Prima edizione: settembre 2015
Charles Fourier
Critica del catechismo laico
Introduzione
La Rivoluzione francese, “grande”, per dirla con Kropotkin, è stata notre mère a tous, la madre di tutti noi, è stata cioè una svolta decisiva nella storia dell’uomo ma, nello stesso tempo, è stata l’occasione per sigillare il dominio in modo nuovo, aprendo tutti gli sviluppi moderni della sua realizzazione.
Ci siamo entusiasmati leggendo i grandi avvenimenti di quell’epopea, ma le critiche sono sempre arrivate con ritardo. Tagliare teste, in fondo, specie quando si tratta di teste più o meno coronate, è spettacolo affascinante. Ma non essendo delle tricoteuse e non amando più di tanto l’odore del sangue, specialmente dopo le sanguinose repressioni che la borghesia salita al potere ha organizzato in tutto il mondo, una critica puntigliosa e attenta è sempre bene accetta.
I rivoluzionari, insediati al potere, dettero incarico a Jean-François de Saint-Lambert, un filosofo e poeta francese, autore di Les saisons et les jours, pubblicato senza luogo nel 1764, di scrivere Le catéchisme universel et son commentare, da impiegare nelle nuove scuole laiche ad uso dei fanciulli. Jean Baptiste Le Rond d’Alembert aveva avuto questa luminosa idea (non poteva essere altrimenti, trattandosi di uno dei padri dei “Lumi”), tipica di tutti coloro che avendo raggiunto il traguardo sognato per tutta la vita lo vogliono sigillare in qualcosa di definitivo, e che ci può essere di più dogmatico e definitivo di una imitazione del Catechismo della Chiesa cattolica?
Charles Fourier è, in queste pagine, come in tante altre della sua vastissima opera, un critico pungente e radicale, anche per noi, a distanza di tanto tempo. Non sono forse in circolazione anche oggi alcune delle idiozie affermate con tanta prosopopea nel lavoro di Saint-Lambert? A quando la definitiva distruzione del mostro statale?
Trieste, 26 maggio 2014
Alfredo M. Bonanno
Critica de Le catéchisme universel et son commentaire di Jean-François de Saint-Lambert
Prendiamo i trattati di morale più recenti; devono essere i migliori dato che i loro autori hanno sull’ordinamento sociale un’esperienza maggiore delle generazioni precedenti; prendiamo ad esempio il Catechismo universale di [Jean-François de] Saint-Lambert, apparso dopo la Rivoluzione francese, dal quale la morale ha certo ritratto qualche lume, progredendo in tal modo verso la propria perfezione.
Ecco un prospetto dei precetti di questo catechismo, affisso nelle scuole per ordine del ministro [dell’istruzione dal 1797 al 1799], il quale certamente non ha trovato nulla di meglio. Dato che l’autore è morto [1803], possiamo permetterci di assoggettare i precetti a delle critiche schiette che, lui vivente, la sua fama avrebbe reso imbarazzanti.
Doveri verso la patria
“Quanto vi devono esser cari gli uomini tra i quali avete visto la luce!”.
Ecco un validissimo motivo alla nostra affezione... Bisognerà dunque amare teneramente tutti i mercanti, i legulei, gli esattori ed altra gente del genere che cerca solo di spolparci; bisogna benvolerli poiché abbiamo visto la luce tra di loro.
“Uomini che vivono con voi sotto le stesse leggi, che con voi godono degli stessi beni”.
Non vi è nulla di più falso; noi non disponiamo degli stessi beni, e la legge ci tratta in modo ben differente; essa assicura, agli uni, buone rendite, e agli altri nulla; la legge ha depredato gli uni per arricchire gli altri. Non vedo in che cosa questa legge possa influire sui nostri sentimenti, né in qual senso noi godiamo degli stessi beni. [In un passo del libro di Fourier su Les trois noeuds du mouvement, più esattamente: “Il carattere più rilevante della Civiltà è la tutela parziale e temporanea degli oppressori e delle loro usurpazioni (cosa che non succede nello stato barbaro): il che significa che essa non garantisce nello Stato più saggiamente governato che il bene dei più forti e niente affatto quello dell’individuo debole e oppresso. Questo è sacrificato senza pietà ai più forti non appena essi vi trovino il più piccolo vantaggio. Voi pensate che Ifigenia dovesse essere immolata perché gli dèi o i sacerdoti chiedevano il suo sangue per placare i clamori dell’esercito? E quand’anche fosse vero che la sua morte potesse mutare il corso delle cose, questa principessa non avrebbe forse avuto il diritto di resistere e di obiettare ai Greci: ‘Vi abbandono e rinuncio ad una società che vuole sacrificarmi ai propri interessi?’. Ma, prima di sapere se Ifigenia è disposta a morire, voi la prenderete e l’immolerete. E non è forse alla stessa maniera che, dietro pretesti di saggezza, all’ombra delle leggi che non sono altro che il capriccio del più forte, voi immolate tutti i giorni il debole, l’innocente, al benessere del ricco, camuffando le vostre persecuzioni dietro il pretesto del bene pubblico, della tutela della società?”]. E se voi volete che amiamo coloro che godono degli stessi beni, allora un povero non dovrà amare che i poveri e dovrà odiare i ricchi.
“Uomini ai quali dovete la serenità della vostra vita”.
Se ve n’è che conducono una vita serena, il loro numero è esiguo; mentre siamo i tre quarti dei cittadini noi che conduciamo una vita dura, tribolata e infelice, fianco a fianco ai nostri simili che vivono nell’opulenza; e lungi dal dovere alcun affetto a siffatta gente, la loro vista ci infastidisce, non ci ricorda che ingiustizia ed usurpazione delle quali siamo vittime. E quale controsenso come esordio, amore e dovere, serpentes avibus.
“Amate delle leggi che non impongono se non quanto giova alla felicità di tutti”.
Volete dire alla felicità di alcuni privilegiati che hanno posti e pensioni. Costoro sì che devono, invero, amare la legge che li tratta così bene; ma la stragrande maggioranza, della legge non conosce che l’imposta e la coscrizione. Un contadino gravato di tasse in nome della legge, un coscritto obbligato ad andare a farsi scannare in nome della legge, un creditore rimborsato in assegnati in nome della legge, pare che abbiano motivo sufficiente per non amare che molto tiepidamente la legge. Del resto, questa felicità di tutti è un’espressione priva di senso nella società civile, dove la felicità può esistere solo per alcuni; e se la legge ricerca la felicità di tutti, diventa ridicola come un alchimista che vada alla ricerca della pietra filosofale. La vostra felicità di tutti è dunque un’espressione da relegare in un club finché sussisterà la Civiltà. D’altra parte, perché la legge vuol darci più di quanto non le si richieda? Il popolo non chiede d’essere felice, ma solamente di avere di che vivere. Quante guasconate nella legge e in coloro che la vantano!
“Amate un sovrano che si sottomette anch’egli alle leggi e veglia a che siano osservate”.
Egli veglia in un buon letto e, quando non veglia, che bella fatica sottoporsi a delle leggi che egli ha fatto o ispirato, e che egli può all’occorrenza violare impunemente; delle leggi che gli garantiscono l’opulenza e il potere! A queste condizioni ciascuno vi si assoggetterebbe come lui. Se volete che ai nostri occhi il sovrano appaia degno d’essere amato, trovategli qualche motivo più valido di questa sottomissione fondata sul suo stesso interesse.
“Amate un paese dove l’unica cosa che dobbiate temere sono le leggi”.
Le leggi sono, come voi stessi dite, una delle cose più temibili, perché è in loro nome che si perpetra ogni ingiustizia ed ogni sopruso.
“Amate un paese dove l’uomo giusto non deve temere le leggi”.
Se è ricco; poiché un uomo giusto ma povero è vittima delle leggi in tutti i procedimenti giudiziari, dato che le leggi, a causa della loro congerie e della loro ambiguità, forniscono sempre qualche motivazione plausibile ai pareri più discordi. È logico dunque che esse siano il terrore del giusto che non sa intrigare, e la speranza del criminale, che presso i giudici può avvalersi di un’argomentazione inconfutabile. [Nel Le nouveau monde industriel Fourier aveva scritto: “Altri [mali] sono trascurati e non vengono denunciati perché sono connessi l’uno all’altro e formano una catena. Di tal sorta è il rifiuto indiretto di giustizia al povero. Non gli si rifiuta apertamente giustizia. Egli è liberissimo di intentar causa, ma non ha di che provvedere alle spese procedurali; o, se eleva i reclami più sacrosanti, è ben presto ridotto all’osso dal ricco depredatore che lo trascina in giudizio di primo e secondo grado; egli non è in grado di sostenere tali spese ed è costretto a cedere. A un parricida si dà un difensore gratuitamente: bisognerebbe darlo anche al povero che vuole intentar causa; ma, si obietta, ci sarebbero troppi procedimenti”].
“Amate, rispettate i magistrati che tutelano la buona fede, la concordia e la virtù”.
Questa fa proprio ridere, la buona fede!, la virtù! Diteci in quale paese i magistrati sono capaci di farle regnare, ed ameremo simili magistrati quando li conosceremo. Ma quale condotta deve ispirarci l’amore della patria che voi predicate? Eccola:
“La vostra patria è ricca, prosperosa, perché la terra vi è ben coltivata, perché essa ha dei lavoratori abili”.
A cui spesso manca il pane.
“Perché ha dei commercianti capaci”.
Di fare bancarotta.
“Dei guerrieri che combattono per difenderla”.
Combattono per ciò che piace al loro signore, difesa o attacco che sia.
“Dei magistrati che preservano la pace”.
Non hanno altro partito da prendere se vogliono conservare i loro posti e le loro pensioni.
“Degli uomini avveduti ed esperti col cui ausilio il sovrano si dedica alle fatiche del governo”.
O poveretti, quale dedizione! Hanno almeno un salario che dia loro di che vivere?
“Ecco le differenti professioni che i cittadini si distribuiscono”.
Ma è la divisione del leone; i più deboli non hanno una buona parte.
“Scegliete una di queste professioni, ed adempitene i doveri”.
Se non si tratta che di scegliere, ognuno di noi si prenderà una dotazione senatoriale, e ci impegniamo ad assolverne gli obblighi.
“Voi e gli uomini che vi vivono accanto siete vincolati dai giuramenti dei vostri padri ad adoperarvi per la felicità di tutti”.
Eccoci daccapo con la felicità di tutti; sembra di leggere uno dei discorsi dei club. I nostri padri non hanno nulla giurato né [...] sulla felicità di tutti. Solo a partire dall’89, in Francia, abbiamo prestato molti giuramenti, gli uni al re, gli altri alla Montagna. Se bisognasse rispettarli, sarebbe un bel pasticcio. In che senso potete dire che il giuramento dei nostri padri ci impegna a qualcosa? Allora io, io che sono della Franca-Contea, non dovrei prestare obbedienza che al re di Spagna, dato che i miei avi gli hanno giurato fedeltà!
“Voi possedete dei beni”.
A chi parlate? poiché ve n’è più d’uno che non ha nulla.
“Vostro dovere è farli rendere al massimo”.
Di quali beni parlate? Forse dei capitali? Volete dunque che un mercante guadagni quanto più può, che un banchiere presti strozzando il cliente, poiché ciò rende di più? Essi non hanno aspettato il vostro catechismo. Volete parlare dei fondi rustici, dire che bisogna sorvegliare che il fittavolo coltivi bene, perché così si potrà aumentare il canone del suo affitto? Ma voi inducete il proprietario all’avidità. Che, se voi rivolgete il consiglio a chi la terra la lavora, se gli fate un dovere di dissodare bene la sua terra, quello vi risponderà: “Venite a rasparla voi la terra; voi che parlate tanto bene. Un colpo di zappa mi servirebbe più di tutto il vostro catechismo”.
“Ma qualunque professione abbiate abbracciato, non anteponetene i vantaggi al bene della patria”.
Non si parlerebbe meglio in un club. Quando troviamo da guadagnar qualcosa, dobbiamo dunque rinunciarvi se il bene della patria impone che non guadagniamo nulla; e quando saremo senza il becco d’un quattrino pranzeremo con l’amore della patria. Che peccato che questa massima sia relegata nelle scuole, e che il ministro non l’abbia fatta affiggere anche presso i fornitori, gli aggiottatori, i legulei, ecc., che raramente sacrificano il loro bene a quello della patria. Ma poiché la patria, dal canto suo, non è generosa che con un esiguo numero dei suoi figli, è prudente che la maggioranza non si cavi la pelle per una madre così ingiusta nei suoi confronti.
“Se appartenete ad una delle classi subalterne, obbedite agli ordini che vi impartiscono, in nome della legge, uomini che appartengono ad una classe superiore”.
Eh! sì che si deve obbedire, sotto pena d’essere impiccato; c’è poco da decidere!
“Rispettateli e mantenete la stima di voi stessi”.
Bisogna sapere se si rendono degni di rispetto, e, quando ciò non accada, noi non possiamo conservare la stima di noi stessi se non disprezzandoli.
“Se vi trovate in una condizione che conferisce del potere, non fatene uso che in nome della legge e secondo la legge”.
Tutto ciò è stato detto e ridetto nei club. Eh! perché mai le persone che si trovano in questa condizione dovrebbero comportarsi diversamente? La legge è così comoda per loro; consente loro di levare tante imposte quante ne vogliono; essi le riscuotono in nome della legge, ed ecco che la morale è soddisfatta. Ciò che vi è di più vantaggioso in siffatta legge è che essa non può nulla contro i loro sperperi; non ha forza che per impinguarli. Come potrebbero rifiutarsi di agire in suo nome?
“Se prestate grandi servigi, non chiedete ricompense troppo onerose per la patria”.
Benissimo! ma allora a chi andranno le altissime ricompense previste dalla legge? Dovranno andare a coloro che hanno reso dei cattivi servigi, dato che pretendete che coloro i quali hanno ben meritato prendano i posti di minor importanza e le pensioni di minor entità?
“Chiedete piuttosto uomini che dichiarino ai cittadini: ‘Egli vi ha reso un buon servigio’”.
Ma voi sapete cosa vogliono coloro che si sono resi benemeriti? Essi non sono così esigenti come voi suggerite e farebbero volentieri a meno di ogni emolumento, pur di venire mantenuti nella carica, nello svolgimento delle cui mansioni si sono resi benemeriti. E quante volte succede che, lungi dall’esser ripagati dei loro servigi, essi non possono neppure mantenere il loro posto, lasciando da parte le ricompense speciali!
“Per mantenere coloro che si consacrano al governo dello Stato...”.
Si capisce dove volete arrivare; state per dirci che bisogna sborsare del danaro.
“Coloro che si consacrano a risolvere le vostre vertenze, a mantenere l’ordine, et cetera: ci vogliono dei tesori”.
Oh! sì, ci rendiamo conto che ci vogliono dei tesori per mantenere questi signori che, a detta di Rabelais, non vivono con poco!
“La patria non ha altri tesori che quelli dei suoi cittadini”.
Come preambolo basta; si capisce lontano un miglio dove mirate: ci vogliono dei quattrini.
“Pagate dunque le imposte con gioia: è il miglior impiego del danaro che possiate fare”.
Che bella gioia quando si vede arrivare l’agente fiscale o la cartella delle tasse! Bisogna saltare di gioia, toccare il cielo! Quale felicità per un padre di famiglia vendere i propri mobili per pagare le tasse! D’altra parte è il miglior impiego del vostro danaro, siate certi che non vi verrà scroccato neanche un soldo. Vada ancora per pagare, ma pagare con gioia, questa è troppo grossa. E che cosa avreste detto voi, signor de Saint-Lambert, se il ministro, invece di assegnarvi una pensione di 3.000 franchi [a seguito della stesura del presente Catechismo], vi avesse notificato un aggravio fiscale dello stesso ammontare per tenervi allegro?... poiché, se le tasse costituiscono motivo di gioia, più se ne pagano, e più c’è da rallegrarsi. La felicità sta nella ricchezza, dato che, se non si ha danaro, non si prova la gioia di pagare le imposte, ed ogni governo che ami il popolo deve aumentare incessantemente le imposte, che sono la fonte della sua felicità. D’altra parte, questa esortazione a pagar le tasse con gioia, non è affatto di competenza della morale, e se vogliamo convincercene, proviamo a dare in appalto la riscossione dei tributi di una provincia, senza garantirla con l’intervento di alcuna milizia armata; e rendiamo noto che in questa provincia ciascuno potrà rifiutarsi di pagare l’imposta o non pagarne che quel tanto che stimerà opportuno stando agli ammonimenti dei moralisti; e informiamo pure che costoro, per percepire le imposte, non avranno altro mezzo che le loro belle parole, senza alcun appoggio da parte delle pubbliche autorità. Stando così le cose, essi non otterranno un soldo dai campagnoli che non capiscono nulla dei discorsi dei filosofi e non fanno buon viso a nessuna scienza che bussi a quattrini. I moralisti non otterranno di più dagli abitanti delle città che leggono trattati di morale senza osservarne i precetti e che sono filosofi sinché non si tratta della borsa. Possiamo dunque domandare ai moralisti di che si immischiano quando parlano di tasse: la loro scienza non ha di per se stessa alcun mezzo per farle pagare; in questo campo essa è del tutto inutile. Sono più che sufficienti la politica e la religione; e anche quest’ultima potenza non farebbe una gran bella figura se dovesse adoprarsi da sola per fare sborsare danaro ai contadini. C’è da dubitare che l’autore di questo bel monito: “Pagate le tasse con gioia”, abbia mai mostrato piacere nel pagar le sue. Ed eccone una prova: dopo la pubblicazione del suo Catechismo universale, gli venne conferita una pensione di 3.000 franchi, ed egli, nella sua lettera di ringraziamento al ministro, manifestò una grande gioia per questo. Orbene, se egli si rallegra pubblicamente quando gli arrivano dei soldi, non è possibile che si compiaccia allo stesso modo quando il suo danaro se ne va. Che egli ci consenta di fare come lui, vale a dire di incassare con gioia e di sborsare a malincuore.
“Ditevi: ‘I miei beni non appartengono a me soltanto; ma allo Stato e a me’”.
È verisimile, dato che lo Stato attinge abbondantemente ai nostri beni.
“Ditevi: ‘La mia vita non appartiene a me soltanto; essa appartiene allo Stato e a me’”.
Eccellente morale da predicare ai coscritti; ma la massima è completamente errata, poiché il sistema che si confà alla natura dello Stato civile è il reclutamento a mercede; la coscrizione è un metodo delle società barbare e non può essere ammessa in linea di principio che dai moralisti del Marocco e d’Algeri.
“Ricordate che i vostri costumi influiscono su quelli della vostra patria”.
Solo i costumi della corte e quelli del suo seguito influenzano la massa. Bisogna indirizzare loro il monito come l’intero catechismo, che è fatto per i salotti e non per le scuole.
“Vostro dovere verso la patria è d’esser giusti e saggi”.
Noi non abbiamo nessun dovere e, se si devono fare i conti, è la patria che deve a noi quanto ci ha usurpato o lasciato sottrarre. Che ci reintegri nelle nostre proprietà, e dopo noi consentiremo ad essere giusti e saggi, ammesso che ci si spieghi il senso di queste parole, poiché coloro che predicano la giustizia e la saggezza si troverebbero in una bella difficoltà se dovessero definirle.
“Prodigate le vostre lodi e i vostri ossequi agli uomini che la servono e che l’onorano”.
D’accordo; poiché spesso essi hanno solo questo come ricompensa. Non c’è bisogno di sollecitare le lodi nei confronti di coloro che si sono ripagati con le loro mani: questi hanno un buon numero di parassiti che gliele strombazzano dietro; e gli elogi dei semplici cittadini non andrebbero bene, essendo più misurati; non vedendo il sole da così vicino, essi meno risentono dei suoi raggi benefici!
“Dite con coraggio, ma senza prosopopea, ciò che pensate d’una legge o di una risoluzione che vi sembrano contrarie al bene generale”.
Sì, andate a dire schiettamente ciò che pensate nell’intimo in un luogo pubblico, e quando sarete in prigione per aver parlato chiaro, aspettate che la morale venga a tirarvi fuori. Eh! come potrebbero gli individui osare esprimere la propria opinione sulle questioni d’interesse generale, quando accade spesso che un’intera nazione non osi lamentarsi delle sopercherie che patisce da parte di un’altra! È ciò che è capitato al cantone di Basilea che, nonostante ne avesse una gran voglia, non ha osato protestare contro la Francia perché ha consentito agli Ebrei l’accesso nella loro città, dalla quale erano banditi. Oggigiorno essi vi si stabiliscono impunemente dicendosi cittadini francesi, e gli abitanti di Basilea, per quanto infastiditi da questi pericolosi ospiti, li sopportano senza aprir bocca. Forse non hanno letto il precetto cui ha dato il proprio consenso il ministro, precetto che ingiunge di manifestare le proprie idee con coraggio e senza prosopopea. Essi avrebbero osato supplicare umilmente la Francia di trattenere nei propri confini i suoi cittadini ebraici, considerato che, essendo i commercianti di Basilea già abbastanza lestofanti, non hanno bisogno che si inviino loro dei rinforzi.
“Ma, in attesa che il sovrano prenda lumi, obbedite alle sue leggi e servite la patria”.
Lo supponete dunque ottenebrato talvolta? Dianzi lo presumevate così pieno di sollecitudine; lui e i suoi magistrati erano tutti dei santini che bisognava adorare e riverire; era gente che non poteva impiegare male un sol soldo dei nostri tributi, che faceva regnare la buona fede, la virtù ecc. Ora supponete che talvolta siano all’oscuro circa il da farsi. Voi tornate sui vostri passi; meglio tardi che mai, e ci dite che bisogna obbedire nell’attesa che essi prendano lumi. Ahimè! sì, e quand’anche non si avesse la speranza di vederli illuminati tanto presto, tuttavia sarebbe giocoforza obbedire. Ma allora ne consegue che è un dovere obbedire quando essi sono completamente smarriti nelle tenebre, e se essi ignorano che si dilapida [...]?
“Se voi in patria patite gravi ingiustizie, vi è permesso abbandonarla”.
Il che vuol dire che, se vi si vendono i beni e vi si cerca per farvi ghigliottinare, vi è consentito svignarvela. Ecco qualcosa di consolante. Che risorsa trova nella morale uno sventurato quando è depredato di tutto? Essa gli permette di andarsene; un ladro di strada non parlerebbe meglio.
“Mai vi è permesso lasciare la patria per combatterla”.
D’accordo, ma io posso combattere dei boia che hanno invaso la mia patria e la mia proprietà; ed ogni confisca decretata da questi boia deve essere considerata illegittima dall’uomo giusto; e chiunque dia loro il proprio appoggio diventa di fatto loro complice se è chiaro che io sono fuggito per scampare al pericolo che non era la mia patria ma i suoi tiranni che io combattevo e che ho cessato di combattere da quando essa mi ha concesso un asilo. Ammettete, signor de Saint-Lambert, che questo precetto ha un po’ della piaggeria e che voi non adempite quel dovere d’esser giusto e saggio che imponete agli altri.
“La natura vi vieta di rendere alla patria dei servigi che ritenete funesti per il genere umano”.
Frase da club, parole che non hanno senso nella Civiltà, la quale non si addice al genere umano e mira soltanto ad asservirlo.
Ecco l’ultimo precetto del prospetto; deve essere bello, dato che si riserva sempre qualcosa di brillante per la fine, come si fa con i giochi d’artificio: “La patria vi vieta di sperare per i vostri congiunti, i vostri amici o voi stessi dei posti di cui altri son più meritevoli”.
Sì, rinunciate a un posto se credete che nel paese vi sia un uomo che ne è più meritevole; e ancor prima di fare un qualche passo, prima di desiderarlo semplicemente, informatevi se in tutto lo Stato vi è alcuno che ne sia più degno, e se ne trovate uno, rifiutate il posto che vi avrebbe dato di che vivere e morite di fame per l’onor della morale. Come sarebbe bello vedere un ministro fare affiggere in tutto l’Impero un bando in virtù del quale, se c’è qualcuno più degno della sua carica, questi deve farsi avanti, e la otterrà immediatamente! I congiunti e gli amici del ministro saranno congedati col medesimo procedimento non appena si saranno trovate persone più degne.
“Se voi non osservate questa norma” – prosegue il signor de Saint-Lambert – “vuol dire che non avete più il senso della giustizia”.
Ma voi, signore, quando vi è stata offerta una pensione di mille scudi (della quale eravate meritevole, sotto ogni rispetto), avete fatto strombazzare in tutto il paese che eravate pronto a cederla a chiunque fosse più meritevole di voi dei mille scudi? Voi li avete accettati, e senza molte cerimonie. Noi faremo lo stesso, e non reputeremo di venir meno al senso della giustizia accettando un posto che altri possono meritare come noi, e diremo, come parecchi di coloro che vengono designati alla carica di ministro: “Accetto questa carica; essa è molto al di sopra delle mie forze; ma io accetto”.
Ogni pagina può offrire occasione a dieci pagine di commenti, considerando che non ne ho fatto neppure la quarta parte. Che bella scienza questa morale, con le sue baggianate e le sue ciarlatanerie! Sarebbe un peccato se essa non ci fosse: varrà a sollazzare i fanciulli nei tempi in cui dominerà il buon senso; li si abituerà al ragionamento, non con lo studio dei triangoli, come si fa oggigiorno, ma con lo studio dei deliri delle nostre scienze.
Gli editori del 1856 riportano a questo punto le annotazioni marginali apposte da Fourier al manoscritto:
“La morale pretende che i Civ(ili) abbiano virtù che non si richiederebbero a degli angeli. Non è che si chiedano tante virtù, ma semplicemente che non si rubi tanto.
Scienza da sopprimere. L’unica cosa di buono che abbia fatto il nostro secolo è di ridurre i moralisti al rango di ciarlatani.
Io attacco le assurdità della scienza; io attacco la Civ(iltà) che costringe i dotti ad esser ciarlatani, come pure, isolatamente, quelli che dotti non sono, che hanno svolto il loro ruolo di Civili.
Conclusione finale: che la morale non serve a nulla; che la politica serve solo a creare dei pasticci, che la metafisica, buona, non fa nulla.
Dotti delle tre categorie; spiriti senza ingegno, palazzi italiani, con facciate meravigliose e niente dentro, padrone in una stamberga. Non sanno forse che la Civ(iltà) è un’arena di gonzi e di bricconi?
I moralisti erano accoliti dei sacerdoti; sono finiti con la fine della loro religione pagana; dovevano rivelarsi più brillanti creando una religione in cui i preti cat(tolici) fossero stati loro sottoposti.
Conclusione generale: i filosofi operano in movimento semplice e non composto. Metafisica semplice, politica semplice, morale semplice”.
Appendice
La Grande Rivoluzione
Il lavoro di Kropotkin sulla Rivoluzione francese è veramente una delle interpretazioni fondamentali di quegli avvenimenti che trasformarono i destini dell’umanità. La sua importanza si basa su due presupposti: il disegno di uno sviluppo rivoluzionario diverso e più significativo di quello che ci viene solitamente suggerito dagli storici della borghesia, l’individuazione dei primi sintomi di quella corrente di pensiero e d’azione che, nel secolo successivo, prenderà il nome di anarchismo.
Da questi due presupposti possiamo ricavare una serie di riflessioni di grande attualità per il nostro lavoro politico. Non bisogna dimenticare, infatti, che le ricerche sugli avvenimenti del passato, e in particolare sulla Rivoluzione francese, hanno un significato in quanto servono come base di partenza per un approfondimento di certi problemi rivoluzionari, che oggi sono all’ordine del giorno.
Dal punto di vista dell’indagine storica, il lavoro di Kropotkin può considerarsi superato sotto diversi aspetti. La documentazione è spesso parziale e lacunosa, anche perché egli non poté attingere direttamente agli archivi francesi, ma solo lavorare sulle raccolte del British Museum. Gli studi più recenti di George Lefebvre, di Albert Mathiez, di Albert Soboul, e di altri, hanno approfondito l’indagine archivistica e hanno riparato a non poche sviste degli storici della generazione precedente e, quindi, dello stesso Kropotkin. Ma, questa nuova generazione, tranne l’eccezione di Daniel Guérin e di qualche altro meno noto, ha imposto un’interpretazione di stretta osservanza marxista, quando non si è arrivati, addirittura, a una visione stalinista di esaltazione incondizionata del giacobinismo.
Comunque, non è questo il problema più importante. Non suggeriamo la lettura del lavoro di Kropotkin per documentarsi sulla Rivoluzione francese, ma la suggeriamo perché in esso sono registrati, con grande accuratezza, alcuni fenomeni che poi videro il loro completo svolgersi nei decenni successivi e, per molti aspetti, sono tutt’ora in corso di svolgimento.
L’interpretazione è legata costantemente all’azione popolare nel corso dei fatti rivoluzionari. Quest’azione è vista come un tutto continuo, non come qualcosa che vide la luce con il debutto della rivoluzione. Prima, nelle sommosse e nelle rivolte disorganizzate, si erano avuti i sintomi di quello che dopo sarà la grande bufera. Ma da queste rivolte parziali si può risalire indietro, senza limiti: tutta la storia dell’uomo diventa, in questo modo, la storia delle sue lotte e delle sue rivolte contro l’autorità.
Kropotkin insiste molto sulla contemporanea azione delle idee illuministe e dell’azione popolare, e cerca di amalgamare queste due componenti, considerate predominanti, con l’analisi delle condizioni economiche e sociali al momento del debutto rivoluzionario. Ma, a parte la presenza di certe idee tra le masse popolari, quello che colpisce di più, noi, lettori di oggi, è la realizzazione di una organizzazione democratica di base, autogestita, che funzionava benissimo finché non venne uccisa da parte del potere borghese.
Come è poi accaduto nel corso della Rivoluzione russa, dopo l’inizio a forte impronta popolare, la mancanza di una maturità collettiva riguardo gli obiettivi, dette mano libera alle minoranze più preparate e più coscienti, per impadronirsi della guida del movimento popolare.
Gli storici reazionari hanno cercato di sminuire il valore di questi tentativi di democrazia diretta ma senza riuscirvi (cfr. A. Cochin, La Révolution et la libre pensée, Paris 1924). Per altri motivi, lo stesso hanno fatto gli storici marxisti (cfr. A. Soboul, La Rivoluzione francese, 2 voll., tr. it., Bari 1971).
Lo stato di sviluppo dell’economia e dei rapporti sociali al momento dello scoppio della Rivoluzione francese era tale che la borghesia poté con facilità prendere il sopravvento. La sua maggiore compattezza di classe rispose subito di fronte alle istanze egualitarie del popolo, opprimendolo per garantire una libertà di classe che significava sfruttamento per i lavoratori. Nel libro di Kropotkin emerge chiaramente lo sforzo rigeneratore attuato dal popolo, l’importanza del suo messaggio per le future generazioni, per le future rivoluzioni.
Daniel Guérin, che ha tentato una rivalutazione dell’interpretazione di Kropotkin (La lutte des classes sous la Première République, 2 voll., Paris 1968), scrive che il rafforzamento del potere centrale, attuato nel 1793, ebbe solo apparentemente lo scopo di far fronte alla controrivoluzione, in realtà si ebbe la volontà cosciente di reprimere la democrazia diretta dei sanculotti (cfr. vol. II, pp. 3-7). E altrove, in un altro lavoro dove cerca di fissare le origini dell’anarchia nella Rivoluzione francese (Jeunesse du socialisme libertaire, ns. tr., Paris 1959), scrive: «Non è lampante, ad esempio, che il decreto del 4 dicembre 1793 sul rafforzamento del potere centrale coincise con un alleggerimento e non con un aggravarsi della severità riguardo i controrivoluzionari? Jaures ha visto bene, questo decreto fu in buona parte una macchina da guerra contro gli “hebertisti”, cioè contro l’avanguardia popolare». (Ib., p. 48).
Il secondo presupposto del lavoro di Kropotkin è la presenza, all’interno della rivoluzione francese, di fermenti che si possono definire anarchici. Egli tratta diffusamente di quei gruppi che furono chiamati anarchici da Jacques-Pierre Brissot e come tali combattuti, ma il discorso andrebbe approfondito, ovviamente in sede di storia dell’anarchismo. Kropotkin riporta un riferimento testuale a un opuscolo di Brissot, da noi rintracciato alla Biblioteca nazionale di Parigi, che comincia: «È dall’inizio della Convenzione che denuncio la presenza in Francia di un partito disorganizzatore, che tenta di dissolvere la repubblica nel momento stesso della sua nascita. Si è negata l’esistenza di questo partito, gl’increduli in buona fede devono adesso dichiararsi convinti. Proverò oggi: a) che questo partito di anarchici ha dominato e domina quasi tutte le deliberazioni della Convenzione, e le operazioni del Consiglio esecutivo, b) che questo partito è stato ed è ancora l’unica causa di tutti i mali, sia interni che esterni, che affliggono la Francia». (A ses commettans, sur la situation de la Convention Nationale, sur l’influence des Anarchistes, et les maux qu’elle a causés, sur la nécessité d’anéantir cette influence pour sauver la République, ns. tr., Paris, 23 maggio 1793).
La questione era che gli “anarchici” non volevano fermare la rivoluzione alla costituzione e alla morte del re, volevano andare avanti, col popolo e in opposizione ai giacobini, fino all’uguaglianza e alla libertà (vere). Brissot partiva dal principio, tanto caro agli stalinisti di oggi, che essendo il popolo padrone, dopo l’uccisione del re, non può più volere la rivoluzione in quanto farebbe la rivoluzione contro se stesso. Quindi, coloro che sostengono la necessità della continuazione, sono controrivoluzionari, per lo stesso motivo per cui, ieri, erano rivoluzionari.
Sarà Jean Varlet il teorico rivoluzionario più conseguente di quel momento, capace di vedere il pericolo che si apriva davanti alle conquiste popolari: quello di essere strumentalizzate da una minoranza militare, legislativa e burocratica. In una serie di opuscoli scritti sotto l’incalzare degli avvenimenti, egli illustra il principio anarchico della rivoluzione popolare, autogestita e libertaria. Il più importante è quello pubblicato nel 1794, dopo Termidoro. [La seconda edizione è pubblicata nella stessa collana del presente libretto al n. 39]. Ho trovato alla nazionale di Parigi due edizioni dello stesso opuscolo col titolo diverso: la prima è del 10 vendemmiaio, la seconda è del 15, la prima porta il titolo L’explosion, la seconda Gare l’explosion, con l’aggiunta di un motto che non si trova nella prima edizione (“Perisca il governo rivoluzionario piuttosto che un principio”): il contenuto dei due opuscoli è identico. Si tratta di un classico dell’anarchismo nel vero senso della parola. Non possiamo parlarne qui dettagliatamente ma basta citare questa breve frase: «Che mostruosità sociale, che capolavoro di machiavellismo, è in realtà questo governo rivoluzionario! Per qualsiasi essere raziocinante, governo e rivoluzione sono incompatibili, a meno che il popolo non voglia costituire gli organi del potere in permanente rivolta contro se stesso, il che è troppo assurdo per riuscire credibile.». (J. Varlet, L’esplosione, tr. it., sec. ed., Trieste 2013, p. 30).
Riscoprire oggi, nella Rivoluzione francese, un filone di pensiero anarchico, insieme alle riflessioni fatte a suo tempo da Kropotkin, chiarificatrici sull’argomento, significa legare il processo di sviluppo dell’anarchismo ad un processo ben più ampio: quello della lotta dell’uomo contro il potere, una lotta che scorre attraverso tutta la storia e che la contrassegna dalla parte dei vinti. Fermarsi su questi problemi, significa, in sostanza, chiedersi: che fare, oggi, di fronte alle responsabilità che ci attendono? Proprio in questo senso Kropotkin definiva la Rivoluzione francese “notre mère a tous”, e su di essa la polemica e il dibattito sono ancora aperti. È su di essi che dobbiamo ora fermare la nostra attenzione.
Nel 1957 Pierre Naville scriveva: «La critica dello Stato si trova tutta nella rivoluzione francese». (De l’Aliénation a la jouissance, ns. tr., Paris 1957, p. 91). In pratica tutti i rivoluzionari hanno studiato a fondo questo grandioso avvenimento. Per primo Proudhon con un’analisi dettagliata (Idée générale de la Révolution au XIXe siècle, Paris 1851). Bakunin ritornerà continuamente su di essa (cfr. H. E. Kaminski, Bakounine, Paris 1938). Rocker ci ha descritto l’influenza dei vecchi giacobini su Liebknecht (cfr. R. Rocker, Johann Most, Berlin 1924, p. 53). Per Marx ed Engels sarebbe inutile citare i passi relativi, tanto essi sono noti. Non dimentichiamo il sempre dimenticato Stirner che opera una interessante distinzione tra terzo stato e masse nella rivoluzione francese. Così scrive: «La borghesia ha il suo potere e al tempo stesso i suoi limiti nella costituzione, in una carta, in un principio legale, cioè “giusto”, che si regola e regna egli stesso in base a “leggi razionali”, insomma nella legalità. Il periodo della borghesia è dominato dallo spirito britannico della legalità. Una riunione di stati provinciali, per esempio, ci richiama continuamente alla memoria che le competenze che le sono state assegnate non vanno oltre a questo o a quel punto e, in generale, che l’autorità che ne ha graziosamente concesso la convocazione può anche cambiare idea e ordinarne lo scioglimento. Essa ricorda continuamente a se stessa il motivo della sua convocazione, cioè la sua vocazione. Non si può certo negare che io sono stato generato da mio padre; ma una volta che sono al mondo, non m’interessano affatto le intenzioni con cui egli mi ha generato; quale che sia la vocazione che egli ha voluto affibbiarmi, il motivo per cui mi ha chiamato alla vita, io faccio quello che voglio io. Per questo, all’inizio della rivoluzione francese, anche l’assemblea degli stati generali, che pure era stata convocata, si considerò, a ragione, indipendente da chi l’aveva convocata. Essa esisteva e sarebbe stato sciocco se non avesse fatto valere il diritto dell’esistenza, ma si fosse immaginata di essere dipendente da qualcuno come da un padre. Chi è stato chiamato, convocato, non deve più chiedersi: “Che cosa voleva chi mi ha chiamato, quando mi creò?”, bensì: “Ora che sono qui, in virtù di quella chiamata, che cosa voglio?”. Né chi l’ha convocato, né i committenti, né la carta che rese possibile la sua convocazione, niente sarà per lui una potenza sacra ed intoccabile. Le sue competenze dipendono non da una qualche autorizzazione, ma dal suo potere; egli non riconoscerà alcuna limitazione di “competenze”, non vorrà essere ligio alla legge. Questo darebbe luogo, se mai fosse possibile aspettarsi qualcosa del genere dalle camere del parlamento, a una camera perfettamente egoista, sciolta da ogni cordone ombelicale e senza riguardi. Ma le camere sono sempre devote e perciò non c’è da stupirsi se in esse si fa largo tanto “egoismo” molle o indeciso, cioè ipocrita.
«I membri degli ordini devono restare nei limiti che sono stati loro assegnati dalla carta costituzionale, dalla volontà del re e simili. Se non vogliono o non possono farlo, devono “dimettersi”. Chi mai, fra questa gente fedele al dovere, potrebbe agire altrimenti, mettendo se stesso, le proprie convinzioni e la propria volontà al primo posto? Chi sarebbe mai tanto immorale da far valere la propria volontà, anche a costo di mandare in rovina la comunità e tutto quanto? Ci si mantiene scrupolosamente entro i limiti delle competenze che ci sono state assegnate; entro i limiti del proprio potere non si può certo non restare in ogni caso, perché nessuno può fare più di quel che può fare. “La mia potenza ovvero la mia impotenza sarebbe il mio solo limite e l’attribuzione di competenze, invece, soltanto una coercizione da parte delle istituzioni? Io dovrei riconoscermi in queste idee sovversive?! No, no, io sono un – cittadino ligio alla legge!”.
«La borghesia professa una morale che è strettamente connessa alla sua essenza. La sua prima esigenza è che si abbia un lavoro sicuro, si eserciti una professione onorevole e si tenga una condotta morale. Immorali sono, secondo lei, il cavaliere d’industria, la cortigiana, il ladro, il bandito e l’assassino, il giocatore, l’uomo senza un patrimonio e senza un lavoro, l’uomo leggero. L’atteggiamento che il bravo borghese assume di fronte a questa gente “immorale” viene da lui stesso definito “profondissima indignazione”. Tutti questi tipi non hanno né una residenza stabile, né solidi interessi, né una vita tranquilla e rispettabile, né un reddito fisso, ecc.; insomma la loro esistenza non poggia su alcuna base sicura ed essi appartengono perciò alla pericolosa categoria dei “singoli” e degli “isolati”, al pericoloso proletariato: sono “individui scalmanati”, che non offrono alcuna “garanzia” e “non hanno niente da perdere” e quindi niente da arrischiare. L’uomo che contrae un vincolo matrimoniale, che si fa una famiglia, ne resta legato e perciò dà affidamento, offre una presa sicura; la prostituta, invece, no. Il giocatore rischia tutto al gioco, rovina se stesso e altri: nessuna garanzia. Si potrebbero comprendere sotto il nome di “vagabondi” tutti coloro che appaiono, al borghese, sospetti, ostili e pericolosi, giacché egli disdegna ogni tipo di vita vagabonda. E ci sono anche vagabondi dello spirito, ai quali la dimora degli avi appare troppo angusta e opprimente per potersene restare tranquilli in quello spazio ristretto: invece di mantenersi entro i limiti di un modo di pensare moderato e di prendere per verità intoccabile ciò che a tanti dà conforto e sicurezza, essi oltrepassano tutti i confini della tradizione e vagabondano in strane regioni del pensiero, sollevando critiche irriverenti e dubitando impudentemente di tutto, questi vagabondi stravaganti. Essi formano la classe degli instabili, degli irrequieti, dei mutevoli, cioè dei proletari, e vengono detti, quando manifestano la loro natura randagia, “teste inquiete”». (L’unico e la sua proprietà, tr. it., Catania 2001, pp. 86-88).
Questo interesse costante ha scatenato un dibattito che ha visto di fronte autoritari e antiautoritari, come, nello stesso corso della rivoluzione, furono di fronte giacobini e antigiacobini (hebertisti, arrabbiati, anarchici, ecc.). Il dissidio non è soltanto teorico, coinvolge l’essenza stessa del discorso rivoluzionario.
È in questo modo che si possono rintracciare le origini dell’autoritarismo marxista e leninista, collocandole, appunto, nella Rivoluzione francese, e precisamente nella tendenza giacobina. L’interpretazione della rivoluzione come fatto di massa, ma disciplinatamente diretto da una minoranza di rivoluzionari professionisti, l’organizzazione dello Stato post-rivoluzionario, la creazione di nuove strutture di potere, tutto ciò è tipico degli autoritari che esaltano i giacobini del 1793, non rendendosi conto che gli interessi perseguiti furono esattamente quelli della borghesia.
Questa brava gente cade spesso in una curiosa contraddizione: da un lato loda l’efficienza della centralizzazione rivoluzionaria dei giacobini, facendo a volte un breve cenno sulla cattiva sorte toccata ai sostenitori della rivoluzione popolare (finiti sulla ghigliottina per primi), dall’altro considera l’azione dei giacobini come un male necessario, una centralizzazione attuata per “salvare” la rivoluzione.
I marxisti, ad esempio, riconoscono che i giacobini furono dei borghesi e che il loro ideale era esattamente quello della borghesia, ma non possono fare a meno di lodare i loro metodi – specialmente Lenin – perché sommamente produttivi ai fini immediati della rivoluzione.
Ora, se i giacobini furono i rivoluzionari borghesi del 1793, i loro metodi non si possono staccare nettamente dal loro ideale. L’eliminazione di ogni tentativo di emancipazione delle masse e la conquista del potere da parte di una ristretta elite di tecnici e di burocrati, era il loro ideale, i loro metodi erano quelli del “terrore”. Se i rivoluzionari di oggi lottano per una rivoluzione proletaria, non possono certamente abbracciare l’ideale borghese (e su questo sono tutti d’accordo), ma stranamente non tutti accettano il rifiuto dei metodi che accompagnavano l’ideale borghese, appunto i metodi del “terrore”.
L’autoritarismo, sotto qualsiasi forma esso si presenti, resta sempre un fenomeno strettamente borghese. Anche se lotta in nome del proletariato, una volta che imposta la sua lotta in modo autoritario, ricorrendo ai metodi terroristici del vecchio giacobinismo, non può che ricostruire una nuova casta dominante, diversa, nel nome, della vecchia borghesia, ma identica nella sostanza e negli intendimenti. L’insegnamento che ci viene dalla Rivoluzione russa non può essere dimenticato.
Rocker scrive: «Riferirsi alla Rivoluzione francese per giustificare la tattica dei bolscevichi in Russia significa ignorare completamente i fatti storici [...]. L’esperienza storica ci mostra precisamente il contrario. In tutti i momenti decisivi della Rivoluzione francese l’iniziativa vera dell’azione sorse direttamente dal popolo. È in questa attività creatrice delle masse che risiede tutto il segreto della Rivoluzione [...]. In Russia si ripete oggi quello che è successo in Francia nel marzo 1794». (Der Bankrott des russischen Staatskommunismus, ns. tr., Berlin 1921, pp. 28-31).
In Francia per la prima volta nella storia, appare chiaramente il processo classico dell’involuzione rivoluzionaria, preparata e realizzata dall’autoritarismo. L’altro grande esempio, a livello mondiale, sarà la Rivoluzione russa.
I giacobini stessi, all’interno della propria organizzazione, si divisero partendo da questo problema: vedere nella rivoluzione il portato della base o vedere qualcosa che piove dall’alto. I “plebei” aderenti ai giacobini sostennero, evidentemente, la rivoluzione popolare, mediata da un’avanguardia rivoluzionaria: ma furono i primi ad andare sulla ghigliottina, i borghesi, aventi nelle mani la direzione del movimento giacobino, riuscirono a imporre la loro interpretazione di una rivoluzione dominata da una elite di potere, e finirono sulla ghigliottina subito dopo, uccisi, a loro volta, dai conservatori reazionari che vedevano con chiarezza come quella tesi avesse ormai fatto il proprio tempo.
La rivoluzione è sempre un fatto che emerge da un contrasto: in assenza del contrasto non ci sarebbe rivoluzione, ma sviluppo armonico, idilliaco, di una società perfetta che si ripresenta sempre differente ma, nello stesso tempo, identica a se stessa, nella propria perfezione.
Il contrasto principale è quello economico, contrasto che assume nel periodo di massimo sviluppo del capitalismo, le caratteristiche macroscopiche che portano alcuni analisti a denunciarlo come il solo contrasto da tenere presente perché capace di condizionare tutta la realtà. In effetti la rivoluzione, pur fondandosi sul contrasto economico tra sfruttati e sfruttatori, è fatto troppo complesso per essere racchiuso all’interno di una formula dogmatica. Maturando può essere seguita con l’aiuto interpretativo della storia e dell’esperienza del passato, ma fino a un certo punto. Nel suo realizzarsi porta con sé tante modificazioni, tanti aspetti nuovi, tante esplosioni di creatività che non sempre coloro che sono addetti ai lavori riescono a capire bene nella loro importanza.
Ecco perché lo studio delle rivoluzioni del passato e, in particolare, della Rivoluzione francese, è di grande importanza, anche se non può avere la pretesa di porsi come uno studio metodologico diretto a cercare i sistemi rivoluzionari migliori per impiegarli tali e quali. In questo senso aveva torto Lenin quando si identificava con i metodi del “terrore” giacobino. Ogni cosa ha una sua dimensione storica, si ripresenta con moduli di attuazione estremamente differenti, risulta, in altre parole, irripetibile. E le rivoluzioni non sfuggono alla regola.
Da parte loro, Marx ed Engels restarono combattuti tra una interpretazione e l’altra del significato e del valore della Rivoluzione francese. Il loro concetto di “dittatura del proletariato” venne qualche volta riportato agli avvenimenti del 1793 e qualche altra volta considerato come un aggiustamento, un ritrovato analitico moderno, per riportare le armi del proletariato alla modernità del conflitto di classe. Ma la presenza stessa della parola “dittatura” indica con chiarezza la costante della tradizione borghese e giacobina all’interno della nuova interpretazione marxista. Infatti, alle masse, al loro movimento spontaneo di rivendicazione e di lotta, agli spunti creativi di una nuova organizzazione sociale, non può che risultare estraneo il concetto di “dittatura”. Dittatura da parte di chi? e su che cosa? Certo non da parte delle masse e non su loro stesse! Sarebbe un contro senso. Così Rocker: «L’idea dei “soviet” è un’espressione precisa di ciò che noi intendiamo per rivoluzione sociale, essa corrisponde alla parte costruttiva del socialismo. L’idea di dittatura del proletariato è di origine puramente borghese, e non ha niente in comune con il socialismo. Si possono artificialmente avvicinare le due nozioni, l’una all’altra, ma il risultato sarà sempre una caricatura dell’idea originale dei soviet, e arrecherà sempre pregiudizio al socialismo». (“Freie Arbeiterstimme”, ns. tr., New York, 15 maggio 1920).
L’idea di “dittatura” implica la presenza di qualcuno (dittatore) o di qualche organizzazione precisa (partito), che possa esercitarla in nome di qualcun altro (le masse). Infatti, specie nell’elaborazione leninista, molto più chiara su questo punto, la dittatura del proletariato diventa una dittatura non esercitata dal proletariato – la qual cosa cadrebbe nella contraddizione – ma una dittatura esercitata dal partito a nome del proletariato.
Si vede con chiarezza come qui riappaia l’idea giacobina e borghese dell’organizzazione rivoluzionaria che deve prendere il potere e gestirlo. Ma il potere va preso, non solo contro i vecchi padroni, ma anche contro il proletariato stesso e le sue organizzazioni spontanee di lotta, qualora queste ultime volessero proporre una gestione autonoma e indipendente. In questo modo le masse (il proletariato stesso) e i padroni, sono considerati controrivoluzionari allo stesso titolo e portati indiscriminatamente alla ghigliottina (giustamente considerata un giocattolo di fronte ai moderni carri armati): così si è intervenuti in Ungheria, in Cecoslovacchia, in Polonia.
La dittatura a nome del proletariato può diventare, in qualsiasi momento, dittatura sul proletariato. Così si aprono i campi di concentramento e i lavori forzati, e si trasforma il socialismo in una tragica farsa.
Ma la lettura del volume di Kropotkin ci può illuminare riguardo l’altra possibilità, apertasi con la stessa rivoluzione francese, quella della costruzione del vero socialismo, partendo dal basso, in forma autogestionaria. Se dai giacobini derivano in linea diretta i moderni marxisti autoritari, dagli oppositori dei giacobini discendono gli antiautoritari di oggi. I sanculotti scoprirono spontaneamente la democrazia diretta, avente come base i club e i gruppi di quartiere, qualcosa di assolutamente diverso da tutto quello che era stato teorizzato e realizzato prima, e che rientrava nei programmi della borghesia rivoluzionaria. In forma embrionale nacque il concetto di spontaneità e di creatività delle masse, sia pure con tutte quelle limitazioni che resero possibile la facile vittoria delle forze della borghesia autoritaria, desiderose di fare tornare al più presto la calma.
È per questo che diciamo che la Grande Rivoluzione non fu soltanto la culla della democrazia parlamentare borghese, ma fu anche la culla della democrazia diretta proletaria, sebbene i tempi e il grado di coesione e di coscienza dei lavoratori, non fossero maturi perché quei germi fruttassero pienamente.
Per sostenere la legittimità della distruzione delle istanze libertarie proposte dalla base, nel corso stesso della rivoluzione, gli autoritari hanno sempre avanzato il concetto di “necessità”. Anche il flagello stalinista è stato giustificato con la “necessità” del comunismo in un solo paese, un alibi che non poteva reggere a lungo. L’avvento dei tecnici borghesi e l’impadronimento dei punti chiave del dominio rivoluzionario da parte della burocrazia di nuovo stampo, sono stati sempre considerati i due punti principali del successo della rivoluzione del 1793. In effetti quello che si fece fu di uccidere l’interno dinamismo della rivoluzione negando ogni possibilità creativa all’iniziativa popolare e gettando le basi del futuro Stato centralizzato, che avrebbe trovato un Napoleone pronto a gestirlo per le sue mire imperiali.
La verità è che in tutti i momenti decisivi della rivoluzione francese fu sempre l’iniziativa popolare a creare le condizioni necessarie alla vittoria, poi, a cose fatte, l’oppressione borghese, con le sue strutture e le sue tecniche, con la sua necessità e con la sua burocrazia, ebbe il sopravvento, uccidendo ogni spontaneità e ogni creatività e ricostruendo lo Stato.
Kropotkin conclude dicendo: «Ciò che si impara oggi studiando la Grande Rivoluzione, è che fu la fonte di tutte le concezioni comuniste, anarchiche e socialiste della nostra epoca. Non conosciamo ancora bene la madre di noi tutti, ma la ravvisiamo oggi in mezzo ai sanculotti, e comprendiamo quanto ci resta da imparare da lei».
Catania, 21 aprile 1975
Alfredo M. Bonanno
[Introduzione a Pëtr Kropotkin, La Grande Rivoluzione. 1789-1793, Catania 1975, pp. 7-13, pubblicata anche in Alfredo M. Bonanno, Pëtr Kropotkin. Contro la scienza, Trieste 2013, pp. 172-187]
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