Titolo: Guerra civile
Data: 1999
Note: Prima edizione: settembre 1999
Seconda edizione: novembre 2013
Opuscoli provvisori n. 35
SKU: opuscoli-000035
Dimensioni: cm 10 x 10,5
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Nota introduttiva alla seconda edizione

Il passaggio verso la rivoluzione, semmai dovesse aprirsi, attraverserà il terreno bruciato della guerra, della peggiore guerra immaginabile, quella che si è soliti definire “guerra civile”.

Questo libro, che a distanza di più di un decennio ripresento all’attenzione dei miei pochi lettori, cerca di non fare un passo indietro di fronte al disgusto e allo sgomento che di solito prendono alla gola quando si considera il fondo oscuro dell’animo umano, il contenuto orrendo della bestia assetata di sangue.

Purtroppo l’uomo, con tutte le sue velleità di grandezza e di progresso è anche questo, ed è anche con questi sentimenti oscuri che bisognerà fare i conti.

Per cortesia tenete lontane per un attimo le illusioni degli aggiustamenti illuministi. Siamo su di un terreno minato. Attenzione.


Trieste, 28 ottobre 2011

Alfredo M. Bonanno

Nota introduttiva alla prima edizione

Capire le nuove condizioni della guerra civile, quelle che diverranno così familiari a tutti noi negli anni futuri, richiede uno sforzo di liberazione. Scrostare il proprio modo di concepire il mondo dai residui di un intero secolo (l’ultimo, con tutti i suoi guai) di sedimentazioni non è facile.

Qualcosa di profondo, che si è annidato dentro di noi, proprio nel nostro sentire più intimo e protetto, dove non permettiamo a nessuno di accedere, deve cadere, deve aprirsi e permettere al ferro rovente dell’indagine impietosa di farsi avanti. Dopo tutto si tratta di linee d’ordine, anche se sono state spacciate come l’ultimo baluardo del rifiuto dell’ordine, la revoca in dubbio del modo di vivere cosiddetto borghese. E noi, distruttori dei valori della borghesia, pensavamo di essere i depositari di quel sogno dell’avvenire che ci eravamo portati in cuore. Tutto questo potrebbe mantenere qualcosa di concreto e di vivo, ma potrebbe anche essere di no. Solo dopo che il ferro rovente delle esperienze senza ritorno sarà passato attraverso, solo allora potremo sinceramente rispondere alle nostre antiche domande. Fino a quel momento, si consiglia il silenzio.

Non basta volere la libertà, bisogna avere anche la schiena adatta per sopportarla. Gli uomini sembra che non si siano ancora prodotta questa schiena sufficientemente asinina per il loro futuro, quindi non sono ancora pronti per la libertà. E siccome non vedo perché si debba affidare questa speranza a un qualsiasi processo di evoluzione, dei tanti che se ne trovano in commercio, non mi resta che la speranza dei folli, quella contro tutto e contro tutti. Il che mi sta bene, ma che sia chiaro: qui siamo dei folli imbarcati in una nave senza destino, la cui rotta, forse proprio per questo, è aperta a tutte le possibilità.

Nella penuria ci siamo stretti uno all’altro, dandoci reciproca forza, credendo in un Dio unico che ci indicava la strada. In tempi recenti, e meno recenti, questo Dio ha cambiato volto, grosso modo le condizioni dello stare assieme sono rimaste valide fino ad oggi. Il futuro ci ispira ancora tanta paura, ed è quindi necessario mettersi uno accanto all’altro per fare fronte. Ancora oggi, qualche stralunato rivoluzionario parla di “Fronte di classe” o qualcosa del genere. Poiché non siamo mai stati, in fondo, animali da armento, ci siamo sempre sentiti portatori di stimoli eversivi, diretti a rompere le forze aggregative che premevano in senso contrario. Non poche volte noi stessi abbiamo stigmatizzato questi stimoli, in uno con le scomuniche delle chiese in carica. Si avvicinano tempi che potrebbero rendere questo modo di fare sempre più necessario, proprio per questo diciamo subito di tenerci alla larga. Nessuna chiesa, per favore, meno che mai quella anarchica che sembra (a volte) negare ogni chiesa in nome della chiesa delle chiese, quella che si fregia del titolo irrefutabile di distruttrice di tutte le chiese. Anche di questa chiesa, alla larga.

Anche dal modello “naturale” alla larga, per favore, ancora un poco di pazienza, seguitemi un altro poco. La forza e la potenza dell’uomo, il suo braccio muscoloso che apre le fauci della belva, modello contrapponibile al povero e atrofizzato braccio del mendico che chiede l’elemosina di un aiuto, il brando possente di un liberatore, solo in apparenza sono antitetici, in fondo sono le due facce della stessa condizione. Condottiero e condotti si sostengono reciprocamente, l’uno, senza gli altri, sarebbe un farneticante manichino. Se, finora, abbiamo accettato la punizione all’interno del gregge, la soluzione non può essere semplicemente quella della rivolta nel gregge, altrimenti ci resterebbero solo le scottature del sole della ribellione, e dopo, tornato il maltempo delle necessità ricostruttive, non faremo altro che rimpiangere di essere ancora in vita e di non avere trovato sorella morte ad accoglierci il primo giorno della rivolta.

La forza va bene, se sta dalla mia parte, la ribellione anche, l’intelligenza e la capacità di progettarsi un intervento seriamente distruttivo contro il mio nemico, sono condizioni importanti dell’attacco, ma non sono tutto. C’è qualcosa d’altro, ed è questo qualcosa che viene fuori dalla guerra civile. C’è il mostro della libertà, armato di tutto punto, con tutti i suoi aculei al posto giusto: ecco quello che in fondo mi fa più paura, ecco quello che devo capire se non voglio continuare ad aprire la strada ai futuri dominatori.

L’istinto vitale, la forza che posso sentire (ascoltando bene, senza tentennamenti) dentro di me, perfino le sue selvagge modulazioni, l’orgoglio, il coraggio, l’egoismo, l’entusiasmo, mi sollecitano ad andare avanti, a superare questa condizione di vita, ma se mi limitassi a questa piattaforma di “generosità” fondata sulla certezza finirei per fare una brutta esperienza. Ancora una volta, il cavaliere senza macchia si armerebbe nella notte della veglia per morire (se fortunato) al sole del giorno dopo. Non c’è difatti niente da “superare” in quell’armamentario di generosità. Occorre scavare più a fondo, penetrare più intimamente nella piaga che nascondiamo sotto il fiammante giustacuore della coerenza.

La libertà richiede un’analisi profonda dei valori che ancora fioriscono attorno a noi, come erme sulla strada dell’incredibile futuro. Ognuno di questi simboli fallici racchiude il sogno di una potenza estinta. Singolarmente presi avevano un senso, dicevano qualcosa (forse) all’uomo che non c’è più. Il coraggio è diventato materia per corride spagnole e circuiti motociclistici. I migliori lo coltivano, innaffiandolo quotidianamente con letture edificanti, in attesa della prima barricata dove andarsi a infilzare nella lancia dell’avversario. In fondo, della libertà, ai migliori, che gliene importa? Loro hanno una bella armatura di coerenza con cui vanno in giro pavoneggiandosi per cortiletti e stradine di periferia, e tanto gli basta. Saranno gli ultimi a cogliere questo discorso, feroce fino in fondo, un discorso senz’ombra dove nascondersi. La libertà è mortale.

Niente come la guerra civile ce lo dimostra. Non c’è nessuna tendenza al bene. La rivoluzione, considerata nella sua realtà e condotta fino in fondo, la rivoluzione che non abbiamo ancora visto, è l’azzeramento di tutti i valori, la nascita di una condizione di anomia assoluta, la sola in cui si può parlare di libertà: può quindi chiamarsi l’avvento del bene? Farlo adesso, dopo le tante esperienze di quest’ultimo secolo, significa continuare uno stupido scherzo. Non c’è compimento possibile della storia, non c’è finalizzazione verso il miglioramento, non c’è progresso.

Messa insieme questa merce poco digeribile, si può guardare in faccia la guerra civile, senza restare al primo livello: quello della riprovazione e del disgusto.


Catania, 29 aprile 1999

Alfredo M. Bonanno

Guerra civile

Il tramonto della guerra tradizionale, sia essa intesa come “guerra giusta” o come guerra dettata dalla “ragion di Stato”, è ormai evidente. La guerra non è più un affare per gli Stati, almeno non la guerra in senso tradizionale. Anche la teoria leninista della guerra giusta come conseguenza dell’estensione della lotta di classe, è ormai un rudere teorico-pratico. Dappertutto dilaga la nuova (ma non troppo) teoria della guerra come crimine, all’interno della quale i singoli Stati appaiono tutti sostenitori della nonviolenza e del pacifismo.

La cosa non potrebbe essere più sospetta, e lascerebbe di stucco in qualsiasi altro settore dell’attività umana. Come giustificare infatti la produzione di armi da guerra, sempre in crescita, e i giganteschi stanziamenti statali per il settore militare, con l’ideologia pacifista che appare condivisa da tutti gli Stati? Quanta parte ha avuto questa ideologia nelle chiacchiere attuali con le quali si condanna insistentemente il fenomeno Auschwitz, lasciando però in piedi tutte le condizioni perché esso si ripeta insistentemente nella ex Jugoslavia o altrove?

Ma la guerra, come forma violenta di conflitto, come continuazione della politica con altri mezzi, secondo la fortunata definizione di von Clausewitz, non è scomparsa. Né la sua concreta pratica, né la sua potenziale esplosione. Dopo Stalingrado, diceva l’intellettuale comunista francese Roger Vailland, non ci si può più prendere gioco dei generali. Altre epoche, da rabbrividire. Ma adesso, dopo l’epoca della divisione del mondo in due blocchi, entrati nella fase della gestione mondiale affidata alle mani di un solo gendarme, non si può lo stesso escludere la possibilità di una guerra militare in senso stretto, di una guerra tradizionale. L’esempio dell’Iraq [1991], non molto lontano, con intervento alleato in massa, con impiego di avanzate tecniche di genocidio e massacro anche a mezzo di armi chimiche, da tempo vietate ufficialmente, ci dimostra che il concetto di “guerra giusta” non è tramontato del tutto e che le chiacchiere dei negoziati ONU sono sempre tali: chiacchiere e nient’altro.

Nulla esclude che nuove guerre militari si svilupperanno in futuro assistite da coperture ideologiche, le quali, al momento, non possono nemmeno essere immaginate. Il mostro statale non è scomparso e tutti i diritti, regolamentati in codici e in protocolli, lasciano sempre uno spazio di salvaguardia per le pratiche militari e diplomatiche di questo tipo, in base alle quali la guerra potrebbe essere ancora una volta dichiarata ad un altro Stato. Purché ciò avvenga da parte di un’autorità legittima, potrebbe essere rispolverata una “giusta” causa per lo scontro bellico e questo potrebbe fondarsi su di una “retta” intenzione dei belligeranti. In pratica è quello che sta succedendo, mentre scrivo queste righe, nell’aprile del 1999, in Serbia e in Kosovo. Ma su questo argomento è bene tornare in dettaglio più avanti. Comunque, le attuale tensioni sociali, determinate da acuti conflitti di interesse politici ed economici, non permettono di immaginare come immediato uno sbocco generalizzato del genere “conflitto mondiale”. In altri termini, sembrerebbe che le prospettive militari, per quanto possano apparire in forma tragicamente macroscopica quando i cieli s’illuminano nella notte a causa dei bombardamenti, prendano un posto di subordine di fronte alle trattative economiche in senso stretto: gestione dei mercati, accordi di scambio internazionale, diffusione e impiego delle nuove tecnologie produttive, ecc.

Ma non vuol dire. Future pressioni di natura ideologica, sostituzione di antichi miraggi di liberazione con nuovi discorsi aventi come fondamento ancora una volta i vecchi miti della paura dello straniero e del diverso, e tutto il resto, potrebbero fare tornare il terreno adatto a nuove guerre in senso stretto. In fondo, se si riflette bene, anche le guerre del passato si basavano tutte su di un fondamento ideologico fortissimo: dallo “spazio vitale” dei Tedeschi e dell’ “Asse” alla guerra contro la “mostruosità” nazifascista degli “Alleati”. Dire oggi che la mostruosità stava da ambedue i lati (è la stessa guerra ad essere faccenda “mostruosa”) comincia quasi a diventare un luogo comune. In ogni caso, a prescindere da queste considerazioni, la guerra è presente oggi nel mondo, e assume un aspetto solo leggermente differente: si tratta della guerra civile.

Diciamo subito che non esiste un modello unico di guerra civile. Spesso, per i conflitti interni ad una realtà nazionale, conflitti con considerevoli intensità di armamenti impiegati, si può parlare di guerra civile, ma altrettanto spesso si intrecciano situazioni in cui la guerra convenzionale non è esclusa del tutto, sia pure come guerra a bassa intensità distruttiva (sempre relativamente parlando), mentre è sempre presente la componente di guerra interetnica, direttamente basata sull’attacco distruttivo nei riguardi della popolazione. Di tutto ciò è un esempio chiarissimo l’intervento della NATO in Serbia e in Kosovo. La guerra che mentre scrivo è in corso non ha modificato le ragioni sostanziali del conflitto e non ha cancellato la realtà di guerra civile che le contrassegnano.

Comunque. esistono altre caratteristiche attraverso le quali si può identificare una condizione di guerra civile. Questa arriva percorrendo strade diverse dai canoni tradizionali. Non si presenta grazie ad una dichiarazione legittima di belligeranza, non ci sono ambasciatori e carte protocollari. Oggi, che viviamo nell’epoca dell’informazione tecnologica, il ruolo di questo strumento non si estende soltanto a livello di trasmissione delle notizie, ma coinvolge anche la strategia della guerra, in primo luogo di quella civile, e perfino i suoi stessi obiettivi. Lo stravolgimento dei processi della cosiddetta “normalità”, arriva improvviso e si radica proprio nei processi di disorganizzazione o di tracollo cui sono sottoposti tutti gli Stati nel corso della propria esistenza. Ciò è accaduto in modo ben visibile nel corso delle diverse insurrezioni in Albania.

In fondo, non c’è un potere che non sia soggetto all’annientamento e alla morte. Improvvisamente, processi sottili e macroscopici nello stesso tempo, lo travolgono e lo svuotano, per poi ripresentarlo in forme differenti, qualche volta molto differenti, qualche altra volta lievemente differenti. Riporre la speranza in un processo lineare di salvazione, oggettivo e autonomo nei riguardi delle umane condizioni di sofferenza e di prevaricazione, è rimedio sempre inutilmente invocato.

La vita di uno Stato non è fatto omogeneo, ma scontro di equilibri contrapposti, continua ricerca approssimativa e inadeguata di livelli ottimali di sfruttamento, in base ai quali i detentori della ricchezza cercano di aumentarla fino ad un punto massimo superiore, e gli altri, gli strati tradizionalmente estraniati e resi soltanto soggetti e spettatori, cercano di resistere alleggerendo per quanto possibile i danni subiti.

Tutti i pensatori politici veramente grandi, diceva Heinrich von Treitschke, rendendosi conto di questo fatto, rivelano un tratto di cinico disprezzo per gli uomini, abituati come sono a vederli accettare il basto senza ribellarsi. Il collante interno a questa accettazione è quello ideologico, in base al quale i sacrifici richiesti ai dominati possono essere spinti al di là dei limiti di tolleranza ipotizzabili, in nome di un pericolo comune, di una paura collettiva (il comunismo o la morte atomica, da un lato, la rivoluzione proletaria mondiale, dall’altro). Riducendosi l’effetto di questo collante, fatto più volte accaduto nella storia, o intensificandosi i processi di sfruttamento per motivi vari, anche di natura economica (riorganizzazione dei processi di produzione), oltre che politica (successione delle elette del potere), i fenomeni di disorganizzazione sociale aumentano e possono produrre situazioni di tracollo che vengono correntemente definitive col termine di guerra civile.

Il bisogno di un’ideologia si manifesta ancora di più oggi, quando tutti strillano contro l’ideologia e cercano di contrabbandarne una “debole”, allo scopo di provvedere alla richiesta del mercato senza troppo compromettersi. Il punto d’appoggio che l’ideologia fornisce non è dato dalla sua verità, cioè dalla sua corrispondenza a fatti o a processi sociali in corso di svolgimento, ma alla speranza che essa fornisce di potere inserire nel mondo, sempre di più privo di valori e quindi incomprensibile e imprevedibile, quel significato che sembra ogni giorno venire meno.

L’integralismo ideologico fa paura ai gestori del potere, quando invece dovrebbe alimentare le loro speranze. Ma perché questa paura? Perché essenzializza le condizioni stesse del potere, le radicalizza in un’atmosfera rarefatta in cui i princìpi della virtù hanno la meglio su quello spazio politico necessario alle scelte pragmatiche di chi gestisce la cosa pubblica. Quindi, l’integralismo, non soltanto ideologico ma anche religioso, che riversandosi quest’ultimo nell’ambito politico si accorpa al primo e lo rafforza, può essere visto, da un lato, come strumento di liberazione, e, dall’altro, come strumento di gestione a lunga scadenza del potere. Uno Stato fondato su basi integraliste ha buone possibilità di chiedere ai suoi cittadini sacrifici che nessuna altra condizione politica renderebbe pensabili. La purezza ideologica è sempre pericolosa, per tutti. Spesso la guerra civile si alimenta di questa purezza, ed allora apre la strada alle condizioni estreme del conflitto intestino, proprio perché fondate su motivazioni “ideali” e non soltanto su spinte di natura economica e sociale.

Forse si è sottovalutato il ruolo che l’antisemitismo, e altre ideologie parallele, hanno avuto come elemento di coesione nella Germania nazista e in altre realtà. Se si considera la forte componente antisemita diffusa oggi in Russia, di cui il partito di Zirinoskij è la semplice punta emergente del fenomeno, si può anche ammettere con preoccupazione che potremmo andare verso altre spaventose atrocità, forse ancora più terribili di quelle che abbiamo vissuto negli ultimi sessant’anni.

Ma l’intelligente risposta del potere stesso potrebbe indirizzarsi questa volta non tanto a un rinvio all’infinito, ormai piuttosto problematico in una fase spesso millenarista vissuta a livello emotivo dalle grandi masse, quanto verso una nuova sorta di salvazione, questa volta ricercata proprio nell’ineluttabile destino del proprio annientamento, cercato quasi come un giudizio di Dio, sola prova in grado di garantire il futuro stesso del potere, l’essenza del dominio dell’uomo sull’uomo. Che tutto vada in rovina, purché permanga l’astratta concezione della volontà dominante, il riflesso cieco dell’etica ordinatrice dello Stato, al di là dell’annientamento fisico della totalità dell’esistente. Molti aspetti di quanto sta accadendo oggi in Serbia si spiegano in questo modo. Così impariamo a convivere con la morte, la visione del nulla assoluto ci viene servita attraverso le scene della guerra civile, dilagante dappertutto nel mondo, e anche a casa nostra, ogni giorno all’ora del pranzo, e ormai costituisce uno dei condimenti insostituibili della nostra dieta.

Non mancano gli intellettuali come Aleksandr Solženicyn disposti a sposare le tesi estreme dell’integralismo, e quindi a servire da saldatura per chiudere il cerchio.

Ieri l’alibi della morte atomica, oggi il nuovo alibi potrebbe essere quello della guerra civile. Allo stesso modo in cui ieri non siamo cascati nell’equivoco della guerra nucleare che avrebbe distrutto il pianeta, facendoci irreggimentare nel pleonastico e variopinto mondo degli oppositori in nome di un improbabile pacifismo internazionale, oggi non ci facciamo impressionare da nessuno di coloro che strillano all’umanità ferita a seguito delle quaranta o cinquanta guerre civili in corso nel pianeta. E questo non perché abbiamo fatto l’abitudine a convivere col mostro, ma perché facciamo attenzione a non farci distrarre nella nostra lotta che non è soltanto contro il mostro che ci vive accanto, ma anche contro quello che, proposto in forma tollerante e democratica, vorrebbero mettere al suo posto per governarci una volta per tutte e spegnere in noi ogni ombra di ribellione.

Per Auguste Comte la disgregazione sociale era sinonimo di anarchia, da lui ovviamente considerata come il massimo livello di pericolo per la società degli umani, a causa della disgregazione morale e intellettuale che causa, disgregazione intesa come fase da superarsi al più presto per intraprendere la strada del progresso assicurata dalle scoperte della statica e della dinamica sociale. Comte aveva davanti agli occhi i fatti non lontani della rivoluzione francese e cercava di porvi rimedio affidandosi all’idea curativa del progresso. In ogni modo, anche altri teorici hanno considerato il problema come una incapacità di fare corrispondere le potenzialità sociali di una società in un dato momento con quello che in effetti i singoli suoi membri riescono a realizzare al suo interno. Il fenomeno del tracollo della disciplina, uno degli elementi caratteristici di ogni condizione di disorganizzazione sociale, è legato alla generalizzazione di attese non corrisposte, specialmente nelle fasce giovanili della popolazione. Allo stesso modo, per fare un esempio, ci si potrebbe aspettare oggi una risposta di tale tipo dall’esercito russo, sottoposto ad una progressiva spoliazione di prerogative e privilegi che da sempre lo hanno caratterizzato nei riguardi del resto della popolazione.

La maggior parte dei teorici della politica si sono per questo motivo preoccupati di una educazione della classe dirigente, onde evitare che i cambiamenti sociali di natura fortemente radicale non vengano gestiti da figure di cui non ci si possa fidare. “L’educazione politica, scriveva Croce, è educazione all’accorgimento, alla prudenza, alla forza del volere e all’uso della forza; ma, al tempo stesso, poiché nessuna educazione particolare si regge se non è insieme educazione di tutto l’uomo [...] educazione etica e religiosa”.

È stato detto che una delle attività primarie dei grandi Stati industrializzati è adesso quella di fomentare guerre civili dappertutto, sia allo scopo di rimescolare vecchi mercati, ormai saturi, creandone di nuovi, sia allo scopo di controllare indirettamente possibili condizioni di squilibrio politico e militare in certe zone particolarmente importanti (petrolio, minerali, sacche di mano d’opera a basso prezzo, ecc.). Non so fino a quale punto questi processi sono in corso, di certo essi si sviluppano parallelamente ad un altro andamento, che da un diverso punto di vista sembra addirittura più importante, che è quello della crisi dei valori tradizionali con i quali, per lunghi decenni, si sono tenute le masse legate a interessi fantastici assolutamente inesistenti, ma talmente ben determinati da sembrare raggiungibili appena dietro l’angolo. Questo è finito, adesso siamo alla resa dei conti ideologici. Il fantoccio della democrazia e dei suoi valori è troppo ridicolo per significare qualcosa in nome del quale farsi ammazzare. Non c’è un simbolo, nei diversi Paesi dove è in corso una guerra civile, che resisterebbe ad una critica appena appena più graffiante. Chi fa attenzione alla feroce repressione attuata a Gaza dalla nuova polizia palestinese agli ordini dell’OLP contro la nuova Intifada che è sorta spontaneamente (e anche se non spontaneamente, che importa?) per continuare la lotta iniziata dapprima contro l’esercito di occupazione israeliano? In un solo giorno del 1996 i morti sono stati 13 e i feriti 200, di più di quanti l’esercito israeliano ne faceva di regola in mesi e mesi di scontri quotidiani con lo stesso movimento dell’Intifada. Il fatto merita una riflessione. Chi fa attenzione alla repressione quotidiana dei Curdi attuata dall’esercito turco? Se ne parla solo quando succede qualcosa di eclatante, come l’arresto del loro leader, ma la “normalità” del massacro continua senza che nessuno se ne accorga, per quanto ormai questi fatti siano messi sotto gli occhi di tutti in maniera direi perfino inopportuna.

Quando dalla guerra militare, o anche dalla più brutale delle occupazioni militari, si passa alla guerra civile, la violenza si scatena subito ad altri livelli, di certo più acuti e meno facili da capire in tutte le loro sfumature. Come se ci fosse una maggiore ferocia nel combattere, e cancellare dalla faccia del pianeta, quello che ci è stato vicino fino ad ieri, di quanto non ce ne sia nei riguardi del nemico di sempre, a noi lontano per mentalità, interessi e, in fondo, per ogni altra cosa. Questa è la triste legge delle realizzazioni necessarie. Quando queste sono lontane, lottare per ottenerle sembra una possibile base comune. Quando esse si solidificano nelle prime realizzazioni, si vede subito quello che è stato pagato per ottenerle e il modo in cui queste stesse realizzazioni, una volta ottenute, costituiscono ostacolo al progetto complessivo di liberazione. Intendendo questo progetto nel suo significato ultimo, e in fondo nel solo significato possibile se si vuole essere conseguenti fino in fondo, i compagni di oggi sono quasi necessariamente destinati a rivestire le vesti dei nemici di domani. Questa considerazione appartiene alla natura antinomica della libertà e non potrà mai costituire argomento di confortante riflessione. Ciò è quanto è accaduto in Mozambico e in Angola, e per molti aspetti, con le sue particolarità, in Algeria.

La barbarie è alle porte, oppure essa è di già dentro le mura? Per molto tempo abbiamo pensato il regno dell’ignoto e del caos, della distruzione di ogni ordine e regola, come uno dei possibili rischi del futuro, verso cui potevano andare gli sviluppi del presente, una eventualità da scongiurare fissando fin da adesso le regole dell’ordine del mondo a venire. A questo scopo abbiamo apprestato analisi e scongiuri, creduto nella giustizia, nella scienza e nella verità. Abbiamo rinviato sempre al domani ogni discussione seria sulle compresenti condizioni della barbarie, abbiamo quindi chiuso gli occhi su queste realtà, considerandole marginali, insignificanti. La tecnica, che doveva garantirci contro l’ignoranza e contro il ritorno dell’antica difficoltà di vita, non ci ha garantito, non poteva garantirci. Spingendoci sempre in avanti, essa stessa si è rivelata portatrice di barbarie, non garanzia contro la barbarie. La sapienza della modernità non riesce a dettare le sue leggi rassicuranti, non esorcizza il pericolo e il rischio, non libera dal dolore. La barbarie dorme al suo fianco, cresce fra le sue braccia meccaniche, non ordina, ma al contrario rende impossibile il concetto stesso di ordine. L’uomo tecnologico non è alieno dalla gioia della barbarie, non si sente sufficientemente garantito dalle sue braccia meccaniche, dalle sue protesi al silicio, da poter considerare criticamente il male. Anzi, le condizioni in cui vive, lontane dalla tensione agonistica della foresta, dove lottare era condizione essenziale per sopravvivere, sembra alimentino questa soddisfazione del male, questa ineliminabile coabitazione con la barbarie. Non è vero che le azioni più esecrabili, tanto comuni in una guerra civile, siano patrimonio di una parte politica, o appartengano ai difensori del potere in carica minacciato. Spesso molte di queste azioni sono determinate da un odio verso la felicità in generale, da un incrudelirsi degli animi e delle medesime condizioni di vita, da un’atmosfera di non ritorno in cui ci si trova immersi. E tutto ciò produce una mentalità quasi ascetica, in base alla quale la propria condizione di sacrificati si vuole con la forza infliggere alla parte avversa.

La parentesi della barbarie, apertasi senza che nessuno si riconosca responsabile di qualcosa, anzi attribuendo sempre all’avversario l’occasione di partenza, viene quindi vista prima di tutto come parentesi morale, come sospensione del giudizio etico. Qui tutto è permesso, proprio perché tutto è barbarie, essendosi sospese le regole del controllo che la civiltà ha solidificato nei secoli.

Più si allentano le condizioni di controllo sociale, più queste pulsioni essenziali crescono. Resta da vedere se il dilagare della barbarie si estenderà all’infinito, finendo per tutto distruggere, oppure, senza ricostituire controlli e deleghe, riuscirà a trovare una strada diversa per rendere possibile una vita migliore, regolata dalla libertà e non dall’oppressione. Qui sta il punto nodale di ogni considerazione sulla guerra civile.

Anche la cultura svolge un ruolo di copertura ideologica. Le analisi più approfondite sono per l’appunto profonde, cioè cercano di andare sotto le cose, svelandole o disvelandone l’imbroglio che le fonda. Ma questo modo di procedere finisce per mettere in ombra le cose stesse, la realtà tutta, in omaggio ad un chiacchiericcio da cortile che si nutre di dati di fatto e di illazioni, come una cattiva indagine poliziesca. I grandi libri di filosofia o di letteratura vengono acquistati da milioni di individui (per la prima volta testi certamente difficili raggiungono tirature da capogiro), ma la gente li compra solo per possederli, non per leggerli. Gli stessi pensatori e gli stessi letterati, poi, attirati nel gioco del mercato, non pensano altro che a vendere i propri libri o a scroccare un posto di consigliere del principe. La barbarie sonnecchia accanto a queste cataste di libri ammucchiate nei banconi dei supermercati. Il professore universitario e il teppista di periferia trovano ospitalità nelle stesse collane. Prima ancora della frattura, la barbarie viene coltivata e accolta. La frustrazione non è solo quella della periferia senza scopo che ospita i gruppi di marginali alla ricerca di una propria identità, ma anche quella dell’uomo di cultura senza più un mezzo vero e proprio di analisi e comprensione della realtà. Come galline senza testa, allo stesso modo, il teppista e il professore universitario s’aggirano senza scopo cercando uno sbocco che non c’è, fin quando pescano proprio il loro alimento migliore nella condizione disgregativa che si profila ormai con chiarezza all’orizzonte.

Inserito nel processo migliorativo, nutrito dall’ideologia progressiva, l’uomo guardava all’ordine del mondo come ad una entità perfettibile, fondata sulla giustizia, solo parzialmente imperfetta, ma perfettibile. Ma questo modo di pensare si è rivelato canagliescamente incompleto. Dentro l’apparente miglioramento si è scoperto il ripetitivo, la coazione a ripetere, il godimento artefatto di un condannato a manipolare fantasmi, accadimenti fittizi, mode intellettuali, quantità indicizzate. La macchina attuale del potere ha bisogno per alimentarsi di gestire lo spirito che avanza. La novità che scalza il vecchio non si sottrae alla chiusura, non apre una porta, ma rinserra le mura della claustrazione, facendosi penetrare a poco a poco dall’irrimediabile, fin quando tutte le strutture preparate ad accogliere il di già visto, si solidificano e si sigillano in tutti i loro pori col flusso del nuovo che le rende più salde nella loro pedanteria irrinunciabile e nel fondamentale desiderio di mettere in quarantena tutti i sogni di diversità.

La società tecnologica non può cogliere l’aspetto essenziale della globalità del mondo. Dimentica di considerare il cammino dell’ingiustizia, dell’annientamento, della sconfitta di ogni possibile lotta. Con questo congeda la realtà alle soglie dell’approfondimento, la trasforma in una sorta di ghiottoneria dell’illusione. Niente può così alzarsi sulle spalle della propria imbecillità, tutto è costretto a generare senza interruzione altre omologazioni del successo garantito, della positività del mondo, nel tentativo di svuotare dall’interno la carica sovversiva di ogni ripetitività, tentativo per altro destinato al fallimento. La disillusione, il malanimo con cui si guarda il mondo dopo una notte di cattivo sonno, costituiscono la porta stretta attraverso cui passare per smettere di sporcarsi le mani nella melassa priva di senso del possibile, positivo a qualunque costo.

Non esiste solo la vittoria, ma anche l’altra possibilità, la fine ingloriosa e nefasta, il sopravvento del nemico. Non c’è garanzia alcuna perché sia l’ordine progressivo a sopravvenire, la possibilità del negativo esiste perché quest’ultimo è presente qui con noi, accanto alle nostre case supertutelate, accanto alle nostre leggi apparentemente inflessibili, ma in fondo umanitarie, quindi soggette ad essere spazzate via dal primo soffio di bufera, dalla violenza della distruzione che si alza sulla monotonia delle regole. “Tutti si sistemano. Tutti prendono posto”, scrive Sade ne La philosophie dans le boudoir: la marchesa, suo fratello, il cavaliere, Eugénie, la vittima, la martire, la santa, Augustin, Dolmancé, tutti stupratori e stuprati sono al loro posto, in attesa. Se uno soltanto di questi ruoli viene cancellato, come accade con Dolmancé che scappa via, tutto il sistema vacilla, ci perdiamo nell’incomprensione, non sappiamo cosa potrà arrivarci addosso dall’incognita del futuro, spalancata come una bocca divoratrice. Ma, non appena M.me de Saint-Ange richiama all’ordine il guastafeste tutto torna come prima, cioè all’attesa pacifica e accomodante del futuro. Il rischio è esorcizzato, quello dello stupratore e quello dello stuprato, fra gli intermezzi delle combinazioni emerge soltanto l’idiozia.

Il progresso ci ha suggerito una chiusura nei riguardi della realtà, ci ha proposto un modello ritagliato e circoscritto, possibilista, rassicurante al massimo. Adesso cominciamo a scorgerne i limiti. Questi ci sono stati nascosti proprio dalla corrosività dei numi tutelari che avevano benedetto quelle leggi al momento della loro elaborazione. La fede in Dio era svanita e con essa la certezza del diritto al dominio. I vecchi padroni non avevano bisogno del sarcasmo dei tolleranti, né della passione per le combinazioni improbabili. Essi erano certi della propria eredità al dominio, non escogitavano legittimazioni e investiture. Con la fede in Dio vennero le chiacchiere brillanti, diciamo alla francese, mentre una moltitudine di apprendisti stregoni si sedeva al banco dando suggerimenti sul funzionamento del meccanismo del divenire. Il futuro era ormai, nelle loro mani, come un giocattolo munito di carica, un piccolo automa divertente, come quelli che Leibniz si dilettava a fabbricare per lo spasso serale delle corti tedesche del suo tempo. Ma la barbarie viveva sdraiata accanto agli edifici vacillanti della democrazia e della tolleranza. La sua compagnia empia e rovinosa non si può collocare tra parentesi, non possiamo far finta che non esista qualcosa che corposamente ci deforma e ci degrada. Possiamo soltanto immaginarci l’esistenza di un movimento inverso che ci porti lontano da questo qualcosa, un dovere sotterraneo, lento e implacabile, capace di lavorare al nostro posto, coraggioso e integerrimo, così come noi siamo sleali e codardi.

La guerra civile è la possibilità in atto della barbarie. In essa non ci sono regole rispettate, non ci possono essere regole. In più essa non è qui e là, lontano dalle nostre case, per l’appunto, ma è fra di noi, dietro l’angolo, sempre pronta a farsi luce fra le tenebre e venire allo scoperto.

I filosofi e i benpensanti si sono indignati di fronte alle dichiarazioni di Hobbes o di Hegel, e a ragione. Si sono preferiti gli scritti dei teorici illuministi, e quindi si è guardato al progressivismo di maniera come ad una panacea per cullare i nostri sogni pieni di incubi: un modo come un altro per salvarsi la vita. Lo stato di natura di cui parla Hobbes non è accettabile proprio per la sua conseguenza determinista, in base alla quale soltanto un governo forte può risolvere il problema, ma ripresenta tutta la sua importanza analitica non appena lo si libera di due conclusioni non necessarie, la “naturalità” della guerra e la funzione garantista del governo. In altri termini, la condizione che qui ci interessa sottolineare è che non si sfugge alla compresenza della barbarie, accanto alla civiltà e al progresso. Non ci sono regole per uscire da questa condizione, e meno che mai quelle indicate da Hobbes. Allo stesso modo la tesi di Hegel in base alla quale nessuna forza esterna può distruggere un popolo se questo non è, di già al suo interno, estinto, affermazione che è stata sempre considerata come la giustificazione di qualsiasi guerra vittoriosa, adesso si potrebbe considerare anche come un riferimento alla compresenza di quegli elementi negativi della barbarie a cui nessuno può sfuggire.

La tesi conservatrice sostiene che il mondo si è imbarbarito avendo rifiutato i valori della tradizione. Un ritorno a questi valori sarebbe quindi un modo per sfuggire alla barbarie. Si tratta, come ognuno vede, del progressivismo rovesciato. Di più, si tratta di una soluzione non soltanto impossibile (come quella progressiva), ma anche più stupida, in quanto il mondo non può tornare indietro. La tecnica non lo consente. Ma bisogna intendersi su questo concetto. Non può tornare indietro nel senso di un ordine fondato sui valori del passato, ormai irrimediabilmente scomparsi, non nel senso di un dilagare della barbarie, in quanto questi aspetti della vita non sono mai scomparsi, né possono scomparire. Il dolore, che rende paurosi e perfino folli, è sempre dentro di noi e può venire fuori all’improvviso. Non ci sono modi di garantirci contro la sua improvvisa presenza. Contro di esso la ragione non vale. Non vale scoprire, e comprendere, quali interessi generano quel dolore, e che corrispondenze sotterranee lo reggono a nostra controvoglia. E ciò perché non siamo sicuri che l’abolizione di quelle mene e quindi l’affiorare di altri interessi, questi sì considerati come ragionevoli, possano realmente lenire quel dolore. Quale potrebbe essere la soluzione capace, “in modo naturale”, di alleviare quel dolore primigenio, quell’assurdità che resta in fondo a qualsiasi progetto, sia pure il meglio architettato? Non lo sappiamo.

Anche la società più ricca e meglio organizzata produce forme di disorganizzazione, disuguaglianze sociali, ingiustizie e sperequazioni, aumenti delle sofferenze, orribili offese al singolo individuo. Non ci sono modelli di sviluppo che garantiscano contro queste situazioni. Quindi, la guerra civile non è un problema di alcuni Stati, ma un problema generalizzato. Non sta accadendo in questo momento soltanto in Serbia e nel Kosovo, ma anche in Italia e dovunque nel mondo. Ci danno tante informazioni da renderci ubriachi, proprio per farci dimenticare questo fatto immediato: che anche noi, direttamente e senza scusanti, siamo aggressori e aggrediti nello stesso tempo. Accumulando una massa di esorcismi non cessiamo di tremare davanti all’ignoto che continua a farci paura.

Anzi, quanto più strilliamo forte, affidandoci a incontestabili verità, tanto più ci dichiariamo sconfitti e in preda al panico. L’incombenza di una rimessa in gioco di tutte le regole sconvolge anche il negatore di ogni regola, se non altro perché non sarà lui a governare quella rimessa in gioco, non sarà lui a giocare, ma anch’egli, come tutti gli altri, verrà giocato da un movimento molto più complesso di qualsiasi intenzione umana. Amiamo considerare le nostre aberrazioni, proprio quelle intime che mettiamo da canto ogni sera quando poggiamo la testa sul cuscino, come vacanze dell’intelletto, come una sorta di libera uscita, non pensiamo mai seriamente che esse facciano parte, a buon titolo e forse a miglior titolo, della realtà così com’è, non del tirannico e ingloriosamente vaneggiante bisogno di immaginarla diversa e migliore. Dobbiamo al fine prendere coscienza della condizione di miseria in cui ci troviamo. Dobbiamo, e possiamo, smetterla con le quasi-verità che ci hanno oppresso per decenni, ricopiate con fedeltà da piccolo scrivano fiorentino, sui dogmi positivisti del secolo scorso. Qui non si vede nessuna strada verso l’avvenire, non si vede neanche a un palmo dal nostro naso. È tempo di finirla con l’automatismo dei progetti e rimboccarsi le mani per agire direttamente, nell’ambito delle poche cose che possiamo fare, oggi e non quando le condizioni complessive dell’ordine sociale esistente essendo più favorevoli lo permetteranno.

Le grandi città metropolitane conoscono da tempo la guerra civile. Ormai, per alcune di esse, le condizioni conflittuali dello scontro civile sono in pieno svolgimento. Città come Los Angeles, New York, Londra, Roma, Johannsburg e tante altre, hanno zone ben delimitate e difese, dove la classe dei privilegiati si è rinchiusa da tempo. Questi bunker sono di già visibili un po’ dappertutto, anche in zone che non presentano al momento attuale le caratteristiche conflittuali della grande metropoli. Ciò vuol dire che non è tanto il pericolo immediato a determinare alcuni comportamenti, ma anche la consapevolezza di certe scelte. L’attesa di certe conseguenze. Ci si chiude in prigione per sentirsi al sicuro, ma è proprio questa sicurezza cercata con inevitabile ostentazione che permette l’individuazione della controparte e quindi le premesse per un’ulteriore radicalizzazione delle differenze.

Così, a poco a poco, la coscienza della guerra civile in corso sta ormai penetrando fra gli inclusi. Tarda invece a penetrare fra gli esclusi. Il fatto si spiega semplicemente. Gli esclusi, miserabili di nuovo e vecchio conio, sono troppo legati ai sogni di redenzione e di soddisfacimento, i quali per la loro gran parte sono garantiti soltanto da un processo oggettivo e internamente determinato, non da una condizione di rischio continuo e di persistenza della distruzione. L’avvento della società buona è stata la base per l’accettazione della società cattiva di oggi, il sogno ha avuto la sua parte concreta nella sopportazione del dolore. Bisogna togliere dagli occhi dei miserabili (i nuovi miserabili sono ancora più miseri dei vecchi, che almeno non avevano che mangiare e di questo potevano, non sempre per la verità, farsene una forza per ribellarsi) la caligine dell’illusione. Ciò potrebbe essere qualcosa da fare in tempi brevi.

Per il momento la categoria degli esclusi che alimenta il conflitto “interno” agli Stati industriali più avanzati, è alimentata quasi esclusivamente da individui che hanno fatta propria la condizione di esclusione come fatto imposto, come conseguenza di un processo di sradicamento non del tutto definitivo. Non siamo di fronte a movimenti sufficientemente strutturati di “diversi”, in grado di proporre moduli conflittuali realmente in termini di guerra civile. Ciò non toglie che il problema non possa rapidamente evolversi in questa direzione, una volta caduti i freni consolatori che ancora si reggono in piedi. Mai come oggi è apparsa chiara negli avvenimenti mondiali l’assenza di una logica indirizzata verso lo sviluppo progressivo dell’umanità. Dopo due secoli abbondanti di chiacchiere sull’argomento, e di speranze in sommovimenti definitori, siamo di fronte al cadavere nudo di un’impossibilità: non c’è nessuna Provvidenza che si sostituisce alla volontà degli uomini, nessun punto fisso esteriore alla dinamica storica degli eventi, su cui poggiarsi in maniera certa e da cui partire per fronteggiare l’incertezza del futuro.

E poiché non possiamo immaginare una cosa se non sulla base di qualche altra cosa che conosciamo bene, a stretto rigor di termini il futuro per noi non esiste, cioè non c’è futuro, o, almeno, se si preferisce, non c’è futuro per il modo di vedere le cose che conosciamo. Tra quello che abbiamo vissuto e quello che alcuni di noi vivranno nei prossimi anni non c’è maniera alcuna di fissare un raccordo logico, se non a posteriori, cioè cogliendo qua e là delle persistenze, delle apparenti ripetizioni, delle somiglianze. Il resto è totalmente altro. La ragione abita altrove: nel chiuso delle biblioteche, e non esce da queste se non per affacciarsi sulla soglia, e guardare il cielo corrusco, e chiedersi come mai le cose del mondo tardano a svilupparsi secondo le proprie previsioni, gelosamente contenute nei libri.

Fra gli aspetti di più difficile comprensione emerge il fatto che alcuni comportamenti eminentemente distruttivi, posti in atto con sufficiente regolarità, non appartengono per forza alla categoria degli esclusi, cioè a quella categoria che già di fatto si trova al di là del dialogo produttivo e sociale in termini di reciproca accettazione, ma anche a singoli individui che non hanno subìto il processo di esclusione vero e proprio. La partecipazione all’interno di fasce stabilmente escluse di elementi non ancora esclusi fa pensare ad una insufficiente comprensione dei movimenti interni alla formazione economica e sociale che determinano l’esclusione stessa. Ad esempio, all’insufficienza delle spiegazioni strutturali in forma sociale ed economica, intervenendo motivazioni di natura psicologica o semplicemente aspetti del desiderio assolutamente imprevedibili e, per molti aspetti, incomprensibili. La spiegazione potrebbe rintracciarsi proprio in questa più o meno veloce sensibilità di alcune fasce sociali di cogliere l’inconsistenza delle illusioni progressiste del passato. Questa sensibilità non è affatto legata alle condizioni di sfruttamento, o almeno non lo è in maniera diretta. Se lo sfruttamento fosse la fonte unica di ogni possibile liberazione, per come ce lo siamo immaginato, avrebbe di già prodotto risultati apprezzabili, ben diversi dalla semplice sopravvivenza, la quale è in primo luogo riproduzione dello sfruttamento stesso. L’ineluttabilità di un futuro si fonda sulla esistenza, nel presente, di condizioni che in quel futuro arriveranno a maturo e perfetto sviluppo. Ora, per quanto ci si possa dare da fare, con la fantasia e con l’abilità dello storico, nel presente non appaiono tracce di queste condizioni. Non c’è nessun seme, né sopra, né sotto la neve. Anzi, esistono tracce consistenti di un movimento circolare che sembrerebbe ripresentare le condizioni del passato in maniera sempre nuova, come la danza macabra dei fantasmi, senza che nessuna componente negativa scompaia una volta per tutte, perché nessuna porta è tanto robusta per tenerci al riparo dalla morte rossa.

La caratteristica primaria di questi fenomeni di guerra civile nell’ambito metropolitano resta quella della scarsa propensione organizzativa. Ciò fa supporre agli inclusi di avere molto tempo a disposizione per meglio difendersi. La cosa potrebbe essere non vera. Gli elementi che intervengono su questa apparente impossibilità sono tutti incontrollabili, in quanto dipendono da atteggiamenti e relazioni che potrebbero subire modifiche senza che nessuno degli interessati se ne accorga. Profondi mutamenti nella produzione, ma anche semplici aggiustamenti tecnologici; cambiamenti a livello politico; migrazioni interne e internazionali. Si tratta di elementi che non è possibile controllare e sulle cui conseguenze disgregative, dal punto di vista degli inclusi, e aggregative (sia pure temporaneamente), dal punto di vista degli esclusi, non si possono fare previsioni. Il governo del mondo da parte dell’idea è faccenda lontana. La bontà divina ha fatto cessare i suoi effetti. I sofismi integralistici non sollecitano nessuna fede realmente in grado di sostenere il confronto con l’angoscia del futuro. Forse aiutano, come tante altre protesi, a sopportarne la fredda evidenza, il senso gelido di terrore che può prendere tutti, anche l’uomo più incallito nei pietismi o nella scelleratezza. Forse produrranno sollecitazioni sanfediste aventi tutto l’aspetto di certezze acquisite per grandi masse di individui. Ma non potranno liberarci dal dubbio, non potranno fornirci la certezza di cui abbiamo bisogno per guardare in faccia l’avvenire. E così, finalmente, potremo fare i conti col presente, col nostro presente, con le faccende della vita di tutti i giorni e con le difficoltà immense che incontriamo quando cerchiamo di far tornare ai frutti quest’albero ormai assiderato dall’imbroglio occhiuto e dalla sconsiderata speranza.

Nella guerra civile generalizzata, i casi di cui sopra, isolati ma sufficientemente significativi, hanno una caratteristica in comune: non ammettono l’individuazione di princìpi ideali, o almeno non in maniera tale da consentire una prevedibilità di comportamenti. Questa considerazione fa il paio con la disorganizzazione del movimento degli esclusi, ed è elemento di debolezza, da un lato, ma anche elemento di forza, dall’altro. Di debolezza, se si valuta la questione dal punto di vista tradizionale dello scontro frontale, in cui le componenti si identificano reciprocamente e si riconoscono tra loro. Di forza, se si parte dal presupposto che l’assenza di norme, o la loro venuta meno sia pure temporanea, è in grado di condurre il conflitto su di un terreno in cui anche la carenza organizzativa può tornare utile o, addirittura, essere elemento positivo e determinante del conflitto. Le parti in lotta in una guerra civile non parlano: distruggono. In questo tipo di scontro si distrugge non soltanto il nemico, per altro quasi sempre piuttosto nebulosamente identificato, ma anche se stessi. Non ci sono discussioni teoriche, non ci sono volantini o giornali che spieghino a qualcun altro cosa si vuole far succedere, non ci sono libri o trasmissioni radio. C’è solo la necessità di attaccare. Ciò accade nella ex Jugoslavia come a Los Angeles o a Londra.

Il motivo dominante della guerra civile è quindi, almeno con maggiore chiarezza di quanto non sia mai accaduto in passato, l’assenza di motivi, l’assenza di una posta in gioco, di un utile quantificabile in un miglioramento, di una rivendicazione che non si traduca o in un’astrattezza ideologica o in un una sorta di “Dio lo vuole”. Insomma, siamo di fronte a sollecitazioni che non pretendono giustificarsi su di un’idea a priori, ma che anzi nella propria inconsistenza trovano la massima forza possibile. Dal rifiuto del capire nasce una carica determinata verso l’agire, spesso senza scopo, tipica di molti atteggiamenti distruttivi che caratterizzano la guerra civile di oggi. L’irreggimentarsi sotto una bandiera unica, quella internazionale degli sfruttati di tutto il mondo, diventa sempre meno probabile e, per molti aspetti, anche meno desiderabile. Sono troppe le differenze fra gli esclusi, per consigliare un appiattimento in nome di un ormai del tutto improbabile “Fronte comune di lotta”.

Ogni tentativo di importare, sia pure simbolicamente, all’interno di dimensioni economicamente avanzate, condizioni di lotta che caratterizzano situazioni più arretrate, è fallito negli anni Settanta, oggi non ha senso nemmeno una riflessione critica su quel fallimento. Eppure, per molti aspetti, siamo molto più vicini di quanto non eravamo vent’anni fa a condividere pratiche di lotta che la nostra tecnologia definirebbe (erroneamente) arretrate, e non per un malaccorto romanticismo insurrezionale (come qualche volta ci viene rimproverato), ma proprio per la scomparsa di distinzioni su base territoriale, o di sistema economico complessivo strettamente inteso, che oggi, quando vengono sostenute, hanno meno senso di una volta. Se fa ridere la pretesa di suggerire un ritorno alle antiche virtù della parsimonia e del risparmio, tipiche delle società corporative del passato, allo stesso modo dovrebbe fare ridere la pretesa, parimenti infondata, di un futuro migliore verso cui si potrebbero indirizzare i paesi arretrati non appena divenissero capaci di organizzare meglio la propria economia, sottraendosi allo sfruttamento dell’imperialismo economico dei grandi paesi industriali. Le due tesi sono assurde allo stesso modo.

Molti paesi che si sono liberati da forme internazionali di sfruttamento hanno potuto verificare l’esistenza di forme altrettanto criminali di gestione delle risorse locali, attuate da un’aristocrazia di burocrati e di possidenti e costituenti esse stesse la strada più breve verso la guerra civile. Ogni concetto evoluzionistico di tipo progressivo è naufragato in un bagno di sangue. Sempre.

Allo stesso modo, nelle situazioni che ormai dilagano a macchia di leopardo all’interno del grande sviluppo economico e sociale, l’arretratezza economica e la distruttività sociale non sono necessariamente collegate in modo univoco. Il processo in base al quale grandi fasce di giovani si rendono sempre più conto di non avere un avvenire sicuro, si inserisce in strati sociali paralleli, la cui permeabilità, in termini di analisi di classe, è tutt’altro che rigida. Perché, invece di progettarsi una possibile (per quanto difficile) scalata sociale, molti di essi, e non necessariamente i più miserabili, si decidono per la distruttività senza scopo e senza futuro? Non possediamo una risposta a questa fondamentale domanda.

Allo stesso modo in cui i paesi arretrati stanno sperimentando, in molti casi, la nuova criminale intenzionalità sfruttatrice delle elette indigene dominanti, così i giovani dei ghetti urbani più avanzati, ma anche i rampolli della classe benestante, si accorgono che le possibilità offerte loro da una struttura sociale tutto sommato ancora aperta, non sono altro che una non tanto sottintesa proposta di criminale sfruttamento, non in grado di garantire un futuro ma adatta soltanto a garantire quel futuro preordinato e stupido, caratterizzato solo dalla sopravvivenza nella miserabile condizione di produttore-consumatore a circolo chiuso. A questo punto è soltanto la rabbia cieca quella che si vede, le azioni senza messaggio: il deragliamento dei treni nella notte, i sassi lanciati dai cavalcavia, gli omicidi bestiali e in serie, gli assalti per impadronirsi di un paio di scarpe alla moda, l’odio per i diversi, gli stupri di gruppo, le bastonate negli stadi di calcio e tutto il resto.

Non esiste un modello teorico in base al quale questa condizione possa essere spiegata. Per il momento andiamo avanti alla cieca, cogliendo questo o quell’avvenimento, evitando di fornire spiegazioni che sarebbero non solo fuor di luogo, ma anche destinate ad allontanare il problema da chi l’osserva, e siccome si tratta di un problema molto delicato e carico di tensione, il desiderio di allontanarlo potrebbe prevalere su quello di capirlo.

La guerra civile non si può arrestare. Possiamo solo viverla fino in fondo, senza entusiasmi fuor di luogo, ma anche senza paura per le sue possibili conseguenze. Questo proposito è molto diverso dalla collezione di stupide fanfaronate messa insieme da esteti mancanti di idee. Dopo tutto, l’orrore è un prodotto che ha un grande mercato commerciale, sia come realizzazione diciamo “in vivo”, sia come riproduzione attraverso il simbolo. Sono proprio coloro che strillano di più contro le nefandezze della guerra civile (sistematicamente profuse sui teleschermi) e sulla gratuità della violenza nella cosiddetta società civile di oggi, che poi traggono i maggiori profitti dalla commercializzazione di quello che condannano. E siccome in queste faccende, come in tante altre, la diffusione tramite la grande congiura dell’informazione e della pubblicità è alla base dello sviluppo del fenomeno, la vendita di questo prodotto non è priva d’importanza nel meccanismo di sviluppo della guerra civile oggi nel mondo. Dire in faccia a costoro che non bisogna avere paura della guerra civile, suona come qualcosa di più di una semplice sfida provocatoria ed è ben diverso da una banale esaltazione della violenza, direi che è esattamente il suo contrario.

L’itinerario in questo territorio della desolazione è però tutto ancora da scoprire.


[1995]

La paura della guerra civile

Dove risiedono i nuclei essenziali delle paure che alimentiamo quotidianamente e che siamo soliti riassumere con il termine di “guerra civile”?

Cercare di capire meglio questo problema non mi sembra di poca importanza.

Per prima cosa c’è la valutazione negativa che è stata data da sempre a questo termine. A parte i casi in cui la guerra ha avuto una considerazione favorevole, del tipo “igiene del mondo”, ecc., dei quali non mette conto parlare, ci sono i casi, molto più diffusi, nei quali, pur restando nell’ambito della considerazione negativa, cioè della guerra come “male”, si finisce per ammettere che questo male, una volta in corso (e la responsabilità è sempre dell’avversario) resta un male minore se ha delle regole, cioè se i partecipanti, e tutti quelli che ne subiscono le conseguenze (popolazione civile in primo luogo), hanno delle regole dalle quali vengono protetti, mentre nei confronti della guerra civile c’è una condanna assoluta perché in questo caso non ci sono regole.

Ma, che cos’è la guerra provvista di regole? Interrogati i teorici della politica, e i sociologi, loro angeli custodi, rispondono tutti, più o meno, di non saperlo con esattezza. Un fenomeno che ha caratterizzato costantemente la vita dell’uomo, non è sufficientemente conosciuto, cioè non è stato finora sottoposto ad una chiarificazione. Ciò non è dovuto a mancanza di interesse, e nemmeno di studi o esperienze dirette, quanto al contrario alla eterogeneità e difficoltà della materia. La guerra è uno scontro tra forze armate. Ma non è solo questo, com’è facile capire. Dietro i militari e la loro “forza” ci sono le scelte politiche, le potenze economiche, le ricerche tecnologiche, le scoperte scientifiche, le informazioni più o meno manipolate, la grande industria che costruisce le opinioni, ecc. Pertanto, quello che si muove in una guerra sono grandi interessi economici e sociali, formazioni complessive che si possono riassumere nel concetto di Stato. A fare la guerra sono quindi gli Stati.

La guerra è un atto eccezionale dello Stato? Lo è solo dal punto di vista formale, sostanzialmente uno Stato, solo perché esiste, è sempre in guerra. Non per nulla è sempre “fornito” di una forza armata, destina finanziamenti alla produzione e all’impiego di armi, prepara piani strategici di “difesa” (ma sostanzialmente di attacco, non essendo possibile un distinzione in questo campo), controlla l’opinione pubblica, educa ai valori della propria specificità etnica, ecc. Ma, come si è visto, se lo Stato è sempre in guerra, non è sempre in guerra allo stesso modo, cioè combatte una serie di guerre su più fronti: questa distinzione può esserci di aiuto.

Le guerre verso gli altri Stati si possono distinguere dalla guerra combattuta all’interno dello stesso Stato. Distinzione che vale con una certa dose di approssimazione, in quanto quasi sempre il controllo interno ha conseguenze sui rapporti esterni, e viceversa. Comunque, la distinzione sembra reggere. Abbiamo allora che la guerra è un fenomeno collettivo, cioè che coinvolge tutti, anche coloro che dicendosi pacifisti fanno sfilate con grandi cartelli gandhiani; che è un fenomeno che vede uomini che utilizzano armi, più o meno sofisticate, ma sempre in grado di costituire protesi tecnologiche sufficientemente efficienti; che ha una caratteristica giuridica.

Quest’ultimo punto va esaminato a fondo. Molti anarchici potrebbero obiettare: in che cosa può mai riguardarci questo aspetto? Un poco di pazienza.

Anche se fenomeno continuamente presente nella vita dell’uomo, sotto aspetti vari e molteplici, la guerra è però sempre vissuta come “situazione eccezionale”. Quindi, perché ci sia la guerra occorrono “decisioni eccezionali”. Di regola questa decisioni vengono prese nell’esercizio della sovranità. Lo Stato, con il monopolio della sovranità esercitata dagli organi di governo a ciò delegati, prende questa decisione “eccezionale” e l’impone coattivamente ai propri sudditi, costringendoli con una norma giuridica adeguata a combattere, assolvendoli a priori da comportamenti (assassinio, furto, saccheggio, ecc.) che in condizioni non di guerra dichiarata sarebbero considerati “delitti”. Ma, da parte sua, anche l’individuo singolo esercita una sovranità su se stesso, solo che quasi sempre non lo sa. Ed è a questa particolare e personale sovranità che lo Stato s’indirizza non solo con la dichiarazione di guerra e con le norme giuridiche che mettono in sospensione le regole penali contro i comportamenti visti prima, ma anche con tutta una serie di strutture dirette a costruire, rafforzare e mantenere, un’ideologia giustificativa della guerra, insomma, per dirla breve, a fare diventare la guerra dichiarata una “guerra giusta”.

Ma ogni guerra per essere accettata come “giusta”, e ogni parte belligerante deve arrivare a considerare giusta la guerra a cui partecipa, è obbligata ad avere per corrispettivo la possibilità di considerare come “crimine” la guerra combattuta dall’avversario. La codificazione che ancora oggi regge risale nientemeno a san Tommaso. La guerra per essere considerata giusta deve essere regolarmente dichiarata (quindi in regola giuridicamente), deve avere una “giusta causa”, deve esserci una “retta intenzione” nell’animo di chi la conduce. Più recentemente si è aggiunta a queste tre condizioni una quarta, quella della necessità: cioè non ci devono essere altre strade per fare “giustizia”.

Non c’è chi non veda che queste norme sono del tutto soggettive, mentre la prima ha caratteristiche meramente formali, alle quali di buon grado gli Stati si sottomettono, con le dovute eccezioni (Pearl Harbour o il telegramma di Bismarck). Trattandosi di valutazioni soggettive non c’è un vero e proprio punto di riferimento per individuare il giusto. Nella prima guerra mondiale il Manifesto dei Sedici, firmato da Kropotkin, Grave e altri famosi anarchici, proponeva di combattere contro gli Imperi centrali in difesa delle tradizioni rivoluzionarie della Francia, madre di ogni possibile futura speranza di liberazione. Ahimé, queste considerazioni potrebbero occhieggiare ancora dietro le nostre spalle. Non ci sono criteri per individuare una guerra giusta. Non ci sono eserciti aggressori ed eserciti aggrediti, non ci sono Stati aggressori e Stati aggrediti. Gli stessi massacri, gli stupri, le nefandezze che dovrebbero, secondo i tecnici del diritto internazionale, caratterizzare la guerra di aggressione e quindi portare ad una condanna dei responsabili per “crimini di guerra”, sono perpetrati da tutti gli eserciti, sono costume connaturato a tutte le forze armate, a tutti gli imbecilli che la dissennatezza umana ha armato e intruppato. Se nella storia ci sono stati processi e condanne di questo tipo, sono stati celebrati ed eseguite dai vincitori, i quali, per definizione, hanno sempre ragione.

Torniamo per un attimo all’altro tipo di sovranità, quella che l’individuo esercita su di sé, che è circondata e soffocata da mille precauzioni prese dal potere per farla tacere. Ecco, se ad un certo punto, per mille motivi, che possono andare dallo sfruttamento alla dignità offesa, quindi da motivi economici a motivi più profondi che scavano nell’animo del singolo (gli stupri e le angherie non feriscono soltanto il corpo, colpiscono più ancora i propri sentimenti e le proprie speranze), se tutto ciò entra in gioco si ha una frattura radicale. La sovranità individuale decide di agire, di giocare la sua guerra, di cercare mille altre sovranità individuali con cui entrare in contatto e di sviluppare un altro tipo di guerra, in cui vengono sospese gran parte delle condizioni sociali e culturali che reggono la società così come la conosciamo.

Una correlazione con queste strutture sociali non viene mai del tutto a mancare, ma ci sono delle sospensioni, dei mancamenti, in primo luogo le regole del comportamento quotidiano, le norme fissate dai codici, la reciproca tolleranza, il rispetto per la proprietà altrui e la vita altrui, oltre che per la propria. Insomma si stabiliscono nuovi rapporti che non hanno una vidimazione giuridica ma soltanto personale e, in ultima analisi, morale.

Qualcuno potrebbe dire che anche qui giocano le illusioni e i meccanismi prodotti delle opinioni governate dall’alto. Non c’è dubbio che in molte organizzazioni di guerriglia del passato, a partire dalla resistenza contro il fascismo e il nazismo, ci furono importanti pressioni di tipo ideologico, ma questo è, come dire, inevitabile: nessuno è esente in assoluto da condizionamenti. Quello che però importa notare qui è che a decidere questo tipo di guerra, e di già siamo all’interno del concetto di “guerra civile”, per quanto sia un concetto di gran lunga più complicato di come appare, a decidere è l’individuo e non lo Stato. Le risposte repressive che lo Stato darà rientreranno in quella guerra costante a cui esso è ben preparato da sempre, e all’interno delle quali la guerra cosiddetta “regolare” è soltanto una variante con forte carica politica. Ma, accanto alla formazione dell’opinione, gestita dallo Stato e dalla formazione economico-sociale nel suo complesso, in questa scelta di frattura individuale intervengono altri elementi: l’appartenenza di classe, per esempio, la propria maturazione individuale in cento occasioni di riflessione e di scontro, anche marginali e secondarie, i propri sogni, le prospettive di una vita migliore, l’idea della libertà, ecc. Non che tutta questa seconda parte di motivazioni sia predominante, questo non lo so, dico solo che c’è e che questa costrizione è di natura personale, ci si sente moralmente obbligati, quindi liberi di decidere se accettare questo obbligo oppure no. Insomma, siamo in una condizione sufficientemente diversa da quella della guerra “regolamentare”, tanto da potere qui affermare questa distinzione.

Bisogna ammettere che questo ricorso alla sovranità individuale, insomma alla (parzialmente) libera scelta dell’individuo è piuttosto incerto, in quanto la distinzione che qui ci serve per arrivare a meglio delineare il concetto e le condizioni di “guerra civile”, non è mai netta, ma penso che si tratti di analisi lo stesso interessanti. Ad esempio, bisogna ricordare che questa decisione individuale è, indirettamente ma sostanzialmente, influenzata dalla condizione di disturbo se non proprio di totale sospensione delle regole statali, generalmente imposte come obbligo. Non proprio una condizione di assoluta anomia, ma qualcosa di molto vicino. Questi “disturbi” nel funzionamento statale sollecitano molto il ricorso al “che fare?” da parte dell’individuo, il quale si pone tragiche domande che in condizioni, diciamo “normali”, magari sublimerebbe picchiandosi allo stadio e ammazzandosi con una corsa in motocicletta. È quindi indispensabile che ci sia una realtà fortemente compromessa dal punto di vista statale, in caso contrario il ricorso alla sovranità individuale resta appannaggio di pochissimi. Il sistema politico, inteso nel suo insieme come formazione collettiva e simultanea di idee e di strutture, non è un nemico facilmente individuabile, quindi non cede le armi subito, non crolla con poche spallate, al contrario gestisce abbastanza bene la molteplicità dei suoi compiti, fra i quali c’è quello di costituire un punto di riferimento morale per tutti gli individui ad esso sottoposti, determinando quello che si chiama ordine sociale.

Di regola le condizioni di guerra civile sono quindi alimentate in un clima generalizzato di indebolimento dei valori “forti” della convivenza civile, dei destini della nazione, dell’ideologia di progresso o di internazionalismo proletario (come si diceva una volta). Tutto questo alimenta incertezze per il futuro.

Chi vede in modo pericolosamente incerto il proprio futuro, e quello delle persone a lui care (e questo concetto potrebbe estendersi all’umanità intera, trattandosi di scelte culturali), corre il rischio di vedere spegnere la speranza, di non riuscire più a sognare quello che di bello può esserci nella vita, ad amare, ad immaginare l’assolutamente altro, la gioia e perfino la follia dell’eccesso. “Le illusioni – scriveva Leopardi nello Zibaldone – per quanto sieno illanguidite e smascherate dalla ragione, tuttavia restano ancora nel mondo, e compongono la massima parte della nostra vita. E non basta conoscer tutto per perderle, ancorché sapute vane. E perdute una volta, non si perdono in modo che non ne resti radice vigorosissima, continuando a vivere, tornano a rifiorire a dispetto di tutta l’esperienza, o certezza acquistata”. Ma, se corriamo il rischio di perdere queste illusioni, per riconquistarle siamo disposti a tutto.

Questa spinta al futuro, quindi a cercare di affermare noi stessi nel cambiamento della realtà, può essere contrastata, e perfino ritardata o annullata, non solo da una ferocia fuori misura attuata da parte dell’avversario (e questo sarebbe in fondo il minore dei mali), ma più di tutto dall’attesa che qualcosa o qualcuno faccia quello che va fatto al nostro posto. Così, anche se il futuro ci appare incerto, possiamo immaginarcelo come dotato, al proprio interno, di un’anima d’acciaio, di un meccanismo forte, capace di realizzare i nostri desideri diciamo quasi automaticamente. Il determinismo meccanicistico, e lo stesso marxismo nella versione “comunismo di Stato”, hanno abusato di questo mito progressista fino a farlo diventare il sostituto dell’azione umana, una maniera molto efficace per mantenere buoni i miseri e i diseredati.

Anche il capitalista, da parte sua, affoga nel mito del progresso: sogna il suo amato 3%, il che lo porterebbe ad aumentare la ricchezza disponibile di dieci miliardi di volte in 730 anni, un periodo di tempo abbastanza ragionevole se si pensa che il passato dell’uomo ha più o meno due milioni di anni e il suo futuro potrebbe averne sei miliardi, fino alla distruzione prevista del sistema solare. Pensate quanto arrivano lontano gli interessi al tasso composto del 3%.

Ogni sberla che prendiamo in piena faccia, quotidianamente, ci dice però qualcosa di contrario. Ci dice che i meccanismi della crescita sono sconosciuti, che i guai dello sfruttamento non si possono correggere con il produrre sempre di più e sempre le stesse cose modificate. Ci dice che i progetti di civiltà nascondono l’imbroglio della più catastrofica incompletezza. Ci dice che se tutto è possibile, niente è certo, che il più resta legato alle nostre decisioni e solo in minima parte a quelle di chi ci governa. Ci dice che non conosciamo altra via se non l’attacco e la distruzione del nemico di classe se vogliamo che qualcosa cambi, veramente.

I guai causati dalla critica illuministica a ogni idea di persistenza nella storia, o meglio di ripresentazione di processi e modi di concepire la vita che si ritengono lasciati alle spalle, ha immesso nella nostra testa un modello estremamente civilizzato di progresso. Sentendoci inseriti in questo movimento storico universale, che dalle nebbie del passato s’indirizza verso i miglioramenti del futuro, non possiamo non considerarci nel migliore dei mondi possibili, e questo per il semplice fatto che siamo seduti proprio sulla punta della freccia (cioè il presente) di quel movimento progressivo che migliorerà le sorti del genere umano. Così riteniamo di non potere essere né peggio di quello che siamo, né meglio, tutto quello che siamo è reale, pertanto è ragionevole che sia, non c’è nulla nella realtà che la ragione non possa spiegare e giustificare, anche quello che sulle prime ci fa voltar lo stomaco. Ecco come, una tesi filosofica nata per combattere il tradizionalismo e l’“oscurantismo” della Chiesa, riflesso e inverato nel dominio assoluto dei re e degli Stati forti, sia diventato un mezzo utilissimo per fare star ferma la gente, per inchiavardarla alle proprie catene in modo da lasciare che tutto resti com’è, cambiando continuamente tutto.

Smetterla con questi luoghi comuni richiede coraggio. Riuscire a farlo apre la strada a tutt’altre possibili azioni.

Se pensiamo che una cosa possiamo farla noi, qualsiasi cosa (e qui si colloca il metro di ordine morale, della nostra morale, non di quella codificata dal potere), se pensiamo questo, se cioè ci rendiamo conto che non esiste nessuna forza che lavora al nostro posto, né Dio in cielo né progresso in terra, allora possiamo fare tutto. Non ci manca la forza per agire, quello che ci manca è la decisione, e non c’è decisione che non nasca dalla consapevolezza di volere agire. Dubbi e perplessità bloccano più della debolezza effettiva, di una mancanza di possibilità e di prospettive che non ci appartiene. Noi non siamo deboli, ci immaginiamo deboli. Nel momento in cui ci rendiamo conto di questa palmare evidenza: cioè che siamo in grado di fare tutto quello che vogliamo fare, tutto ci diventa lecito. Siamo noi che decidiamo l’attacco, quando e come e dove vogliamo, il nemico con le sue cento pastoie repressive diventa un gigante coperto da mille reti, avviluppato da cento lacciuoli. Spezziamo il concetto di misura che ci ha legato per millenni, e oggi possiamo farlo solo se sottoponiamo a critica radicale qualsiasi concetto che pretenda di individuare forze che lavorano al nostro posto. Non c’è nulla che operi per conto nostro, nemmeno la nostra stessa vita. Noi non siamo qualcosa di cui abbiamo coscienza come un organismo provvisto di vita, la nostra vita è proprio questo qualcosa di cui abbiamo coscienza, non c’è un Alfredo che sta scrivendo queste pagine e un altro che vive semplicemente al suo fianco guardandolo scrivere e provvedendo a tutte le condizioni fisiologiche della vita: si tratta di una distinzione inesistente, siamo la stessa cosa, io che scrivo queste pagine sono la vita mia che sta scrivendo queste pagine, i miei pensieri sono quello che faccio e quando faccio qualcosa, o meglio, quando agisco, sono i miei pensieri che stanno agendo.

Mi si potrebbe indirizzare contro il dito ammonitore dicendo: attento, qui tu stai aprendo una strada molto pericolosa, stai tematizzando in buona sostanza che tutto è permesso, basta volerlo. Ciò ci condurrebbe alla barbarie più assoluta. L’arbitrio del più forte si sostituirebbe alla legge, l’eccesso alla misura, la guerra di tutti contro tutti all’accordo che seppure limitato, oggi, potrebbe domani diventare “libero”. Mi rendo conto della (parziale) fondatezza di queste critiche, e di come mi si possa vedere “cattivo pensatore”, mentre qui, nel chiuso della mia stanza, traccio queste righe da far spavento.

E invece penso che non sia così. Non sono certo un amante dell’ordine, di nessun ordine, nemmeno di quello sorgente per naturale derivazione dai fenomeni fisici e quindi dalla vita. Sull’esistenza di quest’ordine forse un giorno, in altro luogo, dirò in dettaglio la mia, per il momento mi basta precisare che questo tipo di ordine, se esiste, è la base per vincolarmi a scelte che non sono le mie. Penso che scegliendo in base alla mia forza, in base a quello che posso fare – ed è moltissimo – la mia stessa azione diventa cosciente di sé, mi apre orizzonti morali che prima non possedevo. Non più una reazione inconsulta, una rabbia cieca, ma la calma e persuasiva coscienza della mia potenza. Tutta la cultura che per millenni mi è stata sulle spalle come un macigno, messa giù, una buona volta, scaraventata a terra, può ridiventare il luogo delle chiarezze, dei miglioramenti, delle perfezioni del pensiero e dell’azione. Mi evolvo senza che ci sia qualcosa che me lo consenta. Mi distinguo senza che ci sia una misura di distinzione, mi completo senza che ci sia deposito scientifico a portata di mano. L’annichilimento minacciato dal potere, per tutti coloro che come me dovessero decidere di fare “quello che vogliono”, si traduce così in una vana minaccia.

Difatti, riflettendo appena un poco, se gli Stati nei loro conflitti che chiamiamo “guerra” tendono a fissare delle regole allo scopo di evitare un eccessivo disequilibrio, oppure una progressione diabolica che porterebbe un danno a tutte le parti belligeranti (trattamento dei prigionieri, divieto di impiego di certe armi, pericolo atomico, ecc.), e quando fanno quello che fanno cercano in tutti i modi di camuffarlo per impedire che la controparte agisca allo stesso modo, io, nella mia “guerra civile”, e con me tutti coloro che decidono di fare appello alla propria sovranità per utilizzare la propria forza inesauribile, non abbiamo lo scopo di mantenere un equilibrio, di fissare il conflitto al di sotto di certe regole, noi abbiamo lo scopo essenziale di rompere qualsiasi equilibrio, perché sappiamo bene che non ci può essere rapporto equidistante con chi è altro da noi. Ogni regola, sia pure minima, mi porrebbe subito in condizione di inferiorità, annienterebbe la mia forza e mi condannerebbe alla distruzione

La guerra civile è il mio terreno, è il campo dove l’anarchico può vedere germogliare i primi rudimenti di un processo rivoluzionario di natura libertaria, ma a queste condizioni, che non sia essa stessa una pantomima ricalcata sulla “giusta” guerra degli Stati: pensate alle stupidaggini sul riconoscimento politico dei guerriglieri, sul trattamento dei prigionieri politici e tutto il resto.

Una conferma indiretta della potenza di questa mia condizione è che il mio nemico, lo Stato, nel caso di una guerra civile mi vede immediatamente come “bandito”, come criminale. In altri termini, la mia eventuale richiesta di “riconoscimento politico” sarebbe il tentativo maldestro di regolarizzare i rapporti, quando dall’altra pare, apprestandosi a mettere in atto il mio annientamento c’è solo il bisogno di squalificarmi come bandito. Achtung Banditen dicevano i manifesti contro i partigiani e altrettanto dicevano i manifesti napoletani contro i garibaldini. Chi non accetta di vestire la divisa della “giusta causa”, e quindi di combattere una “giusta guerra”, è un bandito. Lascio ai lettori trarre tutte le conseguenze.

Diciamolo una buona volta: siamo banditi, cioè messi al bando, scomunicati, messi “fuori” legge. Ed è proprio così che ci sta bene.


[1999]

I giorni dell’odio

Nessun libro, nessuna opera umana segna un punto definitivo a proprio vantaggio nello scontro con la realtà. Quest’ultima è sempre qualche passo in avanti. Un residuo religioso ci spinge a vedere, nelle grandi analisi e nelle grandi esperienze, la nostra “guida”, e a raccogliere e a numerare queste analisi e queste esperienze in brevi elenchi capaci, secondo noi, di indicarci la strada. Ma la realtà non accetta imitazioni bibliche.

Santificare un testo può essere utile per molti motivi, tutti funzionali alla costruzione del potere. Anche se si tratta di un “nuovo” potere, la cosa non è diversa. Abbiamo, per anni, giurato su Marx. Cerchiamo di evitare, adesso, di giurare su qualcos’altro.

E a santificare i testi prestano man forte proprio gli esegeti, i prefattori, i ricercatori, i sistematori. “Dio mio! – esclamava Cœurderoy – salvatemi dai facitori di prefazioni”. La sorte, fino a questo momento, gliene ha assegnato pochi. Gross e Nettlau furono i primi. Accingendosi a riesumare Jours d’exil, l’uno ne considerava, inquieto, il grande valore letterario ed artistico; l’altro immergeva il tutto nella sua nota erudizione. Era proprio il pericolo intravisto da Cœurderoy: una lunga, estenuante fatica introduttiva, che desse conto di tutti i movimenti, di tutti gli accadimenti, di tutte le faccende private dell’autore, o di tutte le pretese qualità estetiche di un linguaggio e di un’arte considerati come strumenti esterni al proprio contenuto; e ciò finendo per non dar conto di nulla e per consegnare il lettore al brutale contatto col testo, affidandolo alla propria, solitaria, sagacia interpretativa. Una chiusura tra i tempi rivoluzionari della lettura e il testo, e a far stridere il chiavistello di questa serratura a doppia mandata, proprio l’autorità indiscussa dell’erudizione del buon Nettlau.

Venne poi la riesumazione situazionista. I cimiteri sono spesso più movimentati di quanto non si creda. Vaneigem non è certamente Nettlau. Ma, per un altro verso, il suo lavoro introduttivo trova riscontro un’altra volta nelle preoccupazioni di Cœurderoy: al teorico situazionista interessa accreditare le anticipazioni e gli spunti analitici dell’Internazionale situazionista, più che la valutazione della realtà rivoluzionaria e del rapporto che intercorre – oggi – tra questa realtà, quale noi la viviamo, e le esperienze registrate più di un secolo fa dall’anarchico Cœurderoy.

Una bella analisi, non c’è dubbio, quella di Vaneigem, ma a senso unico. Un’analisi che, contro il partito e contro l’ortodossia, finisce per ritrovare partito e ortodossia al di là del cerchio stalinista. Non soltanto gli stalinisti possono essere stalinisti. Anche i libertari corrono questo rischio, con in più l’aggravante che, quando vi si trovano invischiati, non se ne accorgono perché hanno l’alibi della libertà a tutti i costi.

Cœurderoy è un anarchico. Solitario nelle sue idee. Non un anarchico da tavolino, un filosofo, sia pure tagliente e consequenziale filo all’estremo, come Stirner. Un anarchico e un rivoluzionario. Ha fatto la rivoluzione del ’48 a Parigi, ha visto il sangue arrossare la Senna e i nuovi giacobini raccogliere l’eredità di Babeuf. Medico, ha visto le miserie e le grandezze dell’uomo, del corpo dell’uomo, nella gioia della vita e sul tavolo dell’obitorio. Cospiratore e agitatore. ha vissuto le meschinità e le piccolezze delle organizzazioni piene di grosse parole, di motti e di bandiere, ma anche di piccole manie di grandezza e di arrivismo. Esiliato, ha vissuto l’inconsistente vita dei movimenti rivoluzionari all’estero, le trame della polizia, i soffocanti controlli, la lotta contro la fame, il desiderio di tornare in patria. Scrittore, ha rivissuto tutte queste esperienze, con magistrale penetrazione, senza pudori, senza nascondere nulla, senza paura di ferire questa o quella persona, questa o quella organizzazione rivoluzionaria. Uomo, solo davanti a se stesso, ha deciso di uccidersi, e lo ha fatto. La logica rivoluzionaria non consente salti indietro.

“Per fare passare la Rivoluzione attraverso questo secolo come un ferro rovente bisogna fare una sola cosa: demolire l’autorità”.

Questo concetto è globale, cioè presuppone la distruzione della totalità del potere, una dimensione rivoluzionaria complessiva. Quasi sempre i concetti sviluppati da Cœurderoy, come il lettore vedrà facilmente, non sono concetti strategici, ma concetti che intendono richiamarsi alla totalità rivoluzionaria. La concezione della “rivoluzione” nel senso corrente, cioè nel senso di deperimento e sostituzione di vecchie istituzioni, gli è del tutto estranea. E, ben considerando, è proprio quest’ultima concezione della rivoluzione che può essere legata al tempo, al concetto del “passare del tempo”, al principio strategico della storicizzazione. L’altra concezione, quella globalizzante, non ha, col tempo, che un raccordo sincronico. Fatti lontani nel tempo, divengono presenti, ritornano nella dimensione dell’accadere, perché sono legati a quel permanere che è una delle caratteristiche dello stesso processo temporale. Se la storia del mondo è la storia della lotta delle classi, cioè la storia dello sfruttamento, il senso dell’evolversi storico non può mettere in secondo piano il senso della totalità del mondo e dell’elemento che la caratterizza: il permanere – all’interno delle diverse modificazioni – dello sfruttamento. Quindi, quando il rivoluzionario, in nome della propria organizzazione, sviluppa (giustamente) un’analisi strategica, tiene conto, senza dubbio, di questo nemico che gli sta di fronte, ma è portato a identificarlo nelle sue connotazioni storiche precise, nelle forme che esso prende nel corso del tempo; l’altro elemento, quello globale, se non gli sfugge, gli passa in secondo piano. Invece, il rivoluzionario deve anche pensare il “tutto”, cioè deve valutare gli elementi della permanenza all’interno della modificazione, se non vuole consegnare i propri sforzi nelle mani di coloro che della permanenza dell’autorità fanno lo scopo della propria azione.

Tutto ciò, per Cœurderoy, è notevolmente facilitato. La sua lettura della realtà è quella di un poeta, il suo strumento linguistico, quello di un artista, ma la sua esperienza è quella di un rivoluzionario. La contraddittorietà dello scontro sociale gli si presenta tutta in una volta, abbagliante. Per lui è la categoria essenziale dell’agire, ben al di là della razionalità del conoscere che condiziona e codifica il modello economicista della rivoluzione autoritaria. Ma questo “senso del tutto” non gli viene da una sovrapposizione aritmetica. Un’analisi delle unità che, sommate, compongono la totalità. Il concetto di “elemento” della totalità, e il concetto di “sistema” della totalità o di “totalità sistematica” gli sono estranei. Le sue analisi sono progressivamente dirette a distruggere quest’illusione. L’uomo può imporre un suo predominio sull’evolversi contraddittorio dello scontro di classe, solo a condizione che ammetta la contraddittorietà degli stessi mezzi pratici che gli rendono possibile il predominio. In caso contrario, resterà in balia degli avvenimenti, sognando riforme impossibili, e altrettanto impossibili domini assoluti.

Facciamo un esempio. Tutti ricordano i passi in cui Marx si lancia contro il sottoproletariato, accomunandolo ai ladri e alle prostitute, e unendo nella stessa condanna questi ultimi a tutti coloro che non fanno parte della “classe operaia”. I motivi di questa condanna sono presto detti. La rivoluzione è possibile – secondo Marx – solo a condizione che si sviluppi una grande classe operaia, capace di abbattere la classe borghese. Ogni ritardo nello sviluppo della classe proletaria è un peso per la rivoluzione. E, in questo modo, i sottoproletari, i disoccupati, i ghettizzati e i criminalizzati, sono visti come un peso controrivoluzionario. È facile comprendere come, su questa strada, si vada diritto verso lo stalinismo e come diventino “pesi per la rivoluzione” tutti coloro che non la pensano come l’autorità in carica. Ma vediamo, al contrario, le affermazioni di Cœurderoy: “Guardati soprattutto, Proletario! di marcare con le stimmate dell’infamia i tuoi fratelli che essi chiamano ladri, assassini, prostitute, rivoluzionari, galeotti, infami. Cessa le tue maledizioni, non li coprire di fango, salva la loro testa dal colpo fatale. Non vedi che il soldato ti approva, il magistrato ti chiama a testimoniare, che l’usuraio ti sorride, che il prete ti batte le mani, che lo sbirro ti eccita? Insensato, insensato! Non sai che prima di abbattere il toro minacciante, il torero fa brillare nell’arena gli ultimi lampi della sua rabbia? E che essi si prendono gioco di te, come si gioca col toro prima d’ammazzarlo? Riabilita i criminali, ti dico, e ti riabiliterai. Non puoi sapere se domani l’insaziabile cupidigia dei ricchi ti costringerà a rubare quel tozzo di pane senza cui moriresti di fame. In verità ti dico: tutti coloro che i potenti condannano sono vittime dell’iniquità dei potenti. Quando un uomo uccide o deruba si può dire a colpo sicuro che la società dirige il suo braccio. Se il proletario non vuole morire di miseria o di fame o diventa cosa di altri, supplizio mille volte peggiore della morte; – o insorge insieme ai suoi fratelli; – o, infine, insorge da solo se gli altri rifiutano di condividere la sua sublime risoluzione. E questa insurrezione, essi la chiamano crimine. E tu, suo fratello, che lo condanni, rispondimi: hai mai visto la morte così da vicino per gettare la pietra contro il povero che sentendo l’orribile stretta, ha spinto il pugnale nel ventre dei ricco che gli impediva di vivere? La società! La società! ecco la criminale, carica d’anni e di omicidi, che bisogna giustiziare senza pietà, senza ritardo”.

Il nemico è visto nella società, non perché tutti gli elementi di questa siano parimenti responsabili (banale interclassismo), ma perché essa è il prodotto di quella parte più forte che ha in pugno il dominio. Quando, in futuro, la parte che oggi è più debole, dovesse conquistare il potere ed esercitare in proprio quel dominio che per tanto tempo ha sopportato, non ci sarebbero radicali differenze. La storia avrebbe segnato il passaggio da una contraddizione dello scontro ad un’altra, se si vuole differente dalla prima, anche profondamente differente, ma non ci sarebbe stata l’eliminazione delle contraddizioni e la nascita di una società nuova. Il nemico sarebbe ancora la società, nel suo complesso, perché intimamente essa, pur nel modificare di tante cose, ha lasciato intatto lo spirito contraddittorio per eccellenza: lo spirito del potere e dello sfruttamento.

La sfida filosofica di Stirner, è ribadita da Cœurderoy con la forza dell’esperienza che viene dalle delusioni sofferte sul campo stesso dello scontro rivoluzionario. Questo è uno dei motivi per cui due autori tanto simili hanno avuto una fortuna tanto diversa. Sul “filosofo” Stirner si sono riversate tonnellate di carta, le analisi sono succedute alle analisi, spesso fuorvianti e senza conclusione ma, comunque, ci sono state. Su Cœurderoy: solo il silenzio. “Vi offro questo libro, proletari! ed impongo lo scandalo ai borghesi, questi pezzenti arricchiti da cui sono uscito. Che i rivoluzionari ottusi si lamentino di me: che i loro Giovi mi fulminino; non c’è bisogno d’essere giganti per affrontare la collera degli dèi moderni. Lo so, i partiti si scateneranno contro di me, il silenzio e l’isolamento copriranno la mia anima ardente”. Certo, era meno impegnativo vedersela con Stirner, sedendosi comodamente sui resti dell’analisi di Marx, e nascondendo il proprio inquietante interesse con l’alibi della filosofia. Meno comodo occuparsi di Cœurderoy. Stare continuamente a riflettere sulle responsabilità delle “false coscienze”. Specie quando uno se l’è costruita con tanta fatica la propria falsa coscienza, gli sta proprio scomodo che qualcuno gliela scuota, incrinandone l’ottusa fermezza. E nessuno è più fermo e più ottuso di chi ha trovato un partito “rivoluzionario” come porto finale alle proprie inquietudini. Guai ad inseguirlo fin dentro la rada di questo porto: quando non sono ingiurie e calunnie, è il silenzio sprezzante quello che ci si può aspettare. “I miei contemporanei non mi comprenderanno. Non ho la pretesa di allungare la vista ai miopi. I civilizzati non vivono che nel presente, essi sono incompleti. Io non vivo che nell’avvenire e sono anch’io incompleto. Io mi sono impadronito delle grandi linee del contesto sociale; essi non comprendono che dettagli infinitamente piccoli. Noi differiamo e l’umanità non è ancora completata per l’accordo di questi contrasti. Non ci può essere un’intesa tra me e il mio secolo”.

Come per Stirner, anche per Cœurderoy si pone il falso problema dell’individualismo. La lettura superficiale di qualche estratto della sua opera può condurre a conclusioni errate. La realtà è una sola: il suo distacco da interessi di parte, interessi che si collocano all’interno di un’arca di partito o di movimento e che rispondono a interpretazioni organizzativo-strategiche. Tutto questo insieme di interessi non è rintracciabile nelle sue riflessioni. Come rivoluzionario, vedendosi elemento di un tutto che si svolge sotto i suoi occhi, di un tutto che si struttura in forma di attacco contro l’autorità, senza bisogno di far ricorso alle tradizionali sistemazioni della scolastica rivoluzionaria, Cœurderoy ingigantisce il proprio essere individuale. Ma lo fa con coscienza delle proprie capacità. “L’orgoglio non mi acceca, ho fiducia in me stesso”. E altrove: “La Rivoluzione m’ha dato la febbre; non mi lamento, e non prego nessuno di compiangermi. Ma non posso esigere che tutti abbiano la febbre. Volere che i civilizzati s’appassionino alla rivoluzione sociale è presentare l’acqua ai cani idrofobi”. La sua lotta, non dimentichiamolo, è segnata dalle esperienze brutali, dalle delusioni, dalla diretta conoscenza delle meschinerie e delle piccolezze di tanti cosiddetti “grandi uomini”. Per questo, nelle sue pagine, c’è l’umanità del dubbio, accanto alla grandezza della sfida. Quello che in Stirner è la fredda lama del ragionamento, qui è sostituito dal contorto percorso della passione e dell’ansia, del desiderio e della delusione. Per Cœurderoy, cosciente di questi limiti e di questi ostacoli, il compito è molto più difficile che per Stirner. Il filosofo tedesco si traccia un percorso, con fredda determinazione teutonica lo compie fino in fondo, unico il suo libro, unica la sua esperienza intellettuale. Dopo di lui, il diluvio. Lo scrittore francese si porta dietro le proprie esperienze, la propria vita, i propri amori. Non riesce a staccarsi dal suo corpo, con appassionata inquietudine latina vive fino in fondo le relative contraddizioni. Eppure, il filosofo e il poeta s’incontrano nella conclusione logica della propria vita e della propria teoria. Solo quando la vita è veramente vissuta (e non lasciata vivere), solo allora, è, essa stessa, teoria, e la più grande costruzione teorica (del filosofo o del poeta, come del militante rivoluzionario), è la propria vita. Nella frattura tra vita e teoria, emerge sempre il filisteo, anche dietro gli urli e le imprecazioni, le dichiarazioni infiammate e i “distruggiamo il mondo”.

“Non mi abbandonare fiducia in me stesso, prima delle qualità. Nero scoraggiamento, resta sotto i miei piedi. Non voglio più sentire la voce della disperazione. Voglio sapere quello che l’organizzazione umana può sopportare come lavoro, come febbre e come delusione. Avanzerò nel dominio del Pensiero, fino al regno della Follia; saggiando i limiti della Rivolta, fino al Crimine, bevendo il contenuto della coppa di fiele. Soltanto allora potrò dire chi è pazzo o criminale nella Babilonia che crolla”.

L’esaltazione dell’io, in Cœurderoy, è un grido disperato. In Stirner, era una deduzione logica da premesse riconosciute sufficientemente salde. L’umanità dell’avventura intellettuale di Stirner è nascosta tra le righe di uno stile filosofico, l’umanità di Cœurderoy esplode poeticamente con ondate successive, sconvolgendo il lettore. Nell’atmosfera dell’Unico ci si può anche abbandonare alla tesi dell’autore, sospendere il proprio giudizio, lasciar fare. Nell’atmosfera degli scritti di Cœurderoy ci si trova coinvolti fin dall’inizio, o si abbandona la lettura o si è obbligati a prender parte, a condividere o respingere le sue idee. La consequenzialità logica è sottoposta al sentimento, il dilacerarsi della volontà predomina sulla nettezza dei risultati, la ragione dogmatica perde colpi davanti all’emergere della ragione del cuore che, da sola, possiede più ragioni di quante la prima non ne arrivi a contenere.

L’individualismo di Cœurderoy è quindi il prodotto di una grande e contraddittoria esperienza. Il laboratorio delle idee, con tutte le cose al suo posto, con gli scaffali pieni delle presenze letterarie del passato, con gli strumenti lucidi della logica in bell’ordine, gli è estraneo. “È nella natura dell’uomo considerarsi il centro del movimento universale e di rapportare tutto a se stesso. La storia, è lui; l’arte, è lui; la poesia, è lui; ogni cosa è in lui; egli è dappertutto. L’egoismo è la salute degli esseri; l’amore di sé regge l’umanità”. Ma, poco più avanti scrive: “Le foglie d’autunno coprono la terra d’un mantello di porpora, gli alberi abbandonano la veste e il sangue e allo stesso modo i miei anni s’involano come foglie disseccate: eccomi a contare i giorni. La mia impresa non avanza come vorrei, l’esecuzione segue troppo lentamente le rapide ali del desiderio. Oh! quali angosce soffro quando sento la terra tremare sotto i miei piedi e il tuono percorrere il cielo grondante!”.

È la rivoluzione un fatto progressivo? Un fatto di conquiste parziali che si sommano le une alle altre e si sviluppano nel tempo? Anche, la rivoluzione è anche questo. Ma non è soltanto questo. La Francia, dopo la più grande delle rivoluzioni ha saputo tornare altre volte sulle barricate. Cœurderoy ha vissuto le giornate del ’48. Per lui quelle furono l’ultimo grido della rivoluzione giacobina. Dopo quel sussulto, nessuna altra illusione è più possibile, la prossima rivoluzione o sarà quella sociale o non sarà affatto una rivoluzione; o sarà la rivoluzione dei cosacchi che distruggeranno questa civiltà, o sarà un altro inutile bagno di sangue. “[Il 1848] non fu una sommossa di bottegai, ma una rivolta di angeli ribelli che poi non si risollevarono più. Tutto ciò che il proletariato di Parigi racchiudeva d’energia invincibile e sublime poesia cadde in quei giorni nefasti, soffocato dalla reazione borghese, come il frumento dall’erba sterile”.

Gli spiriti candidi, come il buon Nettlau, possono uscire impauriti dalla lettura di Cœurderoy, e cercare disperatamente di salvare il salvabile, in quanto, nella loro ingenuità, pensano che la tesi famigerata dei “cosacchi”, sia da valutarsi come tesi del “tanto peggio tanto meglio”. Nell’Introduzione al secondo volume dell’edizione Stock, Nettlau non sa a che santo votarsi per trovare una via di uscita. “Questa idea è stata evidentemente ispirata a Cœurderoy dall’attitudine della stampa reazionaria di Parigi che, all’epoca della repressione della rivoluzione ungherese da parte della Russia, faceva continuamente appello allo zar Nicola, in cui vedeva il salvatore dell’ordine. Alle notizie d’invasione che si avevano nell’aria, Cœurderoy applica il suo metodo traditore dell’analogia, e, paragonando la civiltà romana della decadenza a quella del suo tempo, il cristianesimo al socialismo, i barbari Germani di allora agli Slavi di oggi, conclude che, come allora, anche ai nostri giorni il progresso dell’umanità sarebbe possibile solo con una generale distruzione, come quella che mise fine all’Impero romano. Ecco quindi questa famosa teoria dei Cosacchi di Cœurderoy, teoria che ha tanto contribuito a farlo considerare come un semplice eccentrico e a non farlo prendere sul serio”. O santa ingenuità. Era proprio questo genere di pericoli che lo stesso Cœurderoy preannunciava quando scriveva: “Dio mio, salvatemi dai facitori di prefazioni”.

In realtà tutto il suo sforzo è diretto a separare due concezioni, contrarie l’una all’altra e nonostante tutto complementari, della rivoluzione. La prima si avvolge nell’illusione del quantitativo. La crescita numerica degli adepti è il suo scopo immediato, tutti gli sforzi che essa compie sono diretti a far propaganda (in tutti i modi) per aritmetizzare la gente. La seconda, pur tenendo conto dell’importanza del numero nelle faccende militari dello scontro, insiste nell’affermazione che la rivoluzione sociale è questione più ampia e complicata di una semplice crescita quantitativa e che, spesso, questa crescita non corrisponde col realizzarsi delle condizioni rivoluzionarie ma, per quanto strano possa apparire, ne costituisce un peso e un ostacolo.

I rivoluzionari del primo tipo sono quelli autoritari, ma, e qui risiede la cosa più pericolosa, comprendono anche quei libertari che si lasciano intrappolare dal metodo politico. Per i partiti cosiddetti rivoluzionari la cosa è legittima. Per gli anarchici e i libertari è assurda. La dimensione di lotta di questi ultimi è quella sociale, la rivoluzione che devono poter realizzare è quella sociale, il movimento rivoluzionario di cui preoccuparsi è il movimento che nasce dagli sfruttati e non si trova imprigionato né all’interno di una sigla, né all’interno di una espressione geografica. È il concetto di ciò che Bakunin chiamava: “il movimento anarchico delle popolazioni”. Ed è anche la negazione dei partiti e di ogni altra organizzazione quantificante. È anche la negazione del metodo politico.

Spesso i compagni si preoccupano che una data azione non procuri una “crescita” politica nelle masse, non abbia come conseguenza la politicizzazione di strati di sfruttati che – più o meno a ragione – essi considerano disponibili per la rivoluzione. Le esperienze più recenti [1981], particolarmente in Italia, ci hanno insegnato, tra l’altro, come non sia possibile fissare un rapporto specifico, determinabile a priori, tra un’azione rivoluzionaria, programmata e realizzata dalla minoranza, e le conseguenze “politiche” che questa azione sviluppa nella massa degli sfruttati. Si è andato dietro, per anni, ad un modello di lavoro politico, mutuato dagli stalinisti, insistendo nel tentativo d’imporre alla massa il portato analitico e pratico di una minoranza, attraverso comunicazioni di vario tipo (presenze fisiche ed elaborazioni letterarie). Per accorgersi dell’errore si è impiegato quasi un decennio. Ma, siccome si usciva da un periodo di quasi pace sociale, è più che giustificato che si facessero quelle esperienze. Meno giustificato è che si ritorni, oggi, ad insistere sugli stessi errori del passato, non vedendo, o facendo finta di non vedere, dove risiedono le cause di quegli errori.

Il nostro progetto rivoluzionario è quello sociale, esso considera lo stato attuale della politicizzazione degli sfruttati come uno degli elementi per l’intervento nella realtà delle lotte, uno degli elementi che condizionano la strategia nel suo globale disporsi, ma che non costituisce lo scopo esclusivo dell’intervento stesso. È ovvio che una data situazione di politicizzazione rende possibile un certo intervento, o, almeno, rende possibile un intervento all’interno di una parte degli sfruttati anziché di un’altra. Ma nulla di più.

Nel senso contrario, mettendo da parte il mero calcolo aritmetico, non è possibile in nessun modo valutare le conseguenze politiche di un’azione. Si tratterebbe di reggere la coda alle masse, non di svolgere quella funzione di stimolo che gli anarchici hanno come compito primario, e di svolgerla all’interno delle masse. Si possono valutare, invece, le conseguenze sociali e rivoluzionarie dell’azione, andando anche al di là di quella che è, oggettivamente parlando, la situazione politica in cui le masse si trovano. In caso contrario, che senso avrebbe il tanto parlare che si fa d’iniziativa rivoluzionaria come compito storico degli anarchici?

“Lavoro come il seminatore, secondo il tempo e il cielo. Quando c’è il sole canto, e quando piove grido... Siate meno violento! mi cantano nell’orecchio destro le persone come si deve, vi troveremo un editore. – Siate più francese e più democratico! mi soffiano nell’orecchio sinistro le persone un po’ meno come si deve, la nostra approvazione l’avete di già. – Lasciate da parte la filosofia, la forma biblica, magica, fate della buona polemica, un libretto terra terra; ammucchiate, bruciate, distruggete tutto; restituiteci Marat e Camille! mi urlano a bocca aperta persone come non si deve, e potete contare sul nostro appoggio”. Gli allettamenti sono diversi. Ogni tendenza del quantitativo ha le sue necessità propagandistiche e sollecita le analisi. Ogni rivoluzionario che coglie la giusta importanza della teoria, si preoccupa di trarre i dovuti insegnamenti dalla realtà dello scontro di classe. Questi insegnamenti, però, possono essere utilizzati nei due modi sopra descritti. Da una parte, per spingere all’incremento delle forze rivoluzionarie dirette alla conquista del potere; dall’altra, per rendere intelligibile la composizione del fronte di classe, allo scopo di lavorare nel senso della rivoluzione sociale. Ora, questa tendenza, se vuole essere liberatoria definitivamente, e non vuole illudersi con la sostituzione di un potere vecchio con uno nuovo, deve partire dall’autorganizzazione delle lotte degli sfruttati. Questa autorganizzazione è di già in atto, e costituisce, da sola, la proposta teorica più interessante che questi ultimi anni di lotte ci hanno fornito. Spetta alla minoranza rivoluzionaria anarchica non tentare – ancora una volta – di imporre a questo processo di strutturazione autorganizzato, forme organizzative che gli sono estranee.

Le esperienze del passato, specie se drammatiche come quelle vissute da Cœurderoy, debbono servire da insegnamento in questo senso.

Smettiamola con le inutili discussioni sull’individualismo e sulla sua contrapposizione agli organizzatori anarchici. Una tesi del genere non è solo superata dai tempi, ma è contraria allo sviluppo delle lotte. Non sarà certo il nuovo “partito” anarchico quello che risolverà i problemi della rivoluzione sociale, ma gli sfruttati autorganizzati, con la presenza degli anarchici, in quanto portatori, in senso specifico, delle più chiare tesi concrete intorno ai mezzi e alle possibilità dell’autorganizzazione. Questa presenza anarchica potrà essere fattiva solo a condizione che non pretenda imporre, dall’esterno, un modello preordinato di interpretazione della realtà, modello che, in quanto tale, solo per definizione verbale potrà dirsi libertario.

Spezzando il cerchio magico della rivoluzione giacobina e autoritaria, si ridà vita alle capacità autorganizzative degli sfruttati, si abbattono i miti della religiosità del lavoro, della insopprimibilità della guida, della moralità della sofferenza, della temporaneità del dominio. Il compromesso cade. Davanti allo sfruttato si delinea il meccanismo sfruttatore in tutta la sua allucinante rarefazione. “No, il destino dell’uomo sulla terra non è quello della bestia che conduce al lavoro. E i filantropi che gli mostrano all’orizzonte corpi dimagriti, anime disperate, patiboli e torture, apostoli del Dovere e del Sacrificio, non riescono nemmeno a farsi sentire dai più semplici. La Felicità è lo scopo verso il quale tutti gli esseri si dirigono, quando ascoltano la grande voce della natura”. Se il lavoro è il punto di partenza per la distinzione di classe, e non poteva essere diversamente per Cœurderoy, che aveva davanti la realtà della borghesia francese nel rigoglìo del proprio sviluppo, non è visto come lo scopo supremo dell’uomo. Onore al lavoratore, condanna per il dissipatore fannullone, che viene giustamente identificato con il borghese che ingrassa sulle spalle del produttore. Ma la vita, al di là del lavoro, la vita che una nuova società dovrà pure schiudere, la vita liberata, per cui lottiamo e per cui i nostri fratelli sono morti sulle barricate, non potrà mai essere regolata dall’orologio del tempo, dal meccanismo della fabbrica, dal levare e dal tramontare del sole sui campi che richiedono il sudore del contadino. La vita deve essere anche Felicità. “Affermo sulla mia anima, il Suicidio decimerà gli uomini fin quando non avranno trovato la via che conduce alla Felicità”. E altrove, approfondendo meglio: “Vi sarà sempre dolore nell’umanità, ne convengo. Ma non sarà più imposto da una classe sull’altra. Questo dolore colpevole, vero peccato originale, scomparirà grazie alla scienza della giustizia e dell’armonia, perché esso viene dall’ignoranza, dalla discordia e dalle iniquità”.

È l’alternativa problematica che esperienze recenti, dolorose e intime, hanno aperto davanti a molti compagni. È legittimo il sacrificio di tutto, anche di se stessi, per il proprio ideale? Oppure questo sacrificio, così visto, non è altro che la rimozione psicologica di un ostacolo reale che altrimenti non si riesce a spostare, cioè l’ostacolo dello scontro di classe che, almeno fino a questo momento, vede vincenti gli sfruttatori? La domanda non è trascurabile. La storia ha registrato spesso ondate successive di entusiasmi rivoluzionari e di riflussi. Cœurderoy vive il riflusso che succedette all’entusiasmo del 1848, e lo vive fino in fondo, fino al suicidio. Lo vive ponendosi questa straziante domanda: è legittimo il sacrificio di se stessi? È legittimo spingere l’azione tanto al di là del livello reale dello scontro di classe, anche se si è soli, fino al punto in cui si è costretti a concludere la sfida a livello personale, nella sola conclusione possibile, cioè quella del suicidio?

È chiaro che tutte queste domande intendono aprire la riflessione su di un argomento e non suggerire risposte obbligate, in un senso o nell’altro. Al momento presente dello scontro, sarebbe troppo facile fornire risposte di repertorio, che sarebbero anche giuste, ma che non aiuterebbero per nulla a uscire dal dilemma: vale o non vale la pena di vivere la vita? Il rivoluzionario cosciente, che lotta per la liberazione, il rivoluzionario anarchico, non grida mai “viva la morte”. Egli sa benissimo che il primo valore è la vita, la vita per tutti, ed anche per se stesso, la vita veramente vissuta; e sa pure che la lotta viene condotta per viverla questa vita, e per abolire quei simulacri di vita che non sono altro che morte.”E l’Uomo libero, Dio del futuro sarà bello, robusto, intelligente, buono e felice. Non avrà più interesse a fare il male, più pregiudizi, più terrori paralizzanti; svilupperà, nella loro pienezza, le facoltà e le sublimi passioni, ragionerà con l’attività della sua forza e con l’apertura del suo genio sulla natura vinta. E privo del sostegno celeste, il nero edificio della schiavitù cadrà. E della sua caduta risuonerà l’Inferno”.

Ma, per il momento, la lotta al coltello continua. Il potere è sicuro sulle proprie basi, i padroni ingrassano, gli sfruttati sopportano il peso della repressione. La lotta, in queste condizioni, è una lotta terribile, che trascina con sé la violenza, l’unico strumento con cui si può cercare di frenare lo strapotere della repressione. Di già l’uso stesso della violenza è qualcosa che il rivoluzionario compie a malincuore. In fondo, a nessuno di noi piace che si sia costretti a sparare sui criminali togati, sui giornalisti al servizio dei padroni, sui padroni stessi e che si sia costretti ad attaccare e distruggere quelle ricchezze prodotte dai lavoratori che, sotto altra veste, potrebbero essere distribuite a questi ultimi. È chiaro che tutto questo comporta un senso di amarezza. Da ciò, da questo sentimento iniziale, alla necessità che sentiamo urgere dentro di noi, di trasferire sugli altri questa nostra insoddisfazione, il passo è breve. Diventiamo, allora, inflessibili con noi stessi e con gli altri nostri compagni. Accomuniamo, nella stessa legge della colpa e della condanna, sfruttati e sfruttatori. Insistiamo perché le nostre organizzazioni, delegate a porre in pratica la giustizia proletaria, si fortifichino militarmente per essere in grado di realizzare gli scopi a cui sono dirette. Perdiamo di vista i pericoli di tutto ciò, le conseguenze che solo incautamente consideriamo marginali. Ci trasformiamo, a poco a poco, in automi, schiacciamo la nostra umanità, la nostra problematicità, ci facciamo forza, spegniamo dentro di noi il disgusto. Quanto prima facciamo ciò, tanto più bravi ci consideriamo. Tanto prima i nostri compagni fanno lo stesso, tanto più bravi ed efficienti li consideriamo. Tutto ciò ha troppo l’odore del cimitero. “Niente è più pericoloso dell’astuzia sistematica. Nella rivoluzione, i più abili diplomatici ricevono lezione dagli operai; in duello i migliori tiratori si fanno uccidere dai principianti. Non acuminate la lama del pugnale, non allevate lupi, non accarezzate aspidi, non mettete la mano sul fuoco, non giocate alla polizia con le spie”.

Il gioco alterno della vendetta e della guida è un gioco pericoloso. La vendetta è una strada diritta, facile a percorrersi: ha un solo difetto, alla fine della strada troviamo sempre un’indicazione obbligatoria: il vendicatore si è trasformato in nuovo tiranno. Adesso pretende essere ripagato per i sacrifici sostenuti e per i risultati raggiunti. Non ammette discussioni. Quando la nostra vita costa poco, non c’importa poi tanto se alla fine della corsa radiosa e vendicatrice troviamo l’ostacolo del vendicatore trasformatosi in guida permanente. Nella vacuità imposta dalle leggi del capitalismo, ci siamo abituati a vivere giorno per giorno, quindi siamo già contenti della corsa, i risultati finali passano in secondo piano. Ma non possiamo andare avanti così. La logica ferrea della rivoluzione finisce per trasformarci in automi, rivoluzionari ma sempre automi. La fuga dall’alienazione si conclude nel regno di una nuova alienazione. “Quando il presente è secco e vuoto come l’involucro d’una nocciola divorato dall’insetto perforante, dove abiterò? Quando trovo nel passato solo ricordi dolorosi, quando l’avvenire mi appare come il velo della notte, mi rassegnerò a non scoprirlo mai sotto un altro punto di vista? No. Perché se resto così ho la certezza d’essere infelice, inutile, un peso per me stesso e per gli altri. Perché il male distruggerà le mie facoltà. Languirò, morirò tutti i giorni senza mai essere morto”.

L’inutilità dell’esistenza impostaci dal capitale alimenta le legioni della vendetta, altrettanto e forse più della penuria e della miseria. Come regolarsi? Non è possibile denunciare a chiare lettere l’equivoco che si nasconde dietro la vendetta, l’unilateralità di questo sentimento, i pericoli della fredda razionalità che lo anima. Non è possibile denunciare questo perché le masse oppresse avvertendo lo stimolo, la necessità imperiosa di vendicarsi non accetterebbero dubbi in merito; considererebbero come controrivoluzionari tutti coloro che portassero in piazza questi dubbi. I residui religiosi che permangono fra gli sfruttati rendono possibile la strumentalizzazione del sentimento della vendetta da parte di ogni demagogo di bassa lega. Gli autoritari e le loro teorie non avrebbero spazio alcuno senza questo residuo religioso. Non importa precisare che l’origine di questo sentimento di vendetta è da ricercarsi nello sfruttamento stesso e che, quindi, risulterebbe legittimato. Non è la vendetta, presa in sé, quella che ci preoccupa, non è l’uccisione dei padroni e degli sbirri di ogni colore che ci impensierisce. Che muoiano una buona volta, che paghino pure il prezzo dei loro crimini; quello che ci preoccupa è la strumentabilità di questo sentimento, e la difficoltà oggettiva di denunciarne i pericoli senza correre il rischio di essere mal compresi. [È su altre basi che occorrerà riprendere il discorso sulla vendetta. Rotte le dimensioni del calcolo recuperatore, essa deve potersi aprire all’eccesso, all’oltrepassamento del limite di equilibrio che si lega al semplice rimettere le cose a posto].

La rivoluzione razionale, quella del dare e dell’avere, quella dell’aritmetica, è condannata preventivamente al fallimento. I contabili, dopo aver contato i cadaveri, passeranno a contare le proprietà e le ricchezze; e chi è delegato all’amministrazione (di cadaveri o di ricchezze) sa come fare aumentare, a proprio profitto, gli uni e le altre. Il fanatismo e la malvagità, ignari l’uno dell’altra, confinano pacificamente. Come sarà possibile costruire la società del futuro, libera e giusta, se i nostri attacchi contro la situazione presente, contro i responsabili dello sfruttamento attuale, sono condotti in nome di una religiosità ottusa che ci impedisce di vedere i limiti e le oggettive possibilità degli stessi attacchi, facendo ingigantire, davanti ai nostri occhi, i risultati e gli sbocchi di questi ultimi? Autoingannandoci non risolviamo nulla. I comunicati che rivendicano le nostre azioni sembrano bollettini di guerra, hanno il sapore delle sentenze dei tribunali. Quando mettiamo fine alla vita di una carogna di padrone, di sbirro, di giudice o di politico, ci sentiamo investiti della carica di carnefice e di boia. Chissà che non ci scorra nella schiena l’abietto brivido che deve pur sentire il massacratore autorizzato dal governo. Questo mi chiedo. Quando giustiziamo una di queste carogne, siamo personalmente e direttamente convinti di quello che facciamo, oppure rimuoviamo col mito dell’organizzazione il nostro gesto, oppure lo addebitiamo, nel suo insieme, alla “rivoluzione”, facendo carico a questo essere astratto le responsabilità della nostra decisione? E, agendo in questo modo, non facciamo la stessa cosa – sebbene per opposti motivi – di quella che fa il carnefice quando si ritiene autorizzato ad uccidere il condannato a morte per il semplice fatto che un giudice imbecille ha dato l’ordine?

Se la rivoluzione è questa, siamo davanti ad un equivoco. La razionalità risiede soltanto nell’organizzazione, nella religiosità residua degli atteggiamenti della massa, nella delega della mia vita. No. Questa non è altro che fantasia religiosa, trasformata in pseudorazionalità. Non ci accorgiamo che, in questo modo, mimiamo gli atteggiamenti del potere, i suoi tribunali, le sue dichiarazioni di guerra, i suoi proclami, le sue esecuzioni, la sua religiosità, la sua razionalità. Allora occorre battersi per una rivoluzione illogica.

Occorre spiegare, chiarire, fare ogni sforzo possibile perché cadano tutti gli equivoci. Occorre parlare ed agire in modo chiaro. Occorre che gli sfruttati comprendano che il lungo patire, i morti sulle strade e sul posto del lavoro, la secolare violenza esercitata dai padroni, la schiavitù delle fabbriche e delle campagne, e, per ultimo, il terrore della criminalizzazione, dei ghetti, della disoccupazione, della fame; tutto ciò costituisce il fondamento morale, l’autorizzazione ad ereditare il mondo. I borghesi hanno perduto ogni possibilità di sopravvivere in quanto tali. La società si sta modificando. Ma bisogna fare di tutto perché i loro princìpi – ultimo veleno – non penetrino nella nuova società, ultima freccia del parto.

La nostra non è, quindi, una vendetta ma un atto di giustizia. Non un atto tipico della giustizia dei padroni, che è sempre vendetta, ma un atto di giustizia proletaria. Le carogne che cadono sotto il fuoco proletario, il poliziotto, il giudice, il giornalista, il politico, non cadono perché devono “pagare” per quello che hanno fatto, non cadono perché le abbiamo registrate nel libro della contabilità dalla parte dei debiti. Esse cadono perché costituiscono oggettivamente un ostacolo sulla strada verso la liberazione definitiva. Quando facciamo fuoco su di loro, quando attacchiamo le fonti della ricchezza borghese, non intendiamo dare corpo agli istinti religiosi residui nella massa. A questo ci pensa l’alimentazione del carisma che viene portata avanti dal partito comunista. Noi vogliamo solo fare un passo avanti verso la liberazione. In questo modo, quando realizziamo un’azione del genere, quando partecipiamo ad un’azione di massa di tipo insurrezionale (ad esempio, un esproprio proletario), non intendiamo “vendicare” nessuno. È una strana teoria ed un ancor più strano modo di fare, quello di mettere in prima fila i nomi dei compagni caduti. Come se i proletari avessero bisogno di giustificare con la presenza dei propri martiri l’azione che compiono. I compagni caduti sono nei nostri cuori, ci indicano una strada, ma non possiamo registrarli nella contabilità dalla parte delle entrate, non costituiscono un nostro credito, spendibile quando vogliamo. Noi dobbiamo rifiutarci di utilizzare i nostri caduti per sollecitare gli istinti religiosi nella massa. Anche se questa può sembrare la strada più breve e più semplice, la strada più efficace per spingere gli sfruttati alla rivolta, è una strada che conduce diritto al pericolo della guida e del carisma. Non è necessario tener presente i nostri morti quando spariamo sul poliziotto, sul giudice, sull’uomo politico. Se spariamo è perché vogliamo andare avanti, perché vogliamo liberare la società del futuro dai lacci che la imprigionano in un presente pieno di equivoci e di confusione.

Ciò vale anche per noi stessi. Anche per le decisioni che prendiamo riguardo a quello che vogliamo fare di noi stessi, di come vogliamo disporre della nostra persona. Il potere ci offre continuamente un modello di utilizzo di noi stessi. Nel momento che lo rifiutiamo, superiamo una soglia che ci porta all’interno di una dimensione diversa. Dobbiamo sapere, con chiarezza, perché siamo entrati in questa nuova dimensione, che non è la dimensione di tutti, che non è la stessa di chi passa la sera davanti al televisore, segue appassionatamente le cronache dello sport e si sbalordisce per l’aumento della violenza sperando in cuor suo che lo Stato riesca presto a mettere tutti in prigione questi sovvertitori dell’ordine, prima che qualcuno arrivi a bussare alla sua porta disturbandolo mentre guarda il televisore. Perché abbiamo fatto questo passo? Perché dovevamo vendicare qualcuno? Perché gli operai muoiono nelle fabbriche e i padroni ci guadagnano sopra? Anche per questo, ma non solo per questo: non stavamo bene in quell’altra dimensione, perché ci va bene così; allora, cerchiamo di fare chiarezza e di non strumentalizzare un elemento che, se fa parte del problema, non è l’elemento più importante, anche se è uno dei più evidenti. Abituiamoci alla chiarezza. Non cerchiamo la strada del minimo sforzo. I risultati immediati e appariscenti non sempre sono quelli più duraturi.

Ora, se siamo noi i responsabili di noi stessi, se le decisioni che abbiamo prese e che prenderemo, le dobbiamo riportare solo alla nostra coscienza di rivoluzionari, perché dovremmo far carico all’organizzazione di alcune nostre azioni? Perché quando decidiamo di vivere diversamente siamo noi che decidiamo e quando premiamo il grilletto del fucile per uccidere una carogna di sfruttatore, è l’organizzazione che ci dice di premerlo? Forse perché l’organizzazione ha sempre ragione, o, almeno, più ragione del singolo? No, la cosa non è convincente.

“Mi sono impegnato su di una strada sapendo bene dove mi condurrà; ma mi sono detto: trascinare la mia vita nell’oziosità dell’esilio è come morire ogni giorno ancora più dolorosamente, e con meno coraggio. Pertanto, marcerò senza paura. Fino alle officine dove l’uomo soffre, fino alle bicocche dove la vergine si prostituisce, fino agli orfanotrofi dove si martirizzano i poveri bambini... andrò. E perseguiterò i governi nel loro prestigio, i partiti nella loro ipocrisia, i privilegi nel loro furto, i giudici e i carnefici nel loro crimine legale, la famiglia nella sua prostituzione, le nazioni nel loro isolamento, gli uomini nel loro servilismo. Fin quando la mia voce potrà essere sentita, oserò; fin quando la mia energia vivrà, oserò; fin quando dureranno le mie forze, oserò sempre”.

Il dramma è proprio qui. Quando vado avanti, spinto dalla mia decisione, tutto va bene, sono io che decido e sono cosciente di decidere. Quando sorgono gli ostacoli, quando sono costretto a combattere contro la violenza e il terrorismo dello Stato con le armi della violenza, cosa che ripugna a tutti perché uccidere è cosa ripugnante, allora ho bisogno di un sostegno più ampio alla mia decisione, e mi faccio scudo con l’organizzazione, con la religiosità, con la vendetta, con il mito. Quando prendo la suprema decisione nei confronti di me stesso, agisco perché sono io a decidere, ma ho bisogno di un alibi, anche davanti a me stesso, oltre che davanti agli altri. Il mio sacrificio non può apparire solo come frutto della mia decisione, occorre che venga considerato come un fatto di cui tutti gli altri sono responsabili. Non mi basta che per me sia un passo avanti verso la liberazione, mi occorre anche che lo sia per gli altri, per l’organizzazione, per l’opinione corrente, almeno all’interno della dimensione nuova in cui mi sono venuto a trovare. Quando dispongo di me stesso non lo faccio perché voglio realizzare una vendetta, anche se a riconoscere fondata questa vendetta siano centomila o cento milioni di compagni. Lo faccio perché ritengo di fare avanzare la lotta per la liberazione, non solo di tutti, ma anche mia. È anche la mia lotta, per liberare me stesso, quella che deve fare un passo avanti. Non posso sacrificarmi per liberare gli altri se questo sacrificio non è, per me, una liberazione da uno stato di sofferenza che era ben peggiore del sacrificio stesso. “Per distogliermi dal suicidio non ditemi che devo compiere una missione, quella di vivere, e che devo farlo fino in fondo. Perché avere un carico simile vuol dire essere condannato, obbligato, schiavo. Perché faccio solo quello che mi piace, salvo forza maggiore; e ho, almeno, per consolazione in questa vita, la certezza di potermene sbarazzare quando lo giudicherò utile. Per altro vi domando: chi avrebbe avuto la missione d’impormi questa missione? A chi devo riconoscerne il diritto? Quando e come?”.

Ma non bisogna pensare che quando cerchiamo di fondare il nostro atteggiamento sulla religiosità residua degli sfruttati, quando agitiamo davanti a loro il drappo rosso della vendetta, quando saliamo sul podio per fare i nostri infuocati discorsi, capaci di smuovere le masse; non bisogna pensare che lo facciamo solo perché siamo agitatori di professione, perché abbiamo bisogno di contare e di valutare la crescita quantitativa di coloro che ritengono necessario e improrogabile battersi per distruggere il dominio degli sfruttatori. Questo è, senza dubbio, uno dei motivi. Ma ce n’è un altro, non meno importante. Noi abbiamo bisogno di fondare sugli altri la nostra opinione, abbiamo la necessità di non sentirci soli. Anche se abbiamo deciso di entrare in una dimensione diversa da quella imposta dal potere, abbiamo bisogno che in questa dimensione vi si trovino altri compagni. La presenza dei compagni ci è indispensabile, ci rende più forti, più convinti, più saldi nelle nostre decisioni. Quale altro motivo avrebbero le riunioni periodiche, i convegni, i congressi, i dibattiti pubblici, se non quello di vedersi, di parlare insieme, di “stare insieme”? Il motivo di discutere le tesi teoriche e di prendere decisioni è, spesso, decisamente secondario, davanti al motivo principale di sentirsi uniti e insieme.

E quando con noi ci sono anche le masse, la forza che questa moltitudine ci infonde è veramente incredibile. Quante concessioni non siamo disposti a fare pur di sentircela accanto, oppure pur di sentirci all’interno della massa, partecipi di un movimento unitario di azione, di una forza collettiva in movimento verso un obiettivo che confusamente identifichiamo come liberatorio. Spesso queste concessioni sono gravi, ma non ce ne accorgiamo, vi passiamo sopra, attirati dal calore umano, dal momento collettivo, dalla forza delle grandi manifestazioni di massa, dalla speranza che si verifichi un subitaneo salto qualitativo, una colossale presa collettiva di coscienza di classe. Ma quelle concessioni pesano, diventano catene, causano gravi conseguenze. Lo abbiamo visto in Spagna, potremmo vederlo un’altra volta a breve scadenza. Non ce ne curiamo. Siamo anche pronti a dare una piccola spinta in avanti alla religiosità residua delle masse, a sopportare l’emersione di piccoli leader, a dare spazio a pallidi personalismi. Speriamo che tutto si aggiusterà, che l’unione ci renderà forti, immuni dai pericoli del contagio. Non ci rendiamo conto che da certe malattie non ci si salva.

Certo è bello essere tra compagni, sentirsi compartecipi di un’affinità elettiva che raccoglie tutti in un unico fascio, è bello finalmente essere in una dimensione tanto diversa da quella a cui la gestione capitalista ci ha abituati, dell’uno contro l’altro, dell’antagonismo. La solidarietà e il reciproco affetto si sostituiscono alla concorrenza spietata e ci fanno sentire bene, fisicamente a posto. Ma non bisogna dimenticare, anche in queste situazioni ottimali, che per prima cosa noi dobbiamo essere a posto con noi stessi, che se abbiamo dubbi o tentennamenti, approssimazioni o compromessi, non sarà certo la presenza dei compagni che li farà sparire. Ci faremmo una pia illusione. La fermezza delle nostre idee potrà fortificarsi nella presenza dei compagni, mai nascere dal nulla, senza nessuno sforzo da parte nostra. Se noi, personalmente, non siamo convinti di quello che siamo e di quello che facciamo, finiremo per farci trascinare dalla situazione, e, proprio per questo, pretenderemo che l’insieme dei compagni, quella collettività che tanta forza umana emanava per il semplice fatto di trovarsi insieme, si trasformi in un organismo ufficiale, in un’organizzazione capace di assumersi quelle responsabilità che, in quanto singoli, non sappiamo o ci rifiutiamo di assumere.

È proprio qui che ci aspetta il potere. Esso sa attendere quanto basta per coglierci soli, sa agire per isolarci, sa macchinare per metterci in cattiva luce davanti agli sfruttati, sa scagliarci gli uni contro gli altri. Una volta isolati può scegliere tra due strade: criminalizzarci rinchiudendoci in carcere o squalificarci decretando che siamo pazzi. Tra queste due istituzionalizzazioni totali, la tendenza del potere moderno è quella di scegliere la seconda. I pazzi non si ribellano: sono pazzi e basta. Dobbiamo essere preparati alla solitudine, all’isolamento, alla pazzia. Se le nostre uniche forze consistevano nell’organizzazione, nel sentirci insieme agli altri, quando questo non dovesse essere più possibile, il potere ci distruggerà facilmente.

Cœurderoy, che tanta forza manifesta in diverse occasioni, ha parole di paura e di sgomento per questa eventualità. “Pazzo! Questa parola mi spaventa; non voglio diventarlo. Mille morti piuttosto che una parola di pietà sprezzante, piuttosto che la dittatura materiale dei medici o le divagazioni psichiche dei sapienti! No, non lascerò la mia anima a questa torturante dissezione! A vent’anni ero interno alla Salpètrière e vi curavo i pazzi: mi chiamavano filosofo. Oggi, se mi rinchiudessero a Bicêtre, mi chiamerebbero pazzo. Lavorate dieci anni della vostra vita per arrivare a questo risultato!”.

Queste paure sono anche nei nostri cuori e non possiamo esorcizzarle rinviando le responsabilità del nostro agire sull’organizzazione, camuffandoci nelle vesti del vendicatore. Il potere ci colpisce perché vogliamo liberarci e, per questo, vogliamo distruggerlo liberando tutta l’umanità. Questo è il senso della rivoluzione, la quale, in quanto sovvertitrice delle condizioni della razionalità che ha reso possibile lo sfruttamento, è una vera e propria rivoluzione illogica.

Il principio della rivoluzione che procede ritmicamente, scandito dalle vicende della dialettica marxiana, è svanito sanguinosamente davanti alla realtà dei fatti. Dalle concessioni fatte dai teorici marxisti alle manie di grandezza del partito socialdemocratico tedesco è uscita l’alleanza con Bismarck. Dalle prospettive di conquista del potere di Lenin sono usciti lo stalinismo e i campi di lavoro. Il popolo russo è passato dal dispotismo degli zar al dispotismo dei funzionari del partito comunista. In tutto questo, l’ombra dei socialismo è apparsa solo su iniziativa del popolo, nelle lotte e nelle organizzazioni spontanee degli sfruttati. Ma è stata immediatamente ricacciata indietro dai funzionari e dagli uomini del potere, inneggianti alla razionalità e alla scienza, all’ordine e alla dittatura del proletariato. Quante cose sono state fatte in nome degli sfruttati! Gli antichi despoti uccidevano in nome di Dio e del Popolo, i despoti moderni, esercitando la dittatura in nome del proletariato, uccidono nascondendosi dietro la bandiera rossa. Ognuno si camuffa come meglio crede. Tutto avviene all’insegna della razionalità, dell’efficienza e della scienza.

Il vecchio Marx aveva sollecitato amorosamente un idillio col vecchio Bismarck, illudendosi che dalla crescita della borghesia tedesca si avesse, per effetto dialettico, la crescita del proletariato tedesco. Niente da fare. Le questioni della logica sono sempre legate a faccende quantitative. In esse vi mette sempre mano il potere che con l’aritmetica sa lavorarci bene. L’irrobustirsi dello Stato – diceva Bakunin – è sempre un fatto negativo per gli sfruttati. Sembrerebbe una verità tanto chiara che quasi non ci sarebbe bisogno di metterla in discussione. Ma i sofisti tedeschi, degni discepoli del sommo padre Hegel, non la pensano così. Nel 1872 Bakunin scriveva: “In questo momento non ci sono che due forze capaci di rovesciare questo mondo corrotto dell’Occidente politico e borghese. Sono i barbari esterni, gli Slavi forse, guidati dai Russi, e seguendo la strada che avranno loro preparata e mostrata i Tedeschi prussianizzati; o meglio i barbari interni, il proletariato. Se saranno i barbari slavi che saranno destinati a rendere questo ultimo servizio al vecchio mondo dell’Europa come lo avevano reso i barbari germanici, quindici secoli fa, al mondo greco-romano, è certo che la civiltà umana retrocederà di alcune centinaia d’anni, almeno. Ciò sarà un fatto naturale, come lo fu l’invasione conquistatrice dei Germani, ma nello stesso tempo un’immensa disgrazia, per i conquistatori non meno che per i popoli vinti... Dunque nell’interesse dell’umanità, della civiltà e dell’emancipazione universale, dobbiamo tendere con tutti i nostri sforzi affinché l’inevitabile rovesciamento del mondo politico e borghese sia compiuto non per mezzo di un’invasione di Slavi, ma per l’insurrezione del proletariato; affinché la prima, che non potrà mancare di riversarsi sull’Occidente se la seconda non arriva o arriva troppo tardi, sia prevenuta dalla seconda. Tanto questa opera di distruzione, se sarà fatta con l’invasione dei barbari dall’estero, sarà funesta alla civiltà umana, quanto essa le sarà salutare se sarà compiuta dai barbari di dentro, dallo stesso proletariato dell’Occidente”. (Ai compagni della Federazione delle sessioni internazionali del Giura).

Si tratta praticamente della tesi di Cœurderoy, che Bakunin non conobbe ma di cui sentì certamente parlare da Herzen che era entrato in contatto con l’anarchico francese. Il richiamo ai barbari è contenuto in due libri di Cœurdeory: La Rivoluzione nell’Uomo e nella Società, che è del 1852, e Hurrah! o la Rivoluzione con i cosacchi, del 1854. Ma la tematica della distruzione che i barbari realizzeranno della nostra civiltà, è portata avanti in I giorni dell’esilio. “Non ho sistemi o conclusioni da presentare; non posso e non voglio: non desidero nulla. E qualora volessi stabilire un governo tipo Licurgo o tipo Icaria, o qualche organizzazione di lavoro – cosa molto facile – non lo potrei. Guardate cosa resta dei magnifici piani di riedificazione dei Signori: Owen, Étienne Cabet e Louis Blanc! Di Fourier restano soltanto le sue giuste critiche, le analogie universali e le grandi predizioni. Chi si occupa di scienza sociale può fare soltanto una cosa: sottolineare con una matita rossa gli edifici che devono sparire. L’uomo è troppo limitato per comprendere l’insieme degli oggetti e dei secoli che concorrono alla ricostruzione sociale. Solo l’umanità nel suo insieme può ricostruire; eterna e signora della propria azione”.

E la scienza? Il grande mito della razionalità che regge il dominio dei potenti? Non è forse facile cadere nell’equivoco di costruire la rivoluzione sul modello della ragione dogmatica e onnipresente o su quello della ragione dialettica che tutto è capace di assorbire, anche se stessa? Non è forse altrettanto facile gettare la croce addosso a coloro che non accettano gli ordini “scientifici”, che avanzano dubbi e che hanno il coraggio di mettere in discussione le opinioni dei sapienti?

“Ho morso, pieno di avidità, il frutto della scienza e mi sono rotto i denti. I dottori ridono, loro che tagliano i frutti saporosi con coltelli d’argento dorato e lasciano il nocciolo ai segretari”. “Uomo, guardati dall’analisi. L’affanno è al fondo di ogni esame troppo approfondito di se stessi, come la feccia nel fondo del liquore puro. Questo avvoltoio si accanisce sull’uomo, ghiaccia il suo ardore e beve il suo sangue”. “L’Avvenire rinnegherà la Scienza di oggi! – La Scienza pedante che taglia, innervosisce, paralizza, abbrutisce! La Scienza diplomata dal Privilegio, gelosa delle sue prerogative, facile ai potenti, dura per i poveri! La Scienza idropica, pletorica, titubante, livida, che diffonde nel mondo il delirante balbettìo, le tenebre della cecità, la miopia e gli sguardi cattivi! La Scienza che si chiude a doppia mandata nel santuario infetto dove accatasta storte, catene, veleni, cadaveri e malati! La Vecchia calva che si trascina, vergognosa, a rimorchio della giovane Scoperta dalle trecce profumate! La noiosa, la testarda, l’addormentata che sragiona! L’ignorante, la superba, che nasconde la propria impotenza sotto le lunghe frasi avvolte negli abiti smessi dei Greci! L’Intrigante, l’avara, la ladra, la falsaria, l’usuraia, la plagiaria, che si appropria dei lavori dei nemici e li snatura traducendoli nel suo spaventoso libro magico! L’antica, l’accademica, la vecchia prostituta che separa la propria cassa da quella dell’umanità, che specializza, insozza, strangola tutti i problemi che tocca separandoli dalle grandi questioni d’interesse generale! La Scienza codarda che prende sempre a calci le vittime dell’ingiustizia sociale!”.

Ecco le condizioni del rovesciamento, le condizioni della rivoluzione. Se la scienza è quella dei potenti, potrà diventare la scienza rivoluzionaria non solo con un uso diverso, ma anche con un metodo diverso. Non sarà utile ed anche indispensabile alla rivoluzione perché saranno altre persone ad utilizzarla, ma lo sarà solo a condizione che il suo interno organizzarsi, la sua ragione d’essere, le sue prospettive e la sua metodologia saranno profondamente modificati. E questa è opera rivoluzionaria che non potrà mai venire dagli stessi sapienti, tutti presi a disputarsi il frutto della scienza, che, al momento presente, è frutto di potere, capacità di ricchezza, modo di sfruttare i deboli e gli indifesi. Questa nuova metodologia dovrà venire dall’esterno. Essa sarà – secondo Cœurderoy – la metodologia distruttiva dei barbari, la stessa che scatenerà la rivoluzione contro la civiltà che ha eretto i cimiteri al posto delle città.

È la stessa razionalità del monopolio che ha reso schiava la donna. La razionalità della famiglia, base prima dello sfruttamento. Non possiamo fare di questa stessa razionalità la base della rivoluzione. Il risultato sarebbe spaventoso.

“Uomini, l’avvenire vi punirà, perché avete fatto la legge perfettamente a vostra immagine: senza delicatezza, senza amore e senza giustizia; perché l’avete redatta totalmente in vostro favore: vigliacca, oppressiva per la donna, infallibile, irrevocabile, indiscutibile, irreversibile; insulto alla natura, obbrobrio all’umanità! Ignoranti insensibili, che tramite le vostre assemblee, i vostri concili, i vostri preti e i vostri oratori, avete osato dichiarare che la donna, la divina donna, è di natura inferiore alla vostra, d’argilla più grossolana, d’essenza meno eterea! – Bruti, che cercate di convincerla che è venuta al mondo per curarvi con zelo, servirvi con obbedienza, frizionarvi con amore, quando piaccia a voi! – Ignobili, cupidi, che la vendete come vostra schiava o vostro possesso! Vigliacchi che la rinchiudete, l’incatenate, la deformate, la mutilate, l’imbavagliate, l’annichilite, la ripudiate, la schiaffeggiate, la battete con mille colpi, la lapidate con mille pietre, la torturate con mille torture!... Saggi, e sapienti, e santi, e galanti, e Frrrancesi che la tenete sotto perpetua tutela!”.

E la distruzione di tutto ciò sarà fatta solo capovolgendo la base che giustifica e regge lo sfruttamento: quella razionalità codificata dalla scienza borghese. La rivoluzione sarà profondamente illogica per la logica dei padroni, mentre apparirà chiaramente logica per la logica degli sfruttati. La barbarie dei distruttori, di quelli che erediteranno il mondo, la barbarie di quelli che il mondo hanno costruito col proprio sudore per consegnarlo nelle mani dei padroni e che, proprio per questo, possono in qualsiasi momento ricostruirlo, ma su basi diverse; questa barbarie sarà il fondamento della nuova rivoluzione, della rivoluzione definitiva, della rivoluzione sociale.

“Rivoluzionari anarchici – diciamolo altamente – non abbiamo altra speranza che nel diluvio umano, non abbiamo altro avvenire che nel caos... Il Disordine è la salvezza, è l’Ordine. Che cosa temiamo dal sollevamento di tutti i popoli, dallo scatenamento di tutti gli istinti, dalla distruzione di tutte le dottrine?... Esiste forse disordine più spaventoso di quello in cui siete ridotti, voi e le vostre famiglie, e una povertà senza rimedio e una mendicità senza fine? Esiste confusione di uomini, di idee e di passioni che possa essere più funesta della morale, della scienza, delle leggi e della gerarchia di oggi? Esiste guerra più crudele di quella della concorrenza in cui vi accanite disarmati? Esiste morte più atroce di quella per inazione che vi è fatalmente riservata?”. “Non ci sarà più rivoluzione finché i Cosacchi non caleranno... Se voi mi dite che sono dei Cosacchi, vi risponderò che sono uomini. Se mi dite che sono ignoranti, vi risponderò che è meglio non sapere nulla che essere dottore o vittima dei dottori. Se mi dite che sono curvi sotto il Dispotismo, vi risponderò che hanno solo bisogno di raddrizzarsi. Se mi dite che sono barbari, vi risponderò che sono più vicini al socialismo [...]”.

Questo il senso più alto dell’esperienza di Cœurderoy. Nel cambiamento che si verifica nella storia, si annida un pericoloso permanere; nella razionalità che il progresso sviluppa, si nasconde un pericoloso elemento di potere. Come si può lottare per il cambiamento rivoluzionario evitando il cristallizzarsi dell’autorità? Come si possono controllare i pericoli della razionalità, spinta freddamente fino alle sue estreme conseguenze? Questi i grandi quesiti di Cœurderoy, che poi sono gli stessi che la vita ci pone davanti tutti i giorni, che le nostre esperienze rivoluzionarie attuali indicano come decisivi per le sorti della liberazione.


[Introduzione a I giorni dell’esilio, vol. I, tr. it., Edizioni Anarchismo, Catania 1981, pp. 5-22, rivista e corretta per l’edizione completa in 3 voll., Trieste 2013]

* * * * *

Nota: I seguenti tre articoli, scritti prima e dopo la guerra del Golfo, possono oggi essere letti, alla luce dalla guerra in Serbia, senza modificare una sola parola.

Gli eroi tornano a casa stanchi e carichi di gloria,
ma nessuno guarda le loro mani.
Per non vedere il sangue di migliaia di morti
ognuno guarda la bandiera garrire nel cielo del mattino.

Il ritorno degli assassini

Un pugno di uomini è tornato a casa accolto a reti unificate dall’entusiasmo o dalla perplessità della gente.

Ha fatto maggiore notizia il ritorno di alcuni di loro dalle prigioni irakene, dove erano rimasti per qualche tempo dopo essere stati catturati. Alla gioia per il ritorno si è aggiunta, per questi ultimi, l’esultanza per la liberazione.

Fra le tante chiacchiere che sono state fatte in questi ultimi tempi [1991] in merito all’andamento della guerra del golfo, le manifestazioni di giubilo per il ritorno degli “eroi”, costituiscono forse il punto più disgustoso raggiunto non solo dai grandi mezzi d’informazione, ma anche dalla mentalità media della gente, attonita e passiva osservatrice di quanto accade sul palcoscenico del mondo.

La maggior parte di questi uomini è costituita da piloti da bombardamento, ex prigionieri o meno, i quali nel corso di migliaia di missioni aeree hanno ucciso più o meno diverse decine di migliaia di persone. Non è questo il luogo per fare il conto di quanti uomini, donne, bambini, vecchi sono morti durante l’ultimo massacro generale, come non pensiamo sia il caso di lamentarsi più di tanto sulla natura distrutta dall’inquinamento e sulla fauna macellata dalla carestia e dalle bombe. Vogliamo soltanto fare una semplice riflessione: i festeggiamenti di cui parliamo sono stati fatti per il ritorno di un manipolo di assassini.

Per quanto possa essere strano, una considerazione come la nostra stenta ad entrare nella mentalità comune, assediata dall’esultanza prezzolata dei vari rotocalchi dediti alla costruzione della figura eroica del pilota “fiaccanuvole”, sulla scia dell’intramontabile romanziera di casa nostra, la fascista di vecchia data Liala. Stenta ad entrare perché il fascino dell’aviazione si fa presto a ricostruire purché si tratti di aerei che volano per gettare bombe sulle teste altrui e non sulle nostre. E questa, se mai ce ne sono state altre dello stesso tipo, è stata la guerra “aerea” per eccellenza, la guerra che ha utilizzato il sistema dei bombardamenti a tappeto meglio e più intensamente di quanto sia accaduto in passato.

Per evitare che ad una riflessione più a sangue freddo qualcuno ci torni sopra criticamente, considerando in modo più adeguato le responsabilità individuali di questi eroi dell’era tecnologica avanzata, i lungimiranti comandi di stato maggiore hanno evitato di fornire troppe indicazioni, tranne per coloro che essendo stati fatti prigionieri avevano di già visto in circolazione il proprio nome e le proprie immagini, sia ad opera della propaganda del regime irakeno, sia ad opera degli stessi grandi mezzi d’informazione, irresistibilmente attratti da questo tipo di notizie spettacolari.

Anche la straordinaria trovata delle bombe intelligenti, che ormai sembra essere stata accantonata dai comandi americani come insostenibile, trovata che comunque continua ad essere impiegata in Italia, si è rivelata un modestissimo espediente per coprire con un velo le vergogne del mestiere più vecchio del mondo: quello dell’assassino a pagamento.

Non regge nemmeno l’idea peregrina che il regime di Saddam Hussein si sia reso responsabile di atrocità nei riguardi dei prigionieri kuwaitiani, cosa quest’ultima che sembra provata e che comunque possiamo dare per scontata in quanto si tratta di comportamenti “normali” per i soldati di tutto il mondo, idea peregrina che non regge in quanto non si può giustificare un massacro come atto punitivo di un altro massacro.

Resta quindi il fatto, incontrovertibile, che alcuni gruppi di potere, dispiegati e operanti a livello internazionale, collegati con gli interessi industriali dei paesi più avanzati economicamente, hanno prodotto e venduto armamenti all’Iraq, spingendolo verso una guerra che in fin dei conti ha causato in primo luogo altri guadagni per i medesimi gruppi di potere politico ed economico, se non altro perché miliardi di dollari sono stati spesi in poco tempo nel grande crogiolo bellico kuwaitiano. Accanto alle responsabilità di questi mandanti si collocano comunque, e non in secondo piano, le responsabilità di tutti coloro che agendo da assassini a pagamento hanno sganciato sulla testa di migliaia di persone un incalcolabile quantitativo di bombe.

A ognuno il suo.


[Pubblicato su “Provocazione” n. 27, maggio 1991, p. 3]

La sporca guerra

Non è stato difficile in questi ultimi mesi [1991] leggere anche sulla stampa anarchica affermazioni di grande sorpresa, e conseguente sdegno, per lo scoppio della guerra nel Golfo, per la partecipazione dell’Italia, per la prima volta dopo diversi decenni, ad un conflitto vero e proprio. Come dire che una guerra con tanto di ufficialità, con contrassegni militari tricolori in campo, è sempre un’altra cosa, molto più grave e molto più diretta di un altro tipo di guerra, soltanto strisciante, sotterranea, meno visibile e quindi, in definitiva, meno importante.

Senza dubbio, a voler considerare le cose con un poco d’attenzione, il nostro pacifico paese, con tanto di carta costituzionale eloquente in merito, non ha mai smesso di “fare” la guerra e propriamente su due fronti: da un lato, sul fronte interno, quello della lotta di classe, imponendo con uno spaventoso apparato di controllo e repressione, condizioni precise di sfruttamento a favore della classe dominante; dall’altro lato, sul fronte internazionale, fornendo a molti paesi, fra i quali l’Iraq, ironia non voluta, forniture di armi di ogni genere, da quelle convenzionali a quelle chimiche, per non parlare delle parti di armi nucleari o di sistemi d’arma. Perché allora tanta meraviglia?

Un motivo c’è, anche se non è facilmente visibile. La gente non riesce a cogliere le sfumature dei controlli internazionali disattesi sui traffici di armi e non si meraviglia più di tanto quando trova parallelamente autorizzazioni e sequestri di armi relativi a contrattazioni per cifre da capogiro. Nello stesso tempo, un immenso sistema propagandistico tende a separare e a imporre un’accurata separazione tra il mondo produttivo nel suo insieme, la realtà sociale e la concezione della guerra di classe in corso. Non sono molti coloro in grado di cogliere connessioni che tutto tende a nascondere. Ecco perché la gente si impressiona nel sentire parlare di guerra, specialmente di “guerra effettivamente guerreggiata” con tanto di campi di battaglia, di scontri aerei, di bombardamenti, di allarmi, di rifugi, massacri, cadaveri sventrati e patetici resoconti di improbabili cronisti sul luogo dello scontro. E impressionandosi, si interessa. Quindi si rende disponibile alla strumentalizzazione, sia da parte “pacifista”, sia da parte “interventista”. L’ignoranza è madre di ogni disponibilità alle tesi altrui.

Ma gli anarchici dovrebbero fare un po’ più d’attenzione. Il fatto di essere da sempre in guerra esime dalla “dichiarazione” di guerra, faccenda puramente formale che non può assolvere, come di fatto non assolve, i massacratori che materialmente esercitano il mestiere di assassini. E lo “stato di guerra” permanente consente di passare con facilità ad azioni che non sono minimamente programmabili in quanto dipendono da interventi internazionali con cui ogni singolo Stato cerca, senza riuscirci, di sposare i propri interessi economici e politici con quelli degli altri Stati.

La nostra azione dovrebbe essere quella di incidere costantemente, e quindi preventivamente, sulle cause che portano alla guerra, che rendono possibile la guerra, che la sollecitano come grande consumatrice di armi, che la incorporano nella vita di tutti i giorni della gente, che la trasformano in condizioni “normali” di sopravvivenza. Ogni elemento della realtà attuale, così com’è progettato e realizzato dagli Stati, imposto e mantenuto contro la volontà e gli interessi dei singoli, diffuso e spacciato in nome di un beneficio ideologico sempre meno plausibile; ogni elemento dovrebbe essere smontato, attaccato, rimesso in discussione dagli anarchici, collegato con tutti gli altri elementi sociali ed economici che lo giustificano e reggono.

La funzione anarchica è ancora intatta, dopo secoli dal suo sorgere e configurarsi come movimento di idee e di azione, proprio perché si assume il compito di affrontare questa secolare, se non millenaria, attitudine del potere verso la guerra e verso l’uso della guerra come gestione degli interessi della classe dominante. Ma non si deve commettere l’errore di considerare la nostra opposizione alla guerra qualcosa di limitato ai momenti in cui questa diventa “ufficiale”, anche se questi momenti, intesi come aspetti di un’attività statale semplicemente più scoperti di altri, possono richiamare di più l’attenzione o richiedere maggiori approfondimenti di dettaglio.

In ogni caso, quello che potrebbe essere considerato un errore analitico, un difetto di valutazione, si trasforma in errore sostanziale, non appena si riflette sul fatto che considerando la “guerra nel Golfo” in quanto accadimento in sé concluso, e adesso semplicemente messo in archivio, si dà via libera alla guerra effettiva, quella che tutti gli Stati non hanno mai cominciato, né per questo hanno mai smesso, la guerra che ci contrasta tutti continuamente e della quale la guerra “ufficiale”, come l’ultima che abbiamo tutti vissuto, costituisce soltanto un aspetto particolare.

Non è così accettabile la tesi di un generico pacifismo, puntualmente risfoderato tutte le volte che si verificano avvenimenti spettacolari che a livello dei grandi mezzi d’informazione prendono il nome di “guerre” vere e proprie. Il pacifismo commette qui l’errore classico, che lo inchioda alla sua tradizionale inazione, quello di pensare che questi momenti che potremmo definire visibili, siano da considerarsi come tragiche parentesi in un’attività statale al contrario non bellica. Il pacifismo insiste così, anacronisticamente, per una cessazione della guerra e per un ritorno alle condizioni di pace che caratterizzavano il periodo precedente alla dichiarazione delle ostilità, come se quel periodo potesse veramente considerarsi un periodo di “non guerra”. Si comprende così, che non è possibile chiedere allo Stato di concludere la pace, di sospendere la guerra, per il semplice fatto che esso è sinonimo di guerra, in quanto senza la guerra non ci sarebbe Stato. Sarebbe come chiedere allo Stato di abolirsi da sé, cosa che neanche i più dissennati pacifisti hanno mai sostenuto.

Lo Stato non può rinunciare alla guerra, non solo come espediente per risolvere i conflitti politici in altro modo, quindi alla guerra nel suo aspetto platealmente visibile, ma principalmente non può rinunciare alla guerra nel suo aspetto costante, alla guerra come gestione della realtà sociale, come controllo della vita umana, come repressione e limitazione di tutti gli stimoli di libertà e di uguaglianza. Chiedergli questo è non solo inutile da un punto di vista rivoluzionario, ma perfino funzionale alla stessa gestione del dominio, in quanto contribuisce proprio a costruire quegli alibi di comodo che fanno presentare la guerra come una necessità a cui si ricorre in momenti estremi per fronteggiare gli attacchi alla libertà fatti da tiranni e dittatori.

Gli anarchici sono da sempre stati contro ogni dittatura e contro ogni tirannia, ma non hanno mai condiviso un’ipotesi di lotta che li veda arruolati sotto le bandiere di un qualsiasi Stato cosiddetto democratico o liberatore. Per la verità, qualche volta c’è stato qualcuno di loro che ha affermato qualche possibile differenza, come è il caso di Kropotkin e soci in occasione della stesura del “Manifesto dei sedici”, al momento della Prima guerra mondiale, e come è stato il caso, adesso, della dichiarazione di Mazzucchelli [ultima delle sue nefandezze in vita] diretta a giustificare l’intervento italiano nel Golfo, dichiarazione trasmessa dalla televisione. Ma si tratta di errori più o meno clamorosi, più o meno giustificati dall’idiozia senile o dall’occasionale mancanza di intelligenza politica. Al di là di queste eccezioni, resta il fatto che gli anarchici hanno da sempre sostenuto un loro metodo per lottare contro le tirannie e i domini, come contro qualsiasi altra forma che lo Stato riesce a darsi, anche quella democratica e perbenista: l’organizzazione della lotta dal basso sulla base delle possibilità e delle necessità della gente, partendo da piccoli gruppi, costituendo una rete valida di resistenza, non modellata una volta per tutte in gabbie teoriche che cadono ben presto fuori del tempo, ma adattata di volta in volta alle condizioni politiche e sociali del momento. Non esistono Stati salvatori, Stati che combattono le proprie guerre in nome del diritto e della giustizia, non esistono Stati liberatori, né Stati liberati. Tutti gli Stati sono aggressori e tutti i popoli sono strumenti ed ostaggi nelle mani di classi dominanti e organizzazioni militari che ieri erano alleate, oggi si combattono ferocemente e domani torneranno ad essere alleate costruendo la propria sopravvivenza su montagne di cadaveri.

Pensare possibili le strutture di lotta contro lo Stato, qualsiasi Stato, studiando il modo pratico di adeguarle alle condizioni effettive dello scontro di classe in atto, è un bisogno insostituibile dell’uomo che vuole essere libero e per questo motivo s’impegna a lavorare alla costruzione della propria libertà. Pensare invece di limitarsi alla semplice espressione del proprio sdegno, perché la sacra maestà della pace risulta offesa dalla guerra improvvisamente apparsa sulle prime pagine di tutti i giornali e sugli schermi della quotidiana televisione, fornisce allo Stato l’alibi di cui esso ha bisogno per continuare indisturbato la guerra costante che da sempre porta avanti all’interno dello scontro di classe.

Certo, limitarsi a queste affermazioni di sdegno è molto più comodo, costa di meno in termini d’impegno, incontra il generale ma inconsapevole assenso della gente, di qualsiasi strato sociale, cosa sospetta che dovrebbe fare riflettere molto, e può infine essere fatto di tanto in tanto, quando si presentano le scadenze più evidenti che sul piano internazionale gli Stati, per i loro reconditi motivi, mettono sulla scena. Per il resto si torna alle affermazioni di sempre, alle distinzioni sottili, al “questo non si fa”, ai “non è il momento”, mentre dappertutto dilaga l’orrore e il trionfo della morte.

E così si trovano mille modi per giustificare la propria complicità, mille piccole vigliaccherie per non andare avanti per la propria strada, per abbarbicarsi al proprio orticello pratico o ideologico.

Rompere gli indugi è una delle più belle indicazioni degli anarchici.


[Pubblicato su “Provocazione” n. 27, maggio 1991, pp. 3-4, col titolo: “Ma di quale sporca guerra parliamo?”]

Fondo Monetario Internazionale

I paesi meno sviluppati continuano ad essere sfruttati dalle grandi potenze industrializzate – più o meno le medesime che una volta erano le potenze imperialiste in senso stretto – con nuovi mezzi. Uno di questi, di certo fra i più efficaci, è l’indebitamento verso l’estero.

Il modello di sviluppo che viene proposto a questi paesi, spesso impacchettato dalle grandi scuole di economia delle più avanzate università americane, inglesi, giapponesi e tedesche, si basa sulla produzione industriale. Pertanto, questi paesi si accingono a fare degli investimenti nel settore industriale, cioè comprano macchine a prezzi incredibili, dovendole poi pagare con l’esportazione di prodotti agricoli o estrattivi, i cui prezzi vengono sempre mantenuti bassi da una precisa politica di rapina.

Per chi si trova in una condizione di miseria e di arretratezza il miraggio dello sviluppo industriale (sul modello dei grandi complessi pieni di ciminiere e di inquinamento, modello per altro in forte crisi di accettazione), può anche costituire un allettamento. Si spera in future possibilità di esportare beni a prezzo migliore. Così i paesi meno sviluppati cadono nella trappola dei debiti. Una volta, prima dell’inizio degli anni ’70, a concedere questi prestiti erano soltanto i governi e le organizzazioni internazionali, adesso sono anche le banche. Infatti, il grande afflusso di petrodollari, successivo alla crisi petrolifera degli anni ’70, mise le banche europee ed americane davanti alla necessità di cercarsi un mercato per i depositi che affluivano provenienti dai paesi dell’OPEC. Il mercato venne trovato proprio nei paesi meno sviluppati. Vennero quindi incrementati i prestiti, favorita la richiesta, e questi paesi si trovano adesso indebitati fino al collo.

Così i paesi meno sviluppati si trovano con poche fabbriche, qualche centrale nucleare, grandi devastazioni territoriali e profondi sconvolgimenti culturali. Le possibilità di vendere i prodotti restano inesistenti.

A rendere ancora più tragica la situazione dei paesi debitori si inserisce, a partire dall’avvento di Reagan al potere negli USA, la scelta della politica economica “monetarista”, cioè quella politica che pensa di potere incidere sull’inflazione ricorrendo quasi soltanto a modificazioni dei tassi di interesse. In poco più di un decennio [1976-1986] i tassi internazionali, mediamente, sono saliti dal 7 al 16 per cento. La situazione peggiora sempre di più.

L’innalzamento dei tassi negli USA sollecita gli investimenti in quel paese, da ciò l’aumento della domanda di dollari in tutto il mondo, da cui deriva un aumento del prezzo del dollaro. Ora, siccome quasi tutti i prestiti di cui discutiamo sono liquidati in dollari, i versamenti delle rate devono essere fatti in dollari: da qui un aumento dei debiti o comunque un aumento dei costi dei rimborsi,

Abbiamo quindi che aumento dei tassi di interesse, aumento del prezzo del dollaro e peggioramento della ragione commerciale di scambio (prodotti naturali contro prodotti industriali), fa diventare sempre più grave la situazione dei paesi meno sviluppati. Se a questa situazione si sommano le fughe di capitali da questi paesi (chi può, dei dirigenti, ruba e mette soldi in Svizzera) – e si calcola che questo drenaggio raggiunge il 20 per cento della circolazione dei debiti stessi, ed inoltre che il 40 per cento circa dei prestiti è indirizzato all’acquisto di armi – si capisce come sia impossibile questa pretesa strada di sviluppo, per quanto contraddittorio e miserabile quest’ultimo possa essere. L’analisi sulle funzioni del Fondo – che regge e regola tutti i passaggi di capitale diretti verso le nazioni più povere – potrebbe continuare ancora a lungo, ma proverebbe quello che praticamente tutti sanno. Per garantire la continuazione dello sfruttamento non si è arretrato davanti a niente: distruzione delle colture, sterilizzazione forzata delle donne, vendita (sotto forma apparente di dono) di prodotti contaminati, e altre nefandezze.

La critica pratica [1988] che è stata posta in atto a Berlino, contro il Congresso, si è articolata in diversi interventi e in diverse pratiche che mette conto ricordare.

Per prima cosa, il gran numero di partecipanti alle manifestazioni, che ha fatto pensare – ai marxisti di casa nostra – alle vecchie manifestazioni per il Vietnam. Ma le cose sono diverse. Se non altro non c’è più, nell’animo di tutti (o quasi) la vecchia illusione tipicamente guevarista di “portare il terzo mondo nella metropoli”. Adesso la lotta è certo da collegare con le condizioni di sfruttamento nel terzo mondo, ma si è capito che la metropoli “non è” il “terzo mondo”, qualora, da qualche parte, sia mai esistito un qualcosa che si possa riconoscere come “terzo mondo”.

Alcune azioni sono state condotte contro la multinazionale che forniva l’elettricità al Congresso. Poi si è attaccato il teatro dove si stavano riunendo tutti i partecipanti. Circa tremila persone hanno fatto un gran casino con delle pentole sotto gli hotel dove dormivano questi signori. Trecento hanno bloccato la strada che dall’aeroporto conduce alla città. Almeno duecentocinquanta hanno praticamente bloccato il centro con le biciclette. Poi una azione contro la società chimica e farmaceutica che cura il controllo delle popolazioni nel terzo mondo. Il battello che andava in giro per i canali di Berlino con le delegazioni è stato attaccato con ortaggi e oggetti vari. Un corteo automobilistico condotto lentamente ha intasato la città. Queste e altre azioni hanno disturbato efficacemente lo svolgimento della manifestazione.

Per ultimo occorre ricordare l’azione della RAF e delle BR, diretta a rapire il sottosegretario alle finanze Tietmeyer.

Queste giornate di Berlino, fra le molte cose interessanti, aprono, per chi voglia approfondire le cose, un problema, sempre più reale, che non può essere ancora una volta ricondotto ai confini indistinti dell’ideologia: quello della collaborazione internazionale rivoluzionaria.

Per far sì che questa risulti più efficace occorrono almeno due cose, immediate e possibili: evitare il fatto che a fissare le scadenze di lotta sia immancabilmente il potere stesso; documentarsi in modo da capire in che modo, nella realtà delle cose, si sviluppano le cause e gli effetti dei processi di sfruttamento. Si tratta di due problemi che possono contribuire ad eliminare l’eventualità tanto frequente che le occasioni di lotta si trasformino in scadenze rituali accettate con scarsa cognizione di fatto.


[Pubblicato su “Provocazione” n. 17, novembre 1988, p. 3, col titolo: “Banda di assassini. Fondo monetario internazionale]

La NATO e i suoi massacri

Che lo schermo umanitario, basato sulla difesa dei kosovari, attaccati e uccisi in massa, dall’esercito e dalla polizia della Serbia, sia poco meno di una scusa è un fatto facile a capire. Perfino i giuristi internazionali si sono trovati in imbarazzo a trovare uno straccio di giustificazione per fondare l’argomento dell’attacco.

In teoria, ma molto in teoria, un attacco armato contro uno Stato sovrano è un atto di guerra, quindi un’aggressione. La buonafede della NATO è un fantoccio che viene agitato davanti agli occhi appesantiti dei telespettatori, ormai soggetti passivi di quello che la grande informazione propina loro.

Tutti gli opinionisti furono, a suo tempo, contrari ad un intervento dell’Iran in Bosnia per aiutare i Musulmani. Nessuno parla di un intervento in Turchia per impedire il massacro dei Curdi. Il 1994 fu l’anno della repressione più forte, ma si tacque in tutto il mondo. In Colombia la repressione ferocissima, tuttora in corso, è fatta con l’assistenza diretta dell’esercito americano, il cui impiego in questo paese ha raggiunto livelli di ferocia inaudita. Nel Laos, anche oggi, circa cinquantamila bambini continuano a morire ogni anno a causa delle bombe americane (le “piccole bombe”) che ormai si trovano dappertutto disseminate nel territorio. Poco prima dello scoppio della guerra in Serbia, la Corea del Nord era stata dichiarata dal Pentagono ancora più pericolosa dell’Iraq, se possibile.

L’ “umanitarismo” di cui si fregia la NATO si sviluppa su tre livelli: in una prima fase cercare di aggravare la situazione (possibilmente fornendo armi all’aggressore); in una seconda fase, non fare niente, per verificare gli effetti della prima fase; in una terza fase intervenire per limitare la catastrofe (che quasi sempre è stata innescata dagli stessi paesi “umanitari”).

Questa situazione è un modello costante dell’attività della NATO in tutto il mondo. Somalia docet.

Quanto appare strana, adesso, la condanna che gli Stati Uniti sbandierarono ai quattro venti contro i Vietnamiti che entravano nel 1978 in Cambogia per impedire gli attacchi di Pol Pot, guerra che ebbe un indiretto esito “umanitario” in quanto mise fine al regime dei Khmer. Allora gli americani si affrettarono a sovvenzionare la Cina per un attacco punitivo contro il Vietnam.

Sulla carta la guerra contro la Serbia non è un attacco unilaterale degli Stati Uniti, si parla continuamente di “alleati”, e questa parola fa tornare, per tutti quelli della mia età, lontani fantasmi che sembravano sopiti per sempre. In sostanza però, il momento dell’attacco, la maggiore capacità di fuoco, la più grande parte degli aerei impiegati, la scelta degli obiettivi strategici, la produzione dei missili e i comandi supremi, sono esclusivamente americani. Agli altri, inglesi e tedeschi compresi, è affidato un compito di appoggio logistico, con piccole soddisfazioni marginali nell’esecuzione di azioni meno significative.

Tutta questa merda internazionale viene sistematicamente spacciata per “umanitarismo”, ma continua a fare la puzza di sempre.


[maggio 1999]

La Serbia

Tutti gli Stati sono sistemi organizzati di repressione e controllo. Scendere nei dettagli di questa loro essenziale composizione non è mai piacevole per gli anarchici. In fondo, è l’essenza del concetto di Stato, per come si è realizzato nel corso della storia in decine di modi differenti, che viene considerata come negativa e da rigettare con tutte le forze. E su questo punto tutti gli anarchici sono di una concordia disarmante.

Senza deflettere da questa linea di condanna assoluta c’è però da prendere in considerazione che le forme di potere e di amministrazione che i vari Stati prendono nel corso della loro storia, variano fra loro, andando dalla tirannia pura e semplice alla democrazia più o meno polarizzata verso il basso, cioè con componenti autogestionarie più o meno controllate, mai del tutto autonome in assoluto.

Non si può non esprimere una condanna maggiore, una repulsione quasi fisica, verso l’orientamento tirannico e una condiscendenza critica, che non arriva però mai fino all’accettazione del male minore, verso l’orientamento democratico.

Fin qui la realtà pura e semplice.

Riguardo la Serbia non c’è dubbio che in questo momento lo Stato è in mano ad una élite di potere che sta pilotando, senza che si prospettino soluzioni a portata di mano, il crollo politico ed economico del vecchio regime fondato sui princìpi del socialismo di Stato. In fondo, se si osservano questi movimenti, nella fascia che circonda la Russia, quasi dappertutto ci sono soluzioni intermedie tra la vecchia gestione comunista autoritaria, fondata sulle pretese di un mercato controllato dal partito e dalla sua burocrazia, e nuovi aggiustamenti, nella maggior parte dei casi basati sulle intenzioni politiche a medio raggio di chi non vuole abbandonare il potere che, in un modo o nell’altro, si è visto cadere fra le mani.

Il discorso relativo alla Serbia è importante perché vale per molti altri paesi, tutti inclusi, più o meno direttamente, nell’area degli interessi economici e politici del Mediterraneo.

Una delle caratteristiche di questa “sperimentazione” è data dalla riscoperta di vecchi meccanismi di controllo, usati in passato in forma massiccia dai regimi fascisti di ogni latitudine. Il primo di questi meccanismi è l’epurazione etnica, processo indispensabile per rendere efficace lo strumento di mobilitazione generale che è quello populista. Fare un continuo appello al popolo per conservarne le caratteristiche essenziali (non dico della razza, che è concetto desueto, ma dell’etnia) è la base su cui costruire la forza di questo nuovo (e vecchio) modello politico di potere. Il rigetto del “modernismo” e di ogni “integrazione” all’insieme delle “democrazie” europee è uno dei segni di questo isolamento che suggerisce al popolo serbo, dopo l’imbroglio dell’internazionalismo proletario di ieri, quello della particolarità serba di oggi. L’Occidente è visto nelle teorie di questa nuova forma di dominio come il male da esorcizzare, l’Occidente imperialista con il suo individualismo, la sua società destrutturata che polverizza e mina la famiglia, la sua disorganizzazione statale, la sua spersonalizzazione dell’uomo. Come si vede, un insieme piuttosto molesto.

Ecco quindi che il popolo prende voce politica e parla la lingua delle opinioni che gli vengono fabbricate. Da notare che la stessa cosa succederebbe anche in Italia, o in tutti gli altri paesi cosiddetti avanzati sia politicamente che economicamente, se la voce del popolo fosse fatta sentire attraverso i megafoni del potere. Cosa potrebbe dire il popolo se non il condensato delle opinioni che vengono giornalmente elaborate dai grandi mezzi d’informazione e che possiamo tranquillamente ascoltare su ogni autobus e in ogni treno? La voce del popolo è quella del buonsenso, ahimé la cosa più diffusa che c’è al mondo, la più diffusa e la più deleteria.

Ogni struttura statale che si orienta verso il populismo, vedere ad esempio l’Argentina di Perón, diventa praticamente una forma subdola di fascismo, se non altro – non volendo approfondire il problema – perché la qualifica principale per aprire bocca, ed essere ascoltato, è quella di appartenere all’etnia riconosciuta in quello Stato come l’unica importante e significativa, portatrice dei valori storici della nazione, ecc.

Se il popolo serbo non si sveglia da questo brutto sogno le conseguenze per esso saranno forse peggiori delle bombe che un gruppo di assassini in divisa giornalmente fa piovere sulla sua testa.


[maggio 1999]

Ingovernabilità

Dalla fine del muro di Berlino decine di conflitti armati si sono sviluppati all’interno di paesi più o meno legati all’area mediterranea.

I paesi interessati sono: Algeria, Somalia, Sudan, Albania, Libano, Turchia, Iraq, Bosnia, Cecenia, Israele, Afghanistan, Tagikistan, Kurdistan irakeno, Territori palestinesi, ecc.

Quasi sempre si è trattato di conflitti di grande ferocia, capaci di una distruzione interna in grado di coinvolgere tutti gli strati della popolazione, nessuno escluso. Spesso sorgono, all’interno di questi paesi, gruppi armati in grado di esercitare una supremazia violenta sugli altri gruppi armati, spesso gli equilibri sanguinosi si rompono in veri e propri massacri, stupri di massa, ferocia senza fine.

Una delle caratteristiche costanti potrebbe essere sottolineata con interesse, ed è quella della ingovernabilità. Lo Stato piomba, con tutti i suoi poteri tradizionali, in una condizione di quasi-anomia. Niente funziona come prima, interi settori dell’economia, delle città, delle campagne, intere regioni sono occupati da gruppi armati in lotta fra loro. Per la popolazione che soffre le mille pene c’è allora solo qualche sporadico aiuto da parte delle organizzazioni internazionali di soccorso, le stesse che, sotto altra veste, avevano finanziato, o pilotato, per scopi spesso incomprensibili ai più, gli scontri e i massacri.

Sembra quasi che questi massacri siano programmati a livello centrale, in un trend del tutto nuovo di eliminazione progressiva, e massiccia, di grandi gruppi di mano d’opera a troppo basso costo e distruzione di enormi risorse in materie prime. Il tutto come contropartita ad un rilancio della produzione delle grandi multinazionali del settore degli armamenti. Dopotutto la nuova svolta tecnologica mondiale, nel suo accorpamento globalizzante, cerca di imporre il prodotto a prezzi più alti, mandando all’aria qualsiasi teoria marginalista e quindi trovandosi obbligata a fare saltare per aria le imprese che operano nei paesi poveri impiegando grandi quantità di mano d’opera a basso costo e producendo a prezzi più bassi. A estremi mali, estremi rimedi.

Per frenare la pressione occupazionale dei paesi poveri (e quelli sopra elencati sono paesi poveri) occorrerebbe creare a livello mondiale due miliardi di nuovi posti di lavoro nei prossimi anni, diciamo dentro il 2005, cosa del tutto illusoria. E siccome la minaccia più seria resta proprio l’insurrezione dei paesi poveri, è qui che il governo mondiale, guidato in primo luogo dagli USA, poi dai paesi più industrializzati, con a rimorchio l’interessatissima Russia, cerca di ammazzare quanta più gente possibile.

Alcuni studi (i soliti inglesi progressisti) dicono che occorre un tasso di crescita del reddito annuale medio del 3% perché un paese esca dalla condizione di povertà. Negli ultimi trent’anni il tasso dell’Algeria è stato dello 0,5% della Somalia e del Sudan dello 0,1%.

Il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, con la loro decisione di liberalizzare rapidamente le economie dei paesi poveri, produttori di materie prime, hanno fatto precipitare la situazione. Le vecchie congiunture produttive (materie poco lavorate e materie prime) sono aumentate mentre è rimasto immutato il flusso di denaro destinato ad ammodernare gli aspetti appariscenti delle società povere (grandi città dove vivono bene poche centinaia e male milioni di persone), mentre il resto permane immutato.

Solo il cannone sembra la soluzione finale più a portata di mano. Per i dominatori, ovviamente.


[maggio 1999]

L’autonomia palestinese

Fra qualche giorno (il 4 maggio 1999) dovrebbe proclamarsi ufficialmente lo Stato palestinese. Tre milioni e mezzo di abitanti. Nel vecchio protettorato britannico ne vivevano otto milioni.

Lasciando da parte gli aspetti formali, il solo risultato che si è visto nell’ambito dell’“autonomia” dei Territori palestinesi è che il controllo dell’ordine pubblico, dapprima nelle mani degli Israeliani, adesso è passato nelle mani della polizia palestinese. Il risultato è stato ovviamente positivo per Israele in quanto non ha più da sostenere i costi altissimi di questo controllo e della relativa occupazione militare di un territorio difficile da controllare, e la spesa in termini di finanziamenti è adesso passata alle organizzazioni internazionali, sia in denaro che in investimenti di capitali nella zona.

In questo modo Israele ha potuto tranquillamente rafforzare la conquista di Gerusalemme-Est, zona di insediamento palestinese.

Le tensioni adesso sfoceranno a partire dal rifiuto israeliano di ridurre, e successivamente cancellare, gli insediamenti dei cosiddetti coloni, e anche dalla disillusione, in molti Palestinesi, nel vedere i loro leader dal passato “rivoluzionario” diventare capi della polizia o ministri degli interni.

Non c’è alcun dubbio che i metodi applicati dall’“Autorità palestinese” sono forse peggiori di quelli del passato, quando a scatenare le iene della repressione era l’odiato nemico.

In fondo, gli accordi di Oslo non sono stati applicati fino in fondo. Tanto per fare un esempio, nessun abitante palestinese dei Territori ha possibilità di diventare proprietario di un pezzo di terra. Trattandosi di un popolo in prevalenza contadino si può immaginare quello che ciò significa. Inoltre tutto il passato di colonizzazione e di espulsione, oltre che di migrazione nei vari campi della diaspora, rende questo fatto ancora più importante. Col consenso degli Stati Uniti, negli accordi è previsto che proprietario del terreno resta lo Stato israeliano.

Tutto ciò, insieme ad altri fattori, determinerà, facile previsione, un aumento degli scontri. Basta pensare che attualmente (fine 1988) i coloni di stanza in Cisgiordania sono aumentati da 110.000 a 145.000 e quelli di Gaza da 3.000 a 5.500. E non si tratta di gente disposta a lavorare “assieme” ai Palestinesi, perché è là soltanto per sfruttare il basso costo della mano d’opera e il possesso del terreno a prezzi irrisori se confrontati con quelli di mercato in Israele.

Altro che prima ondata delle comunità.


[aprile 1999]

Un nuovo modello statale

Gli Stati Uniti gendarme del mondo è una definizione esatta del comportamento di questo paese, all’avanguardia nella repressione mondiale, ma non costituisce un’analisi sufficiente delle più recenti modificazioni del modello di Stato che gli americani propongono, con intensità spettacolare, al mondo intero.

Lo Stato si ritira dall’ambito degli interessi economici strettamente intesi. Dalla passata evoluzione da banchiere a capitalista, poi da capitalista ad assistente sociale, adesso si arriva alla funzione netta e cruda di gendarme, di repressore a tutti i livelli di eventuali comportamenti che potrebbero rompere gli equilibri sociali ed economici del mondo intero.

Non solo gli USA, beninteso, ma tutti gli Stati che vedono nel colosso americano un modello e un leader nell’ambito della politica interna e internazionale.

In altri termini gli Stati, dal più grande al più disagiato, si apprestano a combattere la povertà, la miseria, l’arretratezza – ma anche l’esplosione della dignità ferita e il rifiuto di una vita senza senso – dovunque si presentino. Ogni pezzo del precedente complesso economico sociale che viene smantellato passa nelle mani dei privati: una serie infinita di consiglieri, commissioni, specialisti, missioni ufficiali, scambi di trattati plurilaterali, consultazioni parlamentari, scienziati, volontari di ogni risma, dossier, trattati, conferenze di pace e di stampa, articoli di giornali, servizi televisivi, tutto assorbe la vecchia funzione dello Stato e si riversa a livello internazionale. Una nuova ideologia viene prodotta: lasciamo che il mercato faccia la sua strada, ma blocchiamo tutti coloro che la pensano diversamente.

Il rapporto tra la diminuzione delle funzioni sociali ed economiche del passato e la crescita del ruolo repressivo, interno ed esterno, costituisce un serio problema che deve essere approfondito da settori specializzati dello Stato americano per fornire un modello che sia, nello stesso tempo, teorico e pratico.

La Thatcher e il vecchio Reagan sono stati ottimi apripista di quel “liberalismo serio” di cui si comincia a parlare sempre più insistentemente. Negli ultimi quindici anni un insieme massiccio di concetti, teorie, interpretazioni di fatti, progetti repressivi, hanno alimentato una ristretta élite politica internazionale col medesimo pasto ideologico. Gli effetti sono una essenzializzazione repressiva dello Stato guida mondiale, con ricaduta in tempi più o meno brevi sugli altri Stati.

D’altro canto, anche qui, in casa nostra, l’applicazione dei princìpi di mercato, fatta con impassibile noncuranza dai “comunisti” di ieri, ai problemi sociali, non può non mettere la preoccupazione in corpo di una possibile rivolta generalizzata. L’America ha da tempo presente questo problema, e i teorici dello “Stato penale” si sono posti di fronte a possibili soluzioni (tutte “forti”) per fronteggiare il passaggio dalla vecchia “generosità” (per la quale non sono in effetti mai stati ringraziati a dovere) e la nuova rigidezza. Che fare di fronte all’inattività delle fasce desalarizzate in continuo aumento, anche negli Stati Uniti? Come fronteggiare le violenze urbane di cui tanto si parla?

La soluzione che sembra prevalere nell’ambito dei progetti repressivi del “gendarme mondiale” è quella di fissare un rapporto diretto (e, per la verità, esatto) tra condizione interna del singolo Stato e condizione internazionale, tra “ordine” interno e “ordine internazionale”. Nessuno deve azzardarsi a uscire fuori dal “seminato”. Il seminato è lo “spazio pubblico”. Lo spazio cioè in cui si muovono i rapporti collettivi, la vita sociale ed economica di un paese. Ora, essendo ogni forma insurrezionale un movimento piuttosto brusco in quest’ambito, sia che si presenti nella forma molecolare di attacchi singoli, dovuti a persone o piccolissimi gruppi isolati, sia che si presenti come fenomeno generalizzato, e perfino gestito in proprio da un movimento politico di liberazione nazionale, bisogna intervenire per ripristinare il dominio della ragione.

L’opzione “tolleranza zero” è quindi la nuova parola d’ordine.

Ma c’è di più. Allo stesso modo in cui gli Stati Uniti hanno, a partire dalla seconda guerra mondiale, messo il naso nella politica di tutti gli Stati, impiegando i loro servizi segreti o direttamente il loro esercito, per “prevenire” e “indirizzare” le scelte mondiali, così cercano adesso di fare a livello interno (ed è questo che suggeriscono come modello agli altri Stati). Ecco quindi che l’America cerca di prevenire colpendo la devianza a livello comportamentale: non è solo il furto quello che impensierisce, o i “delitti” di ordine superiore, ma forse di più impensieriscono i gesti di dissenso, le manifestazioni dove si fracassano le vetrine e si vuotano in strada i cassonetti della spazzatura, le scritte sui muri, le piccole distruzioni in genere, in quanto, secondo gli esperti del nuovo “Stato penale” sono i segni di un dilagare dell’insofferenza che va generalizzandosi e quindi si appresta a passare ad azioni più consistenti. Ecco perché bisogna reprimere duramente: tagliare l’erba alla radice.


[maggio 1999]

 
 

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