Titolo: Cloro al clero
Sottotitolo: Apologia dell’anticlericalismo
Note: Prima edizione: novembre 2013
Pensiero e azione N. 20
SKU: pensiero-000020
Dimensioni: cm 15 x 21,5
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    Come se fosse una introduzione

    Introduzione vera e propria

    Limiti e giustificazioni dell’attività economica nel pensiero medievale

    Caratteri essenziali del pensiero economico della Scolastica fino a Tommaso

      I

      II

    Economia ed etica nell’antico cristianesimo

    La liceità della ricchezza nel pensiero patristico

    La speranza

    La controriforma e le conseguenze sulla teoria politica e morale

      I

      II

      III

      IV

      V

      VI

      VII

      VIII

      IX

      X

      XI

    Benvenuto Cellini e Girolamo Cardano

      I

      II

    Jus primae noctis

      Premessa

      Fondamento storico dell’esistenza di questo diritto

      Le origini religiose del jus primae noctis

      Conclusione

    Le casse rurali cattoliche nel catanese

      La realtà economico-sociale delle campagne del catanese alla vigilia della prima guerra mondiale

      I cattolici e i problemi del mondo contadino. La posizione del clero siciliano

      Gli orientamenti del movimento cattolico nel catanese. La situazione in Adernò. Elementi conflittuali all’inizio del periodo considerato

      L’esperienza della “Cassa P. Musco” in Adernò e l’opera di Vincenzo Bascetta

      La formazione del Partito Popolare Italiano in Adernò. Il contributo di Vincenzo Bascetta

      Conclusione

    Il problema dell’educazione nella Prima serie della “Civiltà cattolica” (1850-1852)

      Introduzione

      La situazione politica al momento della nascita della “Civiltà Cattolica”

      Aspetti tecnici e posizione ideologica

      Sul problema dell’educazione nel periodo risorgimentale

      Impostazione generale del problema dell’educazione nei primi fascicoli della “Civiltà Cattolica” e attività teorica di Luigi Taparelli D’Azeglio

      Il modello dell’educazione suggerito dalla “Civiltà Cattolica”

      La questione della libertà dell’insegnamento e gli asili infantili

      Pietro Thouar, il comunismo e il problema della diffusione dei cattivi libri

      La critica a Lambruschini

      L’educazione femminile e il lavoro di Caterina Franceschi-Ferrucci

      Conclusione

    Gesù Cristo non è mai esistito

    Una questione di rogo

    Dio lo vuole

    Quarta di copertina

      Nota

    I due Gesù

    Stregoneria cristiana

    La peste religiosa

      Nota

      I Una nuova provocazione.

      II Repressione.

      III Padre nostro... dacci oggi il nostro processo quotidiano

    Stregoneria

      Nota

    Il segno dei tempi

    Soldati di Dio

    Niente di nuovo a Ladispoli

    L’uomo vestito di bianco

    Abiti e idola

    L’impudenza del soglio

    Dio non esiste

    Clericalismo e anticlericalismo

    Della povertà

    Il sentimento tragico della vita

    Per un concetto dell’amore

    Pensieri di un matematico

    Annotazioni di Amfissa

Sepolcro di Marforio e di Pasquino,
anime a flagellare i vizi nate.
Tu sentina d’orrori, o prete o frate,
guarda non li passar troppo vicino.

Come se fosse una introduzione

Il nucleo centrale relativo alle ricerche sulla Patristica ebbe origine dalla mia tesi di laurea presentata alla Facoltà di Economia dell’Università di Catania nell’anno accademico 1965-1966.

Volevo dimostrare l’esistenza di un pensiero economico se non maturo almeno in nuce. La ricerca fu sostanzialmente un fallimento ma, come spesso accade, mi trovai di fronte a un materiale che dimostrava qualcosa d’altro, un materiale molto interessante. Avevo sotto gli occhi, forse per la prima volta in modo sufficientemente approfondito, mancando studi specifici sull’argomento, l’itinerario che dai Vangeli conduceva fino ad Agostino e fino alla Scolastica, nel corso del quale da una condanna iniziale assoluta della ricchezza si era pervenuti a una sua giustificazione e perfino a una sua esaltazione.

Il punto di partenza era, come ho detto, la ricerca delle origini della riflessione economica, in particolare di quella teorizzazione che si indugia intorno alle leggi, cosiddette assolute, della scienza economica borghese. Gli economisti, fedeli servitori dei padroni, mi avevano insegnato che questa corrispondenza doveva esserci e, quando per un caso non fosse possibile reperirla, allora doveva trattarsi di un difetto analitico, di una incapacità di quei lontani pensatori di utilizzare strumenti di analisi che solo la scienza moderna aveva confezionato e reso accessibili.

In questo modo, ad esempio, la legge del mercato, assente in alcune considerazioni dei Greci e dei padri della Chiesa, veniva lo stesso considerata una legge “eterna”, solo che quella povera gente, dal profondo abisso della loro ignoranza, non poteva arrivare a formularla e, spesso, nemmeno a intuirla, dato che non era, parallelamente, riuscita a sviluppare, poniamo, l’analisi matematica o modellistica e le tecniche della divisione del lavoro, i sistemi più idonei dell’accumulazione capitalista della ricchezza e la regola precisa dello sfruttamento delle fabbriche e delle campagne. Non essendosi fatto questo “meritevole” lavoro si aveva, come risultato, che qualche geniale pensatore – ad esempio Platone e Aristotele, Agostino e Tommaso – mettevano a fuoco i vari problemi dell’economia, ma non ne sviluppavano le implicite riflessioni metodologiche, cioè non davano vita alla “scienza economica”.

Per la verità bisogna dire che molte questioni metodologiche, specie quando andavo esaminando la posizione dei vari storici del pensiero economico, riguardo il periodo antico, le ponevo in modo diverso da queste premesse, entrando quindi in immediata collusione con l’insegnamento ufficiale, ma queste divergenze non giunsero mai, nel corso degli anni che impiegai nello sviluppo di queste indagini, a una chiara formulazione del problema.

I borghesi, e i loro tecnici prezzolati, con in testa gli economisti, hanno sempre affermato – almeno da quando si sono impadroniti del potere – che il mondo da loro creato è il migliore dei mondi possibili e il logico sviluppo del mondo precedente. Attraverso la notte della barbarie medievale – a loro dire – si sono ripresentati intatti i grandi valori spirituali della Grecia e di Roma e, inseriti in una realtà moderna ed industrializzata, si sono cristallizzati nello Stato democratico attuale, lontano parimenti dalla barbarie del caos politico e dalla barbarie della dittatura fascista. Questo mondo ideale, in pratica, si basa sul più spietato e razionale degli sfruttamenti, sulla più ampia alienazione dell’uomo, sulla costante eliminazione di tutti i valori essenziali dell’individuo, sulla sua utilizzazione come semplice merce che entra a far parte del rapporto di produzione. Ma, il colmo della raffinatezza, direi quasi il tocco artistico di tutto ciò, è rappresentato dal tentativo ben riuscito di far passare questo mondo abortito in partenza, come retto da leggi eterne e irremovibili, leggi che agivano anche all’interno di quei lontani secoli di “barbarie”.

Diventa logico, con queste premesse, chiedersi come mai i pensatori di quei secoli lontani non abbiano individuato per tempo, e teorizzato in forma sufficientemente chiara, quelle leggi. L’unica spiegazione possibile, visto il presupposto ineliminabile della loro esistenza “eterna”, è che quei pensatori non potevano teorizzare quelle leggi perché non ne avevano le capacità analitiche, cioè non possedevano gli strumenti di analisi idonei a tale compito.

In effetti, il fallimento della mia ricerca in questo senso, ha provato alcune cose della massima importanza. Negli antichi pensatori che si sono occupati dei problemi dell’economia politica, si trovano riflessioni intorno alla metodologia dei fenomeni economici di profondità e chiarezza a volte maggiori di quelle che siamo abituati a leggere nelle opere dei nostri economisti. I problemi sono affrontati in uno con altri di differente portata, per la maggior parte di natura etica, in quanto, più provvedutamente di noi, quegli studiosi ritenevano che il momento economico non potesse essere separato dal momento etico, pena la risoluzione dell’uomo nel fenomeno economico e la sua scomparsa dal mondo etico, essiccamento pari all’alienazione di cui oggi siamo abituati a sentir parlare. Queste notazioni economiche, infatti, non avevano come scopo di fondare e giustificare una struttura di sfruttamento e di dominio dell’uomo sull’uomo, ma erano soltanto frutto dell’attività personale del filosofo che li pensava, ancora staccato dal rapporto col potere, almeno nella sua veste di pensatore che si dedicava a problemi di natura economica. Nel momento in cui, come accadeva con l’istituzione della schiavitù, il filosofo si trovava di fronte a qualcosa che riguardava direttamente il rapporto col potere, la sua essenza di intellettuale servo dei padroni, ritornava alla luce e si dedicava alacremente alla ricerca di una giustificazione filopadronale, mentre ogni presupposto di ricerca della verità era definitivamente accantonato. Questo è il caso di Aristotele e della sua teoria della schiavitù.

Ma, in pratica, costituisce un caso limite che non ci concerne direttamente qui. Le riflessioni economiche non avevano, in sede teorica, una possibilità concreta di essere utilizzate dal potere sotto forma di sostegno dello sfruttamento, quindi lasciavano le cose così come le trovavano, da cui la possibilità di estrinsecarsi in forma piuttosto libera.

Quando questo non fu più possibile, come accadde con le riflessioni della Patristica e della Scolastica in merito al problema della ricchezza, allora immediatamente il meccanismo che oggi vediamo scattare continuamente per i nostri economisti, si mise in funzione.

Agli inizi il cristianesimo, quando ancora il potere era dall’altra parte della barricata, il discorso, sempre sul problema della ricchezza, lo poneva nei termini di assoluta condanna. Quando, dopo l’accettazione della nuova religione e lo sviluppo in senso politico di collaborazione col potere, le prospettiva comunitarie iniziali tramontarono del tutto, si fece avanti la necessità della riflessione favorevole alla ricchezza, e questa puntualmente venne fatta. In questo senso, quindi, Agostino è un economista moderno, mentre Giovanni Crisostomo resta un pensatore antico.

In questo modo, nel corso della mia ricerca, mi accadde di provare, per via indiretta, che quelle leggi “assolute” erano un plagio bello e buono, che tutta l’impalcatura della “scienza” economica aveva non solo caratteristiche conservative riguardo la sua finalità, ma anche, e direi principalmente, riguardo le sue premesse; che gli economisti erano soltanto delle brave persone immerse fino al collo nello schematismo del potere, tali e quali i burocrati, capaci solo di ragionare con le loro formule e i loro modelli, incapaci del tutto di vedere al di là del proprio naso quando la prospettiva si scostava verso orizzonti se non proprio rivoluzionari, almeno di sostanziale modifica dello schema di partenza.


[1973]

Introduzione vera e propria

Lettore anticlericale, forse non troverai qui quello che cerchi, non avercela con me. Odio i preti come e quanto te, ma penso che il danno peggiore lo hanno fatto, e continuano a farlo, proprio in questo modo, fornendo giustificazioni morali e suggerendo scappatoie agli sfruttatori.

Con buona pace dei tanto simpatici mangiapreti di una volta.

Ecrasez l’infâme!


Trieste, 28 maggio 2008

Alfredo M. Bonanno

* * * * *

«Per tutto il Medioevo l’esser capaci di visioni – cioè di un profondo disturbo spirituale! – era considerato come il segno peculiare e decisivo della suprema umanità. E in fondo i medievali precetti di vita per tutte le nature superiori (per i religiosi) miravano a rendere l’uomo capace di visioni! Cosa c’è da meravigliarsi, se ancora nella nostra epoca è straripata una sopravvalutazione di persone semi-sconvolte, deliranti, fanatiche, di persone cosiddette geniali; “esse hanno visto cose che altri non vedono” – certo! e questo dovrebbe renderci guardinghi nei loro confronti, non creduli!».

(F. Nietzsche, Aurora, I, 66)

Limiti e giustificazioni dell’attività economica nel pensiero medievale

L’attività economica comincia ad assumere forme ed aspetti complessi, soltanto con l’avvento di quella mentalità che si definisce capitalista, ma la riflessione su di essa, comincia molto tempo prima.

Di già nella Patristica è possibile trovare accenni ad una attività diretta al conseguimento della ricchezza, ed anche formule specificanti come questa attività si debba necessariamente accompagnare alla distribuzione dei beni economici e non alla loro tesaurizzazione.

Ma è soltanto nella Scolastica che si segnano con chiarezza i limiti dell’attività economica e se ne approntano le giustificazioni. I primi autori, come Boezio, Cassiodoro, Benedetto ed altri, restano troppo legati alla vastità e alla urgenza del problema della ricchezza, per avere quella necessaria rigorosità scientifica inerente al nuovo problema da trattare.

Infatti il primo spunto che troviamo non è affatto di natura teorica, ma anzi di azione pratica. Gregorio Magno fu un accurato amministratore dei beni della Chiesa, riuscendo a ricavare da negletti latifondi, regno di predonerie e di fame, un reddito in netto crescendo. Le sue direttive in materia di scelte economiche furono possibili, in quanto, in lui, era già maturata la conclusione che l’attività economica, oggettivamente parlando, non può nascondere niente di contrario ai principi cristiani.

Con Isidoro da Siviglia il canone regolatore del problema della ricchezza, quella misura del “necessario” che abbiamo visto alla base della sua distribuzione, passa ad essere usato come canone regolatore del problema dell’attività economica. (Cfr. Sententiarum libri tres, Appendice, cap. XXV).

Ma l’invito all’attività produttiva si arresta davanti alla soglia, davvero insormontabile, della speculazione commerciale: il lavoro e l’operosità, donde lo spontaneo paragone con la formica (Ib. cap. LIV 4-6), sono i limiti dell’attività economica.

Ovviamente questi limiti, così ristretti, finiscono per ribadire quell’aria di sospetto che si era mantenuta per secoli nei riguardi dell’attività economica, specie nella mercatura e nelle arti meccaniche, meno nell’agricoltura.

È proprio in merito ai prestiti agricoli che si hanno alcune interessanti notazioni di Rabano Mauro: «Alcuni pensano che vi sia usura solo nel caso del danaro. Prevedendo ciò, la Scrittura divina proibisce in ogni cosa la “sovrabbondanza”, affinché tu non riceva di più di quel che hai dato. Sogliono, in campagna, esigere l’usura (o, come la chiama la Scrittura, la “sovrabbondanza”) per il frumento e il miglio, per il vino e l’olio e le altre specie di prodotti. Ad esempio, d’inverno diamo dieci moggi e durante la mietitura ne riceviamo quindici, cioè una metà in più – e uno, che si reputi un modello di giustizia, ne prenderà in più la quarta parte. Ragionano così: Ho dato un moggio solo; ma, seminato, esso ha prodotto dieci moggi. E allora non è giusto che io – dal frutto del mio moggio – riceva un mezzo maggio in più, dal momento che un altro, per la mia liberalità, ne ha potuto avere nove e mezzo? Non vogliate illudervi dice l’Apostolo: Dio non si deride (Gal. VI). Ci risponda brevemente questo usuraio così misericordioso: ha donato a chi già aveva o a chi non aveva? Se a chi aveva, non era certo obbligato a dare. Perciò diede a quello, come se quello non avesse. E allora perché ora esige di più, come se esigesse da uno che ha?». (Rabano Mauro, in Migne, P. L. vol. CX col. 709, cfr. G. Barbieri, Fonti per la Storia delle Dottrine Economiche, Milano 1958, p. 387). In questo modo, pur non spostandosi affatto dalla dirittura segnata dai Padri, si accenna timidamente alla produttività di alcuni beni – nel caso in questione al grano – produttività che non viene ad essere esclusa, anzi semmai confermata, dal fatto che il prestatore non può considerarla applicabile alla quantità di bene prestata, senza incorrere nel peccato di usura. Ci sembra che nel passo di Rabano Mauro, si possa incominciare a intravedere una prima distinzione tra prestiti consuntivi e prestiti produttivi, sebbene non si giunga alla conclusione che quest’ultimi possano ammettere un compenso. Ancora una volta all’attività economica resta chiusa l’apertura alla libera produttività.

Parole severe ha Raterio contro l’attività economica della mercatura: «...rifletti bene – ti prego – quanto pericolosa professione per l’anima tua hai avuto in sorte. E sappi che tu – benché un poco più scusabilmente – vieni chiamato, come i ladri, “pubblicano”. E il nomignolo di “cupidenario”, col quale da molti ti senti chiamato, mostra che tu servi, e non poco, al vizio: radice di ogni male – per testimonianza dell’Apostolo – che è la cupidigia (I Tim. 6, 10). Pure non disperare, poiché sta scritto: La benedizione del Signore è sopra il capo dei venditori (Prov. 11, 26). Ma considera di quali venditori. Pertanto – mentre v’è ancora tempo – fa’ quel che ti suggerisco: Presta al prossimo tuo, quando egli è in bisogno... ». (Praeloquiorum libri sex, I, I, 12. Cfr. G. Barbieri, op. cit., pp. 350 e sgg.). Eppure in questi stessi passi che ricordano il dovere caritativo del cristiano, si osservano lunghe specificazioni delle varie attività commerciali, di notevole valore per la storia economica, venendosi, se necessario, ancora una volta a confermare come dallo spunto etico, nascano notazioni valide per il ricercatore di monumenti della tradizione economica. Dal nostro punto di vista, cioè di una Storia del pensiero economico, ci sembra notevole, invece, la conclusione di Raterio: malgrado la diffusa abitudine della tesaurizzazione, la ricchezza può trovare il proprio sbocco distributivo attraverso la valvola di sicurezza dell’elemosina. L’interpretazione di quest’ultima risulta essere notevolmente cambiata: dall’antica norma di carattere comunitario, si è passato lentamente ad una norma che ci sembra ricordare quella dell’“investimento” dell’economia contemporanea, tranne che in quel caso il reddito veniva ad essere valutato in termini di vita eterna.

In un autore severo nel giudicare ogni fenomeno di costume, come Pier Damiani, non avremmo mai pensato di potere trovare accenni di apertura nei riguardi del problema dell’attività economica. Eppure una frase ci è venuta in aiuto, una semplice frase che in sé medesima raccoglie tutto un programma, non solo cristiano ma primamente “positivo”: «Ma allora tutti sono veramente uomini se ogni uomo è veramente uomo. E poiché ha diritto al nome di uomo solo chi garantisce la custodia di ciò che gli è stato affidato, ciò vale per tutti gli uomini». (De brevitate vitae pontificum romanorum, V. Cfr. Migne, P. L. vol. 145, col. 479, citato da G. Barbieri, op. cit., p. 282). Interpretando da questo particolare punto di vista ogni attività umana, l’angusta cerchia delle possibilità di azione terrena assegnate al cristiano, si allarga notevolmente. Si può dire che sia questa la strada più sicura per superare i limiti assegnati dalla tradizione all’attività economica, anche se – ed occorre convenirne – è la più pericolosa, presentando la soluzione sotto forma di uno stretto solipsismo, del tutto inadatto a fornire una giustificazione definitiva al problema. Quindi superamento dei limiti sì, ma non elaborazione di una giustificazione: questa ultima doveva avvenire sotto forma di oggettivazione scientifica, in tempi più maturi.

Alla chiarificazione del problema che ci occupa si può riportare il lavoro di Ugo di San Vittore, diretto ad includere la “scienza economica” nel quadro generale di sviluppo della filosofia. Sulle orme di Aristotele questo autore divide la Filosofia in quattro scienze: Teoretica, Pratica, Meccanica e Logica; dalla Pratica si dipartiscono poi la “scienza solitaria” o etica, la “scienza privata” o economica e la “scienza pubblica” o politica. La Meccanica è considerata come la “scienza alla quale deve rifarsi la fabbricazione di tutte le cose”, e comprende sette attività: lanificio, armatura, navigazione, agricoltura, caccia, medicina e teatrica. (Eruditionis didascalicae, cfr. G. Barbieri, op. cit., p. 368.). Quindi ci sembra chiaro come i limiti tradizionali assegnati all’attività economica, cioè i limiti stessi di Aristotele che la voleva “scienza della conduzione della famiglia”, vengano ancora separati dalla scienza che si occupa della produzione su scala più grande di quella familiare e a scopo di guadagno, ma solo a scopi didattici: la vicinanza è troppo grande, per non indurre al dubbio e al parallelo.

In effetti non passerà molto tempo perché questi autori incomincino a chiedersi se l’oggetto della scienza economica sia soltanto lo studio del sistema eticamente più valido della distribuzione della ricchezza, oppure se non comprenda pure i procedimenti che questa ricchezza creano.

Tale, in un certo senso, il caso di Gundissalino, che fa ripartire dalla Filosofia Pratica tre scienze: la scienza politica, l’economia e l’etica. Mentre quest’ultima resta legata alla sua tradizionale interpretazione di scienza che insegna il comportamento retto nei costumi, le prime due hanno frequenti trapassi reciproci: il fenomeno tecnico e il fenomeno produttivo sono illustrati nell’economia, insieme alla tradizionale conduzione della famiglia; il fenomeno distributivo invece è illustrato nella scienza politica, dove si trovano pure cenni di pratica commerciale riguardante specialmente la tecnica del prestito, del risparmio e della spesa.

Degno di nota ci appare un passo dell’opera di Giovanni di Salisbury, in cui appare, forse per la prima volta, un’analogia tra il processo economico e l’organismo umano. Come sappiamo queste analogie, abbonderanno poi nella letteratura moderna. «Coloro che esercitano gli uffici più bassi, sono chiamati piedi, per il cui servigio le membra camminano sulla terra. In essi rientra la categoria dei contadini, che sempre aderiscono alla terra, sia per le seminagioni, o per le piantagioni, o per i pascoli, o per la coltivazione dei fiori. A questi si uniscono molte specie (classi) di lavoratori della lana, le arti meccaniche per il legno o il ferro o per i vari metalli, i lavori servili e le molteplici attività per acquistare il vitto, sostentare la vita, o aumentare il patrimonio: cose che non appartengono all’autorità di chi presiede, né sono di profitto a tutto lo Stato. Queste attività tante sono, che lo Stato per la loro numerosità non supera soltanto i granchi ottopiedi, ma gli stessi centopiedi». (Polycraticus, in Migne, P. L., v. 199, col. 618. Cfr. G. Barbieri, op. cit., p. 384).

La classica condanna che Giovanni Crisostomo aveva lanciata contro i mercanti, costituente una grave remora allo sviluppo di una classe molto diffusa e promettente economicamente, condanna che se non indica il pensiero generale della Patristica nei riguardi della mercatura, come taluno ha voluto dare a intendere, è lo stesso da considerarsi come un ostacolo; viene superata da Alessandro di Hales che tiene conto del lavoro di Agostino, il quale aveva sottolineato gli eccessi viziosi della mercatura, ma anche la sua legittima funzione economica. Secondo questo studioso il commercio è una attività lecita, purché non venga esercitata da preti o in luoghi consacrati al culto e purché non ecceda nella speculazione, nello sfruttamento e nell’usura. Non solo, ma Alessandro di Hales giunge a giustificare anche il profitto che dalla mercatura scaturisce, con il costo del trasporto e con la naturale retribuzione dell’attività del mercante.


[Pubblicato su “Studi e ricerche”, anno IV, 1967, pp. 512-516]

Caratteri essenziali del pensiero economico della Scolastica fino a Tommaso

I

La Scolastica e le istituzioni sociali del Medioevo.

Nella valutazione storica del Medioevo, è ormai consuetudine intraprendere una discussione intorno alla legittimità di mantenere la classica interpretazione di “età di barbarie e di distruzioni”. Come sappiamo questa formula stereotipata ci è pervenuta dalla storiografia che via via si è alimentata alle correnti tradizionali: umanesimo, classicismo, riforma, illuminismo, romanticismo e positivismo. Infatti fu proprio Jean-Antoine-Nicolas Condorcet a definire un’“époque desastreuse”, il Medioevo (Esquisse d’un tableau historique des progrès de l’esprit humain, Paris 1795) e a costruire, insieme a Voltaire (Essai sur les mœurs et l’esprit des nations, Paris 1756) quelle frasi fatte che abbondavano nei libri degli storici fino a qualche decennio fa. Adesso ci si rifiuta di dare credito a quelle immagini, ricadendo nell’eccesso opposto. Insomma, per quanto possa sembrare strano, il fantasma del Medioevo, con tutto il suo corredo di barbarie e superstizioni, distruzioni e interruzioni, viene mantenuto vivo e vegeto, mentre si parla con tutta tranquillità di barbarie puramente iniziali, di superstizioni isolate, di distruzioni limitate agli eventi bellici, di una continuazione di idealità tipicamente romane, anche se valutata attraverso il rinnovato spirito germanico.

Gino Luzzatto parla di «violenze e rapine inevitabili nel momento del primo urto» (Storia Economica d’Italia, vol. I L’Antichità e il Medioevo, Roma 1949, pp. 131 e sgg.), ma non dà conto del perché dell’attutirsi delle stesse, nei periodi successivi: sulla scia di Numa-Denis Fustel de Coulanges egli viene – a nostro avviso – a ripresentare, in forma rovesciata, un’altrettanto mitica idea di Medioevo.

La posizione di Luzzatto, non è dissimile da quella che, negli opposti fronti, presero in passato i romantici con Gaston Paris (cfr. Lecon d’ouverture, tenuta al Collège de France nel 1866), nel giustificare l’immane lavoro fatto dagli storici del secondo Settecento e dal primo Ottocento, sui documenti originali, lavoro che adesso ci appare distorto fondamentalmente da una visione di vita medievale come vita di ascesi e di rinuncia al mondo. Per Adolfo Bartoli che interpreta gli Annales Cassinates, ricavandone deduzioni che sembrano alla critica successiva (Antonio Viscardi), assolutamente gratuite, per quanto stranamente riconfermate da una inusitata ammirazione di Croce per il banale testo del monaco commentatore dei Cicli di Beda il Venerabile; per Carducci che poeticamente – e a volte, ma a modo suo, storicamente – fissa i termini di un ascetismo capace di distruggere le residue forze della civiltà romana e di trasformare il mondo in un “ospedale”; per le posizioni anticlericali e ghibelline di tanta storiografia positivista che individua (Corrado Barbagallo) le cause della caduta dell’impero romano, più nell’avvento del cristianesimo che nella venuta dei barbari; per Francesco De Sanctis che riduce il valore della letteratura medievale alle semplici espressioni sacre e misteriche, agli inni, alle allegorie e che resta di stucco davanti all’opera di Boccaccio, sembrandogli quest’ultima un avvento talmente rivoluzionario da far sì che “da un giorno all’altro presenti il mondo mutato”; per tutte queste posizioni critiche, oggi definitivamente superate, si possiede giusto riscontro, nell’opera di tanti studiosi che come Luzzatto, avvertono l’essenza culturale e vitale del Medioevo, ma tendono a focalizzarla in una formula singola o in un ben circoscritto corredo di nozioni. Queste ultime posizioni critiche sono, purtroppo, ancora da superare.

Tipico il caso di Joseph Schumpeter: «Si suol designare con l’espressione “ascesa del capitalismo” i processi storici che alla fine frantumarono il mondo sociale di Tommaso. Sebbene siano stati infinitamente complessi, pure tali processi possono essere descritti nei termini di poche ampie generalizzazioni, che non sono irrimediabilmente erronee. E benché non sia per nulla corretto parlare di una qualche “rottura”, tuttavia è possibile datare quegli sviluppi, almeno per secoli». (Storia dell’analisi economica, vol. II, tr. it., Torino 1968, p. 97). Qui l’economista tedesco affronta il problema del rapporto tra il mondo tomistico e i nuovi fermenti del capitalismo; quindi una semplice componente di quel vasto novero di problemi che entrano a far parte della parola Medioevo, intesa come periodo storico; eppure sente lo stesso il bisogno di evitare l’aperta ammissione del classico concetto di “rottura”, anche se poi indulge nella possibilità, altrettanto mitica, di ottenere una datazione anche per secoli, di quel fenomeno di ascesa del capitalismo.

Classico il caso di Benedetto Croce che affermò essere la nota predominante di tutto il Medioevo, la “credulità” (Teoria e storia della storiografia, Bari 1917, cap. III), cioè l’assoluta “indifferenza” per le questioni mondane. Fu compito di un giovane studioso, che si affacciava allora nel campo degli studi storici, Antonio Viscardi, ridimensionare la tesi crociana (“Un giudizio del Croce sulla storiografia medievale”, in “Atti del R. Istituto Veneto di Scienze e Lettere”, LXXXII, 1922, p. 23), anche se, poi, finì per dissolvere il promettente avvio, nell’allettante conclusione di un’altra formula, altrettanto astratta quanto quella del suo avversario. Ma è proprio a Viscardi che dobbiamo il concetto più chiaro di Medioevo, nelle sue opere maggiori, e principalmente nel volume delle Origini (Milano 1957) curato per la collezione Vallardi. Accanto a lui altri studiosi, come Emilio Bertana e Pio Rajna potrebbero utilmente essere impiegati per l’affermazione di una tesi assolutamente imparziale, aliena da formule tanto affascinanti quanto ingannatrici.

Ci pare opportuno, infine, ricordare l’opinione di uno specialista di storia del pensiero economico, Eric Roll, il quale coglie appieno i pericoli dei due estremismi che abbiamo cercato di individuare: « Molti storici liberali non hanno visto altro nel Medioevo che un generale ristagno. Impressionati dall’enorme espansione cui hanno dato luogo il capitalismo e le sue forme politiche, non hanno potuto far altro che sottolineare la lentezza del processo economico dei periodi precedenti. D’altra parte, coloro le cui opinioni sociali erano ispirate dalla reazione contro il capitalismo, hanno rilevato l’ordine e la stabilità della società medioevale, dimenticando tutti gli inconvenienti che ne erano l’inevitabile corrispettivo. Una visione realistica deve evitare queste unilateralità e valutare la struttura sociale del Medioevo nella sua interezza, anche se ci sono in essa degli elementi diametralmente opposti». (Storia del pensiero economico, Torino 1966, pp. 39-40).

Nella considerazione, quindi, del Medioevo come periodo storico complesso quanto altri mai, e che difficilmente si presta a simbolismi o schematismi di qualsiasi impronta dottrinale; passiamo ad esaminare le principali istituzioni sociali dell’epoca e i rapporti che ne scaturirono in conseguenza della problematica scolastica.

La divisione in classi, derivante dall’organizzazione feudale della vita del medioevo, costituisce il primo elemento determinante. La progressiva diminuzione del numero degli schiavi, derivante sia da motivi politici che religiosi, rende a poco a poco impossibile il mantenimento dei grandi latifondi, i quali finiscono per essere dati ad affittuari. Quest’ultimi, col tempo, prenderanno la veste di coloni, legati alla terra da complicati contratti. Una categoria particolare di persone, la gente d’armi, mercenari e banditi della peggiore specie, al comando di uomini senza fede, venne impiegata per difendere le terre di confine. Tutta questa organizzazione era affidata al signore del castello, i cui poteri erano pressoché illimitati e nelle cui mani si concentrava, tra l’altro, un notevole onere amministrativo.

Un organismo a parte, sebbene legato in svariati modi al mondo feudale, è quello della Chiesa; anche qui una stretta disciplina gerarchica regolava l’ordine interno, con la differenza che i ranghi superiori erano aperti a tutti gli uomini di cultura, una volta che venivano a rendersi disponibili dagli accaparramenti delle famiglie importanti. Quindi possiamo identificare in seno alla Chiesa, per Io meno in via teorica, una sorta di livellamento della divisione in classi.

La dottrina scolastica, dal canto suo, aveva una rigida linea di condotta, derivante dalla formulazione data per tempo dai Padri, cioè non poteva situarsi che come “spiegazione” della rivelazione data, e non come “libera ricerca”. Ma questo rigorismo, fortunatamente, cessava di esistere fuori delle materie di fede. Infatti, mentre per quanto riguarda la teologia la Scolastica mantenne sempre una interpretazione “canonica”, per quanto riguarda il problema sociale, la schiavitù, il problema economico, ecc., ogni soluzione fondata sull’autorità delle Scritture era considerata un argomento molto debole. (Cfr. Summa Theologica, quaest. I, art. VIII, ad secundum).

È proprio questa considerazione di sufficientemente ampia libertà di pensiero, che impedisce l’accettazione delle formule definitorie viste prima. Anche non volendo ricorre ai testi più noti, come quelli di Boezio, Cassiodoro, Gregorio Magno, Rabano Mauro, Raterio, Pier Damiani e altri, lo stesso fervore d’indagine del fenomeno sociale, lo stesso interessamento per le vicende temporali, si nota in testi apparentemente più scheletrici, come il Chronicon cassinense, il Chronicon Sancti Benedicti Casinensis, il Chronicon di Leone Marsicano, ecc. (Cfr. A. Viscardi, Storia della Letteratura italiana, vol. I, Milano 1960, pag. 39).

Il periodo scolastico precedente all’avvento delle prime avvisaglie capitaliste, si può quindi ritenere validamente riassunto nella impostazione feudale dei grandi latifondi, con la persistente differenziazione delle classi; e nella egualmente gerarchica composizione della Chiesa, con la particolarità che quest’ultima ammetteva qualche eccezione alla scelta degli uomini in base alla casta. Come a dire che due princìpi, l’uno di divisione netta ed intollerante, e l’altro di unificazione, si amalgamavano in modo non sufficientemente valido, comunque tale da rendere la società medioevale stabile se non proprio negli uomini, almeno nelle forme sociali.

Il capitalismo, negli assetti che saranno familiari fin quasi sulle soglie del Novecento, viene a poco a poco, a sostituire il sistema feudale. Sicuri sintomi di questa evoluzione sono: la maggiore importanza che viene data alla moneta e allo studio dei problemi ad essa relativi; la precisione, mai vista prima, impiegata nella redazione dei titoli di credito; il concetto di “negoziabilità” che viene a delinearsi con chiarezza, almeno a quanto apprendiamo dagli studi di Jonathan Usher intorno al secolo XVI, la speculazione sui titoli, la nascita della mentalità tipica dell’uomo d’affari, lo sviluppo del pensiero “laico”, limitatamente a problemi economici e finanziari. Di fronte a questi problemi la posizione scolastica non poteva assumere atteggiamenti critici, mancandogli qualsiasi appiglio di partenza, difatti preferì per lo più non intervenire.

Anche nei confronti del problema politico in generale, e quindi in primo luogo del concetto di Stato, la Scolastica mantiene posizioni non impegnative. L’eredità di Agostino sembra non agire in forma diretta, oppure non sarebbe possibile comprendere i motivi che impedirono il formarsi di una teoria assolutistica. Infatti la Scolastica concepì lo Stato come una entità di esclusiva pertinenza umana, diretta in particolare a scopi di “pubblica utilità”, i quali non sarebbero perseguibili dai singoli non organizzati. Ogni idea agostiniana di statalismo finalistico sembra ignorata. In Duns Scoto si arriva a delle formulazioni quasi moderne di Stato fondate su un contratto stabilito dagli uomini. L’azione di Agostino sarà ben più efficace per la riforma protestante.

II

Il problema della ricchezza. Lo studio di questo eterno problema, si pone come diretta continuazione delle formulazioni del periodo patristico.

Il primo autore che ci sembra opportuno esaminare è Severino Boezio. Nel De consolatione philosophiae, egli affronta il problema dal punto di vista psicologico, in modo non dissimile da quanto è possibile vedere in Minucio Felice. Ma la preparazione di Boezio è ben diversa. Egli ammette senza discussioni i pregi oggettivi dei beni in quanto questi ultimi risultano diretti a soddisfare bisogni, ma condanna l’ulteriore ricerca degli stessi beni, per pura vanagloria, in quanto – e qui cade una interessante notazione economica – la ricchezza stessa, una volta che viene accumulata senza scopo positivo, finisce per aumentare di per sé i bisogni, rendendo la vita dell’uomo molto più complicata e perigliosa. «Voi cercate con l’abbondanza di far fronte alla povertà e invece accade il contrario; sono necessari innumerevoli sostegni per custodire la varia e costosa suppellettile; così si verifica quel detto, che abbisogna di molte cose chi molte ne ha, di poche invece, chi misura i propri averi alla stregua della naturale occorrenza. Non della cupidigia ambiziosa e superflua». (Ib., I, II).

Nel pensiero di Aurelio Cassiodoro, si avverte di già, uno scadere d’importanza del problema della ricchezza, di fronte al sorgere di problemi più gravi e più vasti. Ad esempio la necessità dell’approvvigionamento del grano, che risolve con una politica di nazionalizzazione, sostituendo le vecchie ed inefficienti leggi frumentarie. Il problema fiscale, con la sua relativa congerie di esazioni ed aggravi. Il problema amministrativo, in cui si dimostra un innovatore. Il problema politico in cui mette a frutto la pacata saggezza dello studioso. Tutte queste aperture, alcune del tutto nuove al mondo patristico, fanno di Cassiodoro un autore “moderno”, come lo ha voluto definire l’unico studioso italiano che ha indagato sul pensiero economico e politico del ministro di Teodorico: Ettore Rota (“Economia antica e nuova. A proposito di esenzioni fiscali: Economismo umanitario ed estetico di Cassiodoro”, in “Economia Lariana”, n. 7, luglio 1952). Il pensiero strettamente connesso al problema della ricchezza, presenta la solita interpretazione psicologica, specie nella famosa frase: «Il danaro si acquista con fatica, una volta ammassato si conserva con paura ed alla fine si perde con dolore». (Cassiodoro, Le Varie, I, II, 9), che dà il senso della profonda estraneità della ricchezza allo spirito veramente cristiano senza, comunque, scendere in condanne particolaggiate e violente.

Nella Regola di Benedetto si concentrano tutte le residue tendenze comunitarie del cristianesimo occidentale. Nel monastero benedettino la proprietà è abolita, ogni minima cosa, dalla tunica allo stilo, appartiene alla comunità e viene data dall’abate. Giustamente Gino Barbieri nota: «Questa severa abolizione della proprietà individuale imposta ai suoi monaci svela un profondo convincimento maturato nel fondatore del Monachesimo di Occidente: ossia che bisognava abbattere, almeno in questi esemplari di rifacimento etico-sociale quali dovevano essere i monasteri, tutte le degenerazioni connesse con gli abusi della proprietà e con l’esasperato individualismo». (Fonti per la Storia delle Dottrine Economiche, op. cit., p. 262).

Ora, quello che ci sembra importante, nell’idea di Benedetto, è il tentativo di isolare la residua perfezione cristiana, in piccolissime comunità, quasi a simbolo di quello che avrebbe dovuto essere la comunità più vasta, costituita dagli Stati. Ma questo processo di ripiego dalle iniziali pretese di riforma sociale, su piani ben più ampi, minacciava di ridurre il monaco a quella larva di individuo, rinchiuso per decenni nella propria cella, che certa tradizione storica – da noi riconosciuta errata all’inizio di questo saggio – ci ha tramandato. Ciò minacciava di inaridire la funzione di controllo sociale della religione.

In effetti questo pericolo non sussistette. Di già nella stessa Regola di Benedetto, si notano alcuni punti che risvegliano il valore “sociale” del monaco, come l’importanza decisiva che viene data al “lavoro”. In questo modo le forze della Chiesa saranno ritemprate nella calma dei monasteri, per essere, in un tempo posteriore, ben altrimenti maturo, dirette allo scopo fondamentale delle “riforma sociale”, guida e governo di futuri Stati politici.

Il pensiero scolastico più strettamente connesso col problema della ricchezza, ci sembra non possa essere riassunto in una condanna decisiva. Benedetto indica nella Regola, i termini di vita di una comunità cristiana che ha scelto una perfezione più grande, di quella perseguibile nel mondo: ma non si illude di riuscire ad estendere questa condanna per i beni terreni a tutte le comunità civili. Si tratta, in un certo senso, di quella stessa distinzione operata da Agostino, tra due tipi di perfezione cristiana, quella che rispetta i comandamenti e quella che aggiunge a ciò la rinuncia totale ai beni del mondo. L’indicazione della possibile attuazione di quest’ultima maggiore perfezione, non implica necessariamente una condanna per la prima minore perfezione.

Nel pensiero di Gregorio Magno si ritrovano le fila di un discorso che da taluni è stato identificato come fiduciosa difesa della proprietà, mentre da altri come violento attacco contro ogni forma sociale di ricchezza appartenente al singolo. In effetti, il pensiero di questo papa si orienta verso una generale condanna delle ricchezze, considerate come il più tradizionale degli ostacoli al conseguimento dell’eterna felicità. Ma il suo spirito pratico ed organizzativo, gli faceva ricusare una dottrina che minacciava di tradursi in un assurdo principio livellatore dei patrimoni, come se nel patrimonio, soltanto fosse tutto l’uomo. Il suo è un principio di “azione”: «Chi ha l’intelletto si studi di non lasciarlo inoperoso; chi ha le ricchezze vigili per non divenire pigro a fare le opere di misericordia; chi ha un mestiere per vivere si studi di dividerne l’uso e l’utilità col prossimo; chi ha la possibilità di parlare ad un ricco tema di venir condannato per aver lasciato il talento infruttuoso, se, mentre lo può, non intercede presso di lui a favore dei poveri. Il Giudice richiederà a ciascheduno di noi quanto ci ha dato. Affinché dunque, ognuno possa essere sicuro sul conto da rendere per il talento ricevuto, quando il Signore ritornerà, pensi con timore continuamente a quanto ha ricevuto». (Gregorio Magno, Il Libro Primo delle Omelie sui Vangeli, tr. it., Alba 1943, p. 100). Quindi un principio che non poteva supinamente accettare una condanna dei beni, quando questi ultimi venivano rivolti ad una benefica azione sociale. Infatti, per contrasto, Gregorio rifiuta di accettare per buona la povertà, come se quest’ultima non potesse, lo stesso, ammantarsi di orgoglio. Ciò rende chiaro il concetto che non è lo stato di povero a rendere accessibile la vita eterna, bensì la disposizione dell’animo alla povertà, disposizione che può essere benissimo posseduta dal ricco. È questo il motivo per cui alcuni studiosi, come Chezal Boucaud, hanno parlato di un Gregorio difensore della proprietà privata, mantenendosi, comunque, a nostro avviso, su di una posizione troppo limitativa nell’opera di questo papa. (“Saint Grègoire le Grand et la notion chrétienne de la richesse”, in “IX Session de la Semaine Sociale de France”, Lyon 1912).

Molto vicino a Gregorio ci sembra il pensiero di Isidoro di Siviglia, per quanto concerne le ricchezze. Anche questo studioso parte dalla caducità dei beni economici, e dalla loro inferiorità nei confronti dei beni spirituali, ed in primo luogo della conquista della vita eterna. Utilizza poi una citazione di Gregorio per affermare che può sussistere la ricchezza unita alla umiltà (cfr. Isidoro, Sententiarum libri tres, I, III), donde se ne deduce l’abbandono di ogni idea di condanna oggettiva dei beni materiali.

Anzi Isidoro si porta al di là di questi concetti che a lui provengono dalla letteratura dei Padri e soprattutto da Agostino e Gregorio. In uno scritto dal titolo Norma vivendi, abbiamo la riduzione del principio di giusta ricchezza a quello di “ricchezza moderata”, in cui non è possibile non identificare tanta parte della dottrina politica greca, specie tenendo conto della vastissima erudizione del vescovo di Siviglia. «Ogni esagerazione è viziosa; guarda quindi quel che va bene per te, tenuto conto delle circostanze di tempo e di luogo, quando, perché, fino a quando si debba fare: osserva bene le ragioni e le circostanze degli avvenimenti e distingui opportunamente l’opportunità di ogni azione». (Isidoro, Norma vivendi, Ap., XV, 20, citato da G. Barbieri, op. cit., p. 269).

In un certo senso Isidoro si potrebbe paragonare a Benedetto, per quanto concerne l’importanza data al potere educativo del lavoro. Infatti è proprio sulla continua incitazione all’operosità che si fonda la campagna educativa condotta da lui nei riguardi dei Visigoti. La condanna di ogni tipo di speculazione commerciale e di ogni maniera di vita fondata sugli agi dovuti ad una ricchezza passiva, fanno di Isidoro un degno continuatore della dottrina dei Padri, sebbene non lo pongano, ancora, del tutto, al di là di essa, cioè nello spirito ammodernato che di lì a qualche secolo apparirà dappertutto.

La difficoltà di pervenire ad un concetto riassuntivo del pensiero di Rabano Mauro, nei riguardi della ricchezza, sono acuite dalla grande erudizione di questo scrittore e dalla quantità dei problemi trattati. Comunque, è indiscussa la sua generale tendenza alla “moderazione” nell’uso dei beni materiali, fondata sulla subordinazione di questi ultimi al bene supremo. Nel Commentariorum in Matthaeum libri octo, si legge: «Quale sia, infatti, la differenza tra il bene, che si deve bramare, e il necessario, di cui ci si deve servire, lo dichiara con questa sentenza, quando dice: Cercate prima di tutto il Regno di Dio e la sua giustizia e tutto il resto vi sarà dato in sovrappiù. Come si vede, il regno e la giustizia di Dio sono il nostro bene: questo si deve desiderare; là deve essere costituito il fine, per il quale occorre fare ogni nostra azione. Ma, poiché in questa vita noi combattiamo, per poter giungere a quel regno, e vivere non è possibile senza queste cose necessarie, queste cose, dice, vi saranno date in sovrappiù. Voi, però, cercate per primo il regno di Dio e la sua giustizia. Dicendo che dobbiamo cercare per primo il regno di Dio, vuole intendere che il resto dev’essere cercato dopo: dopo non in quanto al tempo, ma in quanto alla dignità». (Rabano Mauro, testo in Migne P. L. vol. CVII, coll. 838-839. Cfr. G. Barbieri, op. cit., pp. 341-342).

Nel pensiero di Raterio, monaco di Liegi, si ritrova il concetto patristico di circolazione delle ricchezze allo scopo di poterle incrementare (cfr. Preloquiorum libri sex, (I, I, 33, in Migne P. L. vol. CXXXVI, coll. 178-179), concetto che abbiamo visto prodotto dal periodo più maturo della Patristica, cioè da una mentalità abituata alla tumultuosità della vita economica. In effetti l’epoca di Raterio è ben diversamente orientata verso lo sviluppo commerciale, trovandoci intorno al secolo X, ma il permanere della tradizione ci è sicura indicazione della validità della stessa e ci fa conoscere, nello stesso tempo, lo spirito progressista di questo monaco.

In particolare Raterio colpisce la diffusa “professione” del mendicante, diventata una vera piaga per l’epoca in cui il monaco belga si trovava a scrivere, pur ammettendo come correzione degli illeciti guadagni ottenuti col commercio, proprio l’elemosina. Però specifica che questa elemosina deve essere “ragionata” andando a coloro che effettivamente si trovano nell’impossibilità di lavorare. Ed ecco, ci sembra, ripresentarsi il tema del lavoro, come azione positiva, che riesce a trasformare ogni situazione oggettivamente criticabile. Infatti il mendico che sia nello stesso tempo un uomo operoso, servizievole, umile, non incorre in quelle colpe che Raterio elenca a carico della sua categoria. Invece il povero, anche se effettivamente privo di mezzi, ma svogliato nel lavoro, e fiducioso nell’aiuto del prossimo, diventa criticabile. Lo stesso dicasi per il povero che trova motivo di superbia, nella propria povertà, considerandola quasi una sicura ipoteca per la vita eterna.

Una maggiore rudezza compare in Pier Damiani, tanto da far paragonare questo scrittore a Gerolamo, il più pessimistico indagatore della condotta umana di tutta la Patristica (cfr. G. Barbieri, op. cit., p. 280). La sua condanna dell’amore al denaro si estende anche alla tiepidezza di coloro che ritengono di avere assolto il proprio compito, una volta che hanno evitato il furto negli affari, non ammettendo che in questo modo si è fatta metà strada, e che l’altra metà è la più difficile: l’abbandono delle ricchezze superflue in opere di carità.

Pier Damiani rivolge i suoi strali specialmente contro il malcostume del clero, inserendosi nella tradizionale lotta condotta da una sparuta minoranza della Chiesa contro questa sua piaga interna. «Non vendiamo il sinodo, né stendiamo il decreto sinodale in base all’altezza del prezzo, per non sembrare che mettiamo all’incanto lo Spirito Santo». (Cfr. G. Barbieri, op. cit., p. 281).

Il pensiero di Bernardo nei riguardi della ricchezza, si preoccupa in primo luogo di localizzare l’onestà dell’origine della stessa, avendosi soltanto la possibilità di una ricchezza derivante dal lavoro o da una donazione. Anzi nel lavoro egli identifica la vera possibilità del ricco di giustificare positivamente la propria ricchezza, venendo a creare in questo modo, due possibilità di sbocco: la carità e il lavoro. Egli non ammette alcuna delle limitazioni alla libertà d’acquisto, che invece erano fissate dalla problematica patristica; ma opera una scissione tra diritto di disporre e di godere, asserendo che il primo diventa lecito soltanto se si interpreta in senso di amministrazione per conto di Dio, il secondo soltanto se si tiene conto della fondamentale necessità che il godimento, per quanto possibile, in comune con tutti, in particolare con i poveri.

In merito a quanto riguarda l’interpretazione del famoso passo di Matteo: “Beati i poveri di spirito”; Bernardo resta fermo al valore estensivo che la stessa Patristica aveva cominciato a notare in quest’ultima parola. Ecco infatti come si rivolge a un vescovo, lodandolo per la sua povertà spirituale: «Impedito dal vostro grado ad essere povero, la condotta vi comprova amatore dei poveri: questo s’addice veramente ad un vescovo, questo onora il nostro sacerdozio, adorna la vostra corona, innalza la vostra dignità. Infatti, non la povertà vien ritenuta una virtù, ma l’amore alla povertà. Tant’è vero; che: beati i poveri, non di sostanza, ma di spirito (Matteo. V, 3)». (Lettere, tr. it., Torino 1944, p. 618). Posizione che, come abbiamo avuto occasione di notare più volte altrove, non risulta aderente allo spirito del Vangelo, che parla precisamente di povertà materiale; ma comunque più aderente ai tempi ben altrimenti progrediti di Bernardo.

Ugo di San Vittore ribadisce la tradizionale affermazione che vuole essere più ricco chi ha bisogno di poche cose e non chi molte ne possiede. Da ciò una certa quale tendenza ad attenuare il valore dell’attività economica, ma in dipendenza della particolare visione ascetica che questo autore possedette del compito del cristiano. Alcuni passi addirittura appaiono molto vicini ai Padri della Chiesa, come Ambrogio o Gregorio di Nazianzo: «Se tu vorrai paragonare i mali del povero con quelli del ricco, vedrai che il ricco è più misero del povero. Il ricco, infatti, quanto più possiede, tanto più avrà delle preoccupazioni. E quando da solo sostenesse il peso a causa di tutte le sue preoccupazioni, gioveranno più, agli altri che a lui stesso quelle cose che ardentemente desidera, o conserva con avarizia. Sarà infatti incessantemente afflitto dall’angoscia delle sue preoccupazioni. Ha paura che le [sue] sostanze diminuiscano poiché, nonostante possegga molte cose, tuttavia non è minore la quantità delle cose che lo distraggono. Teme la violenza dei potenti, ha in sospetto la fedeltà dei familiari, paventa come sempre imminenti le insidie degli estranei». (De vanitate mundi, in Migne, P. L. vol. 176, col. 707. Cfr. G. Barbieri, op. cit., p. .375). In effetti il contributo che dello studioso sassone ebbe la storia del pensiero è ben modesto, se si tiene in considerazione soltanto il problema della ricchezza. Diversa invece l’importanza di questo autore riguardo la chiarificazione del contenuto etico dell’attività economica.

A Domenico Gundissalino è dovuta una classificazione dei beni “riguardanti la carne”, disposta in tre categorie: beni necessari, cioè cibo, bevanda, vestito, ecc.; beni di piacere o voluttuari, cioè lusso, delicatezza di vestiti, squisitezza di cibi, ecc.; beni di curiosità, cioè possesso di beni superflui, tesaurizzazione delle ricchezze, ecc. Ovviamente questo autore, in armonia con il principio generale del Medioevo che si adagia sulla sufficienza e sul superfluo in elemosine, accetta soltanto la prima categoria di beni, rifiutandone, a un esame etico, le restanti due.

Una ventata di idee nuove si trova in uno scritto arabo riguardante l’“economia”, nell’antica concezione della casa, reso in latino, intorno al secolo XIII da Pietro Gallego, vescovo di Cartagena.

È importante notare che, forse per la prima volta, si precisa, in questo trattato, che il fine dell’economia (domestica) è la ricchezza. Intervenendo subito dopo, ad affermare l’oggettiva bontà della stessa: «La ricchezza è cosa che comporta molti vantaggi. Infatti è in grazia d’essa che l’uomo vien fatto oggetto di onore presso gli estranei, e si associa agli stranieri; e mediante la beneficenza ch’essa rende possibile, egli viene avvicinato (da molti che gli restano obbligati); per mezzo di essa egli soddisfa se stesso e provvede alle esigenze sue e dei suoi; in grazia di essa egli passa tra gli amici come una persona benvoluta e stimata. Essa è causa per cui l’uomo è temuto dai suoi nemici; inoltre per suo mezzo si serve a Dio Altissimo, soccorrendo i poveri per causa di lui, e questo è il fine a cui si tende nell’economia domestica... ». (Cfr. G. Barbieri, op. cit., p. 388).

In effetti la mentalità di questo autore arabo è abbastanza differente da quella degli autori che abbiamo studiato, sebbene in ultimo egli ripresenti lo stesso quella norma caritativa che costituisce il motivo conduttore dell’opera Patristica e Scolastica. Un’ulteriore prova di questa originalità è data dall’avere questo autore, assegnato alla scienza civile (che si occupa dell’organizzazione dello Stato in contrapposizione all’economia che si occupa della famiglia) lo stesso scopo di ricerca della ricchezza, che aveva appunto riconosciuto all’economia, con la differenza che la prima si rivolge a problemi e fenomeni molto più ampi di quelli dell’individuo singolo.

Concludendo possiamo dire che il pensiero scolastico, fino a Tommaso, si mantiene sulla linea ereditaria della Patristica, sebbene avverta in forma sempre più pressante, le necessità di una vita che non può essere riassunta soltanto nella cerchia del necessario. Anche il problema della distribuzione della ricchezza, fondato quasi del tutto sulla carità, risente di un disagio sempre più pressante. L’avvento della mentalità capitalistica, e la chiarificazione condotta da tanti “dottori”, ed in modo specifico da Tommaso, sulla necessità di abbandonare la tesi della Verità rivelata per quanto riguarda i problemi non attinenti alla teologia; apriranno orizzonti sempre più vasti.

Una conferma di quanto si è detto possiamo trovarla nel fatto che il problema della ricchezza, specie nella produzione scolastica successiva a Tommaso, va scadendo d’importanza: un altro gli si sovrappone, quello dell’attività economica.


[Pubblicato su “Essere”, gennaio 1968, pp. 1-12]

Economia ed etica nell’antico cristianesimo

L’opera nuova del cristianesimo è diretta essenzialmente alla delimitazione di un ordine etico di valore universale.

Il contrasto col vecchio mondo ellenistico-romano assume i diversi aspetti tipici di ogni lotta tra vecchi schemi sociali e novelle forze ammodernatrici. Il fondamento del pensiero greco e, con poche varianti di quello romano, per quanto riguarda la riflessione sociale ed economica, trovava giustificazione nel contesto più vasto d’una costruzione politica ideale, diretta ad assicurare ai membri di una comunità la realizzazione della propria felicità. Cioè il concetto greco di eudaimonia. L’esposizione più soddisfacente si ha con Aristotele nella Etica Eudemia, nella Etica Nicomachea e nella Politica. Così Amintore Fanfani: «V’è nella dottrina economica greca la visione di un ordine economico ideale, inquadrato nell’ordine politico e morale, che deve essere realizzato malgrado le resistenze dipendenti ed indipendenti dall’uomo. La dottrina economica, come ramo della politica, presiede alla realizzazione di questo ordine economico razionale riflesso». (Storia delle dottrine economiche, vol. I, Il volontarismo, Milano 1942, pag. 44). Ora l’esistenza di questa costruzione ideale, portava i pensatori greci a considerare lo stato presente del mondo dei fenomeni politici (e quindi in modo particolare, anche economici e sociali), come diretto al raggiungimento dello scopo ideale, per cui ogni rilevazione che veniva a contrastare con quello, doveva subire una modificazione ed adattarsi ai limiti ideali che venivano immediatamente formulati. Ad esempio, il desiderio di ricchezza, contrastava fortemente con il raggiungimento della felicità, e di questo argomento sono pieni i trattati etici dei filosofi dell’epoca, ma la cosa andava presa nei giusti limiti.

Questa misura etica non deve però confondersi con quella tipica della Patristica. Mentre nel pensiero greco si parte da una costruzione normale del mondo politico e sociale e si lavora sui fenomeni “accidentali” esterni; nella Patristica si parte da una considerazione anormale del mondo e si lavora alla sua modificazione interna.

Nella grande semplicità della cosmologia greca, come pure nelle forme antropologiche più elaborate dei periodi successivi, non era mai sorto il problema della necessità d’una riforma; anche volendo prendere in considerazione quelle correnti sofistiche che cercavano di riportare al potere l’individualismo e contestavano l’organizzazione della città-Stato, si deve ammettere che furono delle eccezioni che non seppero intaccare il principio generale. Scrive giustamente René Gonnard: «Le tendenze dei due grandi pensatori ellenici sono qui nello stesso tempo conservatrici e socialiste. Conservatrici: esse temono il progresso economico e le modificazioni che ne conseguono. Il loro ideale è una economia ristretta, modesta, una produzione mediocre, poca circolazione, pochi scambi, anche poca ricchezza. Un arricchimento per quanto poco importante, appare loro come compromettente per la moralità individuale, e soprattutto, – cosa che desta la loro più grande preoccupazione, per l’ordine politico. Lo scopo che perseguono è l’organizzazione di uno Stato sociale che lasci al cittadino vaste possibilità di tempo libero, che lui impiegherà nell’attività politica e in studi disinteressati, si potrebbe dire, lo Stato stazionario di Stuart Mill». (R. Gonnard, Histoire des doctrines économiques. Doctrines anterieures à Quesnay, vol. I, ns. tr., Paris 1924, pp. 20-21).

Nell’iniziare il lavoro di riforma spirituale, il cristianesimo procede ad una chiarificazione della entità male, vista come continua minaccia dell’aspetto razionale dell’uomo. La sua potenza è tanto forte che non si potrebbe pensare di distruggerla senza l’aiuto di Dio. Ecco il motivo della venuta di Gesù, la redenzione “del mondo dal mondo” (Agostino).

È naturale che questo processo modificativo giunga ad aspetti drammatici. Il divino nel suo contatto con l’uomo, affinché quest’ultimo venga posto in grado di affrontare la sua strada di sviluppo positivo, deve partecipare al suo dolore, anzi risolverlo nel più alto grado di concentrazione. Tutte le antitesi e tutti i contrasti vengono posti in risalto. Quello che prima restava nascosto tra le pieghe di una speculazione filosofica e non riusciva che ben difficilmente a superare l’aspetto esteriore di organicità e compattezza; adesso viene affrontato apertamente. Il trionfo della vita si vale del riconoscimento pieno della morte. Il bene in teoria adesso sorge dalla sconfitta del male, ma prima ne prende conoscenza e ne vaglia i limiti e le debolezze. Così Paolo: «Omnia autem probate: quod bonum est, tenete. Ab omni specie mali abstinete vos». (Thess. I, 5, 21-22). È importante notare che il testo greco, quel famoso “pànta dokimàzete”, ripresenta il motivo socratico dell’exetàzein, (contrapposto al nuovo dokimàzein). (Cfr. G. Calogero, La libertà di vedere, e la censura, in Filosofia del dialogo, Milano 1962, p. 247. Il saggio originariamente si trovava in “Ponte”, agosto-settembre 1957, pp. 1191-1198). Dal raffronto tra i due termini greci si deduce una linea unilaterale di sviluppo del pensiero, per quanto riguarda il valore della ricerca. Che poi quest’ultima, nella versione cristiana debba presupporre il dogma della fede, mentre nella versione pagana doveva presupporre il concetto (altrettanto dogmatico) della idealità, è questione di dettaglio.

Fin dall’inizio il cristianesimo scoprì la propria unità di pensiero nell’essenza della personalità, strumento filosofico da opporsi a quella mitica compattezza della costruzione ellenico-romana. Quindi un nuovo rapporto di spirito a spirito, e di spirito a divinità. L’uguaglianza degli uomini al di là d’ogni distinzione di paese o di classe, la solidarietà umana, l’amore. In teoria, principi eterni d’ogni rapporto tra uomini.

È facile comprende il grande potere rivoluzionario di questo principio nel campo delle attività sociali. Ed in particolare lo stesso pensiero sociale ne uscì riformato. La Storia, attività umana che più di ogni altra riesce a dare la misura di una speculazione filosofica, proprio da queste premesse, si svilupperà, in seguito, come il dipanarsi delle libere azioni personali, e questo in aperto contrasto con la tradizione greca.

Il concetto di Stato viene ad assumere aspetti del tutto ignoti in precedenza. In effetti non è possibile sostenere una derivazione storica del concetto di Stato cristiano, dal concetto di Stato tipico della filosofia ellenico-romana, specie nella parte iniziale della Patristica – in Paolo e nei primi autori – le fonti sono più direttamente riconoscibili nell’insegnamento dei Vangeli, anche se gli schemi retorici possono ricordare la cultura del mondo classico. Come giustamente hanno fatto notare William Tarn e G. T. Griffith, i Giudei presero dalla filosofia greca solo l’aspetto esterno e niente o poco del suo spirito. (Cfr. Hellenistic civilisation, London 1952, p. 226).

Per i Greci, e successivamente in forma più pratica, anche per i Romani, lo Stato costituiva l’interesse supremo. Il mantenimento dell’ordine e l’ideale di giustizia, convogliavano gli sforzi generali del pensiero politico greco. Così Tucidite: «Consideriamo un uomo che non partecipa alla vita politica, non soltanto una persona dappoco, ma una persona inutile. E quanto anche pochi tra noi siano innovatori in politica, tutti occorre che siano buoni giudici». (Elogio funebre dei cittadini morti per la patria, pronunciato da Pericle, Libro II). Per i cittadini greci, lo Stato era qualche cosa di personale, di intimo, di religioso. La città diventava l’unica garanzia alla vita in comune, e la costituzione l’unica forma sociale di vita possibile. Proprio per questo i pensatori greci poterono guardare allo Stato come ad un catalizzatore di tutti i contrasti che via via sorgevano tra princìpi ideali e fenomeni della realtà.

Inoltre bisogna tener presente che le discussioni politiche, e gli stessi problemi inerenti alla preferenza di un sistema governativo ad un altro, in forma popolare, furono i predecessori delle teorie politiche vere e proprie. Quindi nell’indicare lo Stato come punto di riferimento etico delle cose di interesse pubblico, gli scrittori di cose politiche trovarono un pubblico attento e competente.

Con l’avvento del cristianesimo si venne ad additare l’esistenza di una “città eterna”, che veniva così a sostituire il valore della “città terrena”, fino ad allora creduto il più alto. In forza del nuovo principio della personalità, la filosofia cristiana conclude per un trascendimento dell’individuo nei confronti dello Stato. La persona ha diritti ineliminabili anche da parte dello Stato. Adesso, gli scrittori politici e sociali, sono pure scrittori profondamente immersi in problemi teologici; la loro politica è lo studio dei mezzi e delle possibilità di sopravvivenza e di sviluppo della Chiesa, in seno allo Stato: quest’ultimo viene studiato quale substrato necessario e naturale alla vita della Chiesa. Resta inteso, comunque, che questa subordinazione di interesse non sminuisce in alcun modo il valore di quelle ricerche.

Ed eccoci al concetto di giustizia politica. Per i Greci essa veniva conseguita quando ciascun elemento attivo di uno Stato attendeva ai compiti suoi specifici, avendo in questo modo quello che gli competeva. La portata di questa proposizione era immensa: da un canto si garantiva l’unità dello Stato, dall’altro l’unità del cittadino, indirettamente tramite l’unità dello Stato. Così Nicola Abbagnano: «Evidentemente la realizzazione della giustizia nell’individuo e nello Stato non può procedere parallelamente. Lo Stato è giusto quando ogni individuo attende solo al compito che gli è proprio; ma l’individuo che attende solo al compito proprio è esso stesso giusto. La giustizia non è solo l’udividuo in se stesso; è, nello stesso tempo, l’unità dell’individuo e dello Stato e quindi l’accordo dell’individuo con la comunità». (Storia della Filosofia, vol. I., Torino 1953, pag. 91). Ma per istituire questo principio di giustizia nello Stato, occorreva fondare saldamente il “criterio di medianità”. Quindi una compenetrazione, nel pensiero greco, del significato di giustizia politica nella tendenza conservatrice. Per fare questo si rese necessario smorzare gli estremi così frequenti nella realtà economica: cioè le tendenze alla ricchezza e, dall’altro lato, le ingiurie della povertà, l’estremo individualismo con le sue pretese di una cultura eterogenea e non controllata dall’alto, ed infine lo stesso meccanismo riproduttivo della popolazione, allo scopo di mantenerne il numero in stretto rapporto con le sussistenze dello Stato.

Per i Padri della Chiesa il problema assumeva aspetti ben diversi. Innanzi tutto nei primi secoli essi avvertirono la loro posizione di estranei in seno alla società pagana, donde buona parte della letteratura di questo periodo assunse la forma di difese o apologie. Restava, insanabile, la necessità di risolvere il contrasto nascente dalla loro effettiva posizione civile, cioè quanto essi, pur restando cristiani, venivano chiamati ad assolvere i compiti specifici di soldati, magistrati, funzionari governativi, ecc. Da canto suo il decadente complesso amministrativo-giuridico del mondo romano, ben difficilmente poteva cancellare ogni ombra di dubbio e ogni difficoltà di applicazione pratica. A questi ostacoli di ordine immediato, fanno riscontro, sempre in materia di giustizia politica, gli ostacoli teorici. Il vecchio “criterio di medianità” non poteva continuare a valere in seno ad una dottrina che predicava l’uguaglianza tra gli uomini – e quindi in un certo senso anche la medianità economica – ma non come determinata politica economica dello Stato, piuttosto come spontanea decisione personale dell’individuo. Da ciò una svalutazione della concezione dello Stato come ente catalizzatore di tutti i contrasti politici ed economici, e la sostituzione di quel concetto, con quello meno pratico, ma più spirituale della carità e dell’amore.

Il concetto di proprietà, tiene conto di queste idee, giungendo ad intravedere in forma abbastanza chiara il sistema produttivo, non come fine a se stesso, quindi con quella obiettività scientifica che è precipua dei tempi moderni, ma come presupposto ad un impiego migliore delle ricchezze (risorse produttive) nel raggiungimento degli scopi della carità. La Patristica elaborerà la caratteristica dottrina del rapporto tra individuo e mondo economico, come estremi di un dialogo della personalità attraverso la sua estrinsecazione nell’azione produttiva e nella difficile scelta d’un limite etico alla cupidigia. Quindi è possibile individuare un concetto di utilità sociale nello schema produttivo, che si ponga nettamente al di là di quel “criterio di medianità” in cui si aggiravano i dettami economici della riflessione greca.

Intorno al concetto di proprietà si snoda uno dei fili più importanti della speculazione patristica, dando origine ad un problema che appassiona oggi i sostenitori della proprietà collettiva e quelli della proprietà privata, nel tentativo, condotto da ambedue queste correnti, di trovare sostegno e autorità alle rispettive tesi. Certo è abbastanza facile rinvenire negli scritti dei Padri, frammenti interpretabili come esortazione al comunismo dei beni, ma non è lecito concludere, come ha fatto Robert Pöhlmann (cfr. Geschichte des antiken Kommunismus und Sozialismus, Monaco 1923, pp. 583-617) che lo sbocco essenziale del socialismo ellenistico-romano si concentra nel cristianesimo.

D’altro canto ci sembra pure eccessiva la pretesa di G. Walter (Historie du communisme, vol. I, Paris 1931, p. 148), di ridimensionare ogni accenno alle pratiche comunitarie fatto dai Padri, facendolo entrare a forza in contesti via via più ampi, per culminare nell’idea generale della cristianità, cioè quella stessa essenza della personalità, che comunitaria non è di certo. Non spetta a noi, in questa sede, indicare una possibile soluzione tra queste due posizioni estreme. Comunque, ci sembra indubitabile l’esistenza di un forte spirito comunitario, nella Chiesa dei primi secoli, giustificato e reso possibile dalla limitata estensione del fenomeno cristiano e dalla grande fede per le nuove idee. Poi, man mano che il numero dapprima ristretto dei proseliti, prese a estendersi, includendo gente di ogni etnia e di ogni condizione sociale, la pratica comunitaria si affievolì fino a scomparire del tutto. Il fatto poi, che Walter abbia distorto l’interpretazione di passi di decisa ispirazione comunitaria, come avviene nel caso di Tertulliano (G. Walter, op. cit., vol. I, pag. 115), ci sembra solo una presa di posizione contro quegli studiosi che, all’opposto, pretendono di trovare tesi collettiviste dove non ve ne sono.

Gli spunti comunitari dei Padri dei primi secoli, restano come testimonianze di un tempo in cui il fervore per l’oggetto del loro studio – le sofferenze degli uomini ed il loro destino di redenti – era tanto grande da travalicare in eccessi. E questi passi sono esempi notevoli di questi eccessi, come lo furono la setta degli Esseni o quella di Carpocrate. La setta degli Esseni, secondo le testimonianze di Filone d’Alessandria, fiorì in Palestina intorno al II secolo. Le sue idee comunitarie si fondavano sul progressivo abbandono dell’attaccamento alle cose terrene, in una ascesi che trovava le proprie origini nei misteri del neo-pitagorismo. Dato che questa setta fiorì all’epoca dei Vangeli, in Palestina, alcuni studiosi, fondandosi sul silenzio di Gesù, nei suoi confronti, hanno dedotto una condanna, in generale, da parte del Cristo per ogni pratica comunitaria. (Cfr. G. Barbero, Introduzione al Pensiero Politico Cristiano, vol. I, Torino 1962, pag. 21). L’insegnamento di Carpocrate dette vita, all’incirca nella prima metà del II sec., a una setta comunitaria. Egli utilizzò la teoria platonica della reminiscenza dell’anima per spiegare la superiorità di Cristo sugli uomini.

Nel quadro generale delle modificazioni che la dottrina cristiana apportò all’organizzazione sociale romana, un posto a parte è occupato dalla riabilitazione del lavoro. La tesi dei Vangeli viene ribadita in forma definitiva da Paolo e si ritroverà senza tentennamenti in tutta la filosofia Patristica. «Vi prescriviamo o fratelli, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo di tenervi lontani da qualunque fratello che vive disordinatamente e non secondo la dottrina che ha da noi ricevuta. E voi stessi ben sapete che dobbiate fare per imitarci, perché tra di voi non vivemmo disordinatamente, né mangiammo a ufo il pane di nessuno, ma con fatica e stenti abbiamo lavorato giorno e notte, per non essere d’aggravio ad alcuno di voi. E ciò non perché non ne avessimo il diritto, ma per darvi in noi stessi un modello da imitare. Ed anche quando eravamo fra voi vi davamo questo precetto: chi non vuol lavorare, non mangi». (Ai Tessalonicesi, Lettera II, III, 6-10, tr. it., Torino 1959). Ma il lavoro pur restando dissociato dal senso di disprezzo, non riesce a staccarsi dal senso di pena. In fondo questo è il limite etico dello sforzo sociale del pensiero cristiano in materia di lavoro. Il lavoro è pena perché è il prodotto della corruzione di un bene primitivo. L’uomo attraverso il lavoro scopre a poco a poco il bene originario e, anche fra le angustie quotidiane, ne mantiene viva la speranza. Ma questa forza non deriva a lui da una costrizione esterna, da un differente ordinamento sociale, bensì da un innalzamento dell’anima sul mondo primitivo delle tenebre e del dolore. Da qui una dialettica della vita: il possesso della totalità del bene e la negazione assoluta d’ogni speranza, il duro lavoro e l’acquisizione lenta del “proprio” contrapposti alla necessità di privarsi di ciò che si possiede. Antitesi che fondano la vita e la tengono in perenne movimento, permettendo di arrivare a tutte le umane esperienze nel tentativo di partecipare alla perfezione divina, pur restando nei limiti della umana debolezza.

L’etica del lavoro costituisce uno dei principi più saldi della dottrina cristiana. Certo la sua affermazione non fu senza contrasti, specie durante le contese filosofiche e le agitazioni popolari dei primi secoli. Il rigido meccanismo della produzione, il periglioso principio della “proprietà”, la difficoltà di determinare il compito sociale dei ricchi, la spinta bramosa delle classi meno agiate: costituiscono altrettanti ostacoli alla sua affermazione.

Nel campo speculativo, la difesa del principio etico del lavoro, sarà anche più difficile. Specialmente l’impossibilità di determinare il limite razionale in cui deve arrestarsi la tendenza a produrre, in armonia con il principio della limitazione dei desideri. Filosoficamente fu molto rischioso per i Padri lottare contro le frequenti tendenze estremiste. Il cristianesimo è la sola grande religione che abbia osato intraprendere l’escussione dottrinale del problema del lavoro, nel tentativo di conservargli un valore e un senso generale. Proprio per questo ha dovuto far persistere una infinità di antitesi.

La riflessione sociale dei Romani o dei Greci, non si era mai trovata ad affrontare problemi di tale complessità. In materia di lavoro, come sappiamo, in quelle organizzazioni sociali il fenomeno della schiavitù rendeva di secondaria importanza la presa in esame dei problemi attinenti al lavoro libero.

La dottrina cristiana dell’obbedienza, e quindi anche dell’obbedienza ai poteri civili costituiti, non si origina dal concetto di Stato, come avviene per la dottrina costituzionale romana, ma dalla teoria dell’investitura divina del reggitore, che in ogni caso viene presentato come Ministro di Dio. E ciò è logico se si pensa alla concezione cristiana dello Stato e della personalità umana. Da un lato lo Stato deve essere garantito, onde potere garantire a sua volta la persistenza dell’ordine sociale e la stessa possibilità di vita della Chiesa, dall’altro il posto da esso occupato nelle menti e nei cuori degli uomini, deve essere sostituito dalla nuova “città eterna”, in forza non soltanto del dogma della fede, ma dello stesso principio dell’essenza della personalità. Inizia Paolo: «Ognuno sia sottomesso alle autorità in carica. Non c’è infatti autorità che non venga da Dio, e quelle che ci sono sono istituite da Dio». (Lett. ai Romani, 13, I). Continua Pietro: «Siate sottomessi, a causa del Signore, a tutte le istituzioni umane: sia al re, come sovrano, sia ai governatori, come inviati da lui... perché questa è la volontà di Dio...». (Prima Lett. 2, 13). E poi gli apologisti: Giustino: «Perciò noi adoriamo soltanto Dio, ma nelle altre cose obbediamo a voi volentieri, riconoscendovi re e reggitori di uomini, e pregando affinché insieme con la potenza regale voi abbiate anche un saggio consiglio». (Prima Apologia, 17). Teofilo di Antiochia: «A lui [al re] fu affidato da Dio, in un certo qual modo, il governo... ». (Apologia ad Autolico, I, 2). Melitone di Sardi: «Le persecuzioni vengono date per tuo ordine [si riferisce a Marco Aurelio] sarà ben fatto; un imperatore giusto non può, infatti, volere cose ingiuste, e noi sopportiamo volentieri la ricompensa di tale morte... ». (Apologia [frammento], I, 6).

Per i Padri il problema dell’obbedienza allo Stato fu tra i più tormentati, non soltanto per le immediate implicanze pratiche, ma anche perché costituiva la chiave di volta dell’altro problema, forse più importante ancora, quello della riforma sociale. La soluzione dell’investitura divina, consentì, anche nel caso estremo di un cattivo reggitore, il quale veniva a considerarsi come una punizione divina del peccato, quella iniziale perfetta aderenza alle istituzioni sociali, capace di garantire lo sviluppo dell’organizzazione cristiana. Infatti, quando la Chiesa divenne conscia della propria forza non solo spirituale, ma materiale, questa soluzione della investitura divina, subì notevoli addomesticature. Di già in Origene leggiamo: «Per coloro che regolano l’esercizio dell’autorità, che loro fu data, secondo le loro proprie empietà, anziché secondo le leggi divine, ci sarà un giusto castigo di Dio». (Commentarius in Epistola ad Romanos, IX, 26). Giudizio di merito che veniva accuratamente evitato nei testi dei primi due secoli. Mentre in Ambrogio si nota l’alterigia dell’intervenuta posizione di dominio: «Cosa c’è, infatti, di più onorifico per l’imperatore che essere detto figlio della Chiesa? E quando diciamo questo non lo diciamo per fargli torto, ma con favore. L’imperatore è, infatti, dentro la Chiesa, non al di sopra; e un buon imperatore cerca l’aiuto della Chiesa, non lo rifiuta». (Sermo contra auxentium de basilicis tradendisi, 145, 36). Quanto lontani siamo ormai dalle timide parole di un Ottavio di Milevi: «Non lo Stato è nella Chiesa, ma la Chiesa è nello Stato, cioè nell’impero romano». (De schismate Donatistarum, III, 3).

Le indicazioni che abbiamo cercato di dare sul nuovo principio etico del cristianesimo, così come prese forma in alcuni problemi più importanti, lasciano intravedere un ulteriore quesito: ci fu un vero e proprio tentativo di riforma sociale? oppure lo sforzo del cristianesimo si indirizzò soltanto sul campo etico? Una risposta a questa domanda esula comunque dal compito del presente saggio indirizzandosi decisamente verso un esame sociologico della società dell’epoca. Per adesso è sufficiente sottolineare che l’opera prima del cristianesimo fu quella di trasportare l’uomo in un mondo diverso da quello che comunemente lo attanaglia e lo distorce: e questo è uno dei più grandi principi del platonismo che prende forma vitale nella dottrina cristiana, quello dell’esistenza di un mondo eterno, superiore al mondo fisico. Però esso non è staccato dal mondo temporaneo della fenomenicità fisica, il cristianesimo li ha uniti in intimo contatto, contribuendo a una radicale trasformazione dell’umanità.


[Pubblicato su “Studi e ricerche”, a. I, 1965, pp. 73-80]

La liceità della ricchezza nel pensiero patristico

L’esame del lento modificarsi del pensiero dei Padri della Chiesa, nei confronti del gravissimo problema della ricchezza, può costituire, oggi in particolar modo, un valido documento storico, sui trascorsi metodi di adeguamento alle sempre nuove esigenze della società, impiegati dalla Chiesa.

Le notazioni economiche dei Vangeli convergono tutte su quel Discorso della Montagna che, giustamente, è stato considerato come uno statuto da accettare per garantire l’accesso al regno di Dio. (Cfr. L. Mumford, La condizione dell’uomo, tr. it., Milano 1957, pag. 68). Dal nostro punto di vista la più importante delle “Beatitudini” è quella dei poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli. Questa versione è quella di Matteo, mentre in Luca l’assenza delle parole “in spirito” contribuisce a dare al termine “poveri” un’assolutezza ancora più imbarazzante.

Nel senso di Matteo si può quindi parlare di una ricchezza giusta perché voluta e mantenuta con quella povertà di spirito che è parimenti lontana dalla prodigalità come l’avarizia. In altri termini è proprio quella apparente limitazione (in spirito), che allarga smisuratamente l’orizzonte, dando l’idea di una ricchezza produttiva contrapposta ad una ricchezza passiva. In questo modo si viene a spogliare il concetto di “bene economico” dalla tradizionale estraneità ai valori principali della vita, a cui era stato condannato dall’aristocratica riflessione filosofica greca.

Ma i Vangeli presentano parecchi passi contrari in modo assoluto alle ricchezze e a ogni loro impiego. In Matteo si legge: «Non vogliate possedere né oro né argento». (X, 9). E altrove, sempre in Matteo, «Non siate troppo solleciti per la vita vostra, di quel che mangerete, né per il vostro corpo, di che vi vestirete». (VI, 25).

Per superare questa apparente discordanza occorre ricordare il carattere essenzialmente rivelatore del testo. Infatti l’inorganicità appare quando si tiene presente la dottrina evangelica nella sua totalità, e non singole parti staccate, come abbiamo fatto con il passo del Discorso della Montagna e quelli contrastanti di Matteo. Solo allora ci appare chiaramente come il fatto di incitare i ricchi ad una utilizzazione della ricchezza, con povertà di spirito, quindi ad un’utilizzazione socialmente valida, diventa il necessario presupposto per spingere i poveri e i disperati ad un accontentamento del proprio stato, che verrebbe ad essere automaticamente migliorato dall’opera attiva dei primi.

Da canto loro i primi capi della Chiesa cristiana, e quel Paolo che si trovò ad affrontare problemi organizzativi di grande difficoltà e continui asti e sospetti, furono colpiti in maniera decisiva dal canone comunitario che è possibile dedurre dai Vangeli. Per altro la stretta osservanza di questo canone diventava possibile in una comunità piccola, ancora limitata a gente che parlava la stessa lingua e restava affascinata allo stesso modo dalle nuove idee.

Infatti in Paolo leggiamo: «Chi poi è catechizzato nella parola faccia parte di tutti i suoi beni a chi lo catechizza». (Lettera ai Galati, VI, 6), e in Giacomo una tremenda requisitoria contro i ricchi. (Lettera di S. Giacomo, V, 1-5). Negli Atti degli Apostoli vi sono specifici accenni ad una società cristiana fondata su principi comunitari (2, 44-45); nella Didaché ritroviamo lo stesso tema (4, 8); mentre negli Stromata di Clemente Alessandrino troviamo la testimonianza della teoria comunitaria più accesa: quella di Epifane, figlio di Carpocrate (III, 2). Nell’epistola Ad Diognetum il principio comunitario raggiunge la massima espressione spirituale contribuendo a staccare dal mondo la società cristiana (5, 1-6); mentre con Tertulliano si ha l’ultima, infuocata, espressione retorica. Tertulliano infatti detta parole d’un infiammato comunismo, ma, riteniamo, non molto aderenti alla realtà dei suoi tempi, ormai ben differenti da quella del periodo primitivo.

Questo tipo di comunismo cristiano primitivo ha tutte le caratteristiche ideologiche di ogni tipo di comunismo. E non vale sostenere, come è stato fatto da Gino Barbieri (Fonti per la Storia delle Dottrine Economiche, op. cit., p. 170), la sua sostanziale differenza con il «comunismo e socialismo dell’epoca nostra».

I primi dubbi sulla bontà della teoria comunitaria, si affacciano alla mente di un piccolo borghese di campagna, quell’Erma che nel suo Il Pastore, se non proprio di grandi mezzi speculativi ci appare munito di una notevole saggezza d’uomo d’affari. La tesi idealista di Paolo è, in questo autore, un poco contemperata dalla ricerca dell’“onesta agiatezza” proposta come possibile in uno con le necessità imprescindibili dello spirito. «Beati coloro che hanno compreso l’importanza delle proprie ricchezze! Chi ne è persuaso le amministrerà rettamente e potrà operare qualche cosa di bene». (Erma, Il Pastore, tr. it., Siena 1928, p. 86). Erma si potrebbe considerare, pertanto, come il vero precursore di Clemente Alessandrino, autore sul quale si sono puntati da secoli gli strali della critica.

Ma prima di giungere allo studioso di Alessandria, il nostro problema passa attraverso la meditazione di tre grandi apologisti. Al primo, Minucio Felice, autore dell’Ottavio, dobbiamo una delle prime interpretazioni psicologiche della ricchezza: «Povero è colui che, possedendo molte cose, più ancora ne desidera!». (Ottavio, tr. it., Roma 1947, p. 173).

È stato spesso rilevato il pessimismo di Cipriano nell’esame della società cristiana dell’epoca. Ma si deve tenere presente che il fenomeno cristiano aveva già tre secoli di vita ed una estensione grandissima. Inoltre raggruppava gente di diversi paesi, provenienti da diverse religioni e con diverse mentalità. Il fervore del primitivo comunitarismo e dell’elemosina organizzata su vasta scala, non poteva durare a lungo. Si imponeva, quindi, una presa di posizione dottrinale per giungere alla giustificazione della ricchezza, che alla lunga dovette sembrare un male ineliminabile e quindi da superare accettandolo. Ma è con Lattanzio che si ha il primo, efficace, rifiuto della soluzione comunitaria, fondato su di un esame approfondito della teoria platonica. Il tono stesso delle sue esortazioni è molto mitigato: «Se vogliamo trarre dalle ricchezze tutto il partito possibile, non dobbiamo usare di esse solamente per soddisfare un nostro egoismo e la nostra sensualità ma anche sovvenire alle necessità di tutti». (Divinae Institutiones, lib. VI, cap. 12. Cfr. G. Barbieri, op. cit., p. 179).

La tradizione ci ha tramandato un’interpretazione dell’opera di Clemente Alessandrino, ricavata essenzialmente sul Quis dives salvetur. Ora, come abbiamo visto, una forma di accettazione dei mali della ricchezza, ed addirittura una larvata difesa della stessa, non hanno inizio con Clemente, ma si possono fare risalire ad Erma. Solo che adesso i tempi sono molto diversi: Clemente vive in una grande città commerciale come Alessandria ed ha contatti con un ambiente della media borghesia che guarda con affanno alle vaste moltitudini di diseredati che – come in ogni tempo – dovevano affollare i margini di Alessandria, e ha difficoltà a considerare questa gente come confratelli in Cristo. L’affermazione non deve sembrare eccessiva: basta porre mente al fatto che parallelamente al diffondersi del fenomeno cristiano si ebbe l’ammissione nelle comunità cristiane di un gran numero di persone che era di già troppo se avevano ricevuto il solo battesimo, e che portavano con loro ogni sorta di superstizione e di preconcetto, tipici della loro origine. «Non sono dal buttare le ricchezze che giovano al prossimo; esse si chiamano possessi perché è loro natura quella di essere possedute». (Cfr. G. Barbero, vol. I, op. cit., p. 197).

Per quanto riguarda l’interpretazione che Clemente fornisce del passo di Marco (X, 17-27), relativo all’esortazione di Gesù di vendere tutto, diretta ad un ricco che gli aveva chiesto come raggiungere la vita eterna, è palesemente contraria allo spirito stesso del pensiero evangelico, che parla in modo esplicito di ricchezze materiali e non di disposizione d’animo nei confronti delle ricchezze stesse. Però non si deve dimenticare il particolare punto di vista di Clemente e la sua preparazione filosofica, per comprendere come egli si trovasse necessariamente portato a dare una più vasta importanza ad una questione di pensiero che ad una questione di puro e semplice trasferimento materiale della ricchezza. Infine ci semhra notevole tenere presente, cosa che non è stata fatta da Barbero, da O. Schilling (Reichtum und Eigentum in der altkirchlichen Literatur, Freiburg 1908, p. 31) e da Gino Barbieri, che a indurre Clemente a queste conclusioni dovette influire la sempre più scadente fiducia nelle possibilità, per i capi delle comunità religiose, di amministrare saggiamente le ricchezze donate. A confermare questa tesi si deve ricordare come tutti i Concili, da quello di Elvira a quello di Arles, di Nicea, ecc. abbiano posto l’accento sul problema dell’usura praticata dai ministri della Chiesa.

Con la fioritura che il pensiero patristico trovò in Cappadocia, la tesi della positività delle ricchezze trova una più ampia conferma. Addirittura con Basilio, più uomo d’azione che di ragionamento, si giunge alla giustificazione dell’arte di sviluppare la ricchezza, sempre allo scopo di ricavare maggiori vantaggi per gli altri; e quest’arte viene identificata con l’atto dinamico dell’utilizzo dei beni economici: «Così la ricchezza, fin che sta ferma, è inutile: quando circola passando dall’uno all’altro serve a tutti e fruttifica». (Basilio Magno, Il ricco insensato, tr. it., Roma 1946, p. 23). Questa intuizione è di notevole importanza, anche per la storia del pensiero economico. Forse per la prima volta si arriva a comprendere che il benessere di una comunità è dato da un flusso di elementi molteplici, tutti dipendenti, nel loro insieme, dal flusso o corrente della ricchezza che entra a far parte del patrimonio di una persona o dalla possibilità (o volontà) che quest’ultima ha di usarla mettendola in circolazione ancora una volta.

Con Gregorio di Nazianzo la posizione del cristiano nei confronti dei beni economici, viene chiarita come gestione per conto di Dio. Se a questo si aggiunge il fatto che Gregorio promosse la teoria dell’origine patologica della proprietà privata, si comprende facilmente il perché questo autore è stato spesso considerato come fautore della prospettiva comunitaria. In pratica, visto per altro l’aspetto essenzialmente poetico dell’opera sua, in lui è possibile vedere soltanto un maggiore odio dei beni terreni, di quello che poniamo è possibile rinvenire in Basilio, spirito più pratico; come a dire, una svalutazione dei valori pratici della vita, in conseguenza di una maggiore importanza dei valori ascetici.

Anche il pensiero di Ambrogio si dirige sempre di più verso il riconoscimento ufficiale della possibilità della ricchezza di servire i fini di Dio; comunque egli non era di certo l’uomo adatto per dare una risoluzione dottrinale al problema. Non vi può essere dubbio che forti dovevano sussistere i contrasti, in seno alla Chiesa stessa, per l’interpretazione canonica da dare alla posizione del cristiano nei confronti dei beni economici; ma Ambrogio, pur nella veemenza del suo carattere, ci sembra piuttosto orientato decisamente verso un rifiuto della teoria comunitaria. Riafferma, infatti, il concetto di amministrazione dei beni che si possiedono per conto di Dio; concetto che, di per se stesso, come abbiamo visto esclude un’aperta ammissione comunitaria. «Siccome ti sei appropriato parte di quello che fu destinato per tutto il genere umano e perfino per gli animali, è giusto che di esso riservi qualche cosa per i poveri, e che non neghi l’alimento a quelli che devi considerare come compagni e partecipi del tuo diritto». (Ambrogio. Enarrationes in psalmos, 22. Cfr. G. Barbieri, op. cit., p. 230).

In Giovanni Crisostomo la condanna non si dirige verso i ricchi, ma verso la loro eventuale ottusità nel cattivo uso delle ricchezze: «Intendete bene le mie diatribe non sono dirette contro i ricchi, ma contro coloro che usano male delle ricchezze». (Omelia de capto Eutropio et de divitiarum vanitate. Cfr. G. Barbieri, op. cit., p. 206). Mentre ritorna il concetto di circolazione dei beni come mezzo per il loro aumento: «Se poi vuoi accrescerli ed è per questo che li conservi, anche in questo caso il miglior metodo è quello di disperderli e distribuirli a destra e a sinistra». (Omelia su S. Giovanni Evangelista. Cfr. G. Barbieri, op. cit., p. 208).

La posizione di Agostino, nei confronti del problema che ci occupa, si orienta dapprima verso un prudente riserbo. La frase dominante ci sembra: «Le ricchezze devono essere impiegate in opere buone», (Sermo XXXIX, 2, 3), come se il Vescovo di Ippona avesse in timore di sostenere un qualche paternalismo difendendo la teoria che abbiamo visto affermarsi in Ambrogio e negli altri. Ma già intorno al 412, nella lettera diretta a Proba, scontrandosi tenacemente con il dilagante pelagianesimo, egli è costretto a superare quella fase di prudente attesa, per impegnarsi in una giustificazione aperta della liceità delle ricchezze (Epistola 130, 2). Qualche anno più tardi, in una lettera di risposta a Ilario (dettata intorno al 414), chiarisce definitivamente il suo pensiero, in una frase di rara potenza riassuntiva: «Alle dispute di costoro [i pelagiani] hanno risposto in anticipo i nostri padri Abramo, Isacco e Giacobbe, che morirono tanto tempo fa. Poiché, come attesta la Scrittura, essi possedevano tutti non poche ricchezze; tuttavia, colui che si è fatto povero per noi, da ricco quale veramente egli era, con promessa verace disse che molti sarebbero venuti dall’Oriente e dall’Occidente, per sedere, non sopra, né lontano da essi, ma con essi nel regno dei cieli. E anche il ricco superbo, quello che vestiva di porpora e di bisso e banchettava splendidamente ogni giorno, che incorse, dopo la morte, nei tormenti dell’inferno, se avesse avuto misericordia del povero che giaceva disprezzato e coperto di piaghe davanti alla sua porta, avrebbe meritato unicamente per la sua povertà e non per la sua giustizia, senza dubbio non sarebbe stato sollevato dagli angeli nel seno di Abramo, il quale qui sulla terra, era stato ricco». (Epistola, 157, 4, 23).

Questa è la trattazione del problema della ricchezza, che più si avvicina all’originale intendimento della dottrina cristiana, ma poteva portare Agostino, specificatamente in merito alla suddetta polemica contro Pelagio, ad una pericolosa ammissione: l’astrazione del cristiano dal mondo, ed una considerazione dei beni ad esso attinenti, soltanto attraverso la lente deformante del desiderio di perfezione. Infatti egli nella stessa opera, precisa: «Fu detto al ricco: “Va’ vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri, ed avrai un tesero nei cieli; poi vieni e seguimi”. Egli infatti aveva detto al Signore: “Che cosa debbo fare per conseguire la vita eterna?” Ed il Signore non gli disse “Se vuoi entrare nella vita, va’ vendi tutto quello che hai”, bensì: “Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti”. E avendo il giovane risposto di aver sempre osservato i comandamenti contenuti nella Legge e richiamati dal Signore, avendogli chiesto ancora che cosa gli mancasse, ottenne questa risposta: “Se vuoi essere perfetto, va’, vendi tutto quello che hai e dallo ai poveri”». (Ib., 157, 24/25).

Qui si tratta di una nuova concezione, in merito all’eterno problema della ricchezza. Agostino propone la stessa distinzione che ritroviamo in merito al più ampio problema politico: l’umanità risulta divisa in due grandi gruppi, coloro che operano sulla terra, superando tutti i mali e tutti i pericoli della carne, con rettitudine ed onestà, cioè coloro che seguono tutti i comandamenti prescritti; e coloro che superano questa prima fase per tentare la scalata ad una perfezione superiore, gli eletti nella grande “massa peccati” i quali aggiungono al comportamento cristiano la cessione di tutti i loro averi ai poveri.

Ecco perché Basilio, Giovanni Crisostomo e gli altri Padri che personalmente non possedevano nulla e che avevano donato tutto ai poveri, potevano lo stesso parlare di una ricchezza lecita, di un possesso dei beni terreni in amministrazione per conto di Dio; proprio perché non si rivolgevano a se stessi, ma a quella gran massa di cristiani per i quali risulta di già molto gravoso rispettare i comandamenti.

Che poi al di dentro di questa stessa ripartizione si nasconda una raffinatezza giuridica, molto evidente nel colto Agostino, e meno identificabile negli altri Padri, è questione di dettaglio, che ci conviene notare per scrupolo di completezza. Agostino propone (De doctrina christiana, 1, 4, 4) una distinzione tra l’“uti” e il “frui” cioè tra l’usare e il godere, ed è naturale che soltanto nell’usare si identifichi la perfetta condotta del cristiano nei confronti dei beni del mondo, in quanto il godere verrebbe ad includere un peccato di concupiscenza che, com’è possibile apprendere dalla dottrina di Agostino sul peccato originale, costituisce il principale peccato dell’umanità.

In merito alle difficoltà di un simile adempimento, sia nei confronti di un semplice uso delle ricchezza, come di un suo totale abbandono; e in altre parole, nei confronti della famosa frase dei Vangeli: “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli”, Agostino si rifà a Paolo il quale affermò: “Raccomanda ai ricchi di questo mondo di non insuperbire e di non confidare nella precarietà delle ricchezze”. E non disse, invece: “Raccomanda ai ricchi di questo mondo di cedere tutto quello che hanno”. Ora per giustificare la palese contraddizione, egli si affida al passo di Luca: «Ciò che è impossibile agli uomini, è facile a Dio», (Luca, 18, 27), ripiego che segna, in un certo senso, il limite della speculazione agostiniana e non solo in merito al problema della ricchezza.

Nel pensiero del vecchio di Tagaste, si compendia lo svolgimento del pensiero dei Padri. Vi identifichiamo una giustificazione e non un netto rifiuto. In più, ritroviamo, per Ia prima volta in termini chiari, la distinzione tra diversi modi di agire da cristiani: l’accettazione della ricchezza, limitatamente all’uso e non al godimento, e il rifiuto della ricchezza per farne cessione ai poveri: due gradi diversi della perfezione cristiana e non due interpretazioni contrastanti.

Su queste fondamenta la Chiesa erigerà il suo plurisecolare impero.


[Pubblicato su “Il Dialogo”, nn. 14-15, Nuova Serie, maggio 1968, pp. 57-68 e su [“Labor”, vol. IX, 1968, pp. 59-66].

La speranza

Può la fede arricchirsi o impoverirsi? Cioè, fuor di metafora, diventare più grande o più piccola? Può il singolo individuo operare perché la sua fede diventi più forte e si rassodi? Sono domande che ai credenti sembreranno retoriche. Che tutto questo sia possibile è fuori discussione, per loro, ma per i non credenti, per gli uomini – e sono milioni – che la fede non l’hanno? Per loro deve verificarsi un passaggio, come quando in una stanza oscura qualcuno accende un lume, una formidabile fonte di luce che rende tutti gli oggetti distinguibili nei minimi dettagli? Oppure per loro può anche prospettarsi l’evenienza di una piccola fiammella che a stento illumina la mano che la regge?

Non so se esiste una sola strada aperta alla fede, quella della grande illuminazione o della piccola e fioca fiammella, so che se manteniamo la similitudine che distingue tra buio e luce, ammesso e non provato che il buio sia la mancanza di fede e la luce la sua presenza, ci si può domandare: il passaggio avviene tutto in una volta?

La ragione dice di no, dice che la fede si coltiva (opere, preghiere, ecc.), si coltiva come pianta che spesso non fiorisce rigogliosa a causa del terreno poco adatto, e a volte sbalordisce per la propria capacità di vincere le avversità esterne. Ma quello che dice la ragione non appartiene alla ragione stessa, non ha causa se non la non-causa per eccellenza, la decisione divina, assoluta nella sua inspiegabilità.

Abramo ha fede sperando contro ogni ragione, contro ogni logica. Perché questa frase è detta da Paolo in questo modo? Perché non dice “Abramo spera (che speranza!) che la fede faccia qualcosa che sa, che lui sa, essere contro ogni ragione e contro ogni logica”. Non dice questo perché non c’è una logica della fede, mentre c’è una logica della speranza.

L’incredibile potenza della speranza di Abramo non è nella speranza stessa, ma nella fede, nessuno, nemmeno lui, avrebbe potuto sperare se non avesse avuto la fede come contenuto della speranza. Dentro la speranza, come progetto per il futuro, essendo proiettata al futuro, a immaginare come possa essere un futuro fatto diventare presente, ci sta la forza della fede, ma anche la capienza tutta umana del progetto nel mondo, la vita quotidiana, la famiglia, i figli, se stessi, i propri ricordi e i propri sogni, desideri, sacrifici, riconoscimenti. Insomma il proprio mondo.

La speranza contiene la forza della fede, ma si alimenta di dettagli spesso molto prosaici, la propria casa, il proprio lavoro, la propria vita. La fede aleggia su tutto quanto e rende l’insieme plausibile, in caso contrario, il singolo si perderebbe nella valutazione remotizzata di ogni elemento lasciato a se stesso, scollegato. I propri affetti, dalla lontananza, nel tempo e nello spazio, resi improvvisamente offuscati e contorti dal pensiero che veste fantasmi e tradimenti col luccicante abbigliamento della plausibilità, diventerebbero pugnali nelle carni non riferimenti e puntelli del progetto della speranza.

Ma se la fede opera questa trasformazione, è la speranza a essere troppo legata alla sua presenza, che se da un lato la rende forte e visibile, permettendo ad Abramo di avvicinare Sara contro ogni logica, dall’altro la consegna nella mani dei privilegiati che questa forza posseggono o sanno allevare dentro di sé. Il diverbio dell’innatezza o della illuminazione intervenuta successivamente, qui è secondario.

Può sembrare una enormità ma Abramo compie un gesto “normale” perché era uomo di fede. Ricordarsi dello scherzo costante che quasi ogni giorno i monaci facevano al Dottor Angelicus, andando a trovarlo di corsa in biblioteca dicendogli che un asino stava volando. Tommaso si alzava tutte le volte, distogliendosi dalle sue riflessioni, per andare a vedere, perché, diceva, che i fratelli non potevano ingannarlo. Ora, gli asini non volavano nemmeno all’epoca di Tommaso.

Non possiamo legare troppo la speranza alla fede e, nemmeno, al contrario, la fede alla speranza, che sarebbe un errore anche teologico. Abramo ebbe fede e basta. Ma questa frase, senz’altro più vera di “Abramo ebbe fede sperando contro ogni speranza, ecc.”, si riduce a una tautologia: “Abramo è Abramo”. Senza la fede non avrebbe sperato, né avvicinato Sara, né quindi avuto figli, ma senza la fede non sarebbe stato Abramo.

Non è un modello per la speranza. La nostra speranza si alimenta del respiro di un mondo in cui la fede non è quella di Abramo, nel roveto ardente, non ci sono più voci che ci dicono cosa fare al di là di ogni possibile dubbio.

Le condizioni di vita attuali hanno svilito l’esistenza che ci è toccata in sorte, anche la conoscenza da critica si è fatta debole, ha svuotato dall’interno princìpi e canoni che si ritenevano indiscutibili, ed ha fatto sana e lodevole cosa, ma che ha dato in cambio? Non è certo una qualche ideologia che rimpiangiamo, ma le tristi controfigure che ci hanno messo sotto gli occhi ci danno il voltastomaco. Non sono tempi di grandi spiriti, né di grandi sentimenti. Anche la fede è quella dell’apparenza, un riferimento che serve da ruota di scorta, non brucia l’anima, non rende impossibili le notti, l’innamoramento per il sogno impossibile si è appassito come una rosa di giugno, adesso vivacchia e aspetta, questo per chi non è con le spalle al muro, per chi ha spazi di vivibilità decorosa, ed è già polvere di cimitero per chi ha ricchezze e potere, da un lato, e per chi si trova con la schiena al tappeto, dall’altro.

La speranza che spera contro tutto e contro tutti ha bisogno di una fede che illumina il suo percorso, controverso, intimamente generoso di piaghe che vanno curate se non sanate. Il misero, e il mondo dei carcerati ne ospita fino alla noia, il misero non può che alimentare speranze a propria misura. È veramente straordinario il salto logico con cui si passa dalla realtà, dove i miseri vengono addebitati della propria miseria e accreditati di una forza d’animo, che renderebbe loro possibile sperare contro ogni speranza, che se possedessero o avessero posseduto non li avrebbe fatti miseri quali sono.

La forza d’animo è nobiltà dell’animo stesso, un pensiero nobile quale quello di Paolo, fede e speranza, o speranza e fede che siano, resta un pensiero per un cavaliere, non certo per un miserabile. La sola nobiltà che il miserabile ha è mettere la sua vita in gioco. Com’è che non si vede la conclusione quasi obbligata di una condizione del genere?

Che cosa ha meno valore di tutto per un miserabile che si trova in carcere senza prospettiva e vede, quasi con terrore, avvicinarsi il giorno in cui uscirà tornando ad affrontare la lotta in un mondo che lo vuole soccombente? La cosa di meno valore per lui è la propria vita. È questa posta, per altri, per tutti gli altri che hanno qualcosa da perdere, che per lui è iI minimo da giocare. Ed è questa posta che nei momenti giusti getta sul tappeto.

La gestione della speranza in carcere può di certo partire anche dalla fede, ed è concetto che il misero può cogliere e fare suo, ma non può partire da una speranza contro ogni speranza, sarebbe una fede da cavaliere che per lo scudiero non ha senso.

Il primo a capire questo concetto e la pericolosità sociale che è intrinseca in esso è proprio lo Stato che nelle carceri, almeno a partire dalla metà degli anni Settanta, ha rovesciato l’interpretazione della pena, da retributiva a recuperativa, rendendo concreta, sia pure in piccole dosi, la speranza del misero. L’Ordinamento Penitenziario con il termine “rieducazione” parla di una speranza a norma di legge, che come tale ha i suoi limiti, questo è ovvio, ma almeno è comprensibile per il carcerato in termini di percentuale di pena ridotta. Questo lo tiene buono e non gli dà nulla in cambio, non gli fa raddrizzare la schiena che mille meccanismi sociali concorrono a curvare sempre di più.

Il misero non si “vanta” nelle tribolazioni, si lamenta e ringhia, ma si tratta di un ringhio quasi inoffensivo che, comunque, per maggiore cautela il potere a ciò preposto cerca di recuperare in tutti i modi, e si preoccupa se leggi più dissennate di altre stringono lo spazio di vivibilità o selezionano una parte dei miserabili in questione considerandola più pericolosa di tutto il resto e tagliando i cosiddetti “benefici” che altre leggi meno stupide avevano concesso. La tribolazione, se lo vediamo tutti i giorni, non irrobustisce ma rende sempre più deboli, moralmente incapaci di trovare, o di ritrovare, la propria dignità perduta, smantellata pezzo per pezzo da un meccanismo inesorabile di selezione che salva dieci (e se ne vanta) per condannare mille.

Facciamo attenzione a non accreditare al misero la visione lungimirante del cavaliere. Anche quest’ultimo può incontrare la sofferenza e il dolore, ma si tratta di una esperienza diversa, proiettata in un tempo futuro anche se vissuta sulla propria pelle oggi, in un tempo appunto escatologico. Per il misero, la tribolazione è amaramente e miseramente tempo presente, qui e ora. Per lui è la fame, l’emarginazione, l’essere aiutato con la supponenza di chi sa di trovarsi dalla parte giusta, la separazione, infine, contrassegnata in modo eminente dal carcere e dalle stimmate che questo comporta. In carcere si è subito arruolati nell’umanità “che ha sbagliato”, un’umanità da redimere, per carità a volte pelosa, cioè per paura, ma da tenere sotto controllo. Dapprima sotto chiave, poi sotto schedature e selezioni, operazioni di specificità criminale che non finiscono mai per tutta la vita.

La speranza, in questi casi, può diventare un lusso.


[Carcere di Trieste, 3 marzo 2006]

La controriforma e le conseguenze sulla teoria politica e morale

I

Il problema della pratica politica e dell’azione quotidiana, l’analisi del potere, mai si era fatta insistente e ampia, come nel Seicento, quando sembra coinvolgere, nella crisi dei vecchi modelli di dominio politico e religioso, tutta l’esperienza intellettuale in un conflitto problematico tra istanze che lottano per non farsi sopraffare, sedotte spesso dagli aspetti formali e teorici, più che dalla costituzione reale dei meccanismi di governo.

Lo Stato e i suoi miti non hanno mai avuto, come in questo momento, aspetti di polverizzazione estrema, utopica, e ricomposizioni altrettanto estreme. Il problema politico si fa capillarmente problema psicologico, arte della dissociazione o della manipolazione, teoria del comportamento.

La stretta di poteri sovrapposti a spirale, e tutti resi più aggressivi dall’insicurezza, dal perenne allarme e dalle precarietà di una lotta che ha ormai fasi mondiali, investe tutta la dinamica della vita sociale, distribuendo livelli di prassi che dalla quotidianità del costume e dei modi di vivere risalgono verso il rapporto civile e verso il grande tema della costituzione e della organizzazione degli Stati.

La feudalità, autonomie microstatali, appaiono ancora come qualcosa destinata a tramontare, e ciò proprio dall’interno, mentre per il momento sono altrettanto vitali di quelle destinate invece ad emergere e ad affermarsi; accentramento, collaborazione del terzo stato al potere; e la massa delle loro alternative, che si fa precipitosa fuori d’Italia, in Francia, in Inghilterra, non manca di produrre anche da noi i suoi effetti collaterali, dando spazio, a livello di coscienza e di universi teorici, a quella tipica nozione del vivere come lotta del probabile e dell’imprevedibile, del rischio e dell’ambiguità, dell’estremismo tragico o fortunoso, che designa largamente i caratteri essenziali di certa teoria politica e, in fondo, della stessa estetica secentesca.

II

L’azione politica e religiosa delle iniziative controriformiste, pure essendo destinata a ottenere la vittoria, nell’ambito almeno del vecchio impero di Carlo V, nell’Europa rimasta cattolica, ai bordi di quell’impero, viveva proprio nei decenni fra il 1550 e il 1580 un periodo di estrema tensione interna, come dimostrano le vicende religiose di Francia.

Del resto, è evidente che lo Stato nazionale di eredità feudale stava entrando in crisi proprio mentre il Concilio di Trento si avviava alla conclusione. Prima Enrico IV di Francia, poi la stessa Venezia – che coniò il motto prima veneziani, poi cristiani – dovettero organizzarsi e sostenere anche aspre lotte, per evitare che il rapporto tra Stato e religione, fino ad allora relativamente stabilizzato, finisse per sbilanciarsi, con un aumento della subordinazione dei cleri nazionali a Roma e un conseguente aumento di indipendenza delle gerarchie ecclesiastiche rispetto all’apparato statale.

Inizia a svilupparsi – con successo pieno in Inghilterra, meno dolorosamente in Francia, dove tuttavia si rafforzano tradizioni gallicane, con parziale insuccesso a Venezia – un’opera di corrosione, all’interno degli Stati cattolici, più o meno identificabile come tendenza verso Chiese nazionali autonome. Tutta l’operazione politica, tutta l’apologetica controriformistica rischiava di infrangersi contro questo moto di successione interna, almeno quanto era stato posto a repentaglio prima dalla riforma protestante.

III

Precise esigenze di politica economica e di produttività sociale sostengono questi movimenti all’interno dei vari Stati, in particolare a quell’esigenza tipica della nuova classe borghese emergente, la tolleranza, la disponibilità al compromesso e all’autonomia religiosa, che sarà poi caratteristica delle fasi mature di quell’ideologia di classe.

La Chiesa cattolica rispose tra l’altro, con quella particolare precettistica e con quella specifica politica culturale che prese nome dal nuovo e subito prestigioso ordine dei gesuiti. Muniti di una dottrina teologica comunque più chiara, di una formazione culturale che poteva sfruttare, svitalizzandola, mimetizzandola, in qualche modo però anche recuperandola, l’esperienza dottrinaria dei grandi umanisti e insieme di una spregiudicata conoscenza dei vari instrumenta regni offerti dalla cultura popolare – dai riti profani recuperati in liturgia alle feste sacre, dalle rappresentazioni morali ai grandi pellegrinaggi – i gesuiti furono strumenti efficaci, a volte fin troppo esuberanti, della capillare penetrazione degli esiti controriformisti nel costume e nelle attitudini politico-mondane: nonché nella pedagogia e nell’educazione, attraverso il loro vasto sistema scolastico destinato alla crescita di funzionari e dirigenti ortodossi, dottrinalmente agguerriti.

L’organizzazione e la direzione politica e religiosa dei gesuiti negli Stati cattolici orbitanti nel dominio spagnolo fu tale, che poi nell’Ottocento e anche dopo decadenza politico-morale, ambiguità, formalismo, assolutismo carismatico, spagnolismo, tutti i contrassegni negativi della vita secentesca, furono fatti risalire per buona parte a questa matrice: come se una funzione, un elemento, così evidentemente intermedio e strumentale potesse dar conto di trasformazioni tanto profonde di struttura, da solo. E con tutto questo, l’influsso dell’ideologia gesuitica, cioè della loro particolare interpretazione degli incerti esiti conciliari, fu senza dubbio assai grande.

IV

Il segretario di Carlo Borromeo a Milano era un gesuita, anche precettore dei figli di Carlo Emanuele I a Torino, Giovanni Botero (1540-1617) che con la sua Ragion di Stato (1589) offrirà i parametri teorici non solo delle nuove finalità temporali della Chiesa cattolica, ma anche, più in generale, di un modo nuovo di concepire la funzione dello Stato, che diverrà emblematico. La religione, interesse sommo del cristiano, diventa anche il sommo fine dello Stato, che dovrà coordinare e subordinarle ogni sua attività.

Così Botero: «La religione è fondamento d’ogni prencipato, perché, venendo da Dio ogni podestà e non si acquistando la grazia e ‘1 favor di Dio altramente che con la religione, ogni altro fondamento sarà rovinoso. La religione rende il prencipe caro a Dio: e di che cosa può temer chi ha Dio dalla sua? E la bontà d’un prencipe è spesse volte cagione delle prosperità de’ popoli.

«Ma perché bene spesso Dio permette e le disdette e le morti de’ prencipi, e le rivoluzioni degli Stati, e le rovine delle città per li peccati de’ popoli, e perché così conviene per la gloria e ‘1 servizio di Sua Maestà, deve il re usare ogni studio e diligenza per introdurre la religione e la pietà e per accrescerla nel suo Stato. A questo effetto Guglielmo, duca di Normandia, avendo acquistato il regno d’Inghilterra, per stabilirvisi e fermarvi bene il piede, fece ragunare in Vintona con l’autorità di Alessandro II, un gran sinodo; quivi procurò egli, che fossero riformati con ottime leggi i costumi guasti del clero e del popolo, e messo buonissimo ordine alle cose della religione e del culto divino. Fece il medesimo Arrigo II nella città di Castel per riordinare l’Irlanda da lui acquistata. Ne’ tempi di Arnolfo imperatore e ne’ seguenti anni, mancata e per lo mal esempio e per colpa degl’lmperatori, ch’erano insolentissimi verso la Chiesa, la religione, mancò insieme ogni virtù e l’Italia fu depredata da’ Saraceni e rovinata finalmente da’ barbari, sino a tanto che Sergio II, che fu di vita santissima e d’animo religiosissimo, ed Enrico II imperatore, che fu di gran valore in guerra e di non minor pietà in ogni parte della vita, rallumarono il mondo e ridussero la Chiesa nel suo antico splendore; perché la religione e quasi madre d’ogni virtù: rende i sudditi obedienti al suo prencipe, coraggiosi nell’imprese, arditi ne’ pericoli, larghi ne’ bisogni, pronti in ogni necessità della republica, conciosiaché sanno che, servendo il prencipe, fanno servizio a Dio, di cui egli tiene il luogo. Farò fine con il consiglio dato da Mecenate ad Augusto Cesare: – Onora – dice – Dio perpetuamente, conforme alle leggi antiche, e fa che gli altri facciano il medesimo; odia e gastiga quelli, che faranno novità nelle cose divine, e ciò non solo per rispetto delli dèi, i quali però chi sprezza non farà mai conto d’altra cosa, ma perché quelli, che alterano la religione, spingono molti all’alterazione delle cose, onde nascono congiure, sedizioni e conventicole: cose poco a proposito per il prencipato.

«È di tanta forza la religione ne’ governi, che senza essa ogni altro fondamento di Stato vacilla; così tutti quelli quasi, che hanno voluto fondare nuovi imperi, hanno anco introdotto nuove sette o innovato le vecchie, come ne fari fede Ismaelle, re di Persia, e ‘l Sérifio, re di Marocco. Ma, tra tutte le leggi, non ve n’è alcuna più favorevole a prencipi che la cristiana, perché questa sottomette loro non solamente i corpi e le facoltà de’ sudditi, dove conviene, ma gli animi ancora e le conscienze, e lega non, solamente le mani, ma gli affetti ancora ed i pensieri e vuole che si obedisca a’ prencipi discoli, nonché a’ moderati, e che si patisca ogni cosa per non perturbar la pace. E non è cosa alcuna nella quale disoblighi il suddito dall’obedienza debita al prencipe, se non è contra la legge della natura o di Dio; ed in questi casi vuole che si faccia ogni cosa, prima che si venga a rottura manifesta, di che diedero grande esempio i Cristiani nella primitiva Chiesa, conciosiaché, sebbene erano perseguitati e con ogni crudeltà tormentati, nondimeno non si legge che si ribellassero mai dall’imperio o si rivoltassero contra i lor prencipi: pativano le ruote e ‘l ferro e ‘l fuoco, l’immanità e la rabbia e de’ tiranni e de’ carnefici, per la pace publica. Ne si deve stimare che ciò avvenisse perché non avessero forze, conciosiaché le legioni intiere gettavano l’armi e si lasciavano crudelmente straziare e, quel che è di non minor meraviglia, con tutto ciò pregavano cotidianamente Dio per la conservazione dell’imperio romano. E ne’ tempi nostri noi veggiamo che i cattolici sono stati per tutto oppressi dagli eretici in Scozia, in Inghilterra, in Francia, in Fiandra ed in molte parti d’Alemagna, il che è indizio della verità della fede cattolica, che rende i sudditi obedienti al prencipe, e lega loro la conscienza, e li fa desiderosi di pace e nemici di romore e di scandali. Ma Lutero e Calvino e gli altri, allontanandosi dalla verità evangelica, seminano per tutto zizzanie e revoluzioni di Stati e rovine di regni.

«Ora, essendo tanta l’importanza della religione per lo felice governo e per la quiete degli Stati, deve il prencipe favorirla e con ogni suo studio dilatarla, perché, come diceva Emanuelle duca di Savoia, la gente dedita alla religione ed alla pietà vive molto più obedientemente, che quella che si governa a caso. E prima conviene ch’egli schivi gli estremi, che sono la simulazione e la superstizione: quella, perché, come ho già detto, non può durare e, scoperta, discredita affatto il simulatore; questa, perché porta seco disprezzo. Sia sodamente religioso contra la finzione e saviamente pio contra la superstizione. Dio è verità e vuol essere con verità e con schiettezza d’animo adorato. Supposto questo fondamento, presti il debito onore al Vicario di Cristo ed a’ ministri delle cose sacre, e ne dia esempio agli altri, persuadendosi che non è cosa più sciocca né che arguisca maggior viltà d’animo, che l’attaccarsi co’ pontefici e con le persone religiose; conciosiaché, se tu gli onori per rispetto di Dio, di cui tengono il luogo, sei, non cedendo, empio: se non gli onori per rispetto di Dio, ma per qualche loro qualità, sei scempio. Religioni, dice Valerio, summum imperium cessit». (Della ragion di Stato, Torino 1948, pp. 135-139).

V

Siamo di fronte a un ritorno al tipo di Stato teocratico teorizzato e vissuto, nel lato neoguelfo, dalla civiltà medievale, che però ora si restringe dai suoi princìpi universali, Papato e Impero, ai temi più circoscritti del rapporto tra cattolicesimo e Stati nazionali.

Il principe detiene e conserva il potere, esercitando una missione in cui è ancora presente il concetto di delega popolare, ma attraverso la mediazione della Grazia divina: designazione di cui la Chiesa stessa si fa garante, legittimando la monarchia col suo crisma. In questo modo, il vecchio dominio assoluto dei Signori, che si esercitava per una supposta delegazione dei poteri comunali, e nei limiti delle forze individuali, delle capacità diplomatiche e politiche di ciascuna dinastia, si fa più intangibile e più venerando; a maggior ragione si consolida in questo senso anche il potere dei monarchi assoluti.

Viene alla luce il delitto di lesa maestà non più solo come crimine politico, atto di ribellione ma come sacrilegio religioso. In Botero resta il concetto, già machiavellico, di religio instrumentum regni, ma mentre nel Principe Machiavelli la considerava uno dei tanti strumenti di cui il principe si può servire, ma cui non è in alcun modo soggetto, per Botero essa è il solo sostegno del trono, in qualche modo anche il solo vero fine reale, che subordina ogni altra funzione. Si intende che proprio Machiavelli finiva per divenire, a livello di teoria politica, il principale nodo polemico della nuova pratica teorica gesuitica e mentre proprio un ex gesuita come Botero si preoccupava di formulare la nuova dottrina dello Stato assoluto, la Compagnia perseguitava ogni traccia di eredità machiavelliche, fino a impedire per quasi due secoli la ristampa delle sue opere in Italia. È in questo clima che i modelli già percorsi dal Machiavelli di storiografia repubblicana, a cominciare da Livio, decadono per lasciar spazio a Tacito, più consono alla nuova condizione della politica europea.

Dall’oligarchica civiltà mercantile di Venezia, ultimo Stato repubblicano sopravvissuto in Italia, verrà la sfida più dura alla nuova civiltà del principato, quale veniva configurandosi attraverso le istanze teocratiche e assolutiste della politica controriformista. Il lungo braccio di ferro tra Venezia e la Santa Sede, che culminò in un conflitto tra giurisdizione ecclesiastica e giustizia civile, a causa di un processo intentato dalla Repubblica a due sacerdoti, rei di delitti comuni, ebbe un protagonista d’eccezione, fra’ Paolo (Pietro) Sarpi (1552-1623). Fu lui, in qualità di consigliere del governo, a indurre il Senato ad opporsi alle richieste di Roma, che pretendeva per i due un tribunale ecclesiastico; fu ancora lui, quando Paolo V scagliò contro la città l’interdizione dagli uffici divini, a difenderne strenuamente l’autonomia, giudicando l’interdetto ingiusto e di nessun valore. La città resistette, fino ad ottenere una pace abbastanza onorevole. Fra’ Paolo che in qualche modo si era sentito tradito da una serie di potenze europee, a cominciare dall’Inghilterra, che avevano seguito con distaccato favore l’andamento del conflitto, senza tuttavia intervenire né finanziariamente né in altri modi, rischiò di perire, nell’anno stesso dell’accordo (1607), in un agguato di sicari i cui mandanti egli stesso riconobbe con una frase a evidente doppio senso: “Conosco lo stile della Curia Romana”.

VI

Con le tesi di Paolo Sarpi venivano ad innestarsi molteplici fermenti: l’esigenza profonda di riforma, dall’interno della Chiesa cattolica, che aveva sostenuto molti esponenti di essa fino alla conclusione del Concilio (si può dire che la loro crisi inizia nel 1590, quando, morendo Urbano VII, che era stato un fautore di questa linea, gli spazi per un discorso di rinnovamento evangelico si chiudono inesorabilmente); l’area intellettuale prodotta, tra Venezia e Padova, dall’insegnamento di Galileo (il Sarpi fu infatti studioso di scienze naturali e matematiche, considerato dallo stesso maestro un grande talento); infine il clima particolare della Repubblica veneta, la sua prevalente composizione di classe al governo, le sue stesse esigenze mercantili, che la legavano di canali diplomatici ed economici ancora assai forti al mondo riformato, nonché all’Oriente non cattolico. La polemica di Sarpi è dunque anche il risultato di due apparenti contraddizioni, da una parte un acuto bisogno di rinnovamento religioso, dall’altra una tradizione di moderazione e di tolleranza, prodotta dalla sovranità d’uno Stato a economia mercantile di fondo: una posizione per parecchi versi anticipatrice di alcuni motivi storici del cattolicesimo contemporaneo.

Dal punto di vista ideologico e teologico, il pensiero e l’azione politica di Sarpi rispecchia largamente tutta una serie di contraddizioni d’area europea, in cui si trovarono coinvolti, con convergenza a tratti vertiginose – come quella tra gesuiti e calvinisti circa le teorie antirealiste – tutti i gruppi religiosi, i gruppi di potere, gli Stati dell’Europa tardo-cinquecentesca. Al fondo della sua esperienza critica, a parte i retaggi di dottrine medievali antipapiste – Guglielmo d’Occam fu certo tra i suoi modelli quanto Tommaso fu per il suo amico e poi antagonista, il gesuita Roberto Bellarmino – c’è in varia misura la grande pubblicistica politico e religiosa, fiorita particolarmente in Francia, poi in Scozia e in Inghilterra, all’indomani d’una serie di eventi traumatici: il massacro della notte di S. Bartolomeo in Francia, nel 1572; i travagli religiosi di Scozia e l’avvicendamento delle dinastie in Inghilterra, dopo la morte di Elisabetta. Tutto il pensiero politico europeo, tra residui di teorie feudali e anticipazioni di società civile, in termini di consenso comune e di contratto – il patto della Mayflower, la nave dei padri pellegrini americani, è del 1620 – attraversava una delle fasi più convulse della sua storia; e non staremo ad elencarne qui le ovvie ragioni. Ma questo certo spiega l’estensione politica che assume la questione dell’Interdetto a livello internazionale, la pubblicistica che ne derivò, il rilievo del tutto particolare che assunse, anche oltre i suoi conflitti storici e naturali, la posizione del frate veneziano.

VII

Per capire meglio si deve fare un passo indietro, al tempo del suo lungo soggiorno romano, quando il più agguerrito polemista gesuita del tempo, Roberto Bellarmino – che tra l’altro Paolo Sarpi frequentò amichevolmente – aveva già pubblicate, nelle Disputationes (1581) alcune tesi che successivamente rielaborerà proprio contro il Sarpi nel suo De potestate summi pontificis (1610). Pur concedendo che il papa non possiede alcuna autorità in materia secolare, Bellarmino sosteneva che egli, come capo spirituale della Chiesa, aveva un potere indiretto sulle cose temporali ogni volta che fossero implicate questioni religiose e spirituali.

Sorpassando gli antichi termini della questione delle investiture, cioè dichiarando che il potere dei reggitori terreni non deriva né da Dio né dal papa, ma dalla comunità nazionale che punta ai suoi fini secolari, Bellarmino operava una doppia svalutazione ed insieme una rivalutazione: da un lato, poneva le dinastie regnanti sotto l’ipoteca di una verifica perenne, e non più protetta da investiture trascendenti, da parte degli amministrati, togliendo loro inoltre ogni potere di direzione, nella sfera spirituale e delle ragioni di coscienza; dall’altro asseriva che, tra i reggitori umani, solo il papa riceveva il suo potere direttamente da Dio. Ne derivava una sorta di ricatto politico nei riguardi di quegli Stati nazionali, già largamente autonomi nelle cose secolari e tendenzialmente anche in quelle spirituali, che allora costituivano l’Europa occidentale.

VIII

Eccola la strana convergenza tra gesuiti e calvinisti: Giacomo I Stuart, re di Scozia e poi di Inghilterra, studioso di teologia e di politica, scrisse che “i gesuiti non sono altro che puritani papisti”. In effetti, entrambe le dottrine finivano per predicare non solo l’indipendenza della organizzazione ecclesiastica nelle decisioni dottrinali, ma respingevano la supremazia del re sulle Chiese nazionali – tendenza anglicana, ma anche francese, nella tradizione del gallicanesimo – e l’immunità dello stesso re, quando fosse coinvolto in accuse o sospetti di eresia: tanto che, nei paesi di più forte tensione politica e religiosa, la dottrina gesuita poté passare per antirealista e dissolvitrice nei confronti dei poteri statali; quanto invece, in Spagna, fu di sostentamento alla legalità sovrana dei re asburgici, disposti ad accettare la superiorità spirituale e, in ultima istanza, l’ingerenza secolare degli ecclesiastici.

Il meccanismo, la struttura portante che Botero, Bellarmino, lo spagnolo Francisco Suarez mettevano in moto, aveva dunque come scopo in sostanza, una gerarchia tra Chiesa e Stati, fondata sul concetto che i secondi sono comunità nazionali secolari nell’origine e nei fini, mentre la prima è una comunità d’origine divina e di fini universali; bastava in sostanza mantenere la distinzione ed annullare la gerarchia, per giungere al nodo della polemica, là dove si colloca anche Sarpi: sì all’indipendenza della Chiesa ma, per ragioni analoghe, sì anche alla sovranità totale dello Stato, e dunque distinzione completa tra i due organismi sociali, possibilità da parte dei cittadini di appartenere all’uno e all’altro senza alcuna ingerenza delle due sfere. Conclusione opposta a quella cui tendeva in sostanza sia il pensiero gesuitico nel mondo cattolico che quello calvinista nel mondo riformato: dove si sosteneva in definitiva che l’obbligo politico non è assoluto e che ci si può ribellare a un reggitore eretico, in nome di valori religiosi e morali superiori all’obbedienza dovuta ai funzionari del potere politico.

IX

La questione è molto complessa e può apparire addirittura inestricabile fuori dalle verifiche della prassi reale, perché se da un lato il punto di vista gesuitico può apparire regressivo – si è parlato infatti di medievalismo, ma un po’ superficialmente – è anche vero che rompeva una prassi di accentramento e di mitologia dello Stato, che più tardi sarà bersaglio anche di quella classe borghese che ora si affianca ai re nel potenziamento della direzione centrale del potere.

Né d’altro canto l’orgoglio repubblicano con cui parte dell’oligarchia veneziana difese i propri antichi – e anch’essi medievali – privilegi può passare per istanza progressiva. E tuttavia, fu con questo contraddittorio, lacerante patrimonio di esperienze europee che salparono i già ricordati pellegrini della “Mayflower”, i fondatori, contraddittori anch’essi, di quella che sarà più d’un secolo dopo la prima repubblica democratica borghese, gli Stati Uniti d’America.

In conclusione della lotta per l’Interdetto, dopo l’attentato del 1607 e dopo un denso periodo di attività diplomatica, di scambi culturali, di attese, specialmente dall’Inghilterra di Giacomo I Stuart e in parte dalla Francia di Enrico IV, fino alla sua tragica scomparsa, Paolo Sarpi abbandonò progressivamente il posto di prima fila che aveva assunto, sotto il profilo politico e sotto quello dell’attività teorico-giuridica; alla polemica e alla pubblicistica militante subentra l’agio deluso del ripensamento storico, alle radici lontane del grande moto religioso che aveva sconvolto l’Europa, fin dal primo Cinquecento.

X

Grazie all’insistenza ininterrotta di storici, diplomatici, teorici, specie d’Oltralpe – e particolarmente inglesi, a cominciare dallo stesso re – Sarpi iniziò la stesura della sua opera più famosa, l’Istoria del Concilio Tridentino, pubblicata proprio a Londra, nel 1619, con lo pseudonimo anagrammatico di Pietro Soave Polano. L’arco va dal pontificato di Leone X, quando i fermenti di Lutero sono ancora embrionali, al 1564, anno conclusivo e insieme d’esordio, rispetto a quella vasta operazione di difesa che il mondo cattolico aveva condotto col Concilio tridentino: conclusivo del dibattito, del confronto, dell’elaborazione teorica, d’esordio rispetto alle verifiche politiche e all’identificazione storica di quel movimento, sullo sfondo della crisi europea. Otto libri, in una prosa scarna, lucida e a tratti scabra, totalmente antisecentesca e antigesuitica anche formalmente, condensano in un un’ottica felicemente partitica, tutta interna a parametri tendenziosi e apertamente anti-istituzionali, la vicenda di gran lunga più traumatica che la coscienza occidentale avesse subito nello spazio di molti secoli.

In apparenza non si tratta più delle questioni dibattute dieci anni prima, quanto al tema generale della rigenerazione della Chiesa attraverso il ritorno alle sue strutture primitive, alla comunità dei fedeli, alla vita comune dei religiosi, ai limiti del potere dei vescovi, e in particolare del vescovo di Roma. In effetti, perno principale del risentimento, a volte oggettivamente deformante di Sarpi, è appunto il papato, la sua storia recente, i suoi mali mondani, la sua stessa orbita prima d’influenza, l’Italia frantumata e passiva, che emerge ormai incapace d’ogni reazione, d’ogni difesa. Si intende perché la Istoria di Paolo Sarpi potesse passare per una scrittura sostanzialmente anticattolica, più che antitridentina: un suo critico, quel cardinale Pietro Sforza Pallavicino (Roma, 1607-1667) a cui fu affidata la risposta curiale più articolata, la controstoria insomma, poteva frequentemente accusarlo non solo di svisare fatti e testimonianze, di ricostruire situazioni e perfino discorsi per via di pura invenzione, ma d’essere in sostanza partigiano di Lutero oltre i limiti d’ogni sia pur critica oggettività.

XI

Soave [Sarpi] per lui ha alterato ogni tratto della sua storia con più bugie “che non fu [alterata] da Omero la guerra di Troia”. L’Istoria del Concilio Tridentino in realtà è una storia politica, nel senso forte e largo del termine: scarsa e spesso neutrale l’attenzione che dedica alle questioni dottrinarie, ai temi più specificamente religiosi e teologici. La scrittura scorre tesa, incalzante, spesso ironica, concentrata sulla prassi, sugli uomini, totalmente antiretorica. Eccone un pezzo: «Le risposte di Lutero furono, secondo il naturale costume suo, veementi e concitate, con dire che non faceva nessuna stima del conto in che fosse appresso la corte romana, della quale non temeva l’odio, né curava la benevolenza... [diceva] Avere il Noncio per sua ingenuità confessato di non indender teologia, il che appariva anco chiaro per le ragioni proposte da lui, poiché non si poteva chiamare la dottrina sua nuova, se non da chi credesse che Cristo, gli Apostoli e i Santi Padri avessero vivuto come nel presente secolo il papa, i cardinali, i vescovi; né si può far argomento contro la dottrina medesima dalle sedizioni occorse in Germania, se non da chi non ha letto le Scritture e non sa, questa esser la proprietà della parola di Dio e dell’Evangelio, che dove è predicato, eccita turbe e tumulti, sino al separar il padre dal figliolo... [dicendo] Che da Roma non può ricever cosa alcuna compatibile col ministerio dell’Evangelio; né moverlo gli esempi di Enea Silvio [Piccolomini] o di Bessarione, perché non stima quei splendori tenebrosi; e quando volesse anco essaltare se stesso, potrebbe con verità replicare quello che da Erasmo fu detto facetamente: che Lutèro, povero e abietio, arricchisce e inalza molti». (Istoria del Concilio Tridentino, I, LIII).

Personale testimone diretto e protagonista della vicenda, Sarpi lasciava inoltre una viva Storia dell’Interdetto (terminata nel 1610, pubblicata postuma a Ginevra nel 1624): anche qui, come in tante sue opere e interventi minori, c’è quel suo gusto mordente dell’attualità, la ricerca di una storiografia operativa e non contemplativa o puramente didascalica, secondo i registri solenni della storiografia monumentale. Non moniti retorici ma informazioni esplicite, coinvolgenti, indagini sulle motivazioni profonde, cioè reali, della prassi, secondo una lezione che certo dipende assai più da Francesco Guicciardini e dagli storici fiorentini che dalle eredità retorico-umanisticlie già realizzate, da Cesare Baronio in poi, nel procedere lento e quasi sacrale della grande annalistica ecclesiastica.

Dipende da ciò invece molto di più l’opera di cui si è detto di Pietro Sforza Pallavicino, quella Storia del Concilio di Trento (1656-57) che fu redatta, a trent’anni dalla morte di Sarpi e su istanza della Compagnia di Gesù a cui Sforza Pallavicino apparteneva, per confutare le tesi e le testimonianze adoperate da Paolo Sarpi. Giovandosi d’una conoscenza dei documenti, anche privati, certo migliore di quella del Sarpi, d’una tonalità apparentemente più distaccata, cioè d’una falsa oggettività circospetta, d’uno stile lineare, piano, del tutto degno dell’autore d’uno dei più famosi trattati di retorica gesuitica del secolo: le Considerazioni sopra l’arte dello stile e del dialogo Pallavicino segna perfino al di là delle sue già polemiche intenzioni il limite che separa ormai, a metà secolo, ogni prospettiva e ogni fermento di dibattito aperto, di riforma spirituale, dalla certezza burocratica del dogma e dall’apologia dell’ubbidienza e della gerarchia.

Alla cultura gesuitica, non solo alla sua apologetica, ma alla sua costituzione pedagogica e perfino stilistica, in certo modo dunque alla sua dimensione estetica, appartengono anche Daniello Bartoli (1608-1685) e Paolo Segneri (1624-1694), uno ferrarese, l’altro laziale, ma del tutto unificati ormai da quella fucina centrale dell’ordine che fu il Collegio Romano, dove nacque la ratio studiorum dei gesuiti e donde partì il loro assalto dottrinario, teologico, pedagogico, verso tutta l’Europa e, attraverso la predicazione missionaria, verso tutto il mondo. Entrambi sono spesso radunati in capitoli sulla prosa d’arte o comunque sotto dizioni che sottolineino insieme il prestigio formale dei loro scritti e l’eclettismo di fondo che domina la loro straripante produzione e la disperde in una miriade di prove retoriche, grammaticali, storiche, comportamentali e perfino naturalistiche. Bartoli fu comunque principalmente il grande storico del proprio ordine (con la sua Storia della Compagnia di Gesù, stesa fra il 1650 e il 1673) mentre Segneri fu forse più di Francesco Panigarola, il più grande predicatore del suo secolo.

Bartoli aveva esordito nel 1645 con un singolare trattato sulle virtù e i vizi dei letterati, L’uomo di lettere difeso ed emendato. Una prima parte, apologetica, ricorda esempi classici di virtù intellettuale misconosciuta, di vita felice nella sola luce della sapienza, dell’arte e della filosofia. La seconda invece raduna in diverse categorie (dal plagio all’oscenità) i vizi principali dell’uomo di lettere; e non vi mancano certo pagine gradevoli, testimonianze divertenti, in una scrittura che già si annuncia oscillante tra grazia e virtuosismo, ma a tratti è anche fervida, suadente, francamente lontana da quei moduli marinistici di cui era negativamente accreditata, nel secolo precedente, anche presso i puristi cattolici, che vi coglievano i compiacimenti barocchi da cui per l’appunto, verso la fine, Bartoli mette in guardia, in capitoletti dedicati allo “stile, che chiamano moderno concettoso” e alle colpe dello stile “fiorito e troppo ingegnoso”.

Si nota subito, in questo libro, e più di tutto in questo stile, una civiltà formale assai abile ma non plateale, anzi dissimulata dietro tutta una serie di espedienti manieristici, moderatamente sentenziosa, fantasiosa nelle analogie ma non dimentica del quotidiano; e a proposito di analogie, si noterà la frequenza con cui compaiono esempi esotici, patrimonio, d’una esperienza non individuale ma collettiva, di tutta la Compagnia, i cui fasti missionari il Bartoli si preparava a celebrare qualche anno dopo, esordendo nel ‘50 con una Vita di sant’Ignazio, e proseguendo poi con voluminosi, minuti racconti di varie missioni, presso il Gran Mogol, in Giappone, in Cina, nel resto dell’Asia, in Inghilterra: alle missioni in Italia sarà dedicato l’ultimo tomo (1573).

Allo scrittoio di Bartoli che da Roma si mosse poco, affluivano le relazioni dei confratelli dai punti più remoti del globo, scritture spesso precarie, rudimentali, dalle quali doveva però sprigionarsi per lui un fascino misto di esaltazione religiosa, di curiosità, di nostalgia per un ignoto di cui gli pervenivano esili tracce, da rielaborare nel fervore operoso d’una scrittura sapiente, retoricamente degna degli eventi, ritenuti provvidenziali, che gli si sottoponevano. Del resto, è ben noto che le prime conoscenze europee sul nuovo mondo, così come la ripresa, dopo l’alto Medioevo, di notizie dall’Oriente estremo, dipendono in gran parte da scritture religiose, relazioni di esperienze missionarie, oltre che da lettere e resoconti di viaggi mercantili. Ed anche attraverso queste scritture nasce il tema, prima teologico, poi filosofico e antropologico, non solo del primitivo, ma del civile remoto: attraverso di esse, portatrici certo del tutto involontarie di fermenti corrosivi, entra progressivamente in crisi l’eurocentrismo, l’assoluto della tradizione occidentale. Se ne vedranno meglio gli effetti a Settecento inoltrato.

Di Segneri, che era stato alunno di Pietro Sforza Pallavicino, non ricorderemo qui che le grandi raccolte di prediche (I Panegirici, 1664; Il Quaresimale, 1679 e le tardive, Prediche dette nel Palazzo Apostolico, 1692). Egli ha parecchi caratteri stilistici del suo più anziano confratello, ma anche una prospettiva più angusta, irrigidita già dai segni d’una crisi circostante che la pratica e la spiritualità dei gesuiti deve attraversare, nel confronto ancora indiretto ma incombente con l’avanzata delle filosofie laiche: basti qui ricordare L’incredulo senza scusa (1690), una delle sue ultime opere.


[1973]

Benvenuto Cellini e Girolamo Cardano

I

Benvenuto Cellini (1500-1571) è l’artista figurativo che per primo entra, a pieno titolo, nel novero dei grandi scrittori, e non per la via secondaria d’una per quanto suggestiva testimonianza tecnica, come avviene per Leonardo, o attraverso il breve frammento di memoria provvisto di una qualche qualità formale da “testo di lingua”, ma per la via maestra di un’autobiografia così prorompente, aggressiva, lunatica e inquietante, da convogliare intorno a sé un dilagante repertorio di esperienze critiche, fino a divenire, oltre che un caso letterario clamoroso, un caso clinico ben predisposto alle attenzione dei lombrosiani.

Non tralasceremo subito, come sarebbe giusto, il risvolto clinico della fortuna celliniana, anche se le indagini di questo secolo [1973] l’hanno ridimensionato tra le curiosità storiche: non prima almeno di essersi chiesti se questa prerogativa, che peraltro Cellini divide, non a caso, con parecchi intellettuali del secondo Cinquecento, dal Cardano allo stesso Tasso, non sia capace di suggerire, circa la sua opera e la sua stagione, qualche ipotesi più generale, che in qualche modo aiuti a fare luce sulla sua struttura interna, densa di sovrapposte intenzioni e dotata di un potenziale significativo forse non ancora del tutto esplorato.

Le fantasie, la bizzarria irrequieta, la megalomania a tratti delirante che si denunciano in Cellini non sono forse caratteri inediti nella psicologia di un artista in crisi; è anzi probabile il contrario. Pure chi prenda a termine di paragone, per non andare lontano, gli scarnificati appunti del suo conterraneo Jacopo Carucci detto Pontormo, troverà che tra le due vicende intricate, tra i due squilibri si è inserito qualcosa, il supporto e la più o meno consapevole scelta di un “genere”, che ha fatto delle povere tracce di un introverso diario un estroverso e brulicante romanzo.

Una simile espansione o libera manipolazione – qui si deve forse ringraziare il geniale dilettantismo di Cellini – del classico libro dei ricordi, dell’antica cronichetta familiare, i prototipi più diretti, più tipicamente fiorentini e borghesi, del genere autobiografico, è però difficilmente valutabile alla luce di una iniziativa singolare. Nella dismisura celliniana c’è il segno d’un allargamento sociale dell’area d’azione letteraria, tipico della cultura fiorentina di mezzo secolo – e basterà sotto questo profilo pensare a Giovanbattista Gelli – e insieme, l’ombra di un crepuscolo ammantato di apparente vitalità, come spesso accade al termine di una stagione, quando strutture e strumenti classici dell’operare intellettuale sembrano gonfiarsi e complicarsi fino all’estremismo.

Nel fondo di quest’animo inquieto agisce l’effetto di un contraccolpo, di una insicurezza crescente e di una fragilità nuova, che parte dai sempre più difficili rapporti dell’artista col potere, dell’intellettuale col proprio mondo, fino a incidere in modo vario sulla sfera emotiva e di lì sui modi della scrittura.

Non per nulla ricordavamo che è toccato proprio ai più rappresentativi artisti di questa stagione, dopo Cellini, il compito di far da cavie ai primi spericolati esperimenti stilistici. Non si è mai sufficientemente calcolata, in questa loro sopravveniente smania di esibirsi, di raccontarsi fin nelle pieghe più riposte, di denudarsi talvolta brutalmente, talvolta pateticamente, la percentuale di responsabilità che va fatta risalire non tanto alla trasformazione delle ideologie morali o estetiche, ma a quello che essa rivelava di più reale e profondo, cioè l’incipiente declassamento della funzione dell’artista e dell’intellettuale nell’ambito delle funzioni sociali.

In effetti, quali che siano i risultati, l’autobiografia celliniana, come quella di Cardano e come le pagine di Tasso un tempo sotto l’attenzione dei frenologi, partono da una volontà apologetica e difensiva, da un bisogno di riaffermare diritti e valori di una educazione estetica e di una funzione non più conciliabile con norme di comportamento sempre più caute e coercitive, entro le maglie di un potere che per la sua nuova natura e condizione non poteva più dissimularsi dietro i mecenatismi liberali e i punti franchi di corte, come nel primo Cinquecento. È probabilmente da individuare in questa frizione la principale molla emotiva dell’iniziativa celliniana, anche se altrove – e in zone di più complessa natura, tra istituti formati e motivazioni sociopsicologiche – saranno da ricercare le ragioni per cui una scrittura quasi privata e occasionale è concepita forse come risposta rabbiosa a un ennesimo insulto del potere.

Leggere l’autobiografia significa immergersi in una continua apologia di questa norma del comportamento fuorilegge: ma per quanto il compiacimento di sé, ingenuo a tratti fino all’infantilismo, non lasci che spazi di scorcio ai comprimari, pure nel tessuto di una vita varia e irrequieta emergono, tra verità e invenzione, decine di figure e di spunti narrativi eccezionali.

Tra il magnanimo tratto di Francesco I di Francia, profilato coi nobili segni di un grande mecenatismo “cortese” sopravvissuto e la miriade di deformi cortigiani romani, fiorentini, parigini, trafitti di sghembo da una penna impietosa, passano generazioni di tipi appena scalfiti dai traumi storici di cui furono attori e testimoni, tutti riportati su di un bassorilievo fitto di colpi di scena, appiattiti là dove li ha trovati, incisi e dimenticati il loro istrionico ritrattista, inseguendo la propria glorificazione.

Dove la realtà non basta allo spavaldo protagonismo celliniano, qui si innestano gli strumenti inventivi di più forte effetto, dall’amplificazione eroicomica alla deformazione satirica: purché tutto faccia perno intorno alla sua persona, fino a effetti di assoluto vitalismo. Così nel concitato racconto della difesa di Roma, nel ‘27, nell’episodio della mirabolante fuga dalla prigione di Castel Sant’Angelo, nelle sarabande di una notte di negromanzia al Colosseo o in quelle in cui descrive la difficile fusione del Perseo, dove il mirabile evento tecnico si trasforma in una lotta demoniaca della volontà contro la natura.

Ma a parte queste e tante altre pagine da antologia, la Vita tutta appare scritta un tono sopra le righe, in un misto di sovreccitazione e di sfida, con l’implicito proposito di lasciare depositato alla memoria una sorta di testamento esemplare, costituito appunto da un’esperienza vissuta fino allo spasimo contro gli esigui spazi concessi dalla nascita – era figlio di un muratore, anche se lo aveva elevato quasi al rango di architetto – dal destino sociale, dai rovesci politici e dagli intrighi di corte, dall’incomprensione e dall’invidia dei contemporanei.

Racconto sottolineato e scandito da una prosa che apparve, fin dalla riscoperta settecentesca, una sorta di modello antiumanistico, esplosione del naturale e del popolare contro gli schemi avviluppati della tradizione dotta e del boccaccismo di maniera, fatta di scatti, di fughe, nervosa e incisiva. La prosa di Cellini resta, nel suo disordine impulsivo, nelle sue deroghe, una sorta di autoritratto formale e un raro esemplare di scrittura subletteraria, espressivamente onnivora, in un secolo rigorosamente formalista anche nelle sue frange dissidenti o scapigliate.

II

Diversamente va accostato il testo De vita propria del medico, matematico e filosofo lombardo Girolamo Cardano (1501-1576), composto negli ultimissimi anni della sua esistenza. Il panorama celliniano apparentemente si inverte, nel senso che cambiano di ruolo, sullo sfondo di una affine nevrosi, i valori che reggevano e stimolavano il mondo ideologico di Cellini.

Appare fin dall’inizio tramontata, remota o mai intravista ogni possibilità di sfida e di scontro vittorioso contro il destino, vano ogni sobbalzo individuale che non sia una semplice sfasatura biologica nell’ordine delle sorti, spietatamente previsto nel preciso registro delle stelle. Nella dilagante crisi dei sistemi scientifici tradizionali, razionalismo e magia, scienza della natura e predestinazione si toccano e si confondono, esasperano reciprocamente i propri domini, fino a effetti allucinanti.

A produrre una differenziazione così di fondo, tra le due opere, non c’è solo un diverso ambiente culturale, ma il più netto contrasto offerto dalle tradizioni e dai sistemi sociali. Da una parte un resistente superomismo di matrice borghese, corroborato dai residui d’una prospettiva estetica di tipo neoplatonico – con l’iniziativa dell’artefice al centro del sistema di conoscenze e col più generale mito d’una lotta vittoriosa della virtù contro la fortuna – dall’altra parte la storia di un mondo accademico chiuso e dogmatico, di una società, come quella centro-padana di fine secolo, fondamentalmente statica, spagnolizzata e incapace di articolazioni. Fin dai primi capitoli del suo racconto – come in quello denso di imprevedibili moduli tragici in cui racchiuse gli eventi della sua nascita – Cardano appare ospite di un mondo gelido, infido, in cui la violenza domina nei suoi vari volti.

L’oggettività scientifica del racconto è solo apparente, in essa filtra il senso di un’esperienza disperata e di un vivere ostile, che si propaga per tutti i cinquantaquattro capitoli di questo disconosciuto capolavoro, a cui ha molto nociuto, al solito, l’essere redatto in un ruvido latino discendente dall’antica tradizione scientifica medievale, assai restio alle seduzioni umanistiche.

L’esistenza non appare intelligibile se non per categorie – l’andamento narrativo è spezzato, aneddotico, entro capitoli che mirano fondamentalmente ad un autoritratto etico e comportamentale, per leggi inderogabili della natura astrale. La regge una sorta di cabala allucinata, dove trova risposta, mai consolazione, ogni rovescio, ogni esaltazione della provvisoria fortuna, la morte come la nascita, gli onori e il disonore, l’angustia di un vivere che è sempre sul filo del miracolo o della catastrofe. Ogni sorte si rivela costruita da sempre sullo schermo fisso degli astri, anche se episodicamente punteggiata da sortite inesplicabili del fato, quasi un lembo estremo di gioco racchiuso in un cunicolo senza uscite.

Anche qui, come nel Cellini, un apparente vitalismo, estenuanti risse o dispute accademiche, eventi miracolosi – il latino imparato in una sola notte, senza studio – esorcismi e violenze, reazioni aggressive e smentite, ma il panorama è grigio e quasi lunare, la solitudine non ha mediazioni, ogni lotta e ogni rivalsa finisce per essere scientificamente vana, gloria e onori sono posseduti per essere sopraffatti e vietati, in una realtà sostanzialmente deserta, di simboli tetri.

Anche per questa via passa, a fine Cinquecento, un recupero della dimensione tragica, nello scontro tra una volontà poco più che biologica di essere e una realtà sociale, un contesto morale e passionale così avverso, da risultare infine come buia notte di ombre demoniache, governata dal decreto lontano degli astri.

Che resta, nel De vita propria, del variopinto rinascimento di cui ha parlato Burckhardt? I segni di profondi turbamenti dell’ethos e la durezza di un vivere sociale senza illusioni, senza misericordia.


[1973]

Jus primae noctis

Premessa

È nota a tutti l’esistenza di questo strano istituto nella vita medievale, con le profusioni di rammarichi e riprovazioni che la letteratura non ha mancato di tramandarci. Un simile diritto trova paragone solo con la non meno famosa prostituzione sacra diffusa nella civiltà babilonese e risulta, a nostro modo di vedere le cose, altrettanto biasimevole.

È naturale, quindi, che il lettore moderno, trovandosi davanti a testimonianze simili vada con la mente a quei tempi bui, a quelle lontane epoche, in cui il terrore e l’ignoranza delle classi meno prospere rendevano possibili angherie simili da parte dei signori feudatari. Altrettanto naturale che nel lettore si sviluppi un senso di ripulsa e conseguentemente di condanna verso quei bruti che si impadronivano in base ad un vero e proprio riconoscimento giuridico dell’onore delle spose, addirittura nel corso della prima notte di matrimonio, senza che nei poveri mariti potesse sorgere la minima possibilità di evitare una così dolorosa privazione.

Certo non saremo noi, qui, a cercare di convincere il lettore dell’eticità del comportamento di quei rozzi feudatari, in quanto, tra l’altro, anche noi troviamo riprovevole non tanto l’atto in se stesso quanto, e in ben maggior misura, l’idea, di un diritto del genere e quindi della relativa norma di coazione che quel diritto sosteneva e rendeva possibile. Forse sarebbe improprio definire, come è stato fatto, “immorale” quel comportamento, in quanto così facendo si viene irrimediabilmente a sovrapporre una mentalità etica corrente a una situazione ormai fuori del tempo. Più esatto definire quel comportamento come “ingiusto”, proprio perché lesivo di quel diritto di uguaglianza su cui si fonda il concetto stesso di giustizia; ma “ingiusto” perché a sua volta prodotto da uno stato di diritto “ingiusto” come appunto era quella norma che prese il nome di Jus primae noctis, o jus foderi, o jus cunnatici o cunnandi, o Cazzagium.

Fondamento storico dell’esistenza di questo diritto

Sull’esistenza effettiva di questa pratica medievale non possono sussistere dubbi avendosi troppi documenti che la illustrano e la comprovano. Almeno limitatamente alla Francia, alla Scozia, alla Germania, alla Svizzera e al Piemonte le testimonianze sono molteplici. Per il resto dell’Italia, come ha giustamente notato Carlo Francesco Gabba, non è possibile avere documenti di tal sorta, comunque, a nostro avviso, non ci si può sentire autorizzati a concludere per una assoluta mancanza dell’usanza predetta.

Il documento più interessante e originale, anche dal punto di vista di un non trascurabile valore estetico è un poemetto in ottave dal titolo: Il fodero, ossia Il gius sulle spose degli antichi signori, stampato a Torino nel 1789 sotto il nome di Veridico sincer Colombo Giulio, ma dovuto alla penna feconda del gesuita Giulio Cesare Cordara. Il libro fu edito con l’indicazione della Stamperia reale ma stampato dai fratelli Reycends, secondo quanto si legge sotto il frontespizio. La vicenda narrata riguarda gli accadimenti occorsi nella valle del Monferrato dove spadroneggiavano i Conti d’Acquesana, sotto la tutela del Marchese di Monferrato. Così il gesuita letterato nella Prefazione: «Tra le altre gravezze si mantenevano in possesso di una legge iniquissima detta del Fodero, in virtù della quale erano obbligate tutte le novelle spose di dare al Conte Padrone le loro primizie. I poveri terrazzani si adattarono per un pezzo a questa infamia. Ma finalmente nel 1235 punti dallo stimolo d’onore non volendo più tollerarla, fecero tra di loro congiura, e al suono di una campana, che da Belmonte diede il segno ai congiurati, assaltarono i sopraddetti sei conti nelle loro rocche e li uccisero. In appresso diroccarono i castelli, distrussero le proprie abitazioni, e coll’aiuto degli Alessandrini che vennero loro in soccorso, contro Bonifacio Marchese di Monferrato, andarono a stabilirsi allo sbocco della Nizza nel Belbo, e vi fabbricarono la città, che ora è Nizza della Paglia, [oggi Nizza Monferrato in provincia di Asti]. Tanto si ricava dagli Annali di Girolamo Ghilini all’anno 1235, e da altri scrittori». Ecco alcune ottave, in cui è con gran maestria descritto l’uso del Fodero:

Tra l’altre indegnità sentite questa: Ogni fanciulla nel pigliar marito Era obbligata a cominciar la festa Con dare ad essi il primo fior gradito. Legge inumana, barbara, inonesta, Che delle nozze oltraggia il santo rito: Legge che dell’onor le sacre bende Lacera e i dritti di natura offende. Si arrogava l’indegno privilegio Su l’esempio del Re di Calecutte, Che, come narra uno scrittore egregio, Era in possesso di assagiar le putte, Come se fosse questo un nobil pregio, Oppur dovesser le nazioni tutte, Anche le battezzate, il brutto esempio imitare d’un re barbaro ed empio.

Del Fodero la legge era chiamata (non saprei dirne l’etimologia) Quella, a dir giusto, vera baronata, Ch’era un’usanza scellerata e ria; Eppur era da tutti praticata Senz’ombra di rossor né ritrosia: Tanta ignoranza ingombrava le menti Di quelle rozze e scioperate genti.

Infatti appena dichiarata sposa Una fanciulla, e non ancor mogliera, Credendosi di far lodevol cosa, A palazzo n’andava innanzi sera, E sebbene facea un po’ la schizzinosa, Vi passava dappoi la notte intera, E s’aveva a onor la confidenza, Che con lei si pigliava sua Eccellenza.

La vicenda dei tanto maltrattati sudditi dei Conti d’Acquesana è continuata, nella fiorita narrazione poetica del Cordara, facendo intervenire il Mago Merlino che ordisce un curioso e spassoso stratagemma per svegliare i poveri minchioni e porli davanti all’enormità del sopruso cui erano costretti “per legge”. Infatti il Cordara narra che il Mago Merlino indusse quei contadini a scavare una gran fossa, in un determinato luogo solitario, dicendo loro che avrebbero trovato un favoloso tesoro. Dopo la pena che costoro si diedero con lo scavare, il risultato fu un enorme mucchio di corna che li pose, sia pure un poco bruscamente, davanti all’effettiva realtà della loro situazione maritale di partenza. Superato il primo momento di sdegno contro il Mago che, in fondo sotto la forma allegoriale aveva reso loro un buon servigio, i contadini si decidono a prendere le armi e ordire la sopraddetta congiura. Anche Merlino rientra in scena come per giustificarsi ma ogni suo dire causa una nuova catastrofe burlesca infatti, per quanto s’ingegni di prendere la cosa alla lontana, finisce sempre per toccare quel tasto tanto delicato.

La vicenda è stimolo ed occasione al poeta per aprire una lunga tirata contro il cicisbeismo imperante, anticipando in questo la ben più robusta vena satirica di Parini, comunque il tutto resta, a nostro avviso, sul piano di una certa chiusura mentale che ripropone il mito della “casta moglier di Collatino” ma non si pone, invece, come accadrà con Parini, il fermento nuovo di una società libera da una struttura che ormai risulta soltanto vuoto esteriorismo e banale copertura di ben più pressanti bisogni di natura sessuale.

La testimonianza che abbiamo raccolto in quest’opera è degna di particolare nota non solo per l’espressione caratteristica che l’arte di Cordara ha saputo darle, ma anche per la precisa documentazione storica che l’autore ha raccolto nell’introduzione e cui si è fatto cenno sopra.

L’opera ebbe larga diffusione e due traduzioni in francese, una prima col titolo: Droit de jambage ou les droits des anciens Seigneur, sur les novelles mariées, Parigi 1820.

Per amore di completezza dobbiamo riportare un’altra interpretazione del termine “diritto del Fodero”, dovuta essenzialmente a Carlo Sigonio (Historiarum De Regno Italiae libri quindecim) e a Ludovico Antonio Muratori (Dissertazioni sopra le antichità italiane, Venezia 1751). Secondo questi autori la legge del fodero ricorre spessissimo nelle leggi medievali antiche senza comportare necessariamente il riferimento alla sottomissione carnale delle spose dei villani durante la prima notte di nozze alle voglie del proprio padrone e signore; piuttosto il significato era quello, assai più semplice, di diritto da parte del Signore ad una contribuzione di frumento – questo nel caso la contribuzione afferisse direttamente alle casse del Signore o del Re – oppure di foraggi – nel caso la contribuzione fosse dovuta sempre al Signore o al Re ma venisse da questi dirottata a favore dei propri soldati. Anche la costruzione etimologica effettuata in questo senso, tra gli altri da Ducange e ribadita da Carlo Francesco Gabba, sembra avere un certo fondamento in quanto si riduce ad una traduzione della parola Fodrum o Foderum con il senso di “annona militare” da cui in potrebbe poi ricavare – in effetti con una certa buona volontà – la parola tedesca Futen che significa appunto foraggio. Quale che sia la sorte che gli studiosi hanno riservata a quest’ultima interpretazione resta scarsamente contestabile la vera realtà “popolare” di un termine che la tradizione, sia cantata che scritta, ha tramandato sino ai giorni nostri nelle zone piemontesi, e precisamente l’uso del termine fodero nel senso “forte” che ben si attaglia alla boccaccesca vicenda del signore e della più o meno compiacente sposina campagnola.

Ma continuiamo nell’esposizione, sia pure sommaria adesso, dei restanti testi che possono considerarsi come ricerche fondamentali dirette a provare l’esistenza di questa pratica; testi che, purtroppo, non presentano l’interesse estetico e di satira del costume che abbiamo notato così vivo nel lavoro del Cordara.

Già nell’opera di Louis François Luc de Lignac, De l’homme et de la femme, vol. II, Lilla 1778, è indicata una leggenda della Piccardia in cui si narra di un signore di Auxi nel Ponthieu che possedeva il diritto di “mactoter la virginité des gentilles femmes, fringantes demaixielles, belles nonaines” (dove il termine mactoter deriva chiaramente dal latino mactare), dietro pagamento della somma di uno scudo e dieci soldi parigini al conte di Ponthieu. Questa è una testimonianza di grande importanza in quanto, come vedremo più chiaramente appresso, si ricollega con tutta sicurezza agli usi frequentissimi di applicare pesi pecuniari sul libero esercizio del connubio sessuale connesso col matrimonio. Le altre testimonianze, sempre relative alla Francia, si rinvengono nei lavori di Alexandre Buthors: Coutumes locales du bailliage d’Amiens [1507], edito ad Amiens nel 1845; da Léopold Victor Delisle: Études sur les conditions de la classe agricole et l’état de l’agriculture en Normandie au moyen âge, edito ad Evreux nel 1851; e da altri autori tra cui Gustave Bascle de Lagrèze, Arthur Martin, ecc.

I nomi di questa pratica, oltre quello di “fodero”, limitatamente alla Francia, vengono elencati con cura da questi studiosi; i più notevoli sono: droit de cuissage, de cullage, de prélibation.

In Spagna una legge di Ferdinando il Cattolico, dell’11 aprile 1468, veniva a porre rimedio ad uno stato di cose talmente diffuso – riguardo il nostro problema, specialmente in Catalogna, da richiedere spesso l’intervento dell’autorità regia per sanare contrasti di notevole entità. Sorvoliamo sulle ricerche dettagliate che sono state condotte da Francis Joseph Spellmann riguardo la Scozia del 1687; riguardo la Russia da Johann Philipp Gustav Ewers; riguardo la Svizzera tedesca da Johann C. Bluntschli e da Johannes Scherr per non indicare che i soli lavori specifici di storici specializzati. Ad esempio su opere di maggior respiro come quella di Jacob Grimm, Deutsche Rechtsalterthümer, Leipzig 1899 o quella di Ferdinand Walter Deutsche Rechtsgeschichte, Bonn 1853, le indicazioni non mancano di certo, in particolare nella seconda parte del lavoro di Walter.

Le origini religiose del jus primae noctis

Il primo testo religioso in cui si trovano indicate prescrizioni contrarie all’unione sessuale dei coniugi nella prima notte di matrimonio è quella silloge di canoni che ci sono pervenuti sotto il nome di Concilio di Cartagine. In particolare il Canone 33 dice: “cum benedictionem acceperit, eadem nocte pro reverentia ipsius benedictionis in virginitate permaneant”. Anche se la data del concilio di cui sopra non è quella indicata da Carlo Francesco Gabba (389) ma 398 e anche se in effetti un concilio del genere non fu mai indetto, malgrado la tradizione ci abbia trasferito addirittura il numero dei vescovi partecipanti (214) possiamo dirci certi della validità del testo pervenutoci quale «testimonianza del primitivo costume cristiano», come ha fatto notare giustamente Giorgio Barbero. (Cfr. Il pensiero politico cristiano, vol. I, Dai Vangeli a Pelagio, op. cit., pp. 54-55).

Ma fino a questo punto, oltre al divieto predetto, non possiamo individuare l’esistenza di un diritto specifico a subentrare nel rapporto sessuale tra due coniugi in occasione dell’astinenza fissata per la prima notte. Non solo, ma così restando le cose quel divieto avrebbe dovuto non solo allontanare ogni possibilità del genere, ma rendere invalide, anche se col tempo, le eventuali consuetudini tribali in atto. Per comprendere il passaggio successivo occorre tenere presenti due cose: la costituzione della prima notte di matrimonio in particolare condizione non solo morale ma addirittura giuridica e la degenerazione del primitivo pensiero cristiano di chiara impronta comunista.

Vediamo di esaminare partitamente questi due momenti. La costituzione di una particolare significanza giuridica riguardo la prima notte di matrimonio, seppure non subito, dovette assumere, col passare del tempo, una importanza grandissima, e questo nell’arco degli sforzi del potere religioso diretti a interpretare nuovamente tutti i costumi precedenti in chiave religiosa. Questi sforzi, che si concluderanno in epoche diverse nei diversi paesi, possono dirsi quasi totalmente compiuti intorno al XIII secolo. La Chiesa finiva di chiudere il circolo dell’ignoranza e della superstizione trasportando nella dimensione religiosa ogni residuo di indipendenza morale e giuridica. I preti – scrive con acume William Sumner (cfr. Costumi di gruppo, tr. it., Milano 1962, pag. 458) – si sostituirono agli antichi capi della cerimonia, e lottarono per fare del matrimonio una funzione ecclesiastica e per rendere essenziale la loro partecipazione ad esso, pur non facendone dipendere la validità del matrimonio. In luoghi diversi e tra classi diverse il costume del matrimonio in chiesa fu introdotto in periodi precedenti o posteriori, e la dottrina della funzione sacerdotale in rapporto al matrimonio si stabilì con maggiore o minore precisione. In Inghilterra, tanto per citare un esempio delle ricerche condotte in questo senso, Frederick Pollock e Frederic William Maitland hanno potuto accertare che il matrimonio era di competenza del foro ecclesiastico fin dalla metà del secolo XII. (Cfr. The History of English Law, vol. I, Cambridge 1895, p. 109 e vol. II, 1898, p. 365). In Germania la benedizione sacerdotale appare fin dai testi che risalgono al XII secolo, pur non potendosi stabilire se questa benedizione avvenisse primo o dopo l’unione sessuale. Nel Lohengrin, a esempio, la coppia va in chiesa dopo aver passato la notte insieme. Sempre per la Germania si può porre intorno al secolo XII l’eliminazione dell’antico cerimoniale e il passaggio all’autorità del prete. (Cfr. K. Weinhold, Die deutschen Frauen in dem Mittelalter, vol. I, Wien 1882, p. 373). Naturale, quindi, che con il rafforzarsi del passaggio dal vecchio modo personale di concepire il matrimonio, comprendente al più l’intervento testimoniale dei capi del gruppo, al nuovo modo sacramentale proprio della dottrina religiosa; le vecchie stabilizzazioni giuridiche, proprie di quest’ultima, come quella che poneva in particolare condizione giuridica la prima notte di matrimonio, immediatamente successiva alla benedizione, dovessero avere una loro particolare validità limitativa del diritto del singolo.

L’altro momento cui abbiamo fatto cenno è da collocarsi più indietro nel tempo, precisamente nel pensiero patristico e nella sua elaborazione del concetto fondamentale di liceità della ricchezza. L’individuazione del processo di assorbimento delle istanze di una civiltà in lenta fase di risveglio; del processo di modificazione della troppo rigida posizione evangelica iniziale, che se accettabile per le idee non molto ampie di un apologeta – confinante i propri interessi più lontani nella necessità assoluta della sopravvivenza – diventava insostenibile non solo per un modesto Erma ma anche e principalmente per un evoluto Clemente dimorante in quel vivaio d’interessi e di produttività che era Alessandria; tutto questo lavoro di puntualizzazione di una decisiva degenerazione, di un compromesso dettato e voluto da norme fondamentali di superamento della fase iniziale, non si può comprendere se non visto attraverso l’esame di tutti i contributi successivi al blocco iniziale apologetico, a cominciare da Cipriano che si pone come il primo e vero duro critico della nuova situazione. Dal nostro punto di vista, questo processo di apertura – o se si vuole, insisto, di degenerazione – è importante in quanto conduce gli amministratori del patrimonio ideale della nuova religione a sogguardare con ben diverso appetito la ricchezza e le possibilità che essa concede a chi sa utilizzarla, nel bene come nel male. Da qui l’avvio ad una serie di carichi – diremmo oggi tributari – a danno del partecipante alla comunità religiosa onde sollevarlo o aiutarlo a sollevarsi dal peccato e dalla dannazione eterna. Un commercio che col tempo si rivelò floridissimo e che doveva avere una lunga storia concludendosi con la tanto circostanziatamente descritta simonia. Questi due elementi ci conducono ad una sola conclusione: il Jus primae noctis trova origine ed avvaloramento nella costruzione giuridica voluta e attuata nei secoli dalla Chiesa. Infatti quel primo momento in cui la prima notte del matrimonio veniva ad assumere una particolare condizione morale e giuridica veniva ben presto superato in pratica dalla cupidigia sempre crescente delle organizzazioni religiose chiamate a farlo mantenere intatto nel tempo. Furono queste, infatti, ad applicare una larga serie di tasse per consentire l’unione sessuale dei coniugi nella prima notte di matrimonio. L’antico significato etico, assurdo per quanto si vuole ma di chiara origine morale almeno dal punto di vista strettamente religioso, veniva ben presto superato in semplice limitazione della libertà individuale, da cui nasceva un diritto positivo in chi questa libertà poteva limitare a pretendere una qualche cosa per non applicare la sanzione limitativa. Da ciò alla richiesta di denaro il passo non poteva essere lungo, dalla richiesta di denaro alla richiesta di una prestazione in “natura” e più direttamente afferente alla speciale caratteristica della limitazione, il passo doveva essere ancora più breve. Addirittura in alcune zone, come a Lione, questa limitazione era di tre notti invece di una. (Cfr. L. F. Luc de Lignac, De l’homme et de la femme, vol. Il, op. cit., p. 28).

La larga diffusione di queste tasse in Francia portò i re a farle più volte vietare, ad esempio Filippo di Valois emise un’ordinanza contro il Vescovo di Amiens che aveva ecceduto nell’applicazione di questo onere. (Cfr. Ib., p. 29). Quest’ultimo autore non manca di segnalare numerosi altri casi di vescovi, canonici e abati che investiti di diritti signorili non mancavano di pretendere il diritto di cui si discute, e che, anzi, risultavano più puntuali ed esosi dei loro colleghi secolari.

Conclusione

Alle origini di questa strana usanza del Jus primae noctis è da collocarsi, come abbiamo visto, la tradizione del diritto canonico. In effetti gl’intendimenti originari poterono forse essere diversi ma i risultati furono la creazione di un ben curioso “diritto”.

Abbiamo quindi il passaggio dal dovere maritale della prima notte di matrimonio ad un “diritto” ad esercitare quel dovere nel corso della prima notte. Per l’appunto, questo diritto veniva a concretizzarsi solo dopo che, nei confronti dell’organizzazione religiosa, si fosse adempiuto al pagamento del canone di imposta prestabilito. Indiscutibilmente il passaggio diretto dalla fase “dovere maritale” alla fase “diritto del feudatario alla prima notte” non sarebbe mai stato possibile, nemmeno con un convincimento coattivo nei confronti delle pur rozze menti dei villani. Invece, grazie alla Chiesa e alla determinazione da lei operata di un “diritto” alla prima notte da acquistarsi a parte, il passaggio non solo fu possibile ma divenne, direi, naturale. Qualche traccia dell’antica usanza rimane, quando nelle campagne assistiamo, nel giorno del matrimonio dei contadini, alle offerte, da parte di questi ultimi, al padrone, di commestibili di particolare pregio. Evidentemente si tratta di un residuo di quelle offerte in denaro o in frumento che inizialmente dovevano gravare sui contadini e che questi ultimi erano tenuti a fare al loro signore e padrone per avere il diritto alla maritale unione nella prima notte di matrimonio. Nessuna meraviglia che, col tempo, i brutali feudatari, con l’ingigantirsi dell’esclusività del loro potere, avocassero in proprio il diritto al consumo del matrimonio nel corso della prima notte.

Forse non si potrà mai provare l’esistenza univoca del diritto predetto, durante il periodo di dominio dei signori medievali, nel senso che contemporaneamente le altre usanze dovettero intersecarsi e, a volte, sostituirsi a vicenda. Comunque è stata provata indiscutibilmente la presenza in alcune zone di questa particolare usanza, quindi la pretesa giuridicamente valida, da parte dei signori, di un possesso carnale delle spose dei villani, nel corso della prima notte di matrimonio. Altra prova, di cui le ricerche in questo settore ci hanno fatto venire in possesso, è quella della naturale accettazione di questo stato di cose, dell’acquiescenza dei villani di fronte alle pretese “giuridiche” dei signori. Qualche studioso, in questo senso, si è spinto fino ad ammettere che l’uso del pagamento in denaro o in merce, della tassa relativa alla dispensa dell’obbligo giuridico del villano, sia intervenuto successivamente, solo quando l’antica pretesa del signore, sebbene fondata giuridicamente, eticamente cominciava a sembrare troppo pesante.

Le responsabilità della Chiesa furono quindi estremamente gravi nelle divulgazioni e nel mantenimento di un’usanza che attuava quanto di più barbaro può riscontrarsi nella coazione posta in atto dalle leggi giuridiche in tutti i tempi: la limitazione della libertà personale in una delle manifestazioni più elementari ed importanti: quella sessuale e familiare.


[Alfredo M. Bonanno, Le origini religiose del Jus Primae Noctis, Edizioni Studi e Ricerche, Catania 1970, pagine 28]

Le casse rurali cattoliche nel catanese

La realtà economico-sociale delle campagne del catanese alla vigilia della prima guerra mondiale

Nell’intraprendere una ricerca incentrata sulla figura e sull’attività politica di Vincenzo Bascetta, sacerdote e figura di primo piano di Adernò, in quel torno di anni che precedono e seguono la prima guerra mondiale, occorre fare riferimento alla situazione economico-sociale, allo stato di tensione e di disagio, in cui si trovava il mondo contadino.

Alla fine del secolo la proprietà risultava concentrata nelle mani di un numero relativamente ristretto di grandi proprietari. Il resto del terreno era in mano a piccolissimi proprietari. I grandi proprietari concedevano la terra in affitto ai “gabelloti”, i quali cedevano la terra presa in affitto a subaffittuari e a mezzadri, la davano in compartecipazione – nella maggior parte dei casi – a contadini senza terra.

Il più delle volte questi “spezzoni” di terra non bastavano ad assicurare la sopravvivenza ad una famiglia di contadini, per cui questa si vedeva costretta a lavorare più pezzi di terra.

Tra il 1901 e il 1919 si può notare un certo incremento della piccola proprietà (cfr. E. Ruini, Le vicende del latifondo siciliano, Firenze s.d.), attribuibile in generale agli acquisti fatti con le rimesse degli emigrati. Il latifondo capitalistico si trasforma in un latifondo spezzettato a conduzione contadina ma non a coltura intensiva, causa l’impossibilità di procedere ai miglioramenti necessari alla relativa meccanizzazione.

Secondo il censimento del 1901, per la Sicilia, gli addetti all’agricoltura rappresentano il 52,3 per cento della popolazione attiva totale. Su questa cifra globale il censimento indica un 70 per cento di “indipendenti” ma solo i tre quarti di questa categoria conduceva terreni propri e della famiglia, il resto era costituito da affittuari, subaffittuari e da enfiteuti.

Tra il 1901 e il 1911 diminuiscono in misura considerevole gli indipendenti, i coloni parziari e i salariati fissi (che scompaiono quasi del tutto) mentre aumentano i giornalieri. In sostanza l’economia isolana ristagna, la crisi non rende possibile la sopravvivenza di piccolissimi proprietari. Spesso i terreni ritornano ai vecchi proprietari.

Mettendo da parte la figura del latifondista, che interessa poco nella presente ricerca, restano le figure del gabelloto e del contadino in senso stretto. Il gabelloto si presenta sotto due vesti, almeno nel periodo che stiamo considerando. Come speculatore che prende il terreno e lo concede in “gabella”, facendo delle ripartizioni. Il più delle volte, si tratta di un professionista del luogo (cfr. G. Lorenzoni, Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia, La Sicilia, vol. I, parte I, Roma 1910, pp. 231-255). Poi vi è il gabelloto imprenditore, che risiede su fondo, lo guida personalmente e vi introduce miglioramenti e trasformazioni.

Un’altra categoria è data dai “proprietari civili”, che vivono nei grossi paesi, costituiscono la borghesia rurale, i cosiddetti “galantuomini”. Formano la classe agraria più avanzata, quella che ha interesse a migliorare i fondi per incrementare la propria rendita.

Alcuni di questi “proprietari civili” sono anche piccoli proprietari e conducono una vita di grandi ristrettezze economiche ma non sono proprietari contadini e i loro interessi di classe non possono ricongiungersi a questi ultimi.

Vi sono infine i contadini veri e propri, i “coltivatori diretti”, che lavorano una piccola parte di un grande latifondo, che conducono in affitto o in colonia spezzoni di terra. Il censimento del 1901 colloca questi produttori nella categoria degli indipendenti, falsando la sostanza della realtà contadina e della struttura della proprietà di quell’epoca.

I contadini autonomi nella zona del catanese erano abbastanza rari e si trovavano spesso solo nelle fasce dei coltivatori degli agrumi. (Cfr. L. Franceshetti e S. Sonnino, La Sicilia, vol. II, Firenze 1925, pp. 25-27).

La tendenza generale allo spezzettamento del latifondo non coincide quindi con un miglioramento della situazione economica dei contadini in quanto la piccola proprietà che si forma a spese della grande proprietà non riesce a diventare autosufficiente per quanto concerne l’occupazione e il reddito.

Faceva difetto, quindi, una politica agraria coerente, capace di indirizzare le forze del governo verso una riorganizzazione della struttura della piccola proprietà agricola in Sicilia. In questo senso spingerà, ad esempio, la tesi sturziana adottata dal Partito Popolare.

Ma, nel primo decennio del secolo, siamo ancora lontani dalla stesura delle tesi del 1919. Quelli che sembrano più attivi sono i socialisti.

La stessa situazione politica italiana, nel suo insieme, si era profondamente modificata con la cosiddetta “svolta” del 1900. Crispi è ormai troppo vecchio per continuare a recitare il ruolo di portabandiera degli interessi degli agrari meridonali e siciliani in modo specifico. Lo stesso Di Rudinì finisce per pagare le conseguenze della mutata situazione generale e si trova estromesso dalla direzione dello Stato. Si acuivano i termini del conflitto meridionale. Gli industriali del Nord chiedevano l’abolizione del dazio sul grano. Gli Stati dell’Europa centrale premevano per rivedere i trattati internazionali del 1887 che proteggevano i produttori agricoli italiani.

La precarietà di questa situazione e il rischio di perdere quelle difese che le precedenti gestioni governative avevano garantito agli agrari siciliani, portarono ad uno sforzo organizzativo che fece leva sulla destra monarchica e che sostituì al leader Antonio Di Rudinì un uomo politico meno conosciuto ma più efficace organizzatore, il palermitano Alessandro Camporeale sostenuto dall’industriale Vincenzo Florio e dal suo giornale “L’Ora”.

Per compenso i Fasci siciliani erano quasi un ricordo del passato. Il movimento dell’emigrazione dava il segno che la gente si disamorava (a forza) della propria terra e vedeva nel mito della lontana America una soluzione agli eterni problemi della sopravvivenza.

Scrive Francesco Renda: «Più che altro, era una soprabbondanza di contadini poveri e poverissimi, priva di mezzi propri che riusciva a procurarsi di che vivere in parte locando le proprie braccia alle altrui dipendenze per una mercede giornaliera, in parte lavorando un o più appezzamenti di terra con contratti precari di mezzadria, di subaffitto o di compartecipazione, in un rapporto di subordinazione diretta del proprietario latifondista o col gabelloto di feudi o col contadino più ricco e benestante». (Socialisti e cattolici in Sicilia, Caltanissetta-Roma 1972, p. 20).

Si aveva perciò una lotta su due fronti. Il gruppo degli interessi agrari voleva impedire che il governo centrale diventasse più debole nei confronti di un movimento popolare contadino siciliano che, se spento, non significava non potesse risorgere con le vecchie pretese. E Zanardelli non sarebbe stato capace di ripetere le gesta di Crispi. Nello stesso tempo, il rapporto strutturale della produzione agricola finiva per dissociare gli interessi dei grandi agrari da quelli dello strato intermedio costituito dai gabelloti e dai proprietari civili che vivevano sulla piccola rendita e su tutta una rete di interessi a carattere usuraio.

Contro questo doppio ostacolo, i contadini non potevano trovare altra strada che la lotta suggerita dai socialisti. Qui si inserisce il progetto sociale di origine cattolica che andava precisandosi da diversi decenni e che trova in Sicilia la figura di organizzatore e di teorico di Luigi Sturzo.

I cattolici e i problemi del mondo contadino. La posizione del clero siciliano

Nel senso della sua appartenenza originaria di classe, Vincenzo Bascetta proveniva da una modesta famiglia di agricoltori di Adernò (dove era nato il 23 luglio 1879), agricoltori che gestivano in proprietà piccolissimi pezzi di terreno.

In lui si realizzò quel rapporto tra clero e realtà contadina che è stato da sempre una delle caratteristiche più contraddittorie (di amore-odio) della stessa contrapposizione di classe.

Bascetta, originario dell’ambiente povero del coltivatore diretto, perde questo contatto per il periodo della propria preparazione teorica nel seminario di Catania ma poi, compiuti i corsi necessari e ordinato sacerdote, riprende il contatto con l’ambiente di origine portando in quella sede gli insegnamenti ricevuti, le dottrine e i problemi che ricevevano una interpretazione particolare dalla situazione stessa della Chiesa del tempo.

In realtà quel rapporto di amore-odio, cui abbiamo fatto cenno, era molto complesso (e in un certo senso lo è ancora). Il prete, tra il popolo contadino, non è una figura molto amata, almeno se si considera la cosa così in generale. Il più delle volte tra i lavoratori dei campi è diffusa una diffidenza contro coloro che non lavorano come loro, contro i campieri, gli intermediari, i commercianti incettatori, gli approfittatori, i padroni e tutti coloro che non hanno le mani callose. Poi, considerando le cose più a fondo, si trova che il lavoratore della terra finisce per considerare il prete di campagna come un povero diavolo, come qualcuno della sua stessa classe e finisce per guardarlo con un occhio più tollerante, cosa che non succede con quell’altro stuolo di parassiti.

Quel diffuso anticlericalismo, tipico del periodo storico che stiamo considerando era più che altro un fenomeno delle città. Le campagne conservavano una religiosità molto sentita, anche se marciante di pari passo con un certo sospetto verso il clero.

In un articolo pubblicato su “La Croce di Costantino”, Sturzo scriveva nel 1905: «Bisogna conoscere il nostro popolo rurale, quello che è l’infimo gradino della scala sociale, cioè giornaliero, l’operaio avventizio, il piccolo coltivatore, senza beni senza lavoro fisso, eppure in balìa delle piccole gravi speculazioni dell’agricoltore più elevato e più benestante. La diffidenza verso tutti i cappeddi, verso il bottone, verso il prete anche quando non ufficia e scende dall’altare divenendo uno come gli altri, è tradizionale, connaturale, maturate attraverso oppressione e miseria, satura di lacrime e di privazioni che diviene spesso odio inconscio, istinto malvagio e distruttore». (L. Sturzo, “Il grido della Sicilia”, in “La Croce di Costantino”, 27 agosto 1905).

L’analisi dello studioso e politico di Caltagirone era molto aderente alla realtà. A parte i casi di uomini entrati nella Chiesa perché spinti da una vocazione più o meno dichiarata, spesso il mestiere del prete era un’attività come un’altra per superare gli ostacoli posti da una condizione di origine non agiata, per sistemare famiglia e parenti, per assicurarsi un avvenire. Di fronte ad una realtà tanto contraddittoria, la propaganda anticlericale di un certo socialismo aveva buon gioco.

Su questo argomento le analisi di Sturzo sono molto importanti e su di esse si disporrà anche l’intervento specifico di Bascetta.

Il prete tratteggiato da Sturzo era un prete attivo in ambiente che da ostile poteva facilmente essere trasformato in favorevole. Un ambiente che, però, abbisognava di chiarezza di idee e di correttezza di compartimenti. Un ambiente che, abituato alla fame e ai sacrifici, non accettava molto volentieri modi di vita che tendevano ad avvicinare i preti alla casta dominante e sfruttatrice. Il recupero a cui l’attività del prete era diretta, recupero di ogni istanza sovversiva, era legato a questa correttezza di comportanti, in caso contrario finiva per venire vanificato.

Sturzo sosteneva l’urgenza di un clero preparato ad affrontare i compiti di lotta sociale e continuava sul suo giornale parlando di un clero che non restasse «impassibile, incurante, beato di sé ad assistere alla rovina di tante anime, al pericolo che invada le parrocchie senza pensare che da lui possa partire il rimedio, il miglioramento delle classi non abbienti, la redenzione di tanti miseri che tra l’oppressione del borghese, l’inganno del governo, le false speranze dei socialisti, covano l’odio di classe e maturano lo scristianeggiamento della società». (Il Crociato [L. Sturzo], “La questione agraria nel circondario e i socialisti”, in “La Croce di Costantino”, 12 ottobre 1902).

Qualche anno dopo, Vincenzo Bascetta tornerà sull’argomento dedicando un opuscolo al rapporto tra “clericalismo e religione”. (Intorno alla conferenza del ministro evangelico G. Fasulo: “Clericalismo e religione”, Bronte 1911). Egli riafferma il diritto del prete di occuparsi di politica in quanto cittadino, facendo una distinzione, appunto, tra cittadino e prete.

Ma questo occuparsi di politica non è solo quel normale interesse che si riflesse nell’elettorato passivo, nel partecipare alla vita della nazione, nel seguirne le vicende politiche. Poi esiste un altro modo d’intervenire, quello che mette in causa il prete in quanto facente parte di una comunità di fedeli, cioè della Chiesa, quindi strumento conservativo e di salvaguardia dei poteri costituiti. In questo caso occuparsi di politica sarebbe da parte del prete, in quanto prete e in quanto facente parte della comunità ecclesiastica.

Egli scrive: «[...] son d’avviso che il prete, come prete ha il diritto e il dovere di interessarsi di questioni politiche, anche quando delle ragioni pratiche non ve lo spingessero. [...] La questione politica [...] oggi specialmente, in un modo più o meno intenso, è questione sociale, la questione sociale è questione religiosa; è impossibile quindi che si possa sdoppiare l’uomo in modo che non abbia ad interessarsi, lui che ha una convinzione e una fede delle questioni politiche che gli si agitano intorno [...]». (Ib., p. 10).

Il libretto è una stringente polemica contro un ministro evangelico ed è diretto ad una difesa d’ufficio della funzione del sacerdote, della struttura della Chiesa e della sua gerarchia. Apparentemente sembra una polemica tra due confessioni contrastanti e non mancano le notazioni aspre e pungenti, sebbene sempre contenute nei limiti della correttezza codina; ma in sostanza, lo scopo recondito dell’operetta sembra essere quello di riconfermare l’urgenza, per il prete, di considerare la “questione sociale” come problema anche morale e religioso e di riconfermare la propria ortodossia nei confronti dell’insegnamento pontificio. Tutto questo per non lasciare l’iniziativa nelle mani dei socialisti.

Non è da trascurare la preoccupazione che dovette essere assai seria, per questi preti riformatori, di essere scambiati per riformatori della Chiesa invece che per riformatori di una politica che vedeva estranea o quasi, la Chiesa e le forze clericali. Non evitando questo pericolo Bascetta, come prima di lui Sturzo, sarebbe andato incontro all’accusa di modernismo ed automaticamente avrebbe visto nientificati i suoi sforzi d’intervento nella realtà sociale del paese.

Bisognava quindi chiarire le cose per bene ed il prete di Adernò puntualizza due momenti. Primo, la stretta costruzione gerarchica della Chiesa, come elemento indispensabile per la corretta interpretazione del cattolicesimo; secondo, la stretta relazione tra cristianesimo e clericalismo, donde ne deriva che un eventuale partito ispirato ad ideali clericali andava considerato di netta ispirazione cristiana.

Egli scrive nello stesso libretto: « [...] questa forma gerarchica, anziché elemento acquisito, come erroneamente suppone Lei Sig. Ministro, è carattere essenziale ed innato della stessa Chiesa Cattolica, che G[esù] C[risto] volle fondare come società gerarchica [...]». (Ib., p. 14).

E più avanti, in merito al rapporto tra clericalismo e cristianesimo: «Sicché, egregio ministro Fasulo, alla domanda se si possa essere cristiani senza essere clericali, risponde recisamente: No, poiché i veri cristiani, affidati alle cure della Chiesa Cattolica e dal clero della stessa battezzati, educati, confermati, confessati, comunicati non possono non essere attaccati al clero, sentire col clero, operare col clero, che val quanto dire: essere clericali». (Ib., p. 56).

Anche questa posizione va riportata alle analisi sturziane. Di già nel 1902 il prete di Caltagirone aveva preso le misure nei riguardi di un probabile malinteso, che avrebbe potuto trovare origine da un accostamento frettoloso tra le sue posizioni e quelle di Romolo Murri. La prospettiva del rispetto dell’ortodossia era ineliminabile nel pensiero di Sturzo. Nessuna riforma della Chiesa poteva essere letta all’interno delle indicazioni contenute nella Rerum novarum. La Chiesa, intesa nei suoi termini di società soprannaturale fondata dal Cristo, non poteva subire influsso riformatore proveniente dal mondo esterno, storicamente determinato; caso mai le cose andavano viste al contrario.

E anche le istituzioni cattoliche, come l’Opera dei Congressi, come la Democrazia Cristiana e come, più tardi, il Partito Popolare ricevevano da quella particolare filiazione, in quanto prodotti dell’istanza clericale, una particolare investitura per suggerire modificazioni e riforme nella realtà del processo storico e sociale. Così scriveva Sturzo: «Noi siamo un corpo la cui testa è il Papa. Nel popolo noi dobbiamo portare la parola del Papa. La nostra attività deve essere legata al principio di autorità e a base della nostra attività dobbiamo mettere la volontà del Papa, i cui nemici hanno cercato di staccare dal popolo confinandolo nella prigionia. Educhiamo il popolo all’osservanza del non expedit. Noi dobbiamo creare un’Italia guelfa sotto la bandiera della religione e della rigenerazione economica». (L. Sturzo, “Il Congresso dei Sindaci”, in “Il Sole del Mezzogiorno”, 12 novembre 1902).

È bene riconfermare questa posizione ortodossa in Vincenzo Bascetta e la sua stretta dipendenza dottrinaria dalle tesi sturziane, allo scopo di metterci a disposizione un materiale interpretativo, per leggere correttamente nelle iniziative pratiche che il prete di Adernò porrà in atto.

Gli orientamenti del movimento cattolico nel catanese. La situazione in Adernò. Elementi conflittuali all’inizio del periodo considerato

Sebbene, fin dal 1874, esistesse a Catania un Comitato diocesano fondato dal Cardinale Giuseppe Benedetto Dusmet, non si può parlare di “movimento cattolico” nel senso moderno del termine, fin dopo il rifiorire delle iniziative a carattere organizzativo che si diffusero successivamente al fallimento dell’azione socialista dei Fasci siciliani.

Nella feroce repressione del 1894 si erano visti i risultati di un’azione reazionaria delle gerarchie ecclesiastiche che pur non condividendo le posizioni governative, ancor meno condividevano le posizioni rivoluzionarie dei socialisti.

Da ciò, dalla necessità di dare un’impronta clericale al movimento sociale, nacque la spinta rinnovatrice del Comitato diocesano fondato a Catania dal cardinale Francica Nava nel 1897.

In una lettera pastorale di quest’ultimo, nominato cardinale dopo la morte di Dusmet, si legge: «Alla pubblica e non equivoca professione di fede devono far seguito le corrispondenti opere, anzi queste costituiscono la tessera infallibile per riconoscere e distinguere il vero cattolico dal cristiano di solo nome, indifferente ed alieno agli insegnamenti di Gesù Cristo e della sua Chiesa». (O. Francica Nava, “Lettera Pastorale”, in “La Campana”, n. 5, aprile 1897).

Non mancava il solito richiamo all’autorità ecclesiastica e alla gerarchia e alla disciplina necessario per portare avanti l’opera di rinnovamento sociale.

Il 1898 ripresenta fatti insurrezionali. A Troina si spara sulla folla, ad Adernò un centinaio di donne assaltano la stazione e le case di alcuni proprietari, rivendicano il pane e denunciano la mancanza di frumento. (Cfr. “Tumulti in Adernò”, in “La Luce”, n. 2, 27 marzo 1898).

Il giornale “La luce” nel parlare dei fatti di Adernò parla del «popolo che si dibatte nelle superne distrette della povertà e della fame», ed accusa lo Stato «che si alimenta suchiando l’umore vitale della nazione e distruggendo quindi e in lei ed in se stessa la ragione del vivere». (“La questione sociale è questione morale”, Ibidem).

È importante sottolineare come questi fatti vengano esaminati e valutati come conseguenza di un’errata politica “liberale” dello Stato, politica che, secondo gli estranei alle analisi, sarebbe stata meno errata e dannosa per il popolo, se vi fosse stata una maggiore e fattiva presenza clericale che mitigasse i danni statali.

Il movimento cattolico si ispira quindi ad una visione alternativa della politica perseguita fino ad allora dallo Stato unitario, ma questa visione sebbene definita “democratico-cristiana” non ha nulla dei moderni concetti di democrazia.

Questa considerazione è importante in quanto ci aiuta a comprendere l’azione di Bascetta che, forse più dello stesso Sturzo, resterà legato a questa concezione della democrazia.

Il teorico più importante di questo indirizzo fu l’economista cattolico Giuseppe Toniolo, il quale così delinea il concetto relativo: «La democrazia [...] è quell’ordinamento civile nel quale tutte le forze sociali, giuridiche ed economiche, nella pienezza del loro sviluppo gerarchico, cooperano proporzionalmente al bene comune, rifluendo nell’ultimo risultato a prevalente vantaggio delle classi inferiori». (Democrazia cristiana. Concetti e indirizzi, Opera Omnia, vol. II, Città del Vaticano 1949, p. 26).

Anche nella valutazione dell’opera di penetrazione sociale e di risanamento, come appunto sarà quella di Bascetta, si dovrà sempre tenere presente questo concetto particolare di democrazia, onde evitare facili esaltazioni di una forma di populismo che, in sostanza, non ebbe mai ragione di esistere. Lo stesso linguaggio usato da questi preti impegnati socialmente e da Bascetta in modo specifico, sarà a volte un linguaggio a carattere popolare, con frequente ricorso a locuzioni dialettali (non per nulla Bascetta fu anche poeta dialettale), ma non cederà mai all’esaltazione di forme rivendicative che potessero uscire fuori della ristretta ortodossia gerarchica ecclesiale.

Nel 1904 l’unità cattolica entra in crisi. Pio X scioglie l’Opera dei congressi, dichiarando così chiuso il periodo iniziato da Leone XIII con l’enciclica Graves de communi. L’ala conservatrice del clericalismo non accettava le posizioni di Murri e dei democratici cristiani e il Congresso di Bologna del 1903 aveva segnato il massimo delle divergenze.

In effetti, in Sicilia le strutture dell’organizzazione cattolica non erano riuscite a prendere il modello emiliano e lombardo. Viceversa quello che appariva vivo era il senso pratico di affrontare i problemi del mondo rurale specialmente e ciò attraverso le opere di carattere economico, le cooperative. Il tutto rapportato attraverso i circoli cattolici con l’organizzazione di tipo elettorale. La concezione murriana di un movimento proletario cristiano non riusciva a prendere piede, anche per la mancanza di figure stabili di salariati nelle campagne siciliane.

Le forme che prenderà questo sforzo saranno quelle di organizzare delle unioni professionali, da cui emergeranno le strutture del movimento sindacale cattolico che porterà alla fondazione della Confederazione Italiana dei Lavoratori del 1919; di costituzione di opere economiche come le casse rurali che daranno vita a una Federazione; e, in ultimo, del movimento politico in senso stretto che darà vita al Partito Popolare.

La figura di Vincenzo Buscetta si pose in grande rilievo, nella nativa Adernò, proprio nelle due direzioni che risultarono le più importanti, quella della costituzione delle Casse rurali e quella della fondazione del Partito Popolare.

L’esperienza della “Cassa P. Musco” in Adernò e l’opera di Vincenzo Bascetta

Le Casse rurali furono, come si è detto, un mezzo organizzativo operante nel settore dell’economia per strutturare le forze cattoliche o di ispirazione cattolica. Furono, è naturale, anche uno strumento per alleviare certe situazioni di grave insofferenza determinatesi a seguito di una gestione imprevidente delle forze finanziarie statali e della piaga centenaria dell’usura.

Caratteristica del mondo contadino è la scarsità di numerario, cosa che obbliga spesso i coltivatori, per far fronte ai pagamenti in contanti (acquisto di sementi, pagamento di gabelle, rate di mutuo, ecc.) a far ricorso a prestiti sui quali, nel mercato libero del denaro, gravano interessi ad usura.

I prestiti venivano fatti in genere da persone benestanti, ex proprietari terrieri che si erano stabiliti in città investendo i capitali sia in fabbricati che in prestiti ipotecari.

Altre volte erano gli stessi proprietari che prestavano ai coloni e ai massari il frumento per la semina e quanto occorreva per i bisogni della coltura, ricevendone un rimborso in frumento e in denaro al momento della produzione.

Le Casse nascevano anche per venire incontro a un bisogno molto sentito dai piccoli coltivatori diretti, quello di avere un certo quantitativo di denaro contante a costi non proibitivi.

A dirigere le Casse erano gli stessi dirigenti delle associazioni cattoliche. I preti si indirizzavano ai lavoratori spingendoli anche ad entrare nelle Unioni professionali e nei circoli della gioventù cattolica.

In merito alla Cassa S. Agata, il “Bollettino ecclesiastico” così si esprime: «[...] tutte le opere economiche che fonda l’azione cattolica non si fermano ai vantaggi puramente materiali (il sollevamento della miseria, il risparmio, la liberazione dell’usura, ecc.); ma tendono ad un fine assai più nobile e più alto: a guadagnare l’operaio a Gesù Cristo, a liberarlo dalle insidie del socialismo, che con le sue associazioni ed opere economiche (abbastanza prospere fra noi) va organizzando le masse del popolo per condurle alla distruzione della religione e del consorzio civile». (“Cassa Operaia S. Agata in Catania”, in “Bollettino ecclesiastico dell’Archidiocesi di Catania”, n. 22, novembre 1903).

Come si vedrà, il rapporto tra l’esistenza di queste casse e il miglioramento dell’agricoltura siciliana apparirà molto evidente proprio nella Cassa “P. Musco”, dovuta all’iniziativa di Bascetta. È proprio la piccola proprietà contadina a ricevere un impulso positivo, mentre sorgeva uno spirito cooperativistico “bianco”, in concorrenza con le leghe cooperative sostenute dai socialisti.

Nell’art. 2 dello Statuto della Cassa rurale di prestiti “S. Nicolò Politi” di Adernò, passato del tutto integralmente nello Statuto della “P. Musco”, si legge: «La Società si propone il miglioramento economico ed anche civile dei suoi componenti ed avendone i mezzi (senza scopo di lucro e speculazione) eziandio degli agricoltori bisognosi del paese: a) con fornire ad essi a prestito il denaro a ciò necessario; b) coll’avviarli alla cooperazione del lavoro; c) coll’assumere per essi (senza alea) imprese di lavoro, produzione e scambio». (Atto costitutivo. Archivio Notarile Distrettuale di Catania. Atti Notaio Bivona Vincenzo di Adernò, fascicolo 1904, n. 673/96 del repertorio. Fogli da 165 a 172).

Mancano invece le indicazioni più specifiche allo scopo confessionale presenti, ad esempio, nell’Art. 1 della Cassa S. Agata (Regolamento), che recita «Possono essere azionisti della Cassa Operaia, persone di qualunque condizione sociale, purché professino la religione cattolica, frequentino i Sacramenti e facciano parte della Federazione Democratica Cristiana». (Atto costitutivo, Statuto e Regolamento, stampati a Catania, Tip. Galati, 1905).

La cassa di Adernò, invece, all’art. 4 parla di persone che « [...] abbiano faccende in Adernò, siano ben note per la loro incensurata condotta individuale, siano oneste sino allo scrupolo, e morali [...]». (Atto costitutivo, citato).

Bisogna chiarire che i diretti beneficiari della Cassa erano le classi medie, coloro che potevano in certi limiti disporre di mezzi in proprio, per quanto modesti. Gli effetti di riflesso sui braccianti erano anche positivi perché consentivano una migliore distribuzione della produzione, la frattura dell’altofondo, una speculazione sul lavoro forse meno acuta che in precedenza. Ciò non toglie che il referente di questa iniziativa sia stata la classe dei piccoli proprietari.

In merito alla responsabilità dei soci, l’art. 7 dello Statuto recita: «Il numero dei soci è illimitato. Essi sono personalmente obbligati in solido verso i terzi in parti uguali fra loro per tutte le obbligazioni sociali». (Ibidem).

Mentre l’art. 25: «Gli utili netti di ciascun esercizio sociale sono devoluti al fondo di riserva. Qualora questo sia divenuto sufficiente ai bisogni della società i frutti di esse e i successivi aumenti saranno impiegati in opere di comune vantaggio dei soci ed anche di pubblica utilità. Le perdite eventuali saranno ripartite egualmente fra i soci, quando il fondo di riserva non basti». (Ibidem).

Questa clausola bloccava l’ingresso a una categoria di soci, quelli a reddito troppo modesto che non potevano permettersi di affrontare l’alea della solidarietà collettiva. La riflessione venne sottolineata in modo particolare da Giovanni Lorenzoni nella sua inchiesta. Qui, infatti, si legge: «[Le Casse rurali] una parte quasi nulla è fatta all’elemento dei giornalieri agrari. La grandissima maggioranza dei soci è costituita da piccoli proprietari e da borghesi, ossia da piccoli mezzadri e fittavoli che posseggono qualche cosa in proprio. E ciò è ben naturale se si pensi che tutte indistintamente sono a responsabilità collettiva e illimitata. Infatti è ovvio che i non proprietari godrebbero in queste Casse tutti i vantaggi e non sosterrebbero nessun rischio». (G. Lorenzoni, Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei contadini nelle province meridionali e nella Sicilia, op. cit., vol. VI, tomo I, Roma 1910, p. 725).

Gli scopi per cui veniva concesso il credito erano: a) per la raccolta, b) per la coltivazione, c) per le sementi, d) per i concimi, e) per le materie anticrittogramiche, curative e insetticide, f) per dotare i fondi di scorte vive o morte, di macchine o di attrezzi rurali, di arnesi per la manipolazione e conservazione di prodotti agricoli.

Il massimo consentito per i prestiti era di 1.000 lire con una durata di un anno. Solo per i crediti di esercizio si arrivava a 2.000 lire e per gli acquisti di macchine fino a 3.000 lire. Per quest’ultimo tipo di crediti si arrivava fino a tre anni di dilazione.

I debitori firmavano cambiali che venivano riscontate dalla Cassa presso il Banco di Sicilia. Questo grosso istituto non aveva, evidentemente, difficoltà ad operare il risconto trattandosi appunto di firma con responsabilità collettiva e tra i soci delle Casse c’erano sempre dei possidenti.

Gli undici comparenti per la costituzione della “P. Musco” erano così costituiti: 3 contadini, 1 commerciante, 1 calzolaio, 6 possidenti. Si deve ammettere che non sono titoli molto indicativi e abbiamo visto prima il perché, parlando delle qualificazioni relative al censimento del 1901; comunque non c’è dubbio che qualche possidente vero e proprio tra quei sei indicati e quei tre contadini ci doveva pur essere.

Nemmeno il funzionamento di queste casse deve far pensare alla buona volontà e alla improvvisazione, per cui si finirebbe per dare credito alle affermazioni fideistiche che non mancavano nemmeno in Bascetta stesso, ma dietro esisteva la complessa organizzazione diocesana, i dirigenti clericali del movimento cattolico i quali non solo davano indirizzi tecnici, ma suggerivano i principi dell’azione cattolica economico-sociale. Al momento del fallimento della Cassa “P. Musco”, Bascetta scriverà una ironica “Chiacchierata” in cui considera l’avvenuto fallimento come una “prova” del Signore. «Il Signore ha permesso che il Padre Bascetta facesse cattiva figura, noi non sappiamo quali siano i fini di Dio [...] , e più tosto preghiamolo che voglia perdonarci un po’ tutti quanti, me e voi [...]». (Da una Chiaccherata del Padre Buscetta ai Creditori della Cassa Agraria di Presito P. Musco - Adrano, Arti Grafiche Gutemberg, Adrano 9 ottobre 1932).

Particolare attenzione merita l’opera di bonifica agricola iniziata da Bascetta tramite la Cassa “P. Musco” di Adernò. A spingere verso questa iniziativa fu anche la situazione abbastanza florida dei depositi della Cassa. Basta pensare che nel 1910, dopo appena tre anni dall’inizio dell’attività ed essendosi conclusa nel 1909 l’attività dell’altra Cassa di Adernò, la “S. Nicolò Politi”, la “P. Musco” arrivò a coprire quasi il 20 per cento dell’insieme delle attività del settore della provincia di Catania. In corrispettivo, solo la Cassa Operaia “S. Agata” la superava con circa il 47 per cento.

Su questo argomento Giovanni Succi ha scritto un libretto (La Cassa Rurale, Adrano 1935), che seguiamo, tenendo nel debito conto l’intento agiografico che anima lo scritto.

Su iniziativa di Bascetta, la Cassa “P. Musco” procedette all’acquisto di alcuni poderi, per la maggior parte sciare incolte e alle operazioni di ripartizione e di finanziamento per la loro trasformazione agricola, oltre che alle opere di carattere infrastrutturale.

Per 171.000 lire venne acquistata la tenuta Vituro, di 108 ettari circa, in territorio di Adrano. Un’estensione improduttiva di lava, solo in parte adibita a pascolo, con un reddito annuo di 3.500 lire. La Cassa distribuisce a trecento proprietari il terreno col sistema del sorteggio, con l’obbligo di pagare un quinto della quota assegnata e il resto in cinque anni.

Un’altra tenuta acquistata fu quella di “Baratotto” di circa 58 ettari, nei pressi di Bronte, costituita quasi totalmente da un banco di lava abbandonata. Anche questa volta si procedette ad una lottizzazione col sistema del sorteggio e il pagamento di un quinto anticipato e il resto in cinque anni.

La tenuta Miraglia di 422 ettari, nei pressi del territorio di Regalbuto, fu un altro acquisto della Cassa. Si trattava di un ottimo terreno non sfruttato che a pascolo e un poco a seminativo a causa della mancanza di acqua. La Cassa procedette alla costruzione delle strade e delle abitazioni, come aveva già sperimentato nel caso della tenuta di Vituro. Venne costruita una conduttura di acqua forzata derivata dall’alveo del fiume Troina. Questa ripartizione non poté essere portata a termine causa il fallimento della Cassa.

Un’altra tenuta acquistata fu quella di Ragona e Pompeano di 143 ettari nei pressi del territorio di Centuripe, costiuita da ottimo terreno coltivato ad aranceti, mandorleti, oliveti, ecc. Dei 200 quotisti circa 150 riuscirono a fare a tempo a insediarsi nel terreno e a portare a termine le migliorie riguardanti le case coloniche e i ricoveri per gli animali.

L’ultimo acquisto fu quello della tenuta Canalotto Scomunicato di 90 ettari circa nel territorio vicino a Centuripe. Divisa in 60 lotti solo 20 riuscirono a portare a termine l’operazione.

Un importante problema fu quello dell’acqua che venne affrontato dalla Cassa. Questa procedette all’acquisto della sorgiva Manganello, di proprietà dei duchi di Carcaci, di una presa di 270 ore della portata di 13 litri e mezzo al minuto secondo, per 21 giorni. La Cassa mise in atto anche la costruzione di un acquedotto dalla contrada S. Nicolò alla tenuta Canalotto cui questa acqua era destinata.

Un’altra presa della stessa sorgiva, capace di 504 ore della portata di 18 litri al minuto secondo per un turno di 21 giorni, venne acquistata per essere indirizzata alla tenuta Miraglia che era completamente priva di acqua.

I contratti relativi all’alimentazione di acqua per la tenuta di Ragona non vennero posti in opera a causa del fallimento.

Il Succi riporta il seguente prospetto riguardante gli oneri relativi sostenuti dalla Cassa “P. Musco”:

per acquisto terreni da lottizzare L. 9.475.000
per acquisto acque L. 2.714.000
per lavori di conduttura L. 675.000

Totale L. 12.864.000

(Ib., p. 29).

Spese che per quanto ragguardevole fosse il patrimonio e il numerario della Cassa dovettero contribuire in modo non trascurabile al fallimento dell’iniziativa.

Un giudizio su queste operazioni non è agevole, mentre esula dai limiti della precedente ricerca un’indagine sui risultati delle perizie fallimentari e delle curatele della Cassa “P. Musco”. Si deve sottolineare che gli scritti sull’argomento e, in genere, gli scritti intorno all’attività politica di Bascetta sono di natura apologetica, quindi vanno presi con un certo lume critico.

Facciamo un esempio. In un articolo pubblicato su “Tribuna Etnea” si legge: «Fondatore della Banca Popolare “P. Musco” e di cooperative rurali sottrasse il popolo di Adrano che tanto amava allo strozzinaggio degli usurai e con i sudati risparmi degli operai e dei contadini che saggiamente e scrupolosamente amministrava, iniziò l’opera di redenzione degli umili acquistando e quotizzando latifondi, creando una vasta categoria di piccoli proprietari coltivatori diretti, che oggi dispongono di rigogliosi agrumeti da cui traggono i mezzi di ben remunerata fatica». (S. Maccaronello, “Padre Bascetta in mezzo al popolo facendone propri i bisogni e le sofferenze”, in “Tribuna Etnea”, 22 agosto 1959).

Questo passo è indicativo del tono e del livello degli scritti sull’opera del Bascetta. Nessun contenuto che sia minimamente critico e costruttivo, poche indicazioni relative ai dati e ai risultati della gestione economica delle sue iniziative (il lavoro già citato di Succi costituisce un’eccezione, pur essendo anch’esso infarcito di frasi fatte e di valutazioni agiografiche); pochissime notizie relative all’attività politica elettoralistica e amministrativa, salvo quelle quattro indicazioni che è possibile raccogliere negli archivi, relativi agli equilibri di potere.

In un testo redatto da un “Comitato Civico” in occasione del cinquantesimo anniversario del sacerdozio di Bascetta, come commento alla sua “politica” adottata nel paese si legge: «... gli uomini cambiano, la sua opera permane, grandiosa, precisa, di indimenticabile esempio per i governanti che possono constatarla dal Vituro al Forte, dal Passo Zingaro ad Aragona. Questa infine è la politica di Padre Bascetta, politica sociale, politica umanitaria, politica di rinnovamento sociale, politica d’elevazione del misero, in bontà, in onestà, nell’amore di Cristo, nella Santa Chiesa». (Cinquantesimo sacerdozio di Padre Bascetta. A cura di un comitato civico, Arti grafiche Costanzo, Adrano s.d.).

Con queste fonti c’è ben poco da fare. Bisogna ricostruire le azione del Bascetta risalendo, attraverso i nudi dati oggettivi e ricollegando le sue posizioni di fondo ad altre posizioni, come ad esempio, al suo ispiratore Sturzo, su cui esiste una notevole letteratura critica.

Certo, non si possono collocare addosso a Bascetta gli abiti, ben più ampi ed europei, di Sturzo che ebbe visione politica di portata nazionale ed internazionale, mentre Bascetta restò legato alla dimensione del proprio comune di origine, ma si può sempre instaurare un proficuo raffronto.

Diciamo subito che tra il prete di Caltagirone e il prete di Adrano si nota una non trascurabile differenza per quanto riguarda l’uso che intendevano entrambi fare delle iniziative in campo economico e in particolare delle Casse rurali.

L’esame di questa differenza ci pare importante perché contribuisce a stabilire una diversità tipica dell’azione e del pensiero di Bascetta, che non ci pare possa emergere diversamente e meno che mai possa ricavarsi dagli scritti sull’azione del prete di Caltagirone.

Come abbiamo detto Sturzo guardava alla grande nazione, ai rapporti di questa col papato, alle condizioni generali dell’equilibrio politico internazionale. Le stesse origini di benestante gli consentivano di staccarsi da una realtà primordiale di fame e di miseria per valutare, fino in fondo, il ruolo che questa realtà e le potenzialità politco-sociali che vi stavano sotto, potevano giocare sul piano nazionale e internazionale. Il prete di Adrano lavorava al minuto. La sua prospettiva, come abbiamo detto, limitata al comune e alla provincia, quindi diversa doveva essere la valutazione che dava allo strumento “Casse rurali”.

Sturzo non era dell’opinione che le Casse rurali potessero svilupparsi fino a soddisfare tutte le necessità dei piccoli proprietari agricoli. Egli affermava l’insostituibile presenza delle organizzazioni creditizie nazionali, delle grandi Banche. Se le Casse potevano risolvere l’aspetto iniziale del problema creditizio, non dovevano essere coinvolte interamente nei programmi cooperativistici e tanto meno nei progetti ambiziosi di acquisti collettivi. La preoccupazione del prete di Caltagirone non era tanto di natura tecnica, quanto di natura ideologica e politica. Egli temeva che le Casse, con l’allargarsi a prospettive economiche non proprio a loro congeniali perdessero di vista lo scopo primitivo che era quello di integrazione del tessuto sociale del ceto medio.

Così scriveva Sturzo: «La cassa rurale, per la sua natura puramente di credito, per le sue operazioni di deposito e mutuo, pel suo fine unico di agevolare il piccolo credito agricolo è un istituto così limitatamente definito che nella sua attività non deve assumere un’impresa aleatoria di qualsiasi genere.

«Facciamo osservare che la cooperativa per l’impresa dei latifondi è un istituto del tutto diverso dalla cassa rurale, perché non è cooperativa di credito e di produzione: differenza abbastanza specifica perché siano distinte e separate nel fine, nei mezzi, in tutto.

«Comprendiamo bene che tutti i soci di una cassa rurale possano anche essere membri di una cooperativa; comprendiamo che la cassa rurale agevoli e debba aiutare la fondazione della cooperativa, facilitando col piccolo credito l’acquisto delle azioni ed anticipando ai singoli soci i capitali necessari alla cultura intrapresa. Ma, come si vede, queste non sono relazioni puramente occasionali, accidentali che non varranno mai a legarle e a subordinarle l’un l’altra.

«Del resto, dato che la fusione dei due istituti fosse possibile, non la crederemmo mai utile e prudente [...]». (L. Sturzo, “Casse rurali e cooperative agricole”, in “La Croce di Costantino”, 8 dicembre 1901).

In queste parole di Sturzo si può leggere la prudenza del politico di respiro nazionale che teme che uno strumento organizzativo e di penetrazione capillare venga snaturato e possa perdere, a causa del discredito conseguente ai fallimenti e alle imprudenze gestionali, la propria efficacia politica. Con in più il fatto che a regolarizzare il credito e quindi a sviluppare il livello produttivo del Mezzogiorno nel suo complesso, non può essere sufficiente l’azione delle piccole Casse rurali, ma occorre l’intervento dello Stato e dei grandi istituti di credito, tipo Banco di Sicilia.

Scrive Francesco Renda: «La tesi più diffusa era che le Casse rurali, sviluppandosi nel tempo avrebbero potuto sopperire a tutte le esigenze finanziarie dei piccoli produttori agricoli, sostituendosi all’opera delle grandi banche e dello Stato. Coloro i quali convenivano su questo aspetto, in fondo, non facevano altro che partecipare al più generale sentimento che stava a base dell’utopia cooperativa e che in campo cattolico spingeva a considerare la Cassa rurale quale avviamento verso il futuro organismo sociale cristiano. Secondo Sturzo, invece, la rete delle casse rurali, qualunque fosse stata la sua ampiezza, non avrebbe potuto risolvere il problema del credito, dal quale dipendeva la vita e l’avvenire dell’agricoltura. Né si trattava solo di termini quantitativi, ma anche di impostazione generale, di indirizzo». (Socialisti e cattolici in Sicilia, op. cit., pp. 87-88).)

Lavorando nella prospettiva del Partito da costruire, Sturzo si rendeva conto benissimo dei limiti del lavoro organizzativo portato a compimento con le Casse. Comprendeva i lati positivi di questo lavoro, i rischi che c’erano da correre nel caso non si riuscisse ad evitare i fraintendimenti derivanti dall’impiego dello strumento stesso.

In un momento in cui il movimento socialista trovava la sua massima esplosione a carattere rivoluzionario in Sicilia ed in cui i preti non uscivano dalle parrocchie, un’iniziativa come quella delle Casse poteva essere considerata ottimale; poi, col modificarsi della situazione, con l’entrata nell’arco legalitario dei socialisti rivoluzionari, con l’apertura dei cattolici all’intervento ufficiale in campo politico, si doveva aprire la strada alla gestione nazionale dell’attività politica dei cattolici, inserendosi nella stessa prospettiva costituzionale dello Stato. Per fare questo occorreva che tutte le forze venissero indirizzate verso la costituzione e il rafforzamento del Partito dei cattolici.

Anche la situazione del profondo Sud, in cui quella rete di Casse rurali aveva operato, veniva così ad essere posta al centro di una politica nazionale, veniva ad essere considerata come elemento che andava ricomposto all’interno di un secolare disequilibrio, per risolvere in modo definitivo i problemi delle classi contadine.

La posizione teorica dominante, in economia politica, all’interno del Partito Popolare sarà quella del nuovo liberalismo, così riassunta dallo stesso Sturzo: «Il Partito Popolare italiano ha nel campo dell’economia la sua base teorica nella scuola cristiano-sociale [rif. al già citato Toniolo], come scuola contrapposta all’atomismo liberale ed al collettivismo socialista [...]». (Riforma statale e indirizzi politici, Firenze 1923, p. 10)

Come vedremo meglio più avanti, quando parleremo del programma del Partito Popolare e della diffusione dello stesso nella provincia del catanese; questo liberalismo di tipo nuovo aveva non pochi contrasti con il vecchio modello liberista. La particolare aspettativa che Sturzo sottolineava nei riguardi dello Stato, certo non era del tutto una posizione ortodossa dal punto di vista dell’economia classica. La sollecitazione dell’intervento dei grossi istituti di credito (che poi, come per il caso del Banco di Sicilia, rappresentavano ancora una volta gli interessi dei grandi agrari siciliani), se dava al suo pensiero politico la dimensione nazionale dello sviluppo del meridione, sviluppo che non poteva essere affidato al volontarismo atomistico dell’istruzione cooperativa; gli negava, da un altro lato quell’appartato teorico critico nei confronti di un eccessivo spazio al controllo statale.

Precisando in merito al liberalismo di Sturzo, Arrigo Serpieri scriveva: «... [egli] voleva sì una maggiore, una più libera autonomia degli individui, nel campo della produzione, ma era sostanzialmente avverso a quel meccanismo di selezione degli ordinamenti economici più utili, che ha la sua base nella concorrenza e nella piena libertà di contratti e di prezzi». (La guerra e le classi rurali italiane, Bari 1956, p. 180).

Considerandole dal punto di vista teorico, il progetto di riforma economica di Sturzo è di chiara impostazione “mista”, cioè di un intervento moderato dello Stato. Ma bisognerebbe meglio vagliare gli influssi schiettamente politici che lo condussero a privilegiare un progetto del genere, che si prestava da un lato ad accelerare il progresso del Mezzogiorno e, dall’altro lato, nello stesso tempo a tutelare gli interessi dei grandi agrari. In definitiva, diversamente che per uomini come Bascetta, le cose per Sturzo andavano valutate sul piano dell’equilibrio nazionale delle forze politiche e nel momento in cui si accingeva a gettare sulla bilancia il non trascurabile peso elettorale delle strutture cattoliche militanti, doveva valutarne a pieno le conseguenze sia per la crescita del partito stesso, sia per la gestione dello Stato nel suo insieme.

E queste prospettive non potevano non essere estranee ad uomini come Bascetta. L’orizzonte del prete di Adrano, come abbiamo detto, restò legato per sempre al suo comune. alle terre limitrofe, ai problemi della provincia, problemi visti come elemento più ampio in cui si inserivano i problemi del suo comune di origine, della sua gente.

E, in fondo, anche Bascetta vedeva bene, almeno all’interno del suo microcosmo, quando insisteva nel suo capillare lavoro di penetrazione organizzativa ed anche nel suo lavoro di bonifica, di dissodamento, di canalizzazione delle acque. Tutte queste iniziative, anche se giustamente considerate pericolose da Sturzo ad un livello nazionale, come modello da proporsi ad altre realtà finirono per produrre le condizioni ideali per lo sviluppo politico dello stesso Partito Popolare Italiano.

La formazione del Partito Popolare Italiano in Adernò. Il contributo di Vincenzo Bascetta

Conclusasi l’esperienza dell’Opera dei Congressi i cattolici si dedicarono ad una serie di iniziative su tutto il territorio nazionale. Il programma era dettagliato, ma in particolare toccava le autonomie comunali, oltre allo specifico intervento nella riforma della scuola.

Sturzo diventa segretario della Giunta diocesana di Azione Cattolica e fonda l’Opera nazionale per l’assistenza morale e religiosa; l’Associazione per gli istituti privati di istruzione; la Confederazione italiana dei Lavoratori e la Confederazione delle cooperative.

Tutti questi organismi agiranno di comune accordo, al momento opportuno, coordinando il lavoro elettorale del Partito di nuova costituzione.

Considerando le vicende del movimento politico cattolico nella provincia di Catania c’è da dire che fin dalla diffusione delle idee di Romolo Murri, in un primo tempo sostenute dallo stesso Sturzo, vi fu una certa diffusione del pensiero democratico-cristiano, ma senza grossi risultati. Il più delle volte, come accadde a Catania, i democratici cristiani si limitavano ad accettare le direttive della Curia, appoggiando i candidati da questa suggeriti, anche se di indirizzo politico non proprio progressista; come accadde nel 1906 quando appoggiarono il monarchico-costituzionale Gabriello Carnazza e osteggiarono il popolare Giovanni Auteri-Berretta, a sua volta sostenuto da De Felice Giuffrida.

Alla vigilia della grande guerra la situazione del movimento cattolico in Italia era molto modificata. Per la prima volta si aveva un ministro cattolico, Filippo Meda. I cattolici entravano con sempre maggior peso nella vita pubblica.

Finita la guerra i tempi erano maturi per la nascita del nuovo partito. Questo veniva a raccogliere l’eredità del movimento democratico-cristiano che era stato stroncato anche dalla stessa incapacità della direzione pontificia.

Il nuovo programma politico riassumeva e faceva proprie alcune tematiche del precedente programma. In merito alla legislazione sociale e del lavoro, i punti di contatto con il programma murriano sono diversi. Anche l’appello alla pace universale, su cui si basava il programma di politica estera, riproponeva gli intendimenti democratici-cristiani. Di particolare, su questo punto, si aveva che il nuovo partito si impegnava a sostenere la Società delle Nazioni.

In definitiva, anche nel nuovo programma non mancavano le frasi generiche e vaghe che si trovavano nel precedente.

Proiettato sul piano nazionale, il nuovo partito preoccupava molto i dirigenti delle altre formazioni politiche, i quali fecero presto ad accorgersi che si trattava di una iniziativa seria che avrebbe potuto “raccogliere” i cattolici sotto una unica insegna.

Ma, a livello locale, la pericolosità dell’iniziativa sembrava passare inosservata. A Catania il giornale locale, di tendenza social-riformista pubblica un articolo dal titolo significativo “Nuove maschere su vecchi volti clericali” (“Corriere di Catania”, 24 gennaio 1919). Una critica superficiale è fatta nell’articolo dal titolo “Il programma clericale” (“Corriere di Catania”, 28 gennaio 1919).

L’organizzazione del nuovo partito sorgeva a partire dai centri provinciali: Palermo, Messina, Catania nell’ordine.

La sezione di Catania del Partito Popolare Italiano venne costituita il 2 febbraio 1919 (cfr. “La costituzione del Comitato provinciale e della Sezione di Catania del Partito Popolare Italiano”, in “Il Lavoratore”, 9 febbraio 1919). Lo stesso giorno si costituiva il Comitato provinciale.

Del suddetto Comitato facevano parte due esponenti politici di Adernò: l’avv. Alessandro Coniglio e il prof. Pietro Maccarrone. Della Commissione Provinciale provvisoria entrava invece a fare parte lo stesso Bascetta. Proprio questa commissione, guidata dal futuro deputato De Cristoforo cercò di coordinare il lavoro organizzativo del nuovo partito in vista delle elezioni politiche generali.

Alla fine di febbraio dello stesso anno nasce la sezione di Adernò.

Qui, nel tessuto sociale di un paese di struttura agricola, il lavoro di Bascetta era andato avanti per anni, parallelo a quello che altri preti realizzavano in altri paesi con strutture simili o quasi simili.

Aveva cominciato subito dopo ordinato sacerdote, quindi intorno al 1904, creando un circolo cattolico nei locali della Chiesa Madre. Poi aveva dato vita all’Unione Professionale Cattolica in Piazza Umberto, sulla terrazza sopraelevata del Palazzo Bianchi. E ancora successivamente aveva animato una lega di contadini presso Piazza mercato, al piano terra di casa Miraglia.

L’impegno notevole sul piano sacerdotale e politico non gli impedì di recarsi a Messina in occasione del terremoto che distrusse quella città, per portare il proprio aiuto. A seguito di questa opera di soccorso si ebbe un attestato di benemerenza da parte del Ministro dell’Interno. (Il documento relativo è custodito in casa Bascetta, Via Curiel, Adrano).

In una situazione come quella di questo grosso paese siciliano, un uomo come Bascetta finiva per polarizzare su di sé l’attenzione di tutto il paese. Spesso in questa realtà le divisioni di classe, durissime e asperrime, risultano come ammansite dalla gravità stessa della situazione e persone che, per propria naturale collocazione di classe dovrebbero risultare ben lontani dalla funzione di riferimento delle masse sfruttate, finiscono per assumere la veste di “guida” e di “interpreti” dei bisogni popolari.

Non è un caso che queste posizioni di riferimento vennero, in paesi come Adernò, Caltagirone, Agira, Regalbuto, Biancavilla, ecc., assunte proprio dai sacerdoti. Ad Adernò Bascetta, a Caltagirone Sturzo, ad Agira Giuseppe Sinopoli, a Regalbuto Giuseppe Campione, a Biancavilla Arcidiacono e così via.

Anche in passato i fenomeni del genere si erano verificati, sebbene non proprio in chiave politica. Non erano mancati i preti che avevano guidato rivolte, come non erano mancati quelli che si erano messi alla testa di bande di briganti. (Cfr. E. J. Hobsbawn, I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, tr. it., Torino 1966, p. 60).

Ma all’epoca dell’attività di Bascetta, questo sentirsi ed essere punto di riferimento di tutto un paese era il risultato dell’interclassismo sostanziale della posizione politica dei militanti cattolici.

Nel breve testo della Commemorazione del Cinquantesimo del sacerdozio, già citato, si legge: «Quanto oggi si chiama riforma agraria, quanto oggi si discute, si impronta con grave danno dell’economia, dell’agricoltura e del proprietario terriero, venne attuato dal prete che porta dei fogli di carta con degli appunti, dal prete che deve correre dal Maresciallo per raccomandare la pratica della donnicciuola che si è bisticciata con la vicina e deve pregare per il Sindaco per un sussidio e per il ricovero in ospedale della povera del partito rivale? ... Sorvoliamo sull’attività politica di Padre Bascetta in seno al suo partito perché, per noi non ha partito colui che dà terra, pane, acqua e benessere ai suoi cittadini». (Cinquantesimo sacerdozio, op. cit.)

A parte la forma retorica e stucchevole del testo, c’è da notare che si fanno riferimenti concreti ad un modello di vita quotidiana, ad una procedura che è tipica dei paesi (e spesso anche delle città) siciliani. La macchina burocratica non si mette in moto con alacrità se non c’è la “raccomandazione”. Spesso diventa vano parlare di “riforme” quando queste sono decise altrove, a Roma, e in periferia, come ad esempio nella Adernò del periodo di Bascetta, non arriva nemmeno l’odore delle “riforme”, ma il potere locale passa di mano in mano senza sostanziali modificazioni.

È il concetto gattopardesco dell’immutabile mutabilità, delle cose che cambiano per restare uguali.

Anche un uomo attivissimo, come senza dubbio fu Bascetta, in una situazione del genere finisce per accettare il ruolo di lottare per fare restare tutto come prima.

Non è senza significato che quando Bascetta andrà in prigione per il fallimento della Cassa rurale “P. Musco”, nel 1930 a difenderlo sarà un leader socialista catanese, grande figura del foro di questa città, l’avv. Luigi Castiglione.

Questo problema dell’interclassismo dovrebbe essere approfondito con maggiori dettagli, in quanto contribuisce a meglio tratteggiare gli elementi di fondo che caratterizzano l’azione nei piccoli centri agricoli siciliani.

Il Partito Popolare Italiano sarà, quindi, chiaramente un partito interclassista. I suoi leader lo definivano “aclassista”, ma la cosa non ha molta importanza (Cfr. E. Vercesi, Il movimento cattolico in Italia, Firenze 1922, p. 183).

Lo scopo stesso del suo fondatore e l’accortezza nello stendere il programma in modo da non urtare eccessivamente le frange progressiste e nemmeno quelle conservatrici dello schieramento cattolico; erano elemento chiaro dell’indirizzo “aperto” della politica che intendeva seguire il nuovo partito.

Nella realtà catanese le cose non andavano diversamente. I frequentatori delle sedi del partito erano professionisti appartenenti alle classi medie, giovani intellettuali (professori, avvocati, qualche medico) e poi i contadini proprietari e qualche operaio iscritto alla C.I.L. L’origine dei professionisti entrati nel Partito era quello della Gioventù Cattolica.

In un paese come Adernò la composizione dei simpatizzanti del Partito Popolare era costituita da piccoli proprietari e da contadini che appartenevano alle cooperative cattoliche, da piccoli artigiani.

Serpieri fa notare come i contadini meridionali avessero conservato la vecchia abitudine di votare secondo gli ordini forniti dalla borghesia agraria locale, per cui risultava appoggiassero i liberali, i socialdemocratici e il nuovo partito secondo l’aria che tirava in comune. (Cfr. A. Serpieri, La nuova guerra e le classi rurali, op. cit., p. 371)

La composizione del Partito Popolare Italiano ad Adernò, alla fine del 1922 risultava in percentuale la seguente:

operai            44
contadini        262
commercianti      17
professionisti    35

Totale iscritti: 358.

(Cfr. “Il convegno provinciale del Partito Popolare Italiano”, in “Bandiera Bianca”, 4 febbraio 1923).

La maggioranza di iscritti era quindi costituita da contadini. Anche se le cifre riportate vanno prese col beneficio d’inventario, è facile capire che la percentuale non doveva essere (sul totale complessivo) minore del 70 per cento. Sufficiente per influenzare tutta la politica del partito nella cittadina.

Gli stessi professionisti e lo stesso Bascetta non potevano non tenere conto dei bisogni di questa ampia parte del loro elettorato e non potevano non farli propri, pena il vedersi esclusi di colpo dalla scena pubblica.

Quella realizzazione che Bascetta aveva portato a termine in gran parte su iniziativa personale, ma anche su coordinate intese con le forze cattoliche provinciali; adesso diventano punto di riferimento per la crescita politica del nuovo Partito.

In questa nuova sede venivano articolate le iniziative, sempre restando, comunque, nell’ambito degli interessi dei piccoli proprietari contadini. La costruzione di case coloniche, il miglioramento della rete elettrica, il completamento della rete viaria delle campagne, i provvedimenti repressivi contro i furti di bestiame, la revisione dei contratti di mezzadria e di colonia, queste erano le richieste principali. A fianco si collocava la richiesta di una riduzione di ore di lavoro per i braccianti, ma era una richiesta chiaramente minoritaria.

E il nuovo partito, almeno a livello di programma, prometteva bene, era un vero e proprio partito fatto apposta per i piccoli proprietari contadini. Salvaguardava la proprietà e la difendeva dagli assalti verbali massimalisti e, nello stesso tempo, sollecitava una serie di riforme per il miglioramento del settore agricolo.

I braccianti erano quasi del tutto assenti nel partito. La maggioranza era iscritta nel partito socialdemocratico, ma più che altro per seguire De Felice. Lo stesso dicasi per gli operai, che erano presenti ma in misura limitata.

Come abbiamo visto, la situazione di Adernò era caratterizzata da una forte presenza di contadini e piccoli proprietari nelle liste del Partito popolare. L’ambiente tipico in cui Bascetta si era trovato a lavorare politicamente da sempre.

La sua prima esperienza l’aveva fatta alle elezioni comunali del 1 gennaio 1908, quando si era presentato con una propria lista, ripetendo l’azione di Sturzo a Caltagirone nel 1905. Il risultato fu molto positivo: Bascetta venne eletto al Consiglio comunale con maggioranza assoluta.

Nel 1912, alle elezioni amministrative, Bascetta venne eletto in qualità di prosindaco non essendo possibile, all’epoca, per un prete accettare la carica di sindaco.

Il 21 giugno 1914 viene riconfermato (cfr. Archivio comunale di Adrano. Deliberazioni consiliari, libro VI, vol. X) nella carica.

I tempi si fanno sempre più tristi. Sopraggiunge la necessità di approvvigionare il comune di frumento. Il 19 gennaio 1915 il Consiglio comunale autorizza Bascetta ad acquistare frumento nei comuni vicini con delibera n. 133. (Ibidem).

Il 12 maggio 1916 il Consiglio comunale registra le dimissioni da consigliere e assessore titolare di Bascetta. Gli succede Carmelo Gulli.

In pari data, un altro prete, Pietro Maccarrone, prevosto di Adernò, viene dimissionato e sostituito con Pasquale Lamanna. (Ibidem).

Forse queste dimissioni erano dovute al fatto che in data 30 gennaio 1916 Bascetta era stato nominato delegato del Commissario Canepa presso il Consorzio della ferrovia Circumetnea.

Il nuovo sindaco è un certo Catanuto che resterà in carica fino al maggio del 1919. Prosindaco il cav. Gennaro Siccardo.

Con le elezioni del 18 maggio 1919 subentra il nuovo sindaco: Salvatore Sanfilippo. Commissario prefettizio viene nominato il dott. Enrico De Maria. Fu quello il momento in cui si dette il via all’organizzazione delle elezioni politiche del novembre 1919. La sede provinciale di Catania vide l’attività di Bascetta a livello di appartenente al Comitato Provinciale del Partito.

Sappiamo dei tentativi di Bascetta di organizzare uno Stabilimento Tipografico Sociale a Bronte, ma nulla sappiamo in merito a una sua partecipazione, almeno a livello organizzativo, al giornale “Bandiera Bianca” che si cominciò a stampare in quella cittadina dal 1922. In quel torno di tempo, cioè alla metà del ‘19 l’unico foglio che poteva essere utilizzato dal Partito Popolare nella provinciale era “Il lavoratore”, nato il 19 gennaio 1919. Si trattava di un giornale destinato ai lavoratori tesserati nelle leghe dell’Ufficio del Lavoro.

Questo giornale, praticamente sostenuto dal Partito Popolare, aveva comunque una diffusione limitata. L’altro giornale, più famoso per noi, “La Croce di Costantino” aveva una diffusione ristretta solo a Caltagirone e ai paesi vicini.

Il Comitato provinciale dette vita a varie iniziative per affrettare quanto meglio possibile la prossima competizione elettorale.

L’occasione del viaggio di nozze del segretario della C.I.L. Giuseppe Corazzin venne utilizzata a scopi propagandistici e il personaggio venne obbligato a tenere una conferenza di propaganda che ebbe luogo il 10 aprile 1919. (Cfr. “La grande manifestazione del Partito Popolare Italiano”, in “Il Lavoratore”, 13 aprile 1919).

A metà di maggio Carmelo Salanitro, professore di Adernò, uno degli uomini più in vista del gruppo intellettuale che faceva capo a Bascetta, su cui torneremo tra breve, tenne un comizio parlando del programma del nuovo Partito e dei suoi rapporti con il cristianesimo sociale. (Cfr. “Plebiscitaria dimostrazione all’on. De Cristoforo”, in “Il lavoratore”, 15 maggio 1919).

Il 24 agosto Riccardo Lombardi teneva un comizio a Bronte. Il professore Francesco Fernandez ne teneva un altro il 14 settembre a Misterbianco e un altro il 17 settembre veniva tenuto dal canonico Amadio. (Cfr. “Propaganda”, in “Il lavoratore”, 28 settembre 1919).

Il 22 ottobre 1919 una riunione del Comitato provinciale, cui è presente anche Bascetta, dura sei ore.

Ecco il testo del manifesto che venne affisso a Catania e provincia:

«Partito Popolare Italiano – Comitato Provinciale di Catania – Elettori della provincia di Catania!

«Di fronte alle più mostruose coalizioni che con lo specioso pretesto del bene pubblico son potute verificarsi nel nostro paese, ove le più invereconde transazioni e le più ibride unioni sono lecite per mascherare ambizioni e appetiti, contro l’assoluta mancanza di programmi di gente che ha persino calpestato i princìpi stessi per cui fu votata la riforma elettorale che esige una netta demarcazione di partiti, nella baraonda politica che regna sovrana nella nostra provincia in cui si vorrebbero perpetuare le lotte senza princìpi, fidente e sereno il Partito Popolare Italiano scende nell’agone non per soddisfare vanità di arrivisti impotenti, ma per l’affermazione schietta e sincera di quelle nobili e pure idealità che esso incarna e rappresenta. Noi intendiamo portare nell’imminente lotta politica, con la lista che presenteremo alla vostra fiducia, una nota alta; intendiamo nella piena integrità della nostra fisionomia, senza deformazioni e senza adattamenti, solennemente proclamare che le idee e non le persone devono costituire le bandiere e le insegne della battaglia della vita pubblica. E noi, uomini liberi e forti, uomini interamente votati al trionfo d’un programma che vuole, senza viltà e senza ipocrisia, l’elevazione morale ed economica della Nazione nella piena e feconda armonia delle classi sociali, d’un programma che, reclamando la più sane libertà, può assicurare all’Italia vittoriosa la sua esistenza e la sua prosperità, chiediamo la vostra cooperazione perché la nostra lista ottenga quel successo che è dovuto a coloro che scendono in campo con l’onesto proposito di sostenere programmi e non persone. Con tali intendimenti attendiamo con tranquillità il vostro giudizio.

«Catania, 22 ottobre 1919». (“Il Partito Popolare Italiano entra in lotta nella provincia di Catania”, in “Il Lavoratore”, 26 ottobre 1919).

Bascetta non venne presentato nella lista dei candidati che raccolse solo sette su dieci che sarebbe stato possibile presentare. Forse per lui valse lo stesso motivo dell’esclusione di Sturzo, cioè che il Vaticano aveva vietato agli ecclesiastici di presentarsi, oppure si preferì lasciarlo nelle retrovie, più adatto ad opere di organizzazione.

Infatti, grandissima fu la mole di lavoro che il Comitato dovette affrontare.

Il sacerdote Di Stefano, l’avv. Ruggeri, il ragioniere Milazzo, l’altro sacerdote Arcidiacono, l’avvocato Carmelo Ilardi e tanti altri lavorarono insieme a Bascetta.

Questa fase è importante perché fu quella in cui vennero esposti per la prima volta in forma dettagliata e a livello propagandistico, i programmi del Partito.

Il primo punto del programma sosteneva la necessità della riforma elettorale con collegi plurinominali a rappresentanza proporzionale. Nel mese di febbraio si tenne un comizio a Catania sul problema elettorale: oratore Salvatore Frazzetto. Un altro comizio venne tenuto a Caltagirone nel mese di aprile dall’avv. Diego Vitale.

In sostanza la riforma propugnata dal Partito Popolare Italiano sosteneva non solo di allargare le circoscrizioni elettorali, in modo da fare competere in uno stesso collegio diversi candidati dello stesso partito, con una stretta proporzionalità nell’assegnazione dei seggi; ma comprendeva anche la richiesta dell’estensione del diritto di voto alle donne e l’elezione a suffragio universale anche per i senatori.

Riguardo il problema del caro-vita, vi furono a Catania e provincia diverse agitazioni e qualche tentativo di moto popolare. Vennero formati dei comitati cittadini sia per regolare il procedimento del calmiere, sia per frenare i moti spontanei della popolazione che minacciavano di estendersi. Di questi comitati fecero parte esponenti del nuovo Partito.

Gli altri temi del programma popolare furono tutti sviluppati nel periodo precedente alle lezioni politiche.

Riguardo la politica interna si chiedeva il ripristino delle guarentigie statutarie, il funzionamento regolare delle Camere, l’abolizione dei poteri straordinari del governo, la liquidazione dei servizi e delle opere di guerra.

Si avanzava la richiesta di un piano di regolamentazione dei consumi, con gli strumenti del calmiere, favorendo in particolare per le zone agricole del Sud, la ripresa della produzione agricola.

Non mancava nella provincia di Catania il discorso sulla sistemazione delle terre liberate, sul risarcimento dei danni di guerra in modo da potere venire in aiuto ai contadini che erano stati per anni lontani dai campi.

Veniva affermata la necessità teorica di limitare i benefici del capitale, ridistribuendo in modo più “cristiano” la fatica del produttore, evitando le grosse sperequazioni. Non si trattava del suggerimento di una politica di espropriazione del tutto lontana dal pensiero economico e sociale cristiano, ma solo di una politica di più equa ripartizione dei benefici della produzione.

Particolare attenzione i popolari rivolsero al problema dell’insegnamento religioso nelle scuole. La scuola di Stato che rifiutava l’insegnamento della religione, veniva accusata di essere stata incapace di combattere l’analfabetismo nel Mezzogiorno e di non essere riuscita a dare una valida struttura all’insegnamento tecnico-professionale.

Considerando in blocco la posizione politica del comitato provinciale del Partito Popolare, bisogna concludere che essa si orientava verso un centrismo all’interno dello stesso schieramento cattolico. L’ispirazione era chiaramente sturziana, con qualche frangia più a sinistra per coloro che, come il ferroviere Strano, si trovavano nelle organizzazioni di professione, divenute poi organizzazioni sindacali.

Nel gruppo di Adernò, vicino a Bascetta, si era messo in evidenza il professore Carmelo Salanitro. Insegnante di latino e greco nei licei, Salanitro proveniva da una modesta famiglia di Adernò, dove era nato nel 1894.

Messosi in vista come conferenziere, oltre che come cultore di materie classiche, insieme a Bascetta venne eletto al Consiglio Provinciale del Partito.

Antifascista, trovò la morte nei campi di sterminio nazisti.

Un’altra interessante figura di sostenitore del Partito Popolare di Adernò, fu Salvatore Alì, nato in quella cittadina nel 1871. Amico di Bascetta studiò nel seminario arcivescovile di Catania e tornato nella natia Adernò fu uno dei fondatori del Partito Popolare Italiano.

Nella sua casa di Adernò furono spesso ospiti sia Luigi Sturzo che il giovane liceale Mario Scelba.

La campagna per le elezioni amministrative del 1920 venne retta in modo particolare da Salvatore Alì che a tal scopo organizzò il “Centro di propaganda elettorale del Partito Popolare”.

Nel 1922 si scatenarono le violenze fasciste. Le squadre di picchiatori vennero organizzate dal futuro podestà, Agatino Chiavaro. Bascetta subì un attentato e la stessa cosa accadde a Salvatore Alì che fu costretto a riparare a Catania, nascondendosi nell’Arcivescovato. Recatosi a Padova per operarsi di tumore, vi morì nel 1925.

Un altro personaggio che figura tra i fondatori del Partito Popolare di Adernò è Alfio Rapisarda, della generazione precedente a quella di Bascetta. Era nato infatti, sempre ad Adernò, nel 1854 ed era stato nominato sacerdote a 25 anni. In un certo senso Rapisarda fu una figura che preparò il terreno all’attività degli uomini come Bascetta.

Esercitò per lunghi anni l’incarico di prevosto della città e, come si chiamava allora, l’incarico di “rappresentanza del Vescovo per la città di Adernò”.

Svolse una notevole attività di organizzatore all’interno del circolo cattolico della Chiesa Madre. Fu irriducibile avversario del socialismo e non possedette le caratteristiche moderne di Bascetta, essendo proprio per questo, più vicino a certi personaggi, come Ciancio, come il barone Benedetto Guzzardi ed altri.

Partecipò comunque alla fondazione del Partito Popolare dopo la prima guerra mondiale.

Un altro dei fondatori del Partito di Adernò fu l’avvocato Carmelo Insinga, che fu anche professore di stenografia. Nato ad Adernò nel 1882 vi morì nel 1956. Tenne per lunghi anni lo studio di avvocato a Catania e Adernò. Fu vicino a Bascetta e a Luigi Sturzo che furono i suoi concreti ispiratori politici.

Ed eccoci alle elezioni amministrative del 1920.

I risultati generali in tutta la provincia furono molto deludenti. I popolari si presentarono da soli a causa dell’insistenza di Sturzo, che li spinse a lottare in modo differenziato dagli altri, evitando trasformismi e collaborazioni di dubbio risultato.

In tutta la provincia vi erano 250.000 circa aventi diritto al voto, ma i votanti effettivi furono poco più di 100.000. Si parlò di scarsa maturità politica delle masse.

Ad Adernò le elezioni si svolsero la domenica 7 novembre e furono caratterizzate da numerosi incidenti e colpi d’arma da fuoco. Nonostante i soprusi elettorali, il Partito Popolare Italiano ottenne la maggioranza da solo.

La coalizione avversaria era costituita dai socialdemocratici, dai combattenti, dai gruppi capitanati dal cav. Reale e dal cav. Inserilli e dall’associazione socialista dei contadini capitanata da Alfio Toscano. (Cfr. “Da Adernò”, in “Il lavoratore”, 20 novembre 1920).

Gli altri risultati positivi il Partito Popolare Italiano li ottenne a Castiglione, dove furono eletti 24 consiglieri del Partito (cfr. “Da Castiglione”, in “Il Lavoratore”, 26 settembre 1920); a Regalbuto dove ottennero un consigliere provinciale, posto che venne occupato dal prosindaco sacerdote Campione (cfr. “Da Regalbuto”, in “Il Lavoratore”, 3 ottobre 1920); a Viagrande dove ottennero la totalità dei seggi (cfr. “Da Viagrande”, in “Il Lavoratore”, 13 novembre 1920).

Nella città di Catania i popolari furono sconfitti su tutto il fronte e non riuscirono a prendere nemmeno un seggio.

Il 21 novembre si riunisce il Consiglio comunale di Adernò ed esamina i titoli dei consiglieri eletti. Il nuovo sindaco è Salvatore Alongi. Bascetta è nominato assessore supplente.

Il 9 gennaio 1921 il sindaco presenta le dimissioni insieme a tutta la giunta. Viene nominato un nuovo sindaco: Sanfilippo. Gli assessori sono: Bascetta, Guzzardi, La Manna, Miraglia, Pignatore e Valastro.

Il 4 dicembre Bascetta è eletto prosindaco e il giorno 11 dello stesso mese assume la carica di sindaco. Questa carica sarà tenuta dal Bascetta fino al 6 agosto 1922.

Il 13 ottobre 1922 si inaugura una sede fascista ad Adernò. Un dispaccio telegrafico del Ministro Carbone al Prefetto Flores impartisce istruzioni in merito a problemi di ordine pubblico nella cittadina e vuole essere informato su eventuali disordini. (Cfr. Archivio di Stato. Busta a/2062).

In una lettera del 14 ottobre 1922, un funzionario del Ministro degli Interni garantisce a Sturzo una speciale sorveglianza sulle organizzazioni popolari e sugli esponenti del partito ad Adernò. (Ibidem).

Il 4 dicembre Bascetta viene eletto prosindaco, ma pochi giorni dopo vi sarà lo scioglimento del Consiglio comunale su iniziativa dei fascisti. In un telegramma del prefetto Flores dell’11 dicembre 1922 al Ministro degli Interni si legge che i fascisti presero l’impegno che il passaggio dei poteri avvenisse senza disordini. (Ibidem).

Il nucleo fascista di Adernò era stato tra i primi a nascere nella provincia di Catania, subito dopo la formazione del nucleo della città più grande dovuto a Orazio e Luigi Condorelli, a Giuseppe e Domenico Oliva, a Biagio Falcone e a diversi altri.

Quando i Fasci di combattimento tennero a Firenze il 9 e il 10 settembre la prima riunione nazionale, il nucleo di Adernò mandò la sua adesione.

Il nucleo di Adernò prese ben presto il nome di “Avanguardia studentesca”.

In rapporto all’equilibrio politico delle nuove forze che si presentavano sulla scena locale, bisogna dire che a parte le occupazioni forzate e gli scontri di piazza, i fascisti cercarono di sistemare rapidamente le cose, entrando in collaborazione ed alleandosi con i monarchici e con i liberali. Costoro, che avevano per tanti anni collaborato con la socialdemocrazia, adesso pur di restare al potere o di averne una parte, si illudevano di condividerlo con i fascisti.

Il Partito Popolare Italiano, sia perché fuori dei centri di potere quasi, sia perché non ancora sufficientemente adeguato ai giochi di equilibrio politico, restò praticamente quasi dappertutto in disparte.

Anche la direzione centrale del Partito non riusciva ad impostare un progetto organico sul territorio nazionale per fronteggiare l’attacco del Partito fascista. I contrasti interni allo schieramento popolare impedirono quelle opportune decisioni che avrebbero consentito di fare qualcosa.

Quando le decisioni furono prese, in occasione del Congresso di Torino del 12-14 aprile 1923, era ormai troppo tardi.

Riguardo la situazione nella provincia di Catania, finirono per prevalere gli interessi locali. Il Partito Popolare, agli inizi del 1923, pubblicava una dichiarazione del Comitato provinciale del seguente tenore: «... questo convegno deve riordinare le file nostre, indirizzare, unificare gli sforzi delle singole nazioni in un’illuminata e serena visione dell’attuale momento politico. Si è al potere col fascismo, partito rivoluzionario che diede l’ultimo e definitivo colpo al cadente Stato liberale, perché non solo il nostro partito non seppe resistere al cozzo rivoluzionario che trasformò lo Stato liberale in fascista, ma perché del suo programma se ne fece il programma del governo; si è al potere col fascismo perché la salvezza della Nazione più che qualsiasi interesse di partito lo impone». (“Restiamo in piedi”, in “Bandiera Bianca”, 5 gennaio 1923).

Questo testo dà molto da pensare. Bisogna precisare che alla sua stesura dovette senz’altro partecipare anche Bascetta, sebbene non risulti da nessuna fonte, e ciò a causa del fatto che fu proprio lui, insieme all’avvocato La Zara, a coordinare il lavoro dell’on. Umberto Tupini, deputato popolare per la circoscrizione delle Marche, inviato dalla Direzione Centrale del Partito proprio per il Convegno.

Va bene la dichiarazione ufficiale di adesione alla posizione centrista di Sturzo, fatta tramite un telegramma, redatto, questa volta sicuramente da Bascetta, e dall’avvocato La Zara. Ciò spiegherebbe una parte del problema insito nella dichiarazione del Convegno provinciale, ma non spiegherebbe il fatto che Bascetta si sia assoggettato tanto facilmente alla perdita del potere nel proprio paese di origine, oltre che al fatto di essere stato oggetto di un attentato fascista.

Non solo, ma nel 1923 (il Convegno venne tenuto l’8 gennaio di quell’anno) si erano di già sufficientemente divaricate le posizioni di Bascetta e di Sturzo riguardo il vecchio problema della gestione ideologica e politica delle Casse rurali. Anche questo non va dimenticato.

Anzi, tagliato fuori repentinamente dall’agone politico, Bascetta continuerà nella sua attività fino al 1929, anno in cui la crisi della “quota novanta” costrinse la Cassa “P. Musco” al fallimento. Ma questo fallimento venne a determinarsi proprio su quella strada cooperativistica ed imprenditoriale che Sturzo aveva per tempo indicata come poco prudente e irta di pericoli.

Fatto sta – ritornando alle tesi del Convegno del 1923 – che Bascetta partecipa alle tesi di centro sostenute nel convegno e a quelle della collaborazione con il fascismo, nuovo arrivato al potere. La stessa presenza dell’avvocato La Zara, uomo equilibrato e notoriamente moderato, è indice dell’accettazione della tesi sturziana.

Certo, negli anni futuri, quando nuove e più profonde disillusioni aspettano Bascetta, quando anche il carcere gli aprì le porte, forse vi fu in lui un ripensamento sulle tesi del 1923, di possibile collaborazione col fascismo. L’unico fatto certo è che a partire dalla stabilizzazione del potere fascista in Italia, la sua attività politica ed economica si tacque.

Il lungo ventennio fascista vide solo la sua attività di prete. Non è certo nostro compito occuparci di quest’attività, come non dobbiamo occuparci della ripresa della vita politica democratica che vide Bascetta un’altra volta in lizza.

Bascetta riprenderà il proprio impegno politico nelle file della Democrazia Cristiana, il nuovo partito di Sturzo e di De Gasperi che raccoglieva l’eredità del Partito Popolare Italiano.

Conclusione

Non è stato agevole tratteggiare l’opera e la figura di Vincenzo Bascetta, prete e uomo politico di una delle cittadine più difficili della realtà politico-sociale della provincia di Catania.

Quello che è emerso nella presente ricerca è il suo impegno per costruire un punto di riferimento del nuovo potere politico ecclesiale che si profilava all’orizzonte, insomma un potere di controllo e di supervisione che approfittando della miseria della povera gente, e cercando di alleviarla, specialmente per quanto riguarda il grave problema dell’usura, cercava di controllare le potenti istanze eversive dei socialisti rivoluzionari.

Costruendo le strutture del movimento cattolico della cittadina di Adernò, praticamente dal nulla, Bascetta cominciò ad impegnarsi nel campo economico contribuendo alla fondazione di due Casse rurali, di cui la “P. Musco” fu, quasi in due anni, in grado di diventare la seconda Cassa della provincia di Catania, dopo la S. Agata.

L’impegno nel settore della cooperazione e del credito non era evidentemente fine a se stesso e non era soltanto diretto a sollevare la “situazione degli umili e degli oppressi” come è stato affermato da tanti agiografi che non scavano nella realtà delle cose. In fondo, e in altre parole, Bascetta, lavorando nel campo economico, voleva raggiungere due scopi: migliorare la situazione dei piccoli proprietari contadini, coltivatori diretti, migliorare la situazione agricola della sua cittadina (questo secondo obiettivo può considerarsi un corollario del primo, almeno fino ad un certo punto) e poi, elemento di fondo di tutto il suo impegno, egli voleva trovare il fondamento per la costruzione di un movimento politico che consentisse ai cattolici non solo di affacciarsi sulla scena politica nazionale, ma anche di conquistare uno spazio – più o meno grande – all’interno delle autonomie comunali e provinciali.

Abbiamo anche sottolineato una divergenza tra l’importanza data da Sturzo al problema dello sviluppo e dell’utilizzo delle Casse rurali e della cooperazione agricola e l’impostazione pratica e realizzativa di Bascetta.

Le due posizioni avevano una divergenza a seguito del referente politico che era diverso per Sturzo, tutto proteso ad un piano nazionale di organizzazione politica e per Bascetta, tutto diretto a verificare all’interno del microcosmo comunale di un comune agricolo del profondo Sud.

Il coronamento di tutta l’attività di Bascetta nel settore economico si ha nel campo più squisitamente politico, con la sua partecipazione alla vita amministrativa della propria cittadina di origine e con la sua partecipazione al Partito Popolare di Sturzo.

A questo argomento abbiamo dedicato l’ultima parte della presente ricerca, cercando di indicare i momenti dello sviluppo di un’azione concreta diretta ad innestare nel paese di Adernò i tentativi politici ed organizzativi che il partito Popolare italiano veniva facendo nella provincia di Catania, nella Sicilia tutta – con i suoi problemi endemici di regione sottosviluppata – e in Italia.

In conclusione la figura che ne esce di questo prete-uomo politico e riformatore, capopolo e guida di tutto il paese, ha le sue zone d’ombra, inevitabili per il potente clericlalismo di fondo, ma ha anche una sua compattezza, una sua uniformità e una sua coerenza. Questi lati positivi non possono non essere sottolineati e non possono non essere tenuti presenti anche dovendo concludere per un giudizio di classe negativo.

Le buone intenzioni servono a lastricare l’inferno. E ci riescono meglio quando sono legate, queste buone intenzione, a una doppia morale, come accade sempre nell’attività clericale.


[1974]

Il problema dell’educazione nella Prima serie della “Civiltà cattolica” (1850-1852)

Introduzione

I primi anni della “Civiltà Cattolica” sono caratterizzati dallo sforzo condotto dai gesuiti per riaffermare il loro prestigio, per riorganizzare la struttura del loro ordine e, in un raggio più ampio, per rafforzare le fortune del papato compromesse dai moti rivoluzionari del 1848.

In questo programma più vasto si inseriscono programmi minori che, via via, concorrono efficacemente a irrobustire il primo. Uno di questi ultimi è costituito dalla questione dell’educazione, dibattutissima e assai sentita nell’Italia dell’epoca, proprio perché la propaganda liberale aveva sostenuto la necessità di educare il popolo, come premessa di un reggimento politico razionale. Per motivi simili, ma più specificatamente diretti al risveglio delle masse, un discorso assai vicino al precedente, facevano i democratici. Infine, sullo sfondo, si andava profilando quella critica da sinistra al mazzinianesimo – sostenente appunto il principio della lotta di classe – in base alla quale entravano in Italia i primi sintomi dell’organizzazione e dell’idea socialista.

Nel 1851 il deputato Alessandro Borelli scriveva sulla “Gazzetta del popolo”: «Non è vero, preti e frati del Piemonte, che per tutto quel tempo (dal 1816 al 1847) e adesso ancora, voi avete strombazzato sui pulpiti [...] che in voi soli sta l’educare e l’istruire le genti, che voi soli siete la luce del mondo? Non è vero che avete sempre preteso al monopolio dell’ite et docete ? [...] Ebbene, dopo trent’anni in quale stato ci avete lasciato la pubblica istruzione? Vediamo con cifre ufficiali!». (Cfr. Dina Bertoni Jovine, “I primordi dell’educazione liberale e la Compagnia di Gesù”, in “Belfagor”, 1949, p. 230).

E queste cifre erano impressionanti: per il 1851 si avevano 3.601.537 analfabeti totali su una popolazione complessiva di 4.916.084. (Ibidem).

L’attacco dei gesuiti, minacciati nei loro interessi più importanti, era dal loro punto di vista quindi più che giustificato. Quella politica di insegnamento, concretizzatasi con un tasso così alto di analfabetismo, non era un fatto accidentale. Essa non era una conseguenza della loro incapacità organizzativa, ma era una decisione presa dall’alto dopo opportuna indagine del problema.

L’allargamento dell’istruzione agli strati popolari veniva considerato – e da loro punto di vista il ragionamento era ineccepibile – come la base di un processo rivoluzionario che, prima o poi, avrebbe consentito la diffusione di quelle esecrande dottrina di origine francese che tanto male avevano fatto in quella nazione.

Da questo lato, quindi, i teorici gesuiti che si affaticarono a illustrare la necessità del monopolio della Chiesa nell’insegnamento e l’altrettanto improrogabile necessità di vigilare sulla diffusione della cultura nei ceti popolari, avevano senza alcun dubbio ragione.

I liberali, da parte loro, con una strana contraddizione di classe, non riuscirono subito a comprendere che quella iniziativa di divulgazione della cultura avrebbero in definitiva minato – in breve tempo – quel potere che loro, con tanti sacrifici, si apprestavano a conquistare.

Con questa chiave di interpretazione si spiegano le frequenti tirate dei nostri padri contro i liberali, non tanto in nome di una gelosa amministrazione del patrimonio dell’insegnamento, quanto in nome di una “sicurazione superiore degli Stati”, minacciati nel loro intimo significato dalle novelle forze democratiche e socialiste. Se Taparelli D’Azeglio partecipa ad una unione con i liberali, facilitato dalla presenza del fratello – come vedremo – lo stesso non avrebbe mai consentito ad una riunione con democratici o, peggio ancora, con socialisti.

In ultima analisi è qui che i gesuiti manifestano una chiara comprensione del problema politico dell’educazione e dei suoi rapporti di servizio col potere costituito.

Il materiale pubblicato nella prima serie della “Civiltà Cattolica” in materia di educazione, comprendendo pure le recensioni ai libri sull’argomento, non è poi di grande interesse dal punto di vista teorico, se si eccettua l’articolo iniziale di Taparelli D’Azeglio sulle “Teorie sociali sull’insegnamento”. Si tratta, per la maggior parte, di spunti polemici e di difese di alcune teorie conservatrici, come quella di Silvio Antoniano.

Come criterio d’indagine si è preferito quindi trattare per riferimenti bibliografici il nostro problema, anziché impostare una ricerca sulla base delle questioni teoriche affrontate di volta in volta, cosa, quest’ultima, che non ci avrebbe consentito una chiara visione delle intenzioni e dei mezzi polemici impiegati dai nostri padri.

Si è ritenuto opportuno fare precedere l’indagine vera e propria da alcuni capitoli introduttivi dove si è inquadrato il periodo storico, di particolare interesse per i rapporti tra Stato italiano e Chiesa cattolica, le correnti politiche che in quel periodo si trovavano ad operare, le questioni generali dibattute. Si è inoltre dato un breve cenno sulle caratteristiche tecniche della rivista, veramente di grande interesse per la modernità e l’ampiezza di vedute con cui l’iniziativa venne realizzata. Il problema dell’importanza ideologica che i padri gesuiti dettero al loro strumento giornalistico è stato esaminato accuratamente in dettaglio perché determinante ai fini della comprensione di tutto il lavoro della “Civiltà Cattolica” e, per quanto ci riguarda, ai fini della trattazione del problema dell’educazione.

La situazione politica al momento della nascita della “Civiltà Cattolica”

Finiti i rivolgimenti rivoluzionari del 1848, spenta nel sangue la repubblica romana, distrutte le residue forze delle bande di Garibaldi, dovunque si ripresentava, con atteggiamenti e forme diverse, il processo della restaurazione politica.

Ma il 6 aprile 1850, giorno in cui esce il primo fascicolo della “Civiltà Cattolica”, non era ancora un momento sufficientemente maturo per rassicurare in tutto i timori della Chiesa e per fare dimenticare i trascorsi pericoli, troppo recenti. Il luglio dell’anno precedente era troppo vivo nei ricordi pontifici e la restaurazione non andava avanti con quella fermezza che invece aveva segnato i suoi inizi e che era nelle speranze dei reazionari cattolici.

Ancora nel 1949, in ambiente e mentalità che dovrebbero essere ben diversi da quelli de 1849, segnati dalle vive passioni politiche, la “Civiltà Cattolica”, nel commemorare il centenario della propria fondazione aveva modo di scrivere: «La restaurazione trionfante aveva soltanto apparentemente levigato la superficie della vita pubblica; al di sotto di essa si fermentava ancora lo spirito rivoluzionario, che presto l’avrebbe rotta, per tornare all’assalto delle posizioni perdute e coronare finalmente col successo gli scopi unitari per i quali lottava. Le esperienze intanto del ‘48 e delle intemperanze, alle quali la rivoluzione nazionale si era abbandonata, ad esempio a Palermo, a Roma, segnatamente contro le istituzioni ecclesiastiche, gli ordini religiosi e i diritti della Chiesa, lasciavano negli anni solchi profondi e li rendevano pensosi dell’avvenire, se non si riusciva ad arginare in qualche modo il laicismo persecutore, riformando le idee sulle quali si appoggiava la sua azione dissolvitrice, coperta dall’ideale dell’unità nazionale. La reazione monarchica, tornata, dopo la concessione delle libertà costituzionali, alle vecchie idee assolutistiche e ai sistemi repressivi, nonché agevolare il ritorno a un periodo di maggiore tranquillità, collaborava attivamente ad esasperare le aspirazioni verso l’indipendenza, rendendo più difficile la propaganda di quei princìpi, dalla cui meditazione si poteva soltanto attendere un rimedio ai mali del tempo. In questa atmosfera ancora arroventata, violentemente mossa da venti contrastanti e da passioni, in verità non sempre ignobili, i fondatori della “Civiltà Cattolica” consegnavano al corriere il loro primo fascicolo [...]». (“Il nostro centenario”, in “La Civiltà Cattolica”, vol. II, 1949, pp. 5-6).

Nel 1848 i gesuiti erano stati espulsi dagli Stati italiani, ma alla fine del 1949 ritornavano più battaglieri di prima. È della fine del 1949 la pubblicazione dell’opera del Padre Carlo Maria Curci, diretta a confutare l’offensiva giobertiana (Una divinazione sulle tre ultime opere di V. Gioberti. I Prolegomeni, Il gesuita moderno, L’Apologia, Parigi 1849), un grosso lavoro in due volumi dove si estrinseca tutta l’arte polemica di questi, primo direttore della “Civiltà Cattolica”. È caratteristica di questo lavoro, come ha notato Giorgio Candeloro (Il movimento cattolico in Italia, Roma 1972, pp. 76-77), l’identificazione di gesuitismo e cattolicesimo, in contrasto con la tesi sostenuta da Vincenzo Gioberti di una degenerazione gesuitica dei princìpi del cattolicesimo che, da canto loro, potevano costituire la base per un rinnovamento politico e sociale degli Stati italiani.

Scrive Candeloro: «Il Gioberti aveva sognato di fare della Chiesa cattolica uno strumento di civiltà, ed aveva inteso evidentemente con questa parola la moderna civiltà, borghese e liberale. Era un sogno, strettamente legato ad un altro sogno, quello della riforma della Chiesa. Da tre secoli infatti la civiltà moderna si era sviluppata al di fuori della direzione ideologica della Chiesa cattolica e in contrasto con questa: perciò i cattolici-liberali pensavano che una riforma della Chiesa fosse necessaria per operare una conciliazione fra civiltà moderna e cattolicesimo. A questa concezione i gesuiti opposero allora che la Chiesa, istituzione divina, è nella sostanza irreformabile; che quindi essa non può conciliarsi con una civiltà sviluppatasi al di fuori e contro di lei e propugnarono il ritorno integrale della società al cattolicesimo. Secondo loro, la civiltà che la Chiesa può e deve difendere e propagare è soltanto la “Civiltà Cattolica”». (Ib., p. 77).

L’aperta approvazione papale non poteva non costituire un punto di forza per i nostri padri che vedevano realizzarsi il loro scopo tradizionale, ergersi a difensori terreni del papato, sotto l’aspetto concreto del dibattito ideologico e religioso e sotto l’aspetto dell’organizzazione e dell’indottrinamento politico.

Dalla nascita di una rivista che fosse l’espressione della Compagnia, all’interno di questo ordine religioso, se ne parlava parecchio tempo prima dei moti rivoluzionari del 1848. Già intorno al 1846 si fecero dei sondaggi, su iniziativa del Padre Cambi, provinciale per l’Italia e le risposte di Antonio Bresciani, di Matteo Liberatore, di Taparelli D’Azeglio, di Carminati, sebbene piuttosto discorsi da un punto di vista tecnico e organizzativo, cioè giornalistico, avevano in comune la preoccupazione di aprirsi alla lettura di un sempre maggior numero di persone, pur restando uno strumento diretto soltanto alle persone colte e ai letterati in particolare. In quell’occasione si era visto come solo Taparelli avesse chiare le idee sulla necessità di collocarsi in modo esatto nel dibattito politico del momento, prendendo posizione nei confronti del liberalismo, non in modo generico – ma approfondendo la posizione dei liberali e distinguendo tra i liberali recuperabili e irrecuperabili. (Cfr. G. De Rosa, Civiltà Cattolica, vol. I, S. Giovanni Valdarno 1971, pp. 9-18).

Ma gli avvenimenti del 1848-1849, dovevano fare considerare la cosa sotto aspetti diversi e più precisi. Gli anni dell’apparente apertura di Pio IX verso il liberalismo erano ormai passati del tutto. L’uccisione di Pellegrino Rossi e la fuga a Gaeta del Papa segnarono definitivamente la rottura con il movimento nazionale italiano e la ripresa della potenza dei gesuiti.

Di non trascurabile importanza sarà la caratteristica generale di questa ripresa reazionaria, caratterizzata in linea con il ritorno della reazione in Europa: la paura del socialismo. Per questo, più volte nel corso delle lotte che la rivista condurrà contro i vari campioni del liberalismo, in tutti i settori, sarà possibile vedere accomunate le critiche al socialismo a quelle del liberalismo, ambedue considerati una degenerazione degli ordinamenti tradizionali voluti dal diritto.

Da canto loro i liberali ebbero a chiarirsi le idee, ricomponendo le proprie forze, scartando definitivamente l’ipotesi neoguelfa, in un certo senso sostenuta da Gioberti, e affermando decisamente la necessità della lotta contro l’oscurantismo e la reazione pontificia. In questo senso l’opera dei gesuiti della “Civiltà Cattolica” ebbe un importante peso chiarificatore. «Il moderatismo italiano assunse quindi, dopo il fallimento del mito neoguelfo, un carattere più moderno, più europeo, più liberale, più laico e meno cattolico, meno tradizionalista, meno provinciale di quello che aveva avuto prima del ‘48». (G. Candeloro, Il movimento, op. cit., p. 76).

Questa per grandi linee la situazione politica e sociale in Italia intorno agli anni che precedettero la nascita della “Civiltà Cattolica”. Lo spirito rivoluzionario che in quegli anni animava da opposte tendenze gli avversari della reazione, liberali e democratici, costituiva per la nuova rivista il vero nemico da combattere e questo spirito poteva nascondersi anche nelle cose più lontane dalla politica, ma lo stesso attinenti al reggimento degli Stati e alla preparazione degli animi: ad esempio nell’educazione e negli scritti che di questa scienza si occupavano.

Sappiamo come da sempre il problema dell’educazione sia stato al centro delle attenzioni della Compagnia che in alcune nazioni aveva quasi il monopolio dell’insegnamento; ma qui, questa volta, di fronte alle accuse precise e al nemico concreto che si profilava all’orizzonte, la lotta andava condotta con metodo e con grande disponibilità di mezzi teorici. Cosa che il gruppo dei padri della “Civiltà Cattolica” fece molto bene, come vedremo più avanti.

Ma prima di interessarci del problema specifico dell’educazione dobbiamo fare dei brevi cenni tecnici sulla Rivista stessa e sulla posizione teorica e ideologica, in modo da entrare in possesso di quei canoni d’interpretazione che verranno usati dagli scrittori della “Civiltà Cattolica” quando si troveranno ad affrontare i problemi specifici dell’educazione.

Aspetti tecnici e posizione ideologica

Nell’articolo di presentazione della nuova rivista il Padre Curci scriveva, a proposito del giornalismo: «Per quanto voglia altri essere parziale e tenero del Giornalismo, non potrà dissimulare a se stesso l’impuro e il torbido delle origini». ([C. M. Curci], “Il giornalismo moderno e il nostro programma”, in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. I, anno 1850, p. 5). Figlio della rivoluzione, il giornalismo, era stato usato, nelle mani dei nemici della religione, come l’arma più potente per combattere la tradizione e ogni fondamento positivo del diritto religioso. Era quindi necessario, per combattere il nemico in modo efficace, usare le stesse armi, contrapponendo giornale a giornale, periodico a periodico, allo scopo di neutralizzare il veleno ideologico che veniva continuamente fatto penetrare nelle vene del popolo.

Lo stesso Pio IX, nella Allocuzione del 20 aprile 1849 aveva rivolto un invito ai vescovi, indicando loro la necessità di propugnare la diffusione della verità mediante stampa. (Cfr. “Il nostro centenario”, op. cit., p. 5).

In questa dimensione si colloca il “giornalismo” attuato dalla nuova rivista, riassunto, sempre nell’articolo di presentazione, da Carlo Maria Curci: «Sia dunque per opporre un argine alla eterodossia che minaccia, sia per conservarci un regolo, al cui ragguaglio raddrizzare la civiltà sviata, alla trattazione della materie sociali incederà parallela nel nostro periodico l’altra non meno grave delle cattoliche, ben inteso che ciò farassi ammisurando le cose alla esigenza del tempo e alla qualità dei leggitori che si suppongono laici per la più parte. A queste due trattazioni diremo così didascaliche aggiungeremo una polemica generale contro gli errori correnti più in voga, ed una che potrebbe chiamarsi parte amena, in quanto si studierà di ribadire con forme non iscientifiche ed alquanto leggiadre le verità medesime esposte e ragionate nelle precedenti. Questo sarà la sustanza precipua e come il fondo del nostro Periodico». ([C. M. Curci], “Il giornalismo”, op. cit., p. 17).

La rivista venne lanciata con un apparato editoriale e propagandistico da fare invidia ad un’iniziativa del genere attuata oggi. Il dinamismo di Curci consentì di superare tutti gli ostacoli tecnici ed organizzativi. I contributi finanziari del papa fecero il resto. (Cfr. “Il nostro centenario”, op. cit., p. 9).)

I motivi del successo notevole che la rivista raggiunse ben presto (dopo due mesi appena dalle iniziali 4.200 copie si dovette aumentare a 8.400 e ristampare per ben sette volte consecutive il primo fascicolo) furono innanzitutto di ordine politico.

Scrive Candeloro: «Il papalismo estremo dei gesuiti si inquadrava perfettamente non solo nella politica vaticana di quegli anni, ma anche nell’indirizzo generale che andava prendendo la vita religiosa nei paesi cattolici [...]. Lo spirito papalista e gesuitico poté infine rafforzarsi nei primi anni dopo il ‘48 grazie alla ribadita alleanza del trono coll’altare che portò ad un ulteriore arretramento di alcuni governi dalle posizioni regalistiche ereditate dall’assolutismo illuminato del ‘700». (Il movimento cattolico, op. cit., pp. 81-82).

La rinascente reazione venne quindi a identificare nella nuova rivista un simbolo contro il dilagante razionalismo di stampo rivoluzionario e antireligioso. Le azioni anticlericali del Piemonte produssero tutto l’effetto voluto dai padri che non restarono certo con le mani in mano e seppero sapientemente dosare la polemica, colpendo in uno sia gli stimoli nazionalistici tendenti all’unità che le tendenze democratiche e liberali verso un rinnovamento della Chiesa in senso razionalistico.

«Non appena la rivista apparve e si poté vedere con quanto ardire, preparazione e franchezza, sovente mordace, i suoi compilatori movevano alla difesa del pensiero sociale cristiano e all’assalto delle posizioni avversarie, la stampa libertaria, come percorsa da una sferzata, si levò in coro a denigrarla e combatterla, a polemizzare irosamente con essa, nell’intento di sminuirne per lo meno gli effetti che essa produceva nelle menti». (“Il nostro centenario”, op. cit., p. 14).

Trasferitasi a Roma dopo gli screzi con il governo borbonico, dovuti in parte all’agnosticismo politico professato nell’articolo di apertura da Curci la “Civiltà Cattolica” fu considerata da allora in poi come l’espressione della voce di Roma, interprete fedele del pensiero del Papa e quindi ricercata quale eco di un insegnamento superiore». (Ib., p. 15).

Nell’articolo di presentazione Curci aveva scritto: «Una Civiltà Cattolica non sarebbe cattolica, cioè universale, se non potesse comporsi con qualunque forma di cosa pubblica». ([C. M. Curci], “Il giornalismo”, op. cit., p. 18). Ma questo agnosticismo non si spinse mai fino al punto di impedire l’entrata in campo dei teorici e dei polemici della redazione contro il liberalismo e il socialismo poi: ambedue ritenute “ideologie erronee” prodotte dall’“insegnamento di Rousseau”.

Non tanto, affermava Taparelli D’Azeglio, era da condannarsi il liberalismo in se stesso quanto la conseguente «compressione della libertà religiosa» e della Chiesa alla quale conducevano l’agnosticismo e il laicismo ereditati dalla rivoluzione francese». (Esame critico degli ordini rappresentativi nella società moderna, Roma 1854, p. XIII). Ed egli, malgrado le note sue simpatie per un certo tipo di liberalismo, malgrado che in una riunione a Roma nel settembre 1847 avesse acconsentito a un accordo con alcuni esponenti liberali (Marco Minghetti, Paolo Silvani, Diomede Pantaleoni e lo stesso suo fratello Massimo) per la pubblicazione di una rivista che considerasse la possibilità di una collaborazione fra cattolici e liberali; malgrado queste premesse, «Taparelli sarà il campione più agguerrito, il ragionatore più lucido e il combattente più accanito della lotta contro l’ideologia liberale». (J. Robert, Azeglio [Taparelli marchese d’] Luigi, Essai sur les principes philosophiques de l’économie politique. Recueil d’articles publiés dans la “Civiltà Cattolica”, de 1856 à 1862, a cura di Robert Jacquin, ns. tr., Paris 1943, p. 91).

Dopo qualche fascicolo la lotta si estenderà al socialismo e qui si avrà la collaborazione di padre Valentino Steccanella, aiuto e discepolo di Taparelli. (Cfr. “Il nostro centenario”, op. cit., p. 25).

In definitiva quindi il lavoro dei padri della “Civiltà Cattolica”, si pone con chiari intenti reazionari, come valido sostegno alla restaurazione, non tanto di un potere assoluto del sovrano – la qual cosa avrebbe urtato con il compito di difensori terreni del papato e della concezione di guida della Chiesa, quanto nel senso di una restaurazione reazionaria che guardava alla Chiesa come alla possibile guida di domani contro la barbarie rivoluzionaria di un recente passato.

Scrive Arturo Carlo Jemolo: «Troppo lungo sarebbe elencare anche solo i principali scritti di apologia del cattolicesimo e del mondo e della restaurazione: ci limiteremo a ricordare il periodico che tutti li assomma, la “Civiltà Cattolica» [...]. La rivista si propone di essere un antidoto. La civiltà europea è nata cattolica; ma negli ultimi trecento anni la Chiesa non ha più capitanato il movimento di civilizzazione; sono venute innanzi la ribellione luterana, le astuzie giansenitiche, l’incredulità volterriana; ora leva il capo l’idra spaventosa del socialismo, nella prevalenza del quale ogni Civiltà Cattolica dovrebbe spegnersi e fare dietreggiare il mondo fino alla barbarie del paganesimo». (Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino 1948, pp. 188-189).

Contro questa posizione si schierarono subito gli scrittori liberali. Bertrando Spaventa sul “Cimento” faceva notare come questa posizione assunta in politica dai gesuiti fosse in contrasto con la tradizione stessa del loro pensiero, in particolare con quello sviluppato nel secolo XVI da Francisco Suarez, Juan de Mariana e altri, che era arrivato alla sovranità popolare e fino alla giustificazione del tirannicidio. (Cfr. G. Candeloro, Il movimento, op. cit., pp. 79-80). Francesco De Sanctis provvedeva a stroncare, sempre sul “Cimento”, i romanzi di Bresciani, (l’articolo relativo si trova nei Saggi Critici, vol. I, Milano 1936, pp. 133 e sgg.), Gioberti qualificava pinzocchero e gesuitico il contenuto della rivista, che nel suo linguaggio significava quanto di più degradante potesse pensarsi. (Cfr. “Il nostro centenario”, op. cit., p. 23).

Ma il “Cimento”, nonostante tale collaborazione non poteva nemmeno paragonarsi alla florida vitalità della “Civiltà Cattolica”; dopo cinque anni di vita grama (dal 1852 al 1856) dovette fondersi con la “Rivista Contemporanea” di Luigi Chiala per potere sopravvivere. (Ib., p. 24).

Un ultimo punto, che avrà notevole importanza nella posizione che la rivista assumerà nei riguardi del problema dell’educazione, è quello relativo al tomismo sottinteso prima e dichiarato dopo, dei suoi collaboratori. Il principale teorico, in questo campo, fu ancora Taparelli D’Azeglio, il quale partito dalle dottrine professate in Italia da Francesco Soave, da Antonio Genovesi, da Serafino Sordi, intorno al 1825 era passato al tomismo. Così egli scrive: «Potrei sperimentare in me medesimo lo scetticismo a cui conducono codeste dottrine. Cambiato parere nel 1825 per ragioni che qui sarebbe lungo descrivere, sperimentai gli effetti opposti a misura che andai studiando la dottrina di S. Tommaso, mentre era Rettore in Collegio Romano». ([A cura di] P. Pirri, Carteggi del P. Luigi Taparelli D’Azeglio, Torino 1932, pp. 716-717).

L’orientamento tomista della Rivista si manifesta come abbiamo visto in forma non dichiarata, fin dal secondo volume in occasione della recensione di un opuscolo di Serafino Sordi, I misteri di Demofilo, Torino 1850, nel quale l’autore attaccava la lettera di Demofilo scritta nel 1834 da Gioberti alla “Giovane Italia”.

Nel terzo volume, sempre Taparelli D’Azeglio, prenderà l’argomento della superiorità della filosofia tomista in occasione della recensione del libro di G. Antonio Nallino, Del sentimento e delle relazioni colla intelligenza e colla attività umana, Torino 1855, diretto a costruire una forma di combinazione tra il sistema giobertiano e quello rosminiano: Taparelli critica ambedue questi sistemi filosofici e si rimette all’autorità di S. Tommaso. Comunque, è solo nel VI volume, in un dialogo dal titolo Dove è l’idea?, pubblicato nel secondo fascicolo del luglio 1851, che appare per la prima volta un’esposizione integrale delle idee tomistiche, in forma ufficiale. L’anno successivo la redazione (consulta degli scrittori) approverà la trattazione in forma sistematica. (Cfr. “Il nostro centenario”, op. cit., pp. 29-30). A questo si dedicheranno Taparelli e Liberatore.

«È indubbio, dunque, che la “Civiltà Cattolica” si propose come scopo fin dalle sue origini la restaurazione tomista e che essa nella storia della neo-scolastica non occupa un posto di secondo ordine. I maggiori esponenti di questa restaurazione del pensiero filosofico sono Taparelli, Calvetti, presto sottratto ai vivi, e principalmente Liberatore con le sue vaste trattazioni, al quale fece seguito dal 1880 Padre Comoldi. Questo movimento culminò con l’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII del 4 agosto 1879». (Ib., p. 30).

Sul problema dell’educazione nel periodo risorgimentale

Si può dire che ogni tesi politica, delle diverse che si sono intrecciate nel periodo risorgimentale, conteneva implicita una tesi pedagogica. Il problema dell’educazione era considerato essenziale e venne esaminato da tutti i punti di vista: politici, poeti, drammaturghi, musicisti, tutti, ognuno nel proprio campo, cercarono di apportare un chiarimento, con l’azione e con la riflessione teorica, alla posizione e alla risoluzione del problema educativo.

Indiscussamente il tema centrale della pedagogia del Risorgimento è quello della libertà e, in un certo senso, è ancora oggi il tema dominante di ogni concezione pedagogica che parte da premesse sistematiche e non si arresti solo agli aspetti contenutistici o pragmatici.

Agli inizi del Risorgimento Vincenzo Cuoco e Gian Domenico Romagnosi avevano affrontato il compito dell’educazione nella realizzazione della libertà, attraverso la creazione di libere istituzioni, cercando di chiarire le leggi che reggono lo sviluppo mentale in queste situazioni, in particolare inquadrando il problema del rapporto tra autorità docente e alunno. È facile capire come, per tutti i pensatori liberali successivi, divenne di grande importanza il problema dell’educazione. Se l’individuo deve essere consultato in merito alla cosa pubblica, è indispensabile che si attivino le sue capacità mentali di giudizio e di scelta e che questo processo di acquisizione venga fatto nella libertà. In altre parole che si abbia non una crescita dell’uomo nella libertà, ma una crescita della libertà nell’uomo. In questo modo l’educazione viene ad identificarsi con la crescita della libertà e con l’aumento della capacità di esercitare questa libertà.

Jean-Jacques Rousseau e Johann Heinrich Pestalozzi, anche se ampiamente criticati, costituiscono un costante punto di riferimento dei teorici dell’educazione risorgimentale. Da Antonio Rosmini, da Raffaello Lambruschini, a Gino Capponi, a Giuseppe Mazzini, a Ferrante Aporti, a Caterina Franceschi Ferrucci, a Francesco De Sanctis. Questi parlando della scuola scriveva: «Un laboratorio dove tutti siano compagni di lavoro, maestro e discepoli, e il maestro non esponga solo e dimostri, ma cerchi e osservi insieme con loro, e tutti sieno come un solo essere organico, animato dallo stesso spirito». (Citato da L. Borghi, Il pensiero pedagogico del Risorgimento, Firenze 1958, p. XII).

Lamberto Borghi, sull’argomento della pedagogia e del Risorgimento ha scritto: «Lo sviluppo dell’individuo nella capacità di scelta e di inventività è perciò essenziale non soltanto per la sua singola realizzazione, ma anche per il vitale funzionamento della società. La partecipazione all’individuo della cultura, di tutto ciò che costituisce il modo di vita dell’ambiente, il suo radicamento in tale cultura, è perciò un compito educativo che non può essere scompagnato da quello del promovimento nell’individuo di attitudini e di libertà e di autonomia. L’incremento della cultura è legato alla sua trasmissione. La sola efficace conservazione consiste nel costante riadattamento alle cangianti situazioni. Il rapporto tra conservazione e trasformazione costituisce un problema cruciale nella pedagogia del Risorgimento». (Ibidem).

Al contrario dell’ideologia giacobina che aveva suggerito la necessità di accelerare il processo di disgregazione del vecchio mondo per costituire sulle rovine il nuovo ordinamento, l’ideologia liberale, sia nell’espressione moderata che in quella più avanzata, parla sempre di una contemperazione, di un rapporto costante di reciproca influenza tra il momento del conservare e quello dell’innovare. A questo scopo si sviluppò tutta una tesi dettagliata in merito alla possibilità di cogliere quanto di meglio esistesse nella tradizione, specie culturale ed educativa della Chiesa, contemperandone lo spirito con un certo “ammodernamento” che veniva sostenuto dallo spirito liberale che, in definitiva restava pur figlio della rivoluzione.

Da un lato si ebbero quindi i pensatori liberali (moderati e più avanzati), dall’altro i pensatori cattolici (con tendenza liberale); da un lato i pensatori democratici e all’altro capo i reazionari cattolici di tendenza conservatrice.

Il liberalismo si era reso conto che sviluppare la personalità del singolo non aveva senso se non lo si considerava come membro di un corpo sociale; per cui ogni sforzo diretto a migliorare il singolo sarebbe caduto nel nulla se, al contrario, le masse fossero rimaste legate al pensiero reazionario dei sanfedisti. Da ciò la necessità di collocare lo studio dei fondamenti sociali al centro della riflessione sull’educazione.

Ma, come ha notato Borghi, «Tale approccio implicava l’investimento del problema educativo da tutti i lati della vita associata, da quello economico e religioso oltre che da quello scolastico e politico. Il ristagno secolare del popolo italiano non poteva essere rimosso operando nella sfera delle sole strutture dell’organizzazione dello studio e della scuola. Occorreva contemporaneamente aprire a forme di civile convivenza le moltitudini dei paria delle campagne e dei quartieri operai cittadini mediante l’allentamento progressivo ma incessante dei vincoli opposti alla libera espansione della personalità dallo sfruttamento economico e dalla dominazione intellettuale esercitata mediante l’azione capillare di un clero privo di cultura e di desiderio di progresso. I liberali avvertirono questa esigenza, ma furono incapaci di soddisfarla. Essi riposero nei ceti medi la forza emancipatrice e lottarono per assicurare il successo sul terreno sia politico che sociale. Affidarono a questi ceti la necessaria opera di mediazione per operare l’inserimento della classi popolari nell’ordine della comunità. Ma non elaborarono le strumentalità atte alla realizzazione di tale impresa». (Ib., p. XIII).

In questo modo la scuola restava appannaggio di pochi, illudendosi gli spiriti liberali più aperti, che il progressivo avvicinamento alla cultura delle classi povere, fosse un fenomeno inscindibile dallo sviluppo economico necessario e progressivo, canone fondamentale dell’ideologia economica del liberalismo.

Furono i democratici ad affermare la necessità di un programma che prendesse in considerazione i bisogni delle classi popolari. Mazzini si faceva promotore di una sorta di antintelletualismo che metteva in guardia i letterati sul pericolo di una chiusura aristocratica dei loro sforzi, chiusura che avrebbe impedito il contatto continuo con gli operai, con i contadini, con i ceti meno favoriti dalla fortuna, dai quali spesso è possibile ricavare insegnamenti di vita senz’altro più importanti di quelli che si ricavano dai libri, o dai «professori di scienza». (Citato da M. Goretti, Problemi e ideali educativi, Firenze 1957, p. 296).

Ma si trattava di idee troppo staccate dalla realtà del momento, specie se si considerano in relazione immediata con il problema dell’educazione, per avere una sia pur minima parvenza di attuabilità. Dopo il Risorgimento furono i movimenti socialisti a sviluppare queste idee, includendole in una prospettiva di lotta di classe che era mancata nel pensiero mazziniano, ma anche i tempi erano fortemente cambiati e quindi necessariamente appariva la possibilità di un’azione precisa nel campo educativo.

Contro i liberali e democratici, contro gli stessi cattolici liberali definiti “cattolici a metà”, (cfr. L. Borghi, Il pensiero pedagogico, op. cit., p. XV), si schierarono i gesuiti, custodi gelosi dell’ortodossia della Chiesa, affermanti inflessibilmente che solo la Chiesa è l’unica maestra istituita da Dio per educare le genti. I gesuiti furono i teorici del diritto divino e del potere assoluto del pontefice.

Le speranze dei liberali cattolici si infrangevano. Così scrive Giovanni Gentile: «[Il cattolicesimo liberale] aderisce non propriamente alla Chiesa cattolica quale essa è, ma a una sua chiesa cattolica, quale essa cioè dovrebbe essere: e vuole una fede che sia piena libertà spirituale e sia insieme organizzazione sociale». (Gino Capponi e la cultura toscana nel secolo decimonono, Firenze 1922, p. 108).

Non è trascurabile il fatto che furono i gesuiti i principali artefici della proclamazione del dogma dell’infallibilità, lungamente studiato nei loro scritti prima della proclamazione. (Cfr. M. Liberatore, “L’infallibilità pontificia e il Gallicanismo”, in “Civiltà Cattolica”, Serie VII, vol. III, anno 1868, p. 517 e F. Berardinelli, “La dottrina di S. Antonio Arcivescovo intorno alla infallibilità dei Papi”, in “Civiltà Cattolica”, serie VII, vol. IV, anno 1868, p. 181).

Scrive Borghi: «Difensori dell’ordine tradizionale, essi scorsero nell’esigenza liberale la vera ragione delle agitazioni sociali contemporanee e concepirono la loro educazione incentrata nel catechismo non solo come freno alla richiesta di libertà; ma anche come strumento per respingere le rivendicazioni di uguaglianza di opportunità sociale e d’istruzione. Essi unirono nella loro opposizione il liberalismo e la democrazia, sottolineando, contro lo stesso proposito dei liberali, le istanze democratiche del liberalismo». (Il pensiero pedagogico, op. cit., pp. XV-XVI).

I gesuiti si rendevano conto dell’importanza dello strumento che l’esercizio della educazione costituiva e della profonda trasformazione che si sarebbe verificata sottraendo alla Chiesa il monopolio dell’istruzione.

Così precisa Dina Bertoni Jovine: «Non si può dubitare che la premura dell’istruzione del popolo fosse, per i liberali del Risorgimento, nella grande maggioranza dei casi, disinteressato amore di patria e di umanità. Ma per la Curia questa premura nascondeva un veleno; gli educatori intesi ingenuamente alla loro opera di redenzione, non erano forse consapevoli del pericolo che appariva chiaro invece, all’accorta esperienza del clero: l’istruzione, sottratta alla disciplina della Chiesa, diveniva veramente uno strumento del diavolo: quello che avrebbe scoperte le ingiustizie, liberate le coscienze, livellato le classi. Contro questo pericolo la Chiesa cerca il suo naturale alleato nell’autorità politica e tenta di illuminare la classe più interessata alla conservazione del potere. Il principio dell’eguaglianza può essere reso innocuo, dopo la rivoluzione francese, con un’accorta politica di reciproco puntellamento, solo a patto che certi strumenti non siano consegnati alla plebe. La borghesia, invece, portando il liberalismo sul terreno di certe realizzazioni pratiche, emancipando le masse con l’istruzione, apre la porta ad altre tempeste». (“I primordi dell’educazione liberale e la compagnia di Gesù”, op. cit., p. 226).

Avversari tenaci della libertà di stampa, i gesuiti identificarono in questa pretesa dei liberali, sia pure con tutte le limitazioni che questi ultimi apponevano alle loro richieste, l’anticamera della libertà dell’insegnamento. Era, secondo loro, lo spirito protestante che si infiltrava attraverso la libertà di stampa. Così scriveva in proposito Taparelli D’Azeglio: «Confesso peraltro, poca fiducia aver io, ch’egli sia per sortirne alcun pro, finché, regnante il principio protestante, ogni fazione liberamente maneggia l’arma terribile della stampa. Quando codesto principio influisce il suo dispotismo nella monarchia di Hobbes, di Richerio, la formola io sono indipendente è concentrata in un solo: il quale come dice arrogantemente lo Stato sono io, così dice io solo insegno, io solo stampo, io solo ho ragione». ([L. Taparelli D’Azeglio], “La stampa libera” in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. IV, anno 1851, pp. 258-259).

In questo modo viene individuata, dai padri della “Civiltà Cattolica”, l’essenza pericolosamente anticonservatrice dell’esercizio della libertà. In quello che per il passato era considerato l’errore da fuggirsi, adesso è identificata non solo la verità ma anche il diritto e il dovere di natura. Così, in un altro scritto, lo stesso Taparelli D’Azeglio che, come dicemmo, è il campione insostituibile di questa ideologia reazionaria: «Questa inclinazione, essendo della natura qual noi la conosciamo, dee trovarsi nella società umana in qualsiasi sua età o periodo; ma con questa differenza, che nella società cattolica ogni individuo ti dice: codesta inclinazione è guasta; e lo crede sulla parola di Dio anche quando si lascia andare a seconda del reo torrente; mentre all’opposto la società ammodernata, non trovando in sé l’evidenza della propria corruzione, ti dice francamente: codesta inclinazione è natura, e studia il modo di secondarla e appagarla: e l’appagamento diviene non più un fallo contro coscienza, ma un diritto anzi un dovere di natura». ([L. Taparelli D’Azeglio], “Naturalismo dei governi ammodernati. Cenno sulle forze morali della natura umana”, in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. IV, anno 1851, p. 458).

Da queste premesse il pensiero della “Civiltà Cattolica” intorno al problema dell’educazione, per i primi anni della sua pubblicazione, si mantenne costantemente aderente alla tesi del primo fascicolo: una ferma richiesta della «direzione del pubblico insegnamento in tutto ciò che s’aspetta a scienze morali e razionali, come a religione e costumi». ([L. Taparelli D’Azeglio], “Teorie sociali sull’insegnamento”, in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. I, anno 1850, pp. 151-152).

Impostazione generale del problema dell’educazione nei primi fascicoli della “Civiltà Cattolica” e attività teorica di Luigi Taparelli D’Azeglio

Non fu certamente un fatto casuale che il primo fascicolo della “Civiltà Cattolica” si aprì con il lavoro di Taparelli D’Azeglio sulle “Teorie sociali sull’insegnamento”. La struttura della rivista, la struttura della redazione della rivista e i programmi di polemica che i nostri padri si prefissavano ebbero sicuramente un peso importante su questa scelta.

Taparelli, sappiamo, era il teorico più insigne del gruppo dei padri della “Civiltà Cattolica” che, fino dai tempi di Napoli, si costituirono come comunità a se stante, sotto la direzione di un superiore (padre Bresciani). La decisione sugli scritti da pubblicare veniva presa comunitariamente da tutti i redattori. In una lettera del 28 maggio 1850 di padre Johannes Philippe Roothaan a padre Bresciani si legge: «Mi sono consolato assai sentendo che avevano da sé prevenuto il nostro desiderio, che facesser a ogni settimana una consulta formale intorno all’andamento del Periodico. E raccomando che uno di loro sia incaricato di notarne il Processo verbale, da leggersi poi nella Consulta susseguente prima di ogni altra cosa. E il libro di tali Consulte si conservi». (“La ‘Civiltà Cattolica’ nei suoi inizi e alle prime prove [aprile 1850]”, in “Civiltà Cattolica”, vol. II, anno 1924, p. 33).

Quindi decisione collegiale. L’argomento dell’educazione era di primaria importanza specie se inseritonelle sue premesse di natura sociale e politica.

Quest’ultimo comincia con l’agganciare l’insegnamento della facoltà di parlare che deve essere diretta alla “manifestazione del vero”. Ma vi possono essere casi in cui “può essere illecito manifestare una verità”. Da ciò deriva che la parola non deve mentire né nuocere, per cui quando la verità venga a nuocere essa può anche essere fatta tacere. A maggior ragione deve vietarsi la menzogna pubblica. «L’insegnamento pubblico della menzogna debitamente riconosciuta per tale può dalla società essere vietato, almeno quando riesca nocivo al bene comune, o contrario ai diritti dell’individuo». ([L. Taparelli D’Azeglio], “Teorie sociali sull’insegnamento”, op. cit., p. 35).

Ma, si chiede Taparelli, può mai il governo conoscere a pieno la menzogna? «I governanti sono a tal uopo d’ordinario singolarmente incapaci, assorti come vanno nel vortice fragoroso delle faccende esteriori: le verità più sublimi [...] splendono in una purgatissima atmosfera, a cui non giunge l’acume filosofico, se non isprigionarsi dall’ingombro degli affari, dalla preoccupazione degli affetti, dal pungolo degli interessi, e da ogni altro impaccio, che gl’inveschi le ali. Quando dunque un governo si arroga di regolar le dottrine nei filosofi, egli fa appunto come uno scolaro che pretendesse raddrizzare le sentenze del suo maestro». (Ibidem).

Anche l’immediata obiezione che verrebbe in mente: essere il compito del governo non tanto quello d’insegnare il vero quanto quello di indirizzare tutti al bene della società, viene sconfessata dal nostro pensatore, in quanto il bene, sia pubblico che privato, non potrà mai essere fondato sulla menzogna.

Ora, se riguardo le nuove verità, quelle che oggi chiameremo sperimentali, si può concedere che i più dotti siano i meglio accreditati ad insegnarla, la stessa cosa non può dirsi per le verità universali, quelle che servono di base alla Società. Il preteso diritto di qualcuno di combatterle deve essere attaccato a fondo in quanto minaccia di impadronirsi degli ingenui più deboli, minando l’esistenza stessa della società. In questo senso il Taparelli, compiange la situazione delle società il cui pensiero è libero. (Cfr. Ib., p. 51).

È ancora il ricordo della recente rivoluzione che anima lo spirito conservatore del Taparelli. Bisogna fare attenzione, egli dice, per evitare che «i lumi non giungano a rendere intelligenti le baionette», (ib., p. 157), traendo insegnamento dal fatto che se la struttura attuale del mondo si è salvata lo è stato grazie agli eserciti permanenti, i quali han tratto gran giovamento da questo fatto e minacciano, con le loro pretese militaristiche, di avviare il governo del mondo verso un nuovo tipo di razionalismo certo non migliore del razionalismo liberale in genere. Solo nella Chiesa e nella possibilità che bisogna darle di insegnare liberamente le “verità eterne”, valide al “di sopra di ogni giustizia”, è possibile vedere una speranza di rinascita e di miglioramento.

In altro modo, continua Taparelli, dando libero corso alle divergenze di opinioni, lo stesso governo, non potrà venire a capo della costituzione di un corpo di insegnanti. «Dire che gli studianti son liberi a scegliere i dettami che vogliono, è un grossolano abuso di termine, giacché la libertà dell’intelletto è perduta ogni qual volta la verità è inaccessibile». (Ib., p. 263).

Come il fondamento dell’educazione inferiore, quella che si sviluppa nei primi anni del fanciullo, è l’autorità paterna, riconosciuta senza riflessione, come un fatto di natura; allo stesso modo, nell’insegnamento superiore e universitario, l’autorità della Chiesa, come madre amorosa di tutti i fedeli, deve essere riconosciuta come autorità di natura. Il fanciullo, continua Taparelli, si abbandona fiduciosamente al padre, anche quando questi, per una sua personale incapacità, venga meno ai suoi doveri di tutore e di guida; allo stesso modo diventa inconcepibile il discorso preliminare che alcuni docenti fanno all’indirizzo dei loro discepoli, quando parlano della possibilità di non credere, di rivoltarsi contro l’insegnamento della Chiesa: questo loro discorso – vero e proprio tradimento del loro compito – genera l’immediata impossibilità dell’apprendimento e il fallimento completo, fin dall’inizio, del loro lavoro di insegnanti.

In conclusione il pensiero di Taparelli, riguardo questo primo saggio sull’insegnamento è molto lineare. L’insegnamento, egli dice, è la comunicazione, il “discorrere” con continuità logica e metodo intorno ad una materia, allo scopo di svelarne e trasmettere la verità. (Cfr. Ib., p. 380).

Le leggi che regolano l’insegnamento sono le stesse che regolano la parola, come espressione del pensiero. La principale di queste leggi è la verità. Qui traspare l’essenza tomistica del pensiero di Taparelli. Se il pensiero concepisce la cosa come essa è, allora esso è vero e conforme alla natura, in caso contrario è illegittimo e contrario alla natura dell’intelletto che per costituzione tende esclusivamente al vero.

Abbiamo pertanto una diretta dipendenza dell’intelletto secondo natura dall’essere delle cose, conseguenza diretta della volontà del Creatore. Quindi legge principale del pensiero secondo natura è la verità, per cui anche la legge della parola, intesa come mezzo di espressione, deve essere la verità.

Ecco quindi una prima legge fondamentale di ogni umano discorso: se l’intelletto tende al vero, la parola, comunicazione dell’intelletto, non ha diritto a presentarsi come tale se dice il falso. Ma accanto a questa prima legge, ne esiste un’altra che parte dalla considerazione dell’atto, che come tale, secondo lo scopo che lo dirige, deve essere diretto al bene. Ne consegue che la parola, strumento di impulso all’atto, deve indirizzare al bene. Ma qui sorge un contrasto. Il vero non è sempre uguale al bene nei riguardi di colui che ne riceve la comunicazione. Esistono situazioni differenti che rendono diversi i comportamenti di chi deve trasmettere il vero. Per cui abbiamo, situazioni in cui trasmettere il vero è operazione benefica nei riguardi di chi riceve la comunicazione; situazione in cui questa operazione è soltanto utile e situazioni in cui questa è dannosa. In quest’ultimo caso il vero deve tacere.

Conclude Taparelli: «Non è dunque legge di natura che ogni vero si pubblichi; anzi molte volte è illecito il pubblicarlo, non per sé, ma pel danno che ne incoglie ad altrui: e in questi casi l’ordinatore della società deve impedirne gli eccessi che potrebbero danneggiare o l’individuo o il corpo sociale». (Ib., pp. 381-382).

Ma queste due leggi riguardano il problema dell’insegnamento nella sua consistenza obiettiva. Sotto l’aspetto della realizzazione concreta in una data società è indiscusso che l’uomo è un essere parziale, quindi il suo possesso della verità sarà sempre parziale. Ora in base alla legge precedente, siccome l’insegnamento deve essere trasmissione della verità, ne consegue che solo Dio – potendo dire nei confronti della natura: io sono – può dire nei riguardi dell’insegnamento: Io so.

Dio ha fatto partecipi della parola e quindi della facoltà della comunicazione gli uomini e su questo si fonda il diritto del padre all’insegnamento nei riguardi del figlio, nei limiti che la sua scienza della verità consenta lo sviluppo di questa comunicazione; ma oltre, e ben più profondamente, Dio ha fatto partecipe della “sua” verità la Chiesa imponendogli l’obbligo di diffonderla. «Il governante politico e l’individuo privato non hanno veruna speciale comunicazione del vero né certezza di possederlo né per conseguenza debito di comunicarlo, se non in quanto partecipano alla tradizione domestica e cattolica». (Ib., pp. 382-383).

Sono almeno tre i punti principali della teoria sociale dell’insegnamento sviluppata in questo modo da Taparelli: il primo riguarda il concetto di autorità, il secondo il concetto di libertà, il terzo il concetto di insegnamento come realizzazione concreta. Vediamo di esaminarli singolarmente.

Il concetto di autorità riguarda la premessa stessa del fatto educativo. Dando per certo che il rapporto tra docente e discepolo è un rapporto diseguale, sorge il problema, sia individuale che collettivo, dei termini in cui deve essere contenuta l’autorità del docente e della fonte in cui quest’ultima trova origine e giustificazione.

Oltre che nel lavoro principale di Taparelli in materia giuridica (Saggio teoretico di Diritto Naturale appoggiato sul fatto, Roma 1855), dove sono contenute con grande larghezza le sue concezioni sull’autorità in generale, il nostro pensatore si occupò, più o meno intorno al periodo in cui elaborava lo scritto sull’insegnamento, del problema dell’autorità in una breve recensione ad uno scritto anonimo comparso a Venezia nel 1849, riguardante i cosiddetti interessi popolari. La recensione che porta il titolo “Sul possesso dell’autorità” (pubblicata in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. III, anno 1850, pp. 19 e sgg.), riassume molto bene il pensiero di Taparelli.

I principali concetti sono: impossibilità dell’esistenza di una società senza autorità, l’autorità è un diritto, ma non tutti i diritti sono autorità. Esistono quattro modi diversi di considerare l’autorità: nella sua essenza, nella sua esistenza, riguardo il possesso dell’autorità e riguardo il diritto al possesso. Ma in effetti esiste una sola concezione dell’autorità, continua Taparelli, quella che si identifica nella forza di costringere con la ragione individui diversi ad una identica operazione sociale, utile per tutti. E questa forza consiste nel muovere le volontà in modo che non possano opporsi alla ragione senza con ciò fare resistenza alla ragione stessa e conseguentemente alla propria natura. Allo stesso modo deve regolarsi il problema dell’autorità in materia educativa. Il soggetto deve essere regolato in modo che agendo diversamente da come l’autorità gli impone egli finisca per violentare se stesso e la propria ragione.

Il concetto di libertà è molto più impegnativo, stante che dall’altro lato della barricata, i democratici e i liberali – e poi finanche i socialisti – utilizzavano la libertà come fondamento delle loro riflessioni pedagogiche. In contrasto con la teoria liberale dell’educazione, che faceva della libertà il punto di riferimento della possibilità stessa del processo educativo, oltre che il fondamento stesso del vivere in comune, Taparelli identifica il concetto di libertà propugnato dai liberali e dai democratici con quello di sfrenatezza e indica la vera libertà nella sottomissione ad un ordine estrinseco all’uomo. Il tema è trattato, tra l’altro, nel breve scritto “Libertà e ordine” (in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. II, anno 1850, pp. 497 e sgg.), dove è colpita la concezione cosiddetta moderata, identificata come una vera e propria contraddizione.

È evidente l’intento polemico con cui si vuole indicare nel concetto democratico e liberale dell’esercizio delle libertà politiche e individuali in genere, quindi anche della libertà di insegnamento, una vera e propria licenza. Così scrive Taparelli: «È facile il vedere che la libertà del savio mentre delibera consiste appunto nel non essere trascinato necessariamente da foga d’istinto, ma potere imbrigliarlo sotto le guide della propria e dell’altrui ragione, la qual ragione essendo appunto il carattere specifico di nostra umanità, di nostra natura, è essenzialmente richiesta a costituire per l’uomo la vera libertà, se non vogliam recedere dal principio stabilito e dimostrato poc’anzi, non essere libertà verace quella che non mette in pieno giuoco l’attività specifica di una natura qualunque. Stracciate pur funi, spezzate pur catene, sfondate pur porte e muraglie; finché non è libera in voi ad operar la ragione, voi non avete acquistato la libertà: e a proporzione che la ragione nel vostro operare sarà libera non solo da catene e da carceri, ma anche da impeti di cieca passione, in quella proporzione medesima andrà crescendo la vostra libertà. Ecco il vero significato del vocabolo libertà: ecco ciò che chiederebbe il popolo, se capisse ciò che egli dice, allorché grida: Viva la libertà». (Ib., pp. 505-506).

È evidente qui la preoccupazione del nostro gesuita di cogliere l’essenza dei sommovimenti recenti, attuati in nome della libertà, allo scopo non dichiarato di consigliare i mezzi più efficaci e immediati per rompere l’unità rivoluzionaria in genere ed annientare i conati successivi che, intorno agli anni Cinquanta, si profilavano dietro la non sufficiente omogeneità della restaurazione.

Rigettare in pieno il concetto di libertà, considerarlo in antitesi con la “natura” dell’uomo, retrocedere sulla strada di un ottuso conservatorismo sostenuto da una feudalità in disarmo, sarebbe stato un passo non solo sbagliato sul piano politico, ma assurdo su quello filosofico. La Chiesa non è mai stata rigida in clima progressista, lo è stata in clima di restaurazione feudale.

Ma all’epoca in cui i nostri padri scrivevano i primi fascicoli della rivista che ci occupa, si doveva colpire non solo l’idra spaventosa del comunismo e quello meno spaventosa ma altrettanto pericolosa del liberalismo e della democrazia repubblicana; ma anche l’eventuale pericolo di una rinascita assolutistica di tipo giuseppino, in grado di disturbare, forse più efficacemente, le mire di governo e di dominio temporale e spirituale delle organizzazioni ecclesiastiche.

Ecco perché viene accettato il tema della libertà, utilizzando il razionalismo tomistico per cavarne fuori un fondamento accettabile anche al laicismo eterodosso che, in definitiva, stante alle stesse dichiarazioni di apertura di padre Curci, doveva costituire la più gran parte dei lettori. Ma è importante notare la maestria con cui, ad esempio Taparelli, separa accuratamente dal concetto di libertà ogni fondamento sostanziale di natura economica, ogni sia pur larvato riferimento alla lotta politica tra classe privilegiata e classe sfruttata. Tutto viene relegato nell’oscuro limbo delle idee e delle passioni. Tutto viene colorato con le fosche tinte della rivolta inconsulta causata da passioni non sapute reprimere, come se alla base di queste esplosioni non ci fosse un chiaro movente economico, una ineliminabile spinta verso il desiderio di miglioramento che, sia pur in forme oscure, veniva avvertito dalle classi più sfruttate.

In un certo senso era la borghesia liberale a non avere capito bene la pericolosità degli strumenti che cercava di impiegare. I nostri padri, uomini di mestiere e di esperienza, si rendevano conto più chiaramente dello stesso Gioberti, che consegnando certi strumenti alla plebe si correvano pericoli precisi. I ricordi rivoluzionari erano appena dietro le spalle.

Nota giustamente a questo riguardo Dina Bertoni Jovine: «Occorre combattere questa tendenza, dovunque si manifesti, anche quando le sue apparenze appaiono innocenti. L’opera di Giacinto Mompiani, per esempio, poteva apparire innocente. Questo pedagogista bresciano, già noto per il suo zelo umanitario, era diventato l’apostolo di quelle “scuole di mutuo insegnamento” che Federico Confalonieri aveva fondato in Lombardia fra il 1818 e il 1819, e per le quali si era creata una società che aveva raccolto i più bei nomi lombardi. Lo scopo della società era quello di provvedere all’istruzione dei ragazzi del popolo; e per questa aspirazione si era vista gente del tutto aliena dagli studi pedagogici, come il Confalonieri, occuparsi assiduamente di metodi, libri e lavagne. Il governo austriaco, in un primo tempo, aveva dato regolare permesso per l’apertura di quelle scuole; ma il clero lombardo non tardò a manifestare alcune critiche, subito raccolte dalla “Biblioteca italiana”, intorno all’insegnamento religioso che si dava ai fanciulli [...]. Il Mompiani non aveva sospettato che quella “luce del pensiero” fosse un desiderio pericoloso messo nel cuore di una massa popolare. E non ebbe il tempo di accorgersi di avere acceso una miccia perché la politica austriaca, intanto, aveva avuto le sue buone ragioni per chiudere le scuole, alla vigilia dei moti dei Federati». (I primordi dell’educazione, op. cit., pp. 226-227).

In merito all’ultimo problema, cioè riguardo alla realizzazione concreta dell’insegnamento, Taparelli tratta quasi sempre di scorcio le diverse conseguenze che esso comporta. Qualche altra volta, invece, affronta con maggiore decisione, come ad esempio nel lavoro “L’interesse dei governi nel monopolio d’insegnamento”, (in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. VI, anno 1851, pp. 20 e sgg.).

Nei riguardi di coloro che vedevano una chiara minaccia per il futuro dello Stato, nell’egemonia che il clero intendeva estendere su tutti i gradi dell’istruzione, Taparelli scrive: «Sapete voi a chi fa paura il clero? A chi non vuole né fede, né onestà nell’educazione. Oh questi sì hanno ragione di abominar la Chiesa come indomabile in tal materia. Ma voi cui preme fede ed onestà nella educazione, qual timore potete aver della Chiesa? specialmente se non avete perduta interamente la fede in quella assistenza divina che può ben permettere l’aberrazione di qualche individuo nel clero, ma suol permetterlo di rado nelle più sublimi prelature, e mai le permetterà nella totalità della Chiesa insegnante. Ma avete voi qualche cosa di simile in una Università laicale? Il fatto della Francia vel dice abbastanza, come testé accennai; ma la ragione parla ancora più chiaro. Certamente i governanti non possono da sé medesimo salire in cattedra; essi debbono assolutamente in una colta società avere, o individui, o corpi insegnanti [...]. Ma quando raccolto in un gran corpo tutto il fior degli ingegni, tanto più orgogliosi e indipendenti, quanto più eminenti ed istruiti, il governo gitta in loro balìa tutte le intelligenze del popolo, organizzando burocraticamente la macchina dell’istruzione; allora il governo ha sottoscritta la propria schiavitù, ha venduta la sua indipendenza». (Ib., pp. 23-24).

E più avanti: «Or su dunque, politici tiriamo i conti. Vietare ai padri l’educare secondo lor coscienza i figli, vietare alla Chiesa l’ammaestrare secondo il precetto di Cristo le genti, egli è un rendersi rei di religione e di natura gravemente offese. Ma io non calcolo ora cotesto reato, calcolo solo il vostro interesse. Vi torna a conto di seguire i consigli dei nemici della Chiesa e delle società? Se cotesti consiglieri vi sembrano fedeli, procedete pur oltre, riunite pure in esercito compatto venti o trentamila individui che possono essere affligliati alle sette, benché guarentiti dagli attestati di una polizia, ove i settari loro complici avranno forse molte cariche ed importanti: organizzateli, e fate con dispotismo irresistibile soggiogando gli intelletti di tutte le generazioni, vi spargano il seme o di verità o di errore, con cieca obbedienza alla sovrana determinazione. Ma ricordatevi che finché non cessa nei popoli l’amor verso la Chiesa e fede cattolica, i popoli imploreranno dalla Chiesa l’ammaestramento, i padri vorranno sicura l’innocenza dei figli, i Prelati vorranno formare liberamente gli animi dei giovanetti e le coscienze dei popoli, onde una lotta vi aspetta ove tutti gli amici dell’ordine, della fede, della onestà, tutti i diritti della coscienza e del cuore staranno contro di voi. Che se nell’arduo cimento riusciste finalmente vincitori, peggio per voi; la vostra vittoria sarebbe la vostra perdita: non avreste espugnata la Chiesa ma pervertito i sudditi; e cessando di lottare colla Maestra di obbedienza e di onestà, vi vedreste assaliti dai fremiti e dal pugnale dei ribelli». (Ib., pp. 34-35).

Questa la posizione teorica degli scrittori della “Civiltà Cattolica” in merito al problema dell’insegnamento. Posizione teorica dovuta, nella sua esposizione più conseguente e completa a Taparelli. Se, come notava Curci ([C. M. Curci], “Sopra gli studii e gli scritti del Padre Luigi Taparelli D’Azeglio D.G.D.G.”, in “Civiltà Cattolica”, serie V, vol. IV, anno 1862, pp. 387-404 e 545-564) negli scritti per la rivista il suo pensiero fu spesso legato alla contingenza e alla polemica contro oscuri contraddittori e contro articoli di giornale che ben presto perdevano la loro attualità, il senso profondo del suo pensiero è sempre recuperabile. In una parola, e limitatamente al problema dell’educazione, Taparelli seppe vedere – dal suo punto di vista – le implicanze politiche dell’educazione liberale e cercò di porvi rimedio nel tentativo di salvare il monopolio culturale e pedagogico della Chiesa, anche attraverso la difesa di un conservatorismo politico che tagliasse di netto con le estremistiche pretese dei democratici e dei socialisti.

Governo ammodernato, governo moderato, tutto ciò che andrebbe ancora bene per Taparelli, ma sempre sotto la tutela intellettuale della Chiesa: altrimenti l’anarchia completa della rivolta delle plebi: il pugnale e la baionetta.

Il modello dell’educazione suggerito dalla “Civiltà Cattolica”

È di Calvetti la recensione pubblicata nel volume V della nostra rivista riguardante l’opera di Silvio Antoniano: Dell’educazione cristiana e politica dei figlioli. Libri Tre. Scritto ad istanza di San Carlo Borromeo, Parma da Pietro Fiaccadori, 1851. «Sien grazie a Dio; c’imbattiamo finalmente in un libro sull’educazione, del quale non abbiamo a dir altro che lodi. Ma esso è scritto da un ecclesiastico, laddove oggigiorno siffatti libri si scrivono ordinariamente da’ laici; ed è scritto da quasi tre secoli fa, quando le idee d’un progresso alla pagana non avevano ancora invasato la mente e il cuore de’ nostri ammodernatori». ([G. Calvetti], “Dell’educazione cristiana e politica dei figliuoli; libri tre scritti ad istanza di S. Carlo Borromeo dal Card. Silvio Antoniano”, in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. X, anno 1852, p. 186).

Calvetti era il successore di Curci, dopo l’allontanamento di quest’ultimo; giovane e battagliero doveva morire presto (1855) prima del ritorno dello stesso Curci in seno alla compagnia. Si tratta di un poligrafo di scarsa originalità che più che altro svolgeva il compito di segretario e coordinatore di redazione, nel nucleo della rivista. Il suo interesse per il libro dell’Antoniano è, però, sintomatico, in quanto indice della tendenza decisamente avversa ad ogni tipo di innovazione in campo pedagogico.

«Qui tu non vedi, come generalmente si costuma in simili trattati del tempo d’oggi, separata l’anima dal corpo, la religione dalla civiltà, il fine soprannaturale dal fine naturale, e tuttociò che si riferisce alla religione considerato non altrimenti che semplice appendice della vita umana e della coltura morale, che si pretende attingere dalla sola natura. Ma vedi l’uomo qual è, qual è fatto da Dio, nell’ordine in cui è realmente collocato dalla Provvidenza divina, con la sua parte materiale informata dalla spirituale, con la sua vita presente ordinata all’avvenire, con le sue azioni regolate dalla divina legge, col suo spirito ripieno del concetto di Dio e dell’amore di una religione non astratta ma concreta, qual è impegnata non a parole nei libri de’ filosofanti razionalisti, ma prescritta dal Vangelo e praticata nella Chiesa Cattolica, Apostolica, Romana». (Ib., p. 187).

Il lavoro del cardinale Antoniano, diviso in tre libri, tratta nel primo dell’educazione dei figliuoli quale deve essere attuata dall’istinto familiare; nel secondo affronta i problemi principali della fede e della religione cristiana in relazione dell’educazione; nel terzo segue passo passo le diverse età del fanciullo e studia i compiti educativi del “buon padre” allo scopo di fondare l’educazione sul “timor di Dio e sulla legge di Gesù Cristo”. Come si vede si tratta di un modestissimo manuale di educazione religiosa, ristampato anche in epoca piuttosto recente (nuova edizione a cura e con introduzione di L. Pogliani, Torino 1926), dal quale non solo si ricava la mentalità meschina e reazionaria dell’Antoniano – che sia detto tra parentesi fu uno dei più pedanti censori del povero Torquato Tasso (insieme con Scipione Gonzaga, Flaminio de’ Nobili e Angelo da Barga) – ma dal quale è possibile vedere la limitatezza delle idee dei gesuiti i quali: «Non mercenariamente, ma solo per amore e timore di Dio insegnano le lingue e le lettere ed hanno fatto notomia tale e di tutte le cose e degli ingegni dei giovinetti che non vi si può aggiungere o togliere cosa alcuna delle ottime loro istituzioni». (Introduzione di Pogliani all’edizione del 1926, p. XVII).

Conclude Calvetti, a proposito di Antoniano: «Chi è avvezzo a leggere in fatto di educazione solo libri moderni, si troverà leggendo il libro dell’Antoniano come trasportato in un altro mondo, dove si respiri un aere di purezza non usitata, e si veggon le cose in aspetto del tutto nuovo. qui son sempre le ragioni divine che danno norma e regola alle umane; la morale è fondata non sulla pura natura, di per sé sola insufficiente a reggersi contro gli urti di passioni violente, ma è appoggiata sul sostegno fortissimo e irremovibile della fede e sui conforti della grazia; l’idea di Dio, di Cristo, della sua Chiesa non ci sta, come suolsi oggidì per un semplice ornamento estetico del libro o come consiglio supererogatorio; ma è il fondamento e la base dell’edifizio, è l’anima e la vita di tutto il trattato. Il nostro Anotniano non fa come un altro scrittore che giorni sono m’imbattei a leggere, il quale parlando dei mezzi di conservare la castità nel giovinetto ricorreva alla vigilanza paterna, alle frequenti sorprese nell’atto che resta solo, all’uso degli amaricanti e non so che altro; e frattanto il buon uomo dimenticava il mezzo precipuo e solo efficace, che è il santo timore di Dio, l’affettuosa preghiera e la frequenza de’ Sacramenti. Il nostro autore per contrario non sa trattare di qualsiasi cosa anche la più indifferente e terrena, senza farci entrare la religione intesa praticamente, la quale nell’educazione vol essere come il sangue nel corpo, di cui esso pervade le parti, riempie le vene, conforta i nervi, entra ne’ muscoli, alimenta le membra e lor dà grazia, colore e vigoria». ([G. Calvetti], “Dell’educazione cristiana”, op. cit., pp. 190-191).

Un altra recensione relativa a un libro di Jacopo Bernardi (“Saggio di studii sulla podestà patria e l’educazione dell’abate Jacopo dott. Bernardi”, in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. IV, anno 1852, pp. 420 e sgg.), dovuta probabilmente allo stesso Calvetti (L’Indice generale della “Civiltà Cattolica”, aprile 1850 – dicembre 1903, curato da De Chiaro, Roma 1904, non indica l’attribuzione della precedente recensione, ma dalla stesura sembrerebbe opera di Calvetti), ci dà altre indicazioni sull’orientamento pedagogico della rivista. Scrive il nostro recensore: «La podestà patria e l’educazione sono i due più vitali elementi del mondo sociale fonte l’una d’ogni altro potere umano, principio l’altra de’ costumi buoni o rei della generazione che sorge. Ben conobbero il valore d’entrambe i perfidi nemici d’ogni ordine, e però s’ingegnarono a più potere di menomare l’autorità paterna, proclamando la società essere composta non di famiglie ma di individui, e vollero ad ogni costo rimossa dal Ministero dell’educazione la Chiesa, surrogandovisi essi sulla certezza che in tal guisa giungerebbero a mutare a lor talento la faccia del mondo. Importa dunque moltissimo mantener nell’altezza del suo decoro e nell’esercizio de’ suoi diritti la patria podestà, e modellar la educazione dei giovani sopra norme rettissime e sante». (Ib., pp. 420-421).

Si avverte qui la differenza di piano tra l’autore di queste note e Taparelli che, come abbiamo visto nel capitolo precedente, si era occupato anche del problema della patria potestà e della necessità di restaurare questo istituto educativo, contro gli attacchi di coloro che intendono diminuire il valore della famiglia in generale e in particolare dal punto di vista pedagogico. Mentre Taparelli sottolineava l’importanza della funzione della patria potestà, sia pure utilizzando elementi di ragionamento legati a strutture reazionarie (assenza di un minimo di considerazione dell’oggettiva situazione economica e sociale dove l’attività educativa viene esercitata) e per questo poteva anche risultare accettabile se non altro per una pedagogia liberale ancora ottusamente legata allo sviluppo armonico della persona al di là della concreta realtà sociale; il nostro autore, qui, sottolinea l’aspetto brutale del diritto della patria potestà, quello stesso aspetto che nel passato era sì spesso degenerato in dispotismi senza nome e senza ragione.

Così continua il nostro recensore: «Da ultimo deplorando col Filangieri, che se gli antichi legislatori oltrepassarono i limiti ragionevoli nell’estendere il potere paterno, i moderni per contrario l’hanno despoticamente ristretto e quasi annullato; invoca la sapienza de’ reggitori de’ popoli acciocché con provvide modificazioni perfezionino i codici su tale riguardo. Imperocché, saviamente osserva: quella legislazione che mosterassi più che le altre impegnata a sorreggere del suo braccio fra le domestiche pareti e fuori la podestà patria, sarà legislazione che provvederà assai meglio delle altre al privato e generale benessere della nazione, procacciando a sé stessa forza e rispetto nel rispetto e nei doveri guarentiti e adempiuti verso dei genitori. In questo luogo ci sarebbe tornato oltremodo gradevole, se l’autore si fosse fatto a cercare la prima radice di codesta inversione del più sacro dei poteri terreni fatta dalle odierne leggi civili; e siam sicuri che tal radice si sarebbe trovata nell’invasione fatta dalle medesime leggi sopra l’autorità ecclesiastica. Questo pensiero di cui siamo altamente convinti, richiederebbe assai lunga sposizione e forse altrove ci cadrà in acconcio di farla; ma giova accennarla almeno qui di passata. L’autorità della Chiesa essendo l’autorità stessa di Dio esercitata visibilmente sulla terra per mezzo de’ suoi legati in ordine all’universale e supremo fine della creatura ragionevole, è un’autorità che domina tutte le altre, le informa, le indirizza, le nobilita, le regge e rattiene perché non isdrucciolino fuori de’ limiti dal peculiare lor fine ad esse imposti». (Ib., pp. 423-424).

Ecco quindi ribadito il concetto di centralità della funzione educativa della Chiesa, che poi non sarebbe altro che il vecchio concetto teocentrico aggiornato a seguito delle mutate condizioni del potere temporale della Chiesa e del gioco internazionale delle forze politiche.

La questione della libertà dell’insegnamento e gli asili infantili

Da quanto abbiamo visto fin qui è assai facile dedurre come la politica portata avanti dai Gesuiti in materia d’insegnamento fosse esclusivamente attuata in vista di un rafforzamento della Compagnia e quindi dello stesso cattolicesimo, contro le forze sempre più vivaci e intraprendenti del liberalismo, della democrazia e, in prospettiva, del socialismo.

Taparelli si era preoccupato per tempo di teorizzare i motivi che rendevano non solo ineliminabile la presenza dell’insegnamento della Chiesa, ma che invalidavano ogni altro tipo di insegnamento esclusivo, destituendolo di quelle caratteristiche di garanzia alla verità che ogni insegnamento deve avere. Molte di queste polemiche avvenivano sulla stessa falsariga di quelle condotte a proposito del libero pensiero. In materia la caratteristica dei gesuiti – rimasta ininterrotta fino ai giorni nostri – è facilmente riassumibile in queste parole che traiamo da un articolo di F. Cavalli pubblicato sulla “Civiltà Cattolica” del 3 aprile 1948. «Ora la Chiesa cattolica, convinta per le sue divine prerogative di essere l’unica vera Chiesa, deve reclamare per sé sola il diritto alla libertà, perché unicamente alla verità, non mai all’errore, questo può competere: quanto alle altre religioni, essa non impugnerà la scimitarre, ma domanderà che, con i mezzi illegittimi e degni della persona umana, non sia loro consentito diffondere false dottrine». (“La condizione dei Protestanti in Spagna”, in “Civiltà Cattolica”, vol. II, anno 1948, p. 29).

Questa è la posizione dei gesuiti, posizione che vediamo in forma chiara anche in tempi più recenti e che solo in tempi recentissimi sembra avere subito qualche modificazione, per altro attribuibile forse più che a modificate condizioni oggettive di fatto a modificate direttive politiche della Chiesa stessa.

Ecco, con quale precisione di termini, Taparelli attacca una pretesa di limitazione della libertà della Chiesa nei riguardi dell’insegnamento: «Anche qui l’A. incomincia, solito vezzo dei moderati, col consentire alla Chiesa qualche diritto e qualche lode. La Chiesa cristiana, dic’egli, è insegnatrice, essa non potrebbe rinunciare al diritto, ed all’obbligo d’insegnare, senza rinunciare alla parte più essenziale del suo officio. Mancomale! Ringraziamo il filosofo italico, e il suo lucido intervallo di questa confessione rilevantissima; la quale basterebbe sola a spargere vituperio sopra quelle circolari colle quali il Ministro Gioia va perseguitando i Vescovi e il loro insegnamento teologico. Riconosciuto alla Chiesa cristiana il diritto e dovere di insegnare (e per conseguenza di giudicare da se stessa il vero, e non riceverlo dai Ministri), l’A. prosiegue lodando le influenze della Chiesa nelle Università, guaste poi quando in esse si ingerì l’autorità del principato soggiogando l’insegnamento. Ma ben presto verità ed elogi si cangiano in errori e biasimi. E il primo degli errori è colà ove si pretende ridurre l’insegnamento della Chiesa, per tutti i cristiani, nel tempio, peri chierici nella scuola. Ella è codesta, lo sappiamo, l’idea degli universitari; ma non è e non fu mai l’idea della Chiesa, degli Apostoli e del divino loro Maestro. I quali, ben sapendo che la morale governa l’uomo tutto quanto in ogni sua funzione, penetrarono tosto in ogni angolo anche più recondito a modellarvi le azioni dei loro fedeli, prescrivendo a ciascuna le sue norme. E sarebbero stati in un bell’imbroglio, se solo al tempio e alla scuola avessero ristretto il loro insegnamento in quei primi anni quando il cristianesimo non aveva né tempio né scuola». ([L. Taparelli D’Azeglio], “Sul discorso del Senator Boncompagni all’Accademia di filosofia italiana”, in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. VI, anno 1851, pp. 637-638).

Quanta intenzione la Chiesa, e i gesuiti in primo piano, avessero di considerare la libertà di insegnamento come esclusivo privilegio degli organismi della Chiesa stessa, e non come faccenda da risolversi in un clima generale di libertà, lo si era visto diversi anni prima della stesura dell’articolo di Taparelli, sopra citato, a proposito della questione degli asili aportiani.

Ferrante Apori, sacerdote di Cremona, aveva fondato nel 1827 i suoi asili, che si ponevano il problema gravissimo dell’infanzia povera e abbandonata. Da un punto di vista pedagogico e sperimentale essi restarono molto distanti dai giardini d’infanzia froebeliani, i metodi adottati erano meccanici e fondati spesso sull’apprendimento di nomenclature, ma la loro importanza fu lo stesso grandissima in quanto posero il problema dell’infanzia, mettendone in risalto la fondamentale portata sociale.

Sotto un altro aspetto la loro nascita determinò tutto un movimento di idee e di iniziative, mobilitando centinaia di pensatori e di studiosi, anche di altre discipline. Asili nascevano ben presto a Firenze, ad opera di Pietro Guicciardini, a Pisa ad opera di Giuseppe Frassi e Matilde Calandrini, a Livorno ad opera di Enrico Mayer, a Milano ad opera di Giuseppe Sacchi, in Piemonte ad opera di quello stesso senatore Boncompagni ferocemente attaccato, come si è visto, dai nostri padri gesuiti.

Dietro tutta la questione, ovviamente, si ponevano interessi politici grandissimi. Tutti i liberali si schierarono a favore degli asili, la Chiesa, tramite l’organo dei gesuiti, incominciò la sua opera di persecuzione.

Scrive la Bertoni Jovine: «I due campi ebbero subito una netta divisione per l’aspetto politico, ma non altrettanto chiara discriminazione per l’aspetto religioso. I gesuiti che si alleano coi governi oscurantisti sono infatti avversati da molti cattolici che intendono risolvere i problemi sociali e politici con indirizzo indipendente. La battaglia dei padri, nel clima arroventato prerivoluzionario, non si presentava delle più facili; e qualche volta i loro sostenitori furono costretti all’anonimo come accade con l’opuscolo stampato a Lugano nel 1837 col titolo: Le illusioni della pubblica carità in cui gli asili sono definiti: “un trauma, un tradimento novello suggerito dalla furberia di Satana”. È da notare che nell’ottobre 1855 la “Civiltà Cattolica” stessa, in un articolo sugli Asili rivelava che l’autore dell’opuscolo era Monaldo Leopardi, e faceva questo commento: “Guardate! Un galantuomo dovere stampare alla macchia! Un cristiano deve come di soppiatto levar la voce, mentre i mestatori fruivano impunemente il loro trionfo! Essi non potevano, infatti, allora, liberamente accusare l’istituzione di empietà e di irreligione poiché il suo fondatore era militante nella Chiesa cattolica e uno dei suoi più forti sostenitori era Raffaello Lambruschini, anch’egli sacerdote». (I primordi dell’educazione liberale, op. cit., p. 227).

Pietro Thouar, il comunismo e il problema della diffusione dei cattivi libri

Modesto scrittore, modesto educatore, autore di libri senza grandi pretese, colmi di sentimenti patriottici e umanitari. Libri che però avevano il pregio, non trascurabile, di indirizzarsi ai fanciulli e al popolo, illustrando atti onesti e generosi compiuti da persone comuni, da lavoratori, sviluppando serene riflessioni sulla vita stentata e misera della plebe, indirizzando la compassione del lettore verso le condizioni di sfruttamento e di miseria del popolo.

Ecco come Dina Bertoni Jovine ci illustra il pensiero di questo scrittore, tanto fastidioso per i nostri padri: «Nel racconto Il pan nero, ad esempio, alcuni ragazzi ricchi deridono i contadini perché mangiano il pane nero. Ed uno di essi tronca quella derisione con questo rimprovero: “... E pensate che se le terre del babbo non fossero lavorate da questi o da altri contadini, o noi saremmo poveri o ci toccherebbe lavorarle noi medesimi [...]”, (in Racconti, Firenze 1883, p. 7). Il Thouar si rivolge ai ricchi perché siano più umani e giusti verso i loro dipendenti; non prevede la strada che quelle parole possono fare quando siano entrate nella coscienza del lavoratori. I gesuiti, però se ne rendono conto e vedono in lui un pericoloso sovvertitore. Anche nei suoi Libri di testo per le scuole italiane, (Firenze, 1853), Thouar diffonde principi sociali e morali ispirati ad amore di libertà, amore di patria, fratellanza umana, rivalutazione del lavoro. Egli arriva fino al punto di considerare il lavoro eguale alla preghiera come omaggio a Dio. In questi testi inserisce perfino un dialogo intitolato Il dì di Festa e il dì di Lavoro in cui, dietro il debole paravento dell’allegoria espone idee come queste: “che della felicità umana vale assai più un giorno di lavoro che mille processioni e litanie e salmi; che cento frati in coro non valgono un sol fabbro all’incudine”, ecc. Concetti che, aggiunti a quelli dell’eguaglianza di tutti di fronte a Dio, qui ribaditi con un certo impeto, fanno del mite scrittore, agli occhi dei gesuiti, un serpente pregno di veleno rivoluzionario». (I primordi dell’educazione, op. cit., p. 229).

In effetti la preoccupazione dei nostri padri per la diffusione dei libri pericolosi era centrale nel loro lavoro di recensori e di difensori del patrimonio reazionario della Chiesa. A tal proposito scriveva Curci: «Quantunque la voce viva soprastia di molto alle morte scritture quanto è scotimento di spiriti e fervor di passioni, nondimeno per certezza e vastità di effetti valgono i libri cento tanti che non i discorsi. Prendersi il libro nelle mani coll’animo disposto a riverenza verso il suo autore, nel quale per ciò solo che autore sia, riconoscono i lettori, un primato di autorità, che spesso terrà luogo d’ogni ragione. Accolto così di buon grado chi per mezzo del libro favella ha tutto l’agio d’insinuarsi con quella franchezza ed accorgimento che nel suo conversare desidererebbe indarno di tenere [...]. Ma dobbiamo con dolore confessare che i malvagi libri, quanto meno per l’intrinseca natura dell’errore che sostengono dovrebbero avere virtù persuasiva, tanto più per l’estrinseco aiuto delle passioni che destano riescono efficaci sopra i buoni. Son più facili a scriversi perché falsatori, sofistici, presuntuosi mentiscon sempre con boria, non ragionan mai con dottrina: son più difficili a confutare perché l’errore è la negazione del vero [...]». ([C. M. Curci], “La diffusione dei rei e dei buoni libri”, in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. XI, anno 1852, p. 650).

Questo pericolo raggiungeva proporzioni ancora più grandi quando a diffondersi erano le nuove dottrine socialiste e comuniste e quando il veicolo della diffusione era un (apparentemente) innocuo volume per ragazzi, come per l’appunto erano i libri di Thouar.

È sempre dello stesso Curci, come abbiamo detto, agguerrito polemista, l’articolo contro il socialismo apparso nel primo volume della prima serie ([C. M. Curci], “Il socialismo plebeo e il volterianismo borghese”, in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. I, anno 1850, p. 613), che comincia con queste parole: «Il Socialismo, questa morte di ogni civile consorzio, si è manifestato alla Francia in aspetto gigantesco quando essa non volea pur crederne la reale esistenza. I valentuomini che lo stanno, senza capirlo, inoculando alla Italia, ci preparano la medesima tremenda sorpresa, quando gettandone i semi infallibili giurano e sacramentano che mai tal cosa, e che la è una fantasia, una fissazione, una malinconia dei retrogradi. E pure niente di naturale, niente più necessario del Socialismo in una società, la cui borghesia prevalente sia volteriana. La corruzione ideale scende di alto in basso, ed il volterianismo applicato alla plebe è il puro e schietto Socialismo».

Contro Thouar e un suo libro dal titolo Ai braccianti, sul modo di campar meglio, Firenze, Tipografia Galileiana, 1850, si lancia nientemeno che lo stesso Taparelli in una recensione acre e diffamatoria. «Dopoché Proudhon fece al mondo politico quelle sue grandi rivelazioni intorno alle conseguenze pratiche della irreligione nella società civile, per cui ogni proprietario, citato come ladro al tribunale del popolo sovrano, vide inforsato ogni suo avere, svegliaronsi dal lungo sonno i dabbenuomini dell’incredulità, e si avvidero che i presagi dei preti non erano più minacce ascetiche nell’ordine ideale, ma minacce frenetiche di chi tende al reale». ([L. Taparelli D’Azeglio], “Thouar ai braccianti. Sul modo di campar meglio”, in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. I, anno 1850, p. 565).

In effetti il libro di Thouar si prefiggeva uno scopo ben più modesto, mostrare che la via per la riscossa sociale non è solo quella delle barricate, ma anche quella della presa di coscienza, dell’istruzione, del miglioramento progressivo delle classi lavoratrici e, quindi, indirettamente, quella del momentaneo accontentamento della situazione presente di disagio e di sfruttamento, in vista di una migliore situazione successiva.

L’abilità polemica e teorica di Taparelli D’Azeglio, invece riesce a convincere il lettore che il tentativo di Thouar sia un banale tentativo di intervenire presso la rozza mentalità dei braccianti con gli strumenti tradizionali del cattolicesimo, ma con scarsa perizia nel loro uso: conclusione, non resta che far fare al prete il suo mestiere che, in definitiva, riesce a farlo meglio degli illuminati filantropi. «Signori filantropi, volete intenderla? parlate al povero il linguaggio cristiano, o per dir meglio permettete al prete (al prete che voi disprezzate, che svillaneggiate, che esibite al povero sotto lo schifoso aspetto d’un ipocrita avaro che gli scrocca il quattrino con giunterie divote), permettete al prete d’innamorarlo della Croce e di assicurare a lui la pace del cuore, a voi quella della borsa. Questa è la sola vendetta che egli brama delle calunnie e dei soprusi con cui opprimete il ministro di un Dio crocifisso». (Ib., p. 568).

Altri attacchi verranno lanciati contro Thouar. Un anonimo padre attacca la raccolta dei Racconti per fanciulli, G. P. Viesseux editore, Firenze 1851, ([?], “Racconti per fanciulli scritti da Pietro Thouar”, in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. VII, anno 1851, p. 485), riallacciandosi alla precedente critica di Taparelli. Nel lavoro di Thouar, dice il nostro recensore, manca in modo assoluto la vera pietà e la virtù che sono soltanto quelle che è possibile ricavare dalla lettura e dall’esempio dei Vangeli oltre che dai pensieri di fede e dagli scritti religiosi. Agire altrimenti, significa: «Conoscere assai poco che voglia dire virtù e qual forza abbia a svellerla dai cuori la foga delle passioni giovanili: le quali se non vengono fin dai primi anni assodate in quei sentimenti, cui la ragione dovrà un tempo sviluppare colla maturità dei suoi dettati e la religione sanzionare colla eternità di sue rimunerazioni, imbizzarriscono, inferociscono coll’ingagliardir dell’uomo fisico, e pongono l’onestà immatura a quelle strette, in cui appena basterebbero le forze del giovane, invigorite da tutti i conforti della pietà e della fede». (Ib., p. 485).

«Il che se in ogni tempo fu un errore, divenne ai giorni nostri errore sommamente nocevole, quando gli sforzi dell’empietà palliati di un manto d’ipocrisia, son tutti rivolti a persuadere al cattolico una morale pagana, che lo dispensi da quella virtù interna, ove sta l’essenza del cristiano, e dalla credenza di quei dogmi, senza cui una tal virtù non ha base su cui appoggiarsi». (Ib., p. 486).

È la stessa preoccupazione che abbiamo visto in Taparelli che qui si ripresenta, in forma meno precisa e gradevole perché meno abile è il polemista anonimo che si è sostituito al precedente. È la preoccupazione che accanto alla morale cristiana, codificata dai secoli e solidificata in una gestione di potere ben definita e ben utilizzata dalla Chiesa, si vada costruendo una nuova visione morale, capace di mediare dalla vecchia concezione il senso migliore del messaggio cristiano, collegandolo ad una realtà diversa, in movimento: una realtà di lavoro e di fatica, una realtà moderna, nei confronti della quale il vecchio messaggio finisce per risultare artificioso e pesante.

Naturale, quindi, che i nostri padri parlino di «contaggio» (Ib., p. 487) e che attacchino senza mezzi termini e senza coperture, specie quando queste nuove concezioni – come nel caso dei libri di Thouar – si dirigono ai fanciulli.

Tutta l’opera di Thouar, nel suo insieme, è attaccata da Curci, sempre con particolare riguardo ai libri per ragazzi e al lavoro: Libri di testo per le scuole italiane, di questo lavoro Curci tiene presente il dialogo sul giorno di festa e sul giorno di lavoro e scrive: «Il Thouar che scrive pe’ giovanetti cristiani cattolici – dice il “Dì di Festa” – non doveria dir loro che la Festa è della stessa natura del Dì di Lavoro perché tu sei umano e io divina; tu sei terrestre ed io celeste; tu vieni dal peccato d’Adamo ed io dal seno stesso di Dio: tu lavori nel sudor del tuo volto ed io riposo nell’ossequio della creatura al Creatore». ([C. M. Curci], “Un pizzico di demagogia”, in “Civiltà Cattolica”, serie II, vol. IV, anno 1853, p. 497).

La critica a Lambruschini

Cauta e assai circospetta nelle parole fu la polemica contro Lambruschini, come ha notato giustamente Dina Bertoni Jovine: «Il Lambruschini, quando ricevette, nel 1833, la prima relazione dell’Aporti sugli asili di Cremona ne fece oggetto di una seduta straordinaria all’Accademia dei Georgofili, conchiudendone la lettura con queste parole: “[...] L’istruzione al popolo si darà. Si darà perché il popolo medesimo la domanda e se la procura [...] perché i bisogni dell’umanità sono irresistibili come le leggi della natura [...]”. Il Lambruschini, spinto verso i problemi educativi dalla sua stessa mentalità di riformatore concreto, si mise risolutamente a fianco del Frassi e della Calandrini. Il Frassi era un vecchio repubblicano del ‘99, la Calandrini una calvinista; ma l’abate non temeva questi contatti; si era contaminato di ben altre amicizie liberali. Lavorava nei circoli del Capponi, aveva avuto relazioni con seguaci del Lamennais, condivideva molte opinioni dei più compromessi rivoluzionari italiani. Era amico, anche di molti professori dell’Università di Pisa, quel covo di studiosi che ostacolava strenuamente ai gesuiti, l’ingresso in Toscana». (I primordi dell’educazione, op. cit., pp. 227-228).

Malgrado questo apparato così ampio e pericoloso, Lambruschini, verso gli anni del debutto della “Civiltà Cattolica” faceva paura ai gesuiti sia per la sua larghissima fama a livello europeo, sia per la solidità della sua impostazione teorica, da qui la loro pacata polemica e la scelta accurata delle parole.

Scende per primo in campo il solito Taparelli che comincia col fare circospetto: «Vorremmo tessere, lettor cortese un bell’encomio di questo libro il cui Autore si è procacciata non piccola reputazione in materia d’educazione: e lo faremo se ci si consentisse di mozzare il titolo al nostro Periodico, e se queste pagine fossero indirizzate agli amanti di una qualunque civiltà. Siano queste, diremmo loro, le norme dell’educazione che voi procaccerete ai figli vostri: l’A. ha adottato quel giusto temperamento di severo e di piacevole che forma la perfezione dei metodi educatici, e senza condiscendere a quelle maniere villane, attribuite da certuni al sistema antico, che sono come bene osserva l’A. (pag. 134), proprie in ogni tempo di educatori rozzi e incapaci. Egli si allontana nel tempo stesso da quella morbidezza sdolcinata che forma la perdizione di tanti giovinetti, strazio ed obbrobrio degl’improvvidi loro genitori. E questi precetti ti si porgono nell’opera del Lambruschini con uno stile colto ed ameno che ben dimostra la gentilezza di animo di chi scrive. Così ti parlerei, lettor cortese, se la nostra Civiltà non fosse appunto come quello di cui Tertulliano diceva, Cristiano è il mio nome, Cattolico il cognome. Ma poiché non intendiamo rinunziare neppur per ombra a codesto cognome illustrissimo, poiché i nostri lettori appartengono in massima parte a quella eletta dei Cattolici che detestano al pari di noi l’orpello di una civiltà gentilesca, cui manchi la prima base su cui sola può edificarsi ogni fabbrica duratura, la viva fede e la pratica della vera Religione, vale a dire della Cattolica; dobbiam confessare che il libro venutoci non sappiam per cui mano, ci sembra per ora lontanissimo dal soddisfare i bisogni della crescente generazione». ([L. Taparelli D’Azeglio], “Lambruschini. Dell’educazione e dell’Istruzione libri due. Libro Primo sull’educazione”, in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. I, anno 1850, pp. 691-692).

Occorre notare la lunghezza della tirata polemica, la sottigliezza di quel “per ora” che vuole lasciare intendere una apertura di giudizio dei padri redattori della rivista, mai esistita in altre occasioni. In effetti la posizione di Lambruschini doveva impensierire abbastanza i gesuiti. Nipote di alti prelati della Chiesa, tra cui il famoso Cardinale Luigi, Raffaello era stato deportato in Corsica per avere svolto le funzioni di vicario del vescovo nella diocesi di Orvieto (il vescovo, arrestato per non aver voluto giurare fedeltà all’impero era un altro suo zio). (Cfr. M. Casotti, Introduzione a R. Lambruschini, Dell’Educazione, Brescia 1962, p. XXXVI). Quindi il nostro Lambruschini godeva di una fama troppo ampia e troppo vicina agli alti gradi prelatizi, per essere attaccato impunemente a spada tratta.

In poche parole il pensiero pedagogico di Lambruschini si può riassumere in una visione cristiana della pedagogia razionalista di origine inglese e francese. L’attività culturale e politica stessa del nostro autore coincide con questa sua particolare visione pedagogica. Il suo problema del rapporto tra religione ed educazione parte dal presupposto che – intorno agli anni Cinquanta – l’irreligiosità era ormai un fenomeno superato e che bisognava avviarsi verso una religiosità più profonda e più sincera di quella che le strutture esteriori della chiesa potevano dare.

Famosa la sua critica dell’autorità come metodo educativo e in genere della concezione repressiva che viene definita irrazionale e assurda. Da un punto di vista pratico il Lambruschini sosteneva la necessità di una educazione indiretta basata sulla forza dell’amore, con molti punti di contatto con quella che andava sviluppando Don Bosco.

Continua Taparelli: «Chi così la pensa (e la pensa certamente così ogni buon cattolico che non abiti almen col cervello nel mondo della luna come il povero Orlando) non può certamente chiamarsi pago di un educatore che in 308 pagine non ti fa comprendere se egli sia Cattolico o Razionalista. Ciò nonostante ancor non possiamo una ferma sentenza intorno al complesso di un’opera di cui questo libro forma solo la prima parte, e promette (pag. 306) un trattato delle virtù e dei vizi ove naturalissimamente potrebbe allocarsi tutto ciò che il chiarissimo Autore vorrà dirne intorno alla pratica della Religione [...]. Rispettiamo dunque i segreti del futuro e aspettiamo la continuazione di questa opera, che emendato un tal difetto potrebbe riuscire utilissima». ([L. Taparelli D’Azeglio], “Lambruschini”, op. cit., pp. 692-693).

L’attacco è sferrato in pieno contro la tesi di Lambruschini diretta a negare l’utilità della pena di morte per i grandi colpevoli, tesi di Beccaria, molte volte attaccata dai nostri padri.

«Ben può per altro discutersene l’opportunità – secondo le varie condizioni sociali; né vi ha animo ben fatto che non invidii alla mitezza toscana l’avere ignorato per quasi un secolo che sia patibolo. Pure anche sotto questo medesimo aspetto di opportunità vuolsi andar guardingo per più ragioni; e la prima è il vedere oggidì sì fervidi ad abolire la pena di morte certuni che la trovano pericolosa per sé avendo coscienza di meritarla, inutile per gli altri da lor già devoti al pugnale e al veleno. Una tal commendatizia può riuscire sospetta [...]. La legge penale sta all’ordine civile e politico, come la guerra all’internazionale; ella è mezzo a sostegno dell’ordine. Se dunque sarebbe ad un popolo non elogio ma sfregio il dirlo inetto alla guerra, è specialmente alle imprese arrischiate e gagliarde, benché all’opposto sarebbe somma perfezione se nell’apice della potenza avesse mantenuti i suoi diritti senza sparar mai un cannone: per la stessa ragione non elogio ma sfregio è di un codice il dire che se il disordine sociale chiedesse la pena di morte, manca alle leggi la forza di fulminarla; benché si è grandissimo pregio della società l’osservanza dell’ordine senza mai usar quella pena. Bastino queste poche osservazioni intorno a questo punto filosofico, che non è nella bella operetta se non un episodio incidente. Non dispiacerà speriamo al ch. Aut. la sincerità con cui abbiamo espressa la nostra sentenza [...]». (Ib., p. 696).

La polemica continuerà in altre pubblicazioni. (Cfr. “Civiltà Cattolica”, serie II, vol. IV, anno 1853, pp. 219-220 e serie VI, vol. I, anno 1864, p. 345). Limitatamente ai primi anni abbiamo un altro intervento, sempre di Taparelli, a proposito di un nuovo lavoro di Lambruschini: Dell’istruzione elementare e di secondo grado. Considerazioni, Firenze, Le Monnier, 1850.

Anche questa volta l’azione è condotta con somma cautela. Il Lambruschini aveva detto chiaramente, nel suddetto lavoro, che nell’ordinamento sociale era necessaria la separazione dei poteri ecclesiastico e civile, allo scopo di ottenere una collaborazione che fosse una “congiunzione più amica” e non come era avvenuto per il passato. Ma la realtà, dice Taparelli, è ben diversa: «Savissimi sono questi consigli, e se venissero praticati in tutta la loro estensione, non vi avrebbero luogo a collisioni e querele: ma siccome tutti coloro che governano sono figli di Adamo, e per l’oscurità dell’intelletto possono disconoscere i fini e i mezzi, per un vizio di volontà possono odiare nell’autorità opposta come audacia l’adempimento dell’ufficio indipendente, tutti codesti consigli benché sapientissimi, non toccano il nodo della difficoltà la quale nasce appunto dalla umana fralezza [...]». ([L. Taparelli D’Azeglio], “Dell’istruzione elementare e di secondo grado. Considerazioni di Raffaele Lambruschini”, in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. III, anno 1850, p. 158).

E arriva a concludere, con una precisione terminologica: «Codesta maniera di distinguere dal falso il vero cattolicesimo ci condurrebbe dritto dritto a costituire la nostra coscienza giudice della Chiesa, invece di riverir la Chiesa qual giudice di nostra coscienza: ed io temo che apunto per questo l’A. venga trascinato a certe forme di linguaggio e di idee che senza essere positivamente da incredulo, pizzicano però alcun poco del protestantesimo: il quale gridando riforma schiamazzava appunto contro quei medesimi abusi contro cui si schiamazza oggidì per giustificarsi l’empietà». (Ib., p. 161).

Ma il povero Lambruschini non era andato al di là del chiedere, per l’ammissione del clero alla istruzione pubblica, che quest’ultimo crescesse in scienza, onde la preparazione tecnica divenisse pari alla vocazione. Per cui ognuno doveva passare al vaglio della propria coscienza la possibilità di inserirsi nel meccanismo dell’istruzione e se del caso rinunciarvi. Tutto ciò ovviamente, contrastava fortemente con l’assolutezza oggettiva della dottrina cattolica che, in nome di una verità posseduta in assoluto, non omette discussioni e tanto meno appelli alla coscienza del singolo.

L’educazione femminile e il lavoro di Caterina Franceschi-Ferrucci

Alla critica del lavoro di Caterina Franceschi-Ferrucci sull’educazione femminile sono dedicate alcune lettere pubblicate da Calvetti, ed immaginate scritte da un certo Filatete a una certa Sofia. Le lettere sono dello stesso Calvetti e formano parte integrante di un lavoro sull’argomento, dedicato appunto all’educazione delle donne ([G. Calvetti], “Intorno a due scritti sulla educazione femminile per Caterina Franceschi-Ferrucci. Lettere di Filatete a Sofia”, in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. X, anno 1852, pp. 465-478, pp. 616-626; vol. XI, anno 1852, pp. 39-53).

La Ferrucci aveva pubblicato due volumi: Della educazione morale della Donna italiana, libri tre; e Della educazione intellettuale, libri quattro indirizzati alle Madri italiane. [Abbiamo potuto consultare la seconda edizione, sempre in due volumi, Torino, L’Unione Tipografico-Editoriale, 1855].

L’opera, chiaramente ispirata alla tradizione greca e romana, tendeva alla formazione dello spirito italiano, in armonia con l’insegnamento di Mazzini e di Terenzio Mamiani, non poteva dunque non suscitare l’astio dei gesuiti, anche se tutti e due i volumi sono pieni di continui riferimenti alla religione cattolica giudicata indispensabile nella educazione della donna.

«Lo scopo che la Ferrucci si propone nel dettar norme ed educare la donna italiana, è quello di perfezionare l’intelletto e la volontà, lo spirito ed il cuore con tutte le altre facoltà dell’anime in ordine al conseguimento del fine, pel quale la donna è stata creata. Essa si protesta di non volere entrare in politica (e vedremo presto che non attiene la sua parola), ma solo di trattare la educazione religiosa e morale, senza deviare, così fa credere, dal fine della nostra creazione e redenzione [...]». ([G. Calvetti], “Intorno a due scritti...”, op. cit., pp. 468-469).

Ecco quindi il grave peccato commesso dalla Ferrucci, l’essere entrata in questioni di politica – costantemente tenute presenti dai nostri padri quando parlano di problemi di educazione – anziché limitarsi a una pura e semplice precettistica politicamente asettica.

Altro rimprovero: la qualificazione di “donna italiana”. «L’essersi italianamente la Ferrucci circoscritta tra quei limiti di sesso e di nazione, la sospinge quasi sempre ad una specie di caricatura, rimestando perpetuamente la donna italiana, e dicendo frattanto cose che riguardano ogni cristiano battezzato». (Ib., p. 469).

«L’Autrice dà a dividere assai chiaramente, e talora lo asserisce senza mistero e lo predica alle madri, alle educatrici, come dovere imposto da Dio, prescritto dalla verità fondamentale del cristianesimo, come principio religioso impresso nella essenza delle anime, che la donna italiana cioè deve avere, e così ogni Italiano, quella educazione che vuole ed esige la moderna civiltà. Questa poi essa chiama vera, perché confacente, dice, alla natura italiana; perché civiltà che emana dalla religione; e per la definizione che ne dà conchiude che la donna italiana non può essere perfettamente educata nella religione e nella morale, se non viene educata e non educa i figli suoi (nota bene) per la unità, indipendenza e nazionalità italiana. E così fa credere che in questo è riposta la vera civiltà. Ora questa dottrina è falsa nelle sue conseguenze nientemeno che nei suoi principi [...]». (Ib., p. 470).

Non mancano i sarcasmi basasti sulla classica considerazione della donna che i gesuiti hanno sempre avuto: «Ora se la signora Caterina fosse così pratica di logica e di catechismo, come lo è (mi giova almeno supporlo) in opera di ago e di maglia [...]». (Ib., p. 473).

In effetti la critica principale, diretta contro gli scritti della nostra autrice, tende a determinare un fatto di per se stesso assai chiaro: per ragioni di opportunità o per ragioni di fede – quello non è possibile saperlo – l’educatrice parla di una necessità di educazione che tenda al perfezionamento dell’anima nella preparazione della fanciulla, perfezionamento che deve essere voluto e solidificato dalla religione cattolica, ma ciò deve avvenire attraverso la natura, la coscienza, la ragione, il sentimento, l’affetto: tutte cose che – secondo i padri gesuiti – sono giustissime ma che non hanno alcun valore se non vissute ed attuate attraverso il filtro dell’insegnamento della Chiesa cattolica.

Ecco perché la critica di cui ci occupiamo accusa la Ferrucci di mirare ad un perfezionamento esclusivamente laico, sebbene camuffato di parole e di formule religiose.

«La religione rivelata non abrogò – continua il nostro critico – né potea, i precetti naturali; ma avendo sollevato l’uomo ad uno stato sopra natura, avendolo ordinato ad un fine somigliante, essa perfezionò tutto l’uomo col manifestare dei nuovi veri all’intelletto, e collo invigorire la volontà per atti ai quali essa non saria stata altrimenti proporzionata. In questa nuova condizione i doveri naturali restarono i medesimi nella tendenza, diciamo così, e nel nome; ma furono sulstanziamente perfezionati, furono determinati e fatti concreti di vaghi e indeterminati che innanzi erano, furono nobilitati di nuovi motivi onde muoversi e soprattutto fur diretti a scopo più nobile e confortati di celesti promesse». (Ib., p. 40).

Quindi non si può più parlare di una educazione che tenga conto delle condizioni ambientali e soggettive di natura, una educazione così fatta appare subito condannata all’accusa di razionalismo; inadatta per due motivi alle donne.

Infatti, più che agli uomini, secondo la precisa differenziazione dei nostri critici, una educazione razionalista risulta dannosa al “sesso minore”. La concezione che i gesuiti avevano della donna, il vecchio cliché reazionario di un ambiente che la vedeva ancora parto dell’interessamento del diavolo, era già stato esposto, con chiarezza, dallo stesso Calvetti in uno scritto precedente, sempre sulla “Civiltà Cattolica”: «[...] la donna cristiana è come il nume tutelare della famiglia. Fatta, per la perpetuità del vincolo maritale, una perfetta fusione d’interessi tra lei e lo sposo; formatosi per la uguaglianza de’ comuni diritti, d’ambedue un sol principio regolatore del convitto domestico, la donna entra di ragion sua a reggere e governare la casa sebbene con subordinazione al marito. L’uomo secondo l’espressione dell’Apostolo, è capo della donna: Caput autem mulieris vir. Essendo la donna formata per l’uomo e non viceversa l’uomo per la donna: etenim non est creatus vir propter mulierem, sed mulier propter virum. Essa deve obbedirgli come Sara obbediva ad Abramo chiamandolo suo signore: Sicut Sara obedievat Abrahae, dominum eum vocans». ([G. Calvetti], “La donna nel cristianesimo”, in “Civiltà Cattolica”, serie I, vol. X, anno 1852, p. 390).

In dettagli vengono poi attaccate le considerazioni fatte dalla Ferrucci sulla educazione impartite alle fanciulle nei conventi e nelle scuole in genere gestite da religiose, risultando questa educazione dispotica e avulsa dal mondo. Antimonachesimo dichiarato che non poteva non trovare l’astio libellistico dei gesuiti.

Abbiamo, quindi, ancora una volta, uno scritto che ci lascia intravedere alcuni canoni fondamentali di interpretazione del problema dell’educazione, come era visto dai nostri padri, ma solo in occasione di precisi attacchi contro fondamentali tentativi di risolvere il problema in senso dichiaratamente avverso a quello del monopolio religioso. Ne viene fuori un quadro assai retrivo e incapace di reggere. Luigi Alessandro Parravicini e l’educazione popolare

Altra formidabile e serrata polemica questa contro Parravicini, autore di un circostanziato lavoro dal titolo: Ordinamento della educazione popolare, uscito a Venezia nel 1851 per i tipi dello stabilimento tipografico di Giuseppe Antonelli.

Non conosciamo l’autore della recensione non essendo indicato dall’Indice di cui abbiamo parlato prima, ma dovendo scegliere tra i due polemisti che nel periodo si occupavano di recensioni in materia di educazioni –Taparelli e Curci – lo stile e l’indole del discorso sembrerebbero molto più vicini a quest’ultimo che al primo. Lo scritto, infatti, ci appare scarsamente nutrito di argomenti teorici, quanto ben organizzato sotto l’aspetto polemico e negativo: non mancano le battute sarcastiche e opportunamente taglienti, come quel “putirebbero di sacrestia” che ci ricorda la penna di Curci.

Né, d’altro canto, la citazione che segue: «Lo spirito generale ond’è dettato il libro, è quel medesimo che abbiamo notato altra volta nel Lambruschini, nel Thouar ed in qualche altro [...]», ([?], “Ordinamento della educazione popolare proposto da L. Parravicini, Venezia 1851. Nel priv. Stabilimento nazionale di Gius. Antonelli”, in “Civiltà Cattolica”, vol. VIII, anno 1852, p. 439), può essere utile a identificare l’autore, perché su Lambruschini e su Thouar scrissero, come abbiamo visto nel corso del presente lavoro, sia Taparelli che Curci.

Comunque, a prescindere dalla questione dell’attribuzione, resta il fatto che lo scritto è perfettamente in linea con il pensiero costante della rivista in materia di educazione: critica dello spirito «moderato e naturale» (Ibidem), che è «opportunissmo ad educare persone di qualsivoglia religione pel ben temporale della società, se fosse possibile a’ tempi nostri ottener questo bene senza una viva ispirazione del concetto cattolico». (Ibidem).

In altri termini quello che preoccupa il recensore è lo spirito italiano che serpeggia nel libro di Parravicini, che posto accanto allo spirito cosiddetto modernista finisce per diventare una negazione dello spirito cattolico: tradizionale e universale per eccellenza.

Parravicini aveva, infatti, sostenuto la necessità di riorganizzare l’educazione su basi laiche, principalmente la necessità di creare dei maestri per dissodare l’incolto terreno dell’analfabetismo. In secondo luogo la sua visione organizzativa del mondo dell’educazione, prevedeva l’esistenza di due ordini di studi: uno tecnico e uno classico: il primo «per quei molti che non debbono assurgere ad impieghi sublimi, ma nella condizione mediocre appartengono peraltro alle classi civili della società» (ibidem); il secondo «destinato a incamminare alle professioni più nobili, per le vie degli studi universitari, perfezionati in altri collegi ancor più sublimi». (Ibidem).

Ma l’animo della religione cattolica non esiste in questo tentativo razionale di fare luce nelle tenebre della nostra struttura scolastica precedente all’unità nazionale. Così continua, infatti, il nostro critico: «Meno alcune fredde indicazioni di idee e di istruzioni religiose, nulla incontrammo in tutto il libro, che non potesse perfettamente convenire ad un protestante o ad un deista, nulla sulla pietà cattolica, sull’uso dei sagramenti, e su quelle tante pratiche svariatissime colle quali il Cattolico, usandole saviamente or l’una or l’altra ergesi dalle terre al cielo». (Ib., p. 437).

Ed ecco ricompare la tesi di Taparelli, con ben altre parole di quelle che quest’ultimo usava nel lavoro “Teorie sociali sull’insegnamento”, ma con identica sostanza: «Sarebbe ormai tempo che le persone assennate si persuadessero esser dritto della verità il comandare alle opinioni, non già dritto delle opinioni il rimorchiare la verità. Chiunque di ciò si fa capace, comprenderà che il diritto d’insegnamento non appartiene all’opinione, e molto meno ad ogni grande ingegno e ad ogni maestro; ma appartiene essenzialmente a chi è ragionevolmente certo e divinamente autorizzato ad insegnarla: certezza ed autorità che fra i Cattolici in materia di dogma e di morale non s’aspetta ad altri che alla Chiesa». (Ib., pp. 437-438).

Ecco, quindi, chiara la tradizionale preoccupazione dei nostri padri: ogni ammodernamento nella struttura dell’insegnamento, ogni intervento dell’organizzazione statale in questo settore, rappresenta un rischio grave: quello di perdere un monopolio, la cui giustificazione è fondata soltanto sul possesso della verità in assoluto.

Ma, come è naturale, ogni polemista che si rispetti non può distruggere l’argomento dell’avversario solo facendo ricorso ad un principio assoluto ed astratto, quale è appunto il possesso incondizionato della verità; la cosa sebbene possibile in campo cattolico, finisce per diventare estremamente debole quando, come era appunto il caso dei nostri padri della “Civiltà Cattolica”, dall’altro lato della barricata si trovavano penne agguerrite di liberali, quando non di socialisti e di comunisti. Occorreva, quindi, un sostegno concreto, reperito nella stessa tesi dell’avversario. E questo è cercato nella superficiale pretesa di Parravicini di riorganizzare tutta l’impalcatura dell’insegnamento primario dei diversi stati italiani, basandosi su di una ipotetica intenzione (o propensione) dei governanti ad eliminare l’ignoranza delle plebi e, cioè, a fare degli investimenti precisi in questo settore. Di fronte alla girandola di milioni che Parravicini finisce per tirare fuori di continuo dalle sue fantasie – piuttosto dettagliate (ib., p. 440), il nostro critico ha buon gioco scrivendo: «Ad un A. che scrive un libro, venti o trenta milioni di più o di meno non costano, se non una infinitesima goccia d’inchiostro», (ib., p. 439); arrivando perfino a piangere sulla povera gente che verrebbe ad essere torchiata dal fisco per ottenere quei milioni tanto sprovvedutamente sognati da Parravicini. (Ib., p. 439).

Ma si tratta di una critica che colpisce la parte meno interessante del lavoro di Parravicini, quella, appunto diretta a studiare, nei dettagli, la possibilità di una organizzazione precisa dell’insegnamento primario e secondario.

L’altra parte, i princìpi generali che portavano Parravicini a criticare la situazione contemporanea nel settore dell’educazione e ad individuarne i difetti, restano, nella critica del nostro padre gesuita, in ombra. Solo all’ultimo il vero motivo dello scritto e di tutta la polemica emerge con chiarezza, in modo che ci fa comprendere come lo spettro che impauriva i conservatori in quel momento era ancora più terribile del dilagante liberalismo, uno spettro che si immaginava pronto a crescere ancora una volta che si aprissero le porte alle (sia pure parzialmente giuste) pretese dei liberali: lo spettro del comunismo. Ecco come conclude il nostro critico: «Eppure dove andrebbe finalmente a parare codesta istituzione sì dispendiosa? Il sig. Parravicini vi schicchera su due piedi un programma, vi divisa scuole, vi ordina metodi, vi stabilisce commissioni ed ispezioni, vi moltiplica maestri, vi partecipa scienze, per poco non vi stampa calendari ed orari; e con portentosa sicumera vi entra pagatore che se i Governi vorranno attuare il suo vasto disegno all’impiegarvi quel po’ di milioni, la società verrà a rifiorire e ad esserne beata. Ma per mala ventura i facitori di progetti son troppi, e per quanto ciascuno si arroghi modestamente la preferenza, prima di venire ai fatti si vorrebbe guardare come abbian provato quei progetti, che non sono nuovi, in casa altrui. Ora non è chi non sappia a qual termine riuscisse la Francia con quell’esercito di pedanti vomitato dalle sue scuole normali ad arruolar comunisti in ogni casolare». (Ib., p. 440).

Conclusione

Considerando la lotta condotta dal gruppo redazionale della “Civiltà Cattolica” nel corso dei suoi primi anni di attività, non si può non ammirare la costanza e la sistematica attuazione degli intendimenti reazionari di partenza.

Più o meno il programma di Curci, delineato nell’articolo di apertura, senza nessun cedimento a possibili colloqui con le forze meno estremiste di quel liberalismo che pure andava segnando progressi indiscutibili subito dopo la metà del secolo.

Ma, considerando i risultati concreti raggiunti, sul piano della lotta politica e della tutela degli interessi temporali della Chiesa, non si può dire che le speranze dei nostri padri ebbero a realizzarsi.

Anche quando scesero in campo grossi nomi come Taparelli o Liberatore, anche quando essi utilizzarono polemisti dotati di indiscussa vena critica, come Curci, non riuscirono veramente a convincere.

Se dobbiamo essere sinceri, dopo l’esame di tutti gli scritti del primo periodo della vita della rivista, scritti riguardanti il problema dell’educazione, abbiamo l’impressione che il più delle volte i nostri padri corrano il rischio di non muoversi bene nell’esplicazione delle loro idee conservatrici.

Se da un lato la loro vera e segreta paura, cioè che la istituzionalizzazione statale dell’educazione favorisse il liberalismo e con questo il socialismo antireligioso, andava nascosta sotto l’aspetto tecnico e teorico di una dimostrazione di incapacità dello Stato – da per se stesso – di reggere e mantenere a lungo il compito gravissimo dell’educazione; dall’altro tutto quanto è messo in atto per giustificare a livello teorico quest’ultima tesi non è convincente, spesso non si allontana dalla dogmatica affermazione che solo alla Chiesa cattolica, in un mondo cattolico, in quanto detentrice della verità, spetta il diritto dell’insegnamento.

Poco convincente, a questo riguardo, anche lo scritto teorico di maggiore respiro: “Teorie sociali dell’insegnamento”, che Taparelli pubblica a cominciare dal primo fascicolo, malgrado tutto il suo apparato erudito fondato sulla distinzione tra opinione e verità e sulla illegittimità della divulgazione dell’opinione non sottoposta al vaglio di chi possiede la verità.

È lo Stato che viene a essere sottoposto a severa critica dai reverendi padri, quando intende assumersi l’onere di educare, istituzionalizzando i processi dell’insegnamento organizzato in tutti i suoi settori; e ciò in quanto lo Stato non è detentore della verità, come invece per loro sembrerebbe esserlo la Chiesa, ma soltanto è detentore dell’opinione politica che in un certo momento e in certe circostanze informa la sua azione. Continuando in questo senso risulta oltremodo chiara la conseguenza che l’opinione può variare dall’oggi al domani con risultati disastrosi nei processi educativi.

E qui, a nostro avviso, si pone un’altra considerazione non priva di significato. Come altre volte, ed in modo particolare quando affrontarono il problema delle conseguenze dell’educazione liberale, i padri capirono qualcosa che era sfuggita ai loro avversari, tutti presi dalla foga del costruire; ma questo qualcosa lo capirono in forma indiretta, meramente accidentale al loro scopo che restava sempre quello distruttivo.

Nel caso in particolare, quando essi si rivolsero contro l’educazione statale accusandola di essere asservita all’ideologia politica dominante e di non potere attingere alle pretese affermazioni di indipendenza e di libertà scientifica, dicevano qualcosa di estremamente interessante, che oggi la ricerca in questo settore ha individuato appieno. Indicavano cioè i limiti di un insegnamento di Stato che, partendo da speranze liberali, finisce per concretizzarsi in dolorose realtà autoritarie e deformanti della personalità del discente. Ma, tutto ciò, non era altro che concezione marginale nella loro tesi, anche perché accanto alla critica dell’educazione dello Stato veniva posta l’esaltazione dell’educazione religiosa, di certo non meno autoritaria della prima.

Qualcosa di simile, abbiamo detto, era loro capitato quando avevano denunciato il pericolo che dietro l’apertura liberale verso l’educazione popolare si celasse la strada per fare un “comunista in ogni casolare”, energica espressione che dice tutto. La cosa, come è chiaro, non poteva essere compresa dai liberali o, comunque, questi non potevano fare niente per frenare la loro azione in quanto avrebbero finito per suicidarsi politicamente nell’incontro antistorico con i loro avversari politici conservatori.

Quindi il tema della libertà da una lato, sfumato in gradazioni diverse fino ad arrivare a quelle più forti di un Thouar o di un Parravicini; e il tema dell’autorità dall’altro, costante, senza grandi differenze, o, se si vuole, più scoperto nei polemisti meno provveduti e meno scoperto nei teorici più grandi come Taparelli D’Azeglio. Ma, in ogni caso, scontro costante. Sullo sfondo anche la possibilità di un’apertura vista con grandi precauzioni e infinite titubanze di Taparelli, ma solo a condizioni che permanga intatta la tutela intellettuale della Chiesa e che venga tagliata irrimediabilmente la strada alle aspirazioni democratiche e socialiste.

E la limitazione dell’ideale perseguito dai nostri padri, appare chiara nel modello da essi indicato: quel libro Dell’educazione cristiana e politica dei figlioli, del cardinale Antoniano, difeso da Calvetti contro ogni tentativo di impostare in modo moderno il problema dell’educazione.

Maggiore dettaglio assumono le vicende di questa lotta polemica condotta dalla “Civiltà Cattolica” contro ogni forma di liberalismo, democrazia e socialismo, nei singoli problemi riguardanti gli asili infantili, i libri per bambini e le opere di Thouar, i lavori di Lambruschini, di Parravicini e della Franceschi-Ferrucci.

La conclusione, dopo l’esame dei singoli problemi che abbiamo fatto nel corso del presente lavoro, non può essere positiva. Al di là dell’esaltazione in negativo dei valori di libertà della nuova tesi pedagogica liberale, al di là della curiosità storica per certi interventi contro le nuove forze politiche e in difesa di un vecchio ordine che minacciava di disintegrarsi, sul piano costruttivo ben poco resta – almeno limitatamente al settore dell’educazione – del lavoro della “Civiltà Cattolica”. E qui poco lumeggiato soltanto dal coraggio e dalla validità degli scritti dei suoi avversari.


[1973]

Gesù Cristo non è mai esistito

Leggere oggi [1976], a distanza di settant’anni, l’opera di Emilio Bossi, significa riportarsi in un clima positivista di fede nell’analisi storica, un clima che oggi non è più. Noi stessi, tutti noi che lavoriamo giornalmente alla costruzione dell’uomo nuovo, che abbiamo vissuto le gravi avventure retorico-romantiche del fascismo, che abbiamo saputo superare i distorti insegnamenti di uno storicismo determinista, abbiamo contribuito alla creazione di un clima nuovo, alla nascita di una nuova storiografia. Se Bossi avesse scritto oggi la sua documentatissima storia sarebbe stato dei nostri senz’altro, avrebbe colto il senso della sua ricerca: la negazione della storicità della persona del Cristo non è, da sola, sufficiente assicurazione per l’abbattimento della piovra religiosa, scomparso Cristo non è vero che scompare il cristianesimo. Non scompare perché iI cristianesimo, come ogni religione, è faccenda sociale e non soltanto storica. Ma, ovviamente, non possiamo rimproverare al nostro autore di essersi posto al lavoro... settant’anni prima, mentre dobbiamo riconoscergli la vasta preparazione e la larga scelta di interpretazioni presentate a favore della tesi dell’inesistenza storica del Cristo.

A noi, in questa sede, invece, corre un altro obbligo: quello di individuare l’importanza, oggi, di quella ricerca, inserendola nello stato attuale degli studi. Solo in questo modo il nostro compito avrà un significato, in quanto se ci limitassimo a criticare il lavoro e basta faremmo la figura del nano salito sulle spalle del gigante che si gloria di vedere più lontano di quest’ultimo.

Il razionalismo positivista aveva impostato una sua lotta contro la religione, fatta di contrapposizione alle tesi teiste. Il campo di scontro era quello del problema dei miracoli. Da canto suo la religione, individuando nel Cristo il Figlio di Dio, gli attribuiva eventi talmente straordinari, tipici di ogni divinità, da potersi chiamare miracoli. I critici dettero inizio alla disamina di questi eventi, uno per uno, giungendo a volte a conclusioni per lo meno ridicole. Infatti quando si dice che la discesa dello spirito santo non era altro che un fulmine o un raggio di sole, oppure che alle nozze di Cana era stata fatta una sostituzione opportuna, non solo si fa una critica senza senso ma si apre la porta al contrattacco teistico che, infatti, non è mancato. La teologia più recente, con la corrente della “Formgeschichte”, studiando le forme di linguaggio e di pensiero dell’ambiente ebraico, ha sviluppato la tesi che i miracoli narrati nei Vangeli non sono altro che miti. Esempio, il cambio dell’acqua in vino alle nozze di Cana significa i doni di Dio dati agli uomini e così via. In questo modo la religione non è vero che ha fatto un passo indietro, ne ha fatto uno in avanti; è il razionalismo positivista che ha mostrato le corde, costretto su di una strada che è metodologicamente sbagliata perché parziale.

Oggi, invece, la lotta alla religione è condotta in modo più adeguato ai tempi. Messa da canto la tradizionale contrapposizione al teismo si parla di un ateismo nuovo, emergente dalla somma delle ricerche dell’uomo: storiografiche, economiche, sociologiche, psicologiche e così via. Un ateismo capace di costituire il fondamento dell’uomo nuovo e del mondo di domani.

Ma, accanto a questa costruzione, c’è un problema di distruzione concreto, un problema che investe da un lato l’istituzione religiosa e dall’altro il fenomeno religioso come spontanea manifestazione delle masse degli sfruttati. Riguardo la prima parte del problema l’azione distruttiva può essere condotta con mezzi svariati a seconda delle contingenze; riguardo la seconda parte è soltanto la lunga penetrazione nelle masse, il miglioramento generale delle condizioni, l’eliminazione dello sfruttamento e del sopruso, che potranno fare scomparire il fenomeno.

L’insieme di questi problemi ci fa capire con chiarezza come un colpo unico, per quanto formidabile, come quello scagliato da Bossi con il suo libro, non è più sufficiente.

Veniamo, comunque, al problema storico in particolare. La grande scoperta di questi ultimi decenni, i Rotoli del Mar Morto, non riguarda direttamente il nostro problema, essi non hanno portato una testimonianza risolutiva, soltanto hanno inserito meglio le nostre attuali conoscenze dell’ambiente ebraico che produsse i Vangeli e, in genere, il fenomeno cristiano, con maggiori dettagli. La comunità che redasse i Rotoli è stata quasi certamente identificata con quella degli Esseni, o comunque con molte vicinanze a quello che noi conosciamo degli Esseni, per cui Giovanni il battezzatore si può considerare molto vicino a questa comunità, da ciò una quasi sicura derivazione di alcune formulazioni dei Vangeli dalle tesi contenute nei Rotoli.

In questi Rotoli si parla di un “maestro di giustizia”, una specie di capo spirituale molto simile alla figura umana trasmessaci dalla tradizione come il Cristo. Naturalmente gli aspetti divini non c’entrano, ma l’esistenza di questi “capi” è cosa certa. Dai Rotoli appare anche l’esistenza di una precisa organizzazione, quale più o meno sarà quella che prenderanno le comunità cristiane primitive, ad esempio molto simile a quella descritta negli Atti degli apostoli. Niente di determinante, quindi, ma un notevole avvicinamento nella ricostruzione di un’epoca e di un ambiente, faccende molto più precise della ricostruzione della figura di un uomo.

La vasta ricerca di Bossi è ancora oggi valida, almeno riguardo la documentazione storica, mentre per la parte in cui fa dipendere la probabilità dell’esistenza storica del Cristo dalle contraddizioni della cosiddetta morale cristiana, il discorso è molto più debole. Comunque, mantenendoci all’indagine storica, e di storia comparata delle religioni, possiamo dirci soddisfatti dei risultati conseguiti. Solo che oggi, esaminando tutti i documenti disponibili, specialmente i documenti paolini, alcune impostazioni razionaliste si devono modificare. Partendo dal presupposto – per noi indiscutibile – che non è l’accertamento dell’esistenza fisica del Cristo che determina la forza attuale dell’abiezione religiosa che si chiama cristianesimo; passiamo oltre e possiamo affermare che in particolare il cattolicesimo si basa molto di più sulle sostanziali modificazioni contenute nelle lettere di Paolo di quanto non si basi sui Vangeli veri e propri. Ma una eventuale prova della inesistenza di Paolo non sposterebbe il problema. E così via.

È indiscutibilmente il lavoro di Paolo che determina la costruzione autoritaristica e collaboratrice del potere temporale che poi sarà la Chiesa. Suoi sono i precetti di obbedienza al potere civile perché viene da Dio e i divieti di ribellione alle autorità. Tutto ciò, di chiara impronta antiegualitaria, ci conduce veramente al centro del fenomeno religioso cristiano. La figura del Cristo, invece, ce ne porta lontano, in una atmosfera trascendentale, molto adatta ad alimentare la tesi della sua divinità.

La realtà storica, almeno per quanto possediamo fino ad oggi, è che questi “maestri di giustizia” per le sette precristiane nell’ambiente in cui si sviluppò, quella religione portata da Paolo al suo culmine di accentramento ed ottusità burocratica, dovevano essere molto comuni. Non abbiamo elementi storici sufficienti a farci concludere, con Bossi, per l’inesistenza di Gesù, ma ne abbiamo moltissimi per farci dire che la sua eventuale esistenza non si differisce da quella di moltissimi altri “maestri di giustizia”, nessuna eccezionalità nel suo comportamento, nessun segno particolare o divino: tutto quello che i Vangeli ci dicono di lui indica soltanto la presenza di una “mitografia”, accuratamente sviluppata da coloro che avevano interesse a costituire una setta capace di indirizzare verso la venerazione assoluta per una persona considerata, appunto, degna di tale venerazione. Tutto il resto, le vicende della sua vita e i minimi dettagli che ci sono pervenuti, non hanno senso in quanto si possono riferire a decine di persone, possono essere frutto di fantasia, possono essere stati ricavati da altri miti, possono essere stati frutto di frodi e di aggiustamenti, come ha dimostrato molto bene Bossi.

Resta da dire che il “maestro di giustizia” che ci viene indicato nei Rotoli del Mar Morto non viene mai designato del titolo di “Messia”, mentre questo è il titolo che viene dato al Cristo. Ma non si tratta di un grave ostacolo, il titolo potrebbe essere stato dato a posteriori, al momento della costruzione delle vicende relative al personaggio che si voleva “montare”, vicende che appunto oggi ci sono riportate nei Vangeli. Ciò spiegherebbe anche molte “rispondenze” con alcune profezie del Vecchio Testamento.

Le lettere di Paolo e la personalità che le produsse sono, quindi, secondo noi, al centro dell’attenzione nello stesso problema della veridicità storica del Cristo. Ed è proprio in queste (Corinti, I, 11, 23) che troviamo uno dei punti che ci fanno pensare ad una “costruzione” posteriore e integrale della vita e della figura del maestro. La passione di Gesù è stata da Paolo “ricevuta” dal Kyrios, nella stessa forma esatta della diretta esperienza degli apostoli. In questo modo si è voluto mettere al sicuro l’autorità di Paolo a parlare in nome di Gesù e, nello stesso tempo, si è data una singolare conferma della versione evangelica. È ovvio che qui siamo davanti ad una costruzione a posteriori. Il concetto stesso di paradosis (visione) è molto vicino a quello di fantasticheria o immaginazione. Potrebbe essere una frattura nel ben congegnato sistema di ricostruzione delle vicende del Cristo, ma il problema centrale è ancora più lontano. La figura di quest’uomo diventa sempre meno importante davanti alla massa mostruosa di ciò che si è costruito in suo nome. Abbattere questa massa, abbattendo la sua credibilità storica, sarebbe troppo facile.

Quindi Paolo ricostruisce, ma è credibile che ricostruisca su di un punto di riferimento concreto, se non una persona fisica ben determinata – per altro da lui non direttamente conosciuta – su di un modello, a esempio il modello del maestro di giustizia. Non è possibile dire con certezza se chi redasse i Vangeli, e Paolo stesso, si siano serviti di testi molto prossimi a quelli che oggi troviamo nei Rotoli del Mar Morto. In questo senso esistono molte divergenze, ma è vero altresì che quei testi ci fanno vedere l’organizzazione di una comunità, come quella cristiana, all’opera, sotto la guida di un capo. Queste comunità potevano essere centinaia, tanto da costituire un modo di organizzazione religiosa e politica: su questa realtà venne costruita la favola di Cristo.

Infine, riguardo il punto centrale della famosa polemica del “Testimonium Flavianum”, cioè del passo dell’Archeologia giudaica di Giuseppe Flavio, cui fa cenno con giusta collocazione storica Bossi, oggi possiamo avere le idee molto più chiare. La testimonianza non è attendibile, ma non per le evidenti possibilità di interpolazione – messe in rilievo dal Bossi in uno con la critica razionalistica dell’epoca – ma per altri motivi. Il fatto che Origene non leggesse nella sua copia il passo aveva significato, per il passato, la prova sicura che si trattasse di un’aggiunta successiva, oltre al fatto indiscutibile della collocazione tipicamente a interpolazione (su quest’ultimo argomento Eduard Norden ha fatto giustamente notare che si tratta di un tipico procedimento del racconto che si svolge per “thòryboi” o movimenti). Quindi ci si trovava – più o meno all’epoca di Bossi – con una duplice possibilità: interpolazione di Giuseppe stesso o interpolazione successiva, addirittura successiva a Origene, a opera dei “costruttori” del mito cristiano.

In pratica non possiamo considerare valido il passo perché si tratta di un inserimento in un’opera a-cristiana, non tanto perché si tratta di un inserimento in un passo che tratta di argomenti diversi. L’opera, nel suo complesso non è anticristiana ma solo a-cristiana. In effetti doveva essere poco salutare esprimersi in qualche modo intorno al fenomeno cristiano, e Giuseppe, malgrado il suo passato rivoluzionario e guerrigliero, preferisce la vita tranquilla. Ma l’evoluzione dell’uomo Giuseppe è decisamente in senso cristiano. Dalla Guerra giudaica all’Archeologia si ha un passaggio netto dalla valutazione di alcune cose in un certo modo ad una valutazione differente. Nel primo lavoro prende posizione a favore del sacerdote Anano [ben Seth] che aveva fatto lapidare Giacomo, capo della comunità cristiana di Gerusalemme: nel secondo lavoro lo condanna, lo chiama uomo feroce e di animo violento. In effetti qui sta una vecchia polemica di Giuseppe contro gli Zeloti (molto vicini alla comunità che oggi ci appare attraverso i Rotoli del Mar Morto), decisamente partito popolare e favorevole ai poveri. Nota è anche la posizione di Giacomo riguardo i poveri (la sua lettera pervenutaci è quanto di più forte sia stato scritto contro i ricchi). Da ciò un accomunarsi della polemica contro gli Zeloti con quella contro Giacomo che zelota non era ma che era cristiano.

Non solo, ma mettendo in risalto la sua riprovazione verso Anano apre un discorso su Giovanni il Battezzatore e sulla sua morte – cosa che non esisteva nel primo lavoro. Qui – come ha notato Santo Mazzarino – i concetti di “rivoluzione” e di “cambiamento” non sono più concetti negativi, come erano nel primo lavoro, ma positivi. Siamo quindi di fronte ad una apertura nel senso delle forze nuove che premevano contro le vecchie costruzioni religioso-politiche. All’interno del vecchio ceppo giudaico si veniva formando, anche se non apertamente, una forma di valutazione politica decisamente nuova, cioè la forma cristiana.

In un altro passo dell’Archeologia è presente il problema sollevato da Paolo nella conversione senza circoncisione, problema gravissimo che sicuramente attraversava le coscienze di tutto il mondo giudaico dell’epoca. Giuseppe prende posizione per la necessità della circoncisione, sia pure dietro la facciata del racconto storico.

Abbiamo quindi una diversa considerazione del “Testimonium”. L’interpolazione non è più sufficiente. Ci appare invece poco convincente la presenza di quel passo perché parla apertamente del problema “Cristo”, mentre tutta l’opera è a-cristiana. Affermare, come ha fatto Mazzarino, che si poté trattare di una copia (o più copie) fatta circolare clandestinamente – sempre con il consenso dell’autore – con l’inserimento del passo, non ha un grande valore storico. Per altro per quale motivo Giuseppe l’avrebbe fatto, specie se, come lo stesso Mazzarino ha provato, l’opera venne scritta intorno al 100, cioè dopo che Domiziano aveva fatto uccidere Flavio Clemente e mandata in esilio sua moglie Domitilla, ambedue filocristiani? Sarebbe stato un inutile e stupido rischio.

Ci siamo dilungati sul “Testimonium” per dimostrare come oggi lavori la critica storica, cioè in modo radicalmente diverso dai metodi razionali e positivisti del secolo scorso. I risultati sono maggiori e più sicuri di quelli, apparentemente sicuri, precedentemente raggiunti.

Allo stesso modo, oggi, ci sembra molto più produttivo affermare l’inesistenza storica di Gesù attraverso l’impossibilità di individuarlo tra la miriade di “riformatori” e di “professionisti della propaganda religiosa”, per non usare il termine oggi noto dopo la scoperta dei Rotoli, di “maestri di giustizia”. Il lavoro critico resta in piedi lo stesso in quanto è diretto a denunciare le costruzioni a “posteriori” e le falsificazioni, le mistificazioni e i raggiri fatti dalla Chiesa. Ma la lotta al mostro religioso deve avvenire non soltanto attraverso questo strumento, cioè attraverso la critica storica, ma anche attraverso la critica alle istituzioni attuali e, principalmente, attraverso il lavoro giornaliero e poco visibile della propaganda antiautoritaria e libertaria.

Cadendo la figura storica di Gesù cade un mito, cadendo questo mito verso cui si sono rivolti per secoli gli uomini, cade un’autorità che è stata sfruttata dai padroni per meglio mantenere il loro regno di sangue e di odio. In nome di Gesù è stata eretta l’Inquisizione, sono state fatte centinaia di guerre, sono morti milioni di uomini. Cadendo la figura storica di Gesù non possiamo illuderci che cada tutto il mito abominevole della religione cristiana, ma possiamo dire che un piccolo passo avanti è stato fatto: resta ancora da compire il passo decisivo. A questo lavoriamo tutti noi, con la speranza che venga presto il giorno in cui gli sfruttati potranno risollevare la testa e non avere più bisogno di una religione qualsiasi.


[Introduzione a Emilio Bossi (Milesbo), Gesù Cristo non è mai esistito, Edizioni La Fiaccola, Ragusa 1976]

Una questione di rogo

La rivista “Studi Cattolici” ha pubblicato un articolo di Rino Cammilleri, in cui si attacca l’opera e la vita di Giordano Bruno. Dello stesso autore è prevista l’uscita di un Elogio del Sillabo per le edizioni Leonardo Mondadori.

Di per sé la questione non solleva molte perplessità, vista la tradizione di chiusura mentale e di stupidità che un certo cattolicesimo ha messo in campo da sempre. Quello che desta meraviglia è invece il modo in cui questo attacco è stato portato avanti, essendo esteso anche agli aspetti strettamente filosofici della posizione culturale di Bruno, e gli argomenti che sono stati scelti.

A sostegno della bontà della scelta inquisitoria di mandare Bruno sul rogo vengono indicati il suo ateismo e il suo essere stato [forse] una spia al servizio di governi stranieri. La conclusione dell’articolo è davvero speciale. In essa vengono elogiati ì padri inquisitori «i quali avevano il buon senso (che noi abbiamo perduto), di punire i pessimi teorici, più che i criminali comuni».


[Pubblicato su “Canenero” n. 2, 4 novembre 1994, p. 7]

Dio lo vuole

Franco Cardini, Le crociate. Tra il mito e la storia, Roma, Istituto di cultura Nova Civitas, 1971, pagine 402.

Dio lo vuole. Con questo grido di guerra dei primi crociati iniziarono in Terrasanta le Crociate, un vasto movimento di genti e di interessi economici, oltre che di idee e di sanfedismo distruttore e cieco.

Da sempre ci sono state letture diverse di questo fenomeno che, per altro, non potrebbe essere esaurito nell’ambito necessariamente ristretto di una singola angolazione storiografica.

Mette conto notare però che la rilettura dovuta a Franco Cardini, l’ultima di un medievista abbastanza noto, recentemente [1994] assurto agli onori discutibili della cronaca a causa della sua nomina a consigliere della RAI TV, si inserisce nell’ambito di quel revisioniamo che supporta come può la nuova ondata politica di destra cercando di darle dignità teorica e contenuti culturali.


[Pubblicato su “Canenero” n. 2, 4 novembre 1994, p. 7]

Quarta di copertina

Emilio Bossi (Milesbo), Gesù Cristo non è mai esistito, Edizioni La Fiaccola, Catania 1976, pagine 224.

La figura storica del Cristo è servita sempre come alibi per coprire le nefandezze, i crimini, le atrocità, i massacri, perpetrati dai preti in tutti i secoli.

La religione cristiana ha utilizzato il mito di Gesù, fermandosi nel descriverlo buono e saggio, per fare accettare alle plebi un messaggio di pace e di amore, in un mondo di contrasti e di lotte, per facilitare il compito di coloro che avevano interessi a tosarle e a mantenerle nella miseria.

Dopo duemila anni, la scena non è di molto cambiata. Il porco vestito a festa che oggi [1976] risponde al nome di Paolo VI, che viene portato in giro – in pieno secolo ventesimo sulla stessa sedia su cui sedevano i grandi carnefici del passato, fondatori e sostenitori dell’Inquisizione, tende la mano benedicente ai grandi massacratori di oggi, accogliendo nelle sue paterne braccia gente come Pinochet, come Franco, come i responsabili dei regimi razzisti del Sud Africa. In questo modo l’ignobile vecchio di Roma compie ancora una volta la funzione di ogni religione: nascondersi dietro le parole di pace e di amore, per condurre a compimento disegni di sterminio e di guerra.

Solo la cosciente responsabilizzazione degli individui e dei popoli potrà, nella rivoluzione, cancellare dalla storia, sia il mito “buono” del Cristo, come tutti i pagliacci e i becchini, tutti i capi di governo e tutti i papi, che di quel mito hanno fatto uno scudo e un baluardo.

Nota

A causa di questa “quarta di copertina” il libro venne sequestrato presso la casa di Franco Leggio a Ragusa. Nello stesso tempo ci fu un processo contro l’editore e contro di me. Non posseggo più i documenti del processo, che comunque fu celebrato nei primi mesi del 1978. Malgrado l’assoluzione le copie sequestrate, praticamente la quasi intera tiratura di 1000 esemplari, non vennero restituite essendo state nel frattempo destinate al macero, costringendo l’editore a provvedere a una immediata ristampa.

I due Gesù

L’analisi sulla figura storica e mitologica di Gesù e condotta da Striuli sulla base delle ricerche positiviste sul cristianesimo. Oggi fa quasi meraviglia la grande mole di erudizione che i pensatori e gli storici a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento misero in piedi. Ed è in quell’ampia prospettiva di ricerche che questo esile libretto si giustifica.

Forse non mancano – come di fatto non mancano – le obiezioni al metodo, non trovando infatti spazio nemmeno in queste note, così essenziali, quei riferimenti al rapporto tra mito e uomo che furono poi elemento preminente del periodo della lotta tra l’idealismo imperante (morto il positivismo) e il nascente astro del materialismo dialettico. Escludendo ogni discussione di valore preconcetto sui metodi da impiegare nella ricerca storica – discussione da riservarsi ad altra sede – resta quella relativa alla natura e alle caratteristiche del mito.

Striuli ci parla di “due Gesù” ma non esclude che si possa anche parlare di una serie piuttosto lunga di Gesù, quindi di una serie di interpretazioni abbastanza varie del mito di Gesù. Qualcosa di simile potremmo fare oggi se dovessimo parlare del mito dello sciopero generale nell’interpretazione di partenza datagli da Sorel. Dovremmo ammettere che finiremmo per trovarci davanti a una serie di “concezioni” di sciopero generale, costituente lo svolgimento del mito di questa forma di lotta. Non più anticamera dalla rivoluzione, la serie si conclude oggi con lo sciopero generale strumento di utilizzazione della forza dei lavoratori a favore del mantenimento dello sfruttamento. Eppure anche oggi non c’è lavoratore, per quanto sofisticata possa essere la sua coscienza politica, che non senta una particolare simpatia per quello che lo sciopero potrebbe essere, non per quello che è; cioè che non senta come lo sciopero potrebbe essere ancora l’anticamera della rivoluzione, solo che fosse autorganizzato e che fosse veramente l’inizio dell’autogestione delle lotte rivoluzionarie. Poiché così non è, il lavoratore mantiene il suo atteggiamento di critica contro il mito, non potendo spogliare il mito stesso della sua sovrastruttura e trasformarlo in realtà.

La stessa cosa avviene, da secoli, per il mito di Gesù. Strutturato originariamente sulla figura del “liberatore” questo mito ha avuto molte manipolazioni, ma in tutte trovava sia l’atteggiamento critico e perfino irridente di chi è davanti a una mistificazione, e anche l’atteggiamento di accettazione. Non si può dire che le grandi masse sofferenti non abbiano accettato per secoli la figura (anzi le figure) del Cristo, e non si può dire che anche oggi larghe fasce di sfruttati non l’accettino. Solo che il mito che si trovano davanti non riescono a spogliarlo dalla coltre ideologica che serve al potere e che è costituita dalla religione e dalla guida. Eliminando questo ci si potrebbe accorgere che quel mito non ha ragione di esistere perché non è altro che l’usurpazione evidente di un altro mito, eterno simbolo dell’uomo in lotta: il mito della libertà.

I preti e i padroni hanno usurpato il mito della libertà e della rivolta coprendolo di ridicolo, appiccicandoci addosso questa figura ambigua e stonata del Cristo, e hanno cercato di indirizzare l’anelito eterno che l’uomo ha per la libertà verso il simbolo della guida e della religione, cioè verso il simbolo del potere: cioè il Cristo.

Per questo la lotta contro Gesù è lotta contro il potere, ed è lotta che anche oggi assume tutto il suo significato rivoluzionario all’interno dello schieramento di classe.


[Prefazione a Salvatore Striuli, I due Gesù, Edizioni La Fiaccola, Catania 1980, pp. 3-5]

Stregoneria cristiana

Dai facitori di pioggia al prete moderno che ci parla il linguaggio possibilista del Vaticano Secondo, la strada è stata lunga ma lineare. Il motivo comune che lega l’antico stregone, tenutario geloso dei segreti del bene e del male per la tribù, allo stregone moderno che sa di essere il delegato più intimo del potere oscuro e multiforme, è appunto la pratica occulta, la mistica stregonesca, il formulario iniziatico e incomprensibile.

L’uomo coperto di pelli del passato apriva la pancia dell’animale sacrificale per sapere in che modo doveva comportarsi davanti al resto della tribù che aspettava una risposta in merito ai problemi vitali della sopravvivenza. Egli sapeva che non poteva confessare apertamente di essere disarmato davanti alle manifestazioni incomprensibili della natura, ma sapeva anche che il desiderio di credere, da parte dei membri della tribù, era pari alla loro paura: da ciò la nascita di oscure pratiche stregonesche dirette sia a impressionare lo spettatore, sia a nascondere un discorso più chiaro che sarebbe stato impossibile.

Il sacerdote moderno ha un problema abbastanza simile. Sa che non sarebbe semplice spiegare con gesti e parole chiare l’incomprensibile rapporto con il nulla, e poiché sa che la gente ha tanta buona volontà gli torna comodo insistere nel mantenere le formule stregonesche che impressionano e nascondono. La gente scuote il capo, ma si tranquillizza pensando che quelle coglionate, dopotutto, non fanno male a nessuno.

Invece non è vero: ogni formula, ogni atto che serve a nascondere la verità, è un ostacolo alla liberazione e deve essere abbattuto.

Il libretto di Simon è una simpatica lettura delle formule e delle celebrazioni cristiano-cattoliche più esilaranti e più apertamente inquinate di pratiche stregonesche. Oggi alcune di queste pratiche sono state riformate (per esempio, abolizione del latino), ma restano in larga misura ancora valide per cui riteniamo che la lettura (piacevole) del libro di Simon sia senz’altro da consigliare.

Tutte le religioni sono, nello stesso tempo, una piaga dell’umanità e una testimonianza della sua sofferenza. Tra queste piaghe il cattolicesimo è senz’altro una delle più purulenti. La gravità di questa malattia contagiosa che si chiama cattolicesimo è data, in massima parte, dalla sua elevata pretesa di oggettività. Le altre religioni – come ad es. il protestantesimo – lasciano più spazio alla critica soggettiva e, per questo, scatenano conflitti interiori di portata non trascurabile nei loro fedeli. Il cattolicesimo è eminentemente oggettivo. Perno della sua pratica stregonesca è la messa. Lì, con poche parole, ed esclusivamente perché queste parole sono pronunciate in un certo contesto, in un certo modo, da una certa persona investita da un particolare carisma, succede semplicemente che un pezzo di pane senza sale si trasforma in un pezzo di carne umana (e divina). Il fenomeno non è da poco, come ognuno vede. Infatti non si tratta di una trasformazione metafisica, ma di una trasformazione che la chiesa cattolica, oggi, in pieno secolo delle meraviglie della tecnica e della scienza, insiste nel considerare come trasformazione di sostanza, vera e reale. Lo spettatore non deve fare niente, non deve porsi problemi di nessuna sorta, deve solo stare davanti ad un tizio che dice alcune parole stregonesche e il grande fenomeno sostanziale si verifica. Tutto qui. Cosa dire? Ben poco. Finché esisteranno individui che chineranno il capo davanti a una simile improntitudine la lotta per la liberazione sarà ancora lunga e difficile.

E il libretto di Simon, volgendo in ridicolo, piacevolmente, queste pratiche da stregone, contribuisce ad avanzare verso la liberazione definitiva dell’uomo dai miti e dalle paure, dai sacerdoti e dai padroni, dalla religione e dal potere.


[Prefazione a Nicola Simon, Stregoneria cristiana, Edizioni La Fiaccola, Catania 1980, pp. 3-5]

La peste religiosa

La polemica e la lotta contro la religione sono ancora un punto essenziale dell’attività che gli anarchici svolgono contro ogni forma di potere e ogni forma di sfruttamento. La religione è la forma più sottile del potere, quella che avvolge le paure e le superstizioni, che, dopo averci fatto credere in Dio, domani ci potrebbe spingere a credere nel partito o nell’autorità dello Stato. Bisogna spazzare tutto questo, evitando di cadere nell’equivoco di una polemica antireligiosa che si limiti solo a indicare le contraddizioni teologiche o le assurdità della fede. Bisogna spingere più profondamente la critica contro la religione, dimostrando che la credenza in Dio può trasferirsi in una credenza nel partito, nel capo, nello Stato e in ogni altro tipo di “sacralità” se non si vigila criticamente distruggendo, di volta in volta, questi stimoli irrazionali, arrivando così, progressivamente, alla costruzione dell’uomo nuovo, dell’uomo che non avrà più bisogno del sacro perché non sarà più sottoposto allo sfruttamento.


[Nota introduttiva a Johann Most, La peste religiosa e Sebastien Faure, Dio non esiste, Edizioni La Fiaccola, Catania 1977, p. 3]

Nota

Il libretto venne pubblicato alla fine del 1976 (con data 1977) con una copertina in cui apparivano tre preti in atto di cacare. Il disegno, dovuto a Lucjo Cammarata, autore fra l’altro delle copertine dei miei libri: Movimento e progetto rivoluzionario e La gioia armata, richiamò subito l’attenzione degli organi inquirenti. Sequestro dei libri presso Franco Leggio, a Ragusa, e incriminazione oltre che contro di lui anche contro di me. Imputazione: vilipendio della religione.

Purtroppo anche per questo processo le carte non si sono salvate dalle tante incursioni persecutorie eseguite, nel corso di decenni, dagli organi inquirenti. In particolare mi spiace non potere riportare qui un bellissimo volantino, distribuito la mattina del processo il 13 marzo 1978, riproducente tre giudici che cacano su tre preti che cacano, con la scritta in grande: “Che cacata primaverile”. Da precisare che il presidente del tribunale si chiamava proprio Primaverile.

Riproduco i volantini di cui sono rimasto in possesso:

I Una nuova provocazione.

Dopo la prima perquisizione e il sequestro de La gioia armata e la prima udienza del processo, continuano le intimidazioni nei nostri confronti.

Alle 7 di stamattina tre ceffi della squadra politica della questura di Catania hanno fatto violenta irruzione, armi alla mani, nel domicilio del compagno Alfredo Bonanno per sequestrare la recente ristampa di un classico anticlericale:

Johann Most – La peste religiosa – Sebastian Faure – Dio non esiste.

Tanto spiegamento di forze per sequestrare un opuscoletto di 52 pagine del prezzo di 700 lire (per eventuali richieste rivolgersi alla Questura di Catania, oppure a Franco Leggio a Ragusa) che si trova già incluso nel volume Gli Anarchici, a cura di G. M. Bravo, nella Collana “Classici politici” dell’UTET.

Non si spiega il perché la perquisizione sia stata fatta a Catania a casa del compagno Bonanno, quando nell’opuscolo risultava l’indicazione dell’Editrice “La Fiaccola” di Ragusa.

Un’altra incriminazione è stata fatta nei confronti della Rivista “Anarchismo” per il manifesto affisso qualche giorno prima in occasione del processo del 19 dicembre 1977 al compagno Bonanno (per il libro La gioia armata). Per questa incriminazione la Procura della Repubblica non ha ancora deciso quale reato addebitare (sic!).

Si prevede l’incriminazione del volantino distribuito la mattina del processo del 29 dicembre 1977.

Diverse intimidazioni vengono esercitate nei confronti dei tipografi dove stampiamo le nostre pubblicazioni. A questi è stato intimato (“amichevolmente”) di presentare in questura il materiale che stampiamo prima della consegna.

Da quanto precede emerge chiaramente che siamo davanti a un ampio disegno repressivo che intende colpire un’espressione del movimento.

Catania, 13 gennaio 1977

La redazione della rivista “Anarchismo”.

II Repressione.

In meno di un mese, magistratura e squadra politica catanese hanno operato due perquisizioni per sequestrare il libro La gioia armata, scritto dal compagno Alfredo Bonanno e La peste religiosa, di J. Most, scritto nel 1880. Sono stati incriminati i compagni, è stato sequestrato un volantino e incriminato un manifesto.

Bonanno è stato imputato di “istigazione a delinquere” e “apologia di reato”. La seconda udienza del processo sarà presso il tribunale di Catania, II sezione penale, alle ore 9 di sabato 26 gennaio 1978.

Repressione significa carceri, manicomi, lager speciali, quartieri ghetto, polizia, magistratura, carabinieri, ecc.

Repressione significa un morto ogni tre quarti d’ora e un ferito ogni quattro minuti sul lavoro.

Repressione significa criminalizzazione del diverso.

Repressione è il lavoro, il matrimonio, la famiglia.

Ma repressione significa anche aspettare che i “tempi siano maturi”, avere fiducia nelle istituzioni. Significa politica riformista del PCI, collaborazionismo dei sindacati.

Per arrestare la repressione bisogna attaccare lo Stato nelle sue componenti: polizia, magistratura, carceri, partiti politici (anche il PCI), sindacati, burocrazia, ecc.

Bisogna attaccare il capitalismo nelle sue componenti: fabbriche, banche, supermercati, centrali nucleari, ecc.

Bisogna attaccare l’ideologia nelle sue realizzazioni: giornali, televisione, musei, biblioteche, chiese, scuole, ecc.

La lotta contro la repressione non è un fatto di specialisti o di partito militare, ma è alla portata di tutti.

Fallo da te.

Catania 23 gennaio 1978

Redazione della rivista “Anarchismo”.

III Padre nostro... dacci oggi il nostro processo quotidiano

Il processo non ci è stato dato in modo proprio quotidiano perché polizia e magistratura catanesi ci hanno lasciato a digiuno di processi per 44 lunghissimi giorni facendosi rischiare la morte per inedia.

Infatti l’ultimo processo che abbiamo subito è stato per il libro La gioia armata per il quale è stato processato il compagno Alfredo Bonanno già nel lontanissimo 28 gennaio scorso.

Comunque non ci si può lamentare della solerzia degli sbirri e della magistratura perché, nonostante tutto, sono abbastanza dinamici.

Per cosa vengono incriminati ora i compagni Franco Leggio e Alfredo Bonanno? Per avere pubblicamente vilipeso la religione cattolica, la divinità, i ministri del culto (alias avvoltoi neri che fino a ieri benedicevano le armi naziste e oggi si sbaciucchiano con Pinochet).

Il reato di questi compagni è di avere pubblicato in edizione economica (al prezzo di 200 lire) un libretto scritto da Johann Most nel 1880.

Lo stesso scritto, pubblicato dalla UTET nel volume dedicato agli anarchici della collana Classici politici, non è stato perseguito perché “il volume è accessibile a pochi dato che costa 18.000 lire”.

Come a dire che quelli che hanno i soldi (i porci) possono leggerlo, quelli che soldi non ne hanno devono leggere solo “La Sicilia”.

Il disegno del potere è chiaro: per i borghesi, che hanno interesse a sostenere l’azione repressiva della religione, il libro di 18.000 è legale, ma se lo stesso testo, data la sua economicità, può raggiungere le classi più emarginate, i disoccupati, i sottoccupati, ecc., diventa illegale.

Ciò poiché per questi ultimi, una demistificazione della religione e dei preti, braccio destro dei boia Andreotti/Berlinguer, può diventare un’arma di lotta contro i vari apparati repressivi.

È inutile dire basta alla repressione se lo Stato si arma contro di noi armiamoci contro lo Stato.

Il processo ai compagni Leggio e Bonanno si terrà nel tribunale di Catania il 13 marzo 1978 alle ore 9.

7 marzo 1978

Redazione rivista “Anarchismo”.

Stregoneria

Sul numero di aprile di “Sicilia Libertaria” è uscito un articolo sulla stregoneria a firma di un certo Vincenzo Buccafusca. Poche cose mi hanno fatto tanto ridere quanto la lettura di questo pezzo di vera bravura nel dire idiozie. Leggendo poi sul numero di luglio-agosto una deliziosa e ottima risposta di Emanuele Amodio mi sono deciso a mettere giù queste poche riflessioni che i compagni spero mi perdoneranno.

Non sono un lettore di “Sicilia Libertaria”.

Fatta questa premessa dico subito che trovandomi in galera, la lettura dell’articolo “Stregoneria oggi. La peggior vergogna della civiltà e del progresso”, pubblicato nel numero di aprile è stato un modo come un altro di passare il tempo, lettura per altro suggeritomi con insistenza dal mio coimputato, Pippo Stasi. E sono rimasto di stucco. L’articolo del Buccafusca è realmente incredibile. Non ho mai letto nulla di più superficiale, raffazzonato e privo di un benché minimo fondamento culturale. Se non conoscessi il livello culturale dei compagni che collaborano al giornale, mi sarebbe anche potuto venire il sospetto di un pezzo umoristico, diretto a fare ridere la gente. Ma, al contrario, Buccafusca è serio ed è anche adirato, e socialmente sdegnato, e tutto il resto, oltre ad essere un elementare analfabeta, cioè analfabeta puro, visto che fra le tante amenità scrive più volte incenso con la “z” a meno che l’analfabetismo sia solo dei redattori cosa che mi pare poco probabile, almeno a questo livello.

E leggendo, ed allietandomi di tanto involontario e sapiente umorismo, mi ero ripromesso di scrivere qualcosa di più preciso in merito alla stregoneria e ai luoghi comuni della cultura e della razionalità dominante, che si sprecano nell’ambito di ragionamento e produzione letteraria dei compagni. Il numero di luglio-agosto dello stesso giornale mi ha riservato invece una piacevole sorpresa: la lettura dell’articolo “Stregoneria e nuovi inquisitori” di Emanuele Amodio, che ha reso inutili i miei intendimenti critici e mi ha riconciliato con la realtà. Amodio è stato veramente stupendo: ha lavorato di fino, ha smontato pezzo per pezzo le cialtronerie del Buccafusca, ha messo in ridicolo come non gli avevo mai visto fare non solo l’articolo e le tesi conformiste del suo autore, ma anche il modo superficiale e ignorante di fare “Sicilia Libertaria”.

Sono contento per Emanuele che non leggevo da anni e che trovo molto migliorato, malgrado il suo lavoro universitario, nel modo di scrivere e nel modo di affrontare i problemi. Del giovane ricercatore con grilli in testa e scarsa cultura, è rimasto poco. È venuto fuori, almeno mi sembra da quel che ho letto, un uomo serio che non ha paura di dire le cose per come sono, fuori dei denti.


[1989]

Nota

Questo testo l’ho scritto nel carcere di Bergamo. Lo stesso non è stato accettato dalla redazione del giornale anarchico “Provocazione”, di cui ero redattore responsabile (come “supplemento” di “Anarchismo”), perché ritenuto offensivo nel riguardi dei redattori di “Sicilia Libertaria”.

Il segno dei tempi

Statuette della Vergine, padri pii in effige colorata, ed altra paccottiglia dell’iconomania cattolica piangono un po’ dappertutto. È il segno dei tempi.

Al grido di “Dio lo vuole!” si mossero i primi Crociati, un immenso movimento popolare grazie al quale innumerevoli persone andarono incontro a morte terribile e sistematica, e che diffuse per il mondo ferocia e pestilenze. E in nome dello stesso dio i massacri continuarono e continuano ai nostri giorni. In nome del dio che li tutelava, agirono tutti i sistemi istituzionali dispotici e assoluti, dall’Inquisizione alle S.S.

In nome del dio si uccide dappertutto, nel nome del dio cattolico e di quello protestante, islamico o laico. Ognuno adora il suo dio ed in questo fantoccio identifica la tutela contro le incertezze e le paure di ogni genere.

Cosa volete che siano quattro madonne piangenti e qualche padre pio qua e là implorante un poco di audience.

Molti impenitenti materialisti cercano il trucco dentro la statuetta di gesso, e aspettano con supponente certezza i risultati dei clinici, chiamati dalla stessa Madre Chiesa a dare la loro opinione. I tecnici del “Gemelli” hanno detto la loro. La madonnina di Civitavecchia piange sangue. Ma non fateci ridere! affermano i miscredenti, sogguardando il prete di passaggio con occhi feroci. I soliti occhi feroci con cui da sempre i preti di ogni genere sono stati guardati dai miscredenti di ogni tipo, senza per questo che preti e miscredenti, all’occorrenza, non si siano dati vicendevolmente una mano per tutelare i reciproci e complementari interessi di potere.

Ciò non toglie – qualsiasi cosa ne pensi il farmacista di turno del paese – che le persone continuino a guardare con occhio speranzoso al liquido rosso che sembra sgorgare dalla statuetta di gesso. E in questo sguardo dettato dall’ignoranza, ma anche dal dolore e dalla sofferenza, dalla paura e dalla speranza, è possibile leggere le stesse motivazioni della delega politica e del fiducioso abbandono che si registrano periodicamente riguardo le promesse e gli imbonimenti dei politici di turno.

Possiamo sostituire le nostre analisi, fredde e concludenti – ma concludenti della freddezza del raziocinio e non fornite del coraggio di guardare la realtà negli occhi – alla paura e alla sofferenza?

Fin quando gli uomini continueranno ad andare dietro ad una qualsiasi statuetta di gesso i giorni del futuro continueranno a grondare sangue, nelle piaghe concrete di quei mendicanti in processione a capo chino, nell’incapacità di ribellarsi, nell’ottuso bisogno di accettare il potere. E questo sangue sarà vero, della stessa verità immaginaria, ma non per questo meno concreta, che fa loro vedere il sangue sgorgare dalla guance pallido-celesti di una qualsiasi statuetta di gesso.


[Pubblicato su “Canenero” n. 18, 10 marzo 1995, p. 2]

Soldati di Dio

A Isola delle Femmine, un piccolo comune alle porte di Palermo una coppia di coniugi conviventi vuole cresimarsi. Nella molteplice varietà delle illusioni umane, anche questa ha il suo posto.

Per essere cresimati si rivolgono al parroco che li ammette a frequentare il relativo corso di preparazione. In un secondo tempo il prete si accorge che i due non sono regolarmente sposati in chiesa, quindi li esclude dal corso e impedisce loro di essere cresimati. I due insistono (la stupidità umana non sempre ha limiti visibili), e minacciano di presentarsi in chiesa il giorno della cresima (che conferita per mano del vescovo prevede una cerimonia in pompa magna).

Il parroco, di fronte a questa minaccia, chiama i carabinieri, i quali minacciando, a loro volta, severi provvedimenti, dissuadono i due.

Vorremmo fare, una volta tanto, una piccola considerazione. Pochi sanno che la cresima è un sacramento che “conferisce un carattere”, e questo “carattere” è quello di “soldati di Dio”. Ora, trattandosi di soldati, il parroco non poteva rivolgersi che ai carabinieri. La polizia, infatti, non aveva competenza in merito.


[Pubblicato su “Canenero” n. 19, 17 marzo 1995, p. 3].

Niente di nuovo a Ladispoli

Dopo un iniziale gioco degli equivoci, le cronache sono state costrette ad ammettere che Don Pietro, parroco di una chiesa di Ladispoli, poteva essere stato ucciso da uno dei suoi compagni di giochi, di giochi erotici per l’appunto.

La notizia di per sé non meriterebbe una riflessione se non fosse per l’atteggiamento di coloro che l’hanno gestita. Dapprima i parrocchiani del sacerdote, che, pur conoscendo le abitudini sessuali del loro parroco, non si sono tirati indietro nel parlare del bene che l’uomo faceva, assistendo gli immigrati di colore, procurando loro un tetto, un lavoro e anche qualche soldo, quando ne avevano proprio bisogno. Per cui, a un sant’uomo che si metteva a repentaglio per assistere i poveri immigrati, qualche disgrazia poteva pure succedere. Ed ecco l’ombra del pericoloso uomo nero che non contento dell’elemosina, uccide per rapinare il sant’uomo.

Poi le cronache si sono fatte più precise, sono saltate fuori le cassette porno, le faccende che tutti conoscevano, i party di fuoco dell’uomo di Chiesa, e da questo momento in poi, il silenzio.

Intendiamoci: altro è che tutto resti in famiglia, altro che tutti ne parlano. Di certe pratiche sessuali, beninteso, non d’altro. In caso contrario che accadrebbe dei precetti che continuamente vengono dall’altare riversati sul gregge dei credenti?


[Pubblicato su “Canenero” n. 26, 12 maggio 1995, p. 3]

L’uomo vestito di bianco

A Roma vive un uomo vestito di bianco. Vive bene, anche se è un po’ in là con gli anni, e dirige una potente organizzazione reazionaria la quale, per mille motivi, che qui sarebbe troppo lungo spiegare, ha molta presa sui deboli e sugli oppressi. Questa organizzazione è a volte chiamata Chiesa cattolica, altre volte semplicemente “religione”, giocando sull’equivoco dell’ecumenismo e della scarsa considerazione che i preti hanno delle altre confessioni.

“Se il cristianesimo avesse ragione predicando un dio vendicatore, il peccato universale, la predestinazione e il pericolo della dannazione eterna, sarebbe segno di stoltezza e di mancanza di carattere non farsi preti, apostoli o eremiti e non lavorare angosciati e tremanti unicamente alla propria salvezza; non avrebbe senso trascurare il premio eterno per la comodità temporanea. Presupposto che in genere si creda, il cristiano comune è una figura miserevole, un uomo che veramente non sa contare sino a tre e che del resto, per la sua incapacità mentale, non meriterebbe di essere punito così duramente come il cristianesimo gli promette”. Friedrich Nietzsche.

Ma queste sono faccende che avrebbero perduto sempre più d’importanza se non fossero intervenuti motivi estranei ai problemi individuali, quelle debolezze e quelle oppressioni che sono vissute da molti, da troppi, non come punto di partenza per diventare più forti e quindi ribellarsi, ma come una disgrazia inviata da un cielo ostile e matrigno.

“Il modo migliore per iniziare bene ogni giornata è quello di svegliarsi pensando se in questo giorno non si possa dare gioia ad almeno una persona. Se questo valesse a sostituire l’abitudine religiosa alla preghiera, i nostri simili trarrebbero vantaggio dal questo cambiamento”. Friedrich Nietzsche.

È accaduto che il clima politico in Italia è cambiato, spostando masse considerevoli dei partecipanti alla pantomima democratica verso destra. Non che questa destra sia una destra vera e propria, difatti quella che poteva legittimamente chiamarsi tale è stata azzerata, ma si tratta pur sempre di vecchi e giovani pagliacci che non vedono l’ora, adesso che hanno messo le mani sulla cosa pubblica, di smussare le condanne precedenti rivolte all’antica origine fascista, presentandosi se non altro come continuatori di un pensiero che, malgrado (dicono questi pupazzi senza vergogna) alcuni errori, tutto sommato era accettabile. Nulla da paragonare alle nefandezze tedesche.

Poiché non c’è mai fine alle idiozie, dappertutto, intellettuali in testa, si sono rincorsi l’un l’altro per recuperare il tempo perduto nei vari settori della vita sociale.

Insomma una grande abbuffata in corso di svolgimento in cui, purtroppo, siamo solo agli inizi.

Volete che l’uomo vestito di bianco poteva starsene da parte?

No di certo. Ma la pesante ed esplicita benedizione rivolta ai nuovi massacratori al potere, francamente ha sorpreso un po’ tutti (forse un po’ meno chi scrive, ma devo ammettere che una certa titubanza l’ho avuto anch’io).

“I Romani hanno inoltre concezioni di gran lunga preferibili nel campo religioso. Quella superstizione religiosa che presso gli altri uomini è oggetto di biasimo, serve in Roma a mantenere unito lo Stato: la religione è piú profondamente radicata e le cerimonie pubbliche e private sono celebrate con maggior pompa che presso ogni altro popolo. Ciò potrebbe suscitare la meraviglia di molti; a me sembra che i Romani abbiano istituito questi usi pensando alla natura del volgo. In una nazione formata da soli sapienti, sarebbe infatti inutile ricorrere a mezzi come questi, ma poiché la moltitudine è per sua natura volubile e soggiace a passioni di ogni genere, a sfrenata avidità, ad ira violenta, non c’è che trattenerla con siffatti apparati e con misteriosi timori. Sono per questo del parere che gli antichi non abbiano introdotto senza ragione presso le moltitudini la fede religiosa e le superstizioni sull’Ade, ma che piuttosto siano stolti coloro che cercano di eliminarle ai nostri giorni. Inoltre, a prescindere da tutto il resto, coloro che amministrano in Grecia i pubblici interessi, se viene loro affidato un talento, nonostante il controllo di dieci sorveglianti, di altrettanti suggelli e del doppio dei testimoni, non sanno conservarsi onesti; i Romani invece, pur maneggiando nelle pubbliche cariche e nelle ambascerie quantità di denaro di molto maggiori, si conservano onesti solo per rispetto al vincolo del giuramento; mentre presso gli altri popoli raramente si trova chi non tocchi il pubblico denaro, presso i Romani è raro trovare che qualcuno si macchi di tale colpa”. Polibio.

Un vecchio poliziotto dell’Inquisizione, aduso a tutte le cautele giuridiche della teologia per avvocati, non doveva sbracarsi fino a questo punto. Ma la gioia è gioia, perfino in un topo di sentina come l’uomo vestito di bianco.

Finalmente con questa gente siamo in grado di uscire dai guai in cui ci troviamo, di rimettere ordine, di fare stare nei ghetti rispettivi tutti quelli che non la pensano in modo cattolico e romano, intendesi ebrei, musulmani, zingari, e feccia di questo genere, insomma possiamo programmare un futuro di benefici per il lavoro della santa romana Chiesa cattolica, finanziamenti alle scuole cattoliche, cattolicesimo nelle scuole, e via così.

“Il cristianesimo ha l’istinto del cacciatore per tutti coloro che in un qualsiasi modo possono esser portati alla disperazione, – soltanto una parte eletta dell’umanità ne è capace. Il cristianesimo è sempre alle loro spalle intento a tenerli d’occhio. Pascal fece il tentativo se non fosse possibile, con l’aiuto della conoscenza più tagliente, portare ognuno alla disperazione; – il tentativo fallì, provocando la sua seconda disperazione”. Friedrich Nietzsche.

Il nano governativo ha letto, giustamente, in queste parole un “viatico” che migliore non si può. Ora, la cosa fa sorridere, e dimostra ancora una volta la proverbiale ignoranza del nano. Se l’etimologia latina della parola “viatico” indica provvista delle cose necessarie per chi sta per intraprendere un viaggio, il significato religioso del termine è somministrazione dell’eucarestia a casa o al letto di ospedale di infermi gravi o in punto di morte, e trattandosi di un prete, sia pure in veste bianca, la parola, quanto meno, mi sembra scelta con pessimo gusto. Il nano farà bene a toccarsi gli attributi, se li ha.

“Se un estraneo fosse improvvisamente trasposto in questo mondo, come esempio dei mali che lo affliggono io gli mostrerei un ospedale pieno di malati, una prigione piena di criminali e di debitori, un campo di battaglia cosparso di cadaveri, una flotta che affonda nell’oceano, un popolo oppresso dalla tirannide, tormentato dalla carestia o dalla pestilenza. Ma dove potrei condurlo per mostrargli il lato allegro della vita e dargli un’idea del suo piacere? A un ballo, all’opera, in una corte?”. David Hume.

Ecrasez l’infâme!

Sì, va bene, ma il problema non è questo. Potrebbe sembrare questo, ma non lo è. Cosa volete se un povero uomo vestito di bianco, dal profondo del suo animo di sbirro ecclesiale, sente il bisogno di complimentarsi con chi sta per incarnare i suoi desideri più estremi (lui forse non sa che il nano maligno è un povero guitto e che non riuscirà nemmeno lontanamente a diventare quello che con tutto il cuore cerca di diventare), sono debolezze di un vegliardo.

La questione importante è un’altra. Il vecchio statista, quello vestito di bianco, non il povero guitto, sa bene che la religione, perfino quella sacrosanta cattolica e romana, è un instrumentum regni e come tale si comporta. Tutti i discorsi che provengono dal soglio pontificio, e quindi discendono giù dalla Conferenza episcopale italiana fino all’ultimo parroco di campagna, cercano di fare spazio al potere della Chiesa, quindi alle sue ricchezze, perché l’uno e le altre possano essere utilizzati per un sempre maggiore sviluppo della sua potenza, diffusione e credibilità nel mondo (ad maiorem dei gloriam, naturalmente).

“Alla volontà di vivere è dunque assicurata la vita, e fino a quando noi siamo pieni della volontà di vivere, non dobbiamo essere in ansia per la nostra esistenza, neppure in vista della morte. Certamente vediamo l’individuo nascere e perire, ma l’individuo è soltanto fenomeno, esiste soltanto per la conoscenza irretita nel principio di ragione, nel principium individuationis, e proprio in virtù di questo riceve la propria vita come un dono, viene fuori dal nulla, soffre poi per la morte, la perdita di quel dono, e al nulla fa ritorno. Ma noi vogliamo invece considerare la vita dal punto di vista della filosofia, ossia secondo le sue idee, e troveremo allora che la volontà, la cosa in sé di tutti i fenomeni, non è toccata da nascita e morte, e la religione non può farci niente”. Arthur Schopenhauer.

Pensare che la Chiesa si interessi dei vari problemi sociali, la povertà, il lavoro, l’emigrazione, le carceri, la prostituzione, la violenza contro i più deboli e i bambini, l’eccessiva cupidigia degli sfruttatori, l’usura, insomma tutti i soprusi e le angherie che i più bisognosi per mille motivi subiscono ogni giorno, che si interessi di questo, dicevo, perché interessata a essere baluardo di questi miseri, è non solo un errore ma anche un pericoloso errore. Lo spirito di carità della Chiesa, in particolare di quella cattolica, ma il discorso si trasferisce con lievi sfumature anche alle altre chiese, non esclusa né quella musulmana né quella ebraica, per restare nell’ambito della favola monoteista, è il mezzo più pratico e diretto per acquisire quell’autorità morale che può essere messa a disposizione del potere per riceverne i benefici detti prima. Con tutto ciò non si vuole negare che qualche briciola cade dalla tavola del ricco Epulone ma, come dicono bene i Vangeli, che di queste cose se ne intendono, si tratta solo di briciole.


[Pubblicato su “SenzaTitolo” n. 1, autunno 2008, pp. 58-63]

Abiti e idola

Indosso gli abiti per coprirmi (freddo, pudore, e tutto il resto), ma non mi sono spesso posto il senso di questa parola, che vuol dire “abito”? Anche mettendo da parte i significati scientifici e quelli letterari resta la derivazione da habitus, parola latina semplice che però non ha nulla a che vedere con i vestimenti, piuttosto significa aspetto, contegno. In altre parole ha un lato attivo e uno passivo. Mi do un contegno indossando un abito, per gli altri assumo un aspetto a cui l’abito che indosso non è estraneo.

“Ciò che è proprio del reale è di poter essere sempre considerato da un altro punto di vista, in un raggruppamento o con un ingrandimento altro, essere interpretato ancora in un altro modo – rappresentato diversamente, e questo senza limite, senza derivata. Ma d’altra parte noi pensiamo al contrario, del reale, che esso sia indipendente da noi – che sia la parte fissa di una transazione di pensiero o di esperienza. Ebbene quel che c’è di fisso, è allora appunto questa infinità, questo inesauribile... Ma, per quel che riguarda gli atti elementari, allora sì, il limite c’è e il reale è ciò che si accorda costantemente con essi. Questi atti esigono delle condizioni – di veglia, ecc. – che sono dunque, se fosse possibile svilupparle, la vera definizione del reale. Ma tolti questi atti, rien ne va plus”. Paul Valéry.

In molte cose che facciamo indossiamo i panni che riteniamo adatti, quest’abito sì, quello no.

“Il sistema di ricerca classico, è risaputo, si fonda sul metodo scientifico, che ha come base operativa la sperimentazione. Un fenomeno può essere spiegato da determinati fattori, per ritrovare i quali si sperimentano in laboratorio varie ipotesi. Il problema comincia a presentarsi allorché le ipotesi, mano a mano che vengono sperimentate, tendono a moltiplicarsi. Da questo si può dedurre che il numero delle ipotesi razionali che possono spiegare un fenomeno dato è infinito”. Robert Maynard Pirsig.

Molti hanno una loro profonda filosofia composta da una serie di sottodistinzioni, produttrice di stati d’animo che consentono di affrontare più o meno bene quello che devono fare e, in questo modo, l’abito è una protesi che li aiuta e li sorregge nelle debolezze quotidiane comuni a tutti. Estremizzando la cosa, penso siano pochi coloro capaci di andare a comprare il latte con cilindro e marsina.

“La qualità è qualcosa che va al di là delle concezioni oggettiva e soggettiva, perché non risiede solo nel mondo materiale o solo nella mente. La qualità è una terza entità, indipendente dalle altre due, è il punto in cui soggetto e oggetto si incontrano. Essa è un evento tramite il quale il soggetto prende coscienza dell’oggetto, in quanto gli oggetti creano nel soggetto la coscienza di sé. La qualità è l’evento che rende possibile la coscienza sia dell’uno che degli altri. Questo vuole dire che la qualità è causa del soggetto e dell’oggetto, non viceversa. Questa è la rivoluzione copernicana. Non sono il soggetto e l’oggetto a determinare la qualità, ma è questa a determinare gli altri due, perché è realtà primaria, esistente prima di quella intellettuale, che è invece secondaria”. Robert Maynard Pirsig.

E gli idola, che cosa sono gli idola? Sono oggetti o immagini a cui si attribuiscono caratteristiche e poteri divini, quindi costituiscono un riferimento per la nostra necessità di ammirare qualcosa di favoloso e di fuori del normale. Non ci aiutano certo ad avere una immagine corretta della realtà che ci circonda e, in ultimo, derivano dalla parola greca eídolon che sta per simulacro.

Mi do un contegno quando non sono certo di quello che devo fare, di come devo affrontare un problema, vesto cioè un abito di prudenza, di attesa. Poi mi appello al mio essere uomo, cioè appartenente a una specie che condivide, più o meno, certe paure e certi accorgimenti per fare fronte a queste paure. Sono, in questo modo, in balia di quello che ho sperimentato, letto, studiato e perfino capito. In genere, molto poco. Poi il mio contegno cambia, mi metto un abito diverso, affiorano le paure mie, personali, non quelle della mia specie, ma proprio quelle più oscure e intime, che non confesso neanche a me stesso, e che di regola annego nell’idolo che accetto perché comune a tutti gli altri. Questo secondo idolo è quello della spelonca, quello che sta chiuso dentro di me, a cui officio un rito con gli abiti adatti (non necessariamente pantofole e pigiama). Ma le cose possono diventare anche più difficili, posso essere costretto ad assumere un contegno idoneo a parlare con gli altri, qui occorre un abito adeguato. Imparo così a diventare eloquente, sono capace di impressionare l’ascoltatore, mentre davanti ai miei occhi si materializza un idolo ancora diverso, quello della paura di sbagliarmi nella comunicazione, nell’uso della parola, nel mio stesso collocarmi come figura attiva nel foro, dove gli occhi aguzzi di tutti sono in grado di penetrare attraverso i miei contegni (non necessariamente l’abito del rivoluzionario è qui sufficiente a coprire le mie nudità). Se la paura si allarga ancora, ripiego sull’abito dell’attesa, declino agli affabulatori il contatto con l’idolo del teatro, quello che mi aiuta ad addormentare la mia paura raccontandomi favole e storielle letterarie più o meno degne di questo nome.

“Per interpretare l’esperienza, la nostra cultura ci consegna un paio di occhiali mentali nelle cui lenti è incorporato il concetto di primato dei soggetti e degli oggetti. Se uno si mette occhiali un po’ diversi, o se, dio l’aiuti, rinuncia a usare gli occhiali, la tendenza naturale di quelli che continuano a portarli è di considerare le sue affermazioni quanto meno stravaganti, se non addirittura folli”. Robert Maynard Pirsig.

Da questa lunga metafora del grandioso lavoro simbolico di Francesco Bacone si ricava un’importante riflessione: sono inseguito dalla paura, mi copro e costruisco idoli di riferimento perché sono inquieto e tremo di paura. Più alzo la voce e indosso abiti adeguati al combattimento e più, quasi sempre, sono soltanto un cialtrone.

“Il martellar de la maggior campana
fe’ più che in fretta ognun saltar dal letto,
chi diedesi a l’arma, e chi balzò le scale,
chi corse alla finestra, e chi al pitale”.

La realtà sociale che ci sta davanti è abbastanza nota, anche se occorre continuamente tenerla sotto controllo analitico. La studiamo, l’analizziamo, ne separiamo i singoli componenti contraddittori, ne approfondiamo le contraddizioni. Ed è un lavoro che ci tiene molto occupati.

Nello stesso tempo, con l’altro occhio, quello intimo, il terzo occhio di Śiva, guardiamo a quello che accade nel cortile vicino, quanto stanno chiocciando le chiocce, e in che modo, se sono nati pulcini, se c’è qualcuno che sta allevandosi una cresta più alta del solito, se qualcuno starnazza e saltella fuori del seminato (metaforicamente da noi preventivamente contrassegnato). Questo terzo occhio, contrariamente a quello che si crede, non è l’occhio della saggezza e nemmeno quello della compassione, è un occhio strabico e assetato di sangue, implacabile, non aspetta altro che di essere cosparso della polvere delle pire dove qualcuno è stato bruciato. Un nemico? Non lo so.

In ogni caso questa osservazione, due o tre occhi non bastano, non si conclude mai, non si passa spesso dal fare all’agire, quasi sempre si resta nel chiocciare di gallinacei. Ma ciò non dipende da una nostra paura, che questa l’abbiamo più o meno esorcizzata con il ricorso a uno qualsiasi degli idoli visti prima, e poi il mio abito non è forse quello di cerimonia, naturalmente di cerimonia funebre? Dipende invece dalla chiamata alle armi. Non quella che una volta richiedeva la cartolina rosa, ma dall’iniziativa repressiva del potere.

Faccio tre esempi e non li metto né in ordine di pregnanza rivoluzionaria né in ordine temporale né in ordine di agibilità partecipativa: la lotta contro l’alta velocità, l’emergenza rifiuti, la condizione dei prigionieri nei “centri di permanenza temporanea”. Uso termini non miei, ma mutuati da quello che l’opinione corrente fornisce dietro ordine del potere. Comunque penso che ci si intenda.

“Noi possiamo pensare molte più cose di quante ne facciamo e viviamo, – ciò significa che il nostro pensiero è superficiale e si appaga della superficie, anzi, non la nota neanche. Se il nostro intelletto si fosse rigorosamente sviluppato secondo la misura della nostra forza e del nostro esercizio della forza, avremmo in posizione preminente nel nostro pensiero il principio fondamentale che possiamo comprendere soltanto ciò che possiamo fare, – se, in generale, esiste un comprendere. All’assetato manca l’acqua, ma le immagini dei suoi pensieri gli presentano incessantemente l’acqua dinanzi agli occhi, come se non ci fosse niente di più facile da procacciarsi, – la natura superficiale e facilmente contentabile dell’intelletto non può comprendere la vera e propria indigenza del bisogno e in ciò si sente superiore: esso è orgoglioso di potere di più, di correre più velocemente, di essere in un attimo alla meta, – e così il regno del pensiero in confronto al regno del fare, del volere e dello sperimentare interiormente, appare come un regno della libertà: mentre esso, come si è detto, è soltanto un regno di superficie e di modeste pretese”. Friedrich Nietzsche. Ma non aspetto, fremo sui miei piedi, come facevano i vecchi corridori motociclisti quando dovevano prendere la rincorsa a piedi prima di balzare in sella non avendo la messa in moto a bordo. Fremo e aspetto. Sono un cavallo di razza io. Anzi, per essere più sicuro di non perdere nemmeno un colpo, mi metto d’accordo perché chi ha l’orecchio più affinato su un qualsiasi problema repressivo posto sul tappeto dallo Stato mi avverta, consentendo lo scatto automatico dei garretti. Ma io, anarchico, ho dalla mia una carta vincente. Ho il mio abito (quello del rivoluzionario, per l’appunto), e ho anche i miei “idola fori”, i miei idoli che mi vengono incontro per permettermi di comunicare agli altri il mio progetto, opportunamente chiuso nelle mie sacre carte e sperimentato in maniera ineccepibile da tanto tempo.Se ci sono le masse io, anarchico, so che queste di fronte al problema specifico che li opprime e li soffoca si muoveranno immancabilmente nel modo che ho trovato descritto nel mio progetto. Non può essere diversamente, dentro di me ci sono gli "idola specus", gli idoli della caverna, che sono soltanto dentro di me, che mi garantiscono questo rapporto intimo, inevitabile come una sbronza dopo aver bevuto. Ebbene, e se le masse non ci sono? Se tardano a venire? Se si sono arruolate, appunto in massa, nelle fila tanto promettenti del nano maligno? Io penso che in questo caso né il progetto diventa per forza di cose inconsistente e quindi inapplicabile, né il mio agire viene bloccato una volta per tutte. Vogliamo provare a riparlarne? Chiudiamo sia pure per qualche tempo l’assetato occhio di Śiva.


[Pubblicato su “SenzaTitolo” n. 1, autunno 2008, pp.72-79]

L’impudenza del soglio

Sull’orribile rocca della tirannia segreta sta il grande interprete dell’Apocalisse, l’arcangelo Michele.

La cattedra di Pietro è occupata da un poliziotto. Per carità, nulla da eccepire, per un incarico del genere – monarchia elettiva a vita, per chi non lo sapesse, equivale a tirannia – c’è stato anche di peggio: guerrieri e prìncipi, condottieri e massacratori, e via dicendo.

“Per congiunger la Medici
al figlio Franceschetto
Innocenzo la porpora
donava a un ragazzetto.
Se è ver che il Santo Spirito
fa il papa sovrumano,
in questa il Santo Spirito
l’ha fatta da mezzano.

Pasquino

Quello che sbalordisce è comunque l’impudenza, cioè una cinica mancanza di ritegno. L’erede diretto della Santa Inquisizione, su alcuni argomenti, farebbe bene a tacere. Dopo tutto, il silenzio è la scappatoia per quelli che non hanno giustificazioni, se non alle proprie responsabilità dirette, a quelle storiche che all’incarico che reggono appartengono.

“Ebbene, come avvengono le rivoluzioni scientifiche? Se abbiamo due programmi di ricerca rivali dei quali uno è progressivo mentre l’altro è regressivo, gli scienziati tendono ad aderire al programma progressivo. È questa la base razionale delle rivoluzioni scientifiche. Diversamente da Popper la metodologia dei programmi di ricerca scientifici non offre una razionalità istantanea. I programmi nascenti devono essere trattati con indulgenza, possono occorrere decenni perché un programma decolli e diventi empiricamente progressivo. Thomas Kuhn ha torto quando pensa che le rivoluzioni scientifiche siano improvvisi e irrazionali cambiamenti di punti di vista. La storia della scienza confuta sia Popper sia Kuhn, a un esame accurato sia gli esperimenti cruciali di Popper sia le rivoluzioni di Kuhn risultano essere dei miti, ciò che di solito accade è che un programma di ricerca progressivo ne rimpiazza uno regressivo”. Imre Lakatos.

Facciamo un esempio per le anime semplici. Poniamo che all’attuale cancelliere tedesco venisse imputata una qualsivoglia corresponsabilità con gli orrori nazisti, diciamo in linea storica o continuista in quanto titolare di un’istituzione che, sia pure con mutate espressioni formali, continua a governare lo stesso Paese: sarebbe una stupida miopia politica, basta e avanza ciò che al compito attuale svolto da questo personaggio attiene. Ma se dovesse passare per la testa al suddetto cancelliere di giustificare quel passato di orrore e massacri, giustificarlo in nome del fatto che comunque anche i nazisti appartenevano allo Stato tedesco come unità permanente e immodificabile dal tempo della sua fondazione storica, sarebbe un’altra faccenda.

“Ho avuto un sogno spaventoso. Un sogno strisciatomi verso il cuore come insidia di serpe. Nero. Era notte, forse tarda sera, ma una sera spaventosa, eterna, in cui non era più possibile ricostituire il tempo degli atti possibili, né cancellare la disperazione né il rimorso. Gli anni erano finiti. Tutte le anime erano lontane come frantumi di mondi, perse all’amore. Questo sogno mi suggerisce qualcosa ma se ci penso mi vengono in mente solo il riserbo e la pavidità di un grasso benestante. Non voglio scartare l’indicazione, che di questo si tratta, solo per via del grasso e del benessere che sottende, ma una paura divorante non si collega bene con lo slancio e il rischio. Bisognerebbe approfondire”. Carlo Emilio Gadda.

Ora, la Chiesa cattolica romana è un’unità identica nel tempo e il titolare del soglio pontificio è l’erede diretto di Pietro, quindi gli orrori commessi dalla Santa Inquisizione le appartengono tutti in aperta coscienza, per quanto qualche chiacchiera qua e là da parte di revisionisti in vena di modernismo possa avere dato l’impressione di volere aprire spiragli e critiche. Niente di tutto questo. Il papa non può negare un pezzo di storia della Chiesa e dichiararlo avulso dal contesto attuale di questa istituzione, perché si tratta di una istituzione che è da considerare eterna e voluta personalmente e direttamente da Dio, altrimenti non è altro che una qualsiasi pantomima politica e tutta la teologia cattolica cade, infallibilità papale compresa.

“Supponiamo che gli astronomi vengano a scoprire che gli astri non obbediscano esattamente alla legge di Newton. Essi possono scegliere tra questi due atteggiamenti, potranno dire che la gravitazione non varia esattamente come l’inverso del quadrato della distanza, oppure potranno dire che la gravitazione non è la sola forza che agisce sugli astri e che a essa viene ad aggiungersi un’altra forza di natura diversa. In questo caso, la legge di Newton sarà considerata come la definizione della gravitazione. Questo sarà l’atteggiamento nominalista. La scelta tra i due atteggiamenti resta libera, ed è fatta per ragioni di comodità, benché tali considerazioni siano il più delle volte tanto potenti che praticamente resta poco di quella libertà”. Henri Poincaré.

“La scienza spiega la natura”, afferma il papa parlando mentre maturava il solstizio d’inverno, e riferendosi a quello che gli scienziati oggi stanno facendo, continuazione, a suo dire, di quello che hanno sempre fatto, e riprendendo la giustificazione del suo predecessore, afferma con quest’ultimo: “Galileo, ego te absolvo”. La condanna dello scienziato pisano fu frutto di un errore dei giudici dell’Inquisizione (Santa, ovviamente), che emisero una sentenza “avventata e infelice”.

Qui occorre dire due cose. La prima è che tutti gli uomini possono sbagliare, quindi anche i bravi "cani del signore" (domenicani) che provvidero a quella sentenza, ma la tragedia non può risiedere nella fallacia umana, quanto, al contrario, nel fatto che a una istituzione di uomini venga delegato il compito di condannare qualcuno – scienziato o meno – per le sue idee. Veramente chi scrive è contrario a qualsiasi condanna, ma questo è un altro discorso che evitiamo per semplificare il ragionamento. La seconda è che non si tratta di stabilire se Galilei aveva ragione o torto da un punto di vista scientifico, il che neanche la cosiddetta scienza moderna è riuscita ad appurare non avendone né i mezzi né la capacità epistemologica, ma la spaventosa capacità repressiva della Chiesa (che a mutate condizioni continua anche oggi) era là e colpiva a prescindere da ogni valutazione di giusto o ingiusto, colpiva chiunque osasse affermare qualcosa di diverso della sua “verità”. Bruciava il povero (ma non pentito) Bruno per le sue idee considerate eretiche e torturava ma non bruciava il pentito Galilei, condannava a trent’anni di prigione Campanella (capace di fingersi pazzo) per le sue tesi rivoluzionarie sul comunismo e bruciava Jean-François Lefebvre d’Ormesson, Chevalier de La Barre. La Barre venne torturato per confessare, ma il tribunale non riuscì a ottenere nulla. Nel 1766 venne condannato a morte per blasfemia (ovvero per non essersi tolto il cappello al passaggio di una processione e avere detto frasi blasfeme), in spregio della legge del 1666 che prescriveva solo l’ammenda e la gogna alla sesta volta, e a quella del 1682, che prescriveva la pena di morte solo se insieme al sacrilegio fosse provato l’abuso della credulità popolare. Il 1º luglio 1766 La Barre venne giustiziato. Come si vede si bruciava per ogni genere di dissenso e l’elenco sarebbe tanto lungo da risultare fastidioso. Anche se “la scienza spiega la natura”, cosa su cui ci sarebbe molto da dire, non è certamente agli eredi dei roghi, sempre pronti ad accenderne nuovi non appena se ne profilasse l’occasione, che spetta dirlo. L’oscurantismo religioso, specialmente della cattedra di Pietro, si manifesta in ogni occasione, cerca di mordere, approfittando del clima di revanche che circola oggi, sebbene non ha più i denti aguzzi di una volta.


[Pubblicato su “SenzaTitolo” n. 3, primavera 2009, pp. 65-69]

Dio non esiste

“Tra Dio e gli uomini non ci sono relazioni reali”. Tommaso D’Aquino

Un’associazione di atei, o più di una, questo non lo sappiamo, ha meritoriamente deciso di fare una pubblicità, con tanto di ricorso ad agenzia specializzata.

Testo: “La cattiva notizia è che Dio non esiste, la buona è che non ne hai bisogno”. Partenza della pubblicità: Genova, la città del presidente della CEI.

Dio: Dostoevskij come antidoto.

Al passo con i tempi si tratta di una iniziativa degna della migliore ottusità illuminista che si dà la mano con le critiche rivolte contro le dimostrazioni metafisiche dell’esistenza di Dio.

“Vero ateo, cioè ateo nell’abituale significato della parola, non è perciò colui che nega Dio, il soggetto, ma colui che nega gli attributi dell’essere divino, quali l’amore, la sapienza, la giustizia. Una qualità non è divina per il fatto che Dio la possiede, ma Dio la possiede perché essa in sé e per se stessa è divina, perché Dio senza di essa sarebbe un essere imperfetto”. Ludwig Feuerbach.

Il bisogno di Dio nasce dalla miseria e non ci saranno mai né borghesi illuminati né rivoluzionari autoritari capaci di costruire uno Stato laico in grado di scalzarlo fino a quando la miseria spaccherà la vita degli uomini in due parti: coloro che hanno e coloro che non hanno. Ogni filosofica considerazione parte sempre da pance piene o, almeno, non borbottanti per la fame.

“Per quanto opaca sia ancora questa nostra vita, tuttavia qualcosa ci dà una spinta. La fame si annuncia con i suoi colpi. Nessuna cosa avuta sazia a lungo quel non che le è proprio e che essa non è in grado di possedere. Così questo non, questa caverna, intorno a cui ogni cosa si edifica, spinge verso il non ancora e il che cosa che ancora non ha. Se nei giorni sconvolti e contrastati la voce di questo che cosa si affievolisce, non per questo diminuisce la fame temporale, e nella mancanza di pane non è il suo mancare che preme con maggiore violenza, ma il pane stesso”. Ernst Bloch.

Il cristianesimo primitivo, una delle formulazioni comuniste più radicali e irrealizzabili, come hanno notato, fra i tanti, Stirner e Bakunin, si rivolgeva ai miseri del mondo, poi divenne – con la filosofia dei Padri della Chiesa fino ad Agostino – la religione delle grandi città commerciali (ad esempio, Alessandria d’Egitto) e perse del tutto la sua originaria condanna della ricchezza per diventare strumento del potere e poderoso strumento di potere essa stessa. Non era Dio, un astratto simbolo metafisico, che i miserabili e gli schiavi cercavano, ma un messaggio di uguaglianza in questa terra. Alla lunga gli si fornì solo un messaggio di speranza in un’altra vita e ai dominanti una collaborazione per tenere buono qualsiasi istinto di ribellione.

“La grande fortuna del cristianesimo, il suo merito incontestabile e l’intero segreto del suo trionfo inaudito e d’altronde del tutto legittimo, fu di rivolgersi a questo pubblico sofferente ed immenso, al quale il mondo antico, costituito da un’aristocrazia intellettuale e politica meschina e feroce, negava persino le minime prerogative e i diritti più elementari dell’umanità. Altrimenti, non sarebbe mai riuscito a diffondersi. La dottrina che propalavano gli apostoli del Cristo, per quanto consolatoria avesse potuto apparire agli sventurati, era troppo rivoltante, troppo assurda, dal punto di vista della ragione umana, perché degli uomini istruiti potessero accettarla. Così, con quale tono superbo l’apostolo san Paolo parla dello “scandalo della fede”, e del trionfo di questa divina follia respinta dai potenti e dai sapienti del secolo, ma tanto più appassionatamente accettata dai semplici, dagli ignoranti e dai poveri di spirito. In effetti, ci voleva un ben profondo malcontento della vita, una ben grande sete del cuore, e una povertà pressoché assoluta di spirito, per accettare l’assurdità cristiana, di tutte le assurdità religiose la più ardita e la più mostruosa. Non era solo la negazione di tutte le istituzioni politiche, sociali e religiose dell’antichità, era il capovolgimento assoluto del senso comune, di ogni ragione umana. L’Essere effettivamente esistente, il mondo reale, era considerato ormai come il nulla; e il prodotto della facoltà astrattiva dell’uomo, l’ultima, la suprema astrazione, nella quale questa facoltà, avendo superato tutte le cose esistenti e persino le determinazioni più generali dell’Essere reale, come le idee di spazio e tempo non avendo più niente da superare, si riposa nella contemplazione del suo vuoto e della sua immobilità assoluta; questo abstractum, questo caput mortuum assolutamente vuoto di ogni contenuto, il vero nulla, Dio, è proclamato il solo essere reale, eterno, onnipotente. Il Tutto reale è dichiarato nulla, e il nulla assoluto, il Tutto. L’ombra diviene corpo, e il corpo svanisce come un’ombra. La credenza del proletariato antico, altrettanto che delle masse moderne dopo di esso, era più robusta, di minor buongusto e più semplice. La propaganda cristiana si era rivolta al suo cuore, non al suo spirito; alle sue aspirazioni eterne, ai suoi bisogni, alle sue sofferenze, alla sua schiavitù, non alla sua ragione che ancora dormiva, e per la quale le contraddizioni logiche, l’evidenza dell’assurdo, non potevano di conseguenza esistere. L’unica domanda che l’interessava, era di sapere quando sarebbe suonata l’ora della liberazione promessa, quando sarebbe arrivato il regno di Dio. Quanto ai dogmi teologici, non se ne curava, perché non ci capiva proprio niente. Il proletariato convertito al cristianesimo ne costituiva la forza materiale ascendente, non il pensiero teologico”. Michail Bakunin.

“Da parte liberale si rinfaccia ai primi cristiani di aver predicato l’ubbidienza nei confronti dell’ordinamento sociale allora esistente, cioè di quello pagano, di aver ordinato di riconoscere l’autorità pagana e di aver comandato senz’altro: ‘Date a Cesare quel che è di Cesare’. Eppure quante sommosse ci furono a quei tempi contro l’autorità e il dominio dei Romani, che spirito rivoluzionario mostravano gli ebrei e gli stessi Romani contro quell’impero universale, insomma com’era diffusa l’‘insoddisfazione politica’! Ma i cristiani non ne volevano sapere e non volevano accettare le ‘tendenze liberali’. Quel tempo era politicamente tanto agitato che, come si legge nei Vangeli, si pensò che il modo migliore d’accusare il fondatore del cristianesimo fosse appunto quello d’incolparlo di ‘trame politiche’, mentre nessuno era più lontano di lui da tali attività, come gli stessi Vangeli ci dicono. Ma perché non era un rivoluzionario, un demagogo, come gli ebrei avrebbero ben voluto, perché non era un liberale? Perché egli non si aspettava la salvezza da un cambiamento delle condizioni e tutto quell’ordinamento gli era indifferente. Egli non era un rivoluzionario, come per esempio Cesare, bensì un ribelle, non uno che rovesciava gli Stati, ma uno che si sollevava. Per questo il suo principio era solo: ‘Siate astuti come serpenti’, che esprime la stessa cosa dell’altro principio, più specifico: ‘Date a Cesare ciò che è di Cesare’; egli non conduceva alcuna battaglia liberale o politica contro l’autorità costituita, ma voleva, incurante di quell’autorità e da essa indisturbato, percorrere la propria strada. E non meno indifferenti del governo gli erano i nemici di questo, perché né l’uno né gli altri capivano ciò che egli voleva ed egli non poteva che tenerli lontani da sé con l’astuzia di un serpente. Ma sebbene non fosse né un agitatore di popoli né un demagogo né un rivoluzionario, egli era (e tanto più lo era ciascuno di quei cristiani primitivi) un ribelle che si sollevò al di sopra di tutto ciò che al governo e agli avversari di questo sembrava sublime, che si sciolse da tutto ciò a cui quelli restarono legati e che al tempo stesso deviò il corso delle sorgenti vitali del mondo pagano, facendo così appassire lo Stato esistente: proprio perché non gli interessava il rovesciamento dell’esistente, egli ne era in realtà il nemico mortale e il suo vero distruttore; egli, infatti, lo murò edificandogli sopra, tranquillo e incurante, il suo tempio, senza far caso alle grida di dolore che venivano da quel che aveva murato”. Max Stirner.

Pubblicizzare un messaggio del genere è un segno tipico dei nostri tempi, dove tutto gira attorno alla commercializzazione del mondo, segna il limite estremo di banalizzare un problema importante, quello costituito dal ruolo di repressione e recupero che la religione mantiene inalterato, basta riflettere sui continui interventi su ogni argomento da parte delle strutture ecclesiastiche.

“L’osservanza delle leggi e dei regolamenti rappresenta uno speciale problema dell’analisi della condotta degli affari. Dipende infatti dalla moralità del commercio se alternative illegali e proibite possano essere considerate come definitivamente escluse e perciò non esistenti, o come possibilità soggette soltanto a certi particolari rischi. Assumiamo, per esempio, che per la vendita di un prodotto venga fissato un prezzo massimo e siano contemplate multe per le violazioni. Per l’uomo di affari che è incondizionatamente fedele alla legge, il prezzo massimo è il solo prezzo possibile, indipendentemente dall’insistenza con cui qualcuno dei suoi clienti può tentarlo con offerte migliori. Ma per l’uomo di affari che si attiene alla legge soltanto per timore di essere scoperto e penalizzato, ‘i prezzi della domanda’ superiori al prezzo massimo costituiscono reali possibilità ed i rischi delle ammende vanno aggiunti al costo o dedotti dal ricavo. Se poi le sanzioni per violazioni includono pene carcerarie, il rischio perde l’aspetto monetario e tocca al virtuale contravventore o all’economista teorico ‘convertirlo’ o meno in termini monetari. I prezzi del mercato nero sono in parte il risultato di tali conversioni del rischio”. Fritz Machlup.

Grosso modo si potrebbe constatare che alla religione passionale e fideistica del passato si sta sostituendo una religione laica, dove l’adorazione della legge si sostituisce a quella degli dèi, ma non è con messaggi illuminati e pubblicitariamente divulgati che il problema può essere affrontato.

“On n’est bon que par la pitié, il faut donc qu’il y ait quelque pitié dans tous nos sentiments, così suona oggi la morale. E da cosa ha origine ciò? Che l’uomo, le cui azioni sono piene di simpatia, disinteresse, di utilità comune, sociali, venga oggi sentito come l’uomo morale, questo è forse l’effetto e il mutamento di opinione più universale che il cristianesimo ha prodotto in Europa, sebbene questa non sia stata né la sua intenzione, né la sua dottrina. Ma era questo il residuum di disposizioni d’animo cristiane, quando la fondamentale credenza, del tutto opposta e rigorosamente egoistica, che una cosa sola è necessaria e che di assoluta importanza è l’eterna salvezza personale, a poco a poco passò in secondo piano insieme ai dogmi sui quali poggiava, e con ciò fu spinta in primo piano la collaterale credenza nell’amore, nell’amore per il prossimo, in conseguenza con la pratica, senza limiti, della ecclesiale misericordia. Quanto più ci si distaccava dai dogmi, tanto più si cercava quasi la giustificazione di questo distacco in un culto dell’amore umano, non rimanere in ciò indietro rispetto all’ideale cristiano, bensì, per quanto fosse possibile, superarlo fu un segreto sprone per tutti i liberi pensatori francesi, da Voltaire fino ad Auguste Comte, e quest’ultimo con la sua famosa formula morale, vivre pour autrui ha in effetti ultracristianizzato il cristianesimo”. Friedrich Nietzsche.

Ancora una volta i borghesi – dall’alto della loro soddisfatta supponenza – stentano a rendersene conto. Se il potere riconosce l’utilità della religione per il controllo sociale – vedere le frequenti dichiarazioni in questo senso del nano maligno che governa oggi l’Italia – ciò significa che il concetto di Dio, corollario e fonte giustificativa nello stesso tempo del meccanismo in base al quale funziona qualsiasi autorità statale, è ancora vivo e vegeto.

“Nelle indagini, solitamente, la metafisica ha adoperato un metodo molto primitivo. Sapete che la magia, questo frutto proibito, è sempre stata per gli uomini oggetto di cupidi desideri. Sapete anche quale importanza hanno sempre avuto nella magia le parole, le formule magiche. Conoscendo il nome di uno spirito, di un genio, di un demonio, di una potenza occulta qualsiasi, mediante la formula di incantesimo alla quale questa potenza obbedisce, disponete di essa a vostro piacere. Salomone conosceva il nome di tutti gli spiriti e, a causa di questa conoscenza, di ognuno di essi poteva fare il suo schiavo. Così il mondo è sempre apparso come una specie di enigma, la chiave del quale doveva essere scoperta sotto la forma di una parola, di un nome che avrebbe fatto luce completa o conferito tutto il potere voluto”. William James.

Non è con gli slogan che si può affrontare questo problema, ma con la lotta contro l’autorità, qualsiasi autorità, in primo luogo quella dello Stato, fonte e garanzia dello sfruttamento e della miseria materiale e morale.

“Non c’è niente di grande dietro a noi
che possa illuminare la nostra strada.
Perché questa vita senza volontà,
questo ondeggiare, barcollare
di fronte a obiettivi
che non possiamo nemmeno avvicinare?
Camminiamo con la morte nell’anima
ma non possiamo morire.

Srečko Kosovel

Dio si combatte ribellandosi al potere, cioè sul piano degli interessi concreti, le chiacchiere sono solo chiacchiere.


[Pubblicato su “SenzaTitolo” n. 3, primavera 2009, pp. 73-78]

Clericalismo e anticlericalismo

La religione, il cristianesimo in particolare, e il cattolicesimo con maggiore specificità, ha un rapporto con la struttura ecclesiastica, cioè con la Chiesa, che non può considerarsi accettabile. La Chiesa ammette con difficoltà, al suo interno, quelle posizioni religiose che attenuano il potere e la gestione del potere da parte delle gerarchie ecclesiali. Queste gerarchie, specialmente nei secoli passati, hanno preteso imporre le proprie scelte e le proprie interpretazioni non solo ai fedeli, il cosiddetto popolo di Dio, ma anche alle strutture subordinate stesse, indicando come stravaganti perversioni del pensiero tutte quelle interpretazioni teologiche, o semplicemente procedurali, che si allontanavano dalle direttive pontificie.

Queste esacerbazioni del potere hanno, a loro volta, scatenato delle reazioni, ed è qui che sorge l’anticlericalismo, che più di una negazione immediata e diretta della religione si deve considerare un rifiuto del predominio delle gerarchie ecclesiali, dal livello più alto a quello minimo.

Dal rigido anticlericalismo dell’Ottocento, dalla vecchia Kulturkampf, fino ad oggi è passata molta acqua sotto i ponti. Oggi la critica della religione parte da presupposti differenti e cerca di contemperare una sorta di equilibrio improbabile tra il potere della Chiesa, diretto verso le coscienze, e quello degli Stati, diretto verso la vita civile nella società. Naturalmente una differenziazione netta non è possibile.

Juan Bada nel libro: Il clericalismo e l’anticlericalismo, tr. it., Milano 1998, tratteggia in poche pagine più che una storia del clericalismo una vera e propria storia dell’anticlericalismo, e di questa seconda storia se ne sentiva la mancanza.

L’autore è membro del Consejo Asesor Cientifico della collana Clàssics del Cristianisme.


[2007]

Della povertà

La storia, e la fantasia popolare, concordano insieme sul sogno di papa Innocenzo III. Il Laterano, all’epoca medievale sede del papato, traballa e sta per cadere in rovina, ma un piccolo frate, di nome Francesco, lo sostiene sulle proprie spalle. Questo mito illustra bene la crisi della Chiesa all’inizio del tredicesimo secolo. Si tratta di una crisi che deriva dal profondo rinnovarsi dei costumi e delle culture. I catari sostengono un dualismo manicheo rifacendosi alle proprie origini bulgare, dove avevano il nome di bogomili. I laici cominciano a mettere in dubbio la supremazia della Chiesa in materia culturale. Nuovi maestri insegnano nuove dottrine, che poi sono vecchie quanto il mondo. Il dibattito sulla povertà spacca l’unità del popolo di Dio, troppa la miseria e troppa la diseguaglianza per passare inosservata. La tesi del segno della benevolenza divina riguardo i ricchi è ancora di là da venire, mentre le giustificazioni agostiniane sono troppo lontane per dire qualcosa alla mentalità di un nuovo medioevo.

Sulla lama del coltello nascono gli ordini mendicanti, in particolare i francescani, si diffondono pure gli ordini dei predicatori, in particolare i domenicani. Entrambi, a titolo diverso e con prospettive diverse di controllo e di egemonia, si impadroniscono delle più grandi università. Imponente il dibattito tra Tommaso e Bonaventura.

Questo insostituibile libro di Clifford Hugh Lawrence: I mendicanti. I nuovi ordini religiosi nella società medievale, tr. it., Milano 1998, permette di seguire la storia degli evangelizzatori mendicanti dalle origini fino al XIV secolo. Strumento che consente di capire i motivi di un problema, quello della povertà, che tocca la dimensione istituzionale della Chiesa anche oggi, forse oggi più che in altre epoche.


[2007]

Il sentimento tragico della vita

Miguel de Unamuno è uno degli autori più affascinanti della filosofia del Novecento. Filosofo del contrasto e dell’ambiguità. Don Chisciotte e Sancio nello stesso tempo, paladino dell’assurdo e desideroso della felicità terrena, di questa felicità non di un possibile e ambiguo rinvio al paradiso dei giusti.

Egli scrive: “Né vale in questo caso quell’espediente ripugnante e volgare che hanno inventato gli uomini politici, più o meno parlamentari, e che si chiama formula di concordia, in modo che non ci siano né vincitori né vinti. Non è qui il caso di transazioni. Forse una ragione degenerata e vile potrebbe arrivare a proporre una tal formula di accomodamento, perché in realtà la ragione vive di formule; ma la vita che è informulabile, la vita, che vive e vuol viver sempre, non accetta formule. La sua unica formula è: o tutto o nulla. Il sentimento non transige con mezzi termini. Initium sapientiae timor Domini, si disse, volendo forse dire, timor mortis o timor vitae che è lo stesso. Il principio della sapienza è sempre un timore”.

È la vita il suo punto di partenza, l’alimento sconvolgente della religiosità mistica di un pensatore profondamente agnostico. Non per niente cita i due versi di Leopardi: “Perì l’inganno estremo / ch’eterno io mi credei”.

Pagine incredibili che scuotono l’animo di chi le legge: la carne e il sangue, la tragedia delle contraddizioni quotidiane, la gabbia carceraria dentro cui tutti noi ci dibattiamo senza accorgercene, l’anima che continuamente sbatte le ali per prendere il volo impossibile.

Anticipatore dell’esistenzialismo? È stato detto anche questo. Non sembra, almeno nel senso del nullismo tedesco. Forse della versione positiva italiana, ma quale distanza da un Abbagnano. Ecco come piglia in giro la filosofia, anche esistenzialista: “Ma non credo che sia del tutto nel vero il fratello Kierkegaard, perché lo stesso pensatore astratto, o pensatore di astrazioni, pensa per esistere, per non tralasciar di esistere, o forse pensa per dimenticare che dovrà tralasciar di esistere. Tale è il fondo della passione del pensiero astratto. E forse Hegel s’interessava così infinitamente come Kierkegaard alla sua propria, concreta e singolare esistenza, benché, per mantenere il decoro professionale di filosofo dello Stato, lo tenesse celato. Esigenze della carica!”.

Nessuno resterà come prima, intonso nelle sue certezze, dopo la lettura Del sentimento tragico della vita, tr. it., Milano 2003.


[2007]

Per un concetto dell’amore

La tesi di laurea di Hannah Arendt, pubblicata in Germania nel 1929 dall’editore Springer su sollecitazione di Karl Jasper, che in quella edizione ebbe a curare l’introduzione, è: Il concetto d’amore in Agostino, tr. it., Milano 2004. Per quanto ristretto nei limiti di un lavoro di dottorato l’impegno dell’autrice è vastissimo, sia come analisi filosofica, sia come ricostruzione del pensiero (certamente non facile) di Agostino, sia come documentazione di sostegno, cioè l’apparato di citazioni e note che si rende indispensabile per tutti coloro che si accostano alle grandi opere del filosofo di Tagaste (oggi Souk-Ahras).

In più, e questa è una specificità della Arendt, questo libro affronta gli sviluppi non realizzati del pensiero dello stesso Agostino, cioè cerca di arrivare ad alcune conclusioni, ed esprime giudizi sintetici, quindi di valore, che non sempre sono riscontrabili nel pensiero del filosofo.

Ciò, che a tutta prima, può sembrare una scelta riduttiva, invece arricchisce, per il lettore, la conoscenza del pensiero della Arendt e, nello stesso tempo, apre problemi che lo stesso Agostino ha lasciato in disparte. Dopo tutto la Arendt ragiona da donna moderna e ha in mente le problematiche esistenziali del suo tempo, non quelle del tempo di Agostino.

Ecco pertanto le occasioni del lettore di fronte a questo libro. Appaiono le contraddizioni di Agostino, le sue imprevedibili tensioni di fronte al problema dell’amore di Dio e dell’amore di se stessi e del prossimo. In fondo il tema dell’amore ha risvolti neoplatonici in Agostino, rivissuti, questi risvolti, in chiave cristiana ma non seguendo una visione teologica determinata in modo preciso, dettagliata, per fare un esempio, nel modo razionale di Tommaso. In Agostino è il cuore che si sente pulsare, il cuore che non guarda tanto per il sottile nella esposizione logica di quello che le parole riescono a mettere insieme, mentre si profila un senso ulteriore, forse più profondo, forse più arduo, mai scontato in partenza, di fronte al quale è difficile rimanere tiepidi o indifferenti.


[2007]

Pensieri di un matematico

I Pensieri di Pascal sono un libro senza precedenti e senza eredi, il libro di un genio assoluto.

L’impressione che si ha leggendo le sue pagine, solo alcune di esse, solo alcuni di questi folgoranti pensieri, e di essere folgorati da una acuta penetrazione intellettiva. Nessuno, nemmeno Agostino, troppo sanguigno per giungere a tanto, è arrivato così in fondo.

Pascal si affida a Dio, soluzione che per lui è stata radicale fino alla catastrofe. L’orizzonte giansenista non ammetteva alternative. La rigidità assoluta era il suo credo. Ma non è questo il punto. La contraddizione che lo ha tormentato per tutta la vita era basata sulla domanda, come può la perfezione essere intaccata dalla nullità estrema, Dio dispiacersi dell’operato dell’uomo? Il temperamento del filosofo, di questo grande filosofo, si spuntava di fronte alla estrema insensibilità del tutto, la quale non può che essere tale, estranea al mondo e a questo completamente inaccessibile. Eppure qualcosa batteva nel suo povero cuore annichilito, come batte nel cuore di chi si inoltra nel deserto, qualcosa di meravigliosamente intimo, quindi fisico, fondato sulla pena e il dolore, sull’attesa della ricompensa, della salvezza dall’inquietudine e dalla paura, qualcosa che è completezza che completa.

Pascal, da grande matematico, sa bene che la mente umana non può concepire l’universo se non ricorrendo a degli espedienti puerili, troppo modesti di fronte alla immensità del compito. Ma sa anche che questo sforzo, nella modestia dei suoi risultati, è davvero notevole. Ciò, come è ovvio, non prova né la distanza dell’uomo da Dio né l’esistenza della strada inversa.

A volte è l’apparente diversione che il testo stesso suggerisce, come se l’autore si fosse stancato di fornirmi indicazioni e aspettasse, in un vuoto della frase stessa, che sia io a dire la mia proposta insolubile, inesauribile, non indebolita dall’attesa, anzi rafforzata dalla difficoltà. Ciò è molto difficile. Il risultato è l’incoerenza, mia naturalmente.

Che cosa sono i nostri princìpi naturali se non i nostri princìpi abituali, dice Pascal? Può darsi che egli colga nel segno, l’abitudine regna nell’immediato. Le moi est toujours haïssable, affermazione radicale del povero Blaise. Lo sguardo insondabile che provoca la follia dell’assoluto non si trova, da questa parte, che raramente, ed è visto in ogni caso come insofferenza e rinuncia alla ricerca assoluta. Voglia dell’assenza recitano gli sciocchi saccenti, ma non può essere accettata questa formula perché la volontà si indirizza sempre verso la presenza, ogni cosa che dalla presenza si allontana la mette in apprensione. Il dolore, sia pure in minima parte, nel fare quotidiano, cerca molti modi per attutire la disperazione originaria, l’assenza della completezza. Pascal sa bene che vuole dire questa scissione, anche se il soffocante sentimento religioso giansenista gli impedisce di dare fino in fondo il dono di tutto se stesso, di abbandonarsi. Egli ha cercato di definire in mille modi l’inquietudine, ma dietro di essa la potente leva del dolore agisce in maniera tanto variabile e indeterminata da vanificare ogni sforzo specificativo. Lasciare alle proprie spalle il lento ripetersi della logica dell’accumulo, dell’ottusità del possesso, abbandonare il regno della coerente e conosciuta utilità, significa contrarre la propria vita, folgorarla in un punto specifico della propria esistenza, concentrarla, chiamarla all’attimo inatteso eppure cercato da tanto tempo, al grido sul rogo in fiamme, all’indirizzo verso la soglia dove una chiave inimitabile aprirà la porta che accede all’assolutamente altro.

Pascal è tutto questo e altro ancora.


[2007]

* * * * *

«Le mie illusioni – a prescindere dal fatto che non comportano alcuna punizione per chi non le condivide – non si sottraggono, come quelle religiose, alla rettifica, e non hanno carattere delirante. S’impone allora l’idea che la religione sia paragonabile a una nevrosi infantile, ed è abbastanza ottimista da supporre che l’umanità supererà tale fase nevrotica al modo stesso in cui, crescendo, molti bambini guariscono dalla loro analoga nevrosi».

(S. Freud, L’avvenire di un’illusione, tr. it., Torino 1990, p. 97).

Annotazioni di Amfissa

Il prete odioso e bolso, grasso e maleodorante, appartiene all’iconografia del passato. Oggi il personaggio è diverso. Dopo i preti operai e i preti nei quartieri e nelle comunità di base, gli aspetti esteriori del problema, che tanto avevano affascinato gli anticlericali di una volta, sono stati sconvolti. Oggi il prete è vario, pulito, mutevole, sa stare al mondo, centrifuga molti interessi, ma alla fin fine svolge sempre lo stesso lavoro, è un intermediario tra l’uomo e la divinità.

Ora, ogni intermediario è un essere dimidiato. Volendo servire due padroni, nel migliore dei casi non ne serve nessuno. È a questo livello che bisogna cogliere la sua persistente filigrana. A tradire l’intermediario tartufesco c’è la sua costante mancanza di semplicità. Il prete è complicato. Il suo mondo, le sue prediche, le sue convinzioni, i suoi contorcimenti e perfino – quando è presente – la sua fede, sono elementi mutevoli di questa sua complicatezza.

La fede è cieca delega nella sofferenza a una forza ignota alla quale ci si rivolge sperando in un sollievo. Essa è umana, umana come il dolore e la gioia, l’amore o l’indifferenza, l’infamia della spia e il sublime coraggio dell’eccesso che supera ogni limite. Tutto questo è umano. Pensare la fede come un prodotto dell’imbroglio dei preti, o dei loro corrispondenti nelle religioni diverse dal cristianesimo, è grave ottusità illuminista. L’abbiamo vista accettata in tutte le salse, è ora di cambiare registro.

Tra il vociferare che attornia e affumica il fenomeno religioso, il prete è l’elemento di raccordo delle tante favole che si sono intrecciate nella storia con la melma politica di tutti i tipi. La funzione di raccordo è l’essenza intermediaria stessa, diretta ad eliminare ogni spinta eversiva, per attuare comunque una sorta di accomodamento. Questa funzione freme nell’ombra, aspira a giocare un ruolo più importante, a farsi essa stessa obiettivo dell’ossequio, maneggiando divinità ci si immedesima, è inevitabile. Il prete è rappresentante di Dio. Questa stessa affermazione si rivela oscenamente stupida, eppure rivela l’orrore e la vacuità di questo ruolo che continua a ostacolare invece di rincuorare, a opprimere invece di compatire. Questi aspetti inguaribilmente anticlericali sono ancora validi. Quindi cloro al clero.

Ma c’è un elemento decisivo che questi orribili animali non possono mordere, ed è la fede che nasce dal dolore. C’è un’altissima consonanza tra sofferenza e fede. Se il prete si inserisce in questo binomio lo spezza e accentua la prima parte azzerando la seconda. Il demone del prete è ancora una volta anticlericalmente individuabile nell’ufficio che fa aggio sull’uomo e sulle sue eventuali buone qualità. Se di qualcosa ha nostalgia il prete, nel suo eventuale disorientamento, è del proprio sacrosanto negozio, dove vende al minuto un dio fatto in briciole. La fede gli è estranea, è materia scottante per lui, per questo funzionario del governo – riconosciuto o no – che gioca sempre un ruolo di recupero.

In fondo il personaggio è un pover’uomo, come qualsiasi impiegato al catasto. Vive nella continua umiliazione del proprio ruolo, ancora importante come strumento del potere, ma non come una volta. Ha spesso una vita comoda, con uno stipendio di sopravvivenza, ma anche travagliata, come il caso dei preti rivoluzionari di qualche decennio fa. Tutto ciò non lo rende contento di sé, gli dà solo una coscienza adeguata al proprio misero ruolo e con ciò, una volta che egli stesso finisce per svalutare questa funzione, sostanzialmente di raccordo, non potrebbe avere che disprezzo di sé. Inseguito dall’ombra di quello che avrebbe voluto essere, non può respirare da nessuna parte, salvo che negli strati alti della società e fra i politici più reazionari, due componenti in grave disagio attualmente, che forse lo considerano ancora guardiano e domatore di belve feroci.

La struttura esterna del prete lo protegge dalle intemperie della vita come un potente carapace, ma bisogna conformarsi a questa corazza, e il fatto comporta sacrifici del proprio essere più intimo per cui alla lunga l’uomo si deforma e diventa immondo a se stesso, fingitore e finto. Solo a queste condizioni la sua esistenza rimane nell’ordine prestabilito e concorre a mantenerlo, altrimenti lui viene messo fuori gioco, segnato a dito. Se possedesse la fede morirebbe soffocato. Ma come potrebbe possedere la fede un uomo al sicuro? Certo, può illudersi di possederla, o di ragionarci sopra in nome dell’affermata razionalità sua, oppure potrebbe masticare il suo corpo per umiliarsi fino a sperare d’incontrarla, ma sarebbero pratiche illusorie. La fede fugge da tutto questo. Il prete è senza fede e serve un dio di cui si sente intermediario e rappresentante, un dio superbo e onnipotente che lo fa sentire un poco anche lui superbo e onnipotente, come gli stemmi sulla livrea fanno sentire importanti cocchieri e palafrenieri. La fede fugge dall’abiezione.

Il mondo è immerso nell’abiezione, per questo può essere religiosamente privo di fede. Suppone l’esistenza di alcuni benefici a portata di mano, riconoscimenti sociali e possessi personali, poi come ogni uomo che in questo mondo è vissuto si accorge che di questo mondo sta per morire. Un alito venefico lo sta azzerando ed è troppo tardi, la vita non può essere ripercorsa a ritroso.

Il prete è odioso perché come ogni imbroglione vende a buon prezzo quello che non ha. Pretende spacciare la fede, come qualsiasi altra droga, ma la fede non è una merce che si compra o si vende, è una potente spinta verso l’inverosimile futuro, verso una vita diversa, verso la libertà e il sogno e tutto questo ha a che fare con dio solo a causa della intermediaria funzione della religione, quindi del prete.

La fede implica una potente coscienza di sé, dei propri limiti ma anche delle proprie possibilità di agire. Questa grande forza è nell’uomo, anche nell’uomo che ha conosciuto il proprio fondamento bestiale, che ha conosciuto la caverna delle orribili cose melmose della politica. Solo che in quest’ultima, come nel prete, la convenienza e la contrattazione hanno il sopravvento. Da parte sua la fede si contraddice e, posta una speranza, subito la sostituisce con un’altra. Il dolore l’alimenta, nello stesso tempo la soffoca. Ha bisogno di un sogno concretamente dettagliato su cui puntare, ma questo sogno che l’alimenta finisce per annientarla.

Il prete sa tutto questo, difatti non si rivolge alla fede, non la sollecita, ma propone la vendita di altre cianfrusaglie attraverso le quali quella dovrebbe venire avanti da sola. Questo accordo pubblicitario riempie nei vari dettagli le religioni, ma la fede da esso si mantiene lontana. La teologia, triste disciplina di sostegno, sigilla la chiusura trasformando il rituale in un romanzo a puntate con la trama sempre identica a se stessa. Tutto questo agitarsi pretesco utilizza il dolore come materia prima per tenere a bada, per rabbonire e simultaneamente rivendicare la propria funzione di raccordo.

Le chiacchiere del prete e la sua funzione dilagano dappertutto, la fede si rintana davanti al loro avanzare sempre più nello spazio risibile e goffo delle paure che ognuno di noi alimenta da bambino. A occhi chiusi essa non sta ad ascoltare che il proprio battere del cuore, le pulsazioni del polso, il ritmo del respiro. Abita come un sogno o un’idea confusa e contraddittoria, un corpo di cui ascolta il pulsare della vita. È questo che la spinge ad andare avanti, violentemente capace di farsi largo anche in un corpo quasi morente, e la vita la chiama a venire fuori, a uscire da quel risibile buco, a chiedere che l’inferno intravisto chiuda la sua bocca mentitrice. Sogni e allucinazioni. Il dolore è un’appendice della vita ma riesce a invertire il rapporto, diventa esso stesso vita. Sono io il dolore, quindi vivo. Se questo dolore che mi spezza le braccia è vero, vuol dire che non mi avete ancora ucciso, che respiro, che non sono morto. Allucinazioni dovute al dolore o alla vita che minaccia di concludersi? Chi può dirlo, e chi può dire quanta intensità di dolore avrebbe la meglio, fisico, emotivo? Non lo so. Le immagini del cedimento fisico debordano in quelle della ripresa dell’autocontrollo, queste poi capovolgono la relazione. Ciò non ha mai fine, la sua incessante mutevolezza non può essere fermata.

Dal dolore la vita e dalla vita il dolore. Un progetto spezzato irrimediabilmente fa più male di un braccio spezzato, ascoltare nelle due condizioni il pulsare del sangue nelle arterie è un mettere ostacoli davanti all’inquietudine irrinunciabile della vita stessa. La fede sta qua, in questo rapporto col mio corpo spezzato, annientato, sottoposto a tortura, un rapporto che risorge continuamente a fronte dell’azzerarsi del progetto e dello spezzarsi del mio braccio. Devo cancellare il mondo se sono in queste condizioni di sofferenza, se continuassi a tenerlo dentro di me, non ce la farei ad affrontare il dolore. Ho bisogno di sentire una superficie liscia e levigata per smarrire il senso dell’esistenza fuori di me, per restare dentro di me e quindi amare la fede costringendola ad uscire dal suo buco e venire alla ribalta, a dire la sua su di me, su che uomo sono io, un uomo concreto, attivo, capace di agire anche adesso che sono (quasi) sul punto di morire. E la fede mi parla, e io le parlo. È un sottile battito che elimina tutti i simulacri del convincimento. Ora sono sicuro di farcela, anche se con un filo del pensiero qualcosa continua a incidere sul mio braccio spezzato. La fede è uno scudo incompleto, ma è uno scudo e come tale assolve alla sua funzione protettrice.

Ho sempre la possibilità di andarmene – una qualsiasi bottiglietta dimenticata in un angolo del pagliericcio, strumento e destino – ma sono un lottatore e stento ad andarmene. La scena della vita mi attira ancora o il colpo ricevuto non è bastevole, non lo so. La decisione estrema è sempre possibile, per questo è sempre rinviabile. La fede muove i suoi passi decisivi da queste parti, non mi tradisce, non mi incita, non pretende da me se non quello che le posso dare. La cartilagine del pensiero vuole la sua preminenza, alla quale è abituata, gliela sottraggo e devo sostenere una lotta feroce per svuotarla e riempirla del mio corpo, sangue, nervi, bile, secrezioni, sudori freddi. Smetto di mangiare per facilitare questo travaso, ci riesco a stento. Mi sento debole e la fede mi alita attorno come una farfalla, non la seguo col pensiero ma la vedo e la sento, mi sfiora, ora qua, dal lato del cuore, ora di là, dal lato della spalla rotta. Non è ingombrante, al contrario, devo fare uno sforzo perché la sua presenza sia percepibile. Certo, non posso abbandonarmi per sempre a questo dialogo ultrasottile, sono un uomo grossolano e gli umori fluiscono incontrollati, alla fine potrebbero prendere direttamente il posto dei pensieri e trasformarmi in un cadavere vivente.

Tutti questi movimenti sono esperienze di fede, concrete non trasportate e trasformate in assegnati del governo divino, non c’entra dio, c’entra la fisicità estrema e la fede nel mio essere qui, di fronte alla mia sconfitta, e non altrove. Sono capace di entrare dentro questo “qui”, e lo faccio liberamente, mentre attorno a me fantasmi della caverna degli orrori umani si affannano a recitare la loro parte di torturatori. Ma non hanno superficie, sono sfumature orribili della vita, si presentano, si sostituiscono gli uni con gli altri, eppure hanno sempre la medesima faccia.

A un certo punto lo scontro non è tra me e i miei malmenatori, ma tra me che continuo impavidamente a pensare alla mia vita e il mio corpo che vuole prendere il posto del mio pensiero, appiattirlo alle sue necessità essenziali, primarie, il respiro, il battere del cuore, le pulsazioni, il dolore di ciò che è stato rotto. Alla fine sono solo un movimento fisico, la mia vita è cancellata, appaio a me stesso come una massa di carne coricata sul fianco in attesa della prossima seduta. Adesso la fede è il mio corpo e le superfici che mi attorniano hanno il loro daffare senza risultati, sono in salvo, mi sembrano ombre fuggevoli, maleodoranti, questo sì, sanno di paura e di sadismo, due odori della caverna umana, la bestia tarda ad andare a dormire per compiere fino in fondo il suo sporco lavoro.

C’è un crudele congegno nel sadico e viene fuori con banale accuratezza nello scontro con la fisicità. In fondo egli vorrebbe caricare con un sovrappiù di immaginazione la semplice rottura di un braccio, ma non ne è capace, quindi si accanisce inutilmente e incrudelisce, appunto non lo assiste la fede. È un disadattato che rischia continuamente di perdere il posto. Ne ho davanti uno di pelo biondo. Guardo le sue braccia mentre mi colpisce con metodo e ho il cervello vuoto, credo anche di sorridere perché sto contando i battiti del mio sangue nelle tempie, lui non lo sa e prende la cosa per il verso sbagliato. Non sa che attorno a me c’è la mia fede, che il mio corpo è questa medesima fede, anche a volerglielo dire non lo capirebbe.

Il biondo che ho davanti è un prostituto del sadismo che lo soffoca come mestiere, io sono un uomo libero anche se ammanettato al termosifone. Poi, nel sotterraneo, torno a parlare col mio corpo e i conti tornano perfettamente. Non mi proteggo con un equivoco, sono invulnerabile in un nucleo difeso dalla mia fede, ma non sono io, sono una massa di carne che si ascolta respirare. Eppure la mia condizione è ancora scintillante, considerandola dal punto di vista dell’esperienza che sto facendo, la mia fede me lo conferma.

Ora, c’è da chiedersi, in che cosa consiste questa fede? Ha essa un contenuto positivo o è data dal semplice svuotamento che ho descritto? Il discorso qui si fa delicato e corre il rischio di un disastroso capovolgimento. Non ammetto l’alternativa di una dimensione altra, un collocare altrove, fuori del sotterraneo dove mi trovavo, la mia fede, essa era con me, ed è ancora qui, nell’inferno dove scrivo queste righe.

Tutta questa lunga digressione non vuole dimostrare nulla. La fede non è un contatto diretto con una qualsiasi diversità, al contrario è l’estrema fisicità umana a cui posso fare ricorso nel momento del bisogno, del dolore, forse della morte. Ma non può essere un toccasana compiacente gestito da un intermediario a pagamento. Questa eventualità è ridicola ed è stata discussa a lungo dai miei amici anticlericali solo perché, molto spesso, non sono particolarmente acuti per non dire che sono stupidi. Simpatici, ma stupidi.

Segno della mia indipendenza, la mia fede mi viene incontro nei momenti di difficoltà, quando ho paura e batto i denti, ma devo accoglierla nel mio corpo, se cercassi di razionalizzarla fuggirebbe lontano. Io sono un uomo di fede senza interruzione, lo sono sempre in tutto quello che faccio, eppure nel punto estremo del bisogno ho accanto a me una tensione di fede diversa, più intensa fisicamente, più palpabile, si colloca all’interno di me stesso e qui trova la propria esistenza cosciente che entra in simbiosi con la coscienza che il mio corpo ha di sé. La sequenza dei battiti del mio cuore diventa cosciente di sé coordinandosi con le pulsazioni, le secrezioni, il flusso del sangue, il funzionamento dei reni, ecc., insomma tutto quello che io sono, e per facilitare questo smetto di prendere farmaci e di mangiare e bere. Mi sigillo in me stesso e divento io stesso la mia fede. Scandisco gli istanti che passano e li raggruppo per centinaia, ogni gruppo è reale, un piccolo pezzo della mia vita privo di apparenze, un piccolo pezzo che vive e semplicemente è, cosciente di sé. La fede è questa concretezza ben riposta, salda, inamovibile. Il dolore diventa allora un accidente esterno che può essere avvertito come in lontananza, come un rimbombo, un effetto molesto della stupidità dell’uomo. Il muro protettivo della fede è così costruito, pietra su pietra, da questi gruppi di istanti, isolati e rigidi, forti e incontrovertibili. La fede è questo muro e insieme è la coesione e la forza, elementi esclusivamente fisici, che rendono coeso il muro stesso.

Insistendo nel ritmo del mio corpo, scopro altre correlazioni che posso isolare e collegare con i battiti del cuore. La fede esalta queste correlazioni e le rende fisicamente individuabili. Questa osservazione è solo apparentemente distaccata, essa invece sta sostituendosi a poco a poco all’abitudine del pensiero che discute con se stesso e giudicando valuta, seleziona, ricorda, sentimentalizza il mondo e accetta la paura e la debolezza. Il corpo avvolto nella fede, istante per istante, non ha paura. Ma tutto ciò può non essere possibile. Le debolezze umane sono immense e cercano sostegni impensabili.

Bisogna anche svuotare del possibile equivoco liturgico questo rapporto con la fede. Non c’entra qui né l’ascetismo dei mistici né l’ebbrezza delle baccanti. La fede è il peso del proprio corpo anche accucciato in se stesso, o disteso, o all’impiedi, in modo che ogni piccola porzione avverta il contatto con la porzione vicina. Tutto il resto non importa, quello che sta accadendo non ha sentimenti ma solo brutalità e oscenità, a esse non posso opporre che il mio corpo, la forza della mia fede fisica, non un qualsiasi momento razionalizzante del mio essere animale pensante.

Ma il dolore, anche il più acuto e persistente – come la torsione di un braccio rotto – non è isolabile, si alimenta dello sfinimento e di quell’altro dolore, ancora più acuto, del progetto distrutto. L’unica questione qui è come fronteggiare queste due fonti, riconducendo lo scontro nell’ambito fisico, interno, nelle pulsazioni che conosco e che mi sono ora più familiari che mai. Quello che mi precipita addosso dall’esterno tende a catturarmi e a portarmi via, verso la disperazione. Ma la fede non geme, mi parla e mi trattiene sull’orlo dell’abisso. Questo straordinario equilibrio è una condizione eccezionale che posso perdere in qualsiasi momento, uno scarto improvviso della paura che rimane acquattata dentro di me ed è tutto compromesso. Resisto e controbatto in modo labile e precario, eppure questa resistenza mi pare un’impresa gigantesca, non lo è, lo so, ma mi comporto come se lo fosse. Non c’è descrizione possibile di questo accadere, le parole non mi soccorrono, intervengono e corrono via, non posso trattenerle neanche ora che affronto un altro genere di tortura, rimango comunque in una condizione incerta che può precipitare in ogni momento.

Per quanto vigili sulla mia fede fisica mi rendo conto che c’è qualcosa ancora più sotto, al di là di ogni separazione o prudenza di antipolitico. C’è un buco nero, in fondo, ma proprio in fondo, dove non dovrebbe esserci altro che la morte, ma non è la morte. In questo buco si agita qualcosa senza tregua, non smette mai di chiamarmi col mio nome, Alfredo. Non ha senso e non è una fantasticheria, sono troppo occupato col mio corpo per fantasticare, ha una voce che mi ricorda qualcuno, ma non voglio ammetterlo, qualcuno che mi dice, come mi diceva una volta, di non avere paura, è la voce di mio padre.

Ma il tono è diverso, insiste e io non le presto orecchio. Il buco nero, laggiù, non so dove, dentro di me, in regioni sconosciute, mi dice di non aver paura e di abbandonarmi con fiducia, ma a che cosa? Io sto facendo di tutto per alimentare con porzioni di istanti la mia fede fisica e da quel profondo buco nero una voce che sembra quella di mio padre, ma che non lo è, mi dice di sperare. In che cosa devo sperare? E perché mio padre mi sta dicendo questo, dal di dentro di me stesso, mio padre che è morto più di vent’anni fa? E perché quella voce mi chiama alla speranza?

Non intendo autoasservirmi a questa apertura, non voglio che dal passato, che per me qui non esiste, qualcosa mi dica un evento che accadrà in futuro. Forse la fine di tutto questo? Non è possibile. La mia fede è forte e posso combattere con questi orribili automi solo se mi colloco esclusivamente nel presente. Ma in quel buco nero c’è qualcosa di troppo allettante per non cedere al suo richiamo, non mio padre, o un suo ricordo – che non ho ricordi adesso – ma la speranza che tutto questo finisca, non solo finisca il dolore ma anche la mia forza per sopportarlo, perfino la mia fede, e che torni il futuro e con esso il passato, e occhi blu, e tutto il resto.

Quella speranza, e quella voce, mi indeboliscono, lo so. So anche che sono del padre, non di mio padre, cioè dell’idea di padre che ho in mente, la fonte dell’aiuto e del sostegno, ma che non mi concede nulla liberamente, vuole qualcosa in cambio della speranza che mi offre, vuole la rottura del muro che mi sono costruito con la mia fede fisica, vuole l’interruzione irreparabile del mio modo di annullare il tempo, vuole che creda in lui non in me stesso, vuole che gli chieda di salvarmi, lui, con la sua forza di padre, con il suo amore di padre.

Adesso che sono tornato a respirare, sia pure nell’inferno spaventoso in cui mi hanno rinchiuso, mi rendo conto di quanto sono andato vicino a quel buco nero, mentre l’idea di una refrattarietà assoluta mi aveva allietato per tutta la vita. E non posso portare a mia parziale giustificazione di avere avuto un velo oscuro davanti a me, di non essere stato capace di vedere bene quanto sono andato vicino a pregare mio padre, o meglio il padre nostro, di aiutarmi. Non ho vergogna né mi rigiro in petto il pugnale del pentimento, mi rendo conto che la fede fisica in me stesso è solo l’anticamera di altre condizioni umane, soltanto umane, che non è possibile sottovalutare seguendo le orme ragionevoli dell’anticlericalismo o dell’ateismo che ho sempre seguito e che non rinnego nemmeno ora, dopo questa tremenda esperienza.

Aggiungo a questa dichiarazione di principio che la vita è molto più complessa di quanto la mente umana possa conoscere e controllare, dietro l’angolo della paura si annida sempre la fine della certezza. E mi sorprendo adesso, a distanza di tre mesi, a pensare – e forse riesco anche a distinguerla – alla voce di mio padre, ma ora posso rivedermi bambino, parlare con lui, leggergli le mie carte incerte, sentire la mia mano stretta nella sua, ed è come pensare a occhi blu, cerco di evitarlo ma non è possibile, accetto che la debolezza entri nelle mie vene. Forse sto ricominciando a mangiare un poco di più e il mio corpo recalcitra come un cavallo matto.

Non ho perso il filo del discorso, sto dicendo esattamente quello che voglio dire. Non sono pentito di questa esperienza col padre nostro, non la ritengo indecorosa. Ho riflettuto a lungo su quanto vasto e spoglio è stato il mio anticlericalismo, adesso lo arricchisco di un elemento che, in altra sede, forse meno violenta, si aggirava da sempre nel mio ateismo. La negazione di una obiettiva condizione di potere, diretto o indiretto, non può essere messa in dubbio, la mia stessa fede fisica la riconferma, essa nega con tutto me stesso, eppure questa negazione si accalca con tante altre, forse troppe, e quando arriva il momento del dolore non c’è speranza nella negazione. Si può tranquillamente accettare lo stoicismo e disconoscere il dolore come condizione oggettiva, pregnante, opprimente, ma si può contare soltanto sulla propria fede fisica? Non lo so. A me si è aperto improvvisamente questo buco nero e il suggerimento incongruo della speranza.

Non posso ostentare qui la mia superiorità. È certo che la voce di mio padre segnava in quel momento il punto più alto della mia sconfitta, l’atterramento fisico totale, la cancellazione del passato e del futuro, eppure era voce di speranza ed era dentro di me, sotto strati di cultura e di testardaggine, forse di superba affermazione delle mie conquiste, forse stupida ostentazione di una forza non posseduta veramente. Ma chi è forte veramente? Chi è un uomo di fede?

Ho sempre pensato di non avere la verità in pugno, adesso ne sono certo. Sapere di non essere nel vero assoluto è confortante e mi dà un senso di appagamento. Ritrovo qui la speranza del padre nostro? Sarebbe una sorta di civetteria e un gioco di parole, in effetti non ritrovo quella voce e, fortunatamente, nemmeno quei momenti. Indecorosamente devo ammettere di avere immaginato qualcosa dentro e oltre quel buco nero, qualcosa di imprecisato, ben al di là della tenue voce di mio padre, forse un gioco di specchi che riflettono una sequenza infinita nel nero più assoluto, privo di luce. Potrei cancellare queste allusioni a qualcosa di concreto, non lo voglio. Sono in un terreno incognito dove nessuno mi può seguire, né lo accetterei come fantasma non richiesto che annuisce con aria sospettosa. Voglio qui ostentare l’estraneità della mia esperienza a ogni negazione del divino che posso avere studiato e capito. Non sospetto il segno di qualcosa di occulto, tutti i segni della profondità che descrivo, e la stessa esperienza sonora, sono stati, e in parte sono, dentro di me. Quello che ha scatenato questa esperienza ora è sepolto col ricordo del dolore per ciò che è andato infranto, prima di tutto il mio progetto, poi il mio braccio. Eppure questo allontanamento da quel buco nero non può essere totale, non potrà mai più esserlo.

Gli artefici automatici di questa esperienza, in altre parole i torturatori e gli spettatori, si stagliano su di un fondale anonimo di miseria. A tenere la scena sono io, massa dolorante di carne vecchia, e la mia fede fisica. Il terzo incomodo è quel buco e quel che la sua presenza consente di immaginare. Non un arconte intento a elargirmi munificamente la speranza, ma mio padre, anzi il padre nostro. Affermazione priva di risonanze religiose, fino a un certo punto, altrimenti perché ne parlerei qui, in conclusione di un libro dal titolo Cloro al clero? Non voglio restare nella mia nicchia anticlericale a leccarmi le ferite, voglio andare oltre, a costo di cercare un’altra strada per ribadire il mio ateismo. Parliamoci chiaramente, in quel buco nero non ho trovato dio, ho trovato un fondo di speranza quando ogni speranza sembrava ormai spenta, quando il mio corpo per sopravvivere si stava rintanando nella sua assoluta fisicità, nella sua fede fisica. Ma la speranza non è qualcosa di fisico, entra nella fisicità e lenisce il dolore, può quindi essere madre di pericolose illusioni.

Non ho mai potuto accettare lo statuto definitivo di qualcosa, di qualsiasi cosa, ecco perché sono anarchico. Ho chiarito a lungo il mio ateismo, qui parlo di un’esperienza recente e durissima, almeno alla mia età. Un giovane, forse, e io stesso da giovane l’ho fatto, avrebbe affrontato questa esperienza senza bisogno di scavare dentro di sé, escludendo il mondo esterno, tutto e tutti, occhi blu in primo luogo. In questo straordinario percorso non ho trovato che un buco nero e la voce di mio padre. Erano queste due cose la speranza, l’inarrestabile speranza? Non lo so. Avrei dovuto armare la mia fede fisica e alzare ancora più in alto il muro, avrei dovuto irrigidirmi eroicamente, tanto la distruzione di me stesso e del mio progetto era messa nel conto? Non lo so. Sono domande facili da fare per chi non si è mai trovato nel sotterraneo di una stazione di polizia, dove automi impazziti hanno sentito odore di sangue e si sono vicendevolmente aizzati.

Invece sono entrato in quel buco nero ed ho ascoltato la voce di mio padre. Questo fatto può essere considerato un cedimento? Forse. Io, per quel che mi concerne, non lo ritengo tale. Quella voce, così nota alle mie capacità immaginative, era lì e non ho voluto, o saputo, farla tacere. Era dentro di me, mi avvolgeva, mi accarezzava mentre il mio corpo dolorante cercava di combattere contro il tempo. Solo una curiosità puerile e stupida potrebbe farsi la domanda, che per alcuni potrebbe essere radicale, come mai da mio padre al padre nostro? Soddisfare questa domanda non è mia intenzione, però devo riconoscere che non sono proprio certo che quella fosse la voce di mio padre, piuttosto la voce che mio padre avrebbe avuto vedendomi in quelle ambasce, le sue parole, in fondo, sono state quelle della speranza e qualsiasi padre potrebbe pronunciarle.

Dal buco nero non mi veniva una voce adirata o scandalizzata, non c’era traccia di rimprovero, non tergiversava, non interrogava, non sospettava, era puntuale e immediata offerta di speranza. Ora, è evidente che quel buco nero sono io stesso e che in qualche profondità sconosciuta dentro di me si annida una parte estremamente irriducibile di speranza nella vita. Ma com’è possibile che composizioni diverse di me stesso possano presentarsi contemporaneamente e in contrasto tra loro? Come possono scatenare un combattimento dentro di me, e ciò mentre affronto lo scontro risolutivo della mia vita, forse quello finale? E la morte, mi verrà da quel buco nero? Negazione di speranza invece di affermazione. Quel buco funziona in due sensi, uno contrario all’altro? Non lo so.

L’accidente esterno, la tortura, mi consente di agire in due direzioni contrastanti all’interno del mio corpo. Ma sono io che sto agendo tramite la fede fisica che mi appartiene, le scansioni ritmiche dei miei fluidi, le mie secrezioni, oppure sono agito da un livello diverso? Sono l’ascoltatore di una voce che riesce a vincere sulla mia fede difensiva e riduttiva, fino ad arrivare a farmi sperare nel futuro? D’improvviso questo secondo movimento si è intrufolato nel primo e ne ha scoperto i ritmi. Un universo aperto al futuro è venuto fuori da quel buco nero, suggerendomi qualcosa che sta al di là del buco, in una regione di me stesso che sconoscevo, e così per sopravvivere ho accettato di dipendere da questa regione, di ascoltare il messaggio della speranza, regione che altrimenti mi sarebbe restata inaccessibile. Alla fine, i miei accorgimenti difensivi sono stati ridimensionati, la mia fede fisica ridotta a meccanismo povero di sopravvivenza, e ho affrontato lo scontro munito della speranza nel futuro, armatura troppo sottile per una lotta a vita e a morte. Così, di colpo, il mio piccolo mondo è cambiato. Il mio corpo ha iniziato a respirare diversamente, il dolore a farsi sentire con vampate meno violente. Continuando mi sono sentito meno forte e più sicuro di me. Il futuro si è precipitato nel presente facendomi fremere di vita nuova e mettendo in discussione la mia capacità di resistenza.

A questo punto potevo aprirmi definitivamente al buco nero, accettando la speranza e la razionalità che governa ogni accostamento al futuro, non l’ho fatto. Ho ripreso le mie pratiche di fede fisica, individuando dei limiti nella costruzione del muro difensivo che prima non avevo visto. La speranza mi è stata di aiuto o di ostacolo, la voce di mio padre è venuta in soccorso o ha indebolito? Non lo so.

L’avere intravisto questa profondità nera dentro di me non ha bloccato la mia fede fisica, solo mi ha dato da pensare, e questo è certo un indebolimento dovendo regolare i conti col tempo in maniera diversa. Non posso dire di avere fatto grandi passi in questa direzione, mi sono soltanto limitato ad ascoltare la voce che mi chiamava. È stata la mia prudenza, figlia del sospetto, a bloccarmi per paura di una sorta di perversione illusionista. Mi esasperava il fatto di non riuscire a restare solo con me stesso, che questo messaggio mi si precipitasse dentro senza avvertire, come un intruso o un nemico. La voce sembrava quella di mio padre, e sembrava dirmi le cose di sempre, quelle che mi diceva spesso tacendo e ascoltando, volendo trasmettermi la sua forza, e questa forza era una speranza, perfino l’enormità di riuscire a pensare a occhi blu senza farmi scoppiare il cuore.

Intento ai miei esercizi fideisti non ero preparato a incontrare, fra i tanti flussi e ritmi del mio corpo – privo di cibo e di medicine (per mia decisione) – quella voce. Per un momento non sono riuscito a respirare, quello che sentivo mi sconvolgeva. Non voglio darmi l’atteggiamento di chi ha scelto la strada giusta, il fatto è che mi sono messo ad ascoltarla, ad accogliere la speranza, a parlare con lei – oppure con lui, non lo so – ad accettare la sua fascinosa apparizione.

È da molte settimane che penso a quello che sta dentro di me, a questo buco nero e oltre, ma non ho più sentito quella voce e la sua mancanza, in queste condizioni, pure non corrispondendo alla semplice mancanza di speranza – che questa è tornata – mi opprime. Ho troppo rispetto per me stesso per rendermi conto dei miei limiti e ho troppi anni sulle spalle per poterli giustificare come farebbe un giovane (farò meglio un’altra volta), eppure quell’esperienza che cerco di risvegliare senza esito, è un altro territorio. Forse un territorio innocuo, forse sinistramente pericoloso, non lo so.

Nella notte tarda, quando questa bolgia infernale dove mi trovo si calma un poco, cerco di sentire la voce del padre nostro, ma essa tace. Chiedo a me stesso ma è un incoerente balbettio, il mio, ovviamente. Non mi arriva più un messaggio di speranza, e il perché lo so. La speranza, merce assai comune, anche qui, in questo inferno, la maneggio tutti i giorni. Ma è la stessa di cui mi parlava mio padre? Non credo.

Queste sono le ultime righe sull’argomento. Saluti da un vecchio ateo e anticlericale.


[Finito nel carcere di Amfissa (Grecia) il 23 dicembre 2009]

 
 

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