Titolo: La democrazia contro gli individui
Data: 1987
Note: Pubblicato su “Anarchismo” n. 57, giugno 1987, pp. 20-28
Prima edizione in volume: novembre 2013
Opuscoli provvisori n. 34
SKU: opuscoli-000034
Dimensioni: cm 10 x 10,5
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Nota introduttiva alla seconda edizione

Non una critica “politica”, questo prima di tutto. Il punto focale non è tanto un’analisi del dominio quanto un far fronte ai problemi dell’individuo, del singolo, nei riguardi dei processi che tendono a incasellarlo in una specificità artificiale.

Stirner sta sullo sfondo, non come un nume tutelare, ma come un obiettivo inarrivabile da cui attingere orientamento e sostanza. Altro autore essenziale per questo testo: Cœurderoy, enigmatico e misconosciuto come sempre. I limiti stessi del lavoro di Ajax e Fauquet sono i motivi per cui rendono anche oggi interessante una sua rilettura, in mutate (ma non troppo) condizioni del dominio.


Trieste, 27 ottobre 2011

Alfredo M. Bonanno

Nota introduttiva alla prima edizione

Divenuta totalitaria la democrazia moderna fornisce all’individuo un’apparente autonomia che lo lega, ancora di più di quanto poteva avvenire nei regimi totalitari del passato, alle proprie contraddizioni specifiche: l’essere proletario in primo luogo. Si crea così, nella democrazia, una forma di individualizzazione sociale che è l’esatto contrario della vera individualizzazione che gli individui dovrebbero perseguire da se stessi. In questo modo il singolo viene represso dalla società, in nome di un’autonomia che è assolutamente falsa. Si tratta di un piccolo comune denominatore a cui tutti gli individui devono essere ricondotti. Per far questo lo Stato si serve della tolleranza, lo strumento più efficace e raffinato per ottenere oggi il consenso e per esercitare il controllo.

Alfredo M. Bonanno

La democrazia contro gli individui, e reciprocamente

I

Viviamo attualmente l’esito di un processo che è insito nella natura stessa della società moderna, processo che si è innescato in pratica dopo la seconda guerra mondiale e che ha conosciuto una tappa qualitativamente importante alla fine degli anni ’60: si tratta del processo di sviluppo totalitario dei meccanismi democratici. Il suo contenuto consiste nel mettere direttamente in rapporto gli individui e la società nel suo insieme (attraverso il suo rappresentante, lo Stato) superando a poco a poco il rapporto delle classi o gruppi sociali antagonisti attraverso i quali gli individui, tradizionalmente, socializzano e modellano la propria visione (conflittuale) del mondo.

Essere proletario suppone una fedeltà a una classe che nega (contraddittoriamente) la particolarità individuale; essere donna o uomo suppone una fedeltà ad un sesso che nega la particolarità individuale; essere giovane o vecchio, la fedeltà a un’età che nega, ecc. Ma, se ogni membro di ciascun gruppo sociale è negato nella sua singolarità, questa appare tuttavia nel e per l’antagonismo tra i gruppi sociali. Anche se in seno alla sua classe il proletario, per esempio, è un individuo indistinto – “un individuo medio”, come diceva Marx – egli può concepirsi come individuo particolare nel suo rapporto col borghese (lui stesso membro – più o meno – indistinto della sua classe). Nell’alienazione, l’appartenenza a una classe, un sesso, un’età, una razza, ecc., può permettere all’individuo di concepirsi come particolare – in maniera certo mutilata – quando egli si confronta agli individui degli altri gruppi sociali.

La democrazia classica ha come oggetto di riunire tutti questi individui fuori delle loro classi e fuori del loro antagonismo conferendo una uguaglianza formale che nega una seconda volta la loro particolarità individuale, perfezionando poi questa negazione occultandone le differenze. La democrazia, in effetti, non promuove l’individuo come categoria giuridica se non astraendolo radicalmente dalle sue proprie qualità. In questo senso, queste astrazioni (questi “fantasmi”, diceva Stirner) che sono le classi e i gruppi sociali, trovano il loro prolungamento naturale nel “fantasma” supremo che è la società democratica. Ma non si tratta allora che di un prolungamento dell’intervento post festum di una sfera particolare, politica, la socializzazione degli individui, cioè l’astrazione iniziale che li rende membri intercambiabili di un gruppo sociale, e che si produce dentro e attraverso quest’ultimo.

I meccanismi democratici trovano il loro sviluppo totalitario naturale allorché tendono a mandare in corto circuito la socializzazione-astrazione degli individui attraverso le classi e i gruppi sociali. Dalla sfera particolare, politica, la democrazia tende a diventare la sfera generale, sociale, economica, familiare, che sostituisce le altre inglobandole. Attraverso questa e la sua espressione statale, la società rilascia a ogni individuo la sua appartenenza a quella o a quell’altra categoria sociale. I differenti gruppi sociali vedono, in effetti, il loro contenuto cooptato dalla società democratica, che svuotandone l’aspetto sociale antagonista trasforma questi gruppi in semplici categorie sovrapposte: si è proletari, si è borghesi, si è donna, si è uomo, si è giovane, si è vecchio, si è immigrato, ecc., si è in ogni modo membro di una categoria che rasenta le altre categorie. L’occultazione democratica diretta degli antagonismi rinforza la chiusura nelle determinazioni social-naturali che sono il (triste) destino degli individui nell’alienazione: come uscire dai “ruoli” proletario, femminile, ecc., quando essi ci sono distribuiti dalla società stessa come garanti della nostra identità individuale? La forza totalitaria di questo parossismo democratico si basa, in effetti, su di un corto circuito della socializzazione attraverso i gruppi sociali antagonisti, fondata sul fatto di dare l’impressione di restituire una individualità particolare (personale) ai membri di questi gruppi. Ma accade che gli individui stessi diventano astrazioni che, come tali, vedono la loro intercambiabilità diventare universale, superando i limiti interni a ciascun gruppo sociale. La loro identità individuale così acquisita non è altro che quella della loro alienazione che ha fin da allora dei comportamenti naturali, eterni: la democrazia è stata interiorizzata (processo molto poco psicologico). Ciascun individuo è diventato in se stesso una entità che, come tale, beneficia di un’apparente autonomia. Ciascuno è oggi dichiarato libero di fare quello che vuole. “A ciascuno il suo” come si dice! Ma mai nessuno è stato così simile a qualcun altro. La particolarità reale, “l’unicità” è negata a tal punto che, comportandosi individualmente, si arriva a comportarsi come tutti gli altri, come la società stessa. Comportandosi sempre più come “individuo”, ci si comporta sempre meno come “se stesso” (per quanto misero e alienato possa essere questo “se stesso”). Se c’è una individualizzazione, questa è interamente presupposta dalla società che ha rimpiazzato la natura integrandola nella totalità. È, possiamo dire, una “individualizzazione sociale” in opposizione ad una individualizzazione che parte dagli individui stessi e che è così particolare: si è individuo in quanto membro della società e non si è essere sociale in quanto individuo.

L’alienazione specifica delle donne è stata riconosciuta tardi. Dapprima considerata come naturale, era inavvertita nella misura stessa del suo carattere fondamentale nel sistema delle categorie sociali costitutive dell’individualità alienata. Così l’apparente paradosso dell’individualizzazione sociale, alienante verso l’individuo reale, particolare, “unico”, trova la sua migliore illustrazione nella trasformazione attuale della “condizione femminile”.

Classicamente, il fatto di essere donna è l’ostacolo maggiore a qualsiasi individualizzazione sociale, tanto nella situazione (in una esistenza sociale che mantiene la dipendenza personale altrove abbandonata) quanto nell’immagine di sé, nell’interiorizzazione della femminilità che impone alle donne la costituzione di un surrogato di “individualità”, di una individualità che non è tale, definita come è dalla dipendenza e dalla relatività. Tuttavia, dal fondo di questa negazione di sé indispensabile alla sopravvivenza, poteva anche sorgere una rivolta che partiva dall’esigenza appassionata, vitale, dell’esistenza di un io negato e aveva dunque necessariamente per oggetto e centro l’io particolare (perché c’era l’io, individuo particolare, che era negato attraverso la condizione femminile, e non la donna, incarnata in questo “io”). È per questo che l’affermazione femminista di Flora Tristan, o quella di Virginia Woolf, fra le altre, è talmente forte e viva, parla talmente agli individui.

I tempi cambiano. Non c’è uomo politico, giornalista da strapazzo che non si indirizzi ogni giorno “agli uomini e alle donne” di questo paese o di un altro. La femminilità non è più esclusa dall’umanità. Rigettata nella naturalità (e i suoi compiti...) con le incursioni obbligate nell’ideale, la divinizzazione. Sembra che essa sia ormai un’altra specie di umanità, complementare all’altra, che di colpo si concepirebbe essa stessa come complementare, reciprocamente. La femminilità, infine, trionfa, si accetta – e non più nel sogno, ma nel quotidiano. Essa non è più devalorizzata (almeno in tendenza). Felice di essere donna, quella che un tempo, forse, avrebbe sentito più che ogni altro fino a che punto ogni identificazione a un ruolo sociale sia germe di morte per l’individuo particolare (attraverso questa identificazione apertamente negatrice), ormai si sforza di costruire una identificazione vivibile.

Questo dà una “promozione” a donne libere nell’aspetto, le quali si sentono (apparentemente) bene nella propria pelle di donna... e ciò perché è la loro pelle di “individuo”. La rivolta appare da questo momento senza scopo poiché la coscienza dell’antagonismo si dissolve in quella della coesistenza pacifica degli uomini e delle donne identificati nelle loro categorie d’appartenenza. A cospetto della “nuova donna” sta il “nuovo uomo” che ha assimilato il femminismo minimo post-’68 ed ha accettato l’individualità femminile perché femminile. Affettando lui stesso di star bene nella sua pelle, grazie al recupero delle “qualità femminili” di cui sarebbe stato simmetricamente privato, il “nuovo uomo” si conferma come uomo mentre sembra fare il contrario. Questa neo-virilità, che per insediarsi utilizza un linguaggio artificiale denominandosi “mascolinità”, nega così le crisi convulsive che potevano (possono) conoscere gli uomini nel corso stesso dell’antagonismo sessuale. Nel corso di queste crisi in cui la loro virilità era alternativamente affermata con violenza e altrettanto violentemente schiacciata, poteva fugacemente farsi luce in essi, in connessione col negativo (la precarietà) della condizione proletaria, il fatto che non erano assolutamente identificabili alla loro virilità ma che potevano così esistere come individui particolari. Con il placarsi degli antagonismi e delle passioni operato attraverso la neo-virilità, in congiunzione con la neo-femminilità, questa identificazione è per contro senza apparente incrinatura.

In maniera generale, tutti i “meccanismi” (tutti gli impulsi) individuali sono ritenuti sospetti nella società attuale e, come tali perseguitati democraticamente. Poiché ognuno deve essere condotto al (più piccolo) denominatore comune, tolleranza è la parola d’ordine poliziesca. Tutte le opinioni si equivalgono, l’essenziale è di averne una che rassomigli tanto da ingannarsi a quella che prodigano a cadenza stakanovista i sondaggi che vanno sotto lo stesso nome.

In quanto, dovendo socializzare direttamente gli individui, la democrazia secerne il modo adeguato di questa socializzazione “decretando” l’onnipotenza dei media. Questi costituiscono il cemento tra gli individui fatti simili alle proprie categorie. Individui-proletari, individui-donne, individui-uomini, individui-bambini, ecc., tutte queste definizioni ancora particolari – benché astratte – della loro alienazione sono inglobate in una definizione generale, la più astrattamente generale possibile: sono degli “individui-medi”, cioè degli individui la cui universalità è la più completa possibile – nel limiti dell’alienazione – universalità che essi conoscono sotto una forma completamente estranea.

La proliferazione delle radio “libere” (libere di ogni contenuto, ossia vuote) in concorrenza con l’accesso della sinistra al potere, ci dà l’esatto conto di questa trasformazione. In esse tutte le particolarità astratte – radio-omosessuali, radio-immigrati, radio-ebrei, radio-donne, radio-terza età, radio-studenti, ecc. – possono trovare il loro posto nell’uniformità più totale. Tutte queste radio hanno uno scopo a priori differente, e, tuttavia, quando se ne è ascoltata una, le si conosce tutte, in quanto riposano di fatto sullo stesso principio e corrispondono alla stessa stretta necessità.

Se i media sono la forma di socializzazione adeguata alla democrazia totalitaria, il loro contenuto giace, molto naturalmente, nella informazione (in senso largo, e non strettamente giornalistico). Questo e il deus ex machina che spiega tutto senza, apparentemente, imporre alcuna spiegazione particolare, soggettiva, poiché ognuno e ciascuna cosa hanno il loro posto nella società. L’informazione è la parola spassionata che si esercita su tutto e, dunque, su niente. Osare dubitare dell’informazione significa sfidare il principale tabù della nostra epoca ed esporsi all’obbrobrio della stessa società. L’informazione è la parola del vangelo contemporaneo. Non si discute perché non discute niente. Voi avete sentito e visto indignarsi questi scribacchini alla più piccola critica, questi tentennoni di cui Cœurderoy diceva: “Non conosco niente di più prostituito di un giornalista, niente di più insolente con i piccoli, di più cane da punta con i grandi, di ipocrita nelle sue parole, di più mediatore nelle sue azioni, di più poliziotto nello sguardo...”. Aggiungete che le parole d’ordine dei media attuali sono la “partecipazione” di tutti all’informazione, la “realizzazione” di ciascuno nella “comunicazione” a tutti e a nessuno delle sue sacrosante opinioni (ascoltate la somma di tutte le sue care piccole categorie costitutive: io, signore, in quanto donna di quarant’anni, vi dico che, in quanto ebrea, ancor che, e, aspettate, in quanto fan della B.B. degli anni cinquanta... e rispettate“mi” dunque, io “vi” rispetterò di conseguenza!) – e voi potrete senza rimorsi estendere le parole di Cœurderoy a tutti. Al diavolo le separazioni, noi siamo tutti i media di noi stessi!

II

Il processo totalitario dei meccanismi democratici può, grosso modo, scindersi in due fasi principali.

Nella prima, che si innesca dopo la Seconda Guerra mondiale e si completa con la fine degli anni ’60, questo processo si è manifestato soprattutto negativamente nel senso che non si trattava più, allora, di rendere sorpassati gli antagonismi sociali, d’altronde ricondotti al solo antagonismo fra classi, ma di produrre veramente una forza di socializzazione diretta degli individui attraverso la società. Di fronte a questa situazione i migliori animi hanno creduto di scavalcare le contraddizioni puramente economiche (o di classe in senso stretto), messe in luce dal marxismo. I membri della Scuola di Francoforte in Germania e in America, i gruppi delle riviste “Socialisme ou Barbarie”, “Arguments”, e soprattutto l’Internazionale situazionista in Francia (e più internazionalmente per quest’ultima), hanno mostrato a loro modo che la democrazia realizzata escludeva qualsiasi esistenza individuale come ogni contraddizione interna. Restava da opporvi, dunque, non una classe sociale come tale (necessariamente “integrata” come uno dei suoi meccanismi a una tale società), ma la soggettività, il desiderio di rivoluzione di quelli che, in un modo o nell’altro, venivano a titolo individuale rifiutati da questa società: esclusi, marginalizzati, per Marcuse, ad esempio, o per “Socialisme ou Barbarie”; operai, non in quanto produttori ma in quanto esclusi dalla gestione sociale (apparendo le classi come tali sorpassate, “Socialisme ou Barbarie” considerava come centrale il taglio dirigenti-tecnici-esecutori). Si vede in cosa la realizzazione positiva dei processi totalitari è da allora consistita precisamente in un movimento sistematico di inclusione, non soltanto di categorie ancora marginali, ma soprattutto di questo desiderio stesso di partecipazione, di comunicazione e di realizzazione “individuale” nel quadro sociale. Difatti queste critiche hanno in comune il fatto di non aver saputo superare questo “quadro” nello stesso momento in cui ne indicavano le ultime conquiste possibili. Al contrario, esse hanno costituito il vero fermento dell’individualizzazione sociale, nel senso che abbiamo indicato prima, di una totale presupposizione degli individui da parte della Società.

La seconda fase del processo democratico totalitario si è aperta con un movimento di rivolta contro le condizioni moderne di dominio sociale (Maggio ’68 in Francia). Il ritorno della crisi economica nel mezzo degli anni ’60 mostrava che nessuna contraddizione (nemmeno economico-sociale) era sorpassata, e induceva alla necessità e alla possibilità di una rivolta che si ricollegava, in parte, al quadro degli antagonismi di classe.

Infatti, il Maggio ’68, in Francia, ed altri avvenimenti verificati altrove – scioperi selvaggi, lotte studentesche, ecc. – segnano l’ultimo sbocciare della forma “lotta di classe” assunta dalle rivolte. Nel corso degli anni ’70 questi tipi di rivolta sussistettero ma presero sempre più la forma di decomposizione della classe (proletaria) in lotta. Questo fu percepibile nelle attività antilavoro (sabotaggi, ecc.) che accompagnavano quasi sempre le più radicali di queste lotte.

Da allora il “superamento degli antagonismi di classe”, all’opera fin dagli anni ’50, poteva trovare il suo contenuto positivo poiché erano i membri attivi di questo antagonismo, gli stessi proletari, a diventare gli agenti di questo “superamento”, ritorcendo la lotta contro la loro propria classe. Ecco perché le teorie degli anni ’50, che registravano questo superamento da un punto di vista proletario puro, modernizzandosi teorizzavano non queste rivolte che le erano estranee, come qualsiasi altra rivolta, ma i limiti consistenti nel non uscire dal quadro sociale della lotta di classe.

Il modernismo non sogna nemmeno di liberarsi del fantasma della società. La politica – e lo Stato, con i suoi milioni di figli, tutta una piramide di Stati – ossessiona tutta questa gente, negli scopi come nello spirito. La soggettività con cui rivestono i loro bei discorsi è la soggettività astratta, l’idea della soggettività. La fuga in avanti in un al di qua della soggettività stessa (macchine desideranti, passioni astratte, atteggiamenti di seduzione e di sfida, ecc.) non fa che rinforzare il dominio riconosciuto del “potere”. In quanto alla “critica sociale”, tutti o quasi oggi si vantano di avere uno spirito critico che non è, in effetti, che un povero surrogato, facile, il quale si esercita superficialmente e di preferenza sugli arcaismi sociali più evidenti. Mai lo spirito critico genuino ha fatto tanto difetto sui punti più elementari della condizione individuale. In un’epoca dove bisognava imperativamente “essere del suo tempo”, emettere la minima critica circa questo tempo ha del sovversivo! Ma, affinché la socializzazione diretta degli individui nella società potesse diventare un fatto tangibile, bisognava che i suoi fermenti modernisti accedessero al potere. È cosa fatta, in ogni modo sta per farsi, con l’arrivo al potere della sinistra. Si può anche dire che è questa necessità sociale che ha prodotto questo ingresso, almeno quanto la necessità di gestire la crisi. In tutti i casi è questa che ha dato luogo ad una presa di potere da parte della sinistra che non è più, come di solito, congiunturale, ma è completamente strutturale, perché è rispondente ad una nuova forma di organizzazione sociale. È significativo, a questo proposito, rivedere all’interno stesso della sinistra, la netta perdita di influenza – poniamo nella situazione francese – del partito comunista che, in quel paese, resta su basi classiche (e classiciste), a profitto dei partiti socialisti.

Il processo totalitario attuale può così essere compreso come superamento tendenziale della scissione tra individuo e società, ma sulla base di questo processo, l’individuo non è che un momento necessario, come lo era già del processo produttivo. Questa è la realizzazione del progetto marxista di immediatezza sociale dell’individuo, cioè della re-immersione di quest’ultimo nella società a somiglianza del cosiddetto comunismo primitivo. Poiché il marxismo non vede che contraddizioni sociali e soltanto antagonismo tra classi, e poiché questo sembra superato, il contenuto della rivoluzione proletaria si realizza nella sola maniera in cui può realizzarsi: col movimento del Capitale! (Con la differenza che gli antagonismi non sono superati).

Il marxismo, in effetti, dopo averla abbordata in modo tanto interessante quanto fuggevole nell’Ideologia Tedesca, elude totalmente la questione dell’individuo. Per esso le contraddizioni individuali sono le contraddizioni sociali e nient’altro. Affinché fossero prese in considerazione alcune contraddizioni individuali, necessitava l’intervento di un’altra teoria specializzata, la psicoanalisi, la quale le ridusse al dominio psichico. Ciò vuol dire che non si trattò, in quel caso, che della “scoperta” del processo costitutivo dell’individuo, così come è presupposto dalla società. E ciò nello stesso modo in cui l’individuo “autonomo” ideale, prodotto della catarsi terapeutica, non è mai autonomo in rapporto agli altri, senza che intervenga a determinare la costituzione della sua particolarità individuale, qualche contenuto proprio, ricco o povero che sia. La psicoanalisi è la teoria sociale (nello stesso senso in cui Stirner dice che il cristianesimo è la religione sociale, per esempio, o, ancora, che gli uomini non si sono fin qui preoccupati mai di vivere in società) dell’individuo, come il marxismo è la teoria sociale delle classi, completata oggi (sul suo modello) da quella degli altri antagonismi sociali. A ciascuno il suo mestiere, e le vacche dei proletari sono state ben custodite. A lungo contrapposti grazie all’opposizione dei loro racket rispettivi, marxisti e psicoanalisti si sono largamente riconciliati con l’interpretazione delle contraddizioni sociali e individuali. Oggi sono molto rari i marxisti che non ammettono il fondamento della psicoanalisi e altrettanto rari gli psicoanalisti che non riconoscono la validità del marxismo, quando non sono marxisti essi stessi. Di più, la psicoanalisi costituendo la tappa preliminare dell’inglobamento della particolarità individuale (negata, astratta) nella totalità sociale, fu e resta largamente utilizzata, anche in maniera critica, nelle teorie moderniste.

III

Ora, se la scissione tra individuo e società ha prodotto teorie, anticipando in qualche modo la presente tendenza verso una riunificazione totalitaria, essa ha anche provocato critiche che andavano nel senso di una riunificazione sulla base degli individui particolari.

Certo, in primo luogo, Stirner, che aveva in anticipo criticato il progetto marxista e la sua paradossale realizzazione, attraverso la critica che fece del comunismo pre-marxista ne L’unico e la sua proprietà. La forza della critica di Stirner risiede nel fatto che non considerando in se stesso il rapporto tra le classi, può analizzare con radicalità quello tra individuo e società (e le differenti forme di micro-società). Ma le ragioni della sua forza critica sono anche quelle del suo punto debole: da un lato egli non mette in evidenza le contraddizioni esistenti fra i differenti gruppi sociali, dall’altro, e soprattutto nelle contraddizioni tra individuo e società (e “società”, classi, partiti, ecc.), egli rivela la sua tendenza ad esentare l’individuo. La società è concepita come antagonista all’individuo, ma in maniera esteriore. Sembrerebbe che all’individuo basti rompere i suoi legami personali con tutte le forme di società esistenti per accedere, non alla libertà – che non è che un’altra astrazione –, ma alla propria esistenza “egoista”. In effetti, il pensiero di Stirner è meno schematico, più contraddittorio, e si distingue senza equivoco dalle teorie moderniste attuali che vi attingono per altro – spesso via Nietzsche – molto della loro materia.

Ció non toglie che il limite essenziale de L’unico e la sua proprietà sia dovuto al fatto di non pensare alla contraddizione propria dell’individuo.

Gli anarchici individualisti, riprenderanno molti aspetti della teoria stirneriana, ma non tutto e, più spesso addolcendoli con l’ideologia (anarchica), che Stirner non faceva in alcun modo intervenire ma anzi, al contrario, criticava sotto qualsiasi forma.

Gli “eredi” più interessanti di Stirner sono, come sempre, quelli che, anarchici o no, non si definiscono tali. Così sembra necessario mettere in evidenza i legami che uniscono individui così differenti per le loro attività come Ernest Cœurderoy, Lacenaire, Flora Tristan, Georges Darien, Libertad, Virginia Woolf, Céline o Artaud (elenco per nulla esauriente).

È per lo più attraverso i loro atti e i loro scritti, ma anche attraverso la loro attitudine sociale che questi individui sono riuniti dal filo nero dell’individualità ribelle che non si risolve nell’individualismo e nemmeno nella società. Così Flora Tristan non ha mai messo in evidenza la questione individuale, ma tutta la sua attitudine personale di fronte a una società che la negava perché (e non come) donna e senza ricchezze, è di quelle che non trovano un senso che in Flora Tristan stessa.

Eccetto Lacenaire, per evidenti ragioni, coloro fra questi individui che sono senza dubbio, i più vicini con i loro scritti a Stirner, sono anche quelli che hanno provato – non coscientemente – a risolvere la contraddizione che predilige il pensiero di quest’ultimo. Cœurderoy, Darien e lo stesso Céline, hanno, in effetti, aggiunto alla loro rivolta contro il mondo, un elemento esteriore al loro essere individui, che è una forza sociale senza essere peraltro quella dei rapporti sociali normali. così Cœurderoy ha invocato l’invasione dell’Europa occidentale da parte dei “barbari” russi. (Cfr. Hurrah! o la rivoluzione con i cosacchi). Così, Darien ha desiderato con intensità, all’inizio del XX secolo, una guerra che, gettando le classi una contro l’altra, permettesse il risveglio degli individui. Così, infine, Céline ha visto – meno di quello che non si sia detto ma più di quello che lui stesso non abbia affermato in seguito – nel nazismo, un’altra forza sociale capace di precipitare le cose. In tutti i casi i limiti della rivolta individuale sono percettibili, ma è chiaro anche che i meccanismi sociali abituali, compresi i “rivoluzionari”, non possono operare nel senso del superamento di questi limiti. Ecco la ricerca di surrogati che, in tutti i casi, sono militari e supplenti all’assenza di una unità possibile fra le forze individuali e le forze sociali sulla base delle prime.

Vicini e nonostante (nettamente) differenti da questi individui sono stati tutti coloro che hanno cercato, marginalmente e in contraddizione con una situazione sociale di “artisti”, di superare ciò che questa situazione comportava in termini di limitazione della propria soggettività individuale. A differenza di Cœurderoy e Darien che erano anche – e può essere soprattutto – autori di pamphlet, i quali andavano a finire a fianco della pratica sociale oggettiva (quella della lotta di classe), di cui vedevano bene tutti i limiti rispetto agli individui; questi “artisti” possedevano uno status sociale – per quanto precario – nella soggettività, e tentavano di superare la separazione trovando un complemento alla loro propria critica nella critica sociale oggettiva esistente. Invariabilmente – è questo che c’è di essenziale nel loro interesse – questo rapporto causava loro profonde disillusioni.

Così i romantici tedeschi, o, in Francia, Charles Nodier principalmente, sono stati i primi a potere e a volere confrontare la loro esigenza individuale con una speranza sociale che si voleva universale (e non più al semplice gioco di intrighi e di combattimenti per il potere). Si sa quale disillusione sia stata per loro questo nuovo mondo, uscito dalla rivoluzione francese che realizzava così poco la loro speranza di riconciliazione dell’individuo con la società umana come con l’universale natura.

Benché rimanendo soggiacente, nell’evoluzione degli “artisti” più lucidi del XIX secolo e dell’inizio del XX secolo, e con l’esplosione Dada, poi con i movimenti tra le due guerre, che questa contraddizione viene di nuovo vissuta in tutta la sua globalità. (Erik Satie, fra gli altri, ha vissuto questi due periodi del movimento artistico – prima e dopo il 1914 – con intensità, allo stesso tempo che con una distanza critica più chiara della maggior parte dei musicisti). Quelli che ne furono allora gli attori, particolarmente i surrealisti, hanno senza dubbio spinto la coscienza individuale il più lontano possibile restando nella separazione dell’individuo e del sociale. La prospettiva rivoluzionaria li obbligava ad aggiungere alla rivolta e agli esperimenti individuali l’appoggio di un movimento sociale, rappresentato per loro dai partiti marxisti ufficiali (poi dalla loro opposizione trotskysta) tra le due guerre. Il loro merito, almeno quello della frazione che incarnò il gruppo attorno ad André Breton, fu di resistere al tentativo marxista, sempre ripetuto, di immergere l’individuo nel sociale. Resistenza che aveva lo scopo di affermare che l’individuo (e le sue contraddizioni) non è identico ai suoi rapporti sociali (e relative contraddizioni). In questo il surrealismo deve anche essere riportato oggi sui suoi punti forti. Per contro, il mantenimento delle contraddizioni individuali in una sfera separata, puramente interiore all’individuo, portò i surrealisti all’esaltazione di miti come l’amore che essi emanciparono dai rapporti (amorosi) inter-individuali per fargli prendere il posto degli amanti. Il vecchio “fantasma” dell’amore, che Stirner, a suo tempo, aveva ridotto a malpartito, si è incontestabilmente rivivificato al contatto col surrealismo. Socialmente questo si espresse attraverso l’esistenza di un gruppo formale funzionante, come ogni gruppo formale, secondo i riti dell’adesione e dell’esclusione. Dopo la guerra, l’inizio del movimento di assorbimento dell’individuo nella società suonò il rintocco del surrealismo che sopravvisse solo rinforzando il suo formalismo, malgrado la produzione di qualche (raro) testo di valore.

L’“Internazionale situazionista” (1958-1970) presenta il grande interesse di avere tentato una unificazione della critica soggettiva degli “artisti” con il suo necessario completamento sociale. Il suo punto di partenza è una critica del surrealismo statico del dopoguerra, in nome della trasformazione dei modi di espressione “artistici” dominanti, da individuali (letteratura, pittura) a sociali (cinema, urbanismo). Una unificazione con il progetto rivoluzionario proletario che allora sembrava possibile, quest’ultimo ridefinito secondo le condizioni moderne sul modello vicino a quello di “Socialisme ou Barbarie” e sotto l’influenza di quest’ultimo gruppo. Criticando per altro altrettanto bene il marxismo classico come il surrealismo, e aggiungendo all’oggettività proletaria rivoluzionaria una soggettività detta radicale, l’Internazionale situazionista costituì il suo proprio progetto di autogestione generalizzata.

Questo progetto riassume in se stesso le debolezze della teoria situazionista perché non fa che generalizzare le contraddizioni sociali alle contraddizioni individuali e, in un certo modo, ingloba queste nelle altre. La critica situazionista, forse meglio di ogni altra, ha mostrato nel periodo moderno di dominazione sociale e alla confluenza di due grandi modi di vicinanza critica separata anteriore, i limiti intrinseci di una critica proletaria imperniata sulla lotta di classe. Ridefinito, il proletariato conserva pur sempre tutte le caratteristiche del proletariato tradizionale, e l’operaismo situazionista non è secondo a quello del marxismo classico. All’altro polo, il détournement situazionista dei mezzi tecnici moderni, per realizzare questo progetto, è segnato dallo stesso limite. Se l’apporto incontestabile dell’Internazionale situazionista consiste nella critica approfondita che essa ha fatto delle condizioni sociali moderne, il fatto di essere rimasta su questo terreno ha permesso che questa critica, una volta digerita dalla società, potesse diventare, attraverso il modernismo, uno degli elementi della ristrutturazione in corso.

L’aspetto più debole della teoria situazionista, una specie di riformismo della vita quotidiana incarnato da Vaneigem (ma che si avrebbe torto ad attribuire a lui esclusivamente), è diventato l’attitudine (cool) attualmente dominante. La quotidianità generalizzata dei rapporti sociali e di ciò che oggi viene considerata arte, la quale è una caratteristica della democrazia arrivata a termine, pronuncia l’amara vittoria del situazionismo. Allo stesso modo, questa specie di freddezza polemica, in cui si tratta soltanto di avere l’ultima parola fingendo soprattutto di non essere colpiti dalle frecce avversarie, in breve, questo disinteressamento sistematico per i rapporti sociali istituito dai situazionisti, si inscrive senza dubbio nella corrente modernista che evacua qualsiasi vita individuale.

Ma Céline, per ritornare a lui, si distingue tanto dagli individui cui noi lo abbiamo accostato, quanto dai successivi, cui si potrebbe anche accostare data l’importanza della sua opera letteraria e la necessità incontestabilmente affermata da lui – qualunque cosa sia stata detta o egli abbia potuto lasciare intendere – di non identificarvisi.

Nell’insieme di quest’opera e, più esplicitamente, in un libretto intitolato Mea Culpa – curiosamente non ristampato fino ad oggi – benché non abbia il contenuto antisemita dei suoi libretti ulteriori, Céline ha fatto più che intravedere, anche se negativamente, la vera “soluzione” della contraddizione che ostenta il pensiero di Stirner. Per lui, il proletario è l’ultima maschera dell’uomo. Strapparla è rivelare quest’ultimo nella sua nudità, spogliato peraltro dall’alibi dello sfruttamento. In breve, in Mea Culpa, al di la della lotta di classe si trova l’individuo contraddittorio. In questo libretto, la visione critica di Céline, a volte deficiente da un punto di vista teorico che non è il suo, è tuttavia di una modernità stupefacente. In modo evidentemente molto diverso, Céline vi ritrova i forti momenti de L’unico e la sua proprietà, ma trasformandoli radicalmente in quello che gli individui, generalmente risparmiati da Stirner (nonostante il pensiero di Stirner sia lontano dall’essere intransigente a questo proposito) vi sono mostrati sotto la stessa luce della società, produttori di quest’ultima.

IV

Allo stesso modo in cui l’immersione dell’individuo (in formazione) nella natura, in seno alle comunità primitive, aveva delle contraddizioni (sociali) che minavano questa società, così anche la sua immersione attuale nella società, che ha preso il posto della natura, ha caratteristiche interamente contraddittorie.

Dopo il Maggio ’68, poco a poco, tutti gli elementi della vita sociale si sono sganciati dall’unità politica, separata, che la mediazione dominante delle classi conferiva loro.

Essendo tendenzialmente socializzato dalla società non ho più una reale comunità con la quale identificarmi.

Gli individui con i quali coesisto mi somigliano soltanto quando adottano le maschere sociali comuni. Non ho più interessi reali da dividere con loro e, ad ogni modo, neanche l’interesse comune che volendo essere soddisfatto mi spinge alla rivolta.

Quando mi ribello, ho di fronte a me tutti gli elementi sociali, anche e soprattutto gli altri individui, e non più soltanto i membri delle classi o dei gruppi opposti. Quando anche tu ti ribelli, lo fai contro tutto quello che non è te stesso e tutto quello che non sono io, senza che abbiamo lo stesso interesse. Questo diventa comune senza smettere di essere differente, di essere il mio e il tuo. L’antagonismo sociale, che il processo democratico attuale tende a nascondere può riapparire, ma su una base e con un contenuto senza dubbio rinnovati in quanto, non lottando più che per se stessi, la particolarità degli individui vi si manifesta senza più alcuna riserva. Gli antagonismi tradizionali sussistono certamente, ma possono essere inglobati dall’opposizione dell’individuo al mondo – opposizione che è d’altra parte alla loro origine – perché anche quando essi lottano apparentemente per un’entità esteriore (la classe, la razza, il sesso, ecc.), gli individui lo fanno partendo da un impulso radicato in loro e in loro soltanto.

L’intrecciarsi delle contraddizioni individuali e sociali rende sorpassata l’opposizione tra rivolta (individuale) e rivoluzione (sociale). Qualsiasi rivolta è diventata direttamente sociale quanto individuale. Reciprocamente la rivoluzione non è più questo atto unico e separato che gli individui compiono insieme per cambiare la società.

Al contrario di quello che è successo nelle società primitive, nelle società successive, la presenza di contraddizioni in seno ai rapporti sociali esistenti non ha prodotto di fatto il superamento di questi rapporti sociali, perché non si tratta più di rimpiazzarli con altri, di fare subentrare una società ad un’altra, ma di produrre un individuo particolare che presupponga rapporti sociali adeguati. In questo senso, la rivolta non è più quell’atto preliminare, ma senza contenuto, alla rivoluzione che possiede, questa, tutto il contenuto. La rivolta trasmette il suo stesso contenuto alla rivoluzione, poiché questa non ha più niente di obbligato né di automatico. Gli individui non possono più intravedere una prospettiva rivoluzionaria senza rivoltarsi loro stessi, direttamente contro ciò che li opprime. Non ci sono più rivoluzionari, nel senso separato del termine, poiché nessuno può rappresentare qualcosa o qualcuno che non sia se stesso. Abbattere i rapporti sociali esistenti resta un atto rivoluzionario, ma confuso con e presupposto dall’atto di rivolta, perché significa abbattere tutti i rapporti sociali che presuppongono la propria individualità.

Questa impossibilità di separare gli atti di rivolta e rivoluzionari è gia stata prefigurata nelle sommosse non politiche (e si potrebbe dire a più di un titolo anti-politiche) che hanno scosso il mondo dopo la fine degli anni ’60 e particolarmente nelle sommosse ricorrenti nei ghetti neri americani o ancora quelle dei ghetti britannici dell’80. Si tratta in tutti i casi di individui che associandosi nel corso stesso della rivolta, si dissociano non appena momentaneamente viene esaurito lo scopo della rivolta stessa. Nessuna società può sorgere da queste sommosse, esse sono interamente fluide e mobili, non formulano alcuna rivendicazione particolare, costituiscono la critica pratica della democrazia più avanzata che è stata esercitata fino ad oggi. Simultaneamente, essendo prodotte dai proletari, manifestano ad un grado molto elevato la decomposizione di questa classe che è l’ultima.

Il fatto che si tratta di manifestazioni di decomposizione del proletariato può leggersi anche nel contenuto razziale di queste sommosse, le quali criticano anche implicitamente l’universalizzazione più astratta, quella della classe proletaria, che tende ad escludere tutte le altre contraddizioni sociali. In queste sommosse le contraddizioni razziali che preesistono in un certo modo a quelle delle classi, sono rimesse in evidenza in quanto non sono per nulla separate da e nel proletariato. Tuttavia, ed è questo il loro limite, queste sommosse non costituiscono per nulla questo superamento, perché l’associazione degli individui vi si produce, precisamente, su una base razziale allo stesso tempo che proletaria (in dissoluzione) e non in modo essenzialmente individuale. Questo limite comporta che a loro volta esse tendono ad escludere da loro altre contraddizioni sociali, come la scissione dell’umanità in sessi, e che i loro soggetti non si “righettizzano” passato il tempo della rivolta.

Su una base strettamente individuale, al contrario, nessun’altra attività di un dato gruppo è possibile e dunque tutte le contraddizioni, tutti gli antagonismi si rivelano e sono attivi in seno agli individui e alle associazioni che possono forgiare nel corso della loro rivolta.

 
 

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