Titolo: Il principio dello Stato
Note: Opuscoli provvisori N. 87
Prima edizione: agosto 2015
SKU: opuscoli-000087
Dimensioni: cm 10 x 10,5
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Nota introduttiva

Sulla tradizione di Proudhon, per altro non ben conosciuto, Bakunin persegue l’analisi di collegare l’origine e lo sviluppo dello Stato sull’idea di Dio. In questo frammento manoscritto la tesi è sviluppata in modo stringato e convincete, più del famoso Dio e lo Stato. In ogni caso, i due testi si integrando reciprocamente, ed è per tale motivo che inseriamo anche questo nella stessa collana (“Opuscoli provvisori”) in cui abbiamo pubblicato il primo (n. 59).

La conclusione è presto detta: non è possibile una lotta contro lo Stato senza l’assistenza attiva di una lotta contro la religione e, per converso, una lotta platonicamente diretta a “dimostrare” la non esistenza di Dio, diventa inconsistente senza una parallela sovversione sociale avente, quest’ultima, lo scopo immediato di distruggere il nemico.

Che i sedentari mangiapreti continuino in pace la loro digestione.


Trieste, 27 maggio 2014

Alfredo M. Bonanno

Il principio dello Stato

In fondo, la conquista non è solamente l’origine, è anche lo scopo supremo di tutti gli Stati, grandi e piccoli, potenti e deboli, dispotici o liberali, monarchici, aristocratici, democratici, e perfino socialisti, supponendo che l’ideale dei socialisti tedeschi, sia quello di un grande Stato comunista, se mai questo abbia a realizzarsi.

Che essa sia stata il punto di partenza di tutti gli Stati, antichi e moderni, non potrà mai essere messo in dubbio da nessuno, poiché ogni pagina della storia universale lo prova sufficientemente. Nessuno contesterà nemmeno che i grandi Stati attuali abbiano per oggetto più o meno confessato la conquista. Ma gli Stati medi, e soprattutto i piccoli Stati, si potrebbe dire, non pensano che a difendersi e sarebbe ridicolo da parte loro sognare la conquista.

Ridicolo quanto si vuole, nondimeno è il loro sogno, com’è il sogno del più piccolo contadino proprietario di ampliarsi a detrimento del vicino; ampliarsi, ingrandirsi, conquistare ad ogni costo e sempre, è una tendenza fatalmente inerente ad ogni Stato, qualunque sia la sua estensione, la sua debolezza o la sua forza, perché è una necessità della sua natura. Che cos’è lo Stato se non l’organizzazione della potenza; ed è nella natura di ogni potenza non poter soffrire né il superiore e né l’uguale; la potenza non avendo altro oggetto che il dominio, e il dominio non potendo essere reale che quando tutto ciò che sta intorno viene assoggettato. Nessuna potenza ne sopporta un’altra se non c’è costretta, cioè quando si sente impotente a distruggerla o rovesciarla. La sola esistenza di una potenza uguale è una negazione del suo principio e una minaccia perpetua alla sua esistenza; poiché è una manifestazione e una prova della sua impotenza. Conseguentemente, fra tutti gli Stati che esistono uno accanto all’altro, la guerra è permanente e la pace solo una temporanea cessazione delle ostilità.

È nella natura dello Stato porsi, sia per se stesso che per i suoi soggetti, come oggetto assoluto. Servire la sua prosperità, la sua grandezza, la sua potenza, è la virtù suprema del patriottismo. Lo Stato non riconosce altra possibilità: tutto quello che gli serve è buono, tutto quello che è contrario ai suoi interessi è dichiarato criminale, ecco la morale dello Stato.

È per questo che la morale politica è stata in ogni tempo, non solo estranea, ma assolutamente contraria ad ogni morale umana. Questa contraddizione è una conseguenza forzata del suo principio: lo Stato, nonostante sia una parzialità, si pone e s’impone come il tutto, esso ignora il diritto di tutto quello che non è se stesso, che si trova al di fuori di sé, e quando lo può, senza mettersi in pericolo, lo viola. Lo Stato è la negazione dell’umanità.

Esistono un diritto umano e una morale umana assoluti? Con i tempi che corrono e vedendo quello che succede oggi in Europa, è indispensabile porsi la domanda.

Tanto per cominciare, l’assoluto esiste o nel mondo è tutto relativo? Così per la morale e il diritto: quello che si chiamava diritto ieri non lo è più oggi, e quello che sembra morale in Cina può non essere considerato tale in Europa. Da questo punto di vista ogni paese, ogni epoca, dovrebbero giudicarsi solo in base alle opinioni contemporanee o locali, e non si avrebbe così né diritto umano universale, né morale umana assoluta.

In questo modo, dopo aver sognato l’uno e l’altra [quando], siamo stati metafisici o cristiani, divenuti positivisti oggi, saremmo costretti a rinunciare a questo magnifico sogno per ricadere nella ristretta morale dell’antichità, che ignorava perfino la stessa parola umanità, al punto che tutti gli dèi non erano che dei esclusivamente nazionali e accessibili solo ai culti privilegiati?

Ma oggi che il cielo è divenuto deserto e che tutti gli dèi, compresi naturalmente il Geova dei giudei, l’Allah dei maomettani e il buon Dio dei cristiani, si trovano detronizzati, e sarebbe ancora poco: saremmo costretti a ricadere nel materialismo crasso e brutale dei Bismarck, dei Thiers, dei Federico II, per i quali Dio sta sempre al fianco dei battaglioni più grossi, come ha eccellentemente detto quest’ultimo; per cui l’unico oggetto degno di culto, il principio di ogni morale, di ogni diritto, sarebbe la forza: la vera religione dello Stato?

Ebbene no! In quanto atei e proprio perché siamo atei, riconosciamo una morale umana e un diritto umano assoluti. Si tratta solamente di intendersi sul significato della parola assoluto. L’assoluto universale, abbracciando la totalità infinita dei mondi e degli esseri, non lo concepiamo perché, non solo siamo incapaci di percepirlo con i nostri sensi, ma non possiamo nemmeno immaginarlo. Ogni tentativo di questo genere ci porterebbe nel vuoto dell’astrazione assoluta, tanto amato dai metafisici.

L’assoluto che noi intendiamo è un assoluto molto relativo e precisamente relativo solo alla specie umana. Quest’ultima è lontana dall’essere eterna: nata sulla terra, morirà con essa; forse prima, facendo spazio, secondo il sistema darwiniano, ad una specie più potente, completa, perfetta. Ma intanto che esiste, ha un principio che le è inerente e che la fa essere quello che esattamente è: è questo principio che costituisce, in rapporto ad essa, l’assoluto. Vediamo qual è questo principio.

Di tutti gli esseri viventi su questa terra, l’uomo è insieme il più sociale e il più individualista; egli è senza dubbio anche il più intelligente. Forse esistono animali che sono più socievoli di lui, per esempio le api, le formiche; ma, per contro, sono poco individualisti, per cui gl’individui appartenenti a queste specie sono assolutamente assorbiti e come annientati nella loro società: sono tutti per la collettività, niente o quasi niente per se stessi. Sembra che esista una legge naturale, conformemente alla quale più una specie animale è elevata nella scala degli esseri, per la completezza della sua organizzazione, più lascia spazio, libertà e individualità a ciascuno. Gli animali feroci, che occupano incontestabilmente il rango più elevato, sono individualisti al massimo.

L’uomo, animale feroce per eccellenza, è il più individualista di tutti. Ma, nello stesso tempo, ed è uno dei tratti che lo distinguono, è eminentemente, istintivamente e fatalmente socialista. Questo è talmente vero che la sua stessa intelligenza che lo rende superiore a tutti gli altri esseri viventi e che lo fa diventare in qualche modo il padrone di tutti, non può svilupparsi e arrivare alla coscienza di se stesso che in una società e con il concorso della collettività intera.

E, in effetti, sappiamo bene che è impossibile pensare senza parole; al di fuori o prima della parola si possono avere senza dubbio rappresentazioni o immagini delle cose, ma non vi possono essere pensieri. Il pensiero nasce e si sviluppa solo con la parola. Pensare è dunque parlare mentalmente con se stessi. Ma ogni conversazione suppone almeno due persone, una siete voi; chi è l’altra? È tutto il mondo umano che conoscete.

L’uomo, in quanto individuo animale, come tutti gli animali di tutte le altre specie, ha di primo acchito e da quando comincia a respirare, il senso immediato della sua esistenza individuale, ma non acquisisce la coscienza riflessa di se stesso, coscienza che costituisce proprio la sua personalità, se non per mezzo dell’intelligenza e per conseguenza solo all’interno della società stessa. La vostra personalità più intima, la coscienza che avete di voi stessi nel vostro foro interiore, è in qualche modo il riflesso della vostra immagine, recuperata e a voi rinviata come da tanti specchi, tanto dalla coscienza collettiva quanto da quella individuale di tutti gli esseri umani che compongono il vostro mondo sociale. Ogni uomo che conoscete e col quale vi trovate in rapporti, sia diretti che indiretti, determina, più o meno, il vostro essere più intimo, contribuisce a farvi divenire quello che siete, a costituire la vostra personalità. Conseguentemente, se siete circondato da schiavi, foste pure il loro padrone, non siete che uno schiavo, poiché la coscienza degli schiavi non può che rinviarvi la vostra immagine avvilita. La bestialità di tutti vi imbestialisce, come l’intelligenza di tutti vi illumina, vi eleva; i vizi del vostro ambiente sociale sono i vostri vizi e non sarete un uomo realmente libero, se non vi circonderete di uomini liberi; l’esistenza di un solo schiavo sarebbe sufficiente a diminuire la vostra libertà. Nell’immortale dichiarazione dei diritti dell’uomo, fatta dalla Convenzione nazionale, troviamo chiaramente espressa questa sublime verità che la schiavitù di un solo essere umano è la schiavitù di tutti.

Essa contiene tutta la morale umana, precisamente quella che abbiamo chiamato la morale assoluta; senza dubbio assoluta solamente in rapporto all’umanità, non in rapporto al resto degli esseri, ancora meno in rapporto alla totalità infinita dei mondi a noi eternamente sconosciuta. La ritroviamo in germe, più o meno, in tutti i sistemi di morale che si sono prodotti nella storia di cui essa fu, in qualche modo, la luce latente, luce che si manifestò, d’altronde, il più delle volte, tramite riflessi incerti e imperfetti. Tutto quello che vediamo come assolutamente vero, cioè umano, non è dovuto che ad essa. E come potrebbe essere altrimenti, visto che tutti i sistemi di morale che si sono sviluppati successivamente, nel passato, ivi compreso gli sviluppi teologici e metafisici, non hanno mai avuto altra sorgente che la natura umana, non ne sono stati che le manifestazioni più o meno imperfette. Ma questa legge morale che chiamiamo assoluta, che cos’è se non l’espressione più pura, completa e adeguata, come direbbero i metafisici, di questa stessa natura umana, essenzialmente socialista e individualista allo stesso tempo.

Il difetto principale dei sistemi di morale insegnati nel passato è quello di essere stati o esclusivamente socialisti o esclusivamente individualisti. Così, la morale civica, quella che ci è stata trasmessa dai Greci o dai Romani, fu una morale esclusivamente socialista, nel senso che sacrificò sempre l’individuo alla collettività. Senza parlare delle miriadi di schiavi che costituirono tutta la base della civiltà antica in cui venivano considerati cose, l’individualità [del] cittadino greco o romano fu sempre patriotticamente immolata a profitto della collettività costituita in Stato. Così, quando i cittadini, stanchi di questa continua immolazione, si rifiutarono al sacrificio, le repubbliche greche all’inizio, romane in seguito, crollarono. Il risveglio dell’individualismo causò la morte dell’antichità.

Esso trovò la più pura e completa espressione nelle religioni monoteiste, nel giudaismo, nel maomettismo e soprattutto nel cristianesimo, il Geova dei Giudei si indirizzava ancora alla collettività, almeno sotto certi rapporti, poiché aveva un popolo eletto che conteneva già i germi della morale esclusivamente individualista.

Doveva essere così: gli dèi dell’antichità greca e romana non furono, in ultima analisi, che simboli, rappresentanti supremi della collettività divisa, dello Stato. Adorandoli si adorava lo Stato, e tutta la morale che veniva insegnata in loro nome, non può per conseguenza avere avuto altro scopo che la salvezza, la grandezza e la gloria dello Stato.

Il dio dei Giudei, despota geloso, egoista e vanitoso, si guardò bene non di identificare, ma solamente di mescolare la sua terribile persona con la collettività del suo popolo eletto, eletto per servirgli da marciapiede di predilezione tutt’al più, ma non per osare elevarsi fino a lui. Fra lui e il suo popolo vi fu sempre un abisso. D’altro canto, non ammettendo altro oggetto d’adorazione che se stesso, non poteva soffrire il culto dello Stato. Adorato, ha sempre chiesto ai Giudei, sia collettivamente che individualmente, solo sacrifici per se stesso, mai per la collettività o per la grandezza e la gloria dello Stato.

Del resto, i comandamenti di Geova, così come ci sono trasmessi dal Decalogo, s’indirizzano quasi esclusivamente all’individuo: fanno eccezione solo quelli fra loro la cui esecuzione, superando le forze dell’individuo, esige il concorso di tutti: ad esempio, l’ordine così singolarmente umano che ingiunge ai Giudei di estirpare fino all’ultimo, donne e bambini compresi, tutti i pagani della terra promessa, ordine veramente degno di un Padre della nostra santa Trinità cristiana che si distingue, come si sa, per il suo incredibile amore per questa povera specie umana.

Tutti gli altri comandamenti non s’indirizzano che all’individuo: non ucciderai (eccettuato il caso in cui io stesso l’ordinerò, avrebbe dovuto aggiungere); non ruberai né la proprietà né la donna altrui (considerata in qualche modo come forma di proprietà); rispetterai i tuoi genitori. Ma soprattutto, adorerai me, il dio geloso, egoista, vanitoso e terribile, e se non vuoi incorrere nella mia collera, canterai le mie lodi e ti prostrerai sempre davanti a me.

Nel maomettismo non c’è nemmeno l’ombra del collettivismo nazionale e ristretto che domina nelle religioni antiche e di cui si ritrova ancora qualche debole traccia nel culto giudaico. Il Corano non conosce affatto un popolo eletto; tutti i credenti, a qualunque comunità o a qualunque nazione appartengono, sono individualmente, non collettivamente, gli eletti di Dio. Così i califfi, successori di Maometto, si chiameranno sempre e solo capi dei credenti.

Ma nessuna religione spinge così a fondo il culto dell’individualismo quanto la religione cristiana. Di fronte alle minacce dell’inferno e alle promesse assolutamente individuali del paradiso, accompagnate dalla terribile dichiarazione che su molti chiamati vi saranno pochissimi eletti si creò uno sgomento, un si salvi chi può generale, una sorta di corsa degli zoppi in cui nessuno era stimolato se non dall’unica preoccupazione di salvare la sua povera piccola anima. Si comprende bene come tale religione abbia potuto dare il colpo di grazia alla civiltà antica, fondata esclusivamente sul culto della collettività, della patria, dello Stato, e dissolverne tutte le organizzazioni soprattutto in un’epoca in cui moriva già di vecchiaia. L’individualismo è un così forte solvente! Ne vediamo la prova nel mondo borghese attuale.

A nostro avviso, cioè dal punto di vista della morale umana, tutte le religioni monoteiste, ma soprattutto la religione cristiana, in quanto più completa e conseguente di altre, sono fondatamente, essenzialmente, principalmente immorali: creando il loro Dio, hanno proclamato la decadenza di tutti gli uomini, di cui non ammirano la solidarietà che nel peccato; e imponendo il principio di salvezza esclusivamente individuale, hanno negato e distrutto, per quanto era loro possibile, la collettività umana, cioè il principio stesso dell’umanità.

Non è strano che si sia attribuito al cristianesimo l’onore di aver creato l’umanità, di cui fu, al contrario, la più completa e assoluta negazione? Tuttavia, da un certo punto di vista, esso può rivendicare quest’onore, ma da un solo punto: ha contribuito in maniera negativa, cooperando potentemente alla distruzione delle collettività ristrette e parziali dell’antichità, affrettando la decadenza naturale delle patrie e delle città che, essendosi divinizzate nei loro dèi, formavano un ostacolo alla costruzione dell’umanità; ma è assolutamente falso dire che il cristianesimo abbia mai avuto il pensiero di costituire quest’ultima, o che abbia solamente compreso, e nemmeno intuito, quello che chiamiamo oggi la solidarietà fra gli uomini. L’umanità è un’idea completamente moderna, intravista nel Rinascimento, ma concepita ed enunciata in maniera chiara e precisa solo nel XVIII secolo.

Il cristianesimo non ha assolutamente niente a che fare con l’umanità, per la semplice ragione che ha per unico oggetto la divinità, in quanto l’una esclude l’altra. L’idea di umanità riposa sulla solidarietà fatale, naturale, di tutti gli uomini fra loro. Ma il cristianesimo, abbiamo detto, non riconosce questa solidarietà che nel peccato, e la racchiude in modo assoluto nella salvezza, nel regno di questo Dio che su molte richieste non fa grazia che a pochissimi eletti e che nella sua giustizia adorabile, spinto senza dubbio da quest’amore infinito che lo distingue, anche prima che gli uomini fossero nati su questa terra, ne aveva condannato la maggioranza alle sofferenze eterne dell’inferno, e questo per punirli di un peccato commesso dai loro primi antenati, i quali d’altronde furono costretti a commetterlo per evitarne uno ancora più terribile, quello d’infliggere una smentita alla prescienza divina.

Questa è la logica divina e la base di tutta la morale cristiana. Cosa hanno da fare con la logica e la morale umana?

Invano si sforzeranno di provarci che il cristianesimo riconosce la solidarietà fra gli uomini, citando le parole del Vangelo che sembrano predire l’avvento di un giorno in cui non vi sarà più che un solo pastore e un solo gregge, o mostrandoci la Chiesa cattolica romana, tendente incessantemente alla realizzazione di questo scopo tramite la sottomissione del mondo intero al governo del papa. La trasformazione dell’intera umanità in gregge, così come la realizzazione, fortunatamente impossibile, della monarchia universale e divina, non hanno niente a che fare col principio della solidarietà umana, che solo costituisce quello che chiamiamo umanità. Non vi è nemmeno l’ombra di questa solidarietà nella società come i cristiani la sognano e nella quale non si è [niente] per grazia degli uomini, ma tutto per grazia di Dio, vero gregge disgregato di montoni che non hanno e non devono avere alcun rapporto immediato e naturale fra loro, al punto che gli è perfino interdetto di accoppiarsi per la produzione della specie, senza il permesso e la benedizione del pastore, visto che solo il prete ha il diritto di sposare in nome di questo dio che è l’unico legittimo tratto d’unione fra loro: separati al di fuori di lui, i cristiani non si uniscono e non possono unirsi che in lui. Al di fuori di questa sanzione divina, tutti i rapporti umani, anche i legami di famiglia, partecipano della generale maledizione che colpisce il creato, sono riprovevoli: la tenerezza dei genitori, degli sposi, dei bambini, l’amicizia fondata sulla simpatia e la stima reciproca, l’amore e il rispetto degli uomini, la passione del vero, del giusto, del bene, quella della libertà, e la più grande di tutte, quella che implica tutte le altre, la passione dell’umanità; tutto questo è maledetto e non potrà essere redento che dalla grazia di Dio. Tutti i rapporti fra uomini devono essere santificati dall’intervento divino, ma questo intervento li snatura, li demoralizza, li distrugge. Il divino uccide l’umano e tutto il culto cristiano consiste esattamente in questa perpetua immolazione dell’umanità in onore della divinità.

[Variante del manoscritto: “Per grazia degli uomini, tutto per grazia di Dio: è un vero gregge di montoni disaggregati che non hanno e non devono avere alcun rapporto immediato tra loro, alcun rapporto naturale, e che non [parola illeggibile] che tramite Dio e in Dio – costituendo quest’ultimo il solo legame legittimo tra di loro. Tutti gli altri rapporti, essendo di origine naturale e partecipando per conseguenza al peccato, sono maledetti. Ogni amore immediato tra uomini, anche l’amore naturale dei genitori per i figli e dei figli per i genitori, l’amore degli sposi, l’amicizia, tutto questo è peccato se Dio non vi si trova come terzo incomodo, se non è l’intermediario tra i due esseri amanti. Dovete amare il vostro prossimo, non per se stesso, ma per l’amore di Dio; per essere santificati, tutti i rapporti naturali tra uomini hanno bisogno dell’intervento divino; ma quest’intervento li snatura, li demoralizza, li distrugge, e ogni culto cristiano non consiste altro che nel suicidio perpetuo dell’umanità a favore della divinità. E deve essere così – Dio è infatti posto come indiviso, infinito, assoluto, e l’uomo come relativo, finito. Il contatto della divinità con l’uomo deve invertire e uccidere tutto quello che in quest’ultimo c’è di umano. È naturale che il contatto della divinità deve divorare, consumare, annientare tutto quello che resta di umano nell’uomo. Così gli sforzi di quest’intervento divino nei rapporti umani sono veramente disastrosi. Ha portato la passione, l’ardente ricerca della verità al culto della menzogna, l’intelligenza alla stupidità, la giustizia all’iniquità, la dignità umana all’avvilimento degli uomini, l’onestà al tradimento, l’istinto della libertà allo stabilimento della schiavitù, quello dell’uguaglianza alla sanzione di tutti i privilegi, e la stessa carità ai massacri degli eretici e all’Inquisizione. Ha trasformato la solidarietà umana, l’amore, in un egoismo raffinato [parola illeggibile] divino. Perché non bisogna ingannarsi, ciò che l’uomo crede di adorare nel suo Dio, è il suo proprio io isolato e divinizzato, ed è per questo che i credenti si mostrano spesso fanatici e crudeli: attaccando il loro Dio, è loro stessi che si attacca. Quando il loro Dio, sia direttamente, sia tramite i suoi profeti, i suoi fratelli, comanda di colpire – e ciò accade, purtroppo! molto spesso – essi colpiscono senza misericordia; e quando anche accade loro (parola illeggibile) di avvicinarsi al prossimo, non lo fanno per amore – questo amore in quanto naturale e spontaneo (parola illeggibile) al peccato – ma soltanto per l’amore di Dio, cioè per l’amore di loro stessi, nell’interesse unico della salvezza della propria anima. In una parola, per un buon cristiano la solidarietà degli uomini è una menzogna e un peccato mortale, maledetto dal suo Dio. Egli non può considerare altrimenti l’ambiente sociale di cui egli stesso fa parte, che come una folla di colpevoli con cui è consentito avere solo i rapporti indispensabili per la salvezza della propria anima, essendo tutti gli uomini nient’altro che strumenti della propria salvezza. È l’esaltazione di se stesso portata all’ultima espressione, è l’egoismo divinizzato, per conseguenza la negazione più assoluta della morale umana. La morale dei metafisici è un intruglio di morale o piuttosto di immoralità cristiana. Essa è individualista al massimo grado, e non può essere altrimenti, poiché prende per punto di partenza l’io astratto di ciascuno”].

Nessuna obiezione al fatto che il cristianesimo ordini ai bambini di amare i genitori, ai genitori di amare i loro bambini, agli sposi di affezionarsi vicendevolmente. Però, comandandolo, non consente loro di amare immediatamente, naturalmente e per se stessi, ma solo in Dio e per l’amore di Dio; non ammette questi rapporti naturali se non a condizione che Dio vi si trovi come terzo, e questo terribile terzo uccide i congiunti. L’amore divino annienta l’amore umano. Il cristianesimo ci ordina, è vero, di amare il prossimo come noi stessi, ma ci ordina nello stesso tempo d’amare Dio per noi stessi e conseguentemente assai più del prossimo, cioè di sacrificargli il prossimo per la salvezza di noi stessi, perché in fin dei conti il cristiano adora Dio solo per la salvezza della sua anima.

Accettato Dio, tutto questo è rigorosamente conseguente: Dio è l’infinito, l’assoluto, l’eterno, l’onnipotente; l’uomo è il finito, l’impotente. Paragonandolo a Dio, sotto ogni aspetto, egli è niente. Solo il divino è giusto, vero, bello e buono, e tutto ciò che vi è di umano nell’uomo deve essere di contro dichiarato falso, iniquo, detestabile e miserabile. Il contatto della divinità con questa povera umanità deve dunque necessariamente divorare, consumare, annientare tutto quello che di umano resta negli uomini.

Ma anche l’intervento divino negli affari umani non ha mai mancato di produrre effetti eccessivamente disastrosi. Ha pervertito i rapporti degli uomini fra loro e ha rimpiazzato la loro solidarietà naturale con la pratica ipocrita e malsana delle comunità religiose, dove, sotto l’aspetto della carità, ognuno pensa solo per la salvezza della propria anima, facendo così, sotto il pretesto dell’amore divino, dell’egoismo umano eccezionalmente raffinato, pieno di tenerezza per se stesso e d’indifferenza, di malvagità, anche di crudeltà, per il prossimo. Questo spiega l’alleanza intima che è sempre esistita tra boia e prete, alleanza francamente confessata dal celebre campione dell’ultramontanismo, Joseph de Maistre, la cui penna eloquente, dopo aver divinizzato il papa, non ha mancato di riabilitare il boia; perché l’uno, in effetti, non è che il necessario complemento dell’altro.

Ma non è solo nella Chiesa cattolica che esiste e si produce quest’eccessiva tenerezza per il boia. I ministri sinceramente religiosi e i credenti dei diversi culti protestanti, hanno unanimamente protestato ai nostri giorni, contro l’abolizione della pena di morte, prova questa che l’amore divino uccide, nei cuori che ne sono penetrati, l’amore per gli uomini; tanto è vero che tutti i culti religiosi in generale, ma soprattutto il cristianesimo, non hanno altro obiettivo che quello di sacrificare uomini ai loro dèi. E fra tutte le divinità di cui ci parla la storia, non ce n’è una che abbia fatto versare lacrime e sangue quanto questo buon Dio dei cristiani, o che abbia pervertito a tal punto le intelligenze, i cuori e tutti i rapporti degli uomini fra di loro.

Sotto quest’influenza malsana, lo spirito si eclissò, e l’ardente ricerca della verità si trasformò in un culto compiacente della menzogna; la dignità umana si avvilì, l’onestà divenne tradimento, la bontà crudele, la giustizia iniqua e il rispetto umano si trasformò in disprezzo arrogante per gli uomini; l’istinto di libertà andò a finire nello stabilirsi della servitù, e quello di legalità nella sanzione dei privilegi più mostruosi. La carità, divenendo delatrice e persecutoria, ordinò il massacro degli eretici e le orge sanguinose dell’Inquisizione; l’uomo religioso si chiamò gesuita, monaco o pietista – rinunciando all’umanità andò verso la santificazione – e il santo, sotto le spoglie di una umiltà più o meno ipocrita e della carità, nascose l’orgoglio e l’egoismo immenso di un Io umano assolutamente isolato che adora se stesso nel suo Dio. Infatti, non bisogna sbagliarsi: quello che l’uomo religioso cerca soprattutto e ciò che crede di trovare nella divinità che adora, è ancora se stesso, ma glorificato, investito di ogni potenza e immortalato. È per questo che ha posto spesso pretesti e strumenti per asservire e per sfruttare il mondo umano.

Ecco dunque l’ultima parola del culto cristiano: l’esaltazione dell’egoismo che rompe ogni solidarietà sociale, adora se stesso nel suo Dio e si impone alla massa ignorante degli uomini in nome di questo Dio, cioè in nome del suo Io umano, coscientemente o inconsciamente esaltato e divinizzato. È per questo che gli uomini religiosi sono generalmente così feroci: difendendo il loro Dio, esaltano il proprio egoismo, il proprio orgoglio e la propria vanità.

Da tutto ciò risulta che il cristianesimo è la negazione più decisiva e completa di ogni solidarietà fra gli uomini, cioè della società, e conseguentemente anche della morale, poiché al di fuori della società non vi può essere morale, non restano che i rapporti religiosi dell’uomo isolato con il suo Dio, cioè con se stesso.

I metafisici moderni, a partire dal XVII secolo, hanno tentato di ristabilire la morale, fondandola non su Dio, ma sull’uomo. Disgraziatamente, obbedendo alle tendenze del secolo, hanno preso come punto di partenza non l’uomo sociale, vivente e reale, che è il doppio prodotto della natura e della società, ma l’Io astratto dell’individuo, al di fuori di tutti quei legami naturali e sociali, quello stesso che divinizzò l’egoismo cristiano, e che tutte le Chiese, sia cattoliche che protestanti, adorano come loro Dio.

Com’è nato il Dio unico dei monoteisti? Dalla necessaria eliminazione di tutti gli esseri reali viventi.

Per spiegare ciò che intendiamo con questo, diviene necessario dire alcune parole sulla religione. Vorremmo non parlarne completamente, ma con i tempi che corrono, diventa impossibile trattare le questioni politiche e sociali senza toccare la questione religiosa.

A torto si è preteso che il sentimento religioso sia proprio solo dell’uomo; nel mondo animale si trovano perfettamente tutti i suoi elementi fondamentali, fra questi elementi, primo fra tutti, la paura, “il timore di Dio”, dicono i teologi, “è l’inizio della saggezza”. Ebbene, questo timore si trova molto sviluppato nelle bestie, e tutti gli animali sono costantemente impauriti. Tutti provano terrore istintivo di fronte alla potentissima natura che li produce, li alleva, li nutre, è vero, ma contemporaneamente li schiaccia, li avviluppa da ogni parte, minacciando la loro esistenza in continuazione e finendo sempre per ucciderli.

Poiché gli animali di tutte le altre specie non hanno questa potenza d’astrazione e di generalizzazione di cui è dotato solamente l’uomo, non pensano a quella totalità di esseri che noi chiamiamo natura, ma la sentono e ne hanno paura. È là il vero inizio del sentimento religioso.

L’adorazione stessa non manca. Senza parlare del sussulto di allegria che provano tutti gli esseri viventi al levar del sole, né dei loro gemiti all’avvicinarsi di una terribile catastrofe naturale che li distruggerà a migliaia; non si ha che da considerare, per esempio, il comportamento del cane in presenza del padrone. Non è la stessa cosa che accade nell’uomo di fronte a Dio?

Anche l’uomo ha cominciato con la generalizzazione dei fenomeni naturali, e non è arrivato alla concezione della natura come essere unico, che dopo molti secoli di sviluppo sociale. L’uomo primitivo, il selvaggio, poco differente dal gorilla, condivise senza dubbio per molto tempo tutte le sensazioni e le rappresentazioni istintive del gorilla; fu parecchio tempo dopo che, alla lunga, cominciò a farne oggetto di riflessione, dapprima necessariamente infantile, a dare loro un nome, e per ciò stesso a fissarle nel suo spirito nascente.

Fu così che il sentimento religioso che [l’uomo] aveva in comune con gli animali delle altre specie, prese corpo, divenne rappresentazione permanente e inizio di un’idea, quella dell’esistenza occulta di un essere superiore molto più potente di lui e generalmente molto ostile e malevolo, di un essere che gli faceva paura, in una parola, del suo Dio.

Questo fu il primo Dio, molto rudimentale, è vero, così che il selvaggio cercò dappertutto per implorarlo; credette trovarlo in un pezzo di legno, in uno straccio, in un osso o in una pietra; fu questa l’epoca del feticismo di cui troviamo ancora oggi le vestigia nel cattolicesimo.

Ci vollero, senza dubbio, ancora dei secoli perché l’uomo selvaggio passasse dal culto dei feticci inanimati a quello dei feticci viventi, dei differenti animali e, alla fine, degli stregoni. Vi arrivò attraverso una lunga serie di esperienze e col procedimento delle eliminazioni; non trovando nei feticci la potenza temibile che voleva implorare, la cercò nell’uomo-Dio, lo stregone.

Più tardi, e sempre con lo stesso procedimento delle eliminazioni, e facendo astrazione dello stregone, la cui esperienza gli aveva dimostrato l’impotenza, l’uomo selvaggio adorò di volta in volta i fenomeni più grandiosi e terribili della natura: la tempesta, il tuono, il vento e continuando così, d’eliminazione in eliminazione, arrivò al culto del sole e dei pianeti. Sembra che l’onore di aver creato questo culto appartenga ai popoli pastori.

Era già un grande progresso. Più la divinità, cioè la potenza che fa paura si allontanava dall’uomo, più essa sembrava rispettabile e grandiosa. Non c’era più che un solo grande passo da fare per il consolidamento definitivo del mondo religioso, quello di arrivare ad una divinità invisibile.

Fino a questo salto mortale [in italiano nel testo, n.d.r.], dall’adorazione del visibile all’adorazione dell’invisibile, gli animali delle altre specie avrebbero potuto, a rigore, accompagnare il loro fratello cadetto, l’uomo, in tutte le sue esperienze teologiche. In quanto, anche loro adoravano, a loro modo, i fenomeni della natura. Non sappiamo cosa provassero per gli altri pianeti; tuttavia, siamo certi che la luna e soprattutto il sole esercitavano su di loro un’influenza molto sensibile. Ma la divinità invisibile non poteva essere inventata se non dall’uomo.

Ma l’uomo stesso, attraverso quale processo ha potuto scoprire questo essere invisibile quando nessuno dei suoi sensi, nemmeno la vista, poteva aiutarlo a constatarne la reale esistenza? Per mezzo di quale artificio ha potuto riconoscerne la natura e la qualità? Chi è infine quest’essere, supposto assoluto, che l’uomo ha creduto di trovare al di sopra e al di fuori di tutte le cose?

Il procedimento non fu altro che quella ben conosciuta operazione dello spirito che chiamiamo astrazione o eliminazione, e il risultato finale di questa operazione non poteva essere che l’astratto assoluto, il niente, il nulla. È precisamente questo nulla che l’uomo adora come suo Dio.

Elevando il suo spirito al di sopra di tutte le cose viventi e reali, compreso il suo stesso corpo, facendo astrazione di tutto ciò che è sensibile o anche solamente visibile, ivi compreso il firmamento con tutte le stelle, l’uomo si trovò di fronte al vuoto assoluto, al niente indeterminato, infinito, senza contenuto e senza limite.

In questo vuoto, lo spirito dell’uomo, che l’aveva prodotto tramite l’eliminazione di tutte le cose, non potè incontrare che se stesso allo stato di potenza astratta, per cui avendo tutto distrutto e non avendo più niente da eliminare, ricadde su se stesso in un’inazione assoluta, considerandosi in questa completa inazione, che gli sembrava sublime, come un essere diverso da sé, e ponendosi come proprio Dio, si adorò.

Dio non è dunque altro che l’Io umano divenuto assolutamente vuoto a forza di astrazioni o di eliminazioni di tutto quello che è reale e vivo. È precisamente quanto aveva concepito Buddha, che di tutti i rivelatori religiosi fu certamente il più profondo, il più sincero, il più vero.

Solo che Buddha non sapeva e né poteva saperlo che lo spirito umano stesso aveva creato questo dio-nulla. Soltanto alla fine del secolo scorso, si cominciò a rendersi conto di ciò, e solo nel nostro secolo, grazie a studi molto approfonditi sulla natura e le operazioni dello spirito umano, si è arrivati a rendersene conto completamente.

Quando lo spirito umano creò Dio, procedette nella più completa ingenuità; non aveva ancora cognizione di se stesso e, senza dubbio, ancora meno del mondo, e potè adorarsi nel suo dio-nulla.

Tuttavia, non poteva arrestarsi davanti a questo nulla che lui stesso aveva fatto, e doveva necessariamente riempirlo e farlo quindi ridiscendere sulla terra, nella realtà vivente. Arrivò a questo scopo sempre con la stessa ingenuità e con il procedimento più naturale, più semplice. Dopo aver divinizzato il suo proprio io, pervenne a questo stato di astrazione o di vuoto assoluto, gli s’inginocchiò davanti, l’adorò e lo proclamò causa e autore di tutte le cose; questi furono i primi passi della teologia.

Allora si ebbe un capovolgimento completo, decisivo, fatale, storicamente inevitabile, senza dubbio, comunque molto disastroso per tutte le concezioni umane.

Dio, il nulla assoluto, fu proclamato il solo essere vivente potente e reale, e il mondo vivente, per logica conseguenza, la natura, tutte le cose effettivamente reali e vive, in quanto comparate a questo Dio, furono dichiarate Nulla. È proprio della teologia fare del nulla il reale, e del reale il nulla.

Procedendo sempre con la stessa ingenuità e senza avere la minima coscienza di quel che faceva, l’uomo usò un nuovo mezzo, nello stesso tempo molto ingegnoso e naturale, per riempire il vuoto spaventoso della sua divinità: le attribuì semplicemente, esagerandole tuttavia fino a proporzioni mostruose, tutte le azioni, le forze, le qualità e proprietà, buone o cattive, benevoli o malevoli, che trovò sia nella natura che nella società. Fu così che la terra, sottoposta a questo continuo furto, s’impoverì a profitto del cielo, che si arricchì delle sue spoglie.

Ne risultò che più il cielo, l’abitazione della divinità, si arricchiva, e più la terra diventava miserabile, e fu sufficiente che una cosa fosse adorata in cielo, perché tutto il suo contrario si trovasse realizzato nel basso mondo. Sono quelle che si chiamano finzioni religiose; a ciascuna di queste finzioni corrisponde, lo si sa bene, qualche realtà mostruosa; così l’amore celeste non è mai stato altro che odio terreno, la bontà divina non ha mai prodotto altro che il male, e la libertà di Dio non ha significato che la schiavitù quaggiù. Vedremo fra poco, che è la stessa cosa per tutte le finzioni politiche e giuridiche, poiché le une come le altre non sono altro che conseguenze o trasformazioni della finzione religiosa.

La divinità non assunse questo carattere esclusivamente malefico tutto in una volta. Nelle religioni panteiste dell’Oriente, nel culto dei bramini e in quello dei preti dell’Egitto, così come nelle altre credenze fenice e siriache, essa si presenta già sotto un aspetto molto terribile. L’Oriente fu sempre, e resta ancora oggi, in una certa misura almeno, la patria della divinità dispotica, schiacciante e feroce, negazione dello spirito e dell’umanità. Esso fu anche la patria degli schiavi, delle monarchie assolute e delle caste.

In Grecia, la divinità si umanizza; la sua unità misteriosa, riconosciuta in Oriente solo dai preti, il suo carattere atroce e tenebroso, sono relegati nel fondo della mitologia ellenica: al panteismo succede il politeismo. L’Olimpo, immagine della federazione delle città greche, è una sorta di repubblica debolmente governata dal padre degli dèi, Giove, obbediente anch’esso ai decreti del destino.

Il destino è impersonale; è la fatalità stessa, la forza irresistibile delle cose, davanti alla quale tutti devono piegarsi, uomini e dèi. D’altro canto, fra questi dèi, creati dai poeti, non ve ne sono di completi; ciascuno rappresenta un lato, una parte sia dell’uomo che della natura in generale, senza tuttavia diventare esseri concreti e vivi. Essi si completano reciprocamente e formano un insieme molto vivo, grazioso e soprattutto umano.

Niente tenebre in questa religione, la cui teologia fu inventata dai poeti, ognuno vi ha aggiunto liberamente qualche dio o qualche nuovo dogma, secondo i bisogni delle città greche che avevano, ognuna, l’onore di avere la sua divinità tutelare, rappresentante lo spirito collettivo. Fu la religione non degli individui ma della collettività dei cittadini di patrie ristrette e parzialmente libere, legate fra loro più o meno da una sorta di federazione molto imperfettamente organizzata e molto morbida.

Di tutti i culti religiosi che ci mostra la storia, questo fu certamente il meno teologico, il meno serio, il meno divino e, a causa di tutto ciò, anche il meno malvagio, quello che impediva meno il libero sviluppo della società umana. La sola pluralità degli dèi più o meno uguali in potenza era una garanzia contro l’assolutismo; perseguitati dagli uni, si poteva trovare protezione presso gli altri, e il malfatto di un dio trovava la sua compensazione nel bene prodotto da un altro. Non c’era dunque, nella mitologia greca, quella contraddizione, logicamente e moralmente mostruosa, secondo la quale il bene e il male, la bellezza e la bruttezza, la bontà e la cattiveria, l’odio e l’amore si trovano concentrati nella stessa persona, cosa che accade fatalmente nel dio unico del monoteismo.

Questa mostruosità, la troviamo intera nel dio dei giudei e dei cristiani. Essa è una conseguenza necessaria dell’unità divina e, in effetti, una volta ammessa quest’unità, come spiegare la coesistenza del bene e del male? Gli abitanti dell’antica Persia avevano almeno immaginato due dèi: uno, quello della Luce e del Bene, Ormazd; l’altro, quello del Male e delle tenebre, Ahriman; era allora naturale che essi si combattessero, come il male e il bene si combattono, prevalendo ora l’uno ora l’altro nella natura e nella società. Ma come spiegare che un solo e medesimo Dio, onnipotente, tutto verità, amore, bellezza, abbia potuto dare i natali al male, all’odio, alla laidezza, alla menzogna?

Per risolvere questa contraddizione, i teologi giudei e cristiani fecero ricorso a invenzioni rivoltanti e insensate. Innanzitutto, attribuirono tutto il male a Satana. Ma Satana da dove veniva? Era, come Ahriman, uguale a Dio? Assolutamente no; come tutto il resto della creazione, era opera di Dio. Dunque fu Dio che generò il male. No, rispondono i teologi, Satana era, all’inizio, un angelo della luce, fu solo dopo la sua rivolta contro Dio che divenne l’angelo delle tenebre. Ma, se la rivolta è un male – cosa che può essere soggetta a verifica, e noi crediamo al contrario che sia un bene, poiché senza di essa non ci sarebbe mai stata l’emancipazione sociale –, se costituisce un crimine, chi ha creato la possibilità di questo male? Dio, senza dubbio, vi risponderebbero ancora gli stessi teologi, ma egli ha reso possibile il male per lasciare sia agli angeli che agli uomini il libero arbitrio. E cos’è il libero arbitrio? È la facoltà di scegliere fra il bene e il male e decidere spontaneamente per l’uno o l’altro. Ma perché gli angeli e gli uomini potessero scegliere il male, potessero decidere per il male, bisognava che il male esistesse indipendentemente da loro, e chi ha potuto creare questa esistenza se non Dio?

Così, pretendono i teologi, dopo la caduta di Satana che precedette quella dell’uomo, Dio, senza dubbio reso edotto da questa esperienza, non volendo che altri angeli seguissero l’esempio fatale di Satana, li privò del libero arbitrio, lasciando loro solo la facoltà del bene, per cui sono forzatamente virtuosi e non immaginano altra felicità che quella di servire eternamente come valletti questo terribile signore.

Tuttavia, sembra che Dio non si sia sufficientemente impratichito con la sua prima esperienza, poiché, dopo la caduta di Satana, creò l’uomo, e per cecità o per cattiveria, non mancò di accordargli questo dono fatale del libero arbitrio che aveva perduto Satana e che doveva perdere anche lui.

La caduta dell’uomo, come quella di Satana, era scontata, poiché già determinata sin da tutta l’eternità dalla prescienza divina. D’altro canto, senza bisogno di risalire così indietro, ci permettiamo osservare che la semplice esperienza di un onesto padre di famiglia avrebbe dovuto impedire al buon Dio di sottoporre questi disgraziati primi uomini alla famosa tentazione. Il padre di famiglia sa troppo bene che è sufficiente impedire ai bambini di toccare una cosa perché un istinto di invincibile curiosità li forzi a toccarla assolutamente. Così, se avesse amato i suoi bambini e se fosse stato giusto e buono, avrebbe evitato loro una prova tanto inutile e crudele.

Dio non ebbe né questa ragione, né questa bontà, né questa giustizia, e quantunque sapesse già da prima che Adamo ed Eva avrebbero finito per soccombere alla tentazione, una volta compiuto il peccato, si lasciò trascinare da un furore veramente divino. Non contento di maledire i disgraziati disobbedienti, maledisse tutta la discendenza fino alla fine dei secoli, votando [ai] tormenti dell’inferno miliardi di uomini che erano evidentemente innocenti poiché al momento del peccato nemmeno nati. Non si contentò di maledire gli uomini, maledisse anche la natura, la propria creazione, che lui stesso aveva trovato così ben fatta.

Se un padre di famiglia avesse agito allo stesso modo, non lo avrebbero dichiarato pazzo da legare? Com’è dunque che i teologi hanno osato attribuire al loro Dio ciò che avrebbero trovato assurdo, crudele, disonorevole, anormale se fatto da un uomo. Ah! è che loro hanno avuto bisogno di quest’assurdità! altrimenti come avrebbero potuto spiegare l’esistenza del male in un mondo che doveva essere uscito perfetto dalle mani di un operaio altrettanto perfetto, di un mondo creato da Dio.

Ma, una volta ammessa la caduta dell’uomo, tutte le difficoltà venivano appianate e si spiegavano. Almeno così pretendevano [i teologi]. La natura, all’inizio perfetta, divenne ad un tratto imperfetta, la macchina si sconquassò; all’armonia primitiva succedette il caos disordinato delle forze; la pace, che regnava fra tutte le specie animali, lasciò il posto a una carneficina spaventosa, al mangiarsi gli uni con gli altri; e l’uomo, il re della natura, superò tutti in ferocia. La terra divenne la valle del sangue e delle lacrime, e la legge di Darwin – la lotta per l’esistenza impietosa, atroce – trionfò nella natura e nella società. Il male superò il bene, Satana soffocò Dio.

E tutto questo perché i due primi uomini disobbedirono al Signore e si lasciarono sedurre dal serpente, osando mangiare il frutto proibito!

E una simile inezia, una debolezza così ridicola, rivoltante, mostruosa, ha potuto essere seriamente ripetuta da grandi dottori in teologia per più di quindici secoli, che dico, lo è ancora oggi; ancora di più, essa è ufficialmente, obbligatoriamente, insegnata in tutte le scuole d’Europa. Cosa bisogna pensare della specie umana dopo tutto ciò? E non hanno mille volte ragione coloro che pretendono che facciamo vedere chiaramente ancora oggi la nostra prossima parentela col gorilla?

Ma lo spirito [parola illeggibile] dei teologi cristiani non si è fermato qua. Nella caduta dell’uomo e nelle sue disastrose conseguenze, sia per la natura che per lui stesso, essi hanno adorato la manifestazione della giustizia divina. Poi si sono ricordati che Dio non era solo giustizia, ma anche amore assoluto e, per conciliare l’una con l’altro, ecco cosa hanno inventato.

Dopo aver lasciato questa povera umanità per qualche migliaio d’anni sotto il terribile colpo della sua maledizione, che ebbe per conseguenza di votare alcuni miliardi di esseri umani alla tortura eterna, sentì l’amore risvegliarsi nel suo seno, e allora che fece? Fece uscire dall’inferno i disgraziati torturati? No, assolutamente; costoro restarono sottoposti alla sua eterna giustizia. Ma egli aveva un figlio unico; come e perché l’avesse è uno di quei misteri profondi che i teologi dichiarano impenetrabili, è un modo naturalmente comodo di tirarsi fuori dal problema e di risolvere tutte le difficoltà. Dunque, questo padre pieno d’amore, nella sua suprema saggezza, decide di mandare questo figlio unico sulla terra, a farsi uccidere per gli uomini, per salvare non le generazioni passate, e nemmeno le generazioni a venire, ma, fra quest’ultime, come dichiara lo stesso Vangelo, e come ripete ogni giorno la Chiesa sia cattolica che protestante, solo un piccolo numero di eletti.

Ed ora la partita è aperta, è, come abbiamo detto prima, una specie di corsa degli zoppi, un si salvi chi può a chi salverà la sua anima. Qui i cattolici e i protestanti si dividono: i primi pretendono che si possa entrare in paradiso solo con uno speciale permesso del santo padre il papa; i protestanti affermano, da parte loro, che soltanto la grazia immediata e diretta del buon Dio può aprirne le porte. Questa grave disputa continua ancora oggi: noi non vi prenderemo parte.

Riassumiamo in poche parole la dottrina cristiana:

Vi è un Dio: Essere assoluto, eterno, infinito, onnipotente; egli è l’onniscienza, la verità, la giustizia, la bellezza e la felicità, l’amore e il bene assoluto. In lui tutto è infinitamente grande, al di fuori di lui, il Nulla. Egli è, alla fine dei conti, l’Essere, lui stesso l’Essere unico.

Ma ecco che dal Nulla– che contemporaneamente pareva avesse un’esistenza a parte, al di fuori di lui, cosa che avrebbe implicato una contraddizione e un’assurdità, poiché Dio esiste dappertutto, riempiendo col suo essere lo spazio infinito, niente, neanche il Nulla può esistere al di fuori di lui, cosa che fa credere che il Nulla di cui parla la Bibbia fosse in Dio, cioè che fosse l’essere divino stesso il Nulla –; da questo Nulla, Dio creò il mondo.

Qui si pone una domanda. La creazione fu compiuta nell’eternità o in un dato momento dell’eternità? Nel primo caso, essa è eterna come Dio stesso e non può essere stata creata né da Dio, né da alcun altro; poiché l’idea della creazione implica la precedente esistenza del creatore rispetto alla creatura. Come tutte le altre idee teologiche, l’idea della creazione è un’idea interamente umana, presa dalla pratica della società umana. Come l’orologiaio crea un orologio, l’architetto una casa, ecc. In tutti questi casi il produttore esiste prima del prodotto, al di fuori del prodotto, ed è questo ciò che costituisce essenzialmente l’imperfezione, il carattere relativo e, per così dire, dipendente tanto del produttore che del prodotto.

Ma, la teologia, come d’altronde fa sempre, ha preso quest’idea e questo fatto totalmente umano della produzione e li ha applicati al suo Dio, estendendoli all’infinito e facendoli poi uscire dalle loro proporzioni naturali, ne ha fatto una fantasia mostruosa e assurda.

Dunque, se la creazione è eterna, non è affatto creazione. Il mondo non è stato creato da Dio, quindi ha un’esistenza e uno sviluppo indipendenti da lui– l’eternità del mondo è la negazione di Dio –, poiché Dio è essenzialmente il Dio creatore.

Dunque, il mondo non è più eterno, esso è un’epoca nell’eternità, oppure non esiste. Dunque, vi è stata tutta un’eternità durante la quale Dio assoluto, onnipotente, infinito, non fu un Dio creatore, o non [lo] fu che in potenza, non nei fatti.

Perché non lo fu? Per un suo capriccio, oppure aveva la necessità di svilupparsi per arrivare infine alla potenza effettiva di creare?

Sono misteri insondabili, dicono i teologi. Sono assurdità immaginate da voi stessi, rispondiamo loro. Voi cominciate con l’inventare l’assurdo, poi ce l’imponete come un mistero divino, insondabile e tanto più profondo quanto più assurdo.

È sempre lo stesso procedimento: Credo quia absurdum est.

Un’altra questione: la creazione, così come uscì dalle mani di Dio, fu perfetta? Se non lo fu, non poteva essere la creazione di Dio, poiché l’operaio, è lo stesso Vangelo che lo dice, si giudica dal grado di perfezione della sua opera. Una creazione imperfetta farebbe supporre necessariamente un creatore imperfetto. Dunque, la creazione fu perfetta.

Ma, se essa [lo] fu, non poteva essere creata da nessuno, perché l’idea di perfezione assoluta esclude ogni idea di dipendenza e di relazione. Al di fuori di essa, niente potrebbe esistere. Se il mondo è perfetto, Dio non può esistere.

La creazione, rispondono i teologi, fu sicuramente perfetta, ma solo in rapporto a tutto quello che la natura e gli uomini potevano produrre, non in rapporto a Dio. Essa fu perfetta, senza dubbio, ma non perfetta come Dio.

Nuovamente rispondiamo loro che l’idea della perfezione non ammette gradi come non l’ammettono l’idea dell’infinito e quella di assoluto. Essa non può essere più o meno. La perfezione è una. Se dunque la creazione fu meno perfetta del creatore, essa fu imperfetta. E allora ritorneremo a dire che questo Dio creatore di un mondo imperfetto, non è che un creatore imperfetto, ciò sarebbe di nuovo la negazione di Dio.

Vediamo che in qualsiasi modo si rigiri, l’esistenza di Dio è incompatibile con quella del mondo. Dato che esiste il mondo, Dio non esiste. Passiamo avanti.

Dunque, questo Dio perfetto crea un mondo più o meno imperfetto, lo crea in un dato momento dell’eternità, per capriccio e senza dubbio per evitare la noia della sua maestosa solitudine. Altrimenti perché l’avrebbe creato? Misteri insondabili ci gridano i teologi. Insopportabili sciocchezze, rispondiamo loro.

Ma la Bibbia stessa ci spiega i motivi della creazione. Dio è un essere essenzialmente vanitoso: egli ha creato il cielo e la terra per essere da questi adorato e lodato. Altri sostengono che la creazione fu l’effetto del suo amore infinito. Perché? Per un mondo, per esseri che non esistevano o che, all’inizio, non esistevano che nella sua idea, cioè sempre per lui. [Il manoscritto s’interrompe qui].

[Pubblicato in Michail Bakunin, Opere complete, vol. VII, La guerra franco-tedesca e la rivoluzione sociale in Francia (1870-1871), tr. it., Catania, 1993, pp- 282-298].

Appendice
L’ateismo di Michail Bakunin

È vezzo assai comune quello di considerare la produzione letteraria di Bakunin un mero accidente nella vita attiva del grande rivoluzionario ed agitatore. Questo vezzo risulta essere se non fomentato almeno mantenuto da una certa tendenza dell’anarchismo a sopravvalutare l’importanza dell’attività sulla riflessione. Quest’ultima tendenza ha radici storiche e logiche nella famosa campagna del “dimostriamolo coi fatti”, che ebbe inizio quasi subito dopo il battesimo ufficiale delle dottrine anarchiche avvenuto intorno al 1870.

Non interessandoci in questa sede indagare sull’esattezza di quanto sopra indicato e sulla validità di quella campagna, per altro accompagnata sempre da una collaterale e validissima attività letteraria e pubblicistica, desideriamo interessarci, invece, al pensiero bakuniniano e precisamente al suo apporto alla teoria generale dell’ateismo.

Su “L’Égalité” del 7 agosto 1869 Bakunin scriveva: «Noi pensiamo che i fondatori dell’Associazione internazionale abbiano agito con grande saggezza eliminando inizialmente dal programma di questa associazione ogni questione politica e religiosa. Senza alcun dubbio essi stessi non erano privi di opinioni politiche né di spiccate tendenze antireligiose, ma si sono astenuti dall’immetterle in questo programma perché il loro scopo dichiarato consisteva prima di tutto nell’unire tutte le masse operaie del mondo civile per un’azione comune». Questa frase è stata interpretata spesso nel senso di una subordinazione dell’aspetto teorico della tesi ateista all’aspetto pratico della contesa sociale. Piero Angarano ha scritto (Cfr. Introduzione al volume: Bakunin. Libertà e rivoluzione, Roma 1968, pag. 11): «Già al congresso della pace di Ginevra (1867), Bakunin aveva posto come terza esigenza fondamentale del movimento anarchico, accanto al federalismo e al socialismo, l’antiteologismo. Più tardi però riconobbe anche lui la necessità della rivoluzione sociale per poter distruggere la religione. Ma nel suo assalto titanico all’Olimpo divino fu più deciso e conseguente di Marx e il comunismo russo ha seguito in questo come in altri campi più lo spirito dell’emotivo Bakunin che le teorie dello scientifico Marx». Questa affermazione, sorvolando sulla parte finale che ci sembra quanto meno gratuita, non tiene conto che il fatto di dover subordinare, come effettivamente Bakunin ebbe a subordinare, la distruzione della religione alla rivoluzione sociale, non è un subordinare quella a questa, ma semplicemente un collocare le cose al loro giusto punto di esecuzione concreto. La rivoluzione sociale consente di attuare quella sistematica distruzione delle strutture religiose che, in altro modo, sarebbe addirittura impensabile. È con questo spirito che bisogna leggere la frase citata da “L’Égalité”, non come un ripiego e una modificazione dell’essenziale dottrina anarco-ateista, ma come una esatta programmazione pratica.

Nel testo della “Società rivoluzionaria internazionale o Fratellanza internazionale”, riportato da Max Nettlau in M. Bakunin. Eine Biographie, ma presumibilmente steso da Mrockowski sotto dettatura (Cfr. Bakunin, Stato e Anarchia e altri scritti, tr. it., Milano 1968, pp. 311 e sgg.), leggiamo: «Sostituendo il culto di Dio col rispetto e l’amore per l’umanità noi affermiamo la ragione umana come unico criterio di verità. La coscienza umana come base della giustizia, la libertà individuale e collettiva come unica creatrice dell’ordine umano». E più avanti: «La società umana è stata primitivamente un fatto naturale, anteriore alla libertà e al risveglio del pensiero umano e che è divenuta più tardi un fatto religioso, organizzato secondo il principio dell’autorità divina e umana, deve ricostituirsi oggi sulla base della libertà che deve ormai diventare il solo principio costitutivo della sua organizzazione sia politica che economica». Da questi passi è possibile comprendere la posizione di cardine che la tesi ateistica assumeva nella dinamica assai complessa del pensiero bakuniniano. L’ordine sociale viene fatto dipendere dalla possibilità di eliminare ogni principio di autorità come ogni ragion di Stato. È proprio da passi come questi sopra riportati che si comprende l’inutilità degli sforzi di coloro che pongono Bakunin nel rango dei semplici agitatori, negando l’originalità e la forza del suo pensiero in uno con la coordinazione complessiva. Ammettere, sia pure per un attimo, la possibilità che il nuovo ordine lasci coesistere la religione, significa fondare questo futuro sulla persistenza, sia pure parziale, di un principio di autorità: una vera e propria contraddizione in termini.

Il nocciolo della contesa con Mazzini è da collocarsi, prima che nelle diverse vedute rivoluzionarie e riformistiche sociali, nella grande distanza che i due agitatori e pensatori avevano in merito al problema religioso. Così Bakunin scrive: «Mazzini ci rimprovera di non credere in Dio, noi al contrario gli rimproveriamo di crederci, anzi non glielo rimproveriamo, ma rimpiangiamo ch’egli vi creda, poiché non è sua colpa s’egli vi crede, essendo ogni uomo, il più grande come il più piccolo, il prodotto fatale di un concorso indefinibile di cose indipendenti dalla sua volontà, le quali dopo avergli dato un indirizzo alla sua nascita, continuano a determinarlo per tutta la vita. Rimpiangiamo immensamente che per questa intrusione di sentimenti e idee mistiche nella sua coscienza, nella sua attività, nella sua vita, sia stato costretto a schierarsi contro i popoli». (Risposta di un internazionale a Giuseppe Mazzini. Cfr. Bakunin. Stato e Anarchia e altri scritti, op. cit., p. 369).

Altrove (Dio e lo Stato, tr. it., Genova 1966, pp. 56-57) così riconsidera la situazione nei confronti di Mazzini e degli altri spiritualisti a lui vicini: «Tutto ciò [i misfatti delle religioni] i nostri illustri idealisti contemporanei lo sanno meglio degli altri. Essi sono uomini sapienti che conoscono a memoria la storia delle religioni; e siccome sono uomini viventi, anime penetrate di amore sincero e profondo per il bene dell’umanità, hanno maledetto e stigmatizzato tutti questi misfatti, tutti questi delitti della religione con un’eloquenza senza pari. Essi ripudiano indignati ogni solidarietà col Dio delle religioni positive, coi suoi rappresentanti passati e presenti sulla terra. Il Dio che essi adorano, o che credono di adorare, si distingue dagli dèi reali della storia, perché non è un Dio positivo per quanto esso sia determinato teologicamente o metafisicamente. Non è né l’Essere supremo di Robespierre e J.-J. Rousseau, né il Dio panteista di Spinoza, e neppure il Dio innocente e trascendente ed equivoco di Hegel. Essi si guardano bene dal dargli una determinazione positiva qualunque, pensando giustamente che ogni determinazione lo sottometterebbe all’azione dissolvente della critica. Essi, parlando di lui, non diranno se sia un Dio personale o impersonale, se abbia creato o no il mondo; e non diranno nemmeno della sua divina provvidenza. Tutto ciò potrebbe compromettere. Si contenteranno di dire: “Dio” e niente di più. Ma allora cos’è il loro Dio? Non è neppure un’idea è un’aspirazione».

In questo modo Bakunin coglie l’essenza ultima del “deismo” mazziniano, precorrendo di molti decenni l’attuale interpretazione in senso deista della filosofia del rivoluzionario italiano. La sua critica coglie nel segno l’illusione di Mazzini ma non denuncia, a dire il vero, la sostanziale identità tra ateismo e deismo, sebbene riesca a determinare la parità delle condizioni conclusive.

Di grande validità e attualità il tema centrale del rifiuto della religione in Bakunin. L’unico fondamento di questo rifiuto è individuato nella sostanziale disumanizzazione dell’idealismo. «Qualunque sia la questione che si voglia considerare, si riesce sempre a trovare questa contraddizione essenziale tra le due scuole. Così, come ho fatto osservare, il materialismo parte dall’animalità per costituire l’umanità; l’idealismo parte dalla divinità per costituire la schiavitù e condannare le masse ad una animalità senza uscita. Il materialismo nega il libero arbitrio e finisce, con la costituzione della libertà, l’idealismo nel nome della dignità umana, proclama il libero arbitrio, e sulle rovine di ogni libertà fonda l’autorità. Il materialismo respinge il principio d’autorità perché lo considera, con ragione, come il corollario dell’animalità, e ritiene al contrario che il trionfo dell’umanità, scopo e significato principale della storia, non sia realizzabile che nella libertà. In una parola, voi troverete sempre gli idealisti in flagrante delitto di materialismo pratico, mentre vedrete i materialisti proseguire e realizzare le aspirazioni i pensieri più vastamente ideali». (Dio e lo Stato, op. cit., pp. 84-85). Questo passo può venire variamente commentato. Innanzi tutto è da dire che oggi le idee scientifiche sono molto cambiate in merito al determinismo scientifico dell’Ottocento, cui fa evidentemente riferimento Bakunin. Ciò consente di potere riformulare la posizione del materialismo in termini indeterministici. Accanto a questa premessa occorre sottolineare l’uso equivoco che qui Bakunin fa del termine “materialismo”. Tenendo presente queste due avvertenze il lettore potrà ricavarne la lezione fondamentale per arrivare al rifiuto di ogni religione: ogni abbrutimento dell’idealità tipica dell’uomo, e non del divino, è perpetrato dalla religione, che serve da sostegno all’autorità politica.

La verità di queste parole non ha bisogno di esempi nella storia, trovandone quanti se ne vuole con tutta facilità. Ci rivolgiamo invece a quello che oggi [1968] sta avvenendo nel cattolicissimo Portogallo, sotto l’egida e la tutela paternalistica della Chiesa cattolica. Questa religiosissima nazione sfrutta in maniera efferata, sotto l’occhio vigile del nuovo premier Caetano, le sue colonie africane. Alcuni dati che riportiamo, sono tratti da “Dimensioni”, a. VII, n. 9, dovuti all’indagine di Fiore su questi gravissimi problemi. La fonte non è certo una fonte faziosa nei confronti della religione. «In Angola il 96% della popolazione complessiva, secondo dati internazionali, è analfabeta, in Mozambico e Guinea lo sono il 95%. Gravi le condizioni sanitarie: in Angola la durata media della vita è di 28 anni, una delle più basse del mondo; c’è un medico ogni 21.000 abitanti, ma il 90% dei medici è concentrato nelle città dove abita il 60% della popolazione bianca e solo il 4% della popolazione totale. Sia in Angola che in Mozambico vige ancora il sistema del contractado, una specie di lavoro forzato. Qualsiasi negro, e il clima tropicale non è certo favorevole al lavoro, che non possa dimostrare di aver lavorato almeno sei mesi in un anno per imprese portoghesi o straniere, viene reclutato a forza, strappato dal suo clan, dalla sua famiglia e dalla sua cultura e spedito a lavorare negli immensi campi di cotone o di caffè delle grandi compagnie, oppure fatto scendere in miniera. È ovvio che questo sistema permette la manodopera più abbondante e più a buon mercato del mondo». «Il lavoro forzato – scrive Perry Anderson su Le Portugal et la fin de l’ultra-colonialisme, Paris 1963 – è la chiave di volta del sistema coloniale portoghese». Eppure questo Paese è di grande tradizione religiosa e umanistica, direbbero i sempre pronti a meravigliarsi illustratori del sistema. Si tratta di un regime fascista e colonialista, che cosa attendersi di più? Si tratta di un regime religioso, che cosa può meravigliarci?

Lo stesso articolo curato da Fiore cita le parole del vescovo Mons. de Resense, di Beria nel Mozambico: «Imporre ai lavoratori indigeni un soggiorno di più di sei mesi fuori dalla loro famiglia, conduce alla rivolta delle masse popolari e alla rovina completa della loro vita familiare». Questa la sola preoccupazione, che il sistema in atto subisca improvvise modificazioni, dannose agli interessi della religione. E più avanti: «Si deve mantenere il lavoro in un regime di libertà se vogliamo che lo spettro del lavoro obbligatorio finisca per davvero. Ci tengo ad affermare che se le imprese distribuissero ad ogni lavoratore indigeno quanto spendono con coloro che sono addetti al reclutamento degli indigeni, questi ultimi non verrebbero mai a mancare». Ecco delle frasi che sono un vero monumento ad una determinata mentalità religiosa riformista. In esse sono contenute dei consigli di giustizia distributiva. In altre parole viene suggerito alle imprese che sfruttano i lavoratori neri delle colonie del Portogallo un altro sistema per giungere agli stessi risultati produttivi ma senza schiavizzare il nero. Quando si tiene conto che gli interlocutori di questo esponente della religione militante sono società come la Anglo-American Corporation of South Africa, la Banca Morgan, il Gruppo Oppenheimer, la Compagnia De Beer’s, la Guggenheim, la Ryan, la Forminière, la Union Minière du Haut Katanga, la Guaranty Trust Company, la Société Générale du Belgique, si comprenderà l’assurdità di quei consigli. Ma essi sono assurdi anche da un punto di vista etico in senso assoluto, in quanto consigliano di attuare uno sfruttamento delle ricchezze di un popolo ad esclusivo beneficio di altri popoli, eliminando il male più evidente ma non il solo: la schiavitù. Dare la libertà a questi popoli è l’elemento fondamentale di un discorso che non può essere inteso dalla Chiesa per gli stessi motivi che tanto bene aveva individuato Bakunin tanti decenni or sono.

È questa stessa libertà che detta all’anarchico russo i termini del suo distacco da Dio: «Amante geloso della libertà umana che considero come la condizione assoluta di tutto ciò che adoriamo e rispettiamo nella umanità, io rovescio la frase di Voltaire, e dico che se Dio esistesse bisognerebbe abolirlo». (Dio e lo Stato, op. cit., p. 58).

E più avanti: «L’idea di Dio implica l’abdicazione della ragione e della giustizia umana: essa è la negazione più decisa della libertà umana e ha per scopo la servitù degli uomini, tanto in teoria che in pratica. A meno di volere la schiavitù e l’avvilimento degli uomini, come le vogliono i gesuiti, i monaci, i pietisti o i metodisti protestanti, noi non possiamo e non dobbiamo dare la minima concessione né al Dio della teologia né a quello della metafisica. Colui che in questo alfabeto mistico comincia da Dio, dovrà fatalmente finire con Dio; colui che vuole adorare Dio deve, senza farsi puerili illusioni, rinunciare risolutamente alla sua libertà e alla sua umanità. Se Dio è, l’uomo è schiavo; ora, l’uomo può, deve essere libero, dunque Dio non esiste. Io sfido chiunque ad uscire da questo cerchio, e tuttavia bisogna decidersi e scegliere».

Questo l’ateismo di Bakunin, un ateismo se si vuole ancora passionale, non potendosi facilmente eliminare dal suo contesto le tautologie, come quella citata, che ricordano l’impostazione hegeliana del ragionamento, comunque sempre un ateismo radicale, assoluto, senza mezzi termini e senza compromessi.


[Pubblicato in Alfredo M. Bonanno, Saggi sull’ateismo, sec. ed., Trieste 2009, pp. 102-110]

 
 

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