Titolo originale: Terrorisme ou révolution.
Introduzione a E. Cœurderoy, Pour la révolution, Paris 1972, pp. 9-44.
Tr. it. in R. Vaneigem, W. Woland, Terrorismo o rivoluzione. Teoria radicale, lotta di classe (e terrorismo). Appunti per il bilancio di un’epoca, Torino 1982, pp. 7-47.
Anche in E. Cœurderoy, I giorni dell’esilio, vol. III, tr. it., Trieste 2013, pp. 691-713.
Prima edizione in opuscolo: settembre 2015
Raoul Vaneigem
Terrorismo o rivoluzione
Nota introduttiva
Molto di quello che qui viene recitato con grazia e (non poca) presunzione da Vaneigem è praticamente andato in fumo. Perché allora non assecondare il corso delle vicende umane e mandare anche questo breve testo verso il suo destino? Per due buoni motivi.
Primo, perché rappresenta una testimonianza d’epoca, un attestato delle illusioni di un tempo, le quali, una volta scomparse, si sono portate con sé anche le disponibilità coraggiose, gli impegni (engagements) al di là di ogni limite, l’odore del sangue e perfino le lacrime di pietà. Non so se l’asciuttezza paranoica, quindi bipolare, di ciò che è rimasto sia qualcosa da stringere nelle mani, un tesoro di cui far conto.
Secondo, perché alcune chiarezze, in questo testo presenti, sia pure confinanti con banalità stantie spesso considerate con eccessiva benevolenza, sono perle di consapevolezza oggi introvabili. Se ne potrebbe fare una piccola elencazione che evitiamo a beneficio del lettore.
Suggeriamo la lettura di questo testo cercando di non tenere conto delle contaminazioni storiche. Mettiamo, come se fosse possibile decifrarlo senza tenere conto dell’Internazionale situazionista e dei debiti contratti con Debord. Nel caso in cui, nel corso della lettura, ci si accorgesse dell’impossibilità di mantenere fede a questo impegno preventivo, suggeriamo di buttare via il libro.
Con buona pace delle lodevoli intenzioni dell’editore.
Trieste, 22 giugno 2014
Alfredo M. Bonanno
Terrorismo o rivoluzione
La linea di demarcazione
Ecco la fine degli alibi. E che significhi subito la fine di tutti coloro che alimentano la menzogna e il dubbio sul progetto rivoluzionario. Già una volta, nel maggio 1968, l’occasione accordata dalla storia alla soggettività individuale ha tracciato con nettezza la linea di demarcazione tra i riformisti della sopravvivenza e gli insorti dalla volontà di vivere. Ma il riflusso del movimento di emancipazione globale ha incoraggiato il ritorno in forze degli ideologi e dei loro pedanti parassiti, economisti, sociologi, analisti politici, artisti, specialisti del tutto su niente, promossi, dallo stato di cose, al ruolo di burocrati del potere in via di cibernetizzazione. Lungi dal cancellare la frontiera del maggio, la nuova struttura, in cui lo spettacolo si ricompone recuperando ciò che per poco non lo distruggeva, scava ancor più il fossato.
In un contesto storico altro e fondamentalmente identico, la lotta di classe riprende i contorni senza l’ambiguità che ha conosciuto alla vigilia delle grandi sommosse. La lotta contro il “milione dorato” alla quale chiamava Gracchus Babeuf rinasce, colpita da una nuova svalutazione ma con una rabbia antica, nel confronto che pone contro i partigiani della sopravvivenza, contro il “milione imputridito” del partito della disgregazione, i partigiani della vita da ri-appassionare, il “partito” del superamento.
La questione sociale ha cessato di porsi in termini di ripartizione dell’avere. Appare ora come ciò che è sempre stata in realtà, una costruzione dell’essere concreto, una emancipazione non del cittadino ma dell’individuo sociale. Generalizzandosi sotto la pressione delle sue proprie esigenze, l’imperialismo della merce semplifica la scelta. Il sistema dominante traccia, con umorismo da becchino, sulla pelle di ciascuno la linea punteggiata seguendo la quale le istruzioni per l’uso prescrivono di tagliare. Bisogna o arruolarsi tutti interi nella sua impresa e morire per lui, o accettare le mutilazioni e sopravvivere (è certo la cosa più difficile) o affondarlo per fondare l’armonia sociale.
Le giornate del ’68 hanno mostrato con molta evidenza che la complessità del reale si condensa a poco a poco nella semplicità dei gesti; come, nello stesso momento, la verità per farsi sentire ha bisogno della voce dei pavé. E l’effetto non se n’è attenuato: mentre la coscienza del rifiuto della sopravvivenza progredisce in modo discontinuo, con le sue precipitazioni e regressioni, si introduce nel cameo dei mercanti di immagini, di tempo libero, di lavoro e di saponette una forma di fatalità, una buona coscienza di essere oggetto che ricava, dall’immediatezza del profitto, dalla sottomissione assoluta alla logica mercantile, dal susseguirsi rapido degli affari, dal cinismo dei ruoli, un nuovo identikit della felicità. Forse che l’urbanista e l’imprenditore edile – nella sua pelle di capro espiatorio – non perseguono in negativo e all’estremo opposto lo stesso piacere di chi sabota la fabbrica nel momento in cui radono al suolo vecchi quartieri, espellono gli abitanti e si assumono il rischio calcolato di finire sulle forche di cemento che costruiscono alle spese di ricchi masochisti? La loro scelta è fatta, andranno fino in fondo, lasciando la cattiva coscienza ai giovani Turchi della contestazione, che giocano il rosso o il nero alla roulette della promozione e della riuscita spettacolare.
In tal modo si unifica contraddittoriamente una borghesia legata con tutta la sua pratica all’organizzazione della sopravvivenza. Mentre dall’altra parte il proletariato aggrega chiunque si trovi coinvolto, senza potere reale di controllo, in un sistema di scambio senza fine, dove tutto è organizzato per strapparlo a lui stesso e perderlo, dove il tempo e la forza della vita si cambiano in tempo e forza di lavoro; il tempo e la forza di lavoro in salario, il salario in oggetti di rappresentazione, in rappresentazione di oggetti e, accessoriamente, in beni di sussistenza; le immagini e i beni consumabili in ruoli; e il tutto in sopravvivenza in un movimento che tende – senza arrivarci mai e senza che il proletariato possa arrivarci anche qualora lo volesse – ad estendere la sopravvivenza all’insieme dell’esistenza.
Nel movimento di accumulazione della merce in tutte le sue forme, lo spettacolo costituisce il momento congelato (e tuttavia sensibile ai cambiamenti) della rappresentazione alienante, e lo Stato, la forma organizzativa dell’autoregolazione che interviene ad ogni stadio contraddittorio dello sviluppo. L’evoluzione del sistema spettacolare-mercantile verso la sua fase totalitaria ed ultima, lascia apparire, inseparabilmente e tendenzialmente, la riduzione della cultura allo spettacolo, la riduzione dello Stato nazionale a un potere gerarchizzato tecnocratico-poliziesco (con possibilità di autonomie regionali e di federazioni internazionali), la riduzione del capitalismo di Stato e privato all’accumulazione della merce socializzata come valore di scambio simultaneamente concreto (prodotto) e astratto (spettacolo).
(La religione ha subito per prima un tipo identico di riduzione. Negata come mito o rappresentazione sacra del mondo rovesciato, essa si è conservata come frammento spettacolare e come anima dannata dello spettacolo, come modello di ogni alienazione).
L’insieme fonda la società spettacolare-mercantile o società della sopravvivenza. Sotto qualsiasi opzione politica si collochino, le opposizioni arcaiche che reclamano il ritorno alla cultura autonoma pura, al capitalismo antitecnocratico, allo Stato nazionale, non rischiano affatto di frenare durevolmente il processo. D’altro lato, non c’è nulla di più urgente per chi prepara nel rifiuto della sopravvivenza l’autogestione generalizzata, di intervenire senza esitazioni né riserve contro un sistema che non si distrugge da solo se non distruggendoci allo stesso tempo. Il “partito” del superamento non avrà altra origine che non sia una tale lotta, efficace e rapida.
Il deperimento e il rinforzamento simultaneo caratterizzano il processo spettacolare-mercantile. A mano a mano che si estende alla quasi totalità delle manifestazioni della vita, il sistema precipita il suo sprofondamento. L’accumulazione forsennata di alienazioni l’allontana sempre più dalla pratica umana senza la quale non può continuare ad esistere. Divenendo il suo proprio oggetto di contemplazione, si disfa facendo eguali, in un ultimo scambio, la sua somma e il niente. Questo grado di nichilismo obiettivo suppone senza dubbio più umanità in una termite che negli ultimi uomini.
Ma la sua scomparsa può fortunatamente avvenire in un altro modo. Il totalitarismo spettacolare-mercantile ha già subito l’assalto della parte di vita inalienabile, della soggettività irriducibile, dei gesti individuali non recuperabili dalla sopravvivenza. Per quanto rapidamente interrotta dall’intervento stalinista, l’esperienza del maggio 1968 ha permesso al proletariato di cogliersi nella sua coscienza di classe. Se non è deciso a liquidare il potere della merce e a sostituirgli il potere assoluto dell’autogestione generalizzata, il proletariato, privato, in nome della garanzia della sopravvivenza, di ogni possibilità di trasformare la vita quotidiana e le sue condizioni, non ha nessun altro avvenire che una proletarizzazione che gli farà rimpiangere il suo passato più scuro.
Classe di servitori del sistema, di padroni-schiavi, di organizzatori della sopravvivenza, la borghesia porta in sé l’inumanità tutta intera come il proletariato porta in sé il progetto dell’uomo totale. Sia che imputridisca sul filo della logica mercantile sia che raggiunga la sua fine nella fine della società delle classi, essa ha, soprattutto per i rivoluzionari, l’importanza che il conquistatore – coi suoi arsenali, le sue misure, tattiche e strategiche, i suoi effettivi, le sue armi di persuasione e di dissuasione, i suoi depositi – ha per il franco-tiratore.
La proletarizzazione la rode. La borghesia ricca e dirigente dei tecnocrati, dei leader sindacali, degli uomini politici, dei vescovi, dei generali, dei capo-poliziotti, entra in conflitto con la borghesia povera e sfruttata dei capi servizio, dei poliziotti subalterni, dei piccoli commercianti, dei sacerdoti più poveri, dei quadri. Sarebbe una visione rallegrante se non fosse che questo bel mondo sifilitico secerne una potenza ideologica tanto più adatta a mascherarne il deperimento quanto più tende a propagarsi come volontà di morte collettiva.
Con un movimento inverso, la frazione passiva del proletariato ne subisce gli effetti; essa partecipa, in una vera ideologia proletaria, alla disgregazione del vecchio mondo, con le sue varietà di contestazione e di anticontestazione, se è vero come è vero che la contestazione è la coscienza attiva della disgregazione e che essa definisce per negativo relativamente a sé tutto ciò che entra in deperimento.
Il risultato dello scontro che verrà dipende dal potere offensivo e difensivo dell’ala rivoluzionaria del proletariato. Da coloro che hanno non solo la coscienza, ma anche il potere di intervenire: gli operai delle officine di produzione, delle officine di distribuzione, dei centri agricoli. Costoro hanno tra le mani le radici del mondo rovesciato, costoro possono distruggere la merce. Da scudi che ricevono tutti i colpi e che servono dopo la battaglia da trofeo per i nuovi capi, essi diventeranno l’arma assoluta dell’autogestione generalizzata.
Gli ultimi giorni della cultura
Non esiste anti-cultura, né contro-cultura, né tanto meno cultura parallela o sotterranea. Sotto queste distinzioni da sociologo si opera, sottomessa ad uno sviluppo contraddittorio, la riduzione progressiva della cultura allo spettacolo, ad uno spettacolo che trasforma in ideologia tascabile le immagini del non vissuto, e le riunisce in uno spazio-tempo dove la merce è non solo prodotta, distribuita e consumata, ma anche generalizzata come necessità, caso, libertà, durata, rappresentazione; come somma delle categorie del vissuto ridotto alla sopravvivenza.
In tali condizioni cosa significa la riedizione di Ernest Cœurderoy?
Sul mercato della cultura, il libro è prima di tutto un valore di scambio. Si vende e si compra come un condizionatore d’aria o un organo elettrico. In questo caso la merce risponde alla domanda presunta di una nuova clientela, i contestatori, disposti a pavoneggiarsi col loro Cœurderoy sotto il braccio con la stessa risolutezza della domestica del XVI arrondissement con l’ultimo Montherlant. E poiché l’uso dell’intelligenza testimonia più imbecillità a sinistra che l’uso della stupidità a destra, le leggi del profitto si applicano ovunque con una bella uniformità.
D’altra parte la cultura è anche un dominio che l’esplosione del mito, alla fine dei regimi unitari, condanna ad una autonomia mortale. Più la cultura si separa come attività specifica, dall’insieme della pratica sociale, anch’essa spezzettata, più tende a scomparire in quanto tale.
Aspirata e lentamente digerita dall’organizzazione dell’apparenza, essa obbedisce alla legge del rinnovamento permanente. Costretta a trarre dalle moderne ideologie e dal suo proprio fondo storico un’abbondanza di prodotti che confermino illusoriamente la sua sopravvivenza come sfera autonoma e che rispondano alle sollecitazioni imperative dello spettacolo in espansione, la cultura sparisce culturalizzando il mondo delle rappresentazioni separate. Il suo museo di oggetti mummificati e di zombi scimmiotta il vivente accrescendo, grazie ad un’incessante archeologia del passato e del presente, il numero di tracce del vissuto; arricchisce così la galleria degli stereotipi proposti a tutti dalla fiera dei ruoli.
Dopo essere stata il rifugio della gratuità e, all’epoca romantica, il tempio proibito ai mercanti, la cultura ha ceduto alla logica del sistema economico-sociale dominante. Entra come derrata di lusso a portata di tutti nell’economia, mentre lo spettacolo, assorbendola, conferisce ai miraggi della realizzazione soggettiva l’etichetta dell’intellettualità. Il processo della merce la costituisce così, con un movimento di rafforzamento e di deperimento insieme, in un luogo organizzativo dove lo spettacolo si struttura identificando la sua essenza astratta e la sua realtà concreta.
Con le sue grandi arie di passato, la cultura porta al mondo spettacolare la illusione di una dimensione storica. Al modello di organizzazione che essa gli offriva nella disfatta delle grandi ideologie, secondo la tradizione del mito e secondo lo spirito delle religioni, la cultura aggiunge in premio la sua natura di fenomeno storico, fondando per la dilettazione morbosa degli stercofagi strutturalisti una struttura spazio-temporale, un inesauribile liquame da studio in cui si muovono i lombrichi della sincronia e della diacronia.
E la cultura è anche il pensiero dello spettacolo, la sua intelligenza separata. Più essa funziona nello spettacolo e grazie allo spettacolo, più si gonfia di conoscenze parziali. Più si allontana dalla vita, più ne subisce l’attrazione astratta, più ne parla con le parole cosiddette di “tutti i giorni”, tanto ha l’abitudine di girare a vuoto. Già preoccupati di gloria o di posterità, gli artisti, i pensatori, gli imbonitori piacevoli dell’inutile, si iscrivono oggi come lavoratori qualificati nelle fabbriche del linguaggio, dove le parole di successo li pagano in gettoni di prestigio, in moneta del padrone. E più il linguaggio si arricchisce riempito di una grande quantità di importanza nulla, meglio il potere paga.
La cultura entra nei meccanismi autoregolatori del potere. L’incitamento al sopraconsumo di immagini e di cognizioni risponde alla necessità di equilibrare la sopraproduzione degli atteggiamenti ideologici, delle menzogne sul quotidiano imposte dalla società dominante (prestigio, onorabilità, e loro contrari). Poco importa che le cognizioni abbiano a che fare con la fantasia o facciano parte delle scienze dette esatte, dato che la discussione che suscitano non ha altro scopo che di appassionare a vuoto.
Il deperimento e il rafforzamento insieme della cultura nello spettacolo seguono il medesimo movimento dello spettacolo che deperisce e si rafforza a mano a mano che la vita deperisce e si conferma sopravvivenza. La decomposizione generale assume la sua fatalità dalla sopravvivenza e dalle sue condizioni storiche, dalla sua conferma come durata, alla quale tende a ridursi ogni temporalità nella prospettiva del potere. Ma là si trova anche il suo punto debole, il punto dove si concentrano contraddittoriamente tutte le forze del rifiuto, tutte le esigenze della volontà di vivere. Il rinnovamento accelerato dello spettacolo dissimula la miseria accelerando il ritmo delle povertà; e soprattutto, spinto dall’esigenza modernista, perfeziona le tecniche di espansione e di diffusione, migliora tutto l’equipaggiamento materiale della menzogna e del condizionamento. Crea così una zona propizia al sabotaggio e al “distornamento”, all’azione sovversiva diretta del “partito” del superamento.
La cultura di oggi riunisce in un fascio, in una confusione dove i valori si sommano per raggiungere lo zero, Platone e i discorsi di Nixon, Monsu Desiderio e l’ultimo disco di Sheila, il mistero delle cattedrali e la menopausa della regina dei Belgi, Paisiello e le informazioni del “Corriere di Bukavu”, la genetica e l’impero azteco, Burbaki e lo strangolatore di Boston, gli effetti della pillola e lo scaglionamento delle ferie annuali e il Manuale di fornicazione familiare.
I testi di Cœurderoy non sfuggono certo a questo susseguirsi di scoperte, di informazioni, di immagini, di concatenamenti retorici, che mette sempre più gli uomini in grado di indottrinare e di essere indottrinati senza che la loro persona sia impegnata in ciò che concerne veramente. Colto nella prospettiva del potere e di conseguenza nella sua forma disincarnata, Cœurderoy corre il rischio del recupero, né più né meno di Sade.
Tuttavia la prospettiva del potere non fornisce che il puerile rovescio delle cose. La cultura come sfera separata testimonia della separazione, ma anche contro di essa. Nata dalla vita quotidiana e dalla sua creatività, l’opera culturale non si lascia ridurre puramente e semplicemente a spettacolo senza mettere in evidenza, contraddittoriamente, la pratica umana che l’ha ispirata. Costretta all’annientamento, essa rivela la parte di creatività non recuperata, libera le forze di realizzazione soggettiva momentaneamente bloccate nella trincea culturale.
Prima di sparire, la cultura svela la tradizione di ciò che la nega radicalmente, la linea di volontà di vita che l’impossibile realizzazione storica ha momentaneamente sviato verso il suo cimitero di catalettici. Tutto avviene ora come se lo spettacolo, prosciugando a poco a poco il lago della cultura passata, lasciasse emergere delle città dimenticate, delle costruzioni che la rifrazione dell’acqua faceva vedere differentemente, dei segni pronti a riprendere vita oggi, al primo shock.
Ora, l’importanza della materia culturale riportata a nuova luce – che si tratti di Don Deschamps, di Rathgeber, di una tela di Altdorfer o di una stele babilonese – deriva soprattutto dalla coincidenza non fortuita tra la resurrezione del vissuto momentaneamente pietrificato e il movimento di liberazione della creatività individuale, che è al centro del progetto rivoluzionario.
Così come il linguaggio del potere non riesce a soppiantare la poesia e come la vita non si risolve completamente in sopravvivenza, il sistema mercantile non riesce a trasformare in pura merce la creazione culturale. Lo scacco segna simultaneamente il luogo del rovesciamento di prospettiva, il punto del reinvestimento globale della creatività uscita dal passato nel progetto di autogestione generalizzata.
Il dadaismo e il surrealismo hanno commesso l’errore di non associare la liberazione della poesia vissuta e la rivoluzione della vita quotidiana. Non appena si mette in causa come separazione, l’opera letteraria, artistica o filosofica, tenta di perseguirsi in quanto teoria radicale; ma ricade nella ideologia se esita lungo la strada, se non sviluppa, in una prospettiva di lotta collettiva, l’espressione della volontà di vivere che la sottende.
Dada aveva ben capito che la creatività, differita nell’opera culturale, merita di riprendere il suo movimento, la sua radicalità, di ritornare alla vita quotidiana per realizzarsi in essa imprimendole il potere della soggettività. Ma ha trascurato le lezioni della creatività selvaggia: la tigre che Dada non ha opportunamente offerto alla storia, la storia l’ha rimpiazzata col bue bolscevico.
Il surrealismo prende il cambio dall’ideologia dadaista. Mantiene l’illusione di una cultura al servizio della vita; una cultura imbottita, fino alla mutazione o all’intossicazione, di ciò che essa ha sempre mal tollerato, Sade, Lautréamont, Fourier, le grida della follia e dell’innocenza oppressa. Ma, per l’appunto, la cultura ha bisogno di vaccini, di colpi di frusta, di brodi di vita vera.
Dopo Dada, la menzogna consiste nel parlare di cultura senza dire spettacolo e nel passare sotto silenzio il progetto di realizzazione dell’arte e della filosofia. Il surrealismo è stato l’ultima coerenza di questa menzogna. Ha ben meritato i suoi galloni nel voyeurismo moderno. Non ha forse combattuto per la sovrabbondanza delle immagini, per il libero accesso a questo “tutto è permesso” da supermercato dove evidentemente niente è vero?
Sotto la sua bella incoscienza lirica il surrealismo, ultimo atto dell’ultima arte e dell’ultima filosofia possibile al di fuori dell’autoparodia, ha soprattutto contribuito a rianimare la fiera delle apparenze, a rinnovare lo stock delle rappresentazioni.
La maledizione dell’errore iniziale ha voluto che si consumassero, nella contraddizione drammaticamente vissuta tra volontà rivoluzionaria e ideologia culturale, quegli uomini del superamento che erano Artaud, Péret, Breton e qualche altro, mentre il “surrealismo vero”, quello della disgregazione, non conosceva miglior portavoce di Aragon-la-Rimbambita, dello sbirro Eluard-di-Praga e dell’ano del papa, Dalì-di-Carabanchel y Cordobes.
Grazie al surrealismo, tutte le immagini hanno libero corso, dal termometro a forma di cazzo al capo di Stato a forma di figa; proibirli fa parte del gioco della valorizzazione, anche un poliziotto intelligente lo capisce.
Tra il clan dei masturbatori ed il clan di coloro che non hanno niente da masturbare le scommesse sono permanenti. Ma il partito della vita che cazzo c’entra con tutto ciò?
Al sistema di morte che ci domina si oppone il partito preso dell’emancipazione totale, del superamento, dell’armonia sociale, dell’autogestione generalizzata. Alla cultura non resta che sparire in una di queste due soluzioni: o ridursi allo spettacolo come frammento pseudo-autonomo rinnovato e immediatamente assorbito, o negarsi realizzandosi nel potere assoluto del vissuto.
Nel momento in cui riscopre la sua origine, la creazione spirituale raggiunge anche la sua fine come attività separata. Coloro che si sforzano di afferrarla alle radici della vita multidimensionale non possono distinguersi da coloro che si apprestano a distornare la storia per realizzare l’immaginario. Realizzare l’arte e la filosofia appartiene al progetto di autogestione generalizzata altrettanto sicuramente quanto l’attività artistica o filosofica dipende dalla partecipazione burocratica al sistema spettacolare-mercantile. La creatività non ha più alibi.
Ancora prima che il feticismo della merce si sia esteso a tutti gli aspetti della vita, la coscienza sensibile dei pericoli che minacciavano l’individuo e la preoccupazione di mettervi riparo per mezzo di una ricerca teorica e pratica di una vera armonia sociale si manifestano in gradi diversi di alta violenza in Sade, Blake, Fourier, Marx, Hölderlin, Cœurderoy, Dejacque, Lautréamont, Libertad, Machno, Ravachol, Stirner, Bakunin, Bonnot, Pouget, Durruti. Quali circostanze storiche, individuali e collettive incitano all’espressione profetica e all’analisi critica? Qual è l’unità profonda tra Hyperion e l’illegalismo? Come Cœurderoy e Lautréamont annunciano la Comune quali poeti obiettivi? Ecco le domande che un qualunque studente abbastanza dotato per bruciare l’università, edificio e ideologia, risolverebbe facilmente dopo aver usato bene il petrolio e la sua critica. Esse non hanno interesse che tra due colpi di mano contro la merce.
Stato nichilista e nichilismo antistatale
Fondata sul sistema dello scambio assoluto, la società della sopravvivenza trascina verso il ciclo infernale dell’interscambiabilità i valori e i princìpi comunemente ammessi e singolarmente trasgrediti. Il vortice spettacolare riunisce, nella rotazione irregolarmente accelerata di un’acqua sporca verso il buco dello scarico, l’insieme degli atteggiamenti esaltati, disapprovati, incoraggiati, permessi, condannati, giudicati.
Il sistema mercantile produce l’obiettività del vuoto con un movimento di sviluppo che aspira ogni umanità a profitto della sua astrazione concreta e oppressiva. Un tempo dormivamo per un padrone, oramai sopravviviamo per una entità, per un fantasma. Ciò che pesa su di noi non è più il capitale ma la logica della merce, non è più il potere di un uomo o di una classe cosciente della sua superiorità e della sua supremazia, e neppure di una casta cinica, ma la macchina dirigente i cui dirigenti, come l’ufficiale della Colonia penale di Kafka, non sono che miserevoli ingranaggi condannati alla ruggine dell’infarto e dell’indementimento precoce.
Centro nervoso e muscolare dell’organizzazione spettacolare-mercantile, ragione e braccio secolare del totalitarismo di scambio, lo Stato si riconverte, per deperimento e rinforzo, in un potere cibernetizzato, in una autoregolazione dello sregolamento generale, in una legalità in sé di ciò che non ha più leggi. A mano a mano la sua zona di diffusione raggiunge ovunque e da dovunque gli uomini per trasformarli in cittadini a parte intera (nel senso di eunuchi onnipotenti), il suo potere si sottomette agli imperativi della accumulazione, della riproduzione e della socializzazione della merce.
La cittadinanza si identifica col diritto di partecipare di forza allo spettacolo, mentre lo spettacolo traduce in varietà di nichilismo la promozione di tutti gli esseri e di tutte le cose ridotte allo stato di merce. È questo doppio sentimento di frustrazione, come essere umano e come cittadino-spettatore-produttore-consumatore del vuoto invadente che, nel maggio del ’68, ha scatenato una prima reazione a catena in cui l’energia soggettiva liberandosi ha scosso tutti gli strati della popolazione francese. In un lampo, l’immensa speranza del rovesciamento del mondo rovesciato ha illuminato, non fosse altro che per il tempo di domandarsi: e se fosse possibile? – perfino le coscienze più ottenebrate.
L’astio e il rancore che continuano a nutrire oggi la repressione, l’esorcismo, la rimozione di ciò che si vorrebbe far passare per un momento di follia poiché denunciava la follia dominante, mostrano più che mai con quale violenza la passione distrutta si trasforma in passione di distruggere.
Una prima volta, il ritorno della rivoluzione sociale ha colto il vecchio mondo nel collimatore. La grande paura del milione imputridito ha costellato di escrementi emozionali le sue frontiere di classe. Anche se è risaputo negli uffici e nelle fabbriche che i capi puzzano, è bene che si sappia oramai che non hanno che l’odore del sistema mercantile che proteggono. E ovunque ci sono capi, puoi sentire l’odore di Stato e di potere gerarchizzato che ne è l’essenza.
Il Maggio ’68 ha rivelato ai più ciechi ciò che la confusione ideologica cercava di dissimulare, la lotta reale tra il “partito” della disgregazione e il “partito” del superamento globale. Poi, il riflusso del movimento rivoluzionario che portava in sé la realizzazione collettiva dei desideri individuali, ha respinto verso lo spettacolare il ricordo dell’autenticità, vissuta senza consequenzialità.
Senza dubbio la festa interrotta ha brutalmente rinviato a tutte le angosce, a tutti i fantasmi della stasi; ma l’insoddisfazione generale porta il marchio del colpo che quasi la vuotava come un ascesso. La società spettacolare-mercantile ha recuperato in una dicotomia nuova una grande parte delle forze radicalmente rivolte contro di essa. Le ideologie tascabili si sono raggruppate attorno ad una distinzione bipolare, ad un antagonismo tra il sinistrismo che porta e falsifica la speranza in una rivoluzione globale, e il destrismo, che vi si oppone con tutta l’energia della rinuncia tormentata o accettata.
L’illusione di un possibile scontro ha la realtà alienante di uno scontro di illusioni. Lo spettacolo mette così in scena, nel modo di una commedia drammatica, la contraddizione maggiore del “partito” della sopravvivenza: e nasconde in una sinistra ideologica l’ostilità antispettacolare del “partito” della vita, e il progetto di autogestione generalizzata. La realtà insurrezionale del Maggio scompare sotto la menzogna ed entra nella prospettiva del potere, ma la buffoneria gauchiste gli fa da così squallido travestimento che lo spazio-tempo momentaneamente perduto appare ancora di più come un vuoto che niente può colmare, se non la rivoluzione.
Poiché la rivoluzione non esiste per il potere al di fuori dello spettacolo, il destrismo ed il sinistrismo esprimono nel linguaggio dominante il recupero necessario del conflitto reale. Del resto, se il “partito” del superamento tarda a manifestarsi con efficacia, niente si opporrà allo scatenamento di una guerra civile grottesca e sanguinosa nella maniera melodrammatica del fascismo e dell’antifascismo.
I protagonisti lucidano i loro ruoli. Il coro di destra canta l’ordine, lo Stato, la gerarchia, la merce. Un coro che va, non senza conflitti, dai contralti ai bassi: neofascismo, conservatorismo, stalinismo, socialdemocraticismo, sindacalismo, trotzkismo. Nel coro della sinistra si vocifera fino a sfiatarsi, il contestazionismo ha ereditato i frammenti dell’anarchismo e di un pugno di rivendicazioni parziali portate all’assoluto (libertà delle donne, degli omosessuali, dei bambini, dei koala), il gruppismo, l’antigruppismo, l’individualismo, lo spontaneismo, il consiliarismo vocalizzano in critica critica mentre il situazionismo, solo in un angolo, dà il tono e fa finta di colpire tutto ciò che passa alla sua portata.
Tutto questo vecchio mondo in bellezza non ha mai perduto niente delle sue fratture, delle sue divergenze e dei suoi rancori; ma la pressione clandestina della coscienza selvaggia e della sua pratica impone allo spettacolo una divisione di tipo manicheo, dove sinistrismo e destrismo si spalleggiano e si gonfiano mutualmente di questo vuoto di cui provano un comune orrore. Il nichilismo non fa che accrescersene maggiormente.
Per imbecille che sia, l’ideologia gauchiste, proprio perché imbecille, conserva la traccia della teoria radicale. Recupero in briciole della teoria globale principalmente elaborata dai situazionisti, il gauchisme ha conservato a modo suo il ricordo della teoria radicale che esso falsifica. La contestazione portata dappertutto e presa per unità, e il suo rifiuto ideologico di ogni ideologia per radicalità.
Ogni contestazione entra nei meccanismi di autoregolazione che caratterizzano l’imperialismo della merce, ma nello stesso tempo accelera il deperimento del sistema, e il deperimento generalizza la contestazione. Dove misurare più semplicemente l’efficacia della contestazione come elemento di deperimento se non al centro di gravità del sistema spettacolare-mercantile, nello Stato? Gli scioperi di magistrati, funzionari, poliziotti, non sono che degli epifenomeni divertenti. Ciò che colpisce realmente lo Stato e che esso ripercuote ovunque in quanto organo di mediazione, di repressione e di seduzione, è l’indebolimento tendenziale del potere. È così che la spinta di nichilismo, suscitata dallo sviluppo del sistema mercantile, si impadronisce dello Stato ed è così che lo Stato la diffonde, volente o nolente. Come si presenta l’interazione tra diminuzione tendenziale del potere, antagonismo spettacolare e Stato in via di cibernetizzazione?
La domanda non ha senso al di fuori dell’interesse passionale che la sottende e che bisogna ricordare brevemente. Dai primi anni del 1960 era chiaro che il malessere nella società veniva dalla degradazione del clima passionale. Non solo la restrizione dello spazio-tempo della vita quotidiana condannava al ripetitivo e allo scorrimento lineare, ma i ruoli, sostituti di realizzazione autentica, cadevano nella devalorizzazione generale. L’apparenza di passione scompariva. Era prevedibile allora che l’accumulazione di valori di scambio senza valore passionale avrebbe portato con sé un uso passionale vuoto, un gusto del nichilismo che sarebbe andato dall’assassinio immotivato alla difesa assurda dei valori defunti, e che solo il progetto rivoluzionario avrebbe potuto riportare alla positività. La disposizione in destrismo e sinistrismo (gauchisme) organizza e raggruppa le pulsioni nichiliste, e rimette la politica in pista dandole una nuova spinta passionale. Una tale gratuità non fa che accrescere l’importanza del ludico. Più l’indebolimento tendenziale del potere si accentua, più il destrismo reclama il ritorno a uno Stato forte, con dimostrazioni di xenofobia, nazionalismo, mediocratismo. Il suo intervento frena la riduzione dello Stato a potere cibernetizzato, a profitto della sua funzione poliziesca e nazionale; intralcia il dinamismo del sistema mercantile ma non in modo durevole, come dimostra la lotta tra vecchio franchismo e tecnocrazia spagnola. Se, per difetto di regolazione, pressione delle ideologie all’opposizione, azioni rivoluzionarie locali, la cibernetizzazione rallenta, la diminuzione tendenziale del potere subisce una battuta d’arresto. L’ala estrema del destrismo dà nella lotta concorrenziale per il rinforzo dello Stato, il tono ai riformisti statali (liberali, stalinisti, socialisti, trotzkisti e ai loro apparati di partito, sindacati, organizzazioni, consigli economici); il sinistrismo si rinforza a misura che la contestazione risponde al ristabilimento del potere, recupera l’opposizione reale, e tende a prendere in prestito dal situazionismo la sua ideologia del superamento, della creatività, della immediatezza, alla quale non può offrire, nella violenza vissuta dell’astrazione e nella coscienza concreta del vuoto, che una pratica del gioco terrorista.
Se, al contrario, la cibernetizzazione progredisce, ravviva nel destrismo l’opposizione dell’estrema destra e conferma il potere dei tecnocrati. La diminuzione di autorità disinnesca la violenza gauchiste a profitto di una ideologia che domanda al situazionismo la sua apparenza unitaria e la sua ideologia anti-ideologica, e nutre di un riformismo della vita quotidiana, delle sue esperienze comunitarie, la “umanizzazione” del sistema mercantile.
L’irregolarità del processo mercantile fa sì che tali tendenze si affermino oggi simultaneamente senza raggiungere uno stadio parossistico. Tuttavia, al di fuori della prospettiva rivoluzionaria, l’unica via è quella del terrorismo. Se ha il sopravvento l’antagonismo ideologico tra destrismo e sinistrismo la guerra civile è inevitabile. Se al contrario l’autoregolazione dello Stato interviene, se l’antagonismo imputridisce, eccoci rimandati ai problemi insolubili della sopravvivenza e della noia, alla passione di distruggere. In un caso e nell’altro vince il nichilismo.
Apparentemente lo Stato ha buon gioco eccitando i Cosacchi del nichilismo per calmarli immediatamente con lo spettro della guerra civile e con una repressione ripartita tra una parte e l’altra, anche se nelle tradizioni della giustizia di classe. Esso tenta di apparire come il conciliatore sociale, e proprio in questo senso tutti i programmi dei partiti e dei gruppi politici precisano il suo divenire ideale. Ma basta una leggera regressione, un grano di sabbia nel reticolo, perché scoppi la crisi, o meglio perché essa riveli la sua realtà immediata. Se il capitalismo è soggetto a crisi, il sistema spettacolare-mercantile, lui, non rischia nulla da questo lato, per la semplice ragione che è uno stato di crisi permanente, è l’autoregolazione dello sgretolamento provocato dall’accumulazione e dalla socializzazione della merce; immagine della crisi che ha trovato “soluzione” nel mondo invertito dello spettacolo, esso riassorbe in un tempo ridotto alla durata – a un tempo misurato e che gli è misurato – la crisi sempre più profonda della volontà di vivere.
Al minimo pretesto – recessione economica, brutalità poliziesca, sommossa di football, regolamento di conti... – la violenza sociale riprenderà il suo corso. Non è forse il momento di compenetrarsi bene della teoria radicale, di comportarsi da moderati lavorando al progresso della rivoluzione internazionale? Poiché se il partito del superamento non riesce a liquidare le condizioni della sopravvivenza, è l’autodistruzione di tutti. Se i Cosacchi sono sguinzagliati, se i mercenari e i desperado del nichilismo si mettono in marcia, non finiremo mai di ridere nel sangue.
Non c’è ritorno indietro. Se la società della sopravvivenza ha giurato di paralizzarci a poco a poco, tanto varrebbe evitare di crepare lentamente nelle fogne della solitudine, tra la noia e l’inquinamento; tanto varrebbe precipitare allegramente il corso delle cose della morte degli esseri reificati.
Se la morsa si stringe, molti preferiranno morire prendendo il piacere di trascinare con sé, con bombe, machete o mortaio, tutto ciò che viene dal regno della sopravvivenza, giudici, preti, sbirri, capi immediati, padroni. Ecco le condizioni che Cœurderoy, Maldoror, gli Sciti di Blok e Artaud invocavano dal fondo della soggettività oppressa. Esse attendono nella strada, dove i giornali redistribuiscono la criminalità, passano i fatti diversi al setaccio che li porta sul conto del destrismo o del gauchisme, precisano i ruoli nutrendoli secondo gli stereotipi della collera e della indignazione.
Anime belle del linguaggio dominante, siete voi che incitate all’assassinio, all’odio, al saccheggio, alla guerra civile. Nell’ombra dello spettacolo crudele e ridicolo sorge la guerra antica dei poveri contro i ricchi, che oggi è, mascherata e falsificata dalla rifrazione ideologica, la guerra dei poveri che vogliono restarlo e dei poveri che vogliono smettere di esserlo.
Se la storia dovesse tardare a pronunciare, dalla viva voce dei proletari dell’antiproletariato, l’ordine di liquidazione del sistema mercantile, che essi sono capaci di eseguire, le forme antiche della violenza legalista e illegalista unificherebbero i due campi nella stessa e antagonista autodistruzione. Nell’ala estrema del destrismo e nel sinistrismo situazionizzato il gioco terroristico ha già il sopravvento come pratica ideologica della fine delle ideologie. Se noi non salviamo il ludico, esso si salverà contro di noi.
Il destrismo ha sguinzagliato i suoi miserabili. Il terrore bianco si annuncia con gli abituali miasmi della paura. La caccia alla selvaggina gauchiste allinea i capi abbattuti, nel rancore soddisfatto dell’impotenza a godere. Giovani insolenti, capelloni o arabi pagano il conto delle passioni strozzate nello spettacolo, il prezzo del voyeurismo che raggiunge l’efficacia del riflesso poliziesco nel reprimere, in ciò che vede e che vuol vedere, il desiderio di parteciparvi realmente.
Grazie al gioco degli antagonismi, basterà che alla vigliaccheria dei piccoli borghesi polizieschi smetta di rispondere la vigliaccheria degli amici delle vittime e delle vittime in potenza perché la tattica delle rappresaglie abbia la meglio sulle manifestazioni di esorcismo e sullo scoutismo protestatario. Un operaio tira sul suo capo-servizio, lo sbaglia, abbatte un poliziotto per goffaggine. Il procuratore della Corte di Assise della Loira-Atlantico chiede e ottiene contro di lui la pena di morte. Il cerchio è chiuso. Quando si spargerà l’esempio della banda Baader, e tutto congiura perché ciò accada, il procuratore subirà il castigo che si infligge, per persona interposta, ogni volta che reprime negli altri il suo proprio rifiuto di umiliazioni. Non passa mese senza che il servizio d’ordine sindacale e i commando padronali non intervengano contro gli scioperanti selvaggi, senza che la polizia non metta in prigione, non maltratti o non uccida per errore. Quale migliore incitamento alla guerriglia urbana, all’autodifesa selvaggia? Fino a che non sarà ammesso dappertutto e senza riserve che bisogna distruggere il sistema mercantile e gettare le basi dell’autogestione generalizzata, nessuna repressione, nessuna promessa, nessuna ragione potranno distogliere i rivoltosi della sopravvivenza dall’autodistruzione generale e dalla logica in corso secondo la quale è meglio abbattere un poliziotto che suicidarsi, uccidere un giudice che abbattere un poliziotto, linciare un padrone che uccidere un giudice, e saccheggiare i grandi magazzini, incendiare la Borsa, devastare le banche, dinamitare le chiese che linciare i padroni: perché le regole del gioco terrorista sono i poliziotti, i giudici, i padroni, i capi, i difensori della merce e del suo sistema di morte che li impongono e ne moltiplicano la rappresentazione.
L’esortazione illegalista ha perduto oggi il suo volontarismo desueto. L’organizzazione spettacolare incita più imperativamente alla violenza che gli anarchici del passato. L’odio per la famiglia non sa che farsene di apologeti poiché il sistema mercantile non sa che farsene della famiglia. Ma dall’istante in cui il destrismo – funzione spettacolare del nichilismo negativo – resuscita l’autorità paterna, poco importa se dispotica o riformista, e la ragione ludica del nichilismo positivo quella di compensare in violenza parcellare la perdita del progetto unitario dell’autogestione generalizzata.
Incapace di portare ai bambini la coscienza della loro ricchezza e della loro spoliazione, il turbamento che introduce tra di loro il sistema mercantile raggiungendoli direttamente e per mediazione familiare è sufficiente per gettare l’inquietudine nei focolari e nelle associazioni dei genitori. (Ben diffuso, un solo testo rivoluzionario per bambini basterebbe a ridicolizzare tutto il linguaggio del loro condizionamento. A cosa pensano, sognando, gli “anti-educastratori”?). Non c’è nulla di profetico nell’assicurare che una tale inquietudine non finirà presto.
L’odio in briciole colpisce più crudelmente dello shock unitario del rifiuto. Quando i prigionieri del fuori presteranno man forte ai prigionieri delle immonde bastiglie, quando gli alienati sociali libereranno gli alienati cosiddetti mentali, sarà la disperazione di non vedere via d’uscita alla società della sopravvivenza che presiederà al massacro dei secondini e dei poliziotti in camice bianco.
Oliando la menzogna spettacolare coi resti dell’illusione celeste, i preti attirano più sicuramente la collera popolare che il fulmine che una volta invocavano sugli empi. Ortopedici dell’alienazione intima, pagliacci del sacrificio, messaggeri tradizionali della realtà rovesciata, commessi viaggiatori dello scorfano di Nazaret e di santo Guevara, devono sapere che niente può salvarli se non la critica in atto della religione, ritorno dei fuochi di gioia della Comune e della rivoluzione spagnola, la fiamma ecumenicamente portata dalle chiese alle sinagoghe, dalle moschee ai templi buddisti, fino a che non resti più una pietra dell’infamia divina.
La marcia del nichilismo si prende gioco dell’invocazione apocalittica. Se il proletariato non si disfa rapidamente mettendo fine alla società delle classi, alla società della sopravvivenza, al sistema spettacolare-mercantile, alla prospettiva del potere, se non fonda l’autogestione generalizzata, l’armonia sociale nel gioco delle assemblee sovrane e dei loro consigli, il mal di sopravvivenza rischia di generalizzare il riflesso condizionato di morte.
Il furore nazista ha già una volta, in condizioni molto meno favorevoli, dato il “la”. L’esca del profitto astratto immediato – la distruzione ecologica non ne è che un aspetto – esprime, nella rimozione e nel rovesciamento, la tensione individualmente provata da tutti verso una vita pluripassionale. Se il peso di una tale inversione sociale, obiettivamente incoraggiata dalla logica della merce, blocca il rovesciamento di prospettiva, impedisce il superamento globale, fa disperare perfino la coscienza rivoluzionaria, isola e distrugge i tentativi di insurrezione, non ci resterà che il gioco della distruzione in tutti i sensi, il piacere suicida del terrorismo, la lotteria delle sentenze immediatamente esecutive in un western sociale in cui tutti avranno meritato la pallottola che li colpisce. Tutto o niente ma non la sopravvivenza. La rivoluzione o il terrorismo.
Ora la presa dello spettacolo non è tale oggi che il proletariato si dissimuli completamente a se stesso. È invano che, grazie alla culturizzazione e ai suoi cani da guardia, la proletarizzazione crescente si fa passare per una nuova negritudine, per una fierezza di essere niente, cioè qualcosa nella scala dell’apparenza. Nessun proletario ci si sente a suo agio, ciò non ha nulla di rassicurante per chi vuole persuaderlo del contrario.
Più ancora, ciò che evoca i sogni della soggettività e le speranze della volontà di vivere, continua ad esercitare, a scapito degli involucri ideologici, un potere di animazione sulla maggioranza. Come la teoria situazionista aveva incontrato, prima del ’68, malgrado la diffusione ristretta, la migliore accoglienza degli spiriti spontaneamente disposti a capirla e a praticarla, la sua falsificazione ideologica non ha perduto la sua attrattiva razionale e passionale che per guadagnare in potere di fascinazione. Per assurdo che sia il loro impiego nei circuiti del linguaggio dominante, parole come sopravvivenza, spettacolo, realizzazione individuale, critica globale, mostrano abbastanza come lo spettacolo recuperi male la teoria radicale, e peggio ancora coloro che la praticano con la coscienza critica del recupero possibile.
Se il situazionismo diventa la panacea del gauchisme, la sua pseudo-unità nella decomposizione, questo significa anche che esso costituisce l’ultima ideologia, quella che non può che sparire, sia nella realtà alienata del gioco terrorista, sia nel movimento di realizzazione del progetto situazionista. Da ideologia critica non può che diventare ideologia in armi; e da pseudo-unità dei rifiuti, fronte dei delinquenti che portano separatamente la rivolta parziale su tutti i fronti dell’oppressione e della menzogna.
Al suo ultimo stadio, un tale recupero mette anche in luce una separazione essenziale, principio di ogni gerarchia, di ogni sacrificio, di ogni separazione: la divisione tra intellettuale e manuale. Mentre l’accumulazione e la socializzazione della merce comportano un abbassamento tendenziale del potere, la devalorizzazione del ruolo e della funzione dell’intellettuale coincide con la culturalizzazione dello spettacolo. Assorbendo la cultura, lo spettacolo tende a ridurre il ruolo intellettuale ad una funzione burocratica, mentre l’astrazione da sé, nei ruoli ai quali l’individuo è sottomesso, è sentita come promozione e regressione verso l’intellettualismo.
Lo spettatore si intellettualizza a mano a mano che lo spettacolo prosciuga i serbatoi della cultura. Di modo che, rifiutandosi come spettatore, come partecipante alla passività generale, ciascuno viene a criticarsi nella sua intellettualizzazione forzata.
A differenza del vecchio rancore degli autodidatti e degli ignoranti verso gli uomini di cultura patentati, il rifiuto spontaneo dell’intellettualismo risponde a una critica confusa dello spettacolo e dei ruoli. Così è divertente vedere come nell’antagonismo delle ideologie di destra e di sinistra, l’intellettualismo degli anti-intellettuali si leva contro gli intellettuali dell’anti-intellettualismo; come i pensa-bestia fanno la guerra alle bestie pensanti.
L’intellettuale – quello dell’accademia, del caffè del commercio o dei gruppuscoli – secerne ideologia come l’ideologia generalizzata intellettualizza il più abbrutito dei vecchi combattenti. I cambiamenti sociali non sono stati suscitati fino ad oggi che tramite l’agitazione degli intellettuali, sotto il loro controllo e con la mediazione della cultura. A considerare come la radicalità di Marx, de Sade, Fourier, ha potuto scomparire, come comincia a rivivere nel progetto situazionista e come si espone a diventare, tra le mani della nuova universalità intellettuale un incomprensibile ammasso condannato due volte dalla pratica terrorista – in quanto sua sorgente occulta e in quanto sua inutile dimensione astratta – pare urgente trasmetterla a coloro che ne conoscono l’uso, dato che viene dalla loro pratica e dato che solo la loro pratica può perseguirla senza fine. È tempo che coloro che la trasmettono e la perseguono siano già dei declassati coscienti della lotta per la liquidazione delle classi, dei rivoluzionari che vivono il più unitariamente possibile e vogliono provare la loro efficacia distruggendo la radice del mondo delle separazioni.
Da coloro che si preparano ad agire soli perché sanno che migliaia di altri agiranno nello stesso senso, nascerà il “partito” del superamento, questa resurrezione, in condizioni molto più favorevoli, di ciò che Marx ed Engels avevano potuto chiamare “il nostro partito”.
Il “partito” del superamento e il gioco sovversivo
“... L’umanità non sarà distrutta né dal Disordine dell’anarchia né dalla confusione del Dispotismo [...]; non nascerà da questo nuovo conflitto tra le due potenze primordiali dell’uomo niente altro che una nuova Rivoluzione che lo conserverà”.
(Hurrah! o la rivoluzione ad opera dei Cosacchi)
A mano a mano che prosegue il movimento di accumulazione e di socializzazione della merce, la vecchia opposizione tra capitalismo privato e capitalismo di Stato si abolisce nella realtà totalitaria del sistema spettacolare-mercantile.
Individualizzando l’alienazione, l’universalità mercantile fa toccare a ciascuno l’identità che esiste tra tutte le forme di oppressione e di menzogna e il movimento di riduzione con cui la vita si cambia in sopravvivenza. Contraddittoriamente, tutte le forme di rifiuto portano in sé la propagazione collettiva della volontà di vivere, sentita individualmente.
Tutto tende a divenir merce in un processo dove ciò che si oppone all’imperialismo mercantile tende a diventare tutto. La rivoluzione è legata a questa presa di coscienza. La radice della società spettacolare-mercantile è la merce, l’essere e l’oggetto totalitariamente trasformato in valore di scambio. La radice dell’autogestione generalizzata è l’uomo stesso, l’individuo concreto nel suo movimento di liberazione unitaria e collettiva.
Il fascino che esercita oggi il situazionismo mostra che la teoria radicale ha raggiunto una frazione del proletariato ma che questa frazione non se ne è impadronita che in frammenti. Dato che la frazione toccata era quella dei lavoratori intellettuali, che disponeva di poca efficacia nella lotta contro il sistema mercantile, il ghetto stalinista isolava la frazione operaia, ecc. Ma anche perché la pratica della radicalità mancava di precisione.
Per indispensabili che siano, il rifiuto della gerarchia, la critica globale, l’analisi permanente, la diffusione della teoria radicale e la sua pratica non sfuggiranno al rischio dello slittamento ideologico e al volontarismo etico che tenta di opporvisi, fino a che la radice del sistema mercantile non sarà stata raggiunta grazie ad una azione collettiva in cui le passioni individuali dominano e si ingranano, grazie ad un gioco sovversivo dove l’avventura vissuta esperimenta, in distornamenti e sabotaggi, la distruzione della merce e l’autogestione generalizzata.
Affermare la volontà di vivere, illuminare le ragioni della soggettività radicale, chiamare alla lotta contro il sacrificio, il ruolo, il militantismo, non prende il suo vero senso che in una pratica la cui efficacia fonda obiettivamente la speranza di cambiare radicalmente le condizioni dominanti. Nei periodi in cui si elaborava l’analisi delle nuove condizioni storiche, le esigenze imposte al rivoluzionario nell’unità della sua teoria e della sua pratica obbedivano alla necessità di fondare una coerenza, in modo essenzialmente difensivo, in un mondo dove tutto l’aggrediva. Non riuscendo a sconvolgere direttamente le condizioni alienanti, la tecnica offensiva consisteva nel prendersela con le persone, nel trattare da nemico chiunque si allineasse alle condizioni dominanti.
D’ora in poi, è possibile esigere meno e ottenere di più dall’anti-militante rivoluzionario, dato che è possibile passare all’attacco del sistema, gareggiare nell’efficacia dei colpi dati e provare, con la pratica del gioco sovversivo, l’eccellenza delle proprie passioni nella razionalità che le anima.
Perché non scegliere la facilità? Dove c’è scambio non c’è piacere. Smettete di lasciar cadere la vita per afferrarne l’ombra, di rimuginare noia, di militare, di lavorare, di gerarchizzare, di rinunciare, di programmare, di agire per non dire nulla, di durare il tempo che durano queste cose. Smettete di economizzare sul niente. Rilassatevi e senza sforzo riscoprite l’avventura del sabotaggio e del distornamento, imparate a giocare, da soli o in molti, alla distruzione del sistema mercantile, con rischio e piacere.
La teoria non è colta radicalmente fino a che non è sperimentata. Essa non tocca che superficialmente l’individuo che non vi scopra l’uso che può trarne la sua volontà di vivere. Fuori da una tale unità, le passioni si ingorgano, si rivoltano contro se stesse, la teoria si sbriciola, l’ideologia e le passioni si accordano nella stessa inversione. O il terrorismo, o il gioco sovversivo. La posta in gioco è importante. Dopo ciò che i sociologi hanno potuto chiamare – perché essa non li ha fatti saltare in aria – l’esplosione del Maggio, le belve della spontaneità sono scatenate. L’autoregolazione del potere, minacciata da tutte le parti come il potere minaccia da dovunque, punta sull’antagonismo tra destrismo e sinistrismo, e sul suo deperimento, per canalizzare l’energia soggettiva. Ma per chiunque scopra di colpo il carattere unico del suo universo soggettivo, la pluralità dei desideri, la violenza del voler-vivere, cosa può esistere di più innocentemente piacevole che il gesto del gettare nel macchinario delle vessazioni quotidiane un po’ di limatura di ferro? Il “partito” del superamento nascerà da tali gesti, da tali individui. La sua esistenza come manifestazione collettiva è legata alla domanda: cosa può fare ogni individuo per distruggere ciò che lo distrugge, moltiplicando le sue possibilità di vita autentica? Dalla risposta dei fatti verrà l’autogestione generalizzata.
Non soltanto il gioco sovversivo esclude, per semplice coerenza, ogni pratica militante, ogni azione che implicherebbe il sacrificio, la rinuncia o l’accrescimento della miseria, ma l’apprendistato dell’autogestione – che ne è la positività – incita a tutti gli arricchimenti della vita quotidiana. Sui luoghi di intervento, la ricerca dell’impunità è la forma tattica più sommaria della creatività.
Così che, invece di predicare la soluzione rivoluzionaria dall’esterno, come avviene non appena si ricorre unilateralmente al libro, ai discorsi, al testo – anche se portano in sé la loro critica – è preferibile che la teoria radicale si comunichi inseparabilmente nella propagazione dei metodi di sabotaggio e distornamento; sta ai giocatori sovversivi diffonderla a loro volta, con tutti i mezzi, propagando le loro tecniche particolari e i tipi di azione che giudicano appropriati alle loro possibilità di movimento nel sistema.
Di fatto non c’è una fabbrica, non c’è un ufficio in cui il sabotaggio e il distornamento non si applichino allegramente. Basta generalizzarli con la coscienza del progetto che unisce la liquidazione del sistema mercantile e l’apprendistato dell’autogestione generalizzata. La presenza della critica globale dà all’azione intrapresa contro frammenti della merce il suo massimo di efficacia, di impunità, di piacere. Essa è la dimensione rivoluzionaria nella sovversione e nell’emancipazione quotidiana individuale, l’apertura verso il superamento collettivo, la garanzia della razionalità tattica e strategica. (Ho esposto in modo sommario in “I. S.” n. 12 un primo schizzo di modello possibile d’organizzazione sociale armonizzata). Congiungendosi con il gioco sovversivo spontaneo, la critica radicale, che ha trovato il suo punto di sviluppo meno incompleto nella critica situazionista, rinforzerà l’unità fondamentale pratica che permetterà tutte le varietà di azioni rivoluzionarie.
È importante che ciascuno faccia individualmente la prova della sua autonomia e della sua efficacia affinché, abituato ad agire da solo nella coscienza di un progetto comune, ad assumere su se stesso sia i successi che i fallimenti, impari a non tollerare mai che si agisca in nome suo, a non sostituirsi mai agli altri e a scoprire nel rafforzamento della sua volontà di vivere la verità pratica dell’azione collettiva.
È ad iniziare dall’individuo, con le sue passioni, la sua creatività, la sua immaginazione, la sua sete insaziabile di esperienze vissute, che esploderanno i movimenti di liberazione e di armonizzazione collettiva. E nessun movimento collettivo raggiungerà la forza qualitativa della radicalità fino a che non avrà dimostrato di accrescere il potere degli individui sulla loro vita quotidiana. Essere radicale, è mettere la storia al servizio della felicità individuale.
Al contrario delle folle, condizionate e condizionabili, che le masse coscienti si compongano di individui coscienti della loro soggettività e delle loro esigenze globali! Che l’imperialismo della soggettività sviluppi, nelle lotte in corso, la spontaneità dell’autogestione collettiva! Ciascuno per sé e l’autogestione per tutti.
Il gioco sovversivo considera ormai il sistema spettacolare-mercantile dal punto di vista del migliore intervento rivoluzionario possibile. Nel paesaggio dell’alienazione sociale quali sono le posizioni chiave del nemico? Dove la pratica radicale ha più possibilità di colpire radicalmente?
Per quanto unitariamente la strategia debba apparire a poco a poco alla coscienza, va da sé che i metodi di lotta, la qualità dei combattenti, le possibilità di tallonamento tattico differiscono secondo il luogo di esercizio del gioco sovversivo, cioè secondo la situazione privilegiata dei giocatori nella prospettiva del potere: organizzazione spettacolare, apparato repressivo, base economica.
Nemici naturali della borghesia, che raggruppa attualmente gli organizzatori della sopravvivenza, i proletari non diventano rivoluzionari che evitando i trabocchetti dell’ideologia, nel movimento in cui la loro pratica spontanea elabora la teoria radicale e si conferma come coscienza pratica. Fino ad oggi l’accento è stato messo da un lato sull’elaborazione della teoria radicale attraverso l’analisi delle varie forme di rifiuto del vecchio mondo e attraverso la pratica in cui l’analista si negava come coscienza separata; da un altro lato – ma inseparabilmente – sulla sua diffusione. Il problema era quello di dire dovunque alla gente: ecco le vere ragioni che guidano le vostre azioni. Così che, prendendo coscienza della loro miseria e della loro ricchezza, si riconoscano in un progetto comune e, da quel momento, agiscano efficacemente con una migliore conoscenza di ciò che realmente desiderano. Il risultato della critica situazionista l’hanno rivelato le giornate del Maggio. Persino un sociologo potrebbe, per mezzo di un semplice identikit, misurare l’impatto dell’I. S.
Ora che il relitto del gauchisme manipola le briciole della rivoluzione possibile nella prospettiva del potere gerarchizzato, è tempo di sostituire la disperazione col piacere: di incitare alla teoria radicale stimolandone i modi di impiego.
Come rinforzare la teoria e la pratica rivoluzionarie partendo da e sulla base di esperienze vissute? La risposta viene dalle condizioni dei ruoli e delle funzioni che determinano il gioco sovversivo per ogni individuo.
I ruoli sono le compensazioni sostitutive della povertà funzionale che diventano funzioni di integrazione allo spettacolo. È altrettanto malagevole e malsano intraprendere la critica dei ruoli partendo dai ruoli che lavorano a testa in giù.
A seconda che il proletariato agisca sui luoghi possibili di intervento radicale, più per mezzo della funzione che per mezzo del ruolo, o più per mezzo del ruolo che per mezzo della funzione, la facilità e l’efficacia del gioco sovversivo variano. Mentre il lavoratore intellettuale, arruolato nell’armata dei quadri, gettato nello spettacolo con il prestigio come funzione, trova molta difficoltà a percepirsi quale individuo concreto nel labirinto dei ruoli, e a scoprire il filo di una azione critica e non ideologica, l’operaio, nelle condizioni di influenza immediata sul sistema mercantile in cui si trova per la maggior parte del tempo, ha tutte le possibilità e tutte le occasioni di negarsi come lavoratore e come manuale.
Ma, d’altro canto, l’operaio stesso sopravvive anche nello spettacolo e nella giungla dei ruoli. A sua volta ha dunque molto da imparare dei metodi di lotta radicale sul fronte dello spettacolo e dell’organizzazione statale. La generalizzazione del gioco sovversivo radicale garantisce la fine delle separazioni.
Il principio secondo cui ciò che è più facile distruggere e distornare è anche ciò che è immediatamente concreto nei meccanismi oppressivi del sistema spettacolare-mercantile indica chiaramente che la funzione semplice e più concreta permette la migliore pratica rivoluzionaria clandestina. Nulla impedisce, all’occorrenza, di citare sommariamente, a titolo di esempio, qualche possibilità di intervento, di cui l’opportunità e le conseguenze prevedibili saranno sempre calcolate alla luce della critica e della strategia globale.
Ricetta per il passatempo degli impiegati e dei funzionari subalterni (banche, uffici tasse, assicurazioni, ministeri, divisioni amministrative): distruzione di dossier e archivi, blocco delle comunicazioni, incendio dei locali con la critica dei settori parassitari, distornamento dei fondi a favore degli scioperi selvaggi, autodifesa contro ogni vessazione, ecc.
Ricetta per il piacere dei medici: denunciare i manicomi e provocare la loro distruzione, liberare i detenuti, incoraggiare l’assenteismo, spiegare il ruolo e la funzione del medico nel sistema dominante, preparare la liquidazione della medicina come specializzazione, ecc.
Ricetta per la soddisfazione degli avvocati: favorire l’evasione dei prigionieri e la distruzione degli stabilimenti penitenziari o di “rieducazione”, pubblicizzare i metodi polizieschi e il modo di rispondervi, incendiare le cancellerie e le preture, preparare l’incriminazione dei giudici e dei procuratori, diffondere libelli contro la merce giudiziaria, ecc.
Ricetta per la salvaguardia degli ingegneri tecnici: preparare il distornamento della produzione al momento dell’occupazione delle fabbriche, spiegare il funzionamento e il disfunzionamento del settore industriale prioritario, sabotare la trasmissione degli ordini, mostrare il ridicolo obiettivo dei capi, portare tutto l’aiuto tecnico necessario agli scioperanti selvaggi, ecc.
Ricetta per il divertimento degli studenti e delle studentesse dei licei e dei professori: rendere impossibile la sopravvivenza ai detentori dell’autorità, distornare l’equipaggiamento tecnico a profitto della diffusione della teoria radicale, collaborare alla liberazione dei bambini e studiare il superamento possibile dell’infanzia nell’autogestione generalizzata, distruggere i locali costruiti come prigioni e centri di droga ideologica, ridicolizzare obiettivamente le associazioni dei genitori, inventare tecniche di autodifesa, preparare il reinvestimento della cultura nella teoria radicale, scoprire la passione dell’amore e praticarla nella prospettiva fourieristica dell’armonizzazione sociale, ecc.
Ricetta per la gioia dei tecnici dei circuiti di comunicazione (tutte quelle persone che particolarmente privilegiano la ricchezza dell’equipaggiamento materiale messo in opera dalla riduzione della cultura a spettacolo): interventi-pirata alla radio e alla televisione, in diretta o per mezzo di bande magnetiche e film inseriti nei programmi, annotazioni dei linotipisti nei libri e nei giornali che stampano, ecc.
Che ogni professione scopra così ciò che affretterà la sua fine ogni volta che un lavoratore scopre come può distruggere tutto quello che si appropria di lui, per appropriarsi di tutto ciò che gli permette di costruirsi. La creatività non ha limiti. (Solo il giorno in cui i poliziotti, nell’altro campo, folgorati da intelligenza e trascinati dall’emulazione, bruceranno i registri, distruggeranno gli apparati elettronici e impareranno a vivere, noi cominceremo a dimenticarlo).
Non fosse che relativamente alla facilità di esecuzione, di impunità e di efficacia, il piacere della sovversione ludica è, con ogni evidenza, il privilegio di chi ha nelle mani la merce in gestazione, degli operai dei settori di produzione e di distribuzione: fabbriche, depositi, grandi magazzini, centri di produzione e cooperative agricole, trasporti di merce (camionisti, ferrovieri, scaricatori, ecc.).
Praticati dappertutto, il sabotaggio e il distornamento si esercitano col massimo di riuscita felice. Nel settore vitale del sistema spettacolare-mercantile, il lavoratore manuale è, dal punto di vista della lotta rivoluzionaria, colui che ha in pugno la materia prima dello scambio generalizzato.
Non è scandaloso che, con o senza occupazioni di fabbriche, gli scioperi non siano mai arrivati fino ad oggi a mettere le mani sulla merce?
Nel migliore dei casi ne sospendono la produzione, raramente la distribuzione, non turbando che superficialmente i meccanismi di autoregolazione. Ora, a questo stadio di intervento, non è il sabotaggio che importa di più, ma il distornamento, il distornamento della materia prima degli scambi, tutti i modi di sottrarla ai circuiti di produzione e di distribuzione in cui essa diviene valore di scambio, si accumula, si riproduce, si socializza, tutti i modi di metterla al servizio collettivo della volontà di vivere individuale.
I depositi, i supermercati, le industrie prioritarie (cioè quelle che forniranno l’equipaggiamento materiale necessario alla realizzazione dei nostri desideri), possono veramente ritrovare, al loro livello di sviluppo attuale, le funzioni che occupavano nelle comunità ancestrali di tipo libertario (tra i Trobriandesi, per esempio), la forgia e il granaio comunali. I prossimi scioperi saranno meno noiosi, e dunque più rivoluzionari, quando offriranno l’avvio a un uso umano dei beni di produzione e di consumo.
Come potrebbero degli scioperanti trascurare, se lo sciopero fosse veramente il loro, se essi vi agissero in piena autonomia, di impadronirsi degli stock per distribuirli, utilizzarli a loro profitto, (armi, mezzi di pressione sui dirigenti padronali e sindacali), o di distruggerli se non hanno valore d’uso (putridume in scatola, prodotti inquinanti, gadget, ecc...)?
Contro il terrorismo del furto, del saccheggio, e dello sfruttamento legale, i venditori, le venditrici, gli addetti alle casse di registrazione dispongono di tattiche sicure. Gli è sufficiente, sotto qualche pretesto di sciopero, organizzare la distribuzione gratuita dei prodotti tradizionalmente trasformati in merce e la diffusione di testi che spieghino come questa pratica nuova annuncia il modo di organizzazione sociale gestita da tutti. A titolo individuale è possibile far scivolare nell’imballaggio di un prodotto un foglietto con l’indicazione del prezzo di costo reale, precisandone la pessima qualità, la sua funzione di illusione. E così via. La creatività sovversiva porta in se stessa, più sicuramente che i richiami alla coerenza rivoluzionaria, questo principio del piacere saziabile e insaziabile, questa semenza di realizzazione autentica che si sparge dappertutto, rinsalda la libertà, precisa l’autonomia, distrugge dall’interno i ruoli, le ideologie, gli autoritarismi, i comportamenti ripugnanti (gelosia, avarizia, disprezzo della donna, del bambino, dell’uomo...). Nell’autonomia che si generalizza con la sovversione portata contro il sistema mercantile, è la sopravvivenza che è messa in causa in nome della vita, fondando così il movimento di autogestione generalizzata.
Se si vuole evitare che la logica di morte del terrorismo abbia il sopravvento, bisogna aprire la porta alla libera espressività anonima e coscientemente orientata contro l’ordine delle cose, non contro i suoi servitori. Le ideologie se la prendono con gli uomini, il gioco sovversivo con le condizioni. Il terrorismo mostra ai piccoli capi che se non mangiano i grandi saranno mangiati per primi. Il ludico sovversivo si accontenta di scuotere l’albero di cocco della gerarchia affinché non vi resti nessuno – se non coloro che si sono messi troppo in alto o che ci si aggrappano – nel momento di bruciarlo. Ugualmente è preferibile, nella tattica di cattura degli ostaggi, portare la minaccia di distruzione su prototipi costosi, sugli stock, sui calcolatori piuttosto che sui padroni (che si giustizieranno solo in caso estremo, per esempio se si tarda a ottenere il disarmo e il ritiro delle forze repressive inviate per spezzare lo sciopero insurrezionale). L’esperienza clandestina, la sovversione anonima, offrono a chi teme i “superiori” gerarchici – non per vigliaccheria, ma perché sa bene come un proprietario di autorità, per ridicola che sia, dispone del potere di tormentare e di reprimere – l’occasione di riprendere sicurezza, di misurare l’inganno dei ruoli, di scoprirsi come soggettività originale, di non avere quella paura che è la molla del terrorismo, di conoscere questo sentimento segreto di ricchezza autentica che fa il coraggio e la risolutezza nello sciopero e nell’insurrezione.
Siamo in migliaia a scoprire, confermando le nostre proprie possibilità, una rivoluzione di cui vogliamo gustare il piacere al punto di correrne i rischi; e noi conosciamo abbastanza bene la forza della repressione per studiare tutti i modi di evitarne il dispiacere. Prudente o incendiario, il giocatore sovversivo non è mai candidato al martirio. Il grande gioco della sovversione anonima prepara l’apparizione internazionale del “partito” del superamento in azioni collettive esemplari. In questo stile di intervento radicale, l’individuo si coglie alla radice cogliendo la radice del mondo mercantile, diventa il proprio leader contrario a tutti i leader, dà alle sue passioni autentiche – all’amore, agli incontri, al gioco, all’odio, alla creazione, al sogno – la loro dimensione di realizzazione multidimensionale, il loro alveo nella storia da fare.
A questo punto si pongono i problemi della tattica. Il sabotaggio non ha ragione di esistere che dove il distornamento è impossibile o inutile? Ogni errore nocivo al progresso della teoria e della pratica radicale deve essere messo in conto alla provocazione padronale o sindacale e corretto come tale? Le organizzazioni non sono che delle federazioni di individui autonomi, uniti e disuniti in rapporti obiettivamente e soggettivamente di tipo fourierista? Ecc.
“Se voi credete che ciò stia per finire, vi sbagliate di grosso...”.
5 gennaio 1972
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