi tutto intendo ringraziare, anche se ha voluto fare questa precisazione, Bonanno, per essersi sottoposto a questo esame, a questo interrogatorio, che costituisce naturalmente uno strumento di difesa e permette però anche all’accusa, perché lui in questo momento sta esercitando il suo diritto alla difesa, ma permette anche all’accusa di esercitare il suo diritto all’accusa. E quindi io lo ringrazio perché aver accettato questo confronto è già un fatto positivo e mi augurerei che questo confronto l’accettassero anche quegli imputati di cui lei ha parlato, Bonanno, di cui però non vuole assolutamente parlare, e giustamente, sarebbe opportuno che venissero loro a parlare di sé. Quindi io la ringrazio innanzitutto per questo. Però io devo svolgere il mio lavoro, lei naturalmente, come ha giustamente precisato il Presidente, ha la facoltà di non rispondere, può rispondere ad alcune domande come non può rispondere ad altre. La prima domanda si riallaccia in un modo diciamo così indissolubile a quello che lei ha detto nella scorsa udienza e che aveva già detto al Giudice per le indagini preliminari, o meglio al Giudice per l’udienza preliminare, che dopo il rinvio a giudizio c’è stato il processo, questo processo. Bene, all’inizio di questo processo è stato letto in questa aula un documento da parte di due imputati, esattamente * e *, i quali scrivono: «Con questo documento scritto noi, * e *, revochiamo la nomina degli avvocati, parte in causa del nostro sistema giuridico, perché lo scontro armato è l’unico mezzo che riconosciamo per confrontarci con voi. Noi militanti rivoluzionari – lei ha parlato molto, la volta scorsa, di militanza rivoluzionaria – anarco-comunisti, rivendichiamo il percorso della liberazione umana – e lei ne ha parlato – che passa attraverso una lunga sanguinosa serie di rivolte, di insurrezioni e di attacchi violenti contro gli uomini e le strutture dello Stato-capitale». E poi continuano con “voi servi del padrone”, ecc., ecc. Documento che lei naturalmente conoscerà, che si conclude con queste esortazioni: «Ovunque colpire strutture e uomini di organismi di cooperazione militare, imperialistiche e poliziesche, colpire le istituzioni, le strutture, gli uomini dello Stato-capitale occidentale che incarnano e promuovono lo sfruttamento e l’economia capitalistica...», ecc., ecc. La domanda che io le voglio fare, che coinvolge tutto quello che lei ha detto e soprattutto quello che aveva detto in occasione del suo esame di quel documento “Nuove svolte del capitalismo” è questa: lei è stato messo a conoscenza di questo documento, da parte di * e *, prima che lo leggessero in aula?

No!

[Marini]: Se è stato messo a conoscenza di questo documento, lo ha condiviso?

Io ero in gabbia.

[Marini]: Significa che loro parlavano anche per voi e anche per lei?

Io credo di no. Se io l’avessi condiviso l’avrei firmato.

[Marini]: Lei lo ha letto questo documento?

Non l’ho letto, l’ho ascoltato, con attenzione.

[Marini]: Quindi prima non aveva avuto conoscenza di questo documento?

No!

[Marini]: Non so se si sente.

[Presidente]: Sì, ha risposto di no, che se lo avesse letto e avesse aderito al contenuto l’avrebbe sottoscritto.

[Marini]: Lei lo ha appreso per la prima volta quella mattina quando è stato letto?

Sì.

[Marini]: Quando è stato letto questo documento in aula, lei stava come ha detto nella gabbia insieme con loro, è stato poi discusso fra di voi?

No!

[Marini]: Non è stato discusso... Lo sa perché le dico questo, perché si riaggancia a delle situazioni di fatto, perché, guarda caso, * è una di quelle persone che insieme con lei sono andate a commettere la rapina di Bergamo, e insieme con lei è stato condannato per quella rapina. Siccome io devo svolgere anche per lei una serie di domande sulla conoscenza e sui suoi rapporti con *, è evidente che la prima domanda riguardava appunto questo documento, dopo che lei aveva ormai chiarito di essere stato l’autore di quella rapina insieme con *, per la quale poi voi eravate stati condannati. A me interessano i rapporti intercorsi tra lei, Bonanno, e * dopo che siete usciti dal carcere. Se così posso sapere. Perché mi ritrovo con un suo coimputato nella rapina di Bergamo che negli anni successivi, coimputato in questo processo, legge un documento di questo tipo che riguarda determinate cose che lei ha detto, nella scorsa udienza, sulla militanza rivoluzionaria, sull’organizzazione informale, come lei l’ha chiamata, anarchica insurrezionalista, sulla sua struttura, cioè sui gruppi di affinità, sui nuclei di base, sui coordinamenti. Quindi io proprio su quello che ha detto lei voglio dei chiarimenti, se è possibile averli, per capire chi condivideva...

[Presidente]: Facciamolo parlare.

Andiamo con ordine.

[Marini]: Tanto per capire.

Sì, nella sua formulazione io mi permettevo di interromperla perché c’era una svista di fatto: lei parlava di più persone nella rapina di Bergamo e invece non eravamo più persone, eravamo soltanto due. A parte questo, che è una questione di dettaglio, lei mi parla del documento firmato da due miei coimputati, io non intendo rispondere su questo documento perché è firmato da persone che non sono la mia persona, in base a quello che ho detto prima. Sul contenuto del documento non intendo rispondere perché riguarda teorie sostenute da persone diverse da me. Sulla questione della rapina di Bergamo possiamo parlarne perché ormai è una cosa storicamente accertata per quel che riguarda il mio ruolo nella rapina di Bergamo, non per quel che riguarda il ruolo del mio coimputato. Cosa è accaduto al mio coimputato dalla rapina di Bergamo, dal giorno in cui siamo usciti dal carcere fino a oggi, non intendo rispondere perché riguarda un’altra persona diversa da me, le posso dire cosa è accaduto a me dopo che sono uscito dal carcere di Bergamo.

[Presidente]: Si!, quando uscì dal carcere?

Nel febbraio del 1991.

[Presidente]: Fu arrestato il 2 febbraio del 1989 e uscì il 2 febbraio del 1991.

Il 6 mi sembra di ricordare, il 6 febbraio del 1991.

[Marini]: Lei, dopo che è uscito dal carcere, ha continuato a frequentare *?

Non voglio rispondere.

[Marini]: Perché? Questo riguarda anche lei e la sua posizione.

No, riguarda me e riguarda qualcosa che non sono più io. Io, le ripeto, posso rispondere, anche con dettagliato approfondimento, su cosa ho fatto, io, se è questo l’interesse, suo e comune... perché, mi consenta la sua apertura, mi ha messo di cattivo umore, se posso fare questo piccolo inciso?

[Marini]: Prego, lei può dire tutto quello che vuole.

Quando lei parlava del mio diritto alla difesa e del suo diritto all’accusa. Io pensavo che il compito suo fosse la ricerca della verità, non l’accusa. Però forse mi sbaglio! Forse sono sinonimi?

[Presidente]: La dialettica processuale suppone contrasti di idee.

Sono sinonimi.

[Marini]: Questo è un processo accusatorio e io ho anche il dovere, è vero, di cercare elementi favorevoli all’imputato.

[Giudice a latere]: Se posso aggiungere una frase, professore: di questi tempi l’espressione “ricerca della verità” è alquanto sospetta in queste aule, quindi mi fa piacere che l’abbia detta lei e non noi o l’ufficio del Pubblico Ministero.

L’ho detta come punto di meraviglia, da incompetente, voialtri che siete...

[Giudice a latere]: Condivido la sua meraviglia, ma a titolo personale.

Mi rendo conto, ed è agghiacciante, che non è questo lo scopo che stiamo cercando qui dentro. Conseguentemente, sia gentile, mi ripeta la domanda.

[Marini]: Io voglio solo dei chiarimenti. Ci dica allora cosa ha fatto lei dal 1991, se vuol parlare di questo. Perché il problema, lei si deve rendere conto...

[Presidente]: Lei deve dirci tutto quello che ha fatto dal 1991 e che ha rilevanza.

La storia della mia vita dal 1991 ad oggi non è molto importante, però...

[Presidente]: Ci interessa dal punto di vista del movimento, dal punto di vista politico.

Io dal 1991 ho cominciato a lavorare, a scrivere un libro che mi ha impegnato per circa 4-5 anni, non so se può essere utile parlare di quale libro si tratta.

[Giudice a latere]: Ci dica il titolo.

Trattato delle Inutilità.

[Presidente]: Trattato?

...delle Inutilità, è un libro di tre volumi, per complessive 1932 pagine e ha impegnato la quasi totalità del mio tempo, con piccole parentesi, quali, ad esempio, sono state le conferenze fatte in Grecia nel 1993 al Politecnico di Atene e alla facoltà di Lettere dell’Università di Tessalonica, che, guarda caso, come argomento avevano la scaletta che è stata da me pubblicata su “Anarchismo” con il titolo “Nuove svolte del capitalismo” di cui parlavamo la volta scorsa nella dichiarazione. Poi, successivamente, mi sono ritrovato in carcere nel settembre del 1996, da cui sono uscito il 31 ottobre del 1997 su decisione della Corte di Cassazione, se non sbaglio, e poi mi sono ritrovato qua a rispondere a queste domande.

[Presidente]: Questo libro è stato pubblicato?

No. Si trova dal legatore, in corso di pubblicazione.

[Presidente]: L’Editore, si chiama?

Edizioni Anarchismo. Tutti i miei libri sono Edizioni Anarchismo.

[Giudice a latere]: Qualcuno prima, con qualche altro editore.

Sì, ma mai grosse case editrici, perché le conosco bene.

[Presidente]: E poi?

E poi non saprei, non so.

[Presidente]: Pubblico Ministero?

[Marini]: Se lei permette, visto che noi abbiamo un documento acquisito agli atti, cioè una sua agenda, che le è stata sequestrata durante una delle perquisizioni che lei ha subito, forse, se lei permette, io le farò delle domande, appunto, su questa agenda che dovrebbe indicare quello che lei ha fatto in un determinato periodo di tempo. Perché fra il materiale sequestrato, appunto, c’è questa agenda del 1995, quindi è successiva al 1991, quando lei è uscito dal carcere. A parte gli indirizzi o i numeri di telefono che sono in questa agenda, riferiti a tutti gli imputati di questo processo, di cui lei non vuole parlare, lo diamo per scontato perché è scritto di suo pugno sulla agenda. Vediamo se lei vuole rispondere a qualche altra domanda. C’è, per esempio, una lettera datata 9 dicembre 1994 che le è stata inviata da * in cui, io le indicherò tante lettere, in cui si chiede continuamente consiglio a lei su come comportarsi. «Quello che ci interessa avere da te, oltre che sapere se ti piace o no, è un consiglio tecnico su eventuali ritorsioni sbirresche...», poi parla di * che noi abbiamo identificato in *, «...è sicuramente ad Alessandria, non so se in cella con *. Ci ha scritto *», altro nostro imputato condannato già per attentati, «ma non ha specificato se riceve il settimanale. Mi ha scritto poi * dicendo che uscirà qualcosa di noi sul prossimo “Anarres”. Siccome questo ultimo nome *...

Questo, scusi...

[Marini]: ...questo ultimo nome * viene anche citato in una sua lettera, che viene indicata qui nella “Annotazione” di cui lei ha tanto parlato, una lettera di Bonanno a tale *, datata Catania 30 novembre 1992 «con la quale l’estensore esprime la sua soddisfazione per l’invito ricevuto dai compagni greci. Indica a * i temi di maggiore interesse che dovrebbe trattare: solidarietà rivoluzionaria verso i compagni criminalizzati dallo Stato, dissociazione, amnistia, limiti dell’impostazione del modello autoritativo della lotta rivoluzionaria, critica alla logica quantitativa delle lotte sociali, critica dei metodi sindacali e parasindacali, contradditorietà delle lotte per la difesa del posto di lavoro, necessità dell’attacco diretto di massa, possibilità di sviluppo degli organismi di massa insurrezionali attraverso la creazione di nuclei autonomi di base non necessariamente legati al mondo del lavoro, possibilità di costruire una rete di organizzazioni insurrezionali di massa a livello internazionale, mezzi e obiettivi. In chiusura della missiva Bonanno precisa che il loro progetto si inserisce perfettamente in quello Mediterraneo. Invita quindi * a accelerare i tempi di realizzazione». Ci vuole quindi parlare di questo progetto Mediterraneo, e ci vuole dire, se vuole, se questo * si identifica in * o in che altra persona si identifica?

No, un attimo, lei lo ha già identificato, adesso non mi può porre una domanda, lei ha detto si tratta dello stesso *. Si è sbagliato... Ha dato per scontato qualcosa che scontato non è... sa perché è importante l’errore che lei ha commesso, perché implicitamente attribuiva alla prima lettera che lei ha cominciato a leggere, di questo compagno di cui per principio io non dico il nome, anche se lei l’ha detto un attimo fa...

[Marini]: *?

Non lo so. La prima lettera che lei ha letto...

[Marini]: Va bene, Bonanno, adesso...

...no, allora le dico molto semplicemente che non intendo rispondere.

[Marini]: D’accordo.

Allora, ragioniamo. Lei ha cercato, perché a me interessa la sostanza, non le persone, penso che sia anche un suo interesse, no?

[Marini]: Certo.

Lei, in sostanza, cosa mi voleva far capire, che qualcuno si rivolgeva a me nel tentativo di chiedere consiglio, o no?

[Marini]: Sì.

Bene, e siccome nella medesima lettera era citato un nome e cognome che cominciava con *, lei, dando per scontato che si trattasse del medesimo * della mia lettera dove c’era l’elencazione, ne deduceva che io stessi rispondendo ai consigli richiestimi nella prima lettera. Cosa che non è vera, perché si tratta di un altro *, e se lei avesse posto attenzione alla documentazione presentata da me, avrebbe visto che il libro pubblicato in greco delle conferenze di Tessalonica, però con i nomi dei due relatori della conferenza tenuta alla facoltà di Lettere di quella città, comprendeva il nome di un certo *, al quale io mi riferivo con la seconda lettera da lei indicata, e quell’elenco che lei sta cercando di far passare come dei consigli da me forniti al primo estensore della prima lettera risulta invece semplicemente la comunicazione di quello che io andavo a dire alla conferenza di Tessalonica, a un ben altro *. Vede come è importante il fatto che lei cercava di far passare che si trattava della medesima persona.

[Marini]: No, no, per carità, io volevo...

È così, è così che si costruiscono i mostri, dottore, è così, stia tranquillo. Anche nella migliore delle buone intenzioni, come senz’altro è la sua, perché io parto dal presupposto che lei sia un uomo d’onore. O no?

[Marini]: Certo.

...allora è così che si costruiscono anche involontariamente.

[Marini]: Va bene, passiamo ad un’altra lettera.

[Presidente]: Il problema però riguarda la sostanza della lettera, lasciamo stare...

Sì, ma la sostanza è semplice, la medesima della scaletta che lei ha avuto il piacere o, diciamo, la seccatura di ascoltare da me la volta precedente. Era lunghissima, la medesima cosa. Se prendiamo i punti vediamo che sono gli stessi, mentre visti in quell’ottica [suggerita dal Pubblico Ministero] sembrerebbero dei consigli espressi da me all’estensore della prima lettera.

[Presidente]: Sì, sì, abbiamo capito.

[Marini]: Volevo sapere questo progetto Mediterraneo se si identifica con il progetto di cui si parla nelle “Nuove svolte del capitalismo”, oppure è una cosa diversa. Questo io volevo sapere soltanto, sì, poi, a margine, volevo sapere se per caso quel * a cui era indirizzata quella lettera fosse quel * oppure no, tutto qui.

[Presidente]: Parliamo del progetto Mediterraneo, può dire qualcosa?

Sì, sul progetto Mediterraneo ci sono diversi documenti, di cui sicuramente l’accusa è in possesso, perché le perquisizioni sono state fatte in tante riprese, non sappiamo nemmeno quanta carta è stata portata via. È un discorso che riguarda un’organizzazione informale da tenersi a livello internazionale, se è possibile in una prossima riunione che ancora non siamo riusciti a fare, fra compagni, organizzazioni, gruppi di affinità di paesi diversi per discutere sulla situazione del Mediterraneo, la quale ha certamente alcune caratteristiche particolari, essendo zona particolarmente calda, particolarmente colpita dalle trasformazioni politiche che si sono verificate negli ultimi dieci anni: la caduta dell’impero sovietico, la globalizzazione della gestione del mondo da parte degli USA e così via. Sono teoriche che sono state sviluppate in tanti modi, ma di cui l’accusa deve essere in possesso sicuramente, perché io sono certo che ha alcune teorizzazioni su questo argomento.

[Marini]: Sì, subito dopo, nella stessa occasione, è stata trovata un’altra lettera, sempre sua, indirizzata a *, che è un altro nostro imputato, con cui appunto lei evidenzia alcuni aspetti del progetto Mediterraneo, ancora una volta, e c’è un’affermazione che coincide un po’ con quello che lei ha detto la volta scorsa, quando lei dice che le sue ideologie, io adesso vado per sintesi perché se no non posso fare la domanda, non vogliono dire “apertura” verso altri compagni...

Mi scusi se la interrompo: io ho usato il termine ideologie?

[Marini]: No.

E guardi… ideologie… questa è una carenza sua, perché lei mi carica di un termine talmente dispregevole che non è possibile, mi faccia dire le cose giuste.

[Marini]: Spregevole? Ideologia è un termine spregevole?

E sì, se vuole glielo dimostro, ma questa non è la sede, perché ideologia storicamente significa una cosa, cioè il voler caricare con un fantasma inesistente la realtà nel momento in cui sta per essere trasformata da uomini che cercano di applicare il loro dominio intellettuale, cosa che certamente non mi si attiene. Non mi si attiene, dottore, quindi se lei mi cita, cerchi di citarmi con le parole mie.

[Marini]: No, no, io non la sto citando. Allora io quando la devo citare dico fra virgolette. Io sto usando delle espressioni, forse improprie, secondo lei, ma sto...

Siccome lei aveva cominciato con il dire: “lei ha scritto a *”, non so chi sia...

[Marini]: Allora la lettera finisce, a un certo momento, fra virgolette, [parlando delle] cose che bisogna fare. Ecco, qua dice: «attinente alla pratica delle cose da fare non più semplicemente alla teoria delle cose da dire». Siccome lei ha parlato la volta scorsa dell’indissolubilità tra il progetto e l’azione, tra il dire e il fare, volevo che lei mi fornisse...

Bellissima domanda

[Marini]: ...un chiarimento. Con riferimento al progetto Mediterraneo, però.

Certo, bellissima domanda, perché certe volte siamo tanto bravi a teorizzare, ma la realizzazione di una simbiosi contestuale tra fare e dire ripresenta sempre le solite difficoltà del mare che ci sta nel mezzo. Però là non è, diciamo, una differenza di natura sostanziale, ci sono delle cose da fare, per esempio spedire una lettera, e c’è il contenuto della lettera, a esempio quello che è stato comunicato attraverso la lettera, i due momenti sono sicuramente separati e possono essere visti come aspetti di gradazioni differenti, il contenuto della lettera verrà certamente considerato come più importante dell’affrancatura o del mettere la lettera alla posta. Però, se lei considera questi momenti separati, essi sono in effetti espressioni del medesimo momento, perché se io scrivessi la lettera, la lettera più bella del mondo, la più incandescente, e la tenessi nel cassetto, sarebbe come non averla scritta. Io mi riferisco quindi a questi momenti, corrispondenza, sentire le persone, approfondire, muoversi, e le cose da dire: chiarimenti, approfondimenti, perché sono tematiche e discorsi che come lei, dottore, avrà avuto modo di cogliere, mi auguro con maggiore accuratezza, sono un po’ difficili. Non sono schematismi ideologici, sono elementi di approfondimento in cui il cuore dell’uomo, i sentimenti della persona si sposano con una concezione della vita diversa. Questi aspetti sono delicatamente difficili. Ecco perché si torna sempre sul discorso delle cose da fare e delle cose da dire... Non sono stato chiaro, mi dispiace.

[Marini]: No, chiarissimo. Allora, soprattutto tra le cose da fare c’è un’altra sua lettera che lei invia ad *, se poi ci vuole chiarire chi è questo * le saremmo grati, e lei comunica a questo *, adesso dico fra virgolette, «conquista del potere, bisogno di un capo, monolitica organizzazione», lei contesta quello che ha detto l’altra volta…

Scusi, non la seguo più, tra virgolette queste frase sono viste in modo negativo?

[Marini]: Che lei è contro.

Ah, bene, tanto per capirci.

[Marini]: Come l’altra volta. Poi parla di questa lotta rivoluzionaria, che ormai sta prendendo piede in tutto il mondo, cioè...

Dottore, scusi, lotta rivoluzionaria?

[Marini]: Sì.

Ma non ci può leggere tutta la frase…

[Marini]: No, io non la leggo tutta la frase, sarebbe troppo lungo, scusi...

...ma anche più importante, per capirci, no?

[Marini]: Allora visto che lei ha parlato della “Annotazione”, e ce l’ha sotto gli occhi, forse, io le dico quello che loro hanno scritto nella “Annotazione”, loro scrivono, così io mi rendo neutro rispetto anche alle espressioni che sono usate. «Una lettera di Bonanno a tale * con cui l’estensore comunica che, al di là di ciò che non può condividere: conquista del potere, bisogno di un capo, monolitica organizzazione – fra virgolette, fra parentesi – c’è un uomo che vuole agire e che non si accontenta di dare il suo semplice contributo ad una ideologia che se ieri era dominante oggi sta zoppicando, senza che per questo nulla impedisca che possa tornare a dominare nuovamente. Bonanno sostiene che la caratteristica essenziale degli anarchici è quella di cercare i propri compagni al di là delle ideologie, ma anche al di là di ogni possibile garanzia a proposito della riuscita di un progetto o di un’organizzazione con tanto di programmi e organigrammi. La lotta rivoluzionaria ormai in tutto il mondo sta prendendo la strada dell’insurrezione e delle strutture minimali, indirizzate verso l’attacco diretto diffuso sul territorio. I compagni non vogliono sentire parlare di vecchie concezioni organizzative, per cui si accordano su basi minime di organizzazione informale – quindi usa la sua espressione – questo accade anche all’interno del movimento anarchico», e poi, e poi, e poi... Vogliamo chiarire cosa invece sono... qui c’è invece una cosa che lei ha accettato, quella dell’organizzazione per gli attacchi alle strutture minimali. Cosa intende per attacchi alle strutture minimali?

Scusi, siccome vorrei commentarlo e mi sembra importante questo passo, se lei volesse essere così gentile…

[Marini]: A pagina 15

Della “Annotazione”?

[Marini]: No, riguarda la sua posizione, ci sono delle cartelle con tutti gli elementi a favore o a sfavore degli imputati.

Sì, ce l’ho proprio qua.

[Marini]: Poi, del resto, questo problema delle strutture minimali lei lo riaffronta in altri documenti, le posso indicare la pagina dove lo riaffronta...

Quello che non posso condividere mi sembra chiaro: conquista del potere, bisogno di un capo, monolitica organizzazione, che poi sarebbe da dire che l’estensore medesimo [della “Annotazione”], che mi accusa di essere capo di una organizzazione, riporta pêle-mêle che io ho scritto che rifiuto chi ha bisogno di un capo... ognuno è padrone delle proprie contraddizioni. Al di là quindi di questa non condivisione, però c’è un uomo che vuole agire, che non si accontenta di dare il suo semplice contributo ad una ideologia che se ieri dominante oggi sta zoppicando, evidentemente qua si sta parlando dell’ideologia comunista, dell’ideologia che è crollata con la caduta del muro di Berlino, senza che per questo nulla impedisca che questa possa tornare a dominare nuovamente in futuro, perché il futuro è solo in grembo a Giove. Bonanno sostiene che la caratteristica essenziale degli anarchici è quella di cercare i propri compagni al di là di queste o di altre ideologie, ecco perché poc’anzi mi permettevo di sottolineare che non poteva essere un concetto mio...

[Marini]: Sì, ma infatti la domanda è la specificità del suo pensiero e la specificità di questa organizzazione, chiamiamola, secondo la sua parola, informale, noi la chiameremmo con un’altra parola. Questo io voglio capire: la specificità...

Ci stiamo arrivando...

[Marini]: ...la specificità rispetto alle altre ideologie e rispetto alle altre organizzazioni, che purtroppo noi abbiamo conosciuto, perché organizzazioni terroristiche che hanno insanguinato le strade del nostro paese. Questo noi vogliamo sapere.

La prego, dottore, non mi faccia molcere il cuore con il sangue perché comincio a sentirmi male.

[Marini]: Questo vogliamo sapere, questo è lo spirito che anima le mie domande ed è lo spirito che ha animato anche l’inchiesta, e anima anche questo processo, da parte mia.

Scusi, dottore Marini, io non capisco, lei con queste affermazioni mi vuole impressionare, no?

[Marini]: No, ma per carità!

Vuole che le dia un contributo... vuole seriamente che le dia un contributo serio a quello che c’è scritto qua oppure no?

[Marini]: Lei non mi accusi di usare...

Io non accuso nessuno perché non sono Pubblico Ministero.

[Marini]: Può darsi che io usi delle espressioni improprie, però se le uso le chiedo scusa, perché voglio capire la specificità del suo pensiero e la specificità di questa organizzazione informale rivoluzionaria anarchica insurrezionalista di cui lei ha parlato. Soltanto questo. Forse non ci sono arrivato ancora e voglio approfittare dell’occasione che lei è qui per spiegare.

Bene, sono lieto di collaborare con lei, sotto questo esclusivo profilo di cercare di chiarire che cosa intendo io con...

[Presidente]: Io intervengo perché lei non deve cercare di chiarire niente al Pubblico Ministero ma a noi Corte. Allora, il problema è questo, la domanda la pongo io recependo la domanda del Pubblico Ministero: che concretezza ha o aveva questa organizzazione informale, sul piano della concretezza. Questo credo volesse sapere il Pubblico Ministero, o comunque lo vogliamo sapere noi.

Sul piano della concretezza, io non so se leggo bene la sua domanda, però vediamo, possiamo...

[Presidente]: Sul piano della realtà, della concretezza...

...un’organizzazione informale, come ho cercato di spiegare l’altra volta, è costituita da una serie di gruppi di affinità, di compagni quindi che si conoscono e agiscono, non soltanto fanno chiacchiere, stiamo attenti, agiscono anche indipendentemente gruppo da gruppo, i quali gruppi, nella eventualità di un’azione comune – abbiamo fatto l’esempio di Comiso, l’esempio del Compartimento ferrovieri di Torino – si mettono insieme e costituiscono un’organizzazione informale specifica, come è stato il coordinamento delle Leghe di Comiso, come è stato il coordinamento del movimento di base del Compartimento dei ferrovieri di Torino, per una determinata lotta, specifica. Quindi la concretezza, se leggo bene quello che vuole chiedermi lei, Signor Presidente, riguarda questo aspetto, l’esistenza di un problema preciso, non di una pregiudiziale ideologica che seleziona una serie di compagni o di gruppi in vista del raggiungimento di un obiettivo specifico per i gruppi stessi: la conquista del potere, l’abbattimento di determinati ostacoli e così via, il raggiungimento di determinati mezzi a disposizione e così via, ma soltanto il raggiungimento, insieme alla gente, della soluzione o comunque dell’approfondimento di un problema che oggettivamente si presenta agli occhi essenzialmente delle persone che subiscono quel problema. Se parliamo in termini di concretezze, questo a me sembrava essere chiaro. Tornando un attimo indietro, Signor Presidente, la prego di scusarmi, ma io mi sono permesso di rivolgermi al Pubblico Ministero direttamente non per non dar conto della vostra presenza in questa sede, ma semplicemente perché mi si parlava direttamente e quindi è, come dire, umano rispondere direttamente.

[Presidente]: Sì, sì, senta, per favore, allora chiarisca questo punto: la differenza tra l’organizzazione informale e l’organizzazione formale. Secondo questa tematica, che differenza c’è fra l’organizzazione formale e l’organizzazione informale?

Dal punto di vista anarchico...

[Presidente]: Dal punto di vista delle parole usate, da voi, da lei. Siamo nell’ambito della sua domanda?

[Marini]: Certo, Presidente.

Stiamo parlando di organizzazione anarchica formale o formalizzata e di organizzazione informale. L’organizzazione formale o di sintesi è un’organizzazione che storicamente si è sviluppata nel tempo, si è data degli statuti, si è data un programma, si realizza nel suo aspetto operativo e programmatico in dei congressi periodici, all’interno dei quali congressi ad unanimità, perché gli anarchici sono contro il principio della maggioranza e della minoranza, si decidono le azioni da fare, quali i settori in cui intervenire, i vari compagni che partecipano a questa organizzazione in modo stabile redigono una domanda di ammissione, vengono accettati, si prendono degli incarichi, si creano delle commissioni che si interessano dei vari settori: scuola, case, i vari settori in cui si realizza la differenza sociale, quartieri, fabbriche, lavoro, e così via. Questa è la vita, grosso modo, di un’organizzazione di sintesi, di cui possiamo fare l’esempio storico della FAI, anche a livello internazionale, perché le federazioni anarchiche esistono in tutto il mondo. Un’organizzazione informale invece non accetta la pesantezza, la difficoltà burocratica di funzionamento, perché ritiene che ogni anarchico possa agire assolutamente in modo indipendente dagli altri anarchici, possa cercare i suoi compagni dove meglio crede, sulla base dell’affinità, cioè a dire, della conoscenza, gettando quindi uno sguardo all’indietro verso le esperienze che ognuno di noi realizza, e creando così una piccola coesione tra i singoli gruppi che abbiamo chiamato gruppi di affinità, ma che si possono chiamare in tanti modi, e cercando, attraverso questi gruppi, di esaminare la realtà liberamente, senza stare a vederla dietro l’ottica di un’organizzazione cristallizzata, quale è l’organizzazione di sintesi che preesiste alla formazione del singolo gruppo. Se accade questo, ci si può trovare, come ripeto ormai fino a tedio, davanti alla situazione di una lotta talmente complessa, talmente articolata, lei pensi, Signor Presidente, che a Comiso noi siamo rimasti per ben due anni, non un giorno, cioè fisicamente a Comiso, quindi davanti a una lotta articolata che rende necessario entrare in contatto con altri gruppi di affinità, non soltanto del medesimo posto, ma anche all’estero, perché i compagni che sono intervenuti a Comiso erano compagni inglesi, tedeschi, francesi, spagnoli, non soltanto italiani, con l’esclusiva finalità di partecipare insieme alla gente a cercare di risolvere, sviluppare, acuire e portare anche alle estreme conseguenze di natura insurrezionale, e successivamente rivoluzionaria, quella lotta che comincia soltanto con la pena, la sofferenza, il bisogno che un gruppo di persone più o meno vasto avverte in un contesto preciso. Quindi la differenza non so se comincia ad emergere, Signor Presidente, con chiarezza. La specificità dell’organizzazione informale – ed è per questo che si è ricorso a tale termine, se si vuole anche infelice, e anche spesso in altre lingue non facilmente traducibile – dipende dal fatto che non c’è la formalizzazione, a volte soffocante, di un’organizzazione che storicamente si presenta come la portatrice di una, questa volta sì, ideologia che proviene dal passato.

[Presidente]: Poi, Pubblico Ministero, altre domande.

[Marini]: Ma allora, questa specificità di questa organizzazione comporta anche la realizzazione oggi, subito, ora, di quelli che sono i progetti... perché lei ad un certo momento dice: «Siamo anarchici insurrezionalisti perché vogliamo distruggere un assetto capitalista della realtà mondiale che grazie alla ristrutturazione informatica è diventata tecnologicamente utile soltanto ai gestori del dominio di classe. Perché siamo per l’attacco immediato, distruttivo, contro le singole strutture, individui e organizzazioni del capitale e dello Stato. Perché criticando chi ritiene ormai impossibile la lotta rivoluzionaria, vogliamo farla finita con questo stato di cose, subito – lei dice – e non quando le condizioni esterne renderanno possibile la sua trasformazione». La specificità di questa organizzazione informale o di questo progetto che sta alla base di questa organizzazione informale è questa qui?

Adesso, la risposta, se mi consente, per essere chiara, Signor Presidente, ha bisogno di una piccola chiarificazione su quelle che sono le modificazioni che sono avvenute in questi ultimi vent’anni, perché la scelta tra organizzazione informale e organizzazione di sintesi non è una questione di soddisfazione personale, di sentimento, non è soltanto un modo di vedere le cose, ma è anche legata ad un’interpretazione delle trasformazioni che la struttura capitalistica ha subito negli ultimi vent’anni. A nostro avviso, a mio avviso, è più adeguata ad una lotta rivoluzionaria e insurrezionalista, oggi, un’organizzazione informale, per un motivo molto semplice: perché, a partire dal 1980, la realtà produttiva dei grandi paesi a capitalismo avanzato ha risolto un problema fondamentale che minacciava di fare veramente crollare il sistema capitalista, quello dell’eccessiva rigidità del costo di lavoro: cioè impianti fissi, non facilmente gestibili, non facilmente modificabili, forti organizzazioni sindacali capaci di chiedere livelli salariali troppo al di là della reale produttività del singolo. Ora, l’ideologia che sostiene – termine qui esatto – l’organizzazione tradizionale di sintesi si collega, grosso modo, a una visione se vogliamo escatologica della rivoluzione che un bel giorno, come dicevano i rivoluzionari dell’Ottocento, la grande soirée, la grande sera in cui scoppia la rivoluzione, gli strumenti produttivi si sottraggono alla ingiusta disponibilità dei padroni e si consegnano nelle mani delle organizzazioni operaie. Questo aveva una sua logica finché il capitale non ha modificato la struttura produttiva, trasformandosi velocemente, grazie principalmente alle tecnologie telematiche, e grazie anche alle analisi che sono sviluppate da teorici – in particolare Modigliani e Tarantelli – cioè a dire i teorici dell’economia che hanno detto: “No, signori capitalisti, non abbiate paura, il costo del lavoro si può ridurre, si può inserire il concetto di flessibilità, la gente si può licenziare, non abbiate paura, non succede nulla di grave. Però bisogna fare alcune cose: realizzare un governo forte (se vi ricordate è il periodo della Thatcher, il periodo di Craxi), un governo forte e contemporaneamente sviluppare i concetti di flessibilità, quindi ridurre l’incidenza dei sindacati e sostanzialmente determinare una trasformazione produttiva basata sulla robottistica, sulla flessibilità delle catene di montaggio, sulla distruzione di una centralizzazione della classe operaia”. È tale frantumazione che adesso rende impossibile, a nostro avviso – la nostra è un’analisi opinabile, per carità – impossibile applicare il metodo tradizionale della grande sera, del gran giorno, del passaggio, se si vuole anche sanguinoso, anche terribile, della rivoluzione, il passaggio dei mezzi produttivi dalla disponibilità dei padroni alle organizzazioni operaie. Di questi mezzi produttivi, a nostro modestissimo avviso, non c’è più nulla da fare, quindi occorre cominciare a distruggerli da oggi. Questa la tesi per cui riteniamo che occorra un’organizzazione informale che liberamente teorizzi questo fatto per poi realizzare, ognuno per conto suo, un attacco distruttivo, partendo da oggi perché non possiamo pensare di utilizzare strumenti di questo tipo in una società veramente libera, che deve quindi nascere attraverso una catastrofe completa della situazione in cui ci troviamo, in cui tutti stiamo vivendo una vita allucinata o se si vuole, per usare un termine moderno, una vita virtuale, non reale. Mentre una volta era possibile “utilizzare”, oggi pensate effettivamente che si possano utilizzare questi strumenti per una società veramente libera? Ecco, noi non lo pensiamo, ecco perché parliamo in questi termini, mentre le organizzazioni classiche di sintesi continuano a ipotizzare la visione di questo passaggio e di questo utilizzo. Il contrasto è proprio su questo punto.

[Marini]: Vede, su questo punto, la “Annotazione” di cui lei parla (non so adesso ciò che lei risponderà) mi sembra abbastanza puntuale, perché quando dice: «A dire del Bonanno l’obiettivo da combattere è certamente lo Stato, non solo come idea Stato, però, ma anche come “cosa Stato”, fra virgolette, costituita sia dalle strutture sia dai singoli individui». Lei ha parlato delle strutture da abbattere, da distruggere, e gli individui?

Anche, gli individui sono...

[Marini]: Gli individui si devono eliminare?

Non mi metta al muro in questo modo, non, no, non accetto di essere messo al muro in questo modo. Lei ha mai visto funzionare un carcere senza carcerieri?

[Marini]: Vuole rispondere alla domanda?

Ho già risposto, secondo me, se vuole la dettaglio.

[Presidente]: No, non ha già risposto, ha dato una certa risposta.

[Marini]: Non ho capito, che significa ha visto mai funzionare un carcere senza carcerieri?

C’è una connessione ragionevole e logica...

[Marini]: ...no, perché qui abbiamo anche una persona che è stata incarcerata che poi è morta, qui abbiamo anche questo in questo processo.

Non ho capito.

[Marini]: Qui, in questo processo, abbiamo due reati che riguardano gli individui, le persone. Abbiamo una strage in cui si è cercato di far saltare in aria dei poliziotti, abbiamo un sequestro di persona, anche, in cui è stata incarcerata, come lei dice, una persona che poi è morta.

Non so cosa dirle.

[Marini]: Quindi io volevo capire cosa intende lei quando parla di “cosa Stato”, si riferisce alle strutture e agli individui. Lei ha risposto: ma esiste un carcere senza carcerieri? Significa che bisogna abbattere anche gli individui?

Ma è logico.

[Marini]: È logico, grazie, non ho altre domande. Vediamo allora per quanto riguarda queste strutture minimali. Perché lei poi dice in questo documento che ha esaminato: «Per l’attacco ora e subito, e non da programmarsi per un futuro in cui i tempi saranno maturi, sosteniamo che interventi diretti a distruggere le realizzazioni del capitale e dello Stato nel territorio sarebbero da privilegiarsi, a nostro avviso – ritorno per capire determinate cose – le strutture minimali e ciò perché proprio su queste strutture si basa la diffusione sul territorio del capitale e anche, sebbene un po’ meno, dello Stato. I grandi centri che ancora persistono significano soltanto simboli di qualcosa che non c’è più o, se c’è, di qualcosa che deve essere assistito da una miriade di collegamenti terminali: cavi, fili, condotti, tubi, centraline, antenne, tralicci, pali, centri di smistamento, centri di ricerca e così via, senza i quali...», ecc. Lei l’ha visto nella “Annotazione”, si parla di attentati, tanto per cominciare, dei tralicci all’Enel, erano un obiettivo anche di questa organizzazione informale gli attentati ai tralicci Enel?

No, non ci siamo capiti, allora.

[Marini]: Non ci siamo capiti.

[Presidente]: Aspetti, forse si può capire meglio con questa domanda...

...no aspetti, se mi si chiede...

[Presidente]: ...vediamo un momento, se ho capito il senso della domanda...

...no, scusi, Signor Presidente, è una cosa radicale a cui bisogna rispondere immediatamente, perché io non voglio essere filtrato dalla sua cortesia e il Pubblico Ministero sta cercando di mettermi al muro facendomi dire implicitamente se qualcosa era compito di qualcosa, ma questo secondo qualcosa non esiste, quindi come può essere compito di qualcosa che non esiste un qualcosa detto prima...

[Presidente]: La domanda è questa: l’organizzazione informale di cui lei ha parlato aveva come programma o ha come programma o avrà come programma gli attentati Enel? Questo voleva sapere il Pubblico Ministero.

No, mi consenta, non è vero. Il Pubblico Ministero non ha detto: “l’organizzazione informale di cui lei ha parlato”, ha detto: “questa organizzazione informale”. E no, sa, io con le parole ci lavoro, per cui stiamo attenti. Ha detto questa, non c’è questa organizzazione informale, non stiamo parlando di un’organizzazione informale...

[Presidente]: Noi dobbiamo scendere nel concreto, le cose astratte non ci interessano, a noi interessano le cose concrete, la domanda per questo l’ho formulata io, perché in concreto l’organizzazione informale di cui lei ha parlato ha avuto come oggetto, come programma di fare attentati Enel?

Signor Presidente io non ho parlato di una “specifica” organizzazione informale, questo non l’ho fatto mai, io ho parlato di cosa è “una” organizzazione informale, la quale una volta esistita si può interessare, come storicamente è accaduto a Comiso o a Torino, di risolvere i problemi che erano sul tappeto in quel momento, in altre situazioni potrebbe anche risolvere problemi di tipo diverso e potrebbero anche compagni anarchici autonomamente decidere di procedere all’attacco di determinate persone o cose, su cui non ho modo di dare indicazioni né chiarificatrici in linea teorica né ovviamente in linea pratica. Però, se mi si dice: lei ha parlato di questa organizzazione informale, ritorna un’altra volta a camminare in quest’aula sui suoi piedi il fantasma di cui nessuno ha mai visto il volto.

[Presidente]: Allora, Pubblico Ministero?

[Marini]: Per la specificità di questa... io le leggo un’altra lettera che lei ha inviato ad una persona a lei cara, sicuramente, la *, perché è stata la sua compagna…

No, non intendo rispondere.

[Marini]: Comunque nella lettera lei dice, datata 6 dicembre 1994, scritta al computer da Bonanno e indirizzata alla * sulle recenti perquisizioni subite da lui e da altri compagni, puntualizza da quale autorità sono state disposte, comunica l’iniziativa di * di pubblicare un opuscolo che toccherà i seguenti punti: bisogno di soldi, armamento, preparazione, azione, fuga, inseguimento, e così via. Questi punti che lei indica alla *...

Lei chi?

[Marini]: Lei, Bonanno, perché è una sua lettera. Se lei prende a pagina 16 [della “Annotazione”], una lettera datata Firenze 6 dicembre 1994...

Sì. Dica.

[Marini]: Vuole chiarire cosa intendeva per armamento, più che per bisogno di soldi, che questo lo sappiamo dal famoso dossier sulla rapina di Bergamo, perché le rapine erano un vostro modo di... vita, noi diciamo che erano un modo di autofinanziamento dell’organizzazione, però a me interessa l’armamento in questo momento.

No, guardi, aspetti un attimo, a me interessa partire da questo aspetto: in quello che ha letto lei [ma da lei omesso] c’è scritto di pubblicare un opuscoletto, no?

[Marini]: Sì, va bene...

...quindi, evidentemente, c’era in mente...

[Marini]: ...un progetto...

...no, no, un opuscoletto non è un progetto, è un pezzo di carta su cui si sviluppa un progetto...

[Marini]: Va bene.

Quindi io mi limitavo...

[Marini]: Si danno anche delle direttive, delle indicazioni, delle... io fra poco le sottoporrò il famoso opuscolo dell’anarchico esplosivista che abbiamo acquisito agli atti, se poi lei ce lo vorrà commentare...

Non lo conosco.

[Marini]: Non lo conosce...

No. Quindi, qua ci si riferisce all’iniziativa di pubblicare questo opuscoletto con questi argomenti, cioè quindi di sviluppare alcuni punti che non concernono qualcosa che voglio scrivere io, ma un’altra persona.

[Marini]: E lei, lei che posizione...

Non posso risponderle, se era una cosa che volevo scrivere io allora le avrei risposto ben volentieri.

[Marini]: No, perché subito dopo, nella lettera successiva, a pagina 12 [sempre della “Annotazione”]: «Bonanno esprime a * le sue perplessità sull’opportunità di pubblicare l’opuscolo relativo alle rapine di Rovereto, nell’eventualità comunque che i compagni intendessero pubblicare l’opuscolo, Bonanno avrebbe fornito la sua totale collaborazione». Cioè, io vedo che qui ci sono decine, decine di lettere in cui a lei gli si viene a chiedere sempre se si può fare una cosa, se non la si può fare, se si deve fare, se è opportuno, se non è opportuno. Quale posizione lei assume, non dico in questa organizzazione informale, ma rispetto a queste decine e decine di persone che le scrivono per chiedere suoi “consigli”? Vuole rispondere a questa domanda?

Sì! A parte il fatto che non intendo rispondere sulle persone, su questo posso rispondere, difatti nel secondo punto indicato da lei io esprimo le mie perplessità, non dico un diktat...

[Marini]: Ma si può capire...

...non si può capire, se si vuole capire si capisce che uno può avere...

[Marini]: ...lei deve consigliare se è opportuno o no pubblicizzare determinate cose, e io quello voglio capire...

...e perché lei usa il termine consigliare e non esprimere la mia opinione?

[Marini]: Certo.

...e perché la mia opinione deve essere un consiglio, se non nei termini in cui può essere dall’altro interpretata come consiglio, mentre da parte mia non è considerata un consiglio. Oppure qualcuno che scrive a me non è che deve scrivere necessariamente per avere un consiglio, può scrivere per avere un chiarimento, un approfondimento, perché certamente su determinati argomenti sono in grado, forse, per mia sfortuna, di avere una maggiore conoscenza o di arrivare a un approfondimento maggiore. Questo, caro mio, non si chiama autorità, si chiama autorevolezza, che sono due concetti diversi.

[Marini]: Si chiama?

Autorevolezza, non autorità.

[Presidente]: Autorevolezza, Pubblico Ministero.

[Giudice a latere]: Scusi, tanto per capire, lei dice non è che io vado a dare delle direttive agli altri, ma se gli altri mi chiedono la mia opinione io non mi tiro indietro, è questo che sta dicendo?

Certo, certo. Mi scusi, il concetto stesso di dare direttive evidentemente è inapplicabile fra gli anarchici. Se dimentichiamo questo, tutto può suonare anche vicino a quello che dice il dottor Marini, mentre è lontanissimo per questo semplice aspetto. Perché siamo fra anarchici, fra persone che anarchiche non sono, probabilmente, una condizione come la mia, dato che su alcuni argomenti, seppure di trascurabile importanza, ho una maggiore preparazione, il discorso potrebbe essere veramente quello di una direttiva. Io non nego che sul piano puramente letterale o astratto c’è questa somiglianza, ma siamo fra anarchici. Dottore, faccia questo sforzo, si cali per un attimo nella realtà di quello che lei cerca di capire, perché io mi auguro che questo sia il suo scopo...

[Marini]: Certo.

...bene, allora cerchi di calarsi: lei pensa seriamente che un anarchico che è contro tutti, contro Dio, contro il mondo, accetti veramente di chiedere a un altro anarchico, sia pure più grosso di statura o di preparazione, una direttiva, ma stiamo... stiamo scherzando?

[Marini]: Non lo so, perché vede, Bonanno, ci sono decine di queste cose. Perché poi, nella successiva lettera, manoscritta, datata Firenze 4 maggio 1995, del Bonanno indirizzata alla *, con cui l’estensore, oltre a informare la donna di recenti attriti sorti con * e *, perché gli attriti esistono in tutti i gruppi e in tutte le organizzazioni e anche nelle buone famiglie, precisa che per il lavoro di tipo insurrezionale c’è ancora molto da fare, trattandosi di un intervento esclusivamente nostro, solo anarchico. Cito fra virgolette, lei lo sta seguendo a pagina 17 [della “Annotazione”]. «E quindi filtrata in modo assoluto dalle nostre scelte ideologiche». Lei qua parla di filtro delle sue scelte ideologiche, o nostre, poco fa a detto che lei non parla mai di ideologia, qui parla di scelte ideologiche. Allora io vorrei capire, questo mondo di attriti, di consigli chiesti o non chiesti, rispettati o non rispettati, in concreto, come dice il Presidente, lei che posizione aveva assunto in questo mondo?

Guardi, innanzi tutto...

[Marini]: Perché noi possiamo andare fino a domani mattina, io le posso prendere le decine, centinaia di documenti che sono stati sequestrati durante quei giorni delle perquisizioni, e guarda caso fanno riferimento, la maggior parte, a lei, mi dispiace. Anche perché, lei deve capire, io devo riscontrare, come mi obbliga la legge, una dichiarazione fatta in quest’aula dalla Namsetchi Mojdech in cui dice: questa organizzazione faceva capo a Bonanno Alfredo Maria, questa organizzazione non muoveva un passo se non chiedeva a Bonanno cosa bisognava fare, questa organizzazione faceva rapine di cui Bonanno era sempre informato, questa organizzazione... i gruppi di affinità, dopo aver commesso le rapine, avevano una cassa comune in cui andava una parte dei proventi delle rapine che veniva gestita dall’organizzazione...

Io mi auguro che questo elenco...

[Marini]: Vede Bonanno, io non è che mi sto accanendo, sto riscontrando...

[Presidente]: Sì, sì, d’accordo Pubblico Ministero. Cosa ha da dire lei, diamo la parola all’imputato.

[Marini]: Io lo sto dicendo per spiegare il mio atteggiamento, il mio comportamento.

Nella lettera manoscritta, da quel che posso capire leggendo la citazione di cui sopra [la lettera del 4 maggio 1995], mi riferisco a delle questioni che sono sorte fra di noi, per carità fra gli anarchici sorgono sempre delle questioni.

[Marini]: Certo.

Perché sorgono delle questioni?

[Marini]: Bonanno, in questa aula si è inneggiato alla lotta armata, si è inneggiato allo scontro armato...

...non mi interessa...

[Marini]: Io devo capire fra quelli in quella gabbia chi era...

...no, no, non mi impressiona questa tirata, dottor Marini, perché io so quale è il peso delle chiacchiere retoriche e quale è il peso dei fatti. Andiamo con calma, se mi consente. Fra gli anarchici sorgono spesso dei contrasti, anche per quisquilie, per cose che persone non anarchiche troverebbero di nessuna importanza. Questo su che cosa la dovrebbe fare entrare in sospetto? sul fatto che evidentemente ogni anarchico ha una fortissima individualità, che vuole a tutti i costi difendere. Perché fra le tante carte che sono in suo possesso troveremo che ci sono stati problemi. Ciò che vuol dire? vuol dire semplicemente che c’è stata una divergenza di opinioni, ecc., ecc. Non siamo davanti a un’organizzazione monolitica, non c’è uno che comanda e dice tu devi fare questo, se no tu ti trovi fuori dell’organizzazione, proprio per questo. La ricchezza dell’anarchismo è proprio la discussione, la polemica, la divergenza anche al limite di quello che potrebbe essere considerato come il deserto delle assolute inutilità, o delle incapacità di agire, in cui ognuno la pensa per sé. Perché ogni testa, diceva mio padre, buonanima, è un ministero. E gli anarchici realizzano anche, al limite, questo. Quindi, quando si mettono d’accordo, si mettono d’accordo per spontanea decisione, per capacità spontanea di pervenire ad un’analisi critica che li fa acconsentire ad un progetto da loro stessi ritenuto valido e quindi considerato come se fosse elaborato da loro stessi. Se lei volesse entrare all’interno di questa dimensione, comprenderebbe anche questo tipo di lettere. Quando io mi riferisco alle scelte ideologiche, evidentemente mi riferisco non a scelte ideologiche nel senso che avevamo criticato prima, ma a scelte attuate da chi affermava delle ipotesi critiche da me non condivise, e quindi da me considerate scelte ideologiche. Quindi, non c’è un contrasto, anche se è fra virgolette la parola “ideologia”, con quello che ho detto prima, perché evidentemente mi riferisco a contrasti, peraltro quotidiani fra anarchici. Questi, in un certo senso, anche se lei trova, come dice, una miriade di riferimenti alla mia persona, sono vissuti all’interno di una fortissima autonomia dell’individuo che rivive e sottopone all’insindacabile giudizio del singolo l’eventuale, voglio pure dire, l’eventuale suggerimento che dovesse improvvidamente venire dalla mia penna, improvvidamente perché farei un cattivo servizio. Però, una cosa del genere può pure sfuggire, mentre lei me la pesca come una perla e mi dice: “Guardi, Bonanno, lei ha detto a questo di fare così e così”, sì, va bene, ma a chi lo sto dicendo? Non lo sto dicendo ad un poliziotto, a un carabiniere, perinde ac cadaver, non lo sto dicendo a un gesuita, lo sto dicendo ad un anarchico.

[Marini]: Ma, vede Bonanno, al di là di questi suggerimenti diciamo così di scelte ideologiche, io vedo altri inviti e altri suggerimenti da parte sua che lasciano pensare, se lei mi permette...

Prego.

[Marini] ...perché non voglio... Fra le altre cose, nella “Annotazione” dei carabinieri a pagina 12, c’è un telegramma inviato da Bonanno Alfredo a *, aperte le virgolette, «Quelli fra di voi che non hanno già la nomina a favore dell’avvocato Venturino sostituite provvisoriamente avvocato Canestrini con avvocato Venturino onde consentire a quest’ultimo un colloquio con voi tre che potrebbe aversi al più presto. Subito dopo ripristinate l’avvocato Canestrini. Baci Alfredo». Mittente *. Lei, insomma, dà suggerimenti, consigli, anche agli imputati di rapina che sono stati arrestati, ma insomma la sua posizione con queste persone qual è?

Ma, un momento...

[Marini]: Io ...citerò altri suoi interventi ...a pagina 12 [della “Annotazione”] in ultimo.

Io non so per quale motivo ho inviato questo telegramma, perché non posso essere nella condizione di ricordarmelo, ma, evidentemente, si tratta della questione di inserire per tutti anche l’avvocato Venturino, perché è l’avvocato di una delle persone imputate della rapina. Sto cercando di...

[Marini]: No, a me interessa la sua posizione...

...sto parlando dell’avvocato Venturino…

[Marini]: Lei presenziava a tutti i processi...

Non è vero. Non sono mai andato a un processo, tranne a quelli di Rovereto e di Trento perché in questi c’era mia moglie, che io per la prima volta vedevo dietro le sbarre, si rende conto lei?

[Presidente]: Sospendiamo per cinque minuti. Cinque minuti di pausa.

 


[Presidente]: Allora, Pubblico Ministero, possiamo iniziare, riprendere anzi?

[Marini]: Grazie. Senta Bonanno, per il momento volevo ritornare su quel punto di cui lei ha parlato, perché volevo dei chiarimenti. I carabinieri, come lei sa, a pagina 18 [della “Annotazione”], lei già ne ha parlato, indicano questa circostanza. L’ha trovato a pagina 18?

Sì.

[Marini]: «Dal 13 al 15 maggio del 1988 in Forlì, nel corso di un convegno antimilitarista organizzato dalla FAI, Bonanno Alfredo, * , *, *, che avevano invitato i proletari a fare propria l’azione diretta, sovversiva e fuori da ogni delega, venivano accusati di terrorismo dagli oratori ed estromessi dal congresso». Lei la volta scorsa ha detto che la FAI ha mandato un documento, lo ha prodotto per dire che questo congresso non c’è stato.

No, non c’è stato.

[Marini]: Invece lei davanti al GIP...

Ho detto la stessa cosa.

...no, ha dichiarato che c’è stato un convegno, non un congresso...

Convegno, sì.

[Marini]: ...ma che cosa era allora?

Un convegno antimilitarista, non organizzato dalla FAI.

[Marini]: Al di là dell’espressione usata dai carabinieri, congresso o convegno, questo convegno da chi era stato organizzato?

Da compagni sparsi, non dalla FAI.

[Marini]: Non dalla FAI. Quindi l’improprietà sta nel fatto che non è organizzato dalla FAI?

No, improprietà ce ne sono tante: non è un congresso, non è organizzato dalla FAI, non siamo stati buttati fuori dal convegno, né tanto meno dalla FAI. Improprietà, a voglia che ce ne sono.

[Marini]: Se io trovo le registrazioni di questo convegno, che io ho chiesto, le registrazioni di questo convegno e dei suoi interventi, poi ne possiamo parlare.

Certamente.

[Marini]: Non è vero, perché qui si riporta fra virgolette la frase che lei avrebbe detto.

Questo non lo so, io non so che frase ho detto, non ho la registrazione.

[Marini]: Va bene, va bene.

Può anche darsi.

[Marini]: In questo convegno di cosa si doveva parlare?

Era un convegno antimilitarista.

[Marini]: Antimilitarista. E la vostra posizione, qual era?

La posizione antimilitarista nostra.

[Marini]: Innanzi tutto, vuole dire se effettivamente andò con queste persone?

Riguardo le persone presenti non ho nulla da dire. Io personalmente c’ero.

[Marini]: Ha fatto un intervento?

Sì.

[Marini]: Che tipo di intervento?

Un intervento antimilitarista, così come io penso si dovrebbe impostare la lotta insurrezionale contro gli eserciti, contro la guerra, contro i massacri che dappertutto vengono attuati, contro il nostro paese che è il principale fabbricante di armi, di mine, per le quali muoiono migliaia, decine di migliaia di bambini ogni giorno, e questo è, secondo me, un argomento validissimo. Ecco, contro tutta questa industria di morte, contro questa pazzia, di cui l’Italia è sicuramente uno dei paesi ai primi posti, occorre fare qualcosa.

[Marini]: Ho capito. E non è vero che voi siete stati accusati di terrorismo ed estromessi dal convegno?

Che siamo stati accusati di terrorismo non so cosa dirle, non me lo ricordo...

[Marini]: Ma dopo i vostri interventi siete stati estromessi?

Ma non siamo stati estromessi, né tanto meno siamo stati estromessi dalla FAI di cui non facevamo parte.

[Marini]: Ammesso l’errore dei carabinieri, che non si trattava di un congresso della FAI, ma di un convegno antimilitarista, al quale lei ha partecipato, vediamo la circostanza di contenuto. È vero o non è vero che siete stati tacciati di terrorismo? Lei ha detto non me lo ricordo, è vero o no che siete stati estromessi dalla FAI? Lei dice assolutamente no.

[Presidente]: Stava dicendo il professor Bonanno qualcosa. Voi fate parte della FAI?

No! Questo è importante però, Signor Presidente, mi consenta: se una formulazione consta di più parti, le quali parti, nella loro stragrande maggioranza, quattro su cinque, si rivelano assolutamente infondate, io non so cosa pensare dell’intera formulazione. Non so cosa pensare della quinta parte, qualora magari venisse dimostrata più o meno vera, cioè se siamo stati o meno accusati di terrorismo. Io non me lo posso ricordare adesso. Se il Pubblico Ministero avesse la bontà di darci lettura dell’intero dibattito, che durò due giorni, potremo dire qualcosa di più fondato, se no di cosa stiamo parlando?

[Marini]: Va bene. Ma, scusi un attimo. Lei, l’altro giorno, ha cominciato la sua difesa citando punto per punto alcuni passi della “Annotazione” dei carabinieri. Io adesso, da parte mia, mi sto permettendo di contestare altri passi.

Io ho parlato di questo passo.

[Marini]: Sì, ne ha parlato, però io ho trovato una sua dichiarazione davanti al Giudice per le indagini preliminari in cui lei dice di aver partecipato, che non era un convegno organizzato dalla FAI, e volevo sapere se quanto meno il contenuto di questo passo fosse veritiero o no.

Io non posso avere a memoria la totale estensione del mio intervento. Quindi non posso dire: questo passo è mio. Non ne posseggo la trascrizione, quindi non posso dire che sia uscito dalla mia penna o sia una gentile interpretazione dei carabinieri redattori. Questo spetta a lei, portare qui dentro la registrazione. Ma poi, se vuole, le posso pure dire che la sottoscrivo questa frase, è una frase come tante altre.

[Presidente]: Io però vorrei capire una cosa. Lei ha detto: “sono un anarchico”, lei quindi dice: “faccio parte del movimento anarchico”.

Certamente.

[Presidente]: Il movimento anarchico è articolato in una federazione?

Non tutto.

[Presidente]: Ci spieghi, perché non sappiamo molto sull’argomento.

Poc’anzi ho cercato, forse infelicemente, di spiegare. Il movimento anarchico si articola, a livello mondiale, e anche a livello nazionale, in tante organizzazioni. Diciamo che la FAI è un’organizzazione di sintesi, con le sue strutture storicamente determinate (io non ho mai fatto parte della FAI), con i suoi gruppi, i suoi programmi, il programma di Malatesta del 1920 è stato rivisto, approfondito, modificato, però sostanzialmente è ancora attuato. Viceversa, altri anarchici non accettano l’ipotesi di organizzarsi in modo stabile. Se lei, Signor Presidente, ha in mente quei tre punti di cui si parla più volte, forse ripetutamente, nei vari documenti organizzativi riguardanti le organizzazioni informali costituite a Comiso e a Torino, potrà capire meglio queste differenze. Si tratta della conflittualità permanente, dell’autonomia della lotta, ecc. Ecco, questi punti costituiscono non soltanto elementi programmatici, ma anche elementi di natura teorica che caratterizzano un certo modo di vedere l’anarchismo, ad esempio l’assenza di un programma dettagliato, cosa che non accade per l’organizzazione di sintesi. Quindi il gruppo di affinità non ha un programma per il gruppo di affinità, non esiste una teoria programmatica del gruppo di affinità, come invece esiste per i gruppi di sintesi che hanno un programma redatto da Malatesta... che a sua volta si rifà ai principi di Saint-Imier del milleottocento…

[Presidente]: Quindi la FAI non vi poteva espellere perché non avete mai fatto parte della FAI... continui pure, Pubblico Ministero.

[Marini]: Lei ha consegnato l’altra volta una serie di periodici come “Provocazione”, “Anarchismo”…

Scusi, non mi sembra che io abbia consegnato “Provocazione”, forse mi ricordo male.

[Marini]: “Provocazione” forse no, “Anarchismo”.

Dobbiamo essere precisi, Pubblico Ministero.

[Marini]: Comunque, volevo sapere, nei confronti di questi periodici, “Provocazione” e “Anarchismo”, lei in che posizione stava?

Ero redattore responsabile.

[Marini]: Era redattore responsabile, da quando a quando?

Per “Anarchismo” dalla sua costituzione e per “Provocazione” dalla sua costituzione, ad esclusione del periodo in cui ero in carcere.

[Marini]: E quando lei stava in carcere chi ha assunto questo posto?

Non me lo ricordo.

[Marini]: Noi sappiamo che era *.

Questo lo sa lei, me ne congratulo.

[Marini]: Lei non lo sa?

Non lo so.

[Presidente]: Pubblico Ministero, qui dobbiamo essere più precisi con le domande, nel senso che a noi interessa sapere quando “Provocazione” fu costituita.

Nel gennaio del 1987.

[Presidente]: Esce ancora?

No.

[Presidente]: Quando ha cessata la pubblicazione?

Nel 1991.

[Presidente]: “Anarchismo” quando è stato fondato?

Nel gennaio del 1975.

[Presidente]: Esce ancora?

No.

[Presidente]: Quando è cessata la pubblicazione?

Nel 1994, se non sbaglio.

[Presidente]: “Canenero”. Lei è stato un collaboratore di Canenero?

Sì.

[Presidente]: Fondato quando?

Nel 1994.

[Presidente]: Esce ancora?

No.

[Presidente]: Finito quando?

Questo è più difficile, non lo so. Nel 1997, forse.

[Presidente]: Poi c’è una rivista che mi sembra si chiami “GAS”, lei è interessato a questa rivista?

No, come redattore no. Però, scusi, una cosa importante, non vorrei che mi si facesse dire una cosa sbagliata, senza volerlo. Spesse volte alcune riviste anarchiche, ai fini legali, diciamo, dell’autorizzazione alla pubblicazione, mettono la nostra autorizzazione ed escono come supplemento. Certe volte vengo avvertito, certe volte non vengo avvertito, per cui, in omaggio al principio anarchico che ognuno fa per sé, certe volte mi trovo a essere responsabile di pubblicazioni, e ho anche avuto processi riguardanti pubblicazioni di cui non ero a conoscenza.

[Presidente]: Allora “GAS”?

Io conosco questa pubblicazione, ma non le so dire se ne sono responsabile, bisognerebbe prenderla.

[Presidente]: Esce tuttora?

Non lo so.

[Presidente]: Allora, Pubblico Ministero, può riprendere.

[Marini]: Grazie.

[Presidente]: Una volta precisate le epoche in cui sono uscite o escono queste riviste.

[Marini]: “Canenero”, aveva come base la casa di * a Firenze?

Non lo so.

[Marini]: Non lo sa. Non c’è mai stato?

Non lo so. Non rispondo, non è che non lo so.

[Marini]: Allora, diciamo così: a tutta quella serie di annotazioni in cui si dice che Bonanno era sempre presente nelle cosiddette basi logistiche di questa organizzazione, io non devo fare domande?

No, non è che lei non deve fare domande. Innanzitutto, di quale organizzazione sta parlando, dottore Marini?

[Marini]: Di questa organizzazione di cui lei...

Quale?

[Marini]: ...deve rispondere qui davanti a noi... senta Bonanno, il problema è questo: indipendentemente dalla fondatezza o no dell’accusa, qui c’è un reato che parla di associazione sovversiva, associazione eversiva e di banda armata. Indipendentemente questo dalla fondatezza, perché io lo devo provare. Lei, naturalmente, si deve difendere. Io sto usando lo stesso suo sistema, sto prendendo la “Annotazione” dei carabinieri con riguardo alla sua persona, perché io ho fatto fare, dai carabinieri, oltre al rapporto informativo generale, una serie di cartelle individuali o individualizzanti, in cui ci sono tutti gli elementi raccolti nei confronti dei singoli imputati. E lei da quelle è partito, ed anch’io da queste sto partendo. Quando si dice che in Roma in via * , che è l’abitazione di * e di *, nella quale, peraltro, si dice, da parte dei carabinieri, sia stata organizzata la rapina alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, di cui ci ha parlato la pentita, voglio sapere se in questa casa c’è mai stato o no?

Non rispondo.

[Marini]: Benissimo. Nella casa di Bagno a Ripoli, abitazione di *, dove aveva sede la redazione del periodico “Canenero”?

Non rispondo.

[Marini]: Nella abitazione di via * a Milano, cioè nell’abitazione di * e *, in cui sarebbero state organizzate le rapine di Serravalle d’Ala e di Ravina di Trento e così via?

Non rispondo, per il motivo di prima...

[Marini]: Mi faccia fare il mio lavoro, lei lo ha fatto, io devo fare il mio lavoro. A Rovereto in *, che è l’abitazione di *, attualmente in Francia perché latitante, e ancora sta lì nonostante che la Corte di Parigi abbia dato l’assenso all’estradizione in Italia, lei ha mai frequentato l’abitazione di *?

Non rispondo.

[Marini]: Non risponde. Va bene, allora, io mi esento dal fare altre domande sulle frequentazioni. Però, una cosa le vorrei dire, Bonanno, noi dobbiamo anche confrontare e riscontrare rispettosamente, anzi in ossequio ai principi della legge, le dichiarazioni di chi accusa. Siccome è venuta una persona, seduta lì al suo posto, tempo fa, e ha accusato lei, e ha detto che lei stava dietro tutte le rapine che venivano commesse, che esisteva, ripeto, una cassa comune, o un fondo comune e che a questa cassa comune andava il 50% dei proventi delle rapine. Siccome sono venute altre persone che si chiamano Sforza, padre e figli, e hanno detto che le rapine commesse da *, *, *, ed altri, servivano per finanziare l’organizzazione e che molti di questi soldi venivano mandati a lei in Sicilia – e quindi abbiamo altre dichiarazioni oltre a quella – lei ha mai saputo di queste cose, lei ha mai ricevuto denaro (anche lei è andato a commettere materialmente una rapina), da parte di altri che avevano commesso queste rapine?

No.

[Marini]: No, mai avuto.

Se no, non andavo a fare una rapina per i fatti miei.

[Marini]: La rapina di Bergamo?

E certo. Se come cerca di descrivermi lei, nella comoda posizione in cui qualcuno faceva rapine al posto mio e poi mi portava i soldi fino a Catania, non c’era motivo che io prendessi il treno fino a Bergamo per andare a fare una rapina. E no, le cose o hanno una logica o non l’hanno, non possono avere una logica quando ci conviene.

[Marini]: Però lei in quel periodo stava in carcere e questo signore, che si chiama Sforza Antonio, è venuto a dire di aver assistito a una riunione tra *, * e altri, in cui si parlava degli aiuti economici e finanziari che dovevano dare proprio a lei e a * che stavate in carcere. Lei ha mai ricevuto vaglia postali, denaro da parte di questa *?

No.

[Marini]: Da parte di...

No.

[Marini]: Lei sapeva... insomma, lei ha mai conosciuto questa *?

Mi rifiuto di rispondere.

[Marini]: Lei ha mai conosciuto *?

Mi rifiuto di rispondere.

[Marini]: Si rifiuta di rispondere. * e gli altri?

Lo stesso.

[Marini]: Quindi è inutile che io le faccio le domande...

A suo piacere...

[Marini]: ...a tutte le persone coimputate insieme a lei di reato associativo?... Senta, lei dice c’è l’indissolubilità tra il dire e il fare...

C’è la?

[Marini]: ...indissolubilità tra il dire e il fare... non bisogna soltanto teorizzare o limitarsi a teorizzare, ma bisogna anche passare l’azione, cioè praticare, ho capito bene?

Perfettamente. L’ho scritto tantissime volte.

[Marini]: L’ha scritto tantissime volte. Siccome lei ha scritto anche che per praticare – abbiamo trovato gli appunti – c’è bisogno anche di avere un armamento, di armarsi, lei ha mai posseduto armi al di fuori di quella con cui è andato a fare la rapina di Bergamo?

No. Come ho dichiarato al giudice che mi ha interrogato al momento dell’arresto, era la prima che possedevo e ho anche detto dove l’avevo comprata. Se lei ha gli atti di quel processo, come penso che abbia...

[Marini]: Dove l’ha comprata?

È nel processo.

[Marini]: Ci vuole dire dove l’ha comprata? In una qualsiasi armeria?

C’è scritto nel processo, lei ha il processo, lo può leggere nel processo.

[Marini]: Va bene, c’è scritto nel processo. Io volevo dire: l’ha comprata in una qualsiasi armeria?

Ma, questa, è una cosa che interessa la Corte?

[Marini]: Certo che interessa la Corte .

Se sì, è sicuramente meglio andare a leggere gli atti del processo, quello che dico io potrebbe non avere senso.

[Marini]: Bonanno, se lei mi permette, lei è accusato, fra l’altro, della detenzione di una serie di armi che erano ricoverate nella cantina di via * qui a Roma, dove ci sono fucili mitragliatori, armi di qualsiasi tipo, armi tipo quella che lei ha utilizzato per la rapina di Bergamo. I carabinieri come lei giustamente...

Cosa ha detto, scusi? Ha detto che nella cantina che dice lei c’era l’arma utilizzata nella rapina di Bergamo?

[Marini]: Dico come quella utilizzata nella rapina di Bergamo. Quindi, siccome io ho trovato degli appunti in cui lei teorizza anche l’armamento, di questa organizzazione cosiddetta informale, io voglio sapere se lei, al di fuori di quella arma che ha utilizzato per commettere la rapina a Bergamo, ha mai posseduto altre armi.

No, non ho mai posseduto altre armi.

[Marini]: Per quanto riguarda il dire e il fare, ha saputo se altre persone si sono armate in base alla sua teoria?

No, né mi interessa saperlo.

[Marini]: Lei non sapeva nulla di questo armamento?

Assolutamente no.

[Marini]: E delle armi di cui si sono servite quelle persone di cui lei non vuol parlare, ma che comunque sono state imputate per le rapine su al nord a Serravalle d’Ala e Ravina di Trento – ai cui processi lei ha partecipato – lei sapeva da dove venivano le armi?

No.

[Marini]: No. Senta, in una di quelle rapine è stato sequestrato un camper che poi, lo diremo nella nostra requisitoria, è stato dissequestrato e restituito, ed è stato restituito a lei, a lei che poi lo ha passato a *. Perché è stato restituito a lei quel camper? Lei ha a che fare anche con quella rapina?

No.

[Marini]: No. E allora perché…

Scusi, che centra? Perché mi restituiscono il camper dovrei avere a che fare con la rapina, abbia pazienza, caso mai al contrario.

[Marini]: Siccome in quel camper sono state trovate tutte quelle cose di cui si parla poi nella sentenza che è passata in giudicato e che noi abbiamo acquisito, tutte le cose che servono per commettere una rapina, volevamo sapere come era andato a finire in mano a questi rapinatori il suo camper.

Il camper non era mio.

[Marini]: E di chi era?

Mi rifiuto di rispondere.

[Marini]: E allora perché lei ne ha chiesto il dissequestro se non era suo?

Io ho chiesto il dissequestro…

[Marini]: Io ho un provvedimento di dissequestro che dice: “Su istanza di Bonanno…”.

Io ho chiesto il dissequestro di un camper che non era mio.

[Marini]: Che non era?

Mio. Non era mio.

[Marini]: E le è stato restituito?

Sì.

[Marini]: Ah, bene.

[Presidente]: Ma restituito significa che prima ne aveva il possesso. Lei ha mai avuto il possesso di questo camion?

Prima della restituzione?

[Presidente]: Esatto.

No.

[Presidente]: Allora il termine restituire è sbagliato.

Non lo so se è sbagliato...

[Marini]: Gli è stato consegnato.

[Presidente]: Ecco, appunto, è stato consegnato. E perché lei, che non è il proprietario, riceve, e prima fa la domanda per il dissequestro, non ho capito?

La spiegazione c’è, ma occorrerebbe che io dicessi il nome di una persona.

[Presidente]: Non lo faccia il nome di una persona, ma una spiegazione?

Perché era di mia moglie.

[Marini]: Di sua moglie?

C’è negli atti.

[Marini]: E perché poi lo passa a *?

Ma io non lo so se l’ho passato a *, non mi ricordo.

[Marini]: Non si ricorda. Ho capito.

Forse perché bisognava spostarlo, non so, c’erano dei...

[Marini]: Perché fa lei istanza di dissequestro e non lo fa sua moglie?

Ma non lo so, probabilmente perché era in carcere.

[Marini]: Lei sa che, tra le altre cose, viene accusato anche di una rapina organizzata qui vicino Roma? Lei è mai stato qui nelle vicinanze di Roma a trovare l’imputato *?

Scusi, non ho capito, a Roma sono stato tante volte.

[Marini]: Tante volte? Ha conosciuto qualcuno a Lavino?

No.

[Marini]: Ha conosciuto un calabrese, un pescivendolo? Lei, la prima cosa che ha detto quando si è seduto è non conosco *...

Non è vero, non è vero perché non pronuncio nomi.

[Marini]: No, l’ha detto.

Va bene, se l’ho detto, ho sbagliato. Comunque non intendo rispondere.

[Marini]: Non intende rispondere su questa cosa. Cioè sui fatti specifici di cui è accusato non intende rispondere?

Sì, ma che non comprendano nomi, fatti e teorie attinenti ad altre persone.

[Marini]: Senta, ritorno su questa domanda perché è fondamentale e ne ha parlato un teste, il maggiore Pagliccia, in quest’aula. Dopo che è stato letto questo documento in quest’aula c’è stato un dibattito, di cui ha riferito questo ufficiale di polizia giudiziaria, all’interno di questo gruppo o di questi gruppi, o usiamo la sua espressione, all’interno di questa organizzazione informale...

No, scusi, io non ho mai parlato... dottore, lei non si rende conto, quando lei usa il termine “questa” significa una precisa determinazione, esatta, quindi lei non mi può dire di questa organizzazione informale, perché così cerca, senza volerlo, di trarmi in inganno...

[Marini]: Ma no...

...forse non se ne accorge.

[Marini]: Allora usiamo l’espressione di quelle persone che lei frequentava in quel momento.

No, usiamo pure, se vogliamo, il termine “organizzazione”, ma nel senso di una delle tante possibili organizzazioni informali, non di “questa” che lei ha in mente a cui lei e i carabinieri avete dato un nome ben preciso e così via, per carità, cerchiamo di essere seri...

[Marini]: Insomma, Bonanno, io voglio riprendere la domanda del Presidente, ma lei predicava al vento, forse?

Prego?

[Marini]: Predicava al vento, forse? Lei non sa che quelle sue teorie sono state messe in pratica, perché ci sono stati gruppi, e noi abbiamo la prova di questo perché ci sono state sentenze...

[Avvocato Di Maggio]: Signor Presidente...

[Marini]: Mi faccia fare la domanda. Gruppi che hanno praticato l’autofinanziamento attraverso le rapine e a uno di questi gruppi ha partecipato proprio lei personalmente.

Scusi, dottore, io ho partecipato a cosa?

[Marini]: Alla rapina di Bergamo.

[Presidente]: Faccia la domanda prima. Lei è stato chiamato a rispondere anche di una rapina, capo venti dell’imputazione nei confronti dell’agenzia 13 della Banca Nazionale dell’Agricoltura in Roma il 29 marzo 1994. Lei ha commesso questa rapina?

No, io non so nulla di quella rapina, ma se mi dite se conosco quelle persone io non voglio rispondere.

[Marini]: Lei l’ha mai conosciuta questa ragazza, la Namsetchi Mojdech?

Sì, l’ho vista qualche volta.

[Marini]: Ah, sì... allora: dove l’ha vista, in occasione di cosa, come l’ha vista?

Non voglio rispondere.

[Marini]: Ma questa è la persona che l’accusa.

E mi fa piacere, però non voglio rispondere.

[Marini]: Lei è disposto a subire un confronto con questa persona?

Come?

[Marini]: Se le porto davanti, cioè chiedo alla Corte di fare un confronto tra lei e questa persona, visto che è stato introdotto nella nostra Costituzione addirittura questo tipo di confronto, con la riforma del “giusto processo”, è disposto a confrontarsi con lei?

Io sarei disposto, solo che forse non ho lo stomaco sufficiente...

[Marini]: Che significa?

Stomaco, al paese mio, vuol dire la capacità di resistenza.

[Marini]: Si tratta di una ragazza di 20 anni, lei invece è personaggio navigato.

Io sarò anche un uomo navigato, però, sa, davanti a certe sconcezze, anche io mi sento in difficoltà.

[Marini]: E quali sarebbero le sconcezze?

Quelle che presumo potrei sentire qui dentro, quindi è meglio evitare.

[Marini]: Lo vuole o no?

No, non voglio.

[Marini]: Quindi si rifiuta di mettersi a confronto con l’accusa o no?

E poi, rientra nel discorso che abbiamo detto prima.

[Marini]: Cioè?

Parlare di altre persone, non voglio.

[Marini]: Ma lei si vuole confrontare con la persona che l’accusa, o quanto meno con gli elementi di accusa? O lei ritiene che dobbiamo parlare solo di rivoluzione, o altro? Qui non stiamo parlando di insurrezione, noi stiamo parlando di rapine, di omicidi, di stragi, di sequestri di persone. Queste sono le imputazioni di questo processo. Non stiamo parlando solo di un’organizzazione che aveva come progetto l’insurrezione armata contro lo Stato o l’insurrezione di massa. Quindi lei si vuole confrontare con gli elementi di accusa che sono stati raccolti nei suoi confronti in base a queste specifiche imputazioni?

Sì.

[Marini]: E si vuole soprattutto confrontare con una delle persone che l’accusa?

No, con questa persona non mi voglio confrontare.

[Marini]: Allora io non ho altre domande da fare...

Magnifico.

[Marini]: ...perché ho esaurito il mio compito.

[Presidente]: Parte Civile, ha delle domande?

[Parte Civile]: Sì, Signor Presidente. Signor Bonanno, lei quindi nega di aver dato vita o aver partecipato ad un’organizzazione avente le caratteristiche teoriche che lei ha appena descritto, come organizzazione informale?

Scusi, la domanda potrebbe essere da me assolta dicendo: lo nego e basta, ma guardi, mi consenta, in quello che lei ha detto c’è una contraddizione: infatti io nego di aver dato vita ad un’organizzazione come quella che ho descritto, perché a un’organizzazione come quella che ho descritto nemmeno Domine Dio può dare vita, perché è data da un insieme di coordinazioni di volontà, le quali creano qualcosa che non può essere fatta venire alla luce da un individuo solo, quindi c’è una contraddizione che nega quello che sta dicendo lei.

[Presidente]: Sì, ma nella sostanza, in buona sostanza, professore, lasciamo da parte i sofismi, lei fa parte dell’associazione?

No. Ma scusi, Signor Presidente, mi consenta, anche nella sua domanda, in un certo senso, c’è una contraddizione, perché se lei mi chiede se faccio parte di un’organizzazione non ci siamo capiti sul concetto di organizzazione di cui parliamo...

[Presidente]: Professore, io ragiono in termini giuridici. Riprendendo la domanda della Parte Civile le formulo questa domanda: fa parte di questa associazione?

No.

[Presidente]: Continui, Parte Civile.

[Parte Civile]: L’applicazione delle sue teorie, delle sue idee, non parliamo di ideologie perché lei appunto ha detto che non si riconosce in questo concetto, comporta anche l’uso della violenza contro singoli individui, contro singole persone che secondo lei rappresentano le istituzioni…

Mi sono tante volte espresso su questo punto, che non vale la pena ripetermi. Sono anche andato in carcere tante volte. Mi ci dovete portare un’altra volta, va bene andiamo, su questo non ho nulla da dire, anzi torna come un punto d’onore.

[Presidente]: Finito? Ci sono altre domande? No? Io volevo fare alcune domande, professore. Intanto vorrei sapere se lei è stato sottoposto a processo penale in relazione all’organizzazione Azione Rivoluzionaria.

Sì, sono stato sottoposto nel 1980 e sono stato scarcerato in istruttoria per assoluta mancanza di indizi, è anche indicato nella “Annotazione”.

[Presidente]: Volevo sapere, volevamo inoltre sapere se per caso lei è stato incriminato per propaganda e apologia sovversiva.

Sì, tantissime volte.

[Presidente]: Ci vuole ricordare le sentenze?

Sì, si comincia nell’ottobre del 1972, quando sono stato arrestato per due articoli pubblicati su di un giornale che si chiamava “Sinistra Libertaria”, di cui ero redattore responsabile, giornale di cui uscì soltanto un numero. La condanna è stata di due anni e due mesi…

[Presidente]: Dal tribunale di?

Di Catania. No, dalla Corte d’Assise di Catania.

[Presidente]: Ah, la Corte d’Assise di Catania.

Quindi l’accusa era qualcosa di più di apologia di reato, perché eravamo in Corte d’Assise, non so, non vorrei adesso ricordare male.

[Presidente]: Poi, altri processi analoghi?

Diciamo che, complessivamente, i più grossi sono quello per il libretto contro l’Amnistia [dal titolo: E noi saremo sempre pronti ad impadronirci un’altra volta del cielo), in Corte d’Assise, quello per La gioia armata, viceversa, in tribunale...

[Presidente]: Sempre a Catania?

Sempre a Catania. Condannato a un anno e mezzo.

[Presidente]: In che anno?

Nel 1977, per La gioia armata, sono stato assolto in primo grado e poi condannato in appello a un anno e mezzo. Per il libretto dal titolo Noi saremo sempre pronti a impadronirci un’altra volta del cielo sono stato assolto in Corte d’Assise (non mi chieda perché queste imputazioni variano tra tribunale e Corte d’Assise) e poi per articoli di giornale in tantissimi altri processi.

[Presidente]: Per “Provocazione”, per “Anarchismo”, in relazione a queste riviste è stato anche processato?

Per articoli pubblicati...

[Presidente]: Per articoli, certamente...

...su questi giornali. Sono stato processato per esempio, per la pubblicazione di cui abbiamo parlato l’altra volta: per un volantino che descriveva in dettaglio come fare a tagliare un traliccio dell’alta tensione, ed era un volantino che avevamo tradotto dal tedesco che portava come titolo “Che cosa sarebbe successo se si fossero messi d’accordo Gorbaciov e Reagan?”.

[Presidente]: Siamo nell’anno del Signore?

1985-1986.

[Presidente]: Per quanto riguarda lo scritto che ha citato nella scorsa udienza, “Nuove svolte del capitalismo”, non è stato processato?

Sono stato incarcerato, adesso.

[Presidente]: In relazione a questo processo?

Sì.

[Presidente]: No, io mi riferisco a un processo diverso.

No! E a chi poteva mai venire in mente di processare qualcuno per quello scritto?

[Presidente]: Non lo so, faccio una domanda.

Mentre volevo completare la questione del volantino, se mi consente, Signor Presidente, per quel volantino sono stato assolto in primo grado, condannato a 8 mesi in secondo grado, assolto in Cassazione perché l’accusa, secondo i giudici della Cassazione, si basava su una connessione di causa ed effetto non fondata, in quanto i carabinieri avevano detto che si poteva presupporre che in quel di Torino, essendo stato tagliato un traliccio con determinate modalità, di cui per altro non c’era nessuna documentazione agli atti, ci fosse una connessione con quanto pubblicato nell’articolo. La Cassazione ha ritenuto che non era sufficiente questa ipotesi e ha rinviato il giudizio in Appello. Alla Corte d’Appello di Catania sono stato assolto.

[Presidente]: Era l’epoca in cui furono commessi molti attentati ai tralicci?

Sì.

[Presidente]: A lei non risulta che fossero organizzati questi attentati? Da gruppi stabili?

No, a me non risulta.

[Presidente]: Le risulta qualcosa a proposito di sequestri di persona?

No.

[Presidente]: Eseguiti da militanti del movimento anarchico?

No.

[Presidente]: Mi sembra che lei abbia fornito già una spiegazione circa la sua partecipazione a processi contro gli anarchici. Perché seguiva questi processi, con quale spirito?

Processi di Trento, perché... avevo un motivo. Io non sono mai stato ad un processo dalla parte del non imputato, vi sono stato sempre come imputato. Esclusi quei processi là [quelli di Trento] perché avevo un motivo di natura sentimentale.

[Presidente]: Quindi per solidarietà umana, politica?

In particolare no. La solidarietà politica non è faccenda sentimentale.

[Presidente]: Ah, no?

No. Perché è una faccenda che significa identificazione di progetto, concordanza di idee e così via. Qualcosa di più, evidentemente, perché in quel processo c’era mia moglie.

[Presidente]: Per quanto riguarda il movimento anarchico, cosa ci può dire circa l’assistenza degli imputati detenuti?

L’assistenza?

[Presidente]: L’assistenza, gli aiuti economici. Avete qualche apparato o qualche struttura che provvede ad aiutare i detenuti.

Sì, ci sono delle...

[Presidente]: Ci racconti tutto quello che sa riguardo agli aiuti finanziari forniti agli imputati in carcere o ai latitanti, se per caso le risulta qualcosa.

A me non risulta per i latitanti, per gli imputati in carcere c’è un’organizzazione storica, che esiste da circa trent’anni, si chiama “Comitato pro vittime politiche”, la quale è la struttura dell’organizzazione di sintesi, che manda dei soldi in carcere...

[Presidente]: Sì, ma lei ha detto che non fa parte di questa struttura di sintesi, il suo movimento, possiamo usare questa espressione? In fondo lei è il punto di riferimento di un certo numero di anarchici.

No, non posso essere d’accordo con questa definizione, perché se esiste un punto di riferimento di questo tipo occorre che sia chiaro di che punto di riferimento si tratta.

[Presidente]: Sì, nel significato che lei ha usato, non di autorità ma di autorevolezza.

Questo per quel che riguarda determinate ipotesi teoriche, determinati fatti. Che poi io, personalmente, me ne vada a tagliare un traliccio o a fare una rapina, queste sono faccende mie, personali. Quindi l’autorevolezza, per quel che riguarda gli altri compagni, non mi può venire dalla questione che sono andato a fare una rapina, ma dalla questione che io ho sviluppato determinate analisi e teorie…

[Presidente]: Ma io le ho chiesto...

...al compagno non interessa nulla della...

[Presidente]: Io le ho chiesto...

...punto di riferimento probabilmente per una capacità o incapacità, secondo i punti di vista, di sviluppare determinate...

[Presidente]: Le risulta se in questa area si aiutavano i detenuti? Economicamente.

Sì, nel 1991 si è costituito un Comitato di difesa anarchico che si incaricava di raccogliere i soldi fra i compagni, che non sono grandi cifre, per cercare di mandarli in carcere o agli avvocati, che di regola non è...

[Presidente]: E questo le risulta personalmente?

Sì.

[Giudice a latere]: Sottoscrizioni?

Sì, sottoscrizioni.

[Presidente]: La Namsetchi Mojdech parla di un’organizzazione, di un’associazione, un sodalizio a due livelli: uno legale, destinato ai convegni, alle riunioni, alle manifestazioni, alla propaganda, e l’altro occulto. Ha qualche osservazione da fare?

Sì.

[Presidente]: In ordine a questa impostazione?

Signor Presidente, ho molte cose da dire su questo discorso. Perché questa è la tesi classica, non di questa ragazzina, la quale non credo che possa essere personalmente in grado di pervenire da sola a questa idea così simpatica, è la tesi classica che normalmente viene fatta circolare come tentativo di dimostrare che esiste un’organizzazione e che ha due livelli. Però, quando noi pensiamo all’esistenza i due livelli, cosa abbiamo in mente, di regola? Un palazzo con due piani, primo piano e pianterreno…

[Presidente]: No, no, un piano con sotterraneo.

...piano nobile e pianterreno, ma questa idea, per potere esistere e poterne discutere, occorre che il palazzo esista, se il palazzo non esiste, i piani del palazzo non esistono nemmeno. Qua invece succede che mi si chiede, anche lei, Signor Presidente, mi consenta, mi chiede dell’esistenza dei piani di un palazzo di cui nessuno ha dimostrato l’esistenza.

[Presidente]: No, no, io le ho fatto presente un elemento d’accusa perché lei si difenda, in quanto le è stata mossa questa contestazione dal Pubblico Ministero. Quindi, io non è che ho commesso un errore, io la metto in grado di difendersi evidenziando l’accusa che viene portata contro di lei.

Ma questa accusa non si regge concretamente, non esiste, e i motivi per dire che non esiste sono quelli affrontati fino in questo momento: cioè gli anarchici si rifiuterebbero di accettare una duplice esistenza di questo tipo, e qualora qualcuno volesse dedicarsi a determinate attività, che lei vuole definire “underground”, chiamiamole così, “sotterranee”, non lo verrebbe certo a dire a me, sono decisioni sue. Io non posso dire se questa accusa è fondata o no, se esiste o non esiste, perché non mi riguarda, non è una cosa che posso dimostrare, se non teoricamente: ognuno fa le cose che ritiene opportuno fare. Però c’è una cosa su cui, secondo me, bisognerebbe riflettere, cercare di approfondire, che chi fa la domanda dei due livelli dovrebbe prima dire: “essendo che si è dimostrata l’esistenza di questa organizzazione adesso ci spieghi se questa organizzazione, della cui esistenza si è certi, era costituita da due livelli”, non le sembra più corretto, Signor Presidente?

[Presidente]: Io ritengo che il Presidente quando fa la domanda deve contestare quello che è stato contestato dal Pubblico Ministero, non dando per vero nessuna circostanza riferita. Siccome il Pubblico Ministero le ha contestato che lei deve rispondere di associazione a delinquere, no, di associazione sovversiva e di banda armata, io le domando su questo e lei ha dato una risposta. Perché ha commesso la rapina a Bergamo?

Per mancanza di soldi.

[Presidente]: Per mancanza di soldi, ma a che fine? A cosa le servivano questi soldi?

Ho fatto una dichiarazione al giudice di Bergamo, per vivere.

[Presidente]: E cioè?

[Marini]: Per vivere.

Per vivere.

[Marini]: E da Bergamo in poi come ha fatto a vivere se non ha fatto più rapine?

Evidentemente da Bergamo in poi ho ripreso a fare lavori che facevo prima.

[Marini]: Ah, sì? E sarebbe opportuno vedere quanto guadagnava con questo lavoro.

Sarebbe opportuno, ma questo spetta a lei, non a me.

[Marini]: No, no, sarebbe opportuno che lei ce lo indicasse, visto che ha fatto una rapina per vivere, io le sto facendo la domanda: “che cosa ha fatto dal 1991 ad oggi per vivere?”.

Tesi di laurea.

[Marini]: Tesi?

Tesi di laurea

[Marini]: Tesi di laurea.

Attività clandestina, illegale. Se vuole le faccio un elenco di tutte le tesi di laurea che ho fatto.

[Giudice a latere]: Dovrebbe dire i nomi degli studenti, se ci parla solo degli argomenti...

[Marini]: No, mi interessava se ha fatto altre rapine.

...i titoli, non i nomi degli studenti.

[Presidente]: Ultima domanda e poi finiamo. Il gruppo di affinità, di cui lei parla, presenta una struttura organizzata, stabile?

No.

[Presidente]: Sì o no?

No. Scusi, Signor Presidente, però il no è troppo riduttivo, perché i due termini indicati da lei non si eliminano a vicenda. L’organizzazione e la stabilità sono due cose che possono convivere e possono esistere separatamente. Una cosa non stabile può avere un’organizzazione. Noi abbiamo un concetto radicato nella nostra mente, che l’organizzazione sia una cosa che duri nel tempo, che abbia un precedente storico, invece no, l’organizzazione può essere l’intesa di più persone che armonicamente si muovono insieme per raggiungere un obiettivo, può nascere ora e morire domani, ma si chiama lo stesso organizzazione...

[Presidente]: Un obiettivo o un programma di obiettivi?

No, non un programma, un obiettivo, perché se no contraddirebbe alla questione della conflittualità permanente, dell’indipendenza, il programma...

[Presidente]: Quindi, quando parla di gruppo di affinità non si riferisce ad una struttura duratura?

No, però intendendo che potrebbe essere duratura, come ad esempio è stato a Comiso in cui i gruppi di affinità sono durati due anni, un tempo considerevole, ma sempre nella finalizzazione dell’obiettivo di distruggere la base. Finito questo (purtroppo non siamo riusciti a fare quello che ci prefiggevamo di fare) sono finiti i gruppi di affinità, i nuclei di base, il coordinamento, ecc.

[Giudice a latere]: Quindi, in sostanza, viene prima l’obiettivo...

Scusi?

[Giudice a latere]: ...in sostanza prima si individua un obiettivo, poi le persone che hanno affinità si aggregano attorno a questo obiettivo, poi cercano di coinvolgere altre persone, anche non necessariamente vicine, non anarchici, gente che lotta in una situazione concreta, poi da questo si può passare ad ipotesi di contatto con altre esperienze analoghe, sempre su quell’obiettivo o su obiettivi vari?

No, sempre su quell’obiettivo, perché l’unicità dell’obiettivo è indispensabile, altrimenti l’ipotesi sua, se facesse il passo successivo, cadrebbe nel parasindacalismo. Un’organizzazione che risolve i problemi della povera gente, no, invece è proprio finalizzata ad un obiettivo specifico.

[Giudice a latere]: L’articolo sulle “Nuove svolte del capitalismo” individua un obiettivo?

Non mi sembra...

[Giudice a latere]: Una serie di obiettivi?

No, non mi sembra.

[Giudice a latere]: Un’analisi generale.

...di natura metodologica...

[Giudice a latere]: Certo, certo.

Tenga conto che è una scaletta di conferenze, poi in quel contesto si approfondirono argomenti di natura più specifici, di natura...

[Giudice a latere]: C’è in questo momento un... Ecco, allora no, io devo tornare per forza ad una domanda che ha fatto il Pubblico Ministero. Quando si parla... tutto quel discorso che si faceva sull’attacco alla “cosa Stato” è un discorso di un obiettivo concreto da individuare... allora no... no, mettiamola in altro modo: che rapporto c’è tra la teorizzazione sul discorso dell’attacco alla “cosa Stato” e l’esperienza di Comiso?

Un rapporto diretto, l’esperienza di Comiso era una delle realizzazioni più pregnanti dello Stato italiano, del suo asservimento alle mire USA, per cui la presenza di bombe atomiche in Sicilia, nel contesto siciliano. Noi abbiamo sviluppato in quella sede un elenco delle tante conseguenze che potevano essere determinate dalla presenza degli Americani in Sicilia. Esempio: l’aumento dei prezzi, la difficoltà di trovare una casa, la diffusione della droga, la diffusione della prostituzione. Questo elenco è stato talmente pubblicizzato in due anni che, ad un certo punto, è stato fatto proprio anche dal vescovo di Ragusa. Cioè fu una cosa di cui tutti quanti parlavano in quel contesto. Noi abbiamo fatto un lavoro massiccio che è durato due anni, discutibilissimo se si vuole da un punto di vista rivoluzionario, però, da un punto di vista insurrezionale, il nostro scopo era quello di determinare la possibilità che la gente scendesse in piazza, facesse, voi conoscete i paesi siciliani...

[Giudice a latere]: Contro la base, certo.

...quel passo decisivo che dal fermarsi a sentire i comizi porta all’azione. Perché nei paesi nostri i comizi in piazza sono sempre affollati, però il passo decisivo di andare dalla piazza alla strada per muovere contro la base la gente non l’ha fatto. Noi speravamo che lo facesse, perché questa base si potesse distruggere, ma tutti insieme, evidentemente.

[Marini]: Posso fare una domanda, ancora, Signor Presidente? Ma collegata alle risposte che sono state date adesso. Possiamo considerare che lei quando parla di sua moglie parla della *?

Sì. Possiamo considerarlo.

[Marini]: Perché, tornando a questo problema della organizzazione, fra i documenti che lei sa, che sono stati sequestrati, c’è anche questo documento che è stato inviato a lei dalla *, di cui si dice: «rinvenuto nell’abitazione di Bagno a Ripoli durante la perquisizione dei locali effettuata lo scorso 11 gennaio 1995», se lei lo vuol trovare a pagina 26 [della “Annotazione”]. Qui la * parla anche lei di organizzazione, di progetti e così via, e a un certo momento, se lei va a pagina 28, per cortesia, perché voglio sapere soltanto questo, anche la * parla di organizzazione informale, però a un certo momento dice che è un momento esteso di azione che parte da un gruppo “promotore”, lo mette tra virgolette, coinvolgendo un numero consistente di compagni individuali. Lei faceva parte di questo gruppo promotore? Insieme alla *? Non le dico tutto il documento che lei conoscerà...

Ma in quale contesto?

[Marini]: Nel contesto di questa organizzazione informale che si stava costituendo o che avrebbe dovuto costituirsi.

Ma guardi che non sta parlando di questo. Vede, lei, avendo colto soltanto quel rigo e non avendo letto quello che c’è prima, non rende conto al Presidente che praticamente questa lettera di cui stiamo discutendo riguarda l’organizzazione in senso astratto, infatti la lettera comincia «l’organizzazione non è una cosa, ma un processo in movimento...». Stiamo parlando di un’organizzazione ipotetica di natura informale, ben dettagliata nella lettera in esame, e poi lei mi chiede se io faccio parte di quella organizzazione, ma di quale organizzazione stiamo parlando?

[Marini]: Ci riferiamo anche al 1995, Bonanno, no, può anche darsi... vogliamo capire.

Va bene, credo che sia chiaro, adesso.

[Marini]: Vogliamo capire se questa organizzazione si è concretizzata, se c’è stato un gruppo promotore e se lei, insieme a sua moglie, la *, faceva parte di questo gruppo promotore. Tutto qui.

Ma lei non mi ha posto questa domanda, Signor Pubblico Ministero, lei mi ha detto se questa frase, espulsa dal contesto, significava la mia partecipazione...

[Marini]: Ma io cercavo...

...no, lei cerca di trarmi... di mettermi al muro.

[Marini]: Ma quale muro...

[Presidente]: Per fortuna in Italia nessuno viene messo al muro.

[Marini]: Ma quale muro... siamo due anni, quattro anni che stiamo facendo questo processo, per mettere al muro lei, ma dài, sono quattro anni che lei ha la conoscenza di questa inchiesta, di queste carte, le è stata data la possibilità... oggi ho lanciato un’altra... ho dato anche un’altra lancia a suo favore per il confronto, perché voglio il confronto, voglio che lei eserciti al massimo il diritto alla difesa. Che posso fare di più?

Io per il diritto...

[Marini]: ...poi per sintetizzare posso anche sbagliare a enucleare una frase da un contesto per non leggere tutti questi... Bonanno, io mi sono letto tutte queste cose dalla prima all’ultima pagina, beh! le dico che è stata una fatica immane perché sono documenti, documenti, allora io cerco di enucleare...

Io mi condolgo con lei, dottor Marini, però quella frase, come l’ha posta lei, era equivoca, perché lei parlava di “questa” organizzazione, ma qui stiamo parlando di un’organizzazione in astratto, quindi io non posso fare parte di un’organizzazione in astratto...

[Marini]: Allora, Bonanno, facciamo una domanda molto semplice, visto sostanzialmente che fra lei e sua moglie vi era affinità di intenti o affinità di... almeno al momento, al momento in cui stavate insieme, quando lei parla che l’organizzazione informale ha bisogno di questo gruppo promotore, voi vi siete costituiti in gruppo promotore? Avevate in mente di costituirlo? Oppure no?

No. No, perché questa è un’ipotesi teorica... Ma se lei legge tutta la lettera... mi dispiace, dottore...

[Presidente]: Comunque, ha già dato una risposta, è un’idea, è teoria...

Ma è chiaro...

[Presidente]: Lei ha detto è teoria...

Sì, ma il mio sì è pleonastico, perché è evidente... Signor Presidente...

[Presidente]: Quindi, il rapporto con la * era un rapporto societario familiare.

Non rispondo.

[Presidente]: ...e questa volta lo dico io, se è sua moglie.

[Marini]: Allora, Bonanno, per cortesia. In una successiva lettera datata 19 settembre 1995, e classificata come lettera numero 51, a pagina 28 [della “Annotazione”], esprime fra l’altro le proprie riflessioni sul contenuto delle riflessioni espostegli dalla * nella precedente corrispondenza e lei dice fra virgolette, questa volta è riportato fra virgolette: «la tua lettera del 12... mi alleghi appunti sull’organizzazione – si parla sempre di organizzazione – si tratta di riflessioni interessanti che delineano bene un passaggio dal gruppo di affinità ai nuclei di base...».

No, no, legga la parentesi dottore, legga la parentesi, è importante...

[Marini]: «In questo senso è importante includere anche il singolo...»

...anche il singolo può fare parte di...

[Marini]: Cerco di sintetizzare. Ma quello che mi interessa è questo: «ai nuclei di base non anarchici». Siccome noi in questo processo abbiamo un’esperienza in cui un gruppo anarchico ha ruotato per anni intorno ad una casa qui a Roma, in via Ostiense, dove abitavano delinquenti comuni come gli Sforza, padre e figlio, e hanno commesso una serie di reati fra cui una rapina in cui c’è stato anche un morto, voglio sapere se la sua teoria era quella di avere questi nuclei di base non anarchici insieme per formare questa organizzazione informale...

Dottore, ma...

[Marini]: Che significa nuclei di base non anarchici?

Ma abbiamo impiegato ore a parlare di questo argomento.

[Marini]: Si riferisce anche a delinquenti comuni?

[Avvocato Di Maggio]: Non si può mettere la domanda in questi termini...

Io mi rifiuto di rispondere a questa domanda. Ma, abbia pazienza, abbiamo discusso di lotte specifiche in cui le persone generiche, non anarchiche, subiscono una particolare intensità di sfruttamento, come ad esempio è accaduto a Comiso. Lei pensa che noi abbiamo impiegato due anni per reclutare nei nuclei di base tutta la malavita del Comisano? Ma, veramente, sta dicendo una cosa del genere, dottore? E me la fa teorizzare per giunta.

[Marini]: Beh, io ho trovato tante lettere... io adesso chiedo una nuova udienza... porto tutte le lettere in cui voi su Comiso avete teorizzato l’intervento della malavita organizzata, della mafia...

Le porti, queste lettere, le porti... della mafia... della mafia?

[Marini]: Le porterò.

Ma se la mafia è venuta dentro da noi a sparare addosso a noi... che cosa sta dicendo...

[Marini]: Bonanno, noi qui abbiamo un processo in cui c’è stato un sequestro di persona...

Non posso farci nulla... non ci posso far nulla col suo sequestro di persona...

[urli che si sovrappongono]

[Marini]: Con una sentenza passata in giudicato...

Lei non può permettersi di dire che io ho teorizzato che la mafia era un elemento positivo...

[Marini]: ...qui abbiamo un processo passato in giudicato...

...non mi interessa, lei non può permettersi di dire che io ho teorizzato che la mafia è...

[Marini]: ...io ho un processo...

...non mi interessa niente di questa storia...

[Marini]: ...con una sentenza passata in giudicato...

...lei non può permettersi di dire che la mafia...

[Presidente]: Potete stare calmi, per favore, anche perché le urla danno fastidio e non servono a niente.

[Marini]: Quindi io non sto parlando di fantasie o di teorie.

[Presidente]: Calma.

No, lei ha detto una cosa gravissima.

[Marini]: Qui c’è una sentenza passata in giudicato in cui si dice che un gruppo anarchico romano si è messo d’accordo con delinquenti comuni della malavita organizzata anonima sarda per sequestrare Mirella Silocchi.

[Avvocato Di Maggio]: E allora perché strilla tanto, se è un dato accertato, un dato di fatto, la sentenza esiste agli atti, qual è la domanda che fa all’imputato?

[Presidente]: Io vorrei informare i presenti che sia il Presidente, sia i giudici che compongono questa corte di Assise hanno un ottimo udito, non c’è bisogno di alzare la voce.

[Marini]: Per cortesia...

Signor Presidente, scusi...

[Marini]: Chiedo scusa, Signor Presidente, chiedo scusa anche a Bonanno, purtroppo, a volte, siamo presi dalla passione...

[Presidente]: Recepisco la domanda del Pubblico Ministero e le faccio questa domanda: rispetto agli Sforza qual è la sua posizione?

Ma, io non li conosco... no, non intendo rispondere.

[Giudice a latere]: La domanda è più complessa.

Non intendo rispondere...

[Giudice a latere]: È una posizione che trascende i singoli individui che lei non conosce, cioè è, se non ho capito male, rispetto alla eventualità di coinvolgimento e di livello come dire... se e in che misura negli attacchi teorizzati rientrano, quelli che (diciamolo con un linguaggio che forse lei può accettare) noi che siamo da questa parte considereremmo dei criminali.

Questa è una domanda ragionevole, a cui è possibile rispondere.

[Giudice a latere]: È la sua posizione che ci interessa.

Consentitemi di tornare all’esempio di Comiso, perché ci aiuta forse meglio di altri. Nella situazione di Comiso, quando si sono formati i nuclei di base, che si chiamavano Leghe, non abbiamo chiesto alle singole persone partecipanti il certificato penale, mi pare una cosa ovvia. Però qua è stata detta una cosa che a me risulta particolarmente offensiva. Forse il Pubblico Ministero nelle scuse voleva comprendere anche questo, io non lo so, che esista agli atti una documentazione in cui ci sono delle lettere in cui affermo, io o chi per me, o qualcuno degli anarchici, la necessità di prendere accordi con la mafia. Questa mi sembra un’enormità.

[Marini]: No, che c’entra... No.

Io tengo a precisare che elementi mafiosi sono venuti nella nostra sede a Comiso, hanno sparato addosso a noialtri. Dico, tanto per la cronaca, non è che voglio fare la vittima.

[Presidente]: Lei non ha risposto alla domanda del collega, non ha risposto.

Sì, ho risposto, nel senso che nel creare i nuclei di base non di certo si cerca come elemento privilegiato il criminale, tra virgolette o senza virgolette. Si cercano le persone che avvertono un determinato problema. La gente che si trovava a Comiso avvertiva il problema e non gradiva la presenza della base, questo problema poteva essere avvertito da uno che aveva precedenti penali, ma non saremmo certo noi a chiedergli il certificato penale.

[Presidente]: Sì, la gente di Comiso ha importanza, ma ha importanza anche la gente di Roma.

Non so cosa dirle.

[Presidente]: La famiglia Sforza...

Ma io non so di chi state parlando, Signor Presidente.

[Giudice a latere]: La domanda era in altri termini, se lei è andato a fare una rapina per vivere, per le giustificazioni che ha dato, ce ne ha parlato anche l’altra volta, c’è una lunga tradizione alle spalle, non la stiamo scoprendo o inventando oggi, può essere considerata, dal suo punto di vista, una forma di... attacco a una istituzione in cui non crede, che contesta... ma lasciamo perdere l’espressione, autofinanziamento personale...

[Presidente]: E di autofinanziamento...

[Giudice a latere]: ...ma lasciamo perdere... o autofinanziamento personale, non ha però un giudizio morale di disvalore nei confronti della rapina in sé come appropriazione di denaro, che giudizio ha lei sul sequestro di persona? Sulla privazione della libertà di un altro essere, magari sulla soppressione di quest’altra persona.

Io non sono d’accordo con il sequestro di persona, io personalmente.

[Presidente]: Non è d’accordo?

[Marini]: Cioè, che significa?

[Presidente]: Cioè è contrario?

[Marini]: È favorevole mi sembra...

[Presidente]: È contrario.

Non sono d’accordo.

[Giudice a latere]: Ha detto “non sono d’accordo”.

[Presidente]: Ha detto non sono d’accordo rispetto a che cosa, ai sequestri di persona?

[Marini]: Non mi sembrava che stesse dicendo questo... Bonanno, stava dicendo questo, vogliamo essere sinceri, che stava dicendo?

Ho detto che non sono d’accordo.

[Marini]: Lo dica con sincerità, una volta tanto.

Che significa una volta tanto? Che vuole dire lei, che non sono...?

[Marini]: Non volevo dire una volta tanto, mi scusi, dica con sincerità cosa stava dicendo, lei non era d’accordo con quello che stava dicendo il giudice.

No, io non sono d’accordo con i sequestri di persona. Ma questa è una questione mia personale.

[Marini]: Io a lei l’ho chiesto.

Tra le carte mie trovi qualcosa che smentisca quello che sto dicendo...

[Marini]: Certo.

Come certo?

[Marini]: No, voglio sapere cosa stava dicendo adesso, perché lei sta mettendo giustamente i puntini sulle i.

[Presidente]: Ma ha chiarito il suo pensiero.

[Marini]: L’ha chiarito. Un altro chiarimento allora. Lasciamo perdere questo perché poi ognuno trarrà le sue conclusioni. Lei ha frequentato spesso i cosiddetti centri sociali autogestiti?

Spesso no.

[Marini]: A me interessa riscontrare quello che ha detto la Mojdech, non mi interessa che lei vada nei centri sociali autogestiti, ma siccome la Mojdech ha detto quello che ha detto, noi lo dobbiamo riscontrare. Fra le altre cose, a parte le testimonianze di cui lei non vuol parlare, ci sono i documenti e quelli non possono essere stracciati, perché c’è un convegno tenuto il 24 e il 26 dicembre 1994 presso il Csa Clinamen di Rovereto, sul tema “Individuo, gruppo d’affinità, insurrezione”, a cui lei ha partecipato come relatore unico. Perché andava in questi centri a predicare l’insurrezione di massa?

No, io non faccio prediche perché non sono un sacerdote...

[Marini]: Un sacerdote. Allora, perché andava a fare relazioni del tipo che ci ha adesso detto, del tipo quelle sul nuovo capitalismo, sull’insurrezione, nei centri sociali?

Glielo dico subito, perché il centro sociale di cui lei discute era un centro sociale anarchico, ora non c’è più.

[Marini]: Voleva fare attività di proselitismo?

Ma penso di sì, io non condivido la parola, però il proselitismo, per me, è un modo di chiarire e approfondire determinati elementi, mentre il proselitismo, come parola comunemente intesa, ha suoni troppo parziali, secondo me.

[Marini]: Va bene, mi basta che voleva fare attività di proselitismo, grazie.

[Interrogatorio condotto dal Pubblico Ministero Marini il 15 dicembre 1999. Trascrizione della registrazione su nastro]

Intervista rilasciata a Radio Onda Rossa il 20 novembre 1997

[Radio Onda Rossa]: Abbiamo raggiunto telefonicamente Alfredo Bonanno, uno dei due compagni scarcerati a seguito del ricorso in Corte di Cassazione, il 30 ottobre 1997, dopo 13 mesi di reclusione. Entriamo nel merito del processo specificatamente per i due capi di imputazione: banda armata ed associazione sovversiva, visto che secondo gli inquirenti ci sarebbe questa ORAI (Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica Insurrezionalista) capeggiata da Alfredo Bonanno. Alfredo, vogliamo entrare un attimo nel merito riguardo ai gruppi d’affinità e ai nuclei di base, visto che gli inquirenti puntano il dito su questi punti estrapolandoli da una serie di interventi?

Per cercare di capire meglio questo problema, occorre dire che si tratta di teorie che hanno un aspetto organizzativo e che hanno anche un aspetto pratico, un modo in cui gli anarchici pensano di organizzare non solo i propri gruppi, ma anche l’attività rivoluzionaria che svolgono sul territorio insieme alla gente che anarchica non è. Questo rapporto viene naturalmente visto in modo diverso a seconda degli scopi che si vogliono raggiungere. Non è che tutti gli anarchici si organizzano in gruppi d’affinità o in nuclei di base: alcuni anarchici, che presuppongono una considerazione diversa dell’organizzazione, per esempio quelli aderenti alla F.A.I. (Federazione Anarchica Italiana), perseguono uno scopo organizzativo diverso, cioè un’organizzazione fissa che dura nel tempo, ecc., che si prefigge un rapporto con le persone diviso nei differenti settori d’intervento: scuola, lavoro, ecc.

Noi pensiamo, da più di 10 anni, che invece l’organizzazione dei gruppi anarchici dovrebbe partire dal concetto d’affinità. I compagni che si conoscono personalmente, e che hanno alle spalle un passato comune, che approfondiscono teoricamente e praticamente i problemi e che si dedicano quindi ad un’attività di informazione e di diffusione delle idee in un determinato territorio, perché ovviamente queste conoscenze sono quasi sempre circoscritte da un punto di vista territoriale, danno vita a un gruppo d’affinità, il quale è un gruppo che possiamo definire di conoscenza comune e di attività comune, con la prospettiva di un progetto di intervento nella realtà. Per esempio, le lotte possono essere diverse nella realtà: scuole, fabbriche, quartieri, centri sociali, ecc. Questo è il gruppo d’affinità costituito esclusivamente da anarchici. Ora, nel momento in cui c’è una determinata situazione nel territorio, come ad esempio è stata, in modo clamoroso, nel 1983 a Comiso, la lotta contro la base missilistica americana o come potrebbe essere adesso una lotta contro la diffusione delle linee ferroviarie ad alta velocità, si ha la possibilità di un intervento informale anarchico.

È chiaro che questi problemi riguardano interessi specifici di determinate persone, che si trovano in determinate zone, in un determinato territorio. Ora, queste persone sono tutt’altro che anarchiche e hanno pochissimo interesse ad approfondire il discorso teorico dell’anarchia, però hanno l’interesse a risolvere il problema dell’attacco che lo Stato rivolge contro di loro, imponendo la realizzazione di determinate scelte statali, sociali e produttive che loro non condividono. Allora, in questo caso, può anche darsi che diversi gruppi d’affinità, entrando in contatto con queste persone, approfondendo insieme a loro, lavorando insieme, lottando insieme, quindi manifestando insieme dall’esterno il desiderio di evitare quello che lo Stato sta cercando di realizzare a loro carico, come le linee ad alta velocità, riescano a realizzare una coesione di solidarietà: anarchici e non anarchici. In questo caso, si creano nuovi gruppi di natura territoriale, i nuclei di base, i quali hanno esclusivamente lo scopo di raggiungere l’obiettivo di impedire, in questo caso, le linee ad alta velocità, come a Comiso avevano l’obiettivo di impedire la costruzione della base.

Quindi, questa unione tra anarchici e non anarchici non avviene all’interno del gruppo d’affinità, ma all’interno di nuclei nuovi che si sviluppano nel territorio come un’organizzazione di lotta, e questi sono i nuclei di base, nuclei che sono strutture organizzate sul territorio. Quando questi nuclei sono parecchi può essere necessario collegarli tra loro tramite un coordinamento, come è stato nel caso di Comiso e come potrebbe essere in qualsiasi altra situazione. Quando nell’intervenire ci si trova di fronte a un territorio piuttosto vasto con paesi diversi, con zone diverse, e quindi ci sono più nuclei, occorre che il lavoro, diciamo, di lotta, di manifestazione delle idee, di diffusione dei problemi e, alla fine, anche di intervento violento contro quello che lo Stato vuole realizzare, venga fatto in modo coordinato ed ecco che in questo caso si crea un coordinamento dei nuclei di base, che può essere una struttura permanente, come è accaduto a Comiso dove c’era una sede con il telefono e tutto il resto, dove ci siamo rimasti due anni per coordinare l’intervento dei vari nuclei di base. Questo non ha nulla a che vedere con un’organizzazione di carattere clandestino.

[Radio Onda Rossa]: Infatti gli inquirenti, in particolare i ROS, estrapolano alcune frasi, alcuni concetti per dedurne un doppio livello: uno palese e uno occulto, un’attività diciamo “clandestina” e una che invece si svolge attraverso un lavoro su periodici settimanali e centri sociali, ecc. Mentre questi concetti sono stati espressi attraverso conferenze fatte anche in Grecia, per come a noi risulta. Ci puoi spiegare meglio?

Il problema è un po’ più complesso. Queste teorizzazioni sono state fatte da 10 anni all’interno del movimento anarchico in diversi libri, opuscoli e conferenze, ma sono state anche realizzate, e questo è importante perché non è soltanto una teoria che si sviluppa su carta o a parole. Nel periodo dell’occupazione della base missilistica di Comiso, per due anni, si è verificato nei fatti quello che avevamo teorizzato. Lo stesso si era verificato nel 1977 a Torino con la costituzione di un’organizzazione del genere, basata sempre sui gruppi d’affinità, da un lato, e i nuclei di base, da un altro lato, nella realtà delle lotte delle ferrovie del Compartimento di Torino, per sviluppare una lotta di tipo sindacale, capace però di ricorrere all’utilizzo di strumenti diversi, ad esempio lo strumento del sabotaggio, quindi non soltanto quello del semplice sciopero. Ora, queste attività non hanno nulla a che vedere con la concezione che cercano di accreditare gli inquirenti, di una banda armata che abbia la capacità di agire su un doppio livello, cioè uno di pubblicazioni teoriche e un livello di realizzazioni clandestine, perché le realizzazioni e le pubblicazioni che abbiamo fatto sono tutte alla luce del sole, in quanto si tratta di realizzazioni concrete che abbiamo fatto con la gente, quindi interventi di massa nel territorio e teorizzazioni che illustrano questo modello di intervento.

La questione del doppio livello, in un certo senso, è necessaria, come concetto, per gli inquirenti, perché senza questo concetto non potrebbero parlare di banda armata in quanto, se loro esaminano gli scritti, le teorie riguardanti quello che loro pensano sia una banda armata, leggendo le singole formulazioni, i singoli scritti, ecco che si vede che si sta parlando di un’organizzazione di massa, cioè di un’organizzazione alla luce del sole, fatta di nuclei di base e di gruppi d’affinità che realizzano interventi molto ampi, che necessitano di un coordinamento. Ora, questo è chiaro nelle cose scritte ed è chiaro anche nelle cose fatte. Però, siccome loro vogliono condannarci in base all’accusa di banda armata, ecco che quello che leggono viene stravolto, non come analisi delle singole parole, che questo non può esser fatto, ma viene stravolto come conclusione, nel senso incredibile che, leggendo i testi miei, ci si accorge che io parlo di un’organizzazione di massa, mentre l’accusa, dopo aver letto quello che pure viene riportato esattamente, cioè la teorizzazione di un’organizzazione di massa, arriva alla conclusione che si tratta della teoria di un’organizzazione clandestina.

Tant’è vero che hanno come testo privilegiato, da parte loro considerato come testo particolarmente significativo, un mio articolo pubblicato su “Anarchismo” [n. 72 del maggio 1993] dal titolo: “Nuove svolte del capitalismo”. Già il titolo stesso lascia perplessi. Se si fosse trattato, come dicono i carabinieri, di un testo che parla di un’organizzazione clandestina e di una banda armata, questo doveva essere abbastanza stringato, cioè parlare di strutture clandestine, invece il testo è una scaletta di conferenze che io ho fatto nel 1993 in due università greche: il Politecnico di Atene e la Facoltà di Lettere di Tessalonica. Ora, questa scaletta veniva usata da me come supporto per le conferenze e contiene i punti in cui viene sviluppato questo discorso fatto in pubblico davanti a centinaia di persone.

È ovvio che se si fosse trattato di un testo, come sostiene l’accusa, contenente la teorizzazione di una banda armata clandestina, non potevo andare a discuterlo davanti a centinaia di persone. Ecco perché gli inquirenti si sono trovati di fronte a questo bivio, a questo dilemma: o il testo è relativo ad un’organizzazione di massa, come infatti è, quindi leggendolo ci si rende conto che Bonanno è andato in Grecia a fare queste conferenze; oppure, dato che il testo lo dobbiamo per forza far diventare la teoria di una banda armata, Bonanno non può essere andato in Grecia a fare queste conferenze. Conclusione: Bonanno non è andato in Grecia a fare queste conferenze, invece io ho presentato al Giudice delle indagini preliminari D’Angelo la documentazione di queste conferenze, in quanto in quell’occasione avevo rilasciato un’intervista riguardo le conferenze in questione sul più grosso giornale greco, con fotografie e tutto quanto. Quindi c’è una documentazione oggettiva.

[Radio Onda Rossa]: Un altro degli argomenti che viene stravolto dagli inquirenti è quello dell’insurrezionalismo anarchico come teorizzazione e come concetto. Volevamo sapere da te: come viene usato dagli inquirenti per poi delineare questaORAI”?

Anche qua il problema è piuttosto ampio, sono due discorsi differenti: 1) l’insurrezionalismo anarchico; 2) come è stato strumentalizzato dagli inquirenti. La prima cosa da capire è che noi siamo anarchici, ma siamo anche insurrezionalisti e riteniamo che oggi non si può ripartire dalle vecchie concezioni dell’anarchismo, cioè dall’idea di una impostazione di lotta rivoluzionaria la quale tiene conto di interventi mirati ad organizzare le masse, nel senso tradizionale del termine, cioè l’anarchismo tradizionale, come può essere stato quello che era molto vicino all’anarco-sindacalismo, simile oggi a molte pratiche dei Cobas.

L’anarchismo tradizionale pensava di poter avvicinarsi alla distruzione del potere attraverso un intervento di penetrazione nelle masse, noi pensiamo che la struttura attuale del capitale e dello Stato, data la formazione di questa società basata su uno sviluppo tecnologico irreversibile, come è quello fondato sulle tecniche della telematica, ecc., questa struttura non può essere altro che distrutta, non può essere utilizzata, trasformata, migliorata. Non può essere, su questa struttura, fondata una società libera, una società dove l’uomo possa dirsi veramente tale. Quindi la necessità della distruzione. Noi pensiamo che questa distruzione debba essere realizzata parzialmente a partire da oggi, perché il concetto di società modificabile in modo rivoluzionario appartiene al bagaglio del passato. Oggi il potere ha dato vita a una società che non può essere più modificata, non può essere più salvata, non può essere più fatta propria dai rivoluzionari e dagli anarchici per trasformarla gradualmente in qualcosa di meglio. Quindi il concetto di insurrezione parte anche dal concetto di attacco immediato contro quelle che sono oggi le strutture dello Stato. Oggi bisogna intendere cosa significa questa concezione di attacco. Innanzi tutto occorre che a realizzare questi attacchi siano gli anarchici, ma non da soli, che siano gli anarchici ma con la gente. E qui torniamo al discorso del rapporto fra la minoranza, che è costituita dai gruppi d’affinità, e le varie situazioni oggettive che nel territorio si vengono a realizzare, che sono costituite dai gruppi di base, da persone che cercano di raggiungere i propri obiettivi, cioè impedire determinati progetti distruttivi da parte dello Stato. Quindi, innanzi tutto, l’insurrezionalismo è un fatto personale, ognuno deve compiere la propria insurrezione con se stesso, modificare le proprie idee, trasformare la propria realtà a partire dalla famiglia, dalla scuola, da quelle che sono le concezioni che invece tengono prigioniero ognuno di noi all’interno di un modello che non riusciamo a spezzare.

Queste mie parole, piuttosto confuse, e un po’ superficiali, cercano di far capire qual è la concezione dell’anarchismo insurrezionalista. Invece la strumentalizzazione di questo concetto da parte degli inquirenti ha portato addirittura alla creazione di una sigla, che è stata inventata dagli inquirenti stessi nei loro documenti, nelle relazioni, nelle requisitorie del Pubblico Ministero. I soli a parlare di questa ORAI sono loro, tant’è vero che ogni tanto si confondono: una volta la chiamano in un modo, una volta in un altro, non c’è mai un modo univoco di chiamare questa fantomatica organizzazione, perché in effetti è stato provato che questa organizzazione non esiste, ma è un’idea di organizzazione non clandestina ma di massa. La lotta rivoluzionaria e insurrezionale diventa poca cosa una volta che la si riduce alla struttura minimale di un’organizzazione clandestina specifica, come quelle che hanno attraversato le esperienze negative o positive (non stiamo qui a giudicare) degli ultimi venti anni di attacchi rivoluzionari contro lo Stato, una volta che la si riduce al modello classico, che potrebbe essere quello delle Brigate Rosse. Se gli inquierenti continuano ad avere in mente questo modello classico di organizzazione clandestina, chiaramente non possono capire quello che noi vogliamo fare e cercano di cucirci addosso un vestito che non può che starci stretto, perché quel tipo di azioni a noi non interessa.

[Radio Onda Rossa]: Si tratta di un altro degli elementi che porta ad una interpretazione strumentale, di questo processo strumentale, perché volto a colpire i nemici di questo Stato, i quali in qualche modo non sono ricomponibili nelle istituzioni cosiddette democratiche. Oltre a una serie di violazioni commesse in questo procedimento, sicuramente un elemento su cui ragionare è l’informativa del R.O.S. che è giunta ad alcune radio di movimento, proprio durante l’udienza preliminare a luglio. In questa informativa si delineava come riuscire ad incastrare questi pericolosi nemici dello Stato, a prescindere che ci sia un pericolo concreto e quindi da intendere come un’azione di controrivoluzione preventiva, cioè un tentativo di bloccare sul nascere, di impedire lo sviluppo di alcune pratiche, di alcune teorie, che sono incompatibili con questo sistema. Volevamo sapere da te: cosa avevate pensato quando giunse questa informativa?

Mi trovo pienamente d’accordo con quello che hai detto tu, perché in effetti gli anarchici insurrezionalisti costituiscono un elemento di grossa preoccupazione per gli Stati, in quanto essi sono un punto di riferimento per un’eventuale possibile aggregazione di tutti quegli elementi irriducibili che non condividono la sanatoria che è stata pronunciata nell’ambito del concetto di lotta di classe, quindi sono sempre disponibili per la messa in pratica di un attacco contro lo Stato e contro le sue realizzazioni, quindi anche contro i suoi progetti. Quando parlo di attacco, parlo di una denuncia contro lo Stato, contro quelli che sono i suoi programmi e i suoi progetti. Nello stesso tempo, anche di una realizzazione del tipo che abbiamo indicato quando abbiamo scritto: “i grandi obiettivi del passato, ad esempio, anche la stessa struttura che una volta portava molti compagni alle cosiddette grandi manifestazioni, ormai ha poca importanza. Adesso bisogna cercare di capire che lo Stato si sta organizzando all’interno di una realtà sociale la quale avrà una forma sempre più irrigidita e sempre più irreversibile, contro la quale sarà sempre più difficile combattere”.

Quando abbiamo detto che praticamente ci stanno controllando, ci stanno chiudendo all’interno di un circuito telematico assoluto, dentro il quale un individuo sarà soltanto un numero, in qualunque momento reperibile e controllabile, dentro il quale circuito le sue azioni saranno controllate e verificate a priori e a posteriori, non è che stavamo parlando di fantascienza, perché in effetti, estromessi quasi del tutto da quello che era il circuito classico produttivo, in cui lo sfruttamento era, come dire, palpabile, oggi stiamo andando verso una realtà produttiva e sociale in cui lo sfruttamento esiste lo stesso, ed anche più radicalizzato, ma è meno comprensibile.

Ora, in questa realtà bisogna fare subito qualcosa a partire da adesso, non quando saremo chiusi completamente all’interno del progetto di controllo del capitale e dello Stato. Questo concetto certamente disturba, in quanto dice: facciamo qualcosa subito, io ho teorizzato e ho scritto queste cose e sono stato anche processato per aver scritto queste cose, ad esempio sulla questione dei tralicci, quando ho detto: occorre che si faccia qualcosa per impedire il grande sviluppo delle multinazionali telematiche. In effetti, questo appello, inserito all’interno di discorsi che su questo argomento si facevano a livello europeo, è stato raccolto. Dalle notizie che noi abbiamo, sia attraverso i giornali, sia attraverso le imputazioni che ci piovono addosso da più lati, si capisce che sono state fatte parecchie di queste realizzazioni, nel senso che parecchi compagni sono determinati ad attaccare lo Stato.

Ora, io sono stato condannato in un primo tempo per avere teorizzato questa tesi delle piccole azioni, invece in un secondo tempo sono stato assolto, perché, giustamente, la Corte di Cassazione ha ritenuto di assolvermi in quanto per loro una cosa è la teoria e una cosa è la pratica. Questi ti possono condannare solo dopo aver dimostrato che tu hai fatto una cosa, non perché l’hai pensata. Ma la semplice teorizzazione di queste cose di già mette paura, la sua realizzazione fa ancora più paura perché non si riesce a capire chi realizza queste cose in tutta l’Europa, e questo non capire da parte dello Stato lo fa intimorire da un lato e dall’altro lato lo fa andare a ritroso nel passato per cercare quei modelli organizzativi antistatali e anticapitalistici su cui ha avuto la meglio.

Il modello antagonista che lo Stato ha sempre davanti agli occhi è il modello armato, chiuso, clandestino, il modello che è stato realizzato in Germania con la RAF, in Francia con Action Directe, realizzato dai Baschi dell’ETA e in Italia dalle Brigate Rosse. Questi modelli, pur non avendo nulla a che vedere con noi, ci vengono cuciti addosso perché in queste accuse, leggendo le carte che sono migliaia di pagine, ci si rende conto che loro hanno in mente questo tipo di modello, cioè non hanno capito che il nostro scopo rivoluzionario è andare verso un altro tipo di attacco verso lo Stato, di convincere la gente che bisogna far qualcosa, anche piccola, a partire da oggi, non organizzarsi per fare uno scontro decisivo definitivo con lo Stato, come era nel modello classico dell’organizzazione tipo BR, cioè lo scontro, la vittoria, impadronirsi dello Stato e gestirlo.

Noi siamo anarchici, non abbiamo nulla a che fare con un’eventuale gestione dello Stato, il nostro scopo è quello di distruggere i progetti e le realizzazioni che in questo momento si stanno portando avanti, che potrebbero finire per chiuderci all’interno di una struttura di controllo poi assolutamente insuperabile. L’ultimo argomento, che avevo dimenticato, è il documento del ROS che è pervenuto ad alcune radio. Il documento riguarda il modo in cui hanno costruito a tavolino questa ragazzina, presentandola come “pentita”, mentre si tratta di una poveretta che è stata imboccata in tanti dettagli e in tutte le cose che dice. Leggendo questo documento si capisce come questa mentalità resta sempre la stessa, cioè la mentalità golpista degli anni Settanta, quella che partì da piazza Fontana e così via, cioè quella che un gruppo di persone appartenente all’autorità costituita opera come organizzazione parallela e decide di dare, come dire, una spinta alla fortuna, perché le carte del processo non erano molto buone, non si riusciva ad incastrare i compagni che avevano provato a fare una rapina in quel di Trento e gliene volevano affibbiare altre. Ecco che, cominciando da questo, si è cercato d’allargare il discorso utilizzando questa ragazzina, facendole dire delle cose assolutamente incredibili, come il fatto che lei ha personalmente partecipato a quella rapina, mentre nelle sue dichiarazioni non si ricorda assolutamente nulla, non si ricorda né il posto, né il quando, né il come, né come erano vestiti i rapinatori, né come si sono svolti i fatti all’interno della banca. Si vede che questa costruzione è stata fatta a tavolino, e neanche tanto bene. Questo prova non soltanto la necessità degli organi dello Stato di far qualcosa urgentemente contro di noi, ma anche l’improntitudine di questa gente che non riesce neanche ad organizzare bene le proprie carte per cercare di impedire ad un gruppo di anarchici insurrezionalisti, sparsi oggi in Europa, di realizzare i loro progetti di attacco contro lo Stato e contro il capitale, progetti che fanno paura.

[Radio Onda Rossa]: Ti volevo chiedere se volevi aggiungere qualcosa sull’aspetto processuale, che fosse di chiarimento su quello che sta succedendo da un punto di vista giudiziario.

Il processo è ovviamente ancora tutto da vedere, è chiaro che l’improntitudine di cui parlavo prima si vedeva fin dalle prime battute. A esempio, il non rispetto assoluto delle regole lo si è visto fin dall’inizio: arresti di persone contro le quali non c’erano accuse, a parte le dichiarazioni di una ragazzina la quale continua a dire che c’è un’organizzazione, ma cos’è questa organizzazione non lo sa. Questo fantasma è stato messo in piedi dall’accusa e poi viene fatto continuamente oggetto di riferimento, come dire: “Io dico che esiste questa organizzazione, dopo di che sviluppo un migliaio di pagine dove dico quello che l’organizzazione ha fatto, e, per il semplice fatto di averla indicata io, Pubblico Ministero, come esistente, questa organizzazione esiste e quindi può continuare ad operare all’interno dell’accusa”.

Questo fatto, come si vede chiaramente, non segue nessuna regola logica, nemmeno quella dello stesso ordine argomentativo. Da ciò si può capire il modo in cui loro hanno lavorato e l’improntitudine che hanno usata, e quindi il fatto che non hanno rispettato le regole. A questo punto la loro superficialità si è ritorta contro di loro, visto che noi dovevamo essere interrogati entro 5 giorni, mentre il Giudice per le indagini preliminari ci ha sentiti dopo 10 mesi. Per questo motivo, la Cassazione ha deciso che io e un’altra compagna venissimo scarcerati. Ora, il 26 novembre 1997, ci sarà un altra seduta della Cassazione, penso sia la Quinta sezione, che dovrebbe metter fuori altri compagni [Nota febbraio 2000: fatto regolarmente avvenuto], però questo non toglie nulla alla difficoltà del processo, alla loro intenzione di condannarci, perché il fatto che si è a piede libero non significa niente. Puoi agire meglio, puoi difenderti meglio, puoi far capire quali sono le condizioni in cui il processo è stato sviluppato e portato avanti, però, oggettivamente parlando, siamo di fronte ad accuse gravissime e c’è tutta l’intenzione da parte loro di condannarci. Questo è ciò che dobbiamo tenere presente.

 


[Trascrizione della registrazione su nastro]

DOCUMENTI VARI

Note al testo del ROS

Raggruppamento Operativo Speciale Carabinieri, Sezione Anticrimine Roma, Documento n. 148/254-7-1994 di prot., 23 aprile 1996. Oggetto del documento: Annotazione relativa agli accertamenti esperiti sul conto di Bonanno Alfredo Maria, ecc.


Queste note seguono lo svolgimento del documento di cui sopra e approfondiscono alcuni dei tanti argomenti in esso trattati, mettendone in risalto gli errori, le contraddizioni, e sottolineando invece le parti esattamente sviluppate, in particolare quelle che concernono le teorie insurrezionaliste ricavabili dai miei scritti presi in esame.

Come apparirà chiaro nel corso della lettura, alcuni errori sono dovuti a mancanza di informazione esatta da parte dei Carabinieri, altri errori sono dovuti a valutazioni illogiche a cui gli stessi arrivano dopo avere esposto esattamente alcune mie teorie. Alla fine, con le mie tesi insurrezionali, si è voluto giustificare non solo la costituzione ma anche la teorizzazione di una “banda armata”, in aperta contraddizione con quello che io ho scritto e sostenuto non solo negli stessi articoli e nelle stesse lettere prese in esame nel documento sopra citato dei carabinieri, ma in tutti i miei scritti degli ultimi trent’anni.

Nota 1

Rapporti con “Azione Rivoluzionaria”

A p. 3 dell’“Annotazione” è scritto: «Nel 1980 in Emilia Romagna, in Sicilia ed in altre località, venivano tratte in arresto... Bonanno Alfredo e altre 19 persone accusate di rapine... Il 30.6.1980 il Giudice Istruttore dei Tribunale di Bologna disponeva la scarcerazione degli arrestati per insufficienza di indizi».

La conclusione non è esatta. Dopo opportuni interrogatori siamo stati tutti scarcerati per assoluta mancanza di indizi. In più, poiché il giudice istruttore aveva avanzato l’ipotesi che io potessi fare parte di “Azione Rivoluzionaria”, ho dimostrato la mia estraneità a questa organizzazione clandestina citando un mio articolo pubblicato sul n. 21 di “Anarchismo” del maggio-giugno 1978, p. 147, dove scrivevo, riferendomi a questa organizzazione, le seguenti parole «Possibile che ancora si torni a ragionare nei termini dell’etichetta organizzativa, per cui AR [Azione Rivoluzionaria], solo per il fatto di aver messo una bella frase di Durruti [famoso anarchico spagnolo morto nella rivoluzione del 1936] in testa al suo documento più ampio e analitico, debba considerarsi la sola alternativa possibile alle BR [Brigate Rosse]? Possibile che non si comprenda che la vera e sola alternativa è la lotta armata generalizzata, spinta fino a livello insurrezionale, fatto ben più significativo delle più elevate realizzazioni delle organizzazioni storiche?».

In risposta “Azione Rivoluzionaria”, in un suo documento pubblicato sul n. 25 di “Anarchismo” del gennaio-febbraio 1979, p. 15, riportando la citazione di cui sopra, concludeva chiedendosi: «Che significa? [quello che io avevo scritto] niente, o qualcosa di peggio, merda o giù di lì. Da una parte si consumano fiumi di inchiostro, di morotea “cauta attenzione” alle organizzazioni “staliniste” per metterne in luce le potenzialità controrivoluzionarie, poi si scopre che il problema non è quello di organizzare le forze non leniniste ma di “generalizzare le lotte”».

Ogni commento mi sembra superfluo. Dopo avere letto questi due passi il giudice istruttore di Bologna mi ha scarcerato.

Nota 2

Lettera mia del 30.11.1992

A p. 13 dell’“Annotazione” è scritto: «Al termine [della lettera il Bonanno] riferisce al […] dell’invito ricevuto dai compagni della Grecia circa una serie di dibattiti ed assemblee. Il Bonanno dà notevole importanza all’invito in quanto ritiene che possa essere l’occasione giusta per parlare del “neo progetto mediterraneo”».

A p. 22 queste conferenze in Grecia saranno dichiarate dall’estensore della “Annotazione” come mai avvenute.

Nota 3

Altra lettera mia del 30.11.1992.

Anche per questa lettera, diversa dalla prima, il redattore dell’“Annotazione” alle pp. 13-14 scrive: «L’estensore, [cioè Bonanno], esprime la sua soddisfazione poi l’invito ricevuto dai compagni greci... e indica i temi di maggior interesse che dovrebbe trattare: solidarietà rivoluzionaria verso i compagni criminalizzati dallo Stato, dissociazione ed amnistia, limiti d’impostazione del modello quantitativo marxista di lotta rivoluzionaria, critica della logica quantitativa delle lotte sociali, critica dei metodi sindacali e parasindacali, tramonto del riformismo nella direzione postindustriale, contraddittorietà delle lotte per la difesa del posto di lavoro nella prospettiva di ristrutturazione del capitalismo e dello Stato, necessità dell’attacco diretto di massa, possibilità di sviluppo degli organismi di massa insurrezionali attraverso la creazione dei nuclei autonomi di base non necessariamente legati al mondo del lavoro... possibilità di sviluppo della lotta insurrezionale di massa verso il comunismo anarchico, possibilità di costruire una rete di organizzazioni insurrezionali di massa a livello internazionale: mezzi e obiettivi».

Come si vede, in questa lettera precisavo quali potevano essere i temi da trattare in quelle conferenze di cui l’“Annotazione” nega l’esistenza a p. 22.

Da notare, fin d’ora, che in questo elenco di problematiche affiora con chiarezza il concetto di organizzazione di massa e di lotta di massa, cioè di movimenti e di lotte nel corso delle quali gli anarchici realizzano dei fatti di attacco contro il potere insieme ad altre persone che non sono anarchici, ma che entrano in rapporto con gli anarchici proprio perché vogliono affrontare una lotta specifica (rivendicativa, ad esempio, oppure di difesa di alcuni diritti, per avere la casa, per ottenere o difendere un lavoro, per impedire il nucleare, per contrastare la crescita del razzismo, ecc.).

Anche in questo caso si vede che si tratta della preparazione delle conferenze da tenere in Grecia, conferenze di cui si nega l’esistenza a p. 22.

Nota 4

Convegno di Forlì del 13-15 maggio 1988

A p. 18 dell’“Annotazione” si legge: «Dal 13 al 15 maggio 1988, in Forlì, nel corso di un convegno antimilitarista organizzato dalla FAI, Bonanno Alfredo [ed altri]... che avevano invitato i “proletari a fare propria l’azione diretta sovversiva fuori e contro ogni delega”, venivano accusati di “terrorismo” dagli oratori, ed estromessi dal congresso».

Su questo punto la Federazione Anarchica Italiana ha emesso il seguente documento dove si legge: «I recenti fatti repressivi amplificati dalla stampa, sulla base dei comunicati della magistratura e del ROS, rappresentano un’articolazione furbesca delle nuove tecniche di controllo sociale, basato sull’invenzione di appartenenze, congressi, espulsioni, ruoli di comodo. In particolare la FAI non ha tenuto un Congresso a Forlì nel 1988, nel proprio patto associativo non prevede l’espulsione, a maggior ragione nei confronti di chi non ha mai aderito ad essa».

In effetti il convegno di Forlì fu un convegno e non un congresso, come erroneamente si conclude qui sopra, e non fu organizzato dalla FAI. Nel corso del dibattito venne appunto esposta la tesi di rifiutare ogni delega organizzativa, di qualsiasi tipo, quindi anche quelle molto vincolanti che legano i partecipanti ad una organizzazione armata clandestina, e non ci fu nessuna estromissione dalla FAI anche per il semplice motivo che chi scrive non ha mai fatto parte della FAI, come anche gli altri compagni indicati dal redattore dell’“Annotazione”.

Nota 5

Articolo mio dal titolo Il lavoro del rivoluzionario (“Anarchismo” n. 59, gennaio 1988, pp. 45-52).

Riguardo questo mio articolo il redattore dell’“Annotazione”, a pag. 21, con parole sue, sottolinea il punto centrale della mia tesi scrivendo: «Quanto sopra enunciato non è altro che la strategia di attacco allo Stato e al Capitale sul tema dell’antinucleare e dell’ecologia...», e poi passa a citare il n. 55 di “Anarchismo” del dicembre 1986 dove «veniva pubblicato un articolo, a firma di sedicenti “Operatori Rivoluzionari”, che fornisce minuziosa istruzione corredata da illustrazioni grafiche su come sabotare un traliccio dell’ENEL... ».

Su questo punto una sentenza della Corte di Cassazione mi rinvia alla Corte d’appello di Catania dove per la pubblicazione del volantino di cui sopra ero stato condannato a otto mesi. Corte d’appello che, rifacendo il processo, mi manda assolto.

Nota 6

Articolo mio dal titolo Nuove svolte del capitalismo (“Anarchismo” n. 72, maggio 1993, pp. 1-7).

Il redattore dell’“Annotazione”, a pag. 21, riferendosi a questo articolo lo definisce: «[...] di assoluta rilevanza per la delineazione della struttura dell’organizzazione rivoluzionaria anarchica insurrezionalista in esame».

Ora, questo articolo pubblicato su “Anarchismo” è la scaletta utilizzata da me nelle mie conferenze tenute in Grecia nel gennaio del 1993.

Leggendo l’articolo in questione si capisce bene non solo che non esiste nessuna banda armata, ma che quanto si trova scritto nell’articolo si riferisce ad organizzazioni di massa, cioè con la partecipazione della gente e dirette a realizzare delle lotte specifiche contro obiettivi di natura repressiva.

Poiché questa conclusione è sotto gli occhi di tutti, anche del redattore dell’“Annotazione”, quest’ultimo si è trovato di fronte ad un dilemma irrisolvibile:

– o il testo riguardava effettivamente la teoria di una banda armata clandestina, e quindi non poteva essere la scaletta di conferenze pubbliche tenute nelle Università greche (nessuno sarebbe tanto folle da andare a parlare in pubblico di come organizzare una banda armata);

– o il testo riguardava effettivamente la teoria di una organizzazione di massa, a livello ufficiale, di carattere insurrezionale, ma non clandestina e cioè del tutto diversa da una banda armata (e quindi era esattamente quello che diceva di essere: la scaletta delle conferenze da tenere, nelle Università greche).

Tra queste due possibilità il redattore ha scelto la prima concludendo, a pag. 22: «Non si tratta quindi di interventi pubblici come indicato in calce all’articolo, ma di manifestazioni “interne” alla realtà antagonista greca, peraltro in stretto contatto con l’associazione in esame attraverso l’interposizione degli indagati...».

Questa incredibile conclusione è smentita dai fatti.

Primo, alle mie conferenze in Grecia, del gennaio del 1993 parteciparono centinaia di persone, non solo, ma in quei giorni io rilasciai una intervista al giornale “Eleftherotypia”, l’equivalente del nostro “Corriere della sera”, che qualche settimana dopo nel suo inserto settimanale a colori del 28 febbraio 1993, alle pagine 50-53, pubblicava un servizio con le mie fotografie, il testo ridotto della mia intervista e la cronaca delle conferenze tenute ad Atene e a Tessalonica.

Il testo integrale di queste conferenze alla facoltà di Lettere di Tessalonica, con una parte delle conferenze tenute al Politecnico di Atene, il testo integrale dell’intervista, e il dibattito che si è sviluppato, sono stati pubblicati in Grecia in volume nel 1995. [Il testo in italiano si trova nel libro Alfredo M. Bonanno, Nuove svolte del capitalismo, Trieste 1999, seconda edizione 2009].

Sia detto tra parentesi, io ho tenuto nel corso del 1994, del 1995 e del 1996, molte altre conferenze nelle Università italiane (quindi non solo in Grecia), in particolare a Torino, Bologna, Teramo, Firenze, alla “Sapienza” di Roma, Facoltà di Sociologia. Il tema è stato sempre quello: trasformazioni del capitale e dello Stato e realizzazione di lotte anarchiche capaci di coinvolgere la gente nell’attacco contro il capitale e lo Stato.

Nota 7

Pubblicistica a circolazione interna.

Più volte nell’“Annotazione” il redattore sottolinea, come fa a pag. 23, una cosa non vera riguardo le nostre pubblicazioni: “Anarchismo”, “Provocazione”, i nostri libri, opuscoli ecc., affermando che quando io scrivo “stampa nostra”, deve essere «intesa come pubblicistica a circolazione interna».

Il motivo di questa precisazione è evidente. Se una banda armata pubblica dei documenti questi non possono essere che a circolazione interna.

Invece le nostre pubblicazioni sono anche nelle librerie, sono diffuse nelle Università e nelle scuole, sono correntemente spedite per corrispondenza, vengono diffuse nelle manifestazioni, e le copie d’obbligo sono sempre consegnate alla Prefettura.

È evidente qui l’intento che il redattore della “Annotazione” vuole raggiungere con l’affermare questo fatto del tutto falso.

Nota 8

Ancora dell’articolo mio Nuove svolte del capitalismo.

Il redattore dell’“Annotazione”, alle pp. 23-24, riporta alcuni passi del mio articolo che sono molto chiari, e che dimostrano esattamente la tesi opposta a quella sostenuta dal redattore stesso: «Pensiamo che in sostituzione delle federazioni e dei gruppi organizzati in modo tradizionale, modelli giustificati da strutture economiche e sociali della realtà ormai inesistenti e superate, vadano costruiti gruppi di affinità costituiti da un numero non molto esteso di compagni, legati insieme da una profonda conoscenza personale... I gruppi di affinità possono a loro volta contribuire alla costituzione di nuclei di base. Lo scopo di queste strutture, è quello di sostituire, nell’ambito delle lotte intermedie le vecchie organizzazioni sindacaliste di resistenza anche quelle che insistono nell’ideologia anarcosindacalista. L’ambito di azione dei nuclei di base è costituito dalle fabbriche... dai quartieri, dalle scuole, dai ghetti sociali e da tutte quelle situazioni in cui si materializza l’esclusione di classe, la separazione fra esclusi ed inclusi... Diversi nuclei di base possono costituire coordinamenti [leggi: organizzazioni informali] col medesimo scopo, dandosi strutture organizzative più specifiche ma sempre fondate sui principi della conflittualità permanente, dell’autogestione e dell’attacco».

Vengono qui evidenziati tre punti essenziali di queste unità autonome di base, o nuclei di base, o strutture autogestite, che dir si voglia, la conflittualità permanente, l’autogestione e l’attacco.

Più avanti lo stesso redattore riporta questa mia frase: «Il campo di azione dei gruppi di affinità e dei nuclei di base è costituito dalle lotte di massa». (Vedi a p. 24).

Tutto il discorso organizzativo dei gruppi di affinità, delle organizzazioni informali e dei nuclei di base, si riassume perfettamente nella fase suddetta. Perché l’estensore, delle “Annotazioni” non ne ha tenuto conto? Perché sarebbe stato costretto ad ammettere la non esistenza di una qualsivoglia “Banda armata”.

Riporto qui di seguito alcuni passi di due documenti pubblicati rispettivamente nel 1977 e nel 1982, riguardanti il funzionamento di organizzazioni informali di questo tipo.

Il primo documento riguarda l’Organizzazione del nucleo autonomo di base come venne realizzato dal Movimento autonomo di base dei ferrovieri del compartimento di Torino (come si vede molto tempo prima, della nascita degli attuali Cobas).

Il secondo è il Documento organizzativo delle Leghe autogestite, redatto dal Coordinamento Leghe autogestite contro la costruzione della base missilistica di Comiso.

Il Movimento autonomo di base dei ferrovieri di Torino nel 1977 era un’organizzazione informale costituita da diversi nuclei di base. Esso venne costituito da un gruppo di affinità di compagni anarchici formatosi allo scopo di organizzare i ferrovieri in una lotta contro la loro Azienda, lotta impostata sui princìpi di cui sopra: conflittualità permanente, autogestione e attacco. Il Movimento restò in vita per alcuni anni.

Il Coordinamento Leghe di Comiso nel 1982-1983 era un’organizzazione informale costituita da diverse Leghe (nuclei di base) costituitasi allo scopo di organizzare la popolazione di Comiso, di Ragusa e dei paesi circostanti, in una lotta contro la costruzione della base missilistica americana. L’iniziativa venne presa da un gruppo di affinità anarchico, costituitosi espressamente a questo scopo, di cui facevano parte compagni italiani e stranieri. La lotta aveva lo scopo dell’attacco contro la base e si fondava sulla conflittualità permanente e l’autogestione. La sua durata fu di due anni esatti.

Nel primo documento (del Movimento ferrovieri di Torino) si legge: «Il Nucleo Autonomo di Base è un organismo di lotta per la difesa dei ferrovieri che intende affermare il principio dell’autonomia della lotta. Per questo nega validità ai sindacati e denuncia la loro collusione col potere, in base al principio dell’autonomia, il Nucleo Autonomo di Base afferma la necessità della conflittualità permanente all’interno della realtà produttiva e la necessità di esportare le caratteristiche essenziali della lotta verso l’esterno, onde sfuggire alla chiusura corporativa... I metodi necessari alla realizzazione degli scopi di difesa degli interessi della categoria e quindi dell’intera collettività produttiva sono scelti in armonia al principio di autonomia e di conflittualità permanente, restando inteso che l’utilizzo dello sciopero, come arma di lotta, va considerato criticamente: mentre, una grande attenzione va posta nella ricerca di altri mezzi di lotta più efficaci perché non facilmente controllabili da parte dell’Azienda». [Cfr. Alfredo M. Bonanno, Teoria e pratica dell’insurrezione, terza edizione, Trieste 2013, pp. 202-203].

Nel secondo documento (del Coordinamento delle Leghe di Comiso) si legge: «Principi generali: Conflittualità permanente. La lotta contro la costruzione della base può avere risultati positivi solo a condizione che sia costante, ininterrotta ed efficace. Una lotta saltuaria, sporadica, legata ad interventi occasionali, finirà per risultare perdente. Autogestione. Le Leghe sono autogestite, cioè non dipendono da alcuna organizzazione, partito, sindacato, clientela, ecc. Non ricevono soldi se non provenienti dalle sottoscrizioni spontanee degli stessi aderenti alle Leghe. Su questa loro autonomia si fonda la loro forza. Attacco. Le Leghe rifiutano i discorsi di mediazione, di pacificazione, di sacrificio, di accomodamento, di compromesso. Esse sostengono la necessità di un attacco contro gli interessi padronali che stanno realizzando il progetto criminale degli USA». [Cfr. Ib., pp. 248-249].

Note per l’Avv. Paolo Venturino relative alla difesa al processo Marini

Sequestri

In particolare nel fare riferimento al problema dei sequestri di persona, discorso che entra solo in modo marginale nella posizione degli imputati sotto il tuo patrocinio, bisogna evitare di continuare a sostenere la tesi che io stesso ho esposta nella Introduzione al libretto Con ogni mezzo necessario, che porta il titolo: “Montatura”. Qui dicevo testualmente: «Gli anarchici sono contro il potere, qualsiasi carcere, anche quello che i sequestratori infliggono ai sequestrati in attesa che si decidano a pagare le somme richieste per il riscatto. Chiudere a chiave un uomo è pratica avvilente». (Vedi p. 2).

Ecco, questa frase aveva di già in se stessa un piccolo vizio tipografico: la parola “potere” andava sostituita con “carcere”, per rendere il senso giusto all’intera frase. Ma, anche sistemando questo aspetto, resta il fatto innegabile che io mi arrogavo la pretesa di parlare a nome “degli anarchici”, quindi di tutti gli anarchici, cosa che non solo era (ed è errata), ma che ingenera equivoci. Il fatto che io sia contro la pratica dei sequestri, allo stato attuale delle cose non ha nemmeno più importanza, in quanto bisognerebbe dire che “alcuni” anarchici sono contro i sequestri, il che comporterebbe il fatto di affermare implicitamente che altri sono favorevoli, ecc.

Per evitare tutto questo, evitare ogni genere di affermazione che riguarda la condivisibilità o meno di questa pratica. Non spetta quindi a te in quanto avvocato difensore di imputati che bene o male affrontano insieme un processo, esprimere idee teoriche sull’argomento, né tanto meno giudizi di ordine morale.

L’errore da me commesso ci costringe adesso a farti prendere questa posizione che si può riassumere in due parole: nessuna dichiarazione di merito sul problema dei sequestri.

Riguardo le dichiarazioni di fatto, queste concernono prove o altre faccende testimoniali, e tutto il resto che per il momento sembra non riguardino imputati da te difesi.

Nel caso dovesse emergere un’imputazione del genere o un riferimento in qualche modo connesso con questo tipo di imputazione evitare ogni dichiarazione morale o genericamente attribuibile ad una condanna che gli anarchici esprimono riguardo questo reato. Insomma, evitare di ripetere l’errore fatto da me e ribadito da te all’udienza del 1° dicembre 1997.

La collaborante

Il taglio morale nei riguardi della collaborante (assolutamente non chiamarla “pentita”) non può essere mantenuto come è stato impostato finora.

Riferimenti al suo mestiere di entreneuse, al fatto che lei non poteva non essere che una drogata e che era nell’ordine naturale delle cose che in quell’ambiente di lavoro finisse per fare la puttana, da cui il suo venirsi a trovare in condizioni di commettere reati legati alla professione di prostituta e alla droga e quindi utilizzo suo da parte dei carabinieri, non possono continuare.

Nel libretto Fatte le dovute eccezioni, che tu hai letto, a pag. 7 si trova un paragrafo col titolo: “Una ragazzina”, in cui è impostato un altro modo di condurre la valutazione morale e personale di questa persona. Si fa riferimento al fatto di una povera ragazza debole, trascinata nel fango di scelte imposte dai carabinieri. Insomma io dico: «Non riesco a non vederla se non come una povera disgraziata che gente senza scrupoli ha tirato in un ballo troppo pericoloso, segnandone definitivamente la vita».

Il definirla “puttana e drogata” tocca la sensibilità degli anarchici che sono molti vicini sia alle puttane che ai cosiddetti drogati. Va bene che si tratta di un linguaggio impiegato per fare colpo sui giurati, ma non è ammissibile per noi, quindi bisogna stornare subito la valutazione e insistere sui temi della povera disgraziata, della debole di spirito e di corpo, del criminale suggerimento del carabiniere (e dei carabinieri) che l’hanno imbrogliata, della scelta di morte e di isolamento che ha fatto, della sua totale estraneità al movimento anarchico, oltre, e questo è argomento di natura strettamente tecnica, alle sue contraddizioni nelle dichiarazioni rese.

Vincere o perdere

Capisco che per un avvocato sentire che un processo “può essere vinto” è cosa importante, e questo processo sembra che si avvii verso un esito diciamo “favorevole”.

Se non altro risultati favorevoli ci sono stati a livello della scarcerazione dei compagni.

Ma non dobbiamo perdere di vista che per noi è importante che il rapporto con coloro che ci stanno processando venga mantenuto dentro limiti di assoluta estraneità e lontananza. Nessun segno di accondiscendenza da parte nostra, nemmeno a livello formale.

La massima durezza deve essere quindi mantenuta nelle dichiarazioni e anche la massima correttezza. Non dare mai la sensazione che si stia per parteggiare per la Corte contro la Pubblica accusa per il motivo che la corte appare, allo stato delle cose, “favorevole”. Non dare l’impressione di essersi resi conto che la corte potrebbe avere al suo interno due tendenze, una favorevole e una ancora più favorevole (giudice a latere?).

Spesso un processo dove ci sono degli anarchici non si vince anche quando si viene assolti e si vince anche quando si è condannati. Ognuno ha una sua visione di ciò che considera “vittoria” o “sconfitta”.

Professore

Evitare di dire “Professore Bonanno”, definirmi in altro modo: ad esempio l’imputato Bonanno, che in un processo a mio avviso è titolo molto più significativo.

Solo aspetti concreti

Limitarsi solo agli aspetti concreti dell’imputazione: per me soltanto parlare della rapina. Evitare argomenti di natura generale o politica, del genere: “Chi sono gli anarchici?”.

Dalla sentenza di primo grado della Corte di Assisi di Roma del 31 maggio 2000

Dichiarazioni di Mojdeh Namsetchi

Conviene esaminare partitamente le dichiarazioni della Namsetchi.

Appena quindicenne, nell’estate del 1990, e precisamente il 12 luglio, conobbe C.T., con il quale, benché contrastata dalla famiglia, allacciò una relazione sentimentale.

Nell’abitazione dell’uomo, a Campoverde di Aprilia, ebbe modo di conoscere la di lui moglie separata...

Scarcerato T. nell’estate del 1993, convisse con lui dal dicembre dello stesso anno al febbraio 1994...

Il gruppo disponeva di tipografie, una, le sembrava, in Sicilia.

I proventi delle rapine venivano spartiti fra gli autori, ma una percentuale era destinata alla cassa comune: non sapeva quantificarla, anzi, era del 50%.

Incontrò Bonanno per la prima volta a Firenze: c’erano parecchie persone, tra cui... Lo rivide a Roma in più occasioni.

Bonanno sapeva tutto delle rapine e veniva consultato da tutti. Era, disse T., un punto di riferimento.

B. amministrava la cassa comune. I soldi servivano ad aiutare i compagni latitanti, per pagare le spese dei processi a carico dei compagni arrestati, per preparare le imprese. Così le disse T.: Servivano anche per finanziare la pubblicazione “Canenero”, della quale si occupava Bonanno.

Nel settembre del 1994 T. venne arrestato in flagranza di rapina. Andò a visitarlo in carcere sino al 31 dicembre 1994. Prese in affitto una casa in via Ludovico Pavoni, a Roma. Decise di troncare la relazione. Lui però cercava di mantenere i contatti per il tramite... Le inviò una cartolina che ritraeva la terrorista tedesca Ulrike Meinhof, la frase stampata “pagherete caro, pagherete tutto” e la firma ripetuta: C.

Aveva appreso, non ricordava da chi, che degli anarchici erano stati fermati perché cercavano di inquinare degli alimenti.

Il 28 febbraio 1995 ricevette una telefonata da G., il quale, preoccupato, le fissò un appuntamento, perché non si fidava di parlarle per telefono. Si incontrarono. L’uomo la informò di aver subito una perquisizione. In tasca aveva una tessera per l’acquisto di diserbanti. Temeva di essere coinvolto in “qualcosa”. Stesse attenta, perché “girava l’Antimafia”.

Distaccatasi da T. e dagli altri, per mantenersi prese a lavorare come “entreneuse” presso il locale notturno “Piranha” di Cerenova. Qui, nei primi mesi del 1995, conobbe il maresciallo dei Carabinieri Mercurio Farino, che la convinse a collaborare con la giustizia. Si noti, peraltro, che, dopo l’arresto di T. (settembre 1994), erano state eseguite perquisizioni nel domicilio di Nettuno, dove coabitava anche la Namsetchi. Nel corso di una di dette perquisizioni si rinvennero delle cartucce.

Sul piano delle motivazioni, la ragazza rappresenta di aver maturato distacco critico dal proprio passato perché non condivideva più lo stile di vita e le idee degli anarchici, le quali idee, peraltro, non aveva mai appieno sposato, restando ai margini dei fatti più gravi e rifiutandosi di partecipare a riunioni in cui si doveva parlare di attentati o di altri gravi delitti.

In definitiva, la Namsetchi delinea un’organizzazione su due livelli, uno occulto, per la commissione di reati, l’altro, palese, che si occupava di manifestazioni, riviste e propaganda anarchica. Non ricorda di aver mai sentito usare il termine “compartimentazione”. Non è in grado di precisare l’articolazione delle strutture organizzative.

Attendibilità della collaboratrice. Premessa metodologica. Valutazione della chiamata in correità e in reità.

I fatti oggetto dell’imputazione associativa traggono in buona misura linfa dalle dichiarazioni rese non solo dalla Namsetchi, ma anche dai componenti della famiglia Sforza.

Quanto si verrà qui di seguito enunciando con riferimento alla forza probatoria da attribuire alle chiamate in correità e in reità vale per tutti gli imputati che, nel presente procedimento, rivestono la particolare qualifica di dichiaranti-imputati di reato connesso, ovvero, per dirla con una felice formula di sintesi, “imputati-testimoni”.

Un primo profilo afferisce al tema dell’attendibilità cd. intrinseca del collaborante che, per quanto costituisca un aspetto decisamente rilevante di qualunque vicenda processuale, purtuttavia non esaurisce in sé l’esame del materiale probatorio.

L’accertamento sull’aspetto intrinseco della chiamata in correità non può costituire una sorta di sbarramento all’esercizio dei poteri di controllo del Giudicante e al dispiegarsi del suo libero convincimento.

Ma non può neanche costituire uno sbarramento al riconoscimento dell’esistenza di fatti che risultino documentalmente o materialmente accertati e che siano anche coincidenti con rivelazioni del collaborante.

In tal caso, non potrebbero questi fatti liquidarsi come semplici illazioni, o, peggio, calunnie, senza violare una regola, prima che giuridica, logica: factum infectum fieri nequit.

Si pensi all’ipotesi, tutt’altro che scolastica, di un soggetto, che, mosso a rendere rivelazioni da motivazioni tutt’altro che disinteressate, e già sconfessato su alcuni punti della sua chiamata in correità, accusi Tizio di detenere un certo quantitativo di droga in un determinato luogo.

Una rigida estensione dei principio della prevalenza della valutazione della credibilità intrinseca su ogni altra considerazione porterebbe a conseguenze decisamente illogiche: o non si dovrebbe nemmeno cercare la droga, poiché l’informazione proviene da fonte squalificata, o, una volta trovata la sostanza, si dovrebbe ignorarne l’esistenza, o, peggio, si dovrebbe attribuirne il rinvenimento non già a una dichiarazione puntualmente riscontrata di un soggetto che, a quel punto, non potrebbe più essere definito tout court “inattendibile”, bensì al caso.

Ma il diritto ha la pretesa di atteggiarsi a disciplina umana, positiva, razionale, e non trascendente o metafisica; e poiché, si ripete, factum infectum fieri nequit, appare di tutta evidenza come sia estremamente logico e condivisibile quel consolidato indirizzo giurisprudenziale che ammette la piena scindibilità della chiamata in correità. Alcune dichiarazioni possono essere riscontrate, altre non possono esserlo.

In un determinato contesto il collaborante si rivela non credibile, ma il giudizio formulato in quella sede non può automaticamente estendersi al complesso delle dichiarazioni rese in diverso contesto, quando queste dichiarazioni siano pienamente riscontrate.

E vale, ovviamente, l’inverso. L’accertamento deve spostarsi sul piano dei riscontri, il cui rintraccio non può essere inibito da nessun astratto sbarramento: e l’attendibilità intrinseca non può rappresentare che uno dei due corni del dilemma, sicuramente non l’unico e certamente non il prevalente.

Del resto, se il ragionamento si invertisse, se, cioè, si concedesse la patente di affidabilità a un soggetto del quale fossero state riscontrate alcune dichiarazioni, inibendo, per un mero atto di fede, la ricerca dei riscontri su altre dichiarazioni, si perverrebbe comunque a conseguenze illogiche, anche se di segno diverso: l’inattendibile dichiarante che, in un certo contesto, fa ritrovare la droga, dovrebbe essere per ciò solo considerato pienamente attendibile su tutta la linea.

D’altronde il legislatore, nel normativizzare la figura del collaboratore di giustizia, e nel predisporre una serie di strumenti di tutela connessi al riconoscimento di uno status particolare (programma di protezione, ecc.), ha operato una scelta di politica legislativa che non tocca al giudicante né criticare né esaltare.

Il compito del Giudice – che per quanto possa suonare retorico va ribadito in questa sede – è quello di accertare la rispondenza di alcuni fatti alle premesse fissate nell’imputazione. Questo e non altro.

Siamo in presenza di una legislazione che non solo ammette la collaborazione, ma la stimola, proponendosi di suscitarla attraverso l’apprestamento di una serie di vantaggi e di benefici, anch’essi normativizzati: riduzioni di pena, possibilità di scontare la pena in strutture extracarcerarie, compensi in danaro.

L’intera materia potrà essere suscettibile di revisione: ma legislativa, non certo in questa sede.

Il giudicante ha il dovere di trarre le conseguenze imposte dalla normativa vigente.

E dunque, il requisito del disinteresse nella chiamata in correità, sul quale tanto si insiste, da parte difensiva, per suscitare un moto di ribrezzo morale nei confronti del cosiddetto “pentito”, non si identifica con la mancanza della promessa di corrispettivi vantaggi, ma si definisce attraverso l’identificazione dei postulati di genuinità della stessa, che non deve essere inquinata ab origine da intenti di calunnia nei confronti di terzi.

Ne deriva che l’aspetto soggettivo della credibilità (cd. credibilità intrinseca) non esaurisce l’accertamento del contenuto e della valenza probatoria delle dichiarazioni accusatorie del correo.

È la legge stessa ad offrire benefici, è la legge che consente di stipulare un vero e proprio contratto con il collaborante. Si tratta, si ripete, di una scelta di politica criminale: essa affonda le radici nella consapevolezza che soltanto chi appartiene a un sodalizio criminale può svelarne i segreti arcani. E per essere indotto a farlo, va incoraggiato.

Consegue, a siffatte linee di politica criminale, laddove esse siano trasposte, come nell’attuale panorama ordinamentale, sul terreno del diritto positivo, che più rilevante è lo spessore criminale del collaborante, più valore hanno – o possono avere – le sue dichiarazioni.

Le censure sullo stipendio che lo Stato corrisponde agli assassini conclamati pertengono, ancora una volta, al piano etico, che è, in questo caso come non mai, estraneo alla ratio legis.

Non a caso, d’altronde, la legislazione positiva non contempla l’uso del termine “pentito”. Laddove, per contro, la legge intende ancorare la concessione di qualche beneficio a un moto morale di resipiscenza, non esita a farlo, violando anche il santuario del foro interiore: si pensi all’intera normativa penitenziaria, ispirata al principio della “rieducazione”, e permeata dal “cambiamento” dell’intimo dell’uomo delinquente; si pensi all’istituto della liberazione condizionale, che postula il “ravvedimento” quale condizione essenziale per l’ottenimento dei beneficio di cui all’art. 176 CP.

Attendibilità intrinseca. Ruolo del maresciallo Farino. Il cd. “documento Marimpietri”.

Tanto premesso, giova da subito anticipare che numerose delle affermazioni rese dalla collaborante sono state puntualmente riscontrate (v. infra) e che gli autorevoli precedenti giudiziari rappresentati dalle sentenze 31.1.96 Tribunale Trento, 13.12.96 Corte Appello Trento hanno garantito una patente di piena affidabilità alle dichiarazioni della Namsetchi.

La genuinità e spontaneità della cui presa di distacco dall’ambito delinquenziale, in precedenza condiviso con T., è stata revocata in dubbio sotto un duplice profilo: quello attinente al ruolo che avrebbe giocato nella vicenda il maresciallo Mercurio Farino dei Carabinieri di Civitavecchia e quello relativo ad un altro ruolo, questa volta operato dal ROS (Raggruppamento Operativo Speciale) dell’Arma.

Circa il ruolo del ROS, si osserva che, con modalità di consegna riconducibili a soggetti gravitanti nell’area anarchica, prima dell’avvio del presente dibattimento, si è fatto pervenire agli inquirenti un documento dal titolo “Nota informativa di servizio ad uso interno relativa ad una possibile attività investigativa da esperire sul conto dell’eversione anarchica”, attribuito al tenente colonnello del ROS Rosario Marimpietri.

Detto documento, che sarebbe stato redatto nel 1994, anticiperebbe le linee investigative poi sviluppate a partire dal febbraio-marzo 1995 in esito (anche e non solo) alle rivelazioni della Namsetchi.

In sostanza, il documento dovrebbe dimostrare che i Carabinieri, una volta identificata la ragazza, debole, sbandata e dedita ad attività ai margini della legalità, avrebbero provveduto a costruire intorno alle sue dichiarazioni l’attacco agli anarchici. L’intera istruttoria sarebbe, allora, una “montatura”.

Orbene, il documento in oggetto, come chiaramente dimostrato dal presunto estensore (il col. Marimpietri, che ne nega recisamente la paternità) e dal maggiore Vittorio Pagliccia, è un falso, ricavato, quanto alla parte ideologica, da un assemblaggio di informazioni rese in linguaggio simil-burocratico, e, quanto alla parte materiale, dal fotomontaggio del timbro di diverso documento.

Ciò che preme sottolineare in questa sede è che la Corte potrà anche non condividere l’assunto di fondo del ROS, vera “anima” dell’inchiesta, e negare la sussistenza della vasta e ramificata associazione sovversivo-terroristica indicata sub 1): ma la lealtà investigativa e la fedeltà istituzionale di coloro che hanno condotto l’indagine è e resta fuori discussione.

Gli è che, evidentemente, le dichiarazioni della Namsetchi devono aver preoccupato non poco taluno tra gli accusati, se con tanto accanimento ci si è scagliati contro la collaboratrice, al punto da ideare un sofisticato falso volto a dimostrare la presunta “montatura”, e se, con un discutibile sussulto di perbenismo che sorprende, attesa l’ideologia libertaria professata dagli inquisiti, si è tentato di screditare la Namsetchi con pesanti allusioni alla sua presunta immoralità. Si allude, ovviamente, all’episodio dell’incontro con il maresciallo Farino all’interno del club “Piranha”, dove la Namsetchi faceva l’entreneuse.

Episodio che avrebbe dovuto rappresentare la logica proiezione nel concreto del “piano” delineato dal falso documento: attraverso Farino la Namsetchi sarebbe stata “agganciata” e indotta a rendere rivelazioni sul conto della fantomatica organizzazione anarchica.

Il maresciallo Farino ha reso deposizione sui fatti: conobbe la Namsetchi al “Piranha”, strinse con lei un rapporto, la ragazza si aprì, confidandosi.

Dichiarazioni sovrapponibili a quelle rese dalla collaboratrice. Falsa la premessa (il documento del ROS), risulterà inesistente la conseguente asserita macchinazione.

Del resto, che la Namsetchi e il maresciallo siano amici o qualcosa di più; che con Farino la ragazza abbia deciso di aprirsi, sollecitata o meno dal sottufficiale, sono dettagli irrilevanti ai fini del giudizio, secondo il canone ermeneutico sopra fissato, una volta stabilito che non una “montatura” poliziesca, ma la spontanea fuoriuscita da un ambiente di vita non più condiviso motivò la Namsetchi ad abbandonare T. e a intraprendere scelte alternative.

Sotto nessuno dei profili sollevati dalle difese, pertanto, l’attendibilità intrinseca della collaborante può essere attaccata: attendibilità che l’attività di denigrazione e di falsificazione posta in essere dai soggetti attinti dalle dichiarazioni, al contrario, esalta e rafforza.

Attendibilità estrinseca. Riscontri. Valutazione delle dichiarazioni ai fini della sussistenza delle fattispecie associative.

Già si è detto delle sentenze dei giudici di Trento, che hanno ritenuto attendibili le dichiarazioni della Namsetchi in relazione alle rapine di Ravina e Aldeno.

Un’ulteriore premessa riguarda la certezza assoluta dell’assunto di base: effettivamente la Namsetchi e T. si conobbero nell’estate del 1990, effettivamente avviarono una relazione sentimentale; essa fu interrotta dall’arresto di T. e riprese successivamente alla sua scarcerazione (estate 1993).

Oltre alla corrispondenza in sequestro, oltre alle dichiarazioni di padre e madre della ragazza vanno registrate, al riguardo, le ammissioni dello stesso T., che nell’unica dichiarazione resa a dibattimento fissa la data dell’incontro tra i due al 12 luglio 1990.

Le dichiarazioni della collaboratrice vanno periodizzate, investendo due distinti archi temporali (estate 1990 - gennaio 1991; estate 1993 - autunno 1994), ed ulteriormente suddivise in dichiarazioni frutto di scienza diretta e dichiarazioni “de relato”.

Quanto alle rivelazioni riguardanti fatti e notizie del periodo 1990-1991, esse in gran parte riposano su quanto T., dalla ragazza appena conosciuto, le andava progressivamente raccontando.

Alcuni dei fatti riferiti dalla collaboratrice non sono stati riscontrati.

Poiché, peraltro, entrambe le circostanze riferite sono “de relato”, si deve concludere che T. abbia raccontato alla ragazza fatti non veri.

Risultano invece obbiettivamente riscontrate altre circostanze.

Quanto al secondo periodo (estate 1993 – autunno 1994), le dichiarazioni consistono:

– in notizie su reati comunicate da persone estranee agli stessi;

– in chiamata di reità concernenti delitti sulla scorta di notizie fornite dai presunti autori;

– in confessioni e chiamate in correità.

Va osservato che le notizie fornite da terzi alla collaborante (B. e la R. sarebbero stati responsabili dell’omicidio di un poliziotto; la R. con altri avrebbe ucciso un carabiniere; Bonanno e altri sarebbero stati implicati nell’eliminazione di tre guardie giurate) sono di contenuto talmente indeterminato da non avere alcun valore: non risultano a questo Giudice, infatti, atti d’indagine in merito, né esiti processualmente rilevanti.

Per ciò che riguarda le altre informazioni, relative a reati specifici, ribadito che la credibilità della dichiarante fu evidenziata in occasione del procedimento relativo alle rapine di Aldeno e di Ravina di Trento, si rimanda all’esame dei singoli reati.

Alcune precisazioni, peraltro, s’impongono con riferimento alle ipotesi delittuose in materia di reati associativi:

– le dichiarazioni accusatorie nei confronti di persone diverse da quelle imputate nei reati specifici sono troppo generiche per valere come risultanze probatorie;

– non si può fare a meno di rimarcare, al riguardo, l’evidente differenza del linguaggio che connota le dichiarazioni della ragazza nei verbali istruttori e nel dibattimento, laddove nei primi la Namsetchi è lucida, precisa e documentata circa i livelli e l’embrione di Struttura organizzativa del sodalizio, mentre nel secondo è incapace di fornire adeguata risposta alle domande più elementari, trincerandosi sovente in imbarazzati silenzi davanti alle contestazioni relative al nucleo “ideologico” delle sue precedenti dichiarazioni: tanto da dare l’impressione che locuzioni quali “livello occulto”, “compartimentazione”, “struttura associativa” siano del tutto estranee al suo vissuto.

Relativamente a Bonanno, B., S., T. e agli altri soggetti che la Namsetchi accusa di fatti specifici, le rivelazioni hanno una maggiore corposità, ma non forniscono prova dell’esistenza del reato associativo, dato che, attese le altre risultanze processuali, non può non attribuirsi un qualche pregio alla tesi secondo cui i delitti specifici (rapine, porto d’armi) siano la realizzazione di episodi che intese e non già la realizzazione del programma di un sodalizio criminoso.

* * *

Bonanno Alfredo Maria. L’imputato è stato riconosciuto responsabile del delitto ex art. 272 CP. L’estrema pericolosità manifestata da Bonanno, il suo indiscusso carisma individuale, la forza d’attrazione che le sue teorizzazioni, volte a suscitare continue azioni violente di eversione e a pianificarle, esercita su una pluralità di soggetti: tutti questi elementi impediscono che all’imputato, il quale pure ha accettato il contraddittorio, possano essere concesse le circostanze attenuanti generiche. Stimasi equo, valutati i criteri ex art. 133 CP, irrogare la pena di anni tre, mesi sei di reclusione. Seguono le pene accessorie come da dispositivo.

Dalla sentenza di secondo grado della Corte di Assisi di Appello di Roma del 1° febbraio 2003

Lo spunto investigativo che indirizzò le indagini nei confronti degli attuali imputati è nato da dichiarazioni dell’attuale imputata Namsetchi Mojdeh, della cui collaborazione già s’è dato atto nel trattare delle imputazioni per i delitti associativi.

In dibattimento, la predetta ha confermato che, durante la relazione intrattenuta fino alla fine del dicembre 1994 col T. (che l’ha confermata), questi le aveva confidato di essere un rapinatore, le aveva parlato di rapine.

È certamente attendibile, nell’ambito di un rapporto personale come quello accertato, che il T. abbia confidato alla donna anche proprie attività delittuose, tanto più che, come si vedrà nella trattazione di successivi capi di imputazione, egli giunse a farne la propria complice in alcuni gravi episodi delittuosi.

Sono certamente attendibili le dichiarazioni della Namsetchi quanto alle proprie condotte, all’indicazione delle fonti della propria conoscenza, ai contenuti delle dichiarazioni resele dalle proprie fonti, considerato l’atteggiamento di piena sincerità con la quale la medesima ha iniziato la propria collaborazione alle indagini e la propria uscita da un sistema di vita riconosciuto finalmente come inaccettabile; piena sincerità che l’ha condotta ad auto accusarsi spontaneamente, prima che sviluppi (che probabilmente non vi sarebbero mai stati) di indagini potessero prudenzialmente indurvela, di delitti anche gravissimi.

Anche per quest’ultimo motivo, è incredibile che la donna abbia potuto rendere mendaci dichiarazioni per rendersi strumento di una “montatura” da parte di investigatori del reparto ROS dell’Arma dei Carabinieri.

Non si comprende davvero in vista di quali personali “ritorni” – se non la prevedibile dura condanna ricevuta – avrebbe reso dichiarazioni con contenuto di auto calunnia.

Ciò senza contare che il preteso documento ad apparente firma del Tenente Colonnello del ROS Rosario Marimpietri, i cui contenuti dovrebbero delineare il “piano” del quale la Namsetchi sarebbe stata strumento, altro non è che un falso, una fotocopia, assemblaggio di brani di copie di documenti diversi, anche se l’autore non ne risulta ancora identificato, non essendone stati riconosciuti tali gli anarchici.

Ciò premesso in punto di attendibilità intrinseca della Namsetchi, va considerato che le modalità del fatto dalla medesima esposto si attagliano perfettamente alla rapina di cui qui si tratta (il particolare irrilevante della percossa senza conseguenze inferta alla vittima può essere dovuto a cattivo ricordo, o a vanteria della “fonte”) e che solo dalla voce di uno degli autori della rapina la dichiarante può avere appreso i particolari della zona e dell’epoca dove fu commesso il delitto, della qualità di farmacista della vittima e, soprattutto del deludente bottino.

Le dichiarazioni della Namsetchi sono, quindi, fornite di riscontro quanto alla provenienza delle sue informazioni dallo stesso T. e quanto alla partecipazione alla rapina di quest’ultimo, che non avrebbe avuto alcuna ragione di attribuirsi falsamente l’episodio dinanzi alla dichiarante.

* * *

Bonanno Alfredo Maria:

Non può essere accolta la richiesta di diminuzione della pena e concessione di circostanze attenuanti generiche. L’imputato, che già è stato condannato per delitto della stessa indole, ha subito altresì una condanna per rapina a mano armata, sicché i suoi precedenti giudiziari denotano una rilevante capacità a delinquere. Oltre tutto, il delitto del quale in questo processo è ritenuto colpevole è particolarmente grave in quanto commesso all’interno di un contesto ideologico specificamente ricettivo, idoneo ad esaltarne la pericolosità.

Ritenuta la penale responsabilità del predetto oltre che per il delitto p. e p. dall’art. 272 del C.P. per il quale è stato condannato in primo grado anche per i delitti di cui ai capi 20) e 21), esclusa l’aggravante dell’art. 1 L. n. 11/1980 n. 15, ritenuta la continuazione fra tutti i delitti e ritenuto più grave quello di rapina in danno della B.N.A. ag. 13, lo condanna alla pena di anni 6 di reclusione ed euro duemila/00 di multa (p.b. anni 4 e mesi 6 di reclusione ed euro 1.500,00 di multa, aumentato per capo 21) ad anni 5 di reclusione ed euro 2.000,00 di multa e, infine, per art. 272 del C.P. ad anni 6 di reclusione ed euro 2.000.00 di multa), con interdizione dai PP.UU. per anni cinque ed interdizione legale per la durata della pena.

Altri processi

Accusato di istigazione a delinquere e apologia di reato il compagno Alfredo Bonanno, assolto in primo grado dal tribunale di Catania, è stato condannato dalla corte di appello a 8 mesi.

I reati di cui risultava accusato nel processo di appello a Catania il 20 marzo scorso [1990], riguardavano le seguenti pubblicazioni:

– Su “Anarchismo” n. 55 - volantino riguardante il taglio dei tralicci dell’alta tensione, con i disegni esplicativi di come realizzare tutta l’operazione e dei mezzi necessari per portarla a compimento.

– Su “Provocazione” n. 8 - articolo riguardante il taglio di un traliccio vicino Crotone.

– Su “Provocazione” n. 11 - articolo dal titolo “La lotta contro l’Apartheid è lotta al capitale e allo Stato”; articolo “Esproprio proletario”; articolo “Creature notturne in tribunale”. Nel primo venivano indicate le società italiane che lavorano con il Sudafrica, nel secondo si parlava di un esproprio avvenuto a Milano in un supermarket, nel terzo di alcuni graffiti fatti di notte all’interno del tribunale di Milano.

– Su “Provocazione” n. 12 - Articolo dal titolo “Macchiamo ogni luogo di detenzione. Non lasciamoci rinchiudere”, dove si descrive l’imbrattamento con vernice rossa dei muri di un ospedale vicino a Milano dove si trovano lager per malati di mente. Altri articoli incriminati erano: “Sabotaggi a Gragnano” dove sono stati tranciati i cavi dell’energia elettrica con una ruspa; “Tralicci segati”, questa volta a Bologna; “Lotte sociali a Milano”, riguardante le occupazioni di case.

Il compagno Bonanno è stato difeso dagli avvocati Mellia e Venturino e ha presentato una nota difensiva che pubblicheremo sul prossimo numero di “Anarchismo” [cfr. n. 66, febbraio 1991, pp. 54-59].

 


[Pubblicato su “Provocazione” n. 24, giugno 1990, p. 3, col titolo: “Processo a Catania contro Alfredo Bonanno”]

Ancora processi

Dei diversi processi contro Alfredo Bonanno, in questi ultimi mesi se ne sono celebrati alcuni mentre altri sono stati rinviati o cassati dalla corte superiore. Per avere un quadro seppur approssimativo precisiamo alcuni elementi essenziali.

Il 20 marzo dell’anno scorso la corte d’appello di Catania aveva condannato il compagno a 8 mesi per la pubblicazione su “Anarchismo” di un volantino diretto a precisare alcune tecniche di taglio dei tralicci elettrici.

Questo processo è stato rinviato indietro dalla corte di cassazione in quanto la sentenza di condanna era carente nelle motivazioni. Il processo nuovo in corte di appello a Catania si farà in data ancora da precisare. [...]

[Pubblicato su “Provocazione” n. 26, febbraio 1991, p. 20]

Indagini

Procura della Repubblica di Firenze, Ordine di perquisizione n. 3138/94/21 del 19 novembre 1994, pp. 2.

A dispetto di tutto. Si sono presentati in cinque. Agenti della Digos di Firenze. La mattina di venerdì scorso, 25 novembre, neanche molto presto, verso le otto.

Una perquisizione al pettine stretto. Carte, carte, ancora carte; lettere, libri, elenchi di indirizzi, di Anarchismo, di Gratis e del settimanale Canenero. Poi hanno deciso di portarsi via anche i computer e i dischetti d’archivio. Insomma, tutte le parole scritte e telematizzate.

Ma cosa cercavano? Cercavano qualcosa in relazione agli attacchi contro la Standa di qualche mese fa. Non tutti gli attacchi di cui si è letto sui giornali, qualcuno anche recentissimo, ma solo quelli di Firenze e di Modena del primo luglio scorso, per come si può leggere sul mandato di perquisizione. Ora, è ovvio che non si incendia un grande magazzino, né con la carta scritta, né con un computer. Quindi i solerti funzionari cercavano, su mandato di un ancora più solerte giudice, ben altro. Connessioni, rapporti, conoscenze, frequentazioni, date, e quanto in genere si trova registrato sulla carta o sugli appunti delle agende.

Questo potrebbe significare due cose: primo, che non avendo trovato quello che cercava (congegni ed altro materiale incendiario), il dott. Ferrucci, magistrato che gestisce l’inchiesta, si quieti nel nulla di fatto, secondo, che dalla congerie di carte e appunti sequestrati, e dalla problematica lettura di milioni e milioni di bytes tragga ispirazione o per costruire una delle tante invenzioni teoretiche su organizzazioni, ipotesi progettuali e strutture piramidali. Per il momento, la fantasia dell’indagatore ci ha fatto sapere che si reputa di fronte ad una “frangia del movimento anarchico denominata ‘Anarchici insurrezionalisti’” e poi, in aggiunta, che i compagni indagati (a carico dei quali è stata emessa regolare informazione di garanzia) fanno parte del movimento anarchico “a livello dirigenziale”.

Queste due ilari considerazioni ci consentono alcune riflessioni. In primo luogo il dott. Ferrucci non sa chi sono gli anarchici e come agiscono, altrimenti non avrebbe parlato di “livello dirigenziale”; evidentemente la mattina in cui ha scritto il mandato di cui sopra si deve essere guardato allo specchio. In secondo luogo, non esiste alcuna struttura denominata “anarchici insurrezionalisti”, non essendo mai stata utilizzata una simile sigla nel corso di azioni come quelle che vengono poste in oggetto al mandato di perquisizione stesso.

Molti anarchici si definiscono insurrezionalisti, ritengono cioè che nella loro pratica di lotta il momento insurrezionale sia un’ipotesi fondamentale, non potendosi avere sbocchi insurrezionali concreti che non attraversino questa fase preparatoria e conclusiva nello stesso tempo. Ma questi anarchici non si identificano in una struttura organizzata, né ufficiale, né tanto meno clandestina, struttura quest’ultima che sarebbe una vera contraddizione in termini del concetto di insurrezione quale si è andato delineando negli ultimi decenni all’interno del movimento anarchico italiano e internazionale.

Non lasceremo che ancora una volta le illazioni di un magistrato ci trascinino all’interno di una ipotesi repressiva che in sostanza non può avere altro scopo che quello di bloccare la nostra attuale attività rivoluzionaria e in particolare la pubblicazione del settimanale Canenero.

 


[1994]

Marcello Monteleone, Procura della Repubblica di Roma, Mandato di perquisizione, 28 febbraio 1995, pp. 2.

Come galline impazzite... Beccando a destra e a manca le galline razzolano nell’aia. È difatti costume di questi animali non troppo intelligenti quello di andare un poco alla cieca alla ricerca del chicco di grano. Le galline, come tutti sanno, si spostano a caso, guardando alternativamente ora a destra e ora a sinistra, potendo vedere con un occhio solo. Così, sono in grado di osservare ad un dimensione: quella che il proprietario di turno suggerisce loro.

Oggi, 28 febbraio, carabinieri di Roma, su ordine del sostituto procuratore Marcello Monteleone hanno fatto una perquisizione a casa della compagna anarchica Emma Sassosi, sequestrando un considerevole cumolo di carte, il computer, oltre a indirizzi e libri vari sull’anarchismo. La motivazione prevedeva le accuse di cui l’articolo 497/74 (armi) e 270/270bis (associazione sovversiva diretta al sovvertimento dell’ordine democratico).

Sempre oggi, anche a Rovereto ci sono state altre perquisizioni a casa di sei compagni, dove sono stati sequestrati ancora una volta un considerevole cumulo di carte, computer, un giornale pronto ormai per la stampa e ancora una volta libri vari sull’anarchismo.

Infine, ancora a Rovereto, è stata perquisita la sede del centro sociale Clinamen alla ricerca di Alfredo Bonanno, di cui si è pretesa la domiciliazione presso il suddetto centro, in via Vannetti n. 2. Qui, carabinieri del Ros di Milano e di Roma, insieme ad altri carabinieri di Rovereto hanno sequestrato, ancora una volta, carte e libri. Il compagno Bonanno non potevano trovarlo perché, come le polizie di tutta l’Italia sanno, si trova per il momento a Firenze, partecipando alla redazione del giornale su cui appaiono queste brevi note.

Che dire? Non si riesce a capire dove vadano queste intenzioni vagolanti nel buio. Una logica potrebbero averla, e sarebbe la vecchia logica di impedire ogni tipo di discorso critico contro i detentori del dominio. E questa sarebbe una ulteriore prova di quanto le nostre argomentazioni disturbino il potere, facendo vedere aspetti e possibilità che invece taluni vogliono nascosti. In quanto alle motivazioni c’è semplicemente da ridere.

Nel testo redatto dalla procura di Rovereto si parla, come reato, della “costituzione di gruppi operativi denominati ‘gruppi di affinità’”», quando sui nostri giornali, da quasi quindici anni a questa parte parliamo di gruppi di affinità come strutture spontanee di lotta sul territorio che gli anarchici costituiscono per intervenire nelle realtà sociali.

 


[1995]

Procura della Repubblica di Cuneo, Mandato di perquisizione del 13 marzo 1995, pp. 2.

Un pezzo di corda rosso e blu. A Cuneo, un’altra serie di perquisizioni. Questa volta però la polizia, e altre forze riunite, hanno colpito nel segno. In casa di un compagno è stato trovato un pezzo di corda di colore rosso e un altro pezzo di colore blu. Riteniamo che finalmente i poliziotti siano sulla giusta strada. Ricordiamo infatti ai nostri non moltissimi lettori che in un’altra gloriosa perquisizione avvenuta in quel di Gaeta (di cui si fa cenno in altra parte di questo stesso numero del nostro giornale) è stato trovato un coltello a farfalla del tipo usato allo stadio di Genova per uccidere un ragazzo. Ora, dato che la maglia del Genova è di colore rosso-blu, la connessione è evidente. Come dire: elementare Watson.

In sostanza si tratta di una ennesima montatura dell’apparato repressivo che non trovando appigli se non nelle proprie invenzioni, cerca di reprimere tutti coloro che non si sottomettono all’ordine costituito.

Domenica 12 marzo, nel pomeriggio, era stata nuovamente occupata a Cuneo la cascina di via Torre Acceglio, che già aveva conosciuto due mesi di vita nell’ottobre e novembre dello scorso anno. Immediato il tentativo di sgombero da parte delle volanti accorse sul posto, reso però vano dalla resistenza sui tetti di alcuni occupanti. Poco più di dodici ore più tardi, cioè nella mattinata di lunedì 13, la cascina è stata sgomberata da un massiccio numero di guardiani che ha poi nuovamente provveduto a murare ogni entrata senza dimenticare di distruggere le scale.

Ma la faccenda non ha soddisfatto gli inquirenti che cercano di trovare altre scuse per perquisire i locali del Laboratorio anarchico locale. Il nuovo pretesto è un ordine della magistratura emesso nei confronti di soggetti, conosciuti agli sbirri come ribelli e non sottomessi, nei riguardi dei quali è scattata l’accusa di attentato incendiario contro la sede locale di Alleanza nazionale avvenuto nella notte tra il 12 e il 13 marzo 1995.

In effetti, a Cuneo, c’era stata l’assemblea pubblica di presentazione della campagna elettorale per le regionali di Alleanza Nazionale, svoltasi domenica 12 in un cinema cittadino abbondantemente ricoperto all’esterno (e in più riprese) di scritte ingiuriose, insulti e frasi contro il fascismo e lo Stato. Nella notte tra il 12 e il 13, invece, alcuni sconosciuti hanno fatto esplodere dei petardi contro la sede di An, causando un principio di incendio che ha richiesto l’intervento dei vigili del fuoco.

L’indagine della polizia e le relative perquisizioni sono scattate contro tre compagni anarchici assidui frequentatori del Laboratorio.

Al momento in cui scriviamo non conosciamo l’esito delle perquisizioni delle abitazioni, mentre per quel che attiene al Laboratorio, quest’ultimo è stato presidiato da un notevole numero di sbirri di ogni sorta, ma, essendo chiuso, e non ottenendo dagli altri anarchici accorsi sul luogo, le chiavi, gli sbirri hanno per ora rinunciato probabilmente in attesa di un ordine di scasso da parte della magistratura.

 


[1995]

PARTE TERZA

LIBER ASINORUM

“Non c’è niente di più pericoloso, di più feroce, di più spaventoso di una pecora impazzita”.

(William Ewart Gladstone)

Quello della porta accanto

“Cotesti che in ogni occasione sbrodano: ‘Noialtri semo de razza fina, semo li migliori! Semo al massimo del zervello, semo più ganzi, più furbi e più scafati e ce l’abbiamo anco più lungo’, l’intuito, se intende. Insomma, sto parlando degli imbecilli che è na razza tosta. L’imbecilli, loro che en ogne occasione so’ convinti de fa’ la storia! e se lazano addosso a ognuno che zonze de l’ dal fiume. L’imbecilli che no sanno ascoltare nullo discorso che no sia loro. L’imbecilli che battono le mane produchino desastri tremendi, ma nun s’accorgheno de nulla!”.

(Dario Fo)

Chiuso nella propria stanza il tormentato distruttore sogna l’azione.

Si gira nel letto, incapace di prendere sonno, appesantito dal pasto serale e dal bicchiere di vino in più. Non riesce a far quadrare i conti con la propria coscienza.

Che vita di merda, si trova a ripetere. Dappertutto incapacità e stanchezza, nessuno che sappia prendere l’iniziativa come ai bei tempi andati, quando si attaccavano manifesti ogni notte, e ogni giorno ci si ritrovava nelle sedi, o nelle piazze delegate, a discutere con fervore di figure mitologiche operanti sotto gli occhi di tutti: proletariato, borghesia, organizzazione, lotta.

Quelli erano tempi, quella era vita. Adesso c’è come un velo sulla retina.

Certo, gli armigeri rumoreggianti erano fastidiosi, con l’innesto dei loro riti asfittici. Colpivano per educare. Qua e là, soddisfacendosi dei ritaglietti stinti che collezionavano con cura. Oppure colpivano al cuore con magistrale chirurgia geometrica, contrapponendo la forza minoritaria delle armi alla funzione concreta esercitata dal nemico, sognando così di intaccarla nelle sue conseguenze. Prossimi morti essi stessi impartivano la morte. Eppure ci fu in quella somministrazione qualcosa di affascinante.

Rumori provenienti dalla porta accanto (forse un’altra cella? o, più semplicemente, l’appartamento del vicino?). Lo sciacquone dà segno di sé e fa capire che nemmeno lì si dorme tranquilli.

Gli armigeri ci avevano falsificato, riducendoci a relitti su scogli inanimati. Un pugno di dirigenti politici era riuscito a impadronirsi della grande fantasia di liberazione giunta quasi alla completezza di sé (quasi) e aveva recuperato le vaste acque tenebrose, prosciugandole, incanalandone i pochi resti in modo da acconciarle alla bisogna, all’uso che di esse la società del futuro avrebbe fatto.

Era il dominio della politica sulla fantasia del sogno, l’ordine regnante a Varsavia, per il momento clandestino, quindi morbosamente privo di luce, coperto dalla gloria dozzinale propagandata dal colore bruno delle rivoltelle, distorto dall’adrenalina necessaria ai pedinamenti notturni di pallidi ceffi della legalità regnante, riverniciato da una quotidianità di gesti puritani cristallizzata in atteggiamenti da obitorio.

Il distruttore, adesso, si è alzato per farsi un caffè. Pensa che dopo dormirà. Il sapore del caffè gli ricorda le fredde mattinate di una volta, la meticolosità della preparazione, le accorte distanze e le reiterate prudenze. Ora rimastica il niente.

Se quello del passato, che più non gli appartiene se non come codice e archivio, era un prodotto d’orologeria e, per essere altro, quindi vita e pulsare di cuori desiderosi d’azione, occorreva che venisse liberato dagli arcaismi che lo inchiavardavano all’archetipo del potere, quello di oggi, che gli appartiene, è solo rinsecchimento e sapore di caffè.

La vita è una busta

“Chi lava il capo all’asino, perde il ranno e il sapone”.

(Giovanni Cavalcanti)

La vita è una busta chiusa che non vogliamo aprire per paura di leggere quello che ci scrive il futuro. Preferiamo che l’ovvietà-bordello del giorno per giorno questa incertezza ce la fornisca a piccole dosi, miseria dopo miseria.

Chiudiamo ogni possibile spiraglio, leghiamo e ci facciamo legare dagli altri, con le misure che ci corrono dietro. Niente davanti a noi deve profilarsi con sufficiente determinazione, potrebbe disturbare le canagliesche meditazioni alle quali da tempo ci abbandoniamo.

Ogni discontinuità atterrisce, ci porta fuori dai ritmi della consuetudine e apre alla dissonanza. L’ordine garantisce che la vita, ridotta ai minimi termini dell’estrema asfissia, possa continuare nell’incubatrice della storia, povero residuo e palpito ultimo della rinuncia, sorella della morte. Eppure, anche quell’esile respiro è vita, la nostra vita, e ad esso restiamo attaccati come all’incantesimo rituale. Paurosi di fratture e scompensi, ormai adusi al rispetto dei nodi e delle evoluzioni leganti, costruiamo elaborati sistemi giustificativi e li sostituiamo agli spruzzi di sangue. Coltivare patate è sempre meglio di niente.

Poveri ninnoli tremano nella stanza dove si ripetono i passi di chi non riesce a prendere sonno. Il distruttore adesso è cheto come il culo quando si rade.

Cambiare il mondo lasciando le cose come stanno?

Ecco la domanda mai chiaramente posta da coloro che del porre domande, senza sapere dare risposte, si sono fatti una ragione di sopravvivenza. Il mito del passato aiuta a fare bene la propria parte. “L’asinità che tutto oscura”. (Gasparo Gozzi). Quello che abbiamo fatto si ingigantisce nella memoria e, in questa, assume aspetti epici. Abbiamo resistito alle lusinghe, abbiamo criticamente aguzzato le nostre armi, abbiamo colpito, abbiamo saputo colpire. Non solo noi, ma anche il contesto in cui operavamo, quello che in fondo legittimamente oggi possiamo chiamare “passato”, ci sottolineava il nemico, lo suggeriva, indirizzava la specificità di certi attacchi.

Come eravamo bravi nel resistenzialismo circoscrivente, unici senza titubanze, respiravamo aria pura. Suggerivamo la soppressione dell’esistente quando altri insistevano nella sua semplice modificazione.

Poi, l’onda che insisteva nel sollevare i nostri cuori al di là dell’ostacolo ripugnante cominciò a defluire, traslocando altrove. Altri mezzi andavano sottolineati ma per farlo, in epoca di deflusso, occorreva intelligenza, capacità che tanti davano per posseduta in abbondanza ma che, al momento opportuno, non riuscirono a trovare fra le cianfrusaglie di seconda mano con cui si erano baloccati nelle soffitte surriscaldate dalle tante inutili chiacchiere.

Rinunciare fu una forma di lotta apparente, adeguata alla specializzazione dei separati in casa che, non volendo più nutrirsi del cibo indigesto dapprima ingozzato nel desco comune del movimento, si scoprirono desiderosi d’altro, anzi gli unici in grado di altro desiderare. Intoccabili.

Il rinunciatario ha provato adesso a prendere in mano l’album dei ricordi. I vecchi amori si accalcano alla mente, si spintonano l’un l’altro, vogliono tornare a vivere, tutti. Privo del sonno riparatore, sogna a occhi aperti di tornare indietro nel tempo. Sono soltanto sogni.

La bocca di fuoco

“L’imbecillità è una miseria, la quale precipita verso le altre, ogni imbecille ha già perduto se stesso prima di perdere tutto il resto”.

(Alfredo Oriani)

I passi che prima rimbombavano nella stanza accanto, adesso tacciono. Il vicino sembra riposare. Accanto al suo letto un vecchio catalogo di armi da fuoco, sgualcito, pietrificato, riposa anch’esso per terra. Le pagine aperte lasciano vedere immagini di una P38.

La vitalità sopita pare risvegliarsi a causa della medicina universale. Ogni protesi ha qualcosa di salvifico e di terribilista. Per quanto minimo sia questo prolungamento d’acciaio, conferisce sicurezza agli ammalati di emottisi e certezza agli incerti. La bocca di fuoco parla.

Quando parla chiede che le sue parole siano sostenute dal cuore e dall’intelligenza di chi la fa parlare. Se, da questo lato, qualcosa fa difetto, le parole che pronuncia annegano nel traffico finto. Se dietro l’arma c’è un imbecille, l’esplosione riesce soltanto a dare l’impressione di una consistenza che non c’è, che non c’è mai stata. Più il coraggio dozzinale, quello del fare che si arrotola su se stesso, viene alla luce, e più l’ottusità scava nell’ipogeo e finisce per prevalere. Il fare diventa così giustificazione a se stesso e copre di consistenza l’imbecillità e il vuoto sottostanti.

Nel pezzo brunito, nel ferro che si stringe con appassionata convinzione, è una parte diluita del desiderio del capo, di quello che la protesi dovrebbe risolvere al posto nostro, dandoci quella forza che sappiamo ci manca. Ogni ridondanza della protesi rintrona nelle teste vuote di tanti imbecilli e diventa discorso sublimato di gregari in cerca della guida smarrita.

In fondo anche questa è politica, miserrima riduzione della ricerca del potere cosciente di sé. Cosa mai avrebbe dovuto fare uno Stalin, tanto per citare un esempio? L’ambigua atrocità del nulla, sul cui altare lo stupido crede di sacrificare alla storia, è spesso ancora più difficile a capire dei milioni di morti nei lager di ogni colore.

Quanti mancati venditori di enciclopedie si accalcano nei corridoi rancorosi della disillusione sognando impossibili avventure, micidiali distruzioni, cuori amputati dello Stato, ecc. Nelle loro teste vuote squittiscono le combinazioni delle casseforti del potere mentre pensano che il prossimo gesto, sia pure simbolico, costituisca l’occasione buona perché il numero magico esca fuori da solo.

Il risentimento

“Quando inventeremo finalmente delle maschere e dei camiciotti, per difenderci contro l’infezione micidiale della imbecillagine?”.

(Filippo Tommaso Marinetti)

Racchiuso nelle contorsioni dolorose del proprio stomaco debilitato dalla bile, il distruttore, che in altro tempo aveva aspirato alla conquista del cielo, adesso elefantizza miserrime vendette da pagliaccio. Non sapendo, o volendo, immergersi nell’odio reale, quello che esce allo scoperto e addenta le carni dell’avversario perché è questo avversario che lo sta opprimendo e togliendogli la vita, rendendosi conto, nello stesso tempo, che in fondo è proprio lui stesso il peggiore nemico suo, e che quello che agli altri attribuisce è solo frutto di debolezza propria, finisce per essere indulgente nei riguardi degli altri, indulgente nella concretezza, quanto spietato nel veleno della parola.

“Discorsi che suonano perfettamente imbecilli”. (Francesco Domenico Guerrazzi).

In quello che identifica come suo nemico verbale, l’oggetto accuratamente deformato di quotidiano vilipendio, non riesce a non trovare tracce dell’antico amore. Come ogni amante deluso, non si chiede in che cosa ha mancato, quali le illusioni che si era fatto, che sentimenti di accumulo e di acquisizione aveva messo in moto, tutte ritrosie all’apertura della coscienza del proprio essere qui, insieme all’amato, nelle cose da fare, non nella recriminazione che adesso sembra farlo affondare ogni giorno di più.

L’amore non corrisposto, perché se lo è negato, turba i suoi sogni, offusca la quotidianità dei suoi comportamenti, avvelena e ossessiona ogni sua sensazione, anche il gesto aperto di un sorriso, il segno amichevole della mano. Volendosi negare all’amato bene, ormai lebbra e tifo esantematico, nemico di sempre (cosa che non può essere perché contrasta con tutte le esperienze del passato), ha bisogno di ogni segno esteriore per rafforzare continuamente la propria irriducibilità.

Ansima nel sentirsi aggiogato ad un carro che non può non essere malformato (quanti disillusi, non appena si guarda attorno), è incapace di scuotere i legami che lui stesso ha costruito per reggere il proprio amore deluso. La crudeltà che esercita in questo modo su se stesso lo ferisce in modo invisibile, ma non per questo meno doloroso. Muto per anni, ha avuto da poco il dono della parola. Adesso parla, mentre tacque nei momenti in cui il parlare avrebbe avuto un senso, lo avrebbe avvicinato all’amato bene, avrebbe sollecitato quelle tensioni da innamorati che alla fine, vedendosi inaridite, hanno aperto ferite sulla sua pelle. Ma ha scelto un cattivo momento per le sue flatulenze, un cattivo uditorio, cattivi ascoltatori, cattive bestie, asini cattivi. Ecco che in questa bella compagnia la sua parola si è inaridita prima di uscire dalle labbra, si è trasformata in belato di pecora smarrita dall’antico gregge all’interno del quale si era, da sempre, limitata a chinare il capo.

L’avidità di sapere cosa fare, che prima soddisfaceva delegando a denti stretti – ma in fondo accettando e tacendo – adesso rimane inascoltata. Da pecora che era, tale è rimasto, solo che la richiesta di chiarimenti, di approfondimenti e, in ultima analisi, di azione, che prima indirizzava all’amato bene, adesso ha imparato a palleggiarla con gli astanti, acquisendo un nuovo talento, quello di parlare dicendo irrimediabilmente quelle stupidaggini che una volta il silenzio pudicamente copriva.

Certo, da qualche parte ha sentito dire che tagliando il cordone ombelicale con l’oggetto del proprio amore ci si sente più liberi, e fra la paccottiglia freudiana ha anche letto (il distruttore appartiene alla gente di letture pesanti, quanto indigeste) che per crescere bisogna, prima di ogni cosa, uccidere il padre. Ed ha messo mano al coltello. Ma, non sapendo uccidere nemmeno una pulce, che in fondo è persona d’animo minuto, di cuore e di braccio, insoddisfatta della vita e del proprio ruolo, anche quando tutte le condizioni del cosiddetto “impegno politico” sono state esaudite, ecco, non sapendo in fondo vendicarsi, si è lasciato invischiare nella propria melma malsana, nei propri desideri di liberazione, puri desideri, conati gommosi di libertà, stimoli velleitari verso una capacità che la mancanza di metodo e di conoscenza destina a restare tali, risultando così inferiore alla stessa vittima designata. Non ha sacrificato il padre, si è sacrificato da se stesso, portando alle conseguenze più naturali il proprio belare carico di rimorsi.

Un bisogno radicale infiamma la sua carne affranta. Si tratta della propria valorizzazione. Troppo tempo in anticamera, pensa disgustato. L’abnegazione, il sacrificio, l’apprendimento delle tecniche necessarie, tutto adesso deve essere fatto di corsa, non c’è più tempo per accettare i ritmi della cultura-imbroglio, escrescenza da eliminare. Non c’è tempo perché le cose maturino, se non altro a livello di mettere il carro dietro i buoi e non viceversa. Fare per fare, pensa nella propria testa vuota, tanto vale mettere il carro davanti ai buoi e poi si vedrà.

La corsa biliosa e corrodente contro il fare degli altri, che procede nell’ambito di un indirizzo assolutamente agli antipodi, causa stupidaggini sempre maggiori. Sentendosi comparsa vuole diventare attore. Arrivato sul palcoscenico, che lui stesso si è scelto con l’arroganza degli sprovveduti, si imbroglia nel dire e preferisce tacere, passeggiando poi dietro le quinte, con le mani dietro la schiena, mordendosi le labbra per punirle di non avere avuto il coraggio, e la chiarezza mentale, di dire quello che andava detto al momento opportuno.

Alla produzione di illusioni ha così dato il suo contributo. Il fatto è che il distruttore spesso preferisce illudersi usando surrogati piuttosto che aprire gli occhi e vedere con chiarezza i propri limiti. Il distruttore implora di essere ascoltato, non spiega la propria ignoranza, l’inconsistenza di fondo (e come farebbe a spiegarla?), vuole solo che il rimbombo di alcune frasi sconnesse, lette con voce da ubriaco, e scritte in un indecoroso smegma linguistico, venga alla luce. Il distruttore si pasce di rimbombi. Il suono netto e crudo non lo interessa. Potrebbe capire, sia pure in minima parte, quello che improvvisamente lo costringerebbe a soccombere.

L’identità

“L’uomo bestia ha poco intelletto, o usa poco della ragione (anco avendone assai facoltà) o per sbadataggine o per passione. Può essere o mostrarsi bestia in tale o tal altro caso soltanto con una parola, con una goffaggine d’inavvertenza”.

(Niccolò Tommaseo)

Quando il distruttore si sente mancare il terreno sotto i piedi ha due pensieri soltanto: il primo attribuisce la colpa delle sue sventure a quelli (che pensa) più intelligenti di lui, il secondo cerca un qualcosa che possa conferirgli una identità certa, qualcosa di “forte” beninteso, una identità in grado di salvarlo dalla decomposizione in vita.

C’è in fondo ad ogni guerriero un imbecille sonnecchiante che aspetta soltanto l’occasione propizia per venire a galla, bagnato di tutto punto.

La ricerca dell’identità è quindi un bisogno primario per il distruttore. Mai che rifletta sul fatto, abbastanza evidente, che la distruzione non può essere elevata a sistema, ma che è strumento per trasformare il mondo, non per gestirlo in base alle proprie necessità. Nel silenzio della propria stanza rimugina cosa può fare e vede nel fatto distruttivo, il quale ha parametri di significato tutti suoi, il mezzo per valorizzare se stesso, cioè per darsi uno scopo nella vita, per fare uscire la proboscide fuori dalla condizione di sudditanza, per “ragionare con la propria testa”, il che significa, in parole povere, ragionare per niente, non essendoci, per definizione, nulla nella testa del cercatore di identità. Il dito e la luna, vi ricordate?

La realtà per lui non è una cosa seria se non vista attraverso categorie consolidate dall’opinione. Allo stesso modo come un impiegato di banca è un uomo per burla (scrostando la vernice della routine non si trova nulla di umano in questo robot condizionato dalle procedure), così il distruttore si immagina l’impiego del fatto distruttivo. Una routine accumulativa, un rigurgito di pasti difficili, un crescere di strisce sul colletto, un incidere nuovi solchi sul calcio della pistola. Il suo cruccio maggiore è quello di procurarsi un posto panoramico per vedere meglio questa realtà di cui tutti parlano: il capitale, le sue trasformazioni, i processi dell’economia, le modificazioni della politica, la gestione del dominio, i luoghi in cui il potere si concretizza, gli uomini che lo impersonano. Tutto gli sfugge nel dettaglio dell’analisi. E come potrebbe essere altrimenti se non si è mai curato di darsi una preparazione, di cercare le radici della realtà, di approfondire, di studiare. Il posto di osservazione verso cui agogna è di straordinario prestigio, lui lo sa, ma sa anche che gli mancano le basi per fondare autorevolmente questo prestigio. Provvisto solo di esalazioni maligne, non sa nulla di nulla, ripete quelle quattro stravaganti interpretazioni che è riuscito a mettere insieme ascoltando con fare distratto l’odiatissimo saccente, mentre tacendo aveva l’aria di pensare a tutt’altro.

La sua identità è quindi nel fare. Ma il fare richiede intelligenza, non è affatto una strada sgombra, facile da percorrere. Gli stupidi infettano la semplicità delle cose.

Quindi l’identità deve essere forte, in grado di riempire tutti questi vuoti. La fonte di questa identità deve essere di natura organizzativa, aquila non montone. Proprio quello che gli manca in assoluto, cioè la luce critica necessaria a fare sì che l’organizzazione sia una forza e non un bastone con cui fare claudicare gli zoppi.

E, mentre che c’è, è bene che questa organizzazione sia rigida, forte, in grado di dichiarare guerra al mondo intero in nome delle idee confuse e artificialmente appetitose del distruttore, suo teorico e unico usufruttuario. Il tutto dà un’atmosfera intellettuale losca, con parole opportunamente scelte nel museo degli orrori, dove non aspettavano altro che la carità di una visita.

L’identità si costruisce così sulla base della rappresentazione. Un grande collage prende forma. Il distruttore è costitutore e utilizzatore di una protesi reboante, di cui non conosce a fondo né l’origine (di regola in territori giacobini di cui nemmeno sospetta l’esistenza), né la funzione (conquista del potere, di cui non saprebbe cosa fare).

Del fatto che questa identità, oggi come oggi, non abbia un senso quale che sia, non diciamo dal punto di vista rivoluzionario, ma proprio in generale, il distruttore non è in grado di rendersi conto. Indossato il suo cappello floscio da killer, se ne va in giro sospettoso come chi sta approntando tutte le cautele del mestiere, visto che del mestiere possiede ormai tutti i meandri più segreti.

Il

“Quanto mi sollievano, Niccola, questi afflitti e lassi della sua fortuna e morbo, quali tu vedi nudi, sauciati, in età stracca, inbecillissimi, sedere e giacere dove tu poni e’ piedi, e pregarti limosina e pietà”.

(Leon Battista Alberti)

Il distruttore ha una difficile coabitazione con il mondo e vuole metterlo a soqquadro. In fondo è una brava persona, desiderosa soltanto di non essere scambiata per quello che non è. Il problema ha risvolti atroci. Vediamo di illustrarli, anche in maniera impietosa.

L’angoscia di essere se stesso lo pone di fronte al morso della più assoluta nullità. Non c’è problema, per quanto semplice, che non lo trovi a raffazzonare il risvolto delle opinioni altrui. La propria ignoranza (perché, in fondo, di questo si tratta) non gli permette di avere non dico idee ma nemmeno opinioni proprie, cioè riflessioni critiche sulle opinioni altrui, per cui si accontenta di rovesciare queste ultime come un guanto. Di tale condizione miserabile è il primo a rendersi conto. Così frena a volte con difficoltà la tentazione di mettere la testa nel cesso.

Muovendosi nervosamente nella stanza, lontana ormai ogni speranza di prendere sonno, il distruttore si concede qualche riflessione di troppo. Litiga con se stesso, ovviamente per banali motivi. Riflette sui casi della sua vita e si chiede se è stato sufficientemente estremista, se non è scaduto per inavvertenza in qualche accenno di tolleranza, in qualche inconveniente di troppo: ad esempio un barlume critico. Il balbettio è compagno della solitudine.

E già, un barlume critico può capitare anche a un imbecille, solo che lui lo considera una debolezza, esibizionista e pasticcione com’è. Tutte le occasioni per riflettere le spreca nella smania di conquistarsi un posto nel terrazzo che si affaccia sugli accadimenti importanti (secondo lui) del cortile. A volte, i riflessi della vita lontana si fanno vedere fin dentro le anguste strettoie del cortile, dove il suo sguardo s’illude di distendersi all’infinito. Ma si tratta di qualcosa che richiederebbe un minimo di capacità analitica, mentre la sua testa non sa fare altro che accumulare rappresentazioni, segni indicativi di qualcosa d’altro, sapidi intrugli confezionati dal potere a sua insaputa.

La distruzione lo attira come la fiamma la falena, non è forse un distruttore? Azzerare il mondo è come una festa per lui, naturalmente nell’immaginazione e nelle rappresentazioni fantastiche che, di volta in volta, riesce a mettere insieme. Apocalissi in sedicesimo, un misto tra una cena d’addio al celibato e una serata in balera.

Al distruttore càpitano degli infortuni. Come per altro a qualsiasi imbecille, ma in lui questi infortuni sono occasione di superbia e di rafforzamento delle poche opinioni guazzabugliate che gli rodono il cervello. Mettiamo che nella tenebra dei suoi pensieri esprima il desiderio, conato dell’animo come tanti altri, di distruggere la società. Il fatto di per sé, restando nel limbo dei conati, è più che legittimo. Mi accade spesso di avercela col verduraio che mi ha fregato sul peso e vorrei strozzarlo su due piedi, poi, rabbonito dalla minuzia del problema, mi incammino verso casa. Per il distruttore è la stessa cosa. La società lo infastidisce come le api di Sansone, nebulosamente si rende conto di responsabilità e protervie, ma non essendo in grado di andare oltre questa cortina di fumo rappresentativo, cerca una qualche qualificazione nell’avventuroso dizionario degli aggettivi della cosiddetta sinistra e trova il termine “borghesia”. Eccolo quindi contro la “società borghese”.

L’esempio è massiccio, taglia l’erba alla radice, ma il nostro ignorante distruttore non sa che non esiste più una borghesia di cui vale la pena di parlare, nessuno gli ha detto che la vecchia contrapposizione tra borghesia e proletariato è ormai argomento per fumetti d’appendice, e che ben altre considerazioni andrebbero fatte sull’attuale divisione in classi.

Andando oltre, si organizza un quadro sommario, ma denso di ombre e foschie, di quello che pensa sia la posizione corretta contro il nemico di classe. Gli sta davanti l’apparato repressivo, in particolare la magistratura, la sua prima preoccupazione è quella di non avere rapporti con questo apparato. Il fatto di essere in ceppi è un sentirsi ostaggio in una tenebrosa caverna, non riconosce e non ammette che qualcuno tenga i capi di questi ceppi, non vuole ammettere l’esistenza di questo qualcuno, gli basta dare fiato alle corde vocali e quello, nella sua fantasia di distruttore, scompare.

Essere contro la messinscena giuridica gli basta come rifiuto formale, il suo cervello disagiato, alieno dallo studio della realtà, si soddisfa di formule e giaculatorie, non si rende conto che la lotta realmente distruttiva non può racchiudersi in una dichiarazione di purezza, ma deve intervenire nell’organizzazione di quelle forze che, nel fatto rivoluzionario, possono realmente attaccare e distruggere la repressione o, almeno, ridurne considerevolmente le capacità operative.

Non si rende conto e di questo suo non rendersi conto fa baluardo e bandiera. Ogni atteggiamento chiarificatore, perfino il semplice elenco degli imbrogli che la repressione attua per condannare, per costruire quelle montature su cui è tanto addestrata, scatena la sua idiosincrasia mettendolo a disagio. La sua forza è quella di guardare a muso duro, sgarbatamente, la controparte e tutti coloro che cercano di fare capire a quest’ultima gli errori che sta commettendo, denunciando i limiti e le storture nell’applicazione delle stesse regole che i gestori del fatto repressivo si sono date. La gelida risposta di estraniazione gli basta, per lui è questa la distruzione, il chiamarsi fuori, l’allontanarsi con nevrotico atteggiamento di schifo. Come tutti i monomaniaci non ammette che altri possano pensare possibile un diverso percorso, non ammette che ci possano essere altri modelli organizzativi di attacco e di coinvolgimento delle masse. Per lui quest’ultimo aspetto è del tutto inaccettabile. L’asino ha un’idea tutta sua della realtà.

In vitro

“Nemmeno il timore genericamente detto può essere vincolo più forte per convincere gl’imbecilli”.

(Giambattista Vasco)

C’è sempre necessità di chiarire problemi di metodo. È sempre importante studiare quello che si può fare e separarlo da quello che non si può fare al momento e che è bene cercare di realizzare in futuro. Infuriasi su tale necessità è sempre fuor di luogo.

Questa scienza concreta si chiama organizzazione rivoluzionaria e non accetta improvvisatori o microbi velleitari. Se questi si affacciano al suo interno, ed è destino che accada quasi quotidianamente, visto che il distruttore è modello di sfumature quasi infinite, ricco di esemplari a non finire, è bene che vengano smascherati. In fondo il distruttore è un bravo ragazzo, perfino quando, messo con le spalle al muro dalla propria stessa ignoranza, mostra fuori dal letame il dente avvelenato in un ultimo ghigno di stupidità. Bravo ragazzo e rivoluzione non stanno insieme. Sono un binomio indigesto.

I conati in vitro, quando non hanno esplicitamente uno scopo metodologico da chiarire, funzionamenti e avvii di processi più ampi, diretti alla generalizzazione dello scontro, cioè al coinvolgimento insurrezionale di più o meno ampie fasce di popolazione, sono soltanto esercitazioni per spiriti disillusi che nel loro stesso fare, in vitro, cercano una propria identità, non tanto la realizzazione di un attacco che arrechi davvero danno al nemico. Le afonie, i giri di parole, i singulti angosciosi, gli appelli idolatri ai princìpi santi dell’anarchia, il riprendere nelle proprie mani il filo della tradizione rivoluzionaria caduto nell’oblio, sono tutte escrezioni che mi mettono in imbarazzo.

Se ho qualcosa da proporre, questo è possibile solo se ho qualcosa da fare, e questo qualcosa da fare voglio sottoporlo al vaglio dei compagni per verificare se lo si può fare insieme (quindi allargando il senso rivoluzionario del mio voler fare qualcosa). Se la risposta è negativa, cioè se la mia proposta (di quel qualcosa che voglio fare) non è accettata, io sono sempre in grado di fare da solo quello che voglio fare. E questo senza perdere di vista che quello che voglio fare è un modello in vitro, qualcosa che a me serve non tanto per illudermi di distruggere il nemico, e forse nemmeno solleticarlo, che sarebbe follia analitica, quanto di verificare che è possibile attaccarlo, in un certo modo, ricorrendo a certi mezzi, colpendo certi obiettivi. E questa verifica ha una sua logica solo se è leggibile da parte degli altri, di tanti altri che a prescindere dal loro essere compagni subiscono le conseguenze di quello che l’oggetto del mio interesse distruttivo causa loro.

Le subitanee apparizioni di fantasmi risuscitati, gli incrollabili convincimenti di integrità ideale affidati a sconnesse parole raccomodate insieme, la balbuzie delle analisi, lo strabismo degli effetti presi in considerazione, come i rantoli di cadaveri immaginari e i ringhi di belve di cartapesta, non mi interessano.

Non sono ostile per principio a strumenti che possono avere la loro efficacia, circoscritta ma a volte indispensabile. L’organizzazione specifica armata è uno di questi strumenti, ma bisogna reinventarsela sempre di nuovo, perché di nuovo essa deve venire alla luce adeguata alle mutate condizioni dello scontro. Non ho bisogno di antenati a cui cedere la parola, e lo dico qui in tutta buona coscienza essendo stato anch’io uno di quegli antenati, ma sempre dalla parte critica, contro ogni involuzione di tipo quantitativo, e fin dal primo momento del baluginare di questa involuzione, quindi in tempi non sospetti, e avendone vissuto tutte le esperienze, anche quelle che più giovani compagni oggi non possono trovare sui libri perché si tratta di questioni di pelle, sensazioni che provi faccia a faccia con individui in carne e ossa, non teorie che vengono riassunte in dichiarazioni di principio o rivendicazioni da operetta.

Ed ecco che narri da mattina a sera
le infinite prodezze
le espugnate fortezze
i feroci duelli
di nemici macelli.

La solitudine del distruttore

“A sostenere i vincoli della natura non rimaneva che l’onestà e la sensibilità, sussidi per verità potenti ed efficaci per le anime ben fatte, ma fragili per gl’imbecilli”.

(Gian Rinaldo Carli)

Dibattendosi con i suoi fantasmi il distruttore è solo, pretende di tradurre intenzioni altrui, ma in fondo dialoga con se stesso, e poiché nella sua testa ci sono solo riflessi delle cose, ombre che si aggirano in un mondo di tenebre, non può che imbrogliarsi da se stesso. Tutto ciò genera una forma di nevrosi che fa scambiare la finzione con la realtà, imbrattando ogni critica.

A poco a poco il distruttore vive in un mondo tutto suo, dove fastose testimonianze del passato e miserie del presente si convertono le une con le altre producendo tranquillamente uno straordinario connubio onirico. La sua iperattività fantastica si traduce quindi, capovolgendosi nel suo esatto correlato, in una lamentosa indolenza. Gli ripugna specificare un progetto (e cosa ripugna di più di quello che non conosciamo, quando ripugnare può essere sinonimo di avere paura?), ha una diffidenza atavica contro tutti coloro che minacciano di svegliarlo dal suo sonno dogmatico, di parlargli all’orecchio in termini realmente progettuali, quindi organizzativi. Tutti costoro lo infastidiscono come di chi volesse correggergli il dubbio modo di scrivere le sue elaborazioni da ubriaco al bar. Nel cilindro da prestigiatore conserva soltanto conigli bianchi e li tira fuori con gesto generoso, facendoli squittire come topi in trappola.

Si offre così agli estranei e agli sprovveduti come il sostenitore della peggiore fatica, il capro espiatorio delle altrui congiure gravide di pericoli, il candido propugnatore della correttezza rivoluzionaria sommerso dalle oscure intenzioni di mestatori e politicanti padri di tutto il male possibile. Naturalmente, gli astanti ridono, passandosi come gustose barzellette le sue opinioni di seconda mano riverniciate con gli stinti colori degli anni Settanta, ma lui non se ne accorge, è troppo stupido per leggere tra le righe, è troppo pieno di sé per accettare critiche avversatrici, è troppo nevrotico per alzare gli occhi al cielo ed accorgersi che oltre al dito c’è anche la luna.

La disgregazione ideologica ha cancellato tutto un passato di tentativi, e anche di sudiciume, di slanci generosi, ma anche di bieche scelte politiche fatte sulla pelle di tanti compagni morti. Il distruttore non se ne avvede, egli sonnecchia in una fase preculturale. Il più delle volte il suo è un animo profetico messo al servizio dell’imbecillità. Ha il tono di chi legge le carte, più che di un attento analizzatore della realtà che vuole combattere. Come una buona chiromante predice il futuro e stabilisce quello che farà e poiché non gli costa nulla predice anche quello che faranno gli altri, perfino il modo in cui il nemico riceverà quello che verrà fatto: naturalmente avvertendone i colpi e mettendosi a pancia in aria (per sbellicarsi dalle risa, questo è ovvio).

C’è qualcosa che il nostro

“I leoni s’ostinano a belare. Dirò una bestialità, ma per me l’ingegno lo danno gli studi, e prima degli studi la felice disposizione degli organi”.

(Giuseppe Giusti)

C’è qualcosa che il nostro ottenebrato distruttore condivide col nemico, da cui mantiene opportune distanze costantemente sottoposte a manutenzione. Si tratta della mancanza di humor.

Di per sé parrebbe evidente che certe panzane non possono avere altro esito che le risate. Ma non è così.

Trattandosi di cose che tutti riconoscono come inesistenti, foruncoli mentali, puri fantasmi agenti nel palcoscenico delle vanità umane, tutti si astengono dal ridere perché ognuno vi ricava qualcosa a poco prezzo visto che i fantasmi non costano nulla.

Il distruttore si sente artefice di un agire concreto, malgrado i suoi bisbigli si vede nelle vesti del demiurgo che trasforma la realtà a sua immagine e somiglianza, cioè distruggendola mentre sta facendole il solletico (nel migliore dei casi, quando non si limita a infastidirla con il pungiglione delle parole). Il repressore si sente attaccato con poca preoccupazione, per cui ricorre ai rigidi maneggi del codice per colpire qualcosa che non meriterebbe altro che quattro risate in osteria. Ma i pubblici ministeri non frequentano osterie e, di regola, non sono accondiscendenti all’umorismo.

Che non ci sia modo di potere ridere in santa pace per quattro strampalate considerazioni è veramente triste. Un discorde vociare sembra coprire le poche valutazioni acconce. Fra queste ultime primeggia quella di “due ubriachi al bar”, insuperabile per stringatezza anglosassone e capacità di giudizio. Ma sembra essere passata inosservata. Può una serie ininterrotta di scemenze suscitare un discorso coerente, un minimo di riflessione in pertugi e stamberghe? Certo che non può, però riesce a scatenare altre considerazioni, e da queste occasioni partire per considerazioni ulteriori, e via all’infinito, dove il cachinno originario del distruttore scompare come una nota a margine, un pigolio di passero smarrito, altro che trombettiere della prossima rivoluzione.

Inutile attendere esplosioni di risate, dappertutto il serioso intento di “spiegare” e di “spiegarsi” sembra essersi preso il campo. Le magnifiche sorti della rivoluzione sembrano tutte in tasca a ogni parte che l’altra sogguarda con sospetto. Ognuno pensa che la coerenza sia andata a farsi fottere, ognuno aguzza i propri occhi miopi per vedere il pelo dove si trova, annunciando a suon di trombette fragorosi decessi di puritane vite condotte in ascetico solluchero fino a quel momento. Occhi affossati, volto pallido, ognuno trascorre i suoi giorni fra tempeste e invettive che fuoriescono dai corridoi opportunamente ingigantite. Chi è pratico di queste cose sa che si tratta di procelle passeggere, di battaglie non guerreggiate se non per via d’inchiostro, di sospetti adeguatamente calamitosi ma in fondo risalenti all’epoca in cui tutti minacciavano nessuno e viceversa.

Ad animos permovendos

“Miser chi male oprando si confida
ch’ognor star debbia il maleficio occulto”.

(Ludovico Ariosto)

Scavando nei pregiudizi correnti si capisce che ci sono ignoranze diffuse, dettagliate oscurità, riottosi capricci e, in fondo, anche ferite disvelate. Voglio dire che dietro questa fiera delle vanità, dove ognuno recita il suo numero d’alta idiozia, c’è una pelle lacerata. Il distruttore, mugugnando e slanciandosi impetuosamente, tragico e pallido spettro, con la voce rotta, contro le indegnità di coloro che possono e non fanno, e che quindi sono emanazioni del diavolo, rimpiangendo il buon tempo andato (come qualsiasi vecchietto sull’orlo della pensione), si dilacera la pelle. Non sa scrivere appelli alla coerenza, quando ci mette mano è meglio lasciar perdere, non sa redigere epitaffi, vorrebbe tanto scolpirne qualcuno, ad esempio alla lotta armata, ma non ci riesce. Si lacera l’anima nel trovare il giusto tono asseverativo, ma i risultati sono soltanto ridicoli. Finisce per avercela col mondo intero, anche con se stesso.

Poiché detesto i queruli che si lamentano ma non osano fino in fondo, il distruttore, sotto questa veste di tagliatore delle proprie carni, mi fa schifo. Sono abbastanza ragionevole con i lamentosi in genere, con i recriminanti e relativi problemi peristaltici, con tutti quelli che il destino ha punito non concedendo la volontà di provvedersi di mezzi adeguati ai loro desideri, sono perfino paziente con frequentatori d’acquasantiere e con blasfemi, ma non vado più in là. Mi infastidiscono gli occhi acquosi di chi mi fa vedere il sangue delle sue ferite, le mani adunche di chi mi chiede conto di quello che fino a ieri prese in abbondanza, la bocca sdentata di chi vorrebbe mordere e non ci riesce, la parola che vorrebbe essere ardente ed è soltanto suasiva, allusiva, infervorata, oziosa di particolari, remota, incompetente.

Non amo chi mi sollecita all’impegno, a qualsiasi impegno. Non amo gli angosciati e gli avvertiti dei guai del mondo, non amo i vigliacchi e nemmeno i coraggiosi per ottusità del pericolo, non amo i sillogisti che mi mettono con le spalle al muro in base a una logica che non accetto, non amo i discriminanti, i casti, i disapprovanti, i corrucciati, non amo gli ecclesiastici travestiti, i moralisti e i responsabili storici, non amo chi si è tratto sulle spalle la pena dell’umanità intera rotolandosi sui pianciti dell’averno, non amo gli avvoltoi e gli adoratori di archetipi, non amo i grassatori di sintassi, non amo i redattori di comunicati e documenti, non amo gli iracondi che fanno di tutto per non farsi notare, non amo i deplorativi e i seminaristi, i manipolatori di catastrofi, non amo gli indifferenti ma nemmeno i convulsionari, i compagni d’asilo, gli entusiasti che aspettano il diluvio universale e in quest’attesa sollecitano gli altri a fare qualcosa, cioè la cosa di cui solo loro possiedono la ricetta.

Non amo le richieste perentorie, gli imperativi che vogliono persuadermi, l’onestà come condimento della coerenza. Non amo i titillanti in attesa di eccitazione, i dilazionatori, ma nemmeno gli affamati di giustizia perché di loro sarà il regno a venire, quale che sia. Non amo gli estensori di testi oltranzisti, la retorica non ha mai turbato i sonni di nessun tiranno, non amo i rivendicatori, i “l’abbiamo fatto noi”, non amo il sentirmi far parte di un qualsiasi “noi”. Non amo gli esprimenti, trovo sempre qualcosa che non hanno voluto esprimere, non amo gli impressionanti, anche loro mancano proprio di quello che avrebbe dovuto impressionarmi. Non amo i fustigatori dei costumi, i timorosi della corruzione, chi vorrebbe in galera tutti i ricchi e chi li vorrebbe fucilati in massa. Non amo i tristi massacratori di qualsiasi tipo. Non amo gli impetuosi, gli ovvii, i cercatori di consensi, gli schierati e i rischiarati.

Amo i discorsi propositivi, anche critici, amo l’invettiva, fondata, capace di ferire ma di indicare i limiti e i possibili sviluppi della posizione di chi colpisce, amo l’azione, non la titubanza che si schernisce o il ricordo nostalgico (anche di ciò che ho vissuto personalmente), amo la vita non le chiacchiere.

Quello che si è e quello che non si è

“Imbecille è chi non si può reggere da sé”.

(Guido Salvini)

Il distruttore vorrebbe essere un intellettuale ma non lo è. Si atteggia ad esserlo e, in questo atteggiamento, c’è tutta la frustrazione dell’impotenza e dell’ignoranza. La cultura lo affascina e, nello stesso tempo, lo mette in sospetto. Sa che l’intellettuale secerne ideologia come la capra palline di merda, e ha nebulosa cognizione di che cosa possa mai essere questa ideologia di cui ha tanto sentito parlare in maniera negativa. Sa che il combattentismo armato è frutto di questa ideologia, ma ignorandone le origini, le concrescenze tumorali e la triste sorte conclusiva, si illude di poterne ereditare le sorti progressive. Ma, empia sorte, non possiede i mezzi per attuare questo programma, nemmeno trattandosi di un simile pezzo d’antiquariato ha i mezzi per attuarlo. Si fosse trattato di qualsivoglia altro programma, perfino quello delle marmotte disneyane, non avrebbe avuto la capacità di attuarlo, cioè di rifletterci sopra con mezzi analitici. La verità, comica anch’essa, è che il distruttore è un ignorante, e quando non è un ignorante nella sana accezione del termine, è un imbecille.

Egli si rende conto di questa impossibilità e quindi scatena i suoi istinti più bassi contro chi intellettuale lo è, entrando in questo modo in una insanabile contraddizione. La prima conseguenza di volere essere qualcosa che non si può essere (un tragico travestimento), molto comica, è stata sottolineata da tempo. Il volere essere si affanna ad essere ma non è, né mai sarà in quanto nel suo continuo divenire, muovendo verso quell’essere che non è, si presenta come qualcosa in corso di avvicinamento, soltanto questo. Tormentato, sbranato, arrotato. La seconda conseguenza, anch’essa comica, è che questo stesso avvicinamento, nel caso specifico del distruttore, non è nemmeno possibile in quanto gli manca la materia prima: quella cultura di cui è carente.

Ora, la condizione prima del voler essere è quella dell’apparire. Non importa se non si è. E la coscienza del non essere quello che si vuole che gli altri sappiano non è mai messa a tacere del tutto. Ma alcuni si soddisfano del semplice fatto che l’apparenza appaia provvista di nobili spalle coraggiose e, in un eccesso d’anima, il resto è tutta questione di muscoli.

C’è chi si contenta di sbraitare in piccole conventicole di imbecilli, nell’ambito delle quali le sue parole (bava alla bocca) risuonano conforto a se stesse, perché come quelle dell’incantatore rimbombano nel vuoto delle teste ascoltatrici, e c’è chi vuole che i propri sussulti d’animo e imbarazzi di stomaco siano affidati alla carta: parole scritte non abbaiate.

La guerra di classe, lo scontro reale, sullo sfondo, viene così mimato comicamente nella pantomima d’un comunicato. L’obiettivo è impressionare apparendo impressionanti nell’oscurità dei motivi. La reale condizione di chi parla si dissolve nello scontro anacronistico dettato dalle attese di chi ascolta. Lo psicodramma è completo. Armati di tutto punto, i concetti più bislacchi e obsoleti entrano in campo e vengono animati dalle mani del puparo. Quanto ci si rammarica di non avere buoni atterraggi sui grandi mezzi d’informazione! Perfino questi ultimi, difatti, prima di concedere udienza hanno bisogno di fatti, e tanto più questi fatti saranno eclatanti, tanto più facilmente quell’udienza verrà concessa. Agli imbecilli poco è concesso perché perfino la merda pubblicistica si rende conto di avere a che fare con pagliacci e burattini, non con uomini veri.

Chi non è, mima l’essere e se ne rode. Per questo motivo il pagliaccio si carica di belletto. Ha bisogno difatti di ingrossare i propri lineamenti: le labbra rosseggiano tumefatte, gli occhi escono fuori dalle orbite imbiancate a calce, tutto il corpo fiammeggia nell’indumento sgargiante della scena. I sentimenti del pagliaccio sono commisurati alla grandiosità che non c’è, ma che deve apparire. I gesti si allargano allusivi di una consistenza orfana, abituata a navigazioni ignote. Il pagliaccio non riflette e non fa riflettere, porta con sé, commuove gli animi semplici, esalta i fatui e gli stupidi, i quali scambiano quella tragica farsa per qualcosa di vero e vi si immedesimano non avendo altro a cui aggrapparsi.

A volte qualcosa si

“Tralascio qui di parlare degl’infanti e degl’impuberi, de’ vecchi imbecilli e rimbambiti, de’ mentecatti e altri stupidi”.

(Pietro Giannone)

A volte qualcosa si è, modesta cosa, per carità, ma rispettabile nel suo essere progetto capace di sviluppo e di coinvolgimento. La concretizzazione piccola, restando nell’ottica dell’attacco, è movimento dell’animo prima di tutto, coscienza fattiva che si riflette nell’azione e nella quale trova motivazioni di sviluppo, più che di emendamento.

La misura di quello che si è, per gli imbecilli, si differenzia da quello che si vuole apparire, grazie al fatto che continue indicazioni rappresentative vengono inviate all’ascoltatore. Un imbecille, per andare avanti, abbisogna di dosi sempre più massicce d’imbecillità. Come il drogato incrementa la protesi a cui ricorre, quale essa sia, così l’imbecille ricolora la spudoratezza di quello che pensa e che dice, sempre per soddisfare il bisogno dell’apparire.

Ma l’imbecille è un imbecille, e questa sua condizione pietosa dell’essere non può non pervenire alla sua coscienza. Io sono convinto che l’imbecille sa quello che è, almeno in parte, quindi egli sa di essere l’ombra di una cometa annunciatrice di sciagure. E questo essere quello che è gli duole, non può non dolergli, in quanto in ognuno di noi c’è lo stimolo a migliorare, a idealizzare modelli di comportamento, a cercare di farli propri.

Solo che l’imbecille ha una povera fruizione concentrazionaria di tutto questo, mentre la persona attivamente intelligente, l’uomo che cerca di diventare quello che è semplicemente guarda verso quei modelli per costruire strumenti da utilizzare nella propria vita, per darsi capacità che non possiede, realizzare approfondimenti che non è mai stato in grado di fare. E tutto ciò non per diventare qualcosa di diverso, ma per fare fiorire quello che è, per farlo finalmente venire alla luce.

Nessuno sfugge alla maledizione di Parmenide, solo che coloro che la subiscono da stupidi si immaginano di scardinarla per essere quello che non sono, per cui si dibattono nelle strette della propria imbecillità, gli altri cercano di crescere dentro quella stessa maledizione, finendo per essere quello che sono, senza infingimenti.

L’alba ai vetri

“Una specie di Rodomonte villereccio, pieno d’asinità e avido d’onori”.

(Gabriele D’Annunzio)

Un biancore diffuso ha illuminato la stanza a poco a poco. Il distruttore si guarda attorno come un leone in gabbia. Le sue energie sono tutt’altro che affievolite da una notte insonne e dall’assenza di demolizioni. Niente può abbattere la sua indistruttibile fibra di distruttore.

Apre la finestra. A torso nudo, incurante dell’aria pungente, comincia ad allargare le braccia con ampi movimenti sincronici. Il distruttore è ancora robusto anche se i suoi peli si sono abbondantemente imbiancati. Per anni ha ripetuto questo rito mattutino cercando inconsciamente di dare al corpo quello che non è mai stato in grado di dare alla mente.

“Ecco qua quel pezzo d’asino, il quale volesse Dio che fosse un asino intiero, ché potrebbe servire a qualche cosa”. (Giordano Bruno).

La sua vita è stata tutta di corsa. Sempre desideroso di andare avanti è rimasto ridicolmente al palo. La realtà gli sfila davanti con i biancori dell’alba ed egli continua come uno spaventapasseri ad agitare le braccia.

Com’è stato possibile che un uomo come lui, dotato di forza di volontà e decisione, non abbia avuto gli opportuni riconoscimenti da parte di tutti? Perché è rimasto un povero disgraziato costretto a sopportare genuflessioni incredibili e anni di carcere, mentre altri raccoglievano allori? Ci deve essere l’opera devastante di qualcuno. Un essere potente e remoto, un mestatore segreto capace di imbrogliare tutti, di tirare i fili di un progetto egemonico mondiale, in un gioco che inafferrabilmente controlla e governa.

Man mano che i movimenti delle braccia si intensificano i polmoni si allargano e il distruttore respira a pieno. L’ossigeno entrando a fiotti nel suo organismo lo esalta, lo euforizza. Il distruttore ha l’impressione di rivivere, modificati, eventi del passato. Ogni errore gli appare adesso come un comportamento eroico. L’avere aggredito perché incapace di capire cosa stava succedendo lo gonfia d’orgoglio. Un nemico è sempre un nemico. Cento guai ha causato con la sua incapacità, ma adesso quei guai, grazie all’aria fresca, li vede come aggiustamenti di errori altrui, sollievi accordati, interventi magnanimi di benefica abnegazione. La sua balbuzie intellettuale, che lo ha da sempre emarginato in ristrette possibilità di lotta, sistematicamente deluse, adesso è slancio lirico intuitivo, certezza di sfumature che lui solo ha saputo cogliere. La bile del passato, per le tante delusioni, ora è sangue veloce nelle vene.

Ma l’ossigeno ha altri effetti, gli fa vedere con tratti sempre più oscuri il suo nemico. Dell’antico amore nessuna traccia. Il distruttore abbatte e ripristina al semplice gesto della sua bacchetta magica, cioè della propria incapacità di capire. Essendo prima di tutto un imbecille, pensa che anche gli altri siano imbecilli e cucina per tutti gli stessi pastoni indigesti.

Un grande costruttore politico comincia a disegnarsi nella sua mente, un architetto misterioso, agente nell’ombra delle quinte, con ogni capacità che al povero imbecille manca. Lui, che si è sacrificato con continui pellegrinaggi e anni di galera, adesso grida con quanto fiato ha in gola contro chi riassume come causa di tutti i guai. Lui, poveretto, è innocente di tutto, perfino della propria imbecillità, l’unico colpevole è l’uomo nero che agisce dietro i veli dell’intelligenza e della cultura. Facendosi forte di questi mezzi, per il povero infelice inconcepibili, ma di cui si sente in un certo senso defraudato, l’infame cerca di controllare tutto quello che è controllabile.

Com’è possibile tanta scelleratezza? Il distruttore s’infiamma d’indignazione. I suoi polmoni pompano aria e la sua testa vuota rintrona per le mille suggestioni di un organismo sovreccitato. Dobbiamo cercare di capirlo. In fondo in fondo, nel proprio microcosmo, il poveretto ha un cuore di coniglio. Quando andava col vento in poppa, per la sponsorizzazione altrui, cioè – per dirla franca – quando continuava a fare stupidaggini (come qualunque imbecille di questo mondo) e qualche angelo protettore stendeva su di lui le ali paterne, si sentiva tremare tutto, e non certo d’indignazione ma di vergogna. Ora si accorge della propria miseria e non ha, guardandosi attorno, che imbecilli come lui che possano garantirgli un minimo di copertura. È ovvio che un imbecille non può fidarsi di altri imbecilli.

Ciò lo getta in un baratro di frustrazione. Sogna le braccia forti dell’amico carismatico che lo sorreggevano, ricorda gli occhi scuri, brillanti nelle tenebre, che lo guardavano, indagatori ma anche capaci di dargli la forza consolatoria della comprensione. Ora quelle braccia non ci sono più, l’ombra della morte le ha cancellate per sempre. E nello stesso momento lo château flamboyant dell’ego distruttore si è avvilito nella commiserazione. Il destino ha chiuso il circuito dell’amicizia protettiva e il povero imbecille si è trovato solo, ringhioso e disfatto.

Sulle prime l’onda dello sconvolgimento gli ha suggerito idee grandiose e non un tributo di riconoscenza. La sua povera animuccia ingenua voleva elevarsi al rango non di sua competenza, al luogo del gesto e della certezza che per anni aveva contemplato succhiandone il carisma come la mammella della madre. E fu un momento di ubriacatura. “Colpito da completa imbecillità”. (Ippolito Nievo). Io, solo io, si disse l’imbecille gonfiando i pettorali alla veloce brezza del mattino, solo io posso raccogliere l’eredità, portare a completamento il lavoro interrotto, ricavarne i benefici che spettano a chi della propria vita ha fatto dedizione assoluta.

Che il primo di questi supposti benefici, una persona in carne e ossa – persona seria come poche – si sia limitato a sputargli in faccia non è stata che la prima delle disillusioni, e nemmeno la più cocente. Avvoltolandosi nella ritrovata autonomia di giudizio (il giudizio di un asino, beninteso), si copriva di fango come uno scarafaggio. Parlava con chi non doveva, prometteva a chi mai avrebbe dovuto promettere, svelava a chi doveva tenere nascosto. Attorno a lui, a poco a poco, non solo la sbadataggine di una volta, adesso anche l’ignominia e la delazione facevano capolino. Niente però lo faceva recedere dalla sua intenzione di diventare quello che non era mai stato. Inammissibile, profondamente ingiusto, il mondo lo rifiutava, una coagulazione di dèmoni. La gente lo guardava attonita, vedendo spuntare le orecchie d’asino dietro la pelle del leone che persisteva ad indossare. Alla fine un gran raglio lo tradì.

Pensò di dare la colpa a qualcuno, uno qualsiasi, il primo che gli veniva a tiro. Gli asini, quando scalciano, non guardano in faccia chi colpiscono. Il povero disgraziato si sentiva un relitto abbandonato a se stesso, e questo senso di frustrazione aumentò quando alla libertà delle stupidaggini si sostituirono i ceppi che rendono possibile solo la libertà di digrignare i denti.

Nel chiuso della cella stette zitto per lungo tempo: chissà che le cose non si sistemassero da sole. Poi ragliò contro chi aveva dimenticato di dare spazio ai suoi precedenti timidi tentativi di balbettare qualcosa. Alla fine, quando si vide perduto, si ricordò di essere quello che l’etichetta del soprabito gli suggeriva ed allora la leggerezza degli altri rimbombò come uno squillo di tromba nel suo cervello chiamando a raccolta tutti gli istinti più bestiali che l’asino, di solito buona bestia ma stupida, riserva ai momenti di panico. Il seguito è tutta una triste storia di rabbia, di ubriacatura, di protervia, di stupidità, di delusione e rancore.

“Lo considero piuttosto imbecillito”. (Carlo Emilio Gadda). Nessuna bestia regge il paragone col rancoroso.

La pentola, la poltrona, il lettone

“Ma vedendo ora co’ miei occhi tanta sozzura, tanta viltà, tanta asinità, pensavo: quale, non dico desiderio, ma stima si potrà avere della lor compagnia”.

(Pietro Giordani)

Il momento è mal scelto, mortificante conseguenza del non voler capire. Non c’è mai un momento in cui un riacquisto, un riassorbimento si stringa in preziosa collaborazione. Tutto sale direttamente al monte del sacrificio. Un getsemani casalingo, i poverini soffrono da qualche parte, anche il distruttore deve soffrire. Stringe affettuosamente fra le braccia qualche compagnuccio in ceppi, si rischiara in volto come per un attacco di broncopolmonite. Ama scegliere un inferno appassionato, visto che l’inerte paradiso casalingo gli è precluso da tempo.

Che l’adorata casa madre organizzativa (armata), modesto edificio a un piano solo, due parole (AR), anagraficamente prima dell’altra casa madre (BR), ben più grande, scelta a modello ideale, quella casa madre, piccola e dimessa, contraddittoria ma pur sempre con qualcosa da proporre, quella, dicevo, è rimasta da sempre stampata per lungo e per largo nel suo cuore. “Tutti i creduloni imbecilliscono”. (Niccolò Tommaseo).

Il fatto è che il distruttore ragiona col cuore, i suoi concetti sono sentimenti, le sue deduzioni logiche intuizioni, le sue riflessioni improvvisi balenii nella notte dei sensi sovreccitati. Raggiunta l’età sinodale, da tempo ormai, il povero disgraziato non sa che fare. Occorre qualcuno che gli offra l’occasione, come quella volta che un compagno galeotto di quelli doc si decise a pendere dalle sue labbra, e a godere della frescura dei suoi vaglia mensili. Di colpo questo personaggio divenne il centro del mondo del distruttore: comitati e paroloni, gruppi che mai ebbero a pentirsi di qualcuno e di qualcosa vennero allo scoperto, incalzarono medicamenti e unguenti, riunioni e adesioni. Alla fine, nemmeno molto tempo dopo, il personaggio scelse la via dell’accomodamento col potere e senza nemmeno prendersi la briga di giustificarsi stilò una bella letterina d’addio. Lo scorno non poteva essere peggiore. Il distruttore sinodale fece buon viso a cattivo gioco e, dopo essersi sfogato in pianti e lamenti, per qualche tempo tenne le manine fuori dall’acqua.

Io sono una persona pura, urla la faccia leonina del distruttore ammorbando le stanze del suo ospite singhiozzante. Tutti tacciono come pietrificati, ognuno al suo posto. Il distruttore siede in cucina. I resti della cena, frugali residui. C’è troppa luce, bisognerebbe tirare le tende. Silenzio. Qualcuno tira il sipario. Accende il lume del discorso. Argomento privilegiato. Tutti i personaggi recitano la loro parte. Non sono più di due o tre, ma sono agguerriti. Non restano con le mani in mano. Suonano alla porta. È un nuovo venuto. Nuovo per modo di dire, che tanto ogni nuovo è di già vecchio di per sé. Nemmeno gli chiedono se è sveglio che cominciano gli urli. Tutti parlano contemporaneamente. Il distruttore urla, un’altra faccia annuisce, un’altra ancora legge un giornaletto di Dylan Dog. Fa tutto ciò contemporaneamente. Il distruttore è uno e trino, essendo la quaternità lontana, costretta altrove in sgradite permanenze.

Il nuovo venuto nota che il distruttore si mangia le unghie. Non se ne rende conto, è una malattia come un’altra. Sogna, il distruttore, l’antica origine, la nobile origine che permette di snobbare qualcosa, visto che non ha altro fra le mani. Se non avesse nemmeno quella non avrebbe nulla da rigettare con acredine, con cipiglio e con tanto di opportuna cadenza nel parlare. Mi chiamo in un certo modo, ho un certo quantitativo d’anni, non vado più a scuola da tempo, tanto tempo. Non mangio più zuccheri canditi, nemmeno di nascosto. Non ho più un modello di famiglia, sono stato lasciato solo come un cane. Il distruttore, in tutte le sue varie facce, da quale che sia l’angolo da cui lo si guarda, è sempre stato lasciato solo come un cane. “Contemplava lucidamente la perfetta imbecillità del proprio cuore. Un’ebetudine profonda, priva di spiegazione e senza nulla dietro”. (Guido Piovene). Un buon argomento da approfondire, uno spunto che dovrebbe farlo riflettere. Nemmeno per sogno. Il distruttore non ama quello che gli è stato negato, se non glielo avessero negato, disgustati della sua stupidaggine, avrebbe continuato ad amarlo. Una volta che è stato lasciato solo come un cane dalla persona amata (si fa per dire: può mai un imbecille amare qualcuno seriamente?), non è stato più in grado di mettere due pensieri uno dietro l’altro. Il fatto è che era proprio la persona amata che gli suggeriva un certo modo di vedere la vita, e l’imbecille si adeguava. Dopo, il soffocamento e lo sbaraglio.

“Per l’imbecillità e l’umor malinconico egli sarà alla fine molto sospettoso”. (Giovanni Modio).

Il termometro scende, il terreno indurisce, gli uccelli non cantano più e le mucche restano nella stalla. Solo l’asino continua a ragliare.

Anche se non lo

“Non c’è mai stato asinaccio marchiano così grande e così grosso da poterlo paragonare a costui che si pavoneggia nella sua asinonissima asinità”.

(Francesco Redi)

Anche se non lo dice, il distruttore, gonfiando i muscoli, si costituisce “contro-potere”. È la forza che regge il mondo, si dice: la forza delle armi, essendo forza armata, lo regge fin dalle fondamenta. Naturalmente nella fase di trasformazione della realtà, poi saranno la libera scelta, l’autogestione, l’iconoclastia, a realizzare il comunismo e la società anarchica. Ammirevoli certezze dell’imbecille.

Ciò porta a considerare se stessi come dialoganti col potere in carica, e questo porsi come controparte finisce per polarizzare ogni attenzione, anche quella critica che non si accorge come l’altra faccia della medaglia, che poteva essere ricca di speranze, risulta nient’altro che un balbettante conato di massacri impotenti.

Contrapporsi ad aspetti del nemico (l’antigiuridismo, ad esempio), isolandone allegramente il contenuto, significa costruirsi una figurina salvatutto, una funzione-ruolo negativa del dominio in corso ma incapace di andare oltre la banalità e la vaghezza delle parole riguardo l’analisi del futuro. Se a questo si aggiunge che anche il presente, le cose che si stanno facendo, tolte le polemiche e gli urli belluini di feroce idiozia, rasentano il nulla assoluto, oppure le piccole scosse che servono solo a darsi un’identità, ci si accorge di come la “battaglia” in corso sia solo un ricordo onirico di fatti del passato, un ingrossamento della prostata.

Dal ricordo al ricorso evocativo il passo è breve. Da questo al fatto, ben più grave, perché assolutorio degli errori del passato, capace di valorizzare quello che una volta ebbe ad essere recitato sul palcoscenico delle buone intenzioni rivoluzionarie, il passo è ancora più breve.

Imbecilli che nemmeno vissero quella stagione rivoluzionaria (la quale, con tutti i suoi limiti, aveva pur dalla sua la verità di “singoli fatti consolidati” e non la menzogna di “dichiarazioni di principio” fluttuanti nel nulla assoluto) ma che di quell’odore, di quel sapore di lotta, di quei sogni e di quelle analisi (queste sì, dentro certi limiti, significative), si nutrirono per decenni, adesso sbavano anche loro additando al reato di mancato riscatto del mondo.

Tutto ciò è frutto della rimozione delle proprie ingenuità, se non delle proprie colpe. Chi per anni si è baloccato nei sentimenti da sferruzzamento pomeridiano, chi accarezzava l’idea di un lontano paese libero dai pogrom e dai genocidi, chi si guardava attorno alla ricerca di un editore per le proprie “memorie” patriottiche in attesa di capire quello che gli era accaduto, chi si mangiava le mani per la propria idiozia finalmente abbagliante perfino per i suoi occhi miopi, tutti costoro, facce del distruttore, alternative e monotonamente ripetitive, avevano in comune, tutte queste facce, l’essere state lasciate a se stesse proprio da chi era loro più vicino. Tutti amanti delusi. E di questa condizione amara dello spirito rinfacciavano, e continuano a rinfacciare, il mondo. E siccome il mondo è popolato da troppe persone, alla fine hanno concordato una santa alleanza fra imbecilli, decidendo di focalizzare il loro astio d’asini su di una sola persona.

Il rifiuto di ogni intellettualismo, o meglio del dominio che – secondo queste facce del distruttore – ogni intellettuale esercita sugli altri (considerazione che, da sola, potrebbe aprire scuoranti critiche e benefiche riflessioni), si traduce, in buona sostanza, nella richiesta di una sostituzione intellettuale. Uno spettacolo di marionette. Qualcun altro venga avanti per favore, ci dia quella pastetta omogeneizzata che prima la nostra bestia nera forniva con tanta puntuale coerenza. Orfani, adesso ci ribelliamo, ma non sapendo mettere insieme due parole (e quindi nemmeno due idee) abbiamo bisogno di un padre spirituale. L’uccisione del padre precedente, ora, non è che un rito propiziatorio per l’avvento di un nuovo padre. “Sono insofferente della imbecillagine generale del mondo, delle baggianate della quotidianità”. (Carlo Emilio Gadda).

L’aspetto ridicolo di tutta la faccenda è che, trattandosi di una manica di imbecilli piuttosto sonnolenta per quanto concerne il fare, ognuno di loro si ritiene in grado di raccogliere lui stesso questa eredità culturale. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Un asino, quando balbetta, raglia.

“La malignità non truova dono che la plachi”. (Niccolò Machiavelli).

Per un certo

“Oh è qui dove mi cascò l’asino”.

(Giovan Battista Fagiuoli)

Per un certo tempo, all’esplodere dei primi tuoni che annunciavano il temporale (molto rumore per nulla), si rimise in circolazione una simpatica figura di arruffone e confusionario. Valicò mari e montagne, percorse strade e piazze, sedette impavido su sedie scomode, parlando molto e comprendendo assai poco.

Chi conosce questo personaggio non se ne adonta più di tanto, lo prende per com’è, con i suoi difetti (tanti) e i suoi pregi (pochi). Di questi ultimi si può dire che qualche volta, dalla confusa farragine di indigeste letture, viene fuori qualcosa di limpido, un pensiero, non più di tanto, un bel pensiero, se si vuole, perfino un’indicazione programmatica: facciamo questo, facciamo quello, pensiero e indicazione che poi, nel prosieguo dell’attuazione, di fronte alle difficoltà pratiche di mettere moccolo su moccolo, lui abbandona con nonchalance indicando altri pensieri e altri progetti, altrettanto presto abbandonati prima che la loro concretizzazione si profili all’orizzonte.

Molti, non conoscendo questo suo modo di essere, pensarono di avere di fronte un realizzatore. Invece questa faccia suburbana del distruttore, feroce antagonista di idee altrui, teorico sanguigno e sanguinolente, ha lineamenti piuttosto sfocati nell’ambito del fare, e ciò allo stesso titolo di tutte le altre facce. Non sapendo credettero, dettero cioè per sicura, anzi per arcisicura, una interpretazione della realtà che sicura non era.

Il germe del sospetto venne così inoculato in un ambiente che per grettezza e reazione era più che disposto ad accettarlo. Sospetto che subito polarizzò la fascia più stupida, più incapace di riflettere e di cogliere le cose per come stavano. Un progetto egemonico di controllo politico agente dietro le quinte, organizzato da poche teste pensanti venne alla luce. Per molti, che non aspettavano che questo mangime, iniziò il periodo delle grandi beccate.

Alla fine, il nostro amico si è reso conto delle stupidaggini fatte, conseguenza dei suoi bischizzi e della sua più assoluta mancanza di lume politico, ma come tutti i testardi non accetta, né mai accetterà, di ammetterlo. Altri, che sposarono improvvidamente quella tesi, col tempo si sono resi conto che, almeno in parte, essa era basata più su sentimenti che su riflessioni oggettive, e non poteva essere in altro modo, visto che di usare la testa non è che ce ne fossero tanti in circolazione nel periodo in cui questi fatti tristissimi accaddero.

Beccarsi divenne una sorta di sport nazionale (nell’ambito di un bicchiere d’acqua, beninteso).

Di per

“Siccome gli imbecilli non commettono che bestialità, il meglio che possono fare è di far niente”.

(Giovanni Rajberti)

Di per sé la caccia dei colpevoli è compito da Pubblico Ministero. E siccome in ognuno di noi si annida se non proprio l’uomo in toga almeno l’anima di un Saint-Just, siamo spesso portati a dire col naso sudato: “è colpa tua”, e a chiamarci fuori bellamente, insistendo nelle distinzioni che preludiano a stigmatizzare le colpe degli altri in contrapposizione ai nostri comportamenti esenti da ombre.

Nessuno che dica: “In fondo siamo tutti stati ciechi”. Chi accettava le tesi altrui senza nemmeno approfondirle (in qualche caso nemmeno leggerle). Chi distribuiva opuscoli e volantini fatti da altri, ma da lui debitamente, e pubblicamente, approvati, senza avervi prestato attenzione. Chi si torceva lo stomaco in spasmi da ragazzaglia che restavano confusi con i borbottii di una cattiva digestione. Chi da lontano osservava il lavoro altrui traendone diletto critico con poche battutacce umoristiche da “Corriere dei piccoli”. Chi mugolava parole incomprensibili, torcendosi infastidito le mani in un angolo della sala, ma senza avere il coraggio di rimbeccare dove e come e perché dissentisse da qualcosa. Chi non era sufficientemente onesto da ammettere che quello che gli dava ombra era la migliore disposizione altrui verso la chiarezza, mentre la propria testa strizzava soltanto uno strofinaccio zuppo di opinioni melmose. Chi si teneva in cuore asti antichi, quanto il mondo vetusti, rancori da letto sfatto e sudato, notti non proprio d’amore quanto di disinganno e stordimento. Chi scopriva la coda del coniglio dietro le affermazioni da mangiatore di mondi. Chi gettava il panico agitando un angusto pezzo di carta, come se fosse l’annunciazione dell’apocalisse. Chi perseguiva la propria idea, il proprio progetto teorico, senza stare a soffermarsi sulle ingenuità altrui, sulle manchevolezze del proprio dire, sull’ottusità del continuare quando, senza dubbio, sarebbe stato meglio fermarsi per vedere dove si stavano mettendo i piedi. E, infine, chi non intendeva essere coinvolto, non intendeva, e non intende, prendere partito, inimicandosi tutti, se non proprio lasciando la bava ai denti (fortunatamente pochi) degli altri, ma almeno l’amaro in bocca, questo sì. Chi voleva malinconicamente discutere, quando il tempo per discutere era scaduto. Chi non capiva nulla, perché di nulla s’era mai preoccupato di darsi spiegazione. Chi accettava qualunque soluzione perché era lì solo di passaggio, tanto per fare qualcosa, visto che l’ammuffito arredamento del proprio cervello non gli consentiva altro. Chi si agganciava al carro del più debole, e chi del più forte, non capendo che non ci sono deboli e forti in situazioni in cui tutti hanno perso la testa. Chi sognava un comunicato nuovo, “bello come quelli di una volta”, e senza pudore ne sollecitava la stesura, naturalmente a chi a tale scopo era stato da sempre delegato. Chi degli accadimenti in terre lontane menava paure per quello che potevano essere i riflessi nel bicchiere di casa propria. Chi si sbalordiva ad ogni piè sospinto, vedendo sbriciolarsi davanti ai suoi occhi l’icona del bravo compagno. Chi continuava a vedere le madonne che per tutta la vita aveva visto.

Uno contro tutti e tutti contro uno. Sentenze che si incrociano e si rincorrono. Fatte le dovute eccezioni, senza eccezioni fatte.

Dar di cozzo agli asini

“Non è mancata mai gente o imbecille al punto da farsi un merito della credulità o rea a segno di tradire la verità, occultando i fatti”.

(Melchiorre Delfico)

Risvegliare la fantasia è dar di cozzo agli asini. Negare il carcere sociale in cui ci stanno chiudendo riscuote ragli insipienti di risposta. La guerra che vogliamo condurre contro tutto l’esistente nella sua molteplicità, quindi ricorrendo ad ogni sfumatura d’attacco, ad ogni singola azione distruttiva, sia pure piccola e polverizzata nel territorio, aumenta le reazioni degli imbecilli. Chiusi nel loro ben addobbato isolamento intellettuale, incapaci di leggere un solo rigo del grande libro della realtà, i cretini boccheggiano tra tabù e regole cercando di serbarli integri. Lasciamoli soffocare, direbbe qualcuno, osservando al di sopra del proprio stringinaso. Pienamente d’accordo, ma quando soffocando svillaneggiano più del consentito. Anche l’imbecillaggine dovrebbe avere un criterio, se non proprio un limite. Se parliamo di slancio distruttivo di un intero movimento degli esclusi, gli asini rispondono subito che si tratta di forza da auspicare a qualche fantasia organizzativa, allampanato parto dell’immaginazione truculenta di qualche cadavere ambulante, svegliato dai suoi pedestri commerci precedenti e adesso ansioso di mostrarsi come l’oltranzista di turno.

Invece di sollevare gli animi allo scontro, incidendo nei tempi morti di un’azione intermedia, collocandosi quindi come detonatore di processi inceppati o difficoltosi, l’imbecille dal fiato cattivo pensa in termini quantitativi e chiusi, cioè diserta dal suo compito rivoluzionario e si racchiude nel gioco fine a se stesso, ricompone e scompone puzzle, fabbrica barchette con pezzi di fiammifero bruciacchiati, fodera penne biro con colorati fili di seta.

Da nomade che dovrebbe essere si trasforma in stanziale. Invece di rompere con i ruoli se li stringe addosso come un basto più comodo verso cui manifesta grande riconoscenza perché gli conferisce la sicurezza mancante. Grida di essere quello che non è e di questa condizione surrettizia se ne fa un vanto velleitario mentre la realtà cammina altrove, nel suo movimento erratico che rifugge da qualsiasi codificazione cerebrale. L’asino raglia e pensa che a ragliare sia il mondo.

L’insurrezione

“Se l’anima accoglie troppe e insieme lievissime, e varie, e malcerte sensazioni ed idee delle quali nessuna è sì forte e sì stabile da concederle vigore di desiderio, né tempo di riflessione, né certezza di volontà, allora, quanto più cresce nell’uomo questo stato di perplessità, tanto più precipita nella insensatezza; e sì fatti pazzi sono imbecilli”.

(Ugo Foscolo)

L’insurrezione comincia, almeno come seme capace di dar frutti significativi, quando gli esclusi comprendono l’inganno di ogni divisione tra interessi economici e interessi politici. Quando cioè lasciano da parte gli ingialliti specialisti e prendono in mano il proprio destino, partecipando alla lotta, sia pure modestamente intermedia. A questo punto gli asini ragliano e, quando non ragliano, quando non sono più asini ma attori in prima persona, propositori di un progetto politico egemonico, quindi specialisti di nuovo conio, lottarmatisti, partecipi di una organizzazione con tanto di programma e di magnanime imprese fatte (e da fare), mettono il cappello su tutto quello che è in corso e quasi sempre determinano un ritardo se non proprio uno stroncamento delle lotte.

Anch’io ho quelli che una volta chiamavamo “bassi istinti”, anch’io amo che le spie e gli imbroglioni finiscano sotto i colpi di quello che chiamavamo “giustizia proletaria”, ma non posso considerare tutto questo come il punto da cui partire (sempre che si stia parlando di cose reali e non di timorati ragli asinini). Considero questo aspetto sgradevole, ma necessario, della lotta rivoluzionaria come uno sviluppo parallelo della partecipazione alle lotte intermedie, sviluppo che deve seguire l’andamento di queste ultime, rimuovendo se è il caso alcuni ostacoli che l’incertezza dei partecipanti o la difficoltà dell’impresa finirebbero per rendere insormontabili.

All’organizzazione specifica armata non spetta il compito di “animare” nessuna lotta, essa non rappresenta nessun nervoso passo avanti, né autoritario salto di qualità, né superamento di livello, ecc. Se questa organizzazione ha un senso, e quando lo ha agisce e produce fatti non chiacchiere, lo si deve trovare nel suo compito ancillare, quindi di sostegno alla generalizzazione delle lotte.

Quando ad assumersi il ruolo di partecipanti a questa organizzazione sono soltanto chiacchieroni e asini che si credono “reparto avanzato”, i loro ragli disturbano ma, alla fine, se non diventassero velenosi insulti – come sempre accade per chi non sa emettere che suoni asinini – non sarebbero ascoltati da nessuno.

L’abbaglio

“Sono signori di così asinina natura che fanno lo contrario di quello che vogliono”.

(Dante Alighieri)

Il distruttore che non sa distruggere si avvolge nel mito della distruzione. Guarda i peripatetici dell’irriducibilità e li ammira estatico. Di buona indole, questi ultimi si muovono compatti in qualche metro quadrato di cemento e trasudano una certa imponenza. Lui, essendo sostanzialmente incapace di ragionare, scalpita come un asino. Vorrebbe agire, qui e subito, perciò agita la coda in una trionfale sconsideratezza. Ma agire significa riflettere su quello che si vuole fare. Ciò lo annoia (così afferma non volendo ammettere che non saprebbe da dove cominciare). Come fosse una rabbiosa squilla butta giù qualche pensiero bislacco, animato da copiature mal digerite di altri testi e velleità operative mai vissute in prima persona. Scambia la piccola azione in vitro con la vasta impresa rivoluzionaria. La “lotta armata” per lui è un mito, non organizzazione specifica armata, cioè struttura di uomini e di mezzi, di analisi e di idee, di coraggio e di precisione nel fare. Sia pure nella modestia delle sue tare organiche, una struttura armata ha queste necessità.

Tutto ciò interessa poco al nostro distruttore. Gli basta una visita al bar, dove trova qualcuno ancora più stupido di lui, e la cosa è fatta.

I ragli, una volta emessi dalle gole asinine, lasciano il tempo che trovano. Ad ascoltare quei suoni rancidi e inusitati perfino altre orecchie asinine inorridiscono. Queste, appartenenti a imbecilli di conio diverso, diciamo più aperti alla riflessione, ma pur sempre imbecilli, pensano che la diana suonata indirizzi verso altre riflessioni. Non è così, ma tant’è, fra stupidi si pensa sempre di essersi intesi benissimo.

L’assolutizzazione di un strumento non importa più a nessuno, era una specie di gioco, nulla di più. Ma dato che le parole sono pietre, il torrente delle bestialità continua a trascinarle.

Voi asini di pelle e di coscienza,
che l’anarchia di zizzanie empite,
e ognor con testarda impertinenza
e teste e cervelli ripulite,
coraggiosi e forti all’apparenza,
il culo mostrate esemplare e mite,
lasciate alfine il predicare rio
e volgete il collo lungo al dire mio.

Il chierichetto

“Alquanto imbecille, e più che alquanto”.

(Niccolò Tommaseo)

Il distruttore è un chierichetto che sogna la divisione netta tra il presente, irrigidito e disgustoso, e il futuro pieno di gloria.

Chi divide il tempo in queste due incompatibili sezioni è sempre un asino pieno della bontà di dio, di un qualunque dio, sia pure quello che viene avanti armato con le insegne dell’organizzazione di appartenenza, e da questo dio s’aspetta la protesi definitiva, la pantomima della “viva forza” che per il momento gli manca.

Cosa sia questa patetica “viva forza” nessuno lo sa, né si è mai trovato qualcuno che possa spiegare il motivo per cui essa debba andare solo ai rivoluzionari e non a tutti coloro che lottano. L’insurrezione è un fatto o non lo è?

Aspettando quello che non può arrivare, la protesi capace di allungare la mano, l’antica arma dei nostri padri, quella santificata dalla costituzione americana, tanto per dirne una, il distruttore sgomento si mangia le unghie e soffre.

La sovversione dell’esistente è altra cosa: significa rompere una volta per tutte la clessidra che ci conta i battiti del cuore.

La notte ha molte

“Torneranno tempi migliori e allora tutta questa gentuccia dagli imbecilli fantasmi sarà spazzata via”.

(Vilfredo Pareto)

La notte ha molte difficoltà da superare. Il povero distruttore si rigira nel letto e non riesce a ricacciare in gola i tanti ricordi che lo assediano.

L’ombra del suo giovane amico turba la pace dell’ora. Nulla si muove nella piccola stanza, nemmeno una foglia dell’albero stento che si vede lontano dalla finestra. Eppure c’è qualcosa di tangibile nell’aria. I sogni di una volta sembrano tornati tutti a darsi appuntamento. Il diffondersi comune sul territorio di tante aggregazioni, compagni dappertutto, intenti ognuno alla propria opera distruttrice, secondo genio, senza schemi prefissati. Da questa molteplicità attiva e libera, un progetto spontaneo, un moto personale, disarticolato, vario, imprevedibile, via via modificabile alle necessità dello scontro, pronti a dar fuoco a tutto, anche alle stesse realizzazioni.

Il distruttore sente un certo sudorino freddo nella schiena. Non sa fino a qual punto all’epoca aveva capito quel progetto, o meglio, quel sogno. Si era detto d’accordo, ma non perché avesse colto bene nel segno, quanto perché gli occhi del suo amico lo guardavano fisso ed erano capaci di cavargli il cuore. E poi, come si fa a resistere a un rullo compressore?

Sulle prime era stato quasi uno scherzo, poi aveva cominciato a fare sul serio. Certo, impacciato lo era, frenetico a volte, superficiale sempre e approssimativo. Non proprio stupido ma rigido, un ceppo inerte d’inappetenza. La sua era la faccia testarda del distruttore, non quella a gambe larghe imitante il cowboy da western mentre fa fuori lo sceriffo nel saloon, ma quell’altra che mima le espressioni truci davanti allo specchio del bagno per vedere se riesce a fare un po’ di paura agli altri, visto che per quanto lo riguarda di paura è pieno fino all’orlo.

Allora non amava le corporazioni combattentistiche, era un giovane innamorato della vita e della patria, bisognoso di un capo e di un po’ d’ideologia da masticare. Nulla di male in quest’ultimo aspetto, per carità, si trattava di virile patriottismo libertario, ma ora, ripensandoci, il distruttore non sa bene se le sue poche idee vuote di scrupoli pendessero verso l’uno o l’altro dei possibili versanti patriottici.

“Per alcuni l’imbecillità di mente è una inevitabile necessità”. (Ugo Foscolo).

Brillando per incapacità e per mancanza di idee, il bel giovane distruttore si faceva tirare dall’amico carismatico e lasciava che il tempo passasse languendo nella speranza di capire qualcosa.

Della vera pratica sovversiva nulla gli era proprio, accadimenti remoti le rivolte e le lotte intermedie una faccenda da sindacalisti.

Eppure era proprio lì che poteva capire finalmente qualcosa, lì dove la sua aristocratica concezione del mondo poteva foggiarsi nel vivo delle idee anarchiche. Solo chi lotta conosce i propri bisogni, ma deve essere una lotta quanto più è possibile aperta ai problemi comuni, senza eroi e senza convenzione di specialisti.

Ma il termine “combattente”, che gli frullava in capo fin d’allora, considerando come proprie le esperienze patriottiche, alla fine è uscito, strozzato malamente dal raglio di un asino.

Il manicheo

“Avevo l’impressione che in quel tempo egli non solo fosse del tutto ammattito, ma andasse anche un poco imbecillendosi, cosa questa più grave e dolorosa, perché la pazzia è una forza di natura, mentre la minchioneria è una debolezza della natura”.

(Italo Calvino)

Il manicheo è un animale con due teste. Quando è un asino, è un asino con due teste. Se scalcia non vede cosa colpisce. Ieri amava, oggi odia. Né ieri sapeva i motivi del suo amore, né oggi verosimilmente quelli del suo odio.

Vuole capire una parte e sentirsi parte di quello che non capisce. Rifiuta di prendere coscienza della propria imbecillità, così procede come in terra straniera verso un futuro di crescente stupidaggine. Imbocca scorciatoie, riassume, sorvola, essenzializza, scarnifica. Chiude gli occhi davanti a tutto, continua a dormire anche quando sarebbe ora di svegliarsi. Alla fine di lui non resta altro che un clamoroso raglio.

Colpire chi? Non lo sa. I suoi odi di irrequieto distruttore sono manicheismo puro: se chi si amava non lo si ama più (quali i motivi?), lo si deve odiare. Ciò che non riesce a mettere sugli altari lo vuole sotto i piedi. Non ci sono mezzi termini.

Quando ti è amico, e ti ama, e ucciderebbe il mondo intero se tu lo volessi, è un buon asino, coscienzioso nel basto e mai stanco, prudente, perseverante nel suo itinerario sognato da altri (che lui, da solo, dimentica il sacco dopo aver rubato le carrube). Quando ti odia è un asino che raglia e scalcia, che s’impunta spaventosamente e non vuole andare avanti, un asino e basta.

Una delle facce più comiche e nello stesso tempo esasperanti del distruttore. Le sue orecchie lunghe non ascoltano, sentono solo il raspare inconsulto e monotono di poche manie fisse: imbroglio, tradimento, prevaricazione.

La bacchetta della fata

“Può venire una fantasia che se anche uno guarisce resta imbecille per tutta la vita”.

(Bruno Cicognani)

Chi soffre un problema che gli grava sulle spalle come un macigno, non può disertare la sua condizione di escluso, non può dissolvere con poche parole infantili scritte in un comunicato la gabbia sociale che lo racchiude. Può fare qualcosa, può organizzarsi e lottare, ma lo deve fare sul serio. L’oppressione e lo sfruttamento sono faccende serie e non ammettono atteggiamenti da pagliaccio.

Il distruttore non lo sa. Per lui tutto ruota attorno a poche parole, a pochi moti dell’animo, a pochi atteggiamenti di possesso. Pensa di avere in mano la bacchetta della fata e toccando una zucca la trasforma in un cocchio principesco. Per quanto stupido, sa bene però che una zucca è una zucca e mai diventerà un cocchio principesco, ma la sua imbecillaggine gli suggerisce il cattivo espediente di presentare la sposa come se fosse una vergine, sperando che gli altri non se ne accorgano. Trattandosi di baldracca conclamata, l’inganno risulta alla fine palese e nemmeno un sospiro è andato sprecato per sostenere l’operato della fata. A chi poteva mai venire in mente che non di zucca si trattasse?

Stupore! Essendo l’inclita accolta asinina disposta a cogliere la palla al balzo, non di fave s’ebbe a parlare ma di ceci, legume diverso se si vuole, ma un asino, o più di uno, come volete che faccia in modo di capire la differenza?

Il riconoscimento

“L’imbecillità è tale che allo splendore della verità s’abbagliano gli occhi, come di notturni uccelli, e talora paiono le cose vere o verosimili, che sono manifestamente false”.

(Gabriele Paleotti)

Fittizio o reale che sia, lo specialista è nemico apparente e perplesso del sistema contro cui si rivolge.

Nel suo inalleggeribile bisogno di fornire comunicati/azione si nota la necessità di riconoscimento. La tragica farsa del distruttore si gioca tutta su questo crinale: non riconoscere ed essere riconosciuti.

Facendo scoppiare in faccia al proprio interlocutore l’estrema (presunta tale) ingiuria del non riconoscerlo nel ruolo che egli si è arrogato arbitrariamente, proprio nel momento stesso della massima distanza cercata effettua il ricongiungimento. Chi sta misurando la distanza la colma e riconosce l’oggetto del suo disprezzo che pretendeva tenere staccato da sé.

Questo fatto palmare un asino non può capirlo. Si limita a ragliarci sopra.

Resterebbe il silenzio. E sarebbe timoratezza rispettabile. Ma avendo il distruttore bisogno di dirlo questo silenzio, finisce per parlare – come a dire: “Guardate come sono capace di star zitto, con questa gentaglia non si deve fare altro, seguite tutti il mio esempio” – e parlando non tace, e non tacendo riconosce l’interlocutore.

Questo fatto palmare un asino non può capirlo. Si limita a ragliarci sopra.

Potrebbe tacere e basta. Ma provate a fare stare zitto un asino nudo e crudo.

Quindi lo specialista parla. Nella eventualità che non sia semplicemente un imbecille, com’è il caso che ci occupa, parla e non si pone problemi insolubili, parla perché è proprio al suo interlocutore che si rivolge e attraverso questo ai benamati mezzi d’informazione. Lo specialista vuole arrivare qui, vuole la ridondanza di milioni di teste vuote, compra i giornali e scorre veloce le pagine fino al trafiletto che ricorda con certezza il fatto tanto accuratamente accarezzato, e se poi questo fatto è un accadimento coi fiocchi il trafiletto si dilata a una o più pagine e lo specialista è felice. Tutto ciò non ha nulla a che fare con l’insurrezione e la rivoluzione, se non come processo sussidiario di supporto e, in questo caso, non è certo della televisione e dei grandi mistificatori che si ha bisogno.

Questo fatto palmare un asino non può capirlo. Si limita a ragliarci sopra.

L’insolita accolta asinina non ammetterebbe mai che l’affacciarsi sullo scenario del reale in questo modo, cioè da specialisti, è un dialogo ben coordinato col potere, la sola supposizione la turba profondamente e l’offende. Sul piano della gestione politica (e quindi spettacolare) di qualunque azione sociale nessuno può insegnare nulla allo Stato. L’imbecille non lo sa, ma non gliene importa nulla perché a lui serve solo il fumo, non l’arrosto, non vuole altro che una identità. Ama che questa identità sia visibile dall’esterno, che si colori violentemente, che esploda con forza sotto gli occhi di tutti e che col proprio fumo copra l’inarrestabile imbecillità.

Questo fatto palmare un asino non può capirlo. Si limita a ragliarci sopra.

Ingrossare l’azione proprio nella sua parte spettacolare è il sogno di ogni distruttore. Farla grossa lo gonfierebbe d’orgoglio. Il suo ragionamento, fra un raglio mirabolante e l’altro, è il seguente: “Mentre che ci siamo perché limitarci alle piccole azioni? perché non colpire più in alto? sempre più in alto, fino al cuore del nemico?”. Per ogni imbecille la piccola azione è un’azione piccola e lì si ferma. Non capisce, questo povero essere tradito dalla sorte matrigna, che la piccola azione diffusa nel territorio, generalizzata dovunque il nemico si annidi, negli interstizi del capitalismo in corso di veloce ristrutturazione, è la base per sviluppare possibili movimenti insurrezionali.

Questo fatto palmare un asino non può capirlo. Si limita a ragliarci sopra.

Il fatto è che agli asini interessa solo ciò che riescono a mettere sotto il muso: se sono cardi rossi e turchini, tanto meglio. Provate a fare corrugare la fronte a un imbecille, a intraprendere con lui una discussione sul movimento reale, sulle potenzialità di rivolta degli esclusi, sulla lotta di classe nelle sue mutate condizioni, sul significato rivoluzionario della singola lotta intermedia. Provate e mi darete una risposta.

Questo fatto palmare un asino non può capirlo. Si limita a ragliarci sopra.

Un ostacolo

“Lei dunque, signor messere mio da bene, non faccia supposizioni mal fondate e imbecilli (nel senso latino)”.

(Giosuè Carducci)

Sul piano della lotta rivoluzionaria, lo sviluppo di un’organizzazione armata specifica, sia pure anarchica, che non sia legata di già, o che non intenda legarsi al più presto possibile, con le lotte in corso di natura intermedia, sia a livello locale che internazionale, è un ostacolo alla crescita della coscienza degli esclusi, quindi è un ritardo che prima o poi si determina nella generalizzazione dei processi insurrezionali, quindi alla fine, insistendo nel suo crescere e irrobustirsi come apparato specialistico (quasi sempre clandestino), si rivela un ostacolo per la rivoluzione. Non è un caso che queste strutture sono state quasi sempre di matrice leninista, mentre nel caso di qualche realizzazione anarchica e libertaria (ad esempio, Azione Rivoluzionaria), dopo le prime esperienze, anche a causa di alcuni difetti teorici di partenza, si è potuto assistere ad una involuzione veloce e irreversibile verso l’accorpamento con strutture combattenti di matrice autoritaria (ad esempio, l’Unione delle organizzazioni comuniste combattenti).

Questa riflessione non riguarda le chiacchiere ma le cose concrete, non dovrebbe suggerire agitati sgomenti o stupide costernazioni dirette a coprire vergogne profondamente avvilenti.

Asini permettendo, naturalmente.

Un mercurio concitato

“Molte volte noi stessi, per un imbecille timore ci scomunichiamo”.

(Pietro Giannone)

Piombata che fu la notizia, portata da un mercurio concitato, l’assemblea cominciò a vociare e bofonchiare per nascondere il panico. Possibile mai? Possibile arrivare a tanto di imbecillaggine?

Ora, come si sa, l’assemblea non è certo il luogo dove grattare un ragionamento come si deve, di quelli che aiutano a capire, che non deformano gli elementi del problema.

Ed è proprio per questo che si richiede quel tipo d’intelligenza che sa vedere per prevedere. Mancando questa capacità, la quale si fonda più che altro sul sapere attendere e non su qualche essenza angelica o sapienza divina, non c’è verso di recuperare l’inclita accolta ad un sia pur modesto ragionamento. E quando il contesto si scioglie, quando ognuno torna, chi alle usate riflessioni asinine, chi alla semplice attesa di un chiarimento fornito direttamente dal cielo delle analisi, non si sentono altro che protervi ragli di rabbia e sospiri d’insoddisfazione.

Or se si trova alcuno a cui dispiaccia
questo mio stil che gli asinacci tocca,
e di grande polemico mi taccia
venga a quattrocchi, e tratteremo a bocca.

La questione “militare”

“E perciò m’aggrada di rintuzzare alquanto l’opinione asinina di questi cotali”.

(Giovanni Boccaccio)

Nella loro sbornia d’imbecillità, a balzelloni, gli ubriachi estensori una questione l’avevano posta: quella “militare”.

Funesta e vetusta questione.

Certo, l’avevano posta in modo asinino, l’avevano posta e basta, cioè collocata sull’empireo delle inutile chiacchiere, ma l’avevano posta e con fracasso.

Come chi pone il problema di Dio, se con questo spicciativo porre non crea Dio, crea sempre il problema di Dio e quindi del fondamento dell’autorità. E non è poca cosa. Poca cosa lo diventa quando i ragli facendosi troppo alti e rancorosi lo coprono d’indegnità, ma questa è un’altra faccenda.

Diamo per buona, ma solo per un attimo, l’occasione offerta di riflettere sul cosiddetto problema “militare”. Che ne è venuto fuori? Niente, a causa del profondo sconvolgimento.

Nessuno lo ha preso. Né chi ne condivideva le conseguenze logiche, né chi le avversava. Perché?

Perché chi pensava il problema “militare” come problema di specialisti ha taciuto?

Perché chi lo pensava come problema di generalizzazione insurrezionale ha taciuto?

Qui partiamo dal presupposto, rivelatosi di poi (ahimè!) fondato, della imbecillaggine asinina dei sostenitori dello specialismo “militare” abborracciato e vilipeso in sgrammaticature da parodia goliardica. Gli imbecilli non sanno andare avanti nelle stesse cose che dicono. In quanto imbecilli si esprimono per luoghi comuni e tautologie.

Ma gli altri? Perché non lo hanno preso seriamente, sia pure in modo sommesso? I sentieri impervi della montagna, dove si finisce per restare soli, non perdono d’importanza e di significati (positivi e negativi) per il semplice fatto di essere calpestati da qualche presuntuoso imbecille.

Anche l’insurrezione comporta un problema “militare”, di altra natura dello specialismo armato, ma lo comporta, ed è problema di complessità enorme che non si può chiudere in qualche andirivieni analitico. Nell’attaccare il nemico in maniera diffusa nel territorio, a tutti i livelli, si devono superare ostacoli oggettivi e soggettivi che si può dire ancora non sono stati nemmeno scalfiti.

Dentro l’armadio delle perplessità si trovano ancora problemi come l’acutizzarsi delle contraddizioni del capitale, la situazione del movimento degli esclusi nel suo insieme, il rapporto tra lotte intermedie e recupero riformista, la repressione come colpo d’incontro del capitale, la destabilizzazione provvisoria della formazione politica in carica, l’anticipo delle ristrutturazioni capitaliste sull’organizzazione delle forze di resistenza e attacco degli esclusi, la sorte degli embrioni di lotta più avanzata di fronte alla repressione, l’individuazione di obiettivi muniti di significato rivoluzionario, livelli differenziati nella scelta dell’obiettivo da attaccare, necessità dello scontro armato (è solo questione di tempo), ecc.

Una stupida tensione di muscoli

“L’imbecille non ha coscienza della propria condizione, come il pazzo non ha coscienza della propria aberrazione”.

(Gabriele D’Annunzio)

L’epidemia di rabbia contagiosa che prelude all’insurrezione rimane un mistero per l’imbecille manicheo. Portategli evidenze tangibili e vi farà suo re. Dategli un problema e sentirete che contorcimenti e che ragli.

Posta l’esistenza di un nemico, precipitosamente lo si deve attaccare. Posta la necessità dell’attacco, questo deve essere al massimo delle possibilità in modo che colpisca il punto più alto dell’avversario. Tutto il resto non è attingibile alla manichea testardaggine dell’imbecille.

Il fatto di per sé evidente che ingaggiare uno scontro a due tra organizzazione e Stato è stupida tensione di muscoli, non scalfisce la cute asinina.

Lo stesso per quel che riguarda il confuso pensare che l’uso delle armi sia il più alto livello dello scontro. La protesi brunita deve potersi differenziare, dileguarsi nella pietra dell’intifada e anche condensarsi nella densità distruttiva del tritolo, e ancora oltre. La cute asinina è troppo spessa per queste considerazioni.

Alzare il tiro è facile, farlo per darsi un ruolo e un contegno rivoluzionario è possibile, per l’imbecille quest’ultima è l’unica cosa da fare. Il resto non conta, la prodigiosa cute asinina lo respinge.

La

“Bisogneria ingegno, lectori doctissimi et optimi, di più speculazione e maturità del nostro imbecille”.

(Marin Sanudo)

La specializzazione è sempre riduzione di capacità, anche se a tutta prima si presenta come acutizzarsi di espedienti tecnici e più consistente disponibilità di mezzi.

Un momento come quello che viviamo adesso, con elevato tasso di decomposizione sociale, facilita la radicalizzazione fittizia degli imbecilli che nella consueta incapacità di fare si sfogano a parole credendo di impressionare quando, tenendo alzata la coda, si limitano a mostrare il culo.

Non si fa niente! Ecco la loro insegna di battaglia, lo stendardo che innalzano sulla testa dell’inclita accolta. Non si fa niente. Facciamo noi qualcosa. E, tolto il basto, emettono un sonoro raglio. Questo è per loro fare qualcosa.

Ma quand’anche il nostro compito fosse un altro? Quand’anche avessimo di fronte i vecchi compagni d’una volta, ai quali contrapponemmo la nostra critica, e non questo suscettibile distruttore imbecille con le sue patetiche facce asinine? Il discorso sarebbe lo stesso, forse più approfondito, come lo facemmo alla fine degli anni Settanta, più approfondito e quindi più propositivo, ma fondamentalmente lo stesso.

Visto chi abbiamo di fronte sarebbe stata necessaria una poco metaforica frusta, convenientemente impiegata, ma per il momento ci limitiamo a queste povere (e pittoresche) considerazioni, in fondo utili anche a chi imbecille non è.

Non posso tacere che per parecchio tempo questi asini hanno continuano a farmi simpatia anche dopo il loro primo biascicare asinino. In fondo, pensavo, si tratta di animali innocui, un po’ folcloristici, ma innocui.

Dopo hanno cominciato a tirare calci e mostrato la profonda miseria dell’animo loro.

Non meritano altro (per il momento) che queste scudisciate sul muso.

Evitate di ragliare, se vi riesce

“Non ci facciamo illusioni sull’imbecillità di chi afferma certe cose”.

(Eugenio Montale)

Riappropriarsi di che cosa se non della nostra stessa vita?

Non certo dei mezzi di produzione. Nel vecchio progetto utopico, se si vuole incondivisibile ma condiviso anche dagli asini attuali, a partire da Dylan Dog, c’era una diffusa intenzione di rifiuto, rifiuto di qualsiasi merce, denaro in primo luogo. Strumento sì, per fare altro, ma questo altro, disseccatosi l’afflato iniziale, non può uscire da teste vuote che non sanno cavare fuori due parole, che si limitano a mimare il ruolo della mosca cocchiera facendo le prove di saluto davanti allo specchio. “Le frodi e gli inganni dimostrano essere sempre l’imbecille di poco animo”. (Giovanni Dalle Celle).

Andiamo, miei poveri asinelli, se avete qualcosa da fare, fatela, ed evitate di ragliare. Se sapete solo baldanzosamente ragliare, fatelo, ma tutti scopriranno le vostre orecchie lunghe. Gli imbecilli sono velenosi, ma le balle che dicono sono tanto evidenti da non convincere nessuno.

Se avete qualcosa nel gozzo, sputatelo fuori, ditelo e sottoscrivetelo, non continuate da vigliacchi a smerdare di nascosto. In caso contrario riaccoccolatevi nella merda.

La sbrecciatura

“Certa semplicità è imbecillità; e la nudità non è sempre natura, ma il più delle volte miseria”.

(Giosuè Carducci)

L’amata sbrecciatura qualifica lo sbrecciatore. Solo per lui lo sbatacchiamento è segno di vita. Anche per il repressore (in verità quest’ultimo non aspetta altro) è fatto che ne segnala un altro, segno e sintomo. Per tutti gli altri, resta una sbrecciatura nel muro.

Per carità, chi non ha sbrecciato qualcosa non saprei dove trovarlo, ma almeno una volta si aveva la saggezza del limite. Si sapeva cioè che nessun segno è sostituibile alla realtà, resta sempre al di qua, nell’ambito della rappresentazione spettacolare.

La realtà è più remota e difficilmente attingibile, salvo che per gli asini. Questi ultimi la portano rozzamente al sicuro nel proprio basto, e ne sono asinamente felici.

Il fine e il mezzo

“Ma per la loro asinità superba

Son poi fuggiti più che la mal’erba”.

(Lorenzo Lippi)

Se il mezzo condiziona il fine, e su questo siamo tutti d’accordo, vuol dire che il fine si trova di già nel mezzo, cioè che il mezzo è esso stesso fine. Asini, smettete di ragliare solo per un attimo, per favore, questo discorso non è diretto a voi, quindi è inutile strapparsi i capelli.

Se l’azione, sia pure la piccola sbrecciatura, è diretta a riaffermare la propria identità e null’altro, è l’identità lo scopo trasognato e questo è contenuto nella stessa sbrecciatura, per cui il cerchio si chiude. Faccio per esistere. Che cosa me ne importa della realtà? Niente, a me basta soltanto esistere.

Se, invece di sbrecciare, straparlo o raglio, lo faccio per esistere, per non confessare la mia nullità assoluta. Un asino che non raglia non è nemmeno un asino, è niente. Che ragli, dunque, gli cresceranno le orecchie e la coda.

Il domatore

“Stimo mi sarà licito potere dire el vizio nelle menti e animi de’ mortali sia scorretta consuetudine e corrotta ragione, la quale viene da vane opinioni e da difficoltà di mente”.

(Leon Battista Alberti)

C’è un tipo particolare che sarebbe accorpamento ingiusto definire asino. Non lo faremo. Difatti egli non raglia né squittisce, ma straparla e strascrive.

È simpatico, un simpatico maldestro. S’immagina, nel suo intimo, irremovibile domatore di animali feroci, nella realtà ha l’anima di un chierichetto, dolce e inoffensivo. In fondo è questione di saliva.

Come tutti i docili anche lui si veste di panni che non lo coprono a sufficienza. Paziente e onnicomprensivo, gli sfugge via la zampa caprina del punto debole. Sarà la cultura? Non lo so, che non di cultura qui si tratta ma di vita. Sarà la vita? Certo di faccende del genere lui è digiuno o, se preferite, è ortodossamente legato alla vita nel senso migliore del termine. Batte il sangue ai polsi, deglutisce la gola, secernono gli organi a ciò destinati, e la testa, quella sì che è un problema, la testa è un congresso, un eminente congresso di ragionamenti in libertà. Si azzuffano fra loro, si accapigliano in un obbrobrio per una virgola di differenza, si sbranano a parole e a parole si ricongiungono. Una testa del genere non c’è chi non la vorrebbe, e lui lo sa, e ne mena vanto, lasciandole la briglia sciolta su ogni argomento, anzi su ciò che nemmeno può dirsi un argomento, sul colore del pelo d’un animale preistorico o sull’ultima sigaretta d’un fumatore.

Gli astanti si frastornano, ma lui nemmeno se ne accorge, ecumenico e possibilista, energico pluralista convinto di persuadere, non ha ancora individuato il limite alle parole.

Come tutti, quest’uomo angelico e un po’ fastidioso per il troppo cicalare, ha le sue bestie nere. Lui non lo sa, ma tutti se ne accorgono. È umano, ma lui si pensa superiore alle umane debolezze. Dorme come tutti, pensa di non dormire se non a sprazzi. Immagina di non mangiare e mangia (male) come tutti. Come tutti desidera e prende come tutti quando si presenta l’occasione. Non vuole legami e non ne promette, è troppo corretto per farlo, troppo per bene. Ma dentro al suo cuore, se tutti possono avere torto o ragione, solo alcuni, un numero inverosimilmente ristretto, hanno torto per definizione.

Ora, soggiungo di passata, ditemi voi se un uomo del genere può ricondurre gli asini alla stalla dopo averli invitati a ballare.

Sulle prime lo spettacolo di danza l’aveva eccitato. Tornava a conferma della nefandezza d’una tesi a lungo accarezzata: la tesi del complotto. Poi se ne scandalizzò. Possibile che questi imbecilli, almeno alcuni di loro, potessero arrivare a tanta vigliaccheria e a tanta menzogna?

Il suo cuore onesto ebbe un rigurgito? Si rese conto che volendo sostenere una tesi aveva scatenato un’antitesi di cui la sintesi suprema era l’osceno ballo asinino? Non lo so.

In ultima istanza gli imbecilli più protervi (pochi, per fortuna) lo sconvolsero. Gli altri, meno imbecilli e vigliacchi, ma asinini sempre e comunque, bellamente lo misero alla porta avendo constatato la sua incapacità a venire a capo della sintesi. Gli richiedevano di contribuire alla gestione di quelle asinerie che lui stesso aveva provocato. Poteva accettare? No di certo.

Quousque tandem

“Solo pochi vogliono imbecillare così”.

(Terenzio Mamiani della Rovere)

Quello che emerge da queste animalesche vicende è l’indifferenza generale.

Tutti si disinteressano di questi imbecilli e anche quando i ragli si sentono più alti, il sordastro disinteresse non scema per questo.

Queste righe non sono difatti frutto del mio interesse per i loro risibili sproloqui, intendono colpire, almeno in parte, l’ignominia dai vasti e impensati sviluppi che cercano di gettarmi addosso, intendono farli uscire dalla stalla e farli ragliare ancora più, magari precisando pubblicamente queste accuse.

Per il resto mi sono indifferenti. E come potrebbe essere diversamente? Non hanno nulla da dire, nulla da fare, nulla da suggerire come progetto comune. Il loro solo scopo è quello di intralciare con orribilissime accuse da postribolo quello che gli altri fanno.

Quousque tandem …

Di malefico raglio al triste suono
di me stesso diverso oggi ragiono.

Mettiamo che gli asini smettano di ballare

“Questi pezzi d’asini vogliano il mondo a modo loro: vogliono attaccarvi colle loro opinioni, e poi non vogliono che altri parlino di loro. Non hanno ancora assaggiato la mia poco metaforica frusta”.

(Giuseppe Baretti)

Mettiamo, tanto per discutere, e riferendomi ai miei soliti quindici lettori, non certo agli abominati asini i quali per definizione non sanno leggere, che per virtù angelica le parole prendano corpo, e che le quattro chiacchiere da ubriachi al bar si allarghino fino a raggiungere la prospettiva dignitosa di un progetto rivoluzionario. Pazzie? Sì, lo so, ma mettiamo avanti questa ipotesi, non costa denari e nemmeno fatica. Poniamo che animali meno asini e meno ubriachi raglino più sommessamente e con maggiore lucidità qualcosa di simile ad un progetto. Dopo tutto è nel diritto di qualsiasi imbecille, per quanto vile, aprire bocca non solo per sbadigliare.

E mettiamo pure, con grande indulgenza, contro ogni logica e contro la stessa evidenza elementare, mettiamo che qualcosa si muova. Che azioni e attacchi dilaghino e che la follia umana, ad essi peraltro non connaturata, li sposi a una sigla combattente. Mettiamo che ritorni fra noi, zombie redivivo, la formazione dei nostri anni più verdi, la quale inveri nel fare le medesime quattro chiacchiere da caffè.

Mettiamo che gli asini smettano di ballare, ubriachi della propria inconsistenza, e si dedichino a ragliare meno e fare di più. Mettiamo che cessino languidamente di vedere le madonne, mettiamo che cessino di gingillarsi tra pentole e vasellame, che si decidano ad abbassare la coda e a coprire decorosamente il culo.

Agendo di concreto con gli uomini, le bestie da basto, improvvisamente giubilate dal loro ruolo naturale, ragliando di gioia, cosa provocherebbero? L’indifferenza generale. “Non so fino a quanto imbecilliscano col capo nelle nuvole”. (Enrico Thovez). La realtà non saprebbe che farsene del loro progetto asinino, il quale però (a mio avviso), pur nell’indifferenza generale, avrebbe almeno il merito di esistere in quanto progetto, sia pure irritante. Di essere, criticabile quanto si vuole, qualcosa di più di quattro chiacchiere al bar.

Ma i sogni sono destinati a restare tali. Non basta un progetto – sia pure bene articolato – per far parte della realtà.

Raglia per sei, risponde a tutti e pare
ch’egli ti sia da lungo tempo amico.
Tutto sa, tutto intende e in ogni affare
prontamente si caccia e in ogni intrico.

Un funzionario

“Non si può – morale della favola – dire asini agli asini se non dopo che essi siano morti e putrefatti”.

(Luigi Bartolini)

Il distruttore si pasce di ingenuità. Tutto ciò che vede attorno a sé non gli sta bene, solo che quasi sempre quello che lo circonda non è pane per i suoi denti. Vorrebbe morderlo senza indulgenza, ma il morso dell’asino, come tutti sanno, se è micidiale è, nello stesso tempo, difficile nella presa. Questo straordinario animale non si accorge di quello che gli accade attorno. Fissa un particolare e di quella molecola di realtà fa la propria vita.

Il distruttore è un funzionario del vuoto, semplice, primordiale bisogno di dissentire. La sua incapacità sarebbe disarmante se non sentisse la spinta ad avvelenare l’aria con le vigliaccate. Impotente, come ogni castrato da stupido diventa cattivo, e un asino cattivo è animale pericoloso.

Non potendo capire altro, nella sua ebbra testa vuota, egli pensa che la politica in armi sia la soluzione di tutto. Sarebbe bastato farlo ragliare da solo, mentre le sue poche facce si guardavano attorno esterrefatte dalla condizione di indifferenza. Al contrario, gli si è dato credito.

Apriti cielo. Così ha pensato che le sue scoregge fossero l’evento del secolo, l’alleluia al nuovo millennio. Gli imbecilli sono imprevedibili e quanto di più ottuso vanno bofonchiando nella capa, lo ritengono vangelo per tutti.

Può qualche scoreggia costituire una “linea” rivoluzionaria? Certo, qualche volta in passato lo ha fatto, ma almeno si trattava di rumori d’arma da fuoco, non di budella ingombre. L’asino nella sua ottusità non se ne avvede. Non solo non coglie la differenza, ma attorno a lui pensa sovrano l’ordine della propria asineria. Pensa che tutti abbiano le orecchie, vedano madonne e accarezzino pentole.

In qualunque modo si mettono le cose un asino è un asino.

Tutto quello che non è

“La viltà, la dappocagine, la mancanza di coraggio, in molti è imbecillità di mente”.

(Giacomo Leopardi)

Tutto quello che non è vero lo riassumiamo in pochi punti.

Non è vero che l’organizzazione specifica clandestina anarchica abbia come alternativa soltanto pretese forme, sia pure rispettabili, di individualismo. Questa era la tesi di Azione Rivoluzionaria e l’esperienza di quindici anni di lotte l’ha dimostrata infondata.

Non è vero che criticare la costituzione, il funzionamento e l’azione di organizzazioni armate del tipo “Azione Rivoluzionaria Combattente” corrisponda ad un indebolimento del movimento rivoluzionario, e ciò non solo perché questa sigla esiste nell’ambito della sciocca fantasia di qualcuno, ma anche se dovesse prendere corpo in azioni e attacchi precisi.

Non è vero che la generalizzazione insurrezionale della lotta armata nega l’organizzazione, anche specifica. Solo che la propone in altri termini, cioè in termini più vicini ad un corpo vivente, più aderenti alla realtà dello scontro e forniti di maggiori possibilità di un sia pure indiretto coinvolgimento degli esclusi.

Non è vero che a “vincere” sia un’organizzazione specifica. Questa può, forse, quando è reale e non parto di pura fantasia, mettere in moto certi meccanismi, pareggiare certi conti, ma il resto sta altrove, pena un orribile bisticcio logico. A vincere deve essere l’insurrezione armata che sviluppa le condizioni rivoluzionarie della vittoria contro il nemico di classe.

Non è vero che l’insurrezione la fanno le minoranze armate, più o meno anarchiche, per quanto concretamente esistenti. Queste possono soltanto cominciarla, qui e là, stimolare le condizioni dello scontro, esacerbare le contraddizioni di già esistenti. Ma per fare questo devono essere presenti nella realtà di classe, a fianco degli esclusi, e certamente non possono raggiungere questo posto espugnandolo a colpi di baionetta. Non ci sono fiori all’occhiello.

Non è vero che gli irriducibili stalinisti, o ex tali, siano detentori della verità. Se il loro progetto rimane lo stesso (conquista del Palazzo d’Inverno), la simpatia che raccolgono per la coerenza del comportamento sfuma e resta la verità di quello che sono: nostalgici dominatori, e chi li esalta per il loro coraggio è soltanto un imbecille.

Non è vero che la generalizzazione dello scontro insurrezionale sarà una conseguenza deterministicamente data a partire da uno o mille che siano fuochi di guerriglia, accesi da uno o mille che siano bande armate, anarchiche o non anarchiche che siano. Il processo che porta dall’insurrezione alla rivoluzione si costruisce giorno per giorno, con la ribellione insieme agli sfruttati, con l’organizzazione di gruppi specifici informali e di nuclei di base non anarchici, con la stessa lotta armata, ma concretamente esistente, cioè costituita da interventi che si innestano nelle lotte in corso e che hanno un significato per gli esclusi, un significato che non abbisogna di spiegazioni, né tanto meno di comunicati. Inventare fughe in avanti è in fondo un contraddirsi e un tirarsi indietro.

Non è vero, quindi, che l’organizzazione specifica anarchica armata non abbia validità. Prima di tutto, per avere questa validità deve avere una sua funzione e, ancora prima, deve venire in essere, cioè deve esistere, non saltare fuori dalla fantasia di qualche ubriaco al bar. Se esiste ha funzione importantissima nell’insieme dello schieramento di classe, svolgendo un ruolo “ancillare”, un ruolo di supporto e di sostegno, solo in maniera secondaria di stimolo alle lotte di già in corso. Ma per fare questo deve essere costituita da persone intelligenti, non da imbecilli che pensano che il cocchio cammina grazie alla mosca che s’è posata sul dorso del cavallo. Ogni rappresentazione alimenta lo spettacolo complessivo del capitale, anche quella che viene assunta in carne e ossa nel cielo dell’eroismo specialistico.

Non è vero che gli anarchici hanno lo scopo di costituire bande armate per combattere lo Stato. Questo è lo scopo degli stalinisti (sarebbe meglio dire “era” lo scopo, visto che di stalinisti ne vedo sempre meno in giro, qualche ombra che passeggia avanti e indietro, nulla di più). Gli anarchici fanno ricorso allo strumento armato, che non è esatto definire “banda” in quanto si tratta per loro di organizzazioni informali armate specifiche, non per fissare uno scontro diretto col potere, a tu per tu: vinci tu o vinco io, ma per sostenere la generalizzazione dello scontro. Quando ci si taglia fuori dal progetto insurrezionale nel suo insieme, quando non si sa nemmeno cosa sia un gruppo di affinità o un’organizzazione informale, quando non si sa che cosa sia un nucleo di base che vede insieme agli anarchici la partecipazione degli esclusi in una lotta specifica, quando non si sa tutto questo, se la “banda armata” esiste davvero, e non è pura esercitazione retorica, puro sciacquio del gargarozzo, essa è strumento al servizio della generalizzazione delle lotte, stimolo, sostegno, null’altro. Nessuna oscenità interpretativa può nascondere la coda dell’asino.

Non è vero che gli armigeri, di qualsiasi tipo, anche i meglio intenzionati, siano il corpo vivente, la testa di qualcosa, la punta di diamante, gli assuntori in proprio della maggiore responsabilità dello scontro, i parafulmini di cui tanto si parlò a proposito di Azione Rivoluzionaria. Se coscienti del loro ruolo, quindi non più armigeri distruttori infatuati del reboante risuono dei loro ragli asinini, possono essere compagni disponibili a sostenere lo scontro, a creare con il loro lavoro rivoluzionario (questa volta sì: lavoro rivoluzionario) il terreno adatto per fare procedere il progetto insurrezionale.

Non è vero che un’organizzazione armata specifica anarchica nasce soltanto dalla foga costruttiva di pochi compagni. Se non è semplice esercizio di asinità, essa nasce e si sviluppa quando le condizioni dello scontro la richiedono. Forse non sarà mai del tutto perfettamente adeguata a queste condizioni ma, nascendo da esse, è con esse che deve commisurarsi, svolgendo il suo ruolo armato senza infingimenti, senza illusioni avanguardistiche, senza copiature di progetti che anarchici non sono mai stati.

Non è vero che la forza di un’organizzazione del genere, quindi armata e realmente clandestina (cretini esclusi, qui si parla d’altro, per favore), sia tutta al suo interno: uomini, cose, relazioni, conoscenze tecniche, disponibilità finanziarie, ecc. È vero il contrario. Un gatto è un gatto. La forza di una struttura del genere sta proprio all’esterno, nel suo relazionarsi alla lotta insurrezionale in corso, nel suo sapere “esportare” la propria potenzialità nelle situazioni di lotta che tendono a realizzare la generalizzazione dello scontro. Chiudersi è sempre cercare di salvaguardare la propria stalla.

Non è vero che la lotta armata è stata realizzata, negli ultimi vent’anni, soltanto dalle organizzazioni cosiddette storiche, cioè quelle che realizzavano le grandi azioni sponsorizzate dai mass media. Questa è la deforme interpretazione di comodo messa in atto dagli organi competenti del ministero. Al contrario, un enorme bacino di comportamenti illegali e antiautoritari si è diffuso dappertutto, prendendo vie e modi diversi per esprimersi. Lo Stato sa bene questo fenomeno, difatti ha chiuso ogni sponsorizzazione alle piccole azioni, ai comportamenti illegali generalizzati, per focalizzare l’attenzione sulle azioni più eclatanti, ma anche meno significative per una generalizzazione dello scontro, sia per la loro difficile riproducibilità, sia per la loro lontananza dagli interessi specifici di gruppi di persone impegnati nelle varie lotte intermedie. Il più delle volte l’impressione che si riceveva, di fronte a queste azioni, era di una efficienza militare inarrivabile e di uno scontro diretto tra Stato e banda armata. Due riflessioni contrarie ad ogni possibile contributo alla generalizzazione dello scontro.

Per fortuna mi sembra di non sentire più i ragli in lontananza.

Gli asini riposino in pace.

Postfazione da non leggere (riservata soltanto al distruttore e alle sue facce asinine)

“Nessuno è tanto povero che non gli avanzi per farsi ragione una spanna di coltello”.

(Riccardo Bacchelli)

So bene che queste pagine dispiaceranno.

Agli imbecilli perché non amano che delle proprie marrane asinerie venga messa a parte la piazza. A coloro che imbecilli non sono perché spesso indulgenti verso gli asini.

Io sono stato da sempre assillato da queste bestie. Quasi sempre non mi sono occupato di loro, perché pascolavano lontano dalle lacere periferie dei miei sentimenti. Oggi, per questa mandria, le cose stanno diversamente. Quello che qui sto facendo è un alzare il dito contro qualcuno. Qualcuno che ho amato e stimato, qualcuno che si è rivelato miserabilmente indegno della mia stima e del mio amore.

Forse questo distruttore dalle molteplici facce, di cui ho parlato, non sapeva che lo amavo e che lo stimavo, ma di certo non mi doveva né amare né stimare se è arrivato ad abbassarsi fino a tanta imbecillità accusandomi di ignominie che preferisco non ripetere (un minimo di vergogna la tengo in serbo io per questi asini). Forse questo distruttore, con le sue diverse facce, si è sentito tradito da me in qualcosa, forse ha letto in qualche mio comportamento una traccia di quello che di certo era nella sua testa, forse si è sentito defraudato delle poche disponibilità di ragione di cui la matrigna natura l’ha dotato. Non dico di no. Come tutti i vigliacchi e i miserabili, invece di venire a parlare con me ha preferito tremando parlare dietro le spalle mie, ma non tanto a bassa voce che l’eco rancorosa del suo dire non arrivasse alle mie orecchie.

Qui sto parlando con queste facce del distruttore, in questa postfazione sto parlando solo con lui che platealmente tutte le riassume. Il resto, come disse Verlaine, è letteratura.

Ascolta. Se ti basta il coraggio vieni e guardami negli occhi, a ripetermi quello che, mi dicono, urli da tempo ai quattro venti, ben lontano da me, sicuro della protezione di chi ti ascolta. Sputa il tuo raglio di fronte a me.

So che sei un povero imbecille, quindi nemmeno in grado di cogliere il significato dei tuoi stessi ragli. Ma qualche altra tua faccia potrebbe darti un buon consiglio.

Galleani sta fremendo nella tomba.

* * * * *

“Pensiamo ad altro, né graviamo i basti
di questa turba d’asini da soma”.

(Niccolò Forteguerri)

Questa storia che pare di fantasia è assolutamente basata su fatti realmente accaduti. Ogni riferimento a persone o cose, ravvisabili dietro il tenue velo delle allusioni, è quindi assolutamente voluto e non casuale.

APPENDICE

Lottare contro gli imbecilli è più difficile di agire. Qui ci vuole il coraggio vero del non tirarmi indietro, lì tutto si appoggia su cento polemiche dirette a chiarire la tua sincerità e la tua rettitudine, nulla di più avvilente. Ho pensato in gioventù che potesse essere ottima palestra per me e chiarezza per i meno stupidi, devo ammettere di essermi sbagliato. Gli avvenimenti stessi, che costoro come tutti, prendono sul muso, sono tasselli che si inquadrano nella loro visione del mondo, nella mia trovano posto sempre con difficoltà e a volte con stridore. L’oppressione esercitata dalla ignoranza e dalla tronfia stupidità è della specie peggiore, ne ho sofferto le conseguenze per tutta la vita. La sofferenza di chi sa ragionare è destinata ad aumentare sempre di più, lo stesso riflettere la fa rifiorire in continuazione. Non accettando gli sforzi e i piccoli passi ai quali obbliga la conoscenza, il lungo lavoro degli studi, l’imbecille spizzica a caso qua e là e tutto commisura a questo pasto di gallina.

Chi avanza nell’azione avanza anche nella consapevolezza della paura. Non avrebbe il coraggio necessario alla propria messa a rischio se non entrasse nell’atrocità dell’orrore e nel dubbio di essere nel giusto. Non ci sono punti di appoggio fermi, tutto balla e gira e si prende gioco di me. Vivo nuove consapevolezze che farebbero fremere le mie certezze di ieri se io li sovrapponessi, ma non lo faccio, non voglio una versione edulcorata della mia vita nel mondo, lascio ad altri la pompa e i fregi, i riconoscimenti hanno i contorni insanguinati, tutti, senza eccezione. Se guardi negli occhi l’adulatore scopri lo stesso bagliore sinistro del delatore che non tarderà a prodursi in lui. Ognuno fa del suo meglio per mascherarsi convenientemente, per evitare l’irruzione della consapevolezza, ma alla fine arriva il momento in cui l’imbecille o il delatore si rendono conto di quello che sono, questo momento, terribile per loro, è condizione non della propria coscienza che continua a tirare ancora dalla sua parte la coperta troppo corta, ma della loro fine fisica, della fine fisica della loro vita. Soffocati dall’irrespirabile stretta della morte, si rendono conto di non essere mai vissuti.

Immaginare lo straordinario come apparenza ancora più completa, ricercata in particolari e dettagli, comunque sottoposta alle medesime regole, è caratteristica dell’imbecillità. Molte considerazioni sul mistero e sulle trame segrete, sono fatte in perfetta buonafede, anche da brave persone. Ma sono colte nei loro contenuti fattuali, e solo in questi, esclusivamente dagli imbecilli.

Non c’è modo di giudicare il nemico. Lo si può colpire e basta non appena approssimativamente individuato. Se si approfondisce questo processo si trovano scusanti e giustificazioni che lui stesso non avrebbe pensato. In tal senso un giudizio morale è astratto e non aggiunge nulla di più fondato a quella primitiva individuazione. La mia preoccupazione essenziale non è la solitudine, il che può sembrare strano visto il luogo in cui mi trovo [2004]. Spesso sono le persone che mi infastidiscono, e più avanzo negli anni e più riduco il numero di coloro con cui sono disposto a condividere la mia vita. In genere la presenza di molta gente mi infastidisce perché vi immagino in circolazione un enorme numero di imbecilli. Non ho paura della gente, e so adeguarmi a quello che l’animale collettivo si aspetta da me, ho fastidio della stupidaggine.

Non sono in regola col mondo che ho creato, se dovessero esaminare le mie carte troverebbero sempre irregolarità. Avevo questa sensazione panica quando facevo il dirigente industriale, è finita del tutto quando ho cominciato a fare il tagliagole. Solo gli stupidi tremano quando si trovano in una condizione irregolare, se appena riflettono un poco, dovrebbero tremare quando sono del tutto in regola con le leggi, passaporto compreso. Sono stato spesso inflessibile nei riguardi degli imbecilli e questi se ne sono risentiti attaccandomi sul piano dei giudizi morali. È tipico delle canaglie.

Tutti gli imbecilli sono fanatici e tutti i fanatici sono imbecilli. Tutti i fanatici sono anche deboli che si rinchiudono in una sola idea per meglio concentrate le loro poche forze. Molti forti possono essere imbecilli, ma a bene osservarli la loro forza è del genere esteriore, muscolare o quasi, non scende in profondità, non riesce a scalfire la loro scorza di stupidità. Il fanatico non è morbido, non sa impiegare in modo duttile la propria forza, se non può trovare proseliti diventa un asceta.

Tacere non è una debolezza, restare senza parole in un universo desolato è segno di forza che dilaga, di non commistione, non ci sono vittorie e sconfitte, la perdita suonerà la sua campana al momento della rammemorazione, quando le parole torneranno fedeli al loro impossibile compito. Disintossicare il dire è compito troppo complesso per le mie forze, non ho antidoti per gli imbecilli. Ho idee per i coraggiosi, per coloro che tengono le mani in tasca per non tenderle nella richiesta di aiuto. Preferisco parlare a un solitario tronco abbattuto nel bosco, rinsecchito e dimenticato, che a sordi che non vogliono aprire le orecchie. Il tempo dei vecchi sillogismi che facevano placare l’ansimare della mia gioventù, è finito per sempre.

Chi affronta la desolazione è sulla via dell’estraneità dal mondo. Entra prima o poi nel sospetto di chi considera le sue scelte come inconsuete se non proprio esecrabili. È così considerato un traditore, o almeno un rinnegato. Poiché nessuno conosce i motivi di questo suo rifiutare il mondo, e poiché lui non fornisce giustificazioni, ci devono essere motivi ignobili. Così ragiona il mondo. Da giovane pensavo che questo fosse un ragionamento da imbecilli, ora so che gli imbecilli non arrivano nemmeno a tanto, restano al di sotto di questa infamia. L’ignominia di cui ognuno si sente in fondo responsabile per la propria vigliaccheria, è così fatta piombare addosso a colui che osa, che non si limita a rimuginare, ma oltrepassa il fare e agisce. Essere al di là, in pieno deserto, rende però immuni da questi balbettii notturni, si è troppo lontani per farsene un problema, si è altrove. So bene che le iene sono pericolose, ma basta tenerle lontane e non ardiscono azzannare. La virulenza dell’ignominia mi ha causato tante ferite, nessuna mortale.

Dalle biblioteche sono uscito come massacratore, ma non sono pauroso. Poteva capitare, ci sono anche, e sono i più, massacratori ignoranti e paurosi, ma questi appartengono alla categoria degli imbecilli e si arroccano decisamente nel di già acquisito, non si mettono a discutere le loro stupide certezze. E sono, com’è ovvio, i peggiori, quelli che scatenano la propria ira e non sanno controllarla, quelli che vogliono essere riconosciuti per i propri sacrifici, quelli che vogliono vendicarsi in maniera indistinta. La crudeltà è lo stimma dei deboli e degli stupidi.

Non ho molta considerazione per chi pretende svelarmi segreti e gratificazioni di quello che sta pensando e che reputa importante. Penso che la percezione della realtà sia il punto essenziale da cui partire, e questo punto è stato già specificato, quindi modificato in dicotomia. Come posso prestare attenzione a questa vicenda? Perché non mi sono murato vivo nella mia caverna primigenia in compagnia delle mie intuizioni? Perché ho accettato di fare il pagliaccio per personaggi di nessuno spessore, fantasmi pallidi, osceni manichini neanche capaci di abbindolare se stessi? Eppure ho conosciuto la volgarità di tanti presuntuosi pedanti, ho visto il loro occhio scaltro cercare di cogliermi in fallo nella non del tutto improbabile pozzanghera della mia sventura. Ho messo da parte la loro avversione, l’animosità che avevano accumulato contro di me, preoccupati di perdersi nel mare che mettevo sotto i loro occhi, e ho visto la loro paura di candidati alla mediocrità imbecille. Qua e la qualche generoso, capace di amore, oltre ogni limite, oltre la morte, una rarità.

Il ricordo, solo il ricordo, di certe condizioni attive, improvvise, nel tempo e nello spazio, anche se precedute da accortezze e da sottile astuzie, torna spesso a farmi visita. Che ne è stato di quei personaggi attoniti, fantocci di un accidente fastidioso, chiamati a gestire qualcosa per cui, a priori, non potevano che definirsi estranei. Ero il solo ad avvertire il respiro cosmico dell’azione, gli altri rimanevano avvinghiati a un fare che alla fine li avrebbe deteriorati. Simboli, segni, parole, ideologia danzavano attorno a loro, e anche attorno a me, ma non erano capaci di dissolvere la mia azione, non riuscivano a ridurla a semplice fare. Non potevano impormi un calcolo o una scadenza obiettiva, mi sottraevo a questa singola chiaroveggenza che ottunde gli spiriti migliori e spesso più battaglieri, riducendoli a manichini gesticolanti. Mi vedevo, e mi vedo, seduto all’esterno, preso tutto da un guardare interiore a quello che stava per agire dentro di me, accanto, compagno e critico sospettoso del fare degli altri. Io altrove, loro là, accostati a me, ma a me remoti, perché pieni di persuasioni e convincimenti che potevo, e posso, capire, ma non riesco a intuire come miei, costitutivi della forza della mia azione. Il risultato di quella sostanziale estraneità è stato veleno rovesciato su di me, veleno impiegato in maniera tanto stupida da risultare alla fine dannoso per loro stessi.

Difficile la lotta contro la calunnia, ti può spiaccicare su un letto come un sacco di spazzatura, non ci sono soluzioni se non quella di non prendersene cura. Ed è al crocevia dell’eccesso che si trova la formula giusta. Le leggende nascono facilmente in bocca agli sciocchi e stentano a morire, chi le segue nella loro frivola vita le crederebbe immortali. Ovviamente non lo sono, ma come pasto per gli imbecilli sono un pasto robusto.

Gli imbecilli si ripetono continuamente, hanno poco da pensare e quel poco lo pensano girandolo in cento modi fino all’ossessione. Non hanno preoccupazioni reali se non le proprie fantasie al centro delle quali pongono se stessi. L’ossesso rimbambisce quasi senza volerlo. Non sa godere quello che è perché è sempre altro, o almeno tale si immagina. Da qui la sua puntuale e terribile distruzione di tutto quello che può mettere in evidenza la propria stupidaggine.

Gli imbecilli non possono farsi scudo della propria stupidità, sono malvagi e paurosi come i consapevoli e gli onesti cittadini che girano la testa dall’altra parte.

Io non ho superato il mondo, ma l’ho oltrepassato, ponendomi in una condizione che non ha vie di scampo. Il pericolo ha sostituito l’accomodamento e la sicurezza, il coinvolgimento ha preso il posto della parsimonia e del calcolo. Non mi considero migliore di quanti continuano a garantire e a garantirsi il possesso di quelle briciole che hanno messo da parte, le mie classiche invettive sono andate solo contro gli imbecilli, che pensano a queste briciole come all’universo intero. E in questo sono ancora privo di pietà, nutro senza remore un profondo disprezzo verso di loro, non, ripeto, per la loro pochezza d’animo, che nessuno può darsi un coraggio che non possiede, ma per la loro genuflessione davanti all’apparenza. Diventando vecchio mi accorgo che queste invettive e questo disprezzo non hanno avuto altra conseguenza che quella di radicalizzare i codardi nella loro codardia e gli imbecilli nella loro imbecillità. Ciò è inevitabile, ma lo si apprende quando è troppo tardi. Altre potevano essere le cure radicali, ma ne sarebbe valsa la pena? Niente rimarrà dei loro tradimenti e delle loro miserie, niente rimarrà della mia lotta coraggiosa. Qualche traccia, un brivido di gelo qua e là, un senso di vuoto percepito da un singolo soggetto particolarmente sensibile.

 
 

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