Titolo: Gli dèi al tramonto
Data: 1981
Note: Prima edizione: “Dominio di classe e limiti del processo di legittimazione” , “Pantagruel” n. 3, ottobre 1981, pp. 3-31.
Prima edizione in opuscolo: Catania 2000
Seconda edizione in opuscolo: novembre 2013
Opuscoli provvisori n. 42
SKU: opuscoli-000042
Dimensioni: cm 10 x 10,5
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Nota introduttiva alla seconda edizione

Se dovessimo fare un bilancio di questi ultimi trent’anni, dal punto di vista di quanto ci apprestavamo a fare e che solo in parte abbiamo portato a completamento, c’è da restare sconcertati. Poco, quasi niente. Oppure molto, anzi moltissimo? Chi può dirlo? Non certo la rilettura di questo testo può darci indicazioni certe.

Né il potere, nell’ampio raggio delle sue metamorfosi è andato fino in fondo nei suoi progetti, per altro sempre a breve termine, quindi incapaci di dare un assetto definitivo allo sfruttamento.

Quella pace sociale che sembrava alle porte, come forma produttiva (dopo la grande paura degli anni Settanta), non è stata ottenuta. Nuove ondate di tempesta si sollevano sull’oceano dei rapporti conflittuali tra esclusi e inclusi. Il muro che avevamo ipotizzato non è stato costruito fino a quell’altezza che temevamo.

Forse le stesse forze intrinseche al processo capitalista si sono contraddette, forse è congenito al meccanismo dello sfruttamento il non arrivare mai a perfezionarsi, forse nuovi orizzonti si aprono per uno scontro più radicale e significativo.

Perché no? Immaginarsi meno forti di quello che siamo potrebbe essere un errore. Non voglio alimentare illusioni. So bene che non esiste un centro nevralgico dove colpire a morte il nemico, le illusioni della presa del palazzo d’inverno hanno fatto il loro tempo. In fondo le analisi sociali più recenti, e le recenti esperienze sul campo, un po’ dappertutto, ci indicano che lo scontro è ancora tutto da giocare.

Forse abbiamo più frecce nel nostro arco di quanto non pensassimo. Possiamo ancora una volta causare brutte sorprese a chi non si aspetta un’insorgenza generalizzata.


Trieste, 18 novembre 2011

Alfredo M. Bonanno

Nota introduttiva alla prima edizione

La sommaria intelaiatura delle ricerche che qui presento cerca di dar conto di una struttura produttiva e distributiva che oggi non c’è più o che almeno sta per scomparire definitivamente. Ciò potrebbe far pensare all’inutilità di insistere su qualcosa che ormai appartiene ad un passato oscuro e smorto. Penso invece che da quel passato ormai lontano e, per quanto concerne lo svolgimento frenetico dell’economia, addirittura preistorico, pur se risalente ad appena un ventennio fa [scritto nel 2000], alcune cose si ripresentano coerentemente intatte anche nella moderna formazione economica e sociale, aspetti di rigidità in tutto ciò che oggi appare straordinariamente flessibile.

L’abiezione deforme del passato continua a guardarci con i suoi occhi maliziosi e freddi, trattarla con disdegno sarebbe vana soluzione. Infatti, quelle conseguenze neghittose e senili che si riflettono sul presente sono legate ai medesimi concetti di fondo: legittimazione del dominio in primo luogo. I dominatori devono fare in modo che la nostra crucciata avversione si trasformi in attaccamento anonimo. Il desiderio d’altro deve attutirsi in un continuo, e vano, bruciore per desideri convenzionali, impressioni appiattite da chiarimenti normativi. La divisa che vogliono farci indossare è stata ormai da tempo confezionata ma, per essere indossata, con soddisfazione reciproca, devono farci abbassare l’antico sincero ribrezzo.

Ora, concedendo all’economia il suo compito di scienza del capitale, cioè di insieme di ricerche oggettive e di analisi soggettive capace di fornire indicazioni programmatiche alla condotta capitalista dello sfruttamento e del genocidio, nel passaggio da qualcosa di “vecchio” a qualcosa di “nuovo” nella scienza in questione, non si sono spostate o mutate le intenzioni di fondo. Malgrado i reiterati suggerimenti, ghiottamente discussi, il nuovo sembra troppo piccolo in confronto al vecchio schiacciato addosso alle inveterate abitudini che non hanno fretta di morire. Di quell’altro “nuovo”, veramente sconvolgente e senza riserbo, in grado di costruirci un futuro da incubo e da guazzabuglio, l’economia se ne avvale (e come potrebbe fare diversamente?), ma lo ingloba nella sua precedente dottrina dei mezzi limitati e dei fini illimitati.

Gli antichi dèi tramontano, altri berciano all’orizzonte. L’economia è la scienza che conduce alla tomba i primi e concorre a ripristinare i secondi.

Il passaggio di cui discuto qui contrassegna l’oltrepassamento in corso dei limiti precedenti che il capitale trovava durante la propria realizzazione sociale. A volte limiti anonimi, scoloriti, sordidi, tipici di un darsi da fare non proprio gratificante. Questi limiti sono descritti in modo approfondito nel testo principale qui pubblicato, il quale tiene conto delle ricerche condotte fino agli inizi degli anni Ottanta. La Postfazione collega i mutamenti in corso fino agli inizi degli anni Novanta. Nel prossimo opuscolo (n. 47), dal titolo Il ripristino degli dèi, affronterò le trasformazioni più recenti, quelle di questo inizio di millennio.

Una condizione globale dell’economia, intendendo questa globalità come correlazione mondiale, permette di oltrepassare alcuni limiti legati in passato alle contraddizioni strategiche tra i singoli capitali e l’insieme della classe dominante. Non c’è devozione propagandistica che possa disilludere il singolo imprenditore dai progetti miglioristi che si va facendo intorno al futuro della propria situazione produttiva. Se non sbatte il muso e se non finisce su di un letto di spine non cambia opinione, ma oggi queste situazioni marginali sono complementari alla condizione essenziale del dominio economico, cioè della guida produttiva che essendo più strettamente correlata permette di fornire indicazioni eccellenti in tempi brevissimi sulla possibilità o meno di sbocchi produttivi. Alla fine, non è tanto il letto di spine che spaventa l’imprenditore, ma il sospetto che non ci sia altro da fare che mettersi al passo con le innovazioni. Una volta, sentirsi segregati dal mondo, intenti a tessere le trame di una piccola guerra nell’ambito della propria azienda, poteva essere considerato un punto di forza, oggi non più. Le passioni si sono appiattite, parallelamente agli scrupoli con cui si evitavano intraprese ai confini con la legge. Il caos in cui ogni azienda si trova ad operare ha insegnato che nessuno è favorito dalla sorte in quanto tutti nuotano nelle medesime acque.

Il capitalismo sta imparando velocemente a cogliere le possibilità non realizzate che dormono nell’occhio vigile del presente. Ciò significa impadronirsi di tutto quello che cambia, di tutti i processi in corso di trasformazione. I dominatori stanno imparando a non essere vanitosi e loquaci, inutilmente impazienti, a non considerare loro proprietà quello che permane lo stesso di loro proprietà. Si sono resi conto che devono osare rompere con questa società che muore. Hanno messo da parte la languidezza del permanere e si muovono verso l’esodo. Poiché non c’è più nulla da attendersi dai trattamenti sintomatici della “crisi”, perché non vi è più crisi, stanno dando vita ad un nuovo sistema che abolisce massicciamente il lavoro. La gestione dell’imprevedibile sarà magari traballante e nuvolosa, ma sarà comunque meno buia di un qualche azzeramento del dominio, di una qualche (sempre possibile) condizione di anomia. Il capitale non vuole morire a metà strada. Se nell’ipotesi del “superamento” fecondo della “crisi” il singolo capitalista poteva immaginarsi più bravo degli altri, e quindi avviare procedure sue aguzzando l’ingegno, oggi l’assenza del concetto di “contraddizione acuta” e la generalizzazione, sia pure soffocata in termini meno paurosi, del caos vero e proprio, fanno pensare facilmente a un adattamento comune, a un collage adeguato alla realtà dello scontro.

Da un canto, tutto ciò restaura le peggiori forme di dominio, di asservimento, di sfruttamento, costringendo a contrapposizioni più radicali (dalle isole si sta passando alla clientelizzazione della fabbrica nelle sue singole componenti), dall’altro, spezza ogni forma di coesione di classe, costringe a battersi contro ombre, vento, vuoto, per ottenere questo “lavoro” che nelle forme conosciute è già di fatto abolito. Così pretende di perpetuare come obbligo, come fondamento insostituibile dei diritti e della dignità di tutti, una condizione lavorativa che nega i presupposti essenziali che una volta la rendevano effettivamente tale: presenza di uomini e donne nello stesso posto in grado di produrre a certe condizioni, ma anche di fronteggiare i danni peggiori che quelle sgarbate condizioni invariabilmente determinavano. Scomparsa del lavoro e scomparsa della dignità di classe, della coscienza che una volta il lavoro produceva parallelamente allo sfruttamento, anzi gareggiando con esso. Tutto ciò è sostituito con una flessibilità e una morbidezza per il momento un po’ macchinose, ma che costituiscono gli attuali punti di riferimento della produzione capitalista a livello mondiale. Anche nei posti dove vige ancora la forma “fissa” del capitale sub specie aeternitatis, le mutate condizioni globali di produzione si fanno sentire in quanto qualsiasi coesione significativa in queste zone a macchia di leopardo, quindi isolate una dall’altra anche geograficamente, non può dare vita che a locali movimenti rivendicativi, subito spenti dall’enorme pressione dell’esercito di disoccupati alle porte.

Di fronte alle innovazioni tecnologiche più avanzate il singolo capitale ha avuto, da sempre, delle ritrosie grottesche non essendo in grado di prevedere il peggioramento futuro in buone condizioni di produzione attuale. Ne derivava che spesso ad accettare prima le innovazioni erano proprio le aziende in difficoltà che potevano meno di tutte sfruttarne i benefici. D’altro canto, come ho accennato altrove, le grandi imprese sono sempre le ultime nell’innovazione tecnologica. La trasformazione della produzione su base flessibile, la sostituzione del carico costituito in passato dall’esorbitante costo della manodopera con impiego di forza lavoro più adattabile e manovrabile, hanno ristrutturato la quasi totalità della produzione a livello avanzato, con conseguenze parallele sulle produzioni minoritarie o più arretrate, ma non hanno parallelamente fatto morire la vecchia concezione narcisistica che il capitalista mantiene del mondo lavorativo. Scomparse le procedure cannibalesche che caratterizzavano il “lavoro” del passato, tardano a sparire idee che lo connaturavano. La “società del lavoro” non esiste più e non ritornerà, i capitalisti, singolarmente presi, non ne sono del tutto convinti.

Procedere autonomamente era uno dei contrassegni della “vecchia” economia, la prudenza ossequiosa delle regole una qualità tipicamente imprenditoriale, da buon padre di famiglia in un mondo malvagio. Oggi la corsa contro il tempo risulta indispensabile se si vuole restare a ridosso del movimento complessivo del capitale e non vedere la livida faccia della marginalizzazione produttiva. Velocità e flessibilità camminano assieme lasciandosi indietro ogni gaglioffa macchinazione modificativa del passato. La produzione è flessibile, quindi velocemente modificabile, del tutto lontana da ogni bizzosa vischiosità. Bisogna sapere distinguere i contorni del nuovo capitalismo dietro le resistenze, le disfunzioni, le impasse di cui si compone l’economia di transizione in cui viviamo tutti. La tutela statale è andata alleggerendosi anche per le imprese, il capitale si sta irrobustendo e produce mentalità globale, velocemente, attraverso il medesimo sistema produttivo delle “opinioni”. Ci si avvia verso una riduzione del classico modello di “bisogno”, e una maggiore ampiezza e diffusione del “desiderio”. La piaga è diventata un’illusione, la disperazione una promessa di felicità. La “dittatura sui bisogni”, specifica del burocratismo dello stato sociale, tende a scomparire presentando, solo incidentalmente, qualche sguardo lebbroso di passaggio. Una situazione vaga e incerta, una produzione inserita in un mercato mondiale costantemente regolato dalle norme probabilistiche, se non del caos almeno dell’indeterminazione, non può non indirizzarsi nella maniera più veloce verso l’ingigantirsi dei desideri e la standardizzazione patteggiata dei bisogni. La febbrile soluzione dei desideri nega i legami classici di solidarietà, in quanto si tratta più che altro di ghiribizzi dell’animo. Se tutti indossano vestiti dello stesso colore non lo fanno per un obbligo imposto ideologicamente, ma per “libera scelta”, dove questa scelta non è poi tanto libera in quanto viene condizionata dai produttori di “opinioni”, però nell’indossare come marionette lo stesso sgorbio tutti sognano di indossare un vestito diverso, e sognandolo questo vestito diverso lo indossano per davvero e soddisfano così il loro desiderio (non più un eventuale bisogno che farebbe vedere “uniforme” appiattente quel vestito uguale per tutti).

Allo stesso modo, inducendo il desiderio di un lavoro che sia diverso dalla piaga di una volta, il vecchio lavoro che, per intenderci, necessitava di una qualificazione, quindi di una coesione di classe, ecc., inducendo questo desiderio, il capitale produce condizioni lavorative nuove, fortemente disgregate, assolutamente incerte. Questo nuovo lavoro non è l’esteriorizzazione (Entäusserung) di cui parlava Hegel. Oggi milioni di persone, impiegati e tecnici, in fondo molto al di sotto della professionalità e della cultura degli antichi operai, che “lavorano” davanti al dèmone dello schermo, non “realizzano” nulla di concreto. La loro attività pratico-sensoriale è estremamente modesta, i loro corpi e il loro fare sensibile sono messi tra parentesi, arrugginiti. Per loro non esiste più una “appropriazione del mondo”, ecco perché sono più ricettivi ai desideri di quanto non lo fossero ai bisogni veri e propri di ieri. I produttori dell’immateriale forniscono prodotti evanescenti, ipotetici, bellicose unità di sapere che vengono consumate nello stesso tempo in cui sono compiute, ed essi stessi sono consumati nell’attimo in cui producono qualcosa che non esiste se non in maniera virtuale. Un gioco enorme, massiccio, impensabile, ubbidiente ad argomentazioni tutte sue, taciturno e inestricabile, astratto come un obelisco o una piramide. Non basta la definizione filosofica del lavoro per continuare a parlare del valore di un “lavoro” che è qualcosa d’altro. Distruggere quindi questo qualcosa d’altro è indispensabile perché di esso non possiamo impadronirci in una futura fase rivoluzionaria, perché in esso non c’è nulla da rimodellare, nessun segreto da scoprire, in fondo, nascosto sotto le membra rigide della protesi.

Ogni aspetto che nella condizione precedente appariva separato: utilizzo delle risorse, funzionamento delle strutture produttive, informazione, interrelazioni politiche, credibilità legittimante, repressione, ecc., nella condizione “nuova” si presenta sotto la forma febbrile di un processo globale. Ciò rende più difficile la comprensione di quello che accade, anche se non azzera del tutto le riflessioni riguardanti il periodo precedente, quando questo funzionamento persisteva congruamente separato nelle sue componenti.

Produrre rischia di non avere più senso se rimane ancorato all’angoscia della vecchia concezione limitata del singolo capitale. Lo scopo della produzione era, una volta, la conquista del mercato inteso come qualcosa di fisico, non ben identificabile ma sufficientemente visibile, sia attraverso la qualità del prodotto, sia attraverso la competitività del prezzo. Oggi lo sbocco nel mercato deve avere altre condizioni, la qualità non ha più senso se non tiene conto di inadeguate condizioni globali e complessive in cui tutti ci troviamo, ad esempio l’utilizzo estraniante e disastroso delle risorse. Il singolo prodotto, nella sua maschera mortuaria che lo caratterizzava in passato, non esiste più. Ogni singolo oggetto è adesso caricato di un abbagliante significato globale che profondamente lo trasforma esponendolo non più alle richieste passive del consumatore, ma alla sua collaborazione attiva nel processo produttivo stesso.

Ciò è reso possibile dalla gestione globale dell’informazione, impregnata di morte. Il capitale stesso è nella sua stragrande maggioranza minuto e sottile sapere informatizzato. Gli aspetti finanziari servono ormai di supporto e investono svogliatamente solo la proiezione marginale dell’economia, cioè i suoi raccordi con le macchie di leopardo più arretrate. Il terreno perso dall’ideologia nella gestione della vita umana lo ha guadagnato (ampliandolo) l’informazione e la sterminata gestione a “pioggia” della formazione delle opinioni. La stessa gestione politica statale, quindi il processo di legittimazione vero e proprio del dominio, rientra nel processo dell’opinione che viene, di volta in volta, aggiornata e indirizzata verso obiettivi ormai quasi del tutto sprovvisti di quel sostrato ideologico cui eravamo tanto affezionati. Chi si presenta nelle vesti di impaurito portatore di ideologia non viene nemmeno compreso nel suo smorto dire arcaico. Quasi del tutto sono venute a mancare le condizioni rancorose perché il processo di comunicazione (e persuasione) si innesti. Insistere sarebbe dare inizio a un dialogo tra sordi.

La repressione, allo stesso modo, si muove sulle coordinate del processo globale. Non tanto come allineamento di processi coercitivi o come ugualizzazione delle procedure legali, quanto come costruzione del terreno idoneo perché la risposta al fatto repressivo stesso venga preventivamente sollecitata da lamentosi sciacalli in un clima di accettazione e perfino di collaborazione. La minoranza divergente si riduce quantitativamente (anche ad opera della riduzione del supporto ideologico) ed è sempre più facilmente sottoposta al bombardamento delle informazioni che creano un’opinione impaurita e fragile ad essa sfavorevole e criminalizzante.

Nel passaggio dal “vecchio” al “nuovo” si vanno delineando con sempre maggiore evidenza i motivi perché bisogna distruggere subito questo mondo che rischia di soffocarci ogni giorno di più.


Trieste, 26 maggio 2000

Alfredo M. Bonanno

Dominio di classe e limiti del processo di legittimazione

Voir clair dans l’œil droit des hiboux
Voir clair dans les gouttes de houx
Dans le terrier fourré d’obscurité fondante
Voir clair dans la main des taupes
Dans l’aile étendue très haute
Dans le gui des philosophes
Dans le tout cela des savants

Paul Éluard

Uno degli scopi essenziali delle analisi che svolgiamo è quello di contribuire a vedere chiaro. Ma un’analisi non potrà mai produrre chiarezza se non parte da presupposti che siano chiari da per se stessi, evitando di affidarsi soltanto al processo di chiarificazione che dovrebbe realizzarsi nel corso dell’analisi.

Molto spesso ciò non accade quando cerchiamo di approfondire le capacità del nemico di classe. Non accade perché agiscono elementi di disturbo che concorrono a deformare l’analisi trasferendola dal piano dell’oggettivazione (per quanto possibile) a quello dell’impressione soggettiva, piano quest’ultimo che finisce per dilagare sulla spinta del momento, dell’entusiasmo o della paura, del sogno rivoluzionario o del riflusso reazionario.

Non che qui si voglia sciogliere un inno all’oggettività, ma si vuole dare un contributo allo studio dei limiti del potere. Ci pare che facendo in questo modo si riesca a portare avanti un lavoro costruttivo, evitando entusiasmi e paure, ma anche facili improvvisazioni e altrettanto facili disamoramenti.

Il concetto di dominio si è molto diversificato nel corso degli studi sociali. Dall’originale significato di “superiorità” di un soggetto singolo o collettivo su uno o più altri soggetti, si è arrivati alla definizione per cui, in un sistema sociale, un elemento controlla a proprio vantaggio, per quanto possa sembrare diversamente all’esterno, le risorse materiali e la distribuzione delle idee, come pure tutti i rapporti politici che in un modo o nell’altro risultano attinenti a questa distribuzione. Per i marxisti il dominio indica la possibilità delle classi, appunto dette dominanti, di prelevare ed impiegare a proprio favore il surplus prodotto dalle classi sfruttate. Un’altra tesi, dovuta principalmente a Max Weber, considera il dominio come una forma di aggregazione imposta con la forza e dall’esterno ad una quale che sia associazione di individui, la quale associazione proprio perché obbligata nella sua integrazione prende il nome di istituzione. Altri autori, sempre di origine tedesca, pongono una differenza tra dominio e potere considerando il dominio come la capacità di ottenere l’obbedienza senza che l’obbligato aderisca anche con i suoi sentimenti, e il potere come la capacità di coinvolgere anche questi sentimenti nell’obbedienza. Gli studiosi di origine anglosassone invece non si sono dati pensiero di ricondurre il concetto di dominio alla conflittualità originale tra le classi, per cui nelle loro opere (da Spencer fino a Cooley) il dominio appare come la semplice concentrazione di potere economico, politico, organizzativo e intellettuale nelle mani della classe dominante. Solo trent’anni fa, con Wright Mills, si è usciti da questa concezione con gli studi sulle élite del potere.

Consideriamo qui il concetto di dominio da un punto di vista conflittuale e relazionale nello stesso tempo. Conflittuale non solo per quanto riguarda la sua origine, ma anche per quanto riguarda la stessa possibilità di arrivare a comprenderlo come concetto teorico. Infatti solo nello scontro di classe si capisce che cosa sia il dominio e non certo nelle balordaggini astratte dei sociologi. Relazionale perché non significativo come concetto a se stante, ma solo in quanto capace di significare di volta in volta: se stesso, l’insieme della produzione, l’accentuazione economica della produzione, l’accentuazione della pace sociale della stessa produzione, la legittimazione di se stesso. Abbiamo così che i problemi della produzione economica come problemi di superamento dell’irrazionalità del processo produttivo in generale sono problemi di dominio, come i problemi dell’omogeneizzazione che lo Stato cerca di imporre con l’accentuazione produttiva della pace sociale, ed infine sono pure problemi di dominio anche quelli relativi alla legittimazione della produzione in generale e delle forme di intervento dello Stato. La maggior parte di questi rapporti e di questi concetti verrà approfondita ulteriormente nel corso del presente lavoro.

I limiti del dominio di classe grosso modo si possono riassumere nell’incapacità di fissare le condizioni ottimali del raggiungimento dell’interesse di classe. In altri termini, appare abbastanza chiaro che il capitale non riesce a massimizzare le sue reali possibilità di dominio.

Prima di procedere dobbiamo però approfondire due problemi. Il primo riguarda il rapporto tra Stato e capitale, il secondo il rapporto tra produzione economica (o processo di valorizzazione) e produzione di pace sociale.

Capitale e Stato

Nello scontro di classe una distinzione è necessaria. Come abbiamo notato spesso, per quanto sia in corso un processo di trasformazione abbastanza veloce che conduce alla costruzione del capitale a dominio reale, si tratta solo di una tendenza e non di un fatto compiuto. Di più: concorrono a ritardare e intralciare questo processo proprio quegli elementi di cui parleremo più avanti di imperfetta individuazione degli interessi di classe, elementi che sono specifici del capitale.

È importante notare qui, cosa che non faremo più nel corso del presente lavoro, che il passaggio dal dominio formale al dominio reale è sempre contrassegnato da forti spinte controrivoluzionarie anche all’interno della struttura di classe degli sfruttati. Organizzazioni e gruppi che prima si ponevano sul piano di una falsa alleanza di classe scoprono la loro vera e propria natura reazionaria. Sindacati e partiti di sinistra si avviano a giocare fino in fondo il ruolo di garanti e di strumenti del nuovo dominio di classe, maggiormente omogeneo, che si realizza in modo reale. Tutto ciò è molto ben visibile tenendo conto, nel corso dell’indagine che sviluppiamo, delle vicende del movimento reale rivoluzionario di fronte alla componente reazionaria del movimento fittizio, non dimenticando però la posizione che qui manteniamo, la quale metodologicamente nega validità allo strumento dialettico.

Riteniamo però che anche quando dovesse realizzarsi il dominio reale del capitale, lo Stato non potrebbe considerarsi identico al capitale e nemmeno il capitale potrebbe considerarsi Stato semplicemente e basta. Il ruolo produttivo dello Stato si ripropone sempre a livello della riassunzione della formazione del valore (produzione economica) nel quadro generale della produzione di pace sociale. Per quanto possiamo anche oggi ricavare dall’esperienza del cosiddetto “socialismo reale”, non si poteva non individuare in quelle realtà una differenza strutturale tra Stato (produttore di pace sociale) e organismi dello Stato diretti alla formazione del valore (produzione economica). Che il rapporto tra capitale e Stato in quei paesi fosse più semplificato non era altro che un diverso tipo di illusione, prodotta dalla forte componente ideologica che spingeva al consenso fondando la legittimazione. In sostanza la vera e propria strada per realizzare il dominio reale del capitale non sembra essere quella del socialismo reale, ma quella della formalizzazione estrema della democrazia politica, equivalente allo svuotamento di potere degli organi della cosiddetta rappresentanza popolare, svuotamento parallelo all’accentramento del potere nelle strutture dell’esecutivo: più maneggevoli e più capaci tecnicamente di realizzare il passaggio dalla fase di maggiore accentuazione di produzione economica alla fase di produzione generalizzata di pace sociale.

Considerato in se stesso lo Stato non può quindi essere il capitalista unico (socialismo reale), come non può essere un capitalista fra gli altri capitalisti (libera concorrenza). Eppure è Stato del dominio di classe, quindi non solo Stato dei padroni, ma Stato, quindi strumento dei padroni. E ciò non solo nella sua attuale forma e struttura e nel suo attuale funzionamento, ma in qualsiasi forma, funzionamento e struttura che possa prendere in futuro, a seguito di più o meno profonde trasformazioni (comprese quelle giacobine). Questa connaturata essenza di classe dello Stato lo riporta al dominio di classe, quindi all’essenza di Stato come strumento dei padroni. Fin quando il processo di valorizzazione (produzione economica) sarà nelle mani di una minoranza di privilegiati (più o meno ideologicamente camuffata), l’esistenza dello Stato sarà garantita, mentre corrispettivamente la presenza dello Stato garantisce la particolarità e la settorialità della produzione economica e quindi la sua connotazione di classe. Spezzando il dominio del capitale si spezza la macchina statale. Trasformando la struttura produttiva in modo violento e rivoluzionario, distruggendo il privilegio di pochi e il danno di molti, si ha il risultato di vedere sgretolata la macchina dello Stato. In questo senso possiamo quindi dire che lo Stato è Stato del capitale, non perché esista uno Stato diverso che non sia del capitale e che sia, poniamo, Stato degli sfruttati, ma solo perché esiste un fascio di interrelazioni tra capitale e Stato.

Questi rapporti tra Stato e capitale sono di grande importanza perché generano una notevole serie di contraddizioni e di comportamenti irrazionali che sono alla base dei molti limiti della legittimazione del dominio.

La legittimazione può essere considerata come l’insieme delle azioni del potere per consolidare e giustificare il dominio. Ma si tratta di una definizione insoddisfacente. La legittimazione è dominio essa stessa in quanto senza legittimazione non esiste dominio, quindi è potere e dominio nello stesso tempo, in quanto senza essere di già potere e dominio non c’è alcuna azione possibile di legittimazione. Ciò è importante per evitare di cadere negli equivoci fisiologici o meccanicistici, nelle analogie facili ma fuorvianti. Il conflitto è sempre un fascio di interazioni correlate tra di loro, fascio che non si può sciogliere se non per ipotesi di lavoro.

Produzione economica e produzione di pace sociale

Il processo di formazione del valore, cioè la produzione economica, presenta una caratteristica generalizzata di incertezza e di casualità. L’incontro e lo scontro dei singoli interessi dei capitalisti produce situazioni specifiche che hanno spesso un profondo contrasto con quelli che grosso modo possono indicarsi come gli interessi di classe del capitale.

Eppure avviene che il cammino percorso dal progetto capitalista realizza abbastanza da vicino gli interessi di classe nella loro astratta concezione. Fra procedure singole conflittuali, fra lotte che si svolgono a tutti i livelli e che rappresentano abbastanza bene un esempio sociale della classica lotta della giungla per la sopravvivenza, il capitale avanza per la sua strada. Uno degli elementi che consentono questo fenomeno è dato dalla capacità di adattamento che il capitale possiede ad un elevato grado. Di volta in volta, senza scrupoli e falsi pudori, il capitale adatta non solo i suoi metodi, ma anche i suoi obiettivi.

Questo concetto di adattamento è molto importante, se non qui nello sviluppo ulteriore di una teoria conflittuale del dominio di classe. È chiaro infatti che le forme del flusso totale della produzione, come le forme del dominio (che sono le stesse, ma considerate da un diverso punto di vista), preparano il terreno al superamento della irrazionalità del singolo capitale proprio grazie all’adattamento. Da von Wiese l’adattamento è considerato proprio uno dei gradi del processo di associatività. Così egli scrive: «Nell’adattamento è possibile rinvenire l’associazione stessa; dove per la verità già la parola medesima mostra che viene presa in considerazione la differenza dei partner che si associano. Si possono adattare soltanto ed esclusivamente gli esseri simili, ma non quelli uguali. Ogni processo di adattamento sarà costituito dall’accentuazione e dall’utilizzazione della somiglianza; l’attenzione sarà rivolta a ciò che nelle grandezze vi è di uguale e non meno a ciò che in esse vi è di disuguale. Trascurare e dimenticare le diversità significa annientare il punto di partenza». (Sistema di sociologia generale, tr. it., Torino l968, p. 462).

Per Parsons l’adattamento è invece molto più importante, esso rappresenta una delle condizioni essenziali del funzionamento di ogni sistema sociale. Egli scrive: «La difesa e l’adattamento sono concepiti come processi equilibratori, che si oppongono secondo certi modi alle tendenze al mutamento del sistema». (Il sistema sociale, tr. it., Milano 1965, pp. 215-216). Da notare che nel senso di Parsons l’adattamento si pone come elemento di riequilibrio e non di razionalizzazione. Difatti, ci sembra che proprio in questo senso l’irrazionalità del sistema produttivo nel suo complesso, e del livello della produzione economica in particolare, non venga corretta o superata ma semplicemente riequilibrata all’interno di dimensioni tollerabili.

Un altro degli elementi è dato dalla capacità di eliminare comportamenti contraddittori che si presentano con frequenza superiore ad una certa media tollerabile.

Pur non attenendo al problema che ci occupa, è importante specificare meglio quali possono essere questi comportamenti irrazionali. Cominciamo col dire che non si tratta di comportamenti irrazionali alla luce di un modello di razionalità conosciuto e che viene per motivi specifici evaso dal singolo capitale. Si tratta piuttosto di comportamenti naturali che finiscono però, a posteriori, per risultare in contraddizione con l’interesse generale di classe del singolo capitale. Certo lo scopo generale del capitale è quello di “massimizzare il profitto”, ma in concreto il singolo capitale, o un determinato gruppo di capitali, può trovarsi a compiere azioni economiche che si rivelano sconsiderate, irrazionali, ripetitive, legate a concezioni tradizionali ormai superate e affette da sentimentalismi extraeconomici. La teoria ha approntato tutto un armamentario del calcolo dei costi e dei ricavi, ma sono ben pochi i singoli capitali che agiscono partendo da questo genere di calcoli. Per altro non esistono strumenti realmente efficienti per la soluzione dei problemi tecnici della produzione: quantità da produrre, composizione dei fattori di produzione, prezzi da portare sul mercato, ecc. Ad esempio, non c’è dubbio che nella formazione dei prezzi non gioca solo l’analisi economica ma anche la componente storica specifica del singolo capitale, per cui esso si trova “obbligato” a produrre con quelle percentuali di macchinari, mano d’opera e capitali variabili senza poter fare gli opportuni cambiamenti in tempi ragionevolmente brevi. Non bisogna sottovalutare l’aspetto irrazionale di questa componente storica nella determinazione dei prezzi e in fondo nella stessa collocazione di mercato del singolo capitale.

Un altro aspetto interessante di questo genere di problemi è dato – sempre per quanto concerne il singolo capitale – dal fatto che la massimizzazione del profitto, quindi la livellazione del costo e del ricavo marginali, è fatta partendo da valutazioni che sono esclusivamente soggettive o immaginate da uomini che procedono a questo genere di calcoli e prendono questo tipo di decisioni. Certo si tratta di uomini sufficientemente preparati e ragionevoli, ma non per questo le loro decisioni si possono considerare razionali nel senso che viene preteso dal principio della massimizzazione del profitto come principio generale della produzione a livello economico. La realtà è che quasi nessun capitale singolo è in grado di conoscere realmente i suoi costi, sia perché difetta di interesse o di esperienza, sia perché non gliene importa molto, preferendo orientarsi nella tendenza storica della sua azienda. Le cose stanno allo stesso modo per quanto riguarda il prezzo e le previsioni di ricavo. Su quest’ultimo punto il capitale s’immagina una domanda ipotetica, anche facendo ricorso a tecniche di indagine di mercato o di statistica pubblicitaria (cose molto sofisticate, ma sempre affette dalla malattia congenita di tutte le previsioni: l’incertezza), e su quella domanda ipotetica imposta il suo programma di produzione. Ma le variazioni di questa domanda in realtà non sono prevedibili, la sua elasticità è un fatto legato a troppe incognite, può essere che il singolo capitale aumenti il prezzo quando invece una riduzione gli avrebbe fatto avere un ammontare d’affari maggiore e un più alto guadagno. Ma questo nessuno può saperlo prima e nessuno lo potrà sapere dopo.

Anche l’influsso dei cambiamenti oggettivi sulle decisioni soggettive del singolo capitale non è chiaramente conoscibile. Infatti, se ipotizziamo un aumento delle tariffe di trasporto, si dovrebbe avere una certa reazione da parte dei singoli capitali, ma può essere che questo non accada. Il singolo capitale potrebbe non sapere nulla dell’aumento e anche non importargliene, in quanto potrebbe ritenere opportuno fare rientrare il maggior costo nella composizione storica individuale del prezzo che comprende spazi economici solo a lui noti.

Continuando: il singolo capitale si basa per le sue decisioni su di una dimensione temporale di anticipazione, ma qual è il tempo minimo o massimo che rende più o meno plausibili queste anticipazioni? E poi: sono più utili le previsioni a breve, a media o a lunga scadenza? Quali sono le più attendibili? Ad esempio, quando il capitale singolo fa previsioni a lunga scadenza, in genere si pensa che ciò comprenda forti variazioni nelle attrezzature (stabilimenti, macchinari, ecc.), ma ciò avviene perché per variare il capitale fisso ci vuole molto tempo o perché per affrontare le variazioni a lunga scadenza nel livello della produzione ci vogliono variazioni del capitale fisso? Nessun uomo d’affari potrebbe rispondere a questa domanda. In genere le cose si fanno “pensando” che ci sarà un costante aumento della domanda e allora si investono capitali nella costruzione del nuovo stabilimento, ecc., ma ciò potrebbe andare incontro a sorprese non proprio piacevoli, e tante cattedrali nel deserto del nostro meridione sono la conferma di questo modo irrazionale di procedere del capitale singolo. Si potrebbe obiettare a questo punto (sbagliando) che quelle cattedrali non sono state prodotte dal capitale singolo ma dallo Stato. La realtà è che quelle cattedrali sono state prodotte dall’insieme del capitale singolo e del capitale statale, ma sono cattedrali nel deserto solo dal punto di vista del capitale singolo e non dal punto di vista della produzione di pace sociale in quanto, in questo senso, hanno assolto pienamente al loro compito. A sua volta, l’intervento dello Stato per salvare il capitale singolo in difficoltà per il suo comportamento irrazionale, intervento fatto almeno fino ad oggi quasi sempre a spese del capitale nel suo insieme e quindi del livello della produzione economica, rientra nel processo di adattamento visto prima e di cui abbiamo già parlato.

Certo vi sono delle tesi economiche che prendono in considerazione anche alcune delle azioni classicamente considerate “non economiche”, facendole entrare lo stesso nel calcolo del capitale singolo. Ad esempio, un’azienda potrebbe decidere di vendere a prezzi ridotti agli appartenenti ad un determinato gruppo o partito o chiesa, ecc., potrebbe decidere di comprare a prezzi maggiori da un gruppo di aziende consociate per scopi non sempre confessabili, come un uomo d’affari potrebbe rinunciare ad ingrandire la sua attività perché preferisce non avere troppi fastidi ed ama la vita comoda. Vi è chi sostiene che queste decisioni si possono quantificare in una speciale ricompensa o “ricavo” per cui si ha sempre una logica economica anche in questo. Ma quello che qui sosteniamo è che se questo genere di azioni assume una frequenza superiore alla media diventa intollerabile per la produzione nel suo insieme, anche se a livello psicologico individuale si può sempre trovare una giustificazione che abbia tutto l’aspetto della razionalità.

Non mi pare utile continuare questa analisi che è stata iniziata a titolo di chiarificazione.

Ad un determinato livello il comportamento irrazionale del singolo capitalista, persistendo nella sua situazione conflittuale con l’interesse generale del capitale, finisce per saltare fuori dalle condizioni che delimitano lo spazio sociale della producibilità del valore.

In un’interpretazione relazionale dei fenomeni sociali lo spazio sociale assume una notevole importanza. Secondo von Wiese: «Lo spazio sociale è l’universo nel quale si svolgono i processi sociali. L’isolamento della sfera del sociale dal mondo dei corpi, da una parte, e dall’ambito dello psichico, dall’altra parte, è un assioma della dottrina relazionale». (Sistema di sociologia generale, op. cit., pp. 276-277).

Occorre distinguere lo spazio sociale, che possiamo definire come il luogo sociale in cui si sviluppa il fenomeno nella sua forma di processo, quindi nella sua forma interazionale, dal campo sociale, che è l’insieme degli spazi sociali possibili, il tutto in cui si racchiude il processo totale dei fenomeni sociali.

Il processo di concentrazione delle multinazionali, che si oppone al persistente sistema molecolare del piccolo e medio capitale, è un esempio di come agisca questa capacità di aggiustamento e di autodelimitazione del capitale nel suo insieme.

L’insieme del processo produttivo nella sua fase di realizzazione del valore risulta invece più omogeneo in quanto alla sua essenziale finalizzazione alla fase superiore: quella della produzione di pace sociale. Questa omogeneità non va considerata come razionale decisione dei singoli, che anzi questi privilegiati – spesso immersi in una vaga ideologia liberale o socialdemocratica, se non reazionaria in senso stretto – si rifiuterebbero di ammettere che il loro sforzo produttivo non è altro che una prima parte del processo produttivo generale, quello che dà vita alla pace sociale, affermando anche con alterigia che sono proprio loro quelli che realizzano la produzione come insieme di mezzi per soddisfare bisogni reali. Invece l’omogeneità è rappresentata dall’andamento complessivo, conglobante tutte le contraddizioni singole, capace di presentare una tendenza e un processo unitario non più leggibili nella chiave tradizionale della formazione del valore (produzione economica), ma traducibili omogeneamente in termini di produzione di pace sociale.

Per comprendere meglio il funzionamento di questa omogeneità maggiore che si riscontra nella produzione a livello di pace sociale, studiamo il fenomeno dell’infortunio sul lavoro. La tesi precedente alla prima legislazione sociale contro gli infortuni sul lavoro (nel 1883 in Italia lo Stato costituisce una Cassa nazionale infortuni) faceva riferimento chiaro al concetto di fatalità: un incidente sul lavoro era considerato alla stessa stregua di scivolare per strada su una buccia di banana. La tesi successiva, pur ribadendo la non colpevolezza dell’imprenditore e quindi riconfermando la tesi della fatalità, sostiene che è l’industria nel suo insieme come realtà organizzata a dovere sopportare il carico dell’infortunio, in quanto l’evento non appare come prevedibile e quindi limitabile con una maggiore prudenza o prevenzione, ma resta ineliminabile come un accessorio dell’industria stessa, una condizione inevitabile dell’esercizio della produzione. L’attuale estensione delle coperture assicurative in caso di infortunio non ha abbandonato questa tesi, per quanto esistano anche altre leggi che indicano norme di prevenzione, ecc. Quello però che bisogna notare è che con l’intervento dell’obbligo assicurativo l’imprenditore non risulta essere danneggiato in quanto non viene a dare in più nulla agli operai, ma questi risultano lo stesso avvantaggiati dall’assicurazione obbligatoria, perché non devono più sottostare all’onere assolutamente insostenibile per loro di provare la colpa dell’imprenditore: vengono risarciti e basta. Ciò conduce ad una razionalizzazione indiretta del comportamento imprenditoriale, che continua ad essere “irrazionale”, ma con danni minori. Cioè l’imprenditore continua a sfruttare i lavoratori, ma non corre più il rischio di essere condannato per colpa sua, basta che paghi l’assicurazione obbligatoria, quindi basta che consideri nel suo problema commerciale questo aumento dei costi di produzione. A sua volta il lavoratore si sente coperto e quindi legato ad un sistema sociale che non lo lascia in balìa del padrone. Non si accorge del danno che subisce, sia per l’illusorietà della protezione sociale, che non riesce mai (né vuole farlo) a coprire i rischi effettivi che si corrono, sia perché adesso è veramente nelle mani dell’imprenditore che, sentendosi al sicuro da quel sia pure remoto pericolo della dimostrazione della colpa, si abbandona ad uno sfruttamento più intenso e brutale diretto, in primo luogo, a recuperare il maggior costo che viene a sostenere. In una parola: l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni fa aumentare i rischi degli incidenti anche se copre i danni, razionalizza in parte l’opera dell’imprenditore sottraendolo ad un rischio legale sia pure aleatorio ma presente, lo spinge ad un maggiore sfruttamento, ma omogeneizza il processo produttivo nel suo insieme strappando ai lavoratori un maggiore consenso.

È quindi semplicistica l’ipotesi di coloro i quali sostengono che il capitale avanzi richieste specifiche allo Stato nel senso di una protezione o di un sostegno, come è superficiale ammettere, con altri, che il capitale obblighi lo Stato ad un certo comportamento (lo stesso dicasi per il contrario di questa ipotesi: che sia lo Stato ad obbligare il capitale ad un dato comportamento).

Occorre considerare bene questa interpretazione del rapporto tra capitale e Stato. Come sappiamo, uno dei classici cavalli di battaglia del marxismo è sempre stato quello di considerare lo Stato come lo strumento del dominio di classe della borghesia, per cui, abbattuto il dominio economico di questa classe, lo strumento “Stato” sarebbe passato nelle mani dei rivoluzionari e, in attesa della sua naturale e rapida estinzione, sarebbe stato utilizzato per scopi appunto rivoluzionari contro gli antichi dominatori. Questa favola, smentita sistematicamente dagli avvenimenti storici che si sono succeduti negli ultimi cento anni, oggi non ha quasi più credito anche presso molti marxisti, ma ve ne sono di quelli che amano giurare ancora sulle vecchie reliquie.

Alla base di questo pericoloso ragionamento stava il concetto di “utilizzo”. Se questo strumento di potere è stato utilizzato dalla borghesia, perché non utilizzarlo noi rivoluzionari dopo la caduta e la distruzione degli sfruttatori? In fondo però non si tratta solo di un errore di natura pragmatica, cioè di un errore basato sul fatto che i rivoluzionari che si trovarono davanti ai problemi organizzativi all’indomani della rivoluzione, in primo luogo ai problemi della lotta armata e della difesa delle conquiste della libertà, pensarono di utilizzare uno strumento già pronto ed efficiente illudendosi poi di gettarlo alle ortiche. L’errore più grave fu di natura dialettica. Infatti, perché mai la nuova classe, la classe proletaria, vittoriosa, avrebbe dovuto avere paura ad utilizzare lo Stato (che così diventava proletario) dato che avrebbe dovuto non solo concludere vittoriosamente l’avviata rivoluzione, ma trasformare il mondo, chiudere la storia delle lotte di classe e realizzare la filosofia? Se il meccanismo dialettico garantiva tutto questo, come poteva esserci contrasto con l’uso temporaneo dello Stato? Gli anarchici che gridavano ai quattro venti i pericoli dello Stato non erano altro che stupide Cassandre.

È pertanto di fondamentale importanza che si chiarisca come di fatto avvengono questi rapporti tra Stato e capitale, come e in che termini si può parlare di utilizzo, e come – più correttamente – si debba parlare di due modi, due angolazioni diverse di vedere la stessa cosa. Facciamo un esempio. Esistono delle leggi, queste da un punto di vista formale possono considerarsi come dei contratti che impegnano due parti: lo Stato che le emette e i cittadini che le devono osservare. Ma il capitale riesce quasi sempre ad evadere la maggior parte di queste leggi, mentre ne utilizza altre a proprio esclusivo beneficio. Si ha, cioè, un diverso modo di porsi davanti alle leggi della classe dominante e della classe degli sfruttati. Sarebbe molto superficiale pensare che il dominio venga esercitato dal capitale imponendo richieste dirette allo Stato, e viceversa. Nel primo senso la cosa non avviene neanche formalmente, nel secondo senso, cioè dallo Stato al capitale, l’imposizione ha – come abbiamo visto – carattere meramente formale. In fondo, non dobbiamo dimenticare che capitale e Stato sono due espressioni dello stesso fenomeno: l’esercizio in atto del dominio di classe. Ritornando al nostro esempio delle leggi, in effetti non esistono in esse, almeno formalmente, privilegi a favore della classe dominante. Quando appaiono (sovvenzioni, sgravi fiscali, concessioni di sfruttamento, ecc.), sono di regola accompagnati da pari imposizioni di natura economica o sociale. Però il capitale riesce agevolmente a raggiungere il proprio interesse fra tutte le complicanze delle leggi, approfittando anche della divisione dei poteri: non bisogna dimenticare che se il Parlamento fa le leggi sono poi gli organi dell’amministrazione che le applicano. Nell’applicazione si realizza una vera e propria “interpretazione”, in quanto nessuna legge è chiara di per se stessa. Anche la magistratura interpreta le leggi e le applica sempre a favore della classe dominante. In teoria si potrebbe trovare un giudice indipendente (in quanto si postula la “sovranità” del singolo giudice), ma in pratica esiste una ferrea gerarchia all’interno della magistratura. Pretori dirigenti, procuratori capo, presidenti dei tribunali, procuratori generali, sono tutti legati in un modo o nell’altro col potere esecutivo.

Tra capitale e Stato non c’è sostanziale differenza (per quanto, come abbiamo visto, si debbano porre differenze di connotazioni e di identificazioni specifiche), come non c’è sostanziale differenza tra produzione economica e produzione di pace sociale. Il capitale e lo Stato si collocano su di una continuità del dominio di classe, come la produzione economica e la produzione di pace sociale si collocano all’interno di un concetto generale più ampio ed articolato di produzione.

I limiti della legittimazione del dominio

Abbiamo visto che la realizzazione del processo produttivo nel suo complesso, cioè in quanto produzione economica e produzione di pace sociale, si presenta come un flusso dotato di scarsa uniformità, di difficilmente identificabili specificazioni razionali, come qualcosa che supera i conflitti di fondo e le irrazionalità periferiche con progressivi aggiustamenti. Abbiamo anche visto che ad una scarsa omogeneità nella fase della produzione economica corrisponde una maggiore omogeneità nella fase della produzione di pace sociale. Ecco la serie di questi limiti.

A) Livello della produzione economica (minore omogeneità).

1) Limiti derivanti dal conflitto tra interessi dei singoli capitali e interesse complessivo della classe dominante. Non c’è dubbio che singole aggregazioni di capitali, specialmente a livello multinazionale, hanno la possibilità di imprimere una certa forza nella fase di passaggio alla produzione di pace sociale, nel senso di sollecitare fortemente lo Stato ad una certa politica (fiscale, degli sgravi e dei privilegi, delle sovvenzioni, ecc.). Non c’è dubbio, allo stesso modo, che ad un determinato livello il capitale, consociandosi e rafforzandosi, razionalizza alcuni suoi comportamenti e quindi riesce a spendere bene quanto è necessario per realizzare la massima utilità dal processo produttivo di pace sociale. Scendendo ancora più giù, è anche certo che il capitale può intervenire nella fase di produzione di pace sociale in modo indiretto con un’opportuna politica degli investimenti, delle esportazioni di capitali, dei tassi di interesse, ecc., come pure dell’informazione a livello di massa e della stessa formazione dell’opinione elettorale, tutte cose che si riflettono in un certo senso nella possibilità da parte dello Stato – nella situazione oggi corrente [1980] – di realizzare con maggiori o minori difficoltà il processo di produzione di pace sociale. Ma, al contrario, non c’è nemmeno dubbio che queste possibilità abbiano dei limiti: la somma dei comportamenti dei singoli capitalisti o gruppi di capitalisti non corrisponde mai al totale massimizzato dell’interesse della classe dominante.

Spesse volte la spinta del capitale si realizza nel senso di cercare di superare quelle strutture statali che invece sono rigide e non possono essere superate senza grave perturbamento. È classico l’esempio della politica della massima occupazione, spesso vista in due modi opposti dai due elementi produttivi: da un lato dal capitale (produzione economica), dall’altro dallo Stato (produzione di pace sociale). Certo la distinzione è fittizia, ma in alcuni casi appare molto più fondata che in altri.

Le leggi sulla massima occupazione sono strumenti per contenere gli effetti negativi del mercato del lavoro libero. Le conseguenze di quest’ultima situazione si riflettono nella produzione di pace sociale. Non potendo eliminare la disoccupazione, lo Stato la contiene con una serie di interventi: aumento della spesa pubblica, prolungamento della scolarità, abbassamento dell’età di pensionamento, turni di lavoro, settimane corte, ponti, cassa integrazione. Il capitale spesso non trova modo di inserirsi negli effetti immediati che scaturiscono da questa politica sociale. In alcuni casi una decurtazione rigida dell’occupazione darebbe ossigeno e assetto più razionale alla produzione del primo livello (produzione economica), ma ciò comporterebbe rischi troppo grossi a livello complessivo. La grande diffusione del lavoro nero è una delle risposte che vengono dal capitale.

Abbiamo quindi che l’interesse del singolo capitale non può essere in alcun modo considerato razionalmente diretto a raggiungere l’interesse di classe complessivo. Troppo, nell’interesse del singolo, è affidato al caso, all’individuo, alla situazione, alla contingenza, all’imprevedibilità del momento. La stessa struttura funzionale del singolo capitale è troppo limitata perché possa considerarsi in grado di attingere gli elementi necessari alla sua razionalizzazione, e quindi possa realizzare i comportamenti indispensabili al raggiungimento dell’interesse di classe. Non bisogna dimenticare che la concorrenza è esattamente l’opposto della collaborazione e della solidarietà di classe.

Il principio della massimizzazione del profitto, oltre ad incontrare le incertezze e le irrazionalità viste prima, si scontra col livello generale dell’interesse di classe: come si è detto, lo spazio sociale della produzione economica finisce per espellere il capitale singolo che ripresenta comportamenti irrazionali al di sopra di una certa media. Nell’ambito ristretto della visuale del capitale singolo, questo contrasto con l’interesse complessivo di classe non è chiaramente misurabile, però si presenta in genere sotto l’aspetto del rischio. Per cui si ha che spesso la tendenza alla massimizzazione del profitto entra in contrasto con la tendenza a non assumere rischi eccessivi che farebbero “saltare” l’impresa.

2) Limiti dei comportamenti difensivi del capitale. I comportamenti difensivi dei singoli capitali (organizzazione degli industriali, finanziamenti a gruppi politici, corruzione a diversi livelli, reperimento di fondi neri, ecc.) non è detto che risultino funzionali allo sviluppo complessivo del capitale. Spesso fanno derivare conseguenze assolutamente contrarie e richiedono riparazioni che sono veri e propri comportamenti difensivi di segno contrario i quali, se sistemano una situazione danneggiata, non fanno recuperare i danni subiti dal capitale nel suo insieme.

Il lavoro a domicilio può considerarsi una forma di “difesa” dell’imprenditore davanti alla contrattazione collettiva, alle norme di sicurezza sociale, ecc. Col lavoro a domicilio le aziende: a) realizzano una forma importante di decentramento aziendale, b) trovano un modo di evitare le norme di protezione del lavoro subordinato, c) impongono alla forza lavoro la mobilità voluta, d) riducono il costo della manodopera, e) indeboliscono le forme organizzative dei lavoratori. Come contropartita però non hanno la capacità di contrattazione che un maggior numero di dipendenti dà all’azienda nei confronti dello Stato, non possono sfruttare le maggiori capacità produttive che gli aggregati di mano d’opera rendono possibile, non possono realizzare produzioni di largo respiro che richiedano macchinari, catene di montaggio e quanto altro necessario per le grandi fabbriche.

3) Limiti derivanti dal tempo. La situazione concorrenziale in cui il singolo capitale si trova ad operare lo obbliga a comportamenti che, se sono adeguati alle situazioni contingentali, risultano spesso non adeguati a modificazioni che si realizzano a livello complessivo del capitale nel corso del tempo.

Valutando attentamente la situazione economica italiana oggi [1980], sembra abbastanza probabile che molte produzioni industriali troveranno tra qualche anno una forte concorrenza estera, non soltanto a livello dei mercati internazionali, ma anche sul mercato italiano. Poiché la soluzione protezionista non potrà essere accettata a livello internazionale, dati gli accordi in atto e dato anche il fatto che avrebbe conseguenze insostenibili di chiusura e di difficoltà a livello politico, resta la soluzione dell’aumento delle esportazioni, sia per coprire i maggiori costi delle materie prime che per affrontare le nuove importazioni che saranno necessarie. Ciò significa, in altre parole, che l’industria italiana dovrà diventare competitiva. Ma in che modo ci si programma questa scadenza non tanto lontana nel tempo? Non è possibile saperlo. Ad esempio, sappiamo che la piccola industria sta facendo qualcosa per conquistare mercati prima impenetrabili, ma la grande e media impresa non si muove in questa direzione. Perché questa parte del livello produttivo economico si muova occorre una radicale riconversione. [Il vecchio capitalismo non aveva ancora la soluzione telematica a portata di mano – Nota redatta nel 2000]. Ma ciò è possibile? Certo, un ravvicinamento del livello di produzione di pace sociale consentirebbe un minimo di funzionalità, ma ciò non basta. Perché si possa avviare ragionevolmente questa ristrutturazione occorre un proporzionale processo di accumulazione. È facile accorgersi come le due condizioni sono in contrasto tra loro. La previsione è di diminuzione della produzione e di sempre maggiori difficoltà, per capovolgerla occorre avere, di già oggi, un processo di accumulazione maggiore, cosa che non esiste e che quindi non potrà determinare le condizioni necessarie al superamento dei problemi attuali e di quelli futuri. Resta lo Stato. Ed è proprio quello che la grande e media industria sa e aspetta. Ma se le cose stanno così, se sarà lo Stato a realizzare l’accumulazione necessaria, per quale motivo il capitale dovrebbe, da oggi ed autonomamente, imporsi lo sforzo di modificare il proprio assetto irrazionale? E poi? Si è proprio sicuri che il livello produttivo di pace sociale sia determinato a realizzare le modificazioni del livello produttivo economico ricorrendo alle modificazioni strutturali? Chi l’ha detto? Potrebbe ricorrere alla stagnazione, cioè mantenendo le esportazioni nella misura attuale e correggendo qua e là il livello di investimenti obbligandolo a restare molto basso. Ciò determinerebbe un insufficiente sviluppo del livello della produzione economica (a causa dei bassi investimenti), per cui di fronte all’aumento della domanda per consumi si avrebbe la minaccia dell’inflazione e degli squilibri della bilancia dei pagamenti. La cosa condurrebbe ad una delimitazione della produzione di pace sociale all’ambito della sola politica monetaria, cioè una politica di controllo della domanda globale, politica che agisce solo nel senso della deflazione e non certo in quello della promozione degli investimenti. Come si vede, da qualsiasi lato si metta il problema non è affatto certo che il capitale sia in grado di fare previsioni future sufficientemente operative e, di più, sia in grado di fare quanto necessario per porre rimedio ai problemi e agli ostacoli che si prospettano all’orizzonte.

B) Livello della produzione di pace sociale (maggiore omogeneità).

1) Limiti di struttura. Gli elementi istituzionali dello Stato (leggi, diritti costituzionali, norme regolamentari, norme burocratiche, ecc.) finiscono per costituire i confini di un campo d’azione all’interno del quale lo Stato stesso si trova rinchiuso. Spesse volte la produzione di pace sociale avviene ricorrendo ad aggiustamenti che sono vere e proprie violazioni della struttura istituzionale (clientelismi, sottobosco governativo, rapporti mafiosi, ecc.), ma ciò non toglie che siamo davanti a dei limiti di notevole portata.

Il problema che qui si pone è amplissimo e riguarda direttamente le tecniche della produzione di pace sociale. Occorre però inquadrare meglio il limite strutturale nella prospettiva della legittimazione del dominio. Partiamo dal fatto che la produzione è un fatto complessivo e unico e che la distinzione tra produzione economica (primo livello) e produzione di pace sociale (secondo livello) non è altro che un espediente teorico per meglio comprendere i problemi. Da ciò consegue che le regole della produzione sono valide sia per la produzione economica che per la produzione di pace sociale. La prima di queste regole è l’autonomia produttiva, cioè questa produzione deve essere identificabile in uno spazio sociale preciso e non costituire elemento di tutto lo spazio sociale della produzione nel suo insieme. In questo caso non avrebbe più senso parlare di produzione di pace sociale e si ritornerebbe al vecchio modello dello Stato tutore dell’ordine e della legalità capitalista. In altri termini, si deve potere individuare uno spazio sociale abbastanza preciso in cui la produzione di pace sociale assume una caratteristica molto più rilevante della produzione economica che eventualmente in quello spazio sociale dovesse contemporaneamente realizzarsi. Un’altra di queste regole è l’economicità, cioè la rispondenza della produzione agli scopi che si prefiggono. Abbiamo quindi un criterio di economicità diverso ma non contrastante con quello rintracciabile nel livello della produzione economica. Un’altra regola potrebbe essere individuata nell’omogeneità, ma di questo abbiamo già parlato.

Considerando la produzione di pace sociale, lo scontro con i limiti di struttura è spesso rilevante ma non facilmente percepibile. Il fatto che l’elaborazione di alcune forme istituzionali avvenga ad opera di organi che sono essi stessi elementi della produzione di pace sociale (sottolineiamo l’importanza dell’esecutivo nei confronti degli organi rappresentativi della democrazia che sono praticamente in corso di decomposizione) porta ad un affinamento delle capacità operative, ad una preventiva abilità nel trovare le opportune scappatoie. In fondo la caratteristica dell’omogeneizzazione agisce anche nei confronti degli organi che più sono vicini allo spazio sociale della produzione.

Considerazioni del genere sono valide per tutti i limiti a livello di produzione di pace sociale.

2) Limiti di disponibilità delle risorse. Il raccordo tra i due livelli produttivi si contrae spesso anche a causa della scarsa omogeneità del primo livello (produzione economica) e finisce per restringere più di quanto sarebbe stato logico il campo operativo del secondo livello. L’uso irrazionale delle risorse moltiplica negativamente il limite costituito dalla loro oggettiva disponibilità.

3) Limiti di informazione. Per quanto le situazioni attuali consentano un uso notevole dell’informatica e quindi lascino presupporre a breve termine una strategia totale delle informazioni a livello dell’organizzazione di legittimazione complessiva (ambedue i livelli produttivi), ciò è ancora da realizzare e i grandi passi fin qui compiuti non possono certo dirsi conclusivi. C’è da dire che, con ogni probabilità, questa stessa grande disponibilità di dati darà in futuro origine a difficoltà di nuovo genere che al momento non sono prevedibili e che, a loro volta, costituiranno nuovi limiti.

I limiti dell’informazione rappresentano un importante problema di ordine sociale, ma anche strategico e perfino tattico. Spesso si sentono affermazioni di disperazione, anche da parte di compagni, sulle grandi possibilità dell’informatica e sul futuro repressivo che esse renderebbero possibile. Non dico che questo non sia vero, anzi una delle armi che il potere nella forma della più bieca repressione impiega correntemente è proprio la schedatura preventiva, la programmazione di ogni tipo di bisogno futuro, ecc. Tutto ciò lo so benissimo. Quello che invece insisto sempre nell’approfondire è che questo programma, se mai potrà essere realizzato, è ancora molto di là da venire. È quindi importante qui dare alcune indicazioni sui motivi che mi hanno spesso spinto a queste conclusioni.

Il successo dei programmi dell’informatica, sia sotto l’aspetto tecnico (applicazione e sviluppo futuro), sia sotto l’aspetto economico (produzione e progettazione), dipende da elementi che non sono soltanto legati alla tecnologia avanzata, alle macchine, ai linguaggi e alle memorie. Questi elementi sono: a) razionalizzazione del lavoro di base che deve fornire i dati per alimentare il sistema nel suo complesso, b) educazione degli utenti nei confronti del sistema di dati, cosa questa che condiziona non solo l’utilizzo del sistema ma anche e principalmente la formazione del sistema stesso, c) livello del perturbamento della struttura sociale, che non può superare un certo limite, nel qual caso non solo si deteriorano le possibilità d’impiego del sistema di dati ma anche le possibilità di alimentazione, d) difficoltà di superamento dei problemi umani e sociali che la semplice operazione di rilevamento comporta, difficoltà su cui si sta lavorando ma che non sono nemmeno in linea ipotetica ancora superate, e) riflessi conflittuali della posizione sociale, dell’ideologia, dell’organizzazione degli individui di cui si raccolgono i dati, all’interno del sistema dei dati stesso con conseguenze che non sono, allo stato attuale delle ricerche, per nulla prevedibili, f) danni provocati dall’estremismo stupido delle ideologie tecnocratiche che potrebbero bruciare un utilizzo programmatico dei sistemi di dati spingendolo al di là delle sue presenti possibilità, g) critiche provenienti dalle tesi anti-tecnologiche, h) visioni assolutamente irreali dei tecnici delle memorie, terminali, stampanti, linguaggi e programmi, i quali nella fretta di diventare una elite di mutamento sociale spingono in modo considerevole i sistemi di dati al di là della loro reale potenzialità di utilizzo, ecc.

[Non voglio qui affermare che questa elencazione preventiva, redatta come sappiamo nel 1980, abbia avuto puntuale conferma al momento in cui scrivo questa nota, cioè a metà del 2000. Alcuni elementi mi sembrano però di considerevole significato. L’irrealtà della visione tecnologica avanzata (in parole “moderne” dell’assetto telematico della condizione in cui viviamo oggi tutti) è stata recuperata dall’insieme stesso tecnologico a causa della imprevedibile e onnicomprensiva capacità gestionaria. In altri termini, sulle prime l’imbecillità necessaria all’impiego di determinate procedure era un’eccezione, quindi realizzava proprio la difficoltà a cui facevamo cenno. Raccattare a destra e a manca seminfermi mentali non era facile e ingenerava sospetti sulle aspettative di funzionamento. Poi, il meccanismo stesso produsse una intera categoria d’imbecilli, ben equipaggiati a rispondere alla modestia di utilizzo richiesta. Alla fine, cioè adesso, ci indirizziamo verso una piena corrispondenza tra minime capacità intellettive e tipologia richiesta per l’impiego degli strumenti telematici].

Accanto al suddetto elenco che precisa alcune difficoltà bisogna qui ricordare anche le scelte che una politica d’impiego massiccio dell’informatica può fare. Queste non sono infinite. Grosso modo si possono ripartire in tre direzioni: a) massima concentrazione dei dati (hardware, cioè memorie, e software, cioè linguaggi) in un unico centro di elaborazione, o in pochi centri, riducendo gli utenti a semplici soggetti passivi, b) dando una qualche autonomia all’utente, almeno a livello di linguaggio, c) decentrando l’utilizzo sia delle memorie che dei linguaggi e facendo dell’utente un collaboratore attivo. Queste tre scelte corrispondono anche a scopi diversi e, in fondo, corrispondono anche a tre epoche diverse del controllo sociale attraverso l’informatica. Con la prima scelta siamo al livello del controllo centralizzato, tipo cervello della questura, della finanza o delle grandi banche. Con la seconda scelta siamo al livello del controllo decentralizzato (tipo casa per casa), con la possibilità dell’utente di “chiedere” al sistema dei dati, e quindi di condividerne il linguaggio. Con la terza scelta siamo al controllo capillare che raggiunge il massimo decentramento: l’utente si può dire che si controlla da sé, condivide col sistema di dati non solo il linguaggio ma anche la memoria, sviluppa e perfeziona sia l’uno che l’altra. Il centro è disponibile solo per particolari problemi e per un coordinamento a notevole difficoltà. Gli spazi esistenti per una lotta contro il controllo totale, come si vede, a qualsiasi livello di scelta sono decrescenti dalla prima alla terza scelta, ma anche le difficoltà di costruire il controllo decrescono nello stesso senso. Ed è in questa direzione che bisognerà lavorare molto.

[Anche questa tripartizione non è stata azzardata e sta avendo conferma. Non siamo ancora del tutto nella terza parte, che vedrebbe di pari passo la chiusura del cerchio tra produttore e consumatore e l’ingresso definitivo di quest’ultimo nell’area produttiva – a questo problema dedicherò uno dei prossimi libri dal titolo: Dominio e rivolta – ma ci stiamo avvicinando. Il collegamento: computer-televisione-telefono renderà possibile questo terzo livello in una maniera che non si poteva immaginare nel 1980 – Nota redatta nel 2000].

4) Limiti ideologici. Sono dati dall’involucro complessivo che avvolge la struttura istituzionale. Esso si estende dal primo al secondo livello ed agisce in ragione diretta dell’omogeneità specifica del livello produttivo. Abbiamo quindi che a livello della produzione economica la scarsa omogeneità complessiva impedisce un’azione di contenimento dell’ideologia che sia veramente efficace, ciò ha come conseguenza che la scarsa omogeneità permane e non si possono evitare, attraverso lo strumento ideologico, i comportamenti troppo irrazionali, ma ha anche come altro tipo di conseguenza che il limite stesso costituito dall’ideologia si fa sentire molto meno. A livello della produzione di pace sociale l’aumentata omogeneità complessiva consente una più ampia azione di contenimento dell’ideologia, la qual cosa accelera il limite stesso costituito dall’omogeneità che si combina e moltiplica col limite costituito dall’ideologia.

5) Limiti di interrelazione tra le componenti strutturali. L’insieme del processo produttivo (nei suoi due livelli) comporta una serie di interrelazioni che sono tanto più rigide quanto più ci si allontana dalla produzione economica concorrenziale e ci si avvicina alla produzione di pace sociale. Questi non-eventi costituiscono appunto un processo che è in se stesso una forma ben delimitata e costituisce un limite alle possibili forme produttive. In questo modo il limite dato dalle stesse interrelazioni agisce in maniera preventiva facendo sì che alcune possibilità vengano eliminate ancora prima di essere espresse.

Sull’importanza dei non-eventi ci sarebbe molto da dire. Così scrive Miliband: «Le maggioranze parlamentari conservatrici operano a favore degli interessi capitalistici, ma questi, per il perseguimento di molti dei loro scopi, fanno affidamento non tanto sulla superiorità numerica in Parlamento quanto su altri fattori favorevoli. Uno di tali fattori è costituito dal fatto molto importante che ai potenti interessi costituiti è spesso sufficiente – per non essere, per così dire, spossessati – impedire l’approvazione di leggi e di provvedimenti che intacchino i loro privilegi». (Lo Stato nella società capitalistica, tr. it., Bari 1974, p. 197).

6) Limiti di credibilità. La stessa necessità di mettere in circolazione una grande quantità di notizie attraverso gli organi di stampa a grande tiratura comporta la conseguenza che si deve mantenere una certa coerenza in quello che si dice, in caso contrario si determina una vera e propria crisi di credibilità.

[Questa considerazione si è rivelata molto al di sotto della realtà per come quest’ultima si è andata sviluppando. L’informatizzazione ha trasformato il capitale stesso in un flusso di dati sottraendolo, in gran parte, alle sue origini finanziarie. Nello stesso tempo, la formazione dell’opinione ha travalicato in modo imprevedibile i limiti di qualsiasi coerenza. Oggi il lavoro dei grandi mezzi d’informazione non ha più bisogno di seguire alcuna “linea” coerente, produce opinione quale che sia il modo in cui viene realizzato. Non ci sono vere e proprie decisioni del singolo, quanto un sistema nel suo insieme che produce mentalità non solo nei suoi utenti ma anche nei suoi cosiddetti operatori che, così facendo, opinionizzano e vengono opinionizzati. – Nota redatta nel 2000].

7) Limiti repressivi. L’apparato repressivo (polizia, esercito, magistratura, carceri, ecc.) forma il limite periferico estremo alla realizzazione di alcune possibilità produttive nei due livelli. Ad esempio, la pirateria, il ricatto o l’estorsione sono attività produttive altamente remunerative, ma non vengono di regola poste in atto dal capitale se non in alcune sue espressioni marginali (malavita organizzata) e particolarmente specializzate.

Scrive su questo argomento un teorico del marginalismo economico: «L’osservanza delle leggi e dei regolamenti rappresenta uno speciale problema dell’analisi della condotta degli affari. Dipende infatti dalla moralità del commercio se alternative illegali e proibite possano essere considerate come definitivamente escluse e perciò non esistenti, o come possibilità soggette soltanto a certi particolari rischi. Assumiamo, per esempio, che per la vendita di un prodotto venga fissato un prezzo massimo e siano contemplate multe per le violazioni. Per l’uomo di affari che è incondizionatamente fedele alla legge, il prezzo massimo è il solo prezzo possibile, indipendentemente dall’insistenza con cui qualcuno dei suoi clienti può tentarlo con offerte migliori. Ma per l’uomo di affari che si attiene alla legge soltanto per timore di essere scoperto e penalizzato, “i prezzi della domanda” superiori al prezzo massimo costituiscono reali possibilità ed i rischi delle ammende vanno aggiunti al costo o dedotti dal ricavo. Se poi le sanzioni per violazioni includono pene carcerarie, il rischio perde l’aspetto monetario e tocca al virtuale contravventore o all’economista teorico “convertirlo” o meno in termini monetari. I prezzi del mercato nero sono in parte il risultato di tali conversioni del rischio». (F. Machlup, La concorrenza ed il monopolio, tr. it., Torino l956, p. 48).

A livello della produzione di pace sociale questi limiti risultano molto più evidenziati, anche a causa della maggiore omogeneità qui presente. La composizione produttiva del secondo livello (pace sociale) di regola non ricorre all’uso di strumenti repressivi se non in forma indiretta, come minaccia e non come impiego. Quando il conflitto si esaspera e minoranze sempre più agguerrite si staccano dal livello produttivo della pace sociale, allora il ricorso agli strumenti repressivi finisce per prevalere e lo Stato sostituisce nella sua combinazione produttiva la violenza bruta alla violenza indiretta, la legislazione criminale alla legislazione sociale. Comunque, per evitare confusioni, specifichiamo che qui stiamo considerando lo strumento repressivo nell’azione che esso esercita indirettamente come uno dei tanti limiti della stessa attività istituzionale della legittimazione.

La legittimazione del dominio

Abbiamo visto i limiti che incontra l’azione di legittimazione del dominio nel suo realizzarsi. Le due fasi della produzione generale, con le loro caratteristiche diversificate, incontrano limiti che hanno aspetti diversi ma solo schematicamente riconducibili ad un elenco come abbiamo fatto noi. In fondo, i limiti del primo livello si compenetrano e si fondono con i limiti del secondo livello e viceversa, determinando conseguenze diverse sia in funzione del grado di compenetrazione che in funzione della diversa omogeneità nell’azione che si riscontra procedendo dalla produzione economica alla produzione di pace sociale.

Tra i motivi che ci spingono alla cautela nel considerare non soddisfacente l’elenco sopra riportato dei limiti del progetto di legittimazione c’è il fatto, molto importante, che se non c’è dubbio sull’esistenza dei limiti, non si può dire lo stesso sulla corrispondenza tra realtà oggettive che danno origine a limiti e interessi di classe. In altri termini, se per esempio siamo certi che la necessità della credibilità costituisca per il capitale e lo Stato un limite oggettivo, non altrettanto si può dire in merito al rapporto che passa tra quantità di notizie che vengono messe in circolazione dai grandi mezzi di informazione e interessi di classe dei dominatori.

Scrive in questo senso Pio Baldelli: «L’inquinamento della ragione a causa dell’uso burocratico e capitalistico dei mezzi di comunicazione di massa, procede in maniera capillare. L’alluvione delle informazioni manovrate fa coesistere una condizione di sovrapproduzione informatica con la distruzione di forme autonome di coscienza sociale. Il “potere informatico” derivante dal monopolio delle informazioni e dei messaggi e dal loro circuito controllato nel tempo e nello spazio, predispone la coincidenza tra il sovraccarico di notizie e il sovraccarico di ignoranza. L’immediatezza planetaria dei messaggi distribuiti dai mass-media, in luogo di portare i paesi della terra alle misure comunicative del “villaggio” – secondo quanto affermano certi intellettuali mediatori per incarico del sistema dominante – frantumano i dati reali in un polverio di apparenze verosimili. La diaspora dei significati autentici e la carenza di informazioni precise investono strutture di potere, statuali e private, codificate come dissimili, anzi talora opposte». (Informazione e controinformazione, Milano 1972, p. 84).

Per potere arrivare, partendo dallo studio dei limiti, ad una chiara visione dei meccanismi che condizionano nella realtà la legittimazione del dominio, occorrerebbe sapere di più in merito alle affinità che corrono tra le strutture, i processi e le azioni che fanno emergere i limiti e gli interessi di classe dei dominatori. In caso contrario si possiede una nozione negativa che ci fa vedere solo un aspetto del problema, cioè in che modo agisce in quanto limite e basta, e non anche in che modo si perviene alla formazione del limite, processo quest’ultimo che nella realtà non è mai separabile dall’azione del limite in se stessa. Tornando all’esempio del limite di credibilità, il non sapere l’affinità tra la messa in circolazione delle notizie e l’interesse di classe dei dominatori ci porta a non conoscere bene in che modo si fa sentire il peso della necessità di una certa coerenza come fatto in se stesso capace di determinare ostacoli alla razionalizzazione del dominio, e quindi siamo nella condizione di non sapere in che modo la stessa credibilità incontri una maggiore o minore affinità con gli interessi della classe dominante.

Il problema che si pone è visibile ad esempio in una forma di ipertrofia dei grandi mezzi di comunicazione. Essi sviluppano un modello comunicativo che si basa su determinati canoni ritenuti ottimali. Ad esempio, per i telefilm, Baldelli scrive: «L’intracorpo primario aneddotico del telefim – la falsificazione storica dei fatti narrati, l’eroe asessuale e la violenza – occulta il messaggio latente, ossia l’ideologia totale o le informazioni semantiche veicolate dal messaggio. Il messaggio latente, elemento infrastrutturale nell’informazione telefilmica, ha il contenuto proposto dalle forze egemoniche: un ideale ultraindividualista della vita e a conservazione dello statu quo economico e politico». (Ib., pp. 88-89). Ma quello che Baldelli non ci dice è in che cosa consiste la capacità delle “forze egemoniche” di cogliere puntualmente il nesso tra messaggio e interesse di classe, nel tempo e nel modificarsi delle reazioni. Abbiamo il problema, ad esempio, di serie di telefilm che vengono ripresentate a distanza di quindici anni, magari da televisioni private. Ecco, in questo caso, la rispondenza è sempre la stessa? Ha il potere la capacità di orientarsi verso una scelta ottimale? In realtà non esiste la possibilità di dare una risposta a questi problemi e ciò perché non esiste un orientamento massimizzante da parte del potere né in merito al problema che ci occupa, né in generale.

Uno dei modi per uscire da questa impotenza analitica sarebbe quello di affidarsi all’indagine empirica dei singoli problemi cercando di pervenire ad una visione, più o meno chiara, di come i limiti agiscono in concreto rendendo possibili alcune azioni del potere e rendendone altre meno possibili o addirittura impossibili. In questo modo tutte quelle situazioni, forme sociali, mentalità, ideologie, strutture, processi, azioni, ecc., che avevano prodotto i limiti sopra indicati, si unificano sotto il comune denominatore della struttura. L’insieme delle strutture sociali avrebbe pertanto lo scopo di produrre limiti oggettivi che renderebbero, in negativo, alla classe dominante il servizio di indicarle la strada verso la legittimazione del dominio. I processi irrazionali verrebbero pertanto ricondotti all’interno di questi limiti e dichiarati assorbibili dal processo nel suo insieme, sia pure facendo ricorso alla capacità di cui si parlava prima di eliminare comportamenti contraddittori che si ripresentano con una frequenza sufficientemente alta.

Riguardo la struttura ci sarebbe molto da dire, specie in merito al rapporto che si può cogliere tra forma sociale e struttura istituzionale. Questo per quanto riguarda l’interpretazione che veniamo sviluppando. Ma non è questo il luogo adatto. In merito all’uso in se stesso del termine non si può che sottolineare la grande confusione che regna. A parte la distinzione marxista tra struttura e sovrastruttura che, come tutte le favole, ha almeno il pregio di essere facile e chiara, si può dire che esiste una particolare definizione di struttura per ogni scienza che si occupa di problemi organizzativi e associativi: dalla matematica alla psicologia, dalla sociologia all’economia. Per quanto non sia accettabile la sua definizione di «struttura come equilibrio precario fra molteplici gerarchie all’interno di un fenomeno sociale». (G. Gurvitch, Lestrutturein sociologia, in AA.VV., Usi e significati del termine struttura, tr. it., Milano 1966, p. 130), c’è da notare che questo sociologo ha prodotto un elenco interessante di ciò che la struttura non è. Eccolo: la struttura sociale non è strumento di ordine, strumento di progresso, non è un semplice superamento della statica sociale o della dinamica sociale, non è il risultato dei comportamenti collettivi, non è il risultato di una elaborazione astratta di idee o modelli, non corrisponde, semplicemente, all’istituzione o all’organizzazione, non corrisponde alla congiuntura sociale, non corrisponde alla forma sociale e così via.

Ma questo modo di ragionare nasconde un grosso equivoco. I limiti non è vero che agiscono come catalizzatori di razionalità per il sistema di dominio, in quanto escludono o contribuiscono ad escludere la cosiddetta irrazionalità esterna. In questo caso si tratterebbe di meri confini posti lì per trasformare una data realtà complessa e probabile in una realtà meno complessa e più realizzabile. Invece i limiti non sono un confine, ma sono essi stessi elementi del dominio, non segnano l’estremo limite al di là del quale cessa il dominio, ma sono essi stessi condizione essenziale perché venga esercitato questo dominio specifico e non un altro meramente possibile. Non sono pure accidentalità, ma sono elementi costitutivi della scelta di classe, nelle caratteristiche e nelle forme in cui questa è possibile. Non concorrono alla legittimazione del dominio come elementi periferici, ma sono essi stessi legittimazione e dominio.

In una prospettiva del genere, i limiti suddetti non sono quindi percepibili a priori come confine di un’azione che si vuole realizzare. Essi concorrono alla realizzazione, ma non per questo sono oggettivamente individuabili nell’azione della classe dominante. In altri termini, i limiti di cui parliamo non diventano mai limiti dell’interesse di classe, pur diventando dominio a tutti gli effetti.

La legittimazione del dominio si può quindi considerare come un vasto movimento, un processo contraddittorio in corso, un flusso casuale di eventi, un fascio di fatti e di azioni che interagiscono tra di loro, una totalità. Essa realizza nel corso dell’azione stessa, e in quanto movimento, la trasformazione del dominio in potere. A sua volta questa trasformazione non è un fatto compiuto con una precisa collocazione temporale o spaziale. In altri termini, non esiste una definitiva trasformazione del dominio in potere, e quindi non si può parlare di un processo concluso di legittimazione. I tentativi fatti da Weber per spiegare il passaggio con il richiamo ad un valore non sono altro che forme di cristallizzazione teorica di un flusso reale che non può essere mummificato.

Scrive Max Weber: «Che questo tipo di fondazione della propria legittimità non sia per il potere una questione di speculazione teorica o filosofica, ma valga a giustificare differenze reali delle strutture empiriche del potere, è cosa che ha la sua base nell’esigenza generale di auto-giustificazione, propria di ogni tipo di potenza e anzi di ogni possibilità di vita. La sussistenza di ogni potere, nel nostro senso tecnico della parola, fa affidamento nel modo più forte sull’auto-giustificazione mediante l’appello ai princìpi della sua legittimazione». (Economia e società, tr. it., vol. II, Milano 1961, p. 256).

Se la prospettiva di un valore (ad esempio – oltre la triade proposta da Weber: legge, tradizione e carisma – una società senza classi, una società tecnologica, una società ecologica, un maggiore benessere individuale o collettivo, ecc.) fosse sufficiente ad assicurare la trasformazione, non si spiegherebbero le deficienze di cui parleremo qui di seguito. In fondo il processo di legittimazione non è facile distinguerlo dall’esercizio stesso del dominio, come l’esercizio del potere non è sempre riconducibile alla presenza di un determinato valore ben delimitato in grado di fondare la legittimazione indispensabile a distinguerlo dal dominio. Ma limitarsi a questi problemi significherebbe smarrire il senso profondo della lotta di classe. Proprio perché contraddittorio e interagente, questo processo totale rischierebbe – lasciato a se stesso – di trovare sempre nuovi modelli di aggiustamento, ripresentandosi modificato e sempre lo stesso, un fiume impetuoso in grado di scorrere, sempre diverso, nello stesso letto, apparentemente uguale a se stesso. È quindi lo scontro di classe, la lotta rivoluzionaria, la volontà di distruggere il dominio, l’insieme di elementi esterni che interviene a mettere lo scompiglio definitivo in quelle acque che per quanto tumultuose e illogiche possiedono una loro capacità di mettere quiete al tumulto e ordine all’irrazionalità. Solo che questo processo di acquietamento e di ordine può avvenire esclusivamente per ciò che concerne il processo totale nel suo insieme, non per l’elemento esterno di perturbazione che prorompe improvvisamente e bruscamente, imponendo con la violenza un nuovo processo e una nuova logica.

Però da quanto detto, dallo studio dei limiti della legittimazione del dominio, dallo studio del processo totale di legittimazione, emergono alcuni elementi nuovi e di notevole interesse.

a) Mancanza di un piano. Il potere non possiede una strategia globale che si possa indicare chiaramente o che si possa rintracciare con altrettanta chiarezza nelle sue azioni. A posteriori è chiaro che si può sempre rintracciare un filo logico degli avvenimenti (fino ad un certo punto), ma a priori ciò non è possibile. La questione non è spiegabile con espressioni generiche tipo la contingentalità della politica, o tipo l’empirismo dei fatti. In questo modo non si esprimono che tautologie, le quali ripetono l’evidenza della non spiegazione senza spiegare nulla.

b) Mancanza di una tattica. Tutt’al più il potere possiede una tattica spicciola, che è quella della conservazione di se stesso. Ma, ben considerando, questa non è una tattica del potere, ma è un principio basilare di ogni tipo di organizzazione, anche di quelle che si pongono in antitesi al potere. Riguardo la tattica spicciola di tutti i giorni, essa è uniformemente rintracciabile a patto che non si pretenda di scendere troppo in fondo nei singoli eventi, nel qual caso ci si trova davanti ad una miriade di fatti che non hanno alcuna logica comune tra di loro e che costituiscono la negazione sul campo di qualsiasi concetto di tattica.

c) Conoscenza non adeguata della propria struttura. Gli aspetti istituzionalizzati della struttura di potere, come abbiamo visto, non sono tutta la struttura, anzi alcuni altri elementi, come i limiti del dominio e come le interrelazioni tra eventi, limiti e struttura, costituiscono espressioni che si possono ricondurre alla struttura del potere – almeno in senso lato – ma non sono conosciute dal potere stesso, se non con grande approssimazione e attraverso analisi che sul piano operativo si rivelano assolutamente insufficienti. Le diverse scuole sociologiche in questo campo non producono spesso che baloccamenti di stupidi chierici.

d) Conoscenza insufficiente dei meccanismi di disturbo. L’approfondimento in questa direzione è oggettivamente impossibile senza stravolgere l’assetto capitalistico del sistema. Infatti, la maggior parte dei meccanismi di disturbo sono a livello del singolo capitale e dell’organizzazione del mercato. L’azione di monopoli, oligopoli, trust, multinazionali, ecc., determina una struttura della concorrenza che è fonte di disturbi per la sopravvivenza del singolo capitale. In sostanza, il potere può avvicinarsi, poniamo, ad una attenuazione della concorrenza a livello dei prezzi man mano che i disturbi si accentuano e dilagano, e lo stesso capitale sente il bisogno di un aumento della produzione di pace sociale. In questa fase la maggiore omogeneità tipica del livello di produzione di quest’ultima fornisce uno strumento di chiarificazione dei meccanismi di disturbo, che però non è di origine teorica, ma trova la sua stessa formulazione sul campo, nel corso della risoluzione dei diversi conflitti emersi a seguito dei disturbi stessi dei singoli capitali. Lo Stato arriva allora a meglio conoscere questi meccanismi ma perde subito, o affievolisce di molto, la sua conoscenza non appena le cose tornano ad un livello accettabile di calma e i profitti di medio periodo si ristabiliscono per i singoli capitali. Allora il passo tra produzione economica e produzione di pace sociale si allarga e i meccanismi di disturbo tornano in una situazione di insufficiente conoscenza.

e) Mancanza di un raccordo tra produzione e progresso tecnico. La scienza e la tecnica come forze produttive di base costituiscono un elemento fondamentale per la stabilizzazione della produzione ma, il più delle volte, anche esse entrano nella logica di mercato e non trovano un razionale impiego, se non dopo un intreccio spesso non chiaro di privilegi a favore dei maggiori gruppi di capitali che finiscono per monopolizzare la ricerca nel loro interesse. Solo al livello della produzione di pace sociale la maggiore omogeneità di fondo garantisce un minimo di programmazione scientifica capace di dare risultati positivi per il potere, ma prima gli sprechi e gli usi irrazionali sono di portata colossale e condizionano la stessa possibilità di utilizzo immediato da parte del potere dei più recenti ritrovati scientifici. In altri termini, anche considerando soltanto il primo livello (produzione economica), per l’innovazione organizzata (impiego della scienza e della tecnica nella produzione economica) non si può parlare di un programma di superamento razionale degli ostacoli alla valorizzazione (ad esempio, impianti fissi e alto costo della manodopera) e dei pericoli della stagnazione, si tratta di un vero e proprio andirivieni spesso caotico e illogico che determina sprechi e ritardi di incredibile portata. Anche in questo caso, l’acutizzarsi della situazione di difficoltà del capitale comporta un intervento più massiccio del secondo livello produttivo (pace sociale), con conseguente maggiore omogeneizzazione del fenomeno (istituzionalizzazione del progresso tecnico). Ma non appena questo intervento fa vedere i primi risultati positivi si hanno tentativi e spinte per la riconquista della passata autonomia da parte del capitale e quindi ritorno a non sufficienti livelli di utilizzo delle risorse scientifiche.

Da qualsiasi lato si voglia considerare il problema della legittimazione del dominio abbiamo una realtà di potere fluente e caotica che si dispone come una corrente tumultuosa, un processo in corso in cui si conoscono solo con molta approssimazione le caratteristiche e le condizioni di funzionamento. Ciò avviene per la produzione nel suo complesso, sia a livello economico che a livello di pace sociale. Abbiamo visto che un diverso grado di omogeneizzazione agisce nei due livelli, ma non essendo questi nettamente separati tra loro ne consegue che non si può parlare di una diversa omogeneizzazione, ma di un diverso modo di agire dell’omogeneizzazione a seconda che si abbia una prevalenza degli elementi attivi del primo o del secondo livello.

Di più, sappiamo adesso che non è possibile costruire una teoria analitica del dominio di classe che ci possa dare indicazioni definitive in sede preventiva, ma l’analisi che si può sviluppare trova il proprio completamento e la propria sistemazione nel corso della lotta, perché è proprio in questa sede che emerge con chiarezza la collocazione di classe. È chiarissimo su questo problema l’intervento nella produzione della classe degli sfruttati. Questa costituisce elemento del meccanismo produttivo a tutti i livelli: al primo livello, con la prestazione della propria opera ed anche con la prestazione del consenso, al secondo livello, con la prestazione del consenso ed anche della propria opera (basti pensare alla polizia e a tutti gli strumenti repressivi che si basano sul cosiddetto lavoro improduttivo). In sede analitica e preventiva, studiare il flusso del capitale e il fenomeno della produzione a tutti i livelli, studiare l’azione dello Stato nella sua attività produttiva di pace sociale, significa tenere conto dell’attività di legittimazione che la stessa classe degli sfruttati svolge con la sua opera e il suo consenso. Solo nell’acuirsi del conflitto di classe le cose si fanno più chiare. Interviene a rendere più chiari i rapporti di forza anche il fatto che con l’acuirsi del conflitto diminuisce la forza autonoma della produzione economica che plausibilmente va incontro alle difficoltà maggiori e più immediate, mentre aumenta lo sforzo che il potere compie a livello di pace sociale, la cui produzione con la sua caratteristica di maggiore omogeneizzazione finisce anche per avere un influsso chiarificatorio sullo scontro di classe e, in definitiva, anche sulla stessa teoria analitica della legittimazione del dominio.

Dominio formale e dominio reale

Questa distinzione che viene fatta spessissimo e che anche noi abbiamo più volte sottolineato in diverse occasioni non indica, come si è creduto, due diverse realtà del potere, quindi due diverse strutture del capitalismo e del dominio che ne consegue. Essa indica due forme diverse di porsi dello stesso flusso del dominio: la prima forma, avvicinandosi di più alla fase della formazione del valore, cioè alla produzione economica, risente di tutte le conseguenze dell’accentuazione di questa fase. In essa la produzione della pace sociale è raggiunta con una netta prevalenza del livello economico della produzione e quindi con quella scarsa omogeneizzazione che è tipica di questo livello. La seconda forma, avvicinandosi di più alla fase della produzione di pace sociale, ha una maggiore omogeneità per cui anche l’attività del capitale appare più razionale e meno dominata dalle pur persistenti spinte irrazionali.

I limiti esaminati prima sussistono in tutta la loro ampiezza ma sono diversamente partecipi del dominio di classe. La stessa azione del potere, con tutte le sue mancanze e irrazionalità, pur restando sempre coinvolta nelle condizioni della produzione generale, si armonizza meglio nel quadro della produzione di pace sociale, ed appare anche più visibile ad un’analisi teorica.

Cercheremo adesso di dare qualche indicazione riguardo una possibile analisi concernente l’azione del potere. Come si è detto, essa è più visibile nella prospettiva del dominio reale, ma ciò non significa che sia tipica soltanto di questa realtà.

Possiamo riassumere in tre fasi questa azione:

1) Reperimento del consenso. Lo scopo di questa parte dell’azione del potere è quello di pervenire a realizzare un’apatia abbastanza generalizzata nella massa, su cui costruire attese fondate che certi comportamenti di accettazione si realizzeranno davanti a certe azioni del potere stesso, azioni queste che peraltro non sono nemmeno preventivabili in dettaglio. Ma il concetto di reperimento del consenso ha un duplice aspetto, oltre a fondarsi sull’apatia di massa si basa sul mantenimento di un certo livello di conflitto tra i diversi gruppi di interessi che compongono il potere. Ogni scompenso nel livello di questo conflitto determina disturbi nel consenso di massa. La copertura ideologica ha un certo effetto (credibilità) sulla massa, ma l’improvvisa visione di certi conflitti interni al potere (scandali, ecc.) può avere conseguenze notevolmente pesanti sul consenso.

Svariati aspetti problematici inducono alla cautela nell’uso del concetto di consenso. Il consenso è reperibile solo dopo l’avvenuta legittimazione del dominio, quindi quando si è realizzato il passaggio dal dominio al potere, o anche prima? Non c’è motivo per ricondurre il consenso all’accettazione della legittimità, salvo che non si voglia sottovalutare la componente passiva del consenso (apatia) e invece ricorrere solo alla componente attiva: adesione ad una comunanza di valori, fatto che non è per nulla documentato. Se il conflitto tra i diversi gruppi di interessi fa emergere una prevalenza di alcuni valori al posto di altri, in base a quale orientamento si ha comunanza di valori su quelli che emergono dal conflitto e non su quelli che invece vengono respinti? A parte questi due fondamentali quesiti, che praticamente sono senza risposta, ci si può ancora domandare: è possibile quantificare il consenso? si può misurare la sua intensità? qual è il rapporto tra consenso e comportamento politico? l’ideologia è un elemento del consenso oppure no? e così via.

Occorre fare una distinzione tra reperimento del consenso e legittimazione del dominio. Il primo è solo una delle azioni possibili che il potere intraprende, ed è dato dal duplice incontro dell’apatia delle masse e dalla sufficiente omogeneità del conflitto dei gruppi d’interesse interni al potere. La seconda è data dall’insieme delle operazioni che il potere realizza per rendere stabile il dominio. La legittimazione è il corrispettivo della produzione a livello politico e istituzionale. Mentre la legittimazione si propone il fondamento del dominio di classe, la produzione (nel suo insieme) si propone il fondamento (cioè la messa in atto) della pace sociale.

Lo stesso occorre distinguere tra reperimento del consenso e produzione di pace sociale. Il primo è sempre una delle azioni possibili del potere, la seconda è l’insieme della produzione a tutti i livelli (produzione economica e di pace sociale) considerata sotto l’aspetto della pace sociale.

In fondo, il consenso ha questo di particolare: esso si pone come possibile e oggettivo mezzo di superamento dei limiti imposti al dominio. Infatti, ed è questa una ulteriore ed interessante differenza dal processo di legittimazione, se questo processo tiene conto dei limiti che il dominio incontra nel suo realizzarsi, anzi se può essere definito come la costruzione del dominio all’interno dei limiti suddetti (quindi riassunzione delle irrazionalità all’interno di un perimetro di razionalizzazione), il consenso permette di superare questo perimetro facendo dilagare l’irrazionalità tipica del dominio di classe all’esterno, in zone sempre più ampie, in funzione della maggiore o minore apatia che caratterizza il consenso prestato.

È ovvio che questo reperimento deve avvenire in due modi diversi corrispondenti al progetto formale e al progetto reale del dominio. Nell’ambito del progetto formale il reperimento deve essere accompagnato da una pesante copertura ideologica, sovrastrutturale, simbolica (appunto formale). Esso appare abbastanza instabile, perché legato a limitatissime zone di autonomia della massa e ad una struttura politica di regola molto centralizzata anche sotto l’aspetto dell’apparenza istituzionale. Nell’ambito del progetto reale il reperimento non necessita di grandi bardature ideologiche e di simboli. La decentralizzazione che di regola accompagna il dominio reale consente un reperimento del consenso vasto ed agevole, sottoposto ad una costante manutenzione resa possibile da forme di democrazia che camuffano la reale dislocazione del potere. È ovvio che il dominio reale svuota di qualsiasi efficacia le forme democratiche e le apparenze istituzionali, trasferendo il potere reale nell’esecutivo con processi di copertura ideologica che non sono affatto coperture simboliche ma semplici mistificazioni organizzative. In altre parole la reale funzione di un organo del potere viene camuffata attraverso un altro organo e così via, per cui non è sempre facile cogliere l’effettiva rispondenza dell’attività di ogni organo con la reale gestione del potere: tutto avviene con un sottile velo ideologico in genere basato sul decentramento, la democrazia, l’autogestione, la libertà, ecc.

2) Realizzazione della stabilità economica. Fronteggiare in un certo qual modo le istanze irrazionali della produzione economica, istanze che spesso risultano caotiche e scompensate anche all’interno del confine segnato dai limiti visti prima, è un altro aspetto dell’azione del potere. Si parla spesso di crescita economica equilibrata, ma la cosa non ha molto senso. Gli equilibri sono sempre concetti relativi e richiedono un punto fisso di orientamento, punto che stabilisce anche il metro di valutazione del meccanismo di equilibrio. Tutto ciò non è realizzabile in concreto. Quello che il potere vuole raggiungere, quando riesce a formularne con chiarezza il progetto, non è una crescita economica equilibrata, la quale incontrerebbe anche l’ostacolo del progetto nel medio e lungo periodo, ma più semplicemente una maggiore omogeneizzazione nella produzione.

Con il concetto di stabilità economica si vuole sottolineare il momento conservativo del processo della produzione nel suo insieme. Quindi non tanto il mantenimento di una situazione di fatto, che non solo risulta impossibile ma ha anche tutte le caratteristiche del suicidio economico e non della conservazione, quanto il mutamento coordinato e programmatico (nei limiti del possibile) perché si evitino quelle situazioni che danneggiano la produzione nel suo insieme. Con il concetto di stabilità economica intendiamo quindi una delle caratteristiche della produzione in generale (economica e di pace sociale) in un dato intervallo di tempo.

Ciò viene di regola realizzato sostituendosi alle più gravi occasioni di scompenso determinate dalla produzione del primo livello (produzione economica) con investimenti talmente attraenti da coprire appunto gli scompensi del capitale. Sgravi fiscali, sostegni verso nuovi mercati, sovvenzionamenti a fondo perduto, ecc., sono tutti tentativi di penetrare con la forza produttiva del secondo livello (produzione di pace sociale) all’interno del primo. Questa operazione comporta una automatica omogeneizzazione del fenomeno produttivo nel suo insieme. Ciò segna, come è evidente, anche il passaggio dal dominio formale al dominio reale del capitale.

Non che nel dominio formale il primo livello produttivo (produzione economica) fosse separato irrimediabilmente dal secondo: come abbiamo visto, questa è una separazione di tipo teorico che non si riscontra nella realtà, dove i due livelli costituiscono un insieme inscindibile e scarsamente isolabile nelle sue parti. Infatti, nel dominio formale la ricerca della stabilità economica era attuata con un massiccio intervento di copertura ideologica, con appelli al sacrificio, al valore nazionale, al simbolo dell’imperialismo conquistatore, al militarismo, ecc. Lo Stato era presente ma non poteva omogeneizzare lo spazio della produzione economica in quanto il suo intervento era puramente formale e periferico. Anche gli aspetti più brutali del fascismo poliziesco o dello stalinismo non si possono considerare che tentativi estremi di coprire zone conflittuali che per quella strada non possono essere raggiunte e tanto meno stabilizzate, se non causando sconvolgimenti (guerre, genocidi, ecc.) che ricorrono al silenzio dei cimiteri per risolvere il problema, ma non possono evitare che lo stesso si ripresenti peggio di prima.

Al contrario, nel dominio reale la ricerca della stabilità economica è un incontro col capitale sul piano della produzione: il secondo livello (pace sociale) non è un livello più fittizio, ma è produzione reale, non separabile dal primo livello (produzione economica in senso stretto). Stato e capitale si pongono come portatori di due elementi parimenti indispensabili alla produzione: il capitale porta la propria irrazionale struttura e permea di sé lo Stato, questo porta la propria tendenza alla omogeneizzazione e permea di sé il capitale. Ma né l’uno né l’altro diventano mai completamente negazione di sé, totale superamento dell’irrazionalismo capitalistico e totale realizzazione dell’omogeneità statale.

In questo senso, nel dominio reale la ricerca della stabilità economica non è una mera operazione di politica economica diretta a realizzare la piena occupazione. Ciò significherebbe interpretazione miope di un’azione che si inserisce all’interno di qualcosa di più complesso e che comporta trasformazioni anche nella consistenza dei limiti, oltre che nel flusso generale in cui si riassume la produzione a tutti i livelli.

3) Raggiungimento degli equilibri internazionali e militari. I diversi interventi internazionali si diversificano in base alle zone d’influenza e alla ripartizione coloniale e imperialistica. Anche a questo livello la realizzazione del dominio reale comporta modificazioni di comportamento che si possono riassumere in una prevalenza del secondo livello produttivo. Basta ricordare due esempi: la politica degli armamenti e la politica monetaria per rendersi conto facilmente di come giochi la maggiore omogeneizzazione del secondo livello a favore di un superamento delle scelte irrazionali che i singoli capitali fanno sentire anche nei rapporti internazionali.

Riassumendo, in merito a quanto specificato sopra dobbiamo ricordare che si tratta di tre aspetti di un’azione del potere avente una caratteristica abbastanza uniforme: il prevalente interesse alla produzione della pace sociale. Non si deve dimenticare però che questa produzione non è isolabile dalla produzione in generale, che il dominio reale è una tendenza e non una realizzazione statica, che molti elementi del dominio formale (specie gli aspetti irrazionali) spesso possono persistere per un fenomeno di vischiosità anche in situazioni che oggettivamente si avviano verso l’aspetto reale del dominio, infine, che si tratta di fasi strettamente legate fra di loro. La risoluzione disequilibrata di una delle fasi (ad esempio, realizzazione del pieno impiego, politica monetaria, credibilità, ecc.) può comportare un grave disequilibrio delle altre due fasi e viceversa.

Alcune conclusioni

Dalle analisi che abbiamo svolto possiamo trarre alcune conclusioni provvisorie.

L’interpretazione complessiva del dominio di classe è stata da noi posta su base relazionale, cioè su di un fondamento analitico che tiene conto dei singoli rapporti di classe, della loro contraddittorietà e conflittualità, ma tiene anche conto dell’insieme complessivo nel senso del processo totale sia del capitale (proiezione economica della produzione in generale), che dello Stato (proiezione della pace sociale della produzione in generale).

Questa interpretazione ci fornisce l’utilità di affrontare il problema della razionalità/irrazionalità del capitale e della produzione in generale (quindi anche dello Stato, non considerandosi qui la maggiore o minore omogeneità), problema che resta praticamente insolubile nelle analisi di classe basate sul meccanismo dialettico di superamento delle contraddizioni.

I limiti della legittimazione del dominio vengono visti pertanto non come perimetro dell’irrazionalità, o almeno non solo come questo, ma come componenti attivi, quindi interagenti con l’insieme della produzione in generale nei suoi due livelli.

Dall’individuazione dei limiti possiamo dedurre delle carenze nell’azione del potere, carenze che colgono sempre il momento relazionale e non sono viste come elencazione di ulteriori limiti periferici, una indicazione di confini più o meno ristretta di quella precedente. A loro volta queste carenze sono elementi attivi (spesso come causa di non-eventi) nel quadro generale della produzione ai suoi due livelli.

Il passaggio dal dominio formale al dominio reale viene visto così come un diverso disporsi all’interno della produzione nel suo insieme (economica e di pace sociale) del rapporto tra capitale e Stato, diverso disporsi che permette un diverso modo di intervento dello Stato nella risoluzione di alcune classiche irrazionalità del capitale. Da ciò una maggiore omogeneizzazione man mano che ci si indirizza verso il dominio reale.

Marginale o nulla è la considerazione data, nell’interpretazione che discutiamo, ai meccanismi della crisi come fatti risolutivi del conflitto di classe. Questo discorso è stato approfondito in dettaglio in altro luogo, in quanto tratta dell’oltrepassamento dei limiti, dell’acuirsi delle mancanze e del disequilibrio delle azioni del potere. C’è da dire adesso che questi meccanismi non assumono qui la dimensione che hanno nella valutazione dialettica dei processi storici del capitale.

Da sottolineare anche l’importanza analitica che diamo qui allo scontro di classe come fatto chiarificatore dello stesso dominio di classe. Tutti i processi di legittimazione che il potere realizza, i quali costituiscono la faccia se si vuole politica (i marxisti direbbero sovrastrutturale) dei processi di produzione in generale (che i marxisti chiamerebbero struttura), non possono essere valutati, compresi e spiegati mai nella loro pienezza, nella loro realtà, nella loro totalità, se non nel corso dello scontro, nel mentre che siamo impegnati anche noi nella lotta.

Ed è questa lotta, la nostra lotta di rivoluzionari anarchici, che ha, in definitiva, l’ultima parola nella nostra analisi teorica dei meccanismi di legittimazione del dominio. Noi conosciamo questi meccanismi, li conosciamo veramente, realmente e profondamente, solo nel momento che li attacchiamo e li distruggiamo.


[Pubblicato su “Pantagruel” n. 3, ottobre 1981, pp. 3-31]

Dalla vecchia alla nuova economia

Di tutti i ciarlatani che fanno quaquaqua, gli economisti sono i più rumorosi.
Thomas Carlyle

I componenti essenziali di ogni fenomeno economico sono: una collettività di individui, una pluralità di fini che essi vogliono raggiungere, una quantità di mezzi occorrenti al raggiungimento di quei fini. Nessuna di queste componenti esiste allo “stato puro”, cioè tale da potere essere osservata senza che l’occhio dell’osservatore non la influenzi trasformandola.

Invece di fatti economici certe volte si parla di “fenomeni economici” traendo la terminologia dalle scienze naturali. Le parole “fatti” e “fenomeni” vengono sostituite alla parola “azione”, sia per la tendenza a rendere oggettivo ciò che è soggettivo, sia perché di quelle azioni compiute continuamente da milioni di persone la nostra mente non sempre percepisce e ricorda i caratteri individuali, ma spesso si limita a registrare soltanto il risultato finale complessivo, il quale ha l’apparenza di un fatto indipendente dall’agire umano.

In effetti, la differenza tra fatto ed azione, nell’ambito delle teorie economiche, non viene messa in rilievo. Cosa che invece ha conseguenze considerevoli man mano che si considera l’agire sociale nel suo insieme. In economia è quindi meglio sostituire la parola “decisione” alla parola “azione”.

Della reale sostanza delle cose, di quello che si nasconde dietro il velo della realtà che copre sfruttamento e genocidio, quasi nulla trapela nei ragionamenti di una scienza che, prodotta dalla riflessione sui processi di salvaguardia degli interessi del capitale, si è di poi sviluppata come guida del principe, rivelando così il suo fondamento di settore, la sua matrice di classe, il suo scopo di mantenimento dell’ordine costituito.

Così si parla di sviluppo o decadenza dell’industria, di scoppio di una crisi, di rapida o lenta circolazione della moneta, ecc.

Le decisioni economiche appartengono a quella vasta categoria del fare umano che implica una scelta: scelta tra più fini ai quali i mezzi disponibili (scarsi per definizione) potrebbero essere applicati.

Ogni decisione implica la rinuncia totale o parziale a qualche fine per conseguirne qualche altro, in conseguenza del fatto che sono a disposizione conoscenze, progetti e mezzi limitati. Uno degli esempi più ovvi è quello della ripartizione del reddito individuale. Fra le tante soluzioni possibili, alla fine solo una emerge, quella che si traduce nel migliore assetto di controllo della società, nella sudditanza dei più deboli, nella repressione di coloro che si ribellano, pure, a volte se non sempre, non costituendo la soluzione tecnicamente ottimale fra le tante possibili.

In generale l’economia realizza nella pratica, sia pure come somma complessiva di assetti spesso contraddittori, il conseguimento parziale di buona parte dei fini che la classe dominante si prefigge, senza per questo arrivare ad una soluzione ottimale. Questo ideale, che costituisce la vera “utopia” del capitale, resta inattingibile a causa della limitazione dei mezzi disponibili, ma anche, e forse principalmente, a causa del fatto che il dominio si può esercitare solo concedendo benefici ad una parte della società e tenendo sotto controllo, e qualche volta in condizioni precarie di sopravvivenza, l’altra parte, di gran lunga la maggiore.

Ogni decisione implica un giudizio economico comparativo fra più cose e un criterio di discriminazione che conduce a preferirne alcune e abbandonarne altre. Questo criterio discriminatorio viene imposto da due tipi di limitazione:

a) La limitazione della quantità dei mezzi di fronte alla moltitudine, alla eterogeneità e alle dimensioni dei fini esige che un determinato risultato sia ottenuto con l’applicazione della minore quantità possibile di mezzi, affinché una parte di essi resti disponibile per il conseguimento di altri fini.

b) Essendo peraltro limitate anche la nostra sensibilità, le nostre facoltà e le proprietà fisiche delle cose materiali, l’applicazione ripetuta di uno stesso mezzo ad uno stesso uso non dà un risultato costante per ogni uguale particella del mezzo impiegato. A partire da un dato punto il risultato precipita in senso negativo, cioè diminuisce.

La prima specie di limitazione viene generalizzata col principio del minimo mezzo, la seconda col principio dei rendimenti decrescenti.

Nella formulazione comune del principio del minimo mezzo, il risultato da conseguire è pensato come una grandezza data, e la quantità dei mezzi da impiegare come una variabile che si deve ridurre al minimo compatibile col conseguimento del risultato voluto. Ma si può anche pensare il risultato da conseguire come una variabile che si deve portare al massimo conseguibile con l’efficacia dei mezzi.

Il principio del risultato massimo è una diversa formulazione di quello del minimo mezzo, ma non è questo soltanto, sovente esso implica anche un giudizio teorico differente e conduce a problemi pratici ed economici diversi. Per un industriale, il diminuire la quantità di materie prime occorrenti ad ottenere una data quantità di prodotto o l’ottenere una maggiore quantità di prodotto con la stessa quantità di materie prime possono essere due problemi tecnici ed economici diversi.

Per quanto concerne la seconda limitazione un individuo non indirizza, ad esempio, tutto il suo reddito a soddisfare il bisogno di mangiare, perché ad un certo punto l’urgenza di una ulteriore soddisfazione di questo bisogno diventerebbe minore della soddisfazione di un altro bisogno non ancora conosciuto. Solo che il venire alla luce di una necessità, a volte perfino impellente e insostituibile, non è una semplice decisione del singolo – come a volte viene presentata da alcuni economisti – ma fa parte di una serie di condizioni (e quindi di pressioni di ogni genere) che gravano sul singolo e lo condizionano attraverso la formazione delle opinioni.

Lo stesso dicasi per le decisioni di politica economica attuate dallo Stato e dai suoi singoli organi. Il massimo risultato non è dato da una ripartizione dei propri mezzi tra più fini, calcolo che economicamente peraltro risulta impossibile se non a grandi (e inutili) linee, ma sulla base di equilibri economici non sempre esattamente conosciuti dagli stessi organi che prendono la decisione. Spesso il trasferire da un uso all’altro una quantità di mezzi non accresce il risultato totale, in termini di soddisfazione di bisogni, ma trasferisce il risultato sul livello repressivo o di controllo, livello che, a sua volta, non è quantificabile ma resta legato a impressioni che spesso vengono costruite a tavolino, anche senza arrivare alle decisioni delle stragi o della pratica della tensione, prese frequentemente dagli Stati. Queste considerazioni annullano di fatto il principio dell’uguaglianza delle utilità marginali.

Pertanto, un giudizio economico non si esaurisce mai nella valutazione di un termine solo del rapporto, e nemmeno, il più delle volte, nella correlazione di due termini. Ogni vero ragionamento economico comporta almeno un numero di quattro o più termini.

Molti giudizi correnti, aventi la pretesa di risolvere problemi economici, sono errati se prendono in esame un solo mezzo. Il dire, ad esempio, che costruire una certa strada arrecherebbe tali e tali vantaggi non è un giudizio economico che possa far decidere sulla convenienza di quella strada. L’aggiungere che l’utilità della costruzione della strada può valutarsi superiore al suo costo non è ancora una valutazione economica completa, ma solo un frammento. Bisogna infatti non solo comparare il costo dell’operazione con la disponibilità finanziaria, ma anche col vantaggio che si otterrebbe applicando diversamente le cifre disponibili, col danno della mancata apertura della strada, col danno che l’apertura determina sull’ambiente, ecc. Ogni nuovo parametro revoca in dubbio l’intera decisione, per cui ci si accorge, alla fine, che a giocare il ruolo decisivo non è una valutazione strettamente contabile, ma l’equilibrio della pressione politica a tutti i livelli.

Se la moderna scienza economica ha un compito, nell’assetto capitalista che si sta delineando all’orizzonte, è quello di descrivere, analizzare, spiegare, trovare correlazioni fra disponibilità finanziarie dello Stato, livello dell’occupazione, prezzi, inflazione e fenomeni simili.

L’economia è quindi la scienza ancillare più adatta alle decisioni del principe. Nelle condizioni del dominio attuali [1993] essa diventa ancora più essenziale, non per i risultati che mette a disposizione in termini di massimizzazione del profitto, ma per rendere più chiari i vari pericoli che le pressioni esterne causano riguardo il controllo e la gestione della pace sociale.

L’ideale di esposizione in modo sistematico è quasi del tutto tramontato. In effetti non c’è un determinato modello analitico che risponda accuratamente a domande del genere: 1) Quali beni saranno prodotti e in quale quantità? Cioè quali saranno prodotti fra i molti beni fra cui si può scegliere? 2) Come saranno prodotti questi beni? Cioè da chi e con quali risorse e con quali processi tecnici? 3) Per chi devono essere prodotti? Cioè chi deve godere ed avere il beneficio dei beni e dei servizi in questione? Cioè come deve essere distribuito il totale dei prodotti fra la collettività?

A queste domande la cosiddetta scienza economica non fornisce risposte certe. I suggerimenti per il principe riguardano le condizioni oggettive che possono produrre conseguenze sgradevoli per il dominio, cioè le condizioni di una società dalle risorse limitate. In una società dalle risorse illimitate non si avrebbero beni economici, cioè beni relativamente scarsi. Non si avrebbero neppure decisioni economiche.

Per la conservazione e lo sviluppo di un qualsiasi progetto economico, sia singolo o collettivo, occorre il conseguimento di un certo grado di benessere, di sicurezza, di potenza. Pertanto tutta l’attività economica è diretta ad ottenere uno di questi tre risultati.

Non sappiamo cosa si possa intendere esattamente col termine “benessere”, comunque ci si può riferire alla condizione, alla sensazione di appagamento provata da un singolo individuo o da un insieme di persone che hanno una sufficiente coesione di coscienza.

Queste sensazioni e questi appagamenti di bisogni sono molto diversi fra loro e si presentano con un alto grado di urgenza e necessità, per cui finiscono per assorbire gran parte dell’attività economica individuale.

Il conseguimento della situazione di sufficiente tranquillità e soddisfazione, che qui possiamo identificare con quella di benessere, richiede l’acquisizione, per via di produzione o di scambio, di un flusso di beni, cioè di un reddito nella stragrande maggioranza dei casi, e l’indirizzo di questa acquisizione al soddisfacimento dei bisogni, cioè al consumo.

Tutte queste decisioni economiche di produzione, di scambio, di risparmio, di investimento e disinvestimento di capitali, che fanno mutare la forma, la durata e la grandezza delle disponibilità di reddito, sono decisioni semplicemente preliminari e strumentali rispetto al consumo, che è l’atto finale nel quale si realizza il raggiungimento dello scopo, cioè la soddisfazione di un bisogno. Il massimo assoluto di benessere di un individuo s’identificherebbe quindi col suo massimo reddito e significherebbe la soddisfazione totale di tutti i suoi bisogni.

Questa conclusione è rifiutata, adesso, perfino dagli stessi economisti. Un massimo di reddito comporta una crescita esponenziale di problemi economici che producono non solo soddisfazione di bisogni, ma anche nascita e insoddisfazione di altri bisogni. Volendo fornire “consigli” sia a coloro che questo reddito possono vederlo crescere a dismisura sotto i loro occhi, come a quelli che invece lo vedono diminuire fino ai livelli critici, l’economia si pone un problema impossibile a risolvere. Difatti, alla fine, tende, nelle proprie indicazioni, non tanto alla ricerca di un impossibile equilibrio, concetto ormai definitivamente accantonato, quanto alla individuazione di una strategia che possa confortare il principe nelle sue decisioni politiche di controllo e repressione, cioè di mantenimento dell’ordine pubblico.

Di per sé la scarsità dei mezzi in confronto alla molteplicità dei bisogni porta a riflettere sulla condizione presente della società, non su di una presunta condizione astratta che ripresenti per sempre la situazione presente. Ne deriva che il massimo di benessere che l’individuo può conseguire è quel massimo relativo al quale giunge quando i beni di cui dispone sono ripartiti nella condizione presente in cui ci troviamo. Le riflessioni economiche, di regola, evitano questa considerazione, e quindi finiscono per spostare il problema su di una pretesa astratta soddisfazione dei vari bisogni, per cui qualsiasi spostamento dall’uno all’altro diminuirebbe la soddisfazione di tutti i bisogni o farebbe scemare la soddisfazione di qualcuno di essi più di quanto farebbe aumentare quella di qualche altro.

Non c’è nulla di vero in tutto ciò, ed è proprio uno dei livelli consueti di astrazione che nega validità operativa all’economia che non sia una semplice utilizzazione delle sue indicazioni dal punto di vista delle intenzioni di dominio. Inoltre non si deve dimenticare che non tutto il reddito può essere destinato alla soddisfazione di bisogni propri dell’individuo, ma una parte deve essere indirizzata alla reintegrazione dei capitali, senza la quale lo stesso reddito diminuirebbe a poco a poco e finirebbe per cessare. Considerazione che presuppone l’esistenza “eterna” del capitale, cioè una possibile condizione accumulativa che parte dal risparmio e si diffonde nella stessa trama sociale fino a prendere il posto di tutti i possibili movimenti diversi.

La sottrazione, quindi, di una quota del reddito ai consumi immediati, se da una parte diminuisce la somma totale di benessere, serve dall’altra al raggiungimento di un altro fine intimamente collegato alla sua grandezza ed alla sua durata: la sicurezza. Ciò ipotizza una condizione standardizzata della realtà sociale in cui la precarietà del futuro è fortemente sentita in termini di paura, e quindi l’assicurazione di una certezza di vita agiata è elemento non trascurabile del risparmio presente, cioè della capacità per il singolo di affrontare un sacrificio in termini di rinuncia alla soddisfazione di alcuni bisogni. Qui si tratta di pura mitologia economica. La rinuncia al consumo è possibile al di sopra di certi livelli di reddito, ma questi livelli non sono astratti da una condizione economica complessiva, cioè da una distribuzione del reddito a livello complessivo, la quale prevede che una parte della gente si trovi necessariamente al di sotto dei limiti di sopravvivenza. La fonte del risparmio non è quindi il sacrificio del reddito, ma la disponibilità dello stesso reddito al di sopra dei livelli accettabili (imposti dall’opinione a questo scopo costruita), cosa quest’ultima garantita dal genocidio e dallo sfruttamento a livello mondiale.

In più, i beni che formano il reddito debbono essere difesi, oltre che da cause naturali di deperimento, anche da tutti quegli altri eventi che potrebbero togliere all’individuo la possibilità di disporne. Ora, sia che l’individuo provveda egli stesso a questa difesa, sia che la collettività se ne assuma il compito, un’altra parte del reddito deve essere devoluta a questo secondo fine. Anche considerando fondata questa riflessione, su cui in questi ultimi decenni si è esercitata la riflessione di molti filosofi americani di scuola “liberal”, si deve aggiungere che la paura dell’espropriazione nasce dal possesso di un livello di reddito superiore, da un lato, e dall’esistenza di livelli di reddito inferiori, dall’altro, in condizioni complessive in cui l’opinione che viene costruita e sollecitata è quella del consumo sulla maggiore scala possibile.

Si ha infine il desiderio di potenza, avvertito poco o niente da individui che raggiungono un basso grado di benessere, ma avvertito fortemente da individui che possiedono una grande quantità di beni. Il desiderio di potenza si manifesta inizialmente col distinguersi dagli altri individui dedicando una parte di reddito all’acquisto di cose o di servizi che non possono essere posseduti in uguale misura da altri. Questo bisogno di potenza, dal punto di vista economico, non deve considerarsi un bisogno superfluo, in quanto fortemente sentito da coloro che l’avvertono. Infatti chi è vissuto nel lusso, anche di fronte ad una diminuzione del reddito, preferisce scendere al di sotto del benessere reale piuttosto che abbandonare una sia pure parvenza di lusso. Questa è l’ipotesi della vecchia concezione economica, diretta come sempre a tagliare fuori la realtà e a proporre una concezione astratta sia della classe dominante sia degli stimoli che quest’ultima avverte di fronte al problema dell’utilizzo di un reddito sovrabbondante. Ogni discussione di microeconomia oggi parte da un presupposto globale in quanto non esiste scelta separata che non produca effetti anche in regioni della formazione sociale che sembrerebbero le più distanti. Di certo lo scopo del nuovo assetto di dominio sarebbe quello di tagliare questa inevitabile connessione, costruendo una barriera reale tra inclusi ed esclusi. Si tratta di uno dei progetti repressivi più a lunga scadenza e più micidiali che ci siano, per il momento soltanto avviato.

Alla luce delle precedenti considerazioni possiamo porre nuove domande. Che cos’è l’economia: È lo studio di attività che riguardano moneta e scambi tra la gente? È lo studio che riguarda l’impiego delle scarse risorse produttive (terra, lavoro, capitali) per la produzione di varie merci e per la loro distribuzione fra i membri della società per il consumo? È lo studio degli uomini nella loro vita e nei loro abituali affari per organizzare i consumi e le attività produttive? È lo studio del comportamento dell’umanità nel controllo e nello sfruttamento per ottenere determinate risorse produttive? È lo studio della ricchezza?

Nessuna di queste ipotesi riguardo il senso dell’economia è precisa e nessuna è realmente necessaria. Una descrizione informativa ed introduttiva potrebbe essere: l’economia è lo studio della scelta degli uomini e della società, con o senza l’uso della moneta o dell’impiego delle scarse risorse produttive, per produrre varie merci e distribuirle per il consumo, ora e in futuro, tra vari popoli e gruppi sociali. In questo senso si dà un maggiore spazio, pur restando nell’ambito del vecchio modo di considerare l’economia, alle connessioni necessarie con la sociologia, con la politica, con la psicologia, con la filosofia, ecc., che sono tutte dedicate a studi che si intrecciano con quelli economici. Ma la riflessione più importante, che sta diventando sempre più essenziale nelle nuove condizioni economiche che reggono il mondo allo stato presente, è quella della interconnessione globale.

L’economia attinge molto dallo studio della storia e dalla statistica, ma non soltanto. Gli elementi analitici devono corroborare le testimonianze storiche, in quanto i fatti storici da se stessi non possono definirsi “storia”. Allo stesso modo lo studio di certi movimenti storici favorisce la comprensione di alcuni presupposti teoremi economici. Speciale importanza va attribuita alla statistica. Ma di tutto il materiale che governi e aziende pubblicano in grande quantità, tolto quello che si ricava sull’andamento delle curve dei vari fenomeni economici, il resto ha poco significato. Nessun significato hanno le pretese di dimostrare possibili equilibri di formazioni economiche minimali, per poi estrapolarne i risultati. Ogni considerazione fatta su questi “modelli” è priva di significato.

La natura dell’economia potrà meglio essere valutata in relazione ad altre considerazioni che finora sono state messe da parte, o quasi. Così l’economista trae le sue premesse da una o più indagini sulla realtà, si serve cioè di elementi studiati da altri e formanti oggetto di altre indagini. Fra queste indagini ci sono quelle che si riassumono col nome di “scienze naturali”, che vengono considerate a tale scopo come un insieme omogeneo. È evidente che il benessere naturale dipende dall’esito della lotta che l’uomo conduce per strappare alla natura le condizioni della propria sopravvivenza. La vita umana e la struttura economica produttiva subiscono profondamente e continuamente gli effetti dei progressi tecnici. Resta assodato che, negli ultimi duecento anni, l’uomo è costantemente vissuto in un turbine di scoperte scientifiche senza precedenti nella storia, e naturalmente ogni nuova fase di questo movimento di sviluppo ha profondamente modificato la forma dell’ambiente economico. Ora, che questo flusso di scoperte possa considerarsi un movimento è fuori discussione, che possa considerarsi anche uno “sviluppo” di tipo “lineare”, questo argomento merita discussioni e approfondimenti, che peraltro abbiamo tentato in molti altri scritti. La lotta contro la natura è anche lotta a fianco della natura, per cui dalla vecchia alla nuova economia l’uomo si sposta dal fronteggiamento all’allineamento a fianco della natura. Ciò comporta modificazioni tuttora in corso di cui conosciamo solo in piccolissima parte le conseguenze economiche.

La psicologia, che studia il funzionamento della mente umana, influenza molto il lavoro dell’economista. Quando quest’ultimo parla di causa ed effetto, vuole generalmente intendere che determinate cose influiscono sulla mente umana, inducendola a decidere in un determinato modo. Ma da canto suo la psicologia è un soggetto fluido e controverso, e non è facile per un economista utilizzarla a fondo. Egli è stato spesso accusato di servirsi di una psicologia primitiva ed antiquata, presumendo, senza fondati motivi, che negli affari l’uomo persegua il proprio interesse e lo persegua intelligentemente, mentre è appurato che, in primo luogo, gli uomini agiscono quasi sempre senza riflettere, spinti da una improvvisa sollecitazione o da una antica abitudine e, in secondo luogo, che essi subiscono spesso l’influenza dell’opinione degli altri e del pubblico. Oggi il raccordo con la psicologia non è più legato alle motivazioni comportamentistiche, almeno non in Europa, ma si avvale anche della psicologia del profondo. Molte reazioni ai comportamenti produttivi sono studiate tenendo conto delle grandi trasformazioni che si sono verificate negli ultimi anni nell’ambito della trasmissione delle informazioni. Il nuovo clima in cui viviamo, con tutti i suoi risvolti psicologici, produce reazioni profonde in ognuno di noi che devono essere tenute presenti nelle considerazioni di natura economica. La lontananza di un certo tipo di sfruttamento, ad esempio quello coloniale, nelle sue edizioni modificate, cioè per come oggi si realizza, si è molto accorciata e condizioni in altri tempi remote vengono vissute quotidianamente, seppure a livello di opinioni. Ciò non manca di avere conseguenze di natura economica.

In effetti, il termine scienza molto spesso viene usato per indicare la fisica e la matematica. Le cosiddette scienze sociali, compresa l’economia, non possono prendere il nome di scienza. Infatti, se consideriamo i metodi della fisica matematica come caratteri distintivi di una scienza, solo una piccola parte dell’economia può dirsi scientifica. Più in generale però oggi si considera “scienza” qualsiasi genere di conoscenza il cui perfezionamento è stato oggetto di sforzi considerevoli ed è sottoposto a continui assalti falsificazionisti. In questa seconda accezione l’economia viene considerata una scienza. Ma queste problematiche stanno per scadere d’importanza. Oggi si tende sempre più a considerare la scienza in modo “debole”, quindi non si usa più il termine “scientifico” nell’accezione terroristica con cui veniva impiegato sia dai positivisti sia dai marxisti.

Per metodo si intende il processo logico che conduce ad un risultato considerato sufficientemente certo da potere essere utilizzato. Esso può essere deduttivo o induttivo. Il metodo deduttivo si vale di un certo numero di premesse, che presume di una certezza sostanziale quasi irrefutabile. Da queste premesse ricava conseguenze di una logica inoppugnabile fino a falsificazione. Occorre tenere presente che non sempre le deduzioni sono ineccepibili in quanto vi sono interferenze, attriti e deficienze che inserendosi nel ragionamento ne falsano le conclusioni. Il metodo induttivo segue il procedimento inverso: parte dall’analisi dei fatti, dalle constatazioni positive e da queste arriva a leggi generali. Esso è condizionato dall’esistenza dei fatti e con questi connesso indissolubilmente. Nessuna di queste due ipotesi è mai presente in forma assoluta, nessuna di esse garantisce certezze indiscutibili. Alla chiusura mentale del passato, e all’uso terroristico di alcuni procedimenti logici, si preferisce oggi un aggiramento del problema. La verità – si ammette adesso comunemente – è più di un aspetto o di un livello a cui si arriva con certi risultati logici. Non sta più in se stessa quanto negli atteggiamenti di chi la cerca. E quando poi la si raggiunge torna a fuggire se quegli atteggiamenti sono cambiati. Nessuno pretende di raggiungerla una volta per tutte. Questi problemi, che non sono soltanto problemi di metodo o di filosofia, tornano continuamente in tutte le riflessioni di natura economica, man mano che dalle considerazioni del passato ci si avvicina a quelle attuali.

Le interpretazioni totalizzanti della realtà e della storia sono tramontate o stanno per tramontare. Un diverso appello, pertanto, alla determinatezza concreta e alla creativa imprevedibilità della storia – quello che spesso è indicato come corso delle umane cose – insomma alla vita, prende il posto delle albagie passate. E questa non è una polemica solo contro il dogmatismo della filosofia della storia in ogni sua versione, ma anche contro un certo modo di vedere l’economia. È anche una polemica contro una certa idea della scienza e la sua applicazione ai problemi della storia e della società, contro l’orgoglio e la presunzione di ipotesi sociologiche o politiche, considerate come definitive, oltre che totalizzanti, in altre parole contro il totalitarismo del pensiero, oltre che contro il totalitarismo politico.

Non significa, tutto questo, che ci si avvia realmente verso un’apertura. Qualche volta è proprio dall’apertura istituzionale che viene fuori una chiusura ancora più efficace e difficile da combattere proprio perché camuffata sotto il possibilismo. Nulla di nuovo? Certo, nulla di nuovo, non c’è una vera e propria “nuova economia”, e sarebbe ben strano che non fosse in questo modo. Ma c’è una considerevole ricchezza e una novità di analisi che mettono a nudo funzionamenti del nemico che ancora ieri non riuscivamo a cogliere nella loro pienezza.

Il razionalismo e il cosmopolitismo contemporanei, inserendosi nella debolezza critica del pensiero moderno, producono il tramonto della mentalità positivista e illuministica che era portatrice di certezze accumulative e, dall’altra parte, producono la fine della mentalità romantica che era detentrice del concetto classico di unità, entrambe mentalità ricche e forti, produttrici di un dominio assoluto o moderato, comunque realmente fondato su di una piena legittimazione dello sfruttamento. Oggi ci muoviamo con disagio dall’una all’altra di queste mentalità e non è detto che una nuova, ben chiara, appaia all’orizzonte, con tutto il parlare di novità che si fa in giro.

Nelle scienze trovano applicazione tutti e due i metodi: quello deduttivo e quello induttivo. L’economia si presenta come una scienza che adotta tanto il metodo deduttivo quanto quello induttivo. Questa ammissione non è senza obiezioni. Vi sono stati economisti che hanno ostacolato l’impiego del metodo induttivo, ritenendo che soltanto l’astratta deduzione si adatti all’economia. Bisogna tenere presente che i classici dell’economia non adottarono un metodo particolare, ma impiegarono tutti i mezzi per sviluppare le loro analisi. Oggi, tenendo conto di quello che appare nelle riflessioni mosse da pure astrazioni specialistiche, si può vedere che l’orientamento prevalente è quello misto, diretto a cogliere un andamento più che a fissare una teoria. A fare velo c’è sempre la condizione riduttiva dell’economista e l’obiettivo che si propone: esclusivamente quello di parlare come consigliere del principe.

Oggi, quindi in condizioni di “nuova economia”, le tesi riguardanti il funzionamento del mercato non sostengono alcuna armonia, perché si riferiscono ad un sistema fortemente eterogeneo, con un grado di incertezza se non di vero e proprio caos, il quale ammette il salario come variabile indipendente. Pertanto, il salario non risulta da alcun equilibrio, a parte il fatto che i capitalisti non hanno di fronte soltanto i lavoratori con i quali dibattere forze contrapposte, ma il tradizionale quadro di “lotta di classe” si è mutato a causa della presenza di una classe disgregata e dell’intervento di una serie di altri componenti, la quale serie comprende, oltre alle rappresentanze operaie del passato, anche gli altri produttori, i consumatori, lo Stato, ecc. La tendenza all’equilibrio, se esiste, ha natura politica e composizione estremamente varia, non più natura economica, perché è la situazione politica nel suo insieme a decidere chi sono i più forti.

Molto spesso la produzione da una parte aumenta la disponibilità di certi beni e dall’altro lato diminuisce la disponibilità di altri. La ricchezza esistente viene dunque modificata in più e in meno. Considerando soltanto l’effetto positivo si ha la produzione lorda, tenendo conto anche dell’effetto negativo si ha la produzione netta, l’unica significativa per il calcolo economico vero e proprio. Impegnarsi nel produrre oggi significa sempre meno. Molte strutture materiali della produzione si stanno trasformando, cedendo il posto a sistemi elettronici che rendono profondamente differente il calcolo di appartenenza del surplus produttivo. In questo caso la concezione del lavoro cede il significato che possedeva in precedenza.

Domanda essenziale resta comunque quella che da sempre ci si pone (che gli economisti pongono) riguardo il problema produttivo: qual è il particolare contributo che ciascun fattore produttivo dà al prodotto? Quanta parte del valore di un bene spetta al lavoro che l’ha prodotto? Quanto alle materie prime? Quanto all’uso delle macchine? La risposta a queste domande influisce sul modo di ripartire il valore del prodotto fra i proprietari dei diversi fattori impiegati, con tutte le implicazioni sociali e politiche che ne derivano. Nessuna soluzione c’è mai stata a questo problema, nemmeno quella proposta da Marx. Nessuna soluzione c’è oggi, nessuna possibilità esiste di entrare in possesso, in modo rivoluzionario, dei fattori produttivi e di gestirli diversamente, nell’interesse della classe espropriatrice. Quest’ultima non esiste più.

Anche il problema della distribuzione del reddito si è profondamente modificato in questi ultimi anni. Il reddito non è più e soltanto il valore monetario della produzione. Le teorie non sono affatto d’accordo al riguardo. Si va dal concedere tutto il valore del prodotto a un solo fattore produttivo, ad esempio il lavoro, rifiutando l’apporto degli altri fattori, al tentare di misurare la produttività di ogni fattore, nessuno escluso. Il punto qui torna quello di prima, cioè l’antica questione dell’esproprio. Il capitale, flusso antico di ricchezza, oggi si è diciamo liquefatto nella gestione informatica della realtà, dove il ruolo finanziario-immobiliare, insomma il vecchio capitale fisso, si è di molto ridotto d’importanza. Se il lavoro, che è anch’esso diminuito d’importanza, dovesse mantenere le antiche pretese centrali, si troverebbe a non poterle poggiare su qualcosa di consistente come l’antica classe operaia.

Per un altro verso, sono i fattori di produzione a dare valore al prodotto o, al contrario, è il prodotto a dare valore ai fattori? Nel primo caso, i prezzi dei fattori di produzione dovrebbero determinare un costo di produzione, al quale si adeguerebbe il prezzo del prodotto, nel secondo caso, è invece il ricavo del prodotto a determinare i prezzi dei fattori. Nel primo caso, torna possibile l’esistenza di un fattore privilegiato, che conferisce valore al prodotto, una specie di “sostanza valorificante”, senza la quale non vi è produzione. Nel secondo caso, si è più pronti ad accogliere il concetto di produttività dei fattori, i quali resterebbero privi di valore, se restassero senza impiego nella produzione. Non è molto accettabile quindi la tesi della esistenza di una “sostanza valorificante”, Marx parlava in fondo di questa sostanza solo riferendosi ad un lavoro che deve essere “socialmente necessario”, negandola a quel lavoro che non produce nulla di utile per la società. Oggi l’unica soluzione appare quella della distruzione del lavoro, quindi dell’attacco contro qualsiasi ristrutturazione socialmente diversa del patrimonio collettivo ereditato dalla società. Non perché non si voglia beneficiare di questo patrimonio, ma perché si è convinti che l’assetto tecnologico attuale lo rende inutilizzabile. Nei termini in cui sarà possibile una profonda trasformazione tecnologica in senso inverso, e sempre se quest’ultima sarà possibile, si potranno aprire spiragli d’utilizzo tutti da verificare.

Non c’è mai un solo modo tecnico per produrre un certo prodotto, quasi mai ci si trova davanti a un unico processo produttivo. Un processo produttivo può essere migliore di un altro, più moderno, più usato, ma di regola il produttore può scegliere fra differenti processi di produzione alternativi. Ogni processo risolve a modo suo il problema tecnico dell’imprenditore, certi insiemi di fattori da impiegare per ottenere certi insiemi di prodotti. Una pluralità di processi fra cui scegliere rimane essenziale anche dopo l’eliminazione dei processi meno efficienti. Ogni processo può essere esercitato per un periodo di tempo, e anche con una intensità più o meno forte. La produzione è sempre un flusso, ha sempre una realtà temporale, per cui il concetto di processo produttivo, a causa della sua complessità, resta sempre almeno in parte aleatorio. Né si può affermare che tale concetto sia puramente tecnico. L’economista semplifica questa realtà, al fine di poterla capire e sottoporre a ricerche tassonomiche più comprensibili. Non si sa bene dove cominci la produzione, a parte i fattori primari, forniti dalla natura senza concorso dell’uomo. Quasi ogni bene prodotto ha richiesto qualche altro bene prodotto prima. Cercando l’origine della produzione, si risale nel tempo quasi illimitatamente. Lo sfruttamento internazionale del lavoro si diffonde nel mondo intero.

La radicata vocazione rivoluzionaria a non capire le ristrutturazioni economiche, così radicata da diventare un modo di lavoro per coloro che vedono soltanto piccoli interventi all’angolo della strada, finisce per essere penalizzante nel senso dell’efficacia distruttiva dell’attacco stesso. Il capitalismo sta subendo ovunque una grossa spinta propulsiva. Che questa spinta venga da fuori, che si chiami “globalizzazione” o in altro modo, potremmo trovarci di fronte ad esplosioni di produttività inconcepibili, causate dai nuovi materiali tecnologici come dalle innovazioni dell’elettronica applicata a tutti i livelli del processo produttivo.

Insomma, quella massa fluttuante di capitali (milioni di dollari in cerca di collocazione tecnicamente adeguata), che sulle prime metteva paura ai capitalisti dei paesi non di punta, come ad esempio l’Italia, oggi si presenta con il volto seducente dell’opportunità, non con quello terribile del pericolo. Questo per i capitalisti. E per i rivoluzionari? La nuova economia è tutta da studiare. George Soros forse si sbaglia quando mette in guardia contro la “minaccia capitalistica”, almeno nei termini in cui la vede lui, ma i rischi ci sono e non si limitano a quelli che vengono dai meandri inesplorati della finanza internazionale, che sono sempre più intrigati. Come rivoluzionari speriamo solo di potere cogliere tutte le opportunità derivanti da un possibile attacco ora e subito, allo scopo di contribuire a minimizzare i rischi che naturalmente ci sono in una crescita liberamente esponenziale degli innesti telematici. Ottimismo? Non lo so.


[Luglio 1993, agosto 1995]

Dominio

Non è buon economista chi è solo economista.
John Stuart Mill

Il concetto di dominio nel senso attuale del termine, inteso cioè come rapporto sociale che mette a confronto di forza, in posizioni contrastanti, due o più gruppi, associazioni, classi, o società intere, si va chiarendo soltanto nel corso dell’Ottocento. Non è comunque un concetto univoco, per cui è facile indicare parecchie varianti, anche nei teorici contemporanei. Con lo stesso termine di dominio si designano diverse eventualità. Prima fra tutte la capacità attribuita alle classi dominanti di prelevare ed impiegare a proprio profitto il prodotto delle classi inferiori, in altri termini di sfruttare il lavoro di queste ultime. Le classi dominanti possiedono infatti la proprietà formale oltre che il controllo effettivo dei mezzi di produzione, a partire dalla terra, il che consente di disporre in maniera vantaggiosa sia di essi che del lavoro, fatto che si traduce nella coercizione fisica e ideologica esercitata individualmente e collettivamente a carico dei membri delle classi inferiori. C’è poi una forma di coesione imposta dall’alto ad opera di una autorità superiore ad un gruppo di individui allo scopo di integrarli in una istituzione. Una forma di rapporto sociale gerarchico si ha anche all’interno della famiglia. Un altro tipo particolare di dominio è quello su cui si fonda la società, che dal tipo ideale di comunità, dove i rapporti di dominio erano se non proprio sconosciuti almeno allentati, diventa un insieme di rapporti caratterizzati dalla sovrapposizione violenta di alcuni gruppi su altri. Nel caso dello Stato si avrà una docilità al comando dei membri della collettività dominante, una disponibilità ad obbedire agli ordini di un centro di potere, un potere stabilizzato e centralizzato, oppure con maggiori o minori processi di decentralizzazione in corso, reso comunque prevedibile e in una certa misura automatico nei suoi esiti, in definitiva, quindi, potere istituzionalizzato, legittimato grazie all’obbedienza, all’adesione e alla tolleranza.

In questo modo il potere è una capacità, manifestabile in modo più evidente in alcune circostanze e in altre meno, di compiere o di ottenere che altri compiano certi comportamenti, anche nel caso di opposizione o resistenza. Nell’esercizio del potere ci sono limiti non sempre ben identificabili, in quanto, trattandosi di tensioni che non possono superare certi confini, occorre che il suo impiego ottenga risultati, in caso contrario si autoannulla. La capacità di farsi obbedire, in particolare la capacità dello Stato, trova riscontro nel consenso che lo Stato stesso reperisce e mantiene, quindi nella produzione di pace sociale. In pratica il dominio dello Stato si fonda, in tempi normali, maggiormente sulla spontaneità e sull’adesione socialmente consensuale che non sulla repressione organizzata. Il dominio è definito, spesso, come la forza di disporre di qualcuno. In altri termini esso è potere attualizzato. In questo modo il potere sembra essere la forza che ha sede in alcuni gruppi e che si esprime in relazioni di forza tra gruppi, il dominio ha invece sede nell’individuo e si esprime in relazioni interpersonali. Non è accettabile una conclusione del genere. Più esattamente il dominio appare come il modo in cui il controllo è effettivamente distribuito ed esercitato nel corpo politico dominante, corrispondendo o meno con la distribuzione e l’esercizio dell’autorità formale che costituiscono il regime in carica. Qui ci si avvicina ad una indicazione del gruppo che possiede ed esercita il dominio e contro cui si può fare qualcosa attaccando. Gli inclusi si identificano soltanto in parte in questo gruppo.


[Luglio 1998]

Postfazione

L’amalgama di logica e di intuizione, nonché la larga conoscenza di fatti, che per la maggior parte non sono precisi, ecco ciò che costituisce la grossa difficoltà eppure è richiesto per l’interpretazione economica nella sua forma più elevata.
John Maynard Keynes

Conclusasi come tutti sappiamo l’esperienza del “socialismo reale”, molte di queste analisi si sono rivelate premonitrici. Se non altro l’indicazione che quella scelta sociale non aveva futuro, mentre bisognava guardare alle trasformazioni della democrazia politica, in particolar modo alla sua formalizzazione estrema. Che sia l’esecutivo lo strumento politico centrale ormai risulta chiaro per diversi motivi, ed è per questo che da tempo si è scatenata in molti paesi, e in modo particolare in Italia, la guerra, sia sotterranea che visibile, per la sostituzione della vecchia classe dirigente.

Fine del mercato socialista, con le sue presunte soluzioni alternative, ma anche fine del classico mercato concorrenziale. Il capitalismo si trova adesso di fronte alla necessità di rinnovarsi radicalmente o perire. Ed ha dato dimostrazione, proprio nello svolgersi di tutta la seconda metà degli anni Ottanta, di sapersi rinnovare in maniera travolgente. Ed ha avuto fortuna. Il nuovo mercato possiede caratteristiche che il vecchio non poteva avere. La sua globalizzazione in primo luogo. Poi la sua informatizzazione, cosa che permette la trattazione di affari in tempo reale e a livelli talmente grossi da rendere necessari nuovi accordi commerciali se non si vuole correre il rischio di rimanere vittime di impensabili crolli in borsa. Gli sbocchi costituiscono un altro elemento di novità. Si sono ricostituiti su nuove e differenti basi i tradizionali flussi che ruotavano attorno agli USA o alla vecchia Europa. Nello stesso tempo si sono ridimensionati i ruoli del Giappone e della Corea del Sud, ma altri paesi, come l’India, potrebbero diventare produttori considerevoli e gestori di servizi con capacità tali da mettere in preoccupazione il resto del mondo. Infine la nuova colonizzazione del vecchio Terzo Mondo, il ruolo del Fondo monetario internazionale e molti altri elementi, rendono problematico mantenere formazioni economiche stabili. Infatti, la caratteristica della nuova economia mondiale è proprio l’instabilità.

Il mito dell’equilibrio, che stava dietro la funzione produttiva della “pace sociale”, sembra essere così definitivamente tramontato. La ripartizione dei compiti tra Stato e capitale ha subìto dei cambiamenti. In sostanza si è visto che nessuna delle due strutture poteva sopportare le sollecitazioni dell’altra all’infinito. Si è quindi provveduto ad istituzionalizzare il rischio, includendolo nei processi tecnici di trasformazione e riducendo questi alla minore incidenza possibile di capitale fisso, cioè di quella parte di capitale che si ripartisce per parecchi cicli produttivi e che quindi non può essere adeguata alle fluttuazioni della domanda.

Inserendo la variabile dell’incertezza si è resa “normale” la condizione di pericolo, riducendo le percentuali di probabilità di tutte le previsioni e di tutti i piani di investimento. La conflittualità è diventata elemento insostituibile del processo produttivo, non più nei termini di contrapposizione di classe ma nei termini di flessibilità interna alla stessa formazione economica. Le differenti componenti della medesima unità produttiva adesso sono considerate conflittualmente una contro l’altra. Non il datore di lavoro e gli operai, ma le strutture produttive, la diversa collocazione delle unità operative e dei reparti, che ora è sparpagliata nel territorio anche a grande distanza grazie all’uso degli strumenti telematici. Gli antichi stimoli di conflittualità, radicati in profonde ferite di sopravvivenza per gli sfruttati e in ataviche paure difensive e desideri smodati di dominio per gli sfruttatori, adesso sfumano in movimenti che mimano la conflittualità soddisfacendo più l’agonismo competitivo che la soddisfazione di veri e propri bisogni.

E lo Stato, nella sua funzione eminentemente esecutiva, è chiamato a regolare i ritmi di questa nuova conflittualità fondata sull’incertezza. La pace sociale si veste di nuovi aspetti. Non più il sostegno della domanda, o almeno non più un sostegno assistenziale in forma diretta, ma una sollecitazione a variare i consumi, aspetto perfettamente corrispondente alla flessibilità generalizzata. Niente deve durare a lungo, né gli oggetti, né i modi di essere dei singoli individui. E siccome gli uomini si identificano – tranne rare eccezioni – coi modi di essere codificati dalla comunità, il crollo di valori stabili, duraturi nel tempo, facilmente individuabili sulla base di facili contrassegni sociali, determina la nientificazione dell’individuo come componente di una formazione sociale. Le conseguenze sono diverse e vanno da una perdita di identità di classe, almeno nel senso codificato che produceva una coscienza sindacalizzata e riformista, ma all’occorrenza anche capace di levate rivoluzionarie, fino alla diffusione di fenomeni di insofferenza e ribellione, qualche volta difficilmente decifrabili.

Per quanto riguarda il problema dei limiti c’è da notare la grande importanza che hanno avuto, nel corso di tutti gli anni Ottanta, le violazioni della struttura istituzionale da parte dello Stato. Clientelismo, sottobosco governativo, rapporti mafiosi, tangenti, solo adesso cominciano ad apparire alla luce del sole, e soltanto in parte, ma hanno costituito la base sulla quale lo Stato ha intessuto i propri rapporti col capitale. L’esecutivo, rendendosi conto del proprio crescente ruolo all’interno della produzione di pace sociale, o comunque all’interno della formazione sociale ed economica complessiva, ha avanzato richieste sempre più pressanti, esautorando nei fatti il ruolo della delega e della rappresentazione, ruolo che in una democrazia avanzata è impersonato dal Parlamento.

Tutte le nostre attuali riflessioni sono segnate da questi sviluppi e tengono conto della trasformazione che il capitale ha subito nel corso di tutti gli anni Ottanta e che adesso, all’inizio dell’ultimo decennio del secolo, non può dirsi di certo conclusa. Questa trasformazione non poteva essere prevista in alcun modo. Agli inizi degli anni Ottanta c’era una situazione produttiva caratterizzata dall’eccessivo costo del lavoro. Questo era un freno per il sistema capitalista in quanto gli imponeva di produrre a costi elevati. D’altro canto i capitalisti non potevano operare licenziamenti da un giorno all’altro perché avevano paura della risposta operaia. La contrattazione sindacale da un lato, le teorie economiche dall’altro, dicevano due cose in contrasto. Il sindacato minacciava di scioperare e dietro gli scioperi il capitalista vedeva la possibile distruzione del sistema di cui era proprietario. Gli economisti affermavano invece che i licenziamenti si potevano fare, bastava rafforzare la struttura di governo. E difatti questo periodo di cosiddetta crisi, che per molti è stato un periodo di possibili lotte sociali, comportò parecchie decisioni errate e molte analisi che si sono poi rivelate improbabili. Basti pensare alle tesi del marxismo rivoluzionario di quegli anni, ma anche alle stesse analisi anarchiche che ipotizzavano uno sviluppo esponenziale di quella crisi, immaginando che quella contraddizione causata dall’eccessivo costo del lavoro – che pure era vera e al momento irrisolvibile – avrebbe fatto saltare il sistema capitalista. Il superamento di quella contraddizione avvenne dando inizio ai licenziamenti di massa, favorendo in tutti i modi l’alleggerimento del costo del lavoro, sfruttando le possibilità indotte da uno strumento tecnologico, quello informatico, che era di già in minima parte operante negli stessi anni Settanta, ma del quale nessuno poteva prevedere le potenzialità operative. Senza questo strumento telematico non si sarebbe potuta risolvere la contraddizione del costo del lavoro, se non andando incontro a gestioni sempre più autoritarie dell’esecutivo e quindi a scontri sociali di violenza senza precedenti.

Ma quella contraddizione, così risolta col passaggio dal secondario al terziario, cioè dalla produzione classica industriale a quella postindustriale, non è per questo scomparsa. Essa è ancora presente e potrebbe ripresentarsi a livello delle nuove formazioni produttive che ormai sono tutte impostate sulla telematica. Ogni contraddizione nasce e si acuisce, ma quando viene superata presentandosi diversamente, questo superamento è assoluto solo nell’immaginazione del teorico che prende in considerazione i fatti, il quale teorico così afferma perché non vede più quella contraddizione nell’ottica ristretta delle sue analisi. Ma la realtà porta con sé il germe di quel conflitto, lo porta al proprio interno e questo germe può esplodere da un momento all’altro. Niente viene definitivamente superato.

Restano pertanto confermate le nostre tesi sulla legittimazione del dominio. Il passaggio definitivo alla gestione del potere reale non è avvenuto, né potrebbe avvenire in futuro. Resta una condizione fluente e caotica, non molto diversa da quella che indicavamo all’inizio degli anni Ottanta. Esistono però alcune modificazioni. La prima riguarda il meccanismo classico di reperimento del consenso. Qui è tramontata l’opzione ideologica, o almeno si è considerevolmente ridotta. Altri elementi sono entrati in gioco, fra i quali quello di un risultato immediato e di un rifiuto delle ideologie millenariste o vagamente rivoluzionarie, per cui è in corso di rifacimento un differente armamentario ideologico che per il momento lascia intravedere solo la base su cui si sta lavorando, e questa è caratterizzata dall’incertezza. Il futuro vedrà lo sviluppo di questa ideologia “debole”, con parallelo rilancio di tutte le mascherature democratiche e possibiliste, con le quali si costruiranno coperture sempre differenti e sempre più complicate del dominio tradizionale.

Nei confronti dell’obiettivo della stabilità economica ci si è decisamente inoltrati nella strada della gestione del rischio. Le scelte irrazionali di fondo, messe in atto dai singoli capitali, vengono adesso meno contrastate, anche perché l’estrema flessibilità degli investimenti sta riducendo i danni di scelte troppo estremizzate che una volta restavano legate agli investimenti fissi e quindi ripercuotevano per decenni sui redditi futuri gli eventuali errori del passato. Si è trovata così la formula di una certa stabilità all’interno dell’incertezza, facendo passare di moda tutti i programmi di garanzia e di copertura.


[Agosto l993]

 
 

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