Titolo: Dominio e rivolta
Sottotitolo: Seconda edizione riveduta e corretta con l’aggiunta delle conferenze di Patrasso, Atene, Iraklio, Volos, Thessaloniki, Ioànnina
Note: Pensiero e azione N. 34
Prima edizione: dicembre 2000
Seconda edizione: maggio 2015
Edizione greca: Κγριαρχια & Ελελερση, Ioànnina 2008
SKU: pensiero-000034
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    Nota introduttiva alla prima edizione

    Primo seminario

    Secondo seminario

    Terzo seminario

    Quarto seminario

  Conferenze di Patrasso, Atene, Iraklio, Volos, Thessaloniki, Ioànnina

    Colpire il nemico

    Distruzione del lavoro

    Dibattito alla radio 98 FM di Atene tenuto nell’Università Città politecnica l’11 marzo 2009

      I

      II

      III

      IV

      V

      VI

      VII

      VIII

      IX

      X

      XI

      XII

      XIII

      XIV

    Discussione ad Atene con compagni dell’archivio anarchico di Nicosia

      I

      II

      III

      IV

      V

      VI

      VII

      VIII

    Senza collaborare

    Insurrezione

    Attaccare i punti deboli del nemico

    Tramonto del proletariato

      I

      II

  Appendice

    Approfondimento della sconfitta

In tenebre cieche entrano
coloro che si votano al non-sapere:
in tenebre ancora più oscure
coloro che del sapere si contentano.

(Brhadaranyaka-upanisad)

Nota introduttiva alla prima edizione

I testi qui presentati sono la trascrizione della registrazione su nastro di un seminario in quattro serate tenuto alla Facoltà di Sociologia dell’Università “La Sapienza” di Roma. Sebbene leggermente sistemati per una lettura più agevole, essi risentono fortemente dell’origine discorsiva sia nella forma che nell’evolversi degli argomenti. Il tema del dominio e quello della rivolta contrassegnano il fronte dello scontro, la linea di combattimento, la divisione tra inclusi ed esclusi.

Tutti i testi, a quel che mi sembra rileggendone la stesura trascritta, sono attraversati da una voglia di rompere con l’inquadramento classico del procedere riflessivo, della proposizione logica. Cosa, ovviamente, impossibile senza cadere nel delirio puro, scelta da cui mi tenevano lontano i miei ascoltatori. Non c’è modo di non farsi condizionare da chi vuole ascoltare e dal luogo stesso, dall’ambiente in cui le parole risuonano (come sapevano perfettamente gli antichi filosofi greci).

Posso propormi azioni distruttive, e di fatto ciò accade nella mia vita di rivoluzionario, ma non posso parlarne. Se ne parlo, seduto di fronte ai miei ascoltatori, mi sento dapprima in imbarazzo, poi, man mano che cresce in me la febbre del dire, mi sento preoccupato moralmente. Come se commettessi un’azione riprovevole, del genere rubare al povero, non so se mi capite.

È che la propaganda – mettiamola in questo modo – non mi si addice. Ponetemi nei panni didascalici del progressismo sicuro di sé, della crescita espositiva che da una sbiadita dichiarazione di princìpi porta a conclusioni meno fallaci, e mi renderete malato, agonizzante. Eppure c’è in me tanto di altruismo, esatto: di altruismo, da spingermi a mettere a disposizione degli altri un bene che possiedo in maniera limitata, e questa limitatezza mi penetra nelle carni man mano che si delinea il dono che intendo proporre, sfuggendo così a qualsiasi concezione di sacrificio (credetemi sulla parola), ma non riuscendo a sfuggire alla lacerazione del dare qualcosa di trascurabile, un’idea che non appena vista nell’atto di essere donata mi appare subito banale, incommensurabilmente banale.

Non ho mai posseduto la certezza in tasca, non mi sono mai rappresentato lo scopo della mia vita come il fine che tutti dovrebbero tenere presente, il mio appagamento l’ho sempre trovato in quello che mi appagava, non nell’adeguamento a una moda che ci uniforma rendendoci comprensibili gli uni agli altri. Ne è derivato che mancando di un’aspirazione estrema, priva di condizioni, ho raccolto, come si dice, tutte le sfide, anche quella tecnica, esprimendole a modo mio, attraverso la penetrazione conoscitiva e non soltanto attraverso il rifiuto acritico. Sono andato dentro più profondamente, mettendo da parte l’imperativo morale che in genere impedisce con violenti contrasti paradossali l’accesso a questi antri stregati. Prima di tutto mantenere le distanze, acciocché gli altri ti vedano e sappiano. E se non volessi mantenerle, queste distanze di sicurezza?

Qui, in questi testi, il rifiuto di mettersi al sicuro determina una situazione sconcertante. La pongo nei termini seguenti: se il potere utilizza la conoscenza per dominarci, come possiamo lamentarci del fatto che ce la sottragga? Così facendo, cioè lamentandoci di aver perso qualcosa, non ammettiamo implicitamente che vorremmo quella conoscenza per sostituire il potere nei suoi programmi di dominio? Se rifiutiamo di essere “esclusi”, il nostro rifiuto non è una implicita affermazione del volere essere “inclusi”?

Non sto suggerendo una provocazione qualsiasi, ma solo indicando un modello di domanda che si colloca nella testa di tanti e che spesso non viene fuori in modo esplicito, non tanto per prudenza o struggimento di possibilità, quanto per pura incapacità. Dire che il possesso della conoscenza non è sinonimo di potere è sbagliato. Non c’è dubbio che il sapere rende possibili azioni che l’ignoranza sigilla nell’impossibilità. Un’acquisizione espande le nostre prospettive, ci fa progettare diversamente la vita, quindi è sempre un vantaggio in quanto allarga il nostro modo di respirare. In qualche spirito debole potrebbe fare sorgere desideri di dominio. Anche questo è vero. Gli allettamenti sono tanti, e per questo è elevata la domanda di conoscenza.

Riappropriarsi della conoscenza sottratta? Anche questo parrebbe un progetto interessante, così su due piedi. Ma poi, riflettendoci, ci si accorge che non è il vero scopo rivoluzionario. Oppure, per essere più esatti, lo è solo in parte. Un progetto che sta per ridurci definitivamente in catene, com’è quello della nuovissima tecnologia, non può essere contrastato “recuperando”, ma attaccando, e l’attacco ha solo la soluzione distruttiva, non è più possibile una modulazione intermedia. Dobbiamo fermare quello che sta accadendo e, nel momento stesso in cui lo fermiamo, coinvolgerci completamente nella distruzione, recuperando così non tanto la conoscenza astratta di cui si vale il dominio, ma la nostra esistenza di uomini nel senso completo del termine, quindi anche la conoscenza di noi stessi.

Questi testi pongono l’accento sul progetto capitalista di dominio, quindi su quello che stanno cercando di realizzare contro di noi per escluderci definitivamente dalla comprensione della realtà ma, nello stesso tempo, delineano un modo di concepire l’azione che nega ogni possibile contemplazione, ogni speranza di chiamarci fuori, di stare ad osservare, di studiare qual è il modo migliore per colpire senza correre rischi. Trovo questo argomento di fondamentale importanza. Tutti coloro che pensano di essere davanti ad una “prova” che devono superare, tutti coloro che vogliono dimostrare qualcosa a qualcuno, sono, secondo me, sulla strada sbagliata. Nel momento in cui ci si mette in gioco non ci sono prove o dimostrazioni, la totalità del reale è impegnata con noi. L’avere affermato questo, l’averlo posto come insegna dello stesso agire rivoluzionario, non mi ha mai arrecato benefici. I miei ascoltatori hanno sempre preferito scendere nei dettagli dei vari problemi, semplificando e distinguendo, piuttosto che risalire all’unità del problema. Solo pochi mi hanno veramente capito e questi pochi hanno accuratamente evitato di dirmelo. Non sono un buon propagandista. Meglio così.

L’aspirazione a vivere una vita unitaria, che non abbia sbavature o contrappesi malamente legati per sostenere opinioni e salvaguardare interessi, è il desiderio di tanti, anche il mio, ma è un impegno per pochi. La libertà è una tensione feroce che si scatena dentro di noi, che non ammette concessioni o sconti, alla cui durezza non è possibile sottrarsi se non rinunciandovi completamente. Non ci sono libertà parziali che non siano catene più o meno camuffate. La libertà è come l’amore e l’amore come la libertà. Quando c’è ti sottrae qualsiasi possibilità altra, non ammette alternative, sei libero o sei schiavo. Così l’amore, quando c’è non ammette parzialità, è onnicomprensivo. Contrastare vale a poco. Andare fino in fondo, è l’unica strada praticabile. Ma andare fino in fondo significa coinvolgersi direttamente, mettersi a rischio senza riserve, fino a restare bruciati.

Agire non significa misurare l’azione, anche se l’azione va misurata, cioè va studiata e quindi sottoposta al ragionamento che misura e rende comprensibile. Come può essere ridotto in termini di propaganda un pensiero che sostiene la totale identificazione tra quello che si è e quello che si fa? Una tesi del genere non è digeribile da nessuna parte politica, e non va confusa con la tesi materialista (o idealista, se si preferisce) che si è quello che si fa. La differenza è considerevole. Quest’ultima tesi rende ragionevole quello che si fa per il semplice fatto che esiste, l’altra tesi revoca continuamente in dubbio l’agire se non è assistito dal rischio totale dell’individuo che agisce. Quando, per un motivo qualsiasi, questo rischio viene meno, ad esempio per paura, allora il processo si spezza in due.

Il tenere da conto, il conservare in bell’ordine, l’avere cura di potere in qualsiasi momento “documentare” le proprie opinioni, fare sfoggio di certezze altrui, arrampicarsi sulle spalle di qualcun altro, tutto ciò è volgarità disgustante quando viene messo al servizio dell’attacco contro il nemico. Era disgustante lo stesso essere antifascisti come giustificazione morale per l’attacco, e si vide bene la fine di qualche arrabbiato oltranzista non appena le camice brune cambiarono colore. Tutta questa riserva di buon senso mi ripugna. La libertà non può essere mercato di arrivisti, di tardivamente ardenti, di icone rarefatte, di sordi compiacenti, di predestinati al calcolo. Il riconoscente annunciatore di fini raggiunti non è che uno schiavo alla catena, forse un negro da cortile, nulla di più.

Chi si aspetta un riconoscimento, sia pure sul piano dello scontro armato, non è altro che un sensatissimo ragioniere che lavora alla stesura del giornalmastro. Affetto da una comica vanità di agitarsi non aspetta che la resa dei conti, di cui nel frattempo strizzando l’occhio si fa speranzoso annunciatore. Le apparenze non significano nulla, le somiglianze neppure. Scrostate con l’unghia un poco di vernice e vi troverete sotto il mancato prete. Pensare la libertà come qualcosa di commerciabile, con acconti e anticipazioni in vista di un saldo futuro, è ingiuriarla e calpestarla. Non appena ci si allontana dalla misura si è nella desolazione del paradossale, niente più può servire da punto di riferimento.

Il fatto è che chi si pone il problema dell’attacco si pone il problema del male. Del male dell’uomo, del male che l’uomo riesce a fare all’uomo, del male cercato, costruito, realizzato e portato alle sue estreme conseguenze. Ora, il male è innanzi tutto un problema di misura. Ogni forma di ordine è costrizione, quindi male. Alcuni aspetti di questa costrizione, spacciati sotto l’insegna del bene, possono essere tollerati, o meglio sarebbe dire individualmente considerati tollerabili, ma di già, nell’ambito di questa necessaria tolleranza, ci sono i germi del male futuro, le possibilità di sviluppo estremo del dominio. Attaccare significa rendersi conto di quanto si è responsabili della tolleranza di fondo che governa il mondo e rende possibili gli estremismi della repressione feroce e illimitata, possibili e giustificabili. Agli antipodi del male non ci sta il bene, che è una sorta di male tollerabile, la forma minima (o tale considerata) di costrizione, ma la libertà, la quale non è misurabile, quindi è al di là del male e, pertanto, anche al di là del bene. Attaccando cerco di distruggere il male, ma non posso accettare la misura che mi viene suggerita dai cosiddetti confini del bene, il male più tollerabile. Non c’è possibilità di coniugare la libertà col bene, essi si contraddicono.

Salpando contro il nemico ogni danneggiamento può essere riparato con i mezzi di bordo. Spesso questi sono ridicolmente mezzi di fortuna. Quello che la saggia logica non comprende viene chiaramente intuito dal cuore che sollecita all’attacco anche quando le condizioni obiettive, attentamente valutate, indicherebbero il contrario. La vita finirebbe per soccombere se accettasse sempre le indicazioni della ragione. Ci sono nella risoluzione complessiva, quella che accetta se stessa come posta in gioco, una fragranza e un’audacia che ricompongono le titubanze del ragionamento, riprendendolo ad un livello differente, indicando un processo che la mera logica non vede.

Molti di coloro che alzano alta la voce contro i pericoli della tecnologia telematica e della bioingegneria lavorano per il potere, come Bill Joy, fondatore della Sun Microsystem, inventore dei linguaggi Java, Jini e Unix, presidente della Commissione tecnologica della Casa Bianca, o come Ray Kurzwell, organizzatore dell’Highland Forum al Pentagono sulla nanotecnologia e la robotica, o come Philip Kuekes, dei laboratori Hewlett Packard, che si è occupato di elettronica molecolare, o Kris Pister, dell’Università di Berkeley, che ha indicato i pericoli della nanotecnologia. Mi chiedo quanto della propaganda apocalittica non torni utile proprio allo stesso sviluppo tecnologico che apparentemente combatte. Tutti costoro, ed altri ancora, migliaia di altri, manifestano titubanze con le quali intendono chiamarsi fuori, ma chiamarsi fuori non è possibile e, per loro, è impossibile attaccare, non potrebbero farlo senza coinvolgere se stessi in una pazza avventura senza prospettive. Quello che dicono sono immagini sparse, che fluttuano da sole in uno scenario impressionante, degno delle paranoie di fine millennio. Nella migliore delle ipotesi si tratta di dare a queste immagini una concretezza che non posseggono, farle diventare corpo solido di un progetto con dati precisi a disposizione, obiettivi da attaccare, oggetti visibili da distruggere. Per evitare che i loro discorsi, e perfino le loro indicazioni di responsabilità (che fra le righe appaiono, sia pure sfumate), diventino un raffinato repertorio mitologico-simbolico, occorre scarnificarli di ogni riferimento millenarista, ridurli all’osso di quelle poche indicazioni sfuggite fra le righe. Il resto è merda non diversa da quella dei loro colleghi elogiatori.

L’importanza del coinvolgimento, almeno in questa sede, dopotutto legata al dire e all’ascoltare (adesso perfino al leggere), non può però arrivare fino al punto di disorientare il lettore. Nella vita di ognuno di noi c’è qualcosa di frammentario in tutti i momenti, anche quando pensiamo di essere sulle soglie di quell’unità di senso che stiamo cercando da tempo, anche quando puntiamo i piedi per ricomporre pezzo per pezzo la nostra coerenza, non accorgendoci che ci stiamo cucendo addosso una divisa. Essere quello significa non essere quell’altro, ma io voglio essere quello e quell’altro, e quell’altro ancora, senza accettare uno schieramento che mi indichi la sintesi di un uomo, l’assaggio di qualcosa che invece voglio gustare fino in fondo. Non voglio essere uno specialista, anche se il bisogno di agire qualche volta richiede quel novero di cognizioni, indispensabili se non si vuole negare l’azione stessa come effettualità attiva. Solo che non voglio accettare l’etichetta, la ripartizione a spese dell’interesse generale, la subordinazione alla struttura, la sigla che mi connota, la ragion d’essere che mi trionfa addosso. E questo fino all’estremo, fino a correre il rischio di apparire ridicolo.

Con buona pace degli eroi.

 

Trieste, 7 giugno 2000

Alfredo M. Bonanno

Primo seminario

(Venerdì 23 febbraio 1996 – dalle 19 alle 20)

 

Perché queste conversazioni? Cosa aspettarsi da esse? Che cosa possiamo fare di una maggiore conoscenza? Qual è il ruolo delle università? Il mito della ragione. Scienza e paura del futuro. Verità e certezza. Conquista e perdita. Che significa vivere la propria vita? È possibile autogestire la conoscenza sottraendola ai produttori di sapere? La distruzione del lavoro.

 

Ringrazio gli studenti della Facoltà di Sociologia dell’Università “La Sapienza” di Roma per avere organizzato questi seminari, quattro in tutto, con periodicità settimanale a partire da oggi. So che lo sforzo non è stato indifferente e le difficoltà non sono state poche. Autogestire un seminario è possibile nelle condizioni odierne delle nostre istituzioni universitarie, e questo accade nell’indifferenza generale, per quanto i controlli non siano mai del tutto assenti. Questa indifferenza è un segno essa stessa, cioè una indicazione. Lascia trapelare il fatto che l’istituzione si ritiene sufficientemente salda nei suoi progetti, e di fatto non si può affermare che non lo sia.

Nonostante tutto ritengo interessante parlare direttamente con gli studenti di problemi che di regola non vengono sollevati in aule come questa.

Ma che cosa ci si può aspettare da queste conversazioni? Prima di tutto, capire i limiti dell’istituzione culturale stessa. Noi partiamo da una condizione di scarto, siamo qui perché esclusi da qualcosa che pure dovrebbe appartenerci. Solo l’apparenza lascia intendere che questa esclusione possiamo superarla, in effetti non possiamo superarla, per quanto possiamo viverla fino in fondo, cioè trasformarla in un’arma. E questa esclusione, di cui parleremo a lungo, sia stasera che nelle prossime settimane, riguarda prima di tutto una separatezza di natura culturale.

Potremmo quindi pretendere una “maggiore” conoscenza. E di certo sarebbe un ottimo avvio per una lotta intermedia, cioè per un confronto a denti stretti con l’istituzione culturale che ci fronteggia tutti e che, nello specifico, vi fronteggia in quanto studenti, ma sarebbe estremamente debole sia come rivendicazione, cioè come motivazione di lotta, sia come prospettiva futura. In fondo, la condizione dello studente è condizione miserabile essa stessa, non solo per la povertà e la limitatezza di quello che si chiede alla controparte (un poco di cultura, per favore), ma anche per le attese ingiustificate che rinfocola, in altre parole, un posto dominante nel progetto futuro di gestione della società. Nessuna di queste due speranze può essere esaudita per tutti voi, forse per un numero talmente esiguo di voialtri che è quasi ridicolo parlarne, ed in ogni caso per un numero non solo esiguo ma anche specificamente qualificato in termine di appartenenza alla classe privilegiata, sufficientemente danaroso per consentire la frequentazione di quelle specializzazioni e di quei master che darebbero, questi sì, un contenuto apprezzabile ai vostri studi, e quindi alle vostre speranze di appartenere alla futura classe dirigente. È palese che quello che dirò in questi seminari non è adatto a orecchie del genere. Quindi se qualche privilegiato si trova qui dentro è bene che esca a farsi una passeggiata. Impiegherebbe meglio il suo tempo.

In linea di massima, per gli esclusi, che tali resteranno anche se provvisti di un miserabile foglio di carta come una laurea in sociologia, non ci sarà disponibilità di cultura se non in maniera marginale, ridotta alla negazione di se stessa, inefficace a dare mezzi e capacità di capire quello che sta succedendo nella realtà. Nello stesso tempo non possiamo illuderci di riuscire, in modo autogestito, in questi quattro seminari, a colmare questa lacuna, potremmo farne centinaia di seminari e il risultato sarebbe sempre troppo esiguo per fronteggiare un meccanismo massiccio come quello che ci sovrasta. Il riacquisto della conoscenza dovrebbe avere non solo un altro metodo ma anche un altro scopo. Se questi seminari dovessero servire a perfezionare un qualche futuro magistrato o ufficiale di polizia preferirei mordermi la lingua stasera stessa. Se dovessero invece servire a chiarire qualche aspetto del nemico e quindi favorire quell’attacco distruttivo che mi auspico giunga alla fine di una dolorosa presa di coscienza della propria condizione di escluso, allora non avrò sprecato il mio tempo. Lo scopo distruttivo del riacquisto della conoscenza deve accompagnarsi quindi al metodo selettivo, cioè di individuare quella parte che può anche essere usata per attaccare il nemico, e ciò prima che sia troppo tardi, prima che quel muro di cui abbiamo parlato tante volte venga definitivamente consolidato.

Per sfuggire ad un equivoco riguardo l’uso della conoscenza c’è da dire subito che non ci sono garanzie precise in proposito. I dominatori conoscono bene le regole del gioco e le usano a loro vantaggio, i dominati non le conoscono e quindi non possono usarle a loro vantaggio. E se le conoscessero? Se le conoscessero le userebbero a proprio vantaggio e quindi sarebbero non più dominati ma dominatori. Che conseguenze trarne? Che la conoscenza forgia soltanto dominatori? In linea di massima si può essere d’accordo con questa conclusione, nel senso che il possesso esclusivo della ricchezza, di qualsiasi genere questa sia, abbisogna di regole di differenziazione, cioè per essere “esclusivo” deve escludere qualcuno, quindi deve essere tenuta a danno di qualcuno e dalle legittime pretese di quest’ultimo difesa con ogni mezzo. In questo modo la ricchezza diventa “possesso esclusivo” e il processo di esclusione ne sancisce la “proprietà”. Il possesso puro e semplice, diretto ad accrescere la qualità del possessore non a danno di qualcuno che non possiede ma soltanto a differenza di chi non vuole o non può possedere, è un altro discorso.

La ragione ha presieduto a tutti i movimenti di giustificazione da sempre messi in atto per fondare queste condizioni di esclusione. Il mito che l’ha accompagnata in tutte le epoche è stato quello costruito dai dominatori. Per questi ultimi ogni dominio è la realtà stessa, nella sua espressione più razionale. Non c’è mai stato un dominio, per quanto feroce e crudele, che non sia apparso “ragionevole” agli occhi dei dominatori che l’attuavano a proprio beneficio e a danno di qualcun altro. Pensare, erroneamente, ad un’alternativa tra ragionevole e irragionevole, tra razionale e irrazionale, ha sconvolto sempre le conclusioni legittime su questo problema. Cerchiamo di non ripetere qui, questa sera, gli errori del passato.

Il mezzo per ovviare a questo possibile errore è quello di collocare esattamente la ragione nell’ambito della sua funzione di garanzia. Il fondamento metodologico della ricerca, di qualsiasi ricerca di conoscenza, nelle sue ingiustificate e ingiustificabili ripartizioni scolastiche, resta quello di fornire l’incolmabile imperfezione umana di alcune garanzie. Queste garanzie sono altrettante protesi per affrontare con maggiore forza, e quindi con maggiore possibilità di riuscita, l’incertezza del futuro e la paura che ne deriva. Se la scienza è misura, è anche limite e punto di partenza, distinzione e rifiuto di ogni concetto di unità. Poiché l’uomo aspira continuamente alla completezza, questo rifiuto della totalità, necessario sacrificio di ogni pretesa scientifica, gli costa dolore e sofferenza. Vuole quindi essere retribuito per quello che ha pagato e continua a pagare. La perdita del sogno lontano di completezza si traduce, in fin dei conti, in un immiserimento che garantisce. Come chi mette su casa, e sogna questo avvenimento come punto di partenza, invece, a poco a poco, nella casa vi si colloca come in un bozzolo, ed è teca e loculo in cima a breve tempo. Il resto viene da sé, quasi senza accorgersene.

Il bisogno di garanzia è anche un riflesso dell’incapacità di cogliere il punto di partenza essenziale, un luogo fidato in cui porre con saldezza i piedi. Quello che manca è la verità di ciò che facciamo, e la certezza del fatto, convertendosi nel fare, e viceversa, non fornisce altro che un riflesso, un residuo insoddisfacente. In questo modo risultiamo falsi e ce ne accorgiamo. Quello che affermiamo ha un tono troppo alto o troppo basso, siamo sempre fuori del rigo. Partendo dalla specificazione, quindi dal rifiuto dell’unità che continua a guardarci da lontano, sempre più incomprensibile, dobbiamo per forza accontentarci di certezze periodiche, transitorie e ripetitive. Pretendiamo di riflettere la realtà e in questo modo, sottoponendola alla nostra analisi critica, pretendiamo anche di conferirle il crisma della razionalità. Siamo noi che costruiamo i nostri limiti e su questi misuriamo poi le nostre catene, per dare subito inizio alle lamentele riguardanti il nostro sentirci prigionieri e incatenati. Permanendo nella paura, non si fa altro che dipingere a colori vivaci le nostre catene.

La certezza che ci ospita e che la scienza concorre, con tutte le sue elaborate distinzioni, a confermare quotidianamente nei vari capisaldi necessari, è conquista, quindi anche disponibilità di conoscenza. Strappare il contenuto del dominio – ormai sempre di più trasparente in termini di informazioni – è compito certamente rivoluzionario, ma potrebbe convertirsi nel suo esatto contrario. Di una conoscenza utilizzabile soltanto in termini di potere, e di gestione di potere, dobbiamo imparare al più presto possibile a fare a meno, dobbiamo quindi imparare a far nostra la scienza della perdita. E questo non è facile. Perdere qualcosa senza sentirsi defraudati è cognizione di vita che si acquisisce col tempo. Non si tratta di quello che il potere ci sottrae riducendo le nostre capacità di capire, il nostro linguaggio, tanto per fare l’esempio principe, ma si tratta invece di quello che deliberatamente decidiamo di lasciar perdere, quindi di distruggere.

Vivere può avere un significato di retroguardia, un procedere di piccolo cabotaggio, di conserva. Vivere è anche accettare tutte, o quasi tutte, le condizioni del vegetare senza iniziative, condizioni di regola scandite dal ritmo del “fare” quotidiano. Anche questo è vivere. Vive l’impiegato al catasto e vive l’uomo d’affari malato di fegato a causa dei suoi investimenti. Di queste vite c’è da dire una sola cosa: i loro proprietari non si accorgono quasi di averle, la prospettiva dell’andare avanti, di corrispondere attenzioni e dedizione all’accumulo della routine, li uccide a poco a poco. Quando la morte deciderà di visitarli, come accade a tutti, non sapranno nemmeno di essere transitati per qualche tempo in questo mondo. Se la vita è altro da questa oscura attesa della morte, dovremmo avere almeno un’idea di cosa possa essere quest’altro. Forse la turbinosa e imprevedibile quotidianità di chi si è posto “fuori” delle regole? Non credo. Non c’è modo di porsi fuori di qualcosa, di chiamarsi fuori. Non c’è modo di farlo fino in fondo. Si tratta di iniziative di natura diversiva, un gioco spesso mortale con la sorte, un contrastare e un urlare a squarciagola la propria purezza, il raccogliere i punti della propria coerenza come una massaia quelli del piatto in regalo al supermercato. La vita è altra cosa e comincia a far balenare la propria luce minuscola, quasi trascurabile, dentro la foresta dove non dobbiamo avere paura di penetrare. Vivere significa avere coraggio. Non quello del nerboruto che digrigna i denti, non quello, ma il coraggio di chi sceglie in modo da realizzare se stesso, in modo da diventare quello che è. Il grande problema dell’esistenza è quello dell’essere, non nel senso supremo di questa parola, che qualche volta si perde nelle difficoltà terminologiche di una certa metafisica, ma proprio nel senso della propria vita, che è unica e che non può essere ricominciata dall’inizio quando ci si accorge di avere sbagliato qualcosa.

Dentro certi limiti, il problema che ci siamo posti all’inizio di questa prima serata dei nostri seminari torna qui a dare i suoi frutti significativi. Possiamo autogestire la conoscenza sottraendola ai produttori di sapere? Possiamo farlo, di certo, ma con aumentate difficoltà. L’elenco di queste difficoltà non è ampio ma pesante. Realizzare una sottrazione di sapere a danno dell’istituzione è difficile in quanto quest’ultima ha provveduto a difendere quello che gestisce, cioè il proprio potere, con una barriera di natura propedeutica. Molte volte ci mancano proprio quelle nozioni introduttive, di carattere istituzionale e generale, che di solito vengono spacciate come elementi essenziali di ogni attività dello scibile umano, altrimenti detti princìpi. Molta critica si è indirizzata verso la consistenza e il significato di questi princìpi, resta comunque il fatto che, il più delle volte, si tratta proprio di elementi che rendono possibile una facilitazione dell’apprendimento e dell’uso della scienza nelle sue varie realizzazioni. Un altro ostacolo, per un’autogestione della conoscenza, è quello che l’espropriatore, non avendo mezzi di comparazione, né modelli di utilizzo a portata di mano, è spinto dalla propria stessa impresa (vedi, sindrome dell’autodidatta) a considerare più importante di quello che è l’esproprio fatto. Riflessioni simili vanno fatte riguardo gli attacchi armati contro il nemico, a volte enfatizzati per darsi coraggio o, peggio ancora, per fornirsi di un’identità rivoluzionaria. Continuando, la cultura è un fenomeno complesso, basato quasi essenzialmente sulla correlazione tra elementi diversi. Nell’ambito della ricerca specialistica, l’espropriazione non solo è impossibile ma darebbe, se tentata, risultati risibili, però nel tenersi lontani da quest’ambito c’è una certa misura d’intelligenza, alcuni elementi di questo livello di conoscenza devono essere espropriati se non si vuole sempre restare in un limbo d’ignoranza istituzionale che costringe qualsiasi considerazione critica a suonare come una petizione di principio. Infine, molti di questi contenuti, se si vuole propedeutici, comunque ancora indispensabili per procedere oltre e fornirsi di metodi e contenuti propri, una volta venivano dati in una certa misura proprio dall’istituzione. Oggi, in vista del progetto di quest’ultima della costruzione del muro culturale di separazione, questi stessi contenuti sono stati ridotti e snaturati.

La distruzione del lavoro è il punto logico, e pratico, da cui partire in un mondo che fino ad oggi ha fatto del lavoro il suo perno essenziale. Trasformandosi il progetto capitalista, il lavoro sta snaturandosi a poco a poco, non saranno quindi i lavoratori a ereditare il mondo dopo la rivoluzione. Dei mezzi di produzione che si sottrarranno dalle mani degli inclusi non si saprà cosa fare, non ci potranno quindi essere organizzazioni di lavoratori in attesa di entrarne in possesso e in grado di utilizzarli in maniera corretta, cioè socializzandone i risultati produttivi. Stanno sconvolgendo tutta la superficie del pianeta in maniera tale da renderlo inabitabile, e i mezzi con i quali stanno realizzando questo sfruttamento dissennato non possono essere modificati procedendo a senso unico. La rete mondiale di telecomunicazioni su cui si basa, attualmente, il dominio capitalista non potrà essere utilizzata in altro modo che per continuare, magari a bandiere cambiate, questo dominio. I lavoratori sono quindi fra i responsabili di questo genocidio e il loro lavoro non li qualifica più come sfruttati in grado di riprendere nelle mani il proprio destino, ma come esclusi in via di essere tagliati fuori dalla comprensione di quanto accade dall’altra parte del muro.

Io trovo sempre molta difficoltà a spiegare i motivi di questa necessità distruttiva, non solo per quel che riguarda il lavoro, ma anche per le strutture che rendono possibile questo lavoro, quindi per tutto ciò che definiamo Capitale.

Grazie, per questa sera.

 

Il testo di questa prima conversazione non è stato registrato. Quello qui ricostruito è tratto dagli appunti scritti per il Seminario.

Secondo seminario

(Venerdì 1° marzo 1996 – dalle 19 alle 20)

 

La ristrutturazione capitalista. Gli elementi del nuovo dominio. Incertezza e comando capitalista. Funzione della scuola e condizione dei giovani nella società postindustriale. Esclusi e inclusi.

 

L’argomento scelto per questa seconda occasione d’incontro concerne le forme della ristrutturazione capitalista e gli elementi nuovi intervenuti nella struttura del dominio a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta. Questo ovviamente necessita di una piccola e anche semplice osservazione riguardo la forma del dominio in questa fase cruciale, posta tra l’inizio e la metà degli anni Ottanta.

In effetti il Capitale in quell’epoca si trovò ad affrontare una grave congiuntura, si trovava con grossi investimenti in impianti fissi, difficilmente modificabili in breve tempo, con costi di gestione crescenti, particolarmente quello della manodopera, che era ormai assolutamente rigido vista la discreta capacità dell’organizzazione sindacale di confrontarsi con il padronato, e anche con una piazza molto effervescente. Queste condizioni potevano far pensare, e a quell’epoca in molti pensammo, ad una possibile “crisi” nel corso della quale i rivoluzionari avrebbero trovato modo di dare corpo reale alle teorie sviluppate in precedenza.

Durante le “crisi”, si diceva all’epoca, e in questo modo si andava ripetendo quello che si era detto per cento e cinquant’anni, si indeboliscono le strutture portanti del nemico di classe e, conseguentemente, è possibile intervenire per dare una sorta di scrollata finale. Questo mito comportò alcuni errori di valutazione e anche oggi potrebbe, se non ben capito, questo concetto di “crisi”, che per me va messo sempre fra virgolette, potrebbe comportare errori considerevoli. In pratica, il Capitale non entra mai in “crisi”, il dominio non entra mai in “crisi”. Può attraversare periodi di difficile gestione della sua realtà, ma la “crisi”, se con questo nome si vogliono indicare queste difficoltà, è in un certo senso endemica alla struttura capitalistica, è una componente essenziale del modo di gestione e del modo di organizzazione della formazione economico-produttiva. Questo in passato si vedeva con difficoltà, adesso si vede con sempre maggiore chiarezza.

Cosa successe quindi alla metà degli anni Ottanta? Davanti alla eventualità, alla soluzione di continuare ancora una volta ad investire grossi quantitativi di Capitale in quello che nelle aziende si chiama struttura del Capitale fisso, davanti alla eventualità di continuare a gestire con difficoltà un rapporto con la manodopera sempre più pesante, quindi sostanzialmente davanti ad un abbassarsi della produttività a causa di un sistema di salari in continua ascesa, contraddittorietà estremamente grave per il Capitale, intervenne un fatto nuovo: il materializzarsi delle conseguenze tecnologiche causate dall’inserimento dell’elemento telematico all’interno della fabbrica.

In effetti, il Capitale non aveva ben capito cosa potesse mai significare, ad esempio, la robotizzazione delle catene di montaggio. Il modello fordista era ancora molto ben radicato nella mentalità di fabbrica. Pensate alla grande quantità di soldi che Alfa Romeo investì nell’Alfasud, l’ultimo grande dinosauro ad impianti fissi. Per modello fordista intendo il modello produttivo di fabbrica basato su di una catena di montaggio a struttura fissa, usato dalle grandi industrie, modello che richiedeva quindi grossi quantitativi di Capitale investiti per dare vita ad una struttura difficilmente modificabile. Lasciamo stare le implicazioni tayloriste del modello fordista, fermiamoci qua, su questo aspetto del modello.

L’inserimento telematico non può essere visto come sviluppo logico di questo modello, la soluzione robotica all’interno del modello fordista venne trovata certamente a seguito di determinati studi, ma ciò non vuol dire che a metà degli anni Ottanta il Capitale avesse cognizione esatta di cosa sarebbe venuto fuori da questo progetto tecnologico, cognizione esatta delle implicazioni non solo specificamente tecniche ma anche sociali. E il fatto che non avesse le idee chiare lo si vede da tanti aspetti. Non riusciva difatti a superare la difficoltà politico-sociale di una riduzione della manodopera, necessaria per una ristrutturazione veramente efficace. Quindi licenziamenti, prepensionamenti, ecc., il tutto evitando eccessivi guai da un punto di vista aziendale. È su queste incertezze che si inserirà la tesi del teorema Tarantelli-Modigliani, di cui abbiamo parlato altrove. Una dimensione politica più rafforzata, a livello di esecutivi politici europei, a partire dalla fine degli anni Ottanta, darà il via alla realizzazione pratica di questo progetto.

Comunque, nel momento in cui si manifestano le prime conseguenze visibili della trasformazione telematica nella fabbrica, il Capitale acquisisce velocemente le nuove possibilità e allora tutto cambia. Un salto qualitativo vero e proprio, determinato dall’inserimento di questi processi telematici, si ha successivamente. Nei primi tempi il Capitale, anche di fronte a studi precisi, condotti ad esempio nei laboratori dell’IBM, avanzava dubbi e resistenze. In effetti, non poteva capire fino in fondo quello che di già si stava verificando. La capacità della sinistra di organizzare la gente e di esercitare pressioni riformiste andava diminuendo e ciò parallelamente alla perdita di capacità contrattuale del sindacato. Aumentava invece la capacità complessiva del potere di utilizzare determinati elementi, ad esempio il cosiddetto “terrorismo”, come deterrenti, come minacce per le istituzioni democratiche, per non parlare della sbandierata minaccia di una inflazione sempre più consistente fatta vedere come una conseguenza della possibile riduzione della domanda, cioè del taglio dei finanziamenti, dei sostegni sociali, degli assegni, ecc. Questa situazione determinò un processo velocissimo di trasformazione del Capitale e di adeguamento alle condizioni postindustriali.

La ristrutturazione, che per tutti gli anni Ottanta fu un processo, adesso la possiamo osservare in una fase molto più chiara, molto più ampia, cioè, in questo momento, secondo me, sarebbe importante riflettere non soltanto sulla capacità di ristrutturazione del Capitale, ma anche sulla sua capacità di integrazione del soggetto produttivo. Scomparsa la figura classica dell’operaio, scomparsa la figura classica della fabbrica, si va verso una integrazione dell’individuo produttivo all’interno di una realtà complessa che non è più quella della separazione fra produzione e consumo, ma è proprio quella dell’integrazione fra queste due operazioni.

Se voi esaminate con occhio esercitato per capire quelle che sono le possibilità che oggi offre il sistema telematico nel suo insieme, potete osservare la trasformazione in corso della condizione passiva del consumatore. Da semplice ricettore dei messaggi produttivi attraverso i sistemi di informazione, quindi non soltanto della pubblicità in senso classico, ma ricettore dei messaggi di informazione che producono l’opinione, questo terminale, questo elemento visto dapprima come “consumatore”, ora è anche preso in considerazione come “produttore”. Il processo che si sta realizzando è un processo di integrazione che deve, in tempi brevissimi, portare il consumatore dalla condizione passiva alla “condizione attiva”, di “consumatore che decide della produzione”, che è quindi esso stesso elemento della produzione.

Come potrebbe avvenire tutto ciò? Innanzi tutto costruendo un modello culturale diverso, un modello interattivo. Infatti, se sembra poca cosa l’eventualità di chi a casa sua, attraverso il terminale, può scegliersi un prodotto nel supermarket, prenderlo dallo scaffale attraverso il mouse, girarlo e controllarlo, poi decidere l’acquisto e ottenere la ricevuta fiscale dalla propria stampante e il prodotto consegnato a casa, tutto ciò è ben più importante di una piccola stupidaggine. Tutto questo lo si deve vedere nella integrazione capitalista e di dominio (quindi anche di controllo) che rende possibile. Su questo punto sono impegnati i progetti del Massachusetts Institute of Technology (il famoso Mit) e della multinazionale americana Procter & Gamble, la stessa coppia che vent’anni fa produsse il codice a barre (in sigla Ean) che ha cambiato il modo di vendere i prodotti in tutto il mondo.

Se il consumatore, se chi avanza la domanda, quindi se la domanda stessa diventa elemento intrinseco (in tempo reale) dell’offerta, nella produzione c’è una grossa trasformazione non solo nell’ambito tecnico della fabbrica, intesa in senso stretto, ma a livello della realtà produttiva nel suo complesso. Cioè adesso abbiamo la possibilità (ed è un dato di fatto) che l’acquirente di un’automobile possa programmare, al momento dell’acquisto, della decisione dell’acquisto, il colore della macchina, certi piccoli gadget, la presenza di certe varianti, e fare entrare direttamente queste sue richieste personali nella catena di produzione. Ma non è soltanto una questione del settore automobilistico, uno dei primi ad uscire dalle forche caudine delle catene di montaggio. Questo processo di trasformazione potrebbe estendersi in futuro a qualunque settore produttivo, perché qui è il Capitale stesso che chiede alla controparte una collaborazione nella scelta del prodotto, nella ideazione, nella formazione del prodotto.

Non gli chiede soltanto la forza lavoro bruta, che viene strutturata e utilizzata in funzione di determinate scelte del comando capitalista, ma gli chiede una collaborazione più intima, un livello di disponibilità di vita, di stile, di qualità, di scelta, di idee, di cultura. Ecco: gli chiede una collaborazione culturale, ma può il Capitale permettersi un rischio così alto? Chiedere una collaborazione culturale non è come aprire le porte della propria struttura di difesa alle idee sovversive che potrebbero venire dall’esterno? Perché può far ciò giustappunto oggi? Perché si è abbassato il livello culturale medio, perché il livello culturale su cui si è tanto insistito, su cui l’intera formazione sociale ha lavorato a lungo a partire dall’Università, da luoghi come questo in cui discutiamo stasera, il livello culturale medio è pronto per essere utilizzato in questo modo in quanto la vita del consumatore verrà sempre di più riempita di aspetti culturali che saranno sostanzialmente delle scelte fasulle, inesistenti, ma che lui vivrà come scelte reali, come possibilità di decidere, di decidere della propria vita.

Pensate a quante cose sa un ragazzo oggi, poniamo, sulle automobili, se gli piacciono le automobili, o sulle motociclette, o su altri prodotti. Ha certamente una enorme conoscenza che trent’anni fa un ragazzo della stessa età e della stessa estrazione sociale non possedeva. Tutto ciò è certamente una crescita culturale, ma solo sotto un certo aspetto, in generale è anche un livellamento, un abbassamento di tipo culturale, perché fornisce elementi di conoscenza quasi sempre disgregati, in grado però di fare prendere decisioni operative semplici, sostanzialmente di già precostituite all’interno di un raggio preciso di azione, che il Capitale gestisce e controlla. Certamente la cultura reale, la cultura vera e propria, che è fondata ed è costituita da incertezze, da dubbi, da perplessità, da penombre, da penose conoscenze che si acquistano a poco a poco, da ricerche inquietanti e difficili, da sogni, da immaginazioni, la cultura reale, concretamente reale, non ha nulla a che vedere col tipo di cultura messa oggi a disposizione degli esclusi.

Purtroppo la cultura che viene fornita è codificazione di elementi semplici, standardizzazione di gusti, ricerca di limitazioni, circoscrivibilità di possibili scelte, legame e condivisione, insomma è un insieme che riempirà la vita futura del consumatore medio, non più soltanto consumatore ma nello stesso tempo produttore. La differenza fra inclusi ed esclusi, cioè fra quelli che gestiscono il potere e quelli che lo subiscono, passa attraverso questa nuova strada, e il passaggio è diventato visibile proprio negli ultimi anni.

Un altro aspetto interessante è, secondo me, la grande capacità di codificare le varie manifestazioni della vita, dal passaggio della porta di un’autostrada (adesso la telecamera può leggere direttamente la targa di un’automobile), ai differenti modi di effettuare un acquisto, ma non è un fatto circoscritto al problema del pedaggio, è un fatto che può essere generalizzato e che viene infatti generalizzato. A Londra, già da diversi anni, nel centro della City ci sono non solo le telecamere che controllano determinate zone, ciò che accade un po’ dappertutto, ma anche i sensori che registrano i discorsi che vengono fatti in determinati luoghi. La codificazione di questo insieme di cose non determina soltanto un elemento di controllo, come normalmente viene visto, cioè una pericolosa capacità del dominio di identificare i soggetti e di mantenerli sotto un costante controllo poliziesco, questo aspetto è a mio avviso secondario, l’aspetto principale è di conoscere i gusti, le opinioni, quei gusti e quelle opinioni standardizzati e impoveriti di cui parlavo prima, che devono essere schedati, codificati, conosciuti.

Pensate cosa potrebbe essere, in futuro, un mondo abitato nella grande maggioranza da persone così codificate, cioè un mondo in cui si possono prevedere tutte le reazioni: risposte elettorali, scelte più o meno democratiche, scelte di appartenenza ad organizzazioni e partiti, adesioni a programmi politici, scelte di gusto, tifo sportivo, ecc. Da queste considerazioni preventive deriverebbero investimenti in determinati settori e non in altri, precostituzione di alcuni gusti al posto di altri, utilizzo di alcuni settori al posto di altri per ottenere risultati più produttivi. Le malattie classiche del Capitale, le sue contraddizioni interne, le sue incapacità verrebbero superate. Il Capitale in passato, nella sua gestione cosiddetta industriale, viaggiava con progetti limitati, aveva progetti circoscritti a medio e piccolo termine, era gravido di contraddizioni interne, di guerre intestine, era cioè afflitto dalla concorrenza vecchia maniera, dove i difetti e le miserie del singolo Capitale inquinavano i progetti più grandi e gli interessi complessivi del dominio. La concorrenza era estremamente dolorosa perché costava soldi, costava fatica. Anche se i teorici del Capitale l’avevano considerata elemento di sviluppo dell’interesse complessivo, la ricerca dell’interesse individuale di ogni singolo Capitale causava danni considerevoli in termini di costi economico-sociali. Tutto ciò potrebbe anche scomparire nel momento in cui la struttura della società viene ad essere standardizzata. Questa standardizzazione è, ancora una volta, in questo momento, una fase, un indirizzo, quello che a me sembra un flusso verso cui ci si sta indirizzando.

Certamente noi possiamo far qualcosa contro questo stato di cose, contro questa ideologia in corso di realizzazione, però per poter fare qualcosa non dobbiamo soltanto limitarci a conoscere che cosa sta succedendo, ma dobbiamo anche capire che cosa sta accadendo di diverso, che cosa non accade più e che cosa è definitivamente scomparso, ecco, questo è importante.

Se non comprendiamo tutto ciò possiamo commettere il considerevole errore di ricorrere a certi mezzi di lotta che sono superati, non perché in se stessi questi mezzi siano ormai superati poniamo dalla storia, ma semplicemente perché sono superati dalle scelte verso cui si è indirizzato il Capitale. Ad esempio, il concetto di “mezzo di produzione” si è talmente modificato da risultare non più rintracciabile nella realtà odierna. Si è per così dire smaterializzato. In effetti, possiamo oggi impadronirci di una fabbrica e autogestirla? No, non possiamo, come non possiamo neanche impadronirci della cultura e autogestirla. Quello che stiamo facendo qui dentro stasera non è affatto autogestione della cultura, noi non possiamo autogestire l’università per lo stesso motivo per cui non possiamo autogestire una fabbrica. Perché non la possiamo autogestire? Perché la fabbrica, come l’università, non produce più unità di prodotto ma produce occasioni, connessioni, relazioni, possibilità.

Tutto questo deve essere capito bene perché, se noi non comprendiamo la differenza che si sta realizzando, non comprendiamo che quando all’operaio si nega il posto fisso e gli si suggeriscono condizioni di lavoro estremamente flessibili, non solo si sostituisce l’ideologia del posto fisso, che una volta inglobava lui, la famiglia, gli amici, le idee, i gusti e perfino i desideri sportivi, con il concetto altrettanto forte di flessibilità, ma anche si creano le condizioni per andare oltre il semplice fatto circoscritto alle necessità del Capitale che, per sopravvivere, ha bisogno di spostare la manodopera con maggiore facilità da un settore all’altro.

In effetti, il Capitale ha bisogno di un uomo flessibile, flessibile come attività di lavoro ma anche come mentalità, un uomo capace di trasformarsi, di non avere la schiena rigida, di accettare la discussione, la tolleranza reciproca, insomma, un democratico. Ecco l’uomo di cui ha bisogno il Capitale, e questo uomo deve essere inserito all’interno del progetto capitalista nel suo insieme, progetto che ha un aspetto considerevole nella condizione di appiattimento culturale che cerca di realizzare.

Considerando questi ulteriori aspetti del problema, come si può rispondere alla domanda: l’operaio di oggi, il consumatore-produttore di oggi, l’uomo integrato in questo contesto basato sulla produzione di opinioni inconsistenti, di quale mezzo di produzione può impadronirsi? Cosa se ne farebbe di una fabbrica o di una piccola azienda, di un bene produttivo qualsiasi, in condizioni rivoluzionarie? Un mezzo produttivo, che resta oggi essenzialmente legato ad un progetto telematico di gestione, in che modo può essere utilizzato in mutate condizioni sociali, specialmente in situazioni di anomia sociale? Non soltanto il bene produttivo che viene a essere liberato dall’ipoteca capitalista, ma il sistema nel suo insieme che aveva permesso la realizzazione del bene, come può essere utilizzato diversamente da come lo sta utilizzando adesso la struttura capitalista?

Ecco, queste domande sono importanti, perché se non si risponde ad esse si corre il rischio di pensare possibile ancora l’impadronimento della struttura produttiva che abbiamo davanti, il suo semplice passaggio attraverso un’operazione di natura rivoluzionaria, la sua consegna ad una gestione diversa nelle mani dei cosiddetti lavoratori liberi del futuro. Il lavoro può essere liberato? O nella struttura in cui ci troviamo non esiste più questa possibilità di liberazione del lavoro? Ecco altre domande che aprono la strada ad una domanda finale: quale mezzi impiegare, in che modo possiamo contrapporci a queste trasformazioni in corso?

Quindi, se rispondiamo nel senso di un possibile utilizzo diverso delle condizioni attuali della trasformazione capitalista, se pensiamo in questo modo, allora possiamo dire: prendiamo i mezzi di produzione, nel momento opportuno e con i mezzi rivoluzionari adeguati, e consegniamoli nelle mani della società del futuro. Se pensiamo che questo non sia possibile perché l’inquinamento, la trasformazione capitalista e l’interazione tecnologica complessiva del sistema economico sociale, con particolare riferimento alle applicazioni della telematica in questo momento, e sempre di più negli anni che verranno, hanno reso inutilizzabile le moderne strutture produttive del Capitale e non trasformabili in una dimensione diversa che non sia quella capitalista attuale, se pensiamo in questo modo, l’unica risposta può essere quella distruttiva.

Dobbiamo distruggere questi mezzi di produzione, e lo dobbiamo fare perché non c’è modo di usarli diversamente, e più tempo passa più questa integrazione fra produttore e consumatore si solidificherà, fino ad arrivare al punto che il consumatore chiederà, dall’interno della sua dimensione di escluso, in base a desideri appiattiti, uniformati, omogeneizzati. Più la sua realtà si impoverirà, più sarà difficile smontare improvvisamente, da un giorno all’altro, il suo mondo culturalmente e significativamente appiattito. Se la rivoluzione dicesse: “Ecco, consegno nelle tue mani di produttore la struttura produttiva, adesso fai da te”, l’oggetto di questa consegna, il produttore-consumatore di oggi e del futuro, che potrebbe fare? Questa massa immensa di produttori-consumatori appiattiti, cosa potrebbe mai desiderare se non quello che gli è consentito desiderare?

Il Capitale si è allontanato dalle antiche pratiche di sfruttamento, non impone più le otto ore lavorative per sette giorni la settimana, oppure le dieci ore, le dodici ore, le quattordici ore di una volta, non ha più bisogno di ricorrere allo sfruttamento bestiale di una volta, sotto il quale la gente moriva di stenti, non intacca più la salute portando la gente nei tubercolosari, costringendoli nelle miniere o, almeno, non lo fa nei modi e con la frequenza di una volta. Oggi non solo si è allontanato da questo modello di gestione economica della forza lavoro, ma ha portato la gente nei sanatori, l’ha fatta guarire, ha ridotto gli orari di lavoro e potrebbe ridurli ancora di più e, inoltre, è entrato nella testa della gente, vi si è installato comodamente.

È entrato nella testa della gente costruendo modelli di desiderio sempre più adeguati ai suoi scopi. Se vi ricordate la canzone dell’Internazionale, dove diceva: “Noi abbiamo un ideale, adesso, non siamo più nell’officina, nei campi, in mare, una massa bruta priva di ideali, priva di un’idea, noi abbiamo un’idea ed è questa la nostra forza”. E questo sentimento scatenava giustamente una grande capacità di organizzazione e di resistenza. In questi ultimi decenni il Capitale ha colpito, e continua a colpire, proprio su questo punto, cerca di smantellare un’idea, cerca di annientare la capacità di mantenere nei nostri cuori quell’idea. Per fare questo ha bisogno di sostituire quell’idea con delle opinioni, e poi entrare dentro i nostri cuori con queste opinioni, rendendo tutto appiattito e privo di significato, senza speranza e qualità.

E dal momento che è cominciato ad entrare dentro di noi, dal momento che noi consentiamo che continui ad entrare e a costruire opinioni al posto delle idee, cioè macinare questa merda che viene prodotta giornalmente e diffusa attraverso i giornali, la televisione e così via, non possiamo più difenderci. Se vogliamo avere rispetto di noi stessi dobbiamo attaccare, oppure questo progetto così bello di decidere assieme ai nostri beneamati nemici che cosa fare domani finirà per avere la meglio, perché è chiaro che stanno annientando la nostra capacità di desiderare, di avere una idea, di essere in fondo noi stessi. Ecco perché penso che il Capitale sia veramente arrivato ad una svolta considerevole, svolta resa possibile dalla telematica.

Certamente i teorici del Capitale avevano tante volte in passato pensato di potere impadronirsi della mente dell’operaio. Quante volte nei vecchi trattati di psicologia della folla si era cercato di fare dei tentativi per prevedere la risposta dei lavoratori educandoli ad un comportamento civile, ad una logica della sofferenza. Ad esempio, quanti benpensanti capitalisti hanno finanziato le iniziative contro l’alcolismo, nelle carceri classici della propaganda delle “buone” opere erano le conferenze contro l’alcolismo. Se volete era un metodo rudimentale e ridicolo per entrare nella testa della gente. Pensate alla differenza che c’è fra quello che accadeva cinquant’anni fa, con queste ridicole conferenze e altre consimili e altrettanto ridicoli tentativi di indottrinamento, e la capacità capillare, continua, di realizzare un progetto complessivo come quello di oggi, attraverso i mezzi che il Capitale ha a disposizione.

Ecco perché penso che la conclusione sia soltanto quella della necessità della distruzione. Solo che il concetto di distruzione, anche per quelli di noi che pensano sia ineluttabile un momento distruttivo, è un concetto molto oscuro, molto nebuloso. Di regola, preferiamo non parlare di questo argomento, preferiamo rinviare al futuro il momento distruttivo. Anzi, quando qualcuno di noi insiste su questo punto, non sui dettagli, per carità, perché i dettagli fanno anche un po’ paura, ma quando qualcuno semplicemente si ferma sull’aspetto distruttivo, subito gli si tappa la bocca con la classica risposta: “Ma tu non sei propositivo, tu stai facendo un lungo elenco di aspetti negativi, adesso dicci che cosa dobbiamo fare, non puoi limitarti soltanto a dire che l’unica cosa da fare è quella di cominciare a distruggere e poi si vedrà”.

Guai a dire una cosa come questa perché ognuno di noi, dentro di sé, ha paura della distruzione. Pensate, anch’io ho alcune cose mie, intime, che non vorrei che venissero distrutte, poniamo i miei libri. A casa mia, se qualcuno cominciasse a distruggere i miei libri, mi sentirei male. Quindi ci sono dentro di noi, anche nella persona più smagata o in quella più libera da legami possessivi, oppure in quella che ha approfondito centomila problemi, ci sono molte cose di cui non si può parlare senza causare una reazione difensiva, e la distruzione fa parte di esse perché è una questione delicata e fa un po’ paura, eppure, secondo me, è l’argomento del futuro.

È inutile che ci balocchiamo sulla possibilità di soluzioni indolori, non esistono soluzioni indolori. Questi ci stanno indirizzando verso una struttura chiusa, verso un ghetto dove chiuderanno quelli che verranno esclusi dalla gestione del potere, e questi siamo noi, e questa chiusura non sarà di tipo oggettivo, non sarà il muro del carcere, la cancellata, e nemmeno la divisione in classi che conosciamo, non sarà stabilita tra chi possiede la Mercedes e chi non la possiede, perché chi non possiede la Mercedes oggi desidera la Mercedes e sa tutto sulla Mercedes, guarda a chi ha la Mercedes e lo odia e fino a questo punto andiamo bene, perché c’è una base concreta per una corretta reazione di classe, cioè l’odio fra chi possiede la Mercedes e chi non la possiede, quindi non ha importanza, in questa fase, se chi non ha la Mercedes odia quello che ce l’ha semplicemente perché la vorrebbe anche lui, lasciamo le cose un attimo come stanno, riflettiamo su questa fase.

E se invece non si fosse più in grado di desiderare la Mercedes? Se invece vedendo sfrecciare il tizio con la Mercedes non si capisse nemmeno cos’è quell’oggetto? Se il modo di parlare, di vivere, di usare gli oggetti posseduti, i progetti produttivi, i significati morali e tutto il resto, di chi è nemico oggi divenissero, con l’andare del tempo, assolutamente incomprensibili, cosa potremmo mai desiderare? Contro chi potremmo lottare, quale nemico attaccare, cosa immaginare di diverso da quello che possediamo? L’unica cosa che potremmo fare è essere contenti e beati della nostra situazione. Non la situazione terminale dei sanatori, non la situazione estrema delle miniere, non la situazione di sfruttamento occhiuto delle quattordici ore lavorative, ma una situazione del tutto accettabile. In altre parole, la catena che stanno costruendo potrebbe essere una catena dorata, abbastanza comoda da consentire molti movimenti e, a lungo andare, con la catena ai piedi, potremmo pensare che stiamo camminando grazie alla catena, non malgrado la catena, e nel momento in cui pensiamo che stiamo camminando grazie alla catena il cerchio si è chiuso, siamo definitivamente ridotti allo stato di schiavitù. Ad un tipo di schiavitù senza rimedio.

Ecco perché è necessaria la ribellione oggi, ed ecco perché è necessaria la distruzione oggi. Ecco perché, nella precedente conversazione, quando il tempo ci ha impedito di andare avanti sulla questione del lavoro, ci siamo fermati all’affermazione che l’unica cosa che possiamo fare oggi nei riguardi del lavoro è distruggerlo, non liberarlo da qualcosa che lo tiene in ostaggio. Avevamo però lasciato in sospeso l’argomento del perché il lavoro è al centro del problema. Sia riguardo il controllo e la repressione, sia riguardo la gestione complessiva del Capitale, il lavoro è, anche oggi, l’elemento portante. Ma preferisco rinviare questi argomenti alla conversazione seguente, venerdì prossimo.

Prima di chiudere questa serata vorrei fare un cenno al rapporto che c’è tra individuo singolo e Capitale, cioè a come il singolo vede il fenomeno “Capitale” scorrere davanti ai suoi occhi, realizzarsi nelle mille strutture che costituiscono la formazione economico-sociale. C’è un modo un po’ fantasioso di concepire il Capitale come una forma di potere forte, che realizza i suoi progetti studiandoli a tavolino, che procede superando, di volta in volta, le proprie contraddizioni, trovando soluzioni, cancellando conflitti al proprio interno, per cui viene fuori un processo lineare, ecc. In effetti non è così. Studiare il movimento del Capitale, la serie dei suoi movimenti, è uno dei problemi più grandi che i rivoluzionari da sempre si sono posti. La volta scorsa, accennando a questi problemi, e anche stasera, ho detto che il Capitale è estremamente contraddittorio. Niente in esso assume aspetto lineare, niente è possibile dedurre da processi pretesi lineari. Il Capitale, nel suo insieme, ha problemi che riguardano i singoli capitali, esso per tanti motivi è contraddittorio nei suoi rapporti con lo Stato. Quest’ultimo è un Capitale particolare, ha un sistema produttivo un po’ diverso. Senza entrare nei dettagli, che sarebbe troppo lungo affrontare adesso, è certamente questa contraddizione che ha permesso al Capitale soltanto progetti a media e breve scadenza. Molti di questi problemi sono in corso di risoluzione, per quanto non si possano considerare del tutto superati, però i mezzi che adesso il Capitale possiede sono tali da rendere possibili queste soluzioni, in quanto adesso sta lavorando all’interno dei soggetti stessi, dei singoli soggetti, all’interno della mente dei singoli soggetti, impiantando strutture che consentono un potere prima inattingibile. La grande fabbrica delle opinioni sta aprendo le difese residue degli esclusi e sta costruendo, dentro di loro, le condizioni di una soluzione definitiva di tutti questi problemi.

Ora, questo tipo di progetto non è che sia chiaro o risolto o realizzato in tutti i suoi aspetti, in tutte le sue parti. È un progetto che viene studiato in aule come queste, dove ci troviamo stasera, però gli imbecilli che lavorano in luoghi come questi non sono in grado di potersi coordinare fra di loro, inoltre non sono in grado di risolvere problemi di questa portata, però un certo indirizzo lo possiedono, sanno abbastanza bene che stanno lavorando in una certa direzione, e questo è significativo anche se non risolve le contraddizioni del Capitale.

Alcuni ritengono possibile continuare a individuare un cuore del Capitale, un elemento portante, centrale. In qualche obiezione fatta stasera è apparsa questa ipotesi, parallela a quell’altra della possibile esistenza di un cuore dello Stato. Sono illusioni che hanno fatto il loro tempo e che corrispondono specularmente all’ipotesi del fronte di lotta da organizzare per dare peso e significato al movimento rivoluzionario. Si tratta di concetti che non possono essere messi sul tappeto così come se fossero delle cose accettate da tutti e oggi, man mano che passa il tempo, un fronte di lotta diventa sempre più anacronistico.

Da un altro punto di vista, e riconfermando quanto si è detto fin qui, il Capitale si è spettacolarizzato, un concetto utile, interessante, come dire che il Capitale si è smaterializzato, concetti che giustamente tornano alla mente di tutti coloro che si pongono a riflettere su questi problemi. Ma tutto ciò vuol forse dire che non si possa attaccare? Qualche supercritico, credendo di fare opera buona e santa di approfondimento, afferma che il Capitale ha una forma dilagante e che si va sempre di più deprivando di contenuti, per cui saremmo proprio noi, i rivoluzionari, che con le nostre azioni di attacco forniamo significato al Capitale, cioè gli diamo quei contenuti che gli sono venuti a mancare. Giusto, ma non basta farsi in là per non fornire i contenuti. La forma del Capitale, dilagando, ti raggiunge e ti riprende, ti ingloba. Non esiste, almeno per quello che penso io, possibilità di essere fuori dal Capitale, intendendo per Capitale un concetto estremamente largo e anche semplice, forse troppo semplicistico, che meriterebbe un approfondimento più specifico.

Il farsi in là, l’avere spazi alternativi, è possibile ma fino ad un certo punto, perché il Capitale ti raggiunge mentre, viceversa, il concetto di attacco al Capitale nella sua dimensione modesta è possibile perché il Capitale proprio nel suo non materializzarsi, nel suo non restare legato alle strutture del passato, per far questo ha bisogno di determinati elementi. Ad esempio, la telematica non è un fatto spirituale ma è un processo collegato con determinati oggetti, non tanto l’onnipresente computer quanto i cavi che rendono possibili le telecomunicazioni, oggetti che non sono fantasie dello spirito.

Ora, la questione strategica della maggiore o minore significatività di un atto distruttivo diventa molto più grossa a causa delle difficoltà che abbiamo a concepire la distruzione come processo realizzabile. Vogliamo che questa distruzione sia significativa. Un attacco distruttivo deve avere la capacità di individuare l’obiettivo, il nemico, se il nemico è una forma pura, non si finisce per combattere contro i fantasmi? Dentro ognuno di noi c’è il convincimento che la distruzione debba avere aspetti positivi, ad esempio Bakunin diceva che la distruzione è un modo di costruire. Ma chi ha detto che non si possa dissentire da questa tesi di Bakunin? Lui sosteneva qualcosa di non sicuro. Quello che diceva Bakunin nel suo scritto giovanile sulla distruzione non è affatto scontato in quanto implica l’ipotesi del superamento dialettico e l’ipotesi del sacrificio. Riguardo la dialettica Bakunin restò per tutta la vita prigioniero del suo tempo e della filosofia hegeliana, riguardo il concetto di sacrificio esso è un residuo della filosofia cristiana. Questo mondo deve perire, quindi essere sacrificato perché nasca, dalle sue ceneri, uno migliore. Mettendo davanti al concetto distruttivo queste due tesi ci si sente obbligati a fare qualcosa, se non altro come se ci fosse una logica più forte di noi che ci obbligasse sul momento a prendere posizione contro il nemico realizzando la distruzione. Io non sono d’accordo.

Ad esempio, in Italia dal 1987 a oggi [1996] ci sono stati circa ottocento tralicci buttati a terra. Chi li ha buttati a terra? Io non conosco chi ha fatto queste cose, cose che badate bene condivido in pieno, e sono l’unico in Italia a dirlo ufficialmente. Non sono io che ho tagliato ottocento tralicci dell’alta tensione. Quindi, centinaia di persone, di sera, col bel tempo (se c’è pioggia non si può tagliare un traliccio, è pericolosissimo) fanno una passeggiata e si attrezzano per tagliare un traliccio. Ora, mille obiezioni possono essere fatte contro queste azioni. Però io mi rifiuto di pensare che centinaia di persone in ottima salute, in belle serate primaverili, estive o autunnali, se ne siano andati in un bosco a tagliare tralicci dell’alta tensione sentendosi obbligati a farlo, pensando di assolvere ad un obbligo, di fare un sacrificio, vuol dire che a loro andava bene farlo, tutto qui. Che poi qualcuno possa pensare che tutto ciò sia assolutamente inutile, oppure che il Capitale alla fine riesca a guadagnarci nella ricostruzione, sono considerazioni, se vogliamo legittime, ma che non condivido.

È importante comunque cercare di capire perché non condivido queste obiezioni. Il fatto che un recupero sia sempre possibile non sposta l’importanza dell’attacco. Nel caso esaminato, i tralicci caduti arrivati nelle cronache nazionali non sono stati più di qualche centinaio, il resto l’abbiamo saputo per caso o a seguito di comunicazioni giudiziarie per eventuali incriminazioni, ecc. Fra parentesi, credo che soltanto un compagno sia stato arrestato e condannato per questo tipo di reato.

Molti si dichiarano d’accordo con il fatto distruttivo purché quest’ultimo abbia un significato concreto, sia assistito da un progetto precedente e poi sia spiegato da uno sforzo controinformativo. Tutto questo non mi trova d’accordo. Mi ricorda molto la bella storia di chi è pronto a mettere il mondo a soqquadro ma solo quando anche gli altri saranno pronti, e così non fa mai niente. La distruzione non può essere tratta come conseguenza logica dalle opinioni, essa deve essere per forza un tuo desiderio. Il fatto distruttivo è infatti l’unica cosa che il Capitale non può metterti nel cervello, per cui lo devi decidere tu. Tu decidi, e agisci di conseguenza, poi che l’attacco si generalizzi o non si generalizzi, è questione secondaria che non può inquinare il tuo desiderio. Se ti va di distruggere un’espressione del nemico, se ti piace, fallo e basta.

Terzo seminario

(Venerdì 8 marzo 1996 – dalle 19 alle 20)

 

Il ruolo della scienza. La tecnologia come braccio armato della scienza. Spazio e Capitale. Il controllo del territorio. Produzione dell’uomo tecnologico. La cultura e la vita. Perdita della cultura. Perdita del linguaggio.

 

Nei precedenti incontri abbiamo discusso – per quel che mi è potuto sembrare – un po’ a ruota libera. Io stesso non sono molto soddisfatto di come sono andate le cose negli ultimi due incontri. Probabilmente ci sono stati difetti da parte mia, difetti di esposizione e di aggiustamento del materiale, per cui forse si è finito col dire le cose senza approfondirle e senza mettersi d’accordo su problemi di fondo, anche di natura terminologica. Difatti, molte interpretazioni della realtà si appianerebbero in quanto contraddizioni apparenti, in quanto dissensi fittizi, semplicemente avendo più tempo da dedicare all’approfondimento di natura terminologica. Cosa che non è stata possibile.

Forse sarebbe stato meglio pensare ad una serie di incontri diversi, magari più circoscritti e capaci di approfondire maggiormente singoli problemi, anziché sviluppare una “summa” troppo ampia che poi resta priva di fondamento e consente lo sviluppo di equivoci che non avrebbero avuto la possibilità di venire alla luce in altre situazioni. Essendomi comunque incamminato in questa direzione, anche questa sera probabilmente continuerò a dire una congerie di cose che resterà parzialmente in sospeso, specie per quel che riguarda la conversazione di stasera che concerne la scienza e il rapporto tra l’uomo e le applicazioni scientifiche come vengono realizzate dalla tecnologia.

La scienza è stata vista spesso come un insieme di norme, di possibilità, di approfondimenti, come il risultato degli sforzi dell’intelletto umano per mettere ordine nella realtà. L’uomo avverte che la realtà gli è estranea e indifferente. Anche se in maniera confusa ha sempre avvertito che c’è una radicale differenza fra le cose che stanno fuori di lui e il pensiero che sta dentro di lui. In effetti, ognuno di noi vive in una dimensione di presenza costante con se stesso. La coscienza – termine contraddittorio, discutibile per quanto vogliamo, ma che difficilmente si può eliminare dai nostri modelli di ragionamento – la coscienza, dicevo, o comunque vogliamo chiamarla, anche con termini diversi, è quella condizione dell’uomo che permette due cose. Permette sia lo sviluppo delle percezioni, attraverso i sensi, quindi la conoscenza della realtà attraverso i sensi, sia la riflessione su questa conoscenza. Noi percepiamo una serie di avvenimenti che ci provengono dall’esterno, ma questi accadimenti non si presentano tutti quanti in forma organizzata, spesso si presentano in maniera discontinua, certe volte addirittura minacciosa, e abbiamo bisogno di mettere ordine in questa minaccia che avvertiamo provenire dall’esterno.

Il pensiero antico, in particolare quello stoico, aveva avvertito questa differenza e si era indirizzato verso un accordo tra coscienza dell’individuo e realtà della natura, suggerendo l’ideale di una vita secondo la natura e sviluppando un’etica della natura in quanto etica del commisurarsi con una realtà esterna sì differente ma in grado di contenerci tutti come elementi di una medesima unità. Il pensiero moderno, a partire da Cartesio in poi, ha distinto l’ipotesi iniziale di unificazione, l’ha divisa, dando la possibilità alla scienza moderna di venire alla luce. Quando Cartesio stabilisce la differenza tra la “cosa estesa”, cioè la realtà materiale e la “cosa pensante”, cioè la coscienza, stabilisce quelle che sono le regole della scienza moderna. Però, sia il pensiero antico, che cercava di metterci in relazione con la natura e immergerci nelle condizioni della natura, sia il pensiero moderno, come viene fuori dal razionalismo cartesiano, che invece fissa due condizioni separate, ambedue cercano, sia pure in due modi diversi, ma sostanzialmente uguali per quanto concerne lo scopo, di dare all’uomo una protesi, cioè di dare all’uomo una capacità superiore alla sua capacità normale di mettere ordine nelle sensazioni confuse, incerte e quindi inquietanti, che riceve dall’esterno.

Questa capacità, questa protesi, sarebbe la riflessione intellettuale sulla sensazione. Da un canto, la sensazione, confusa, incerta, inquietante, quella che in tedesco si chiama “Erleben”, cioè l’esperienza, come le viviamo giornalmente, come un display che passa in un computer vecchia maniera, scompare e quindi non c’è, poi c’è, poi non c’è più. Questo segna la nostra vita, costantemente. Tutte le nostre sensazioni avvengono in questa maniera: non ci sono, compaiono, scompaiono. La nostra capacità di mettere ordine in questo processo che mette paura è alla base di quella che definiamo protesi scientifica. Il nostro intelletto, la nostra intelligenza, trasforma queste esperienze in conoscenza. Non si può parlare della conoscenza quindi basandosi soltanto sulla sensazione, perché la sensazione non è accumulabile, non è codificabile, resta allo stato atomistico o semplicemente aggregativo.

Soltanto con l’intelletto si ha la nascita della conoscenza. Quindi l’intelletto è alla base dell’episteme, cioè della scienza. In greco, la parola episteme è costituita da due parole che significano “stare sopra”. È quindi una cosa che sta sopra, che domina, che mette ordine e che, mettendo ordine, controlla, dà la sicurezza, ma nello stesso tempo toglie la diretta conoscenza, la sensazione immediata della realtà. Quindi noi, attraverso la scienza, da un lato acquisiamo una maggiore capacità di intervenire nella realtà, di modificarla, di trasformarla, ma, da un altro lato, perdiamo la spontaneità, la ricchezza, la creatività che è in ognuno di noi. Pertanto è un po’ un bilancio che bisogna cercare di vedere bene fino in fondo, perché non è una cosa semplice. Cioè non si può ammettere allegramente che la conoscenza ci renda migliori, più forti. Non è affatto vero. Ci mette in grado di fare determinate cose, di uscire dalla caverna, di inventare il fuoco, la ruota, di costruire un mondo diverso, più gradevole da un punto di vista fisico, e anche dotato di una maggiore sicurezza nei confronti del futuro. La scienza ci dà un mondo in cui possiamo prevedere il futuro, ci dà dei mezzi, la possibilità di organizzare le sensazioni, una maggiore potenza di protesi, una più elevata forza organizzativa, una efficace possibilità di prevedere il futuro.

Perché abbiamo bisogno di prevedere il futuro? Perché abbiamo paura della morte. In fondo è questo il problema di fondo. Gli eventi muoiono. Non quotidianamente, muoiono attimo per attimo. Quello che abbiamo fatto due secondi fa, due minuti fa, due ore fa, non esiste più, è definitivamente morto. Però abbiamo la capacità di riviverlo nella memoria, nel ricordo, di conservarlo nel cuore, di farne una piccola riserva di grande aiuto per i momenti difficili. I nostri sentimenti, le nostre sensazioni, le paure, gli amori, le incertezze, le speranze, i timori sono definitivamente morti perché sono passati, ma li dobbiamo fare rivivere continuamente. Le nostre verità, le nostre conoscenze, non sono affatto a nostra disposizione, sono definitivamente scomparse e tutte le volte le dobbiamo ricreare. Ora, questa condizione umana a cui siamo strettamente legati ci mette paura. Per venire fuori da questa paura abbiamo un sistema: la scienza.

Misurare il mondo per prevedere il futuro, quantificare la vita che è qualità, trasformare la qualità della vita in una quantità misurabile, percepibile. Questo è l’episteme. Ma l’uomo non si è sempre affidato alla scienza per garantirsi dalle incognite del futuro. In passato si era affidato ad un altro tipo di mezzo, si era affidato a Dio, cioè a un principio regolatore supremo, capace di garantire di fronte alla problematicità del futuro. Ma nell’epoca moderna, nell’epoca modernissima, quella che si chiama della morte di Dio, la garanzia viene chiesta alla scienza. Quando si parla della morte di Dio non dobbiamo pensare soltanto al concetto niciano. La morte di Dio caratterizza l’epoca moderna a partire da cinquant’anni prima dell’attività letteraria di Nietzsche. La morte di Dio si vede nel crollo di quelle che erano le certezze della precedente epistemologia, dell’epistemologia che si basava su equilibrio, armonia, determinismo, crescita programmata e certa. Tutto questo è venuto meno nella vita moderna.

Pensate non soltanto alle geometrie non euclidee, ma anche alla musica atonale, alla musica che spezza il concetto di armonia. Non soltanto la musica, ma tantissimi altri aspetti. Pensate al teatro di Artaud, ad esempio, come negazione del teatro della morte e affermazione del teatro della vita e, con il teatro della vita, affermazione della centralità del teatro dal punto di vista della vita. In molti aspetti del pensiero si spezza il concetto di armonia, si spezza il concetto di Dio. Pensate alla crisi del concetto di equilibrio in economia così come era stato formulato da Walras, critiche sviluppate dello stesso successore di Walras all’Università di Losanna, cioè Pareto, che comincia a riflettere sull’incongruenza del concetto di equilibrio nell’analisi economica. Tutti questi concetti sono la morte di Dio, cioè sono la morte di un’ipotesi di certezza, di immutabilità, di intoccabilità che garantiva nei confronti del divenire. L’uomo, avendo paura del divenire, gli sostituiva Dio sentendosi così garantito contro ogni incertezza.

Torniamo per un attimo all’ipotesi di Cartesio, cioè a quando lui dice: “penso dunque sono”. Ora, il pensiero è il fondamento della certezza dell’esistere perché può essere chiaro e distinto come nelle formule matematiche, però, poi Cartesio precisava: Io sono un matematico e quando dormo sogno formule matematiche, e siccome il sogno è la sede della assoluta incertezza, della non realtà, anche le formule matematiche potrebbero essere assoluta incertezza e irrealtà. Quindi il fatto che le formule siano chiare e distinte, possiedano cioè la caratteristica della chiarezza e della distinzione, non garantisce affatto sulla loro verità, perché potrebbe esserci – insiste Cartesio nelle sue meditazioni filosofiche – un diavoletto maligno che tutte le volte che io dico due per due mi fa dire quattro e invece due per due potrebbe fare cinque. Come esce il filosofo francese da questa inestricabile alternativa? Con l’ipotesi di Dio. È lui stesso, il fondatore della scienza moderna, del razionalismo scientifico, che mette Dio alla base del processo razionalistico. Quando dice: Siccome Dio, essere perfettissimo, non può avere creato l’uomo allo scopo di ingannarlo, non può consentire che un diavoletto maligno tutte le volte che dico due per due mi fa sbagliare, quindi è vero che due per due fa quattro. Così anche per il razionalismo è l’ipotesi di Dio che garantisce la chiarezza e la distinzione, che garantisce il metodo matematico, che garantisce lo sviluppo della scienza.

Ma la protesi esterna cosa fa una volta che viene identificata e fatta entrare in azione? L’ipotesi del teatro della vita che contrasta l’ipotesi del teatro della morte, gli attori non più separati dagli spettatori, l’ipotesi dell’indeterminismo che si sostituisce al vecchio meccanicismo scientifico, l’ipotesi dello sviluppo progressivo della storia verso i fini futuri dell’anarchia o del comunismo, tutte queste ipotesi cosa fanno? Tutto questo processo uccide il divenire, il rischio del divenire. Se vuole uccidere il pericolo che incombe su di noi, cioè la paura, se vuole garantirci deve uccidere la cosa contro cui viene impiegato. Dio era in fondo un’ipotesi che uccideva l’uomo, lo nientificava. Ecco perché ad un certo punto si è sentito un soffio di rivolta all’interno degli stessi pensatori, degli stessi filosofi e anche degli stessi scienziati. Tutti questi pensatori, non soltanto scienziati, ma anche artisti, poeti, musicisti, tutti coloro che spezzarono l’egemonia dell’equilibrio, il legame della chiusura, tolsero dalle mani dell’uomo una certezza e la sostituirono con un’altra certezza che qualche volta poteva anche prendere l’aspetto teorico di un’incertezza. Vi furono infatti fisici teorici, come Heisenberg, che teorizzarono l’ipotesi di incertezza. La teoria dell’indeterminazione è un’ipotesi di incertezza. Dice: Se noi dobbiamo valutare lo sviluppo di un evento possiamo solo limitarci ad una parte dei parametri, mentre l’altra parte resta ignota o viceversa. Però in effetti cosa hanno sostituito? Un’ipotesi di certezza esterna alla scienza con una ipotesi di certezza interna, formulata in maniera probabilistica, quindi con una maggiore attenzione ai metodi moderni che costituiscono il fondamento attuale della scienza, cioè la prova, l’esperimento, l’esperienza.

La scienza moderna non è criticabile in termini di certezze, non assicura più certezze, criticandola in questo modo si sfonda una porta aperta. La scienza moderna ci chiama a dire la nostra, non ci chiama ad accettare tesi precostituite, nemmeno quelle dei filosofi. Quando alcuni scienziati affermano: “le cose stanno così”, sono ruderi del passato. La scienza moderna non dice mai: “le cose stanno così”, dice: “le cose potrebbero stare così”. Quindi la lotta, o comunque la critica, nei confronti della scienza, e principalmente del braccio armato della scienza che è la tecnologia, non può partire dallo stesso armamentario che in passato abbiamo utilizzato per attaccare l’idea di Dio. Il critico della scienza è diverso dall’ateo o dall’anticlericale. Tant’è vero che gli scienziati socialdemocratici, i peggiori e i più reazionari nella loro chiusura mentale, i più efficaci sostenitori delle sorti progressive della scienza moderna, sono tutti laici nella stragrande maggioranza tranne casi rarissimi. Tutti laici se non proprio anticlericali. Quindi il concetto fondamentale che regge oggi la scienza, e che fornisce gli elementi da utilizzare in termini di applicazione tecnologica, è l’intersoggettività, cioè noi dobbiamo interagire con una struttura che non è diversa da noi, noi stessi siamo la struttura che ci fronteggia.

È il discorso che facevamo, se vi ricordate, la settimana scorsa. La previsione del futuro resta sempre la ricerca di una garanzia di certezza, ma non è più la certezza intesa come meccanismo intrinseco della realtà, processo oggettivo, autosufficiente, in altri termini la tesi del progressivismo classico tradotto in termini deterministici, questa tesi non esiste più, o perlomeno è stata sottoposta a critiche serissime. Quando, l’altra volta, qualcuno qui dentro diceva: l’anarchismo è dialettico, il marxismo è dialettico, la realtà è dialettica, diceva delle approssimazioni confuse. Anche il concetto di dialettica, di metodo dialettico, è oggi sottoposto a critica serissima.

Se riflettete su quello che si è detto prima riguardo il modo in cui organizziamo i dati della sensazione e interveniamo nella realtà trasformandoli in qualcosa di intellettivamente coerente, arrivate alla conclusione che solo per questo produciamo di già una protesi capace di darci una forza, di presentare il nostro intervento nella realtà come qualcosa di sufficientemente certo, di metterci in grado di vedere il futuro sotto un aspetto positivo, di mettere a nostra disposizione previsioni sufficientemente praticabili, di fare apparire il nostro progetto come strumento di trasformazione. Nel momento che facciamo tutto questo siamo organizzatori della realtà, quindi siamo anche scienziati, pensatori-scienziati, siamo uomini che usano l’intelletto prima di agire, pensano prima di agire. In altri termini tengono conto di quello che pensano e questo tenere conto si traduce in una espressione linguistica. Cioè il linguaggio è l’elemento connettivo attraverso il quale realizziamo questa capacità di dare corpo al nostro intervento intellettivo sulle sensazioni. Se la sensazione può restare muta, l’organizzazione intellettiva della sensazione parla e parla un linguaggio, e questo linguaggio, anche quando pensiamo: “non ha alcuna importanza”, è sempre un intervento interpretativo, ha certe caratteristiche di deformazione, cioè determina effettivamente alcune modificazioni all’interno dei processi conoscitivi, all’interno della scienza.

Si può dire quindi che la scienza è una protesi che viene costruita attraverso l’intelletto e realizzata attraverso il linguaggio, con tutte le conseguenze che vengono fuori da questo fatto, perché il linguaggio pretende di mimare la realtà, ma la realtà è un’altra cosa. Se io parlo di questo banco e di queste sedie, il mio parlare di questo banco e di queste sedie è un rispecchiamento di questo banco e di queste sedie, però non è la riproduzione di questo banco e di queste sedie, parlandone non riproduco un altro banco e altre sedie. È un rispecchiamento codificato in base al quale ci possiamo mettere d’accordo per riferimenti futuri riguardanti questo banco e queste sedie, ma non è la verità del banco e delle sedie. Io potrei entrare in dettagli sempre maggiori di tipo funzionale o componentistico, materiali, stile, ecc., restando sempre all’esterno di quella che è la realtà. La verità della realtà non può essere legata al rispecchiamento.

Certo – dice la scienza moderna, che è basata sulla prova e sull’approssimazione progressiva – questo rispecchiamento può essere migliorato attraverso un processo di avvicinamento. Una molteplice serie di esperienze, sempre più ampia, potrebbe fornirmi dati quantitativamente e qualitativamente sempre più significativi ed essere in grado di ottenere un rispecchiamento più efficace, ma questo resta circoscritto nei propri limiti. Difatti si vedono le tragiche conseguenze cui si arriva quando si prendono in esame i dati diciamo quantitativi che vengono – non so – da analisi sociologiche, da indagini di mercato, ecc. In questi casi cosa si fa esattamente? La stessa cosa che faceva l’Inquisizione quando torturava le streghe. Allora si partiva dal presupposto che la strega aveva avuto commercio col demonio, poi si torturava e si otteneva la confessione, ma il presupposto era prima e la tortura dopo. Oggi si parte dal presupposto che c’è un certo fenomeno, una certa tendenza, e poi si interroga la realtà ottenendo una risposta di conferma di quella tendenza, attraverso una banda di risultati più o meno approssimativa. Questo è il sistema quantitativo che viene applicato nella sociologia e nelle scienze. Ma è questo un avvicinamento alla realtà?

Il metodo dialettico propone invece un discorso diverso e dice in parole semplici: la realtà è contraddittoria, cioè non sono affatto esaminabili questo tavolo e queste sedie in termini di oggetti che siano definitivamente cristallizzati nella forma del tavolo e delle sedie. La realtà è un prodotto della condizione sociale in cui viviamo, quindi è espressione della contraddittorietà di quest’ultima. Però, come prodotti, questo tavolo e queste sedie sono venuti fuori dalla contraddittorietà originaria e sono venuti fuori superando questa contraddizione e concretizzandosi nella dimensione oggettiva di tavolo e di sedia. Per spiegare questo venire fuori i marxisti usano un concetto molto complicato di natura hegeliana, il concetto di superamento.

I marxisti utilizzano spesso questo movimento, che essi chiamano “sussunzione”, cioè il movimento della realtà in base al quale i termini contraddittori in essa contenuti vengono sussunti nella espressione finale. La tesi e l’antitesi vengono sussunte nella sintesi. La sintesi quindi è espressione della tesi e dell’antitesi, ma è anche “superamento” (Aufhebung), scomparsa della tesi e dell’antitesi. Questo non avviene solo per la produzione del tavolo e della sedia, avviene per la realtà, diceva Hegel, avviene per la realtà della natura. Oggi tutto questo, anche se non è definitivamente scomparso, è archeologia. Oggi si cerca di sostituire il concetto di oltrepassamento al concetto di superamento. È importante approfondire questa differenza per capire che cosa si sta modificando nella critica della scienza.

La metodologia scientifica parte oggi da presupposti possibilisti, falsificazionisti. In larga misura adotta il punto di vista metodologico di Popper e dei suoi seguaci. Un metodo fondato sull’approssimazione, sull’avvicinamento progressivo all’obiettivo, sul rispecchiamento quantitativamente crescente e quindi in grado di dare una efficace risposta, in tempi più o meno brevi, comunque in futuro. La critica a questo aspetto falsificazionista e quantitativo della scienza viene da parte marxista attraverso l’applicazione della dialettica e quindi del concetto di superamento. Ma c’è un’altra strada critica che approfondisce questo concetto di superamento e che, contemporaneamente, coglie in difetto sia il concetto falsificazionista, sia la critica metodologica dei marxisti, si tratta dell’ipotesi fondata sull’oltrepassamento.

Che vuole dire oltrepassamento? Che la realtà è contraddittoria, che è determinata sempre da uno scontro di classe la cui caratteristica essenziale è l’irriducibilità, e che questo scontro sta alla base della struttura della realtà. Fino a prova contraria, gli esclusi e gli inclusi, sfruttati e sfruttatori, ci sono ancora, sono là, più o meno visibili, più o meno identificabili. Potremmo discutere a lungo su questo argomento, ma esiste sicuramente il ricco e il povero, i paesi più sviluppati e quelli meno sviluppati, chi sta bene e chi sta male, il misero e il fortunato. Esistono e, partendo dalla loro esistenza, la contraddizione si scatena in tutta una serie di altre contraddizioni. Ma queste contraddizioni possono essere superate in una realtà differente, sussunte, fatte scomparire all’interno di un processo storico che via via rappresenta e mette in campo figure storiche e filosofiche differenti? Oppure quest’ultima è tutta un’illusione hegeliana e marxista? Secondo me è certo che lo è, perché nella realtà queste figure non scompaiono, vengono semplicemente oltrepassate in una dimensione diversa. In tedesco oltrepassamento si dice “Überwindung”, parola importante perché fa immaginare la condizione di uno che è a letto e che sta male, uno che ha la febbre e non trova una posizione comoda, per cui si gira continuamente. Ogni movimento che cerca di modificare una situazione di dolore, o comunque di spiacevolezza, per creare una situazione di sollievo, sia pure parziale, spinto dal bisogno, dalla “Not”, in tedesco si dice “Überwindung”. Ma per il malato tutti questi movimenti non modificano la sua condizione patologica, possono al massimo arrecargli qualche sollievo, la sua malattia, la sua condizione di dolore, resta la stessa, semplicemente è modificata in parte la sofferenza. Ora questo concetto è importante, perché non è una scomparsa delle condizioni, non è un “superamento”, l’oltrepassamento non è il passaggio ad una condizione completamente diversa, ma è una modificazione delle condizioni di base, un diverso strutturarsi del processo storico, che pur cambiando lascia persistere al proprio interno, completamente operanti, tutte le esperienze del passato, anche le più estreme, le più feroci, le più barbare, le quali non verranno mai superate ma resteranno sempre insite in ogni movimento modificativo.

Ecco come si spiega che miserie del passato, atrocità come, ad esempio, la pulizia etnica, gli stupri di massa, che sembravano appartenere al museo degli orrori, i campi di concentramento, gli eccidi nazisti degli Ebrei, la mostruosità della guerra, il processo di Norimberga con le pretese di stabilire chi aveva ragione e chi aveva torto, non sono definitivamente conclusi, ma si ripresentano sempre. Ogni volta si ricomincia tranquillamente, come se nulla fosse accaduto. L’uomo è l’unica bestia capace di ammazzare il suo simile per il semplice piacere di farlo. È l’unico animale che riesce a fare una cosa del genere, e questa condizione non la supera, non c’è sussunzione che valga all’interno di questa dimensione, perché l’uomo è questa cosa qua, è lupo per i suoi simili, non nel senso hobbesiano, ma nel senso concreto, nel senso che queste cose esistono nell’uomo e non possono essere cancellate da nessuna forza repressiva. Possono essere “oltrepassate”, cioè modificate in una dimensione in cui prendiamo coscienza di cos’è veramente la nostra esistenza, di tutti noi, del fatto che tutti noi siamo corresponsabili di questi stupri, di questi massacri, che non facendo nulla, stando semplicemente a documentarci su quello che accade, siamo come i massacratori, siamo torturatori pure noi, siamo stupratori anche noi e che questa condizione di corresponsabilità non può essere cancellata da un processo logico, da un salto qualitativo, come diceva Hegel. Non c’è nessun salto qualitativo nella realtà.

Quindi, né la scienza falsificazionista, che man mano cerca di accumulare le sue glorie dicendoci di conquistare il mondo attraverso un processo di avvicinamento, né la scienza marxista attraverso le sue sussunzioni. Le contraddizioni tra la società dominata dagli Zar e le nuove forze che si andavano sviluppando in Russia produssero la presa del Palazzo d’Inverno, ma sulle sussunzioni delle contraddizioni ci sarebbe molto da dire. Esse continuarono ad operare e produssero milioni di morti nei campi di concentramento. Adesso tutto ciò è chiaro, non possiamo dire che non lo sappiamo, non possiamo dire che è accaduto qualcosa di diverso in nome dell’internazionalismo proletario. Quindi non esiste un processo dialettico di cambiamento, di sussunzione, in cui si cancella la tesi e l’antitesi per dare vita ad una sintesi del tutto nuova, ma siamo sempre di fronte a cambiamenti di aggiustamento, di ristrutturazione e di modificazione, cioè a processi di oltrepassamento.

Questa distinzione potrebbe sembrare di lana caprina, ma non lo è, perché getta una luce diversa su quello che è possibile fare. Possiamo intervenire nella realtà, possiamo fare qualcosa, possiamo documentarci, possiamo renderci conto, utilizzare analisi, impiegare progetti scientifici, ma non possiamo chiamarci fuori dal processo facendo lavorare al nostro posto la talpa. La talpa shakespeariana (alcuni dicono marxista, ma non è proprio esatto), questa talpa non c’è, non c’è nessun animale notturno che lavora, come ha visto benissimo Kafka. Non so se vi ricordate, in uno dei racconti di Kafka c’è una talpa che scava un cunicolo sempre più profondo per sfuggire alla minaccia di qualche altro animale, a lei sconosciuto, che sta scavando non molto lontano. La talpa non scava per conto nostro, avevamo avuto questa impressione ma dobbiamo fare in fretta a ricrederci, la talpa sta scavando per fuggire da un pericolo, forse immaginario, ma pur sempre un pericolo. La talpa sta facendo i fatti propri. C’è qualcosa di incomprensibile nella realtà, di estremamente pauroso, nell’uomo c’è qualcosa di talmente pauroso che non può essere messo a tacere da chiacchiere filosofico-scientifiche.

Se l’uomo aveva ed ha paura del futuro, ha paura di se stesso, non del fatto che il futuro sia un’incognita. Più conosce il futuro, traducendolo in presente, e più ha paura di se stesso, perché sa che nel futuro troverà le stesse spaventose miserie che ha vissuto in passato. Questo non vuol dire che dobbiamo metterci il cuore in pace e che non saremo mai in grado di costruire una società migliore, una società libera. Al contrario, significa un impegno maggiore, significa un appello alla nostra volontà, al fatto di potere intervenire noi direttamente, di potere intervenire ora, subito, senza aspettare che qualcosa, specialmente un meccanismo automatico, un meccanismo interno alla realtà, lavori al nostro posto. Questo meccanismo non c’è.

L’intersoggettività scientifica, in altre parole quello che la scienza dominante ci propone in questo momento, è la partecipazione, il coinvolgimento. Non sono più le certezze del passato. Gli scienziati sono uomini modesti, molti di loro si definiscono più che altro operai del pensiero, gente che lavora. I professori universitari sono dei poveri disgraziati che approfondiscono fatti assolutamente marginali, nessuno fra loro che possieda veramente un’idea portante, un’idea anche minima. Fondamentalmente nulla o quasi è nelle loro teste vuote. Quando aprono bocca, quando devono dire qualcosa, sono costretti a basare quello che dicono su una montagna di documentazioni, altrimenti possono chiudere la carriera e non guadagneranno mai più una lira, non stamperanno mai più un libro, verranno completamente distrutti. Non è esattamente questa la dimensione del pensatore o di chi riesce veramente a dire cose interessanti, ma è la dimensione del povero operaio che lavora nell’ambito del pensiero.

Questa gente che cosa ci sta dicendo? Venite, collaboriamo, discutiamone, non c’è nulla di definitivo. Per carità, i grandi e forti concetti del passato sono finiti. I concetti forti del passato erano: il dominio, la classe superiore, lo spazio vitale, il razzismo, la conquista del mondo. Tutto armamentario del passato. Chi oggi si potrebbe mai definire razzista senza fare ridere? Anche i fascisti non si dicono più razzisti, fanno mille discussioni, tutte simpatiche, dicendo che, in fondo, il razzismo è una stupidaggine del passato. In fondo, cosa volete che sia la questione del sangue, ecc., ecc. Ecco, nel corso della prima conversazione ci fu tra di noi un equivoco riguardo la lapide contro il razzismo che avevo visto all’ingresso di questa Facoltà. Leggendola avevo pensato che fosse stata la stessa Università a farla collocare nel muro, difatti nella lapide si legge che “questa facoltà ripudia il razzismo”. Ora, ripudiare significa che uno rinuncia a qualcosa a cui prima teneva moltissimo, come dire: “qua una volta c’era il razzismo ed ora non c’è più”. Ingenuamente pensavo che questa presa di distanza l’avesse voluta l’istituzione universitaria la quale, dall’alto della propria scelta epistemologica di approfondimento e di avvicinamento, preferiva affermare: “A seguito di recenti miglioramenti, siamo costretti a ripudiare certe scelte autoritarie precedenti, con le quali non siamo più d’accordo”. Invece mi sbagliavo, era un’iniziativa che è stata preparata e voluta dagli studenti i quali, secondo me, avendo accettato una tesi del genere, per altro del tutto legittima – anch’io non sono razzista – implicitamente rendono possibile l’accettazione di un altro tipo di razzismo, altrettanto feroce e discriminatorio, ma più accettabile perché in grado di presentarsi sotto un aspetto diverso da quello a suo tempo programmato dai vari fascismi al potere.

Ecco, questo è il concetto, essendo insostenibile oggi la tesi poniamo di Chamberlain, di uno dei tanti fondatori del razzismo, si va verso un razzismo diverso, ad esempio la tesi sostenuta da S.O.S. France, che più o meno afferma: “Facciamo diventare il nero francese a tutti gli effetti”. Ma perché mai il nero dovrebbe diventare francese se è nero? Perché mai dovrebbe snaturare la sua cultura, la sua tradizione, la sua capacità di vedere il mondo in maniera diversa, perché dovrebbe accettare la tesi di diventare come noi? Come nella famosa battuta riportata nel libro di Franz Fanon, I dannati della terra, affermare che “il nero è un uomo come noi” è di già un’affermazione razzista, ma di un nuovo tipo di razzismo. Perché mai il nero dovrebbe essere un uomo come me? Il nero è un uomo diverso da me, ma nella sua diversità, nell’approfondimento di questa differenza, diventa uguale a me. Guai se lui diventasse uguale a me sbiancandosi la pelle o snaturando le sue condizioni. È questo che ci vogliono imporre: una dimensione di uguaglianza forzata, di tolleranza, di discussione morbida e possibilista all’interno della quale tutto si appiattisce e resta sostanzialmente disponibile per costruire il dominio del futuro. Perché il dominio del futuro è un dominio di partecipazione, di tolleranza.

Il discorso sulla tecnologia diventa a questo punto un semplice corollario. È l’applicazione della scienza. La tecnologia è secondo me – come l’ho definita tanti anni fa – il braccio armato della scienza. Le teorie scientifiche vengono applicate e l’applicazione prende il nome di tecnica. Sostanzialmente la tecnologia è tecnologia delle armi e le armi servono a fare la guerra. Oggi c’è, secondo me, una differenza tra tecnologia nucleare e tecnologia telematica. Non so se ci avete riflettuto bene, perché la tecnologia nucleare ci metteva tutti sotto il rischio della morte nucleare del pianeta. Dicevamo tanto tempo fa – non so se ricordate – “Esistono tante bombe da far saltare parecchi pianeti come il nostro e, saltando il pianeta, muoio io ma muore anche Agnelli”. In un certo senso, a causa della bomba, si veniva a creare una strana solidarietà interclassista tra me e Agnelli, come se la bomba diventasse una specie di fungo atomico in grado di tutti eguagliare sotto la medesima minaccia. Questa ipotesi non poteva reggere a lungo perché era un’ipotesi distruttiva che ci accomunava nella distruzione, mentre l’ipotesi della tecnologia telematica ci distingue nella costruzione.

Chiariamo questo concetto. La telematica, quindi tutti gli sviluppi che vengono fuori dall’applicazione della telematica nella tecnologia moderna, non colpisce tutti alla medesima maniera, la bomba atomica sì, quindi c’è una distinzione fra tecnologia nucleare e tecnologia telematica, esse colpiscono in maniera diversa. È chiaro che la tecnologia telematica mette a disposizione dei dominatori alcuni mezzi dai quali si trae controllo e potere, mentre in ben altra situazione si vengono a trovare coloro che non possiedono le chiavi di questa tecnologia. Si potrebbe obiettare a questo punto che impadronendosi della tecnologia telematica, la quale sembra addirittura essere una forma estremamente democratizzata, polverizzata nel territorio, di possesso dei mezzi tecnologici, si possa decidere liberamente o di partecipare al dominio, o di attaccarlo.

Resta da vedere se questa apparente alternativa è possibile, oppure se resta un’ipotesi priva di significato concreto. In questi ultimi anni si è di già avviato un processo di modificazione del rapporto tra macchina e uomo, tale da rendere certi sviluppi del tutto irreversibili. Bisogna riflettere criticamente sull’uso e la diffusione della tecnologia telematica e non solo telematica. Fra breve saranno disponibili microprocessori e sensori integrati su scala molecolare da trecentocinquanta milioni di transistor, dopo qualche anno si arriverà a un miliardo di transistor e a quello che per il momento si chiama quantum-computer. La miniaturizzazione potrà realizzare macchine talmente piccole da raggiungere la dimensione della cellula. E a questo bisogna aggiungere la sempre maggiore sostituzione del libro col computer, il completamento del progetto Gutenberg che prevede, per cominciare, diecimila libri online e la messa in circolazione di monitor con la stessa risoluzione dei segni sulla carta. Il settore delle tecnologie genetiche alimenta gli incubi peggiori che non mette conto riferire qui, per non parlare delle sorprese spaventose che potrebbero venire dall’uso dei nuovi materiali allo scopo modificati. Di fronte a questa sempre maggiore potenza sta una riduzione programmata delle possibilità intellettive degli esclusi.

Poiché non c’è dubbio che la macchina non può raggiungere l’intelletto dell’uomo, si sta cercando di portare l’uomo ai livelli della macchina.

Anche i sistemi telematici più complessi, i “sistemi in parallelo”, i cosiddetti “sistemi intelligenti”, non raggiungono la capacità decisionale dell’uomo. I “sistemi in parallelo”, pur superando di molto la velocità della luce essendo costituiti dalla somma delle varie elaborazioni di più sistemi lineari, non arrivano a superare quella che si chiama “soglia del senso comune”. La mente umana funziona diversamente e, anche se nel sistema complesso c’è un aspetto decisionale, non può essere attinta per via telematica. Ora, visto che non possono portare la macchina al livello della soglia comune, del senso comune, stanno facendo di tutto per abbassare le nostre capacità intellettive, le nostre capacità di intuire, di sentire, stanno appiattendo tutto, per renderci quanto più possibile compatibili con le macchine.

Non si tratta di un progetto dettagliato in tutte le sue parti, ma solo di tentativi, tentativi spesse volte inconsci, magari non in grado di proporsi uno scopo determinato con chiarezza, oppure tentativi dettati dagli interessi del Capitale di affrontare la concorrenza nelle nuove condizioni economiche mondiali, comunque siamo di fronte ad un processo irreversibile. Pensate a come opera la televisione, a come selezionano i programmi, ecc. Hanno un programma serio, hanno un progetto serio? No di sicuro. Ora, tutto questo certamente produce un abbassamento. Quindi la tecnologia telematica, entrando all’interno della tecnologia nel suo insieme, produce come prima cosa un appiattimento culturale e, inoltre, innesca una interazione tecnologica all’interno delle varie situazioni specifiche i cui esiti sono assolutamente non prevedibili. Cioè non possiamo prevedere quali saranno le conseguenze dell’innesto di determinate tecnologie. Non sto parlando soltanto di esperimenti di tipo biologico, di trasformazione della materia, di tecnologie autoreplicanti. Ad esempio, pensate alle possibilità che possono venire fuori dalla trasformazione della materia nel campo dei superconduttori, quale mondo del tutto inimmaginabile diventerebbe possibile se si riuscisse a trasferire e immagazzinare energia elettrica senza avere le attuali considerevoli dispersioni che sono nell’ordine dell’otto per cento dell’energia prodotta. Quindi anche la vecchia tecnologia, le vecchie macchine familiari, potrebbero subire modificazioni assolutamente imprevedibili. Nessuno di questi scienziati è oggi in grado di dire qualcosa su questi argomenti. Nessuno. Non è più necessario parlare in termini di bombe atomiche, di distruzione del mondo, ecc. Assolutamente nessuno è in grado di prevedere le interconnessioni che potranno scaturire fra le attuali tecnologie e quelle che sono le applicazioni future che potranno venire fuori. Ora, il discorso sul che fare nei confronti del braccio armato della scienza l’abbiamo accennato nella conversazione precedente. Lo si può riassumere nel concetto di attacco distruttivo.

Io penso di dedicare il prossimo incontro, l’ultimo, a questo aspetto.

Quarto seminario

(Venerdì 15 marzo – dalle 19 alle 20)

 

Le nuove forme dell’oppressione. La rivolta. Gli esclusi e la costruzione del muro. Formazione del desiderio. Le vecchie forme resistenziali: sindacati e partiti. L’attacco. I fondamenti logici della distruzione.

 

Dopo la caduta del muro di Berlino, che resta il simbolo di una trasformazione che proviene da lontano e arriverà lontano, c’è stato un annacquamento delle ideologie. Questo mesto venire meno di qualcosa che si pensava più realistico della stessa realtà ha prodotto molte cicatrici che tagliano il corpo sociale europeo e, sotto certi aspetti, mondiale. Il cosiddetto “pensiero forte” ormai non è più di moda. Cos’è il “pensiero forte”? Il pensiero forte è quello che presume di potere leggere la realtà, di leggerla con processi più o meno deterministici, di leggerla attraverso un contenuto oggettivo, un movimento che si presenta nella realtà e di cui dichiara di conoscere la chiave.

Il “pensiero debole”, come è stato definito dai cosiddetti guru della filosofia nostrana, è un pensiero che avanza a tentoni, che procede per avvicinamenti, ed è, come vedete, un pensiero che si ricollega alle dottrine fondamentali della scienza contemporanea. È un pensiero problematico che non presume di risolvere la realtà in un’unica formulazione, ma avanza per tentativi, quindi che mette avanti la propria incertezza, la propria debolezza, per cui nell’epoca che viviamo non c’è dubbio che il pensiero cosiddetto debole risulta essere più affascinante del pensiero forte. Perché? Perché la fine delle ideologie non è passata inosservata su ognuno di noi, su ognuno di noi ha lasciato il segno. Malattie non ancora guarite, piaghe non ancora risanate, ascessi ancora oggi purulenti, avvelenano l’atmosfera che respiriamo. Le vecchie illusioni del pensiero forte: conquista del potere, gestione provvisoria dello Stato, partito rivoluzionario, lotta armata capace di sconvolgere il mondo, sono addormentate, ma non è vero che appartengano al passato, esse sono ancora presenti, solo che si trovano allo stato latente. Dei danni passati non è il caso di fare un inventario, perfino gli anarchici non sono stati esenti dall’uso di simili cianfrusaglie con le quali dovevano avere poco a che fare. Anche gli anarchici, in modo particolare a far tempo dal Sessantotto, non hanno saputo uscire dalle proprie ossessioni quantitative, non hanno saputo inventarsi qualcosa di splendido, non sono venuti meno alla propria consapevolezza, e questo appesantimento sta continuando ad avvelenare l’idea più bella che ci sia, l’idea di libertà.

In un certo senso, senza stare a ricordare le vecchie illusioni, che so, di Armando Borghi a Mosca, l’iniziale entusiasmo per certi aspetti della rivoluzione bolscevica, gli abbracci mortali interni all’esperienza rivoluzionaria spagnola, senza stare a ricordare questi aspetti, anche perché intrinseci allo stesso movimento popolare che caratterizzò l’inizio del secolo [Novecento], si tratta di illusioni che non sono rimaste senza conseguenze sul pensiero anarchico e anche sulla pratica degli anarchici. Per cui, finita la grande parentesi di sangue, di tragedie, di orrori, molti compagni anarchici si sono sentiti come privati di qualcosa, come di non sapere più bene cosa fare.

Una volta, quando uno avanzava un’ipotesi critica, come ad esempio ho fatto venticinque anni fa riguardo la struttura e il funzionamento del sindacato, anche del sindacato rivoluzionario e anarchico, avvertiva un senso di disagio, come se, togliendo questi strumenti tradizionali dalle mani degli sfruttati, si corresse il rischio di restare privi di uno strumento efficace. In effetti si intaccava criticamente l’ideale, quello stesso ideale che aveva concorso ad organizzare la plebe dispersa nell’officina, nel mare, ecc., un ideale forte. Mi ricordo del simbolo della CNT in esilio in Francia, nella sede parigina di rue St. Denis presso le Halles, il simbolo dell’operaio muscoloso che apre la bocca del leone con le proprie mani. C’era una certa ritrosia ad intaccare criticamente questo ideale, come se esso potesse veramente sostituire la nostra forza individuale, personale, come se il nostro impegno potesse essere corroborato e assistito da quel simbolo “forte”. Questa illusione non è passata inosservata nella mente di tanti compagni e anche nella mia, tali simboli non sono passati senza conseguenze e senza distorsioni.

Adesso, la fine di questa tragica illusione dà vita non solo ad un nuovo modo di vedere le cose, ma anche ad un nuovo modo di organizzare la repressione. In altre parole, la struttura repressiva, a seguito della diretta modificazione venutasi a creare all’interno dei processi di controllo ideologici, è cambiata, o meglio sta per cambiare. Poniamo, ad esempio, il concetto di “conservatorismo”, così come viene studiato nel corso dello svolgimento storico, così come viene osservato nello sviluppo del pensiero politico. I conservatori sono coloro che ritengono che la tradizione possieda valori intrinseci allo sviluppo storico medesimo e che questi valori non possano essere consegnati alla brutalità dell’evenienza futura, perché questa potrebbe distruggere la parte positiva che esiste nella tradizione. Concetto non peregrino, e nemmeno da condannare in assoluto, perché non c’è dubbio che nella storia dell’uomo ci sono delle cose positive che non è giusto distruggere insieme alle cose negative. Però, per far raggiungere questo risultato, il vecchio conservatorismo ricorreva ad un processo di reazione, riconduceva cioè il dominio su posizioni metodologiche più arretrate.

Quando noi oggi parliamo di reazione intendiamo una cosa che nei fatti non esiste più. In effetti, il potere oggi non è reazionario perché non deve reagire contro la struttura monolitica di pensiero forte ideologicamente centralizzata che in passato richiedeva al potere un processo di reazione, cioè il ricorso ad una forma di dominio più forte e più controllata. Il conservatorismo di oggi è più agile e meno sicuro di sé, in corrispondenza con una linea di pensiero basata sulle debolezze e sulle indeterminatezze contemporanee. In questo ha le carte in regola, ma è anche più agile per quel che riguarda la possibilità di manipolare i processi tradizionali, cioè la rivalorizzazione della tradizione. Quindi i nuovi pensatori della destra (per usare un termine che ha sempre avuto poco significato per gli anarchici), i nuovi filosofi conservatori che illustrano ciò che è il potere, non parlano di reazione ma di ricostituzione di rapporti all’interno di un processo evolutivo nel quale non bisogna distruggere il portato positivo della tradizione.

Questo fatto, cioè la presenza di un nuovo modello conservativo, non è senza conseguenze su quello che è la repressione vera e propria. Se, da un lato, c’è il professore universitario, che sviluppa dalla cattedra il discorso repressivo nuovo, cioè il nuovo concetto conservatore, dall’altro lato ci sarà il poliziotto il quale ha i suoi metodi, la sua filosofia di vita, le sue strutture organizzate, i suoi processi di controllo. La polizia, come organo repressivo puro e semplice, specialmente in un paese come l’Italia, tende a cambiare con i tempi. Lo Stato, in questo senso, cerca di perfezionare i processi repressivi brutali, puri e semplici. Le operazioni che spesso ci vedono protagonisti (ahinoi!), fatti oggetto di attacchi, di montature, ecc., in un certo senso non sono il massimo del desiderio repressivo e conservatore dello Stato.

Lo Stato ha un altro progetto. Quando parlo dello Stato, intendo la struttura statale che vediamo profilarsi all’orizzonte, che si realizzerà sicuramente in una forma maldestra ma che comunque adagio adagio si svilupperà nel tempo, attraverso un marasma di stupidaggini politiche, da cui verrà fuori un nuovo modello di Stato, un nuovo modello di repressione all’interno del quale occorrerà una nuova polizia. E questa nuova polizia sarà ancora la polizia armata che conosciamo, saranno i carabinieri, saranno i processi di controllo, saranno le intercettazioni, le torture nelle carceri e nelle caserme, sarà tutto questo, ma principalmente sarà una nuova polizia, una nuova polizia senza divisa, una polizia diversa.

Non mi riferisco soltanto a quell’incredibile manifesto che ho visto una volta in Olanda dov’era raffigurato un poliziotto senza divisa e i capelli acconciati alla punk con la scritta “la polizia non è uniforme”. Eppure questo concetto: “la polizia non è uniforme” è importante perché apre uno spiraglio incredibile. Questi ci vogliono arruolare tutti nella polizia. Il poliziotto del futuro dovrebbe essere il cittadino, ma non il cittadino come individuo isolato, nella fattispecie poco credibile del liberalismo di maniera sviluppata in parte in queste aule oscene dove ci troviamo, quanto l’individuo delle corporazioni specifiche. Quando parlo di corporazioni specifiche mi riferisco specialmente alle strutture autorganizzate, alle strutture associative autorganizzate. Pensate alla funzione del volontariato, com’è adesso e come potrà svilupparsi in futuro. Pensate ad un volontariato che si allarghi anche all’aspetto repressivo, all’aspetto del controllo. Ci vogliono irreggimentare tutti all’interno di una struttura poliziesca, farci diventare poliziotti attraverso un processo di reciproco controllo.

Facciamo un esempio di questo progetto in corso di svolgimento. Traiamo questo esempio dalla fabbrica, luogo della produzione economica, perché le trasformazioni nella formazione economica sono spesso le più dense di significati reconditi e di aspetti progettuali. Nella fabbrica c’è in atto una considerevole modificazione dei rapporti tra i diversi settori che la costituiscono, fra i diversi comparti produttivi. Ogni settore, ogni elemento, ossia ogni gruppo di lavoro, ogni isola produttiva, fino ad arrivare al singolo lavoratore, al singolo operaio, è poliziotto dell’altro e viceversa. Sta attento, denuncia, controlla, verifica che il funzionamento della fabbrica sia ottimale. Ogni parte si comporta nei riguardi dell’altra come se fosse reciprocamente cliente e fornitore. La fabbrica oggi non ha soltanto clienti esterni e fornitori esterni, entità separate fisicamente dal corpo industriale che forniscono materie prime e semilavorati e prelevano oggetti prodotti dalla fabbrica, la fabbrica stessa, al suo interno, è divisa in elementi differenziati, i quali elementi, nell’ambio del processo produttivo, sono reciprocamente fornitori e clienti, con ovvie conseguenze. Perché è chiaro che il cliente controlla il prodotto fornito dal fornitore e il fornitore si ingegna per fornire al meglio il cliente perché in caso contrario lo perde.

Qui siamo davanti ad un progetto di controllo, quindi conservativo, che ha tutti gli aspetti dell’innovazione e dell’utilizzo dei mezzi della ricerca tecnologica, particolarmente telematica. Con tutto ciò resta un progetto poliziesco, è questo che dobbiamo capire. I progetti repressivi del futuro non sono costituiti soltanto dalle telecamere nelle strade, non sono soltanto i nuovi mezzi di controllo a distanza, le possibilità fantascientifiche di intercettazione delle comunicazioni, le nuove armi fornite alla polizia, le nuove tecniche di tortura anche psichica, non sono soltanto tutto ciò, e non sono ovviamente le archeologiche montature di cui siamo purtroppo oggetto anche noi in questo momento [Mi riferisco qui ai tentativi di incriminazione contro molti compagni anarchici riguardanti le decine di attacchi contro la Standa in tutta l’Italia, incriminazioni poi abortite in un nulla di fatto. – Nota redatta nel maggio del 2000], non sono solo questi ma sono anche questi. Pensate alla differenza che c’è fra la situazione repressiva e di controllo come la si può vedere in atto a Catania, a Palermo, a Napoli e come la si può vedere in un paese come la Danimarca o la Norvegia. Se in questi paesi succede un fatto fra virgolette “criminale”, poniamo una rapina (le banche in Danimarca o in Norvegia non hanno il poliziotto davanti la porta), il rapinatore entra e non trova neanche una struttura di difesa, non ci sono vetri antiproiettile, fino a qualche anno fa non c’erano telecamere, c’è solo il bancone da saltare. Sembrerebbe il regno delle favole per i rapinatori, invece non è così, perché nel momento in cui avviene un fatto del genere scatta un meccanismo organizzato di collaborazione tra polizia e cittadini che sostanzialmente rende impossibile o estremamente difficoltoso, a chi si è ingegnato di fare quella rapina, andar via. Inoltre perché il cittadino collabora con la polizia non solo fornendo indicazioni, ma anche subendo le conseguenze delle azioni della polizia, cioè in Danimarca, in Norvegia, in paesi come questi, le persone sono disposte ad accettare posti di blocco che durano quattro o cinque giorni, non quattro o cinque ore. Voi vi immaginate un posto di blocco che dura cinque giorni a Catania? Una cosa impossibile.

Questa diversa mentalità è il segno che il cittadino medio in Norvegia, in Danimarca, in Svizzera è stato già arruolato da tempo. I processi di arruolamento risalgono molto indietro nei secoli intervenendo anche un diverso modo di concepire la religione. Le differenze fra protestantesimo e cattolicesimo, che non vale la pena affrontare qui, influiscono sulla mentalità media. L’irreggimentazione potrebbe avvenire in futuro attraverso l’impiego di strutture anonime che non sembrano avere implicazioni di natura politico-repressiva. Alcune di queste strutture sono operanti oggi e potrebbero domani diventare più importanti. Pensate a tutte le organizzazioni non governative, alle cooperative, alle associazioni di volontariato, tutte potrebbero domani diventare la base di partenza della nuova polizia.

La seconda parte della nostra conversazione, stasera, riguarda la ribellione, l’atto di rivolta con cui ci si pone contro il processo repressivo, contro qualunque processo repressivo. Tutte le volte che affronto situazioni come questa, dove cerco di chiarire il problema della ribellione, mi trovo impantanato. Il fatto è che io non sono un ribelle, personalmente non sono un ribelle, mi sono sempre definito un rivoluzionario. C’è una considerevole differenza, secondo me, tra ribelle e rivoluzionario. Nella mia vita non ho mai vissuto situazioni di ribellione, nel senso di rigettare in modo inconsulto qualcosa che opprime, qualcosa che impedisce di trovare una strada diversa per attaccare. Anzi ho cercato sempre di darmi un progetto, una strategia, un programma per attaccare nel migliore modo possibile. Non sono un teppista che proviene dalla strada, esco da aule come quella in cui ci troviamo stasera, provengo da questi posti indigesti, quindi sono l’antitesi del ribelle. Però, nello stesso tempo, dentro di me c’è stato sempre un senso di profondo disgusto per chi lascia offendere la propria dignità, per l’uomo che soffre e non è capace di reagire, per l’incapacità di attaccare il nemico. Ho pensato sempre che sia necessario attaccare ragionando, non da una più o meno complessa condizione di disagio, nei confronti della quale ho avuto sempre dei considerevoli sospetti. Quindi non sono mai partito dalle motivazioni individuali della persona che avverte un senso di sofferenza, della persona che si dispone ad attaccare inconsultamente senza prospettiva, semplicemente perché sta male, perché prova una ripulsione che gli viene dal cuore, dallo stomaco, dalle viscere contratte, dal dolore di tenerle a lungo strette per non esplodere.

Ma perché non si potrebbe partire dalla semplice rivolta? Se io analizzo la mia situazione troppo a lungo, e mi doto di strumenti, e vengo in aule come questa e discuto con persone come quelle che sono presenti qui questa sera, e leggo libri, e accumulo decine, centinaia di libri, nella mia biblioteca, e aspetto di chiarirmi le idee, e sono per la filosofia e per la scienza, per la cultura, per la conoscenza, se ho letto quello che c’era da leggere, tutto ciò, alla fine, non diventa un freno all’azione? La maggiore cultura, il più vasto approfondimento delle tematiche culturali, spirituali, scientifiche, teologiche, filosofiche, costituiscono realmente un maggior numero di strumenti per attaccare la repressione che indiscussamente avvertiamo su di noi, oppure, nello stesso tempo, e per una strana combinazione, man mano che approfondiamo e accumuliamo una maggiore conoscenza, nella medesima conoscenza e accanto agli stessi strumenti che dovrebbero permetterci di attaccare, non ci viene incontro una risposta di acconsentimento, di accettazione?

In un certo senso, più strumenti accumuliamo più cresce la considerazione sociale di cui godiamo, non in termini di soldi, perché, come diceva Bakunin a proposito della Prima Internazionale, non è una questione di quattrini, ma una questione di potere. Ora, non c’è dubbio che la conoscenza fornisce strumenti di potere e quando non fornisce strumenti di potere, nel senso decisionale di mandare uomini all’attacco della barricata nemica, fornisce sicuramente strumenti di autorevolezza, e anche l’autorevolezza può essere strumento di potere. Quindi, nel momento in cui io dovessi mettere a repentaglio la mia condizione sociale, il mio status in termini di riferimento nei confronti degli altri, quello che gli altri vedono in me come ruolo, nel momento che dovessi mettermi in gioco, dovrei completamente azzerare tutti gli sforzi che ho fatto fino a quel momento: conoscenze, approfondimenti, acquisizioni, tutto quello che sono. Azzerare e coinvolgermi completamente nell’azione, ma sono veramente capace di agire? Io me lo sono chiesto tante volte.

Ecco perché gli anarchici sostengono che non c’è differenza tra teoria e azione, perché nel momento che io veramente approfondisco la teoria di un processo, di un problema e mi distacco da questo approfondimento e mi chiamo fuori, faccio crescere questa teoria fuori di me e quindi essa si sviluppa fuori di me e sviluppandosi fuori di me mi fornisce uno status, mi fornisce i galloni, mi fornisce il riconoscimento degli altri, qualcosa a cui tengo. Allora la teoria comincia a camminare per i fatti suoi e nel momento in cui cammina per i fatti suoi mi prende per mano, io sono il teorico e non voglio essere un’altra cosa perché nel momento in cui io sono un’altra cosa non sono più il teorico, non ho più il riconoscimento degli altri come teorico, perché nell’azione devo correre il rischio di bruciare quella acquisizione teorica, bruciare il mio status, tutto quello che sono, in un solo momento, e se faccio questo che ho studiato a fare? che ho passato a fare tutti quegli anni sui libri? che cosa vuol dire la mia capacità di ragionare? di parlare e di farmi ascoltare? Non vorrebbe dire più nulla finendo in un carcere del cazzo, restandoci per anni, ecc.

Ecco cosa significa l’equivalenza tra teoria e pratica. Significa che non ha senso studiare, non ha senso approfondire, non ha senso avere le tesi sviluppate in modo chiaro, non ha senso saper parlare, pensare, progettare, se non si sa nello stesso tempo agire, se non si è in grado di bruciare nel medesimo fuoco che abbiamo attizzato la cenere della conoscenza e la fiamma dell’azione. Ecco perché le due cose non possono essere separate, ecco perché la rivolta è relazione continua, passaggio tra teoria e azione.

Però tutto ciò può accadere solo se dentro di noi ci stimola qualcosa, qualcosa che non è facile individuare e di cui è più difficile ancora parlare. Io avverto spesso dentro di me un senso di commozione davanti a certi fatti, un moto dell’animo che mi è difficile frenare, anche la scena di un film spesso mi commuove, e sono capace di mettermi a piangere come un bambino, e mi nascondo e me ne vergogno. Ma la commozione è una cosa importante ed è ben stupido vergognarsene. Commuoversi significa muoversi insieme, insieme a quella parte di noi stessi che per paura del ridicolo continuiamo a tenere nascosta, separata, e che a furia di tenere nascosta finiamo per perdere.

Il rivoluzionario, secondo me, è colui che è disposto a giocarsi tutto nel momento dell’azione, principalmente la condizione che si è conquistata attraverso lo studio, l’approfondimento, la seriosità delle teorie, ecc., un uomo capace di affrontare il ridicolo, cioè che non ha paura di affrontare il ridicolo. E questo può accadere perché dentro di noi c’è il desiderio di trasformare il mondo, di trasformare la vita, di pensarla diversamente, di desiderare che gli altri possano pensarla diversamente, perché se si dovesse continuare a pensarla tutti alla stessa maniera, sarei costretto a pensarla come gli altri, costretto, obbligato all’appiattimento, oppure sarei semplicemente un pazzo che parla dall’alto della colonna nel deserto, incomprensibilmente, un chiacchierone senza senso.

Questo desiderio è dentro di noi, ed è un desiderio di conoscenza, non la conoscenza limitata ai libri, ma desiderio di quella conoscenza che utilizza i libri per l’azione, che è azione e teoria, teoria e azione nel medesimo tempo, è questo che occorre portare alla luce dentro di noi, è questo che dobbiamo cercare, pretendere di strappare ai libri, è questo che intendeva Rimbaud con le parole: “Leggendo un libro devo avvertire una martellata in testa altrimenti è inutile leggerlo”. Un libro ci deve dare un senso di desiderio, un brivido nella schiena, lo stimolo a muovere verso una cosa diversa. E il potere questo l’avverte come un pericolo, lo capisce meglio di noi perché non c’è cosa peggiore per il potere del dilagare del desiderio incontrollato.

I dominanti ci stanno organizzando il desiderio, ci dicono cosa desiderare attraverso la televisione e tutti i mezzi di comunicazione di cui abbiamo parlato nelle conversazioni precedenti e che non è il caso di tornare ad esaminare. I dominanti chiedono di codificare i nostri desideri in modo da avere indicazioni precise sul modo più adeguato di produrre questi stessi desideri per chiudere il cerchio, chiudendoci così all’interno di una condizione di superstiti, dove il desiderio selvaggio del passato rimane soltanto un ricordo sempre più sbiadito.

Andate col pensiero, per un attimo, ai grandi movimenti popolari di una volta, alle grandi insurrezioni, ai grandi scioperi, ad esempio quello delle miniere francesi sul finire dell’Ottocento. Dovettero fare intervenire l’esercito per sedarli. E, più vicino a noi, pensate ad Avola o a Battipaglia: decine di morti. Il desiderio della gente era molto semplice e nello stesso assai confuso: a volte la sola sopravvivenza, e non c’è dubbio che per chi è obbligato a lavorare quattordici ore al giorno non è facile pensare ad altro, deve cercare di rallentare la macchina che lo sta uccidendo. La parola “sabotaggio” viene dal francese “sabot” che vuol dire zoccolo, lo zoccolo che l’operaio tessile buttava nella macchina per fermarla e riposarsi un poco, ormai distrutto dai frenetici ritmi imposti. Oggi il concetto di sabotaggio non può restare legato a quello dello zoccolo buttato nella macchina, deve essere una cosa diversa. Il concetto di distruzione deve essere per forza qualcosa di più articolato.

L’importanza che io sto per dare al desiderio non è una questione soltanto di visceri, è un problema specifico. Il progetto del potere è quello di irreggimentare tutte le nostre pulsioni perché, innanzi tutto, noi desideriamo quello che conosciamo, perché non è ammissibile desiderare quello che non si conosce. La conoscenza è legata a processi di intuizione, di sensazione, ma anche a processi di razionalizzazione, a interventi intellettivi, non è soltanto un’ipotesi, ma è anche un articolato processo posto sotto il controllo della ragione. Il desiderio quindi non è soltanto un fatto del cuore, come diceva Pascal, ma è anche un fatto dell’intelletto. Noi desideriamo quello che conosciamo, pertanto ancora una volta si riconferma il necessario e indispensabile legame tra teoria e azione. Attraverso la teoria conosciamo e desideriamo e attraverso l’azione desideriamo e conosciamo.

Il potere invece vuole costruire una separazione anche di natura conoscitiva, strettamente legata a disponibilità di ordine linguistico. Abbassando le capacità intellettuali, culturali (e quindi linguistiche), di ognuno di noi ottiene il risultato molto importante che una parte degli esclusi, una considerevole parte degli esclusi, diventerà non in grado di desiderare quello che gli inclusi possiederanno. Ora, in passato, la lotta di classe, se riflettete bene, era determinata sostanzialmente dal fatto di desiderare cose che non si possedevano, cioè c’era una parte dell’umanità (molto piccola) che possedeva certe cose e una parte (grandissima) che non le possedeva ma che desiderava possederle, se non altro la pace per il presente, la tranquillità per il futuro, il benessere e la ricchezza, di cui vedeva gli effetti positivi nel possesso messo in mostra dagli altri. Ma, se gli inclusi costruissero attorno a loro un castello teutonico, munito di mura immateriali, costituiti da un linguaggio diverso, da oggetti diversi assolutamente incomprensibili alla parte degli esclusi, non ci sarebbe più desiderio possibile di quello che i privilegiati possiedono e quindi una grossa limitazione per ogni possibile futura rivolta.

Nel contesto nuovo che stiamo cercando di delineare quale posto possono occupare i vecchi movimenti resistenziali, possono trovare spazio? Consentitemi di considerare questi vecchi movimenti resistenziali, dal punto di vista “rivoluzionario”, sotto due aspetti: l’aspetto del partito rivoluzionario e l’aspetto del sindacato rivoluzionario. Le differenze tra partito e sindacato penso siano note a tutti, quindi non ne parliamo in questa sede. Ora, storicamente, perché si sono formati i partiti rivoluzionari, i partiti dei lavoratori, i partiti e i sindacati rivoluzionari? Perché avevano da controbattere quantitativamente un processo di organizzazione della classe dirigente, della classe dominante, per cui si pensava, entro certi limiti in modo abbastanza fondato, che un processo di omogeneizzazione della classe dominante dovesse essere controbattuto con un differente e contrapposto processo di omogeneizzazione degli sfruttati. Tutte le ideologie forti che stanno alla base di questo discorso, compresa l’ideologia dell’anarchismo, compresa l’ideologia delle organizzazioni di sintesi dell’anarchismo, sono basate su questa ipotesi, più noi cresciamo come lavoratori, come sfruttati, come coloro che subiscono in qualunque maniera lo sfruttamento, più siamo in grado di contrapporci ad una classe che sta solidificando il suo potere in uno scontro finale, nel corso del quale esproprieremo i mezzi di produzione posseduti attualmente da questa classe, li consegneremo nelle mani dei delegati di base con mandato imperativo, quindi sostituibile in qualunque momento e circoscritto a determinate operazioni da compiere, e così si realizzerà la società libera del futuro.

Oggi, facendo seriamente una riflessione su queste ipotesi, possiamo veramente ammettere che siano queste le condizioni dello scontro, possiamo veramente accettare che oggi esistano questi probabili sviluppi dello scontro? Oppure ci sono state modificazioni talmente radicali da rendere queste ipotesi, non solo archeologiche, ma addirittura antitetiche a quelli che sono gli interessi degli sfruttati? Io penso di sì, io penso che strutture come il partito rivoluzionario, l’organizzazione di sintesi e le strutture sindacali, anche quelle che si ispirano ai residui dell’ideologia anarco-sindacalista, sono da rifiutare perché non più in grado di assolvere ad un compito realmente rivoluzionario.

La struttura del dominio, le condizioni dello scontro, la composizione della classe degli sfruttati, si sono talmente modificate da rendere assolutamente inconcepibile una operazione del genere “presa del Palazzo d’Inverno” nel senso marxista o una liberazione dal basso nel senso anarchico, operazioni antitetiche ma tutte e due grosso modo combacianti riguardo l’espropriazione dei mezzi di produzione e della consegna di questi mezzi di produzione ai rappresentanti della classe degli sfruttati che dovranno organizzare la società liberata. Allora cosa resta? Resta l’attacco distruttivo, questo è l’ultimo punto con cui vi voglio tediare stasera, ed è il punto più delicato. Quello più delicato perché non c’è volta che prendendo questo discorso della distruzione non emergano degli equivoci. Mi si chiede, ad esempio, ma che vuol dire distruggere? Cosa vuol dire abbattere un traliccio, quando ne restano in piedi centomila, forse un milione? Cosa significa?

Secondo me dovremmo fare un minimo di riflessione, un passo indietro. Dentro ognuno di noi abbiamo costruito una ipotesi positiva e una ipotesi negativa della realtà. Noi viviamo in un contesto che supponiamo reale (a meno che non accettiamo l’alternativa della farfalla e del sogno), che pensiamo reale e positivo, cioè corrispondente ad una dimensione costruttiva provvista di caratteristiche evolutive nel tempo, e questa evoluzione la definiamo storia. Dalle nebbie di un ipotetico negativo Medioevo siamo arrivati alla civiltà moderna. Adesso c’è la penicillina, la gente non muore più di peste e neanche di malaria, almeno dentro certi limiti, perché ci sono zone del globo in cui si muore ancora di malaria e di peste. Quindi dentro di noi diamo una valenza positiva alla costruttività, perché siamo un’organizzazione (anche dal punto di vista biologico) e abbiamo paura della morte come concezione estrema della distruzione. Pensiamo che la nostra vita sia un accumularsi di positività, cresciamo, siamo bambini, acquisiamo una maggiore forza, diventiamo adulti, poi vecchi, poi la morte. Ma quest’ultima viene sempre relegata nel futuro, però nel corso di tutta la nostra vita vogliamo soltanto acquisire, almeno riconoscimenti se non proprietà immobiliari, in quanto essendo anarchici e rivoluzionari non ne possediamo. Però non vogliamo fare soltanto questo. Dal momento che consideriamo positiva la crescita, l’acquisizione, consideriamo positiva anche la quantità, cioè se noi sappiamo tre lingue ci consideriamo migliori di chi ne sa una o due. Non ci accorgiamo che dentro tutto questo c’è un’ipotesi funzionalista, un’ipotesi utilitarista, ci sono i residui di quel vecchio processo settecentesco, il quale pensava che perseguendo l’utilità del singolo individuo si ottiene un aumento di utilità complessiva per tutta l’umanità. Concetto quanto mai nefando, che ha determinato molte conseguenze negative. Cos’è accaduto in questo nostro considerare la quantità, la quantità di ogni giorno, come la qualità della nostra vita? Ci siamo smarriti. Nel desiderio spasmodico di avere qualcosa da possedere, qualcosa per essere qualcuno, abbiamo perduto la qualità dell’essere qualcosa e non siamo più in grado di individuare questa nostra realtà, questo qualcosa per cui vale la pena di vivere.

Ecco perché la distruzione ci fa paura: primo, perché ci ricorda la morte e, secondo, perché ci ricorda il rifiuto della funzionalità. Chi distrugge non è funzionale a nulla. Non è affatto vero che abbattere un traliccio sia un danneggiamento reale degli interessi dell’Enel, almeno non è vero del tutto. Non c’è un’equazione del tipo: “Un traliccio in meno un danno maggiore per l’Enel”, una relazione assoluta del genere non esiste e chi intende provare questa equazione dice una stupidaggine. Che cosa allora ci fa paura nella distruzione? Ci fa paura qualcosa che è dentro di noi, non qualcosa che è fuori di noi. Noi riusciamo a capire attraverso la ragione la quantità, la crescita e l’acquisizione, riusciamo a capire attraverso la ragione la critica di tutto questo, quindi il pensiero debole che dicevo prima, l’incertezza, il dubbio, ecc. Non riusciamo a capire attraverso la ragione la distruzione perché per capire il concetto di distruzione, nella sua più radicale significatività, ognuno di noi dovrebbe avvertire un senso di ripulsione per la propria dignità offesa, per capire il senso della distruzione ognuno di noi dovrebbe coinvolgersi personalmente.

Noi non possiamo distruggere una cosa se non siamo disposti a distruggere noi stessi nel momento che distruggiamo quella cosa. Questo, secondo me, è il concetto di coinvolgimento nell’atto distruttivo. Noi possiamo separare l’atto acquisitivo, costruttivo, da noi stessi, e dire: Guarda, io possiedo una casa e una biblioteca di diecimila volumi, ma non possiamo separare il concetto distruttivo da noi stessi, cioè noi possiamo illustrare con il linguaggio il concetto acquisitivo, la casa, i libri, la cultura, la crescita, le tre lingue da padroneggiare, ma non possiamo illustrare con il linguaggio il problema della distruzione, non possiamo farlo. Le mie parole non hanno senso, ecco perché piovono sulle vostre teste come prive di significato, perché non ha senso parlare della distruzione se non attraverso un altro tipo di linguaggio. Quest’altro tipo di linguaggio, a cui mi sto riferendo in questo momento, non è costituito soltanto di parole, ma di quella combinazione straordinariamente complessa che si realizza tra teoria e azione. La totalità di ognuno di noi, del nostro essere uomini, l’essere profondo del nostro corpo e del nostro pensiero, è la simbiosi di teoria e azione, non soltanto il rischio ma anche il desiderio, il piacere, il gusto di vivere la propria vita pienamente, questo è un linguaggio diverso. E non è un linguaggio catalogabile in parole, in discussioni come quella che stiamo facendo questa sera, in quest’aula universitaria.

Come moltissime volte accade, molto di più di quello che si può sospettare è stato detto questa sera riguardo un oggetto di cui non è possibile parlare: la distruzione. Sto facendo uno sforzo considerevole per parlare di una cosa attraverso un linguaggio inadatto ad esprimerla. La distruzione non è un pensiero metafisico. La distruzione consiste nell’andare in un posto e sfasciare una cosa, ma il processo che ci può consentire di realizzare questa azione è un processo che ci deve coinvolgere nella nostra totalità, totalità di uomini completi, di uomini e donne capaci di esprimersi nella completezza, non nella separatezza che ci vuole distinguere da quello che abbiamo acquisito, da quello che sappiamo, da quello che possediamo, non in questa separazione perché in questa separazione domina il linguaggio delle parole, cioè un linguaggio dettato dalla razionalità di secoli di oppressione, insomma il linguaggio cartesiano, di chi ha costruito le carceri, le torture, l’Inquisizione, il linguaggio dei preti, il linguaggio dei francescani, dei domenicani che mandarono Giordano Bruno al rogo in Campo dei Fiori, mentre nella distruzione prevale un altro linguaggio, nella distruzione è necessario un altro linguaggio.

Nella distruzione affiora il linguaggio della gratuità, dello smembramento, il linguaggio del mito, cioè il linguaggio di Dioniso. Dioniso è il dio dell’estraneità, il dio che arriva nella notte come un ladro, che penetra dentro di noi. Dioniso è il dio delle donne, non il dio degli uomini, ecco perché a volte il concetto di distruzione è più comprensibile alle donne che agli uomini, i quali sono molto più paurosi delle donne. Perché il concetto di distruzione si lega a Dioniso, il dio che penetrava nella notte come un ladro, il dio che non aveva luoghi di culto ma era lo straniero dovunque e dovunque entrava nel culto degli altri dèi? Perché il culto di Dioniso si basava essenzialmente sulla distruzione, anzi sullo sbranamento (sparagmós) del nemico. La preda veniva smembrata, spezzata, sfasciata, ed è questo il concetto effettivo di distruzione, in cui si vede il coinvolgimento dionisiaco nell’atto primordiale del distruggere radicalmente, nella radice più profonda, il nemico. Questo non ha nulla a che vedere con l’attacco quantitativo. Stiamo per la prima volta per entrare in un ordine di problemi che resta differente, che non ha nulla a che vedere con la critica tradizionale del partito, del sindacato, ecc. Naturalmente quando si parla di distruzione, siccome è un territorio minato, in cui le obiezioni sono moltissime, si possono fare discussioni all’infinito, per questo motivo voglio concludere dicendo che il concetto di distruzione è esprimibile attraverso la totalità della persona che lo realizza nei fatti e nel momento che lo realizza nel fatto esso è teoria, possibilità di essere capiti dall’altro. Diversamente per il concetto costruttivo, il quale può essere separato da chi lo realizza e chi lo realizza può essere bravissimo a parlare di problemi relativi alla costruzione, ecc.

A partire da questo momento potremmo entrare in tutta una lunga serie di problemi riguardanti l’aspetto organizzativo, problemi che ho volutamente tenuto fuori essendomi limitato all’aspetto, come si dice, generalissimo della questione. Riguardo gli argomenti di strategia, di organizzazione, di scelta tecnica, di natura progettuale, di natura rivoluzionaria, è chiaro che il discorso è vastissimo. Tanto per fare un solo esempio, l’analisi della struttura dei gruppi d’affinità è un tentativo di rispondere a questi problemi.

Non ho voluto fare entrare qui dentro questi aspetti perché, vista la loro complessità, sarebbe stupido riassumerli in poche parole. Non avendo il tempo di approfondire ogni singolo elemento, tante cose sarebbero state tralasciate. Quale potrebbe essere sul piano pratico il risultato se io vi parlassi in questa sede per tre minuti dei gruppi d’affinità, dell’organizzazione informale, dei nuclei di base, ecc.? Finiremmo nella confusione più assoluta.

Stasera, ultima nostra conversazione, ho voluto invece che si capisse bene che non c’è soltanto il linguaggio delle parole, come ognuno di noi lo sperimenta, ma anche altre possibilità di comunicare. Si può dire che ognuno di noi ha il suo proprio linguaggio. Per cui, quando si comprende cos’è la distruzione, quando si capisce che non si tratta soltanto di sfasciare un computer, quando si acquisisce la coscienza che questo aspetto è soltanto la parte ludica del problema, ma che c’è qualcosa d’altro di cui bisogna rendersi conto, qualcosa che ci coinvolge personalmente fino nella più profonda radice, e che questo ha la sua molla iniziale in quella parte di noi stessi che si richiama alla dignità ferita di cui siamo sicuramente coscienti perché altrimenti non saremmo qua, perché non saremmo nemmeno dei compagni, allora siamo di già in possesso del linguaggio distruttivo, possiamo dare inizio all’agire distruttivo.

Perché quando tu vedi un fascista ti fa schifo, te lo sei mai chiesto? È un uomo come te, come me, anzi certe volte sono fascisti dei bei ragazzi, delle belle ragazze, perché ti fanno schifo? Perché ti fa schifo il poliziotto? Per la loro pericolosità? Per quello che dicono? No. C’è una cosa che non si riesce a capire bene. Io quando mi trovo in galera la cosa peggiore che mi capita sotto gli occhi sono gli uomini in divisa, ecco perché mi chiudo la porta per non vederli, per non sentirli parlare. Possono anche dire cose intelligenti (fatto di per sé difficile), ma c’è in loro qualcosa di inesprimibile, qualcosa di non comprensibile, qualcosa che mi fa schifo.

Non manca anche, quando parlo del problema distruttivo, l’obiezione riguardante l’impossibilità di fare una distinzione tra il teppista che sfascia tutto e il rivoluzionario che attacca dopo un ragionamento ben preciso. Il problema sussiste e non è di facile identificazione. Non si può fissare una differenza “oggettiva” tra l’atto distruttivo rivoluzionario e l’atto del teppista, a rischio di andare incontro a grossissime difficoltà. Non possiamo cercare una differenza “oggettiva” che ci tranquillizzi una volta per tutte. Non possiamo dire che sfasciare la camionetta dei poliziotti o tagliare il traliccio siano atti rivoluzionari di per sé, mentre litigare nello stadio è un atto teppistico di per sé. Non è che la gratuità dell’atto sia un elemento risolutivo per quanto riguarda la distinzione tra teppismo e atto rivoluzionario, perché se fosse così ci sarebbe un’altra volta l’ipoteca della funzionalità, lo scopo da raggiungere occuperebbe tutto lo spazio del ragionamento. Se pensiamo che tagliando un traliccio dell’Enel mettiamo al tappeto il cuore dello Stato, siamo veramente fuori del mondo, anche se i tralicci dovessero essere centinaia. Non è la logica aritmetica che conta.

Importante è capire che la differenza c’è e va cercata nelle maturazioni individuali delle persone che realizzano questi atti, in quello che esse avvertono, in quello che desiderano, e perfino in quello che riescono a progettare praticamente, trasformando il sogno in attività concreta. Non c’è dubbio che nel teppista si trova, e contrasta, uno strano coacervo di sentimenti, c’è la gratuità del fatto, l’ignoranza, la sua incapacità di cogliere gli elementi determinanti la realtà che lo circonda, ma c’è anche un senso di ribellione. E non è detto che questa ribellione prevalga, perché nel teppista spesso prevale l’istinto gregario. Non è affatto vero che chi litiga allo stadio si scateni individualmente, quasi sempre è irreggimentato attraverso processi di intruppamento, finanziamenti ai vari club, attraverso le strutture di squadra, i simboli, le parole d’ordine, i brandelli di vecchie ideologie, ecc. Il compagno che agisce attaccando una struttura del nemico, anche non volendo ricorrere alla possibile identificazione di un piano puramente “oggettivo”, parte da motivazioni differenti, da maturazioni sociali più articolate. Se, nell’ambito della dimensione individuale, il teppista non sa come passare la domenica in modo simpatico, il compagno invece coinvolge tutto se stesso nell’attacco di un obiettivo. Entrando nella dimensione distruttiva egli taglia con quella che è la tradizione costante del quantitativo, della crescita e della istituzionalizzazione della vita irreggimentata dagli altri, ecco la differenza. La chiave della spiegazione secondo me va cercata in comportamenti che hanno una valenza soggettiva, senza che per questo tali comportamenti si debbano abbandonare all’atomicità, alla elementarità di singoli componenti senza coesione fra loro. Ed è evidente che abbiamo paura di partire da questo semplice elemento, abbiamo paura di ammettere come possibile una motivazione individuale come punto di svolta, e abbiamo paura perché da centocinquanta anni ci hanno insegnato che non bisogna partire dal singolo ma dalla classe, dall’analisi oggettiva, dalla storia, dai meccanismi intrinseci all’interno della storia, da quello che si chiamava materialismo dialettico. Ancora non ci siamo liberati del tutto da questa eredità.

Grazie dell’attenzione.

Conferenze di Patrasso, Atene, Iraklio, Volos, Thessaloniki, Ioànnina

Colpire il nemico

Per me è sempre una grande occasione venire in Grecia e incontrare i compagni anarchici greci. C’è una vicinanza di cuore, non soltanto di idee. Qualcosa che non sento in nessun altro paese e meno che mai in Italia. Insomma non è un caso che quella che avete chiamato, se ho capito bene, l’insurrezione o la rivolta di dicembre sia accaduta in Grecia.

Io penso che bisognerebbe parlare della sensazione, della tensione che gli anarchici provano, naturalmente in tutto il mondo non soltanto in Grecia, nei confronti del potere e dello Stato, del desiderio di distruggerlo e di attaccarlo. È di questo che bisognerebbe parlare.

Io nella mia vita ho sempre pensato che l’attacco contro il nemico è la stessa vita che ognuno di noi ha dentro di sé, per questo facciamo certe scelte e non ne facciamo altre. Per questo siete anarchici, sono anarchico. Perché voi volete e io voglio attaccare. Non limitarmi alle chiacchiere, anche se le chiacchiere, e quindi anche se la teoria, hanno la loro importanza. E ve lo dice uno che ha dedicato gli ultimi quarant’anni della sua vita a scrivere opuscoli, libri, e cose del genere, a riempire migliaia di pagine.

Però c’è un momento in cui bisogna fermarsi, in cui bisogna mettere il libro da parte, perché siccome la conoscenza è senza limiti, si può continuare all’infinito a cercare di capire, di approfondire, migliorare, e… quando si attacca?

Io vorrei che riflettessimo insieme questa sera su questo problema. Nel processo insurrezionale c’è soltanto una esplosione di odio oppure c’è anche la teoria?

Dove finisce l’occasione, la provocazione che il nemico ci mette davanti e dove comincia il progetto insurrezionale nei suoi dettagli, nel suo approfondimento, nella sua capacità di essere teoria e non soltanto distruzione. Dove finisce la provocazione e comincia la teoria?

Guardate che questo è il problema centrale, che cosa ci impedisce di reagire: la forza del nemico o il nostro desiderio di conoscenza. Che cosa ci impedisce di agire: la forza del nemico che ci sta davanti o il nostro volere limitarci a fare soltanto della teoria? Che cosa ci impedisce di attaccare: la forza del nemico oppure la nostra preoccupazione di volere capire tutto?

Quando succede una provocazione grossa, importante, uccidono un compagno, il momento insurrezionale si scatena come reazione contro il potere oppure c’è anche la teoria dentro? Io non so cosa rispondere, infatti come vedete sono solo delle domande che vi pongo non sono delle affermazioni.

D’altro canto senza avere a disposizione una teoria approfondita di natura insurrezionale, nel momento insurrezionale non sappiamo cosa fare. Distruggiamo e continuiamo a distruggere finché ci fermiamo.

Io sono sicuro che vi siete posti questo problema. Ecco perché, in poche parole, vorrei portarvi a riflettere su quelle che sono le trasformazioni che si sono verificate negli ultimi tempi. Trasformazioni ovviamente nel dominio, nel Capitale. La struttura di classe che ci sta davanti si è profondamente modificata. Il ruolo tradizionale dei partiti di sinistra e dei sindacati è svanito. L’applicazione delle teorie del lavoro, della flessibilità, hanno rotto la compagine del mondo del lavoro, la forza, l’unione del mondo del lavoro, l’hanno polverizzata. Nello stesso momento il Capitale ha continuato a svilupparsi verso altre vie, non secondo le tradizionali vie del passato. La globalizzazione, per usare una parola stupida, che sanno tutti comunque, polverizzando la fabbrica nel territorio, a livello mondiale non locale, ha consentito al Capitale guadagni enormi e quindi la trasformazione da Capitale industriale a Capitale finanziario, da cui la cosiddetta, tra virgolette, “crisi” che stiamo attraversando a livello mondiale.

Ma noi, diciamo noi che siamo una parte sensibile del mondo degli sfruttati, degli esclusi, consideriamo ancora il mondo della produzione e dell’economia come qualcosa che la rivoluzione ci metterà nelle mani domani, a cose fatte, continuiamo a pensare che questo mondo dell’economia verrà ereditato da noi, dopo la rivoluzione? Ma possiamo pensare una stupidaggine del genere?

Una volta si credeva che il proletariato lottava per ereditare i mezzi di produzione e trasformarli in una produzione generalizzata, sociale. Ebbene, questa è teologia, ed è finita.

Questo mondo che è fuori di qua non può essere utilizzato in maniera rivoluzionaria. E il primo a rendersi conto di questa grande verità è il Capitale stesso, che applicando la logica dello sfruttamento sta distruggendo il mondo. Ma mentre la distruzione del mondo da parte del Capitale produce sfruttamento, miseria, dolore e morte, la nostra distruzione, quello che noi possiamo fare attaccando questo mondo di distruzione e di morte, questa nostra distruzione produce la vita, è questo che dobbiamo capire. Concetto non facile, che è meglio ripetere. Mentre la distruzione del Capitale produce la morte, la nostra distruzione del Capitale produce la vita.

Cerchiamo dunque di riflettere sui consigli che ci dà il Capitale: partecipazione, ammorbidimento. Pensate a tutto quello che fanno con le attività delle associazioni di volontariato, a quante brave persone, a quanti preti travestiti partecipano a rendere possibile lo sfruttamento.

Non caschiamo in questo errore, non facciamo in modo anche noi di mettere una benda sulla piaga, ecco, non dimentichiamo che siamo anarchici.

Guardate che non è una stupidaggine, non dimentichiamo che siamo anarchici. Perché troppo spesso fra gli anarchici sento fare discorsi che non sono anarchici. Non hanno il concetto di radicale distruzione che gli anarchici devono portare nel cuore.

Parliamoci chiaramente. Io non credo che siamo in una situazione di crisi, io non credo alla crisi.

È urgente capire una cosa, che il concetto di crisi è un concetto marxista e deriva dalla utilizzazione fatta da Marx del concetto di tesi-antitesi, di contraddizione, concetto filosofico che, come tutti sappiamo, apparteneva a Hegel.

Non c’è una crisi del Capitale, ma degli aggiustamenti, delle difficoltà. C’è il tentativo da parte del Capitale di fare pagare agli esclusi le conseguenze dei suoi imbrogli finanziari a livello mondiale.

Ora, io vi invito a riflettere su questo punto: molti anni fa abbiamo parlato di distruzione del lavoro. Quello che quindici anni fa era una teoria degli anarchici, di pochi anarchici, basata sul fatto che il lavoro è uno strumento di morte, uccide, non ci dà affatto la possibilità di vivere, ci ammazza, oggi noi anarchici, possiamo allargare il concetto di distruzione del lavoro, perché i problemi del Capitale hanno espulso, mandato fuori, una grande quantità di persone dal mondo del lavoro. E questa larga fascia di disoccupati è disponibile ad attaccare il lavoro.

Si tratta di trovare il modo giusto di entrare in contatto con queste fasce private dal lavoro. E il modo giusto è quello di fare vedere come sia possibile attaccare. Quanti modi la creatività anarchica ha di potere attaccare. Quanti obiettivi ci sono. Pensante, sono diffusi nel territorio. Il mondo, la terra è una palla circondata da una rete di telecomunicazioni. Gli anarchici hanno questo compito storico.

Non pensando di potere da soli risolvere il problema del lavoro, ma facendo vedere agli esclusi, ai miserabili, agli sfruttati come sia possibile attaccare e che cosa bisogna attaccare. Secondo me questo è il nuovo concetto di insurrezione generalizzata.

 

Il sindacato, di base e non di base, autonomo o confederato, come vuoi tu, ha perso il suo ruolo storico. L’anarcosindacalismo non fa eccezione.

Perché ha perso la sua funzione? Perché la classe operaia è stata smembrata. Cioè, il sindacato non rappresenta più nulla perché non ha più nulla da rappresentare. Oggi il concetto di classe operaia deve necessariamente essere rivisto, a causa delle trasformazioni del Capitale che abbiamo visto prima.

Difatti nel libro che presentiamo stasera [la traduzione greca di Dominio e rivolta] parlo a lungo della trasformazione della classe operaia. Perché è importante il problema? Perché il sindacato di base utilizza certi concetti: autonomia, autogestione, autodeterminazione che appartengono al patrimonio storico degli anarchici, ma poco fa, vi ricordate, dicevo: stiamo attenti, stiamo attenti, non ci facciamo imbrogliare, perché questi concetti sono utilizzati in modo recuperativo.

Ragioniamo, che senso ha educare lo sfruttato all’autonomia se poi non ha la possibilità di applicare questa autonomia alla gestione autonoma dei mezzi di produzione?

Questo è un discorso che in Italia circola con i Cobas da vent’anni, non so in Grecia perché evidentemente non sono informato. Secondo me è arrivato il momento di dire le cose chiaramente come stanno.

Chi non attacca è funzionale al potere. Chi consiglia di aspettare, di applicare i concetti di libertà, di partecipazione, di dialogo in una situazione come questa, in cui il mondo lo stanno distruggendo i capitalisti, ecco, chi consiglia questo è un servo dei padroni.

 

L’insurrezione di dicembre, o ciò che è stato, io non c’ero, non aveva l’obiettivo di distruggere il meccanismo del potere. Nessun movimento del genere può avere questo obiettivo. Malatesta, che tutti conosciamo, penso, ha scritto: preferisco chi si ribella, anche se la sua lotta è limitata, a chi aspetta per potersi ribellare che ci sia l’occasione di mettere tutto il mondo a soqquadro.

 

Certo il potere ha molti modi di recuperare, ma quando gli attacchi si diversificano, si moltiplicano, assumono delle forme creative nuove, e principalmente, compagni, è questo da sottolineare: prendono l’iniziativa, non si racchiudono nella risposta, quando questo accade, il recupero diventa più difficile.

 

L’anarchismo ha sviluppato delle teorie insurrezionaliste molto dettagliate. Non cento anni fa, adesso, negli ultimi anni, negli ultimi vent’anni. Ma non solo ha sviluppato delle teorie, ha anche realizzato dei fatti. Senza voler fare degli esempi, secondo me ci sono delle regole da seguire, noi in quanto anarchici non abbiamo conquiste da fare, se partecipiamo ad una lotta non partecipiamo per vincere, partecipiamo per proporre un metodo, il metodo anarchico.

Ecco perché ci accusano di utopia, di sognare, di immaginare, invece no, noi siamo gli unici realisti.

Quindi quando noi siamo presenti come minoranza all’interno di una lotta, dobbiamo specificare nel modo più chiaro possibile la nostra strategia anarchica. Non dobbiamo mai cadere nell’errore di nasconderci per catturare un’alleanza, un gruppo esterno, qualcuno che lontanamente ci dice di essere simpatizzante con noi. Insomma, il nostro essere anarchici in tutte le lotte in cui ci troviamo deve sempre apparire chiaro. Questo pare una stupidaggine, ma non lo è.

Io penso che questa sia la risposta che si possa dare.

[Intervento: Forse sarebbe interessante vedere meglio i rapporti organizzativi all’interno dell’insurrezione]. Io non è che non voglio entrare nel discorso organizzativo, è che si tratta di una cosa complessa. Non so se è il caso di approfondirlo. Decidiamo.

 

Il motivo della perdita di significato di questi antichi strumenti di lotta è lo stesso per cui i partiti di sinistra hanno perso il loro ruolo tradizionale. Perché il mondo del lavoro si è profondamente trasformato, a causa dell’applicazione delle tecniche di flessibilità. [Intervento: Cosa intendi per flessibilità?]. Per flessibilità si intende che il lavoratore viene staccato dal proprio posto di lavoro e adattato a fare lavori diversi, in situazioni diverse, anche in luoghi di lavoro diversi, perdendo così la propria identità lavorativa.

Il tramonto della figura classica dell’operaio ha avuto conseguenze sulla coscienza di classe. [Intervento: Il tramonto della figura classica dell’operaio, è questo che vuoi dire?]. Questo tramonto della figura classica dell’operaio ha avuto conseguenze sulla coscienza di classe. Non c’è più un’identificazione nel lavoro. Oggi ci sono situazioni di fabbrica in cui la struttura produttiva è stata tagliata a pezzi all’interno della stessa fabbrica. Si tratta della cosiddetta tecnica, che si chiama tecnica “delle isole”. Ad esempio, in un’industria automobilistica non c’è più la catena di montaggio, ma ci sono delle sezioni. Con l’intervento telematico e tutto il resto, la sezione che produce gli sportelli delle macchine è separata dalla sezione che produce le ruote. Tutte queste isole diventano reciprocamente fornitori e clienti. Allora, chi produce lo sportello non è il compagno di lavoro di chi assembla la macchina, ma è il suo fornitore. Se lo sportello non funziona, viene restituito. Si spacca quindi la coesione di classe, non siamo più tutti operai. Io ti controllo. Se tu mi mandi lo sportello che non funziona io te lo rimando indietro.

Quindi ci sono due grandi risultati in questa operazione: il Capitale ha introdotto all’interno della struttura produttiva un sistema di polizia, fatto dagli stessi operai che si controllano uno con l’altro, e ha spezzato la coesione, l’unità di classe.

Allora, il sindacato cosa può rappresentare? Può rappresentare soltanto interessi marginali, periferici. Il problema della tutela del lavoro entro certi limiti, il problema dei soldi, ma non raccoglie più l’unione, la forza della classe. Se voi riflettete, la stessa cosa accade col partito politico. Non c’è più niente da rappresentare. Non ci sono interessi di classe da rappresentare. Guardate i discorsi che fanno i partiti di sinistra. Ma non c’è bisogno di parlarne, lo sanno tutti.

 

Il problema del lavoro nei prossimi anni diventerà sempre più complesso e difficile da capire.

Per il momento quello che si può dire è, per quel che riguarda gli anarchici: non possiamo sposare la causa di chi perde il lavoro. Un momento. Parole gravi queste. Perché gli anarchici sono sempre a fianco degli sfruttati, dei miserabili. Allora c’è una contraddizione? No, secondo me no.

Noi siamo a fianco di chi perde il lavoro se vuole partecipare con noi alla distruzione del lavoro. Questo non è un concetto simbolico, ma concreto.

Riflettete un momento, compagni. Una parte dei produttori sta perdendo il lavoro e noi dovremmo lottare insieme a loro per farli tornare nel medesimo posto di lavoro? Cosa sarebbe questo? Partecipare a risolvere il problema del Capitale e non quello dei lavoratori.

Il compito rivoluzionario oggi è quello di attaccare; badate che ci sono molti compagni anarchici che cascano nell’equivoco, secondo me naturalmente, di partecipare alla lotta di chi si trova nella miseria e cerca di salvarsi attraverso il riconoscimento della nazionalità, di un lavoro, della paga, e così via. Questo non appartiene al metodo degli anarchici, questo compito lasciamolo fare ai recuperatori del Capitale.

Vi porto un esempio da me vissuto personalmente. In Sicilia, dove vivevo all’epoca, c’era una fabbrica di materassi occupata, autogestita. Chi lavorava all’interno della fabbrica aveva avviato la produzione autogestita e i compagni di Catania, dove abitavo io, mi avevano chiesto di andare a dare una mano, anche a livello tecnico, visto che ero laureato in economia, ero uno del mestiere. Non sono andato.

Quando è finita l’autogestione si è capito che l’occupazione la stava gestendo il proprietario della ditta per prendere i finanziamenti dallo Stato. Un’esperienza importante di autogestione in Francia risale al 1968-1969, mi riferisco alla LIP, che produceva orologi. Si tratta di esempi che diventano sempre più rari e sempre più difficili da realizzare, proprio a causa della trasformazione dell’economia a livello mondiale.

Cioè l’autogestione di un’azienda è ormai una cosa anacronistica e in ogni caso contraddice al concetto di distruzione del lavoro. Io vorrei chiarire meglio. Mi rendo conto che sono concetti nuovi, vorrei che riflettiate a fondo sul concetto di distruzione del lavoro, è una cosa che fa male, lo capisco che fa male ma è assolutamente necessario riflettere su questo punto, è fondamentale.

Quando faccio pubblicamente questo discorso, se avete letto il ciclostilato che è stato distribuito, c’è scritto: è difficile parlare della distruzione. Perché molti mi rispondono – non l’avete fatto voi, e di questo vi ringrazio –, ma se io distruggo il lavoro come do da mangiare alla mia famiglia? Allora, la risposta è delicata. Cosa si deve scegliere? Restare nell’ambito della certezza, della sicurezza poliziesca, controllata, miserabile o avviarsi, sognare e realizzare la rivoluzione.

Insomma, parliamoci chiaramente, gli anarchici sono rivoluzionari, e voi pensate di fare i rivoluzionari anarchici trovando il lavoro alla gente? Attenzione, o risolvendo il problema di quello che non può dare a mangiare a suo figlio. Per carità, è un problema morale importantissimo, ma che sia lui a mettersi il coltello fra i denti per dare da mangiare a suo figlio.

Io vorrei che capiste che non possiamo fare diventare un problema individuale un problema collettivo, un problema del singolo un problema rivoluzionario. Posso avere pena per il miserabile che viene a piangere sulla mia spalla, ma non posso evitare che mi faccia schifo.

Vedo certe cose in Italia, ma penso sarà lo stesso in Grecia: ragazzi neri, belli, forti che ti chiedono un euro di elemosina, cercando di venderti un accendino. Dentro di me c’è un senso di ribellione. Com’è che tu che sei alto due metri chiedi a me l’elemosina? Non ti vergogni? Perché non ti metti il coltello fra i denti, cosa stai aspettando?

Sono questi i discorsi che devono fare gli anarchici, e questi sono i problemi che devono risolvere.

Ci hanno costruito una coscienza di assistenti sociali e non ce ne siamo accorti. Ma noi siamo rivoluzionari non siamo infermieri.

 

Ecco la domanda classica. Certo, come faremo? Cosa faremo? Andremo a prendere i soldi dove sono.

Attenzione, attenzione, calma, calma. Anche questo è un lavoro. Andare a prendere i soldi dove sono è un lavoro: lungo, seccante, monotono, stupido, pericoloso. Però, quando io parlo di mettersi il coltello fra i denti, questo lavoro – che sempre lavoro resta – lo si può fare in modo non professionale.

Attenzione, tenete presente che noi lavoriamo al novanta per cento, secondo certi studi economici, per bisogni che ci sono imposti, che non siamo capaci di rifiutare. Se uno va a prendere i soldi dove sono e poi diventa schiavo dei soldi che ha preso, perché si compra la macchina, l’orologio speciale, ecc, non ha senso.

Quindi il concetto di distruzione del lavoro, come vedete, è concreto, non è un simbolo. Perché mette in discussione la vita di ognuno di noi, le proprie certezze, la sicurezza e anche la scelta dei bisogni, dei desideri. Anche i desideri devono essere distrutti e rifatti. Se per il Capitale il lavoro è la vita nostra, di tutti i giorni, noi, distruggendo il lavoro, corriamo il rischio di distruggere la nostra vita. Quindi dobbiamo, nello stesso tempo che distruggiamo il lavoro ricostruire una vita diversa, che possa ripartire da bisogni diversi. Altrimenti rimane validissima la domanda: “e ora che facciamo?”.

Se uno non sa che cosa fare dopo aver distrutto il lavoro e meglio che lasci stare il lavoro nella condizione in cui si trova adesso.

 

In effetti, soltanto oggi vedo possibile un passo collettivo a seguito del fatto che il Capitale ha delle difficoltà di trasformazioni produttive. Cioè diventa comprensibile oggi, a livello di massa, il concetto di distruzione del lavoro.

Io penso che quando parliamo di attacco, da sempre, non solo adesso, non possiamo pensare di escludere i mezzi di produzione. Perché i mezzi di produzione sono parte integrante della nostra vita e costituiscono la forza del nemico. Se vogliamo attaccare – in caso contrario “attaccare” diventa una parola inutile, tanto per dire qualcosa – dobbiamo attaccare le cose materiali, la realtà del Capitale, e quindi il lavoro che è la base del Capitale.

L’equivoco che da centocinquanta anni si porta dietro l’organizzazione operaia internazionale, dai tempi di Bakunin fino a oggi, è dovuto al fatto di pensare che il Capitale e il lavoro siano due cose diverse. Sono state per tanto tempo due cose diverse, in lotta l’uno contro l’altro, ma oggi hanno costruito un muro fra gli inclusi e gli esclusi, fra il Capitale e quelli che non fanno parte della ricchezza, che sono i miserabili. E questo muro diventa sempre più difficile, sempre più alto. Riflettete, questo muro è costituito da: mancanza di cultura, appiattimento morale, svuotamento della scuola e dei contenuti che tradizionalmente la costituivano, costruzione di un mondo fantastico praticamente inesistente, musica, televisione, computer e stronzate senza limiti.

La vecchia lotta di classe si basava sul fatto che c’era chi aveva un oggetto e chi non l’aveva. Quello che non l’aveva desiderava quell’oggetto, la ricchezza, i soldi, una vita bella. Ma principalmente alla base dello scontro di classe c’era il fatto che chi non aveva quell’oggetto lo capiva, perché per desiderare bisogna capire. Ora, nel momento in cui hanno alzato un muro, non si capisce più perché sono stati tolti i mezzi per capire, e quindi anche i mezzi per desiderare. Questa è l’esclusione, questa è la disgregazione. E questa è la fine della lotta di classe tradizionale. Secondo me oggi è possibile fare un discorso di questo genere proprio a chi è stato escluso dal lavoro a causa delle trasformazioni in corso del Capitale.

 

A questo punto si torna al problema dell’organizzazione insurrezionale che bene o male si deve prendere.

Io non vorrei aver dato l’impressione di essere uno spontaneista. Non lo sono affatto. L’organizzazione insurrezionale è possibile, ma deve essere ovviamente diversa dai partiti, dalle organizzazioni di sintesi e da altre forme organizzative.

Coinvolgere le persone, la gente è possibile, con l’obiettivo della gente non degli anarchici. Se un gruppo di persone, un paese, una zona, una nazione, non lo so, una realtà hanno un problema, questo è un loro problema, non necessariamente degli anarchici.

Gli anarchici possono suggerire un metodo organizzativo insurrezionale, possono anche realizzare dei fatti per fare vedere come funziona questo metodo, ma non possono sostituirsi alla gente. Una volta raggiunto lo scopo delle persone, gli anarchici dovrebbero scomparire, non devono aspettare una sorta di guadagno quantitativo come crescita del movimento anarchico o del gruppo che ha partecipato alla lotta. Queste cose non esistono.

 

Altro è il rifiuto del lavoro. Il rifiuto del lavoro è la cosa più vecchia del mondo. Non ha carattere né insurrezionale né rivoluzionario.

 

Io ho visto centinaia di rivoluzionari anarchici spegnere la propria vita in botteghe per lavorare il cuoio o in comuni per fare il vino. Ogni rifiuto del lavoro si traduce in una riconferma del lavoro. C’è da stabilire una netta differenza fra rifiuto del lavoro e distruzione del lavoro.

 

Gli anarchici storicamente si sono dati sempre due tipi di organizzazione: un’organizzazione che si chiama di sintesi (poi vedremo che cosa vuol dire) e un’organizzazione informale. Questa parola, in greco, ha un senso un poco diverso da quello italiano, quindi bisogna capirsi bene nel tradurla.

L’organizzazione di sintesi prevede che un gruppo anarchico tradizionale insieme ad altri gruppi anarchici si mettono insieme e fanno una federazione. Non so se in Grecia c’è una tradizione di questo tipo, ma mi pare di no, a me non risulta. I grandi esempi storici sono: l’Italia, la Spagna, la Francia e la Germania.

Questa federazione fa dei congressi, normalmente annuali, divide e specifica il lavoro di ogni gruppo. Ad esempio uno per l’antimilitarismo, uno per il lavoro nelle fabbriche, i vari campi di intervento classici degli anarchici, un gruppo per la propaganda nei quartieri, per la stampa anarchica, e tutte le forme tradizionali di intervento. Adesso si capisce la parola sintesi, perché la federazione sintetizza il lavoro di tutti i gruppi, fa un programma e studia gli interventi nei quartieri, nell’antimilitarismo. Il programma più ampio e migliore è stato senza dubbio quello di Malatesta del 1921.

L’altra forma organizzativa, quella informale, non ha una federazione. Ci sono dei gruppi, ma questi gruppi sono autonomi, certo sono in contatto fra di loro, ma non attraverso una federazione. Ma qual è la forza che li unisce? Perché si mettono insieme? Perché io mi metto insieme con te e facciamo un gruppo? Il fondamento del gruppo informale è l’affinità.

[Intervento: Ti devo interrompere per dire che in Grecia, a partire dagli anni Sessanta, il modo di organizzarsi è proprio quello sulla base dei gruppi di affinità]. Mi fa piacere, però sul concetto di affinità ci sono delle differenze. Il significato di affinità non è uguale per tutti. L’affinità così come la penso io, e come l’abbiamo studiata in Italia negli ultimi vent’anni, deve garantire l’informalità.

Questa unione si ottiene, secondo me, quando i compagni si cercano sulla base di una profonda conoscenza reciproca. Il concetto di conoscenza non è quello della scienza, ma di conoscenza proprio fisica, pratica, umana. Quindi il gruppo di affinità nasce lavorando su questo concetto di conoscenza.

Io ad esempio ho conosciuto due compagni ieri, fino a questo momento io non sono in grado di fare con loro un gruppo di affinità, perché li conosco poco. Mi sono simpatici, ma non basta. Se però voglio costruire questo gruppo con loro due non posso fare loro un interrogatorio poliziesco, non devo aver premura, devo aspettare che la conoscenza maturi. E come matura la conoscenza? col fare le cose insieme. Quindi, la crescita di un gruppo di affinità è una cosa lunga, lenta, che può anche fallire. Ad esempio a me è capitato di avere una conoscenza anche abbastanza approfondita, anche di anni, con una compagna, che si lamentava sempre di essere donna e quindi come donna di essere emarginata dalle cose da fare (cosa che negli anni Settanta era abbastanza vera). A me sarebbe piaciuto andare avanti con lei nella direzione dell’affinità, e per questo ne parlavo con lei, cercavo di fare le cose insieme. In particolare cercavo anche di lottare per superare questa selezione negativa verso le donne, in Spagna ad esempio la donna non partecipava a nessuna azione. Il movimento in Spagna negli anni Settanta era misogino. Negli anni Settanta, stiamo parlando, non nel 1936. Perché allora il progetto di affinità con questa compagna ad un certo punto è naufragato? Perché nel corso di un’azione quello che lei doveva fare, al momento di farlo, non è stata in grado di farlo. Non è detto che ognuno debba sapere fare tutto, però non ha affinità con me nel momento in cui dice: io questa cosa non la voglio fare e mi dice: falla tu. Se parliamo in termini di delega allora non ci siamo. Se infatti costituiamo un gruppo di affinità tutti, chi più chi meno, chi meglio chi peggio, tutti dobbiamo sapere fare le cose che ci proponiamo di fare. Se c’è il problema che qualcuno del gruppo di affinità non riesce a fare una cosa, o perché si spaventa o perché è tecnicamente impreparato, gli altri compagni lo devono aiutare, devono lavorare con lui. Questa che sembra una banalità è il segreto per impedire la nascita del leader. Come vedete c’è una grande differenza fra un gruppo di affinità e uno di sintesi.

Una volta che abbiamo davanti l’idea di un gruppo di affinità, non possiamo pensare di fare entrare le masse in rivolta dentro il gruppo di affinità, farle diventare anarchiche.

La realtà ha dei problemi, ad esempio in Italia in questo momento c’è la lotta contro i treni ad alta velocità che dovranno attraversare tutto il nord dell’Italia, da Lione fino all’Ucraina, quindi da Cuneo a Trieste. Alcuni compagni e gruppi di affinità sono intervenuti nella zona della Val di Susa, vicino Torino, perché la gente non vuole che i treni ad alta velocità passino da quella zona.

Era la gente che aveva un problema, non gli anarchici. Questa è una cosa importante da capire, gli anarchici sono contro il Capitale e quindi anche contro il treno ad alta velocità, ma questo non è un problema degli anarchici. Uno che è contro qualcosa non è detto che quello sia un problema per lui, può essere contro anche solo ideologicamente. Mentre chi abita sul posto ha il problema vero e reale, perché il treno gli passa sopra la testa disturbandolo con il rumore, ecc.

Non si può andare sul posto e dire: se voi volete che noi vi aiutiamo a lottare allora dovete entrare nel nostro gruppo di affinità, cioè diventate anarchici. Qui subentra il concetto di organizzazione insurrezionale informale, come superare tale distanza tra il gruppo di affinità, che ha l’idea chiara del danno che fa il treno ad alta velocità e la gente che ha il treno a casa.

Primo passo da fare è andare sul posto. E qui cominciano i guai, perché andare sul posto non vuol dire andare, parlare con la gente, stare dieci minuti e tornarsene a casa, ma significa restare là per molti anni. Noi a Comiso contro la base missilistica americana siamo rimasti due anni e mezzo. Diversi gruppi di affinità, fra i quali Londra, Milano, Catania, Edimburgo, sono andati a Comiso, hanno aperto una sede con un telefono. Molti potrebbero dire: ma che c’entra tutto ciò. E invece c’entra, in quanto si tratta di un accadimento pubblico. Là hanno fatto le prime riunioni pubbliche con conferenze, dibattiti, ecc. Dove c’erano anche le forze politiche come i sindacati, Partito comunista e la gente, la prima cosa che ho detto, mi ricordo che ero arrivato il giorno prima da Londra, è stata: noi siamo anarchici e non abbiamo nulla da spartire con i partiti. Il nostro programma è quello di distruggere la base. Questo è stato detto il primo giorno. Però non possiamo farlo da soli, ma dobbiamo farlo con voi. Se fra questa massa c’è anche gente del Partito comunista, dei sindacati, non vogliamo che diventino anarchici, ma vogliamo solo che siano d’accordo con il nostro metodo. Per due anni e mezzo abbiamo aperto una sede, che abbiamo chiamato “Coordinamento”.

A questo punto si pose il problema: ma la gente che è contro la base americana, perché seimila soldati americani porteranno interessi mafiosi, la droga, la prostituzione, ecc., viene nel gruppo anarchico a discutere di queste cose con noi? La gente non viene. Bisogna quindi costruire una forza intermedia fra il gruppo di affinità che è anarchico e la gente che è disorganizzata. Ora questa forza intermedia deve essere specifica, deve essere un’organizzazione per la distruzione della base, e non un’organizzazione generica per trovare il lavoro alla gente, la casa agli sfrattati, ecc., in caso contrario diventa un’organizzazione sindacale.

Abbiamo facilitato, aiutato e spiegato la nascita di nuclei di base per distruggere la base americana. Quindi la sede del coordinamento è diventata la sede del coordinamento dei nuclei di base. Questi nuclei non sono nati soltanto a Comiso, ma anche in tutta l’Italia e anche all’estero. Ad esempio, nei giorni fissati per l’occupazione della base, ad Edimburgo hanno occupato il consolato italiano. La gente veniva nei nuclei, anche se i nuclei non avevano un luogo fisico. C’era il nucleo in vari paesi, in varie città e c’erano anche i nuclei di vari mestieri. L’obiettivo comune di tutti i nuclei era però soltanto la distruzione della base, non ne avevano altri, oppure sarebbero diventati un sindacato. Quando ci sono stati i tre giorni di occupazione della base c’era il problema di abbattere il muro. Il nucleo dei trasportatori, cioè dei camionisti, ha portato due ruspe.

Naturalmente il movimento anarchico internazionale si andava interessando a quello che stava accadendo. Quando la questione è diventata importante, conosciuta a livello internazionale, sono venuti non solo i gruppi di affinità, ma anche quelli di sintesi. I compagni dei gruppi di sintesi, delle federazioni anarchiche, sono venuti all’interno dei nuclei e non all’interno dei gruppi di affinità. Pensate che sono venuti trecento punk da tutto il mondo, ma non c’è stata alcuna discussione, quello non era il luogo dove mettersi a discutere, lì se uno vuole agire agisce oppure se ne torna a casa. Non so se vi ricordate, negli anni Settanta era famoso il gruppo inglese Crass, sono venuti anche loro, ma senza strumenti musicali, perché non erano stupidi.

Per due anni e mezzo siamo stati presenti in un territorio grande come Atene, dove ci sono cinquanta piccoli paesi. La nostra tesi aveva dei punti precisi. Fin dall’inizio alla gente del posto abbiamo detto: se vengono gli americani aumenta il prezzo delle case, arriva la droga, arriva la prostituzione, si sviluppa la mafia. Abbiamo fatto, in due anni e mezzo, cinquecentomila manifesti, almeno cento comizi, molte conferenze nelle scuole, dibattiti pubblici, ecc.

L’elenco di cui sopra è stato ripreso dal vescovo di Ragusa, che naturalmente non ha detto che era degli anarchici, e di queste cose ne parlavano tutti. Dico questo per fare capire il livello di penetrazione che hai quando stai così tanto tempo su un territorio. L’esempio del vescovo serve per fare capire la penetrazione della nostra propaganda. Non c’era una persona che non sapesse delle nostre tesi contro la base.

Cosa succede il giorno prima dell’occupazione. Io vengo preso dalla polizia e portato a Ragusa perché il prefetto, comandante della provincia, mi voleva parlare. Il prefetto mi chiede che volevamo fare. Gli ho risposto che volevamo entrare dentro la base e distruggerla. Lui mi risponde dicendo che la polizia non poteva permettere che ciò accadesse. Io aggiungo: “mi scusi, ma questa volta siamo dalla stessa parte, infatti anche voi siete contro la mafia, contro la prostituzione, contro la droga, ecc.”. “Sì, risponde il prefetto, ma non ve lo possiamo permettere”. Inoltre dice: “se venite con la gente potete distruggere tutto, se siete soli non è possibile, se venite con la gente non vi possiamo fermare”.

La sera prima dell’attacco alla base facciamo il primo errore gravissimo, errore di valutazione. Quando c’è una situazione insurrezionale con migliaia o milioni di persone, come si fa a capire se fra questi non ci sono cinquanta provocatori della polizia? Non l’hanno scritto in faccia. Io avevo suggerito che le varie provenienze, le diverse città presenti nominassero un delegato. Ad esempio, tu sei delegato di Londra. Lui dice di essere di Londra, ma nessuno lo conosce. Tu ci devi dire se lui è un compagno conosciuto di Londra. Se no lui non lo facciamo partecipare al primo attacco. Resterà dietro, perché se è un provocatore farà meno danni. Quindi si dovevano formare, la notte precedente, dei gruppi controllati, dove ognuno garantiva per gli altri.

L’assemblea ha rifiutato questa proposta, dicendo siamo anarchici e questi metodi polizieschi non possiamo impiegarli. [Intervento: Una cosa simile è successa in tutte le assemblee qua in Grecia]. Questo fatto ha causato dei danni. Per esempio, si tratta anche di un problema di tecnica militare, di attacco. La base si trova a cinque chilometri da Comiso e da Vittoria. Due paesi di estrazione comunista. Due paesi grossi, circa ottantamila abitanti ciascuno. Però Comiso ha una tradizione più stupida, a Vittoria sono più duri e combattivi. Avevamo pensato che se Comiso fosse rimasto fermo, forse sarebbe intervenuta Vittoria. Abbiamo pensato che appena iniziati gli scontri, i primi compagni feriti fossero trasportati con le nostre macchine della croce rossa a Vittoria, non a Comiso, e messi nella piazza del paese, per terra, per commuovere la gente. Eravamo quasi sicuri, conoscendo Vittoria, che davanti ad una scena simile la gente si sarebbe mossa. Durante gli scontri, forse a causa di un provocatore, le nostre macchine della croce rossa sono state fermate, i feriti arrestati e portati a Ragusa, solo un piccolo numero è arrivato a Vittoria.

Siamo entrati dentro la base da un muro sfondato e dall’ingresso principale, abbiamo sfasciato un po’ di cose, però siamo stati caricati. Un altro errore grande è stato quello di non coordinarsi sulle cose da fare, non dividersi il lavoro. Questo secondo errore è una conseguenza del primo errore, infatti se noi abbiamo un’assemblea che non è garantita, dove non si sa chi c’è, non possiamo dividerci il lavoro da fare. Le spie erano poliziotti, non fascisti che non si sono mai fatti vedere.

Ad esempio, c’erano due camionisti con le ruspe, uno si è rifiutato di intervenire dicendo che non avrebbe messo a rischio la sua ruspa. I compagni che avevano l’esplosivo hanno detto di sapere dove era seppellito, ma che non l’avrebbero certo ripetuto in assemblea, lo stesso per quelli che avevano le bottiglie molotov preparate e altro ancora. Mentre, ad esempio, altri compagni tibetani, che avevano fatto un drago di cartone, erano disponibili a dire a tutti che sarebbero entrati col drago.

Questo è un esempio di organizzazione insurrezionale, che ancora oggi può essere considerato probabilmente l’esempio più grosso, almeno negli ultimi quarant’anni. Come organizzazione anarchica naturalmente, non come fatto in sé.

Chiariamo infatti una cosa, i fatti di dicembre o altri fatti come Los Angeles, Brixton, le periferie francesi sono un’altra cosa. Vengono chiamate erroneamente insurrezioni, si tratta infatti di esempi di insurrezioni spontanee. Attenzione alle parole. Pensare che nel corso di un’insurrezione spontanea come quella di dicembre si possa applicare, da un giorno all’altro, un modello insurrezionale organizzativo anarchico è sbagliato.

Bisogna capovolgere il ragionamento: organizzarsi prima perché al verificarsi dell’evento insurrezionale spontaneo lo si possa trasformare in un’insurrezione organizzata.

Il fatto insurrezionale organizzato non si può applicare se non si è lavorato prima in questo senso. Se intervieni senza questo lavoro preventivo, la gente non ti conosce, non sa chi sei, ti mette ai margini e ti va bene se non ti picchiano perché potresti essere scambiato per un provocatore.

A Brixton, non so se vi ricordate, nel 1981 in un quartiere di Londra, c’è stata un’insurrezione di neri, io e la mia compagna di allora, Jean, abitavamo in un palazzo occupato e l’insurrezione era scoppiata proprio sotto casa. Io non c’ero perché mi trovavo in Italia, ma lei, una scozzese con i capelli biondi, è scesa subito in strada e per un pelo non l’hanno ammazzata, lei è bionda e gli altri erano tutti neri, potevano scambiarla per una poliziotta. Guarda che nel corso degli scontri tirare le pietre contro la polizia non è una garanzia. Lei è scesa, e se ci fossi stato anche io sarei sceso, non lo so, ha partecipato ed è stata fortunata, però era necessario essere prima all’interno del problema dei neri a Brixton e poi partecipare.

Insomma, per concludere, io ritengo che gli anarchici che pensano di essere per l’organizzazione informale debbono lavorare in vista della prossima insurrezione. E pensare che l’insurrezione potrebbe essere dietro l’angolo, potrebbe scoppiare anche l’indomani, senza perdere tempo quindi.

 

Ad esempio: Comiso. A Comiso siamo andati nel momento in cui è cominciato il progetto americano di fare la base per i missili Cruise in Sicilia, appunto a Comiso. Si tratta di una zona della Sicilia che ha una tradizione di lotte come ad esempio quella dei fasci del lavoratori. [Intervento: Siete partiti da zero? È questo che stai dicendo?]. Noi siamo partiti da un contesto in cui i compagni di Ragusa avevano l’idea di fare un comitato con gli altri gruppi e partiti, socialisti e comunisti, verdi, pacifisti, Tibetani (io non ero d’accordo). Io feci un intervento all’inizio del 1981 in un grande cinema locale, il cinema Diana, dicendo: “no, noi siamo anarchici e non abbiamo nulla da spartire con pacifisti e socialisti, se loro vogliono lottare che lo facciano per loro conto”. A parte la Democrazia Cristiana e i conservatori del Partito socialista, erano tutti contro la base, a parole naturalmente.

Torniamo adesso al treno ad alta velocità, alle lotte che sono ancora in corso. Nella zona delle lotte è stato fatto, a mio avviso personale, un capovolgimento della metodologia. Sono partiti dal comitato. In questo momento c’è un comitato, dove ci stanno anche i sindaci che non sono d’accordo col progetto, la gente, gli anarchici, i comunisti, ecc. Gli anarchici, per quel che posso immaginare, compiono gli attacchi distruttivi, ma stanno dentro il comitato. Questo secondo me non è un processo insurrezionale anarchico organizzato. Perché si è sempre dietro al sindaco, al partito, oggi si è utili e domani si è mandati via. Mentre devi essere tu, in quanto anarchico a fare il primo passo dichiarando di essere anarchico, senza imbrogli, senza nascondersi, dicendo quali sono i nostri metodi, se non vi piacciono, arrivederci.

 

Bisogna insistere, non minimizzare, insistere a lungo. Non puoi pensare che la prima volta che dici il tuo programma distruttivo, la gente ti abbracci. Ma poi, se tu la contatti la gente, ci parli, col tempo la gente impara a conoscerti, ma ci vuole tempo. Poi dipende anche da come ti comporti.

Ad esempio, a Comiso la mafia è praticamente inesistente, è una zona siciliana ma non è come Palermo o Catania. Abbiamo comunque avvertito i compagni di stare attenti al comportamento nei confronti delle ragazze del posto, specialmente ai punk. Perché qua siamo in Sicilia. Praticamente deve essere successo qualcosa. Qualcuno non ha fatto attenzione.

Ora, noi avevamo oltre alla sede del Coordinamento, una casa, abbastanza grande, dove dormivamo tutti i compagni. Una notte in questa casa sono arrivati due con una pistola e uno con una frusta. Uno ha sparato e mi ha preso il pantalone. Non che fosse una esecuzione vera e propria, in un certo senso veniva da ridere perché era un semplice avvertimento. La mafia agisce ben diversamente. Erano stati mandati da uno a cui avevano offeso la ragazza. Però, siccome si sono presentati come due mafiosi la questione è diventata un caso internazionale. Tutti i giornali hanno parlato a lungo di un attacco mafioso. In realtà non si è trattato di agguato mafioso contro gli anarchici, ma di una questione di strada.

Con la gente bisogna chiaramente sapersi comportare, non perché si è anarchici si può imporre agli altri il proprio modo di concepire il mondo. Lo stesso accade in galera dove ti rispettano se ti sai comportare.

[Intervento: Dovunque devi sapere come comportarti, devi avere limiti con te stesso]. Sì, ma tanti ragazzi non fanno questo ragionamento.

Quindi, per tornare al discorso nostro, che facevamo ieri sera, non solo bisogna sapersi comportare ma anche darsi un modello coerente di comportamento.

[Intervento: Dopo questa lotta di due anni e mezzo, dopo questi esperimenti di natura organizzativa, che cosa è rimasto sia alla società che agli anarchici?]. Agli anarchici non è rimasto niente, ed è giusto che sia così. Il risultato è che non hanno costruito la base americana. Adesso vogliono fare un aeroporto civile, cioè vogliono ripristinare il vecchio aeroporto che c’era prima.

Più di questo non so dire perché non sono della zona, mi sono trasferito là due anni e mezzo, ma non sono della zona, quindi non so cosa possa essere rimasto di quell’esperienza nella popolazione del posto.

Allora provammo ad entrare dentro la base, siamo entrati, ma poi ci hanno cacciato fuori. Ci sono stati arresti, io sono scappato in modo rocambolesco. Sono scappato nella notte aggrappato a un camper della televisione francese che la polizia aveva semidistrutto.

[Intervento: Allora è stata la repressione che ha spezzato questo movimento?]. No, la causa maggiore è stata che la gente non è venuta con noi fino in fondo, perché è venuta poca gente, se fossero venuti tutti avremmo distrutto completamente la base. Io nell’ultimo comizio ho detto chiaramente: o scendete dal marciapiede e venite con noi nella strada o non riusciremo a distruggere la base. Non sono scesi. Noi eravamo circa un migliaio, tanto è vero che per accamparci ci hanno dovuto dare la villa comunale del paese. La gente presente sarà stata un centinaio. Se fossero venuti tutti saremmo stati qualche migliaio. La carica della polizia, dei carabinieri, della finanza è avvenuta in campagna (a circa tre chilometri dal centro abitato), per cui, contrariamente alla città, una carica in campagna è difficile da contrastare. Ecco perché ci sono stati tanti feriti, difatti non puoi difenderti facilmente in campagna.

 

Non c’è una cosa senza obiettivi specifici, anche nei fatti di dicembre ci sono gli obiettivi specifici. Se ho capito bene, perché io non c’ero, a dicembre sono stati attaccati degli obiettivi simbolici: la polizia, il Parlamento. Si tratta di simboli. Se invece c’è un’organizzazione insurrezionale, che lavora prima del fatto insurrezionale, che esiste prima, può realizzare altri obiettivi, concreti non simbolici, e spingere l’insurrezione generalizzata e spontanea verso obiettivi concreti, come ad esempio la distruzione del lavoro.

 

[Intervento: Quali obiettivi?] Il lavoro, le fabbriche, le catene di distribuzione, il sabotaggio della teleinformazione, il sabotaggio della rete elettrica. Questi sono obiettivi concreti. Il lavoro da fare dal punto di vista organizzativo è prima e non durante. Sensibilizzare i compagni, mettere a disposizione le informazioni.

 

[Intervento: Individui oppure organizzazioni?] Ogni individuo è sempre una organizzazione. Ogni crescita quantitativa è una falsa crescita, è una crescita di natura politica che non ci interessa.

 

[Intervento: Avanguardia o meno?] Essere un’avanguardia. Questo è un discorso che sento da tanti anni. Ma non esiste questo pericolo. Se hai le tue idee, il tuo progetto, ne parli con le persone nel momento in cui cerchi di realizzarlo, non è che diventi l’avanguardia delle persone. Saresti l’avanguardia solo nel caso in cui tu non parlassi con la gente, ma faresti quella cosa dicendo “si fa così, come dico io”. Questa è avanguardia. Invece se tu dici: “io la penso così” e ne parli con la gente, per tanto tempo, e nel parlarne inizi a capire quali sono le difficoltà che hanno gli altri, quali sono le distanze da te. E poi agisci, con gli altri o da solo, a quel punto l’avanguardia non esiste più.

Il progetto insurrezionale è questo. Noi non abbiamo la bacchetta magica per realizzare l’insurrezione. A una persona che ha un problema, tu gli dici io sono anarchico e penso che dovresti applicare questo metodo. Lo ripeti per anni. Ma non è detto che funzioni. Prendiamo ad esempio il caso di una persona che ha il terreno dove passerà la ferrovia, gli sfasceranno la casa, se lo Stato invece di dargli centomila euro, gliene offre centoventimila, proprio a seguito della lotta che ha fatto, e quindi anche della tua lotta, quella persona con facilità ti dirà ciao. La gente non è rivoluzionaria, ragiona così. E poi perché dovrebbe ragionare diversamente? Per le nostre parole? Però, per una persona che magari si vende per i suoi interessi, ce ne può essere un’altra che non è disponibile a vendersi, che può apprezzare e fare suo il metodo anarchico, che è quello della distruzione e dell’attacco. Il lavoro degli anarchici non è quello di conquistare qualcosa, né quello di crescere di numero. Non è questo il nostro scopo.

A me, personalmente, le parole “quantità” ed “efficacia” mi mettono in difficoltà. Io non sono per l’efficacia, ma non sono neanche per l’approssimazione, per fare le cose che non si sanno fare, naturalmente. Secondo me, il problema della quantità va posto dopo, non prima. Se lo metti prima e fai un’azione per crescere, è sbagliato. Perché sei portato a scegliere l’azione più facile, che la gente può capire, e non perché è quella migliore o quella più adatta alla situazione. Ad esempio, oggi l’azione meno comprensibile è la distruzione del lavoro, la gente non la capisce proprio, la gente non è ancora matura per capire questa azione. Quindi se hai lo scopo quantitativo di crescita del gruppo anarchico e scegli una strada contro il lavoro, entri in contraddizione. Ma se tu metti dopo la crescita quantitativa, fai la tua azione, poi troverai sempre qualcuno che la capisce. Saranno pochi, ma meglio pochi che capiscono che tanti che non capiscono. Come diceva Stirner: “Io troverò i compagni che si uniranno a me sotto alle mie bandiere senza prestare giuramento”.

Questo è sicuro, non si può guardare alle grandi masse. Guarda i guai che ha fatto l’anarchismo spagnolo con le grande masse, guarda che fine hanno fatto i due milioni e mezzo di iscritti alla CNT. Hanno mandato deputati al governo. Noi abbiamo l’esempio luminoso della Spagna del 1936. Una volta che sei nel sindacato, la gente ti chiede, hai due milioni di iscritti, tu che fai? Non vai al governo, e allora perché ti abbiamo dato il voto? Sei anarchico puoi fare cose buone al governo. Ma se vai al governo vai anche a fare la guerra, per come si fa la guerra, con gli eserciti e i mille meccanismi di potere.

Io ho vissuto l’esperienza dei compagni spagnoli in esilio a Parigi all’inizio degli anni Settanta. La CNT in esilio aveva la sede in rue Saint-Denis, il simbolo nella sala, enorme nel muro, era un operaio muscoloso che apriva la bocca del leone. Questo dice tutto.

Essendo anarchici erano pieni di contraddizioni. Ho parlato con Cipriano Mera che era generale di corpo d’armata dell’esercito repubblicano del Tebro, non era un militare di carriera, era un muratore, un anarchico. Non un militare di carriera, ma un muratore eletto generale dai soldati. In pubblico disse: se io do l’ordine ad un colonnello mi deve dire: “Signorsì”. Ed è giusto. Ha detto bene, perché la guerra non si può fare se uno ti dice: compagno vediamo, non lo so. Lui lo ha negato, mi ha negato di avere dette queste affermazioni, da anarchico non poteva ammettere di aver detto queste cose. Secondo me l’errore non è stato nel fare quel discorso, infatti se generali e colonnelli si mettono a discutere, la guerra non si può più fare. L’errore sta invece da un’altra parte. Sta nel mito della quantità.

 

[Intervento: Come affrontare il problema dell’affinità?] Il problema dell’affinità si pone nell’organizzazione informale. Se si è affini si è d’accordo sulle questioni generali, mentre su quelle di dettaglio i compagni sono abbastanza intelligenti da riuscire a mettersi d’accordo.

Nell’organizzazione di sintesi si pone in modo diverso. Nelle organizzazioni di sintesi le decisioni si prendono a maggioranza, se non sei d’accordo te ne vai.

Parlare significa spiegare perché sia utile fare questo o quell’altro. Lo spieghi e lo fai oppure lo spieghi e non lo fai. Se fai un’azione la devi anche spiegare, nel tempo, e puoi anche, alla fine, decidere di non fare quello che avevi pensato di fare.

Facciamo un esempio: la distruzione del lavoro. Oggi è incomprensibile alla gente questo concetto, comincia ad essere appena comprensibile agli anarchici. Se avvicini un gruppo di persone che è appena stato licenziato, lo avvicini con un volantino o per conoscenza personale, e inizi a parlargli di distruzione del lavoro, all’inizio magari la gente si incazza. Ma devi anche avere l’idea che è una cosa lunga e difficile da spiegare.

Nel momento in cui questa spiegazione va avanti e tu realizzi dei fatti, più o meno parziali, la teoria diventa pratica. Noi pensiamo che quello che sto dicendo qua sono solo chiacchiere, ma non è così, io sto anche realizzando fatti. E se io sto facendo una cosa è anche questa una teoria.

Certo la teoria che può fare un professore universitario nella sede università è solo teoria. La parola può essere solo chiacchiera, ma può anche non esserlo. Ma la teoria può anche non rimanere teoria, può anche non essere solo teoria. Un’aggressione fascista è soltanto un fatto, ma l’azione che fanno i compagni attaccando un simbolo del potere è fatto, ma anche teoria.

Il fare apparentemente sembra tutto uguale, ma non è vero. Ad esempio, il fascista bastona il nero, perché lo fa? È razzista, ma il razzismo che cos’è? È niente. Se invece il compagno attacca uno strumento di repressione, questo è un fatto, è diverso dal primo, perché lo strumento di repressione è un fatto concreto, perché ti colpisce, ti danneggia.

L’aggressione di un fascista nei confronti di un nero, anche se giustificata dalla scusa che il nero gli ruba il lavoro, rimane una teoria che si basa su nulla e non è un fatto. Si tratta di una teoria del fascista e di una giustificazione per la crescita quantitativa

L’attacco che realizza l’anarchico lo realizza dopo aver individuato gli obiettivi concreti e aver precisato i termini della responsabilità del potere, non lo fa in nome di una ideologia anarchica.

 

Il razzismo non è una teoria, è un insieme di stupidaggini che gli estremisti di destra si sono messi in testa, tutto qui, alimentati da interessi specifici, cioè per tutelare interessi specifici più o meno plausibili, concreti o falsi che siano.

 

Ma questa non è che una chiacchiera che i fascisti mettono avanti per ottenere un consenso fra la gente, specialmente fra i disoccupati, i senza lavoro. In altre parole è la giustificazione quantitativa dell’istinto razzista di cui dicevamo prima. Stiamo facendo una differenza tra teoria e banalissimo fare. Il fascista colpisce il nero perché è razzista, quindi parte da una teoria che è una non-teoria, una fandonia, una stupidaggine teorica, non una teoria. Poi giustifica questo suo fare con l’alibi quantitativo del lavoro che viene rubato dal nero. Sono due cose diverse. Se non chiariamo questo facciamo confusione.

 

L’anarchico non può fare questa differenza se non in linea astratta. Nella pratica, l’anarchico attacca solo dopo avere individuato la fonte della repressione, dopo avere precisato i termini della responsabilità del potere, non in nome di una ideologia astratta perché è anarchico, perché è contro lo Stato. Io anarchico attacco il poliziotto perché è uno strumento dello Stato, di questa struttura statale che mi causa questi danni, non solo a me ma anche a tutti gli sfruttati. Non perché io sono anarchico, la quale motivazione sarebbe puramente ideologica come tante altre. È nella concretezza dell’azione che si realizza la non differenza tra teoria e pratica.

 

Una teoria è degna di essere chiamata tale quando non si differenzia dalla pratica, altrimenti è una chiacchiera.

Io non penso che una teoria si faccia, ma una teoria è un po’ una parte di te stesso. Se sei veramente convinto di quello che stai pensando, teorizzando. Un sacco di gente dice delle cose per mestiere, ma delle quali non è convinta affatto. Pensate ai preti o ai professori universitari.

La parola greca episteme “teoria”, “scienza”, significava “stare sopra”. Se sviluppo una teoria è perché voglio stare sopra il fatto. Questa è la teoria. Però c’è un altro modo di vedere la teoria, quella teoria che è nel fatto. Una teoria può essere nuova, una nuova teoria, e accarezzare il fatto, stargli sopra, non scendere nel fatto. Ed è una novità. Pensiamo ad esempio alle nuove teorie, quelle della globalizzazione, della crisi del Capitale, queste non entrano nel fatto, lo accarezzano. Il fatto in questo caso resta sotto, assolutamente chiuso in se stesso. Questo tipo di teoria non spiega il fatto. Una teoria in questo caso può essere piacevole, ma non spiega il fatto.

Gli epistemologi che si interessano di questi argomenti dicono che per entrare nel fatto bisogna cominciare dall’inizio, devi andare all’inizio, la novità sta sopra, l’inizio sta sotto. Se tu ti interessi della novità scrivi un giornale, i giornalisti sono bravi con le novità. Se invece devi agire, devi entrare dentro il fatto, solo in questo caso la teoria è legata al fatto. È questa teoria che non si differenzia dal fatto.

 

[Intervento: Che cosa intendi per andare all’inizio del fatto?]. Devi andare alle cause che hanno prodotto il fatto. Devi essere capace di capirlo. Non è facile, tutti infatti siamo capaci di parlare della superficie.

Io ti dico una cosa semplice. Se uno si permette di aprire la bocca e parlare di una teoria, dire delle parole, se è una persona seria quello di cui parla lo deve avere fatto, altrimenti è un’arroganza. Se spiego la teoria di come si fabbrica una bomba molotov, ecco, io sono uno stronzo se non ho mai fatto una bomba molotov. Anche se so tutto su una bomba molotov, ma non l’ho mai costruita, e nemmeno lanciata e addirittura mi spavento se ne vedo una o solo avendola in mano, sono uno stronzo.

 

Sulla questione dell’empirismo. L’empirismo ha una cattivissima fama, però bisogna ammettere che ci sono almeno dieci tipi diversi di empirismo. Quindi non c’è un empirismo, ma tanti. Bisogna capire di cosa si parla. Uno dei critici più feroci dell’empirismo è il leninismo. Il libro di Lenin su Avenarius e Mach critica l’empiriocriticismo. Il leninismo ha avuto tutta questa preoccupazione di criticare l’empirismo, perché il marxismo è figlio dell’idealismo.

Cioè, il marxismo cosa pensava?, secondo Marx e secondo Lenin, che la rivoluzione non è un risultato soltanto del nostro impegno, ma anche del lavoro di quell’animale sotterraneo, della talpa che scava. Quindi è un processo determinista, determinismo dialettico. Gli anarchici stronzate sopra questo argomento ne hanno dette una barca. E la stronzata più grossa su questo argomento è: “l’anarchia sicuramente verrà. Perché il mondo va verso l’anarchia”.

Quindi se togliamo l’empirismo, che è la teoria del potere con i piedi per terra, se togliamo l’idealismo dialettico che è la filosofia dei marxisti, resta una concezione relazionista della realtà. Secondo questa concezione tutti gli elementi che si trovano nella realtà si trovano in relazione fra di loro, tutti nello stesso tempo. La barbarie del passato, più tremenda, è qua, in mezzo a noi, come sono in mezzo a noi anche le grandi scoperte, le grandi bellezze della libertà.

Questa concezione filosofica non ha nulla a che vedere con l’empirismo o con il determinismo. Non parla del superamento di qualcosa. Non parla di superamento nel senso tedesco di Aufhebung, come dicevano Marx o Hegel. Ma di oltrepassamento, Überwindung.

Noi anarchici nell’affrontare una lotta oltrepassiamo il problema, non lo facciamo scomparire. Quando affrontiamo una contraddizione non la risolviamo in qualcosa di superiore, come diceva Marx, quando affrontiamo una lotta, noi anarchici, non possiamo immaginare di risolvere il problema. Pensiamo ad esempio all’attuale “crisi finanziaria del Capitale”, tra virgolette. La tesi dialettica marxista potrebbe dire: “ecco arrivata la contraddizione che porterà allo scontro finale con il Capitale”. A questo punto, per i marxisti, la lotta rivoluzionaria deve superare questa contraddizione e farla scomparire. Gli anarchici invece dicono: non ci sono contraddizioni che si possono superare, ma si possono oltrepassare. Questo è un concetto di Stirner, la critica di Stirner a Hegel. Oltrepassamento è il movimento che fa il malato nel letto per trovare una posizione migliore, ma sempre malato resta. Oltrepassa una condizione di dolore, ma rimane malato. Questa immagine spiega come le contraddizioni del Capitale si possono oltrepassare, ma non superare, perché sono sempre là, si presentano in forme diverse. Il compito del rivoluzionario anarchico è capire le relazioni che esistono fra queste forme diverse man mano che si presentano.

Nel momento in cui capisce questa relazione e sviluppa una teoria relativa a questa relazione, la sua teoria è già azione. Siamo lontani dall’empirismo, dall’idealismo.

 

Evitare le trappole è avere una teoria di come evitare le trappole. Si può essere fortunati ed evitare le trappole senza una teoria, ma la fortuna dura poco.

Non amo molto parlare di filosofia. I libri di filosofia sono venduti in tutto il mondo, inclusi i miei. Quanto siano capiti non lo so.

Tu affronti la situazione contraddittoria. Individui quali sono i termini della contraddizione. Secondo il modello classico di contraddizione ci sono la tesi e l’antitesi, che si scontrano. Hegel diceva che la tesi e l’antitesi si superano nella sintesi, tesi e antitesi scompaiono nella sintesi.

Ad esempio l’uomo per quasi tutta la storia ha considerato la donna suo patrimonio, nei rapporti storicamente accertati, fra i popoli barbari ma anche fra i popoli civili, la donna era considerata come possesso, qualcosa di commerciabile. Questa è una contraddizione, c’è una tesi e un’antitesi, se seguissimo secondo la teoria hegeliana e anche marxista il superamento di questa contraddizione storica, una volta riconosciute tesi e antitesi, avrebbe dovuto portare ad una sintesi capace di farci vedere l’uguaglianza dell’uomo e della donna, e la scomparsa della tesi e dell’antitesi precedenti.

Non è stato così e non è così, basta vedere gli stupri di massa in Bosnia a scopo di pulizia etnica, la stessa cosa succedeva nel Medioevo, durante le invasioni barbariche. Questo ci fa capire che le contraddizioni si possono oltrepassare e non superare. L’uomo può oltrepassare la contraddizione secondo la quale la donna è inferiore, convincersi della necessità di oltrepassare questa contraddizione, trattando la donna alla pari e convincendosi di questa parità. Ma quella stessa contraddizione per cui l’uomo considerava la donna suo possesso è dentro di noi, ancora oggi, anche qui dentro. Questo è il punto tragico. Anche dentro di noi c’è questa concezione radicata. Se scaviamo dentro di noi troviamo questa contraddizione, la controlliamo, ma è dentro di noi. L’abbiamo oltrepassata, o almeno ci proviamo, non l’abbiamo superata.

Questo è l’oltrepassamento. Nell’oltrepassamento si afferma, secondo la tesi di Stirner, che la tesi e l’antitesi vecchie sono sempre presenti nella sintesi, ma non nella forma modificata, migliorata. Di certo la donna ha fatto delle conquiste, a livello ufficiale certamente l’uomo non tratta la donna con la clava, ma a livello psicologico continua ad esistere la vecchia contraddizione, sopravvive, e si manifesta continuamente nella storia, basta pensare agli stupri di massa e non solo.

Non è lungo il mio discorso, ho quasi finito, quello che si trova nel libro che stiamo presentando stasera, in questa occasione di discussione, è un’analisi abbastanza approfondita, abbastanza dettagliata. Però io non voglio parlare di quello che è scritto nel libro, chi vuole lo può leggere. Ma è partendo dal libro che voglio arrivare alla conclusione che nel libro è solo accennata, della necessità della distruzione.

Il futuro ci appartiene soltanto se saremo capaci di distruggere il presente. Se no anche per noi il futuro sarà un futuro di morte.

Vi ringrazio.

 


[Conferenze tenute il 5 e il 6 marzo 2009 presso l’Università occupata Parartima di Patrasso. Trascrizione della registrazione su nastro]

Distruzione del lavoro

Sono felice di essere qua in Grecia a vivere con voialtri questa esperienza, perché tutte le volte che vengo in Grecia i compagni anarchici greci riescono a entusiasmare il mio cuore. Dovremo stasera presentare il libro mio [Dominio e rivolta, Catania 2000] che è stato tradotto da Christos e pubblicato dai compagni. Niente paura, lo sfioreremo soltanto. E con l’occasione avrete, in un certo senso, l’obbligo di leggerlo.

Io preferirei invece parlare, innanzi tutto, del nemico. Noi siamo tutti anarchici, spero, qui dentro. Tutti siamo ben certi di sapere dove è il nemico. Quali forme prende. Bene, stasera, forse, riusciremo a far vedere che una riflessione sul nemico è ancora oggi importante.

La capacità di camuffarsi e di trasformarsi dello Stato e del Capitale è sostanzialmente sempre nuova. E siccome noi non siamo dei tori infuriati, dobbiamo attaccare col cuore ma anche con un poco di cervello. Cervello vuol dire: documentazione, conoscenza, approfondimento.

Aspettate. C’è una fame di approfondimento. Di documentazione, di conoscenza, però non possiamo continuare a documentarci, ad approfondire e a conoscere, senza poi passare all’azione. Perché nella stessa conoscenza c’è il rischio di restare fermi, impantanati, e quindi la stessa conoscenza, anziché essere strumento di lotta, potrebbe, attenzione, essere, dal potere, utilizzata per fermarci.

Vedete in che aula stiamo parlando. [Università Pantio di Atene]. È in posti come questi, in posti di merda come questi, che vengono elaborate le teorie che ci possono frenare domani. Quindi, necessità della conoscenza per meglio agire, pericolo della conoscenza come possibile freno che ci impedisce di agire.

Dopo tutto, la scienza se non è indirizzata all’azione è soltanto una parte del dominio. Sta sopra di noi, ci governa, ci opprime, ci fa vedere delle illusioni, può farci vedere un nemico dove non c’è e può non farci vedere il nemico dove invece si trova.

È logico che ci sono determinati strumenti nelle mani del potere che producono delle immagini false, ad esempio la struttura politica, ad esempio l’intera forma organizzata delle telecomunicazioni, ci prospettano davanti agli occhi obiettivi che quasi sempre sono falsi, e questi obiettivi hanno tutti la veste colorata della novità.

Attenzione, quando parliamo di novità restiamo alla superficie delle cose, alla superficie della realtà, per penetrare dentro la realtà occorre cogliere l’origine di certi processi. E l’origine dei processi si comprende soltanto approfondendo le cause che producono i processi.

Ad esempio, il potere ha le sue responsabilità, ma che cos’è il potere? Uomini, strutture, soldi, oppure è anche buona volontà, disponibilità al dialogo, collaborazione, ammorbidimento? E a questo processo di collaborazione, di partecipazione, di dialogo, siamo chiamati tutti. Rifiutare questa chiamata non è facile. Pensate ai fenomeni di volontariato, ai tagli delle lotte che sono state fatte negli ultimi trent’anni, alle limitazioni, quanti compagni si sono perduti per strada, illusi che c’era la possibilità di trovare una via alternativa per combattere il potere, per combattere lo Stato.

Nello stesso tempo, il potere ha lavorato parecchio, si è trasformato, ha modificato le proprie strutture produttive, ha spezzato l’unità di classe, ha rotto il fronte del lavoro, ha sostanzialmente svuotato dall’interno i fattori produttivi, li ha sezionati, la fabbrica l’ha distrutta, l’ha diffusa nel territorio. Non solo a livello locale, ma a livello mondiale, ha colpito nel cuore la coscienza di classe degli sfruttati.

Risolvendo i suoi problemi, i problemi del Capitale, che a partire dagli anni Ottanta erano sostanzialmente legati alla rigidità del costo del lavoro, spezzando questa rigidità con la flessibilità, con la partecipazione, con la democratizzazione delle lotte del lavoro, con lo snaturamento dei partiti di sinistra, trasformando sostanzialmente in merda quella grande tradizione di lotte che negli ultimi centocinquanta anni ha caratterizzato la nostra storia.

Adesso cosa ci resta come prospettiva? L’attacco. Senza perdere tempo. Senza fermarsi. Ma non l’attacco ai simboli, non l’attacco ai simboli politici, non l’attacco ai simboli del denaro, non l’attacco ai simboli della repressione, non possiamo fermarci a questo, anche se questo fa parte dell’inizio del processo di attacco.

Dobbiamo fare il passo successivo. Consentitemi compagni di dire parole pesanti. Questo è il nostro compito storico. Degli anarchici oggi. Passare all’attacco del lavoro.

Ora, in molti, quando dico questa frase, specie fra i compagni che hanno vissuto come me l’esperienza del passato, vedo disegnarsi nella faccia qualche smorfia di dubbio, quanto meno. Molti pensano: ma questo lo sta dicendo sul serio oppure sta scherzando? La distruzione del lavoro è assolutamente improrogabile. Ed è questa sera che cercheremo di chiarire il perché.

Proprio in un momento in cui ci si trova davanti a delle difficoltà, non parliamo di “crisi”, di natura finanziaria, le quali difficoltà avranno nei prossimi mesi una ricaduta sempre più grave sul mondo concreto della produzione, noi possiamo, in questo momento storico, sul tema e sull’obiettivo della distruzione del lavoro, avere al fianco nostro le masse dei lavoratori che sono espulse dalla produzione.

Smettiamola di pensare che il nostro compito rivoluzionario è quello di cercare il lavoro alla gente. Smettiamola di accettare che i poveri disgraziati vengano a piangere sulle nostre spalle. L’unica risposta che dovremmo dare in questo caso, è questa: mettiti il coltello fra i denti, come facciamo noi anarchici. Non piangere sul lavoro perduto, perché la perdita del lavoro è la forma di ristrutturazione del Capitale, è la forma in cui il Capitale si ricompatta per realizzare il dominio di domani.

Perché questo è stato possibile? Perché tutto questo è stato possibile da parte del Capitale? Perché i prossimi mesi e forse i prossimi anni vedranno questo processo sempre più grosso: aumento della flessibilità, distruzione della coscienza di classe? Perché? Perché hanno separato, hanno allontanato, il rapporto che c’era tra Capitale e lavoro, li hanno tagliati, li hanno separati. Ecco perché abbiamo parlato di inclusi ed esclusi. Se riflettete un poco, hanno costruito un muro e l’hanno costruito per impedire che gli esclusi comprendano, capiscano la possibilità di attaccare, e questo muro è un muro fondato sulla perdita della capacità di cultura, di capire.

Pensate alla perdita di contenuti della scuola, pensate alla funzione di recupero che esercita la televisione e le telecomunicazioni in generale. Pensate a che cosa costruiscono nella mente della gente attraverso l’uso del computer. A livello mondiale, non a livello individuale. Schematismi, povertà intellettuale, incapacità di gestire se stessi, incapacità di dare vita a una coscienza di classe. Di classe degli sfruttati, incapacità di desiderare qualcosa di diverso dai simboli, qualcosa di diverso dalle illusioni.

È su questo che il Capitale si ricompatterà. Ecco perché all’inizio ho parlato della necessità di individuare bene il nemico. La funzione repressiva, nel senso classico del termine, nei confronti della funzione partecipativa, dal punto di vista del dominio complessivo, è 1 a 10, cioè 1 di repressione, 10 di partecipazione. Se noi pensiamo che il potere è fatto soltanto dal poliziotto, corriamo il rischio di partecipare senza accorgercene. Dobbiamo educare la nostra mente a penetrare nei meccanismi del potere. Nei nuovi meccanismi. E per fare questo dobbiamo fare pulizia nella nostra mente.

La prima cosa che dobbiamo togliere dalla nostra mente è che in futuro, anche nella eventualità della rivoluzione, dallo Stato e dal Capitale non potremo ereditare nulla. Vi ricordate compagni le vecchie analisi, di appena trent’anni fa, vent’anni fa, quando si pensava che l’espropriazione rivoluzionaria avrebbe tolto dalle mani dei capitalisti i mezzi di produzione e li avrebbe consegnati nelle mani dei proletari, che, opportunamente educati all’autogestione, avrebbero creato la società nuova? Questo non è più possibile.

Del mondo che sta fuori di qua, e anche qui dentro visto il luogo in cui ci troviamo, non possiamo farne nulla. Non c’è un uso diverso di quella che si può definire tecnologia telematica. Non è possibile.

Io più di trent’anni fa ho scritto un libro sull’autogestione e sui rapporti con l’anarchismo. Oggi non lo scriverei, oggi è certo possibile una riflessione sull’autogestione ma di tipo diverso. Immaginate una unità produttiva, che (in situazioni rivoluzionarie o meno), mettiamolo tra parentesi, entra in possesso dei lavoratori, e viene autogestita. Ma com’è possibile questo oggi? Non è un problema di mercato, di sbocchi, di acquisti o di vendite. Ma è un problema di costruzione dell’azienda stessa, dell’unità produttiva. Non è possibile applicare la tecnologia telematica a un’azienda autogestita. E senza quella tecnologia nessuna unità produttiva funziona.

Questo esempio, ha molte obiezioni possibili. Molti in genere mi rispondono: ma, se la dimensione è piccola, forse potrebbe durare, ma allora non significherebbe nulla. Sarebbe un simbolo ulteriore della partecipazione. Sarebbe quello (non vedo persone della mia età qua dentro) che accadeva con l’autogestione jugoslava, algerina, alibi, alibi per il potere.

Quindi non possiamo ereditare nulla. Non possiamo aspettarci nulla. Lascio a voi la conclusione. E allora, che dobbiamo fare? Attaccare. Attaccare il lavoro, perché il lavoro è fondamento dello sfruttamento, perché il lavoro mai come oggi è il fondamento del Capitale.

Ora, consentitemi compagni, parlare di distruzione del lavoro sembra facile. In greco poi è bella la parola distruzione. Eppure non c’è cosa più difficile di parlare della distruzione. Perché in tutti noi, nel fondo della nostra coscienza, c’è la paura del futuro. Parliamo chiaramente, rivoluzionari o no, c’è sempre la paura del futuro. Perché la paura del futuro è paura della morte, perché la morte ci verrà ovviamente dal futuro. Essi sono fratello e sorella.

E come rispondiamo nei confronti di questa paura? Rispondiamo con la cautela, con la calma, rispondiamo col mettere ordine nelle nostre cose, nelle nostre carte, nella nostra casa. Io conosco qualcuno che nella propria casa non ha assolutamente alcun ordine, ma questo costituisce un’eccezione.

Però questa paura la dobbiamo potere vincere, ecco perché è difficile parlare di distruzione. Se un bel giorno, sotto casa nostra scoppia l’insurrezione, uno si affaccia alla finestra e dice: guarda, c’è l’insurrezione qua sotto. Non sto scherzando, è accaduto veramente quello che dico. Cosa fa un compagno anarchico, scende e partecipa all’insurrezione. Correndo il rischio ovviamente di farsi bastonare, perché se è sconosciuto, se è esterno a coloro che in quel momento si stanno ribellando, potrà essere visto come un estraneo. E allora, la soluzione qual è?

Quella di pensare e lavorare nella prospettiva della prossima insurrezione. Non certo di aspettare che la spontaneità rivoluzionaria lasci libero sfogo a se stessa. E questo significa parlare in termini di organizzazione, organizzazione informale certamente.

A questo punto, quando parlo di organizzazione, come nel caso precedente, ci sono degli strani movimenti facciali in quelli che mi ascoltano. Molti si chiedono, ma come questo ha parlato di distruggere il mondo e poi mi viene a parlare di organizzazione, che è, prima di tutto, un prodotto dell’ordine, sia pure dell’ordine rivoluzionario. E questa è una contraddizione.

E allora le soluzioni sono due: o uno si siede sulla sponda del fiume e aspetta che passi il cadavere del suo nemico, cioè si sviluppi l’insurrezione e poi lui partecipa, oppure cerca, con i compagni che gli sono affini, con i compagni che conosce, di creare dei gruppi di affinità in grado di intervenire, attivamente, in occasione di un movimento insurrezionale spontaneo.

Guardate che la spontaneità insurrezionale non ha delle leggi, non è conoscibile a priori, oggi succede per un motivo, domani può succedere per un altro motivo. Probabilmente gli anarchici insurrezionalisti sono gli ultimi a cogliere i motivi che potrebbero scatenare l’insurrezione. Molte volte gli anarchici, e l’esperienza di quarant’anni me l’insegna, tutelano di più la propria purezza, la propria garanzia di anarchismo, invece di affacciarsi alla finestra.

Certo sono disponibilissimi, se succede l’insurrezione, a partecipare, non è che stanno a casa, ma quanti sono in grado di comprendere quali meccanismi del nemico potrebbero determinare un processo insurrezionale?

Quindi, per non annoiarvi di più, io penso che una riflessione seria, approfondita, sulle trasformazioni dello Stato e del Capitale, debba necessariamente portare alla conclusione della necessità della distruzione.

La distruzione del lavoro è uno dei punti essenziali del processo insurrezionale futuro. Non dobbiamo avere paura di sembrare marziani. Spesso gli anarchici non si presentano per come sono. Non dicono subito: siamo anarchici, noi vogliamo distruggere il nemico. Ma si presentano più morbidi, per non impaurire chi li sta ad ascoltare. Perché, pensano, che la crescita quantitativa presso la gente, possa rafforzare il movimento anarchico, possa fare diventare gli anarchici, che oggi sono cento, mille, diecimila, centomila, e rendere possibile la rivoluzione.

Compagni, questo ragionamento bisogna vedere quanto costa. Che prezzo dobbiamo pagare? Quanto ci costa risultare credibili, quanto ci costa indossare la maschera del perbenista rivoluzionario?

Come ho detto prima, parlare della distruzione si presta a molti equivoci. Se io mi fossi limitato qui dentro a dire: a me piace la distruzione, sfasciamo tutto, la vostra obiezione sarebbe stata giustissima, ma io ho fatto precedere la conclusione distruttiva, diversa da quella di Bakunin – perché centoquarant’anni non passano inutilmente – da un’analisi della trasformazione della realtà.

Io personalmente, come esperienza individuale, come formazione intellettuale, sarei contrario alla distruzione, esco da aule come queste, non sono una persona aggressiva, non sono un ragazzo di strada, però mi rendo conto della necessità della distruzione, della dolorosa necessità della distruzione.

Lascio ad altri l’aspetto ludico, bellissimo, della distruzione. Non mi appartiene, io sono semplicemente una voce che cerca di approfondire la realtà, una piccola voce, che si è data il compito di dire delle cose spiacevoli, la distruzione è indispensabile, non perché la vuole il mio nichilismo, ma perché questa realtà che ci sta davanti, che il Capitale ha costruito per salvarsi, non ha altra soluzione, non può essere affrontata diversamente, non può essere utilizzata.

I nichilisti facevano un discorso molto diverso. E anche Bakunin, nel libretto La reazione in Germania, che ha scritto quando era ragazzo, dove dice la frase citata riguardo l’aspetto creativo della distruzione, era legato all’ideologia nichilista, era sostanzialmente nichilista, perché la realtà del Capitale del suo tempo, rendeva possibile una strada diversa della distruzione. Avete capito compagni, il discorso adesso è diverso. Questi hanno cambiato le carte in tavola. E noi non abbiamo altro da fare che procedere cercando di distruggere.

Io non credo che la cosa possa fare piacere, perché sarà dolorosa, lunga, difficile da comprendere, perché non ci capiranno, però dobbiamo avere la coscienza che è necessario distruggere il Capitale, è necessario non scendere a patti, non accettare cambiamenti, concessioni, miglioramenti. E a chi possiamo chiedere una coscienza di questo livello, se non la chiediamo agli anarchici a chi possiamo chiederla?

[Intervento: Ma come faccio a dare da mangiare alla mia famiglia?] A questa obiezione, pragmatica, concreta, al rivoluzionario viene spontaneo dare una risposta ideologia, ma non è una risposta, è un ulteriore imbroglio.

A chi mi chiede io non posso non dare da mangiare alla mia famiglia, io devo rispondere: fai bene a lavorare, non ho altra risposta. È facile parlare di distruggere il lavoro, ma la famiglia è la tua, i bambini sono tuoi, hai l’obbligo morale di dare da mangiare ai tuoi bambini.

Quindi, l’obiezione di come facciamo a distruggere il lavoro, viene dopo della decisione individuale e collettiva di distruggere il lavoro. Mi spiego meglio.

La decisione di distruggere il lavoro, decisione rivoluzionaria, viene prima, io devo essere convinto prima della necessità della distruzione, e dopo attaccare il lavoro, non posso farmi convincere da qualcuno ad attaccare il lavoro se non sono convinto io. Se io penso che è necessario dare da mangiare alla mia famiglia, non posso distruggere il lavoro. La differenza è sottile ma è indispensabile.

Perché o io ho in mente – come diceva la compagna – una strada diversa. Parliamoci chiaramente, o io sono disposto a mettermi il coltello tra i denti, o in caso contrario non posso parlare di distruzione del lavoro, se non come una chiacchiera insieme ad altre chiacchiere.

Forse non ci stiamo rendendo conto compagni che noi viviamo in un momento in cui stiamo mettendo il dito nella piaga sociale, la piaga sociale vera e propria oggi si vede, non è la repressione o lo sfruttamento soltanto, ma è essenzialmente e prima di tutto la produzione, una produzione di merda, di oggetti che ci obbligano a comprare e ad usare, di bisogni che si inventano e di cui noi stessi non ci rendiamo conto. Il 90 per cento dei bisogni che siamo obbligati a soddisfare e per i quali lavoriamo, è privo di senso.

Questa sera stiamo mettendo il dito nella piaga del Capitale, e i responsabili di questa piaga, i responsabili dei milioni di morti che ci sono in tutto il mondo, siamo tutti noi, compagni, nessuno escluso. Non ci sono privilegiati che si possono chiamare fuori da questa responsabilità di genocidio. Perché è la produzione che governa il mondo e io sono stufo compagni di sentire persone che vengono a piangere sulla mia spalla, con il bisogno che hanno di pagarsi le rate della macchina.

Se il sogno della rivoluzione significa ancora qualcosa, compagni, se il Capitale nella sua grandiosa lungimiranza non ha cancellato anche questo sogno, allora bisogna attaccare subito, adesso, ed attaccare vuol dire distruggere. Non soltanto i simboli, ma la materia, la merce che viene prodotta, i luoghi della produzione, i luoghi della morte.

Come mai suggerisco di partire dalla distruzione del lavoro e non dalla distruzione delle strutture di dominio?

Ma, le strutture del dominio, che cosa hanno di differente dalle strutture della produzione?

Ad esempio, lo Stato, la struttura di dominio più visibile, è legittimo attaccarla per un rivoluzionario, ma la funzione principale dello Stato, oltre a rendere possibile lo sfruttamento e il controllo, è quella di rendere possibile la produzione. Tu puoi girarla come vuoi la questione produttiva, arrivi sempre là, in una relazione di dominio.

Insomma io voglio che si capisca, a me sembra chiaro, che il lavoratore, sfruttato, è corresponsabile dello sfruttamento.

Facciamo un esempio, consentitemi, in questo vostro bellissimo paese, nella Grecia antica, la schiavitù esisteva e i filosofi greci antichi non giustificavano la schiavitù, ma consideravano inferiore lo schiavo non perché era schiavo – perché Platone sapeva benissimo che tutti potevano diventare schiavi, a lui era capitato due volte – ma disprezzavano gli schiavi perché non si ribellavano morendo invece di vivere una vita da schiavi.

Ora, lasciando perdere la Grecia antica, dobbiamo calarci nell’idea difficile, io mi rendo conto, controcorrente, che il lavoratore partecipa dello sfruttamento e vi partecipa, in modo ancora più grave, perché è caduto schiavo di un progetto del Capitale, studiato in posti come questi, di come costruire dei bisogni assolutamente inesistenti. Di come perdere la sua capacità di iniziativa. Il lavoratore, per amore della catena, ha perduto la sua coscienza di classe.

Capisco che sono concetti antipatici, ma io mi sento a disagio quando ascolto o leggo quello che è accaduto in Spagna, quello che è accaduto negli ultimi centocinquant’anni, quanti milioni di morti ci sono stati e continuano ad esserci. È possibile che non si riesca a capire che questo genocidio non lo possiamo soltanto addebitare ai cattivi capitalisti? Questi fanno il loro lavoro. Il Capitale massacra milioni di persone per il 3 per cento. Il 3 per cento significa il raddoppio in vent’anni. Questo è lo scopo del Capitale. E noi diciamo: quanto sono cattivi questi capitalisti. E poi diciamo: quanto sono bravi questi lavoratori che si sacrificano otto o dieci ore al giorno per fare mangiare la propria famiglia.

Ebbene, io, a rischio di risultare antipatico, compagni, sostengo che anche questi ultimi hanno la propria responsabilità. E sostengo che gli anarchici non dovrebbero partecipare all’insieme di tutti quelli che stanno dipingendo la catena dello sfruttamento.

Quando io parlo di distruzione del lavoro intendo distruzione concreta del lavoro, accelerazione del processo di disintegrazione del Capitale, o almeno un ostacolo, un freno, a questa ristrutturazione. Perché, compagni, rendiamoci conto che se passa questa ristrutturazione, per come appare chiaro, per i prossimi vent’anni, dopo ce lo possiamo scordare il sogno rivoluzionario.

 

Il concetto di esclusi e inclusi non ha nulla a che vedere con l’utilizzazione di questi termini da parte della sinistra riformista. Io ho sviluppato questa teoria agli inizi degli anni Ottanta e l’ho pubblicata all’inizio del 1985, questi dati sono importanti per me perché, per cinque anni, mi sono chiesto se era comprensibile questa teoria, in quanto le condizioni dei rapporti capitalisti all’epoca, inizio anni Ottanta, erano ovviamente diversi da quelli di oggi, però si poteva cominciare a vedere un processo di svuotamento della coscienza di classe.

Ora, come definireste voi il concetto di coscienza di classe? Secondo me è la risposta adeguata ad una certa condizione dei rapporti di produzione. Lo sfruttato ha la coscienza di sfruttato, la classe dominante ha la coscienza di classe dominante.

A metà degli anni Ottanta questo rapporto cominciò a vacillare. E perché? Perché il Capitale si stava trasformando, abbandonava gli investimenti fissi, e si avviava verso la globalizzazione degli anni Novanta. Aveva bisogno di lavoratori non in grado di capire l’operazione in corso. Ed è questo che hanno realizzato a metà degli anni Ottanta, hanno svuotato dall’interno la capacità di capire.

Perché, tu dici, non parliamo di sfruttati e parliamo di esclusi? Perché per essere sfruttati occorre capire di essere sfruttati, se io non lo capisco, perché sono stato imbrogliato, sono “escluso”, ma non escluso dalla produzione, sono escluso dalla coscienza di classe. Sono escluso dal lavoro effettivamente significativo, un lavoro che vuol dire qualcosa, produrre oggetti.

Questa esclusione è un fatto culturale, una perdita della cultura. Se io sfruttato avessi una coscienza di classe, non mi farei inventare i bisogni, non andrei dietro le invenzioni del Capitale, come il cane va dietro alla salsiccia.

Non so se sono stato chiaro. L’impoverimento del lavoro oggi è arrivato a livelli tali che parlare di operai che hanno coscienza di quello che fanno non è più possibile, perché la fabbrica è stata divisa, frazionata, è stata frazionata in sezioni all’interno delle quali non c’è più un rapporto di compagni di lavoro, ma ogni settore in cui la fabbrica è stata divisa è contemporaneamente fornitore e cliente dell’altro settore.

Senza andare in profondità in questo argomento è chiaro che mancando la coesione di classe non è più possibile usare il concetto di sfruttamento in senso tradizionale. Perché, che voleva dire sfruttamento? Voleva dire che il capitalista si impadroniva di una parte del lavoro spettante all’operaio, remunerando il Capitale investito nell’operazione. Su questo sono state scritte biblioteche intere.

Oggi non è più così. Oggi il Capitale si impadronisce del lavoro del produttore in maniera indiretta, mettendolo nella condizione di non capire quale è la sua situazione, dandogli i soldi e levandoglieli, pagandogli un salario, magari elevato, e levandoglielo con i falsi bisogni da soddisfare. Ma per fare questo ha dovuto realizzare quel muro di separazione.

 

Tutti, io penso, sappiamo cosa sono i gruppi informali anarchici. Sono gruppi di compagni che si conosco e che si mettono insieme per realizzare i loro progetti. Non è che, secondo me, c’è da fare una corsa a chi arriva prima tra la spontaneità e l’organizzazione, perché le due cose viaggiano separatamente, sono in due corsie separate.

I compagni anarchici che ritengono importante l’organizzazione informale non possono darsi il compito di fare per i fatti propri l’insurrezione, non possono fare questo, ma ciò non vuol dire che devono restare nelle loro sedi a fare quattro chiacchiere, e nemmeno che devono aspettare la prossima insurrezione senza fare nulla.

Ma, secondo me, dovrebbero immaginare quelle condizioni di attacco, quegli obiettivi, quei luoghi e quelle persone, per parlare fuori dei denti, che la spontaneità da sola non potrebbe mai trovare.

Quindi il loro compito non è, come qualcuno pensa, di fungere, di servire da avanguardia, questo rischio non c’è perché l’attività rivoluzionaria dei gruppi informali insurrezionali anarchici, è quella di creare quelle occasioni, di individuare quegli obiettivi che l’insurrezione spontanea non può trovare.

Se voi riflettete su queste parole, che vuol dire individuare? Che vuole dire creare? Che vuol dire immaginare? Vuol dire soltanto teorizzare? Vuol dire anche agire, perché quale teoria riguardante un obiettivo del nemico è migliore di quella che studia come colpire quell’obiettivo.

E secondo me – guardate che qui siamo sul punto forse più delicato del problema – secondo me, più quell’obiettivo è nascosto e difficile da capire, com’è il caso del lavoro, più l’azione diventa teoria nello stesso tempo e più il terreno si può preparare per la futura insurrezione spontanea.

Gli anarchici non devono guidare nessuno, non devono essere avanguardia di nulla, ma devono farsi carico personalmente di impiegare il cervello per cercare di capire che cosa c’è nell’ambito delle strutture di potere, quali cambiamenti ci sono, quali imbrogli nuovi hanno costruito.

Pensate alla grandissima quantità – milioni di persone – che sono responsabili della partecipazione, del dialogo democratico, del vogliamoci tutti bene. Quanti preti ci sono, con la tonaca e senza tonaca. Pensate veramente che la spontaneità della prossima insurrezione possa individuare tutti questi obiettivi? È impossibile una cosa del genere.

Questo è compito degli anarchici. Queste non sono chiacchiere, queste non sono teorie. Ma è quella straordinaria simbiosi che c’è, ad un certo momento, tra la teoria e la realtà.

 

Se tu ti poni il problema giusto, assolutamente giusto, di dare da mangiare alla tua famiglia, nessuno ha diritto di aprire bocca, hai ragione tu, nulla da dire.

Se tu esci dal problema, e dici: che cos’è la distruzione del lavoro, perché bisogna distruggerlo, allora si può parlare del problema.

Sembrerebbe un gioco di parole, però non è un gioco di parole. Se uno dice: io devo dare da mangiare alla mia famiglia, è giusto che dia da mangiare alla sua famiglia. Perché poco fa abbiamo detto, mettiamoci il coltello fra i denti, compagni, ma io non ti consiglierei di metterti un coltello fra i denti per dare da mangiare alla tua famiglia, perché anche quello è un lavoro.

 

Ho fatto un appello all’attacco ora, subito, senza perdere tempo, ma ho aggiunto l’indicazione di un obiettivo nascosto, che il Capitale nasconde in modo particolare, ed è l’obiettivo del lavoro, un obiettivo differente, nuovo, in quanto i rivoluzionari hanno sempre pensato di proteggere la produzione ed impadronirsene nel momento rivoluzionario.

Io non parlo di distruggere il lavoro perché mi piace la distruzione, ma perché non c’è nulla da ereditare. Di questo mondo del lavoro, di questi mezzi di produzione non abbiamo cosa farne. Quindi io, in un certo senso, ho contribuito a spostare l’insieme degli obiettivi di attacco da obiettivi simbolici ad un obiettivo concreto: il mondo del lavoro.

Non ho detto colpire tutto, il mondo del lavoro non è tutto, però devo pure dare ragione a chi dice che il mondo del lavoro è in relazione con tutto, non è una cosa separata, e che distruggendo il lavoro si contribuisce a mettere in difficoltà, e quindi si attaccano, anche altri aspetti del mondo in generale, ad esempio, limitiamoci ad un esempio soltanto, anzi facciamone due: la scuola, l’università in particolare, che è l’anticamera, una delle anticamere, del mondo del lavoro, il secondo esempio me lo sono scordato.

Un momento, il mondo delle telecomunicazioni. Ecco, me lo sono ricordato. Questi due aspetti, anche loro non separabili, fanno parte ovviamente della produzione, pure avendo caratteristiche particolari. Resta comunque centrale il mondo del lavoro.

Ora, è stato poco fa fatto un riferimento che mi ha impressionato, ci si è riferiti alla tesi dei gruppi armati anni Settanta, specialmente di matrice marxista, che parlavano della necessità di attaccare il cuore dello Stato.

Non facciamo confusione. Il cuore dello Stato non esiste. Il mondo del lavoro non è il cuore dello Stato, e non è nemmeno il cuore del Capitale, è il Capitale, l’aspetto, uno degli aspetti, forse il più importante, ma non nel senso del cuore umano, nel senso che se io danneggio il cuore di una persona lo uccido. Il mondo del lavoro è uno degli elementi più importanti del Capitale.

Inoltre c’è la difficoltà di capire questo concetto perché storicamente siamo stati abituati a considerare il mondo del lavoro come obiettivo privilegiato dei rivoluzionari, anzi di più, siamo stati abituati a considerare il mondo del lavoro come soggetto rivoluzionario. Ebbene, tutto questo non esiste più.

 

Non spetta a me dare un giudizio sulle strategie di difesa. Perché io faccio una differenza tra movimenti che sottolineano, manifestano, fanno vedere un certo comportamento criminale dello Stato e i movimenti che invece realizzano degli attacchi contro lo Stato, contro il Capitale, contro il lavoro.

L’analisi che posso suggerire io, riguardante i primi movimenti, ciò il movimento di difesa della natura, di difesa degli animali, i movimenti di difesa del lavoro con i sindacati di base, il mio giudizio è quello che l’insieme di questi movimenti partecipa di quella grande, estesissima, rete di sostegno indiretto del Capitale. Perché il Capitale ha bisogno di evitare la distruzione della natura, solo che all’interno della struttura capitalista ci sono delle contraddizioni – basta pensare ai dibattiti che ci sono stati sul protocollo di Kyoto – con quella parte più aggressiva del Capitale che danneggia maggiormente la natura.

Ora, l’uso razionale delle risorse della natura, ci insegnavano cinquant’anni fa in economia politica, è la condizione principale per il funzionamento del Capitale. Questa, tenete presente, è la mia opinione personale. Se un compagno si vuole impegnare nei movimenti di difesa della natura, o di difesa del lavoro – perché ci sono dei compagni che mi hanno detto: ma se io non difendo il mio lavoro con i sindacati di base, non saranno certo le centrali sindacali a difenderlo – la risposta è uguale a quella che ho dato al compagno che mi aveva chiesto qualcosa del genere: se uno è convinto che deve difendere il suo posto di lavoro, che deve difendere la natura, nessuno gli può dire che sta sbagliando, se non si rende conto personalmente di essere un collaboratore indiretto del Capitale, nessuno glielo può spiegare. Perché l’affermazione mia: “collaboratore indiretto del Capitale” è una chiacchiera e non convince nessuno.

Cioè io voglio che si capisca chiaramente che quello che sto dicendo o è nei vostri cuori o non sarò certo io a mettercelo.

 

Il concetto di affinità è basato sulla conoscenza reciproca approfondita. Questo concetto di conoscenza approfondita reciproca non bisogna confonderlo con l’amicizia, con l’amore, con l’affetto, la simpatia, ecc. Esso si basa sul condividere un progetto comune, condividere vuol dire partecipare.

La collaborazione con compagni, o peggio ancora con organizzazioni, che non fanno parte del gruppo di affinità non può essere stabilita a priori. Sì o no. Ma deve essere decisa dai compagni che fanno parte del gruppo di affinità. Perché non è che il gruppo di affinità costituisce un mondo chiuso, che non ha rapporti con gli altri. È una cosa molto complessa. Ma saranno loro, i compagni del gruppo di affinità, a decidere il da fare. Non possiamo dire noi qui, questo è giusto e quello è sbagliato. E ne pagheranno ovviamente le conseguenze se fanno degli errori.

 

Una cosa si può dire, secondo me. Io non so che cosa succederà, se ci sarà una rivoluzione. Una cosa la so. Quale che sia la rivoluzione del futuro, gli anarchici del futuro saranno ancora in posti, speriamo diversi da questo, a discutere insieme come fare per attaccare lo sfruttamento, il lavoro, ecc.

Perché io non credo che dopo la rivoluzione la manna cascherà dal cielo. Io non credo nel determinismo tradizionale del vecchio modello anarchico. Io non credo nell’anarchia che necessariamente sarà.

Mentre credo profondamente nel ruolo degli anarchici, di assumersi sempre il compito di criticare qualunque istituzione, anche la migliore.

 

Non c’entra lo strutturalismo. Abbiamo usato il termine informale, che anche in greco mi pare abbia dei problemi di significato, semplicemente per distinguere questa forma di organizzazione dalle organizzazioni tradizionali di sintesi del movimento anarchico. Quindi niente federazioni, niente congressi, niente programmi fissi, niente divisioni del lavoro all’interno dell’organizzazione di sintesi, soltanto questo. Quindi, ovviamente, niente tessere, niente iscrizioni, ecc.

Qualunque cosa si può recuperare. Però consentitemi una citazione che non mi appartiene, di un autore che non mi piace per niente, l’unico nemico buono è il nemico morto.

Sapete, recuperare la tesi che sostiene la distruzione del lavoro, farla diventare di partecipazione? Per carità, è sempre possibile. Il Capitale ne può studiare tante, ma recuperare le forme di distruzione del lavoro e farle diventare una nuova forma di partecipazione alla ristrutturazione capitalista, mi sembra difficile.

 

Certo che sono d’accordo, quando succede un fatto di natura insurrezionale spontanea, per me è una festa. Una festa. Chi può non essere d’accordo con una festa? Quale rivoluzionario può non essere d’accordo?

Bakunin scriveva che nel 1848, a Parigi, durante la rivoluzione, era una festa continua. L’unica cosa di cui lui si ricordava era una festa continua.

Ma poi le feste finiscono. Siamo qua per discutere dei limiti della spontaneità. E questo lo sanno tutti che la spontaneità ha dei limiti.

Non siamo qua per discutere se attaccare il Municipio, attaccare il Parlamento, attaccare le sedi della polizia, distruggere le banche, sia giusto o sbagliato. È ovvio che è una cosa giusta.

Siamo qua, però, per discutere se c’è un modo, per gli anarchici rivoluzionari, di darsi un progetto insurrezionale che nel ripresentarsi della prossima insurrezione spontanea, possa realizzare e indicare obiettivi creativamente diversi. Questo era lo scopo della nostra chiacchierata.

Non voglio esprimere giudizi su ciò che è giusto o su ciò che è sbagliato. Però è importante sviluppare una critica sui limiti della spontaneità, sulle possibilità di una strategia che riesca a prendere una strada organizzativa, e principalmente se tutto questo è possibile. Io penso di sì. E il discorso sulla distruzione del lavoro, che è un discorso da dolore di pancia, lo prendo apposta perché è un discorso estremo, dove si richiede la massima creatività ai compagni.

 

Riguardo alla situazione dei centri sociali occupati in Italia io vi posso dire pochissimo perché dal 2004, tranne un breve periodo, sono stato in carcere.

Per quello che posso capire, che mi sembra più importante, il rapporto tra gruppi di affinità informali e centri sociali occupati non ha relazione col problema dell’attacco al lavoro. Questo è un discorso che facciamo da vent’anni. I centri sociali occupati sono dei luoghi in cui i compagni in nome della libertà si autocensurano.

C’è un senso di chiusura nel centro sociale, c’è un senso di resistenza, di casa assediata, un’aria di muffa.

Certo, facendo le dovute eccezioni, ci sono dei compagni che attraverso lo strumento del centro sociale si fanno sentire nel quartiere, affrontano i problemi del quartiere, e alla fine si trasformano in infermieri e infermiere. Poi ci sono altri compagni che in altri centri sociali si trasformano in coordinatori dei rapporti con i poteri locali per garantire la propria sopravvivenza. Poi ci sono quelli che preparano l’acqua calda in attesa di buttarla sulla testa di coloro che cercano di attaccare il centro sociale. Insomma una situazione di difesa.

Tutte queste situazioni possono essere interessanti ma a me non piacciono. In ogni caso non c’entrano con il concetto di distruzione del lavoro, piuttosto c’entrano col concetto di recupero, tanto che non è pazzesco pensare ad una politica dello Stato di allargare la disponibilità dei centri sociali, farli diventare una sorta di istituzione velata, una cosa a metà strada tra il rivoluzionario e l’impiegato statale. Ovviamente ci sono sempre le eccezioni, io non le conosco ma ci sono.

 

[Intervento: Qual è la situazione degli anarchici in carcere in Italia?] In Italia sono molti gli anarchici in carcere, o se non sono in carcere sono agli arresti domiciliari in attesa dei processi.

Su questo argomento c’è da dire che lo Stato ha capito una cosa che prima non aveva capito. E l’ha capito esattamente nel 2004. Non poteva condannare gli anarchici per banda armata, che è uno strumento tipico degli autoritari, dei marxisti. Per cui adesso lo Stato si è dato degli strumenti legali nuovi, aggiungendo un nuovo articolo al Codice Penale. E questi compagni sono stati arrestati sulla base delle accuse formulate con questo nuovo articolo. Il rischio legale delle pene alle quali possono essere condannati è praticamente quasi lo stesso. Però ancora processi definitivi non ce ne sono, per quello che so io.

Secondo me, con le accuse di “provocazione” bisogna sempre andare adagio. Perché sono accuse delicate.

Io ho vissuto personalmente gli anni Sessanta e Settanta, particolarmente negli anni Settanta c’era la paura della provocazione, perché i provocatori erano migliaia. Però ho imparato una cosa da questa esperienza. Non si può capire una provocazione limitandosi ad osservare l’azione dall’esterno, ma bisogna approfondire il problema, cercare di sapere chi l’ha fatta, almeno studiare le rivendicazioni, in questi casi sempre presenti, prima di esprimersi aprendo la bocca. Perché un’azione può essere più o meno giusta, più o meno efficace, più o meno condivisibile, ma una provocazione è un’altra cosa.

Sono problemi molto seri questi, sui quali io non posso dire nulla.

 

[Intervento: Che ne pensi del problema della coscienza di classe?]. Sulla questione della coscienza di classe, siccome qualcosa di storia dell’anarchismo la conosco anch’io, il concetto di classe è appartenuto agli anarchici, ad esempio, a Bakunin, anzi proprio nei testi di Marx, nel Capitale in particolare, lo scritto si ferma esattamente nel momento in cui deve parlare della “classe”.

Naturalmente il concetto di risposta adeguata alla distribuzione dei rapporti di produzione è un concetto marxista, sia pure di marxisti riformisti, ma viene utilizzato dagli anarchici per intendere quale è stato il rapporto tra i lavoratori e il loro lavoro, ma non è mai stato utilizzato dagli anarchici in senso determinista.

Malatesta, ad esempio, lo usa nel senso volontarista, e su questo argomento c’è una critica di Malatesta diretta contro Kropotkin riguardante la valutazione determinista dell’azione della classe operaia.

Però, marxista o non marxista che sia il concetto, non c’è dubbio che oggi il modo in cui si pone l’operaio all’interno dell’unità produttiva, è diverso da quello con cui si poneva venti o trent’anni fa. Una volta l’operaio si identificava con l’unità produttiva, era una cosa sua, oggi anche a volerlo fare non lo può fare più, a causa della flessibilità, ecc.

E sulla illusione dell’eredità dei mezzi di produzione, non c’è alcun dubbio storico che questa è stata una illusione anarchica, basta pensare alla rivoluzione spagnola.

Comunque, secondo me, questi non sono argomenti sui quali voglio convincere qualcuno sul mio essere o non essere marxista, non me ne frega completamente nulla. Ognuno è liberissimo di pensarla come vuole. Io penso di essere anarchico, poi, se per caso mi sono sbagliato, vuol dire che cercherò di approfondire meglio il mio anarchismo anche per farvi piacere, anche in nome della nostra vecchia amicizia.

La questione dell’informalità, l’informalità è una organizzazione, ci mancherebbe, non c’è il dio della spontaneità che garantisce per questo tipo di organizzazione, l’olimpo degli dèi informali è stato abolito, hanno ammazzato tutti gli dèi. Il nostro è stato soltanto e sempre un suggerimento organizzativo, non spetta a me affermare che funziona o che ha funzionato, ha causato danni o ha fatto cose buone. È pensabile veramente che io mi metta a scrivere la storia del mio anarchismo?

Io non sono un seguace di Bovio e non sono d’accordo con l’affermazione che “l’anarchia sarà”. Io lo spero. Bovio non era anarchico, badiamo bene, era un avvocato risorgimentale napoletano, però ha detto questa frase: “l’anarchia sarà”. Ma sono convinto che anche se “l’anarchia sarà”, gli anarchici saranno critici nei confronti di quell’anarchia costituita. Perché quella anarchia sarà un’istituzione anarchica, e io sono sicuro che la stragrande maggioranza dei compagni che sono qui dentro, e anche quelli che se ne sono andati, sarebbero contro quel tipo di anarchia.

 

Io non vorrei essere stato equivocato.

Se noi diciamo “l’anarchia sarà”, immaginiamo che un bel giorno la rivoluzione la realizzi questa anarchia, o no? La faccia diventare una cosa concreta, visibile, vivibile? Ora, è stata detta una cosa che mi ha colpito, per quello che mi hanno tradotto. È stato detto (se mi hanno tradotto esattamente): “se noi siamo in grado di decidere da noi e non con qualcuno che decida al nostro posto, questa è l’anarchia”. Ho capito bene? Cioè si è parlato della possibilità di realizzare l’autodeterminazione. È giusto?

Ebbene, io ho dei dubbi non riguardo al fatto che sia possibile, ma più gravi ancora. Ho dubbi sul fatto che ci sia un mezzo umano per fare esattamente quello che io voglio e non ci sia un mezzo, anch’esso umano, che non riesca a farmi fare quello che vuole l’altro?

Bisogna ammettere che questo pericolo c’è. Perché c’è sempre qualcuno più bravo di me, più veloce di me, più forte di me. Ecco perché dico che anche nell’anarchia realizzata, in cui ci sarà questa autodeterminazione che dite voi, gli anarchici saranno sempre dalla parte critica, per impedire che qualcuno riesca a prevalere lo stesso sugli altri malgrado l’anarchia.

Interruzione della registrazione su nastro

Vedo che molti compagni che ho conosciuto l’altra sera al dibattito che c’è stato, sono presenti anche qua questa sera, quindi farò diciamo un discorso un poco più riassuntivo, così magari potremo discutere insieme successivamente su quelli che sono i problemi più importanti in questo momento.

Fra i tanti modi di potere pensare l’anarchismo, accanto a quelli storicamente conosciuti, c’è un modo che non è certamente nuovo, che è però quello che si lega di più al concetto di rivolta, di ribellione, ed è il modo di pensare l’anarchismo come processo insurrezionale in corso.

Certo, l’anarchico ha molti interessi, guarda il mondo in modo critico sotto tanti aspetti, si preoccupa di tanti problemi, ma se tutto questo non passa attraverso la metodologia dell’attacco, potrebbe essere un modo come un altro di migliorare la stupidità della vita.

Pensate che vita triste avremmo tutti se non fossimo anarchici. Però questo non basta, occorre qualcosa in più, e voi tutti lo sapete meglio di me che cosa occorre in più, occorre capire dove sta il nemico. E non è facile, perché ci sono continuamente delle trasformazioni nello Stato e nel Capitale, e le trasformazioni che si sono verificate negli ultimi vent’anni, sono senza precedenti.

Il nemico si è camuffato in una maniera che non si era mai vista prima. Sta usando strumenti di una potenza che non esisteva prima. Ad esempio, gli strumenti telematici, la diffusione a livello planetario del lavoro, la rottura della tradizionale unità di classe dei produttori, la rete mondiale delle telecomunicazioni, e poi l’ultimo, veramente quello più cattivo, più nascosto, il recupero.

Il recupero attraverso il volontariato, la discussione, il vogliamoci tutti bene, le strutture democratiche di partecipazione delle persone. Tutto questo senza assolutamente smettere di usare gli strumenti tradizionali che sono il poliziotto, il carcere, ecc.

Tutto questo insieme ha prodotto una situazione che anche nella eventualità rivoluzionaria sarebbe impossibile un uso rivoluzionario dei mezzi di produzione. Bisogna intendersi su questo punto, perché ho visto che ci sono stati nei giorni passati degli equivoci.

Nella eventualità rivoluzionaria, questo è che bisogna tenere presente, nel passaggio della rivoluzione, una volta eravamo convinti che si prendevano i mezzi di produzione con l’espropriazione, si consegnavano nelle mani dei proletari, e la società liberata era cosa fatta.

Ecco, adesso questo non è più possibile, non è possibile utilizzare i mezzi di produzione che lo Stato e il Capitale hanno trasformato. Secondo me, e questo può essere un argomento di discussione, non è possibile un uso rivoluzionario della telematica, delle telecomunicazioni internazionali, di gran parte della produzione attuale.

Conclusione: bisogna distruggere tutto questo.

E cominciando da ora, non bisogna aspettare il momento rivoluzionario. Da qui deriva il concetto di distruzione del lavoro. E quindi anche il concetto di organizzarsi in vista della futura insurrezione per realizzare questo processo distruttivo.

Il processo distruttivo è difficile non per una questione di mezzi a disposizione, di strumenti, ma per una questione di idee, bisogna sviluppare la creatività con la quale possiamo individuare sempre nuovi obiettivi da attaccare. Anche quelli nascosti, anche quelli del recupero, non soltanto quelli simbolici.

Pensate l’esempio massimo del simbolo da attaccare: il Parlamento. Ma la politica è proprio la sede del fittizio, dell’immaginario, di qualcosa che esiste soltanto perché interessa al Capitale, mentre uno gli obiettivi concreti è la produzione, da cui deriva il concetto di distruzione del lavoro.

Io penso che l’insieme dei problemi messi sul tappeto con queste quattro parole, sia vastissimo. E penso che può consentire una serie di domande, io spero, da parte vostra che potrà meglio chiarire quello che ho detto.

 

La trasformazione che il Capitale realizza è un fatto abbastanza visibile su cui siamo tutti d’accordo per quanto riguarda le sue conseguenze sulla vita di ogni giorno.

La nostra creatività deve essere quella che è in grado di trovare sempre nuovi modi per attaccare questo Capitale. [Intervento: Dobbiamo essere più attivi?]. Non più attivi, dobbiamo essere capaci di trovare le forme sempre differenti, sempre nuove, per evitare gli ostacoli che il Capitale ci mette davanti per bloccarci.

Tutto questo può essere anche visto come una maggiore attività, però io preferisco vederlo come un processo attivo sempre diverso, via via più difficile da recuperare.

 

Se noi guardiamo, c’è stato un punto di svolta nel Capitale che è stato agli inizi degli anni Ottanta, che è stato anche il massimo punto di lotta del movimento operaio. E il Capitale si è trovato in quel momento in difficoltà perché aveva una struttura produttiva fissa. Il simbolo di questa struttura fissa era la catena di montaggio.

Questo causava difficoltà per l’alto costo del lavoro. Il Capitale era messo in difficoltà anche dalla resistenza operaia, anche dai sindacati, anche dai partiti di sinistra.

Ma, nello stesso tempo che accadeva questo scontro, le ricerche scientifiche avevano prodotto nuove scoperte, scoperte che hanno portato, attraverso la robotica e la telematica, un aiuto al Capitale, il quale ha spezzato la rigidità del lavoro.

Non so se avete vissuto questo periodo, o se qualcuno ve lo ha raccontato. In quel momento, le università di economia di tutto il mondo, fornirono un teorema, dovuto a due economisti italiani (Modigliani e Tarantelli) i quali lavoravano in America, che in poche parole dice questo: “rafforzate il governo e non temete di licenziare gli operai”. È il momento in cui nasce il thatcherismo, che poi si diffonde in tutta l’Europa.

Quindi il Capitale si è sentito autorizzato da un governo più forte e aiutato dalla tecnologia, a spezzare l’unità di classe. Guardate che la stessa cosa era successa negli anni Trenta, quando l’America davanti alla crisi aveva adottato il fordismo, cioè le teorie sulla catena di montaggio.

Ora, la domanda: “le lotte rivoluzionarie attaccano il Capitale, ma il Capitale reagisce”, non è così? Reagisce massacrando la gente, milioni di uomini sono morti in tutto il mondo, reagisce facendo appello alla scienza. Se non ci fosse stata la telematica, e la grande esplosione della telematica, il problema della rigidità del lavoro non si poteva risolvere. E malgrado i governi forti ci sarebbe stata la rivoluzione.

Oggi, apparentemente, il Capitale si trova davanti a una difficoltà nuova, apparentemente, a livello mondiale, come può rispondere? Per il momento stanno cercando di risolvere il problema con dei tamponamenti, ma se noi non attacchiamo in questo momento, il Capitale potrebbe rivolgersi alla scienza, ancora una volta, e chiedere: dateci i mezzi per risolvere il problema energetico, che non si risolve con le centrali nucleari. E gli scienziati sanno come risolvere questo problema. Dateci la nanotecnologia.

Ma voi vi rendete conto cosa succederebbe se si risolvesse il problema del trasporto dell’energia elettrica? Cioè quale respiro avrebbe la produzione del Capitale con una energia a bassissimo costo? Per chi non lo sa, quando c’è un trasporto di energia elettrica, la perdita è quasi del 7% circa. Ma gli scienziati hanno risolto questo problema. Trasporto senza perdita.

Però il Capitale ora non può applicare questo ritrovato scientifico, perché è obbligato a sfruttare il petrolio.

Pensate a cosa succede con una applicazione al controllo delle nanotecnologie, succede che non ci si può muovere più. Altro che telecamere. Altro che DNA oppure impronte digitali.

Attacchiamo. Il nostro attacco è destinato certamente a causare una risposta da parte del Capitale. E qua è una guerra a chi arriva prima. Arriveremo prima noi con l’attacco insurrezionale e rivoluzionario, oppure il Capitale con le sue ristrutturazioni?

Guardate che noi possediamo l’elenco dei luoghi dove in questo momento stanno studiando le nanotecnologie. Non è un segreto. Basta aprire un qualunque computer, si trovano questi indirizzi. Perciò, che stiamo aspettando? Sappiamo perfettamente quali sono gli istituti delle università americane che stanno risolvendo, e in parte hanno di già risolto, il problema del trasporto dell’energia.

La prospettiva di domani potrebbe essere un incubo. Ecco perché bisogna attaccare ora.

 

Io, diciamolo subito, non credo che ci sia un soggetto rivoluzionario. Scusate, non voglio offendere nessuno. Questa è una tesi marxista. Negli scritti sacri dei marxisti c’è indicato che il soggetto rivoluzionario era il proletariato. Non parliamo della fine triste che hanno fatto gli Stati socialisti che conosciamo tutti. Oggi non c’è nemmeno il proletario.

Secondo me il problema non è cercare il referente, il soggetto privilegiato. Ma organizzarsi, secondo la propria coscienza rivoluzionaria, per agire. Nel corso dell’azione si incontrano anche masse consistenti di persone che hanno dei problemi. Che possono lottare insieme a noi, non dico fino in fondo, fino alla rivoluzione, ma almeno come compagni di strada, per una lotta intermedia, però a una sola condizione, che siano disposti a condividere con noi i metodi anarchici.

Quindi, niente partiti, niente uomini politici, niente sindacati, nemmeno sindacati di base.

 

La parola “avanguardia” continuo a non capirla, mi fa venire i brividi, sento una cosa nella schiena.

Qua si tratta di coscienza rivoluzionaria. Io non posso pretendere che lo sfruttato che in questo momento viene buttato fuori dal lavoro, o che ha un problema perché gli stanno costruendo sulla testa la ferrovia ad alta velocità, raggiunga solo per questo motivo la mia stessa coscienza rivoluzionaria. Io devo tenere conto delle differenze, debbo parlare con la gente, debbo suggerire che i metodi anarchici sono quelli dell’attacco, ma anche questo fa parte della lotta.

Quando io dico: attacchiamo, compagni, non perdiamo tempo. Nel concetto di attacco includo tutto questo. È un’articolazione dell’attività rivoluzionaria.

Mettiamo da parte la parola brutta che avevamo detto prima: avanguardia. Noi non siamo dei rivoluzionari professionisti che agiscono al posto di qualcuno. Non siamo rappresentanti del popolo, nemmeno con mandato a tempo.

Noi agiamo e attacchiamo prima di tutto in nome nostro, perché siamo convinti della fondatezza di questo fatto. E per questo fatto siamo moralmente autorizzati a parlare con la gente, perché in questo nostro discorso rivoluzionario non c’è nessuno interesse personale.

 

I problemi sono tanti ed estremamente complessi. Cominciamo dai sindacati di base. Secondo me il problema del sindacato di base non è la presenza dei leader, dato che il compagno ha detto che in Grecia non esistono i leader nei sindacati di base. Io sono contento. Sono contento che non ci sono, ma non è questo il problema.

Il problema è la difesa del lavoro. Se il sindacato, di base o meno, non difende il lavoro, che sindacato è? Se noi partiamo, nella nostra analisi, dalla necessità della distruzione del lavoro, a seguito delle trasformazioni del Capitale, non possiamo non arrivare alla conclusione che il sindacato di base è anch’esso uno strumento del recupero delle lotte.

Veniamo alla seconda domanda. In Italia, l’esperienza delle lotte informali è esigua al massimo, minima, personalmente ho assistito a più malcomprensioni che realizzazioni. E questo, sia per la difficoltà del concetto stesso di informalità, sia perché molto spesso i compagni si fanno affascinare dalla prospettiva del risultato immediato.

Ma, a parte ogni problema, io penso, se vogliamo dare vita a una organizzazione insurrezionale anarchica, quale forma questa può prendere se non quella informale? Voi ve la immaginate una organizzazione insurrezionale che fa dei congressi, che ha le tessere del partito in tasca, che si divide in correnti, insomma l’informalità dell’azione è garanzia di possibile realizzazione insurrezionale, perché il Capitale ha più difficoltà a controllare una organizzazione informale, in più i compagni che lottano da un punto di vista insurrezionale, devono abituarsi a rapporti diversi da quelli che mantengono normalmente per lo scambio di opinioni, per diffondere la stampa anarchica.

Insomma, il terreno dell’attacco è un terreno più delicato, ed è su questo terreno che devono nascere i gruppi di affinità.

 

Molti mi rimproverano che metto troppo l’accento sulla necessità dell’attacco immediato.

Molti mi rimproverano dicendo: ma come, ci sono tanti strumenti, viviamo in Stati democratici, una volta ti arrestavano quando dicevi cose del genere, perché non parli di quanto potremmo fare come anarchici, ad esempio nel mondo del lavoro, perché non ci spieghi qual è la differenza tra la teoria anarchica degli spazi liberati e quella dei comunisti? Dei comunisti autoritari, perché la teoria degli spazi liberati comincia da Lenin e finisce fino agli autonomi di oggi in Italia, basta sapere un poco la storia del movimento operaio.

Molti mi rimproverano, ma perché non parli delle tante cose che potremmo fare, ad esempio, nel campo della controinformazione?

Ebbene compagni, che volete, io sono un tipo molto limitato, chissà forse mi sono convinto in modo sbagliato che la casa sta bruciando, ma non voglio costringere nessuno a vedere le cose come me, è logico che se io parlo soltanto dell’attacco la rivoluzione anarchica dove è finita?

Ho parlato l’altro giorno, qua ad Atene, della perdita di coscienza di classe, e mi hanno detto: ma questi sono discorsi che fanno i marxisti. Io non sono convinto di questa obiezione. Nella modestia delle mie possibilità, bene o male, avendo studiato un po’ di economia, chissà come mi sono convinto che il Capitale si è trasformato in modo tale che l’unica possibilità che adesso abbiamo è proprio quella di attaccare.

Se mi sono sbagliato, scusatemi.

 

La questione di lottare contro la logica produttivistica, la logica del lavoro, ridurrebbe il processo di attacco a livello della critica, cioè una critica del lavoro come logica consumistica. Ognuno è libero, per carità, di fare la critica del consumismo, gli anarchici la fanno da quarant’anni, io personalmente la faccio da quarant’anni, invece penso che ci troviamo in questo momento in una situazione diversa, per i motivi visti prima, in cui non basta la critica della logica ma occorre passare ad un attacco concreto del lavoro.

La logica normale dell’anarchico, il compagno anarchico ragiona in questo modo: anche io ragiono in questo modo, se faccio una cosa le sue conseguenze le posso portare fino all’estremo punto della rivoluzione. Ad esempio, io mi immagino la libertà, e siccome sono anarchico, arrivo fino al limite di questo concetto e arrivo a costruire fino nei dettagli quello che sarà la società futura. Quali problemi avremo, come vivremo: queste sono esercitazioni bellissime, ma se io dico: “gli anarchici devono attaccare oggi il lavoro”, il Capitale non resterà sicuramente a guardare, siamo davanti ad uno scontro, feroce.

Vi rendete conto del salto logico che c’è fino ad arrivare a parlare di primitivismo, o di caos? C’è tutta la strada rivoluzionaria da percorrere ancora, che vuol dire che se io dico attacco il lavoro sono un primitivista? Sapete qual è il caso in cui sarei un primitivista? proprio nell’ipotesi di attaccare solo la logica del lavoro, allora sarei un primitivista.

Perché direi: io sono contro il lavoro, e me ne vado a vivere su di un albero. Ma non stiamo parlando di questo, stiamo parlando di agire nella realtà, trovare i mezzi, scatenare una guerra di classe, in un momento in cui la classe non c’è più.

 

Io penso che storicamente il sindacato, qualunque tipo di sindacato, anche quello anarcosindacalista, non ha mai avuto la funzione di fare capire al lavoratore la coscienza di classe. Perché quando tu parli della funzione del sindacato di base diretta a fare capire al lavoratore quale sia la sua posizione nella società di oggi, stai suggerendo al sindacato di base il compito di ricostruire la coscienza di classe che il Capitale ha spezzato.

Perché una volta che il lavoratore capisce la sua situazione riacquista la coscienza di classe, ma in una situazione come quella di oggi, caratterizzata dalla flessibilità, dalla frammentazione nel territorio, dai futuri massicci licenziamenti che ci saranno, a prescindere dalle ideologie, l’unica funzione reale che può avere il sindacato di base è quella di difendere il posto di lavoro, perché i sindacati confederali si sono ormai alleati col Capitale e non difendono certo il posto di lavoro.

Ora noi, come anarchici, possiamo sognare tutto quello che vogliamo, ma l’oggettività dello scontro è quella che comanda, che obbliga.

Io capisco che ci può essere nel sindacato di base un compagno che cerca di realizzare quello che dici tu, ma qua non stiamo parlando della buona volontà, stiamo parlando della legge ferrea dei rapporti di produzione, che nessun bravo compagno può cambiare.

Interruzione della registrazione su nastro

Proprio poco fa ho fatto riferimento a due cose: al problema energetico e all’altro aspetto del problema energetico, quello delle nanotecnologie.

I vent’anni, di cui ho parlato l’altra sera, se ci riflettete sono il periodo di tempo che è stato calcolato dai tecnici, di utilizzazione del petrolio. Quindi non c’è dubbio che dentro questo periodo applicheranno le tecnologie nuove e daranno una grande forza nuova al Capitale.

Nel contempo, il Capitale completerà la costruzione del muro di separazione tra inclusi ed esclusi. Se questo muro viene realmente portato a completamento, il Capitale utilizzerà dei lavoratori i quali saranno sostanzialmente incapaci di capire quello che stanno facendo. L’unica cosa che riusciranno a capire è se devono premere il bottone a sinistra o il bottone a destra.

Non dimentichiamo che l’attacco, la rivolta, partono dalle capacità di conoscenza che ognuno ha. Se queste vengono ridotte, pensate a dove ci porterà l’impoverimento che di già vediamo in atto, oggi. Impoverimento culturale, impoverimento della scuola e poi l’uso degli strumenti di recupero.

Tutto questo ridurrà le possibilità di attaccare il Capitale e nel caso in cui il Capitale chiuda il suo cerchio progettuale, certo gli anarchici ci saranno anche nel futuro, ma probabilmente saranno delle brave persone che parleranno di quanto è bella l’utopia anarchica. Se il Capitale chiude il cerchio, la stessa funzione repressiva diminuirà di importanza, e costruiranno una società in cui saremo tutti imbecilli e contenti.

Guardante compagni che questa non è una barzelletta, è un progetto in corso, lo stanno studiando nelle Università, Ci sono persone pagate dagli Stati per realizzare ipotesi di questo genere. Pensate in che modo le varie attività scientifiche si collegano tra di loro, pensate alla funzione repressiva e recuperativa dell’architettura, trasformazione della città, pensate alla funzione repressiva e recuperativa della musica, trasformazione culturale.

Si sono dati questi vent’anni di tempo loro, non è che l’ho detto io, perché presumono di poterci abituare alla miseria quotidiana, alla sopravvivenza.

Se volete possiamo continuare all’infinito con esempi e dettagli di questo genere. Però quello che conta è capire il meccanismo. Ecco perché io parlo e insisto sull’attacco. Non perché sono monomaniaco. Caso mai sono polimaniaco. Ma se riflettete sulle poche possibilità che abbiamo oggi di attaccare, oggi che riusciamo ancora a ragionare, pensate a come potremmo attaccare domani quando ci avranno fatto il lavaggio del cervello.

Grazie dell’attenzione.

 


[Conferenze tenute il 7 e il 9 marzo 2009 presso l’Università di scienze politiche e sociali Pantio di Atene. Trascrizione della registrazione su nastro].

Dibattito alla radio 98 FM di Atene tenuto nell’Università Città politecnica l’11 marzo 2009

I

Che cosa intendi per inclusi ed esclusi?

 

La distinzione tra inclusi e esclusi diventa comprensibile solo tenendo presenti le trasformazioni del Capitale, la trasformazione produttiva del Capitale ma anche tutto l’insieme della rottura del fronte del lavoro. La frantumazione della coscienza di classe, da cui deriva l’impossibilità di parlare di classe degli sfruttati nel senso tradizionale del termine.

In più, per parlare di inclusi ed esclusi, bisogna avere presente il concetto di separazione, e la separazione è costituita da una specie di muro, e alla costruzione di questo muro, negli ultimi trent’anni, hanno partecipato non soltanto il Capitale ma anche lo Stato con la sua repressione, la scuola con la sua diminuzione culturale, i grandi mezzi di informazione che hanno reso sempre più difficile capire la realtà.

Ora, uno come può individuare il nemico se non capisce la realtà? Cioè se è escluso dalla realtà?

Quindi esclusi ed inclusi significa, gli esclusi sono, secondo me, non solo gli sfruttati ma gli sfruttati che non capiscono, mentre gli inclusi sono quelli che comandano, che decidono. [Intervento: In questo caso sono i padroni? Sono proprio i padroni].

II

Tenendo conto delle lotte in Italia negli ultimi decenni, ti chiedo se puoi entrare nel caso specifico del processo Marini.

 

Il processo Marini, come è stato definito con il nome del Pubblico Ministero, è stato costruito su una montatura per frenare le lotte del movimento anarchico. Il progetto Marini era quello di condannare una settantina e più di compagni anarchici con l’accusa di banda armata, principalmente, oltre che con diverse accuse specifiche quali rapine, sequestri, ecc.

La tesi tradizionale della banda armata che Marini aveva applicato precedentemente in cinque processi contro le Brigate Rosse, voleva applicarla anche agli anarchici. Questo non gli è riuscito.

Alcuni compagni sono stati condannati anche a pene pesanti, per reati specifici. Il fallimento della tesi fondata sulla banda armata in Italia ha portato a cambiare la legge e a fare un nuovo articolo sulla organizzazione sovversiva che in questo momento sta funzionando in quanto ci sono infatti decine di compagni accusati di associazione sovversiva.

Se guardo alle lotte più recenti io ho poco da dire perché dal 2004 sono stato in carcere tranne dei brevi periodi.

III

Quanti sono i prigionieri in Italia, non solo anarchici, ma in generale?

 

In Italia ci sono sessantamila prigionieri con una capienza delle carceri di circa quarantamila.

IV

Quanti sono i prigionieri politici?

 

Non lo so. Il concetto stesso di prigioniero politico mi sfugge. Forse vuoi dire compagni in carcere, non prigionieri politici. Non lo so, saranno decine, forse di più.

V

Partendo dalle trasformazioni del Capitale negli ultimi decenni com’è che sei arrivato alla tua tesi della necessità della distruzione del lavoro?

 

Un aspetto l’abbiamo di già affrontato. Le trasformazioni del Capitale negli ultimi vent’anni sono state profondissime. Non solo ha spezzato il mondo del lavoro, ma ha trasformato profondamente la produzione, polverizzandola nel territorio, a livello mondiale. Non solo ha portato la classe operaia a disintegrarsi, ma ha trasformato la distribuzione dei prodotti, perché molti non si rendono conto che molto più importante della produzione è la distribuzione.

Questo ha consentito un enorme guadagno, ha trasformato quella che era l’economia produttiva di una volta in una economia finanziaria. Di cui la cosiddetta “crisi” mondiale di questi ultimi mesi, si può considerare una conseguenza.

Ora, davanti a questo profondo cambiamento del Capitale a livello mondiale, davanti al ruolo nuovo che nel Capitale giocano le telecomunicazioni e la telematica, la vecchia idea dei mezzi di produzione che per centocinquant’anni ha alimentato i sogni dei proletari, non esiste più, perché non esistono più i proletari, mentre persone che lavorano e che nel posto di lavoro stesso sono privi di coscienza di classe, non sono più proletari nel senso tradizionale del termine, ma sono uno contro l’altro.

Il Capitale è riuscito a spaccare questo fronte e quindi, nell’eventualità rivoluzionaria, per noi sarebbe impossibile utilizzare i mezzi di produzione, perché è impossibile pensare ad un uso rivoluzionario della telematica, dei trasporti internazionali. Ecco perché bisogna attaccare subito, ecco su che cosa si fonda il concetto di distruzione del lavoro.

Per la prima volta siamo davanti ad un nuovo modo di considerare la produzione, e per la prima volta dobbiamo potere costruire insieme un nuovo modo di attaccare la produzione.

Che poi la produzione si diversifichi, si moltiplichi in moltissime forme, continuamente in trasformazione, questo è l’aspetto esteriore, sarebbe la novità continua del Capitale. Ma la causa effettuale, quella che sta sotto, che regge il Capitale, è uniforme, è identica in tutto il mondo ed è il nuovo modo in cui si realizza lo sfruttamento.

VI

Si può capire la non possibilità di utilizzo dei mezzi tecnologici dopo la rivoluzione. E questo è un discorso che potrebbe essere comprensibile. Però ci rendiamo conto oggi che in situazioni di lotta per la distruzione del Capitale, usiamo mezzi, che ci sono utili.

 

Aspetta. Non ci intendiamo. Facciamo un esempio che forse ci può aiutare. L’uso delle tecnologie, oggi, in una situazione di lotta, è un fatto che non va nemmeno preso in considerazione, esiste perché la tecnologia telematica, per fare un esempio, è una parte della nostra vita di oggi e la lotta rivoluzionaria, anche distruttiva, è una parte della nostra vita, di anarchici.

Ma questo non ci può impedire di capire cosa è la tecnologia telematica, il fatto che la usiamo non può farci chiudere gli occhi di fronte al fatto che questa tecnologia non potrà essere utilizzata dopo la rivoluzione.

Ma non perché dopo la rivoluzione andremo a vivere sugli alberi, io non lo so cosa faremo dopo la rivoluzione, e francamente non mi interessa, perché sono quei discorsi sull’utopia che mi interessano poco.

Però mi sembra di capire che nessuna condizione di libertà è possibile con l’esistenza di strumenti telematici che ci possono controllare.

Anche oggi noi nell’eventuale insurrezione futura generalizzata, non ci limiteremo ad usare solo le pietre, ma useremo le armi, ciò non vuol dire che noi pensiamo di costruire un mondo in cui ci saranno ancora le armi. Perché non possiamo non capire che l’arma è uno strumento di morte, anche se nel momento rivoluzionario può essere uno strumento di liberazione.

Ma la vita, la realtà della vita, è una cosa diversa dalla rivoluzione, la rivoluzione, specialmente in greco la parola lo dice con chiarezza, è un passaggio. Ma dopo questo passaggio non ci possono essere né armi né tecnologia. Il fatto che stiamo usando dei computer per trasmettere queste chiacchiere non è una contraddizione con la tesi che bisogna distruggere la telematica quindi anche questi computer. Non vi spaventate. [Intervento: Non sono d’accordo. Noi abbiamo vissuto tante volte, in passato, momenti insurrezionali, e mi rendo che usiamo questi mezzi ma non sono poi così necessari, almeno nel numero in cui alcuni li usano anche adesso. Strumenti come computer, microfoni, sono spacciati come necessità, in realtà non lo sono e ce ne accorgiamo nel momento della rivolta].

VII

È capitato nel momento in cui sei uscito dal carcere, dopo quattro anni, l’avvenimento che tutti conosciamo, l’uccisione di questo giovane compagno da parte della polizia, ma visto che arrivi da un paese straniero e noi abbiamo saputo che c’è stata l’eco della rivolta di dicembre in Italia ma anche in altri paesi, rispetto al flusso di informazioni che è arrivato all’estero, ti chiedo in che modo è stata interpretata l’influenza sulla situazione greca in generale di questa rivolta?

 

Io farei una distinzione fra i compagni anarchici, che sentendo le prime notizie si sono documentati, e la gente, almeno per l’Italia. Dopo i primi giorni, uno due giorni, la televisione e i giornali non hanno più parlato di ciò che stava accadendo in Grecia, hanno stroncato l’argomento. Qualche giornale importante ne parlava in due o tre righe. È comprensibile d’altro canto perché si tratta di notizie pericolose per il potere.

VIII

Cosa puoi dirci riguardo lo sviluppo della lotta insurrezionale come lo vedi oggi, nel 2009? Tramite i tuoi scritti, molto conosciuti in Grecia, ci sono diversi livelli di lotta insurrezionale, fra cui quelle di livello intermedio. Vuoi dirci qualcosa in merito? Anche riguardo le forme di lotta insurrezionale armata.

 

È bene tenere divisi i due argomenti.

Parliamo del primo. Qualunque lotta intermedia si sviluppa in vista del raggiungimento di uno scopo. Questo è uno scopo che appartiene ad un certo quantitativo di persone, circoscritto, in genere appartenente ad un determinato luogo. È intermedia perché appunto esiste uno scopo preciso. Se gli anarchici partecipano insieme alla gente, che ha un obiettivo preciso, uno scopo; ad esempio non so in questo momento pensiamo alla lotta che c’è in Italia contro i treni ad alta velocità. Io non sto però parlando di ciò che sta accadendo in Italia, di come gli anarchici stanno intervenendo in Italia in questa lotta contro i treni ad alta velocità, di questo non posso parlare perché sono stato in carcere negli ultimi anni, ma di come dovrebbero intervenire da un punto di vista di lotta insurrezionale.

Rapportarsi con la gente del posto, dichiaratamente come anarchici, partecipando alla realizzazione di fatti, cioè di azioni, che applicano un metodo anarchico. E in che cosa consiste questo metodo anarchico? Nella specificità anarchica, nella indipendenza da altre forze politiche, nell’attacco. Ma questo non può essere realizzato passando in un posto, distribuendo un volantino e tornandosene a casa. Una lotta insurrezionale intermedia può anche durare anni.

Veniamo all’altro concetto, per come è stato detto, se è stato tradotto bene, della lotta armata insurrezionale. Secondo me qua c’è un equivoco, perché qualunque lotta insurrezionale ha un senso solo se ha i mezzi per potere attaccare e questi mezzi possono essere le pietre, può essere una ruspa o anche un’arma. Perché chiamarla lotta armata insurrezionale? che senso ha? Se questa lotta insurrezionale non ha i mezzi, cioè una lotta insurrezionale disarmata, pacifista, non è una lotta insurrezionale, è un’altra cosa.

Quindi per me non si può parlare di lotta armata insurrezionale o di lotta insurrezionale armata.

IX

A dicembre è stato sviluppato tutto un movimento straordinario, una insurrezione di massa così ampia la Grecia non l’aveva vissuto dai tempi della dittatura militare. A parte gli anarchici ha partecipato una massa disomogenea, ma con la caratteristica che la gente si univa spontaneamente a livello di attacco. Noi ci poniamo, come anarchici, il problema di quello che possiamo fare in prospettiva per il futuro. Ti chiediamo ciò perché in Italia, storicamente, ci sono state delle situazioni di massa del genere. Ti chiediamo quindi di dirci qualcosa anche partendo dalla tua esperienza personale.

 

Io avrei tante cose da dire, ma prima voglio fare una domanda. Perché abbiamo interrotto e messo la musica? Perché non mi è stato chiesto se ero o meno d’accordo a mettere la musica? Perché questa pratica, se non ne avete parlato, è una cosa normale, è una cosa automatica. Certo, ognuno a casa sua spazza la casa con la scopa che ama, però io penso che dietro si nasconda un problema e se siete d’accordo ne parleremo dopo la risposta al compagno.

In Italia ho vissuto delle situazioni insurrezionali estremamente più ampie di quella di dicembre, come l’insurrezione di Reggio Calabria che è durata otto mesi. Con l’esercito, con i carri armati e con la nostra incapacità di contrastare i fascisti che gestivano un’insurrezione popolare, perché erano riusciti a capire prima di noi quello che voleva la gente a Reggio Calabria.

Mentre gli anarchici avevano una presenza fortissima in tutti i paesi attorno a Reggio Calabria, con centinaia e centinaia di compagni, a Reggio Calabria non si distribuiva nemmeno un volantino. Ad Avola, a Battipaglia negli anni Settanta (Avola è in Sicilia, Battipaglia è in Campania), invece i compagni avevano capito prima degli altri cosa voleva la gente.

Però quello che ho potuto capire è che tutte le volte, sia a Reggio Calabria che in altri casi, la gente manifestava un bisogno e i compagni avevano difficoltà a capirlo, per cui o seguivano le persone o contrastavano i fascisti.

Mentre il progetto insurrezionale è un’altra cosa e, secondo me, deve essere chiarito prima della prossima insurrezione spontanea. Io non so se tutti i compagni anarchici sono d’accordo con un chiarimento riguardante un progetto insurrezionale, perché molti compagni anarchici pensano che sia più importante la spontaneità e considerano ogni progetto organizzativo come una specie di gabbia.

X

Ciò che è accaduto in dicembre nessuno se lo aspettava, nessuno si aspettava ciò che è accaduto in dicembre. Li aspettiamo questi momenti ma non sappiamo mai quando sarà il momento. Le insurrezioni non possono essere programmate. Tutti abbiamo riconosciuto una coerenza nell’insieme di passi che abbiamo fatto lavorando su piccole cose. C’era un’organizzazione, anche fare un volantino richiede un’organizzazione. Comunque noi ci poniamo delle domande. So che abbiamo fatto sbagli, che avremmo potuto fare delle cose in più.

 

Se ho ben capito non c’è stata nessuna insurrezione spontanea, mi sono sbagliato.

Tu hai detto, se ho capito bene, che i fatti di dicembre sono stati la conseguenza deterministica di quello che avete fatto prima, quindi non c’è alcuna spontaneità, ma si è trattato di una insurrezione organizzata.

Io avevo capito un’altra cosa. Se dite che non è possibile prevedere quando succederà la prossima insurrezione, non è una questione di data. Se uno lavora in una certa direzione, immagina che prima o poi succederà questa insurrezione.

Che motivo c’è di parlare di organizzazione insurrezionale, voi siete un’organizzazione insurrezionale. Il resto sono chiacchiere.

XI

Questo è quello che credo io, non è detto che gli altri pensano lo stesso.

 

Volevo dire che avevo capito che i fatti di dicembre vi avessero colto di sorpresa.

XII

Visto che qui ci sono delle divergenze, non è che tu hai capito male, hai capito quello che una parte ha inteso dire.

 

Posso essermi fatto un’idea sulla base di quello che mi è stato detto, e cioè che è stato un evento spontaneo. Non c’era dietro un’organizzazione degli anarchici, non a causare l’insurrezione, perché non si causa una insurrezione, ma a partecipare in maniera organizzata all’insurrezione, quindi realizzando e suggerendo sbocchi, analisi, obiettivi diversi sulla base di un progetto precedente. Io ho capito che un tale progetto non c’era.

XIII

Gli anarchici hanno lavorato tanto prima, ad esempio pensiamo sul fronte degli emigrati. Dalla Olimpiade del 2004, quando hanno messo le telecamere, migliaia di compagni prima e di persone poi sono andati a rompere telecamere. Non era un caso quindi che a dicembre sono stati distrutti grandi negozi in certe vie e di un certo tipo. Gli anarchici hanno quindi suggerito cosa attaccare.

Sulla base di quello che è stato detto, lo scopo principale degli anarchici sarebbe quello di muoversi verso un’azione di propaganda per una società anarchica oppure quello di essere, qui in Grecia, a fianco degli sfruttati utilizzando i metodi anarchici più opportuni.

 

Che volete che vi dica?

Io sono per la seconda soluzione, a me non interessa parlare dell’utopia anarchica, ma nello stesso tempo mi chiedo che vuol dire essere al fianco degli sfruttati, oggi? C’è una differenza fra oggi e centocinquant’anni fa, oppure no? Secondo me c’è una differenza, e se c’è questa differenza, è di questo che bisognerebbe parlare, perché il modo di essere oggi al fianco degli sfruttati è diverso di centocinquant’anni fa.

Io mi rendo conto che tante cose non le sappiamo, ad esempio cosa sappiamo sul recupero? Oggi lo Stato non è fatto solo di carcere e poliziotti, ma anche di recupero. Gli strumenti repressivi più importanti oggi dello Stato sono questi, repressione e recupero: la chiacchiera, la televisione, la musica, lo spettacolo, il dialogo, la democrazia, il volontariato.

Se noi non sviluppiamo un progetto insurrezionale anarchico la prossima insurrezione, spontanea, sarà portata necessariamente a colpire le cose più visibili, più immediate e non si allargherà mai agli obiettivi nascosti, a quelli più specifici. Questo è un problema.

XIV

Mi sembra che ci sia qualche cosa di non detto che preme a molti compagni e individui in questo momento. Comprende il concetto di spontaneità, di organizzazione e di insurrezione. Mi sembra che per potere parlare si fanno degli schematismi che poi sembrano posizioni prese.

 

Ad esempio io non credo che si possa dire che un’insurrezione sia totalmente spontanea o totalmente preorganizzata, risultato di un progetto. Se ho capito bene, il momento insurrezionale come scoppio di tantissimi individui che si autorganizzano insieme, che riescono in quel momento a trasformare in modo distruttivo la realtà. Non c’è un solo motivo per cui si scelgono determinati mezzi e obiettivi in un determinato momento. Quando parliamo di progettualità insurrezionale non possiamo non dare spazio alle lotte intermedie. Spesso si parla di organizzazione informale senza capire cosa sia davvero. Non è solo un modo di relazionarsi senza gerarchia o formalità, ma è un’ipotesi organizzativa che non esiste al di là dell’attacco, si tratta di una modalità organizzativa che non ha una forma fino al momento dell’attacco. Si tratta di ipotesi sperimentate in Italia, e quando si è fatto cenno a certi avvenimenti che accadono oggi in Italia, si vede la mancanza dell’organizzazione. Per esempio quando c’è stato il tentativo da parte degli anarchici di attaccare il progetto della base missilistica di Comiso c’era una chiara proposta organizzativa, che non si è mai portata alla fine proprio per la mancanza dello scoppio di un’insurrezione. Le organizzazioni che si sono formate erano di massa e non politiche, si trattava di individui che si univano per attaccare quell’obiettivo specifico. Gli anarchici dicevano chiaramente alla gente della zona, attraverso un’analisi sociale approfondita sui possibili effetti della base, e anche della necessità di distruggerla, dicevano noi siamo anarchici e anche noi vogliamo distruggere la base insieme a tutti voi. Organizziamoci, non in un’organizzazione quantitativa, anche fra individui. In quel momento si chiamavano leghe. C’era quella degli studenti, degli operai. Avevano aperto delle sedi, facevano volantini, incontri, comizi e si incontravano nelle piazze e con le altre persone…

Interrotta la registrazione


[Dibattito alla radio 98 FM di Atene tenuto nell’Università, Città politecnica l’11 marzo 2009. Trascrizione della registrazione su nastro]

Discussione ad Atene con compagni dell’archivio anarchico di Nicosia

I

Come puoi commentare gli avvenimenti che sono accaduti dopo l’omicidio di Alexis, il ragazzo ucciso dalla polizia?

 

Sai, io non ero presente quando è stato assassinato Alexis, quello che posso dire è ciò che ho letto sui giornali e quello che i compagni mi hanno detto qua, nell’ultima settimana, penso che sia l’argomento principale del quale parlano tutti i compagni.

La risposta a questo omicidio da parte della polizia, è stata un’insurrezione spontanea, di sicuro una delle più estese che si sono verificate in Grecia negli ultimi anni.

Bisogna però sottolineare il fatto che si tratta di un’insurrezione spontanea.

II

Come puoi valutare i movimenti anarchici presenti a livello internazionale dal 2004 a oggi?

 

Ma, bisogna vedere, non si può fare un discorso a livello internazionale, perché ogni situazione ha le sue caratteristiche, io inoltre sono stato in carcere dal 2004 fino a qualche giorno fa, quindi non sono la persona più indicata per fare un giudizio su eventi o situazioni dal 2004 ad oggi.

III

Quali sono le direzioni più adeguate riguardo l’attacco da parte degli anarchici oggi?

 

Io penso che il problema centrale da risolvere è quello dell’organizzazione anarchica insurrezionale, in modo da evitare di trovarsi impreparati di fronte alla prossima insurrezione spontanea.

Questa preparazione gli anarchici se la devono dare, secondo me, sia a livello organizzativo che a livello teorico. A livello organizzativo attraverso la costituzione dei gruppi informali di affinità, a livello teorico attraverso l’analisi del Capitale, attraverso una comprensione delle trasformazioni del Capitale e quindi pensando ad un attacco contro il lavoro, approfondendo cioè il problema della distruzione del lavoro.

IV

In che cosa consiste l’insurrezionaloismo anarchico, quali sono le sue differenze dai movimenti anarchici tradizionali, e quali le nuove forme di lotta?

 

L’insurrezionalismo anarchico è caratterizzato evidentemente dal ricorso a mezzi di lotta diretti, è caratterizzato dall’attacco. Mentre altre forme organizzative dell’anarchismo oggi si dedicano alla propaganda delle idee, l’insurrezionalismo anarchico dovrebbe dedicarsi all’attacco. Cioè avere a disposizione un patrimonio di idee e di analisi riguardanti il Capitale e le sue trasformazioni e poi passare all’attacco senza perdere tempo.

V

Nell’uomo moderno c’è di già un elemento innato che lo potrebbe spingere a ribellarsi da solo, oppure noi come anarchici lo dobbiamo spingere e lavorare per realizzare questo obiettivo?

 

Io non credo che ci sia qualcosa di particolarmente innato nell’uomo che lo porta a ribellarsi. L’uomo si rivolta quando sta male. L’uomo moderno è un concetto per me un poco discutibile, oggi è chiaramente più difficile ribellarsi rispetto al passato perché ci sono molti strumenti di recupero.

Il Capitale non si regge soltanto sulla repressione, ma principalmente sul recupero e la partecipazione, il dialogo e la democrazia, sul volontariato. Tutti elementi che ritardano la comprensione della necessità della ribellione.

VI

Se non abbiamo la capacità di promuovere prima le nostre idee anarchiche, come possiamo assicurarci che, una volta fatta la rivoluzione, tutto questo procedimento non sarà un’altra volta assorbito da parte del potere, e quindi si ripeteranno un’altra volta le situazioni passate?

 

Innanzi tutto io non credo che non abbiamo la capacità di spiegare quali sono le nostre idee o di fare delle azioni. Per quanto siano sempre situazioni parziali, limitate.

Poi io non credo che il concetto di rivoluzione sia un concetto definitivo. L’ipotesi di una rivoluzione che chiude definitivamente con il passato a me sembra che appartiene al patrimonio utopistico del passato. Mentre è più facile pensare ad un processo rivoluzionario che trasformi i valori della società, in maniera violenta, nel corso di un tale processo il compito degli anarchici è sempre quello della critica e non quello di considerare finito il proprio lavoro.

Molto probabilmente le rivoluzioni del futuro saranno più di una e molto incomplete. A me personalmente mi interessa poco parlare di una società ideale. Il discorso utopistico non mi ha mai interessato. Mentre i problemi del passaggio rivoluzionario, delle trasformazioni in corso sono molto più importanti.

VII

Qual è il tuo punto di vista riguardo i paesi come Cipro o la Palestina che affrontano al loro interno problemi particolari come quello della lotta di liberazione nazionale? Quindi non affrontano soltanto la lotta anticapitalista. In quale modo gli anarchici, all’interno di queste situazioni, potrebbero essere conseguenti riguardo le loro idee ma anche essere efficaci rispetto all’intervento?

 

Io per quanto riguarda Cipro non conosco il problema nella sua realtà, non sono mai stato a Cipro e non mi sono mai documentato.

Mentre conosco meglio la questione della Palestina o di altre situazioni come ad esempio l’Irlanda del Nord o i Paesi Baschi.

Su questo problema, in modo particolare quello della lotta di liberazione nazionale, per poterne parlare bisogna avere una documentazione diretta. Cioè, se parliamo della Palestina io credo che se uno non è stato nei campi palestinesi, se non ha direttamente visto come vive la gente non riesce a capire realmente quale è veramente il problema teorico della liberazione nazionale. Per questo non mi permetto di parlare della situazione di Cipro perché non la conosco.

D’altro canto la mia esperienza di quarant’anni di partecipazione a queste situazioni di lotta di liberazione nazionale, mi porta a dire che gli anarchici si rendono conto con difficoltà del problema della lotta di liberazione nazionale. Tu pensa che 1976 sono stato il primo a sollevare questo problema, in quell’opuscolo che è anche stato tradotto in inglese, dopo decenni di silenzio all’interno del movimento anarchico, da quando era finita la guerra di Spagna. Gli anarchici cadono nell’equivoco del nazionalismo e hanno paura di parlare di questo problema.

Ad esempio, in Irlanda, nel 1973 ho conosciuto molti anarchici che facevano parte dell’IRA, ma come organizzazione separata, che si chiamava INLA, che aveva un’analisi meno nazionalista di quella dell’IRA. Ad esempio parlavano di un’Irlanda del Nord libera dagli Inglesi, ma anche libera dall’Irlanda del Sud, invece l’IRA parlava dell’unificazione dell’Irlanda. E questo in base alla teoria di Bakunin che sosteneva che uno Stato tanto più piccolo è tanto meno pericoloso è. Dal punto di vista della partecipazione alle lotte facevano le stesse cose che facevano quelli dell’IRA, ma dal punto di vista teorico avevano delle teorie diverse. Mentre in Palestina gli anarchici sostanzialmente non ci sono.

Tutte le teorie vicine al movimento anarchico che parlano della Palestina sono tutte esterne alla Palestina. Se un anarchico va in Palestina si rende conto che prima di parlare delle teorie anarchiche ai Palestinesi, quindi prima di farsi capire, è necessario combattere insieme a loro. Viene prima la pratica e poi la teoria in situazioni di lotta di liberazione nazionale.

Voglio che tu capisca bene. In Grecia, in Italia è facile parlare di queste teorie. È facile parlare per noi anarchici della Palestina, ma la Palestina è un’altra cosa delle chiacchiere che facciamo noi e solo andando là e partecipando alle loro lotte si capisce questa differenza.

Io non so se per Cipro è la stessa cosa, per questo non posso parlarne.

VIII

Nell’epoca post-industriale del Capitale quali sono i nuovi elementi di analisi?

 

In poche parole sono gli elementi della trasformazione del Capitale. Il Capitale per superare le sue difficoltà, ha spezzato il fronte del lavoro, ha spezzato la coscienza di classe degli operai, ha polverizzato la produzione a livello mondiale e quindi lo scontro di classe è crollato.

Ed è per questo che parliamo di Capitale post-industriale, è per questo che parliamo della necessità di distruggere il lavoro di fronte a queste enormi trasformazioni del Capitale.

 


[Discussione ad Atene con i compagni dell’archivio anarchico di Nicosia, tenuta il 12 marzo 2009. Trascrizione della registrazione su nastro]

Senza collaborare

Negli ultimi giorni ho visto centinaia di compagni anarchici, compagni anarchici come voi, e ho avvertito più delle cose che mi sono state dette, e più delle cose che ho detto io, una sorta di attesa. Un sentimento difficile a dirsi con le parole, qualcosa che è dentro tutti noi, che non è facile definire e che certamente nasce in parte dai fatti di dicembre.

Un insieme di domande, di dubbi, di desideri, di sogni e di “che fare”? Certo non è che in una discussione come questa si può risolvere un problema del genere, però un passo avanti forse, insieme, lo possiamo fare.

La richiesta che mi è stata fatta è quella di dare un mio personale contributo ad un’analisi della situazione economica in cui si trova il Capitale oggi. Non solo questo, ma anche su cosa possiamo fare per combatterlo. Quindi un’analisi dello scontro, da un lato il Capitale che si cambia, che si trasforma, dall’altro il movimento rivoluzionario anarchico che deve potersi dare le forme di lotta insurrezionale adatte a questa trasformazione. In modo che la prossima insurrezione spontanea non ci trovi impreparati.

Cominciamo dalla parte del nemico. Lo Stato, il Capitale. Si sono profondamente trasformati. Conoscete benissimo le varie teorie che sono state applicate dagli economisti per salvare le difficoltà del Capitale: rottura del fronte del lavoro, frantumazione nel territorio della fabbrica tradizionale, globalizzazione dell’economia, utilizzazione della tecnologia telematica.

Tutto questo ha permesso, attraverso la flessibilità del lavoro, al Capitale di spezzare la coscienza di classe dell’operaio, di mettere una parte degli operai contro l’altra, di svuotare dall’interno il concetto e la pratica di lotta di classe, di costruire negli ultimi vent’anni un mondo produttivo lontano migliaia di anni da quello che c’era una volta.

Tra il 1980 e oggi, tra un Capitale legato alle costruzioni fisse e un Capitale com’è oggi che sfrutta la flessibilità del lavoro, c’è una differenza assolutamente radicale. Se la nostra lotta rivoluzionaria dovesse per caso, speriamo di no, arrivare ad uno sbocco espropriativo di quelli che sono i mezzi di produzione, non sapremmo cosa farne.

Quest’affermazione è grave, difficile da condividere, e invece è facilmente dimostrabile.

Pensate al concetto di autogestione, che tante generazioni di rivoluzionari ha fatto sognare. In che modo oggi potrebbe essere applicata in un mondo globalizzato, generalizzato e telematizzato l’autogestione di unità produttive?

Certo, se noi sogniamo l’idea utopica di una rivoluzione mondiale, io non saprei cosa dirvi, ma nell’idea più concreta e più probabile di una rivoluzione che comincia a svilupparsi, in che modo può verificarsi l’autogestione di unità produttive? Senza essere soffocata dalla indispensabile telematicizzazione mondiale, senza essere soffocata dalla rete di telecomunicazioni mondiale, senza essere soffocata dalla rete dei trasporti e delle commercializzazioni mondiali, quindi di questi mezzi di produzione, anche nella eventualità rivoluzionaria, non sapremmo cosa farne.

Se voi pensate che il novanta per cento dei nostri bisogni, quei bisogni per cui lavoriamo, per cui ci facciamo sfruttare, sono bisogni inventati dal Capitale, sono bisogni inesistenti, capite come noi lavoriamo per sostenere il Capitale.

Questi bisogni dovrebbero scomparire nella rivoluzione, ed è facile capire che la vecchia concezione rivoluzionaria che da centocinquanta anni fa sognare i compagni: “facciamo la rivoluzione, prendiamo i mezzi di produzioni dei padroni, mettiamoli nelle mani dei proletari e tutto è fatto, e la rivoluzione è fatta, è conclusa”, è un sogno irrealizzabile.

Ecco perché bisogna attaccare, compagni, attaccare ora, adesso, senza perdere tempo, perché non siamo gli eredi di nulla. Ci stiamo facendo sfruttare per niente.

Ma questo aspetto necessita di un chiarimento di natura più profonda. L’attacco non può essere affidato alla volontà del singolo, non può essere soltanto il gesto di rivolta dell’individuo, ma si deve potere pensare ad un attacco collettivo. Si deve potere pensare ad un attacco insurrezionale.

Stasera siamo qua per riflettere su di un attacco insurrezionale non spontaneo. Non perché a me come rivoluzionario e come anarchico non piace l’attacco spontaneo, anzi, al contrario, ma perché è necessario fare un passo in avanti. Perché è necessario potersi organizzare oggi per essere preparati nella eventualità della prossima insurrezione spontanea.

Molte sono le forme che possono prendere le insurrezioni, c’è la forma che ha preso l’insurrezione di dicembre in Grecia e ce ne sono molte altre. Ma è inutile fare un elenco delle forme possibili delle insurrezioni, perché ogni insurrezione spontanea è sempre sorprendente. Sempre sorprendente per il compagno singolo, ma non è sorprendente per il compagno organizzato. Ecco la domanda che mi è stata fatta da molti compagni qui in Grecia in questi giorni: cosa possiamo fare per non essere impreparati?

Innanzitutto cercare i propri compagni, noi siamo tutti anarchici, voi siete anarchici, io sono anarchico, ma ognuno è differente da un altro, occorre potere individuare fra di noi, fra compagni anarchici, quali sono le affinità reciproche, occorre conoscersi, occorre approfondire questa conoscenza, non basarsi soltanto sull’amicizia, sull’amore, sulla piacevolezza fisica, ma conoscersi in base alle proprie idee, al proprio modo di vedere il mondo e costituire quindi dei gruppi su questa base, cioè sulla base dell’affinità.

Gruppi che non sono legati da statuti, da istituzioni, da rapporti fissi, da programmi, da congressi, da confederazioni, gruppi che non hanno nemmeno bisogno di avere una sede, una sede fisica, che si mettono in rapporto fra di loro in una maniera informale, che mettono insieme la propria creatività, sia per quanto riguarda i mezzi di attacco, sia per quanto riguarda la capacità di attaccare gli obiettivi. E in particolare di capire quali obiettivi attaccare.

Il Capitale ha un’abilità particolare, non solo per reprimere, controllare attraverso le strutture dello Stato, ma ha anche un’altra abilità, ha quella di chiamarci a collaborare.

Voi pensate all’importanza che ha oggi la partecipazione, il vogliamoci tutti bene, l’importanza del volontariato, milioni di persone nel mondo che lavorano per rendere possibile l’esistenza del Capitale e lavorano allegramente. E non si rendono conto di essere strumenti che vengono giocati dal Capitale.

Stiamo attenti perché l’imbroglio è ancora peggio della repressione, perché è una repressione nascosta. Siamo capaci di affrontare il poliziotto armato, non so se siamo capaci di capire fin dove arriva l’imbroglio democratico.

Compagni a migliaia e migliaia hanno speso la loro vita in sotterranei senza aria e senza luce nell’illusione di un lavoro liberato, producendo ceramiche e scarpe a poco costo, perdendo i migliori anni della loro vita nell’imbroglio delle comuni che producono vino, frutta e altro e non si sono resi conto di essere in questo modo uno strumento indiretto di recupero di quelle forze che avrebbero dovuto attaccare e distruggere, e così si sono suicidati in un assurdo tentativo di autoproduzione.

La realtà delle cose è che sfuggire alla partecipazione è difficilissimo, se voi pensate alla riduzione di importanza che hanno avuto in questi ultimi vent’anni i partiti di sinistra e i sindacati, potete capire in che modo stanno per essere sostituiti da altre forze di recupero, dalle strutture di volontariato e dalla forza dei sindacati di base.

Intendiamoci, se qualcuno mi dice: come faccio a difendere il mio lavoro se i sindacati tradizionali mi hanno tradito, io a questa domanda non ho nessuna risposta, perché se chi mi pone la domanda ha il problema di dare da mangiare alla sua famiglia non saranno certo le mie chiacchiere che potranno risolvere quel problema, se invece questo compagno non mi dice come faccio a difendere il lavoro, il suo lavoro, ma mi dice come faccio ad attaccare il lavoro, il lavoro che apparentemente gli sta dando da mangiare, ma che nella sostanza lo sta uccidendo, lo sta imbrogliando, allora io sì che sono in grado di rispondere. Studiamo insieme perché occorre attaccare il lavoro.

Tenete presente compagni che siamo al centro del problema, siamo al centro del problema insurrezionale. La prossima insurrezione spontanea, continuerà ad attaccare gli obiettivi simbolici di ieri, se noi non saremo in grado di indicare obiettivi concreti. Voi pensate seriamente che attaccare il Parlamento sia un obiettivo concreto, che attaccare il simbolo principe della politica sia un obiettivo concreto? Non è un obiettivo concreto ovviamente, ma simbolico.

Possiamo quindi dire che è compito storico degli anarchici oggi indicare gli obiettivi concreti. Questi obiettivi concreti si dipartono, si diramano, si sviluppano a partire dal centro produttivo. La piaga centrale della realtà odierna è il lavoro.

Concetto difficile perché noi siamo sentimentalmente legati al mondo del lavoro, la nostra storia come anarchici è stata sempre vicina al mondo degli sfruttati, e abbiamo sempre pensato da un lato gli sfruttati e dall’altro gli sfruttatori, e abbiamo pensato bene, per centocinquanta anni, ma almeno da vent’anni a questa parte, a seguito delle grandi trasformazioni del Capitale, bisogna porsi questa domanda, gravissima: ma lo sfruttato non è responsabile anche lui del proprio sfruttamento?

Ormai è facile parlare di rivolta, di insurrezione, di attacco, è facile individuare gli obiettivi simbolici, classici. Insomma compagni tutti abbiamo litigato e fatto a botte con la polizia, tutti abbiamo attaccato le banche, tutti abbiamo saccheggiato i negozi, tutti abbiamo distrutto, bruciato, il nostro cuore era in festa nel sabotaggio, nel saccheggio, ma allora perché la domanda: che cosa si può fare in più?

Ecco, che cosa possiamo fare in più? Due cose: organizzarsi e individuare gli obiettivi. Organizzarsi per la prossima insurrezione spontanea e individuare gli obiettivi dove è più difficile. E certamente l’attacco al lavoro è uno degli obiettivi più difficili da capire, e i prossimi anni che quasi certamente vedranno una enorme eliminazione da parte del Capitale di molti posti di lavoro, a seguito anche della “crisi”, tra virgolette, di cui tutti siamo a conoscenza, potrebbero essere per noi importanti, per far capire ai lavoratori la loro responsabilità e per averli al nostro fianco nel corso della prossima insurrezione organizzata.

Io non voglio allungare molto il mio discorso perché in poche parole ho detto praticamente tutto quello che volevo dire.

Vi invito soltanto a riflettere sulla delicatezza dei punti che ho messo in risalto, sulla difficoltà, semplicemente la difficoltà di dire la distruzione, di parlare della distruzione, e vi invito a tenere presente con quale sforzo teorico io stesso riesco a parlare della distruzione del lavoro, io che ho vissuto quarant’anni della mia vita nelle lotte a fianco degli sfruttati, arrivare a queste conclusioni, della loro responsabilità nei confronti dell’esistenza del Capitale e dello sfruttamento, ecco che cosa non riuscirei mai a dirvi, ecco che cosa non riuscirei mai a fare capire, cioè con quanta difficoltà e quanto dolore personale sono arrivato a queste conclusioni.

 

Sbarazziamo un attimo la questione dei Cobas, cioè dei sindacati di base italiani. Sono più di vent’anni che personalmente io critico, in Italia, la questione dei Cobas. Prima li criticavo su di una base esclusivamente ideologica, seguendo le tesi di Malatesta, il quale diceva, prima siamo anarchici e dopo siamo sindacalisti, perché la mia esperienza con questi compagni era che prima erano sindacalisti e dopo erano anarchici.

Le mie erano chiacchiere. Adesso non lo sono più, cioè le stesse parole, cambiando la realtà, cambiano di significato. Le difficoltà odierne del Capitale, bisogna tenerle presente, conoscerle, capirle, approfondirle, per criticare i sindacati di base. Perché se noi li separiamo: sindacati di base da un lato, sindacati confederali dall’altro, cosa abbiamo? Che i confederali non fanno niente, mentre qualche lotta la fanno i sindacati di base, partecipano a qualche lotta.

Io non ho mai negato questo, invece affermo, e possiamo documentarlo, che la funzione del sindacato di base oggi, in una situazione come quella del Capitale oggi, è di recuperare le fasce che altrimenti potrebbero pericolosamente attaccare il Capitale.

Nelle attuali condizioni siamo ad una resa dei conti, la nuova forma produttiva non può avere spazio per un recupero, non può essere modificata a favore del lavoratore, perché è indirizzata verso una gestione completamente estranea al lavoratore, che è la gestione telematizzata, assistita dall’imbroglio delle telecomunicazioni, dall’imbroglio della pubblicità mondiale. Ora, l’unica cosa che possiamo fare davanti a questa struttura nuova del Capitale è distruggerla.

Attenzione compagni, qualunque lotta, anche la più radicale, che si pone come obiettivo uno scopo recuperativo, rivendicativo, che cerca di fare stare meglio il lavoratore, maggiori salari, migliori condizioni di lavoro, migliori strutture produttive, tutto quello che volete, anche se condotta con metodi di attacco parziali, naturalmente non distruttivi, è funzionale al recupero del Capitale. È doloroso, ma è così.

Vent’anni fa era una prospettiva, oggi si è realizzata. Vent’anni fa ci si poteva illudere sulla situazione anarcosindacalista, oggi non lo si può più fare.

Io non penso di sopprimere niente e nessuno, ognuno fa il suo lavoro. I sindacati di base fanno il loro lavoro, io suggerisco un tentativo per cercare di capire oggi che cosa è questo lavoro, che fa il sindacato di base, non cerco di suggerire la sottrazione di qualcosa nello scontro fra sfruttati e sfruttatori.

La rivoluzione è un fenomeno di complessità inimmaginabile. Noi stavamo parlando dell’insurrezione, di una possibile insurrezione organizzata e dello strumento della distruzione del lavoro. Di questo che stavamo parlando.

Ma non parlavo di questo perché mi piace la distruzione, ne parlavo perché la ritengo necessaria nell’attuale situazione del Capitale, oggi, ora, e non nell’attesa di potere ereditare i mezzi di produzione per autogestirli, questo è assolutamente impossibile, per i motivi visti prima.

Una volta chiarita la funzione recuperativa dei sindacati di base, qualunque metodo anche il più estremo questi sindacati possano applicare, resta sempre funzionale al recupero. Io la penso così, voi non so se siete d’accordo oppure no.

 

Che cos’è la rivolta e quali siano le differenze rispetto all’insurrezione. Io non ho una risposta precisa perché sono concetti che passano uno nell’altro, non c’è insurrezione senza rivolta e la rivolta è un elemento dell’insurrezione.

Non c’è dubbio che nel corso di un’insurrezione si trovano individui ribelli, se uno li prende uno ad uno questi compagni, semplicemente sono della gente, se uno li considera uno per uno sono soltanto dei ribelli, ma l’insieme di quello che accade è certamente un’insurrezione. Se è un’insurrezione spontanea, lo si capisce soltanto dalla scelta degli obiettivi, che normalmente sono obiettivi a portata di mano. Se invece è un’insurrezione organizzata, lo si capisce perché improvvisamente vengono attaccati obiettivi impensabili.

Sul fenomeno zapatista sono state scritte migliaia di pagine. Compagni che io conoscevo personalmente, che hanno fatto moltissime lotte con me sono andati a combattere con gli zapatisti.

Come tutti i grandi fenomeni di massa ci sono aspetti positivi e aspetti negativi, cercare di riassumerli in un giudizio unico, nel senso di dire: il movimento zapatista è stato questa cosa, non è possibile, ci sono ombre, luci, sfumature.

 

Siamo o non siamo d’accordo per attaccare il Capitale? Se la risposta è sì, come penso che sia la risposta più naturale, dobbiamo o non dobbiamo attaccare le forme che il Capitale si è dato negli ultimi vent’anni?

Se la risposta è sì, come penso che sia, noi dobbiamo tenere presente la rete di telecomunicazioni che avvolge il pianeta come una maglia, e io penso sia legittimo attaccare, perché il Capitale nelle trasformazioni che si è dato, si basa proprio su questa rete di telecomunicazioni. In questo caso, cosa si sta facendo se non attaccare il lavoro?

Se noi riuscissimo ad attaccare in modo significativo, sempre rimanendo nell’esempio fantastico delle telecomunicazioni, causeremmo un aumento della disoccupazione come conseguenza di un aumento delle difficoltà del Capitale, teniamo presente che questo esempio è molto più concreto di quanto possa sembrare.

Un piccolo esempio, in Italia dal 1994 al 1995 è stato attaccato e incendiato quasi l’ottanta per cento dei negozi di una grande catena di distribuzione: la Standa. Questa catena appartenente a Berlusconi è stata venduta al cinquanta per cento del suo valore.

Cioè, processi insurrezionali, attacchi insurrezionali contro obiettivi del Capitale, concreti non simbolici, sono necessariamente attacchi contro il lavoro.

Che poi io sia o non sia in grado di dire che cosa posso immaginare sia possibile fare del lavoro dopo la rivoluzione, non lo so. Non lo so. Questo appartiene ai miei sogni personali, ai miei desideri che personalmente con attenzione tengo lontani dall’analisi oggettiva. Non che i miei sogni siano una cosa e la realtà un’altra, perché anche i sogni hanno la loro presenza nella realtà, ma basta soltanto che mi spingano all’azione, però io mi rifiuto di dare loro il corpo di un’utopia. Per tutta la vita mi sono rifiutato di fare questo. Fra i miei tanti, troppi, libri, non c’è una pagina che parla di questo argomento.

La mia utopia personale è l’attacco, ora, subito.

 

Sull’analisi che ho fatto all’inizio, che non mi sembra il caso di tornarci sopra, a me sembrava, ed era chiaro, che il Capitale ha avuto nel tempo una grossa trasformazione.

Negli ultimi centocinquanta anni non si è mai vista una situazione come quella di oggi, questa trasformazione ha spezzato l’unità di classe, ha reso impossibile la coscienza di classe, ha polverizzato la classe operaia. Potremmo continuare all’infinito.

Io non dico che è impossibile la rivoluzione, io dico che è impossibile l’utilizzo degli strumenti produttivi in maniera liberata, in maniera rivoluzionaria. E quando dico, non solo io, “strumenti produttivi”, intendo il Capitale e i suoi rapporti.

Non so se avete presente quello che ho detto. Una volta c’erano gli sfruttati, gli sfruttatori, la teoria rivoluzionaria pensava di togliere agli sfruttatori gli strumenti di produzione e darli agli sfruttati e autogestire la produzione.

L’esempio della Spagna, dentro certi limiti, l’esempio delle collettività dentro certi limiti, secondo me tutto questo è archeologia, oggi non è più possibile, insomma non possiamo più attenderci nessuna eredità.

La rivoluzione non troverà niente da autogestire, dovrà inventarsi un mondo nuovo che nessuno di noi è in grado di immaginare, se non con una esercitazione utopistica.

Questa non è una considerazione personale, perché voglio essere catastrofico, perché mi piace la distruzione, non è nulla di personale.

Se voi esaminate i dati di come oggi è costruito il Capitale, dovete necessariamente arrivare alle stesse conclusioni. Le soluzioni sono due: o attaccare, o partecipare.

Se attacchiamo dobbiamo distruggere e se distruggiamo obiettivi concreti del Capitale, distruggiamo il lavoro.

Cosa possa venir fuori da una prospettiva strategica e rivoluzionaria del genere appartiene al regno delle ipotesi. Io non dico che bisogna attaccare per raggiungere questo o quello scopo, perché né questo né l’altro scopo io lo conosco, io dico che bisogna attaccare il Capitale perché non c’è un’altra soluzione.

Noi siamo necessariamente costretti ad attaccare, oppure ad accettare il ruolo di schiavi, che nei prossimi anni diventerà sempre più preciso sempre più dettagliato, per cui in futuro, mentre noi immaginiamo di ragionare con la nostra testa, se non attacchiamo finiremo per ragionare con la testa del Capitale e non ce ne accorgeremo nemmeno. Magari continueremo a chiamarci anarchici, ad amare la libertà, ma saremo schiavi con la catena dorata.

 

Io sono stato accusato di tante cose in vita mia, sono stato accusato di fare parte di organizzazioni armate e ovviamente sono stato condannato a tanti anni di carcere, ma non è questo il punto.

Un’organizzazione armata, come ho spesse volte detto e scritto, siamo anarchici quindi per l’organizzazione armata anarchica, non ci interessano quelle di natura autoritaria. In passato è stata realizzata ed è possibile anche che in futuro determinate condizioni dello scontro contro il Capitale, renderanno possibile, anzi, scusate, necessaria, questo tipo di organizzazione, per cui personalmente non ho nulla né a favore né in contrario.

La differenza fra un’organizzazione insurrezionale fondata sui gruppi di affinità e un’organizzazione armata necessariamente clandestina, o appartiene ad una decisione minoritaria di un gruppo di compagni, i quali ritengono di dare vita ad una organizzazione clandestina, che può svolgere un compito, un compito che a loro è chiaro, non ha nulla in contrasto con un’organizzazione insurrezionale fondata sui gruppi di affinità. Sono due cose completamente diverse, ma non hanno nulla in contrasto, non contrastano fra di loro. Però nella pratica succede che, visto anche che ognuno di noi ha i suoi limiti, ve lo dico per esperienza personale, che chi sceglie un metodo guarda con sospetto a chi ne sceglie un altro. Dice: ma non siamo tutti anarchici?, certo, sì siamo tutti anarchici, ma questo non basta.

Per cui occorrerebbe avere l’intelligenza rivoluzionaria di pensare possibili più strumenti di lotta, senza pensare che il proprio orto, il proprio campo, sia il solo che si possa coltivare.

La mia esperienza personale degli ultimi trent’anni mi ha insegnato che questa intelligenza rivoluzionaria non è facile. Poi ognuno fa le sue scelte.

 

L’uso delle tecnologie.

La tecnologia telematica e comunque le telecomunicazioni in genere, fondano la forza del Capitale. Il fatto che noi le utilizziamo, in piccola parte, è un dato di fatto, ma non è un elemento per poterle considerare utili alla rivoluzione.

Facciamo un esempio: le armi tradizionali indiscussamente in uno scontro armato sono indispensabili. Oggi affrontiamo la polizia con le pietre, ma in un’insurrezione vera e propria l’affronteremo con le armi. Questo non vuol dire che le armi non vadano distrutte, non vuol dire che la forza repressiva del Capitale non si basa sulle armi.

Moltiplicate per un milione di volte questo esempio e avrete la forza che la tecnologia telematica fornisce al Capitale. Il progetto di cui parliamo, di attacco alla tecnologia all’interno del progetto di distruzione del lavoro, seconda parte della domanda, non è sviluppato per collegare il nostro rapporto con il proletariato, ma noi incontreremo un proletariato espulso dal lavoro, come conseguenza delle trasformazioni del Capitale, e questo incontro lo faremo nel corso della distruzione del lavoro, perché il Capitale ha reso estraneo a noi e al proletariato la struttura del lavoro, e sempre di più negli anni futuri questo diverrà chiaro.

 

Io non lo so cosa faremo con grandi masse espulse dal lavoro, come rivoluzionari, come anarchici, piangeremo insieme a loro? Io trovo spesso persone che vengono a piangere sulla mia spalla perché hanno perso il lavoro o perché subiscono qualcosa sul posto di lavoro. Cosa gli posso consigliare? Mettiti il coltello fra i denti.

Aspettate un momento. È facile dire: mettiti il coltello tra i denti, perché anche il coltello fra i denti può diventare un mestiere, un lavoro come un altro, un lavoro lungo, seccante, pericoloso, noioso.

Il fatto è che io non so cosa rispondere, non è un problema che mi appartiene, io sono davanti ad una realtà, ed è la trasformazione del Capitale e qua interviene la seconda parte del problema: il precariato, una struttura di recupero delle forze del Capitale, aiuta e sostiene il Capitale.

A parte il fatto che io non credo al concetto di soggetto rivoluzionario, io non credo sia mai esistito un soggetto rivoluzionario e certamente non può esserlo il precariato che lavora in condizioni miserabili, che vive e si accontenta di una vita miserabile. In quanto anarchico io non posso non consigliare loro di attaccare, è compito mio fare vedere loro la funzione di recupero che hanno, e questo nella prospettiva di attacco al lavoro. In fondo appartiene a quel problema della creatività dei rivoluzionari, trovare sempre nuovi obiettivi di attacco, sempre diversi.

 

[Intervento: Ci puoi dire qualcosa sulla morte di Pinelli?]. Mettiamo da parte la questione della strage di Stato e di Pinelli, che non ci aiuta a capire il problema della lotta armata in Italia. L’uccisione di Pinelli è stato un omicidio, come quello del compagno ucciso qui a dicembre. Il responsabile di questa uccisione è stato il commissario Calabresi che, a sua volta, è stato ucciso dai compagni.

In un certo modo però l’uccisione di Calabresi, non l’uccisione di Pinelli, entra in rapporto con la nascita del movimento di lotta armata in Italia.

Io ho scritto un libro su questo problema, sull’uccisione di Calabresi, in cui faccio vedere come ad uccidere Calabresi siamo stati tutti i compagni. Perché era nel cuore di tutti quelli che abbiamo partecipato al funerale di Pinelli.

Quelli che sono stati condannati, i tre compagni di Lotta Continua, non c’entrano minimamente, perché non erano presenti al funerale di Pinelli. Perché ad uccidere il commissario Calabresi sono stati tutti gli anarchici, anche quelli che sono qui dentro.

Voi dovete sapere che Calabresi è stato ucciso nel 1973, il 17 maggio. Dopo un mese, vicino Venezia, c’è stato un dibattito pubblico a Porto Marghera, dove si è fatto il discorso se rivendicare o meno l’uccisione di Calabresi. Si è deciso di non rivendicare l’uccisione di Calabresi. È importante questo, cioè si è deciso di non fare nessun comunicato, nessun documento, nessuna spiegazione.

Quelli che non erano d’accordo, una minoranza dell’assemblea, hanno dato vita alla lotta armata in Italia. La Brigata Rossa, il primo nome delle Brigate Rosse, nasce dalla minoranza di quell’assemblea e si porta con sé tutte le conseguenze di una mentalità dirigista, che pensava di essere l’avanguardia del proletariato.

Da quel momento in poi, le azioni di questa parte minoritaria, estremamente cresciuta, a partire dal sequestro di Sossi, del giudice Sossi, sono sempre accompagnate da una spiegazione.

Il modello invece degli anarchici era diverso, la massima spiegazione possibile, che poteva essere tollerata, era quella della Angry Brigade che scriveva al massimo dieci parole, oppure due parole, ad esempio “stiamo arrivando”.

Quando l’organizzazione armata clandestina Azione Rivoluzionaria, anarchica, comincia a stendere lunghi comunicati, chiude come organizzazione anarchica ed entra in Prima Linea (un’altra organizzazione autoritaria).

Io ho fatto questo lungo discorso per fare capire che il ruolo degli anarchici è quello di individuare obiettivi che parlino da soli. Che cosa c’era da dire sull’uccisione di Calabresi? È a questo che oggi ci riferiamo quando parliamo della creatività per trovare nuovi obiettivi di attacco.

Se siamo d’accordo con l’analisi delle trasformazioni attuali del Capitale, se per esempio dovessimo attaccare la struttura delle telecomunicazioni, che spiegazione dobbiamo dare?

Voi pensate che in Italia dal 1989 al 1999, in dieci anni, sono stati abbattuti mille e cento tralicci dell’elettricità e non c’è stato un comunicato.

 

Certamente il discorso di ieri era parziale, perché doveva pure scegliere un argomento specifico, non poteva essere sull’attività anarchica in generale.

Però, se vi ricordate, c’è stato un momento in cui ho parlato del metodo anarchico di presentarsi anche nel corso di organizzazioni insurrezionali informali con dei metodi anarchici. È naturale che i compagni si rivolgono invece in una situazione in cui l’attacco è possibile soltanto in alcuni casi e in altri casi non è possibile.

Anche partecipando ad una lotta specifica, caratteristica degli interessi di una piccola parte della gente, ad esempio come sta accadendo in Italia per ora con i treni ad alta velocità, ci si deve presentare con i metodi anarchici, ma non soltanto con una semplice dichiarazione, un volantino, un giornale, un comizio, una conferenza e poi andare via. Questo tipo di lotta solo apparentemente è rivendicativa, lo è per quel che riguarda l’obiettivo, l’obiettivo che interessa alle persone, alla gente, ma per gli anarchici che partecipano a quella lotta insieme alla gente, l’obiettivo è quello dell’attacco, ecco perché io dico: non si può dire soltanto qualcosa e andare via, ma bisogna andare sul posto e restarci.

Ad esempio, per quanto riguarda la lotta dell’inizio degli anni Ottanta a Comiso contro la base missilistica americana, per impedirne la costruzione, noi siamo rimasti due anni e mezzo sul posto. Cioè dal momento che siamo arrivati e abbiamo sviluppato la nostra analisi, e abbiamo cominciato a parlare con la gente, a quando abbiamo provato a distruggere la base, sono passati due anni e mezzo. In questi due anni e mezzo abbiamo fatto migliaia di giornali, centinaia di migliaia di volantini, manifestazioni, comizi, in una zona grande più o meno quanto Atene. Cioè non c’era una persona che non conosceva le nostre tesi. Fino al momento in cui abbiamo provato ad attaccare, ci siamo sempre presentati come anarchici, e le altre forze politiche se volevano partecipare all’attacco contro la base dovevano seguire le nostre indicazioni.

Questo intendo: anche la lotta rivendicativa è un attacco. Se invece fin dall’inizio gli anarchici si accorgono, si rendono conto, che la gente vuole mettersi d’accordo col potere, se non riescono a fare cambiare idea, continuare nell’intervento pensando alla propaganda anarchica, è una illusione. Precisamente un’illusione quantitativa, ed è un pericolo che gli anarchici corrono continuamente, in quanto molti compagni sono convinti che lo scopo di un gruppo anarchico è quello di crescere, e invece no, lo scopo di un gruppo anarchico è quello di crescere nell’attacco. Che ovviamente è un tipo di crescita diverso.

Nell’attacco c’è una crescita di tipo qualitativo, in esso trovi compagni diversi, compagni che vogliono attaccare, non compagni che vogliono essere aiutati da te per trovare un lavoro.

Se vi interessa direi qualcosa di più sulla propaganda anarchica.

 

[Intervento: Perché usare questa parola: propaganda, che usava pure Goebbels]. Le parole non fanno buchi nella pancia. Lasciamo stare Goebbels. La propaganda anarchica ha una storia, la propaganda anarchica ha una tradizione secolare. I compagni anarchici negli ultimi centocinquanta anni hanno fatto quasi esclusivamente propaganda anarchica.

Ecco, io farei una distinzione fra due tipi di propaganda. Quella che parla dell’anarchia, della società del futuro, come è possibile organizzare una società libera, e un altro tipo di propaganda, che affronta i problemi concreti di oggi, i singoli problemi, in modo semplice, e indica quello che gli anarchici possono fare per lottare, oggi, contro quei problemi. Quindi siamo davanti ad un tipo diverso di propaganda.

La prima propaganda era basata sull’utopia del futuro, la seconda è basata sui fatti di oggi, su fatti concreti. Io penso che quando oggi parliamo di propaganda anarchica dovremmo riferirci a questo secondo tipo di propaganda. Questo secondo tipo di propaganda non è soltanto scrivere e distribuire degli opuscoli, ma anche fare delle azioni perché l’agire è anche propaganda. Ovviamente del secondo tipo di propaganda.

Innanzitutto bisogna ricordare il contesto in cui ho detto quella frase ed era l’uccisione del commissario Calabresi. Poi ho continuato facendo l’esempio dei tralicci. Ora in Italia la gente non è più intelligente che in Grecia, quello che può capire la gente in Italia capisce la gente in Grecia, è la stessa cosa.

Man mano che si cominciavano a buttare giù i tralicci si sono scatenati la stampa e la polizia. I giornali che dicevano: questi sono dei terroristi, che senso hanno queste azioni, perché le fanno, e questo lo dicevano per convincere la gente dell’inutilità o comunque della pericolosità di queste azioni. La polizia faceva le indagini, ovviamente, su circa mille e cento in dieci anni di tralicci tagliati è stato arrestato un solo compagno, per caso, in un conflitto a fuoco con la polizia, per altri motivi.

Ora, mille e cento tralicci non possono essere tagliati da pochi compagni, evidentemente sono centinaia i compagni che hanno realizzato queste azioni.

La gente ha capito che cosa vuol dire tagliare un traliccio? Non lo so, e che importanza ha? Questi mille e cento tralicci sono stati veramente un danno per il Capitale? E fino a quale punto sono stati un danno? Non lo so. E tutti i compagni che hanno realizzato questi fatti, credo che non lo sappiano nemmeno loro. Importante è che ci sia l’indicazione che una pratica è possibile, perché in un momento insurrezionale può diventare pratica di massa.

Secondo me dobbiamo cercare di non sacralizzare la rivendicazione, la spiegazione.

 

Gli anarchici sono figli dell’illuminismo e sono troppo legati alla parola, alla spiegazione, al parlare. Sono troppo legati all’importanza di spiegare quello che fanno e pensano poco, secondo me, che l’azione parla anche da sé, che l’azione è anche una forma di rivendicazione.

Gli anarchici sono portati a sacralizzare l’analisi. Troppe parole, secondo me, troppe parole.

 

[Intervento: Ma qui in Grecia c’è una lunga tradizione di azioni alle quali viene fatto seguire un volantino di rivendicazione, anche a prescindere da gruppi specifici, più o meno armati o clandestini]. Lo so, ma più un’azione ha bisogno di essere spiegata meno è capace di parlare da sé.

Ora, un gruppo armato clandestino, chiuso, che per forza di cose ha pochi rapporti con l’esterno, se compie un’azione la decide da solo, e quindi deve spiegare per forza. Mentre nel discorso di ieri, quindi quello relativo ai gruppi di affinità in una prospettiva di organizzazione insurrezionale, la necessità di una rivendicazione, di una spiegazione, di un volantino è minore.

Perché si fa un’azione e dopo ci si rende conto che la gente non ha capito, e se ne fa un’altra, e così via. Secondo me la necessità della rivendicazione cresce con l’isolamento di chi fa l’azione.

 

Negli ultimi quarant’anni ho sempre sostenuto questa tesi e sono sempre stato messo in minoranza, però il dialogo al quale fai riferimento tu, l’interesse sul problema, non sull’azione, può essere sollevato indirettamente in altre occasioni. Può essere sollevato in altre occasioni.

 

[Intervento: Come?]. Non è facile rispondere. Può essere sollevato in altre occasioni con i mezzi normali del movimento, con le riviste nostre, con i giornali, le riunioni.

Mentre l’errore, secondo me, della rivendicazione è quello di legarsi al fatto, all’azione. Tu metti la bomboletta e scrivi la rivendicazione, la leggi, e tu pensi che la rivendicazione sia compresa dalla gente, perché tu pensi che la gente leggendo la rivendicazione capisca perché hai messo la bomboletta. Ma non è così. Tu hai messo la bomboletta per un problema che non è la bomboletta ma che sta oltre, ed è di quel problema che devi parlare non della bomboletta. Quello è un problema, e ne parli in cento modi, nei limiti che hai. Ma la rivendicazione della bomboletta è incomprensibile dalla gente.

Pensate ai grandi comunicati che sono stati fatti dalle organizzazioni clandestine, ma li avete visti? li avete mai letti? Erano incomprensibili per me, io non li capivo, pensate cosa poteva capire la gente.

Ieri sera abbiamo detto che sono d’accordo sul fare un’azione e fare uscire una rivendicazione, ma di tre righe, di due parole, come quelle dell’Angry Brigade, ma tu che metti una bomboletta o tagli un traliccio e fai una rivendicazione di venti pagine, cosa significa? Ognuno è libero di pensarla come vuole.

Se noi prendiamo ad esempio la storia di Azione Rivoluzionaria, organizzazione anarchica clandestina, le prime azioni che sono state fatte avevano rivendicazioni brevi, piccole frasi. Quando l’organizzazione si è sciolta e ha finito di agire, alcuni dei componenti sono entrati in un’organizzazione autoritaria e hanno fatto una rivendicazione di trenta pagine. E poi ognuno è libero di pensarla come vuole.

 

Non credo di essere stato chiaro. Anche riguardo le recenti azioni che ci sono state in Grecia, dopo dicembre scorso, io sostengo che le rivendicazioni che ci sono state non erano necessarie, per i motivi che ho illustrato sopra.

 

Però compagni vogliamo mantenerci alla superficie delle cose oppure vogliamo entrare nella realtà delle cose? A noi la scelta. Se vogliamo continuare a raccontarci la vecchia favola del povero sfruttato per poterci addormentare tranquilli la notte, ognuno è libero di farlo, se però vogliamo penetrare nella realtà delle cose troviamo questa merda, e il rivoluzionario anarchico deve affrontare questa merda o se no continua ancora con i suoi sogni di quanto è bella l’anarchia e di quanto è bella la libertà.

Vi ringrazio.

 


[Conferenze tenute il 9 marzo 2009 presso la Camera del lavoro di Iraklio e il 10 marzo presso la casa occupata Evangelismos di Eraklio. Trascrizione della registrazione su nastro].

Insurrezione

Da dove arriva un avvenimento così sconvolgente come quello del video che abbiamo appena visto, così sorprendente?

Ho letto che i giornali si sono dilungati sul concetto di caos. Per riflettere su di un avvenimento così doloroso e straordinario, di portata tale, non possiamo limitarci solo al momento specifico, cioè al momento in cui il compagno è stato ucciso dalla polizia. Dobbiamo sforzarci di capire qualcosa di più, possibilmente per essere meglio preparati e organizzati in occasione della prossima insurrezione spontanea.

Il fatto è che viviamo in una società completamente diversa da quella di venti anni fa. Le difficoltà che il Capitale aveva incontrato a metà degli anni Ottanta le ha superate con una profonda trasformazione della realtà. Non solo ha spezzato la rigidità del lavoro, ma ha polverizzato la classe operaia, ha ridotto al minimo o ha quasi cancellato del tutto la coscienza di classe.

Nella realtà che si prospetta, il lavoro avrà sempre di più una dimensione globale, a livello mondiale. Non soltanto il lavoro, ma anche la produzione, la distribuzione, e quindi saremo davanti a una impossibilità di rispondere come si faceva venti anni fa, a partire da una compattezza di classe.

I fenomeni che si sono verificati all’interno della struttura della fabbrica tradizionale, si sono riversati nella società. Noi viviamo in una società disgregata, in cui i processi di controllo dello Stato e del Capitale sono in veloce trasformazione.

Non c’è soltanto il poliziotto, ma ci sono molte altre strutture di recupero; accanto alle strutture repressive, carceri e tribunali, pensate al gioco che fa il volontariato, ad esempio, il recupero sindacale, non più partendo dalle classiche centrali sindacali che ormai non dicono più nulla, ma anche dallo stesso sindacato di base.

Pensate a come è stata trasformata la società attraverso la telematica, riflettete sull’uso di recupero che oggi viene fatto della telematica, pensate alla funzione e all’uso della televisione, alla funzione recuperatrice della musica, all’abbassamento e all’impoverimento culturale, alla miseria che viene fuori dalle università.

Cosa produce tutto questo?

Da un lato l’abitudine a obbedire e abbassare la testa, a chiedere un posto di lavoro da precario, un sussidio allo Stato. Oppure un piccolo modesto posto di lavoro, oppure reagire, oppure attaccare? Ecco l’alternativa.

Le immagini che abbiamo visto non devono essere considerate come qualcosa di generalizzabile, ma sono il segno di qualcosa che si muove, dell’esistenza di qualcuno che non piega la schiena, di qualcuno che pensa che questa condizione di repressione e di controllo si può distruggere.

Pensate, centocinquanta anni fa il movimento operaio sognava la rivoluzione, immaginava “le grand jour”, la “grande serata”, il “gran giorno”, il giorno in cui si sarebbero espropriati i padroni, espropriati dei mezzi di produzione, e questi mezzi consegnati nelle mani dei proletari, per creare una società libera e autogestita.

Questo sogno è stato vissuto in tanti modi ed è costato milioni di morti.

Adesso il Capitale lo ha reso impossibile. Non abbiamo nulla da ereditare da una struttura sociale come è stata costruita dal Capitale oggi.

Pensate cosa potrebbe mai essere una società libera, ma schiava della telematizzazione, o inserita all’interno di una rete telematica mondiale come quella che esiste oggi.

Questa non sarebbe più un’utopia, ma un incubo.

Ecco perché questa struttura del Capitale deve essere distrutta, perché non possiamo utilizzarla.

Ora, io quando affronto questo argomento, cioè il concetto di distruzione, mi rendo conto che parlare di distruzione è una contraddizione, perché la distruzione si realizza, non se ne parla. Però nello stesso tempo mi rendo conto del fatto che senza un’adeguata analisi, i processi distruttivi insurrezionali potrebbero esaurirsi sul nascere.

Ecco perché parlo di queste cose, non perché amo la distruzione, non perché amo il caos, ma sfido qualcuno a dimostrare che l’analisi del Capitale sia diversa da quella a cui ho accennato prima.

Certo, ci possono essere differenze tra luogo e luogo, condizioni che appagano di più di condizioni meno avanzate, condizioni in cui ammazzare un operaio ogni otto ore è normale, come nei paesi industrializzati avanzati, e condizioni in cui è normale ammazzare trecento operai al giorno, come accade in paesi meno avanzati.

Si potrebbero fare molte obiezioni, sostenendo ad esempio che il Capitale e lo sviluppo sono ancora da completare, che il Capitale ha ancora degli spazi di evoluzione. Ma questi sono problemi di dettaglio. Le grandi trasformazioni sono quelle, è a seguito della flessibilità del lavoro, del precariato e dei mille recuperi partecipativi che la coscienza di classe è sparita.

Quindi non ci resta, secondo me, che attaccare.

In molti mi hanno chiesto, e continuano a farlo, anche ieri sera c’era un compagno che diceva: “ma se noi ci limitiamo soltanto ad attaccare torneremo al primitivismo, torneremo un’altra volta sull’albero?”.

No. Se voi guardate esattamente a che cosa sono i bisogni che ci vengono imposti dal Capitale, nell’80-90% sono falsi, inesistenti, se li inventano. L’80-90% della nostra giornata lavorativa lavoriamo per niente. Perché ci danno da un lato un salario e dall’altro ce lo riprendono, e in compenso, cosa ci danno? Una macchina, una televisione, centomila gadget, il bombardamento televisivo.

Ma è questa la vita che vogliamo vivere? Oppure dobbiamo, possiamo decidere diversamente?

Molti mi hanno detto: “ma, è bello parlare di distruzione del lavoro, ma io come faccio a dare da mangiare alla mia famiglia?”.

Tanti vengono a piangere sulla mia spalla con il problema di dare da mangiare alla propria famiglia. È un problema primario, essenziale. A chi mi pone questa domanda io non so cosa rispondere? Ho il dovere morale di dire: lavora, hai l’obbligo di dare da mangiare alla tua famiglia.

Ma se chi mi pone questa domanda, lui stesso, dentro di sé, arriva a capire in che condizioni lo hanno messo, come lo hanno imbrogliato e lo continuano a imbrogliare, e viene verso di me e mi dice: “sai, io mi sono reso conto che mi stanno imbrogliando”, allora io gli posso rispondere: “distruggiamo il lavoro”.

Io mi rendo conto che per la prima volta il movimento rivoluzionario e anarchico si trova davanti a questo bivio. O aspettare la prossima insurrezione spontanea o prepararsi in maniera organizzata per la prossima insurrezione spontanea.

Come prepararsi? Molti pensano a strumenti fantascientifici. No, non è questo il problema.

Due sono le cose da fare, secondo me: trovare i propri compagni e capire dove sta il nemico.

Trovare i propri compagni non è facile, perché occorre conoscersi, occorre chiarire i problemi, imparare a riflettere sulle cose.

E poi il grande problema di individuare dove sta il nemico. Il nemico ha una gradazione di importanza, non è tutto uguale, non è una cosa massiccia.

Più il Capitale avanza nelle sue trasformazioni e più il ruolo concreto del nemico è quello della partecipazione e meno quello repressivo.

Il nemico è molto vario nella sua composizione. Oggi l’importanza del recupero è maggiore di quella della repressione.

Oggi ci chiamano tutti a partecipare, a essere più buoni, a volerci tutti bene, a dialogare. Quindi nell’analisi del nemico bisogna individuare anche gli obiettivi della partecipazione e del recupero.

Perché se noi ci limitassimo a individuare solo gli obiettivi tradizionali della repressione, alla lunga colpiremmo soltanto obiettivi simbolici.

La coscienza di classe tradizionale non era un contenuto, non c’è mai stato un contenuto nella coscienza di classe, ma era una reazione adeguata, un comportamento adeguato. Adeguato a che cosa? ai rapporti di produzione. Il proletario sfruttato aveva, attraverso il suo comportamento, la coscienza della classe degli sfruttati. Davanti a una situazione polverizzata, in cui la classe è scomparsa e in cui è in corso un processo di separazione fra inclusi ed esclusi, il contenuto della coscienza non esiste come esisteva prima.

Non a caso si è parlato di contenuto ideologico.

Invece il comportamento adeguato di fronte a una situazione disgregata, scomparsa, distrutta, può essere solo la distruzione.

Anche se io mi rendo conto che questo discorso si presta a un equivoco, e l’ho di già accennato, cosa faremo, distruggeremo tutto?

No, no. Il processo di distruzione è un movimento, è un passaggio e tende a eliminare, quanto più possibile, quella parte del lavoro che non potrà essere utilizzato. Io non parlo di ricostruire una coscienza di classe, è impossibile, ma io parlo di attaccare perché è la risposta adeguata alla situazione polverizzata.

Mi pare di avere parlato anche di altre cose, forse molto più complesse. Se ci si limita ad attaccare la polizia – è una cosa che può piacere – significa che non si è capaci di individuare altri obiettivi, più concreti.

Faccio un esempio, senza stare a entusiasmare troppo gli spiriti. In Italia dal 1980 al 1990, dieci anni, sono stati tagliati e buttati giù 1100 tralicci dell’elettricità, quelli grandissimi. Facciamo questo esempio e riflettiamo su questo esempio. I soliti filosofi, che ce ne sono dappertutto, e il movimento anarchico non fa eccezione, dicono: che senso ha tagliare un traliccio se dopo una settimana lo rimettono in piedi un’altra volta? Eppure un senso ce l’ha.

Prima di tutto la crescita dei compagni che realizzano l’azione, crescita come affinità, come conoscenza. come contatto e complicità. Crescita anche nell’utilizzo di certi strumenti, anche semplici. Io sono stato condannato a otto mesi per aver parlato dell’utilizzo di questi strumenti. Non approfondisco, ognuno può usare con comodo la propria fantasia.

Non è vero che il Capitale davanti a un attacco di questo tipo dica: bravi questi anarchici mi stanno dando una mano di aiuto. Perché la logica del Capitale è la pace sociale, la calma, tutti contenti. Poi è logico che se si tagliano 1100 tralicci in dieci anni in un paese è evidente che non sono tutti contenti, e questo preoccupa lo Stato, il Capitale. Pensate che Berlusconi negli anni Ottanta aveva in Italia come proprietà la Standa, che è una vasta rete di grandi magazzini a livello nazionale. Dei compagni sconsiderati lasciavano degli oggettini auto-infiammabili, piccoli. Dopo anni di questa attività (sto parlando di questi oggettini perché io sono stato inquisito ma non condannato per questo argomento), Berlusconi ha fatto una dichiarazione al “Financial Times” dove affermava di aver perso dal 1985 alla fine del 1987, in poco più di due anni, il 50% del proprio bilancio, e di essere stato costretto a vendere la Standa al 50% del valore di Borsa.

Questi esempi però non mi soddisfano, hanno l’aria un po’ militare, come se fosse una cosa troppo aggressiva.

Pensate a un altro esempio, all’uso che alcuni compagni all’inizio degli anni Ottanta hanno fatto delle patate. Certamente saprete che se la patata si mette in un barattolo chiuso va in putrefazione, diventa una cosa pazzesca. Decine e decine di cinema porno sono stati attaccati con le patate. Pensate all’uso del silicone, in Gran Bretagna hanno bloccato decine di volte la metropolitana al mattino.

Senza fare elenchi, che possono risultare stupidi, la creatività ognuno di noi deve metterla in atto per conto suo. Questa creatività si sviluppa in ognuno di noi man mano che si chiariscono le idee sulla individuazione del nemico.

 

Per me – poi evidentemente ognuno è libero di pensarla come vuole – il discorso che abbiamo fatto sulla polverizzazione della classe operaia è visibile concretamente in due modi: direttamente, attraverso la flessibilità, la precarietà, il frazionamento interno alla fabbrica, e indirettamente, riflettendo sulla scomparsa dei partiti di sinistra. Perché è scomparsa la funzione conflittuale dei sindacati tradizionali? Perché i sindacati tradizionali sono oggi la ruota di scorta del Capitale? Perché non c’è la classe operaia. Certo, c’è la gente che ha bisogno di lavorare. E molti compagni mi hanno detto: “se non ci fossero i sindacati di base a chi lo dico di difendere il mio posto di lavoro?”. Ma è proprio questa la funzione di recupero dei sindacati di base.

 

Abbiamo ereditato dall’Ottocento, e anche dal secolo precedente, una concezione positivista della scienza. Gli anarchici hanno cantato le lodi della scienza per 120 anni. Bakunin, che era per la distruzione del mondo, davanti alla scienza era entusiasta. Senza citare scienziati come Kropotkin, come Reclus, insomma, scienziati anarchici.

Ma oggi la scienza stessa si è sviluppata auto-criticamente, un mondo futuro basato sulle teorie degli scienziati sarebbe un mondo allucinante. La richiesta che il Capitale fa alla scienza oggi è di aiutarlo a superare le proprie difficoltà.

Facciamo due esempi: uno produttivo e uno repressivo (o di controllo).

Il Capitale ha bisogno di risolvere il problema energetico, sa che ha circa vent’anni per farlo, più o meno la durata del petrolio. Ora, la richiesta che viene fatta, e che è già stata quasi risolta, è di evitare la dispersione nel trasporto energetico. Nel trasporto dell’energia dalla centrale produttiva all’utilizzo, si perde circa il sei per cento, ma la scienza è già in grado di realizzare materiali capaci di immagazzinare l’energia e trasportarla senza perdita. Motivi di equilibri internazionali non consentono di applicare adesso queste tecnologie. Ma i grandi istituti di ricerca mondiali stanno lavorando su questo problema. Voi pensate che aiuto sarebbe per il Capitale un risparmio del sei per cento sul costo dell’energia.

L’altro esempio, tra i tanti, in quanto sono moltissime le richieste che il Capitale fa alla scienza, è di natura repressiva e di controllo e riguarda le ricerche sulla nanoteconolgia. Ma cosa volete che siano le impronte digitali, il dna, le telecamere. Senza entrare nei dettagli, di cui non abbiamo né vogliamo avere la competenza. Nella creatività, a cui facevamo riferimento prima, nella ricerca degli obiettivi da colpire, questi santuari della scienza non possono essere esclusi. A esempio, negli anni Novanta si colpivano in Italia i centri di ricerca che facevano vivisezione con gli animali. Cosa giustissima, per carità. Però la creatività può andare oltre. Ci sono altre responsabilità. Pensate all’attività che svolgono gli istituti di economia politica nelle varie nazioni. Sembra una scienza innocua l’economia politica. E invece quante migliaia e decine di migliaia di morti hanno causato le teorie economiche e non mi riferisco solo all’opera gloriosa dell’imperialismo anglo-americano; non mi riferisco alle teorie di Stuart Mill sulla Compagnia delle Indie, ma oggi. Un esempio soltanto, pensate alla responsabilità della Scuola monetarista americana di Boston riguardo all’andata al potere in Cile della dittatura. Insomma compagni, quel poco di conoscenza che ancora riusciamo a mettere insieme, prima che ci rendano del tutto imbecilli, usiamola per individuare gli obiettivi da attaccare.

 

La posizione dei compagni, nella condizione di minoranza, in una situazione di lotta non corre il rischio di diventare un’avanguardia, come accade con gli autoritari, perché l’obiettivo, lo scopo, degli anarchici non è quello di conquistare qualcosa, ma di proporre un metodo. Questo metodo, che è ovviamente il metodo anarchico, potrebbe non essere assolutamente capito dalla gente, in questo caso il compito degli anarchici si auto-chiude in un gesto esemplare, in un movimento senza sbocco.

Lo scopo degli anarchici non è mai stato la conquista del palazzo d’Inverno, non ci appartengono i concetti dei militari, degli autoritari, di metterci al posto della gente per portarla con noi. Io, in quarant’anni, ho visto molte disillusioni nei compagni che si erano impegnati in tante lotte, con tanti sacrifici, e magari al momento della lotta vedevano nel proprio gruppo presentarsi diecimila persone e poi alla fine erano tre e risultavano in due.

Ma è questo l’essere anarchici: proprio questo, non avere paura di andare contro corrente, se dobbiamo sempre lisciare il pelo della massa nel senso giusto, allora non siamo anarchici, siamo semplicemente uomini politici. Io ho partecipato a delle lotte, in quanto anarchico, con i compagni anarchici nel 1981-1983 contro la base missilistica di Comiso, in Sicilia. Siamo rimasti tre anni sul posto, in tre anni abbiamo fatto decine di migliaia di volantini, manifesti, comizi, conferenze, tutto, in una zona della Sicilia di tradizionali lotte comuniste. Al momento di attaccare la base per distruggerla, eravamo circa 800 (compagni venuti un po’ da tutta Europa), eravamo soli, perché la gente non è venuta. Fino al giorno prima sembrava pronta a scendere dal marciapiede sulla strada, ma non l’ha fatto. Abbiamo provato lo stesso ad attaccare e distruggere la base, ma è stato un massacro generale.

Io, personalmente, e molti compagni con me, non consideriamo questa una sconfitta, perché abbiamo proposto un metodo, che era quello anarchico. Cioè niente politici, niente partiti, niente sindacati, soltanto con la gente per andare a distruggere la base. Un’altra volta andrà meglio.

 

Mancando il luogo classico di formazione della coscienza di classe, il mondo del lavoro come può avere una coesione nell’attacco? La polverizzazione del lavoro produce un attacco polverizzato, disgregato. Teniamo presente che, non secondo me, ma secondo la tradizione del pensiero rivoluzionario, nel mondo in cui viviamo non ci sono valori. Nella discussione è stato detto qualcosa riguardo i valori, ma sarà la rivoluzione che creerà i valori, da 150 anni il pensiero rivoluzionario batte su questo punto che però non vogliamo capire. Facciamo un esempio concreto: voi pensate veramente che nel mondo presente ci sia un valore come l’amore? Oppure ci hanno costruito una mentalità attraverso la quale noi abbiamo un comportamento che sembra amore? Ma soltanto in una società liberata potremmo capire cosa è l’amore. Pensate quante volte confondiamo l’amore con il possesso. Pensate quante coppie si guardano in cagnesco uno con l’altra, si controllano uno con l’altra, se questo è amore? Pensate al valore della solidarietà, ma la gente muore davanti alla porta di casa nostra e noi nemmeno ce ne accorgiamo. Per cui non parlerei di valori. Nel mondo dove viviamo ci sono modelli di comportamento che noi pensiamo di autodeterminare, ma poi è la moda, la mancanza di cultura, il colore della pelle. Quante tristezze. Ora, all’interno di questo mondo di merda stiamo parlando di attaccare, non ci potrà certamente essere una soluzione ideale dell’attacco. Se aspettiamo questa situazione, facciamo lo stesso errore del passato. I marxisti dicevano nel passato: “bene che il Capitale reprime perché cresce la coscienza di classe e si fa la rivoluzione”. Evidentemente questa barzelletta è costata milioni di morti.

Tutto questo è finito, cancellato per sempre, ma non abbiamo una soluzione nuova, bella, chiara, semplice; quando io dico: mettiamoci il coltello fra i denti, ognuno ne tragga le conseguenze che vuole.

Ci sono modi concreti di mettersi il coltello fra i denti e ci sono metafore.

 

Io credo nella necessità dell’attacco e sono convinto che questo non è un valore. Anche questo è un modello di comportamento. Però posso pure convincermi che è un valore, ma che cambia? Da un punto di vista teorico cambia molto, ma da un punto di vista concreto cambia poco.

Guardate che il termine valore è mutuato dall’economia politica, significa valore in termini di soldi, però uno può anche riferirsi anche al valore dell’anarchia, al valore della libertà. Può fare una preghierina ogni sera al valore della rivoluzione, sono movimenti ideologici del pensiero. Storicamente hanno causato dei danni, ma oggi i danni sono molto più grossi quelli causati dal Capitale.

Io so una cosa, quello che sta accadendo davanti a me e davanti a voi come trasformazione del Capitale. Secondo me l’unica strada è l’attacco, mettendo da parte il concetto di efficienza e introducendo quello di efficacia. Sapete, io sono stato tanti anni in carcere. Ora, quando uno è chiuso in una cella l’unica cosa che sogna è di uscire fuori. Si immagina che la vita fuori sia bella, ed è pronto a giurare che è una cosa molto efficace uscire fuori dal carcere.

Vedendo certe cose fuori uno pensa: certo, in carcere poi non era così male. L’efficacia di un’azione in fondo è nel cuore di ognuno di noi, non nella pratica o negli strumenti.

 

Il processo distruttivo del quale stiamo parlando guarda alla rivoluzione come a una visione estremamente remota, non immediata. L’attacco di cui parlo è una necessità, attacco come processo necessario di fronte alle trasformazioni del Capitale, e si realizza in dimensioni intermedie, parziali. Certo, se si dovesse generalizzare lo scontro insurrezionale, generalizzare e arrivare alla rivoluzione, nella rivoluzione l’uomo vecchio deve morire per fare nascere l’uomo nuovo. Ma questo è il discorso del valore fatto prima. Si introducono valori nuovi, pertanto anche l’uomo nuovo.

 

I processi organizzativi insurrezionali sono estremamente informali. Stiamo parlando di come dovrebbero organizzarsi gli anarchici in vista della prossima insurrezione spontanea. L’esperienza degli ultimi trent’anni se ci dice qualcosa è quella della costituzione di piccoli gruppi di affinità, cioè compagni che si conoscono, che fanno delle cose assieme, e principalmente affrontano il problema degli obiettivi. Cioè si danno degli strumenti teorici e pratici per potere immaginare per adesso e poi realizzare quali possono essere gli obiettivi.

Ora, l’individuazione e la realizzazione di un obiettivo è uno sforzo pratico, ma anche teorico. Non bisogna però cercare di fare il passo più lungo della gamba. Molti compagni o si scoraggiano o purtroppo cadono vittime della repressione. Ma “progettare” la realizzazione insurrezionale e rivoluzionaria è compito degli anarchici, se no la prossima insurrezione spontanea sarà sempre sbalorditiva, coglierà di sorpresa e si concluderà in un nulla di fatto. Un momento, io mi sono trovato in situazioni in cui le condizioni oggettive spazzavano via me e tutte le mie teorie. Il fatto di avere un’organizzazione di questo tipo e anche delle teorie sull’insurrezione non garantisce nulla, però fornisce qualche strumento in più. In fondo non bisogna dimenticare che il processo insurrezionale prende sempre tutti di sorpresa.

 

L’entrismo era l’illusione trotskysta e anche leninista. Lenin diceva: “partecipiamo alle elezioni limitatamente, per avere due o tre deputati e poi attacchiamo sulla piazza”. Ma gli anarchici non hanno mai sostenuto una cosa del genere. Personalmente provengo dal sistema, fino a trentacinque anni della mia vita facevo il dirigente industriale: impossibile continuare. Ci voleva un taglio netto.

Secondo me non è possibile e ogni giorno che passa diventa sempre più difficile, del tutto impossibile. Perché il processo repressivo sta per essere sempre di più sostituito dal processo di avvolgimento, di recupero. E poi, bisogna vedere che cosa la domanda intende per sistema, perché questa parola è ormai fuori corso.

La usavamo negli anni Sessanta. Un poco di tempo è passato. Insomma, se sei dalla parte del nemico, per intenderci, in parole chiare, è difficile attaccare. Io non vorrei dare l’impressione di avere la verità in tasca, di essere sicuro, e anche mi dovete scusare per la citazione di Trotsky.

Ho conosciuto delle persone, ad esempio ho conosciuto degli industriali, piccoli industriali, che dicevano di essere anarchici. Non spetta a me dire: no, tu non puoi essere anarchico perché sei industriale. Non è che io do la patente di anarchico a qualcuno. Però, sapete, a lungo andare in queste persone le contraddizioni venivano fuori. Sì, si limitavano a finanziare il movimento, per aiutare una certa lotta, davano quattro soldi, a volte anche più di quattro soldi, ma sempre dei padroni erano.

 

Io sono laureato in economia, ma le quattro cose che riesco a capire d’economia, da un punto di vista rivoluzionario, mi chiedo se avessi avuto l’idea di insegnare nelle università, sono convinto che non sarei riuscito a capirle. La cultura non è un fatto obiettivo, ma è anche una simbiosi fra fatto oggettivo e fatto soggettivo.

 

Sono stato in carcere negli ultimi cinque anni, non ho quindi molto chiara l’idea di come si sta sviluppando la teoria insurrezionalista anarchica nel mondo, non solo in Europa.

Mi arrivano comunicati, notizie dall’Australia, dal Sudafrica, dal Giappone o dalla Russia, ma io penso di essere l’ultima persona in grado di rispondere a questa domanda, anche perché penso che la fruizione, l’utilizzazione personale di una teoria rivoluzionaria appartiene alla persona che la fa propria, non a chi l’ha sviluppata. Quindi anche le conseguenze pratiche.

Ad esempio in Italia è in corso una lotta contro il treno ad alta velocità, i compagni quando ero in carcere mi hanno scritto che in Val Susa si stavano realizzando le mie teorie. Poi vedendo l’insieme come si sono sviluppate le lotte non ero d’accordo.

Penso che ogni teoria nasce continuamente nella testa delle persone che la fanno propria, e certamente, per quella che è la mia esperienza in questi giorni, i compagni greci sono forse quelli che mi stanno più vicini al cuore.

La mia esperienza degli ultimi quarant’anni è passata indirettamente attraverso i gruppi armati anarchici, per quanto questi ultimi siano stati nella storia degli ultimi quarant’anni in Italia una minoranza.

Ad esempio in Gran Bretagna l’esperienza dell’Angry Brigade è stata molto significativa. Queste sono decisioni che appartengono ad alcuni compagni che intraprendono quella strada, che utilizzano certi strumenti piuttosto che altri.

Sul piano teorico si possono sviluppare delle critiche, ma non bisogna dimenticare, se sono dei compagni anarchici, che dobbiamo sempre partire dal presupposto che sono in buona fede.

Cosa invece assolutamente diversa per quanto riguarda i gruppi armati clandestini autoritari. Questo discorso l’ho preso più volte in questi giorni, specie davanti al sorgere di un movimento insurrezionalista spontaneo. Il semplice presentarsi di una qualche piccola indicazione di chiusura militare, può spingere i compagni ad alzare la voce, a urlare e cominciare a parlare di provocazioni, avanzare dubbi. Bisogna avere una documentazione prima di esprimere idee di condanna, bisogna sapere. Se queste informazioni non si hanno, se non si sanno le cose con certezza, parlare di azioni oggettivamente contrarie al processo spontaneo insurrezionale, è pericoloso.

Ora, io non so come si dice in greco l’avverbio “oggettivamente”: questa parola è stata alla base dei processi stalinisti con cui hanno fucilato e condannato. Perché erano oggettivamente provocatori, così dicevano. Non avevano fatto un cazzo, ma erano oggettivamente provocatori.

Come anarchici dovremmo almeno avere questa pulizia mentale. Tenete presente, io non voglio difendere nessuno, sto solo proponendo un problema di metodo anarchico e anche di comportamento morale.

 

Sono uscito dal carcere il 15 di gennaio di quest’anno [2009]. Ho saputo che dopo il processo Marini, – che penso tutti sanno di cosa si tratta – dove siamo stati accusati in circa 70 compagni di banda armata, per una montatura creata dai carabinieri dei ROS. Alcuni sono stati condannati all’ergastolo, io ho preso una pena relativamente piccola, sei anni, altri compagni hanno preso trent’anni, diciotto anni, e così via. Siamo stati condannati per reati specifici, non per banda armata. Io sono stato condannato per una rapina fatta a Roma.

Vedendo che non potevano condannare gli anarchici per banda armata, che è una cosa tipica dei marxisti, degli autoritari, lo Stato italiano ha cambiato la legge creando un’appendice alla banda armata che si chiama associazione sovversiva con pene più o meno simili. Adesso ci sono decine di compagni in carcerazione preventiva con quest’accusa.

Non so però qual è lo stato dei processi, non sono documentato, non lo conosco.

 

Il processo Marini, così chiamato dal nome del Pubblico Ministero, ha cercato di bloccare il lavoro rivoluzionario del movimento anarchico italiano. Nel 1996 ci hanno arrestato in una quarantina di compagni e ne hanno incriminato circa settanta.

La tesi di Marini era questa: io avevo teorizzato l’organizzazione di una banda armata che si chiamava ORAI, Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica Insurrezionale, e l’avevo teorizzata in conferenze simili a questa, non in un foglio di carta, ma in conferenze come queste tenute proprio qui, in Grecia. In particolare nella scaletta da me utilizzata per fissare i punti principali delle mie conferenze.

In un paragrafo di questo scritto, si parlava di “organizzazione rivoluzionaria anarchica insurrezionale”. I carabinieri hanno deciso che era nata una banda armata chiamandola con le iniziali della frase suddetta. In questo modo ci hanno arruolato tutti in questa fantomatica organizzazione armata e quindi ci hanno arrestato.

Però avevano un problema: era strano che uno che vuole teorizzare e costituire un’organizzazione armata clandestina viene in Grecia e ne parla pubblicamente. Hanno allora detto che io non ero mai stato in Grecia, per loro sfortuna però un giornale greco [“Eleftherotypia”] aveva pubblicato alcune foto della conferenza. La cosa quindi è caduta lentamente.

Poi ho affrontato nel corso della mia autodifesa in corte d’Assise il problema e ho dimostrato che gli anarchici non possono creare una banda armata, che possono realizzare delle azioni armate, ma che se si chiudono nell’organizzazione prima o poi sono destinati a finire come anarchici, come è successo con Azione Rivoluzionaria.

Non ci hanno potuto condannare per banda armata. Hanno fatto cose veramente indegne, indegne anche per un carabiniere.

Hanno preso una ragazzina di 18 anni, le hanno cambiato la faccia e l’identità, hanno inventato per lei una storia e distrutto la sua vita. Questa ha confessato di aver fatto delle rapine con noi. Ma il giorno che si potranno leggere in greco le dichiarazioni di questa ragazzina al processo, vi potrete facilmente rendere conto dell’assurdità di tali affermazioni. La ragazza rispondeva a tutte le domanda con un “non ricordo”. Il Pubblico Ministero le ricordava quello che le era stato fatto dichiarare precedentemente, e la ragazzina diceva “confermo”.

E quindi, sulla base di ciò molti compagni hanno preso pene molto elevate, ma nessuno è stato condannato per banda armata.

 

Se non ci si riferisce al momento insurrezionale il problema del simbolo diventa molto complesso.

Diventa il problema dell’attacco generale. Qualunque obiettivo si colpisca può diventare simbolico, anche se concreto. Ed è questo il compito di recupero del Capitale. Però c’è un punto: l’obiettivo di attacco e di distruzione del lavoro coinvolge la parte dei lavoratori che è stata espulsa dal processo lavorativo. Il recupero di questa tensione è molto più difficile.

Facciamo un esempio, se uno attacca il Parlamento, che è la sede principe del simbolo, (certo, anche a me piacerebbe questo), il Capitale non ha bisogno di recuperare, reprime e basta. Se uno invece attacca i processi produttivi, deve recuperare. Di fronte a un’azione del genere ci sarà immediatamente un coro di brava gente che dirà: che persone terribili questi anarchici! Uomini politici di sinistra, sindacalisti di tutti i tipi, nessuno escluso, uomini di ogni schieramento, ex combattenti, reduci vari. Persone che si sono messi in pensione e pensano di avere sempre il kalashnikov nelle mani. Tutto questo esercito viene arruolato per recuperare.

Là bisogna vedere come reagisce la fascia di lavoratori che sono stati espulsi. Io non posso sapere come reagisce perché questo fenomeno a livello massiccio non è ancora accaduto, è in corso di accadimento. Non c’è dubbio che la cosiddetta “crisi”, tra virgolette, produce una serie di disoccupati, di precari. Cosa farà questa massa di persone? Andrà a piangere sulla spalla dei sindacati? Oppure magari cogliendo l’occasione di un’insurrezione spontanea contribuirà insieme agli anarchici ad attaccare il Capitale?

Questa è la realtà che vedremo svilupparsi nei prossimi anni.

 

Riguardo ai centri sociali, provate a riflettere su questo problema, se cresce il processo insurrezionale il compagno che fa resta chiuso nel centro sociale? Il concetto stesso di centro sociale diventa contraddittorio in quel contesto. Secondo me non si tratta di un rapporto, tanto meno, dialettico, che non so nemmeno cosa sia, fra centri sociali e quella minoranza che ha già scelto di iniziare ad attaccare. Ma si tratta semplicemente di affrontare la realtà per come si sta sviluppando. Consentitemi un’ultima annotazione. Nel caso in cui un centro sociale anarchico, cosa per me impensabile, in un processo insurrezionale in corso restasse chiuso in se stesso, a difendere se stesso, in attesa del futuro lavoro rivoluzionario, sarebbe uno strumento di recupero.

 

Io non ho molto da aggiungere, perché mi rendo conto che il problema è difficile e molto complesso.

Naturalmente mi riferisco ai compagni che sono scomodamente seduti sulle proprie posizioni teoriche e non a quelli comodamente seduti sui propri convincimenti.

Il futuro è ancora nelle mani nostre. Cerchiamo di farlo divampare e non di farlo diventare un funerale, sarebbe il funerale delle nostre idee.

Vi ringrazio.

 


[Conferenza tenuta il 13 marzo 2009 presso la Facoltà di Lettere dell’Università della Tessaglia, Volos. Trascrizione della registrazione su nastro].

Attaccare i punti deboli del nemico

Negli ultimi dieci giorni, in diverse città greche, ho parlato con centinaia di compagni. L’occasione di questa discussione è stata il mio libro che è stato tradotto in greco [Dominio e rivolta, Catania 2000], ma cosa è contenuto in questo libro? L’analisi che è contenuta nel libro riguarda l’individuazione del nemico, del nostro nemico. Non c’è una pagina in questo libro che non riguarda un contributo di chiarificazione su che cosa è oggi il nemico.

Ma perché uno si deve occupare del proprio nemico? Non c’è motivo di farlo se non vuole attaccarlo. Quindi questa analisi è un’analisi dell’attacco contro il nemico.

Ora, storicamente gli anarchici hanno avuto sempre molte analisi a disposizione. Nella relazione che ha fatto il compagno mi pare di avere capito che parlava di Bakunin. Vedremo adesso perché centocinquant’anni non sono passati inutilmente.

Pensate come è cambiato il Capitale e lo Stato negli ultimi centocinquant’anni. Cerchiamo di capire meglio cosa è stata la trasformazione del Capitale negli ultimi vent’anni e non negli ultimi centocinquant’anni.

Da una struttura rigida, con un costo di manodopera rigido, si è arrivati ad una situazione di flessibilità, di polverizzazione. La struttura della classe operaia del passato è stata spezzata. La coscienza di classe che la caratterizzava, è stata prima attenuata e poi fatta scomparire.

In una condizione del lavoro flessibile, precaria, approssimativa, la condizione tradizionale di fabbrica è scomparsa. Se oggi esaminiamo come funziona una fabbrica ci rendiamo conto che è stata spezzata in tanti piccoli pezzi.

Questo non è soltanto un curioso aspetto della trasformazione economica del Capitale, non è un problema che riguarda soltanto le aule universitarie dove si insegna economia politica. Questo è un problema che riguarda tutti i compagni perché riguarda le capacità di trasformazione della lotta.

Se noi facessimo l’errore di pensare di avere davanti una classe operaia ancora intatta, i nostri interventi di attacco sarebbero nientificati.

Il Capitale, nelle sue trasformazioni, non si è limitato soltanto a spezzare la coscienza di classe e la classe operaia, non ha cancellato soltanto la vecchia concezione della coscienza di classe, ma sta chiamando con un appello generale tutti quanti alla collaborazione. Sta chiamando al vogliamoci tutti bene, alla partecipazione, sta chiamando al dialogo, alla democrazia, alla eliminazione di ogni tipo di scontro violento. Oggi lo scopo del Capitale è la pace sociale.

Se noi osserviamo le trasformazioni parallele dello Stato, tradizionale custode e garante delle attività del Capitale, ci accorgiamo come ad esempio è scomparsa la funzione tradizionale dei partiti di sinistra, è scomparsa la funzione conflittuale dei sindacati confederali e ci avviamo sempre di più verso una riduzione dell’aspetto puramente repressivo dello Stato.

Non che lo Stato non utilizzi più la polizia, o le carceri o altre forme di provocazione, ma il suo ideale è quello di fornire al Capitale un servizio di pace sociale. Ecco perché il compito degli anarchici oggi è quello di non accettare questa proposta che viene rivolta anche a noi.

Quindi nessuna partecipazione, nessuna collaborazione, nessun accordo. Attacco, soltanto l’attacco, attacco distruttivo, non attacco simbolico. Se non vogliamo essere nei prossimi anni soffocati dal concetto generale della partecipazione, se non vogliamo essere imbrogliati anche noi, dobbiamo attaccare oggi, ora, adesso.

Ecco perché diventa importante individuare il nemico, perché le trasformazioni del Capitale e dello Stato ci cambiano continuamente l’immagine del nemico, lo cambiano sotto gli occhi.

Ecco perché io ritengo che il compito degli anarchici sia quello di individuare obiettivi diversi, e per raggiungere questi obiettivi diversi del nemico occorre aumentare la propria creatività. Occorre avere una documentazione, non una montagna di carte che soffocano l’azione, ma quello che è assolutamente indispensabile per potere agire e colpire quelli che sono gli obiettivi nascosti del Capitale e dello Stato.

Facciamo un po’ di esempi tanto per intenderci.

Per me, in quanto anarchico, il Parlamento è il simbolo del nemico, dico il Parlamento come luogo fisico e persone che lo abitano e lo portano avanti. Pensate quanto mi piacerebbe fare saltare per aria il Parlamento [applausi] … aspettate, però nello stesso tempo come anarchico e come persona munita di una testa per ragionare, mi rendo conto che il Parlamento è anche il simbolo del potere, soltanto il simbolo. E a parte la soddisfazione del mio piacere personale, se io voglio attaccare la concretezza del nemico, debbo necessariamente cercare altri obiettivi.

Ora, il mondo intero è circondato come se fosse coperto da una rete di obiettivi concreti del nemico. Non occorre nemmeno avere una grande documentazione nelle mani. Non occorrono nemmeno grandi strumenti di attacco.

Scusate se faccio un esempio, diciamo, personale. A Milano in una piazza del centro, in corso Buenos Aires, non è successo niente di grave però è successa una cosa che mi ha fatto riflettere. C’erano degli operai dell’elettricità, insomma dell’Enel, che stavano facendo una riparazione, ad uno di questi è caduta una pinza e questa pinza evidentemente ha fatto un corto circuito. L’intero quartiere di Milano in zona piazzale Loreto è rimasto senza luce per due giorni.

Questo banale esempio fa capire su che cosa si basa la struttura del Capitale, su di una vasta rete di debolezze, ed è necessariamente basato su questo, non può farne a meno. Pensate alla vasta rete delle telecomunicazioni, pensate alla telematica e al modo in cui vengono impiegati questi due aspetti della tecnologia nella produzione. Tutti questi sono oggetti che stanno sotto gli occhi di tutti noi, oggetti su cui si basa non solo la produzione del Capitale, ma anche la repressione.

Quotidianamente passiamo davanti a questi oggetti, poi torniamo a casa e apriamo i nostri libri rivoluzionari per sognare catastrofi mondiali, le quali catastrofi mondiali restano quello che sono, dei sogni.

Quindi, compagni, scendiamo con i piedi per terra, il Capitale si può attaccare. Si può attaccare non solo nelle condizioni insurrezionali spontanee, come quella che avete vissuto a dicembre, che è stata come diceva Bakunin per la rivoluzione del 1848 una grande esplosione di gioia per i compagni.

Arriverà sicuramente la prossima insurrezione spontanea, perché le contraddizioni e le stupidaggini del Capitale e dello Stato la produrranno inevitabilmente. Voi ed io (speriamo) saremo certamente pronti a partecipare a questa grande esplosione di gioia.

E nel frattempo? Cosa facciamo? Aspettiamo o vogliamo agire? Se vogliamo agire dobbiamo fornirci di due cose: la documentazione necessaria e la volontà di agire.

Ora, tornando alla relazione dei compagni, secondo come mi è stato detto dai compagni che me l’hanno tradotto in parte, c’era una importante distinzione fra la teoria di Bakunin sulla distruzione e la mia.

Non è un problema di storia dell’anarchismo, ma è un problema concreto, di attualità, di quello che dobbiamo fare oggi. Bakunin, in un opuscolo che si chiamava La reazione in Germania, pubblicato quando era giovanissimo, ha parlato della distruzione come fatto creativo. Perché la creazione per Bakunin attraverso la distruzione aveva il significato di consegnare nelle mani del proletariato i mezzi di produzione sottratti ai capitalisti. Questa tesi attraversa tutto il pensiero di Bakunin, fino alle ultime pagine scritte prima di morire. Ed è logico che ai suoi tempi c’era qualcosa da consegnare al proletariato. Ma oggi che il proletariato non esiste più e non abbiamo niente da consegnare a nessuno, che cosa possiamo creare attraverso la distruzione?

Non lo so. È importante capire che io non ho una soluzione. Non dico: distruggiamo e abbiamo finito il nostro compito. Io dico soltanto attacchiamo che è l’unico compito indispensabile oggi. Qualcosa dovrà uscire da quest’attacco. Io non lo so se sarà l’anarchia, se sarà la società libera di domani. Io non ho davanti a me il soggetto rivoluzionario che sognava Bakunin.

Davanti a me ho la spaventosa visione di un totale dominio del Capitale. La quale spaventosa visione se dovesse realizzarsi nei prossimi vent’anni, ci trasformerebbe tutti in imbecilli contenti, contenti di essere servi del Capitale, anche gli anarchici.

Adagio compagni, non vi spaventate, prima di farci diventare imbecilli e contenti possiamo attaccare.

Perché ho parlato di vent’anni, dei prossimi vent’anni, perché è esattamente il tempo che gli scienziati dicono di avere prima dell’esaurimento delle scorte di petrolio.

In questi vent’anni lo Stato e il Capitale stanno chiedendo alla scienza di fornire la soluzione di due problemi: il primo è la soluzione energetica, in modo particolare il trasporto dell’energia. Come tutti sappiamo nel trasportare l’energia dalle centrali che la producono a quelle che la utilizzano c’è una perdita di circa il sei per cento, si chiede alla scienza oggi la soluzione di questo problema, che è già praticamente una cosa certa. Pensate quale forza per il Capitale nei prossimi vent’anni sarebbe per un risparmio energetico del sei per cento.

La seconda cosa che viene chiesta è lo sviluppo delle nanotecnologie. Pensate dal punto di vista del controllo sociale cosa significherebbe la disponibilità per lo Stato di una capacità scientifica capace di utilizzare le nanotecnologie. Altro che DNA, impronte digitali o un differente genere di controllo.

Ora noi sappiamo quali sono gli istituti universitari dove questi studi si stanno svolgendo, sappiamo qual è la funzione della scienza oggi, quella di fornire strumenti di recupero e di repressione al Capitale e allo Stato.

Siamo lontani centocinquant’anni dalle tesi di Bakunin che erano, riguardo alla scienza, tesi positiviste. Oggi dobbiamo, come anarchici, toglierci dalla testa il sogno di una scienza che ci aiuterà a costruire un mondo libero, la scienza è uno dei mezzi dei padroni, e non potrà mai essere usata, così come è, in una società libera.

È in questa prospettiva, che non voglio fare diventare apocalittica, che io vi sollecito all’azione, adesso, non all’azione spontanea soltanto, perché questo lo so che sapete cosa fare meglio di me, ma all’azione che riflette su quali sono i possibili obiettivi diversi e nuovi.

Faccio un esempio, che può sembrare banale, gli istituti di economia politica che si trovano in tutte le università sembrano dei luoghi pacifici dove professori innocui parlano di una scienza inutile. Non è così. Non è così, è una scienza che fa male. Che entra nella nostra vita quotidiana. Un solo esempio: la teoria monetarista dell’Università di Boston, è stata la causa della dittatura in Cile, dove sono morti decine di migliaia di compagni, e questi bravi professori sono ancora là che dicono le stesse stronzate di prima.

Questo lo dico per cercare di fare capire, probabilmente a me stesso, in che modo si può andare lontano nel cercare gli obiettivi del nemico.

Pensate oggi alla funzione di recupero svolta dal volontariato, ma quanti bravi ragazzi lavorano nel volontariato, con un salario di miseria, e come sono simpatici. Eppure sono una delle principali leve su cui si basa oggi il Capitale.

Pensate ai sindacati di base: ma come, potreste dire, sono gli unici che difendono ancora il posto di lavoro. I sindacati tradizionali si interessano di altre cose, l’unica cosa che riescono a fare è farci pagare le tasse e l’iscrizione della tessera. Eppure il sindacato di base è anch’esso uno degli strumenti di recupero del Capitale.

E gli esempi potrebbero continuare. Quindi, il centro in questo momento, la piaga principale del Capitale, il punto principale, è la profonda trasformazione del mondo del lavoro. Quindi noi dobbiamo incominciare a ragionare in termini di distruzione del lavoro.

È questa la tesi principale che questa sera dovremmo potere affrontare. Io mi trovo spesso davanti a persone, a compagni, ma anche non compagni, che mi dicono: ma se io non lavoro come faccio a dare da mangiare alla mia famiglia? Io non ho nulla da rispondere a questa domanda. Se uno mi dice questo, ha ragione lui. Io ho il dovere di dirgli, continua a cercare di lavorare, dai da mangiare ai tuoi figli. Perché la coscienza di attaccare il lavoro, il convincimento di farlo, appartiene a ognuno di noi. Deve potersi alimentare all’interno dei nostri sentimenti, del nostro cuore. Non possono certo essere le mie chiacchiere a mettere nel cuore di qualcuno questo sentimento. Se uno mi dice: come faccio a mangiare se non lavoro, io capisco che questo sentimento lui non ce l’ha, e non sarò certo io a convincerlo con le mie parole.

Cose e uomini. C’è una frase di Severino Di Giovanni, il compagno italo-argentino espropriatore che fu fucilato negli anni Venti, a Buenos Aires, che dice così: se nel corso di un’azione quest’ultima azione si estende e dalle cose passa alle persone che quelle cose gestiscono e rendono possibili – dice lui – non sarò certo io a lamentarmi di questo. Che mi sembra una frase condivisibile.

Naturalmente lo sviluppo delle lotte deve avere una sua progressione, il movimento rivoluzionario deve avere la capacità di darsi questa progressione. Non deve commettere l’errore di individuare l’obiettivo più significativo, nel senso più significativo che fa parlare i giornali, che impressiona la gente, perché questa è una logica quantitativa, cioè al di sotto di queste scelte che colpiscono l’obiettivo più importante, ci sta l’illusione di potere crescere quantitativamente. L’esperienza degli ultimi quarant’anni ci dice che questo non è vero.

Il passo iniziale, e quindi la crescita, avviene attraverso obiettivi che riguardano cose nuove. Settori nuovi del Capitale.

Faccio un esempio: una cosa come dire ipotetica, immaginaria, almeno io non conosco bene la legge greca, però se fossi in Italia non correrei nessun pericolo, perché l’articolo del codice penale che colpisce quello che dirò adesso è stato abolito. In Grecia non lo so. Quindi, miriamo al problema, secondo me un obiettivo importante nuovo potrebbe essere, per fare un esempio fra amici, fra compagni, come se stessimo parlando al bar, il mondo della televisione, ad esempio. Ora io dico: tra attaccare e distruggere un trasmettitore, una centrale un posto dove si realizzano le trasmissione televisive o ammazzare come un cane un attore della televisione, che differenza c’è? Che differenza c’è?

Certo, la seconda eventualità farà sicuramente molto più rumore della prima, le responsabilità e le conseguenze negative per la rivoluzione sono uguali, il compito recuperativo di un trasmettitore televisivo e quello di un attore della televisione è uguale, però secondo me sarebbe un errore ammazzare come un cane un attore televisivo se lo si facesse soltanto perché i giornali farebbero più rumore. Questo è il punto centrale della discussione.

 

[Intervento: Ma il sindacato di base ha una sua funzione importante]. C’è stato un famoso dibattito fra Malatesta e un anarcosindacalista, nel 1905, l’anarcosindacalista si chiamava Monatte e sosteneva la tesi che stai dicendo tu: che il sindacato anarcosindacalista, che all’epoca era la stessa cosa del sindacato di base oggi, fosse uno strumento importante nelle mani del proletariato del 1905. La risposta di Malatesta è stata semplicissima, ha detto: noi siamo prima anarchici e poi sindacalisti. Non possiamo essere prima sindacalisti e poi anarchici.

Ora se noi pensiamo alla trasformazione oggi del Capitale, secondo il discorso che abbiamo fatto prima – perché se ragioniamo diversamente hai ragione tu e non c’è niente da dire – se noi pensiamo alla trasformazione del Capitale così come abbiamo detto, dobbiamo arrivare alla necessità della distruzione del lavoro, non rifiuto o modificazione, alleggerimento, non una riforma che lo migliori, lo renda meno pesante.

Se noi pensiamo alla distruzione necessaria del lavoro, allora il sindacato di base, che difende il lavoro, è uno strumento di recupero del Capitale. Questa tesi non può essere negata. Può essere negata la tesi della trasformazione del Capitale, uno può essere convinto che occorre difendere il lavoro, può essere convinto che ci sono ancora le vecchie condizioni del rapporto fra Capitale e lavoro, e allora non soltanto il sindacato di base lo si deve rivalutare, ma si devono rivalutare anche i sindacati confederali e perfino i partiti di sinistra. Insomma, se il lavoro è una cosa positiva è una cosa positiva anche il Capitale, e se è una cosa positiva il Capitale che cazzo ci stiamo a fare come anarchici?

 

L’analisi delle trasformazioni del Capitale, che mi pare di capire tu condivida, rendono inutilizzabili nel momento rivoluzionario i mezzi di produzione, ma questo concetto, deve essere interpretato in contrapposizione al modello precedente di una volta. Cosa diceva il modello vecchio centocinquant’anni fa: prendiamo i mezzi di produzione, con la rivoluzione, dalle mani dei capitalisti, così come stanno e li diamo nelle mani dei proletari, i quali autogestiranno questi mezzi nella società libera e anarchica del futuro.

Ora questo modello non è più realizzabile, ma la rivoluzione non è un avvenimento istantaneo, non è un fatto che in questo momento non c’è e nel momento successivo c’è, la rivoluzione è un passaggio. Questo passaggio avviene nel tempo, con profonde trasformazioni non solo nel mondo oggettivo, ma anche nella coscienza di ognuno di noi. In questo enorme crogiuolo rivoluzionario, l’uso possibile o impossibile di quei mezzi di produzione subirà un trasformazione rivoluzionaria, anche quello, ma oggi non siamo nel momento del passaggio rivoluzionario e quindi dobbiamo agire come se quel passaggio non ci rendesse possibile l’utilizzo dei mezzi di produzione.

Ecco perché oggi dobbiamo attaccare il lavoro, io sono profondamente convinto che è impossibile l’uso della telematica e delle telecomunicazioni da un punto di vista rivoluzionario. Ma non posso sapere se questo enorme crogiuolo rivoluzionario, questo passaggio, non riuscirà a trovare una strada, che oggi nessuno può immaginare, per utilizzare perfino la telematica, perfino le telecomunicazioni, come possiamo fare a saperlo? L’unica cosa che possiamo sapere è che in questo momento, di questa merda non possiamo farcene niente.

 

[Intervento: Perché non parli mai di società?]. So bene che nell’analisi che è stata fatta prima non ho pronunciato la parola “società”, e non sono solo io a pensarla così, siamo in tanti a pensarla così. Oggi la società è data dallo Stato e dal Capitale, è lo Stato e il Capitale.

Cosa sarebbe la società se noi escludessimo da essa lo Stato come fatto repressivo e recuperativo e il Capitale come fatto produttivo, non esisterebbe niente più, non esisterebbe più. Il concetto di società non è una terza cosa oltre al Capitale e allo Stato. Prova a trovare uno spazio che non sia o appartenente al Capitale o appartenente allo Stato.

Tu giustamente hai detto: ma gli anarchici che sono marziani? Tu hai detto così, perché gli anarchici pensano di essere al di là, al di fuori, di questa combinazione. No gli anarchici non pensano per niente di essere dei superuomini, gli anarchici sono anche loro nel mondo del Capitale, del lavoro e dello Stato. Però hanno una piccola fiammella nel cuore. Se non hanno questa fiammella tutto il resto sono chiacchiere ideologiche. Che meglio di quello che facciamo noi qui dentro fanno nelle università.

Ora è facile nel tempo da parte della repressione dello Stato spegnere questa fiammella, e se dovesse riuscire a spegnerla diventeremo imbecilli e contenti.

Ora tu dici, ma io come mi permetto di dire che le persone che non sono anarchici sono imbecilli e contenti? Ma prendete in considerazione la vita di un lavoratore medio, prendete in considerazione la vita di una coppia media, prendete in considerazione i bisogni che vengono messi artificialmente nella testa di un produttore medio: è vita questa forse? Forse è vita questa? O siamo davanti a dei fantasmi che vanno a lavorare, prendono il metrò, si addormentano, si svegliano per andare a lavorare, prendono il metrò e così via?

Un momento, non è che gli anarchici siano esenti da questa vita di fantasmi. Io conosco molti compagni anarchici che sono anche loro schiavi di certe idee che condividono con la totalità delle persone. Pensate al problema del sessismo, forse gli anarchici sono esenti da questo problema? Pensate al problema grave della coppia. Forse gli anarchici sono esenti da questo problema? Forse gli anarchici non leggono i giornali, non vedono la televisione, non subiscono lo stesso bombardamento che subiscono tutte le persone? Ma io spero che quella scintilla che è nei loro cuori resti ancora accesa e che malgrado tutti questi problemi possano ancora attaccare.

 

[Intervento: Che ne pensi di Severino Di Giovanni?]. Riguardo le parole di Di Giovanni, concernenti la lotta armata, a me pare che il problema l’ho affrontato nei limiti delle mie possibilità.

Certo se noi analizziamo la funzione recuperativa delle strutture armate clandestine autoritarie dobbiamo concludere che, come è nella loro natura, hanno lavorato per il re di Prussia, hanno lavorato in vista di conquistare lo Stato, ma questo problema agli anarchici interessa relativamente.

Io almeno posso fare due esempi di organizzazioni clandestine armate anarchiche, o quasi, con obiettivi diversi. Ad esempio Azione Rivoluzionaria in Italia e Angry Brigade in Gran Bretagna. Però anche queste organizzazioni hanno commesso l’errore di cercare lo spazio pubblicitario, di cui parlavamo prima.

Quando vi riferite all’insurrezione spontanea di dicembre che avete vissuto, io non potevo esserci perché ero in carcere, ora io non so se la persona media, l’uomo medio di cui parlavo è stato l’interprete ideale dell’insurrezione spontanea di dicembre, io non lo so, questo lo dici tu, io non c’ero. Però io mi chiedo: nell’insurrezione di dicembre quanti saranno stati gli uomini medi presenti? Certamente un numero abbastanza limitato penso, nei confronti dei miliardi di uomini medi a cui mi riferivo io.

[Intervento: Quali le differenze tra il Capitale produttivo e quello finanaziario?]. La prima parte del nostro discorso mi pare riguardasse la maggiore o minore importanza dell’aspetto produttivo del Capitale o di quello finanziario.

Non so se l’origine di questa domanda viene dalla cosiddetta “crisi” di cui tutti parlano oggi o da un tuo dubbio personale di economista. Le due cose. [Intervento: La mia domanda nasce da un libro che ho letto recentemente sulla potenza finanziaria del Capitale].

Il libro di Silvio Gesell? Io non condivido questa tesi perché la realtà attuale del Capitale ha un processo oggettivo e un processo di copertura. Secondo me noi dovremmo cercare di potere colpire il processo oggettivo.

So benissimo anche io che il Capitale è un flusso, un movimento, che non è un patrimonio fisso che si possa identificare in cose precise. So bene che la valutazione finanziaria di una struttura produttiva è una cosa e la struttura produttiva stessa è un’altra. Però siccome non mi interessa fare una lezione di economia faccio un esempio pratico.

Nel 1995-1996 in Italia vennero realizzati circa centocinquanta attacchi contro la Standa, una catena di distribuzione, ora questi attacchi erano attacchi incendiari fatti in modo molto semplice. Chi li ha realizzati con dei strumenti di autocombustione, messi nei reparti più costosi, dove la merce era più costosa, ha causato un certo quantitativo di danni. Secondo una dichiarazione fatta da Berlusconi al “Financial Times”, questi attacchi in due anni hanno causata la perdita del 50% del capitale della Standa. Cioè Berlusconi ha venduto le azioni della Standa al 50% del loro valore di borsa iniziale. Queste sono le sue dichiarazioni.

Questo spiega secondo me almeno due cose: uno che è possibile attaccare il Capitale concretamente, è possibile attaccarlo in modo semplice, due che c’è una relazione fra la concretezza del Capitale e la sua realizzazione a livello finanziario nelle quotazioni di borsa.

Ora senza entrare nel problema un po’ complesso della cosiddetta “crisi” finanziaria del Capitale di oggi, l’accentuazione finanziaria del Capitale, l’aumento della composizione finanziaria del Capitale, di cui parla Gesell, ma anche altri economisti, è stata principalmente dovuta alla globalizzazione del lavoro e del mercato, con guadagni talmente elevati per il Capitale, negli ultimi dieci anni, che ha causato una supervalutazione di borsa delle singole aziende, questa e altre cause hanno poi determinato la “crisi”, tra virgolette, che è ancora in corso, per come la vedo io.

Certamente quando Proudhon parla della creazione del nuovo ordine si riferisce al momento rivoluzionario, in cui le condizioni oggettive del funzionamento del mondo capitalista saltano per aria.

Voi pensate che durante la Comune di Parigi, situazione sicuramente rivoluzionaria, i dirigenti, perché è questo il loro ruolo, della Comune, accettarono dal barone Rothschild, cioè da un tedesco, un finanziamento di un milione di marchi oro, a condizione di non toccare la Banca di Francia.

Questo spiega due cose, cioè che i Tedeschi (la guerra era franco-prussiana e i Francesi l’avevano perduta), i Tedeschi si rendevano conto delle conseguenze finanziarie per il Capitale di quell’epoca, di un’apertura e quindi di una possibile distruzione del tesoro francese centrale della Banca di Francia.

La stessa cosa successe in Spagna nel 1936, gli anarchici non aprirono la Banca di Spagna, mentre i comunisti presero il tesoro della Banca di Spagna e lo consegnarono a Stalin.

Esiste sempre un rapporto fra le cose concrete e il flusso del Capitale monetario, finanziario, però se noi pensiamo che uno degli obiettivi dei possibili attacchi può anche essere la Borsa valori, commettiamo lo stesso errore di pensare che uno degli obiettivi può essere il Parlamento.

Manca una parte della registrazione

Le indicazioni in più riguardanti il concetto di attacco sono di due tipi, secondo me. Uno riguarda la creatività individuale, ognuno si cerca i suoi compagni, e individua i suoi obiettivi. Un altro aspetto della cosa è l’aspetto organizzativo, cioè quale potrebbe essere l’organizzazione migliore per attaccare in una situazione di insurrezione spontanea.

Ora non c’è dubbio che, in attesa della prossima insurrezione spontanea, non possiamo aspettare, ma dobbiamo fornirci di documentazioni riguardanti gli attacchi possibili, di iniziare a realizzare questi attacchi e, nello stesso tempo, costruire quei gruppi di affinità informali, che sono secondo me lo strumento più importante per poter agire come anarchici all’interno di una possibile insurrezione spontanea.

Molti mi chiedono: ma cosa sono questi gruppi di affinità informali? Sono degli insiemi di compagni che si conoscono, lavorano insieme, riflettono insieme, questi gruppi sono informali perché non hanno bisogno di strutture esterne, visibili, non hanno bisogno di nomi, non hanno bisogno di sedi, non hanno bisogno di riconoscimenti esterni, non hanno bisogno di crescere dal punto di vista quantitativo.

Le uniche due cose di cui hanno bisogno sono le idee chiare sugli obiettivi da colpire e quei pochi mezzi necessari per realizzare l’attacco.

Come vedete in questo concetto organizzativo non c’è nulla della struttura fissa del gruppo clandestino, armato, militare, questa è quanto di più lontano si può pensare.

L’azione che questi gruppi dovrebbero potere realizzare è sia preventiva alla situazione insurrezionale, sia contemporanea all’azione insurrezionale.

Però non bisogna solo pensare a dicembre soltanto, a quello che è accaduto a dicembre. Perché lo stesso metodo insurrezionale, basato sui gruppi di affinità informali, è stato applicato, è stato realizzato anche nelle lotte intermedie. Cioè a dire lotte che un insieme di persone, in un dato luogo, in un dato territorio realizza perché ha un problema.

Ad esempio in questo momento qualcosa del genere si sta realizzando in Italia per quanto riguarda le lotte contro i treni ad alta velocità. Oppure per fare un esempio più completo, più articolato, una lotta insurrezionale del genere è stata realizzata dal 1981 al 1983 in Sicilia, dagli anarchici, a Comiso, un paese della Sicilia, contro la costruzione di una base missilistica americana.

Senza entrare nei dettagli, che sarebbe una cosa troppo lunga, una lotta del genere può richiedere un intervento nel territorio che può durare anche anni, a Comiso appunto è durata tre anni.

La realizzazione della distruzione della base non è stata possibile, perché non siamo riusciti a portare la gente con noi per distruggere la base. Però l’insieme del lavoro fatto là per tre anni aveva caratteristiche insurrezionali. Anche se si presentava in modo diverso dai fatti greci di dicembre. Perché i fatti di dicembre hanno avuto natura spontanea mentre i fatti di Comiso, per fare un esempio, hanno avuto una natura anarchicamente organizzata.

Vi ringrazio.

 


[Conferenza tenuta il 14 marzo 2009 presso la fabbrica occupata Ganet di Thessaloniki. Trascrizione della registrazione su nastro]

Tramonto del proletariato

I

Negli ultimi quindici giorni siamo un po’ andati in giro nel vostro paese e, prendendo occasione dal libro mio tradotto in greco [Dominio e rivolta, Catania 2000], personalmente ho avuto modo di potere approfondire alcuni problemi che mi stanno particolarmente a cuore.

Mi stanno a cuore come compagno, perché sono problemi che mi pongo, quando a me stesso mi faccio tante domande.

Io, ad esempio, dopo quarant’anni di lotte anarchiche, mi chiedo spesso se conosco il mio nemico. Lo Stato, il Capitale, ma lo Stato e il Capitale sono sempre quelli che erano quarant’anni fa? o si sono sviluppati, trasformati, modificati? E io, sono riuscito a seguire queste trasformazioni, a capirle? Non lo so.

Spesse volte guardo la realtà che mi sta davanti e la prima cosa che capisco è certamente l’aspetto repressivo, il poliziotto, il carcere, il fascista. Ma dietro, dietro questi pupazzi sconci, volgarmente stupidi, il nemico ha una concretezza fortissima.

È questa domanda che mi pongo: che cosa è diventato veramente il nemico? Ad esempio, il Capitale, la capacità produttiva, la formazione economica nella sua struttura, sono quelli di quarant’anni fa? Di vent’anni fa? No.

E allora non mi sento tranquillo. Non mi sento tranquillo nel mio agire, nel mio attaccare non mi sento tranquillo. Perché mi sorge il dubbio: io attacco le strutture visibili, ma sono in grado di attaccare le strutture che sono meno comprensibili?

Per esempio, cominciamo a riflettere meglio sulle trasformazioni del Capitale: cosa è successo negli ultimi vent’anni? Da una struttura produttiva rigida si è arrivati ad una struttura flessibile, frazionata, polverizzata a livello mondiale, globalizzata.

Questo non è senza conseguenze sulla mia capacità di lottare. Lo scenario che di volta in volta il Capitale mi presenta davanti è in veloce trasformazione.

L’attacco contro la classe operaia è stato radicale, la struttura di classe si è sbriciolata, diffusa nel territorio ha perso la compattezza di una volta, perché ha perso nello stesso tempo la coscienza di classe.

Perché oggi mi viene difficile parlare in termini di proletariato? Perché dovunque io guardo non vedo più le strutture proletarie di vent’anni fa? Perché è cambiata la realtà produttiva. Adesso è in gran parte basata sul precariato, sulla flessibilità, sulla veloce trasformazione dei lavori che vengono fatti di volta in volta, su un profondo allontanamento del produttore dalla cosa prodotta.

In fondo siamo davanti ad un aumento di incapacità di capire la propria situazione di classe, ma questo è un caso oppure è una strategia del Capitale? Sicuramente a livello mondiale è una strategia in corso di realizzazione.

Compagni, invito a riflettere sul fatto che non si tratta di qualcosa di già avvenuto, ma è qualcosa in corso di trasformazione veloce e che è stato reso possibile dall’inserimento all’interno del mondo della produzione di determinate tecnologie.

Il Capitale ha chiesto negli ultimi vent’anni, ha chiesto alla scienza di fornirgli, tramite il suo braccio armato, cioè la tecnologia, dei nuovi strumenti, senza i quali queste trasformazioni non sarebbero state possibili.

Come poteva spezzare l’unità di fabbrica senza la robotica e la telematica? Come poteva realizzare la globalizzazione senza l’attuale capacità delle telecomunicazioni a livello mondiale?

E noi cosa facciamo? Possiamo continuare ad attaccare sulla base dei nostri modelli analitici di vent’anni fa? Oppure dobbiamo cercare di capire che cosa sta succedendo?

Principalmente dobbiamo cercare di capire che i ruoli repressivi dello Stato stanno per essere in parte modificati dai ruoli partecipativi, dalla partecipazione, dalla collaborazione. Compagni, un nuovo poliziotto sta nascendo, si stanno immaginando un nuovo modello di carcere, nuovi ragionamenti di destra, nuovi modelli fascisti si stanno sviluppando.

Pensate all’importanza che ha oggi il ruolo della partecipazione, del recupero, del volontariato, delle chiacchiere ideologiche, delle stronzate democratiche, del vogliamoci tutti bene. A quale ruolo recuperativo è oggi chiamata la religione.

Tutto questo, ancora in fase di costruzione, è molto più adatto alle trasformazioni del Capitale.

Perché in quasi tutto il mondo i vecchi partiti di sinistra sono in difficoltà? Perché nei paesi a capitalismo avanzato il discorso della sinistra si sta annacquando sempre di più? Perché il ruolo dei sindacati sta diventando semplicemente quello di collaborazione con il Capitale? Perché il Capitale ha bisogno di questi strumenti, e perché la classe operaia è stata smembrata.

Se io non riesco a trovare da nessuna parte il vecchio concetto di proletariato, meno ancora lo trova il partito di sinistra. Ecco l’assottigliamento, la trasformazione della funzione politica e la nascita di un nuovo modo di gestire lo Stato e il Capitale.

Ma come hanno reso possibile tutto questo? Perché ci hanno diminuito tutti quanti, perché è in corso un progetto di rendere stupida la vita. Mille strumenti quotidiani rendono stupida la nostra vita.

Pensate, compagni, alla giornata media di un lavoratore, di un produttore e a come su di lui agiscono gli strumenti di recupero. La televisione ad esempio, e lo spettacolo, lo sport, la musica, l’uso strumentale di tutto questo.

Rendere misera la vita significa rendere misera la cultura. Significa sottrarre dalle mani dello sfruttato gli strumenti che gli permettevano di comprendere lo sfruttamento.

Pensate come vengono costruiti a tavolino, nelle aule universitarie, negli istituti di economia, di psicologia, come vengono costruiti i bisogni. Il novanta per cento di quello che noi compriamo sono gadget assolutamente inutili, ma per i quali spendiamo la nostra vita sul lavoro e per i quali non riusciamo a capire la miseria stessa sulla nostra vita. Possediamo una macchina e non ci rendiamo conto di quanto sia miserabile il possesso di un’automobile.

Quindi, la struttura mondiale del Capitale da un lato ci dà il salario e dall’altro ce lo riprende. Nel frattempo cattura la nostra vita e ci rende stupidi e schiavi.

L’unica via d’uscita vent’anni fa, per lo sfruttato, era prendere coscienza del proprio sfruttamento, ma oggi, insieme alla rottura della classe operaia, hanno reso sempre più difficile questa capacità di capire, quindi si apre un vuoto in cui il Capitale sta benissimo, in cui sta costruendo il suo futuro, ecco perché occorre attaccare. Attaccare, ora, subito. Chi non è stato del tutto reso incapace di capire, deve rendersi conto del proprio compito, della necessità di attaccare.

Facciamo una parentesi.

Una volta si diceva, centocinquant’anni fa, quando si è costituita la prima Internazionale: facciamo la rivoluzione, togliamo i mezzi di produzione dalle mani dei capitalisti, diamoli nelle mani dei proletari, che li gestiranno, e la rivoluzione sarà il regno della libertà.

Ma se noi questo ragionamento lo applichiamo alla realtà attuale del Capitale, che uso rivoluzionario potremmo fare dei mezzi di produzione attuali? In che modo potremmo autogestire una produzione telematizzata? Quale potrebbe essere il concetto di autogestione in una visione globale dell’economia?

Certo ognuno può sognare, nella propria fantasia, il grande giorno, la grande rivoluzione che arriva dall’oggi al domani, in tutto il mondo e, davanti a un sogno del genere, non c’è niente da dire, ognuno può sognare tutto quello che vuole. Ma se vogliamo ragionare, dobbiamo considerare la rivoluzione come un passaggio, probabilmente lungo, doloroso, sanguinoso. Come diceva Bakunin, la rivoluzione non è una chiacchierata o una passeggiata. E in questo passaggio come potremmo utilizzare i mezzi di produzione? E se non li possiamo utilizzare dobbiamo distruggerli. E se bisogna distruggere i mezzi di produzione nel passaggio rivoluzionario, se non possiamo ereditare nulla o quasi nulla del Capitale di oggi, allora siamo obbligati a distruggerlo ora. A partire da ora.

Il fatto distruttivo non è di per sé piacevole, certo può entusiasmare il singolo compagno, ma non stiamo parlando di questo, stiamo parlando di una triste necessità, è questo il compito rivoluzionario oggi, non quello dell’attesa. Perché aspettare significa dare al Capitale ancora ulteriore ossigeno per completare il suo progetto.

Pensate che nei prossimi vent’anni il Capitale avrà bisogno di due cose, due cose che possono essergli fornite dalla scienza. La prima è la soluzione del problema energetico, in vent’anni, più o meno, dicono che dovrebbe esaurirsi la riserva di petrolio a livello mondiale, il Capitale sta chiedendo agli istituti universitari inglesi e americani, di risolvere il problema del trasporto dell’energia, perché nel trasporto dell’energia, come tutti sappiamo, attualmente, con i mezzi attuali di trasporto, stiamo parlando dell’energia elettrica, c’è una perdita di circa il sette per cento.

Pensate a cosa può succedere se si applicherà l’uso dei materiali speciali per trasportare l’energia senza perdita, sarebbe un risparmio netto del sette per cento del costo dell’energia, con una capacità propulsiva nuova assolutamente impensabile.

La seconda cosa che il Capitale sta chiedendo è lo sviluppo delle nanotecnologie. Insospettabili istituti universitari in Italia e in America stanno studiando questo problema. Pensate che significa a livello di repressione e controllo l’applicazione delle nanotecnologie, altro che telecamere, DNA e impronte digitali.

Qua stiamo prevedendo, fra una ventina d’anni, la chiusura di un progetto del Capitale, dopodiché gli spazi di lotta saranno praticamente inesistenti. Ecco perché bisogna intervenire prima che tutto questo accada. Ecco perché bisogna attaccare ora.

A questo punto molti compagni trovano tante obiezioni, dicono: “ma questo scenario è uno scenario apocalittico”, invece è una normale applicazione delle tecniche capitaliste.

La gestione mondiale dello sfruttamento ha condizioni molto differenziate. Certo la situazione dello Zimbawe è diversa da quella della Gran Bretagna, ma i massacri africani sono fondamentali allo sviluppo del Capitale inglese e le condizioni in cui produce oggi il colosso cinese sono funzionali al consumo degli Stati sviluppati europei.

Non bisogna cadere nell’errore di dire che in alcune zone geografiche esistono possibilità di lotte tradizionali, operaie vecchia maniera, perché quel tipo di lotte sono funzionali allo sviluppo della strategia del Capitale a livello mondiale e quando finirà il sostegno indiretto verranno cancellate.

Io spero che da quello che riusciremo poi a sviluppare qui dentro come dibattito, alcune di queste idee vengano approfondite e chiarite meglio, ma una cosa è chiara, secondo me, la necessità di individuare meglio il proprio nemico, e una volta individuato attaccarlo, attaccarlo adesso senza perdere tempo.

 

Sono laureato in economia quindi so cosa è il valore d’uso.

Ma tu pensi veramente che esiste ancora il valore d’uso oggi? Non come utilizzazione, ma come categoria economica, come possibilità di distinguere fra valore di scambio e valore d’uso. Questo non c’è più. Nel progetto globale del Capitale questa distinzione non esiste più.

Noi dovremmo distruggere anche quello che potrebbe essere il simbolo del valore d’uso, perché che uso può avere un’automobile oggi? Siamo circondati da oggetti che ci opprimono, non ci forniscono servizi.

Perché non c’è dubbio che se io salgo su una macchina riesco ad andare più veloce dove devo andare, ma il progetto del Capitale è a monte, nasce prima, cioè ha creato nella mia mente il bisogno di cui parlavamo prima, che io soddisfo con l’automobile.

Ma sia l’uno [il bisogno] che l’altra [la macchina] sono fantasmi che servono soltanto al Capitale.

La straordinaria ed entusiasmante avventura del Capitale, non sono parole mie sono parole di Marx, si è sviluppata a livello tale che non ci rendiamo conto che quello stesso che pensiamo è roba da fantasmi. Almeno penso.

 

Però sono anch’io una persona che cerca di ragionare. Io distruggerei i computer a partire da oggi, però la rivoluzione abbiamo detto, il processo rivoluzionario, non sono cose che nascono oggi e domani si realizzano, non sono faccende di ventiquattro ore. Non sappiamo quanto possono durare.

Nel corso di questa realizzazione la capacità creativa dei compagni e dei rivoluzionari potrà dare vita a delle forme di utilizzazione della tecnologia che nessuno oggi è in grado di prevedere.

Però una cosa oggi la possiamo prevedere: la funzione repressiva totale della tecnologia telematica. Cioè, noi oggi siamo miopi, siamo ciechi, vediamo poco dal punto di vista rivoluzionario, abbiamo un orizzonte piccolo, perché è questo che ci hanno costruito il Capitale e lo Stato, e in questo piccolo orizzonte, dobbiamo distruggere. Non c’è altro da fare.

Ognuno ha le sue idee. Io rispetto quello che dite, ma sul primitivismo non sono d’accordo.

La questione del primitivismo si pone in modo semplice, applicare oggi il primitivismo, cioè andarsene a vivere sull’albero oggi, sarebbe un modo come un altro di chiudersi in prigione, nell’illusione di purezza.

Noi viviamo in un mondo che è tutt’altro che primitivo, l’attacco contro questo mondo, particolarmente la tecnologia di morte di questo mondo, non ci mette automaticamente sull’albero, nulla ci vieta di continuare ad usare la tecnologia secondo come ci viene imposta e nello stesso tempo sviluppare una progettualità di attacco diretta a distruggere la tecnologia.

Cioè, secondo me, non c’è una contraddizione in questo. Se io ad esempio attacco un traliccio della luce elettrica, insomma, in Italia ad esempio, in dieci anni negli anni Ottanta ne sono stati abbattuti mille e cento, non vuol dire che poi quando torno a casa devo spegnere la luce, cioè non c’è una contraddizione tra l’uso della tecnologia e l’attacco della tecnologia, a meno che uno non pensa che con il proprio attacco riesce a distruggere completamente la tecnologia, cosa che è fuori di ogni immaginazione. Noi stiamo parlando di qualcosa che sta dentro la realtà, delle cause repressive che sono dentro la tecnologia, non delle forme esteriori della tecnologia.

Non so, a me sembra così.

 

[Intervento: Quali i motivi della lotta tra Marx e Bakunin?]. Sulla questione della Prima Internazionale io ho curato l’edizione completa delle opere di Bakunin in italiano e mi ricordo che la contrapposizione non era sulla questione del passaggio dei mezzi di produzione, ma era sulla possibilità di una nascita immediata di una realtà libera ed anarchica attraverso la distruzione dell’apparato statale e non di quello produttivo. In Stato e anarchia Bakunin dice questo.

Mentre, dall’altro lato, la parte autoritaria sosteneva la necessità di un passaggio attraverso la dittatura del proletariato. Il fatto che Bakunin ha sempre sostenuto la lotta dei lavoratori è certo, si legge in tutte le sue opere.

Sulla questione dell’uso della tecnologia oggi, e sulla questione dell’attacco contro la tecnologia oggi, forse mi sbaglio, ma io non vedo una contraddizione perché se noi non usassimo la tecnologia, ci ridurremmo ad un primitivismo fuori del mondo, se invece la usassimo senza attaccarla non saremmo nemmeno più dei rivoluzionari.

La questione dell’insurrezione, di cui voi avete vissuto un importante momento recentemente, a dicembre, è di capire fino a che punto la spontaneità insurrezionale può essere sollecitata, sviluppata, aumentata attraverso l’azione organizzata dei compagni. E di quale tipo di organizzazione bisognerebbe parlare.

Perché se noi immaginiamo organizzazioni rigide e strutturate, queste alla fine sono il contrario di un processo spontaneo di organizzazione informale.

Però la creatività anarchica consiste anche nell’immaginare un altro tipo di organizzazione, un’organizzazione di affinità, un’organizzazione informale, che a mio avviso è il modello organizzativo più adatto nel caso di un’eventuale futura insurrezione spontanea.

L’ultima parte del tuo intervento, per quel che mi ricordo, verteva su cosa ci si può aspettare dal nostro attacco. Io non so, non ho una ricetta per la certezza rivoluzionaria.

Io personalmente non intendo accettare la vita così come è, ecco perché sono per l’attacco.

Quest’attacco contribuirà a produrre più libertà o più repressione? Non lo so, se lo sapessi la bellezza e la spontaneità dell’attacco verrebbero meno. Se io fossi sicuro che l’anarchia sarà, non farei nulla, aspetterei soltanto.

Se dal mio attacco dovesse aumentare la repressione, va bene, continuerei lo stesso ad attaccare. Sai, tanti anni di carcere mi hanno insegnato una cosa, quando hai il nemico tutti i giorni davanti, che ti apre la porta la mattina e te la chiude la sera, più tu attacchi e meno feroce diventa.

Ma questa è un’esperienza personale, posso anche sbagliarmi.

 

[Intervento: Come vedi i problemi del rapporto di coppia?]. È venuto fuori molte volte il problema del sessismo, il problema del rapporto di coppia, il problema della violenza all’interno del rapporto di coppia. Come è venuto fuori, così è scomparso.

Mi sono accorto che non c’era modo di potere affrontare questo problema, perché evidentemente dentro ognuno di noi c’è tutto quello che la storia ci ha costruito alle spalle, migliaia di anni di aggressività e di possesso.

Il fatto di essere fra compagni, dopo quarant’anni di esperienza mi rendo conto che non è una soluzione, anche noi compagni abbiamo i problemi di tutti, e i rapporti che ci vengono imposti oggi dal Capitale e dallo Stato, apparentemente più liberi, non fanno altro che sigillare questi problemi.

Noi parliamo di amore, ad esempio, è una vita che io sento questa parola: “amore”, ma ci siamo mai posto il problema di cosa è l’amore? Il rapporto con l’altro essere? Io chiuso nelle mie paure, nella mia individualità, quello chiuso nelle sue paure, nella sua individualità, ci incontriamo e ci imbrogliamo spesse volte reciprocamente con le parole, ma non vogliamo mai approfondire veramente la realtà che sta dietro queste parole

Noi siamo l’unico animale dotato di parola e facciamo presto ad imbrogliarci con le parole. Se io in questo momento vi dicessi: le cose sono come dico io, quello che vi sto dicendo è la verità, il vero, ecco, io vi imbroglierei con le parole.

In effetti io non so se queste mie parole hanno un fondamento, però se nel vostro cuore toccano un punto sensibile, allora hanno un fondamento, un fondamento non nelle mie parole, ma nel vostro cuore.

Guardate che il concetto dell’attacco è la stessa cosa, il fondamento della necessità dell’attacco non sta nelle mie parole, nella mia analisi, ma sta nel vostro cuore. Se non avvertite questa necessità, nessun problema, io non ho parole, non so che dirvi.

Ad esempio, se parlo ad uno della necessità di distruggere il lavoro, perché è la radice, il fondamento del Capitale, e viene a piangere sulla mia spalla perché non sa come dare da mangiare alla sua famiglia, io gli dico: tu hai il dovere di dare da mangiare alla tua famiglia. Se nel tuo cuore c’è la necessità di dare da mangiare alla tua famiglia non sono certo le mie quattro chiacchiere che te la faranno dimenticare. Ma se dentro di te c’è una piccola luce, un dubbio, se tu dentro di te, tu stesso ti dici: cazzo, qua mi stanno imbrogliando, allora sei tu stesso a trovare la soluzione, a decidere di attaccare il lavoro.

Le mie parole e ciò che sta nel tuo cuore in quel momento si possono incontrare e le prime prendono un nuovo significato, e il tuo cuore si apre all’azione.

[Intervento: Che ne pensi dello sciopero generale?]. Una cosa che non mi convince molto è lo sciopero generale spontaneo generalizzato, in una prospettiva in cui il lavoro è sempre più frazionato e flessibile, questo concetto comincia a diventare mitico, nel senso di Sorel.

Secondo me non c’è una questione di traghettare qualcosa, non c’è l’attesa che le condizioni oggettive forniscano una possibilità. Quando tu dici: le lotte di quartiere hanno perso il significato di una volta, c’è un motivo perché l’hanno perso, perché il quartiere era abitato da lavoratori, da famiglie di lavoratori e sono i lavoratori che sono cambiati, non è cambiato il quartiere.

Tu dici: noi siamo anarchici perciò non crediamo nella funzione rappresentativa del partito, giusto, ma non crediamo nemmeno nella funzione dei sindacati, perché oggi nella ristrutturazione capitalista il ruolo del sindacato è cambiato, e allo stesso modo non esiste una struttura di servizio, la concezione del movimento anarchico da un punto di vista insurrezionale, nega questa funzione di servizio.

Cioè, per capirci meglio, quella barca che ci faceva traghettare da una riva all’altra non esiste, non c’è, non è nemmeno una barca anarchica. Il movimento anarchico ha caratteristiche insurrezionali non perché un gruppo di compagni, ad esempio in Grecia la quasi totalità dei compagni ha scelto questa strada, mentre in Italia sono molto di meno quelli che l’hanno, apparentemente, scelto questa strada.

In effetti non c’è nessuna strada da scegliere, è la strada dell’azione. Noi siamo necessariamente obbligati a muoverci in maniera insurrezionale. I vecchi modelli di comportamento anarchico e rivoluzionario di una volta, non sono più praticabili davanti a questa realtà. Certo, in tutto il mondo ci sono migliaia di anarchici che scrivono i loro giornali, fanno i loro congressi, le manifestazioni, si immaginano il mondo dell’anarchia come qualcosa che arriverà domani mattina, ma non spostano di un millimetro la realtà.

In un certo senso, l’insurrezionalismo sviluppato negli ultimi vent’anni non è una versione spontaneista dell’anarchismo, ma appartiene alla concezione organizzativa dell’anarchismo, solo che rifiuta le forme statiche e le forme rigide.

Riferendosi alla questione dell’attacco, mi pare di capire, che tu hai inserito anche il sabotaggio all’interno del concetto di obiettivo simbolico. No, su questo bisogna fare per forza chiarezza, io ad esempio non sono d’accordo.

La parola sabotaggio viene dal francese sabot che vuol dire zoccolo, perché il lavoratore centocinquant’anni fa, davanti alla macchina che gli rubava la vita, cercava di rubare un po’ di tempo, non di distruggere la macchina, buttava lo zoccolo nella macchina e fermava la macchina. Ma recuperare la propria vita è una cosa concreta non è una cosa simbolica.

Per me il simbolo è un’altra cosa, non una cosa antipatica, può infatti anche essere bellissima. Ad esempio a me piacerebbe moltissimo fare saltare in aria il Parlamento, ma ciò non toglie che resta un obiettivo simbolico.

C’è una differenza fra la concretezza della produzione e la simbologia della repressione o della gestione politica dello Stato. Ora, proprio il compito dei rivoluzionari e degli anarchici in particolare è quello di sviluppare la propria creatività per individuare nuovi obiettivi concreti. I quali certamente sono anche meno piacevoli, però nello stesso tempo sono meno simbolici.

Guarda, molti compagni mi hanno chiesto negli ultimi vent’anni: “ma che senso ha buttare in terra un traliccio di venti metri?”. Che per altro è una cosa complessa e non è facile da fare. Però migliaia e centinaia di queste cose un senso ce l’hanno, concreto.

Ad esempio a metà degli anni Novanta sono stati realizzati centinaia di attacchi, molto semplici con oggetti autoincendiari contro la Standa. Berlusconi che ne era il proprietario ha dichiarato, durante un’intervista al “Financial Times”, che in due anni questi attacchi hanno causato la perdita del cinquanta per cento del capitale della Standa.

Io sto parlando di queste cose perché sono stato accusato di queste cose e assolto. A causa di questa perdita Berlusconi ha venduto la Standa alla metà del suo precedente valore di Borsa.

Ma quello che non è ancora uscito qui dentro questa sera è un altro problema, molto più grave. Questi attacchi, come tantissimi altri che si possono immaginare, si indirizzano verso la distruzione del lavoro e quindi partono dal principio di considerare il lavoro come il fondamento del Capitale.

Concetto difficile, addirittura eretico fino a vent’anni fa, ma che le trasformazioni del Capitale stanno rendendo sempre più comprensibile.

Questo è il vero significato di quello che stiamo dicendo. La cosiddetta “crisi”, tra virgolette, degli ultimi mesi, sta staccando e staccherà sempre di più, grandi masse dal mondo del lavoro. Il referente privilegiato, cioè il punto di discussione verso cui possiamo indirizzare la tesi della distruzione del lavoro è proprio dato da questi gruppi che saranno allontanati.

Secondo me dovremmo prepararci per le future insurrezioni spontanee, causate da questi traumi interni al mondo del lavoro.

 

Riguardo al discorso sulla crescita quantitativa, io ho vissuto personalmente, avevo trent’anni, quindi non ero un bambino, l’esperienza del Sessantotto, un’esperienza quantitativa immensa. Centinaia di compagni, chiamiamoli così, entravano e uscivano dai gruppi anarchici, erano ragazzi che volevano fare delle cose, e nei gruppi anarchici, dove c’erano compagni che avevano lottato con Malatesta, era detto loro di aspettare di crescere quantitativamente. E quelli se ne andavamo.

Tu pensa, il fenomeno, grossissimo, di Lotta Continua che senso avrebbe avuto se ci fosse stato un movimento anarchico serio? Tieni presente che Malatesta diceva esattamente il contrario, nel 1922, non quando era un ragazzino, cioè a quasi settant’anni diceva: io preferisco chi fa qualcosa oggi e non aspetta per agire che il mondo diventi tutto rivoluzionario.

La tesi che avete detto che di fatto l’azione può diventare una prigione, vi giuro, è la prima volta che la sento in vita mia. Mi fa piacere perché mi piacciono le novità teoriche.

Tu pensi che se noi agiamo e colpiamo obiettivi del nemico ci chiudiamo e non consideriamo più nulla dell’attività riguardo alla nostra presenza nella società. Secondo me stai soprapponendo il concetto di attacco con il concetto di organizzazione clandestina armata che è un’altra cosa. Sono due cose completamente separate, diverse.

Riguardo alla possibilità e alla sapienza di distinguere tra giusto e ingiusto, questa scienza è nata qua in Grecia all’epoca di Platone. L’uomo è veramente in grado di fare questa distinzione? Platone in un Dialogo, non diciamo quale perché non ha importanza, fa dire a uno dei suoi personaggi: se arriva quello che ha la forza e la mette sul vostro piatto, giuste o sbagliate, le vostre chiacchiere sono finite. Che voleva dire Platone con questa frase, che lui condanna, giustamente. Voleva dire che i modelli morali sono validi non in assoluto, non c’è la giustizia, ma c’è la realtà concreta, in questo contesto una cosa è giusta o sbagliata.

Quando il Capitale mi sta chiudendo ogni prospettiva, l’attacco è giusto contro questa azione di chiusura, poi spetterà all’intelligenza dei compagni di stabilire cosa, quando, come attaccare.

L’ultimo punto, se ho capito bene: l’attacco produce un aumento della repressione? Stasera stessa ho risposto a questa domanda. In assoluto non si può dire né sì né no. Se gli obiettivi che vengono scelti e attaccati sono di difficile comprensione, certo si resta più isolati, quindi possiamo essere colpiti più facilmente dalla repressione.

Ad esempio, se attacco il poliziotto la gente dice: “il poliziotto mi difende dal ladro, questi perché attaccano il poliziotto?”. Quindi dobbiamo spiegarlo questo problema, se non siamo capaci di spiegarlo verremo isolati. Ma se noi creiamo un ampio raggio di attacchi, creativamente diversi e concreti, la repressione diventa più difficile perché nei riguardi della gente, se qualche obiettivo non è comprensibile, un altro lo sarà. Una cosa è sicura, lo Stato una medaglia non ce la dà.

 

È il concetto di controinformazione che mi interessa perché, innanzitutto come principio, il concetto di controinformazione è superato da moltissimi anni, perché davanti alla estensione planetaria dell’informazione, immaginare una controinformazione secondo me non esiste.

Forse però vi riferivate a dei volantini, testi, piccoli commenti i quali di per sé sono una continuazione del fatto insurrezionale. Di per sé non sviluppano né danneggiano, né rallentano né accelerano, non tolgono o aggiungono niente.

Io personalmente non farei mai un manifesto o un volantino perché secondo me l’azione parla da sé, non ha bisogno di essere spiegata.

Sapete chi è che ha bisogno di spiegare le proprie ragioni di attacco? L’organizzazione clandestina armata perché deve crescere quantitativamente. Ma l’insurrezione spontanea, o con una presenza anarchica organizzata informale, può essere sollecitata e portata avanti in un solo modo, sviluppando gli attacchi. Tutto ciò che viene dopo, bellissimi manifesti compresi, appartengono alla sacralizzazione. Nessun manifesto ha mai spinto la gente alla rivolta. Mentre ha molto soddisfatto il nostro ego personale.

Questa è la mia personale opinione.

 

 

L’uso della tecnologia telematica oggi è possibile, anche io uso questi strumenti. Nello stesso tempo però mi rendo conto che sono gli strumenti del potere, e che se mi muovo per attaccare il potere posso muovermi anche per attaccare questi strumenti.

Non so perché diventa difficile capire il concetto di contemporaneità, di utilizzo e distruzione. Perché è difficile? Io attacco la struttura complessa di una cosa che contemporaneamente posso utilizzare, e l’attacco perché è una cosa del Capitale, non è una cosa mia. La uso finché la posso usare perché certo il mio attacco non la distruggerà tutta in una volta.

Non riesco a capire dove è la contraddizione in questo. Se non vogliamo ridurre l’insurrezione ad una questione di chiacchiera, e in un possibile sviluppo più ampio dell’insurrezione stessa, dobbiamo pensare all’utilizzo delle armi, ma questo non vuol dire che nello stesso tempo non possiamo contemporaneamente distruggere le armi o sostenere la necessità di distruggere le armi, man mano che ci si avvicina ad una società liberata.

Sulla questione della prima parte che comprendeva due aspetti, quello della controinformazione e quello del rapporto con la gente. Dicevi che la gente scappa via.

Le due cose sono legate insieme, c’è il processo insurrezionale spontaneo il quale ci coglie di sorpresa, coglie di sorpresa noi e la gente.

Quando questo processo si conclude, quale che sia il motivo per cui si conclude, si conclude sempre, visto che è spontaneo, si conclude per noi e si conclude per la gente. Questa conclusione è la nostra controinformazione a fermarla? Fare conoscere le nostre ragioni, le nostre rivendicazioni, i nostri motivi, farà continuare l’insurrezione? Farà arrivare prima la prossima insurrezione? Non lo so.

Tutto il discorso è qualcosa che deve avvenire prima, prima dell’insurrezione spontanea non nel corso. Cioè nel modo di organizzarsi dei compagni in forme non strutturate, ma informali, basate sull’affinità. Oggi bisogna porre il discorso dell’organizzazione informale, oggi bisogna porre questo discorso nella prospettiva della prossima insurrezione che le stesse trasformazioni del Capitale rendono inevitabile.

Il nostro compito è quello di andare incontro organizzativamente alla prossima organizzazione spontanea.

 

La mia opinione sull’anarcosindacalismo è meglio che non la dico, però siccome sono seduto qua è giusto che la dica perché è compito mio dirla.

Sai quale è stato il guaio della Spagna del 1936?

Il discorso che faceva il compagno poco fa. Una crescita quantitativa riuscitissima. Milioni di lavoratori nella CNT. Io sono stato nel 1972 a Parigi nella sede dell’organizzazione in esilio della CNT, in rue san Denis. C’era una sala grande più o meno quanto questa, al posto del cristo che abbiamo nascosto, c’era un operaio nerboruto, pieno di muscoli, che apriva la bocca del leone. Organizzazione di anarchici. Quindi: la Spagna, l’anarcosindacalismo che cresce.

Guarda, un altro piccolo esempio. In un paesino del palermitano [Castelvetrano] nel 1954 dei compagni anarchici creano un gruppo anarcosindacalista e attirano con i loro discorsi, in modo pericoloso visto che si tratta di un posto di mafia, molta gente, centinaia di persone. Quando arriva la data delle elezioni amministrative, per fare il sindaco, la gente chiede come mai i compagni non si candidano alle elezioni amministrative. I compagni anarchici rispondono: no, noi non ci presentiamo alle elezioni, siamo anarchici. La gente si stupisce e dice: ma allora siete scemi, potete fare tante cose buone andando al Comune, avete fatto tante chiacchiere, con il nostro appoggio potete fare la scuola nuova. Che cosa rispondere?

Ora, porta questo esempio nella grande rivoluzione spagnola, i vari leader sindacali anarchici, che rappresentavano milioni di voti, sono stati obbligati a presentarsi alle elezioni, sono andati al governo, sono diventati ministri dello Stato, al momento della guerra hanno fatto la guerra contro i fascisti e un ministro del governo deve fare la guerra secondo le regole della guerra, cioè con l’esercito, i generali, ecc.

Quindi l’anarcosindacalismo o fallisce, e resta nel regno delle chiacchiere, o sviluppa piccoli sindacati di base, che hanno il loro ruolo – ora vediamo quale –, o diventa una mostruosa macchina governativa. Questo non è come la penso io sull’anarcosindacalismo, è scritto in tutti i libri di storia.

Però un ruolo oggi il sindacalismo di base lo ha: credo che sia uno degli ultimi strumenti di difesa del lavoro. E se l’analisi che abbiamo fatto prima sulla trasformazione del Capitale ha senso, il sindacato di base è uno dei migliori strumenti di recupero del Capitale, insieme a tutti gli altri strumenti di tipo organizzativo (volontariato) e di tipo ideologico.

Tenete presente che è un argomento che mi sta molto a cuore. In un momento di crisi delle ideologie, il compito delle vecchie strutture ideologiche è preso da nuovi strumenti, e uno dei più efficaci di questi strumenti è la musica, sì proprio la musica non vi sbalordite, cioè quello che passa per musica, quello che vi vendono come musica, quello che comprate come musica, quello con la quale vi fate spaccare i timpani come musica. Pura ideologia, puro recupero. Guardate che per recuperare la rivoluzione del 1848 c’è voluto un grande musicista come Wagner, per recuperare il 1968 sono bastati tre accordi, un giro di la, uno di sol e uno di fa diesis.

Tutto il complesso, la musica da discoteca non riesce a trovare un accordo diverso da questi tre che vi ho detto. Io ho 76 anni e posso sembrare vecchio, ma accanto a me c’è uno che è giovane, studia musica e ve lo può spiegare meglio di me. Guardate compagni, che questo della musica è un recupero talmente forte, che ancora non si riesce a capire bene.

È lo stesso discorso del rifiuto e della distruzione del lavoro, tu puoi rifiutare la società e andare a vivere sull’albero, questo è il primitivismo, ma tu puoi organizzare creativamente un attacco contro chi fabbrica i telefonini, i progetti nuovi dei telefonini, questa è una cosa diversa. Solo che nel caso specifico sarebbe meglio evitare di usare il telefonino per mettersi d’accordo visto che ti controllano.

È importante capire la differenza tra distruzione del lavoro e rifiuto del lavoro.

 

Io sulla questione dell’anarcosindacalismo ho detto come la penso. Evidentemente è una mia idea. Ho conosciuto nella mia vita centinaia di anarcosindacalisti e ho fatto anche con loro delle cose, ma di altro tipo non di natura sindacale.

Una questione ancora più importante invece mi sembra quella della natura del desiderio. Io non mi riferisco al desiderio globale della gente, se io pensassi che la crescita di questo desiderio potrebbe portare ad una condizione rivoluzionaria o insurrezionale, farei riferimento ad una cosa mitica. Esattamente come la tesi sorelliana che hai sostenuto tu. Il mito dello sciopero è una tesi di Sorel.

Ma io non mi riferisco a questo tipo di desiderio, il quale tipo di desiderio è costruito dal Capitale. Abbiamo detto prima che noi al novanta per cento desideriamo, e quindi acquistiamo, cose che non sono utili, che non ci servono quasi a niente. Pensate se in questa condizione potremmo sperare in una crescita di questo tipo di desiderio, per quale scopo, per comprare altra merda?

Non basta il desiderio che ci viene costruito dal Capitale per attaccare, ma io mi riferivo ad un altro desiderio, quello del sogno, della libertà, di poter respirare, di immaginare una vita diversa, rapporti umani fra umani. Questo tipo di desiderio, se è dentro di noi, deve poter esplodere nell’attacco, o se no affogare nella merda. Non ci sono alternative, non c’è modo di farvi capire, le parole non bastano.

O questo desiderio di libertà c’è dentro di voi o le mie parole non basteranno di certo a metterlo nel vostro cuore. Tutto quello che abbiamo detto stasera sono solo parole, peraltro dette in una lingua diversa dalla vostra. Se prendiamo questa registrazione e la riascoltiamo, il primo a non essere d’accordo con quanto è stato detto sono io. Ma perché mai sono qua? Perché sono venuto a parlare con voi? Se non per qualcosa che sta dentro di me, che batte nel mio cuore, chiamatelo sentimento, chiamatelo follia, come volete. Se questa mia follia non si sposa con la vostra follia abbiamo perso il nostro tempo.

 

Il movimento anarchico greco, negli ultimi quindici, sedici anni mi ha entusiasmato. È una cosa che dico sempre, che dico a tutti. È una qualità che sento qua, un’apertura mentale che è difficile trovare altrove.

Poi questa volta, in questi ultimi quindici giorni, sicuramente collegandosi con la vostra esperienza di dicembre, ho trovato i compagni singolarmente molto cresciuti, molto più vicini a quello che io penso possa essere la prossima insurrezione.

II

L’analisi sulla separazione tra inclusi ed esclusi l’ho sviluppata a partire dall’inizio degli anni Ottanta. Negli ultimi trent’anni quella che era un’ipotesi di lavoro, si è andata verificando in molti aspetti. Cioè la trasformazione del Capitale ha determinato la separazione, e questa separazione non è più basata sul possesso dei mezzi di produzione, ma è basata sull’accesso al significato dei bisogni e dei beni.

Il concetto stesso di separazione è legato al concetto di muro. Insomma, quello che rende differenti gli inclusi dagli esclusi è un muro. Non un muro fisico fatto di mattoni o di pietre, ma un muro fatto di idee, di cultura, di capacità di capire.

Facciamo l’esempio della scuola, a tutti i livelli, anche a livello universitario. Cioè oggi un ragazzo che esce da una Università non è in grado di accedere al mondo del lavoro. Non è in grado di accedere direttamente al mondo del lavoro, non perché non ci sia il lavoro, ma perché non c’è il lavoro adeguato al suo titolo di studio. Oggi un ragazzo che si laurea in economia non è in grado di dirigere un’industria, quindi trova un lavoro come operaio specializzato o come operaio di massa, qualunque tipo di lavoro, un lavoro flessibile.

Questa è una conseguenza della costruzione del muro. Perché l’industria ha bisogno dei dirigenti, ma l’università non glieli dà, perché il livello culturale si è abbassato. Così l’industria trova i suoi dirigenti attraverso corsi speciali di livello internazionale, che si chiamano master. Così esclude tutto il resto e include un piccolo numero di persone che andrà a dirigere l’economia del futuro.

Ora, questo sistema di esclusione funziona su tutto, quindi non si tratta di individuare un soggetto rivoluzionario che non è mai esistito nella storia. Una volta quando si parlava di proletariato, anarchici o marxisti, non ha importanza, si riferivano ad una unità di classe che non esiste più.

Gli esclusi non hanno un’unità di classe. Sono una massa dispersa di persone che cerca disperatamente di trovare modo di sopravvivere, lavori diversi, sussidi, distribuzione di volantini, pubblicità, volontariato.

Tutto questo permette una vita misera, una sopravvivenza quotidiana, che manca di quella coscienza che una volta costituiva la forza del proletariato.

Quindi gli esclusi non costituiscono il nostro punto di riferimento rivoluzionario, però possono sviluppare nel tempo dei comportamenti aggressivi, dei processi temporanei di aggregazione tra di loro. I quali processi di per sé non costituiscono nessuna aggregazione di classe.

Non possiamo parlare della classe degli esclusi. Ora, man mano che il muro si alza, perché continuano i capitalisti ad alzarlo molto di più, la capacità di capire degli esclusi, di desiderare, di capire la realtà diminuisce. Bisogna comprendere che una volta, quando il muro non c’era, i ricchi e i poveri, i privilegiati e i miserabili, in fondo desideravano la stessa cosa, solo che gli uni ce l’avevano e gli altri no. In fondo avevano la stessa cultura, condividevano gli stessi desideri. Se uno aveva una piccola macchina e uno ne aveva una grossa, quello che l’aveva piccola la desiderava grossa. Non una Rolls Royce, perché questa sarebbe stata uno status simbol, ma anche una semplice Alfa Romeo. Non desiderava diventare baronetto della regina, ma uno con i soldi.

Oggi l’escluso non desidera quello che possiede l’incluso perché non lo capisce, agli esclusi è stato fornito un prodotto ridotto, impoverito che imita il lusso. È molto istruttivo guardare una rivista di moda, maschile o femminile: stesse stronzate, le grandi case produttrici di vestiti, indumenti, ecc., con un marchio specializzato, pubblicizzati in queste riviste a diffusione di massa, sono disponibili per gli esclusi, gli inclusi, la piccolissima quantità di persone che è ricca veramente compra prodotti che non sono pubblicizzati in quelle riviste.

Se avete fatto attenzione l’ultimo incontro per inclusi, una specie di mostra, di fiera di medie dimensioni, dove c’erano prodotti che costavano al di sopra dei centomila euro, è stato fatto in Cina. Non è un caso. Questo significa che di quella mostra gli esclusi non hanno capito nulla, non possono immaginare cosa vuol dire acquistare un orologio di quattrocentocinquantamila euro. È in questo modo che impoveriscono la cultura degli esclusi.

Per riassumere, nessuna identificazione di soggetto rivoluzionario, nessun comportamento omogeneo di classe. Quando abbiamo parlato della necessità dell’attacco, in attesa, nel corso, quando sarà, della prossima insurrezione probabilmente troveremo accanto a noi degli esclusi, con i quali riusciremo a parlare un linguaggio comune, naturalmente con tutte le differenze del caso.

Dobbiamo cominciare a capire che alcune categorie che erano garantite oggi non lo sono più. Ad esempio, l’ordine con cui si svilupperanno nei prossimi anni le insurrezioni, secondo me, non sarà quello dello sfruttamento del lavoro, ma dell’espulsione dal lavoro, quindi proprio della cessazione dello sfruttamento.

Per noi è difficile capire questa cosa, perché troveremo persone che anche loro vorranno attaccare per recuperare quello che hanno perduto, cioè il lavoro. Quindi capite la difficoltà di andare incontro a queste persone e parlar loro di distruzione del lavoro.

Ora, di per sé questo compito è impossibile, se noi immaginiamo che diventa soltanto il compito della nostra volontà e del nostro desiderio di rivoluzionari. Ma nello stesso tempo dobbiamo pensare che è il processo del Capitale stesso che sta spingendo questa massa di lavoratori e che il loro desiderio di ritornare al lavoro troverà una resistenza perché non è interesse per il Capitale riprenderli al lavoro.

Questa lotta per il recupero del lavoro, malgrado tutte le assistenze che avrà da parte del sindacato, delle camere del lavoro, è destinata a fallire perché il Capitale non ha alcun interesse a riprendersi questa massa di esclusi. È facile quindi che in questa direzione troveremo dei compagni di strada.

Quindi non soggetti privilegiati, ma soltanto compagni di strada per un breve periodo di tempo. Molti mi rimproverano dicendomi che queste analisi, che vado facendo da trent’anni, sono prive di sbocco, di futuro. Quelli che mi vogliono bene dicono di vedere se non ci sono degli errori nelle mie analisi, quelli che mi vogliono male dicono che sono pazzo e non c’è niente da fare.

Prima di giudicare quello che vi dico io vi suggerirei di riflettere sul punto dal quale sono partito. Cioè dalle trasformazioni del Capitale e sviluppare le vostre conclusioni che potrebbero essere benissimo diverse dalle mie.

 

Io penso che in Grecia avete più difficoltà a capire il concetto di gruppo di affinità e di gruppo informale, perché sostanzialmente siete organizzati proprio in questo modo. Se io vi parlo dell’organizzazione di sintesi, che è l’altro aspetto dell’organizzazione anarchica, in Grecia i compagni mi diranno che non appartiene a loro.

 

[Intervento: Però c’è una contraddizione in quello che stai dicendo]. Può anche darsi. Dimmi di questa contraddizione.

[Intervento: Hai detto che i compagni in Grecia hanno una maggiore difficoltà a comprendere il concetto di informalità]. Sì, perché già lo siete, organizzati in modo informale.

Più io sono nella cosa meno riesco a capirla perché io sono nella cosa stessa, non è una contraddizione, ma una cosa logica.

Cerchiamo di fare uno sforzo per capire i movimenti di altri paesi, pensiamo per esempio alla situazione francese dove c’è stata negli ultimi quarant’anni un’organizzazione di sintesi, la FA, fortissima, che raggruppava la maggior parte dei compagni.

Ora, parlare di gruppi di affinità in quel contesto è più difficile, ma anche più facilmente comprensibile.

L’organizzazione di sintesi in che cosa consiste: in una struttura rigida, in genere costituita da una federazione di gruppi forniti di un programma comune, i quali si riuniscono con i loro delegati periodicamente nei congressi annuali e in queste occasioni decidono qual è il lavoro rivoluzionario da fare nell’anno successivo. Questo lavoro viene diviso nei vari settori d’intervento e ogni gruppo assume una sezione: propaganda, antimilitarismo, militanza nei quartieri. Ad esempio, in Francia nel 1970 mi sono trovato ad assistere ad un congresso dell’allora FAF, dove c’era un gruppo di compagni di Châteaux-du-Loire, un piccolo paese nel centro della Francia, in cui uno di questi compagni, senza fare una piega, si alzò e disse: il nostro gruppo si assume il compito dei rapporti con la massoneria, voi ditemi che cazzo vuol dire. E scusate se è poco! In un contesto come questo parlare di gruppi di affinità diventa una cosa rivoluzionaria di per sé, perché si scontra con una mentalità arretrata, modi proprio differenti di pensare che in Grecia non ci sono. In Grecia è al contrario, il discorso è più facile a farsi e più difficile a capirsi.

Mi spiego subito, perché rispondo alla domanda del compagno. I gruppi di affinità sono piccoli gruppi di compagni che si conoscono, si mettono insieme, non hanno bisogno di sedi, non hanno bisogno di sigle, non hanno bisogno di programmi, e riunendosi fra di loro in piccoli gruppi discutono di cosa vogliono fare.

Il compagno faceva una domanda: ma come si relazionano fra di loro i gruppi di affinità, non essendoci un congresso, non essendoci una scadenza annuale. A questa domanda è stato risposto in centinaia di pagine di libri, la risposta è: si relazionano nella lotta. I vari gruppi partecipano a lotte diverse, nel corso della lotta si identificano reciprocamente, si conoscono come gruppo di affinità e programmano le prossime lotte.

Nel caso che decidano di partecipare ad una lotta a un più ampio raggio, grande, geograficamente ampio, che riguarda i problemi di un territorio, che coinvolge migliaia di persone, per decidere come affrontare quel problema, danno vita a un’organizzazione informale, danno vita a un’organizzazione nella lotta che si sviluppa secondo le condizioni oggettive della lotta.

Ad esempio, per ora in Italia c’è il problema di bloccare la costruzione dei treni ad alta velocità nella Val Susa in Piemonte, a Nord-Ovest. Poi c’è una lotta abbastanza simile per bloccare la costruzione di una base nei dintorni di Trento.

Ogni situazione è diversa, e i gruppi di affinità vi partecipano in modo differente, ma il modello è lo stesso. Nella lotta trovano il modo informale di organizzarsi con la gente. Decidono i mezzi informativi, non controinformativi, non esiste la controinformazione, per fare capire che cosa è il proprio progetto. Decidono anche come difendersi nei confronti dalla repressione e decidono come trovare i mezzi pratici per affrontare la lotta.

Dovete capire che la lotta rivoluzionaria non può passare attraverso le strutture formali, dove ad esempio c’è la televisione, perché si dicono e si fanno delle cose che non si possono fare sapere.

Il gruppo di affinità non ha come fine solo l’attacco e la distruzione. Questa è una confusione probabilmente dipesa da me. Quando parlavamo delle trasformazioni del Capitale e della necessità della distruzione, il discorso era diretto al singolo compagno. Ricordate il discorso che facevamo sulla coscienza? Ma la struttura organizzativa di cui il singolo compagno fa parte, cioè il gruppo di affinità, può decidere l’intervento in una lotta intermedia, ad esempio contro i treni ad alta velocità.

Io voglio che si capisca la differenza che c’è tra la coscienza del singolo compagno e la forma organizzativa, ad esempio, il gruppo di affinità. La coscienza dei singoli compagni è una cosa, è la materia di cui è costituito il gruppo di affinità, i compagni che hanno una coscienza rivoluzionaria di attacco partecipano del gruppo di affinità, lo costituiscono, lo fanno muovere ed è all’interno di questo gruppo che decideranno cosa fare.

Singolarmente sono convinti della necessità dell’attacco, ma il gruppo di affinità di per sé non è necessariamente diretto all’attacco, saranno i compagni a decidere cosa fare all’interno del gruppo di affinità. Quindi il gruppo di affinità farà la propaganda, farà l’informazione, deciderà come risolvere il problema per trovare gli strumenti che servono, insomma tutta l’attività che ogni compagno anarchico sa perfettamente qual è, cosa che voi fate giornalmente.

 

[Intervento: La struttura informale esiste solo nella lotta o permane anche dopo?]. Sì, la struttura informale esiste solo nella lotta.

I gruppi di affinità si mettono d’accordo, in contatto fra di loro nella lotta, è questo il terreno che li tiene insieme. Ogni singolo gruppo di affinità fa tante cose, ma quando nella lotta dà vita a un’organizzazione informale quell’organizzazione fa solo una cosa, quella cosa che si è proposta di fare. Ad esempio attaccare i treni ad alta velocità, attaccare la base di Aviano, ecc., una sola cosa. Ad esempio in questo momento in Italia in Val Susa, a Trento, a Verona ci sono tre diverse organizzazioni informali anche se probabilmente, io non lo so, sono costituite dagli stessi gruppi di affinità.

L’organizzazione informale può fare quello che vuole. I vari gruppi di affinità si devono costituire prima, ma nell’insurrezione non ci sono organizzazioni informali altrimenti diventano partiti. L’insurrezione è un fatto collettivo, spontaneo, imprevedibile. È il gruppo di affinità che deve lavorare nella direzione dell’insurrezione, non l’organizzazione informale che in quel caso diventerebbe un partito.

Lo scopo dell’insurrezione, ditemi un po’ qual è? la gente insorge per centomila motivi. L’organizzazione informale nasce per un solo scopo, l’attacco contro il nemico. Nell’insurrezione non ci sono organizzazione informali.

Facciamo un esempio, perché io capisco che non è una materia semplice.

Ad esempio i gruppi di affinità formano un’organizzazione informale insieme alla gente per impedire la costruzione del treno ad alta velocità. Abbiamo questo scenario.

Può anche darsi che nel corso della lotta la gente vuole andare oltre, dopo aver distrutto il TAV vuole fare altre cose. Ecco, insorge, la gente vuole fare l’insurrezione, in quel caso vaffanculo all’organizzazione informale, chi se ne frega.

A quel punto sono i gruppi di affinità che tornano a intervenire, che mostrano altre vie, magari la cosa può svilupparsi, possono aprirsi nuovi scenari, l’organizzazione informale non esiste più.

Ad esempio, molti anni fa, qua in Grecia, ci sono stati dei compagni greci che mi hanno contattato per una lotta in un posto dove c’era una multinazionale che si occupava dell’estrazione dell’oro. Mi chiedevano se era possibile intervenire in quel territorio contro la multinazionale. Poi non so come è finita perché sono andato in carcere. Ma sono queste le occasioni in cui i gruppi di affinità possono andare in un posto, capire che succede, rimanere in quel posto anche mesi e anni, e costituire un’organizzazione informale capace di dare vita, a sua volta, a un certo numero di nuclei di base. Ma perché costituire quest’ultimo strumento intermedio invece di agire direttamente come gruppi informali e basta?

La risposta è semplice, compagni, perché la gente non vuole diventare anarchica per partecipare ad una lotta. Se noi ci presentassimo come gruppi di affinità soltanto la gente potrebbe dire, perché per partecipare ad una lotta nel territorio dove vivo dovrei diventare anarchico? Non mi interessa. Mentre l’organizzazione informale dando vita ai nuclei di base è formata da gruppi anarchici ma consente alla gente di farne parte anche senza essere anarchica. E la gente entra e dà il suo contributo concreto ai nuclei di base che fanno parte dell’organizzazione informale, in vista di quel solo scopo. Ecco perché l’organizzazione informale può servire solo per uno scopo perché alla gente di quel posto non interessano altre cose se non quella lotta nello specifico.

Io sono dell’opinione che è sempre meglio attaccare che non fare niente. L’attacco è sempre una cosa positiva, attaccare il nemico è una cosa positiva perché sono sicuro che attraverso l’attacco a breve si costituisca l’anarchia. Attaccare è sempre meglio di non fare niente.

Ad esempio, ieri sera c’è stata una discussione della quale ovviamente io non ho capito una parola, qualcuno graziosamente poi mi ha detto tre righe. Ci tengo a dire ufficialmente che avete fatto benissimo a spaccare la testa ai fascisti.

 

Se uno fa un’organizzazione informale e poi la cristallizza per sempre, la costituisce con tanto di sigla, è chiaro che si tratta di uno scherzo di cattivo gusto. È uno scherzo che hanno fatto parlando di federazione informale.

Sono compagni che fanno delle cose, hanno ritenuto opportuno trovare un nome per sollevare un problema, è un nome provocatorio. Oltre alle azioni che fanno non c’è niente.

Insomma, se ho capito bene, dietro alla domanda c’è una cosa più seria, vediamo se ho capito. Potreste avanzare questo tipo di domanda: se un insieme di compagni o gruppi di affinità vuole realizzare una serie di attacchi nel tempo contro lo Stato e il Capitale, funziona meglio la cosa se si organizza una struttura informale? Potrebbe essere questa la domanda? Secondo me no, perché non ha senso, non ha logica organizzativa l’organizzazione informale.

Però voi altri potreste rispondere: ma dal punto di vista della propaganda, della informazione sugli attacchi non è più significativo presentare un’organizzazione più ampia informale? Non fa più paura? Queste sono domande senza senso, che mi pongo io stesso per facilitare anche la discussione.

La prima cosa che mi fa star male è l’analogia biologia. Ogni analogia biologica è pericolosa, come l’esempio dell’albero. La struttura sociale non ha nulla a che vedere con le analogie biologiche.

È il famoso apologo di Menenio Agrippa, filosofo romano, quello che giustifica la stratificazione sociale basandosi sulla stratificazione degli organi umani, il cervello, lo stomaco, le gambe. Quindi ci vuole il filosofo, il produttore, lo schiavo.

Ogni esempio biologico è pericoloso per la società. Sbarazziamo l’esempio dell’albero perché ci porta fuori strada.

[Intervento: Ma io mi riferivo allo Stato].

Ma lo Stato è una struttura sociale, che cosa vuoi che sia? Lo Stato non puoi negare che è una struttura sociale. La cosa importante è che ogni analogia biologica porta fuori strada. Lo Stato, il Capitale e ogni altra struttura sociale funzionano diversamente dall’albero.

A parte questo discorso, secondo me se uno fa la domanda che hai fatto tu: c’è una garanzia che noi attaccando non aiutiamo il Capitale invece di danneggiarlo? No, non c’è una garanzia che lo danneggiamo. Però nello stesso tempo non c’è una garanzia che lo aiutiamo. Cioè non c’è una garanzia che lo danneggiamo, attaccando, non c’è che lo aiutiamo. Ma questo non dipende dall’attacco, dipende dalla trasformazione del Capitale, cioè dalla capacità che ha il Capitale di recuperare.

Tu dici, non sappiamo dove si trovano le strutture scientifiche di ricerca. Forse sono nel deserto, forse sono sotto i ghiacci della Siberia, del Polo Sud. Non lo so. Potresti avere ragioni tu, e invece io penso che queste strutture potrebbero essere sotto gli occhi di tutti, anzi credo che il modo migliore per nascondere strutture di questo tipo è quello che si trova sotto gli occhi di tutti. C’è un racconto di Edgar Allan Poe che si chiama La lettera rubata. Uno aveva rubato una lettera e voleva nasconderla per evitare che la trovassero. Il posto più sicuro era di metterla nel portalettere che aveva sul tavolo e infatti la polizia gli smontò la casa, ma non trovò la lettera perché non guardò in mezzo alle altre lettere.

Io non dico che noi nella nostra ricerca degli obiettivi da colpire dovremmo avere l’assoluta certezza di riuscire a colpire tutti gli obiettivi. Io dico che è possibile cercare di individuarne una parte, attraverso i mezzi che la stessa tecnologica del Capitale ci fornisce. Ma ci vuole la volontà di cercarli, perché se noi manchiamo di questa volontà, e pensiamo che questi posti sono tutti nel deserto, oppure se pensiamo che qualsiasi attacco facciamo il Capitale poi lo recupera, la conclusione è che tanto vale non fare niente.

Io lo so che tu non vuoi questa conclusione, ma è a questa conclusione che si arriva partendo dalle tue obiezioni. Che sono fondate e giuste, ma il rivoluzionario ha bisogno di un pizzico di follia. Insomma deve fare delle cose che gli altri non farebbero mai. Se no, tanto vale allora che si cerchi un lavoro in banca. Io ho lavorato in banca, quindi parlo di qualcosa che so.

 

La trasformazione capitalista ha delle conseguenze non solo sulla gente, ma anche su di noi. Pur essendo anarchici, non siamo dei privilegiati che si rendono fino in fondo conto dei guai in cui si stanno mettendo.

Ad esempio fra le tante cose che sono cambiate, delle quali hai fatto un ottimo elenco, è cambiato il nostro rapporto con la gente. Non possiamo applicare nei riguardi della gente lo stesso progetto di cinquant’anni fa perché la gente è stata cambiata. Non possiamo non tenere presente l’azione che fa lo Stato con la televisione, la stampa, lo sport, tutte attività che cambiano la mentalità della gente.

Se parliamo con le persone ci dobbiamo rendere conto che lo Stato ha costruito nella loro testa il rifiuto dell’attacco. Ha costruito nella testa della gente dei concetti positivi al posto dei vecchi concetti negativi di una volta.

Ad esempio tu hai parlato del nuovo poliziotto, delle nuove catene. Oggi è difficile trovare una persona qualunque che abbia un’opinione negativa del poliziotto. Questo porta necessariamente a modificazioni delle quali bisogna tenere presente nel lavoro anarchico che facciamo nel parlare con la gente.

Se noi facciamo il classico discorso anarchico contro il carcere, spesse volte ci sentiamo dire che il carcere è giusto perché dentro ci sta la gente che ruba nelle case, i delinquenti. Ciò non significa che non dobbiamo parlare contro il carcere, contro l’esercito, contro il poliziotto, certo dobbiamo fare questo discorso ma dobbiamo rendere il nostro discorso comprensibile nella situazione specifica in cui si trova la gente oggi.

L’obiettivo d’attacco che dobbiamo scegliere, ad esempio se attacchiamo un istituto universitario dove si fanno ricerche di economia politica, non è facile fare capire alla gente perché gli anarchici hanno attaccato un istituto di economia politica.

Questo non toglie che si tratta di un obiettivo valido, perché è un obiettivo che ha grosse responsabilità nella ristrutturazione del Capitale, ma si tratta principalmente di inserire quest’attacco in una serie di attacchi che si spiegano l’uno con l’altro.

Ad esempio se noi riuscissimo a legare un istituto di economia politica con una serie di altri obiettivi che hanno fra di loro un rapporto logico come, in questo caso, la Borsa valori, la Camera di commercio, i sindacati e le attività che cercavano di trovare il lavoro precario, le organizzazioni di ricerca di mercato, questa serie di obiettivi, insieme, diventerebbe più comprensibile per la gente, la gente della strada (non la società che è anche costituita dal capitalista), capirebbe meglio, di una rivendicazione, di un comunicato scritto. Se noi colpiamo un istituto di economia, poi un poliziotto, poi la ferrovia, e altri obiettivi lontani tra loro la gente non capisce.

Quello che voglio dire è che vista la situazione che ha creato il Capitale è finita la possibilità di spiegare noi, con le nostre parole, le nostre azioni, ma le azioni devono parlare da sole, collegate insieme, devono avere una loro logica comune.

Dobbiamo costruire un progetto insurrezionale, rivoluzionario, chiamatelo come volete, attacchi che abbiano una logica interna, una logica loro. Quindi lo sforzo teorico che i compagni dovrebbero fare, non è quello di fornire una spiegazione, ma di trovare obiettivi che messi insieme siano essi stessi una spiegazione.

 

Diciamo subito che non può esistere un criterio omogeneo. Bisogna avere la sensibilità di capire qual è il processo di esclusione in corso. Perché questo processo di esclusione, cioè la costruzione di questo muro avviene attraverso certe modalità, avviene attraverso un progetto del Capitale, è la gente che viene esclusa che è disgregata, ma il progetto di esclusione non è disgregato.

Quando parlavamo dell’istituto dove si studia economia politica, questo fa progetti che si indirizzano verso una fascia sociale di persone. Se noi studiamo questo processo di esclusione, possiamo prevedere quale sarà quella fascia che troveremo come compagna di strada.

Finito il periodo della divisione di classe netta, non ci sono analisi che valgono per tutti in qualunque luogo e in qualunque tempo, ecco perché l’importanza dell’attacco. Ecco l’importanza creativa di trovare gli obiettivi dell’attacco.

In un certo senso, per capire la situazione degli esclusi bisogna colpire i processi di esclusione, per colpirli bisogna studiarli, il resto è facile. Mentre una volta la cosa era più semplice, era più automatica. Pensiamo all’esempio di poco fa delle barricate, non sappiamo chi avremo attorno a noi nelle barricate, e questo è pericoloso perché potremmo anche avere i poliziotti, attorno a noi. C’era un manifesto olandese che faceva vedere un punk con la cresta ed era una pubblicità della polizia. C’era scritto sotto: la polizia non è uniforme.

Quindi la necessità dell’attacco dipende anche dal fatto di capire chi avremo accanto a noi.

 

Quel libro che avete letto [sulla lotta di liberazione nazionale] è stato scritto nel 1976 e affrontava e affronta un problema sul quale gli anarchici tacevano da quarant’anni (dal 1936).

Su questo argomento anche le tesi di Bakunin, principalmente, di Kropotkin, non entravano dentro il problema, ma si limitavano soltanto a dire: meglio uno Stato più piccolo che uno più grosso. Perché lo Stato più grosso è più pericoloso in quanto cerca di mangiare i più piccoli.

Le motivazioni della lotta di liberazione nazionale sono ovviamente molto diverse, qua bisogna avere la buona volontà di cercare di capire che cosa è il sentimento nazionale, che è una cosa completamente diversa dal nazionalismo. Ognuno di noi si sente appartenente a una origine, io sono siciliano ad esempio.

Molti invece cancellano questa origine come se fosse una cosa negativa, molti anarchici intendo, perché dicono: noi anarchici, siamo cittadini del mondo. Anche loro hanno ragione, però io sono anarchico e sono anche siciliano. Capisco pure che poliziotti siciliani ce ne sono moltissimi, pensate a quanti secondini ci sono in carcere, migliaia forse. Il poliziotto siciliano è sempre poliziotto.

Il nazionalismo invece è un’altra cosa rispetto al sentimento nazionale, è l’aggressività nazionale, è la presunta superiorità nazionale. Il fatto di considerare il proprio essere, ad esempio, siciliano, superiore a un altro che è greco. Questo è il nazionalismo.

Queste sono le tesi sviluppate in quell’opuscolo. Però le mie esperienze personali concrete di lotta di liberazione nazionale sul campo, mi hanno insegnato in tanti posti del mondo, che queste tesi non sono facilmente comprensibili, perché un popolo che si trova in una condizione di sfruttamento, di miseria imperialista, come ad esempio è la situazione dei Palestinesi, non accetta tanto facilmente un ragionamento del genere.

Come cercare di farvelo capire? Non so. Ad esempio, negli anni Settanta, in Palestina il discorso portato avanti dall’Unione Sovietica, dagli agenti dell’Unione Sovietica, che per la maggior parte erano medici, era questo: noi vi diamo un sostegno concreto perché vi diamo le armi e ve lo diamo in nome dell’internazionalismo proletario.

Come si fa a controbattere un meccanismo del genere? Io non avevo spazio con le mie tesi, completamente. La stessa cosa l’ho verificata in altri posti.

Occorre che i compagni capiscano che ci sono situazioni in cui bisogna partecipare insieme agli altri alla lotta e poi dopo, se c’è spazio, fare capire cosa vuol dire essere anarchico.

Ad esempio, riflettete un attimo sulla questione dell’attacco contro i fascisti. È come se i compagni nel momento di attaccare i fascisti si fermassero e dicessero: fermi, prima facciamo un discorso sull’anarchia e poi attacchiamo i fascisti.

Con tutto questo, a proposito pochi giorni fa ho avuto il libretto sulla lotta di liberazione nazionale tradotto e stampato da una organizzazione clandestina di alcuni compagni neri sudafricani, perché anche oggi in Sudafrica ci sono discriminazioni fra gli stessi neri. Neri di prima, seconda, terza categoria. Ci sono tante etnie e tante classi in quella società. Non so che utilità possa avere per loro stampare il libretto sulla lotta di liberazione, ma l’hanno fatto.

Ad esempio, per la situazione dell’Irlanda del Nord, negli anni Settanta il libretto in questione fu stampato dai compagni anarchici che si trovavano all’interno dell’IRA, ma non facevano parte di questa organizzazione perché avevano costituito un gruppo separato che si chiamava INLA. Quando li ho conosciuti a Belfast erano tutt’altro che in buoni rapporti con quelli dell’IRA.

Non è un problema semplice questo della lotta di liberazione nazionale ed è un problema che anche oggi è molto sentito. So che in Canada ci sono delle impostazioni libertarie nel problema di liberazione nazionale del Québec però non sono cose nette, non sono cose chiare.

È in questa cosa così imbrogliata che i fascisti trovano spazio per insinuarsi con le loro argomentazioni, enfatizzando l’aspetto del nazionalismo. Si tratta comunque di tesi, quelle di liberazione nazionale, che in realtà non c’entrano con le tesi di destra.

Riguardo la repressione in corso in Italia non so cosa dirvi perché sono uscito dal carcere il quindici di gennaio, oltretutto gli ultimi mesi li ho trascorsi ai domiciliari.

Quello che so è quello che sanno tutti, cioè che ci sono una quindicina di compagni in carcere con l’accusa di associazione sovversiva, capo d’imputazione che ha sostituito la vecchia accusa di banda armata.

Dopo il processo Marini hanno capito che non era possibile condannare gli anarchici per banda armata e hanno cambiato la legge. Nel processo Marini circa ottanta compagni accusati e arrestati per banda armata, alla fine sono stati condannati, anche a lunghe pene, ma sempre per reati specifici, mai per banda armata. A me ad esempio mi avevano accusato per banda armata, ma poi mi hanno condannato per rapina. A sei anni quindi piuttosto che diciotto anni. La pena in Italia è triplicata in caso di condanna per banda armata. Questo con l’associazione sovversiva non ci dovrebbe essere, però può essere che cambieranno la legge un’altra volta.

Vi riferite a due compagni che conosco molto bene. Quando hanno letto quel comunicato io ero in gabbia con loro. Loro hanno preso questa iniziativa, io so perché l’hanno presa ma non mi fa piacere dirlo.

Uno di questi compagni è armeno nato in Libia. Ha la nazionalità armena e quella italiana. L’altro è un compagno, suo amico, italiano. Lo scopo del compagno armeno, per me assolutamente impossibile, era quello di smuovere le acque, in un certo senso, a suo giudizio, di impostare una linea diversa da quella difensiva, e ciò dato che lui aveva preso una pena altissima in un altro processo a Parma per un sequestro di persona, e allora aveva pensato di farsi riconoscere come prigioniero politico, statuto giuridico che in Italia non esiste, e non è mai stato riconosciuto a nessuno, in modo che l’Armenia potesse richiedere l’estradizione. Siccome in Armenia lui è una specie di eroe nazionale perché è un ex militante nella lotta di liberazione nazionale armena.

Difatti, io mi sono sbalordito quando ho ascoltato quel comunicato, non c’è nient’altro da dire. In se stesso quel comunicato è strano perché rivendica le azioni passate, presenti e future. È la prima volta che viene fatta una dichiarazione del genere.

 

Io non facevo più “Canenero”, ero in carcere. E comunque non facevo più “Canenero” già da 6 mesi.

Quella risposta di “Canenero” è giusta, però è fuori tempo. Non dovevano pubblicarla nella stessa pagina del comunicato, ma qualche settimana dopo. Non è la stessa cosa, voi dite? No, perché se tu metti la tua opinione su un documento che pubblichi ci metti il cappello sopra, lo schiacci, lo bruci. Se invece la pubblichi qualche tempo dopo allora stai esprimendo la tua opinione.

 


[Conferenza tenuta il 17 marzo 2009 presso il Centro culturale Camperio di Ioànnina e il 18 marzo presso il centro anarchico occupato Antibiosi della stessa città. Trascrizione della registrazione su nastro].

Appendice

“La vittoria non si esprime in una superiorità, ma, attraverso una conquista comune, nella manifestazione; la sconfitta non dipende da una mancanza di forza, ma dall’indisponibilità a partecipare alla crisi della propria e dell’altrui volontà, dal sottrarvisi nascondendosi. La lotta amorosa cessa col più piccolo impiego della violenza, ad esempio con la superiorità intellettuale o con l’influenza della suggestione. Questa lotta si sviluppa solo quando non c’è alcuna traccia di violenza, quando ciascuno pone le proprie forze a disposizione dell’altro, come se si trattasse di sé, quando non si cerca di aver assolutamente ragione e non si preferisce, alla ricerca dell’oggettività, la ricerca di mezzi di lotta. La lotta è possibile solo quando, nel dirigerla contro l'altro, la si dirige anche contro di sé; le esistenze che si amano non esigono unilateralmente qualcosa dall’altro, ma tutto ciò che esigono lo esigono insieme. Questa lotta, essendo la più radicale problematizzazione dell’altro e di me, è possibile solo sul fondamento di una solidarietà che presuppone, sia nell'altro, sia in me, l'inquestionabilità della possibilità dell’esistenza. Se, invece di giungere a questa radicale problematizzazione, si nega l’esistenza, tutto ciò che si può dire risulta così privo di senso, che, nel silenzio che di fatto si produce, si interrompe la lotta e ci si sottrae alla situazione-limite. Nell'eco di questo presupposto inesprimibile si realizza la coscienza della propria esistenza. La lotta che mi investe senza il minimo riguardo, considerandomi come possibilità d’essere senza che io sappia come, può ridestare la mia coscienza esistenziale dell’essere. Questo presupposto non è qualcosa di analogo a un riconoscimento, perché il riconoscimento si riferisce a oggettività, a diritti, a realizzazioni, a risultati, a qualità, al carattere, e soddisfa il bisogno di prestigio presente in quella coscienza d’essere che è tipica di un io sociale. Il senso originario di questo presupposto non coincide neppure col contatto esistenziale che si raggiunge nella solidarietà, perché questa si riduce con l’accentuarsi di quelle manifestazioni visibili. Io mi realizzo solo in questa comunicazione esistenziale che non si può smarrire, anche se, come esserci, ho bisogno di essere più o meno riconosciuto in almeno una forma di quelle che appartengono al genere della mia costituzione vitale, così come ho bisogno di alimentarmi per vivere”.

(K. Jaspers, Filosofia)

Approfondimento della sconfitta

Nulla di ciò di cui ci impadroniamo può restare per sempre in nostro possesso, né dandoci una parvenza di solidità come accade nell’accumulazione, né dandoci l’occasione di una effettiva riunificazione del flusso, tramite la qualità, come accade nella cosa. La nostra reale conclusione è la morte ed è verso questa straordinaria esperienza che dobbiamo muoverci, facendo in modo che essa sia qui, in mezzo a noi, nell’ambito dei nostri progetti, componente e motivo delle decisioni, e non un traguardo negativo da tagliare quanto più tardi possibile. Il rifiuto dell’accumulazione, con la sua logica analitica, del perdurare fittizio, si racchiude tutto in questa preparazione alla sconfitta, alla negazione di quanto si è costruito, costringendoci a guardare le nostre stesse strutture quasi in controluce, per scoprire la sostanza di cui sono fatte, cioè per scoprire che in definitiva sono elementi relazionali anch’esse, dello stesso genere delle forme, impossibili a trattenersi, ad abbracciarsi, a considerarsi come una propria personale e definitiva conquista.

La coerenza ci ha prospettato da sempre una splendida strada diritta e senza intoppi, un’esistenza più in perfetta regola con i nostri princìpi, anche quelli che ci siamo dati liberamente e che per questo, in buona fede, definiamo nostri. Anche questi s’imbrogliano nel vorticoso volgere delle cose, s’imbrogliano e c’imbrogliano. Occorre avere il coraggio di andare più a fondo nel perché delle cose, facendo emergere l’abisso che si nasconde dentro la perfetta aderenza del piccolo uomo ai suoi sacrosanti princìpi, scalzando perfino il suo luminoso ideale se questo può fare ombra e offrire occasioni per nascondere la propria paura. Le strutture del letargo sono tutte ben chiare ed evidenti, manipolano con grande abilità le certezze e le verità, propongono occasioni di gloria e grandi conquiste, il linguaggio ne illustra le portentose capacità. Imbroglio e imbroglioni stanno bene insieme. Penso che la prima violenza da esercitare sia verso se stessi, educarsi alla propria disciplina, non a una linea di comportamento esteriore, la disciplina di se stessi, del proprio corpo, dei propri desideri, dei propri progetti. Una dura disciplina, capace anche di trattare in modo adeguato la coerenza e la verità, in modo adeguato a se stessi, non adeguato ai princìpi sacrosanti dell’ideale. Se il cuore fugge lontano dalla luce, diventa amante delle tenebre, non sapremo mai dove si trova realmente la verità, se nel buio o nella luce, pensarla per necessità dove la chiarezza è maggiore potrebbe essere un ultimo e più terrificante imbroglio.

L’unico modo per conoscere la morte è amare la vita, rifiutare tutto quello che di perfetto c’è nell’illusione del mondo, la perfetta architettura delle combinazioni nasconde sempre la morte, le strutture ben equilibrate, le rispondenze precostituite mettono a tacere quell’inquietudine che è segno critico del ritorno alla vita. La realtà è capriccio, digressione, foresta incolta, disordine. Quando appare attraverso la lente deformante dell’ordine e dell’utilità non bisogna farsi ingannare, al di sotto resta lo stesso la sanità del disordine che nulla può realmente distruggere. Solo che noi siamo troppo deboli per scotennare con facilità questa capigliatura protettiva, e finiamo per perderci dentro, afflitti se qualche colpo di vento scompiglia appena i pochi capelli. Se affrontassimo il disordine della realtà con una pretesa ordinatrice non faremmo altro che sistemare un pochino questa capigliatura, un’operazione di maquillage come un’altra, disgustosa come un’altra, utile come un’altra.

Ecco perché qui ho prediletto un’altra strada, quella del salto del tema, del cambiamento del tono, della modificazione del movimento, del capriccio, della linea spezzata. Ciò per rispecchiare meglio, nei limiti del linguaggio e della riflessione filosofica, che restano limiti considerevoli, l’incredibile e sorprendente realtà. Non che anche questa linea di difesa non sia anch’essa compromettente, spesso corre il rischio di diventare un imbroglio più raffinato, ma almeno non ha le pretese classiche dell’esorcismo nei riguardi del disordine. Non ho voluto dare il piccolo contributo a fare apparire la violenza come un grazioso scettro che possiamo racchiudere tra le pagine di un libro. Se ci sono schermi e nascondimenti, sono quelli che le necessità dell’interpretazione rendevano indispensabili, l’inquietudine rallentata negli accorgimenti accumulativi, la diversità della coscienza, costretta a utilizzare il materiale accumulato, l’ambiguità della desolazione nel territorio della cosa.

La conoscenza non è sempre un fatto solare, esiste di certo una conoscenza dell’accumulazione, perfino provvista di una sua intima e vivida logica, ma sappiamo ormai che qui ci interessiamo di un’altra conoscenza che spesso viene infastidita dalla luce, una conoscenza che nasce nell’ombra e nell’ambito delle prospettive allucinate che l’ombra fornisce. Da questo punto di vista, la solarità dell’evidenza sembra qualcosa di immobile e di pietrificato, un’uniformità costruita apposta per reggere ai confronti imposti dal modello. Utile, questo sì, ma nulla di più. Ma il movimento è qualcosa di completamente diverso, prospetta un’incognita tenerezza nei riguardi dell’altro, perfino quando quest’ultimo veste i panni artefatti dell’oggetto e si sottopone, e viene sottoposto, alla rigida disciplina ordinativa dell’oggetto. È qui, in quest’ambito di incertezza che nasce la passione della sconfitta.

Ma, per meglio descrivere l’insieme che abbiamo davanti, prendiamo le cose un po’ alla lontana. Restiamo ai problemi dell’accumulazione, vedendone un aspetto su cui ci siamo limitati a brevi spunti. Nell’ambito del meccanismo diretto verso il senso, all’interno del flusso orientato, avvertiamo spesso una sollecitazione al superamento, un desiderio di perfezionare un contesto che avvertiamo carente se non altro per quello di cui siamo coscienti a livello unificato. Non bisogna dimenticare, infatti, che sono molteplici i flussi che costituiscono l’individuo e che soltanto alcuni di questi sono orientati mentre il resto è unificato. Spesso ci disponiamo verso il senso che si sta accumulando come se fossimo superiori al processo stesso, come se quest’ultimo fosse una disgrazia piovutaci improvvisamente tra capo e collo e senza nostra responsabilità, mentre la cosa sta esattamente al contrario in quanto siamo noi ad avere costituito l’orientamento del flusso con il ritiro del nostro coinvolgimento. Quindi non possiamo atteggiarci a nessuna posizione privilegiata, a nessuna possibilità di superamento, almeno fin quando resteremo all’interno del meccanismo in questione.

Non bisogna dimenticare poi che quel flusso resta sempre un movimento relazionale legato con la totalità delle relazioni possibili e che se si trova nelle condizioni orientate noi siamo responsabili non solo nei riguardi di ciò che quel flusso significa per noi, ma anche nei riguardi di ciò che significa per la totalità delle relazioni nel suo insieme. Se vogliamo superarlo dall’interno, ad esempio accelerandolo, supponendo che esso sia esauribile nel suo modo di essere specifico, cioè in quanto processo di catalogazione, facciamo un errore grossolano. In primo luogo, facciamo un errore perché ci pensiamo estranei a esso, cosa che non è vero, perché esso ospita la nostra coscienza immediata, in secondo luogo, facciamo un’ipotesi eliminatoria del tutto inconsistente. Per sciogliere le condizioni accumulative dobbiamo aprirci all’esterno, verso il secondo livello dell’effettualità, non restare nel primo livello pensando di esaurire quest’ultimo dall’interno, cioè di superarlo.

Purtroppo siamo soggetti a questo bisogno di superamento, in quanto siamo anche noi un prodotto dell’accumulazione che cerca costantemente di superare se stessa. Il versante soggettivo, con la sua strutturazione, è quello che ci spinge al superamento. C’è un preciso rapporto tra struttura e superamento e noi siamo obbligati a vivere questo rapporto come un aspetto concorrenziale della vita fin quando non scopriamo il nesso preciso che lega questi due aspetti. La ricerca e l’elaborazione degli strumenti, l’intera attività del laboratorio, può essere indirizzata esclusivamente al superamento, per cui si ha un’illusione di qualcosa che cresce nel versante soggettivo, nella coscienza immediata. Un aumento quantitativo che scambiamo subito per crescita della qualità, capacità di giudizio. Questa illusione legata a un rapporto diretto tra crescita del senso e aumento qualitativo, spinge a continuare il gioco del superamento. Si ha così l’impressione di una crescita all’infinito, un allargarsi a dismisura fino a comprendere sempre più cose nella struttura soggettiva. La propria esistenza non è allora più vista in modo relazionale, ma come un processo di crescita più o meno lineare. Accumuliamo, e da questo fatto traiamo l’impressione di una crescita intesa come forza personale, un allargamento della coscienza immediata.

Collochiamo in questo modo, nel versante soggettivo, impressioni e dati che diventano un riferimento essi stessi, un oggetto nel soggetto, e li stacchiamo dal nostro versante oggettivo, per come risulta orientato il flusso, che di fatto stacca il senso dalla tensione. L’esistenza di un flusso orientato attira verso il meccanismo di accumulazione buona parte delle nostre esperienze oggettive, anche di altri flussi e, questo fatto, corrispondendo a un preciso cedimento nostro, a un rifiuto davanti all’impegno e al coinvolgimento, non fa che aumentare l’orientamento dei flussi nel loro insieme. Cedere attira morbosamente, distogliere se stessi da un progetto, rilassarsi, affidare ad altri le proprie idee, specialmente affidarle a un meccanismo di massima sicurezza, è uno spettro che produce molte adesioni. Così ci impoveriamo in termini di tensione, ci allontaniamo dal territorio della cosa, ci rinsecchiamo in procedure e garanzie. Questo inventario di collocazioni è un elenco di fantasmi, ma ha la capacità di evocare, punto per punto, la caduta delle tensioni, impietosamente, mentre nell’ambito del senso tutto questo viene spesso visto come un risultato positivo, un’accumulazione.

Facciamo così un vero lavoro alla rovescia, da un lato, non ci coinvolgiamo verso la tensione reale, dall’altro, entriamo in tensioni immaginarie proponendoci continui superamenti del senso. Ciò comporta un considerevole lavoro simbolico, una sostituzione puntuale dei contenuti con simboli capaci di evocare altro senso, differente, più importante o quanto meno più vasto e comprensivo. Il superamento, così come lo sto approfondendo qui, non è tanto la ricerca di ulteriori dati per procedere alla loro archiviazione, ma è l’illusione di superare, all’interno del medesimo meccanismo accumulativo, il risultato ottenuto in termini di senso, cercando quindi un ulteriore senso al di là del processo stesso, in una proiezione che cerca con scarsi risultati di mimare quello che invece accade nel territorio della cosa. Chi è ossessionato dal superamento riduce le sue possibilità di inquietudine, in quanto c’è un’antitesi direzionale tra abbandono e superamento.

Questa tendenza illusoria non è limitata ai movimenti con prevalenza di senso economico, relazioni quantitative in modo particolare, ma essa si verifica in qualsiasi tipo di flusso orientato. Si resta sconcertati del modo in cui questa spinta al superamento quantitativo, quindi tutto interno al senso, agisce anche nell’ambito dei processi di riorganizzazione. Oltre ai danni derivati dalla maniacale intenzione di controllo e di dominio della coscienza immediata, si sviluppano le diffidenze maniacali specifiche del superamento, le minuziose catalogazioni, la precisione conformistica, finalizzata a se stessa. Una speranza cieca sollecita il meccanismo alla sua esacerbazione, ne alletta strane solidarietà ombrose, caratteristiche comparazioni gerarchiche. Si corre il rischio, seguendo queste tortuosità, di smarrirsi in rimandi simbolici, capaci di trasformare in astrattezze simulanti qualità l’eterno rincorrersi del meccanismo accumulativo.

Il superamento, come appare ora chiaro, non può mai essere critico. Il suo risultato è anche la sua giustificazione, nessuna spiegazione esterna può mettere in difficoltà il superamento se non un’inversione di marcia, la rinuncia all’accumulazione. Fin quando esiste, e dà apparenti risultati di sollecitazione del senso, non può fare a meno di funzionare con un processo che è quello della crescita quantitativa. Sono gli effetti di induzione di questa crescita, effetti che si scaricano sulla crescita stessa, a essere meno conosciuti. La coscienza immediata, che mira al superamento è un elemento del superamento stesso, per cui finisce per perdere le possibilità di vedere i limiti e le contraddizioni della logica dell’a poco a poco, finisce per diventare un effetto di qualcosa che ha contribuito a causare. E più ampio appare il superamento, più grande è l’effetto e ancora più grande diventa la capacità di essere causa di quell’effetto e così via. In economia un effetto con qualche somiglianza con quello che sto qui descrivendo è stato chiamato moltiplicatore, comunque studiato in una prospettiva non relazionale e quindi non può costituire un possibile punto di riferimento esplicativo.

Come si vede, anche qui, come nella cosa, il confine del delirio non è lontano. La coscienza può restare prigioniera all’interno di territori diversi ma ugualmente desolati, impenetrabili in assoluto per le sue possibilità di andare avanti. Solo che sono molto differenti i livelli di isolamento e i livelli di fruizione degli effetti nella situazione trasformativa e nella situazione modificativa. Facendosi attirare dal superamento, si diventa superamento e basta, per cui ci si può sentire appagati in una illusione senza sbocchi, una sorta di esacerbazione del rischio costantemente presente nel meccanismo accumulativo. Non il rischio del coinvolgimento, che è personale e quindi valutabile in modo più o meno corretto da chi lo corre, ma il rischio del processo privo di scopo reale, munito di un senso tutto suo che finisce per sfuggire.

Il superamento è un’accelerazione che cerca di scoprire una screpolatura nel meccanismo accumulativo, non una interruzione o un cedimento, ma una improvvisa coloritura qualitativa del senso, mai vista prima, un salto quantitativo che apre un territorio differente in modo agile e disinvolto. Ma il metodo non fa altro che sottolineare gli aspetti più infami, turpi e truculenti del meccanismo stesso, capaci di metterci tanta paura da allontanare per sempre l’inquietudine della coscienza immediata. L’acquisizione e la vittoria diventano sempre più torve e pungenti, presuntuose, disperate, si sommano con un furioso malumore, sempre più controvoglia, attirandosi l’una con l’altra, fino al possesso animato dalla sfacciataggine. È il culto del successo quantitativo che produce l’accelerazione del superamento, l’ideologia di andare a scovare la vittoria, di provocarla, di coltivarla, anche attraverso la mistificazione. Si finisce così per costruire ostacoli inesistenti solo per il piacere di superarli, sfide menzognere e rutilanti solo per sentire l’applauso del successo, la testarda violenza dell’arbitrio che sceglie metodo e conclusione, con una straordinaria naturalezza acquisita che fa anch’essa parte dell’iconografia della vittoria.

L’impossibilità dell’apertura e dell’abbandono deriva nel superamento dal rifiuto del superatore di non continuare a superare perché egli stesso è entrato nel meccanismo e il meccanismo lo costringe alle sue regole. L’interruzione viene vista come un arresto della propria vita, l’accumulazione è ormai il ritmo della sua forza, non ci sono più differenze. Non riesce più a capire l’orientamento del flusso, mentre anche la presenza degli altri flussi, quelli unificati, tende a restare indietro, ad apparire come uno sfondo ricco soltanto di complicazioni. L’attesa della vittoria come prodotto necessario di questa fedeltà al contesto dell’accumulo, si sovrappone al superamento, diventa la medesima cosa. Ci si impigrisce nella grande mole del fare coatto, ci si vede coerenti e rigidi, sicuri di sé quando invece si è semplicemente sclerotizzati, disciplinati, ripetitivi, istituzionalizzati.

Nell’abbandono c’è invece un’immediata adesione alla realtà, una nuova completezza ed esemplarità, una rovina catastrofica per il giudizio che risente ancora del contesto accumulativo, e del sovvertimento che si verifica a seguito dell’inquietudine, ci si rende conto con molta lentezza, quasi con ritrosia. Non è facile liberarsi dalla monotonia del successo, dalle abitudini di chi resta tappato nelle proprie condizioni di clausura, scrutando con animo inquieto i segni del destino riflessi nel cielo. Sciogliersi nella varietà è difficile, almeno agli inizi, un vero sconquasso, un saccheggio, una distruzione dell’ordine e della certezza. Un essere acquisitivo fatto per vincere, che si è illuso di vincere sempre, che ha sempre vissuto le sue disillusioni solo in termini di transitoria sconfitta in vista di una luminosa vittoria finale, accetta con grande difficoltà l’idea che lo scopo della sua vita possa, di colpo, diventare la sconfitta.

L’utilità immediata, pratica, che si riscontrava nell’accumulazione, non esiste nell’abbandono. Fin dal secondo livello dell’effettualità, nelle incerte e timide propensioni dell’interpretazione, c’è di già il segno dell’inutilità, se questo segno non emergesse subito, e con grande evidenza, l’apertura sarebbe ancora da realizzare, restando tutta interna al fare produttivo. L’accumulazione e il superamento conquistano e rassicurano proprio a spese di una possibile trasformazione, mentre il coinvolgimento si presenta con un abbandonato guardare in avanti, un avventuroso bisogno di completezza. Da questo punto in poi non si accumula, quindi non si è utili nel senso stretto del termine. Una trasformazione, come accesso alla qualità, non può mai definirsi in termini di utilità se non accettando confusioni terminologiche o estensioni analitiche che accrescono le difficoltà e non le risolvono. Le utilità sono sempre modificazioni produttive.

Con l’abbandono si inverte il rapporto di quantificazione e ci si trova in un orientamento che prevede l’obiettivo della tensione senza che sia possibile una misura né dell’obiettivo stesso e neanche dei processi di avvicinamento. Ciò dipende dal modo in cui si realizza il coinvolgimento, condizione precaria e difficile a conservarsi, sempre sull’orlo della rovina e della sconfitta. La diversità, fin dal suo inizio è di già più che matura per la rinuncia, per l’allontanamento dal rischio e dal pericolo. Fra le molte attività che deve apprendere a gestire c’è l’impiego dei contenuti, solo che questa volta, essa stessa, in quanto diversità, non è più un contenuto fra gli altri, ma è cosa diversa, dal senso, pur non essendo ancora tensione a tutti gli effetti. I tentativi si rinnovano continuamente e spesso si riaccartocciano nella sconfitta prematura, un rinunciare e un ripiegare verso l’accumulazione. Il miraggio dell’utilizzabilità gioca sempre la sua funzione dietro le quinte, il suo fascino segreto, il suo gesto rassicurante.

L’azione è quindi esemplarmente inutile. Tutto quello che l’azione realizza, in primo luogo la trasformazione, non può essere misurata, calcolata in termini di utilità se non ipotizzando conseguenze strutturali che sempre sono leggibili attraverso il ricorso a modelli appartenenti al meccanismo accumulativo. La coscienza diversa ha una sua caratteristica fondamentale ed è quella di smarrire tutto quello su cui fissa la sua attenzione in termini di controllo. Non dimentichiamo infatti che la diversità è sempre coscienza e che questa è sempre un elemento d’ordine e di misurazione. La grande condizione trasformativa della diversità è che questa si trova a fare, al di fuori quindi del semplice livello modificativo, tutto quello che non è adatta a fare, fino a sconvolgere l’assetto del fare medesimo, con l’inserimento della propria presenza ingombrante nel movimento stesso che si viene a sviluppare a partire dall’apertura e dall’abbandono.

Dal momento in cui nasce l’inquietudine, quindi di già all’interno della catalogazione, la coscienza immediata non controlla più se stessa ma nemmeno l’inquietudine che la spinge verso l’apertura. Qui, nel momento di dar vita alla coscienza diversa, smarrisce il controllo dell’apertura che si trasforma in abbandono. Anche questo viene dapprima sottoposto a una serie di tentativi di controllo che poi si affievoliscono nell’ambito del secondo livello dell’effettualità, dove ogni progetto acquisitivo viene, di volta in volta, smontato dallo svolgimento del percorso verso il terzo livello, nell’ambito dell’orientamento diretto alla tensione. Qui tutto il lavoro interpretativo viene smarrito nel salto dentro il territorio della cosa, dove si svolge la complessa vicenda dei movimenti interni alla forma che si possono concludere sia con la riunificazione del flusso sia con lo smarrimento nel delirio.

Per quanto voluta, una ricerca dell’inutile non può essere assoluta. La forma può attingersi solo a tentoni e per brevi tensioni. Non si può strutturare un intervento. Chi non può avvicinarsi alla realtà in modo diverso dalla strutturazione finisce per fissarsi continuamente delle regole, che prima lo imprigionano e poi lo uccidono. Così non può abbandonarsi, in quanto ne verrebbe ferito il suo orgoglio e, per un altro verso, anche la sua speranza. C’è chi pensa che il futuro sia programmabile e, in questa direzione, lavora fino in fondo mettendo mattone su mattone un progetto in piedi che è già morto prima di nascere. Dopo l’accumulazione solo l’inutilità della cosa, con l’insieme pieno delle sue qualità, può permettere la rinascita dell’uomo. Una mancanza di calcolo e di obiettivo, una liberatoria ricerca della passione e anche del dolore, tutti interi senza riserve e senza prudenze, possono completare quello che per proprio destino resta incompleto e condannato a ripetere l’utilissimo gesto dell’accumulo.

Senza più il peso di un patrimonio da tutelare si diventa teneri e violenti nello stesso tempo, acqua scura e acqua limpida, sempre comunque in movimento, variazione continua priva dei soliti filtri storici e ideologici. Il senso della sconfitta permette una totale rifondazione dell’uomo, la coscienza della sua marginalità parallela alle altre tante marginalità, una malinconia da spiegare e forse anche da vincere per meglio costruire la prossima sconfitta, una definitiva inutilità della pratica eretta a costruzione definitiva, una nuova misura della mera probabilità, non più analitica ma concreta, approssimativa in modo qualitativo. È il proprio universo individuale che esce allo scoperto, senza griglie difensive di tipo politico. La scoperta della morte terribile dietro l’angolo, la sequenza delle inutilità personali nell’apparenza delle conquiste strumentali, l’una dopo l’altra queste ultime sembrano legarsi insieme in un discorso logico e quantitativo, tutto sembra quadrare alla perfezione, il riconoscimento degli altri, l’albagia di se stessi nei riguardi del proprio quieto vivere, l’accumulazione dei propri meriti, le capacità di capire e di conoscere, l’incubo freddo della memoria come uno specchio dove puoi vedere riflessi all’infinito le stesse immagini, gli stessi gesti, gli stessi pensieri.

Ma si tratta di fantasmi, appena appena capaci di brevi barbagli nell’inettitudine alla reale trasformazione. Un piccolo gesto ed è subito crollato un mondo, un intero universo di inutile paccottiglia. I risultati e i calcoli si accampano tendenziosi nella coscienza, vi prendono posto in modo ampio, dominano e controllano, strumenti e oggetto di un altro controllo che a loro sfugge altrettanto bene di quanto non accade anche a tutti. Non suggeriscono subito una strada verso la cosa, ma nel migliore dei casi un tortuoso sentiero dove trovare soltanto i segnali di altri passaggi, gli sforzi degli intrepidi precursori, i simboli segreti di una comunione inaspettata, sigillata dalla sofferenza.

È la morte a governare la struttura, ma non ce ne accorgiamo perché noi stessi siamo fortemente strutturati, quindi siamo coscienza di morte, della nostra morte in primo luogo, poi di quella degli altri. Di quest’ultima abbiamo i dati dell’accumulazione ma li occultiamo ed è per questo che pensiamo sia l’unica di cui possiamo fare esperienza. Invece è della prima che sappiamo realmente di più perché di essa abbiamo la struttura nel nostro versante soggettivo e questa, ben al di là della semplice presenza del dato quantitativo, è una elaborazione relazionale del senso, un’interpretazione di secondo livello, il primo passo verso la coscienza della sconfitta.

La differenza tra la coscienza di morte, o coscienza immediata, e la coscienza della sconfitta è quindi considerevole. La prima si mantiene tutta interna al meccanismo accumulativo, la seconda si sviluppa al di fuori di questo meccanismo e cresce man mano che si sviluppano i successi dell’effettualità superiore, fino a culminare nella cosa in una accettazione cosciente della sconfitta, come progetto conclusivo. L’abbandono è quindi il primo momento vero e proprio di rifiuto della morte racchiusa nell’idea stessa dell’accumulo e della catalogazione ed è anche rifiuto di tutto quello che di mortale c’è nella coscienza immediata. L’abbandono è il rifiuto del vasto, dell’ampio, del sovrastante ed estraniante regno dell’archiviazione. Sarebbe meglio dire che è il rifiuto della superfetazione, cioè di quel concrescere che è tipico della coscienza immediata, nella sua azione interna alla catalogazione. Come lasciare prendere, come tentativo che si rinnova, sempre, l’abbandono è il rifiuto dell’immediatezza quindi non solo della immediatezza in quanto coscienza, e in questo senso è ostinato e ottuso, movimento di confine della struttura, non appartiene definitivamente né a questo né a quel flusso ma sviluppa tutta la sua portanza metodologica, proprio come pulsione a venire fuori, a liberarsi da quanto di immediato sta attorno alla coscienza.

La sottile strategia dell’abbandono è quella di lasciarsi vincere o, a volte, convincere. La sconfitta è un elemento fondamentale per la fuga dalla struttura e dal regno dell’accumulazione. I vittoriosi sono sempre quelli che osservano dall’alto, e con grande disprezzo, i mancanti all’appello, quelli che hanno avuto sfortuna, che non sono presenti. E a questi chiedono spiegazioni e pesano responsabilità e preparano sentenze con tanto di assoluzioni e condanne. I vincitori hanno titoli, sono dottori e maestri, maestri nel senso del dominio non nel significato di educatori, significato più modesto ma anch’esso non privo di tragici equivoci, maestri nel senso della mafia e delle gerarchie carcerarie. Nel luogo dove mi trovo [un carcere greco] anch’io ho diritto a questo titolo, al posto di quello che in fondo non sarebbe usurpato di dottore in qualcosa, ma ciò dipende dalla mia età e dalla mia barba bianca, che poi ho il sospetto che quasi tutti si vadano convincendo che sono uno sconfitto, quindi non posso essere veramente un maestro e neanche un vincitore. E di questo sono contento. Non sono mai stato ricco ma vincitore sì, sempre con l’intenzione di lavorare contemporaneamente a costruire la sconfitta delle mie stesse vittorie, la nientificazione dei successi, la costruzione di un utilizzo non più strumentale dei miei strumenti. Ciò richiede un coraggio solare, proprio per farsi fraintendere, in primo luogo da se stessi, per darla a bere, per giocare costantemente con la scala dei valori che gli altri hanno il diritto di chiederti di esibire come una bandiera. E non puoi tirarti indietro, specialmente quando diventi povero e giochi con gli altri al gioco della poca importanza d’essere povero, ma non sei un povero vero, il tuo è un nascondimento di quelli di prim’ordine, una trappola coi fiocchi.

Certo, ci sono diversi modi di vincere. La forza non è solo quella della conquista e della messa da canto, c’è anche la forza della conquista fuori di sé, della trasformazione, della non acquisizione, della non esclusività, del non per sé, qualcosa che non è accumulabile e non è mai visibile agli altri in termini quantitativi, in termini di struttura. L’indefinibilità di questi movimenti è veramente complessa, essi devono avere tutte le caratteristiche quantitative della vittoria, non possono soltanto limitarsi a mimarla di lontano, e non si può vincere se non si vuole vincere, se non si dà spazio alla coscienza immediata che di vittorie se ne intende, se non si educa cioè la volontà al dominio di se stessa e degli strumenti che intende adoperare. Come si muove allora la linea inversa che sta, contemporaneamente, realizzando la sconfitta? Penso che tutto possa spiegarsi attraverso la diversità, la quale di per sé non è ancora un progetto di sconfitta, e non saprà esserlo ancora per molto, ma è il germe della futura sconfitta, della sconfitta conclusiva.

La presenza degli altri, il mio interesse verso di loro, le loro necessità fisiche come le loro tesi teoriche, perfino il loro odore e sapore, le loro opinioni e i loro convincimenti più radicati, tutto ciò può essere respinto criticamente da me perché mi convinco della loro appartenenza a un mondo che voglio rinnegare. Questo sviluppo critico non è ancora del tutto negativo proprio perché appartiene al meccanismo di catalogazione, io sto ancora ridefinendo i miei limiti strutturali. La critica negativa respinge guardando avanti, considerando le possibilità ulteriori, non limitandosi a esaminare fino in fondo le motivazioni che stanno dietro, che rendevano più o meno accettabili quelle tesi. Non c’è nulla dell’altro che può convincermi fino in fondo, per questo mi lascio convincere, perché non sono un vincitore, perché non voglio godere dei privilegi della vittoria, perché sto andando verso un’altra direzione. Se invece mi rendo conto che la vittoria, l’acquisizione di oggi, la sua rielaborazione in strumento, può essere capace di condurmi verso la sconfitta, perché è possibile trasformarla in strumento di perdita finale e di tracollo definitivo, anche l’utilità immediata potrebbe allettarmi, in una sottile strategia di abbandono. Potrei cercare di vincere, anzi di diventare il vincitore per definizione, che è poi quello che aguzza prima e meglio degli altri le armi spuntate dell’analisi, per costruire la mia sconfitta di domani. E questo spiegherebbe l’accettabilità di alcune vittorie aventi lo scopo di ribaltare prima o poi la situazione, vittorie strategiche molto importanti capaci di nascondere i progetti di un vero genio della sconfitta.

D’altro canto, conoscete un altro modo di trattare con la struttura? Forse che il quantificatore protervo non agisce parimenti? Crede di fare in modo diverso, ma la logica dell’a poco poco, che sbandiera ai quattro venti come un metodo acquisitivo prudente, l’empirismo sanatutto dei sicuri di sé, lo porta a una sconfitta ancora peggiore, priva dei contrassegni della sconfitta strategica, una sconfitta improvvisa e disastrosa, inaspettata perché non voluta, anzi rinviata, il più lontano possibile, una sconfitta, che si identifica con la morte e che resta del tutto interna al regno accumulativo dove domina la morte. Questo sforzo patetico di coprire la realtà corre parallelo alla stessa illusione quantitativa, così com’è vissuta nella catalogazione, un sogno mai esausto, mai realizzato, un continuo rinvio senza tregua e senza scopo.

Ma la decisione della sconfitta è uno strazio autoimposto, una suprema verifica della coscienza, la ricerca di qualcosa attraverso ciò che si aborre di più al mondo, il perdere. Nel perdere c’è sempre un po’ del perdersi e quindi c’è sempre una profonda riluttanza, un desiderio di riprendersi quello che ci viene a mancare. La più radicale convinzione, quella della crescita acquisitiva, viene negata non per accidente o delusione, ma per un movimento autonomo e strategicamente fondato. Si tratta di tendenze che sono profondamente inconciliabili e che di regola si scontrano tra di loro con conseguente dissociazione della precaria e ipotetica unità della coscienza. Ecco perché la ricerca della sconfitta, posta accanto al lavoro acquisitivo per l’accumulo di vittorie che preparano la radicale sconfitta, strategica, viene posta continuamente avanti e deve essere sempre cercata di nuovo, in quanto corre il rischio di arrestarsi a una qualsiasi vittoria per installarvi la propria archiviazione. La ricerca della vittoria per la sconfitta è la sola prospettiva credibile per dare inizio all’abbandono.

Ora, il coinvolgimento stesso, almeno nelle sue prime mosse, si propone come una intensificazione partecipativa, un risveglio della diversità che non può non corrispondere con uno scatenarsi del gioco dell’intelligenza, del corto circuito pirotecnico dell’immaginazione. Spesso mesti effetti arrivano al limite della stravaganza, della rottura, improvvisa e sbalorditiva della gabbia obbligata dove siamo stati rinchiusi e dove la nostra prigionia, per altri aspetti, e quindi per altri flussi, continua a recitarsi. Non possiamo, in questa condizione che a tratti diventa quasi euforica, freddamente operare una scelta strategica che appare castrante. Almeno, non possiamo immaginare che questa scelta si verifichi in base a una riflessione pacata e conciliante. In fondo dobbiamo prima eliminare il convincimento che la decisione della quantità deve avere una sua base positiva, in caso contrario non si comprenderebbe il senso di sicurezza e di garanzia che comunque continua a fornire. Certo, questa è la valutazione del bottegaio, crescendo l’inventario cresce anche il suo cuore, che si gonfia come la portata di un fiume. Ma anche all’interno del meccanismo accumulativo le idee e gli stimoli non sono uniformi, spesso vi sono movimenti contrastanti che portano a una considerazione contraddittoria del quantitativo stesso, per quanto tutto poi si risolva in differenze mai eccessive. Una considerazione assolutamente statica dell’accumulo non è mai esistita, i Vangeli ne sono una prova.

Ma la sconfitta è un’altra cosa, occorre spogliarsi della forza accumulativa per indossare la disposizione negativa, un cambiamento senza paragone con le modificazioni specifiche della produttività catalogativa. Quindi occorre avere la capacità di dislocare altrove il fondamento positivo del movimento diversificato, perché non si potrebbe accedere alla interpretazione la quale come secondo livello dell’effettualità abbisogna di una base solida, contenutistica, da cui partire. Ora, mentre il contenuto, in termini di senso, è reperibile solo nell’accumulo, la base positiva di cui l’interpretazione ha bisogno, in termini di tensione, è reperibile nella cosa. L’accumulazione era un movimento esteriorizzante, la ricerca del territorio della cosa è invece un movimento interiorizzante, capace di produrre effetti nel flusso, come appunto la riunificazione, ma che in quanto movimento, per l’individuo, resta un’avventura sua, tutta chiusa in se stessa, ed è qui che si colloca la sconfitta, la sua personale sconfitta.

La sconfitta non è quindi, come potrebbe sembrare a qualche critico affetto dalla solita imbecillità che ho combattuto per tutta la mia vita, il fallimento dell’azione, ma al contrario il fallimento dell’attore come protagonista. La trasformazione entra nella realtà, produce riunificazioni di flussi, sconvolgimenti di campi, processi e movimenti relazionali di grande portata, ma nell’ambito dell’individuo che la realizza per restare produttiva di queste conseguenze trasformative, per garantire una persistenza del coinvolgimento, deve pervenire alla sconfitta. Non esiste un’accumulazione delle trasformazioni, ogni avventura inizia e si conclude per ogni flusso, un’allucinata ripresentazione di una vicenda sempre diversa. L’accumulazione comincia quando finisce il coinvolgimento e quindi l’azione, quando si ritorna alle condizioni del fare coatto. Ogni vera realizzazione, in quanto reale trasformazione, produce un piccolo tassello verso la sconfitta finale, è sottrazione di sé al fascino accumulativo, una morte che si sconta vivendo, quindi è un’affermazione della vita contro la morte, uno sforzo per vincere perdendo e per evitare di perdere vincendo, continuando a vincere stupidamente.

Più le trasformazioni diventano radicali, come i cominciamenti nella cosa, più si fanno piccoli passi avanti nel territorio della desolazione. Chi agisce trasforma la realtà, e anche se stesso. Paga con una lunga educazione al crollo fisico, fatto di piccole scadenze, piccoli impegni da pagare con la propria capacità intellettuale di superare gli allettamenti e gli imbrogli, il fascino delle tante sirene che si fanno vedere di qua e di là, simboli e giochi del potere, anche del potere di avere ragione, di essere sempre il più bravo, tragicamente il più bravo, come il trapezista che insiste nel suo unico e assurdo esercizio, fino a quando un muscolo del braccio, un piccolo e trascurabile muscolo, comincia a tremare, ed è la fine.

Il fascino dell’azione porta a volte all’equivoco, suggerisce insinuante una possibilità di costruire alternative, una sorta di frammentario luogo delle acquisizioni qualitative. Ma nella forma è impossibile edificare, le infiltrazioni critiche, le verifiche di contenuto, il rispetto che la coscienza diversa ha di se stessa, la pratica acquisita nell’interpretazione, fanno crollare ogni equivoco in breve tempo. È un affascinante e desolato spettacolo, quello che consiste nel riscontro puntuale di questi chiarimenti, nello strepitio del sogno narcisista che crolla, nelle inutili architetture crollanti. Il navigatore solitario, abituato al territorio della cosa, si riconosce da lontano, ha una capacità dispendiosa, e cronica di lavorare alla perdita di sé, non tanto nel territorio stesso, superando il punto di non ritorno, quanto proprio nell’insieme dell’effettualità interpretativa e trasformativa.

È l’azione a proiettarsi fuori mentre noi restiamo dentro, coinvolti o timorosi, da questo particolare punto di vista il risultato è identico. Non proiettiamo mai una struttura, nostra, in ordine con il nostro stesso coinvolgimento, tutto questo meraviglioso vagabondare della diversità se lo si vuole cristallizzare in un ragionamento analitico, si sperde subito, le idee muoiono e non hanno più vita, i nascondimenti diventano miserabili trappole per topi, il contenuto si riafferma, per quello che era da sempre, un prodotto dell’accumulazione, la sola cosa che presenta una reale vitalità, la forza del fare coatto. Qualsiasi tentativo di mettere ordine duraturo nella diversità si traduce in un blocco micidiale, la sola soluzione è quella di togliersi di mezzo, ritirarsi dal coinvolgimento, abbandonare la partita.

Discutere di una possibilità di chiamarsi fuori riguardo questa radicale diversità, non ha senso, come non ha senso la presunta neutralità etica del filosofo. Di per se stesse queste posizioni non sono nemmeno distinguibili, producono dubbi e riflessioni, ma non sono isolabili se non con procedimenti fuori della realtà, artefatti e simbolici. La realtà non ammette sospensioni e rende ridicoli, in breve tempo, tutti i tentativi di mettere le mani fuori dell’acqua. Riflettere su questo problema è fondamentale e lo faremo di continuo. Non si può trovare una soluzione fuori della situazione stessa, fuori della scelta del coinvolgimento. Scegliendo si capisce il modo in cui si sta scegliendo, non prima e nemmeno dopo. Si possono fare valutazioni di convenienza ma non si possono scarnificare queste valutazioni in formule astratte che diano garanzia di certezza. Si può avere un orientamento che fa parte del flusso relazionale e che in questo modo partecipa del destino del senso e della tensione. La separazione non è possibile né opportuna.

Pensare a un discorso filosofico esterno è un’ipotesi errata in quanto anche le tesi dell’empirismo più estremista e formalista concorrono anch’esse a produrre senso e vengono, forse per prime, catalogate e definitivamente strutturate. Si tratta di stabilire se esiste la possibilità di discutere sul significato di bello, vero, buono e così via. Un discorso puramente linguistico sul buono è un elemento relazionale, una parte dell’accumulazione di senso, non può essere un contributo per capire la bontà. Per comprendere non ci si deve limitare a prendere, ma bisogna prendere insieme, com-prendere, quindi coinvolgersi nella prensione spezzando le regole dell’accumulo, cosa che come sappiamo avviene con la diversità. Nessun discorso morale può essere solo un fatto linguistico. Pensare una cosa del genere significa pensare possibile una discussione sull’etica. Certo, ci sono un sacco di discussioni del genere, ma non spostano il problema di un millimetro, sono tutte insieme un elemento dell’orientamento verso il senso. Ma un’azione qualitativamente è tale solo in relazione a un giudizio che noi riusciamo ad esprimere su di essa dall’interno del coinvolgimento, giudizio che si sviluppa nella fase interpretativa per poi scomparire come giudizio vero e proprio per diventare presenza nella cosa, nel territorio della forma.

La coscienza diversa, rielaborando i contenuti nella parte del flusso orientata verso la tensione finisce per trovare un riscontro concreto al giudizio iniziale, semplicemente diverso, e questo riscontro avviene nella cosa, quindi in contatto relazionale con la totalità del reale. L’azione è quindi svolta, sulla base del contenuto relazionale, tenendo conto dell’interpretazione e indirizzandosi verso la trasformazione che avviene nella cosa. Il pensiero formalista ha giustamente fatto notare la non quantificazione del dato qualitativo. Difatti, affermando la non legittimità logica del giudizio qualitativo, ha praticamente negato la sua quantificazione perché per quel pensiero la sola realtà quantificabile è quella accumulata. Un avvicinamento alla cosa, partendo da un abbandono, rompe il cerchio dell’accumulazione e quindi non consente più l’utilizzo del senso, il meccanismo deve essere abbandonato al suo destino, rifiutato, mentre comincia un nuovo processo di qualificazione dei contenuti che vengono caricati di qualcosa di diverso fin dagli inizi del secondo livello dell’effettualità. Questa diversità non significa un ripiego all’interno della coscienza, sia pure per l’appunto diversa, ma significa l’abbandono di un progetto di conquista. Le acquisizioni continuano per conto loro, in effetti esse non cessano mai, ma si ha una valutazione diversa di ciò che si considera positivo. Adesso questo polo che si vuole raggiungere, la meta che si desidera, si personificano nell’abbandono prima, e nella perdita poi.

La coscienza svolge fino in fondo il nuovo compito imposto dalle certezze perdute e cessa il suo ruolo centrale, dominante. I contenuti sono sempre quelli ma adesso vengono usati con una differente intenzionalità, cioè si trasformano in una diversità di valore. Il linguaggio non domina più il mondo, non pretende di dare conto della realtà, ma resta pur sempre uno degli strumenti essenziali dell’interpretazione, fino ai confini del delirio un movimento relazionale è sempre dicibile, per quanto piccolo possa essere il versante soggettivo esso continua a trasmettere il meccanismo linguistico. Comunque, quanto più ampio è questo versante, tanto più risulta incapace di cogliere la tensione.

Attraverso la sconfitta, il versante soggettivo si educa alla sottigliezza, diventa penetrante, scopre le pieghe, le sfumature del senso. Non è più il padrone orgoglioso che passa al di sopra di tutto e si limita a chiudere la cassaforte. La sconfitta metodologicamente fondata sollecita all’attenzione per i particolari, per le cose piccole, per i passaggi impercettibili. Il sistema complessivo della descrizione, impostato sui canoni del rispecchiamento, si scopre parziale e difettoso, oltre che presuntuoso e famelico. L’ammissione preventiva di una impossibilità di arrivare alla conquista, mette da canto le attitudini guerriere, gli aspetti bellicosi. In un’apparente debolezza si riscopre la forza di andare più a fondo, mentre la superficialità dell’accantonamento progressivo si denuncia, come stupidaggine e reale incapacità di agire.

Le pretese descrittive della coscienza sono nate con il nuovo mondo, con una concezione della vita antropocentrica e conquistatrice, un mondo che si apriva ai commerci e agli sfruttamenti su larga scala e, nello stesso tempo, un mondo che cominciava a programmare stermini di innocenti e degradazioni di interi popoli. Occorrevano strumenti per questi nuovi grandi affari, strumenti scientifici, occorreva in primo luogo una lettura della realtà, una sua accurata descrizione. Non importava cosa questa realtà fosse veramente, ma interessava solo il modo in cui si presentava, le sue caratteristiche esteriori, i suoi comportamenti. Il capitalismo nascente, nella sua fase che ben presto diventerà predatrice, non poteva permettere a un qualsiasi pirata di avere dubbi sul proprio compito. E ancora oggi la scienza, e la tecnologia come suo braccio armato, mantengono questa disposizione operativa. Nella mentalità di conquista si è voluto fare entrare di tutto, anche le qualità che non possono essere assommate. Così si è cercato di trasformarle in senso, sottraendo legittimità alla tensione relazionale. Gli Inglesi sono uno dei popoli che ha spinto al massimo questa tendenza e ancora oggi conservano, salvo rare e secondarie eccezioni, questo modo esclusivo di ragionare nella loro cosiddetta filosofia nazionale.

Il mettere ordine nelle catalogazioni del senso, e anche nel mezzo che serve a queste catalogazioni, cioè nel linguaggio, è uno degli aspetti della catalogazione stessa, la quale sarebbe impossibile senza un certo ordine, fissato a priori, convenzionale, multiplo quanto si vuole ma fissato. I modi per modificarlo, a posteriori, possono essere diversi, per cui ogni accumulazione non è mai un’operazione asettica, ma produce continue riorganizzazioni, nuovi sensi e nuovi flussi. Non esiste coscienza immediata, per quanto esile sia la sua capacità di resistenza davanti al meccanismo dell’accumulo, che non abbia la speranza, pur mettendosi in fila nei grandi saloni dell’archivio, di pervenire quando che sia alla comprensione della qualità.

Ora, tra il contenuto empirico, accumulato nell’orientamento verso il senso, e la qualità che invece si trova nella cosa, a causa appunto del fatto che il flusso si è orientato, non esiste più un rapporto diretto, la sola possibilità di relazione intermedia si ha attraverso la tensione, cioè attraverso l’altra parte del flusso orientato. Ogni tentativo di superamento, interno all’accumulo, non produce risultati apprezzabili dal punto di vista della tensione. Soltanto la strategia della vittoria per la sconfitta, o della sconfitta soltanto come l’ho definita per motivi di brevità, porta alle condizioni privilegiate della negazione, che poi impostate praticamente consentono il salto nel territorio della desolazione.

La sconfitta dell’individuo è una dura lezione alla sua supponenza e si configura in molti modi, nei risultati della sua vita, nel ridicolo delle sue presunte positività, nell’inconsistenza dei riconoscimenti, nell’assurdità dello status, principalmente nelle dure lezioni che si riescono a impartire alla sua coscienza immediata. La sconfitta del linguaggio, in quanto strumento, è data dal silenzio, il quale resta pur sempre messaggio e comunicazione ma radicalizzati, nel senso di una radicale critica negativa alla ridondanza del mezzo linguistico. Per prima cosa il silenzio è l’altra faccia dell’immediatezza, della coscienza non appena si scopre diversa, per la principale strada dell’apertura essa comprende l’artificio mondano dell’accumulo e si sente attraversata, nella sua nuova condizione, dall’irriducibile sovranità del vuoto, tutte le sue costruzioni sono attraversate da questo crollo che è anche imbarazzo silenzioso, disorientamento.

La diversità fra le tante cose che deve imparare pone al primo posto il modo in cui va trattato il vecchio contenuto, e questo è certamente giusto in quanto essa deve pur mettersi al lavoro e la condizione interpretativa non ammette dilazioni, ma c’è anche una serie non secondaria di altri problemi, fra cui spicca il metodo del mascheramento, la scuola della severa ironia con cui trattare appunto il materiale del meccanismo accumulativo. Spesso il silenzio tallona strettamente le apparenze, i riflessi simbolici del contenuto, obbligandoli a immergersi in una nuova condizione, quella interpretativa, che avverte una presenza lontana incombere come un traguardo ma anche come una nuova condanna, la presenza della cosa. In particolare negli approcci iniziali, la diversità deve apprendere velocemente i nuovi percorsi della ricerca, sottili spiragli incongrui all’aspetto esteriore che poi, al contrario, rivelano sorprendentemente la loro attitudine alla vita.

La coscienza diversa non si propone come mutamento radicale improvviso, l’apertura è quasi sempre timida e problematica, anche se contiene in sé tutti gli elementi del rifiuto come nell’ambito della catalogazione si agitavano nell’immediatezza tutti gli elementi dell’inquietudine. Per questo motivo la diversità assume spesso, specialmente al suo debutto, atteggiamenti impacciati e ridicoli che forniscono pretesti di derisione. Il contenuto è preso per quello che è mentre prevalgono le lamentele generiche contro i guai dell’appiattimento accumulativo. Si tratta di qualcosa di torbido che viene rimescolato sulla base di presunzioni aleatorie che poi, man mano, cadranno in disuso, acquisendo movimenti di maggiore violenza e di minore autocompiacimento riguardo le proprie disgrazie. Il pericolo di questa situazione è che la diversità si proponga come speranza di vittoria sui disturbi sordidi dell’accumulo, mentre il brutto, anzi il bruttissimo, può anche travasarsi nel diverso senza che per questo si spenga l’inquietudine o taccia il coinvolgimento, ma con il bel risultato che quest’ultimo viene vissuto come una missione da compiere e quindi come un sacrificio.

La sconfitta come metodo è, per prima cosa, sconfitta del dominio della coscienza, adeguamento alla cosa, riduzione dell’ideale al reale, trasfigurazione del materialismo con una aggiunta che lo porta a essere materialismo semplice, quello dell’esistenza, della realtà. Non esistono progetti della coscienza che ci dicano come stanno le cose in pratica, né della coscienza immediata, né di quella diversa, si possono avere al massimo indicazioni spesso confuse, sovrapposizioni di cause ed effetti, circoli viziosi costituiti dal rimando noioso dall’insofferenza alla loquacità. Gli ordinamenti strutturali sono sempre movimenti della coscienza immediata che resterebbero appesantiti per sempre fin quando non vengono rimessi in discussione attraverso la critica negativa e diventano quindi possibili elementi di una progettata sconfitta. Continuando a fare parte di un progetto di accumulazione, di vittoria, di superbo dominio sulla realtà, questi elementi continuano nel loro destino di oggetti catapultati fuori della coscienza sulla base di un progetto strutturante. Ma la persistenza e la solidità del calcolo della struttura si cambiano nel loro esatto contrario, diventando inconsistenza e problematicità nelle condizioni diverse che si producono nel secondo livello dell’effettualità.

Contrapponendoci al flusso in modo imperativo, cioè facendo prevalere la nostra necessità, di ordine e gradazione, fissiamo a priori i canoni del nostro giudizio e li individuiamo nella struttura stessa. Perciò chiamiamo bello il simmetrico o il libero convincimento di bellezza, buono chi corrisponde ai presupposti organizzativi della struttura o il movimento in senso migliorativo della stessa, libero chi non si lascia troppo circoscrivere dalle regole ma rispetta quelle degli altri e così via. Decidiamo quindi noi a priori le regole della qualità, secondo un modello che ricaviamo dal senso. L’estremizzazione di questo modello, possibile solo nel giudizio in quanto esercizio di rapportazione e verifica di ciò che la realtà ci mette sotto il naso, sarebbe per noi l’identificazione della qualità stessa. I residui della tensione, che raccattiamo all’interno del processo accumulativo ci danno l’illusione della ricerca e ci accontentano. Più si insiste nell’atteggiamento imperativo e più questo modo di pensare diventa corrente, privo di possibilità di trasformazione.

Le regole orientative per porsi diversamente nei riguardi dell’ordinamento accumulativo appartengono a quelle analisi della struttura e delle sue composizioni che costituiscono elemento indispensabile di ogni lavoro filosofico. Questo, infatti, deve incidere sulla realtà per come quest’ultima è, non tanto su come si desidererebbe che sia. Le considerazioni che ho spesso svolto anch’io non sfuggono a queste regole, diciamo minime, che riguardano il tipo di logica, la prospettiva complessa delle valutazioni, il dare conto di come si agisce e anche il fatto che l’azione stessa diventa impossibile al di fuori di una prospettiva relazionale. Non è possibile fissare un punto elementare in cui si divide l’azione dal processo complessivo che l’ha realizzata e questo processo dagli svolgimenti che l’azione a sua volta determina in senso relazionale. Tutto ciò si può anche capire con una certa facilità da un punto di vista astratto, ma nella realtà comprendere questi movimenti significa, prima di tutto, accedere ai concetti fondamentali di realtà in movimento.

Considerando lo strumento linguistico, non è possibile affermare che di questo possiamo avere un uso oggettivo, strutturale, analitico, ordinativo, quantitativo, contrapposto pertanto a un uso soggettivo, formale, sintetico, qualitativo. Con il medesimo strumento provvediamo a un fare e a un agire che sono movimenti radicalmente differenti tra loro e vi provvediamo in maniera sostanziale, in quanto lo strumento linguistico entra realmente nell’ambito del fare coatto come nell’ambito dell’azione e non si limita soltanto a fornire spiegazioni più o meno comprensibili. Ora, nell’accedere all’ambito della coscienza diversa dobbiamo per forza sviluppare modulazioni dello strumento capaci di consentire effetti diversi, effetti che non si limitino subito a una denuncia, a un approfondimento anche se chiarissimi e convincenti, come se tutto si riducesse a una faccenda analitica e quantitativa. Per la verità, anche nell’ambito accumulativo non tutto procede tranquillamente. Noi siamo spesso portati a rimettere i problemi quantitativi in soffitta, come se costituissero soltanto zavorra da cui liberarsi al più presto possibile, mentre anche in questo campo lo strumento linguistico si rivela tutt’altro che pacifico o adeguato alle necessità. Esistono problemi di verificazione, di enunciazione, di descrizione e sono tutti problemi che solo in apparenza, sono stati digeriti dalla logica dell’a poco a poco.

È la disposizione alla sconfitta che modifica lo strumento e lo rende sottilmente più adatto alle nuove condizioni interpretative. L’orientamento diverso sconfigge la rigidità dello strumento fino a un certo punto, è la differente valutazione delle prospettive che fa vedere bene i vecchi limiti critici, anche quelli legati al superamento. Una volta evasi al di là delle strutture spetta a noi arrivare a un modo diverso di qualificare gli strumenti che impieghiamo, anche i contenuti che rielaboriamo, per realizzare un’avventura dove esiste sempre la possibilità di fallire per paura, per irruenza, per stupidità e anche per eccessiva volontà di dominare gli altri.

Penso che lavorare per la sconfitta non sia faccenda attinente a una scelta all’interno delle diverse possibilità di riunificazione del flusso. Nell’ambito dell’interpretazione e della trasformazione ci si può muovere anche con una prospettiva di vittorie da collezionare. L’azione si produce lo stesso anche se non ha effetti moralmente validi per l’individuo che la realizza, in quanto lo indirizza in una prospettiva che, ancora una volta, sebbene in modo diverso, fa balenare il fantasma accumulativo. Una vita grigia e lugubre, e perfino spoglia, la si può costruire anche attraverso il coinvolgimento, realizzando trasformazioni che producono effetti tutti esteriori, mentre l’individuo cerca disperatamente di fare assomigliare per quanto è possibile i suoi flussi unificati, effetto diretto delle trasformazioni realizzate, a quelli orientati, simbolo questi ultimi dell’accaparramento dei risultati positivi. Se il gusto per la conquista non è andato via, la qualità raggiunta viene ancora una volta rivissuta in termini di quantità e la tensione non produce altro che una riunificazione del flusso destinata ben presto a orientarsi un’altra volta.

Malgrado tutti i desideri onirici una condanna quantitativa si può ritrovare anche nell’azione, la quale così smorza la sua capacità di riunificare il flusso e quindi di produrre nuove relazioni e nuovi movimenti, nell’ambito della totalità delle relazioni possibili. La valutazione positiva della vittoria, è tutta interna alla coscienza immediata, e quindi appartiene al meccanismo dell’accumulazione, ma può passare nella diversità e qui condizionare l’attività successiva. Spesso questi atteggiamenti bellicosi, decisionisti o anche semplicemente positivi a oltranza, nascono da un’incertezza del coinvolgimento, se questo è sicuro di sé la vittoria è sempre un fatto scontato, quindi intermedio, mai un obiettivo finale, essa può esserci e anche non esserci, ma il coinvolgimento se è corretto mette tutte le condizioni oggettive perché ci sia, senza che per questo se ne faccia uno scopo diretto, in ogni caso essa resta sempre uno scopo indiretto strumentale, qualcosa che occorre possedere, secondo le tecniche e gli accorgimenti con cui si tratta il contenuto, per realizzare l’azione.

La distinzione che viene fatta tra collocazione esterna e collocazione interna del controllo degli eventi in vista della vittoria, mi sembra priva di fondamento. Il fatto che qualcuno attribuisca al destino, alla buona sorte o alla sfortuna il proprio successo, e quindi, in questo modo, collochi all’esterno una parte se non tutto il controllo delle cose che si accinge a portare a compimento, oppure che questo controllo lo faccia dipendere dalle proprie capacità personali o dai propri errori, non fa differenza, in entrambi i casi si sta andando alla ricerca del successo. La fiducia nelle proprie capacità personali, la quale spesso produce una mentalità vincente che riesce a determinare vittorie anche quando sarebbero state più prevedibili le sconfitte, non differisce di molto dalla fiducia nella propria buona stella. Un’analisi obiettiva degli strumenti che si hanno a disposizione è molto problematica, come ormai sappiamo bene e quindi la stessa dispersione del proprio laboratorio in un ambito logico fortemente critico e incerto, non consente di potere affermare che la fiducia di cui discutiamo sia ben riposta, anche nel migliore dei casi.

Voglio suggerire l’ipotesi che in ogni caso il desiderio di vittoria, il lavorare per il successo, e quindi anche il controllo e l’esercizio delle proprie capacità strumentali in questa direzione, sono elementi della coscienza e non possono mai subire una trattazione obiettiva se non traducendoli in oggetti attraverso l’esercizio della semplice coscienza immediata, cioè della volontà. Si avrà così che la struttura produce progetti e programmi i quali vengono realizzati, per cui su queste realizzazioni ci saranno poi delle analisi che produrranno altri oggetti, indagini, deduzioni, considerazioni, proposte, sviluppi e così via. Ma tutto ciò appartiene a un discorso differente, del tutto interno alla logica dell’a poco a poco, un discorso che accumula le vittorie come fossero scatole di biscotti.

Questa mentalità, portata nell’ambito della coscienza diversa produce notevoli guasti, come si è visto. Essa, può anche svilupparsi senza il sostegno di un’opportuna disponibilità strumentale, si può avere una mentalità vincente anche continuando a perdere, esattamente il contrario di quello che sarebbe auspicabile, cioè una mentalità perdente continuando a vincere e costruendo in questo modo la sconfitta decisiva, quella finale. Le sorprese della diversità potrebbero infatti riservare quella violenta reazione alla sovrabbondanza accumulativa da suggerire un’improvvisa e disadatta rarefazione. Niente di peggio, in quanto l’attività diversa non può mancare di essere eccessiva, di funzionare da crocevia di possibili molteplicità di contenuto. L’uniforme e compatta disposizione del catalogo diventa adesso sviluppo di motivi, visibili e anche meno visibili, che cercano di utilizzare in una forma diversa l’intero laboratorio. E come giustamente accade in un crocevia l’intersecazione relazionale è anche di tipo casuale, ci si imbatte in alcune conseguenze, a volte sorprendenti, proprio perché il senso non è più la preda da conquistare e da mettere in mostra ben catalogata.

La simmetria delle strutture viene capovolta nel disordine improvviso della diversità. Il prosciugamento fino all’osso esercitato dalla monotonia del ripetibile accumulato, adesso si trasforma nella sovrabbondanza barocca e inconcludente della ricerca del senso, un senso che non fluisce più in modo automatico ma che deve essere andato a cercare, deve essere scovato, disturbato, contorto, interpretato. Questo disturbo interpretativo rompe l’uniformità dell’accumulo e quindi scopre nell’oggetto insospettate potenzialità qualitative, ma ciò deve avvenire attraverso un procedimento strano e diverso, quello della strada che conserva l’umanità qualitativa distrutta dalla separazione quantitativa. Tutto quello che la macchina dell’accumulazione ha macinato, qui viene ridistribuito casualmente in un intreccio nuovo di relazioni dapprima inattingibili, poi, a poco a poco, individuabili.

Il rifiuto del successo consente di operare strategie differenti, libere da ritmi comprensibili nell’immediato. La sconfitta può essere raggiunta anche mettendo insieme vittorie, mentre la vittoria non può essere raggiunta mettendo insieme sconfitte. Il vincente è obbligato a vincere, è nato per vincere, quindi fa di tutto per rispondere al suo scopo. Il perdente lavora tranquillamente alle sue vittorie, quindi anche ai suoi successi, non ne ha paura perché non lo riguardano, sono acquisizioni di strumenti o non sono nulla, non appartengono alle gratificazioni o ai riconoscimenti, sono polvere che facilmente si scrolla via. L’azione reale, quella che parte dal punto di vista della totalità delle relazioni possibili, quindi impiega una logica del tutto e subito, può essere realizzata solo da chi ha come scopo personale la propria sconfitta.

Ma ciò non si deve confondere con il sacrificio di se stessi, al contrario con il maggior livello di realizzazione. La fuga dalla prigione della propria coscienza è possibile solo spezzando le catene della progettualità vittoriosa. Un vincente è un individuo dimezzato, incapsulato, come se fosse un aborto chiuso in un contenitore da laboratorio degli orrori. La sua vita è un meccanismo di perfezione, una serie di automatismi di senso e spesso anche di tensione. Ma senza la possibilità che qualcosa si spezzi realmente nella diversità. Quando agisce, quindi quando si coinvolge, la sua diversità è sempre circospetta e condizionata, diretta allo scopo della vittoria. Dall’esterno, questa meravigliosa macchina sembra l’ideale, poi, man mano che la si studia, mentre opera, mentre produce e anche mentre trasforma, si scoprono gli aspetti tragici che nasconde, le monotonie, i vincoli, i comandi superiori che insensibilmente mette in atto.

Credo che il più alto livello di penetrazione del rivoluzionario sia la sua capacità di comprendere questa lotta per la propria sconfitta, guai se si illudesse di una sua vittoria, di una trasformazione reale diretta a realizzare in tutto i suoi progetti, le sue idee, i suoi sogni, le sue azioni. Tutti i suoi tentativi, perché in fondo tali sono le sue azioni, il suo coinvolgimento, la grande attività che svolge, l’impegno totale di tutta la sua vita, non sono che piccole porte che si aprono su di una nuova forma di cognizione, lo sgomento dell’incertezza e della mancanza di un reale fondamento dell’azione stessa. Per cui ogni progetto viene subito visto quasi come una colpa, un contributo alla struttura e al dominio, e pertanto subito criticato, visto in controluce per accertarne la filigrana dolosa.

Le sue proposte si annunciano pertanto scomode fin dall’inizio, in quanto costringono violentemente gli altri a considerare aspetti poco piacevoli della realtà, mettono in luce sotto gli occhi degli altri indizi di mancato coinvolgimento che tutti preferirebbero ignorare, rivelano le condizioni di una collettiva complicità che alcuni desidererebbero attribuire sempre al proprio nemico. Io ho vissuto l’estrema gamma di queste esperienze e so quanto pesano e quello di cui sono capaci coloro che preferiscono fare i sordi piuttosto che correre rischi. Bisognava accarezzare il cane nel verso giusto, accettare le richieste del mercato, solo così gli altri sono disposti anche ad accettare delle critiche, in caso contrario assistono soltanto alla tua sconfitta, sottolineandone l’aspetto derisorio e non comprendendone l’intimo significato metodologico.

Imporre perfino la propria sconfitta come elemento di un progetto è una sorta di livida sfida per questa gente, non comprendendo che non è faccenda che riguarda loro, fermi come sfingi alle alternative dell’accumulazione o della morte, false alternative come è totalmente falsa la loro vita per come si riflette nelle cose che fanno e in quelle che dicono di volere trasformare. Nei loro confronti l’unico mezzo difensivo è la sovrabbondanza dell’agire, la multiforme attività dell’incrocio del senso, all’interno del quale le loro povere teste scoppiano sibilando incapaci di sostituire le singole manie di collezionisti con le sollecitazioni alla diversità.

Se avessi voluto accattivarmi la benevolenza di qualcuno sarei stato educato, modesto, riservato, pertinente, mi sarei fermato all’esterno della realtà non avrei cercato sempre di scorticarla per mostrarne i nervi, le ossature, i muscoli e la loro progressiva e totale corruzione. Mi sarei chiuso nelle mie piccole vittorie, le gratificazioni, i riconoscimenti, gli strumenti acquisiti più o meno bene, le ricerche poco sconvolgenti, le conclusioni che fanno stare tutti d’amore e d’accordo. E invece il demone della lacerazione mi ha continuamente inseguito, scovato anche nelle più lontane e innocenti illusioni, facendomi vedere l’offesa anche dove gli altri vedevano un normale svolgimento degli affari di questo mondo.

Un’analisi impietosa quindi riguardante una realtà malsana, incapace di realizzare una società giusta o almeno sufficientemente provvista di valori positivi. Da qui riscontri continuamente disperati riguardo la verità che queste condizioni impietose cercano di fare filtrare come se fosse il succo del mondo e invece non è altro che la falsità codificata, l’accettazione di una implausibile immagine imperitura, accumulata, una volta per sempre. Anche la presenza di un ideale, di una filosofia di liberazione, andava sottoposta a questa sorta di pungolo negativo, in modo che non apparisse come una presenza salvifica, ma lontana, comunque intoccabile perché sacra. Ormai non c’è più niente di sacro, né in cielo né in terra. L’uomo stesso non può essere sacralizzato, nemmeno attraverso operazioni estremamente complesse di sovrapposizione o di nascondimento, la scoperta del trucco è diventata facile, tutti possono svelarlo e restarne abbacinati.

Certo, potevo anch’io nascondere a me stesso queste conclusioni e avvoltolarmi nel mio ideale, affidando il mio futuro e quello delle cose che facevo alla sorte suprema della storia, al naturale compimento della ragione che comunque si conclude sempre per il meglio. Potevo indicare la corruzione e il torbido, tutto il marcio che andavo scoprendo e il cui puzzo mi diventava insopportabile, come qualcosa che restava lontano da me, di cui non avevo responsabilità e a cui mi dichiaravo estraneo. Ma non l’ho voluto fare, perché comprendevo come quella corruzione fosse anche la mia, quel fetore provenisse anche da me, dallo sfacelo delle mie intenzioni, irrimediabilmente inquinate dal mio essere un uomo che non può chiamarsi fuori, che non può pensarsi fuori della realtà.

Lo stesso essere vivo comporta una compromissione atroce che deve comunque pagarsi in termini di incoerenza. La coerenza impedisce la vita perché è astrazione, ipotesi di lavoro, campo di misurazione. La totalità del reale, elemento di fondo della vita, che riscontriamo tutte le volte che cerchiamo di conoscere più a fondo la realtà, è per sua natura incoerente e incerta. L’orrore in cui viviamo non è però dato da questa incoerenza, che se riuscisse a liberarsi sarebbe la vita nella sua pienezza, e nell’obiettivo riconoscimento delle sue possibilità, ma è invece dato dai tentativi di copertura, di travisamento, di svuotamento che l’accumulazione del senso compie in nome di una nettezza allucinata che costringe l’individuo che invece vuole capire fino in fondo a mettersi a repentaglio, a rischiare se stesso nel coinvolgimento.

Ecco perché questo coinvolgimento, in quanto strada della diversità, sembra tanto irriverente nei confronti della sacralità dell’ordine costituito, e lo sembra anche agli occhi nostri, agli occhi di chi ha il coraggio di coinvolgersi, tanto che siamo sempre sollecitati da una spinta razionale a tornare indietro e ad accettare le imposizioni molto plausibili del senso comune, della logica dominante. Ho visto come questo continuo confrontarsi con impietosa attitudine accusatrice contro tutto ciò che invece gli altri considerano acquisito e certo, mi ha sempre costretto a lottare su due fronti, da un lato, contro il perbenismo etico che considerava un vizio malvagio la spinta a mettere in dubbio la certezza e la verità dell’ordine, dall’altro lato, contro gli stessi critici negatori dell’ordine che però ponevano quest’ultimo semplicemente un poco più in là, ancora qualche passo, compagni, e saremo repubblicani.

Nessuna conclusione nullista, anzi al contrario, l’insulto e il vilipendio che spesso mi hanno anche portato in prigione, non sono elementi fondamentali della critica, costituiscono strumenti per la trattazione dei contenuti, specialmente quando questi ricevono i primi tentativi di inserimento nell’ambito dell’interpretazione. Una coscienza diversa deve essere critica, e se è critica in modo trasformativo, lo deve essere con una proiezione pratica, e negativa, deve cioè riconoscere tutte le difficoltà interpretative e trasformative per ricostituire il flusso e quindi inserirsi nell’ambito delle relazioni considerato nella sua totalità. Non può fermarsi nel territorio della cosa, cercare di spingere fino in fondo la rarefazione del delirio, in questo caso la sua avventura che era cominciata con una denuncia diversa, finisce con un auto-annullamento nullista. Ma questo è un problema che entra in pieno nell’ambito del rapporti tra forma e struttura.

 


[2010]

 
 

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