Titolo: Il falso e l’osceno
Data: 2007
Note: Pensiero e azione n. 10
Prima edizione: aprile 2007
SKU: pensiero-000010
Dimensioni: cm 15 x 21,5
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PARTE PRIMA. Il falso

Breve nota introduttiva

Alfredo M. Bonanno ci aveva inviato questo libro in bozze, dopo averlo completato, curandone la stesura delle parti teoriche, come è indicato di volta in volta, ma anche perfezionando via via tutti i riferimenti e tutti i riscontri che, in un lavoro del genere, sono impresa molto lunga e certamente non facile.

Eppure alla fine ha deciso di non darlo alle stampe. Naturalmente ha i suoi buoni motivi, e ce ne ha messo a parte. Questi motivi noi li condividiamo e li rispettiamo, eppure questi testi, riguardando direttamente una parte della nostra storia rivoluzionaria, se non altro in quanto compagne anarchiche francesi, intendiamo pubblicarli lo stesso, anche ricorrendo da una parte a un amichevole cavillo, e dall’altro a una vera e propria forzatura non meno amichevole.

Il cavillo si basa sul fatto che tutti i libri di Bonanno, e quindi anche questo, non sono, per sua esclusiva decisione, teoricamente molto fondata, giustificabile e comprensibile, coperti da copyright. Pertanto chiunque, (e quindi anche noi), può editarli e diffonderli senza limiti e senza ostacoli.

La forzatura si basa su un altro elemento, che forse ci avrebbe fatto decidere alla pubblicazione lo stesso anche non disponendo, come si è detto, del cavillo precedente, e questa consiste nel fatto che la maggior parte dei testi ci sta a cuore: prima di tutto l’attacco a Sartre (quindi l’utilizzo di Déjacque) e poi il ripristino, se non altro teorico, della pornografia come strumento di lotta rivoluzionaria alla quale auspichiamo un utilizzo futuro sempre più ampio.

Ecco perché pubblichiamo questo libro in Francia e non aspettiamo che le decisioni, per il momento sospese di Bonanno, lo facciano uscire in Italia.

Naturalmente abbiamo avvertito della nostra decisione il compagno Bonanno.


Parigi, 17 gennaio 2007

Marie e Thérèse
Rue Jean sans peur 1
II arrondissement
75002 PARIS

Introduzione al falso

L’analisi politica ha connaturata al proprio svolgimento una irrimediabile piattezza. Gli elementi critici che la compongono sono legati a doppio filo alle condizioni di funzionamento del processo politico. Come tutti sanno quest’ultimo non funziona senza il reperimento del consenso e la realizzazione di tutte quelle modifiche indispensabili a renderlo possibile.

La funzione dell’imbroglio ideologico all’interno di questo processo è quella che una volta veniva assicurata dalla religione. L’uomo moderno prega di meno ma, secondo la geniale intuizione di Hegel, sopperisce a questa diminuzione leggendo il giornale.

Viene ammesso, in linea di massima, che oggi i destinatari del messaggio politico, quindi i soggetti passivi sollecitati al consenso, sono più informati se non più colti, e che quindi l’imbroglio deve essere più sofisticato o, almeno, più articolato. La cosa è dubbia. Se qualche decennio fa il fondo ideologico del consenso era orientato (a sinistra) verso l’internazionalismo proletario e (a destra) verso lo Stato etico, oggi i residui ideologici, diciamo spirituali, i grandi valori, si sono appiattiti sul vago processo di globalizzazione capitalista. Ciò ha comportato un livellamento dei mezzi culturali impiegati, raggiungendo miserie mai conosciute prima, nemmeno dalla destra che meno si differenziava dal manganello. Poche attenzioni culturali si riversano quindi nello sforzo di reperimento del consenso, e ciò produce un’ideologia spicciola che consente di dare aria alla gola di un qualsiasi burattino politico.

Stando così le cose alcuni ritengono che il ricorso alla provocazione potrebbe sortire qualche effetto interessante. Ma cos’è una provocazione? Un dire o un fare che rompa con la tranquillità e la buona educazione. Quindi qualcosa che contraddica la stupida loquacità con cui tutti i giorni reciprocamente ci addormentiamo inducendoci ad accettare un’esistenza che riteniamo inadeguata ai nostri presunti desideri di diversità. C’è da chiedersi se è possibile romperla con la stupidità. Domanda angosciante. Ognuno di noi custodisce quella sorta di idiotismo privato che considera fuori discussione, un serbatoio di opinioni costruite bene che aiutano a tirare avanti. Ma nessun funzionalismo ha mai salvato la vita a qualcuno. Ci accingiamo a morire con tutte le nostre benefiche supposizioni senza battere ciglio, pensandoci splendidamente equipaggiati per raccattare tutte le espressioni che collezioniamo come singoli istanti di una lunga malattia.

Una torta in faccia fa ridere, una stilettata di nascosto fa stringere i denti in un ghigno altrettanto stupido. I nemici si sono rafforzati e non troviamo la strada per frantumare il loro muro difensivo. Hanno smaterializzato le pietre con cui questo muro è costruito, lo hanno fatto mentre noi ci baloccavamo con le più svariate supposizioni, accèttati fratello dalle mani callose, dalla pelle scura, dal sesso incerto, fratello che hai tutte le carte in regola, accèttati e te ne saremo grati, ti aiuteremo nella tua lotta per farti spazio, per essere ancora più accettato, perché poi tu possa, onestamente peraltro, darci un bel calcio nel sedere, dopo che hai ottenuto quei riconoscimenti che adesso ti mancano.

Abbiamo bisogno di un nuovo stile, di una gestualità che non abbiamo ancora scoperto nelle sue svariate sfumature, per riuscire a essere veramente provocatori. Per il momento siamo ancora fermi alla vecchia autorizzazione che ci eravamo costruiti. Formalmente la nostra cultura ci consente di cogliere i movimenti della comunità che ci ospita, quando non lo fa vi provvediamo al più presto. Irridere è anch’esso un modo di salvarsi la vita. Possedere una ricca tavolozza cromatica non garantisce che questi colori dal dire si trasferiscano al vivere, sarebbe troppo bello. C’è da superare un’ambiguità che mette a nudo i nostri limiti, le povertà con le quali dobbiamo fare i conti ogni giorno, le paure e le velleità scomposte che ci riempiono la testa.

Le artificiose formule con cui ci siamo disposti all’azione si ripresentano adesso come fantasmi mentre i loro riflessi virtuali abitano ormai aule universitarie, osservatori astronomici e templi indiani. La provocazione dovrebbe insistere nei loro riguardi, procedere oltre l’àmbito di competenza del nemico, visto che questo territorio si è esteso fino al limite delle nostre tende, estendersi per contestarci l’identità che abbiamo appiccicato sul vero e sul giusto, sui risultati considerati indiscussi e su di uno stile che niente e nessuno pensavamo potessero espropriarci e che adesso vediamo dilagare nella cultura di dominio.

Si potrebbe arguire da questo programma che la provocazione ha ancora spazi suoi, per quanto meno caotici di quelli di una volta? Non lo so. Non so cosa rispondere. La costrizione interiore, che manteniamo inalterata per dare ordine e regola alle nostre convinzioni rivoluzionarie, quando queste ultime dovrebbero essere loro a dare l’ultima bevanda (avvelenata) a ogni ordine e ogni regola, potrebbe farci produrre una ulteriore stimmata, un punto di riferimento codificato, messo su con tutti i canoni provocatori ormai assorbiti dal processo in corso.

La provocazione è un incantesimo che l’incantatore mette in atto, sia pure per pochi attimi, una sospensione del giudizio comune che tutti siamo tenuti a mantenere visto che abbiamo prestato giuramento alla comune significatività (se non altro delle parole), un dissolvimento inopportuno e quasi sempre sgradevole, un gioco delle tre carte, un discorso senza oggetto da discutere, un oggetto suggerito senza un opportuno e suadente discorso di accompagnamento. Il sottrarsi dello scudo protettivo, che vediamo sempre costruito davanti a tutto quello che facciamo, è una sollecitazione provocatoria, se non altro verso noi stessi. Possiamo sopportare questa sottrazione? È difficile a dirsi. Di regola abbiamo bisogno che qualcosa ci illumini perché gli altri possano vedere in ottima luce quello che stiamo facendo, per poi avere bisogno subito dopo di qualcosa che ci oscuri per fare in modo che quello che non abbiamo saputo fare non finisca troppo in evidenza. Un mettere e levare che occupa molta parte del nostro tempo e la quasi totalità delle nostre forze. Mettere in crisi questa formula collaudata significa, nella provocazione, denudarci, e ogni idillio comincia con un denudamento, altrimenti è rimescolio di stomaci ingombri, e finisce con la rivoluzione, quindi con il rischio altissimo di essere quello che si è. Ogni vigliaccheria cerchiamo di nasconderla quando dovremmo metterla in risalto perché tutti la vedano, essendo quasi sempre essa il segno più intimo della nostra umanità, di certo molto più comprensibile delle trombonate del coraggioso che sparacchia sulle barricate.

Se spingo – e la rivoluzione tarderebbe a venire senza qualche spinta sostanziosa – devo mettere in conto la totalità delle conseguenze della mia spinta, prima di tutto su me stesso. Non posso fare dello spingere una professione tecnologicamente avanzata, nascondendomi pertanto dietro la deontologia dello specialista. Non c’è ardimento troppo grande che non risulti ridicolo se considerato qualcosa che l’ardimentoso fa e dal quale si distanzia proprio perché solo così riesce a farlo. Si tratta in questo modo di una ridicola farsa, lo scontro è ben altro. Lottare non è solo il volere avere di più, l’acquisizione diventa illusoria se non è assistita da una qualche tecnica di immedesimazione. Chi agisce si immedesima nell’altro e deve proporre a quest’ultimo un modello interpretativo della realtà. La sua azione stessa lo fa senza accorgersene, ma procedendo oltre la proposta deve diventare palese. Questo modello è quasi sempre una approssimazione e ogni approssimazione, come sappiamo, si appoggia parzialmente su di una menzogna.

Chi agisce, alla fine dei conti, sia pure in parte, costruisce una prospettiva che è in grado di verificare solo parzialmente. Si potrebbe concludere che chi agisce, almeno in parte, mente. Da questi procedimenti di immedesimazione prendono vita non solo la letteratura e il teatro, ma anche tutti i settori dell’esperienza umana in cui ogni se stesso si prospetta un processo di trasformazione. Siamo di fronte a quelle condizioni che sono caratterizzate da una speciale modulazione della cultura, quella dell’eccezione. Quasi sempre a queste condizioni, legate a prospettive tanto diverse, collocate in futuro, in cui non è dato sapere fino in fondo tutti i dettagli della proposta, si accede con una sorta di sospensione del principio di non contraddizione della filosofia e della logica ordinaria. L’azione come menzogna diviene un antidoto contro il volere codificato del potere, il dettaglio accatastato con cura nelle sale anatomiche del controllo e dell’amministrazione.

La volgare bugia è altra cosa, è merce di acquisizione per spiriti poveri, per usufruttuari dell’ignoto che vogliono vivere di una modesta rendita. Là dove la vita vuole sempre di più e non è mai soddisfatta di ciò che ottiene nella sua condizione impoverita, la menzogna, le finzioni del progetto – allo stesso modo di quello che accade nel teatro e nella letteratura – sono espressione della gioia, dello spirito del “tutto e subito”, della dissipazione, dello spreco. Una hýbris che coincide con la vita stessa.

Il precetto etico, non devi mentire, è fissato nella nostra mente in un duplice modo, come dovere oggettivo e come dovere vitale. Nel primo caso la legge è un precetto meccanico, un pensiero morto, una coazione che vuole una sottomissione cieca. Questa rigidità esteriore propone una vuota necessità di ordine e di struttura, in essa si possono cogliere, apparentemente divergenti, l’arbitrio e l’ubbidienza paurosa delle conseguenze.

Ma, sia colui che rifiuta per la semplice soddisfazione di trasgredire, sia colui che ubbidisce per paura delle conseguenze, sono sottoposti al precetto e ne accettano l’esistenza. Il dovere che viene così imposto è per loro estraneo, non fa parte della loro vita, ecco perché in ogni occasione di ubbidienza c’è la possibile rottura dell’accettazione, come in ogni ribellione c’è la possibile esperienza del recupero. Quel precetto è lettera morta, quindi non entra a fare parte della vita. Se questo dovere oggettivo, proposto da una norma astratta, viene vissuto concretamente, allora entra a fare parte della mia vita, non richiede più decisioni o valutazioni in termini di riscontro del precetto o di valutazione delle conseguenze, semplicemente scompare come precetto.

In fondo, vivere nella menzogna è una mancanza di dignità, una delle carenze fondamentali che rendono impossibile la vita, riducendola a mortificante scambio esistenziale. La mia dignità risiede nella mia attendibilità, nella mia coerenza, nel rispetto che io ho per il rapporto di corrispondenza che esiste tra quello che dico e quello che faccio. In quanto essere provvisto di ragione, la mia dignità continua a collocarsi nella stabilità della mia cultura e delle mie idee, oltre che nella loro proiezione nel mio fare quotidiano. La mia dignità viene quindi sostenuta dal rispetto che ho per me stesso che corrisponde, e non posso farne a meno, col rispetto che ho per l’altro. In questo consiste la mia libertà, e questo sono disposto a difendere. Da ciò traggono luce le mie decisioni e la coerenza che le anima. Da ciò il riconoscimento che mi aspetto che gli altri non mancheranno di fornire.

Ma, cosa succederebbe se dovessimo individuare un cattivo funzionamento in questa serie di affermazioni così apparentemente incontrovertibile? Se dovessimo intravedere la verità mettere a rischio la dignità? È sensato affermare che solo attraverso la verità diventiamo liberi? Oppure solo rendendoci disponibili per la libertà incondizionatamente possiamo muovere verso la verità?

Disponendoci in questa prospettiva molti elementi del catalogo precedente subiscono un tracollo. La vita nella menzogna non è tale, ma scade al ruolo di estrema indigenza, al ruolo di semplice esistenza. Il primo errore da rilevare è quindi quello che inserisce a forza la dignità nell’àmbito dell’esistenza. Qui essa viene banalizzata nel riconoscimento degli altri, mentre anche il mio stesso riconoscimento della mia dignità diventa secondario (potrei sbagliarmi in una condizione così impoverita). Se la verità non è ospite dell’esistenza, ma questa è per definizione il luogo della menzogna, non posso fondare la mia coerenza con le regole della coabitazione. Il rispetto che persisto ad avere per gli altri, e l’eventuale contraccambio, sono elementi parziali (o accidentali), non il punto centrale per valutare la mia vita. Quest’ultima continua a restare un’incognita, un qualcosa verso il quale devo decidere di muovere, non l’elemento dall’interno del quale valuto e decido.

Se per attaccare il nemico devo rinunciare alla verità, perché è questo il terreno dello scontro, per un altro motivo che solo io sono in grado di valutare, non perdo la mia dignità una volta che il falso proposto si muove nella direzione dell’attacco, diventa strumento di lotta e non espediente per avvantaggiare una mia eventuale condizione di dominio. C’è una profonda differenza tra la menzogna del potere, prodotta e commercializzata per rendere più forte le possibilità di dominio e di controllo, e la menzogna impiegata come mezzo per allargare la mia possibilità di attacco, per fronteggiare il dilagante oppressore che mi sta davanti, per ridurre i danni della repressione e quindi, in definitiva, per non farmi strappare dalle mani quegli strumenti che mi sono dato per continuare la lotta.

La verità non è il significato ultimo dell’uomo, non è il suo scopo nel mondo. Se dovessi accettare questa istanza suprema – come accade a qualcuno – mi collocherei in pieno dogmatismo. Non lo credo. La verità senza riserve, quindi l’inserimento della mia vita in quello che concretizzo nella parola, senza residui e senza paure, è l’amore. Solo nell’amore posso collocare questa equivalenza tra verità e vita. Ma l’esistenza di lotta che conduco, nella realtà tagliata in due che ci ospita tutti, non può essere retta dalle leggi dell’amore. La mia dignità la faccio risiedere quindi nella verità che collego al rapporto fondato sull’amore, intendendo con questo non solo l’affetto ma anche quell’affinità di cui ho parlato tanto a lungo. Se rinuncio a questa equivalenza perdo la mia dignità che risiede nel mio essere libero e disposto positivamente (costruttivamente) al rapporto di amore e di affinità, alla fiducia nei confronti di alcuni altri (non di tutti gli altri), nella mia destinazione per la vita (e quindi per la verità).

Esiste una specie di insincerità fondamentale che è resa indispensabile dal potere che mi costringe a mentire, e quindi mi obbliga a derogare al precetto di non mentire. Mentre la vita rifiuta l’impiego dei mezzi del potere e dell’inganno, l’esistenza, dimensione fondata sul rapporto politico caratterizzato dal dominio e dallo sfruttamento, esige strumenti specifici di lotta (e a volte di inganno) che minacciano la realizzazione della verità. Così, poiché lo sfruttato si trova impotente, o quasi, di fronte allo sfruttatore, la verità non può essere in ogni momento strumento per attaccare il potere. La colpa dell’insincerità, alla fine, dal punto di vista etico, è sempre di chi pone dei precetti e obbliga al loro rispetto non ponendo le condizioni perché questo rispetto sia possibile. La presenza e, a volte, l’assolutizzazione del motivo politico è indice della inconsistenza esistenziale. Nessuna dichiarazione di conoscenza, di fiducia reciproca e perfino di affinità, di comunanza di interessi, di situazioni o di odii, per come può prendere corpo nell’esistenza quotidiana che ci circonda, può dirsi fondata su di una fiducia reciproca, anzi quest’ultima procede sempre parallela con la diffidenza e teme il tradimento. All’estremo di questa realtà, quando si è talmente immiseriti nella quotidianità dell’esistenza da non riuscire ad alzare gli occhi al cielo della vita, si diventa bugiardi cronici, cioè si mente perfino a se stessi.

La filosofia non può mentire. Questa è un’affermazione che molti condividono, molti che non sanno bene cosa sia l’analisi filosofica e neppure cosa sia riflettere. L’inganno di se stessi come consolazione, espediente molto comune, è anch’esso vietato. Il radicalismo assoluto azzera ogni menzogna solo sulla carta. In effetti il meccanismo che produce la menzogna come consolazione è molto più sottile e difficile da mettere a nudo. Se mento, non posso giustificarmi, non posso trovare una giustificazione che riesca a convincermi, mantenendo il rispetto di me stesso. Questa affermazione è infondata. Il contrario è pratica costante. Posso scegliere di non mentire ma non posso trasformare questa affermazione in una legge universale, salvo a sacralizzare un comportamento che non sono sicuro di garantire a me stesso. L’argomentazione kantiana Sul presunto diritto di mentire per amore dell’umanità è un discorso di avvocato e mette in luce solo l’impossibilità logica della menzogna necessaria una volta ammessa l’universalità della legge.

In effetti dire la verità non dipende necessariamente da una legge universale, in quanto non è possibile se non nell’accezione del mero rispecchiamento. Poiché la stessa esistenza non è fatta di tautologie (quasi sempre matematiche), ma di quello che genericamente si definiscono giudizi analitici, il risultato è che si rischia di rinviare continuamente il nostro dire a un giudizio di qualità che per definizione non può essere vero, ma solo sufficientemente vicino alla veridicità. Ogni affermazione del genere esprime una nostra opinione, quindi risente degli effetti deleteri che la nostra esistenza accetta e che continuamente vengono prodotti dalla realtà quotidiana che ci circonda. Non può essere espressa nella sua autenticità nessuna affermazione umana, e quindi non può esserci nessun modello esemplare. Ogni volta, di fronte a una domanda che cerca di fissare il rapporto tra verità e dignità, la risposta resta inevitabilmente sospesa. Chiunque cerca di ottenere a qualunque costo una risposta deve aspettarsi uno sguardo critico sull’esistere, con tutte le conseguenze del caso. Prima fra tutte la messa a nudo della differenza qualitativa tra vita ed esistenza.

Nell’esistere si muove un processo di riproduzione della realtà e degli stessi codici interpretativi in cui la sfera della soggettività e quella dell’oggettività sono fortemente relativizzate. La vita, al contrario, propone giudizi più netti, richiede – per essere realmente vissuta – un’assolutezza alimentata dalla verità. Il dovere è commercialmente interpretato nell’esistenza quotidiana come assenza di arbitrio e di ubbidienza anche riluttante. Ma non accessibile, in qualità di categoria logica, ad alcuna generalizzazione, in quanto la generalizzazione verrebbe subito relativizzata e distrutta (le eccezioni sono ben codificate, esse vanno dall’alleggerimento per giustificati motivi, alla stessa sospensione in casi di particolare eccezionalità).

Un uomo assolutamente veritiero non vivrebbe un giorno nel mondo che ci ospita. Il suo essere sincero partirebbe, infatti, dalla presunzione di sincerità negli altri, cosa alquanto dubbia. Venendo a mancare la reciprocità egli verrebbe subitamente distrutto. Non occorre andare con il pensiero alla condizione hobbesiana dell’homo homini lupus per concludere che solo un santo può trovare la forza per una scelta del genere. La sincerità assoluta entusiasma come possibile sperimentazione altra, ricorda le figure tragiche della letteratura, ma non è questo il problema. La filosofia può coltivare questo brivido, può cercare di tastare quali potrebbero essere i possibili confini dell’umano, ma non può mai prendere corpo come avvertimento pratico, nessuna indicazione comportamentale. Solo la coscienza diversa può manifestare lo scontro tra azione e verità, contrapponendolo allo sposalizio esistenziale tra fare e menzogna. Il resto appartiene alle supposizioni.

La verità è, nel campo che tutti ci ospita, dimensionata nel tempo, nell’esperienza che si accumula e modifica fino a dare l’illusione della completezza, comunque mai realizzata fino in fondo. Questa verità è un concetto logico, quasi sempre basato sulla corrispondenza o sul rispecchiamento, non una realtà vera e propria. Ciò significa che non c’è verità logica, quindi valida nella nostra esistenza quotidiana perché connessa con parametri di controllo stabiliti a priori, che non sia connessa con la falsità. Certo, è possibile distinguere tra errore e menzogna, tra non-verità che può essere corretta – in altre parole, gli errori, le chimere, le illusioni, le fantasticherie, i sogni, ecc. – dal falso vero e proprio, e il falso consapevole, l’inganno dettagliato, la menzogna voluta e costruita.

Il falso palese, l’inganno costruito ad arte, tutto quello che conduce alla falsificazione della realtà, non si lascia dimostrare se non a posteriori e, spesso, in maniera violenta. Lo smascheramento dell’imbroglio è possibile solo a condizione di non supporre esistente una verità assoluta, in caso contrario si cade nel fanatismo dogmatico di cui qualche volta gli stessi anarchici non sono stati esenti. Lo scontro con la menzogna è una lotta di lunga durata.

La realtà che ci ospita presenta tutte le connotazioni del conflitto tra un potere dilagante, sempre più in grado di usare mezzi sofisticati di controllo e di recupero, e una variegata congerie di individui e di movimenti non ben identificati dal punto di vista di classe (questo concetto sta subendo logorii radicali) ma decisi comunque, a vari livelli di coinvolgimento, a resistere o ad attaccare. Il falso non può essere messo da parte come strumento di questa resistenza e di questo attacco. La strategia della menzogna e dell’inganno appartiene a chi non vuole farsi preda. Mentire è una maniera di nascondersi. Per il momento non distinguiamo tra il falso destinato a scompaginare l’assetto del potere e la menzogna di fronte a un’attività repressiva di controllo.

Nascondersi non contraddice di per sé alla nozione di verità. Significa semplicemente non fissare delle coordinate protocollari verificabili con facilità tra la propria identità personale, le proprie intenzioni riguardo il fare e la conoscenza che di tutto questo può avere il nemico. Nascondersi in tanti modi ha funzione di difesa, ma può costituire una forma di attacco.

Darsi una copertura efficace, in grado di dissuadere il nemico dal collocarci in una categoria di antagonisti da controllare con efficacia è certo la soluzione migliore, ma presenta degli inconvenienti. Per prima cosa, se vogliamo che la nostra stessa azione di lotta sia efficace, dobbiamo collegare quasi sempre questa azione con la nostra persona. Tranne il caso marginale della clandestinità professionale, in cui nuova identità e nuovi rapporti personali si sostituiscono ai precedenti, questo nascondimento è ridotto alle cautele minime riguardanti le forme di comunicazione, la selezione attenta degli argomenti che vengono discussi con gli altri, le risposte da fornire a eventuali domande inquisitorie, ecc.

E qui si colloca la sorgente e il punto di partenza di ogni menzogna, comportamento che all’apparenza può sembrare scontato e su cui non vale la pena di riflettere ma che, se applicato con attenzione, è in grado di modificare la condotta dell’avversario, privandolo dell’informazione di cui ha necessità per reprimerci. Se non vogliamo diventare preda dobbiamo fare in modo che non ci inseguano. Attraverso la menzogna modifichiamo una situazione sfavorevole a nostro vantaggio, depistando i segni che lasciamo inevitabilmente nella nostra esistenza quotidiana sui quali l’attenzione del nemico può esercitarsi. In effetti non sappiamo se esistono procedure di controllo in atto contro di noi – quasi sempre è questa la situazione reale in cui ci troviamo – ma dobbiamo dare per scontato che esistano. In altre parole dobbiamo inventarci una realtà che potrebbe non essere vera. Dobbiamo falsificare non solo il nostro proporci di fronte all’avversario ma anche quello che in sostanza l’avversario potrebbe avere messo in atto. Di regola questa seconda parte della menzogna di nascondimento si potrebbe considerare un falso vero e proprio, un’invenzione che è bene collocare all’ultimo grado di attenzione e di pericolosità, senza scadere nella paranoia.

Ma il campo in cui la menzogna volutamente costruita trova la sua maggiore significatività è quello che più esattamente possiamo definire del falso. La costruzione voluta di un falso produce modificazioni consistenti nella realtà e può costituire, come ho detto prima, un efficace strumento di lotta.

La trasmissione di informazioni false è una delle attività principali del potere. Questa realtà innegabile ha posto molti di fronte alla necessità di differenziarsi da una procedura che rischia di farci confondere, noi rivoluzionari, con le vergognose macchinazioni che avvengono nelle stanze dei bottoni. Giusto scrupolo morale e interessante valutazione politica. Si tratta di uno scrupolo morale al quale ho risposto, sia pure in parte, nelle pagine precedenti, ma che non intacca la coerenza rivoluzionaria in quanto il contenuto stesso del falso deve risultare (direttamente o indirettamente) dannoso per il potere e non può mai presentarsi al contrario come un vantaggio. Mentre non c’è dubbio che le falsificazioni quotidiane perpetrate dal potere sono a suo esclusivo beneficio. La valutazione politica che porta a una condanna del falso perché la gente finirebbe per non credere più ai rivoluzionari che lo hanno realizzato parte da una scelta quantitativa di fondo che non ci interessa. Presuppone cioè che il lavoro dei rivoluzionari sia quello di convincere la gran massa della gente della bontà delle proprie analisi per convogliarle verso le proprie scelte. Tale potrebbe essere l’ipotesi del vecchio sindacalismo rivoluzionario o delle ormai superate organizzazioni di sintesi degli anarchici. Non è certo di questi pezzi da museo che sto parlando.

Veniamo quindi al falso segnale. Questo può rivelarsi vantaggioso in minima o in massima parte, anche più del segnale veridico, purché venga interpretato come genuino e tenendo conto dell’obiettivo di attacco al potere, considerando questo attacco non solo nelle sue caratteristiche estreme ma anche piccole (semplici disfunzioni, disservizi, ostacoli produttivi, boicottaggi, ecc.). La mimesi deve ricollegarsi alla forma originaria della comunicazione specifica, mentre la dissimulazione deve inserirsi in questo schema come contenuto, ossia come modificazione.

Il falso Sartre

Ai primi di gennaio del 1978 usciva con le Edizioni Anarchismo Il mio testamento politico, a firma di Jean-Paul Sartre, n. 6 della collana “Nuovi contributi per una rivoluzione anarchica”, tradotto da me con lo pseudonimo di Giuseppe Alvisi.

Dire che questo opuscolo, di appena 40 pagine, ebbe l’effetto di una grossa pietra lanciata nelle acque stagnanti del mondo intellettuale europeo è forse eccessivo, ma certo si trattò di un brutto scherzo giocato alle spalle del filosofo francese, scherzo che, per quel che mi riguardava, avevo in mente di fare da diversi decenni e che in questo modo finiva per prendere corpo.

Quali le caratteristiche di questo falso?

Prima di tutto il testo, di Joseph Déjacque, anarchico, morto a Parigi nel 1864. Quindi un testo datato, ma efficace, per i concetti e per le tesi, oltranziste e senza mezzi termini. Attribuirlo a Sartre poteva solo essere una provocazione, diretta a stimolare e a fare riflettere, oltre a imbestialire il filosofo stalinista, incapace per altro di decidersi per un intervento legale nei nostri confronti. L’avvocato Nino Marazzita, in un telegramma del 3 aprile 1978, ci faceva sapere: «Per conto di J.-P. Sartre et nel rispetto dei suoi princìpi ideologici contrari ogni forma di repressione invitovi cessare pubblicazione et diffusione libro Il mio testamento politico falsamente attribuitogli stop difetto sarò costretto rivolgermi giudice civile per ottenere sequestro stop attesa riscontro cordiali saluti».

Delle tante chiacchiere e stupidaggini pubblicate in tutto il mondo dai giornali e dalle riviste cercherò di dare qui di seguito un’idea sia pure approssimativa.

Umberto Eco su “L’Espresso” del 2 aprile 1978 si chiede angosciato: «Negli ultimi due anni: manifesti politici pubblicati e affissi dal gruppo A con la firma del gruppo B, il falso epistolario di Berlinguer pubblicato in una falsa edizione Einaudi, il falso testo di Sartre di cui si parla nella scheda qui accanto. Ce ne accorgiamo ancora perché la falsificazioni sono grossolane e tutto sommato inabili o troppo paradossali: ma se tutto fosse fatto meglio e con ritmo più intenso?». A parte il fatto che la paradossalità del testo attribuito a Sartre è stata una scelta voluta e non accidentale, allo scopo di mostrare fin dove poteva arrivare la stupidaggine degli intellettuali, non solo italiani ma, per dirla in breve, europei, resta il fatto che il contenuto del testo di Déjacque è tutt’altro che paradossale o incongruo. Leggerlo ha un effetto dirompente, e il fatto che molti abbiano pensato che a scriverlo sia stato il Sartre in questione non è che un effetto secondario, e neanche molto importante, dell’operazione falsificatrice. Ma la preoccupazione di Eco è molto più radicata, egli continua: «Non resterebbe [se ciò avvenisse, cioè se la diffusione dei falsi fosse intensa e persistente] che reagire alle falsificazioni con altre falsificazioni, diffondendo notizie false su tutto, anche sulle falsificazioni – e chissà che l’articolo che state leggendo non sia già il primo esempio di questa nuova tendenza. Ma proprio questo sospetto mostra il potenziale suicida contenuto nelle tecniche falsificatorie». Io non credo che si tratti di un potenziale autoeliminatorio, al contrario renderebbe impraticabile buona parte dell’attuale sistema di fabbricazione delle opinioni, e se si tiene conto dell’immensa portata di Internet, la diffusione di falsi potrebbe essere talmente elevata da risultare inconcepibile allo stato attuale delle diffusioni tramite carta stampata. Tutto ciò sempre se il contenuto del falso in questione sia un contenuto rivoluzionario, e che a essere “falso” rimanga soltanto il contenente, il mezzo che veicola il messaggio. So bene che tra questi due aspetti c’è una connessione sempre più intrinseca di reciproca interferenza, il falso modulo contenitore non può che esaltare l’attenzione nei riguardi del reale, e fondato, contenuto. Mai viceversa, limitarsi soltanto a richiamare su di sé l’attenzione.

Sempre lo stesso Eco ricorda: «Una decina di anni fa [quindi nel 1968 circa] fecero scalpore due episodi di falsificazione. Prima qualcuno mandò all’“Avanti!” una falsa poesia di Pasolini. Più tardi qualcun altro mandò al “Corriere della Sera” un falso elzeviro di Cassola. Entrambi furono pubblicati e suscitarono uno scandalo. Esso fu contenibile perché i due episodi erano eccezionali. Il giorno che diventassero la norma, nessun giornale potrebbe più pubblicare un articolo che non fosse consegnato personalmente dall’autore al direttore. Entrerebbe in crisi l’intero sistema delle telescriventi». Come si vede, anche se oggi il sistema di trasmissione dati è diverso e consente un controllo via e-mail più efficace, ciò non vuol dire che le preoccupazioni di Eco si siano azzerate, in quanto non è certo difficile entrare in sistemi non protetti come quelli che si intrattengono tra uno scrittore e un giornale. Il fantasma della confusione e del caos è sempre dietro le porte.

Ancora Eco: «L’idea teorica che regola queste forme di falsificazione nasce dalle nuove critiche dell’idea di potere. Il Potere non si origina mai da una decisione arbitraria al vertice ma vive di mille forme di consenso minuto o “molecolare”. Ci vogliono migliaia di padri, mogli e figli che si riconoscano nella struttura della famiglia perché un potere possa reggersi sull’etica dell’istituto familiare; occorre che una miriade di persone trovi un ruolo come medico, infermiere, custode perché un potere possa reggersi sull’idea di segregazione dei diversi». Anche qui la tesi di fondo su cui si basa una utilizzazione rivoluzionaria del falso è bene esaminata da Eco. Naturalmente il suo scopo scandalizzato è quello di mettere in guardia sulle potenzialità di questo strumento, ma il fatto sussiste, anche se non ha avuto quel seguito che sarebbe stato auspicabile da un punto di vista rivoluzionario. Così continua Eco: «Ecco che nell’era dell’informazione elettronica si fa strada la parola d’ordine per una forma di guerriglia non violenta (o almeno non sanguinosa), la guerriglia della falsificazione». In fondo il “falso Sartre” intendeva solo mostrare la fragilità dell’apparato intellettuale posto di fronte a una proposta non facilmente decodificabile e, nello stesso tempo, intendeva indicare una strada abbastanza facile da percorrere per mettere in difficoltà il potere. Nessuna ipotesi guerrigliera. Ma Eco è ancora più documentato sull’argomento, dopo tutto si tratta di comunicazione ed è proprio questa la materia di sua massima competenza. Racconta del sistema in uso presso le università americane di telefonare gratis in tutto il mondo utilizzando i numeri di carte di credito di dirigenti di grandi multinazionali. Si tratta di numeri riservati che comunque vengono trovati sul mercato per pochi dollari. Da una conversazione con il sociologo americano Joseph La Palombara, Eco riporta il fatto che «le migliaia di studenti che fanno giochi del genere non sono l’unico esempio di dissenso elettronico. Un gruppo californiano aveva invitato tutti a pagare la bolletta del telefono regolarmente, ma aggiungendo nell’assegno un cent in più. Nessuno può incriminarvi se pagate qualcosa di più. Ma se lo fate in tanti l’intero sistema amministrativo dell’azienda telefonica salta. I suoi computer infatti ad ogni pagamento irregolare si arrestano, registrano lo scarto, fanno partire una lettera di accredito e un assegno di un cent per ciascun creditore. Se l’operazione ha successo su vasta scala si blocca tutto». Non sono sicuro che oggi le cose siano rimaste le stesse e che non ci siano mezzi efficaci per fare funzionare i computer in ogni caso, ma non dovrebbe essere difficile utilizzare ulteriori modifiche nella forma di questo sabotaggio che ricorda da vicino il famoso “working to rule”.

«Ogni potere di vertice – precisa Eco – si regge su una rete di consensi molecolari. Ma occorre distinguere tra quei consensi che permettono il dispiegarsi di forme di controllo macroscopiche e quelle forme di consenso che soddisfano invece a un ritmo che diremo biologico, e che stanno infinitamente al di qua della costituzione dei rapporti di potere propriamente detti. Facciamo due esempi. Uno Stato moderno riesce a far pagare le tasse ai cittadini non attraverso l’imposizione di una forza di vertice ma attraverso il consenso. Il consenso nasce dal fatto che i membri del gruppo hanno accettato l’idea che certe spese collettive, (a esempio: chi paga i panini per la gita di domenica?) vanno ridistribuite collettivamente (risposta: i panini li paghiamo un tanto a testa). Ammettiamo che questa consuetudine di microconsenso sia sbagliata: i panini, poniamo, li deve pagare chi trarrà l’utile maggiore dalla gita, o chi ha più danaro. Se si distrugge la base di microconsenso entra in crisi anche l’ideologia su cui si regge il sistema di tassazione. Ma passiamo ora al secondo esempio. Esiste un gruppo di persone unite da rapporti qualsiasi. Tra queste persone, come in qualsiasi gruppo, vige la convenzione che chiunque dà una notizia dia una notizia vera. Se uno mente una volta viene riprovato (ha ingannato gli altri). Se mente abitualmente viene giudicato inattendibile, il gruppo non si fida più di lui. Al limite il gruppo si vendica e mente a lui. Ma supponiamo che l’usanza di non rispettare la condizione minimale della verità si diffonda, e che ciascuno menta agli altri. Il gruppo si disfa, comincia la guerra di tutti contro tutti». La prima ipotesi, con il relativo esempio puerile, è risibile e, in quanto tale, non illustra a fondo il sistema di funzionamento della tassazione, fa comunque capire le conseguenze disastrose che si verificherebbero nel momento in cui crollerebbe il consenso collettivo. Il secondo esempio non tiene conto del fatto che il falso non ha senso che si rivolga nei riguardi di tutti, solo un comportamento privo di senso potrebbe suggerire una cosa del genere. Un falso bene indirizzato cerca di mettere in crisi una parte del referente, mentre la parte restante, in genere la minoranza più vicina culturalmente e ideologicamente a chi l’ha prodotto, sa perfettamente di cosa si tratta in realtà, o possiede i mezzi per decifrare il fatto in questione con grande facilità. Inoltre, anche se questo non dovesse accadere, il contenuto oggettivo del falso deve, per essere quel tipo di falso di cui ci occupiamo qui e non un falso qualsiasi che per principio si limita a dire tutto e il contrario di tutto, possedere un contenuto di verità, un messaggio che rispetti i rapporti di forza rivoluzionari e che indichi mezzi e processi di sviluppo per un attacco contro il nemico. Come dire, il falso resta valido, solo l’assegnazione a una fonte precisa è falsa, e questo mette in dubbio e getta nel panico, come è avvenuto per l’appunto con il falso Testamento di Sartre, solo coloro che assegnano significato a un contenuto, a un’idea qualsiasi, solo attraverso il filtro e la garanzia di chi quella idea ha firmato e se ne dichiara autore.

A partire da questo punto il buon Eco, che pure aveva mantenuto una considerevole lucidità di analisi, si perde e comincia a dire le solite stupidaggini che la gente della sua risma è solita lasciarsi sfuggire quando entra in confusione. «A questo punto [quando tutti mentono], non sono stati distrutti i rapporti di potere. Sono state distrutte le condizioni di sopravvivenza del gruppo. Ciascuno diventa a turno il sopraffattore e la vittima. A meno che il potere non venga in qualche modo ricostituito in favore di qualcuno, e cioè di colui o di coloro che si collegano per elaborare qualche tecnica più efficace, e mentono meglio degli altri, e più in fretta, diventando in breve i padroni degli altri. In un universo di falsificatori non viene distrutto il potere, al massimo si sostituisce un detentore di potere a un altro». Questa considerazione è ovviamente puerile in quanto parte dall’ipotesi di una netta separazione tra verità e menzogna, quando al contrario è dimostrato che questa separazione, e il suo utilizzo “puro”, è solo possibile nella mente estremista, e obnubilata, dei filosofi. L’esempio della Fiat messa in crisi da un comunicato falso che a sua volta assume un falsificatore più abile per mettere in crisi coloro che l’hanno messa in crisi, è talmente stupido che non mette conto discuterne.

L’ultima perla di questo ragionamento, cominciato bene e finito male – da cui si ricava che il povero Eco si è via via spaventato a tal punto da perdere le staffe e la sua normale capacità di giudizio, che non è poca in questi argomenti – si svolge come segue: «Certe forme di consenso sono così essenziali alla vita associata che si ricostituiscono contro ogni tentativo di metterle in crisi. Al massimo si ricostituiscono in modo più dogmatico, direi più fanatico. In un gruppo in cui si diffondesse la tecnica della falsificazione disgregatrice, si ristabilirebbe un’etica della verità molto puritana; la maggioranza (per difendere le basi biologiche del consenso) diventerebbe fanatica della “verità” e taglierebbe la lingua persino a chi mente per fare una figura retorica. L’utopia dell’eversione produrrebbe la realtà della reazione». Per la verità le critiche che ho ricevuto per essermi assunto la responsabilità dell’affaire Sartre non sono giunte fino a tagliarmi la lingua, per quanto di certo non sono state tenere, ma sono arrivate da compagni che avevano, e hanno, dell’anarchia una concezione rigida e incapace di andare oltre il proprio naso. In ogni caso, qualora questi compagni avessero minimamente riflettuto, si sarebbero resi conto dell’infondatezza di quello che dice Eco e anche delle loro paure o delle loro petizioni di principio. Quando quest’ultimo precisa, subito dopo l’esplosione della sua paura: «Ha senso proporsi di disgregare la rete sottile dei micropoteri (si badi bene, non di metterla in crisi attraverso la critica dei suoi presupposti, ma di disgregarla rendendola inagibile di colpo) una volta che si è assunto che non esiste un Potere centrale e che il potere si distribuisce lungo i fili di una ragnatela sottilissima e diffusa? Se questa ragnatela esiste, essa è capace di risanare le sue ferite locali, proprio perché non ha un cuore, proprio perché è – diciamo – un corpo senza organi». Ragionamento illusorio perché non è affatto certo che lo scopo delle falsificazioni sia quello di abbattere il potere, o il potere diffuso nel territorio, come oggi in effetti le strutture statali sono inevitabilmente, può, come di fatto è, cercare soltanto di metterle in difficoltà. Nessuno ha mai potuto affermare, e sarebbe stato un delirio di onnipotenza, che con il falso si possa distruggere il potere. Si può ostacolarlo e, alla lunga, quest’ultimo finirebbe per trovare risposte adeguate e allora bisognerebbe trovare altre strade e altri mezzi. Sempre salvando la validità, e direi la fondatezza veritiera di quello che è il contenuto che il falso, falsamente, veicola.

Sempre Umberto Eco, in un riquadro a parte, pubblicato sullo stesso numero de “L’Espresso” citato sopra, ci fa sapere quanti tipi di falso ci siano, il falso che imita l’originale spudoratamente senza avere la capacità di farlo, il falso artistico che riesce a rendere perfetta l’imitazione, e allora solo l’attestazione notarile ci può salvare, e infine: «L’opera sembra quasi fatta dal suo presunto autore, salvo che dice cose che l’autore non aveva mai detto (anche se magari avrebbe voluto, o potuto, o dovuto dirle). Quando il gioco è scoperto abbiamo il falso come parodia, ed è una forma di critica letteraria o sociale. Quando l’oggetto intende invece passare per autentico, abbiamo una tecnica di falsificazione che può tendere a due scopi: o a propalare notizie false su quell’autore o a provocare, dopo la scoperta del falso, un’atmosfera di sfiducia nei confronti di ogni messaggio, dato che non possiamo più fidarci della “genuinità” della sua emissione. In quest’ultimo caso la tecnica di falsificazione non si avvale della nostra fiducia, al contrario vuole che salti in aria la nozione stessa di autenticità e rendere inagibili le relazioni di gruppo basate su una rete di consensi microscopici». Anche qui Eco comincia bene e finisce male. La conclusione riprende la messa in crisi dell’autenticità con lo scopo di abbattere il potere, che è chiaramente una fola, mentre è interessante notare che qui finalmente si rende conto di che cosa sia questa “fede” nell’autenticità, e di come svolga il suo ruolo di sostegno e di garanzia, facendo battere i nostri cuori per la paura che qualche sconsiderato, come il sottoscritto, scombini le carte senza preavviso.

Abbandoniamo Eco al suo destino e passiamo a Valerio Riva che è autore di un altro riquadro interessante, sempre sul medesimo numero de “L’Espresso”. Questi scrive: «Di tutti i falsi politici, il più folle o per lo meno il più bizzarro è l’ultimo. Ne è vittima Jean-Paul Sartre. È opera non si sa bene ancora di chi; ma certamente di qualche intellettuale francese, probabilmente di sentimenti anarchici, comunque di buona cultura, di buona memoria, conoscitore della storia del movimento operaio e, per così dire, bon vivant della filosofia moderna. Di che si tratta? Ecco qua. Qualche settimana fa, una rivista siciliana “Anarchismo” che esibisce come unico proprio indirizzo una casella postale (n. 61) a Catania, pubblica una plaquette di 40 pagine intitolata Il mio testamento politico e firmata niente meno da Jean-Paul Sartre. La plaquette non sfugge all’attenzione dei molti amici e conoscitori del filosofo francese in Italia. Costoro non fanno fatica a riconoscere il falso. Non c’è niente di Sartre, se non forse qualche frase qua e là, lo stile non appartiene a quello tradizionale delle sue opere. Sartre stesso, informato, smentisce subito di aver mai scritto una cosa simile. Ma allora, chi l’ha scritta? Vediamo. Prima di tutto cerchiamo di capire perché è stato scritto. Sul “Messaggero” Costanzo Costantini avanza l’ipotesi che si tratti di una manovra: inventare un Sartre fautore della violenza e teorico senile della ribellione a tutti i costi. L’ipotesi sembra convincente. Ma la curiosità non è soddisfatta: anche in questi termini è un falso troppo ingenuo. Neanche il più violento degli anarchici del 1978 scriverebbe in questo modo. Figurarsi Sartre, senile o no. Andiamo dunque oltre. Lo stile della plaquette si presenta immediatamente come uno strano, imprevedibile pastiche di scrittura tipicamente ottocentesca mescolata con indicazioni molto attuali. Tutto il testo sembrerebbe costruito con questo curioso procedimento: prendere uno o più scritti di anarchici dell’Ottocento, mescolarli insieme ed espungere tutti i riferimenti a fatti e personaggi di quel periodo storico e sostituirli con riferimenti al presidente Giscard, a Mitterand, a Marchais, al 1968. A questo punto mi domando se questo pastiche possa essere svelato nelle sue componenti stilistiche. E andiamo da uno storico dell’anarchismo francese, Jean Maitron, autore della più completa bibliografia della letteratura anarchica dell’800. Maitron immediatamente identifica, se non proprio l’autore del testo (del resto quasi sempre anonimo), per lo meno l’epoca in cui il testo originario può essere stato scritto. Intorno al 1880, in Francia ci fu tutta una fioritura di riviste, pamphlet, brevi testi, che invitavano alla ribellione verso la società borghese, predicando addirittura la pratica dell’avvelenamento dei pozzi, dei cibi, lo stupro, l’assassinio, il saccheggio, l’incendio. E così assurdamente incendiari da rasentare piuttosto il delirio letterario che la vera e propria propaganda politica. Ma perché attribuire un testo di questo genere a Sartre? Nella dedica che sta nel frontespizio del libro c’è forse la spiegazione di tutto il trucco. Dice la dedica: “Ai miei amici anarchici da me ingiustamente disprezzati e alla memoria del mio amico Camus”. L’aver preso un testo del 1880, follemente delirante, letterariamente violento, tutto sommato abbastanza ridicolo, averlo attribuito a Sartre (con qualche piccola modificazione) e presentarlo come una specie di riparazione postuma alle divergenze con Camus, è forse lo scherzo di un letterato arguto? Un esempio di critica letteraria? Una esegesi filosofica? Come dire che il Sartre politico non è meno delirante degli ingenui anarchici letterari di un secolo fa?». Queste considerazioni sono interessanti e dimostrano, a prescindere del mezzo impiegato, il falso che potrebbe ancora oggi prendere altre strade e moltiplicarsi andandosene in giro per il mondo a seminare scompigli vari, dimostra dicevo l’inconsistenza della cultura dominante. Pensate a Maitron, indiscusso specialista, professore alla Sorbona, che prende un abbaglio gravissimo (ovviamente per lui), non riuscendo a individuare il testo di Joseph Déjacque che risale al 1864 e non al 1880. E, infine, la dedica, che porta l’estensore farneticante del riportato “pezzo” a considerazioni di esegesi letteraria e di piccolo battibecco interno al mondo fittizio dell’immaginazione stilistica, mentre il problema scivolava altrove, verso lidi per questa gente assolutamente incomprensibili.

Il “Corriere della sera” del 3 aprile 1978, in un articolo firmato da Sebastiano Grasso, cerca di costruire un’intervista con me, avvenuta nella tipografia Alfagrafica Sgroi a Catania, la quale è stata soltanto una serie di battute con un mio conterraneo (credo che Grasso sia di Acireale) da me conosciuto anni prima che in quel momento si presentava nella veste di intervistatore. La mia risposta è stata soltanto: “Non vi dico chi è l’autore del testo, non certamente Sartre, cercatevelo da soli, e non vi concedo un’intervista. D’altro canto dove eravate voi giornalisti quando abbiamo pubblicato, sempre con le Edizioni Anarchismo l’Opera completa di Michail Bakunin, di cui di già usciti i primi cinque volumi per complessive 1700 pagine? Quella era una occasione per discutere insieme. Ma queste cose non vi interessano, vi interessa sapere in che modo, oggi, la vostra incompetenza non vi consente di capire chi sia l’autore vero che sta sotto il nome di Sartre”.

Il “Messaggero” del 12 aprile 1978, in un articolo di nove colonne, intitolato “Falso, scemo e brutto”, a firma di Costanzo Costantini, affronta sfiorandolo il problema. Le competenze dell’autore non gli consentono di cogliere neanche alla lontana il fenomeno che gli sta davanti. Eccolo quindi che si limita a una riproduzione pari pari del testo con citazioni abbondanti, visto che doveva pur riempire l’intera terza pagina del giornale. Poi aggiunge: «Non c’è bisogno di aver letto gli scritti di Jean-Paul Sartre, per capire, immediatamente, che si tratta di un falso grossolano, di un’attribuzione volgare e insultante: se ne può rendere subito conto anche chi non ne abbia letto neppure una pagina. Non c’è una sola riga, in tutto il libro, che potrebbe essere stata scritta dal filosofo francese, neppure ora che da più parti, non solo da destra ma anche da sinistra si tenta di farlo passare per un vecchio rimbecillito e non si esita a dire che, ormai vecchio e quasi cieco, andrebbe affannosamente alla ricerca del consenso a ogni costo, e che avrebbe perso il controllo di sé e di ciò che fa. Neppure i suoi avversari più accaniti, neppure i suoi detrattori più virulenti e più in malafede, possono negare che Jean-Paul Sartre, in ogni suo scritto, anche il meno letterario, anche il più occasionale e più direttamente politico, conservi sempre un proprio stile, un alto livello stilistico, di ricerca e una qualità di scrittura che lo collocano fra i maggiori prosatori dell’ultimo mezzo secolo... Neppure sul piano ideologico e politico il libello può essere attribuito, per un solo minuto, al filosofo e all’uomo politico francese. Intendiamo riferirci, specificamente, alla componente anarchica che si ritrova in lui, nel suo pensiero e nella sua azione. In occasione di una recente polemica sorta in seguito alla firma da lui accordata all’“Appello contro la repressione in Italia”, avemmo modo di rilevare che Jean-Paul Sartre aveva sempre palesato una spiccata tendenza anarchica, e che questa tendenza rappresentava un elemento di coerenza e una prova di rigore intellettuale pur nella grande volubilità di cui aveva dato esempio e come pensatore e come uomo politico». Costantini è davvero stupefacente, lo stalinista Sartre è vestito con i panni dell’anarchico. Che sia l’effetto, a posteriori, del nostro falso testamento? In sostanza, come tutti sanno, il filosofo (si fa per dire!) francese era andato bazzicando in tutte le versioni omologate delle modulazioni politiche della sinistra, anche la più estrema, ma uno stalinista può alla fin fine risultare anarchico? Solo nell’interpretazione di un qualsiasi pennivendolo la nostra provocazione può essere presa come una deturpazione del sostanziale (e veritiero) anarchismo di Sartre. Io ho sempre pensato che Sartre non fosse altro che uno stalinista, provvisto di capacità affabulatorie, ma niente di più. Continua l’imperterrito Costantini: «Dalle posizioni assunte dai lontani anni Quaranta fino a quelle più recenti, egli aveva insistito su un motivo costante: che preferiva il movimento alla stasi, il divenire all’essere, la negazione all’affermazione, che propendeva per il cambiamento continuo, il rinnovamento incessante, per una società senza classi, senza dittatura e senza stabilità; che era contro ogni tipo di istituzione e di potere, contro l’istituzione e il potere in se stessi. Ma queste tendenze e questi motivi di pensiero non hanno nulla a che fare con ciò che si legge in questo apocrifo testamento politico». Ma andiamo, come si possono dire cose del genere riguardo un personaggio come Sartre. Lascio ai lettori il compito di spiegare i motivi per cui questo giornalista si prende tante preoccupazioni per difenderlo. Dopo tutto bastava passare il nostro libello sotto silenzio. Invece non lo ha fatto, e il motivo potrebbe essere, ne suggerisco uno, che un po’ tutti sono rimasti interdetti, vista l’ignoranza generalizzata, e hanno forse pensato che sotto sotto ci poteva essere sì una provocazione, ma fatta dallo stesso Sartre. La stupidaggine umana non ha limiti.

Un po’ con il senno del poi, Domenico Settembrini su “L’Europeo” del 19 luglio 1979 scrive parlando sempre del falso Testamento: «Una buona conoscenza liceale della storia dovrebbe consentire anche al comune lettore di situare l’originale tra il 1850 e il 1861, attribuendone la paternità ad uno di quei francesi che emigrarono in America a seguito del fallimento della rivoluzione del 1848 e della successiva affermazione del II Impero di Luigi Bonaparte. Gli indizi in questo senso addirittura abbondano. Dai continui riferimenti “al governo provvisorio” e “al ‘48”, considerati come eventi ancora brucianti, per finire alla tirata contro la schiavitù “i bianchi d’America negano la razza umana presso i negri”. Eppure, interpellato da un giornalista, Jean Maitron, uno degli storici più seri e preparati dell’anarchismo francese, sposta la data dell’originale intorno al 1880, per attribuirne la paternità ad uno di quegli anonimi cui si deve in quegli anni tutto un fiorire di appelli anarchici alla ribellione, stilati con gli stessi toni incendiari e apocalittici del “testamento”. La cantonata ha dell’incredibile. Già nel 1971 l’editrice Champ Libre, stimolata dall’ondata neoanarchica del 1968, ha infatti messo a disposizione anche del pubblico delle librerie la raccolta degli scritti di Joseph Déjacque, A bas les chefs. Qui si può leggere per intero La question révolutionnaire del 1854 che è servita da canovaccio all’ignoto autore del falso testamento. Tranne qualche piccolo taglio e l’aggiornamento dei nomi di persona, come Giscard al posto di Bonaparte, i due testi sono anzi identici». Settembrini è un reazionario documentato, e per rendersene conto basta leggere il seguente passo, contenuto nel medesimo articolo sopra citato, che mi concerne personalmente: «Il Bonanno, editore dell’edizione italiana del testamento, da anni va predicando la necessità di recuperare ed applicare su vasta scala le tecniche più destabilizzanti dell’anarchismo classico. Il suo motto è: dal sabotaggio della produzione nelle fabbriche alla guerra di guerriglia. Era chiara quindi l’intenzione di avallare con il nome di Sartre la scelta terroristica, facendo nel contempo capire al filosofo che l’anarchismo è un’idea consequenziale, abbracciando la quale non si può pensare di stare eternamente sulla soglia, come il padre dell’esistenzialismo ha fatto con il comunismo. Quanto al Bonanno non si può negare che di coerenza ne ha da vendere. Ha infatti duramente criticato le esitazioni della maggior parte degli anarchici, a schierarsi senza riserva con l’ammissione che l’anarchismo o è rivoluzionario o non è». Voglio qui ricordare che nelle mie tante vicende con la repressione, sia a livello di inchieste della polizia come pure di processi veri e propri, mi sono trovato spesso di fronte a queste analisi pubblicate (non solo all’articolo sopra citato) da “L’Europeo”, anche a firme diverse da Settembrini. I collaboratori di polizia e le spie sono tanti.

Giacoma Maria Pagano, sulla “Rivista di studi crociani”, nel numero di aprile 1978, p. 228, scrive: «Questo opuscolo [Il testamento politico di Sartre] appare soltanto come il prodotto di una forsennata protesta, stimolata forse dai problemi entro cui si dibatte la società del nostro tempo. C’è nel sottofondo una certa aspirazione a rendere tutti felici nel mondo, a liberare i popoli dall’oppressione sia essa della dittatura che delle leggi e delle istituzioni; c’è l’inno alla libertà (la famosa “libertà senza freno” di cui Camus un tempo aveva parlato: non a caso, forse, lo scritto gli è stato dedicato – dimenticando, però, le vivaci polemiche avute un tempo da Sartre con lui)». Ma certa gente con quale capacità di comprensione si accosta ai problemi? Non è dato saperlo. La dedica a Camus, naturalmente apocrifa come tutto il resto, aveva lo scopo di fare pensare a un avvicinamento (questo sì possibile) all’eredità politica e rivoluzionaria dell’ex amico Camus. Era, in un certo senso, la fuorviante indicazione, posta in anteporta che, come si vede, ha avuto imbecilli a sufficienza che ci sono cascati. Risparmio al lettore il resto dell’articolo, quanto di più stupido e piatto si possa immaginare.

Un esempio di imbecille credulone è costituito dall’articolo di G. Mazz., “Sartre approda all’anarchia in un confuso testamento politico”, pubblicato da “La voce repubblicana” del 18 febbraio 1978. Il povero recensore abbocca in pieno e cita anche l’editrice (fantomatica) originale francese da cui Il testamento politico afferma di avere fatto la traduzione: Gare l’explosion. Ma gare l’explosion, in francese vuol dire: “attento, sta per esplodere”. Insomma una presa in giro. Bastava avere una migliore dimestichezza con le lingue. Per altro, visto che nessuno ha notato questa chicca, perché prendersela con il povero Mazz. Lasciamo perdere. Egli scrive: «In meno di quaranta pagine il tormentato filosofo espone quello che definisce il proprio “testamento politico”, ed affida alla storia un insieme di idee in cui viene condensato il risultato finale della sua ricerca filosofica. Leggendolo tutto d’un fiato si ha l’impressione che l’estensore dello scritto non sia Sartre, ma un qualsiasi anarchico imbevuto della lettera ottocentesca in materia. Eppure qua e là riemergono piccole frasi e notazioni che rivelano la presenza della penna sartriana». Ma non è tutto. La stupidaggine dilaga più avanti: «Sartre attacca frontalmente ogni potere costituito: lo fa con un semplicismo sconcertante quasi forzato dalla volontà di dire tutto e subito, la sua ansia di liberazione. A volte scade nella retorica delle frasi ad effetto piene di immagini che dovrebbero eccitare la fantasia aggressiva ma che più spesso sortiscono l’effetto di appesantire la lettura. Una vena di profondo vitalismo si insinua in tutto lo scritto. Ricorrono frequentemente verbi di azione, di movimento, che si mescolano con qualche sprazzo di utopia armonicistica. Tutti gli ingredienti della polemica anarchica tradizionale si ritrovano, dagli attacchi contro ogni forma di governo, all’auspicio della legislazione diretta, dalla lotta contro ogni religione, contro la famiglia, la proprietà al breviario delle riforme sociali in cui il popolo come tale viene eretto a soggetto unito, mitico artefice della propria storia senza intermediari. Non mette conto qui di seguire le argomentazioni di Sartre, perché non ve ne sono; mi importa valutare la congruenza delle cose che dice. Non c’è alcuna seria novità in queste pagine, buttate giù con uno stile sanguigno, pieno di aggettivazione sovrabbondante in cui i labirinti del pensiero esistenziale paiono devastati da una forza bruta piena di certezze e di gran rifiuti, ansiosa di affermare se stessa contro tutto, in nome della rivoluzione per la libertà, ma mediante ogni sorta di iconoclastia e di saccheggio». Fa piacere vedere fin dove le carte si possono imbrogliare per alcuni intellettuali e come questa gente possa ricavare deduzioni a volontà da qualsiasi cosa venga messa loro sotto il naso.

Sempre sul “Corriere della Sera”, questa volta del 15 aprile, Sebastiano Grasso torna sull’argomento scrivendo: «Gli anarchici non dichiarano ancora di quale “classico” si tratti. È evidente che cercano la polemica. A tutti i costi. E il telegramma del legale del filosofo deve averli sorpresi non poco. È chiaro che Jean-Paul Sartre che recentemente ha denunciato la repressione in Italia, non vuole prestarsi ad essere, egli stesso, incentivo per questa. Il processo penale, quindi, non ci sarà. Con grande delusione degli anarchici che, forse, puntavano proprio su ciò. In fondo, quella che, apparentemente, poteva sembrare una operazione commerciale (cinquemila copie di tiratura ormai, pare, tutte esaurite) alla lunga svela il suo aspetto reale: un’operazione politica. Il fine? Forse smentire, coi fatti, la posizione ideologica di Sartre. Ma, a quanto pare, il filosofo francese non è caduto nel tranello». Grasso tocca qui un elemento di maggiore concretezza, solo che si sbaglia ritenendo che pensavamo a una risposta repressiva da parte di Sartre, era più che evidente che il vecchio stalinista non poteva rivolgersi alla magistratura, e proprio per le sue non remote posizioni contro la repressione in Italia. Riguardo il tentativo di svelare le reali posizioni di Sartre, per avere questo progetto, non si poteva di certo fare affidamento su quaranta povere paginette, occorreva ben più serio approfondimento, che per altro a tutt’oggi non è stato fatto.

Luigi Compagnone è davvero impagabile. Su “Tuttolibri” dell’8 aprile 1978, scrive: «O il responsabile [delle Edizioni Anarchismo] è un idiota oppure si è compiaciuto (da superidiota interessato) di contribuire a questa orrenda sentina di confusione, di odio e violenza che alimenta il nostro Paese. Se poi è davvero un anarchico, è il più ciuccio di tutti gli anarchici poiché non sa nemmeno che nel loro recente congresso, gli anarchici veri hanno rifiutato i dogmi e i codici dei violenti e degli assassini. A questo punto non posso, io napoletano, non rimpiangere Ciccio Cacozza, un dolcissimo anarchico dell’ultimo Ottocento partenopeo, che nel 1898, durante una manifestazione riuscì a infilarsi nel gabinetto del prefetto Casavola gridando: “Signore, siete mio ostaggio!”. “Uscite fuori”, replicò seccato il prefetto; e Cacozza: “La vostra accoglienza, signore, è così poco educata che mi sento costretto a togliere immediatamente il disturbo”. E se ne andò. Ciccio Cacozza non lanciò mai bombe ma soltanto manifestini incitanti gli inquilini a non pagare l’affitto. Morì all’albergo dei poveri. La sua povera vita, quella sì, era stata un rispettabile e doloroso “pastiche”». Che dire? A parte le contumelie, che non mi sfiorano, dette da un imbecille come Compagnone mi sembrano quasi dei complimenti. La storiella, se fosse vera, è degna dei racconti di Croce. Del Testamento? Manco a parlarne, che ognuno vada per la sua strada.

Alberto Stabile, dalle pagine di “La Repubblica” del 4 aprile 1978, non trova di meglio di documentare i propri lettori del fatto che in Sicilia i catanesi hanno fama di falsari impenitenti, a causa del famosissimo Ciulla, che agli inizi del Novecento tenne in scacco le polizie di tutta l’Italia con la perfezione dei suoi biglietti di banca falsificati.

Non mette conto riferire gli articoli di “Le Figaro”, “El Pais”, “Die Frankfurter Zeitung”, “The Guardian”, ecc. Allo stesso modo non interessa riportare le considerazioni dei tanti giornali militanti che hanno pubblicato parte o la totalità del Testamento.

Jean-Paul Sartre: Il mio testamento politico

Jean-Paul Sartre
Mon testament politique
Edizioni “Gare l’explosion”
Paris 1977

Traduzione di Giuseppe Alvisi

Ai miei amici anarchici
da me ingiustamente disprezzati
e alla memoria del mio amico Camus

Ai proletari

Fratelli proletari è a voi che dedico questo lavoro, frutto delle veglie di uno dei vostri.

È a voi che raccomando queste pagine, inchiostro cristallizzato nella solitudine e nell’esilio del dolore; esercitazione all’odio e al disprezzo, alla rovina e alla morte della borghesia; attacco a piena gola alla religione e alla famiglia, al governo e alla proprietà!

Possano queste pagine, come chicchi di grandine nello spazio, servire a incrinare nelle vostre coscienze le nozioni del diritto e far vibrare nei vostri cervelli e nei vostri cuori la collera sociale. Sono ansioso del momento in cui voi, massa energica, sollevata dalla logica e dalla forza rivoluzionaria, vi precipiterete come una valanga su questa società carica di privilegio e di sfruttamento.

Ed allora, come un germe fecondo, come un raggio vivificante, possano queste pagine aggiungersi alla primavera rigeneratrice che succederà all’inverno della distruzione; aprendo la strada alla vita umana, alla libertà, all’eguaglianza, alla fraternità.

E possa così, dopo il sanguinoso cataclisma, l’umanità camminare sempre di scienza in scienza e di scoperta in scoperta, alla conquista dell’ideale, all’armonia, relegando, di giorno in giorno, di ora in ora, la civiltà tra le mostruosità del passato, tra le antichità antidiluviane!

Introduzione

Ogni governo che non comprenda l’insieme del popolo è un governo di fatto. Il diritto – se diritti e governo non avessero giurato di restare sempre in contrasto – sarebbe il popolo legiferante da se stesso, senza rappresentanza, senza delega.

Fino ad oggi non si sono avuti che governi di fatto.

Ma, per quanto insistano antichi e nuovi usurpatori della sovranità del popolo, statalisti di ogni tipo, repubblicani formalisti o montagnardi, Giscard è forse fuorilegge?

Se si trattasse della legge politica – e per questi signori non si tratta d’altro – della legge per come esiste sotto tutti e con tutti i poteri, costituzionali o assoluti, no, Giscard non è fuorilegge. Al contrario è il Dio e il pontefice.

È nella legge come le assemblee rappresentative, legislative o costituenti, concedenti carte o leggi al popolo; come il governo provvisorio della rivoluzione, lanciante le sue formule dal monte Sinai.

Su questo punto nessuna contestazione, Giscard non è fuorilegge, cioè non è fuori della legge politica, s’intende.

Ma, una cosa è il diritto, altra la legge sociale, la legge umana, la legge naturale.

Da questo punto di vista, Giscard è nella legge? Evidentemente no. Non più del governo provvisorio che volge a proprio profitto la vittoria di febbraio. Non più dell’assemblea legislativa che imprigiona, deporta, fucila, ghigliottina le forze sociali dell’avvenire; che vota e promulga a volontà imposte sulla miseria.

Ma non il solo signor Giscard è fuorilegge. Lo è anche il governo, tutti i governi precedenti, tutta la borghesia, tutti i proprietari, i banchieri, i bottegai, gli industriali. Ogni padrone che sfrutta il lavoro, la produzione, la miseria e la fame del proletariato.

Sì, fuorilegge! E si è nel diritto di protestare contro l’oppressione borghese, con il fucile insorgendo in massa, bandiere al vento, al sole delle barricate, ed anche con il coltello insorgendo individualmente, da soli, all’angolo di una strada deserta o sotto il velo della notte. Uccidere e spogliare un principe del suo scettro, uccidere e spogliare un borghese del suo oro, non significa uccidere e spogliare un uomo: significa abbattere una bestia feroce e spogliarla della sua pelliccia; in ogni minuto delle ventiquattro ore, per i proletari, si tratta di legittima difesa.

Chi di voi oserebbe gettare l’anatema contro i servi del Medioevo che incendiavano i castelli del signore, immergendo le mani nel suo ventre per strappargli le viscere e poi danzare tra le rovine del castello fumante? Chi oserebbe gettare l’anatema su questi servi che intendevano strappare con il ferro e con il fuoco la propria libertà?

Chi di voi oserebbe gettare l’anatema sullo schiavo dei tempi antichi che colpiva il patrizio cogliendolo tra i fumi di un’orgia, strappandogli dalle mani la coppa d’oro, e dopo averla vuotata fuggiva portandosi dietro il suo bottino e assassinando il derubato?

Chi di voi oserebbe gettare l’anatema sui repubblicani della vecchia Roma che, volendo liberare la Repubblica da un tiranno, immersero il pugnale nei fianchi di Cesare, lavando con il sangue la vergogna del suo giogo?

Ebbene! I tempi non sono cambiati. Cesare esiste ancora. Ieri si chiamava governo provvisorio, governo della liberazione, costituente, assemblea legislativa, Presidente; oggi si chiama Giscard; domani potrebbe chiamarsi Marchais o Mitterand.

Bruto e tutti i regicidi sarebbero dunque morti?

Il patrizio, il signore feudale, non sono forse i borghesi di oggi? Lo schiavo, il servo, non è forse il proletariato di oggi? Schiavi, servi, rivoluzionari dei tempi presenti, la logica è inesorabile, essa guida la nostra condotta. Allora, in piedi! rinnoviamo la tradizione con Bruto, Spartaco e i ribelli contadini dei tempi passati! – In piedi! azione! insurrezione! rivoluzione!

– Azione, insurrezione, sì, ma perché?

– Per farci imprigionare, mitragliare senza scopo; per lasciare le nostre compagne e i nostri figli nel lutto e nella miseria? Ben povera cosa tutto ciò.

– Rivoluzione, sì, ma quale?

– Quella che sostituirà al potere un altro potere, a un uomo altri uomini? Cosa più triste ancora! – Tutti noi abbiamo il diritto e, – venuto il momento favorevole – il dovere di agire; di servirci dei muscoli che la natura ci ha dato per spezzare con la violenza la catena della schiavitù che ci lega alla gola e ai polsi. Individualmente possiamo poco; collettivamente, tutti – abbiamo la forza. Quello che ci manca per agire con successo, quello che è troppo poco purtroppo! è l’idea, è la fede, la passione, il fanatismo per l’idea; fede, passione, fanatismo senza i quali non si possono sollevare le montagne, operare i miracoli; idea senza cui la forza è infeconda e non semina che per raccogliere catastrofi. La forza senza l’idea è come una locomotiva lanciata a tutta velocita in una direzione in cui non ci sono le rotaie; è una nave senza pilota e senza bussola che ben presto sarà inghiottita dai flutti.

Per cui nessuna azione, nessuna insurrezione, nessuna rivoluzione senza uno scopo sociale, se non vogliamo “mettere a posto di un delitto un altro delitto”.

Tuttavia l’immobilità non è ammissibile. Bisogna agire, insorgere, rivoluzionare. Che ognuno interroghi pertanto il proprio pensiero, il pensiero degli altri, vi penetri e vi getti delle idee. Che tutte queste convinzioni individuali, senza perdere nulla della propria individualità, si raggruppino in una unità di principio come le foglie nel ramo di un albero. Che si affrontino uno o più problemi: il governo, la religione, la proprietà, la famiglia. Che tutti coloro che li risolvono positivamente si mettano da una parte e tutti quelli che li risolvono negativamente si mettano dall’altra. Così, senza essere d’accordo su tutto ciò che consegue a queste quattro grandi teste della bestia che sotto il nome di civiltà ci costringe alla barbarie moderna; pur riservandoci delle differenziazioni di dettaglio, cerchiamo di costituire l’unità del partito rivoluzionario. Allora la nave avrà un pilota, una bussola; la locomotiva le rotaie; la forza sarà al servizio dell’idea e la rivoluzione sarà potente.

Della rivoluzione

Princìpi
libertà, uguaglianza, fraternità
conseguenze

Abolizione del governo sotto tutte le sue forme, monarchica o repubblicana, della supremazia di uno solo o delle maggioranze. Instaurazione dell’anarchia, della sovranità individuale, della libertà intera, illimitata, assoluta di fare tutto ciò che è nella natura dell’essere umano.

Abolizione della Religione, religione cattolica o israelita, protestante o di qualsiasi altro tipo. Abolizione del clero e dell’altare, del prete – curato o papa, pastore o rabbino – della Divinità, idolo in una o tre persone, autocrazia o oligarchia universale.

Al loro posto, l’uomo – nello stesso tempo creatura e creatore – con la natura per Dio, la scienza per prete e l’umanità per altare. Abolizione della proprietà individuale, proprietà del suolo, delle costruzioni, delle officine, delle botteghe, proprietà di tutto ciò che è strumento di lavoro, di produzione o di consumo.

La proprietà dovrà essere collettiva, una e indivisibile, il possesso in comune.

Abolizione della famiglia, la famiglia basata sul matrimonio, sull’autorità paterna e maritale, sull’eredità. Al suo posto, la grande famiglia umana, la famiglia una e indivisibile come la proprietà. Liberazione della donna, emancipazione del bambino.

Infine, abolizione dell’autorità, del privilegio, dell’antagonismo. Ma la libertà al loro posto, l’eguaglianza, la fraternità incarnata nell’umanità.

Fuori dell’astrazione del passato questa triplice formula dovrà sviluppare tutte le sue conseguenze concrete nella realtà positiva del presente.

Cioè l’Armonia, questa oasi dei nostri sogni, smettendo di essere come un miraggio davanti alle carovane delle generazioni, e consegnando a tutti e a ciascuno, come fraterne ombre e nell’unità universale, le fonti della felicità, i frutti della libertà; una vita di delizie, infine, dopo un’agonia di più di diciotto secoli nel deserto di sabbia della civiltà.

Del governo

Basta con i governi, questi rulli compressori, queste leve d’appoggio alla reazione.

Ogni governo, – e quando dico governo intendo ogni delega, ogni potere al di fuori del popolo – è nella sua essenza conservatore, – conservatore-limitato, conservatore-retrogrado, – come è nell’essenza dell’uomo di essere egoista. Presso l’uomo, l’egoismo dell’uno è temperato dall’egoismo degli altri, dalla solidarietà che la natura ha stabilito, qualsiasi cosa egli faccia, tra lui e i suoi simili. Ma il governo essendo unico e quindi senza contrappesi, ne risulta che rapporta tutto a se stesso. Tutto quello che non s’inchina davanti alla propria immagine, tutto quello che contraddice ai suoi oracoli, tutto quello che minaccia la sua durata, tutto quello che è progresso, in una parola, è fatalmente suo nemico. – Così quando un governo comincia – si ha un miglioramento all’inizio sul governo precedente – poi, ben presto, per restare al potere, e di fronte alle idee nuove che lo minano, esso chiama in aiuto la reazione e ancora la reazione. Usciranno così dall’arsenale dell’arbitrario le misure più antipatiche ai bisogni dell’epoca; farà un fuoco d’artificio di leggi d’eccezione e fin quando può – fin quando essendosi accesa, con la rivoluzione, la miccia della bomba – salta in aria insieme ai suoi stessi mezzi di difesa. Può esso agire diversamente, abbandonare uno solo dei suoi bastioni? – Il nemico, cioè la rivoluzione, se ne impadronirebbe per piazzarvi le proprie batterie. Capitolare? Quando gli viene intimato di arrendersi senza condizioni, esso sa che la resa significa il saccheggio dei suoi interessi, il suo asservimento, e poi la morte.

E voi, soldati del progresso, ma amanti timorosi della libertà, che portate in fondo al cuore – come un resto dell’educazione familiare e cattolica della gioventù – il pregiudizio dell’autorità, la superstizione del potere, ricordatevi dei governi rivoluzionari provvisori, dei programmi e delle promesse. Ricordatevi delle menzogne e dell’ipocrisia per catturare la fiducia del popolo; ricordatevi dell’astuzia e della violenza.

E non sperate dal migliore degli uomini, una scelta più felice. Non sono gli uomini, è la cosa in se stessa che è cattiva. Secondo l’ambiente, la condizione in cui si muovono, gli uomini sono utili o nocivi a quelli che li circondano.

Bisogna non metterli al di là del diritto di tutti, allo scopo di impedire loro di nuocere. Bisogna, cioè, non darsi pastori se non si vuole diventare gregge, non darsi governanti se non si vuole diventare schiavi.

Finendo i governi non si avranno più quelle ambizioni cattive che si servono delle spalle del popolo, ignorante e credulo, come di un marciapiede per i propri imbrogli. Così non si avranno più candidati acrobati che danzano sulla corda delle professioni di fede, il piede destro da un lato e quello sinistro da un altro. Così non si avranno più prestigiatori politici giocanti con le tre parole della bandiera repubblicana, Libertà, Uguaglianza, Fraternità, come con tre palle che fanno passare sotto gli occhi dei babbei per poi farle sparire nel fondo della propria coscienza, questa tasca segreta della malizia... Così non si avranno più saltimbanchi della cosa pubblica che, dall’alto di un balcone del Municipio, o sulle scalinate di una Convenzione o di una Costituente ci fanno assistere alle parate nella migliore delle repubbliche, cosa che poi ci fanno pagare – poveri stupidi che siamo – con il nostro sudore e con il nostro sangue.

Finendo i governi non si avranno più eserciti per opprimere il popolo tramite il popolo. Più Università per livellare sotto il giogo del cretinismo i giovani intelletti, per manipolare i cervelli e i cuori, per impietrirli e affilarli ad immagine della società caduca. Più magistrati-inquisitori per torturare sul cavalletto dell’indagine e condannare al soffocamento in prigione o all’esilio la voce della stampa e dei gruppi, le manifestazioni della coscienza e del pensiero. Più carnefici, più carcerieri, più gendarmi, più ispettori di polizia, più spie per individuare, intimidire, uccidere tutti coloro che non accettano la devozione all’autorità. Più centralizzazione direttrice, più prefetti, commissari ordinari e straordinari per fare mettere in stato di assedio ogni regione. Più previsione di spese per irreggimentare, armare, equipaggiare, per ingrassare di patate e tartufi, per ubriacare di schnick o di champagne questi domestici in uniforme di soldati o di generali, di prefetti o di ispettori di polizia, di carnefici o di giudici.

Finiamola con i governi, ed allora un milione, due milioni e forse più di uomini validi potranno essere restituiti al lavoro, alla produzione.

Vecchia sdentata, Megera dalle dita adunche, Medusa con la fronte coronata di vipere, Autorità!, indietreggia e lascia il passo alla libertà!...

Largo al popolo in diretto possesso della propria sovranità, alla comune organizzata.

Della legislazione diretta (A) come passaggio per arrivare all’anarchia

La legislazione diretta, con la sua maggioranza e minoranza, non è di certo l’ultima parola della scienza sociale, perché si tratta ancora di un governo e, come ho già detto, io sono di quelli che tendono alla sovranità individuale. Ma poiché la sovranità individuale non ha ancora una formula reale, per quanto sappia, essendo ancora allo stato di intuizione negli spiriti, bisogna bene risolversi a ciò che è applicabile, cioè alla forma più democratica del governo, aspettando la sua abolizione assoluta. D’altronde, con la legislazione diretta, la maggioranza è e resta sempre dominante. Come una marea, essa si sposta ogni giorno sotto l’azione incessante, sotto la propaganda delle idee del progresso. Infine, è oggi il solo mezzo potente da potersi impiegare, la linea più diritta da seguire per arrivare alla realizzazione di ogni riforma sociale.

A quelli che contestano l’attitudine del popolo a legiferare con la propria intelligenza, a governarsi da se stesso, risponderò indicando i desideri di quest’ultimo, dal ‘48 in poi. Che mi si dimostri se non sono stati sempre intelligenti, sempre rivoluzionari, non dico come risultati, ma in linea di principio. Gli intriganti politici non si fanno avanti sempre a colpi di promesse di riforme? È forse colpa del popolo se tutte le promesse non vengono sistematicamente mantenute? Non sarà forse vero che il giorno in cui il popolo verrà chiamato a pronunciarsi sulla legge e non sugli uomini, il risultato sarà del tutto diverso?

Ed ancora, aggiungerei, in quali condizioni il popolo vota? È forse egli libero? No. Al contrario è alle dipendenze del padrone che gli consiglia: “Vota per un tale che certamente non potrà in alcun modo soddisfare i tuoi bisogni, ma vota comunque perché quella candidatura mi sta bene, a me, tanto non puoi fare altrimenti perché io ti tengo per il ventre... e ti illudo con le riforme che entreranno in vigore tra... sei mesi”. Mentre, quando il popolo voterà direttamente, da un giorno all’altro s’impadronirà dello strumento del lavoro e assicurerà la propria sussistenza, facendo cadere come una spada spuntata la minaccia dalle mani del padrone.

In più, io ritengo il popolo – e soprattutto il popolo di Parigi – maturo o molto vicino ad essere maturo per questa idea di autogoverno, di legislazione diretta. Il ‘68 l’ha provato. Il popolo è restato sordo, allora, alla voce di coloro che pretendevano di essere i suoi capi, e che, – circondati da sciarpe multicolori e da titoli di rappresentanza – cercavano di convincerlo a difendere le proprie prerogative. È restato estraneo alla “sinistra” e alla “destra”, che si disputavano il potere. Ed in effetti, che gli importa del colore del padrone, se gli è comunque indispensabile subire un padrone? Ha lasciato passare De Gaulle, pazienza, dalla negazione all’affermazione del suo contrario non c’è che un passo. E non è lontano il giorno in cui da spettatore annoiato delle tortuosità politiche, si farà attore intervenendo, gettando nell’arena il proprio guanto democratico, davanti a tutti i partiti: gollisti-cadaverici, democratici cristiani-in disfacimento, Giscard-vampiri, socialisti e comunisti-mummificati nel granito del 93 e del 17; e davanti al Passato, davanti al Presente e davanti all’Avvenire, affermarsi, esso, il gran Tutto, nella propria sovranità.

Credo che nella prossima insurrezione sociale, l’autogoverno potrà essere e sarà decretato dal popolo di Parigi sulle proprie barricate e acclamato, in seguito, dal resto del popolo di tutto il mondo.

Adesso, allo scopo di essere più chiaro e di fare meglio comprendere tutto il mio pensiero, sviluppo alcuni punti di vista:


Primo – Fisserete a ventun anni l’età adatta per votare? E perché? Forse che l’uomo di vent’anni non può avere le stesse facoltà sviluppate di quello di ventun anni? Forse non può essergli uguale, umanitariamente parlando? La fisserete a vent’anni? Ma forse quello di diciannove anni non è, allo stesso modo, adatto? E così anche per gli altri. Per essere conseguenti, sarebbe necessario stabilire il limite in cui il vecchio perde le proprie facoltà e ricade nella fanciullezza, per limitare il diritto al voto; bisognerebbe forse stabilire delle categorie di capacità, cacciare dalle riunioni quelli che non sanno leggere o quelli che, sapendo leggere, non sanno o sanno insufficientemente discutere. Forse, per caso, i lattanti non possono chiedere una scheda elettorale? E – in questa società, vecchia di civiltà, dove si riscontra ancora, all’impiedi e galvanizzata dalla pila elettrica del capitale, l’istituzione fossile della famiglia – ebbene, se, per i bambini di una certa età il padre esercita una influenza disastrosa, forse, su altri bambini, un altro padre, non potrebbe esercitare una influenza contraria? Non vi potrebbe essere una specie di compensazione?

Neghereste voi il diritto della donna? Ma la donna è un essere umano come l’uomo. I borghesi del ‘89 hanno fatto la Rivoluzione a loro profitto e ad esclusione del proletariato. – Proletari, vorreste compiere lo stesso errore, commettere lo stesso crimine facendo la rivoluzione a profitto dei soli uomini ed escludendo le donne? No, senza dubbio, perché allora sareste, in accecamento ed infamia, uguali ai vostri padroni.

E il ladro e l’assassino stesso, e il pazzo, li sottrarreste al diritto al voto, al proprio autogoverno? Ma in nome di quale principio? Forse in nome della libertà, in nome dell’uguaglianza, in nome della fraternità, dite? – Eliminare dalla possibilità dell’autogoverno i galeotti, gli uomini più autorizzati a dolersi della società, non significa fare entrare ben presto nella stessa esclusione anche il proletario, forzato del lavoro? Eliminare dalla possibilità dell’autogoverno il pazzo, non significa fare entrare ben presto nella stessa esclusione ogni libero pensatore sotto il pretesto di opinioni sovversive? Infine! Non si tratta – dal punto di vista borghese – che di qualche bollettino in più nell’urna! Differentemente...

Nessuna via di mezzo: il principio della sovranità popolare è buono o è cattivo; se esso è cattivo, perché imitarlo, quando dovremmo soltanto mettercelo sotto i piedi, perché riesumare il diritto dal suo pozzo e rimirarci nella sua legittimità? Se, al contrario, è buono, bisogna affermarlo interamente, senza storpiarlo, prenderlo nel suo insieme; accettarne le conseguenze logiche sotto pena di negare il tutto negando una parte. Amputarlo significa ucciderlo.

Voglio la piccola comune perché penso che in essa ciascuno trovi la soddisfazione dei propri bisogni. Ma la voglio di una certa dimensione, perché possa avere le sue scuole, i suoi teatri, le sue arene, le sue biblioteche, arsenali del pensiero; e le sue macchine, armi industriali e contadine; il suo palazzo di cristallo sarà il mazzo di tutte le produzioni, e i suoi giardini pubblici il cuscino di tutti i fiori; i suoi parchi saranno dotati di passeggiate alberate; i suoi saloni avranno ogni sorta di divertimento; i suoi saloni popolari, di seta e di velluto; le sue fontane, i suoi monumenti, i suoi bagni, i suoi musei, cosa altro dire?.. l’utile e il gradevole insieme: strumento di lavoro e strumento di piacere.

E voglio la comune sovrana, perché io sono per la libertà, contro l’autorità; perché voglio lasciare campo libero al progresso; perché se una comune è più avanti delle altre su una qualsiasi questione organizzativa, non è giusto, è antisociale che sia ostacolata nella applicazione delle sue idee. La voglio sovrana, infine, perché voglio l’unità e non l’agglomerazione... l’agglomerazione, risultato dell’ obbligo; l’unità, risultato della libertà. È la legge di attrazione che fa gravitare gli astri nel proprio cerchio; è la legge di attrazione che legherà insieme le comuni in unità nazionali e, più tardi, le unità nazionali in una unità universale.


Le funzioni pubbliche. Il popolo, essendo sovrano, deve necessariamente nominare se stesso a svolgere le funzioni necessarie. A esso spetta fare la legge, metterla in pratica.

Le funzioni, del resto, sono considerevolmente semplificate. I lavori devono essere svolti dalle associazioni. Facendo in modo che la lebbra della burocrazia venga distrutta, così che scompaiano questi funzionari impertinenti, pigri e monotoni. Non vi saranno più che lavoratori, tutti interessati a compiere il proprio lavoro e, specialmente, tutti impiegati secondo le proprie facoltà.


La giustizia. Ancora il popolo, inteso come coscienza che decide dove risiede la verità, che la ricerca e la mette in atto.

Non intendo riferirmi né a galere, carnefici, detenzioni preventive e repressive, né a prigioni o ghigliottine. Queste mostruosità governative hanno fatto il loro tempo. Voglio solo che se qualcuno compie atti contro la comunità sia tenuto a delle riparazioni o, nel caso non voglia adempiere ad esse, sia messo fuori della comunità stessa.


La polizia e l’esercito. Ancora il popolo, agente diretto. Nessun corpo specializzato avente un’organizzazione permanente che sia un pericolo per la libertà pubblica. Tutto il popolo in armi, nessun esercito fuori del popolo, nemmeno il genio, nemmeno la marina.

Ricordatevi di tutte le vessazioni sanguinose della polizia e dell’esercito, e richiamate su di esse la scomunica civile, l’eterna dissoluzione.

La polizia e l’esercito... Chi è ancora oggi tanto vigliacco da mettere il collo nel laccio di questi due mastini del capitale, il gran sultano sfavillante, dalle lubricità metalliche, e dalle gelosie spietate?

La polizia, come la giustizia, deve essere soltanto la coscienza pubblica che si manifesta liberamente. Quando la coscienza pubblica è libera, la polizia non ha motivo di esistere. Ognuno, facendo parte, a livello individuale, della coscienza pubblica, può constatare che così la propria coscienza diventa il proprio agente di polizia.

L’esercito, in quanto forza organizzata per il sostegno dell’autorità e la guerra contro la Libertà all’interno come all’esterno, deve scomparire. Ogni uomo dovrà essere armato quando la comune o le comuni unite, quando la cosa pubblica sia minacciata. La funzione di legittima difesa non può delegarsi. Si tratta, in regime di autogoverno, di un diritto e di un dovere, come quello di fissare le regole della convivenza, un debito personale e fisico di ciascuno e che tutti sono obbligati a saldare volontariamente quando il pericolo si presenta sia all’interno che all’esterno. A rigore ogni comune potrebbe avere i suoi corsi di esercitazione al maneggio delle armi, di tiro con il fucile o coi cannoni e di scherma con la baionetta. Alcune comuni potrebbero avere scuole speciali per il genio o l’artiglieria. Altre, infine, quelle vicino al mare, potrebbero avere delle scuole per la marina da guerra. Ma nessuna di esse potrà avere un’organizzazione militare di gente pagata, una forza disciplinata di soldati, questi pretoriani forzati di tutti i Cesari del passato, del presente e del futuro. Sarebbe meglio sopprimere tutti questi esercizi bellici. È sempre pericoloso abituare i popoli di oggi, questi grandi bambini, a giocare al soldato. Lo spirito pubblico si sciovinizza e, quindi, si cretinizza. I figli ereditano il gusto dei padri per questa sorta di mascherate tragi-comiche e, per rispondere al momento presente ad un pericolo spesso immaginario, si crea per le generazioni future un pericolo molto reale, il pericolo di inebetire le masse.

Del resto, un popolo, come un uomo, è sempre forte, a prescindere se è più o meno abile con le armi, quando abbia nel cuore e nel cervello l’amore e l’intelligenza della libertà!

Bruciamo quindi tutti i cannoni, trasformiamone la sostanza metallica, come per la ghigliottina, in strumenti di produzione. Rivoluzionari, vogliamo essere forti nella lotta suprema della Libertà contro l’Autorità? Vogliamo trionfare dei nemici interni e dei nemici esterni? Ebbene alla prossima proclamazione della Repubblica diamo al mondo un grande esempio: bruciamo le nostre fortezze, come gli antichi bruciavano i loro vascelli!.. Mettiamoci nella necessità di vincere o morire. I veri prudenti sono gli imprudenti!

Ricordatevi delle barricate di maggio. Sono esse che hanno perduto l’insurrezione. Senza questi ripari di pavé, eretti con le proprie mani, il proletariato non sarebbe rimasto a invecchiare nei sobborghi, avrebbe marciato sul Municipio e, con il suo numero e la sua forza, sarebbe uscito vincitore.


Insegnamento. Gratuito. Una indennità ai proletari che seguono i corsi e ai parenti dei giovani scolari. Il bambino nutrito, vestito, alloggiato in una casa speciale, aerata, spaziosa e aperta alla vita esterna; tutto ciò al posto dell’insegnamento a peso d’oro e alla claustrofobia dei collegi.


Insegnamento libero. Ognuno deve potere insegnare, dando il proprio contributo al progresso. Nuovi metodi e nuovi piani di studio usciranno dal limbo delle teorie, e chiederanno e riceveranno, alla luce dell’esperienza, il battesimo della realtà. L’insegnamento delle lingue viventi, andrà sostituendosi all’insegnamento delle lingue morte. L’istruzione professionale e sociale prenderà il posto dell’istruzione borghese e avvocatesca. Lo studio attraente sostituirà quello abbrutente. Gli ignoranti del Cattolicesimo e dell’Università, i bottegai dell’istruzione e dell’educazione uccisi, sotterrati dalla rude concorrenza della libertà e della verità dell’insegnamento. Tutti questi mercanti di preghiere e di amuleti, con il pretesto dell’educazione; tutti questi mercanti di panini e carta, sotto il pretesto dell’educazione, cacciati dal tempio della scienza. L’istitutore creato per l’allievo e non l’allievo per l’istitutore.

Della Religione

Tutte le religioni hanno in comune di predicare agli oppressi la sottomissione al giogo dell’oppressore. Se la spada del soldato fa della moltitudine uno schiavo fisico, il catechismo del prete, – arma ben altrimenti pericolosa – ne fa uno schiavo morale.

L’idea di Dio, il culto della divinità: ecco la causa prima che ebbe come effetto la decadenza dell’uomo, la prima pagina del libro dove fu scritto in sostanza il martirologio dell’umanità.

Così chi nega il diritto divino sulla terra, deve parimenti negare nei cieli la regalità di un essere soprannaturale.

Oggi noi ridiamo degli antichi popoli che adoravano il sole. E, relativamente altrettanto ignoranti, se non più ignoranti di loro, adoriamo sotto un’altra forma, un essere che la nostra immaginazione dota della suprema potenza. E, – molto più stupidi di questi adoratori di un astro che non ci fa che del bene e che possiamo vedere e constatare, – andiamo a cercare il nostro idolo al di fuori e al di sopra della natura. E più ci fa del male, più lo benediciamo, perché più avremo da soffrire quaggiù, ci dicono coloro che in questo mondo sono felici e privilegiati, più avremo felicità nell’altro, là sopra, in un paradiso molto lontano senza dubbio, poiché, come Dio, esso si trova al di là dell’infinito. E non soltanto il corpo, – creatura carnale, che questo Dio ci avrebbe dato, – deve essere ucciso ogni giorno dalla vecchiaia e dalla malattia; ma anche l’anima, – creatura spirituale, – deve anche subire ogni sorta di mortificazioni. E ciò per la più grande gloria di un Dio infinitamente buono, infinitamente giusto, infinitamente amabile, infinitamente misericordioso.

Cioè, per riportare un certo assioma: “Noi vediamo il pezzetto di paglia nell’occhio del vicino ma non vediamo la trave che si trova nel nostro occhio”.

Possiamo dire che il clero è l’avvelenatore della coscienza umana. Attraverso di esso, sotto forma di discorsi, ci viene versata la dose giornaliera di nicotina che ci spinge alla rinuncia delle gioie di questo mondo, alla rinuncia dei diritti dell’uomo e del cittadino. È l’ausiliare più pericoloso del dispotismo, o piuttosto è il dispotismo esso stesso. I re e gli imperatori di ogni tipo, non hanno che il mantello della potenza sovrana. Esso, ne ha lo scettro.


Una similitudine: Si può vedere spesso presso qualche vecchio celibe una di quelle ragazze di età problematica e di incontestabile pinguedine. In apparenza esse sono delle serve, in realtà sono delle amanti. Dolci e violente nello stesso tempo, ipocrite e sfrontate all’occasione, esse sono là e non perdono mai di vista lo scopo di ciò che fanno, l’articolo del testamento. Nulla viene fatto in casa senza la loro approvazione. Hanno le chiavi di tutto, la direzione di tutto, e su tutto spadroneggiano. È di queste ragazze che si può dire con sicurezza che esse regnano e governano. Il fatto è che esse hanno il segreto delle debolezze del padrone. Di giorno sanno solleticare le sue piccole passioni per qualche manicaretto, per qualche oscenità del linguaggio, la notte, per qualche compiacenza d’alcova, per qualche cortigianeria carnale. Così è il clero al servizio del principe, la religione salariata dell’autorità.

A cosa servirebbe la divinità e il culto se non per abituarci a sacrificare agli dèi della terra? Perché obbligarci a mettersi in ginocchio davanti a dei feticci?

Studiamo invece di pregare. Istruiamoci sulle scienze naturali. L’ignoranza, ecco ciò che fa del nostro globo una valle di lacrime, un inferno. La scienza, ecco ciò che ne farà un soggiorno di delizie, un Eden.

Sì, è la scienza che – degli uomini che oggi si straziano gli uni con gli altri come dei dannati, – ne farà degli angeli comunicanti insieme nell’abbondanza e nella fraternità.

Avanti! La scure contro i confessionali! Il martello sulle chiese! Bruciamo tutte le sottane di prete! Demoliamo, distruggiamo, fracassiamo, incendiamo fino alle radici la divinità e il culto, – altari e libri santi, templi e curati. Che venga l’ora che possa alzarsi la fiamma dell’incendio su questo caos di menzogne ed iniquità, su questo gazzabuglio di vecchie masserizie che viene chiamato religione. Che venga l’ora in cui – immergendo le torce nella resina – possiamo bruciare anche tutto il resto!

La questione religiosa è oggi risolta. La religione si sostiene solo con l’aiuto dell’autorità, come l’autorità si sostiene con l’aiuto della religione. Questa è l’ingranaggio che spinge l’altra e viceversa. Che venga un giorno di vittoria popolare, e ciò sarà per la religione, come per l’autorità, il giorno dell’ultimo giudizio.

Quale uomo, libero, sarebbe tanto incancrenito dalla morale pietistica da voler consegnare sua sorella o la sua compagna, sua figlia, i suoi bambini, ai licenziosi insegnamenti del confessionale, alla corruzione sistematica della loro natura fisica e morale? Quale uomo, per se stesso, per la perdizione del proprio corpo e della propria anima, vorrebbe ancora pagare la decima per allevare e ingrassare i porci di ogni setta e di ogni forma? Sarebbe veramente troppo!

Quindi, basta con le spese per il culto. Affermiamo la libertà religiosa.

Chi vuole il prete se lo paghi. Ma che preti e culti si racchiudano nell’abitacolo delle loro superstizioni e che non riappaiano mai più alla luce pubblica, come un attentato al pudore della ragione.

Religione! Vecchia impestata, vestale impudica e incinta delle bestialità umane; tu che nelle oscenità temporali hai lasciato spegnere la fede, questo fuoco sacro dei tuoi altari; prostituta di Cesare, bisogna che tu muoia... Il baratro è aperto, ma prima di cadervi dentro, guarda!... e riconosci, con nella fronte una triplice aureola, non più il figlio di Dio, ma il figlio dell’umanità, il figlio della natura. È il Messia del socialismo che – profetizzato da generazione in generazione dai filosofi – è nato, infine, sul misero giaciglio dei proletari; e che – come il suo predecessore risorto dopo essere stato crocifisso – va a convertire il vecchio mondo cristiano al nuovo vangelo, alla trinità umanitaria: Libertà, Uguaglianza, Fraternità!

E tutti gli oppressi trasaliranno al suo avvicinarsi; perché egli viene realmente a riscattarli dalla schiavitù, per la sua Repubblica, è di questo mondo!...

Della proprietà

Cosa sarebbe l’autorità del governo, anche con il concorso della religione, questa adescatrice di anime, se non avesse la moneta della proprietà per adescare le braccia, il capitale per accreditare la forza? Sarebbe un dispotismo monco, molto pericoloso, quando avesse l’intenzione di colpire duramente, di raccogliere, invece dell’obbedienza servile, qualche scappellotto del tipo John Bull popolare; un dilagare dell’arbitrio alla vigilia di chiudere bottega per esaurimento della merce e per mancanza di consumatori desiderosi di ingozzarsi della sua droga.

Sfortunatamente l’idea della proprietà individuale non è solo nello spirito dei borghesi, essa è anche nel cervello dei proletari, ed è tanto in evidenza, che i poveri sofferenti – che non hanno né un pezzo di stoffa per coprirsi e nemmeno un tozzo di pane da mettere sotto i denti – imprecano gridando dividiamo! Come se – supponendo che il comunismo facesse questa divisione, cosa non vera in quanto la realtà è del tutto contraria – vi fosse qualcosa da dividere in una società in cui essi non hanno nulla e gli altri hanno tutto.

Tuttavia, se l’idea della proprietà collettiva ripugna ancora ad una popolazione atrofizzata dalla miseria, vi è qualcosa che ad essa ripugna almeno altrettanto: lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.

La comunità che, concentrando le forze e gli sforzi di ciascuno, le forze e gli sforzi di ogni cosa, li farebbe tutti convergere allo stesso scopo, all’economia sociale e, con l’unità della proprietà, con la solidarietà umana, assicurerebbe all’individuo una uguale quantità di godimenti, una ripartizione immensa di benessere e di libertà, – e che, mi si consenta una parentesi a proposito di questa parola: Libertà! di cui si è tanto fatto abuso contro la comunità e di cui bisogna ammettere che i comunisti autoritari di ogni scuola hanno fatto un ottimo mercato.

– In una società di eguali, in cui il sovrano si chiamerebbe popolo, e non più re o papa, imperatore o padre, presidente o servitore, dittatore o delegazione – gli uomini, i quali hanno tutti il sentimento istintivo della libertà, e tutti vogliono lo sviluppo integrale della loro natura multiforme, non metterebbero questa libertà al primo posto nella lista dei bisogni da soddisfare?

– E, per riprendere la mia frase interrotta – la comunità, dicevo, in cui tutto appartiene a tutti, farebbe in modo che ciascuno venisse sbarazzato dalla preoccupazione quotidiana dell’approvvigionamento individuale; liberato dalla necessità di ossificare il proprio cuore, di disseccare la propria intelligenza, di usare tutta la propria energia nell’immaginare e nel realizzare come adoperare i mezzi di produzione per il proprio benessere e per la distruzione dei suoi simili. Così ognuno potrebbe aprire il proprio cervello come la propria anima a dei pensieri fecondi per tutti e per ciascuno, e l’organizzazione del lavoro, attraente, verrebbe a sostituirsi alla concorrenza malthusiana e al lavoro repulsivo. La comunità, splendido ideale, sfera luminosa, ancora troppo accecante per le masse abbrutite nelle abitudini del passato, nelle tenebre dell’ignoranza. Queste masse vedono e sentono più da vicino lo sfruttamento, che, il sigaro in bocca e lo scudiscio in mano, le tiene curve sotto il peso del lavoro nello strazio dell’umiliazione e del bisogno, mentre il padrone conduce nelle soddisfazioni e nelle gioie la propria arroganza e la propria oziosità.

Il diritto al lavoro, ecco ciò che nelle formule del ‘48 ebbe ad impressionare più vivamente i proletari. Ecco la piccola apertura attraverso cui, malgrado la trincea, si penetrerà nelle viscere della proprietà avendone finalmente ragione.

Ma non si tratta di affermare tutto ciò in linea di principio. Bisogna realizzarlo materialmente, solidificarlo, dargli un corpo, cioè abolire l’usura, sotto tutte le sue forme, sotto forma di interessi del capitale a qualsiasi tasso; sotto forma di salario, per qualsiasi lavoro, sotto forma di locazione per qualsiasi cosa, appartamenti o terreni, officine o utensili. Dichiarare crimine e delitto lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo. – Che chi possieda una casa, sia tenuto a dare alloggio a quelli che non ne hanno. Che chi possieda delle terre sia tenuto ad associare ad esse quelli che vogliano coltivarle con lui. Che chi possieda un industria, degli utensili, sia tenuto – nel caso non li faccia funzionare – a darli a coloro che vogliono lavorarli e farli produrre. Che dei negozi della comunità, basati sullo scambio gratuito, rimpiazzino la bottega, origine della personalità mercantile, del commercio usuraio. Che nel nuovo codice, il furto con le chiavi d’oro, il furto tramite lo sfruttamento, sia assimilato al furto con le chiavi false, al furto con effrazione. Che l’usuraio – sotto la denominazione di proprietario, banchiere, manufatturiere, commerciante – sia assimilato al truffatore ordinario, e colpito come quest’ultimo. Infine che si rifaccia la legge di espropriazione per cause di pubblica utilità, e che tutti quelli che lasceranno la propria casa vuota, le loro terre incolte, i loro materiali di lavoro senza essere utilizzati, vengano espropriati, come accade oggi con una strada, una ferrovia, e che la casa o gli strumenti di lavoro vengano consegnati ai lavoratori che ne abbiano fatto richiesta.

Non si pensi che io stia qui a proporre un semplice palliativo per far fronte alla malattia della proprietà, non è solo questo che io desidero. Lo scopo, ho detto, è quello di arrivare alla proprietà collettiva, al possesso in comune. Ma, una volta fissata la sovranità del popolo, e non essendo possibile nulla di diverso di quello che il popolo vuole, nessuna dittatura sarà nelle condizioni di esercitare su di esso una qualsiasi violenza, per cui non mi resta che inchinarmi davanti al suo pregiudizio, forzato, suggerendo un passaggio attraverso il possesso individuale, invece dell’espropriazione pura e semplice.

In sostanza, quello che voglio è l’abolizione della proprietà individuale, attraverso la soppressione dello sfruttamento del lavoro da parte del capitale. E ciò, anche i proletari più incancreniti dalle idee borghesi della proprietà, lo accetteranno senza dubbio.

Capitale! Polipo di gigantesche proporzioni che con i tuoi tentacoli succhi il sangue agli sfruttati, orribile mollusco dell’oceano del lavoro che con il tuo oro avveleni i flutti della produzione; tu che ti attacchi alle parti virili dell’umanità, succhi con tutti i tuoi pori il sangue di quelli che lavorano sottraendo loro finanche il midollo delle ossa. Mostro dalla rapina facile, la tua ora è suonata sull’orologio della pubblica indignazione, e non scamperai all’arpione del diritto al lavoro! Possa la proprietà personale che hai vomitato non sfuggire nemmeno per un giorno allo stesso destino, e l’umanità bagnarsi al più presto nelle onde blu della comunità!

Della famiglia

Governo, religione, proprietà, famiglia, tutto si mantiene e si lega insieme, tutto coincide. Tutto è causa ed effetto, parallelo e conseguenza, induzione e deduzione logiche, l’uno dall’altro.

Creazione della religione, la famiglia è la base su cui poggiano proprietà e governo, l’elemento portante, la linfa che li alimenta, la mammella che li nutrisce. Non è sufficiente tagliare i rami, bisogna anche segare il tronco e strappare le radici. Non sono soltanto i piccoli che bisogna prendere e sgozzare, ma anche la madre che bisogna cacciare fin in fondo alla tana e sventrare, se non vogliamo che l’albero o la bestia ci diano nuovi germogli.

La famiglia... vedete: essa ha conservato attraverso le età, e malgrado le sue trasformazioni successive, le stimmate della sua origine. Essa è di fronte al patriarcato quello che il governo rappresentativo è di fronte all’autorità assoluta.

Piccolo Stato, – nel quale l’uomo è sovrano, la donna e i bambini sudditi, – essa pone ininterrottamente il dovere individuale in antagonismo con la natura, l’interesse materiale in ostilità con la coscienza.

Confederazione dei principati privati, essa fa della società un campo di battaglia permanente in cui ciascuno dei gruppi, in nome della propria economia domestica, si abbandona al combattimento contro gli altri gruppi. All’interno, è l’insurrezione dei sudditi, – donna e bambini, – che l’uomo, – despota mitigato dal liberalismo, – è impotente a contenere. Da un lato la brutalità e la corruzione erette a sistema di governo, dall’altro, come rappresaglia, l’ipocrisia e l’intrigo.

All’uscita di un bordello, alle porte di uno spettacolo per soli uomini, o di una bettola, o di una sala da gioco, dove ha perduto la propria fortuna o il proprio salario, si trova l’uomo – operaio o borghese – intento a imporre silenzio ai pianti e ai rimproveri con qualche scappellotto o con qualche promessa di comprare un miserabile vestito o una ricca parure, parure di cotone per la casalinga; parure di diamanti per la gran dama.

Dall’altro lato, l’insurrezione della donna o dei bambini: insurrezione con la menzogna per scappare alla repressione paterna o maritale, insurrezione tramite la bugia, il furto e qualche volta anche tramite l’arsenico e l’adulterio, per obbedire alle passioni compresse nell’anima e nei sensi.

Per tutti la delusione, la profanazione di tutti i sentimenti veri, di tutte le pure e soavi aspirazioni dell’amore. È la prostituzione sanzionata dal catechismo della religione e dal governo. È la giovane venduta al vecchio o gettata tra le braccia di uno sconosciuto. È il commercio della giovinezza e della bellezza. È l’accoppiamento forzato dei due sessi di fronte ai pregiudizi e all’interesse materiale. L’interesse e il pregiudizio ravvicinano qui ciò che è antipatico e condannano a vivere sotto lo stesso tetto. L’interesse e il pregiudizio dividono quello che è simpatico e condannano alla separazione.

È il sacrificio delle anime e dei corpi offerti in perpetuo olocausto al vitello d’oro.

Così dappertutto, tribolazioni, scandali. E così dappertutto la malattia, la disoccupazione, il fallimento conducono come conseguenza alla perturbazione morale, alla confusione materiale, alla carestia e alla vita senza significato, all’annientamento delle fibre dello stomaco e del cuore.

Riguardo il governo sono arrivato alla conclusione della necessità dell’autogoverno, della legislazione diretta. Riguardo la religione sono arrivato alla necessità del culto delle scienze positive. Adesso, con tutte le mie forze, tendo all’unità della proprietà attraverso il comunismo, come all’unità della famiglia umana attraverso la distruzione della piccola famiglia.

Per distruggere questa feudalità della famiglia, cosa bisogna fare?

– Abolire l’eredità, questo pomo della discordia che disunisce i fratelli, e li trascina fino al padricidio, l’eredità che onora nel padre l’impiego di tutti i mezzi fraudolenti, di tutte le bassezze e di tutti i crimini consacrati all’acquisizione di una fortuna da consegnare ai propri figli, l’eredità, infine, che fa gioire i fanciulli di un benessere che non hanno guadagnato e che quasi sempre, per non dire ogni volta, il padre ha rubato al suo prossimo, di un bene che, lecitamente o illecitamente acquisito, è e ridiventa con la morte del detentore patrimonio di tutti.

Che cosa bisogna fare ancora?

– Abolire il matrimonio, questa prostituzione legale, questa tratta delle donne che è sopravvissuta alla tratta dei negri. Chi vuole libero l’uomo deve reclamare la liberazione della donna. Chi è stato allattato da una schiava ha del sangue di schiava nelle vene. Chi è stato educato da una schiava ha pensieri da schiava nel cervello. Chi è fidanzato con una schiava, chi è possessore di una schiava, è fidanzato alla schiavitù, è possessore della schiavitù. Se vogliamo nuovi destini per l’uomo, fissiamo il diritto, questa morale della natura, nel cuore della sua compagna, intrecciamo per la giovane donna una corona diversa da quella classica dei fiori d’arancio, diamo una nuova spinta alla formazione dell’embrione umano.

Così, liberiamo la donna tramite l’abolizione del matrimonio e tramite l’organizzazione del diritto al lavoro, la distruzione della tirannia dell’uomo e della fame.

Emancipiamo il bambino con l’eguaglianza di tutti davanti all’eredità comune, con l’istituzione di scuole-asili, dove egli troverà tutto ciò che gli sarà necessario per il proprio sviluppo fisico e morale, e dove gli sarà piacevole esercitare il proprio diritto all’esistenza e all’istruzione, se non preferisce soggiornare presso il proprio padre e la propria madre, la cui paternità e maternità non saranno più oppressive, mancando della sanzione legale che oggi le rende tali.

Il bambino non dovrà più essere a discrezione dell’autorità familiare come l’uomo non dovrà più essere a discrezione dell’autorità governativa. Non è sotto la campana di vetro della piccola famiglia, con il concime del gruppo egoista che deve vegetare il bambino, per sviluppare la propria individualità e diventare forte e sano gli necessitano spazio e libertà.

La donna, – ho vergogna per il mio sesso, per essere costretto a dire queste cose che dovrebbero essere nel cuore e nello spirito di tutti, – la donna è nella natura umana la parallela dell’uomo, ella è uguale per bisogni da soddisfare e per il diritto a soddisfarli. Volere stabilire una superiorità o una inferiorità da un lato o dall’altro, significa violentare l’equilibrio della natura, costringerla a delle mostruosità.

Che l’aristocratico, barone della truffa e della banca, ponendo la donna allo stesso rango dei suoi cavalli o dei suoi cani, ne faccia, come di un animale di lusso, esibizione al Bois de Boulogne o a Chantilly, che l’aristocratico, artista o bello spirito, inquadrandola vivente nella cornice delle rose o nella cornice dorata, mettendola in vesti di seta, l’esponga al museo o nella serra del suo salone, tra due vasi cinesi o due statuette di Pradier, come un quadro d’autore o un fiore raro, che il borghese, piccolo fabbricante o piccolo bottegaio, la consideri come una cameriera adatta per rammentare le sue calze, o come una macchina calcolatrice per fare i suoi conti, ciò si capisce, essi sono nel loro ruolo e agiscono di conseguenza. Ma che il proletario, l’operaio non veda in lei che un utensile per pulire le pentole, uno sfogo per i propri appetiti di maschio: ecco ciò che non è comprensibile. E quando sono dei pretesi democratici, dei pretesi socialisti che, con il pensiero e con l’azione, insultano in questo modo la natura umana, insultando la donna, siamo davanti a qualcosa di ancora più strano.

Negare i bisogni e le facoltà, i diritti e l’intelligenza della donna, significa fare come i borghesi e gli aristocratici che negano i diritti e l’intelligenza del proletario, come i bianchi d’America che negano la razza umana presso i negri. E di chi è la colpa, d’altronde, se le donne sono quello che sono e non sono diverse? – È colpa del padrone o dello schiavo se il negro coltiva la canna da zucchero invece di coltivare il proprio spirito? Se l’operaio lavora la materia invece di lavorare la propria intelligenza, e se la donna pulisce le pentole e cerca di adornare il suo corpo come una bambola per farlo gradire al ricco, invece di pulire le facoltà del suo cervello e di ornarlo di solide conoscenze? Uomini non gloriamoci di ciò, non oltraggiamo la donna, non ne abbiamo il diritto: lo schiavo non è mai stato altro che il riflesso del proprio padrone.

Proletari che volete liberarvi, tendiamo una mano fraterna alla donna, e marciamo uniti insieme a lei alla conquista della libertà, all’abbattimento dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo come pure dello sfruttamento della donna da parte dell’uomo.

Oh famiglia! Sodoma di tutte le corruzioni, festino di tutti i vizi, chiamo su di te la pioggia di fuoco di tutte le maledizioni umane, i fulmini vendicatori del socialismo! Possa tu, oh famiglia, che porti dentro di te i germi della prostituzione, sulle tue labbra il cancro roditore della demoralizzazione sociale, possa tu scomparire ben presto dalle nostre istituzioni per far posto al grande principio dell’unità umana, all’edificazione e all’organizzazione nel mondo della libertà, del sentimento e del senso...

Conclusione

Così, come soluzione, la libertà, l’uguaglianza, la fraternità. Libertà di pensiero,

Libertà d’amore,

Libertà di lavoro,

Libertà d’azione:

Libertà di tutto e per tutti.

Uguaglianza di diritti, uguaglianza di doveri: uguaglianza sociale.

Fraternità, cioè carattere sociale impresso all’azione simultanea della libertà e dell’uguaglianza sul piano dell’umanità, scena che se ne deduce, ultima sillaba della forma: qualificazione della solidarietà e dell’unità.

E, come mezzo di operazione, come mezzo transitorio, l’autogoverno, la legislazione diretta.

E che non si torni a ripetere che il popolo è troppo ignorante, che se gli si mette tra le mani uno strumento di cui non sa servirsi bisogna sempre far ricorso a quelli che hanno la scienza per governarlo. No, risponderò a questi cacasenno della rivoluzione, a questi sostenitori della dittatura. È solo battendo il ferro che si apprende ad essere fabbro; ed è facendo le proprie leggi che il popolo apprenderà ad autogovernarsi e a farlo bene. So benissimo che l’apprendista fabbro si spezza molte volte le unghie prima di apprendere bene a fare il suo mestiere. Ciò gli insegna a fare maggiore attenzione a ciò che fa e, come si dice, “ciò gli fa entrare il mestiere nelle mani”. Il popolo apprendista-legislatore, si spezzerà certamente le unghie all’inizio, cercando di autogovernarsi, ciò gli insegnerà ad esaminare più a fondo i propri progetti, per meglio realizzarli. E se qualche volta prenderà dei provvedimenti cattivi, il giorno dopo sarà pronto per modificare quei provvedimenti, martellandovi sopra per forgiarne di migliori.

Ma, prima di arrivare là vi è un ostacolo materiale da spezzare: l’imperialismo; e un altro mezzo di operazione da impiegare: l’insurrezione. Per quanto vasto sia il suffragio che sostiene il potere, quest’ultimo è seduto su di un cratere. La lava fermenta in fondo al baratro. La tormenta e i tentativi fatti in passato hanno, è vero, spento un poco il fuoco che covava sotto, ma le nuove generazioni montano, l’ideale sociale chiaro nel cervello, per cui ben presto si raggiungerà un notevole grado di forza ascensionale. Se il potere stesso non aprirà delle larghe fessure per far passare il socialismo, un giorno o l’altro, sarà abbattuto da una eruzione del vulcano. La terra trema sotto l’avvelenamento reazionario, e la vecchia società, come un’altra Pompei, non tarderà ad essere inghiottita sotto il flutto incandescente della rivoluzione.

Al lavoro, dunque! perché non si tratta di addormentarsi aspettando il giorno dell’espiazione. Bisogna prepararlo. Ogni giorno, donne e proletari, nella misura delle proprie forze e delle proprie convinzioni, nella famiglia come nell’officina, agli angoli delle vie deserte, è oggi, è sempre il momento, è sempre l’istante adatto per agire, insorgere, rivoluzionare.

Al lavoro! E chi ha fame e vuole mangiare,

Chi ha sete e vuole bere,

Chi è nudo e si vuole vestire,

Chi ha freddo nel corpo e nell’anima e vuole riscaldarsi al calore del braciere o dell’amore,

Chi porta nelle mani e sul viso i segni scavati da un lavoro omicida e non vuole più spezzare la propria carne per fare ingrassare gli oziosi,

Chi deperisce sotto le privazioni fisiche e non vuole morire sotto il clima impestato delle istituzioni deleterie,

Chi cova nel proprio petto la tisi dei dolori morali e vuole guarire, tutti coloro che soffrono e vogliono gioire,

Infine! tutti coloro che hanno palme e corone di miseria, si alzino!... e che il loro numero e la loro rivolta ghiaccino di spavento gli spettatori, i mandanti e gli esecutori del loro martirio!

All’impiedi tutti!

E, con le braccia e con il cuore,

Con la parola e la penna,

Con il pugnale e il fucile,

Con l’ironia e l’imprecazione,

Con il saccheggio e l’adulterio, (B)

Con l’avvelenamento e l’incendio, (C)

Facciamo, – sul grande cammino dei princìpi o al crocevia del diritto individuale, – con l’insurrezione o con l’assassinio, – la guerra alla società!... la guerra alla civiltà!... (D).

All’impiedi! – E, se per disgrazia, qualcuno di noi cade nelle mani dell’autorità repressiva, – che ciascuno di noi, – alla barra degli accusati, sotto la frusta dei condannati, nelle galere o davanti al plotone di esecuzione, – che ciascuno dei nuovi credenti, confessi – davanti all’umanità e in presenza della natura come testimone – che non ha agito che in virtù del proprio diritto e per obbedire alla religione della propria coscienza... (E).

All’impiedi, proletari, all’impiedi tutti! – E, spieghiamo la bandiera della guerra sociale! All’impiedi! E, – come i fanatici del Corano, – nel mezzo della lotta insurrezionale, dove chi muore non muore che per rinascere nella società futura – ripetiamo il grido di anatema e di sterminio per la religione e la famiglia, per il capitale e il governo, questo grido di odio e di amore, – di odio per il privilegio, di amore per l’uguaglianza, – questo grido vendicatore infine, questo grido della nostra fede:

– La Rivoluzione è la Rivoluzione e la Libertà – oggi vilipesa, scacciata, braccata, ma domani vittoriosa e potente e sempre immortale, – la Libertà è il suo Profeta!...

Note

(A) Beninteso quando parlo qui di legislazione diretta, il fatto è che nel mio pensiero non c’è ancora completa chiarezza, in quanto non vedo da nessuna altra parte un piano completo di organizzazione della società assolutamente distruttiva della legalità. Il giorno in cui questa organizzazione mi sarà nota, non solo abbandonerò questa idea di legislazione, ma in più sarò il primo a combatterla.

Sono diciotto mesi che questo libretto è stato scritto, e devo dire che al momento di cominciarlo ero molto più entusiasta della legislazione diretta di quanto non lo sia oggi; tuttavia non ho voluto sopprimere questa parte del mio lavoro senza poterla rimpiazzare con qualcosa di meglio. Possa la critica degli uomini sinceri, fare emergere e produrre un sistema interamente staccato dall’impronta del passato.

È chiaro, del resto, che è così che l’intendo, che spetta ad ogni uomo – uomo e donna, essere umano, – protestare sempre e sottrarsi alla legalità, quale essa sia, quando ne abbia la forza, una volta che questa autorità l’opprime. Spetta a lui di giudicare se l’insurrezione è una necessità, oppure se è più utile e più produttivo per una futura riuscita, combattere con una propaganda attiva.

(B) Con l’adulterio, cioè, causare la maggiore disorganizzazione possibile nel menage familiare. Che non ci sia un marito che possa dire: “Io sono il padre di questo bambino”. E che, non trovando nel matrimonio che fatiche e disgusto, una esistenza insopportabile, si veda obbligato, per sfuggire, a domandare lui stesso la libertà dell’amore e di abbandonare la propria autorità. – Che in tutte le cose il bene nasca dall’eccesso del male, poiché, con la loro resistenza al progresso, i grandi malfattori vogliono così.

(C) Che ogni rivoluzionario scelga, tra quelli su cui pensa di potere contare assolutamente, uno o due altri proletari come lui. E che – in gruppi di tre o quattro senza alcun legame tra di loro e funzionando isolatamente, in modo che la scoperta di uno dei gruppi non conduca all’arresto di tutti gli altri, – agiscano con uno scopo comune: la distruzione della vecchia società. E mettano così bene e per tanto tempo in pericolo il privilegio, che quest’ultimo sia obbligato, per sfuggire alla rovina e alla morte, di fare causa comune con i proletari per reclamare l’uguaglianza. Che non vi sia per esso nessuna salvezza e che non possa sperare altro al di fuori del proprio annientamento.

Che, per esempio, ogni gruppo proceda come segue: che se tra i tre o quattro membri del gruppo vi sia un operaio edile, questi prenda l’impronta delle serrature degli appartamenti dei ricchi dove può essere chiamato per lavorare, che controlli bene le uscite, che interroghi abilmente i domestici, allo scopo di avere tutte le informazioni indispensabili, e che poi, prese tutte le precauzioni, avverta gli altri membri del gruppo, – suoi complici, se volete, – e che ad un dato momento, essi penetrino di notte nell’appartamento di questo ricco, pugnalando o strangolando il padrone o i padroni, forzando, rompendo o aprendo a mezzo di chiavi false i mobili dove possono trovarsi argenteria, gioielli o denaro contante; che essi portino via tutto quello che sarà possibile, e che andandosene diano fuoco alla casa. Ma soprattutto che non impieghino per migliorare la propria condizione il ricavato del bottino, in quanto ciò li perderà: un cambiamento nella loro condizione li tradirà, segnalandoli alla polizia.

Che uccidano e saccheggino per distruggere. Poi sotterrino tutto l’oro che avranno raccolto, allo scopo che se qualcuno di loro venisse sospettato o scoperto, quest’oro possa servire per la fuga.

Il gruppo che, con il ricavato delle espropriazioni dei ricchi, potrà acquistare clandestinamente una tipografia, lo faccia, e che i bollettini proclamanti lo scopo e i mezzi dell’azione della terribile società, dicano ogni giorno al pubblico tutti gli assassini, tutti i furti, tutti gli avvelenamenti, gli incendi che si commettono nelle città e nelle campagne ad opera dei rivoluzionari, nuovi insorti contadini, e che così si vada avanti fin quando l’autorità non venga definitivamente distrutta.

In un altro gruppo, dove vi sia un operaio pasticciere, che questi faccia tutti gli sforzi per farsi assumere in una di quelle grandi pasticcerie che forniscono l’aristocrazia, e che per la festa di Capodanno, suppongo, la vigilia o l’antivigilia, avveleni uno o dieci o venti vassoi di dolci, più che sarà possibile, e che l’indomani cento o mille aristocratici abbiano a cessare di vivere.

Che la società segreta, con le sue tipografie clandestine; ne rivendichi allora la responsabilità, e che lo stoico avvelenatore scompaia, sottraendosi, con la fuga, all’arresto.

Che presso un profumiere si faccia altrettanto. Che vi avveleni ugualmente lo champagne, se sarà possibile, i vini pregiati, i guanti, le torte, i gelati e i sorbetti. Che nelle campagne si incendino le messi dei ricchi, le case dei ricchi, le chiese; che nelle città si faccia altrettanto per le case, le chiese, i ministeri, i municipi, tutti gli uffici commerciali e governativi. Che la spada di Damocle sia costantemente sospesa sulla testa dei privilegiati; che le serpi del terrore, come quelle di Nemesi, fischino giorno e notte alle loro orecchie facendoli tremare nel loro oro e nella loro vita; che la loro posizione diventi insostenibile e che stanchi di tante angosce, si vedano obbligati a cadere in ginocchio e a domandare grazia, supplicando il proletariato di accordare loro la vita in cambio del loro privilegio e la comune felicità in cambio della generale disgrazia.

(D) La civiltà, essendo oggi sinonimo di barbarie, è da distruggere come lo fu la barbarie quando si aprì l’era della civiltà. L’umanità, che è diventata grande, oggi la rigetta come un abito troppo stretto per entrare nella nuova fase di progresso chiamata armonia.

(E) L’individuo o il gruppo che viene condotto alle assise ci vada a fronte alta, e che non si ponga nella situazione dell’accusato, ma in quella di nemico, e di nemico sempre pericoloso sia quel che sia, prigioniero o libero, morto o vivo, perché l’uomo di principio vinto nella lotta non muore mai del tutto ed è là la sua consolazione e la sua forza, i suoi compagni sopravvivono. – Dica dunque a quelli che sono là per condannarlo: “Domani, se non mi rilasciate, sarete morti. Chiamo a voce alta su di voi i pugnali delle società segrete di cui sono uno dei membri, e questa invocazione, sappiatelo bene, è per esse un vero e proprio ordine!... E adesso, colpitemi, se osate!..”. E l’indomani, se questo rivoluzionario è condannato, le società segrete uccidano, a qualsiasi prezzo e senza indietreggiare davanti a qualsiasi pericolo, i giurati e i giudici che si sono compromessi nella sentenza.

Signori della famiglia e della proprietà, della religione e del governo, voi volete il privilegio, ebbene! subitene le conseguenze... Credete che la vostra vita, il vostro mondo, la vostra società verminosa, potranno durare a lungo contro un simile mezzo rivoluzionario? Rispondete, figli di Malthus?

Ma, sfortunatamente, le energie sono deboli, oggi, e solo all’indomani di un’altra rivoluzione schiacciata questa idea potrà dare i suoi frutti. Aspettando, io getto il seme nel cuore di tutti coloro che soffrono, e, avanti! non sfuggirete a questa nuova insurrezione. Possa essa cominciare subito!


[Jean-Paul Sartre, Il mio testamento politico, tr. it., Catania 1978]

All’origine della verità

Fin dagli inizi della storia dell’uomo ci è stato tramandato il mito della ricerca della verità. Ancora prima che la severità della filosofia e della scienza desse un senso ed un ordine particolare a questa ricerca, essa s’incanalava sulle ali della fantasia, dando origine a quelle trattazioni mitologiche che oggi vanno considerate come utile mezzo per indagare la mentalità dei popoli primitivi.

La verità, figlia del tempo, viene considerata – nella mitologia greca – madre della giustizia e della virtù, e rappresentata nuda con uno specchio davanti. Al di là del significato particolare, si può vedere come l’idea massima di giustizia e la parallela idea di virtù trovano giustificazione dalla verità. Non si può pretendere di parlare di conoscenza: la mitologia è abbastanza categorica sull’argomento. In fondo la ricerca della verità, intesa nei termini di impulso cieco verso la giustizia e verso la virtù, è sempre una fase preparatoria, che difficilmente consente subito l’impennata geniale capace di condurre alla vera conoscenza. Per altro, questa verità è fondamentalmente diversa da quella che sarà la verità alla luce dell’indagine scientifica e filosofica. Per adesso si tratta di una verità intravista non per virtù propria, ma perché così concesso dagli dèi. La mitologia non include niente di meritorio nella giustizia e nella virtù, l’eroe mitologico – anche nel caso, poniamo, di Ercole – è sempre un giocattolo in mano a forze a lui estranee e di lui più potenti. Le famose fatiche non presuppongono nessun desiderio di ricerca o di conoscenza. Ercole le compie perché costretto dal fratello Euristeo, subdolamente ammaestrato da Giunone. La sua è una vicenda notevole moralmente, per la schiettezza e la forza del temperamento, ma in fondo egli fa un poco pena, troppo legato a vicende più grandi di lui, totalmente incapace di operare con discernimento e iniziativa.

Se si esclude il mito dei giganti, riconosciuti per altro come uomini a metà, muniti di una coda di serpente al posto dei piedi, non esiste caso di un’aperta rivolta al volere degli dèi. Unica eccezione valida è il mito di Prometeo, simbolo dell’umano sforzo della ragione di perseguire la ricerca della verità al di là delle barriere di un’autorità assurda e incontrollata. Vuole il racconto che Prometeo, trafugatore del fuoco divino, abbia creato il primo uomo, utilizzando il potente mezzo di cui era venuto in possesso. L’ira terribile di Giove, conseguentemente, lo colpì, condannandolo, legato ad una rupe, all’atroce martirio dell’avvoltoio. Prometeo viene inoltre ricordato nell’antica tradizione perché con l’esempio e con gli insegnamenti seppe indurre gli uomini sulla strada della verità. In ultima analisi, anche Prometeo si muove dietro binari prestabiliti, però, per la prima volta, vi si muove male. La fantasia popolare, contrariamente a quanto aveva fatto in precedenza, ammette la possibilità della rivolta, del dissenso in nome di qualche cosa che intravede in lontananza e di cui non riesce ancora ad avere esatta cognizione. Non sarebbe forse molto azzardato dire, a questo punto, che il mito di Prometeo lascia balenare un concetto di verità ben diverso dal precedente. Se si vuole, si tratta di un piccolo passo, compiuto in chiave mitica, ma si tratta sempre di un passo verso la luce, e quindi sempre di un progresso.

E il mito della luce è il simbolo apollineo della civiltà greca. Forti di tutto un patrimonio scientifico e insieme magico pervenuto dall’eredità egizia e babilonese, i Greci si accinsero al lavoro di ricostruzione e continuazione con grande ardore. Però – e questo costituisce la loro gloria più alta – non si servirono di tutte quelle cognizioni per gli stessi scopi dei loro predecessori, ma anche ne teorizzarono l’assunto. La teoreticità della cultura greca manifesta insieme la sua profonda inadattabilità ai fini immediati e la sua contemporanea possibilità di fare sorgere sempre nuove soluzioni e nuovi problemi. L’eternità dei Greci è da ritrovarsi nel metodo che propugnarono più che nei risultati che conseguirono.

Uno dei metodi fondamentali della conoscenza è la generalizzazione del caso particolare. Gli Egizi e i Babilonesi non erano arrivati a tanto. La loro geometria, nata dalla necessità di calcolare l’estensione dei terreni annualmente allagati dal Nilo e la conseguente divisione tra diversi proprietari, non andava al di là di una serie di norme pratiche che, forse, non vennero mai utilizzate in altre contrade e, sicuramente, mai vennero esposte a fine didattico. La loro tecnica edilizia, la chimica, la metallurgia, la matematica erano un insieme di nozioni particolari, prive di intimo significato e, pertanto, non costituenti ancora una “scienza”.

Naturalmente, non si può prendere in considerazione uno stacco netto nell’opera dei Greci come l’iniziativa di un solo uomo. Si tratta di lenti movimenti collettivi, che solo a distanza di secoli riescono individuabili. La strada verso la generalizzazione e la teorizzazione passa, anche in Grecia, per il mito. D’altro canto, bisogna pensare che la spiegazione scientifica richiede una mente critica particolarmente adatta all’indagine selettiva e alla sintesi, e in più richiede un’ampia visione d’orizzonte, tutte cose che i Greci degli inizi non potevano avere. Per fare un esempio: un’eclissi non poteva venire spiegata scientificamente e, pertanto, la necessaria generalizzazione facente parte dello spirito del popolo greco risultò essere di forma magica. È lo spirito dei popoli primitivi, costretti a soggiacere di continuo a forze sconosciute, che facilmente si rivolge al magismo e ai riti.

Soltanto pochi uomini, particolarmente dotati, riescono a individuare il significato recondito della teorizzazione, al di là dei risultati immediati e pratici, ma si tratta di rare occasioni che l’umanità ripresenta per raddrizzare le sorti degli uomini. In fondo il popolo greco era un popolo bambino, potenzialmente atto a rispettare i destini del mondo, ma troppo inesperiente per non inseguire chimere e false realtà.

Il primo problema in cui trovò aperta estrinsecazione questo anelito alla verità fu, nei popoli primitivi, quello cosmogonico. Nel suo sviluppo si assiste a uno sforzo intellettivo grandissimo, in quanto tutti questi popoli partirono dall’assenza più assoluta di una tradizione culturale, e si proposero di menare diritto il colpo per scoprire l’origine della esistenza tutta.

Bisognerà tenere presenti le diverse condizioni ambientali e lo stato, più o meno disperso, di quella certa cultura orale che, se non costituisce argomento determinante, specie per i risultati di un’indagine condotta dopo tanto tempo, dovette avere la sua importanza all’epoca della formulazione delle soluzioni cosmogoniche. Difatti nel popolo ebraico abbiamo sùbito un’interpretazione altamente poetica, in conformità all’ambiente religioso in cui si sviluppò e alla vivezza della tradizione sacerdotale tipica delle tribù ebraiche. Mentre nel popolo sumero, malgrado si mantenga la forma poetica, viene a mancare il presupposto religioso, costruendosi, lo svolgimento logico del problema, in modo fantastico e superficiale.

Nello sforzo degli Indiani e dei Persiani, e con minore intensità in quello degli Egizi, è possibile individuare il lungo accumularsi del lavoro di generazioni di pensatori e di asceti. Il pensiero appare subito fluido e padrone di ogni cavillo logico, sebbene si mantenga in limiti bene definiti, tanto da fare supporre che questa tradizione filosofica, pur avendo influito sul metodo, non abbia avuto la forza di servire da cultura vera e propria. In altri termini, si ripresenta il caso delle origini della filosofia, dove è possibile riscontrare l’influsso di grandi personalità educatrici, ma dove è anche possibile notare la completa assenza di un corpus tramandabile, tale da servire come base per le future costruzioni filosofiche. Per quanto riguarda la posizione del popolo greco, nei confronti del problema cosmogonico, essa fa testo a sé, come esempio del più elevato sforzo compiuto dagli antichi per raggiungere la verità.

Il racconto ebraico della Bibbia non presuppone nemmeno la possibilità di una generalizzazione organizzata su delle osservazioni teoriche. Condotto in chiave mitica, assurge ad altezze liriche forse non mai eguagliate in seguito in sede filosofico-religiosa, ma non consente nessun impulso alla ricerca della verità. Il racconto assume il volto della rivelazione: atteggiamento magico precipuo di tanti altri testi dell’antichità.

Persistendo nell’osservazione di fenomeni e di “realtà” non spiegabili direttamente, si rende necessaria la scissione: dalla “realtà effettiva” di una “realtà voluta”, che con la propria autorità extrasensoriale riesca a giustificare l’esistenza di quei fenomeni straordinari. Ed ecco sorgere il mito religioso del popolo ebraico. «In principio Dio creò il cielo e la terra. Or la terra era informe e vuota, e le tenebre coprivano la faccia dell’abisso, e lo Spirito di Dio si librava sopra le acque». (Genesi, I, 1). Il tono è quello caratteristico della rivelazione, non si desume niente, non si ammette nessun possibile dubbio, non si mette in atto un processo conoscitivo qualsiasi: si asserisce soltanto che in principio Dio creò il mondo, e per duemila anni una parte consistente dell’umanità è rimasta affascinata, incapace di stabilire i limiti poetici della Bibbia.

Carattere prevalentemente favoloso hanno i miti cosmogonici costruiti dai Sumeri, con una caratteristica particolare: essi fanno risalire ad un’origine prima tutte le manifestazioni del loro mondo. Come ha fatto notare Giovanni Rinaldi, i Sumeri collegavano «fatti politico-sociali, religiosi, culturali, anche città, singoli templi, ecc. a un’origine, o meglio a un autore, o creatore, di natura divina o comunque sovrumana (eroi), da cui quelle cose avevano avuto origine». (Storia delle letterature dell’Antica Mesopotamia, Milano 1961, p. 27).

Donde risulta evidente la posizione mantenuta intellettualmente da questi popoli. La loro cultura aveva una fondamentale impronta religiosa. Così ancora Rinaldi: «Tra gli elementi della cultura sumerica che importa conoscere per poter interpretare i loro testi letterari, la religione occupa indubbiamente il primo posto. Essa cambiando, in parte per evoluzione, ma soprattutto per sincretismo, diventerà la religione anche dei Semiti, Babilonesi e Assiri (i due elementi sumerico e semitico tuttavia sono assai difficili da distinguere). Fondamentalmente si tratta di una religione fatta di “culti (alcuni sessuali) di fertilità”, ossia diretti a impetrare l’abbondanza di acqua e di prodotti del suolo. Si può pensare alla religione baalistica dei Cananei (documenti di Ugarit e allusioni nella Bibbia), ma solo per una somiglianza parziale. “La religione di Baal è religione della pioggia capricciosa, che viene e scompare; essa comporta la venerazione di un principio dell’ordine cosmico”. Invece “la religione di Sumeri considera l’acqua fertilizzante secondo un ordine fermo e stabilito, ordine inserito nella gerarchia della comunità degli dèi, i quali fanno i modelli di tutte le cose, che sulla terra sono forze e competenze. L’acqua è un elemento pieno di saggezza, che può fare tutto, come quando è regolata dai canali e rinchiusa tra le dighe; tale acqua regolata e benefica, la cui origine è nei cieli, dove fra le prime cose che fecero gli dèi le fissarono il destino splendente di acqua dolce, è ben distinta dalle acque primordiali, le quali, come le acque marine (con cui, del resto, si identificano) hanno effetti disastrosi” (Bergmann-Nober). Questa disposizione fondamentale, che ci spiega tante espressioni altrimenti incomprensibili, appare bene in coerenza con l’ambiente naturale, se se ne considerano gli elementi: mare e deserto vicino, da cui muovono, oltre che i razziatori, i venti fortissimi della regione (ogni giorno due, in senso opposto, uno dal deserto secco bruciante, che tien sollevata della polvere, in modo da velare il sole, l’altro umido, molle dal mare) e l’acqua dolce del Tigri e dell’Eufrate. E suggerisce anche il fondamento al giudizio storico-religioso della religione stessa: venerazione degli dèi in quanto datori di abbondanza, non accettazione di un insegnamento rivelato e pratico di vita fondamentalmente orientata verso una “divina carità spirituale” (Bergmann-Nober). Questi dèi a cui si rivolgono preghiere, che vengono onorati con riti, che sono pensati autori o conoscitori dei destini di uomini e cose, sono innumerevoli, vari da luogo a luogo e da tempo a tempo, fusi insieme e collegati dalla speculazione relativa dei sacerdoti nelle scuole presso i templi. Le teogonie in definitiva si uniscono con le cosmogonie: religione, storia primordiale, “scienza” delle origini (di cui i Sumeri si interessavano in un modo straordinario) fanno tutt’uno». (Ib., pp. 28-29).

Per altro nemmeno i Babilonesi, loro successori, seppero modificare sostanzialmente la tradizione. Il feticismo riuscì a permanere accanto ad una confusa mitologia, completamente priva di quelle possibilità che consentono l’apertura alla ricerca della verità. Forse mancò una vera e propria tradizione religiosa, o comunque fu molto debole e non riuscì mai così importante, come ad esempio per il popolo persiano. A dimostrazione di ciò risulta abbastanza valido il fatto che alcune trattazioni religiose si trovano mischiate a testi rituali per scongiuri, atti magici, mitografie, ecc. Notissimo lo “Scongiuro contro il mal di denti”:

Quando Anu (ebbe creato il cielo),
il cielo ebbe creato (la terra),
la terra ebbe creato i corsi d’acqua,
i corsi d’acqua ebbero creato i canali,
i canali ebbero creato il pantano,
il pantano ebbe creato il verme,
il verme andò a piangere davanti a Shamash,
a versare lacrime davanti a Ea:
– Che cosa mi darai da mangiare?
Che cosa mi darai da succhiare?
– Ti darò un fico maturo, o un’albicocca.
– E che ne faccio io di fichi maturi e di albicocche?
Orsù, fammi abitare tra il dente e la gengiva:
del dente voglio succhiare il sangue,
della gengiva voglio rodere gli alveoli!

Come si vede, in senso strettamente mitografico non esiste quella limpida consequenzialità tipica degli intrecci mitologici greci o indiani. La tiritera, per altro bellissima, più che una spiegazione cosmogonica, è una descrizione in chiave allegorica di un particolare fenomeno: il mal di denti. Questo esempio basta a mostrare l’insufficienza del pensiero sumero-babilonese nell’affrontare un problema difficile quale quello cosmogonico.

Ben altrimenti volgono le cose nella soluzione approntata dai Persiani, dove diventa palese una terribile dualità tra bene e male, una lotta tra due potenze di eguale forza e parimenti decise a regolare il mondo secondo le proprie intenzioni. Tra gli scritti persiani più antichi si trovano le Gatha che si fanno risalire alla penna dello stesso Zarathustra Spitama e che fanno parte delle Avesta, raccolta di scritti religiosi e liturgici, in cui è racchiusa tutta la dottrina dello zoroastrismo: «E quando questi due spiriti [l’eccellente e il cattivo] si incontrarono, allora per prima cosa si posero la vita e la non vita [...]». (Gatha, Yasma, 30, 3, tr. Pagliaro).

Evidentemente questa interpretazione riflette una modificazione dell’aspetto tradizionale della cosmogonia antica. I creatori in questo caso sono due: il bene ed il male. Caratteristica del pensiero persiano che si protrarrà per molti secoli, dando manifestazioni veramente interessanti di indagine teologica.

Nel mondo biblico il Sommo bene occupa da solo tutto l’orizzonte del quadro, il Male è alle sue dirette dipendenze. Anche nel caso della tentazione a Eva il Male non agisce per iniziativa propria, ma viene impiegato dal Bene affinché l’uomo subisca una prova. Il Male della tradizione israelita non raggiunge mai l’altezza del Bene, malgrado risulti dotato di peculiarità extraumane, esso resta sempre allo stato di semi-dio, non mettendo neppure una volta in pericolo la stabilità della posizione del Bene. Ora, anche a coloro che parteciparono alla formazione del contesto biblico, dovette sembrare curiosa e malposta la situazione del Male, operante nel mondo al di là di ogni direttiva prestabilita, ed indipendente da un influsso di correzione. Donde divenne necessario non manifestare la presenzialità del Male nel “paradiso terrestre”. Solo quando l’uomo risultò staccato da un ambiente che non gli era congeniale, il Male assunse la sua più idonea fisionomia di attore indipendente, ma sempre nell’àmbito delle azioni umane, perdurando la sua esclusione dalle cose divine. Tutto questo modo particolare di vedere i rapporti Bene-Male rivela lo sforzo gigantesco di un piccolo popolo di dare a se stesso l’autorizzazione più grande al dominio sugli altri popoli: quella che proveniva dall’essere guidato da un Dio invisibile, assolutamente inattaccabile alle forze del Male.

La religione persiana, invece, fin dagli inizi, si vide costretta a combattere altre religioni già in atto, molto forti e consolidate, quali quella naturalistica, il culto del fuoco, quello di Soma, ecc. Donde si rese necessaria la fusione e la riorganizzazione di culti precedenti, in una religione più completa ed insieme più adatta a comprendere le idealizzazioni fondamentali del Bene e del Male, che nei culti precedenti venivano considerati partitamente. Come si è detto, la dualità che veniamo descrivendo si protrasse per secoli nella teologia persiana, allargando sempre più il concetto di lotta ad armi pari tra due potenze ugualmente infinite, e cercando di dimostrare razionalmente il fondamento “unico” del concetto di “dualità”.

Questo caratteristico modo di procedere, sebbene frutto di un’epoca abbastanza tarda (forse è da riportarsi al periodo tra il IX e l’VIII secolo), mette in mostra una elaborazione culturale non indifferente, specie nella tradizione mazdaica. Ecco un passo tratto dal Denkart (libro IV, detto Aoven namak, tr. Pagliaro): «L’Uno, che è pure il Primo principio, simile com’è a se stesso, non ha causa. Il Due, la alterità primaria, quello che tra gli Attributi è il primo, secondo il legame della creazione è Vohuman, ma il suo inizio è dall’avversario e la sua causa coincide con l’origine della creazione. A considerare attentamente il Due e gli altri inclusi, può sembrare che in una cosa, in rapporto al duplice svilupparsi, non vale il principio “per tale effetto tale causa”. Infatti lo stesso termine “causa” ha implicito un significato che viene da molteplicità e coesistenza. Di due cose esistenti non è possibile calcolare esattamente il combaciare e nel limite le linee sottili si spezzano. Così non capita sia possibile che la linea sottile, che tiene da due lati, sia divisa in due. Infatti l’Uno, che nella unità è compatto, per sé è indivisibile per la stessa ragione per cui, se si muove, continua su se stesso e non è più uno, ma la dualità, che ha una causa, e ciò è dimostrato nella primarietà, stabilità, unicità dell’unità dell’Uno».

Come si vede, lo sforzo razionale non è indifferente. Assistiamo ad un vero e proprio rivestimento filosofico di un concetto mitico. Esempio che avrà non pochi confratelli nella speculazione occidentale. In tutti i casi possiamo dire che la speculazione cosmogonica persiana, anche escludendo l’aspetto tardivo molto più completo ed evoluto, si distacca da quella ebraica per lo sforzo compiuto nel volere porre all’origine di tutte le cose la dualità e non l’unicità.

Anche qui la strada che conduce alla vera ricerca scientifica è ancora molto lontana. Se nel mito biblico si restava nel campo dell’arte poetica, nel mito persiano si passa in quello della tecnica speculativa, non ancora vera filosofia, ma comunque da porsi, ai fini del discorso che veniamo tracciando, su di un piano più elevato. Ad esempio, i testi del Denkart o del Bundahisn sono ricchi di costruzioni logiche, ma mancano della possibilità di superare lo scoglio del mito magico. Questo ha contribuito a bloccare gli sforzi dei Persiani al di qua di una fusione tra indagine sperimentale e relativa deduzione razionale.

Su di un piano nettamente inferiore si trova la posizione del popolo egizio, nel bisogno comune di dare organizzazione al problema cosmogonico. La caratteristica fondamentale è l’assoluta mancanza dell’idea di una evoluzione, quando che sia nel tempo, indipendente dalla forza creatrice. Sia che ci si rivolga ai testi più antichi, come quelli “delle piramidi”, sia che si risalga a epoche relativamente più recenti, questa mancanza si rende sempre evidentissima. Eppure, parallelamente, gli Egizi compirono miracoli nella narrativa, nella storiografia e, sembra incredibile, nell’indagine scientifica.

Proprio quest’ultimo patrimonio egizio è quello che causa la maggiore meraviglia, in quanto non è stato capace di raggiungere una generalizzazione che avrebbe reso evidente l’insostenibilità della tradizione teologica. Anche mettendo da parte i testi di carattere chimico, che difficilmente sarebbe possibile depurare dalle tracce di magia e di astrologia, restano i testi di resoconto delle ricerche scientifiche. In questi ultimi l’osservazione del caso particolare è spinta fino all’inverosimile, il fenomeno viene sezionato con procedimenti di analisi che farebbero invidia ad uno scienziato moderno. Ecco, ad esempio, la descrizione a scopo didattico di un caso di tetano causato da una ferita alla testa: «Ma se trovi che quest’uomo le sue membra sono brucianti per effetto di questa ferita che è nella sutura del suo cranio, mentre quest’uomo è in preda a convulsioni per effetto di questa ferita, tu allora porrai la tua mano su di lui. Se trovi la sua fronte madida di sudore, il suo collo teso, la sua faccia cianotica, i suoi denti e il dorso e l’odore della scatola della sua testa è come di orina di montone, la sua bocca legata, le sue sopracciglia distorte e la sua faccia come se piangesse, allora dirai su di lui: uno che ha una ferita aperta nella testa che penetra fino all’osso e passa le suture del suo cranio, ed è in preda a convulsioni, e ha la bocca legata e soffre di rigidezza nel collo. Una malattia che non può essere trattata». (Papiro Smith, Caso VII, cfr. S. Donadoni, Storia della letteratura egiziana antica, Milano 1959, pp. 45-46).

Qui ci troviamo di fronte ad un esempio acutissimo di osservazione sperimentale, bisognerà aspettare migliaia di anni perché si ripresenti tale impulso alla ricerca empirica. Una generalizzazione dei fenomeni adatta a preparare e ad illustrare la interpretazione di un presumibile caso futuro, anche ricorrendo a dei paragoni empirici, dimostra l’esistenza di una mentalità scientifica in pieno sviluppo. Così precisa Sergio Donadoni: «La freddezza della descrizione scientifica trova le parole necessarie a indicare tutto il complesso gioco dei fenomeni più brevemente che sia possibile. Sa ben giovarsi dei paragoni (l’odore “come di orina di montone”, le contrazioni del volto “come se piangesse”) ma senza farli uscire dalla loro specifica funzione di elementi esplicativi, di appoggio. L’ordine, la precisione del linguaggio, la brevità stessa della conclusione negativa, rapida come una condanna, nascono non da volontà stilistica, ma da questo atteggiamento di impegno in una realtà mondana e pratica. Qui non si attendono miracoli, e la mentalità della formula magica è morta. Da questa obiettività razionalistica (che può essere la semplice ricerca di fissare la frase che veramente dice il bovaro durante il suo lavoro, che può essere la necessità di dar una norma non equivoca che abbia valore giuridico, che può essere l’impegno a descrivere sintomi che debbono essere chiaramente identificabili ad una prima analisi diretta) nasce per molte vie la difficile esperienza della prosa. La parola non basta più: deve narrare e descrivere, deve mordere in una esperienza di vita. Mentre nei Testi delle Piramidi sono illuminati di luce vivissima solo alcuni particolari, che debbono servire a evocare tutto un clima lirico e mitico, e si procede per allusioni, e se si descrive con icastico vigore un momento o un oggetto questo è sempre un termine di paragone e non mai ciò di cui veramente si parla, qui c’è un pacato distendersi, un considerare cose e fenomeni nella loro organicità. Le fulminee intuizioni dei Testi delle Piramidi cedono a lente enumerazioni o analisi. Gli scoscendimenti lirici qui sono finiti: i testi ormai sono scritti per essere capiti senza troppa difficoltà, non per essere “sentiti” o “vissuti”». (Ib., pp. 46-47).

In questi uomini l’influenza del mito è quanto mai leggera. Eppure niente di questo spirito di ricerca travalica nel campo dei concetti puri. La teorizzazione di un principio, concetto che logicamente poteva venire fuori dalle ricerche scientifiche, rimane estraneo alla dottrina religiosa. Ecco come in un testo che gli specialisti fanno risalire all’epoca della V dinastia (quindi di qualche tempo posteriore al testo citato prima) si espone una teoria cosmogonica: «Così fu trovato che la sua [di Ptah] potenza è più grande di quella degli altri dèi [...]. Egli creò gli dèi, fece le città, fondò i nomi, pose gli dèi nei loro santuari, consolidò le loro offerte, fondò i loro templi, fece i loro corpi simili ai loro desideri. Così entrarono gli dèi nei loro corpi di qualsiasi specie di legno, di qualsiasi specie di pietra, di qualsiasi specie di minerale, di qualsiasi specie di sostanze che nascono su di lui e di cui essi abbiano preso l’aspetto». (Ib., p. 48).

Nella tradizione egizia, come si è visto, prevale l’idea feticistica, come nella tradizione sumerica e babilonese. Con l’evidente differenza che mentre lo spirito dei Sumeri è prettamente favoloso e mitologico, quello degli Egizi, pur rimanendo legato ad un feticismo insostituibile, concentra nelle singole cose, nei singoli fenomeni, quell’idea del divino, che altrove non si può vedere. È un poco l’eredità scientifica che modella il concetto religioso, in modo curioso se si vuole, in quanto non tiene conto del principio di generalizzazione, ma sempre determinante. Nei singoli fenomeni gli Egizi avevano imparato a vedere la natura stessa, lo sforzo gigantesco di una forza che si ripresenta sempre sotto spoglie diverse, ora amiche ora nemiche, ora note ora ignote. E questo gioco era, per loro, divino.

Non sembra condivisibile l’opinione di quegli orientalisti che affermano essere stata, in Egitto, abbastanza sviluppata una religione monoteistica, in linea con un movimento generale che va dalle teorie di Zarathustra alle elaborazioni poetiche degli Israeliti. Siffatta teoria è, quanto meno, priva di testimonianza, specie se si tiene conto del fatto che attribuire l’opera della creazione a un solo motore non significa venire meno al fondamentale feticismo. Brested e Moret formulano questa ipotesi, raccolta da Corrado Barbagallo (Storia Universale, vol. I, Torino 1955, p. 195).

La vicenda del popolo egizio non può staccarsi da questa plurivalenza delle divinità, specie se si tiene presente la coscienza empirica altamente sviluppata, che proponeva sempre nuove scoperte e nuovi problemi, in controsenso con la totale mancanza di un’idea coordinatrice di queste forze vitali in movimento. Tutto quello che di un fenomeno poteva venire scoperto dall’indagine empirica, assumeva veste di realtà e non veniva contaminato da proposte magiche e rituali, il resto non sfuggiva alla sorte comune a tanti altri problemi insoluti dell’antichità.

La strada della verità passa anche attraverso l’esperienza egizia. Si tratta di piccoli tentativi, ciechi e disperati, ma ammirevoli, se si pensa che sono stati condotti in tempi in cui guardare in faccia la verità poteva significare guardare in faccia la morte. E non bisogna sorridere alle loro soluzioni, quasi sempre passano accanto alla sostanza delle cose senza sbattervi contro, troppo immersi in quella loro magica paura dell’inconoscibile, che va a tutti i costi conosciuto e spiegato, e troppo legati a quella necessaria sostanzializzazione del fenomeno che risulta in questo modo elevato al rango di divinità.

Il popolo indiano, da canto suo, fornisce una delle più alte formulazioni filosofiche del problema che ci occupa. Si tratta sempre di deduzioni prive di quella teoreticità che riscontreremo presso i Greci, ma validissime come documentazione di uno sforzo fra i più considerevoli di arrivare alla conoscenza della verità. La speculazione indiana, perché tale si può definire, abbandona la fase puramente descrittiva, tipica delle ipotesi già studiate, per assumere il tono e l’autorità che competono a una ricerca organizzata scientificamente.

Per prima cosa possiamo distinguere l’opera di un Creatore dall’opera successiva delle cose create. Anche se il discorso si mantiene sempre sul piano mitico, è facile rilevare il progresso di questa idea che contribuisce a velare il feticismo permanente. Non è più necessaria la presenza di un principio unico che giustifichi la formazione delle particolari sostanze e dei fenomeni tutti. Adesso il Creatore viene osservato in tutta la sua potenza nell’atto creativo unico e determinato, dal quale, in epoche successive e senza che la sua forza creatrice sia più intervenuta, scaturiscono sempre nuove forme, in una rudimentale evoluzione.

Nel Rigveda (X, 82), testo poetico di formazione antichissima, leggiamo: «Il padre dell’occhio, costante nel suo proposito, produsse questi due affondati nel liquido grasso, quando dapprima i loro estremi furono consolidati il cielo e la terra si distesero. L’autore di tutto, infinito nell’animo e nella potenza, è il creatore e ordinatore e supremo sguardo; di costoro i desideri con il sacrificio prosperano ove, di là dalle stelle dell’Orsa, lui solo dicono essere. Quegli che è il nostro padre e genitore, quegli che come creatore le creature e i mondi tutti, quegli che degli dèi stabilì, egli solo il nome, lui ad interrogare vanno gli altri esseri. A lui sacrificarono il loro avere i primi veggenti, come cantori in abbondanza; i quali nel buio e luminoso spazio stabilito queste creature plasmarono [...]». (Citato da V. Pisani, Storia delle letterature antiche dell’India, Milano 1959, p. 38).

La nebulosità del concetto iniziale di creazione non può mai rendere deteriore il principio che balena tra queste righe. Evidentemente non si tratta di parole definitive, chiare, inattaccabili al dubbio. È utile, però, notare il concetto, di presenzialità del tutto nel “liquido grasso”. La partizione del cielo e della terra, intesi come due estremi di qualche cosa indivisibile, trova la propria origine in un tutto che insieme li giustifica e li fonde, ancor prima della creazione. Per quanto riguarda le successive creazioni, ad opera dei “primi veggenti”, ci si deve riportare alla necessità, di questi uomini primitivi, di spiegarsi l’esistenza di tante specie animali, vegetali e minerali, in difficile accordo con l’ipotesi di un creatore unico. Donde deriverà una certa debolezza nella più tarda elaborazione scientifica di una teoria evoluzionistica. Ma, restando nell’àmbito del nostro assunto, possiamo vedere come il cantore di questi versi, appassionato poeta e nello stesso tempo acuto applicatore della propria ragione, non manca di manifestare il proprio disappunto per lo stato attuale delle cose, per l’esteriorità del meccanismo della creazione, dal quale non sarà mai possibile avere una esatta cognizione del suo creatore, perché troppo avvolto da nebbia e da “ciarle”, opera degli inetti “recitatori d’inni”.

Ma lo sforzo del popolo indiano sulla strada della risoluzione del problema cosmogonico non si esaurisce in semplici tesi poetiche, anche se profondamente sentite. Quanto abbiamo visto cerca confusamente di delimitare un “principio assoluto”, ma non va oltre, non ritorce in se stesso il principio onde ottenere una verità logica, novella forza che può da sola giustificare la nascita e la permanenza del “principio assoluto”. Per alcuni studiosi si deve aspettare fino all’affermazione del buddhismo per avere un inizio in questo senso, ma delle manifestazioni ben sicure esistevano fin dal tempo in cui ci è possibile datare gli inni sopra citati. Ecco come questa idea viene tratteggiata nell’Inno X, 129, 3, sempre del Rigveda: «Oscurità vi era di oscurità avvolta, in principio: indifferenziata acqua questo tutto era: quella energia, che di vuoto avvolta era, per la potenza dell’interno ardore nacque come il Solo». (Cfr. op. cit., p. 39).

Eccoci pervenuti all’identificazione di un Principio nel principio, di una energia insita nella forza creatrice, che funge da giustificazione del principio stesso. Alla dottrina buddhista spetterà il compito di chiarire pienamente questo assunto, con il concetto sostanzializzante della “preghiera”. Di certo queste speculazioni non apportano nessun contributo definitivo alla conquista della verità, in modo speciale per noi occidentali, troppo lontani dal mondo particolare che questi concetti presuppongono. A nostro conforto resta il fatto che quanti si siano avvicinati allo spirito indiano ne sono usciti profondamente mutati. Esempio validissimo resta l’opera di Schopenhauer, dove è possibile rilevare tanta parte dell’ispirazione buddhista.

Così Vittore Pisani sul Buddhismo: «La dottrina del Buddha (astraiamo qui da sviluppi ulteriori) si riassume nelle “quattro verità”: I – dolore è la nascita, la vecchiaia, la malattia, la morte, l’unione con ciò che spiace, la separazione da ciò che piace, il non ottenere ciò che si desidera; II – fonte del dolore è la brama che conduce da una nascita all’altra; III – la soppressione del dolore è ottenibile sopprimendo la brama, e ciò avviene distruggendo totalmente il desiderio; IV – per avviarsi alla soppressione del desiderio e del dolore occorre avviarsi per l’“ottuplice sentiero” consistente di: retta fede, retta risoluzione, retto parlare, retto operare, retto vivere, retto aspirare, retto pensare, retto concentrarsi. La cessazione del dolore è concetto ricadente con il “nirvana”; nirvana che per il buddhismo ha però significato speciale, in quanto questo non pone come il jainismo delle anime individuali eterne e costanti: quello che per altri è l’anima, per il Buddha non è che un sempre rinnovellantesi prodotto di sensazioni e rappresentazioni; venute meno queste, vien meno anche la possibilità di rinascere e quindi di soffrire. Ma su quella che potremmo chiamare la sostanza metafisica dell’universo, il Buddha si è rifiutato di esprimersi, giustamente rispondendo, secondo un antico testo, al discepolo che gli chiedeva notizie sul nirvana: “Nessuna misura può misurare colui che è entrato nel nirvana; non ci sono parole per dire di lui; svanito è ciò che il pensiero potrebbe afferrare: così ogni strada è preclusa alla parola”; in ciò divinando la ultralogicità di idee metafisiche, dimostrata dalla critica di Kant. Ai fini del percorrere l’ottuplice sentiero è indirizzata la istituzione della comunità buddhistica consistente di monaci e monache. Costoro rinunziano a patria, famiglia e casta, si radono il capo, indossano una veste di color giallo e vanno errando in qualità di mendicanti (bhiksu, pali bhikkhu) dopo essersi votati a castità e povertà, intesa quest’ultima non solo per l’individuo ma anche per la comunità, e trovando accoglienza, ove esistano, in conventi fondati da laici che costituiscono una cerchia di credenti non avviati definitivamente alla conquista della liberazione, noi diremmo piuttosto di simpatizzanti. Data la natura della religione, manca ogni culto; i laici però raccolgono le reliquie del Buddha o di altri santi uomini in monumenti detti stupa e celebrano feste con offerte di fiori e luminarie. Ma i monaci e le monache debbono radunarsi due volte al mese per una confessione pubblica, destinata a prevenire ogni deviazione dalla ben definita regola. Un tratto di ordine sociale è particolarmente da rilevare, come quello che oppose recisamente il buddhismo al brahmanesimo e forse fu causa in definitiva della sua scomparsa dall’India: il rifiuto alle distinzioni di casta fatto dai monaci al loro ingresso nell’ordine, il quale non poteva non riflettersi sull’atteggiamento dei laici rispetto a questo pilastro dell’edificio sociale indiano. Ponendo una tale prassi, il Buddha sanciva un principio già serpeggiante fra gli cramana e in genere fra elementi di quel pensiero laico che in parte abbiamo visto confluito nelle Upanisad; solo che, data l’importanza e diffusione assunta a certi momenti dal buddhismo, questo annullamento della gerarchia castale e soprattutto della supremazia arrogatasi dai brahmani doveva provocare l’opposizione più decisa da parte di costoro». (Op. cit., pp. 59-61).

Ed eccoci, sempre nell’àmbito del problema cosmogonico, al miracolo greco. Effettivamente spinge alla meraviglia l’operato di un popolo che, dallo stesso punto di partenza di tutti gli altri, cioè dai miti e dalla magia, giunge ad una organizzazione scientifica del concetto di conoscenza.

Onde ben si capisca l’intima lezione contenuta nei tentativi cosmogonici già esaminati, si vedrà chiaramente come s’intenda per conoscenza una sorta di ripresentazione in forma ricettiva di una realtà a sé stante e indipendente dai nostri sforzi diretti a raggiungerla. Sia, pertanto, questa realtà mitica, oppure effettiva, non ha reale importanza. Per gli Egizi come per i Babilonesi, per gli Indiani come per i Persiani e gli Ebrei, il concetto di realtà è sostanziale, ma spurio.

Abbiamo già visto l’infelice posizione di questi popoli nei confronti di quanto li circonda. Naturalmente le difficoltà dei Greci non furono minori, ma seppero superarle perché si trovarono concordi nell’unificare gli sforzi della riflessione e della ricerca. Per tutti i popoli primitivi la conoscenza, quando non si rovina tutto in costruzioni mitologiche prive di significato, viene intesa come un processo che concorre a portare alla riflessone della presenzialità del mondo. I Greci seppero utilizzare appieno questa comune accezione, e nelle stesso tempo riuscirono ad elaborare una generalizzazione logica estensibile alla ricerca in generale.

I primi passi non emergono che debolmente dal mito. La Teogonia di Esiodo, nonostante la testimonianza elogiativa di Aristotele, resta solo un tentativo di dare giustificazione logica al rivestimento mitico con cui si copriva l’origine sconosciuta del mondo. Sempre sulla stessa linea restano le concezioni di Eschilo, di Ferecide di Siro e dei Sette Savi. Al limite tra le sicure informazioni e la leggenda, di questi uomini sappiamo che non riuscirono a superare l’involucro mitologico di una pretesa organizzazione cosmica e limitarono la loro attività a dettare precetti di sapienza diretti a regolare le mosse degli uomini, che loro interpretavano senza senso e senza scopo.

Sorge, a questo punto, il problema del perché il popolo greco, all’inizio della riflessione filosofica, si sia indirizzato verso la spiegazione del cosmo anziché verso lo studio dell’uomo e delle cose che lo circondavano. Innanzi tutto bisogna chiarire che il problema si pone per i Greci e non per gli altri popoli prima esaminati, perché soltanto i Greci, come abbiamo visto, raggiunsero quella maturità di pensiero che sola può rendere l’uomo capace di scegliere fra più problemi o indirizzi di ricerca. Ma per ritornare alla questione che ha impegnato da molto tempo storici e critici della filosofia, possiamo dire che il punto centrale sta nel fatto che non ci si spiega perché l’estrema difficoltà del cosmo, con tutti i misteri che esso nasconde, abbia attirato di più le attenzioni degli studiosi greci, stornandole dalle difficoltà relativamente più facili dell’uomo e della realtà esteriore. E a questo ostacolo, o per lo meno a una spiegazione che potremmo definire di contorno, si sono fermate le indagini di uomini come Eduard Zeller,Wilhelm Windelband, John Burnet, Ernst Cassirer, Paul Tannery. La spiegazione di contorno viene fatta risalire a Locke e al suo paragone con le limitazioni visuali dell’occhio, donde si riduce il tutto ad una mancanza di prospettiva storica: soluzione che ripresenta immutato il problema iniziale. Ma un energico sviluppo, a mio avviso, lo ha prodotto Rodolfo Mondolfo: «I problemi cosmici, nella riflessione mitica iniziale, son concepiti cioè essenzialmente come problemi umani, modellati sull’esempio degli stessi. Ma ciò, evidentemente, significa che, contemplando e cercando di comprendere la natura, il pensiero mitico possiede già i concetti relativi al mondo umano, e per ciò stesso può adoperarli; in altri termini, la riflessione sul mondo umano ha preceduto la riflessione sul mondo naturale, e perciò questa può appoggiare su quella, in quanto sorge per la prima volta». (Alle origini della filosofia della cultura, Bologna 1956, p. 13).

Inoltre, potremmo aggiungere, senza nulla togliere a questa concezione che ritengo definitiva, che il pensiero degli antichi Greci dovette rivolgersi necessariamente al cosmo prima che all’uomo – intendendo con ciò più che una priorità effettiva, una esteriorità manifesta – in quanto la rarefazione dell’uso del pensiero stesso relegava quest’ultimo in seno a caste determinate per lo più di organizzazione sacerdotale, e quindi a eminente carattere esoterico e magico. Ecco quindi l’opportunità, per questi gruppi di persone, di dare indirizzo unitario ed esplicativo alla loro attività di stregoni e successivamente di intermediari tra il mistero e la realtà, tra lo sconosciuto mondo dell’oltremondano e il resto degli ignoranti, immerso nella più tetra superstizione. Questa, per grandi linee, la situazione iniziale, caratteristica delle prime soluzioni cosmogoniche. Solo più tardi, quando il nerbo del pensiero si seppe infittire, quando dal primo balbettare si seppero pronunciare interi discorsi, altri uomini, del tutto diversi, non più legati, o solo debolmente legati, a interessi di casta o di scuola, raccolsero le fila dalle mani dei predecessori e intrapresero il primo, vero, cammino verso la verità.

Con il nascere di questo sentimento o sorta di autocoscienza di una necessità di ricerca, quando che sia fuori dal vincolante rapporto contingente del mito e del destino, si staglia netta una forma nuova di pensiero: la filosofia. Naturalmente non si può parlare di una nascita vera e propria come entità ben determinata, che prima non esisteva, e che dopo una serie di eventi ebbe vita e forma. Per lo più questi primi bagliori mancano di quella riflessione sullo stesso organismo interno della filosofia, che da sola attribuisce luce scientifica a ogni desiderio di sapere. Ci si incomincia a guardare attorno, sul terreno immenso dell’ignoranza, e a raccogliere quei frutti casuali, che in un campo mai percorso da piede umano non mancano di trovarsi in abbondanza. Non si può parlare di filosofi, come non si può parlare di scienziati, teologi, astronomi, medici, ma solo di tutto preso insieme. Sono dei pionieri che coraggiosamente esplorano una terra nuova, andando incontro a pericoli mai conosciuti, correndo il rischio di compromettere in una sola volta le poche conquiste fatte.

A titolo di esempio, seguendo la linea di svolgimento che abbiamo intrapreso, osserviamo le soluzioni cosmogoniche di due pensatori greci dei primordi: Anassimandro e Anassimene.

Partendo dalla considerazione che ogni nostra rappresentazione della realtà, liberata dalle scorie della magia e del mito, non è altro che una rielaborazione e non una rappresentazione pura, Anassimandro si vide costretto a ricercare una conferma estranea allo stesso procedimento ragionativo, una conferma che, in base ad analogie e generalizzazioni, sapesse dare riprova dell’assunto teorico. Contemporaneo di Talete, Anassimandro rappresenta il primo serio tentativo di inserimento scientifico nell’esame del mistero cosmico. Ancor più che Talete, troppo coperto dalla crudeltà dei secoli, quest’uomo ci appare come la prima figura di scienziato che sia riuscito a sconsacrare i miti orientali dell’origine del mondo. La cosmologia abbandona il carattere religioso che aveva mantenuto per secoli presso i più svariati popoli, per venire trattata alla stessa stregua dell’astronomia – scienza di cui il Anassimandro era cultore –, della fisica, della matematica, della geometria.

Alcuni studiosi (ad esempio, Johan Haser) sostengono che lo svolgimento delle varie discipline scientifiche sia avvenuto, in questo periodo, parallelamente, senza nessuna ingerenza tra i loro risultati. Nessuna eccezione da porre a simile concetto, per altro documentabile per alcune discipline e non per tutte. Ciò nonostante desidererei fermare l’attenzione su di un particolare. Va bene che lo svolgimento avvenne in senso parallelo, ma non è da dimenticare che se la medicina progredì isolatamente dalla matematica, e se la geometria non dette segni – almeno superficialmente – di subire influenze dalla filosofia, uno solo fu il concetto direttivo che tutte le scienze accomunò e tutte egualmente spinse verso un continuo progresso: la teoreticità del particolare, esaminato e studiato in vista di una generalizzazione. Il principio infinito e indefinito, designato come origine di tutte le cose da Anassimandro, costituisce un progresso notevolissimo nei riguardi dell’acqua di Talete, concezione che, a sua volta, costituiva un grande balzo avanti nella scala della cosmologia.

Riconoscendo alla stessa materia l’alta possibilità di albergare un principio non solo infinito, ma anche indefinito, cioè non solo capace di abbracciare tutta la materia, ma tutte le forme possibili, si sradica definitivamente l’assurda pretesa di porre le origini del tutto al di fuori del tutto stesso, pagando ogni debito residuo con il mito del passato. Con Anassimandro si assiste a una delle prime formulazioni chiare del processo di evoluzione, non tanto nella partizione in categorie – come quella degli uomini che ritiene nati dai pesci e poi gettati sulla terra: intuizione, per altro, genialissima, ma assolutamente gratuita, in quell’epoca, perché non corroborata da nessun possibile esperimento diretto a ricercare gli organismi di passaggio – quanto nell’esposizione della legge che forma la base della separazione di tutte le forme: la legge di giustizia.

Il tempo gioca un ruolo fondamentale in questa teoria, venendo per la prima volta a fare la propria comparsa sulla scena filosofica del pensiero. Nel tempo si dispone la lunga sequenza degli esseri, gli uni debitori verso gli altri della propria iniquità. Così viene a essere stabilita una legge di complementarietà che regola il comportamento degli esseri, sia sul piano cosmico che su quello umano: una legge di giustizia e d’ingiustizia, di morte e di sopravvivenza, L’unità primordiale dell’infinito viene ad essere spezzata da un atto d’ingiustizia, donde emerge il diverso, il limitato, il parziale, spetterà poi ad un atto di giustizia riportare in parità la bilancia. Così Teofrasto parla di Anassimandro: «Egli dice che il principio non è acqua né alcun altro dei cosiddeti elementi, bensì una certa natura infinita differente, da cui sorgono tutti i cieli e i mondi in essi contenuti […]. Ed è chiaro che [Anassimandro], riconosciuta la trasformazione l’uno nell’altro dei quattro elementi, ritenne ingiustificato di stabilire uno solo di questi come sostrato, e pensò invece di stabilire come tale qualcosa d’altro al di là degli elementi. Costui poi riconduce la generazione non già all’alterarsi dell’elemento, bensì al separarsi dei contrari attraverso il movimento eterno». (Dox., 476, 6-15).

Anassimene da Mileto, di poco posteriore ad Anassimandro, rivolse i suoi studi cosmogonici alla sostituzione del principio infinito del predecessore con un altro principio, più vicino al mondo esterno dell’uomo, ma presentante lo stesso i caratteri esteriori di individualità e persistenza in tutte le divisioni formali dell’universo: l’aria. Forse non è del tutto esatto assegnare ad Anassimene questo modo di ragionare, forse egli era cosciente della corporeità dell’aria e soltanto un’osservazione sperimentale di determinati fenomeni lo indusse a sostituire l’infinito di Anassimandro con una sostanza materiale. Di certo al di là di questioni periferiche, non ci resta che ammirare la preparazione scientifica di Anassimene, il suo procedimento che lo porta a considerare il fuoco come rarefazione dell’aria e il vento come condensazione. Siamo in piena teoria evoluzionistica quando dal vento, per una ulteriore condensazione dell’aria, si passa alla nuvola, all’acqua, alla terra, alla pietra. Ha un bel dire Cicerone: «Ho esposto press’a poco non giudizi di filosofi ma sogni di persone in preda a delirio. Infatti non sono molto più assurdi i racconti sgorganti dalla voce dei poeti, nocivi per la loro stessa dolcezza, essi rappresentarono gli dèi accesi d’ira, e pazzi di brama e ci fecero vedere le loro guerre, le lotte, le battaglie, le ferite, inoltre i loro odi, i dissidi, le discordie, le nascite, le morti, i lamenti, le querimonie, le brame espresse in ogni intemperanza, gli adulteri, le prigionie, le unioni con il genere umano e la prole mortale nata da un immortale». (La natura degli dèi, in Opere politiche e filosofiche, tr. it., vol. II, Torino 1955, p. 510). Così dicendo mostra di non avere considerato nel loro giusto valore questi sforzi e di non avere capito l’intima consapevolezza di questi uomini che per primi ardirono uscire in campo aperto, fuori dai comodi ripari dei miti e delle superstizioni. Così Anassimene: «Come l’anima nostra, che è aria, ci sostiene, così il soffio e l’aria circondano il mondo intero». (Diels, 2).

Dal parallelo tra Anassimandro e Anassimene risulta una differenza di posizione notevolissima. Più filosofo il primo, più scienziato il secondo, più propenso alla grande idea organizzatrice il primo, più attento alle singole fasi del processo di svolgimento il secondo. Tutti e due, al di là di ogni illusione, sono ancora debitori, per parecchi versi, alla tradizione mitografica. Si stacca di più Anassimandro, stabilendo audacemente l’infinità della materia ma il suo successore fa presto a riportare il maestro coi piedi sulla terra. Possiamo anche incontrare nello scritto gli estremi di un concetto filosofico di “divinità”: il primo tentativo ufficiale di suprema idealizzazione di un concetto. In questo modo Anassimandro verrebbe a staccarsi completamente dagli strascichi teologici precedenti per darci, mediante uno sforzo intellettivo non indifferente, uno degli indirizzi più energici verso la verità. Ma il messaggio non è raccolto dal suo successore. Poco sappiamo della personalità di Anassimene, ma da quel poco possiamo dedurne una maggiore tendenza alla scientificità che non il maestro. L’amore per l’osservazione diretta dei fenomeni seppe impedire l’impiego di un concetto non ammissibile dall’esperienza. La strada della verità viene riportata sul binario scientifico della riprova: non bastano le sole intuizioni geniali, ma occorrono anche le dimostrazioni scientifiche.

Da quanto abbiamo già esposto di un problema così delicato e sentito, come quello cosmogonico, possiamo trarre una prima conseguenza. La filosofia, nel proprio manifestarsi come linfa vitale di ogni pensiero di ricerca, nasce essenzialmente sotto la veste di eresia, in quanto la vocazione di questi primi ricercatori fu di non aver paura del Nume, e di guardarlo tranquillamente in faccia. E, tenendo presente i tempi di superstizione e di terrore del dio, in cui questi sforzi si manifestarono, non si può non ammirare l’opera grandissima di questi iniziatori, specie rapportandola alla fiacchezza di quanti oggi, in tempi ben altrimenti liberi e maturi, mistificano il compito del pensiero, sotto il pallido riflesso di una superstizione ammodernata e ingentilita o sotto il riflesso più concreto di un servilismo accomodante e produttivo.

Quando iniziò l’alba dei destini del mondo ebbe inizio pure la storia della filosofia. E questo deve farci riflettere oggi, a tanto tempo di distanza e dopo tante testimonianze, sul vero compito di ogni riflessione filosofica, affinché non risulti vana esercitazione accademica. La lunga vicenda cosmogonica serve a illuminare il motivo centrale di questo sforzo, che osservato nelle sue frazioni può sembrare ben altrimenti diretto. Per i primitivi, la soluzione del predetto problema significava una chiarificazione dell’uomo, principalmente delle origini dell’uomo. Una specie di stacco decisivo dalla tirannia di un nume assurdo e terribile. Ma non bisogna illudersi che lo svolgimento di questo piano si sia esaurito con l’esaurirsi del problema cosmogonico. Esso segue l’arco delle sorti dell’uomo, compagno scomodo ma necessario, utilizzato ora con discernimento ora con storditezza, ma profondamente ineliminabile.

Con il sorgere delle religioni del pensiero, questo svolgimento divenne più tortuoso, quasi invisibile, ma sempre presente per l’occhio esercitato di chi lo ha seguito fin dal suo sorgere. Se la riflessione organizzata del pensiero analizza la religione, non per questo viene meno alla sua originaria eresia. Il fatto stesso di porre delle condizioni, di mitigare il potere assoluto del dio, di stabilire dei canoni di comportamento, di assegnare dei compiti, di valutare meritevoli, di condannare colpevoli, di stabilire premi, significa bloccare l’assolutezza incondizionata che inizialmente inibiva o rendeva unilaterale ogni rapporto dio-uomo.

Il pensiero, anche quando non si eleva nella solitudine di un netto rifiuto, anche quando si affanna a costruire dimostrazioni e sostegni teologici, è sempre eresia. Forse non è azzardato estendere il concetto di eresia a quello di verità se, come si è detto prima, ogni sforzo di ricerca è costituzionalmente diretto alla conoscenza della verità. Procedendo in questo modo si getta una nuova luce sia sul problema del significato della filosofia, che sulla necessità di dare contenuto e forma a un concetto di verità. Se si considera la verità come una entità oggettivabile, posta in una dimensione la cui conoscenza non ci appartiene, e in attesa di essere tutta estrinsecata da questa dimensione ignota per occupare un altro genere di dimensione, a noi più accessibile, si commette un errore gravissimo, che vincola ogni futuro svolgimento della conoscenza. E la stessa strada è costretta a seguire la filosofia. Se la si pone come tecnica o processo organizzato di questo conseguimento, la si inaridisce in vuote esposizioni di un pensiero che tale rimane solo nella forma esteriore.


[Pubblicato su “Studi e ricerche”, 1968, pp. 33-48, col titolo: “Il problema della verità alle origini del pensiero filosofico”]

Martin Heidegger e Parmenide di Elea

Il sapere essenziale attiene all’uno che è. L’intendersene abituale di qualcosa è in sostanza la conoscenza, ma questa non è il sapere essenziale.

Parmenide ed Eraclito sono i due pensatori, vissuti entrambi nei decenni tra il 540 e il 460, che cercano di pensare il vero. Pensare il vero significa esperire il vero nella sua essenza, in altre parole sapere la verità del vero.

Nell’àmbito della storia importante del pensiero, quella che si contrae sulla realtà propriamente detta, l’inizio è ciò che giunge da ultimo. Ma per un pensiero che conosce soltanto la forma del calcolo e della misura l’affermazione di cui sopra è un controsenso. Al suo debutto, l’inizio compare sotto la forma di velamento caratteristico. Cerco di capire ma insisto a irrigidirmi, non ammetto possibile l’abbandono e l’oblio, voglio essere vigile ma risulto discontinuo, mi faccio prendere dalla paura e torno indietro storicizzando i miei tentativi, quindi permeandoli a causa del loro inserimento in un meccanismo preteso oggettivo. Ne deriva il fatto singolare che l’iniziale viene facilmente ritenuto qualcosa di incompleto e approssimativo. Heidegger afferma che il primo pensatore iniziale vero e proprio è Anassimandro.

Gli altri due, egli continua, gli unici oltre ad Anassimandro, sono Parmenide ed Eraclito. Il fatto di distinguere questi tre pensatori come i primi pensatori iniziali, preferendoli a tutti gli altri pensatori dell’Occidente, può apparire arbitrario. Abbandonare una solidificata landa di partenza, un territorio riconosciuto, può condurmi alla confusione. Io non so in effetti che fare e la storicizzazione alla quale ricorro nasconde il vuoto che c’è nel mio sapere. Ho bisogno di una memoria che registri fatti, e i miei abbandoni e i miei oblii, non sono fatti, sono sospensioni o alleggerimenti del fare. Non posso quindi fare tesoro di queste esperienze della coscienza immediata, ogni volta devo ricominciare daccapo.

Nel corso delle epoche della storia occidentale, dice Heidegger, alle generazioni successive il pensiero precedente diviene sempre più estraneo. Da ultimo il distacco è talmente grande da suscitare il dubbio che un’epoca posteriore sia in genere ancora in grado di ripensare i pensieri più antichi. Ciò mi causa una ritardata inquietudine, una forma di sollecitazione che mi viene dallo stato angoscioso causato dal non riuscire a determinare con esattezza da dove provengo e come fondare le mie pretese di rivolgermi verso il tutto, interrogandolo partendo da una base stabile, ma che alla lunga si rivela inaffidabile, troppo legata a misure artificiose e incomprensibili se affidate soltanto a se stesse.

A questo dubbio Heidegger ne associa un altro, se cioè tale proposito, ammesso che sia attuabile, rechi ancora un qualche giovamento. Perché mai dovremmo errare per seguire le tracce quasi cancellate di un pensiero passato da tempo? Si tratta di un dubbio che è l’ultima spiaggia della produttività, ed è a sua volta imposto dall’incompletezza. Se il mio scopo è quello di cercare altro possesso che soddisfi le mie necessità di completezza, nel fare trovo sempre un amaro rinvio, quasi sempre all’indietro. Nel tutto al contrario trovo la possibilità che risponde sempre alla domanda fondamentale, ma mi arriva dal destino e questo fare mi indicare qualcosa d’altro, forse un agire?

Heidegger avanza dei dubbi sulla possibilità e sull’utilità di un tentativo diretto a rintracciare il pensiero originario, per altro pervenuto solo in frammenti. Ciò dipende dall’essere abituati a certezze che, in fondo, tali non sono. Nella tradizione che così mi arriva non c’è un permanere ma un revocare in dubbio, non un restringere ma un dilatare. Non è il passato storico ma il futuro possibile che così sperimento nel campo come fare che si apre a qualcosa di diverso.

L’intenzione di meditare, ancora oggi, sul pensiero di Parmenide e di Eraclito resta dunque avvolta da una quantità di dubbi e di perplessità, dice Heidegger, che noi lasciamo sussistere, risparmiandoci così di respingerli uno per uno. Ma anche se tentassimo di fugare tali perplessità, dovremmo comunque affrontare prima un compito inevitabile, ossia pensare ciò che i due pensatori pensano. A una cosa, però, non possiamo sottrarci, vale a dire al prestare attenzione anzitutto alle loro parole. Forse, con la dovuta attenzione e perseveranza del pensiero, potremo constatare che i dubbi suddetti risultano infondati. La massima risposta dell’attenzione a queste parole è in fondo troppo accomodante, ritrae troppo in dettaglio il fare quotidiano che non prova emozioni se non ripetitive, scopre cioè di volta in volta solo quello che sa di trovare, nessuna sorpresa, nessuna traccia di un possibile oltrepassamento. Ciò dipende da una presenza incompiuta, non completamente consumata, una traccia di parola altra che si rinvia a una ulteriore incompletezza. L’ascolto ultimo, suggerito da Heidegger, è un evento esso stesso, ma più che un evento è il segno di una mancanza, la lama di un coltello su cui fa perno la mia vita, in ogni caso non un limite invalicabile.

Le parole di Parmenide hanno la forma linguistica di versi e strofe, si presentano cioè come un “poema”, ma poiché espongono una “dottrina filosofica”, si parla del “poema didascalico” di Parmenide. Heidegger dice questo ma, nello stesso tempo, lascia intendere che qui occorre un interrogare differente. La lama su cui faccio perno deve produrre una più perspicua capacità di ascolto dei messaggi del destino, mentre questi segni si danno come qualcosa di insicuro, capace soltanto di riguardare una ipotetica completezza possibile, mai identificabile con quello che nel mio cuore è fermo e nella mia mano non trema.

Questa definizione del suo dire pensante è frutto di imbarazzo. Si sa che cosa sono una poesia e un componimento poetico, così come si sa che cos’è un trattato filosofico. Ma con altrettanta facilità si nota pure che nei versi di Parmenide v’è ben poco di “poetico”, mentre v’è moltissimo di ciò che viene detto “astratto”. Heidegger si propone di tenere conto di due cose che minacciano di entrare in contrasto fra loro. La realtà è che un fatto, come un dire che attraversa i millenni, non è mai un accadimento circoscrivibile una volta per tutte. Descrivendolo nell’ascolto da storico lo reinvento ogni volta, lo rifaccio di nuovo. La sequenza di queste reinvenzioni, la storiografia, traccia la linea attiva, nel mondo, di una diversità qualitativa percepibile sia pure come residuo. Questa intensità viene di volta in volta salvata al di là del fatto stesso che permane registrato. Il salvataggio del messaggio qualitativo rinvia a un pensare diverso e molto più rischioso, ma in se stesso questo nucleo è vivo contenuto che diviene accanto al cadavere dell’accadimento.

Heidegger, riferendosi a Parmenide, e al suo poema, dice che il modo in cui qui le parole sono dette e il modo in cui il detto è pensato possono essere davvero chiariti solo se prima sappiamo che cosa qui è pensato, e che cosa deve giungere alla parola. Qui la parola viene detta in un modo peculiare, viene cioè pronunciato un detto. È per questo che in seguito chiameremo la parola iniziale di Anassimandro, di Parmenide e di Eraclito il “detto” di questi pensatori. Muovendosi nei loro confronti con l’obiettivo della comprensione mi metto in gioco, revoco in dubbio la mia fede nella certezza quotidiana, esco all’aria aperta verso una zona franca dove la serie canonica dei segni è scomparsa, dove la lontananza e la differenza si risolvono e si convertono in un reciproco incontro e danno vita a emersioni di prospettive diverse.

Per Heidegger, il detto di questi pensatori significa l’insieme del loro dire, non solo singole frasi e sentenze. Leggo la singola frase e mi dispongo al mio fare comprensivo, eppure dietro c’è il mondo inattingibile dell’agire in prospettiva, intuisco possibilità che nel semplice fare del testo qualcosa di mio non sempre sono accessibili. Nella separatezza della parola, posta di fronte all’insieme del detto, c’è la produzione di una zona di significato non ancora individuato, sempre significato che non si riesce a cogliere rispondendo alla parola pura e semplice.

Per sapere che cosa è detto e pensato nelle parole di Parmenide, scegliamo la via più sicura, seguiamo il testo. La traduzione ne contiene già l’interpretazione. Tale interpretazione ha bisogno tuttavia di una delucidazione. Eppure, né la traduzione né la delucidazione hanno un peso fintanto che ciò che è pensato nella parola di Parmenide non ci tocca direttamente. Tutto dipende dal nostro prestare o meno attenzione al richiamo proveniente dalla parola pensante. Ma questo prestare attenzione è prigioniero del fare, coglie nuove prospettive che non sono semplicemente fare, ripresentazione del di già detto, ma non accede al dire vero e proprio, alla parola che apre all’azione, non è questa la via per cancellare la modificazione in assoluto. La parola è anche portatrice di anomia, sconvolge la diffusione dei contenuti, è imprevedibile. Occorre però che sia sulla strada per diventare altro da sé.

Solo prestando attenzione al richiamo conosciamo il detto, dice Heidegger. Ciò a cui l’uomo presta attenzione, il tipo di attenzione che egli dedica all’oggetto dell’attenzione, l’originarietà e la costanza del suo essere attento sono ciò che decide della dignità che viene assegnata all’uomo in base alla storia. La inospitale condizione della parola pura e semplice va rifiutata con forza e con capacità critica. Questa negazione completa la parola ripresentandola nuovamente come gioco linguistico aperto. Così ogni volta la parola scava in se stessa e si autoripropone come nuova prospettiva. Ogni volta il limite è proposto, suggerito e fatto svanire.

E la dea mi accolse benevola, cita Heidegger da Parmenide, prendendo con la mano destra la mia destra, poi pronunciò la parola e mi si rivolse: O tu, compagno di aurighi immortali, che giungi alla nostra dimora condotto dai tuoi destrieri, salve! Poiché non è una destinazione avversa quella che ti ha spinto a incamminarti per questa via – e in verità essa si situa in disparte, lungi dal sentiero battuto dagli uomini – bensì sia l’ordinamento sia la convenienza. Ma è necessario che tu apprenda tutto, tanto il cuore non occultante della svelatezza che tutto circonda, quanto ciò che risplendendo appare ai mortali, e in cui non risiede alcun affidamento per ciò che è svelato. L’oscura affermazione che sigilla il senso privo di sbocchi, viene sconfitta e il gioco riprende. Il significato remoto, qualitativamente diverso, chiama al lavoro incisivo sulla parola, chiama ad andare a fondo, dove nessuno è ancora arrivato. Alla fine, per quanto si possa incidere con questo lavoro interpretativo, si propongono soltanto nuovi limiti. L’aspirazione alla diversità insistendo diventa autolimitante. L’apertura interrompe questo gioco e va altrove, utilizzando il materiale ottenuto ma ribaltandone il significato, spingendo le corrispondenze verso le loro regioni di confine dove salta ogni convenienza logica. L’ascolto di questa rottura non può pretendere l’arrivo di parole coordinate sullo schema conosciuto.

Ma dovrai nondimeno imparare, continua la dea nella riproposizione di Heidegger, a conoscere anche questo: come ciò che risplende [di necessità] sia tenuto a essere conforme all’apparenza, pervadendo ogni cosa e [dunque], in questo modo, compiendo ogni cosa. La forza del tutto si concentra in se stessa senza relazionarsi se non con se stessa, per questo la conformità risplende di necessità. Questo autorelazionarsi è indistruttibile e interna, non ha condizione diversa e basta e non è nemmeno escludente perché comprende qualunque esclusione. Non è declinabile in distinzioni perché è esso stesso la distinzione. Qualunque altra condizione è compresa nell’assenza di condizione. Non ha scopo e richieste perché esso stesso è il fine e la domanda. Non ha latenza e zone inaccessibili, non eccedenze né patti limitanti. Semplicemente è. L’assenza di legame è il punto massimamente legante.

Chi è la dea? si chiede Heidegger. La risposta, che qui diamo in anticipo, in realtà viene fornita soltanto dall’insieme del “poema didascalico”. La dea è la dea “verità”. Essa stessa – “la verità” – è la dea. Evitiamo quindi la locuzione che vorrebbe parlare di una dea “della” verità, giacché l’espressione “dea della verità” fa pensare a una dea alla cui tutela e benedizione “la verità” è soltanto affidata. L’impossibilità di spazializzare e temporalizzare la verità, che ha un senso solo come tutto, rende ogni descrizione indescrivibile. La pura immagine del movimento a cui sono abituato e ne mima le convenzioni inserendo ogni volta che il tentativo si ripresenta un eccesso, una prepotenza di determinazione che solleva continuamente la domanda radicale. La luce è la fonte della modificazione ma non è completamente dicibile perché si esprime solo nell’esprimere, principalmente nella parola e senza mai condensarsi definitivamente in modo preciso. Non si spegne la luce nell’apertura, ma l’intensità è diversa. Si alza come intensità che si irraggia ma non recita la stessa trama. Il termine della parola mancando non consente il movimento della luce come nel regno della limitazione. La diversità del senso non può essere vista e quindi anche la luce esercita una differente influenza, la perpetuità è quella del lampo che racchiude in sé una durata infinita, quindi incommensurabile.

Se Parmenide chiama “Verità” la dea, allora qui è la verità stessa a essere intesa come la dea. Dice Heidegger, ciò può sembrarci strano. In primo luogo, infatti, troviamo assai singolare che un pensatore riferisca il proprio pensiero alla parola di una divinità. La peculiarità dei pensatori che in seguito, dall’età di Platone in poi, vengono chiamati “filosofi” consiste appunto nel fatto che essi creano i loro pensieri in base a una riflessione autonoma. I pensatori si chiamano “pensatori” nel senso forte del termine proprio perché, come si suol dire, essi pensano “da sé”, mettendo in gioco se stessi in tale pensare. Il pensatore risponde da sé alle domande che egli stesso ha posto. I pensatori non annunciano le “rivelazioni” del dio, essi non riferiscono ispirazioni di una dea, ma affermano il proprio punto di vista. Questa autonomia di giudizio è un istante eterno, che il tutto reiventa di volta in volta, non è sempre e non è neanche fermo in una estasi infinita. Non procede ma esiste come la luce, il cui movimento ha necessità di una ipotesi astratta per essere colto. La luce non può essere vista partendo dal tutto, ma è nella esperienza della totalità che viene compresa come elemento modificativo che fa capire meglio le sfumature e i residui della diversità che si aggirano nel mondo.

Che cosa c’entra quindi la dea con il nostro “poema didascalico”, si chiede Heidegger, che esprime i pensieri di un pensare dalla purezza e dal rigore irripetibili? Tuttavia, quand’anche il pensiero di Parmenide provenisse da un fondamento a noi ancora nascosto, e in base a esso si trovasse legittimamente in un rapporto con la dea “Verità”, nondimeno ci mancherebbe qui quell’apparire immediato di una divinità quale la conosciamo dal mondo greco. Viene fatto di pensare che qui non si ha a che fare con un’“esperienza mitica” di questa dea, ma con un pensatore che di propria iniziativa “personifica” il concetto generale di “verità” in una indeterminata divinità femminile. D’altra parte questo procedimento di “ipostatizzazione” di concetti generali in divinità è frequente, soprattutto nella tarda antichità. La verità, come la qualità, come qualità condizionante, balena ma non può essere spiegata, anche se il mondo è pieno di trattati di logica e di estetica. Non è la corrispondenza di superiori armonie che contrassegna la verità, quando queste coordinazioni emergono e rendono possibile la comprensione, la verità è di già lontana. Il lavoro nel campo è diretto al fare, ma può autocriticarsi, capirsi nei propri limiti e cercare più a fondo, togliere via, spostare, distruggere, raschiare fino all’osso, e allora emerge l’intuizione di qualcosa di diverso, improvviso, immenso.

Forse il pensatore Parmenide – ipotizza Heidegger – adotta un procedimento simile allo scopo di dare maggiore pienezza e colore ai suoi pensieri altrimenti troppo “astratti”. Inoltre, se consideriamo che secondo l’opinione corrente l’inizio del pensiero occidentale presso i Greci si compie come svincolamento del “logos” (della ragione) dal “mito”, appare plausibile che i primi, “primitivi” tentativi effettuati da tale pensiero contengano ancora residui della mentalità “mitica”. Il tutto che la parola lascia intuire ma che non può colorare nei suoi dettagli è la forma che non accetta informazioni e rifiuta ogni limite. La verità è qui presente come residuo, ma queste tracce sono il sentiero che si apre nella foresta, un percorso accidentato che non ammette simmetrie o equilibri, va a tentoni e non utilizza la luce se non per disegnare indicazioni che poi subitamente abbandona. Ogni indicazione si riferisce a un percorso intero, che viene ripreso e ancora una volta abbandonato. Il semplice e il complesso si moltiplicano, il punto di partenza, la soglia, fornisce possibilità ma anche partecipazione all’esperienza diversa.

Posto però che il pensiero di Parmenide e di Eraclito sia di genere essenzialmente diverso, continua Heidegger, si impone un rifiuto della concezione corrente, il quale non ha più nulla a che fare con la mera confutazione delle interpretazioni dotte, ma erronee, dei due pensatori. Tale rifiuto riguarda noi stessi, e in modo sempre nuovo e sempre più decisivo. Solo in apparenza esso è un atteggiamento “negativo”. In realtà costituisce il primo passo con cui acconsentiamo a prestare attenzione al richiamo dell’inizio, il quale, malgrado la distanza temporale intesa in termini storiografici, ci è più vicino di ciò che solitamente riteniamo il più vicino. Penso qui a una interruzione del flusso veritativo, una rottura del movimento modificativo che si autoconsidera in grado di riflettere la realtà come semplice tautologia, e ciò è pensabile dall’interno del fare come assenza di prodotto, un fare improduttivo perché produttivo di qualcosa di diverso, veritativamente diverso. L’inestinguibile produzione di senso, che rinvia sempre a un completamento inesauribile, ha un nuovo indirizzo che disgiunge e apre a nuove prospettive.

Il pensiero abituale, precisa Heidegger, sia esso scientifico, prescientifico o non scientifico, pensa l’ente, e lo pensa secondo i suoi singoli settori, i suoi piani separati e le sue prospettive delimitate. Questo pensiero è un intendersi dell’ente, un conoscere che in modi diversi lo padroneggia e lo domina. A differenza del padroneggiamento dell’ente, il pensiero dei pensatori è il pensiero dell’essere. Il loro pensare è l’arretrare di fronte all’essere. Ciò che è pensato nel pensiero dei pensatori lo chiamiamo l’inizio, il che ora significa: l’essere è l’inizio. Tuttavia, non ogni pensatore che deve pensare l’essere pensa l’inizio. Non ogni pensatore, e nemmeno ogni pensatore all’esordio del pensiero in Occidente, è un pensatore iniziale, vale a dire un pensatore che pensa espressamente l’inizio. Penso che il pensiero dell’inizio sia l’entrata, violentemente decisiva, all’interno del di già detto, che coincide quasi sempre con una inversione di senso, una presa di distanza che non è facile comprendere perché ogni presa di distanza è allontanamento, quindi attesa di un qualcosa che deve ancora venirci incontro. Nel passaggio invece verso questa intuizione diversa, da cui la soglia, mi porto dietro qualcosa e il resto lo lascio, ma la separazione è un fluire infinito, quello che lascio è il mio bagaglio di pesantezze conoscitive. Catastrofi si susseguono in questo fluire e appaiono moduli di conservazione e allargamenti mai pensati, nessuno di questi movimenti si esaurisce nella estremizzazione delle sue possibilità, c’è sempre un ancora più oltre. Non c’è modo di fare apparire questo passaggio come definitivo, come non c’è modo di non riconoscere il debito che mi porto dietro. Forse l’eventualità della follia distrugge ogni residua appendice ma solo perché la logica della follia non è catalogabile se non in modo indiretto. La coscienza immediata che vede un nuovo percorso, di natura altra, non può essere divorata dalla coscienza veramente diversa, ma non può nemmeno divorare questa nuova condizione. Il sogno procede a modo suo e imporle regole e opportunità da seguire è sforzo privo di senso mentre è proprio del senso che qui discuto.

Secondo Heidegger, Anassimandro, Parmenide ed Eraclito sono gli unici pensatori iniziali, ma non nel senso che inaugurano e cominciano il pensiero occidentale, dato che già prima di loro “ci sono” pensatori. Essi sono pensatori iniziali perché pensano l’inizio. L’inizio è ciò che nel loro pensiero è pensato. Ciò suona come se “l’inizio” fosse una specie di “oggetto” che i pensatori si pongono dinanzi per poterlo pensare a fondo. Ma si è già detto in generale che il pensiero dei pensatori è un arretrare di fronte all’essere, sicché, se nell’àmbito del pensiero pensante quello iniziale è il pensiero supremo, allora qui deve avvenire un arretramento di tipo particolare. Questi pensatori, infatti, non si pongono di fronte l’inizio nello stesso modo in cui uno scienziato “pone mano” a qualcosa. I pensatori iniziali non pensano l’inizio nemmeno come se si trattasse di una creazione mentale prodotta da loro stessi. L’inizio non è il frutto della grazia di questi pensatori, con cui essi operano in questo o quel modo, al contrario: l’inizio è ciò che fa iniziare in questi pensatori qualcosa, poiché li reclama in un modo tale da esigere da loro un arretramento estremo di fronte all’essere. I pensatori sono coloro che vengono iniziati-catturati dall’inizio-cattura, coloro che da esso vengono raggiunti, per esservi raccolti e riuniti. Questa condizione iniziale non sta nel mondo, né in cielo né in terra, che ambedue queste ipotesi sono nel mondo e agognano a progettarlo a modo loro. L’inizio è invece l’assolutamente altro che mi sconvolge, la verità che non mi dice più nulla, che tacendo mi parla finalmente l’unica parola che aspettavo da sempre. Con questa nuova voce, sospinto da essa come dal canto delle sirene, mi rivolgo, torno alla verità, ed è questo il segno che lascia in me la necessità di ciò che mi manca che si trasforma in possibilità che il mio destino mi offre. Niente è oggetto di quella straordinaria tensione che mi avvince, e niente è possibile rappresentare di quella necessità che io vivo solo come flusso di possibilità che il mio destino va realizzando per me. C’è in questa necessità che mi spinge un suono che mi affascina e che non so né posso localizzare, una vibrazione che non si basa su nessuna armonia, piuttosto su di una remota nostalgia, come di un universo perduto, il tutto che continua a sfuggirmi.

Il caratteristico stato di necessità – dice Heidegger – che costringe il pensatore dell’età moderna a scrivere un libro di più di quattrocento pagine per dire solo qualcosa di ciò che ha da dire è il segno inconfondibile del fatto che il pensiero dell’età moderna si situa fuori dell’àmbito del pensiero iniziale. Basta ricordare la Critica della ragione pura di Kant o la Fenomenologia dello spirito di Hegel. Da questi segni riconosciamo che già da molto tempo il mondo si è scardinato e l’uomo si è smarrito. Ma non dobbiamo nemmeno dimenticare che il testo fondamentale della filosofia dell’età moderna, le Meditationes de prima philosophia di Descartes, conta poco più di cento pagine, e che certi trattati decisivi di Leibniz occupano solo pochi fogli. Questi fatti apparentemente solo esteriori indicano che in tali trattati, così semplici e concisi anche nella struttura interna, ha luogo una trasformazione del pensiero che, pur non pervenendo all’inizio, torna tuttavia ad avvicinarsi di nuovo ai confini che lo circoscrivono. Per il fatto stesso che da lungo tempo siamo costretti a procurarci le nostre conoscenze selezionandole dall’eccesso di ciò che si dice e si scrive, abbiamo finito per perdere la capacità di udire quel poco di ciò che è semplice e che la parola dei pensatori iniziali dice. Il tutto non rimanda ad alcuna determinazione di tempo o di durata, l’ora è assenza di condizione ed è il tutto così come è, ma specificare quest’ora è porre una condizione che richiede la banalità dello spazio, quindi togliere via il tutto. Quello che immagino come profondità mi rimbalza via nell’immediatezza, non è insondabile, difatti vi inoltro la mia diversa esperienza, ma è incommensurabile. Posso esserci, ma non essere in grado di esserci alle mie condizioni percettive, devo essere trascinato via, non trascinare con me ciò che voglio. L’oscillazione non è tra due estremi ma nello stesso palpito di paura e di abbandono, non si mostra con un’analogia ma è sufficientemente chiara a se stessa, non per me che rimando sempre sbalordito. Non c’è un segmento che posso trasformare in un mio tesoro, tagliare, fare a pezzi, posso giocare con questi movimenti, ma dove posso trovare l’ingenuità sufficiente.

Parmenide narra di una dea, precisa Heidegger. La comparsa di un “essere divino” nel ragionamento di un pensatore suscita meraviglia, anzitutto perché il compito di un pensatore non è quello di annunciare il messaggio di una rivelazione divina, bensì di enunciare da sé ciò che da sé ha indagato. Perfino laddove i pensatori si interrogano circa “il divino” – come accade in ogni “metafisica” – questo pensare il divino è, come dice Aristotele, un pensiero basato sulla “ragione”, e non una riproduzione di tesi tratte da una “fede” cultuale ed ecclesiastica. Ma il comparire della “dea” nel poema di Parmenide stupisce in particolare perché essa è la dea “Verità”. Per noi infatti “la verità”, così come “la bellezza”, “la libertà”, “la giustizia”, è qualcosa di “generale”, qualcosa cioè che viene sottratto a ciò che è particolare e reale – a ciò che è di volta in volta vero, giusto e bello – e che quindi viene rappresentato “astrattamente” nel mero concetto. Viceversa, fare della “verità” una “dea” significa trasformare un mero concetto di qualcosa – nel nostro caso il concetto dell’essenza del vero – in una “personalità”. La certezza che prendo nel parlare della verità non appartiene alla certezza dicibile della chiarezza che si riassume e aleggia come una luce viva sulla concretezza quantitativa. La verità non è un oggetto fuori di me, è prima di tutto me stesso, e dopo anche me stesso nel tutto, un intreccio indissolubile che io non dipano ma da cui vengo avvolto e dipanato con movimento eternamente oscillante. Anche nell’esperienza diversa, quando vivo per un tempo che non è quantificabile la verità, questa oscillazione non si interrompe, si affievolisce nel salto della follia o nell’ottusità dell’accumulo più becero, ma anche in queste condizioni di estrema povertà qualcosa continua a muoversi sotto le ceneri apparenti che coprono il capo dei folli e dei dirigenti industriali.

Ma, conferma Heidegger, quando parliamo di verità o di essenza degli dèi, di entrambe le cose non sappiamo nulla. Quand’anche volessimo sostenere di essere informati circa l’essenza della verità secondo la concezione dei Greci, assumendo come criterio le dottrine della verità di Platone e di Aristotele, ci troveremmo già su una falsa strada, che di per sé non potrà mai ricondurci a ciò che i primi pensatori esperiscono quando nominano ciò che noi contrassegniamo con la parola “verità”. Se ci chiediamo che cosa mai pensiamo utilizzando la parola “verità”, emerge ben presto una confusa molteplicità di “prospettive” o, viceversa, una generale perplessità. Assai più importante del gran numero di interpretazioni divergenti della verità e della sua essenza è infatti la consapevolezza, pronta a ridestarsi in tale occasione, del fatto che sin qui non abbiamo in generale ancora meditato in modo serio e accurato su che cosa sia ciò che chiamiamo “la verità”. Nondimeno, non nutriamo forse sempre un grande desiderio di “verità”? Ogni epoca della storia cerca “il vero”. Ciò che è perfettamente inattingibile è la verità, le sue dimensioni mi restano sconosciute ma non estranee, sono sempre là sul punto di collassare nella conoscenza di questo inconoscibile che è, semplice affermazione di sé. Mi ripresento in questo scontro senza fine e non avverto il distacco, non do conto della separazione. Non sono nella verità ma mi muovo come se lo fossi, è la sola speranza di avere uno spazio diverso in un territorio che non mi cattura ma mi tiene in vita, mi illumina la via. La prospettiva vera libera la qualità, quindi la libertà vera e propria, indicando una presenza immemorabile che così risulta messa in mostra pure non nella veste di una dicibilità. La vita piena non è un gioco di parole, la pienezza è povera condizione se la sperimento come quantità, ma c’è un’altra prospettiva che si nasconde e suggerisce, che si rifiuta e partecipa, la prospettiva della verità.

Ma quanto di rado, dice Heidegger, e quanto poco l’uomo è informato circa l’essenza del vero, cioè circa la verità! Tuttavia, quand’anche noi uomini d’oggi fossimo nella felice condizione di conoscere l’essenza della verità, ciò non ci garantirebbe ancora di essere pure in grado di meditare su ciò che è stato esperito come essenza della verità nell’antico pensiero dei Greci. Infatti, non solo l’essenza della verità, bensì anche l’essenza di tutto l’essenziale ha di volta in volta il suo proprio patrimonio, a cui un’epoca storica può attingere sempre soltanto quel poco che costituisce la sua parte. Il futuro mi parla attraverso la verità ed è qui che colgo il segnale delle possibilità mentre si arrotola attorno alla stessa modificazione quotidiana. Ogni punto che identifico è scontato e prelude a un percorso obbligato, ma è anche un arrivo dal futuro, una potenza veritativa che si manifesta e che mi coglie sempre di sorpresa anche quando non è altro che uno dei tanti tentativi di completamento della quantità. L’estrema concretezza di questo prendere corpo della verità non mi fa dimenticare l’originaria sua provenienza come possibilità, qualcosa appare, nasce, sguscia fuori, scompare. È l’invisibile che si materializza e mi afferra per i capelli, ma non è la solita salsa, c’è un soffio speciale nell’aria che mi allarga il cuore e mi rende libero.

La parola “svelatezza”, precisa Heidegger, indica che a quanto i Greci esperiscono come l’essenza della verità spetta qualcosa come un toglimento e un’eliminazione della velatezza. Il prefisso tedesco un- corrisponde al greco Ž-, che in grammatica viene detto alpha privativum. Di che tipo sia rispettivamente la privatio, vale a dire la privazione e sottrazione, in ciò che viene nominato dai vocaboli formati mediante privativi, è cosa che deve venire definita in ogni riferimento a ciò che è esposto a una privazione o a una riduzione. Unverborgenheit, “dis-velatezza”, può significare che la velatezza è stata tolta, eliminata, superata o bandita, laddove peraltro togliere, eliminare, superare e bandire si differenziano in modo essenziale. Ma “svelatezza” può anche significare che la velatezza non è affatto ammessa, cioè che essa, che è possibile e incombe continuamente, non sussiste e non può sopravvenire. Da tale polisemia del prefisso un- desumiamo facilmente che già in questa prospettiva la Un-verborgenheit, la dis-velatezza, è difficilmente determinabile. Eppure proprio qui viene alla luce un tratto fondamentale dell’essenza della dis-velatezza, un contrassegno che dobbiamo considerare espressamente se vogliamo esperire l’iniziale essenza greca della “verità”. Nella dis-velatezza come tale è essenzialmente presente anche questa opposizione conflittuale. Nell’essenza della verità intesa come dis-velatezza domina una sorta di conflitto con la velatezza e il velamento. La freccia del futuro torna indietro e si rivolge verso di me, denuncia la sua presenza come costrizione che si è concretizzata nell’aspetto quantitativo, ma non è solo questo, è anche l’accesso a una immagine codificata che per quanto rigida può essere spezzata facendo risuonare un territorio diverso. L’ascolto di questa apertura spezza l’idolatria della tutela e della garanzia del quantitativo e mi colpisce improvvisamente afferrando le mie convinzioni sacrosante basate sulla sicurezza e la garanzia. So che questa nuova condizione è ingrata e mi getta in una trepida inquietudine, ma questa prospettiva non mi mette paura, insisto raggruppando le mie forze in questo ascolto che individua quello che nessuno vede e che nessuno può accumulare.

La dea, continua Heidegger, saluta il pensatore giunto alla sua dimora e nel contempo gli palesa ciò che egli dovrà esperire in futuro. È ciò che per questo pensatore costituirà il da-pensare e che d’ora innanzi, nella storia della verità, rimane il da-pensare in modo iniziale. Di qui riconosciamo con facilità, per quanto dapprima soltanto confusamente, che l’essenza di questa dea “Verità” decide tutto in merito al pensatore e al da-pensare. Prima di chiarire dal punto di vista formale i singoli frammenti e i singoli versi dobbiamo perciò tentare di fare luce sull’essenza della “verità”. A tale scopo domandiamo: che cosa significa il nome della dea, vale a dire che cosa significa la parola greca ἀλήθεια, che traduciamo con “verità”? Sembra che qui ci stiamo “occupando” di una parola. Giacché la parola e il linguaggio sono divenuti per noi un mezzo di trasporto e uno strumento di comunicazione fra tanti altri, il fatto di “occuparsi” di “parole” suscita subito una strana impressione. È come se invece di salire in sella a una motocicletta ce ne stessimo fermi davanti a essa, facendola oggetto dei nostri bei discorsi e pensando così di imparare a guidarla. Ma la parola non è uno strumento, anche se si ritiene che il linguaggio sia solamente un mezzo di comunicazione, o addirittura di trasporto, sicché risulta indifferente dire “università” pensando così ancora a qualcosa, o invece limitarsi a sparare Uni. Forse però è vero che al giorno d’oggi non si “studia” che in una Uni. Così come è vero che non ci “occupiamo” affatto di semplici “vocaboli”. Certo, nella scienza ci si può “occupare” di vocaboli esattamente come ci si “occupa” dell’evoluzione dei lombrichi. Nella versione “letterale”, ἀλήθεια significa “dis-velatezza”. Prestando attenzione alla “letteralità” sembriamo prendere sul serio la parola. Tuttavia, finché ci interessiamo unicamente ai “vocaboli”, trascuriamo le “parole” (Worte). Ogni traccia evidente è destinata a impantanarsi nella sconoscenza e nel declino della incomprensione. Non sono io a disperdere le tracce, sono le tracce che non portano mai dove penso di andare, ogni verità nel campo contiene il suo rovescio, ed è tragica farsa ogni tragedia.

La traduzione “letterale”, precisa Heidegger, non deve limitarsi a riprodurre i vocaboli, per “arricchire” così di termini “nuovi”, inconsueti e spesso amorfi la lingua che traduce, ma, al di là dei vocaboli “che traducono”, deve pensare a fondo le parole. La conoscenza dei vocaboli non garantisce ancora la comprensione delle parole. Esse dicono ciò che propriamente c’è da dire, la parola, il detto. Se quindi seguiamo la letteralità in modo tale che già da prima, e perciò costantemente, pensiamo alla parola e in base a essa, allora, ma soltanto allora, la nostra grande stima per la “letteralità” appare giustificata. Nei confronti della parola io sono l’insinuazione che avanza, che scava nella solidità dell’immediatezza, che nasconde al suo interno trappole e camminamenti segreti, la tenebra che attiva la luce fattiva, che fa nascere l’imprevedibile, che ribalta la vita in sé compiuta, e riapre nuove condizioni e nuove follie. L’assurdità radicalizza l’ovvio che si accumula, capovolgendolo nella normalità che rompe gli schemi, la quietezza che trova la via della sconvolgente tempesta.

Il termine preso alla lettera, dice Heidegger, dobbiamo udirlo in modo da prestare ascolto alle indicazioni che ci indirizzano verso la parola. In questo stare in ascolto il nostro percepire ubbidisce quindi a ciò che la parola dice. Esso esercita così l’attenzione. Diventa un pensare. Il disprezzo per gli assennati che si azzuffano fra loro, vittime e sfruttatori, mangiatori di salsicce e amatori di Mozart, tutti accuratamente catalogati. Ballano assorti nella propria miseria e ne ridono a crepapelle, mentre portano a spasso i nipotini. Il loro unico scopo è sopravvivere, cannibali uno dell’altro.

Così ancora Heidegger, per prime sono da nominare due indicazioni che possono venire evidenziate e fissate mediante una differente accentazione del termine “disvelatezza”: disvelatezza (Unverborgenheit) e dis-velatezza (Un-verborgenheit). La dis-velatezza rinvia anzitutto alla “velatezza”. Dove c’è velatezza deve accadere, o dev’essere accaduto, un velamento. Il velamento può darsi in vari modi: come copertura e occultamento, quale conservazione e ritenzione, o come un chiudere e un custodire originario, in ciò simile alla sorgente, che sgorga solo in quanto già custodisce. Ora, però, ciò che i Greci esperiscono e pensano quando, nella “svelatezza”, nominano insieme di volta in volta la velatezza, non è affatto immediatamente evidente, e si chiarisce soltanto a un’apposita meditazione. A tale scopo è tuttavia necessario conoscere in generale almeno un certo àmbito di modalità del velamento, giacché solamente così la “velatezza” pensata in modo greco, con il suo àmbito essenziale circoscritto, può delinearsi in termini sufficientemente chiari. Ma anche prima di giungere a questo punto la parola greca ἀλήθεια ci si è fatta in un certo senso più vicina già in virtù della traduzione con “svelatezza”, l’àmbito di esperienza che comprende il “velare” e il “non velare”, lo “svelato” e il “velato”, ci è infatti subito più chiaro e familiare di qualsiasi significato che, per mezzo di una riflessione affrettata e approssimativa, possiamo attribuire al nostro termine corrente “verità”. Dobbiamo per giunta tenere a mente di volta in volta in modo esplicito la “definizione” e il “significato” di “verità” così ottenuti, correndo per di più il pericolo di avere raccolto in tutta fretta solo una delle definizioni possibili in base ai differenti punti di vista filosofici. Viceversa, il velamento ci è noto sia nel caso in cui le cose stesse e i loro rapporti si velano davanti a noi e per noi, sia nel caso in cui siamo noi a operare di persona, a praticare e a permettere un velamento, sia, infine, nel caso in cui entrambe le possibilità – un velarsi da sé delle “cose” e un loro venire velate da noi – si intrecciano l’una con l’altra. La libertà della verità è nella verità perché qui tutto è radicale opposizione con tutto, una opposizione che non è uno scindersi ma un condensarsi in sé infinito, un eterno ritorno in se stessa. Non c’è qui nessuna apparizione possibile se non nella dimensione della immediatezza. Essendo la visibilità sempre legata a una decisione, nella verità non c’è decisione, quindi non c’è visibilità. La mia libertà può essere vissuta attraverso le possibilità che si realizzano nel destino, ma così resterò sempre un affamato di libertà, quindi di verità, che come tanti sogni mi lascerà l’amaro in bocca della insoddisfazione, solo il sogno di questi sogni, il sogno della verità potrà farmi vivere una esperienza diversa, quella della libertà. L’avventura possibile della verità nel mondo non è però possibile e basta, essa per come la realizzo nel destino è anche necessaria, altrimenti ci sarebbero carte truccate, io potrei manipolare il destino quando lo posso solo realizzare attraverso le possibilità, solo che questo flusso è necessario perché è la manipolazione della verità nel mondo. La modificazione come morte della verità è affermazione antinomica perché c’è un processo mortale in corso e nello stesso tempo c’è una possibilità di oltrepassamento, i due aspetti sono inseparabili. In questo modo io penso sia la morte che la vita come interne a un unico movimento, il passaggio altrove mi porta con sé e la mia diversità possibile non nega me stesso, non mi mette a morte ma io muoio insieme alla vita e vivo insieme alla morte. Nei due aspetti la parola mi assiste e mi ostacola, viene con me e scappa via, manifesta ed esiste, comprende e si chiude nella più ottusa rinuncia. Più mi spinge verso la razionalizzazione e più la verità mi sembra impossibile, torno a essere l’uomo della mia amata matematica, mentre la gnosi incomprensibile e chiusa a modo suo si allontana beffandosi di me. Nella morte, nella mia morte, di cui ho esperienza negli altri, muore anche la verità, tutta la verità, e ciò che mi è sempre sfuggito lo realizzo nell’apertura alla scomparsa radicale. La ricerca della verità, o della libertà, è ricerca del perché della morte, non della morte come esperienza, che è impossibile cercare, ma del significato che non rinuncia a liberarsi per affrontare l’assolutamente altro. La verità è la realizzazione della possibilità offerta dal destino, cioè la sconfitta radicale o la morte, sembrano dissonare, ma non è così. Mettendomi a rischio esse, la verità e la morte, cessano di essere antinomiche e si riconciliano nell’assenza di conquista o di possesso da accumulare. Né l’una né l’altra si possono accumulare. La riconciliazione che osservo nell’esperienza diversa mi risuona nel cuore ma non è dicibile.

Il secondo aspetto, continua Heidegger, che ci viene indicato dalla parola che traduce dis-velatezza è il fatto sorprendente che i Greci, nell’essenza della verità, pensano qualcosa come il toglimento, l’eliminazione e l’annientamento della velatezza. Conformemente a questa negazione della velatezza, la verità è per i Greci, se così si può dire, qualcosa di “negativo”. Viene in tal modo alla luce un fatto singolare, l’accesso al quale ci è sbarrato proprio da quella parola “verità” (così come dai termini veritas e verité) per noi corrente e priva di negazioni. Che cosa propriamente significhino il prefisso greco Ž- e il tedesco un- nelle parole ἀλήθεια e Unverborgenheit non è per il momento né deciso né stabilito, al pari del significato di quella Verborgenheit che in tal modo viene eliminata e “negata”. Per ora l’unica cosa certa è che l’essenza della verità in quanto svelatezza è in qualche modo contrapposta alla velatezza. Sembra proprio che fra svelatezza e velatezza vi sia un “conflitto” la cui essenza resta controversa. La critica negativa è struttura aperta alla possibilità, per quanto possa essere circondata dal terreno minato delle concordanze, lascia intendere che non è un meccanismo a minacciare i suoi risultati, sia pure un meccanismo dialettico. La puntigliosità nei tentativi migliora le risposte negative e prepara il terreno intuitivo e ciò avviene ripensando continuamente la negazione. Il risultato non è il contrario del positivo, non è una contrapposizione netta tra vero e falso, ma è altro ancora, e questo risultato è imprevedibile, cioè non esce automaticamente dall’assommazione dei tentativi. L’impensabile è appeso all’attaccapanni della giornata, dove lascio il pastrano e l’ombrello, il ricettacolo della normalità.

La “verità”, conferma Heidegger, non è mai “in sé”, lì presente da sé, ma va conquistata nel conflitto. La svelatezza è strappata alla velatezza, in conflitto con essa. Tuttavia la svelatezza non viene conquistata semplicemente nel senso generale che fra gli uomini si va alla ricerca della verità e si lotta per essa. Ciò che è cercato e conteso è piuttosto esso stesso, in sé, nella sua essenza, indipendentemente dalla lotta fra gli uomini per la sua conquista, un conflitto: “svelatezza”. Chi lì sia in lotta, e come i contendenti si affrontino, resta oscuro. Si tratta però di pensare a fondo una volta per tutte quell’essenza conflittuale della verità che da duemilacinquecento anni illumina in segreto tutte le luci. Si tratta di esperire propriamente il conflitto che accade nell’essenza della verità. Se posso arrivare a una qualche determinazione della verità, ne deriva che questa non è incondizionata. Eppure l’impossibilità di determinare è un fatto che dal campo appare evidente. Chi parla è obbligato a convenire che la determinazione della cosa che fornisce è una immagine, è solo un riflesso, un inganno della logica, ma può anche aggiungere che nel dire si nasconde un non dicibile che apre a una possibile edificazione mai affermabile in modo diretto. Qui sono davanti a una condizionatezza che parzialmente sfugge al condizionamento, solo che questa parzialità è insondabile. Questa illimitatezza è segno della presenza totale. In questo labirinto si nasconde un itinerario inesauribile che scavo e che non fa altro che propormi nuove possibilità a ogni risultato che riesco ad agguantare.

Ancora Heidegger: ma, ovviamente, anche l’essenza del conflitto resta in un primo momento controversa. Con ogni probabilità “conflitto” significa qui qualcosa di diverso sia dal semplice litigio e dalla disputa, sia dal cieco dissidio, così come dalla “guerra” e dalla “competizione”. Forse tutte queste sono soltanto metamorfosi e denominazioni superficiali di quel conflitto la cui essenza iniziale possiamo supporre presente nell’essenza della verità nel senso dell’ἀλήθεια, e che un giorno conosceremo. Forse la parola stessa di Eraclito: “La guerra è la madre di tutte le cose...”, così spesso usata a sproposito e riportata sempre e soltanto in modo storpiato, ha ormai in comune con il pensiero greco solo una vuota risonanza verbale. Il silenzio della verità è ridondanza del suo suono, della sua parola per come si esprime nella desolazione della singolarità assoluta, dell’irripetibile e quindi del non dicibile. Quello che sono obbligato a considerare assenza di parola è parola essa stessa, modulazioni indeterminate della frequenza che si allontanano o si avvicinano in funzione della mia capacità di abbandono. Più riesco ad allentare la mia rigidità e più definisco questa voce della verità che continua a parlarmi. Questo messaggio non si distacca dalla verità stessa, non si separa e inizia un viaggio verso di me, non prende corpo lessicale ma, al contrario, mi attira e mi sposta, ed è il suo corpo proprio nel mio atteggiarmi verso l’apertura al territorio della desolazione dell’uno che è, di cui Parmenide è stato il frequentatore più assiduo. Mi abbandono e mi nuovo verso la verità ed è qui il suo messaggio mai completamente comprensibile. L’estrema forza dell’espressione si raccoglie nella incomprensibilità, risultato di ogni tentativo di uscire fuori dell’opposizione con l’unità pura e semplice della verità.

Tuttavia anche circa l’essenza del pñlemow, che secondo il vocabolario significa alla lettera pure “guerra”, come potremmo sapere qualcosa di esatto, o anche solo presagire l’essenza del “polemico” qui nominata, fintanto che non sappiamo nulla di un conflitto che abita addirittura l’essenza della verità? Come potremmo conoscere il carattere inizialmente conflittuale del conflitto nell’essenza della verità fintanto che non ne esperiamo l’essenza in quanto svelatezza, mentre la nostra conoscenza dell’ἀλήθεια inerisce ancora tutt’al più a un significato verbale svolazzante qua e là? L’essenza conflittuale della verità è già da lungo tempo estranea sia a noi sia al pensiero occidentale. Viceversa, “la verità” vale come ciò che sta oltre ogni conflitto e che quindi deve rimanere come ciò che non conosce conflitto. La distinzione, madre di ogni battaglia, può essere interna al tutto e non può venire colta in modo distinto. La dimensione essenzialmente distinta non è distinzione. Non si può prendere il tutto e poi sezionarlo all’infinito, non si dà sezione possibile della verità. Sarebbe prendere una unità assoluta e disfarla per verificare come è fatta.

Non comprendiamo, continua Heidegger, pertanto in quale misura l’essenza stessa della verità sia in sé un conflitto. Eppure, se nel pensiero iniziale dei Greci viene esperita l’essenza conflittuale della verità, non c’è da stupirsi se nei “detti” del pensiero iniziale percepiamo espressamente la parola “conflitto”. Grazie all’interpretazione della grecità elaborata da Jacob Burckhardt e da Nietzsche abbiamo imparato a prestare attenzione al “principio agonale” e a riconoscere nella “competizione” un “impulso” essenziale nella “vita” di quel popolo. Ci si deve domandare però dove il principio dell’“agone” abbia il suo fondamento e da dove l’essenza della “vita” e dell’uomo riceva la sua determinazione in modo da svolgersi in senso “agonale”. Il “competitivo” può sorgere soltanto là dove il conflittuale viene già dapprima generalmente esperito come l’essenziale. Se invece si afferma che l’essenza agonale della grecità riposa su una corrispondente predisposizione del popolo greco, tale “spiegazione” non è meno superficiale di quanto lo sarebbe se, a chi ci domandasse su che cosa riposa l’essenza del pensiero, rispondessimo: sulla capacità di pensare. La congiunzione che lega la verità come un tutto inespugnabile, malgrado la lotta che si svolge al suo interno, non è semplice somma delle parti, si tratta di una congiunzione che non distingue e non vuole essere distinta. Ogni tentativo di dire cade nel silenzio proprio per la sua necessità di manifestare l’unità. Ma l’unità non può essere detta e non si tratta del classico problema della differenza che c’è tra il pensare e il dire. L’unico modo per dire la verità e la sua unità resta quindi il non dire, cioè la negazione che rifiuta il rapporto primario con la parola, ma non chiude le orecchie al suono delle ridondanze. Il silenzio è ascolto del profondo e il suono del silenzio è voce possibile della verità. La verità è sempre identica a se stessa, non ha una forma perfetta perché completata in tutte le sue parti, fatto impossibile di per sé, ma ha se stessa come faccia, la totalità di sé non duplica nessun segnale.

Dice Heidegger, finora abbiamo notato che, da un lato, la svelatezza rientra in un àmbito in cui accadono velatezza e velamento, dall’altro, la dis-velatezza mostra un’essenza conflittuale, vale a dire che essa è lo svelamento nella misura in cui qualcosa in essa è in conflitto con il velamento. Una terza indicazione ci viene fornita dalla “svelatezza” riguardo al fatto che la verità, in virtù della sua essenza conflittuale, si situa in relazioni “contrastanti”. La teoria corrente conosce come opposto della verità unicamente la “non verità” nel senso della falsità. Qualcosa è o vero o falso. Non v’è dubbio peraltro che nell’epoca del primo compimento della metafisica occidentale – nella filosofia di Schelling e di Hegel – il pensiero giunge alla conoscenza del fatto che qualcosa può essere al tempo stesso, sebbene sotto riguardi diversi, sia vero sia falso. Anche qui, e precisamente nella forma della “negatività”, viene in luce qualcosa di discorde nell’essenza della verità. Eppure, l’idea che quanto detto in precedenza circa l’essenza conflittuale della verità coincida con le dottrine di Schelling e di Hegel, ovvero possa venire ricompreso con l’ausilio di una metafisica siffatta, sarebbe ancora più funesta della scoperta ignoranza di tutte queste connessioni. Il manifestarsi della verità è la verità stessa, non la parola della verità, parola che nel suo suono per me è incomprensibile. La verità non produce se stessa, quindi non parla, non manifesta il cuore di sé ma è essa il cuore, anche di ciò che distinguo con la mia parola. La verità non produce perché non ripete, non è costituita dalla mia specificazione ma costituisce. Quando mi riferisco con la parola preciso e dettaglio, sono l’immagine imperfetta del mondo che produco.

Per la metafisica moderna, insiste Heidegger, di Schelling e di Hegel, infatti, il tratto fondamentale dell’essenza della verità non è mai l’ἀλήθεια nel senso della svelatezza, bensì la certezza nel senso di quella certitudo che, da Descartes in poi, caratterizza l’essenza della veritas. Una cosa come 1’autocertezza del soggetto cosciente di se stesso è estranea alla grecità. Viceversa, è ben vero che nell’essenza moderna della “soggettività dello spirito” – la quale, correttamente intesa, non ha nulla a che fare con il “soggettivismo” – risuona ancora l’essenza mutata dell’ἀλήθεια greca. Tuttavia nessun risuonare eguaglia il suono originario. L’iniziale si rivolge solo all’iniziale. L’uno non coincide con l’altro, e nondimeno entrambi sono lo stesso (das Selbe), anche quando sembrano allontanarsi l’uno dall’altro nell’inconciliabile. Ciò vale per la seguente quarta indicazione che il dire greco circa l’ἀλήθεια è in grado di fornire alla meditazione che gli presta ascolto. Non ho segreti a sufficienza per celare i percorsi verso la verità, mi lascio scoprire dalla misericordia della volontà, quindi devo raddoppiare la rete e le trappole per sfuggire a questo controllo che dissipa l’arrivo costante delle mie possibilità. Sono fuori della tutela della volontà, posso intuire la pienezza della verità e la crudezza della necessità di essere e di non potere non essere. L’estraneo, l’assolutamente altro, che resta in riposo di fronte alle mie sollecitazioni, il silenzioso che è analogo a se stesso, che non può essere altro da quello che è e proprio per questo è altro in maniera assoluta, cioè tagliata in sé in modo radicale, tale è la verità.

Con il riferimento, dice ancora Heidegger, qui necessario benché ovviamente molto conciso, alla storia essenziale della verità nel pensiero occidentale, si è nel contempo accennato al fatto che si cade vittima di mistificazioni grossolane se si sistema il pensiero di Parmenide e di Eraclito con l’aiuto della “dialettica” moderna, facendo appello alla circostanza che nel pensiero iniziale dei Greci la “contrapposizione” – e addirittura l’opposizione fondamentale fra essere e nulla – “svolge un suo ruolo”. Tuttavia, anziché prendere a prestito da Schelling e da Hegel un procedimento comodo e apparentemente filosofico con cui spiegare la filosofia greca, dobbiamo piuttosto sollecitare la nostra attenzione e seguire le indicazioni che ci possono venir fornite dalla verità nella forma essenziale della svelatezza. In replica immediata a quanto abbiamo appena detto, si potrebbe invero osservare che noi uomini d’oggi siamo pur sempre in grado di comprendere il pensiero iniziale dei Greci soltanto interpretandolo in base alle nostre cognizioni attuali, anche se poi ci si dovrebbe comunque chiedere se il pensiero di Schelling e di Hegel, cioè l’intera loro opera, non si elevi in ogni caso a un’altezza incomparabilmente superiore a quella del pensiero odierno. Quale persona assennata potrebbe sognarsi di negarlo? La proliferazione della verità non è generazione, il mondo del fare con le sue molteplici e veloci modificazioni non è altro dalla verità, è sempre la verità nella sua immutata indifferenza. Distinguere questa da altre generazioni è esercizio gradevole, ma resta soltanto una complicazione filosofica. Io nomino ma resto immobile nel tutto ingenerato, quello che produco, l’intero mondo, è sempre la verità. Non posso valicare la chiusura della verità e non è una prigionia, sono io che mi sono inventato le prigioni, solo un uomo poteva farlo, la verità non ha prigioni e non è una prigione. Un abisso che non posso colmare perché non c’è niente da mettere dentro, non c’è un dentro l’abisso perché il suo sbadiglio inghiotte tutto anche se stesso. Nessuna fandonia può scavalcare il mondo e le sue catalogazioni e nessuna fantasia sfugge alla verità che la contiene, le rammemorazioni non fanno altro che moltiplicare gli effetti e le ridondanze e non sfuggono alle catastrofi che le fanno implodere. Il silenzio è da me nominato e l’esperienza diversa prende corpo modificativo, ma si tratta dell’esperienza della verità che è qualcosa sotto la specie quantitativa, che pretende di dire il vero.

Dobbiamo ammettere, dice Heidegger, che l’inizio, se in generale si mostra, certamente si mostra non senza il nostro impegno. Ma resta pur sempre da chiedersi di che genere sia questo impegno, da dove e come esso è e sarà determinato. Nel contempo può in effetti sembrare che il nostro proposito attuale di pensare l’inizio sia solo un tentativo di sistemare storiograficamente il passato a partire dal presente e in sua funzione. Sarebbe inoltre inutile e soprattutto fuorviante volersi mettere a calcolare quale delle due cose richiederebbe un impegno e una preparazione più essenziali: se la fondazione e lo sviluppo di una posizione metafisica fondamentale nell’alveo della tradizione del pensiero occidentale, oppure il semplice prestare attenzione all’inizio. Chi potrebbe negare che in questo tentativo corriamo costantemente il pericolo di farci avanti, con ciò che è nostro, in modo inadeguato? Nondimeno, tentiamo di prestare attenzione alle indicazioni che ci vengono fornite dall’essenza della svelatezza, a stento pensata e ovunque difficilmente pensabile in modo approfondito. Se spezzo ogni rapporto con la verità stringo nella mano un pugno di mosche, spezzo così una relazione che potrebbe costringermi a coinvolgere la mia ritrosia e la mia timidezza. Solo la stupida superbia può annullare temporaneamente questa fantastica parentela, venire meno a questo testamento che mi lega a quello che io sono, profondamente altro da quello che dico di essere. La casa dei dèmoni mi richiama ai suoi aspetti sconvolgenti, ma in essa abitano le ideologie e non posso rispondere al suo fascino. La mia carnalità odia fino in fondo quello che appare e attira proprio per la sua apparenza sorridente e serena, ma odia anche lo spingere e il sollecitare e il fare violenza a se stessi in nome di un ideale. I nati ciechi studiano il panorama delle leggi e discutono dei suoi dettagli, apparecchiano la morte per tutti coloro che non credono alle loro visioni del buio, capri espiatori delle comuni imbecillità. Non sono io che vedo ma è in me l’intenzione di un’altra vista che non posso misurare o cogliere nei suoi dettagli.

La svelatezza rinvia all’“opposizione” con la velatezza, dice Heidegger. L’opposto della verità solitamente conosciuto è la non verità nel senso della falsità. Questa opposizione la troviamo già agli albori del pensare e del dire occidentali, anche nella poesia. Stando a ciò che abbiamo detto finora circa la verità come svelatezza, dobbiamo ovviamente guardarci dall’interpretare le antiche “rappresentazioni” proiettando su di esse nozioni successive del falso e della falsità. D’altra parte, possiamo pensare adeguatamente gli antichi significati del “falso”, nel senso dell’opposizione al vero, soltanto se abbiamo considerato il vero nella sua verità, se cioè abbiamo pensato a fondo la svelatezza. Ma a sua volta la svelatezza si lascia comprendere adeguatamente soltanto in base alla sua opposizione essenziale (Gegenwesen), cioè alla non verità, dunque alla falsità. Da quanto detto appare chiaro che se non possiamo mai pensare il “vero” e il “falso”, la “verità” e la “falsità”, nella loro essenza, come isolati e a sé stanti, ciò vale ancor più nel caso della verità come “svelatezza”, che già nel nome dichiara immediatamente il suo rapporto di opposizione con la velatezza. Se dunque, fra le altre cose, nel modo di pensare antico compare già anche la falsità come opposta alla verità, cioè alla svelatezza, allora l’essenza della falsità, in quanto opposta alla svelatezza, dev’essere qualcosa come una sorta di velatezza. Se è la svelatezza a caratterizzare l’essenza della verità, allora dobbiamo tentare di comprendere la falsità come una velatezza. Nel diventare mondo la verità non si modifica, la mia operazione produttiva non modifica la verità, quello che oriento non cambia la verità che se cambiasse non sarebbe più tale. Io distinguo, cioè separo, e faccio ciò nominando. Nego cioè il misterioso della verità rivelando un percorso possibile e con il rivelare getto nuovamente l’occulto mistero nell’assolutamente altro. La verità è sempre la totalità dell’uno, anche nella mia artefatta separazione che modifica e accumula. Stupidamente l’uomo corre in fretta, sempre più in fretta, per arrivare, si terge la fronte affannato, mentre assapora l’arrivo della morte, l’ospite imprevisto che arriva sempre inopportuno e inatteso. Le note del valzer si richiamano a questo grande fiume sotterraneo, inutilmente, non riescono mai a preavvertirne la portata. I moralisti hanno cura delle storture dell’uomo, vorrebbero almeno fossero commesse secondo le regole. La condizione umana è sordomuta. En passant. Non produco la verità quando la nomino, ma facendola entrare nel mondo sotto l’effige a me più consona ne produco così un riflesso che poi prende corpo negli oggetti provvisti di vita oggettuale. L’oggettualità della verità persisterà a sfuggirmi in quanto non può essere pensata come prodotto del pensiero e quando lo faccio, come in questo caso, è una variante oggettuale dell’oggettività. L’elaborazione detta della verità gioca però un ruolo indicativo. Io posso non conoscere nulla di quella foresta là, ma sapere che c’è e non solo per averne visto un simbolo topografico o anche per averla vista da lontano. Quando mi decido a entrare dentro non è per questo che la conosco, mi scavo un sentiero e il resto permane avvolto nell’oscurità. In ogni fatto conoscitivo attinente alla foresta in questione, la foresta della mia sconoscenza simbolica esiste tutta quanta come immanente. Anche il sentiero che scavo con grave fatica è figlio in parte di quella intuizione. Il fenomeno foresta non arriverà mai a conoscenza perfetta, sempre in grado di modificarsi, ma la materia da cui sono partito sarà sempre là, con un grado di modificazione affievolito proprio a causa della rarefazione dei suoi connotati specificativi.

In verità, continua Heidegger, a guidarci nel tentativo di rintracciare i significati fondamentali dei vocaboli e delle parole sono non di rado le idee inadeguate che ci facciamo del linguaggio in generale, da cui poi nascono d’abitudine i giudizi errati in merito all’indagine dei significati fondamentali. È sbagliato ritenere che i vocaboli di una lingua possiedano originariamente un significato fondamentale allo stato puro, che con il tempo si perde e si deteriora. Il significato fondamentale e radicale resterebbe di fatto nascosto e apparirebbe solo nelle cosiddette “derivazioni”. Ma tale definizione risulta fuorviante già nel presupporre appunto che da qualche parte vi sia un “significato fondamentale puro” a sé stante da cui qualcos’altro viene poi “derivato”. Queste concezioni fuorvianti, che ancora oggi dominano la linguistica, hanno origine dal fatto che la prima riflessione sulla lingua, la grammatica greca, seguendo il filo conduttore della “logica” – cioè della dottrina dell’asserzione –, si è sviluppata come teoria della proposizione. Di conseguenza, le proposizioni si compongono di vocaboli e i vocaboli indicano “concetti”, e sono questi ultimi che determinano ciò che “in generale” si rappresenta nella parola. È dunque questo carattere “generale” del concetto a venire considerato come “significato fondamentale”. Le “derivazioni” sono particolarizzazioni del generale. Non ho cognizione della verità se non nello sforzo di esprimerla, essa non è una qualsiasi delle mie espressioni ma l’espressione delle espressioni, il mio esprimermi stesso che entra in tutte le espressioni. Non entra in quello che dico, ma se ne estranea, dimorando senza intervalli presso di sé e rifiutandosi di entrare in contatto diretto con me. Intuisco la sua presenza ricavandola da questo rifiuto, ma come ogni intuizione essa non è una ipotesi da cui posso dedurre l’esistenza di qualcosa, essa si pone là e basta, mi attira anche per questa sua ritrosia a essere vista deduttivamente e tratta alla luce. La verità nella mia intuizione si afferma come qualcosa di estraneo, non come qualcosa che sta alla fine di un ragionamento, calcolo che bene o male è fatto per rassicurarmi. La mia certezza è povera in quanto concerne solo la cognizione di una esistenza totale da cui ricavo un concetto restrittivo, quello del tutto, che vedo muoversi nel fare modificativo come qualsiasi altro oggetto. Questa certezza è certezza talmente povera che per rafforzarla sono obbligato a condizionarla fortemente con parametri quantitativi e con coordinate di misurazione.

Nel nostro domandare, afferma Heidegger, tuttavia, allorché pensiamo in direzione del significato fondamentale, ci guida una concezione della parola e del linguaggio totalmente diversa. Il ritenere che ci limiteremmo qui a praticare una sorta di “filosofia basata su parole”, che ricava tutto cavillando unicamente sui loro significati, è senz’altro un’opinione assai comoda, ma anche talmente superficiale da non poter essere qualificata nemmeno come falsa. Quello che chiamiamo significato fondamentale dei vocaboli è quanto essi hanno di iniziale, ciò che appare non al principio bensì alla fine, e che pure allora non si dà mai come un prodotto derivato e preconfezionato che potremmo pensare a sé stante. Il cosiddetto significato fondamentale domina di nascosto in tutte le accezioni delle parole corrispettive. Nel fare produco la realtà e produco anche me stesso, nel fare modifico la relazione che ho con il mondo che creo continuamente. La critica negativa è sempre un fare anche se testimonia di una condizione di sofferenza della coscienza immediata. Negare non è andare oltre, è un modo come un altro di fare e quindi non può considerarsi come la porta di accesso alla verità. Il dovere del fare è accettato come riconoscimento della propria condizione, ma ciò non chiude il cerchio, lascia che l’inquietudine bruci come un incendio inarrestabile. Non si tratta di un limite logico e formale, ma di una insoddisfazione insuperabile che rigetta l’illusione della identità quantitativa. Il fare è un non ancora fatto che sta per farsi, per essere fatto. La determinazione è collegamento tra possibilità in arrivo dal destino e orientamento tra tensione e senso. Questa determinazione è sempre un non ancora. Non è una questione di potenza che deve essere posta in essere, è proprio l’unica forza che si muove all’interno della modificazione. Sono io che registro il fare nell’accumulo e che lo considero poi nella sua realtà culturale storica.

Se per i Greci, dice Heidegger, l’opposizione essenziale alla svelatezza è la falsità, e quindi la verità, è non-falsità, allora la velatezza deve venire determinata a partire dalla falsità. Se inoltre la velatezza domina l’essenza della svelatezza, ne deriva il fatto enigmatico che, nel senso greco, l’essenza della verità viene caratterizzata dall’essenza della falsità. Ciò potrebbe in effetti sembrare completamente assurdo, dato che il “positivo” non può mai scaturire dal negativo, ma tutt’al più può accadere il contrario. Noi sappiamo però che già il nome greco dell’essenza della verità esprime il fatto enigmatico secondo cui in tale essenza sono decisivi la velatezza e il conflitto con essa. Proprio per questo sarebbe ovvio attendersi che anche nella parola opposta a “svelatezza” venga nominata altrettanto chiaramente la velatezza. La distanza che corre tra verità e scienza dell’accumulo non è un quid preciso ma uno spazio inquieto e indeterminato, una terra dove è possibile il salto nell’assolutamente altro ma anche nell’ortodossia più ovvia e scontata. Qui risiede una condizione di indifferenza che pone gli opposti della relazione orientata come momenti di un possibile ribaltamento. Non c’è una crisi radicale, una contraddizione che revochi in dubbio non solo le coordinate e gli accordi, ma anche l’altro come mai conosciuto perché uno e inconoscibile. L’accostarsi all’uno parmenideo è impossibile, ogni sogno dialettico è appunto un sogno, nessuna contraddizione da superare, niente rapporto se non quello che descrivo ricorrendo a tutti gli artifici del dire che, come si sa, hanno i loro limiti. Al contrario, l’uno che è tale e non è altro, è soltanto l’estrema separatezza e l’assoluta impossibilità della separazione. Ho il desiderio e il bisogno della distinzione e riconduco nell’àmbito di questa prospettiva quell’uno che al contrario è assolutamente avulso. Malgrado l’impossibilità della via non è possibile per me altra via.

Così Heidegger: Atena, non notata da Ettore, rende la lancia ad Achille. Ma se si pensa in modo greco si deve dire: Atena rimase nascosta a Ettore nel suo rendere la lancia. Anche in questo caso è il termine “nascosta” a definire il tratto fondamentale del comportamento della dea, giacché è anzitutto il tratto del velamento che dà al suo particolare agire il carattere del suo “essere”. Il diretto capovolgimento del nostro modo di esperire, di pensare e di dire rispetto a quello greco si evidenzia in modo netto e conciso nel noto detto epicureo: “vivi nel nascondimento”. Il greco dice: “Rimani nascosto nel modo in cui conduci la tua vita”. L’essere nascosto, la velatezza, definisce qui il carattere della presenza dell’uomo fra gli uomini. “Velato” e “svelato” sono un carattere dell’ente come tale, non però un carattere del notare e del comprendere. Ciò nonostante, il percepire e il dire mantengono pur sempre anche per i Greci il tratto fondamentale della “verità” o “non verità”. Non è accettabile intendere la verità nella figura della matrice del mondo modificativo. Non esiste una figura determinata della verità perché ogni determinazione è sempre una parcellizzazione e la verità rifiuta di essere divisa. L’esistenza dell’intero non si può ricavare dalla quantità, occorre partire dalla qualità. Dalla quantità si può solo arrivare a un’aggiunta di quantità e ciò senza pervenire alla completezza. Se restassi soddisfatto dell’assommazione ricaverei solo ulteriori aggiunte, quantità su quantità, mentre quello che cerco sta altrove, sta nella distinzione interna alla verità che non distingue, che non può essere letta nella separazione ma nella totalità. Questa distinzione è il tutto che penso indistinguibile, ma per poterlo pensare tale lo distinguo dal pensiero che lo pensa, cioè lo assolvo, lo faccio assoluto. Ma l’assoluto per me non è la verità, è una modulazione distinta e non libera, circoscritta. Per quanti sforzi possa fare non c’è modo di pervenire a questa vita nel tutto se non attraverso l’esperienza immediata, che non appena si accosta è di già perduta nella ricomposizione e nell’oblio. La verità mi rimane estranea, ma è questa estraneità che la rende libera di essere così come è, altro da me che sono prigioniero.

Ecco Heidegger: questi pochi accenni possono chiarire quanto decisamente l’àmbito e l’evento del velamento e della velatezza dominino per i Greci sia l’ente sia il comportamento umano nei confronti dell’ente. Se ora, alla luce di quanto detto, ripensiamo ancora una volta la parola greca di radice λαθ- a noi più familiare, cioè lanyanomai, può apparire evidente che la traduzione tedesca corrente, e anche “corretta”, con vergessen (dimenticare) non rispecchia affatto il pensiero greco. Pensato in modo greco lanyanomai dice: io rimango velato a me stesso nel riferimento che qualcosa di altrimenti svelato ha con me. In tal modo quest’ultimo è a sua volta velato, così come io lo sono a me stesso nel mio riferimento a esso. L’ente sprofonda nella velatezza in modo tale che in questo velamento dell’ente io rimango velato a me stesso. Nel contempo questo velamento viene a sua volta velato, il che accade quando diciamo: ho dimenticato questo e quest’altro. Nel dimenticare non soltanto ci sfugge qualcosa, ma il dimenticare medesimo cade in un velamento tale che noi stessi, nel nostro riferimento al dimenticato, cadiamo vittime della velatezza. Perciò i Greci, rafforzano il termine allo scopo di rimarcare la velatezza di cui l’uomo è preda anche riguardo al suo riferimento a ciò che tramite la velatezza stessa gli viene sottratto. È difficile che l’essenza del dimenticare possa venire pensata in modo più straordinario in una singola parola. Quale che sia l’ipotesi da cui voglio partire per fissare la verità, questa ipotesi come tutte le altre è contenuta nella verità stessa, non si distingue dall’intero che cerco di rimuovere per comodità di distinzione. La mia ipotesi soffre qui nelle ambasce della coordinazione obbligatoria, ma è interamente sospesa nel tutto che la completa qualitativamente. Se non fossi completamente cieco vedrei questa completezza necessaria, invece indugio nel possibile completamento dell’aggiunta, mi balocco fino allo sfinimento. Con questa certezza non imprigiono affatto l’ipotesi in un cerchio di garanzia, la riconduco invece verso la sua propria natura possibile, la lettera del destino come mi appare nei cieli della mia forza. La possibile via fattiva sarebbe stupida ubbidienza a un dettato superiore, se non fosse alimentata nella sua stessa adesione al canone da una luce di follia. La stessa critica negativa annega in questa luce perdendo per strada la serie di puntigliose dissonanze. Se pensassi che negando possa arrivare a un salvataggio del di già costituito sarei in errore. La critica negativa non salva ma al contrario prepara la distruzione del di già salvo. La chiusura di sicurezza mette a rischio l’intera costruzione immediata, facendo vedere i punti deboli e le incongruenze di tutto ciò che prima gridava alla certezza.

Sia nel modo in cui l’uso linguistico greco dice in generale – continua Heidegger – l’essere velato, l’essere nascosto, in quanto verbo “reggente”, sia nella spiegazione dell’essenza del dimenticare in quanto appunto accadere del velamento, si mostra in modo già abbastanza chiaro che nell’“esserci” della grecità, cioè nel suo stare all’interno, nel mezzo, dell’ente come tale, domina essenzialmente l’essenza del velamento. Da ciò possiamo immaginare già più facilmente perché la verità venga esperita e pensata nel senso della “svelatezza”. Ma in base al procedimento manifesto del velamento, e quindi al velamento stesso, non dovrebbe forse venire determinata allora anche l’essenza dell’opposizione alla verità maggiormente nota, cioè l’essenza della falsità? Se l’ipotesi con cui descrivo la verità è totale anch’essa, se partecipa della diversità assoluta come completamento certo in quanto consente, nell’esperienza diversa, l’unificazione della qualità con la qualità, non posso disperare di fronte al continuo ripetersi della mia sconfitta. Anzi, è proprio questo il punto di forza della mia ricerca, il circolo del destino che mi libera e mi rende incatturabile. Solo che questo splendore di un’assenza è assurdo se voglio che mi venga recapitato a casa, per averlo, semplicemente per intuirlo, devo venire avanti, devo mettermi a rischio. Senza senso è quindi la mia quotidianità, senza scuse davanti alla sua miseria. La regola per vivere, per vivere la vita e non vegetare ignorante di me stesso, è l’eccezionalità. Non si tratta di coraggio o di grandi imprese, più avanzo nell’età e più mi rendo conto che non sono le fanfare a dare contenuto alla vita, nessun gesto da prima pagina può mettermi davanti alla meraviglia di un sogno a occhi aperti. Il falso apre un incontro radicalmente diverso con il vero.

Questa supposizione, precisa Heidegger, si consolida se si considera che ciò che è falso e non vero, per esempio un giudizio scorretto, è una sorta di non sapere in cui il “vero” stato delle cose ci è sottratto in un modo bensì non identico, ma comunque in un certo senso corrispondente a quel “dimenticare” che i Greci esperiscono a partire dal velamento. Se poi il pensiero greco comprenda l’essenza del falso, dello ψεῦδος, dalla prospettiva del velamento è cosa che può essere dimostrata solamente prestando attenzione all’espressione immediata dell’esperire greco, senza prima occuparsi affatto di ciò che i pensatori greci dicono espressamente circa lo ψεῦδος. La vita che sento nelle mie ossa, nelle mie vene, è uno scandalo, essa è presente nella verità di cui non so nulla, allo stesso modo, e forse più, delle povere misurazioni che mi accontentano giornalmente. Non è essa che si occulta e si nasconde, sono io che sfuggo alle mie responsabilità e che non voglio che volere, non sono capace d’altro che di volere, evito la rabbia e l’eccesso perché sono perbene, bravo e volonteroso massacratore. Ma lo scandalo continua, pulsa dentro di me e non accenna a quietarsi, segno di libertà estrema che se non è a portata di mano non è nemmeno fuori portata. Il nascosto sveglia l’esposto, il ragionevole e lo fa diventare irragionevole e nascosto, gli suggerisce la veste dell’intero che non può essere deciso. La sveglia è possibilità altra, diversa intersecazione dell’evento che si perpetua nel destino. Io decido di accettare la possibilità, ma questa accettazione riduce nei limiti dell’accessibile scontato la possibilità stessa, devo evitare di decidere di accettare, ma questa condizione è difficilmente realizzabile ed è la più alta accettazione della vita.

Stiamo tentando, dice Heidegger, di prestare la giusta attenzione al detto di Parmenide di Elea, il pensatore che pensò il suo detto nel tempo in cui a Posidonia, cioè nella futura Paestum, confinante con Elea, venne costruito il tempio di Posidone. Il detto di questo pensatore dice la parola della dea “Verità”. L’essenza della dea “Verità” è presente in tutta la costruzione del detto e in ogni sua frase, ma soprattutto e in modo limpido nel verso iniziale, che però tace proprio il nome. È per questo che, prima di delucidare i singoli frammenti e in vista di ciò, dobbiamo anzitutto conoscere qualcosa dell’essenza della dea. Viceversa, l’essenza qui dominante compare ugualmente nella sua figura caratterizzata in termini iniziali anche solo in base al “poema didascalico” pensato a fondo. Avvolto nel tempo, scandito dai suoi ritmi, non mi avvicino alla cosa. Aspetto che l’orizzonte maturi, che il sole si levi alto, che una forza ausiliare mi tiri fuori per i capelli. Non c’è nessuna forza del genere, la signoria sull’esistente è oppressione e noia, modificazione produttiva che accumula soltanto certezze di carta e immagini di cartapesta. La verità si muove all’interno dell’uno, in una zona inalterabile dove la qualità non può essere letta, non è la potenza dell’amore a superare l’apertura ma l’inganno e il nascondimento della volontà. Il mondo mutilato non è ricomposto se non con le chiacchiere e le riassicurazioni di completezza, non vi si riflette che una bellezza passiva, filtrata da spiegazioni che ne ditruggono la vista liberatrice, che riducono la libertà a una lunghezza della catena. Se mi avanzo nella verità non sono più mutilato e aggressore, sono libero e sono qualitativamete uno, sono la vita io stesso e la via che mi traccio si rinnova continuamente, si apre nella rarefazione della verità e non si chiude davanti a cinematografi e supermercati.

Ripensiamo anzitutto – afferma Heidegger – il nome della dea Verità, cioè la svelatezza. Sicuramente, per il solo fatto di avere constatato che in greco la designazione linguistica di “verità” suona “ἀλήθεια”, non sappiamo ancora nulla circa l’essenza della verità, quanto poco ne sappiamo del cavallo attenendoci alla sola parola latina equus. Se però traduciamo ἀλήθεια con “svelatezza”, e nel farlo ci traduciamo nelle indicazioni fornite da tale parola, non ci fermiamo più a una designazione linguistica, ma siamo di fronte a un contesto essenziale che reclama il nostro pensiero in modo radicale. Seguendo le quattro indicazioni fornite dal nome ἀλήθεια tradotto con “svelatezza” apprendiamo qualcosa circa l’essenza iniziale della verità pensata in modo greco. Capire e lasciare andare, sono due punti estremi della medesima relazione. Capire è forza e distinzione, penetrazione e memoria. Lasciare andare è cogliere e intuire, debolezza che rinuncia non per mancanza di forza ma per un genere diverso di forza, quel genere che rinuncia al controllo e all’esame imposti dalla volontà. Anche l’occhio penetrante che indaga, spesso ama le ombre e cerca di nascondere se stesso di fronte alla troppa luce dell’evidente. Questa penetrazione contiene in sé l’aperta negazione che rinuncia ad andare dentro, e questa è una forza immensa che viene fuori dall’insonnia e dal fare coatto. Il lutto che circonda la modificazione si ribalta in modo imprevedibile nella gioia, il produrre ribalta se stesso in se stesso. Non sembra una grande modificazione, e difatti non lo è, ma è un’apertura che si profila all’orizzonte, improvvisamente viaggio su di un’altra intensità. Questa apertura nel nascondimento non è un superamento, non toglie via, ma è un oltrepassamento, non si apre altrove ma nell’assolutamente altro che è un internarsi nella verità, una ricerca che mette da parte volontà e grida allo scandalo.

Insiste Heidegger, puntualizzando, in primo luogo, che la disvelatezza rinvia alla velatezza. Il velamento domina quindi l’essenza iniziale della verità. In secondo luogo, la disvelatezza rinvia al fatto di essere strappata alla velatezza e di essere in conflitto con essa. L’essenza iniziale della verità è conflittuale. Resta da chiedere che cosa significhi qui “conflitto”. In terzo luogo, in conformità alle determinazioni precedenti, la dis-velatezza rinvia a un àmbito di “opposizioni” entro cui si situa “la verità”. Giacché l’essenza conflittuale della verità diviene visibile anzitutto a partire dall’essenza “contrastante” della svelatezza, dobbiamo riflettere in modo più approfondito sulla questione dell’“opposizione” in cui si situa la verità. Nel pensiero occidentale si considera quale unico opposto della verità la non verità. La “non verità” viene assimilata alla “falsità” che, intesa come scorrettezza, rappresenta il contrario manifesto e appariscente della “correttezza”. Quest’ultima opposizione la interpretiamo come rapporto fra correttezza e scorrettezza, ma la verità in quanto “correttezza” non ha la medesima essenza della verità quale “svelatezza”. L’opposizione fra correttezza e scorrettezza, validità e non validità, può anche esaurire l’essenza conflittuale della verità per il pensiero successivo, e soprattutto per quello dell’età moderna, eppure con ciò nulla è deciso circa le possibili opposizioni alla “svelatezza” pensata in modo greco. Si tendono i nervi e tutte le sensazioni si fanno più acute ma l’intensità dell’intuizione non corrisponde all’aumento dell’attenzione, i due movimenti sono divergenti. Il lasciare andare non può essere legato all’ingordigia della volontà. Lo sprofondare deve essere improvviso e inaspettato, anche se mille movimenti volontari, una intera educazione, può provocarlo. Il gioco delle determinazioni non arriva mai in porto, non coincidono mai i tasselli dell’accadimento, mi interno improvvisamente in un territorio sconosciuto e penso ancora di stare completando il gioco dei miei tasselli, ma non è così. La straordinaria potenza di questo sprofondare mi assegna orizzonti che non conosco e che mi sconvolgono.

Dobbiamo quindi domandare, continua Heidegger, come si presenti l’opposto della “svelatezza” nel pensiero iniziale dei Greci. Riflettendo su ciò otteniamo il risultato sorprendente che, insieme ad ἀλήθεια, si presenta, come loro opposto, tò ψεῦδος, che traduciamo correttamente con “il falso”. L’opposto della svelatezza non è dunque la velatezza, bensì la falsità. La parola τό ψεῦδος ha un’altra radice e non dice immediatamente nulla a proposito di velamento. Ciò è strano, e lo è proprio nella misura in cui assumiamo e rimarchiamo il fatto che l’essenza iniziale della verità è appunto la “svelatezza”, giacché in questo caso, nell’opposto che le corrisponde – cioè che qui la contraddice – dovrebbe comunque emergere qualcosa come la “velatezza”. Ma di ciò in un primo momento non troviamo nulla, giacché fin dall’inizio, contemporaneamente alla parola ἀλήθεια, viene già pronunciata, come suo opposto, la parola τό ψευδες. Si potrebbe dunque concludere una volta per tutte che l’essenza della verità non si determina affatto in base alla svelatezza e alla velatezza. Forse però questa conclusione è troppo affrettata. Ci abbandoniamo con eccessiva sconsideratezza al pregiudizio dell’opposizione di lunga data fra verità e falsità, nel qual caso non ci scandalizziamo affatto per la diversità dei nomi che la designano e che costantemente, senza badarci più di tanto, utilizziamo come formula distintiva per i nostri giudizi e le nostre sentenze. Tuttavia, se affermiamo che, in considerazione della preminenza dello ψεῦδος, l’origine dell’essenza della verità non potrebbe comunque essere la svelatezza e la velatezza, forse la nostra non è soltanto una conclusione troppo affrettata. Forse qui non ci troviamo affatto in un campo adatto alle “deduzioni”, bensì in un àmbito che esige che si aprano gli occhi e si osservi con l’occhio giusto. Tale “avvedutezza” ci permette senz’altro di vedere che nell’esperire e nel dire dei Greci non manca affatto la parola opposta ad ἀληθές , e tanto meno la parola da cui deriva questa formulazione privativa, ἀλήθεια appartiene alla radice verbale λαθ- che costruisce il verbo sono velato, sono nascosto. La verità è in me ma mi risulta irricordabile, anzi l’irricordabile. Se voglio sistemarla nel vuoto della memoria non ci riesco, sono in preda al panico nel mio segreto. La quiete mi uccide, ma l’inquietudine attenta lo stesso alla mia vita. Mi sento sollecitato da due lati, contrapposti. Queste forze mi fanno paura e cerco di fronteggiarle mostrando i muscoli. Strategia risibile. Non è questione di dissenso o di pacificazione, ma di amore per la vita, per la gioia che oltrepassa qualunque limite benpensante.

L’uomo moderno, dice Heidegger, che punta tutto sul fatto di scordarsi ogni cosa nel modo più rapido possibile, dovrebbe senz’altro sapere che cos’è il dimenticare. Eppure non lo sa. Ha dimenticato l’essenza della dimenticanza, ammesso che in generale ci abbia mai pensato, cioè abbia considerato a fondo l’àmbito essenziale della dimenticanza. Ma questa indifferenza nei confronti del “dimenticare” non è affatto dovuta soltanto alla superficialità e alla precarietà del modo di “vivere” dell’uomo moderno. Ciò che qui accade proviene dall’essenza stessa della dimenticanza, dal fatto cioè che essa sottrae e vela anche sé medesima. L’eccesso è limite anch’esso se viene visto come meta da raggiungere, ma poi che è l’eccesso? Spezzare la quiete lo è? Oppure lo è mettere fine all’inquietudine? L’insonnia che spinge al fare, l’immensa materia da dissodare, il mondo da creare, non sono eccesso, sono ancora aritmetica, algebra del quantitativo. Finirla con il riposto è altro, è lo spezzarsi della prigionia, l’addentrarsi nella foresta, l’infinita pazienza di tornare sempre sullo stesso sentiero, fino all’ultima goccia di sangue nelle vene.

Potrebbe anche essere, afferma Heidegger, che la nube in sé invisibile della dimenticanza, la dimenticanza dell’essere, abbia avvolto l’intero globo terrestre e la sua umanità in modo che non viene dimenticato questo o quell’ente, bensì l’essere stesso, una nube che nessun aeroplano, per quanto enorme possa essere la sua tangenza, sarebbe mai in grado di attraversare. È per ciò che a suo tempo potrebbe anche sorgere come bisogno e rendersi necessaria un’esperienza proprio di questa dimenticanza dell’essere, potrebbe accadere cioè che di fronte a questa dimenticanza debba destarsi un pensiero rammemorante (Andenken) che pensi all’essere come tale e solo a esso, nella misura in cui pensa a fondo l’essere stesso, l’essere nella sua verità: la verità dell’essere, e non soltanto, come fa ogni metafisica, l’ente in relazione al suo essere. Ma per questo vi sarebbe prima bisogno di un’esperienza dell’essenza della dimenticanza, vale a dire di ciò che si cela nell’essenza dell’ἀλήθεια. Il vuoto che riempie la modificazione produttiva è la struttura dell’utile che viene esplicitamente comunicata ma che non può essere conosciuta fino in fondo, fino alla completezza. Il segreto di questo vuoto, che riempie gli occhi, sta in fondo al cuore, in quel fondo che non voglio venga mai alla luce, in caso contrario mostrerebbe il suo punto debole. Alla luce del giorno raccordo tutte le condizioni che mi consentono di non scendere troppo, di mantenere un certo benessere, una pacifica convivenza di farabutto consumato in tutti i trucchi del mestiere. Sono però, nello stesso momento, sempre pronto a rispondere al richiamo che viene dalla foresta, dalla desolazione dell’assenza, al richiamo che risuona nella voce cacciata via da tutti i repertori di parole dotate di senso. Non sono un consacrato all’oscurità, ma nonostante ciò è qui che mi muovo meglio, che combatto disperatamente per non soccombere alla mostruosa macchinazione dell’accumulo. Non voglio liberarmi dalla schiavitù della luce e della illuminazione che avvampa nelle tenebre, per questo precipito nell’oscurità e non posso farci niente. Dire di sì, ecco la via, accettare per dare inizio allo scavo critico negativo, in caso contrario sarebbe vano cicaleccio. È qui il gioco della coazione quotidiana del mondo. Sto in piedi, io che soffro di vertigini, in cima al mondo e non sono certo la dea della verità. L’ossessiva continuità della produzione mi imprigiona e mi riproduce sempre identico, disponibile e unito, desideroso solo di collezionare e completare. Il mio perfetto desiderio di quantità è sistematicamente smentito dal destino, dal mio destino. Rifiuto di cedere a quello che Nietzsche chiamava l’idolatria del fatto. Non sono un passero crepuscolare. Ma gli dèi non amano la poesia, nemmeno Platone. Negare l’evidenza è sempre possibile.

I Greci, insiste Heidegger, hanno esperito il dimenticare come un accadere del velamento. Per stabilire con chiarezza i riferimenti essenziali entro i quali la grecità coglie l’essenza dello ψεῦδος, sarà dapprima opportuno riflettere brevemente sul nostro modo di intendere “il falso”. Per noi “il falso” significa anzitutto la cosa falsificata, come nel caso della “moneta falsa” o di un “falso Rembrandt”. In tale accezione il falso è il non autentico. Ma anche un’asserzione può essere “falsa”. In questo caso il falso è il non vero nel senso dello scorretto. L’asserzione scorretta viene spesso concepita anche come asserzione errata, nella misura in cui la scorrettezza in quanto errore viene contrapposta alla correttezza in quanto verità. Ciò nonostante non ogni asserzione falsa è un’asserzione errata. Se qualcuno, per esempio davanti al giudice, rende una “falsa testimonianza”, non è detto che si stia sbagliando, anzi, proprio in tal caso non deve affatto sbagliarsi, bensì, per testimoniare il falso, a maggior ragione deve conoscere il “vero stato dei fatti”. Il falso qui non è l’erroneo, ma l’ingannevole, il fuorviante. Il falso è dunque in primo luogo la cosa non autentica, in secondo luogo l’asserzione scorretta, che a sua volta può essere un’asserzione errata, cioè errante, oppure un’asserzione fuorviante. La verità divora se stessa nell’unità che è il niente del suo essere tutto. Questo niente è il luogo intuibile del venire in essere del mondo. La solitudine del tutto non mi appartiene e io non la colgo, i sospetti che avanzo sono ipotesi che ricavo dal mondo in cui vivo, in genere insiemi di insiemi e altre quantificazioni. L’apparire del mondo non è l’intuizione della verità, i due movimenti divergono, anche se appartengono entrambi alla logica dell’immediatezza. Neppure la negazione mi sospinge verso l’apertura, difatti è anch’essa descrizione e specificazione. Non è con la parola che vedo l’apertura alla verità, anche se poi sono in grado, con la parola, di rammemorare l’azione. Ma questo rammemorare è sempre vita immediata, anche se descrive movimenti del tutto, solitari e ostili come lo è soltanto la qualità, ma li descrive in termini di compassione, mai di distacco. Il massimo livello di profondità nella mia riflessione lo raggiungo abbandonando più che sia possibile il controllo della volontà, ingannandola, cioè trovandomi in una condizione intuitiva di grande ignoranza e, dentro certi limiti, di labirintica falsità. Il niente assoluto della verità potrebbe essere colto pienamente con una riduzione all’ignoranza assoluta, ma questa condizione privilegiata di profondità non è attingibile con uno sforzo di volontà. La verità non è il niente assoluto, ma questo nella vacua pienezza del mondo può essere visto come pienezza vera dall’altro, che risulta così assolutamente diverso dal mondo.

Noi però, continua Heidegger, diciamo “falso” anche un uomo, si dice: “La polizia ha preso l’uomo sbagliato”. In questo caso il falso non è né il falsificato né l’errante, e nemmeno il fuorviante, bensì l’uomo “sbagliato”, che non è “identico” a quello cercato. Quest’“uomo falso”, che lo è effettivamente in quanto è l’uomo sbagliato, può però essere ugualmente “senza falsità”: vale a dire che non v’è affatto bisogno che egli sia un uomo “falso” nel senso di colui che, subdolamente e in ogni occasione, sia nel suo comportamento sia nei suoi atteggiamenti, si è votato all’inganno. “Falso”, nel senso di subdolo, lo diciamo anche di un animale. Tutti i gatti sono falsi. Das Katzenhafte, il “gattesco”, è il falso, perciò in tedesco si dice Katzengold, oro falso, e Katzensilber, argento falso. La verità volge le spalle a me che la interrogo e insisto nel non capire che non è a lei che indirizzo le mie domande. Una risposta concreta sarebbe la fine delle avventure umane nel regno delle possibilità, un azzeramento. Il silenzio che ne verrebbe di conseguenza non avrebbe per me e per la verità alcuna significanza, sarebbe indifferente perfino alla indifferenza della totalità. L’unione conseguita in modo definitivo tra qualità e quantità azzererebbe tutto, mondo compreso. Invece le risonanze per me, nel cuore inquieto, che rispondono alla indifferenza della verità sono discorso aperto, ausilio a procedere oltre nella sperimentazione modificativa, a usare altri mezzi e rinvenire altri scopi. Ascoltare queste risonanze è quello che cerco qui di portare alla luce, un compito impervio che va oltre la mia ignoranza. C’è una traccia nella foresta? Una piccola luce nella tenebra? Ce ne sono tante, infinite, ed è per questa molteplicità di segni che a volte si segue l’illuminazione più evidente e quindi più legata, cioè l’immediatezza. Ma l’evidenza è incapace di interrogarsi, ignora il movimento che accelerando la luminosità diminuisce la capacità di sciogliere i legami. La separazione potrebbe rinviare a una inseparabilità inespressa, ma non è sempre così. Posso lavorare in questo senso e allora slego i processi uno a uno, inoltrandomi nel mio proprio universo e privandolo delle sue separatezze. Quello che viene fuori è una serie di possibilità che svolgono il filo incomprensibile del nulla che rispecchia se stesso.


[2004]

Karl Jaspers

Karl Jaspers sviluppa nel suo Filosofia (tr. it., Torino 1978), il problema della veridicità, e lo fa nel capitolo sulle forme dell’oggettività, cioè nella sezione dedicata a L’esistenza nella soggettività e nell’oggettività. Per lui il dovere oggettivo è come tutto ciò che attiene alla sfera della mera oggettività e al suo isolamento, strutturalmente sottoponibile al dubbio e ciò proprio là dove esso si fa conoscere come comando etico, che per lo più si presenta sotto forma di proibizione. Questi comandi rimangono equivoci, per cui è qui che si mette in risalto l’esempio del «non devi mentire». (Ib. p. 841). «Non solo tutti sono d’accordo sul principio che non si deve mentire», continua Jaspers, «ma ciascuno sente interiormente d’esser chiamato in causa da una verità. Ma ecco che subito intervengono delle argomentazioni oggettive che pongono delle limitazioni, quali: è consentito mentire quando la menzogna è necessaria e indispensabile nell’interesse dell’altro, per esempio, per salvargli la vita. Le menzogne a favore della patria non solo sono permesse, ma, in determinati casi concreti, addirittura richieste. Dire sempre la verità è immorale. Quando il tacere è un dire, non solo si può tacere, ma si deve; anzi si deve addirittura mentire quando lo richiede un interesse superiore». (Ib.). Si tratta di affermazioni poco valide, e lo stesso Jaspers lo ammette senza reticenze. Ci sono infatti delle argomentazioni che limitano in modo oggettivo, se possibile, l’obbligo di “non mentire”. Mettendo da parte “il bene della patria”, che è palesemente un imbroglio per mandare la gente a farsi ammazzare nelle guerre, rimane il problema della “vita dell’altro” in cui si dovrebbe sospendere ogni affermazione di verità, proprio perché si metterebbe a repentaglio un valore oggettivamente determinato. Ma ciò non sfugge alle considerazioni relative all’arbitrio e all’ubbidienza riluttante. Da un lato si pone il concetto di verità di fronte all’arbitrio di un giudizio di inclusione o di esclusione, dall’altro ci si pone di fronte all’umiliazione di una “perdita di dignità” di fronte a se stessi, accettando di mentire, sia pure per la migliore delle intenzioni.

Dall’“esigenza assoluta di un precetto così giusto come può esserlo quello che prescrive di non mentire”, viene in questo modo fuori “un inevitabile senso di colpa”, una sorta di naufragio che fa vedere l’intrinseca qualità esistenziale della scelta. Si dà, cioè, nella prospettiva dell’esistenza, o la purezza del disastro o la colpa della menzogna. Questa alternativa senza sbocchi intermedi fa vedere l’impraticabilità dell’“essere assolutamente sinceri”, e la menzogna sottostante alle affermazioni perentorie di chi si professa sincero senz’altro nell’esteriorità e continua a barcamenarsi nelle trattative intermedie della menzogna. Jaspers nota che chi dichiaratamente si mantiene fedele al precetto di non ammettere la falsità cade più facilmente nell’insincerità, infatti: «L’assoluta sincerità non appartiene alle forme dell’oggettività: non è possibile riconoscere l’assoluta sincerità dell’esistenza a livello oggettivo, ossia solo sulla base delle azioni esteriori». E continua, «chi oggettivamente non vuol mentire ricorre a infiniti sofismi, a giustificazioni, a spiegazioni, a dimenticanze e a riserve mentali che, come una nebbia, si estendono su tutto il suo esserci. Chi, invece, veramente non vuol mentire, evita queste astuzie, e con una inesorabilità radicale, impone alla propria coscienza, come primo e ultimo dovere, quello di non mentire mai a se stesso e all’amico». (Ib., p. 844).

Le forme di non-verità derivano dall’incapacità dell’uomo di “stare in sospensione” (in dem Schweben sein) accettando la dialetticità della verità, la sua tensione e la sua inquietudine, «facendo come i contadini ai piedi del Vesuvio, che portano a maturazione i loro meravigliosi frutti sotto la continua minaccia della lava». (Ib., p. 845). I “fanatici della verità”, cioè coloro che ritengono che la verità sia rivoluzionaria, affermano che la falsità è definitivamente superata dalla verità, essi si rifiutano di ammettere che «il superamento è tale da non impedire alla falsità di presentarsi di nuovo sotto un’altra forma, per cui la loro verità, invece di essere assoluta, totale e irripetibile, è sempre particolare, parziale e molteplice». (Ib., p. 842). I rigori di certo integralismo religioso sono quasi sempre affidati a giochi di parole o a doppie morali, come nel caso dei Gesuiti. Ma anche filosofi come Rousseau o Kant sono rimasti prigionieri di questi ostacoli logici. Basta pensare all’esempio kantiano dell’ultimo condannato rimasto solo nell’isola deserta che deve comunque scontare la propria pena fino all’ultimo giorno.

C’è un fondamento esistenziale della verità, insiste Jaspers, che non può realizzarsi compiutamente senza implicare una terribile contraddizione. Per cui ecco la ricetta che Jaspers suggerisce e, com’è evidente, non mi trova consenziente: «con quanti mi sono ostili impiego l’astuzia, con quanti conosco superficialmente il silenzio e con la gran parte lo scambio reciproco di convenzioni spesso menzognere». Paradossalmente «la veracità esige che si riconosca come un dato di fatto che dovunque si mente, e che in certe situazioni la menzogna può essere un atteggiamento sincero, senza che per questo sia vera la generalizzazione di un simile atteggiamento». (Ib., p. 843).

L’assillo della sincerità deriva da una insicurezza di sé, da un disgusto per gli altri, intorno a sé e in sé, e dal bisogno, violento e radicale, di liberarsene. Nello stesso tempo l’idealizzazione della verità assoluta, del fondamento preteso rivoluzionario della stessa verità, indica, insieme, al più gran livello, il bisogno dell’altro e la paura di non essere in grado di farsi amare. Sono i rapporti di corrispondenza reciproca che fanno pensare la verità come la sola strada percorribile. La trasparenza assoluta, quindi il dovere oggettivo di “non mentire” evoca, nel libro di Jaspers, l’immagine opposta della “nebbia”, una cortina fumogena difensiva che, grazie alla retorica della sincerità, in altri termini, grazie ai sofismi, alle giustificazioni, e a tutte le strategie di ostentazione e dissimulazione di cui sopra, attesta la paura dell’isolamento e del disprezzo da parte degli altri, esattamente corrispondente al mio isolamento e al mio disprezzo nei loro confronti. La sincerità viene così vista come la sola prospettiva per la costruzione di un orizzonte amichevole. «Si pretende sempre che l’esserci umano», continua Jaspers, «in quanto essere ragionevole ed esistenza possibile, si trasformi per instaurare rapporti differenti e, se è possibile, addirittura amichevoli. Tra gli uomini, infatti, è insopprimibile l’esigenza di rapporti reciproci». (Ib. p. 844).

La necessità vincolante della legge che obbliga a dire la verità è rivolta al passato, considera una condizione retrograda, afferma di dovere adempiere a un ordine preesistente, di dovere obbedire a un comando già fissato una volta per tutte in un codice etico, di dovere rispettare una disposizione già emanata, infatti Jaspers parla di una “doverosità che esprime e si presenta come qualcosa di già costituito”. Ma, sempre secondo Jaspers, la necessità può anche essere progressiva, cioè rivolta al futuro, a una sorta di oltrepassamento (“la necessità della libertà è la necessità della liberazione dalla necessità”), ossia alla costruzione di una comunicazione simmetrica, o meglio di un rapporto amichevole fra gli uomini, fatti che si devono ancora riscontrare, che per venire alla luce necessitano di un comportamento concreto, di una particolare situazione. «La necessità oggettiva è una mera ripetizione di ciò che c’è già. La necessità esistenziale è una necessità anticipante, un esser-già del non-ancora». (Ib., p. 845).

Jaspers nega una doppia morale, una valida per quelli che ci sono amici, nei riguardi dei quali manteniamo la verità, e una nei riguardi degli estranei, per non dire dei nemici, nei riguardi dei quali siamo astuti. Così scrive: «Oggettivamente c’è un’unica vera condotta etica che, nelle sue regole generali, è riconosciuta da tutti gli uomini allo stesso modo; essa prescrive di non mentire, di non ammazzare, di non rubare, di non commettere adulterio, eccetera. A comporla sono precetti esteriormente comprensibili, che nella storia non cambiano in modo arbitrario, perché, nei limiti delle loro variazioni, esprimono la validità di qualche aspetto umano universale. Se spesso sono negati, si ripropongono spontaneamente, in tutta la loro evidenza». (Ibidem). In ogni caso non c’è una sola strada per andare avanti, se così fosse uno soltanto potrebbe vivere secondo queste regole rigidamente assolute. Non c’è solo la via più corta per arrivare da qualche parte. La libertà esige vie diverse, tutte praticabili, seppure con diversi livelli di coraggio e di fatica. Dice Jaspers: la vita è uno scontro continuo «dell’oggettivo con il soggettivo e dell’oggettivo con se stesso». (Ibidem). E altrove conclude: «Perciò, se io aderisco all’oggettività lo faccio allo stesso modo di come aderirei alle regole di un gioco o di un ruolo, senza essere per questo condizionato dalle regole del gioco o del ruolo, e quindi senza considerare l’oggettività come la condizione del significato della realtà». (Sulla verità, tr. it., Brescia 1970, pp. 220-221). E, con maggiore incisività: «Anche se ci fosse solo una morale, contro l’universalità oggettiva ci sarebbe l’eccezione. L’eccezione, essendo per essenza infondabile, non solo è incerta dal punto di vista oggettivo ma, dal momento che si contrappone all’oggettività, è anche assolutamente problematica. Rischiando, l’eccezione sperimenta due cose: la verità dell’autenticità del se stesso e la colpa dovuta all’impossibilità di giustificarsi oggettivamente». Questa eccezione, insiste Jaspers, «non si annuncia volontariamente a chiunque e non vuole imitazioni. Non può oggettivarsi in un principio generale che consenta di stabilire in quali casi sia giusto fare questo o quello, perché non le si può tracciare alcun limite». Per cui, «l’eccezione agisce a proprio rischio e assumendosene la responsabilità senza riferirsi a modelli o a norme generali. Nel caso manifestasse esteriormente il proprio comportamento si troverebbe in contraddizione con il senso comune, con le regole sociali e con le leggi penali, e sarebbe derisa, emarginata e punita per l’arbitrarietà delle sue decisioni assolutamente proibite agli uomini nella società». (Filosofia, op. cit., pp. 845-846).

L’eccezione è sottolineata come essenziale per la vita umana, e Jaspers vi si sofferma nel libro La filosofia dell’esistenza (tr. it., Roma-Bari 1995, p. 45). La caratteristica dell’eccezione è di essere “problematica”, “spaventosa”, “affascinante”, essa si trova contrapposta all’autorità come “la pienezza di ciò che mi sostiene, che mi mette al sicuro, che mi dà la pace”. È l’uomo stesso a «essere eccezione contro l’esserci generale, sia che questo appaia nei costumi, negli ordinamenti, nelle leggi di un paese o nella salute del corpo, sia in ogni altra forma appartenente alla normalità». (Ib. p. 42). L’eccezione se viene osservata in profondità appare ambigua, contraddittoria, non spiegabile in tutte le sue forme e i suoi profondi aspetti. Essa comprende se stessa solo attraverso il suo naufragio, l’esperienza dell’esclusione, ossia nel suo volere ciò che essa non è, vale a dire l’universale. Mediante l’eccezione l’uomo è indeterminabile, è unico. Cercando di esprimere il che cosa è dell’eccezione, Jaspers precisa: «il termine vuol fissare il concetto di una possibilità che è un’origine della verità, la quale percorre tutti i modi dell’abbracciante e si sottrae a ogni possibilità di definizione. Essa è come un abbracciante che tutto abbraccia, che però come tale non ci si avvicina come assoluto ma in forma storicamente concreta e, illuminandoci, nello stesso tempo ci respinge e ci rimanda a noi stessi. Perciò non si può esaminarla di fatto nella sua totalità e nemmeno distinguerla oggettivamente o usarla come principio di una dimostrazione. L’eccezione diviene a noi visibile nell’urto – che noi sperimentiamo – della sua verità contro la nostra coscienza astratta della verità, e diviene però al tempo stesso invisibile, quando io voglio far conto di essa come di una cosa saputa. Ogni realizzazione oggettiva dell’eccezione è ambigua per noi come per essa stessa». (Ib., p. 44)

La decisione particolare è quindi, per Jaspers, la caratteristica essenziale dell’uomo, il suo rifiutarsi di fronte alla omologazione e alla trasformazione in risposta adeguata alla norma. Così conclude: «Penso che le azioni più veraci e autenticamente esistenziali siano proprio quelle che possiedono un tratto di questa inoggettività che, se non si avverte, è solo perché non entra in conflitto diretto con la legge oggettiva». (Filosofia, op. cit., p. 846).

Il fare è sempre in relazione con ciò che è stato orientato, indirizzato verso la quantità. Questa relazione è costituita dal fare e sviluppa in quest’ultimo, nella sua costruttibilità, gli elementi dell’artificio e della concretezza misurabile. Questa corrispondenza assemblativa è una legge di solidità che mantiene in piedi le linee portanti del mondo, le quali non sono da me volute nella loro completezza, ma producono effetti che tesaurizzo. Essa è un’armonia traditrice che fa sforzi per riprodurre un altrove nel modo delle concordanze fittizie, afferra, o afferma di afferrare, ciò che non può afferrare, testimonia di un tutto che nemmeno conosce e di cui la rammemorazione non è altro che un racconto fiabesco. Più che altro mina l’armonia, irrita la corrispondenza perfetta, si balocca nel relazionarsi a qualcosa che non può essere colmato, è misura e afferma di operare trasformazioni che negano la misura.

Il passaggio all’agire, dove mi compenetro di verità, sembra una soglia come tutte le altre, prima sono nel mondo e poi sono nell’azione, lascio l’immediatezza e mi trovo nella diversità, ma non è così semplice. Riflettendo mi accorgo che non sono in grado di fissare il passaggio in modo determinato, Jaspers direbbe in modo oggettivo. Ogni soglia è indistinta perché riceve in pieno l’afflato dell’azione, perché è troppo esposta alla radicale diversità. Ogni raffigurazione abituale è fuori luogo, ogni attenersi alle regole è verità che puzza di imbroglio, c’è sempre un elemento che non combacia, che non rispetta le coordinazioni.

Un effetto ritardante nell’avvicinarmi alla decisione veritativa è dato dalle condizioni leganti che si manifestano nel campo, dove le regole mi stanno davanti come un convitato di pietra ammoniscono la mia fantasia e raffrenano i miei desideri di libertà. Qui c’è una forza antinomica che mi fa avvicinare all’azione e nello stesso tempo mi fa rimanere legato alle condizioni di sicurezza che mi confermano nella pretesa oggettività di non potere fare a meno di “dire la verità”. Il peso di questa tradizione mi lega a una radice che rigenera la riflessione mentre la fa permanere nelle coordinate obbligatorie della modificazione, dove essa si ripresenta mutata e sempre la stessa. Capisco bene questo peso e le sue conseguenze, meno le conseguenze sull’apertura. Certo, c’è una relazione tra componenti tradizionali della mia immediatezza e movimento diverso nell’azione. Mi affido abbandonandomi all’agire, lascio che una realtà diversa mi permei e quindi penetri anche nel mio portato tradizionale. Non funziona più la ragione dominante, il terreno che sto penetrando si rivela irriducibile a ogni determinazione, a precisazioni di natura storica. Il modulo della determinazione veritativa è reso cieco dalla sua eccessiva illuminazione. Aspettando il coraggio del coinvolgimento chiedo più luce, l’invocazione di Goethe è emblematica, sempre più luce. La città dei miracoli è là che mi ospita e, nello stesso tempo, mi fagocita. Il sole del meriggio mi traumatizza ma non riduce la mia inquietudine. L’architettura di questa città mi ricorda le mura del carcere che mi circondano mentre scrivo queste righe. La fede solenne nella logica mi abbacina e sono costretto a fissare attentamente il segno, sicuro che mi dirà alla fine qualcosa di diverso. Ma questa seduzione non si concretizza, resto in attesa e quando compare un nuovo segno mi sono fatto cogliere dal sonno. Vegliare è la mia condizione normale, sono un seduttore sedotto dal proprio fascino, mi sono avvolto nelle coperte calde della sicurezza pure restando fermo nell’orto delle sofferenze, dove cresce l’albero dell’inquietudine. Solo che il sonno sopraggiunge nel momento meno opportuno e zone d’ombra vengono avanti a promettere territori diversi dove il fascino della diversità insiste.


[2004]

Max Stirner

Lo scontro tra il singolo, l’unico e i princìpi educativi che reggono la società è radicale, ed è radicalmente messo in evidenza da uno dei libri più radicali mai scritti: L’unico di Stirner. Poiché mi sono a lungo occupato di questo autore in questa stessa collana (Max Stirner, n. 6 della collana Pensiero e azione, e Teoria dell’individuo. Stirner e il pensiero selvaggio, n. 7), eviterò di dilungarmi troppo sul pensiero di Stirner in generale e mi dedicherò solo al problema di “dire sempre la verità”. Egli scrive: «La morale conferisce a chi pone quella domanda il diritto di aspettarsi la verità, ma io no: io riconosco solo i diritti che io stesso conferisco. Se la polizia s’introduce in una riunione di rivoluzionari e chiede a chi sta parlando il suo nome, tutti sanno che essa ne ha il diritto, ma non l’ha per concessione del rivoluzionario, giacché questi le è nemico: egli dice perciò un nome falso e l’inganna, mentendole. Ma d’altronde la polizia non è così stolta da fare affidamento sull’amore dei suoi nemici per la verità; al contrario, essa non prende certo per buona quella risposta, ma cerca d’“individuare” la persona in questione. Anzi, lo Stato si comporta sempre prestando poca fede agli individui, perché riconosce nel loro egoismo il suo nemico naturale: esso pretende assolutamente un “documento” e chi non può provare la propria identità cade nelle mani della sua attività investigativa. Lo Stato non crede e non presta fiducia al singolo, e con ciò già si pone dallo stesso punto di vista di quello: il punto di vista della menzogna: lo Stato ha fiducia in me solo se si è assicurato della verità della mia affermazione, cosa che può fare per lo più solo facendomi giurare. Anche questo dimostra chiaramente che lo Stato non fa affidamento sul nostro amore per la verità o sulla nostra credibilità, ma sul nostro interesse personale ed egoistico: esso si affida alla convinzione che noi non vogliamo incorrere, con uno spergiuro, nella collera di Dio». (L’unico e la sua proprietà, tr. it., Edizioni Anarchismo, Catania 2001, p. 221). Stirner non ammette ingombri o scarsità di chiarezza. Sa bene che la verità è un lusso che chi lotta contro il potere non può permettersi. Difatti così continua: «S’immagini un rivoluzionario francese nell’anno 1788 che si sia lasciato sfuggire, parlando con amici, le parole divenute poi famose: “Il mondo non avrà pace finché l’ultimo re non sarà impiccato con le budella dell’ultimo prete”. Allora il re aveva ancora tutti i suoi poteri e, quando quell’affermazione venne per caso risaputa, senza che si potessero peraltro produrre testimoni, si chiese all’accusato di confessare. Deve confessare o no? Se nega, mente, ma resta impunito; se confessa, è sincero, ma viene decapitato. Se la verità gli preme più di ogni altra cosa, deve morire. Solo un poeta da poco potrebbe tentare di scrivere una tragedia sulla sua fine, perché quale interesse può mai esserci nel vedere un uomo che soccombe per viltà? Ma se egli avesse il coraggio di non essere schiavo della verità e della sincerità, potrebbe chiedersi: perché i giudici devono sapere che cosa ho detto fra amici? Se avessi voluto che lo sapessero, gliel’avrei detto, così come l’ho detto ai miei amici. Io non voglio che lo sappiano. Essi pretendono che io mi confidi con loro senza che io li abbia chiamati per questo o che ne abbia fatto i miei confidenti; essi vogliono sapere ciò che io voglio nascondere. Avvicinatevi dunque, voi che volete spezzare la mia volontà con la vostra e mostrate ciò che sapete fare! Potreste torturarmi, minacciarmi l’inferno e la dannazione eterna, piegarmi fino a farmi fare un giuramento falso, ma la verità non riuscirete a cavarmela di bocca, perché io vi voglio mentire, perché io non vi ho dato alcun diritto di aspettarvi che io sia sincero. Dio, “che è la verità”, guardi pure in giù, verso di me, con aria minacciosa, la menzogna mi sia pure dura: io ho nondimeno il coraggio di mentire e, anche se fossi stanco di questa vita, anche se niente mi apparisse più desiderabile della spada del vostro boia, io non voglio darvi lo stesso la gioia di trovare in me uno schiavo della verità che voi avreste condotto, con le vostre arti da preti, a tradire la propria volontà. Quando io ho pronunciato quelle parole che esprimevano un alto tradimento, volevo che voi non ne sapeste niente; questa è ancora la mia volontà e perciò non mi lascerò intimorire dalla maledizione della menzogna». (Ib., pp. 221-222). La terra della comprensione, dove crescono i frutti della verità, è soltanto una tappa verso il deserto. Posso costruire illusioni, ma non a lungo, anche se la paura può abitare per molto tempo nel mio cuore e restarci senza farsi vedere. Posso aderire ai moduli che giustificano la quantità, ma non posso farlo in maniera da restare soddisfatto, prima o poi vengo centrato dalla necessità di essere libero. Narrare il pensiero vuole dire corteggiarlo ampiamente, attirarlo in trappole che nascondano il suo volto compresso e suasivo. La vita non è faccenda di equilibri, non concepisce accordi o compensi, la vita è fuoco ardente, non è saputa, non è costruzione intellettuale. Questo modo di essere non è conoscibile, sfugge a qualunque conquista intellettuale, a qualunque volto che si irrigidisce e vuole modellare. Il saputo (Gewusst) è progetto a priori che batte i denti nel freddo, il riconoscimento che chiede l’elemosina fuori delle sale del principe. Il pensiero si veste di abiti che rappresentano la realtà, ma è anche condizionamento e pacificazione, mette d’accordo i risultati e li sposa in modo da alleviare le afflizioni che affiorano. La vita comunque non può essere esaurita nella comprensione intellettuale, il suo profondo essere rifiuta la rappresentazione, non c’è un aspetto della vita che ama l’acquietamento, tutto in essa è un grido di gioia. Anche il dolore o la disgrazia estrema è un urlo di vita, ed è del dolore che abbiamo nostalgia quando non c’è più perché la disgrazia e la peggiore esperienza possibile sono pur sempre la vita e, alla fine, sono un urlo di gioia. Il principio della fine è nella vita, ancora una volta, urlo di gioia che nega e rigetta quanto presagito. Sgelo in questo modo ogni fissità della morte. Scrivo queste righe in condizioni orribili, una delle peggiori galere mai viste, eppure sono felice di poterle scrivere [giugno 2004]. Sono vivo e quindi, questi maledetti, non mi hanno ancora ucciso.

Commetterei una ingiustizia non solo verso coloro che mi sono amici, ma impedirei anche la stessa lotta contro i miei nemici, contribuendo ad allentare le mie forze, a metterle stupidamente a repentaglio, e ciò non in nome di un principio astratto, quello di “dire sempre la verità”. Ecco come continua Stirner: «Si tratta innanzitutto di vedere se sono stato io a dare il diritto ad altri di avere fiducia in me. Se l’inseguitore del mio amico mi chiede dov’è fuggito quest’ultimo, gl’indicherò certamente una pista sbagliata. Perché lo chiede proprio a me, all’amico dell’inseguito? Per non essere un amico falso e traditore, preferisco essere falso verso il nemico. Io potrei certamente rispondere, con il coraggio della buona coscienza: “Non voglio dirlo” (così Fichte risolve il caso); in questo modo il mio amore per la verità sarebbe salvo e per l’amico avrei fatto assai poco, perché se non do un’indicazione sbagliata al nemico, può darsi che questo imbocchi per caso la strada giusta e il mio amore per la verità avrà allora rovinato l’amico, giacché mi ha impedito di avere il coraggio di mentire. Chi ha nella verità un idolo, un principio sacro, si deve umiliare davanti a essa, mettendo da parte coraggio e baldanza, non può opporsi alle sue richieste o resistere coraggiosamente, insomma deve rinunciare al coraggio eroico della menzogna. Infatti per mentire ci vuole un coraggio non minore che per dire la verità, un coraggio che di solito manca a molti giovani, i quali preferiscono appunto confessare la verità e salire sul patibolo per questo, piuttosto che recar danno alla potenza del nemico con una menzogna impudente. Per loro la verità è “sacra” e il sacro richiede sempre venerazione cieca, sottomissione e sacrificio di sé. Se voi non siete impudenti schernitori del sacro, vuol dire che siete suoi docili servitori. Se si mette solo un briciolo di verità nella trappola, ci cascate di sicuro: ecco acchiappati i pazzi! Non volevate mentire? Bene, allora cadete pure vittime della libertà e diventate – martiri! Martiri – per che cosa? Per voi stessi, per la propria individualità? No di certo, ma invece martiri per la vostra dea: la verità! Voi conoscete solo due tipi di servizi, solo due servitori: i servi della verità e i servi della menzogna. In nome di Dio servite dunque la verità!». (Ib., p. 224). Stirner dimostra di essere un filosofo veramente considerevole proprio qui, contrapponendosi a tutte le etiche della verità che lo hanno preceduto nella storia del pensiero occidentale. Egli fa strame del rigorismo kantiano e del filisteismo di Fichte, come pure nega validità ai doveri temperati dai diritti di cui parla Constant, per non tenere nemmeno in gran conto la menzogna necessaria di Schopenhauer. Egli si limita ad affermare che: «Altri amano sì la verità, ma l’amano “con misura” e fanno per esempio una gran differenza fra la menzogna semplice e quella sotto giuramento. Eppure tutto il capitolo sul giuramento è lo stesso della menzogna, perché un giuramento non è che un’affermazione rinforzata da un’assicurazione. Voi vi considerate autorizzati a mentire purché non giuriate? Ma, a voler essere rigorosi, una menzogna è da giudicare severamente e da condannare esattamente come un giuramento falso. Nella morale si è conservato un punto antico e controverso, che di solito viene trattato sotto il nome di “menzogna per forza maggiore”. Chi sostiene questo punto di vista non può poi, se vuol essere logico, rifiutare il “giuramento per forza maggiore”. Se io giustifico la mia menzogna per cause di forza maggiore, non devo essere poi tanto meschino da privare la menzogna che ho così giustificato del suo rinforzo più potente, cioè del giuramento. Qualsiasi cosa faccia, perché non dovrei portarla fino in fondo e senza riserve (riservatio mentalis)? Una volta che mento, perché non mentire completamente, in piena consapevolezza e con tutta la mia energia? Se sono una spia, devo saper giurare, se il nemico me lo chiede, su ogni mia affermazione falsa; se sono deciso a ingannarlo, perché dovrei improvvisamente diventare vigliacco e indeciso di fronte a un giuramento? In tal caso sarei in partenza una spia ed un mentitore fallito, perché darei volontariamente al nemico un mezzo per catturarmi. Anche lo Stato ha paura dello spergiuro per cause di forza maggiore e non fa giurare l’accusato per questo motivo. Ma il vostro comportamento non giustifica i timori dello Stato: voi mentite, ma non spergiurate. Se voi, per esempio, avete fatto del bene a qualcuno e non volete ch’egli sappia che siete stati voi i suoi benefattori, negherete certamente nel caso che quegli abbia dei sospetti e ve lo venga a chiedere in faccia; se insiste, gli rispondete: “No, davvero!”; ma se vi si chiedesse di giurare, vi rifiutereste, perché per timore del sacro voi restate sempre a metà strada. Contro il sacro voi non avete alcuna volontà propria. Voi mentite – con misura, così come siete liberi “con misura”, religiosi “con misura” (il clero non deve “passar la misura”, come si dice in questa scipitissima polemica che l’università sta conducendo contro la Chiesa), monarchici “con misura” (voi volete un monarca limitato dalla carta costituzionale), moderati per benino, tiepidi e insipidi, mezzi di Dio e mezzi del diavolo». (Ib., pp. 224-225). Queste tesi di Stirner sono la sola risposta onesta che è possibile rivolgere di fronte al problema del falso. Non mi fa tremare le vene e i polsi il problema di “dire il falso”, non tremo di certo di fronte al nemico che pretende di farmi dire qualcosa che danneggerebbe non solo me stesso, il che potrebbe anche essere un modo relativamente facile per sottrarmi a una situazione complessa impossibile da affrontare con dignità, ma i miei compagni e tutto il lavoro rivoluzionario che insieme stiamo portando avanti. Abbattere i mostri è cancellare l’osceno dalla normalità del mondo. La paura mi fa fare gesti che non mi sognerei mai di fare. Dopo che la normalità livellatrice è stata ristabilita, canto, il poeta alza la testa e sorride al mondo liquefatto. La meraviglia è stata rinviata indietro, racchiusa e codificata, adesso non meraviglia più, adesso disgusta. Nemmeno la convivenza con il mostro è accettabile. Lo devo in questo caso addomesticare, fare in modo che risponda correttamente alle mie domande, che indichi con orgoglio, con il mio orgoglio, le mie conquiste che per lui sono strame. No, nemmeno così il mostro è salvato, e con lui l’estrema verità delle cose. Più facile ucciderlo. Virtù che salva dall’eccesso. Mediare è destino del fare, accettare modulando equilibri in modo che la sofferenza sia equamente ripartita. Il rinvio alla verità è fatto in modo che non arrechi disturbo, la volontà controlla e non perde occasione di tenere a bada gli eccessi. Revoca le concessioni alla diversità in modo che non ci siano squilibri gravi, è graduale e provvisoria, dogmatica e possibilista. Mi rifiuto di farmi castrare, non voglio accettare la divisa di agnellino, ma non sono un ribelle. Il mio desiderio non è mai stato quello del vincitore del drago. Non ho mai avuto paura del mostruoso, nemmeno morboso desiderio di osservarlo. L’osservazione del mostro è lontananza e presa di distanze, tentativo di tenerlo a distanza, di bonificarlo. I distruttori fanatici dei mostri sono mostri essi stessi, vogliono dominare i recessi dove temono di sperdersi. La caverna del drago li attira e fa loro paura. Per me è una caccia di poco interesse, non voglio vincere la riluttanza a essere catalogato, sono io stesso un disertore del catalogo e non posso non nutrire una simpatia radicale per tutti coloro che rinunciano al dominio. I processi inquisitivi mi fanno ribrezzo e spesso trovo una nuova forma di vigliaccheria nell’inseguire povere creature spaventevoli. Siamo tutti mostri, e chi non lo sa è più mostruoso degli altri, alla fine non è possibile la salvezza. Non ho scoperto nulla, sono andato in giro per il mondo e me ne torno a mani vuote. Quello che ho raccolto spesso non so interpretarlo e mi avvizzisce tra le mani. Non vinco e non perdo, non trattengo fra le braccia perché non so cosa trattenere. Figure appaiono e poi spariscono, si immergono in un orizzonte di nebbia senza fine. Lasciano indizi, questo è vero, tracce luminose, ma non posso seguirle, il loro interrotto messaggio si proietta nel silenzio. L’eccesso potrebbe condurmi da loro, ma non c’è eccesso nella prigione dove mi trovo, anche se tutto all’apparenza suona eccessivo e sgradevole, inumano. Ma è proprio questa prigione la normalità, qui dove mi trovo alberga l’ottusità più ortodossa. Nessuna spiegazione sociologica potrà mai fare capire l’origine di questo capolavoro dell’orrore. Gli accordi tra ciò che dico e ciò che accade non sono fissi, si modulano in mille maniere e, alla fine, danno vita a un sogno senza fine, quello che si spaccia come descrizione della verità. Prevedere confini e organizzare rapporti è compito della parola, ma si basa sul sogno di completezza che innerva ogni relazione di tutte le trascurabili formiche che popolano il mondo. Non c’è qualcuno che possa testimoniare della verità, non c’è un capo di accusa che regga di fronte al groviglio di relazioni che vengono prodotte dalla modificazione. Il serpente del rito avvolge il mondo nelle sue spire e lo soffoca. Non c’è un modo di uscire da queste spire con un ulteriore avvolgimento, occorre rompere e dare segni diversi, interpretazioni diverse, doni diversi. Ma non posso volere fare un dono, il dono ne verrebbe impoverito e non mi porterebbe con sé, ed è con il dono che occorre andare via, con il dono dell’opulenta estate non del povero inverno.

Se il falso è l’arma del potere, su scala generalizzata per controllare e opprimere, nella sfera individuale esso può diventare l’arma ultima, e radicale, della resistenza contro il potere. Quando Tommaso Campanella agli inquisitori rispondeva sempre con la frase: “Sei cavalli bianchi”, lo faceva per sfuggire alla condanna al rogo (un pazzo non poteva essere condannato a morte) e per continuare in futuro (nel suo caso dopo più di trent’anni di carcere), la propria attività rivoluzionaria.

«Io ho fondato la mia causa su nulla». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., p. 270).


[2004]

I due estremi della medesima tesi

Fra le tante tesi sviluppate attorno al problema del falso come strumento di lotta, nel 1978 si vennero delineando due posizioni antitetiche, nettamente in contrasto, sostenuta una da Franco Leggio, con l’articolo “I falsari della rivolta a...narchica”, e una da Franco Lombardi, con l’articolo “Ancora sul falso e sul problema della comunicazione”, ambedue pubblicati sui nn. 23-24 di “Anarchismo”, che qui riproduciamo. Nel frattempo si erano diffusi molti altri falsi, non solo in Italia, e l’argomento, adesso, meriterebbe una ricerca più approfondita che non mi pare opportuno sviluppare qui.

Scrive Franco Leggio: «Mi è capitato di leggere un ciclostilato sui “falsi richiami alle armi” che un “Collettivo del Contropotere” va diffondendo per rivendicare “l’uso del falso come strumento politico” oltre logicamente “la diffusione dei falsi richiami alle armi” che danno “come un’azione politica di lotta contro le strutture militari”. Dopo la “musica”, il “sesso”, la “droga”, la “minigonna”, gli “zoccoli di legno”, l’“angoscia”, lo “Zen”, i “tarocchi”, l’“esoterismo”, la “magia” e altre cazzate del genere, sta diventando di moda il Falso. Nel gran merdaio capitalista-statolatra ove il falso (il vero falso) è imperativo di sopravvivenza, una pisciatina di falso (di falso veramente falso) “rivoluzionario” chissà che fiammata... goliardica darà al mondo e all’umanità! Staremo a vedere.

«Intanto, i nostri del “Collettivo del Contropotere”, in una estesa nota introduttiva ci vengono a spiegare che: “Questo tipo di lotta è importante perché ottiene un duplice risultato: da una parte si costringe il potere a smentirsi, svelando la propria natura, dall’altra si mina la credibilità delle istituzioni [...] al punto di rendere inverosimile qualsiasi notizia ufficiale”. Se ci si avesse pensato prima! I “nostri” continuano: “Inoltre si provocano in modo shockante le persone inducendole forzatamente (il sottolineato è mio) a pensare a cose che le avrebbero lasciate indifferenti...”. E come se non bastasse (e già, la rivoluzione non è cosa semplice e facile!), aggiungono (cioè, insinuano) che “da sempre (sic!) i rivoluzionari (chi? dove?) sono stati anche falsari”. E, avvertendo che “questo strumento di lotta va perfezionato” ti lanciano la bordata decisiva: “Sembra che i servizi di sicurezza siano rimasti scossi da tanto ardire (c’è di mezzo nientemeno che il ministero della difesa)”! Sono argomenti così fascinosi e definitivi che, pare, molti militanti – anche anarchici – si vanno a iscrivere alla nuova scuola e progettano di praticare il “nuovo metodo” su larga scala e già pregustano risultati talmente strabilianti da offuscare, ridicolizzare, annientare ogni uso del vero, la ricerca della verità, la verità come metodo di propaganda, di lotta e di azione rivoluzionaria individuale e collettiva.

«La “cosa” non è di poco conto ed io sono molto perplesso anche per il fatto che nessuno – anarchico o rivoluzionario, libertario o militante del movimento – abbia trovato da obiettare. Vuol dire che proprio tutto il movimento (e in particolare mi riferisco agli anarchici) sia già schierato sulla linea che sostiene il “falso” come “metodo” e “strumento” di lotta politica e rivoluzionaria talmente valido ed efficace da assumerlo e farlo proprio, propagandarlo e praticarlo? Possibile che tutti gli anarchici siano arrivati a tal grado di paranoia da ritenere il metodo del falso coerente e conseguente con l’anarchismo e la propaganda e la lotta e l’azione che l’anarchismo postula contro lo Stato e i Mostri e gli Dèi Falsi e bugiardi? Se per dannata ipotesi così fosse, io, magari ad essere il solo, voglio lo stesso esprimere pubblicamente il mio totale dissenso e il mio rifiuto a questo “metodo” perché lo considero ingannevole, deviante, controproducente, pericoloso, ridicolo, contrario all’affermazione della prospettiva, contrario alll’affermazione dell’identità che il militante rivoluzionario anarchico si deve forgiare e consapevolmente assumere.

«A me pare che i patrocinatori entusiasti del falso come metodo di lotta e di propaganda rivoluzionaria non tengono nel dovuto contro che l’assumerlo così come fanno loro – ma anche oggettivamente – è dimostrazione d’impotenza e di incapacità (“non riesco in altro modo, ripiego e adotto quest’altro, che oltretutto non danneggia nemmeno me, e poi fa anche ridere la gente”).

«A questo punto ricordare la favoletta del pastorello e del lupo mi sembra più che opportuno.

«Può sembrare (e forse lo è) puerile, ma io sono convinto che il falso è sempre più facile che venga ben manipolato e sfruttato dai furfanti privati e di Stato, dai preti, dai magistrati, dai militari e dagli sfruttatori di ogni risma e colore, i quali tutti, senza scrupoli come sono, ne hanno tratto, ne traggono e ne trarranno vantaggio e potere e ferocia. Dobbiamo noi rivoluzionari anarchici metterci in concorrenza con detti maiali e assassini?

«Insomma, diciamolo chiaramente: un conto è falsificare il passaporto, le proprie generalità, la propria residenza o nascondiglio, i propri movimenti, la propria fisionomia, il proprio nome, le proprie abitudini, il proprio abbigliamento, e ben altro conto è quello di adottare il falso come metodo, come propaganda, tattica, come lotta. Un conto è far circolare, propagandare, la falsa notizia che la Standa (o Corel, o Bata, o uno dei tantissimi Supermarket delle multinazionali) distribuisce gratuitamente la merce dei propri magazzini e tutt’altro conto è propagandare o meglio praticare l’espropriazione, gli espropri proletari. Nel primo caso la gente, i proletari, si vedrebbero ingannati e derisi, presi per il culo. Nell’altro... magari aspetteranno la buona occasione che i rivoluzionari devono studiarsi di creare, realizzare. Un conto è indicare un falso obiettivo per attaccare e distruggere quello che veramente si è deciso di colpire e far saltare in aria, e ben altro conto misero e ridicolo è quello di giocare con i... “falsi richiami alle armi”. Un conto è falsificare i modi e i mezzi di trasportare e diffondere un giornale, un volantino, un opuscoletto “non autorizzato”, stampato alla macchia, e ben altro conto cretino e idiota è quello di riempirli di falsi (tanto varrebbe diffondere “L’Unità”, o “Il Popolo” o “Il Corrierone”)! Un conto è mettere in giro la falsa voce che si può viaggiare gratuitamente (ma chi sarebbe quell’idiota che prima di correre alla stazione o all’aeroporto non farebbe una telefonata per averne conferma?), e ben altro conto è quello di convincere e spingere ferrovieri e autisti che invece di fare un ennesimo sciopero fasullo che magari riuscirà a far fermare tutti i treni ma che più treni farà fermare più fastidio, danno e irritazione arrecherà alle migliaia di lavoratori e proletari (e son ben questi che viaggiano sui treni!), sarebbe più producente, più efficace, più rivoluzionario praticare la non collaborazione facendo cioè correre i treni (senza le “prime classi” e bloccando i treni di lusso e i treni merci) e non chiedendo i biglietti ai viaggiatori, anzi solidarizzando con questi e magari rivestendo tutte le vetture e le macchine di bandiere rosso-nere. Certo è un po’... più difficile, più complicato, più rischioso del far circolare la notizia falsa. Non si gioca... con la guerra e coi... Mostri. O si ha la forza, il coraggio, la capacità e i coglioni di saltare al collo del nemico, di distribuire sventagliate di mitra, di far saltare cariche di dinamite e incediare, incendiare e bruciare e organizzarsi per tutte queste cose o è perfettamente, veramente un’impostura menzognera e ingannatrice sostituirle con il falso come metodo-strumento di lotta e propaganda. È perfettamente inutile, anzi è terribilmente idiota correre dietro le... BR e scimmiottarne le azioni e la guerra guerreggiata (queste sì vere!) con i falsi. Non si farebbe, non si fa che portare... credibilità e nuovi combattenti alle BR (cioè allo stalinismo, al comunismo da caserma militare o da convento tardo-cristiano). E per contro sarebbe denigrare la verità e l’anarchismo, ridicolizzarli, svuotarli di quella carica che né il tempo né i repressori più feroci sono riusciti a coartare del tutto e a distruggere.

«Prima di chiudere voglio ritornare brevissimamente al Ciclostilato del “Collettivo del Contropotere”. L’Azione specifica tanto esaltata nel ciclostilato a me sembra che contrariamente a quanto si vuole affermare non fa altro che ridicolizzare e svuotare di contenuti l’antimilitarismo anarchico, l’obiezione di coscienza totale dei compagni che per praticarla si trovano in galera. E inoltre, ad assumerla come metodo, propagandarla e praticarla verrebbe ad abituare le persone non a lottare contro ma a giocare con i mostri i quali stanno benissimo ai giochi così innocui e ai falsi così risibili, tenendosi sempre pronti alla zampata repressiva o assassina. E in più, finirebbe coll’infastidire le persone che si vedrebbero presi per il culo e ingannate. E finirebbero con il girarci le spalle...».

Franco Leggio


«Poiché l’articolo del compagno Bonanno: “Il falso come strumento di lotta”, apparso sul n. 20 di “Anarchismo” [si trova adesso nel libro Chi ha paura della rivoluzione? Ricominciamo daccapo, seconda edizione, Catania 1986, pp. 108-115], oltre ad aver evidentemente colto una realtà emergente (in questo stesso numero diamo conto di due esempi di azioni nelle quali i compagni hanno in qualche modo fatto uso del falso), comincia anche a suscitare un certo dibattito e poiché l’argomento ci pare interessante, non essendo confinato ai puri cieli della teoria, riteniamo di dire qualcosa a tale proposito.

«Faremo riferimento innanzitutto proprio all’articolo del compagno Leggio che pubblichiamo, anche perché costituisce finora l’unica voce contraria che ci è pervenuta (ma siamo certi che quelle posizioni non sono solo sue), anche se c’è da rammaricarsi del fatto che lo stesso compagno, chiaramente e sinceramente preoccupato da azioni che, secondo lui, danneggerebbero il nostro movimento, si lasci un po’ prendere la mano e finisca talvolta per insultare più che criticare e giunge quasi ad assumere a sua volta il falso come strumento, mutilando e stravolgendo nel loro senso le affermazioni dei compagni del Collettivo del Contropotere.

«Ma, al di là di questi eccessi polemici, lo scritto del compagno Leggio è interessante in quanto ci permette di approfondire la discussione su una proposta di lotta i cui contorni forse non sono ancora chiaramente definiti.

Infatti, se c’è qualcosa che ci sentiamo di far nostro in quanto scritto da Franco Leggio è il timore che lo strumento del falso si trasformi in una specie di moda, venga cioè assunto e consumato acriticamente dai compagni per la sua apparenza, senza verificare a fondo la sostanza di ciò che si vuole comunicare attraverso quel mezzo. Se questo metodo viene usato come un divertimento fine a se stesso, finisce per trasformarsi in un giocattolo innocuo, in un passatempo che il potere non avrà certamente difficoltà a concederci e c’è da temere che un abuso in questo senso finisca per svuotare di significato anche un uso più appropriato ed incisivo del “falso”.

«Ci pare però che le preoccupazioni del compagno Leggio si indirizzino in un senso sbagliato. Sembra infatti che per lui si tratti di un problema di credibilità dei rivoluzionari e non invece di un problema di credibilità dei meccanismi di acquisizione del consenso da parte del potere, che sono proprio quelli che l’uso del falso dovrebbe disarticolare e rendere non più credibili, cioè inservibili. Evidentemente ci sono dei malintesi che sarà utile cercare di chiarire.

«Pensiamo innanzitutto che nessuno abbia mai pensato di sostituire con l’uso del falso tutta l’attività dei rivoluzionari e che l’unico ad avere le idee confuse in proposito sia proprio il compagno Leggio (“O si ha la forza, il coraggio, la capacità e i coglioni – ?! ‘I coglioni?!, compagno?’ – di saltare al collo del nemico, di distribuire sventagliate di mitra, di far saltare cariche di dinamite e incendiare, incendiare e bruciare e organizzarsi per tutte queste cose, o è perfettamente, veramente un’impostura menzognera e ingannatrice sostituirle con il falso...”).

«Ci pare chiaro che il compagno Leggio, nella sua foga polemica, abbia purtroppo scambiato lucciole per lanterne. Esamini con un po’ di attenzione il problema e si renderà conto che nessuno pensa di sostituire il falso al proprio coraggio e alla dinamite, ma che si tratta molto più semplicemente di trovare il modo di aggiungere intelligentemente un nuovo strumento al fianco di altri che non possono venire surrogati.

«E ci pare che egli non si accorga neppure che gli esempi di azione da lui proposti come antitesi al falso non siano in realtà affatto antitetici, bensì complementari, anche se a volte le sue proposte ci sembrano, in realtà, piuttosto semplicistiche e buttate là alla meno peggio.

«Il problema reale, forse, è che il compagno Leggio sembra non rendersi conto che né il mitra né la dinamite (né tantomeno i “coglioni”, per fortuna) sono strumenti universalmente validi ed autosufficienti, pur se indispensabili (a parte, di nuovo, quei misteriosi “coglioni”), per condurre la guerra di classe, che ha fronti ben più vasti ed articolati di quelli immaginati da chi vorrebbe risolverla con un colpo di mano del “partito combattente”.

«Se è vero che il potere si serve, per mantenere assoggettata l’immensa maggioranza dell’umanità, non solo delle armi dei suoi sgherri (alle quali è necessario opporre le armi dei rivoluzionari), ma anche di un uso generalizzato e costante della falsificazione, gestita attraverso i canali che hanno assunto presso miliardi di persone una credibilità di stampo religioso, allora è indubbiamente necessario non solo rivolgere le armi contro i “padroni della guerra”, ma anche rivolgerli contro chi gestisce i mezzi di indottrinamento di massa.

«Il cumulo di cazzate, di falsità spudorate, che un fogliaccio come “L’Unità” somministra quotidianamente ai suoi numerosi fedeli vengono da questi assunte come altrettante verità sacrosante semplicemente in base al dogma che “L’Unità” (o la televisione, o la radio, o la “Gazzetta Ufficiale”) non può mentire.

«Ora non si tratta, come sembra fraintendere il compagno Leggio, di contrastare questo cumulo di menzogne con un equivalente cumulo di menzogne di marca anarchica. Non si tratta di fornire a nostra volta una ulteriore visione mistificata della realtà per crearci il nostro personale stuolo di fedeli, convinti che “Anarchismo” o “Umanità Nova” non possono mentire, ma invece di porre la gente in condizione di accorgersi che anche “L’Unità” (o la RAI-TV o il porcodiddio) dice il falso.

«Non si tratta di dare ad intendere che alla Standa, o in qualunque altro posto, ci si possa servire gratis (cosa che del resto sarebbe assolutamente giusta e dunque, in questo senso, niente affatto “falsa”), ma, invece, di porre concretamente la gente di fronte alla realtà del furto quotidiano perpetrato ai suoi danni dal capitale, e costringere questo ultimo a gettare la maschera della mistificazione economica che ne nasconde l’essenza.

«Può l’uso del falso servire a molti di questi scopi? Riteniamo di sì.

«È l’unico strumento che è opportuno usare a questi scopi? Certamente no.

«Partendo da questi termini pensiamo che il discorso possa essere ancora sviluppato.

«È noto che vi fu un periodo in cui alcuni compagni pensarono che attraverso un uso massiccio della falsificazione della carta moneta, si sarebbe giunti a fare crollare il capitalismo e perciò dedicarono a questa attività tutte le loro forze. Si trattava, evidentemente, di un eccesso di semplicismo.

«È tuttavia innegabile che avere a disposizione una certa quantità di banconote abilmente contraffatte, oltre a provocare un relativo danno al complesso sistema monetario, renda di più facile soluzione alcuni dei problemi che si pongono quotidianamente di fronte ad ogni sfruttato.

«Nell’attuale dominio dell’assurdità e dell’apparenza, vi sono migliaia di possibilità che vengono sancite da pezzi di carta molto più facilmente riproducibili delle banconote. Oltre ai vari documenti, tessere, lasciapassare, eccetera, basterà pensare che basta l’affissione di un manifesto intestato e firmato in un certo modo per mettere automaticamente in moto sommovimenti e meccanismi sociali di vastissima portata (chiamate alle armi, pagamento di tasse e gabelle varie, scioperi, manifestazioni, ecc.).

«Basta leggere in un muro che “Il Sindaco ordina che venga pagata la tassa sui muli” o che “il Sindacato invita i lavoratori a manifestare” perché una fiumana di proprietari di muli o di metalmeccanici si metta in moto per eseguire l’ordine.

«O ancora, basta che un annunciatore del telegiornale affermi che “lo sciopero generale indetto per domani è stato revocato in seguito agli accordi raggiunti...” perché le masse lavoratrici si sentano automaticamente sollevate da ogni necessità di lotta.

«In tali condizioni è chiaro che la gestione del potere si avvia a raggiungere livelli ottimali, nei quali il meccanismo del dominio funziona e si perpetua da solo in base ad un rapporto di fede coi propri sottoposti. In questo caso gli strumenti di repressione possono venire dedicati totalmente alla cura dei limitati casi di devianza sovversiva e criminale, facilmente giustificabili come fenomeni patologici inevitabili e da estirpare.

«Quando per mandare i proletari a macellarsi non sono più necessarie le decimazioni, ma basta la cartolina precetto, i plotoni di esecuzione possono dedicarsi con cura allo sterminio delle minoranze rivoluzionarie. Per questo riteniamo che lo svolgimento di questi strumenti di controllo dei comportamenti di massa basati sulla “fede pubblica” non sia un semplice passatempo goliardico o un ripiego, ma costituisca invece una necessità imprescindibile per i rivoluzionari.

«Che senso ha azzoppare un servo del potere e poi rivendicare e spiegare l’azione con un volantino che verrà sistematicamente ignorato dai mezzi di comunicazione, in modo tale che non solo praticamente nessuno ne verrà a conoscenza, ma a tutti verrà somministrata una versione falsa e stravolta dei fatti che verrà quasi sempre presa per oro colato? Resta, senza dubbio, il senso di aver eliminato o messo fuori uso un nemico, ma tutte le potenzialità di indicazione e di incitamento che un tale atto contiene rimangono inespresse.

«Né su questi livelli è possibile sperare di coinvolgere le pavide forze cosiddette “autenticamente democratiche” in una campagna di controinformazione: il caso Moro dovrebbe ben averci insegnato qualcosa a riguardo di questa gentaglia. Tali forze “democratiche”, la stampa cosiddetta di “sinistra”, sono ormai definitivamente arruolate in servizio permanente effettivo per fornire il fuoco di copertura agli assalti antirivoluzionari dei marines di Dalla Chiesa.

«Se nel 1970 questa accozzaglia di arrivisti, intellettuali a cottimo e venditori di idiotismo progressista, aveva fatto il calcolo di schierarsi convenientemente dalla parte della controinformazione gestita dai compagni, per condurre vittoriosamente a termine la propria guerra privata contro l’opposta fazione di scribacchini imbecilli di destra, oggi tutti costoro aspettano solo le veline degli appelli antiterroristici stilati dal Viminale o dalle Botteghe Oscure per apporvi le loro poco onorate firme.

«Dunque, i rivoluzionari oggi devono (finalmente?) fare i conti con le sole proprie forze per contrastare la montante marea di menzogne quotidianamente cucinate dai centri di potere, condite di sinistrismo degli intellettuali a gettone e servite sul piatto d’argento della grande stampa. Se queste forze debbono essere limitate ai pochi spazi “garantiti” che il potere ci concede per salvare la facciata liberista e democratica, allora saremo costretti ad una inutile battaglia a colpi di spillo, condotta su terreni predeterminati dall’avversario e nella quale non abbiamo possibilità di successo.

«È dunque assolutamente necessario essere in grado di affiancare alla capacità di colpire il nemico, l’intelligenza di saper gestire l’informazione sulla nostra azione.

«Ciò significa, in primo luogo, riuscire a togliere credibilità alle menzogne istituzionali e ai canali attraverso i quali esse vengono trasformate in dogmi e poi diffuse e, in secondo luogo, sapere sfruttare ogni possibilità esistente per generalizzare la diffusione della nostra verità. Questa verità non risiede nel fatto di essere stati unti da qualche ideologia infallibile che ci rende immuni da errori, ma nel significato sociale delle nostre azioni, ben più che delle nostre parole.

«Un noto slogan del maggio francese avvertiva che quando il dito indica la luna l’imbecille guarda il dito. Riteniamo, conoscendolo, che il compagno Leggio sia tutt’altro che un imbecille, e dunque non possiamo che stupirci del fatto che egli non abbia capito che la falsificazione che si propone riguarda appunto il dito e non la luna ed abbia così finito per stravolgere anche il significato dell’azione dei compagni di Torino, che riteniamo invece costituisca l’indicazione più interessante fra quelle finora prodotte in questo campo.

«Noi non abbiamo e, per quanto ci riguarda, non intendiamo neppure avere, nessuna liturgia da conservare incontaminata, nessuna ragione sociale il cui buon nome vada preservato. Siamo addirittura spaventati dall’ipotesi che qualcuno ci segua, perché il nostro nome “vuol dire fiducia”, come i famosi formaggini. E pertanto non abbiamo timore di sporcarci le mani con strumenti che colpiscano le suscettibilità o il perbenismo della gente poiché, lo ripetiamo, il nostro scopo non è quello di formarci un esercito di fedeli da imbonire, o da ingannare, ma è invece quello di indicare agli sfruttati dove si annida il nemico, di che forma esteriore si ammanta, attraverso quali meccanismi perpetua il suo dominio e quindi innescare un processo di attacco generalizzato e diffuso che possa tendenzialmente sfociare in un evento insurrezionale.

«È fuori discussione che questo attacco dovrà essere gestito individualmente e collettivamente dagli sfruttati stessi e non certo da qualche specialista degno di fiducia (fosse anche il più anarchico degli anarchici) al di fuori di loro.

«E ancora, ci stupisce che il compagno Leggio accenni a rispolverare l’ormai risaputa problematica del rapporto mezzi-fine, chiedendosi come si possa “ritenere il metodo del falso coerente e conseguente con l’anarchismo”, proprio lui che pochi capoversi dopo si lancia in un panegirico della insostituibilità della dinamite, della mitraglia e dei “coglioni”, tutti mezzi che hanno ben poco di coerente e di conseguente con la visione ideale dell’anarchismo.

«È un argomento che è stato già trattato ampiamente su queste pagine e che, soprattutto, ha trovato una sua ben precisa definizione nella pratica del movimento rivoluzionario, oggi e ieri. Ci sembrerebbe dunque un insulto all’intelligenza nostra e del compagno Leggio, tornare a riproporlo nei suoi termini arcinoti. L’importante è evitare che quello che è, e deve rimanere, un semplice strumento, si trasformi in qualche modo in un contenuto e invece di essere controllato da noi prenda il sopravvento sulla nostra iniziale volontà.

«Se ciò che diciamo, che facciamo o che proponiamo è sostanzialmente corretto, cioè va nel senso dell’attacco al sistema di dominio, ha ben poca rilevanza il fatto che l’involucro che lo contiene e che serve a trasmetterlo sia più o meno “falso”.

«Oggi la gente è effettivamente e continuamente “presa per il culo” proprio perché inghiotte quotidianamente un cumulo di idiozie e menzogne, prendendole per buone solo perché ritiene che l’involucro che le contiene sia assolutamente degno di fede. Sta a noi rovesciare i termini della questione, senza restare impelagati in assurdi moralismi di nessun genere».

Franco Lombardi

Giacomo Leopardi. L’universo non ha causa fuori di sé

Operette Morali: XIX.

Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco

Questo Frammento, che io per passatempo ho recato dal greco in volgare, è tratto da un codice a penna che trovavasi alcuni anni sono, e forse ancora si trova, nella libreria dei monaci del monte Athos. Lo intitolo Frammento apocrifo perché, come ognuno può vedere, le cose che si leggono nel capitolo della fine del mondo, non possono essere state scritte se non poco tempo addietro, laddove Stratone da Lampsaco, filosofo peripatetico, detto il fisico, visse da trecento anni avanti l’era cristiana. È ben vero che il capitolo della origine del mondo concorda a un di presso con quel poco che abbiamo delle opinioni di quel filosofo negli scrittori antichi. E però si potrebbe credere che il primo capitolo, anzi forse ancora il principio dell’altro, sieno veramente di Stratone, il resto vi sia stato aggiunto da qualche dotto greco non prima del secolo passato. Giudichino gli eruditi lettori.

Della origine del mondo

Le cose materiali, siccome elle periscono tutte ed hanno fine, così tutte ebbero incominciamento. Ma la materia stessa niuno incominciamento ebbe, cioè a dire che ella è per sua propria forza ab eterno. Imperocché se dal vedere che le cose materiali crescono e diminuiscono e all’ultimo si dissolvono, conchiudesi che elle non sono per sé, né ab eterno, ma incominciate e prodotte, per lo contrario quello che mai non cresce né scema e mai non perisce, si dovrà giudicare che mai non cominciasse e che non provenga da causa alcuna. E certamente in niun modo si potrebbe provare che delle due argomentazioni, se questa fosse falsa, quella fosse pur vera. Ma poiché noi siamo certi quella esser vera, il medesimo abbiamo a concedere anco dell’altra. Ora noi veggiamo che la materia non si accresce mai di una eziandio menoma quantità, niuna anco menoma parte della materia si perde, in guisa che essa materia non è sottoposta a perire. Per tanto i diversi modi di essere della materia, i quali si valgono in quelle che noi chiamiamo creature materiali, sono caduchi e passeggeri; ma niun segno di caducità né di mortalità si scuopre nella materia universalmente, e però niun segno che ella sia cominciata, né che ad essere le bisognasse o pur le bisogni alcuna causa o forza fuori di sé. Il mondo, cioè l’essere della materia in un cotal modo, è cosa incominciata e caduca. Ora diremo della origine del mondo.

La materia in universale, siccome in particolare le piante e le creature animate, ha in sé per natura una o più forze sue proprie, che l’agitano e muovono in diversissime guise continuamente. Le quali forze noi possiamo congetturare ed anco denominare dai loro effetti, ma non conoscere in sé, né scoprir la natura loro. Né anche possiamo sapere se quegli effetti che da noi si riferiscono a una stessa forza, procedano veramente da una o da più, e se per contrario quelle forze che noi significhiamo con diversi nomi, sieno veramente diverse forze, o pure una stessa. Siccome tutto dì nell’uomo con diversi vocaboli si dinota una sola passione o forza: per modo di esempio, l’ambizione, l’amor del piacere e simili, da ciascuna delle quali fonti derivano effetti talora semplicemente diversi, talora eziandio contrari a quei delle altre, sono in fatti una medesima passione, cioè l’amor di se stesso, il quale opera in diversi casi diversamente. Queste forze adunque o si debba dire questa forza della materia, movendola, come abbiamo detto, ed agitandola di continuo, forma di essa materia innumerabili creature, cioè la modifica in variatissime guise. Le quali creature, comprendendole tutte insieme, e considerandole siccome distribuite in certi generi e certe specie, e congiunte tra sé con certi tali ordini e certe tali relazioni che provengono dalla loro natura, si chiamano mondo. Ma imperciocché la detta forza non resta mai di operare e di modificare la materia, però quelle creature che essa continuamente forma, essa altresì le distrugge, formando della materia loro nuove creature. Insino a tanto che distruggendosi le creature individuo, i generi nondimeno e le specie delle medesime si mantengono, o tutte o le più, e che gli ordini e le relazioni naturali delle cose non si cangiano o in tutto o nella più parte, si dice durare ancora quel cotal mondo. Ma infiniti mondi quello spazio infinito della eternità, essendo durati più o men tempo, finalmente sono venuti meno, perdutisi per li continui rivolgimenti della materia, cagionati dalla predetta forza, quei esseri e quelle specie onde essi mondi si componevano, e mancate quelle relazioni e quegli ordini che li governavano. Né perciò la materia è venuta meno in qual si sia particella, ma solo sono mancati que’suoi tali modi di essere, succedendo immantinente a ciascuno di loro un altro modo, cioè un altro mondo, di mano in mano.

Della fine del mondo

Questo mondo presente del quale gli uomini sono parte, cioè a dir l’una delle specie delle quali esso è composto, quanto tempo sia durato fin qui non si può facilmente dire, come né anche si può conoscere quanto tempo esso sia per durare da questo innanzi. Gli ordini che lo reggono paiono immutabili, e tali sono creduti, perciocché essi non si mutano se non che a poco a poco e con lunghezza incomprensibile di tempo, per modo che le mutazioni loro non cadono appena sotto il conoscimento, non che sotto i sensi dell’uomo. La quale lunghezza di tempo, quanta che ella si sia, e ciò non ostante menoma per rispetto alla durazione eterna della materia. Vedesi in questo presente mondo un continuo perire degl’individui ed un continuo trasformarsi delle cose da una e in altra; ma perciocché la distruzione compensata continuamente dalla produzione, e i generi si conservano, stimasi che esso mondo non abbia né sia per avere in sé alcuna causa per la quale debba né possa perire, e che non dimostri alcun segno di caducità. Nondimeno si può pur conoscere il contrario, e ciò da più d’uno indizio, ma tra gli altri da questo.

Sappiamo che la terra, a cagione del suo perpetuo rivolgersi intorno al proprio asse, fuggendo dal centro le parti dintorno all’equatore, e però spingendosi verso il centro quelle dintorno ai poli, è cangiata di figura e continuamente cangiasi, divenendo intorno all’equatore ogni dì più ricolma, e per lo contrario intorno ai poli sempre più deprimendosi. Or dunque da ciò debbe avvenire che in capo di certo tempo, la quantità del quale, avvengaché sia misurabile in sé, non può essere conosciuta dagli uomini, la terra si appiani di acqua e dall’equatore per modo che, perduta al tutto la figura globosa, si riduca in forma di una tavola sottile ritonda. Questa ruota aggirandosi pur di continuo dattorno al suo centro, attenuata tuttavia più e dilatata, a lungo andare, fuggendo dal centro tutte le sue parti, riuscirà traforata nel mezzo. Il qual foro ampliandosi a cerchio di giorno in giorno, la terra ridotta per cotal modo a figura di uno anello, ultimamente andrà in pezzi; i quali usciti della presente orbita della terra, e perduto il movimento circolare, precipiteranno nel sole o forse in qualche pianeta.

Potrebbesi per avventura in confermazione di questo discorso addurre un esempio, io voglio dire dell’anello di Saturno, della natura del quale non si accordano tra loro i fisici. E quantunque nuova e inaudita, forse non sarebbe perciò inverosimile congettura il presumere che il detto anello fosse in principio uno dei pianeti minori destinati alla sequela di Saturno, indi appianato e poscia traforato nel mezzo per cagioni conformi a quelle che abbiamo dette della terra, ma più presto assai, per essere di materia forse più rara e più molle, cadesse dalla sua orbita nel pianeta di Saturno, dal quale colla virtù attrattiva della sua massa e del suo centro, sia ritenuto, siccome lo veggiamo essere veramente, dintorno a esso centro. E si potrebbe credere che questo anello, continuando ancora a rivolgersi, come pur fa, intorno al suo mezzo, che è medesimamente quello del globo di Saturno, sempre più si assottigli e dilati, e sempre si accresca quello intervallo che è tra esso e il predetto globo, quantunque ciò accada troppo più lentamente di quello che si richiederebbe a voler che tali mutazioni fossero potute notare e conoscere dagli uomini, massime così distanti. Queste cose, o seriamente o da scherzo, sieno dette circa all’anello di Saturno.

Ora quel cangiamento che noi sappiamo essere intervenuto e intervenire ogni giorno alla figura della terra, non è dubbio alcuno che per le medesime cause non intervenga somigliantemente a quella di ciascun pianeta, comeché negli altri pianeti esso non ci sia così manifesto agli occhi come egli ci è pure in quello di Giove. Né solo a quelli che a similitudine della terra si aggirano intorno al sole, ma il medesimo senza alcun fallo interviene ancora a quei pianeti che ogni ragion vuole che si credano essere intorno a ciascuna stella. Per tanto in quel modo che si è divisato della terra, tutti i pianeti in capo di certo tempo, ridotti per se medesimi in pezzi, hanno a precipitare gli uni nel sole, gli altri nelle stelle loro. Stelle quali fiamme manifesto è che non pure alquanti o molti individui, ma universalmente quei generi e quelle specie che ora si contengono nella terra e nei pianeti, saranno distrutte insino, per dir così, dalla stirpe. E questo per avventura, o alcuna cosa a ciò somigliante, ebbero nell’animo quei filosofi, così greci come barbari, i quali affermarono dovere alla fine questo presente mondo perire di fuoco. Ma perciocché noi veggiamo che anco il sole si ruota dintorno al proprio asse, e quindi il medesimo si dee credere delle stelle, segue che l’uno e le altre in corso di tempo debbano non meno che i pianeti venire in dissoluzione, e le loro fiamme disperdersi nello spazio. In tal guisa adunque il moto circolare delle sfere mondane, il quale è principalissima parte dei presenti ordini naturali, e quasi principio e fonte della conservazione di questo universo, sarà causa altresì della distruzione di esso universo e di detti ordini.

Venuti meno i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si formeranno di queste nuove creature, distinte in nuovi generi e nuove specie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordini delle cose ed un nuovo mondo. Ma le qualità di questo e di quelli, siccome eziandio dell’innumerabili che già furono e degli altri infiniti che poi saranno, non possiamo noi né pur solamente congetturare.

Note

Questa ipotesi sulla fine della terra, sfera schiacciata ai poli destinata a schiacciarsi sempre più, e infine ad assumere la forma di un disco (Ercole la dice “una cialda”), e poi di un anello, e infine a dividersi in frammenti, va sottolineata perché Leopardi la pensa dovuta ad una forza disintegratrice, così da negare implicitamente l’esistenza di Dio.

Non occorre dire che in quanto sembra aderire alla concezione di Eraclito e dei filosofi indiani (barbari), lo Stratone di Leopardi, come peraltro ha notato egli stesso nel Preambolo, non ha i connotati del vero Stratone, è un nome utilizzato da lui per dare un sapore arcaico alle sue elucubrazioni, nulla più di un nome. È da notare che nello Zibaldone Leopardi parlava, nel 1827, del “sistema di Stratone da Lampsaco” come di un sistema da lui “spiegato in un’operetta a posta”, insistendo, anche in una notazione che scriveva solo per sé, nella finzione.

Anch’egli ha adesso «qualcosa da dire» e sa anche «come va detta» (Lettera al Giordani, 20 novembre 1820). Quanto alla vanità del tutto, è cosa che non lo spaventa, lo incoraggia se mai a non perdere tempo. Ma occorre riflettere sulla lingua, sullo stile da impiegare, sul modo di trattare la materia e le idee, ed esse, si badi, «quali sono oggi, non quali erano al tempo delle idee innate». (Lettera al Giordani, 13 luglio 1821). E meno di quindici giorni dopo, il 27 luglio, fisserà il programma del suo progetto nelle note pagine dello Zibaldone sulle “armi del ridicolo” nelle “novelle lucianee ch’io vo preparando”.

Sullo sfondo di una perduta e vagheggiata età dell’oro – quella rappresentata dalla società delle repubbliche antiche – prende così corpo, in un’età contrassegnata dai conflitti interni alla stessa società borghese, la contestazione totale, paradossale ed estremistica delle “sconvenienze appartenenti alla morale universale”, cioè la contestazione degli orientamenti appartenenti a una tradizione millenaria e quella dei suoi pregiudizi di natura religiosa e spiritualistica, il rifiuto delle credenze sulla perfettibilità limitata dell’uomo e della società, la loro negazione e la loro ripulsa. E proprio colui che aveva detto la ragione supplizio della nostra vita, ne farà l’arma acuminata della sua solitaria polemica. Trasformata in decisione satirica e in ribelle amarezza, la ragione è in realtà la grande forza che sostiene la costruzione delle Operette. Così Schopenhauer: «Ho lasciato all’illuminismo la sua sfera, dove a suo modo gli può venire la soluzione di tutti gli enigmi, senza per questo attraversarmi la strada o dover polemizzare contro di me. Nondimeno, molto spesso, alla base del razionalismo può essere un illuminismo travestito, verso il quale allora il filosofo guarda come verso una bussola nascosta, mentre, per sua stessa ammissione, egli regola il suo cammino solo sulle stelle, cioè sugli oggetti che esistono esteriormente e chiaramente, e tiene conto soltanto di questi. Ciò è ammissibile, perché un tal filosofo non si mette a comunicare la conoscenza incomunicabile, bensì le sue comunicazioni restano puramente oggettive e razionali. Questo può essere stato il caso di Platone, Spinoza, Malebranche e qualche altro; ma è cosa che non importa a nessuno, perché si tratta di segreti del loro cuore. Invece il clamoroso richiamarsi all’intuizione intellettuale e la sfrontata descrizione del contenuto di essa, il tutto accompagnato da pretese di validità oggettiva, come avviene in Fichte e Schelling, è qualcosa di spudorato e di spregevole». (Sulla filosofia e il suo metodo, in Parerga e paralipomena, vol. II, tr. it., Milano 1983, pp. 19-20).

Bruto minore – «Hanno questo di proprio le opere di genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia a un’anima grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e scoraggiamento della vita, servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo, e non trattando né rappresentando altro che la morte, le rendono, almeno momentaneamente, quella vita che aveva perduta». Zibaldone, 4 ottobre 1820.

Come nel cielo senza termine dell’esistenza, ove la distruzione si accompagna in perpetuo alla ricreazione, come nell’estrema consolazione di Plotino a Porfirio in cui si dichiara che nonostante l’accertata vanità del tutto, pure d’un subito le cose dell’uomo ripigliano la loro apparenza non mostrandosi indegne di qualche cura, così, forse senza ragione ma con verità, nell’eterno fluire del tempo e di ciò che esiste, il deserto certo della vita non cessa di accendersi del fuoco della speranza, e se la mente non ha esitazioni a riconoscerlo per ciò che è, vanità impotente a mutare le condizioni dell’universo, il cuore è pronto ad accoglierlo come confortevole illusione. Più che da una contraddizione, la vita dell’uomo e la sua realizzazione nell’arte sembrano provenire da un assurdo. Rappresentata, la vanità è annullata. «La controversia – precisa Schopenhauer –, la disputa su di un argomento teorico può, senza dubbio, riuscire molto feconda per i due partiti in essa implicati se corregge o conferma i pensieri che essi hanno, oppure se ne risveglia di nuovi. Si tratta di una frizione, o collisione di due cervelli, che spesso fa sprizzare scintille, ma è analoga alla collisione dei corpi, anche perché il più debole ne dovrà spesso soffrire, mentre il più forte vi si troverà a suo agio e non farà altro che cantar vittoria. Per questo si richiede che i due disputanti siano, almeno in una certa misura, l’uno all’altezza dell’altro sia per le conoscenze sia per intelligenza e abilità. Se all’uno mancano le prime, egli non è au niveau e perciò resta inaccessibile agli argomenti dell’altro: si trova, per così dire, fuori tiro. Se gli manca la seconda cosa, l’accanimento che per questa ragione ben presto si farà sentire in lui, lo indurrà un po’ alla volta a ricorrere nella disputa a ogni specie di disonestà, sofismi e scappatoie; se poi tutto questo gli venga dimostrato ciò lo farà addirittura diventare grossolano». (Logica e dialettica, in Parerga e paralipomena, op. cit., pp. 37-38).

Ma per potere giungere a tanto, per potere smentire l’intuizione di Omero sull’uomo principe tra gli infelici (Iliade, XVII, 446-7), per potere fare vita della morte, occorreva superare il meccanicismo materialistico non solo sul piano poetico, ma su quello logico-scientifico, occorreva dare voce alla scoperta che l’uomo ha creato se stesso mediante il proprio lavoro e senza l’intervento di potenze trascendenti. È ciò che fecero Marx ed Engels: “Se l’uomo è – nel significato materialistico – non libero (cioè se è libero non per la forza negativa di evitare questo o quello, ma per il potere positivo di fare valere la sua vera individualità), necessariamente non si deve punire il delitto nel singolo, ma distruggere i luoghi antisociali di nascita del delitto, e dare a ciascuno lo spazio sociale per l’estrinsecazione essenziale della propria vita”. Leopardi rimase estraneo a questa problematica, prigioniero del vecchio materialismo. Per esso l’esistenza e l’attività dell’uomo avevano infatti un puro carattere di oggetto, tale da poter essere superato solo in grazia di un arbitrio, così impostando un’etica soggettivistica e pertanto astratta. Allo stesso modo si potrebbe ricorrere alle affermazioni di Schopenhauer: «Quanto l’intelletto umano sia di regola poco adatto alla riflessione filosofica lo si vede tra l’altro nel fatto che ancor oggi, dopo tutto quel che ne è stato detto dai tempi di Cartesio, all’idealismo continua ad opporsi tranquillamente il realismo con l’ingenua affermazione che i corpi come tali non sarebbero soltanto nella nostra rappresentazione ma esisterebbero realmente e veracemente. Ma proprio questa stessa realtà, questo modo di esistenza con tutto ciò che esso contiene, è quella realtà della quale noi affermiamo che essa è presente soltanto nella rappresentazione e non è riscontrabile al di fuori di questa; giacché tale realtà è soltanto un certo necessario ordinamento dei collegamenti delle nostre rappresentazioni. Nonostante quel che in precedenza hanno insegnato gli idealisti, e in particolare Berkeley, ci si convince profondamente di ciò soltanto con Kant, perché egli non liquida la questione d’un colpo, ma entra nei particolari, separa l’elemento a priori, tiene conto dovunque dell’elemento empirico. Ma, una volta che si è compresa l’idealità del mondo, l’affermazione che esso dovrebbe sussistere anche se nessuno se lo rappresentasse appare davvero assurda; essa infatti enuncia una contraddizione, giacché il suo essere presente non significa appunto altro che il suo essere rappresentato. La sua esistenza stessa risiede nella rappresentazione del soggetto. Ciò appunto è enunciato quando si dice: esso è oggetto. Per questa ragione le religioni più nobili e più antiche, le religioni migliori, dunque il brahmanesimo e il buddhismo, pongono a fondamento delle loro teorie l’idealismo e osano pertanto richiederne il riconoscimento perfino al popolo. L’ebraismo invece concentra e consolida il realismo. – Nell’espressione “l’io” è insito un sofisma introdotto da Fichte e corrente nelle università a partire dai suoi tempi. Infatti con la forma sostantivata e con l’articolo si trasforma ciò che è essenzialmente e assolutamente soggettivo in oggetto. Giacché, in verità, “io” designa il soggettivo come tale che perciò non può mai diventare oggetto, designa cioè colui che conosce in contrapposizione, e come condizione, di tutto ciò che è conosciuto. La saggezza di tutte le lingue ha espresso questa cosa non trattando “io” come un sostantivo: per questo appunto Fichte fu costretto a far violenza alla lingua, onde realizzare il suo intento. Un sofisma ancora più sfrontato, sempre di codesto Fichte, è l’uso spudorato che egli ha fatto della parola “porre”, abuso che invece di essere biasimato e confutato è ancora commesso frequentemente da quasi tutti i filosofastri, sull’esempio di Fichte e in forza della sua autorità, come ausilio costante di sofismi e dottrine fallaci. “Porre”, ponere, da cui propositio, è sempre stata un’espressione puramente logica, la quale significa che, nel nesso logico di una disputa o di una qualsiasi altra discussione, si assume anticipatamente qualche cosa, la si presuppone, la si afferra, dunque si conferisce provvisoriamente ad essa validità logica e verità formale. Ma con tutto ciò la sua realtà, la sua verità e effettualità materiale rimane assolutamente indecisa, non è messa in questione. Un po’ alla volta Fichte riuscì, però, a far passare in questo porre un significato reale, ma naturalmente oscuro e nebuloso, che gli sciocchi hanno preso per buono e i sofisti adoperano di continuo, da quando cioè l’ “io” ha posto se stesso e poi ha posto il “non io”, porre equivale a creare, produrre, insomma mettere al mondo non si sa in che modo; e tutto quello che si vorrebbe supporre senza ragioni come esistente e dare da bere agli altri, viene per l’appunto posto, e così sussiste ed è lì, proprio realmente. Questo è il metodo ancora oggi in voga della cosiddetta filosofia postkantiana ed è opera di Fichte». (Pensieri riguardanti l’intelletto in generale e sotto ogni rapporto, in Parerga e paralipomena, op. cit., pp. 53-55).

Ciò detto, il vigore dell’etica leopardiana andrà pure riconosciuto, ed esso, fondamentalmente, consistette nel lanciare sempre lo sguardo fuori dai propri confini personali, dal proprio io, nel distruggere il capriccioso e spiritualistico soggettivismo romantico ovunque e sotto qualsiasi forma si presentasse, nel fare della dottrina meccanicistica e materialistica, più che una verità, una condizione dell’uomo e, infine, e soprattutto, nel combattere costantemente gli attacchi dello spiritualismo di ritorno in difesa delle posizioni conquistate dal materialismo settecentesco. Esattamente Schopenhauer: «Allo stesso modo che del globo terrestre noi conosciamo soltanto la superficie ma non la grande e solida massa dell’interno, così delle cose e del mondo non conosciamo empiricamente se non la loro apparenza, cioè la superficie. L’esatta conoscenza di questa è la fisica, presa nel suo senso più ampio. Ma che questa superficie presupponga un interno, che non sia puramente superficie bensì abbia contenuto cubico è, oltre alle deduzioni sulla sua struttura, il tema della metafisica. Voler costruire l’essenza in sé delle cose secondo le leggi della mera apparenza, è un’impresa da paragonare a quella di uno che volesse con mere superfici e con le loro leggi costruire il corpo stereometrico. Ogni filosofia dogmatica trascendente è un tentativo di costruire la cosa in sé secondo le leggi dell’apparenza, che finisce come il tentativo di far coincidere due figure dissimili in assoluto, cosa che sempre fallisce in quanto, in qualunque posizione vengano messe, rimane fuori ora questo ora quell’angolo». (Alcune considerazioni sul contrasto tra cosa in sé e apparenza, in Parerga e paralipomena, op. cit., p. 120). L’assoluto rifiuto leopardiano della rassegnazione indica in lui una vitalità di pensiero che, comunque lo si giudichi, non fa che porre possibilità di valutazioni. In un’eccellente pagina, Giulio Bollati (Giacomo Leopardi e la letteratura italiana, Torino 1983) ha persino accennato alla possibilità di ascoltare nella voce di Leopardi quella di un “pioniere del Grande Rifiuto”.

È a ogni modo un fatto che il poeta ha saputo trasformare la propria visione del mondo in un importante motivo dell’agire. Sotto questo aspetto, come è noto, i rapporti tra conoscenza e prassi umana hanno avuto la loro formulazione più esplicita nell’etica greca. “Chi non sa – dice Epicuro – quale sia la natura del tutto, ma subisce sospettosi timori dalle favole mitologiche, non riuscirà a sciogliere la paura su argomenti d’estrema importanza”. A suo modo Leopardi tenta questo studio scientifico della natura, lo mostrano gli appunti sulla materia, quelli sul relativo come fondamento di una nuova metafisica, quelli sui rapporti tra il reale e il possibile, ecc. Lo mostra il progressivo accostarsi alle posizioni di Paul-Henri D’Holbac. Ebbene, da queste sue prospettive, dalla sua suprema convinzione che “le cose stanno così e non diversamente”, Leopardi seppe trarre un insegnamento etico altrettanto supremo: la necessità che l’uomo deve sentire di dominare la propria vita, collocando i propri sentimenti in una scala gerarchica in cui gioca un unico valore: se questi sentimenti favoriscono od ostacolano l’autocontrollo dell’uomo. Così Schopenhauer: «Se si guarda verso l’esterno, dove ci si presenta l’immensità del mondo e l’infinità degli esseri, il nostro io, come mero individuo, si riduce a nulla e sembra scomparire. Trascinati appunto da questa preponderanza della massa e del numero, si pensa inoltre che soltanto la filosofia diretta verso l’esterno, dunque la filosofia oggettiva, possa trovarsi sulla via giusta: ai più antichi filosofi greci non venne neppure in mente che si potesse dubitare di ciò. Se invece si guarda verso l’interno, si trova prima di tutto che ogni individuo ha un interesse immediato solo per se stesso, anzi prende a cuore se stesso più di tutte le altre cose messe insieme; – e ciò deriva dal fatto che l’individuo conosce immediatamente solo se stesso, e tutto il resto invece lo conosce soltanto indirettamente. Se si aggiunge ancora che esseri coscienti e conoscenti sono pensabili soltanto come individui, quelli privi di coscienza invece hanno un’esistenza dimezzata e solo mediata, allora risulta che tutta l’esistenza vera e propria risiede negli individui. Se, finalmente, si riflette ancora che l’oggetto è condizionato dal soggetto, e per conseguenza quell’immenso mondo esterno possiede esistenza solamente nella coscienza di esseri che conoscono, quindi è legato all’esistenza di individui che ne siano dotati in modo così decisivo che, in questo senso, può essere considerato addirittura come un mero attributo, un accidente, della coscienza, che è sempre individuale: – se, io dico, si pone mente a tutto ciò, si giunge all’opinione che soltanto la filosofia diretta verso l’interno, la filosofia che deriva dal soggetto come dal dato immediato, dunque la filosofia dei moderni a partire da Cartesio, è sulla strada giusta, e perciò gli antichi hanno trascurato la cosa principale». (Sulla filosofia e il suo metodo, in Parerga e paralipomena, op. cit., pp. 27-28). Per cui, egli non solo doveva respingere i bisogni religiosi dell’io, per quanto sinceri potessero essere, non solo doveva negare loro una qualsiasi soluzione trascendentale, un qualsiasi appagamento nell’al di là e considerarli, piuttosto, persino come qualcosa di negativo, male che produce altro male (sino a quella forma di viltà ultima che ha il suo sbocco nell’ipocrisia e nel filisteismo), ma coinvolgere in questo giudizio la stessa morale stoica, quel tipo cioè di saggezza alla quale, nonostante tutto, fu sempre particolarmente affezionato. Se la felicità non si può raggiungere e l’infelicità non si può evitare – scrive nel Preambolo alla traduzione del Manuale di Epitteto – “è proprio degli spiriti grandi e forti l’ostinarsi nientemeno di desiderarli e cercarli ansiosamente [i fini del piacere], il contrastare, almeno dentro se medesimi, alla necessità, e far guerra feroce e mortale al destino, come i sette a Tebe... Proprio degli spiriti deboli... si è il cedere e conformarsi alla fortuna e al fato”.

“È proprio degli spiriti grandi e forti... ”. Questo radicalismo è positivo e negativo. Da un lato presuppone infatti un destino, un fato, una condizione universale assolutamente immodificabile e irreparabile, dall’altro non rinuncia a volerla modificare e riparare. Mentre sul piano dell’agire storico concreto non si ha via d’uscita, se ne ha una su quello etico. Facendo risorgere nell’uomo la consapevolezza, quanto meno la fiducia, nel suo autonomo vigore, lo si ammonisce a fare della sua vita una vita di lotta e del suo agire una lotta nella quale si possa almeno udire il grido del ribelle. Ecco l’aspetto positivo. Quanto più la forza dell’antagonista appare gelida e invulnerabile, tanto più eroico ed umano appare il volto di chi la sfida. Né si tratta, a questo punto, di semplice volontarismo. Certo l’influenza dell’Alfieri su Leopardi non mancò, ma fu cosa che riguardò principalmente la sua adolescenza, la formazione dei suoi eroici ideali nel chiuso del carcere recanatese, la loro formulazione nelle lettere inviate in quel tempo al Giordani. Così il tragico di Asti: «Nella tirannide è delitto il dire non meno che il fare». (Opere, vol. II, Milano 1940, p. 394). Quel che in prosieguo distingue nettamente Alfieri da Leopardi è la presenza, in quest’ultimo, di una salda concezione del mondo, materialisticamente fondata e polemicamente rivolta non solo contro una corrente dominante del pensiero contemporaneo, quella del cattolicesimo liberale ma, si può ben dire, contro tutta una tradizione del pensiero europeo. Le tesi di Vincenzo Gioberti, a esempio, che è possibile riassumere in questa citazione: «Chi voglia formarsi un genuino concetto del realismo cristiano del medio evo dee incominciarne l’istoria da Anselmo di Aosta, che ne fu il vero padre; da cui uscirono quei due fiumi di Bonaventura e di Tommaso, che compartendo fra loro la ricca unità del lor precessore, rappresentano la dualità dell’intuito e del pensiero riflessivo, disgiunti sì, ma non ancora nemici; imperocché coloro, che ad esempio dei Rosminiani, sequestrano le dottrine di quei due sommi pensatori, e si credono di vantaggiare il secondo, mettendolo in contraddizione col primo, s’ingannano a gran partito, e ignorano in che consista il vero realismo. Il problema, che oggi si dee proporre la filosofia italiana, è di unificare questi due ordini, e di conciliare il platonismo del Bagnorese coll’aristotelismo dell’Aquinate, ricostruendo l’unità pitagorica dell’Augustano, e procedendo, non già all’empirica e coll’analisi critica, secondo l’uso degli eclettici e dei volgari conciliatori, ma alla sintetica ed a priori, mediante un principio, che sovrasti a tutti i sistemi e comprenda nella sua molteplice unità l’ordine intuitivo col discorsivo, accordandoli insieme, senza confonderli, e distinguendoli, senza separarli. Ora questo principio è quello di creazione, espresso dalla formola ideale; la quale è l’unica conciliatrice delle contrarietà apparenti dei sistemi ortodossi, e reca nella storia della filosofia la stessa armonia, che l’effettuazione di essa formola produce nel mondo; onde il reale collo scibile si ragguaglia. La formola costituisce per tal modo una scienza sublime e universale, apice e base ad un tempo della piramide enciclopedica; sublime, perché sovrasta a ogni disciplina, e la genera, come il comignolo, da cui muove la proiezione di una guglia; universale, perché comprende potenzialmente tutte le cognizioni e le puntella, come il dado, che sostenta ed abbraccia la mole acuminata e rivolta verso il cielo». (Del primato morale e civile degli italiani, Milano 1939, vol. II, pp. 305-306). Dopo il 1821, secondo quanto ha scritto Bruno Biral (La posizione storica di Giacomo Leopardi, Torino 1974), nel pensiero leopardiano andarono distrutte tre idee fondamentali nella storia dell’umanità: Dio provvidente, natura buona, società civile necessaria agli uomini. Si potrebbe aggiungere che con ciò Leopardi si era reso disponibile a quell’atto di “apostasia” e di “rinnegamento” che consegnò infatti, nel dicembre del 1821, alla canzone Bruto minore e, pochi mesi dopo, alla Comparazione che doveva fungerle da premessa. E dopo più di dieci anni, in risposta alle osservazioni di Henschel: “I miei sentimenti riguardo il destino sono sempre quelli che ho espresso in Bruto minore”. Aveva di già stigmatizzato questa posizione Milton: «Molti sono quelli che biasimano la Provvidenza per aver permesso ad Adamo di peccare. Oh lingue stolte! Quando Dio lo fornì di ragione, Egli lo fece libero di scegliere, poiché ragionare non è altro che scegliere, altrimenti Adamo sarebbe stato un mero automa, uno di quegli Adami che vediamo nelle rappresentazioni dei burattini». (Areopagitica. Discorso per la libertà della stampa, tr. it., Roma-Bari, 1987, p. 38). Posizioni dunque tutt’altro che effimere o suggerite da un’ambizione letteraria, ma venute radicandosi in lui, piuttosto, nel fuoco dell’esperienza. Si pensi alla tentata fuga e alla conseguente lettera al conte Saverio Broglio: “Io sono stato sempre spasimato della virtù: quello ch’io volea eseguire non era delitto: ma io son capace anche della colpa. Si vergognino ch’io possa dire che la virtù m’è stata sempre inutile”.

Dopo poco più di due anni Leopardi lo dirà. La virtù bestemmiata da Bruto e il distaccato ammonimento di Teofrasto moribondo ai discepoli sono le due facce di un’unica e inconfutabile verità: che il mondo non è che vana ombra, ingannevole e fraudolenta. Così Giorgio Colli: «Schopenhauer tradisce il talento che in filosofia non è ammesso. Ha le virtù migliori dell’uomo moderno: sincerità, onestà, amore della verità. Il dire la verità è per lui la cosa più importante. Spirito indipendente. Ancora adolescente deve decidere sulla sua vita. Non ha sopportato il peso di un lungo e pedante curriculum scolastico. Non porta quindi i segni della specializzazione umanistica e filologica (come Nietzsche). Aperto alle scienze naturali, a una formazione non tradizionale. La cultura per lui è unitaria, senza scompartimenti stagni. Autodidatta, in certo senso un dilettante. È libero di fronte alla tradizione scolastica. Estraneo all’erudizione storica; rispetto alla tradizione storica è il modello di Burckhardt: attinge direttamente alle fonti. Danneggiato dallo sviluppo precoce e prorompente della sua originalità. Deve costruirsi affrettatamente i suoi fondamenti, prenderli un po’ a caso. Non potendo partire dal nulla, comincia a edificare con i primi elementi di valore che gli si presentano. Importanza eccessiva di Kant, Lambert e gli empiristi inglesi. Trascura a torto le scienze matematiche. Teoria della conoscenza genialmente ma affrettatamente costruita. Il mito della verità arresta il suo sviluppo. Ciò che è stato intuito e pensato con grande intensità non può cambiare. Nella maturità non ha approfondito razionalmente – e poteva ben farlo, aveva tempo – i punti deboli del suo sistema. Scarsa conoscenza dei Greci, con una certa pedanteria. Gli manca un’informazione adeguata ma soprattutto la congenialità. Fa eccezione Platone, che egli ha intuito profondamente per certi lati, ma non ha compreso nella sua complessità, gli giunge ovattato. Ha trascurato Aristotele. Il suo carattere moderno e la natura del suo sviluppo (prorompente, fondato su un numero ristretto di elementi, e poi chiuso) non gli permettono un accostamento vitale alla grecità. Concetti di cui è prigioniero: solitudine del genio; unicità del vero e quindi rigorosa sistematicità; indifferenza verso qualsiasi vita associata, quindi verso l’educazione e la realizzazione di un’aristocrazia culturale nella vita. Scorbutico, aggressivo. Temperamento astioso e risentito. Taccagno, e non solo rispetto al denaro. Aspettava qualcosa di più dalla vita, qualcosa cui ha dovuto rinunciare sin da giovane. Da ragazzo sperava forse molto da Goethe e nascose la delusione. Frustrato, ma non per la banale impotenza di un uomo di libri. Nel suo rinchiudersi in sè, nel suo cinismo verso le donne, nel suo esasperato polemizzare c’è il riflesso di un’aspirazione, mai giunta alla sua coscienza, di ritrovarsi e vivere aristocraticamente fra uguali. Ma preferisce consolarsi dicendo che questo è il destino del genio, che non è possibile altrimenti, e esaltandosi (infantilmente) con il possesso esclusivo della verità, e in modo più ridicolo, con la gloria dei posteri. Lato infantile di Schopenhauer». (La ragione errabonda, Milano 1982, pp. 105-106). La sua stessa ragione d’esistere, per Leopardi, non è che l’esistenza in sé. Volerle dare un senso non è solo follia, è viltà di cuore e di intelletto, è arroganza e ipocrisia. È il nascondere il vero. È la realtà. Si trattava insomma di dare al riso un valore positivo, di rigenerazione, pure non nascondendosi al contempo l’illusorietà della stessa. Nel riso era comunque implicita una virtù, lo smascheramento del pregiudizio millenario, dell’opinione tradizionale e, infine, della stessa morale fondata su tali pregiudizi e su tali opinioni. Il riso poteva così divenire un entusiastico intreccio di provocazioni sentimentali. Proponendosi di non cercare che il vero, come nel pieno del suo lavoro scriveva a Giordani il 6 maggio del 1825, Leopardi finì per scoprire che nella sua nuova visione del mondo valori morali e valori conoscitivi coincidevano. Questi stravolgevano il sapere tradizionale svelandone la falsità, oltre che la povertà. Quelli ne mettevano in luce arroganza, presunzione e ipocrisia. Così Nietzsche: «Il problema dell’attore mi ha inquietato a lungo; ero incerto (e talvolta lo sono ancora) se soltanto a partire da esso si potesse raggiungere il pericoloso concetto di “artista”. La falsità con buona coscienza; il piacere della simulazione che si rivela potere, spingendo da parte, inondando e talvolta spegnendo il cosiddetto “carattere”; il fervido anelito a un ruolo, una maschera, un’apparenza; una sovrabbondanza di capacità d’adattamento d’ogni genere che non si accontentano più di giovare alla prossima, ristrettissima utilità: l’attore, in sè, non è tutto questo? Probabilmente tale istinto si sarà sviluppato soprattutto nelle famiglie del popolo, i cui membri hanno sempre dovuto campare tra l’alternarsi di pressioni e coercizioni, in uno stato di profonda dipendenza, hanno sempre dovuto fare il passo a seconda della gamba, adeguarsi a nuove circostanze, porsi continuamente in modo nuovo, imparando gradualmente ad appendere il mantello a seconda del vento e a divenire quasi essi stessi mantello, maestri di quell’arte innata e incorporata dell’eterno giocare a nascondino che negli animali è detta mimicry: finchè in conclusione questa capacità, accumulatasi di generazione in generazione, si fa dispotica, irragionevole e irrefrenabile, impara a comandare da istinto gli altri istinti e genera l’attore, l’“artista” (soprattutto il buffone, il mentitore, il pagliaccio, il folle, il clown, ma anche il servitore classico, il Gil Blas: è in tali tipi che si trova la preistoria dell’artista e, abbastanza spesso, anche del “genio”). Anche in condizioni sociali più elevate nasce, sotto una pressione simile, un uomo simile: soltanto che in tal caso l’istinto a recitare è tenuto a bada da un altro istinto, ad esempio nel caso del “diplomatico”: del resto io crederei che a un buon diplomatico sarebbe possibile essere anche un buon attore di teatro, posto appunto gli “fosse possibile”. Per quanto invece riguarda gli Ebrei, il popolo che più ha eccelso nell’arte dell’adattamento, in loro si potrebbe vedere sin dall’inizio, seguendo questo ragionamento, un’organizzazione storico-mondiale per l’allevamento di attori, una vera e propria incubatrice di attori, e oggigiorno è di grande attualità questa domanda: quale grande attore non è al contempo anche... ebreo? Ebreo? Anche l’ebreo come letterato congenito, il vero dominatore della stampa europea, esercita questo suo potere sulla base delle sue doti di attore: infatti il letterato è sostanzialmente un attore che recita la parte dell’esperto, del competente. Infine le donne. Riflettiamo su tutta la storia delle donne: non debbono essere in primissimo luogo e soprattutto attrici? Ascoltiamo i medici che le hanno ipnotizzate e, anche, amiamole, cioè lasciamoci ipnotizzare da loro! Che cosa ne risulta? Che esse “si danno” anche quando... si lasciano andare. La donna è così artistica». (La gaia scienza, V, 361). Con le sue Operette Leopardi riuscì così a superare il negativo di una parte del suo pensiero e, con il riso, a scandagliare nel possibile futuro dell’umanità.

Copernico o del mondo morale – I primi abbozzi delle Operette indicano con sufficiente chiarezza che Leopardi intendeva riprendere con esse certi spunti che già lo avevano interessato quando, come ebbe a scrivere al Giordani nel 1817, tutti i suoi “scrittacci originali erano traduzioni dal francese”, non si era ancora convertito alle lettere belle e aveva sciupato il suo tempo “in traccia della erudizione più pellegrina e recondita”. Tra questi spunti, nella precisa distinzione tra “errore” e “pregiudizio” quale si legge in chiusa del Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, erano la denuncia e la condanna delle tendenze antropomorfizzanti della natura da parte dell’uomo e quelle delle sue pretese antropocentriche. E ciò valeva tanto per il filosofo antico quanto per il moderno. Nel X capitolo del Saggio, per esempio, Leopardi trova che le credenze di fare degli astri altrettanti animali non è morta con l’antichità, ma continua ancora oggi pure dopo un periodo di rinsavimento. Ha scritto Albert Thibaudet parlando di Bergson: «Momenti della nostra esistenza in cui abbiamo optato per qualche decisione grave, momenti unici nel loro genere, e che non si riprodurranno più, così come, per un popolo, non ritornano le fasi scomparse della sua storia. L’atto libero è, dunque, l’atto di cui 1’io solo sia stato l’autore. Ma precisamente questi atti sono rari. La causa della maggior parte dei nostri atti è estranea al nostro io reale, e va cercata nell’automatismo, nell’abitudine, o nell’imitazione. E ancora, qui, ciò che vale per noi vale per la vita intera: la vita si sviluppa come un cammino verso la libertà, ma un cammino disseminato d’ostacoli, in cui lo scacco, sotto forma di morte, è la regola, per le specie così come per gli individui. L’automatismo della materia è in agguato ad ogni passo». (Fisiologia della critica, tr. it., Firenze 1988, p. 43). Donde l’interessante conclusione di Leopardi che gli errori sono come le comete, esse hanno un periodo. Dopo qualche secolo, quando si è cessato di mostrarne la stoltezza, ricompaiono sotto nuovi aspetti. Sempre avidi di scoperte, gli uomini tornano ad abbracciare ciò che avevano rifiutato. Ancora più della deduzione della illusorietà di un progresso “in infinito”, giovanile anticipazione di una delle più radicali convinzioni leopardiane, nel passo citato colpisce l’osservazione sulle difficoltà che le conquiste della scienza incontrano nel divenire opinione comune, conquiste sulle quali si dovrebbe pure lavorare per ulteriori e ben fondate ricerche. Colpisce insomma il rilievo dell’errore che si trasforma in pregiudizio. Allo stesso modo la grandiosa pagina di Nietzsche: «No, noi non amiamo l’umanità; d’altra parte ormai da tempo non siamo neppure abbastanza “Tedeschi”, nel senso comune che oggi si attribuisce a questa parola, per metterci dalla parte del nazionalismo e dell’odio razziale, per poter gioire della rogna che avvelena i cuori e il sangue delle nazioni e che fa sì che i popoli d’Europa si rinchiudano dentro i loro confini, come in quarantena l’uno contro l’altro. Siamo troppo spregiudicati, troppo malvagi, troppo viziati, anche troppo colti, troppo “giramondo”; preferiamo di gran lunga vivere in montagna, in disparte, “da inattuali”, in secoli passati o venturi, purchè ci sia risparmiato il muto furore cui ci sapremmo condannati come testimoni oculari di una politica che rende squallido lo spirito tedesco, poiché lo rende vano, e inoltre è una politica piccina: non ha forse bisogno, affinchè la sua creazione non crolli immediatamente, di radicarla tra due odi mortali? Non deve volere l’eternazione di questa divisione dell’Europa in staterelli? Noi senza patria siamo, quanto alla razza e alla provenienza, troppo molteplici e misti, come “uomini moderni”, e quindi poco tentati a partecipare a quella menzognera autoammirazione e libidine razziale che si osserva oggi in Germania quale segno distintivo dei sentimenti tedeschi e che pare doppiamente falsa e indecorosa al popolo del “senso storico”. Noi siamo, in una parola – che sia la nostra parola d’onore! –, buoni Europei, gli eredi dell’Europa, gli eredi straordinariamente ricchi ma anche straordinariamente carichi di doveri di millenni di spirito europeo: in quanto tali, siamo cresciuti troppo rispetto al cristianesimo e gli siamo avversi, proprio perché da esso veniamo, perché i nostri antenati erano cristiani di assoluta rettitudine cristiana, che di buon grado sacrificarono alla loro fede averi e sangue, ceto sociale e patria. Noi – facciamo lo stesso? Ma per che cosa? Per le nostre incredulità? Per ogni genere di incredulità? No, voi lo sapete bene, amici miei! Il sì nascosto dentro di voi è più forte di tutti i no e i forse di cui, col vostro tempo, siete malati; e se dovete prendere il mare, voi emigranti, vi costringe a farlo – una fede! …». (La gaia scienza, V, 377). “Il mondo è pieno di errori – aveva scritto Leopardi sul principio del Saggio – e prima cura dell’uomo deve essere quella di conoscere il vero”. Qui egli fa sua la posizione di Epicuro già ricordata, per la quale solo una conoscenza scientifica del mondo è in grado di darci una giusta scala di valori morali.

Indagata come storia dei suoi errori, la storia dell’uomo conduce così alla storia del pregiudizio. Leopardi non è naturalmente in grado di capire (per rimanere all’esempio di poco sopra) che, se certi errori ritornano, ciò accade perché non sempre le società che si sviluppano dalle precedenti sono in grado di sopportare ideologicamente il peso di certe conquiste scientifiche, come avviene con la rivoluzione copernicana che si tentò di neutralizzare ricorrendo alla vecchia teoria della doppia verità. Egli è però perfettamente in grado di capire il trasformarsi dell’errore in pregiudizio e di sentirsi impegnato in una giusta battaglia per liberare l’uomo dalla catena delle false superstizioni. Ha scritto Paul Ricoeur: «La distruzione, afferma Heidegger in Essere e tempo, è un momento di ogni nuova fondazione, compresa la distruzione della religione, nella misura in cui essa è, secondo Nietzsche, un “platonismo per il popolo”. È oltre la “distruzione” che si pone il problema di sapere ciò che ancora significano pensiero, ragione e persino fede. Ora tutti e tre liberano l’orizzonte per una parola più autentica, per un nuovo regno della Verità, non solo per il tramite di una critica “distruggitrice”, ma mediante l’invenzione di un’arte di interpretare. Cartesio trionfa del dubbio sulla cosa con l’evidenza della coscienza; del dubbio sulla coscienza essi trionfano per mezzo di una esegesi del senso. A partire da loro, la comprensione è una ermeneutica; cercare il senso non consiste più d’ora in poi nel compitare la coscienza del senso, ma nella decifrazione delle espressioni. Il confronto andrebbe dunque fatto non solo fra un triplice sospetto, ma fra una triplice astuzia. Se la coscienza non è quale crede di essere, tra il patente e il latente deve essere istituito un nuovo rapporto, che corrisponderebbe a quello che la coscienza aveva istituito tra l’apparenza e la realtà della cosa. La categoria fondamentale della coscienza, per tutti e tre, è il rapporto nascosto/mostrato o, se si preferisce, simulato/manifestato. I marxisti si intestardiscano pure nella teoria del riflesso, Nietzsche si contraddica dogmatizzando sul prospettivismo della volontà di potenza, Freud mitologizzi con la sua “censura”, il suo “custode”, e i suoi “travestimenti”: l’essenziale non sta in queste difficoltà e aporie. L’essenziale è che tutti e tre creano, nel modo che è loro possibile, cioè con e contro i pregiudizi del tempo, una scienza mediata del senso, irriducibile alla coscienza immediata del senso. Ciò che essi hanno tentato, tutti e tre, per strade differenti, è stato di far coincidere i loro metodi “consci” di decifrazione con il lavoro “inconscio” di messa in cifra che essi attribuivano alla volontà di potenza, all’essere sociale, allo psichismo inconscio». (Della interpretazione. Saggio su Freud, tr. it., Milano 1967, pp. 47-48). Ed è appunto questa lotta contro ogni sorta di antropomorfismo il tema di fondo che presiede al progetto delle Operette. Lo rivelano ad esempio gli abbozzi del dialogo tra due bestie e di quello tra un cavallo e un toro. Si tratta infatti di una direzione molto importante: quella che riprende la radicale formulazione delle sentenze di Senofane, ricordate peraltro con consenso nel II capitolo del Saggio. È noto come l’antropomorfismo non sia soltanto uno dei supporti di ogni visione religiosa del mondo, ma costituisca anche il nocciolo del mito, e quindi della poesia e dell’arte, almeno nella loro fase iniziale. D’altra parte l’elaborazione delle categorie e dei metodi specifici della scienza implicano – e implicarono storicamente – una lotta sempre più risoluta contro ogni forma di personificazione, donde quella reciproca ostilità tra filosofia e poesia che fu, come tutti sanno, uno dei tratti più singolari della cultura greca. Ma Galilei era molto più chiaro: «Accresce l’inverisimile, a chi più saldamente discorre, l’essere inescogitabile qual deva esser la solidità di quella vastissima sfera, nella cui profondità sieno così tenacemente saldate tante stelle, che senza punto variar sito tra loro, concordemente vengono con sì gran disparità di moti portate in volta: o se pure il cielo è fluido, come assai più ragionevolmente convien credere, sì che ogni stella per sé stessa per quello vadia vagando, qual legge regolerà i moti loro ed a che fine, per far che, rimirati dalla Terra, appariscano come fatti da una sola sfera? E finalmente, per la settima instanza, se noi attribuiamo la conversion diurna al cielo altissimo, bisogna farla di tanta forza e virtù, che seco porti l’innumerabil moltitudine delle stelle fisse, corpi tutti vastissimi e maggiori assai della Terra, e di più tutte le sfere de i pianeti, ancorchè e questi e quelle per lor natura si muovano in contrario; ed oltre a questo è forza concedere che anco l’elemento del fuoco e la maggior parte dell’aria siano parimente rapiti, e che il solo piccol globo della Terra resti contumace e renitente a tanta virtù: cosa che a me pare che abbia molto del difficile, nè saprei intender come la Terra, corpo pensile e librato sopra ‘l suo centro, indifferente al moto e alla quiete, posto e circondato da un ambiente liquido, non dovesse cedere ella ancora ed esser portata in volta. Ma tali intoppi non troviamo noi nel far muover la Terra». (Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in Opere di Galileo Galilei, vol. II, Torino 1980, p. 128). Leopardi, che pure rimase in certo modo prigioniero di questo contrasto, non pensò mai a darla vinta all’errore, per quanto suggestivo potesse apparire. Ma soprattutto fu nemico del pregiudizio e nell’età più matura lo combatté con le stesse armi della poesia, con i Canti. Egli non fu affatto nemico della scienza e della ragione. Assegnò a esse il giusto posto nella storia dello sviluppo dello spirito umano, e le “odiò”, semmai, per il loro carattere negativo, per la loro potenza distruttrice nei confronti delle aspirazioni alla felicità dell’uomo, così necessarie per quanto illusorie. Il Dialogo della Natura e di un Islandese, in cui si è soliti vedere una svolta decisiva del pensiero leopardiano verso il cosiddetto (e maldetto) pessimismo “cosmico”, non è che uno dei tanti momenti in cui lo scrittore mette a confronto le pretese antropocentriche dell’uomo con una realtà naturale che non è in grado, per sua costituzione, nonché di soddisfarle, di sopportarle. L’islandese-Giacomo racconta la storia dell’uomo nel mondo, le sue aspirazioni frustrate e le sue cocenti sofferenze, ingiuste ancora prima che insensate dal suo punto di vista. Le seguenti considerazioni su Schopenhauer possono valere ottimamente per Leopardi. «Sarebbe però unilaterale non osservare che la filosofia [di Schopenhauer] è al tempo stesso determinata da un profondo spirito morale. Già il rifiuto e l’esecrazione del mondo hanno un forte senso morale, e profonde esigenze morali sono a loro fondamento. E quando egli considera l’ascesi come l’attività più sublime, pone il valore ultimo dell’esistenza in un fatto morale. Quando dunque ai motivi enumerati ne aggiungo ancora uno specificamente qualificato come morale, ho in mente soprattutto la convinzione di Schopenhauer che il mondo ha un significato morale. In ultima analisi la chiave per l’interpretazione del mondo è da lui ritrovata non nella sfera estetica, meno che mai nella fisica, ma solo nella sfera morale. L’esistenza ha il suo carattere fondamentale in un “non-dover-essere” in una originaria colpa metafisica. Lo stravolgimento morale nel fondamento originario del mondo imprime del suo marchio l’intera esistenza. L’interpretazione schopenhaueriana del mondo è un pessimismo metafisico-morale, che talvolta si avvicina a un satanismo. Così anche la sua etica ha radici metafisiche. Le due virtù di Schopenhauer, giustizia e amore, significano il superamento metafisico della molteplicità e separatezza degli individui; e colui che dalla virtù passa alla forma più alta di morale, all’ascesi, raggiunge la liberazione finale dall’esistenza. Credo che press’a poco tutti i lati caratteristici della filosofia di Schopenhauer si lascino riportare ai fondamentali pensieri enunciati e divengano attraverso essi comprensibili. È chiaro: il complesso del suo mondo di pensiero è ricco e abbondante. Non ci si stupirà dunque, se dall’azione combinata di questi molteplici motivi si vedrà sorgere un insieme di pesanti contraddizioni. Per quanto possa essere così, è altrettanto vero d’altro canto che tutti i motivi enunciati si sono condensati nella potente personalità di Schopenhauer in un sentimento unitario della vita. E proprio perché il suo pensiero si risolve totalmente nell’azione combinata di questi pensieri fondamentali e solo in essa viene all’essere, così possono anche rimanere non evidenti per lui contraddizioni nette e manifeste, che sono presenti nello sviluppo necessario dei suoi pensieri. Il critico le vede più facilmente: non ha vissuto con lui gli impulsi che costituiscono l’anima del filosofare di Schopenhauer e può perciò facilmente mostrare quelle contraddizioni, che Schopenhauer, la cui energia di pensiero consistette proprio nell’assumere insieme questi motivi, si lasciò sfuggire. Si può addirittura dire: se si vuole esporre la filosofia di Schopenhauer e argomentare su di essa, il puro denunciare le contraddizioni è la parte più facile e semplice del lavoro. Ma alla denuncia delle contraddizioni si deve unire la comprensione di esse a partire dai diversi impulsi che operano sul suo pensiero e sulla sua personalità e l’apprezzamento della grandezza e verità in esso presente nonostante le contraddizioni». (Johannes Volkelt, Arthur Schopenhauer. Seine Persönlichkeit, seine Lehre, sein Glaube, Stuttgart 1907, terza edizione, pp. 57-58). La natura, in virtù della teoria, per così dire, degli infiniti mondi possibili tutti ubbidienti al perpetuo circuito di produzione e distruzione, non solo può giustificare la propria indifferenza di fronte al dolore dell’uomo, ma dimostrare che esso è inutile e insensato, sicché la domanda finale e di sempre: “A chi mai può giovare la continuazione dell’esistente?”, si rivela, oltre che impossibile a soddisfarsi, vano delirio. “È l’infinita vanità del tutto”. Ed è proprio da questa spietata consapevolezza che la ragione e la scienza hanno giustamente portato alla maturazione che muove lo sforzo leopardiano per la conquista di una nuova poesia, non più “immaginativa” come quella dei secoli omerici, ma “sentimentale” e quasi piuttosto una filosofia e un’eloquenza, conquiste estremamente difficili (Zibaldone). Senza più insistere, aggiungeremo solo che nel settembre del 1823 Leopardi parlò anche di un “entusiasmo della ragione”, oltre che della poesia e della filosofia. È sulla base di considerazioni parallele che torno ancora sulla riflessione riguardante Schopenhauer condotta da Volkelt: «Se ci si abbandona a rivivere le direzioni fondamentali che abbiamo enucleato della filosofia di Schopenhauer, si dovrà confessare che, a parte l’atteggiamento da prendere nei confronti della coerenza logica del suo pensiero e del suo contenuto di verità, in esso si esprime un’umanità eccezionale ed altamente significativa. Ci troviamo di fronte a uno spirito, che è mosso da un pensiero sublime, grandioso, solenne; uno spirito, che nei suoi netti rifiuti, nella scoperta di profondità sconvolgenti ha il suo tratto caratteristico, ma che anche è capace di slanci di fede luminosi, pieni di entusiasmo; uno spirito, a cui l’irrazionale, o almeno l’elemento che appare irrazionale nel mondo, dice molto di più del logicamente penetrabile, ma che sotto molti aspetti partecipa del più rigido razionalismo; uno spirito, in cui la violenta elementare affermazione della vita va insieme con l’aspirazione alla pace della negazione; uno spirito, che vive l’esistenza naturale con altrettanta forza che l’estatico mondo del pensiero: che ha affinato in se stesso la libera disposizione estetica nei confronti del mondo tanto quanto la più rigorosa concezione morale della vita». (Op. cit., pp. 59-60).

Gli orientamenti leopardiani sono interessanti per più motivi: in relazione al problema, storico e concreto, della ragione d’essere della poesia nell’età contemporanea, in relazione alla poesia che egli stesso ci ha dato dal 1828 alla morte, in relazione infine, cosa che qui importa, alla genesi e alla fondamentale ispirazione satirica delle Operette. È ovvio che la dichiarazione leopardiana di avere voluto fare con esse “poesia in prosa” va accolta con attenzione, anche se non va respinta. Il libro nasce infatti tanto come battaglia contro i pregiudizi, quanto come bisogno del cuore di rinnovare quell’immaginazione degli antichi nel cui vigore, ancorché illusoriamente, consisteva la felicità stessa dell’esistere e dell’agire. Questa duplice ispirazione si legge del resto nella prima delle Operette, quella Storia del genere umano che è da considerarsi come il preambolo dell’opera. Per punire gli uomini della loro infausta voglia di sapere, Giove spedì sulla terra la Verità nella quale essi potevano vedere, come in uno specchio, tutta la loro disperata condizione: il trionfo della ragione e del sapere. Per addolcire tuttavia questo stato di cose, rinnovò con amore le perdute illusioni di tornare al mitico stato adolescenziale. L’arte è la vera consolatrice. Invece Nietzsche: «Ora, se il cristiano, come abbiamo detto, è caduto per certi errori, e dunque per un’errata e non scientifica interpretazione delle sue azioni e dei suoi sentimenti, nel senso del disprezzo di sè, dovrà notare con estrema meraviglia come quello stato di disprezzo, di rimorsi di coscienza e in generale di dispiacere, non duri, e come a volte giungano ore in cui tutto ciò è come spazzato via dalla sua anima ed egli si sente nuovamente libero e coraggioso. In verità il piacere di sé, il benessere per la propria forza, insieme con il necessario attutirsi di ogni profonda eccitazione, hanno vinto: l’uomo si ama di nuovo, lo sente – ma proprio questo amore, questa nuova stima di sé gli sembrano incredibili, e in essi può vedere soltanto il discendere del tutto immeritato di uno splendore di grazia dall’alto. Se prima credeva di scorgere in ogni avvenimento ammonizioni, minacce, punizioni e ogni specie di segni dell’ira divina, ora egli interpreta le sue esperienze alla luce della bontà divina: quel fatto gli si presenta come pieno d’amore, quell’altro come una soccorrevole indicazione, quel terzo, e in generale tutta la lieta disposizione del suo animo, come un segno della misericordia divina. Se prima, nel suo stato di disagio, interpretava falsamente soprattutto le sue azioni, ora interpreta falsamente soprattutto le sue esperienze; nel suo stato di consolazione vede l’effetto di una forza che agisce al di fuori di lui, e l’amore del quale in fondo egli ama se stesso gli appare come amore divino; ciò che egli chiama grazia e preludio di redenzione, in realtà è grazia resa a se stesso, redenzione di sé». (Umano, troppo umano, I, 134). Cioran la scritto: “la pietà e la consolazione non solo non servono a niente, ma sono anche offensive”. Difatti Leopardi, in linea con queste riflessioni, parla di un altro genere di consolazione.

In questa, ancora più che contraddittoria, irresolubile prospettiva, va da sé che l’ironia non possa assumere la sua forma socratica, quella cioè di una conoscenza serena e confortevole in sé. Essa si tinge invece di un riso disperato e polemico, diviene la veste di un sapere che non può che risolversi nel rifiuto. Ma in un “no”, si badi, che è prodotto della ragionevolezza. Tornando a Schopenhauer: «La filosofia di Schopenhauer è la prima a porre come assoluto il condizionamento delle funzioni intellettuali da parte delle funzioni affettive; la prima a considerare come superficiale e come “finzione” ogni pensiero i cui termini vogliono restare sul piano della coerenza logica e dell’“oggettività”. “Tutto ciò che si opera per il medium della rappresentazione, ossia dell’intelletto – sia pur sviluppato fino alla ragione – non è che uno scherzo in rapporto a ciò che emana direttamente dalla volontà”. La filosofia della volontà inaugura l’era del sospetto, che ricerca il profondo sotto l’espresso, e lo scopre nell’inconscio. Quel che pretende emanare dall’intelletto puro è precisamente ciò a cui s’applicherà l’analisi critica delle motivazioni segrete. Rigorosamente parlando non c’è alcun movimento intellettuale che possa comprendersi a partire da se stesso: esso esige di essere interpretato, a partire da un punto di vista nuovo, nel che è la questione dell’origine. Questo spostamento di punto di vista è il luogo preciso di divergenza radicale in rapporto alla filosofia di Kant che Schopenhauer senza avere sufficiente consapevolezza della rivoluzione che introduce si impegna ostinatamente a perpetuare. Nessun rapporto, qualunque cosa egli abbia potuto pensare in proposito, fra il “mondo delle cose in sé” e il mondo della volontà. Schopenhauer non è, come egli stesso credeva, l’ultimo dei filosofi classici, ma il primo dei filosofi genealogisti». (C. Rosset, Schopenhauer philosophe de l’absurde, Paris 1947, pp. 32-33). In ogni modo ironia e rifiuto, scherno e ripulsa, riso e dissacrazione costituiscono le armi che il nuovo savio, il ribelle, si dà per combattere, assai più che l’errore, il pregiudizio. Ancora il pensiero tagliente di Nietzsche: «[L’uomo comtro il mondo] ha avuto la sua ultima espressione nel pessimismo moderno e una più antica e più forte nella dottrina del Buddha; lo contiene anche il cristianesimo, certamente in modo più dubbioso e ambiguo, ma non per questo meno seducente. L’attitudine “uomo contro mondo”, l’uomo come principio “rinnegante il mondo”, l’uomo come misura di tutte le cose, come giudice dei mondi che mette sulla bilancia l’esistenza stessa e la trova troppo leggera: abbiamo preso coscienza della mostruosa mancanza di gusto di questa attitudine, che ci pare ripugnante; già ridiamo quando troviamo “uomo e mondo” collocati l’uno accanto all’altro, separati dalla sublime arroganza della congiunzione “e”! Ma come! Non è proprio così che noi uomini del riso abbiamo fatto solo un passo avanti nel disprezzo dell’uomo? E anche nel pessimismo, nel disprezzo dell’esistenza a noi conoscibile? Non è proprio così che è sorto in noi il sospetto che esistesse un contrasto, un contrasto fra il mondo in cui sinora eravamo di casa, con le nostre venerazioni, e un altro mondo, costituito da noi stessi: un sospetto inesorabile, sostanziale, estremo su noi stessi, che sempre di più e sempre più duramente si impadronisce di noi Europei e potrebbe facilmente porre le generazioni a venire di fronte a questo terribile aut-aut: “demolite le vostre generazioni oppure – voi stessi!”. Quest’ultimo sarebbe nichilismo, ma non sarebbe nichilismo anche il primo? È questo il nostro punto interrogativo». (La gaia scienza, 346). Per questa parte, direi che il riso leopardiano ha un carattere decisamente illuministico, intrepido e libero come quello dell’angelo vendicatore. Ciò è particolarmente evidente nell’attacco che Leopardi muove contro le teorie antropocentriche, nelle quali, comunque mascherate, egli vede giustamente il fondamento di ogni superstizione spiritualistica. Non a caso, d’altra parte, il padre di lui, Monaldo, avrebbe desiderato che ritornasse Tolomeo a ricollocare la Terra al centro dell’universo giacché il sogno di ogni reazionario, anche se espresso meno banalmente, non vive di aspirazioni diverse. Giacomo, al contrario, non ha esitazioni a porsi sulla sponda opposta. Già in uno dei suoi primi appunti dello Zibaldone, nel 1819, egli vede con chiarezza come le scoperte scientifiche possano rivoluzionare il mondo del pensiero tradizionale e come il sistema copernicano sia destinato, insieme, ad abbassare e sublimare l’idea dell’uomo, scoprendo “nuovi misteri della creazione, del destino della natura, della essenza delle cose, dell’essere nostro, dell’onnipotenza del creatore, dei fini del creato, ecc. ecc.”. La lettura degli Entretiens di Bernard de Fontenelle e naturalmente quella delle opere di Luciano gli permettono di rappresentare in chiave ironica l’assurdità di una pretesa che, benché confutata dalla scienza, manteneva pressoché intatta la forza della superstizione. L’idealismo filosofico aveva posto quasi un divieto a trarre dalla nuova conoscenza oggettiva del mondo le conseguenze legittime.

È noto che il primo attacco artisticamente elaborato all’antropocentrismo si trova nel Dialogo di un folletto e di uno gnomo, steso tra il 2 e il 6 marzo del 1824 (il Dialogo della Terra e della Luna è della fine di aprile, il Copernico del 1827). In tutti, diversamente configurato, domina un tono di favola e di astrali lontananze, soprattutto nei primi due. Il primo si apre anzi come su di un immenso scenario di silenzio. Con le loro azioni sciocche e vane gli uomini si sono tutti autodistrutti. Quelle che ora si odono sono soltanto le voci degli spiriti dell’aria e degli abissi. Grottesco capovolgimento di un passato di apparente buonsenso, le loro parole disegnano la tremenda realtà delle cose, tremenda, s’intende, nei confronti di quanto si credeva che fosse. Tutti i comportamenti degli uomini – le loro azioni come le loro verità, le loro istituzioni come i loro progetti – si presentano all’occhio del vero (che spinge il suo sguardo impassibile fino nel futuro) come estreme forme della caducità, dell’effimero e del nulla. Ancora Nietzsche col suo rasoio: «Al tempo dell’Illuminismo non si era resa giustizia al significato della religione, su questo non v’è dubbio: ma è altrettanto certo che, nella reazione che seguì a quel periodo, si andò parimenti ben oltre la giustizia, trattando le religioni con amore, anzi invaghendosene, e riconoscendo loro ad esempio una comprensione più profonda, anzi la più profonda, del mondo; comprensione che la scienza avrebbe solo dovuto spogliare dei suoi paludamenti dogmatici per possedere poi in forma non mitica la “verità”. Le religioni dunque – come affermavano tutti gli avversari dell’Illuminismo – esprimevano sensu allegoricus, tenendo conto dell’intelligenza della massa, quella saggezza antichissima che era la verità in sè, in quanto ogni vera scienza dell’epoca moderna aveva sempre portato ad essa anzichè lontano da essa: cosicchè tra i più antichi saggi dell’umanità e quelli moderni regnava armonia, anzi identità di vedute, e un progresso delle conoscenze – se di un simile progresso si voleva parlare – riguardava non l’essenza di esse, ma il modo di comunicare tale essenza. Questa concezione della religione e della scienza è totalmente sbagliata; e nessuno oserebbe oggi riconoscersi in essa, se non l’avesse presa sotto le sue ali l’eloquenza di Schopenhauer: questa eloquenza altisonante, che tuttavia raggiunge i suoi uditori solo dopo una generazione. Per quanto certo è che dall’interpretazione religioso-morale dell’uomo e del mondo fornita da Schopenhauer si può ricavare molto per la comprensione del cristianesimo e delle altre religioni, è anche altrettanto certo che egli si è ingannato sul valore della religione per la conoscenza. In questo era egli stesso un troppo docile discepolo dei maestri di scienza del suo tempo, che osannavano tutti al romanticismo e avevano rinnegato lo spirito dell’Illuminismo; se fosse nato nel nostro tempo, non avrebbe assolutamente potuto parlare del sensus allegoricus della religione; avrebbe piuttosto reso onore alla verità, come era solito fare, con le parole: nessuna religione ha ancor mai contenuto, nè direttamente nè indirettamente, nè come dogma nè come Parabola, una verità. Infatti ciascuna di esse è nata dall’angoscia e dal bisogno, e si è insinuata nell’esistenza servendosi degli errori della ragione; forse una volta, sentendosi minacciata dalla scienza, ha mendacemente introdotto nel suo sistema una qualche teoria filosofica, perché ve la si potesse ritrovare più tardi: ma questa è un’acrobazia da teologi, che si compie quando una religione già dubita di sè. Queste acrobazie teologiche (che nel cristianesimo, in quanto religione di un’epoca dotta, imbevuta di filosofia, furono usate già molto presto) hanno condotto a quella superstizione del sensus allegoricus, ma ancor più di esse vi ha condotto l’abitudine dei filosofi (soprattutto delle nature ibride, dei filosofi-poeti e dei poeti filosofeggianti), a considerare come essenza fondamentale dell’uomo tutti i sentimenti che essi trovavano in se stessi, e di attribuire così anche ai loro propri sentimenti religiosi un significativo influsso sulla costruzione dei loro sistemi di pensiero. Poiché i filosofi, sia pur variamente, filosofavano condizionati dalla tradizione di abitudini religiose o almeno sotto l’antica, potente eredità di quel “bisogno metafisico”, essi approdarono a concetti dottrinali che in realtà erano molto simili ai concetti religiosi ebraici o cristiani o indiani – simili come di solito i figli sono simili alla madre: solo che, in questo caso, i padri non si rendevano ben conto di quella maternità, come talvolta accade –, ma, nell’innocenza della loro meraviglia, favoleggiarono di una somiglianza di famiglia fra tutte le religioni e la scienza. In effetti, tra le religioni e la vera scienza non esiste parentela nè amicizia, e neppure ostilità: esse vivono su stelle diverse». (Umano, troppo umano, I, 110). Il riso nasce quasi involontariamente e si fa scherno, come si ride di fronte a un presunto capolavoro che riveli di colpo all’osservatore le sue irreparabili debolezze. La pomposa cornice non inganna, provoca piuttosto la critica schernitrice: “però le loro proprie vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo e le storie delle loro genti, storia del mondo”. Di fronte alla presunzione il comico assume persino significati di un’ananke vendicativa.

Posti di fronte all’unica vera certezza – l’assoluta mancanza di misura, il relativo assoluto – tutto diviene grande e piccolo, vero e falso, buono e malvagio, sensato e folle. S’impone una nuova forma di autorientamento in un mondo che il riso ha mostrato senza guide e valori. La Terra e la Luna dialogano tra loro con noncurante indifferenza e altro non sanno se non che la vita è infelicità. Distrutto l’idealistico a priori, «l’idea astratta e antecedente del bene e del male», come Leopardi scrive in una importante nota dello Zibaldone (25 settembre 1821), e reso assoluto il relativo, il superamento di siffatte verità (che il materialismo meccanicistico rende sempre più evidenti) non può essere affidato che all’entusiastico operare “contro ragione”, a quel “furore o filosofico o passionato o poetico o altro” senza del quale lo stesso uomo di genio non potrà mai cogliere le due facce opposte dell’universo. Sicché, alla fine, la negazione dell’antropocentrismo si risolve nella celebrazione dell’uomo.

Come aveva scritto nell’appunto del 1819, la rivoluzione copernicana «abbassa l’idea dell’uomo e la sublima», come di nuovo ripeterà il 12 agosto 1823 (Zibaldone), il fatto che l’uomo possa interamente comprendere e fortemente sentire la propria piccolezza non fa che dimostrare la grande capacità della sua mente; come dirà infine nella Ginestra e nel Tramonto della luna, la grandezza dell’uomo consiste proprio nella collocazione in cui esso si pone nell’universo, non forsennatamente orgogliosa, non codardamente vile. Sia nei confronti della tradizione umanistica, sia in quelli della presunzione romantica, si tratta di una celebrazione molto diversa.

La presunzione romantica. Com’è noto, essa ebbe il suo fulcro in ciò che venne chiamata l’“ironia”, in virtù della quale il soggetto, nella sua pretesa onnipotenza, poteva trasformare tutto in tutto, librarsi sovrano sopra ogni contenuto e governarlo a proprio piacimento. Il soggettivismo leopardiano – l’unica strada che il poeta vedeva aperta all’agire concreto dell’uomo – non ha nulla del capriccio ironico delle teorie romantiche. Al contrario. L’io non rappresenta l’alfa e l’omega della vita universale. L’individuo non è che «un’innesima parte del globo» la quale, a sua volta, non è che «una minima parte d’uno degl’infiniti sistemi che compongono il mondo». (Zibaldone, 12 agosto 1823). Non solo è così, ma tale si sente. L’opposizione leopardiana al movimento filosofico romantico è per quest’aspetto irriducibile. «Speculando profondamente sulla teoria delle arti – scrive nello Zibaldone, 5-6 ottobre 1821 – i Tedeschi ci hanno dato ultimamente il romanzo del romanticismo, sistema altissimo in teoria, in pratica, in natura, in ragione, in metafisica, in dialettica». Solo Cartesio, Galilei, Newton e Locke hanno «veramente mutato faccia alla filosofia». Estate-autunno 1821. Leopardi fissa per sempre le sue idee sul relativismo universale, sulla infinita possibilità dell’esistente, sul materialismo. L’8 settembre giunge a questa rilevante conclusione (Zibaldone): “Il mio sistema introduce non solo uno scetticismo ragionato e dimostrato, ma tale che ... la ragione umana per qualsivoglia progresso possibile, non potrà mai spogliarsi di questo scetticismo”. Si può chiedere: il soggettivismo eroico leopardiano è compatibile con siffatte prospettive? Studiando il Frammento apocrifo di Stratone di Lampsaco, Bruno Biral ha sostenuto che la conoscenza del vero non appagò affatto Leopardi. Egli reagì con tutto l’impeto della sua angosciata ribellione e il conflitto divenne insanabile. Ma si potrebbe ugualmente sostenere che con l’approdo a una conoscenza fisico-materialistica del mondo Leopardi – così pervenuto a una soddisfacente forma di conoscenza (per quanto dolorosa) – abbia posto il problema della responsabilità dell’uomo di fronte al proprio futuro, per cui, sgombrato il campo da qualsiasi possibile ritorno, il suo pensiero critico e negativo indica la strada della lotta, anziché quella della rinuncia. Indispensabili le riflessioni di Jean Marie Guyau: «Nelle teorie sociali, i nessi tra l’antico Epicureismo e quello moderno sono molto più stretti. In primo luogo troviamo in Hobbes, e più tardi nel XVIII secolo, l’ingegnosa teoria di Epicuro che basa la società su di un contratto. Gli epicurei, considerando sempre gli uomini essenzialmente degli egoisti e, di conseguenza, nemici, sono stati sempre, in tutti i tempi, portati alla ricerca di un mezzo artificiale il quale fosse in grado di ravvicinarli o di riunirli. L’idea di contratto si presentava allo spirito come il legame più valido per incatenare gli uomini gli uni agli altri. Ma Epicuro aveva concepito questo contratto come una specie di intesa primitiva tra gli uomini, più spontanea che razionale. Nella sua teoria gli uomini si avvicinano gli uni agli altri ed anche prima di essere in grado di parlare decidono a gesti di vivere in pace ed in amicizia. In Hobbes e nei suoi successori, invece, la concezione del contratto sociale non è più tale. L’intesa primitiva degli uomini sembra divenire per essi un vero e proprio contratto, stipulato davanti a testimoni con clausole chiaramente definite e precise. Una tale immaginazione, che si può situare tra lo scolastico ed il romanzesco, perde qualsiasi valore storico. Al contrario, il carattere peculiare della sociologia epicurea, come noi la vediamo esposta in Lucrezio, è quello di basarsi su fatti e di trarre origine dalla storia, ed è anche sulla storia che si basano, ai giorni nostri, i successori più fedeli della tradizione epicurea. Per costoro le società umane non sono nate all’improvviso, frutto di un atto immediato di volontà individuali; esse si sono costruite lentamente, grazie ad un lento e graduale accumularsi di abitudini, di tradizioni, grazie ad un graduale adeguamento degli individui gli uni agli altri: i concetti di giustizia e di diritto, di carità e di filantropia, anziché aver creato la società, derivano da essa; invece di spiegarla, si spiegano tramite essa. Ed è per questo che la morale sociale epicurea è essenzialmente storica e presuppone il concetto di evoluzione e di progresso. In Lucrezio abbiamo trovata espressa per la prima volta l’idea di progresso umano. Helvetius ribatte lo stesso concetto applicandolo specificamente al diritto e alla legislazione; ed è questa idea che si ritrova in D’Holbach ed in molti altri pensatori del XVIII secolo, epicurei e no. L’idea di progresso è la stessa del liberalismo ed è per questa ragione che essa doveva essere sostenuta con tanta forza nel XVIII secolo, alla vigilia della grande rivendicazione della libertà. Nel movimento che trascinava allora gli spiriti abbiamo visto quale enorme contributo spetti ai rappresentanti dell’epicureismo. Nella politica e nella morale sociale gli epicurei del XVIII secolo sono molto più convincenti che nella morale pura. Helvetius è decisamente liberale, D’Holbach è soprattutto un radicale, ed anzi attacca con violenza la sovranità e gli inconvenienti che inevitabilmente ne conseguono». (La morale d’Epicure et ses rapports avec les doctrines contemporaines, Paris 1878, pp. 286-287).

Per quanto dal complesso delle sue riflessioni non sia possibile, in Leopardi, trarre indicazioni esplicitamente positive (nel senso della fiducia e della possibilità), è però vero che le preclusioni riguardano fondamentalmente il regno del dovere essere, dell’utopia. L’immaginazione, ad esempio, tanto difesa dal poeta come fonte dell’agire, viene negata quando entrando in conflitto con la scienza presume di interpretare il mondo in maniera arbitraria e capricciosa. Come del suo vigore, essa deve anche essere consapevole dei suoi limiti, bronzei come la sua stessa virtù. Potrebbe dirsi che il positivo della concezione leopardiana stia nel rendere avvertiti gli uomini che le fondamenta sulle quali hanno eretto tante loro credenze sono, oltre che stolte, fallaci, e che l’ingegno che pur posseggono, quando venga male usato, non contribuisce che a perpetuare l’errore e la schiavitù ad esso. Il risultato del suo scetticismo, in sostanza, non è il punto di vista per il quale è lecito dimenticare tutto perché tutto, comunque, non ha alcun valore (avendo così come ideale il vuoto di coscienza), ma quello per il quale tanto le opinioni quanto i rapporti reali sono riconosciuti nella loro relatività e transitorietà, mai schiettamente veri e mai schiettamente falsi, ma così come vengono intesi nelle circostanze che la conoscenza ha raggiunto nel momento storico dato. Una volta acquisita la loro fallacia, tuttavia, non sarà più lecito il ripensamento; né giovevole la riesumazione dell’errore sotto altra forma.

«Abbiamo già rilevato, scrive Cyril Bailey, quanta solidità ed armonia venisse acquistando la dottrina atomista nel suo passaggio da Leucippo a Democrito; con Epicuro la sua evoluzione è ancora più marcata. La teoria è ora diventata un sistema portante di parti connesse tra di loro, meditato appare il legame tra una proposizione e l’altra, e varie implicazioni concettuali risultano essere state ordinate ed organizzate in base ai principi fondamentali dell’atomismo. Questa impressione di maggiore ordine e coerenza, offerta, in campo fisico, dalle teorie di Epicuro, rispetto a quelle dei primi atomisti, è dovuta senza dubbio anche alle diverse maniere in cui è pervenuto a noi il materiale sull’atomismo. Al fine di avere una visione più coerente delle teorie dei primi atomisti, abbiamo dovuto raccogliere frammenti dispersi, resoconti di dossografi e critiche isolate di filosofi posteriori; delle dottrine di Epicuro ci sono invece rimasti un resoconto, compresso e piuttosto confuso per quanto espresso un po’ più ordinatamente, in una sua lettera indirizzata al suo discepolo Erodoto, ed il commento completo del poema di Lucrezio. Da questi brani possiamo notare come Epicuro non si sia limitato ad “adottare” l’atomismo di Democrito; egli ha sviluppato, modificato e migliorato le teorie dei suoi predecessori, curando soprattutto la correlazione di tutte le parti con il principio centrale dell’infallibilità della percezione sensoriale. Nello studiare il suo sistema, si deve appunto tenere conto di questa struttura organica delle sue parti e del costante rinvio compiuto ai principi della Canonica». (The Greek Atomists and Epicurus, Oxford 1928, p. 275). Ma il pensiero critico leopardiano viene ad avere una forza difficilmente contestabile quando lo si collochi nella storia del pensiero a esso contemporaneo: le tendenze, cioè, della rinnovata tradizione cattolica e spiritualistica. Anche qui l’attacco alle pretese antropocentriche costituisce la chiave di volta della critica di Leopardi, tanto che egli sentì il bisogno, nel 1827, di riprendere e approfondire la polemica con il Copernico. Nel solco della migliore tradizione illuministica, Leopardi compone un’operetta altrettanto agile quanto divertente e amara. L’apparente noncuranza del divertimento nasconde infatti una profonda sofferenza giacché lo scrittore sa bene che, giustamente sanzionando la fine del sistema tolemaico, sanziona a un tempo quella della mitologia e della poesia degli antichi. La missione illuminatrice dell’ironia leopardiana esige tuttavia questo sacrificio giacché il vero svelato e l’errore smascherato sono cose troppo importanti per restare legati al sogno e all’illusione. Tanto più che il sistema copernicano, come già Leopardi aveva annotato nell’aprile del 1821, assolveva a una lezione di egualitarismo scientifico. Nell’operetta queste implicazioni egualitarie sono tutt’altro che nascoste, contrapposte al comune e meschino bisogno che tutti sentono di difendere i propri presunti privilegi, esse appaiono anzi come un traguardo irrinunciabile della nuova filosofia, quali che siano le conseguenze e le difficoltà che ne derivino.


[1988]

PARTE SECONDA. L’osceno

Il traghetto ambivalente

La maschera mi protegge e mi porta avanti e indietro, un traghetto e mi fa fare quei piccoli spostamenti che tanto mi sono necessari per darmi l’illusione di uscire da me stesso, dalla mia prigionia.

So bene che si tratta di piccole passeggiate, boccate d’aria nel cortile del carcere, ma mi illudo che gli antichi odori della foresta riempiano per pochi attimi le mie narici. Sono un uomo della normalità, questo lo vedono tutti, ma mi do delle arie, sono quasi sempre arie prodotte da giochi verbali innocenti, bisticci linguistici e ardimenti da palcoscenico, ecco perché la maschera mi si addice.

La lunga frequentazione con la ricerca della verità mi ha educato a essere piuttosto scettico. Alla lunga mi rendo conto che le magnificazioni dei limiti non erano altro che riflessi delle medesime pareti. L’eccellenza scientifica della misura cresce con la ripetizione, si modula in maniere a volte contrastanti, evitando di mentire direttamente ma accettando la fantasticheria e il sogno. Ecco perché la maschera mi traghetta dal falso, che riesco a contrabbandare sotto il suo mantello, all’osceno che si libera dentro di me dalle tante coperture ideologiche mettendo a nudo la mia anima, anche le sue povere giustapposizioni muscolose. Il numero controlla e mantiene in vita la ripetizione funzionalmente in grado di modificare il mondo. L’incognito del falso non è quello di essere certi di non subire uno scomodo riconoscimento sotto mentite spoglie, quanto quello di poterlo non subire. Soggiorno fra le belve e non me ne curo, ma non mi curo nemmeno di carezzare loro la schiena. Non sono seguace della mantica, non provvedo a registrare le ombre delle stelle, non mi immergo nelle regolarità osservabili che costruiscono i pilastri portanti dell’acquario dove vivo. Ho visto mangiatori di uomini, a parole, critici e ipercritici, rivelarsi fanciulli imberbi abbracciati a una piccola bottiglia di birra non appena l’aria si surriscaldava. Ho visto sovvetitrici dei canoni essenziali del mondo palleggiare un cerino acceso senza decidersi a dare corpo al proprio destino di accenditrici, pur sempre simboliche, di quella sovversione che sembrava tanto stesse loro a cuore appena pochi attimi prima. Rinunciare virilmente, a parole, agli accordi con il resto del mondo non è sufficiente, non garantisce nulla, nemmeno il misero coraggio del giorno di festa, non c’è un’autonomia del segno che non mi riporti dentro il cerchio modificativo. Sotto la maschera non ho più un nome, so bene che vuole dire, e mi sento leggero, poi qualcuno si inginocchia ai miei piedi e vuole una benedizione, mi ha scambiato per un prete? Oppure davvero sono un prete e non me ne sono accorto? Devo andare oltre, non aggirarmi cattivo ospite nella mia mente, cercando di dire la parola diversa capace di aprire il mondo. Ma questa parola opportuna non esiste, non c’è un discorso introduttivo all’apertura, non posso imitare la diversità. Finisco per restare prigioniero delle mie stesse trame senza districarmi dalle rotture delle connessioni che continuano a soffocarmi.

La maschera mi traghetta dal luogo delle regole, dove paletti confinari si configgono continuamente nel mio cuore, al luogo dell’assenza dei limiti, dell’eccesso, dove regna la rarefazione desolata dell’assurdo, e dove posso cadere in preda agli incubi del non ritorno se non faccio attenzione a tenere sveglia la mia sensibilità. Né il primo né il secondo di questi luoghi sono contrassegnati da qualcosa di visibile, il regno della morte risuona solo dello sforzo del lavoro. Il fare, dove il primo luogo si colloca, conduce alla morte, ed è sempre un fare della morte anche il secondo luogo, duplicare nottetempo la realtà nel suo confratello attempato e doppiogiochista è come sfogliare le pagine di un sogno pornografico, si cerca una rarefazione dell’eternamente uguale a se stesso, un luogo in cui l’utile diventa inutile liberandosi dalle catene della quantità. Sade è il nume tutelare di questo secondo approdo, il traghetto mi porta da lui, ma è un nume cieco, non ha mai raggiunto, in nessuna sua performance, la perfezione della qualità, è rimasto sempre prigioniero della quantità.

Ma non mi faccio traghettare dal falso all’osceno per trovare la perla che non c’è, il fare conduce alla morte, è sempre un fare la morte. Non posso che fare e non posso che morire. Compio il viaggio della maschera per imparare a usare strumenti, allo stesso modo in cui ho imparato a sparare senza vestire con abiti a festa un mezzo di morte. L’armonia della vita è da un altra parte, ma non raggiunge mai le proprie completezze, la morte non completa, tronca l’incompletabile che si spaccia per completo. La larva sogna ed è nel sogno che si compie l’incredibilmente oltre, e su questo sogno si sviluppa una effimera qualità che dà sugo alla vita, che alza lo sguardo e vede lontano, dove nessuno sguardo si è mai posato.

È anche vero che al di sotto della maschera, nel mentre si compie questo assurdo traghettamento da un cimitero all’altro, nuove forze sembrano muoversi dentro di me. Dioniso era il dio della maschera e lo scatenarsi delle donne era coperto dalla nebride. Dove per l’altro sono nessuno devo fare attenzione a mettere al loro posto le relazioni, i desideri, i calcoli e le parole. Il dio dello sbranamento è sbranato, allo stesso modo come il dio indiano della vita è coperto della polvere dei cadaveri. Sotto la maschera c’è il selvaggio, l’homo silvaticus delle iconografie medievali, coperto di foglie e di velli. Mentre tutti si aspettano chissà quali intrighi dai miei atteggiamenti mascherati, la condizione della verità non muta a seguito delle mie circonvoluzioni proprio perché queste, labirinti compresi, sono state svolte sulla base di un linguaggio comune. I limiti del mio linguaggio rendono solo risibili i miei tentativi di andare oltre, specie se visti dal punto di vista della verità, ma più che cercare vere e proprie differenze io seguo tracce e trascurabili sentieri senza evidenza, alla fine finisco per scoprire solo novità modificative. La verità comprende il mio tentativo di nominare il mondo duplicandolo in mille labirinti come l’adulto il pargoleggiare del bimbo, questi suoni sono nell’idioma colto dell’altro anche se in esso non prendono corpo di significato. Non ho nel mio dire il discorso collocante che chiude ogni apertura e fa coincidere perfettamente le dissonanze, ma è proprio per questo un discorso creativo, inventa il mondo e mi apre all’inquietudine dell’insonne.

La maschera mi consente, nel traghettarmi verso l’oltranzista ripetitività dell’osceno, di rendermi conto della ripetizione obbligata. Nella maschera, infatti, sono solo io a fissare nuove regole e a soffrire mortalmente delle conseguenze che queste incontrano in un universo sempre più chiuso e traumaticamente, eccessivamente, ripetitivo. Nel suo complesso l’intero traghettamento, maschera compresa e miei labirinti non esclusi, resta indifferente, occhieggia da lontano. L’eccesso sta nel mio accordarmi alle corrispondenze ed è qui che nasce il germe della ribellione, non in un balzare indietro inorridito. La parte assoluta del dire non mi appartiene, la qualità è lontana, anche se ne vado in cerca, qui costruisco strumenti e mi ingegno di impiegarli, sollevo la pelle caprina dell’uomo selvatico e devo combattere con lui se voglio sopravvivere, infatti non è lecito scoprire la maschera e poi tornarsene tranquillamente a casa. Suscitare fantasmi nelle città bene ordinate, politicamente corrette, non è igienico, farlo significa essere obbligati a sbarazzarsene. La verità, da parte sua, medita la fine della mia traghettazione, non può ammettere né l’identità assoluta della tautologia che l’affligge nello scientifico ammodernare del mondo né l’incomprensibile desolazione sadiana, dove tutto si ripete come un orologio provvisto di meccanismi a marionette. Io solo mi schiero e prendo partito, sono in lotta, vivo nella lotta, anche se il mio destino mi offre solo possibilità di sconfitta. Ma è proprio la coscienza di questa sconfitta che mi riporta alla lotta. La verità, arcigna, una, immobile, comprende questo vano delirare del mondo ma non se ne adombra, non piglia provvedimenti, semplicemente è. Dalla mia accesa condizione conflittuale, questa solidità una è meno di nulla, eppure so che la mia sconfitta sarebbe banale fallimento senza la gloria della qualità. Il fare, il mio fare, quindi anche questo traghettare, è un’affermazione della parte, sono io, per paura, a imborghesirlo, a racchiuderlo nel borgo della difesa a oltranza, a prendere la decisione del controllo, a farmi catturare dalla volontà. Fino a quando resto prigioniero della verità, del mito della verità, potrò avere più o meno spazio ma resterò comunque prigioniero della paura, la dirò questa paura, sarà essa il segnale della mia condizione ridotta, tagliata, specificata dall’orientamento. Lo sguardo della parola mi custodisce dopo avermi catturato. Un reciproco riconoscimento. La maschera non ha un messaggio perché non possiede una lingua. Sono io che gliene presto una e che riproduco l’immagine di una maschera dicibile, esistente dell’esistenza che vedo nella modificazione. Mi rendo conto di questo andare e venire, di questo continuo traghettare me stesso, ma sono impaziente di arrivare a conclusioni quantitative, voglio costruire, e siccome ho illusioni in grande voglio costruire l’unità. Ma non posso farlo, la violenza qui si arresta baloccandosi in modo futile, poco convincente. Lo spaccio delle conquiste mi mozza il fiato, ma metto parecchio a rendermi conto che il mondo è troppo piccolo per il mio bisogno di completamento.

Né il falso né l’osceno sono punti di approdo. Mi rifiuto di abbandonare la maschera. Di fronte al falso vesto i panni della concretezza veritiera che si nasconde all’interno dell’involucro, Déjacque non Sartre, il pugnale e il veleno non un qualsiasi testamento o la danza delle ore che pretende tornare a giustificare le tesi relativiste di un qualsiasi Camus. Di fronte all’onore di qualche puttana pubblica, parteggio per il libero amore e detesto non il fare pornografico, di cui viene artatamente costruita una storia paradossalmente quasi vera, ma il sentirsi offese di quelle puttane pubbliche che della propria morale hanno fatto strame per banale ludibrio di interessi personali, non certo per ricerca di “sensazioni forti”. La politica è pornografia prima di ogni altra cosa, anche quella di chi non avverte nemmeno lo stimolo del piacere sessuale, malignamente negatogli dalla natura.

Né di fronte al falso (Sartre avrebbe dovuto scrivere il testo di Déjacque!), né di fronte all’osceno (la Pivetti non avrebbe mai potuto tenere un diario come quello qui pubblicato!), mi sento dalla parte del censore. Non me ne importa niente. Ma le categorie critiche del falso e dell’osceno prendono la loro forza dalla realtà, da quello che Sartre è stato veramente, dall’ottusità e dalla stupidaggine del suo stalinismo, specialmente se commisurato alla intelligenza analitica di alcune sue posizioni filosofiche, da quello che uomini politici sono nella realtà, a prescindere dai personali usi erotici ai quali più o meno coscientemente consegnano i propri corpi. Niente di questo sottofondo concreto attiene alla maschera.

Vi è un modo di attenersi ai fatti che può essere visto sia falso che osceno. Ed è quanto è accaduto in questi sforzi qui messi sul tappeto. Con buona pace del disturbato perbenismo di tanti rivoluzionari.

Sono sempre stato abitante di numerosi regioni della realtà, dentro una cella mi sono sempre sentito prigioniero. Se amo la verità vengo attirato in un gorgo senza fine dove le mie acquisizioni, viste criticamente, ridicolizzano ogni tentativo di avvicinarmi allo scopo. Tutti i tentativi convergono al mantenimento delle acquisizioni, tutti tranne quello che prende in considerazione proprio l’inquietudine. Questo speciale tentativo fugge via dallo scopo, ne decreta la scomparsa, questo è certo, ma si ingegna di andare via dal suo guscio monotono. Il farsi da parte di fronte all’imperio della verità è un esistere che alimenta il sogno, che non fornisce certezze di cui nutrirsi. La sfida di questo farsi da parte risuona semplicemente di fronte al fare, non vale la pena imprecare contro il controllo se poi si propone il controllo stesso come metodo per venire fuori dal fare. Sic et simpliciter mi devo trovare altrove, non volermi trovare altrove, i due aspetti non sono identici. L’immanenza del fare non è mai accettabile, nemmeno come ipotesi. La verità e il mondo si fronteggiano perché io li muovo reciprocamente giustificandone la tenzone. Senza la mia intenzione fattiva resta solo l’uno, l’inconoscibile alla mia non intenzione. Il mio dominio sul mondo è di certo infondato, ma è questo che ho, posso partire da questo per un viaggio meraviglioso ma non posso cancellarlo, è qui che ho trovato la maschera e il traghettamento. Non posso spingere oltre la ricerca della verità, mostrerei una profonda invidia per un mancato possesso, ma la verità non può essere posseduta perché è altro, assolutamente altro. Non posso sovvertire l’estraneità della verità più di quanto non possa sovvertire la lontananza della qualità. Lo scopo del fare non è la verità ma soltanto l’illusione della verità. La pace è altra faccenda, qui nel mondo è soltanto una commedia recitata male.


[2006]

Introduzione all’osceno

Non entro qui nel merito dell’osceno, non mi sembra necessario, mi basta il senso che tutti attribuiscono a questa parola per sviluppare la mia tesi. L’osceno è quindi quello che ognuno di noi pensa che sia, in ogni caso. Di già il suono di questa parola richiama alla mente due elementi, non necessariamente coesistenti: la sfera sessuale e il rifiuto della normalità codificata socialmente.

La storia dell’oscenità potrebbe essere studiata a partire dalla sua repressione da parte del potere, di qualsiasi potere in carica. Si tratta, ovviamente, di un criterio non chiaro, che ammette troppe eccezioni per essere accettato, ma nemmeno ciò interessa particolarmente all’estensore di queste note. Non siamo di certo nel Cinquecento, quando l’Aretino corse il rischio di morire pugnalato la notte del 28 luglio 1525, e nemmeno siamo esposti ai rigori dell’Inquisizione (oppure no?).

Dopo tutto è dell’osceno come strumento di lotta contro il potere che vogliamo parlare, strumento caduto in disuso e considerato, dai moralisti rivoluzionari che ci hanno soffocato per decenni, disdicevole.

Qui di seguito presento, a titolo di esempio, un escursus non impegnativo della letteratura erotica e pornografica impiegata come strumento di lotta politica e rivoluzionaria. Come si vedrà, mi sono limitato a indicare quasi soltanto testi del settecento e dell’ottocento, di certo i due secoli più interessanti da questo particolare punto di vista.

In un libretto senza data, ma quasi certamente del 1791, dal titolo: Catéchisme, libertin, à l’usage des filles de joie, et des jeunes demoiselles qui se décident à embrasser cette profession, par Mme de Lamotte, a Cythère, et se trouve chez toutes les filles publiques, s.d. Spesso umoristisco, qualche volta molto osceno e sempre ben scritto, questo testo rappresenta un manuale di istruzioni per le prostitute parigine. Non è soltanto un libro erotico, ma prende la forma di un pamphlet di critica sociale il cui genere fiorì durante la rivoluzione. Il Catéchisme libertin venne presentato come opera di mademoiselle Théroigne, che allora cercava di organizzare un corpo rivoluzionario femminista. Il testo, con dei colpi di scena molto veloci, servì molto bene a dei regolamenti di conti tra opposte fazioni.

La chasteté du clergé dévoilée, ou Procès-Verbaux des séances du clergé chez les filles de Paris trouvés à la Bastille, a Rome, imprimerie de la propagande et à Paris, 1780. La lista dei nomi di ecclesiastici sorpresi con prostitute nel corso della rivoluzione è autentica, il libro è ovviamente un falso documento di polizia.

Chavigny, detto la Bretonnière, Le cochon mitré, dialogue, à Paris, chez le cochon 1689. In una conversazione fra Scarron, Furetière, Louis XIV, madame de Maintenon, il cardinal d’Estrée et Le Tellier de Louvois, arcivescovo de Reims, Scarron rivela che sua moglie era stata l’amante del maréchal d’Albret, e che poi era diventata l’amante del re. Segue la storia della relazione tra l’arcivescovo di Reims con la duchesse d’Aumont, moglie di suo cognato, il marchese di Créquy. Furetière conclude dicendo che si potrebbe definire la storia dei vescovi come la Storia porca, come si dice per la Storia augusta per parlare di quella degli imperatori.

Pierre-François Guyot Desfontaines, Le Grand mystère, ou l’Art de méditer sur la garde-robe, renouvelé et dévoilé par l’ingénieux docteur Swift. Avec des observations historiques, politiques et morales qui prouvent l’antiquité de cette science etc., trad. de l’anglaise, La Haye, 1729. Il libro tratta di alcune riflessioni filosofiche sulla merda e sugli uomini. Si tratta di un falso attribuito a Swift, che ancora oggi viene ristampato, l’ultima edizione, sempre attribuita allo scrittore inglese, è del 2002. Il suo autore è invece uno dei padri fondatori della critica letteraria francese, avversario fierissimo di Voltaire.

Hippolyte Magen, Les amours de l’Impératrice Eugénie avant, pendant et après le mariage, Bruxelles ma con l’indicazione mascherata di Londra, s. d. Un libro in cui vengono elencati i dettagli erotici dei rapporti sessuali di Eugénie María de Montijo de Guzmán, contessa di Teba, sposa di Napoleone III, in particolare con madame Contades. Sempre di Hippolyte Magen, Les deux cours et les nuits de Saint-Cloud: moeurs, debauches et crimes de la famille Bonaparte, nuova edizione rivista, corretta e aumentata della biografia dell’imperatrice dei francesi. London-Bruxelles 1863. Malgrado le condanne a dodici mesi di carcere e a 3000 franchi di ammenda Magen pubblicherà ancora: Histoire satyrique et véritable du mariage de César avec la belle Eugénie de Guzman, London-Bruxelles 1862. Insieme a Pierre Vénisier aveva pubblicato: La cour d’une Espagnole, Bruxelles 1871. La femme de César. Biografie d’Eugénie Kirkpatrick, London 1866. Le Mariage d’une espagnole par Mad. U. R., London 1866, in cui alle imprese dell’imperatrice vengono associate quelle della madre. Le iniziali U. R. indicherebbero Marie Letizia Studolmina Wyse Bonaparte, moglie di Urbano Rattazzi, ministro italiano. Si tratta, in quest’ultimo caso, anche di un falso letterario. Vésimier venne condannato a 18 mesi di carcere. Il libro Liebetollheit einer Kaiserin, s.l. n.d. è invece un anonimo libello pornografico come ce ne furono a centinaia i cui i personaggi, Napoleone III e sua moglie, vengono fatti diventare attori di storie erotiche prive di qualsiasi critica politica. I libelli più noti sono di Pierre Vésimier: Les amours de Napoléon III. Par l’Auteur de la femme de César, Genéve-Bruxelles-Milan-Turin-Londres 1863, e Les Amours de Napoléon III, ou le Lupanar Elyséen dévoilé, les orgies de Badinguet et de ses complices avec leur maîtresses, Londres et Genève, ma Bruxelles 1871. Un violentissimo pamphlet, sempre contro Napoleone III, era stato pubblicato da Vésinier nel 1863 a Londra con il titolo: Histoire du nouveau César.

Albrecht Schöne ha scritto un romanzo in otto volumi sulle vicende erotiche di Federico Guglielmo II, l’erede di Federico il Grande: Dreyerlei Wirkungen. Eine Geschichte aus der Planetenwelt, Wien und Dresden 1789-1792. Scritto erotico con critica politica. Un altro libello di critica politica ferocissima è l’opuscolo erotico contro lo stesso re: Der Jesuit auf dem Thron oder das neue Felsenburg, Berlin und Leipzig 1794. Sempre sullo stesso argomento, ma ancora più piccante è: Saul, der zweite genannt, der dicke König von Kanonenland, Berlin und Postdam 1798.

Il beneventano Niccolò Franco, contemporaneo dell’Aretino, scrisse una raccolta di poesie, La Priapea, 1541, dove ricorrendo alla pornografia non si limita a criticare l’Aretino, ma anche il papa Paolo III, i Farnese, l’intero Concilio di Trento, l’imperatore Carlo V e il papa Paolo IV. Morirà impiccato nel 1570 per una poesia contro il papa Paolo V. Il secolo non ha però molti esempi del genere, evidentemente questa strada era molto pericolosa.

Antonio Gavin, un prete cattolico di Saragozza, convertito alla religione anglicana, scrive a Londra diversi libri pornografici animati da suore e monaci. The Frauds of romish Monks and Priests with Observations on a Journey to Naples, London 1691. A Master Key of Popery in five parts, London 1725-1726.

Christian Friedrich Hunold, nel Der Europäischen Höfe Liebes- und Helden- Geschichte, Hamburg 1705, fornisce approfonditi dettagli sulle attività amatorie e sulle relative storie vere e inventate che dilagavano in tutte le corti dell’Europa settecentesca.

Gregorio Leti, letterato della metà del Seicento, ha scritto, fra le tante opere erotiche, una feroce satira pornografica della vita del clero romano nel libro: Il puttanesimo romano o vero Conclave generale delle Puttane della Corte per l’elezione del nuovo Pontefice, s. l. 1668. Certamente uno degli attacchi più terribili contro la Chiesa cattolica condotti con il sistema qui indicato del ricorso alla pornografia.

Intorno alle attività erotiche della contessa di Lichtenau, amante di Federico Guglielmo II: Biographische Skizze der Madame Ritz, jetzigen Gräfinn von Lichtenau, Paris-Liepzig 1798. Molto più dettagliato e audace un altro libello pornografico, chiamato delle “carte segrete”: Geheime Papiere der Gräfin von Lichtenau, Charlottenburg-Leipzig 1798, di quest’ultimo si conosce l’autore: Heinrich Husen. Di un terzo libello, presentato come Confessioni della contessa, dal titolo: Bekenntnisse der Gräfin Lichtenau, Cöthen 1798, nel titolo si dice che è stato scritto dall’uomo dal berretto rosso (vom Mann mit der röten Mütze) con evidente riferimento fallico.

Su Luigi XIV, re di Francia, il materiale abbonda, com’è naturale che sia. Il potere dei tiranni si presta molto alla critica pornografica. Nouvelles amours de Louis le Grand, Paris (ma stampato in Olanda) 1696, è uno di questi documenti. Nel libro di Gatien Sandraz de Courtilz: Les conquestes amoureuses du Grand Alcandre dans les Pays-Bas, Colonia 1684, si raccontano gli amori con la Vallière, la marchesa di Montespan e la Fontanges.

I libelli contro Maria Antonietta, moglie di Luigi XVI, sono sterminati. L’intento con essi di colpire la corona è abbastanza costante. Mémoires justificatifs de la Comtesse de Valois de la Motte, Paris 1789, dedicate alla relazione con il cardinale Rohan. J.-P. Brissot de Warville, Essai historique sur la vie privée de Marie Antoinette d’Autriche. Reine de France, Paris 1789. Anonimi invece: Entrennes aux fouteurs ou calendrier des trois sexes, Paris 1790. Fureurs uterines de Marie-Antoinette. Au manège et dans touts les bordels de Paris, Paris 1791. Le bordel royal. Suivi d’un entretien secret entre la Reine et le cardinal Rohan, s. l. e d. Bordel patriotique, intitulé par la Reine des Français, Paris 1791. Il resto della vastissima produzione è semplice pornografia senza scopi politici.

Senza titolo

G. Faldi, La scultura barocca in Italia, Milano 1958, p. 77: riproduzione del gruppo scultoreo nominato “Estasi di santa Teresa” di Gian Lorenzo Bernini.


Scorrendo in biblioteca le pagine del testo di cui sopra, ho trovato inseriti, proprio alla pagina 77, alcuni fogli scritti con grafia minutissima, su carta velina quasi trasparente. La mia sorpresa è stata grandissima, leggendoli, constatando che si trattava di un ritorno dell’antico modello di critica politica usato con sommi risultati nel corso del regno di Napoleone III ed avente come teatro le gesta erotiche di Eugenia. Pensavo che la pornografia come mezzo di critica politica fosse del tutto dismessa, non era vero. Ecco perché mi sono lestamente impadronito dei fogli e qui li riproduco a futura memoria.

Alla memoria dei martiri cristiani
della Vandea
trucidati dalla barbarie rivoluzionaria

Breve avviso ai lettori

Per quanto possa sembrare strano, la pubblicazione di questo Diario segreto non è da collegarsi con le recenti vicende che si sono concluse con il mio allontanamento dall’ufficio di consigliere personale della Presidente della Camera dei Deputati Irene Pivetti.

Nessun rammarico per questa decisione, dovuta esclusivamente a motivi tecnici che sono stati imposti alla Presidente da necessità politiche e non da risentimenti personali verso di me.

Ritengo che la Presidente Pivetti, nei cui confronti nutro tuttora il massimo rispetto, sia una delle donne più intelligenti della storia recente e meno recente del nostro Paese. Il fatto che questo Diario segreto affronti tematiche di natura intima, non ha frenato la mia intenzione apologeta ed illustrativa del carattere e della personalità della Presidente, anzi, al contrario, è stata la lettura di alcuni passi, certamente scabrosi, che mi ha spinto a pubblicare il tutto, proprio per dimostrare come Irene Pivetti sia, prima ancora che Presidente della Camera dei Deputati, una donna con una sua vita, una sua autonomia di coscienza, una sua concezione politica e religiosa del tutto personale. Insomma, un modello per tante donne cattoliche che guardano a lei con rispetto, ma anche con curiosità. Disporre adesso di queste pagine, dove l’umanità della Pivetti viene messa radicalmente a nudo, sarà per le donne cattoliche, come per tutti gli altri lettori che avranno fra le mani il libro, motivo di riflessione edificante e di sana progettualità di vita cristiana e leghista.

R. F.

12 maggio 1991

Signore mio Dio, oggi ho deciso di fare il passo più importante della mia vita: sono andata a vedere un comizio di Bossi. Un bell’uomo, non c’è che dire, ma è sposato. Gran parlatore, le sue parole mi sono scivolate addosso su tutto il corpo, le ho sentite penetrare dentro di me. Concetti pochi, per la verità, una gran confusione di idee, ma il suono della voce, gracchiante, e l’alto e basso degli acuti, mi sono entrati nella pelle. Non lo dimenticherò facilmente.

20 maggio 1991

Ieri notte mi sono svegliata verso le due e non ho potuto più prendere sonno. Avevo fatto un incubo terribile. Mi vedevo circondata da diversi uomini che mi guardavano come volessero spogliarmi. Spesso mi sento osservata in questo modo, ed è per ciò che nascondo il mio corpo con attenzione, cercando di spegnere gli stimoli sessuali di tutti quelli con cui vengo casualmente in contatto. È un esercizio di contrizione che offro sempre al Sacro cuore di Gesù, che continui a tenermi lontana dal male. Poi il caldo si è fatto sentire. Quest’anno la temperatura si è alzata più del solito. La stanza sembrava restringersi. Mi sono accarezzata il seno. Di solito mi calmo dopo pochi minuti. Non ci sono riuscita. Non dovrei parlartene, ma nel vincolo del reciproco segreto che ci unisce, vincolo che so per certo nessuno di noi spezzerà mai, ti confesso che mi sono toccata proprio lì. Domani ne parlerò con Don Ignace. Mi assolverà. Lo fa sempre, anche se negli ultimi mesi, quando mi allontano dal confessionale sento i suoi occhi sul mio corpo, penetrarmi da dietro attraverso le vesti. Come liberarsi da tutto ciò, mio Dio, fa’ che il sangue dei Santi Martiri discenda su di me, rendendomi pura un’altra volta, per sempre.

23 maggio 1991

Entrare in una sede della Lega mi fa sempre di più uno strano effetto. C’è qualcosa di simile all’atmosfera delle parrocchie cui sono stata abituata per anni, ma anche di diverso. I ragazzi sono più o meno quelli. Solo alcuni di loro, fra i più grandicelli, avendo altre esperienze politiche si comportano diversamente. Hanno un linguaggio più ricco e colorito, si fanno scappar via di quelle parole che arrossisco a scrivere qui. Non vanno in Chiesa la domenica e spesso li sorprendo a guardarmi le gambe che nei loro commenti trovano belle. Io non so mai come comportarmi. Costituiscono, mi dicono, la struttura portante del partito, ma non ci credo. Non abbiamo necessariamente bisogno di questi bellimbusti. Un ideale come quello della Lega si regge da solo, trova le sue origini e la sua forza proprio fra la gente comune, quella che non sogna altro che ordine e prosperità, un libero Stato in una libera società cristiana e cattolica. Bossi la pensa diversamente. Sta dando troppo spazio a quelle leve politiche provenienti da partiti e partitini della sinistra. Attorno a lui aleggiano, come ombre di cattivi consiglieri, giovinastri che ricordano gli anni antichi dell’eskimo e delle molotov. Com’è possibile che un politico avveduto come lui non si accorga del pericolo e del discredito che da loro proviene? Ieri ho scoperto per caso che almeno due di essi hanno cercato più o meno apertamente di avere rapporti con sua moglie. Non so se l’hanno convinta, ma avendola conosciuta, e avendo capito il carattere non proprio religioso del suo modo di comportarsi, sono certa che prima o poi ci riusciranno. Che Dio li perdoni. Certo, sono più belli di quelle brave animucce della parrocchia che continuano a tenermi gli occhi addosso. Prima o poi cercheranno di mettermi anche le mani addosso. Cosa farò? Come troverò la forza di resistere loro? E se cercassero di usarmi violenza in una stanza deserta di una delle nostre sedi? Sono certa che sono capaci di questo e di altro. Santa Maria Goretti, aiutami tu.

30 maggio 1991

Oggi sono andata a Pontida. Uno spettacolo. Mi tremavano le gambe. Tutti urlanti ed esaltati. Un vociare continuo di bestie accaldate nel sole primaverile. Bossi urlava senza che la maggior parte di noi capisse qualcosa. Urlava e questo era sufficiente. Trovandomi in prima fila ricevevo continue spinte di dietro. Ad un certo punto ho smesso di prestarci attenzione. Le parole, smozzicate e sciatte del Capo, ma quanto persuasive, quanto capaci di giungere fino in fondo al cuore e alle viscere, mi stavano travolgendo. Quello che riuscivo a sentire non era molto, ma la musica della sua voce era talmente convincente. Non so come spiegarti questo fenomeno. Mi sono sentita quasi trasportata in una diversa condizione. Il mio corpo si era accaldato. Avevo il viso rosso e le tempie mi pulsavano. Il cuore ticchettava per conto suo e non potevo controllare il respiro. Ad un tratto ho sentito che qualcuno mi stava carezzando di dietro. Mio Dio! Una mano, fra la folla, mi carezzava leggermente i fianchi. Non mi era mai successo che non sapessi reagire istintivamente e violentemente ad una situazione come quella. Di regola quando qualcuno mi sfiora mi chiudo a riccio. Ne faccio una questione di etica e di violenza subita. Ma quel giorno l’eroina della purezza femminile non c’era più. La mano continuava a scendere giù, fin quando si posò, stabile, con sicurezza, proprio lì. Puoi immaginarti dove. Ma non era una mano estranea. Non vivevo quell’attimo come una violenza subita, ma, al contrario, sentivo attraverso quel contatto fisico una maggiore compenetrazione con l’ambiente tutto insieme, con gli urli sgrammaticati del Capo e con il vociare della gente, con il mio corpo che si apriva lentamente ad una esperienza nuova. Dio mio, come dirlo? Non so proprio, ma ho deciso di essere sincera fino in fondo. Di non nasconderti nulla. Mi sono bagnata senza ritegno. Adesso me ne vergogno, ma non sentivo vergogna in quel momento. Vivevo una sorta di trasfigurazione della realtà. Le facce di coloro che mi circondavano, in verità in gran parte ebeti e imbecilli, ricevevano una nuova luce di bellezza. Non so bene se fossero le parole del Capo o la mano che mi carezzava a causare il fenomeno. Per il momento mi basta constatarlo. Cos’è il peccato? Bisognerebbe chiederlo a Sant’Agostino.

6 giugno 1991

La pizza era lì davanti a me ma non avevo voglia di mangiarla. Da qualche minuto il Capo mi stava facendo il piedino. Sì, proprio lui. Il grande Capo. Non l’avrei mai pensato possibile. Nella nostra pizzeria a Sesto, sotto il tavolo, come un qualsiasi liceale, il più grande politico vivente, l’uomo che sta cominciando a cambiare la mia vita, da qualche minuto stava sfiorandomi la gamba con il piede che aveva prima liberato dal mocassino. Roba da non crederci. Non sapevo cosa fare. Sembra facile in occasioni generiche e superficiali proporsi un modulo di comportamento. È quello che Don Ignace dà l’impressione di non capire. Non sto avvicinandomi ad un uomo come tutti gli altri. Il Capo è sempre il Capo. Quando chiede bisogna adattarsi ai suoi desideri. È una maniera per stargli vicino, per ripagarlo dei suoi sacrifici e degli sforzi cui si sottopone per tutti noi, per il popolo della Lega, ma anche per l’Italia futura, la vera Italia, quell’Italia del Nord che nascerà solo attraverso la sua guida e sotto il suo tallone di governo forte e lungimirante. Cosa potevo fare io, piccola e indifesa donna, se non allargare un pochettino le gambe per facilitare l’ascesa del piede del Capo? Potevo forse oppormi? Alzarmi e andar via? Potevo fare una chiassata? Che figura ci avrei fatto? Non mi sarei mostrata indegna di tanto onore? Per questo motivo, Dio mi perdoni, mi sono aperta per quel che mi era possibile. Il piede è salito al massimo. Adesso me lo sentivo fra le cosce. Bossi, seduto di fronte a me, continuava a parlare con Maroni (che, detto tra parentesi, è impotente e quindi di questi argomenti fa di necessità virtù), con Formentini (che per essere porco lo è, ma cammina guardato a vista dalla sua signora), e con altri amici della Lega di cui non ricordo il nome. La vista mi si stavo annebbiando. Bossi si era un po’ abbassato sulla sedia, come volesse stendere per bene le gambe e riposarsi. Ormai il piede si era fermato all’apice delle cosce e mi titillava proprio nel punto giusto. So che non sarà facile parlare di tutto questo con Don Ignace, ed è per ciò che prima di farlo ne parlo con te, che sei in fondo il vero e unico mio confidente segreto. L’orgasmo è arrivato quasi senza accorgermene e mi è venuta una tosse isterica che non riuscivo a fare smettere. Bossi s’è preoccupato e ha fatto presto a rimettersi la scarpa e a cambiare argomento con i suoi interlocutori.

15 giugno 1991

Quello che doveva accadere è accaduto. Non dovevano lasciare la porta socchiusa. Ieri sera nella sede di Varese la discussione si era conclusa molto tardi. Il Capo ci aveva intrattenuto sui programmi immediati del progetto politico federalista. Era anche presente quell’imbecille di Miglio che tutte le volte che apre bocca mi ricorda mio nonno quando cercava di corteggiare la cameriera recitandole le poesie di Pascoli. Questa faccenda del Federalismo non la capisco bene, ma fa un grande effetto su tutti noi. Dobbiamo dapprima separarci dallo Stato unitario e centralista, per poi dar vita ad una federazione di Stati più piccoli, dove ogni singolo Stato avrà la sua autonomia amministrativa, politica e legislativa. A me non importa granché di tutto ciò, ma mi è stato detto dal Bossi che questa tesi politica e teorica è fondamentale ed io ci credo. Altrimenti non sarei leghista e non sarei credente. Una fede di fondo ci vuole, ed è quella cristiana, poi se ne possono aggiungere altre. Quella leghista completa la mia formazione cristiana e cattolica, con un bel programma di selezione degli strati migliori della popolazione migliore. Insomma, non so bene quel che penso su questo punto, ma mi pare di capire che le cose dovrebbero andar così: prima ci impadroniamo del governo, poi separiamo la parte più ricca dell’Italia, cioè il Nord, ne facciamo uno Stato indipendente, e mandiamo a quel paese i meridionali e tutto il resto. Insomma, tutta quella parte d’Italia che campa a sbafo e non vuole lavorare. I più ricchi sono necessariamente anche i migliori, e i più cristiani, perché, com’è ovvio, sono benedetti da Dio. Solo che queste riflessioni, che andavo facendo tra me e me, con nelle mani l’ultimo opuscoletto divulgativo del Miglio, mi avevano distratta da quello che accadeva nella sede. A poco a poco tutti se n’erano andati. Miglio era stato accompagnato a casa, perché da solo non ritroverebbe mai la strada, gli altri erano andati al bar o in pizzeria. Ero rimasta sola. Poi mi accorsi della luce che filtrava dalla stanza del capo, l’inviolabile stanza dove entro sempre con un nodo alla gola, il luogo che tutti desiderano visitare come un santuario. Dalla stanza mi arrivavano strani mugolii, come se qualcuno si sentisse male, o lamentasse chissà quali dolori inconfessabili. Mi sono avvicinata alla porta ed ho visto quel poveretto di Maroni per terra a quattro zampe come una bestia, con addosso soltanto reggicalze e mutandine. Dietro di lui Bossi con una frusta in mano lo colpiva facendolo uggiolare piano piano. Lo spettacolo, per me nuovo e inaspettato non aveva nulla di attraente. Maroni nudo somiglia a uno scorfano bollito, ma l’immensa statura del Capo, troneggiante su di lui, lo sollevava ad altezze inattingibili per un simile nano. Qualunque cosa faccia il Bossi è sempre un grand’uomo, anche con la frusta in mano. Sono andata via senza disturbarli oltre. Non sapevo di simili pratiche nell’àmbito della Lega. Penso abbiamo altre finalità di quelle in uso nelle parrocchie a carico di ragazzi e ragazze, dove vengono impiegate allo scopo di educare alla mortificazione della carne. Forse si tratta di una pratica di mortificazione politica. Ma, allora, il reggicalze che scopo aveva? Questo Maroni è decisamente un poco di buono! Se non ci fosse il Capo tutto andrebbe a catafascio. Pregherò per lui stanotte. Che Dio illumini le sue decisioni.

15 luglio 1991

Giorno di gioia senza limiti. Il Capo mi ha baciata nella sua stanza. La cosa si è svolta in maniera tanto veloce e improvvisa che non ho saputo far altro che aprire la bocca ed accettare l’insolito omaggio. Per la verità l’alito di Bossi puzza in modo orrendo perché non riesce mai a lavare bene la protesi, mentre la sua lingua più che altro mi sembrava un pezzo di stoffa in bocca, ma l’esperienza è stata sublime. Non posso neanche parlare qui senza sentirmi tutta sottosopra.

Lui è fatto così. Ti chiama, ti dice: – Come va, Irene, che fai con le tue parrocchie? È questo il suo modo di scherzare. La butta sempre su una specie di anticlericalismo formale che poi, gratta gratta, è fede anche quella, come i grandi santi insegnano. Ma vuole mantenere le distanze, vuole restare negli spazi solitari ed assolati dove la sua grandezza politica ormai lo ha stabilmente collocato. In genere, dopo qualche battuta sul mio vestitino smunto e ben stirato, o sui miei amici della parrocchietta all’angolo, passa a motivi di propaganda, a calcoli statistici di future votazioni e ai sogni senza limiti di governo del Paese. Questa volta no. Si è alzato, mi ha stretto fra le sue braccia, che sembrano due remi pieghevoli per come sono forti ed ossuti, e mi ha baciata. Poi ha smesso subito e si è immerso nella lettura dell’ultima relazione sociologica di Baget Bozzo che gli ho consigliato io stessa. Me ne sono andata con la mia contentezza a chiudermi nel gabinetto. Che devo dirti, mio caro, unico e discreto confidente, seduta sulla tazza mi sono guardata le gambe e le ho trovate molto belle. Mi sono passata la mano proprio lì mentre orinavo. Devo decidermi a trovare un sostituto di Paolo, penso che tornare ai rapporti sessuali sia una buona idea. Rifarmi una verginità di sana pianta non è proprio per me. Non voglio uno stile del genere. Sarò aperta a tutte le esperienze, ma solo in privato, secondo l’esempio del mio Capo, mentre in pubblico cercherò di apparire l’eroina del nuovo cristianesimo puritano e integralista. Ho capito che la politica non può essere gestita partendo da una sola verità. Come la Chiesa insegna da millenni, esistono due verità: una per i deboli e i poveri, l’altra per i forti e i ricchi, insomma per coloro che comandano, ed io, prima o poi, riuscirò a trovare un posto tra quest’ultimi.

22 luglio 1991

Mi sono comprata una guêpière rossa ma non mi sembra adatta per indossarla sotto il vestito. Fa caldo e non posso uscire troppo coperta. In trasparenza si noterebbe. Per il momento non ho a chi farla vedere. Che strane scelte sto facendo in questi giorni. Mi sono messa a leggere un libro di Franco Cardini. Non arrivo a concentrarmi. In fondo tutte queste stupidaggini sul Medioevo mi ripugnano. Non ci sarebbe stato bisogno di nessuna rivalutazione dell’attività della Chiesa contro le eresie se non ci si fosse negli anni passati dedicati ad una dissennata critica dell’autorità e del dogma. Il Vaticano II ha fatto danni immensi. Il magistero ecclesiale doveva restare intatto. Il “Sillabo” anche oggi andrebbe applicato tale e quale. Prima di andare a letto mi sono provata il mio indumento. Non mi sta male, con un paio di calze nere a rete potrei anche sembrare una prostituta d’un certo livello. Quali immagini mi vengono in mente! Devo tenere alta la fiamma della mia fede per salvarmi dalle fiamme dell’inferno.

25 luglio 1991

Al mare ho conosciuto Maurizio, il sole, il caldo, il sudore, hanno fatto il resto. Mi ha portato nella sua cabina e mi ha steso sul pavimento. Si è spogliato facendomi vedere un arnese di tutto rispetto. Poi mi ha penetrata. Mi sembrava di essere come anestetizzata. Non ho provato nessun piacere. Più volte ho pensato a cosa avrebbe mai detto il Capo se mi avesse sorpresa sotto questo ragazzo, per quanto avendolo duro anche lui potrebbe far parte della Lega, mentre è soltanto un giovane bruto del Fronte della Gioventù con la testa vuota e i coglioni pieni. Meno male che m’ero messo il diaframma, che per altro mi dava fastidio dopo tanto tempo che non lo usavo. Ma noi della Lega, siamo contro i fascisti? Bossi dice di sì. In fondo non c’importa nulla di precisare contro chi siamo, quello che conta è di sapere a favore di chi siamo. Il potere non lo conquisti con lo scontro, ma con l’accordo, con gli accordi politici, di cui Bossi è maestro, e con le promesse di spartizione e di controllo del potere. Il resto sono solo chiacchiere. Il ragazzotto fascista aveva una svastica tatuata sul culo. Non faceva un bello effetto. Ma l’ho vista solo dopo. Che fare? Gli ho consigliato di farsi tatuare sull’altra chiappa la croce col Cuore di Gesù.

15 agosto 1991

Nessuna novità in questi ultimi giorni. Tedio assoluto e chiacchiere al sole. Miglio s’è preso una sbronza. Maroni prova un po’ dappertutto a trovare ragazzi compiacenti a pagamento, ma con scarsi risultati. Formentini è sfuggito un paio di volte alla custodia della moglie, e adesso sta facendosi ricattare da due transessuali che aveva scambiato per puttane di censo. Una tristezza. Su di tutti aleggia l’assenza del Capo. Senza di lui siamo perduti. Ho letto un libro di Vittorio su Gesù. Molto bello. Ma il Cristo è un’altra cosa. Anche come uomo. Chissà come faceva l’amore? E con chi? Forse con Giovanni? Quante idee mi vengono. Ma non so come realizzarle. Vedremo. Per il momento mi limito a pregare per i risultati politici della Lega, per altro ineluttabili, secondo Bossi. E lui sa quel che dice.

28 agosto 1991

Bossi ha detto a Pontida che la Lega ce l’ha duro. Un brivido di complicità e soddisfazione è corso nella schiena di tutti. I giovani maschi erano raggianti. Le donne si limitavano a sperare per il meglio. Per quel che mi riguarda questa faccenda della durezza non è importante. Capisco la metafora (e chi non la capirebbe?), come tutti gli accorgimenti retorici del Capo essa è pregnante e significativa, ma non riesco a togliermi dalla testa l’immagine del Moroni a quattro zampe. Forse Bossi farebbe bene a liberarsi da questi omuncoli pervertiti che prima o poi finiranno per arrecare danno alla causa della durezza leghista. Dovessi comandare io ricostituirei le legioni biancogigliate della Vandea, che si battevano in nome della vittoria del Cristo contro le orde rivoluzionarie apportatrici di disordine e violenza. Gli omosessuali negano la volontà di Dio, l’ordine delle Sue sante leggi, quindi vanno accomunati a tutti i grandi peccatori, agli Ebrei che uccisero il Cristo vivente, alle donne che abortiscono e a tutte le altre specie di degenerati che appestano la società di oggi.

Natale 1991

Don Ignace ha officiato la messa di Natale nella solita chiesetta di campagna dove ci riuniamo, io e la mia famiglia, tutti gli anni. È venuto apposta da Milano proprio per farmi questo favore. Mio padre era raggiante. Lo sarebbe stato un po’ meno se avesse saputo il costo dell’operazione. Il buon prete mi ha strappato un incontro col Cardinale Martini. Da molto tempo gli faceva da intermediario. Lo vedrò domani. La festa in famiglia non è stata particolarmente felice. I miei genitori mi sentono estranea, ed io mi sento lontana da loro. Ormai il mio vero padre è il Capo, l’uomo che sempre più occupa gli spazi della mia vita. Padre, marito, amante, insomma, tutto. Ma non sono ancora andata a letto con lui, e forse non ci andrò mai. I grandi uomini non badano a queste piccole cose.

Santo Stefano 1991

Ho incontrato il Cardinal Martini all’Arcivescovado. Prevedo di dovermi abituare a questo genere di incontri, ed anche ai luoghi dove si svolgono: grandi saloni, silenziosi e freddi, anticamere con tappeti e tendaggi, candelabri e lampadari. Devo uscire dalla dimensione provinciale e prepararmi alla mia grande avventura come probabile deputato della Lega. Il Capo ci sta facendo frequentare corsi specialistici per prepararci in ogni senso. Il Cardinale non si è fatto aspettare. È entrato quasi subito nella sala e mi ha condotta senza perdere tempo nella sua stanza di lavoro. Un tavolo piuttosto piccolo, coperto di carte, una porticina aperta in fondo alla stanza, attraverso la quale si intravedeva un lindo e sobrio lettino. Argomento dell’incontro: il mio preteso lefebvreismo. Mi sono rifiutata di accettare questa etichetta. Io non ho nulla da spartire con lo scisma. Va bene che le mie idee, come quelle di tanti cattolici italiani, non collimano con il progressivismo avventato del Martini, ma non sono per questo scismatica. Caso mai lo scismatico è lui, ma questo non sono stata lì a dirglielo. Poi il discorso si è addolcito. L’eminente personaggio, quasi certamente il futuro pontefice, mi è venuto incontro e, prendendomi una mano mi ha detto: – Benedetta figliola, ma come fai a non capire che anch’io la penso come te, e con te, e con me, allo stesso modo la pensano tutte le gerarchie della Chiesa? Ma bisogna stare all’erta. Bisogna correre in linea con i tempi. Anch’io sono per una rivalutazione della Santa Inquisizione e della Vandea. Ma non posso dirlo. Sono come prigioniero del gioco delle parti. E se vuoi andare avanti, anche tu devi tenere presente questo grande gioco che ci tiene tutti collegati e ci fa tutti uniti e utili reciprocamente. Oggi dobbiamo essere progressisti. Dobbiamo recuperare e utilizzare quello che la scomparsa del socialismo reale ci ha lasciato nelle mani. Un immenso patrimonio di consensi politici, di ubbidienti sudditi, di ferventi fedeli. Domani, quando la vittoria della Chiesa e delle sue alte gerarchie sarà consolidata, potremo parlare diversamente, più chiaramente. E, continuando a parlare, come per dare un fondamento più intimo e convincente alle sue parole, mi condusse nella stanzetta retrostante. Qui, dopo aver chiuso la porta, mi spinse in ginocchio, come volesse benedirmi, poi, improvvisamente, con gesto veloce e pratico, afferrandomi la testa con una mano mi mise in bocca l’uccello obbligandomi a succhiarglielo. Cosa potevo fare? Come rifiutare un servizio al futuro pontefice. Poi, di certo per non dare scandalo, il cardinale venne dentro la mia bocca suggerendomi di inghiottire tutto nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Non mi restava che rispondere: – Amen, ma non mi sembrò il caso. Forse sono queste le regole del palazzo. Se devo essere sincera, e con te lo sono fino in fondo, lo sperma del prelato non aveva un cattivo sapore.

30 giugno 1992

Siamo andati tutti insieme a Napoli per festeggiare l’elezione al Parlamento italiano. L’idea della festa era nata controversa. Per certi aspetti, marciando tutti insieme su Montecitorio, sotto l’alta guida del Capo, eravamo come tanti pesci fuor d’acqua, ma poi, come accade spesso in questi casi, ci si fa l’abitudine. In poche settimane ci eravamo resi conto che non era quello della contestazione il nostro ruolo, ma invece quello di spartirci, nei limiti del possibile, la torta del potere. Quindi la festa, a Napoli. Qui siamo stati divisi in gruppi da quell’organizzatrice d’eccezione che è la signora Mussolini, una donna forte e vivace, un po’ eccentrica nel parlare, ma tutto sommato gradevole. Maroni è stato affidato alle organizzazioni locali aderenti al Fronte della Gioventù, dove si trovano non pochi ragazzi aitanti che faranno di sicuro la sua felicità. Formentini, intelligentemente separato dalla sua guardia del corpo, ha passato la notte a giocare a scopone con Bassolino in nome dell’apertura ecumenica della nuova destra, ma anche a seguito di reiterate promesse di fargli incontrare una bella brunetta adocchiata alla stazione Garibaldi: promessa regolarmente non mantenuta dai compagni della Quercia napoletana. La brunetta più tardi si rivelò essere ancora una volta un tristissimo femminiello di Spaccanapoli. Io sono andata, insieme alla Mussolini, che non la smetteva più di parlarmi delle virtù musicali del nonno, a casa di Sophia, dove viene tenuto in piedi un giro molto costoso di ragazze squillo e di compiacenti signore dell’alta società partenopea, desiderose di comprarsi le pellicce di Annabella senza intaccare le sempre traballanti finanze dei ménage familiari. La moglie di Bassolino è una di queste. Sophia, sempre bellissima, con le sue gambe ancora presentabili malgrado le sessanta primavere, cominciò a parlare molto liberamente, nel suo dialetto fiorito ed estroverso, che nel doppiaggio dei suoi film non si nota, di tanti problemi e di quello che a casa sua si faceva per risolverli. L’intreccio che da Cirillo si snoda fino a Gava, mi disse, passava esattamente nel mezzo delle sue camere da letto, in quanto era proprio lì che si erano svolti gli incontri decisivi sia per liberare l’assessore prigioniero, sia per costruire tutti i dettagli dell’inchiesta che avrebbe prima o poi reso possibile l’arresto e il dissolvimento del partito dei notabili napoletani. La Mussolini si disse tutta contenta di quello che la zietta faceva, ed anche del modo in cui lei stessa riusciva a collaborare dando corpo alle sue proprie fantasie sessuali. La Mussolini ama farsi prendere controcorrente e a lungo, per cui non è facile trovare soggetti adatti alla bisogna. Nell’àmbito dei fascisti locali, nemmeno a parlarne. Si potrebbero trovare migliori prestazioni fra i negri che ormai abbondano dappertutto a Napoli e dintorni, indirizzati quasi sempre a raccogliere pomodori, ma sembra che ci siano delle preclusioni razziali. Con tutto questo chiacchierare, ormai la notte s’era fatta inoltrata, e cominciavano ad arrivare moltissimi invitati, alcuni dei quali con relativa consorte al seguito. Gava e signora, entrambi abituati a guardare e a tacere. Il questore Improta e il prefetto Parisi, i quali insieme al prefetto Pastorello della Prevenzione civile e ad alcuni funzionari del Ministero dell’interno, hanno creato un gruppo di masochisti dediti a innocenti passatempi con la frusta. Il ministro Scotti ha lo stesso vizietto del Maroni, quindi viene di già bell’e fornito, si chiude nella stanza che Sophia gli riserva e tutto finisce lì. La festa, come si può capire, non era molto allegra. Tutti avevano i loro bisogni da soddisfare. La Mussolini era in attesa alquanto improbabile del suo sodomizzatore di turno. La Loren sembrava interessarsi a me, ma non si poteva capire bene dove volesse andare a parare. Alla fine la Sophia nazionale, con un fallo di dimensioni gigantesche e un’arte davvero insospettata, riuscì a risolvere il problema della nipote e anche il mio. In fondo, che bisogno abbiamo degli uomini quando ce la possiamo sbrigare fra di noi donne? Era da diverso tempo che non passavo una così bella serata. Ci riproverò.

10 settembre 1992

È da tanto che non dialogo con te, nel chiuso di queste pagine, ma gli impegni si sono fatti sempre più pressanti ed aggressivi. La sera torno in albergo stanchissima e non vedo l’ora di addormentarmi. Le vicende politiche di questi ultimi mesi si sono fatte sempre più ingarbugliate. Ormai l’astro Di Pietro sta raggiungendo livelli considerevoli e tutti parlano del giudice di “Mani pulite”. Hanno cercato di incastrare anche Bossi con una storia assurda di duecento milioni, ma non riusciranno a distruggerlo, la sua capacità politica è troppo grande, e poi il Paese ha bisogno della Lega e del suo Capo. Questo Di Pietro l’ho conosciuto a Milano, a casa di Formentini, e mi è sembrato il classico poliziotto secchione, capace di lavorare molto ma di capire poco. Forse mi sono sbagliata. In ogni caso manca di quella venatura sanfedista che un vero e proprio procuratore dello Stato dovrebbe possedere. Il suo fervore virtuista di cane poliziotto non viene esaltato da una fede in qualcosa di più elevato e più grande. Non è insomma un grande inquisitore. Non è un Gui e nemmeno un Torquemada. La categoria ne esce quasi vilipesa. Devo cercare di parlargli personalmente. Non essendo a tutti gli effetti un laico forse posso convertirlo alla mia causa.

20 ottobre 1993

Delusione su tutto il fronte. Di Pietro è inattaccabile. Non si è fatto nemmeno impressionare dalle mie gambe, che per come vado scoprendo sempre di più in questi ultimi mesi, attirano parecchie attenzioni. L’ho rivisto ancora una volta a casa di Formentini, il quale aveva il suo daffare per convincere la moglie che le sue ultime disavventure con un tranviere travestito da suora benedettina erano state soltanto un fatto occasionale e non volontario. Abbiamo discusso, poi lui mi ha accompagnata a casa con l’auto e la scorta. È la prima volta che provo il brivido delle sirene spiegate e degli uomini armati vicino a me. Tutti ci guardavano mentre passavamo, ed era una cosa che di già da sola bastava a bagnarmi gli slip. A casa, Di Pietro è salito subito al primo invito. Un uomo gentile, un po’ rozzo e corto di cervello, ma premuroso. Mi ha fatto entrare per prima nell’ascensore. Una volta seduto nella poltrona migliore del salotto gli ho offerto da bere, poi sono andata di là a cambiarmi e a darmi una risciacquatina. Non sai mai cosa fare con questi uomini di legge. Quando ti saltano addosso non vanno diritti allo scopo, ma indugiano a considerare la faccenda da tutti i punti di vista, quindi ci si deve trovare preparate. Sono tornata in salotto, ma il giudice non c’era più. Mi aveva lasciato un bigliettino sul tavolo. Una chiamata urgente dal Palazzo: dovevano di certo decidere l’arresto di Craxi. Ancora una volta non sono riuscita a capire cosa si potrebbe cavar fuori da quest’uomo su cui si identificano tutte le iniziative del pool “mani pulite”.

31 ottobre 1993

Una parola definitiva su Di Pietro. È un fascista e appartiene al giro di quel finocchione di Fini. Penso sia molto legato a Colombo. Sono sempre insieme e spesso camminano abbracciati. Ma non devono essere solo loro due ad avere certi gusti particolari. Anche gli altri appartenenti al pool condividono le scelte di Di Pietro. Borelli, ad esempio, mi dicono sia un intenditore. L’unica donna del gruppo l’hanno emarginata in una stanzetta lontana. Forse disturbava gli amorosi equilibri degli altri componenti.

14 novembre 1993

Ho smesso di scopare con Giulio. Ho scoperto che se la intende con padre Todeschini. Preferire un gesuita a me è il massimo dello spregio. Meglio non parlarne.

15 novembre 1993

Annoto una correzione a quanto ho scritto ieri. Non è solo Todeschini ad infilzare Giulio, ma anche padre Livio Fanzaga, che conosco poco ma che deve aver ricevuto tale consiglio dagli organizzatori dei treni azzurri per Fatima, specializzati in amplessi ferroviari a pagamento fra miracolati.

30 novembre 1993

Per la seconda volta Bossi mi ha baciata. Ma che aspetta ad andare oltre? Un innato rispetto per l’autorità mi impedisce di prendere io l’iniziativa.

Natale 1993

Don Ignace ha santificato il Natale nella solita chiesetta. Questa volta non si è fatto cercare lui, ma mi ha telefonato prima, fissando ogni aspetto per benino. In pagamento della sua sollecita attenzione nei confronti miei e della mia famiglia, ha preteso un pompino. Fatto.

Scampagnata di Natale 1993

Formentini, a digiuno da chissà quanto tempo, ha cercato di sodomizzarmi senza riuscirci.

Malgrado lo aiutassi in tutti i modi, gli si è afflosciato prima dell’affondo finale. A questo punto i nostri rapporti non sono rimediabili. Mi sono sentita offesa nel mio orgoglio. Che la Lega non ce l’abbia tanto duro come afferma il grande Capo? Non posso alimentare questo dubbio. Formentini deve essere l’eccezione che conferma la regola. Mi addormento sognando il grande fallo di Bossi aleggiare sulla mia testa. Mi avvolge tutta sotto la sua ombra acquietante, mi culla, mi rabbonisce. Sogno di trovarmi in un prato coperto di rugiada, dove un cavallo e una cavalla stanno facendo l’amore. A guidare l’arnese mostruoso dell’animale è proprio la mano sapiente di Bossi, che con destrezza prima manualizza per com’è necessario e poi guida con gesto sicuro e veloce. I due cavalli s’imbizzariscono, sgroppano con violenza, poi s’acquietano sotto l’occhio vigile del grande palafittiere. Mi sveglio tutta sudata sul far del mattino.

28 febbraio 1994

C’indirizziamo verso le elezioni. Sarà un grande successo, dice il Capo. Lo credo anch’io. Ci siamo alleati con Berlusconi e con i fascisti del femminiello Fini. Vedremo. Ho conosciuto ieri il Cavaliere. Un bell’uomo. Interessante. Sotto molti aspetti merita una citazione a parte, ma ora sono stanca e rinvio il tutto a domani.

2 marzo 1994

Due giorni fa sono stata ad Arcore, ospite insieme a Formentini e Bossi della Signora Veronica, moglie di Berlusconi. Una bella donna, senza dubbio. Ha un modo tutto suo di accavallare le gambe che mi ha fatto andare in bestia. Sono sicura che con lei a fianco gli uomini finirebbero tutti per guardare le sue gambe e non le mie. Ma questa specie di concorrenza non mi riguarda. Sono superiore, io, a queste cose meschine. Berlusca gioca in grande. Ha messo sul tappeto tutte le forze finanziarie e intellettuali del suo impero economico fondato, come tutti sanno, sull’informazione. Sarà un grande alleato per noi della Lega, ed essendo in fondo un po’ ingenuo, come tutti coloro che si dilettano di politica ma non la esercitano in quanto professione, riusciremo a metterlo nel sacco.

5 marzo 1994

Messori mi ha fatto sapere di essersi scopato la moglie di Berlusconi. Il fatto, assolutamente di prima mano e segreto, sono soltanto io a saperlo, e adesso anche tu, ma della tua assoluta discrezione mi fido ciecamente. Aspetto curioso da registrare: la Signora Veronica scopa con la foto del marito davanti agli occhi. Dice che così non gli sembra di fargli le corna.

Elezione a presidente

Sono stata eletta presidente della Camera dei Deputati. Non segno la data sul Diario perché essa appartiene alla storia. Non posso dirti quello che ho provato nel momento in cui il mio nome è stato pronunciato in aula. Ormai tutti i miei amici della Lega ne erano certi, ma io fino all’ultimo ho avuto paura. Non appena mi sono seduta su quella poltrona ove per tanto tempo era stata seduta quella troiona della Jotti, sono quasi svenuta. Il potere era lì, a portata di mano, visibile, tangibile. Adesso potevo toccarlo. Era quella poltrona, quella miriade multicolore di imbecilli ai miei piedi. Anche il grande Capo doveva ora chinare la testa. Improvvisamente ho avuto la cognizione esatta di quello che potevo fare, ed anche la certezza di essermi sbagliata su Bossi. In fondo non è altro che un omuncolo, un coglione peggio degli altri, un traghettatore di eccezionali intelligenze come la mia, un apristrada a persone che hanno un proprio ideale da realizzare qui e subito. E, in fondo, sono sicura che ce l’ha moscio. Non abbasserò più lo sguardo davanti a un semplice politico come lui. Adesso sono io che comando, sono io la terza carica dello Stato.

Terzo giorno da Presidente della Camera

L’appartamento personale che mi è stato riservato alla Camera dei Deputati non è molto carino. Cercherò di adeguarlo al mio stile. Su questo ho riflettuto a lungo. Devo apparire castigata e modesta, l’esatto contrario di quello che sono in realtà. Ormai castigata non lo sono più. Gli ultimi anni mi sono stati di aiuto per aprirmi in ogni senso. Anche sotto l’aspetto sessuale. Dal piedino che Bossi mi faceva sotto la tavola, sconvolgendomi da cima a fondo, al fallo di gomma di Sophia, fino alle mie scopate romane degli ultimi mesi con Rocco, ne è passata acqua sotto i ponti. Sono diventata una donna di potere, ma anche una donna che il potere se lo gestisce per la propria sessualità. Non sento più l’influsso nefasto di un coglione come Bossi, dalla cui tutela carismatica mi sono liberata definitivamente. Se mi chiedesse di scopare, oggi lo manderei in bianco. Rocco è un’altra cosa. Quando lo accarezzo, con quella sua testa che sembra un enorme fallo prominente, quando le sue parole entrano dentro di me sollecitando fantasie sempre più straordinarie e perverse, quando mi racconta delle sue visite notturne in Vaticano e dei suoi rapporti segreti col Pontefice (l’unica cosa che Giovanni Paolo II ama è farsi masturbare per ore, senza per altro riuscire mai a venire), mi sento priva di forze. Anche il cognome di Rocco è secondo me erotico: Buttiglione. Mi ricorda una grande bottiglia, liscia e scivolosa, che entra dentro di me, che esce per poi entrare un’altra volta, e così all’infinito, fino a farmi perdere la testa, fino a farmi gridare e impazzire, fino a farmi godere.

Look

Ho deciso il mio look. Un tailleur con un foulard al collo, sempre ben stretto, in modo che anche l’idea di una possibile scollatura si dissoci definitivamente da me. Le gonne, moderatamente corte, possono invece far vedere un poco i ginocchi, che per altro tutti considerano bellissimi. Uno stile che forse ricorda quella vecchia cacacessi della Nilde, ma che io saprò ben caratterizzare diversamente. Poi ho notato che più ti vesti castigata e più gli uomini ti guardano e cercano di spogliarti con gli occhi. Specialmente se sei una donna in carriera. E chi più di me è una donna in carriera? Chi più di me rappresenta il massimo delle ambizioni femminili? Sono io che personifico il limite più alto che tutti i sogni delle femministe di ogni epoca avevano immaginato. Va bene che altre donne, come la Thatcher, hanno raggiunto traguardi più importanti. Ma erano donne quelle? con tanto di baffi e grasse come vacche. Forse la Bhutto potrebbe costituire un riferimento superiore al mio, ma si tratta di altre culture, del tutto differenti dalla nostra. Di certo, nel mondo occidentale, io sono il massimo, il punto di riferimento cui tutte le donne guardano, il top del femminismo. Ho quindi le mie responsabilità. Devo fare attenzione a mantenere la mia doppia vita: irreprensibile all’esterno, da troia al chiuso. Anche questo è un messaggio per tutte le donne cattoliche: in materia sessuale fate quello che volete, ma sappiatelo fare. Mantenete intatta la sacralità della famiglia, che è faccenda puramente formale. Fate pure le corna a vostro marito, ma non fatevene accorgere. Fatevi inculare tranquillamente dal lattaio, però mettetegli prima un preservativo e non fatelo sulle scale. Ma quando siete fuori, davanti a tutti gli altri, davanti al mondo che vi osserva a vi giudica, tenete gli occhi bassi, rispondete a modo, e non azzardate opinioni che non siano in linea con la Santa madre Chiesa. In fondo, la religione cattolica possiede un segreto che le altre non hanno. Basta seguire certe regole esteriori, puramente oggettive, e tutto si aggiusta. Il Sacramento della confessione regola la vita di noi tutti come una purga. Periodicamente rimette a posto gli intestini. Prendiamolo con fiducia. Per maggiore sicurezza ho cambiato confessore. Anche perché non mi andava di continuare a fare pompini a Don Ignace. Troppo vecchio.

La scorta

La scorta che mi è stata assegnata dal povero Maroni è composta da cinque poliziotti. Sono tutti meridionali e mi sembrano svegli. Non c’è affatto un senso di sospetto nei miei confronti, a causa delle tesi che sostengo come leghista. Sono poliziotti e conoscono il loro mestiere. Sono anche giovani e attenti alle donne. Da questo punto di vista sono irreprensibili nei miei confronti, ma vedo bene come guardano le altre donne, quando andiamo in giro con la macchina di servizio. Per il momento non so mai cosa fare, neanche dove sedermi. Sono loro che si occupano di tutto. Devo solo avvertirli con un certo anticipo e non posso mobilitarli per qualsiasi cosa. I piccoli piaceri di un tempo sono roba passata. Non posso più andare a prendermi un gelato. Verrebbe a costare troppo in straordinari. Naturalmente questi ragazzi sono silenziosi e discreti. Quando mi accompagnano in qualche posto dove ho fissato uno dei miei incontri diciamo galanti, aspettano sotto e non fanno domande. L’ultima volta hanno visto Rocco ma non hanno battuto ciglio. I due agenti che costituivano la scorta del Buttiglione non si sono neanche guardati con gli uomini della mia scorta. Fra di loro esiste una sorta di prontuario di regole non scritte. Ognuno conosce il suo mestiere.

Scopata con la scorta

Mi sono fatta scopare da tutta la scorta. Lo so, potrebbe essere stata una pazzia, ma ormai è fatta. Le cose sono andate in modo semplice e liscio. Dopo uno degli incontri peggiori con Rocco, il quale negli ultimi tempi, forse a causa delle preoccupazioni politiche del nuovo Partito Popolare, è andato sempre più giù di giri, ho fatto salire i miei angeli custodi su in camera, uno dopo l’altro. Non è stata una sveltina, ma una serie di scopate vere e proprie. Gentili e ubbidienti, sono stati subito disponibili ed hanno eseguito gli ordini come tanti bravi soldatini. Solo che nei gesti erano un poco ingessati e tutto l’insieme appariva più che altro una sorta di esercitazione ginnica. Non sono riuscita a venire neanche una volta. Alla fine, quando l’ultimo è sceso giù, dopo avere scaricato nel suo bravo contenitore trasparente, mi sono chiesta se non ci fosse qualcos’altro da fare oltre che stare ad assistere a questa parata di giovani e robusti poliziotti. Li ho quindi richiamati su tutti insieme. Mi hanno risposto che la cosa non era possibile, e che uno di loro almeno doveva restare di guardia. Così me ne sono scopata quattro in una volta. Non sto qui a descriverti come è andata la faccenda in tutti i suoi aspetti. I ragazzi sono stati al di sotto delle aspettative. Se singolarmente erano accettabili, tutti insieme sono stati una frana. Decisamente non mi hanno soddisfatta.

La nazionale

La mia avventura negli Stati Uniti è stata invero deludente. Mi aspettavo di recitare lo stesso ruolo del vecchio presidente Pertini in Spagna e non ci sono riuscita. Quella pallonata in aria del povero Baresi è stata una vera disgrazia nazionale, ma principalmente mia, che mi sono poi dovuta limitare ad applaudire il secondo posto dell’Italia ai Mondiali di calcio, invece di uno storico primo posto che avrebbe collocato la squadra del mio Paese sul tetto più alto del mondo per quel che riguarda il gioco del pallone. E dire che la sera precedente avevo fatto di tutto per tirare su il morale ai giocatori. Ero andata a far loro visita in albergo e, essendo assolutamente digiuna di problemi calcistici, mi ero fatta prima consigliare da Vittorio per sapere quali fossero i giocatori più rappresentativi, insomma quelli sui cui piedi si doveva contare l’indomani per una vittoria. E poiché sono convinta che una donna può a volte sollevare il morale più di ogni altra cosa, ho cercato di essere carina con Baresi e con il povero Roberto Baggio che, per come mi era stato detto, aveva avuto problemi psicologici. Questi giocatori sono esseri ben strani. Hanno un fisico di ferro ma un animo di fanciullina. Baresi, che sembra un uomo adulto e navigato, non appena gli ho messo la mano sulla patta dei pantaloni si è irrigidito non sapendo cosa fare. Quando gli ho tirato fuori l’uccello per portarlo ad una condizione appena appena accettabile ho dovuto faticare le sette camicie. Ma quando si fa una cosa per la gloria del proprio Paese, ogni sacrificio non è mai troppo. Così ho continuato a spompinarlo fin quando non è venuto lentamente, come se fosse stanco e stralunato. Di Baggio è meglio non parlare. Mi sarei aspettato ben altro da uno come lui che essendo buddista dovrebbe conoscere chissà quali tecniche dell’amplesso, invece niente. Mi si è messo davanti in posizione yoga e mi ha lasciata ad aspettare che gli si drizzasse. Potevo aspettare tutta la notte. L’ho lasciato che si masturbava nel ricordo delle mie chiappe. Non ho voluto approfondire l’argomento con gli altri giocatori per il timore di cadere di male in peggio. Vittorio mi ha spiegato poi che a spomparli per bene era stato proprio il Sacchi e i suoi allenamenti dissennati. Ma in questi problemi non voglio entrarci essendone assolutamente digiuna. Il Messori se ne intende, ma non va oltre. Senza dubbio erano meglio, da questo punto di vista, i miei anni dei sacchi a pelo. Almeno allora scopavo tranquillamente con i miei amici scout e fricchettoni, con meno problemi e meno ambizioni. La gloria ha un suo prezzo e io lo sto pagando.

Il marchese de Sade

“Un monumento del pensiero umano”, così definiva Guillaume Apollinaire l’opera di Sade, presentando, ai primi del secolo, un’antologia degli scritti del marchese. Data taluna congenialità dei due artisti non ci si deve meravigliare dell’affermazione, più oltre, approfondendo, è la stessa portata dei lavori di Sade, la loro stessa grandiosità “negativa”, la loro stessa animosità distruttiva e iconoclasta, il loro stesso illuministico raziocinio, che ci fanno riflettere sulla definizione di Apollinaire. Effettivamente davanti alle creazioni di Sade si avverte quel senso di smarrimento che danno, in genere, le ampie costruzioni letterarie, i capolavori che tutti conosciamo, solo che Sade è noto a non molte persone per la sistematica opera di occultamento attuata durante il secolo XIX, quello stesso secolo che ha costruito, invece, le nostre conoscenze attuali – ancora oggi valide sotto certi aspetti – dei capolavori correnti.

Opera validissima, quindi, quella del marchese, e stranamente in contrasto con l’indole e le conquiste dei tempi suoi. Del secolo dei lumi accetta parte del razionalismo, ne elabora le estreme conseguenze con grande padronanza, tanto da poterlo considerare uno dei migliori conoscitori dei “tempi nuovi”, ma accanto a tutto ciò lascia sopravvivere le antiche paure e le antiche predilezioni. Accanto alla ragione rivive il sabba stregonesco, accanto al ragionamento l’ingiuria sanguinosa, accanto al razionale rifiuto di Dio l’invettiva sacrilega.

Quindi spirito complesso e difficilmente classificabile. Ha errato Pierre Klossowski (Sade mon prochain, Paris 1947) cercando una valida espressione sintetica dell’opera di Sade, ha parimenti errato Simone De Beauvoir (Privilèges, Paris 1955) tentando un capovolgimento della conclusione di Klossowski. Sade non è un pensatore – e proprio per questo non è un utopista – è semplicemente un poeta, un artista che folgora il suo fantasma di volta in volta su canovacci sempre nuovi, dettati dal sentimento anche quando la struttura esteriore è apertamente – e potremmo aggiungere formalmente – quella, obiettiva, del razionalismo illuministico.

Ammettere questo punto di partenza non significa togliere qualcosa a Sade, quanto piuttosto non aspettarsi di trovare nell’opera sua quello che non può esserci. Procedendo in questo modo si evitano non poche sorprese: quello che inizialmente appariva contraddittorio, le imprecazioni miste alle deduzioni razionali – rientrano nella giustificabilità artistica del prodotto.

Ovviamente tutto ciò avrà particolare determinatezza per i problemi particolari di fondo, specie quello dell’ateismo.

Il naturalismo sadiano è certamente uno dei punti fermi del suo procedere nell’investigazione della psiche umana. Su questo non sono mai sorti dubbi sufficienti a revocare, sebbene non siano mancati tentennamenti, come quello di George Bataille (L’erotisme, Paris 1957), in cui si fa cenno a una vera e propria incompatibilità tra il pensiero di Sade e la ragionevolezza della natura, o come quello di Maurice Blanchot che curiosamente accosta due giudizi contrastanti, l’uno accanto all’altro (Lautréamont et Sade, Paris 1949, p. 263). Comunque, il valore del termine di collocazione resta pieno e vivo. Sade può essere considerato – alla stessa stregua di tanti altri scrittori del suo tempo – un filosofo della natura. Sono soltanto le leggi di questa che regolano l’universo – e quindi principalmente l’uomo – e non le leggi sovrastrutturali della morale e della religione. Giustamente Blanchot nota come la lotta che Sade conduce contro Dio è proprio portata avanti in nome della natura.

Vale per Sade in sommo grado il discorso che andrebbe fatto per gli altri scrittori ateisti dell’epoca, il fascino della battaglia per dichiarare scaduta l’idea di Dio finisce per travolgere la razionalità delle prove e delle procedure. Lo stesso accade in D’Holbach, come ha in modo specifico notato Henry Guerlac (Tre filosofi sociali del diciottesimo secolo: l’influenza della scienza sul loro pensiero, in Scienza e cultura oggi, Torino 1962, pp. 27-35), lo stesso accade in Denis Diderot, in Jacques-André Naigeon, ecc. Forse soltanto Voltaire, aiutandosi con l’ironia e la satira, e non perseguendo una vera e propria tesi ateista, arriva a darci una filosofia della natura, grazie, in particolare, alla sua vicinanza con Newton e con Locke. Sade, con gli altri, resta invece legato a un naturalismo retorico, a volte difficoltosamente concionante, sebbene indiscussamente produttivo sul piano dell’eliminazione del fondamento irrazionale e miracolistico della religione.

Con queste limitazioni e senza addolcimenti vari che finirebbero per trasformare del tutto l’essenza filosofica del pensiero sadiano, possiamo intraprendere il cammino verso l’esame dell’ateismo di Sade. Ci serviranno, prima, solo alcuni brevi cenni sull’uomo. Nobile, allevato insieme al principe di Condé, conduce una vita via via sempre più dissoluta e sfrenata che gli farà subire una condanna a morte in contumacia e svariati anni di prigione in diverse fortezze. La sua indole focosa, sessualmente assai complessa, sadica e masochistica insieme, gli fa acquisire nel tempo un notevole bagaglio di nozioni anatomiche e sessuali che egli metterà a frutto nei suoi racconti. D’altro canto la stessa sua vita di insofferente al freno e all’autorità lo porterà a vagheggiare utopiche costruzioni sociali fondate sulla libertà. Importante, ad esempio, il lavoro del 1792 intitolato Idées sur le mode de sanction des lois, in cui discute criticamente la delega fatta dal popolo ai suoi rappresentanti e tutto il sistema parlamentare. Finisce i suoi giorni in manicomio non tanto per una vera e propria malattia di mente quanto per una misura precauzionale posta in atto dalla polizia contro l’autore di Justine e Juliette.

Abbiamo detto come in Sade non si possa identificare una stretta consequenzialità di pensiero nel complesso vastissimo dell’opera sua. Ciò vale massimamente per quanto riguarda la ricerca ateista. Ovviamente non siamo in presenza di una contraddizione. I suoi personaggi affrontano i problemi scossi dalle proprie passioni e Sade s’ingegna a dimostrare, da canto suo, dietro le quinte, come la filosofia che anima i singoli personaggi – filosofia naturalmente materialista – è non solo ispirata da quelle passioni ma da esse giustificata e retta. In altri termini il materialismo non è chiamato a svolgere la sua funzione storica di riduzione del teismo ad antropologismo, viceversa è la misura tipica dell’uomo, cioè il mondo delle sue passioni, a reggere le fila del ragionamento e a giustificare la scelta del materialismo come unica scelta conseguente.

Le due grandi conclusioni cui era giunta tutta la filosofia dei lumi a proposito del problema religioso sono presenti in Sade: da un lato la religione è considerata una serie di rozze mistificazioni, dall’altro la molla che regge il mondo è identificata nell’interesse del singolo. Queste idee, codificate tra gli altri da Claude Adrien Helvetius, vengono portate appassionatamente da Sade fino alle estreme conseguenze, fino alla religione in cui i fantasmi poetici divengono validi in universale, tipi eterni che entrano a far parte di una dogmatica sessuologica di cui Sade sembra il capostipite. Questo sforzo è veramente interessante in quanto libera Sade dalla sovrastruttura meccanicistica dell’Illuminismo e riduce la sua concezione morale del mondo a una vera e propria azione della libertà assoluta, una libertà che non smarrisce mai se stessa, nemmeno nelle più stravaganti costumanze di vita o nelle più aberranti combinazioni sessuali. L’uomo non agisce più come una macchina condizionata dall’interesse, nell’àmbito della sua psicologia i moventi si moltiplicano all’infinito, tutto ciò in evidente contrasto con l’ideologia dominante del XVIII secolo. Si potrebbe concludere che l’accanita persecuzione di cui Sade fu oggetto trovò origine più che dalle sue attività illegali nel campo delle perversioni sessuali, da questa sua contrastante presa di posizione nei confronti del meccanicismo, pur restando nello stesso campo del materialismo.

Esplosione di libertà, quindi, l’opera di Sade si pone malvolentieri il tema dei limiti. Da ciò finisce per ricavare un proprio limite intrinseco, insormontabile, il limite del proprio ateismo. L’ateismo di Sade è un ateismo di contrapposizione, di puntuale rigetto del teismo. Questo il punto centrale della sua opera e che tratteremo dettagliatamente più avanti, per il momento ci interessa chiarire come questo limite, dettato dalla lotta e dallo stesso entusiasmo iconoclasta, finisce per determinare un’impossibilità di progettazione morale. L’etica necessita di regole.

Non si tratta di una negazione della libertà in quanto questa stessa non è altro che autodeterminazione, individuazione, sviluppo armonico, mancanza di pressioni limitative ma contemporanea ricerca di limiti e rapporti, fraterna indicazione di sforzi fatti in comune. Anche Sade era andato alla ricerca di una regola etica: Il Dialogo tra un prete e un moribondo contiene l’indicazione di questa regola: “rendere gli altri felici quanto lo desiderano essi stessi e non fare loro male più di quanto non vorrebbero riceverne”. Ma poi, con l’addentrarsi della ricerca, quella regola gli era sembrata insufficiente, limitata, borghese, comunque disadatta a reggere un mondo di contrasto, di rottura, di rabbiosa negazione di Dio, di rifiuto sistematico delle singole costruzioni volute dal teismo. La soluzione gli appare nel trionfo del vizio. Les Infortunes de la Vertu segna questo punto di rottura, un punto nuovo che l’arte di Sade condensa di significati assolutamente impensabili. L’uomo riceve la definitiva liberazione dalla tutela che nel passato l’aveva accompagnato, tutela voluta e predeterminata dall’etica nell’àmbito delle sconfinate strade che si dipartiscono dalla filosofia kantiana. Se da un lato da Kant si può discendere, logicamente, fino all’irrazionalismo nazista, dall’altro, sempre logicamente, dallo stesso Kant si può risalire all’irrazionalismo sadiano, costruito impeccabilmente sul canone della possibile libertà. Il superamento della fase etica del Dialogo costò a Sade la riflessione di quasi tutta la sua vita. Benché solo cinque anni passino tra il Dialogo e gli Infortuni Sade elaborò lungamente il dramma dell’uomo solo di fronte all’infinita possibilità della propria libertà, il dramma eterno dell’avventura terrena assolutamente gratuita una volta privata dell’illusione ignobile della religione.

Ma non tutto è cancellato. L’opera di liberalizzazione totale dell’uomo non può essere condotta a compimento se si prescinde dal fondamento determinante e autoregolante della libertà. Distruggere l’idea di Dio, abbattere ogni propaggine terrena di questa idea, è un’azione liberatoria iniziale, distruggere l’autorità terrena, minare i sotterranei rapporti che legano la religione all’autorità costituita, al sistema repressivo voluto dallo Stato, è la conseguenza logica più immediata e ovvia. Continuare sulla strada della libertà è la via indicata, anche recentemente, dalla filosofia anarchica, ma tutto questo non significa rinchiudere lo sforzo in un vuoto irrazionalismo divagante, non significa affidarsi all’irrazionale soggettivismo, non significa negare il prossimo come si era negato Dio.

Questo il limite più importante della ricerca ateista di Sade, un limite che, per un verso, lo avvicina a coloro che, poco dopo di lui, illustreranno il sistema religioso, come quel Joseph De Maistre che costituirà l’ispirazione di contrasto dei futuri “Poeti Maledetti”. Non è possibile seguire Sade in questa sua negazione del prossimo e nella sua inconseguente, sottintesa, ammissione che ammettere il prossimo significa ammettere Dio.

Un altro limite, riconosciuto dai più come si è visto, del suo ateismo è quello della frequente forma sacrilega che esso prende, della forma trivialmente blasfema o architettonicamente costruita in contrapposizione alle strutture religiose che esso solidifica in opere come, ad esempio, Les 120 journées de Sodome. Certo alle volte questa ferma proposizione finisce per urtare il lettore, finisce per causare un conflitto – sia pure in forma non immediatamente percepibile – con quei canoni e quei concetti religiosi che l’infanzia del lettore nella grande maggioranza dei casi non ha potuto fare a meno di registrare e ricordare. Anche nel lettore provveduto, nell’ateo convinto, queste passioni triviali finiscono per frastornare. Siamo di fronte a un limite di scarso valore teorico, in quanto, come dimostreremo, il senso profondo dell’ateismo sadiano resta intatto, ma di grande valore pratico, ai fini di una lettura proficua dell’opera in questione. Non bisogna dimenticare mai, durante la lettura, che Sade è un vero ateo, da questa premessa tutte le diverse manifestazioni di uno spirito tormentato trovano un preciso inquadramento. Non si tratta più di ateismo rovesciato ma di rifiuto appassionato e profondo.

Un ultimo limite è stato rintracciato nella persistente individuazione del male, nella glorificazione teologica di una forza che trova modo di estrinsecarsi in tutte le manifestazioni umane. Saint-Fond è il gran sacerdote di questa specie di religione, la morte dell’innocente trova la propria necessità nella felicità del colpevole, il vecchio Dio del dramma salvifico ritrova modo di spuntare fuori ancora una volta come giustificazione del male stesso. È ovvio che tutto ciò è pura fantasia dei critici che hanno lavorato a freddo sull’opera di Sade. Che il male venga riconosciuto agente nel mondo è un dato di fatto rilevabile dall’esperienza e riconducibile, attraverso canoni ideologici di ricerca ben precisi, a motivi determinati. Solo che Sade non si pone questo tipo di problema, problema che dopo di lui si porranno correnti di pensiero fondate sulla critica sociale, per lui l’azione estrema è attuata in concreto, con l’immaginazione, il resto è lasciato alla logica delle vicende umane che da sola si muove e da sola spinge il tutto verso la sua razionale conclusione. Pensare, anche per assurdo, come è stato tentato da più parti (tra gli altri da Klossowski, op. cit.), che questo atteggiamento di Sade sia l’ultima espressione dell’assalto a Dio, da dove trova legittima conseguenza la condanna dell’innocente e l’assoluzione del colpevole, significa tradire, ancora una volta, Sade, sia pure per un’opposizione indiretta ai suoi mistificatori.

Dopo di Sade, un altro grande artista ripercorrerà questa strada che dalla fede in un Creatore, che tutto giustifica e riassume, s’innalza via via in una identificazione della Natura con lo stesso Creatore, per passare poi ad una negazione chiara ed immediata del Creatore e concludere per la cattiveria intrinseca nella Natura. “Tutto è male; tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esiste è un male; ciascuna cosa esiste per fin di male...” dirà Leopardi, avvicinandosi molto ai suoi maestri francesi, a Voltaire e a D’Holbach, come a un rovesciato Blaise Pascal. In questi casi non è possibile parlare di ateismo inconseguente ma solo di atmosfera poetica dove la tesi ateista si trova calata e dove finisce per risentire dell’ispirazione e della passione del momento. Ciò non toglie, ovviamente, che il critico non possa, a posteriori, arrivare a determinare la tesi ateista nella sua chiarezza e precisione.

Il teorico di massima diffusione e di maggiore autorità, nell’epoca produttiva di Sade, non fu certo D’Holbach, ma senz’altro l’opera di quest’ultimo può essere considerata come la più rappresentativa di una tendenza generale verso l’ateismo basato su di uno specifico fondamento scientifico.

In effetti lo stato della scienza, all’epoca, avrebbe potuto consentire un maggiore approfondimento delle giustificazioni scientifiche dell’ateismo, solo che i filosofi che si dedicarono a questo lavoro (Diderot, Naigeon, D’Holbach, La Mettrie, Helvetius, ecc.) preferirono utilizzare ben poche delle nuove scoperte e agganciarsi alla vecchia retorica e alla vecchia filosofia stoica. Di questa passione per gli stoici è testimonianza la Vie de Sénèque scritta da Diderot e pubblicata nel 1799, mentre il suo seguace Naigeon dava alla luce la traduzione francese del Lagrange di tutte le opere di Seneca. Newton è tenuto presente ma considerato come un’autorità ormai acquisita su cui ci si può fondare fino a un certo punto ma da non preferirsi alla saggezza degli antichi retori, in particolari latini. Lo stesso metodo di ricerca di Newton non appare presente nell’impostazione delle opere dei nostri atei. Quel metodo sarà largamente presente, invece, nel deista Voltaire e in Montesquieu, come sarà presente in buona parte della produzione fisiocratica.

Tutto ciò non deve suonare come una svalutazione del valore degli scritti di D’Holbach o di Diderot, di La Mettrie o di Helvetius. Solo che la loro posizione, autenticamente scettica, combattiva, polemica, aveva finito per trovare armi molto più efficaci nella retorica latina che non nella disadorna sostanza della nuova scienza.

La strada attraverso la quale la saggezza e la disposizione di spirito latine pervennero ai filosofi del Settecento francese fu quella del pirronismo seicentesco diffusosi in Francia a far tempo da Montaigne. È con Pierre Bayle che questa corrente scettica di pensiero trova modo di collegarsi alle ricerche di Helvetius, Diderot e compagni. Esempio notevole di questa tendenza, di questo fenomeno di élite schiettamente individualistico, è François de La Mothe Le Vayer, autore in cui diventa palese questo riflusso dell’antica saggezza nella moderna riflessione. Nell’opera Deux dialogues faits à l’imitation des anciens [1716] viene portata avanti una sottile distinzione tra fede e ragione, in modo da giungere con grande cautela alla conclusione: «poiché fra tutti i generi della filosofia solo quello degli scettici ci istruisce sulla verità delle scienze e ci insegna a disprezzarle fondatamente, ne segue che, come s’è stabilito fin da principio, dev’essere reputato il più adatto alla nostra vera religione e il più fedele interprete del nostro cristianesimo» (p. 146 dell’ed. francese del 1922, Tissérand, Parigi). La Mothe Le Vayer chiude in questo modo un lungo discorso sul problema religioso durante il quale aveva fatto vedere da un lato la pluralità delle opinioni religiose e anche la possibilità dell’assenza, in certi popoli, di una qualsiasi opinione religiosa, dall’altro la corrente filosofica atea che, fin dalla remota antichità, aveva coerentemente portato avanti la dottrina dell’assenza di Dio. Tutto questo gran lavoro finisce, poi, per avere la “copertura” finale della frase che abbiamo riportato. Per altro i tempi non erano affatto maturi per una aperta professione atea e non occorreva poi molto per andare a fare visita all’Inquisizione, sia pure quella della libera Francia.

Con tutto il gruppo dei “libertini” La Mothe Le Vayer ha in comune la tendenza scettica e l’analisi erudita dei particolari portati a sostegno della tesi. La scienza è intravista appena, sullo sfondo. La vicenda filosofica di Pierre Gassendi viene rivissuta da tutti questi pensatori (oltre a La Mothe le Vayer bisogna ricordare Cyrano de Bergerac, Gabriel Naudé, Antoine Chevalier de Méré e altri): da un lato il grande filosofo francese accettava Galilei, ne valutava pienamente la portata della scoperta metodologica, si rendeva conto del fatto che per l’italiano la conferma speculativa dell’atomismo aveva perduto ogni importanza, dall’altro, invece, è proprio l’antica filosofia epicurea a centrare la maggior parte delle sue cure, la sua infanticabile attività di umanista e a fondare il suo raccordo postumo con il libertinismo. Forse Gassendi ha meno raccordi con i pensatori del Settecento francese, da un punto di vista sostanziale, ma dal lato di una più profonda aderenza al metodo è da considerarsi uno dei precursori più determinanti.

Stabilita questa derivazione ci resta soltanto da riassumere le idee scientifiche del tempo di Sade, così come vennero formulate da D’Holbach. Nel primo capitolo del Sistema della Natura, così si esprime: «È pertanto alla fisica e all’esperienza che l’uomo deve ricorrere in tutte le sue ricerche. Sono queste che deve consultare nella religione, nella morale, nella legislazione, nel governo, nella politica, nelle scienze e nelle arti, nei piaceri e nelle pene. La natura agisce per mezzo di leggi semplici, uniformi, invariabili, che l’esperienza ci mette in grado di conoscere: è attraverso i nostri sensi che ci sentiamo legati alla natura universale, che possiamo interrogarla, scoprirne i segreti; quando abbandoniamo l’esperienza cadiamo nel vuoto dove la nostra immaginazione ci fa marcire». (Cfr. cap. I). Ma più che dalla fisica D’Holbach ricava dalla chimica, nello studio della quale era stato discepolo e amico del grande Guillaume Rouelle, il materiale che lo aiuterà a costruire la giustificazione materiale della esistenza del mondo. «Le materie sono tante e svariate e combinate in un numero infinito di modi, esse ricevono e comunicano senza interruzione diversi movimenti. Le differenti proprietà di queste materie, la loro diversa combinazione, il diverso modo di comportarsi, che sono un insieme di conseguenze necessarie, costituiscono le essenze degli esseri. Da queste essenze e dalla loro differenziazione derivano i diversi ordini, ranghi o sistemi occupati da questi esseri, la cui somma totale è da noi chiamata natura». (Cfr. cap. I).

Questo il mondo scientifico-letterario che Sade trova e che mette a frutto. Il lavoro dell’Illuminismo ateo gli apre la strada verso la comprensione della possibilità di un mondo fondato sul movimento perpetuo, essenzialmente retto da leggi che non trovano un fondamento esterno alla natura stessa.

Nel Dialogo il moribondo così si esprime: “Amico mio, provami l’inerzia della natura, e ti concederò il creatore; provami che la natura non è autosufficiente, e ti permetterò di supporre un padrone”. In ciò Sade non vede la saggezza del meccanismo voluto da un ente esterno che invece vedono con tanta ottusità le religioni. La natura è necessariamente autosufficiente, e in questo non c’è saggezza alcuna, solo un’alta percentuale di probabilità, si direbbe oggi, solo una necessità determinista, dice Sade. Tutto ciò non sposta la validità del ragionamento dei nostri filosofi, ed è proprio qui il segreto della loro attualità e della utilità, per noi, di una rilettura in chiave ateista.

La ragione trova in questo modo i termini esatti del suo dominio. Tutto ciò che si comprende finisce per essere, prima o poi, oggetto di fede. Questa è la sola fede che può accettarsi da parte di uno spirito razionale, dice Sade, e l’uomo – per distinguersi dalle altre bestie – deve affermare con tutte le sue forze questa razionalità.

Le conseguenze di queste conclusioni ateiste sono lasciate sospese. Sade si accorge che la riflessione condotta nel Dialogo, sebbene lo soddisfi come pensatore, lo lascia freddo come artista. Indiscussamente il personaggio del moribondo è un personaggio assai povero, quanto invece profondamente convincente è la sua dialettica sul piano operativo della speculazione ateista. Ma Sade artista si rivolta a questa impostazione del problema. L’opuscolo non ebbe mai soverchia considerazione nella graduatoria che ogni autore fa delle proprie opere. Ben altre conclusioni attendevano il marchese.

Può sembrare straordinario parlare di irrazionalismo per Sade, ma non possiamo trovare termine più acconcio una volta data per certa la sua insoddisfazione a restare legato alle premesse edulcoranti dettate da certo Illuminismo sulle spoglie del morto Dio. In effetti non lo è. Sade era andato alla ricerca del fondamento della natura, aveva identificato la necessità etica di questo fondamento, ma non aveva potuto individuare una possibilità che tutto ciò si riducesse allo stesso meccanismo determinista. La ragione d’essere di tutte le cose divenne, in questo modo, fantomatica, ad essa si sostituì l’uguaglianza assoluta di tutte le soluzioni: il nulla nichilista allo stato bruto, il nulla che sarà poi di Sartre e degli esistenzialisti odierni della stessa scuola francese. Siamo davanti ad un ateismo irrazionalista che avvicina Sade a Nietzsche e lo allontana dai suoi contemporanei.

L’antitesi con il razionalismo illuminista non poteva essere più grave. Da un lato un mondo compiuto, certo delle proprie forze in sempre maggiore sviluppo, certo pure dell’azione progressivamente accumulatrice della ragione, un mondo analitico che alla vecchia logica deduttivista aveva sostituito la nuova logica sperimentale, dall’altro un uomo che penetra lentamente in un nuovo universo, in una nuova dimensione: quella della sessualità umana e vi scopre propaggini stregonesche, libertà incredibili, passioni spaventose, disegni stranamente perfetti ma senza dubbio non facilmente reperibili nell’umano consesso allo “stato superficiale”. Tutte queste scoperte lo turbano ma egli non indietreggia, la sua lucidità illuminista – veramente in questo caso – lo spinge ad andare avanti, fino alle estreme conseguenze più pericolose, fino alla conclusione irrazionale di una partenza razionale.

È la strumentalizzazione dell’uomo in nome del sapere che Sade rifiuta, mentre accanto costruisce la strumentalizzazione dell’uomo in nome della libertà. Ma è una costruzione che gli sorge tra le mani, quasi involontariamente, come logica conseguenza di determinate premesse. È la mitologia laica che Sade rifiuta, in questo forse più aderente al pensiero laico di quanto non lo furono i suoi amici razionalisti, così come si era venuta a sostituirsi, nel corso della lotta contro la teologia, ai vecchi canoni religiosi. Quell’avventura era stata necessaria e il vecchio ateismo, a volte quasi commovente, degli illuministi non poteva muovere da posizioni diverse, ma era andata a cadere nelle terribili maglie della metafisica teologica. Un po’ quello che succede oggi, a tanto tempo di distanza e dopo tante esperienze nel campo del libero pensiero, a quanti credono di potere costituire una dottrina ateista sulla semplice contrapposizione al teismo. (Cfr. il mio Saggi sull’ateismo, Ragusa 1970, p. 45). Sade comprende pienamente il pericolo – già presente nello stesso Dialogo – e prende la strada che più prediligeva, quella per le estreme conseguenze, e verso questa strada spinge i propri personaggi, torturatore sotterraneo in nome del simbolo più importante di tutta la storia dell’uomo: la libertà.

Kafka ha definito il marchese di Sade come “il vero e proprio patrono del nostro tempo”. L’affermazione è istruttiva per tante cose: per lo studio della personalità di Kafka, per l’analisi delle componenti intellettuali del nostro tempo, per un’indagine sul mondo ultimo del nostro autore. È, in questa sede, quest’ultimo aspetto che c’interessa.

La tragedia del nostro tempo, l’inutilità della scelta, la parità delle possibilità, l’appiattimento della soluzione prospettata in passato dalla ragione, sono tutte anticipate da Sade che, via via, le presenta al lettore dopo che dall’assenza di Dio, anziché indirizzarsi verso la costruzione, procede con alacrità alla distruzione del mondo e delle sovrastrutture che lo circondano. Se la materia è in moto continuo, se questo movimento è l’essenza stessa della materia senza una giustificazione più recondita, vuol dire che Dio non esiste, vuol dire che l’uomo è libero e che può pensare a costruirsi un futuro sempre migliore e sempre più libero. A questo punto si interrompe la riflessione degli illuministi, mentre Sade procede più oltre verso l’avventura dell’ignoto, verso l’epoca moderna: per tutto ciò Sade è un autore veramente moderno, impregnato di quella pericolosa mancanza di sostanzialità definitiva che caratterizza molta parte della produzione artistica moderna.

La dottrina del progresso viene trasformata in qualche cosa di originale, contraria non solo al vecchio pensiero cristiano (Matteo, V, 48) ma anche al nuovo pensiero laico (Turgot, Condorcet e altri). Mentre il primo aveva parlato del progresso come perfezionamento della singola individualità nel cerchio più ampio della morale cristiana, i secondi avevano parlato di un processo irreversibile, automatico, determinato, non solo limitato al singolo uomo ma coinvolgente tutta l’umanità, tutta la società, da considerarsi nella sua complessità storica evitando di farsi distogliere da eventuali ritorni e distorsioni. Sade conclude la dottrina del progresso nella dispersione causata da una errata localizzazione della libertà.

Questi i punti essenziali dell’avventura di Sade. Non mette conto, qui, seguire i termini finali del suo discorso, quanto invece ci interessa approfondire di più il problema specifico dell’ateismo.

Abbiamo già visto come frequentemente, anche nei momenti migliori, l’ateismo sadiano si ponga nei termini di contrapposizione al teismo. Si tratta quindi di un tipo primitivo di ateismo, quanto mai pericoloso. Non occorre qui approfondire il perché di queste nostre affermazioni avendolo fatto in sede più acconcia, ci basta solo avvertire il lettore che la più grande alleata del teismo è stata la metafisica, ora, scendendo sullo stesso terreno del teismo, il libero pensatore non può fare uso di quegli strumenti metafisici che il passato speculativo ha elaborato sia per lui che per il teista. Ma sono proprio questi strumenti gli elementi favoriti del teista, è proprio quello il terreno in cui diventa se non impossibile almeno periglioso controbattere le sue gratuite affermazioni. Contrapporsi al teismo significa accampare gli stessi diritti di quest’ultimo alla discussione, in altri termini riconoscere alla speculazione teista cittadinanza nel dominio del pensiero. Tutto ciò è assurdo, il vero ateo non deve tener alcun conto del teismo, non deve controbatterlo, deve semplicemente ignorarlo. L’ateismo può e deve ergersi da solo nell’affermazione della non necessità dell’ipotesi di Dio, semplicemente e chiaramente, senza forzature e senza ricorsi a strumenti di pensiero che sono tanto utili al teismo.

Questo, ovviamente, non poteva essere il caso di Sade, almeno per due motivi. Primo, perché il momento non era quello della pacata riflessione quanto, invece, quello della lotta accanita, al coltello, senza esclusione di colpi, sullo stesso terreno del teismo, secondo, perché lo stesso Sade, con la sua personalità contorta di artista e di uomo, non era il tipo più adatto a intraprendere un’azione del genere così obiettiva. Con questo non si vuole minimamente sminuire l’opera di Sade, la sua azione importantissima, quasi elettrizzante nel campo del libero pensiero e della lotta alla religione, soltanto si vuole avvertire il lettore della pericolosità di una lettura poco provveduta dei suoi scritti sull’ateismo.

Siamo davanti a un ateismo negativo e distruttivo, impossibilitato a costituirsi come ateismo conseguente e costruttivo dal fatto che dalla negazione di Dio Sade era passato, logicamente sul piano teorico ma incongruamente sul piano pratico, alla negazione del prossimo. Per mantenere questa duplice negazione egli avrà sempre di più bisogno di una particolare tipologia, una galleria di personaggi che nel crimine e negli estremismi sessuali manterranno intatto, a scapito di ogni possibilità costruttiva, la premessa negatrice del loro autore. La sempre maggiore necessità di ricercare nuove torture e nuove soluzioni e combinazioni di perversione sessuale è la prova maggiore del fatto che il passaggio dalla negazione di Dio alla negazione del prossimo è gratuito sul piano pratico. Il mondo può essere valutato in molti modi, nullificato in un modo soltanto: Sade ha scelto quest’ultimo.

Una volta individuato il pericolo nella lettura sprovveduta dell’opera di Sade il resto è assai semplice. La messe per il lettore ateista è quanto mai vasta e proficua. I brani in cui la dottrina è trattata con severità e conseguenza logica esemplare non sono pochi, le concezioni sviluppate in contrasto con il teismo – per quanto come si è detto pericolose – sono ben sostenute e sempre nitide. Tutto finisce per far rivalutare grandemente una parte di Sade, proprio quella che dal punto di vista strettamente artistico ha meno importanza: la parte meditativa e filosofica.

Della letteratura scientifica abbiamo visto la presenza in Sade nei limiti in cui questa stessa presenza è riscontrabile negli altri grandi ateisti francesi dell’epoca, il caso di D’Holbach fa testo in assoluto. I rapporti non sono esattamente quelli che ci si sarebbe aspettato di trovare, comunque le influenze non si possono negare al cento per cento, sebbene quella, poniamo, della corrente stoica o di un’altra corrente filosofica antica sia di gran lunga più determinante.

A fianco della letteratura scientifica, come fonte dell’ateismo di Sade, si pone, oltre l’apparato retorico e filosofico di tradizione, una diffusissima letteratura clandestina anticlericale e atea. Con molta probabilità Sade conosceva il testamento dell’abate Meslier (di impronta apparentemente deista, ma lavoro essenzialmente ateo), l’opera di Francesco Colonna: Histoire naturelle de l’univers (composta tra il 1725 e il 1726), l’anonimo lavoro Iordanus Brunus redivivus (interessantissimo, che sviluppa una tesi vivace di ateismo materialista). Con certezza Sade conosceva il lavoro di Nicolas Fréret: Lettre de Thrasybule à Leucippe, in quanto lo cita in Juliette (scritta tra il 1722 e il 1739 la Lettre di Fréret ebbe larga diffusione. Sade cita questo autore a p. 47, part. I. Cfr. ed. Pauvert), i troppo noti lavori di Jean-Baptist Mirabaud (Sentiments des philosophes sur la nature de l’áme del 1743 circa), di César Dumarsais (notissimo ateo morto all’età di 85 anni, citato da A. Adam nella Prefazione agli Opuscules di Sade ed. delle Opere Complete, Au cercle du livre précieux, Paris 1967, vol. XIV, p. 16), di Diderot (Interprétation de la Nature, tr. it., Torino 1960), ecc. dovettero costituire la preparazione di Sade in questo campo.

Siamo in presenza di una letteratura non scientifica che trascura, o accenna brevemente, alle scoperte attuate dalla scienza e alle strade di ricerca che quest’ultima lasciava all’epoca intravedere, per dare libero sfogo alla trattazione filosofica e polemista. Nel lavoro del Fréret, ad esempio, senz’altro uno dei migliori del genere, si ha appena un cenno di passata alle scoperte della biologia – alcune delle quali, per altro, dovevano ancora essere comprovate e liberate dallo stato di semplici ipotesi teoriche, mentre tutto il nocciolo del ragionamento è concentrato nell’analisi filosofica dell’esistenza di Dio, in particolare di Dio creatore. La dimostrazione della consistenza chimerica della nozione di “causa prima” occupa il nostro autore per larga parte dell’opera, mentre il testo è dedicato alla critica del concetto di “necessità”. Il salto – teorizzato da Kant – tra l’ordine delle cause particolari e l’ordine determinato dalla “causa prima”, impossibile come aveva visto giustamente il filosofo tedesco, è rifiutato e relegato tra le assurdità della filosofia. Non esiste necessità alcuna di un salto del genere, la vista di un vuoto nella catena delle cause – afferma Fréret – può “sopportarsi senza dolore”. L’influenza di Fréret sul poema La Vérité è grandissima, come ha notato Adam (op. cit. pp. 19-20).

Tutte queste presenze sono decisive, mentre restano meno importanti le presenze per esempio nelle Strennes philosophiques indirizzate da Sade a M.lle de Rousset nel 1782, alle quali appare una influenza ricavabile dalle ricerche condotte da Gassendi fino a Maupertuis sulla possibilità degli atomi di organizzarsi autonomamente in un ordine universale (di Pierre Louis Maupertuis l’opera più attinente al nostro problema è il Sistema della natura, pubblicato nel 1752 con il titolo De universali naturae systemate).

Si può parlare di una ambivalenza nell’ateismo di Sade? Il dubbio è sorto affrontando i testi blasfemi e passionatamente diretti a colpire l’immagine di Dio e la struttura concreta della religione cristiana. Ne La Vérité leggiamo:

Oui, vaine illusioni mon áme te déteste,
Et pour t’en mieux convaincre, ici ie le proteste,
Je voudrais qu’un moment tu pusses exister,
Pour jouir du plaisir de te mieux insulter.

Nessun dubbio in merito: sono versi in cui si afferma un’irrimediabile rottura con l’idea di Dio, ma una rottura che lascia quasi sussistere la possibilità che dall’altra parte della contrapposizione qualcosa esista, qualcosa sia pure di oscuro e di incerto ma qualcosa di comune. Se a fianco di questi versi si pongono i passi ricavati da Les 120 journées de Sodome, in cui viene attuata una sistematica dissacrazione di tutti i feticci della religione cristiana, otteniamo un quadro molto suggestivo di questo lato dell’ateismo sadiano.

Accanto a questi testi, si è visto, è possibile porre i testi “sereni”: da qui il mito dell’ambivalenza. Niente di più errato. Innanzi tutto bisogna tenere presenti due cose. La prima, che l’estremismo blasfemo nella letteratura atea del tempo non era un’eccezione. Uomini come John Toland (filosofo inglese considerato un deista, ma sostanzialmente ateo, specie nelle Lettere a Serena), come Sylvain Maréchal (autore in genere assai moderato nel tono del suo ateismo, solo nei Fragmens d’un poème moral sur Dieu diventa impetuoso e appassionato), come Paul Henri D’Holbach (in genere molto calmo nelle sue riflessioni, abbandona qualche volta il tono pacato per quello dettato dall’ira e dalla passione), si lasciavano andare a frequenti scoppi d’ira contro un dio che, nonostante l’apparenza, ritenevano inesistente come sostanza ma esistente come idea, e contro questa idea, nata e voluta dall’uomo per alimentare la paura e la prevaricazione dei meno sui più, questi uomini lanciavano la loro bestemmia. La seconda è data dalla identificazione di Dio con l’idea di autorità, di tirannia politica, che questi scrittori condannavano in uno: la passione politica finiva per travalicare nel campo religioso e trascinare la pena in affermazioni di sfida e disprezzo. Certo i testi “pacati” non mancavano ma non si possono in alcun modo considerare “superiori” a quelli “passionali”, nemmeno da un punto di vista strettamente metodologico in quanto quello era il momento, come si è detto, della lotta al coltello contro tutta l’autorità costituita (Dio e la Tirannide) e non si poteva attuare una particolare speciosità in materia di metodo: tutti i mezzi sono buoni quando il terreno scotta sotto i piedi.

Non possiamo parlare di ambivalenza quindi in Sade. Se questo autore aduna in sé tutti e due gli aspetti della produzione ateista vista prima dipende da una particolare complessità della sua psicologia e dal fatto di essere più artista che pensatore. Pertanto, non trovando contrasto nell’attività di un Toland contrapposta a quella dei fratelli Grimm o di un Diderot, non possiamo trovare ambivalenza nell’opera di Sade.

L’ultimo atto dell’ateismo di Sade è la denuncia della tirannia. Alla fine dell’amara lotta di Sade si colloca il significato profondo del suo messaggio: la Rivoluzione non potrà essere salvata senza eliminare per sempre la religione dalla Francia. Nel quinto Dialogo della Philosophie dans le boudoir (1795) Sade avverte il lettore che se i Francesi commetteranno l’errore di restaurare il vecchio cristianesimo, “dentro 10 anni i preti avranno restaurato il loro impero sulle anime e ridotto il popolo alle loro leggi”. Ecco serviti i detrattori di Sade. Il suo ateismo non è stata una semplice eliminazione di Dio – per altro a detta di taluni rimasto in piedi in alcune parti dell’opera, specie in quelle dove si attua un’attività blasfema – per meglio costruire un mondo del vizio e dell’assenza della virtù – il suo ateismo è stato un programma di pensiero costruttivo, coerente con l’indirizzo politico della sua ricerca.

Certo non è possibile attuare una critica della religione partendo soltanto da una critica del clero. Il fenomeno religioso non può ricondursi immediatamente all’azione del clero, avendo radici più profonde che si collocano nella psicologia dei primitivi e nella sistematica rimozione dei tabù eretti dall’ignoranza. Dimenticare questo punto di partenza significa lasciare intatta la possibilità di una eventuale risorgenza della religione al semplice ripresentarsi di vecchie paure e vecchi miti. Però non è mai stato detto a sufficienza che è proprio la casta sacerdotale a portare avanti le paure e le superstizioni, a propagare la sottomissione e la viltà, ad impedire che le antiche paure vengano superate e sconfitte. Se la religione ha origini diverse dalla semplice volontà di una data classe che intende raggiungere determinati scopi di sfruttamento, ciò non toglie che questa classe e questi scopi esistano e che questa classe possa raccogliere le vestigia delle antiche religioni per costruire su di esse il proprio fiorente impero. Combattere il clero significa combattere la religione fin dal suo fondamento, però bisogna anche che le situazioni di fatto che dettero origine alle paure e alle superstizioni, dalle quali venne fuori la religione, siano limitate: in caso contrario la lotta contro il clero diventa inefficace e improduttiva. A esempio, non è produttivo combattere il clero e non fare nulla per il sempre presente analfabetismo, per la sempre presente superstizione a tutti i livelli, per la scarsa diffusione della cultura, ecc. In questo modo quella lotta minaccia di impantanarsi e di non essere compresa dal popolo che, dal di dentro del suo analfabetismo, della sua necessariamente modesta cultura, della sua superstizione, non può guardare se non con orrore ai tentativi di eliminare i rappresentanti di qualche cosa in cui secoli di sottomissione e di angherie lo hanno spinto a credere.

Affermata la necessità dell’eliminazione di determinati presupposti che favoriscono la persistenza della religione, si può passare alla lotta contro la classe sacerdotale. Ed è proprio questo il passo compiuto da Sade che completa il suo programma indicando il tragitto cui risulta diretta l’azione di questa classe: l’alleanza con la tirannia per lo sfruttamento in collaborazione del popolo. Quasi tutti i deisti del secolo avevano lottato contro i crimini della religione e dei suoi rappresentanti, alcuni, come Voltaire, con l’arma potentissima dell’ironia e del ridicolo, Sade, con l’estensione teorica dell’ateismo, estende la lotta sul piano della rappresentazione concreta: quella del romanzo.

Ora, se da un lato i deisti rifuggivano in una sorta di oasi di positività, ammettendo l’esistenza di un Essere Supremo, regolatore della virtù, e in questo modo contrapponevano al mondo corrotto della religione e dei preti l’idea, sia pure astratta, ma certamente concreta dal punto di vista dell’azione sugli spiriti che la fanno propria, di Dio, gli atei non potevano sottrarsi all’invito mentre non potevano ammettere, da canto loro, l’esistenza di Dio, la soluzione fu quella dell’ammissione di una natura benevola e provvedente, capace di regolare il tutto secondo un processo deterministico a ciclo chiuso. Sade, invece, rompe la struttura della ricerca ateista, si contrappone a uomini che come Diderot o come Joseph de Lalande parlavano del gruppo degli atei come di una élite tutta chiusa a perpetuare una tradizione di virtù e di sanità morale, ma ben poco propensa ad aprirsi verso la realtà, verso il mondo dell’uomo, sebbene assai disponibile per il mondo della natura e della scienza. E questa posizione di Sade, nel bene come nel male, è frutto della sua passione di uomo e di letterato, assai più che dalla sua sostanza di pensatore e di filosofo.

Dettare, a questo punto, una guida per il lettore non è più possibile. Accostare Sade è sempre un’avventura e la sua fama risiede proprio in questo. Per il lettore che vuole inserire Sade nell’arco di quella ricerca ateista che la collana di cui questo libro fa parte intende portare a compimento, diciamo, in aggiunta, che Sade è un ateo “integrale”, uno dei più razionali costruttori di una “realtà senza Dio”, anche se questa nostra affermazione può suonare strana se raccostata ad alcuni passi dell’opera di Sade e ad alcune interpretazioni. L’integralità dell’ateismo sadiano dipende dalla sua assoluta aderenza al presupposto dell’inesistenza di Dio: non assenza, o rifiuto, o dimenticanza, o sospensione, o morte di Dio, semplicemente inesistenza. Ecco perché una lettura di Sade, per quanto avventurosa o pericolosa, è sempre una lettura produttiva.

[Introduzione a Donatien-Alphonse-François de Sade, Scritti sull’ateismo, tr. it., Ragusa 1971, pp. 9-36]

Antonin Artaud. Il teatro e il suo doppio

In un momento in cui la teoria del comunismo, a livello politico, si trova estremamente in bassa fortuna, sradicata dalle sedi dove si era arroccata da circa settant’anni, torna utile una riflessione in merito, nella prospettiva comunitaria, certamente non in quella statale e politica.

In tutti i rivoluzionari che non si dichiarano apertamente autoritari e nemmeno individualisti c’è un latente bisogno di comunismo, quindi un progetto se si vuole utopico riguardante una società futura fondata su valori diversi. Più volte questo problema è stato affrontato, senza arrivare mai a una definizione accettabile.

Eppure proprio dalle comunità sono arrivate indicazioni di pratiche diverse, nel senso che alla diversità do come maggiore o minore lontananza dalla omologazione che la vita quotidiana realizza costantemente. Meglio fallire disastrosamente cercando con coraggio, non grazie a qualche espediente tartufesco, di aprire una strada che calpesti luoghi comuni e tabù, che limitarsi a inseguire un miserabile ideale autarchico, impossibile a raggiungersi se non sacrificando e immiserendo i desideri e quindi anche i bisogni.

Non sto qui a sostenere l’utilità di esperimenti del genere amore libero, che pure hanno avuto e hanno la loro importanza. Sostengo al contrario che l’interesse consiste nella sperimentazione utopica. Per tale motivo penso che almeno alcuni aspetti di certe comunità siano più interessanti di altri, e mi riferisco a quelle che hanno fatto teatro e a quelle che hanno fatto musica. Anche qui ci sarebbe da verificare alcune limitazioni, ma si tratta di scelte politiche che possono avere a che fare con la scelta del mezzo comunitario di espressione e possono anche non avervi a che fare.

Il teatro è il luogo dove si possono, anche oggi, avvertire alcune condizioni del misticismo, naturalmente parlando di teatro intendo qui quell’insieme di sforzi che partendo dalle condizioni tecniche della rappresentazione teatrale, nel senso fissato dalla tradizione scenica, cerca di sfuggire a questo imprigionamento facendo ricorso ad altre tecniche, ma prima di tutto proponendo altre riflessioni di fondo.

Un teatro delle diversità è possibile solo spezzando il muro che la società permissiva, ma non troppo, ha costruito tra spettatore e attore. Questa è l’ipotesi di Antonin Artaud, per come è stata da lui sviluppata nell’àmbito delle teorie e delle pratiche del “Teatro della Crudeltà”. Essa finisce per spezzare i ruoli reciproci e contrastanti, di attore e spettatore. Oggi si tratta di un discorso vecchio, che resta comunque nuovo, e manifesta tanti aspetti incomprensibili e quindi non accumulabili, tutte le volte che viene applicato. Quando se ne parla, come farò qui, tutto sembra invece ricevere un crisma di razionalizzazione, cosa che non è possibile. Il discorso di Artaud va preso sotto diversi punti di vista, negli aspetti tecnici è diventato pratica giornaliera, estendendosi irrimediabilmente nelle sabbie mobili del recupero istituzionale. Ma non ci sono solo gli aspetti tecnici.

Le vicenda era considerevole, il problema di fondo anche, perfino gli aspetti tecnici si rivelarono importanti. Mettendo in ballo la violenza si entrava in un discorso di iniziati che nella sacralità del rapporto tra attore e spettatore faceva saltare i nervi al perbenismo che attecchisce dappertutto, specialmente fra coloro che si dicono disponibili alle esperienze diverse, i quali sono i primi a chiedere garanzie nella partecipazione agli esperimenti, almeno la garanzia di uscire vivi. Accanto a questo lavoro ce n’è un altro, che penetra nella problematica sociale, e che mantiene anche oggi tutta la freschezza di quarant’anni fa. Oggi non è più possibile parlare di teatro e non tenere presente tanti aspetti che attengono al teatro perché ne costituiscono il fondamento, aspetti che sono nello stesso tempo fondamento di altre attività umane.

La categoria della partecipazione diventa accessibile nel momento in cui il teatro si decide a muoversi, a venire avanti, a diffondere i suoi bagliori visivi e sonori su tutta la massa del pubblico. L’antico mito greco della totalità qui riprende una dimensione diversa da quelle che aveva in passato. Lo spettatore, strappato alla sua parzialità, privo di difese, è posto di fronte a questa totalità in movimento, di cui è un elemento non trascurabile, non marginale, ed entra quindi in una realtà diversa, dove non resta più niente della precedente parzialità. Basta un piccolo gesto, un trasferimento della centralità della scena, che viene improvvisamente a riversarsi sul singolo spettatore, perché tutto si metta in gioco, non occorrono grandi avvenimenti perché si perpetri l’atto di crudeltà.

Eccoci quindi al punto centrale del discorso di Artaud. L’azione e la violenza, di cui si parla, trovano la loro estrema giustificazione in quanto semplici strumenti per uno scopo, la crudeltà verso lo spettatore, un tentativo radicale per scuoterlo dal suo colpevole atteggiamento passivo. La diversità di Artaud consiste in questo, a differenza degli eventuali precedenti che da Ubu roi possono risalire fino a Sade, consiste nel rapporto con l’uomo che gli sta davanti e, attraverso quest’uomo, nel rapporto con la società personificata nella statica immobilità di quest’uomo. Dichiaratamente, Artaud si programma l’intenzione di riportare nel teatro un’appassionata, e convulsa, concezione di vita, contestuale a un estremo rigore e a una condensazione degli elementi scenici in quanto tale. La crudeltà diventa pertanto una specie di purezza severa, una morale giansenista che non “teme di pagare la vita al prezzo cui deve essere pagata”. Ecco come scrive in una lettera del 13 settembre 1932 indirizzata a Jean Paulhan: «Non posso fornirle sul mio Manifesto precisazioni che rischierebbero di falsarne il tono. Tutto ciò che posso fare è di commentare, provvisoriamente il titolo Teatro della crudeltà e cercare di giustificarne la scelta. Questa crudeltà non è fatta né di sadismo, né di sangue, almeno non in modo esclusivo. Io non coltivo sistematicamente l’orrore. La parola “crudeltà” deve essere intesa in senso lato e non nell’accezione fisica e rapace che abitualmente le si attribuisce. E rivendico, scegliendola, il diritto di farla finita con il consueto significato del linguaggio, di spezzare una buona volta l’armatura, di far saltare la gogna, di tornare finalmente alle origini etimologiche della lingua che, attraverso concetti astratti, evocano sempre un elemento concreto. Si può benissimo immaginare una crudeltà pura senza strazio carnale. Del resto, che cos’è la crudeltà in termini filosofici? Dal punto di vista dello spirito, crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta. Il determinismo filosofico più corrente, dal punto di vista della nostra esistenza, è una delle immagini della crudeltà. È un errore attribuire alla parola “crudeltà” un senso di spietata carneficina, di ricerca gratuita e disinteressata del male fisico. Il Ras etiopico, che si trascina appresso i prìncipi sconfitti e li riduce in schiavitù, non lo fa per un disperato amore del sangue. Crudeltà non è sinonimo di versamento di sangue, di carne martoriata, di nemico crocifisso. Questa identificazione della crudeltà con le torture è un aspetto decisamente secondario della questione. C’è infatti nell’esercizio della crudeltà una sorta di determinismo superiore cui persino il carnefice-seviziatore è soggetto e che, all’occorrenza, deve essere determinato a sopportare. La crudeltà è prima di tutto lucida, è una sorta di rigido controllo, di sottomissione alla necessità. Non si ha crudeltà senza coscienza, senza una sorta di coscienza applicata. È la coscienza a conferire a qualsiasi atto della vita un calore di sangue, una nota crudele, perché è chiaro che la vita è sempre la morte di qualcuno». È quindi l’uomo che deve prendere coscienza della crudeltà, tagliandosi fuori da tutti gli infingimenti che ostacolano questa presa di coscienza. Deve chinarsi dentro di sé e sentire l’appetito della vita, il rigore di questa pulsione cosmica, di questa irrefrenabile necessità».

Eccoci all’interno del meccanismo tecnico. Il livello teorico segue il momento creativo. L’autore si accorge che molti aspetti potrebbero precipitare troppo presto, non ultima la possibilità di un’assuefazione alla partecipazione. Così, parlando di simbiosi, dichiara che prima dell’altrui assuefazione c’è il pericolo che scatti la propria, contro cui bisogna attrezzarsi. Per evitare questa razionalizzazione, che nel teatro corrisponde prima di tutto alla professionalizzazione, bisogna che il teatro divenga concezione di vita, vita esso stesso, non più stantia proposizione di schemi o di tralicci su cui arrampicarsi con la sola bravura del mimo o del pagliaccio, vita che viene così a svilupparsi in tante trame di partecipazione, trame rivoluzionarie perché collocate in una esatta dirittura politica. «Lo stesso Padre – scrive in una lettera ad André Breton del settembre 1937 – è non il primo Dio ma la Prima Presa di coscienza della Forza orribile della Natura che crea l’Essere, e provoca l’infelicità di tutti gli Esseri».

Sade è forse il vero precursore delle tematiche della crudeltà nel teatro, naturalmente intesa nel senso di un possibile coinvolgimento dello spettatore. Sade giunge al cuore delle contraddizioni della società del suo tempo e, per certi aspetti, anche del nostro tempo. Una società in cui la competizione resta ancora alla base di tutto. L’impero della ragione si andava profilando con una certa consistenza come dominio dell’uomo su ogni cosa, nell’àmbito di quel determinismo che il materialismo settecentesco contribuiva a fare affluire dalla scienza ai fenomeni concreti della vita e alla vicende degli uomini e dei loro rapporti. Ma l’impero della ragione è il dispotismo, e Sade ne esaspera con raffinata crudeltà tutti gli aspetti battendo talmente sulle estreme conseguenze di questa disposizione razionale dell’uomo da giungere a risultati incredibilmente istruttivi per noi, oggi, risultati che sono molto vicini, sotto l’aspetto della provocazione, alle tematiche del teatro della crudeltà.

Al contrario, il teatro di Sade, sia i due soggetti rappresentati che quello inedito, è lontano dagli effetti e dalla qualità letteraria dei racconti e dei romanzi. Anche la parte dialogata non raggiunge l’efficacia dei dialoghi inseriti nelle opere. Scrive Gilbert Lely: «Bisogna subito avvertire il lettore che l’autore di Aline et Valcour il quale mostra sempre la propria genialità anche nei rapidi biglietti o nelle righe scritte affrettatamente dalla prigione, nelle opere teatrali è di una sconcertante mediocrità». (Sade, profeta dell’erotismo, tr. it., Milano 1968, p. 220). L’opera rappresentata è Oxtiern ou les Malheurs du libertinage, quella che non venne rappresentata, ma che fu interrotta dal pubblico, secondo alcuni perché scritta da un aristocratico, è Le Suborneur. Nessuna delle due ha niente d’importante, come tutto il resto inedito alla morte del suo autore. La sostanza del testo teatrale di Sade la si deve quindi cercare in quei testi che non erano diretti al teatro, dove il male assume una propria esistenza autonoma, allo stesso modo in cui avviene nella società, in cui attraverso la razionalizzata vicenda dell’uomo i suoi intrecci si estendono sotto forma di dittatura unica. Sade ci ha mostrato l’uomo nella sua azione nel mondo senza la tutela dell’azione coordinatrice delle leggi e dello Stato per farci capire il peso ordinativo della ragione a prescindere dalle leggi e dallo Stato. Una società libera non potrebbe mai essere quella descritta da Sade, dove spesso, nelle piccole isole di assoluta rarefazione dei controlli statali, emergono i controlli della ragione, le “perfezioni geometriche” dell’eternamente identico a se stesso, del principio razionale.

Saint Pond è il grande sacerdote di questa specie di religione razionalista. La morte dell’innocente trova la propria necessità nella felicità del colpevole, il vecchio Dio della salvezza trova modo di spuntare un’altra volta, come giustificazione del male stesso. Nei suoi intrecci non esiste solidarietà nemmeno fra i membri di un ristretto gruppo, non esiste morale. Gli altri sono oggetti, puri segni di una situazione in cui nessuno si sente solidale con un altro. Ha scritto Gian Paolo Brega: «Il giocatore di scacchi conosce il valore dei suoi pezzi sulla scacchiera, e ne è in certo senso condizionato nel gioco, ma non stabilisce con essi nessun rapporto perché fra lui e le sue pedine, non esiste una situazione comune. Re, regina, alfieri, torri, cavalli, pedoni sono auf, la scacchiera, il giocatore è über. Egli non si attende risposta da essi, perché come tutte le cose, anche quei pezzi sono segni di un mondo che gli è estraneo. Insomma, l’essere che riconosce a sé solo l’individualità non si pone neppure il problema etico, ma unicamente problemi di autosoddisfacimento: gli altri uomini non sono individui ma cose, segni, strumenti. Con essi, non c’è comunanza, non rapporti normali, ad essi l’individuo non chiede alcuna risposta: sono esseri cadaverici». (Introduzione alle Opere scelte di Sade, tr. it., Milano 1967, p. XIII).

Più tardi Artaud dirà: «Il teatro essenziale è come la peste, non perché è contagioso, ma perché come la peste è la rivelazione, la trasposizione in primo piano, la spinta verso l’esterno di un fondo di crudeltà latente attraverso il quale si localizzano in un individuo o in un popolo tutte le possibilità perverse dello spirito. Come la peste, è il momento del male, il trionfo delle forze oscure, che una forza ancora più profonda alimenta, sino all’estinzione». (Il teatro e il suo doppio, tr. it., Torino 1968, p. 125). Le condizioni complessive dell’opera di Sade, intese come premesse non specifiche ma illuminanti, dal punto di viste teorico, costituiscono la base per comprendere la situazione dell’uomo nel mondo, situazione che può essere colta dal teatro e che potendo essere colta il teatro deve cogliere pena la propria morte. Ecco l’origine quindi del Teatro Mortale. Ecco perché Artaud parla del teatro come rivelazione, come trasposizione in primo piano, come spinta verso l’esterno di una latente crudeltà. L’azione cioè in cui viene a tradursi la stessa essenza della dimensione teatrale, è quella che così bene Sade aveva affidato ai propri personaggi, specialmente a quelli dei dialoghi, certo non a quelli del suo teatro.

In questi personaggi si identifica un’azione crudele e tenace, razionalmente fredda, priva di ogni stimolo eccessivo e di ogni ripensamento morale. I testi di Sade hanno fatto inorridire generazioni di perbenisti, così come la peste aveva fatto inorridire generazioni di uomini in passato. Oggi, la peste non fa più paura, la si cura e basta, e curandola la si riconosce, la si accetta, la si delimita e quindi la si accumula, la si utilizza. Per il nostro modo di vivere, quotidianamente fallimentare, non è stato trovato un procedimento di recupero tecnicamente perfetto, ecco perché Artaud parla di peste, del teatro come peste. «Fra l’appestato – egli scrive – che corre urlando dietro alle proprie allucinazioni, e l’attore che si lancia alla ricerca della propria sensibilità; fra l’uomo che si inventa personaggi ai quali senza la peste non avrebbe mai pensato, e che li raffigura in mezzo a un pubblico di cadaveri e di alienati in un delirio, e il poeta che inventa intempestivamente i suoi e li affida a un pubblico altrettanto inerte o delirante, esistono altre analogie che confermano le sole verità importanti, e pongono l’azione del teatro, come quella della peste, sul piano di un’autentica epidemia». (Ib., p. 121).

Ponendo al centro della sua proposta teatrale il concetto di partecipazione, Artaud non determina soltanto un’apertura nel teatro tradizionale, ma intraprende una strada diversa, almeno nei limiti dello strumento usato contro la vita, quindi morale. Viene a mancare il concetto di rappresentazione. Il teatro diventa la vita stessa, non la vita che viene vissuta in forma inautentica, quindi come distacco dell’uomo da se stesso, nello sperdersi delle cose banali di tutti i giorni, ma la vita che viene vissuta nella sua profonda irripetibilità, quindi irrapresentabilità. Ciò comporta il fatto, straordinariamente produttivo di significati, che il teatro non può essere un’attività fra le tante, una professione che permetta intervalli, ma deve corrispondere con un impegno totale, quindi, per coloro che lo sviluppano e vi si trovano dentro in quanto mezzo di trasformazione, un impegno comunitario.

Se crudeltà è sinonimo di vita, non può esercitare la propria crudeltà chi si trova a passare dalla contrada, un ospite della vita, il quale poco dopo tornerà a una sua prassi di normalità, esattamente nel momento in cui ha gettato lo scompiglio nello spettatore, lo ha brutalizzato crudelmente. Qui si prospetta l’attuazione di alcune intuizioni niciane dirette a interrompere l’assurdità di una posizione teologicamente dominante del teatro. «Che il teatro non diventi signore delle arti. Che il commediante non diventi il seduttore degli esseri genuini». (F. Nietzsche, Il caso Wagner. Opere complete, vol.VI, t. III, Milano 1978, p. 36). Quello che bisogna evitare è che il commediante, secondo il concetto negativo di Nietzsche, equivalente al modo classico di fare teatro, si ponga di fronte ad una serie di individui in qualità di spettatori messi in fila solleticandoli nella loro attenzione. Così egli continua: «... in culture di decadenza, ovunque la decisione cada in mano alle masse, la genuinità diventa superflua, svantaggiosa, messa in secondo piano. Soltanto il commediante desta ancora il grande entusiasmo». (Ib., p. 34).

Il commediante è così sinonimo di essere ideologicamente dominante, facitore di parole e di senso. Cancellarlo senza eliminare il teatro significa trasformare profondamente tutta l’espressione teatrale in qualcosa di magico e di atroce, una brutalità rivelatrice esercitata sulla realtà, un modo di porsi che non ammette compromessi proprio perché l’essenzialità del suo rapporto di partecipazione consiste appunto nel non ammettere la rappresentazione di qualche cosa preventivamente descritta in forma repressiva.

Ciò ha bisogno di una diversa distribuzione dello spazio teatrale, inteso non nel senso strettamente fisico, come distanza conteggiabile, per quanto anche questo aspetto, rientrando nelle convenzioni di campo, finisce per avere il suo peso, trattandosi sempre di luoghi a ciò predisposti, aperti o chiusi, a questo punto, non ha importanza. Spazio come esistenza, quindi come vita. Muovendosi nello spazio teatrale, l’avvenimento statico si anima e diventa vita, proprio perché ha aperto verso l’inquietudine tutte le condizioni di sicurezza e di controllo, quindi di rispettosa distanza, che vigevano precedentemente. In questa apertura, non avendosi ancora nulla delle possibili concretezze trasformative, non trovandosi ancora nell’azione vera e propria, che in definitiva resta fuori del teatro e alla quale il teatro guarda come lo strumento guarda al suo possibile impiego, in questa apertura si deve inserire la parola, il legante possibile che racchiude nel cerchio magico la vita riconsegnata a nuove sue capacità, del tutto differenti.

La parola si allarga a qualsiasi tipo di espressione, linguaggio di suoni, di oggetti, di movimenti, di atteggiamenti, di gesti. Nel suo allargarsi rende testimonianza della condizione umana, dell’effettiva impossibilità di racchiudere tutto questo, tutta questa mirifica strategia interpretativa, nell’immediatezza della coscienza, nella fattività quotidiana. Quest’ultima eventualità impossibile renderebbe il teatro merce di scambio, riproduzione accettabile, discorso col potere. Quindi, anche nel caso in cui la partecipazione diventasse assuefazione, resterebbe sempre un margine di inaccettabilità assoluta, la non accumulabilità di quanto predisposto nell’àmbito del rapporto tra crudeltà e vita. Però, precisa Artaud, non si tratta «di portare direttamente sulla scena idee metafisiche, ma di creare intorno a queste idee particolari tensioni, vortici d’aria. L’umorismo con la sua anarchia, la poesia con il suo simbolismo e le sue immagini, suggeriscono una prima nozione dei mezzi atti a canalizzare la tentazione di tali idee». (Il teatro e il suo doppio, op. cit., p. 168).

In questo modo, il teatro si propone come diversità, come via attraverso la vita e verso la vita, come duplicazione del significato, quindi come mascheramento, come interpretazione. L’ironia e l’immaginazione sono due metodi interpretativi che hanno come possibilità quella di sconfiggere tutti i limiti troppo immediati. Naturalmente non possono sconfiggere ogni sorta di limite, ma questo è un altro discorso. La partecipazione costituisce un allargamento della comunità, conducendo gli altri nel sogno, non come fuga dalla realtà, ma come costruzione possibile, sulla base di un’idea che è anche parola, quindi su di un testo, circoscritto ma non reso schiavo della ragione dominante, di un dio autore, creatore assoluto e tiranno, ineliminabile, continuamente incombente come un destino malvagio.

Onde liberarsi di questa perigliosa oppressione, sempre lavorando nel campo del doppio movimento tra realtà e sogno, Artaud elenca alcuni espedienti esclusivamente esterni, secondo lui capaci di salvare lo spettatore da quella che egli chiama l’oppressione cosmica. «Ogni spettacolo conterrà un elemento fisico e oggettivo percepibile da tutti. Grida, lamenti, apparizioni, sorprese, colpi di scena d’ogni genere, magica bellezza dei costumi ispirati a certi modelli rituali. Splendore delle luci, bellezza ammaliante delle voci, incanto dell’armonia, accordi preziosi della musica, colore degli oggetti, ritmo fisico dei movimenti i cui crescendo e decrescendo concorderanno esattamente con la pulsazione di movimenti a tutti familiari, apparizioni concrete di oggetti nuovi e sorprendenti, maschere, fantocci alti parecchi metri, bruschi cambiamenti di luce, azione fisica della luce che provoca sensazioni di caldo e di freddo». (Ib., p. 170).

Qui, siamo di già nella fase di stabilizzazione della realtà scenica, compito della regia. L’aggressione razionalizzante è dietro le quinte, bisogna fare attenzione. Esaminando tutti gli accorgimenti tecnici elencati da Artaud si resta delusi. Specialmente oggi, con i livelli altamente specializzati del filisteismo dominante. Ma anche ai tempi di Nietzsche e di Wagner, se è per questo. Così Nietzsche: «… ed è la cosa peggiore, la teatrocrazia, la bizzarria di una credenza nel primato del teatro, in un diritto alla supremazia del teatro sulle arti, sull’arte. Ma si deve dire cento volte in faccia ai wagneriani che cosa è il teatro: sempre soltanto un di sotto dell’arte, sempre soltanto qualcosa di secondario, qualcosa di non disgrossato, qualcosa di predisposto, di artatamente predisposto per le masse!». (Il caso Wagner, op. cit., p. 39). Se non ci fosse la proposta radicale della partecipazione, tutto l’apparato descritto da Artaud sarebbe una versione aggiornata della Gesamtkunstwerk. Invece l’apparato, per quanto venga stabilizzato nell’opera del regista, resta immobile fino ad un certo punto, in quanto la regia non è più l’antica interprete del testo nel senso ristretto di una delucidazione delle anomalie di espressione, allo scopo di addormentare più efficacemente il pubblico. Adesso è punto di partenza, trampolino da cui iniziare una realizzazione che per essere completa, teatralmente valida, deve concludersi nella partecipazione, quindi in qualcosa che fa parte della vita e non del suo riflesso. Ogni dualismo, a questo punto, diventa non solo inutile e dannoso ma impossibile.

Riguardo la scena, Artaud scrive: «Noi sopprimiamo la scena e la sala, sostituendole con una sorta di luogo unico, senza divisioni né barriere di alcun genere, che diventerà il teatro stesso dell’azione. Sarà ristabilita una comunicazione diretta tra spettatore e spettacolo, fra spettatore e attore, perché lo spettatore, situato al centro dell’azione, sarà da essa circondato e in essa coinvolto. Questo accerchiamento sarà dovuto alla configurazione stessa della sala». (Il teatro e il suo doppio, op. cit., p. 172).

Ancora indicazioni tecniche, che magari adesso sembrano scontate, ma che tali non erano. Tutti questi aspetti, che singolarmente presi non potevano significare se non riforme del tessuto teatrale classico, diventano altra cosa nella dimensione diversa della provocazione, come l’impiego degli strumenti musicali grandi come uomini, o della barba del Re Lear concretizzata in fantocci alti dieci metri.

Tutto ciò rifiuta la stessa possibilità di sopravvivenza ai testi scritti, trasformando temi, episodi e spunti da opere note in saggi di regia diretta. L’attualità dell’avvenimento narrato diventa di secondaria importanza, esiste e affiora un senso di perennità, un senso di preoccupazione profonda, non sondabile attraverso le normali preoccupazioni di tutti i giorni che si traducono nel grande serbatoio di alimentazione dell’accumulo e, nello specifico teatrale, nel teatro della morte. L’attore e l’interpretazione rivestono pertanto un ruolo che non è più quello del teatro classico, ma è quello della vita comunitaria. Stabiliscono, l’uno come iniziatore della provocazione, l’altra come mezzo linguistico, come strumento, la nuova collocazione dello spettacolo nel territorio incerto della ricognizione. Sia l’attore che l’interpretazione, pur restando elementi specifici del teatro e dei suoi problemi comunicativi, vengono suggestionati dalla linea diretta dello spettacolo, dalla sua integralità, dalla sua totale appartenenza a una realtà che è in corso di modificazione, che si sta delineando ma non è ancora conosciuta nella sua interezza, non è ancora, non soltanto non è ancora espressa.

Ha scritto Jean Duvignaud: «Artaud compie un tentativo appassionato per staccare la creazione drammatica del discorso e identificarlo alla cerimonia sociale. È ciò che chiama teatro fisico, il quale si realizza in uno spazio visibile che parla direttamente ai sensi. La parola quindi non deve più servire a tradurre meschini problemi psicologici o ad animare una mitologia morta, ma commentare un’azione visibile, reale. Lo spettatore deve sentirsi messo in pericolo da questa rappresentazione dell’esistenza». (Artaud oggi e gli altri, in “Sipario”, n. 230, giugno 1965, p. 219).

Così, una spontaneità abbandonata viene ritrovata, lo spettatore ritorna uomo trovandosi coinvolto nel generale risveglio della sala. Tutto qui diventa fatto comunitario, o almeno dovrebbe diventarlo. Tutto concorre a questo scopo ultimo, dagli accorgimenti tecnici alle decisioni che vengono prese via via durante il percorso, dalla scelta dell’abbandono delle figurazioni oggettive alle decisione di accentuare le espressioni linguistiche in senso comunicativo. Ma lo spettatore ha paura della spontaneità, resta chiuso all’interno dell’involucro che lo protegge, come accadeva una volta con il grembo materno, e da quelle lontane terre analizza, dissocia, si permette perfino di estendere la sua perfettibile chiusura al mondo esterno, ai problemi del mondo sociale. Costringerlo a uscire fuori, pure nella limitatezza di queste operazioni, che ovviamente sotto l’aspetto trasformativo devono essere viste come occasioni non come realizzazioni, costringerlo alla spontaneità, o meglio sarebbe alla rivelazione dei propri limiti e delle proprie paure anche davanti a condizioni che solo una mentalità infantile può considerare pericolose, costituisce l’azione teatrale vera e propria, il testo che si costituisce e viene recitato, al di là del luogo delle parole scritte, delle prove, dell’idea del regista, e forse anche della stessa intenzione degli attori. La comunità è sempre un movimento che produce qualcosa in più della semplice somma delle buone intenzioni che la costituiscono.

L’accordo del Living Theatre con Artaud, le cui tematiche saranno però conosciute dai componenti del Living solo alla fine degli anni Cinquanta, sarà possibile a partire dall’apertura verso il pubblico, quindi dallo stesso concetto di partecipazione, che abbiamo di già visto nelle tesi sopra riportate. Agli inizi, nel Living, il rispetto per la parola, con la sua pesantezza quasi classica, comunque poetica, si dispone male riguardo la possibile partecipazione, almeno nel senso di Artaud. La parola, infatti, può essere il regno dell’assurdo e quindi della libertà in assoluto, ma può anche essere l’altro estremo, cioè il regno della repressione, comunque dell’inganno e dell’integrazione. Quando poi questa parola resta aulica, pretende di diventare parola onesta, aspira alla verità. È il punto di maggior pericolo. L’importanza del Living, al di là del fatto di condividere o meno le posizioni teoriche sul pacifismo, tesi che personalmente considero fuorvianti, consiste nell’accentuazione data alla struttura comunitaria del gruppo teatrale e nel lavoro diretto a perfezionare le condizioni della partecipazione. I due aspetti, secondo me, non sono separabili. La comunità produttiva si allarga in questo modo alla nuova comunità che si viene a creare nel corso del lavoro teatrale, senza che sia possibile stabilire con certezza i confini tra preparazione ed esecuzione, tra vita comunitaria dei membri del gruppo e comunione di questa vita con gli spettatori nel corso del lavoro. Il contrasto tra alcune posizioni di Artaud riguardo il ruolo della violenza e le tesi pacifiste del Living, non è mai stato, secondo me, un punto importante o un ostacolo insuperabile. Anche perché in materia poetica tutto questo sfuma nell’interpretazione e non ha il gelo cadaverico dell’immediatezza e dell’accumulazione. Il problema difatti non è qua, ma nel tentativo di reggere un messaggio di natura comunitaria dall’interno di una comunità operativa all’esterno di un’altra comunità, di volta in volta da costituire. E questo può essere considerato un notevole tentativo di iniziare un percorso verso la diversità.

Certo, tutto quello che abbiamo esaminato fin qui a partire dal discorso sulla totalità, e il successivo passaggio alla comunità, odora troppo di forzatura e di occasionalità. A prescindere dagli itinerari di desolazione personale di Artaud, non so quanti abbiamo realmente capito le sue intenzioni riguardo il punto del non ritorno. Forse in ognuno di noi c’è troppo perbenismo per rompere veramente le convenzioni e i protocolli. Abbiamo paura di apparire nudi.


[1990]

Sylvain Maréchal. L’uomo senza Dio

Sylvain Maréchal, Libre échappé au déluge, o Pseaumes nouvellement découvert, composes dans la langue primitive par S. Ar-Lamech, de la famille patriarchale de Noé, translates en françois par P. Lahceram Parisipolitain, Imprimerie de Cailleau, Rue Galande 64, Paris 1784.


Questo libro è, secondo la stessa ammissione di Maréchal, una ardita imitazione dello stile dei profeti. Non si tratta di una idea da poco per un ateo. Altri prima di Maréchal avevano avuto questa idea e avevano cercato di realizzarla: Clément Marot e Racan sono alcuni di questi. Maréchal cerca di attualizzare le antiche tematiche dei salmi, ma anche di trarre delle conclusioni del tutto personali.

Molto brevi, i salmi di Maréchal riguardano argomenti religiosi e soprattutto problemi di morale, non sono certo proposizioni filosofiche. Lo stile è corretto ed elegante, come è stato notato da Maurice Dommanget, in Sylvain Maréchal. L’égalitaire. L’homme sand Dieu, Parigi 1950, «a volte perfino elevato» (p. 104). Non vi si trovano né le metafore fastidiose né le iperboli gigantesche dei profeti. Evidentemente si tratta di un autore profano, tutt’altro che ispirato dalla divinità come i profeti.

In effetti lo scopo che Maréchal cerca di ottenere con questo scritto è quello di suggerire una semplicità di vita quasi patriarcale, di predicare la virtù alle nazioni corrotte, di convertire i cattivi alla vita coerente con i princìpi rivoluzionari. In effetti vengono fuori lo stato di natura, l’uguaglianza primitiva, la saggia mediocrità, la tirannia dei re, l’usurpazione delle ricchezze, la menzogna dei preti, le contraddizioni che il XVIII secolo aveva posto sotto gli occhi di tutti a opera di Rousseau e Mably, sono qui messi in mostra e ricevono la forma dei salmi. Dio e la Provvidenza sono sostituiti da oggetti diversi: la Verità, la Natura, la Pace, la Giustizia. Non lascia dubbi sui suoi sentimenti intimi, malgrado la copertura a cui ricorre dei falsi salmi.

La riflessione ateista, così come è possibile individuarla in molte correnti di pensiero contemporanee, si presenta come una forma di liberazione definitiva dal deleterio influsso religioso, quindi come liberazione da parte dell’uomo da ogni residuo di superstizione.

È proprio questo il motivo per cui diventa difficile, per non dire impossibile, reperire complete testimonianze della dottrina ateistica nell’antichità. Da un punto di vista generale possiamo dire che anche agli inizi della storia dell’uomo, e precisamente in quella Grecia che man mano cercava di eliminare e sostituire l’antica aristocrazia il cui potere era stato fondato sul sangue, è possibile identificare testimonianze ateistiche.

Lo stesso può dirsi per quanto riguarda il periodo romano, e poi in particolar modo il periodo medievale in cui il dominio pressante e disgustoso della Chiesa era talmente pesante da fare scomparire quasi del tutto ogni forma di libero pensiero e di libera critica. Eppure, nonostante le condizioni ambientali talmente proibitive, nonostante il grande ritorno della superstizione e nonostante la flessione e la scomparsa quasi totale della cultura greca e romana, è possibile identificare non pochi movimenti di rivolta, non pochi stimoli solo apparentemente riformistici ma sostanzialmente rivoluzionari.

Il nominalismo presenta tutte le caratteristiche che si ritrovano nel contemporaneo materialismo mentre una forma, sia pure blanda, di critica ai dogmi e alla fede cieca nella dottrina della Chiesa si può identificare in Averroé. Ma la caratteristica essenziale della rivolta alla chiusura mentale propagandata dalle dottrine religiose, in particolare della Chiesa cattolica, è da ricercarsi nelle lotte portate avanti dai contadini e dai servi della gleba. Sono proprio queste vicende tumultuose e tuttora scarsamente lumeggiate dalla ricerca storica che gettano lo scompiglio nella ferrea organizzazione temporale della religione e preparano le basi per i successivi movimenti di carattere riformistico prima e di carattere rivoluzionario dopo.

Con l’avvento dell’apertura intellettuale causata da quelle correnti di pensiero che si riassumono nel Rinascimento, la possibilità da parte della libera riflessione di attaccare e di provocare il dubbio verso i dogmi della religione diventa sempre maggiore. Le nuove strutture sociali della borghesia procedono alacremente a sostituire le vecchie strutture feudali e in questa nuova lotta, in questo nuovo attacco senza mezzi termini e senza reticenze, comprendono benissimo come la prima cosa da porre in discussione, la prima cosa da riformare prima e da distruggere dopo è proprio la religione. A proposito di questi periodi, che grosso modo si possono collocare agli inizi del XVIII secolo, e che in definitiva si possono fare coincidere con l’avvento del materialismo francese del Settecento, è bene aggiungere qualcosa che possa illuminare il lettore sui limiti e sulle caratteristiche della produzione letteraria del momento.

In particolare bisogna tenere presente come gli scrittori radicali e rivoluzionari erano costretti, nell’affrontare gli argomenti religiosi, a una grande cautela, per non incappare nelle misure repressive dell’istituzione temporale religiosa, in particolare nell’Inquisizione, che comportava non solo pene di ordine morale ma di ordine fisico. Come vedremo a suo luogo non sono stati pochi gli scrittori che finirono sul rogo a causa delle loro dottrine. È proprio il problema di questa copertura che deve tenere presente il lettore nell’affrontare un testo di un scrittore radicale del periodo che dall’inizio del Medioevo giunge fino agli albori dei materialisti del Settecento francese. No, qui non è quasi mai possibile identificare una dottrina atea allo stato puro, quasi sempre ci si trova di fronte a coperture allegoriche e a sottintesi, a satire che contribuiscono a mimetizzare e quindi indirettamente a salvare la vita dello scrittore. Nel deismo e nel panteismo si deve cercare di scoprire la sostanza di quella dottrina atea che corre ininterrottamente, dagli inizi della storia del pensiero umano sino ai nostri giorni. In queste due dottrine di pensiero ammettenti, in linea di principio, l’esistenza di un dio singolo, è possibile vedere tanta parte di quella critica alla religione e all’oscurantismo dei dogmi di quest’ultima che oggi comunemente si identifica con la dottrina atea pura e semplice.

La preparazione della rivoluzione francese, il lavoro degli Enciclopedisti e degli atei francesi del Settecento, la disgregazione della rigida struttura istituzionale ecclesiastica esistente nel periodo precedente, l’apertura sempre maggiore al progresso delle scienze e delle tecniche, la generale diffusione della cultura anche a livello popolare, la diminuzione dell’analfabetismo e dell’ignoranza in generale, l’aumento sia pure limitato del generale tenore di vita, sono da considerarsi tutti elementi positivi nella lotta contro la religione condotta dalla dottrina atea. In particolare l’ateismo da pensiero di élite diventa pensiero se non popolare almeno più ampiamente diffuso.

Accanto a questa corrente popolareggiante di lotta alla religione e di apertura al libero pensiero, si pone la corrente più strettamente filosofica facente capo a Hegel e per un altro verso facente capo allo stesso Kant. Quest’ultima corrente, sia nei suoi rappresentanti di sinistra, più apertamente schierati contro la religione, come pure nei suoi rappresentanti ortodossi, schierati a favore della religione, si può catalogare come una sorta di razionalismo diretto a rivedere in forma di critica i miti e le presunte necessità logiche della religione stessa. In questo senso l’opera di Ludwig Feuerbach, insieme a quella di Bruno Bauer, si pongono molto vicine alla costruzione di un razionalismo ateo allo stesso modo in cui qualche decennio dopo si porrà l’opera di Marx e di Engels. Capitoli a parte costituiscono le correnti moderne dell’ateismo, da un lato l’ateismo marxista, dall’altro l’ateismo esistenzialista. Da un lato l’ateismo di Nietzsche, dall’altro l’ateismo della tecnica e della scienza. Tutte queste branche della dottrina atea sono apertamente dichiarate. Il problema della copertura oggi si pone in forme molto più blande ed è grosso modo del tutto trascurabile. Lo studioso che voglia approfondire il problema dell’ateismo oggi può senz’altro dirigersi verso testi dichiaratamente di ordine ateistico e di contenuto ateistico, mentre in precedenza era costretto a scavare in saggi più generici come quelli che abbiamo esaminato.

Oggi [1973], la lotta contro la religione può avvenire su un piano di una maggiore apertura di pensiero. Salvo alcune legislazioni meno progredite, come ad esempio quella italiana, l’attacco alla religione su di un piano scientifico e dottrinale, anche se impastato nella caratteristica forma virulenta o blasfema che alcuni scrittori non riescono a eliminare dalle loro opere, non è assolutamente oggetto di persecuzione legale. Questo costituisce un grande risultato per la lotta condotta dal libero pensiero nei confronti dell’oscurantismo e del conservatorismo.

Da canto suo la religione ha finito per individuare pienamente la modificazione sostanziale del nuovo stato di cose e ha svolto la sua propaganda su di un piano ben differente. Dall’antica coartazione del singolo e della comunità si è giunti alla libera discussione, all’avvento e alla stessa sollecitazione del dialogo, si è giunti alla costituzione di istituzioni religiose e istituzioni di ricerca religiosa, dirette precipuamente a studiare e a risolvere i problemi dei non credenti.

Nell’àmbito della nuova situazione venutasi a creare negli ultimi cento anni si pone il nostro tentativo di riassumere in una forma organica le svariate manifestazioni della dottrina ateista. Il mio desiderio di lavorare a una storia dell’ateismo vuole pertanto contribuire a diffondere la conoscenza della dottrina atea e a spingere gli uomini al libero uso del proprio intelletto.

Ecco qui la traduzione di alcuni Salmi del libro di cui sopra, di considerevole interesse.

Notare non soltanto il contenuto ma anche la forma di copertura seguita.


Salmo XIX: I giudici (50-52)

1 – Dio di Giustizia! Tu li vedi! I Capi del Popolo, che si dicono repubblicani, hanno due bilance, come se vi fossero due giustizie.

2 – Ho visto l’uomo lasciare la famiglia per venire a disputare, ai piedi d’un iniquo tribunale, il pezzo di pane frutto dei suoi sudori, atteso dalla famiglia affamata.

4 – Se l’infelice si presenta a mani vuote: che ritardi, che colpe gli si rimprovereranno?

5 – Morrà prima d’avere la consolazione di sapere se il campo dei suoi padri passerà ai propri figli.

7 – Ho visto la vedova e l’orfano domandare giustizia come si chiede l’elemosina.

8 – Li ho visti pronti a spogliarsi degli ultimi vestiti per trovare grazia presso i giudici.

10 – Li ho visti accordare tutto per conservare qualcosa.

11 – Trema, per la tua poltrona, giudice iniquo, troverai nel mio Dio un giudice severo.


Salmo XX: La guerra (53-56)

1 – Padre della vita! Avevi detto agli uomini, sfuggiti alla tua mano creatrice: crescete e moltiplicatevi.

2 – Gli uomini non tengono conto di questa legge così dolce a seguire, hanno sviluppato l’arte di distruggere l’opera delle tue mani.

5 – L’interesse e la vendetta soltanto li spingono l’uno contro l’altro.

11 – O Dio mio tu vedi e permetti che tutto ciò si verifichi sotto i tuoi occhi.

12 – Permetti che ai templi pacifici si drizzino trofei di guerra.

16 – Permetti che sul campo di battaglia si levi verso di te la mano sanguinosa.


Salmo XXII: Rifiuto delle armi (61-62)

2 – Rigetto lontano da me lo strumento omicida, del quale i miei fratelli si fanno ornamento.

6 – Mi toccherà sempre essere complice o testimonio di un crimine?

7 – Dovrò ancora per molto camminare su questa terra come in un paese nemico?


Salmo XXVIII: Delle società (79-81)

1 – Padre della Natura, richiama i tuoi figli, riportarli alle antiche abitudini.

2 – Ci avevi messi sulla terra con tutto ciò di cui potevamo aver bisogno per essere felici.

9 – Essi hanno chiesto dei Re, e tu li hai mandati nella tua giusta collera e gli uomini li hanno ricevuti come benefattori.

10 – Dio dei miei padri, fa’ riprendere all’uomo la sua antica dignità e insegnagli ad autogovernarsi.

11 – Ricordagli che non l’hai creato per servire e neppure per essere servito.

12 – I figli del Padre della Natura devono essere tutti liberi. Il Padre della Natura non ha fatto schiavi.


Salmo XXIV: Abusi degli uomini nell’utilizzo della vita e nell’uso dei prodotti della natura (82-88)

1 – Dio della Natura! Tu avevi dato agli uomini campagne ridenti e anche foreste.

2 – Essi hanno alzato muri spessi, prigioni strette, che chiamano città.

8 – Là si rinchiudono, gli uni vicino agli altri, invece di disperdersi senza nuocere.

10 – L’acqua pura delle fontane, il latte nutritivo della benevolente vacca, il miele dolce della laboriosa ape,

11 – non sono loro bastati, hanno immaginato bevande inebrianti e malsane.

12 – Gli innumerevoli frutti, i legumi salutari, i sostanziosi vegetali non bastano alla loro fame.

13 – Come voraci animali hanno bisogno che il sangue arrossi i loro denti.

17 – Signore! Dimmi se esiste ancora un angolo della terra ove si possa vivere secondo la Natura.

19 – Purtroppo il dèmone della guerra e il genio del dispotismo hanno diviso il mondo.

20 – Si notano le tracce dappertutto, essi si son data la mano ai confini dell’Universo.

21 – Non vi è un asilo per la libertà?

22 – Non potrei, prima di discendere nella tomba, usare per un sol momento dei diritti dell’uomo?

23 – La tomba è il solo rifugio contro l’ingiustizia e la schiavitù?

28 – Che cosa facciamo della nostra vita? Artificiali occupazioni viziose la riempiono per intero.

29 – D’altronde, solo i ricchi gioiscono dei frutti del genio.

30 – Il Talento povero veglia per la Ricchezza ignorante.

31 – Di tutti questi brillanti lavori, che cosa resta? Un nome vano e molta fatica.

32 – Felice chi si dà alla contemplazione della natura, e che gioisce delle sue opere senza mescolarvi le proprie.


[1973]

 
 

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