Prima edizione: maggio 2015
Michail Bakunin
La Comune e lo Stato
Nota introduttiva
Bakunin spiega in modo magistrale l’esperienza della Comune di Parigi mentre gli accadimenti sono sotto gli occhi di tutti. I massacri dei versagliesi nell’ultima settimana non si sono mai potuti calcolare. La paura dei bottegai era stata tanta e la reazione fu ferocissima. Basta pensare che i morti fucilati a colpi di mitragliatrice furono venti volte di più, in pochi giorni, di quelli causati dall’intera rivoluzione francese. Per coronare il successo i vincitori indissero una speciale sottoscrizione per costruire la basilica del Sacré Cœur a Montmartre che, con una certa ironia, porta, anche oggi, il nome di “santuario della misericordia divina”.
In queste tre conferenze l’accento è posto sulle radici economiche e sociali che determinarono la guerra franco-prussiana e sulle possibilità rivoluzionarie di un popolo che prende in mano le proprie sorti nel momento in cui tutti i traditori sono tutti smascherati.
Tornare a riflettere su quei pochi mesi rivoluzionari e, particolarmente, su quegli ultimi giorni in cui la Senna si colorò di rosso, è sempre un momento di grande commozione ma anche di grande importanza. Guai a farsi illusioni sulla brava gente che ci sta di fronte. Non si faranno nessuna remora morale nel momento in cui vedranno davanti ai loro occhi spaventati sorgere lo spettro della resa dei conti.
Su questo non bisogna avere dubbi.
Trieste, 14 maggio 2014
Alfredo M. Bonanno
La Comune e lo Stato
Tre conferenze fatte agli operai della valle di Saint-Imier nel maggio 1871.
Prima conferenza
Compagni, dopo la grande Rivoluzione del 1789-1793, nessuno degli avvenimenti successivi in Europa ha avuto l’importanza e la grandezza di quelli che si svolgono sotto ai nostri occhi e dei quali Parigi è oggi teatro.
Due fatti storici, due rivoluzioni memorabili avevano costituito quello che chiamiamo mondo moderno, il mondo della civiltà borghese. L’una, conosciuta col nome di Riforma, al principio del sedicesimo secolo, aveva spezzato la chiave di volta dell’edificio feudale, l’onnipotenza della Chiesa; distruggendo questa potenza essa preparò la rovina del potere indipendente e quasi assoluto dei signori feudali, che, benedetti e protetti dalla Chiesa, come i re, e spesso anche contro i re, facevano derivare i loro diritti direttamente dalla grazia divina. Anche per questo la Riforma diede un nuovo slancio all’emancipazione della classe borghese, a sua volta lentamente preparata, durante i due secoli che avevano preceduto questa rivoluzione religiosa, dallo sviluppo successivo delle libertà comunali e da quello dell’industria e del commercio che ne era stato, nello stesso tempo, la condizione e la necessaria conseguenza.
Da questa rivoluzione uscì una nuova potenza, non ancora quella della borghesia, ma dello Stato, monarchico, costituzionale ed aristocratico in Inghilterra; monarchico, assoluto, nobiliare, militare e burocratico in tutto il continente d’Europa, meno due piccole repubbliche: la Svizzera e i Paesi Bassi.
Lasciamo, per delicatezza, queste due repubbliche da parte, ed occupiamoci delle monarchie. Esaminiamo i rapporti delle classi, la situazione politica e sociale dopo la Riforma.
Ai maggiori, gli onori: cominciamo dunque da quella dei preti; e sotto questa denominazione di preti non intendo solo quelli della Chiesa cattolica, ma anche i ministri protestanti, in una parola tutti gl’individui che vivono del culto divino e che ci vendono il buon Dio all’ingrosso e al dettaglio. Quanto alle differenze teologiche che li separano, sono così sottili e nello stesso tempo così assurde, che sarebbe veramente un perditempo l’occuparsene.
Prima della Riforma, la Chiesa e i preti, con il papa in testa, erano i veri signori del mondo. Secondo la dottrina della Chiesa, le autorità temporali di tutti i paesi, i monarchi più potenti, gl’imperatori e i re non avevano diritti se non in quanto tali diritti erano stati riconosciuti e consacrati dalla Chiesa. È noto che gli ultimi due secoli del Medioevo furono occupati dalla lotta sempre più appassionata e trionfante dei sovrani coronati contro il papa, degli Stati contro la Chiesa. La Riforma pose termine a questa lotta proclamando l’indipendenza degli Stati. Il diritto del sovrano fu riconosciuto come emanazione diretta da Dio, senza l’intervento del papa né di alcun altro prete e, naturalmente, in virtù di questa provenienza celeste, esso fu proclamato assoluto. Così sulle rovine del dispotismo della Chiesa fu elevato l’edificio del dispotismo monarchico. La Chiesa dopo essere stata padrona divenne serva dello Stato, uno strumento di governo nelle mani del monarca.
Prese quest’attitudine non solo nei paesi protestanti dove – non eccettuata l’Inghilterra e particolarmente la Chiesa anglicana – il monarca fu dichiarato capo della Chiesa, ma anche in tutti i paesi cattolici compresa la Spagna. La potenza della Chiesa romana, spezzata dai colpi terribili vibrati dalla Riforma non poté più sostenersi da sola, e per mantenere la sua esistenza chiese l’assistenza dei sovrani temporali, degli Stati. Ma i sovrani, si sa bene, non danno mai assistenza per niente. Non hanno mai avuto altra religione sincera, altro culto che quello della loro potenza e delle loro finanze, essendo queste ultime il mezzo e lo scopo della prima. Comunque, per acquistare l’appoggio dei governi monarchici, la Chiesa doveva provare loro che era capace e disposta a servirli. Prima della Riforma aveva molte volte sollevato i popoli contro i re. Dopo la Riforma diventò in tutti i paesi, compresa anche la Svizzera, l’alleata dei governi contro i popoli, una specie di polizia nera nelle mani degli uomini di Stato e delle classi governanti, avente per missione di predicare alle masse popolari la rassegnazione, la pazienza, l’obbedienza e la rinuncia ai beni e ai godimenti di questa vita che il popolo – essa diceva – deve abbandonare ai felici e ai potenti della terra allo scopo di assicurare a sé i tesori celesti. Voi sapete che ancora oggi tutte le Chiese cristiane, cattoliche e protestanti, continuano a predicare in questo senso, ma fortunatamente sono sempre meno ascoltate, e noi possiamo prevedere il momento in cui saranno obbligate a chiudere i locali per mancanza di credenti, o di ingenui, che è la stessa cosa.
Vediamo le trasformazioni che si sono effettuate nella classe feudale, nella nobiltà, dopo la Riforma. Essa era rimasta la proprietaria privilegiata e quasi esclusiva della terra, ma aveva perduto la sua indipendenza politica. Prima della Riforma era stata, come la Chiesa, la rivale e la nemica dello Stato, ma dopo questa rivoluzione ne divenne la serva, come la Chiesa, e come essa, una serva privilegiata. Tutte le funzioni militari e civili dello Stato, ad eccezione delle meno importanti, furono occupate dai nobili. Le corti dei grandi e anche dei più piccoli monarchi d’Europa ne furono piene; i più grandi signori feudali, prima così indipendenti e fieri, diventarono valletti titolati dei sovrani. Perdettero la loro fierezza e la loro indipendenza, ma conservarono l’arroganza, e si può anzi dire che questa s’accrebbe, essendo l’arroganza il vizio precipuo dei lacchè. Bassi, striscianti, servili in presenza del sovrano, divennero più insolenti di fronte ai borghesi e al popolo che continuarono a saccheggiare non più in proprio nome e per diritto divino, ma col permesso e al servizio dei loro padroni e col pretesto del maggior bene dello Stato.
Questo carattere e questa particolare condizione della nobiltà si sono quasi integralmente conservati anche ai nostri giorni in Germania, strano paese che sembra avere il privilegio di sognare le cose più belle e nobili per non realizzare che le più vergognose e infami. Come lo provano le barbarie ignobili, atroci dell’ultima guerra e la recente formazione di questo spaventoso Impero knut-germanico che è incontestabilmente una minaccia contro la libertà dei paesi d’Europa, una sfida lanciata all’intera comunità dal dispotismo brutale di un imperatore poliziotto e soldataccio ad un tempo e dalla stupida insolenza della sua canaglia nobiliare.
In virtù della Riforma la borghesia era stata completamente liberata dalla tirannia e dal saccheggio dei signori feudali in quanto banditi e predoni indipendenti e privati, ma fu abbandonata ad una nuova tirannia e a nuove spoliazioni ormai regolarizzate sotto il nome d’imposte ordinarie e straordinarie dello Stato, da parte di questi stessi signori divenuti servitori – cioè briganti e saccheggiatori legittimi – dello Stato. Questo passaggio dal saccheggio feudale al saccheggio più regolare e sistematico dello Stato, parve dapprima soddisfare la classe media, che ne ebbe all’inizio un certo beneficio, per la sua situazione economica e sociale. Ma l’appetito viene mangiando, dice il proverbio. Le imposte degli Stati, dapprima moderate, aumentarono ogni anno in proporzioni inquietanti sebbene non così gravi come negli Stati monarchici dei nostri giorni. Le guerre quasi incessanti che questi Stati, diventati assoluti, si fecero sotto il pretesto dell’equilibrio internazionale dopo la Riforma fino alla rivoluzione del 1789; la necessità di mantenere grandi eserciti permanenti, che ormai erano divenuti la base principale della conservazione statale; il lusso crescente delle corti dei sovrani che si erano trasformate in orge permanenti, e dove la canaglia nobiliare, tutto il servitorame titolato e monturato veniva a mendicare pensioni dal proprio padrone; la necessità di nutrire questa pleiade di privilegiati che occupava le più alte cariche nell’esercito, nella burocrazia e nella polizia, tutto ciò esigeva spese enormi. Tali spese furono pagate naturalmente, prima di tutto e soprattutto dal popolo; ma anche dalla classe borghese che fino alla Rivoluzione fu anch’essa, sebbene non allo stesso grado, considerata come una vacca da mungere non avente altra funzione che mantenere il sovrano e la grande folla dei funzionari privilegiati. E d’altra parte la Riforma aveva fatto perdere in libertà alla classe media più di quanto le avesse procurato in sicurezza. Prima della Riforma essa era stata generosamente alleata e indispensabile sostegno dei re nella lotta contro la Chiesa e contro i signori feudali e ne aveva approfittato abilmente per conquistare un certo grado d’indipendenza e di libertà. Ma dopo che la Chiesa e i signori feudali si sottomisero allo Stato, i re, non avendo più bisogno dei servizi della classe media la privarono a poco a poco delle libertà che anticamente le avevano largito.
Se tale era la condizione della classe borghese dopo la Riforma, si può immaginare quale dovesse essere quella delle masse popolari, dei contadini e degli operai delle città. I contadini dell’Europa centrale, in Germania, in Olanda e in parte anche nella Svizzera, fecero, com’è noto, al principio del sedicesimo secolo e della Riforma, un grandioso movimento per emanciparsi, al grido di “Guerra ai castelli e pace ai casolari”. Questo movimento, tradito dalla classe borghese, e maledetto dai capi del protestantesimo borghese, Lutero e Melantone, venne soffocato nel sangue di molte decine di migliaia di contadini insorti. Dopo di allora i contadini furono più che mai riattaccati alla gleba, servi di diritto, servi di fatto, e restarono in tale stato fino alla rivoluzione del 1789-1793 in Francia, fino al 1807 in Prussia e fino al 1848 in quasi tutto il resto della Germania. In diverse parti del Nord della Germania e specialmente nel Meclemburgo, il servaggio esiste oggi ancora, mentre ha cessato di esistere nella stessa Russia.
Il proletariato delle città non fu molto più libero dei contadini. Esso si divideva in due categorie: quella degli operai che facevano parte delle corporazioni, e quella del proletariato non organizzato in alcun modo. La prima era legata, impacciata nei movimenti e nella produzione da una serie di regolamenti che l’asservivano ai capi delle maestranze, ai padroni; la seconda, priva di ogni diritto, era oppressa e sfruttata da tutti. La gran parte delle imposte, come sempre, ricadeva necessariamente sul popolo.
Questa rovina e questa generale oppressione delle masse operaie e, in parte, della classe borghese, avevano per pretesto e per fine dichiarato la grandezza, la potenza, la magnificenza dello Stato monarchico, nobiliare, burocratico e militare, Stato che nell’adorazione ufficiale aveva preso il posto della Chiesa, ed [era] proclamato come un’istituzione divina. Vi fu dunque una morale dello Stato tutta diversa, o piuttosto del tutto opposta alla morale privata degli uomini. Nella morale privata, se non viziata dai dogmi religiosi, c’è un fondamento eterno, più o meno riconosciuto, compreso, accettato e realizzato in ogni società umana. Questo fondamento non è che il rispetto umano, il rispetto della dignità umana, del diritto e della libertà di tutti gli individui. Rispettarsi reciprocamente, ecco il dovere di ognuno; amarsi, ecco la virtù; violare tali dettami, ecco il delitto. La morale dello Stato è del tutto opposta a questa morale umana. Lo Stato s’impone a tutti i suoi sudditi come lo scopo supremo. Servire la sua potenza, la sua grandezza con tutti i mezzi possibili e impossibili anche se contrari alle leggi umane e al bene dell’umanità, ecco la virtù, perché tutto ciò che contribuisce alla potenza e all’ingrandimento dello Stato è il bene; ogni cosa contraria, sia pure l’azione più virtuosa, più nobile dal punto di vista umano, è il male. Perciò gli uomini di Stato, i diplomatici, i ministri, tutti i funzionari dello Stato hanno sempre usato delitti, menzogne e tradimenti infami per servire lo Stato. Dal momento che una cattiva azione è commessa per servire lo Stato, diviene un’azione meritoria. Tale è la morale dello Stato; cioè la negazione stessa della morale umana e dell’umanità.
La contraddizione sta nell’idea stessa di Stato. Lo Stato universale non avendo mai potuto realizzarsi, ogni Stato è un’entità ristretta comprendente un territorio limitato e un numero più o meno ristretto di sudditi. L’immensa maggioranza della specie umana resta dunque al di fuori di ogni Stato, e l’umanità intera è divisa in una pleiade di Stati grandi, medi o piccoli, ognuno dei quali, sebbene non comprenda che una ristrettissima parte della specie umana, si proclama e si pone come rappresentante dell’intera umanità e come qualche cosa di assoluto. A cagione di ciò, quello che rimane fuori, tutti gli altri Stati, coi sudditi e le rispettive proprietà, sono considerati da ogni Stato come esseri privi di sanzione, di diritto e che esso può quindi attaccare, conquistare, massacrare, saccheggiare tanto quanto i suoi mezzi e le sue forze consentono. Sapete, cari compagni, che non si è mai riuscito a stabilire un diritto internazionale, e non si è mai potuto farlo appunto perché, dal punto di vista dello Stato, tutto quello che è fuori dello Stato è privo di diritto. Così basta che uno Stato dichiari la guerra a un altro perché permetta, anzi, comandi ai sudditi di commettere contro i sudditi dello Stato nemico tutti i delitti possibili: l’assassinio, lo stupro, il furto, la distruzione, l’incendio, il saccheggio. E tutti questi delitti sono considerati come benedetti dal Dio dei cristiani, che ognuno degli Stati belligeranti considera e proclama suo partigiano e non dell’altro; ciò che naturalmente deve mettere in serio imbarazzo questo povero buon Dio, in nome del quale i più orribili delitti sono stati e continuano ad essere commessi sulla terra. È per questo che siamo nemici del buon Dio, e consideriamo questa finzione, questo fantoccio divino, una delle principali sorgenti dei mali che tormentano gli uomini.
E allo stesso modo siamo avversari accaniti dello Stato, di tutti gli Stati, poiché fino a quando ci saranno Stati non ci sarà l’umanità, e finché ci saranno Stati, la guerra e gli orribili delitti della guerra, la rovina, la miseria dei popoli, che ne sono le inevitabili conseguenze, saranno permanenti.
Finché ci saranno Stati, le masse popolari, anche nelle repubbliche più democratiche, saranno schiave di fatto, perché non lavoreranno in vista della propria felicità e ricchezza, ma per la potenza e la ricchezza dello Stato. E che cosa è lo Stato? Si pretende che sia l’espressione e la realizzazione delle utilità, del bene, del diritto, della libertà di tutti. Ebbene, chi lo pretende mente come mentono coloro che considerano il buon Dio protettore di tutti. Da quando la fantasia di un essere divino si è formata nell’immaginazione degli uomini, Dio, tutti gli dèi, e fra loro soprattutto il Dio dei cristiani, hanno sempre preso la parte dei forti e dei ricchi contro le masse misere e ignoranti e hanno benedetto, a mezzo dei preti, i privilegi più rivoltanti, le oppressioni e gli sfruttamenti più infami.
Allo stesso modo lo Stato non è altro che la garanzia di tutti gli sfruttamenti a profitto di un piccolo numero di felici privilegiati e a detrimento delle masse popolari; esso adopera la forza collettiva e il lavoro di tutti per assicurare la felicità, la prosperità e i privilegi di pochi, a danno del diritto umano di tutti. È una fabbrica nella quale la minoranza fa l’azione del martello e la maggioranza dell’incudine.
Fino alla grande Rivoluzione, la classe borghese, sebbene in minor grado delle masse popolari, aveva fatto la parte dell’incudine. E perciò fu rivoluzionaria.
Sì, fu veramente rivoluzionaria. Osò ribellarsi contro tutte le autorità divine e umane, mise in questione Dio, i re, il papa. Si rivoltò specialmente contro la nobiltà che occupava nello Stato un posto che essa era impaziente a sua volta di occupare. Ma non voglio essere ingiusto, e non pretendo affatto che nelle sue magnifiche proteste contro la tirannia divina e umana fosse trascinata solo da pensieri egoistici. La forza delle cose, la natura stessa della sua particolare organizzazione, l’avevano spinta istintivamente a impadronirsi del potere. Ma non avendo ancora coscienza dell’abisso che la separava realmente dalle classi operaie che sfruttava, e questa coscienza non essendosi affatto svegliata ancora in seno allo stesso proletariato, la borghesia, rappresentata in questa lotta contro la Chiesa e lo Stato dai suoi spiriti più nobili e dai più grandi caratteri, credette in buona fede di lavorare ugualmente per l’emancipazione di tutti.
I due secoli che separano le lotte della Riforma religiosa da quelle della grande Rivoluzione furono l’età eroica della classe borghese. Divenuta potente per ricchezza e intelligenza, attaccò audacemente tutte le istituzioni rispettate della Chiesa e dello Stato. Minò ogni cosa prima con la letteratura e la critica filosofica; più tardi rovesciò tutto con l’aperta rivolta. Fu essa a fare la rivoluzione del 1789 e del 1793. Naturalmente non potè farla che servendosi della forza popolare; ma fu essa ad organizzare questa forza e a dirigerla contro la Chiesa, contro il regno e contro la nobiltà; a pensare a prendere l’iniziativa di tutti i movimenti eseguiti dal popolo. La borghesia aveva fede in se stessa, si sentiva potente perché sapeva di avere dietro e con sé il popolo.
Se si confrontano i giganti del pensiero e dell’azione che uscirono dalla classe borghese nel secolo diciottesimo, con le più grandi celebrità, coi celebri nani vanitosi che la rappresentano ai giorni nostri, ci si potrà convincere della decadenza, dello spaventoso declino che si è prodotto in questa classe. Nel diciottesimo secolo era intelligente, audace, eroica; oggi si mostra vile e stupida. Allora, piena di fede, osava tutto, poteva tutto; oggi, morsa dal dubbio, e demoralizzata dalla sua stessa iniquità, che è più ancora nella situazione che nella volontà, ci offre il quadro della più vergognosa impotenza.
Gli avvenimenti recenti di Francia lo dimostrano anche troppo. La borghesia si è mostrata del tutto incapace di salvare la Francia; ha preferito l’invasione dei Prussiani alla rivoluzione popolare che sola poteva salvarla. Ha lasciato cadere dalle sue deboli mani il vessillo dell’umano progresso, quello dell’emancipazione universale. E il proletariato di Parigi ci dimostra oggi che ormai solo i lavoratori sono capaci di portarlo.
In una prossima riunione cercherò di dimostrarvelo.
Seconda conferenza
Cari compagni, vi ho detto la volta scorsa che due grandi avvenimenti storici avevano fondato la potenza della borghesia: la rivoluzione religiosa del sedicesimo secolo, conosciuta col nome di Riforma, e la grande Rivoluzione politica del secolo scorso. Ho aggiunto che quest’ultima, compiuta certamente tramite la potenza del braccio popolare, era stata iniziata e diretta esclusivamente dalla classe media. Devo dimostrare, adesso, che è stata la classe media che ne ha profittato esclusivamente.
Eppure il programma di questa Rivoluzione pareva, dapprima, immenso. Non si è infatti compiuta in nome della Libertà, dell’Uguaglianza e della Fraternità del genere umano, tre parole che sembrano abbracciare tutto quello che l’umanità può solamente volere e realizzare nel presente e nell’avvenire? Com’è avvenuto che una Rivoluzione che si annunciava così ampia sia miseramente sboccata nell’esclusiva, ristretta e privilegiata emancipazione di una sola classe, a danno di milioni di lavoratori che si vedono oggi schiacciati dalla sua prosperità insolente e iniqua?
Ah! Il fatto è che questa Rivoluzione non fu che una rivoluzione politica. Aveva audacemente rovesciato le barriere, le tirannie politiche, ma aveva lasciato intatte – le aveva perfino dichiarate sacre e inviolabili – le basi economiche della società, che sono state l’eterna sorgente, il fondamento principale delle iniquità politiche e sociali, delle assurdità religiose passate e presenti. Aveva proclamato la libertà di ognuno e di tutti, o meglio aveva proclamato il diritto di essere libero per ognuno e per tutti, ma non aveva dato realmente i mezzi per realizzare questa libertà e per goderne che ai proprietari, ai capitalisti, ai ricchi.
“La povertà è la schiavitù!”.
Ecco le terribili parole che più volte ci ha ripetuto con la sua simpatica voce, che parte dall’esperienza e dal cuore, il nostro amico [Sylvain] Clément, in questi pochi giorni che ho la fortuna di passare fra voi, cari compagni e amici.
Sì, la povertà è la schiavitù, è la necessità di vendere il proprio lavoro, la propria persona al capitalista che dà i mezzi per non morire di fame. Occorre veramente lo spirito interessato alla menzogna dei signori borghesi per osare parlare della libertà politica delle masse operaie! Bella libertà quella che le assoggetta ai capricci del capitale e le incatena per fame alla volontà del capitalista. Cari amici, non ho certo bisogno di provare – a voi che avete imparato a conoscere nella lunga e dura esperienza le miserie del lavoro – che fin quando il capitale resterà da una parte e il lavoro dall’altra, il lavoro sarà schiavo del capitale e i lavoratori sudditi dei signori borghesi i quali danno per derisione i diritti politici, le apparenze di libertà, per conservare la realtà esclusivamente per loro stessi.
Il diritto alla libertà, senza i mezzi per realizzarlo, non è che un fantasma. E noi amiamo troppo la libertà per accontentarci di un fantasma. Ne vogliamo la realtà. Ma [cos’è] che costituisce il fondo reale e la condizione positiva della libertà? Esso è dato dallo sviluppo integrale e dal pieno godimento delle facoltà fisiche, intellettuali e morali di ognuno, è dato, per conseguenza, dai mezzi materiali necessari all’esistenza umana di ognuno; è dato ancora dall’educazione e dall’istruzione. Un uomo che muore di inazione, schiacciato dalla miseria, che muore ogni giorno di freddo e di fame, e che vedendo soffrire tutti quelli che ama non può venire in loro soccorso, non è un uomo libero, è uno schiavo. Un uomo condannato a restare tutta la vita un essere brutale per mancanza di educazione umana, un uomo privo d’istruzione, un ignorante, è necessariamente uno schiavo; e se esercita diritti politici, potete essere certi che in un modo o nell’altro li eserciterà sempre contro se stesso, a vantaggio di sfruttatori e padroni.
La condizione negativa della libertà è questa: nessun uomo deve obbedire a un altro; a condizione che tutti i suoi atti siano determinati non dalla volontà di altri uomini, ma dalla sua volontà e dalle proprie convinzioni. Un uomo obbligato dalla fame a vendere il proprio lavoro, e col lavoro, la persona, al prezzo più basso possibile al capitalista che si degna di sfruttarlo: un uomo che per il suo stato di abbrutimento e la sua ignoranza è abbandonato alla mercé dei suoi sfruttatori sapienti, sarà necessariamente, e sempre, uno schiavo.
E non è tutto. La libertà degli individui non è un fatto individuale, è un fatto, un prodotto collettivo. Nessun uomo potrebbe essere libero al di fuori e senza il concorso di tutta l’umana società. Gl’individualisti, o i falsi fratelli socialisti che abbiamo combattuto in tutti i congressi di lavoratori, hanno sempre detto, coi moralisti e con gli economisti borghesi, che l’uomo potrebbe essere libero, che potrebbe essere uomo, fuori della società, perché la società venne fondata da un libero contratto di uomini anteriormente liberi.
Questa teoria, proclamata da J.-J. Rousseau, lo scrittore più malefico del secolo passato, il sofista che ha ispirato i rivoluzionari borghesi, questa teoria denota un’ignoranza completa della natura e della storia. Non è nel passato, non è neppure nel presente, che dobbiamo cercare la libertà delle masse, è invece nell’avvenire, in un prossimo avvenire: è in quel fatidico domani in cui dovremo creare noi stessi, con la potenza del pensiero, della volontà, ma anche con quella del braccio. Dietro di noi non c’è mai stato libero contratto, non c’è stata che brutalità, stupidità, iniquità e violenza; e anche oggi, lo sapete troppo bene, questo sedicente libero contratto si chiama patto della fame, schiavitù della fame per le masse e sfruttamento della fame da parte delle minoranze che ci divorano e ci opprimono.
La teoria del libero contratto è altrettanto falsa dal punto di vista della natura. L’uomo non crea volontariamente la società, vi nasce involontariamente. Egli è per eccellenza un animale sociale; non può divenire un uomo, cioè un animale che pensa, parla, ama e vuole, se non in società. Immaginatevi un uomo, dotato dalla natura delle più geniali facoltà, gettato fin dalla giovane età fuori di ogni società umana, in un deserto. Se non muore miseramente, ciò che è assai probabile, non sarà altro che un bruto, una scimmia priva di parola e pensiero; perché il pensiero è inseparabile dalla parola: nessuno può pensare senza il linguaggio. Anche quando vi trovate soli con voi stessi e perfettamente isolati, per pensare avete bisogno delle parole; potete avere immagini rappresentative delle cose, ma appena volete pensare ad una cosa dovete servirvi delle parole perché solo le parole determinano il pensiero, e danno alle rappresentazioni fuggitive, agl’istinti, il carattere del pensiero. Il pensiero non esiste prima della parola né la parola prima del pensiero; queste due forme di uno stesso atto del cervello umano nascono insieme. Dunque nessun pensiero senza la parola. Ma cos’è la parola? È la comunicazione, è la conversazione di un individuo umano con molti altri individui. L’uomo animale non si trasforma in essere umano, cioè pensante, che a mezzo di questa conversazione e in questa conversazione. La sua individualità, in quanto umana, è dunque il prodotto della collettività.
L’uomo si emancipa dalla tirannica pressione che la natura esteriore esercita su ognuno, in virtù del lavoro collettivo; perché il lavoro individuale, sterile e impotente, non potrebbe mai vincere la natura. Il lavoro produttivo, quello che ha creato le ricchezze e la civiltà, è stato sempre un lavoro sociale, collettivo; solamente esso, fino a oggi, è stato iniquamente sfruttato da taluni individui a spese delle masse operaie. Allo stesso modo, l’educazione e l’istruzione che sviluppano l’uomo, educazione e istruzione delle quali sono fieri i signori borghesi, e che danno parsimoniosamente alle masse popolari, sono ugualmente un prodotto dell’intera società. Il lavoro e, dirò di più, il pensiero istintivo del popolo, le creano, ma finora solo a profitto dei borghesi. È dunque ancora lo sfruttamento di un lavoro collettivo da parte d’individui che non ne hanno il diritto.
Tutto quello che è umano nell’uomo, e più di ogni altra cosa la libertà, è il prodotto di un lavoro sociale, collettivo. Essere libero nell’isolamento assoluto è un’assurdità inventata dai teologi e dai metafisici che hanno sostituito la società degli uomini con quella del loro fantoccio, Dio. Ognuno, dicono, si sente libero in presenza di Dio, cioè del vuoto assoluto, del nulla; è quindi la libertà del nulla oppure il nulla della libertà, la schiavitù. Dio, la finzione di Dio, è stato teoricamente la causa morale, o piuttosto immorale, di tutti gli asservimenti.
Quanto a noi che non vogliamo né fantasmi, né il nulla, bensì la realtà umana vivente, riconosciamo che l’uomo non può sentirsi e sapersi libero – e per conseguenza non può realizzare la sua libertà – che in mezzo agli uomini. Per essere libero ho bisogno di vedermi circondato, e riconosciuto come tale, da uomini liberi. Non sono libero che quando la mia personalità, riflettendosi, come in tanti specchi, nella coscienza ugualmente libera di tutti gli uomini che mi circondano, mi viene rafforzata dal riconoscimento di tutti. La libertà di tutti, lungi dall’essere un limite alla mia, come pretendono gl’individualisti, ne è al contrario, la conferma, la realizzazione e l’estensione infinita. Volere la libertà e la dignità umana di tutti gli uomini, vedere e sentire la mia libertà confermata, sanzionata, infinitamente estesa nel consenso di tutti, ecco la felicità, il paradiso umano sulla terra.
Ma questa libertà non è possibile che nell’uguaglianza. Se c’è un essere umano più libero di me, divengo forzatamente suo schiavo; se lo sono più di lui, egli sarà mio schiavo. Dunque, l’uguaglianza è una condizione assolutamente necessaria della libertà.
I borghesi rivoluzionari del 1793 compresero questa logica necessità. Così la parola Uguaglianza è secondo termine nella loro formula rivoluzionaria: Libertà, Uguaglianza, Fraternità. Ma quale uguaglianza? L’uguaglianza davanti alla legge, l’uguaglianza dei diritti politici, l’uguaglianza dei cittadini nello Stato. Notate bene questo termine, l’uguaglianza dei cittadini non quella degli uomini, perché lo Stato non conosce uomini ma solo cittadini. Per esso, l’uomo non esiste se non in quanto esercita – o in quanto, per una finzione è autorizzato a esercitare – diritti politici, l’uomo schiacciato dal lavoro forzato, dalla miseria, dalla fame: l’uomo socialmente oppresso, economicamente sfruttato, schiacciato, e che soffre, non esiste per lo Stato che ignora le sofferenze, la schiavitù economica e sociale, il servaggio effettivo che si nasconde sotto le apparenze di una libertà politica menzognera. Si tratta dunque dell’uguaglianza politica, non dell’uguaglianza sociale.
Cari amici, sapete per esperienza come questa pretesa libertà politica non fondata sull’uguaglianza economica e sociale sia ingannevole. In uno Stato molto democratico, per esempio, gli uomini arrivati alla maggiore età, e che non si trovano sotto il peso di una condanna giudiziaria, hanno il diritto e, si aggiunge, anche il dovere di esercitare i diritti politici e adempiere a tutte le funzioni alle quali possono essere chiamati dai loro concittadini. L’ultimo uomo del popolo, il più povero, il più ignorante può e deve esercitare questi diritti e [compiere] queste funzioni: si può immaginare un’uguaglianza più larga di questa? Sì, lo deve, lo può legalmente, ma in realtà gli è impossibile. Questo potere è facoltativo per gli uomini che fanno parte delle masse popolari, non potrà mai divenire reale per loro a meno di una trasformazione radicale delle basi economiche della società – diciamo la parola – a meno di una rivoluzione sociale. Questi pretesi diritti politici esercitati dal popolo sono dunque una vana finzione.
Noi siamo stanchi di tutte le finzioni religiose e politiche. Il popolo è stanco di nutrirsi di fantasmi e favole. Questo nutrimento non ingrassa. Oggi domanda la realtà: vediamo dunque quello che c’è di reale nell’esercizio dei suoi diritti politici.
Per coprire convenientemente le cariche, e specialmente le più alte cariche dello Stato, occorre possedere un grado abbastanza elevato d’istruzione. Il popolo manca assolutamente di tale istruzione. È colpa sua? No, è colpa delle istituzioni. Il grande dovere di tutti gli Stati veramente democratici è di spargere a piene mani l’istruzione nel popolo. C’è un solo Stato che lo abbia fatto? Non parliamo degli Stati monarchici che hanno un evidente interesse a diffondere non l’istruzione, ma il veleno del catechismo cristiano nelle masse. Parliamo degli Stati repubblicani e democratici come gli Stati Uniti d’America e la Svizzera. Occorre riconoscere che questi due Stati hanno fatto più di tutti gli altri per l’istruzione popolare. Ma sono pervenuti [allo scopo] malgrado tutta la loro buona volontà? È stato loro possibile dare indistintamente a tutti i bambini che nascono un’uguale istruzione? No, non è stato possibile. Per i bambini dei borghesi, l’istruzione superiore, per quelli del popolo soltanto l’istruzione primaria e, in rare occasioni, un poco d’istruzione secondaria. Perché queste differenze? Per la semplice ragione che gli uomini del popolo, i lavoratori delle campagne e delle città, non hanno i mezzi per mantenere, cioè nutrire, vestire, alloggiare i figli durante tutto il tempo degli studi. Per farsi una cultura scientifica bisogna studiare fino all’età di ventun’anni e talora fino a venticinque. Vi domando: quali sono gli operai in condizione di mantenere per tanto tempo i figli?
Questo sacrificio è superiore alle loro forze, perché non hanno capitali, né proprietà e vivono giorno per giorno del salario che basta appena al mantenimento di una famiglia numerosa.
E occorre anche dire, cari compagni, che voi, lavoratori delle montagne, operai di un mestiere che la produzione capitalista, cioè lo sfruttamento dei grandi capitali, non è ancora riuscita ad assorbire, siete relativamente fortunati. Lavorando in piccoli gruppi nei vostri laboratori, e spesso lavorando in casa vostra, guadagnate molto di più di quanto non si guadagni nei grandi stabilimenti industriali che impiegano centinaia di operai; il vostro lavoro è intelligente, artistico, non abbrutisce come quello che si fa con le macchine. La vostra abilità, la vostra intelligenza hanno un valore, contano qualcosa. E inoltre avete molto più svago e relativa libertà; perciò siete più istruiti, più liberi, più fortunati degli altri.
Nelle immense officine fabbricate, dirette e sfruttate dai grandi capitali, nelle quali le macchine, non gli uomini, hanno la funzione più importante, gli operai divengono necessariamente miseri schiavi, tanto miserabili che, quasi sempre, sono costretti a condannare i loro poveri figlioletti, appena a sei anni, a lavorare dodici, quattordici, sedici ore al giorno per pochi miserabili soldi. E lo fanno non per cupidigia, ma per necessità, perché senza di ciò non potrebbero mantenere le famiglie.
Ecco l’istruzione che possono dare ai loro figli. Non credo di dover spendere altre parole per dimostrare, cari compagni, a voi che pur lo sapete per esperienza e ne siete di già profondamente convinti, che fin quando il popolo lavorerà non per se stesso, ma per arricchire i detentori della proprietà e del capitale, l’istruzione che potrà dare ai suoi figli sarà molto inferiore a quella dei figli della classe borghese.
Ed è questa una grande e funesta ineguaglianza sociale che troverete necessariamente alla base stessa dell’organizzazione degli Stati; una massa forzatamente ignorante, e una minoranza privilegiata che se non è sempre molto intelligente è almeno relativamente molto più istruita. La conclusione è facile. La minoranza istruita governerà eternamente le masse ignoranti.
Non si tratta dunque solo delle ineguaglianze fisiche degli individui, le quali sono ineguaglianze che ci obbligano a rassegnarci in quanto uno ha una complessione più fortunata di un altro, come un altro nasce con facoltà naturali di intelligenza e di volontà più grandi. Ma, mi affretto ad aggiungere, queste differenze non sono così grandi come si vuol far credere. Anche dal punto di vista della natura gli uomini sono quasi uguali, le qualità e i difetti si compensano più o meno in ognuno. Non ci sono che due eccezioni a questa regola di ineguaglianza naturale e cioè gli uomini di genio e gl’idioti. Ma le eccezioni non fanno la regola e, in generale, si può dire che tutti gl’individui umani si equivalgono e che, se esistono differenze enormi fra gli individui nella società attuale, hanno origine nella mostruosa ineguaglianza dell’educazione e dell’istruzione, e non nella natura.
Il fanciullo dotato delle migliori facoltà, ma nato in una famiglia povera, in una famiglia di lavoratori che vive giorno per giorno del rude lavoro quotidiano, si vede condannato all’ignoranza che uccide, invece di sviluppare le sue facoltà naturali: egli sarà colui che lavora, che fa, che mantiene e nutre forzatamente i borghesi, i quali, di natura, possono essere meno intelligenti di lui. Il fanciullo del borghese, al contrario, il figlio del ricco, per quanto stupido sia naturalmente, riceverà l’educazione e l’istruzione necessarie per sviluppare al massimo grado le sue povere facoltà; sarà lo sfruttatore del lavoro, il padrone, il direttore, il legislatore, il governatore: un signore. Per quanto stupido possa essere farà leggi per il popolo, contro il popolo e governerà le masse popolari.
In uno Stato democratico, si dirà, il popolo non sceglierà che i buoni. Ma come riconoscere i buoni? Il popolo non ha né l’istruzione necessaria per giudicare il buono e il cattivo, né il tempo necessario per imparare a conoscere gli uomini che sono proposti dalle elezioni. Quest’ultimi vivono in una società diversa della sua; vengono a far tanto di cappello a Sua Maestà il popolo sovrano al momento delle elezioni, e, una volta eletti, gli voltano le spalle. E d’altra parte, appartenendo alla classe privilegiata, alla classe sfruttatrice, per eccellenti che siano come membri della loro famiglia e della loro società, saranno sempre cattivi per il popolo perché, naturalmente, tenderanno a conservare quei privilegi che costituiscono la base stessa della loro esistenza sociale e che condannano il popolo ad un’eterna schiavitù.
Ma perché il popolo non manda alle assemblee legislative e al governo uomini suoi, uomini del popolo? Prima di tutto perché gli uomini del popolo dovendo vivere del lavoro delle braccia non hanno tempo per votarsi esclusivamente alla politica, e non potendolo fare, essendo per la maggior parte ignoranti delle questioni politiche ed economiche che vengono trattate a questi alti livelli, sarebbero quasi sempre vittime degli avvocati e dei politicanti borghesi. E inoltre perché nel maggior numero dei casi basta che questi uomini del popolo salgano al governo per diventare borghesi a loro volta, e spesso più detestabili e più sdegnosi del popolo, dal quale sono usciti, degli stessi borghesi di nascita.
Vedete dunque che l’uguaglianza politica, anche negli Stati più democratici, è una menzogna. E lo stesso avviene per l’uguaglianza giuridica e per l’uguaglianza davanti alla legge. La legge è fatta dai borghesi, per i borghesi, ed è esercitata dai borghesi contro il popolo. Lo Stato e la legge che lo esprime non esistono che per eternizzare la schiavitù del popolo a profitto dei borghesi.
D’altra parte, sapete bene che quando siete lesi nei vostri interessi, nell’onore, nei diritti e volete fare un processo, per farlo dovete prima dimostrare di essere in condizione di pagare le spese e cioè dovete depositare una certa somma. E se non siete in condizione di depositarla non potete farcii processo. Ma il popolo, la maggioranza dei lavoratori hanno forse somme da depositare in tribunale? Nella più gran parte dei casi, no. E allora il ricco potrà attaccarvi, insultarvi impunemente, perché non c’è giustizia per il popolo.
Finché non ci sarà uguaglianza economica e sociale, finché una minoranza qualunque potrà diventare ricca, proprietaria, capitalista non per il lavoro proprio di ognuno, ma per eredità, l’uguaglianza politica sarà una menzogna. Sapete qual è la vera definizione della proprietà ereditaria? È la facoltà ereditaria di sfruttare il lavoro collettivo del popolo e di asservire le masse.
Ecco ciò che i più grandi eroi della rivoluzione del 1793 non hanno compreso, né Danton, né Robespierre, né Saint-Just. Essi vollero la libertà e l’uguaglianza politiche, non quelle economiche e sociali. Ed è per questo che la libertà e l’uguaglianza fondate da loro hanno costituito e posto su nuove basi il dominio dei borghesi sul popolo.
Hanno creduto di mascherare questa contraddizione ponendo come terzo termine della loro formula rivoluzionaria la Fraternità. E fu un’altra menzogna. Vi domando se è possibile la fraternità tra sfruttatori e sfruttati, oppressori e oppressi. Come? vi farò sudare e soffrire durante tutta la giornata e la sera, quando avrò raccolto il frutto della vostra sofferenza e del vostro sudore, non lasciandovene che una piccola parte perché possiate appena vivere, vale a dire soffrire e sudare a mio profitto un’altra volta domani, la sera, vi dirò: abbracciamoci, siamo fratelli?
Tale è la fratellanza della Rivoluzione borghese.
Cari amici, noi pure vogliamo la nobile Libertà, la salutare Uguaglianza e la santa Fraternità, ma vogliamo che queste cose grandi cessino di essere finzioni, menzogne, e divengano verità e costituiscano realtà.
Questo è il senso e lo scopo di ciò che chiamiamo Rivoluzione sociale.
Questa può riassumersi in poche parole: vuole, e noi vogliamo, che ogni uomo che nasce su questa terra possa diventare un uomo nel senso più completo della parola; che non abbia solo il diritto, ma i mezzi necessari per sviluppare le sua facoltà ed essere libero, felice, nell’uguaglianza e nella fratellanza! Ecco ciò che tutti vogliamo e tutti siamo pronti a morire per raggiungere questo scopo.
Vi domando, amici, una terza e ultima riunione per esporvi integralmente il mio pensiero.
Terza e ultima conferenza
Cari compagni, vi ho detto l’ultima volta che la borghesia, senza averne completa coscienza, ma appena in parte e, almeno per un quarto scientemente, si è servita del braccio potente del popolo durante la grande Rivoluzione del 1789-1793 per fondare sulle rovine del mondo feudale la sua potenza: oggi essa è divenuta la classe dominante. Si ha torto quando si ritiene che siano stati la nobiltà emigrata e i preti a fare il colpo di Stato reazionario di Termidoro che rovesciò e uccise Robespierre e Saint-Just e che ghigliottinò e deportò così gran numero dei loro partigiani. Certamente, molti membri di questi due ordini decaduti presero parte attiva all’intrigo, felici di veder cadere coloro che li avevano fatto tremare e che avevano loro tagliato la testa senza pietà. Ma, da soli, non avrebbero potuto fare niente, perché spossessati dei beni erano stati ridotti all’impotenza. Fu quella parte della classe borghese che si era arricchita nell’acquisto dei beni nazionali, nelle forniture di guerra e nell’amministrazione dei fondi pubblici, approfittando della miseria generale e della bancarotta per impinguare le proprie tasche; furono questi virtuosi rappresentanti della moralità e dell’ordine pubblico gli istigatori principali della reazione. Essi furono caldamente e potentemente sostenuti dalla massa dei bottegai, razza eternamente malefica e vile, che inganna ed avvelena il pubblico vendendogli mercanzie falsificate e adulterate e che ha tutta l’ignoranza del popolo senza averne il grande cuore, tutta la vanità dell’aristocrazia borghese senza averne il denaro; vile durante le rivoluzioni, feroce nella reazione. Per essa non esistono le idee che fanno palpitare il cuore delle masse, i grandi princìpi, i grandi interessi dell’umanità; ignora perfino il patriottismo oppure non ne conosce che la vanità e le fanfaronate. Nessun sentimento la può strappare dalle preoccupazioni mercantili, dalle cure meschine del giorno per giorno. Tutti hanno saputo, e uomini di tutti i partiti confermato, che durante il terribile assedio di Parigi – mentre il popolo si batteva e la classe dei ricchi intrigava e preparava il tradimento che abbandonò Parigi ai Prussiani, mentre il proletariato generoso, le donne, i fanciulli del popolo erano affamati – i bottegai non hanno avuto che una preoccupazione, quella di vendere la loro mercanzia, le derrate, gli oggetti più necessari all’esistenza del popolo, al più alto prezzo possibile.
I bottegai di tutte le città di Francia hanno fatto la stessa cosa. Nelle città invase dai Prussiani aprirono loro le porte; in quelle non invase si mostrarono disposti ad aprirle; paralizzarono la difesa nazionale, e, dove poterono arrivare, si opposero al sollevamento e all’armamento popolare che avrebbero potuto salvare la Francia. I bottegai nelle città, come i contadini nelle campagne, costituiscono oggi l’esercito della reazione; senonché i contadini potranno e dovranno [essere] convertiti alla rivoluzione, mentre i bottegai non lo saranno mai.
Durante la grande Rivoluzione, la borghesia si era divisa in due categorie, [delle quali] una, che costituiva un’infima minoranza, era la borghesia rivoluzionaria conosciuta col nome generico di giacobini. Ma non confondiamo i giacobini di oggi con quelli del 1793, giacché quelli di oggi non sono che pallidi fantasmi e aborti ridicoli, caricature degli eroi del secolo passato. I giacobini del 1793 erano grandi uomini, avevano il fuoco sacro, il culto della giustizia, della libertà e dell’uguaglianza e non fu colpa loro se non compresero meglio certe parole che riassumono ancora oggi tutte le nostre aspirazioni. Essi non ne considerarono che il lato politico e non il senso economico e sociale. Ma, lo ripeto, non fu colpa loro, come non è merito nostro comprenderlo oggi. È il difetto e il merito del tempo. L’umanità si sviluppa lentamente, ahimè, troppo lentamente! e non è che attraverso un seguito di errori e soprattutto di esperienze crudeli, che ne sono sempre la necessaria conseguenza, che gli uomini conquistano la verità. I giacobini del 1793 furono uomini in buona fede, uomini ispirati dall’idea, devoti all’idea: furono eroi! Senza di loro, senza la loro grande e santa sincerità, non si sarebbero compiuti i grandi atti della Rivoluzione. Noi possiamo, dobbiamo combattere gli errori teorici di Danton, di Robespierre, di Saint-Just, ma anche combattendo le loro idee false, ristrette, esclusivamente borghesi in economia sociale, dobbiamo inchinarci davanti alla loro potenza rivoluzionaria. Furono gli ultimi eroi della borghesia, una volta così feconda.
All’infuori di questa minoranza eroica, c’era la grande massa della borghesia materialmente sfruttatrice, e per la quale le idee, i grandi princìpi della Rivoluzione non erano che parole, e non avevano valore e senso se non in quanto [i borghesi] potevano servirsene per riempire le proprie tasche larghe e rispettabili. Una volta che i più ricchi e perciò più influenti si furono abbastanza impinguati nella confusione e per mezzo della Rivoluzione, trovarono che la Rivoluzione era durata troppo e che era tempo di finirla e ristabilire il regno della legge e dell’ordine pubblico.
Rovesciarono il Comitato di salute pubblica, uccisero Robespierre, Saint-Just e i loro amici, stabilirono il Direttorio, che fu una vera incarnazione della depravazione borghese alla fine del diciottesimo secolo, il trionfo e il regno dell’oro acquistato e accumulato col furto nelle tasche di alcune migliaia di individui.
Ma la Francia, che non aveva avuto il tempo di corrompersi e che era ancora palpitante per i grandi fatti della Rivoluzione, non potè sopportare a lungo questo regime. Vi furono proteste, l’una mancata, l’altra trionfante. La prima, se fosse riuscita, e sarebbe potuta riuscire, avrebbe salvato la Francia e il mondo; il trionfo della seconda inaugurò il dispotismo dei re e la schiavitù dei popoli. Mi riferisco all’insurrezione di Babeuf e dell’usurpazione del primo Bonaparte.
L’insurrezione di Babeuf fu l’ultimo tentativo rivoluzionario del secolo scorso. Babeuf e i suoi erano stati più o meno amici di Robespierre e di Saint-Just: furono giacobini socialisti e ebbero il culto dell’uguaglianza anche a detrimento della libertà. Il loro piano era semplicissimo: espropriare i proprietari e i detentori degli strumenti di lavoro e degli altri capitali a beneficio dello Stato repubblicano, democratico e sociale, il quale diventava così il solo proprietario delle ricchezze mobili e immobili, unico datore di lavoro, unico padrone della società; e munito al tempo stesso dell’onnipotenza politica avocava esclusivamente a sé l’educazione e l’istruzione uguale per tutti i fanciulli, e obbligava gl’individui in età maggiore a lavorare e vivere secondo l’uguaglianza e la giustizia. Ogni autonomia comunale, ogni iniziativa individuale in una parola, ogni libertà spariva schiacciata da questo potere formidabile. La società intera non doveva più presentare che il quadro di un’uniformità monotona e forzata. Il governo veniva eletto a suffragio universale, ma una volta eletto, e finché restava in funzione, esercitava su tutti i membri della società un potere assoluto.
La teoria dell’uguaglianza stabilita di forza dalla potenza dello Stato non è stata inventata da Babeuf. I primi fondamenti di questa teoria erano stati gettati da Platone, parecchi secoli prima di Gesù Cristo, nella sua Repubblica, opera nella quale questo grande pensatore dell’antichità tentò di schizzare il quadro di una società ugualitaria. I primi cristiani esercitarono incontestabilmente un comunismo pratico nelle loro associazioni perseguitate da tutta la società ufficiale. Infine, anche agl’inizi della Rivoluzione religiosa, nel primo quarto del sedicesimo secolo, in Germania, Thomas Müntzer e i suoi discepoli fecero un primo tentativo di stabilire su larga base l’uguaglianza sociale. La cospirazione di Babeuf fu la seconda manifestazione pratica dell’idea ugualitaria nelle masse, ma tutti questi tentativi, non eccettuato quest’ultimo, fallirono per due ragioni: la prima perché le masse non erano sufficientemente sviluppate per renderne possibile la realizzazione; poi, soprattutto, perché in tutti questi sistemi, l’uguaglianza s’alleava alla potenza, all’autorità dello Stato, e per conseguenza escludeva la libertà. E noi lo sappiamo, cari amici, l’uguaglianza non è possibile che insieme e a mezzo della libertà; non quella libertà esclusiva dei borghesi che è fondata sulla schiavitù delle masse e che non è la libertà, bensì il privilegio; ma la libertà universale degli esseri umani che eleva ognuno alla dignità di uomo. Ma noi sappiamo pure che questa libertà non è possibile che nell’uguaglianza. Rivolta non solo teorica, ma pratica contro le istituzioni e i rapporti sociali creati dalla ineguaglianza, per stabilire poi l’uguaglianza economica e sociale a mezzo della libertà di tutti: ecco il nostro programma attuale, quello che deve trionfare malgrado Bismarck, Napoleone, Thiers e malgrado tutti i cosacchi del mio augusto imperatore, lo zar di tutte le Russie.
La cospirazione di Babeuf aveva riunito nel suo seno, dopo le esecuzioni e le deportazioni del colpo di Stato reazionario di Termidoro, tutti i cittadini rimasti a Parigi devoti alla Rivoluzione, e, necessariamente, molti operai. Essa fallì; qualcuno fu ghigliottinato, ma molti ebbero la fortuna di sopravvivere, e fra gli altri il cittadino [Filippo] Buonarroti, un uomo di ferro, un carattere antico, tanto rispettabile che seppe farsi rispettare dagli uomini dei più opposti partiti. Egli visse a lungo nel Belgio, dove diventò il principale fondatore della società segreta dei carbonari-comunisti e, in un libro divenuto oggi assai raro, ma che cercherò di mandare al nostro amico Adhémar [Schwitzguébel], ha raccontato questa lugubre storia, quest’ultima protesta eroica della Rivoluzione contro la reazione, conosciuta sotto il nome di cospirazione di Babeuf. [Ph. Buonarroti, Cospiration pour l’égalité dite de Babeuf. Suivie du procès auquel elle donna lieu, et des pièces justificatives, Bruxelles 1828, due volumi].
L’altra protesta della società contro la corruzione borghese che si era impadronita del potere col nome di Direttorio, fu, come ho già detto, l’usurpazione del primo Bonaparte.
Questa storia, mille volte più lugubre dell’altra è nota a tutti. Fu la prima inaugurazione del regime infame e brutale della spada, il primo schiaffo impresso al principio di questo secolo da un parvenu insolente sulla guancia dell’umanità. Napoleone I divenne l’eroe di tutti i despoti. Mentre ne fu militarmente il terrore; vinto, lasciò loro la sua funesta eredità, il suo infame principio: il disprezzo dell’umanità e l’oppressione a mezzo della sciabola.
Non vi parlerò della Restaurazione. Fu un tentativo ridicolo di ridare vita e potere politico a due corpi anchilosati e decaduti: alla nobiltà e ai preti. Non ci fu nel tempo della Restaurazione che questo di notevole: attaccata, minacciata nel potere che aveva creduto conquistato per sempre, la borghesia era ridiventata quasi rivoluzionaria. Nemica dell’ordine pubblico, in quanto quest’ordine non era il suo, cioè stabiliva e garantiva interessi non suoi, cospirò di nuovo. Guizot, [Casimier] Périer, Thiers e tanti altri che sotto Luigi Filippo erano i più fanatici partigiani e difensori di un governo oppressore, corruttore, ma borghese e perciò perfetto ai loro occhi, tutte queste anime dannate della reazione borghese, cospirarono durante la Restaurazione. Essi trionfarono nel luglio 1830, e il regno del liberalismo borghese fu inaugurato.
È nel 1830 che s’inizia veramente il dominio esclusivo degl’interessi e della politica borghese in Europa; soprattutto in Francia, in Inghilterra, nel Belgio, in Olanda e in Svizzera. Negli altri paesi come la Germania, la Danimarca, la Svezia, l’Italia, la Spagna e il Portogallo, gl’interessi borghesi avevano avuto il sopravvento su tutti gli altri, ma non il governo politico. Non vi parlo del grande e misero Impero di tutte le Russie che rimane sottomesso al dispotismo assoluto degli zar e che non ha veramente una classe politica intermedia, non ha corpo politico borghese e dove, di fatto, non c’è da un lato che il mondo ufficiale, cioè un’organizzazione militare, poliziesca e burocratica per soddisfare i capricci dello zar, e dall’altro il popolo, cioè decine di milioni di esseri umani divorati dallo zar e dai suoi funzionari. In Russia la rivoluzione verrà direttamente dal popolo, come ho già ampiamente sviluppato in un lungo discorso pronunciato qualche anno fa a Berna e che mi affretterò a mandarvi. [Bakunin parla del suo quarto discorso al Secondo Congresso della Pace e della Libertà, pronunciato il 2 settembre 1868]. Non vi parlo di quella sfortunata ed eroica Polonia che si dibatte sempre di nuovo soffocata, eppure sempre viva, sotto le strette di tre infami aquile: quella dell’Impero russo, [quella] dell’Impero austriaco e [quella] del nuovo Impero tedesco rappresentato dalla Prussia. In Polonia, come in Russia, non esiste veramente una classe media; vi è da una parte la nobiltà – burocrazia ereditaria schiava dello zar in Russia – una volta dominante ma ora completamente schiacciata e disorganizzata e dall’altra parte il contadino asservito, divorato, oppresso non più dalla nobiltà che ha perduto il potere, ma dallo Stato e dagl’innumerevoli funzionari dello zar. Non vi parlerò nemmeno dei piccoli paesi: la Svezia e la Danimarca che non sono diventati realmente costituzionali che dopo il 1848, e che più o meno sono rimasti indietro nello sviluppo generale dell’Europa; né vi parlerò della Spagna e del Portogallo, dove il movimento industriale e la politica borghese sono rimasti paralizzati per tanto tempo dalla doppia potenza del clero e dell’esercito. Nonostante ciò, la Spagna, che ci sembrava così arretrata, ci presenta oggi una delle migliori organizzazioni dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori che esista al mondo.
Mi fermerò invece un momento sulla Germania. La Germania dopo il 1830 ci ha presentato e continua a presentarci, lo strano quadro di un paese dove gl’interessi della borghesia predominano, ma dove la potenza politica non appartiene alla borghesia, ma alla monarchia assoluta, sotto una maschera di costituzionalismo, militarmente e burocraticamente organizzato e servito esclusivamente dai nobili.
Ma è soprattutto in Francia, in Inghilterra e nel Belgio, che si deve studiare il regno della borghesia, come pure in Italia dopo l’unificazione sotto lo scettro di Vittorio Emanuele. Tuttavia, da nessuna parte esso si è così nettamente caratterizzato [come] in Francia, perciò lo consideriamo specialmente in questo paese.
Dopo il 1830, il principio borghese ha avuto piena libertà di manifestarsi nella letteratura, nella politica e nell’economia sociale; esso può essere riassunto in una parola sola: l’individualismo.
E per individualismo intendo quella tendenza che – considerando tutta la società, la massa degl’individui, come indifferenti, rivali, concorrenti, in una parola, nemici naturali, coi quali ognuno è obbligato a vivere, ma che ostruiscono la via – spinge l’individuo a conquistare e a creare il suo benessere, la sua prosperità, la sua felicità malgrado tutti, a detrimento e a spese di tutti gli altri. È una corsa al palio, un si salvi chi può generale nel quale ognuno cerca di arrivare primo. Guai a coloro che si arrestano, sono sorpassati; guai a coloro che esausti dalla fatica cadono lungo la via: sono immediatamente schiacciati. La concorrenza non ha cuore, non conosce pietà. Guai ai vinti! In questa lotta, necessariamente, molti delitti devono essere compiuti; e tutta questa lotta fratricida non è d’altra parte che un continuo delitto contro la solidarietà umana che è l’unica base di ogni morale. Lo Stato, che è – si dice – il rappresentante e il rivendicatore della Giustizia, non impedisce il perpetrarsi di questi delitti, anzi li perpetua e li legalizza. Ciò che esso rappresenta e ciò che difende non è la giustizia umana, ma la giustizia giuridica, cioè la consacrazione del trionfo dei forti sui deboli, dei ricchi sui poveri. Lo Stato esige che tutti questi delitti siano compiuti legalmente. Io posso rovinarvi, schiacciarvi, uccidervi, ma lo debbo fare osservando le leggi; altrimenti sono dichiarato criminale e trattato come tale. Questo è il senso del principio e della parola: individualismo.
Vediamo ora come questo principio si sia manifestato nella letteratura, in quella letteratura creata dai Victor Hugo, dai Dumas, dai Balzac, dai Jules Janin e da tanti altri autori di libri e articoli di giornali borghesi che hanno inondato l’Europa dopo il 1830, portando la depravazione e risvegliando l’egoismo nel cuore dei giovani dei due sessi, e sfortunatamente anche del popolo. Prendete un qualunque romanzo: accanto ai grandi e falsi sentimenti, alle belle frasi, che cosa trovate? Sempre la stessa cosa. Un giovane è povero, ignoto, misconosciuto; è divorato da ogni sorta d’ambizioni e appetiti. Vorrebbe abitare in un palazzo, mangiare tartufi, bere champagne, scarrozzarsi a piacere e andare a letto con qualche bella marchesa. Vi perviene in virtù di sforzi eroici e di avventure straordinarie, mentre tutti gli altri soccombono. Ecco l’eroe; e questo è individualismo puro.
Vediamo la politica. Come vi si manifesta il principio? Le masse, dicono, hanno bisogno di essere guidate, governate, sono incapaci di fare a meno del governo, come sono incapaci di governarsi da sole. Chi li dirigerà? Il privilegio di classe non esiste più. Tutti hanno il diritto di salire alle posizioni e alle funzioni sociali più alte. Ma per raggiungerle occorre essere forti, intelligenti, abili e fortunati: occorre sapere e potere vincere i rivali. Ecco ancora una volta la corsa al palio; saranno gli individui abili e forti che governeranno, che sfrutteranno le masse.
Consideriamo ora lo stesso principio nella questione economica la quale è, in fondo, la principale, e si potrebbe dire, l’unica questione. Gli economisti borghesi ci dicono di essere partigiani di una libertà individuale illimitata e che la concorrenza è la condizione di questa libertà. Ma vediamo qual è questa libertà. In primo luogo una domanda: è il lavoro separato, isolato che ha prodotto e continua a produrre le meravigliose ricchezze che sono la gloria del nostro secolo? Sappiamo bene di no. Il lavoro isolato degl’individui sarebbe appena capace di nutrire e vestire un piccolo popolo di selvaggi; una grande nazione non arricchisce e non progredisce che grazie al lavoro collettivo, solidalmente organizzato. Ed essendo collettivo il lavoro [per] la produzione delle ricchezze, non sarebbe logico che ne fosse collettivo anche il godimento? Ed ecco invece ciò che non vuole, che respinge con indignazione l’economia borghese. Essa vuole il godimento isolato degl’individui. Ma di quali individui? Forse di tutti? Oh, no! vuole il godimento dei forti, degli intelligenti, dei furbi, dei fortunati. Ah, sì, dei fortunati soprattutto. Perché nell’organizzazione sociale, e secondo la legge di eredità che ne è il principale fondamento, nasce una minoranza d’individui più o meno ricchi, fortunati, e milioni di esseri umani diseredati, sfortunati. La società borghese dice a tutti questi individui: lottate, disputatevi il premio, il benessere, la ricchezza, la potenza politica; i vincitori saranno felici. Ma c’è almeno uguaglianza in questa lotta fratricida? No, affatto; gli uni, la minoranza, sono armati da capo a piedi, forti della loro istruzione e delle ricchezze ereditate, e i milioni di uomini del popolo si presentano nell’area quasi nudi, con l’ignoranza e la miseria ugualmente ereditate. Qual è il risultato necessario di questa cosiddetta libera concorrenza? Il popolo soccombe, la borghesia trionfa, e il proletariato, incatenato è obbligato a lavorare come un forzato per il suo eterno vincitore, il borghese.
Il borghese è soprattutto munito di un’arma contro la quale il proletario resterà sempre senza possibilità di difesa, finché quest’arma, il capitale, che è diventata ormai in tutti i paesi civili l’agente principale della produzione industriale, finché questo alimentatore del lavoro sarà rivolto contro di lui.
Il capitale, com’è costituito e accumulato oggi, non schiaccia solo il proletario: percuote, espropria e riduce [alla miseria] un’immensa quantità di borghesi. La causa di questo fenomeno, che la media e la piccola borghesia non comprendono abbastanza, o ignorano, è peraltro molto semplice. In virtù della concorrenza, di questa lotta mortale che grazie alla libertà conquistata dal popolo a profitto dei borghesi regna oggi nel commercio e nell’industria, tutti i fabbricanti sono obbligati a vendere i loro prodotti o, piuttosto, i prodotti dei lavoratori che essi impiegano e che sfruttano, al più basso prezzo possibile. Voi lo sapete per esperienza: i prodotti costosi si vedono sempre più esclusi dal mercato e soppiantati dai prodotti a più basso prezzo, malgrado che quest’ultimi siano molto meno buoni dei primi. Ecco dunque una prima conseguenza funesta della concorrenza, di questa lotta intestina della produzione borghese. Essa tende necessariamente a sostituire i prodotti buoni con prodotti mediocri; i lavoratori abili coi lavoratori scadenti, diminuendo nello stesso tempo la qualità dei prodotti e quella dei produttori.
In questa concorrenza, in questa lotta al ribasso, i grandi capitali devono per forza schiacciare i piccoli capitali; i grandi borghesi devono rovinare i piccoli borghesi, perché una grande fabbrica può, naturalmente, confezionare i prodotti e venderli a un prezzo più basso di una fabbrica piccola o media. L’impianto di una grande azienda esige, s’intende, grandi capitali, ma, proporzionatamente a ciò che può produrre rende molto più di un’azienda piccola o media: 100.000 franchi sono più di 10.000 franchi; ma 100.000 franchi impiegati in una fabbrica daranno il 20, il 30 per cento, mentre 10.000 franchi impiegati allo stesso modo non daranno che il 10 per cento. Il grande fabbricante economizza sullo stabile, sulle materie prime, sulle macchine; impiegando più operai del fabbricante medio e piccolo, economizza ancora con una migliore organizzazione e con una maggiore divisione del lavoro. In una parola, con 100.000 franchi concentrati nelle sue mani e impiegati nell’impianto e nell’organizzazione di un’unica fabbrica, produce più di dieci fabbricanti che abbiano impiegato 10.000 franchi ognuno. Per cui se ciascuno di questi realizza sui 10.000 franchi impiegati per esempio 2.000 franchi di utile, il fabbricante che impianta e organizza una grande fabbrica che gli costa 100.000 franchi, guadagna sopra ogni 10.000 franchi, 5.000 o 6.000 franchi, cioè produce proporzionalmente 5 o 6 [volte più] merce. E producendo proporzionalmente molto di più può naturalmente vendere i prodotti a prezzo più basso dei piccoli e medi fabbricanti. Ne consegue che vendendoli a prezzo più basso, obbliga ugualmente i piccoli e medi fabbricanti ad abbassare il loro prezzo senza di che i loro prodotti non sarebbero più comprati. Ma poiché la produzione di questi prodotti costa a quest’ultimi più del grande fabbricante, vendendoli al prezzo del grande fabbricante, si rovinano. E così i grandi capitali uccidono i piccoli capitali e, se i grandi capitali ne incontrano di maggiori, sono a loro volta schiacciati.
Questo è tanto vero che vi è oggi una tendenza visibile ad associarsi per costituire capitali mostruosamente formidabili. Lo sfruttamento del commercio e dell’industria da parte delle società anonime, comincia a soppiantare nei paesi industriali, in Inghilterra, nel Belgio e in Francia, i grandi capitalisti isolati. E, man mano che la civiltà, la ricchezza naturale dei paesi più avanzati si accrescono, la ricchezza dei grandi capitalisti si accresce anche, ma il loro numero diminuisce. Una quantità di borghesi medi si vede ricacciata nella piccola borghesia, e una ancora più grande di piccoli borghesi si vede inesorabilmente spinta nel proletariato, nella miseria.
È un fatto incontestabile, constatato dalla statistica di tutti i paesi e dalla dimostrazione esattamente matematica; nell’organizzazione economica della società attuale, quest’impoverimento graduale della gran massa della borghesia a profitto di un ristretto numero di grossi capitalisti, è una legge inesorabile contro la quale non c’è altro rimedio che la rivoluzione sociale. Se la piccola borghesia avesse abbastanza intelligenza e buon senso per comprenderlo, già da tempo si sarebbe alleata col proletariato per compiere questa rivoluzione. Ma la piccola borghesia è generalmente molto stupida; la sua sciocca vanità e il suo egoismo le chiudono lo spirito. Non vede niente, non comprende niente, e, schiacciata da un lato dalla grande borghesia, minacciata dall’altro da quel proletariato che disprezza altrettanto quanto lo detesta e lo teme, si lascia scioccamente trascinare nell’abisso.
Le conseguenze di questa concorrenza borghese sono disastrose per il proletariato. Forzati a vendere i loro prodotti – o piuttosto i prodotti degli operai che sfruttano – al più basso prezzo possibile, i fabbricanti devono necessariamente pagare agli operai i salari più bassi possibili; e per conseguenza non possono più pagare l’abilità e l’ingegno di quest’ultimi. Devono cercare il lavoro che si vende, che è forzato a vendersi alla tariffa più bassa. Le donne e i fanciulli si accontentano di un salario minore, per cui essi cercano di impiegare donne e fanciulli a preferenza degli uomini, e lavoratori mediocri a preferenza di quelli abili a meno che questi non s’accontentino del salario dei lavoratori scadenti, delle donne e dei ragazzi. È stato provato e riconosciuto da tutti gli economisti borghesi che la misura del salario dell’operaio è sempre determinata dal costo del suo mantenimento giornaliero; così se un operaio potesse alloggiare, vestire e nutrirsi con un franco al giorno, il suo salario scenderebbe ben presto a un franco. E ciò per una ragione molto semplice. Gli operai, spinti dalla fame, sono obbligati a farsi concorrenza fra loro, e il fabbricante impaziente di arricchirsi al più presto con lo sfruttamento del lavoro, e, obbligato d’altro canto, dalla concorrenza borghese, a vendere al prezzo più basso possibile i prodotti, prenderà naturalmente operai che, per il minor salario, gli offriranno il maggior numero di ore di lavoro.
Questa non è soltanto una deduzione logica, è un fatto che giornalmente si verifica in Inghilterra, in Francia, in Belgio, in Germania e nelle parti della Svizzera dove è stabilita la grande industria, l’industria esercitata dalle grandi fabbriche e dai grandi capitali. Nella mia ultima conferenza vi dissi che eravate operai privilegiati. Sebbene siate ancora ben lontani dal percepire integralmente in salario il valore della vostra produzione giornaliera, sebbene siate incontestabilmente sfruttati dai vostri padroni, comparativamente agli operai dei grandi stabilimenti industriali, siete abbastanza ben pagati, avete tempo libero, siete meno legati, state assai meglio. E mi affretto a riconoscere che vi è tanto più merito in voi di essere entrati nell’Internazionale e di essere diventati membri devoti e zelanti di questa immensa associazione del lavoro che deve emancipare i lavoratori del mondo intero; questo è da parte vostra nobile e generoso, perché dimostra che non pensate solo a voi stessi, ma anche a quei milioni di fratelli che sono molto più oppressi e sfortunati di voi: io sono felice di potervi attestare questo merito.
Ma, nello stesso tempo che fate atto di generosa e fraterna solidarietà, lasciatemi dire che fate anche atto di previdenza e di prudenza; agite non solo per i fratelli sfortunati delle altre industrie e degli altri paesi, ma anche, se non per voi stessi, almeno per i vostri figli. Siete, non del tutto, ma relativamente ben retribuiti, liberi, soddisfatti. Ma perché lo siete? Per la semplice ragione che il gran capitale non ha ancora invaso la vostra industria. Ma non crediate che sarà sempre così. Il gran [capitale], per una legge che gli è inerente, è fatalmente spinto a invadere tutto. Ha cominciato naturalmente a sfruttare i rami di commercio e d’industria che ripromettevano maggiori vantaggi, quelli di più facile sfruttamento, e finirà necessariamente, dopo averli sufficientemente sfruttati, e a causa della concorrenza che fa [a se stesso] in tale sfruttamento, per arrivare a quei rami che non ha ancora toccato. Non si fanno ora abiti, scarpe, pizzi a macchina? Credete pure che presto o tardi si faranno con le macchine anche gli orologi. Le molle, gli scappamenti, le scatole, la lucidatura, la decorazione, l’incisione si faranno a macchina. I prodotti non saranno curati, artistici come quelli che escono dalle vostre abili mani, ma costeranno molto meno, e troveranno più compratori dei vostri prodotti perfetti, i quali finiranno per essere esclusi dal mercato. E allora, se non voi, ma i vostri figli si troveranno altrettanto schiavi e miserabili quanto lo sono oggi gli operai dei grandi stabilimenti industriali. Vedete dunque che lavorando per i vostri fratelli, gl’infelici lavoratori delle altre industrie e degli altri paesi, lavorate per voi stessi, o almeno, per i vostri figli.
Voi lavorate per l’umanità. La classe operaia è divenuta oggi l’unica rappresentante della grande, della santa causa dell’umanità. L’avvenire appartiene ai lavoratori; ai lavoratori dei campi, ai lavoratori delle fabbriche e delle città. Tutte le classi che sono al di sopra, eterne sfruttatrici del lavoro delle masse popolari, la nobiltà, il clero, la borghesia, e tutta quella pleiade di funzionari militari e civili che rappresentano l’iniquità e la malefica potenza dello Stato, sono classi corrotte incapaci ormai di comprendere e di volere il bene e potenti solo nel male.
Il clero e la nobiltà sono stati smascherati e battuti nel 1793. La rivoluzione del 1848 ha smascherato la borghesia e ne ha mostrato l’incapacità e la malvagità. Durante le giornate di giugno, nel 1848, la classe borghese ha altamente rinunciato alla religione dei suoi padri; quella religione rivoluzionaria che aveva avuto la libertà, l’uguaglianza e la fraternità per principio e per base. Appena il popolo ebbe presa sul serio l’uguaglianza e la libertà, la borghesia, che non esiste che per lo sfruttamento, vale a dire per l’ineguaglianza economica e per la schiavitù sociale del popolo, si è gettata nella reazione.
Gli stessi traditori che vogliono perdere ancora una volta la Francia, questi Thiers, Jules Favre, e l’immensa maggioranza dell’Assemblea nazionale del 1848, hanno lavorato per il trionfo della reazione più immonda, come vi lavorano ancora oggi. Hanno cominciato col distruggere il suffragio universale e più tardi hanno portato alla presidenza Luigi Bonaparte. Il timore della rivoluzione sociale, l’orrore dell’uguaglianza, il sentimento dei propri delitti e la paura della giustizia popolare, avevano gettato tutta questa classe, in altri tempi intelligente ed eroica e oggi stupida e vile, nelle braccia della dittatura di Napoleone III. Ed essi ne hanno avuto la dittatura militare, per diciotto anni di seguito, e non bisogna credere che i signori borghesi se ne siano trovati troppo male. Quelli che volevano ribellarsi e giocare al liberalismo in modo troppo rumoroso e incomodo per il regime imperiale, sono stati naturalmente scartati, soffocati. Ma tutti gli altri, quelli che lasciando le fisime politiche al popolo, si sono applicati esclusivamente e seriamente al grande affare della borghesia, allo sfruttamento del popolo, sono stati potentemente protetti e incoraggiati: si sono dati loro perfino, per salvare l’onore, tutte le apparenze della libertà. Infatti, non esisteva sotto l’Impero un’Assemblea legislativa regolarmente eletta a suffragio universale? Tutto andò dunque benissimo secondo i desideri della borghesia. E non ci fu che un solo punto nero, l’ambizione conquistatrice del sovrano, che trascinando la Francia in spese rovinose, ha finito coll’annientare l’antica potenza. Ma questo punto nero non era un accidente, era una necessità del sistema. Un regime dispotico, assoluto, quand’anche con le apparenze della libertà, deve necessariamente appoggiarsi su di un esercito potente, e ogni grande esercito permanente rende necessaria, prima o poi, la guerra all’esterno. La gerarchia militare ha difatti per principale aspirazione l’ambizione, ogni tenente vuole diventare colonnello, e ogni colonnello generale, e quanto ai soldati, essi, sistematicamente demoralizzati nelle caserme, sognano i nobili piaceri della guerra: il massacro, il saccheggio, il furto, lo stupro; prova ne sono le prodezze dell’esercito prussiano in Francia. Ebbene, se tutte queste nobili passioni sapientemente e sistematicamente nutrite nel cuore degli ufficiali e dei soldati, restano a lungo senza soddisfazione, inaspriscono l’esercito e lo spingono al malcontento, e dal malcontento alla rivolta. Perciò è necessario fare la guerra. Tutte le spedizioni e le guerre intraprese da Napoleone III non sono stati capricci personali, come pretendono oggi i signori borghesi: sono stati una necessità del sistema imperiale dispotico che [i borghesi] stessi avevano fondato per timore della rivoluzione sociale. Sono le classi privilegiate, è l’alto e basso clero, è la nobiltà decaduta, è infine – e soprattutto – questa rispettabile, onesta e virtuosa borghesia la quale [come] le altre classi e più dello stesso Napoleone III, è causa di tutte le orribili sventure che hanno ora colpito la Francia.
E voi l’avete visto tutti, compagni, che per difendere questa Francia sfortunata non si è trovato in tutto il paese che una sola massa, la massa degli operai delle città, quella precisamente che è [stata] tradita e abbandonata dalla borghesia all’Impero e sacrificata dall’Impero allo sfruttamento borghese. In tutto il paese non vi sono stati che i generosi lavoratori delle fabbriche e delle città a volere la sollevazione popolare per la salvezza della Francia. I lavoratori delle campagne, i contadini demoralizzati e istupiditi dall’educazione religiosa che fu loro impartita dal primo Napoleone ad oggi, hanno preso il partito dei Prussiani e della reazione contro la Francia. Si potevano guadagnare alla rivoluzione: in un opuscolo che molti di voi hanno letto, intitolato Lettere a un Francese, esposi i mezzi che conveniva usare per trascinarli nella Rivoluzione. Ma per farlo occorreva anzitutto che le città si sollevassero e si organizzassero rivoluzionariamente. Gli operai hanno provato, tentando anche in molte città del sud della Francia: a Lione, Marsiglia, Montpellier, Saint-Etienne, Tolosa. Ma dappertutto sono stati compressi e paralizzati dai borghesi radicali in nome della Repubblica. Sì, è nel nome stesso della Repubblica che i borghesi divenuti repubblicani per timore del popolo, è nel nome della Repubblica che Gambetta, il vecchio peccatore Jules Favre, Thiers, la volpe infame, e tutti i Picard, Ferry, Jules Simon, Pelletan e altri, è in nome della Repubblica che hanno assassinato la Repubblica e la Francia.
La borghesia è colpevole. È la classe più ricca e numerosa di Francia – eccettuato s’intende la massa popolare – avrebbe potuto salvare, se avesse voluto, la Francia. Ma per questo avrebbe dovuto sacrificare il suo denaro, la sua vita e appoggiarsi francamente sul proletariato come avevano fatto i suoi avi del 1793. Ebbene, ha voluto sacrificare il denaro meno della vita, e ha preferito che i Prussiani conquistassero la Francia, piuttosto che salvarla con la rivoluzione popolare.
La questione fra gli operai delle città e la borghesia è stata posta nettamente. Gli operai hanno detto: faremo saltare in aria le case piuttosto che abbandonare le città ai Prussiani. I borghesi hanno risposto: apriremo le porte delle città ai Prussiani piuttosto che permettervi di fare disordine pubblico, e vogliamo conservare le nostre preziose case a ogni costo, anche dovessimo baciare il culo ai S[ignori] Prussiani.
E notate che sono oggi gli stessi borghesi che osano insultare la Comune di Parigi, questa nobile Comune che salva l’onore della Francia e, speriamo nello stesso tempo, la libertà del mondo; sono gli stessi borghesi che l’insultano oggi, e in nome di cosa? – in nome del patriottismo!
Veramente, questi borghesi hanno la faccia di bronzo! Sono giunti a un tal grado d’infamia, da perdere fin l’ultimo sentimento di pudore. Ignorano la vergogna. Prima di essere morti sono già completamente marci.
E non è solo in Francia, compagni, che la borghesia è putrida; moralmente e intellettualmente annientata; lo è allo stesso modo in tutta Europa, e in tutti i paesi d’Europa [soltanto il proletariato] ha conservato il fuoco sacro: esso soltanto porta oggi lo stendardo dell’umanità.
Qual è il suo motto, la sua morale, il suo principio? La solidarietà. Tutti per uno e uno per tutti. È il motto e il principio della nostra grande Associazione internazionale, la quale, superando le frontiere degli Stati, e con ciò stesso, distruggendo gli Stati, tende a unire i lavoratori del mondo intero in una sola famiglia umana, sulla base del lavoro ugualmente obbligatorio per tutti, e in nome della libertà di ciascuno e di tutti. Questa solidarietà si chiama, in economia sociale, lavoro e proprietà collettiva, in politica si chiama distruzione degli Stati e libertà di ognuno per la libertà di tutti.
Sì, cari compagni operai, solidalmente coi vostri fratelli lavoratori del mondo intero, ereditate da soli la grande missione dell’emancipazione dell’umanità. Avete tuttavia un coerede, lavoratore anch’esso, sebbene in altre condizioni. È il contadino. Ma il contadino non ha ancora la coscienza della grande missione popolare. È stato avvelenato, è ancora avvelenato dai preti, e serve, contro se stesso, come strumento di reazione. Dovete istruirlo, dove salvarlo suo malgrado, trascinandolo spiegandogli che cos’è la Rivoluzione sociale.
Nel frattempo, e soprattutto agl’inizi, gli operai dell’industria non devono, non possono contare che su se stessi; ma saranno onnipotenti se lo vorranno. Soltanto devono volerlo seriamente, e per realizzare questa volontà non ci sono che due mezzi. Stabilire dapprima nei gruppi, poi fra tutti i gruppi, una vera solidarietà fraterna, non solo di parole, ma anche d’azione, non solo con le feste, i discorsi, i brindisi, ma anche nella vita quotidiana. Ogni membro dell’Internazionale deve poter sentire, deve essere praticamente convinto, che tutti gli altri membri sono suoi fratelli.
L’altro mezzo è l’organizzazione rivoluzionaria, l’organizzazione per l’azione. Se le sollevazioni popolari di Lione, Marsiglia e di altre città della Francia sono fallite, è per mancanza d’organizzazione, e ve ne posso parlare con cognizione di causa, perché ci sono stato e ne ho sofferto. E se la Comune di Parigi s’impone oggi così saldamente, è perché durante l’assedio gli operai si sono seriamente organizzati. Non è senza ragione che i giornali borghesi accusano l’Internazionale di aver prodotto questa magnifica sollevazione di Parigi. Sì, diciamolo con fierezza, sono i nostri fratelli internazionalisti che col loro lavoro perseverante hanno organizzato il popolo di Parigi e resa possibile la Comune di Parigi.
Siamo dunque buoni fratelli, compagni, e organizziamoci. Non credete di essere alla fine della Rivoluzione, siamo solo all’inizio. La Rivoluzione è ormai all’ordine del giorno per molte decine di anni. Essa verrà a trovarci, presto o tardi, prepariamoci dunque, purifichiamoci, diventiamo più reali, meno chiacchieroni, meno chiassosi, meno parolai, meno bevitori, meno buontemponi. Siamo più austeri e prepariamoci degnamente a questa lotta che deve salvare tutti i popoli ed emancipare finalmente l’umanità.
Viva la Rivoluzione sociale! Viva la Comune di Parigi!
[Pubblicato in Michail Bakunin, Opere complete, La guerra franco-tedesca e la rivoluzione sociale in Francia (1870-1871), vol. VII, Roma 1993, pp. 254-281]
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