Titolo: Di quale natura parliamo?
Note: Opuscoli provvisori N. 79
Prima edizione: maggio 2015
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Nota introduttiva

Ogni lotta di settore, condotta dagli anarchici, è destinata a essere recuperata se non riesce a raccordarsi con il progetto complessivo di distruzione dello Stato.

La lotta per la difesa della natura è un esempio clamoroso, e si affianca alle altre lotte che si autoracchiudono nell’ambito di una qualificazione di comodo, che dà, sulle prime, l’impressione, ma solo l’impressione, di essere più comprensibile e più generalizzabile, senza chiedere quell’impegno totale che lo scontro rivoluzionario minaccia di imporre impietosamente.

Non sto parlando delle lotte intermedie, legate allo scontro che si sviluppa in una parte e non in un’altra, basate sui bisogni che gli sfruttati hanno, sulle loro necessità, a causa di particolari, e ben localizzate, iniziative di repressione del potere, e alle quali gli anarchici partecipano nel tentativo, spesso non comprensibile nell’immediatezza neanche a loro stessi, di realizzare il metodo anarchico, riassumibile nei concetti di autogestione, di conflittualità permanente e di distruzione del progetto repressivo che sta maturandosi in un dato territorio.

Sto parlando delle divisioni, artificiali e monche, che il movimento rivoluzionario, e anche il movimento anarchico, nella sua accezione più ampia, spesso accettano in maniera acritica. Che senso ha una lotta per la difesa degli animali? Tanto per fare un esempio. Oppure una lotta antimilitarista? E così continuando: una lotta astensionista, una lotta contro le carceri, una contro le fabbriche di morte (amianto, e tutto il resto)?

Oddio, un senso ce l’hanno, attaccare, sia pure obiettivi parziali, circoscritti da noi anarchici, in base a preclusioni o, se si preferisce, a scelte squisitamente ideologiche, è sempre meglio di stare a grattarsi la schiena nelle sedi, sfogliando le vecchie annate delle vecchie riviste, piene di vecchi esempi, di come si ammazzavano vecchi re e vecchi presidenti della repubblica.

E, se invece provassimo a ribaltare il problema? Se provassimo a inserire la specificità di un intervento di lotta – poniamo contro lo sfruttamento animale – non nell’ottica limitata del vegetarismo o della lotta di liberazione animale, ma nell’ampio raggio di uno scontro distruttivo rivoluzionario? Se portassimo all’interno della lotta circoscritta la proposta e la metodologia distruttiva di attacco contro il nemico, per primo lo Stato?

Non solo saremmo più efficaci, ma vedremmo subito scomparire tutti quei fantasmi che ci accostano nel corso dello scontro, i quali sono d’accordo con noi, anarchici, solo per l’esiguità e la parzialità della nostra lotta, mentre non accetterebbero la proposta di uno scontro generalizzato, appunto di uno scontro anarchico.

Portiamo la parzialità di una lotta – ad esempio, contro il carcere – nella generalizzazione dello scontro ed ecco subito farsi strada un altro modello di intervento, non più “contro il carcere”, ma “per la distruzione del carcere”.

Solo questione di parole? Non credo.

Ancora una volta, andiamo oltre.


Trieste, 12 maggio 2014

Alfredo M. Bonanno

Scontro di classe e difesa della natura

Non è possibile difendere la natura. Non è possibile difendere l’uomo, le sue cose, la sua storia, il suo futuro. Quindi non è possibile nemmeno difendere la natura. Per gli stessi motivi – che vedremo adesso – non è possibile una utilizzazione “pulita” delle risorse naturali, delle piante, degli animali. Non è possibile parlare di ecologia se non in termini di scienza per migliorare lo sfruttamento. Non è possibile strategia riformista che non si traduca in rafforzamento del capitalismo e quindi in ulteriore spinta alla distruzione della natura. Se si vuole intraprendere una strada di difesa effettiva della natura occorre distruggere i padroni, lo Stato, il potere e lo sfruttamento.

Prima di andare oltre bisogna anche dire con chiarezza che della cosiddetta natura fa parte anche l’uomo, questione che viene spesso dimenticata da tante dame di carità che militano nell’esercito della salvezza dell’ambiente. Ora la lotta per salvare l’uomo dalla distruzione è lotta per la difesa della natura.

Altro pensierino gentile, prima di continuare, è quello che riconduce alle sue reali dimensioni la parola “naturale”. Oggi si fa uno spreco di questa parola. C’è una intera branca del capitalismo maturo che si sviluppa sui prodotti definiti “naturali”. Nessuno può vivere in modo “naturale” in un mondo come questo. Ognuno di noi produce e distrugge, consuma e viene distrutto. O si spezza questo ciclo senza uscite, o sarà la morte per tutti, uomo in primo luogo. Per un altro verso, poi, l’uomo, anche in una società libera, può avere sempre un determinato rapporto con la natura, che comprende anche l’uomo, ma è, nello stesso tempo, qualcosa di diverso, con leggi sue proprie alle quah egli può adeguarsi fino ad un certo punto. In fondo l’uomo è un animale non perfettamente consequenziale allo sviluppo della natura, la quale segue processi che non si possono minimamente commisurare all’idea (tutta moderna) che noi abbiamo di “progresso”. Ecco perché non sarà mai possibile svuotare degli intimi significati mitici il vegetarismo. A parte le sue contraddizioni, quello che lo contraddice nel più profondo della propria stessa ideologia è la sua pretesa di essere “naturale”.

Tutto ciò non sposta ovviamente il modo corretto d’intendere un rapporto dell’uomo con la natura, che è l’unico modo di impostare la vita dell’uomo. Tutti gli altri esempi di programmazione umana, dall’educazione sessuale al controllo delle nascite, dalla genetica alla biologia, sono percorsi distorti dall’esercizio del potere. I vecchi discorsi sull’oggettività della scienza sono già stati accantonati da un riflesso condizionato che ritrasforma in ideologia scientifica la critica della scienza, allo scopo di andare avanti. Allo stesso modo in cui le centrali solari sarebbero un ottimo affare per il capitalismo (semplicemente più a lunga scadenza e meno controllabile – al momento attuale – e quindi non preferibile, in base alla sua logica, alle centrali termonucleari), le industrie che producono sistemi di depurazione ridanno vita a cicli produttivi del capitale che minacciavano di interrompersi.

È importante questo luogo comune di vivere in modo “naturale” perché rappresenta l’altro aspetto della tendenza, allo stesso modo errata, di ritenere possibile ritagliare spazi di “naturalità” all’interno del progetto di morte che il capitale e lo Stato vogliono realizzare.

È la vecchia storia del garantismo e degli spazi di agibilità. Non si può negare la loro grande utilità per la lotta, ma non possono costituire una lotta finalizzata a se stessa, come accade per una gran quantità di compagni che si scoprono l’animo della crocerossina e non riconoscono possibili e utili altri interventi nel sociale se non quelli destinati a difendere la natura, a denunciare la repressione, a sostenere il morale dei compagni in carcere, a fare bellissime dichiarazioni che però hanno il difetto di ottenere nessun risultato.

La lotta intermedia è sempre preparazione del terreno per la realizzazione insurrezionale, per il coinvolgimento dei proletari e per l’attacco contro il nemico di classe. Se si partecipa a questo tipo di lotte, come appunto quelle contro la distruzione della natura (e quindi anche dell’uomo), con l’idea che ci si deve fermare a metà strada, restare nella legalità stabilita dal potere, accettare il dialogo nei modi e nei termini fissati dalla controparte; ebbene, allora quella lotta è funzionale solo a due cose: a mettere in pace la coscienza di chi vi partecipa e a rafforzare la repressione.

Per questi motivi la difesa della natura, nel suo più ampio significato, non può essere separata dallo scontro di classe.

Prendiamo il caso dell’organizzazione inglese che lotta per la “liberazione degli animali”. Niente di più riduttivo di un progetto del genere: gli animali sono in catene perché l’uomo è in catene. Dall’interno della sua prigione l’uomo non ipotizza rapporti che non siano collegati con le sbarre e con i propri aguzzini. Per questo motivo uccide gli animali. Non solo per cibarsene e per coprirsi, ma per trasformare tutto ciò in moda, in assurda e inutile strage. Personalmente sono favorevole alla bistecca, ma non ad un’alimentazione che trovi essenziale e ineliminabile il consumo di carni o che non si ritenga regolabile su altri ritmi che non siano quelli dell’avidità dopo la lunga astinenza. Allo stesso modo sono favorevole a coprirmi con le pelli di animali, ma non ad agghindarmene. Ecco perché ammiro molto il lavoro di questi compagni inglesi che non si limitano ad una critica contro il maltrattamento degli animali (tradizionale nella loro cultura) o contro l’estinzione di alcune specie, ma mettono mano a far saltare le pelliccerie e, forse, domani potrebbero anche decidersi a far saltare le macellerie. La loro critica non si valorizza per l’uso della dinamite, ma semplicemente perché colpiscono il meccanismo capitalista che produce la distruzione degli animali, il che mi sembra molto corretto, come analisi e, pertanto, come azione.

Ma torniamo al nostro problema centrale. Le lotte intermedie, nel campo dell’ecologia e della difesa della natura, sono il terreno preferito di un movimento di riflusso che non vuole perdere l’inveterata abitudine di “fare qualcosa”, ma non vuole nemmeno decidersi a portare un attacco serio al meccanismo del capitale. Questo “fare qualcosa” consiste nel riempirsi di belle parole (a esempio, coloro che si dichiarano contro le centrali nucleari o contro le basi missilistiche, ma poi, quando balena all’orizzonte la possibilità anche minima e microscopica di fare qualcosa sul serio trovano mille obiezioni e preferiscono indietreggiare sulle semplici dichiarazioni di principio), consiste nel costituire gruppi e movimenti anche di notevole consistenza numerica, consiste nel programmare lotte di un certo tipo, basate essenzialmente sulla pregiudiziale della “nonviolenza”.

Dietro questo movimento c’è tutta una cultura del “di già visto”. Un raffazzonato intruglio di sentimento dell’Oriente e di guevarismo immaginario. Come i vecchi movimenti dei flagellanti, questa brava gente si autoimpone massicce dosi di sacrifici, dormendo all’aperto, mangiando poco e male, vestendosi malissimo, facendo discussioni idiote e barbine che annoiano a morte per primi loro stessi, e così via. Non dico che tutti siano professionisti di questo neo-francescanesimo. Alcuni lo professano semplicemente a mezzo servizio. Tutti però ne condividono il senso apocalittico di fondo, il nullismo religioso intrinseco nella pratica nonviolenta, il sadomasochismo implicito. Bisogna vederli imperterriti nel fango e sotto la pioggia, nel corso delle loro manifestazioni, quando si siedono per terra e nessuna forza umana ragionevole può sradicarli. Familiarizzano subito cortesemente con la polizia, aspettando di prendere la solita dose di familiari legnate. Costringono sadicamente il poliziotto a stare nello stesso fango e sotto la stessa pioggia, mentre masochisticamente anch’essi ne godono tutti i benefici relativi. Quando ricevono le legnate (gli arresti sono ovviamente rarissimi e per lo più si tratta di fermi), per loro la cosa equivale alla autoflagellazione degli antichi mistici del Trecento che percorrevano le campagne e le città d’Europa alzando alte lodi al Signore.

Questo notevole numero di brava gente è ovviamente strumentalizzato da vecchi marpioni di ogni tipo. Partito comunista in testa [1983], che si è fatto promotore della installazione delle centrali nucleari ma non vuole i missili americani a casa propria. Poi altre forze non sempre di chiara origine politica. Ad esempio i verdi tedeschi che ricevono soldi da qualcuno, ma da chi? Forse da qualche paese arabo? Poi c’è la Chiesa cattolica, quella protestante, i valdesi, le Chiese di nuovo conio, i movimenti orientali di ogni colore. Tutti insieme appassionatamente.

Ogni tanto, tra di noi, c’è qualche compagno notoriamente dotato di scarse capacità intellettive che si fa affascinare dal comportamento individuale di questo o di quel personaggio, dalla sua capacità di subire legnate, dalla sua costanza nello stare inginocchiato nel fango o cose del genere. Se si deve essere sinceri sono cose che sbalordiscono. In che modo si può essere tanto stupidi non è facile capirlo. Comunque non bisogna cadere in questo genere di equivoci. Fare significa nulla se non si è coscienti di quello che si sta facendo. Altrimenti si va a finire esattamente nelle braccia del padrone.

Questa è la sorte di tutti i movimenti del tipo “disarmo unilaterale”, i quali non si rendono conto della loro funzionalità al progetto capitalista. Oggi l’utopia idiota diventa sempre più indispensabile al genere di dominio che la socialdemocrazia sta impostando. Più il dissenso platonico si agita, più si rafforza negli sfruttati la convinzione che si può esprimere la propria opinione critica, convinzione che è l’anticamera indispensabile del reperimento del consenso. Un altro tipo di gestione del potere non avrebbe bisogno di simili idiozie, ricorrerebbe alla repressione pura e semplice, quindi abolirebbe ogni movimento del genere, come accade nei regimi fascisti. Ma ciò non perché questi movimenti siano realmente dannosi per il potere, ma perché non si coordinano bene con il progetto repressivo fascista. Nel progetto socialdemocratico invece questi movimenti sono previsti e voluti dallo stesso potere.

Questa lezione vale naturalmente anche per l’antimilitarismo. Il vecchio Stato borbonico o di estrazione napoleonica non poteva tollerare e nemmeno immaginare che si facesse una critica dell’esercito. Oggi una critica del genere potrebbe pubblicarsi sul “Carabiniere” e viene senz’altro pubblicata su “La nuova polizia”. Ciò non significa che queste critiche, se ben fatte, sono del tutto acqua pestata nel mortaio. Sono importanti solo se aprono la strada a qualche cosa che viene dopo. Ma quando questo qualche cosa non viene, quando i compagni che partecipano, proprio al momento di questo qualche cosa, fanno un passo indietro perché hanno paura o perché vogliono chissà quali garanzie di riuscita, allora il tutto risulta funzionale esclusivamente al potere che non si turba più delle critiche, ma anzi le sollecita, aprendo ai contestatori di oggi le cattedre di domani.

Allo stesso modo patetici sono quei compagni che si rinchiudono nel guscio delle loro piccole pratiche “alternative”, che si ghettizzano in un lavoro di miseria in cui realizzano solo la propria identità di emarginati. In queste isole la presenza del capitale si sente vistosa e imponente, come nelle grandi banche. Là robot meccanizzati sotto forma di uomini lavorano a moltiplicare ciò che non ha senso. Qui altri robot, altrettanto meccanizzati, lavorano a negare quell’altra dimensione, ma lo sforzo della negazione è tale che prende la propria vita fin dalle fondamenta. Dall’abbigliamento al mangiare, dal fare l’amore al produrre, dal consumare all’immaginare. Tutto in questi ghetti ricorda quello che non si vuole ammettere. Come chi comincia a far rapine perché poi vuole fare altre cose e finisce per fare solo rapine perché non sa far altro; allo stesso modo queste brave persone lavorano perché vogliono arrivare alla negazione del lavoro, ma finiscono solo per lavorare (nel peggiore dei modi) perché in fondo non sanno fare altro.

In altri luoghi, altri costumi e identiche situazioni. Come chi vive a carico dello Stato, con i pochi miserabili quattrini dell’assistenza sociale, con i quali non muore di fame (gli pagano anche la casa, qualche straccio e qualche mobile per non dormire per terra), ma muore di inutilità, di sopravvivenza, di autocoscienza della propria situazione di miseria morale.

Se si vuole seguire l’indicazione di coloro che vogliono la “liberazione degli animali” allora non solo le pelliccerie dovrebbero saltare in aria. Negli uffici di collocamento e di assistenza non sono forse appese, bene in vista, le coscienze rivoluzionarie di tanti compagni che avevano sognato la libertà? E non sono scalpi simili a quelli degli animali?

Ineluttabilmente si arriva alla conclusione che solo la lotta reale, seria, efficace, diretta ad attaccare il nemico di classe, può modificare le condizioni che il capitale e lo Stato impongono alla natura nel suo insieme (uomo compreso); condizioni che sono terribilmente inaccettabili per quest’ultima e che minacciano di condurre al disastro. Ma pretendere di difendere questo spazio o quell’isola di sopravvivenza, questa parte o quell’altra dell’ambiente, questa o quella specie animale, e poi fermarsi lì, aspettando che il capitale e lo Stato arretrino verso territori in cui la natura e l’uomo non risultino attaccabili, è semplice follia.

L’ingenuità e l’interessata stupidaggine di coloro i quali credono nell’autonomia di questi spazi è vasta come il mare. Il loro ragionamento è semplice: la società presente, pur se in balia dell’oppressione, è attraversata da isole di autosufficienza, di autogestione, di indipendenza individuale e collettiva. Queste isole sono possibili perché nell’uomo, accanto al sentimento dell’obbedienza, c’è anche quello del rifiuto. Si creano pertanto situazioni di ribellione intrinseca che strappano allo Stato e al capitale elementi del loro controllo e li trasformano in piccole libertà dove questi mostri dalle cento braccia non arrivano a penetrare. Per un altro aspetto questo ragionamento sottolinea una cosa altrettanto importante: non è vero che gli uomini sono sempre uno contro l’altro armati. Nel mondo esistono mille esempi di mutuo appoggio, di reciproco sostegno, di amore, di solidarietà. Questi esempi fanno sperare bene per il futuro, tutto quello che oggi occorre fare è svilupparli sempre di più, diffonderne il significato, farli passare da comportamento immotivato a cosciente costruzione di solidarietà reciproca.

Non c’è dubbio che questi due ragionamenti affrontano due realtà molto importanti. Si sa perfettamente che la stragrande maggioranza degli atti umani sono sottratti ad un controllo diretto dello Stato e del capitale. Ma esiste anche un controllo indiretto. Quel consenso accettato fin nelle più intime convinzioni fa convivere accanto alla solidarietà il legittimismo, accanto al rifiuto di una imposizione l’accettazione di mille altre.

Se queste singole situazioni vengono isolate e sollecitate a svilupparsi in quanto manifestazioni embrionali di quella che sarà la società futura, in questo modo viene ucciso, fin d’adesso, il loro potenziale rivoluzionario, trasformandole in alibi più o meno comodi per chi avverte l’estraneità del nemico ma non ne vuole accettare le conseguenze fino in fondo. L’approfondimento della lotta non può aversi nella moltiplicazione di situazioni microscopiche, ma nel passaggio a livelli superiori dello scontro. L’illusione che sia possibile uno sviluppo infinito della solidarietà e della rivolta circoscritta è data da un errato concetto dello spazio sociale. Ci si immagina che l’individuo o i piccoli gruppi di individui siano uno spazio ben circoscritto del più grande territorio in cui agiscono le forze statali e capitalistiche. Ci si immagina che questo piccolo spazio venga difeso e che al suo interno non riescano a penetrare le idee e le forze del nemico. Ma tutto ciò è un’illusione che viene proprio dalla mentalità borghese della famiglia unicellulare, della casa microscopica e ben protetta, degli ambienti chiusi, circondati da muri, da segnali di divieto. In nessun proletario vissuto in condizioni di estrema indigenza può albergare un’idea del genere, egli sa che la casa non è mai chiusa all’esterno, che non c’è verso di impedire l’ingresso ai vicini, altrettanto famelici e desiderosi di sapere quello che stai facendo. Egli sa che nelle baracche e nelle grotte non ci sono usci, non c’è intimità, non ci sono segnali di divieto.

In pratica lo sviluppo di queste cosiddette “isole” non è possibile, anche quando diventassero un numero infinitamente più grande di quello che sono oggi. La rivolta di oggi è sempre parziale, diretta contro questo o quel simbolo. Si tratta per lo più del rifiuto di qualcosa, ma non coinvolge il sistema statale e capitalistico nel suo insieme. Nessun individuo singolo o piccolo gruppo può superare questo limite. Se siamo antimilitaristi possiamo fare un’obiezione totale (e, a volte, anche parziale) del servizio militare, possiamo dimostrare contro l’esercito e cento altre cose, ma non possiamo – da soli – attaccare e distruggere le condizioni che rendono possibile e logico l’esercito. Anche se gli antimilitaristi diventassero migliaia, o milioni, per distruggere realmente l’esercito occorrerebbe distruggere lo Stato e il capitale, forze che non starebbero certamente inerti a veder crescere all’infinito il numero degli antimilitaristi e, quel che è peggio per loro, l’organizzazione che li lega e li trasforma da portatori di rifiuto in realizzatori della rivoluzione.

Illudersi quindi sulla validità di questo lavoro di crescita microscopica come unica e sola strada per arrivare ad eliminare la distruzione della natura (e quindi anche dell’uomo), è un non senso. Ogni lotta intermedia, che tiene evidentemente conto del grande potenziale di rivolta e di solidarietà che si nasconde dentro ognuno di noi, deve programmarsi, fin dall’inizio, uno sbocco ulteriore, in caso contrario diventa funzionale proprio a quelle forze contro cui vuole lottare.

Cade quindi definitivamente l’ipoteca a priori imposta dalla nonviolenza. Se fosse possibile una crescita infinita di queste potenzialità attuali, di solidarietà e di ribellione, restando sempre nell’ambito della legalità, stabilendo con il nemico un trattato – pacifico – di coabitazione in territori diversi; allora la nonviolenza avrebbe una sua logica. Il fatto è che se dobbiamo considerare la reale ed effettiva incidenza di tutte queste lotte sugli interessi dello Stato e del capitale, dobbiamo anche tenere in conto una loro reazione di fronte alle nostre iniziative, reazione tanto più prevedibile e logica quanto più si riflette sul fatto che essa – nella sua violenza repressiva – non ha nulla di eccezionale o di contrario al cosiddetto “diritto”. La violenza terroristica dello Stato e del capitale è faccenda di ogni giorno. La vediamo dappertutto. La negazione dei limiti del cosiddetto “Stato di diritto” è in tutte le azioni repressive, in tutto ciò che serve a mantenere il potere. La morale dei padroni è sempre quella che vuole insieme il Lione e la Golpe, ora l’uno, ora l’altra, ora il mitra e il manganello del poliziotto, ora il confetto dolce per attirare il consenso. Ma sia nella forza bruta del Lione che nell’astuzia della Golpe c’è sempre la violenza terroristica contro cui dobbiamo, per forza, opporre la nostra violenza liberatoria che, per prima cosa, è progetto rivoluzionario globale.

Stanno proprio qui i limiti delle lotte intermedie. Per loro natura non si possono presentare come lotte violente senza incontrare di colpo, anche quando sono in fase di organizzazione, una risposta repressiva di tale portata da sgomentare qualsiasi sviluppo. Queste lotte hanno quindi una logica premessa interlocutoria, accettano i limiti imposti dal nemico, ne mutuano i principi falsi e ipocriti di legittimità e di diritto, di dissenso e di opinione. Per avere un senso non possono impedirsi uno sbocco violento e generalizzato. Nel caso in cui l’azione coordinata della repressione nemica e della indecisione dei compagni impedisca il passaggio a questa fase, quelle lotte sono destinate a spegnersi e tutti gli sforzi fatti serviranno solo ad accreditare la posizione del nemico.

Come ogni altra lotta intermedia, tutto il movimento di difesa della natura, deve poter procedere al di là della fase controinformativa e dimostrativa, cioè al di là della stessa fase intermedia.

Ciò non è possibile con una decisione minoritaria che imponga il ruolo di una specie di “partito d’avanguardia”. Occorre che la gran parte della gente interessata a questo obiettivo si renda conto della illogicità di un’azione separata e si organizzi per sviluppare l’intervento coordinandosi con le altre lotte sul fronte dello scontro di classe.

Ad esempio una lotta nelle fabbriche contro la nocività è stata condotta, e lo è tutt’ora, dal sindacato, con lo scopo di ottenere migliori condizioni di lavoro. Ma noi sappiamo benissimo che ad essere nocive non sono solo “alcune” lavorazioni, o “alcune” condizioni di lavoro, ma è il lavoro nel suo insieme, il lavoro in quanto sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Una lotta contro la nocività quindi, per essere tale, deve perdere il suo carattere specifico di lotta intermedia in difesa delle condizioni naturali, ed acquistare un carattere globale di lotta rivoluzionaria per la distruzione del lavoro.

Su questo particolare esempio, e su cento altri che se ne potrebbero portare, la posizione dei sindacati non va combattuta perché non è giusto lottare per migliori condizioni di lavoro e di vita (in caso contrario non sarebbe giusto lottare per nulla), ma perché la loro lotta si ferma alla prima fase. Nostro compito diventa pertanto quello di coinvolgere la gente per una lotta che, pur essendo intermedia, si sviluppi (avendo le premesse fin dall’inizio) verso una lotta più ampia e globale che tenga conto del livello dello scontro di classe.


[Introduzione a La Hormiga / Vroutsch / Duval /, Scontro di classe e difesa della natura, Catania 11983, pp. 5-12. Pubblicato anche in Alfredo M. Bonanno, Chi ha paura della rivoluzione, II ed., Trieste 2015, pp. 199-211]

Ecologia sociale

Le riflessioni sull’ecologia, anche quelle che più precisamente si finalizzano come sociali, hanno una caratteristica che si potrebbe dire generale: vanno dall’ovvio alla parzialità.

Non che ci sia superflua l’ovvietà, anzi, al contrario, riflettere sui problemi sociali, che poi sono spesso gli stessi, non è mai una cosa superflua, fornisce strumenti a chi voglia veramente muoversi, fare qualcosa, contrapporsi ad una condizione di sfruttamento e di miseria, non solo della natura, ma anche dell’uomo. E giustamente l’ecologia sociale sa tutto questo benissimo e lo svolge fino in fondo.

Affermare – come fa qualcuno – che l’ecologia sociale sia una “corrente libertaria che lavora per l’abbattimento di tutte le barriere” significa dire una cosa errata in quanto se esiste una corrente del genere, e noi non la conosciamo, non vediamo perché debba porsi come obiettivo la “riflessione e la sollevazione contro gli inquinatori eccellenti”, dove qui l’accento si deve per forza porre sul termine inquinatori. Insomma, una corrente libertaria è implicitamente una parte del movimento libertario nel suo insieme, sovranazionale e internazionalista, e, in quanto parte, giustamente, può scegliersi il nemico che vuole, quindi anche gli “inquinatori” che sono parte dello schieramento oppressivo e non costituiscono la totalità delle forme del nemico. Ora le cose ci appaiono contraddittorie: se col termine “inquinatori” ci si riferisce non solo agli inquinatori veri e propri, ma anche agli “insabbiamenti della partitocrazia” e alle “menzogne dell’informazione protetta”, tanto voleva allargare al massimo il ventaglio e aggiungere qualsiasi nemico, dal padrone delle ferriere al boia di Stato, tanto il peso sarebbe stato lo stesso. Però, così facendo, come mai tutto questo bel lavoro potrebbe caricarselo sulle spalle soltanto una corrente libertaria e non tutto il movimento anarchico nel suo insieme?

Questa situazione colpisce in modo atroce tutta la teoria ecologica sociale la quale risulta stiracchiata da un lato verso un anarchismo rivoluzionario che sarebbe la sua logica conclusione generalizzata e, dall’altro, verso un riformismo settorialista che si prospetta all’orizzonte come un migliorismo specifico e parziale. Da questo dilemma non si esce se non con chiare indicazioni di metodo e di lotta.

Parlare di una “battaglia di idee” è una bella cosa in quanto è delle idee che la gente ha bisogno ed è con le idee, degli altri, precisamente degli sfruttatori, che la si racchiude nel ghetto dell’imbroglio e dello sfruttamento. Quindi, ben venga questa battaglia di idee e ben si appoggi sui “bisogni quotidiani”, antica e legittima tesi sostenuta per tanti decenni dai correttori delle storture di regime, ma che penso dai nostri autori venga sostenuta in modo diverso. E la diversità è insita nel verbo “disobbedire”. Ma cosa vuol dire questo verbo? Disobbedire è forse “cooperare”? I due termini non mi sembrano sinonimi. È forse “solidarizzare” a livello internazionale? Anche qui la cosa mi pare dubbia. E poi cosa vorrebbe dire solidarizzare? Questo problema che è stato sollevato parlando del Fondo Monetario e di quello che si potrebbe fare per “aiutare” i popoli in lotta, ora, in questo momento, e se questo fare si debba per forza arrestare alla manifestazione (locale o internazionale) di “alto sdegno”, o possa anche arrivare all’attacco diretto contro individui responsabili e cose, senza con questo incorrere non solo nelle più che prevedibili ire degli organi repressivi, ma anche nelle delazione di alcuni cosiddetti compagni.

Disubbidire è un bel verbo, ma può portare lontano ed è facile fermarsi nelle vicinanze giocando con le parole a nasconderello ed evitando di prendere una posizione precisa.

Il lavoro del disvelamento è una bella cosa, ma risente troppo dell’antica iconografia marxista (la talpa, ecc.), per potere oggi reggere da solo. Siamo pieni di informazioni e di analisi, di controinformazione e di ermeneutica, abbiamo anche bisogno di qualcosa di più terra-terra, foss’anche un missile di questo tipo non sarebbe di certo una pessima acquisizione. Ma, a parte gli scherzi, che è bene evitare perché poi la polizia non li capisce, occorre che queste analisi scendano un po’ dal piedistallo dell’astratto e si avvicinino alla realtà concreta.

Che il muoversi fuori delle “armature ideologiche” riguardo il problema dell’ambiente “significa innescare movimenti, iniziative, devianze” è verissimo, e giusto, ma tutto ciò si deve per forza fermare allo scopo di “allargare la conoscenza, l’informazione, la cultura intorno alla situazione ambientale del pianeta”, o può andare anche oltre, può anche andare fino a procurarsi i mezzi per l’attacco di un nemico così ben identificato, illustrato, chiarito e posto sotto i riflettori?

Perché mai tutto deve ridursi “ad un nuovo modo di pensare” e non comprendere un antico modo di agire? Tacere su questa alternativa può avere diverse spiegazioni: o non la si ritiene praticabile, ed allora bisognerebbe dimostrare il perché; o non la si ritiene produttiva in termini immediati ed anche in questo caso bisognerebbe dire il perché; o non la si ritiene nemmeno pensabile, e allora ognuno è libero di trarre le conclusioni che vuole.

L’elenco dei danni prodotti dal capitale è ben nutrito e abbastanza ben dettagliato, tale da potere essere condiviso a prescindere da qualsiasi etichetta ecologica o meno, a noi sembra quest’ultima una clausola assolutamente superflua, utile solo per attirare l’attenzione della gente e utilizzabile fin quando ci si limita a denunciare semplicemente i danni prodotti dal capitale e non si fa il passo successivo, necessario e ineluttabile, quello di prospettare una strategia di lotta. Facendo questo passo tutto quello che si era guadagnato in termini di possibilismo ecologico, e quindi in termini quantitativi di coinvolgimento di strati della popolazione a cui piange il cuore al solo pensare a quanti bambini muoiono di fame (ma solo a pensarlo), si perde in termini di concreta capacità di attacco.

Ora, non voglio affermare che non sia importante convincere larghi strati della popolazione dei crimini commessi dai responsabili del capitale (uomini e organizzazioni), mi limito soltanto a constatare che questa informazione è una parte, senza dubbio rilevante, dell’attività rivoluzionaria anarchica, ma non ne costituisce la totalità. Il fatto di chiamarla “ecologia sociale” non la sottrae per nulla alla responsabilità di dare concrete indicazioni di lotta e di attacco contro i suddetti responsabili, allo stesso modo in cui fanno gli anarchici, da sempre, e non solo gli ecologisti sociali.

Se è vero, com’è vero, che “ovunque esplodono momenti insurrezionali”, non è vero che questi, da per sé soli, “rappresentano punti di mutamento all’interno dei sistemi di pressione e di rapina”. L’insurrezione è l’inizio di un mutamento, non il mutamento stesso, tutti i movimenti insurrezionali che abbiamo sotto gli occhi nel mondo sono fenomeni in corso che hanno bisogno di aiuto, chiamano al soccorso. E la solidarietà internazionale cosa fa? Lascia che sia la lotta degli altri che prima o poi finirà per affrancarsi “contro lo sterminio per fame” o che raggiungerà “la pace nel mondo, il disarmo unilaterale, la difesa diretta dell’ambiente, l’autogoverno dei cittadini”? Ma andiamo, anche mettendo da parte il ridicolo di un’affermazione come “disarmo unilaterale” [1990], che non mette conto criticare, resta il fatto ineluttabile che noi rifiutiamo di ridurre il nostro ruolo privilegiato alla semplice denuncia, al semplice sottolineare e cogliere “secoli di stupidità dissimulata come ragione”. Tutto ciò sarebbe troppo parziale.

Noi chiediamo con tutta la chiarezza che ci è possibile, a tutti i sostenitori dell’ecologia sociale, cosa vogliono dire in concreto affermazioni come: “lavorare contro gli specialisti della paura”, “chiedere l’impossibile”, “liquidazione di tutte le predazioni sui bisogni e sui diritti quotidiani di tutti”. Chiediamo cosa vogliono dire frasi come: “un’umanità non realizzata non è umanità”, “smascherare la miseria mercantile dell’apologia occidentale”? Cosa mai vogliamo dire queste strane battute se non che bisogna fare qualcosa per impedire la distruzione che il capitale a livello mondiale sta perpetrando. In caso contrario sarebbero affermazioni prive di senso, se non gesuitiche denunce di un pusillanime burattinaio da quattro soldi.

Ma le cose non stanno così, perché i nostri autori affermano chiaro e limpido che “ecologia della libertà significa che nessuno può più permettersi di essere spettatore. O si è complici o si è disertori di una società spietata”. Il che lascia intendere che bisogna fare qualcosa. Tacere non è possibile, in caso contrario si diventa complici: giusto! Parlare, denunciare, è possibile, ma col fare ciò non si è ancora disertato, ci si trova ancora dentro la società del genocidio. Forse ci si trova male, in quanto si lotta contro di essa e si è presa coscienza, ma sempre dentro ci si trova. Alla classica domanda se è possibile chiamarsi fuori è stato risposto da sempre che nessuno può trarsi fuori dal mondo dove vive, nessuno può veramente disertare. O sta di qua, o sta di là. O sostiene il genocidio, o lo combatte. Quindi, escludendo la possibilità pratica di “disertare”, perché sarebbe veramente troppo comodo, e non mi si venga a dire che disertare lo si può attraverso l’obiezione fiscale o attraverso una scelta oculata nell’acquisto di prodotti, se quindi praticamente non si può disertare resta solo le denuncia. Ecco, non sono d’accordo.

Oltre la denuncia resta l’attacco contro gli uomini e le strutture responsabili di questi genocidi. Non il grande attacco spettacolare, organizzato da strutture consistenti di natura militare, ma l’attacco polverizzato nel territorio, i mille obiettivi possibili che la stessa composizione e distribuzione del capitale espongono sotto gli occhi di tutti coloro che hanno sensibilità e cuore per quest’ultima soluzione.

Se l’ecologia sociale è veramente “un appello alla disobbedienza”, non vediamo perché nel concetto, fortunatamente molto ampio, di “disobbedienza” non ci debba stare anche l’attacco diretto, l’azione rivoluzionaria diretta, ora e subito, anche minoritaria, diretta proprio contro quegli obiettivi che così egregiamente la stessa ecologia sociale ha sottolineato e posto all’attenzione di milioni di persone.

O ovvietà, o parzialità. Dal dilemma non si esce.


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 65, giugno 1990, pp. 22-25 col titolo: “Ovvietà o parzialità?”. Pubblicato anche in Dissonanze, II ed., Trieste 2015, pp. 243-249]

Animali

Attaccare gli uomini e le strutture che rendono possibile la tortura e lo sfruttamento degli animali è lotta importante per motivi etici che qui vogliamo sottintendere. Individualmente si può essere più o meno sensibili al problema, ma non c’è dubbio che questo problema esiste e che non è giusto che milioni di esseri sensibili vengano fatti a pezzi per discutibili scopi, spesso neanche ben mascherati in termini di utilità economica o di ricerca scientifica.

Di più. La lotta animalista è importante perché consente una differenziazione qualitativa della propria sfera etica e, nello stesso tempo, può costituire punto d’inizio per altre lotte che comprendano anche la liberazione dell’uomo e non solo quella dell’animale.

A stretto rigore di termini la stessa lotta animalista sarebbe monca e quindi priva di senso etico se si fermasse all’animale, anche fondando questa cesura sul fatto evidente che l’animale non potendo difendersi da se stesso abbisogna di difesa. Ma, sviluppando il concetto etico da cui partono le lotte animaliste si arriva allo scontro rivoluzionario vero e proprio, contro chi ci opprime e ci domina, anche se l’attuale differenziazione della produzione economica spesso non permette di cogliere agevolmente connessioni e rapporti.

La presenza di Brigitte Bardot ai funerali di Jill Phipps, morta in Gran Bretagna, a Coventry, schiacciata da un camion, mentre cercava di impedire l’esportazione di vitelli vivi, esportazione che avviene in condizioni terribili per gli animali, segna in modo evidente i limiti di una lotta che spesso per svilupparsi si autolimita. L’attrice è arrivata in aereo privato, ha presenziato al funerali nella cattedrale di Coventry contribuendo alla cerimonia con uno spaventevole bouquet di fiori a forma di vacca, ed è fuggita via in Jaguar con autista. Che dire di sostenitrici del genere? Che di certo non potranno mai essere disponibili per uno sviluppo della lotta animalista stessa nel senso detto prima. L’unico interesse di questa gente potrebbe essere quello della spettacolarizzazione, della riduzione della tensione etica in mera soddisfazione personale e dello scontro vero e proprio in banale occasione di svago.

Ma anche le lotte animaliste che non hanno come scopo lo spettacolo e che quindi vedono impegnati compagni e persone convinti dei motivi etici delle proprie scelte, qualora si autolimitassero all’ambito esclusivamente animalista non avrebbero difficoltà ad accettare coabitazioni con singoli individui che per le loro scelte generali di vita non sono in grado di superare il limite specifico della lotta animalista stessa. Penso sia possibile che un poliziotto si faccia coinvolgere in una lotta del genere, ma non penso che lo stesso poliziotto sia disposto a fare il passo successivo, e nemmeno me lo auguro.


[Pubblicato su “Canenero” n. 16, del 24 febbraio 1995, p. 5 col titolo: “Non solo animali”. Pubblicato anche in Dissonanze, II ed., Trieste 2015, pp. 38-39]

Ma nel pantano verde ci sono solo ranocchi?

Del “pantano verde” si parla sempre meno. Sbattuti a destra e a manca, queste brave persone non sono riuscite a trovare un metodo di occasionale stimolo dei grandi mezzi di informazione sulla scia del mai sufficientemente lodato Pannella [1987]. Nessuno – o quasi – dei salti mortali di quest’ultimo è passato nell’anima verde, strumentalizzazioni di personaggi e vicende più o meno interessanti, sembrano essere lontani dal modo di pensare dei patiti dell’aria pulita e dei vegetariani.

In fondo, queste brave persone, sono fortemente individualiste. Esse negano, non solo in linea di principio, ma nei fatti, il partito e ogni forma rigida di organizzazione. Parlano di movimento, non hanno un vero e proprio leader carismatico, come appunto il citato Pannella, non sanno darselo e forse, nemmeno lo desiderano.

Il pantano verde è ricco di ranocchi che si muovono, quali animali privi di criterio e di intelligenza, ora in un senso, ora nel senso opposto. Fanno un gran chiasso, come tutte le teste di legno di giustiana memoria, ma ottengono poco: qualche briciola che cade giù dalla tavola dei potenti.

Che i rapporti del movimento verde con i rappresentanti eletti in parlamento siano critici, questo è un fatto che, per altro, non ci interessa. Ci riguarda invece il motivo per cui questi rapporti sono critici. In effetti, il pattuglione dei neo eletti tira a sopravvivere in un ambiente ostile, a far sentire la voce pulita di chi parla a nome di una natura che sta scomparendo, inghiottita dai polveroni e dai nebbioni. Bene. Lo zoccolo di questo movimento, la parte sotterranea, che si è espressa favorevolmente alla elezione di non pochi parlamentari, non può mantenere un rapporto costante con questi ultimi in quanto mancano, all’interno del movimento verde, le strutture tipiche del partito. Ciò mette in difficoltà i rappresentanti al parlamento (cosa poco importante), ma causa anche (cosa più importante) conseguenze sul comportamento di una buona parte di coloro che si riconoscono nel movimento verde.

Cosa unisce i “verdi” in quella multiforme e variegata struttura che si definisce “movimento”? Innanzi tutto una sensibilità collettiva verso determinate tematiche. Questa sensibilità si fonda su alcune proposizioni di principio (rapporto uomo-natura), ma, essenzialmente, si propone come sentimento collettivo, in una miriade di pratiche che vanno dal modo di vivere dei vegetariani, ai sassisti, a chi si interessa di “bird watching”, agli zoofili, ai crudisti, ai difensori della natura paesaggistica, agli autocostruttori, agli antinucleari, a chi lotta contro gli zoo per la liberazione degli animali e a chi fa “sit in” davanti macellerie e pelliccerie, agli oppositori delle grandi centrali a carbone, a coloro che lottano contro le basi missilistiche.

Certo, queste pratiche sono unificanti, ma non devono per forza improntarsi tutte su di un metodo unico. Ognuna di esse, singolarmente presa, può essere affrontata e perfezionata in una contrapposizione al potere che può assumere aspetti diversi. Questi aspetti si possono suddividere in due parti: una metodologia pacifista, sostanzialmente simbolica, ed una metodologia d’attacco, sostanzialmente pratica e realizzativa.

Sul piano delle scelte di principio (rapporto uomo-natura) e sul piano delle pratiche, non esiste un motivo perché si debba preferire una scelta (quella simbolica) all’altra (quella pratica e realizzativa). Nel modo di vedere le cose dei “verdi” e nella scelta delle lotte da condurre, il motivo “pacifista” ci sembra calato dall’alto, in un contesto quanto mai vario e diffìcile a riassumere in modo univoco, da parte di una minoranza che intende proporre una identificazione tra principi “verdi” (rapporto uomo-natura) e metodi “simbolici”. Questa identificazione è senz’altro gratuita.

Ora, se l’appartenenza “verde” è un fatto che deriva dall’autodefinizione dell’individuo, se il “partito”, nella sua tradizionale forza organizzativa, resta al di fuori delle prospettive di questo movimento, non si vede perché la pregiudiziale “simbolica” (cioè, per meglio intenderci, dell’azione pacifista che intende solo “dimostrare” e mai attaccare e distruggere) debba per forza prevalere.

Facciamo l’esempio del gruppo inglese “Animal Liberation”. Senza dubbio si tratta di persone che condividono non solo le proposizioni di principio dei “verdi’ , ma anche le loro pratiche, nel senso, appunto, di difendere gli animali, di impedire le torture che vengono loro inflitte, di fare chiudere quei campi di concentramento che sono i circhi e gli zoo, di dissuadere i venditori di carne macellata e i venditori delle spoglie animali (pellicce). Solo che “Animal Liberation” non realizza azioni simboliche, ma, al contrario, azioni pratiche. Fa saltare le macellerie e le pelliccerie, entra nei circhi e negli zoo e libera gli animali, occupa e distrugge i laboratori di ricerche dove si torturano le cavie, ecc.

Non stiamo qui proponendo una metodologia diversa al movimento verde, per quanto, com’è ovvio, ci farebbe piacere che si cambiassero, una volta tanto, le prospettive eternamente simboliche di un dissenso che minaccia di restare, ogni giorno di più, puramente platonico. Il movimento verde ha i suoi problemi politici, organizzativi e teorici, e questi restano problemi diversi da quelli che abbiamo noi. Viceversa ci interessano alcune altre cose.

Non c’è dubbio che alcuni leader periferici (che questi ci sono all’interno del movimento) hanno tutto l’interesse di mantenere in vita un equivoco che si è generato dalla comune intenzione, almeno agli inizi, di non smuovere troppo le acque; ma questo interesse non trova per forza riscontro in quello che pensa e vuole la gran massa di coloro che hanno raggiunto una “sensibilità verde”. Questi possono pensarla diversamente.

In linea di principio ciò avviene all’interno di ogni organizzazione politica. Ci fu un tempo in cui un certo interesse per pratiche di lotta non precisamente “politica”, c’erano anche all’interno del partito comunista e finanche all’interno del partito socialista. C’era, e questo è innegabile, in quegli interessi, una certa tendenza pelosa, ma c’era anche una certa intenzione di fare o di aiutare a fare. E l’area interessata non era né piccola né trascurabile. Coglieva senz’altro moltissimi dei cosiddetti compagni di base, ma non mancava, qualche volta, anche di affascinare e smuovere finanche qualche uomo di apparato. Simpatie personali? Personali debolezze? Desideri di cavalcare la tigre? di darsi un atteggiamento rivoluzionario? di controllare per poi reprimere? Penso che tutte queste motivazioni c’erano e si affollavano le une sulle altre ma c’era anche una apertura al sostegno e una disponibilità all’aiuto indiretto che poi sono, onde ben si consideri, due elementi di grandissimo interesse. Tutto questo è, ovviamente finito o, in certi casi, ridotto al lumicino.

Nel movimento verde, la base è certamente ricca di motivazioni dissidenti, di potenzialità di attacco, di nausea per le pratiche politiche, di sospetto verso le iperstrutture partitiche e simili. Nello stesso tempo, la situazione oggettiva di questo movimento impedisce un vero e proprio controllo sulle idee dei singoli appartenenti, come anche sulle pratiche. Da questi dati di fatto, derivano, a mio avviso, alcune interessanti considerazioni.

Accanto alla iniziale considerazione che non esistono motivi validi per cui la lotta per porre correttamente il rapporto uomo-natura debba essere affidata soltanto ad una metodologia simbolica, si pone l’altra considerazione che una lotta del genere non può essere avulsa dalla più generale considerazione del conflitto di classe. Cosa sarebbe mai una difesa, sia pur essa attiva, degli animali se poi si mandassero a quel paese l’uomo e i suoi bisogni?

Il rapporto uomo-natura non può pendere dalla parte del secondo termine se non si vuole accettare una tirannia del concetto astratto di “natura”.

Non spetta a noi approfondire questi argomenti che, per altro, sono patrimonio di tutta la sinistra di questi ultimi anni e delle sue lotte per quanto contraddittorie e limitate esse siano state. Vogliamo soltanto dire che non solo all’interno del “pantano” verde ci sono persone capaci di capire e di separare il simbolico dal reale, ma ci sono anche persone che non hanno perduto il proprio cuore e la propria volontà. Queste non possono accettare l’imposizione indiretta che vuole limitare il campo d’azione delle loro pratiche, né nel senso degli obiettivi da scegliere, né nel senso delle pratiche metodologiche da impiegare. Inoltre, si può essere certi che ci sono molte altre persone e a questo punto sarebbe più corretto parlare di “compagni”, le quali intendono superare il ghetto di un intervento che rischia di diventare ripetitivo quanto inconsistente, per non dire funzionale ad una nuova prospettiva di dominio.

Ecco, il nostro discorso è diretto a questi compagni. Circola nel movimento verde un costante rinvio a un approfondimento critico che non viene mai alla luce. Perché? Perché non c’è nulla di solido su cui porre le basi di una critica reale, se non proprio radicale. Possibile che tante persone intelligenti e bene intenzionate non se ne accorgano? Se si dovesse avviare una critica del genere, anche se poi dovesse per avventura fermarsi alle prime avvisaglie, si avrebbe la possibilità di costruire un’apertura per un dibattito e, attraverso quest’apertura, un contatto diretto, pratico, operativo.

Dopotutto, penso che ci siano, di già oggi, molti punti interessanti da approfondire. Pur nel permanere del dilagante simbolismo – come abbiamo visto, accettato acriticamente – c’è un elemento di grande interesse nelle pratiche “verdi”, ed è quello che esse non si fermano soltanto ai grandi obiettivi ma sanno cogliere l’importanza pratica e il significato strategico dei piccoli obiettivi. Molte altre forze, cosiddette rivoluzionarie, non riescono a cogliere questo significato che è senz’altro uno dei punti più delicati del dibattito attuale in corso all’interno del movimento rivoluzionario nel suo complesso. Certo, queste azioni periferiche vengono poi ad essere snaturate dal simbolismo di fondo che le priva di significato pratico, ma questo è un altro discorso. La pratica degli obiettivi decentralizzati è spontanea nel movimento verde e deriva, più che da una scelta strategica ragionata, da una mancanza (questa volta positiva) di una centralizzazione partitica. Ciò non è privo d’importanza. Resta l’ostacolo del simbolismo di fondo. È esso superabile? Francamente non lo sappiamo.

C’è comunque da dire che qualora non fosse superabile resterebbe un altro elemento di grande interesse, che potrebbe mettere in subbuglio il “pantano verde”, quello di una possibile collaborazione rivoluzionaria, questa volta pratica e non soltanto simbolica, con coloro che si dichiarano contrari, nei fatti e non soltanto nei desideri, a una distruzione della natura e quindi anche dell’uomo.


[Pubblicato su “Provocazione” n. 9, novembre 1987, p. 6]

 
 

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