Titolo: Carteggio 1998-2000
Sottotitolo: Con l’aggiunta della seconda edizione di Del terrorismo, di alcuni imbecilli e di altre cose
Data: 2003
Note: Introduzione di Antonio Lombardo
Prima edizione: maggio 2003
Del terrorismo, di alcuni imbecilli e di altre cose, prima edizione: Edizioni Anarchismo, Catania 1979
SKU: pensiero-000004
Dimensioni: cm 15 x 21,5
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    Prefazione

    Introduzione

  Carteggio 1998-2000

      1 Bert

      2 Bon

      3 Ber

      4 Ber

      5 Ber

      6 Ber

        Allegato

      7 Bon

      8 Ber

      9 Ber

      10 Ber

      11 Ber

      12 Bon

        Allegato: Proposta di costituzione di un archivio dell’anarchismo insurrezionalista e rivoluzionario

      13 Ber

      14 Bon

      15 Ber

      16 Bon

        Allegato: Proposta di strutturazione e funzionamento del quotidiano anarchico

      17 Bon

      18 Ber

        Allegato

      19 Ber

      20 Ber

      21 Bon

        Allegato

      22 Bon

      23 Ber

      24 Ber

        Allegato: Chiudere i campi aprire le frontiere

      25 Bon

        Allegato: L’esperienza di “ProvocAzione”

      26 Ber

      27 Bon

      28 Ber

      29 Ber

      30 Ber

      31 Bon

      32 Bon

      33 Ber

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      36 Bon

      37 Bon

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      44 Bon

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      51 Ber

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        Allegato: Laudetur sancte Narcan

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      56 Bon

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      66 Ber

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      69 Bon

        Allegato

      70 Ber

      71 Bon

      72 Bon

      73 Ber

      74 Ber

        Allegato: Gianfranco Bertoli e Silvano Pellissero.

      75 Bon

      76 Bon

      77 Ber

      78 Bon

      79 Ber

      80 Bon

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      82 Bon

      83 Ber

      84 Ber

      85 Bon

      86 Ber

      87 Bon

        Allegato: Note per la difesa al processo Marini

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      89 Bon

      90 Bon

      91 Ber

      92 Bon

      93 Ber

      94 Bon

      95 Ber

      96 Bon

      97 Ber

      98 Bon

      99 Ber

      100 Bon

      101 Ber

      102 Bon

      103 Ber

      104 Bon

      Una lettera di Antonio Lombardo

  Lettere di Bergamo

      1 Bert

      2 Bon

      3 Bert

      4 Bon

      5 Bert

      6 Bon

      7 Bert

      8 Bon

      9 Bert

    Del terrorismo, di alcuni imbecilli e di altre cose

      Nota alla seconda edizione

      Nota alla prima edizione

      Di chi è sordo

      Dell’analisi

      Dell’uno e dei molti

      Della merce e degli uomini

      Del terrorismo

      Delle mosche cocchiere

    Appendice

      Recensione a E. Henry, Colpo su colpo, Bergamo, Edizioni Vulcano, 1978, pagine 174, pubblicata su “Anarchismo” n. 23-24, 1978.

      Amedeo Bertolo, Emile Henry e il senso della misura su “A-rivista anarchica” n. 2, 1979.

      Paolo Finzi, Violentismo ed etica, su “A-rivista anarchica”, Milano, n. 3, 1979.

      Gianfranco Bertoli, II prezzo da pagare, su “A-rivista anarchica”, n. 4, 1979.

      Gianfranco Bertoli, Atti individuali eterrorismo”, su “A-rivista anarchica”, n. 4, 1979.

«Comunque, in qualsiasi modo io sia destinato a crepare, vorrei lasciarti una… “eredità”: quando sarò morto scrivi qualcosa per spiegare la mia storia e la verità e per sputtanare gli infami».

Gianfranco Bertoli

(Lettera del 30 gennaio 1999 ad Alfredo M. Bonanno)

Prefazione

Gianfranco Bertoli ammazza quattro persone e ne ferisce molte altre davanti alla questura di Milano nell’anniversario dell’uccisione del commissario Luigi Calabresi. La sua intenzione era quella di gettare una bomba nell’atrio della questura in occasione della inaugurazione da parte di Mariano Rumor di un busto al “Commissario finestra”. Non scappa, non cerca di salvarsi come a suo tempo ebbe a fare Emile Henry, si fa arrestare e per un quarto di secolo e più, continua a dichiararsi anarchico.

Io non ho conosciuto Bertoli di persona, non ho avuto con lui che uno sporadico scambio epistolare quando mi trovavo nel carcere di Bergamo, ben presto chiuso perché malgrado la sua disponibilità, in fondo, avevamo all’epoca poche cose da dirci. Poi le lettere, le sue lettere. A volte un profluvio, tanto da riempire la pagine fino all’ultimo, senza lasciare neanche un piccolo spazio, a volte più lontane una dall’altra, per diventare alla fine svagate, quasi testimonianza della fine imminente.

Non sono una lettura piacevole, né le sue lettere, né le mie. Ma non mi corre l’obbligo di dilettare i miei pochi lettori. La scrittura di Gianfranco è ridondante, ripetitiva, ricca di raddoppi aggettivali che rendono la lettura difficoltosa, ma sono la testimonianza diretta di un uomo che soffre, di un uomo debole che continua a soffrire. Ma non soffre per quelle morti, per quei dolori causati, né per l’obiettivo iniziale mancato, soffre per un altro motivo, ed è qui che me lo sono trovato vicino, fratello, al di là delle differenze caratteriali tra noi due.

Il fascino della forza pervade ogni cosa. Chi la possiede la esercita e ne gode i benefici, chi non la possiede l’agogna e si accontenta dei suoi surrogati. La forza più forte è quella della ragione, il luogo dove l’inseparabile viene separato e si converte in disciplina e ordine.

Ho a lungo riflettuto sulla perdita, ne ho parlato e ne ho scritto, poi, alla resa dei conti, il fascino della forza mi ha portato a non vedere quello che avevo davanti agli occhi. Possiamo tutti avere il coraggio dalla nostra parte? No di certo. Possiamo tutti essere in grado di aprire le fauci del leone con le nostre braccia muscolose? Ancora no. E allora, che cosa fa il debole che non vuole vestire le falsi vesti del leone? Che cosa fa colui che vuole a tutti i costi diventare quello che è?

Un debole si porta dietro la sua bomba direttamente da Israele. La nasconde per tutto il viaggio da clandestino in una nave carretta di clandestini. La coccola e le sorride, in quel peso dolce sotto la giubba sta il riscatto della sua debolezza, il sogno di una forza dirompente mai posseduta.

Leggendo il “memoriale” pubblicato da “Gente” (dal 17 agosto 1973 per sei puntate settimanali) su iniziativa del suo avvocato che ne ebbe all’epoca un milione e quattrocentomila lire, si capiscono le sue debolezze, è egli stesso a sottolinearle, a raccontarle. Ed è stato questo che a suo tempo non me lo rese simpatico. C’era una grossa contraddizione tra il suo dirsi anarchico (i giornali aggiungevano “individualista”) e quel racconto, per altro confermato da Gianfranco anche in epoca recente.

Ebbene, devo dichiarare qui che mi sono sbagliato. Il muscoloso individualista che era nei miei pensieri può non essere il solo abitatore de L’unico di Stirner.

Irrobustirsi i muscoli – in primo luogo quelli mentali – è possibile a tutti. Tutto il pensiero occidentale è attraversato da questa teoria del “corpo vivo” che costruisce se stesso, che si educa, che si autoeduca, determinandosi alla scelta opportuna, alla scelta del coraggio e della forza.

Ancora la forza, la ragione a fondamento di questo luogo delle certezze, in modo che la trasformazione possa avvenire. L’azione distruttiva va bene, purché venga supportata dalla progettualità, nuovi valori sullo sfondo.

Non dico qui che questo discorso sia sbagliato. Avrei pestato acqua nel mortaio per quarant’anni, e la cosa non mi potrebbe fare piacere. Dico soltanto che qualcuno può pensarla diversamente, può voler diventare se stesso, fino in fondo, – quindi ribellarsi – realizzando la propria debolezza. Una straordinaria forza di tipo diverso sembra delinearsi all’orizzonte. Un orizzonte cupo e disgustoso, se volete, ma pur sempre illuminato da un bagliore di vita.

Le forme del disciplinamento possono essere diverse, non sono soltanto quelle dell’assoggettamento e della sottomissione all’ordine, sono anche quelle del rifiuto ribelle di ogni disciplina e del ritrovamento della sottomissione proprio lì, nell’adorazione di quella forza della volontà che tutto dovrebbe risolvere. Ma tutto non può essere risolto da una coazione a ripetere, e la volontà ha questo di essenziale: ripete sempre se stessa. Vogliamo – e non può essere diversamente – quello che siamo, ma non sempre sappiamo quello che vogliamo, proprio perché non sempre sappiamo quello che siamo.

Il fiorire delle ideologie non ci sarebbe se non avessimo bisogno di coprire questa distanza che a volte neanche vediamo, ma che altre volte ci angustia oltre ogni dire. Il nostro agire deve essere legittimato, quindi vogliamo che sia conforme a qualcosa di comune con gli altri, con la maggior parte di questi altri. Non sempre ciò è possibile, allora ci illudiamo che i pochi fantasmi che passeggiano sotto la nostra finestra siano numero sufficiente a legittimare le nostre scelte. Un filo di continuità, per piacere, l’ordine deve tornare a regnare a Varsavia.

Il culto della forza deve trovare uno sbocco distruttivo, ma nessuno sbocco può essere identificato con la semplice potenza, neanche con la “mia potenza”, occorre un raggio di sole, laggiù, in base al quale, e grazie al quale – modello e lume – possiamo riconoscerci facendoci riconoscere. Nessuno di noi è forte fino in fondo, a un certo punto finiamo per chiedere permesso, avanziamo in punta di piedi e non ce ne accorgiamo. Stiamo entrando nella stanza dei fondamenti comuni. Il vicolo dentro il quale siamo andati a ficcarci ha mura possenti, ben costruite dal potere, noi lo percorriamo con sicumera, sappiamo che non accetteremo mai compromissioni e accordi da vigliacchi, noi, con la nostra forza, ci sentiamo al sicuro da ogni disciplinamento e non ci accorgiamo che non è del disciplinamento di una volta che qui si parla, di quel buon vecchio disciplinamento fatto in base a una norma-fondamento che si rifiutava con facilità essendo ben visibile, mentre adesso si tratta di un nuovo disciplinamento, con il quale ognuno di noi viene invitato ad agire in modo organico al potere, operando scelte nell’ampio raggio delle sue possibilità. Spostandosi ai confini di questo raggio ci si trova in pochi, veramente in pochi. Alla fine, nemmeno quei quattro fantasmi sotto la finestra sono disponibili per uno straccio di riconoscimento. Le nuove forme di potere sono apertamente contraddittorie, sono forme aperte che consentono un vasto movimento, per racchiudere ogni espressione di dissenso. Certo, non possono arrivare a consentire l’attacco distruttivo vero e proprio, ma se questo ha una giustificazione valida davanti a sé, il movimento distruttivo può restare condannabile (il codice penale) ma comprensibile.

La questione si dibatte pertanto intorno al problema della comprensibilità. In una condizione di potere che ha fatto della propria struttura l’assenza di razionalità quasi totale, fornire una giustificazione, anche estremamente lontana dai valori codificati in carica, è indispensabile per essere accettati, sia pure come criminali.

Se il ladro affermasse di rubare per il gusto di distruggere il denaro, verrebbe rinchiuso in manicomio, mentre rientra perfettamente nella “normalità” il suo voler rubare per “usare” questo denaro, sia per comprarsi una bella macchina, sia per finanziare un progetto rivoluzionario, la cosa non fa differenza. Tutto ciò è comprensibile.

In quest’àmbito non emergono espressioni di vita, si resta nella prassi esistenziale, segnata senza rimedio dalla coazione a ripetere. Se io “dico” quello che “voglio” dire la mia parola è di già morta, non riesco a superare la sutura tra il teorico e il pratico. Il senso comune ha il privilegio di non porsi gravi problemi come quello qui lasciato intuire. La forza è espressione primaria di questo senso comune, ed è condizione indispensabile, essa stessa, per autodeterminarsi. Ma se questa autodeterminazione parlasse direbbe più o meno quello che il potere gli suggerisce (indirettamente) di dire. La sua lingua sarebbe quella del potere (a parte qualche ridicolo “o/a”, per superare la discriminazione sessuale).

Qualcuno ha avvertito il pericolo di racchiudersi all’interno di un cerchio troppo ristretto con modelli di riconoscimento troppo asfittici per essere validi. E ne ha dedotto che si poteva andare a pescare nel laghetto vicino. Non è una soluzione. L’errore sta nel pescare e nell’evitare di essere pescati.

Ci sono due condizioni per essere pescati. La prima è quella macroscopica dell’accadimento globale, del sovvertimento de “fond en comble”, che ci trascina via senza darci il tempo di riflettere, non sapendo nemmeno dove andremo a finire. La seconda è quella della perdita, della ricerca della vittoria per la sconfitta. Acquisire senza scopo quantitativamente plausibile è un concetto difficile. Il pensiero del dominio, spesso mutuato nel corso degli ultimi tremila anni da molte delle forme di resistenza che si sono presentate nella storia, è stato un pensiero ordinato e progressivo. Dal più semplice al più difficile, più o meno sul modello della matematica, questo pensiero è stato l’unico considerato “serio”, quindi in grado di meglio governare il significato. Il suo svolgimento deve però essere coerentemente piatto, la qual cosa lo fa apparire più vero e obiettivo. Tutto ciò viene di regola assistito da una dirittura morale conformista e da un metodo di lavoro quanto più antiquato possibile. Si tratta di un metodo che pretende restare all’interno del problema e di reggerlo in mano come fosse un oggetto piuttosto pesante da trattare con cautela. Il ricordo diventa così ordine nella regola e lo sguardo che osserva e riconduce alla norma è selezione e sistema.

Sconvolgere questi processi è sempre possibile, ma si tratta di una tempesta in un bicchiere d’acqua. Quando il nuovo attacca l’antico (come accade da sempre) è un dibattito tra sordi. Le liti furibonde in quest’àmbito non sfuggono mai alle condizioni patetiche delle beghe da cortile.

Il diritto della lettera, quello che microscopicamente si impone con il suo apparire, l’universo che ognuno (armato di buona volontà – merce non rara) può verificare, sovrastano e dettano legge. Il loro sermone è diretto a mettere fine alle contraddizioni che ognuno di noi si porta dietro quando mette fuori la mano dall’universo – prigione che lo ospita – e qui stiamo ipotizzando che valga la pena di parlare di questo sforzo infinito, verso la diversità.

La contraddizione tra la vita di Bertoli, l’intera sua vita, e il suo gesto è illuminata – quindi dissolta – dalla sua coerenza di comportamento fino alla fine. Egli vuole vivere a modo suo, senza valori precostituiti altrove, senza luoghi comuni, sia pure questo modo suo, quello dell’eroina. E, a modo suo, è stato anche il suo atto di rivolta.

Ma, nell’ultimo dipanarsi di questa vicenda di ribellione e di sofferenza, di debolezza e di sprazzi di orgoglio, di rispetto per se stesso e di rifiuto del rispetto come “sacralità” da aborrire, quando tutto poteva concludersi, in fondo, recuperato in maniera elegante (fin da subito) dal gruppo di intellettuali anarchici che ruota attorno ad “A-rivista”, questo gruppo, per motivi che forse non sapremo mai, cede. Ritira la solidarietà e il sostegno, gli impone di dire veramente come stanno le cose, visto che a sollevare nuove accuse e nuovi dubbi, questa volta, è un giudice di tutta fiducia (ovviamente, di fiducia del gruppo di intellettuali sopra citato), quel Guido Salvini che ha concesso un’intervista sull’argomento (e su altre amenità) per il primo numero della rivista “Libertaria”, ultimo nella pubblicistica curata sempre dal mai sufficientemente lodato gruppo di intellettuali.

Ora, a suo tempo, come apparirà chiaro al lettore paziente dell’ultima parte del presente libro, questo gruppo mi aveva reso oggetto della propria attenzione in diversi articoli facenti seguito a una mia recensione del libro di Emile Henry: Colpo su colpo (Bergamo 1978). In risposta ebbi a scrivere il mio Del terrorismo, di alcuni imbecilli e di altre cose (Catania 1979), che viene qui ripubblicato in una seconda edizione essendo ormai esaurito da gran tempo.

Un comune nemico (si fa per dire) ci avvicinò, ma più di tutto ci avvicinò il garbo e la simpatia di Antonio Lombardo, a cui si deve l’introduzione vera e propria al presente Carteggio.

Dedico queste righe, e questo libro, alla memoria di Gianfranco Bertoli, che non ho mai conosciuto di persona, con cui parlai solo una volta al telefono, ma che proprio le lettere qui contenute mi hanno fatto scoprire come uno dei compagni più ricchi di umanità (e anche di deliri e miserie) che ho conosciuto.

Che viva il ricordo di lui, al di là delle accuse che hanno cercato (riuscendoci) di distruggerlo, e che viva anche la vergogna di coloro che lo hanno prima “recuperato” e, alla fine, sotterrato.

Per sempre.

Trieste, 2 aprile 2003

Alfredo M. Bonanno

Introduzione

«Carissimo Antonio,

colgo l’occasione per mandarti il volumetto di David Meghnagi: La sinistra in Israele che, come ti ho detto al telefono, ho trovato a prezzo irrisorio. Certe bancarelle dell’usato sono provvidenziali. Oggi ho recuperato una copia di un libro di B. Russell Socialismo, Anarchismo, Sindacalismo che avevo letto nel ‘70. Visto che di soldini ne avevo pochi sono ricorso ad un espediente: devi sapere che questa bancarella, oltre a vendere libri, accetta una sorta di scambio, avevo ancora 5 copie del libro Attraversando l’arcipelago, così ho portato 2 copie e mi sono preso il volumetto di Russell. Non ci crederai, ma una delle due copie era già stata venduta. Tutto sommato anche questo può essere un modo per fare propaganda... Un tempo, tanti anni fa, avevo preso l’abitudine di “dimenticare” una copia di “Umanità Nova” o de “L’Internazionale” dal barbiere, in autobus, negli spogliatoi... Bene o male c’è sempre qualcuno che lo raccoglie e lo legge... Un mezzo di propaganda piuttosto misero, da poveracci, ma non è detto che non possa servire.

Un fraterno abbraccio,

Gianfranco, 19 febbraio 1999».

Ho conosciuto, di persona, Gianfranco Bertoli nel 1986.

Da qualche anno ci scrivevamo sui ricordi di quello che avevamo visto in Israele, curiosi, attenti alle realtà autogestite come i kibutzim della sinistra socialista del Mapam, l’Hashomer Atzair. Entrambi avevamo vissuto quella esperienza, sapevamo cose in comune, gesti, comportamenti, logiche di vita, ed entrambi condividevamo l’idea che gli Israeliani avessero il diritto naturale, quello di ogni popolo, di avere una terra, di vivere in Palestina insieme al popolo palestinese. La prima lettera di Gianfranco, dopo varie delle mie, è del gennaio 1984. Avevo letto di lui su una rivista anarchica di Milano, per nulla vicina a cosiddetti “cattivi”, anzi “A-Rivista” poneva per prima in Italia il rapporto tra Anarchismo e Nonviolenza sulla scia dei grandi movimenti di disobbedienza civile, di proposizione comportamentale indipendente dalla legislazione vigente.

Diciamoci la verità, tra liberali e libertari, sui grandi temi sociali del divorzio, dell’obiezione di coscienza, del diritto ad una maternità libera e voluta, all’autogestione femminile del proprio corpo di fronte a temi tragici quali l’aborto, la violenza sessuale, lo stupro, gli abusi, il ricatto per un lavoro, prima vi è stato un comportamento effettivo fisico di disobbedienza, di scontro sociale, di conflitto, di instaurazione di una socialità concreta e vivente, e poi, dopo, solo dopo, vi è stata una legislazione che almeno a parole e negli articoli garantiva il diritto già socialmente acquisito.

Il mio riferimento liberale non è speculativo, è reale; provengo dalla cultura liberale del Partito Radicale degli anni ‘70, dagli anni degli 8 referendum contro il codice penale Rocco, contro i codici, i tribunali, i bilanci militari, per l’abolizione dell’Ordine dei Giornalisti, per abolire i bilanci privati e pubblici dei partiti al parlamento, per il diritto ad intossicarsi di marijuana piuttosto che morire di alcool e tabacco – Monopoli di Stato – con più morti, dieci volte di più, della sporca eroina e cocaina di contrabbando, i ricchi possono farsene con maggiori coperture mediche, i poveri, i ragazzi vengono eliminati come merda sul marciapiede. Il mio Partito Radicale questo lo sapeva e lo sbatteva in faccia a Destra e Sinistra e da questa diversità io leggevo “A-Rivista” di Milano su cui scriveva Gianfranco Bertoli. Da questa diversità, mi sono scontrato per la prima volta con lo Stato; esso non fa nessuna differenza tra comportamenti “nonviolenti” e cosiddetti “violenti”, se entrambi pongono in dubbio la sua stessa esistenza; il ponte che attraversai era il Ponte Garibaldi a Roma, il 12 Maggio 1977, quando fu assassinata Giorgiana Masi, una ragazza di 16 anni, seduta per terra, come ogni cittadino che pacificamente vuole dimostrare una disobbedienza civile, anche allora, come a Genova il 20 e il 21 luglio 2001. E come allora insieme a noi nonviolenti ci furono “Autonomi” col brevetto di Polizia, poliziotti con le vesta di ribelli che sparano con calibro 9 o 7,65 che si infiltrano volentieri nella ribellione spontanea di giovani – ma anche uomini e donne normali, come ci sono stati in decine di migliaia a Genova, il 19, 20 e 21 luglio di quest’anno.

Le prime parole di Gianfranco non aiutavano al dialogo: era un invito a lasciar perdere uno che, ormai intossicato e stanco, si trascina a scrivere dopo varie insistenze di persone conosciute, e tanto gli basta, quindi non se la sente di immettersi in nuovi dialoghi. Non gli scrissi più, mandandogli solo il ritaglio di un mio articolo sul conflitto israelo-palestinese. Ci ritrovammo lo stesso pensiero, ed anche chi pubblica oggi questo scritto è testimone del dibattito che – su Israele e Palestina – abbiamo sviluppato insieme di fronte ai “filopalestinesi” tout court.

Da lì cominciammo a parlare, ricordare, scriverci tastando il nostro ebraico moderno scritto, anzi lo aveva lasciato perdere ed ora chiedeva un dizionario, una grammatica, un testo da tradurre. Gli inviai tutto, gli inviai tutto quello che poteva scrollare la stanchezza di chi non aveva voglia di fare più nulla di nuovo.

Da quel momento non si aveva più fretta di scrivere, le parole scorrevano volentieri come la lettura di pagine e pagine reciproche. Non so quanti libri ci siamo scambiati, io li ho tutti, lui, come si è visto, non aveva il senso della proprietà, una volta letti li dava via, così penso delle mie lettere. E forse è meglio così.

Come Foglie d’erba di Whitman, come foglie d’autunno. Voleva il silenzio, voleva essere dimenticato e ritrovare uno per uno, individualmente, rapporti umani, anche quelli vecchi oltre i nuovi, ma non più per ideologia o per esperienze da rinvangare... averli così da esseri umani anche diversi, o niente.

Allora gli dissi che lo ritenevo mio fratello. Rise e come rideva poi guardava dritto negli occhi per sapere se lo prendevi in giro. Gli dissi la verità come la dissi sempre pubblicamente. Gianfranco Bertoli lo ritengo mio fratello, un assassino, niente di meno di un assassino, ma sia chiaro, nulla di più.

Cosi avevo scritto a “Maquis”, al “Manifesto”, a vari giornali anche locali che avevano rinvangato quel documentario anni Settanta dell’ARCI “Bianco e nero”. Lì Gianfranco era definito “sedicente anarchico, ma in realtà un fascista di Patria e Libertà che si era dipinto una A cerchiata sul braccio un mese prima dell’attentato”. In un momento storico dove ogni bomba era fascista o del ministero degli interni, anche l’azione di Gianfranco doveva, per forza, rientrare in quella logica.

Non era concepibile altro; una sinistra omologante non concepiva altre azioni e gli anarchici erano solo i fratellini vittime, come il Pinelli, perché “ala debole del movimento rivoluzionario quindi facilmente colpibili dalla repressione per spezzare il movimento stesso”.

C’era in quelle parole di “difesa degli anarchici” un che di paternalistico, di tenerci sotto le braccia di un antifascismo istituzionale che garantiva per noi che gli anarchici sono “bravi” e se qualche anarchico lancia una bomba “allora non è un anarchico, ma un infiltrato dei servizi”.

Per tutta la sua vita dal 17 maggio 1973 Gianfranco ha reagito, ha tentato di contrapporre la sua verità a quella ufficiale, istituzionale, cartacea, giudiziaria, ma che negli ultimi anni è riuscita a infiltrarsi – questa sì – anche in una parte del movimento anarchico. Questo ha fatto più male a Gianfranco delle sentenze di tribunale.

Ma, andiamo per ordine.

Il 17 maggio 1973 il ministro degli interni Rumor scopre una lapide ad un responsabile della morte di Pinelli, il commissario Luigi Calabresi. Gianfranco Bertoli, mentre il ministro esce dalla questura di Milano lancia la bomba che viene deviata da una guardia e finisce contro il muro esterno dove vi è normale gente curiosa: quattro morti e decine di feriti. Mariano Rumor lascia da vivo il luogo del delitto. Bertoli non fugge, rimane lì: “Pensavo di essere ammazzato subito dopo il lancio della bomba”. La polizia lo arresta, il tribunale lo giudica, il carcere lo prende.

È stata l’unica strage nella quale il colpevole giudiziario è stato immediatamente preso, non ha avuto coperture degli Affari Riservati, passaporto per l’Argentina, la sua faccia era lì presente e pagante.

Fin da subito ha rivendicato personalmente il suo gesto rifacendosi al filone individualista di Ravachol, Bresci, Necaev, Vaillant, componendo il suo pensiero sulla proposta filosofica di Max Stirner.

Anche materialmente ha spiegato quella bomba, il suo tragitto, i suoi giorni. Lo ha detto e ridetto più volte, ma Gianfranco non aveva mezzi di comunicazione diretti, gestibili, se non la parola o la corrispondenza e l’uso della logica mentale. Nient’altro.

Eppure la verità è sempre semplice.

Nel kibutz Karmja, dove era stato lui, vicino ad Ashdod, o nello Shaar Hamaqim, dove sono stato io, come negli altri kibutzim israeliani, è normale che il corpo di guardia o i soldati della Tzahal di passaggio si fermino in mensa o si riposino con le armi, ed è altrettanto facile fare sparire un’arma, togliere una bomba dal sacco in dotazione. Chi riprende il viaggio sa di essere in un posto di fiducia, tra amici, e non controlla il bagaglio quando riparte, la borsa gli appare come l’ha posata all’entrata della mensa o a fianco della tavola o sulla porta della camera. Io stesso per curiosità volevo vedere come era fatto il mitico Uzi e di certo non ho chiesto il permesso di averlo tra le mani al soldato, che stava allegro a mangiare, e rimisi tutto a posto. Gianfranco si prese in tasca una bomba “l’ho presa dentro una baracca, ad un amico, quando ero al kibutz”. Lo aveva detto nelle prime udienze a Milano, lo aveva ennesimamente ripetuto a settembre del 2000 a Livorno prima di morire. Sapevo di potergli credere.

«...e un odore e un rumore di bastimento vecchio, di legni imputriditi e ferraglie avariate, e di macchine stanche, ululanti e piangenti, che spingendo la prua, pestando le fiancate, ruminando lamenti, e ingoiando distanze su distanze, con uno stridore di acque agre sopra le acque agre, muovono sopra le vecchie acque il vecchio bastimento».

(P. Neruda, El fantasma del buque de carga)

Ashdod è un porto commerciale, chi arriva da un kibutz con la jeep scassata riconoscibile del kibutz, non ha grosse difficoltà ad avvicinarsi alla nave, fare due chiacchiere coi marinai, gli stessi con i quali ci si è ubriacati tante volte, fumati, o forse si è avuto qualche rapporto. Gianfranco, come si dice, era rotto a tutte le esperienze, rapinatore, aveva conosciuto Marsiglia nella sua fuga verso Israele ed ora ritornava per la stessa via, con lo stesso documento falso avuto a Marsiglia e forse con la stessa nave da trasporto che lo aveva portato, molto simile alla Tramp Steamer di Alvaro Mutis.

Ci era arrivato partendo da Mestre, dove era nato, iscritto alla FGCI con compiti di dare volantini, aiuto al festival dell’ “Unità”, distribuzione del giornale, compiti di bracciantato di partito. A Gianfranco non basta.

Legge gli anarchici, non intrattiene rapporti perché è conosciuto dal segretario di Mestre, e perché non se la sente di mollare. Ribelle, poco per volta, decide per conto suo, lavoricchia di qua e di là, ruba, anche il lavoro alla fabbrica di Marghera è un lavoro sporco, inquina e viene pagato per inquinare, per morire e produrre morte, ma è un lavoro legale. Già!

Iniziano le rapine, prima furti, poi a mano armata, dopo di che, all’ultima rapina a mano armata, Gianfranco, ricercato, fugge.

Da latitante si rifugia in Francia, conosce Marsiglia. Dal porto sale su quella Tramp Steamer per Israele. Strano per una sinistra che dopo la guerra è esplicitamente sionista, vedere in quella bomba di fabbricazione israeliana, come tutte quelle in dotazione alla Tzahal, un complotto sionista coi servizi italiani deviati.

È la stessa logica per la quale si è “certi” che i “buoni anarchici” sono pacifisti, come nel 1973 e anni seguenti si è diventati “filopalestinesi”. Una certezza staliniana, che deve diventare istituzionale, eppure – ricordiamolo – la verità è sempre semplice, e semplicemente Gianfranco l’aveva detta e ripetuta più volte, fino alla stanchezza.

L’individualismo di Gianfranco viene riconosciuto. Man mano lo si conosce meglio, il suo comportamento può essere antipatico, strafottente, troppo sicuro di essere capito subito, ma è lineare, coerente.

Anche in carcere, nelle lotte dure di quegli anni, Gianfranco non si aggrega con nessuno, non fa parte di Comitati, Nuclei, Commissioni... egli si aggrega agli altri per il tempo occorrente ad affrontare necessità immediate, come il difendersi da quel macello di Stato che fu la repressione all’Asinara dopo la settimana di agitazione dei prigionieri nel 1984. E lo fa da individuo che vuole riprendere le sue letture, i suoi studi, i suoi rapporti personali e individuali, unici impegni mantenuti nella prigionia in tutti quegli anni.

Studia logica matematica, riprendiamo insieme l’ebraico, per lo più scritto, aiuta i suoi compagni di cella a studiare e imparare anche testi scolastici, inizia la collaborazione a quella esperienza sociale che fu “La Grande Promessa”, il giornale di Porto Azzurro, il primo aggregato carcerario che pose nella società il tema di abolire l’ergastolo, equiparandolo ad una morte civile senza appello. A Porto Azzurro Gianfranco si occupa di teatro, di rapporti culturali con l’esterno, sostiene la possibilità per un semilibero di potersi riunire alla famiglia e, a Porto Azzurro, Gianfranco si innamora.

Si innamora di Lucia, una redattrice de “L’isola”, un giornale locale, laico, attento alle piccole cose, aperto e polemico sulle immagini stagnanti. Andavo a trovarlo tutte le volte che usciva in permesso, prima un giorno, poi tre giorni, poi una settimana. “Potevo scappare, ma dove vado, alto e lungo, con una faccia da chiodo conosciuta e poi la mia parola ha un valore, e poi...”, guardava attorno, si distraeva, come chi pensa ad altro e cerca. Un giorno portai all’Elba l’auto, una settimana per girare l’isola anche nella parte occidentale, più selvatica.

Quel giorno mi guida lui, vai di là, un sentiero fuori paese, verso Portoferraio, da fuori una casa nuova di campagna, un cortile, i vetri, un piccolo porticato come un salotto, dentro una redazione familiare, ritagli di carta, tavoli grandi bianchi, gente che non ti chiede nemmeno chi sei e come sei entrato, va sul sicuro, direttamente nella stanza di Lucia, una porta-finestra dietro la scrivania e luce, pareti chiare e carta, disordine d’artista, pareti occupate da qualche disegno o forse appunti. Lucia è lì. Gianfranco la saluta e si siede e tace, è Lucia a chiederci. È bella, quel giorno ha una gonna ampia, un gilè chiaro sulla camicia e non ha fretta, sorride, guarda Gianfranco negli occhi e lui mi presenta come amico, uno che anche si occupa di giornali – balle!, ma ci sto. Si esce fuori sotto il porticato, e fu l’unica volta che vidi quella donna certamente meravigliosa per lui. Lui l’aveva vista di più e la rivide ancora qualche volta, poi scrisse: “È morta di cancro, sorridendo, dicendo a suo figlio di considerarmi un amico, ma io in quella casa non ci tornerò mai più”.

L’unicità imparagonabile di un amore. Ricevetti la copia del giornale con l’annuncio redazionale della morte, ma mi bastavano le sue parole. La sua parola aveva valore per lui. E, in quel tempo, anche per me.

“Sei libero di farti
ma quando ti fai non sei più libero”

(Litfiba)

La tristezza non ha mai abbandonato Gianfranco, lui non ha mai chiesto grazie e accorciamenti allo Stato, ma se anche uno Stato “democratico”, o realmente liberale, lo avesse graziato, lui il carcere se lo sarebbe portato dentro, era comunque in carcere, lo sappia anche chi fa della naturale vendetta, il sistema di giustizia sociale.

Qualcuno dice che fu il passaggio a Pistoia a cambiarlo e distruggerlo. Nulla avviene di colpo e per una causa sola. Gianfranco faceva appello al suo individualismo, alla sua dignità personale, al saper risolvere le faccende da uomo a uomo e subito, ma nessuno è totalmente frutto di se stesso ed ogni uomo, individuo, è vero che sta dentro una cornice di relazioni che possono provocarlo e incidere sulle reazioni, emozioni e anche sulla logica fino allora portata.

Era la prima volta a Pistoia che entrava in una aggregazione istituzionale esterna che per sopravvivere doveva riprodurre un sistema di rapporti carcerari, con un responsabile, visto come “autorità-che-ne-risponde”, un sistema di orari, lavori, presenze, itinerari fissati come la striscia gialla di “1999 – Fuga da New York” ed impedimenti che avrebbero dovuto dimostrare la sua disciplina e quindi il ricatto di poter o meno continuare a stare fuori dal carcere di giorno.

Gianfranco ricorda le fughe dal kibutz di quegli anni, le balentie al porto con una vecchia jeep, gli incontri alla Fassbinder nel porto di Ashdod, i cazzotti con la polizia e gli amici disastrati come lui. Li ritrova con facce diverse nella periferia di Pistoia, dovrebbe occuparsi del loro reinserimento culturale, portarli al Centro, vedere che non si facciano, che leggano, si occupino di qualcosa. Non è questa la sua logica, non lo ha mai fatto in vita sua, forse a vent’anni nella FGCI, ma mai più, e invece condivide. Condivide quelle esperienze perché ormai è a pezzi, il fegato è a pezzi, il cuore è a pezzi, “loro” i personaggi delle canzoni di De Andrè invece lo trattano bene, ci sta bene, si corica: corica il suo individualismo che non gli appare un’arma efficace in un circuito che ha accettato, il circuito del cosiddetto “recupero sociale” o carcere territorializzato.

Strano, il progetto che lo accoglie si chiama “Liberarsi dalla necessità del carcere”!

Da questo momento stargli vicino è difficile, la disciplina personale che aveva avuto fino all’Amore, ora non l’ha più. È difficile parlargli con una logica e ci combatto, bisticcio, provoca fino a telefonarmi solo per dirmi “sai, mi sono fatto una spada proprio adesso”. Vaffanculo Gianfranco, vaffanculo.

Ride, ora i suoi amici sono quelli che “condividono”. La sua epatite cronica si chiama HIV, sa di averla, ma il peggio è che il suo individualismo si è coricato.

Si è coricato su quei marciapiedi della stazione di Livorno.

Conosce più lingue, ha scritto pezzi di storia, ha pubblicato due libri e scritto saggi di storia a livello universitario, la sua logica era perfino religiosa, pedante, matematica... ora è uno straccio.

È facile voler bene quando tutto va bene ma se si vuole bene si combatte per stare accanto anche quando va tutto male, fin quando tutto sia chiaro.

Non poteva dirmi che era sua libera volontà suicidarsi sotto l’effetto di tre dosi di eroina, glielo impedii: – “Sbirro” – strinsi i pugni, pronto a mollarglieli in faccia e lui pure, ma era uscito dal coma.

Passò qui, tra queste colline di Langa, gli ultimi unici momenti di permesso, trascinando i piedi, fumando testardamente, giallo e stanco. Aveva rivisto rapporti umani, uno per uno, fino a piangere per i silenzi altrui, rispettabili come silenzi, ma non accettabili come dubbi sulla persona.

Non era Gianfranco che doveva rispondere.

Ricordo il diario di un maresciallo che negli anni ’20 operava in Sardegna, nell’Ogliastra, e conobbe il bandito Samuele Stocchino. Nella latitanza di Samuele avvenivano in Ogliastra fatti di sangue e tutti venivano attribuiti a lui. Il maresciallo sapeva che Stocchino per difendersi dalle accuse avrebbe dovuto dire dove era in quei momenti, portare testimoni che lo avevano accolto in casa, dire chi erano i suoi amici per discolparsi.

Ma Stocchino taceva e si accollava le colpe, fin quando fu trovato morto in una chiesa e si capì; fin quando lo stesso maresciallo, ormai in pensione, nel suo diario disse la verità.

“Io troverò senz’altro abbastanza persone che si uniscano a me senza giurare sulla mia stessa bandiera”.

Max Stirner

Negli ultimi tempi Gianfranco sapeva di morire. A Livorno si era fatto amici nuovi, senza nessuna ideologia o fede diversa, cosi come li trovi camminando per l’ultimo pezzo di strada. Trovò pace, una casa, un amico generoso che non tradì mai anche quando si trovò i suoi soldi tra le mani, lui col quotidiano bisogno di “farsi”, e la Curva Nord dello stadio, tra i tifosi dell’amaranto Livorno, non gliene importava nulla di rituali per la sepoltura, ma disse due sole cose a Franco, il generoso amico che lo accolse: “Avvisa solo Antonio e Alfredo, e poi mettimi la sciarpa del Livorno”. Quando lo rividi sorrideva ancora in un abito nuovo con la giacca e la cravatta amaranto.

L’affinità o è costituita da diversità che si basano sulla libertà individuale quale fondamento del sentire comune anarchico.... o non è. Gianfranco proviene dalle file giovanili del Partito Comunista Italiano, milita nella FGCI di Mestre e non ha mai fatto parte di gruppi, sezioni, aggregazioni o riunioni fasciste, neofasciste, neonaziste, di apparati di Stato, sia civili che militari. Vero è che il suo abbandono della sinistra corrisponde a scelte individuali di delinquenza comune, di riappropriazione d’istinto di capitali senza giocare in borsa.

Per questi tentativi era ricercato e fuggì.

Gianfranco ha posto agli anarchici che lo hanno conosciuto, prima, e al movimento anarchico insieme, i problemi della diversità, della tolleranza, della violenza, della strafottenza, dell’antipatia, del comportamento insopportabile ed anche della sincerità e condivisione dentro un movimento che vive – vuole vivere in sé – la società che si prefigge. Ricordiamo che un fondamento dell’Anarchismo – guarda caso, simile alla Nonviolenza – è la coerenza mezzo-fine, il vivere nei comportamenti, nei mezzi, negli obiettivi minimi di una lotta, quello che si propone come obiettivo sociale finale.

Il nostro comportamento, il nostro pensiero, la nostra solidarietà, sono stati messi alla prova. Ma anche – lasciatemelo dire – il distacco da chi non si condivide – deve essere chiaro – non deve mai, ripeto mai, diventare collaborazione nella repressione statuale e giudiziaria. Nella sua storia, compreso lo sparo individualista contro Errico Malatesta, non è stata la prima volta che il movimento anarchico si è trovato ad affrontare diversità anche forti ed anche dirompenti, ma rimanendo se stesso di fronte a strutture che, comunque, in una società di liberi ed eguali non devono esistere. Si pone, anche al suo interno, il problema della violenza e della convivenza sociale ed umana.

Quando quella bomba scoppiò nel maggio del 1973 il movimento anarchico uscì con un comunicato unitario della FAI, dei Gruppi d’Iniziativa anarchica e dei Gruppi Anarchici federati, che diceva che Bertoli non faceva parte di alcun gruppo o aggregazione anarchica. È un dato vero, che non metteva in dubbio il suo individualismo.

È un dato che permette di seguire il dibattimento processuale, scrivergli, sentire personalmente che c’è una coerenza, una logica tra l’atto e il pensiero che esprime. È un dato che permette di accogliere il suo iniziale monologo, fino a credergli. Un anarchico accetterà di essere suo tutore giudiziario per poterlo incontrare e rompere l’isolamento.

Anarchici come i redattori di “Senzapatria” e delle edizioni “Tracce” di Pino Bertelli pubblicano due libri dai suoi scritti. Anarchici lo incontrano nelle sue uscite e lo accolgono in casa, quando ancora il volontariato non riusciva a trovargli un appiglio per la semilibertà.

In tutti gli elenchi dei prigionieri delle patrie galere, pubblicati su “Umanità Nova” e altri periodici libertari per anni abbiamo rincorso Gianfranco nei trasferimenti.

Il movimento anarchico ha saputo esprimere una rete di accoglienza solidale in quei frangenti, davvero fragile per chi aveva maturato la vita unicamente tra repressione, fuga e prigionia.

È un dato che verrà ribadito ancora nel 1990, quando il suo nome servirà per dare risposte a quanti chiedono i retroscena di quella strage collegandola, stavolta, alla novità – tutta giornalistica – di Gladio. Viene diffuso un documento pubblico che ribadisce due concetti essenziali: “Gianfranco Bertoli è un anarchico: lo era anche all’epoca del tragico attentato” ed ancora: “Tutte le cosiddette prove di un trascorso fascista di Bertoli, pur numerose e costantemente riprese negli anni ‘70 anche da una presunta controinformazione di sinistra, furono smontate nel corso del dibattito processuale che Bertoli ha subito” ed aggiunge il documento unitario “un giornalismo semplicemente onesto avrebbe per lo meno registrato questo fatto”. Firmato: Ponte della Ghisolfa, FAI milanese, A Rivista, Volontà, Anarchia, Libreria Utopia, Centro Studi Pinelli e Centro Sociale di via Torricelli (Milano).

A questo si aggiungono le lettere individuali inviate a giornali, settimanali, redazioni radio e TV da me, da Aurelio e Fiamma Chessa, Franco Pasello, Furio Biagini e altri aderenti al movimento anarchico di lingua italiana del tempo. L’accanimento dopo alcune settimane termina. Gianfranco partecipa dal carcere al dibattito, sia con lettere individuali, sia scrivendo sulla rivista mensile “A” di Milano, sia intervenendo nella critica della violenza rivoluzionaria. Nel corso dei decenni da ergastolano Bertoli ha rivisto la sua istintiva concezione del colpo su colpo di quel 1973, senza per questo contribuire al tema del pentitismo o dissociazione, né ad uso di scambio con varie autorità.

Sia chiaro: non lo ha mai fatto, nemmeno per avere un permesso. Gianfranco è stato un assassino che non ha mai avuto stellette o medaglie sul petto, né è diventato senatore a vita. Sapeva di essere stato un assassino... e tanto basta! Dalle pagine dei periodici anarchici scrive chiare lettere contro la logica di morte, poiché è la logica stessa degli Stati, degli eserciti, della gerarchia e del potere dell’uomo sull’uomo. Ha forte il senso dell’eguaglianza, che lo distanzia dall’individualismo del “monaco-soldato” o perfino “anarca”, presente nel neonazismo italiano che, ovviamente, non concepisce l’eguale svolgersi della sua stessa libertà ad altro diverso individuo. Bertoli non ha il senso dell’appartenenza, parla sempre in prima persona anche quando non scrive “io”.

Nello sviluppo del movimento conflittuale degli anni ‘70 e ‘80 si pone un dibattito sostanziale per un anarchico: il rapporto con le formazioni marxiste-leniniste “per lo sviluppo dell’azione libertaria”.

“Loro perseguono un preciso obiettivo: il partito, quella particolare forma di partito leninista e non possono che favorire con ogni mezzo il processo di militarizzazione della società. Alla logica di guerra e lotta armata può corrispondere la convenienza di fare marcia indietro e scegliere la via legalitaria. In questo contesto quale ruolo possono svolgere quei quattro gatti di anarchici che si trovano nelle carceri italiane? L’unica scelta è preservare la propria identità politica e umana rimanendo coerenti col proprio anarchismo”.

Discutendo coi compagni di “Crocenera” propone di non cadere nell’ecumenismo rivoluzionario dando del “compagno” a chiunque, ma di tener conto della nostra memoria. Se Curcio e gli altri hanno rifiutato di definire “compagni” gli anarchici all’Asinara, ma solo “militanti” ebbene definiamoli “militanti” ma non compagni. Se essi fanno riferimento alla classe proletaria, “forse l’origine di classe dei poliziotti è molto diversa?”.

Era il 1981.

Il rifiuto della militarizzazione delle lotte e della logica della lotta armata che, per forza, comporta una struttura gerarchica ed autoritaria vale anche per i compagni di Azione Rivoluzionaria anche se, sullo specifico, Gianfranco non interviene.

Durerà poco e pagheranno caro fino a morirne per quell’esperimento.

Questo per dire che per decenni Bertoli è stato dentro il dibattito anarchico da individuo anarchico.

“Perché siamo anarchici?”.

Elisée Reclus

Non fu l’accusa del giudice Lombardi, né di Casson su Gladio o del giudice Salvini a fargli tanto male quel 1997 ma il voltagabbana di alcuni che pure avevano firmato quel documento unitario del 1990 e che per anni avevano mantenuto reciproci rapporti di stima mentre ora gli chiedono di dare spiegazioni alle accuse dei giudici. Quelli che sanno del suo anarchismo dalle origini tacciono, altri chiedono anche a me di chiedergli assurdità di comportamenti che né io né Gianfranco comprendiamo subito, poi vedremo. Alcuni che pure gli erano stati vicini non hanno potuto sopportare la sua “libertà di farsi” – invero neanch’io– fino a vederlo uno straccio, ma costoro sono diversi da quelli che invece ora gli chiedono spiegazioni da riferire al giudice. Eppure quel documento del 1990 era stato chiaro “un giornalismo semplicemente onesto avrebbe perlomeno registrato il fatto; invece i velinari della carta stampata, non si sa se per ignoranza, conformismo o superficialità, continuano a riproporre ancora oggi le solite prove, le stesse qualifiche, ecc., ecc.”. Ma tant’è!

Questo comportamento di per sé non riguarda solo Gianfranco Bertoli: l’uscita di una nuova forma di letteratura anarchica da salotto – leggi “Libertaria” – esprime il bisogno, per alcuni, di essere accettati, accolti, dal perbenismo della cosiddetta “società civile” con la quale colloquiare per renderla, a loro dire, più accogliente alle idee libertarie, limando le stesse da radici conflittuali, da incompatibilità perfino col capitalismo – in fondo siamo anche noi liberali.

Non per nulla il nuovo periodico esce subito con una intervista al giudice Salvini, buona presentazione per una rivista anarchica. Posso dirlo qui perché l’ho scritto prima direttamente a quella redazione.

L’arcipelago del movimento anarchico ne esce così, e male. Negli ultimi anni Gianfranco giunge a non riconoscersi anarchico per non confondersi con quelli che anarchici non sono.

“Tu sei anarchico” come nell’opera di Ernestan, mi diceva individualizzando, ancora, una presenza anarchica quando non riconosceva più una socialità.

Si muore sempre soli e la sofferenza è sempre individuale, è tanto ovvio dirlo quanto è semplice la verità di una storia. Ricordiamolo, per favore.


Agosto 2001

Antonio Lombardo

P.S. Ho letto la corrispondenza e ci ho ritrovato parole ascoltate, e qui ripetute, di Gianfranco; anche nei punti per me antipatici è pur vero. Questo mi ha confermato la decisione di non ritirare la mia introduzione, ma di aggiungere un dato “oggettivo” che cioè Gianfranco condivideva e parteggiava per l’idea di ripubblicare Del terrorismo, di alcuni imbecilli e di altre cose, nonostante io lo consideri un dato negativo, il lato oscuro del pianeta, nei rapporti, umani – certo!, tra anarchici, e non degni di sottolineatura pubblica. Stando che parliamo non di noi e di quello che vorremmo ma di Gianfranco e del suo astio, disarmato per altri versi, allora anche questo diventa logico nell’economia del libro. Su un tema fondamentale ci scontravamo in ore rubate alla notte e donate alla parola: non doveva e non poteva pensare di usare nuovi rapporti umani per vendicarsi di chi gli aveva voltato le spalle, non certo verso Paolo che gli era stato vicino da subito, togliendolo dall’isolamento, aiutandolo materialmente fino a quando la decisione di drogarsi definì, come sempre quando si parla di eroina, una selezione di rapporti umani. Questo fu chiaro da subito e non fu determinato da richieste di “verità giudiziarie”, come per altri. Un dato storico del comportamento di Gianfranco e intorno a Gianfranco può, come nel caso della ripubblicazione del libro, alla fine essere antipatico, perfino odioso, eppure, raccontando di lui, così è stato e così rimane.

A. L.


«Quando, in un qualsiasi oggetto o in un concetto, si incontra la contraddizione – (in ogni oggetto si può e si deve trovare una contraddizione e cioè due determinazioni opposte e necessarie, perché un oggetto senza contraddizione non è che una pura astrazione dell’intelletto che afferra violentemente solo una delle due determinazioni e si sforza di oscurare e di allontanare la coscienza dell’altra determinazione che si trova nella prima) – quando, diciamo, si incontra una contraddizione, si ha l’abitudine di concludere: dunque, quest’oggetto non è nulla».

(G. W. F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, par. 89)

Carteggio 1998-2000

1 Bert

3 novembre 1998
Livorno

Caro Bonanno,

quando ci si azzarda ad avanzare con faciloneria dei giudizi malevoli su di una persona, il meno che si possa fare, una volta resosi conto di aver preso una “cantonata”, è di scusarsi con la persona stessa.

È per questo, cioè per chiederti scusa, che ti scrivo oggi, anche se credo che finora ti scrissi solo una volta (una modesta letterina, un po’ banale, di generica solidarietà quando eri stato imprigionato a Bergamo). Quella poco allegra occasione (che risale, peraltro a un bel po’ di tempo fa) ha rappresentato per me una circostanza, dolorosamente, non priva di significato, perché qualche polemica che ne scaturì determinò l’inizio di un lento processo di distacco e di incomprensioni nei rapporti personali (fino ad allora “idilliaci”) con compagni di “A-rivista”.

Ma queste sono vecchie storie, morte e sepolte. Veniamo all’oggi.

Dunque, nel corso di una breve conversazione telefonica con Antonio Lombardo questi mi fece sapere dell’uscita di un tuo nuovo scritto sulla “questione palestinese”. Mi riferì, anche, che rispolveravi una (per me arcaica) polemica manifestando una certa vis polemica nei miei e nei suoi confronti.

Io, “incazzato” per ben altre, queste sì squallide, diatribe e calunnie di cui ero stato recentemente oggetto, mi lasciai andare ad un sfogo verbale, paragonando il tuo comportamento nei miei confronti a quello di un Luciano Lanza.

Antonio mi rimbeccò, invitandomi ad andarci piano con le comparazioni, se non altro per la differenza che passa tra uno che coi giudici ha avuto a che fare solo come “imputato” ed uno che accetta il ruolo (probabilmente “remunerato”, ma non lo so) di “consulente tecnico” di un “PM”.

Per rafforzare la sua tesi, Antonio Lombardo mi ha anche mandato la fotocopia di quei brani del tuo libro dove accenni a me e a lui e di quelli che mi dedica Luciano Lanza nel suo Bombe e segreti [Edizioni Elèuthera, Milano 1997]. Certo siamo su di un ben diverso piano.

La tua è “polemica” (magari aspra, sferzante, “arrabbiata”, come probabilmente è nel tuo carattere) ma è onesta. Dal confronto dialettico di punti di vista e posizioni diverse e contrastanti può uscire anche un dialogo positivo, in cui ognuno tenga conto delle ragioni dell’altro.

Nel caso delle righe che mi ha dedicato Lanza siamo di fronte alla vigliaccheria più sfrontata, all’arroganza e al cinismo che sconfinano da un lato con la perfidia e dall’altro nel servilismo da leccapiedi nei confronti di un magistrato che ha costruito un vero e proprio romanzaccio fantagiuridico, per fini che non conosco ma col preciso intento di infamarmi.

Anche se tu mi sei stato ostile, anche tu hai avallato e sostenuto la tesi con cui da 25 anni si persiste a volermi spacciare per un “mercenario” al soldo dei fascisti e dei “servizi segreti”. Comunque, l’hai fatto prendendo abbaglio dal tipo di disinformazione, faziosa e capziosa, che magistrati e mass media hanno costruito e propalato.

Tutto ciò che tu sapevi (e purtroppo ancora sai) è solo di terza o quarta mano. Posso riconoscerti l’onestà e la buona fede. A Luciano Lanza, no! Lui di tutta la mia storia ha sempre saputo molto di più. Sapeva e sa ancora bene chi ero e chi sono. Ci teneva, addirittura, a mostrarsi compagno, solidale e amico.

Arrivò, perfino, a chiedere la mia “comprensione” e “solidarietà” quando venne attaccato (e non del tutto a torto!) per avere accettato l’incarico di direttore di un giornale della “borsa” di Milano (“Piazza degli affari” se non vado errato); dove, tra l’altro, pubblicò a sua firma un articolo sullo “Stato sociale” che ne fa un precursore delle ideologie berlusconiane.

Indurre qualcuno a tentare il suicidio è molto peggio che assassinarlo di persona. Beh, se un anno e mezzo fa avevo cercato di uccidermi è stato anche grazie al Lanza e al suo avere avallato (presso altri compagni) le calunnie con cui mi infamavano Lombardi e Salvini.

Ora, Alfredo, di una sola cosa vorrei pregarti (addirittura supplicarti): non attaccarmi più. Può darsi che abbia detto, fatto, scritto delle cazzate. L’ho sempre fatto convinto che fosse giusto. Ma adesso ho tutti contro.

Un “compagno” (?!) a cui volevo un gran bene, mi ha fatto sapere che lui aveva sempre preso le difese della mia dignità, pur non condividendo il mio gesto, ma adesso basta perché sono io che ho gettato via la mia “dignità” quando sono caduto a far uso di stupefacenti. Un ragionamento veramente… “talmudico”!

Comunque, i miei anni ce li ho, che decida o meno di farla finita non mi resta, in ogni caso, molto da vivere.

Una cosa sola tengo a ribadire e la ribadirò fino che avrò un alito di respiro.

Non sono mai stato fascista. Non ho mai avuto complici né “mandanti”. Certo non sono un eroe. Sono sceso a compromessi chiedendo la “semilibertà” e poi, perfino la “condizionale”.

Per mangiare mi sono umiliato a chiedere l’elemosina anche ai preti. Ma è facile disprezzare (come fa Lanza con me e perfino col Valpreda) chi è stato in galera per… “reati comuni”.

Ma lui, ha mai provato la fame?!

Luciano Lanza appoggia i suoi amici Lombardi e Salvini, per i quali io ero un agente segreto (al servizio di tanti che dovrei avere miliardi) e venduto ai fascisti.

Ma che cazzo! Ho una stanza in cui dormire perché alcune persone (le più eterogenee: da un prete a uno dell’ARCI a uno di Rifondazione) fanno colletta perché possa averla. Mangio un pasto al giorno nella trattoria di un ex anarchico (cioè ancora anarchico anche se uscito dalla FAI) e la sera alla mensa della Caritas. Le scarpe me le ha date l’ARCI, gli indumenti che indosso la “pubblica beneficenza”. Alla mattina vado al SERT a prendere il “metadone”. Sono un rottame, ma chi mi ha ridotto così? Lanza non l’ha mai provata, ma tu sì. Tu lo sai cosa vuol dire “galera”.

E sono venticinque anni che, periodicamente, vengo insultato e calunniato.

C’è da meravigliarsi se sono uscito fuori di testa?

Scusami se ti ho annoiato, ma uno qualche volta ha bisogno di sfogarsi.

Un saluto anarchico,

Gianfranco Bertoli

2 Bon

15 novembre 1998
Catania

Carissimo Gianfranco,

ti ringrazio per la tua lettera del 3 scorso che mi offre l’occasione di scriverti. Non avrei potuto prendere io l’iniziativa non sapendo né dove indirizzarmi, né cosa, in fondo, dirti. Ma tu mi offri questa bella occasione con il ricordo di quella nostra ormai lontana corrispondenza (che io conservo fra le mie carte) [qui inserita da p. 383 a p. 404] che è stata qualcosa di più di una breve tua letterina, e che si è esaurita perché, allora, manifestavi poco interesse a continuarla (almeno così a me sembrò), per cui io stesso ti suggerii, nella mia ultima lettera, di sospendere un reciproco invio di missive che stavano ormai per dire nulla.

Ti ringrazio per quello che mi scrivi. Non mi devi scuse alcune, come sinceramente non credo di dovertene io per quello che espressi a suo tempo nei tuoi confronti di cui, a memoria mia, passati tanti anni, ormai debole, cerco di precisare il contenuto visto che me ne offri l’occasione.

Ma prima chiariamo un aspetto, quello del mio piccolo libro sulla “Palestina” (Palestina, mon amour) [1998] di cui ti ha fatto cenno Antonio, e della cosiddetta polemica in esso contenuta. A mio modesto avviso non c’è nessuna polemica, ho solo riportato, per completezza di documentazione e per correttezza nei tuoi confronti e in quelli di Antonio, i vostri due scritti, che a suo tempo uscirono su “ProvocaAzione”. Sarebbe stato scorretto ripubblicare i miei interventi tagliando la vostra voce che dice delle cose che non condividevo, e non condivido, ma che è giusto che siano lette in maniera contestuale a quello che io dico. Mi dispiace che Antonio abbia visto “una certa acredine”. Forse nella forma dello scritto? Se sì me ne scuso, ma allo stato attuale delle cose, così come si trova collocato in quel libro, il mio intento era lontanissimo dal fare della polemica, c’era solo quello di fornire una documentazione. Tutto qui.

Ti ho spedito a parte, all’indirizzo che hai messo sulla busta, gli ultimi libretti usciti che spero ti piaceranno. Sarebbe troppo chiederti un tuo giudizio in merito? L’avrei pur caro.

Eccoci al punto vecchissimo. All’epoca del tuo arresto, a prescindere delle polemiche ferocissime che si svolsero all’interno del movimento, e degli scontri verbali e non verbali che ci furono in molte riunioni fra compagni, io esposi solo questa tesi: non conoscendoti, e basandomi sul tuo memoriale pubblicato da “Gente” (che ancora conservo fra le mie carte), mi sembrava strana la tua autodefinizione di anarchico stirneriano e il problema mi toccava direttamente, sia come studioso di Stirner (nel mio piccolo ho anche pubblicato un intero libro sul filosofo tedesco), sia come compagno che pur non essendo individualista non accetta l’ipotesi organizzativa di sintesi (poniamo quella proposta dalla FAI o, sempre a suo tempo, dai GIA o dai GAF). Tutto in Stirner sollecita alla forza e nulla in quel tuo memoriale c’era di questo tipo, se non l’intenzione di mostrare alcune tue debolezze. Ecco che cosa avevo fatto notare. Che se quella era una dichiarazione d’intenti anarchici, c’era qualcosa che non funzionava.

Dopo non c’è stata occasione di sentirci per lettera o di vederci nel corso dei miei diversi soggiorni in tante galere del nord. E mi è rimasto un rovello dentro che le tue rimostranze (per interposta persona) non mi hanno chiarito, né le tue lettere a Bergamo hanno avuto l’occasione di approfondire.

Per quel che mi riguarda sono disponibilissimo a farlo ora, se credi che la cosa ti possa fare piacere, e non è una questione di scuse da parte mia, ma di mettermi vicino a te, al tuo fianco, sinceramente, come compagno e come amico, e di mettere la mia visione della vita e della lotta per l’anarchia in chiaro anche attraverso quelle che sono state le tue esperienze di questi ultimi decenni. Non sono una crocerossina, non voglio aiutarti, non voglio che tu ti senta meglio, sono un combattente e francamente il confrontarmi (a ragione o a torto) con un Luciano Lanza mi fa sorridere.

Tu mi dici di non attaccarti più, io ti dico di lasciar perdere questa possibilità, vieni fuori, lottiamo insieme. Quale migliore occasione? Hai letto i giornali in questi ultimi due anni: mi accusano di tutto: non c’è delitto (dagli omicidi ai sequestri di persona, dalla costituzione di banda armata alle rapine) che non sembra io non abbia commesso. I giornalisti si chiedono come possa io avere pubblicato le Opere complete di Bakunin (impresa, pare, mai riuscita a nessuno) se non con i soldi forniti dal Ministero dell’Interno. Spia anch’io, come vedi.

Ma occorre combattere, contrattaccare, lottare. Non per chiarire che non si è spia o fascista (anche io sono stato indicato come fascista proprio dai compagni della FAI – nel 1972), ma per divulgare il nostro pensiero, per trasformare il mondo.

Scrivimi, te ne prego.

Con affetto,

Alfredo M. Bonanno

3 Ber

18 novembre 1998
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

grazie per avermi fatto dono della possibilità di sorridere, che mi hai offerto col riferimento alle “crocerossine”. In effetti, dal poco che so del tuo aspetto e della tua corporatura, penso che tu non abbia “le physique du rôle” della “pia dama”. Meglio così: il mondo ne è inflazionato.

Comunque, anche se dici di non averne l’intenzione, con la tua lettera un aiuto me lo hai già dato. Mi sono infatti chiesto se la scoperta di una amicizia che emerge nei confronti di qualcuno dal quale ci hanno diviso anni di (quasi) ostilità, non valga di più (sul piano del “bilancio” globale) della scoperta che un’altra amicizia, che si credeva fondata e più che solida, era invece fittizia e si riduceva a mera ipocrisia. Fino a ieri, a conti fatti, ritenevo di poter solo considerare come amico e compagno (per me il termine “compagno” ha ancora un peso e un valore, anche se per molti altri sembra diventato obsoleto) Antonio Lombardo, ora ci sei anche tu. Non è poco.

Vorrei, se sei d’accordo, che accantonassimo le ripicche, le polemiche assurde e i pettegolezzi di un passato lontano e, nella misura in cui sarà possibile, ci si confrontasse sull’oggi e su cosa è ancora possibile proporsi di fare per uscire (e nella limitata misura del possibile, far uscire anche gli altri) dal pantano in cui si è arenato ciò che resta dell’anarchismo. A proposito di maldicenze insulse e di pettegolezzi, vorrei dare anche a te la possibilità di farti una risata. Pensa che, anni fa, un compagno che allora mi si mostrava amico (ora non so, perché è ammiratore e “discepolo” di Lanza) mi disse che lo “sapevano” che le tue pubblicazioni erano sovvenzionate da… Gheddafi!

Mi sembra che poi sia emerso chiaramente che i mezzi per stampare te li procuravi a tuo rischio e pericolo.

C’è un piccolo (ma non tanto) punto che vorrei chiarire una volta per tutte circa il mio “stirnerismo”.

So, anche se non mi è stato dato di poterlo leggere, che hai scritto un volume su tale filosofo e lo conosci bene, quindi dovrebbe essere facile per te capire cosa intendo dire. Io non mi sono mai detto “stirneriano” per il semplice fatto che un’affermazione del genere condurrebbe a un paradosso (un po’ come quello, celeberrimo, del “cretese”). Dunque, dalle poche letture che ho fatto di Max Stirner, ne ho desunto che egli postulasse la totale unicità ed autonomia dell’individuo. Ne consegue l’assoluto rifiuto di farsi seguaci o allievi di nessuno, come quello di erigersi a maestri di vita o di comportamento di chicchessia.

Ora, quando venni arrestato, i giudici e i poliziotti che mi interrogavano (peraltro del tutto digiuni in materia e di un’ignoranza abissale) non si davano pace a chiedermi di ipotetici rapporti con la FAI, con quelli della Ghisolfa, ecc. Io cercai di spiegare loro che dirsi anarchico non voleva affatto dire richiamarsi a qualche preciso gruppo o frazione del movimento anarchico organizzato, ma che c’era, per esempio, un anarchismo individualistico (di cui uno dei massimi esponenti era stato appunto lo Stirner) con teorizzazioni e, di conseguenza, pratiche operative, che spesso potevano trovarsi in una linea di rottura con quelle, per esempio, del comunismo anarchico o dell’anarcosindacalismo.

Quanto ai contenuti di quella specie di “memoriale” (che avevo fatto per l’avvocato d’ufficio e che lui cedette a “Gente” senza neppure avermi consultato) non si trattava, né pretendeva di esserlo, di una dichiarazione di intenti anarchici.

Tutto quello che avrei voluto dimostrare è che ogni individuo, per quanto si trovi isolato, spinto ai margini, strangolato dalla strapotenza del potere, ridotto al ruolo di reprobo e vittima predestinata, può arrivare a ribellarsi e che questa sua ribellione, per maldestra, rozza, mal diretta, che sia, rappresenta al tempo stesso un monito ai potenti ed un esempio alle vittime del potere.

Non occorre, cioè, essere “eroi” o “superuomini” per scatenarsi nella rivolta. La rivolta è alla portata di tutti e il giorno in cui tutti gli oppressi dovessero capirlo, per la società gerarchica, per le sue montagne di leggi, norme, regolamenti, per tutti i suoi macroscopici apparati di repressione, sarebbe la fine.

Un messaggio, ingenuo se vuoi, ma semplice e chiaro che il potere e chi ad esso aspira non può permettersi di far recepire.

Per il potere è necessario ribadire il convincimento che per tutto ciò che avviene ci sia chi ordina e chi esegue. Che ci sia sempre (anche nel “delitto”) la struttura gerarchica piramidale della società autoritaria.

Nel mio caso era necessario sostenere che non di rivolta si trattava, ma di un complotto, di una “trama” attuata da chi voleva imporre il suo potere. È diffondendo la paranoia e il terrore della provocazione” (che in qualche caso anche c’è) che si realizza al meglio la volontà di castrare in partenza ogni aspirazione rivoluzionaria.

Ciao, Alfredo, ho buttato giù una specie di sfogo senza pretese di esaustività. Se, come spero, il nostro dialogo continuerà, cercherò di ingranare una marcia diversa e di sviluppare un discorso meno confuso.

Fraternamente,

Gianfranco Bertoli

4 Ber

20 novembre 1998
Livorno

Al compagno Bonanno, salute e anarchia!

Carissimo Alfredo, ricevere, ieri, i tre primi volumi della tua nuova collana editoriale ha suscitato in me una certa (non esagero) emozione. Sono riandato col pensiero a tanti anni fa, quando di libri e pubblicazioni varie ne ricevevo quantitativamente più di quanto le mie forze e capacità di comprendere mi permettessero di leggere. A parte “Nautilus” e i compagni di “ProvocAzione”, c’erano quelli dell’area di “A”, “Elèuthera”, “Volontà” (per non parlare della libreria “Utopia”, gestita allora da quel certo Luciano Lanza che sembrava tenermi allora nella massima considerazione) che mi rifornivano con generosità. Poi, pian piano, certi rapporti si sono allentati, fino alla svolta finale, quando sono diventato una sorta di “appestato” col quale è meglio non avere rapporti. Beh, come ti dicevo, sul piano emotivo, ricevere quei tre libri ha voluto dire molto.

Affronto subito le “dolenti note”: allegato ai volumi c’era (come, peraltro, è d’uso) un bollettino di c.c.p.; implicito invito ad inviare, se non altro un contributo “simbolico” di solidarietà, lo capisco e sarei stato io stesso (non fosse che per l’orgoglio di contribuire ad una iniziativa che apprezzo) a effettuare “mea sponte” un versamento. Ma, Alfredo, spero che tu abbia a credermi sulla parola se ti dico che, oggi come oggi, fatico anche a trovare i soldi per i francobolli delle lettere che scrivo. Ti basti pensare ad un banale particolare della mia attuale esistenza. Pensa che una volta alla settimana devo andare a fare la “coda”, per un’ora o due alla Caritas per farmi rilasciare un “buono” con cui mangiare la sera. A mezzogiorno mi aiuta il proprietario della trattoria che uso come recapito (un ex del PCI che ora si dichiara “comunista libertario”, senza, peraltro aderire a nessun gruppo organizzato). Questa stessa persona mi ha procurato il trabiccolo di “macchina” con cui sto scrivendo (lui ha ancora fiducia in mie ipotetiche capacità potenziali e vorrebbe che mi dedicassi a scrivere). Mi spetterebbe (in teoria) una specie di “pensione”, detta “assegno sociale” che danno a chi non ha né lavoro, né una vera pensione, né altri mezzi di sussistenza, al compimento di 65 anni di età. Beh, io ce li ho già da aprile, ma il mio “caso” è come sempre “speciale”: il mio “status” di ergastolano impone, per riscuotere qualsiasi somma che io abbia un “tutore”. Questo ruolo lo aveva Paolo Finzi, ma ora le cose sono cambiate e per ottenerne un altro stanno escogitando ogni cavillo per esigere pratiche su pratiche. Bah, chiudiamola coi “piagnistei”. Sono in miseria. E che c’è di nuovo? Lo sono sempre stato. È solo la fantasia malata di qualche Torquemada contemporaneo che mi attribuisce collaborazioni stipendiate con almeno quattro o cinque… “servizi segreti”. Senza tener conto, poi, che un tipo come quello che dicono io sia non avrebbe certo molti scrupoli ed avrebbe ben potuto imboccare la agevole strada del “pentimento”.

Venendo a cose più serie (magistrati, pennivendoli e “consulenti” di Pubblici Ministeri, non sono cose serie), ancora non ho cominciato la lettura dei tuoi libri. Ci sono state altre piccole noie che mi hanno buttato fuori di testa (e che evito di annoiarti raccontandole).

Comincerò, comunque, proprio da Palestina, mon amour. Su di uno dei temi, cioè, su cui ci siamo trovati, in altri tempi, a discordare. Rileggendo le tue posizioni oggi, più freddo, senza “apriorismi” e pregiudiziali, credo che afferrerò meglio i tuoi concetti e, spero, mi riuscirà poi di meglio chiarire le mie prese di posizione di allora, rifletttendoci e valutando con maggiore obiettività i fatti. Io non sono di quelli che sono sempre certi di avere e di aver sempre avuto ragione. Quando arrivo ad un convincimento lo difendo con tutte le mie energie, ma non ho alcuna esitazione ad ammettere con me stesso (e di fronte agli altri) di potermi essere sbagliato, modificando, di conseguenza, le mie posizioni.

Se mi si fa notare che posso trovarmi in contraddizione con opinioni da me espresse e difese un tempo, non mi adombro né cerco cavilli e pretesti giustificatori. Lo riconosco e basta. Dire di uno che ha espresso in tempi diversi opinioni del tutto contraddittorie implica, “eo ipso” riconoscere che una delle due volte ha avuto ragione.

In questo periodo sto scrivendo delle modestissime cose per un giornaletto, “Gocce”, che esce (peraltro irregolarmente) a Livorno a cura di un cosiddetto “Centro ascolto sulle tossicodipendenze” patrocinato dall’ARCI e diretto da un ex militante di Prima Linea. Nel numero che dovrebbe uscire prossimamente, cerco di… “contrabbandarci” (presentandolo come una sorta di “reperto storico”, paradossalmente attuale) un articolo di Errico Malatesta sulla “Cocaina”. Inoltre un breve scritto mio sulle problematiche della cosiddetta “riduzione del danno”. Appena il giornaletto esce te lo mando.

Potresti, se lo ritieni, mandare un commento (anche se ultracritico, anzi meglio se lo è) su queste tematiche che credo finora il movimento anarchico abbia ignorato.

Un fraterno abbraccio libertario,

Gianfranco Bertoli

5 Ber

23 novembre 1998
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

Sabato scorso, mentre stavo consumando il pranzo quotidiano che il mio amico trattore mi offre gratuitamente per sei giorni la settimana (ti confesso che mi “abbuffo” ben volentieri perché, in effetti, ci si pranza molto bene. Se un giorno ti capiterà di passare per Livorno, spero che vorrai “sperimentare” di persona) mi ha telefonato Antonio Lombardo. Ho subito intuito, dal tono di voce (visto che ci conosciamo da anni), che era contento. Mi ha subito annunciato che gli avevi scritto (anch’io glielo avevo comunicato, ma la mia lettera non gli era arrivata).

È veramente un gran dolce e bravo ragazzo quel… “tolstojano”. Per lui, l’essere stato l’artefice dell’avvio di un possibile rapporto epistolare tra noi due costituisce una sorta di “vittoria”. Antonio è, soprattutto, una persona permeata di onestà. Nutre per te grande stima, non solo sul piano “culturale”, ma su quello, appunto, della rettitudine e onestà che ti attribuisce.

Se è per questo (e non lo dico, credimi, per un tentativo retorico di una “captatio benevolentiae”) anch’io ti ho sempre riconosciuto tale qualità (persino quando ci siamo, in qualche misura, reciprocamente detestati, non ho mai avuto dubbi su questo piano). Convinzione che, ovviamente, si è rafforzata e trasformata da sensazione a certezza dopo l’ “incidente” di Bergamo e tutto quanto ne è seguito. D’altra parte (indipendentemente dal fatto che anche con lui ho avuto qualche contrasto e piccole polemiche ora del tutto superate) Antonio ha sempre attribuito anche a me pari onestà.

Questo tipo di giudizi si dovrebbero lasciare agli altri, ma non vedo perché dovrei negarmi il diritto di dire che, tutto sommato, credo di esserlo sempre stato.

L’etichetta di “piccolo delinquente” che Luciano Lanza si è compiaciuto di appiccicarmi, francamente non mi turba né poco né tanto. Può, al massimo, rattristarmi il fatto che un tizio che insiste a proclamarsi “anarchico” e a sfoggiare la “medaglietta” di “amico e compagno di Giuseppe Pinelli” (come se fosse un “marchio di fabbrica” e di “denominazione di origine controllata”), si abbassi a far propria la terminologia stigmatizzatrice e le locuzioni tipiche dei cronisti de “Il Giorno” o di altri emeriti fogliacci della stessa risma quando viene loro commissionato un articolo apologetico delle “forze dell’ordine” e istigatore di crociate perbeniste sul tema: liberare la città dai drogati, dalle prostitute, dagli zingari o dagli extracomunitari o, infine, dai ferocissimi (e sporchi) “squatter”. A parte questo, si tratta di “ingiurie” che non percepisco neppure come tali.

Se il “delinquente” altri non è se non chi commette un “delitto” e il “delitto” altro non è che una violazione del “Codice Penale”, dare ad uno del delinquente non è un’offesa (anzi, in qualche caso, può essere un encomio). Se, poi, come “delinquente” sono sempre stato “piccolo”, beh… non è colpa mia. Si fa quel che si può. Lui, come giornalista è diventato “grande”, io come “delinquente” sono rimasto “piccolo”. Buon per lui!

Beh, veniamo ad altro: sto leggendo Palestina, mon amour e mi sto rendendo conto che, assai spesso, posizioni che sembrano antitetiche e talmente inconciliabili da escludere, perfino, la più vaga ipotesi di mediazione dialettica, non lo sono poi tanto. Talvolta ci si intestardisce in vere e proprie logomachie che si avvitano su se stesse ma, alla fin fine, più riconnettibili ad aspetti marginali e contingenti che alla sostanza dei problemi.

Prendiamo, a titolo di esempio, lo scritto (datato 17 dicembre 1997) di apertura del tuo libro. Beh, Alfredo, posso dire senza imbarazzo né incertezza, che potrei sottoscriverlo “in toto”, senza cambiare neppure una virgola.

Da parte mia sono pronto a riconoscere che, al tempo di quelle polemiche, mi è capitato anche di esagerare (nel senso che la pretesa della massima obiettività mi ha portato, per controbattere affermazioni che apparivano unilaterali e faziose a rischiare la stessa, contrapposta, “faziosità”). Me ne sono reso conto quando, per esempio, un mio scritto su “A” venne elogiato oltre misura da una persona (un professore di Lecce) che lo interpretò in modo ben diverso da quello che era stato lo spirito con cui l’avevo scritto.

(A titolo di cronaca, la sua spedizione, in regalo, di un libro di scritti di [Vladimir Zeev] Jabotinskij, nella misura in cui testimoniava una simpatia per quel personaggio – che io, invece, considero un “parafascista” e, comunque, un reazionario fatto e sputato, mi provocò molte perplessità).

In ogni caso, Alfredo, mi capita purtroppo di attraversare momenti molto difficili, in cui anche scrivere a lungo mi debilita. Sono, perciò, costretto a scrivere “a rate”. In seguito spero di trovare un momento di maggiore lucidità e di riuscire ad affrontare in maniera esaustiva il problema delle mie idee e posizioni, anche, sulla questione “Palestina”.

Un caro saluto fraterno,

Gianfranco Bertoli

6 Ber

26 novembre 1998
Livorno

Alfredo carissimo, ciao!

Non… “spaventarti” per l’attuale mio averti preso a bersaglio in una sorta di “bombardamento epistolare”. Anche se mi capita, talvolta, di inviare raffiche di lettere ad una stessa persona, non sono un “grafomane”. Molti, anzi, mi rimproverano una certa… “pigrizia epistolare”.

Gli è che “l’abitudine è una seconda natura” (non ricordo di chi ma è, comunque, una citazione). In effetti, era diventata per me un’abitudine, quella di mandare, a qualche amico e/o compagno, copia delle coserelle (anche le più insignificanti) che scrivevo. Che si trattasse di lettere di smentita a qualche periodico o di altre banalità (perfino “istanze” dirette a qualche giudice), ne facevo sempre almeno una copia da far leggere ad altri.

Per la maggior parte dei casi, il destinatario era Paolo Finzi, ma lo facevo anche occasionalmente con *, con Antonio Lombardo e qualche altro. Mi è sempre piaciuto conoscere il giudizio e le opinioni delle persone che stimo (o, almeno, stimavo). Oggi come oggi, da quando le grandi doti del dott. Lanza & C. nell’arte dell’insinuazione e della malevolenza sono riuscite a far decretare nei miei confronti un vero “ostracismo”, a parte Antonio, non sono molti a far mostra di gradire di dialogare con un “piccolo delinquente” del mio stampo. Ma certe abitudini non si perdono facilmente, quindi abbi pazienza e non irritarti troppo se ti sto “soffocando” di lettere.

Quella che ti allego oggi è la copia di una lettera, inviata alla redazione del quotidiano locale, e che si vuole una specie di replica ad un’altra mandata allo stesso giornale e da questo pubblicata.

Ti sorprenderà (ed è per questo che inserisco questa precisazione) la denominazione che ci siamo dati “Amici di Cutolo”. Non si tratta, come qualcuno potrebbe ipotizzare del famoso Cutolo dell’affare Cirillo. “Cutolo” altro non era che un nomignolo attribuito a Livorno ad un certo Massimo Zucchelli (morto in età ancora giovane qualche anno fa) che godeva, in àmbito locale di una certa notorietà, in qualità di personaggio originale, emarginato per libera scelta di una vita da “en dehors”, un “ribelle” per istinto che, per certi versi, personificava la tipologia di un… “anarchico sui generis”. Un “perdente” che paradossalmente ha vissuto le sue sconfitte come una “vittoria”, sull’ipocrisia, le convenzioni, la ricerca del successo e del profitto, all’insegna del rifiuto incondizionato ed orgoglioso di tutti i “valori” del perbenismo e della società borghese. Personalmente non l’ho conosciuto. So solo di lui fatti ed aneddoti che mi hanno narrato e me l’hanno reso simpatico come lo era a quelli che l’hanno conosciuto.

Franco, il titolare della trattoria dove vado a pranzo e che mi funge da recapito telefonico e postale, lo aveva spesso come “ospite” (gratuito) e nutriva per lui una enorme amicizia e stima. Così, dopo la scomparsa di questo “Cutolo”, tra i clienti (la “fauna” più eterogenea e simpatica che si possa immaginare), è venuta fuori l’idea di costituire una, molto informale, “associazione” dedicata al suo ricordo. Non si tratta di un gruppo legato ad una linea politica e/o ideologica. In pratica, si tratta di una “sigla” per firmare “comunicati”, “volantini” o delle repliche agli articoli di qualche giornale, come attività collaterale, “le cas échéant”, può capitare di raccogliere dei soldi per persone incarcerate colpite da qualche disgrazia, ecc.

A livello di progetto (ancora solo abbozzato, ma che ci si propone di mandare avanti seriamente) c’è l’idea di pubblicare un libro (titolo ipotetico: “Cutolo & C.”) dedicato ad una sorta di “sfilata” di personaggi che hanno frequentato, nell’arco di diversi anni, quel locale accomunati da certe caratteristiche che ne hanno fatto dei “falliti di successo”.

Tutti o quasi vittime dell’ingiustizia dei meccanismi sociali con vite difficili e vissute all’insegna della diversità e della rivolta, molti finiti suicidi o destinati a morte prematura perché schiacciati dal sistema. Potrebbe essere anche questo un modo per trasmettere un messaggio di solidarietà nella rivolta e di rivolta in nome della solidarietà.

Se un tale progetto ti sembra valido, potremmo chiedere il tuo aiuto, di esperto in editoria, sul piano dei consigli tecnici (visto che in materia siamo tutti dei “novizi”).

Un fraterno abbraccio libertario,

Gianfranco

Allegato

24 novembre 1998

Livorno

Spett. Redazione de “Il Tirreno”

Dopo aver letto, con condivisione, commozione ed incondizionata solidarietà la lettera di un gruppo di utenti dei Centri di salute mentale, pubblicata su “Il Tirreno” di oggi, ci troviamo costretti a confessare che la parte finale di quell’intervento ci ha lasciato piuttosto amareggiati e perplessi.

Che senso ha, infatti, la domanda retorica sul dover essere considerati peggio degli ex carcerati? Il vero problema, in tutti i suoi aspetti e sfaccettature, era stato ben centrato e chiaramente esposto nell’articolo ed esso risiede nella comune esigenza degli appartenenti a categorie emarginate e non garantite ad avere assicurata la possibilità di vivere dignitosamente la propria esistenza. Non c’entra l’essere meglio o peggio di altri.

Non ci sarà che una comune dannazione fintanto che ogni categoria di persone emarginata e privata dei più elementari diritti non arriverà a superare la logica delle rivendicazioni settoriali, parziali, che conducono, paradossalmente, a posizioni di contrapposizione polemica e scontro con altre categorie che subiscono le stesse privazioni e soffrono delle stesse ingiustizie.

Particolarmente doloroso, poi, che per disinformazione, sia pure in buona fede, si diffondano come dati di fatto delle assolute falsità. Da dove e da chi gli estensori di quella lettera hanno appreso che gli ex carcerati ricevono una pensione? Eh, no, cari amici, nessuna pensione. Chi esce dal carcere, se non ha in sorte l’esistenza di famigliari o amici disposti e in grado di aiutarlo, nonché di conoscenze che possano facilitargli la ricerca di un lavoro, non ha altra scelta se non di andare a rubare. È del tutto falso dire che un ex carcerato venga aiutato a reinserirsi: è vero l’esatto contrario. Tutta una serie di intralci giuridici e burocratici, che vanno sotto la denominazione di “pene accessorie”, sembra studiata “ad hoc” per rendere più arduo il tentativo di reinserimento. La nostra modesta proposta è quella che ripartendo dai bisogni di tutti (e non da quelli dei più forti) si ritrovi una strada comune di aggregazione per lottare contro tutte le esclusioni.

Associazione “Amici di Cutolo”

7 Bon

6 dicembre 1998
Catania

Carissimo Gianfranco,

innanzi tutto ti prego di scusare il ritardo con cui rispondo alle tue lettere dovuto al fatto, assai spiacevole, che * è stato ricoverato in ospedale per un problema con il fegato (epatite) e ho dovuto restare praticamente con lui quasi venti giorni. Anche adesso si trova lì e io, essendo la prima domenica tranquilla, ho fatto un salto a casa per rispondere alle lettere più urgenti.

Scusa anche la forma necessariamente stringata delle mie risposte e le indicazioni cronologiche che seguono le tue lettere, per evitare confusione. (Strano, ma io sono un tipo ordinatissimo: primo passo per una futura migliore, reciproca, conoscenza).

Lettera del 18 nov.

Sì, in effetti non saprei da dove cominciare nella veste di “crocerossina” e non solo a causa della mia stazza ma anche della mia mentalità di lottatore, anche se sono felice di averti fatto sorridere un poco.

Riguardo quello che mi chiedi di accantonare (polemiche, ecc.) le ho di già scordate, per me non esistono più. Una volta che mi apro nei confronti di un compagno – ma anche di una persona che compagno non è – quel livello di tentativo critico di conoscenza, per me, è di già superato.

Bella questa di Gheddafi, non la sapevo, si aggiunge alla ormai lunga collezione dei miei finanziatori. Ma dove metto tutti questi soldi?

Ho capito meglio il riferimento a Stirner e anche la faccenda del memoriale su “Gente”. Ti prego, non ne parliamo più. Ti capisco forse meglio oggi perché sul fatto che il potere ragiona in termini di “chi comanda e chi esegue” (cosa che in teoria sapevo da sempre) ne ho avuto recentemente riprova feroce sulla mia pelle.

Lettera del 20 nov.

Sono contento che i libretti ti siano piaciuti. Fra qualche giorno spedirò quello su Calabresi che in tanti aspettano con ansia.

Sbarazziamo subito il campo del problema delle “dolenti note” del bollettino di c/c postale. I compagni che insieme a me fanno la spedizione preparano i cataloghi preventivamente e mettono dentro tutto il necessario. Quindi, anche nel tuo caso c’era il c/c postale. Per altro era importante spedirti il catalogo per metterti a giorno di quello che abbiamo pubblicato e che abbiamo in mente di pubblicare. Se ti dovesse interessare qualcosa, chiedila, non darti pensiero. Quando vincerai la lotteria pagherai.

Per il momento mi fa felice leggere che hai trovato stimolante il libretto sulla Palestina e che pensi di mettere giù qualche riflessione (ho capito bene?), fallo a tempo perso. Chissà?

Ti ringrazio per la promessa di spedirmi il giornale “Gocce”. Ti scriverò in merito.

Lettera del 23 nov.

Ho avuto anch’io una piccola lettera di Antonio, una gentile persona che ho sempre ammirato per le sue scelte, anche se non le ho mai condivise. Mi piace la gente che sa mantenere una scelta, e che non ne cava spesso altro che guai e isolamento.

Naturalmente ti ringrazio per quello che mi dici riguardo la mia persona, parole che spero di meritare.

Di Lanza, che credo di conoscere un poco, non mi meraviglio proprio di niente. Se devo dirti le cose come stanno, all’epoca del nostro incontro epistolare quando mi trovavo a Bergamo, avevo pensato di chiederti come mai una simile frequentazione da parte tua, poi la nostra corrispondenza finì lì, e buonanotte. Dopotutto, mi sono poi chiesto, ognuno si sceglie le amicizie che crede.

D’accordo per la tua promessa di mettere nero su bianco qualcosa sul problema della Palestina, ma solo quando te ne sentirai in grado fisicamente.

Lettera del 26 nov.

No, non ho problema per la mole della corrispondenza, quello che mi ha afflitto, leggendo le tue lettere, è di non avere avuto la possibilità di riscontrarle con l’urgenza che esse meritavano, tutto qui. Mi rifaccio adesso, inviandoti questa mia per espresso, domani mattina.

Ho letto la lettera alla Redazione de “Il Tirreno”, che tocca una chiarificazione importante (un’altra volta ti parlerò di quello che abbiamo organizzato – e continuiamo a fare – a Rebibbia, come lotte dei detenuti). Gradevole anche l’associazione “Amici di Cutolo”, se non altro per l’equivoco che ingenera in prima battuta sul lettore, ed è sempre bene tenere sveglia l’attenzione di chi prende in mano una cosa scritta.

Riguardo le mie modeste capacità (e possibilità) editoriali, fatti/fatevi sentire al momento opportuno. Sono a disposizione nel modo che più mi sarà possibile.

Per il momento ti abbraccio fortemente, e spero di avere presto una tua lettera,

Alfredo

8 Ber

9 dicembre 1998
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

stamattina è arrivato il tuo “espresso” ed essendo stato per tutta la mattinata “in giro” (Questura per autografo obbligato, Tribunale di sorveglianza, Ufficio serv. Soc. adulti – meno male che non mi mandano a quello per i minori – ) l’ho trovato all’ora di pranzo. Riceverlo mi ha rallegrato e così ha funzionato da… “aperitivo” (detto tra parentesi: se càpiti a Livorno vieni a pranzare là, sarai gradito ospite, non pagherai una lira e ti assicuro che mangerai benissimo).

Con me non farti remore per ritardi epistolari: quando ne hai voglia fatti vivo (ed a me farà sempre enorme piacere), quando hai altre cose a cui pensare, privilegia sempre le più urgenti e/o importanti.

Maledetta epatite! Purtroppo, ho anch’io quel problema. Nel mio caso la cosa strana è che non sapevo neppure di averla avuta. Ad un certo momento, ricoverato in ospedale per altri motivi, mi hanno fatto le analisi e mi hanno trovato che ce l’avevo. Sembra sia la forma peggiore (perché si cronicizza e non ci sono cure). Nel caso di *, spero che sia la forma A (cioè di origine alimentare) che guarisce perfettamente. Poi c’è la B (prevalentemente da “siringa”) e poi la peggiore (la si può prendere per rapporti sessuali o per uso di siringhe infette) viene detta C e a tutt’oggi sembra che sia inguaribile. Nel mio caso è di vecchia data. Credo di essermela “beccata” a Milano (in un raggio dove su una cinquantina di detenuti almeno quaranta bucavano e giravano in tutto due siringhe). Un… “compagno” quando l’ha saputo mi ha scritto che, tutto sommato, è come per l’AIDS, la prende chi se la va cercare. Beh, tante grazie! Questa malattia mi secca, nel senso che vado periodicamente soggetto a fasi di sonnolenza, stanchezza e incapacità di concentrazione. Proprio quando avrei bisogno di ogni residuo di energia. Ci sarebbe tanto da poter ancora fare e io di tempo ne ho perduto fin troppo. Mi scrivi che quando eri a Bergamo ti era venuto in mente di chiedermi come mai potessi considerare amico un personaggio come il dott. Lanza. Col senno di poi, è una domanda che mi pongo anch’io. Sai, mi trovavo (in permesso) a casa di Antonio Lombardo, quando il dott. Lanza telefonò a lui (cose che riguardavano un convegno su Sacco e Vanzetti) Antonio gli disse che ero là e gli chiese se voleva parlarmi. Lui si meravigliò che potessi trovarmi là e rispose che non c’era nulla che potessimo dirci.

Ma, lasciamo stare, ci sono persone tanto squallide che ci si sporca anche a parlare di loro. E poi, nella società in cui ci troviamo a dover vivere e a dover fare i conti, ho già (abbiamo) ben altri nemici e avversari più potenti (e anche più seri) da ben poter sorvolare sulle “punture” di qualche “cimice”. Non mi considero un personaggio e non soffro di patologie “superominiche”, ma cosa vuoi, se il metro di paragone dovesse essere un Lanza… beh, avrei tutto il diritto di “montarmi la testa”. Il guaio è che questi squallidi ometti non sono soli e credo (col senno di poi, dirai tu. Che dire: solo che hai ragione) che abbiano fatto più male loro all’idea libertaria di quanto possa mai averne fatto certo “avventurismo” velleitario di cui mi riconosco colpevole. Venendo ad altro, la lettera al “Tirreno” di cui ti ho mandato copia, l’hanno “cestinata”. Pubblicano tante stronzate che, quasi quasi, ritengo “elogiativo” il rifiuto di pubblicarmi.

Per il libro, ancora è alla fase delle “buone intenzioni”, spero di farcela perché l’idea mi sembra valida. A volte si ottengono maggiori risultati in chiave “romanzata” e “biografica” che sotto forma di elaborati “saggi” politico-filosofici. Quanto a “Gocce” ancora non è uscito (questione di soldi) sta certo che, appena esce, il primo lo spedirò a te.

Forse (anche se spero di no: non sono un eroe!) ti manderò uno scritto mio. Può darsi, infatti, che (per un accavallarsi di problemi miei, coi quali non sto a tediarti) io decida di ritentare quello che avevo provato un anno e mezzo fa. Però, se dovrò decidermi a mettere la parola “fine” voglio farlo dopo aver scritto e mandato a persona di fiducia (nel caso specifico te e Antonio Lombardo di Cuneo) una sorta di “memoriale” a… futura memoria. Dove vorrei “sputtanare” certi personaggi (giudici o collaboratori alla Luciano Lanza). Crepare sapendo che dovranno vergognarsi di mostrare la faccia in giro mi darebbe un certo piacere.

Boh, si vedrà. Può darsi che ci siano altri modi di lottare contro questi buffoni.

Un fraterno abbraccio da compagno,

Gianfranco

P.S. Il fatto che tu, dopo aver passato quel che hai passato ti sia ributtato nelle iniziative editoriali di lotta è un esempio positivo di cui terrò conto per me stesso. Ciao!

9 Ber

11 dicembre 1998
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

mi accorgo ora, datando questa lettera, che domani è l’anniversario di Piazza Fontana. Occasione ghiotta per più o meno “democratici” giornalisti per esibirsi in ricostruzioni “storiche” di quegli anni e per magistrati altrettanto “democratici” per mettersi in mostra con narcisistiche esternazioni. Certi personaggi, alla Salvini o alla Lombardi (chissà, forse anche il loro tirapiedi dott. Luciano Lanza) tireranno in ballo anche me (“uomo del mistero”, uomo dei “servizi” e chi più ne ha più ne metta).

Che fare? È l’eterno dilemma di chi non ha armi con cui lottare. Uccidermi come forma di protesta e di riaffermazione di una identità di ribelle? Oppure fregarmene di tutto e tutti (compresi certi “compagni”) e tirare avanti? Boh, se una risposta non so trovarla io, chi può darmela?

Cambiando discorso; è un vero peccato che io e te non ci si sia mai conosciuti e frequentati. Saremmo stati un “duo” sensazionale. Pensa, siamo tanto diversi che di più non è possibile. Tu sei, a quanto mi hanno detto, una via di mezzo tra un “culturista” e un lottatore di “sumo”, io uno spilungone secco, secco e quasi “rachitico” (che pure, nei suoi verdi anni menava le mani con una certa facilità e efficacia). Tu sei, come mi dici tu stesso, un tipo “ordinatissimo”, io il più disordinato, confusionario e smemorato che sia possibile immaginare. Tu, almeno per come ti immagino sei un anarchico “salutista” (come lo è, peraltro, il “tolstoiano” nostro comune amico Antonio). Io, fin da bambino mi ubriacavo, più tardi facevo gli acidi e più tardi ancora, non ho saputo far niente di meglio se non di sbucherellarmi le vene, per finire, squallidamente, a “metadonizzarmi”.

Eppure, abbiamo e conserviamo in comune qualcosa. È soltanto una speranza, ma è una speranza in nome della quale varrebbe la pena di vivere (e se del caso anche di morire).

Come ti ho scritto nella mia ultima lettera (che è solo di ieri) “Gocce” non è ancora riuscito ad uscire (si parla di difficoltà “finanziarie”. Balle! Di soldi l’ARCI ne ha!). Sembrava, almeno così mi si era promesso che gli si sarebbe data periodicità regolare e che mi sarebbe stato lasciato uno spazio e un ruolo nel mandarlo avanti. Sì, sarò anche un “ambizioso” e un “presuntuoso”, ma mi ero illuso di riuscire a prenderlo in mano, di farne un buon giornale e… di far rabbia ai signori di Milano. Purtroppo, le cose non vanno quasi mai come vorremmo.

Con l’ass. “Amici di Cutolo” (mi piace che tu abbia apprezzato quel giocare sulla “equivocazione”) non abbiamo molti mezzi di intervento. L’altra sera abbiamo avuto una specie di riunione-confronto con Rifondazione. Purtroppo sono rimasti al “paleolitico” con pretese di “modernità”.

Vogliono restare al passo coi tempi, senza rendersi conto che, coi tempi che corrono, restarci significa accettare la logica del potere e della Confindustria. È assurdo, perché, paradossalmente (almeno per me che marxista non sono) l’evoluzione del mondo sta dimostrando validi alcuni concetti di Marx (struttura e sovrastruttura, predominio dell’economia sulla politica).

Beh, per tornare agli “Amici di Cutolo”, a parte il rapporto interpersonale che si cerca di sviluppare con la gente, si è costretti a limitarci, prevalentemente, a mandare delle lettere ai “quotidiani”.

Il “Tirreno” ne ha pubblicato, mi pare, solo una, le altre sono state “cestinate”. Ma noi continuiamo a mandarne (a questa mia ne allego l’ultima) visto che mi è venuta l’idea (e l’ho esposta trovando consenso) di conservare tutte le lettere cestinate e, tra un poco, editarle sotto forma di volumetto (il titolo potrebbe essere: Destinazione cestino, oppure: Parola d’ordine, cestinare) se realizzeremo questo progetto potrebbe essere perfetta una “prefazione” tua (anche critica, non però “demolitrice”) sull’illusorietà di farsi ascoltare con questo mezzo, sulle funzioni dei media, ecc.

Beh, chiudo qui, ti allego la lettera consegnata oggi al “Tirreno”. Non so se passerà e ne dubito, ma ci ho provato. Non ti sarà difficile interpretare neppure l’aspetto “criptico” del messaggio contenuto. Ovviamente, quando ci si premura di mettere in guardia chi detiene il potere e lo si invita a prendere misure (di tipo “umanitario”) per evitare la minaccia (invisibile ma reale) che la gente si rompa le scatole e si ribelli, sotto sotto, l’auspicio sarebbe proprio quello che, effettivamente, avvenga così.

Ti sarà altrettanto chiaro quello che i pericoli di un “redde rationem” contro cui mettiamo in guardia, altro non sono se non l’auspicio che a questo si arrivi sul serio (almeno abbastanza presto perché anche un povero vegliardo come sono sia in grado di impugnare un 9 mm e tirare il grilletto).

Ciao, Alfredo! Fai tanti auguri a * di ristabilirsi presto.

Un abbraccio fraterno,

Gianfranco

Allegato

11 dicembre 1998 Livorno

Spett.le Redazione de “Il Tirreno”

Nelle locandine delle edicole col sommario degli articoli pubblicati sul “Tirreno” di ieri, la notizia cui veniva, giustamente, dato maggiore risalto era quella della morte per assideramento, in un cortile del locale ospedale, di uno sconosciuto “barbone”.

Nulla da obiettare a tale scelta, né al tono ed ai contenuti del relativo articolo di Maurizio Silvestri, che fa onore a quel cronista e al giornale. Ci sia, però, consentito di prendere spunto dalla locandina per una domanda che è sì “retorica”, ma ci viene dal cuore. Vi è detto: “Ucciso dal freddo un barbone”, ed è vero oggettivamente perché la causa del decesso è stata l’assideramento. Ma, ad uccidere quell’uomo è stato solo il clima o c’è dell’altro? Non è, forse, ad un sistema sociale, pur tanto decantato come quello del benessere e dell’abbondanza, che andrebbe imputata la responsabilità di quella morte?

Pochi giorni fa, un altro cosiddetto “barbone”, di 22 anni, ha rischiato di morire bruciato perché alcuni cartoni coi quali si era coperto per dormire avevano preso fuoco. Una società dove può accadere che degli esseri umani siano privi di un letto e di un tetto, merita di trar vanto dal “progresso” che dice di rappresentare?

Con la stessa logica della produttività ad ogni costo e delle sacre leggi del profitto e del mercato per cui si è inventato l’espediente della “rottamazione”, non ci si fa scrupolo di destinare alla stessa fine degli esseri umani.

Un’abitazione è esigenza primaria, alla pari del cibo, per ogni persona. Ma tutto quello che negli ultimi decenni è stato fatto dai diversi governi sul piano dell’edilizia abitativa è stato quello di costruire nuove e “più sicure” prigioni. Basti pensare che con le stesse somme che sono state dilapidate per costruire le “Sughere” si sarebbe potuto costruire un intero quartiere urbano e dare una casa a famiglie e individui che non possono permettersela.

Per quelli che non hanno dove dormire e sono privi di mezzi si offre solo una ipotetica (e difficile da ottenere) “albergazione” o la prospettiva di un posto letto al “Centro Homeless”, che non può ospitare più di una dozzina di persone. Siamo prossimi al Natale, occasione privilegiata per omelie “buoniste” e declamatorie esortazioni all’amore reciproco. Ci sarà chi offre un pasto ai reietti, vi saranno luminarie nelle vie principali, somme sperperate in regali scambiati, concerti televisivi, spettacoli vari.

Ma, al di là di tante commoventi esortazioni, cosa resterà?

Per alcuni il solito benessere, per altri la stessa disperazione. La miseria c’è! È presente ogni giorno, in ogni paese del mondo. Non è solo appannaggio (e già sarebbe inumano) di certe aree geografiche.

E come vi si risponde? Accentuandola ancora di più, tagliando, in nome delle “Leggi del Mercato” anche le già esigue risorse degli anemici resti di quello che si osava definire “Stato sociale”, fino a spingere le categorie più disagiate alla disperazione. Nella illusione di poter poi reprimere le loro proteste con la forza di sempre più agguerriti apparati di repressione.

Ma, una società dove all’arricchimento sfrontato di alcuni fa riscontro la progressiva pauperizzazione estrema di altri può illudersi di andare avanti all’infinito per questa strada?

Le caste dominanti e i loro “chierici di corte” si affannano a convincere che l’Utopia egualitaria è morta. E se, invece, qualcuno dovesse riscoprirla e farla resuscitare?

E, ancora, se la speranza e con essa la volontà di lottare per realizzarla dovesse rinascere? Tante dolorose esperienze, anche sanguinose, del passato, dovrebbero servire di monito. Solo se ci sarà, nell’attuale classe politica, ad ogni livello, la volontà e l’onestà di cambiare strada nella consapevolezza di quanto sia urgente cominciare a partire dall’esigenza di interpretare i bisogni reali delle persone reali e non quelli fittizi di soggetti astratti ed ipotetici, la società italiana, europea e mondiale potrà sopravvivere e non esporsi al pericolo di un “redde rationem” che potrebbe rivelarsi esiziale.

Associazione “Amici di Cutolo”

10 Ber

13 dicembre 1998
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

ti mando il ritaglio del testo (ovviamente, leggermente “emendato”) della mia lettera al “Tirreno”, la cui versione originaria ti ho spedito ieri. Non mi aspettavo neppure che mi dessero spazio, accetto quindi le, per la verità modeste, “censure”. Ci sono abituato. A meno di fare come fai tu che un giornale te lo produci da solo e ci puoi scrivere quello che vuoi, bisogna mettere in preventivo certe “smussature”. Figurati che mi succedeva anche su “A” (che pure si definiva “Rivista Anarchica”) di vedermi “sforbiciare”, quando non cestinare del tutto. Come è stato, per esempio, in occasione del tuo “incidente” bergamasco. Allora scrissi a Paolo Finzi (cioè alla rivista) sostenendo che, proprio il fatto innegabile di certe “divergenze” nell’interpretazione dei princìpi anarchici e della prassi rivoluzionaria volta ad attuarli, dovesse essere il fattore determinante per sentire il dovere, politico ed umano, di esprimere fattivamente il più alto grado di solidarietà possibile e concepibile. Non ebbi neppure risposta e la mia lettera non trovò spazio nella rubrica delle corrispondenze. Posso pretendere molto di più da un quotidiano borghese come il “Tirreno”? Anzi, posso ritenerli, in questa occasione, più che onesti.

Ammetto che la mia lettera non è un gran ché e che, sul piano di un discorso autenticamente libertario, possa lasciare molto a desiderare.

Comunque, posso dirti una cosa: stamattina non immaginavo neppure che la mia lettera fosse stata pubblicata. L’ho saputo, andando, verso le otto, in un posto abbastanza disprezzato dalla gente “perbene”, cioè in quella “dependance” dell’ospedale dove la mattina viene somministrato il metadone. Ci ho incontrato un ragazzo “tossico” che dorme all’asilo degli “homeless” (bello questo eufemismo esterofilo per definire i “senzatettto”). Sono costretti (anche se quel posto è ora gestito dai “compagni” (?!) dell’ARCI-Solidarietà) ad uscire alle 8 del mattino e a poter rientrare solo la sera. Così, questo ragazzo, appena uscito e prima di venire… “a bere” (così si dice gergalmente in riferimento all’andare a prendere il metadone) si trattiene in un bar vicino e ne approfitta per leggere il giornale. Beh, questo ragazzino mi dice: “sai ho letto il tuo articolo sul Tirreno, mi è piaciuto. Anch’io vorrei scrivere qualcosa. Senti, per aderire agli “Amici di Cutolo” come si fa?”

Beh, non è facile avere a che fare con interlocutori come lo sono, in generale i cosiddetti “tossici”. Eppure, ti posso garantire che tra non pochi di loro c’è una carica potenziale di ribellismo ed anche un germe di consapevolezza, oserei dire di “coscienza di classe”. Certo, è poco o nulla ma è sempre di più di quella di tanti sedicenti “anarchici” a “Denominazione Controllata” che si ritengono detentori della “Sacra Fiamma dell’Ideale” e sanno citare a memoria Bakunin, Stirner, Proudhon, Landauer e Berneri. Qualche volta, magari (si veda tra i tanti un certo Pietro Adamo, di cui ho letto recentemente qualcosa. O i soliti Berti, Lanza & C.) per travisarli fino a ridurli a carta igenica.

Beh, adesso ti saluto. Una sola cosa vorrei dirti: ho fatto, pensato e detto tante castronerie negli ultimi anni, ma se deciderò di sopravvivere e ce la farò, spero di poter rimediare in parte. La lotta non è finita e alla fine… non è scritto in nessun “libro profetico” che si debba immancabilmente e sempre perdere. E, se anche fosse? Meglio perdere restando se stessi e leali con la classe a cui apparteniamo, che non “vincere” prostituendosi ai padroni.

Ciao, Alfredo! Ti abbraccio fraternamente. Fai i miei auguri a * di ristabilirsi al più presto.

Ancora ciao!

Gianfranco

11 Ber

16 dicembre 1998
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

ho appena terminato la lettura del tuo volumetto su Io so chi ha ucciso il commissario Luigi Calabresi [1998]. Grazie! Due volte grazie, per avermelo fatto avere e, cosa più importante, per averlo scritto e pubblicato. Mi era arrivato stamattina in due copie. Nonostante la sonnolenza che spesso mi coglie (probabilmente a causa dei malanni epatici) l’ho letto tutto di un fiato. Domattina comincerò a far girare l’altra copia, perché mi pare un libro importante. In poche pagine, senza indulgere in preziosismi letterari e orpelli stilistici, ne è venuto fuori qualcosa che ha la pregnanza di un saggio filosofico che è, al tempo stesso, una sonora “sberla” in faccia all’ipocrisia dei lacrimosi “pentimenti”.

Mi è piaciuta la tua analisi comparativa di termini come “giustizia” e “vendetta” (per quanto mi ricordo è la prima volta, tra l’altro, che uno mostra di saper interpretare correttamente il biblico “occhio per occhio”). Quanto alla tua considerazione (ultime righe di p. 24) sarà vero che non sei in “numerosa compagnia” ma ti posso assicurare che almeno una persona (certo poco rappresentativa e, anzi “famigerata”, nonché calunniata ad ogni livello) sicuramente c’è.

Quanto al pentito Marino e le sue accuse a Sofri & C. (a prescindere del fatto che quest’ultimo non ci sta facendo una gran bella figura sul piano della dignità personale) al di là delle motivazioni materiali che possono averlo spinto, credo che andrebbe preso in considerazione quale fosse, sul piano psicologico, la mentalità di certi cosiddetti “rivoluzionari”. Indubbiamente, perché certe “conversioni” all’infamità non sono mai tanto improvvise quanto sembrano, l’anima e la vocazione dello sbirro era già presente in molti (basti pensare al proliferare dei vari “servizi d’ordine”) nutro il sospetto che molti di tali “rivoluzionari” vivessero sognando per loro un avvenire da “cekisti” un ruolo di poliziotti in difesa del “nuovo ordine” e della sua burocrazia. Visto che la “rivoluzione” non c’è stata, si accontentano di farsi protettori della “controrivoluzione”.

Certo, per dirla con Wittgenstein, “tutto il pensabile è possibile”. Ma, non può non apparire poco convincente che un personaggio venga colto improvvisamente dal “rimorso” e, invece di decidere di “espiare” per un gesto che gli pesa sulla coscienza, decide di farlo “espiare” ad altri.

Comunque non è mia intenzione mettermi ad avanzare ipotesi su questa bizzarra storia (peraltro il compito di condurre l’istruttoria è stato affidato al giudice Lombardi, che ben conosco, e non c’è un altro che gli stia a pari per imbrogliare le carte in tavola. È molto difficile che qualcuno riesca a districare un imbroglio dove abbia messo le mani quell’uomo). Volevo soltanto dirti che ho apprezzato il tuo scritto e lo trovo lucidissimo e molto chiaro.

Un fraterno saluto,

Gianfranco

12 Bon

18 dicembre 1998
Catania

Caro Gianfranco,

ho qui la tua del 9 e del 11 e ti ringrazio.

Grazie per l’invito che accetto volentieri, ma non vedo la possibilità immediata di venire su. Forse fra qualche mese, chissà!

* sta un po’ meglio, non capisco bene quale sia la sua situazione, ma certo non è allegra. Speriamo bene.

Ti ho chiesto qualcosa su Lanza e C. ma è stato uno sfogo dell’animo il mio, non una domanda alla quale tu devi ritenerti obbligato a rispondere, era, come dire: ma che ci fa con questa gente (che conosco bene, per averne sentito sulla pelle i morsi diversi volte)? Tutto qui.

Capisco cosa vuoi dirmi quando mi parli di un tuo scritto, una sorta di “memoriale”. Per crepare, come dici tu, c’è sempre tempo, anche se ritengo più che legittima una decisione del genere quando a prenderla è una persona che sa quello che fa e ritiene che sia cosa che vada fatta e basta. Nulla da dire. Comunque, mi piacerebbe (ma non so se questo potrebbe avere un senso per te) percorrere un pezzo di strada assieme, cominciando con il fare tesoro dei tuoi giudizi sui miei libri che ti vado inviando man mano che escono. Una volta che tu trovassi un po’ di tempo per metterli su carta, questi giudizi potrebbero esserci utili (vicendevolmente), non ti pare? Spesso mi sento come se fossi uno spadaccino che combatte con gli occhi bendati, e avere la critica di una persona che intuisco capace di capire alcune sfumature che sfuggono ai più, è fatto importante, almeno per me. (Come vedi sono non poco egoista).

Penso che qualcosa del genere vuoi dirmi anche tu nella tua dell’11, quando poni un paragone tra questi due esseri “strampalati” (no, non sono un salutista, ma di questo ci sarà tempo di parlare).

Su quello che mi dici riguardo il giornale dell’ARCI non sono d’accordo con te. (Come vedi parlo sempre chiaramente). Una collaborazione può anche passare come fatto sporadico, illudersi (perché di illusione si tratta) di gestire (uno come noi!) un foglio del “dominio”, anche se minimo e periferico, o ammantato di sinistrismo politicamente corretto, questo proprio no. Per fare rabbia ai signori di Milano che tu dici, e in questo sono e sarò sempre al tuo fianco, occorre ben altro livello, ben altra autonomia, e ben altri strumenti culturali (tutta roba che penso possa – magari non subito ma nel tempo – essere alla nostra portata). L’ARCI no!

Anche per la raccolta del materiale che ci appartiene, per il materiale nostro: non solo libri e giornali (quindi biblioteche), ma anche volantini e opuscoli perfino minutissimi, occorrerebbe qualcosa di nostro. Io ho fatto un progetto, con alcuni compagni che sembravano interessati, per la costituzione di un “Archivio insurrezionalista”, ma poi non se ne è fatto nulla. Ti allego il documento di proposta pensando che la cosa ti possa interessare.

Come vedi sono queste le mie idee sull’utilizzo dell’informazione (grande o piccola) che non ci appartiene (lo stesso direi se tu volessi far tua la “A-rivista”). Naturalmente leggerei con piacere l’insieme della Destinazione cestino e potrei darti la mia spassionata opinione, non necessariamente demolitrice, ma il concetto di fondo dobbiamo prima verificarlo insieme per vedere dentro quali limiti ci trova in disaccordo o in accordo.

Per il momento un mio abbraccio fraterno,

Alfredo

Allegato: Proposta di costituzione di un archivio dell’anarchismo insurrezionalista e rivoluzionario
Àmbito del progetto di documentazione e archiviazione

Gli Archivi anarchici e libertari si può dire che non mancano in quasi tutto il mondo. Abbiamo conoscenza di archivi in Italia, Francia, Svizzera, Spagna e Germania, oltre alle istituzioni più o meno considerevoli come l’Internationaal Instituut voor sociale Geschiedenis di Amsterdam o il CIRA di Ginevra. Di sicuro ci sono molte strutture periferiche che conservano materiale, qualche volta in modo caotico e non facilmente accessibile, qualche altra volta in maniera organica ma purtroppo affastellando qualsiasi tipo di materiale anarchico, da quello prodotto dalle organizzazioni ufficiali dell’anarchismo di “sintesi”, come congressi e convegni periodici, a quello prodotto da gruppi e individualità periferiche, e ciò senza un criterio selettivo che possa fare emergere una valutazione se non altro come guida per l’improbabile ricercatore interessato.

La presenza di queste strutture polarizza gli interessi di un fascia trascurabile ma non per questo silenziosa di roditori d’archivi che girano l’Europa, non potendo girare il mondo, alla ricerca di ogni più insignificante traccia dell’anarchismo del passato, allo scopo lodevole ma inutile di riempire pagine di libri di storia. A questa gloriosa categoria appartengono gli studiosi e i ricercatori professionali pagati dallo Stato, e anche una cospicua cerchia di intellettuali anarchici che soddisfano così la sete di conoscenza.

Non è questo il luogo per svolgere una critica accurata di questi personaggi e del loro modo di considerare sia la ricerca storica, sia il lavoro d’archivio, come non è questo il luogo per valutare gli effetti benefici, da seme sotto la neve, di simili strutture cui spesso i compagni dedicano sforzi lodevoli ma fuor di luogo.

Penso che un Archivio veramente vivo debba qualificarsi in maniera specifica, cioè presentarsi come un Archivio anarchico che propone materiale scelto, cioè selezionato, quindi indirizzato a documentare un movimento che si presenta costante all’interno della storia dell’anarchismo e che si fa, come si è fatto in passato, portatore di una tradizionale posizione rivoluzionaria, quindi contraria a qualsiasi struttura di sintesi la quale ultima non può non rappresentare, sia pure alla lontana, un riflesso perverso del modello partitico ed autoritario.

In questo modo, il lavoro di chi tiene l’Archivio, come dei compagni che partecipano alla sua vita e all’alimentazione del materiale documentativo di cui risulta costituito, riceve una vivacità e un significato del tutto nuovi, in quanto costituenti elemento essenziale dell’attività rivoluzionaria stessa.

Penso che un Archivio dell’anarchismo insurrezionalista e rivoluzionario non debba in alcun modo costituire una casella postale cui indirizzare qualsiasi sorta di materiale, ma che agli stessi compagni di tutto il mondo vada fatta una proposta di selezione del materiale, per cui fin dall’origine i compagni interessati, i quali per la stessa natura dell’argomento, non saranno molti, opereranno delle scelte le quali dovrebbero poi essere coordinate e convogliate dai compagni gestori dell’Archivio in maniera organica e strutturata in settori significativi. Ma di questo parleremo più avanti.

Un nome possibile

Si potrebbe pensare a un nome scegliendolo fra quelli degli anarchici più rappresentativi del passato appartenuti a questo movimento insurrezionalista e rivoluzionario, ma si potrebbe più semplicemente chiamare l’archivio con la sigla stessa del suo oggetto di documentazione e di ricerca: A.A.I.R.

Comunque sul nome si potrebbe approfondire la discussione in occasione di un nostro prossimo incontro da studiare e da fissare, sia come argomenti da discutere sia come data.

L’àmbito d’interesse dell’Archivio

Tutto l’arco di sviluppo dell’anarchismo, e quindi del movimento insurrezionalista e rivoluzionario nel senso più generale del termine, dalle insurrezioni spontanee dei contadini, poniamo nel corso delle jacquerie del Seicento o del Cinquecento, alle recenti rivolte di Los Angeles o all’Intifada.

E, con ciò, tutti i documenti, i giornali, i libri, i volantini e qualsiasi altro tipo di documentazione (come, a esempio, i processi, le sentenze o le filature di polizia), riguardanti i compagni anarchici del passato (e per quel che sarà possibile per motivi di sicurezza) anche del presente.

Inoltre, tutte le documentazioni (quindi, ancora una volta libri, opuscoli, articoli di giornali, intere pubblicazioni periodiche, e quant’altro necessario) che testimoniano dello sviluppo dell’idea e della teoria anarchica insurrezionalista e rivoluzionaria.

Per molti motivi, alcuni dei quali non disgiunti dalla stessa operazione di scelta che deve intervenire trattandosi di un Archivio “specifico” e tematico e non di una qualsiasi “casella postale” come di già detto prima, si potrebbe correre il rischio di privilegiare, secondo il gusto dei compagni responsabili, la cogenza di un materiale fresco nei riguardi di materiale storicamente datato, poniamo del secolo scorso. E sarebbe un grave errore, perché contribuirebbe a negare, nel fatto, quella continuità che il movimento insurrezionalista e rivoluzionario rivendica come rappresentante genuino di quel desiderio di liberazione definitiva che resta immutato nell’animo e nella coscienza di tutti gli sfruttati.

La matrice anarchica

Potrebbe costituire una grave mutilazione agli intendimenti dell’Archivio se la si ricercasse con ottusità ed eccessiva ristrettezza di vedute. Il movimento insurrezionalista e rivoluzionario dell’anarchismo si è da sempre considerato espressione del desiderio di radicalizzazione delle lotte sociali che è in tutte le masse sfruttate, per quanto questo desiderio possa apparire qua e là sommerso dai recuperi riformisti e dagli apparati repressivi e produttivi dello Stato e del Capitale. E, considerandosi tale, questo movimento si è indirizzato a tutte quelle forme di rivolta e di insurrezione che nascendo spesso spontanee non potevano avere una etichettatura anarchica in senso stretto, anche se si manifestavano in maniera assolutamente lontana dai rigidi schemi del professionismo rivoluzionario degli autoritari.

Cogliere di volta in volta queste realtà, non lasciandosi spaventare dalle loro apparenti lontananze dai simboli e dalle coreografie anarchiche, costituirà forse uno dei compiti più difficili dei compagni interessati all’Archivio e alla ricerca della documentazione.

La scelta non dovrebbe comunque essere difficile, anche se sarà ovviamente impossibile mettere tutti d’accordo su eventuali possibili letture più o meno a maglie larghe, essendo ciò materia opinabile di valutazioni personali. Comunque, tranne casi limite nei quali comunque gioca molto la propaganda statale stessa (poniamo, classico il caso dell’insurrezione in Vandea durante la Rivoluzione Francese, da tutti considerata come reazionaria, ma che personalmente includerei senz’altro fra le insurrezioni popolari), di volta in volta le scelte, in linea di massima, si potranno discutere in possibili riunioni periodiche dove si potrà decidere di accettare o meno l’accesso in Archivio di un determinato materiale.

Primi passi organizzativi

Per il momento propongo di fissare una riunione, che potrebbe essere fatta all’incirca verso la fine di * (con data da precisarsi dentro il più breve tempo possibile) in concomitanza con la riunione che dovrà farsi per *. In questa riunione, che potrebbe allargarsi ad alcuni compagni che si pensa possano essere interessati all’iniziativa e che potrebbero segnalare non solo le loro idee in merito, ma anche possibili materiali a disposizione, si dovrebbe parlare:

Luogo e gestione dell’Archivio.

Denominazione e struttura organizzativa.

Possibili settori di documentazione e ricerca.

Stesura di una circolare di invito a partecipare all’Archivio fornendo collaborazione, documentazione, sottoscrizioni e quant’altro si riterrà necessario.

Iniziativa di pubblicare (in futuro) un Bollettino dell’Archivio con l’elencazione ragionata del materiale disponibile.

Discussione sul modo in cui si renderà possibile l’utilizzazione dell’Archivio ai compagni: personalmente su prenotazione o per corrispondenza.

Decisione in merito alla prossima riunione per la costituzione definitiva dell’Archivio.

1° gennaio 1993 Catania

13 Ber

27 dicembre 1998
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

sento dalla tua, che è del 18 corr., che * sta un po’ meglio. Spero, di tutto cuore, che questa malattia guarisca al più presto e che lui abbia a ristabilirsi completamente. Questi malanni al fegato sono particolarmente fastidiosi e debilitanti. Credo che neppure i medici e gli “specialisti” li capiscano del tutto. A volte la stessa forma di epatite si sviluppa, compare e si manifesta in forme del tutto diverse. Io, per esempio, ho saputo di avere questa malattia, “cronicizzata”, da un esame del sangue generalizzato. Sembra che la fase acuta mi sia capitata addosso in forma subdola, tanto da non essermene reso conto. Proprio una settimana fa mi sono sottoposto a altre analisi e gli esiti non sono certo molto rassicuranti. D’altra parte, alla mia età, si sa a priori di essere arrivati vicino alla chiusura. Perfino il “suicidio”, quando lo mette in atto uno della mia età, perde… “l’alone romantico”. A proposito di esami medici, mi sono recato all’ospedale e ci ho incontrato un infermiere che conoscevo e, chiacchierando, è venuto fuori che ti conosce. Si tratta di un certo *, amico di *, che mi ha anche detto di salutarti con affetto.

Ho avuto la tua “Proposta” che ho letto con interesse.

Riguardo quanto mi chiedevi su Lanza, avevo giustamente interpretato il quesito nel senso che mi espliciti meglio in questa tua ultima.

In ogni modo posso dirti che il Lanza non lo conoscevo da prima della mia disgraziata vicenda. Lui si recò a parlare col mio avvocato d’ufficio, in pratica come “portavoce” di altro compagno che, invece, mi conosceva bene e, forse, temeva a doversi esporre personalmente in un momento come quello.

Lanza, successivamente, si mosse nel senso che evitassi di nominare un altro avvocato (Dominuco) che mi aveva fatto contattare e che sarebbe stato intenzionato a dare alla mia “difesa” un’impostazione più combattiva.

Poi, tu sai come è andata: una abile, quanto perversa, manovra di distorsione dell’immagine per rapporto al reale, messa in atto da magistrati, giornalisti, politici, ecc., riuscì a costringermi, paradossalmente, ad una linea difensiva.

Invece di poter sviluppare le tematiche che mi proponevo (diritto alla rivolta, rivendicazione personale di un gesto che, seppur maldestro e gravido di errori, mi apparteneva e non volevo rinnegare) mi trovai nella umiliante condizione di dover cercare di dimostrare l’ovvietà, cioè di non essere mai stato, in nessun momento della mia vita, un fascista.

Beh, per tornare a Lanza: venne al mio processo e chiese, perfino, di poter avere colloqui con me. Cosa che gli venne accordata senza difficoltà. Poi basta, ci fu un modesto scambio di lettere, mi mandò dei libri. Di persona lo incontrai ancora una sola volta, anni fa, durante un “permesso”; mai mi espose dei dubbi su di me, mai mi chiese di spiegare dei punti che non gli fossero chiari. Anzi, sembrava che mi considerasse molto, tant’è che, anni prima, mi aveva scritto per darmi delle “giustificazioni” (da me non chieste) per aver accettato la direzione di un giornale borsistico, mi pare fosse “Piazza degli affari”, scelta che gli era valsa, diceva, critiche pesanti all’interno del Movimento Anarchico.

Adesso è diventato un collaboratore della Procura, nel senso di “consulente” e di “agente pubblicitario” del celebre Salvini.

C’è solo un tipo di persona che disprezzo più del boia di mestiere e sono i suoi “tirapiedi”. Per me, oggi, il Lanza è diventato uno di questi.

Non so (per come vanno le cose, c’è spazio per molto pessimismo) se potrà esserci una ripresa delle idee e di un movimento di ispirazione anarchica. Quello di cui sono certo è che se ciò dovesse avvenire non sarebbe certo grazie all’impegno di gente come Lanza & C., ma al di fuori e malgrado loro.

Venendo alla questione di “Gocce” il problema (ovvero le mie passate illusioni) non si pone più. A parte il fatto che non risulta possibile neppure dargli un minimo di regolarità sul piano della periodicità (ancora non è uscito il numero progettato per settembre) avevo già capito, da certi “sintomi” che non mi avrebbero mai lasciato fare né condurre in porto quello che avrei voluto.

Un fraterno abbraccio,

Gianfranco

14 Bon

30 dicembre 1998
Catania

Caro Gianfranco,

ho avuto le tue lettere del 13 e del 16 e ti rispondo subito.

Non sapevo del tuo tentativo di fare pubblicare a quelli di “A” qualcosa sul mio arresto di Bergamo, ma mi immagino la faccia che avranno fatto. Capisco che non hai avuto risposta. Sul problema della pubblicazione sulla stampa borghese (“A” per me non è mai stato altro, se non forse nei primissimi suoi mesi di vita), ti ho di già scritto e penso che magari ti avrò un po’ ferito, mi dispiace ma spesso, non riesco a dire quello che penso in altro modo e mi viene fuori nudo e crudo, così com’è, non avertene a male. In ogni caso scrivimi le tue opinioni su questo problema.

Il risvolto positivo è certo quello di potere parlare a tanta gente in una volta, e chissà?

Sono d’accordo con te sul livello di consapevolezza dei cosiddetti tossici. Nel carcere di Bergamo, quando organizzammo lo sciopero, su circa 200 “tossici”, quasi il 90 per cento fecero lo sciopero della fame, insieme a me, per 6 giorni e dopo volevano pure continuare. Li ho visti molto più forti e sicuri delle proprie idee di tanta gente cosiddetta “seria”.

Lo stesso è accaduto recentemente a Rebibbia, dove abbiamo costituito un mese fa l’associazione Papillon. Fra i detenuti del braccio G11, dove ero io, in maggior parte “tossici”, c’è stata un’adesione all’associazione di 150 persone sui circa 300 che costituiscono la popolazione carceraria del braccio. Un dato, per me che conosco la situazione, veramente interessante. È proprio con loro che abbiamo realizzato un video nel reparto malati di AIDS e ti allego il testo che accompagnava le immagini. L’ho scritto io ma lo abbiamo discusso ed elaborato insieme.

Le tue parole con le quali chiudi la lettera del 12, mi stanno a cuore particolarmente. La lotta, dici benissimo, non è finita.

Eccomi alla tua del 16.

Leggo con interesse, e anche con un pizzico di soddisfazione personale (perché negarlo), le tue considerazioni sul mio libretto su Calabresi. Corrispondono a tante altre che da molti compagni mi vanno arrivando. In effetti quell’argomento, come avrai capito, mi stava a cuore particolarmente.

Adesso un’anteprima assoluta: ti annuncio i titoli dei prossimi libretti della collana “I Libri di Anarchismo”, che usciranno a marzo, aprile, maggio e giugno (poi sospensione di due mesi fino a settembre 1999), con i numeri sette, otto, nove e dieci.

Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista: contiene la Proposta di già circolata dell’Internazionale di cui al titolo, le mie considerazioni successivamente sviluppate nell’incontro di Torino, il documento presentato al Convegno di Trieste del 1990 e la sbobinatura degli incontri di Rovereto (1994) e Val Pellice (1995) su “Affinità, organizzazione informale e insurrezione”. Naturalmente il tutto preceduto da una introduzione che riprende il discorso sull’informazione e sul progetto rivoluzionario, argomento che a me sembra particolarmente attuale.

Le nuove svolte del capitalismo: contiene l’articolo mio incriminato al processo di Roma (Marini), la sbobinatura della mia conferenza in Grecia del 1993 a cui l’articolo si riferisce (che i carabinieri dicono mai tenuta da me a Tessalonica e Atene), l’intervista a un quotidiano greco e altri articoli. Sempre una introduzione dove spiego il perché la pubblica accusa al processo sostiene che quell’articolo è la base per una banda armata mentre invece, com’è facile capire leggendo, parla di altre cose.

La bestia inafferrabile: che raccoglie alcuni articoli miei pubblicati su “Canenero” che parlano dell’aumento della repressione e di come ciò dovrebbe fare riflettere il potere anziché incoraggiarlo. Non hanno niente da guadagnare, lor signori, a radicalizzare lo scontro. Poi inserisco i testi sulla distruzione e sulla logica distruttiva. Anche qui un’introduzione che sembra diretta a suocera perché nuora intenda.

L’anarchismo insurrezionalista: che è il libro che ho preparato per un editore francese che intendo anche pubblicare in Italia (*, la mia compagna, sta pensando anche all’edizione inglese). Si tratta dei miei scritti diciamo più organici sull’argomento.

In questi giorni sto lavorando a correggere le bozze di questi libri.

Spero di leggerti presto, con buone nuove sulla tua salute e anche sui tuoi progetti.

Un abbraccio fraterno,

Alfredo

Allegato

Carcere e malattia

Il Carcere. Un luogo chiuso. Un luogo dove uomini e donne contano i giorni che mancano per tornare nella società da cui sono stati prelevati. Molti i motivi per entrare, giustizia e ingiustizia si intrecciano insieme in un inestricabile groviglio. Uno solo il desiderio: uscire prima possibile.

Il carcere è un non luogo che registra solo la demente fuga del tempo. Un itinerario separato dal mondo esterno, malgrado tanti contatti che si continuano a mantenere, fisici e immaginari.

Il carcere è lo strumento con cui lo Stato mette fuori gioco, per un periodo più o meno lungo, coloro che, a suo dire, non hanno accettato le regole, ma anche coloro che queste regole nemmeno conoscevano e che sono stati distrutti da un meccanismo crudele, un treno impazzito nella notte che travolge ogni cosa.

Il carcere è come un carciofo. Se ci vivi dentro, dico proprio dentro, cioè da detenuto, lo puoi sfogliare pezzo per pezzo, e ti accorgi così che vai sempre più dentro la sua struttura, che è un non luogo fisico ma anche mentale. I muri, le sbarre, gli orari, le interdizioni, le regole, le guardie, gli operatori di ogni genere, tutto si dispone a cerchio, fino ad arrivare a un nucleo centrale, un elemento ineludibile del carcere, che come un primo motore regge tutta la struttura.

Questo elemento è la chiave. La chiave è la regina del carcere. Il rumore che fa quando ci chiudono dentro le celle, è la stridente dissonanza della nostra condizione umana ridotta e impoverita.

Ora, nel luogo del carcere, nascosto a volte come un bubbone d’altri tempi, c’è un ulteriore non luogo, ancora più interno, dove accedi solo a una condizione: devi essere malato.

Malato in carcere. Una delle situazioni peggiori in cui puoi venire a trovarti. Ma cos’è la malattia?

Pensiamo a una condizione di sofferenza, fisica o mentale, una condizione in cui gli uomini e le donne hanno ridotte capacità di resistenza all’ambiente esterno, quando questo ambiente esterno è dichiaratamente ostile, come appunto il carcere, il malato soffre di più.

Se in carcere un individuo sano può essere considerato un malato, per la sofferenza che il carcere inevitabilmente causa, un malato in carcere è malato due volte.

Ma è mai concepibile un malato in carcere? Esistono non luoghi specifici in carcere destinati ai malati gravi?

Ci siamo portati la telecamera ed è stata un’avventura dietro lo specchio, un passaggio in un territorio segnato dalla sofferenza e dall’assurdità. Dietro lo specchio, uomini che soffrono e che non accettano di soffrire in un non luogo di sofferenza aggiuntiva, in carcere. Quando la malattia è particolarmente grave si dovrebbe permettere che accanto al malato possa fiorire il sollievo di un sorriso, il conforto di un gesto della persona amata, del familiare che aiuta a ricordare un passato, più o meno felice, ma comunque diverso dalle condizioni attuali di estrema sofferenza.

Per un malato terminale di AIDS, vedersi accanto la faccia asettica di un infermiere del carcere o, peggio ancora, sentire lo stridore della chiave suggella la chiusura dal mondo esterno, e porta dentro il velo nero della notte.

Abbiamo cominciato a parlare con gli abitanti di questo pianeta piccolo piccolo, nascosto in un’insenatura del non luogo carcerario di Rebibbia, e abbiamo trovato nostri fratelli di sofferenza che prima di essere doloranti per le proprie carni martoriate e precarie, erano smarriti per il luogo in cui si trovavano, per le normali pene del carcere, che noi carcerati cosiddetti “sani”, a volte quasi non notiamo più.

Il rito del vitto diventa un momento importante per questi uomini che abitano dietro lo specchio, ai confini del mondo, un momento importante. Non possono cucinare qualcosa in cella, quindi, per non morire di fame, dipendono da quello che fornisce l’amministrazione.

La doccia, per noi banalità quotidiana, per loro è un accadimento da ricordare, non separabile dalla perdita di dignità per cui un uomo è un uomo e non può mai essere abbassato al livello di un animale.

L’ora d’aria, la visita medica, la terapia, il colloquio con i familiari, tutto diventa difficile e aleatorio. Non si tratta più di scadenze ma di confrontazioni con la condizione di sofferenza. Se il male si acuisce devi chiamare la guardia, l’infermiere, il medico, se non riesci ad alzarti dal letto non puoi fare il colloquio, né andare all’aria e, forse, nemmeno mangiare decentemente.

Il non luogo dove regna il dolore ha strutture tutte sue. Ma non sono questi gli aspetti che ci hanno impressionato di più. Non le docce, non la biblioteca, non i bagni, non le celle e forse nemmeno il vitto che avremmo immaginato migliore.

Quello che ci ha fatto stringere l’anima è stato il vedere i nostri fratelli sofferenti chiusi in carcere. Il guardare negli occhi un uomo che ci dice, più con lo sguardo che con le parole, che ormai ha perso ogni speranza, che ormai non si aspetta più nulla dalla vita, perché la sua vita è questa serie inflessibile di scadenze e ripetizioni: un po’ di vitto, la terapia, i lamenti e le bestemmie degli altri malati, le sbarre alla finestra e, al calar del sole, nell’ora che più di tutte stringe il cuore e richiama gli affetti perduti, il rumore della chiave che sigilla la porta.

E tutto questo oggi, in un’epoca e in un paese che mettono sopra ogni cosa la propria civiltà e la propria cultura.

Niente fa più male di un uomo a cui è stata tolta la sua umanità e che ti chiede come mai tutto questo possa essere accaduto.

Ci siamo riportati dietro la nostra telecamera, senza riuscire a dare, e a darci, una risposta.

[Alfredo M. Bonanno]

15 Ber

8 gennaio 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

la tua lettera del 30 dicembre l’ho ricevuta ieri, con l’allegato sull’infermeria nel carcere di Rebibbia. Già ieri sera avevo il proposito di scriverti. Anzi, per la verità, mi ci ero messo ed ho buttato giù quasi quattro pagine. Poi ho deciso di rinunciare a spedirla. Il motivo è questo: mi era arrivata, due giorni fa, una lettera di Luciano Lanza (una tardiva replica a cose che avevo scritto a lui e a Finzi sul merito del pamphlet dello stesso Lanza dove venivo tirato in ballo), questa lettera l’ho trovata letteralmente odiosa e mi aveva mandato in bestia.

Scrivendo a te, ero caduto nella tentazione di una sorta di sfogo. Poi ci ho riflettuto e mi è parso insulso propinarti una sorta di miscuglio tra la confutazione pignola della lettera di lui e la lacrimevole geremiade. Indulgo, talvolta, nella deplorevole debolezza di cercare una spalla su cui piangere. È una stupidaggine e voglio evitare di ricascarci. Così ho stracciato quelle pagine e cerco di rispondere alla tua.

Dunque, quando vi fu l’episodio del tuo arresto a Bergamo, quella vicenda rappresentò per me un punto di svolta sul piano delle idee che avevo su di te. Tu sai (e sarebbe stupido negarcelo reciprocamente) che ti ero ostile, a causa di certe tue posizioni nei miei confronti. Una sorta, quindi, di “ripicca” che mi portava a giudicare negativamente tutte le tue posizioni. Quando, però, venisti arrestato con quel tipo di imputazione [rapina a mano armata, n.d.r.] mi trovai obbligato con me stesso a riflettere. Mi dissi, cioè, che se anche tu mi eri stato (e forse continuavi ad essermi) ostile, ciò non mutava di una virgola il fatto che mi trovavo costretto a riconoscere in te un anarchico coerente, sincero ed onesto. Per certi versi uno che mostrava, fattualmente, di appartenere ad un tipo di uomo e di libertario quale (forse senza riuscirci o riuscendoci male) volevo essere io.

Insomma, che mi piacesse o meno, che ti piacesse o meno, appartenevamo ad una specie simile: quella di chi cerca la coerenza tra pensare e fare e che è disposta a rischiare di persona per affermare ciò in cui crede.

D’altra parte, rientrava nelle mie convinzioni che, quando un compagno viene colpito dal potere (quali ne siano le cause e che si condividano o meno le sue scelte) la solidarietà dovrebbe prevalere su qualsiasi divergenza. Dimostrare alla gente ed agli stessi esponenti del dominio che toccare un compagno vuol dire toccarci tutti e che in particolari situazioni siamo tutti uniti e solidali. Se del caso, pronti alla difesa e, nel peggiore dei casi, alla rappresaglia. Evidentemente, Paolo e la redazione di “A” non la pensano come me. Se fosse stato necessario me ne avrebbe offerta una dimostrazione quell’articoletto che proprio Paolo scrisse su “A” dopo che una squallida figura di giornalista si prese quattro sberle durante i funerali di Edo Massari [2 aprile 1998]. Come me lo dimostra oggi il fatto che nessun compagno, tra quelli che mi erano più cari, abbia avuto l’onestà di rimbeccare il Lanza per avermi insultato e (cosa per me più grave) per essersi votato a spada tratta all’enfatizzazione apologetica di un “pubblico ministero” (che tale rimane anche se, oggi come oggi, colpisce dei fascisti. Per me sono liti in famiglia tra gente di potere, che appartengono alla stessa specie). Il discorso sui “tossici” è potenzialmente ricco di molte implicazioni importanti. Vorrei, spero di farcela, cercare di svilupparlo in modo esaustivo. L’argomento, tuttavia, è piuttosto delicato da trattare per me, in quanto consapevole che è difficile essere obiettivi quando si è stati coinvolti personalmente e per molti versi (non fosse che ancora oggi devo ricorrere al metadone) si è parte in causa. Posso anticiparti che a questo proposito continuo, all’incirca, a pensarla come mi espressi nel lontano 1976 su “A-rivista”: sono contrario all’eroina (anche se ammetto di averne fatto uso, di sentirne ancora il desiderio e che vi sono molte probabilità che ritorni a “farmi”). La mia avversione di principio, però, non ha le stesse motivazioni, di ordine “morale” o moraleggiante, che mi ha espresso una volta Paolo Finzi nel biasimare i miei comportamenti.

La droga, indubbiamente, è anch’essa un’arma del potere per fregarci tutti. Ma, se mi è concessa l’analogia, è un po’ come il discorso sulle elezioni. Se si ritiene, come ad esempio al tempo di un Malatesta, che le elezioni sono da combattere perché distolgono le masse dall’obiettivo insurrezionale rivoluzionario è un conto. Ma se già si esclude a priori ogni ipotesi di progetto rivoluzionario, che senso ha pubblicare ogni volta il solito articolo “Gli anarchici non votano”? Così, se si dà per scontato che il mondo deve andare come va e il sistema capitalista è il migliore dei sistemi possibili, perché opporsi all’uso di eroina da parte di chi ne sente il bisogno per “anestetizzare” la sofferenza che questo sistema lo costringe a sopportare?

Ti scriverò presto un po’ meglio e più diffusamente.

Un abbraccio libertario,

Gianfranco

16 Bon

10 gennaio 1999
Catania

Caro Gianfranco,

ho la tua del 27 e ti ringrazio.

* sta un po’ meglio e adesso si trova a lavorare all’estero, dove penso possa avere un migliore avvenire (secondo le sue scelte), migliore di quello che ha avuto finora.

Sì, mi ricordo di questo compagno, di *, un ricordo lontano, del periodo in cui frequentavo molto spesso Pisa, Livorno e altre città della Toscana. Tempi del “fare”. Chissà che non possano tornare, diversi, naturalmente, forse migliori, ricchi dell’esperienza passata. Ma forse mi inganno.

Non so se ti capita di vedere *, in questo caso salutala da parte mia.

Sono d’accordo con te. Una ripresa delle lotte non vedrebbe di certo gente come Lanza fra i piedi. Ma, per la verità, questa gente, anche in passato, non è mai stata nelle lotte. Se uno di loro, una sola volta, ci fu, erano, come dire, furori giovanili, subito chetatisi nelle aule universitarie.

Forse un giorno potremo riprendere il discorso di un “foglio” da pubblicare. Per il momento non ne sono capace, ma ho speranze (queste non mi mancano di certo). L’ultimo tentativo (solo tentativo) che ho fatto con alcuni compagni è quello ambizioso di fare un quotidiano (“Il Disordine”). Si è anche fatto uscire una sorta di numero unico di prova, in formato rivista. Ti allego il mio documento organizzativo pensando che la cosa possa farti piacere. Dimmi qualcosa sull’elenco di titoli che ti ho spedito.

Un abbraccio con affetto,

Alfredo

Allegato: Proposta di strutturazione e funzionamento del quotidiano anarchico
La divisione redazionale sul piano territoriale

Trattandosi, almeno in linea di ipotesi, di un quotidiano a diffusione nazionale, si rende necessaria una rete di redazioni capace di coprire la maggior parte del territorio nazionale. All’inizio questa rete potrebbe ridursi allo stretto indispensabile, cioè insistere solo sulle tre grandi zone: il Nord, il Centro e il Sud. Naturalmente questo dipenderà sia dalla disponibilità dei compagni nelle diverse città, sia dalle possibilità finanziarie.

Nel caso dovesse decidersi, sempre su di una base di natura economica, la scelta di stampare il quotidiano in una delle tipografie di Cagliari che ci hanno fatto il preventivo più favorevole (al momento si tratta di lire 1.300.000 a numero per 23.000 copie), si renderebbe necessaria la costituzione di una redazione tecnica a Cagliari, avente il compito di assemblare definitivamente il giornale e preparare gli esecutivi per la stampa.

Le redazioni periferiche

I compagni che si assumono questo incarico dovrebbero avere di già una conoscenza della zona in cui si troveranno a operare. Trattandosi, prima o poi, di costituire una mentalità documentativa, se non proprio giornalistica, mentalità che per il momento, nella maggior parte dei casi possiamo dare per non esistente, ci si dovrà per quanto possibile documentare sulla situazione della zona di pertinenza, leggendo i giornali locali (anche quelli delle piccole città vicine), stringendo amicizie e conoscenze con persone adatte che magari in tutt’altra prospettiva non avrebbero mai riscosso il nostro interesse. Non c’è dubbio difatti che in ogni situazione locale, politica o economica in senso specifico che essa sia, ci siano persone interessate a fornire documentazioni, indicazioni, suggerimenti. Non si tratta di una vera e propria collaborazione a livello giornalistico (penna in mano, per intenderci), ma anche soltanto di ipotesi di ricerche, che potranno risultare della massima importanza. Tutto ciò richiederà del tempo e, principalmente, obbligherà ad uscire dalla propria condizione specifica per rivolgersi altrove, per prendere cognizione di realtà che di solito, in quanto anarchici, siamo abituati a trascurare.

In un’assemblea di tutti i compagni interessati, che potrebbe essere periodica, secondo come si deciderà, si potranno specificare meglio gli indirizzi di ricerca da porre in essere. Poniamo, trattandosi di un giornale nostro, gli indirizzi diretti a meglio approfondire la struttura e il funzionamento degli apparati statali che ci stanno di fronte: il governo locale, la struttura produttiva periferica, la dislocazione sul territorio delle installazioni militari, gli organismi politici aggregativi (sindacati e partiti), la Chiesa, ecc. Per ognuno di questi indirizzi si dovranno quindi intraprendere delle ricerche, cointeressando persone e strutture capaci di fornire una collaborazione a livello dei dati. Il lavoro in questa direzione che potremmo definire di “iniziativa”, dovrebbe essere fatto parallelamente da tutte le redazioni e i risultati trasmessi man mano, sotto forma di elaborati di già definitivi, alla redazione tecnica.

Il secondo campo di lavoro delle redazioni periferiche dovrebbe essere quello che potremmo definire di “risposta”. Sulla base di quanto va succedendo giornalmente, interessarsi, ciascuno nella propria zona, per produrre un elaborato da pubblicare sul giornale. Gli avvenimenti quotidiani vengono segnalati tempestivamente alla redazione tecnica dal collegamento ANSA. Questa redazione provvederà quindi ad avvertire per telefono o via fax le redazioni periferiche interessate all’avvenimento stesso perché si possa avere una documentazione diretta dell’avvenimento e con lo stesso mezzo si decideranno i tempi (strettissimi) e i modi per produrre il testo da pubblicare sul giornale. Di regola questo rapporto dura per parecchi giorni, e sulla base del “taglio” che si deciderà di dare al singolo elaborato, potrebbe svilupparsi anche in un’attività del tipo precedente, cioè quella che abbiamo definitivo di “iniziativa”. In quest’ultimo caso il lavoro redazionale potrebbe estendersi anche ad altre redazioni, secondo come la redazione periferica per prima interessata all’argomento deciderà.

La redazione tecnica

Nei limiti di quanto succede nel proprio luogo geografico, per prima cosa, è essa stessa una redazione periferica.

Inoltre, dovrebbe avere il compito di ricevere gli elaborati delle redazioni periferiche e assemblarli negli esecutivi del singolo numero del giornale. In altri termini ciò significa la creazione giornaliera di un menabò di giornale, da farsi nelle ore del mattino, e sulla base del materiale disponibile.

I criteri di massima che potrebbero applicarsi fanno venire alla luce una proposta di costruire il giornale, quotidianamente in modo nuovo, cioè non facendo prevalere una divisione standardizzata in settori definitivi, poniamo nel modo del giornalismo classico: interni, estero, economia, cronaca, cultura, sport, ecc. Si suggerisce l’ipotesi di procedere a una divisone fondata su sezioni di contrapposizione, quindi poniamo sull’analisi critica del parlamento, dell’esecutivo, della magistratura, delle carceri, della polizia, dell’esercito, dell’economia, dello sport, ecc., per arrivare a quelle forme di recupero e repressione emergenti come potrebbero essere quelle del volontariato diffuso.

L’ordine delle significatività giornalistiche, per cui esistono – e non sono eliminabili – in un giornale i cosiddetti luoghi deputati dell’attenzione, poniamo l’apertura e la spalla di prima pagina, e tanti altri, dovrebbe, e qui si fa un’altra proposta come per altro proposte sono tutte quelle che precedono, questo ordine dovrebbe basarsi sulla capacità intrinseca che la notizia possiede di risultare più adeguata a mettere in luce la funzione anarchica del nostro giornale. Naturalmente, poiché le notizie non parlano da sole, o se lo fanno ciò accade soltanto in parte, a decidere per questa scelta influirà anche il modo in cui la notizia stessa è stata trattata, cioè il taglio che le è stato dato e perfino lo stile in cui è stata redatta. Su proposta della redazione tecnica e con l’accordo delle singole redazioni periferiche, si compilerà giornalmente un elenco di notizie basato su questo ordine delle significatività.

I compagni devono tenere presente che qui si stanno indicando delle ipotesi di massima, le quali verranno scontate, di volta in volta, sulla base delle nostre reali capacità tecniche, nostre, di ognuno di noi.

Un ulteriore compito della redazione tecnica potrebbe essere quello di provvedere alla correzione degli articoli riguardo i refusi dattilografici e la forma grammaticale.

Se queste correzioni fossero di tale entità da compromettere il senso del testo, la redazione tecnica dovrebbe entrare in contatto con la redazione periferica e discutere le correzioni stesse.

In nessun caso la redazione tecnica può arrogarsi il diritto di rifiutare la pubblicazione di un testo inviato dalle redazioni periferiche, in quanto un testo elaborato da quest’ultime non dovrebbe essere in contrasto con i princìpi essenziali dell’anarchismo intesi nel loro più ampio significato del termine. Per il medesimo motivo, e ribadendo in questa sede il principio che tutte le interpretazioni realizzatesi nel corso dello svolgimento storico del movimento anarchico hanno uguale diritto ad esistere all’interno del giornale, nel caso in cui l’iniziativa di una qualsiasi collaborazione avvenisse in forma diciamo diretta, cioè tra il singolo collaboratore periferico, staccato da qualsiasi redazione zonale, e la redazione tecnica, anche per armonizzare il contributo staccato con l’insieme delle iniziative e delle informazioni del giornale stesso, si dovrebbe consigliare quest’ultimo collaboratore a prendere direttamente contatto con una o più delle redazioni periferiche il cui elenco si trova pubblicato nel giornale.

Infine dovrebbe competere alla redazione tecnica la titolazione definitiva dei testi, la stesura degli occhielli e la selezione definitiva del materiale iconografico fornito.

Sulla titolazione e sulla iconografia si avanza qui una proposta che riteniamo meriti una riflessione trattandosi di argomenti di fondamentale importanza. I titoli dovrebbero essere di natura contenutistica, non aventi cioè quella carica, per altro quasi sempre surrettizia, di pessimo humor. Poiché la titolazione cosiddetta allusiva è molto difficile, e poiché qua non ci sono artisti del giornalismo, ci permettiamo suggerire la via più piana, senza che con questo si voglia togliere nulla al merito di un titolo ben fatto basato sull’allusione o sul gioco di parole. Per la scelta delle fotografie o dei disegni anche qui si suggerisce la strada più semplice. È difatti molto arduo procurarsi foto contestuali degli avvenimenti che non siano piatte e inefficaci riproduzioni della realtà. Non ne abbiamo i mezzi, almeno allo stato attuale, e non possiamo fondarci sulla buona volontà dei singoli, specie in un campo in cui è facile travalicare nell’ovvio e nel dilettantistico. Evitando l’iconografia didascalica possiamo invece costruire un contesto grafico della pagina – sulla base dei progetti che dovrebbero essere disponibili non sappiamo quando e neanche da parte di chi – gradevole e forse più fruibile di un assetto fondato su di una iconografia didascalica.

Infine, la collaborazione con il movimento anarchico internazionale, riguardante argomenti specifici delle singole situazioni locali può essere coordinata sia dalla redazione tecnica che dalle singole redazioni periferiche, secondo i contatti che ognuno possiede di già o che è in grado di allacciare.

[Alfredo M. Bonanno]

17 Bon

14 gennaio 1999
Catania

Caro Gianfranco,

rispondo alla tua dell’8, ricevuta stamattina.

Non darti pensiero di quello che mi scrivi, anche se si tratta di uno sfogo, diciamo “eccessivo”, non pensare di arrecarmi disturbo. Almeno, io non mi pongo limiti quando scrivo a un compagno con cui voglio costruire un rapporto serio e progettuale nel tempo, anche se vivo un momento di personale difficoltà, e mi va di metterlo a parte, lo faccio. Quindi, per il futuro, scrivimi per come ti senti di fare, semplicemente così.

Non ho letto l’articolo di “A-rivista” sulla questione delle sberle al giornalista, non l’ho letto perché non ricevo la rivista e perché mi va bene così, cioè di non riceverla e di non leggerla. Mi posso figurare quello che c’era scritto.

Il discorso sui tossici è interessante approfondirlo, ne avevo scritto qualcosa su “ProvocAzione”, adesso non ho sottomano il numero relativo, e anche Riccardo d’Este, mi ricordo, che pubblicò un libro (che non ho più con me) che credo si chiamasse Quell’ago del ramo di narco, o qualcosa del genere.

Il paragone tra astensionismo e dichiarazioni di principio contrarie alla droga andrebbe approfondito. Ogni volta che si pigliano questi problemi si corre il rischio di considerare il bicchiere mezzo vuoto, invece è solo mezzo pieno.

Mi spiego meglio. Che “A-rivista” propagandi l’astensionismo, insieme al suo modo di concepire l’anarchismo, a me sta bene, e ti dico di più, sta anche bene che si limiti a fare questo soltanto, se è questo soltanto che i redattori riescono a fare. Quello che non va bene è quando travalicano questa dimensione, che per comodità di discussione possiamo qui definire “propagandistica”, quando cioè s’impancano a parlare di cose che non capiscono (per esempio la lotta armata o le organizzazioni armate, o gli attacchi contro il nemico di classe), e peggio ancora quando su questi argomenti prendono posizione (cioè prendono le distanze), per salvaguardarsi nei riguardi della repressione (pensa un po’ se gli sbirri potrebbero mai andare da loro a rompere!).

Quindi, l’astensionismo, come la semplice discussione o la stessa chiacchiera, o la lettura dell’opuscolo o del libro, o l’incontro serale al gruppo, l’amicizia fra compagni, tutto questo mi sta bene, perché anche questo costituisce quel flusso corrente di idee che genera il ricambio generazionale, l’arrivo di compagni sempre nuovi, desiderosi (o no, che importa?) di andare oltre, di non accontentarsi, di affondare sempre di più contro il nemico, ecc. Il guaio è quando quel flusso corrente di idee, come nel caso di alcuni redattori di “A”, ma non solo perché la cosa non è tanto diversa presso la FAI e non solo in Italia (pensa a quello che è stato scritto in Spagna dalla CNT contro i compagni anarchici condannati a 49 anni di carcere a Cordova per la rapina di due anni fa con due poliziotte morte!), quando quel flusso di idee, dicevo, è inquinato da opportunismo, vigliaccheria, povertà di spirito, desiderio di potere, di soldi, ecc.

Mi sembra quindi che partendo dal dare per buona l’opera di chi, in buona fede (non è il caso dei nostri amici di “A-rivista”) si dedica soltanto alla propaganda, occorre altamente condannare qualsiasi tipo di protesi (quindi anche l’eroina), senza considerare eccezioni, salvo il caso (limite ma non impossibile) di una sperimentazione personale, di un agire da individuo libero al di là di qualsiasi costrizione, anche quella della condanna dell’eroina stessa (o di altra protesi, dalla sigaretta alla TV), e quindi di un uso pieno e libero dell’eroina stessa, non più protesi per lenire sofferenze, ma esperienza liberamente scelta e costantemente sotto il proprio dominio di uomo libero.

Un discorso quest’ultimo che resta aperto a molteplici considerazioni.

Per il momento ti abbraccio, spero di sentirti presto,

Alfredo

18 Ber

14 gennaio 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

ti trasmetto, in fotocopia, la lettera che ho ricevuto da Luciano Lanza. Lo faccio dopo qualche esitazione e dopo aver riflettuto qualche giorno sulla sua opportunità. In linea di massima, tengo molto a rispettare la “privacy” individuale e non amo molto divulgare la corrispondenza personale.

Tuttavia, cosa c’è di “personale” in uno scritto che si riferisce ad un tema che già è stato proposto al pubblico in un libro? Inoltre, nella vita è necessario poter riporre fiducia almeno in qualcuno ed io sono attualmente arrivato a convincermi che tu sei una di quelle poche persone che meritano fiducia e con le quali ci si può aprire. Un’altra di queste persone lo è per me Antonio Lombardo ed anche a lui ho creduto di poter far visionare la lettera di Lanza. Non è detto che (del tutto indipendentemente e anzi contro le ambizioni del dott. Lanza) questa sua letterina non possa assumere il valore di un “documento”. Se, infatti, la mia condizione di esasperazione dovesse accentuarsi e tradursi in vera disperazione, la lettera del Lanza avrà avuto il suo peso nell’indurmi a certe scelte. Ed ecco, allora, che la cosa potrebbe assumere un valore “didattico” e contribuire, forse, a svegliare il cervello di qualche compagno. Può ben essere che dopo anni di carcere e altrettanti di reiterate persecuzioni calunniatorie io sia oggi vittima di una sorta di paranoia. Tuttavia, si stanno verificando strane cose (e strani voltafaccia) che possono suggerire ipotesi, forse azzardate ma non prive di verosimiglianza, pertanto “preoccupanti”.

Il Lanza nel suo libercolo e nella sua lettera ostenta di poter nutrire dei dubbi sul mio gesto di 25 anni fa, nel suo libro, poi, usa lo stesso tono sprezzante nei confronti di Valpreda. Quando, mesi fa, venne discussa a Firenze la mia “liberazione condizionale” e il Tribunale chiese informazioni, la Digos rispose che “risultava mantenessi contatti con frange insurrezionaliste ai margini del movimento anarchico”, sorvolo sul grottesco: parlare di anarchismo insurrezionalista costituisce una mera tautologia. Che io sappia, qualsiasi anarchico è anche un “isurrezionalista” (almeno sul piano filosofico e teorico). Però, paranoia o meno, qualche dubbio nasce. In questi tempi di tentata “pacificazione sociale” viene a crearsi una torbida alleanza oggettiva tra chi vuole sbarazzarsi degli... estremismi.

D’Alema vorrebbe vedere liquidata Rifondazione, Fini vuole liberarsi di un Rauti e... se gli anarchici “buoni” volessero liberarsi dei “cattivi”? Magari suggerendo l’ipotesi di vecchi o nuovi complotti e trame gestite dagli “opposti estremismi”?

Lasciamo perdere la dietrologia (qualche volta mi ci lascio andare anch’io), rimane il fatto che il Lanza d’oggi ricorda molto, non fosse che nello stile, i “sostituti procuratori”. La sua “domanda retorica” (“come mai un nazi-fascista, ex informatore dei servizi segreti americani...?”) è una vera perla. Il Digilio non è un normale confidente della polizia, è un “pentito”! Un “pentito” è uno che collabora in prima persona con chi costruisce una trama accusatoria quale essa sia. Basta che l’inquirente di turno gli dica o solo gli faccia intuire cosa desidera sentirsi dire. Se poi, come si dice, quel tale è un ex informatore di professione, il gioco è ancora più facile. È uno del mestiere! È risaputo da sempre che le “rivelazioni” e le “scoperte” degli agenti segreti sono costituite, per almeno il 60% da fantasie e da supposizioni più o meno ben congegnate.

Il culmine di sfrontatezza, però, il buon Lanza lo raggiunge con le sue quattro domande finali. Sorvolo sul tono sbirresco delle stesse.

Dunque: 1) Non ho mai soggiornato in nessun appartamento di Verona e meno che mai nel periodo precedente l’attentato, visto che arrivai dall’Italia solo il giorno prima (date e storia dei miei viaggi sono di pubblico dominio). 2) Nella mia vita sono stato tre o quattro volte in ospedali e mi è anche capitato di rivolgermi a medici delle mutue quando lavoravo. In tutta onestà non posso dire se tra essi vi sia stato anche quel medico. 3) Nonostante ci abbia riflettuto, non riesco a ricordarmi di persone che rispondessero ai nomi di Neami e Soffiati. Per chiedermi se li ho mai conosciuti mi si dovrebbero fornire ben altri ragguagli: che mestiere facevano? Dove abitavano? Erano alti, bassi, grassi o magri? Quali ambienti, bar o altri locali praticavano? Erano astemi o alcolizzati? Erano etero o omosessuali? Sono stati in carcere? Rubavano o ricettavano? Erano tossici? Erano sposati o celibi? Altrimenti rimangono per me dei fantasmi, dei nomi senza riferimento a gente esistita. 4) Idem per quanto riguarda questo Digilio. Che “colloqui” posso averci avuto?! Io non so chi cazzo sia. Non sapendolo, non posso neppure asserire di non averlo mai visto. Delle persone che mi è capitato di incontrare nella vita, mi ricordo solo di quelle che hanno significato qualcosa in un momento dato. Questo tizio, mi fosse anche capitato di incontrarlo, non poteva significare niente.

Ti saluto fraternamente,

Gianfranco

Allegato

A Gianfranco Bertoli

ho letto la lettera che tu hai inviato a Paolo Finzi e che mi riguarda. E ho poi ricevuto la lettera a me indirizzata. Ecco alcune annotazioni. Primo: sono tra coloro che si sono battuti contro la vergognosa campagna che ti dipingeva come fascista. L’intervista al tuo avvocato Dionisio Messina (pubblicata su “A” nel febbraio 1975), mi fu rimproverata da molti anarchici (e molti gruppi si rifiutarono di distribuire quel numero della rivista), ma sono orgoglioso di averla fatta. Così come sono convinto di aver fatto bene a pubblicare un editoriale nel numero di marzo 1975 (Tutti provocatori?, p. 25), che finiva con questa frase: «Potrebbe farci comodo pensare, dire, scrivere che G. F. Bertoli è un fascista. Ma se non saremo convinti che oltre che “comodo” è anche vero, non lo scriveremo mai». In quel momento ci voleva anche del coraggio nell’assumere posizioni controcorrente. Ebbene io, assieme ai compagni di “A-rivista anarchica”, le ho prese. Mentre tanti “compagni” stavano zitti. O peggio. Secondo: sono venuto, unico anarchico, ad abbracciarti nell’aula del processo di appello, incurante di giornalisti e fotografi (ricordi la sequenza incredibile di flash?), per affermare la mia solidarietà all’anarchico Gianfranco Bertoli. Poi durante la pausa processuale ho chiesto pubblicamente al presidente della Corte di poter avere un colloquio con te. Precedentemente avevo fornito elementi al tuo avvocato per la tua difesa: gli attentatori di Terra e libertà e altro che forse tu ricordi. Quindi non ho nulla da rimproverarmi nei tuoi confronti. Non è molto, ma neppure poco. Certo, molto di più, debbo riconoscerlo, ho fatto per la campagna che ha portato alla liberazione di Pietro Valpreda. E hai la pretesa di scrivere che nei confronti di Valpreda non sono stato meno squallido che nei tuoi confronti. E parli di verità. Ma che cosa ne sai tu della verità di Valpreda? Molto poco. Ma, a tuo parere, la verità è libertà soltanto quando risponde ad alcuni dettami ideologici. Molto vicini alla verità politica dei bolscevichi che tu mi rimproveri. Valpreda andava difeso perché non aveva fatto quell’attentato. Perché dietro quell’attentato c’erano tutte quelle forze che ben sappiamo e che ho scritto nel libro. Ma Valpreda era un personaggio “utile” alle forze che preparavano la repressione, e onestamente l’ho spiegato. Da anarchico che non copre le piccole vergogne per presentare solo personaggi “limpidi e fulgenti”. Questa è anarchia, cioè verità, come peraltro dici tu in un contesto per me inaccettabile.

Dovevo scrivere che Valpreda era un campione delle classi oppresse? Che non era controllato dalla polizia e dai servizi segreti insieme ai suoi irresponsabili compagni? Che Giuseppe Pinelli non aveva buttato Valpreda fuori dal circolo? È questo che dovevo scrivere per non fare un libro antianarchico? Dovevo scrivere una “variante anarchica” di quello che hanno sempre fatto i redattori dell’Enciclopedia sovietica? Forse non è un caso che tu usi il termine “oggettivamente” per definirmi antianarchico: l’ho sentito troppe volte usato dai bolscevichi per definire “oggettivamente” controrivoluzionaria l’azione di Machno o di altri che non accettavano il diktat dei rivoluzionari di professione. Non mi impressiona. Bene non ho scritto cose “politicamente corrette” (versione moderna dell’intolleranza bolscevica), proprio perché sono anarchico. E perché ho fatto un libro anarchico su una vicenda che ha colpito, tra l’altro, l’anarchia.

E veniamo alla tua vicenda. Dopo averti definito anarchico individualista, come da tua dichiarazione all’arresto e al processo (p. 103), ho scritto: «Ma subito dopo parte una campagna stampa su quasi tutti i giornali che lo definiscono fascista, portando come prove una serie di fatti (assalti a sedi di partiti di sinistra e altro) che però cadranno durante il dibattimento». E allora? Qui ribatto a tutte le vergognose e false accuse che ti sono state fatte. E contro cui negli anni passati, ma anche recenti (ma tu non sai dei miei scontri pubblici, davanti a centinaia di persone, con Giuseppe Nicotri de “L’Espresso” o con Gianni Barbacetto del “Diario”) mi sono battuto. Ti diffamo? Sono antianarchico?

Veniamo alla frase che ha suscitato le tue reazioni: «Ma il suo caso sembra riservare altre sorprese. Starebbero emergendo (il condizionale sembra d’obbligo in questa storia) nuovi elementi su personaggi che l’avrebbero indotto a compiere quel gesto: forse alcuni protagonisti della strategia della tensione».

Bene qui c’è la testimonianza di Carlo Digilio che coinvolge anche Francesco Neami e Marcello Soffiati, sulla tua permanenza in un appartamento in via Stella a Verona, dove saresti stato anche curato da Carlo Maria Maggi. Soggiorno avvenuto prima dell’attentato in via Fatebenefratelli a Milano. Sono un “intellettuale organico” al servizio del “partito dei PM”? Non mi sembra proprio: non prendo per oro colato le cose scritte da un giudice (Guido Salvini, perché di Antonio Lombardi non uso nessun verbale e di Salvini, o altro magistrato, non sono consulente tecnico: sei stato male informato, o peggio).

Come mai un nazi-fascista, ex informatore dei servizi segreti americani, fa il tuo nome? Come mai racconta in modo circostanziato questi fatti? Solo per colpire un anarchico che è già stato condannato all’ergastolo? Difficile crederlo: quale sarebbe lo scopo? Perseguitarti? Ma se sei già fuori gioco! Se la tua questione non ha più rilevanza politica! Da queste considerazioni nasce il mio condizionale che non è un’accusa, ma una onesta e doverosa (anche se personalmente dolorosa, viste le mie precedenti prese di posizione a tuo favore) ammissione di un dubbio. Quelli che hanno soltanto certezze e non dubbi non sono miei compagni. Anche se si dichiarano anarchici. In oltre trent’anni di appartenenza all’anarchismo ho conosciuto troppi “anarchici” pieni di incrollabili certezze cambiare opinione politica e “darsi” ai partiti di potere.

Infine, io non ti ho attaccato personalmente, non ho disconosciuto la tua identità anarchica, e se scrivo che eri un piccolo delinquente è perché sei tu stesso che lo scrivi nel tuo libro Storia di un terrorista. Allora dov’è la calunnia?

Rispondi con franchezza, invece, a queste domande su cui hai sempre taciuto: 1. Hai mai soggiornato nell’appartamento di via Stella a Verona? 2. Sei stato curato da Carlo Maria Maggi? 3. Quali sono i tuoi rapporti con Neami e Soffiati? 4. Hai avuto colloqui con Digilio o lo hai incontrato?

Luciano Lanza

P.S. Sono fiero di aver scritto quel libro.

19 Ber

15 gennaio 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

nella più recente delle tue lettere (del 30 dicembre) hai sfiorato un tema, quello della “tossicodipendenza”, da me sentito con particolarmente dolorosa acutezza. Non fosse che per i non pochi amici che la “roba” si è portata via e per la sofferenza provocatami dal disprezzo riservatomi da persone che stimavo, proprio per il fatto di avere appartenuto io stesso alla schiera dei “dannati” che bucano. Ti risposi ripromettendomi di affrontare, a mia volta, questo tema in una prossima lettera. Cerco di farlo ora.

Tutte le mie opinioni, i miei giudizi, le mie scelte, se vogliamo tutta la mia personale “Weltanschauung”, non hanno mai trovato origine nella adesione “a priori” ad una qualche teoria, ma sono la risultante di personalmente vissute esperienze. Anche tu, nella tua lettera, mi dici dell’effetto, sul piano del giudizio, che ha avuto su di te l’esperienza vissuta nel carcere di Bergamo, dove hai conosciuto dei “tossici” nella loro dimensione umana e non più soltanto attraverso la visione distorta che ne viene data. Comprenderai, quindi, la mia tendenza a spiegarmi più attraverso la narrazione aneddotica di episodi vissuti che attraverso presuntuosi discorsi in chiave analitico-scientifica (ammantati di ipocrita finta obiettività). Voglio, perciò, raccontarti un piccolo episodio che ha per protagonista uno dei tanti, altrettanto “piccoli”, disprezzati “drogati”.

Dunque, arrivato a Livorno (assegnato ad una sezione di “semiliberi”) faccio conoscenza con un “coinquilino” livornese che, anche se come me rientrava in carcere la sera, aveva un’abitazione in città. Ci andava nelle ore in cui non lavorava e non era in cella. Questo appartamento lo dividevano in tre: tutti e tre “tossici”, tutti e tre ex carcerati (detto per inciso: oggi come oggi due di loro sono morti e il terzo è ricoverato per uno stadio avanzato di AIDS). Beh, andavo qualche volta in questa casa e ci ho conosciuto un ragazzo che ci andava solo per potersi “bucare in pace”. Una sera, poco prima dell’ora di dover rientrare, incontro questo ragazzo in un bar. Era già abbastanza ubriaco e mi dice “Franco, me lo offri un bicchiere di vino?” Io, per scherzo, gli dico: “Volentieri, ma sta attento perché mi diventi alcolizzato”. Diventa serio, poi ride, poi ancora serio e mi dice: “Ah, ah! Divento alcolizzato! Sono già alcolizzato e anche tossico e perfino finocchio. L’AIDS ancora non ce l’ho, ma se lo piglio non me ne frega niente”. Tutto questo ad alta voce e, rivolgendosi a tutti i presenti, ha continuato: “che cazzo ve ne frega! Stronzi! Tutti stronzi! Vi spacco il culo a tutti!”

Beh, Alfredo, quella specie di sfogo mi avrebbe aiutato a capire, se già non avessi conosciuto e vissuto quella rabbia, quanta sofferenza si porta dietro e sta dietro il passato esistenziale di un “tossico” e quanto potenziale represso di rivolta sta dietro la facciata. Provavo la voglia di dargli una sberla e allo stesso tempo di abbracciarlo come un fratello.

Un paio di mesi dopo ci si era incontrati e si era finiti dentro un capannone in demolizione per farci assieme una “pera”. Mi capitò di “collassare”. Tieni presente che questo ragazzo, oltre che “tossico”, “marchettaro” e ubriacone rissoso, è anche ladro (aveva persino rubato a casa sua) insomma, un tipo che chiunque definirebbe “amorale”. Beh, io svengo per “overdose”, lui sa benissimo che ho ancora in tasca 200.000 lire (le ha viste quando abbiamo comprato la roba). Cosa fa? Secondo il “buonsenso” della “gente per bene” c’era da aspettarsi che mi fregasse soldi e orologio e mi lasciasse per terra. Invece, lui corre a fermare un’ambulanza che passa vicino, gli spiega cosa è successo e rimane lì fin che non mi fanno il “Narcan” e mi sveglio. Non solo, convince la dottoressa dell’ambulanza a lasciarmi là senza andare al pronto soccorso. Mi rianimo e guardo in tasca: soldi e documenti non ci sono più. Lui mi guarda e mi dà il portafoglio (con tutti i soldi dentro) e mi dice: “L’avevo preso io perché non trovassero i documenti e avessi rogne col carcere, gli ho dato un nome falso, quello di un mio cugino, che tanto è già schedato per “tossico”, così non hai guai”.

Non so come tu possa interpretare questa storia, per me si tratta di un episodio che dimostra come, anche tra i più disprezzati dei “tossici” ci può essere posto per sentimenti di amicizia e di solidarietà. Per oggi mi fermo qui. Certo ci sono anche tanti episodi opposti, perfino ripugnanti, che potrei raccontarti sul mondo dei cosiddetti “tossici”. Però, sono convinto che la maggior parte di loro siano individui schiacciati dal sistema e che non riuscendo a trovare la via e il mezzo per ribellarsi, si lasciano andare alla ricerca di una “anestesia”. Credo che non vadano emarginati anche da noi o “giudicati” dall’alto, ma che ci si possa e debba confrontare in una ottica paritaria.

Un fraterno abbraccio,

Gianfranco

20 Ber

18 gennaio 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

do riscontro a due tue lettere, rispettivamente del 10 e del 14. Dalla prima apprendo con piacere del miglioramento delle condizioni di salute di * e del fatto che egli si è sufficientemente ristabilito da poter recarsi all’estero a lavorare. Mi associo al tuo augurio che gli sia dato di costruirsi un avvenire migliore e soprattutto corrispondente ai suoi desideri ed alle sue scelte. Per quanto riguarda *, non ho avuto, almeno finora, occasione di vederla. Figurati che io la pensavo in Svizzera. Mi hanno, invece, detto che si trova in Italia, ma non ho creduto chiedere ragguagli. Se lei lo ritenesse, non avrebbe difficoltà a rintracciarmi ed io la vedrei con piacere (anche se la nostra passata conoscenza si è limitata a sporadici rapporti epistolari). Riguardo ai titoli dei libri che mi hai preannunciato, mi sembrano promettenti. Quando usciranno è probabile che ci accadrà di parlarne e, magari, discuterne (nella misura in cui me lo permetteranno le mie “deplorevoli” condizioni psico-fisiche). Non sapevo che neppure ricevevi più la rivista “A”, a me, nonostante tutto, continuano a spedirla. Comunque, non perdi molto.

Per tanti anni ero stato affezionatissimo a quel giornale, che ho seguito fin dal primo numero. Gli attribuivo delle potenzialità, che forse aveva ma alle quali ha abdicato.

Di Riccardo d’Este non ricordo il libro di cui mi fai cenno. Ho, invece, presente, sull’argomento, un volumetto, di autori vari, da lui curato ed editato nel 1990 dalle edizioni “Nautilus”. Il titolo era Intorno al drago (dove “drago” sta per anagramma di “droga”) e aveva per sottotitolo “La droga e il suo spettacolo sociale”. Personalmente ho trovato quel testo molto interessante e una delle, non molte, cose intelligenti che si siano mai dette sul tema. Trovo azzeccatissima la tua individuazione nelle droghe di caratteristiche protesiche. Si tratta di una analogia che già tu hai proposto parlando delle armi (e che, anche in quel caso, mi sembra estremamente pertinente).

Certo, proprio come vi sono droghe e droghe (anche se tutte queste sostanze hanno qualcosa che le accomuna, gli effetti e ciò che un individuo vi cerca possono essere molto diversi) vi sono protesi e protesi. Alcune possono essere funzionali ad un rafforzamento (con mezzi artificiali) della personale “potenza” e/o “efficienza”. Altre possono solo aiutare (o illudere di poterlo fare) a superare una condizione di angoscia diventata intollerabile. Personalmente, non mi è mai capitato, per esempio, (e credo che la cosa non sia priva di significato) di conoscere dei fascisti che facciano uso di eroina. Molti fascisti, al contrario, hanno sempre fatto ricorso a degli stimolanti (come può esserlo la cocaina). Si può parlare solo di ciò che, per esperienza diretta o indiretta, si conosce. Nel mio caso personale, non mi vergogno di confessare di aver spesso fatto uso di “oppiacei”. Non vi ho mai ricercato particolari “piaceri”. Posso dire che tutto ciò che mi hanno dato è stato il godimento di una, seppur effimera, condizione di “atarassia”. Talvolta, addirittura, è stato per me un mezzo per “esorcizzare” il desiderio di uccidermi. Per me l’eroina è sempre stata proprio quello che tu (giustamente) dici che non dovrebbe mai essere: “… protesi per lenire le sofferenze”. Ti farò (è il mio modo per cercare di spiegare quello che penso) un modesto esempio. Ecco, subito dopo essere venuto a conoscenza di quello che Lanza aveva scritto nel suo libretto sono quasi scoppiato di rabbia e disperazione. Voglia di ammazzarmi, ecc. Però, pensando a quanto gente come lui se ne sia strafottuta (e forse ci abbia riso sopra) quando avevo cercato di uccidermi, ho lasciato perdere. Però, ho riprovato il bisogno della “protesi” (eppure, proprio per evitare di ricaderci, stavo a “metadone”). Beh, mi sono sbattuto alla ricerca di qualche soldo, ho inventato false “ineludibili” necessità per elemosinare un prestito, …tutto per poter andare in “piazza”, cercare uno che vendesse per comprarmi una “busta”. Chi me l’ha venduta (una donna) mi ha anche sfottuto: “ma tu, non avevi detto che smettevi per sempre? Non illuderti, siamo tutti uguali, di noi ormai non ne esce nessuno. Bentornato!”

Non è andata come lei pensava, dopo quella volta non ho bucato più. Però, rimane il fatto che della “protesi” ho avuto bisogno. E allora? È giusto combattere la “protesi”, oppure quello, e solo quello, che andrebbe combattuto è un mondo e un sistema che possono spingere ad avere bisogno di questa, stramaledetta, “protesi”.

Ricambio il tuo abbraccio con fraterno affetto di compagno.

Ciao!

Gianfranco

21 Bon

21 gennaio 1999
Catania

Caro Gianfranco,

ho qui le tue lettere del 14 e del 15 e mi affretto a risponderti dopo averti ringraziato per la fiducia che vuoi riporre in me e per avermi inviato la lettera del nostro amico. Interessante sotto molti profili. (Tra parentesi, il Dott. Lanza non è dottore, me lo ha “confidato” lui stesso chiedendomi – all’epoca in cui ci parlavamo – dove mi fossi laureato: saputo che mi ero laureato a Catania ha detto che le mie due lauree valevano quanto il suo semplice diploma di ragioniere preso a Milano). Pensa un poco!

A proposito del libercolo in questione, sempre del nostro amico, potresti inviarmene una copia (nel caso che la cosa non ti costasse fatica), oppure dirmi dove posso chiederlo? Te ne sarei grato.

Sulla dichiarazione della Digos – bisognerebbe vedere a quanto tempo fa risale esattamente – occorre mettere una maggiore attenzione, in quanto non v’è dubbio che io ho la posta controllata, sia in arrivo che in partenza (quest’ultima certamente, la prima soltanto forse). Io penso che anche tu debba essere ufficiosamente sotto controllo in genere e in particolare per la posta. Quando la polizia parla di “frange insurrezionaliste” si riferisce evidentemente proprio a me e ai compagni che in questo momento (una settantina) sono sotto processo a Roma per la “montatura del procuratore Marini”, e quindi implicitamente a noi due, ma su questo punto è bene essere incerti (niente dietrologie, per carità!) e comportarsi come se si fosse certi. A questo proposito ti inserisco la copia di alcune note da me redatte a margine del documento dei carabinieri (ROS) a fondamento delle accuse che mi sono state mosse. Visto il nuovo rapporto che sta intercorrendo tra di noi è bene che tu sappia come stanno realmente le cose in questo processo perché potresti trovarti a fronteggiare qualche “domanda indiscreta”.

Sull’insurrezionalismo contemporaneo, anarchico ovviamente, io ho scritto moltissimo e nei prossimi mesi, come ti ho di già comunicato, usciranno dei libretti che ti spedirò regolarmente. A proposito, dimmi quando ti arriva quello su Stirner e il pensiero selvaggio che ti ho spedito pochi giorni fa.

Tornando al nostro amico L. L., le sue domande sono sbirresche, e su questo non ci piove, però lasciano intendere qualcosa d’altro che per il momento non capisco bene, sembra che preannuncino una presa di distanza ufficiale, ben più corposa di quella del libretto di cui sopra, che non ho letto. Mi auguro di no, ma per come conosco questa gente, temo di sì.

Ho letto con simpatia l’episodio del tuo amico “tossico” e del suo comportamento umano e coerente. Sono convinto sempre di più che bisognerebbe uscire dai luoghi comuni delle etichette, ma non sempre ci riusciamo. Comunque sull’argomento credo di averti detto in una mia precedente lettera come la penso.

Per il momento mi fermo qui.

Ti abbraccio con affetto,

Alfredo

Allegato

Note riguardanti il Documento n. 148/254 7 1994 di prot. del 23 aprile 1996 del Raggruppamento Operativo Speciale Carabinieri, Sezione Anticrimine Roma. Oggetto del documento: Annotazione relativa agli accertamenti esperiti sul conto di Bonanno Alfredo Maria, ecc.

Queste note seguono lo svolgimento del documento di cui sopra e approfondiscono alcuni dei tanti argomenti in esso trattati, mettendone in risalto gli errori, le contraddizioni, e sottolineando invece le parti esattamente sviluppate, in particolare quelle che concernono le teorie insurrezionaliste ricavabili dai miei scritti presi in esame.

Come apparirà chiaro nel corso della lettura, alcuni errori sono dovuti a mancanza di informazione esatta da parte dei carabinieri, altri errori sono dovuti a valutazioni illogiche a cui gli stessi arrivano dopo avere esposto esattamente alcune mie teorie. Alla fine, con le mie tesi insurrezionali, si è voluto giustificare non solo la costituzione ma anche la teorizzazione di una “banda armata”, in aperta contraddizione con quello che io ho scritto e sostenuto non solo negli articoli e nelle lettere prese in esame nel documento sopra citato dei carabinieri, ma in tutti i miei scritti degli ultimi trent’anni.

Nota 1. Rapporti conAzione Rivoluzionaria

A p. 3 dell’ “Annotazione” è scritto: «Nel 1980 in Emilia Romagna, in Sicilia ed in altre località, venivano tratte in arresto... Bonanno Alfredo e altre 19 persone accusate di rapine... Il 30.6.1980 il Giudice Istruttore dei Tribunale di Bologna disponeva la scarcerazione degli arrestati per insufficienza di indizi».

La conclusione non è esatta. Dopo opportuni interrogatori siamo stati tutti scarcerati per assoluta mancanza di indizi. In più, poiché il giudice istruttore aveva avanzato l’ipotesi che io potessi fare parte di “Azione Rivoluzionaria”, ho dimostrato la mia estraneità a questa organizzazione clandestina citando un mio articolo pubblicalo sul n. 21 di “Anarchismo” del maggio giugno 1978, p. 147, dove scrivevo riferendomi a questa organizzazione le seguenti parole: «Possibile che ancora si torni a ragionare nei termini dell’etichetta organizzativa, per cui AR [Azione Rivoluzionaria], solo per il fatto di aver messo una bella frase di Durruti [famoso anarchico spagnolo morto nella rivoluzione del 1936] in testa al suo documento più ampio e analitico, debba considerarsi la sola alternativa possibile alle BR [Brigate Rosse]? Possibile che non si comprenda che la vera e sola alternativa è la lotta armata generalizzata, spinta fino a livello insurrezionale, fatto ben più significativo delle più elevate realizzazioni delle organizzazioni storiche».

In risposta “Azione Rivoluzionaria”, in un suo documento pubblicato sul n. 25 di “Anarchismo” del gennaio febbraio 1979, p. 15, riportando la citazione di cui sopra, concludeva chiedendosi: «Che significa? [quello che io avevo scritto] niente, o qualcosa di peggio, merda o giù di lì. Da una parte si consumano fiumi di inchiostro, di morotea “cauta attenzione” alle organizzazioni “staliniste” per metterne in luce le potenzialità controrivoluzionarie, poi si scopre che il problema non è quello di organizzare le forze non leniniste ma di “generalizzare le lotte”».

Ogni commento mi sembra superfluo. Dopo avere letto questi due passi il giudice istruttore di Bologna ci ha scarcerato.

Nota 2. Lettera mia del 30 novembre 1992

A p. 13 è scritto: «Al termine [della lettera il Bonanno] riferisce al […] dell’invito ricevuto dai compagni della Grecia circa una serie di dibattiti ed assemblee. Il Bonanno dà notevole importanza all’invito in quanto ritiene che possa essere l’occasione giusta per parlare del “neo progetto mediterraneo”».

A p. 22 queste conferenze in Grecia saranno dichiarate dall’estensore della “Annotazione” come mai avvenute.

Nota 3. Altra lettera del 30 novembre 1992

Anche per questa altra lettera, diversa dalla prima, il redattore della medesima “Annotazione” alle pp. 13 14 scrive: «[Bonanno], esprime la sua soddisfazione per l’invito ricevuto dai compagni greci... e indica i temi di maggior interesse che dovrebbe trattare: solidarietà rivoluzionaria verso i compagni criminalizzati dallo Stato, dissociazione ed amnistia, limiti d’impostazione del modello quantitativo marxista di lotta rivoluzionaria, critica della logica quantitativa delle lotte sociali, critica dei metodi sindacali e parasindacali, tramonto del riformismo nella direzione postindustriale, contraddittorietà delle lotte per la difesa del posto di lavoro nella prospettiva di ristrutturazione del capitalismo e dello Stato, necessità dell’attacco diretto di massa, possibilità di sviluppo degli organismi di massa insurrezionali attraverso la creazione dei nuclei autonomi di base non necessariamente legati al mondo del lavoro... possibilità di sviluppo della lotta insurrezionale di massa verso il comunismo anarchico, possibilità di costruire una rete di organizzazioni insurrezionali di massa a livello internazionale, mezzi e obiettivi».

Come si vede, in questa lettera precisavo quali potevano essere i temi da trattare in quelle conferenze di cui la “Annotazione” nega l’esistenza a p. 22.

Da notare, fin d’ora, che in questo elenco di problematiche affiora con chiarezza il concetto di organizzazione di massa e di lotta di massa, cioè di movimenti e di lotte nel corso delle quali gli anarchici realizzano dei fatti di attacco contro il potere insieme ad altre persone che non sono anarchiche, ma che entrano in rapporto con gli anarchici proprio perché vogliono affrontare una lotta specifica (rivendicativa, a esempio, oppure di difesa di alcuni diritti, per avere la casa, per ottenere o difendere un lavoro, per impedire il nucleare, per contrastare la crescita del razzismo, ecc.).

Anche in questo caso si vede che si tratta della preparazione delle conferenze da tenere in Grecia, conferenza di cui si nega l’esistenza a p. 22.

Nota 4. Convegno di Forlì del 13 15 maggio 1988

A p. 18 dell’ “Annotazione” si legge: «Dal 13 al 15 maggio 1988, in Forlì, nel corso di un convegno antimilitarista organizzato dalla FAI, Bonanno Alfredo [ed altri]... che avevano invitato i “proletari a fare propria l’azione diretta sovversiva fuori e contro ogni delega”, venivano accusati di “terrorismo” dagli oratori, ed estromessi dal congresso».

Su questo punto la Federazione Anarchica Italiana ha emesso il seguente documento dove si legge: «I recenti fatti repressivi amplificati dalla stampa, sulla base dei comunicati della magistratura e dei ROS, rappresentano un’articolazione furbesca delle nuove tecniche di controllo sociale, basata sull’invenzione di appartenenze, congressi, espulsioni, ruoli di comodo. In particolare la FAI non ha tenuto un Congresso a Forlì nel 1988, nel proprio patto associativo non prevede l’espulsione, a maggior ragione nei confronti di chi non ha mai aderito ad essa».

In effetti il convegno di Forlì fu un convegno e non un congresso, come erroneamente si conclude qui sopra, e non fu organizzato dalla FAI. Nel corso del dibattito venne appunto esposta la tesi di rifiutare ogni delega organizzativa, di qualsiasi tipo, quindi anche quelle molto vincolanti che legano i partecipanti a una organizzazione armata clandestina, e non ci fu nessuna estromissione dalla FAI anche per il semplice motivo che chi scrive non ha mai fatto parte della FAI, come anche gli altri compagni indicati dal redattore della “Annotazione”.

Nota 5. Articolo mio dal titolo “Il lavoro del rivoluzionario

Riguardo questo mio articolo il redattore della “Annotazione”, a p. 21, con parole sue, sottolinea il punto centrale della mia tesi scrivendo: «Quanto sopra enunciato non è altro che la strategia di attacco allo Stato e al Capitale sul tema dell’antinucleare e dell’ecologia...», e poi passa a citare il n. 55 di “Anarchismo”, del dicembre 1986, dove «veniva pubblicato un articolo, a firma di sedicenti “Operatori Rivoluzionari”, che fornisce minuziosa istruzione corredata da illustrazioni grafiche su come sabotare un traliccio dell’ENEL ...».

Su questo punto allego una sentenza della Corte di Cassazione che mi rinvia alla Corte d’appello di Catania dove per la pubblicazione del volantino di cui sopra ero stato condannato a otto mesi. Corte d’appello che, rifacendo il processo, mi manda assolto.

Nota 6. Articolo mio dal titolo “Nuove svolte del capitalismo”

Il redattore della “Annotazione”, a p. 21, riferendosi a questo articolo lo definisce: «[…] di assoluta rilevanza per la delineazione della struttura dell’organizzazione rivoluzionaria anarchica insurrezionalista in esame».

Ora, questo articolo pubblicato su “Anarchismo” è la scaletta utilizzata da me nelle mie conferenze tenute in Grecia nel gennaio del 1993.

Leggendo l’articolo in questione si capisce bene non solo che non esiste nessuna banda armata, ma che quanto si trova scritto nell’articolo si riferisce a organizzazioni di massa, cioè con la partecipazione della gente e dirette a realizzare delle lotte specifiche contro obiettivi di natura repressiva.

Poiché questa conclusione è sotto gli occhi di tutti, anche del redattore della “Annotazione”, quest’ultimo si è trovato di fronte ad un dilemma irrisolvibile:

A) o il testo riguardava effettivamente la teoria di una banda armata clandestina, e quindi non poteva essere la scaletta di conferenze pubbliche tenute nelle università greche (nessuno sarebbe tanto folle da andare a parlare in pubblico di come organizzare una banda armata),

B) o il testo riguardava effettivamente la teoria di una organizzazione di massa, a livello ufficiale, di carattere insurrezionale, ma non clandestina e cioè del tutto diversa da una banda armata (e quindi era esattamente quello che diceva di essere: la scaletta delle conferenze da tenere nelle università greche).

Tra queste due possibilità il redattore ha scelto la prima concludendo, a p. 22: «Non si tratta quindi di interventi pubblici come indicato in calce all’articolo, ma di manifestazioni “interne” alla realtà antagonista greca, peraltro in stretto contatto con l’associazione in esame attraverso l’interposizione degli indagati...».

Questa incredibile conclusione è smentita dai fatti.

Primo, alle mie conferenze in Grecia, del gennaio del 1993, parteciparono centinaia di persone, non solo, ma in quei giorni io rilasciai una intervista al giornale “Elefthoripia”, l’equivalente del nostro “Corriere della sera”, che qualche settimana dopo nel suo inserto settimanale a colori del 28 febbraio 1993, alle pp. 50 53, pubblicava un servizio con le mie fotografie, il testo ridotto della mia intervista e la cronaca delle conferenze tenute ad Atene e a Tessalonica.

Il testo integrale di queste conferenze alla facoltà di Lettere di Tessalonica, con una parte delle conferenze tenute al Politecnico di Atene, il testo integrale dell’intervista, e il dibattito che si è sviluppato, sono stati pubblicati in Grecia in volume.

Sia detto tra parentesi, io ho tenuto nel corso del 1994, del 1995 e del 1996, molte altre conferenze nelle università italiane (quindi non solo in Grecia), in particolare a Torino, Bologna, Teramo, Firenze, alla “Sapienza” di Roma (alla Facoltà di Sociologia tre conferenze nel febbraio del 1996). Il tema è stato sempre: trasformazioni del capitale e dello Stato e realizzazione di lotte anarchiche capaci di coinvolgere la gente nell’attacco contro il capitale e lo Stato.

Nota 7. Pubblicistica a circolazione interna

Più volte nella “Annotazione” il redattore sottolinea, come fa a p. 23, una cosa non vera riguardo le nostre pubblicazioni: “Anarchismo”, “ProvocAzione”, i nostri libri, opuscoli, ecc., affermando che quando io scrivo “stampa nostra”, deve essere «intesa come pubblicistica a circolazione interna».

Il motivo di questa precisazione è evidente. Se una banda armata pubblica dei documenti questi non possono essere che a circolazione interna.

Invece le nostre pubblicazioni sono anche nelle librerie, sono diffuse nelle Università e nelle scuole, sono correntemente spedite per corrispondenza, vengono diffuse nelle manifestazioni, e le copie d’obbligo sono sempre consegnate alla Prefettura.

È evidente qui l’intento che il redattore della “Annotazione” vuole raggiungere con l’affermare questo fatto del tutto falso.

Nota 8. Ancora dell’articolo mio “Nuove svolte del capitalismo”

Il redattore della “Annotazione”, alle pp. 23 24, riporta alcuni passi del mio articolo che sono molto chiari, e che dimostrano esattamente la tesi opposta a quella sostenuta dal redattore stesso: «Pensiamo che in sostituzione delle federazioni e dei gruppi organizzati in modo tradizionale, modelli giustificati da strutture economiche e sociali della realtà ormai inesistenti e superate, vadano costruiti gruppi di affinità costituiti da un numero non molto esteso di compagni, legati insieme da una profonda conoscenza personale... I gruppi di affinità possono a loro volta contribuire alla costituzione di nuclei di base. Lo scopo di queste strutture, è quello di sostituire, nell’àmbito delle lotte intermedie, le vecchie organizzazioni sindacaliste di resistenza, anche quelle che insistono nell’ideologia anarco sindacalista. L’àmbito di azione dei nuclei di base è costituito dalle fabbriche... dai quartieri, dalle scuole, dai ghetti sociali e da tutte quelle situazioni in cui si materializza l’esclusione di classe, la separazione fra esclusi ed inclusi... Diversi nuclei di base possono costituire coordinamenti [leggi: organizzazioni informali] col medesimo scopo, dandosi strutture organizzative più specifiche ma sempre fondate sui princìpi della conflittualità permanente, dell’autogestione e dell’attacco».

Vengono qui evidenziati tre punti essenziali di queste unità autonome di base, o nuclei di base, o strutture autogestite, che dir si voglia: la conflittualità permanente, l’autogestione e l’attacco.

Più avanti lo stesso redattore riporta questa mia frase: «Il campo di azione dei gruppi di affinità e dei nuclei di base è costituito dalle lotte di massa». (Vedi a p. 24).

Tutto il discorso organizzativo dei gruppi di affinità, delle organizzazioni informali e dei nuclei di base, si riassume perfettamente nella frase suddetta. Perché l’estensore delle “Annotazioni” non ne ha tenuto conto? Perché sarebbe stato costretto ad ammettere la non esistenza di una qualsivoglia “Banda armata”.

Riporto qui di seguito alcuni passi di due documenti pubblicati rispettivamente nel 1977 e nel 1982, riguardanti il funzionamento di organizzazioni informali di questo tipo.

Il primo documento riguarda l’Organizzazione del nucleo autonomo di base come venne realizzato dal Movimento autonomo di base dei ferrovieri del compartimento di Torino (come si vede molto tempo prima della nascita degli attuali Cobas).

Il secondo è il Documento organizzativo delle Leghe autogestite, redatto dal Coordinamento Leghe autogestite contro la costruzione della base missilistica di Comiso.

Il Movimento autonomo di base dei ferrovieri di Torino nel 1977 era un’organizzazione informale costituita da diversi nuclei di base. Esso venne formato da un gruppo di affinità di compagni anarchici costituitosi allo scopo di organizzare i ferrovieri in una lotta contro la loro Azienda, lotta imposta sui princìpi di cui sopra: conflittualità permanente, autogestione e attacco. Il Movimento restò in vita per alcuni anni.

Il Coordinamento Leghe di Comiso nel 1982 1983 era un’organizzazione informale costituita da diverse Leghe (nuclei di base) allo scopo di organizzare la popolazione di Comiso, di Ragusa e dei paesi circostanti, in una lotta contro la costruzione della base missilistica americana. L’iniziativa venne presa da un gruppo di affinità anarchico, costituitosi espressamente a questo scopo, di cui facevano parte compagni italiani e stranieri. La lotta aveva lo scopo dell’attacco contro la base e si fondava sulla conflittualità permanente e l’autogestione. La sua durata fu di due anni esatti.

Nel primo documento (del Movimento ferrovieri di Torino) a p. 5 si legge... «Il Nucleo Autonomo di Base è un organismo di lotta per la difesa dei ferrovieri che intende affermare il principio dell’autonomia della lotta. Per questo nega validità ai sindacati e denuncia la loro collusione col potere, in base al principio dell’autonomia, il Nucleo Autonomo di Base afferma la necessità della conflittualità permanente all’interno della realtà produttiva e la necessità di esportare le caratteristiche essenziali della lotta verso l’esterno, onde sfuggire alla chiusura corporativa... I metodi necessari alla realizzazione degli scopi di difesa degli interessi della categoria e quindi dell’intera collettività produttiva, sono scelti in armonia al principio di autonomia e di conflittualità permanente, restando inteso che l’utilizzo dello sciopero, come arma di lotta, va considerato criticamente: mentre, una grande attenzione va posta nella ricerca di altri mezzi di lotta più efficaci perché non facilmente controllabili da parte dell’Azienda».

Nel secondo documento (del Coordinamento delle Leghe di Comiso) a p. 4 si legge: «Princìpi generali: Conflittualità permanente. La lotta contro la costruzione della base può avere risultati positivi solo a condizione che sia costante, ininterrotta ed efficace. Una lotta saltuaria, sporadica, legata ad interventi occasionali, finirà per risultare perdente. Autogestione. Le Leghe sono autogestite, cioè non dipendono da alcuna organizzazione, partito, sindacato, clientela, ecc. Non ricevono soldi se non provenienti dalle sottoscrizioni spontanee degli stessi aderenti alle Leghe. Su questa loro autonomia si fonda la loro forza. Attacco. Le Leghe rifiutano i discorsi di mediazione, di pacificazione, di sacrificio, di accomodamento, di compromesso. Esse sostengono la necessità di un attacco contro gli interessi padronali che stanno realizzando il progetto criminale degli USA».

[Alfredo M. Bonanno]

22 Bon

22 gennaio 1999
Catania

Caro Gianfranco,

ho ricevuto oggi una richiesta di 10 copie del libretto Teoria dell’individuo. Stirner e il pensiero selvaggio, da parte di * da Brescia che nella lettera fa riferimento a una tua segnalazione fatta a lui direttamente. Ti ringrazio per quello che hai fatto per le Edizioni Anarchismo e per quello che farai.

Provvedo oggi stesso a spedire le copie richieste.

Ho anche avuto la tua del 18 e mi fa piacere che i titoli preannunciati prossimi a uscire nei mesi che verranno ti siano sembrati interessanti.

Tornando sul discorso delle droghe, capisco la differenza tra una droga e un’altra, anche se alcune non le ho mai sperimentate personalmente e altre sì, ma resta in piedi (ovviamente per me) la mia tesi sulla loro accettazione – a prescindere di qualsiasi uso (quantitativo) se ne faccia – soltanto come fatto personale sperimentativo. Si tratta di un allargamento, anche pericoloso o negativo, un allargamento dei piani della coscienza, dei quali usufruiamo solo in minima parte, che potrebbe qualche volta ridurci in un raccorciamento o in una disastrosa esperienza, ma ciò non toglie nulla alla validità del percorso “diverso” in quanto tale.

Penso che il territorio della libertà sia un viaggio nell’assolutamente desolato, dove noi stessi possiamo ricostruire puntualmente, a una a una, le nostre esperienze, senza nessuna protesi su cui appoggiarci, basta volerlo, e mettere a profitto la propria mente e il proprio cuore (più il sentimento e meno la ragione), in questa prospettiva l’ausilio temporaneo e circoscritto a quanto necessario – ma anche allargato a periodi consistentemente lunghi, non affetti però del tarlo dell’abitudine – può essere un mezzo potente per allargare la coscienza, ma poi l’esperienza dobbiamo farla noi, sempre più in fondo, anche a costo di giocarci la pelle. In sostanza in quel territorio, andando alla ricerca della libertà, andiamo alla ricerca del nostro nemico, e spesso questo nostro nemico scopriamo con raccapriccio che siamo noi stessi, e allora dobbiamo anche avere la forza di ucciderlo questo nemico, e fare nascere dalle sue ceneri qualcosa di diverso, un uomo nuovo.

Scusa la tirata, perdonami e voglimi bene.

Un abbraccio,

Alfredo

23 Ber

25 gennaio 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

ho passato, praticamente, l’intera notte completamente preso dalla lettura del tuo volumetto su Max Stirner. E pensare che ero stanchissimo e appena rientrato a casa mi ero steso sul letto, senza neppure farmi qualcosa per cenare. Avevo, comunque, ricevuto quel libro e (come spesso mi accade quando mi trovo un libro tra le mani) non ho resistito al desiderio di dargli almeno una “scorsa”. Beh, ci ho fatto mattina! Non sempre la mole di uno scritto vale come criterio per valutarne l’importanza. A mio avviso quel libretto è importante. Ti sono grato per avermelo mandato e, molto di più, per averlo redatto. L’opera di Stirner, indubbiamente, non è facile. Neppure il tuo libretto lo è del tutto. Esige uno sforzo ed un impegno anche da parte del lettore (in casi del genere non può limitarsi al ruolo di “fruitore passivo”, ma è costretto a pensare). De L’unico non sapevo molto: ne avevo trovato un fugace accenno, se ben ricordo, in un bollettino di “Croce Nera” (prima gestione). Mi pare ne fosse gestore ancora Giuseppe Pinelli, oppure l’Umberto Del Grande, dopo che Pinelli si... “suicidò alla Salsedo”. Più tardi, vidi citato Stirner nel libro di George Woodcock. Volli leggerlo e lo reperii presso la Biblioteca comunale, in una vecchia edizione (mi pare dei F.lli Bocca). Poi venne segnalata su “Umanità Nova” la sua riedizione a cura di una casa editrice che non conoscevo. Solo molto più tardi venni a conoscenza del fatto che tale “editrice” (mi pare si denominasse “N. S.”) era una emanazione del gruppuscolo neo-nazista guidato dalla coppia Freda-Ventura.

Una copia di questo libro (editato appunto dai due “amichetti”, non ricordo se in uno o due volumi) venne reperita, tra le mie cose, nel corso di una perquisizione della “mobile”, nel ‘70 o ‘71, non ricordo bene, quando ero stato accusato di un “reato comune” (art. 56 c. p. e 575 c. p. in relazione all’art. 628 stesso codice). Tra le cose che mi vennero sequestrate c’era appunto anche quest’opera di Stirner (unitamente ad un libro su Sacco e Vanzetti pubblicato tanti anni prima dall’ “Adunata dei Refrattari”, alla Breve storia dell’anarchia di Nettlau, ad un volume di poesie di Allen Ginsberg, a La scimmia sulla schiena di W. Burroughs e ad altre cose: un tirapugni, alcune cartucce di 7,65, ecc.). Beh, un giornalista, allora di grido, Walter Tobagi, dopo la tragica storia del 1973, scrisse che quel libro era stato ritrovato nella mia valigia e si premurò di trarne argomento per sostenere la mia “fascisticità” dicendo (quasi testualmente, perché non ho sott’occhio l’articolo) che emergeva la falsità della mia autodefinizione di “anarchico” proprio dalla “flagranza” del reperimento di un testo fascista e dal fatto che io mi fossi richiamato (cosa peraltro non vera) alla ideologia di Nestor Mackno che, secondo il “buonanima”, non può essere certo definito né “rivoluzionario” né, tantomeno, di “sinistra”. La “buonanima”, come vedi, ci istruiva sul fatto che Nestor Mackno altro non era stato che una “Guardia Bianca”, al soldo di Denikin e nostalgico di S. M. lo Zar di tutte le Russie.

Sarò anche una carogna, ma non riesco proprio a dispiacermi se quelli di “Prima Linea” lo hanno steso. Semmai, mi disgusta che se ne siano dichiarati “pentiti”.

Carissimo Alfredo, scusami la divagazione. Per me, purtroppo, è una sorta di “chiodo fisso”. Non posso, cioè, accettare di continuare, ancora oggi, dopo che ho passato un quarto di secolo in galera (e che galera: ho dovuto attraversare l’intero circuito delle “carceri speciali” inseguito da una “etichetta” (quella di “informatore sia per il SIFAR, che per Carabinieri e Polizia” – cfr. Giuseppe De Luttis, Il lato oscuro del potere) che ha tutte le caratteristiche, nel caso di un condannato all’ergastolo, assegnato alle “Carceri di Massima (in)Sicurezza”, di una istigazione all’omicidio, di tollerare le infamie di un sedicente “compagno” che entra in (permettimi, ripugnante) combutta con elementi come il folle mitomane Vinciguerra, il narcisista “efebo corrucciato” Casson, l’ambiziosissimo e frustrato G. I. Lombardi e il super-narcisista e super “rinnegato” Salvini (che, non dimentichiamolo, fece arrestare i suoi amici e compagni di un tempo, accusandoli dell’eliminazione di un fascistello). [Si tratta dell’uccisione del fascista Ramelli, n.d.r.].

Caro Alfredo, sono, come si suol dire “uscito dal seminato”. Me ne scuso, ma l’emotività, talvolta, prende il sopravvento e io, come sai, ero arrivato a cercare di uccidermi, per il male che certe persone (ma sono “persone”? o forse definirli così è troppo onore?) mi hanno fatto.

Mi sono fatto un caffè, l’ho bevuto e riprendo a scrivere un po’ più (almeno spero) calmo. Torniamo dunque a cose più serie di quanto non possano essere le mie personali “incazzature”.

Nella tua lettera del 10 gennaio, accenni alla ipotesi di un “foglio” da pubblicare e accenni alla tua attuale… “incapacità” (?!). La tua “Proposta” quindi non deve aver trovato seguito. Eppure per il semplice fatto che l’hai formulata nel suo dettaglio a qualcuno doveva interessare. Voglio dire che se ti sei deciso a proporla dovevi avere dei buoni motivi.

Pur comprendendo perfettamente (come non potrei, visto che personalmente sto attraversando momenti di completo sconforto interrogandomi, dolorosamente, sul senso di tutto ciò che, talvolta, vorremo illuderci di poter portare avanti, in faccia al dilagare, trionfante, della “merda” che ci circonda) la tua stanchezza, non credo che, per quanto ti concerne, si tratti di non sentirsene in grado. Ben altre iniziative hai portato avanti, da ben altre battaglie non ti sei sottratto. Ritengo, invece, che il tuo esitare di fronte all’assunzione di un onere gravoso ed impegnativo come può esserlo il dar vita ad un periodico, dipenda da una valutazione (forse più intuitiva che analitica) delle opportunità. A farla corta, credo che la tua scelta di “riapparire” con il metodo della pubblicazione di questi volumetti (non costosi, spesso di facile lettura, spazianti in diversi campi e problematiche della divulgazione del pensiero libertario) sia la più indovinata. Si tratta, a mio modestissimo avviso, di ridare vita e spazio ad un progetto, che non può esimersi dall’esigenza di essere di vasta portata. Ricostruire dei legami, dei rapporti di affinità e di riscoperta di una comunità di fini che situazioni contingenti possono avere apparentemente (ma, ripeto, solo apparentemente) smantellato. Un “foglio”, una pubblicazione periodica in grado di diffondere il pensiero libertario e, nel contempo, fungere da punto di riferimento e di aggregazione per gruppi ed individualità (nella storia dei movimenti anarchici, proprio perché movimenti non legati alla adozione di formule organizzative di tipo “partitico”, i giornali hanno, sempre, svolto questo ruolo di “collegamento” e di “referente” organizzativo) è essenziale ed irrinunciabile. Tuttavia, anche se per molti aspetti credo che non ci sia molto tempo da perdere ed esista l’esigenza di “fare in fretta” sono convinto della necessità di procedere un passo per volta. Prima, cioè, riallacciare (e se del caso far sorgere, ex novo) contatti e una “rete”, informale quanto si vuole ma solidale ed efficiente di contatti, scambi e divulgazione. Se, come io penso, l’intera storia delle “società” umane che si sono succedute e si succederanno, può essere vista come la storia di una contrapposizione e di una lotta tra la concezione “gerarchica” e “autoritaria” (ed in questa ottica non mi soffermo, in quanto inessenziali sulle differenze tra “autoritarismo” che si dice di “sinistra” e quello di “destra” che pure ostentano contraddizioni e contrapposizioni, anche sanguinose ma, cionondimeno, meramente apparenti) ed una concezione egualitaria e libertaria. Si tratta di un conflitto che non cesserà mai ed al quale non è possibile né lecito restare estranei.

Da parte mia, so bene (per mia istintiva natura, per quella che è stata tutta la mia esistenza, per quella che è stata la mia esperienza di vita) da quale parte stare. Poco importa se l’interesse dei padroni ha voluto (riuscendoci) a farmi passare per l’esatto contrario di quello che sono stato e sono. Poco importa (anche se emotivamente ciò mi importa molto, mi ha fatto e mi fa soffrire) perfino il vergognoso allineamento con “prenci e magistrati” cui si sono, oggi, dimostrati disponibili certuni che vantano il loro “anarchismo” d.o.c. Io, e solo io, ho il diritto di definirmi per quello che so di essere. Certo, visto che ne hanno la “forza”, gente come Lanza & C. (cioè i vari Torquemada in XVI: Lombardi, De Lutiis, Casson, Salvini, ecc.) può continuare ad insultarmi, attribuendo a me quell’epiteto di “fascista” che ben spetterebbe loro a pieno titolo. Io ero, sono e resterò fino all’ultimo attimo di vita anarchico. Beh, per venire al discorso iniziato prima vorrei dirti che, nella mia prospettiva, mi augurerei di vedere svilupparsi un’attività militante articolata su tre piani. Uno di ordine generale (se vuoi “generico”) consistente nel cercare, anche solo col modesto mezzo del dialogo occasionale, di controbattere la assurda “visione del mondo” che viene fatta accettare ed interiorizzare sul piano dell’immaginario collettivo (gli extracomunitari portatori di ogni male, i drogati come “pericolo pubblico”, i “finocchi” come diffusori dell’AIDS, ecc.). Il secondo piano dovrebbe essere quello dell’informazione (o “controinformazione” se così piace) nel far conoscere, cioè, fatti, episodi ed eventi che i grandi mezzi di comunicazione di massa occultano, ma che pure sono risaputi nel ristretto àmbito locale (per esempio, qualche tempo fa suscitò grande indignazione qui a Livorno l’episodio di uno sbirro che crivellò di pallottole un ragazzino “colpevole” di una infrazione stradale, così come la storia di un capo della “narcotici” (noto per i suoi metodi violenti per farsi dire da qualche ragazzetto dove aveva comprato la “roba”) che venne trovato con otto etti di cocaina e disse che erano per “uso personale”. Il terzo livello di impegno dovrebbe, a mio avviso, essere quello della diffusione (su di un piano anche “culturalmente” più elevato) del pensiero e del progetto libertario.

Ti saluto con un fraterno abbraccio,

Gianfranco

24 Ber

27 gennaio 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

ti ho scritto solo ieri, ma l’aver ricevuto oggi la tua (del 21 gennaio) mi induce a riscriverti. Ottocento lire in più regalate allo Stato…!

Beh, non saranno queste a rovinarmi (tanto, più finanziariamente “rovinato” di così…!). E pensare che c’è il giudice Casson che continua a dire e ripetere che sono stato per decenni uno… stipendiato dei “Servizi segreti” di mezzo mondo. Almeno precisasse le date: potrei richiedere la “liquidazione” e una, seppur modesta, pensione. Poi, se penso che sabato ho buttato via ventiduemila lire di “scatti telefonici”, nell’illusione di arrivare ad un onesto chiarimento con l’Amedeo Bertolo, riuscendo solo a ricavarne una nuova, ennesima, dolorosa “incazzatura”…! Passiamo a cose più amene: e così il nostro comune, adorabilissimo, “amico” appartiene alla schiera dei tanti “Fantozzi” (il suo “Mega Direttore galattico” che sia il Salvini?).

Non fraintendermi non nutro alcun pregiudizio nei confronti dei “ragionieri”. Ce ne sono stati di ammirevoli. Pensa che era un ragioniere anche quel Walter Audisio che offrì al “Ganellone” la possibilità unica di esibirsi pubblicamente nel suo spettacolo più edificante (quello di “Piazzale Loreto”). Beh il “Fantozzi” a cui mi riferisco non è proprio della stessa taglia. Al più, visto che (da buon specialista di “Piazza degli affari”) riesce a stabilire che un diploma di ragioniere conquistato a Milano, vale qualcosa di più di due lauree catanesi, gli si potrebbe consigliare di rendere più cospicui i suoi emolumenti offrendosi a Bossi per la stesura di articoli e/o discorsi sulla superiorità “menenghina” (e per estensione “lombarda” e del “nord”) in campo culturale.

Purtroppo (l’avrei fatto più che volentieri) non ho alcuna possibilità di farti avere il libro di Lanza. Da tempo hanno cessato di spedirmi i libri da loro editati (detto “en passant”, parecchio tempo fa, proprio il Fantozzi di Elèuthera, mi disse che i libri non me li avevano più mandati perché… non avevano il mio indirizzo!). Abitualmente se desideravo un qualche libro lo chiedevo a * (della libreria Utopia) ma ora…

Io quel volumetto avevo avuto modo di leggerlo a casa di Antonio (che l’ha ricevuto con dedica dell’Autore), poi l’avevo visto (e sfogliato per ricontrollare i passi che mi riguardavano) in un banchetto durante una festa organizzata dalla FAI locale. Ma non l’ho comprato. Le fotocopie delle pagine in cui vengo citato me le ha spedite Antonio Lombardo. Come reperirlo, dunque non so. Potrei comprarlo presso la sede degli anarchici locali. Ma, tranne con un paio, non ho rapporti e (cosa da non sottovalutare) sono talmente a secco in fatto di soldi da non potermi permettere di regalarli all’Elèuthera. Piuttosto, ti pagherei i libri che mi mandi tu, logico?

Venendo ad altro, mi sono a lungo, vanamente, sforzato di arrivare a capire il senso di quella nota informativa della Digos secondo cui io sarei stato in contatto con “anarchici insurrezionalisti”. La mia “condizionale” venne discussa il 20 agosto e tali “note” sono, quindi, di qualche tempo prima. Ammettendo che con la definizione di “insurrezionalista” si riferiscano a te, la cosa mi pare strana, dato che rapporti epistolari con te non li ho mai avuti prima d’ora. Ci scambiammo un piccolo numero di lettere in tempi lontani (nei giorni di Bergamo).

Quanto a quei compagni che sono attualmente sotto processo a Roma, ho solo letto qualcosa sui giornali, ma di loro come individui non so niente (a parte il fatto che sono dei compagni vittime di una oscena montatura e vittime anche del disinteresse di gran parte del cosiddetto “Movimento anarchico” che non ha saputo neppure esprimere la più elementare solidarietà). Personalmente non conosco nessuno di loro. Tendo a supporre che nel redigere “note informative”, quando non c’è niente da poter dire, vadano a pescare negli archivi per rintracciare qualche bazzecola talmente datata da apparire “archeologica”. Non so, più di dieci anni fa ebbi un breve dialogo-confronto epistolare con un compagno svizzero che era (ed è tutt’ora) in carcere. Oggi non so neppure dove si trovi (cioè in qualche galera, a meno – magari fosse – che sia uscito). Sapevo, anche dai cataloghi che mi hai mandato, che avevi affrontato il tema dell’insurrezionalismo in alcuni scritti e ti sarò grato se mi darai la possibilità di leggerli. Credo che ci sarà occasione di confrontarci ed è possibile che ci troviamo anche in disaccordo. Vedremo: come ti accennavo in una precedente lettera per me “anarchismo” e “insurrezionalismo” sono pressoché sinonimi. Dico pressoché perché, a mio avviso, tra i concetti implicati dai due termini non vale la procedura della “conversione semplice” ma quella “per accidens” del tipo: “Tutti gli A sono B, ma non tutti i B sono A”

Ho avuto le tue “Note” alla informativa dei carabinieri. Ciao! Un abbraccio,

Gianfranco

P.S. Ti allego, a titolo di cronaca, il volantino distribuito in Piazza Cavour dai compagni della FAI. Con loro non ho rapporti (a parte quelli personali con uno di loro). Mi ha, anzi, stupito che a distribuire questi volantini ci fosse un ragazzo con cui ho un discreto rapporto di amicizia, ma non immaginavo neppure appartenesse alla FAI.

Sempre a titolo di cronaca, quella stessa mattina, nella stessa piazza, c’era stata una distribuzione di volantini effettuata dai fascisti (della linea “rautiana”). Non te lo posso mandare perché quando me l’hanno dato l’ho stracciato e (se non fosse stato per l’intervento di alcuni “vigili”) ho corso il rischio di prendere un sacco di botte. A dare i volantini erano due ragazze (anche bellocce) ma intorno c’era una dozzina di ragazzotti, molto meno bellini ma molto più “robustelli” e con atteggiamento non molto pacifico. Certo, qualche anno fa i fascisti a Livorno non avrebbero potuto circolare coi loro volantini... boh! “O tempora o mores”.

Una nota. Qualche tempo fa, i fascistelli “rautiani” si sono anche beccati qualche cazzotto (e, a quanto si dice, dato bene) ma non sono stati né gli anarchici, né quelli dei “centri sociali”, né i “rifondaioli”, né, tantomeno, i pidiessini. A menare, indovina..., sono stati i ragazzi “ultras” della famosa “curva nord” dello stadio (va be’ che vanno allo stadio con le bandiere rosse coll’immagine del “Che” e che nel loro “circolo” – ci vado a bere una birra qualche volta – c’è uno strano connubio di falci e martello dipinte, a fianco alle “A” cerchiate e a quell’altro simbolo che credo sia quello degli “squatter”. Inoltre, dopo la morte di Edo Massari, sono partiti in una decina per partecipare alla manifestazione di Torino. Sai, io verso il fanatismo degli “ultra” del calcio sono stato molto diffidente, però questi della “curva nord” sono simpatici.

Ciao! un fraterno abbraccio,

Gianfranco

Allegato: Chiudere i campi aprire le frontiere

I cosiddetti “centri di accoglienza temporanea” per immigrati, messi in piedi da vari governi dei “regimi” democratici occidentali e gestiti da organismi laici o cattolici che dietro l’assistenzialismo nascondono in effetti una forte repressione poliziesca o comunque un’opera di diffuso controllo sociale, altro non sono che nuovi lager dove persone colpevoli soltanto di fuggire dalla miseria, dalla disperazione, da regimi dittatoriali vengono rinchiuse e costrette a trattamenti umilianti. La Commissione di Corrispondenza della Federazione Anarchica Italiana:

Denuncia le speculazioni economiche legate al fenomeno immigrazione: dai loschi guadagni delle organizzazioni criminali che organizzano l’arrivo degli immigrati, alle quali lo Stato italiano delega l’effettuazione di una prima scrematura fra i “clandestini”, allo sfruttamento cui sono sottoposti gli stessi immigrati dai datori di lavoro, ai profitti scandalosi di chi affitta le case agli immigrati, alle ruberie legate alla costruzione dei campi d’accoglienza temporanea, ecc.

Rammenta che il razzismo è utile solo ai padroni, dal momento in cui alimentando una guerra fra poveri permette per l’appunto ai padroni di lucrare più agevolmente sulla testa degli uni e degli altri.

Evidenzia che gli anarchici continueranno a sostenere con profonda convinzione ogni lotta protesa a rivendicare con forza la libertà di circolazione per tutti/e ovunque e al di là di ogni frontiera.

Anche nella provincia di Livorno, a Rosignano/Nada, sarà fra poco “inaugurato” un lager per immigrati: una ex stalla costruita con gli stessi criteri di un carcere di massima sicurezza, dotata di finestre con sbarre, tetto in Eternit, gabinetti senza porte, con mura esterne di recinzione alte 3 metri e illuminazione 24 ore su 24; il tutto naturalmente tenuto sotto continua sorveglianza da poliziotti/carcerieri.

Impedire l’apertura del centro di Rosignano/Nada sarà il primo passo di una lotta contro la legge Napolitano-Turco (varata dal governo Prodi col contributo determinante di Rifondazione Comunista) che, introducendo il reato di clandestinità, intende internare persone colpevoli solo di fuggire dalla miseria, dalla disperazione e dai regimi dittatoriali.

Solidarizziamo con la giornata europea di azioni contro i centri di detenzione

Federazione anarchica livornese

25 Bon

8 febbraio 1999
Catania

Carissimo Gianfranco,

sono stato qualche giorno fuori e di ritorno trovo due tue lettere, una del 25 e una del 27.

Per prima cosa mi ha fatto molto piacere leggere che il mio piccolo libro su Stirner ti ha interessato e che lo consideri importante. Mi dispiace che non ho una copia del mio libro Max Stirner, uscito nel 1977, di molto più consistente, ma non appena la recupero te la manderò. Questi scritti, intendo quelli inclusi nel libretto Teoria dell’individuo. Stirner e il pensiero selvaggio, sono tutti successivi a quel mio libro ormai vecchio di più di venti anni ma che un giorno preparerò per una seconda edizione.

Quando avremo occasione di incontrarci ti racconterò il pezzettino di storia che mi riguarda concernente l’edizione de L’unico fatta da Ventura.

Ho letto con vivo interesse la pagina della tua lettera che tu stesso definisci “fuori dal seminato”. No, a me non sembra per nulla fuori, mi sembra più che comprensibile ed è questi sfoghi che fanno viva la tua corrispondenza.

Ho riflettuto molto sulla tua considerazione riguardo l’iniziativa dei libretti. In effetti questi nascono dopo che non ha avuto alcun successo una serie di miei interventi presso parecchi compagni diretta a vedere se c’era la possibilità di dare vita ad una “rivista teorica”, in un certo senso in grado di sostituire il cessato “Anarchismo”. Riunioni e discussioni che approdarono, all’inizio del mese di marzo dello scorso anno, definitivamente a un nulla di fatto. Poi l’idea di mettere insieme questi libretti, che spero veramente possano costituire, nel tempo, quello che tu ottimisticamente vi vedi, sia pure in nuce.

Ho riletto più volte questa tua lettera del 27 ed è un tuo parlare veramente dal profondo del cuore, ma anche programmatico, specie nella sua ultima parte. Diciamo che le tre fasi, o i tre livelli, o strumenti, cui tu fai riferimento li ho sperimentati nelle tre esperienze rispettivamente di “Canenero”, “ProvocAzione” e “Anarchismo”. Oggi sono arrivato alla conclusione che il terreno è troppo incandescente per metterci sopra i piedi. Non per la repressione, ma proprio per l’atmosfera che si respira all’interno del movimento anarchico stesso, preso nel suo insieme, piccolo orticello insurrezionalista compreso.

Non che io accetti queste ghettizzazioni, ma sono nella logica delle cose. Occorrerebbe riprendere tutta una tela che il tempo si è incaricato di corrodere fino in fondo. Riprenderla come credo che si possa fare anche per corrispondenza (quello che in fondo stiamo facendo noi due), riprenderla anche con altre poche decine di compagni seri e preparati, e poi, se del caso, pensare a un foglio, questo sì, quale che sia, che possa presentare approfondimenti teorici oggi sempre indispensabili, e (come accadeva al primissimo “Anarchismo”) anche informazioni dal fronte dell’attacco contro lo Stato e la repressione. Le analisi dirette a “controbattere” come dici bene tu le visioni del mondo che non possiamo accettare dovrebbero, e potrebbero, essere considerate nell’àmbito della parte teorica. Ma, come vedi, forse ho troppo stretto nel cervello il modello di “Anarchismo”. Ci devo pensare bene. Per il momento vado avanti con i libretti. Il prossimo te lo spedisco fra una settimana. Ti allego un testo, da me redatto, relativo a un giornale mensile che volevamo fare ben prima dell’esperienza di “Canenero”. È interessante questa nota perché fa il punto diciamo conclusivo sul lavoro da me e da tanti altri compagni portato avanti con “ProvocAzione”.

Non ti preoccupare per il libro di Lanza, non lo chiedevo a te se non nella eventualità che lo possedessi, provvederò altrimenti, magari scrivendo ad Antonio Lombardo alla prima occasione.

Sì, vista la cronologia dei fatti non riesco a spirgarmi neanche io la nota alla tua “condizionale” discussa il 20 agosto. Non lo so.

Riguardo il processo di Roma siamo imputati di banda armata, sequestri, omicidi, rapine, ecc., ecc., gli arresti del 17 settembre 1996 riguardavano una quarantina di compagni, poi ridotti a una decina, e poi scarcerati (compreso me) dalla Cassazione per difetto di procedura negli interrogatori preliminari. Adesso il processo continua ad andare avanti stancamente. In carcere ci sono solo i compagni accusati del sequestro Silocchi e della rapina avvenuta in Trentino nel 1994 (questi dovrebbero uscire fra breve). L’esito del processo non è prevedibile. La banda armata (la sigla se la sono inventata i carabinieri) la basano su di un mio scritto: Nuove svolte del capitalismo, che parla al contrario di altre cose, fra cui l’intervento organizzativo nelle lotte di massa, scritto che costituiva la scaletta per delle conferenze che ho fatto in alcune università greche nel gennaio del 1993. In uno dei prossimi libretti farò uscire questo scritto, il testo trascritto di una conferenza e una intervista concessa a un quotidiano greco. Ma su questo argomento penso che sarai informato a fondo dalla lettura della mia relazione che ti ho inviato in allegato alla mia lettera del 21 gennaio scorso.

Per il momento ti abbraccio con affetto,

Alfredo

Allegato: L’esperienza di “ProvocAzione”

Qualche parola per tratteggiare l’esperienza di “ProvocAzione”, considerazione importante nel momento in cui ci accingiamo a dare inizio a un nuovo giornale.

Nato nel 1987 dall’esigenza sentita da alcuni compagni di un giornale “mensile” capace di dar conto dell’evoluzione delle lotte sociali, “ProvocAzione” ebbe una struttura interna e redazionale caratterizzata dalla stesura di pochi articoli teorici, quasi sempre uno soltanto, almeno per i primissimi numeri, e di molti articoli diretti a illustrare campi di intervento nelle lotte, condizioni dello scontro di classe, modificazioni nella formazione sociale del capitalismo e dello Stato.

La tesi centrale, da cui all’epoca si prese l’avvio, era quella di un rifiuto critico delle grandi azioni dimostrative di massa, almeno per come queste ultime andavano realizzandosi un po’ dappertutto a seguito delle lotte antinucleari. Il modello “Comiso” va considerato a parte, costituendo un’eccezione, sia per il modulo teorico e pratico d’intervento, per la verità capito fino in fondo da pochissimi compagni, sia per l’ampiezza e l’articolazione della nostra presenza in quella lotta, fatto che non trovava riscontro in altre situazioni create a fini, quasi sempre, puramente spettacolari.

A queste grandi azioni dimostrative, quindi finalizzate a se stesse, si contrapponeva il modello delle piccole azioni di attacco, diffuse sul territorio, facilmente realizzabili e quindi capaci di diffondersi a macchia d’olio a opera di compagni, singoli o associati in gruppi, senza nessun apparato organizzativo alle spalle, senza centralità militare, senza neanche l’idea di un progetto articolato e perfezionato in tutti i suoi aspetti, come una certa retorica del militarismo rivoluzionario degli anni immediatamente precedenti ci aveva purtroppo abituato a vedere.

Tale modello, per noi, resta anche oggi valido. Non spetta a queste poche righe dimostrare il perché, e non è questo il luogo per trarre consuntivi che, fra l’altro, apparirebbero superflui a chi sa leggere fra le righe degli avvenimenti di questi anni. Non abbiamo mai affermato di possedere le chiavi della rivoluzione, anche se siamo sempre stati certi che queste chiavi non potevano certo custodire un tabernacolo di chiacchiere e buone intenzioni.

Fin dai primi numeri “ProvocAzione” iniziò a interessarsi del “nucleare”, approfondendo i limiti degli interventi in corso, anche quando questi prendevano l’aspetto di scontri violenti con la polizia e con i servizi d’ordine di partiti e sindacati. Nello stesso tempo veniva seguito l’evolversi del movimento degli studenti e sottolineati tutti quei tentativi, spesso periferici e passati sotto silenzio dalla stampa ufficiale, di attacco contro le strutture scolastiche. Altro grande tema largamente trattato nei primi numeri era l’antimilitarismo, non solo quello degli obiettori totali ma anche quello di piccole azioni specifiche e apparentemente marginali, come l’incendio della casa del generale Casarico, responsabile della fuga di Kappler. Da qui la luce critica gettata verso quelle pratiche socialdemocratiche, come l’obiezione fiscale, che servono da sostegno indiretto al regime di controllo e repressione, costituendo lo strumento fondamentale attraverso cui si recuperano i potenziali dissensi che così non prendono mai la strada dell’azione diretta e dell’attacco frontale contro lo Stato.

Gli approfondimenti più specificamente teorici riguardavano la funzione propulsiva dell’utopia, gli equivoci del concetto di “immaginario sociale” di cui viene fatto un uso purtroppo tuttora dilagante, le modificazioni strutturali della classe intesa come aggregato economico e sociale, il ripristino svagato e superficiale del desiderio di “comunità”, il quale sostituisce qualche volta ogni propensione sovversiva disponendosi come alibi dell’abbandono e dell’avvenuta pacificazione.

In questo tessuto di ricerca e di dibattito interno al movimento, pur fra contraddizioni, cattive letture, qualche volta involontarie ma più spesso determinate dall’oscuro desiderio di non sapere per non stare a preoccuparsi, chiacchiere e ignoranze varie, si andava avanti nella critica alle posizioni carcerarie della desistenza, particolarmente quelle velate dalle fumisterie possibiliste di tutti coloro che usavano la “fine delle ostilità”, da loro stessi decretata e quindi considerata come ineluttabile, quale alibi per tirarsi indietro, se non altro fino a un certo punto, fin quando la buona disposizione di spirito della controparte avrebbe fatto il resto. Purtroppo ancora oggi questa controparte, rinnegando l’indubbio valore istituzionale di quelle desistenze velate e arzigogolate, non si decide a pagare la dovuta retribuzione.

Altri filoni d’intervento riguardavano le lotte per la casa, le occupazioni di centri sociali e tutti quegli interventi paralleli di sostegno e di difesa, oltre che di iniziativa diretta ad allargare il significato sociale e rivoluzionario di queste occasioni di conflitto.

Subito dopo iniziava l’analisi critica dei rapporti tra scienza e tecnologia, ricerca teorica e pratica di grande importanza che doveva condurre a molti interventi teorici e all’approfondimento di casi pratici in cui le motivazioni di partenza e gli stimoli chiarificatori finivano per prendere corpo, per diventare decisione personale e insostituibile dei singoli compagni, autonoma scelta di scendere sul campo e di non restare per sempre alla finestra, sognando a occhi aperti il grande giorno della rivoluzione per tutti, quella buona e definitiva. Tutti i numeri pubblicati di “ProvocAzione” hanno sempre dato la massima documentazione possibile degli attacchi diretti contro le strutture del potere tecnologico in Italia e all’estero. Spesso però questa documentazione era parziale e incompleta, e ciò perché molte notizie non pervenivano in redazione e non venivano trovate sui giornali, trattandosi il più delle volte di piccole azioni periferiche che trovavano ospitalità su giornali locali inattingibili se non per coloro che vivono in zona. Comunque, possiamo dire che l’insieme di questa documentazione indica un andamento sufficientemente chiaro, cioè l’inizio e il consolidamento di una pratica d’intervento possibile, che per il momento ha visto la sua realizzazione solo in episodi sporadici, anche se molto numerosi, ma che in condizioni mutate potrebbe rivelarsi terreno di interessante attività rivoluzionaria.

A partire dalla seconda metà del 1989 e fino alla sua conclusione, “ProvocAzione” ha continuato il suo impegno di approfondimento insistendo particolarmente sui problemi culturali e sulla condizione metropolitana oggi, sulla dispersione e sulla contrazione di quegli strumenti teorici che costituiscono la base da cui partire per intraprendere una reale azione rivoluzionaria. Molte analisi di questo periodo sono dirette quindi a sottolineare l’inconsistenza degli strumenti posseduti e la loro inadeguatezza al difficile compito che attende ogni rivoluzionario anarchico che non voglia diventare passivamente tributario dei proprietari del potere culturale, economico e politico.

Infine, i grandi avvenimenti precedenti e successivi al crollo dell’impero sovietico hanno sollecitato una serie di considerazioni sulla realtà sovietica in disfacimento e sulle condizioni conflittuali degli Stati che la stanno sostituendo, da cui l’ineluttabile conseguenza di una serie di guerre civili delle quali non è facile prevedere la conclusione. Per motivi differenti, ma non tanto, anche l’impero USA tende a modificare le condizioni della sua esistenza, da cui cambiamenti radicali nei rapporti internazionali dell’imperialismo e nelle pulsioni nazionaliste che divampano un poco dappertutto, assistite a volte dal risveglio e dal rafforzamento di integralismi religiosi che sarebbe erroneo racchiudere soltanto nell’àmbito islamico: i cattolici non scherzano. L’intreccio di lotte di liberazione nazionale, proprio adesso che queste si sono liberate dappertutto dalla pesante ipoteca marxista, di nazionalismo come desiderio di fare da sé e non come stupida pretesa di superiorità di razza, si complica e si sfaccetta in mille aspetti che rendono di non facile lettura la scena politica mondiale in questo momento. “ProvocAzione” ha dato quasi fino all’ultimo il suo contributo alla chiarificazione di questi problemi, costituendo un punto di riferimento per tutti quei compagni che volevano capire per contribuire a trasformare la realtà.

Gli editoriali

Tenere presenti i più interessanti “editoriali” di “ProvocAzione” può essere utile nel momento in cui si deve decidere il modo migliore di dar vita a un nuovo giornale. Considerando la sequenza dei numeri e la struttura dei singoli “editoriali” si vedrà come questi iniziano da considerazioni riguardanti strettamente il giornale stesso, quindi riflessioni critiche e proposte progettuali, si trasformano in analisi contestuali della realtà del momento, dove il numero specifico del giornale si andava a inserire, per scomparire del tutto negli ultimi numeri. Il giornale, nel bene come nel male, si era andato racchiudendo all’interno di un modello che stentava a ritrovare nuova linfa vitale, nuovi stimoli, nuovi elementi creativi. Produceva quello che era necessario produrre, assolveva, spesso più male che bene, al proprio antico compito, ma non cercava di andare al di là. E questo, se non andiamo errati, è stato uno dei motivi, se non il primo, della sua naturale estinzione. Gli editoriali segnano questa parabola e ne costituiscono documentazione efficace.

Un nuovo giornale anarchico

Proviamo a fare un elenco, sintetizzato quanto basta, dei motivi per cui ci appare indispensabile dare vita a un nuovo giornale anarchico.

Primo – Il quadro generale delle pubblicazioni anarchiche di lingua italiana è di una tale povertà che pensiamo non possa essere messa in dubbio la necessità di qualcosa di più adeguato alle particolari e importanti necessità analitiche del momento storico che attraversiamo.

Secondo – Considerando le pubblicazioni di altri movimenti che con maggiore o minore torto o ragione si richiamano a princìpi sia pure astrattamente rivoluzionari, la situazione, se possibile, è forse peggiore. Se non proprio qualitativamente, è peggiore quantitativamente.

Terzo – Guardando alla produzione della pubblicistica straniera, troviamo invece una considerevole ricchezza nei paesi di lingua inglese e tedesca, con un’accentuazione del materiale documentativo che spesso viene posto in circolazione in maniera acritica, sulla scia di una concezione pragmatica di quelle culture che pensano che i fatti debbano necessariamente parlare da sé. Diversa la situazione spagnola e francese, dove ci sono analisi di considerevole importanza e suggerimenti creativi qualche volta di eccezionale significato. In tutti i casi però questo materiale, sia quello puramente informativo che quello documentativo, stenta a vedere la luce in Italia o viene deliberatamente ignorato. Per quanto riguarda le analisi più importanti, la redazione di “Anarchismo” sta facendo qualcosa, ma per le notizie vere e proprie delle lotte e dei movimenti rivoluzionari nelle diverse situazioni di scontro sociale, non ci sono mezzi idonei per farle venire alla luce in Italia.

Quarto – Esistono in Italia diversi giornali a circolazione più ridotta, se non proprio regionali o zonali, e questi rivestono di certo una grande importanza in quanto costituiscono elemento vitale e propulsivo di intervento e di analisi nella realtà delle lotte. È molto importante che questi giornali continuino il loro lavoro che non entra in nessun modo in contrasto con l’esistenza e lo sviluppo di un giornale nazionale mensile come quello che pensiamo di realizzare, anzi le singole esperienze delle varie redazioni possono essere considerate come punto di riferimento per eventuali collaborazioni non solo per una maggiore diffusione delle notizie, ma anche per un approfondimento analitico e teorico degli argomenti trattati nei giornali a diffusione più ridotta.

Quinto – Il livello del dibattito teorico, su moltissimi argomenti, deve essere mantenuto “alto”, nel senso di un approfondimento che spesso non si trova occasione di raggiungere, non tanto per carenze personali o culturali – che queste a volte ci sono e fanno sentire il loro peso – quanto per questioni di priorità. La ricerca dell’immediato risultato attingibile, fatto accaduto, quindi a portata di mano, quindi “nostro” per definizione, gestito da noi, consumato e digerito secondo come noi pensiamo, spesso si mangia la coda, chiudendosi in se stessa e fornendo all’esterno solo l’effetto spettacolare, evidenziato macroscopicamente dagli stessi organi d’informazione, e poi sapientemente recuperato, lentamente fatto passare sotto silenzio, mentre le nostre stesse forze si vanno spegnendo com’è naturale che sia, nessuno di noi potendo restare a lungo sotto pressione e sulla breccia.

Sesto – E questo stesso livello teorico, in molti casi, deve andare alla ricerca di una linea intermedia, non quella, poniamo, “alta” che cerchiamo di raggiungere con “Anarchismo” (si badi bene: cerchiamo non vuol dire che riusciamo a raggiungere), ma un tono più basso, in modo da cogliere sfumature che sfuggono alle analisi più sofisticate, prese come sono queste ultime dalla necessità di cogliere approfondimenti collocati in altro luogo. Ma l’azione, quasi sempre, se non nella totalità dei casi, ha bisogno di rimuovere ostacoli iniziali abbastanza piccoli, modeste complicanze psicologiche, soste della coscienza che s’impanca davanti a fantasmi che la teoria non riesce a far dileguare, mentre la semplice sequenza di certi fatti mette in fuga. I fatti, a volte, per quanto non sempre, costituiscono un ottimo antidoto.

Settimo – Fatti, abbiamo detto, fatti ma non sacralizzazione dei fatti. E meno ancora arzigogolo apologetico. In altri tempi, anche allo scopo semplicemente “provocatorio” – che dopo tutto “ProvocAzione” doveva pur fare onore alla propria bandiera – quelle esaltazioni acritiche andavano bene, e le abbiamo sostenute, e perfino firmate. In tempi come questi finirebbero per nuocere, e non solo alla lettura del giornale.

Ottavo – E dai fatti, anche quelli semplici, perfino elementari, risalire alle grandi motivazioni teoriche che spiegano la vita, e con la vita il modo di essere nel mondo, di contrapporsi a coloro che del mondo si sono impadroniti per farne strumento delle proprie intenzioni di potere. Questa operazione, auspicata fin dagli inizi di “ProvocAzione” non è sempre riuscita, a volte è stata solo tentata, altre volte nemmeno tentata. Si è pensato spesso di affrontare direttamente la realtà dello scontro per denunciarla e liquidarla in quanto tale. Siamo caduti così, e non è accaduto raramente, nella tautologia di considerare conclusiva una mossa che invece apparteneva soltanto all’apertura del gioco. Dire, non è sufficiente, occorre anche agire. Ma il voler dire restando racchiusi al sicuro nell’alveo del proprio modulo quotidiano di vita, può essere un modo come un altro, a volte perfino elegante, per mettere la testa sotto la sabbia. A queste condizioni, sarebbe bene tacere, e quindi non fare un giornale, specialmente con la pretesta di fare un giornale rivoluzionario.

Nono – Non un giornale contenitore, disponibile a tutte le libidini. Non un giornale afflitto dallo sconsiderato pudore di non saper dire di no. Al contrario, un giornale selettivo, di parte, che intende dire la sua, non qualsiasi cosa sia, purché venga dato fiato alle corde vocali e sporcato qualche quintale di carta. Quindi scelta di argomenti, ma anche scelta del taglio degli argomenti, perché il giornale resta strumento, non palestra di esercitazioni teoriche. Un giornale nostro, non un garage aperto a tutti, dove ognuno può parcheggiare comodamente le proprie velleità letterarie.

Decimo – Un giornale polemico, ma non vanamente polemico, come a volte, purtroppo, è stato “ProvocAzione”, quando la riottosa ignominia dei pochi e l’ignoranza qualificata dei molti, spesso ci spingevano a puntualizzazioni che altra atmosfera e altre condizioni dello scontro ci avrebbero di certo consigliato di evitare. Molte di quelle nostre antiche critiche sono state recepite e fatte proprie dal movimento anarchico nel suo insieme. Tornarci sopra, con l’ortopedica puntualità di una volta, sarebbe stupido. Non bisogna cadere in questo errore.

Conclusione

Facile. Necessità improrogabile di un giornale anarchico mensile. Diverso da “ProvocAzione” ma avente come quello lo scopo di coprire un vuoto che è sempre più evidente.

Il come fare questo giornale, il modo di organizzarsi per la redazione degli articoli e delle notizie, delle ricerche da fare e delle analisi da approfondire, il modo di tenersi in contatto per distribuire il giornale e venderlo nel migliore dei modi, il modo di finanziare quest’impresa che fin dall’inizio non appare poca cosa, il modo di trovare un equilibrio fra i tanti interessi e i diversi progetti individuali e collettivi che si riassumono, nella loro vasta differenziazione, all’interno dell’anarchismo rivoluzionario e insurrezionale, il modo di far diventare vivente e operante un’affinità che ormai da troppo tempo continua a restare latente, questo dobbiamo trovare nella discussione comune che svilupperemo nella prossima riunione di *.

[Alfredo M. Bonanno]

26 Ber

31 gennaio 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

ho ricevuto la tua lettera del 22 corr. dalla quale apprendo, con piacere, che quel compagno di Brescia ti ha chiesto 10 copie del tuo scritto su Stirner che gli avevo segnalato. La richiesta di un (grande o piccolo che sia) certo numero di una pubblicazione implica l’intento di impegnarsi nella diffusione.

Sotto questo aspetto, il significato di tale richiesta va oltre l’utilità meramente finanziaria della modesta somma che può entrare in cassa. Può invece essere il segnale di una volontà di collaborazione. Certo, non mi faccio illusioni: conosco le tecniche di certi “signori” e prevedo, quindi, che, alle prime avvisaglie delle intenzioni di qualche compagno di impegnarsi, metteranno in campo tutte le loro capacità di dissuasione. Per quanto dipende dalle mie poche forze, sto già cercando e continuerò a cercare di interessare quante più persone possibile alle Edizioni Anarchismo (come un tempo ho fatto nei confronti di “A” che devono a me, anche se ora non lo ammetterebbero mai, un numero non proprio esiguo di abbonati). Comunque, di questi modesti tentativi di collaborazione non hai di che… “ringraziare”. Sarebbe come se me ne ringraziassi da solo, visto che nelle tue iniziative editoriali mi ci riconosco appieno. A rischio di apparirti egocentrico, tengo a tenerti informato della “evoluzione” (per così dire, dato che non di “evoluzione” si tratta ma, semmai, dell’opposto) dei miei rapporti con quelli che, per più di venti anni sono stati i compagni ai quali ero più affezionato e gli interlocutori che ho privilegiato e nei quali ho creduto. La fotocopia che ti allego è quella di una lettera di Amedeo Bertolo. Una lettera che mi ha fatto molto male (alla mia età e dopo averne passate di tutti i colori ho pianto di rabbia e di disperazione e sono stato una notte senza dormire) perché si tratta di un compagno che avevo sempre ammirato e stimato.

Ripensandoci a freddo, arrivo a dirmi che, tutto sommato, questa esperienza mi è utile. Ho constatato la portata dei limiti del mio sentirmi e voler essere anarchico. Mi sono, cioè, reso conto di quanto radicate fossero ancora in me quelle aspirazioni a sentirsi “compreso” e “approvato” da certe persone, cui attribuivo un ruolo (oggettivamente non privo di connotazioni autoritarie) di detentori dei “valori” anarchici. In sostanza, anche se inconsciamente li vedevo (solo perché culturalmente più preparati, perché gestori di pubblicazioni di prestigio e “ufficialmente”… “Anarchici”) un punto di riferimento e di appoggio morale. Col cazzo! Me ne sbatto delle loro “patenti” e dei loro “riconoscimenti”. Se sono o non sono anarchico lo decido io e solo io. Come vedi, per Amedeo, il giudice Salvini è attendibile (e con lui il suo zelante “collaboratore” che accusa me, senza nemmeno avermi visto). Beh, non è strano che Salvini e Digilio vadano d’accordo. Sono della stessa razza. Quel giudice è uscito dall’anonimato per avere incriminato i suoi ex compagni, l’altro prendendosela con i suoi ex camerati. Ma che lascino in pace me che con loro non ho niente da spartire. Come leggerai, Amedeo dice che quando gli ho telefonato ero ubriaco. Beh, incazzato sì! Ubriaco non mi pare. Comunque: da che pulpito! Una mattina alle otto, a Belgioioso, l’ho visto io scolarsi la “Ceres” a digiuno (niente male, l’ho fatto spesso anch’io e, tanto per non nascondere niente, quella mattina io l’ho trovato nel bar solo perché ero uscito presto dall’albergo con un amico per cercare una farmacia e comprare le siringhe. Si dice per puntualizzare).

Sempre da Belgioioso (cioè da un mio libretto che venne presentato là – ed era meglio di no, perché a causa degli “aggiustamenti” e dei “tagli” che gli aveva fatto, a mia insaputa, Pino Bertelli, ne era venuta fuori una cagata) prende spunto l’accenno di Amedeo all’eroina e alla prostituzione.

In quel libretto ho raccontato che, da ragazzo, avevo avuto esperienze anche di prostituzione omosessuale. E con questo? Sono storie di cinquanta anni fa! Mi vuole dare, almeno, la “prescrizione” del “delitto”?

Una “perla” l’accusa di “oscure minacce ricattatorie”. Io non ho mai ricattato nessuno, né mi sognerei di farlo. Però, diciamocela tutta, per attribuire ad una frase un contenuto “ricattatorio” bisogna avere la “coda di paglia”. Io non temo i “ricatti”, perché non nascondo niente, non ho niente da nascondere e, per principio, non mi vergogno mai di ammettere cose che non mi sono vergognato di fare. Se lui si sente “ricattabile” vuol dire che ci sarà qualcosa (che io non conosco) che lui ha fatto e non vuole si sappia. Non lo so e non me ne importa, sono affari suoi.

Martedì dovrò recarmi all’ospedale per una visita. Per stare male lo sto (e ho anche i miei anni), di che si tratta lo saprò e se anche fosse la volta di andarmene, non ci piangerò sopra. Comunque, in qualsiasi modo io sia destinato a crepare, vorrei lasciarti una… “eredità”: quando sarò morto scrivi qualcosa per spiegare la mia storia e la verità e per sputtanare gli infami.

Un abbraccio,

Gianfranco

P.S. Ti allego la lettera di Bertolo.

Allegato

24 gennaio 1999

Milano

Caro Bertoli,

di ritorno a Milano dopo una lunga assenza, ho trovato due tue telefonate sulla segreteria automatica ed una tua lettera.

Lasciamo da parte le telefonate (fatte del tutto evidentemente sotto l’influsso dell’alcool o di altra sostanza psicotropa), il cui contenuto, peraltro, era assai simile, pur se semplificato, a quello della lettera.

Ho trovato quella lettera intollerabilmente oltraggiosa. è vero che sono in qualche misura corresponsabile, in quanto editore, di quanto il mio amico e compagno Lanza ha scritto su Bombe e segreti, che tu hai trovato offensivo. Ma…

Veniamo ai fatti. Checché tu ne pensi, per quel che ha fatto su piazza Fontana, che non è cosa da poco, il giudice Salvini a noi non sembra, in generale, inattendibile, nonostante il mestiere che fa. Sul fatto specifico che ti riguarda, tu ne sai certo più di noi, ma per quale motivo dovremmo credere ad ogni singolo particolare della tua narrazione? Perché non sei un giudice? Perché sei un anarchico? Sono abbastanza vecchio per nutrire qualche scetticismo in merito alla credibilità della gente, anarchici compresi. Certo noi siamo ancora convinti, per il tuo comportamento dei tuoi ultimi venti e tot anni (tossicodipendenza e comportamenti derivati e connessi a parte), che tu sia anarchico. Ma quanti anarchici si sono lasciati “indirizzare” in loro nefaste azioni (il Diana, per esempio, ma i casi sono numerosi) da provocatori, per ingenuità o supposta astuzia, da chi pensa di usare e viene usato.

La frase di Lanza, peraltro cautamente dubbiosa, era il minimo che potesse scrivere, dopo le rivelazioni (parzialmente o interamente false che si dimostrino nel prossimo futuro). Noi (Lanza, Finzi, io, ecc.) ci siamo giocati la nostra credibilità nel movimento anarchico, difendendo la tua anarchicità (nonostante la dolorosa stupidità e nocività del tuo “gesto”) contro quasi tutti.

Questo avere difeso la tua identità anarchica c’è costata cara, è stata dura per molti anni. Il tuo ringraziamento è una sequela di offese sanguinose. Così come il tuo ringraziamento per altre cose, per altri aiuti.

Aggiungi poi alle offese anche delle oscure minacce ricattatorie. Hai proprio toccato il fondo. E non con l’eroina o la prostituzione. Scusa la brutalità.

Questo avevo da dirti. E tronco ogni rapporto epistolare e telefonico fino a che, forse, ti tornerà il senno.

Anarchicamente,

Amedeo Bertolo

27 Bon

14 febbraio 1999
Catania

Caro Gianfranco,

leggo la tua del 31, arrivata contemporaneamente all’invio di “Prezioso”, di cui subito ti ringrazio. [Questo documento è andato perduto in una delle recenti perquisizioni].

Come ti dicevo altra volta i libretti stanno andando bene, anche se non benissimo. Distribuisco circa 400 copie ma è come una goccia nel mare. Lasciamo perdere. La diffusione di certe idee è di certo contrastata da alcune lobby di potere (misero) all’interno del movimento anarchico, ma è sempre stato così fin dal primo accenno, da parte mia, di fare qualcosa che non fosse sottoposto preventivamente all’accettazione di coloro che ritengono (e ritenevano) detenere la chiave della cultura anarchica in Italia. Non puoi sapere quanto ha dato fastidio a questi signori una persona come me (anche al di là del contenuto vero e proprio delle cose che vado dicendo da molti anni a questa parte).

Dissuadono e anche peggio, questo è certo.

Ho letto la lettera del nostro amico Amedeo. Non ci sono parole per definirla.

Della tua iniziativa con Bertelli (che conosco bene) mi era arrivata notizia quando facevo insieme ai compagni, a Firenze, “Canenero”, ma non ho le idee chiare. Non mi piacque all’epoca, se non ricordo male, il modo e il taglio della questione, oltre alla collaborazione con psichiatri o qualcosa del genere, ma si tratta di ricordi sfocati, forse faccio male a riportarteli alla mente, ma scrivo come mi detta il cuore quando mi rivolgo alla tua capacità di capire.

Fammi sapere della visita che ormai hai passato in ospedale. Per l’eredità c’è tempo, chissà che non si possa parlare di ben altre prospettive fra noi due in futuro, anche a breve scadenza. Non ti pare?

Ho letto subito “Prezioso”: simpatico. Ti ringrazio.

Mi ha scritto Antonio che hai gentilmente incaricato del libro di Lanza. Mi ha detto che cercherà di averlo dalla casa editrice.

Adesso una domanda: hai letto il mio libro (purtroppo esaurito) Del terrorismo, di alcuni imbecilli e di altre cose? Se non lo hai letto, essendo dedicato tutto per intero ai nostri amici della Rivista “A”, cercherò di fartene avere una copia, magari fotocopiandola. Di questo libretto vorrei fare una seconda edizione, naturalmente con allegati alcuni documenti, per esempio le prese di distanza che sistematicamente sono state avanzate da loro quando in Italia è successo “qualcosa”, sia pure di marginale importanza. Come dire: “Noi non siamo stati, sapete bene chi possono essere stati”. Della serie: fare la spia alla “francese”, che galeotti come noi sanno cosa vuol dire.

Per il momento ti lascio, con affetto,

Alfredo

28 Ber

15 febbraio 1999
Livorno

Carissimo Alfredo,

a brevissima distanza, quella di 24 ore, ho ricevuto il tuo volumetto Come un ladro nella notte e la tua lettera dell’8 febbraio con l’allegato relativo alla esperienza di “ProvocAzione”. Da quell’affamato di letture che sono sempre stato, ho letto subito il libro (la mole lo permette) ma, come spesso mi accade, si è trattato di una lettura frettolosa. So in partenza che dovrò (piacevolmente e non per… dovere) rileggerlo.

Mi sono, infatti, fatto la convinzione dell’importanza della rilettura.

Una esigenza che sento, in particolare, alla luce di un (peraltro occasionale e perfino superficiale) scambio di opinioni con Antonio Lombardo sul tema del tuo volumetto sulla vicenda del “commissario finestra”. Mi sono trovato a rileggere quel libretto con particolare attenzione e ciò che mi ha portato a scoprirvi concetti, opinioni e giudizi oggettivi che, ad una prima lettura, mi erano sembrati “banali” (nella misura in cui erano anche miei e li davo per “scontati”) per rendermi, invece, conto della loro importanza.

Commentare ora l’ultimo dei tuoi libretti, per dirti solo che l’ho trovato bello e interessante, non sarebbe falso ma troppo ovvio e scontato. È nei miei propositi rileggerlo con attenzione e parlartene in seguito.

Per ritornare, invece, al tuo libro su Max Stirner, posso dirti di averlo riletto più volte e che il mio giudizio è stato ogni volta, più positivo.

Ottimo! Spero solo di avere un giorno l’opportunità di leggere quel tuo volume del 1977 che mi dici essere più “consistente”. Questo anche se, oggi come oggi, sono convinto dell’opportunità di far circolare delle opere che siano, il più possibile semplici e di facile comprensione da parte di tutti. Certo, non è facile: è molto meno impegnativo scrivere “difficile” e con linguaggio da “specialisti” che non esprimersi in maniera piana ed accessibile a tutti. L’ “esoterismo”, però, lasciamolo a chi cerca di farsi “grande” e prendere in giro i poveracci (che, magari, sono meno stupidi e “poveracci” di quanto certi signori pensino e, chissà, potrebbero anche svegliarsi. E allora… potrebbero essere “cazzi acidi” per tanti).

Ci sono un mucchio di cose su cui e di cui vorrei scriverti. Il mio problema è quello di essere in pessime condizioni psicologiche. In fondo, sono delle condizioni che sono correlate a problemi prettamente organici. Devo sottopormi ad un intervento chirurgico che dicono “banale”. Si tratta di un caso di “ernia”. Dicono che sia un “taglietto” da poco. Solo che è da quasi un mese che la storia va avanti. Non è più come un tempo, quando si andava all’ospedale, facevano gli “esami” di rito e poi… tagliavano. Adesso c’è la logica “aziendale”. Bisogna… risparmiare…! Così, prima di poter entrare in ospedale bisogna sottoporsi, all’esterno, a tutti gli “esami” preliminari.

Sembra che ci siamo e sabato dovrei avere l’ultima di queste “visite” prima che si decidano ad… aprirmi la pancia. Si tratta dell’ “anestesiologo” e sembra che nel mio caso particolare (età e storie di “tossicodipendenza”) sia un aspetto da non sottovalutare. Boh, non è poi che me ne freghi più di tanto.

Passando ad altri argomenti: nella tua lettera non mi dici se ti è arrivata la fotocopia della lettera che mi scrisse l’Amedeo Bertolo (per me molto dolorosa perché gli volevo bene) né se hai ricevuto il “minivolumetto” che ti ho mandato in visione. Se l’hai ricevuto, avrai visto che si tratta dello scritto di un “utente” (sic!) delle strutture socio-psichiatriche. Mi sembra interessante sul piano umano. Te l’ho inviato anche per farti prendere visione di quale sia il piano privilegiato di interesse e, nella misura delle sue forze, di “intervento” (“carcerario”, “emarginazione”, “ospedalizzazione psichiatrica”, ecc.) su cui si muove quel mio amico che gestisce la trattoria dove (gratuitamente) mangio a mezzogiorno.

Inoltre, avrei voluto (e ti prego di darmi) una tua opinione sulla impaginazione di quel volumetto. Vedi, se tutto andasse bene (cioè se non crepo prima) dovrei ricevere qualche soldo, in qualità di “arretrati” del cosiddetto “assegno sociale” che dicono “spettare” agli ultra sessantacinquenni. Mi riproporrei, se va bene, di far stampare un libretto dello stesso tipo (forse con qualche paginetta in più) come una sorta di “lettera aperta” a tanti cosiddetti “compagni”, per ribattere alle infamie di certi individui (dal “compagno” rag. L. Lanza all’altro supposto “compagno” – non scherzo l’ha chiamato così l’Amedeo durante una telefonata che ho avuto con Lui – dott. Guido Salvini). Prima di farla finita, vorrei scrivere questa cosetta (che potrebbe, però, far bruciare il culo a certi infami che si pavoneggiano con l’etichetta di “Anarchici d.o.c.”). Vorrei dare per titolo a questo (ancora ipotetico) libretto qualcosa come: “Epitaffio di un ribelle disilluso” o “Sputando in faccia ai miei calunniatori” o qualcosa del genere – eventualmente, conto sul tuo suggerimento per un titolo “shock”. In “epigrafe” (cioè nella prima pagina) metterci una tua citazione. Tratta da Io so chi ha ucciso… e cioè questa: «Per lo stesso motivo, altri compagni, di fronte alla propria dignità offesa cancellano il mondo in altro modo, si cancellano nel suicidio».

Ciao ti abbraccio per l’Anarchia,

Gianfranco

29 Ber

18 febbraio 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

la tua lettera del 14 febbraio l’ho ricevuta stamattina e, come vedi, nonostante la mia congenita “pigrizia epistolare”, ti rispondo subito.

Gli è che questa nostra corrispondenza, iniziata quasi per caso ed in uno dei periodi per me più difficili, mi è diventata importante. Forse, ben dice il vecchio Stirner… “troverò pur sempre dei compagni che si uniranno a me senza prestare giuramento ad una bandiera”.

Sento che Antonio ti ha scritto, informandoti o confermandoti (non ricordo se te ne avevo fatto cenno) che l’avevo pregato di procurarti una copia del libro di Lanza. Lui ne possiede solo una (ed è quella che ho letto quando sono stato suo ospite) con dedica dell’autore… da buon “bibliofilo” ci tiene a conservarla. Te ne procurerà una.

A mio avviso (ma il mio giudizio non può essere che “fazioso”) quel libro si riduce ad una sorta di “compendio” (con fini divulgativo-pubblicitari) della mastodontica requisitoria salviniana. Non l’ho letta e non mi azzardo a pronunciarmi sulla qualità di quell’impegnativo “saggio” di letteratura fanta-politico-giuridica. Il prof. Bertolo sembra apprezzarla e vedere in essa un notevole contributo al disvelamento dei “misteri d’Italia”. Personalmente, posso solo ritenere che, se tutto il suo capolavoro letterario si fonda su elementi e dati di fatti analoghi a quelli addotti per tirare in ballo anche me, si tratti di nulla di più di una grossa pagliacciata. Del contenuto della lettera del Bertolo l’aspetto che mi appare più maligno (e, perfino, “sospetto”) è quello dove si prospetta come possibile l’ipotesi che io, pur essendo anarchico, possa egualmente essere stato manipolato da altri. Questo fatto lo vedo come da non sottovalutare nella sua pericolosità. A questo punto, mi viene naturale riflettere su un brano del tuo libro su Calabresi. Precisamente, laddove, (pp. 26 e 27) poni il quesito: “Perché ingigantire le forze dell’avversario?”. Quelle tue parole mi hanno rallegrato, nel senso che vi trovo la chiara comprensione di uno dei più raffinati e subdoli strumenti del dominio.

La finzione di voler smascherare trame fittizie, sia per usarle come “cortina fumogena” finalizzata a celare quelle autentiche, sia per diffondere e far interiorizzare dai potenziali rivoluzionari l’eterna, paranoica e castrante paura del “complotto”, della “strumentalizzazione” e della provocazione. Non solo, ma contemporaneamente rafforzare il concetto che, dietro ogni atto, debba esserci chi lo gestisce. Che, in tutto ciò che avviene debba presentarsi l’esistenza di una struttura gerarchica ed una separazione dei ruoli tra chi esegue e chi decide.

Ricordi l’immagine craxiana del “Grande Vecchio”? (lo stesso putrido personaggio era arrivato ad ipotizzare per Piazza Fontana una responsabilità di Valpreda, strumentalizzato per l’occasione da fascisti e servizi segreti). Non vorrei apparire troppo “malfidente” ma se si considerano congiuntamente affermazioni come quelle contenute nella lettera del Bertolo e la ormai abituale consuetudine delle “prese di distanza” (che sono una larvata forma di delazione) le posizioni assunte su “A” in difesa del comportamento di quelli di “Radio Popolare” quando questi collaborano all’incriminazione di una compagna, quello che scrissero in merito alla storia delle sberle (sacrosante) ad un giornalista che stava provocando (che cos’altro è se non provocazione presenziare alla sepoltura di uno che si è ucciso in carcere, quando, in precedente occasione si era contribuito a farlo arrestare?) qualche dubbio è lecito averlo.

E, lo confesso, dover avere di questi dubbi mi fa molto male, trattandosi di compagni ai quali ero stato molto affezionato, per decenni.

Sulla storia di quel libretto scritto con Bertelli mi dilungherò nei dettagli in una prossima occasione. Sono contento che tu abbia trovato simpatico il libretto che ti ho spedito. Volevo che tu lo vedessi perché, se arriverò ad ottenere quei pochi soldi di “arretrati” sul cosiddetto “assegno sociale” (che aspetto da agosto ma…) pensavo di fare un mio volumetto su queste mie ultime vicende. Se ci riuscirò sarà una cosa molto sincera e, proprio per questo, abbastanza “cattiva”.

Ritengo che stia diventando sempre più necessario e urgente uscire con un periodico. Certo che un livello di diffusione come lo è oggi quello dei libretti è insufficiente. Credo che si dovrebbe puntare su una pubblicazione che diffonda una decina di volte tanto. Ora, varrebbe la pena di prendere in considerazione l’eventualità di un “lancio” in contemporanea con un evento che faccia scalpore. Io ho ormai 66 anni e tanti non me ne restano comunque. Potrei benissimo tentare (stavolta, spero, riuscendovi) un altro suicidio. Predisponendo, però, uno scritto esplicativo più “shockante” possibile. Potrebbe (ma di questo avremo modo di discuterne) valerne la pena.

Ciao! Un fraterno abbraccio libertario e ribelle,

Gianfranco

30 Ber

21 febbraio 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

nella mia lettera precedente ti preannunciavo la mia intenzione di far seguito con un’altra dove con maggiori dettagli ti avrei spiegato la storia di quel libretto curato da Pino Bertelli, che oltre ad essere spiaciuto a molti, lascia ora abbastanza scettico (è un eufemismo!) me stesso che ho accettato di assumerne, incondizionatamente, la paternità. Detto per inciso, pur avendo trovato “Canenero” nel catalogo delle diverse pubblicazioni proposte, il nome di quella testata non l’avevo, sul momento, collegato con quanto mi aveva detto allora Bertelli circa gli attacchi a me come persona, a lui e al libretto in questione. Se ben ricordo, lui mi accennò ad una “presa di posizione”, a me ostile, di quello che supponevo fosse un “gruppo” e non un giornale.

Tieni presente che, per tanti anni, sono stato “tagliato fuori” da ogni contatto che non fossero quelli con “A” e con “Umanità Nova”. In altri tempi (quando c’erano “ProvocAzione”, “Anarres”, “Crocenera”, ecc.) avevo dei buoni rapporti con * e *, di Milano, * di Torino, ecc. In seguito questi rapporti si sono allentati e progressivamente nullificati.

Nulla di sorprendente, quindi, se di “Canenero” ignorassi anche l’esistenza. Comunque, rassicurati: non fai per niente male a riportarmi alla mente nessuno dei miei ricordi e sono sempre felice (dico molto sul serio) quando mi viene offerta la possibilità di spiegare i miei comportamenti del passato. Non fosse che per il fatto che ciò mi offre una buona occasione per riesaminarli e rifletterci. Quando uscì quel libretto, venne presentato (con tanto di “conferenza stampa” mia e di Pino) ad una sorta di mostra della piccola editoria, in località di Belgioioso (prov. di Pavia). A quella stessa manifestazione erano presenti l’Amedeo, il rag. Lanza ed altri, con uno “stand” riservato alle edizioni “Elèuthera”. Un po’ “freddini” nei confronti di Pino, riservarono, invece, a me una accoglienza addirittura affettuosa (compreso l’invito a partecipare al “brindisi” di metà mattina: spumante, tartine, ecc.). Mi dissero che se da un po’ non mi spedivano le loro pubblicazioni era perché, con i miei cambiamenti di indirizzo, non sapevano dove inviarmele (una “balla” perché il Paolo conosceva sempre il mio indirizzo, e tant’è che “A” mi era sempre continuata ad arrivare). L’Amedeo fu il primo a procurarsi una copia di quel libretto (tra l’altro, Bertelli fu con lui un po’ sgarbato pretendendo che lo pagasse). La mattina seguente, ricordo che Bertolo mi disse: “certo che ti sei buttato della merda addosso” ed io gli risposi: “comunque sia, si tratta di merda mia. Puzza meno di quella che mi ha riversato addosso il giudice Lombardi”. “Inoltre”, aggiunsi, “io ho come principio di non vergognarmi di ammettere e raccontare quelle cose che non mi sono vergognato di fare”. Mi diede ragione. Aggiungendo solo, come commento, queste parole: “Ascolta me, se proprio hai bisogno di stonarti, invece dell’eroina, fallo con il Barbera. Costa meno e fa lo stesso male”.

Il Lanza arrivò a dirmi che avrebbe dedicato a quel libretto una recensione su “Il Mondo”, cogliendo l’occasione per smentire le solite calunnie di chi continuava a spacciarmi per “fascista” ed altre amenità del genere. Lasciamo perdere quei signori e passiamo ad altro. Cioè alla storia di quel libro (non ne ho più neppure una copia e certi aspetti posso trattarli solo genericamente e con una certa approssimazione). Dopo la cosiddetta “declassificazione” (l’uscita, cioè, da quello che la “buonanima” del “generalissimo” Dalla Chiesa si era compiaciuto di, derisoriamente, denominare “circuito dei camosci”) sono rientrato nel giro delle normali galere e trasferito a Porto Azzurro. Lì, non ricordo più quale ne fosse stato il motivo contingente, ebbi ad avere un colloquio con l’allora giudice di sorveglianza. Non ci crederai ma fu un dialogo abbastanza interessante. Non riuscivo a “classificarlo” (solo molto tempo dopo seppi che è uno dell’integralismo cattolico), io, in ogni caso, mi sono guardato bene da recitare la parte del “recuperato” e non ho mai nascosto le mie idee. Forse per la “coincidentia oppositorum” (è una “boutade”!) mi prese in simpatia e fu proprio lui a darmi il primo “permesso” (sull’isola e con la venuta, come “garante”, di Paolo Finzi, che figurava come mio “tutore”).

Poi quel giudice se ne andò e ne venne un altro, di ben diversa collocazione politico-ideologica, essendo un marxista vicino alla linea di Rifondazione. Comunque andai diverse volte ad “udienza” e mi trovai addirittura a intavolare discussioni sulle contrapposizioni tra Marx e Bakunin, al tempo della “Prima Internazionale”, su “Stato e Rivoluzione” e sul leninismo. Tutto sommato uno strano rapporto. Sta di fatto che questo giudice arrivò a mandare una lettera al “Manifesto” per controbattere delle insinuazioni (le solite e, paradossalmente, quelle che ora il “compagno” rag. Lanza fa sue) sulla mia “fascisticità” e sui miei “legami” coi Servizi segreti.

Ci fu, poi, l’interessamento alla mia vicenda e situazione, di un certo Giuliano Capecchi che si interessava di problematiche carcerarie (faceva un giornalino con il titolo di “Liberarsi della necessità del carcere”). Mi aveva scritto in carcere e successivamente lo conobbi in occasione di un “permesso” trascorso a Pistoia, ospite di *, motivato dalla mia richiesta di poter effettuare delle ricerche presso l’Archivio di Aurelio Chessa in vista di un saggio che mi proponevo di scrivere (e che finì in nulla, come tutti o quasi i miei progetti) sulle vite di Camillo Berneri e Gustav Landauer che, a mio avviso, presentavano delle analogie. Beh, a farla corta, questo Capecchi si impegnò a farmi ottenere la “semilibertà” con l’offerta di una specie di lavoro presso una cooperativa che si occupava di assistenza agli immigrati extracomunitari e ad ex carcerati. Ottenni questa “semilibertà” e andai a stare a Pistoia. La sera andavo in carcere e durante il giorno stavo nell’ufficio della cooperativa: pulivo per terra, rispondevo al telefono, ecc., niente di trascendentale ma non era male. Si lavorava anche a scrivere articoletti per il giornale e poi a impacchettarlo per le spedizioni, inserire i nominativi e indirizzi nel computer, stampare le etichette… insomma le solite cose.

Oltre a tanti stranieri (si facevano anche dei corsi di lingua italiana) quel “centro” (finanziato dal Comune) era frequentato anche da altri miei “colleghi”: detenuti in affidamento, in semilibertà, in “permesso” (perché ci si interessava a trovare dove alloggiare). Inoltre, anche perché si era ubicati a una cinquantina di metri dal SERT, ci bazzicavano un sacco di tossici, ex tossici, ecc. E qui è successo l’inghippo: voglio dire che mi è capitato di ricascare in una storia che ritenevo ormai chiusa.

Non stavo, poi, tanto male: mi davano 600.000 lire tutti i mesi, non solo ma, per sei giorni la settimana (la domenica mi arrangiavo scroccando inviti o con qualche pizza) avevo un pasto giornaliero assicurato in una trattoria. Soldi me ne avanzavano (unico vizio, allora, le sigarette e qualche bicchiere). Solo che quello che avevo supposto essere un impegno gratificante si rivelò non esserlo affatto (una insulsa routine quotidiana), manco a farlo apposta, una o due volte ricomparvero sui giornali articoli che sbandieravano le eterne, farneticanti, esternazioni di quel mentecatto giudice di Milano che, da più di vent’anni, non voleva rinunciare a vomitarmi addosso la sua bava e a sproloquiare sulle “nuove”, sensazionali, scoperte che diceva di avere fatto (complici, mandanti, legami con tutti o quasi i “servizi” del mondo). Come se non bastasse, una volta fuori ho dovuto prendere atto di qualcosa di cui non avevo avuto prima una vera consapevolezza: ero un vecchio! Il mio fisico, la stessa mente non erano più quelli di prima. La galera è un tempo morto: la soffri giorno per giorno, ora per ora, ma non sei consapevole di stare invecchiando. Tante, troppe cose, mi erano precluse (per esempio una normale “attività” sessuale) ma non è solo questo: anche il mondo che avevo trovato era cambiato, non mi ci riconoscevo più. Non mi è facile spiegare tutto questo, spero che tu riesca a capire o almeno intuire, quello che non so spiegare in modo esaustivo. Beh, per dirla con Burroughs (che di queste cose se ne intendeva) quando la droga ti ha agganciato una volta, non importa poi per quanti giorni, mesi o anni ne rimani lontano. Se solo ci riprovi basta “bucare” due volte e ci sei dentro di nuovo. Altri, che ci erano passati, me lo avevano detto. Non ci credevo. A sessant’anni, dopo diciannove che non mi facevo una “pera” (l’ultima era stata nel carcere di Milano al tempo del mio processo d’appello) pensavo di potermi levare lo sfizio di uno “schizzo”. Con quel mio amico con cui mi sono rifatto dopo tanti anni ci eravamo detti: “Beh, ormai ne siamo fuori, siamo abbastanza maturi da saperci controllare. è come per uno che lavora tutta la settimana e il sabato si prende una sbronza; mica diventa alcolizzato! Puliti come siamo ci basta una busta in due e poi basta, al massimo ci faremo una volta al mese o alla settimana. Cosa ci costa? 20.000 ciascuno”.

Non è andata così: un mese dopo eravamo entrambi intossicati come e peggio di tanto tempo prima. Era uscita di carcere anche sua moglie e lei ci spingeva ancora di più. A darle retta avremmo dovuto stare con l’ago in vena dalla mattina alla sera. E i problemi! Servivano sempre più soldi e per trovarli… si fanno tante di quelle stronzate che, specie in una situazione come la mia, possono portare a conseguenze di merda.

Avrei potuto rivolgermi ad un SERT, farmi dare il metadone e piano piano cercare di uscirne. Ma, come si fa? Rivolgendomi al SERT avrei dovuto dichiarare ufficialmente che mi facevo. E come la mettevo con il carcere? Sarei stato subito “chiuso”. L’unica cosa che ero riuscito ad escogitare era quella di acquistare del Metadone, o del Temgesic, farne uso a “scalare” e togliermi il vizio. In ogni caso mi ci volevano dei soldi. Non mi è andata bene e a un certo punto la storia è venuta fuori. Grande “indignazione” del Capecchi, * si è affrettato a segnalare la cosa a Paolo e a gli altri di “A” avvisandoli che, se per caso avessi chiesto loro un aiuto finanziario, dovevano rifiutarmelo… per il mio bene.

Essendo venuto a parlare della questione “aiuti” colgo l’occasione per un modesto chiarimento relativo a quanto mi rinfaccia Bertolo nella sua lettera (…“Così come il tuo ringraziamento per altre cose, per altri aiuti”). è vero, per tanti anni, tramite Paolo e la rivista “A”, mi hanno aiutato, non solo con l’invio di libri ma anche mandandomi effetti di vestiario e somme di denaro. Da parte loro, però, dovrebbero riconoscere che mi sono sempre comportato con correttezza e senza mai cercare di approfittarne. Non appena, nel carcere di Ascoli Piceno, mi è stata data la possibilità di lavorare e prendere una “mercede” mi sono affrettato a comunicarglielo e a dire che non era più il caso che mi mandassero degli aiuti, dato che potevo provvedere a me stesso e quei soldi potevano servire per aiutare altri compagni in maggiori difficoltà. Non solo ma, seppur con cifre irrisorie, ho cercato di contribuire anch’io alle varie sottoscrizioni. Scusami la digressione e torniamo al tema libro.

Dunque, per quella storia di “droga” il Capecchi disse chiaramente che non voleva avere più a che fare con me. Il che equivaleva a perdere la “semilibertà” e tornare in carcere a tempo pieno. Alla mia età, non poteva significare che andarci a morire. Sarò un vigliacco, ma non ho più la forza di sopportare certe situazioni. Ricominciare, cioè, tutto daccapo.

Quasi contemporaneamente, qualcosa di simile era successa ad un mio ex compagno di cella. Nel suo caso il giudice di sorveglianza (quello marxista) si era interessato per farlo andare a quei cosiddetti “corsi” di psicoterapia di gruppo gestiti da un certo Rizzo con la collaborazione di Pino Bertelli. Ottenni un permesso per recarmi a Firenze nella giornata di chiusura di quel “corso”. Ci trovai Bertelli, che conoscevo solo indirettamente per alcuni suoi scritti. La sua presenza mi rassicurò, inducendomi a pensare che si trattasse di una cosa seria. A farla breve, venni invitato, ottenni il relativo permesso e il mese seguente partecipai ad una di queste sessioni. Non mi dispiacque e mi fu data la possibilità di andarci altre volte. Tieni conto (anche sul piano egoistico della convenienza) che quei corsi mi permettevano di passare ogni volta quattro giorni in un albergo, di mangiare bene e a volontà, di avere gratuitamente le sigarette e perfino qualche soldo. La gente che ci andava, come clienti, pagava una somma abbastanza ingente per partecipare, ma ogni volta venivano invitati, gratuitamente e spesati di tutto, un piccolo numero di persone prive di mezzi, con la caratteristica di essere “carcerati” e/o “tossici”.

Beneficenza o utilizzo di certi elementi per creare una certa atmosfera ed “emozionare” la clientela di “gente bene” che pagava? Non mi pronuncio. Fatto sta che Pino mi propose l’iniziativa di quel libretto. Le cose si svolsero così: lunghissime chiacchierate a ruota libera che lui registrava e utilizzò per confezionare il libretto. Per un motivo o per l’altro (stavo per dire con una scusa o con un’altra) il testo definitivo io l’ho potuto vedere solo quando il libro era già stampato e doveva venire presentato a Belgioioso. Ci sono stati moltissimi tagli rispetto a quello che avevo detto io e, in compenso, aggiunte di interi brani scritti da Pino. Anche cose che io non ho mai detto e neppure pensato. Per esempio, mi si fa dire che Mussolini è stato, a suo tempo, un traduttore di Stirner. Cosa che non so se sia vera, che in ogni caso ignoro e, in ogni modo non avrei mai pensato di inserire in quel testo. Così come non mi è piaciuta la scelta di Bertelli di inserire in epigrafe una citazione di Céline.

Non sono per niente fiero di avere firmato quello scritto. A mia “discolpa” posso solo dire che attraversavo un periodo di estremo sconforto e tendevo ad attaccarmi affettivamente a chiunque mi mostrasse solidarietà umana. Posso anche dirti che non c’ero troppo con la testa. In quel periodo mi iniettavo mediamente cinque fiale al giorno di “Temgesic” (Buprenorfina cloridrata) ed ero ossessionato dall’idea del suicidio.

Venendo ad altro, domani devo entrare in ospedale e dopodomani mi dovranno operare: vedremo come andrà a finire.

Ho ricevuto da Antonio un suo scritto, recensione di un libro su Renzo Novatore, pensò che lo manderà anche a te. Se lo farà, vorrei pregarti di dargli riscontro e un po’ di soddisfazione. Se non sceglierò di crepare la mia soddisfazione sarebbe quella di vedere tornare ad uscire “Anarchismo” e (visto che sono un po’ vendicativo) mi piacerebbe tanto che il primo numero portasse anche uno scritto mio, qualcosa di Antonio, qualcosa di * e magari anche di * (insomma, tutta gente che in qualche misura e per qualche tempo si è riconosciuta nell’aria “meneghina”). C’è gente (si vedano persone come * e * di Torino) che ritengo molto pulita e… “recuperabilissima” nell’ottica di una rinascita non effimera e/o fittizia del movimento libertario.

Ciao un fraterno abbraccio,

Gianfranco

31 Bon

22 febbraio 1999
Catania

Carissimo Gianfranco,

ho le tue del 15 e del 18 e ti ringrazio. La lettura delle tue lettere sta diventando un’alimentazione inaspettata per le mie idee e i miei desideri.

Ti ringrazio del giudizio positivo che dai del mio Come un ladro nella notte, trattandosi essenzialmente di una conferenza sull’Anarchismo in generale e in particolare sul mio modo di vedere questa particolare “visione della vita”, ci tenevo a sapere cosa ne pensassi, visto che mi sono trovato parecchio in difficoltà nel corso della conferenza, non tanto con l’uditorio, quanto con me stesso. Comunque spero che sia utile, se non altro ai compagni più giovani, per non cadere nella trappola di considerare l’anarchismo una delle tante concezioni della lotta politica, ecc.

Un compagno mi ha promesso che mi darà una copia del mio vecchio libro su Stirner e te la invierò subito non appena in mio possesso.

Mi spiace che tu mi dica di essere in “pessime condizioni psicologiche”, se non me lo dicessi tu non ci crederei, perché dalle tue lettere traspare una progettualità di vita ben al di là delle cose che dici singolarmente prese, e ciò anche quando stringi su propositi (suicidio) che se io rispetto in modo assoluto, non posso condividere – almeno in questo momento che ci sono tante cose da fare e da mettere a posto – e perché no, anche assieme.

Non ti pare?

Aprendo il capitolo “salute” fammi sapere dell’operazione. Io da parte mia ho aggiunto alla collezione degli acciacchi (pressione alta, diabete, spalla rotta – residuo delle torture di Bergamo) anche un restringimento di alcuni anelli della colonna vertebrale che mi bloccano i nervi delle mani e me le lasciano costantemente addormentate, ecc.

Mi piace molto l’idea di questo tuo libretto, ma prima di tutto mi fa piacere come prima pietra di un edificio, non come ultimo sasso da lanciare in faccia a qualcuno.

Naturalmente questo è quello che penso io, tu liberissimo di pensarla come vuoi. Per la citazione, non c’era bisogno di chiedermi, ma non mi sembra adatta se dovessi scegliere la prima delle versioni di cui sopra: costruzione di un edificio.

Fai tu.

Sono contento che tu hai sottolineato, nella lettera del 18, il passo sul perché ingigantire le forze dell’avversario. Si tratta di un modello interpretativo della realtà che ha frenato moltissime iniziative anarchiche in un passato, anche recente, e penso che ne frenerà ancora, se non si dovesse chiarire in modo definitivo. Guarda gli scontri di piazza, per fare un esempio se vuoi limitato e limitante: quante bastonate ci pigliamo a volte mentre, sia come forze in campo, che come coraggio, potremmo suonargliele di santa ragione. Eppure, in molti casi, c’è qualcosa che ci blocca.

È per questo che odio le “dietrologie”, quando si spendono tante energie per spiegare che cosa potrebbe fare il nemico, o che cosa sta facendo, ben al di là di quello che spesso in effetti è in grado di fare.

Ahi! Il periodico, tasto dolente. Il mio cuore balza oltre l’ostacolo, ma poi deve fare i conti con l’atterraggio sulla dura terra. Al momento, non posso fare nulla di più. Il movimento anarchico, in questo momento, è un’arena per scontri fittizi. Spero che l’atmosfera cambi.

Scrivimi presto. Per il momento un abbraccio forte,

Alfredo

32 Bon

25 febbraio 1999
Catania

Caro Gianfranco,

ho letto più volte la tua lunga lettera del 21 e ti ringrazio per averla scritta e per averla destinata a me, ti ringrazio prima di tutto per la fiducia perché è evidente, e leggendola più volte me ne sono reso conto perfettamente, che è proprio la tua pelle, viva, che stai mettendo a nudo. Non voglio comunque che tu ti senta in nessun modo sollecitato a dirmi qualcosa in merito a questo o quel fatto preciso. Io ti avevo scritto della mia sorpresa, di allora, ma ad interessarmi della questione, quando si faceva a Firenze “Canenero”, non fui io bensì altri compagni che credo fossero presenti alla presentazione del libro, ma adesso non ne sono nemmeno tanto sicuro. La mia, e questo me lo ricordo bene, fu una sorpresa perché conoscevo il livello culturale di Bertelli e le sue ambizioni letterarie, tutto qui. Un’altra volta ti racconterò del filmato (unico e mai pubblicato) che Bertelli fece per le Edizioni Anarchismo: una cosa incredibile. Ma questo è tutto un altro discorso.

Ti ho spedito una copia, recuperata grazie alla generosità di un compagno, del mio Stirner, che spero ti piacerà. Fammi sapere quando lo ricevi, ma prima, non appena sei in grado, fammi sapere come stai in salute e l’esito dell’operazione.

Avevo pensato anch’io di scrivere ad Antonio, e ti devo confessare che lo scritto suo su Novatore mi è piaciuto, forse mi sbaglio ma ci vedo sotto un fermento tutt’altro che “cristiano-pacifista”. Comunque gli scrivo oggi stesso.

Mi fai pensare ad “Anarchismo” un’altra volta in campo. Non ci avevo pensato. Ne dobbiamo parlare a fondo. I nomi che mi scrivi non credo abbiano un grande amore per me, escluso * e * che non saprei dirti conoscendoli meno di * e *. Comunque, in me non ci sono rancori di nessun genere, né preclusioni a priori. Non so se lo scenario di una nuova serie di “Anarchismo” con al suo interno collaborazioni di questo tipo possa essere non dico possibile, ma solo ipotizzabile. Chissà? Da parte mia nessuna preclusione, forse tu potresti essere un catalizzatore, una nuova forza capace di fare mettere una pietra sopra su passate e stupide polemiche? E perché no?

Ti abbraccio con affetto, aspettando una tua risposta al più presto,

Alfredo

33 Ber

4 marzo 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

stamattina, da una telefonata fatta alla “Botteghina”, ho saputo che mi era arrivata della posta. Così, per la prima volta dopo essere uscito dall’ospedale, sono arrivato fin là e ho trovato due tue lettere.

Sarà per l’età che ho, o per essere il mio fisico abbastanza debilitato ma ci metto molto a riprendermi e, dal giorno che ho lasciato l’ospedale ero uscito solo tre volte: lunedì e ieri per recarmi ad effettuare delle medicazioni e già sabato scorso per arrivare fino da un medico che ha lo studio qui vicino e farmi prescrivere del “metadone”, visto che non ce l’avrei fatta a recarmi tutte le mattine a prenderlo (detto tra parentesi, penso che dovrei cominciare a “scalare” le dosi di questo prodotto perché è una dipendenza fastidiosa e, per certi versi, stressante). Sta di fatto che il, neppur tanto lungo, percorso fino alla “Botteghina”, mi ha stancato parecchio e riacutizzato il dolore. Dicono che sia “normale” continuare a sentire del dolore. Speriamo che passi.

Sai, questa dell’ospedale è stata un’esperienza che mi ha permesso una ulteriore verifica della disumanità implicata dalla “aziendalizzazione” delle strutture sanitarie. Tutto marcia all’insegna del profitto e quindi si ispira al principio dei tagli di spesa. Gli esami preliminari devono venir effettuati all’esterno (perdite di tempo e camminate da un ambulatorio ad un altro) e, non appena operato, l’unica preoccupazione è di scaricare al più presto il “degente”. Sono entrato martedì pomeriggio, mercoledì mi hanno operato e venerdì mi hanno messo fuori.

Per fortuna un amico è venuto a prendermi con l’auto, altrimenti non so come avrei potuto fare. D’altra parte, il principio guida nella gestione della cosiddetta “cosa pubblica” e quello dei risparmi e dei tagli di spesa, nonché della riduzione del personale addetto, in tutti i settori.

Con una sola eccezione: l’industria della repressione! In quel campo non badano a spese. Tempo fa, guardando esposta in un’edicola una pubblicazione dedicata ai “concorsi” pubblici e offerte di lavoro, osservavo come tutto ciò che veniva offerto ai giovani in cerca di occupazione fosse costituito da arruolamenti in uno dei vari corpi di polizia. è un fenomeno sul quale ci sarebbe da riflettere e da trarre delle considerazioni, paradossalmente non del tutto ed esclusivamente pessimistiche. Voglio dire che, se nonostante la già presente “elefantiasi” degli apparati di sicurezza del potere, lor signori sentono impellente il bisogno di farli crescere e potenziarli ancora, è lecito supporre che non si sentano troppo tranquilli e sereni. Certo, ponendosi nell’ottica (fatta propria anche da certi “compagni”) che identificava nel cosiddetto “socialismo reale” (capitalismo di Stato e imperialismo moscovita) l’antitesi antagonista e alternativa al capitalismo occidentale, sarebbe quest’ultimo ad avere affermato la sua superiorità e celebrato il suo trionfo. Ma, fino a quanto potrà durare?

Interrompo qui questo discorso che implicherebbe l’esigenza di mandarti una lettera di almeno venti o più pagine e costituirebbe un impegno che non mi sento in grado, oggi come oggi, di affrontare. Si tratta di un tema che avevo abbozzato e costituiva la premessa ad un saggetto che, anni fa, progettavo di scrivere per quel certo prof. Donno di Lecce. Poi con lui ho rotto ogni rapporto e adesso non ho più neanche gli appunti che avevo predisposto (e tutta la raccolta di “citazioni” che avevo messo insieme con l’aiuto di Antonio Lombardo, sempre disponibile in queste cose).

A proposito di Antonio, condivido il tuo giudizio positivo sul suo scritto su Renzo Novatore. Tra l’altro recentissimamente Antonio mi ha spedito un volumetto, edito da Costantino Cavalleri (un tempo ero con lui in corrispondenza) su Ravachol. L’avevo già letto anni fa (dato che è tratto da un vecchio libro curato dal Galleani: Faccia a faccia col nemico). Comunque mi ha fatto piacere riceverlo e rileggerlo, più ancora il fatto che Antonio abbia voluto mandarmelo. Aspetto con ansia il tuo libro su Stirner, sono certo che non mi deluderà.

Per tornare ad Antonio, devo dirti che nutro per lui molto affetto e stima. Ci siamo trovati spessissimo in disaccordo su certi punti, altre volte pienamente concordanti. In ogni caso, su questo non ci piove, si tratta di una persona estremamente corretta e sincera. Sai, c’è stato un momento in cui siamo stati vicini ad una “rottura” addirittura “brutale”.

È stato quando, circa due anni fa, ho attuato quel tentativo di suicidio.

Quella mattina gli ho telefonato per preannunciarglielo, spiegargli cosa mi spingeva a quel gesto, ribadire la mia estraneità alle infamie venute fuori sui giornali, nonché mettere in chiaro (per togliere ad altri la possibilità di specularci sostenendo la tesi di un “omicidio” per farmi… tacere, che certo giornalisti e magistrati si sarebbero affrettati ad ipotizzare. Inoltre, sfogarmi con lui della rabbia che mi era nata dentro per il comportamento ipocrita e cinico di certi compagni in quella occasione. Comportamento che mi aveva sorpreso anche perché nulla sapevo ancora delle nuove posizioni di Lanza).

Lui si mosse telefonicamente, contattando un assistente sociale del carcere di Livorno, e mise in moto un meccanismo (rivelatosi estremamente veloce per un concorso di coincidenze e circostanze casuali) a causa del quale, invece di finire tranquillamente al cimitero, mi risvegliai tre giorni dopo nella “sala rianimazione” dell’ospedale. Ciò volle dire ritrovarmi in cella poco dopo. Gli scrissi con linguaggio molto duro e offensivo. La mia tesi era quella che mai e poi mai un compagno può permettersi di interferire nelle libere scelte e decisioni di un altro e che la sua azione sfiorava la dimensione dell’infamità e del tradimento di fiducia. Dopo diverse lettere e parecchia polemica reciproca, arrivammo a capire le rispettive posizioni e ci ritrovammo buoni amici.

Passando ad altro argomento, sento che anche tu passi i tuoi guai con la salute. Mi ha, poi, colpito apprendere che ti porti addosso i residui del trattamento sbirresco subito al tempo dell’episodio di Bergamo. E poi… certi “compagni”(?!) si sentono in diritto di esibirsi nello squallido e grottesco spettacolo dei loro “distinguo” e delle loro “prese di distanza”. Ma che ne sanno certi buffoni di quale sia il prezzo pagato da chi non vuole rinunciare a lottare?

Io riconosco loro il diritto di restarne fuori, di non sentirsela di correre dei rischi, perfino (ma andiamo piano) quello di criticare certe scelte e discuterle. Ma chi paga di persona avrebbe diritto, se non alla solidarietà esplicita, almeno al rispetto. Neppure a tanto arrivano. Anzi, se del caso, arrivano a rendersi complici delle calunnie riversate addosso dai servi del potere. Ci sono due “razze” di anarchici: quelli che hanno provato la galera e sono, comunque, consapevoli di poter andarci a finire e quelli per i quali un simile ipotesi è del tutto irreale perché (a livello inconscio o conscio che sia) sanno di far parte del sistema, lo riconoscono e ci si riconoscono seppur attribuendosi un ruolo “critico” di certi suoi aspetti.

Venendo al mio (talvolta ossessivo e forse noioso, lo riconosco) continuo parlare di suicidio. So perfettamente di poter fare talvolta la figura del buffone. Che cazzo! Se uno decide di ammazzarsi, che si ammazzi e la smetta di parlarne a vanvera. Vedi Alfredo, il fatto è che io sono portato a volermi aprire e dico, dico di volta in volta, il mio pensiero, le cose che sto valutando e su questo punto, spesso cambio idea a seconda del momento dello stato d’animo della misura della mia amarezza e disperazione o delle mie speranze. Credo (ed è una constatazione dolorosa) che nessuno sia mai arrivato a capire la mia mentalità e il mio carattere. Ed è per questo (non perché mi ci sento “sollecitato”) che (ed in particolare con te perché ti reputo potenzialmente in grado di arrivare più di altri a questa comprensione) che mi dilungo nei dettagli narrativi di certi episodi ed eventi. Sta certo che se un Lanza o un Amedeo si fossero, anche solo un poco avvicinati ad intuire come sono fatto, le coglionerie scrittemi non le avrebbero mai scritte. Ti faccio un esempio: tre anni fa, in semilibertà, non riuscii ad eludere uno dei periodici controlli delle urine. Risultai “positivo” agli oppiacei e mi “chiusero”. Dopo un mese e mezzo mi ridettero la “semilibertà” e l’educatore mi fece un predicozzo il cui senso era che avevano voluto darmi una sorta di ammonizione, di “tirata d’orecchie” per… “il mio bene”. Beh, il fatto che mi volessero “educare”, “addomesticare” per me era intollerabile. Potevo benissimo farne a meno eppure qualcosa dentro di me mi diceva che non potevo accettare di venire coercito a “comportarmi bene”. Il “peccato” consisteva nell’essermi bucato? Beh, io dovevo assolutamente rifarlo. Mi sono sbattutto tutta la mattina per trovare qualche soldo in prestito e non sono stato contento fino a che non mi sono fatto una “pera”. Potevano controllarmi quella stessa sera, rischiavo di farmi chiudere definitivamente, a termini di logica era una cosa assurda correre quel rischio ma io dovevo farlo, dovevo violare il loro ordine, per sentirmi me stesso dovevo correre il rischio. Quella sera non mi hanno fatto i controlli e il primo è venuto solo una settimana dopo: ero “pulito”. Però, per una volta avevo dovuto sfidarli.

Ciao, un abbraccio fraterno,

Gianfranco

34 Ber

9 marzo 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

stamattina, anche se quasi non ce la facevo sono andato alla “Botteghina” (d’altra parte, devo pur mangiare ed è solo là che ne ho la possibilità). Ho fatto bene perché proprio stamane è arrivato il tuo libro. Ancora non l’ho neppure sfogliato. Mi riprometto di cominciare ad affrontare la lettura stasera e mi sa che farò mattina. È così quando un libro mi interessa veramente e, se tanto mi dà tanto, se, cioè, il primo volumetto può offrire una indicazione relativamente ai contenuti di questo, posso dare per certo che mi affascinerà.

Venendo ad altro devo dirti che se io fossi un “cattolico”, visto che secondo loro N. S. mette alla prova quelli che ama di più (non omaggia, forse con le “stigmate” i suoi santi prediletti?) dovrei rallegrarmi molto. Me ne succedono, infatti, di tutti i colori. Ti avevo detto della operazione chirurgica cui ho dovuto sottopormi. Un’ernia! Cosa da nulla, dicono e, di fatto, due giorni dopo mi hanno… “scarcerato”. Ma, a me succede sempre qualche complicazione. Un brutto gonfiore e dolori insistenti hanno suggerito al medico curante di rimandarmi all’ospedale per una visita di controllo. Ipotizzava trattarsi di una “recidiva” dell’ernia appena operata. Il chirurgo, invece ritiene e diagnostica una “reazione infiammatoria”. Mi ha tolto del liquido e dice che, perché si riduca il gonfiore, possono volerci due o tre mesi. Comunque, mi è venuta anche un po’ di febbre. Proprio adesso, mentre sto scrivendo, ho ricevuto una telefonata di Antonio: domani sarà qui a Livorno. Verrà alla trattoria e io almeno spero di non stare troppo male. Certo, questi malanni in più non mi ci vorrebbero. Sai, mi è venuta in mente una frase di Fernando de Rojas che suona all’incirca così: “Non si è mai tanto giovani da non poter morire domani e mai tanto vecchi da non poter vivere ancora fino al prossimo anno”. Ecco, qualora fosse di poter ancora riacquistare un po’ di salute, lucidità e volontà e qualora mi fosse dato di vivere ancora un anno decentemente, credo che ci sono ancora diverse cose da poter fare. Il mio dubbio, l’interrogativo permanente che mi pongo consiste in quella domanda che, secondo Camus (Il mito di Sisifo) è la più importante di tutta la filosofia, cioè se la vita valga la pena di essere vissuta.

Ed è una domanda alla quale non è, forse, possibile rispondere in modo univoco. Razionalmente, parrebbe proprio di no. La certezza stessa che veniamo al mondo già predestinati alla morte ed il fatto assodato che in questo arco di tempo che costituisce la nostra vita, sono molto più frequenti i dolori che le gioie, le sofferenze che i piaceri, suggerirebbe che sarebbe più intelligente darsi la morte. Tuttavia, per assurdo che possa essere, siamo tutti fatti in modo tale da cullare delle aspirazioni, di avere dei desideri, di sognare qualcosa che vorremmo realizzare e che, paradossalmente, diventa per noi più importante della stessa sopravvivenza.

Io mi dibatto tra la voglia di farla finita e il desiderio di vivere e di lottare per ciò in cui credo. E ciò in cui credo è che da quando esiste l’umanità vi sia in corso una lotta che non finirà mai e che questa sia tra l’aspirazione alla libertà e l’arroganza di chi vuole perpetuare il dominio. Io so da che parte mi sento e desidero stare, e so che il fatto stesso di riuscire a lottare è già una ragione sufficiente di vita.

Venendo ad altro (ma pur sempre il discorso vi si ricollega) nei giorni scorsi ho ripreso in mano un libro del celebre “segretologo” e “dietrologo” De Lutiis (che, guarda caso, piace molto al Lanza) e mi sono riletto i passi in cui vengo citato (questa volta dal giudice Casson che mi voleva “gladiatore”). Se hai quel libro (Universale economica – Editori Riuniti da p. 140 a p. 143) rileggiti quelle frasi. Non so se, anche mettendocela tutta, sia possibile costruire un ragionamento tanto illogico, traballante, arrogante e stupido. Eppure, tutti fanno mostra di non accorgersene. Mi hanno attribuito tutti i “legami” che era possibile inventarsi, spesso in contraddizione con “rivelazioni” e “scoperte” precedenti (altrettanto “sensazionali” e altrettanto illogiche) ma per loro tutto va bene. Quello che importa è continuare a sostenere la tesi dei “mandanti”, del “complotto” (in ultima analisi, asserire la “sacralità” dell’assunto per cui ci devono essere “esecutori” e “mandanti”, “gregari” e “capi”), ingenerare paura delle “provocazioni” e “paranoie”, il tutto per castrare in partenza, anche il sogno di un autentica volontà di rivolta. Adesso, ci si allineano anche Lanza & C. Quale allora, per costoro, la categoria su cui riporre le nostre speranze? È chiaro: i giudici!

Ti saluto con tanto affetto,

Gianfranco

35 Ber

15 marzo 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

la scorsa settimana, come mi aveva preannunciato, Antonio Lombardo è passato per Livorno. Dico “è passato” e non “è venuto a trovarmi” perché in effetti e contrariamente a quanto supponevo (in una precedente occasione si era trattenuto quasi una settimana) si è soffermato qui, assieme alla moglie, solo per un paio di ore, di passaggio mentre si recavano a trovare dei parenti di lei che abitano, mi pare, ad Arezzo. Beh, sono arrivati verso mezzogiorno alla trattoria che mi funge da recapito, si è pranzato assieme, poi assieme ci si è recati nel mio (ahimé, aleatorio) alloggio e poi sono ripartiti. A parte il piacere di vederlo, si è trattato di un incontro fine a se stesso. Io mi ripromettevo di avere con lui qualche conversazione interessante, anche nell’ottica di un confronto sulle rispettive posizioni e nella speranza di instaurare qualche forma di collaborazione (articoli o altro se, chissà, si potrà arrivare ad editare un periodico). Comunque, come ti dicevo è stato un incontro molto breve. Figurati che mi è perfino passato di mente di chiedergli se ti aveva mandato il libro di Luciano Lanza. Non so, quindi, se tu l’abbia avuto. Mi piacerebbe che tu ne prendessi visione e sentire da te cosa ne pensi. Il mio giudizio è, forzatamente, viziato di faziosità essendomici trovato attaccato. A me, nel complesso è sembrato una cosa abbastanza modesta (lui dice di esserne “fiero”!?) che si riduce ad una sorta di “compendio” divulgativo-apologetico dell’opera fanta-giuridico-autoincensatoria del giudice Salvini. Sembrano tutti “innamorati” di quel personaggio, tant’è che l’Amedeo Bertolo (che pure ho per anni stimato e ammirato sul piano dell’onestà intellettuale) mi ha espresso la sua positiva opinione su quell’uomo scrivendomi letteralmente: “… per quello che ha fatto su Piazza Fontana, che non è cosa da poco, il giudice Salvini non sembra in generale inattendibile”. Arriveremo a vedere la costituzione di una “associazione magistrati libertari”? Di questo passo non ci sarebbe da stupirsene. Eppure, dio cane, la mia storia personale la conoscono nei minimi dettagli. Hanno seguito per anni il succedersi delle “rivelazioni” calunniose, spesso in contraddizione l’una con l’altra, ma sempre con il “leit motiv” che mi voleva ad ogni costo “fascista” o complice dei fascisti, quando non importante pedina di mezza dozzina di “servizi segreti”.

Come ti scrissi in una lettera precedente ho riletto il libretto del tanto celebrato e osannato “segretologo” di via Botteghe Oscure, al secolo Giuseppe De Lutiis. In quest’opera (in altre precedenti i supposti “mandanti” erano altri e adesso sarebbero altri ancora) cita il giudice Casson (fissato con la stronzata della mia appartenenza a “Gladio”) questo signore (un giudice, per di più di Venezia, che potrebbe aver rinvenuto e consultato nella locale questura tutto ciò che mi riguarda) arriva a sostenere che il Bertoli “segnalato” (e per altro mai neppure contattato) per l’arruolamento in “gladio” non può essere il tizio di Portogruaro perché costui nega di essere mai stato avvicinato (se lo nega lui è “credibile”, se lo nego io invece è “menzogna”!) ma devo essere stato io, arrivando a scrivere: “Per contro, con assoluta certezza, risulta in atti che lo stragista Bertoli Gianfranco, nato a Venezia, lavorò come informatore sia per il SIFAR che per Carabinieri e Polizia…”.

Davanti a certe sconcezze, cosa mi resterebbe da fare? Sono 25 anni che si va avanti e ad un certo punto uno non ne può più. Due anni fa ero arrivato a volerla fare finita e francamente sono stufo di tutto e provo solo un grande schifo.

Venendo ad altro, sto leggendo e rileggendo il tuo bellissimo libro su Max Stirner. Tra le altre cose mi ha colpito la tua interpretazione del “silenzio” di Stirner, dopo L’unico, come una forma di suicidio.

Già un riferimento sul suicidio l’avevo trovato nel tuo libro su Calabresi. Mi stupisce, da parte di uno che, come te, non ha mai avuto questo tipo di “tentazione” la enorme, incredibile capacità che dimostri nel capire la personalità e gli impulsi di quanti operano una scelta del genere.

Te lo dice uno che, non solo ci ha pensato e ci pensa, ma, di fatto, era anche arrivato ad attuarlo (se poi sono ancora in vita si è trattato di un caso accidentale, il mio tentativo era stato fatto molto sul serio).

Un giorno, forse, me la sentirò di spiegarti cosa provavo e come e perché avessi scelto quel modo (rivelatosi inadeguato) invece di un altro.

Molto in sintesi: l’uso di droghe era l’accusa che mi valse il disprezzo di certi compagni, la legge e le “autorità carcerarie” mi vietavano quella sostanza… Beh, proprio per questo l’avevo scelta (e un po’ anche perché non si soffre e io non sono masochista).

Un fraterno saluto libertario e un abbraccio,

Gianfranco

36 Bon

16 marzo 1999
Catania

Carissimo Gianfranco, amico mio,

sono per prima cosa molto contento di saperti “fuori” dall’ospedale e fuori dal problema dell’operazione. Non avendo ricevuto da diversi giorni tue nuove (sapevo però dell’operazione) mi ero dato una scadenza e poi avrei telefonato ad Antonio. La tua lettera del 4 mi ha tranquillizzato.

Spero che ti sia arrivato il libro su Stirner e che non sia andato perduto, è stato molto difficile trovarla quella copia. Comunque speriamo bene.

Capisco il dilemma che ha dovuto affrontare Antonio nel caso che mi racconti riguardante il suo intervento di fronte alla tua iniziativa, liberamente presa. Non so cosa avrei fatto io al suo posto. Mi sono posto la domanda e francamente non ho voluto rispondermi perché mi sembra che il farlo in questo modo, cioè il darsi in questo modo “astratto” una risposta, non ha senso.

Ti sento molto vicino al mio modo di pensare quando mi parli di queste scelte che hai preso (anche nelle piccole cose, non solo nelle grandi) nella tua vita, come la decisione di “farti” pur sapendo i rischi di “chiusura”, ecc. Sulla faccenda del pericolo e del rischio io la penso allo stesso modo. Ci sono cose che si possono scegliere in vario modo, scegliere il modo più rischioso a volte è quasi necessario, e ciò per una questione di pulizia individuale, per un rispetto verso se stessi, e non sono poi tanti a capire questa faccenda, specialmente quelli che fanno delle scelte fondate sulla valutazione economicistica della vita una regola inappellabile. Ma nella mia vita ho scoperto che il peso in termini di crescita di coscienza di queste scelte non è maggiore a quello che se ne ricava studiando la scelta opposta. Argomento molto complesso che un giorno forse, se vuoi, approfondiremo assieme. Può essere altrettanto difficile accettare che rifiutare. Le possibilità non si racchiudono mai nel sì o nel no, ma esiste sempre una terza strada, una strada “diversa”, molto più difficile da percorrere, almeno mi sembra. Di questo sentiero nella foresta non sono un profondo conoscitore, ma qualche passo, forse troppo timido, l’ho percorso in questa direzione. La sfida è come il salto mortale, può essere semplice, ma può anche essere doppio. Argomento da rasoio.

Faccio partire questa mia. Spero di leggerti presto.

Con affetto,

Alfredo

37 Bon

19 marzo 1999
Catania

Caro Gianfranco,

mi dispiace che non hai potuto parlare con Antonio, con il quale anche a me piacerebbe parlare, visto che mi sembra (ma non vorrei illudermi) che oggi avremmo più cose da dirci di vent’anni fa. Comunque in futuro si vedrà.

Il “periodico”, una stilettata ai miei più reconditi desideri. Per il momento messi da parte.

No, per il momento non ho ancora avuto il libro di Lanza, ma Antonio è uomo che non dimentica queste cose, lo spedirà non appena possibile, ne sono certo.

Che strano, di questo giudice Salvini, pur con l’amaro in bocca, parlavano bene anche quei compagni comunisti del Collettivo studentesco della Statale (con me a Bergamo) mandati in galera da lui (ex loro compagno) per l’uccisione del fascista Ramelli. Riguardo i “giudizi” sul nemico è bene rifarsi a quelle diritture di massima che non sbagliano mai: un giudice è un giudice come un gatto è un gatto. Nient’altro da aggiungere.

Mi fa piacere che stai trovando interessante il mio libro su Stirner e capisco perché trovi strana la presenza della tematica del suicidio nei miei scritti. Quest’ultimo punto dipende dal fatto che ancora ci conosciamo poco, in futuro chissà, spero di potere approfondire alcuni aspetti del mio modo di pensare/fare che appaiono oscuri e, spesso, contraddittori. Io non faccio nessuna differenza tra fare e pensare, tra teoria e azione. E questo non fa eccezione nemmeno riguardo il suicidio. Per il momento ho tantissime cose da fare e fra queste c’è anche il mio suicidio, ma è una delle tante cose da fare e anche da pensare (rifletterci sopra, ma come problema fra i problemi, sensazione fra le sensazioni), pur non potendo escludere che improvvisamente, un giorno, diventi qualcosa di presente in me, in maniera tanto viva, da viverlo come esperienza fino in fondo, il che non ha importanza se questo fondo sia la morte o un’azione qualsiasi che alla morte riesce a sfuggire. Tu mi scrivi: “te lo dice uno che non solo ci ha pensato e ci pensa, ma, di fatto, era anche arrivato ad attuarlo (se poi sono ancora in vita si è trattato…)”. Ecco io non penso che un’azione si possa “attuare” e non fare. Il fatto di attuarla significa farla, la morte è un accadimento che non ha niente a che vedere col suicidio, sono due cose diverse. Se fossero la medesima cosa si morirebbe solo suicidandosi, saremmo eterni e immuni da qualsiasi altro tipo di interruzione della vita. E invece com’è ovvio non è così. Il suicidio è quindi tutto quello che attiene a una pratica di sospensione della vita, e tu l’hai vissuta fino in fondo questa pratica, come anch’io tante volte, quando pensavo seriamente di non tornare da certe azioni, e le facevo fermamente convinto della necessità di farle. La morte non era neanche l’ultimo dei miei pensieri, come anche – mi pare di capire – dei tuoi. Suicidarsi e morire sono due cose diverse che ci hanno abituato a mettere insieme. Forse non sono molto chiaro, ma mi interessa riprendere questo argomento in futuro, in modo più adeguato. L’azione, in fondo, è all’origine di tutto.

Un abbraccio con affetto,

Alfredo

38 Ber

19 marzo 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

stamattina ho trovato alla “Botteghina” la tua lettera del 16 corr. (talvolta le poste funzionano!) che ho immensamente gradito.

Sì, credo proprio che ci si possa considerare amici. Non è la durata di una conoscenza e/o di un rapporto epistolare che determinano la esistenza o meno di un rapporto di amicizia. Lo è, invece, la scoperta di una sensibilità comune e di una affinità di pensiero. Qualche volta, è normale, può succedere di sbagliarsi (ne so qualcosa!) ma di solito l’istinto ci assiste. In una mia precedente lettera ti avevo dato conferma dell’avvenuto ricevimento del tuo volume su Stirner.

Sarebbe stato veramente triste se fosse andato perduto, l’ho apprezzato moltissimo. Credimi, non sono un adulatore e dico sempre quello che penso. La mia opinione (che vale per quello che vale, dato che non sono un “intellettuale”) è che quel tuo libro debba venire, presto o tardi, rieditato. Lo considero, infatti, un testo importante. Voglio dire che non è un trattatello divulgativo come tanti, ma un opera che, pur voluta come una interpretazione del pensiero di un filosofo, diventa di per se stessa un testo potenzialmente predestinato a diventare un “classico” del pensiero libertario. Un certo F. S. Merlino (che piace tanto al Nico Berti) sostenne in una antica intervista che l’anarchismo era “finito” perché non aveva più offerto uomini e frutti del pensiero che non fossero più di “rimasticature” di teorici del passato. Il tuo libro su Stirner basterebbe a confutarlo. Personalmente ne sono entusiasta.

Venendo alle piccole cose del quotidiano, devo dirti che sono sì uscito dall’ospedale, dopo l’operazione, ma che, nel corso della stessa, mi hanno abbastanza “massacrato”. Il medico ha parlato di una “recidiva” supposta, il chirurgo sostiene, invece, che si tratta solo di una “reazione infiammatoria” che dovrebbe risolversi in due o tre mesi. Lo sai che allegria!

Altri problemi (i soliti) li ho sul piano finanziario. Solo grazie ad una serie di “prestiti” (si fa per dire, perché chi mi ha aiutato sa che non riavrà mai i soldi “prestati”) ho potuto saldare per un altro mese l’affitto di dove dormo. Il guaio più grosso, però, è costituito dalla salute. Ma, che farci…? Ormai ho 66 anni e non mi resta più tanto.

Paradossalmente, l’esperienza di due anni fa mi ha intimorito e il suicidio come protesta (ma anche come “rifiuto” della vecchiaia) non mi viene più molto facile. Pazienza! Ci penseranno Lanza e i suoi amici giudici a darmi la spinta. Stavolta, non avvertirò Antonio…! Comunque, come tu giustamente dici, è difficile dare un giudizio “a freddo” delle scelte comportamentali che uno opera sotto l’impulso delle emotività e della amicizia. Se è per questo, Antonio mi è sempre stato sinceramente amico. Cosa che non posso certo dire per altri che pure credevo tali.

Certo non mi va giù, ma così vanno le cose nel mondo e neppure i “compagni” (o che tali si dicono e ritengono) si salvano dalla ipocrisia e dalla malignità. Eppure Lanza & C. conoscono bene la mia storia e non avrebbero il diritto morale di mettersi al servizio di certi giudici calunniatori. Ma, vedi, perfino Paolo ha detto una volta (me lo hanno riferito) che, sì, anche condannando i suoi comportamenti si può e deve difendere la dignità personale di un compagno. Ma io questa “dignità” l’avrei perduta cadendo nel “vizio” degli stupefacenti. Beh, e che cazzo di rapporto c’è tra l’aver usato eroina e venire giudicato possibile complice dei fascisti?

È vero che nella mia vita ho conosciuto anche dei fascisti, ma per ben altre situazioni e vicende. Comunque, ho preso la decisione di farti sapere integralmente tutta la mia storia. Mi è faticoso perché oggi (ma succede spesso) ho la febbre. Ma lo voglio fare e lo farò (magari “a rate”, cioè in diverse lettere successive). Forse mi riuscirà di farlo io stesso. Ma, se non fosse, voglio che tu sappia tutto nei minimi particolari. Solo così posso sperare che, magari dopo morto, ci sia qualcuno che ristabilisce la verità. La verità (in questo sono aristotelico?) è sempre una e una sola. E la verità è che io, magari sbagliando, ho agito da anarchico, che lo ero e lo sono rimasto ancora (nonostante l’eroina, che quelli sono cazzi miei e non spetta né all’Amedeo, né al Paolo, né tantomeno al ragionier Lanza valutare, giudicare e condannare).

Ciao Alfredo, un abbraccio fraterno e libertario dal tuo amico e compagno,

Gianfranco

39 Ber

20 marzo 1999
Livorno

All’amico e compagno Alfredo, salute e Anarchia!

ti ho scritto ieri, in risposta alla tua del 16 corr., ma ne ho ricevuto un’altra e anche a questa sento l’esigenza di darti tempestivo riscontro.

Personalmente non nutro la superstizione “fatalistica” secondo cui ogni evento della vita, per il semplice fatto di verificarsi, possa venire interpretato come qualcosa che appartiene ad una ipotetica “trama” intessuta dal Fato. Tuttavia, ritengo che, magari per vie traverse e apparentemente incomprensibili, i nostri destini individuali finiscono con l’intrecciarsi in forza di situazioni, eventi, coincidenze e affinità che ignoravamo ma che finiscono col venire alla luce. Insomma, io, che sono congenitamente “pigro” sul piano epistolare, mi trovo oggi ad aspettare quasi con ansia la tua corrispondenza e a sentirmene gratificato in una misura che non ha precedenti. Per coincidenza di eventi fortuiti (e per circostanze altrettanto fortuite) segnalatemi da Antonio Lombardo, è successo che io mi sentissi sollecitato a scrivere sia a te che ad un certo “ragioniere”. Gli esiti sono stati differentissimi: con te quella mia lettera ha dato origine ad un dialogo aperto (e soprattutto “pulito”) con il ragioniere Lanza e successivamente con il prof. Bertolo alla scoperta di non avere più alcun punto di riferimento comune e a quella, per me dolorosa, di un reale distacco che non sembra offrire prospettiva alcuna di “riconciliazione”. Per tornare a noi (e lasciando perdere quei “signori” che si considerano i sommi sacerdoti di un “anarchismo” che di anarchico non ha più niente) non saprei trovare un espressione più adatta a quello che ho dentro, se non facendo ricorso ad una frase (o “locuzione”, o “sintagma”) appropriata a ben altro contesto e che suona così: “coup de foudre”. Mi ero fatto di te delle opinioni (peraltro incoraggiate da certi “compagni”?!) che è stata per la prima volta scossa in occasione dell’episodio bergamasco. Insomma, detta fuori dei denti, non mi piacevi. Dopo Bergamo sono stato spinto a riflettere ed oggi (quanto tempo perduto!) ti sento come ben più che un comune “compagno”, ma come un vero amico e fratello. Sento che tu puoi capire me e che io posso capire te, per il semplice fatto della esistenza di una affinità di pensiero e di emozioni (sono importanti!) che trascende i dislivelli “culturali”, le diversità delle esperienze esistenziali e tutto il resto. Per me la parola amico e il sostantivo compagno non sono detti così senza soppesarli. Sono termini referenziali di grande significato e valore. Io ti sento e considero oggi “amico” e “compagno”, e questo è il massimo attributo che riferisco ad un altro individuo.

Un altro che considero tale è l’Antonio. Il suo senso dell’amicizia e i suoi sentimenti di solidarietà sono straordinari e sono molto speranzoso (vorrei poter dire “certo” ma… non mettiamo il carro davanti ai buoi) di trovarlo, presto o tardi, molto, ma molto, vicino a noi anche sul piano delle lotte quotidiane. Che io e te siamo vicini non ho, da parte mia, dubbio alcuno. Credo, anzi ne sono già certo, che tu, tra tutti i compagni (o supposti tali) sia il più qualificato per potermi capire a fondo.

La parte finale della tua lettera (in tema di suicidio) mi dà l’ulteriore conferma di quanto ci unisca, sia sul piano delle emozioni che su quello (scusami la presunzione, visto che io non ho lauree e neppure ho il diploma di “ragioniere” di cui si fregia il Lanza) intellettuale.

Sto, comunque, riflettendo sulle frasi finali della tua lettera. Il tuo argomentare spesso non è “facile”, spinge a riflettere. Ma, se capisco bene il tuo discorso, credo che ci troviamo a pensarla esattamente nello stesso modo. Una volta, diversi anni fa (mi pare su “ProvocAzione” ma potrei sbagliarmi) hai affrontato questo tema nella triste occasione di un compagno che aveva fatto quella scelta. Paolo Finzi mi scrisse che il tuo discorso gli appariva del tutto sbagliato (quasi da “manicomio”), quella occasione fu proprio una di quelle su cui mi trovai al limite del litigio. Io condividevo la tua analisi al 100% (matti tutte e due?). Mi ripromettevo, come preannunciato, di dedicare una serie di lettere alla storia del mio episodio tragico del ‘73. Lo farò senz’altro, perché sono convinto che mai potrei incontrare un interlocutore migliore, per onestà e preparazione, a cui spiegare tutta la mia vicenda. Oggi mi sono lasciato andare alle emozioni (dovremmo, forse, farlo tutti più spesso) ed ho sentito l’esigenza di esprimerti, almeno in parte, cosa possa voler dire per me avere scoperto in te il tipo di amico e compagno che sei. In tutta semplicità voglio solo dirti: ti voglio bene!

Un saluto libertario. In barba a tutto e tutti gli infami, Viva l’Anarchia.

Ti abbraccio con forza,

Gianfranco

40 Ber

24 marzo 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

Poco fa ho ricevuto il tuo Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista. Stasera, mettendo temporaneamente da parte il vecchio Stirner (un lavoro il tuo che esige tempo e concentrazione) darò una prima lettura al nuovo arrivato. Così, almeno, saprò qualcosa di più preciso su queste… “frange insurrezionaliste” alle quali, secondo la Digos locale farei riferimento politico-ideologico. Qualche giorno fa, ti ho scritto una breve lettera. Non so cosa ne sia venuto fuori; se proprio fosse una “cagata” ti prego di scusarmene. Sai, stavo proprio fuori di testa. Quella stupida operazione chirurgica non è andata tanto liscia come pensavo (e tutti mi assicuravano). L’area del taglio mi fa ancora male, c’è un inspiegabile indurimento e gonfiore e ho anche un po’ di febbre. Quello che mi preoccupa è l’ipotesi di dover sottostare ad un altro taglio. A quanto dicono, poi, una seconda operazione a breve distanza dalla prima sarebbe considerata “pericolosa” sotto il profilo dell’anestesia e si rifiutano di praticarla. Sembra che, per i medici, sia importante non rischiare la vita dei “pazienti” (e perché mai? Mica rischiano di morire loro!). Comunque, tanto per spiegarti perché temo che la mia ultima lettera sia stata “disastrosa”, i dolori ce li avevo e sono ricorso agli anestetici (esagerando un poco). Come già ti dissi prendo il Metadone. La dose prescrittami è di 30 cc. al giorno. Io ne avevo una piccola riserva e ne ho presi quattro volte tanto. Come se non bastasse ci ho bevuto sopra… insomma ero “fuori”.

Poi, sempre come se non bastasse, sono entrato in una libreria ed ho ceduto alla curiosità (forse un po’ masochistica) di sfogliare l’ultimo “capolavoro” letterario di un certo Zavoli (quello della Notte della Repubblica) poteva non citarmi? Quando mai! E, cosa vuoi farci, a queste cose non ho ancora fatto il callo. Possibile che siano tutti tanto carogne? Capisco che rischio di apparirti come un “fissato” affetto da una forma di “paranoia”. Ma è più forte di me. Non riesco a sopportare questa continua e pervicace (dura da un quarto di secolo!) insistenza nel volermi per forza far passare per un “fascista”. Possibile che la verità (il dover riconoscere, cioè, che il mio è stato un gesto di ribellione individuale, non ispirato né suggerito da chicchessia) non possa essere accettata?

Forse è proprio questo che vogliono esorcizzare; perfino la pura e semplice possibilità ipotetica che un singolo individuo possa decidere, fosse anche in modo goffo, sbagliato o tutto quel che si vuole, di ribellarsi. Sul mio gesto di allora si può dire tutto, lo si può criticare, condannare, deprecare ma quello che non si può negare è che io l’ho attuato concependolo come un atto estremo di rivolta contro un sistema che per tutta la vita mi è stato nemico. Ma, questo è il punto per cui quel mio atto fa paura e deve venire mistificato e reso incomprensibile: ad avere subìto la violenza permanente dello sfruttamento, del potere, delle sue leggi ed apparati repressivi, non sono stato sempre e solo io. Per quanto maldestro il mio gesto è stato l’espressione di una volontà di rivolta allo stato puro. Guai se la gente che ha vissuto e vive esperienze analoghe alle mie dovesse rendersene conto. L’esempio potrebbe essere esiziale per la società del dominio.

Vedi Alfredo, lo stesso gesto di due anni fa, rivolto contro me stesso, era (non solo avrebbe voluto essere) un gesto di rivolta. Un atto di violenza “autodiretta” ma che, sostanzialmente (non fosse che a livello di intenzioni) anche “eterodiretta” (nel senso di una protesta, un monito, un modo per dare uno schiaffo morale alla coscienza delle persone).

Nel caso specifico contingente a certi “compagni” che hanno agito in maniera vergognosa, tanto vergognosa da farmi sentire “umiliato” di dirmi e sentirmi anarchico. Perché, Alfredo, vedere degli anarchici che identificano un punto di riferimento e una comunanza di intenti con un Pubblico Ministero è per me umiliante, anche a prescindere dal fatto che delle calunnie di quel giudice sono direttamente vittima.

È la cosa in sé che trovo aberrante. Fin che vedo lecchineggiare i magistrati da parte di PDS e C. o anche dai Rifondatori posso trovare la faccenda comprensibile, ma quando a farlo è gente che si dice “anarchica” si oltrepassa il limite del buon gusto. Roba e gente da buttare “dans les poubelles de l’histoire”.

Ti saluto con un abbraccio fraterno. Sperando di resistere ancora un po’ prima di soffocare in questa palude di merda che ci circonda.

Ciao!

Gianfranco

41 Bon

27 marzo 1999
Catania

Carissimo Gianfranco,

scusami il considerevole ritardo con cui ti scrivo ma sono stato fuori un paio di giorni e poi, al mio ritorno, ho trovato il computer guasto: un virus? una diavoleria? no, alla fine era solo un cavetto ossidato.

Ho qui le tue lettere del 19, del 20 e del 24, oltre al libro di Lanza inviatomi dall’ottimo Antonio, a cui ho scritto oggi stesso per ringraziarlo.

Sono felice che trovi interessante il mio libro su Stirner che, per quanto vecchio di ventidue anni, penso regga ancora su alcuni aspetti. Sono anch’io dell’opinione di farne una seconda edizione, ma per il momento tutte le mie forze sono dirette a fare uscire questi opuscoli mensili e il mio libro, il Trattato delle inutilità che dovrebbe vedere la luce dentro l’anno. Si tratta di tre volumi per complessive 1986 pagine, quindi il lavoro è qualcosa di pazzesco. Siamo alla fine della correzione delle bozze, che da sola ci ha preso quasi più di un anno di lavoro in quattro persone.

Ho letto il libro di Lanza e l’ho trovato esattamente come me l’avevi descritto tu, illuminandomi su un modo di fare che per altro conoscevo diciamo sulla mia stessa pelle. Mi piacerebbe scrivere una sorta di recensione, o diciamo alcune riflessioni, ma non saprei dove pubblicarla. Vedremo. Però ho in mente, nei prossimi mesi, e nel programma per il nuovo anno, di inserire la seconda edizione del mio opuscolo: Del terrorismo, di alcuni imbecilli e di altre cose, che trattava esclusivamente dei personaggi di “A-rivista”: Bertolo e Finzi in particolare. Vorrei però fare una seconda edizione aggiornata prendendo in considerazione tutte le loro posizioni prese in occasione di vari fatti dai quali hanno preso le distanze. Non essendo io un buon organizzatore di archivi questi documenti mi mancano o ne posseggo soltanto alcuni, questo mi ritarderà nel lavoro. Dimmi se hai letto questo mio libretto, in caso contrario se non lo avessi letto ci terrei a che tu lo leggessi, è istruttivo sul modo di fare di questa gente. Fammi sapere se non lo hai letto che ne spedisco una copia delle quattro che mi sono rimaste.

Ti ringrazio in tutto e per tutto della tua lettera del 20. (Non so se conservi copia delle lettere che spedisci, lo spero perché non si sa mai vadano perdute), quindi ti ricordo che è quella in cui trovi delle parole veramente toccanti sul mio conto, parole che non so se merito ma che sono certo escono dal tuo cuore fortemente ulcerato dai tanti, troppi dolori. Non mi riferisco a quelli fisici che non ci impressionano, ma a quelli morali che colpiscono quando vedi una persona che immagini in un certo modo (a te congeniale) uscirsene in tutt’altra maniera, come ti è accaduto con quelli di “A”. Non sono i titoli quelli che misurano l’animo umano, né la cultura e nemmeno il coraggio fisico in senso stretto (quello delle barricate), ma il sentimento della vita, che è tutt’altra faccenda, il sentire profondamente che siamo noi il centro del mondo, che ognuno di noi è un centro e una periferia nello stesso tempo, e che non può sentirsi, in nessun caso, mai, soltanto centro e nemmeno soltanto marginalità, periferia, oblata da tagliare e buttare via. Sono d’accordo con te: in barba a tutti gli infami.

Mi auguro che le tue condizioni fisiche post-operatorie siano migliorate e che tu possa riprenderti al più presto. Scrivi su questo punto, cioè sulle tue condizioni complessive di salute, non pensare di tediarmi, occorre che ci si senta forti qualunque cosa si decida di fare. Io e i miei acciacchi conviviamo da vent’anni, ma riesco spesso a metterli da parte. Nessuna meraviglia che gente come Zavoli non si faccia scrupolo di affondare gratuitamente il coltello nella piaga, che cosa può interessare a loro la “verità”, e poi cos’è la verità se non ciò che sperimentiamo personalmente nelle condizioni puntuali che cancellano il ritmo modificativo della vita di tutti i giorni e, sia pure per un momento, ci danno il lampo che illumina, magari per poi tutto tornare nel buio più completo. Che cosa può saperne uno Zavoli qualsiasi, o gli stessi Lanza e consoci della notte di un’anima che cerca la verità, con la stessa foga, con il medesimo strazio e con le unghie nella carne, come una volta i mistici cercavano Dio dentro di sé, indiandosi fino al suicidio della carne?

Stringendoti la mano,

00

P.S. Mi sono trovato casualmente, rimettendo per l’ennesima volta in ordine le mie carte, questi appunti scritti tanti anni fa su un libro di William James. Te li spedisco con piacere, sono inediti.

W. James, Pragmatism. A New Name for an old Way of Thinking, New York London, 1904.

Verso gli ultimi anni dell’Ottocento, la psicologia è cresciuta con aumenti del tutto ignoti a tutte le altre scienze naturali.

In quel tempo si affrontavano due punti di vista. Da un lato, Wilhelm Max Wundt e i suoi allievi cercano di costruire laboratori dove, adottando il metodo sperimentale, si poteva procedere a misure della nostra vita psichica, più o meno come si stava già facendo in chimica, biologia e fisica, dall’altro, in America, James si interroga sui concetti fondamentali della disciplina, senza avere alcuna fretta di mettere a punto metodologie per procedere a un controllo sperimentale delle sue ipotesi.

Così, nelle parole di quest’ultimo: «Nelle sue indagini, solitamente, la metafisica ha adoperato un metodo molto primitivo. Sapete che la magia, questo frutto proibito, è sempre stata per gli uomini oggetto di cupi desideri. Sapete anche quale importanza hanno sempre avuto nella magia le parole, le formule magiche. Conoscendo il nome di uno spirito, di un genio, di un demonio, di una potenza occulta qualsiasi, mediante la formula di incantesimo alla quale questa potenza obbedisce, disponete di essa a vostro piacere. Salomone conosceva il nome di tutti gli spiriti e, a causa di questa conoscenza, di ognuno di essi poteva fare il suo schiavo. Così il mondo è sempre apparso come una specie di enigma, la chiave del quale doveva essere scoperta sotto la forma di una parola, di un nome che avrebbe fatto luce completa o conferito tutto il potere voluto. Questa parola designa il principio del mondo e il possederla, in certa guisa, equivale a possedere il mondo stesso. “Dio”, “la materia”, “la Ragione”, “l’Assoluto”, “l’Energia”: ecco nomi che sono altrettante soluzioni. Una volta in possesso di questi nomi, non vi rimane più niente da fare: avete raggiunto il termine della vostra ricerca metafisica! Seguite, invece, il metodo pragmatista? Allora vi è impossibile considerare queste parole come il termine della vostra ricerca. Bisogna che spogliate ogni parola del valore che può avere nell’uso comune e le facciate adempiere la sua funzione nel campo stesso della vostra esperienza. Allora, più che una soluzione, vediamo in essa il programma per un nuovo lavoro da iniziare; e, più particolarmente, vediamo in essa un orientamento sui diversi modi in cui è possibile modificare le realtà esistenti. Col pragmatismo, dunque, le teorie diventano strumento di ricerca, invece di essere la risposta a un enigma e la fine di ogni ricerca. Esse non ci servono per riposare, ma per andare innanzi e se occorre, ci consentono di ricostruire il mondo. Le nostre teorie erano tutte cristallizzate: il pragmatismo ha dato loro un’elasticità che non avrebbero mai avuto e le ha messe in movimento. Poiché esso non ha in sé niente di nuovo, si accorda con un gran numero di antiche correnti filosofiche. Si accorda, per esempio, col nominalismo, richiamandosi sempre ai fatti particolari; con l’utilitarismo, a causa dell’importanza che attribuisce all’aspetto pratico dei problemi; col positivismo, a causa del suo disprezzo per le soluzioni verbali, per i problemi senza interesse, per le astrazioni metafisiche. Mentre ha queste affinità con le tendenze anti intellettualiste, il pragmatismo si leva completamente armato in atteggiamento di lotta contro le pretese e il metodo del razionalismo. Esso, tuttavia, lo ripeto, non si schiera per nessuna soluzione particolare. Il pragmatismo non possiede dogmi e tutta la sua dottrina si riduce al suo metodo. Un atteggiamento, un orientamento al di fuori di ogni teoria particolare: ecco, ancora una volta, in che cosa consiste, per ora, il metodo pragmatista. E tale orientamento, tale atteggiamento consiste nel distogliere lo sguardo da tutto ciò che è causa prima, primo principio, categoria, supposta necessità, per volgerlo ai risultati, alle conseguenze, ai fatti». (W. James, Pragmatism, op. cit., pp. 52 53).

È difficile leggere oggi queste pagine non tenendo conto di quello che è accaduto nel Novecento. Molto interesse e curiosità nei loro confronti deriva proprio dalla capacità di intravedere e anticipare il lavoro successivo. In questa prospettiva James è una sorpresa di intuizioni e osservazioni.

Dalla lettura odierna di queste pagine ci si accorge ancora una volta che per la psicologia è stato più difficile che per altre scienze, come la sociologia e l’economia, svincolarsi da un lato dal senso comune e, dall’altro, dalla tradizione filosofica. A esempio, James dava per scontato che “il flusso del pensiero” potesse venir esaminato soltanto in modo introspettivo, mentre avveniva “in noi”. E così pure emozioni, sentimenti, interazioni sociali e quant’altro. Eccolo più avanti: «Tutto accade, lo ripeto, come se la realtà fosse composta di etere, di atomi, di elettroni; ma nulla di tutto questo deve essere preso in senso letterale. La parola stessa “energia” non pretende di designare qualcosa di “oggettivo”. In tutti questi termini non si deve vedere altro che un certo modo di misurare la superficie dei fenomeni, allo scopo di racchiudere in una formula semplice tutte le loro variazioni. Nella scelta di codeste formule di invenzione completamente umana, tuttavia, i nostri capricci non possono essere garantiti dall’impunità più che non lo siano nel campo pratico del senso comune. Ci è necessario trovare una teoria che sia in grado di funzionare. Nulla è più difficile a trovarsi, perché bisogna che la nostra teoria costituisca una connessione fra tutte le verità anteriori e i nuovi dati dell’esperienza. Da un lato è necessario che essa turbi il meno possibile il senso comune e le credenze già stabilite; dall’altro bisogna che conduca a un termine costituito da un fatto o da un oggetto sensibile e che si possa verificare con precisione. “Funzionare”, per una teoria, significa fare tutte e due queste cose». (Ib., p. 217).

Insomma tutto quello che non fosse la “sensazione”, il cui studio Wundt aveva portato appunto in laboratorio. Potremmo dire che la psicologia ha vinto la sua sfida andando molto al di là delle speranze dei suoi fondatori, che peraltro non avevano neppure immaginato che alla sperimentazione potessero affiancarsi altre metodologie come la simulazione. Al di là di molte osservazioni su meccanismi psicologici specifici, che poi verranno studiati confermando le intuizioni di James, c’è un aspetto per cui James è stato molto importante: si tratta dello studio dell’efficienza. La scienza farà un bel pezzo di strada in questa direzione.

[Alfredo M. Bonanno]

42 Ber

1 aprile 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

Devo riconoscere che avevi assolutamente ragione mettendomi in guardia contro certe illusioni che mi ero dato in merito a quel periodico (dalla periodicità alquanto vaga), quel “Gocce” di cui, se ben ricordi, ebbi a parlarti diversi mesi fa e che sognavo di arrivare a trasformare in strumento di lotta. Dopo mesi e mesi (e non è che mancassero i fondi, visto l’appoggio dell’ARCI et similia) solo ieri sono arrivato a trovarmi in mano le “bozze” di un numero che sarebbe dovuto uscire a settembre. Mi sono trovato citato nella lista del “comitato di redazione” (cosa a cui tenevo non per ridicola “ambizione” ma per fare un dispettino a quelli di “A”). Nella prima pagina (ovviamente ti manderò il giornale appena stampato) c’è un mio scritto sul “Narcan”, ma lo scritto di Malatesta che speravo di pubblicare con un “cappello” esplicativo, è del tutto saltato. Si trattava di un mio tentativo di utilizzare, sotto mascheratura storico-culturale, quel giornalino per trasmettere un messaggio libertario. Ho fallito!

Pazienza, mi è capitato prima e mi succederà ancora. Per cambiare argomento, vorrei dirti che oggi ho ricevuto la tua lettera del 27 marzo. Come mi sono accorto succede con tutte le tue lettere, mi ha fatto un piacere enorme. Una delle emozioni più gratificanti che la vita ancora mi regala consiste nello scoprire (dalla lettura di un libro, di una lettera, di un articolo, o anche solo nel corso di una chiacchierata occasionale) che un altro individuo espone concetti, punti di vista e analisi che già mi appartenevano. Un esempio, attualissimo, è dato da un punto del tuo Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista dove affronti il problema dell’organizzazione informale esponendo dei concetti che sono da anni al centro delle mie, ahimè solitarie, riflessioni in tema di possibilità di rivitalizzare un “movimento anarchico” che, oggi come oggi, esiste solo come ipostatizzazione fittizia, sorretta da sigle ed etichette che mal nascondono il nulla sul piano del riferimento semantico “estensionale” (e, forse, neppure su quello dei significati concettuali “intenzionali”). Poche sere fa, nel corso di un dialogo del tutto occasionale con un ragazzino, questo ebbe a dirsi anarchico. Con una certa curiosità ed interesse, gli chiesi se faceva riferimento (visto che a Livorno sono entrambe rappresentate) alla FAI oppure alla OCL (più o meno arscinovisti) mi rispose “Ti ho detto che mi sento anarchico e non aderisco a qualche partitino che di anarchico non ha un cazzo”. Purtroppo, l’ho perso di vista (ho cercato di rincontrarlo ma non mi è più capitato), mi interessa perché, proprio come dicevo più sopra, ha espresso delle idee che sono, in gran parte, anche mie. Credo che questo tipo di persone andrebbero… “coltivate” perché in loro (e non è il primo caso) scopro dei sentimenti, delle aspirazioni e delle, seppur celate sotto un velo di “cinismo” e di indifferenza, enormi potenzialità di rivolta (istintuale, ma non priva di una certa coerenza logica).

Gli preferisco, senza ombra di dubbio, a certi autodefinentisi intellettuali, presuntuosamente attribuendosi il ruolo di sacri custodi della “unica” e sola interpretazione “corretta” (?!) dell’anarchismo. Venendo ancora ad altro, sabato scorso c’è stata una manifestazione pubblica, contro l’intervento militare in Serbia, cui hanno partecipato diversi anarchici della FAI e dell’OCL con bandiere rossonere, striscione, canti, ecc. Ti allego, a titolo di documentazione, un paio di volantini che sono stati distribuiti. [Questi volantini non si trovavano nella busta che conteneva la lettera].

Della tua opera sul pensiero di Stirner non mi sono limitato a dirla “interessante”. A mio avviso è molto di più. La considero un saggio di grande spessore culturale e un contributo essenziale alla comprensione del pensiero di Stirner.

No, non conservo la corrispondenza.

Ho preso l’abitudine di distruggerla tutta nel carcere di Nuoro, dove ogni pochi giorni si divertivano a sequestrare tutto e la cosa mi irritava. Quanto alle mie condizioni fisiche, permangono precarie. Purtroppo gli anni pesano e sono schiacciato da troppi problemi, anche di ordine psicologico. Col 22 maggio, non avrò più neppure dove dormire. Non è facile trovare un altro alloggio, anche perché (a parte il non piccolo problema dei soldi) sono sottoposto alla Sorveglianza e non posso trovare una sistemazione alloggiativa presso persone che sarebbero disponibili ma sono “pregiudicati”, “tossici” e simili. Della mia situazione sul piano strettamente personale (forse dovrò forzatamente risolvermi a prendere qualche decisione “pesante”) ti informerò più diffusamente in una prossima lettera.

Un abbraccio fraterno e un saluto anarchico,

Gianfranco

P.S. Grazie per l’offerta di mandarmi Del Terrorismo…, non ce l’ho e se me lo mandi mi farà molto piacere.

43 Ber

3 aprile 1999
Livorno

Carissimo compagno Alfredo, ciao!

solo poche righe di accompagnamento (se mi dilungassi a cercare di spiegare il motivo della, obbligata, laconicità, dovrei scrivere pagine su pagine) a due volantini, diffusi a Livorno in occasione delle manifestazioni contro l’intervento NATO in Serbia. [Probabilmente i due volantini di cui si parla nella lettera precedente sono andati perduti nel corso di una perquisizione].

Non avendo altro modo di offrirti la mia collaborazione, cerco almeno di contribuire a tenerti informato sulle piccole cose della città in cui vivo (e ti confesso di trovarmici abbastanza a mio agio, nonostante tutto). Uno dei due volantini che ti mando è stato prodotto dai ragazzi del “Godzilla” (un “centro sociale” locale) l’altro (per certi versi più “linguisticamente” ingenuo) mi è stato dato da un ragazzino di 15 o 16 anni, studente di un liceo locale dove alcuni altri ragazzi hanno costituito un mini-gruppo che si richiama alla idea anarchica. La sigla SMP starebbe a significare, a quanto mi ha spiegato questo ragazzo, “Soli ma pensanti”. Non era il momento adatto a lunghe discussioni “teoriche”, ma posso assicurarti che il tipo era tutt’altro che un cretino. A modo loro, da quel che ho capito, si richiamano al concetto di gruppo informale di affinità tra individui e rifiutano l’aggregazione a “federazioni” e simili. Gli ho detto che avrei mandato il volantino a compagni di Catania. Questo ragazzo mi ha detto che loro cercano, appunto, di allacciare rapporti con altri compagni. Purtroppo, il momento era quello di una “manifestazione” ed è facile perdersi di vista nella confusione. Non ci siamo neppure lasciati (né io né lui avevamo una penna) un recapito. So che lui si chiama Gabriele e frequenta una certa scuola. Cercherò di rintracciarlo e dargli del materiale (per esempio i volumetti che stai editando). In questa area di Livorno ci si accorge che ci sono non pochi fermenti potenziali. Ci sarebbe da fare. Capirai benissimo che in una situazione del genere io soffra ancora più pesantemente per le malignità (che ben possono creare diffidenze e sospetti) di meschini tirapiedi dei giudici della razza di un Lanza. Comunque, non rinuncio a sperare e a cercare di lottare per ciò in cui credo. Anche se sceglierò il suicidio, il mio non sarà un gesto di resa, semmai l’ultimo atto di ribellione.

Ti saluto con un fraterno abbraccio. Sai, ti voglio bene!

Gianfranco

44 Bon

10 aprile 1999
Catania

Caro Gianfranco,

ho le tue del 1 e del 3 marzo scorso.

Mi ha fatto molto piacere leggere nella tua del 1 aprile che hai letto con interesse il mio Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista. Come forse saprai i tentativi fatti fino ad oggi per dare vita a questo organismo sono stati ostacolati dalla polizia in tutti i modi, non ultimo quello degli arresti in massa del ‘96. Adesso stiamo riprendendo i contatti, a poco a poco. In questo senso, non appena avrò qualcosa di positivo, per cui ci sarà magari di impegnarsi personalmente in un’opera di diffusione del materiale delle iniziative da prendere, te lo farò sapere. Penso che si potrebbero avere le idee più chiare in autunno.

Ti ho spedito a parte una delle ultime copie di Del terrorismo, di alcuni imbecilli e di altre cose. Scrivimi su quello che ne pensi, anche sulla pagina che ti riguarda (scritta nel 1979). Mi piacerebbe che nella seconda edizione, per esempio, ci fosse un tuo pezzo. Sarebbe un segno “forte” nei riguardi dei nostri (comuni) malevoli lettori. Prima leggi il libro, poi decideremo insieme.

Mi dispiace per la tua situazione dell’alloggio. Ma è possibile che non si trovi una soluzione?

Ti ringrazio per i volantini che mi hai inviato: mi danno uno spaccato esatto della situazione, e anche di alcuni limiti analitici che mi sembrano evidenti. Non c’è una voce fuori del coro. Mai.

Con affetto,

Alfredo

P.S. Ti allego il documento di convocazione del primo meeting dell’Internazionale che avevamo preparato in Grecia, iniziativa che è poi malamente abortita per un insieme complesso di motivi che non posso qui spiegare.


Primi di settembre 1996
Atene

Compagne e compagni,

con la presente lettera vi invitiamo a partecipare al pre-meeting dell’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista che terremo nei giorni 27, 28, 29 e 30 novembre 1996.

Per mettervi nella condizione di conoscere bene il significato di questo importante incontro preparatorio che terremo qui in Grecia, vi alleghiamo i seguenti documenti:

a) “Proposta per un dibattito” sull’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista. Redatta in Italia nel 1993, la quale, dopo opportuni chiarimenti e specificazioni, costituisce insieme a una simile proposta dei compagni greci, lanciata nel 1995, la base da cui partire per sviluppare i nostri comuni rapporti.

b) I documenti prodotti in occasione della riunione di Torino del 25 e 26 giugno scorso diretti alla costituzione dell’attuale Comitato provvisorio internazionale, che vi scrive, e aventi lo scopo di segnare il passaggio dal precedente gruppo promotore all’attuale Comitato con sede in Atene. In questi documenti si affrontano anche alcuni problemi sorti nel corso di questi anni (dal 1993 ad oggi) in merito al concetto, al funzionamento e agli scopi dell’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista in quanto organizzazione informale.

Questo meeting di novembre è da noi chiamato “pre-meeting” in quanto, pur essendo la prima grande occasione di incontro e di dibattito a livello internazionale di tutte le compagne e i compagni antiautoritari e insurrezionalisti, è anche il meeting preparatorio di un altro meeting da tenersi in futuro, in data e luogo da destinarsi, ancora più grande e più significativo per la reciproca cooperazione, per lo sviluppo delle relazioni di già intrecciate fra i diversi gruppi e individualità e le eventuali azioni da decidere.

Come detto, il meeting di novembre ha lo scopo di farci conoscere fra di noi, pertanto è importante partecipare. Vi invitiamo quindi a venire. Dovrete soltanto sostenere le spese di viaggio fino ad Atene e ritorno, spese che sappiamo non sono poche (per questo aspetto del problema non possiamo fare niente) ma, come Comitato, garantiamo l’alloggio e il vitto per tutta la durata del Convegno.

Per meglio organizzare tutto (cosa che come capirete non sarà facile) dovete comunicare entro il 15 ottobre 1996 al nostro indirizzo il numero di compagne e compagni che verrà qui ad Atene per partecipare al Convegno. Al momento in cui riceveremo questa indicazione vi preciseremo gli altri dettagli (luogo d’incontro, ecc.).

Nel caso in cui vorrete presentare un intervento scritto, dovete inviarci il testo dentro il 30 ottobre nella vostra lingua e in una traduzione inglese. Ciò ci permetterà di distribuire gli interventi nel corso delle giornate del Convegno.

Per il dibattito che certamente si svilupperà ogni gruppo dovrà cercare di avere al suo interno un compagno in grado di fare una traduzione contestuale in inglese.

All’apertura del Convegno il Comitato presenterà una relazione introduttiva così articolata:

1) Perché questo Convegno e che cosa significa. Scopi e prospettive, conoscenza fra compagni e maggiori possibilità d’azione.

2) Che cos’è l’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista. Scopi e prospettive. Organizzazione informale.

3) Perché l’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista è un’organizzazione informale antiautoritaria e insurrezionalista.

4) Che cosa vuol dire far parte dell’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista. Naturalmente ogni collaborazione da parte vostra sarà la benvenuta. Pertanto, se avete suggerimenti, proposte, critiche, scriveteci subito. Il nostro scopo è quello di avere la massima partecipazione di compagne e compagni al meeting di novembre per avere tutti insieme la maggiore occasione di scambio non solo di teorie ma anche di conoscenze personali, per il più grande sviluppo della lotta rivoluzionaria nelle prospettive metodologiche dell’antiautoritarismo e dell’insurrezionalismo che soltanto un’organizzazione informale come l’Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista pensiamo possa fornire.

Nella speranza di leggervi presto, con fraterno affetto,

Comitato provvisorio internazionale

45 Ber

17 aprile 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

ho ricevuto, ieri, una tua lettera. Non so quando tu l’abbia spedita, perché, nel datarla, sei incappato in un “lapsus” del tipo in cui io sono uno “specialista” (meno male che succede anche a te!) ed hai scritto: 10 febbraio. Comunque, è una svista del tutto ininfluente, perché, dal contesto, è facile attribuirle una collocazione cronologica approssimata. Sono lieto che tu abbia gradito la mia iniziativa di inviarti i volantini. Tant’è che oggi te ne mando un altro. [Anche questo volantino si deve considerare perduto nel corso di una perquisizione]. Non posso invece ragguagliarti sull’esito di quell’assemblea, per il semplice fatto che non ho potuto andarci. Il tuo sintetico giudizio sui contenuti di quelli che ti ho mandato in precedenza lo condivido senza riserve. In ogni caso il mio intento era, come hai intuito, quello di darti dei piccoli elementi di valutazione in rapporto alla situazione locale. Anche se in misura risibile, è un esempio di quanto (in tempi ormai lontani) avevo proposto parlando con l’Amedeo Bertolo. Si trattava del progetto di dar vita ad una sorta di “rete” informativa su quanto accade nelle varie realtà locali (non solo e non tanto relativamente ad iniziative di “movimento” ma anche intorno a fatti ed episodi di cui si ha notizia localmente e rimangono ignorati in una dimensione geografica più ampia). A titolo di esempio: accadono a volte episodi di violenza repressiva che, per l’impatto emotivo che hanno localmente, neppure la stampa borghese può evitare di riferire nell’àmbito della “cronaca”, ma vengono circoscritti e celati ad un pubblico più vasto. Io ipotizzavo la creazione di una sorta di “agenzia” che raccogliesse tali notizie e le diffondesse, attraverso un “bollettino” (o anche utilizzando “Umanità Nova”). Non mi ha riso in faccia ma ci è mancato poco.

Ho avuto la lettera di “convocazione” del meeting della Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista. Ti parlerò delle mie idee in proposito successivamente.

Venendo ad altro, sarò lietissimo di ricevere il volume di cui mi parli e penso che, se come mi dici c’è una pagina dove vengo tirato in ballo, potrebbe essere un ottima idea quella di una nuova edizione che comprenda anche un mio contributo. Certo, si tratta di una cosa che dovremo valutare e studiare assieme con molta attenzione.

In questo campo (considerato il fatto che potrebbe avere un impatto non indifferente a suscitare pesanti “contrattacchi” da parte di tanti ragionieri e professori) le cose vanno fatte bene. Vedi, pur non conoscendo il libro e, meno che mai, la pagina a me dedicata, posso ipotizzare che non sia stata troppo “benevola” nei miei confronti. Sarebbe da ipocriti negare che, per diverso tempo, c’è stata una certa acredine tra noi (peraltro ben coltivata da certi individui: un giorno ti racconterò tutto più dettagliatamente). È anche vero, però, che da parte mia un certo innegabile rancore non ha mai fatto velo al rispetto che ti ho sempre attribuito.

Forse, anzi senza dubbio, è stato un grosso errore da parte mia l’aver lasciato cadere la possibilità di un dialogo aperto che si era presentato dopo la mia lettera di (molto generica) solidarietà al tempo del tuo arresto a Bergamo. Comunque, lo ripeto, ti ho sempre rispettato e ho sempre ritenuto che, probabilmente, se fossi stato al tuo posto ed avessi potuto trarre delle deduzioni solo dalla marea fangosa di calunnie che mi riversarono (e continuano a riversarmi) i mass-media sarei stato altrettanto diffidente. Il caso è diverso per persone come il rag. Lanza, il prof. Bertolo e il dott. Finzi. Nei loro confronti non provo più nessun “rispetto” e se scriverò qualcosa sul loro comportamento (a parte il Finzi, un po’ meno aggressivo e più titubante nell’attaccarmi) la mia sarà una “dichiarazione di guerra”. Ed in questi casi le cose vanno fatte bene. Non abbiamo e non avremo mai le loro possibilità sul piano editoriale. Quindi, se li si attacca bisogna farlo a botta calda e con una botta secca, tale da farli barcollare. Vedi, un tempo si è verificato un fatto assurdo: ci sono stati compagni che provavano stima e simpatia per me e, a causa di certe nostre incomprensioni, reagivano riservando antipatia a te e viceversa.

Credo (sarà forse molto presuntuoso) che, una volta messe in chiaro certe posizioni e resa pubblica (affrontando assieme quei personaggi che ben conosciamo) la nostra reciproca solidarietà, questo piccolo fatto potrebbe contribuire al progetto di dar vita ad un movimento veramente e inequivocabilmente anarchico. In questo caso, credo che i vari “i…..” [?!] apologeti del “mercato” alla Pietro Adamo e alla Luciano Lanza per intendersi, si accorgerebbero di essersi dati la zappa sui piedi. L’anarchismo non è tanto facile da liquidare, neppure se ci si mettono certi sedicenti “anarchici”… liberali alla Nico Berti.

Un fraterno abbraccio,

Gianfranco

46 Ber

20 aprile 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

il giorno successivo a quello del ricevimento della lettera in cui mi comunicavi l’avvenuta spedizione ho ricevuto il tuo Del terrorismo… e nello stesso plico anche Nuove svolte del capitalismo. Questo secondo non l’ho ancora cominciato perché mi ha parecchio impegnato, ed in qualche misura “imbarazzato”, il primo. Il tuo libro non l’avevo letto, ma alcuni dei temi che vi vengono affrontati non mi sono nuovi, perché, come ben sai in quell’epoca intrattenevo una relazione abbastanza stretta con quelli della rivista “A”. Non so se te ne ricordi, ma quella volta della tua polemica con Bertolo su Emile Henry anch’io scrissi qualcosa su “A”.

In quell’intervento, pur dichiarandomi in parziale disaccordo con entrambi mi ero dimostrato più polemico nei tuoi confronti che nei suoi. Una “faziosità” che credo potrai ritenere, almeno sul piano umano, abbastanza comprensibile. In quella occasione, infatti, il Bertolo difendeva la mia immagine e ti rimproverava alcune cose che tu avresti scritto contro di me in un tuo libro antologico La dimensione anarchica (che peraltro non ho letto e non posso, quindi, esprimermi relativamente ai passi dove sarei stato citato). Certo, per quanto concerne l’atteggiamento di quel professore nei miei confronti devo dire, alla luce dell’ultima lettera sua che ho ricevuto e ti ho mandato in visione, che c’è stato un bel cambiamento. Ma, si sa, se lo dice Lanza che l’ha appreso dal buon “compagno” giudice Salvini, boh allora…

Nella tua lettera suggerisci la possibilità di inserire in una seconda edizione del libro, un mio pezzo. L’idea mi affascina letteralmente. Solo che non è cosa da nulla. Proprio il fatto che nel libro ci sono dei riferimenti a quelli che sono stati (20 anni fa!) dei punti dove si sono verificate tra noi delle incomprensioni, degenerate (più da parte mia che tua lo devo riconoscere) in forme di ostilità aprioristica che ora ritengo siano state deprecabili, un intervento che “tagliasse la testa al toro” facendo chiarezza, potrebbe essere una bella sberla a certuni, mettendo in chiaro che, per quante divergenze ci possano essere state, siamo sempre stati e saremo dalla stessa parte della stessa barricata. Appunto perché, almeno a mio modestissimo avviso, potrebbe trattarsi di una iniziativa certamente valida, credo che dovrebbe essere portata in porto con molta accuratezza e attenzione. Quello che proporrei è che (sempre se la forza, la salute – anche oggi ho la febbre – e i pesanti problemi di elementare sopravvivenza, me lo consentiranno) io redigessi uno scritto sul tema.

Dovrebbe trattarsi di uno scritto dove, apparentemente, mi esprimo criticamente anche nei tuoi confronti (con, seppur sfumata, “polemica” per le incomprensioni nel giudicare me e il mio gesto). Un tale scritto (o meglio una bozza dello stesso) te la invierei (sia per eventuali aggiustamenti grammaticali e sintattici che si presentassero consigliabili, sia sul piano dell’impostazione complessiva). Tenuto conto che “siamo sulla stessa barca”, tu dovresti darmi dei consigli e tutto quell’aiuto che la tua cultura, certo ben maggiore della mia, ti offre la possibilità di darmi, perché ne venga fuori qualcosa di veramente valido.

Per venire, come appunto mi inviti a fare, a quanto scrivi nella pagina dove vengo citato, vorrei permettermi di farti osservare una cosa.

Premesso che sono stato io stesso ad ammettere di avere commesso dei gravi errori di analisi (se così non fosse, certi signori non avrebbero avuto tante opportunità per mistificarlo e farlo apparire come qualcosa utilizzabile per i loro scopi). Credo che anche tu sia partito con il piede sbagliato, cercando di individuare nel mio gesto delle finalità precise nel quadro di un disegno frutto di una preventiva analisi. Tu stesso nel tuo Io so chi ha ucciso… affermi (lucidissimamente) che la vendetta è sempre un eccesso. Il mio gesto è stato, e nulla di più o di meno poteva essere, che un esplosione di rabbia, l’espressione di una volontà di “vendetta” che prendeva spunto sì dal particolare momento, da me vissuto come provocatorio, della celebrazione apologetica di un assassino di un compagno, ma era il risultato di anni e anni di rabbia repressa, di umiliazioni subite, di miseria, di “dignità offesa”.

E qui, appunto, si arriva all’affinità col gesto suicida che tu tanto bene analizzi e mostri inequivocabilmente di capire, oltre che in questo libro, anche su quello che hai dedicato a M. Stirner. È per questo che la semplice accettazione ipotetica dell’esistenza di “mandanti” (come fanno certi giudici e certi sedicenti anarchici alla Lanza) dimostra di non avere capito assolutamente niente. Il mio non è stato un “attentato anarchico” nel senso che si inquadrasse in un progetto (individuale o meno) ma il gesto di un individuo che, oltre ad averne le palle piene, era, è rimasto e continuerà ad essere e a sentirsi soggettivamente anarchico. Senza per questo avere bisogno di riconoscimenti da parte di qualunque sia gruppo che si dichiari tale. È stato un mio gesto di rivolta, mio solo mio e come tale lo rivendico.

Ti saluto con un fraterno abbraccio,

Gianfranco

47 Bon

22 aprile 1999
Catania

Carissimo Gianfranco,

ho qui la tua del 17 e ti rispondo subito.

Spero che avrai ricevuto il libro che ti ho spedito (Di alcuni imbecilli…) insieme al nuovo numero de “I libri di Anarchismo”, l’ottavo: Nuove svolte del capitalismo.

Rispondimi riguardo il primo di questi due perché è quello di cui ti dicevo: vorrei curare una seconda edizione, essendo esaurito da tempo. Penso che il libro sia ancora in grado di fare capire il clima dell’attacco che proditoriamente i signori della rivista “A”, in un articolo redazionale (uno dei rarissimi) condiviso da tutti, mi aveva a suo tempo diretto contro. Il libretto è appunto una risposta a lor signori.

Sì la lettera del 10 era di aprile e non di febbraio, errori che faccio più spesso del solito. (Sarà la vecchiaia?).

Ti ringrazio del volantino che mi hai spedito, che ho fatto vedere qui a qualche compagno che ogni tanto mi viene a trovare: perfettamente in linea con i precedenti. Capisco la pregnanza dell’argomento, ma qualcosa in più si potrebbe dire (e principalmente) fare.

Non ti nascondo che la tua lettera mi rincuora. Finalmente ti sento progettuale a lunga scadenza e questo mi fa un piacere immenso.

Adesso non ti resta che leggere il libro e poi dirmi cosa ne pensi.

La mia idea era di aggiornarlo nel senso di pubblicare tutte le dichiarazioni che puntualmente ogni volta, senza mancarne una, questi signori hanno fatto uscire sulla stampa tutte le volte che c’è stato un attacco contro cose o responsabili delle istituzioni che era rivendicato dagli anarchici (sia pure con la sola A cerchiata), o lontanamente poteva essere ricondotto agli anarchici. Si vedrebbe, con questa documentazione, il sistematico intento di delazione che è stato messo in atto, di cui il caso mio (all’origine del libretto) è solo un esempio.

Comunque, spero di leggere presto le tue impressioni in merito al libretto.

E che questa nostra reciproca solidarietà finalmente decolli.

Un abbraccio con affetto,

Alfredo

48 Ber

26 aprile 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

non si tratta di anni, ma di diversi mesi sì, da quando ero andato in un cinema, l’ultima volta. Beh, ieri ci sono andato. Figurati che, del tutto senza denaro (pasto consumato alla mensa della Caritas pretesca, il che non è privo di contenuti deprimenti) ho approfittato del prestito di un amico che mi ha dato una tessera dell’abbonamento della Ass. Calcio per andare a passare la giornata allo stadio. Il Livorno, nonostante le bandiere col “Che”, i canti proletari, ecc. ha perso di brutto (4 a 0), comunque [mettiamo da] parte queste note di carattere sportivo (mi devo tenere al corrente, visto che uno dei miei maggiori calunniatori è quel celebre Zavoli – Notte della Repubblica – alla cui ultima trasmissione ha partecipato il rag. L. Lanza, cominciò la sua folgorante carriera come “cronista sportivo”). Beh, scherzi a parte e per tornare in argomento, nella celebre “curva Sud” (regno degli “ultras” del tifo livornese) ci trovo un amico che mi fa: “Ciao anarchico! Tu lo conosci un certo Fantazzini?”. Gli dico: “Cazzo, certo che lo conosco! Siamo stati in galera assieme”.

Allora lui mi spiega che, in un cinema della città, stanno proiettando un film che parla di lui e che ha per titolo “Ormai è fatta”. Beh, questo è proprio lo stesso titolo di un libro che Horst ha scritto tanti anni fa. Chiedo a questo ragazzo un prestito, mi dà 10.000 lire. Vado in questo cinema e vedo che il biglietto ne costa 12.000. Riesco a convincere il bigliettaio a darmi un biglietto “ridotto”.

Il film era proprio su Horst e riproponeva, abbastanza fedelmente, la narrazione dei fatti contenuta nel suo libro.

Ti confesso che quel film (se lo proiettano a Catania vallo a vedere) mi ha mandato parecchio in “crisi”.

Da anni non ho più rapporti epistolari con Horst e non so neppure dove attualmente si trovi (stando alla scritta proiettata dopo la fine del film, lui si troverebbe nel carcere di Alessandria, con un “fine pena” indicato tra 26 anni…!). Ho pensato a lui e, paragonando la mia sorte ed il mio modo di essere con i suoi, mi sono sentito depresso.

Quel ragazzo (continuo a considerarlo così anche se di anni dovrebbe averne quasi una sessantina) non si è mai arreso. Anche quando ha ottenuto un “permesso” ne ha approfittato per squagliarsela e riprendersi la sua seppur temporanea (e certo lo capiva e sapeva) libertà. Ha continuato a lottare. E io…? Con tutte le mie belle teorie ed elucubrazioni sul diritto-dovere alla rivolta, messa in atto da ogni individuo? Io che cosa sono stato capace di fare? Dopo un quarto di secolo di galera ho messo i piedi fuori, per fare che? L’unica… “trasgressione” (?!) di cui sono stato capace è stata quella di ridiventare “tossico”. Non fraintendermi: nessuna “autocritica” o “macerazione spirituale” per la… “perdita di dignità” (?!) imputatami da Finzi & C. Ho fatto quello che avevo voglia di fare e non vedo perché quel diritto di vivere a proprio modo la vita che riconosco a tutti dovrei negarlo a me stesso. È solo questione di “palle”! Horst Fantazzini ha dimostrato di avercele, io no! Sono un debole e non è di essere umani fragili e deboli che avrebbe bisogno la causa della rivolta libertaria. Horst ha preso in mano una pistola, io una siringa (due “protesi” entrambe, ma fa una certa differenza). Delle merde mi infamano accusandomi delle più basse turpitudini e io come so reagire? Tento il suicidio con una “overdose” di droga. Certo ogni uomo è fatto a modo suo. Non ci si trasforma facilmente in… “eroi” (parola, poi, che mi lascia scettico). Io non posso essere diverso da quello che sono. Però, vedere quel film e ripensare a gente come Horst mi ha dato da pensare e, credimi, riflettere su me stesso non è stato piacevole.

Scusami questa lettera è solo un povero sfogo personale.

Ti saluto con un abbraccio fraterno. Ciao!

Gianfranco

49 Bon

27 aprile 1999
Catania

Caro Gianfranco,

io non so se tu hai avuto modo di leggere le tre pagine del mio libro La dimensione anarchica che riguardano le controversie scatenatesi all’interno del movimento anarchico subito dopo la tua azione in via Fatebenefratelli. Non potendoti inviare una copia del libro perché ne posseggo una sola (che ho addirittura recuperato dall’archivio giudiziario del tribunale di Catania dove era depositata), ti faccio e ti accludo le fotocopie delle pagine in questione. [Vedi alle pp. 229-232]. Giudica da te, in quanto non so quello che Bertolo, a suo tempo, ti ebbe a dire.

Se dobbiamo lavorare assieme dobbiamo fare chiarezza su tutti i punti e senza remore di nessun genere. Non ti pare?

Quindi, penso che sia il caso che tu legga queste pagine della Dimensione anarchica e poi mi scriva in merito.

Sono senz’altro d’accordo con la tua idea di redigere uno scritto, anche affrontando criticamente la mia posizione presa a suo tempo nei tuoi confronti. Io non so se in altri testi ho affrontato ancora questo argomento, anche perché tutti i miei scritti non in volume fino agli inizi del 1974 sono stati inclusi ne La dimensione anarchica. Per esempio, io ricordo di non avere mai scritto che ti consideravo un fascista, ma che solo mi sembrava un ben strano individualismo il tuo leggendo su “Gente” la tua autobiografia, da te confermata come autentica. Ma non so se questa tesi (che tu qualche lettera fa hai molto esattamente dimostrata infondata, spiegandomi il perché) l’ho dichiarata a voce a qualche compagno, o in qualche riunione pubblica, o l’ho scritta da qualche parte. Io non mi ricordo di più su questo argomento. Mettiamo insieme i tuoi e i miei ricordi, per chiarire questo punto.

Naturalmente sono a tua disposizione per tutto il resto: consigli o altro, e spero che tu lo sia anche per me. I tuoi consigli mi sono preziosi in quanto sono quelli di un amico di cui mi fido e che qualunque cosa accada mi troverò sempre a fianco, e reciprocamente. Non ti pare?

Le tue parole conclusive della lettera mi fanno capire che la mia incertezza nel capire le tue vere motivazioni, nel 1977, era più che sbagliata, era assolutamente cieca. E di questo ne sono convinto, ma solo adesso. Non allora. Anche se allora ero convintissimo delle mie tesi (per altro non facilmente condivisibili) sulla vendetta come eccesso e sulla logica del suicidio, devi capire che il problema nel contesto del libro Di alcuni imbecilli..., era l’azione di Henry, si partiva da quell’azione, la quale implicitamente (e anche non implicitamente) parlava di colpire nel mucchio. I nostri amici di “A”, collegialmente coalizzatisi, cercavano di dimostrare che avendo io sostenuto questa tesi – cioè la validità di colpire nel mucchio – se per caso a Catania, in un bar di via Etnea (la strada principale della mia città) dovesse scoppiare una bomba la polizia saprebbe dove andare. Come al solito la loro anima di sbirri faceva capolino fra le righe del loro testo.

Il problema era quindi più grande, e alla loro proposta di tenere conto della tua azione come esempio del problema di cui si dibatteva, io avevo (ed ho anche ora) la convinzione che la tua azione era del tutto diversa. Nella tua azione c’era un’assenza di analisi teorica, cosa che invece era visibilissima nella bomba al caffè Terminus. Colpire un luogo frequentato esclusivamente dalla borghesia, uno spazio fisico che conteneva, come un uovo il suo albume, la crema della società parigina dell’epoca. Qualcosa come il caffè Greco nella Roma degli anni Sessanta.

La tua azione invece doveva, secondo i teorici dell’antiterrorismo di “A”, essere da me presa in considerazione come esempio di colpire nel mucchio. Ecco, io penso che sia importante spiegare che cosa significa colpire nel mucchio e come nella tua azione non ci sia stata questa intenzione ma soltanto la pulsione incontenibile della vendetta. Cosa del tutto differente.

Mi fermo qui perché il problema andrà ancora discusso meglio fra di noi.

Scrivi presto e tieni sempre presenti la mia stima e il mio affetto,

Alfredo

Allegato

Una chiara indicazione dello stato di confusione e di disgregamento in cui si trova oggi il movimento in Italia, è data dalla polemica che si è scatenata al suo interno a proposito del caso Bertoli. Come sappiamo quest’uomo, che insiste anche oggi nel definirsi anarchico, è l’autore della strage di via Fatebenefratelli a Milano, davanti alla sede della questura, nel corso di una manifestazione in memoria del commissario Calabresi.

Dopo il comunicato iniziale delle organizzazioni anarchiche, pubblicato da molti quotidiani borghesi, nel quale si affermava la totale estraneità di Bertoli al movimento anarchico organizzato, la condanna degli anarchici di fronte a un attentato che ha provocato vittime innocenti e la necessità di inquadrare l’attentato nel clima di violenza instaurato dai fascisti e dallo Stato, il problema è stato ripreso a un livello più approfondito, all’interno del movimento, la qual cosa ha dato il segno dell’attuale disgregazione e della confusione che imperano in molti gruppi italiani. Alcuni gruppi hanno redatto una circolare “interna e strettamente riservata” nella quale si rigettava l’ipotesi, data per certa, di un Bertoli “provocatore agente della CIA”, “agente dei fascisti”, ecc., come ipotesi sostenuta in blocco dalla stampa borghese e da quella extra-parlamentare, oltre che da molti gruppi anarchici, ma senza alcun fondamento di certezza o alcuna prova concreta. Anche se non si hanno notizie precise sulla vita del Bertoli, continuava la circolare, “noi abbiamo ritenuto nostro dovere non accodarci al coro generale della sinistra parlamentare ed extra-parlamentare contro la solita provocazione fascista, la solita pista nera, inventandosi chissà quale oscura manovra del solito governo Andreotti”. Al contrario: “le poche informazioni che si hanno sul suo conto (e soprattutto sul suo comportamento), sembrerebbero semmai avvalorare l’ipotesi che ci si trovi di fronte ad un individuo isolato, deciso a compiere un atto di protesta individuale contro lo Stato e pronto ad assumersene piena responsabilità individuale. Fino a prova contraria, Bertoli ha pieno diritto di proclamarsi anarchico individualista: negargli questo diritto definendolo un provocatore prezzolato, è un comportamento non degno degli anarchici”.

Violenta la risposta di altri gruppi, che affermano recisamente l’impossibilità di definire anarchico chi compia atti come quello di Milano, la certezza che Bertoli ebbe ad avere contatti con i fascisti, l’obiettiva provocazione costituita dalla circolare suddetta. Ma la critica di questi gruppi non si pone solo a un livello ideologico e interpretativo dei fatti: pretende estendersi anche al riesame dei rapporti con i gruppi firmatari della circolare giungendo fino a invitare “tutti i gruppi, federazioni ed individualità che si riconoscono nell’anarchismo militante a troncare ogni relazione con i gruppi sopra indicati e con il loro portavoce”, augurando “per sé e per il movimento tutto dei lavoratori che la provocazione venga effettivamente isolata così come ogni altro tentativo, da anni vergognosamente perseguito, di screditare l’anarchismo e di assimilarlo agli occhi degli sfruttati come una setta di dementi, di pazzi sanguinari o, nella migliore delle ipotesi, di sognatori idealisti predestinati a essere concime della storia”.

A parte la reminiscenza trotskista, quest’ultima tirata, con la precedente, è indicativa di un certo clima interno al movimento italiano, un clima sicuramente non utile al lavoro produttivo per l’eliminazione dello sfruttamento e la rivoluzione sociale. Accanto a queste due posizioni contrastanti sono sorte posizioni intermedie o altrettanto radicalmente in contrasto. Gli stessi gruppi firmatari della prima circolare sono tornati sull’argomento, con altre circolari, nel tentativo di chiarire le cose, ma col risultato di renderle solo più torbide e incomprensibili.

Problema importante, a nostro avviso, questo del rapporto tra individualismo anarchico e anarchismo organizzato (nelle sue varie forme storicamente concrete), ma che infelicemente trova l’attenzione dei compagni in un’occasione concreta (l’attentato di Bertoli a Milano) che non può essere di certo la base migliore per una riflessione teorica e pratica priva di pregiudizi e reazioni di piazza. È quantomeno strano, a nostro avviso, che gruppi come quelli firmatari della circolare oggetto della polemica si siano posti il problema suddetto, e quel che è peggio abbiano tentato di darne un’analisi nel modo in cui hanno redatto il loro documento, in un momento di tensione e di estrema gravità per il movimento tutto, quale era appunto quello successivo al giorno del lancio della bomba di via Fatebenefratelli. È quantomeno strano che in altre occasioni certe proposte di dibattito e di approfondimento, su argomenti non proprio simili ma vicini, come per esempio l’argomento della lotta armata e della violenza proletaria, siano rimasti senza risposta, sebbene le proposte venissero da compagni e da organizzazioni ben chiaramente definibili all’interno del movimento stesso. Ed è ancora più strana l’ambiguità stessa della circolare, il suo voler dire e non dire certe cose, il suo tacere sul significato preciso dell’individualismo anarchico, il suo tacere sul significato vero e proprio del termine “terrorismo” (da dove trova origine una esatta precisazione di un gruppo anarchico uscito recentemente dalla FAI). Se i redattori del documento avevano qualcosa di preciso da dire sul caso Bertoli dovevano dirla chiaramente e per esteso, ricorrendo a mezzi normali di diffusione e non a una circolare riservata, che poi è riservata fino a un certo punto e che prima o poi finisce sempre sul tavolo della squadra politica. Se, viceversa, la loro era soltanto una preoccupazione teorica, il momento scelto è veramente tra i peggiori possibili e il loro atto può assumere l’aspetto di una provocazione oggettiva.

[Da La dimensione anarchica, Ragusa 1974, pp. 429-431]

50 Ber

27 aprile 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

ti avevo scritto ieri, soprattutto per dirti dell’impatto esercitato su di me dalla visione del film su Horst Fantazzini. Ti confesso di esserne stato molto scosso e abbastanza turbato. Il paragone, sul piano dei comportamenti esistenziali e della coerenza etica è, innegabilmente, del tutto squilibrato a mio svantaggio. Indubbiamente, c’è anarchico e anarchico. Mi consolo pensando che ci sono anche i cosiddetti “anarchici” alla Luciano Lanza, con i quali il confronto va senz’altro a mio favore (è vero che ci vuole poco ad essere un po’ meno vigliacchi e squallidi di uno come lui).

Ieri sera ho avuto un colloquio telefonico con Antonio Lombardo. Mi ha detto di averti scritto esponendoti le sue opinioni sulle due lettere inviatemi dal Bertolo e dal rag. Lanza. Dice che a me non ha voluto scrivere niente sul tema perché sono troppo… suscettibile e potrei essermela presa male. Boh, ognuno è libero di fare e non fare, dire e non dire, quello che gli piace e crede giusto. Le cose non cambiano e nessuna dialettica potrebbe arrivare a farmi credere nella “buona fede” di un tirapiedi del giudice Salvini (o di qualsiasi altro che faccia lo stesso mestiere).

La progettualità a breve, media o lunga scadenza è un concetto abbastanza relativo. è certo (purtroppo) che non ci possiamo fare molte illusioni sui tempi brevi. Ma è anche vero che lo stesso concetto relativistico vale anche per il “tempo”. Quando ero giovane ho fatto un po’ di boxe e ho appreso che pochi minuti possono essere brevi o lunghi a seconda delle circostanze. Un round dura tre minuti, ma in quei minuti può giocarsi tutto: si può vincere o perdere, restare per terra e, magari, finire in ospedale o (qualche volta è successo) lasciarci le penne.

È, se vogliamo, una metafora della vita. Quello che conta sarebbe la capacità di non arrendersi mai. Io, bene o male, ho sempre cercato di non arrendermi (dico “cercato”, perché non sempre ce l’ho fatta). Potrei dirti che anche il mio tentativo di suicidio non lo concepivo come una resa, bensì come una forma di protesta e di rivolta.

Come ti ho scritto nelle mie due lettere precedenti, l’idea di poter dare un mio contributo ad una nuova edizione, possibilmente arricchita con riferimenti di maggiore attualità (e non mancherebbero) mi affascina. Ci sono, come ti precisavo nella mia penultima lettera, delle difficoltà pratiche. Ma penso si possano superare, utilizzando l’intelligenza.

La mia idea sarebbe quella di dedicarti una sorta di “lettera aperta”, per titolo vorrei metterci: Dalla stessa parte della stessa barricata.

È ovvio che si tratterebbe di una “lettera aperta” molto sui generis rispetto a quello che tale locuzione sintagmatica designa abitualmente. Una tale “lettera aperta” io la invierei a te, ne discuteremmo e la rivedremmo insieme e, solo se ci troveremo d’accordo tale scritto lo trasformeremo, appunto in “aperto”, cioè da esibire pubblicamente.

Se ci si riuscisse potrebbe essere una trovata abbastanza efficace. Quei signori tutto possono aspettarsi ma non una pubblica “uscita” in comune tra noi due. Sono talmente sicuri (ed hanno fatto di tutto per accentuarla) di una ostilità tra noi che leggere una pubblicazione alla quale collaboriamo entrambi avrebbe l’effetto di un “cazzotto” in faccia. Anzi di una sorta di uno-due (per dirla in gergo pugilistico) capace di mandarli al tappeto. Ti sembro troppo acrimonioso? Può darsi, sono fatto in un certo modo. Comunque, ritengo in tutta serenità ed obiettività che quella gente sia nociva per l’anarchismo. Non escludo la loro “buona fede” (anche se… ci vuole tutta la mia ingenuità per, ipoteticamente, attribuire loro il beneficio del dubbio). È un dato di fatto che ne hanno fatte troppe e in fatto di ipocrisia, perbenismo fasullo e opportunismo borghese, non sono secondi a nessuno. Nemmeno a… Massimo D’Alema, il cui squallore è, credo, al di là di ogni dubbio.

A proposito della eventuale possibilità che si presenti la necessità di sentirci con una certa tempestività, mi ricordo adesso che non ti ho mai fornito il mio recapito telefonico.

Dunque, nella mattina (e in particolare verso mezzogiorno) sono reperibile presso la trattoria “La Botteghina” (tel. *). Mentre di sera è possibile, anche se non sempre, rintracciarmi ad un numero di “cellulare” (l’ho “recuperato” come regalo, ma visto il costo lo uso solo per ricevere e pochissimo per telefonare io). Comunque il numero è: *.

Un fraterno saluto ed un abbraccio libertario,

Gianfranco

51 Ber

3 maggio 1999
Livorno

Carissimo Alfredo ciao!

mi è arrivata stamattina la tua lettera del 27 aprile e ti ringrazio per avermi fatto pervenire le fotocopie di quelle pagine del tuo libro La dimensione anarchica dove vengo citato. Il libro non lo avevo letto e ne conoscevo l’esistenza solo per il riferimento fatto dal prof. Bertolo che te lo rimproverava. In effetti, mi paiono assai meno “virulente” e meno personalmente ostili di quanto lascia intendere Bertolo nel citarle. Forse è così per molte altre cose che mi sono state riferite e fatte credere circa le tue posizioni ed atteggiamenti nei miei confronti. Ricordo che quando ci fu l’episodio del tuo arresto ed ebbi qualche polemica in merito all’esigenza da me sostenuta della necessità di manifestarti solidarietà un altro compagno mi disse che avevano ancora le copie di una circolare mandata a tutti i gruppi anarchici dove ti scatenavi ferocemente nei miei confronti. Ciò poté dispiacermi ma non mutò di una virgola la mia certezza che fosse doveroso difendere la tua figura in un momento in cui venivi colpito dalla repressione statale. Permettimi, tuttavia, un piccolo e non malevolo, appunto relativamente al tuo giudizio di “stranezza” relativamente al mio “individualismo”. Se Camillo Berneri disse una volta di se stesso di essere un anarchico “sui generis”, da parte mia sono portato ad estendere tale giudizio, ritenendo che ogni anarchico lo sia. Per “anarchico” io non intendo l’aderente ad una certa organizzazione, struttura, linea, ecc., alle quali adeguarsi. Per me l’anarchismo è l’insieme di coloro e delle teorie a cui fanno riferimento che rifiutano il concetto della società gerarchica in nome di una aspirazione alla libertà individuale e collettiva. In questo senso, definirei l’anarchismo come un insieme infinito ma limitato (per spiegarmi con un esempio banale: come il seno e coseno di un angolo nella trigonometria, dove tra i valori di –1 e di +1, è contenuta una varietà infinita di numeri) nel caso dell’anarchismo io concepisco un numero potenzialmente infinito di posizioni, limitate agli estremi da due contrapposti, ma complementari atteggiamenti psicologici e comportamentali rappresentati dalla volontà di dominare e dalla disponibilità ad accettare il dominio. Questo “a fortiori” nel caso della scelta individualista.

Certo tu sei liberissimo (e la cosa non mi può offendere, proprio per niente) di esprimere la tua opinione sulle “carenze analitiche” implicite nel mio gesto. È ovvio, d’altra parte che, almeno in quel momento, visto che l’ho messo in atto, io lo ritenevo giusto e perfettamente coerente, tanto più che ho accettato di pagarne in prima persona e senza coinvolgere nessun altro le intere conseguenze. Questo alla posizione (citata nel tuo libro) di quei gruppi che “affermano recisamente l’impossibilità di definire anarchico chi compie atti come quello di Milano” mi ricorda altre simili posizioni, ai loro tempi, di certi “autorevoli” esponenti dell’anarchismo francese e non, nei confronti di Ravachol e dello stesso Henry ed Errico Malatesta sulle pagine dell’ “En dehors”. Strano, poi, o forse non tanto che alcuni di quei moralissimi compagni che condannavano la “brutalità” di Ravachol fossero tra i firmatari del vergognosissimo Manifesto dei Sedici dove veniva approvata la partecipazione alla Prima Guerra Mondiale (che di sangue ne sparse parecchio di più del povero Ravachol e a profitto della borghesia capitalista). Quale “Sinedrio” è autorizzato a sancire cosa possa e non possa fare un individuo che si voglia, si dichiari e si sente anarchico?

Per me ci sono solo due cose che un anarchico non può fare: l’infame e il poliziotto. Per il resto, non riconosco a nessuno il diritto di darmi riconoscimenti e scomuniche. Tutto sommato, cosa ho fatto? Ho lanciato una bomba contro una questura. Beh, questo mi rende… nemico dell’anarchia? Eh, no! Amici miei! Può essere stata una scelta sbagliata, inopportuna, controproducente, tutto quello che volete. Ma chi siete per proibire, a scanso di “scomunica”, di ribellarmi come, quando e con tutta la violenza che mi pare quando sono disposto ad affrontare le conseguenze? Ultimamente altri “compagni” mi hanno imbottito il cranio di discorsi sui miei comportamenti “non anarchici” e questo perché? Perché è saltato fuori che mi sono drogato. Quelle sono cose mie, scelte mie, e basta! Se poi lo Stato mi punisce per questo, se è vietato, chi se ne frega. Sta solo a me decidere se farlo o non farlo. Agli altri non porto alcun danno. Beh, in quei giorni ormai lontani certi compagni avevano preso le mie difese. Tante grazie! Ma che dire quando, dopo ventisei anni, solo perché stavolta il giudice che mi accusa è un loro amico personale, passano dall’altra parte e diventano miei accusatori. È questo, il tradimento e il voltafaccia opportunistico e ruffiano che non riesco a sopportare. Ammetto che chiunque, in quel tempo possa essersi lasciato ingannare dall’abilità mistificatoria del potere. Ma adesso, che proprio quelli che sanno bene (fin troppo bene) la verità su di me e sul mio gesto mi colpiscono alle spalle è troppo, è intollerabile.

Mercoledì 18 giugno 1997, verso l’una dopo mezzogiorno, ora in cui ero certo che non ci sarebbe stato nessuno, abusando della fiducia di chi me ne aveva, per ben altri scopi, affidato le chiavi, mi sono introdotto nei locali di una associazione di volontariato, la stessa dove qualche sera mi recavo per aiutare degli immigrati extracomunitari nello studio dei rudimenti della lingua italiana. Avevo con me tutto l’occorrente per mettere in atto un gesto suicidario di mio gusto. Volevo uccidermi con una overdose di eroina (per essere più certo dell’effetto avevo portato anche un flaconcino di un’altra sostanza, il “Minias”). Volevo morire in quel modo per diverse ragioni. Dirò per prima la più inconfessabile: non mi piace soffrire e volevo darmi una morte indolore e, se possibile, piacevole. Secondariamente, vi era l’aspetto costituito dal divieto (e quindi dal contenuto, seppur moderatamente trasgressivo del mio gesto). Il mio “status” era quello di un detenuto in semilibertà e alla sera rientrando in carcere ero obbligato a sottopormi al prelievo delle urine, per controllare appunto che non avessi fatto uso di droghe. Che un detenuto si impicchi, rientra nelle regole, che si ammazzi con la droga diventa… inaccettabile da parte delle autorità. Almeno questo sfizio me lo volevo levare.

Non funzionò e tre giorni dopo mi risvegliai, circondato da guardie armate, nella sala di rianimazione dell’ospedale. Perché non funzionò? Avevo commesso un errore, telefonando ad un amico e compagno per informarlo di ciò che stavo per fare. Non ce ne sarebbe stato bisogno. Lo feci perché volevo far sapere come erano andate le cose e non volevo regalare ad un certo giudice (che da un quarto di secolo continuava a tenere aperta una finta istruttoria per poter continuare a sostenere la tesi secondo cui io sarei stato strumento di un complotto) una ulteriore opportunità di costruire sulla mia morte altre menzogne ipotizzando che potevo essere stato assassinato da altri per mettermi a tacere. Quel mio amico si comportò diversamente da come supponevo ed avvertì telefonicamente un assistente sociale di questa città, il quale sapeva che avevo le chiavi di quei locali e vi inviò subito poliziotti e infermieri.

Fecero a tempo a portarmi all’ospedale e a tenermi in vita. Beh, non sono i particolari che contano, quanto perché io abbia voluto e cercato di mettere in atto quel suicidio. È andata così: il sabato precedente un amico mi informò che avevano parlato di me alla televisione. Non potevo intuire di cosa si potesse trattare e mi recai alla redazione del quotidiano locale per avere ragguagli. Furono molto cortesi e seppi così che venivo ancora una volta tirato in ballo (era almeno la decima volta in venticinque anni) per nuove presunte rivelazioni e scoperte sui miei cosiddetti “complici” e “mandanti”. Tutta gente (tranne uno di cui ricordavo il nome) da me completamente sconosciuta. L’ennesima riproposizione delle solite stronzate che quel giudice periodicamente rispolvera. Con una sola differenza: questa volta alcune persone erano state addirittura arrestate e imputate di essere i miei “mandanti”. Ma non è tanto questa differenza rispetto alle volte precedenti che mi ha sconvolto. Bensì il mutato comportamento da parte di compagni che tutte le altre volte si erano affrettati a manifestarmi la più incondizionata solidarietà. Per due giorni sono rimasto piazzato nelle vicinanze del telefono, in una trattoria dove andavo ogni giorno e della quale quei compagni conoscevano il numero telefonico. Nessun segno di vita. Il terzo giorno ho cominciato a telefonare io. Da parte dei pochi che ho rintracciato la massima freddezza. Qualcuno, addirittura, finse di non saperne niente (“sai, io non guardo la televisione”). Ma il peggior colpo mi venne da uno che credevo amicissimo e che conosceva tutta la mia storia nei minimi particolari. Mi disse: “Sai, ti ho sempre creduto ma adesso non so più cosa pensare. Il giudice Lombardi sembra che abbia degli elementi seri”. Fu come se mi fosse cascato il mondo addosso. Come era possibile che un compagno che mi conosce benissimo e da tanti anni, al quale ho spiegato e raccontato tutto, se ne esca con la trovata di dire che, stavolta “sembra…”. Solo parecchio più tardi seppi cosa c’era all’origine di questo squallido voltafaccia: c’era che il giudice Lombardi aveva trovato un complice nel suo collega Salvini e allora… tutto diventa credibile, che cazzo! Salvini è un compagno! (beh, ognuno ha i compagni che si merita) e il buon intellettuale ragionier Lanza Luciano ha scritto un libercolo, peraltro insulso e scopiazzato dalle ordinanze salviniane, dove si ipotizza che effettivamente io potrei essere stato manovrato da quei signori.

Caro Alfredo, nel tuo libretto Io so chi ha ucciso… (p. 9) tu scrivi: «Per lo stesso motivo, altri compagni, di fronte alla propria dignità offesa cancellano il mondo in altro modo, si cancellano nel suicidio». Questo era quello che volevo fare. Ma il “mondo” che volevo “cancellare”, cancellandomi, non era tanto il “mondo” in genere, ma un particolare “mondo”, quello di certi “anarchici” nei quali avevo creduto ai quali volevo bene e che, di colpo, mi dimostravano la loro infamia.

Ciao! Scusami le sgrammaticature e il tono esagitato ma sono in pessime condizioni e molto esasperato.

Un abbraccio,

Gianfranco

52 Ber

4 maggio 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

è fuor di dubbio che sono uno sprecone e che regalo fin troppi soldi in francobolli allo Stato italiano. Ti ho scritto solo ieri ed oggi ti mando un’altra lettera. Credo che una certa frenesia nel fare subito le cose dipenda un po’ dal tentativo di esorcizzare la pigrizia e un po’ dalla percezione, seppur inconscia, di non avere molto tempo e che il momento (per certi versi felice) di andarmene dal mondo sia piuttosto vicino (a parte ogni previsione ipotetica intorno a come avverrà. Se per libera scelta o per… “cause naturali”).

Beh, ieri sera, subito dopo aver imbucato la lettera per te, sono andato nella sede dell’associazione (legata all’ARCI) gestita da *. C’erano, ammucchiate, diverse copie del giornaletto “Gocce” di cui ti avevo parlato e sul quale avevo cullato qualche illusione. Avevo tentato di farci entrare, nel quadro di una rubrica “storica”, un vecchio articolo di Errico Malatesta. Non lo hanno pubblicato. Mi dicono che non si tratta di “censura” ma solo dello smarrimento dello stesso da parte dell’incaricato dell’impaginazione (cosa possibile dato che la ragazza si fa e spesso è piuttosto “stravolta”). Comunque, di mio c’è solo un articoletto in prima pagina il cui contenuto ti apparirà, prevedibilmente, privo di interesse. Di questo giornaletto ti avevo parlato e credo doveroso mandartelo in visione. [Vedi alle pp. 243-245].

Sai, incontrando il *, che, come forse sai, militava in Prima Linea, mi sono ricordato di un discorso avuto, tanti anni fa, con un altro militante di quel gruppo, *, che si è adesso “sistemato” anche lui nell’àmbito dell’ARCI-PDS. Ci siamo frequentati a Nuoro e a Pianosa e c’era tra noi una certa amicizia. Erano anni di grosse tensioni all’esterno e all’interno delle prigioni. Io avevo scritto qualcosa (intenzionalmente “privato”) sulla sorte di [Salvatore] Cinieri, dove (peraltro in base ad informazioni avute da Horst Fantazzini) muovevo accuse piuttosto pesanti alle BR. La redazione di “A” si era affrettata a pubblicare la lettera stessa. La cosa era spiaciuta, ovviamente, a molti. Venendo al dunque questo compagno mi disse, pressappoco: “ma cerchi proprio di farti ammazzare? Se vuoi morire cerca almeno di farti ammazzare dalle guardie, che può servire a qualcosa, non dai compagni, per passare da provocatore”. Ma non solo questo, aggiunse qualcosa che, tanti anni dopo appare quasi “profetico”. Mi disse: “ma cosa credi, che questi di “A” ti vogliono bene? Loro tirano acqua al loro mulino, che è quello di prendere le distanza dalla lotta armata. Tu gli fai comodo, proprio perché sei stato protagonista di un gesto eclatante e a loro serve dimostrare che anche un “terrorista” condanna la lotta armata. Vedrai quando sarà finita, perché purtroppo – e su questo hai ragione – siamo agli sgoccioli, come ti tratteranno i tuoi amati compagni”.

Beh, ora lui si è… “reinserito”, fa parte a pieno titolo delle istituzioni, io sono rimasto quello che ero. Ciò non toglie che in quella occasione avesse ragione. Adesso i cari compagni di “A” si sono innamorati del giudice Salvini. Sperano nella “rivoluzione attraverso i magistrati”.

E allora il ragioniere Lanza scrive quello che scrive contro di me (ma lui, si sa era “amico di Pinelli” e questo è già un titolo di merito da sbandierare) e quando gli scrivo ha la faccia tosta di rispondermi come ha fatto. La sua lettera te l’ho mandata. Hai presente le quattro domande racchiuse nelle ultime righe? Roba da questurini, anzi peggio, da Pubblici Ministeri faziosi e ipocriti. Accusa me di non avere mai risposto. Perché non chiede al suo amicone Salvini perché in tanti anni non si è mai sentito in dovere di ascoltare cosa avevo da dire? E, dopo questo il suo degno amico “caca-inchiostro” ha l’impudenza di dire a me che ho toccato il fondo.

Sono loro che hanno toccato il fondo. Ma non da oggi! E io, da cretino, non me ne accorgevo e continuavo a dare loro fiducia. Ti voglio dire ancora una volta, anche se so di ripetermi, una sola cosa: nessuna delle accuse che mi sono state rivolte ha un minimo di verità. Il Salvini, il Lombardi, il Casson, il loro “pentito” Digilio, il loro leccaculo Lanza sono solo delle emerite carogne che sanno benissimo di mentire. Mai, in nessun momento della mia vita, ho avuto legami con la “destra”, mai mi sono venduto a nessun “servizio” e mai ho avuto complici o mandanti nel fare quello che ho fatto.

Severino di Giovanni, quando il redattore di un giornale che si diceva “anarchico” lo accusò di essere un fascista, andò a cercarlo e gli sparò. Fece bene. Mi spiace solo di non essere capace di fare altrettanto. Gli infami meritano un solo salario: il piombo!

Ti saluto con un abbraccio fraterno,

Gianfranco

Allegato: Laudetur sancte Narcan

Chiedo scusa ai cittadini che lo venerano come patrono ed all’immensa schiera di devoti che Sant’Antonio da Padova annovera in ogni parte del globo per l’accostamento, apparentemente irriverente e blasfemo, con un prodotto farmaceutico.

Vorrei anche precisare, che né il sottoscritto, né la pubblicazione che gli offre spazio sono sponsorizzati dalla ditta che produce e commercializza il “Narcan”.

Sta di fatto, però, che nel relativamente breve arco di tempo che va dalla sua introduzione nella farmacopea ad oggi, San Narcan ha operato più miracoli di quanti non sia riuscito ad attuarne Sant’Antonio nella sua secolare attività di taumaturgo.

In un ipotetico “Processo di beatificazione”, chi scrive potrebbe testimoniare di essere stato “miracolato” in tre occasioni e di avere personalmente assistito ad un paio di altri “miracoli” di cui hanno beneficiato dei suoi conoscenti. Mi limiterò a ricordare uno di questi casi che mi hanno visto come protagonista perché esemplare di una delle particolari, specifiche, situazioni che possono supportare la tesi propositiva contenuta nel mio discorso di oggi. In quel momento ero detenuto in semilibertà e la persona che era con me mi raccontò poi di essersi trovato in una situazione di imbarazzo. Andarsene equivaleva a farmi morire, chiamare un’ambulanza voleva dire mettere in moto un meccanismo burocratico che aveva come conseguenza la revoca del beneficio di cui usufruivo.

Quel mio amico risolse il dilemma decidendo che “meglio la galera che morto” e chiamò il “pronto soccorso”. Ebbi a subire delle conseguenze abbastanza spiacevoli, ma è grazie alla fiala di Narcan che mi venne somministrata se ora sono ancora vivo e posso scrivere queste righe. Mi sono voluto documentare su questo benedetto Narcan di cui sapevo ben poco. So ora che, essendo catalogato tra i medicinali “salvavita” nessuna farmacia può restarne sprovvista.

Il prezzo di vendita non è molto alto (8.800 lire). È però richiesta per ottenerlo la ricetta medica. Si tratta, peraltro, di una ricetta “normale”, nel senso che non si esige la registrazione, la fotocopiatura e la segnalazione come per altri prodotti. Ma, pochi lo sanno. Pochi sanno che il Narcan può venire regolarmente acquistato senza grossi problemi. La mia proposta si riduce a poco, ma questo poco potrebbe, se l’ottica in cui ci muoviamo è quella della RDD, portare a risultati di grande portata, cioè all’azzeramento, o quasi, della mortalità per overdose. In primo luogo, eliminare la necessità di una ricetta, di conseguenza includerlo tra i medicinali cosiddetti “da banco”. Secondariamente, operare per diffondere tra i “tossici” e tra gli stessi farmacisti una mentalità positiva nei riguardi di questo prodotto. Si dovrebbe, cioè, arrivare al punto che i farmacisti (così come già alcuni di loro, alla richiesta di acquistare una “insulina” chiedono se si vuole anche l’acqua), offrono all’acquirente anche il Narcan. Uno degli effetti psicologici della consuetudine di provvedersi e tenere con sé questo medicinale per casi di emergenza sarebbe quello di accostarsi all’uso di una certa sostanza, con la consapevolezza della sua potenziale pericolosità.

In altri termini, portarsi dietro il Narcan implicherebbe essere coscienti che, tutto sommato, a restare in vita ci si tiene ancora.

Nel quadro della mentalità (spesso fatalistica, autolesionistica e suicidaria) di un tossicodipendente, ciò rappresenterebbe il primo passo di una riflessione che può arrivare fino alla decisione di smettere.

[Pubblicato su “Gocce”, n. 5 del 17 aprile 1999]

53 Bon

5 maggio 1999
Catania

Carissimo Gianfranco,

sono di ritorno da una piccola vacanza di qualche giorno che ho passato presso dei compagni a Modica e Ragusa, qui hanno organizzato un primo Maggio anarchico ma a me interessava vedere (quasi certamente per l’ultima volta) il mio amico Franco Leggio che sta malissimo e che quindi non mancherà molto, ecc.

Di ritorno ho trovato le tue lettere del 26 e del 27. Non conosco personalmente Horst ma ho avuto con lui, a tratti quasi sempre brevi, qualche scambio di corrispondenza. So però che si trova ad Alessandria e che ha ancora una barca di anni davanti a sé.

Non appena daranno questo film, qui nei dintorni, lo andrò a vedere, pur non essendo molto portato ad entrare in questi luoghi che mi asfissiano più del carcere. Del film me ne aveva parlato a suo tempo Loris (figlio di Horst) e, qualche giorno fa, ho visto la pubblicità alla televisione. Non so nulla di più. Naturalmente, a suo tempo, ho letto il libro pubblicato da Bertani.

Quello che suggerisci come prima approssimazione alla collaborazione nostra riguardo la seconda edizione del libro Del terrorismo..., lo trovo sensato. Puoi buttare giù una sorta di trama, o di scaletta, insomma qualcosa che possa raccogliere le tue idee in merito, magari non completamente, ma in linea di massima? Naturalmente hai tutto il tempo che vuoi per una cosa del genere. Adesso sono in dirittura d’arrivo per la correzione ultima delle bozze e per la stampa del mio Trattato delle inutilità, e considerando la mole dei tre volumi da fare uscire, puoi capire in che situazione mi trovo.

Io, nel frattempo, sto cercando – nei ritagli piccoli di tempo che mi restano disponibili – di mettere insieme una collaborazione raccogliendo tutte le loro dichiarazioni fatte e pubblicate sia nella nostra stampa (anche la loro è un po’ nostra) che in quella ufficiale, in occasione delle loro “prese di distanza” dai vari attacchi che ci sono stati contro i responsabili dello sfruttamento e le loro cose. È ovvio che se tu ricordi i giornali (anche in piccola parte) dove queste dichiarazioni sono uscite mi fai un grandissimo favore a segnalarmeli.

Sono certo che il tuo “pezzo” verrà una cosa ottima, e ciò perché mi rendo conto che hai una cultura vastissima, anche se cerchi di non farla vedere.

Ti ringrazio per i telefoni che mi hai inviato, provo a chiamarti una di queste sere e se non ti trovo chiamerò a mezzogiorno in trattoria.

Un abbraccio con affetto,

Alfredo

54 Ber

8 maggio 1999
Livorno

Alfredo carissimo, ciao!

ieri ho ricevuto la tua lettera del 5 maggio. Mi ha fatto, ovviamente e come sempre, molto piacere. Altrettanto, se non di più, me lo ha fatto la tua telefonata, preceduta il giorno prima da un’altra, arrivata quando non c’ero. Mi trovavo, infatti, all’ospedale. Non, almeno stavolta, in qualità di ricoverato ma come “visitatore”. Ero andato a trovare un’amica (una pittrice e donna estremamente sensibile ed intelligente) finita rinchiusa nel famigerato 8° padiglione (che sarebbe il reparto psichiatrico). Franco, il titolare della “Botteghina”, mi aveva detto sia che avevi telefonato, sia che ci avresti riprovato. Come ti dicevo, il tuo avermi telefonato mi ha fatto veramente grande piacere. L’importanza che soggettivamente attribuiamo ad una lettera o ad una telefonata, non ha spesso nulla a che vedere con gli argomenti delle stesse. Anzi, spesso avviene il contrario. A volte accade che, proprio perché lo scopo del comunicare non è collegato ad una precisa motivazione pratica ed allo scopo specifico di comunicare qualche notizia, il fatto di volersi sentire è la riprova di un bisogno che trova origine solo in un sentimento di amicizia. Ti sarà facile capire come per me, in un momento in cui mi sono sentito praticamente abbandonato da tutti, o quasi, quelli che, per oltre vent’anni, erano stati per me punto di riferimento amicale, affettivo e politico, la scoperta di un vero amico e compagno sia cosa di estrema e vitale importanza. E pensare che mi ero incazzato ferocemente con Antonio Lombardo per avere interferito nel mio tentativo di suicidio e poi… beh, se oggi potrò forse scoprire ancora un valido motivo per restare in vita e per cercare di continuare a lottare lo debbo solo a lui. E questo anche per avermi segnalato la circostanza che citavi me e lui nel volumetto sulla Palestina. Da questa sua segnalazione venne la mia prima lettera a te e potrà, forse, venirne un sacco di altre cose. Se tutto andrà per il verso giusto (e perché, “una tantum” non potrebbe succedere?) e ci riuscirà di avviare una collaborazione efficace, credo che il buon Antonio si sarà fatto dei feroci nemici tra certi, più o meno, autorevoli imbecilli, esponenti dell’anarchismo transustanziato che ci diletta. Leggendo la tua lettera ed il riferimento al Bertani (tra l’altro morto suicida) [tentato suicidio, n.d.r.] come all’editore del libro di Horst, mi è venuto in mente che proprio Bertani partecipò, assieme all’Amedeo Bertolo al sequestro del viceconsole spagnolo di Milano.

Come si cambia! Pensa che la ragione principale della stima che avevo per il Bertolo era stata la sua partecipazione a quell’azione. Ed è questo che non mi va giù. Come si fa a cambiare così?! Me lo ricordo tanti anni fa: teorizzava certe iniziative che ora trova “deprecabili”. Si diceva perfino d’accordo con *. Ora… prende le distanze! Certo, non rifiuto a nessuno il diritto di cambiare idea e quello di difendere, in ogni momento, le sue nuove convinzioni. Però, pretenderei la correttezza. Non sostengo la tesi che ogni anarchico debba praticare la “reprise” o fare degli attentati. Uno può benissimo essere sinceramente anarchico e ritenere sbagliate certe strategie. Però il diritto al rispetto dovrebbe essere fuori discussione. Se uno o più compagni ritengono lecito e giusto praticare l’espropriazione o mettere una bomba e se per questa loro convinzione accettano di pagare in prima persona i rischi connessi, gli altri (quelli che non se la sentono o non sono d’accordo) avrebbero un solo dovere: la solidarietà e il cercare di offrire pubblicamente una spiegazione onesta delle ragioni di quelli che lottano.

Per cambiare argomento, torno sulla tua lettera del 27 aprile, alla quale non mi pare di avere risposto esaustivamente. Sono più che d’accordo con te su un punto fondamentale. Cioè laddove tu scrivi testualmente: “Se dobbiamo lavorare assieme dobbiamo fare chiarezza su tutti i punti e senza remore di nessun genere…”. Sì! Credo sia la “conditio sine qua non” per partire con il piede giusto. È per questo che, prima ancora di partire con uno scritto specifico (con intenti di pubblicazione) mi riprometto nei prossimi giorni di cominciare con lo scriverti una serie di lettere contenenti spiegazioni dettagliate della mia vicenda e di tanti annessi e connessi. Loro (Lanza, Amedeo, Paolo, *, ecc.) sanno di me un sacco di cose e di particolari che tu ancora ignori. Devo fare in modo che, nel caso di prevedibili polemiche, che da parte mia non temo, anzi auspico, tu ne sappia altrettanto e di più di loro. Ritornando all’ultima tua, sento che mi attribuisci una “cultura vastissima”. Ti ringrazio anche se non è del tutto vero. Comunque, tutto dipende dai parametri: di fronte a te e allo stesso Amedeo sono un grosso ignorante. Se mi paragono all’esimio ragioniere (a parte il campo dell’economia di mercato) non mi considero inferiore. Certo, trovo ridicolo che ci siano “compagni” tanto imbecilli da poter attribuire un significato alle asserzioni di certi giudici, secondo i quali sarei stato “acculturato” sui rudimenti dell’anarchismo da un mediconzolo fascista di Mestre.

Un abbraccio,

Gianfranco

55 Ber

16 maggio 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

oggi, anche se ancora per poco in quanto è quasi mezzanotte, è domenica. Domani, anzi tra poco più di un quarto d’ora, sarà il 17 maggio. In questo paese dove sembra vivere tra anniversari, decennali e ricorrenze celebrative varie, non ci si dimenticherà di dedicare qualche articolo celebrativo alla, per me “fausta” ricorrenza della eliminazione del noto Luigi Calabresi, nonché (cosa meno “fausta”) del mio attentato alla Questura di Milano. Devo confessarti che ancora oggi, il mio giudizio su quell’episodio è abbastanza contraddittorio. Da un lato, riconosco, essendone pienamente consapevole, quelle che tu hai definito “carenze analitiche”. D’altra parte, essendo sempre stato un deciso assertore della liceità e positività di tutti gli atti di rivolta, non posso neppure negare che, seppure fallito, il mio è stato un gesto che si colloca nella dimensione della rivolta individuale e come tale non posso “condannarlo”.

Se non per certe sue “ingenuità” di concezione e di attuazione, mentre devo prendere atto che, nel bene e nel male, almeno il coraggio e la volontà di ribellarmi li avevo trovati. Quindi, detto fuori dei denti, di quel certo episodio non mi vergogno e non mi pento. È probabile che i giornali di domani ne parleranno, rispolvereranno un bel po’ delle insinuazioni calunniose che, cominciate nei giorni immediatamente successivi, non sono mai cessate, trovando anzi, un quarto di secolo dopo, l’ “autorevole” avallo dell’ex compagno ed oggi giudice (ergo: un “pentito”) Guido Salvini e del (lui sì “sedicente”) “anarchico” Luciano Lanza. Io, per questi illustri figuri sarei stato un sacco di cose: per il Casson ero “l’uomo dei servizi segreti” (il suo collaboratore Digilio prima di venire “declassato” e svenduto come “pentito rottamabile” al Salvini che l’ha regalato al Lombardi) affermò che ero uno dei 12 agenti della CIA in Italia). Per altri ero stato alle dipendenze di Edgardo Sogno, per altri ancora appartenevo al “Mossad”, ai servizi interni ed esteri italiani, a quelli francesi e a quelli americani. Ma lasciamo stare. Di tutto questo sono intenzionato a parlartene dettagliatamente, punto per punto. Oggi volevo parlare d’altro. Cioè, di quelle che sono oggi le giornate di questo famigerato “agente segreto” (si presume ben pagato) che sarei stato io. Dunque non sono certo Solzenicyn e non saprei scrivere Una giornata di Ivan Denisovic, ma posso dire, con cognizione di causa, che le giornate di un ex carcerato privo di mezzi non sono nella “libera e opulenta” società occidentale, molto più allegre.

Dunque: esco stamattina per andarmene, passo dopo passo (non avendo mezzi di trasporto e neppure i soldi per l’autobus) fino all’ambulatorio del SERT a farmi somministrare i 30 cc di metadone che lo Stato benevolmente mi fornisce. Mi fermo un po’ a chiacchierare con qualcuno degli altri disgraziati (che conoscevo già dalla galera) e arriva la macchina dei carabinieri: controllo dei documenti, battute provocatorie ed un paio di perquisizioni a caso. Poi in giro a camminare per fare arrivare mezzogiorno. Puntata alla mensa della Caritas: non ho il buono e, quindi, non si mangia. Comunque, un po’ più tardi incontro un’amica che mi porta a mangiare a casa sua.

Uno a cui è stato interdetto l’ingresso allo stadio aveva un biglietto e me lo dà. Così riesco a passare il pomeriggio. Torno a casa e cerco qualcosa da leggere. Trovo (non l’avevo ancora letto) il tuo Nuove svolte del capitalismo. Lo trovo molto più interessante del previsto e ci passo il mio tempo fino a qualche minuto fa. Mi ha colpito moltissimo quanto scrivi nella Introduzione. Certe cose uno può immaginarsele, saperle sul piano teorico ma… ma non c’è niente come l’esperienza diretta per rendersi conto di come vanno le cose.

Sbirri e magistrati vogliono asserire l’esistenza di un gruppo terroristico e attribuirgli una sigla. Tu spieghi da cosa nasce quella supposta sigla e parli di conferenze e interviste avute in Grecia. Loro risolvono tutto: basta dire che quelle conferenze non ci sono mai state (parola di giudice!). Credo che simili esperienze lascino il segno e che adesso, molto più di quanto non sarebbe stato possibile prima, tu sia in grado di essere perfettamente consapevole della portata mostruosa delle costruzioni mistificatorie che sono state edificate e si continuano ad edificare contro di me con metodi del tutto analoghi. A partire dalla prossima lettera, comincerò a raccontarti tutti i particolari della mia vicenda. Penso che dovrò riempire decine di pagine e conto sulla tua “professionalità” (che io non possiedo) per un lavoro di sintetizzazione, tagli, correzioni grammaticali e sintattiche perché ne venga fuori qualcosa di valido e anche “aggressivo”. Per come la vedo io, la nuova edizione di Del terrorismo… dovrebbe risultare ampliata e aggiornata. Mi piacerebbe, poi, se vi figurasse, già nella copertina un: “con in appendice: G. F. Bertoli Lettera aperta, sui generis, al compagno BonannoDalla stessa parte di una stessa barricata”. Lo sognerei come un libro di “rottura” e di partenza per altre iniziative. Mi piacerebbe riuscire a dargli anche un aspetto “grafico” attraente (per esempio: una copertina rossa e nera, sul tipo di quella del vecchio “Anarchismo”). Forse riuscirò a racimolare anche qualche lira per editarlo (tramite il mio amico della trattoria) e penso di ottenere delle recensioni (per esempio su “Il Tirreno” dove conosco un giornalista). Insomma spero di fare scalpore.

Ciao, un abbraccio,

Gianfranco

56 Bon

17 maggio 1999
Catania

Carissimo Gianfranco,

ti scrivo con un certo ritardo, rispondendo alle tue del 3, 4 e 8 maggio, a causa di una recrudescenza della fastidiosa allergia che si è sposata con una bronchite molto fastidiosa, insieme mi hanno costretto a restare a letto e sospendere qualsiasi attività. Adesso (penicillina e cento altri farmaci) sto un po’ meglio. L’allergia mi perseguita da ventisei anni, ma la bronchite è la prima volta che torna da quando avevo dieci anni, ti lascio immaginare la cattiva sorpresa. Comunque, le due cose insieme sono un intruglio bestiale perché determinano stati d’asma, ecc. Finito il paragrafo malattia.

Detto questo spero che almeno tu stia bene e che la convalescenza dell’operazione sia cosa passata.

Eccomi alla tua del 3: (ho interrotto questa lettera per andarmi a leggere i documenti in mio possesso – che ritengo siano tutti – relativi a “Sinistra Libertaria”). In effetti, all’epoca del tuo attacco alla Questura, subito dopo, mi ricordo che i gruppi di “Sinistra Libertaria” ebbero degli scontri feroci fra di loro (specialmente nel Veneto e in una riunione burrascosa fatta a Bologna, alle quali riunioni non ero presente) perché divisi sulla posizione da prendere riguardo quel fatto. Uscirono dei documenti, che io non possiedo, ma che in ogni caso non sono stati né redatti, né approvati da me. Mi ricordo anche che furono prese posizioni di condanna contro quelli di “A”, che per l’appunto difendevano le tue scelte. Considerare tutto quello che è uscito con la sigla “Sinistra Libertaria” come scritto o condiviso, o approvato, da me, è un vezzo che dura da un quarto di secolo.

Io condivido quello che dici riguardo una valutazione critica del mio giudizio, peraltro ormai vecchio, di “stranezza” del tuo individualismo, e ti avevo anche scritto che la tua precedente indicazione mi convinceva molto di più di quella che scrivi nella tua lettera del 3 maggio. Il riferimento a Berneri, adesso, mi sembra dispersivo. E, del resto, è vero che l’individualismo rifiuta ogni adesione a una certa organizzazione, struttura o linea, ecc. Come è vero quello che tu dici che l’anarchismo è l’insieme di coloro e delle teorie a cui fanno riferimento che rifiutano il concetto della società gerarchica in nome di una aspirazione alla libertà individuale e collettiva. Bene, ma l’individualismo anarchico è qualcosa di più specifico e rivendica altezzosamente questa sua specificità.

Riguardo la questione delle “carenze analitiche”, tieni conto (mi sembra che tu abbia spostato leggermente il discorso) che io ponevo un raffronto tra il gesto di Henry e quello tuo, e lo ponevo contro l’opinione di quelli di “A” che, attaccandomi, – come hai visto – cercavano di farli apparire identici, anzi affermavano che il tuo gesto era l’unico esempio attuale del colpire nel mucchio. In questo senso, proprio nell’ipotesi di colpire nel mucchio (ma tutto il libretto che ti ho spedito cerca di chiarire questo punto), la necessità di un’analisi esatta e dettagliata dell’obiettivo e dei modi di esecuzione, oltre che dei modi di fuga e tutto il resto finiscono per essere (a mio avviso, ovviamente), elementi essenziali dell’analisi. Comunque credo che una lettura spassionata del problema contenuto nel libretto mio dovrebbe servirci da guida, in caso contrario potremmo riempire tonnellate di carta su questo argomento, senza arrivare a nulla di conclusivo.

Ho avuto la tua del 4 con l’allegato giornale. Ho letto il tuo articolo. Mi dispiace darti un colpo ma non posso in alcun modo dire che mi sia piaciuto. Né il contenente, né il contenuto. Se nella tua intenzione, come a tratti appare, c’era dell’humor di fondo, forse non è venuto fuori a sufficienza, se non c’era, non so che dirti. Non mi è parso “privo d’interesse”, proprio non mi è piaciuto. Scusami, ma se dobbiamo dare corpo alla nostra amicizia, dobbiamo poterci dire queste cose (che spero anche tu annoterai nei miei confronti), se non è uno scherzo quell’articolo è una cosa seria. E se è una cosa seria – almeno per te – mi piacerebbe saperlo (tentativo di penetrare nel giornale per poi dire altre cose in momenti futuri?). Fammi sapere.

Riguardo Bertani non sapevo che fosse morto. So che viveva con il proiettile a pochi centimetri del cuore, dopo l’ultimo tentativo di suicidio. Mi dispiace perché era un amico. So la faccenda sua, di Bertolo e C. Roba d’altri tempi.

Mi ha fatto piacere conoscere la tua voce al telefono. Nella tua dell’8 corrente, tu citi una mia frase tratta da una lettera precedente: “Se dobbiamo lavorare assieme dobbiamo fare chiarezza su tutti i punti e senza remore di nessun genere…”. E concludi: “Sì… prima di partire con uno scritto specifico (con intenti di pubblicazione) mi riprometto nei prossimi giorni di cominciare con lo scriverti una serie di lettere contenenti spiegazioni dettagliate della mia vicenda e di tanti annessi e connessi”.

Fermo. Non ti muovere.

Ascolta. Hai capito male la mia affermazione. Io non voglio avere nessuna spiegazione, né dettagliata, né sommaria. Non è mia abitudine chiederle a chiunque, tanto meno le chiederei a te. Quella frase si riferiva al “futuro” non al “passato”. Fare chiarezza e senza remore di tutte le cose che man mano verranno a galla nei nostri rapporti (ovviamente anche connesse con il passato), ma più ancora riguardanti il modo in cui coordinarci per un lavoro in comune. Nessuna spiegazione più o meno dettagliata.

Mi spiego meglio. Se in un passo qualsiasi della lettera (o, a esempio, per quel che riguarda il tuo articolo sul giornale che mi hai inviato, che a me non piace) ci fossero dei contrasti di vedute dobbiamo dirlo con chiarezza, allo stesso modo riguardo cose molto più importanti. Non lasciare che niente vada considerato come scontato, almeno agli inizi. Poi si vedrà.

Ecco quello che volevo dirti. Non ti ho mai chiesto nulla. Un equivoco del genere credo sia venuto su anche in una mia lettera ad Antonio, ma di questo ti ho fatto cenno.

Per il momento, un abbraccio,

Alfredo

57 Ber

21 maggio 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

l’ingente numero degli argomenti affrontati o anche solo sfiorati nella tua lettera del 17 corr. mi impone la scelta di rispondere in modo sintetico, per non propinarti una maxilettera, tale da stancare sia me che te.

Inizierò con un doveroso chiarimento relativo al mio riferimento all’avvenuta scomparsa di Bertani come di cosa certa e accertata. In realtà, io avevo, a suo tempo, appreso di un suo gesto suicida. In questo momento non saprei neppure precisare se ne lessi in qualche giornale o se me ne parlò qualcuno. Potrei, speriamolo, essere caduto in errore, che sia sopravvissuto e che, magari, si sia ristabilito. Per restare in tema di “ristabilimenti” devo purtroppo dirti che le complicazioni succedutesi alla mia operazione chirurgica (che tutti dicevano essere un intervento del tutto banale) non sono scomparse e sommandosi ad altri acciacchi mi hanno condotto ad una condizione di prostrazione psicofisica notevole. Forse, alla fin fine, la causa di tutto è il naturale processo di senescenza che arriva per ogni essere umano.

Sento, con dispiacere, che anche tu hai i tuoi malanni e che, recentemente, c’è stata di essi una fase di recrudescenza. È quasi un obbligo “morale” che abbiamo: credo che non possiamo permetterci di lasciarci abbattere dalla inefficienza.

Venendo alla questione del mio scritto su “Gocce”, non posso che ringraziarti per avermi espresso, senza remore, né ipocrisie, il tuo netto dissenso. Non mi hai “dato un colpo” perché me lo aspettavo. Il mio aver ipotizzato che l’avresti trovato “privo di interesse” era, difatti, una sorta di eufemismo. D’altra parte, avrei visto tu stesso di che giornale si tratta. Viene sponsorizzato dall’ARCI (in pratica da PDS & C.) con contributi perfino di associazioni di industriali e commercianti. È emanazione di un “Centro ascolto sulle tossicodipendenze” con agganci col SERT. Beh, potrai chiedermi: che cazzo ci fai in mezzo a loro? Ti confesso che mi ero dato delle illusioni (alle quali, peraltro, ero stato incoraggiato). L’intenzione quando sono uscito dal carcere, sembrava fosse quella da affidarmene, quasi completamente, la gestione e la responsabilità. Mi ero messo in testa di riuscire, piano piano, a realizzare delle trasformazioni. È ovvio, però, che per farmi accettare, dovevo scrivere (specie all’inizio) delle cose che si adattassero alle concezioni ed obiettivi di chi l’aveva messo in piedi.

Questa loro “ottica” è quella del “recupero” del tossicodipendente e della cosiddetta “riduzione del danno”. In un simile contesto (che non ha e non potrebbe avere alcuna affinità con l’anarchismo) una proposta di “liberalizzazione” di certe sostanze e di attenuazione progressiva delle norme che ne affidano la gestione agli apparati medico sanitari e di controllo sociale, ha un suo senso. Ammetterai che è assurdo che per poter fare ricorso ad un rimedio “salvavita”, come il Narcan, sia necessario passare per il servizio sanitario pubblico, con le conseguenze che ne derivano (segnalazioni alla Polizia, schedatura, ecc.). Quindi, se il mio non era certo un discorso di tipo libertario, neppure era una proposta di tipo repressivo. Ho creduto di inserirvi un pizzico di umorismo (magari riuscendoci male) per mio divertimento. In ogni caso, la mia idea iniziale era quella di utilizzare quella pubblicazione per “contrabbandarvi” dei messaggi diversi. Per esempio, in questo numero sarebbe dovuto uscire uno scritto di E. Malatesta sulla “cocaina” e mi ripromettevo di farne il primo di una rubrica periodica di carattere apparentemente soltanto “storico” dove pubblicare scritti di pensatori anarchici su problematiche affini. Me l’hanno “censurato” ed ho quindi deciso di cessare ogni collaborazione con quella pubblicazione.

Un punto che vorrei cercare di chiarire riguarda quanto mi scrivi circa un mio fraintendimento della tua affermazione relativa alla necessità di chiarezza. Neppure per un secondo ho interpretato la tua frase come un invito paragonabile a quello (retorico, ipocrita e questurinesco) contenuto nell’ultima parte della lettera di Lanza. Sono io a desiderare profondamente di poterti offrire tutte quelle informazioni che possono aiutarti a fare “tabula rasa” di quelle insinuazioni, illazioni, sospetti e calunnie che l’azione congiunta di giudici, giornalisti, politicanti, ecc., hanno propalato per anni e continuano a diffondere ancora per il solo fine di rendere del tutto incomprensibile il mio gesto di ventisei anni fa e poterne così far digerire le interpretazioni che fanno loro comodo. Per il resto, sul fatto cioè che intorno ad eventuali, sempre possibili (specie tra persone che amano pensare con la propria testa in ogni circostanza e detestano l’ipocrisia e il ruffianismo) divergenza di opinioni, ci si debba esprimere e confrontare con la più assoluta chiarezza, non credo siano possibili dubbi.

Un forte e fraterno abbraccio,

Gianfranco

58 Bon

24 maggio 1999
Catania

Carissimo Gianfranco,

ho le tue lettere del 16 e del 21 e mi affretto a risponderti.

Ho avuto dei problemi con l’allergia che mi hanno impedito di lavorare con il ritmo di sempre, quindi anche le mie lettere ne hanno risentito. Una serie di piccoli acciacchi che cominciano a diventare fastidiosi, ma come dici giustamente non dobbiamo né pensarci, né farcene preoccupare in quanto abbiamo altro a cui pensare. Giusto.

Sono contento che trovi interessante il libretto Nuove svolte del capitalismo e la strana vicenda che ci sta alla base, la quale è ben lungi dal concludersi. Il processo durerà (nei suoi tre livelli) penso ancora parecchi anni. Poi vedremo che conto ci presenteranno. Un altro motivo per impegnarsi nelle cose da fare e farle bene e presto.

Sono d’accordo con l’ipotesi di lavoro: “Lettera aperta”, e forse anche sul titolo che suggerisci, ma di questo avremo tempo per rifletterci meglio (dico del titolo). Per la sovraccopertina (la copertina resta quella della collana “Libri di Anarchismo”) anche quella ne riparliamo a suo tempo. Per i soldi non pensarci nemmeno, riuscirò in un modo o nell’altro a trovarli io con le pubblicazioni che si stanno preparando qui. La diffusione in aree di movimento dove io non arrivo sarà tutto un altro discorso, in quanto molti che hanno fatto la faccia ostile a me forse la facevano perché sapevano della nostra inimicizia, adesso potrebbero cambiare atteggiamento, non ti pare? A suo tempo, quando il libro sarà pronto, spero ti impegnerai in questa direzione.

La tua lettera del 21 mi è piaciuta moltissimo per due motivi: primo, hai capito quello che volevo dirti riguardo il tuo articolo su “Gocce”; secondo, ti ringrazio per le parole che hai trovato per la tua decisione di parlare con me della tua storia. Ne sono lusingato. Adesso mi sento libero di ascoltarti, perché so che quello che mi dici vuoi dirmelo ed è un dono che mi fai. Spero di riuscire un giorno a farti anch’io un dono di pari importanza.

Con l’affetto di sempre,

Alfredo

59 Ber

11 giugno 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

Oggi, verso mezzogiorno, rientrando alla “Botteghina” dopo essere stato fuori una decina di minuti, mi hanno riferito della tua telefonata.

Ti ringrazio: fa sempre piacere constatare che qualcuno si ricorda di noi e si preoccupa se si tarda a farsi vivi. Al tempo stesso, so di doverti delle scuse, perché in effetti è parecchio che non scrivo. Per la verità, mi ci ero messo diverse volte a partire dal giorno stesso in cui la tua lettera del 24 maggio mi era arrivata contemporaneamente al tuo bel libro La bestia inafferrabile. Ho cominciato diverse lettere che poi ho stracciato perché non mi soddisfaceva l’impostazione. La ragione di fondo di questa difficoltà risiede nel fatto che siamo arrivati al punto di dover affrontare un punto per me non facile che vorrei arrivare a chiarire in modo netto ed inequivocabile, evitando, però, che il desiderio di chiarezza possa tradursi in una difesa esasperata delle mie convinzioni, tale da condurre a polemiche e a puntigli inutili e controproducenti. Devo, per esempio, prendere atto che (anche, per esempio, nell’àmbito di quella polemica con me e Lombardo di cui si riparla in Palestina, mon amour dove ti riferisci a noi come “compagni” dalle cui posizioni dissenti) non mi hai mai tacciato di “fascista”. Tuttavia, se ben ricordi, in una tua lettera ad un personaggio che era allora a Porto Azzurro e che solo anni dopo doveva rivelare la propria bassezza, hai scritto, riferendoti a me “…che cosa ha a che fare questo individuo con l’anarchismo?”.

Domanda retorica che contiene in se stessa una valutazione esplicitamente negativa ed ostile. A parte queste inezie, devi riconoscere che il tuo calcare l’accento su vere o presunte “stranezze” nel mio dichiarato anarchismo implica un certo allineamento con le tesi di chi mi voleva e mi vuole fascista. Voglio dire che (almeno per me che sono rimasto alla logica del “tertium non datur”) se vi sono due tesi contrapposte: la mia e quella dei miei accusatori e calunniatori, contrastare la mia significa affiancarsi con i sostenitori dell’altra. Ti sarà facile comprendere che, tanto più oggi che ad essere rimasti anarchici siamo pochissimi e, se vogliamo sperare di operare dovremo farlo assieme e in piena fiducia reciproca, sia da me ritenuto essenziale arrivare a chiarire ogni dubbio e incertezza. Per questo era nelle mie intenzioni sviluppare un discorso chiaro ed esaustivo su questa storia. Il voler cominciare a trattare questo tema in maniera efficace mi ha spinto, purtroppo, a continui rinvii in attesa dell’ipotetico momento ottimale che una serie di fattori negativi ha in questo periodo impedito. Prima di tutto la salute: non mi sono ancora ripreso per niente, continuo a lamentare dolori dove mi hanno operato e ad avere delle fastidiosamente persistenti febbri e febbricole, la spossatezza e la sonnolenza permanente mi rimbambiscono, insomma sono a pezzi. Poi c’è la questione psicologia. Tu sai che, al contrario di te, io nutrivo per Paolo Finzi (“prete travestito” secondo la tua definizione) un sentimento di vera amicizia, che pareva ricambiata. Almeno fino a quando il suo voltafaccia e la sua acrimonia iper moralistica venendo ad apprendere di certe mie abitudini (del tutto personali e, secondo me, ininfluenti sul piano etico-politico) non me lo abbia mostrato sotto le vesti, più ancora di quelle di un “prete”, di un “rabbino talmudico” ossessionato dal culto delle 613 mitzvoth (i celebri precetti positivi e negativi del giudaismo ortodosso).

Beh, a farla corta, qualche mese fa, all’inizio della polemica con Lanza e Bertolo, mi disse per telefono che mi avrebbe scritto. Dopo mesi gli scrissi io, in chiave polemica per stuzzicarlo, chiedendogli se, per caso, fosse entrato nell’uso dell’anarchismo milanese il richiamo al principio della “disciplina di partito” e del “centralismo democratico” che ricordavo come appannaggio del PCI anni Cinquanta. Per cui vista la decisione di Bertolo di rompere ogni dialogo, tutti loro si allineavano alle disposizioni gerarchiche.

D’altra parte, l’espediente di sfuggire alla discussione rifiutando il dialogo è una vecchia prassi del “rabbino”; se ben ricordo rifiutò (tanti anni fa) una discussione pubblica con te. Tuttavia il suo mancato riscontro mi ha fatto male. Poi, c’è stato il fatto che qualche giornale mi ha ritirato in ballo sempre con la stolta e grottesca storiella dei miei rapporti coi fascisti di piazza Fontana. Insomma, per concludere, sono risprofondato in uno dei miei reiterati momenti di crisi. So che devo risolverli in qualche modo e le vie d’uscita sono soltanto due: rimettermi in piedi e cercare di lottare sul serio o chiudere tutta ‘sta storia di merda, come avevo cercato di fare due anni fa. Altrimenti è peggio.

Che senso ha distruggersi lentamente macerandosi nella rabbia e ricorrendo come illusoria scappatoia alla solita “atarassia” artificiale, per via endovenosa?

Comunque, ti scriverò, spero in maniera più lucida, tra un paio di giorni.

Un abbraccio fraterno,

Gianfranco

60 Ber

15 giugno 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

può piacerti o non piacerti, può trattarsi di pregi o di difetti, ma sono arrivato al convincimento che tra me e te, oltre ovviamente a tante differenze, vi sono in comune certe peculiarità caratteriali, abbastanza significative, che sarebbe ridicolo non considerare. Entrambi siamo “testardi”, entrambi poco disponibili agli accomodamenti opportunistici, entrambi indifferenti alle conseguenze, talvolta anche “pericolose”, delle nostre azioni quando siamo personalmente ed interiormente convinti della loro inevitabilità sul piano della coerenza, entrambi alieni dall’ambiguità (per esempio, non credo che potremmo mai cercare di giustificare i contenuti di certe affermazioni con l’argomento che erano, per necessità, “volutamente ambigue”. È il caso, questo, di quanto mi scrisse, tanti anni fa, il “prete” (o “rabbino”) travestito a proposito del “comunicato” congiunto di FAI, GIA, GAF successivamente al mio attentato del 17 maggio 1973. A questo proposito, Paolo Finzi ebbe a scrivermi, appunto, che tale comunicato era “volutamente ambiguo” in quanto affermava che “... quest’ultimo episodio di violenza si comprende solo se inserito nell’atmosfera di terrorismo e di violenza generalizzata ed istituzionalizzata instaurata dai fascisti e dallo Stato...”, si prestava sì a venire interpretato come un’attribuzione della stessa matrice di quel gesto, ma poteva anche venire interpretata come l’affermazione che il mio gesto ben poteva avere il significato di una replica ad una risposta reattiva alla situazione venutasi a creare. Comunque, caro compagno Alfredo, nessuno di noi due è uno scemo e credo che nessuno di noi due abbia molte difficoltà a distinguere tra un’argomentazione logica ed un “sofisma” (per quanto abilmente formulato).

Ora, lasciando perdere certi signori e venendo a noi, sono convinto che tu non abbia neppure il bisogno di rifletterci sopra molto per riconoscere che anche le tue argomentazioni (per altro formalmente ineccepibili e non prive di validità) sulle mie “carenze analitiche” e la conseguente “stranezza” del mio essermi dichiarato anarchico e individualista, altro non sono se non dei raffinati e intelligenti “sofismi”. In altri termini, sono convinto che tu, volendo, per motivo contingenti di opportunità politica, allinearti con quella che era la tesi dominante nell’area di sinistra (che mi voleva fascista) ma troppo intelligente (ed anche troppo intellettualmente onesto) per associarti pappagallescamente a ribadire tutte le menzogne che giudici e mass-media diffondevano, abbia voluto astenerti dall’allineamento acritico e servile con quei signori, senza però contraddirli. Scegliendo perciò la via della ricerca pignola di mie possibili contraddizioni (con questo metodo, scusami Alfredo, si può arrivare a ipotizzare e quasi dimostrare quel che si vuole. Basterebbe attaccarsi a cose scritte da Bakunin nella sua Confessione per farne un pentito ante litteram o a certe altre dello stesso e del Proudhon per sostenere che l’anarchismo è antisemita, antifemminista e tante altre cose. Basterebbe attaccarsi a certi passi delle Memorie di Duval per accusare gli anarchici di essere ostili agli omosessuali e così via).

Comunque, sono del tutto alieno dal desiderio di polemiche. Vorrei, ed è tutto qui il senso di questa lettera, dirti solo una cosa di cui sono convinto: quando due persone si trovano ad avere in comune delle caratteristiche come quelle che credo di individuare in noi due, le risultanze sono, egualmente, due e due sole possibili. Certo, fino a che ci si ignora reciprocamente, la cosa è priva di ogni importanza. Però, in ragione di un intervento, più o meno casuale, di Antonio [Lombardo] che ci stima entrambi ed è di entrambi amico, siamo arrivati (meglio tardi che mai) ad aprire un dialogo. La faccenda diventa allora importante. Perché i casi sono, come dicevo più sopra, soltanto due. Due tizi come noi, una volta venuti a rapportarsi possono annullarsi reciprocamente in sterili logomachie (finalizzate alla ridicola ambizione di prevalere) o associarsi. E, se arrivano ad associarsi, diventano una forza. Possono dar vita a fenomeni che il “senso comune” riterrebbe risibile solo ipotizzare. Alfredo, senza volerti incensare e senza voler esaltare me stesso, sono convinto che assieme (e se riusciamo ad instaurare un rapporti di incondizionata fiducia e solidarietà) possiamo fare molto.

Certo, non riusciremo a “sconvolgere il mondo”, ma possiamo andarci vicino. Io ho l’assoluta, ragionevole e ragionata certezza che ci siano le precondizioni storico-sociali necessarie e sufficienti per far nascere ex novo un vero Movimento anarchico quale da decenni non se ne ha traccia. E sono convinto che siamo in grado di farlo nascere. A partire dalla prossima lettera, ti trasmetterò tutte le notizie ed informazioni (senza nascondere nulla) relative alla mia vicenda. Questo perché, come puoi facilmente capire, mi è necessario togliere ogni ombra sulla mia persona. Tutti i dubbi, le calunnie diffuse da 26 anni mi sono di grave impedimento, di vero handicap che mi ostacola nel tentativo di cercare di creare qualcosa. Già di nemici, anche all’interno del cosiddetto “movimento anarchico” ne avevo tanti, ora ci si è messo anche il rag. Lanza e i suoi compari. Mi è rimasto un solo referente e questo sei tu. Non è però cosa da niente. Assieme a te, lo ripeto, possiamo diventare una forza; a questa condizione, se cioè mi renderò conto che vale ancora la pena di lottare molto, si può ancora fare.

Un abbraccio fraterno e libertario,

Gianfranco

61 Bon

21 giugno 1999
Catania

Carissimo Gianfranco,

mi fa fatto piacere ricevere la tua lettera, un po’ meno leggerla.

So benissimo che posso esserti di poco o di nessuno aiuto, ma vorrei che tu sentissi vicina la mia amicizia, oggi, in questo momento in cui ti scrivo queste poche righe, e vorrei che tu facessi di questa amicizia un punto di riferimento per tutto quello che vorrai fare nei prossimi giorni, mesi, anni, ecc.

Sei tu che devi prendere delle decisioni, e anche questo so benissimo, e non voglio spingerti né in un senso né nell’altro, ma qualunque cosa tu decida tieni presente la mia amicizia.

Con stima e fraterno affetto,

Alfredo

62 Ber

* 23 giugno 1999
* Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

Una delle rare occasioni gratificanti che la mia triste vecchiaia mi offre ancora consiste nell’imbattermi, nel corso di qualche lettura, in affermazioni, opinioni, analisi e concetti che già erano miei. È il caso delle tue considerazioni (a p. 9 del tuo Anarchismo insurrezionalista che ho ricevuto ieri, mi affascina ma è anche un testo che affronta problematiche non certo semplici né facili) sui limiti inevitabili di ogni organizzazione “formale”, per quanto anarchica voglia definirsi e aspiri ad essere.

È un fatto che qualunque struttura organizzata, che si voglia stabile, è costretta a porre in primo piano il problema della sua sopravvivenza. In ultima analisi, preservare l’organizzazione diventa l’obiettivo primario, rispetto al quale diventano secondari gli obiettivi che chi l’ha realizzata si proponeva di ottenere. Ciò offre una adeguata spiegazione alla quasi maniacale frenesia che coglie certi “compagni” nell’impresa di dissociarsi, condannare ed esorcizzare qualunque iniziativa di altri compagni che possa “indispettire” il potere ed indurlo a misure repressive che, seppur ipoteticamente, possano ostacolare il tranquillo e tollerante andazzo e le pacifiche attività “culturali” e/o storico-celebrative (magari finanziate da qualche “ente pubblico”) che costituiscono il loro massimo impegno.

Queste considerazioni possono offrire una abbastanza adeguata spiegazione a quel comportamento (indubbiamente ambiguo e reticente) che tu, giustamente stigmatizzi in La dimensione anarchica, [vedere prima a p. 229 e sgg.] nel caso di quella “famosa” circolare “riservata” emanata dopo il mio attentato del maggio 1973.

Che poi questi signori, a ventisei anni di distanza, per qualche altro motivo che ancora ignoro, siano arrivati ad aggregarsi alle insinuazioni calunniose di un Salvini e del Lombardi, è un altro discorso. I motivi ci saranno e, prima o dopo, salteranno fuori. Per quanto concerne quell’epoca, certe ambiguità e mancate chiarezze trovano la loro spiegazione. Da un lato, non potendo prevedere quali sarebbero state le mie reazioni (evidentemente mi conoscono poco e giudicandomi col loro metro temevano che, se troppo provocato, potevo dire cose imbarazzanti per tutti) si trovavano costretti a dimostrarmi di voler prendere la mia difesa. Dall’altro, si trovavano praticamente “ricattati” dal giudice Lombardi e dal procuratore Riccardelli che si erano fatti carico (per motivi di “ragion di Stato”) di spacciarmi per “fascista”. Questi due giudici potevano tollerare che qualcuno si assumesse una mia quasi difesa, ma senza oltrepassare certi limiti. Senza, cioè, fare in modo di smentire le loro frottole in modo troppo convincente.

Il giudice istruttore Antonio Lombardi aveva in mano le dichiarazioni verbalizzate di un certo Enrico Rovelli (nome in codice: Anna Bolena) che compromettevano l’Amedeo Bertolo e Umberto Del Grande (responsabile dopo la morte di Pinelli di “Croce Nera”) su una storia di passaporti e di altre forma di “favoreggiamento” avvenute nel corso di una mia “latitanza”. Si trattava (e quel giudice poteva farlo) di incriminarli e, per il meccanismo della “connessione”, processarli assieme a me. Ci fu un compromesso: loro non si esposero troppo in mia difesa e in cambio il processo per “favoreggiamento” venne rinviato nel tempo e celebrato solo dopo anni, quando era già andato in prescrizione (o c’era stata un’amnistia, non ricordo bene). Questo non voler compromettere dei compagni, spiega, da parte mia, un altro comportamento che parve strano e sul quale si speculò a lungo. Mi riferisco alla mia visita ad un cameriere aderente alla Cisnal, la sera prima. Quel tipo, un certo Rodolfo Mersi, lo conoscevo da tanti anni e sapevo che era, più o meno, un fascistello. Comunque, al tempo in cui l’avevo conosciuto a Venezia era un profugo istriano, disoccupato e dedito a piccoli furti (con la fama, perfino, di probabile “confidente”). Sapevo che viveva a Milano e il nome della moglie (con la sorella della quale avevo avuto una breve relazione di tipo sessuale). Arrivato a Milano, avevo con me una specie di memoriale che intendevo far avere a un compagno e dove spiegavo i motivi del gesto che stavo per compiere. Cercandolo ero andato a casa dell’Augusta [Farvo] e avevo motivo di sospettare di essere stato notato da poliziotti. Il memoriale lo distrussi e, per evitare di poter involontariamente compromettere quel compagno, escogitai una sorta di “alibi” a rovescio. Andai a trovare quel tizio fascistello, così “le cas echéant”, avrei potuto dimostrare che quella sera non avevo incontro nessun compagno.

Come vedi, già da oggi, ho cominciato a raccontarti qualcosa della vicenda. In seguito entrerò nel vivo e ti fornirò tutti i dettagli, punto per punto.

Ti saluto con un abbraccio fraterno,

Gianfranco

63 Ber

24 giugno1999
Livorno

Carissimo Alfredo ciao!

stamane sono stato all’Ufficio postale per effettuare un versamento sul c/c delle Edizioni Anarchismo. L’importo è modestissimo (lire 30.000) e non varrebbe neppure la pena di informartene se non fosse per un particolare che, a mio modesto avviso, non è privo di significato. Il versamento è stato effettuato a mio nome, ma i soldi (seppur pochini) e l’idea di mandarli in funzione di “sottoscrizione”, sono del proprietario della trattoria dove mi reco e pranzo (gratuitamente) tutti i giorni. Gli passo in lettura tutti i libretti che ricevo da te. Mi sono accorto che li legge volentieri e con un discreto interesse. Stamattina, appunto, mi ha detto che sarebbe il caso di dimostrare, se non altro, un minimo di solidarietà. Ovviamente gli ho sempre dato in lettura anche “Umanità Nova” e “A-rivista”. Però, non aveva mai fatto mostra di un particolare interesse. Per i tuoi volumetti, invece sì. Non so per quale motivo mi abbia chiesto di effettuare il versamento a mio nome e non col suo. Lui mi ha detto che dopo tanto tempo che mi mandi a titolo gratuito i tuoi libri, sarebbe giusto se mostrassi anch’io di voler collaborare alla tua iniziativa. Come dicevo più sopra, una somma del genere non ha, in se stessa, molto significato utilitario. Però, io lo considero come un segnale positivo da non ignorare né disprezzare. Quel Franco della trattoria “La Botteghina” è sempre stato un uomo impegnato in prima persona nel campo delle problematiche sociali e, cosa non di poca importanza, sempre in chiave, più o meno dichiaratamente, libertaria. Credimi, mi piacerebbe tanto avere l’occasione di fartelo conoscere. Se coinvolto sufficientemente sul piano umano e culturale, potrebbe diventare un ottimo punto di riferimento nell’ottica e nella prospettiva della creazione, in questa area, di un movimento anarchico autentico.

Certo, ha dietro le spalle un passato di militante marxista ed è ancora oggi abbastanza legato a certe “nostalgie” e, di riflesso, a partiti come Rifondazione et similia. Sempre, però, non senza un certo spirito critico e una forte attrazione per i concetti e le idee libertarie. Di questo, sono certo, ci capiterà di parlare più dettagliatamente e ti dico fin da subito che, per quanto riguarda le potenziali disponibilità di alcune persone del suo tipo sono fermamente ottimista. Per quanto riguarda me ed i miei personali problemi, mi trovo a ribadire ancora una volta la primaria esigenza che ho di riuscire a fare chiarezza e liberarmi del peso castrante (un vero e proprio “handicap”) delle mistificazioni e calunnie costruite attorno alla mia persona ed al significato del mio gesto di più di un quarto di secolo. Di volta in volta, quindi, cogliendo magari l’occasione di qualche lettera su altri argomenti, mi riprometto di chiarirti certi particolari della mia vita e della storia di cui sono stato protagonista.

Oggi, vorrei limitarmi a parlarti di quella parte di menzogne, fin da subito propalate, finalizzate a costruire un mio, del tutto ipotetico e mendace, passato “ad hoc”, inventato per rendere apparentemente verosimile la insulsa menzogna della mia “fascisticità”.

La prima di queste invenzioni spacciate per “rivelazioni” riguarda la asserita militanza nella organizzazione anticomunista, diretta dall’ex partigiano “bianco” Edgardo Sogno, e dall’ex comunista Luigi Cavallo, che aveva assunto la denominazione di “Pace e Libertà”. Questa “scoperta” venne annunciata e trasmessa con una seriosità che cade nel grottesco, dalla Questura di Venezia che, almeno in teoria, avrebbe dovuto essere la più qualificata ed informata per parlare del passato di un “pregiudicato” della stessa città, ma, evidentemente, aveva precisi ordini di suggerire miei ipotetici rapporti con la destra eversiva (in quel momento tornava comodo).

Ora, del tutto a prescindere dal vistoso “non sequitur” sul piano logico, dell’eventuale adesione, vent’anni prima, ad un gruppo di “destra” per dedurne una continuità di intenti con un attentato avvenuto nel 1973, c’è solo da dire (e sarebbe più che sufficiente) che quel tale Bertoli che ebbe rapporti con “Pace e Libertà” è stato, dettagliatamente, identificato in certo Alberto Bertoli (detto “Beppi naso”), piccolo “malavitoso” della mia stessa città, assunto da quei signori per attaccare manifesti contro il PCI, impresa che, a quel tempo esigeva gente molto esperta nel menare le mani e, con la garanzia di una certa “protezione” dei poliziotti, a girare muniti di “tirapugni” e coltelli a serramanico. Questo tizio (che doveva fare dieci anni di carcere per altre condanne: sfruttamento, ricatti, ecc.), era nipote di un “Monsignore” di Santa Romana Chiesa e riuscì ad espatriare in Sud Africa, dove si arruolò nell’esercito ed ottenne la cittadinanza. Non so che fine abbia fatto, le ultime notizie lo davano per proprietario di due “night-club”, gestore di una casa di prostituzione, ecc. Di lui non so altro, se non ovviamente il fatto che non sono io.

Un fraterno saluto e un abbraccio,

Gianfranco

64 Bon

26 giugno 1999
Catania

Carissimo Gianfranco,

ho letto la tua del 15 giugno, arrivata ieri e non posso che dirmi d’accordo con le tue considerazioni, sia riguardo il modo di essere di entrambi, mio e tuo, che si avvicina sotto molti aspetti, da te peraltro elencati, sia sotto il fatto che il mio giudizio passato su di te non era di certo benevolo, ma che in buona sostanza si allineava con quella che era l’opinione generale del movimento anarchico dell’epoca (escluso quelli di “A”). Non ho mai pensato di travestire quel mio giudizio, sia pure nei suoi dettagli più o meno sfumati, con un qualche sofisma, era quello che era, e anche se mi premeva farti conoscere le sfumature che pur avevano importanza, tale resta.

Oggi, che il caso (sotto le vesti dal comune amico Antonio) mi ha concesso di avvicinarmi a te e di conoscerti meglio, è ovvio che quel giudizio non esiste più e, per me, è del tutto scomparso, occorre però, per andare avanti, che lo stesso sia per te e che entrambi si possa muovere insieme programmaticamente e produttivamente scevri da ogni considerazione passata. Ma io penso che anche per te quelle condizioni passate non esistano più per quel che concerne le reciproche valutazioni basate sulla mancata conoscenza.

In questo senso, per me (e penso anche per te) il rapporto di reciproca fiducia e solidarietà è di già in corso, e questo fin dal primo momento in cui mi sono avvicinato a discutere con te, come si dice, a carte scoperte. Io sono fatto così: nelle cose o ci sono o non ci sono. Se ci sono, ci sono tutto, non una piccola parte di me stesso.

Penso lo stesso di te, per quello che ho capito del tuo modo di essere in questi mesi di corrispondenza epistolare.

Facciamo in modo, come dici molto bene, che questa reciproca solidarietà diventi una forza.

Io parto per la Grecia il giorno 2 luglio, chiamato dai compagni di laggiù per partecipare al processo di Nikos Maziotis, il compagno anarchico greco che ha rivendicato un attentato contro una multinazionale del settore aurifero. Dovrei fare un intervento al processo (e anche altri interventi altrove) a fianco di Nikos parlando dei motivi dell’attentato e tutto il resto e rivendicando la lotta contro la tecnologia che sta distruggendo il pianeta. Pare che in Grecia la legge lo consenta, qualche cosa del genere “legge Mackenzie” in Inghilterra. Tornerò il 9 e mi farò sentire subito. Tu scrivi alla casella solita.

Un abbraccio fraterno,

Alfredo

65 Ber

28 giugno 1999
Livorno

Alfredo carissimo, ciao!

la tua di cui do riscontro è del 21 corr. Successivamente a quella mia alla quale hai risposto, te ne scrissi un’altra (o forse due, non ricordo bene). Io, quando scrivo ad un amico, faccio un po’ come se si stesse chiacchierando, voglio dire che butto giù quello che mi passa per la mente, talvolta anche senza riflettere. Meno che mai, conservo copia di ciò che scrivo. Ne deriva, anche a causa di carenze menmoniche dovute in parte all’età e, forse soprattutto ad una certa “nevrosi” e al passato abuso reiterato e protratto di certe sostanze, che spesso mi scordo completamente di quanto ho scritto in una particolare lettera. Mi dici che ti ha fatto piacere ricevere la mia lettera ma che leggere i suoi contenuti ti è piaciuto molto meno.

Mi dispiace veramente (e, credimi, ciò tanto più perché la stessa amicizia che mi esprimi la provo anch’io nei tuoi confronti) di averti scritto cose che ti sono dispiaciute. Forse (azzardo una ipotesi) si tratta del mio, apparentemente maniacale, tornare sul tema di passate incomprensioni. Ma, vedi, per me tutta la storia della vicenda di cui sono stato protagonista non cessa di tormentarmi. Pensa solo che è da più di un quarto di secolo che mi porto addosso il peso di etichette calunniose, di dubbi, di invenzioni al limite dell’osceno, a cui (ciascuno a suo modo) hanno contribuito in tanti e da tante parti. Per anni ho cercato di resistere, di lottare, di spiegare a gente che tutto voleva fuorché capire. Alla fine, due mesi fa, mi sono visto attaccato ed insultato (in forma tanto più odiosa quanto ipocrita e apparentemente dubitativa) proprio da chi, in passato, aveva ostentato amicizia e solidarietà. A quel punto (era il 18 giugno di due anni fa) dopo una telefonata (con * della Libreria “Utopia”) che mi fu più dolorosa di una coltellata alle spalle, scelsi di farla finita (unica forma di ribellione che mi restava). Non sono riuscito neppure in quello, per l’intervento di Antonio [Lombardo] ed ora mi chiedo se, dopo tutto, ne valesse la pena. Forse la vita è una tale grottesca farsa che anche volersela togliere significa prenderla troppo sul serio.

Poi, sempre ad opera di Antonio, è venuto lo scambio di corrispondenza tra noi e con esso la scoperta che, forse, avevo ancora dei compagni (te e lui, per esempio). A proposito, prima che me ne scordi, devo trasmetterti i calorosi saluti di * (l’amico di *) che ho incontrato, per caso. Gli ho parlato della eventuale possibilità di riprendere dei contatti, nell’ottica di ricostruire qualcosa. L’ho trovato molto amichevole ma anche molto “scettico” e ben poco disponibile ad impegnarsi. Dice di avere ricevuto troppe delusioni e amarezze da compagni e che, essendo che per lui l’anarchismo è in primo luogo l’esigenza di un rapporto sincero di affinità ed affettività tra compagni, ha perso anche il rapporto di adesione alle idee libertarie. O, almeno, la volontà di impegnarsi per mandarle avanti.

Chiudo la digressione, ma ricollegandomi in parte al discorso di quel compagno, devo dire che, anche se da parte mia resterò sempre anarchico, le stesse amarezze e delusioni le ho provate anch’io. Capisco perciò interamente chi mi dice di essere stufo e di non credere più neppure negli “ideali”, visto che a impersonarli ci sono certi elementi ai quali non posso riservare che disprezzo e pena.

Da parte mia posso solo dire, con dispiacere, che molto più male mi è stato fatto da persone che ritenevo (e forse, a loro modo, lo erano e lo sono tutt’ora) di essere dei compagni che non da giudici, giornalisti prezzolati e poliziotti. Con questi, lo so già in partenza, non ci può essere altro rapporto se non una esplicita e dichiarata inimicizia. Possono nuocermi (ne hanno la forza) ma non possono infliggermi ferite più dolorose di quelle che può (talvolta perfino inconsapevolmente e in “buona fede”) arrecarmi un compagno. È il caso, per esempio, di un compagno che ho sempre stimato e persino ammirato molto: Franco Leggio. Pur avendolo incontrato una sola volta ed avere trascorso con lui, ospiti di un compagno, circa una settimana, ero più che convinto che sarebbe stato uno di quei pochi che erano in grado di capire, senza dubbi, incertezze o valutazioni opportunistiche, il significato del mio gesto. Mi sorprese e quasi sconvolse leggere le poche righe che mi dedicò inserendole in uno dei suoi opuscoli. Era un volumetto della seria “Anteo” se ben ricordo o di un’altra che pubblicava contemporaneamente. Ci trovai scritto: “Bombe a Milano, a Roma benzina, ma gli assassini sono sempre missini”. Si alludeva proprio alla tragica vicenda di quel 17 maggio. Beh, sentirmi dare addirittura del missino mi fece sprofondare nella più tetra disperazione. Non tanto per l’accusa in sé (peraltro sciocca e priva di qualsiasi, seppur pretestuosa, motivazione) quanto per chi me la lanciava. Franco mi era stato immediatamente ed istintivamente simpatico, gli volevo bene e… mi ripagava così.

Da quel giorno, mi riferisco a quello del mio attentato davanti alla Questura, sono stati oggetto, quasi senza soluzione di continuità (e comunque a scadenze periodiche quasi prefissate) ad un martellamento di calunnie, di invenzioni al limite del delirio, di menzogne impudicamente propalate, di fanfaluche spacciate per nuove “rivelazioni”. Questo dura da più di un quarto di secolo. E poi, trovo dei “compagni” che si meravigliano e mi accusano di avere perso la mia... “dignità” (?!) perché, avutane l’occasione, non ho saputo trovare nulla di meglio che cercare l’ “anestesia” che poteva procurarmi qualche buco di eroina.

Certo, molti compagni (anche a me, se è per questo) dava fastidio vedere un’idea come quella anarchica calunniata e distorta fino a presentarla come sinonimo di “delitto” e di “terrorismo”. Perfettamente lecito e corretto, dunque, cercare di chiarire le cose. Solo che si è andati troppo oltre. Si è arrivati al punto di denigrare quei compagni che, da parte loro, ritenevano e ritengono perfettamente lecito e doveroso, in qualche caso, il ricorso a metodi (come la cosiddetta “espropriazione individuale” e l’attentato) che le leggi statali e la “moralità” borghese condannano. Dire che non tutti e non necessariamente gli anarchici praticano la “reprise individuelle” alla Bonnot e alla Duval, oppure la “propaganda col fatto” alla maniera di Henry, di Ravachol, di Bresci e di Caserio è perfettamente lecito, non lo è, invece, negare il diritto di questi compagni a praticare queste vie e a rivendicare il proprio anarchismo. Sono polemiche che durano da sempre e, se ripenso alla vecchia polemica, sulle pagine dell’ “En dehors” tra Errico Malatesta ed Emile Henry, non posso negare che le argomentazioni malatestiane hanno un loro peso, ma devo dire esplicitamente che, a mio modestissimo avviso, era l’Henry ad avere ragione e ad apparire più convincente.

Per tornare, un attimo e “en passant” al “punto dolens” rappresentato dai giudizi da te espressi a suo tempo sull’autenticità e sincerità del mio asserito “individualismo anarchico”, tengo a dirti che, per quanto dispiacere le tue posizioni possano avermi arrecato, non vi è più da parte mia alcuna forma di rancore. I giudizi che si danno sulle persone sono spesso, anzi quasi sempre, frutto di valutazioni influenzate da quello che altri dicono di loro, di “informazioni” che sono l’esatto contrario della verità.

In ogni caso, non c’è nulla di strano se alcune mie affermazioni non ti siano piaciute. Succede anche a me che, talvolta, cose che ho detto in piena convinzione ed in perfetta onestà, non mi piacciano più. È il caso, per esempio, di quel mio volumetto pubblicato da Pino Bertelli (in questo caso, peraltro, ne sono responsabile solo in parte, perché fu il Pino a “tagliare”, “aggiungere”, “ricucire”, ecc., fino a farne venir fuori qualcosa di abbastanza lontano dalle mie intenzioni iniziali, nonché a darmi la possibilità di prendere visione della stesura definitiva quando i giochi erano già stati fatti e il libro stesso già stampato. Mi assumo, invece, la piena responsabilità di un saggio a mia firma (editato a cura di Antonio Donno, per l’Università di Lecce) che, a posteriori, non mi convince più troppo. Venne encomiato da Finzi e pubblicato anche su “A”. Venne anche quasi “incensato” da Nico Berti e, ad essere sincero, furono proprio gli elogi che mi provennero da uno come lui a farmi dubitare seriamente di quanto avevo scritto. Ci sono tante altre cose dette e scritte da compagni “autorevoli” che mi hanno lasciato scettico o colpito sfavorevolmente (a mero titolo di esempio: le osservazioni di Clément Duval nelle sue Memorie relative alle problematiche della omosessualità in carcere. Oppure le Confessioni di Bakunin nella sua lettera allo Zar, certo antisemitismo e antifemminismo che traspaiono da alcune pagine di Proudhon). Con tutto ciò non metto in dubbio la sincerità ed autenticità dell’anarchismo di questi compagni. Anche tu, caro compagno e amico Alfredo, non mi hai troppo convinto nei tuoi giudizi su di me. Non c’è niente di male: evidentemente neppure io avevo convinto te. Rimane il fatto che siamo entrambi compagni e ci siamo riconosciuti per tali. Tutto il resto è... “accademia”, lasciamola fare ai vari “ragionieri”, “professori di agronomia” e “consulenti marketing” che si considerano l’élite culturale e le menti raziocinanti dell’anarchismo.

I tuoi dubbi su di me cercherò di dissolverli piano piano e spero che, una volta liquidate queste rimanenze di pregiudizi reciproci (da parte mia non ne nutro più nei tuoi confronti già dal tempo dell’episodio di Bergamo, che mi ha aperto gli occhi e fatto capire moltissime cose) potremo riuscire a fare ancora, assieme, qualcosa di buono per questa nostra tanto disprezzata idea libertaria che, nonostante tutto quello che possono fare e farci, non sarà mai morta, perché trova le sue radici nelle stesse ingiustizie della società borghese e nasce e non può non vivificarsi proprio come reazione alle stesse.

Per oggi ti saluto con un fraterno abbraccio.

Con sincera amicizia nella solidarietà tra compagni,

Gianfranco

66 Ber

4 luglio 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

la tua lettera del 26 giugno, dalla quale apprendo del tuo viaggio in Grecia per partecipare, con un intervento al suo fianco, al processo di un compagno, mi ha fatto molto piacere. Non conosco nulla delle leggi di quel paese e non sapevo che esse concedevano questo tipo di partecipazione ad un processo. Comunque, visto che è possibile, è bene utilizzare questa possibilità. Non posso avanzare supposizioni sull’efficacia di questi interventi sul piano giuridico. Rimane il fatto positivo che questa possibilità offre una “tribuna” notevole per far conoscere e propagandare le nostre idee e posizioni. Mi rallegra, soprattutto, la dimostrazione offerta dal fatto in sé che ti abbiano chiamato, il che vuol dire che godi di un notevole prestigio e considerazione a livello internazionale.

Personalmente, almeno in linea teorica, non nutro una particolare predilezione per i ruoli di “personalità carismatiche”. Se fosse ipotizzabile e possibile arrivarci, vorrei che ogni militante anarchico fosse, tanto per fare un esempio, un tipo alla Severino Di Giovanni: capace cioè di scrivere un articolo, di curare l’edizione di un libro e anche di impegnarsi in azioni di “autofinanziamento”. Questo però è utopico e sta di fatto che, ci piaccia o meno, nei suoi anni migliori l’anarchismo ha rappresentato qualcosa anche grazie alla presenza ed all’acquisito “prestigio” di alcuni individui che potremmo definire “leader naturali”.

Sempre ne sono sorti ed è bene che saltino fuori, nell’interesse comune.

Beh, al tuo rientro spero che mi scriverai, seppur brevemente, per abbozzarmi un quadro della situazione generale dell’anarchismo greco e un sintetico resoconto del tuo intervento e dei suoi effetti. (Ovviamente, mi interessa anche l’esito del processo, perché è sempre la sorte di un compagno ad essere in ballo).

Per tornare a noi, o meglio a quanto mi scrivi in apertura della tua lettera, ti dico esplicitamente e senza riserve che, per quanto mi riguarda, sono perfettamente d’accordo con te. Voglio dire che nella vita quello che conta è il presente e ben poca influenza possono avere oggi i nostri (peraltro reciproci) atteggiamenti “poco benevoli” e i giudizi e/o pregiudizi che ci avevano resi ostili. Da parte mia, credo tu sappia che è già da un discreto numero di anni (per la precisione, dal tempo di Bergamo) che, seppure senza cercare di allacciare un vero dialogo (forse avrei dovuto farlo), il mio giudizio su di te aveva subito una radicale trasformazione in senso positivo. Tant’è che alcune mie considerazioni e apprezzamenti non piacquero molto a quei compagni che erano allora per me riferimento costante e consideravo moltissimo (si è visto poi come hanno ricambiato!).

Il mio tornare, di tanto in tanto, (e ci ritornerò forzatamente ancora) sulla vicenda dei giudizi espressi, anche da te, come dalla quasi totalità del movimento anarchico e della “sinistra” in genere, al tempo del mio attentato, non va visto come volontà di riaprire vecchie e stantie polemiche. Ci ritorno e ci ritornerò, con dettagli e considerazioni, solo perché quelle prese di posizione mi hanno molto danneggiato e continuano a farlo sul piano di rendere per me molto più arduo l’impegno che mi piacerebbe potermi assumere, nella prospettiva e nell’ottica di collaborare ad una vera rinascita di un movimento che è storicamente necessaria ed ha in sé le potenzialità necessarie per influire efficacemente sui destini del mondo.

Quello che è importante (e per cui ho, purtroppo vanamente, cercato di lottare per oltre 25 anni) non è il desiderio di una “riabilitazione” morale (cosa di cui mi importa pochissimo, l’unico giudizio a cui tengo è quello della mia personale ed individuale coscienza e coerenza), ma una esigenza che ritengo essenziale. L’esigenza cioè di capire (per arrivare a smontarli) i meccanismi psicologici escogitati dagli “esperti” e dagli specialisti della “controrivoluzione preventiva” per castrare sul nascere ogni aspirazione degli oppressi alla ribellione. Indifferentemente dalle singole motivazioni di tutti coloro che (talora anche in buona fede) hanno contribuito a distorcere la verità sulla mia persona e sulla vicenda di cui sono stato protagonista, il disegno di fondo del dominio è consistito nella messa in atto di ogni mezzo e strumento per ingenerare paranoia e paura; sbandierando degli “spaventapasseri” ed avallando in ogni modo la tesi di mille “complotti” ipotetici che si riducevano ad uno solo: il mantenimento della gerarchia e del dominio di classe.

Alla fin fine, ben più di una “strategia della tensione”, io parlerei di una “strategia del consenso” perseguita con l’utilizzo della tensione, talvolta creata ad arte, in altri casi strumentalizzante tensioni autentiche, mistificandone l’immagine in rapporto alla realtà, per ingenerare paranoie e sospetti idonei a coagulare attorno al potere speranze e fiducia spesso in nome della difesa collettiva contro un immaginario e fittizio pericolo comune.

Ci ritorneremo e il mio dovrà essere un discorso lungo.

Un forte e fraterno abbraccio,

Gianfranco

67 Bon

13 luglio 1999
Catania

Caro Gianfranco,

tornato dalla Grecia trovo le tue lettere del 23, 24, 28 giugno e 4 luglio.

Dapprima ti dico com’è andata: ho partecipato al processo di Nikos Maziotis, chiamato dai compagni di laggiù a testimoniare secondo le possibilità che il tipo di procedura che vige in Grecia consente. C’era anche una compagna francese ed altri compagni italiani (sardi) e greci che “testimoniavano”, nel senso concreto di manifestare con una dichiarazione o un discorso la loro solidarietà al compagno. Nikos è stato condannato a 15 anni dopo una richiesta di 27, essendosi dichiarato responsabile di una bomba (non esplosa) al Ministero dell’Industria, in solidarietà con le lotte degli abitanti di una regione del Nord della Grecia che si chiama Strymonikos, contro l’installazione di una industria per l’estrazione dell’oro.

Ho visto anche altri compagni greci e abbiamo parlato del progetto dell’Internazionale antiautoritaria insurrezionalista, di cui hai avuto alcuni documenti. Loro sono disposti a riprendere (si è fatta anche una breve riunione con pochi partecipanti a causa del processo in corso), ricominceranno a ottobre con un giro di alcune città periferiche della Grecia e poi con un incontro ad Atene con una maggiore partecipazione. Mi terranno informato e io farò altrettanto con te. L’iniziativa dell’Internazionale, come puoi capire leggendo il mio libretto dallo stesso titolo, è molto importante per parecchi compagni specie, in questo momento, in Grecia e in Spagna.

Allegato ti mando la fotocopia della scaletta del mio intervento. [Vedi alle pp. 287-289]. Di un’intervista concessa a (“Elefthoripia”) mi deve arrivare la trascrizione che ti farò avere a suo tempo. [Vedi alle pp. 296-306].

Dalla tua del 23 apprendo che hai considerato importante la lettura del mio libro dal titolo Anarchismo insurrezionalista, e che alcuni concetti e analisi collimano con quello che pensi. Ne sono veramente felice. Di questo libro si sta preparando in questo momento l’edizione francese e quella greca. Mi sembra un testo che ricompone tanti fili dispersi sul problema dell’insurrezione anarchica.

Ho letto con molta attenzione quello che mi vai scrivendo in merito alle tue vicende e ti ringrazio per la fiducia e per lo sforzo che stai facendo di ricostruzione. Mi ha molto impressionato quello che dici in merito al “coinvolgimento” di alcune persone che sappiamo, riguardo altre faccende che potrebbero avere avuto però la loro influenza su certi comportamenti. Stupefacente.

Ho ricevuto il versamento di lire 30.000 e ti ringrazio, oltre a pregarti di ringraziare pure il compagno della trattoria: chissà che in una mia venuta da quelle parti non ti possa finalmente conoscere e quindi conoscere anche lui.

Ho gradito i saluti di * e mi dispiace che sia così amareggiato, ma questa è la risposta che molti compagni di quel gruppo di esperienze mi dà quando li incontro. Io, che pure quelle esperienze le ho vissute in prima persona, la penso ancora diversamente. Non fermiamoci, andiamo avanti.

Su Franco Leggio condivido le valutazioni positive che dai, anche se per mille aspetti la mia collaborazione con lui non è andata al di là del 1977, quando si è fermata per divergenze di svariatissimo tipo, chiudendosi poi definitivamente a Comiso, nel 1983, di fronte a quello che io definisco un grave errore rivoluzionario commesso da lui, in quella situazione, insieme a pochi altri compagni, errore che ha contributo a limitare quella esperienza. Ma sono cose passate.

Comprendo il tuo stato d’animo quando mi dici che cercherai di dissolvere piano piano i miei dubbi su di te (del passato), per quel che mi riguarda non ho “rimanenze di pregiudizi”, se le avessi non potrei nemmeno completare questa lettera che ti indirizzo.

Dalla tua lettera del 4 luglio ricavo il suggerimento del problema dei “leader”. Volente o nolente è un problema che mi porto dietro da tantissimi anni e spesso come risultato ho più amarezze che soddisfazioni. Ci fu un tempo (per fare un esempio) che facevo un comizio la settimana (anche più di uno) in giro per l’Italia e poi ho visto che molti compagni si adagiavano su questa mia (si fa per dire) capacità e disponibilità, per cui ero diventato una specie di tappabuchi. Alla fine, di fronte al mio rifiuto di continuare, i compagni (ad esempio, quelli di Ragusa) hanno cercato di fare loro i primi comizi e a poco a poco sono perfino diventati bravi. Il problema merita comunque una ulteriore riflessione, forse in futuro.

Per il momento di abbraccio con affetto,

Alfredo

Allegato: Testo della mia dichiarazione davanti al tribunale nel corso del processo contro Nikos Maziotis

[luglio 1999]
Atene

Signori,

mi trovo qui, in questa aula di tribunale, a fianco del mio compagno Nikos Maziotis. Entrambi nemici irriducibili dello Stato, entrambi anarchici.

Guardando attorno, oggi nel mondo, l’ordine statale domina quasi dappertutto, ed è un ordine di morte e di distruzione. I recenti avvenimenti della guerra in Serbia e nel Kosovo lo testimoniano perfettamente. Qualsiasi cosa faccia lo Stato, anche quando cerca di nascondersi dietro la facciata umanitaria, si traduce in morte e distruzione.

Ma lo Stato non è un’astrazione, non è una vuota parola, ma una cosa ben concreta. Lo Stato è costituito da uomini e cose, dal capitale che realizza lo sfruttamento, che mantiene sotto di sé milioni di uomini per garantirsi un profitto sugli investimenti, di un immenso apparato amministrativo e militare che governa, gestisce e uccide quotidianamente.

Molte le situazioni in cui si concretizza il dominio del capitale e dello Stato. Una di queste è quella di Strymonikos, dove una intera popolazione si è vista obbligata ad accettare con la forza l’installazione di una industria metallurgica del settore dell’oro, con tutte le conseguenze in termini di inquinamento, di distruzione dell’ambiente, ecc.

La lotta di massa che si è sviluppata continua anche in questo momento con l’intervento di centinaia di persone e con la presenza e la solidarietà degli anarchici. Solidarietà rivoluzionaria.

L’attacco che Nikos Maziotis ha realizzato contro il Ministero dell’Industria si inserisce in questo progetto di solidarietà e, per me, ha due significati:

a) una solidarietà concreta con le lotte di Strymonikos,

b) impedirvi di dormire tranquilli sui vostri scranni.

Dappertutto queste lotte si fanno rilevanti e gli anarchici sono sempre al loro interno, parte integrante del desiderio di libertà degli uomini che vogliono vivere senza padroni e senza sfruttamento.

In Italia, per esempio, la lotta di Comiso per impedire la costruzione della base americana dei missili Cruise, durata più di due anni, e gli anarchici erano presenti. Per esempio, la lotta delle Alpi Occidentali contro l’installazione del treno ad Alta Velocità, tuttora in corso, e gli anarchici sono presenti. Per esempio, la lotta contro la tecnologia, che ha visto abbattuti centinaia di tralicci dell’alta tensione, tuttora in corso, e gli anarchici sono presenti.

Nikos Maziotis non è solo, in ogni angolo del mondo uomini come lui sono nemici dichiarati dello Stato e quindi non aspettano che di passare all’attacco.

Forse voi giudici sarete chiamati dal padrone americano, che tutto il mondo globalizza dominandolo, anche con questo processo a dare una risposta esemplare contro il cosiddetto terrorismo.

Per noi anarchici terrorista è soltanto lo Stato, e lo si è visto recentemente in Kosovo e in Serbia, dove ha seminato dappertutto, e senza distinzioni, morte e distruzione.

Non è terrorista Nikos Maziotis perché egli lotta per la libertà e per l’anarchia.

Non potete fermarlo! Non potete fermarci!

Alfredo M. Bonanno

68 Ber

19 luglio 1999
Livorno

Al mio sempre più caro amico e compagno, Alfredo, ciao!

ho la tua lettera del 13 luglio, con allegata la scaletta del tuo intervento al processo di Nikos Maziotis. Se mi farai avere la trascrizione della tua intervista (ovviamente in italiano, perché il greco non lo mastico per niente) ne sarò veramente lieto. Ti confesso che in questi ultimi giorni ho sfogliato diversi quotidiani nella speranza che almeno qualcuno si degnasse di riportare la notizia di una partecipazione in Grecia di compagni italiani ad un processo contro un anarchico greco, un evento, cioè, che in teoria dovrebbe, appunto, “fare notizia”. Ma si sa, le sole notizie che... “fanno notizia” sono quelle che tornano utili al potere. Tutto ciò che ci riguarda e non può servire a denigrare, è destinato a venire taciuto.

Molte delle analisi e molti concetti contenuti nei tuoi volumetti che ricevo (non solo nel caso di Anarchismo insurrezionalista) corrispondono quasi puntualmente ai miei punti di vista ed alle mie opinioni. Se a qualcuno le cose che scrivi possono non piacere, si tratta di quei certi tizi secondo cui ogni iniziativa di tipo rivoluzionario viene definita per lungo tempo come improponibile perché “prematura”, per diventare in seguito sempre improponibile, per il motivo contrario: i tempi e le attuazioni sono cambiati e quei progetti vengono definiti “superati” ed “obsoleti”.

A proposito dei tuoi libretti, vorrei dirti una cosa: sono sempre stato un lettore vorace ed onnivoro; anche, però, un tipo di lettore abbastanza frettoloso e superficiale. Ben raramente (a parte il caso di certi “classici”) mi è capitato di rileggere due volte un testo. Nel caso di questi tuoi libri, invece, mi capita di dedicare ad essi una seconda ed una terza lettura. Per certi versi, questo fatto mi suscita, paradossalmente, una certa rabbia. Mi chiedo: come è possibile che questo compagno, che sostiene tesi che non posso non condividere, che dimostra una chiarezza e lucidità di analisi non comuni, non sia stato in grado (o non abbia voluto) capire me e le ragioni del mio gesto di 25 anni fa? Come può essere andata che, invece, proprio lui abbia portato il suo (non ininfluente) contributo a sostegno della tesi di chi ha premeditatamente e pervicacemente manovrato perché non venissi capito e venissi, addirittura, considerato un fascista e/o un elemento dei servizi segreti? Una risposta credo di averla trovata. Me la suggerisce proprio un pezzo del tuo volumetto su Calabresi. [Io so chi ha ucciso il commissario Luigi Calabresi, Catania 1998, p. 30]. Cioè laddove accenni al volume di Stuart Christie in cui questo compagno sposa incondizionatamente la tesi (un tempo lanciata soprattutto dal giudice Lombardi di Milano, poi trasformatosi con altrettanta sicumera in accusatore di [Adriano] Sofri) secondo cui ad ammazzare Calabresi non potevano essere stati che i fascisti e precisamente quel certo Nardi presentato come “deus ex machina” di ogni trama e cospirazione.

Ad un certo momento (forse per reazione alla vecchia grottesca tesi che vedeva negli anarchici una particolare sottospecie del lombrosiano concetto dell’uomo delinquente) si è arrivati ad individuare nell’anarchico il modello stereotipo del “capro espiatorio”, dell’agnellino ingenuo predestinato al ruolo di vittima sacrificale.

Contemporaneamente era diventato di moda esasperare in immagine la “pericolosità”, la tragica determinazione ed efficienza criminosa dei fascistelli (che certo non sono degli stinchi di santo, ma anche se a loro sarebbe piaciuto erano, tutto sommato, assai meno terribili e probabilmente facilmente liquidabili). Si è arrivati a sostenere, da parte in particolare di “Lotta Continua”, che la più importante battaglia rivoluzionaria consisteva nell’ottenere la messa fuori legge dell’MSI.

Un concetto che implica da un lato un attestato di “nemici dello Stato” del tutto immeritato da parte di quei pagliacci (adoratori per definizione della “forma Stato”), dall’altro una valutazione positiva del concetto di “legalità”.

Per me (che, ovviamente, non detengo alcuna “verità assoluta”) la vera e più pericolosamente funzionante “trama” è consistita proprio nello sbandieramento continuo dell’ipotetica minaccia della cosiddetta “eversione di destra”. Questo senza voler negare che tra quei figuri ci siano stati personaggi che credevano essi stessi di star complottando per conquistare il potere. Comunque, quale che sia stata la reale minaccia che i fascisti hanno rappresentato, è certo che è stata ingigantita ad arte per suscitare paura e ricattare tutti col pericolo delle “provocazioni” e la paranoia derivata.

D’altra parte, io vedo le cose in un certo modo perché ho goduto del tragico e dolorosissimo privilegio di vederle da una posizione particolare. Quella cioè di chi è stato prescelto da magistrati e mass media per fargli rappresentare un ruolo che non gli apparteneva. Ho pertanto assistito in prima persona alla manovra che mi si è costruita addosso. Non ho difficoltà ad ammettere che se allora il protagonista di quella vicenda fosse stato un altro ed io avessi saputo di lui quello che i giornali ne dicevano, difficilmente avrei potuto non condividere il giudizio di tutti. Ma, io le cose che mi riguardano le so, so che venivano e continuano a venire diffuse delle “rivelazioni” che non hanno un briciolo di verità. Così come so benissimo (per averne sperimentato i metodi e la tecnica) che tutti quei signori hanno sempre agito in cattiva fede e ben consapevoli di puntellare le loro tesi su delle menzogne sfrontate ed allegramente spacciate, pur sapendole false.

Carissimo Alfredo, il mio intento iniziale, quando si aprì il nostro dialogo, era quello di sviluppare un discorso vasto ed esaustivo, collegando tra loro gli eventi e gli episodi, cercando anche di spiegarli ed interpretarli. Ma mi rendo conto che, oggi come oggi, è un compito al di sopra delle mie forze. Questo anche perché, seppur in un contesto generale finalizzato a spacciarmi in immagine per quello che non sono e non sono mai stato, vi sono notevoli differenze di sfumatura e negli scopi specifici e “personali” che ognuno di quei giudici che se ne sono occupati si propone.

D’altra parte, per la mia età, le mie condizioni psichiche e fisiche, ecc., non credo mi resti molto tempo. Preferisco perciò affrontare singoli episodi specifici, tali da offrirti una sorta di documentazione, utilizzabile in seguito nel caso che io non arrivassi a sviluppare tutto il discorso e se tu riterrai in un ipotetico domani di svilupparlo tu.

Una prima osservazione, qualcosa di cui nessuno forse si è resto conto: in tutta la grossa montagna di “scoperte”, “rivelazioni”, “piste”, ecc., che si sono susseguite in questo quarto di secolo, mai una sola volta si è dato il caso che uno dei tanti inquirenti sia arrivato all’individuazione di un gruppo eversivo, di una “trama” o di un complotto, partendo da indagini svolte su di me. È sempre stato il contrario. Succedeva che venisse scoperta una certa organizzazione etichettabile sotto un certo colore e subito il giudice che se ne occupava si sforzava di trovare eventuali rapporti con me. Subito si cercava di potermici mettere in mezzo. E questo senza darsi alcuna preoccupazione per il fatto che anni e mesi prima si fossero sostenuti con la stessa determinazione, altri presunti miei legami con gente diversa.

Talvolta il movente di questi miei asseriti coinvolgimenti era da individuarsi nell’ambizione di qualche giudice che, dopo aver annunciato con grande scalpore “importanti scoperte”, si trovava in mano un pugno di mosche. Gente cioè che non si sapeva di quale specifica “impresa” accusare. Tirare in mezzo me significava rendere apparentemente importante quella “scoperta”, anche se poi tutto finiva in fumo, quel giudice sapeva che avrebbe sempre potuto sostenere di essere “convinto” che io c’entravo e che quelli erano miei complici. In mancanza di meglio, poteva sempre sostenere che qualche misteriosa mano aveva fatto sparire le prove, ostacolato e depistato.

Veniamo brevemente alla prima in ordine di tempo di queste “scoperte”: la cosiddetta “Rosa dei Venti”, una organizzazione definita “potente” di cui nessuno è riuscito a dire cosa avrebbe fatto, se non complottare a chiacchiere e truffare un vecchio industriale fregandogli dei “finanziamenti”.

Succede un giorno che un medico, mi pare, un certo Porta Casucci, un mitomane che passava per una macchietta nel paese dove viveva (raccontava di essere stato ufficiale superiore della marina tedesca) e forse per megalomania o per vendicarsi di qualche suo compare, rivela l’esistenza di questa “Rosa dei Venti”. C’è in mezzo anche un colonnello che, da buon truffatore, per andare a scroccare quattrini ad un industriale rimbambito, ci va in divisa e facendosi accompagnare da un autista militare in uniforme. Beh, gran chiasso sulla stampa e il buon giudice Lombardi che fa? Parte subito per Padova e si mette a girare per i corridoi di quel tribunale, pieni di giornalisti. Finalmente qualche cronista lo riconosce e lo intervista. Lui si mostra seccato: “questa mia trasferta doveva restare riservata, ecc.”. Gli chiedono se c’è un rapporto con la mia storia e lui serafico: “non posso dire nulla, c’è il segreto istruttorio. Comunque la cosa va valutata, almeno come ipotesi di lavoro”.

Da quel momento diventa un dato di fatto per tutta la stampa, i segretologi alla De Lutiis e simili: io sarei appartenuto a questa “Rosa dei Venti” ed ero in strettissimi rapporti con i suoi massimi esponenti. Si fanno e si continuano a fare quattro o cinque nomi di queste persone. In effetti, credo di avere effettivamente conosciuto uno di costoro. Un certo Sedona (il nome proprio attualmente non lo ricordo), so che era stato accusato per la morte di un turista omosessuale. Di un secondo il ricordo è che suonava in un “complesso” e di un terzo (adesso non mi ricordo il nome) credo sia quello che fece parte di questa “Rosa dei Venti”. Sempre se è proprio lui, so che frequentava un bar vicino casa mia e lo conoscevo di vista, senza avere la minima idea che si interessasse di politica. Una volta lo trovai nel carcere di Venezia, dove era in attesa di venire trasferito in un OPG essendo stato considerato infermo di mente. Era dentro per avere minacciato una prostituta di cui si era innamorato e che voleva... “redimere”. Un sempliciotto che prendevano in giro un po’ tutti e se veramente faceva parte di quella cosiddetta “Rosa” si dovrebbe pensare che quella organizzazione era una sorta di “banda del Cottolengo”: qualche fessacchiotto e un paio di truffatori. È vero che c’era di mezzo anche un colonnello, ma ciò non esclude la stupidità, anzi!

Ti saluto e abbraccio fraternamente,

Gianfranco

69 Bon

30 luglio 1999
Catania

Carissimo Gianfranco,

rispondo con ritardo alla tua del 19 essendo stato a Palermo dove * si trova ricoverato con problemi attinenti al fegato.

Ti ringrazio per la valutazione positiva che continui a darmi dei libretti che vai leggendo, in particolare il fatto che qualche volta rileggi qualcosa mi rende più contento ancora, in quanto penso che si tratti di pensieri e suggestioni che ti hanno colpito.

Il mio giudizio di allora nei tuoi confronti non rientrava nella generale sindrome antifascista, anche se come è ovvio non ne ero del tutto immune (le tesi che leggi oggi sono di oggi e non possono essere di ieri), ma piuttosto era fondata su nessuna conoscenza di te come persona, e su di una scarsa conoscenza dei fatti, e penso che moltissimi compagni in buona fede siano arrivati alle medesime mie conclusioni, stante che la “difesa” di quelli di “A” non poteva o non voleva dire qualcosa di definitivo. La questione delle “piste” e dei “complotti” mi ha sempre fatto sorridere. Io non sapevo nulla (o quasi) della “Rosa dei Venti”, se non il nome, ma quello che mi dici mi riconforta sulle mie impressioni, diciamo di principio.

Se ti riesce prova a fare un quadro dei punti che vorresti trattare in quel tuo intervento da pubblicare, solo una sorta di “scaletta” che potrebbe esserti utile.

Un abbraccio fraterno,

Alfredo

Allegato

[luglio 1999]
Atene

Intervista a “Elefthoripia”

Fino ad oggi [2003] non pubblicata


Sappiamo che in Italia molti anarchici sono contrari alla installazione del treno ad alta velocità. Può dirci qualcosa sui motivi di questa critica e su quello che in concreto si sta facendo? Se è d’accordo può rispondere alle domande che le porremo?

Sì, in Italia è in corso una lotta molto interessante contro la installazione delle linee ad alta velocità, in particolare nel Nord-ovest.

Che significa la velocità nel mondo moderno?

Tutti abbiamo bisogno di raggiungere uno scopo. Ci affanniamo per questo e ci diamo continuamente obiettivi da raggiungere.

Quello che sta lontano da noi ci angustia, quando non ci preoccupa nel senso pieno del termine, quindi vogliamo raggiungerlo, se non altro allo scopo di possederlo, e quindi di controllarlo. Ogni viaggio è un modo di fuggire alle proprie paure.

Ma non esiste un obiettivo innocente, una stazione di arrivo che non comprenda in sé qualcosa di spaventoso, di concluso e quindi di mortale. Lo scopo non è mai privo di conseguenze, senza che ciò possa indicare una differenza esatta con quello che siamo, una specie di sostituzione reciproca, come accade poniamo con la parola. Nell’obiettivo c’è la persistenza necessaria di tutte le possibilità, contraddizione dell’irripetibile che si ripete proprio perché si trasforma sempre. Più andiamo veloci verso la destinazione, più sfuggiamo alle nostre possibilità di capire, più si affievolisce la cognizione che abbiamo del nostro destino. Ciò causa un intestardirsi della coscienza nella sua ripetività, difesa e tana contro la paura.

In questo eterno pulsare si dà tutta la realtà, non un singolo viaggio. Nell’apparente ripetizione si delinea per intero la struttura dell’esistente, mentre nell’impossibilità di una ripetizione identica a se stessa si delinea per intero la tragedia di una corsa che non ha mai fine, restando comunque priva di senso.

Possiamo parlare del viaggio, ma per capirlo dobbiamo esserci dentro, essere nello spostamento verso qualcosa di diverso, dove il contenuto di questo spostamento è il rischio stesso, non una riflessione sul movimento. Ma parlare della velocità, come dello spazio o del tempo, contrassegna sempre una distanza, un’incolmabile distanza, è questo sarà il campo di percorrenza dell’itinerario, il territorio del dire che farà da velo al territorio da percorrere, velo che non può nascondere tutto, prima o poi la paura dell’ignoto viene fuori, e non saranno certo le parole a superare questo abisso.

La spaventosità del punto di arrivo la nascondiamo in molti modi. Ad esempio banalizzandola, trasferendola nell’oggettività da quattro soldi della vita quotidiana, del di già conosciuto. Non c’è viaggio nuovo che non ci affascini e non ci faccia paura nello stesso tempo, viaggio all’interno del quale il tempo non si allunghi in maniera incredibile, per poi riaccorciarsi quando quell’itinerario è già sperimentato.

Per un attimo, come i fuochi d’artificio, ogni incertezza sfuma nella sua massima estensione. Ma non esiste certezza pensabile, né sincronia deliberata di meccanismo che possa resistere a lungo. Ogni riproduzione meccanica, rumorosa e utile, ogni cartolina pubblicitaria di luoghi e stazioni d’arrivo, sacrifica se stessa all’imprendibile attimo dove somiglia dolorosamente alla stazione di partenza, ogni durata appare per quella che è, un’illusione senza gusto. Lo spazio nasconde un segreto che svela solo nell’angoscia del movimento, nel disperato tentativo di capire il perché di quello che viene dopo, senza legame e senza ragione con quello che è di già accaduto prima. Questo segreto è dato dal suo carattere istantaneo. Non è possibile parcellizzarlo. I chilometri sono un’illusione della tecnica che il brivido della coscienza continua a rifiutare. Perciò corriamo a dismisura, su mezzi sempre più veloci, su treni e auto e aerei, verso la nostra distruzione. Perciò non ne possiamo fare a meno.

Proponendo la distruzione di quello che la tecnologia dell’alta velocità ci mette davanti – oggi il treno, domani un altro mostro dello stesso genere – non ci illudiamo di acquietare con questo i nostri sogni o le nostre paure. Non vogliamo rendere la realtà più facile, non vogliamo conservare le cose nella loro stesura precedente nella prospettiva di future utilizzazioni “buone”, non persuadiamo nessuno, né raccogliamo proseliti.

Sappiamo che la fuga dalla solitudine è anche la nostra fuga. Non ci atteggiamo a portabandiera di teorie quietiste che non ci interessano. Vogliamo solo entrare nella nostra fuga, essere noi la nostra velocità, decidere noi i tempi e i modi in cui realizzarla, anche nella più stupida delle maniere, anche correndo in motocicletta, quando il vento ti fa uscire a forza le lacrime dagli occhi e sai che un piccolo scatto del polso potrebbe costarti la vita.

Ciò comporta di per sé una distanza dalle mode, una igiene culturale che non è necessariamente contrapposizione di principio, che suonerebbe meglio come snobismo. Il conformismo è una malattia dietro l’angolo cui non è facile sfuggire solo con la forza di non mettersi d’accordo. L’avere torto può essere una sorta di prova indiretta che ci si trova su di un sentiero interessante. Ma come scoprire questo sentiero? Dove trovare la forza di avere torto?

Nelle nostre scelte degli obiettivi da raggiungere, delle stazioni d’arrivo, c’è sempre qualcosa di contraddittorio e di non molto chiaro che si nasconde dietro una pretesa evidenza. Siamo sollecitati da qualcosa che ci manca. Questa mancanza la riconfermiamo puntualmente nel movimento dell’accumulo, nel complesso groviglio delle iniziative che prendiamo, le quali restano in gran parte inespletate. Più restiamo in queste frenetiche vicende del fare accumulativo, più immaginiamo e progettiamo (spesso senza neanche avere idea dei mezzi necessari per realizzare quello che ci proponiamo), più quelle possibilità ci sfuggono, più ci avviciniamo all’accumulo, più mettiamo carne sul fuoco, più ci sfugge il senso della possibilità “altra” del meccanismo stesso. In questo movimento ci concediamo all’improbabile rielaborazione della nostra vita, alle visite inaspettate, all’avventura e al caso codificati, alle soluzioni impreviste ma ortodosse. Ci permettiamo desideri che immaginano la scomparsa della distanza, che costituiscono avvicinamenti, anzi producono accelerazione del passaggio tra lontananza e riaccostamento.

È importante capire che ogni viaggio può avere un senso vitale per noi solo se, attraverso l’inquietudine, non siamo più in condizione di prevedere il desiderio della destinazione, solo cioè se riusciamo a non desiderare nei suoi dettagli quello cui stiamo andando incontro. Questi dettagli infatti, fissando condizioni di sicurezza, impediscono il rischio e disegnano un itinerario turistico conosciuto in partenza. Per spezzarli dobbiamo volere e amare il nostro destino, essere fuori dalla paura.

Sono molte le maniere di muoversi. Ci si può muovere per paura, ed anche per temerarietà. Mai per sincerità. Nel viaggio c’è sempre un tentativo di nascondimento. Difatti si può rimettere continuamente tutto in gioco solo non rivelandosi a se stessi, immediatamente, per quello che si pensa di essere. Il bilico tra i due versanti consente un gioco di astuzie praticamente infinito. Nessun movimento della coscienza è asettico. Non avviene mai sulla base di una ipotesi da verificare. Non c’è mai una condizione che possa garantire una pacifica e distaccata visione del mondo.

Il luogo del viaggio dovrebbe essere quello della scoperta, l’itinerario uno dei momenti in cui ci si trova al cospetto di se stessi. Si potrebbero così cogliere, non disvelare ma cogliere, il senso degli opposti contrasti, il rapporto reale che esiste tra la destinazione e il suo raggiungimento. Nel viaggio potremmo trovare il primo segno della verità che traluce dietro la simulazione. Ma, per far questo dobbiamo rompere l’accordo di non belligeranza con noi stessi, dobbiamo metterci a rischio. Ogni accordo è semplicemente simulato, non produce chiarezza, mette tutto a tacere, sigilla l’archivio. Ma quando il sigillo viene apposto, concordando tutte le contraddizioni, la verità è di già morta da un pezzo. L’itinerario è quindi crescita delle meraviglie, aumento dei meccanismi di copertura, non semplificazione, non distinta ricerca delle componenti. Ogni viaggio è trasferimento in blocco al di là della trama che da sempre si continua a tessere, ed è anche ricerca della morte, guardare verso il territorio che non si conosce, ma che ci ha tante volte visto ospiti coraggiosi e coinvolti.

Si potrebbe, come Apollinaire al cospetto della prima automobile a Parigi, gridare: plus vite, nom de Dieu, plus vite, più presto, perdio, più presto. Il gioco senza fine, quando ha inizio, risulta troppo pesante se a giocarlo si è in più di uno. Ora, il giusto valore dell’impossibile può essere considerato solo da chi ha deciso di possederlo, anche a costo della propria messa a repentaglio, oltre la singola, miserabile, possibilità di vita. Molti pensano che tutto ciò corrisponda esattamente alla debolezza generalizzata, specchio fedele di un profondo cambiamento delle strutture sociali. Debolezza che non è poi molto difficile definire come crisi o come decadimento e altri consimili concetti. Non sono d’accordo. Se la critica negativa della razionalità costituisce una debolezza, è bene accettarla se tutti i risultati della forza della ragione sono quelli che abbiamo sotto gli occhi. Ma la verità è che non si può parlare, se non a torto, in termini di debolezza o di forza del pensiero. Sono solo luoghi comuni di recente invenzione.

Anche nel rischio del viaggio cerchiamo di trovare i rassicuranti elementi del di già dato, vogliamo fare nostra la destinazione, questo è vero, per cui ci qualifichiamo surrettiziamente, ma non vogliamo perderci, come quando partiamo per un viaggio turistico organizzato e lasciamo accuratamente in cassaforte pellicce e ori. Mettiamo qualcosa a repentaglio, ma solo qualcosa, giochiamo una piccola percentuale di quello che possediamo. Ci riserviamo sempre un entroterra di sicurezza. Ecco perché sosteniamo la conoscenza sulla base del metodo dell’ “a poco a poco”. Siamo bottegai e non vogliamo ammetterlo. Sulla soglia della bottega, quando mettiamo fuori il naso, guardiamo sospettosi il cielo e scorgiamo sempre segni di futuri rivolgimenti e, a volte, ci rincuoriamo e sogniamo ad occhi aperti. Poi corriamo subito a rifare l’inventario per paura di avere perso qualcosa. In questo modo, non possiamo pretendere nulla dalla vita, né possiamo darci una prospettiva di trasformazione. Deludiamo gli altri, che prima o poi scoprono il nostro maldestro gioco delle tre carte, e deludiamo noi stessi che, comunque, non potevamo mai sognare di illudere. Così perdiamo ogni contatto reale col mondo che ci circonda, e viviamo contagiati dalla nebbia. Invece di giocare veniamo giocati. La paura rileva sempre la nostra ripugnanza di fronte all’imprevisto e alla diversità.

In definitiva possiamo scappare dalla realtà in due modi, o rallentando la nostra vita, rinchiudendoci nei ritmi del di già conosciuto, o accelerando tutto al massimo, trasferendoci in una crescita esponenziale che volendo abolire la distanza la riconferma nella sua espressione più terribile, quella del carcere, in primo luogo del carcere delle idee.

I due aspetti sono complementari. Non si sfugge ad essi né inseguendo record di velocità, né sognando passeggiate con la carrozza a cavalli.

Esiste una lotta in corso contro le ferrovie ad alta velocità?
Quali gli effetti negativi dell’installazione di una linea ferroviaria ad alta velocità?

Prima di tutto il rumore. L’aumento di rumore è incontestabile. I tecnici favorevoli parlano della possibilità di installare dei sistemi che rompono le onde sonore. Ma si tratta di palliativi. La propagazione di queste onde è fenomeno complesso che non si elimina in questo modo. Il rumore non dipende solo dalla velocità ma anche dalla lunghezza del treno.

I fastidi riguardano diversi aspetti: la conversazione è ostacolata, si hanno sensazioni di fastidio, di panico, di aggressione, cambiamenti di comportamento, insonnia, stress.

Danni alla campagna

Si hanno perdite nella superficie coltivabile. Ciò comporta modificazioni nel mercato fondiario. Ci saranno delle speculazioni a causa delle strutture di supporto della linea ferroviaria vicine alle stazioni intermedie.

Altri danni saranno causati alla struttura idraulica del terreno circostante, mentre altri danni verranno dai depositi di materiali di riporto. Ciò potrà determinare erosioni, inondazioni o eccessiva secchezza dei terreni.

Danni verranno a causa dei disboscamenti.

Speculazioni ci saranno a causa delle indennità e delle differenze tra indennità di valore reale del fondo, indennità di reimpiego e sovvenzioni alle attività agricole in difficoltà.

Aumenti di prezzi ci saranno sul mercato fondiario, specialmente per i piccoli fondi.

Il paesaggio come valore in se stesso verrà definitivamente distrutto. Su questo punto, trattandosi di un valore a forte carattere soggettivo, la polemica raggiunge i suoi massimi livelli. La tesi dei recuperatori è quella che il paesaggio può essere modificato dall’uomo e quindi anche migliorato e perfino creato: tesi delittuosa.

I sindaci dei paesi interessati all’inizio cercheranno di impostare duramente la lotta, poi si accorderanno sulla base di piccole riduzioni di nocività secondo i luoghi, e poi accetteranno i grossi contributi che impiegheranno per migliorare le condizioni del proprio paese, potranno pretendere una sistemazione viaria e una ristrutturazione dello spazio comunale: non più di questo. Alla fine accetteranno il passaggio del treno.

Gli inconvenienti causati dai cantieri saranno: rumori, vibrazioni, polvere, sporcizia nelle facciate delle case, crolli parziali, fessure nelle abitazioni determinate dalle mine.

Aumento del traffico a livelli considerevoli e non abituali per i singoli posti, quindi difficoltà di traffico e aumento degli incidenti stradali.

Degradazione delle strade comunali e provinciali.

In contropartita i sostenitori parlano di un aumento delle possibilità di lavoro (eterno argomento), di un aumento delle attività commerciali, aumento della frequenza nelle scuole locali, incasso comunale delle tasse pagate dalle Ferrovie.

L’industria sarà la grande sostenitrice dell’operazione Alta Velocità in quanto farà i migliori guadagni con le commesse industriali relative. Almeno la sola linea in questione dovrebbe garantire alle industrie pesanti italiane un aumento del 20 per cento di produzione per i futuri quattro anni.

Volendo considerare la cosa da questo ristretto punto di vista, non è neanche positiva per gli interessi industriali in quanto le disequilibra, danneggia le catene di produzione e i progetti futuri produttivi, irrigidisce i progetti economici e pone le industrie davanti alla necessità futura di una ristrutturazione non sempre realizzabile, finite le commesse relative alla costruzione del Treno.

Gli aspetti politici sono tutti fondati sulle coperture ideologiche: maggiori posti di lavoro, miglioramento d’immagine, democratizzazione della grande velocità nei trasporti, soddisfacimento di presunti bisogni delle masse.

Non sarà facile smontare questa ipotesi, in quanto anche gente che non è mai salita su di un treno e che ha sempre avuto a disposizione solo la bicicletta, si sente gratificata dalla possibilità di potere salire quando che sia su di un treno italiano che va a trecento chilometri all’ora.

I politici faranno leva su ciò. L’argomento critico qui fa poca presa sulla gente.

Riguardo gli aspetti economici le ferrovie come struttura produttiva di servizi in Italia sono arretrate e devono raggiungere la dimensione e il livello produttivo dello standard europeo.

In particolare è il servizio trasporto merci che è disastroso per l’economia nazionale, coprendo appena il 10 per cento della totalità dei trasporti, essendo il resto servito dal trasporto su gomma.

Il mercato che si apre alla Grande Velocità è quindi di almeno un altro 25 per cento delle merci da trasportare, con costi di gestione relativamente bassi, di certo molto più bassi di quelli dei Tir. In questo modo il settore viaggiatori potrebbe essere appena un’aggiunta complementare all’intero progetto economico.

Ma da questo punto di vista non si deve trascurare l’importanza che questo trasporto potrà avere per garantire una più veloce mobilità del lavoro, faccenda questa che interessa moltissimo alla ristrutturazione industriale italiana dei prossimi dieci anni.

Alfredo M. Bonanno

70 Ber

6 agosto 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

ho, già da tre o quattro giorni, la tua lettera del 30 luglio. Come vedi, anch’io mi trovo a tardare nel dar riscontro alla corrispondenza. Non solo, ma il mio tardare è, in un certo senso, causato da motivi analoghi ai tuoi. Sempre di problemi “epatici” si tratta. Nel caso tuo riguardano * che ha dovuto farsi ricoverare in ospedale, nel caso mio, invece, sono io stesso a risentirne, anche se, per una ragione o per l’altra, me li trascino senza andare in ospedale.

Questi miei fastidi mi provocano uno stato quasi permanente di torpore, di abulia e di incapacità della benché minima concentrazione (anche quel poco che basta per scrivere una lettera “decente”). Potrebbe trattarsi anche di altro, comunque, essendo stato reso edotto (da esami “ematologici”) di avere in passato superato, senza saperlo, una seria forma di “epatite” (anzi due: tipo “B” e tipo “C”) posso ritenere che si tratti di strascichi e recrudescenze di tali patologie (probabilmente già evolutesi in forma di “cirrosi”). Non vorrei apparirti... “indelicato” (ma per me, come sai una tale eventualità non susciterebbe problemi) ma, non è forse che anche * abbia, a suo tempo, fatto uso di certe sostanze? Io, per esempio, sono perfettamente cosciente di quando mi sono beccato certi malanni. La cosa risale a tanti anni fa, quando a Milano, nel carcere di S. Vittore, circolavano, scambiandole di cella in cella, due siringhe utilizzate da almeno trenta detenuti. Di droga ce n’era a bizzeffe, mentre le siringhe erano difficili da ottenere. Le conseguenze: epatiti a larga diffusione. Credimi è impressionante sentire i discorsi che si fanno la mattina davanti alla porta dell’ambulatorio del cosiddetto “SER. T” dove distribuiscono il “metadone”: si parla solo di AIDS, di epatiti, di gente morta, ecc., e, per lo più si parla di ragazzi e di ragazze di 18/20 anni. È molto triste: questi potenziali ribelli al sistema finiscono con l’autoeliminarsi e col rendere un inconsapevole servizio al potere. Si tratterebbe (forse mi illudo e sono solo un “visionario”) di un àmbito e di un’area di emarginati e marginalizzati all’interno della quale ci sarebbe spazio per svolgere un buon lavoro di sensibilizzazione. Molti di costoro, credimi, sono tutt’altro che imbecilli e in molti è possibile rinvenire un certo, seppur deviato e distorto, spirito di rivolta.

In un libro (non ricordo il titolo) di Martin Buber si accenna al fatto che le occasioni che l’uomo non riesce ad afferrare sono perdute per sempre. Ci ho pensato riandando col pensiero all’inizio di dialogo che avrebbe potuto prendere vita e svilupparsi tra noi in occasione della prima lettera che ti scrissi nel carcere di Bergamo. Tu ti eri mostrato disposto ad un dialogo costruttivo. Io, per una stupidissima forma di “orgoglio” e, se vogliamo, di immotivato “rancore”, scelsi di lasciare cadere quell’occasione. Lo rimpiango ora, quando il peso degli anni e la vera “crisi” psicologica causatami dal comportamento nefando e più che vigliacco di un certo ragioniere mi hanno moralmente distrutto.

Non credevo (potrei giurarlo se credessi in dio) che un anarchico potesse arrivare a fare quello che mi ha fatto Luciano Lanza e, cosa ancora più grave, al solo scopo di accodarsi, da lecchino e tirapiedi, ad un magistrato del calibro di un Guido Salvini. Meno che mai, avrei potuto aspettarmi di leggere in quella lettera di Amedeo Bertolo che il sunnominato giudice avrebbe fatto un ottimo lavoro. Beh, siamo arrivati alla “via giuridica della rivoluzione libertaria”. (Pria di morir, nel fango di una via, sventoleremo il codice penale...). A quando il gruppo anarchico “Falcone e Borsellino”?

Nelle mie due lettere precedenti ti ho accennato a due casi di individui per aver conosciuto i quali si è sostenuto la tesi dei miei “legami” con elementi di estrema destra. A prescindere dell’ovvia considerazione che l’eventuale conoscenza di uno, due, o anche dieci personaggi del genere (tanto più se risalente a dieci o quindi anni prima e senza neppure aver potuto sapere la loro collocazione politica) non avrebbe, sul piano logico alcuna valenza dimostrativa per asserire un rapporto di complicità relativamente ad un episodio del 1973, basti anche solo pensare che, al tempo in cui ho effettivamente conosciuto uno dei fratelli Sedona, molto probabilmente non solo lo stesso non ne faceva parte, ma la stessa “Rosa dei Venti” non credo fosse ancora stata costituita. Ancora più grottesco, poi, sostenere che un tipo come me, che in altre “rivelazioni” viene indicato come elemento della CIA, del Mossad, e di tre o quattro altri “servizi segreti”, potrebbe essersi legato ad un’accozzaglia di “dilettanti” confusionari ed imbelli come quei poveri mentecatti.

Comunque, ti scriverò presto e puntualizzerò meglio altri e nuovi particolari di questa infamissima montatura giuridico-politico-poliziesca messa in piedi contro di me e, più ancora che contro di me, al fine ultimo e specifico di rafforzare il mito della provocazione permanente e contribuire ad indurre tutti (compresi gli anarchici) a riporre le loro speranze nelle forze di polizia e nella magistratura.

Ho avuto il testo della tua intervista.

Un fraterno abbraccio,

Gianfranco

71 Bon

23 agosto 1999
Catania

Carissimo Gianfranco,

ti scrivo con considerevole ritardo, rispondendo alla tua del 6 scorso perché sono stato un poco a Palermo, da *, che è tuttora ricoverato al reparto infettivo di uno degli ospedali di quella città. Adesso sta abbinando gli effetti molesti dell’epatite B con quella della preesistente epatite C. Non so per quel che mi chiedi riguardo l’uso di sostanze, ma posso immaginarlo. Comunque, non avendo lui mai manifestato né discorsi chiari nei miei confronti su questo punto, né problemi più specifici, non posso dirmi sicuro. In ogni caso, al momento non credo che abbia questo problema, semmai (forse) i suoi strascichi, ma sono sempre nel campo delle ipotesi.

Sì, mi ricordo, e ne conservo le lettere se non sbaglio da qualche parte, del nostro dialogo di Bergamo, ma forse nemmeno io ero disposto ad aprirmi e, in ogni caso, non ti sentivo vicino e fratello come ti ho improvvisamente sentito questa volta, a partire dalle primissime lettere.

Aspetto presto una tua lettera e ti abbraccio con affetto,

Alfredo

72 Bon

4 settembre 1999
Catania

Carissimo Gianfranco,

è ormai da diversi giorni che non ho tue notizie. Spero che queste mie poche righe ti trovino in buona salute.

Fatti sentire.

Un abbraccio con fraterna amicizia,

Alfredo

73 Ber

12 settembre 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

devo farti tutte le mie scuse per non aver dato alcun riscontro alla tua lettera che risale già al 30 luglio e se alla tua successiva del 4 settembre mi limiterò ad un brevissimo cenno per conferma dell’avvenuto ricevimento. Eppure, desiderio di scriverti ne avrei e tanti sono gli argomenti che mi piacerebbe affrontare. Purtroppo le mie condizioni generali di salute sono andate sempre peggiorando.

Non voglio tediarti con l’esposizione di una sorta di “cartella clinica”. Molto sinteticamente, ti dirò di attribuire l’origine di tutto ad un peggioramento della situazione “epatica” (a proposito, spero che * stia meglio e si sia ristabilito). Nel mio caso, oltre ad altri fastidi, quello che è peggio è la permanenza di un continuo stato di sonnolenza, tale da annebbiarmi e rendere faticosissimo non solo scrivere, ma anche leggere qualcosa.

Domani mi deciderò a sottopormi a degli esami, perché finora mi sono trascinato nell’illusione che le cose miglioreranno da sole. È anche vero che sono io stesso ad essere colpa dei miei mali: da tempo (in particolare, dopo la rottura con certi compagni e la constatazione di quanto squallidi possano essere delle persone che per anni ho stimato) pur accantonando il ricorso all’eroina quasi del tutto (non è, peraltro, che il “metadone” faccia bene a chi ha il fegato rovinato), mi sono lasciato andare con eccessi nel bere alcolici. Adesso sto cercando di smettere ma è pur sempre un “chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati”.

Tieni presente che ho ormai 66 anni e le capacità fisiche di recuperare sono molto limitate.

Come dicevo all’inizio, di questo mio silenzio mi scuso.

Spero (tutto il pensabile è possibile) di riprendermi un po’ e di reiniziare con te un dialogo a cui tengo moltissimo.

Una sola cosa voglio dirti: oggi come oggi sei per me (assieme ad Antonio [Lombardo] e pochissimi altri) nel novero delle rare persone che stimo e alle quali voglio bene.

Un abbraccio fraterno,

Gianfranco

74 Ber

18 settembre 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

La lettera-circolare che ti allego sono pressoché certo tu l’abbia già ricevuta. Almeno così mi ha assicurato il suo estensore, Tobia Imperato, nel corso di una telefonata dove gli accennavo all’utilità ed opportunità di fartela avere. Tuttavia, neppure a me (che pure ho con lui, da anni, un ottimo rapporto e tra l’altro vengo citato nella lettera stessa) era arrivata fino a che non gli ho chiesto di spedirmela.

Sono iniziative del tutto individuali, a spese dello stesso autore sia per stamparla che per spedirla, di cui Tobia si fa carico assieme alla sua compagna *. Da parte mia, privo di mezzi come sono, mi sono limitato a farne una decina di fotocopie e di spedirle a quei compagni con cui ancora ho un rapporto amichevole. È una prassi che mi riprometto di adottare anche in seguito, nel caso di iniziative analoghe e, nel caso si tocchino argomenti a carattere generale, anche di farne più copie e di affiggerle nei punti diversi della città.

Cosa vuoi, penso che sia necessario ripartire da “zero”. Cioè anche facendosi carico ognuno di riprodurre 10 o 20 copie di un volantino o di “dimenticare” (come facevo un tempo) la copia di una pubblicazione nell’anticamera di un medico o sul tavolo dei giornali di qualche barbiere.

Venendo alla “circolare” in questione a me pare buona ed opportuna. Vi si affrontano problematiche che io considero importanti perché le ho vissute sulla mia pelle.

Se Tobia ti ha fatto pervenire la sua lettera, ma anche nel caso che non ti sia arrivata direttamente (in tal caso dicendogli sinceramente di averla ricevuta da me) credo che sarebbe opportuno cogliere l’occasione per aprire un dialogo epistolare con lui.

Lo conosco benissimo e ti posso giurare che è un compagno onesto e sincero, molto più vicino a noi che non ai ciarlatani, opportunisti e ruffiani di una certa area che ben conosciamo.

Se mi riprenderò un poco e non sarà ancora arrivato il momento di “schiattare” nutro il sogno di veder riprendere vita un giornale “nostro” (cioè veramente anarchico!) e in questo caso ritengo che persone come Tobia e la sua compagna potrebbero essere dei collaboratori validi su tutti i piani. Ciò anche per un certo rapporto vitale che mantengono con l’area dei giovani e giovanissimi dei “Centri Sociali” del Piemonte.

Insomma, come vedi, continuo a sperare (o forse soltanto ad illudermi) ma, per me, fino a che esisterà oppressione e dominio ci sarà l’esigenza e lo spazio, per lo spirito di rivolta.

Ciao! Un abbraccio fraterno,

Gianfranco

Allegato: Gianfranco Bertoli e Silvano Pellissero.

Il carosello di invenzioni fantapolitiche relative all’attentato del 1973 davanti alla questura di Milano e nei confronti dell’autore, l’anarchico Gianfranco Bertoli, non ha mai fine.

Periodicamente ogni due anni, come un assurdo revival, qualche imbecille scopre la luna nel pozzo, promette eclatanti rivelazioni, svela trame di inesistenti legami tra Bertoli e i fascisti, poi il tutto si risolve in un nulla di fatto.

Strano destino quello di Gianfranco Bertoli.

Nel 1973 compie un attentato il giorno in cui viene scoperto un busto marmoreo, nei cortili della questura milanese, alla memoria dell’esimio commissario Calabresi, il maggior responsabile dell’assassinio dell’anarchico Giuseppe Pinelli, che nel dicembre del 1969 era stato scaraventato giù del quarto piano della medesima questura. Purtroppo la bomba, lanciata contro un reparto di CC non esplode dove dovrebbe, ma – colpita dal calcio di un carabiniere – cade in mezzo a un gruppo di persone innocenti causando alcuni morti e diversi feriti.

Bertoli, subito arrestato, si dichiara anarchico individualista, rivendica le ragioni del suo gesto, se ne assume la piena responsabilità, non compromette nessuno, non chiede la solidarietà di alcuno. Pretende, a ragione, solo di salvaguardare la propria dignità.

La sinistra democratica e antifascista – che solo qualche anno prima, immediatamente dopo la bomba di piazza Fontana, aveva sbraitato contro il mostro Valpreda (fino a quando le responsabilità dei neofascisti diventeranno talmente evidenti da generare un repentino cambiamento di posizioni e Valpreda verrà persino proposto come candidato-protesta nelle liste del “Manifesto”) – anche in quest’occasione non si tira indietro: l’attentato davanti alla questura è deleterio, non politicamente difendibile e soprattutto non ci si guadagnano voti a farlo. Bertoli dunque viene fatto diventare “fascista”: vengono create ad arte inchieste giornalistiche sul suo passato di destra, con tanto di testimonianze inesistenti e di fotomontaggi, si dice persino che era stato visto con degli squadristi veneti attaccare dei picchetti di operai in sciopero.

Gli anarchici, pur essendo concordi nel criticare l’attentato, sulla persona dell’attentatore si dividono in due: fascista per gli uni (FAI e arscinovisti), anarchico per gli altri (GAF e vari gruppi non federati). Su quale elemento, se si escludono le campagne giornalistiche, basino le proprie convinzioni i primi, non ci è dato di sapere. Probabilmente a forza di urlare che le bombe le mettono i fascisti si sono illusi che ogni realtà si muova secondo i loro schemi prestabiliti (anarchico = bravo guaglione, bombarolo = fascista).

Bertoli intanto, condannato all’ergastolo, inizia il suo lungo calvario nelle patrie galere. Comincia ad allacciare relazioni con i libertari detenuti, con i compagni che gli scrivono (pur avendo avuto precedentemente – anche se da lui, per non compromettere nessuno, sempre negati nell’istruttoria – dei rapporti con altri anarchici, essendosi trasferito in Israele, non aveva più avuto contatti) e ad intervenire nei dibattiti sulla stampa anarchica, prima su “A-rivista” e poi, poco a poco, su tante altre testate. Nei suoi scritti analizza onestamente e lucidamente le motivazioni del suo gesto e dei disastrosi risultati ottenuti (i morti innocenti). I compagni fanno a gara a scrivergli e ad inviargli somme di denaro, tanto che è costretto a chiedere di rarefare la corrispondenza perché gli risulta gravoso rispondere a tutti e di inviare i soldi ad altri detenuti più bisognosi.

Periodicamente il suo nome viene tirato fuori dai mass-media ad ogni inchiesta sul neofascismo, ma in campo anarchico nessuno ci fa più caso considerando la cosa come prassi della normale manipolazione della verità da sempre operata da giudici e pennivendoli. Dopo più di 20 anni di galera Gianfranco, come tutti i detenuti, gode dei benefici di legge ed esce, prima in semilibertà e poi in libertà vigilata. Alcune sue vicende personali strettamente private determinano la rottura sul piano personale con alcuni compagni che gli erano stati vicini negli anni della galera.

Il suo nome torna alla ribalta nell’inchiesta sulla Gladio con il solito contorno di calunnie. Le smentite da lui inviate ai giornali non vengono pubblicate, gli viene negata la possibilità di difendersi. Gli anarchici ignorano la cosa come se non li riguardasse, ormai l’incanto si è spezzato. Gli stessi che prima si facevano vanto di averlo difeso contro il nauseante conformismo della sinistra ora gli voltano le spalle. La nuova rivista anarchica, che si propone come la continuazione ideale di “Volontà”, testata storica del movimento anarchico italiano, “Libertaria”, pubblica nel primo numero (ottobre/dicembre 1999) un’intervista ad un giudice (sembra un assurdo ma è proprio così) in cui si ipotizza il ruolo di Bertoli all’interno della strategia portata avanti dai gruppi neofascisti in Italia.

Questa è una storia iniziata circa trent’anni fa. Ma la storia, come diceva un filosofo, ha i suoi corsi e ricorsi.

Nel marzo del 1998 sono arrestati a Torino, nel corso dell’inchiesta sugli attentati contro il TAV in Val Susa, tre anarchici. Due di loro, Edoardo Massari (Baleno) e Maria Soledad Rosas, moriranno suicidi in carcere, il terzo, Silvano Pellissero, siede sul banco degli imputati e rischia – grazie alla montatura del duo PM Laudi-Tatangelo – 7 anni di reclusione. I giornali democratici e “di sinistra” intraprendono un’infamante campagna nei suoi confronti dipingendolo ora come provocatore, ora come confidente dei carabinieri, ora come uomo dei servizi segreti, ora come fascista, ora come leghista. Si scrive che era stato fermato mentre affiggeva manifesti di AN, che andava alle riunioni della Lega Nord, che era abbonato a riviste naziste, che aveva letto e sottolineato il Mein Kampf (come se gli anarchici dovessero leggere solo Bakunin). Pellissero è conosciuto da tempo nell’ambiente dei posti occupati anarchici torinesi, si proclama innocente, dichiara pubblicamente in un’aula di tribunale il suo anarchismo, respinge di aver mai avuto alcun contatto con la destra o con la Lega. Ma i compagni non sentono la sua voce. I giornali del movimento a tiratura nazionale (“Umanità Nova”, settimanale della FAI e “A-rivista anarchica”) tacciono, ignorano persino il fatto che un anarchico sta per essere condannato sulla base di prove inesistenti. Solo pochi generosi si fanno carico della sua difesa (“Anarchia”, giornale milanese, “Germinal” organo del Triveneto e “Sicilia Libertaria”). La calunnia ha sortito il suo effetto, Laudi e Tatangelo non possono che essere soddisfatti: una parte del movimento anarchico non ha accettato la loro sfida e si è ritirata nel proprio orticello senza colpo ferire.

Difendere le persone di Gianfranco Bertoli e Silvano Pellissero non è solo un dovere di solidarietà, significa ridare dignità all’anarchismo, riportarlo nel giusto posto che gli compete: il terreno della rivolta contro ogni potere e contro ogni istituzione.

Tobia

75 Bon

20 settembre 2000
Catania

Caro Gianfranco,

ti scrivo con ritardo rispondendo alla tua del 12 settembre solo ora di ritorno a Catania.

Spero che questa mia ti trovi in discreta se non buona salute. Io mi difendo.

Ti ho spedito l’ultimo libretto uscito [Liber asinorum] sul quale aspetto la tua opinione, per me importante. Si tratta di un attacco feroce contro gli attuali miei nuovi detrattori, e dire detrattori è veramente poco, meglio sarebbe dire infangatori. Individui infami della peggiore specie che spero vengano fuori ufficialmente dopo questa punzecchiatura e non si limitino più alle dicerie di corridoio.

Non sono gli stessi tuoi infangatori (quelli, a suo tempo, ebbi a punzecchiarli a dovere) ma persone di ben altra indole che un tempo ho amato nelle cose pratiche più che in quelle teoriche, sono stato loro vicino e che oggi mi ripagano con la moneta di cui sopra.

Ti ringrazio delle belle parole che mi indirizzi e che mi confortano non poco. Spero di leggerti presto e per il momento ti invio un abbraccio fraterno,

Alfredo

76 Bon

25 settembre 1999
Catania

Caro Gianfranco,

ricevo la tua lettera del 18 settembre, dopo quella del 12 che mi diceva della tua salute. È dalla lettura della prima, che mi sono tenuta sul tavolo per diversi giorni, che andavo riflettendo sulla tua situazione e mi angustiavo non poco pensando a quanto sono limitato nelle mie possibilità. Mi preoccupavo per non avere tue notizie e non riflettevo bene sul fatto che la tua situazione è difficile sotto tutti gli aspetti, ben più difficile della mia. Questa considerazione mi ha lasciato l’amaro in bocca per diversi giorni. Poi la tua seconda lettera che mi sembra scritta da un te stesso che sta meglio, che ha una gran voglia di fare. Che ne dici?

Avevo letto la circolare di Tobia e avevo avuto modo di farla circolare fra coloro che ancora ritengono interessante avere rapporti con me, di qualsiasi tipo. Sai, i tempi sono grami e duri, e io cerco di fare il possibile. Scriverò subito a lui, secondo come mi consigli. In passato non ci sono state occasioni per conoscerci meglio. Sono felice che tu torni a parlare di un giornale “nostro”, come di qualunque iniziativa che progetti trasformazioni future in grado di farci riprendere l’iniziativa delle lotte.

Ti abbraccio con affetto,

Alfredo

77 Ber

6 ottobre 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

Rinuncio al pur doveroso “convenevole” del fare le mie scuse per il ritardo con cui do riscontro alla tua lettera, che risale al 25 settembre. Penso che tu abbia perfettamente compreso quanto importante sia diventato per me questo nostro dialogo epistolare. Ti sarà quindi agevole intuire che i miei ritardi non sono frutto di pigrizia o, peggio, di “menefreghismo”.

La mia condizione, sia sotto il profilo della cosiddetta “salute”, sia sotto quello, banalissimo, delle “finanze”, è alquanto precaria. Tuttavia, l’impressione di un seppur temporaneo miglioramento, vista sotto l’aspetto psicologico, non era del tutto sbagliata.

La “lettera circolare” di Tobia l’ho apprezzata molto ed ha avuto su di me un certo influsso positivo.

D’altronde, sento dalla tua lettera, che anche tu l’hai apprezzata. Al punto di effettuare la stessa scelta comportamentale che è stata mia. Sento, infatti, che l’hai fatta girare tra quei compagni con i quali permane un rapporto.

Da parte mia, ho fatto la stessa cosa. Ne ho fatto una decina di “fotocopie” e le ho spedite in visione a quel piccolo numero di compagni con cui ho ancora (nonostante l’impegno con cui il “ragioniere” ed i suoi amici si sono sforzati di emarginarmi) un qualche dialogo.

Come vedi, si riparte da zero: non avendo più un organo di stampa, e non trovando altro spazio, si ricorre alle “fotocopie” ed al mezzo postale. Dovessimo anche arrivare a ridurci alla scrittura manuale siamo... “imprevedibili”. Fin che avremo un soffio di vita continueremo a portare avanti la nostra lotta.

Sai, nonostante l’età, la condizione fisica e la mancanza di mezzi, la voglia di combattere rimane.

Vivere non è sinonimo di “sopravvivere”, vivere significa credere nella possibilità di lottare.

Un paio di anni fa mi ero illuso che un gesto suicidario attuato come estrema forma di protesta potesse servire. Ho visto, credimi, dolorosamente, che il cinismo di certi (loro sì “sedicenti”) anarchici non ha limiti, né dignità. Non so quanto mi resti (sul piano “temporale”) ma so che, per poco che sia, continuerò a tener fede ai miei sogni ed alle mie speranze.

Della lettera di Tobia ho apprezzato particolarmente tre punti: il primo consiste nel suo aver messo in evidenza l’esigenza della solidarietà tra compagni. Sempre e comunque, se ne condividano o meno tutte le scelte operative.

Il secondo, sempre ricollegabile al discorso “solidarietà”, lo vedo nella condizione psicologica di un compagno, che è vittima della repressione, per il quale rendersi conto di non essere abbandonato è di estrema importanza.

Terzo punto, forse il più importante (e non solo e non tanto perché vengo citato anch’io) è la comprensione, da parte di Tobia, di quello che è uno dei più subdoli e cinici meccanismi di distorsione della verità adottati dai professionisti della disinformazione massmediatica su iniziativa e suggerimento degli apparati repressivi.

Si tratta per loro (l’hanno sperimentato in grande stile con me ed hanno visto che “funziona”) di etichettare, ricorrendo alle più sofisticate menzogne, i compagni che subiscono la repressione come dei “provocatori”.

Non che sia una “novità” in assoluto; non si è arrivati ad accusare Gaetano Bresci di essere un mercenario al soldo dei Borboni? Ma adesso è diventata una precisa e studiata strategia. – Che andrebbe smascherata.

Venendo ad altro, ho letto Guerra civile, che mi hai mandato. Ti ringrazio perché lo valuto un ottimo libro.

Vorrei parlartene a lungo e lo farei volentieri se, purtroppo, anche in questo momento non avessi la febbre.

Ti abbraccio con affetto libertario,

Gianfranco

78 Bon

18 ottobre 1999
Catania

Carissimo Gianfranco,

ricevo con gioia la tua lettera del 6 ottobre. Ieri ti ho spedito il volume Dissonanze I, primo di una mini-serie di sei volumetti che si concluderà a marzo del prossimo anno. Spero che ti piacerà, se non altro l’idea di mettere insieme una serie di argomenti sui quali, spesso, non si riflette abbastanza.

Mi dispiace apprendere che la tua salute persiste nel non andare bene ma, nello stesso tempo, sono contento di sentirti anche in questa tua del 6, pieno di voglia di combattere. Ho scritto, come ebbi a dirti, a Tobia, ma non ho avuto risposta. Io non possiedo il suo indirizzo ma ho scritto all’Asilo, che se non ricordo male figurava sulla circolare. Speriamo bene.

Concordo pienamente con te sulla costruzione del “provocatore” da parte di certa gente che conosciamo, spesso definito con pia generosità “in buona fede”, mi è toccata in sorte non poche volte, quindi so cosa significa. Abbiamo anche fatto un mensile per diversi anni che per tutta riposta portava il titolo di “ProvocAzione” di cui spero tu abbia avuto in mano qualche numero.

Cerca di stare meglio che puoi, sento che sempre di più molte affinità fra di noi vengono alla luce, affinità che potrebbero essere produttive in modo che nessuno di noi due è in grado di prevedere. Mettiamole alla prova.

Ti abbraccio, amico mio, con affetto,

Alfredo

79 Ber

21 ottobre 1999
Livorno

Carissimo compagno Alfredo, ciao!

ho ricevuto, solo un paio di ore fa, la tua lettera del 18 corr. Confesso che, fino a poco tempo fa, non avrei mai potuto essere tanto ottimista da poter supporre che potesse prendere vita tra noi un dialogo tanto aperto ed autentico che il semplice fatto di ricevere una tua lettera mi arrecasse tanta gioia e mi desse (compatibilmente con le mie condizioni psicofisiche) una ricarica di entusiasmo e (perché no!?) di rinnovata speranza.

Sarò lietissimo di ricevere il volumetto che già mi hai spedito. Tanto più che, come mi anticipi, con questa serie di sei libretti ti riproponi di affrontare e mettere a fuoco tutta una serie di argomenti e di tematiche su cui, spesso, non si riflette a sufficienza.

È appunto questa la concezione che io ho di quello che potrebbe (o dovrebbe!) essere l’impegno “propedeutico” di chi si prefigge di ridare fiato e vita ad un anarchismo che si voglia “attuale” e non si riduca alla mera storiografia “autocelebrativa” (e, talvolta, perfino... censurata).

Da Tobia, che ho sentito pochi giorni fa in una breve telefonata, avevo già saputo che gli avevi scritto e che la tua lettera gli era giunta gradita, anche perché mi nominavi e lui (un po’ come Antonio [Lombardo]) è stato contento di apprendere che si sono instaurati tra noi rapporti di vera amicizia.

Il suo mancato riscontro non è dovuto, quindi, al non aver ricevuto la tua, né tanto meno ad un atteggiamento di chiusura. Credo che, sostanzialmente, le tante cose che lo impegnano (anche sul piano della sopravvivenza quotidiana) lo inducano ad una forma di “pigrizia epistolare”.

Tanto per esemplificare, ti dirò che, durante la telefonata, mi ha detto che * si era mostrato interessato alla storia della mia vicenda del ‘73 e di avergli mandato una copia di quel libretto (Attraversando l’Arcipelago), curato da “Senzapatria” nel lontano 1986, dove sono raccolti alcuni miei “articoli” e lettere.

Mi disse, anche, che avrei fatto bene a scrivere a quel ragazzo. Gli chiesi in quale carcere si trovasse e mi rispose che non era più in carcere ma in una sorta di “comunità”. Però non se ne ricordava l’indirizzo e che lo avrebbe cercato per mandarmelo. Però l’indirizzo non mi è arrivato.

A Tobia scriverò a giorni e, forse, (se troverò i soldi per la scheda o per la “ricarica” del telefonino) gli telefonerò. Quell’indirizzo e, conseguentemente, la possibilità di contattare quel ragazzo, mi interessa. Se lo ottengo lo trasmetto anche a te, perché ritengo che non sarebbe male fargli avere qualcuno dei tuoi libretti.

Il problema di riallacciare vecchi contatti (per esempio, *, e *, di Milano, * di Torino, ecc., ecc.) e di intrecciarne di nuovi con altri compagni, lo ritengo di importanza prioritaria.

Ci sono tantissimi argomenti che vorrei affrontare e sviluppare con te. Il più serio problema è sempre quello delle condizioni di salute e delle difficoltà quotidiane di mera sopravvivenza... “pecuniaria”.

Stamattina mi sono recato in ambulatorio per sottopormi a degli esami ematici. L’esito l’avrò tra due o tre giorni e mercoledì ero stato ad effettuare un altro esame.

Quest’ultimo era per controllare la eventuale (e, ahimé, possibile) presenza del famigerato “virus” dell’AIDS (chissà che soddisfazione per Lanza & C.). Gli altri sono collegati alla situazione “epatica”.

Anche dall’esito di queste analisi dipenderà quello che potrò o meno decidere di fare.

Se le patologie che mi affliggono risulteranno curabili, varrà la pena di tentarlo e di propormi come obiettivo la mia partecipazione attiva alla creazione di un movimento autenticamente libertario. Se, invece, la situazione si presentasse come ormai arrivata ad uno stadio... “terminale”, allora tanto varrà risolvere tutti i problemi con il metodo più “radicale” e definitivo.

Non che io mi illuda che un gesto suicidario possa contribuire a svegliare e a far tornare anarchiche certe persone che ben conosciamo. Solo che, egoisticamente, risolverei per me stesso il dramma di una situazione che si fa, di giorno in giorno, più intollerabile.

Da Alexandre Jacob a C. S. Maura, molti altri compagni sono ricorsi al suicidio per uscire da una situazione diventata intollerabile.

Comunque, oggi come oggi, rimango in attesa di sapere quale siano esattamente le mie condizioni fisiche – se cioè potrò sperare di recuperare quelle forze (fisiche e psicologiche) che permettono di riprendere la lotta o se devo considerare tutto come finito.

Un abbraccio fraterno e di sincero affetto dal tuo compagno,

Gianfranco

P.S. Sì, conoscevo “ProvocAzione” e mi piaceva (anche se in una occasione ebbi una polemica con quei compagni). Mi auguro di vederlo riprendere vita.

Ciao, ancora! Viva l’Anarchia!

Gianfranco

80 Bon

25 ottobre 1999
Catania

Carissimo Gianfranco,

ho fortunosamente la tua del 21 e ti spiego come. Stasera sono passato in casella per l’ultima volta in quanto domattina parto per Londra dove resterò da * due settimane. Non speravo di trovare corrispondenza e invece ce n’era e molta. Meglio così, perché posso subito risponderti.

Ti ringrazio per l’amicizia che mi conservi e spero di poterti restare vicino nelle future battaglie che intraprenderemo, il che significa implicitamente che ti auguro salute e vita. Salvo restando l’imprescindibile diritto di ognuno di noi di decidere lui quando e come smetterla con questa recita. In punto di morte Augusto volle che si registrassero le sue ultime parole: “Acta est”. La commedia è finita, o qualcosa del genere.

Non ho nuove da Torino ma mi sembra che sia come tu dici, in ogni caso fammi sapere l’indirizzo del compagno e spedirò i libretti al più presto.

Spero che le analisi che stai facendo abbiano l’esito che desidera il tuo cuore. Il resto lo dobbiamo ancora scrivere, possibilmente insieme.

Con affetto,

Alfredo

81 Ber

8 novembre 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

qualche giorno fa, stavo accingendomi a scriverti quando ho avuto la tua lettera del 24 ottobre, nella quale mi informavi di essere in partenza per Londra, dove ti saresti trattenuto un paio di settimane. Così ho rinviato nella speranza anche di un ipotetico miglioramento delle mie condizioni psico-fisiche, tale da permettermi di dedicarti, “una tantum”, una lettera decente, prendendo spunto anche dal tuo Dissonanze (che mi è piaciuto moltissimo). Ma i “miglioramenti” purtroppo non arrivano: ho tutti i giorni una certa febbricola, lamento una disperante condizione di astenia e il mio cervello “perde colpi”.

Quando alle “analisi” che ho fatto, posso dirti che quella per l’eventuale presenza degli “anticorpi” specifici dell’AIDS è risultata negativa. Mi hanno però detto che non vuol dire molto e che sarà opportuno rifare lo stesso esame tra tre o quattro mesi.

Relativamente al fegato invece l’esito non è rassicurante e il medico mi ha prescritto una ulteriore serie di esami. Non li ho ancora fatti (penso che mi sottoporrò ad essi domani o dopodomani) perché preso da altri problemi. Si tratta, cosa oltremodo squallida, di una nuova iniziativa del ragionier Lanza che sta dimostrandomi (se ne avessi bisogno) il livello di bassezza cui è arrivato. Certamente sai (la cosa è stata ben pubblicizzata) dell’uscita della sua nuova rivista, denominata “Libertaria”. È roba sua (anche se si definisce espressione del Centro Studi Libertari).

Ha debuttato in modo illuminante. Già nel primo numero contiene una intervista col giudice Salvini e un articolo di un certo Aldo Giannelli (che credo sia un di lui collaboratore).

In entrambi vengo tirato in ballo con insinuazioni pesanti ed infami.

Me ne aveva informato Tobia e la fotocopia dei punti che mi concernono me l’ha mandata Antonio.

Non ho abbastanza forza per riassumerti questi articoli, ma credo che se telefonerai ad Antonio o gli scriverai, te ne farà avere copia.

Francamente sono distrutto e non so più come reagire. Una decisione definitiva la prenderò in relazione all’esito di questi esami clinici.

Se apprenderò che si tratta di una patologia “curabile” cercherò di fare uno sforzo per riprendermi e... dare battaglia (ovviamente col tuo aiuto). Se, invece, le cose sono veramente gravi, chiuderò questa vicenda con l’autoeliminazione.

Sono molto, troppo, stanco e schifato.

Comunque, ti terrò informato di tutto.

Per il momento, non sono in grado di scrivere molto e mi limito a mandarti l’attuale indirizzo di quel ragazzo di Torino al quale riterrei importante che tu mandassi qualche pubblicazione. Dunque, lui non è più in carcere ma in una sorta di “comunità”, agli “arresti domiciliari”.

Chiudo momentaneamente, riservandomi di scriverti più a lungo e di affrontare problematiche ben più importanti dei problemi di... “salute” (anche se, senza quella, è un brutto affare).

Ti abbraccio forte, nella solidarietà e nell’affetto libertario (quanti saremo rimasti a crederci ancora?!).

Ciao!

Gianfranco

82 Bon

22 novembre 1999
Catania

Carissimo Gianfranco,

sono tornato da pochi giorni da Londra e trovo nella posta la tua dell’8 scorso.

Mi dispiace leggere che continui a star male e che questo ti è di ostacolo a cominciare un qualcosa di considerevole che da diverso tempo mi fai capire di avere l’intenzione di fare: fra l’altro mettere a punto la tua distanza dalle merde di quel di Milano. Bisogna raccogliere le forze: anche le mie non sono più quelle di una volta. Non per confrontare i miei con i tuoi malanni ma, sia detto di passata, ho avuto problemi con la pressione (oltre che con un aumento della glicemia) e questo mi ha fatto gonfiare le gambe, ecc., ecc. Non avranno la meglio, non è possibile che la bassezza e l’imbroglio prevalga sulla coerenza rivoluzionaria.

Non ho visto “Libertaria” ma ho letto in copia la lettera che Antonio ha indirizzato alla Redazione. Quindi ho intuito quello che potevano avere scritto in merito al giudice loro amico e a te. Oggi stesso scriverò ad Antonio, dandogli notizia di avere letto la sua missiva e contemporaneamente gli chiederò le fotocopie dell’articolo. Naturalmente i signori della Redazione non mi manderanno una copia omaggio, né io ho intenzione di sottoscrivere un abbonamento.

Tu mi scrivi di sentirti distrutto e di non sapere come reagire: non sono d’accordo, è proprio questo il momento di reagire, ribadendo orgogliosamente la tua posizione, proprio in questo momento, quando cioè questi signori si stanno abbassando fino a sottoscrivere la tesi di un giudice, che bisogna attaccare.

Fatti sentire presto, ti prego, e nelle tue migliori possibili condizioni di salute.

Ti sono vicino. Un abbraccio,

Alfredo

P.S. Ho spedito gli ultimi due opuscoletti a *. A te ho spedito invece due giorni fa Dissonanze II.

83 Ber

3 dicembre 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

la tua lettera del 22 novembre mi è arrivata solo ieri. Ti rispondo, come vedi, con la maggiore tempestività possibile. Voglio subito confermarti di aver ricevuto il secondo volume di Dissonanze. L’ho letto con entusiasmo e ti riconfermo la mia intenzione di rileggere assieme tutti i volumetti di Dissonanze, convinto come sono che si tratti di un’opera di grande significato e portata.

Antonio, che ho sentito telefonicamente, mi ha assicurato che ti avrebbe inviato, in fotocopia, i due articoli di “Libertaria” che mi concernono. Ne sono contento, anche perché aveva chiesto a me di mandarteli. Purtroppo, avevo dato in lettura a due amici (tra cui *) sia le fotocopie che lui mi aveva mandato, sia la copia integrale di quel numero speditomi da quei “... signori”.

Ti confesso di non aver capito bene le motivazioni per cui me l’hanno spedita e mi ci sto ancora interrogando.

Dunque: potrebbe trattarsi di una forma di “correttezza”? Boh! Ne dubito molto. O, forse, di un espediente per riallacciare un dialogo? Dopo che mi hanno sbattuto in faccia il telefono, mi sembra improbabile.

Sono arrivato (e, credimi, con dolore) a considerare tutti loro dei “fetidi” e degli “infami”. Posso quindi anche ipotizzare che si proponessero di spingermi a scrivere per ribattere alle accuse, al solo fine di cogliere l’occasione per una “controreplica” ancora più calunniosa ed infamante. Me lo fa supporre il fatto che a te, per esempio, non l’hanno mandata in visione. Secondo una prassi abbastanza consuetudinaria, una nuova pubblicazione viene inviata a tutti coloro che (perché editori di altre pubblicazioni o, comunque, appartenenti ad una stessa area) possono essere interessati a conoscerla.

Evidentemente, sei considerato uno “scomunicato” e, visto che lo sono anch’io, se a me l’hanno mandata, ci deve essere sotto un intento provocatorio.

Certo, un Massimo D’Alema non mi è simpatico. Devo però dargli atto di avere avuto l’onestà di “cambiare etichetta” e di non spacciarsi più per “comunista”. E allora, perché non hanno come lui e smettono una buona volta di spacciarsi per “anarchici”? Diciamolo chiaramente: neppure io sono immune da contraddizioni e da comportamenti discutibili. Proprio ieri sera mi è capitato tra le mani il volumetto (pubblicato nel 1986 da Piero Tognoli) che raccoglie alcuni miei scritti. Beh, nel 1979 ho scritto e pubblicato su “A” due articoletti che si riallacciavano alla polemica tra te e Bertolo in merito alla pubblicazione di un libro su Henry. In quella occasione non mi sono risparmiato nello scadere in argomentazioni sofistiche pur di polemizzare contro di te. La mia è stata una vigliaccata, a distanza di tanti anni non posso che chiedertene scusa. Sai, allora e per tanto tempo, ti detestavo e, di conseguenza, sono stato scorretto.

Solo anni dopo (in occasione dell’episodio di Bergamo) mi sono reso conto che eri un uomo ben diverso di come pensavo (e mi avevano spinto a pensare), ho capito che eri un compagno che meritava la stima e la incondizionata solidarietà di tutti gli anarchici.

Mi ci è voluto, invece, ancora molto prima di arrivare a “svegliarmi” da certe illusioni e rendermi conto di quanta bassezza, vigliaccheria ed ipocrisia si celassero dietro il paravento della “cultura” di certi ciarlatani vigliacchi, arrivati solo oggi a mostrare la loro vera faccia.

Venendo ad altro, credo che Antonio ti abbia già informato della mia ultima (o più recente) disavventura.

Mi sono visto citato a comparire davanti alla “Corte di Assise” di Milano in qualità di “imputato di reato connesso” nel processo contro i neonazisti veneti (Maggi, Boffelli, ecc., ecc.). Tra il pubblico nessuno dei signori della “banda Lanza”. Il che dimostra il loro assoluto disinteresse a cercare di capire. A loro basta sentire il Salvini!! Comunque, con me era venuto Antonio. Non sapevo cosa decidere: se cioè rispondere o rifiutarmi. Poi ho capito che se accettavo l’interrogatorio non sarebbe finita più. Soldi per restare a Milano giorni e giorni non ne avevo e poi alla fin fine, che interesse posso avere a dialogare con dei giudici? Ribadire il mio anarchismo e smentire i miei legami con la “destra”? Forse, ma sono forse i magistrati i miei potenziali interlocutori? No, Alfredo. Proprio no!! A me interessa la tua di opinione, quella di Antonio, quella dei pochi compagni onesti che ancora ci sono. Non quella dei giudici, del buffone Salvini o delle carogne vigliacche come un Luciano Lanza & Co.

Spero di riprendermi fisicamente (e che ti riprenda anche tu) e allora lotteremo.

Con tutto ciò che ci resta di forze, con quelle che sapremo ritrovare e con tutti i mezzi di cui potremo e vorremo disporre.

Ciao, Alfredo, ti voglio bene e ti sento fratello. Viva l’Anarchia e che crepino gli sbirri e gli infami (anche se si spacciano per “anarchici” – ma quando?!).

Un abbraccio libertario e ribelle,

Gianfranco

84 Ber

9 dicembre 1999
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

tra due o tre giorni ti arriverà, all’indirizzo della “Libreria”, un piccolo versamento (di lire 50.000) sul c/c postale. Lo so perché sono andato all’ufficio postale io stesso stamattina, per incarico di Franco, che è il titolare della trattoria dove vado a mangiare (gratis!) e mi serve da recapito epistolare. Come somma detta cifra è ben poca cosa, diventa significativa perché è la dimostrazione di una volontà, da parte di Franco, di esprimere solidarietà e di dirci che è dalla nostra parte. Insomma, se non proprio un compagno condividente del tutto le nostre idee, una persona che si sente vicina e compartecipe.

Nella mia condizione, che è quella di un individuo emarginato e che i “santi padri” dell’anarchismo (?!) milanese hanno non solo “scaricato” ma infangato e insozzato di calunnie (anche se velate e ipocrite) è importante ricostruire una, seppur modesta, rete di solidarietà. “Conditio sine qua non” per poter sperare di impegnarmi con un minimo di efficacia.

Quello che è importante è il fatto che non sono stato io a sollecitarlo a mandare qualcosa, è stato, invece, proprio lui a chiedermi di dargli un modulo di c/c postale intestato alle tue edizioni.

Si tratta di una persona che, in àmbito locale, gode di una buona considerazione da parte di tutta l’area della cosiddetta “sinistra” e potrebbe diventare (proprio per la sua attività di gestore di un locale pubblico) un punto di riferimento nel quadro di un progetto di rinascita del movimento libertario. In teoria nella zona vi sarebbero buone prospettive.

Beh, quello di cui vorrei pregarti è di cogliere l’occasione di questo invio di denaro per allacciare un dialogo diretto. Ecco, ti proporrei (se sei d’accordo) di mandargli due righe (l’indirizzo è lo stesso che usi per scrivere a me). Oltre a due parole di ringraziamento, sarebbe bene mandargli un catalogo editoriale e, cosa importante, che tu lo ringraziassi per l’aiuto che ha dato e continuerà a dare a me, con riferimento alla solidarietà libertaria ed alle difficoltà e problemi che ho dovuto e devo affrontare.

Venendo ad altro, so che Antonio ti ha spedito la fotocopia dei due “pezzi” di “Libertaria” dove vengo preso di mira. Io avevo una copia di quella pubblicazione, l’ho data in visione ad un amico e non sono ancora riuscito a tornarne in possesso per mandartela. Appena ce l’ho te la spedisco.

Avrai letto, penso (quella, almeno, credo che te la manderanno) il numero del 5 dicembre di “Umanità Nova”. Ci ricompare [Lanza] (e pensare che un tempo la snobbava perché non gli sembrava abbastanza... intellettuale!).

Argomento? Sempre il solito: Piazza Fontana, ecc., ecc. Stavolta, bontà sua, non mi tira in ballo. Quello che non manca (come potrebbe?) è un riferimento al giudice Salvini, di cui sembra che il caro “ragioniere” sia proprio “innamorato”.

Enfatizzare, “divinizzare” quasi quel ciarlatano vuol dire implicitamente calunniare me. Perché è proprio sullo squallido assunto secondo cui io farei parte di quelle trame che si regge la montatura (anche se, in questo caso, le vittime predestinate sono dei personaggi squallidi, tutta la storia mi appare come una grottesca pagliacciata).

Mi spiego: se ad accusare quei tizi sono quegli stessi “pentiti” che hanno la faccia tosta di tirare in ballo me, allora io, che so bene di non averci mai avuto niente a che fare, posso legittimamente pensare che non c’entrino neppure nelle altre storie di cui vengono accusati.

Come ti ho scritto in precedenza, ero stato convocato davanti alla Corte di Assise di Milano in qualità di... “imputato di reato connesso”.

Era venuto con me Antonio. È stata la volta che ho visto di persona il mio presunto “mandante”, dott. Maggi, beh si è avvicinato e mi ha chiesto se ero Bertoli! Gli ho detto di sì e lui mi fa: “Io sono Maggi” e io “Beh, che me ne frega”. Mi dice che è la prima volta che mi vede e io gli dico che, se è per questo, neppure io l’ho mai visto.

Mi ha teso la mano dicendo: “piacere”. Io ho rifiutato di dargliela e gli ho detto: “per me non è un piacere”.

Secondo Antonio ho fatto bene. Comunque, dalle 9 di mattina, mi hanno fatto entrare alle 4 e mezzo, e allora gli ho detto che di questo processo non m’importa niente e chiedo di “avvalermi della facoltà di non rispondere”. Infatti, confrontarmi col tribunale non ha per me alcun interesse. E poi, se si cominciava non si finiva più. Io di soldi per restare giorni e giorni a Milano non ne avevo, così sono tornato a Livorno.

Certo, di spiegarmi con loro non mi interessa. Con te, invece, sì. Se ci proponiamo di lavorare assieme sarà necessario che tutto sia chiaro.

Quindi, la mia proposta è questa: nel tempo di uno o due mesi, ponimi tutte le domande (anche le più indiscrete) che ritieni utili a chiarire l’intera mia vicenda.

Quando non ci saranno più incertezze né spazio a dubbi di nessun genere, ci impegneremo assieme. Sono certo che siamo ancora in grado di farcela.

Un’altra proposta: se tu ti impegni a non lasciarti andare e a curarti nel migliore dei modi dei tuoi “acciacchi” (glicemia, gonfiori, ecc., ecc.) io mi impegno a rimettermi in piedi (non bere, mandare a fare in culo la droga e il metadone, ecc., ecc.).

Dobbiamo (perché le precondizioni ci sono e la necessità ancora di più) ricostruire il movimento anarchico che oggi non c’è più. Dobbiamo (visto che loro non hanno limitato gli sforzi per emarginarci entrambi) arrivare a far chiarezza e ad emarginare quei buffoni di “anarco-giuristi” e, ne sono certo, ce la possiamo fare.

Ciao! Un forte abbraccio,

Gianfranco

85 Bon

14 dicembre 1999
Catania

Carissimo Gianfranco,

di ritorno da un piccolo giro trovo le tue lettere del 3 e del 9 alle quali rispondo subito scusandomi per il ritardo. Domattina parto per Roma, dove sono stato chiamato dai detenuti di Rebibbia per partecipare a un incontro/dibattito che si terrà in carcere sul tema delle lotte e delle riforme. Ho di già preparato una relazione che ho spedito loro, ma il mio intervento sarà a braccio, quindi parlando a nome dei detenuti (io faccio parte della Biblioteca del carcere che si chiama “Papillon” in qualità di ex-detenuto), avrò modo di attaccare gente del tipo Leoni, Grosso, politici e professori di ogni genere.

Questo domani pomeriggio. Il 17 invece sarò sempre a Roma dove il PM del nostro processo (Marini) mi interrogherà cercando di attaccare la mia dichiarazione (Autodifesa) al processo, da me rilasciata due settimane addietro.

La tua lettera del 3 mi ha entusiasmato. Lieto per l’ottima impressione che stanno facendoti le Dissonanze, lieto però più di tutto di trovare un tono combattivo in tutta la lettera. Mettiamoci al lavoro, amico mio, e che i tanti calunniatori finalmente abbiano la retribuzione che meritano.

Mi dici di ricordare i tuoi interventi del 1979, quando non ci conoscevamo come ci conosciamo adesso: non pensiamoci più, anch’io mi sono comportato male nei tuoi confronti. Ma adesso è un’altra faccenda, il futuro può riservarci tante cose da fare assieme.

La mia salute si barcamena (non voglio tediartene): adesso mi hanno trovato una cisti nell’omero sinistro (enorme, tanto da avere scavato quasi l’intero osso), aspetto che mi dicano di cosa si tratta, da parte mia avverto un dolore fastidioso e, tenendo conto che l’altra spalla me l’hanno rotta nell’arresto di Bergamo, la situazione è poco simpatica. Ma, andiamo avanti.

Scrivo subito a Franco per ringraziarlo del versamento, per il sostegno che dà in questo modo alle nostre edizioni e per quello che fa per te da tanto tempo. Invio naturalmente anche il catalogo, magari a parte, specificandolo nella lettera.

Mi farebbe piacere avere in visione la rivista dei nostri amici di Milano in quanto ci deve essere un articolo sul Manifesto dei Sedici che mi interessa per il mio lavoro complessivo su Kropotkin, di là da venire, ma sempre in cantiere.

No, non mi mandano nemmeno “Umanità Nova”, quindi non l’ho vista.

Vengo adesso alla cosa più importante contenuta nelle due tue lettere. Tu mi dici: “nel tempo di uno o due mesi ponimi tutte le domande (anche le più indiscrete) che ritieni utili a chiarire…”. Ecco, io non sono d’accordo con te su questo punto. Non mi va di porti delle domande (che per altro non saprei nemmeno formulare), viceversa, nell’ottica di un lavoro comune, sempre sull’argomento in questione, che sta a cuore a te e quindi anche a me, io penso sia più corretto che sia tu a parlare liberamente di quello che ritieni importante e necessario allo scopo di approfondire quello che riterrai indispensabile approfondire. Io potrò intervenire solo alla fine, se qualcosa, a mio giudizio, mi risultasse poco chiaro o incomprensibile, quindi non con domande ma con richieste di ulteriori approfondimenti sulla base, e dentro i limiti, da te scelti e indicati nel momento stesso che sarai tu a scegliere gli argomenti, lo svolgimento degli stessi, il modo di esporli, e tutto il resto.

Io penso però che delle tante cose di te di già scritte tu debba fare tesoro mentale adesso e riprenderle magari in uno schema logico progressivo, affidandole non tanto a una serie di lettere (cosa che dentro certi limiti hai di già fatto) ma a uno scritto vero e proprio, sia pure sotto forma di scaletta.

Comincia subito, se sei d’accordo, e dopo fammi sapere a che punto sei arrivato. Per esempio, comincia a fissare un ordine cronologico dei punti che vuoi approfondire, in breve, senza grandi pretese, poi la forma letteraria adeguata e la vis polemica verranno dopo.

Scrivimi al più presto. Un abbraccio con affetto,

Alfredo

86 Ber

2 gennaio 2000
Livorno

Alfredo carissimo ciao!

questa è la mia lettera di questo nuovo anno e, di conseguenza, la prima del nuovo “millennio”. È convenzione comunemente accettata (anche se non molto sensata) lo scambiare degli “auguri”. Il mio, che faccio a te e contemporaneamente a me stesso, è quello che il nuovo secolo sia quello dell’affermarsi della volontà di rivolta e della realizzazione della società libertaria. Augurio probabilmente infarcito di “utopismo” e di un pizzico di “retorica”. Ma, per dirla col [Ludwig] Wittgenstein del Tractatus, “tutto il pensabile è possibile”. Da parte sua Bertrand Russell (in Socialismo, Anarchismo, sindacalismo diceva di ritenere l’ipotesi di una società anarchica come “possibile”, anche se “sommamente improponibile”. Beh, io credo che il fine che debbono e possono proporsi gli anarchici sia quello di operare per rendere progressivamente sempre più probabile una tale possibilità.

Già da diversi giorni sono arrivate contemporaneamente a me e a Franco *, le tue due lettere.

L’essere stato da te informato di tanti impegni che avevi a Roma congiunto alla mia pigrizia e alla coincidenza con le giornate “festaiole”, mi ha spinto a rimandare di risponderti.

Comunque ho provveduto subito a spedirti (come “stampe raccomandate”) la copia di “Libertaria” che ero appena riuscito a recuperare.

In effetti vi è il testo del famoso (o famigerato) Manifesto dei Sedici che fino ad allora non avevo mai avuto modo di visionare nella sua stesura originale e completa.

Uno dei vantaggi del “ragioniere” e dei suoi amici consiste proprio nella possibilità di avere accesso ad ogni genere di biblioteche ed archivi. In un periodo come questo, quando le uniche “attività di movimento” (in mancanza di ogni altra forma di progettualità e di “militanza”) si riducono alla ricerca storica (spesso in chiave meramente intellettualistica e asettica) ciò costituisce un grosso vantaggio sul piano editoriale.

Ho saputo da * di Brescia, che il “ragioniere” è stato anche là per una conferenza di presentazione della sua nuova rivista.

Arriveremo a farne una anche noi? Da parte sua Franco mi ha assicurato che, nel caso fosse la volontà tua di tenere una conferenza a Livorno e non potessimo ottenere altri spazi, lui ci concederebbe l’uso della sala della sua trattoria. Chi sa che non possa essere utile.

Venendo ad altro, ti confesso la mia seria preoccupazione per le notizie che mi dai della tua salute. Ti prego di tenermi informato. Da parte mia è il solito cruccio, voglio dire che gli acciacchi persistono. Eppure, né io né te possiamo permetterci di essere malati. La vita è breve, io sono già vecchio e neppure tu sei più un giovincello. Il da farsi sarebbe molto. Come vedi, da qualche tempo ho dovuto rinunciare alla “macchina da scrivere”. Quella che possiedo la dovrò far rivedere ed aggiustare ed oggi come oggi non ho neppure la possibilità economica di cambiare il nastro che è diventato inservibile. Comunque, c’è sempre Franco che mi potrà aiutare. La cosa più grave è lo stato psico-fisico in cui verso e che non mi permette di impegnarmi seriamente con concentrazione e costanza. In questo periodo finale del 1999 mi sono un po’ lasciato andare con l’alcol e altri... “vizietti”. Con la prevedibile conseguenza in un uomo della mia età e col fegato ammalato.

Beh, cercherò di “voltare pagina”. Non posso, non voglio darla vinta al “ragioniere”, al “rabbino travestito” e agli altri loro amichetti che credono nella “via giudiziaria” per la... rivoluzione libertaria.

Quando, dopo il fallimento del tentativo suicidario del 18 giugno 1997, i tre giorni di “sala rianimazione”, gli altri dieci di degenza nel reparto medicina (complicazioni broncopolmonari) mi hanno riportato in carcere, è venuto ad interrogarmi un PM, voleva sapere da me, in primo luogo chi mi aveva fornito la droga usata per tentare di uccidermi e poi se qualcuno mi aveva “istigato”...! La mia risposta al primo quesito è stata quella di dire che mi rifiutavo assolutamente di fare il nome della persona che mi aveva venduto l’eroina, perché fare la spia non rientrava nella mia mentalità. Quanto all’ “istigatore” risposi che era senz’altro quel magistrato di Milano che da un quarto di secolo continuava a calunniarmi inventando sempre nuove menzogne.

La prima risposta era sincera, la seconda lo era solo parzialmente. In effetti, può spingere ad ucciderci il comportamento ostile di persone verso le quali si nutriva fiducia e stima, non la perfidia sadica di un mestierante della persecuzione inquisitoriale.

Il mio gesto voleva essere, soprattutto, un messaggio a quei creduti “compagni” di Milano che in quella occasione mostrarono di abbandonarmi completamente.

Più tardi, l’assoluta mancanza di reazioni e più ancora l’aver avuto modo di leggere il libercolo del “ragioniere” e lo scambio epistolare con lui e col “professore botanico” (oltre a quello col “rabbino” che mise giù il telefono quando lo contattai) mi hanno fatto comprendere che con quelle persone non c’è alcun senso a cercare di toccare la loro sensibilità. Di “anarchico” in loro non è rimasto più nulla. Non c’è possibilità di dialogo, si può (oserei dire che si deve) soltanto combatterli e smascherare la loro ipocrisia e il loro essere diventati dei “lacchè” del potere.

Ti saluto con tanto affetto fraterno e libertario,

Gianfranco

P. S. Quando ne avrai il tempo e la voglia fammi sapere come è andata la “conversazione” col famigerato costruttore di “teoremi” deliranti.

87 Bon

9 gennaio 2000
Catania

Caro Gianfranco,

ho la tua del 2 gennaio e ti ringrazio. La mia salute non so bene come stia in quanto devo fare una TAC a Palermo nei prossimi giorni per un tumore che si è sviluppato nell’osso della spalla che, a quel che sembra dalla stratigrafia ha aspetto benigno. Dopo mi dovrò operare, ma credo che si tratti di faccenda da fare tra un paio di mesi. Il fastidio (dolore) non è acuto quindi non mi posso lamentare: mi dicono che si tratta di operazione semplice (il risultato dipende poi dal caso: vedremo).

Ho avuto la rivista “Libertaria” e ti ringrazio: dimmi se te la devo restituire, in questo caso faccio le fotocopie dell’articolo sul Manifesto dei sedici, avendo di già le fotocopie degli articoli che ti concernono, inviatemi gentilmente da Antonio.

Spero che la tua salute vada meglio e spero anche che ci si indirizzi al più presto, noi due, verso la redazione di quei tuoi appunti che sarebbe importantissimo fare uscire. Torno sull’argomento perché penso che sia veramente una cosa importante.

Fatti sentire in merito a quest’ultimo punto.

Riguardo i miei movimenti: sono un po’ complicati. Non appena saputo qualcosa da Palermo per le analisi (le feste hanno ritardato tutto), salirò a Trieste da una delle mie compagne e poi penso, insieme ad altre due mie compagne di venire a Firenze per questa conferenza che dovrebbero organizzare i compagni di quella città presso l’Università. Il tema dovrebbe essere sulle lotte in carcere in questo momento: possibilità di realizzazione e di sviluppo. Si tratta di una iniziativa che io vorrei collegare con il dibattito (rinviato) che si dovrebbe tenere nel carcere di Rebibbia fra circa un mese in cui parlerò a nome dei detenuti confrontandomi con i relatori della commissione giustizia sulla riforma del Codice penale. In questo momento sono molto impegnato su questo fronte facendo parte (come ex-detenuto) della Biblitoeca del carcere di Rebibbia (Papillon).

Trovandomi a Firenze potrei venire anche a Livorno (conferenza o meno). Nel caso tu abbia la possibilità di organizzare un incontro, o una conferenza mia a Livorno, per me va bene, e va ancora meglio l’occasione per conoscerti personalmente. L’argomento vedi tu di suggerire qualcosa, anche in relazione a possibili interessi che si possono acuire in una città come quella in cui risiedi e che io non vedo ormai da diversi anni. Fammi sapere qualcosa in merito.

Gli altri miei spostamenti dovrebbero essere verso la Sardegna e verso la Grecia, ma ciò nella prima quindicina di febbraio (salute permettendo).

L’interrogatorio di Marini (successivo alla mia dichiarazione, questa durata circa tre ore), a detta degli avvocati e di alcuni compagni presenti, è andato benissimo. Marini si è trovato in difficoltà parecchie volte per delle stupidaggini che aveva fatto nelle indagini (errori palesi, contraddizioni, superficialità, ecc.). Pensiamo qui di dedicare uno dei prossimi libretti a questa mia “Autodifesa”, pubblicando quindi sia la Dichiarazione che l’Interrogatorio.

Adesso spetterà al mio avvocato, Paolo Venturino, che mi segue da più di trent’anni. Occorre però stargli vicino, vista la situazione a dir poco caotica che si è venuta a determinare all’interno del movimento. Ti allego alcune indicazioni di metodo che ho scritto proprio per lui.

Un abbraccio e spero di leggerti presto,

Alfredo

Allegato: Note per la difesa al processo Marini

Sequestri. In particolare nel fare riferimento al problema dei sequestri di persona, discorso che entra solo in modo marginale nella posizione degli imputati sotto il tuo patrocinio, bisogna evitare di continuare a sostenere la tesi che io stesso ho esposta nella Introduzione al libretto: Con ogni mezzo necessario, che porta il titolo: Montatura. Qui dicevo testualmente: «… gli anarchici sono contro il potere, qualsiasi carcere, anche quello che i sequestratori infliggono ai sequestrati in attesa che si decidano a pagare le somme richieste per il riscatto. Chiudere a chiave un uomo è pratica avvilente». (Vedi p. 2).

Ecco, questa frase aveva di già in se stessa un piccolo vizio tipografico: la parola “potere” andava sostituita con “carcere”, per rendere il senso giusto all’intera frase. Ma, anche sistemando questo aspetto, resta il fatto innegabile che io mi arrogavo la pretesa di parlare a nome “degli anarchici”, quindi di tutti gli anarchici, cosa che non solo era (ed è) errata, ma che ingenera equivoci. Il fatto che io sia contro la pratica dei sequestri, allo stato attuale delle cose, non ha nemmeno più importanza, in quando bisognerebbe dire che “alcuni” anarchici sono contro i sequestri, il che comporterebbe il fatto di affermare implicitamente che altri sono favorevoli, ecc.

Per ovviare a tutto questo, evitare ogni genere di affermazione che riguarda la condivisibilità o meno di questa pratica. Non spetta quindi a noi, né a te in quanto avvocato difensore di imputati che bene o male affrontano insieme un processo, esprimere idee teoriche sull’argomento, né tanto meno giudizi di ordine morale.

L’errore da me commesso ci costringe adesso a prendere questa posizione che si può riassumere in due parole: nessuna dichiarazione di merito sul problema dei sequestri.

Riguardo le dichiarazioni di fatto, queste concernono prove o altre faccende testimoniali e tutto il resto che per il momento sembra non riguardino imputati da te difesi.

Nel caso dovesse emergere un’imputazione del genere o un riferimento in qualche modo connesso con questo tipo di imputazione evitare ogni dichiarazione morale o genericamente attribuibile a una condanna che gli anarchici esprimono riguardo questo reato. Insomma, evitare di ripetere l’errore fatto da me e ribadito da te all’udienza del 1 dicembre 1997.

La collaborante. Il taglio morale nei riguardi della collaborante (assolutamente non chiamarla “pentita”) non può essere mantenuto come è stato impostato finora.

Riferimenti al suo mestiere di “entreteneuse”, al fatto che lei non poteva non essere che una drogata e che era nell’ordine naturale delle cose che in quell’ambiente di lavoro finisse per fare la puttana, da cui il suo venirsi a trovare in condizioni di commettere reati legati alla professione di prostituta e alla droga e quindi utilizzo suo da parte dei carabinieri, non possono continuare.

Nel mio libretto Fatte le dovute eccezioni, che tu hai letto, a p. 7 si trova un paragrafo col titolo: “Una ragazzina”, in cui è impostato un altro modo di condurre la valutazione morale e personale di questa persona. Si fa riferimento al fatto di una povera ragazza debole, trascinata nel fango di scelte imposte dai carabinieri. Insomma io dico: «Non riesco a non vederla se non come una povera disgraziata che gente senza scrupoli ha tirato in un ballo troppo pericoloso, segnandone definitivamente la vita».

Il definirla “puttana e drogata” tocca la sensibilità degli anarchici che sono molti vicini sia alle puttane che ai cosiddetti drogati. Va bene che si tratta di un linguaggio impiegato per fare colpo sui giurati, ma non è ammissibile per noi, quindi bisogna stornare subito la valutazione e insistere sui temi della povera disgraziata, della debole di spirito e di corpo, del criminale suggerimento del carabiniere (e dei carabinieri) che l’hanno imbrogliata, della scelta di morte e di isolamento che ha fatto, della sua totale estraneità al movimento anarchico, oltre, e questo è argomento strettamente tecnico, alle sue contraddizioni nelle dichiarazioni rese.

Vincere o perdere. Capisco che per un avvocato sentire che un processo “può essere vinto” è cosa importante, e questo processo sembra che si avvii verso un esito diciamo “favorevole”.

Se non altro risultati favorevoli ci sono stati a livello della scarcerazione dei compagni.

Ma non dobbiamo perdere di vista che per noi è importante che il rapporto con coloro che ci stanno processando venga mantenuto dentro limiti di assoluta estraneità e lontananza. Nessun segno di accondiscendenza da parte nostra, nemmeno a livello formale.

La massima durezza deve essere quindi mantenuta nelle dichiarazioni e anche la massima correttezza. Non dare mai la sensazione che si stia per parteggiare per la Corte contro la Pubblica accusa per il motivo che la Corte appare, allo stato delle cose, “favorevole”. Non dare l’impressione di essersi resi conto che la Corte potrebbe avere al suo interno due tendenze, una favorevole e una ancora più favorevole (giudice a latere?).

Spesso un processo dove ci sono degli anarchici non si vince anche quando si viene assolti e si vince anche quando si è condannati. Ognuno ha una sua visione di ciò che considera “vittoria” o “sconfitta”.

Professore. Evitare di dire “Professore Bonanno”, definirmi in altro modo: per esempio l’imputato Bonanno, che in un processo a mio avviso è titolo molto più significativo.

Solo aspetti concreti. Limitarsi solo agli aspetti concreti dell’imputazione: per me parlare soltanto della rapina. Evitare argomenti di natura generale o politica, del genere: “Chi sono gli anarchici?”.

[Alfredo M. Bonanno]

88 Ber

5 gennaio 2000
Livorno

Carissimo Alfredo, un forte abbraccio e un cordialissimo ciao!

ritengo molto probabile (considerando, anche, la simpatia con cui si riferivano a te i giovani compagni torinesi, quando ebbi, anni fa, occasione di conoscerne alcuni durante un “permesso”) che tu riceva regolarmente “Tutto Squat”, modesto giornaletto frutto dell’impegno di quei ragazzi.

Tuttavia, non è che “brillino” sotto il profilo “organizzativo” (l’ho sfogliato tutto senza trovare neppure l’indicazione di un indirizzo a cui inviare una richiesta di abbonamento ed un minuscolo “versamento contributivo”).

A me detto giornale è arrivato perché me lo ha spedito * che aveva pubblicato un suo articolo che mi concerneva. Di quell’articolo ho fatto una dozzina di fotocopie (che ho affisso un po’ qui e un po’ là, specialmente all’interno delle cabine telefoniche).

Supponendo che è possibile che detto giornale non ti sia arrivato, ti mando in visione una di tali fotocopie che ritengo interessante.

In particolare, mi pare non disprezzabile la frase finale dove si dice testualmente: “Difendere le persone di Gianfranco Bertoli e Silvano Pellissero non è solo un dovere di solidarietà, significa ridare dignità all’anarchismo, riportarlo nel giusto posto che gli compete: il terreno della rivolta contro ogni potere e contro ogni istituzione”. [Vedere prima alle pp. 312-316].

Potrei, potremmo, non essere d’accordo?!

Alfredo, come vedi non siamo proprio soli, ci sono ancora dei compagni che hanno le idee chiare.

È su questi, per pochi che siano (e che siamo), su cui bisogna sperare.

*, per anni, è stato vicino ad “A-rivista” ed alla loro linea. Ora ne ha le palle piene e, come vedi, non si fa scrupolo di attaccarli.

Per loro, per il ragioniere fetido, il rabbino mascherato e il botanico alcolizzato, essere anarchici significa dedicarsi allo studio storiografico di una cosa passata e morta.

Non disprezzo la “cultura”, ma in se stessa non vuole dire niente.

Un certo Pier Carlo Masini è stato un grande “storico” del pensiero e dell’azione anarchica. Ma è finito socialdemocratico. O, forse, che io per essermi interessato di studi intorno all’ebraismo ed alla Bibbia, sono da considerare un “religioso”? Ero prima e sono rimasto ateo.

Così come ero e sono rimasto un anarchico. Nonostante i giudici e i loro “tirapiedi” (per esempio, Luciano Lanza) vogliano e si sforzino di farmi passare per fascista.

Vedi, io non nutro alcun rancore nei confronti di chi, privo di informazioni dettagliate e precise può essere caduto, in perfetta buonafede, nella trappola massmediatica. Non così, però, di fronte a certi tizi che sapevano tutto fin nei minimi particolari.

Io, secondo l’infame Salvini ed il Lombardi, sarei stato aiutato ad espatriare da elementi fascisti.

Come mai allora un altro “confidente” (ben prima della morte del Calabresi) disse allo stesso [Lombardi] che a fornirmi di documenti e indirizzi furono l’Amedeo Bertolo, Umberto Del Grande (allora di Croce Nera Anarchica) e Aldo Bonomi (di Lotta Continua)?

Tutto questo Lanza lo sapeva bene e allora perché presta fede alle ricostruzioni sommamente infamanti di un personaggio ambiguo come il Salvini?

Ne riparleremo. Perché la squallida manovra di distorsione dell’immagine in rapporto al reale che venne inaugurata contro di me, è solo un inizio ed un “esperimento”. Ora la stessa la mettono in atto contro *. Hanno visto che funziona e da ora in avanti ogni atto di ribellione verrà tacciato di provocazione e... “fascista”.

A questo sono serviti i fascistelli cretini e creduloni che il potere ha utilizzato.

La “mitomania” di certi tizi (Digilio, Vinciguerra, ecc.) è stata la maggior arma del potere per castrare in partenza ogni rivolta.

Ciao! Un abbraccio fraterno,

Gianfranco

89 Bon

16 gennaio 2000
Catania

Carissimo Gianfranco,

ho la tua del 5 scorso e ti ringrazio per la lettera e per l’allegato. Infatti non ricevo il giornale in questione (né ho avuto risposta alla mia lettera a Tobia, inviata in data che di già ti dissi).

No, non posso non essere d’accordo con la tesi della solidarietà anarchica e rivoluzionaria, per quanto occorrerebbe andare al di là, discorso molto complesso che qualche volta ti ho di già accennato. Andare oltre significa fissare non solo dichiarazioni di principio ma anche concetti operativi, e ciò – almeno in questo momento – è proprio la carenza di tutto il movimento anarchico, non solo di un compagno o dell’altro. Ma, per avere un progetto, sia pure di minima, occorrerebbe mettersi tutti in prima persona nel progetto stesso, coinvolgersi senza residui, ecc. Mi accorgo che, qua e là, questo principio essenziale che uomini come te hanno messo prima della propria stessa vita, non è molto diffuso (spesso è incomprensibile), ognuno cerca sempre di ricavarsi una piccola nicchia di sopravvivenza e da questa guardare il mondo, sia pure con la migliore buona volontà possibile. Ma questi discorsi dispiacciono a molte orecchie, e perciò non accetto, quasi più, di andarmene in giro per conferenze o comizi, ma questo è un altro problema.

Lunedì partirò per un giro un po’ lungo e penso di tornare qui a Catania verso la metà di febbraio. Comunque riceverò la corrispondenza qui pervenuta ai primi di febbraio quando sarò a Firenze per la conferenza di cui ti ho di già accennato. Questa dovrebbe essere fissata per il 2 di febbraio alla Facoltà di filosofia dell’Università di quella città, comunque ti preciserò meglio magari telefonandoti fra qualche giorno. Ci si potrebbe incontrare a Firenze o a Livorno e qui, il giorno prima o il giorno dopo, cioè l’1 o il 3 organizzare qualcosa. Che ne pensi? Comunque nell’ultima settimana di questo mese ti sentirò per telefono alla Trattoria.

Un abbraccio con affetto,

Alfredo

90 Bon

29 febbraio 2000
Catania

Carissimo Gianfranco,

sono di passaggio da Catania (arrivato due giorni fa) e in procinto di partire.

Ho telefonato a Franco chiedendo tue notizie, anche perché pensavo, sulle prime, di venire a Livorno da Firenze, ho saputo del tuo ricovero in ospedale e dei tuoi problemi, che adesso trovo riconfermati qui da una cara lettera di Antonio.

Mi è dispiaciuto molto per le tue condizioni e anche perché non ti ho potuto incontrare e così, finalmente, conoscerti di persona.

Sarà per un’altra volta.

Scrivimi presto.

Ti abbraccio e ti prego di abbracciare per me Franco,

Alfredo

91 Ber

6 marzo 2000
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

la tua, seppur breve, pur sempre graditissima lettera del 29 febbraio, mi è arrivata già da tre o quattro giorni. Mi scuso per il ritardo del mio riscontro. Anche se è pur sempre meno consistente di quello con cui ti do atto di avere ricevuto altre due tue lettere (una risale addirittura al 9 gennaio).

Peraltro, so che Franco ti ha fatto edotto di quello che mi è capitato.

Un “soggiorno” ospedaliero del quale avrei volentieri fatto a meno. Anche perché mi hanno “dimesso” quando ero ancora ben lontano dal poter essere definito “guarito”.

A quelle due lettere non ho dato risposta perché in ospedale, non avevo con me né penna, né soldi, né carta, buste e francobolli.

Comunque, Franco mi aveva detto che c’erano molte probabilità che tu venissi a Livorno. Mi avevi fatto cenno a questa evenienza anche nella tua lettera ed io ho “forzato” le cose per venire “dimesso” anzi tempo proprio sperando di vederti.

Non mi hai fatto sapere niente circa la tua salute. Della mia è meglio non parlare. Ho fondate ragioni per temere di dover sottostare ad un ulteriore ricovero.

Speriamo bene! Sia per me che per te.

Franco mi ha detto di aver letto nel “Manifesto” (che io non ho visto) di una pesante richiesta di condanna contro di te, da parte del PM [Marini]. Speriamo che tutto finisca nel nulla.

Da Antonio ho sentito, telefonicamente, che hai visto il “ragioniere” a Trieste e gli hai parlato. Conoscendo il figuro posso immaginare le infamie che può aver dette contro di me.

Pazienza! Ormai ho capito che razza di gente è.

Scusa la brevità, ma anche adesso ho la febbre. Ti scriverò (spero) più diffusamente in seguito.

Per ora un fraterno abbraccio libertario e di sincera stima ed amicizia,

Gianfranco

92 Bon

13 marzo 2000
Catania

Caro Gianfranco,

ho, di ritorno da un viaggio, la tua del 6 marzo e ti ringrazio.

In effetti, trovandomi a Firenze a metà gennaio, come ti dissi, avevo pensato di venirti a trovare e così cogliere l’occasione per conoscerci personalmente. Telefonai, due giorni prima, a Franco che mi disse della tua di già lunga degenza in ospedale. In ogni caso, l’indomani ho avuto i primissimi sintomi di questa fastidiosa influenza che mi hanno messo a letto e che adesso si è trasformata in otite bilaterale, col comico risultato che sono diventato quasi sordo. Ancora mentre ti scrivo mi sto facendo l’aerosol, ma senza risultati apprezzabili.

Sì, ho visto il ragioniere Lanza (e anche Nico Berti) trovandomi a casa di una delle mie compagne a Trieste. Presentavano la rivista “Libertaria” in una libreria di movimento. Sarebbe comico descrivere l’effetto che ha fatto la mia presenza su questi due signori, e su Venza, un compagno della FAI di Trieste che li presentava al pubblico. Comunque ho fatto un intervento sul perché nella rivista (che si definisce anarchica) ci fosse quell’intervista a Salvini e le relative valutazioni positive. Lanza, che ho trovato molto mal ridotto e invecchiato, e che stentava quasi a parlare, mi ha risposto che la rivista ha deciso di impiegare il metodo di intervistare le persone che sono competenti su un argomento, fossero pure sbirri.

Non ho preso pubblicamente l’argomento delle loro carognate nei tuoi confronti, ma ho preso il ragioniere a parte e gli ho chiesto il perché. Mi ha detto che sapeva della nostra amicizia, e che ancora una volta come mio solito stavo sbagliando tutto. Quando gli ho chiesto da dove traeva questa valutazione, se cioè era sempre la solita storia di Salvini che li faceva tanto sicuri, mi ha risposto che erano sicuri a prescindere del giudice in questione. L’ho mandato a quel paese.

Tutto qui.

Ho sentito l’esito del processo di Milano. Penso sia sempre più importante uscire con un tuo testo, insieme al mio (penso alla ristampa di Del terrorismo, di alcuni imbecilli e di altre cose, ormai introvabile). È venuto il momento di contrattaccare.

Sempre con affetto,

Alfredo

93 Ber

20 marzo 2000
Livorno

Caro compagno Alfredo, ciao!

anche stavolta ho avuto la tua lettera (del 13 corr.) al momento di ricomparire alla “Botteghina” dopo un soggiorno in ospedale. Tutto mi induce a supporre che sono arrivato agli sgoccioli e che non mi resta più molto da vivere. Me ne dispiace, non per il fatto in sé, quanto perché condivido appieno e senza riserve la tua opinione sulla necessità ed urgenza assoluta di contrattaccare. Una analoga opinione me l’ha espressa, telefonicamente, proprio l’altro ieri sera il compagno *. Mi dice che, in mancanza di altri mezzi per farmi sentire, c’è la quasi certezza della disponibilità ad offrirmi spazio da parte di “Anarchia” e/o di “Tutto Squat”, i cui compagni riservano al “ragioniere” ed alla sua “gang” lo stesso disprezzo che (dolorosamente, perché come sai li ho considerati dei buoni compagni per un quarto di secolo) provo io.

Per quanto riguarda il Nico Berti il discorso sarebbe un po’ diverso, in quanto mai lo ho stimato e devo confessarti che ho accolto con un notevole imbarazzo gli sperticati elogi che egli mi riservò quando uscì un mio scritto nel volume collettaneo (curato dal “borghessimo” prof. Donno) “America anarchica” nell’ormai lontano 1990.

Quel mio “soggetto” venne proposto in anteprima su “A” (con la sua abituale presentazione “incensatoria” che allora il “rabbino” riservava a tutti i miei interventi).

Sento che il “ragioniere” si è sentito in diritto di muoverti l’accusa che ancora una volta (!?) stavi sbagliando tutto. Andrebbe osservato che un tempo eri tu ad avere espresso su di me delle perplessità (peraltro non in chiave offensiva come quella a cui si è abbandonato lui. Riserve e dubbi, non accuse ed insulti, quali essi si sforzarono di farmi credere). Allora lui prese le mie difese, non solo ma arrivò a “mendicare” la mia comprensione quando si abbassò ad accettare la direzione de “Piazza degli affari”.

Quindi, la logica più elementare fa dedurre che o tu sbagliavi allora e lui aveva ragione o è lui adesso a sbagliare. Se ne ricava che è insostenibile affermare che tu hai “sempre sbagliato tutto”.

Ma, si sa, “ipse dixit”: Salvini è il novello Aristotele, se lo dice lui, il buon “ragioniere” non può che essere d’accordo.

La natura è imparziale e se ha colpito con i suoi acciacchi delle persone oneste (come considero te e mi permetto di ritenere obiettivamente me stesso) colpisce anche i “fetidi”. Sento, infatti, che anche il “ragioniere” ha i suoi malanni. Non ci piango sopra perché è un individuo squallido e nocivo.

Ti accennavo all’inizio del mio ultimo soggiorno ospedaliero: è andata così:

Mi ero recato all’ospedale per ottenere una visita al fegato (dicono che occorre una “biopsia”) e proprio là sono svenuto e caduto per terra. L’elettrocardiogramma è dubbio e gli stessi medici non sembrano in grado di capire bene di cosa si tratti. Mi hanno trattenuto circa due settimane, sottoponendomi ad una vera “caterva” di esami clinici.

Poi hanno finito col dimettermi con riserva. La chiamano “dismissione protetta”.

Tra un paio di giorni (cioè il 23 corr.) dovrei presentarmi in “cardiologia” per l’applicazione di un apparecchio da tenere addosso 24 ore durante le quali sarei sottoposto a un continuo elettrocardiogramma.

Il giorno dopo controlleranno i risultati e si vedrà di che morte devo morire.

Tutto ora dipende da questo ennesimo esame clinico, comprese le decisioni che prenderò.

Potrò decidere di chiudere definitivamente (tanto ho 67 anni) o decidere, invece, di ricominciare a lottare.

Se così fosse, ti giuro che intendo mettercela tutta e che ci sono buone speranze che, insieme, potremo farcela a sputtanare una volta per tutte quei rinnegati bastardi e, anche, a ricostruire le basi perché l’anarchismo riprenda vita e vigore.

Per quanto riguarda l’esito di Milano, posso dirti che pur disprezzando profondamente quei figuri che sono stati condannati, una sola cosa è certa: sono stati condannati del tutto innocentemente.

A parte il Giorgio Boffelli (che effettivamente ho conosciuto nel lontano 1950 o 1951, quando ero iscritto al PCI) tutti loro sono per me degli assoluti sconosciuti.

Per tornare al Boffelli (l’unico che conosco) posso solo dire che era semplicemente un dipendente dei trasporti pubblici comunali. Mai e poi mai è stato (se non forse nelle sue fantasie mitomaniacali) nella “legione straniera” o in altri “corpi militari d’assalto”.

Nella “legione” si deve restare minimo cinque anni e non credo che ci si potesse andare la domenica o durante dei periodi in ferie.

Un povero deficiente mitomane che ora paga le conseguenze delle sue spacconate. Gli sta bene. Quello che non è giusto che se ne esca sputtanando me.

A giorni, appena so l’esito di questo esame clinico, affronterò diffusamente questa storia, spiegandola nei minimi particolari.

Per ora posso solo dire una cosa: mai ho avuto rapporti con fascisti “et similia”. – Quello che ho fatto l’ho compiuto da solo, per mia autonoma decisione e disposto a pagarne il costo di persona.

Un abbraccio affettuoso dal tuo compagno ed amico,

Gianfranco

94 Bon

12 aprile 2000
Catania

Caro Gianfranco,

dopo la tua del 20 non ho avuto più notizie. Non so perché ma mi ero convinto che avresti scritto subito dopo, magari per dirmi qualcosa della tua salute.

Al mio ritorno (sono mancato alcuni giorni) non trovando nulla ti scrivo subito, sebbene con ritardo considerevole.

Fammi sapere come va la salute che mi sembra, per il momento, la cosa più importante. Io, da parte mia, sto avendo fastidi con i residui di un’otite (causata dall’influenza), adesso sono stato dodici giorni sotto le cure termali: risultato, praticamente zero. Sono diventato un po’ sordo e, cosa molto più fastidiosa, non posso parlare a voce normale perché mi rintrona tutta la testa, quindi sono costretto a parlare a voce bassa. Dato che fra due giorni parto per la Grecia per alcune conferenze, ti lascio immaginare il mio imbarazzo.

Il processo di Roma è slittato per un altro mese, ancora con le difese degli avvocati. L’esito si dovrebbe avere a fine maggio.

Ti ho spedito, dei “Libri di Anarchismo”, il n. 18 dal titolo: Autodifesa al processo di Roma per banda armata, ecc., Prima parte. La Parte seconda uscirà a maggio.

Un abbraccio fraterno,

Alfredo

95 Ber

19 aprile 2000
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

ho avuto stamani la tua lettera del 12 corr. Un paio di giorni fa, mi era invece arrivato il volumetto che raccoglie la prima parte della tua Autodifesa al processo di Roma per banda armata. L’ho letto con gusto, proprio perché si tratta di una “autodifesa” che si trasforma in un “attacco”.

Mi sei piaciuto e, paradossalmente, ho sofferto constatando, per raffronto, la mia incapacità e fare qualcosa di simile. Avrei voluto essere capace ed è da anni che mi auguravo di averne l’occasione. Invece, quando finalmente quei “signori” erano arrivati a fare esplicitamente i nomi dei miei presunti “mandanti” e “complici” ed a rinviarli a giudizio, non sono stato in grado di far altro che... “avvalermi della facoltà di non rispondere”.

Sono arrivato a Milano con una forte febbre (si è visto poi cosa covava nel mio fisico: “epatopatia”, “pleurite”, “polmonite”). Come se non bastasse, non avevo alcuna possibilità di trattenermi a Milano; non avevo un alloggio dove dormire, né denaro per sopravvivere giorni e giorni in quella città.

Qualche anno fa sarebbe stato diverso: i “cari compagni” (che allora tali si mostravano) avrebbero potuto darmene la possibilità. Se volevano, potevano anche assicurarmi la presenza di un avvocato. Ma, si sa, adesso si sono “innamorati” del Salvini.

A questo ed alla loro nuova rivista “Libertaria” ho pensato leggendo la tua “autodifesa”.

La domanda è retorica, lo ammetto, ma si pone lo stesso: non sarebbe stato più dignitoso scegliere di debuttare col primo numero di “Libertaria” pubblicando il testo della tua “autodifesa”, piuttosto di scegliere di stampare l’intervista con un “pubblico ministero”?

Così come, visto che la loro “linea” sarebbe quella di dare spazio agli... “esperti” (anche se sono degli sbirri!) ritengo che la correttezza ed “imparzialità” giornalistica di cui si vantano, avrebbe dovuto indurli a intervistare anche me e sentire cosa avevo da dire.

Ma, ormai, c’è poco da stupirsi. Potrebbero arrivare anche ad intervistare Marini (?!).

Comunque, la mia disgrazia è di essere veramente e troppo ammalato.

Non riesco a riprendermi e gli anni che mi pesano sul groppone sono tanti.

Tutto è cominciato (sul piano fisico) da quel mio tentativo di suicidio di tre anni fa.

Le conseguenze (in fatto di postumi e complicanze varie) sono state micidiali.

Ultimamente, mi sono ritrovato in ospedale. Mi ci ero recato per chiedere una visita in “epatologia” e mentre aspettavo ho avuto una sorta di “collasso” (sul momento avevano pensato a qualche droga, invece è risultato dalle analisi che non ne avevo fatto uso).

Beh, Alfredo, anche quel mio tentativo abortito di farla finita trova origine nel comportamento avuto in occasione delle prime notizie di stampa, delle iniziative dello squallido magistrato milanese che erano finalizzate a ribadire la sua menzognera tesi dei miei rapporti con fascisti.

La linea “Lanza” ha contagiato un po’ tutti in quell’area di compagni sui quale riponevo fiducia. Che schifo. Rabbia e vergogna insieme.

Sai, mentre ero in ospedale, è venuto un giornalista di un quotidiano “filo-berlusconiano” che voleva strapparmi una intervista.

Beh, mi aveva portato e fatto leggere alcune pagine dell’atto di rinvio a giudizio, dei miei presunti “mandanti”. Roba da manicomio. Mi dispiace di non essere riuscito a farmele lasciare. Vorrei proprio che tu le leggessi.

Se solo mi passa la febbre e riesco a scrivere decentemente, te ne farò una sorta di sintesi.

La logica dei magistrati, comunque, è sempre la essa: o uno è il capo oppure deve essere un gregario.

A te hanno scelto di spacciarti per “capo” (di una organizzazione inesistente!). Quanto a me, invece, devono essere stato un subordinato e manipolato (da gente che neppure conosco!).

A parte la situazione dispregiativa in cui verso sul piano fisico e psicologico, ho altri e sempre nuovi problemi: a fine luglio Franco chiuderà la trattoria. Era il mio recapito e il posto dove, una volta al giorno, potevo mangiare gratuitamente.

Con la casa, altri problemi: da un giorno all’altro rischio di trovarmi a dormire su una panchina della stazione (non sarebbe una esperienza nuova, ma l’età è cambiata).

Ciao! Un fraterno abbraccio e in barba a tutte le carogne e gli infami! Viva l’Anarchia!

Gianfranco

96 Bon

13 maggio 2000
Catania

Carissimo Gianfranco,

di ritorno dalla Grecia, dove sono rimasto una decina di giorni per alcune conferenze presso l’Università di economia del Pireo (Atene), trovo la tua lettera del 19 e mi accingo a risponderti.

Mi fa piacere che tu abbia trovato interessante la prima parte della mia Autodifesa e spero che lo stesso accadrà della lettura del mio scontro con il PM Marini (seconda parte, cioè prossimo libretto che partirà tra pochi giorni).

Mi dispiace leggere che stai male e che i problemi minimi della vita ti si potrebbero aggravare (casa, vitto, ecc.). Devi assolutamente reagire, fare in modo che questa situazione cambi, anche a livello fisico. La malattia, quale essa sia, è sempre un riflesso delle nostre condizioni psichiche, delle nostre capacità di reazione contro tutte le vergogne che pullulano nel mondo.

So bene che queste sono parole, ma io, nel mio piccolo, le ho sempre adottate in pieno. Certe volte mi sento scoraggiato, ma cerco di non scoraggiarmi, certe volte, come adesso, mi sento accerchiato (i malevoli e gli imbecilli sembrano avere stretto un patto segreto contro di me), non c’è altro da fare che reagire, attaccare, ora, subito, dovesse essere l’ultima cosa che uno fa.

Vedremo il risultato del processo di Roma ormai agli sgoccioli. Penso di non andare a sentire la conclusione di questa recita per bambini scemi.

Salutami Franco. Un abbraccio con tutta la mia stima,

Alfredo

97 Ber

24 maggio 2000
Livorno

Carissimo Alfredo, salud!

se la tua lettera del 13 corr., ed il volumetto che in essa mi preannunciavi, sono arrivati in mia mano contemporaneamente e solo ieri, non è colpa “una tantum” del disservizio postale bensì del fatto banale che Franco si era scordato di consegnarmi la lettera.

Comprendo benissimo quanto mi scrivi nel rapporto che intercorre tra la “malattia” e le condizioni psichiche (ne parla, benissimo, anche Laborit, in un libro di cui non ricordo esattamente il titolo ma che ritengo tu conosca e mi pare si intitolasse La colomba assassinata [1983]). Quanto, credimi, al tuo sentirti “assediato” da una congrega di malevoli e di imbecilli che sembrano aver stretto un “patto segreto”, questa “sensazione” corrisponde alla realtà. Fatte salve le differenze del caso (ma, sono poi tante?!), ci stanno riservando, se non lo stesso, un trattamento analogo. Ci odiano perché hanno paura di noi. Individuano in persone come te e come me, che non hanno rinunciato a sentirsi ed a volersi anarchici sul serio (cioè, ribelli, nemici del potere e dei compromessi politici, esistenziali, con esso) un pericolo per l’immagine paciosa, servile e... “democratica” che pretendono di dare del movimento libertario.

Ho letto, con gusto, il tuo volumetto che riporta il confronto-scontro che hai sostenuto col Marini. Sull’esito del tuo processo devo confessarti di non essere ottimista. Da sempre, ma ora più che mai, in tutto il mondo, ma particolarmente in Italia, i veri padroni del processo penale sono i “pubblici ministeri”. Gli altri: presidenti, giudici a latere, giurie, sono solo “comparse”.

Tu, se da un lato fai paura (perché propugni un tipo di anarchismo che è veramente tale) dall’altro non ne fai, perché non hai appoggi politici o “massmediatici”.

Come vedi, dopo anni di periodiche “insinuazioni”, “rivelazioni” e “scoperte” del grottesco “homunculus” che è stato incaricato di essere il mio “giudice istruttore”, si è arrivati ad incriminare i miei presunti “mandanti”. Poco importa se, nell’arco di 25 anni, se ne siano ipotizzati tanti (spesso contraddittoriamente), e che per contenerli tutti non sarebbero bastate le carceri italiani.

Finalmente, c’eravamo. Questa volta, con gente accusata e processata, avrebbero ben dovuto ascoltare anche me. Ma, quella gente ha un gran culo. Quando sono stato “citato” avevo un febbrone e i prodromi di ciò che doveva poi scoppiare: pleurite, broncopolmonite e altri acciacchi.

Mi hanno convocato a Milano. Per arrivare ho dovuto elemosinare qualche lira un po’ dappertutto.

Ci sono arrivato con ancora 150.000 lire. Come facevo a fermarmi lì, alloggiare, mangiare, ecc., per molti giorni?

Sì, l’Antonio mi aveva ospitato a casa sua (ma a Cuneo) e accompagnato in macchina fino a Milano.

Ma, poteva forse farlo per giorni e giorni?

Inoltre, mi mancava il metadone e, come ti ho sinceramente confessato, ne ho bisogno ogni giorno.

Altra cosa sarebbe stata se i sedicenti “compagni” di Milano mi fossero stati amici. Non sarebbe costato molto trovarmi un buco dove dormire, un medico che mi prescrivesse degli antibiotici e la dose di metadone (o, in mancanza, di Tangesic) che mi tenesse in piedi.

Ma non volevano che mi “difendessi”, non volevano che dicessi la verità e meno che mai sentirla. La scelta di Lanza & C. è quella di legarsi ai magistrati.

La loro volontà è di predisporre il retroterra perché, in caso che si verificassero azioni di tipo insurrezionale di matrice anarchica, si possa sostenere che si tratta di “finti anarchici” e di “provocatori”.

Come reagire a questa infame strategia che arriverà a distruggere ciò che resta (ma potrebbe crescere!) della rivolta anarchica?!

Non lo so, quello che so è solo che si deve reagire (almeno per non diventare come loro).

A giorni, spero di farcela a buttar giù la bozza di un intervento sulla mia vicenda. Te la manderò, nella assoluta certezza (non solo “speranza”) che mi aiuterai ad aggiustare grammaticalmente e anche nell’eventuale esigenza di “tagliare” o aggiungere qualcosa.

Un modo per pubblicare questo mio scritto (se ci sarà) si troverà. – E dovrà essere un calcio in bocca agli infami.

Ciao! Ti abbraccio con affetto,

Gianfranco

98 Bon

18 giugno 2000
Catania

Caro Gianfranco,

rispondo alla tua del 24 maggio con un considerevole ritardo dovuto al fatto che sono tornato solo da due giorni da Trieste, dove vivo insieme alla mia nuova compagna.

Per il futuro prevedo quindi di spostarmi spesso in quella città e di restare qui una settimana al mese, più o meno.

Ti ho spedito il mio librettino: Carcere e lotte dei detenuti, su cui aspetto il tuo giudizio anche perché si tratta di un argomento che mi tiene parecchio impegnato.

In questi giorni ho preparato, insieme alle mie compagne, i prossimi cinque librettini che usciranno dal mese di settembre fino a gennaio.

L’esito del processo, non so se hai avuto notizie in merito, è stato di diverse condanne per reati specifici ma con l’esclusione della banda armata. Io, unico fra i tanti, sono invece stato condannato non per reati specifici ma per propaganda sovversiva a ben 3 anni e mezzo (più 115 milioni di multa – quest’ultima parte è veramente esilarante), la quale è la condanna più alta che ho mai preso per questo tipo di reato: fra le tante precedenti (più di venti) ci sono i 2 anni e mezzo per “Sinistra libertaria” e 1 anno e mezzo per La gioia armata. Penso, in ogni caso, che l’esito di questo processo non si possa dire negativo, la nostra tesi della non sostenibilità dell’accusa del reato di “banda armata” è stata accettata. La sconfitta “politica” di Marini non poteva essere più bruciante (è lecito quindi aspettarsi da questo personaggio ritorsioni di ogni tipo). Di già sono cominciate in diverse parti d’Italia (Firenze, Torino, ecc.) le perquisizioni per una nuova ondata di accuse sempre basate su di una fantomatica banda armata.

Aspetto con ansia quello che mi annunci nella tua lettera: un tuo intervento. Potremmo programmarlo in tandem da pubblicare insieme alla seconda edizione del mio Del terrorismo, di alcuni imbecilli e di altre cose, ormai esaurito da tempo.

Ti prego, fatti sentire presto.

Quindi, facciamo così: fino al dieci luglio scrivimi presso * a Trieste. Un abbraccio con affetto,

Alfredo

99 Ber

3 luglio 2000
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

credo che, in tutte le mie non allegre esperienze passate, nulla mi abbia mai avvilito come l’attuale incapacità assoluta di trovare la forza e la capacità di rispondere alle lettere che ricevo. In particolare alle tue e proprio quando il momento esigerebbe (e al contempo me ne offrirebbe la possibilità e l’occasione) un forte impegno. Mi limito a poche righe al solo scopo di darti riscontro dell’avvenuto ricevimento del libretto e della tua lettera, entrambi graditissimi.

L’aver affrontato il tema delle lotte carcerarie si è rivelato, alla luce di quanto sta avvenendo, estremamente tempestivo. Mi piacerebbe parlarne. Solo che, come ti dicevo, non riesco a far niente.

Da mesi spero di ristabilirmi fisicamente, ma è una “pia illusione”, vado sempre peggio. I disturbi causati dal fegato persistono e si accentuano e ad essi si sono sovrapposti preoccupanti sintomi di malanni cardiaci e un continuo stato di torpore.

Forse è anche la mente che “perde colpi”. Insomma, sono ridotto al lumicino e non mi riprendo per niente.

Venendo ad altro argomento, ti confesso che una condanna come quella (pesantissima, per il reato attribuitoti) mi ha sorpreso. Vorrei che così non fosse, ma temo che il Marini non si rassegnerà a quella che per lui è stata una “umiliazione”. Conosco quella genia e so per personale esperienza che sono capaci di ricorrere a qualsiasi mezzo ed espediente per “vendicarsi”.

A proposito della mia storia, ti voglio far sorridere con una piccola “perla” che ho trovato in appendice ad un libretto (peraltro stupido) del 1973, l’autore è un certo Sandro Caputo, il titolo: La fuga dell’attentatore, ed è un romanzo pubblicato da Fratelli Fabbri editori. Io l’ho rinvenuto per caso in una bancarella. Quella che ho definito una “perla” è una citazione tratta da un articolo di tale Ruggero Orfei (“Settegiorni” n. 3 del 27 maggio 1973). Viene detto letteralmente: “Nel caso di Bertoli è stata addirittura riscontrata la flagranza di un individuo che si dichiara anarchico, anche se porta in valigia Max Stirner, che ispirò i fascisti e anche se si richiama a Nestor Makno, l’ucraino bandito che tutto può essere definito meno che un uomo di sinistra e tanto meno un rivoluzionario”.

Ci sarebbe da sbellicarsi dalle risa, constatando a quale livello di cretinismo si collochino i formatori della “pubblica opinione”.

Un abbraccio fraterno,

Gianfranco

100 Bon

24 luglio 2000
Catania

Caro Gianfranco,

rispondo solo ora alla tua del 3 luglio in quanto sono tornato a Catania da pochi giorni. In effetti la lettera mi era regolarmente arrivata all’indirizzo di * a Trieste, ma ero ormai in procinto di partire quindi ho preferito risponderti non appena a Catania. Poi il mio giro è durato di più.

Sono pienamente d’accordo con te riguardo l’ipotesi di quello che staranno tramando alle nostre spalle Marini e compagni. Proprio pochi minuti fa un ufficiale giudiziario ha bussato alla mia porta per consegnarmi la notifica di un procedimento a mio carico (e a carico di tanti altri compagni) spiccato dalla Procura della repubblica di Firenze per diversi attentati incendiari. In effetti, circa due anni fa ci sono state nella zona, ma anche in Piemonte, alcune perquisizioni con questa motivazione, ma da me quella volta non vennero. Adesso eccoli con l’imputazione. Nel frattempo, riguardo il processo di Roma, stiamo aspettando di leggere la sentenza per vedere come giustificano le scelte, per il momento la sola nota positiva di questo esito è che non è passata la tesi aberrante della banda armata, di questa ORAI che evidentemente si erano inventato i carabinieri di sana pianta, come ebbi a spiegarti a suo tempo.

“I libri di Anarchismo” si fermeranno, come ogni anno, per i mesi di luglio e agosto, a settembre continueranno ad uscire. Il primo libretto in programma sarà uno a cui tengo moltissimo dal titolo Liber asinorum, il libro degli asini, diretto a rintuzzare le infamanti accuse che mi vengono rivolte da quattro personaggi nei confronti dei quali la parola “compagni”, visto il loro comportamento, suonerebbe strana. Gli altri quattro titoli sono: Il tramonto degli dèi e Il ripristino degli dèi, che trattano di problemi economici, Dominio e rivolta, che pubblica i miei seminari (quattro) tenuti presso la facoltà di sociologia dell’Università La Sapienza di Roma, riguardanti il problema della distruzione, e per ultimo il libretto Del fare e dell’agire.

Scrivimi al più presto. Un abbraccio,

Alfredo

101 Ber

21 agosto 2000
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

ancora una volta, con mio sommo rincrescimento e con un senso di quasi “vergogna” rispondo con un enorme ritardo. Non posso che scusarmene, tanto più che, nella tua lettera del 24 luglio mi invitavi a scrivere al più presto.

La causa dei miei ritardi è sempre la stessa: la grande stanchezza e il permanente stato di sonnolenza e di torpore (ricollegabili alle precarie condizioni del fegato e del cuore). Come forse ti ho già scritto, mi trovavo casualmente in ospedale, in attesa di una visita, e sono stato vittima di una “sincope” o “collasso”, per cui mi hanno ricoverato nel reparto di “medicina d’urganza” e tenuto per tre giorni. Sono anche molto preoccupato per il fatto della insicurezza alloggiativa. Avevo, perfino, inoltrato istanza al Comune per avere un alloggio provvisorio, fosse anche al “dormitorio”, ma mi è stata respinta. Beh, lasciamo perdere: non voglio piangermi addosso. Male che vada c’è sempre la via d’uscita della soluzione suicidaria.

Sento del tuo programma editoriale che prevede la pubblicazione del Liber asinorum. Anche se non mi espliciti i nomi della “banda dei quattro”, credo di aver intuito di che si tratta. Spero di riuscire a leggerlo prima che un malore o una mia scelta mi portino sottoterra.

Mi auguro anche che tu sia “duro” e quasi “feroce” nel trattare l’argomento. Se quando esce sarò in vita, ti pregherò di mandarmene qualche copia. O vendendolo o anche regalandolo voglio farlo circolare il più possibile. Sarà la mia “vendetta” contro certi sedicenti compagni dimostratosi degli autentici infami.

Vedi, in conseguenza del mio tentativo di suicidio del 18 giugno 1997 mi venne revocata la “semilibertà” e dopo tre giorni di sala di “rianimazione” e dieci di degenza nel padiglione di medicina, sono stato riportato in carcere.

Un paio di giorni dopo è venuto ad “interrogarmi” un PM (cosa che mi sorprese perché il tentato suicidio non è “reato”). Le sue domande vertevano su due punti: in primo luogo voleva sapere chi mi avesse fornito l’eroina che mi ero iniettata, secondariamente se qualcuno mi aveva “istigato” suggerendomi il suicidio.

Al primo quesito non ho avuto difficoltà a rispondere, con la massima sincerità. Dissi che mai nella mia vita avevo accusato qualcuno e non avevo intenzione di cominciare una “carriera” di infame alla mia età. All’altra domanda ho risposto con una “quasi menzogna”: dissi che l’istigatore morale era stato il giudice Lombardi che, dopo 25 anni di una pretestuosa “istruttoria stralcio”, continuava pervicacemente a perseguitarmi con le sue affermazioni calunniose relative a “mandanti” e “complici”. Ciò non è del tutto vero: ci si può voler uccidere per protestare contro un’azione infame, ma per esserci spinti, bisogna che prima si nutrisse un certo rispetto e stima per quelle persone che poi ci hanno tradito. Ora, per il dott. Antonio Lombardi non ho mai provato il minimo rispetto, l’ho sempre disprezzato.

Quello che mi ha invece addolorato e spinto al desiderio di uccidermi, è stato il comportamento disgustoso di individui che credevo compagni.

A tutte le fanfaluche messe su carta dal Lombardi (grazie al benevolo regalo fattogli dal Salvini, di un campione di squallore tra “pentiti”) può prestar fede solo un tribunale a cui è stato ordinato in “alto loco” di far finta di credere.

L’esigenza dello Stato era quella di gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica e di dimostrare che presto o tardi la Magistratura rende giustizia.

In questo modo (e la condanna di quei tizi aveva lo scopo preciso di avallare la scomoda tesi risolutiva, quella dell’attentato di Piazza Fontana) lo Stato può arrivare a tagliare le gambe e a privare di argomenti tutti quegli oppositori che continueranno ad argomentare sulla non volontà di scoprire i responsabili delle “stragi impunite”.

È bastato trovare, sul mercato degli stracci del “pentitismo” di bassa lega, un certo Digilio, collegare le sue affermazioni a quelle del povero mitomane Vinciguerra, ed il gioco è fatto. Tutto scoperto, tutto chiarito, la “giustizia” trionfa e il potere dimostra la sua “onestà” di fondo.

Ciao, Alfredo, ti abbraccio forte riconoscendo in te, se non il solo, uno dei pochi anarchici rimasti che sono riusciti a non farsi soffocare nel mare di merda che ci ha annientato,

Gianfranco

P.S. Se un giorno qualcuno si diletterà a scrivere la storia dell’anarchismo contemporaneo, non potrà far altro (a meno di un miracolo) di individuare quella che Merlino chiamava “La fine dell’anarchismo” nella data di pubblicazione di una rivista come “Libertaria”, il capolavoro di L. Lanza, che ha debuttato presentando un’intervista con un PM.

102 Bon

20 settembre 2000
Catania

Caro Gianfranco,

ti scrivo con ritardo rispondendo alla tua del 21 agosto scorso perché solo ora di ritorno a Catania

Spero che questa mia ti trovi in discreta se non buona salute. Io mi difendo.

Ti ho spedito l’ultimo libretto uscito sul quale aspetto la tua opinione, per me importante. Si tratta di un attacco feroce contro gli attuali miei nuovi detrattori, e dire detrattori è veramente poco, meglio sarebbe dire infangatori. Individui infami della peggiore specie che spero vengano fuori ufficialmente dopo questa mia punzecchiatura e non si limitino più alle dicerie di corridoio.

Non sono gli stessi tuoi infangatori (quelli, a suo tempo, ebbi a punzecchiarli a dovere), ma persone di ben altra indole che un tempo ho amato nelle cose pratiche più che in quelle teoriche, sono stato loro vicino e che oggi mi ripagano con la moneta di cui sopra.

Ti ringrazio delle belle parole che mi indirizzi e che mi confortano non poco.

Spero di leggerti presto e per il momento ti invio un abbraccio fraterno,

Alfredo

103 Ber

9 ottobre 2000
Livorno

Carissimo Alfredo, ciao!

posso solo contare sulla tua benevola comprensione per sperare di essere perdonato per i miei “megaritardi” nel rispondere. La tua lettera, infatti, risale al 20 del mese scorso e l’avevo ricevuta quasi subito.

Ma sto male, veramente molto male. E questo su tutti i piani: “fisico”, “psichico” e “intellettivo”. Non ce la faccio più. Congiurano contro di me circostanze diverse: problemi di salute, problemi psicologici e tanta amarezza. Poi, contribuisce ad aggravare il fattore “anagrafico”: sono un vecchio.

Ho letto, col solito piacere (anche se a fatica perché la mia vista non è buona e dovrò procurarmi altri occhiali) il tuo libretto. Di fatto, però, pur avendolo apprezzato, non posso esprimere una meditata opinione perché non m’è riuscito di individuare con precisione chi sia l’oggetto delle tue critiche.

Quanto a me, avendo dovuto rinunciare a sviluppare un discorso coerente ed autonomo sulla mia vicenda e sullo squallore di quei sedicenti “compagni” che mi hanno, praticamente, pugnalato alle spalle, contavo sulla promessa (fattami da una persona che è in rapporti con un giornalista dell’ANSA) di avere in visione la copia della sentenza milanese con cui vengono condannati dei fascistucoli additati come miei “mandanti” e “complici”. Mi ripromettevo di farne una fotocopia, evidenziare e numerare i passi che mi tirano in ballo per commentarli e ribattere. La mia idea era di mandarti il tutto in visione.

Solo che c’è stato l’imprevisto. Ho sì potuto leggere quelle pagine (un barboso e squilibrato romanzaccio di fantapolitica) ma non ho potuto farne la fotocopia.

Supponevo potesse trattarsi di dieci o venti pagine. Invece è un malloppo di più di 300, zeppo di “excursus” e divagazioni varie, oltre a bizzarre fantasticherie. Ti basti pensare che vi si trova scritto che in Israele vi ero stato non per lavorare in un Kibbutz (tra l’altro dell’ala di sinistra del partito laburista) ma come soldato “mercenario”. Che tutti quei membri del Kibbutz che sono stati interrogati ed hanno dichiarato che per due anni non m’ero mai assentato da quel paese... mentono? In realtà (secondo loro) io potevo andare e venire da lì come più mi piaceva. (Venivo in Italia e ritornavo come fosse andare da Livorno a Piombino...!).

Insomma, una cosa delirante e in contraddizione con le stesse dichiarazioni del pentito Digilio. Lui sostiene che ero stato portato a Verona praticamente di forza, tenuto rinchiuso in un appartamento, istruito sul comportamento che avrei dovuto tenere e addirittura “picchiato” quando non rispondevo a dovere. – È credibile che un “mercenario” al soldo di uno dei più feroci servizi segreti del mondo si faccia tenere segregato e si lasci picchiare da dei fascistelli di bassa lega?

Boh, per i giudici sì. Conoscendo la magistratura, ciò non mi stupisce. Quello che mi schifa è che un “anarchico” (?!) come il ragionier Lanza, ne condivida le opinioni.

Ciao! Un abbraccio,

Gianfranco

104 Bon

28 ottobre 2000
Catania

Carissimo Gianfranco,

ti scrivo prima di partire per Trieste dove conto di essere domani sera.

Ho avuto, in queste settimane, solo la tua del 9 che mi è sembrata interlocutoria, come purtroppo credo sia questa mia.

Mi spiace apprendere che le tue condizioni fisico-psichiche siano non solo non migliorate ma peggiorate, purtroppo un sentirsi meglio, se non bene, è il punto da cui partire, è il punto fermo su cui poggiare i piedi.

Spero di sentire qualcosa di positivo in questo senso, nelle tue prossime lettere.

Mi dici che hai “rinunciato”, o meglio che sei stato costretto a rinunciare dalla tua salute a scrivere qualcosa sul problema che ci occupa da tanto tempo, cioè un attacco radicale e ben fatto contro i “compagni” che ti hanno tradito. Mi dispiace ma penso che forse non ho capito bene, io penso che le tue stesse lettere sono una continua, e precisa, accusa contro di loro e contro il meccanismo giudiziario e repressivo che continua a colpirti. E questo lo stai facendo da tanto tempo, privatamente, con me. Si tratta di dire qualcosa pubblicamente. Non ti pare?

Rispondimi in questo senso.

Un abbraccio fraterno con tutte le migliori speranze,

Alfredo

Una lettera di Antonio Lombardo

1 dicembre 2000
Lequio Berria

Alfredo,

aspettavo che, sapendolo, mi telefonassi. Né io, né Franco di Livorno, il tutore di Gianfranco, siamo riusciti a dirtelo in tempo che Gianfranco è morto la sera del 27 novembre nel suo letto per un deperimento organico complessivo ormai senza via d’uscita. No, stavolta non si è “fatto” per finirla, ma non cambia la sostanza. Franco ha cercato a Catania tutti i Bonanno in un lavoro impervio, è sempre stato corretto, così con Bertoli, che gli aveva detto due cose: di volere nella bara i colori amaranto del Livorno “curva nord” e di avvisare solo Antonio Lombardo e Alfredo Bonanno, per tutto e tutti Silenzio. Così abbiamo fatto e per tre giorni i mass media non lo hanno saputo, non c’era neppure tra le righe dell’ANSA.

Da tempo era stufo, stufo anche di ribattere alle infamie. Stava bene con nuovi rapporti umani che viveva intensamente, rapporti umani arrivati tardi, ma ancora in tempo per apprezzarli con un respiro forte.

Una parrocchia lo aiutava a pagare l’affitto, lo accoglieva nei pomeriggi che non sapeva dove andare ed anche lo stesso pomeriggio era andato a fare due parole in oratorio. Il sabato e la domenica finalmente l’entusiasmo della “curva nord”. Livorno amaranto Olè, Olè, Pisa boia, Livorno in serie A... e gli stavano vicino, un biglietto di entrata alla partita, la migliore alternativa ad una dose barattata col metadone o la stessa cosa.

Rapporti umani che ripeteva col sorriso, era l’unica volta che vedevi, sentivi vivacità.

Se all’uscita da Porto Azzurro avesse incontrato queste persone oggi sarebbe vivo. Ma ha incontrato la curiosità dei giornalisti, il fiato di chi doveva riscrivere un libro con un giudice, l’accanimento di un mio omonimo – o quasi – e la diatriba tra compagni anarchici che è riuscita, questa, a fargli odiare anche l’anarchismo, selezionando ormai uno o due compagni, e nulla di più.

È stato accolto, senza interrogatori o curiosità, da “sbandati” come lui, trans, drogati, puttane o emarginati compagni anziani di una sinistra che non c’è più. Area di selezione umana più democratica di quella nazista ma con la stessa logica e lo stesso prodotto: ghetto, malattia e morte.

L’ho considerato mio fratello assassino, è stato l’assassino di quattro persone innocenti e il colpevole di feriti tra gente che passava curiosa. Se avesse colpito l’autorità forse oggi rientrerebbe in un dibattito politico sull’amnistia, forse sarebbe tra i “prigionieri politici” da elencare e rivendicare, ma ha ucciso una casalinga, un pensionato, un tranviere, un lavoratore qualunque, ferito sconosciuti senza storia di Stato.

È stato un assassino. Niente di meno che un assassino, ma, sia chiaro, niente di più!

Nulla di artificioso, dietrologico, corazzato, organizzato, pagato, forse usato, sì forse usato, sì, perché la morte assassina crea un piacere per altri ed un interesse per alcuni, ma chi conosce Gianfranco Bertoli sa che non ha programmi di scena oltre a quel che si è visto.

È tutto lì.

Senza una lira, senza un passaporto per scappare, senza una copertura politica, senza una risposta per domande assurde per un ruolo che non è mai stato suo, di quale ingranaggio era scudo? Gratis, per eroismi, per sacrificio alla causa?!?

Davvero la sua Causa ormai era riposta nel Nulla. Aveva fatto quel gesto e non lo avrebbe mai rifatto neppure due giorni dopo e neppure lo stesso giorno. Quel gesto doveva per forza essere politicizzato quando tutto questo era lontano mille miglia dal suo pensiero.

Sono contento di averlo conosciuto, l’ho considerato mio fratello perché io stesso avrei potuto fare quello che ha fatto lui con lo stesso procedimento di pensiero. Ne avevamo parlato in casa e io gli dissi il mio pensiero, ma era mio fratello e dormiva a casa mia e doveva vivere, perché alla morte si risponde con la vita.

Sono pronto a dirlo pubblicamente tutto questo. Non è Gianfranco, né sono io a dover provare vergogna per il dopo, per averlo conosciuto, per l’Amicizia.

Un abbraccio,

Antonio Lombardo

* * * * *

«Si può infatti mostrare che il concetto di pregiudizio all’origine non aveva affatto il solo senso che noi vi ricolleghiamo. I pregiudizi non sono necessariamente ingiustificati ed erronei, tali da contraffare la verità. Invero, la storicità della nostra esistenza implica che i pregiudizi, nel senso letterale del termine, costituiscono l’orientamento preliminare di ogni nostra possibilità di esperienza. I pregiudizi sono le prevenzioni della nostra apertura al mondo e sono pertanto le condizioni perché noi abbiamo esperienza, perché ciò che ci viene incontro ci dica qualcosa».

(H.G. Gadamer, Die Universalität des hermeneutischen Problems, in Kleine Schriften, ns. tr., Tübingen 1967, p. 105)

* * * * *

Lettere di Bergamo

1 Bert

31 marzo 1989
Porto Azzurro

Caro Bonanno,

in questi ultimi giorni ho cercato più volte di scrivere una lettera da mandarti. Ho cominciato, interrotto ed infine stracciato almeno una mezza dozzina di fogli. Non è cosa facile (specie per chi, come me, non ha molta facilità con la penna) scrivere a qualcuno che non si conosce se non dai suoi articoli e che, per di più, si sa non avere mai avuto troppa simpatia per noi. Farlo, poi, in una occasione come questa è ancora più difficile, perché si rischia di cadere nei luoghi comuni e nella retorica.

Mi limito, perciò, all’essenziale, detto in poche parole. Tutto quanto voglio dirti è questo: al di là di ogni contrapposizione e di tutte le passate polemiche (più o meno acrimoniose), di tutte le incomprensioni od ostilità aprioristiche che ci sono state e potranno esserci in futuro, sento di doverti esprimere la più completa e sincera solidarietà libertaria. Quanto al fatto che di essa possa importarti poco, nulla cambia in rapporto al mio bisogno di esprimerla e se dovesse essere che ti infastidisca, me ne scuso. In ogni caso, il mio augurio è quello che tu possa uscire presto dal carcere.

Un saluto libertario e sincero,

Gianfranco Bertoli

2 Bon

9 aprile 1989
Carcere di Bergamo

Caro Gianfranco,

ho ricevuto con piacere la tua lettera del 31 marzo che mi è arrivata qui dentro causandomi riflessioni che forse fuori non avrei fatto, ma anche tu fuori, forse, non avresti avuto occasione di scrivermi una lettera di solidarietà.

Per prima cosa, quindi, ti ringrazio di questa solidarietà che, oggi come oggi, non è merce comune all’interno del nostro movimento. Poi ti ringrazio anche del fatto che ci tieni a farmi sapere della tua difficoltà, o perplessità, o incertezza sul modo in cui scrivermi.

Sprecare una mezza dozzina di fogli è segno che si vuole scrivere, anche se si è in dubbio sul come farlo, e l’importante è proprio la volontà a farlo, volontà che non ci sarebbe stata se non lo si fosse considerato importante, appunto l’esprimere solidarietà a me e, ne sono certo, al mio (e tuo) compagno che si trova qui anche lui sebbene io non possa vederlo per motivi di istruttoria.

Mi spiace che tu ti sia visto costretto a limitarti all’essenziale nello scrivermi e a non dare un po’ d’apertura all’animo tuo, ma questa è una faccenda su cui l’altro (in questa caso, io) non può far nulla. La cosa strana è che io sono sempre stato, anche nei tuoi confronti, disponibile a qualcosa di concreto, che poi non sono le chiacchiere da cortile e nemmeno quelle da salotto intellettuale.

Tu mi conosci poco, anche, penso, da quello che ho scritto, e non mi conosci per nulla di persona, cosa che io ritengo importante. Ma di alcune cose sei certo, per esempio, sei certo che non ho mai avuto “troppa simpatia” per te, sei certo delle “passate polemiche” “più o meno acrimoniose”, sei certo delle “incomprensioni od ostilità aprioristiche” e non solo ne sei certo ma ne prevedi anche una futura possibile continuazione (“potranno esserci in futuro”).

Io non sono sicuro di tutto questo, cioè non sono sicuro che da parte mia, nei tuoi confronti, ci sia stata poca simpatia, polemica, acrimonia, incomprensione e ostilità.

Secondo me ci sono state altre cose, di cui potrei anche parlati se tu lo ritenessi opportuno e utile e che non riguardano te come persona o le tue azioni, almeno non in modo centrale, ma il tuo modo di prendere posizione, le tue tesi teoriche di fondo, la tua scelta di campo. Cose che hanno importanza al di là del rapporto tra due uomini, al di là delle mura del carcere, al di là della necessità immediata di manifestare un sentimento di solidarietà o di sostegno. Hanno importanza perché significano spinte o ostacoli all’azione, perché significano molto per tanti altri uomini e donne che hanno progetti vivi, sostanziali, trasformativi.

Ti ringrazio, comunque, e ti invio un fraterno saluto,

Alfredo

3 Bert

16 aprile 1989
Porto Azzurro

Caro Alfredo,

ho ricevuto con piacere la tua lettera e sono lieto che tu abbia gradito la mia nonostante la sua laconicità.

Tu mi dici che quella mia lettera ti ha causato delle riflessioni che forse fuori non avresti mai avuto occasione di fare.

Da parte mia, devo confessarti che la vicenda del malaugurato “incidente” che ti è capitato mi ha indotto, a mia volta, a riflettere e a dover rivedere certe opinioni che, con troppo faciloneria e superficialità, mi ero fatto su di te. Io, te lo dico senza cercare di tergiversare, ti ritenevo uno di quegli intellettuali, un po’ supponenti e pieni di sé, venuti alla ribalta quando essere (e soprattutto dirsi) “rivoluzionari” era una moda piuttosto comoda, e che si differenziava dai tanti altri solo perché voleva restare attaccato a un certo “cliché”. Ti ho sempre ammirato sul piano culturale ed ho giudicato invidiabili le tue doti di scrittore, ma non ti nascondo di aver anche nutrito una certa diffidenza.

Ora mi accorgo di avere sbagliato e che sei un uomo che merita rispetto. Un rispetto che non implica la condivisione di tutte le tue tesi teoriche di fondo (non sono caratterialmente portato alle “folgorazioni” di Saul sulla via di Damasco) ma implica esigenza di riconsiderarle in una diversa ottica soggettiva.

Mi è difficile spiegarmi e far capire cosa vorrei dire. Lo è sempre stato per me spiegarmi per iscritto. Manco completamente di capacità di esprimermi in modo sintetico e tendo ad una prolissità che scivola facilmente nella digressione. Purtroppo non ho mai fatto studi regolari (in tutto sono arrivato, e male, a finire le scuole medie inferiori) e non posseggo, quindi, la necessaria padronanza degli strumenti espressivi per comunicare il mio pensiero.

Inoltre, sono fisicamente (e di conseguenza mentalmente) molto stanco. Alla fine del mese compirò 56 anni: sono tanti e, se non bastasse, ho attorno tanti acciacchi come se di anni ne avessi 20 di più.

Poi, vedi, la condizione carceraria (contrariamente a quello che molti credono) non favorisce la capacità di concentrazione. O, meglio, può farlo quando non si protrae troppo a lungo. Superato un certo limite (non quantificabile come uguale per tutti) il semplice atto di leggere un libro e di scrivere una lettera esige uno sforzo di volontà notevole.

Non vorrei stare a rispolverare vecchie storie stantie di “simpatia” e di “antipatia” (anche se sono anagraficamente “vecchio”, non ho dei vecchi la caratteristica di intestardirmi sui mugugni e sul rinvangare il passato). Non serve a niente e non avrebbe senso.

Tu accenni alle mie “scelte di campo” che “hanno importanza perché significano spinte o ritardi all’azione”.

Vedi, Alfredo, non credo di aver mai fatto altro che dire (e molto di rado) le cose che, in un preciso momento dato e in relazione a specifiche circostanze, pensavo.

Non credo si possa parlare “stricto sensu” di “scelte di campo”. Almeno nella misura in cui ciò significa porsi incondizionatamente e in modo definitivo a fianco di qualcuno contro un altro.

Io, pur consapevole dei miei limiti, ma impossibilitato a fare altrimenti perché tale è la mia natura, ho la pretesa di pensare sempre con la mia testa (ed è questo, se ben ricordo, che mi hai rimproverato una volta, commentando una mia replica a *, giudicandola ridicola arroganza “culturale” che mi spinge alla presuntuosa ricerca della “verità”).

Sono sempre restio ad “allinearmi” alle tesi dei più, o alle tesi di un qualunque, per quanto autorevole, “maître à pensèr”.

Non do troppo peso ai miei “errori di sintassi” o alla “traslitterazione di parole straniere”, forse ci cado per ignoranza della grammatica, e forse a causa della pigrizia che mi fa rinunciare a rileggere e a correggere le cose che ho scritto.

Dico quello che penso. Può essere tutto sbagliato, ma è ovvio che, quando lo dico, per me è giusto. Cosa posso farci se ad altri non piace?

Tu puoi forse essere sempre certo di avere ragione? Oggettivamente no. Soggettivamente sì.

Tu, io, tutti possiamo solo essere certi di star dicendo qualcosa in cui crediamo e che riteniamo giusto.

Può capitare che, successivamente, ci accorgiamo che non lo era e qualche volta ci è duro doverlo riconoscere con noi stessi.

Ho letto il tuo brillante (lo è!) articolo sulla Palestina (“ProvocAzione”, febbraio 1989) e devo riconoscere che è il migliore (e il più onesto) di quelli apparsi su quel giornale sull’argomento. Vi sono punti che lasciano perplesso (tanto più che ci si accorge dal contesto che conosci bene il problema) specie nella premessa introduttiva che concede troppo alla ricostruzione storiografica oggi di moda (che sembra tratta dalle “veline” dell’OLP), così come mi sembra una tua concessione alla moda il voler rifiutarsi di tener conto del fatto che il sionismo (nella sua complessità contraddittoria) è pur sempre stato un movimento che ha dato vita ad una “rivoluzione” (che poi possa aver dato altri cattivi risultati, non cambia la sua essenza rivoluzionaria: sono finite male tutte le “rivoluzioni” che ci sono state finora) e che l’opposizione araba è stata all’inizio un sommovimento controrivoluzionario, incoraggiato dall’imperialismo inglese, guidato dai capi filofascisti (una connotazione ideologica tipicamente fascista è ancora presente, anche se riverniciata con una fraseologia “progressista”, nel nazionalismo panarabo).

Ma, a parte queste “riserve”, devo dire che molte conclusioni a cui arrivi le trovo giuste e condivisibili.

In sostanza, una posizione corretta e libertaria, che mi sarebbe piaciuto comparisse prima su “ProvocAzione”.

Vorrei mandare due righe anche all’altro compagno che è lì, ma non so da dove cominciare. Beh, vorrà dire che mi limiterò a una cartolina.

Un cordiale, sincero e fraterno saluto libertario,

Gianfranco

4 Bon

2 maggio 1989
Carcere di Bergamo

Caro Gianfranco,

ti ringrazio per la tua lettera del 16 aprile scorso. E ti ringrazio anche di quello che mi dici, purtroppo la conoscenza che ognuno di noi ha degli altri è sempre legata a quello che il caso o la parzialità degli avvenimenti riesce a far comunicare. Ho sempre affrontato, nella mia vita, il problema a cui fai riferimento tu e ho capito che non c’è verso: solo chi ha una affinità con l’altro può raggiungere un certo livello di conoscenza e, viceversa, solo chi ha una certa conoscenza può capire se ha o meno un’affinità con l’altro. Le due cose, spesso, finiscono per escludersi a vicenda e quindi si conclude per il silenzio.

Io non ho simpatia per le “folgorazioni” quindi sono contento di continuare un rapporto con te, perché ti sento critico, in ogni caso e comunque.

Non ha grande importanza il fatto tecnico, la conoscenza di questo o quell’aspetto del gran mare della cultura, quello che conta è la capacità di coinvolgersi nelle cose da fare e fare delle cose che possano coinvolgerci solo a condizione di avere le idee quanto più chiare possibile.

Se questo coinvolgimento c’è, com’è nel tuo caso, la vita ne risulta qualificata nel senso di una presenza che è anche fatto culturale. In caso contrario, nella pretesa di una separazione (cultura/vita), non c’è né l’una né l’altra, c’è solo l’apparenza di ambedue.

Gianfranco, qua la cosa è chiara, secondo me, e ti prego di rispondermi, se credi anche tu che almeno sia importante farlo anche solo per chiarirmi le idee. Uno è libero di accettare o far propria una tesi, quale che essa sia. Che poi sarebbe lo stesso di dire come dici tu che ognuno deve dire quello che pensa, cosa che puntualmente fai. Questo pensiero può essere giusto o sbagliato, per chi lo dice è giusto. Certamente, questa tesi finisce per negare l’esistenza dell’errore, in quanto nessuno dice, per il piacere di farlo, una cosa sbagliata o afferma, di proposito, una tesi che sa essere errata. Anche quando, dopo, scopre l’errore, questo è solo venuto dopo, prima non c’era, in quanto altrimenti lo si sarebbe evitato.

E ciò è vero in quanto si deve ammettere che una persone corretta sia sempre in buona fede. Ora, siccome i compagni – e questo io l’ho sempre sostenuto – devono essere sempre accreditati, fino a prova contraria, di correttezza, essi non dicono mai cose sbagliate, per il semplice fatto che le dicono.

E qui, caro Gianfranco, non sono più d’accordo, ci sono cose che sono oggettivamente sbagliate ma in genere questa oggettività dell’errore si riscontra solo nelle cose meno importanti: equivalenze, discussioni analitiche, approfondimenti, e altro, insomma tutte quelle cose (matematica, logica, grammatica, ecc.) che si limitano a “chiarire” la realtà. Ma c’è poi il campo dei giudizi, cioè quando uno dice una cosa, o la fa, esprimendo un giudizio, affermando una “sua” realtà, discutendo una tesi. In questo caso l’errore è possibile e non basta la buona fede per salvarsi da esso. Chi fa affermazioni di un certo tipo, appunto giudizi che comprendono un contenuto di valore, giudizi morali, quindi giudizi politici, deve poter mettere nel conto che può sbagliare e che la sua buona fede non lo salva.

Ma se tutti ci possiamo sbagliare, non tutti lo facciamo allo stesso modo. C’è difatti un tipo di errore, che in genere si chiama errore di fatto, che entra anche nei giudizi morali, ma è di poco conto, causa pochi danni. Poi ce n’è uno che si chiama errore di principio ed è dovuto a una errata impostazione filosofica di partenza. Questo secondo errore, molto più gravido di conseguenze, lo si commette a priori e può benissimo causare danni anche in assenza di errori di fatto.

Uno degli errori di principio classici è la pretesa di separare se stessi dalle cose che si fanno e da quelle che si pensano. Come, per esempio, fanno coloro che pensano che un fottutissimo imbecille professore d’università possa dire delle cose giuste in merito alle analisi politiche, alle valutazioni etiche, ai giudizi pratici dell’attività rivoluzionaria, ecc. Ecco, io penso che questo sia un errore grave. Si possono trovare qua e là degli spunti interessanti, ma bisogna avere sempre il massimo sospetto e il massimo disprezzo verso le persone che si trovano in quella situazione di separazione.

Questo, per me, è un grosso problema che per gli anarchici è ancora tutto da scoprire, perché se è ammissibile per altra gente la considerazione positiva di una vita che tenga separate le cose che si dicono da quelle che si fanno, per gli anarchici questo non dovrebbe andar bene. Scusami lo sfogo, ma io conosco moltissimi compagni che la pensano in modo esattamente contrario e che stanno, in concreto, influendo negativamente sul movimento anarchico non solo italiano, spingendolo verso valutazioni di natura socialdemocratica. Comunque, questo è un discorso assolutamente personale, che non vuole andare al di là di uno sfogo.

Sono ben felice di leggerti. Un fraterno abbraccio,

Alfredo

5 Bert

16 maggio 1989
Porto Azzurro

Caro Alfredo,

scusa se, contrariamene a te, ho poca propensione per usare la macchina da scrivere e preferisco buttar già le mie lettere scrivendo a mano (e so di non avere una “bella scrittura”).

Una delle ragioni è quella che possiedo sì una “macchina”, ma è una trappola un po’ malconcia, dove, talvolta, capita che le lettere si accavallino durante la battitura, innervosendomi. Inoltre, spesso, mi capita di scrivere di notte (come sto facendo ora) mentre il mio “coinquilino” sta dormendo, cosa questa che renderebbe piuttosto sconveniente mettersi a battere sui tasti.

Tu hai definito la tua lettera come un discorso “che non vuole andare al di là di uno sfogo”. Beh, personalmente sono convinto che la dimensione “sfogo”, nel caso del dialogo epistolare, sia la più congeniale a favorire la possibilità di una migliore comprensione reciproca e che i pensieri più autentici (e, talvolta, le intenzioni più lucide) siano quelle che riusciamo ad esprimere proprio quando ci lasciamo andare a lasciare libero sfogo a noi stessi.

Sì, credo che tu abbia ragione dicendo che la conoscenza degli altri è sempre molto parziale ed è legata a quel poco che le circostanze permettono di conoscere. Spesso, poi, nel valutare le persone siamo fortemente influenzati da simpatie e antipatie che nascono da avvenimenti e comportamenti contingenti, riducendosi a pure posizioni aprioristiche e “scotomizzate”.

Qualche volta, per avvicinarci alla comprensione dell’animo di una persona, non basta neppure la frequentazione personale diretta (è capitato a tutti, credo, di scoprire improvvisamente aspetti del tutto sconosciuti in persone che conoscevamo – o credevamo di conoscere – da anni). Figuriamoci, poi, quando si sa di qualcuno solo quanto si può aver sentito dire di lui e si sono solo letti alcuni suoi scritti.

Comunque (pur con tutti i limiti che, anche in questo caso, ci sono) il potersi parlare faccia a faccia (in un dialogo, cioè, che permetta una certa spontaneità e un linguaggio che è fatto anche di gesti, di sguardi, di toni di voce, ecc.) è sempre meglio di un dialogo epistolare e quest’ultimo sempre meglio di quello fatto di confronti indiretti nelle pagine di qualche giornale.

Quello che sarebbe essenziale è, secondo me, il riuscire a parlarsi mettendo da parte la pretesa, di principio, di essere sempre noi ad avere ragione, la pretesa di persuadere l’altro che è lui a sbagliare, insomma l’aspirazione a prevalere ad ogni costo nella discussione.

Bisognerebbe essere aperti e disponibili ad ascoltare gli altri e a rimettere in discussione le nostre presunte “certezze”.

Invece, non è così (o lo è molto raramente) e un po’ tutti (nella misura in cui ne abbiamo le capacità “tecniche”) cerchiamo di prevalere e di far prevalere le nostre tesi, ricorrendo ad ogni possibile espediente e senza farci troppo scrupolo a servirci di argomentazioni sofistiche.

Qualche volta, peraltro, non ci rendiamo conto noi stessi di farlo, per la semplice ragione che a quegli stessi sofismi siamo ricorsi anche con noi stessi per poter giustificare il rifiuto di rivedere posizioni che abbiamo preso e alle quali ci siamo attaccati.

Quando dicevo, nella mia lettera precedente, che ognuno deve dire quello che pensa (libero, cioè, di accettare e far propria una tesi, quale che essa sia) intendevo sostenere il diritto di ognuno a pensare con la propria testa e ad esprimere i propri punti di vista, quali essi siano. Ma ciò non implica “negare l’esistenza dell’errore”. Certo, per chi dice qualcosa questo qualcosa è giusto, ma può bene essere (anzi accade spesso) che, nel piano oggettivo, quelle affermazioni siano errate.

Certo, se noi – come anche tu sostieni – accreditiamo di correttezza i compagni tutti, dobbiamo ritenere che essi non ritengono mai di star sostenendo delle tesi sbagliate. Per chi le dice (e nel momento in cui le dice) non c’è errore nelle cose che afferma. Ma ciò non esclude che l’errore vi possa essere. Si tratta, in questo caso, appunto di “errore” e non, come avverrebbe nel caso che non ci fosse la correttezza personale, di “menzogna”.

Chi mente e chi sbaglia si trovano, oggettivamente, nello stesso piano rispetto alla verità, ma non è la stessa cosa soggettivamente. È solo quando chi ha sostenuto erroneamente una propria tesi si rende conto che essa era sbagliata ma si intestardisce, per malintesa “coerenza” a sostenerla (facendo ricorso ad ogni possibile cavillo ed equilibrismo dialettico) che si passa dall’onestà alla disonestà (spesso anche inconsapevolmente).

È perfettamente vero (o, almeno, io sono d’accordo su questo punto con te) che vi possono essere errori materiali del ragionamento (legati, cioè, alla validità formale di una deduzione) ed errori “di principio” e che questi conducono a conseguenze più gravi. Ma, dovrai anche riconoscere che ci possiamo cadere tutti e uno dei principali è quello di pretendere “per principio” di non averne (o non poterne) commettere. Pretendere, cioè, di erigere in dogma le nostre convinzioni soggettive e “scomunicare” anatemizzandoli coloro che le mettono in discussione o espongono delle realtà fattuali che possono essere in contrasto con quella visione della realtà che uno si è dato e che gli piace accettare perché si adatta alla sua tesi di principio.

La coerenza tra quello che si pensa e quello che si fa e si dice abbiamo il diritto di aspettarcela e di criticare la sua assenza. Ma la coerenza in sé dei comportamenti, per quanto apprezzabile, non dimostra che la scelta di principio sia immune da errore.

È il caso di quella che, in logica, viene detta “petitio principii”: si postula, cioè, una premessa (non dimostrata) che già contiene la conclusione deduttiva a cui si vuole arrivare e, in nome di una scelta di “principio” (cioè a priori) si pretende che tutti vi concordino.

Il dubbio diventa allora “delitto” e chi è in disaccordo viene ripagato con insulti gratuiti e... di principio.

Non vorrei cadere nei personalismi, ma (a solo titolo di esempio) vorrei ricordarti l’etichetta di “agente del Mossad” che * si è creduto in diritto di darmi. Una affermazione insensata e priva di argomentazione se non quella appunto di principio. “Io ho ragione e lui ha torto, se ha torto mente e se mente è malvagio. Il Mossad è malvagio... ergo: lui è uno del Mossad”.

Sono cose pietose e sulle quali fa male tornare. Ma quella degli “epiteti” e della adozione di toni rabbiosi, come succedaneo delle argomentazioni è una prassi che continua ad avvelenare i rapporti tra compagni ed esplode ad ogni dissenso.

Scusami la confusionarietà di questa mia. È solo dovuta (oltre che alle difficoltà che ho sempre avuto ad esprimermi per iscritto) al fatto che sono veramente “giù di corda” fisicamente e i guai della cosiddetta “salute” si riflettono su tutto.

Ti faccio tanti auguri perché tutto vada il meglio possibile e ti saluto con un fraterno abbraccio,

Gianfranco

6 Bon

20 maggio 1989
Carcere di Bergamo

Caro Gianfranco,

va bene per le lettere scritte a mano, sono più intime. Purtroppo io non so scrivere a mano in quanto – dopo 40 anni di uso ininterrotto della macchina da scrivere – la mia velocità di pensiero si è adeguata a quella delle dita e se scrivo con le penna mi perdo perché sono troppo lento. Comunque, la tua grafia è leggibilissima.

Sono d’accordo con te. Tra di noi due, salvo ad affidare al futuro una possibile frequentazione personale, non ci potrà essere conoscenza vera che quella di queste poche righe. Cosa limitata, per altro a mio avviso limitatissima per una qualche mia ritrosia personale nei riguardi delle lettere e dello scrivere lettere. Qui, nelle condizioni in cui lavoro adesso, mi sforzo per non isolarmi completamente del mondo, ma fuori scrivevo pochissime lettere. Scusa Gianfranco, ma io non sono aperto e nemmeno disponibile, sono concetti e parole che odio e che non mi dispongono affatto bene, anzi tutto il contrario. Con questo non voglio dire che – per principio – ho la pretesa di avere sempre ragione. Sono due cose che tu metti come i poli di un’alternativa, ma non è così. Ascoltare gli altri. Mettere in discussione le proprie presunte certezze (sono parole tue). No, non sono d’accordo. Mi capita di ascoltare sempre meno gli altri, di operare selezioni a priori su quello che voglio ascoltare e su quello che non voglio ascoltare. Il tempo stringe. Non posso ascoltare tutti, anche se penso che tutti abbiano qualcosa da dire e tutti possano dare la loro briciolina al vero (?). Ma non mi interessa. Con questo non voglio dire che quello che io decido di ascoltare stia dicendo il vero (?), e poi nemmeno che questo vero esista. Io penso di muovermi come un flusso di relazioni verso un obiettivo che non è chiaro nei dettagli, ma sufficientemente delineato nei contorni (altro che certezza!), e nel corso di questo movimento trovo possibili compagni d’avventure (intellettuali e pratiche, le due cose assieme).

Scusa Gianfranco, ma qui non c’entra né Duns né i Sofisti, il problema è estremamente semplice. Io voglio fare alcune cose, fra le quali contribuire – al massimo delle mie possibilità – a sviluppare un processo insurrezionale, oggi, nella pratica e non soltanto nella teoria. Io credo in questo progetto. Non so se esso sia la verità e non mi interessa saperlo, almeno non in termini di verità assoluta. Per questo progetto elaboro evidentemente delle analisi, ma realizzo anche dei fatti e se vedo davanti a me degli ostacoli cerco di rimuoverli, siano essi una struttura linguistica che non capisco, una formula matematica o chimica che mi sfugge, o anche un gruppo di persone che mi impedisce di andare avanti nel mio progetto.

Certo, hai ragione perfettamente quando dici che la coerenza non dimostra la validità della scelta di principio. Questa validità va cercata altrove, nella realtà, nei fatti, nella situazione di violenza e di sopruso che miliardi di uomini subiscono contro la propria vita e la propria dignità. Trovata questa certezza, che ha natura pratico-teorica, e non solo teorica, la coerenza deve venire da sé, in caso contrario siamo davanti al tradimento e all’ignominia.

Sono però del tuo avviso sulla ingiusta maniera di impiegare i sillogismi come quello di *. Di regola, credo di non farlo. Potrei averlo fatto e in quel caso non potrei che dolermene. Ma ciò non sposta di un millimetro quello che ti ho prima detto.

Io vado avanti, finché ne avrò la forza, e questa, per il momento, non mi manca. Non saranno questi quattro forzuti imbecilli che mi tengono chiuso qua dentro che me la toglieranno. Un abbraccio,

Alfredo

7 Bert

4 giugno 1989
Porto Azzurro

Caro Alfredo,

il mio dar la preferenza alla scrittura manuale piuttosto che all’esercizio della dattilografia non è dovuto alla convinzione che ciò comporti una maggiore “intimità”, ma al semplice e banalissimo fatto di avere scarsa dimestichezza con la macchina per scrivere, congiunto a quello che la macchina di cui dispongo (e uso prevalentemente per mettere gli indirizzi sulle buste) è una “trappola” che ogni tanto si incanta e mi innervosisce usarla.

L’abitudine, dicono, è una seconda natura e, proprio come avviene a te, che da decenni usi scrivere a macchina, di trovare troppo lento lo scrivere a mano, succede a me quando devo usare la macchina, visto che l’ho usata pochissimo. In tutta la mia vita non ho mai esercitato mestieri intellettuali e non ne ho avuto molte occasioni.

Per la verità, non ho una grande esperienza neppure nell’usare la penna e per anni ho sempre scritto solo cartoline.

Pensa che una volta, al tempo dei miei verdi anni, nelle carceri (e io mi ci sono trovato spesso) si potevano scrivere solo due lettere la settimana e a me bastavano e avanzavano.

Sento che non ti è mai piaciuto scrivere lettere, ed abbiamo qualcosa in comune. Tu, però, hai sempre scritto articoli e libri (quasi a getto continuo) io, invece, sono negato per la letteratura. Forse, come in tante altre cose, è questione di “mestiere” e di pratica. La dimestichezza con lo scrivere si prende già nella scuola e io di scuole ne ho fatte poche e male.

Sulla questione dell’ascoltare i punti di vista degli altri, vedo che non siamo molto d’accordo. Ma conta poco. Io non ho preso l’iniziativa di scriverti con la pretesa di aprire un “dibattito”, né di convincerti di alcunché. Solo per mandarti un saluto e una modestissima solidarietà (per quel che può valere).

Non entro in merito alla questione dell’esistenza del “vero” che implicherebbe dover inoltrarmi in complessi discorsi filosofici che non sono alla mia portata.

Personalmente mi limito a chiamare “vero” il contrario di “falso”. Cioè (limitandomi al terreno delle asserzioni) ritengo di poter chiamare vere le proposizioni che non dicono cose menzognere od errate (quanto a distinguerle, sono consapevole che non sempre posso riuscirci).

È per questo che cerco di ascoltare tutti, perché mi rendo conto che non sempre le cose possono essere in tutto e per tutto come appaiono a me, e altri possono aiutarmi a capire i miei errori.

Non per questo sono caratterialmente facile a lasciarmi persuadere da quanto mi sento dire. Anzi, confesso di essere piuttosto cocciuto e spesso unilaterale nei giudizi. In ultima analisi, voglio sempre pensare con la testa mia. Ciò vuol dire fare tanti sbagli (ma non sarebbero di meno se accettassi il modo di pensare altrui).

Se però, scusami, si decide a priori di ascoltare quelli che ci dicono ciò che ci piace sentire e ci conferma nelle nostre opinioni, allora tanto vale parlarsi addosso da soli in un eterno soliloquio. Ciò vale a maggior ragione per uno come te che, per cultura e capacità dialettiche, sei diventato (che tu lo voglia o meno) un punto di riferimento intellettuale e una sorta di “opinion-maker” per un certo numero di compagni.

Che io dica delle grosse fesserie conta poco (al massimo farò ridere qualcuno), ma tu non puoi permettertelo, perché (anche se è triste che ci sia chi sente il bisogno di “leader”) le tue affermazioni “pesano”. Tu eserciti una certa influenza sulle menti di altre persone e un tuo errore può essere (a differenza dei miei) fonte di errore per altri.

E di sbagli ne facciamo tutti. Io, per esempio, riconosco di avere commesso nei tuoi confronti un errore di giudizio. Senza averti mai visto, ma solo per “sentito dire” e da qualche tuo articolo, ti avevo “catalogato” nella categoria dei “terribilisti verbali” che mai correrebbero il minimo rischio di persona. Ora sei in carcere con un’accusa di rapina. Ciò non ti trasforma ai miei occhi e “ipso facto” in un ...“eroe”, ma mi dimostra che sei uno che (bene o male, nel modo giusto o sbagliato non mi interessa e non sta a me valutare) sa rischiare e pagare di persona se necessario. Sbagliavo nel giudicarti, l’ho detto a te e l’ho detto a tutti quelli ai quali avevo manifestato la mia precedente opinione.

Anche tu, penso ne converrai, puoi avere commesso in passato degli errori di giudizio e sei troppo intelligente per non riconoscere che puoi farne ancora.

Mi dici di avere poco tempo da perdere ad ascoltare ciò che gli altri dicono; una ragione di più, credo, per ascoltare quelli che dicono cose contrarie alle tue. È più importante ascoltare chi ci dà torto che non chi la pensa come noi.

Beh, cos’altro dirti? Solo che ti faccio i migliori auguri di uscire presto (a ben vedere l’imputazione non è “gravissima” e poi, se non sbaglio, sei proprio “incensurato”).

Un abbraccio,

Gianfranco

8 Bon

15 giugno 1989
Carcere di Bergamo

Caro Gianfranco,

scusami ma ho la sensazione, evidentemente del tutto mia e quindi da confrontare con ciò che provi tu, di stare girando a vuoto.

Non mi piace la nostra corrispondenza, sento una specie di forzatura che non è nel mio carattere e nelle cose che voglio fare.

Scrivimi se sono nel vero o se mi sbaglio.

Comunque ti ringrazio per la solidarietà e per i saluti che mi hai mandato (anche a *).

Un abbraccio,

Alfredo

9 Bert

19 giugno 1989
Porto azzurro

Caro Alfredo,

ho ricevuto la tua lettera e prendo atto dell’invito a lasciar cadere una corrispondenza che sta girando a vuoto e ti appare contenere delle forzature che la rendono priva di significato.

Non ne sono del tutto sorpreso, perché la tua decisione è la naturale conseguenza logica di quanto già mi avevi scritto sul tuo non avere alcun interesse ad ascoltare tutti e sulla tua prassi di “operare selezioni a priori su quello che voglio ascoltare e quello che non voglio ascoltare”.

Visto che mi chiedi la mia opinione, ti dico che mi trovo d’accordo.

In primo luogo perché in un qualsiasi rapporto tra due individui è sufficiente che uno dei due desideri interromperlo per farlo.

Secondariamente, perché, sin dal primo momento, non ho mai creduto molto nella possibilità che trovassimo da dirci qualcosa che interessasse entrambi.

A parte il mio non essere all’altezza, cominciare tra noi una sorta di ... “dialogo sui massimi sistemi” sarebbe ozioso e costituirebbe per te una ridicola perdita di tempo.

Sul terreno “pratico” non abbiamo, credo, molto in comune (a parte la condizione accidentale e contingente di essere in carcere).

Ne sono consapevole e lo ero quando ti scrissi la prima volta.

È per questo che mi ero limitato a poche frasi che avevano il solo scopo di esprimerti una solidarietà istintiva e sincera, tutto qui.

Tale sentimento provo ancora e lo confermo, senza che questo implichi uno scambio di corrispondenza.

Un abbraccio libertario,

Gianfranco

Del terrorismo, di alcuni imbecilli e di altre cose

21 aprile 1999
Lequio Berria

«C’è un comportamento anarchico che marginalizza, non vuole avere a che fare con i deboli di carne, gli ubriachi, i drogati, chi trascina i piedi perché fatica a stare dritto, chi puzza e straparla perché ha la bava alla bocca. Il senso della schifezza diventa distacco politico, differenziazione, perfino di fronte al potere, fino al menefreghismo per la sorte altrui se non al collaborazionismo indiretto – rifiuto ancora di pensare a rapporti di servizio – e penso invece a quei comunicati stampa firmati da più sigle, compresa la FAI ogni volta che giornalisti o poliziotti urlavano “agli anarchici”. Questo farsi da parte lasciava spazio per colpire meglio gli “anarchici cattivi” e io stesso sono testimone di questa diversità».

Antonio Lombardo
(Lettera del 21 aprile 1999 ad Alfredo M. Bonanno)

Nota alla seconda edizione

Esce nuovamente questo libretto che pensavo destinato all’oblio. Dopo aver fatto il suo tempo eccolo tornare d’attualità. Forse la vis polemica di oggi non è quella dell’epoca, e sono d’accordo, i tempi cambiano, ma la mia esperienza epistolare con Gianfranco Bertoli mi riconferma che certe persone restano le stesse, fedeli nei secoli.

Per uscir di metafora qui si tratta di delatori “alla francese” (espressione carceraria che indica chi, chiamandosi fuori, non denuncia direttamente nessuno ma lo fa indirettamente mettendo in cattiva luce coloro che fuori non si sono chiamati).

Questo comportamento è stato tenuto dall’intera redazione di “A-rivista anarchica” in tante occasioni. Bastava un piccolo botto qua e là e subito i comunicati che prendevano le distanze (quando ancora l’eco dell’esplosione era vicina) fiorivano raccogliendo la collaborazione delatoria di altre persone e “organizzazioni” altrettanto preoccupate. Chi avesse voglia di documentarsi può farlo – per tempi non proprio recentissimi – sfogliando la collezione del giornale “ProvocAzione”.

Poiché questo comportamento era, diciamo, di routine, alla fine io, e con me molti compagni, ci abbiamo fatto l’abitudine anche perché, dopo l’attacco diretto, proditorio e collettivo, che qui viene documentato con la ripubblicazione del presente aureo libretto, costoro avevano divisato bene di tacere. Il silenzio è un ottimo complice delle nefandezze.

Ma la vicenda racchiusa negli ultimi anni di vita di Gianfranco Bertoli e il comportamento, in particolare, di Luciano Lanza e Amedeo Bertolo, andavano posti all’attenzione dei compagni, quindi si presentava la necessità di “tornare sull’argomento”.

Ecco il perché di questa seconda edizione.

E che il tempo sia buon giudice.


Trieste, 2 aprile 2003

Alfredo M. Bonanno

Nota alla prima edizione

L’esigenza di questo libretto è nata dalla pubblicazione di due articoli: Emile Henry e il senso della misura di Amedeo Bertolo [caca inchiostro] uscito su “A-rivista anarchica” n. 2, 1979, e Violentismo ed etica di Paolo Finzi [prete travestito] uscito sulla stessa rivista nel n. 3, 1979. Ambedue questi articoli attaccavano la mia recensione al libro: Emile Henry, Colpo su colpo (Edizioni Vulcano, 1978), pubblicata su “Anarchismo” n. 23-24.

[In Appendice pubblichiamo la mia recensione al libro di Henry, l’articolo di Bertolo e di Finzi e due articoli di Gianfranco Bertoli dal titolo: Il prezzo da pagare, uscito su “A-rivista anarchica” n. 4, 1979 e Atti individuali eterrorismo”, pubblicato nello stesso di numero].

Questa polemica ci dà occasione di approfondire i gravissimi problemi della lotta armata e, in modo particolare, quelli relativi al cosiddetto “colpire nel mucchio”, cioè all’attacco contro gli sfruttatori in forme più ampie di quelle fino a questo momento realizzate dal movimento rivoluzionario.

Di chi è sordo

“La ragione nel linguaggio: ah, che vecchia ingannatrice! Temo proprio che non ci sbarazzeremo mai di dio, finché crediamo ancora nella grammatica”.

Friedrich Nietzsche

Il vecchio illuminista credeva, in buona fede, che spiegate per bene le cose, imposto nel mondo il dominio della “ragione”, tutti avrebbero cessato di tenere la testa sotto la sabbia, rendendo difficile – se non impossibile – l’inganno, la malafede, l’ignoranza e lo sfruttamento.

Il povero vecchio non aveva fatto i conti con una grave malattia che affligge il genere umano: la sordità.

Dicesi sordo chi ha perduto il senso dell’udito, per cui non ode distintamente suoni e rumori, come pure chi non presta ascolto.

A voler riflettere, il vero sordo è proprio quest’ultimo. Nessuna voce, per quanto potente, potrà farsi sentire da chi ha deciso di non sentire. Nessun ragionamento, per quanto chiaro e limpido, potrà convincere chi ha deciso di non farsi convincere. Nessuna evidenza sarà sufficientemente evidente per chi ha deciso di negare l’evidenza.

Ecco perché scrivo queste pagine con la morte nel cuore. Ancora una volta – ne sono certo – malgrado gli sforzi che potrò fare per dare alle parole il senso che esse dovrebbero avere, non mancheranno le incomprensioni e le sordità.

Tutti i caca inchiostro di questo mondo sanno che la società in cui viviamo è il prodotto storico dello sfruttamento di una piccola parte del genere umano sulla grande maggioranza. Per quanti sforzi si siano fatti, questa piccola parte non si è identificata mai con chiarezza, ma sempre ci sono state delle dispute, sia riguardo la sua consistenza quantitativa, sia riguardo la sua collocazione all’interno della società stessa. Non parliamo poi delle sue responsabilità: non si contano gli avvocati difensori e i procuratori del re che si sono addossati il compito di giustificare queste responsabilità.

Comunque, poiché – chiara come il sole – la differenza di classe sussiste, e con essa lo sfruttamento, e con questo il sistematico genocidio dei lavoratori, e con questo tutto quel che ne consegue, nessuno, dalla parte dei cosiddetti progressisti caca inchiostro, si è mai azzardato ad affermare che si poteva – in definitiva – chiudere gli occhi e, con un poco di buona volontà, sistemare le cose.

Tra questi messeri si contano non soltanto i vanagloriosi e stupidi pavoni dello stalinismo organizzato, ma anche i fantasmi ammorbanti di una specie di anarchismo parolaio e perbenista. Non sono pochi i caca inchiostro che, contando sul sacro terrore che ispira la grammatica, pontificano su ogni tipo di argomento, scrivendo catechismi, sognando di trasformarsi nell’anima intellettuale del movimento, di costruire la base culturale da cui gli sfruttati partiranno per concludere la loro rivoluzione. Stupidi passatempi di chi non ha altro d’importante da fare – potrebbe rispondere qualcuno. Come chi ama discutere all’osteria, tra un bicchiere e l’altro, di sport, di donne o di politica, costoro, tra un numero e l’altro dei loro giornali, amano discutere di rivoluzione. Solo che qualche volta il discorso si fa più pericoloso. Non potendo parlare eternamente dei problemi della scuola, dei sindacati che non sono come dovrebbero, della storia della rivoluzione spagnola o della storia della rivoluzione in Ucraina, qualche volta si scade in argomenti più triviali: si parla della situazione nelle carceri, si è obbligati a ospitare lettere di compagni anarchici incarcerati, si parla dei problemi che la lotta armata in Italia ha determinato oggi, si è costretti a prendere posizione.

Qui il nostro amico caca inchiostro si fa prendere dall’isteria. Non ci si avvicina, così, troppo a quelle tematiche che potrebbero attirare l’attenzione della polizia? Non si corre il rischio di dare una “brutta impressione” a coloro che sono addetti al controllo delle pubblicazioni anarchiche? Non è forse meglio, specie in un momento come questo di caccia alle streghe, prendere posizione, evitando ogni possibile commistione con gente che – come il sottoscritto – continua ad affermare non solo che la lotta armata (anche in Italia, e anche oggi) è possibile, ma va sostenuta con tutti i mezzi e con tutti gli sforzi?

Certo, bisogna fare le cose per bene, bisogna non dare l’impressione di lavorare gratis per la polizia, criminalizzando i compagni più esposti, bisogna cogliere quello che si ritiene essere un punto debole, colpire, evitando nel modo più assoluto di parlare del problema in questione, ma solo elencando accuse di tipo personale, in modo che nessuno possa dire di aver fatto un errore su questo punto o di non aver compreso quell’altro punto: tanto non si è parlato di nulla, ci si è limitati soltanto a vaghe affermazioni di “indignazione” e di “preoccupazione”.

C’è da chiedersi se possa essere producente polemizzare con gente simile che si nasconde dietro il dito dell’inutilità dell’approfondimento per elencare una serie ragguardevole di contumelie. Quanto meno, onde farle gradire a chi le riceve, è buona norma di coloro che ancora usano la grammatica intercalare le contumelie con un’analisi – o, almeno, un tentativo di analisi – dell’argomento che ha dato origine alle contumelie stesse onde consentire al lettore di buona volontà di mettere da parte quest’ultime e verificare l’analisi.

Ma, evidentemente, non essendoci ancora sbarazzati della grammatica, siamo tutti legati a inezie di questo tipo. Forse il vero rivoluzionario è il nostro caca inchiostro che dice, chiaro e tondo: “...nostra intenzione non è... tanto di discutere e dunque di argomentare punto per punto e ribattere e documentare, quanto di testimoniare la nostra indignazione e la nostra preoccupazione”.

Quanto forte si dovrebbe gridare per farsi sentire da gente di tal fatta?

E poi, varrebbe la pena? Certamente no. Non sono certo le accuse personali che mi hanno spinto a scrivere queste pagine, anzi, in un certo senso, queste accuse mi hanno fatto piacere perché – per la prima volta – escono in un giornale anarchico con tanto di firma, mentre prima servivano solo ad alimentare le discussioni di corridoio che i sorci morti di un certo anarchismo da cineteca continuano ad alimentare.

Mi occuperò, quindi, dell’analisi che – secondo quanto ho cercato di suggerire – risulta implicita nel gesto di Henry. C’è da aggiungere che questa analisi, e il fatto che io ne abbia sottolineato i contenuti di attualità per il movimento rivoluzionario oggi, ha scandalizzato non solo professori universitari come l’estensore del “pro-memoria” per i carabinieri di cui parlavamo sopra, ma anche compagni seri che, tralasciando le contumelie, hanno cercato, scrivendomi, di approfondire il problema del “se” e “come” colpire “la borghesia nel mucchio”.

Dell’analisi

“[...] Paul Poirier era stato nominato professore d’anatomia alla Facoltà di Medicina di Parigi, quando un’altra disavventura, di tipo criminale, causò un poco di confusione nel laboratorio del maestro [...].

“Si era nel 1894. Avevano portato alla Facoltà di Medicina il corpo di un anarchico, Emile Henry, emulo del celebre Ravachol, giustiziato la mattina stessa in piazza della Roquette. Il professore Poirier lo aveva reclamato per il proprio laboratorio come aveva fatto qualche tempo prima per il cadavere di Pranzini. Fui incaricato, insieme ad altri tre colleghi, di prelevare dal cadavere dei frammenti anatomici di ogni tipo, destinati alle preparazioni e ad arricchire il museo della Facoltà.

“Da due ore buone eravamo occupati in questo lavoro di tipo un po’ particolare quando un colpo di telefono venne a disturbare il Patron. La Prefettura di Polizia l’informava che la famiglia del morto aveva reclamato il corpo e che quindi bisognava immediatamente rinviarlo alla Morgue...

“Poirier si precipitò nel laboratorio dove stavamo lavorando: Alt, ragazzi! – disse con la sua voce tonante – bisogna restituire Henry alla sua famiglia! E ci dette l’ordine di riparare tutti i guasti che avevamo fatto, procurandoci su altri cadaveri ciò che ormai mancava del corpo dell’anarchico. Per altre due ore, quindi, ci dedicammo a questo lavoro di rappezzatura, allo scopo di fare scomparire i danni che avevamo causato con i nostri scalpelli. Così restituimmo alla sua famiglia il corpo di Henry, rammendato in modo così perfetto che nessuno si accorse degli oltraggi che aveva subito. Sic itur ad astra!”.

André Pascal

Strana sorte quella di Henry. Come il documento sopra citato ci dimostra, il suo cadavere venne rosicchiato dagli scienziati dell’Università di Parigi, allo stesso modo in cui si cerca di rosicchiare adesso qualcosa della sua azione, e di ciò che con quella azione egli voleva manifestare al movimento rivoluzionario.

Certo, di Henry si parla con rispetto, si canta il suo nome nelle canzoni anarchiche, quelle vecchie, piene di sangue e di dinamite, ma quando si cerca di comprendere il significato del suo attacco alla borghesia, immediatamente si è presi dal dubbio. Si cerca di isolare questa azione, relegandola, insieme all’attentato al Diana, nel “passato anarchico meno esemplare”. In merito c’è da dire subito una cosa. Mettere insieme l’azione di Henry e l’attentato al Diana è un tentativo, maldestro, di confondere i compagni, in quanto tra le due azioni passa molta differenza. Nel gesto di Henry non c’è nulla di tutto quello che di oscuro e di non mai ben chiarito è emerso nei riguardi del fatto del Diana, tanto valeva – per rendere ancora più confuse le cose – paragonarlo all’attentato di Piazza Fontana.

Henry si reca con una bomba in un caffè della Parigi “fine secolo”, un caffè frequentato dalla migliore borghesia della capitale, vi getta il suo ordigno, cerca di scappare, non vi riesce, è arrestato, imprigionato, processato e giustiziato.

Tutto qui. Perché ho cercato, nella mia recensione incriminata, di spiegare che – secondo me – la sua azione contiene un contributo teorico, un’analisi di classe che va meditata, anche oggi, senza falsi moralismi? Semplice. Perché sono pienamente convinto della verità di quello che affermo. E il dibattito che il movimento svilupperà su questo argomento non potrà non dare conferma a questa mia idea. Non mi tocca per nulla l’accusa che mi viene rivolta che con questa recensione ho cercato di “impressionare il borghese” o “meglio, di impressionare l’anarchico” (sic!), come non mi tocca per nulla la notazione che nel far ciò – da anni – impiego “la modestia di un pubblico ministero, il garbo di un attaccabrighe e l’ingenuità di un pubblicitario”. Sono parole. Veniamo ai fatti.

Secondo me Henry ha fatto un’analisi di classe. Ci ha detto che, individuata – anche riguardo il luogo fisico – l’esistenza della borghesia, egli ha inteso colpirla: non individuo per individuo, soppesando le singole responsabilità, ma in quanto classe, indiscriminatamente, in quanto classe che gestisce il dominio e lo sfruttamento. Egli ha individuo il nemico e ha proceduto a un atto di guerra di classe. Niente di più, niente di meno.

Il punto più importante, a mio avviso, – se si vuole avere la compiacenza di arrestare per un attimo il fiume di contumelie che mi è stato indirizzato contro – è quello di decidersi in merito alla possibilità di individuare il nemico: che poi questo nemico lo chiamiamo borghesia, che lo chiamiamo potere, che lo chiamiamo tecnoburocrazia, che lo chiamiamo Stato, si tratta di diverse parole che usiamo per aiutarci nella ricerca, nell’analisi, non di ostacoli che costruiamo per impedire la nostra azione.

Insomma: se ci dedichiamo a precisare meglio la causa dello sfruttamento, l’insieme di persone e cose che lo rendono possibile, non è perché in questo modo possiamo metterci l’animo in pace dicendo a noi stessi: ecco, finalmente sappiamo quali sono le cause dei nostri guai, voltiamoci dall’altra parte e dormiamoci sopra. Quand’anche qualcuno di noi, affetto dalla malattia del caca inchiostro, potesse illudersi di far questo, la stessa cosa non sarà possibile per coloro che subiscono veramente lo sfruttamento (che di regola sono persone diverse da coloro che dissertano sullo sfruttamento). Ecco, quando queste ultime vengono in possesso di quei chiarimenti, quando leggono le analisi e si rendono conto di certe azioni, che cosa devono fare? Voltarsi anche loro dall’altra parte? No! questo non lo possono fare perché da qualsiasi parte si volgano subiscono sempre allo stesso modo la pressione dello sfruttamento. E allora si indirizzano per colpire proprio quegli obiettivi che le analisi e le azioni avevano contribuito a chiarificare.

E per quale altro motivo quelle analisi avrebbero dovuto essere fatte? Quale senso ha un’analisi che non serve per l’azione? In che modo può valutarsi una persona che scrive – come il nostro caca inchiostro – “È vero che a livello d’astrazione sociologica è possibile ancora individuare – come abbiamo fatto anche noi – una classe dominante (ibridamente capitalistica e tecno-burocratica) che occupa il vertice della piramide sociale, ma un conto è individuare le barriere di classe in sede analitica, un altro è identificarle operativamente”, in che modo può valutarsi se non come un cialtrone “sociologico”, degno di posare il culo a fianco di quello del non mai lodato Luciano Pellicani, servo sciocco ed erudito della socialdemocrazia delle supercarceri e della decimazione sui posti di lavoro?

Ora, mi chiedo, quando un compagno, un proletario, un disoccupato, o un gruppo di compagni o di proletari che hanno accumulato per anni tutta la carica di odio che lo sfruttamento produce, che si sono mangiati il fegato per anni non sapendo cosa fare contro coloro che stavano loro di fronte, perché troppo difficile individuarli, troppo difficile coglierli nel preciso momento delle responsabilità di classe, quando costoro prendono tra le mani un libro come I nuovi padroni [Edizioni Antistato, Milano 1978] e cominciano a leggerlo, ecco, io mi chiedo, per quale diavolo di motivo dovrebbero cacciar di tasca 6.000 lire per leggere “qualcosa” sui padroni. Che cosa può interessare loro dei “padroni” “vecchi e nuovi”, se non un contributo che li possa aiutare a meglio individuarli e, una volta individuati, a meglio colpirli?

Qua la cosa è chiara. O i realizzatori del libro sui “nuovi padroni” hanno fatto questa vasta opera d’impegno analitico per farla circolare nell’àmbito ristretto dei professori d’università che hanno ogni interesse a meglio conoscere i padroni per meglio servirli, oppure l’hanno fatto per fornire un contributo al movimento rivoluzionario degli sfruttati. Se, come pensiamo, nelle loro intenzioni era la seconda ipotesi, non vedo che cosa ci possa essere di strano se questi ultimi, leggendo il libro, lo considerino come uno strumento di chiarificazione per colpire il loro nemico. E quale migliore ricompensa per gli autori del libro, almeno per quelli tra loro che si dicono anarchici e – in quanto tali – passano per rivoluzionari?

Ora, lasciando da parte i contributi che in questo libro si trovano e che sono dovuti alla penna di servitori dei padroni universalmente conosciuti come Pellicani e soci (cui, l’ho detto e lo ripeto qui per evitare malintesi, bisognerebbe sparare in fronte e non consentire loro di parlare nei convegni organizzati da anarchici), restano i contributi come quello del nostro caca inchiostro dove si legge con grande chiarezza:

“Questi per l’appunto sono, secondo noi, i nuovi padroni: tecnocrati e burocrati, o meglio tecnoburocrati, non solo e non tanto perché tecnocrati e burocrati presentano, a nostro avviso, sufficienti caratteri di affinità di classe da richiedere un’unica definizione anche terminologica, quanto perché tecnocrazia e burocrazia possono essere visti come due modi di essere dello stesso dominio di classe, due modi di gestire il potere, due modi di ordinare i criteri decisionali...”.

Non solo, ma il nostro solerte caca inchiostro trova anche l’acume “tassonomico” di farci una elencazione o “tipologia” dei nuovi padroni; funzionari statali (“i quali detengono una quota non indifferente di potere decisionale, potere politico soprattutto e in varia misura, a seconda delle rispettive competenze, anche potere economico”), tecnoburocrati che si collocano ai gradi gerarchici superiori delle forze armate, dirigenti di imprese pubbliche che si confondono – a un certo punto – con i dirigenti delle grandi imprese capitalistiche, dirigenti politici e sindacali (“gestori della conflittualità sociale”). E a conclusione di questa bella elencazione scrive: “Come era ed è necessario che i proletari identifichino nel borghese un nemico di classe e nel sistema capitalistico una macchina di dominazione e di sfruttamento che va demolita, così la lotta di classe non diventerà lotta consapevolmente rivoluzionaria se altrettanto chiara non diventa la identificazione di un nuovo nemico di classe nella tecnoburocrazia”.

Strana conclusione davvero! Che gli sia dato di volta il cervello? Queste ultime affermazioni sembrano avere tutta l’aria di indicazioni operative. Ma, misteri della grammatica.

Però, chi di grammatica non è pratico, potrebbe leggerle come tali e vederle come chiarimenti per la lotta. Non tutti sono a dentro alle sottigliezze della filosofia.

Ora, prendiamo, per esempio, un povero disgraziato di proletario, con i coglioni gonfi e le spalle curve, il quale attirato dal titolo: I nuovi padroni e sentendosi l’animo sollevato si dica: “finalmente! ecco delle indicazioni chiare su dove devo indirizzare l’odio che ho accumulato per tanti anni”. Badiamo bene, stiamo facendo un esempio, per amor di discussione, non vorremmo che qualcuno ci accusasse di dire, qui, che se domani ammazzano un generale la colpa è del caca inchiostro che l’aveva incluso nell’elenco dei “nuovi padroni”. Ma torniamo alla nostra ipotesi. Quindi, se un proletario vede quell’elenco, e tutto rinfrancato si dà da fare, se un gruppo di sfruttati si organizza e prende quell’elenco che, si noti, in altra sede era anche stato pubblicato dal nostro caca inchiostro in forma di catechismo, più ampio e sotto la sigla di un intero movimento politico, e con quell’elenco si dà da fare, poniamo nei ministeri, nelle caserme, nelle grandi industrie, colpendo proprio quella classe che – con maggiore o minore acume sociologico, non è questo il problema – era stata individuata e messa sotto l’attenzione degli sfruttati, se ciò avviene, che cosa facciamo?

Non facciamo proprio nulla. Se, come scrive lo stesso caca inchiostro (ma deve essere stato un errore di calamaio), quella analisi serve per far diventare più consapevole la lotta rivoluzionaria, non ci strapperemo i capelli per questo. Oppure, il nostro esimio professore, ci ripenserà sopra e, nel momento dello scontro, andrà a chiudersi in biblioteca recitando il mea culpa per “aver dato scandalo”?

E se egli trova naturale scrivere robe di questo genere, “tassonomie” non dei vegetali ma delle classi degli sfruttatori, perché trova tanto poco naturale che altri faccia la stessa cosa con l’azione?

Come mai il suo acume sociologico gli viene improvvisamente meno e con spudorata cialtroneria arriva a includere nella “borghesia” le “casalinghe che votano DC e danno retta al prete e a Gustavo Selva, e gli operai che si fanno Stato con il PCI e i sindacati”? O come mai gli viene in mente che si possa paragonare la proposta analitica che ci viene dall’azione di Henry con una bomba in un qualsiasi bar di piazza Duomo a Milano o – meglio ancora – in piena via Etnea a Catania? Come mai quegli occhi tanto abituati a scrutare nella “tassonomia” di classe, adesso si chiudono nella più completa cecità?

Anche il ricordarmi l’azione di Bertoli e la critica che a suo tempo scrissi su quell’azione è un segno che non è stata capita – o, meglio, non è stata voluta capire – la proposta analitica che avanzavo in quella mia recensione. L’azione di Bertoli non fu un attacco alla borghesia “nel mucchio” come vuole farcela passare il nostro caca inchiostro, attacco andato a male per un errore di calcolo, ma un attacco andato a male per un errore di valutazione analitica dell’obiettivo. E l’errore non fu nella maggiore o minore lunghezza del lancio della bomba, ma nella scelta dell’obiettivo. E, come ho avuto occasione di precisare altre volte, quell’errore che lo stesso Bertoli non può non ammettere, non può non attribuirsi se non a una carenza analitica – per me incomprensibile – in una persona che si definisce individualista anarchico. Tutto qui. Null’altro da dire sulla questione Bertoli. Che adesso, a quanto mi risulta, egli conduca le sue battaglie in carcere non può che tornare a suo onore, ma nulla sposta in merito alla valutazione negativa di quella sua azione passata.

Di più, proprio perché ritengo interessanti le azioni contro gli sfruttatori, anche quelle che si sogliono indicare con la frase “colpire nel mucchio”, e proprio perché ritengo che nell’azione di Bertoli ci fu una carenza di tipo analitico, cioè una carenza nell’individuazione dell’obiettivo da colpire, penso sia di grande utilità approfondire il problema. Col rinfacciarmi la mia critica all’azione di Bertoli mi si è voluto mettere davanti un ostacolo che non esiste. Se quell’azione avesse soddisfatto riguardo l’obiettivo da colpire, a suo tempo, sarei stato tra i primi a salutarla come ben arrivata.

In conclusione, non c’è chi non veda che in tutta questa faccenda ci si è comportati da veri sordi. In primo luogo il nostro amico caca inchiostro, seguito dall’intera redazione del giornale che ha ritenuto opportuno riconoscersi “appieno” nel suo scritto. Della proposta analitica nessuno ha parlato, come se la controparte fosse sfumata nel nulla, come se da un momento all’altro non esistesse più lo scontro di classe e, tutti fratelli, potessimo abbracciare i nostri sfruttatori.

Ora, io mi chiedo molto semplicemente. Se esiste un modo di attaccare i nostri nemici, se questi nemici sono ben individuati, se abbiamo i mezzi per attaccarli, se c’è qualcuno tra di noi che vuole attaccarli, mi chiedo, come deve essere considerato colui che cerca di ritardare questo attacco con cavilli filosofici? Non è il caso di chiedere a questo tizio da quale lato della barricata stia?

Capisco la critica seria, anche radicale, quella che viene spesso chiamata critica critica e che rischia di scadere, a volte, nel regno astratto dell’ipercritica, ma la denigrazione, la dichiarata chiusura davanti a ogni approfondimento, il rifiuto di ammettere l’evidenza, l’uso degli insulti per coprire i disperati tentativi di recupero, come deve essere giudicato tutto ciò?

Dell’uno e dei molti

“Le donne che, nel 1871, sfondavano con i loro ombrelli gli occhi dei comunardi uccisi, hanno avuto dei figli. Questi bambini sono nella magistratura, nell’amministrazione, nell’esercito. Essi portano il képi o la toga, essi uccidono con il codice, i regolamenti o la spada, ma uccidono senza pietà. I borghesi hanno avuto paura!!! Essi si vendicano d’avere avuto paura!!!”.

Albert Libertad

Il concetto di classe è tra i più difficili a cogliere e non è certo questo il momento adatto ad approfondirlo. Ci basta fare alcune affermazioni molto semplici.

Un singolo sfruttatore si individua abbastanza facilmente. Si può dire che ogni sfruttato ha a portata di mano uno o più sfruttatori, cominciando dalla tremenda categoria dei capetti, per arrivare a quella dirigenziale e a quella costituita dai grossi responsabili.

Più difficile è rendersi conto dei meccanismi che legano i responsabili dello sfruttamento tra di loro.

Facciano attenzione, gli analisti ipercritici, perché, a voler andare fino in fondo, partendo dall’ipotesi delle esclusioni progressive, che tanto la responsabilità si trasferisce indietro all’infinito, ci si ritrova con nulla nelle mani: il conflitto di classe si spegne nelle nebbia dell’interclassismo.

Faccia attenzione il prete travestito quando con una faccia da schiaffi e la compunzione del migliore gesuitismo di questo mondo scrive: “E non ci si venga a dire che uccidere un poliziotto è coerente con i nostri fini perché elimina uno strumento del potere. Questo è confondere gli uomini con i ruoli, il che è eticamente iniquo, logicamente sciocco e strategicamente folle. Come pensare di eliminare lo sfruttamento dell’agricoltura ammazzando fruttivendoli o di eliminare la religione uccidendo curati di campagna”. Faccia attenzione questa degna persona a non ripetere idiozie del genere quando si trova vicino a qualche sottoproletario, a qualche ex detenuto che ha sofferto decine di giorni di letto di contenzione, a qualche sfruttato veramente incazzato, perché, nel caso che questa gente riuscisse in tempo a riaversi dallo sbalordimento causato loro dalla suprema idiozia di queste affermazione, gli spaccherebbero la faccia senza fare tante chiacchiere.

Ma, a parte i rischi fisici che questo prete travestito potrebbe correre, di cui non me ne importa nulla, resta il fatto che quella frase denuncia uno stato demenziale di putredine socialdemocratica che non avevamo mai riscontrato all’interno del movimento anarchico. E se al caca inchiostro, suo degno compare, resta un briciolo di onestà, egli non potrà non ammettere che le mie vecchie critiche a una certa componente del movimento anarchico dovevano pure avere un qualche fondamento se simili imbecilli fanno addirittura parte della redazione che si è manifestata “solidale” con lui.

La verità è che quando si affronta il problema del rapporto tra l’uno e i molti, il vecchio spirito cristiano della colpa e della condanna prende il sopravvento. Il singolo sfruttatore viene pesato dall’intellettuale ipercritico, le sue responsabilità vengono valutate e, sul piano etico, viene pronunciata la condanna nei suoi confronti. Quando si ha la classe davanti, la classe degli sfruttatori, mancando la possibilità di quantificare in modo immediato i vari gradi di responsabilità, si è presi dal panico, balzano subito davanti agli occhi i fantasmi dell’indiscriminato, del mucchio, dell’innocente che muore accanto al colpevole, del rischio etico che si corre.

Non so perché ma quando si parla delle possibilità di considerare in modo più ampio lo scontro di classe, passando, dalla fase degli attacchi singoli, ad attacchi più ampi, attacchi capaci di colpire obiettivi più vasti, attacchi diretti contro le cose e gli uomini del capitale, si pensa subito al nazismo, si hanno davanti gli elicotteri dello scià che mitragliano i dimostranti, gli aerei americani che sganciano le bombe atomiche sul Giappone, i bombardamenti a tappeto, i genocidi nel Vietman.

Che cosa ha a che vedere tutto ciò col problema di attaccare la classe degli sfruttatori, quella classe che impropriamente siamo soliti chiamare borghesia, e colpirla – nei limiti del possibile – nei suoi uomini e nelle sue proprietà?

Perché fare simili paralleli? Se si è in buona fede, come per alcuni compagni che mi hanno criticato in questo senso, ma con onestà e chiarezza, si tratta di un semplice errore nell’uso dello strumento analitico: qualcosa non ha funzionato nell’individuazione della classe avversa. Bisogna fare ogni sforzo per chiarire questa parte analitica, non trincerarsi sulle caratteristiche “a priori” riguardanti lo strumento che viene usato. Non possiamo dire: attaccare la merce-capitale è legittimo, non è legittimo attaccare l’uomo che realizza lo sfruttamento. Come non possiamo dire: attaccare un singolo sfruttatore è legittimo, non è legittimo attaccarne dieci. Che senso avrebbe tutto ciò?

Ora, i molti si differenziano dall’uno in conseguenza del fatto, molto elementare, che si ritrovano insieme, stanno vicino, si dedicano agli stessi obiettivi (per cui la vicinanza anche fisica non è un accidente marginale), percorrono la stessa strada. E gli sfruttatori si ritrovano insieme, uniti dall’istinto di classe, dalle reazioni che la classe istintivamente mette in moto, dalle scelte e dalle preferenze di classe.

Un’analisi di queste composizioni e scomposizioni non può limitarsi a una statica classificazione, anche “aggiornata” di tanto in tanto, essa deve essere capace di cogliere quegli elementi dinamici che concorrono a caratterizzare la classe degli sfruttatori allo stesso modo, se non di più, degli elementi di maggiore durata.

L’appartenere agli alti gradi dell’esercito – come ci ha mostrato l’illuminante analisi del nostro caca inchiostro –, insieme all’appartenere ai vertici dirigenziali dell’amministrazione dello Stato, della magistratura, delle banche e delle industrie (private e pubbliche), costituisce quello che potremmo chiamare l’elemento della persistenza, quello che la classe presenta “nel tempo” con una certa costanza. Infatti, gli ufficiali dell’esercito, i magistrati, i deputati, gli uomini che dirigono l’amministrazione dello Stato, delle banche e delle industrie private e pubbliche non modificano il loro “stato sociale” da un giorno all’altro, questo genere di modificazioni è assai lento. Sono i rapporti dinamici, che hanno una vasta componente personale, che si modificano più velocemente, ed è su questi che bisogna riflettere se si vuole pervenire a un’analisi di classe che non sia vuota dottrina affidata alla polvere delle biblioteche.

È fuor di dubbio che gli sfruttati sanno quasi tutti che i gradi superiori dell’esercito, della magistratura, dell’amministrazione dello Stato, delle banche, delle imprese industriali private e pubbliche non sono soltanto dei “ruoli”, ma corrispondono anche a persone fisiche. Gli sfruttati sanno benissimo – contrariamente al nostro prete travestito di cui si parlava sopra – che se sotto a ogni ruolo ci sta un uomo, le responsabilità del ruolo non assolvono l’uomo, in caso contrario ai criminali nazisti avrebbero potuto benissimo dare una pensione e un diploma ricordo, invece di impiccarli a Norimberga. Pertanto, poiché la maggior parte degli sfruttati, fortunatamente, non è pratica di sottigliezze grammaticali, sa perfettamente che quei ruoli corrispondono a persone fisiche ben determinate. Quello che non sa è “dove” queste persone svolgono il loro “lavoro”, “in che modo” si tengono in contatto tra di loro, quali sono le loro “preferenze”, i loro “gusti”, le loro piccole e comuni “debolezze” personali. Qui sta il problema della differenza tra l’uno e i molti. Quello che tanti “analisti” politici hanno fatto finora è stato di dare un gran numero di indicazioni riguardo gli aspetti statici del nemico, contribuendo a sviluppare nell’animo degli sfruttati la sensazione che questi aspetti costituissero tutto quello che si poteva “sapere” su questo argomento, in quanto “il resto” era simile a quello di tutti gli altri esseri umani, simile a quello di tutti i mortali. Le differenze di classe, secondo questi indagatori del mistero rivoluzionario, erano tutte nel “ruolo”. Nessuna differenza esisteva fuori del ruolo. Quando il generale usciva dal ministero della difesa, con la sua macchina di servizio, scortato dai suoi bravi sgherri, era ancora un generale, ma non appena arrivava a casa, metteva la divisa nell’armadio e si sedeva a tavola smetteva di essere un generale e diventava un uomo come tutti gli altri. Ecco che cosa si è detto finora. Nessuno ha cercato di andare oltre e spiegare che anche senza la divisa il generale resta generale e che appena finito di mangiare si incontrerà con altri generali, con magistrati, con uomini d’affari, con gente del “suo rango”, della sua “classe” e che in questi incontri la sua mente sarà costantemente occupata a perfezionare il meccanismo dello sfruttamento, perché quello è l’unico compito che la sua appartenenza di classe gli assegna. Nessuno ha detto che sono proprio questi rapporti dinamici e “personali” che vestono di carne e di sangue il muto scheletro del “ruolo”, nessuno ha cercato di approfondire il contenuto reazionario di questi rapporti.

Ed è veramente stupefacente che quando un argomento del genere viene affrontato, in modo approssimativo e occasionale – come appunto può essere la sede della recensione a un libro – non solo non si cerca di approfondirlo, ma si salta addosso come cani rabbiosi a colui che ha osato toccare il “sacro” limite.

Tornando ai legami di classe di tipo “dinamico”, appare subito il grande interesse che questi riscuotono dal punto di vista rivoluzionario. Infatti, non si tratta per nulla di quella “indiscriminazione” che i critici malevoli hanno sottolineato, come se a essere chiaro e distinguibile fosse soltanto il “ruolo” e non il rapporto al di là del ruolo. È questo rapporto che arricchisce il ruolo, che lo allarga, che lo colloca all’interno della classe. Un magistrato, avvolto tutto il tempo nella sua toga e nell’esercizio delle sue funzioni non è altro che una macchina per applicare le leggi. Poi, nei suoi rapporti dinamici, diventa un uomo responsabile dell’oppressione e dello sfruttamento, diventa uno sfruttatore, e in questa fase dinamica del suo essere responsabile egli si accosta agli altri sfruttatori, supera i limiti della casta, dell’associazione, e si apre ai confini più ampi della sua classe. Mille indicazioni ci sono utili per cogliere i momenti di questa apertura, e queste indicazioni corrispondono ad atteggiamenti, gusti, scelte, preferenze, tabù, frequentazioni, che quell’uomo mette in atto, luoghi che frequenta, compagnie che sceglie, mezzi d’informazione che utilizza, strumenti culturali e ideologie che manipola e da cui è manipolato. Tutto questo grosso corredo d’interventi dinamici nella realtà costituisce quell’altra parte dell’analisi di classe che travalica il ristretto limite del ruolo, che rispetta il dominio della struttura ma che – correttamente con l’analisi su cui gli anarchici hanno insistito da tempo – non ne indica le frontiere come qualcosa di invalicabile.

Se colpire un magistrato, o dieci magistrati, può essere discutibile a livello strategico, per le inevitabili conseguenze che il fatto comporta sia nei riguardi delle prospettive rivoluzionarie del movimento, sia – in senso più largo – nei riguardi delle prospettive di liberazione degli sfruttati, e su questo argomento si è discusso a lungo e si sono sviluppate tesi opposte ma dirette alla chiarificazione dei problemi, non c’è dubbio che non per questo il magistrato smette di essere uno sfruttatore e dieci magistrati messi insieme smettono di essere dieci sfruttatori messi insieme. Per quante discussioni si facciano questa verità non potrà essere contraddetta, perché allora si dovrebbe affermare che gli sfruttatori non vanno attaccati e anzi vanno aiutati nel loro lavoro di sfruttamento perché questo risulta utile a qualcosa. Quindi, dato che nessun rivoluzionario potrà mai arrivare a dir questo (e tanto meno un anarchico) resta valida l’affermazione che un magistrato o dieci magistrati sono sfruttatori e che la discussione – se discussione vi deve essere – è da limitarsi ai problemi strategici e non etici.

Ora, ancora una volta mi chiedo, perché l’azione diretta a studiare il modo di colpire dieci magistrati in una volta, anziché uno solo debba essere considerata azione “indiscriminata” a priori, e non invece sottoposta, come si è detto prima, alla critica di natura strategica come ogni altra azione rivoluzionaria che si supponga teoricamente realizzabile?

Da dove deriva la legittimità logica che il numero comporta automaticamente il concetto di “indiscriminazione”, quando la discriminazione è basata essenzialmente sullo scontro di classe?

Dieci sfruttatori non perché si mettono insieme cessano per questo di essere sfruttatori. Il cercare di attaccarli, quindi, deve – a mio avviso – essere sottoposto a valutazione critica di natura strategica e non può autorizzare nessuno a affermare che si tratta di un “indiscriminato” colpire nel mucchio, in quanto il “mucchio” degli sfruttatori di cui si discute è tutt’altro che indiscriminato, ma è perfettamente messo in luce dalla posizione di classe.

Con ciò mi sembra sufficientemente dimostrato che non è la differenza tra l’uno e i molti che giustifica l’azione rivoluzionaria, ma l’appartenenza – dell’uno o dei molti – alla classe dei responsabili dello sfruttamento.

Risulta quindi una sconcia deformazione della realtà quanto viene affermato dal nostro caca inchiostro: “Per ora, in quella recensione, si pone ancora un limite all’indiscriminazione della violenza: nel mucchio della borghesia”. Non è affatto vero che questo limite si pone “per ora”, ma è un limite che è esistito da sempre per tutti i rivoluzionari, e per sempre esisterà, in quanto l’attacco che questi conducono è contro gli sfruttatori e non possono esistere confusioni, come il concetto di “indiscriminazione” vuole subdolamente introdurre.

Se di qualcosa si deve parlare, pertanto, si parli di valutazioni strategiche, e non si strilli come tante oche spennate vive, invocando scioccamente la salvaguardia dei “valori umani” che nessuno si è mai sognato di mettere in dubbio. Sono proprio gli sfruttatori a negare valore alla vita di coloro che vengono uccisi ogni giorno sui posti di lavoro e in cento altri modi diversi, senza che la cosa susciti altrettanto sdegno e preoccupazione nel nostro caro caca inchiostro e nel suo degno compare, il prete travestito.

Della merce e degli uomini

“Merce e uomini... ma tanto vanno i nomi alle cose che gli esseri li pèrdono”.

Raoul Vaneigem

Ma perché insistere nel colpire gli uomini, e non approfondire il discorso di come e perché colpire le merci, le tecnologie, i meccanismi?

Perfettamente d’accordo.

Ancora una volta ci troviamo davanti a un equivoco. Chi ha letto nella mia affermazione di considerare l’azione più ampia, contro il nemico di classe, come una “preferenza” naturale per l’attacco contro gli uomini e una valutazione negativa dell’attacco contro le merci, non ha tenuto conto delle indicazioni precise che ci vengono dalla stessa analisi di classe che l’allagarsi dell’attacco rende possibile, cioè quel passaggio dalla visione “statica” dei ruoli, alla visione “dinamica” dei rapporti.

La staticità del ruolo fissa l’uomo nell’immagine che il capitale gradisce, quella della divisione del lavoro, da cui derivano i diversi comportamenti che è logico attendersi, e in cui trovano fondamento gli “stati” dei singoli individui. Nel progetto di trasformazione dell’uomo in merce, il capitale ha bisogno del ruolo, allo stesso modo in cui ha bisogno della divisione del lavoro. La produzione dell’uomo-merce è una delle condizioni specifiche perché si metta in marcia quella più ampia produzione che garantisce la persistenza del capitale: la produzione della pace sociale. È l’istinto di rivolta che viene a uccidersi nell’uomo trasformato in merce, come nella cosa trasformata in merce si uccide la sua originalità d’uso e il suo significato artistico.

L’equazione uomo-merce è stata realizzata dal capitale, e corrisponde alla sua visione del mondo che è quella produttivistica. Non ci si deve illudere, a essere modificati in merce non sono solo i produttori, poveri disgraziati che si ammassano davanti ai cancelli delle industrie, ma anche i grossi personaggi, i grandi responsabili dello sfruttamento. Non appena qualcosa va storto nel funzionamento della ripartizione dei ruoli, ci si accorge come questa legge del capitale vale anche per questi ultimi. Basta pensare ad Aldo Moro per rendersi conto di come quest’uomo, che sembrava dominare la scena del comando politico, si sia visto, da un giorno all’altro, trasformato in merce, e di come sia rimasto sbalordito da questa scoperta, contribuendo ad accrescere lo sbalordimento generale.

Il capitale ha bisogno di questo processo di livellamento per costruire il passaggio dalle singole produzioni, quindi dai singoli processi di accumulazione, alla produzione in generale, a quel processo complessivo – che si va sempre più delineando con chiarezza – che unifica tutte le accumulazioni separate nella produzione della pace sociale. Non sarebbe esatto, mi sembra, dire che il capitale “nientifica” l’uomo, trasformandolo in merce, e che quindi il capitale è l’unica vera e propria forza “nichilista”, in quanto questa affermazione rende confusa l’azione concreta che il capitale realizza e, inoltre, attribuisce al termine “nichilista” un senso che questo non possiede.

Il capitale, nel trasformare l’uomo in merce non vuole “distruggere” l’umanità dell’uomo, vuole soltanto impiegare, nel modo più razionale possibile, uno strumento della produzione. La sua capacità di distruzione dell’umanità dell’uomo è affatto involontaria, una conseguenza del processo di produzione. Per cui l’azione del capitale non è mai coscientemente distruttiva, ma è “costruttiva” secondo le sue regole, regole che, tradotte nel senso dei valori proletari, risultano capaci di annientare i valori umani e trasformare, appunto, l’uomo in merce.

Al contrario, la capacità distruttiva organizzata degli sfruttati è implicitamente capacità costruttiva nel senso della liberazione perché è distruzione del lavoro, dell’accumulazione, della produzione di pace sociale, del progetto del capitale di cambiare l’uomo in merce. Questo progetto distruttivo, quello degli sfruttati, non può essere considerato uguale a quello del capitale, non possono stabilirsi paragoni, anche se spesso, per difficoltà di linguaggio, siamo obbligati a ricorrere all’uso di parole che suonano in modo identico. Da queste limitazioni linguistiche derivano le confusioni ideologiche che vengono alimentate – in buona e mala fede – da chi non vuole o non può approfondire il problema.

Per cui, anche con la migliore buona fede di questo mondo, dire che il capitale è “la forza più nichilista del nostro tempo” è, nello stesso tempo, giusto e sbagliato, in quanto nulla ci viene detto prima, in merito al significato del termine “nichilista”. La distruzione che il capitale realizza non ha nulla a che vedere con quella che gli sfruttati stanno realizzando e realizzeranno fino al momento della loro definitiva liberazione. Ed ha importanza marginale se, secondo i gusti, si vuole dare al termine “nichilista” un significato positivo o negativo.

Personalmente penso che bisognerebbe evitare di fare ricorso a parole di uso dubbio per nascondercisi dietro.

La distruzione dell’umanità dell’uomo viene realizzata dal capitale, nel corso della sua trasformazione dell’uomo in merce, in modo inconscio: il progetto cosciente del capitale è quello della coordinazione delle produzioni allo scopo di porre in atto quella produzione conglobata che realizza la pace sociale.

La distruzione del progetto del capitale viene realizzata dagli sfruttati, nel corso dello scontro di classe, in modo cosciente: il progetto rivoluzionario dipende – nel suo svolgimento – proprio dal livello di questa coscienza.

Quindi non si tratta di essere più o meno distruttivi del capitale o, se si preferisce, più o meno “nichilisti”. Nessuna logica “concorrenziale”.

Colpire gli sfruttatori (nel “mucchio”) non è una proposta diretta a condurre il movimento rivoluzionario su livelli di scontro “concorrenziali” con il potere. Nessuna proposta può far ciò, nessuno scritto – per quanto “incendiario” – può tradurre in realtà quello che solo la reale consistenza dello scontro di classe può realizzare. Quindi, stiano calmi gli isterici che si sono “preoccupati”, e riflettano meglio i compagni che non si sono preoccupati ma non hanno approfondito il problema come si deve (o almeno così pare). Discutere del gesto di Henry, fuori da una concreta contrapposizione di classe in corso, non è più pericoloso di discutere del sesso degli angeli. Solo quando la contrapposizione esiste e agisce sulla coscienza degli sfruttati, solo allora la discussione anche del gesto di Henry può avere la sua importanza, le sue conseguenze, il suo significato. E, fino a questo momento, nessuno ha dato delle indicazioni critiche talmente convincenti che possano far concludere per una condanna, a priori, di qualsiasi tentativo diretto a colpire gli sfruttatori “nel mucchio”.

Ben vengano queste critiche, ma che siano tali da darci ulteriori informazioni in merito alla possibilità di individuare questo “mucchio” (quindi che siano strumenti per una analisi della classe degli sfruttatori), che sviluppino considerazioni di natura strategica riguardo le prospettive del movimento rivoluzionario nel suo insieme, che trattino delle conseguenze che si potranno determinare nei rapporti tra minoranze rivoluzionarie e movimento degli sfruttati.

Ben vengano anche le critiche serie che trattino del rapporto mezzi-fini, ma che siano approfondite, che ci facciano vedere come i fini non sono fissati in modo stabile e per sempre, ma che la stessa lotta di classe li modifica, che diventa illusorio affermare, in modo vago e generico, che questi fini sono la liberazione dell’uomo, se poi non si è in grado di dare indicazioni concrete sull’azione ideologica che il potere esercita sulle masse spingendole a rifiutare esse stesse la propria liberazione, che ci presentino il rapporto suddetto tra mezzi e fini non come qualcosa di “sacro”, strumento per emettere scomuniche nei confronti di coloro che s’intestardiscono a studiare i mezzi, ma come problema aperto che si approfondisce non tanto per far prevalere la nostra “tesi” ma per indicare agli sfruttati i pericoli delle “soluzioni” avanzate dalle forze controrivoluzionarie che si spacciano per rivoluzionarie.

Infine, bisogna chiarire che quando parliamo di allargare il fronte dell’attacco, nel concetto tanto discusso di “mucchio” non vediamo per qual motivo non debba entrarci l’attacco alle merci, alle tecnologie, ai cicli di produzione, ai meccanismi. Proprio il superamento della staticità del ruolo, ci pare, deve rendere più facile passare all’interpretazione dinamica del concetto di classe, interpretazione che comprende l’insieme interagente degli uomini e delle cose che costituiscono il capitale e che organizzano e rendono possibile lo sfruttamento.

Del terrorismo

“In Italia i terroristi sono solo i fascisti”

(Striscione esposto nel corso di un comizio anarchico)

Un esempio clamoroso di come il nostro caca inchiostro sappia manipolare la realtà delle cose, anche facendo ricorso alla menzogna, con una tecnica da fare invidia ai suoi colleghi giornalisti come Pellicani, ci viene dato dalla sua affermazione: “E qui ci viene irresistibilmente alla mente l’immagine fotografica di Alfredo Maria Bonanno (pubblicata su un opuscolo edito da “La Fiaccola” alcuni anni fa) che tiene un comizio dall’alto di un palco su cui spicca una grande scritta: Le bombe le mettono i fascisti”.

Invece su quell’ “immagine fotografica”, pubblicata dalla editrice “La Fiaccola”, in uno dei suoi opuscoli (il n. 20 della Collana La Rivolta), fatto uscire mentre mi trovavo in prigione, appare chiaramente la scritta: “In Italia i terroristi sono solo i fascisti”.

Come la mettiamo?

Evidentemente al nostro amico tornava comodo farmi indirettamente affermare che chi usa le bombe sono solo i fascisti, allo stesso modo in cui cerca di farmi affermare che se la discriminante tra compagni e non compagni è la P38, allora sono compagni anche i fascisti dei NAR. No, caro mio, questa tecnica diffamatoria e sbirresca lasciala ai tuoi degni compari, quelli che scrivono su “L’Europeo”, essa non è affatto degna di un anarchico. E come mai, voi che siete tanto attenti al momento etico – e parlo al plurale visto che tutta la redazione della rivista ha sottoscritto la responsabilità dell’ articolo – come mai ricorrete alla menzogna pur di farvi ragione? Infatti, tornava estremamente scomoda l’affermazione che il terrorismo è solo quello fascista, in particolare dopo che si insiste nel parlare di “terrorismo” anarchico.

Sia detta una volta per tutte, con chiarezza, il terrorismo è solo quello dello Stato, dei fascisti e dei padroni. Ogni volta che i compagni, per una malposta necessità di distinguere, usano il termine “terrorismo” per indicare le azioni di lotta armata portate a termine da compagni – di qualsiasi organizzazione questi facciano parte – non fanno altro che scavare la fossa sotto i piedi del movimento rivoluzionario.

Non è una semplice questione linguistica, ma un problema oggettivo. Il potere fa un uso larghissimo della parola terrorismo, per esercitare una pressione sulle masse. Lo scopo degli ideologi del potere è quello di convincere la gente che i terroristi minacciano tutti indistintamente, sia i grandi responsabili dello sfruttamento, sia gli operai e la povera gente. Il potere vuole fare apparire il “terrorismo” come qualcosa di indiscriminato, una pressione occulta che colpisce ciecamente tutti quanti. Così il potere cerca di convincere il lavoratore sfruttato che, la mattina, andando al lavoro, potrebbe trovarsi davanti un terrorista che gli spara addosso, che qualcuno potrebbe sequestrare suo figlio, potrebbe fargli saltare per aria la casa. È chiaro che questo progetto del potere riesce appena a scalfire gli strati proletari e sottoproletari, i lavoratori sanno benissimo verso chi è rivolta la violenza di quelli che lo Stato chiama “terroristi”, però la sola parola fa il suo effetto, e la mancanza di chiarificazione fa il resto.

Ora, quei compagni che concorrono ad aumentare questa mancanza di chiarezza, con i loro distinguo che finiscono per non distinguere nulla ma anzi per confondere di più le cose, sono responsabili anche loro della stessa mistificazione che il potere pone in atto, sono anche loro – involontariamente – collaboratori della repressione.

Terrorista non è chi si contrappone al potere con la violenza per distruggerlo, ma chi impiega mezzi violenti e spietati per garantire la continuazione dello sfruttamento. Quindi, poiché solo una ristretta minoranza è interessata alla continuazione dello sfruttamento (padroni, fascisti, politici di ogni risma e colore, sindacalisti, ecc.), è logico dedurre che i “veri” terroristi sono proprio questi ultimi, in quanto adoperano mezzi violenti per perpetuare lo sfruttamento. E la violenza di questa gente si realizza nella forza della cosiddetta legge, nelle prigioni, nell’obbligo del lavoro, nell’automatico meccanismo dello sfruttamento.

La ribellione degli sfruttati non è mai terrorismo.

Certo, a questa affermazione si può ribattere molto facilmente: se gli sfruttati in massa si ribellassero allora non si tratterebbe affatto di azioni terroristiche ma della rivoluzione e basta.

E se non vogliamo aspettare che gli sfruttati si ribellino in massa? Se non vogliamo attendere il “gran giorno”, e cominciare, ora, subito, a fare qualcosa, a smettere di difenderci e passare ad attaccare il potere? Se, in armonia con i principi anarchici, volessimo spingere gli sfruttati alla rivolta ribellandoci per primi noi stessi? Cosa saremmo, per aver fatto questo, saremmo terroristi? E a chi spetterebbe il compito di giudicarci tali? Al potere che ha tutto l’interesse a farlo, agli sfruttati spesso chini sotto l’oppressione fisica ed ideologica del potere, o ai compagni stessi? Chi saranno i nostri giudici?

Ma, qualcuno potrebbe dirci: una volta che queste minoranze che si ribellano e attaccano lo Stato, si dichiarano “partiti armati”, non siamo forse di fronte a un nuovo nemico, altrettanto pericoloso di quello che si vuole abbattere? Giusto, possiamo rispondere, ma la critica che indirizziamo a questi “partiti armati” non ci autorizza a essere meschini lacchè del potere, non ci autorizza a mistificare la realtà per gettare questi compagni in pasto ai boia della reazione. Deve essere una critica onesta, e per essere tale deve parlare chiaramente anche in merito al problema del terrorismo.

Per soffermarci un momento sul problema, notiamo che terrorista dovrebbe essere colui il quale vuole terrorizzare gli altri, vuole ottenere qualcosa imponendo il suo punto di vista con azioni che diffondono il terrore.

Ora, è chiaro che gli sfruttati vengono terrorizzati dal potere in cento modi. Questi infatti hanno paura di non poter lavorare, hanno paura della miseria, hanno paura delle leggi, del carabiniere, dell’opinione pubblica, subiscono un terrorismo psicologico massiccio che li riduce a una situazione di sudditanza quasi totale nei confronti del potere. Questo è terrorismo.

Quando vengono uccisi sul posto di lavoro, sulla strada, in sporadiche azioni di ribellione nel corso delle quali cercano maldestramente di riprendere quanto è stato loro tolto, nessuno spende per loro una parola, ma tutti strillano in coro per i rischi che la proprietà e la pace sociale hanno corso.

Questa situazione non è possibile che venga capovolta a opera di una minoranza armata. Non è possibile, cioè che si sottopongano al regime del terrore quegli sfruttatori che del terrore hanno fatto lo strumento del proprio potere e della propria ragione di esistere. Ciò non è possibile perché il terrore non è dato soltanto dall’immediata reazione fisica a una minaccia che stiamo subendo ma, ben più profondamente, è la conseguenza di una situazione generale in cui ci troviamo a vivere. Per cui si potrebbero sottoporre a minacce fisiche per lungo tempo gli sfruttatori senza terrorizzarli e senza farli desistere dal loro ruolo, cui sono obbligati dalla stessa ripartizione del processo produttivo e di potere. In concreto, oggi, vediamo che molti grossi e medi responsabili dello sfruttamento vivono in bunker, circondati da guardie del corpo, costantemente sotto l’impressione di essere minacciati, ma possiamo dire con ciò che essi “sono terrorizzati” e, ancor più, che proprio per questo metteranno la testa a partito e diventeranno più “buoni”? Assolutamente no. Essi non possono non continuare nella loro attività di sfruttamento, allo stesso modo in cui i proletari che continuano a morire sui posti di lavoro non possono non continuare ad andare a lavorare.

Non è certo col “terrore” che si modificano i rapporti di forza e i rapporti di produzione.

E allora, che senso ha la lotta armata? Che cosa significa attaccare gli sfruttatori e le loro proprietà?

Una spiegazione è quella che si riferisce alla cosiddetta “disarticolazione” dello Stato, cioè a quel tentativo che intende attaccare, nei suoi diversi livelli, i coordinamenti interni su cui si regge il meccanismo del potere. Su questo punto hanno avanzato le loro analisi le Brigate Rosse, parlando anche della possibilità di individuare un “cuore” dello Stato. L’argomento è stato approfondito e chiarito, vedendo come sia quanto meno problematico individuare questi punti nevralgici e come non si possano disarticolare, in questo modo, i rapporti strutturali del potere. Al più si potrebbero creare delle difficoltà, costringendo il potere a una razionalizzazione dei processi repressivi. Ma, anche questo argomento andrebbe approfondito meglio e non ci pare che la cosa sia stata fatta.

Esiste poi la spiegazione più plausibile: quella dell’attacco di lunga durata contro il nemico di classe, attacco che non consente risultati immediati, ma che si inserisce all’interno di una contrapposizione strategica che vede da un lato il crescere del movimento rivoluzionario e dall’altro l’acuirsi di una situazione di crisi dei rapporti strutturali di forza e di produzione. La giustificazione etica, per questo tipo di attacco, mi pare sufficientemente identificabile nello sfruttamento stesso, per cui sarebbero veramente questioni di lana caprina quelle dirette a frenare lo slancio rivoluzionario mettendo avanti ostacoli del tipo: “dietro il ruolo esiste l’uomo”, o “dobbiamo avere il massimo rispetto per la vita umana”. Basti pensare che coloro che strillano di più per il rispetto della vita umana sono proprio coloro che massacrano a sangue freddo nelle piazze e nelle fabbriche e dovunque si svolgono le vicende della lotta di classe.

In questa direzione d’intervento la lotta armata, in Italia, oggi, si sta sviluppando proprio nel senso che anche gli anarchici dovrebbero ritenere giusto. Progressiva negazione dell’insostituibilità del partito armato, e diffusione sul territorio degli attacchi violenti a qualsiasi livello, contro le realizzazioni del capitale e contro gli uomini del capitale.

Cadono, così, le obiezioni di coloro che sostengono una differenza netta tra “lotta armata” e “lavoro politico di massa”, immaginando che chi si inserisce negli attacchi violenti contro il potere, e quindi si trova ad agire nell’àmbito delle forme organizzate e non organizzate della lotta armata, debba necessariamente “entrare in clandestinità”, tagliare i rapporti con la propria vita di sempre e con il proprio lavoro e incarnare il perfetto tipo di guerrigliero terzomondista. Proprio la progressiva negazione della validità del partito armato di tipo leninista conduce all’ammissione che l’attacco violento e armato contro il potere deve essere diffuso sul territorio e strutturato in modo da evitare la rottura che la clandestinità rende inevitabile. Oggi tutto ciò è possibile, per cui persistere in queste formulazioni manichee: lotta armata o lotta di massa, come fanno alcuni compagni, non può che contribuire a creare un’atmosfera di criminalizzazione a danno di quei compagni che intendono rifiutare la distinzione stessa.

Delle mosche cocchiere

“Nostra intenzione non è... tanto di discutere e dunque di argomentare... quanto di testimoniare la nostra indignazione e la nostra preoccupazione”.

(Caca inchiostro)

“Noi riteniamo drammaticamente sbagliata la loro scelta (quella della lotta armata) per loro innanzitutto e per il movimento: tuttavia ci rendiamo conto che sarebbe qui ed ora ridicolmente inutile discuterla. Vorremmo solo che quella scelta non significasse – come troppi elementi lasciano presagire – suicidio etico del loro e del nostro anarchismo”.

(Prete travestito)

“Non vorremmo ritrovarci per altri cinque anni a dover impegnare tutte le energie del movimento per spiegare di essere nuovamente vittime della “provocazione”.

(Caca inchiostro)

Se è vero quel che è stato scritto, che la più grande disgrazia di don Chisciotte non furono le sue illusioni ma Sancio Panza, ciò resta valido anche per la situazione del movimento rivoluzionario oggi.

Ci sono, tra noi, delle brave persone, tutte cuore e piene di premura per i guai degli altri, che non vogliono in alcun modo che le forze vive del movimento si indirizzino verso strade pericolose. Per far questo sono pronte a tutto, anche alla delazione, alla pubblica denuncia, all’emarginazione di coloro che intendono proporre un dibattito da loro considerato pericoloso. Di più, uno degli elementi di discredito più usati è proprio quello dell’impossibilità di dibattere alcuni argomenti – come la lotta armata – per cui sarebbero autorizzati a prendere il problema solo quei compagni che vivono in clandestinità, o quei compagni che si trovano in galera, di già colpiti dalla repressione. E ciò sulla base del ragionamento che questi compagni hanno “le carte in regola” per poter parlare di lotta armata, avendola vissuta e realizzata in proprio. Gli altri, quelli che non si trovano in galera, che non si trovano in clandestinità, non hanno il diritto di parlare di questi problemi, in quanto sarebbe come dire: “armiamoci e partite”.

E se qualcuno si ostina a parlare di simili cose, viene criminalizzato, oppure viene indicato come provocatore, oppure – se ciò non risulta materialmente possibile – viene ridicolizzato con le più raffinate tecniche della mistificazione giornalistica: dal silenzio alle false accuse, dalle menzogne alle ingiurie.

Questo modo di agire è “eticamente” giustificato in nome degli interessi del movimento. Queste vestali, custodi del tempio sacro del movimento rivoluzionario, sguinzagliano i loro mastini non appena qualcuno si azzarda a mettere piede nel terreno da essi stessi definito come pericoloso.

Io penso che simile atteggiamento sia condannabile e che vada sostituito con il più corretto metodo della critica e dell’approfondimento. Nessuno può arrogarsi il diritto di autodefinirsi custode del tesoro del tempio, ma ognuno può, personalmente, portare il proprio contributo critico ai problemi, dal punto di vista che ritiene opportuno sostenere. Questa si chiama buona fede e davanti alla buona fede ci si dispone diversamente che davanti all’attacco velenoso e collerico di un miserabile gruppo di intellettuali terrorizzati dall’eventualità che qualcuno voglia “suicidare” il loro anarchismo. Per carità, che se la custodiscano bene questa loro mummia rinsecchita. L’anarchismo che le masse degli sfruttati e le minoranze rivoluzionarie, pur con tutti i loro errori e le loro limitazioni, cercano giorno per giorno di realizzare, lo preferiamo di gran lunga a quello dei musei e delle sale anatomiche.

E per questo anarchismo, che finalmente si è deciso a passare all’attacco, siamo pronti a batterci.

Appendice

Recensione a E. Henry, Colpo su colpo, Bergamo, Edizioni Vulcano, 1978, pagine 174, pubblicata su “Anarchismo” n. 23-24, 1978.

Una raccolta contenente una biografia di Henry, due sue lettere, il resoconto del processo, alcuni aforismi, e un’appendice con una interessante lettera di Malatesta e una inutile corrispondenza presa da “Le Petit Journal”.

Il volumetto, occorre dirlo subito, presenta un problema che supera di gran lunga lo stupido barcamenarsi degli storici, anche degli storici dell’anarchismo: il gesto di Henry fu qualcosa di spaventoso, qualcosa che scosse non soltanto la cosiddetta “opinione pubblica”, ma anche i compagni. E la lettera di Malatesta, inserita nell’appendice, è un esempio di queste perplessità, colte dall’anarchico italiano e giustificate in un certo modo, mettendo avanti la solita cautela, quella stessa cautela che pochi anni prima aveva fatto gridare al “provocatore” nei confronti di Ravachol a gente come Grave e come Kropotkin.

Ma, andiamo con ordine.

Non è per nulla vero che il gesto di Henry si inserisce nella catena di attentati e di attacchi che gli anarchici “fine secolo” realizzarono contro le istituzioni e i loro rappresentanti. Il gesto di Henry opera un “salto di qualità” che venne colto, seppure nebulosamente, anche dai compagni che in quel momento si trovavano a lottare contro la repressione.

Questo giovane, colto e intelligente, opera con freddezza una decisione che altri avevano maturato e compreso, ma non realizzato: attacca la borghesia, non questo o quel rappresentante dell’istituzione Stato, questo o quel poliziotto, magistrato, carnefice, aguzzino, spia o traditore, no: tutta la borghesia. Egli colpisce nel mucchio, senza discriminazioni. Sceglie con cura uno dei posti che questa classe frequenta, vi si reca con il suo ordigno infernale, accende la miccia, lancia la bomba e se ne va.

Di più, cerca anche di sfuggire alla cattura. Non è un martire, è un guerrigliero, non vuole sacrificarsi, vuole continuare nella sua lotta, vuole continuare a colpire nel mucchio. Per far questo fugge, cerca di coprirsi la ritirata, spara per difendersi, finché non cade prigioniero nelle mani del nemico. E qui, una volta preso, non chiede pietà, non si chiude in un mutismo del resto anche giustificabile: fa del processo una tribuna per spiegare e illustrare il suo gesto contro tutti (compagni compresi) e contro tutto. Non cerca attenuanti, non parla di “errori”, ma dice chiaramente che ha inteso colpire proprio nel mucchio, senza preventiva discriminazione, perché proprio nel mucchio si annidano quei colpevoli dello sfruttamento che sono meno individuabili, i rappresentanti di quella classe bottegaia, perbenista, codina, sanfedista, pronta ad accorrere nelle piazze dove si ghigliottina, pronta a battere le mani a qualsiasi sottoprodotto napoleonico, pronta a mettere il proprio sostegno sotto i piedi del dittatore di turno.

Nel gesto di Henry è inclusa un’analisi del concetto di classe. Non tanto nelle sue lettere o nello stesso dibattito processuale, ma proprio nel gesto in se stesso. Il comportamento collettivo della classe borghese comprende, in forme ben delineate, in quanto classe al potere (o diretta sostenitrice del potere) una coscienza di classe ben adeguata alle reazioni specifiche dei rapporti di forza (ideologici ed economici). La classe borghese sa quello che vuole, e la frangia bottegaia lo sa anche meglio della media e alta borghesia. E questa coscienza di sé la estrinseca anche nel passatempo, nel divertimento, nello scegliere un caffè, un ristorante, un bordello, una crociera, un luogo di vacanza. La selezione che si opera in questi posti non è solo determinata dal prezzo dei prodotti, dei servizi e di quello che occorre avere con sé per recarvisi, ma è determinata dalla stessa aria che vi si respira, dall’atmosfera che vi è stata creata “apposta”, dalla scelta delle bardature, dei ninnoli, dei quadri, degli specchi, dei bicchieri e della moquette. Un proletario – anche oggi, con tutto l’inquinamento che è stato causato dal consumismo imperante – raramente metterebbe piede al Caffè Greco a Roma, e se per errore vi capitasse dentro ne fuggirebbe ben presto, non tanto perché spaventato dai prezzi che vi si praticano, quanto perché estraniato da quell’atmosfera che vi è stata creata e che si sente come qualcosa di solido, un’atmosfera che solo con una valutazione superficiale può essere riportata alla necessità del capitale di “vendere”. Qui non si tratta di quei luoghi di massa dove si sacrifica al dio “merce”, si tratta di altri luoghi, più intimi e raccolti, dove il sacrificio alla religione della “merce” è fatto in forma più raffinata, in forma accessibile solo a pochi, in forma che opera una selezione automatica e che trova riscontro – quasi perfetto – nell’adeguarsi della coscienza di classe borghese alla situazione dei rapporti di forza oggi in campo.

Non si venga a dire che la situazione storica di fine Ottocento era diversa della presente e che allora questi posti erano ben più precisamente “isolati” di quanto non accada oggi, proprio perché la borghesia ancora all’apice dello sfruttamento coloniale si sentiva sicura di sé e voleva autogratificarsi anche con bordelli e caffè oltre che con chiese e monumenti alla vittoria. Anche oggi, in fase di profonde trasformazioni sociali, la borghesia mantiene una certa coscienza di sé, almeno quelle fasce che non sono state risucchiate irrimediabilmente nel baratro della criminalizzazione a seguito delle difficoltà, per il capitale, di mantenere un livello sufficientemente sicuro di occupazione. Ma quelle altre fasce, quelle garantite, quelle che si sono anche ingrossate con l’accesso di altri gruppi – prima proletari – oggi sono il nucleo reazionario più coerente e più difficile a smuovere. E questo nucleo, questo coacervo d’interessi e di squallore, di linguaggio gergale e di stucchevoli imitazioni di passati splendori, questo nucleo si ritrova ancora negli stessi posti, negli stessi caffè, negli stessi bordelli.

Ecco. La cosa più umoristica (e tragica, nello stesso tempo) è che questo nucleo reazionario ha assunto gli atteggiamenti del progressismo parolaio della cosiddetta sinistra, e per meglio solidificare la coscienza del proprio status sociale ha rigettato le vesti sorpassate di una reazione che si vestiva di nero (e che oggi farebbe ridere) per indossare le vesti di una reazione che si veste di rosso e che non fa più ridere ma mette paura.

Ecco. Colpire nel mucchio, oggi, a tanto tempo dal gesto di Henry, non solo sarebbe un gesto valido ma sarebbe anche un contributo teorico al movimento, ancora una volta, un salto qualitativo.

Malatesta scriveva: “Una cosa è comprendere e perdonare, un’altra è rivendicare. Questi non sono atti che possiamo accettare, incoraggiare, imitare. Noi dobbiamo essere risoluti ed energici, ma dobbiamo cercare di non oltrepassare mai il limite segnato dalla necessità. Noi dobbiamo fare come il chirurgo che taglia quando è necessario, ma evita di infliggere inutili sofferenze: in una parola, dobbiamo essere ispirati dal sentimento dell’amore degli uomini, di tutti gli uomini”.

Amore o odio. L’alternativa è errata. Nello scontro di classe non si può sentire amore per il proprio nemico, i sentimenti che possono stimolare questo amore sono quelli della reazione comune agli stessi stimoli della classe, cioè il sentirsi non solo partecipi della stessa classe del nemico ma il sentirsi interessati alle stesse cose e agli stessi ideali, in caso contrario, quando il nemico si vede come tale – come nemico di classe – e i suoi interessi e i suoi ideali non si condividono, ma anzi suscitano disgusto e sdegno, il risultato può essere uno solo: l’odio.

Ed Henry rispondeva: “È vero che gli uomini non sono che il prodotto delle istituzioni; ma queste istituzioni sono cose astratte che esistono solo fintanto che ci sono uomini in carne ed ossa per rappresentarle. Non c’è quindi che un modo per colpire le istituzioni; cioè colpire gli uomini; ed accogliamo con felicità tutti gli atti energici di rivolta contro la società borghese, perché non perdiamo di vista il fatto che la Rivoluzione non sarà che la risultante di tutte queste Rivolte particolari”.

Amedeo Bertolo, Emile Henry e il senso della misura su “A-rivista anarchica” n. 2, 1979.

Non siamo soliti ospitare sulle colonne di “A” interventi polemici con scritti apparsi su altre pubblicazioni anarchiche. Lo facciamo questa volta, ben volentieri, pubblicando questo scritto del compagno Amedeo Bertolo (membro del collettivo redazionale di “A” dalla fondazione al 1974), perché la questione affrontata – quella del terrorismo e della violenza indiscriminata – riveste grande importanza, e perché tutti noi del collettivo redazionale ci riconosciamo appieno in questo scritto.

Avevamo sempre creduto che Emile Henry e il suo attentato al Caffè Terminus facessero parte, come l’attentato al Diana e qualche altro episodio, del passato anarchico meno esemplare. Che, se non proprio uno “scheletro nell’armadio”, fosse quanto meno quel tipo di anarchismo da spiegarsi (o forse solo da esorcizzarsi) con un particolare contesto socio-economico-politico, eccetera. Avevamo sempre creduto che tutto il movimento anarchico, traendo esperienza dal suo passato, avesse acquisito una concezione equilibrata del possibile uso della violenza come mezzo di lotta, che il “terrorismo anarchico”, sia perché contrario alla nostra necessaria coerenza mezzi-fini sia perché dimostratosi disastrosamente controproducente, fosse considerato un “ramo secco” e che solo i più grossolani mistificatori prezzolati della storiografia e dell’editoria e della stampa potessero agitarne il fantasma.

Ci sbagliavamo. Alfredo Maria Bonanno, dalle pagine dell’ultimo numero della rivista “Anarchismo”, in una recensione di Colpo su colpo, ci dice non solo che l’attentato di E. Henry fu un salto qualitativo (positivo) nell’uso rivoluzionario della violenza, perché segnò il passaggio dall’attentato discriminato (contro singoli personaggi del potere e del privilegio) all’attentato nel mucchio del “nemico di classe”, ma che oggigiorno un gesto alla E. Henry indicherebbe un analogo “salto qualitativo” e porterebbe un “contributo teorico al movimento”!

Abbiamo cercato di ridere – a fatica, come di uno scadente umorismo nero – ma, pur sforzandoci di non prendere troppo sul serio quanto andavamo leggendo, ci sentivamo ugualmente rizzare i capelli in testa.

Abbiamo cercato di riderne perché conosciamo l’autore e la sua incontentabile esigenza di esibirsi in rodomontate sempre più impressionanti, pour épater le bourgeois, o, più probabilmente, visto che di questi tempi è difficile impressionare il borghese con truculenze verbali decisamente inflazionate, pour épater l’anarchiste. Sono anni, del resto, che Alfredo Maria si va dedicando a flagellare il rammollito e imborghesito movimento anarchico (Lui escluso) con la modestia di un pubblico ministero, il garbo di un attaccabrighe e l’ingenuità di un pubblicitario.

Così, siamo riusciti ancora a “digerire”, sullo stesso numero della stessa rivista, il pezzo su Proudhon dove ci invita a sparare in testa ad alcuni personaggi. Non è nuovo, il Nostro, a inviti del genere. Ha avuto un certo successo pubblicitario lo “spara, ragazzo, spara” (alias “armiamoci e partite”) di un suo opuscolo condito di gioiose immagini come quella del cervello che schizza fuori dal cranio. D’altronde sembra si tratti di questione semantica, più che altro: oggi pare si dica “ti sparo in bocca” con la stessa facilità con cui si dice “al limite”, “cazzo” e “cioè”. Certo dev’essere faticoso continuare a doversi superare in virulenza verbale per continuare a “fare scandalo”. Si deve ricorrere a difficili esercizi retorici, come taluni recuperi tardo-ottocenteschi, già anticipati dal “falso Sartre”, altro discreto successo pubblicitario (è tempo di revival): ad esempio le immagini del grasso borghese (che nel contesto è divenuto l’intellettuale socialista) che si forbisce la bocca del sangue proletario e si toglie di tra i denti filacce semimasticate di carne operaia. Ma sin qui siamo, forse, ancora nell’àmbito appunto di una cattiva retorica, non tanto in termini di gusto, quanto in termini di sproporzione troppo vistosa tra realtà e linguaggio.

Sin qui dunque non avremmo trovato sufficiente stimolo a prendere la penna, ad esempio, per chiedere polemicamente se l’Apocalittico ritiene che Malatesta fosse un rammollito quando discuteva con Costa e Merlino anziché piantar loro una pallottola “in mezzo alla fronte”, o per chiedergli secondo quale logica gli appare degno di quel trattamento un riformista e non uno stalinista, di quelli ad esempio di cui golosamente pubblica dovizia di documenti e comunicati. La linea di demarcazione tra compagni è l’uso della violenza “rivoluzionaria”? Solo la bomba e la P38 (vere o di carta stampata)? Allora sono compagni anche i fascisti “rivoluzionari” dei NAR?

Non avrei sin qui trovato sufficiente stimolo a raccogliere la “provocazione”. Non perché, per carattere, sia del tutto estraneo al gusto della polemica. Il fatto è che dopo quasi vent’anni di presenza nel movimento, comincio ad averne fin sopra i capelli di polemiche, rivelatesi spesso – quasi sempre – come occasione di facile sfogo interno di un’aggressività che non si riesce a rivolgere all’esterno, così come l’ulcera è stomaco che si auto-digerisce, corpo che si auto-aggredisce, riflesso di un’angosciosa impotenza individuale. Una discussione, anche vivacizzata da qualche punta di bellicosità (come del resto richiama la radice greca della parola polemica), può essere costruttiva o comunque chiarificatrice, certo. Ma l’esperienza militante mi ha insegnato che quando la discordanza tra le posizioni è ampia e va oltre l’oggetto di una specifica questione e ancor più quando vi è nell’interlocutore una palese e compiaciuta rissosità, la polemica ha alte probabilità di perdere i connotati sostanziali della discussione e diventare gioco di massacro verbale. Meglio allora scegliere non la via della polemica diretta, del botta-e-risposta, ma la via del confronto indiretto tra quanto si fa e dice e quanto fanno e dicono altre componenti individuali o collettive dell’anarchismo.

Eppure ho preso la penna, correndo il rischio di sopravvalutare l’importanza negativa di certa prosa, rieccheggiando su “A” le allucinanti sciocchezze apparse su un’altra rivista. Il fatto è che la citata recensione, a mio avviso, supera il limite del consueto tremendismo di quella rivista, del violentismo verbale con cui si cerca di fare vivere un surrogato in carta stampata dell’insurrezione, di spacciare per pratica sociale – non diversamente dalle Risoluzioni della Direzione Strategica dell’autonominatosi nucleo d’acciaio del Partito Comunista Combattente – quella violenza diffusa che è in realtà una pratica militante, versione armata dell’illusoria “rivoluzione domani”. Su pregi e difetti di queste forme di lotta, su cui siamo ben lungi dall’esprimere un giudizio indiscriminatamente negativo, la discussione è tutta aperta, anche se a nostro avviso dovrebbe essere condotta con maggiore equilibrio e rigore morale, dal momento che la storia avrebbe dovuto insegnarci quale rapporto delicato e non facilmente prevedibile vi sia tra uso del mezzo violento e crescita rivoluzionaria e libertaria delle coscienze, della coerenza cioè sia etica sia tattica e strategica tra mezzi e fini. Finché, tuttavia, qualcuno fantastica di “sviluppo dello scontro a livelli inimmaginabili” (da leggersi con un crescendo di voce in falsetto e magari con inflessione artatamente dialettale, da falso proletario), vi si può semplicemente leggere un eccesso di “ottimismo” così come forse qualcuno di noi eccede in “pessimismo”.

Quando però teorizza il colpire nel mucchio, si supera, credo, il limite tollerabile dell’artificio retorico costruito su misura di un improbabile catastrofismo, per cadere nell’irresponsabilità di una eccitazione ed autoeccitazione emozionale che sono più materia di psico-analisi che di analisi politica.

Per ora, in quella recensione, si pone ancora un limite all’indiscriminazione della violenza: nel mucchio della “borghesia”. Ma che cos’è la borghesia oggi? Se la colpa di chi si uccide non è individuale ma “oggettiva”, di classe, come si stabilisce dove inizia e dove finisce quella “borghesia”? Laddove, come nelle strutture tardo-capitalistiche italiane, il potere è diffuso, diluito in una sfumatura continua così come diffusi, diluiti, intrecciati sono il privilegio, il parassitismo, dove lo Stato è interiorizzato, dove il “cuore dello Stato” è anche negli sfruttati perché non esiste più una cultura proletaria estranea ed antagonistica allo stato, qual è questa borghesia da colpire nel mucchio? È vero che a livello d’astrazione sociologica è possibile ancora individuare – come abbiamo fatto anche noi – una classe dominante (ibridamente capitalistica e tecno-burocratica) che occupa il vertice della piramide sociale, ma un conto è individuare le barriere di classe in sede analitica, un altro è identificarle operativamente.

È, in questa situazione, terribilmente facile dare di “borghesia” una definizione ideologica e psicologica dilatabile a volontà. E allora, per quale motivo ci si fermerà qui, nella escalation terroristica e non si potrà procedere oltre e dichiarare che altri “salti qualitativi” sono possibili? Ad esempio si può sostenere (a parole si può quasi tutto) che ammazzare delle casalinghe o degli operai significa: 1) colpire individui “oggettivamente” colpevoli (le casalinghe votano D.C. e danno retta al prete ed a Gustavo Selva, gli operai si “fanno Stato” con il PCI e i sindacati...), 2) costringere gli ignavi sfruttati a risvegliarsi dal sonno televisivo e consumistico, metterli di fronte alla oggettiva brutalità mascherata del sistema, 3) chi più ne ha più ne metta. E con quali motivazioni si potrà negare la validità di colpire nel mucchio l’odioso ceto medio?

Fermiamoci qui, perché nostra intenzione non è – per i motivi già esposti – tanto di discutere e dunque di argomentare punto per punto e ribattere e documentare, quanto di testimoniare la nostra indignazione e la nostra preoccupazione. Facciamo solo una considerazione finale. Ci pare di tornare indietro di dieci anni, al 1969, quando un manipolo di “arrabbiati” gridava nelle piazze “bombe-sangue-anarchia” e qualche esaltato irresponsabile in vena di nichilismo parolaio discettava sull’utilità o meno di mettere bombe nelle banche-tempio del capitale – e nei grandi magazzini – tempio del consumismo. Poi venne la strage di Piazza Fontana, fatta da fascisti e servizi segreti – meno parolai – e attribuita agli anarchici. Non vorremmo ritrovarci per altri cinque anni a dovere impegnare tutte le energie del movimento per spiegare di essere nuovamente vittime della “provocazione”. E qui ci viene irresistibilmente alla mente l’immagine fotografica di Alfredo Maria Bonanno (pubblicata su un opuscolo edito da “La Fiaccola” alcuni anni fa) che tiene un comizio dall’alto di un palco su cui spicca una grande scritta: “Le bombe le mettono i fascisti”.

Peggio ancora. Dato che si va riflettendo anche in seno al movimento anarchico la disperazione/disgregazione dell’estrema sinistra (effetto della Grande Delusione delle aspettative rivoluzionarie a breve termine), che va sostituendo alla vitale creatività delle sue più felici espressioni una mortifera distruttività-autodistruttività (omicida-suicida), dato che esistono oltre ai teorici da tavolino della “violenza proletaria” anche protagonisti in carne e ossa e nervi dell’angoscia esistenziale, dell’emarginazione e dell’estrema ribellione contro una situazione che appare indefinitamente “bloccata”, non vorremmo che qualcuno prendesse alla lettera i vaneggiamenti sul colpire nel mucchio e mettesse, poniamo, una bomba in un bar di piazza del Duomo a Milano o – perché no? – in via Etnea a Catania.

Non basterebbe allora, a scaricare la terribile responsabilità morale, scrivere qualcosa di simile a quanto il Nostro scrisse in occasione dell’attentato alla questura di Milano, che è la più recente approssimazione di attentato nel mucchio (ma non poi tanto “nel mucchio” e semmai involontariamente). Allora noi, pur condannando il gesto, difendemmo la figura dell’autore contro le troppo facili e comode calunnie di matrice sinistrese. Non così l’Apocalittico, come risulta alle pagine 429-431 dei suoi scritti editi e inediti, raccolti nella preziosa antologia La dimensione anarchica. Segno anch’essa del tumultuoso mutare dei tempi: in epoca di deplorevole modestia borghese, queste antologie si pubblicavano postume e comunque non a cura dell’autore...

Paolo Finzi, Violentismo ed etica, su “A-rivista anarchica”, Milano, n. 3, 1979.

Anche se finora ci è giunto solo l’intervento critico di Gianfranco Bertoli, sappiamo che l’articolo Emile Henry ed il senso della misura pubblicato sullo scorso numero ha suscitato più di una reazione. In attesa che le opinioni si concretizzino in scritti permettendo così l’apertura sul prossimo numero di un dibattito a più voci sugli argomenti sollevati da quello scritto pubblichiamo in queste pagine l’opinione di un compagno della redazione, che affronta alcuni aspetti etici dei temi in discussione.

Riconoscono che le BR sono staliniste, però dio cane Curcio è un duro. Si entusiasmano per Azione Rivoluzionaria, quelli sì che si danno da fare, mica come voi che ve ne state chiusi nelle sedi a farvi seghe con la propaganda. Se gli fai notare che la strategia proclamata al processo di Parma dai militanti di A R (1° obiettivo: costruire il fronte unito delle organizzazioni comuniste combattenti) è a dir poco allucinante e suicida, ti danno del riformista, del cagasotto, tanto tu i coglioni per fare come loro dove li hai? Anche se negano, fanno della lotta armata un mito, l’unico mito, e di conseguenza soffrono di un terribile complesso d’inferiorità verso quelli che la fanno “bene”. E per bene intendono soprattutto tante azioni, tanti gambizzati, tanti eliminati/puniti/giustiziati/ecc. Se gli parli di etica anarchica, ti ridono in faccia, ti danno del cristiano. Se strabuzzi gli occhi appena ti raccontano che all’ultimo corteo, dalle file anarchiche, si è gridato lo slogan demenziale “dieci, cento, mille Torregiani, bottegai per voi non c’è domani”, ti rinfacciano il tuo moralismo. E ti spiegano che c’è mala e mala, che quelli della “piccola mala per il comunismo” sono compagni, che così un Torregiani qualsiasi ci penserà due volte prima di fare il gradasso.

Quello che soprattutto non riescono a capire, è quando parli loro del valore della vita umana, della necessità di rispettarla al massimo, dell’orrore che provi di fronte all’assurda violenza che inutilmente caratterizza le gesta di tanti rivoluzionari. Il minimo che ti becchi è un paragone con Woityla. Siamo in guerra, ti dicono, e non è certo il momento più adatto per mettersi a fare i filosofi. Chi se ne frega se un commando di Prima Linea tende un agguato a due poliziotti, li crivella di colpi e lascia sul marciapiede il cadavere di un giovane di passaggio? Chi se ne frega se nell’attentato rivendicato dai Gatti Selvaggi a Bologna contro l’associazione dei giornalisti muore per sbaglio una donna che non c’entra niente?

Loro, i super-compagni, se ne fregano. Noi no. Per noi il riferimento all’etica, all’etica anarchica, è sempre prioritario rispetto a qualsiasi altra considerazione. Non ci basta che il “nemico” tragga svantaggio da una nostra azione, ci interessa soprattutto che ne tragga vantaggio la nostra causa.

Se per “vincere” ci trovassimo nelle condizioni di dover necessariamente rinunciare alla nostra etica, servendoci sistematicamente di mezzi contraddittori ed incompatibili con il nostro fine, avremmo già perso in partenza. Perché l’anarchia non può nascere che dal concorso costruttivo degli uomini, non dall’eliminazione fisica e totale del “nemico”. Perché il nostro procedere nella storia si misura in coscienze conquistate all’azione diretta e all’anarchismo, non in numero di morti e feriti disseminati sul selciato.

Parliamoci chiaro. La logica espressa da episodi come quelli di Torino e Bologna sopra citati, ed in generale da tutta la strategia della lotta armata oggi in Italia, è quella dello sterminio del nemico, una logica che non è e non può essere nostra, ma di chi ha una concezione autoritaria e totalitaria del conflitto sociale. È la logica, rovesciata, dello Stato. Ed anche se, più modestamente, la logica non è dell’annientamento (secondo il lessico delle Brigate Rosse e di Prima Linea), ma quella della rappresaglia, essa ci è altrettanto estranea. Una cosa è il gesto vendicatore (che colpisce chi è soggettivamente colpevole e lo colpisce con doverosa proporzione tra “colpa” e risposta vendicatrice), un’altra è la rappresaglia terroristica indiscriminata, che ben a ragione ha tutta una tradizione militare culminata nella spietata efficienza nazista.

Non è una questione di lana caprina, né si tratta di “seghe moralistiche”, come sono soliti definirle i super-compagni pitrentottisti. Noi non possiamo usare mezzi estranei o addirittura antitetici ai nostri fini, se non negando i nostri fini cioè noi stessi in quanto anarchici. Altri (riformisti o rivoluzionari o reazionari che siano) possono giustificare i mezzi con i fini. Noi no. Al contrario, sono semmai i nostri mezzi che giustificano i nostri fini ed in ogni caso i mezzi debbono rispecchiare quanto più possibile quegli stessi valori morali che sono propri dei nostri fini.

E non ci si venga a dire che uccidere un poliziotto è coerente con i nostri fini perché elimina uno strumento del potere. Questo è confondere gli uomini con i ruoli, il che è eticamente iniquo, logicamente sciocco e strategicamente folle. Come pensare di eliminare lo sfruttamento dell’agricoltura ammazzando fruttivendoli o di eliminare la religione uccidendo curati di campagna. Vale a dire che si contraddice gravemente al valore fondamentale della vita umana in cambio neppure di un modesto piatto di lenticchie propagandistiche o tattiche ma addirittura di un risultato nullo se non negativo.

Sul valore strategico, sull’efficacia cioè della lotta armata, non ci soffermiamo. Noi non crediamo – lo abbiamo ripetuto molte volte – che oggi in Italia la lotta armata abbia alcuna possibilità di successo, non crediamo nemmeno che ce l’abbia in generale né tantomeno secondo la nostra prospettiva libertaria. Comunque, non intendiamo discutere di questo con quei compagni che la pensano (o sentono) diversamente. Noi riteniamo drammaticamente sbagliata la loro scelta per loro innanzitutto e per il movimento: tuttavia ci rendiamo conto che sarebbe qui ed ora ridicolmente inutile discuterla. Vorremmo solo che quella scelta non significasse – come troppi elementi lasciano presagire – suicidio individuale e collettivo ed in più anche suicidio etico del loro e del nostro anarchismo. Vogliamo dire che se a Torino fosse stato tratto in agguato il generalissimo Dalla Chiesa o altri consimili primattori dell’apparato repressivo statale, sarebbe stata cosa chiaramente ben diversa (e come tale inevitabilmente percepita dalla gente), anche se, a nostro avviso, altrettanto inutile se non controproducente.

Ciò di cui cerchiamo di parlare è ciò che è o non è giusto, non ciò che è o non è utile. Il che però, si badi, non è moralismo filisteo, ma solo un diverso modo di giudicare della validità anarchica dei mezzi scelti.

Qualcuno potrebbe ritenere tutto sommato superflue queste considerazioni. A noi pare, invece, che nel nostro movimento ci sia troppa sottovalutazione per quella coerenza etica che è anche coerenza logica. Quella coerenza che sembra essere una debolezza dell’anarchismo perché si oppone a tante (false) “scorciatoie” ma è in realtà la sua forza, ciò ad esempio che gli impedisce di essere un’ideologia di copertura di nuove dominazioni e nuovi abomini, ciò che gli impedisce di percorrere le più vergognose “vie al socialismo” (!?) da altri percorse sotto l’ombrello di più “duttili” ideologie. È proprio questa coerenza il nucleo essenziale senza il quale l’anarchismo non sarebbe che una versione forse più estremistica ma certo più inefficiente del sinistrismo.

Chi, tra noi, privilegia l’efficienza dei mezzi sulla loro efficacia (cioè sulla loro capacità di avvicinarsi ai fini) e ammira innanzitutto la tecnica guerrigliera, la capacità di “fuoco”, l’ardimento e consimili “valori” è tra noi per sbaglio. Crede di essere anarchico, ma dell’anarchismo non conosce e non condivide la dimensione essenziale della coerenza mezzi-fini. Ma... gli anarchici, le bombe, i fucili, i pugnali, la storia, la tradizione, eccetera... Certo. Ma si legga con la doverosa attenzione il “terrorismo” anarchico e, tranne casi marginali, si vedrà che esso non era terrorismo e che all’uso anarchico della violenza presiedeva una forte tensione etica e una costante ricerca di coerenza, e nei casi a nostro avviso esemplari di consapevolezza v’era una dichiarata ripugnanza (esattamente antitetica al gusto oggi diffusosi) per la violenza e la volontà di usarne il meno possibile. Erano quelli che Albert Camus, nel suo eccezionale saggio L’uomo in rivolta, chiama gli “uccisori delicati”. Quelli che non uccidevano a cuor leggero (“gioiosamente”) neppure i tiranni, perché a cuor leggero uccidono i gangsters, i poliziotti, i mercenari, i torquemada (del cristianesimo, dell’islam, del marxismo-leninismo ...).

Gianfranco Bertoli, II prezzo da pagare, su “A-rivista anarchica”, n. 4, 1979.

Cari compagni (...) è ormai passato tanto tempo, quando si svolse il mio secondo processo a Milano, Luciano Lanza che assieme a voi volle essere presente (e non so dirvi cosa volle dire per me) mi fece avere tramite l’avvocato, due dei tre volumi (il primo e il terzo) degli scritti di Malatesta (sono tra i pochi libri che sono riuscito a salvare nelle mie “peripezie” carcerarie e che conservo ancora), ebbene, proprio nell’ultima pagina del terzo volume, sotto il titolo di “ultimi pensieri”, vi è una frase, una considerazione tanto umana, tanto “modesta” e priva di retorica, da colpirmi profondamente e da spingermi a rimediare e rivedere un po’ tutto il mio universo mentale, questa: “Colui che tira una bomba ed uccide un passante dice che, vittima della società, si è rivoltato contro la società. Ma il povero morto potrebbe dire: Ma che sono io la società?”.

Questa semplice, addirittura elementare, considerazione di Malatesta “vecchio” (del 1933, anno in cui io sono nato) nel contempo dolorosa e pacata, mi ha colpito profondamente ed ha non poco contribuito ad incrinare la “torre d’avorio” delle mie certezze “assolute”, del culto senza limiti di quel “dio” senza la “d” iniziale di cui parlava Bruno Filippi, del mio trastullarmi, patetico e impotente peraltro, con una specie di “superomismo” di sapore nietzschiano.

Certo non è solo a causa di queste parole, vi sono state altre cose, non ultime il dialogo che pur attraverso la difficile mediazione del linguaggio epistolare, ho ad un certo punto intrecciato con voi quando ero a Porto Azzurro, poi tante altre cose che sarebbe lungo elencare, ma mi sono trovato, pur senza, cercate di non fraintendermi, rinnegare il mio passato, a dover tutto rimeditare e riconsiderare, situazione questa non priva di dubbi, domande senza risposta, laceranti contraddizioni ed una “crisi” da cui non sono a tutt’oggi riuscito ad uscire.

La realtà esistenziale, poi, cui mi trovo costretto è ben lungi dal poter essere considerata ottimale per il conseguimento di una certa serenità di giudizio e del relativo equilibrio, perciò, giacché non potrei non considerare come ogni atto umano ed il pensiero stesso vengono a risentire ed a venir, almeno in parte, condizionati dallo stato d’animo e dalle stesse condizioni ambientali, conto su una vostra benevola predisposizione ed una non necessaria severità nel giudicare e valutare le opinioni che sto per esporvi e la forma con cui lo farò: non è senza un certo “disagio”, nè senza prima aver dovuto superare notevoli esitazioni e qualche perplessità che mi azzardo ad intromettermi in una polemica, divenuta già aspra, tra dei compagni ben altrimenti colti, preparati e capaci più di quanto io, anche nelle migliori condizioni possibili, sarei mai potuto arrivare ad essere.

Ciò tanto più quando, come in questa occasione, se voglio essere sincero (e quello della sincerità è l’unico pregio che posso sperare di dare alle mie parole), non potrò limitarmi ad un allineamento in una delle due posizioni contrapposte, ma sarò costretto ad esprimere delle critiche sia alla tesi di fondo della recensione di A. M. Bonanno del volume Colpo su colpo, sia a taluni argomenti cui fa ricorso Amedeo Bertolo nella sua risposta sulle pagine di “A”.

Se mi sono risolto, nonostante tutto, ad arrischiarmi su di un terreno per me fin troppo difficile, è per due principali ragioni: in primo luogo perché sono stato, seppur marginalmente, “tirato in ballo” e ciò mi dà un piccolo diritto a “dire la mia” per quello che può valere. In secondo luogo perché, anche se in campo anarchico si fa un gran parlare di “autodecisione”, “autogestione”, “autoregolamentazione”, e tanti altri “auto” quanti ne produce la Fiat, quando si tratta di esprimersi direttamente in prima persona e di dire la propria opinione su qualsiasi questione che ci riguarda tutti, quasi nessuno osa mai fare un piccolo sforzo e spiegare come la pensa; tutti là ad aspettare che qualcuno dica loro cosa pensare o cosa fare. Come è possibile proporsi di portare avanti un progetto rivoluzionario tendente alla realizzazione di una società senza gerarchie, senza la separazione tra lavoro manuale e quello intellettuale, ecc., se poi dobbiamo riconoscere di aver interiorizzato in noi stessi l’attitudine a lasciarsi guidare, ad accodarci ad un qualsiasi “leader”, a lasciar pensare, decidere, agire qualcun altro senza mai sentire il bisogno di farsi sentire, di pensare con la nostra testa e comunicare ad altri individui pensanti questi nostri pensieri?

Dicevo più sopra di trovarmi, anche se in diversa misura, a dissentire con entrambi questi due compagni. Relativamente a quanto scrive Amedeo Bertolo nella sua “controrecensione”, rinuncio a pronunciarmi sull’opportunità o meno di un tono tanto aspro, sferzante ed in certi punti quasi sprezzante come quello che in questa occasione rivolge al Bonanno. Certo il tono ed il linguaggio sono tali da far prefigurare una rottura definitiva, tale da rendere quanto mai improbabile una conciliazione e che evidenziano la volontà di privilegiare lo “scontro” ad ogni ipotesi di “confrontoincontro” delle rispettive posizioni, questo non può non dispiacermi, ma debbo pur riconoscere che se il Bertolo, di cui ho avuto modo di conoscere altri scritti, la prosa sempre equilibrata, meditata profondamente e serena, ha scelto di adottare questo tono e tale linguaggio vi è stato, come si suol dire, “tirato per i capelli” da una annosa polemica fatta di attacchi, finora quasi tutti unilaterali, condotti con tono astioso e con un linguaggio abbastanza “fiorito” per quanto concerne gli insulti e le truculenze verbali.

Quello che, invece, vorrei mi fosse concesso di dire al compagno Amedeo Bertolo è che non posso condividere il suo modo di considerare l’anarchismo di Emile Henry come “quel tipo di anarchismo da spiegarsi (o forse solo da esorcizzarsi) con un particolare contesto... ”: questo modo di considerare gli atti individuali di rivolta, e tali furono gli attentati di Henry, mi appare riduttivo e parzialmente sbagliato.

Certo Emile Henry fu, come ogni uomo, un “figlio del suo tempo”, il suo modo di pensare e le conseguenze operative che ne discesero, sono stati influenzati o in parte determinati, dalla realtà sociale in cui era immerso, dalla “cultura del suo tempo”, dal tipo, storicamente determinato, di oppressione e di repressione con le quali si è trovato a cozzare e contro le quali ha voluto lottare, ma, il gesto di Henry non si inquadra nel contesto di una scelta “strategica” di un “movimento” o di un “partito”, è la conseguenza di una decisione individuale, un atto “unico ed irripetibile” come lo è ogni individuo. (Non sta a me, protagonista contemporaneo di un atto altrettanto tragico e grave, dare dei giudizi di merito, dire cioè se l’Henry abbia fatto “bene” o “male”, per lui era giusto fare quello che ha fatto, per dirla con O. Wilde: “II vizio supremo è la superficialità. Tutto ciò che viene vissuto fino in fondo è giusto”).

La rivolta violenta di Henry si inserisce, secondo me, nella storia eterna della rivolta umana e trascende, pertanto, i limiti della temporalità storica in cui è stata vissuta. Per questo non credo possa venire etichettata come “ramo secco”. Louis Mercier Vega scriveva, alla fine del suo libro pubblicato “postumo” in Italia corredato da una brillante ed interessante presentazione proprio del Bertolo che: “Può darsi che il cammino del mondo, accelerato in campo economico da uno stato di guerra permanente, la concentrazione dei poteri ed una tecnologia riservata a pochi cervelli infrangano il sogno di una società operaia. Ciò che allora non si può scartare, come prospettiva evidente dei successi e delle realizzazioni scientifiche, è che le rivolte si facciano nichiliste”.

Un altro punto su cui mi trovo in disaccordo col compagno Bertolo è quel suo accennare ad un “movimento anarchico maturo”. Qui ci troviamo di fronte a due modi di concepire il “movimento anarchico” del tutto diversi. Per Amedeo Bertolo mi pare di poter capire che egli veda il movimento anarchico come un “tutto” omogeneo che si muove lungo una linea univoca ed attraverso diversificate comuni esperienze si sviluppa, progredisce e matura. Io, propendo, invece, per considerarlo come un insieme composito, sempre mutevole e mai definitivamente delimitabile, di individualità e di “gruppi di affinità” diversi, per indole, per esperienze esistenziali, per scelte operative e che sono accomunati solo dalla negazione del “principio di autorità” nell’organizzazione sociale e dalla volontà di arrivare all’abolizione di tutte le costrizioni e le sofferenze che derivano dalle istituzioni fondate su questo “principio”.

Il grado di maturità, quindi, del Movimento Anarchico nel suo complesso non può essere mai altro se non il risultato, ad un momento dato, della somma addizionale del grado di maturità delle sue componenti. Paradossalmente, quanto maggiore viene ad essere, a livello di massa, la maturazione e la presa di coscienza individuale e la conseguente adesione all’ideale libertario, tanto meno “maturo” viene ad essere il livello qualitativo “collettivo” del movimento stesso.

Con ciò non voglio affatto dire (me ne guarderei bene perché sarebbe pazzesco), che quei compagni che hanno un grado di maturità maggiore debbano rinunciare a farne partecipi altri che questo grado non hanno raggiunto, e cercare anche di “immunizzare” dal pericolo di possibili scelte che considerano sbagliate. Credo proprio che nessun anarchico possa proporsi di “esorcizzare” la rivolta anche se può sconsigliare o anche “condannare” certe forme. Personalmente ho salutato con piacere l’iniziativa editoriale che ha portato alla pubblicazione degli scritti di Emile Henry e delle sue dichiarazioni, ciò perché non ho mai potuto comprendere che da parte di anarchici si sia ricorsi all’espediente di far calare una cortina di silenzio su avvenimenti che, lo si voglia o meno, appartengono a pieno titolo alla storia dell’anarchismo.

Detto questo sarebbe giunto il momento di prendere in considerazione quella recensione di Colpo su colpo che ha dato origine all’articolo di Bertolo sulla rivista. Dico “sarebbe” perché credo che, a chiunque sia stato dato di leggere sia il volume della “Vulcano”, sia la recensione apparsa su “Anarchismo” non possa non essere apparsa evidente la gratuità e la assoluta impossibilità della interpretazione di Emile Henry e del suo gesto che si è voluta dare.

Quella di voler far apparire l’Henry come un precursore di una specie di “soluzione finale del problema borghesia”, o di una versione “libertaria” dell’eliminazione fisica dei “Kulaki” voluta dal fu Josef Vissirianovic, mi pare una “trovata” assai poco rispettosa per l’intelligenza dei lettori e soprattutto per la memoria stessa di Emile Henry. Si tratta, secondo me, di una tesi che è parsa all’autore “originale” e che ha voluto perciò proporre, prendendo poi in considerazione di tutta la vicenda solo quel poco che può servire a puntellarla. Una riprova, poi, della superficialità con cui A. M. Bonanno, in altre circostanze tanto meticoloso ed accurato (e indubbiamente intelligente e preparato), si è accostato alla storia del gesto di Henry e dello stesso protagonista, ci viene dall’equivoco stesso in cui l’autore incorre quando accenna allo scritto di Malatesta sull’ “En Dehors” (pubblicato nel 1892), come di un commento dello stesso al gesto di Henry, gesto attuato, invece quasi due anni dopo.

Una sola cosa vorrei poter dire al compagno Bonanno, anche se so che l’accoglierebbe con scherno, anche se so bene quanto disprezzo egli abbia riservato alla mia persona e come, forse, si sentirebbe offeso solo a sentirsi dare da me del “compagno” (per lui si sa sono uno “sporco provocatore fascista”), vorrei solo dirgli che quando un individuo decide, a torto o a ragione, di reagire con la violenza alla violenza istituzionalizzata e permanente del potere, deve essere pronto a pagare di persona; dire agli altri che è “bello” e “giusto”, parlare di “cervelli che schizzano” e di “sangue che scorre”, fino che tutto rimane “teoria” può anche gratificarci, ma quando poi si passa dal pensiero all’azione, le cose non sono più così facili.

Non parlo tanto del rischio di morire o di quello dell’ergastolo, ma di qualcosa di molto più brutto, di quando davanti ai corpi straziati e alle terribili grida dei feriti, uno si domanda che cosa egli stesso è diventato. Certo questo uno non lo riconoscerà mai davanti ai giudici ed al potere che lo condannano e che sono ben peggiori di lui. Ma, con se stesso e di fronte a dei compagni questi dubbi, questa sofferenza, è inutile nasconderli. Sarebbe inutile continuare perché potrebbe apparire ipocrita retorica. Soprattutto non intendo rinnegare nulla né dichiararmi pentito, volevo solo dire che ribellarsi può essere giusto e lecito ma bisogna essere coscienti del prezzo che si deve pagare e essere disposti anche a questo.

Gianfranco Bertoli, Atti individuali eterrorismo”, su “A-rivista anarchica”, n. 4, 1979.

[...] Nel corso di quella recensione si sostiene che con l’attentato del 12 febbraio 1894 si realizzò un “salto di qualità” consistente nell’aver voluto “colpire nel mucchio”. Decisione questa che includerebbe una “analisi del concetto di classe” talmente “attuale” da poter affermare che un gesto analogo, oggi, non solo sarebbe un fatto valido e positivo ma costituirebbe anche un “contributo teorico” al movimento. Questa analisi attribuita all’Henry si svilupperebbe emergendone sì da poter essere compresa compiutamente, secondo il Bonanno, «non tanto delle sue lettere o nello stesso dibattito processuale ma proprio nel gesto in sè».

Certo ogni atto umano, che sia frutto di una decisione, presuppone un’analisi, più o meno approfondita, sviluppatasi nel cervello dell’autore ed alla quale può attribuirsi l’origine della sua scelta comportamentale. Se vogliamo, però, tentare di risalire da un fatto alle sue motivazioni per giungere alla comprensione sarà necessario guardarci dal considerare il fatto stesso avulso dal contesto storico-sociale in cui si è verificato e dalla personalità dei protagonisti. In un gesto potremo vedere una riprova o una smentita della forza delle convinzioni personali del protagonista, della di lui coerenza con le sue teorie e le conclusioni cui lo hanno portato le sue analisi e le sue deduzioni, ma ciò non ci dà nessuna conferma circa la validità “oggettiva” di esse. Né, tantomeno, è possibile dalla dinamica del fatto in sé arrivare a riconoscere in modo univoco il significato dello stesso negli intenti dell’autore. Come sarebbe possibile considerare e classificare come analoghi gesti che pur se attuati con modalità assai simili sono del tutto inammissibili tra loro per la diversa personalità e le differenti motivazioni di chi li ha attuati e per il momento in cui si sono verificati?

Che cosa hanno in comune tra di loro, ad esempio, il gesto del monaco Ravaillac e quello di Sante Caserio? Eppure l’arma usata, la dinamica del fatto, le vittime dell’attentato (in entrambi i casi il capo di Stato in carica), la stessa tragica fine degli attentatori presentano caratteristiche comuni. È forse possibile catalogare e valutare nello stesso modo le “rapine a mano armata” di cui furono autori personaggi tanto diversi per carattere, motivazioni, scopi, come: Jules Bonnot, Giuseppe Stalin, o... John Dillinger? A voler continuare con degli esempi paralleli di gesti apparentemente simili ma che non hanno alcun legame di affinità si potrebbe andare avanti a lungo (Gaetano Bresci e Gavrilo Princip, Felice Orsini e Gino Lucetti, ecc.).

Ogni avvenimento porta con sé, nel suo rapporto con il sociale, tre diversi tipi d’immagine. Vi è una “verità oggettiva”, che consiste nel fatto in sé, nel suo svolgimento materiale e cronologico. Vi è poi una prima “verità soggettiva” rappresentata da quello che l’atto compiuto è stato, o voleva essere, per chi ne fu l’autore. Vi è poi un’ulteriore verità “soggettiva” che nasce dalle opinioni, dai giudizi e dalle impressioni di chi vi si è trovato coinvolto o ne è stato, comunque, interessato. Questo terzo aspetto, che è poi, paradossalmente, quello che finisce per assumere il peso e l’importanza maggiore dal punto di vista dell’incidenza sul sociale, costituisce quasi sempre la “verità” meno vera e più ambigua e spesso mistificante. Anche a voler prescindere dall’intervento di manipolazioni, strumentalizzazioni e di interpretazioni di “comodo” da parte di persone comunque interessate a portar acqua al loro mulino, è evidente che molto difficilmente è possibile accingersi all’esame di un qualsiasi fenomeno senza portare con sè tutto un bagaglio di idee, convinzioni, prevenzioni, disposizioni caratteriali, che condizionano interpretazioni e giudizi.

Il pericolo cui è assai difficile sfuggire è quello di cadere nella tentazione (dalla quale nessuno è immune e cui il Malatesta rimproverò un giorno di indulgere lo stesso Kropotkin) di partire con una tesi aprioristica che ci piace, per poi cercare nell’analisi tutti, e solo quelli, gli elementi che confermano, o sembrano idonei a confermare, la nostra tesi.

A questo procedimento (che è poi quello adottato da sempre da avvocati e da pubblici ministeri) mi sembra abbia fatto ricorso anche Bonanno nella sua recensione. Egli, infatti, forse spintovi dalla continua gara con se stesso nell’escogitare tesi “originali” e dal suo gusto per il terribilismo verbale, si appiglia, estrapolandole dal contesto, ad alcune affermazioni di E. Henry (che a me pare debbano essere considerate come delle argomentazioni di tipo “etico” che l’Henry porta avanti per giustificare con se stesso il suo atto di rivolta incondizionata e disperata contro tutto e contro tutti) per interpretarlo come la risultante di una “analisi del concetto di classe” ed una proposta tattico-strategica permanente.

Per dimostrare l’inaccettabilità di questo discorso basterebbe, secondo me, considerare a quali aberranti conclusioni ci porterebbe il volerlo condurre alle sue estreme conseguenze logiche. Se, infatti, ci ponessimo nell’ottica di una “colpevolezza” oggettiva e proseguissimo, sulla falsariga di Henry (quando dice: “E non soltanto essi ma tutti coloro che sono soddisfatti dell’ordine attuale...”) estendendo questo concetto di “colpevolezza oggettiva” su tutti coloro che, nella società attuale, subiscono ed interiorizzano i condizionamenti dei “mass-media” e le influenze delle burocrazie politiche e sindacali, dovremmo allora salutare come “oggettivamente rivoluzionari” anche i fascisti di piazza Fontana o di piazza della Loggia (!).

Quanto a me, sono ben lontano dall’illusione di essere immune da quella unilateralità e “faziosità” di giudizio che riscontro in molte analisi altrui. La semplice constatazione che le mie opinioni di oggi non coincidono con quelle che, in un passato non troppo lontano, sono state per me delle “certezze”, mi fa vedere come neppure oggi io possa essere del tutto certo della giustezza del mio attuale punto di vista. Comunque, oggi, sono propenso a considerare il fenomeno sociale rappresentato dai numerosi attentati anarchici in Francia nel biennio 1892-1894 come una serie di reazioni individuali al senso di impotenza e di isolamento del movimento rivoluzionario, nonché al cozzo contro una realtà oppressiva e repressiva che appariva ulteriormente e particolarmente spietata. In sostanza l’altra faccia di quello che, in un’altra epoca di “riflusso” delle speranze rivoluzionarie, ha spinto molti compagni al rifugio nel “personale”, alla “soluzione droga” oppure in braccio ai vari “guru orientali”.

In questo senso io credo che la definizione di “terrorismo” attribuita agli attentati individuali di quel periodo (anche se di questo termine fecero uso autorevoli osservatori e perfino Errico Malatesta) non sia del tutto esatta ed appropriata. Etimologicamente, infatti, per “terrorismo” (non possedendo un dizionario italiano traduco qui la definizione in francese del Robert) si intende: “impiego sistematico di misure di eccezione della violenza per raggiungere uno scopo politico (presa, conservazione, esercizio del potere). – Insieme degli atti di violenza (attentati individuali o collettivi, distruzioni) che un’organizzazione politica esegue per impressionare la popolazione e creare un clima di insicurezza”.

Ora, comunque la si giri, ciò presuppone un preciso programma pianificato ed una organizzazione che lo attui; invece, nonostante si sia fatto ogni sforzo da parte del potere di allora per ipotizzare “complotti” e una “trama” (magari internazionale), è cosa assodata che nulla di simile vi fu mai. Gli attentati anarchici nella Francia di fine secolo non sono definibili come “anarchici” se non perché tali ne furono gli autori, non perché vi sia mai stata una “organizzazione anarchica” che li abbia scatenati. Nulla di simile nella Francia di allora al “Narodnaja Volja” in Russia, o all’Irgun Tvai di Menahem Begin, o all’IRA o all’ETA basca, o ad altre simili organizzazioni di ogni colore ed epoca.

D’altra parte una logica eminentemente individualista emerge evidentemente da tutte le dichiarazioni dei protagonisti. Consideriamo, per esempio, quanto scriveva Henry nella sua lettera all’ “En Dehors”: “Quando un uomo, nella società attuale, diventa un ribelle cosciente del suo atto – e tale era Ravachol –, è perché il suo cervello ha fatto un lavoro di deduzione che abbraccia tutta la sua vita analizzando la causa delle sue sofferenze: lui solo può giudicare se ha ragione o torto (...)”. A voler continuare con le citazioni di questo tipo si potrebbero riempire pagine su pagine. Pur inserendosi tutti nello stesso contesto storico ed avendo tutti i protagonisti in comune lo stesso rifiuto della società esistente e la volontà di combatterla nonché una comune aspirazione ideale ad un mondo diverso e migliore, l’unico collegamento consequenziale può individuarsi nell’influenza dell’esempio e nel fatto che alcune tesi e convinzioni personali siano state accettate e fatte proprie da altri. (A questo proposito si potrebbe ipotizzare un’influenza delle argomentazioni addotte da Leon Lehothier, circa la “non-innocenza” di ogni singolo “borghese” in quanto tale, su Emile Henry il quale prima di allora non mi pare avesse mai sostenuto questa tesi).

L’esigenza di mantenermi nei limiti di spazio di una lettera mi induce ad arrivare ad una conclusione. Vorrei tanto spiegarmi con chiarezza, purtroppo dubito di riuscirvi. Vi ho già parlato della mia scarsa lucidità e delle difficoltà che incontro a mettere ordine nei miei pensieri, inoltre lo stato di esasperazione che mi è dato dalla mia condizione mi genera talvolta delle spinte irrazionali tali da farmi vivere contraddizioni, dubbi e i interrogativi senza risposta.

Le mie pulsioni di oggi sono più o meno queste. A livello teorico ogni forma di rivolta mi appare, in sé, positiva ed eticamente lecita; in pratica, però, passando a considerare l’utilità e l’opportunità di certi gesti, essi mi appaiono molto discutibili e questa considerazione finisce con l’incidere sull’aspetto etico. Una violenza inutile, anche se fatta in nome di motivazioni ineccepibili, si risolve in un “rito”, in una specie di “sacrificio” ad un dio chiamato “rivolta”, e questa è una cosa da evitare perché è in contraddizione con le stesse idee che professiamo. Diventa un’assurdità.

Io avevo fondato tutto il mio modo di pensare (e di conseguenza di agire) sul presupposto che ogni forma di dominazione si regge sulla disponibilità di altri alla sottomissione. Da ciò avevo dedotto che l’unico modo per arrivare all’abolizione di ogni forma di potere fosse la diffusione della rivolta individuale violenta che propagandandosi attraverso l’esempio avrebbe finito con il rendere impossibile ogni forma di società basata sullo sfruttamento e il dominio. Solo allora si sarebbe potuto sperare di costruire forme di convivenza sociale su basi diametralmente opposte.

Ora penso che il mio errore di fondo sia consistito nell’aver creduto che, anche se in misura quantitativamente diversa, più o meno tutti coloro che subiscono l’oppressione sociale avessero subìto le mie stesse frustrazioni ed esperienze e avessero sviluppato uno stesso modo di pensare e considerare se stessi e la società. La tragica contraddizione di questo atteggiamento è che, se così fosse, ogni atto di rivolta sarebbe sì immediatamente capito ma in simili condizioni non vi sarebbe neppure il bisogno di attuarlo. Se è vero, che di fronte alla generalizzazione del rifiuto violento disposto ad arrivare alle conseguenze estreme, nessuno potrebbe resistervi, è anche vero che – come sosteneva l’Armand – anche di fronte ad un movimento di resistenza passiva che si svolga su larga scala e sia voluto e deciso individualmente da ciascuno per sua libera scelta, nessun potere, nessun governo potrebbe far nulla e sarebbe impotente. (In teoria, come si vede, tutto è possibile!).

In ultima analisi quello che si oppone alla realizzazione di una società non è tanto la “forza” di chi detiene il potere e la sua “violenza”, quanto l’adattamento psicologico di massa alla società gerarchizzata, l’accettazione di uno status quo che appare “necessario”; chiamiamo questo come vogliamo, ma si tratta pur sempre di ottusità mentale, in una parola “stupidità”. Ma, contro l’ignoranza e la stupidità umane, a cosa possono servire le bombe?

 
 

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