Titolo: La bestia inafferrabile
Note: Prima edizione: maggio 1999
Ristampa: maggio 1999
Seconda edizione: settembre 2009
Questo opuscolo, che qui vede la sua seconda edizione, nella prima è stato funestato da un orribile errore di stampa nella copertina, a cui si è cercato di porre rimedio con una subita ristampa.
Opuscoli provvisori n. 9
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Dimensioni: cm 10 x 10,5
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Introduzione alla seconda edizione

C’è un legame tra quello che posso fare e quello che sogno di fare. Tra accontentarmi del mondo così com’è e cercare di mandarlo a soqquadro. Questo legame da un lato tocca l’eternità della vita nel suo svolgersi inattingibile, forse incomprensibile, dall’altro i contrafforti di una modestia che non ha avuto in sorte che alcune possibilità di difendersi.

Imprecare alla propria incapacità non vale, i mezzi per lottare non li regala nessuno all’angolo delle strade. Occorre staccarli dalle pareti del tempio, affrontare il corruccio degli dèi pensierosi della propria sorte, e l’avida tenacia dei manutengoli addetti alla custodia.

Fior di denti aguzzi e di mascelle spalancate sono fuggiti via al primo rumore di una scacciacani. Bisogna inerpicarsi per via scoscese, per difficili sentieri non riconoscibili sulle carte del condominio governativo, incontrare il pericolo faccia a faccia nell’aria rarefatta delle altezze, dove non è possibile giocare sugli equivoci, mentre altrove un abitacolo pieno di fumo può mettere a nudo l’animella spaurita di una mangiatrice d’uomini. Non è il simbolo della montagna che mi interessa, e neanche quello della radura da cercare nell’impenetrabile foresta, il cuore dell’uomo nasconde oscure possibilità ancora da scoprire e semenze imprevedibili da cui far venire alla luce frutti che la rivolta finora non ha avuto modo di vedere. Ma questo impressionabile muscolo per ora batte timido nei recessi della propria allocazione. È un gigante che si immagina di scalare il cielo e non ha fatto i conti con i propri piedi d’argilla. Perché questa debolezza? Non si tratta di un fatto muscolare né di mezzi a disposizione. Non è certo la potenza di fuoco quella che distingue la bestia inafferrabile dall’animella spaurita che continua a raccontarsi le solite storie di fantasmi del passato per avere modo, la sera, di chiudere gli occhi e trovare il sonno riparatore di tante fatiche.

La protesi, quando c’è, ha sempre bisogno di una realtà concreta su cui innestarsi. Ho visto distruttori armati di tutto punto decidersi per la resa e ho visto al lavoro la bestia inafferrabile. Due universi differenti. Sono tanti i fili che ci tengono legati, fili che la coscienza alleva e sottopone a periodiche manutenzioni, fili di perbenismo e di sacralità, fili talmente tenaci che non possono essere neanche scalfiti dalle parole, anzi più queste parole sono esaltate ed esaltanti, più quei fili che rendono mummificata la coscienza, si rafforzano e così frenano qualunque stimolo alla rivolta. Se non si spezzano prima questi fili, ed è lavoro del singolo che deve crescere insieme ai suoi compagni in uno sforzo affine verso l’azione, ruggire è solo un gargarismo linguistico.

Rompendo quei fili non ci sono più né proporzioni né misure, tutto viene di colpo oltrepassato. L’architettura difensiva del nemico è parimenti forte e, forse, insuperabile, ma le sue strutture non sono più un ostacolo per la bestia che si slancia contro di loro. Non cadono, a volte, restano in piedi e a cadere è proprio l’animale dai forti e invincibili denti aguzzi, e che vuol dire? Forse per questo mille altre bestie altrettanto inafferrabili non si rialzeranno dal loro oblio lanciandosi all’attacco di quell’architettura senza fare calcoli di centimetri o di grammi?

Il nemico, a ben considerare le cose, è inaccessibile con i mezzi ordinari di attacco. Quando non stronca subito la vita della bestia inafferrabile, le taglia le unghie e i denti, l’addomestica, gli offre un pasto e uno stipendio a fine mese, oppure, molto più banalmente, gli dà la possibilità di ruggire, di ruggire quanto e come vuole (è stato abolito l’art. 272 del codice penale italiano). Il muro che così alza il potere intelligente è più alto e più forte di qualsiasi gabbia dello zoo.

La riflessione può essere tessuta di leggerezza e trasparenza, ma resta sempre struttura preventiva dell’azione, anche nelle persone migliori non manca di mettere in luce la malinconia che tutto pervade il mondo dell’attesa, del rinvio, del prepararsi in vista di essere forti abbastanza per fare qualcosa. Alla tristezza della ineluttabile inadempienza a volte si sopperisce con la ricerca di una inadempienza ancora più grande, quello che non può essere concluso, messo in atto adesso e subito, tanto vale che venga lasciato aperto, possibile ma aperto alla discussione e all’imbroglio reciproco, nella migliore buonafede. In questo modo il lavoro preparatorio si avvita come un serpente che vuole ingoiare la propria coda. Non posso di certo cadere nel tranello del tanto peggio tanto meglio, non posso nemmeno non vedere la sproporzione di forze. Sono una persona seria, io.

Eppure i segni del dolore sono qui, davanti a me, non il dolore degli altri, ma il mio, il mio personale portarmi dietro la carne incisa e le ossa martoriate. Posso squadernare questo dolore nella sua laida pienezza e posso coprirlo con le bende della pudicizia. Solo la bestia inafferrabile, nella sua barbarie inassimilabile da parte degli inebetiti bamboccioni che giocano a fare i terribili, sa radicalizzare il proprio rifiuto dell’addomesticamento senza stare molto ad approfondire i limiti reali non solo del ruggire ma anche dell’agire, dell’affondare la propria zampata singola, sia pure, e micidiale.

Il colpo che viene inferto senza indugi e senza imbarazzi, in se stesso senza bisogno di giustificazioni, la presa alla gola spersonalizzata e oggettiva, orgogliosa di dire sì anche davanti alla coscienza dei propri limiti e delle proprie debolezze, caratterizza la bestia inafferrabile.

La visione intuitiva dell’azione dovrebbe essere alleggerita da tutti i ricordi e dalle abitudini che affollano la riflessione preventiva. Occorrerebbe parlarne con sobrietà e senza quella enfasi che ricade inevitabilmente nella ripetizione e nel tornare a riprendere ciò che si è detto di già. Un ruggito è più che sufficiente, due rischiano di diventare una chiacchierata. Ogni volta bisognerebbe essere pronti alla partenza per andare oltre, per uscire fuori dal porto delle attese dove il battello è ormai stanco di dondolarsi nelle medesime acque. Non si verifica, questa partenza, perché il nemico ha dato un segno di debolezza, ma solo perché deve accadere, perché è impossibile che non accada. Può anche essere un istante privo di seguito, un balenio della zampa, può essere invece l’istante a cui seguirà quello in cui è consentito di assistere all’attacco inferto, alla rabbia finalmente esplosa, all’azione.

Per questo la bestia è inafferrabile. Con buona pace degli attendisti e degli aspiranti conquistatori.


Trieste, 19 ottobre 2007

Alfredo M. Bonanno

Introduzione alla prima edizione

A braccarlo a lungo, l’animale diventa feroce.

Si accorge di quanto le pretese convivenze civili siano ridicole fattezze del feticcio statale, e di come al di sotto resti intatta l’antica sostanza repressiva del dominio, quella dell’assolutismo indiscutibile perché certo della propria forza.

La bestia ne aveva avuto sentore, anche quando la si accarezzava nel senso del pelo, quando le si rivolgevano parole fraterne di conforto e tolleranza, perché non sentisse fino in fondo gli aculei del collare o i denti del morso con cui si frenava la sua esuberanza bonaria e vogliosa.

La catena era stata allungata fino ai margini del campo e, in tempi recenti, perfino colorata. Così, i suoi occhi di belva mansueta avevano potuto vedere, come in sogno, quel che restava del paesaggio lontano, mai raggiunto perché irraggiungibile, sempre desiderato.

E allora, come per gioco, aveva cominciato a mostrare i denti al padrone, a fargli qualche versaccio maleducato, qualche ululato di troppo.

Non è che il padrone non ha più fiducia nella catena, sia pure allungata, è che non gli va che la cosa si venga a sapere, che altre bestie incatenate si permettano di digrignare i denti, di fare versacci o ululare guardando con occhio voglioso il lontano paesaggio di libertà che mai avrebbero dovuto guardare.

Ecco che, di tanto in tanto, per provare da che lato sta la forza e la ferocia, il padrone stringe il collare, raccorcia la catena e magari rinchiude la bestia in gabbia. E sono notti di sgomento per ogni desiderio di libertà.

Tutti i padroni usano la logica dell’esempio (che tragico equivoco averne sognata una simile anche da parte degli incatenati), e sanno che è logica che funziona. Sulle prime, di fronte alle frustate e agli accorciamenti d’orizzonte, gli ululati e il digrignare di denti sembrano cessare, poi d’improvviso riprendono, ed è un gran daffare per padroni e palafrenieri.

Sotto sotto, qualcosa sfugge al calcolo sclerotico del dominio. Come ogni monopolista, anche quello che produce e gestisce la forza deve avere l’intelligenza di fissare un prezzo accettabile, in caso contrario, il risultato si capovolge. Tirando troppo la corda, questa si spezza e la bestia può tornare libera.

In effetti, pur sembrando strano, la catena, il morso, il collare, e perfino la gabbia, con i suoi lucchetti e i suoi guardiani, sono soltanto oggetti, simboli di una cattività che per essere veramente freno e sofferenza, deve essere vissuta come tale, deve essere accettata, fatta propria. La bestia che ulula e morde la catena è già sulla strada per rompere gli indugi, per salpare verso il mare libero, per sbarazzare la propria mente dall’accettazione dei vincoli. Non ci sono legami più forti di quelli fatti propri, di quelli dei quali non ci si lamenta più e che, alla fine, vengono considerati mezzi di sopravvivenza e non impedimenti alla vita, come in effetti sono.

Da questo punto di vista, la sferza del padrone o l’accorciamento della catena attuato dal palafreniere, ben vengano, sono atti sacrosanti del dominio che fanno bando delle chiacchiere e degli equivoci. Il padrone tortura, uccide, rinchiude, massacra, riduce al minimo le possibilità di vita della bestia, non è un suo amico solo perché gli ha allungato la catena o gli ha gettato qualche osso in più. Non più di un pensiero, per carità! Siamo razionali, noi, oltre ogni possibile dubbio. Sappiamo quanto sia da condannare il “tanto peggio, tanto meglio”, vogliamo trovare altre strade alla rivolta e alla rivoluzione, vogliamo che la prima sia ben indirizzata e la seconda ben carica di positive conseguenze per la società libera di domani.

E se proprio quell’accorciamento, quel gesto repressivo fuori misura, quel colpo bene assestato, dissonante nella paciosa atmosfera democratica che addolcisce il campo delle bestie incatenate, se proprio quella cattiveria superflua del padrone, suggerita dalla paura dell’ululato o del digrignare della belva, se proprio quel fatto repressivo, così rassicurante per la miserabile coscienza del dominatore, dovesse essere l’occasione per lo scatenamento?

Chi lo può dire? Ognuno di noi sopporta più o meno bene le sue catene, le colora o se le fa colorare, si scava una nicchia nella condizione sociale in cui vive aspettando di morire. Naturalmente, non se ne rende conto, sogna, e sognando divaga e balbetta di libertà, ma poi mille vincoli accettati e giustificati lo garantiscono e lo trattengono dallo scatenamento.

Ogni tanto un piccolo segno d’insofferenza, senza conseguenze gravi: la scheda bianca, nell’urna, o l’astensione, un botto attutito, qualche percorso vociante nella città intasata di paccottiglie e indifferenze, perfino un battibecco da stadio con la polizia, insomma qualche pigolio più che un ruggito vero e proprio. La bestia si sveglia pulcino e non si accorge di addestrarsi a starnazzare nell’aia.

Per la verità altri segni, apparentemente più consistenti, ci sono: le grandi strutture di attacco al potere, compatte schiere ferocissime di manipolatori di catene, capaci di sostituire velocemente, nei processi di controllo, ai vecchi strumenti del potere nuovo, quello rivoluzionario. Nuovi padroni, pronti, dietro le quinte. Un grande rimescolio di ruggiti e belati nel campo, gran confusione di ferraglie e lucchetti, dentro tu, fuori io, viceversa, poi tutto torna come prima.

Ma lo scatenamento è altro. Se avviene, allora la bestia è inafferrabile. Non ci sono catene per tenerla. La si può solo abbattere a vista, ma prima bisogna vederla, per il momento non resta che braccarla.

Attenzione. Il potere sa quanto può essere pericolosa una bestia che si sente braccata, prima di venire raggiunta e abbattuta. Sa quanta libertà può vivere la bestia braccata e quanta ne può fare vivere agli altri.

Attenzione. Qui entriamo in un terreno dove il padrone non si sente più a suo agio. È il terreno della libertà vera, non delle colorazioni vistose delle catene contrabbandate per nuovi pezzi di libertà concessi graziosamente.

Una volta capito che quelle catene, e tutte le altre procedure di allungamento e di accorciamento, non sono altro che elucubrazioni della mia mente deformata dalle condizioni di cattività, io sono libero. Non c’è ostacolo che può fermare la mia corsa.

Dappertutto sbadigliano indifesi i simboli e le concretizzazioni del dominio, dappertutto il dominio è costretto a distendersi nello spazio come un gigantesco polipo per occupare i luoghi senza i quali la sua stessa esistenza sarebbe priva di senso. Questa necessità primaria tende da un lato ad allargarsi, dall’altro a chiudersi. Vediamo come e perché.

Niente di più evidente, sotto gli occhi di tutti. Allargarsi nello spazio, fissare linee di collegamento, è necessità vitale per il dominio capitalista. La telematica rende possibile l’unificazione in tempo reale di unità operative lontane fra loro, purché queste siano collegate. La serie completa di questi collegamenti racchiude ormai il globo come in una ragnatela, i supporti satellitari stessi sarebbero non operativi senza questa rete, nella gran parte costituita da fibre ottiche. Lo smembramento nel territorio della fabbrica tradizionale, di già completato alla fine degli anni Ottanta, ma da allora accentuatosi grazie alle possibilità consentite dai collegamenti con unità operative via via più lontane e prive di qualsiasi logica geografica, realizza oggi una condizione produttiva che domina lo spazio praticabile nella sua totalità e non si radica in una piccola porzione di esso, trincerandosi come un fortino attaccato dagli Indiani. Il calcolo dei costi di produzione è l’unico mezzo impiegato dal capitale per valutare la propria configurazione spaziale.

Per un altro verso, i dominatori, i padroni della bestia, gli inclusi, cercano di chiudersi in luoghi altamente difesi da giannizzeri armati e da sofisticati strumenti elettronici, rendendo le loro case simili a bunker comandati da robot. Tutto ciò non basta, e i primi a rendersene conto sono proprio loro, per cui il passo successivo sarà quello della costruzione (di già in atto) di un muro culturale che allontanerà sempre di più gli esclusi dagli inclusi. Per desiderare (anche per desiderare la libertà) bisogna conoscere, per conoscere bisogna capire, per capire bisogna avere i mezzi culturali adatti. Sottraendo, a poco a poco, questi mezzi culturali, riducendo gli esclusi a una massa morbida di acquiescenti in cerca di una soluzione quale che sia al problema della sopravvivenza, si sottrae loro non solo la capacità di capire, ma anche quella di desiderare.

Se la bestia spezza la catena, non per questo abbatte il muro culturale, non potrà in poco tempo riapprendere a desiderare, a godere, ma di un altro godimento andrà immediatamente alla ricerca, quello di sbranare il padrone.

Sbranare il padrone. Sembra facile, ma non lo è. A vederselo così, davanti, nel momento in cui mi decido ad agire, e la bestia scatenata prende il sopravvento, mille pezzetti non basterebbero a soddisfare la mia vendetta. Ma non mille pezzetti della sua persona soltanto, non solo lui, ma tutti gli altri padroni, e la loro progenie nefanda in grado di alimentare il futuro dominio, e la categoria infame dei palafrenieri, di coloro che collaborano e abbelliscono la catena e il collare che mi stringe il collo. Finalmente libero di respirare, tutti vorrei includere nel mio irrefrenabile desiderio omicida di bestia scatenata. E qui, di colpo, mi fermo. Non potendo colpirli tutti, non potendo azzerare il mondo per cominciare daccapo, devo trovare un criterio di distinzione.

Non è vero che la bestia non ha criterio. Non lo ha nei primi momenti della libertà, che ubriacano e bruciano la gola, poi deve per forza averli questi criteri in base ai quali distinguere. E quali sono?

Il primo criterio è l’azzeramento di tutti i valori, ogni soppesare di colpo tramonta di fronte al proprio mettersi a rischio totale. La libertà non è materia di giudizio, né metro per valutare il mondo. La bestia che ha rotto gli argini sa di avere messo per sempre in gioco la propria vita (verrà abbattuta non appena possibile) e quindi vuole che nel proprio gioco entri pure la vita degli altri, e i beni per gli altri più importanti della loro stessa vita. In questa fase qualunque obiettivo è buono, qualunque ombra della sera si veste dei panni dell’odiato padrone o del miserabile manutengolo che rivernicia i simboli del dominio.

Non sempre dietro l’ombra c’è la consistenza dell’oggetto che si vuole distruggere. Fin dalle prime disillusioni la bestia diventa scaltra, affila gli aculei, migliora la tecnica di caccia, ma principalmente impara a distinguere.

Distinguere mi fa più efficace, non più forte. Se mi fermo a valutare, do tempo all’avversario di apprestare le difese, e queste si riassumono in una conclusione soltanto: la mia morte, la mia morte senza distinzioni.

Gli artigli si accorciano e ricominciano le valutazioni morali: questo sì, quello no, questo ha più colpa di quello, quell’altro accampa scuse accettabili, poveretto, bisogna capirlo. La bestia comincia a diventare ragionevole. Si avvicina il momento della cattura, della messa a morte.

Io, uomo ragionevole, capisco il meccanismo della distinzione e lo condivido, so che il passaggio dalla ribellione primaria ed essenziale, nella sua assolutezza che tutto azzera davanti a sé, alla riflessione capace di distinguere prima di colpire, corrisponde al complesso viaggio verso la presa di coscienza rivoluzionaria, e capisco anche che non essendo mai stato un ribelle, nel senso ora descritto, prima di attaccare mi sono sempre dato mezzi per distinguere, ma non sfuggo al fascino della bestia azzeratrice, per cui non mi sento di avallare il passaggio alla distinzione come un processo di acquisizioni di capacità rivoluzionarie più ampie. Diverse sì, più ampie forse, migliori no di certo.

La forza sicura di sé, con la quale la bestia finalmente scatenata si muove nel buio, colpendo forse indistintamente, torna sempre davanti ai miei occhi. Chi mette in gioco se stesso, totalmente, è totalmente libero, quindi può distruggere chi vuole. Niente lo può fermare, se non una forza più grande di lui, in grado di ucciderlo. Oppure, qualcosa che nasce al suo interno stesso, nell’ambito della sua stessa coscienza, qualcosa che comincia a parlare la voce forte e intollerabile del giudizio morale. Anche i millenni di atrocità, in fondo, di fronte a questa voce altissima tornano ad impicciolirsi, la ferocia e il sangue sono, come la tortura, caratteristiche troppo connaturate al padrone, e troppo legate allo stesso ricordo della frusta, per potere essere di colpo scoperte dalla bestia in qualche angolo riposto della propria anima ferita. Ma la morte no, la zampata radicale che cancella l’avversario da quell’opportunità di continuare a fare del male, a colpire e a torturare, la morte è sentita dalla bestia come la sola soluzione a portata di mano, il solo prezzo da fare pagare a chi nella sua vita ha finito per lasciare troppi conti in sospeso.

Recriminare sugli innocenti trucidati dalla barbarie della bestia scatenata è umano, perché l’uomo è prima di tutto un tartufo che si nasconde dietro il dito della morale. Ancora, per esempio, non ha imparato a chiedersi il perché delle grandi offensive della natura offesa, ma dovrà affrettarsi a farlo, se non vuole autocancellarsi per sempre.

Certo, mi sento venire meno quando apprendo dei tanti massacri che giornalmente arricchiscono le letture edificanti che tutti più o meno facciamo. E mi muovo a sdegno per l’impotenza mia (o degli organi competenti, governo, polizia, Stato?) che non sa porre un freno a quelle disgrazie, e i miei occhi luccicano quando un benintenzionato porta ai miserabili sopravvissuti un camion di vettovaglie. Finalmente, un’anima buona.

Mi imbroglio così nelle distinzioni. La luce critica diventa mezzo per giustificare, non punto progettuale da cui partire.

La bestia trionfante non ha di questi problemi.

Distinguere non vuole dire soltanto soppesare: questo è colpevole, quello no, questo lo è di più, quello lo è di meno. Distinguere, prima di tutto, vuol dire questo sì, al posto di quello, perché corrisponde meglio al mio progetto che, a partire da questo può articolarsi e svilupparsi meglio che a partire da quello. Il progetto fa il rivoluzionario. Ma la bestia scatenata, nel giorno del suo trionfo, non è detto che possieda per forza un progetto. Può avere solo e semplicemente la necessità di distruggere, anche il primo che gli càpita, appena girato l’angolo.

E se questo primo che gli càpita, girato l’angolo, non fosse un padrone? Se non fosse nemmeno un verniciatore di catene? Se fosse un innocente?

Nessuno è innocente, potrebbe rispondere la bestia finalmente trionfante nella sua libertà. Dove era questo cosiddetto pover’uomo quando il padrone mi teneva alla catena e mi faceva mancare l’aria stringendo il collare? Era forse lì a frenare la sua mano? Oppure apparteneva a quell’ampia schiera di innocenti che sollecitano l’impiego della sferza e della gabbia per sentirsi al sicuro nelle loro povere case di periferia? E quand’anche questo innocente di cui dite voi – potrebbe continuare la bestia, respirando a pieni polmoni – fosse, estrema ipotesi, un rivoluzionario chino sui propri progetti di liberazione, intento a riflettere su come distruggere il padrone, e la catena e tutto il resto, ma assolutamente senza parole davanti alla mia stessa esistenza in libertà, e senza mezzi per fermare chi prima o poi finirà per abbattermi, che me ne importa? Perché dovrei risparmiarlo?

E il povero cucciolo, un bambinello indifeso e tenero come la crema, che certo non era nemmeno venuto al mondo quando il padrone studiava la lunghezza della catena con cui legarmi e le misure della gabbia che mi avrebbe racchiuso, questo povero esserino che potrei portare con me stringendolo con tutta la delicatezza di cui sono pur capaci le mie possenti fauci, e allevarlo col mio latte, e proteggerlo, e farlo diventare forte e robusto, credete voi che, diventato forte e robusto, non s’ingegnerebbe subito per costruirmi una nuova catena e una nuova gabbia? Per quale motivo dovrei risparmiarlo?

Provate a dire che queste riflessioni sono sbagliate. Bestiali magari sì, sbagliate no. E i padroni lo sanno, ed è per questo che cercano in tutti i modi di allungare e colorare la catena.

Sanno che la pietà è sentimento troppo sottile per reggere alle nerbate, sanno che non possono invocare regole etiche, loro che non hanno mai avuto per regola che il tasso di profitto, quel 3% che ha costituito il mondo della grande borghesia fondiaria.

Attenti alla bestia, dappertutto è la loro parola d’ordine, non svegliatela, lasciate che chieda qualcosa e che qualcosa ottenga, non riducetela alle estreme conseguenze, potrebbe essere molto pericolosa.

Anche da qualche altra parte viene un cantico suadente di possibilismo progressista. È rivolto alle bestie incatenate, ed è opera di cantori liberti, di povere bestioline innocue ma tenaci, in grado di fare vedere meccanismi inesistenti diretti verso la liberazione come fossero bicchieri d’acqua per un assetato. Pazienta ancora un poco, dicono questi preti travestiti, il paradiso dove cadranno le catene non è, a dire il vero, nell’altro mondo, quello indicato dalla Chiesa, ma proprio qui, nella storia che si indirizza verso la libertà. La bestia inghiotte amaro e sogna di addentare anche le loro coriacee ossa alla prima occasione.

Ma, che cos’è questa libertà che sconvolge la vita ordinata, e coatta, della bestia? Qualcuno potrebbe dire (a ragione) che è lo scatenamento, la messa in gioco di se stessa, direbbero altri, la coscienza finalmente matura di sé, altri ancora. L’insieme di queste cose, alla fine concluderebbero i più attenti, con fare sapiente. E avrebbero tutti visto solo un aspetto del problema. La bestia scatenata è la libertà essa stessa, non è soltanto una bestia libera, ed essendo la libertà dilaga senza limiti e senza misure, si dispiega in tutta la sua forza, decide e afferra, afferra e stronca, stronca e fa proprio, con l’unico ostacolo di una forza più grande che affrontandola l’uccide.

Questa bestia ha la bellezza della libertà perché è pura come la libertà, non ha calcoli, nemmeno quello di una maggiore efficacia, taglia l’erba alla radice davanti a sé, ma brucia tutto dietro di sé, non preserva nulla di quello che affronta, ma nemmeno conserva qualcosa di quello che potrebbe tornarle utile domani. Per lei il domani è soltanto l’oggi, la violenza della distruzione è la sua vita. E voi, sacrosanti rettori dei canoni etici, volete parlare con lei in termini di quello che deve fare! Attenzione, potrebbe schiacciarvi senza neanche avvedersene.

Riservate le vostre lamentele per quando celebreremo il suo funerale.

La libertà è questa assoluta mancanza di regole. Quando si affaccia nel mondo, sia pure attraverso un piccolissimo spiraglio, mette a soqquadro, niente può patteggiare migliore quartiere con lei, solo una forza maggiore può controbatterla e distruggerla. L’accettazione delle regole è la condizione primaria della convivenza civile, e questa può avere un considerevole livello di libertà, ma non è la libertà, diciamo che è la rinuncia alla libertà per un ideale presupposto superiore, quello appunto della pace sociale. Solo che a trarre interesse da questo ideale surrogato in primo luogo sono gli sfruttatori, gli organizzatori del gioco, mentre la gran massa degli astanti è semplicemente giocata come qualsiasi peso morto, ora di qua, ora di là, per fare pendere la bilancia ora da una parte, ora dall’altra. La libertà è un sogno abbagliante, non un accadimento da contabili. Nessuno che non ha avuto la pelle scorticata a sangue dalle disavventure dello sfruttamento può fare questo sogno. Gli eruditi della rivoluzione, farneticando di progetti e ricostruzioni, coi loro metodi perfezionati, raggiungono a volte una ferocia altrettanto considerevole, ma non hanno la forza essenziale della bestia, la sua assoluta purezza che le viene dallo scatenamento.

Ma può ipotizzarsi dietro l’angolo di casa una simile bestia acquattata? Oppure è fatto di tale rarità da discuterne qui come di un accadimento ipotetico, un battere delle ciglia del mostro che respira tranquillo in fondo a ognuno di noi?

Se si pensa ai milioni di esseri umani portati al macello in santa e parsimoniosa rassegnazione, c’è da stare quasi sicuri che la bestia inafferrabile non esiste, parto della fantasia di scrittori dediti malaccortamente a mettere paura ai benestanti, a coloro che hanno molto da perdere. Se si guarda lo spettacolo serale, che tante volte ho avuto il dubbio privilegio di osservare, di centinaia di galeotti che rientrano quietamente nelle loro celle, come pecore all’ovile, c’è da pensare più alla fantasia che alla realtà.

Attenzione, padroni pasciuti, attenzione solerti palafrenieri, la bestia può scatenarsi in ogni momento. Provate a metterla con la coda al muro ancora una volta, provate e vedrete.

Molti uomini dabbene in tocco ed ermellino, sonnacchiosi fra le loro scartoffie, non hanno mai pensato a questa eventualità. Nascosti dietro il codice si credono al sicuro, e al sicuro lo sono, fin quando si resta alla catena allentata, alle regole flessibili del dialogo e della tolleranza. Attenzione a non fare cadere questo velo che cela le vostre nefandezze, la bestia potrebbe avvedersene. Non spingete il gioco troppo oltre.

So bene che non siete stupidi, e che pensate a un mondo futuro gestito nel migliore dei modi dalle vostre illuminate intelligenze, so bene che rimbrottate spesso chi fra di voi sostiene ancora l’obsoleta teoria dell’accorciamento della catena, e so anche che forse senza nemmeno accorgervene avete, di tanto in tanto, un moto di simpatia per la povera bestia, moto dell’animo che per altro non arriva mai a consigliarvi un accostamento eccessivo alle sue unghie.

So tutto questo. So quanto siete giusti, della vostra giustizia beninteso, e quanto desiderosi siete della verità, della vostra verità, giustizia e verità che fanno strada davanti a voi ma non mettono mai in discussione le catene che garantiscono il vostro dominio.

Io vi capisco, anche se non muoverei un dito per aiutarvi vedendovi in difficoltà, la bestia no. La bestia non vi capisce.

La forza della bestia trionfante sta tutta qui, nel non capire, nel non trovare validi gli argomenti vostri e (per la verità, miei cari signori) neanche i miei. Non li trova validi non perché li rifiuti ma perché nemmeno se ne cura, nemmeno li considera. Fiato sprecato, null’altro. La sua forza è incomprensibile proprio per questo, sarebbe come chiedere clemenza a un vulcano o a un terremoto.

Provate a portarla con la coda al muro, adesso, dopo che avete letto queste pagine, provate, se vi riesce di trovare il coraggio, ad accorciare la catena, a stringere il collare e il morso.

Provate.


Catania, 14 dicembre 1998

Alfredo M. Bonanno

La bestia inafferrabile

Fra le nevi dei Vosgi, nella Francia orientale, un lupo, inafferrabile, popola di incubi le notti dei pastori. L’animale è solitario, ha abitudini tutte sue che non corrispondono a quelle degli altri animali ormai addomesticati, i quali se qualche volta ringhiano è solo per avvertire il padrone e per compiere il proprio dovere.

Nell’immaginazione dei benpensanti il lupo diventa così un feroce mostro, la bête du Gévaudan, dicono fra quelle montagne, ricordando la storia di un’altra bestia di cui si narra la leggenda di cinquanta morti ammazzati tra il 1765 e il 1768: bestia e mostro, quindi. Allora, a morire, erano solo grossi proprietari dell’Alvernia. Ma come faceva quel lupo a discerne l’odore del ricco contadino possessore di terre, da quello del povero disgraziato bracciante? Non lo so.

I pochi che hanno visto la bestia che in questi ultimi mesi [1995] ha terrorizzato i Vosgi, parlano di un animale gigantesco, forse un Lupus cervarius di proporzioni eccezionali, esemplare che ogni trattato di zoologia dà per estinto da almeno cent’anni. Ma, contraddicendo gli scienziati, il predatore notturno scorazza e finora ha ucciso una cinquantina di pecore, altrettanti agnelli, tre vitelli, due montoni e due puledri. Poveri animali, quest’ultimi, da branco.

Nella zona di Epinal, c’è stato naturalmente il solito cittadino-poliziotto benpensante che ha cercato di fotografarlo e perfino di registrarne una videocassetta, ma la figura dell’animale vi compare sfocata e imprecisa. Così ogni caccia è diventata inutile. Braccato con fucili e con cani, con trappole antiche e moderne, coi binocoli a raggi speciali e con elicotteri, il lupo è riuscito sempre a fuggire, e quindi a continuare nel suo progetto di attacco contro tutto quello che di addomesticato e di vigliacco gli si para dinanzi. Perfino il richiamo sessuale di una lupa in calore, sistemata dai cacciatori nella foresta di Sénonges, non ha avuto risultati positivi. Il predatore notturno è rimasto alla larga.

Non potendolo abbattere, adesso si cerca di screditarlo, facendolo apparire come un mostro costruito in laboratorio da qualche scienziato pazzo, insomma un esperimento del potere scientifico per diffondere il panico fra la gente, un primo passo per futuri progetti repressivi. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto, ad esempio, che è rimasto digiuno per più di un mese.

Ma la bestia magnifica non si cura di queste chiacchiere, continua la sua lotta fra le nevi delle montagne, lontano da ogni compromesso, in odio a tutti gli animali da gregge, in odio a tutte le regole e ai codici di ogni comportamento obbligato.

Fuoco sulla Casa Bianca

Un uomo in impermeabile bianco ha tirato fuori un mitra e ha cominciato a sparare sulla Casa Bianca. Il Presidente sfortunatamente non è stato colpito, né in fondo da quella distanza e con quel tipo di arma, senza un caso veramente eccezionale, poteva essere colpito. Ma, sparare sull’uomo che oggi riassume in sé il più ampio potere al mondo, è desiderio tanto forte e tanto diffuso da superare ogni possibile logica basata sulla più elementare fattibilità.

Sempre di più potrebbero essere in futuro le occasioni di tiro al bersaglio, ed alcune anche più fortunate di quella di oggi [1994] o di quella di qualche settimana fa, realizzata da Frank Corder, l’uomo lanciatosi col proprio piccolo aereo sulla Casa Bianca. Ciò a prescindere da qualsiasi considerazione dietrologica, che in questi casi non ci interessa per niente, fondata su complotti orditi dagli stessi “servizi” americani per accreditare, o screditare, secondo i casi, la figura del Presidente.

Senza un motivo, per mille motivi

Due ragazzi, in una fredda serata di ottobre [1994], si sono sdraiati sui binari della ferrovia alle due imboccature di un tunnel nei pressi di Sondrio. Si sono sdraiati quasi nello stesso momento, ed hanno aspettato il treno.

Non hanno lasciato nulla di scritto. L’estremo ricatto da parte di chi si accinge ad uccidersi nei confronti di chi resta, non c’è stato. Neanche un saluto. Frequentavano tutti e due la Statale di Milano, uno a Statistica e uno a Giurisprudenza, avevano gli stessi gusti e interessi di migliaia di altri ragazzi della loro età, ma, ad un certo punto, hanno deciso di togliere il disturbo. Insieme, ai due lati di un qualsiasi tunnel ferroviario, in una qualsiasi serata di ottobre.

Una società di stupidi che merita disprezzo s’interroga adesso sui motivi di una scelta estrema e per essa incomprensibile. Giudici indagano, codice alla mano, e psicologi riflettono, chini sui propri manuali. Ma non si può continuare a vivere senza un motivo, e si può decidere di morire per mille motivi.

Il colera dietro le spalle

L’incomprensibile fa sempre paura. Per questo motivo esistono spiegazioni e chiarimenti. Simili a sprazzi di luce nel buio della notte, ci rassicurano e permettono di salvarci la vita. Dopo tutto, è quello che chiediamo ai responsabili di ogni genere, a quelli che abbiamo delegato ai posti di comando e a quelli che del comando, in un modo o nell’altro, si sono impadroniti, sfruttando la nostra dabbenaggine.

Ai responsabili sanitari, come a tanti altri, chiediamo che ci tengano lontano dalla paura del mostro che viene fuori dal nulla all’improvviso. Alla malattia, quella per intenderci che fa star male, che produce le coliche e che una diagnosi più o meno affrettata definisce “colera”, di questa non ci curiamo, non saremo mai noi a prenderla, ma sempre gli altri, che poi osserviamo con occhio distratto negli elenchi dei giornali e nei numeri, opportunamente potati, dei necrologi.

In sostanza siamo costantemente esposti all’irruzione dell’ignoto nella nostra vita quotidiana, e quando questo sconosciuto prende le vesti delle malattie epidemiche, non ce ne meravigliamo, non ci chiediamo cosa sta succedendo realmente, non poniamo mente alla riflessione più logica, che poi sarebbe quella di domandarsi se il nostro rapporto con la realtà che ci circonda è stato impostato in maniera corretta, oppure se l’insieme di metodo e tecniche che abbiamo impiegato per porla sotto controllo, non sia esso stesso un insieme di veicolazione del rischio e non di allontanamento e salvaguardia.

Quando poi la realtà ci sbatte l’evidenza in faccia, quando la stessa struttura di diffusione delle notizie veicola se stessa nel discorso che intimorisce e spaventa, e veicolando se stessa ribadisce il potere che rappresenta e giustifica, allora ci guardiamo attorno alla ricerca del “fare sospetto”, di chi potrebbe avere avuto oscuri interessi a diffondere la malattia, a svolgere la storica funzione dell’ “untore”. Se un professore israeliano, contagiato di AIDS, ha deliberatamente trasmesso la sua malattia a centinaia di partner sessuali, come giurano i giornali, perché non dovrebbe esserci qualcosa del genere con il colera?

E, in questa maniera, torniamo ad esorcizzare il futuro, e i suoi pericoli, e le nostre paure. Ma non mettiamo mai in questione il meccanismo su cui si regge l’intera nostra civiltà della tecnica e della previsione. Su quest’ultimo giuriamo sempre fedeltà, in attesa della prossima epidemia.

Appuntamento con l’apocalisse

Puntualmente l’alluvione è arrivata. Con margini di minore o maggiore pericolosità ed estensione, era stata prevista. Adesso si piangerà per mesi, forse per anni, sui danni e su quello che si sarebbe potuto fare. Come per i danni del Polesine all’inizio degli anni Cinquanta, o per quelli del Vajont, ci saranno processi e chiacchiere a non finire. E da tutto questo si trarrà materia per attendere, con la maggiore tranquillità possibile, la prossima alluvione, ecc.

Ma qual è il nostro reale rapporto con la natura? In tutti i modi l’avvertiamo nemica ed estranea, un pericolo incombente, quindi vogliamo difenderci da essa. Ma la concezione di “natura” che possediamo è proprio quella legata all’incertezza, all’evento futuro incerto e sconosciuto, che dobbiamo a tutti i costi prevedere perché diventi conosciuto e quindi controllabile.

L’ideologia della previsione si sposa con quella del controllo. Allo stesso modo in cui vogliamo controllare il comportamento degli strati più turbolenti della popolazione, quasi sempre fonte di preoccupazione per coloro che non hanno motivo di lamentarsi dell’attuale distribuzione della ricchezza e del benessere, così vogliamo controllare la natura. Nella nostra fantasia, l’incognito movimento del fiume che ribolle sotto i ponti, nell’oscurità della notte, prende sembianze molto vicine ai rumori che ci impediscono di dormire nelle nostre case accerchiate dalla pressione di coloro che dall’esterno guardano con occhio attento alle diseguaglianze sociali e vorrebbero applicare la legge sacrosanta dell’impossessamento.

Ma non riusciamo a controllare tutto per bene. Non controlliamo il passo felpato del ladro, per cui quando come il dio greco s’introduce dentro di noi ci sentiamo esposti e violentati, sbalorditi che ciò sia potuto accadere, e non controlliamo la furia della cosa che si dispiega nella sua primaria violenza, nella sua livellatrice cecità.

E allora accampiamo diritti di preminenza, statuti di dominio sulla natura, decaloghi di garanzia delle tecniche. I ponti perché non hanno retto? E gli argini, e le difese del terreno? E i boschi che se ne sono andati a causa dell’edilizia selvaggia? E i soldi che hanno preso altre strade? E i controlli tecnici? E i soccorsi?

Passata l’apocalisse pensiamo a ricostruire, come prima, peggio di prima, mentre la vecchia mentalità, dissennata e stupida, proprio nella sua stessa ottusità trova la forza per riconfermarsi come l’unica strada percorribile. Facciamo di tutto per tornare a prevedere, per costruire argini, e ponti, e strutture di contenimento. Tutti insormontabili, fino alla prossima apocalisse. Tanto, cosa potremmo fare di più?

Nelle campagne della Malesia

A 340 km a nord-est di Kuala Lumpur, in una piantagione di palme, una scimmia ha ucciso un contadino di 76 anni che l’aveva addomesticata a salire sugli alberi e a raccogliere noci di cocco. L’animale ha lanciato deliberatamente un frutto sulla testa del padrone, uccidendolo sul colpo.

Quasi sempre il nostro rapporto con gli animali, pur essendo inquinato di antropocentrismo, non si differenzia molto da quello che abbiamo con le macchine alle quali, in preda all’ira, possiamo anche dare una pedata cercando di farle funzionare quando s’impuntano a non volere andare avanti. Ma l’animale non è una macchina.

Non è una macchina per molti motivi, ma non è neppure un uomo, e non contribuiamo a fissare correttamente i nostri rapporti con lui elevando al rango, presupposto più elevato, di nostro schiavo alla catena o di nostro giullare. La vecchia definizione di Platone, contenuta nel Filebo, è ancora oggi interessante. “Il dolore – vi si legge – si ha quando la proporzione o l’armonia degli elementi che compongono l’essere vivente viene minacciata o compromessa e si ha il piacere quando tale proporzione o armonia viene ristabilita”. Addestrando un animale, come la scimmia malese, a raccogliere noci di cocco, interveniamo dall’esterno con una intenzione ortopedica, cerchiamo cioè di uniformare ai nostri interessi quelli dell’animale. Perché meravigliarci quando quest’ultimo si ribella? Perché contare sulla sua fedeltà assoluta fino alla morte? Queste nostre illusioni non si ricalcano tristemente sul modello del “buono” padrone bianco che cura e difende il “povero” schiavo negro?

Fino all’ultima pallottola

Era un uomo del passato, un lavoratore di quelli che avevano ancora in mente il valore della propria professionalità, il piacere e l’orgoglio di sapere stivare una merce, di conoscere i problemi del proprio mondo. Ma di gente come lui non ne hanno più bisogno, tendono ad avere a disposizione zombie di media levatura, adatti per tutti le incombenze, per tutte le flessibili eventualità dei nuovi progetti lavorativi.

Così, Enrico D’Ambrosio, operaio caricatore presso una ditta che gestisce gli appalti spedizioni alla stazione di Alessandria, è stato licenziato.

Ci ha pensato su molto, per ben quattro anni, cercando in tutti i modi di farsi riassumere o di trovare un altro lavoro, poi ha cambiato idea. L’8 febbraio scorso [1995] è andato alla stazione e con una pistola ha cominciato a sparare prima di tutto al capostazione, poi ad altri suoi collaboratori. Poi si è chiuso nell’ufficio dirigenza movimento. Qui è stato raggiunto da diversi proiettili sparati dai poliziotti che erano riusciti ad entrare nell’ufficio, ed è morto rispondendo al fuoco.

In fondo, poteva sparare contro qualsiasi altro responsabile delle sue disgrazie, perfino sul primo bellimbusto che avesse incontrato in un bar alla moda, ma ha preferito tornare sul posto di lavoro, sparare proprio su coloro che avevano, nei fatti, in quella microdecisionalità che tutti sembra assolverci delle nostre responsabilità, deciso il suo licenziamento, il suo azzeramento, la sua riduzione ad oggetto buono per tutti gli usi. Ed è proprio lì che ha voluto morire, continuando a sparare.

L’autorità è morta di coltello

Il guappo lavorava come spesso accade per conto terzi. Era un uomo grande e grosso, nel pieno della sua vitalità di garante dell’ordine del quartiere Sanità, nel centro di Napoli, e degli interessi del proprio padrone, in galera.

Fra i compiti del mafioso di quartiere c’è anche quello di dirimere le questioni e le piccole liti che spesso sorgono quando si vive in vicoli e vicoletti, uno a ridosso dell’altro, senza aria da respirare e fantasie da realizzare.

Così, il grande e grosso Ciro Taglialatela era stato subito chiamato da alcuni benpensanti che volevano sedare, per interposta autorità, una lite che minacciava di non concludersi più. Una lite, si fa per dire. Una piccola baruffa fra ragazzini. E lui è intervenuto, a quanto dicono le cronache, è intervenuto e distribuendo qualche schiaffo e qualche pedata, ha fatto scappare i ragazzini come topi impazziti.

Un’altra cronaca accenna a venature rosa, di cui non conosciamo la fondatezza. Ma che vuol dire? Di storie come questa ne accadono tutti i giorni nei cortili più interni del più interno Sud, dove i lenzuoli stesi al sole stentano ad asciugare soffocati come sono dalle casupole e dai palazzoni cresciuti senza criterio e senza speranza.

Racconta quest’altra cronaca che il grosso Ciro, nel sedare la lite, abbia messo gli occhi su di una ragazzina piccola piccola, ma proprio bella, di quelle ragazzine che tutti guardano perché sono un miracolo della natura. E, sembra, che Ciro non si sia limitato a guardare, ma che abbia fatto qualche apprezzamento non proprio da gentiluomo, e anche qualche palpatina. Certo, se vogliamo, roba da nulla, per gente che è abituata a governare, nel buono e nel cattivo tempo, cose e persone. E difatti, il nostro guappo, dati o non dati gli schiaffi, guardata o non guardata la ragazzina, sedato il tumulto, se ne andò tranquillamente per i fatti suoi, che poi sarebbero anche quelli del padrone in galera per conto del quale lavora e gestisce il business.

Ma un ragazzo non era d’accordo con la pacifica conclusione della vicenda. Un ragazzo come tanti, o forse diverso dai tanti. Questo ragazzo s’era sentito ferito nel proprio orgoglio. Non stiamo qui a sindacare di che orgoglio si è trattato, se orgoglio di fronte all’intervento dell’autorità (qualsiasi autorità scatena risposte di ribellione, che quasi sempre rientrano immediatamente), oppure di orgoglio di innamorato che vede la ragazza dei suoi sogni fatta oggetto di attenzioni non gradevoli. Non sappiamo quindi di quale orgoglio si è trattato: le cronache non ne parlano.

Vogliamo immaginare che si sia trattato dell’orgoglio che fa alzare il braccio per rispondere al dolore per la propria dignità ferita. E perché mai un ragazzo napoletano del quartiere Sanità non potrebbe avere quest’orgoglio, questo gesto di rivolta verso un uomo grande e grosso, simbolo dell’oppressione, del controllo e della paura?

Ebbene il piccolo Davide ha fatto presto ad accoltellare il grosso Golia, in pochi attimi il rantolo dell’autorità ferita a morte si sentiva per tutti i cortili, per ogni vicolo, dentro ogni pericolante palazzone, facendo sbiancare la gente, gettandola nel panico. L’autorità, sia pure per una volta, era morta, là, sul selciato, senza avere avuto il tempo di dire un’ave.

Adesso il piccolo insorto è in fuga. Il nostro cuore è con lui.

Un modo sicuro

Salito sul parapetto del Golden Gate Bridge di San Francisco, un uomo, di cui le cronache non danno il nome, voleva gettarsi di sotto, decisione che per quello che è dato sapere appartiene ancora alla sfera personale.

Naturalmente, lo spirito di sopravvivenza degli astanti si è messo nel mezzo e si è trovato subito il solerte cittadino che ha chiamato la polizia.

Arrivati in forze sul posto, i poliziotti hanno subito cominciato le discussioni idiote che si fanno in questi casi, aspettando l’arrivo degli psicologici i quali, una volta arrivati, hanno dato inizio ai loro soliloqui fondati sulle più atroci assurdità.

Nel frattempo l’uomo stava per prepararsi al salto e, nel far questo, ha pensato bene di alleggerirsi di qualcosa, gettando con fare che è stato definitivo “furtivo”, verso i poliziotti un oggetto che poteva lontanamente somigliare ad una pistola.

Subito i poliziotti hanno fatto fuoco. L’uomo è morto crivellato di colpi.

Un modo come un altro per suicidarsi. Nell’abiezione in cui viviamo tutti, di certo il modo più sicuro.

In gruppi di tre o quattro

La periferia Nord di Parigi è costituita da una sterminata serie di enormi caseggiati popolari. La vecchia zona industriale, dove manifestavano i lunghi cortei delle tute blu descritti da Bakunin, sta retrocedendo, velocemente, verso l’est della città, mentre prende estensione la parte bene del Nord-ovest, abitata da famiglie benestanti e da ricche villette residenziali.

La polizia presidia accuratamente gli impianti ad Est e le case dei ricchi a Ovest, mentre quasi non si arrischia ad entrare nella zona popolare del centro, dove andarsene in giro la notte è difficile e avventuroso. Quando lo fa, interviene in forze e non mette molto ad usare a tradimento la violenza assassina dei suoi specialisti.

Un ragazzo non si ferma allo stop della pattuglia, un poliziotto spara, oppure l’auto della polizia lo insegue e lo mette sotto deliberatamente. Le forme di giustizia sommaria sono molte, da Lynch in poi ci siamo evoluti. È successo l’altra sera [1995] a un ragazzo di origine marocchina: ucciso da una macchina della polizia.

Ma questa volta accade qualcosa di diverso. A Noisy-le-Grand il quartiere insorge. Centinaia scendono in strada, centinaia di giovani, ma anche adulti e non solo neri. La sera stessa la rabbia divampa e produce qualche scontro con la polizia, qualche vettura incendiata, un camion. Poi tutto sembra tornare nella normalità.

L’indomani sera si presentano invece le caratteristiche di qualcosa d’altro. I ragazzi si sono organizzati. Non appaiono più all’angolo della strada gridando e lanciando sassi. Adesso vengono avanti nella notte con passo cauto. Si sono distribuiti in piccolissimi gruppi: tre o quattro al massimo in ogni gruppo. I gruppi sono centinaia. Adesso attaccano sistematicamente. Un liceo è distrutto. Tre scuole medie inferiori sono date alle fiamme. Centinaia di macchine posteggiate subiscono la stessa sorte. Una banca è attaccata e bruciata con le molotov. Per tutte le strade del centro non si contano le vetrine dei negozi distrutte e saccheggiate, le pompe antincendio divelte, i contatori del gas e dell’elettricità sabotati, i cassonetti della spazzatura bruciati. Un scena irreale si presenta agli occhi delle prime pattuglie riuscite ad arrivare sul posto. Gli autori: scomparsi nella notte.

Ma siamo proprio sazi di chiacchiere?

L’astuto Maniscalco, fondatore della polizia borbonica, era solito dire che quando tre uomini si mettono insieme per complottare, uno dei tre, prima o poi, finirà per lavorare per la polizia. E non era un discorso del tutto lontano dalla realtà, specie in quei tempi, quando il 90 per cento dei delegati di questura erano reclutati fra gli ex detenuti. Ma alla radice della battuta del grande poliziotto c’era la certezza che un uomo su tre è, almeno potenzialmente, disposto a tradire.

Solo che in quell’epoca, dopo tutto aurea anche in queste luride cose, non si chiedeva al manutengolo del questurino di redigere una dichiarazione giustificativa del suo turpe mestiere, né tanto meno di atteggiarsi a pilastro della società, salvatore della patria e degli interessi delle dabben persone. Bastava che facesse i nomi, in segreto, come in confessionale, e tutto poi procedeva per il suo verso. Gli veniva fornita una retribuzione – invero modesta – e lo si lasciava, più o meno, in attesa di una prossima condanna a morte.

Col cambiare dei tempi, anche nelle fogne ci sono stati cambiamenti. I topi e altri luridi animali sotterranei hanno avuto la bella idea di darsi giustificazioni ideologiche, motivi teorici, programmi politici e speranze di reinserimento sociale, sia pure il tutto in tono minore e come a volere accampare delle scuse. E siccome noi tutti non siamo mai sazi di chiacchiere, finiamo per prestare orecchio anche a queste.

Nella fumosa congerie di quanto si è detto negli ultimi dieci anni e passa, tutto cade sommerso dalla nebbia dell’equivalenza, parole di fiducia nella lotta e nella speranza di liberazione, stranamente si confondono e vengono sommerse da dichiarazioni di pentimento (con relative chiamate di correo), da dissociazioni motivate come proclami di vittoria, da intelligenti analisi mezzosangue che non accettano schiacciando l’occhio, da trame vere e proprie di tradimento dove la pelle di alcuni compagni viene barattata con pochi anni di galera, da irrigidimenti su posizioni critiche ormai fuori del tempo e della storia, da pacifismi riscoperti, da misticismi latenti e mai sufficientemente frenati, da imbecillità congenite e da cretinerie acquisite.

Il tutto si mischia e si confonde con le non meno confuse idiozie degli uomini di Stato che tra la vecchia paura e la nuova incapacità di prendere una decisione, fanno il gioco di chi deve tirare la paglia più corta. Se uno non avesse dentro di sé, proprio radicato nel fondo del proprio cuore, come una seconda natura, o come un tatuaggio, il desiderio, la volontà, la forza di continuare a pensare alla ribellione e alla lotta, la presente fiera delle chiacchiere lo farebbe desistere. Mi chiedo in che modo molti giovani compagni possono prendere questo immenso calderone che ribolle sotto i loro occhi? Non si stomacheranno subito del puzzo tremendo che viene fuori dalla brodaglia? E stornando disgustati lo sguardo, dove poseranno gli occhi?

Forse sui convegni di studi, sui dibattiti, le conferenze, i comizi e le presentazioni di libri di cui gli anarchici di ogni tipo hanno tanta capacità organizzativa? Forse parteciperanno a qualche manifestazione sindacale di protesta dove una piccola minoranza che vorrebbe soltanto soffiarsi il naso viene subito messa a tappeto dalla delicatezza dei manganelli? Forse si metteranno a leggere i pochi fogli che il movimento anarchico continua a fare uscire con la regolarità di un metronomo e con non certo migliore fantasia?

Oppure, anche tutto questo sarà considerato una chiacchiera? Forse più raffinata e più “estremista” delle altre chiacchiere, ma sempre un “esercizio” platonico?

Io non lo so con certezza, ma mi sembra che qui occorrono indicazioni operative precise, altro che chiacchiere, o verremo unificati tutti nella nebbia della notte dove ogni vacca è solo grigia.

Come giocarsi la vita e perché

Nei periodi di profonde trasformazioni sociali queste si riflettono nella scala dei valori che subisce, a sua volta, più o meno veloci sconvolgimenti. Uno degli elementi fondamentali di questa scala, diciamo uno dei livelli di base, è dato dal valore della vita. Della mia vita come di quella degli altri.

Più o meno da sempre, gli uomini hanno avuto un gusto per il rischio e l’avventura ed anche per le forme distorte del gioco violento, come il duello o la caccia. E sono anche antichi i giochi che mettono a repentaglio la vita del giocatore, spesso anche in mancanza di una posta adeguata. Senza volere tornare troppo indietro nella storia basta pensare alla roulette russa di cui tutti ricordano le pagine di un grande romanziere o le scene di un non molto valido film americano. Negli anni cinquanta, un film che illustrava la violenza dell’America rurale fece vedere un gioco che si chiamava “il salto del coniglio” e che consisteva nel fare la gara tra due giovani al volante di due vetture lanciate entrambe verso un abisso, vinceva chi saltava giù per ultimo. Nei giornali di questi ultimi mesi [1989] si parla di una roulette sull’autostrada, consistente nel percorrere un pezzo di autostrada andando nel senso contrario a quello obbligatorio di marcia: vince chi percorre il tratto più lungo. Fra i ragazzi israeliani, anche inferiori a dieci anni, è in voga un altro gioco, consiste nel mettere la cartella sulla strada e prenderla giusto nel momento in cui arriva un’auto, vince chi la prende per ultimo. Diversi ragazzi sono morti in questo modo.

Perché giocarsi la vita?

La prima risposta, molto facile, sarebbe, quella, legata alla “crisi” dei valori della società industriale avanzata, che non sa proporre un “futuro” valido a questi giovani. Un film recente, sempre americano, che faceva vedere la guerra fra bande a Los Angeles, finiva con un giovane che sparava addosso ad un poliziotto, invece di farsi arrestare, gridando: “Non c’è futuro”. E potrebbe essere una buona risposta. Nel senso che le esperienze di tutti i giorni, quelle che insieme formano la personalità, sono fortemente condizionate da alcune profonde modificazioni intervenute in questi ultimi anni nella struttura sociale ed economica dei paesi industriali avanzati. I pensieri, le emozioni, le azioni degli individui sono immersi, quindi, in una situazione complessiva che è priva di catalogazioni a priori capaci di mettere ordine e dare sicurezze.

Ciò porterebbe la fascia più giovane, ancora non in grado di gestire una situazione del genere, oppure non ancora in possesso di interessi e di idee ben radicati, a sentirsi “privata di valore” e quindi non disposta a “dare valore alla vita”.

Perché è “troppo” facile questa risposta? Prima di tutto perché non mi sembra opportuno, ogni volta, rinviare ad un meccanismo sociale di base, ad una struttura, capace di spiegare tutto. C’è dietro questa abitudine mentale, per altro non molto vecchia, una sorta di nuovo determinismo delle idee che ci impedisce di cogliere le motivazioni che stanno alla base delle cose, motivazioni che se messe allo scoperto qualche volta potrebbero darci migliori indicazioni su cosa fare.

Il disgregamento sociale sopravvenuto, in modo ineluttabile, alla ristrutturazione economica degli anni Ottanta, è certo una delle cause dello sfaldarsi della scala dei valori costituita all’incirca nell’immediato dopoguerra e, più o meno, rimasta intatta fino agli anni Settanta compresi. Un’istituzione come la famiglia, che si sta rivelando sempre meno salda e capace di rispondere al compito importante che la società capitalista e borghese del secolo scorso gli aveva assegnato, non sta ricevendo i suoi colpi solo dalle mutate condizioni del mondo del lavoro e della produzione, ma anche da una diversa circolazione delle idee, da una trasformazione culturale, da una diversa concezione del tempo e dello spazio, ecc. Tutti questi elementi, che sarebbe troppo facile accorpare sotto l’insegna dell’economia, hanno prodotto modificazioni che vanno esaminate una per una, che sono della massima importanza, e che costituiscono il tessuto effettivo dove si innestano le emozioni, i pensieri e le azioni di tanti giovani che, oggi, si affrontano negli stadi, si giocano la vita in cento modi, si scoprono privi di futuro, di certezze, di speranza.

D’altro canto, qui non siamo davanti ad un fenomeno marginale, come è sempre stato quello della non immediata integrazione del giovane nelle condizioni imposte dalla vita sociale. Qui si vede un fenomeno di una consistenza e di una estensione mai avute prima. Per capirlo dobbiamo rivedere anche i nostri schemi di ragionamento. Una volta pensavano, e bene, che le condizioni di lavoro erano centrali per capire i motivi per cui i proletari potevano impegnarsi nella lotta di classe e quindi anche in una prospettiva rivoluzionaria. Adesso le condizioni oggettive si stanno velocemente modificando. Una volta pensavamo che la mancanza di lavoro, lo sfruttamento, le lotte delle masse lavoratrici, potevano, in un determinato momento, proprio a causa di obiettivi difettosi del sistema produttivo nel suo insieme, trasformarsi in coscienza rivoluzionaria. Adesso non possiamo più pensare con il medesimo automatismo.

Abbiamo, in un lontano e recente passato, affermato che una delle condizioni di freno alla lotta delle classi, era senza dubbio l’integrazione educativa che il giovane riceveva nella famiglia, base di quella uniformità di giudizio che gli si costruiva poi nella scuola, nell’esercito e nel lavoro. Adesso molte di queste cose sono cambiate. La famiglia si sta smembrando, concezioni diverse vi sono entrate dentro, vi spira un’aria di paternalismo se non proprio di puerocrazia. L’informazione entra direttamente nelle case, attraverso la televisione, e non rende più possibile il filtro della censura dei genitori, i quali stanno anche perdendo una parte dell’autorità che viene dalla semplice forza fisica, visto che ci sono migliori controlli da parte dello Stato riguardo le violenze sui minori. L’antico affetto, quello delle oleografie ottocentesche, su cui doveva basarsi una famiglia, affetto che è stato per lo più una creazione dei letterati, adesso non riesce a coprire la grave mancanza di sentimenti reali che esiste all’interno di questa istituzione. E noi anarchici siamo stati fra i primi ad avanzare una critica seria della famiglia, come luogo di origine di una gran parte degli orrori della società di classe.

Lo stesso dicasi per la scuola, di cui con lungimirante chiarezza, fin dal secolo scorso, avevamo individuato i limiti e i difetti, proponendo un’educazione libertaria che è stata prontamente agguantata dagli intellettuali di regime. Non so se anche oggi siamo in grado di capire cosa veramente sta accadendo nella scuola, però non mi sembra che questo sia un settore in cui siamo più arretrati degli altri. Normalmente, l’analisi anarchica internazionale, oggi, si attesta sul livello di una scarsa capacità di capire le veloci modificazioni della società e dell’economia. Lo specchio della verità è dato da quello che si va dicendo riguardo il problema della produzione, con la costanza degna di migliore causa con cui si insiste sulla validità del sindacalismo più o meno rivoluzionario.

Secondo noi, invece, nuovi problemi si affacciano sulla scena sociale, problemi che non si possono affrontare con le vecchie analisi, anche se queste erano giuste all’inizio. In un certo senso, non siamo stati capaci di portare alle loro conseguenze logiche le premesse che noi stessi avevamo formulato. L’esempio dell’analisi della famiglia è illuminante. Siamo stati fra i primi a denunciare la funzione repressiva di questa istituzione, ma non siamo fra i primi a trarne, oggi, le relative conclusioni.

La generale perdita di peso dei valori tradizionali non ci vede in grado di proporre non dico sostituzioni, ma nemmeno critiche alle proposte altrui. Davanti alla domanda di tanti giovani che ci chiedono un buon motivo per giocarsi la vita, non sappiamo come rispondere. Altri hanno risposte che noi sappiamo non sono vere risposte, ma che i giovani prendono per buone, smorzando la propria aggressività liberatoria e riducendosi così a strumento nelle mani del potere. Altri dicono loro: la vita ha un valore in sé perché ce l’ha data Dio, perché serve al piacere, perché serve alla rivoluzione, perché serve alla continuazione della specie, ecc. Noi sappiamo che, singolarmente prese, queste affermazioni sono sbagliate, ma non sappiamo proporre un’alternativa valida al semplice gioco del rischio per il rischio.

Cosa fare?

Prevalenza della pratica?

Secondo i gusti o le necessità del momento, siamo spesso portati a vedere, nell’agire degli altri, una prevalenza della pratica sulla riflessione teorica e viceversa.

In genere, non ci soddisfano né la prima, né la seconda di queste valutazioni. Sempre parlando degli altri, e vedendoli agire, ci chiediamo per qual motivo propendano ora per questo lato ora per quell’altro di un livello di equilibrio ideale che esiste, evidentemente, nei nostri sogni e non nella realtà.

Interessi di parte? preclusioni ideologiche? grettezze dell’individuo? miserie o semplice stupidità? Non abbiamo che da scegliere. Ed in genere lo facciamo, spesso senza rendercene conto, sottolineando, appunto, quel giudizio che ci torna più comodo, sia per differenziarci da una pratica che non vogliamo condividere, sia per non farci coinvolgere in scelte teoriche che riteniamo infondate.

Gli uomini agiscono in un flusso complessivo di relazioni umane, all’interno del quale non è possibile vedere con chiarezza dove finiscono le pratiche e dove iniziano le considerazioni teoriche.

Proiettando al limite questa reale impossibilità, si solidificano teorie e pratiche, questo è possibile, cioè si isolano, per amore di chiarezza o per facilità didattica e scientifica, elementi che sono astratti, cioè tolti da un contesto più ampio e complessivo, e di questi elementi si presentano le componenti più evidenti. Si tratta di elementi che possono riguardare le teorie, ma anche le pratiche. In altri termini, così agendo possiamo isolare non solo un “astratto” teorico, ma anche un “astratto” pratico. Se ne deduce che non esiste corrispondenza assoluta tra “astrattezza” e teoria, per come almeno vogliono farci credere i sostenitori della prevalenza della pratica. Ed è vera, per i medesimi motivi, anche la tesi rovesciata di quanto affermiamo.

Nello stesso momento in cui un individuo si trova in una sua personale, e sociale, situazione, cioè si trova in rapporto con i suoi simili e vive in un contesto collettivo; fin da questo momento, quindi fin dalla sua nascita ed anche oltre la sua morte fisica, di tutto il suo agire, anche di quello più cieco e condizionato, egli sviluppa un’elaborazione teorica che non solo è possibile isolare ed approfondire (cosa questa che importa assai poco), ma che è presente nel mettere ordine, almeno dentro certi limiti, proprio in quel suo agire per quanto spontaneo esso sia. La teoria è quindi nell’esperienza stessa della vita, nel modo in cui gli altri ci si propongono all’attenzione e all’azione, nei sentimenti e nelle delusioni, nelle gioie, in tutto ciò, nello stesso tempo, ed anche prima e dopo, prima che nelle idee di cui finiamo per farci compenetrare, leggendo, studiando, vedendo, parlando, ascoltando, ma anche trasformando, lavorando, distruggendo.

Non c’è quindi un “luogo” della teoria ed uno della pratica, se non come ipotesi “astratta”, di per se stessa “sospesa”, ipotizzata come fantasma fuori del mondo. Che poi questo fantasma sia tutt’altro che fuori del mondo, ma agisce e produce effetti nel mondo, questo è un problema diverso che conferma l’ipotesi precedente. Non c’è nulla che si può dire, in un assoluto teorico o pratico, ma esistono solo relazioni di reciproco scambio tra questi due momenti dell’esperienza umana, i quali sono momenti di un flusso e non oggetti separati nello spazio.

Di una distinzione, ben più produttiva, si può parlare quando ci rivolgiamo al problema di come – chi agisce – cerca di disporre la sua azione nei riguardi degli altri. Anche qui, dentro certi limiti, è possibile individuare un orientamento, certo non un rapporto costante di causa ed effetto, un orientamento che ci dà indicazioni sulle intenzioni dell’attore e sulla condizione del destinatario dell’azione. La relazione esiste sempre, e si colloca nell’ambito di un flusso vastissimo di rapporti che non sono, in alcun modo, isolabili, ma che si possono, sempre per amore di chiarezza, individuare in questo orientamento. Chi agisce, in cento, in mille modi, fa sapere le sue intenzioni riguardo l’obiettivo del suo agire. Queste intenzioni si sciolgono ai margini in un contesto fluido, ma nel loro nucleo, nei momenti più significativi del fatto, o dei fatti, che le solidificano, esse intenzioni sono componente notevole dell’orientamento, danno spiegazioni sulla scelta dei mezzi, chiariscono l’obiettivo, trasformano la relazione e non lasciano immutata la realtà.

In questo orientamento può esserci una prevalenza pratica (o teorica), e ciò deve corrispondere all’intenzione di chi agisce, in caso contrario, cioè se questa prevalenza è un incidente, un qualcosa che è venuto fuori per errore, mentre nell’intenzione c’era ben altro, allora il rapporto stesso tra orientamento e obiettivo finisce per essere stravolto. L’azione sussisterà, così come le trasformazioni nell’insieme delle relazioni individuali e collettive, ma i risultati saranno tanto più lontani da quello che l’intenzione originariamente pensava, quanto più questi elementi di disturbo sono stati presenti ed hanno avuto modo di agire e di sconvolgere.

La critica, se vuole svolgere un compito e non essere elemento di copertura ideologica, deve cogliere questi elementi in sospeso tra intenzione e obiettivo, tra manifestazione dell’azione e suo scopo. Quando essa, nel suo approfondimento critico, si lascia andare a semplici constatazioni esterne, come sono quelle che attengono alla forma presa dal rapporto orientativo (intenzione-obiettivo), non fa altro che un buco nell’acqua.

Quando si afferma che una certa “posizione” dà prevalenza alla pratica o, viceversa, che un’altra la dà alla teoria, non si dice nulla, si affermano cose prive di senso. Occorrerebbe vedere, approfonditamente, in che modo l’obiettivo che l’azione si è prefissato sia raggiungibile attraverso l’orientamento messo in atto (o, almeno, fatto intravedere). E questo discorso non può mai partire da una valutazione positiva o negativa della prevalenza della pratica o della teoria nell’orientamento verso l’obiettivo. Peggio ancora non può mai partire da un giudizio riguardo una prevalenza complessiva (nel senso della pratica o in quello della teoria) attribuita in blocco al soggetto che ha manifestato l’orientamento di cui si discute.

È quindi la maggiore o minore adeguatezza dell’orientamento che dovrebbe costituire l’argomento dell’analisi critica, adeguatezza all’obiettivo, per quanto anche questa valutazione non possa mai concludersi con un giudizio di merito. Cerchiamo di chiarirci.

Si possono apprestare interventi “non adeguati” per diversi motivi, non tutti riconducibili a “colpe” di chi si dispone all’orientamento. Dalle carenze personali alle decisioni di risultare al di sotto di quanto oggettivamente andrebbe fatto (ma chi stabilisce, e in che ottica – qualitativa o quantitativa – che cosa è indispensabile fare?), l’arco è vastissimo. In fondo, l’adeguatezza andrebbe ricercata sulla base dell’insieme dell’orientamento proposto, cioè andrebbe verificato se esistono contraddizioni all’interno dell’orientamento stesso, più che contrasti tra proposta e obiettivo, all’esterno. E ciò perché le strade per attingere uno scopo possono anche non essere coglibili, almeno a tutta prima, dall’osservatore il quale potrebbe anche farsi fuorviare dalle proprie convinzioni e dai propri condizionamenti. Invece, ed è questo il punto, una ricerca sulle contraddizioni è di gran lunga più importante.

Può una persona ragionevole dire e disdire una cosa? La nostra cultura dichiara assolutamente di no. Siamo figli del razionalismo occidentale, non ammettiamo la presenza delle contraddizioni all’interno dei nostri orientamenti. Che poi queste ci siano è un’altra questione e i risultati di una presenza non riconosciuta sono, purtroppo, sempre amarissimi. L’analisi dovrebbe darsi da fare in questa direzione, non per gridare allo scandalo (quando qualcuno dice e poi, subito dopo, disdice), ma per far vedere in che modo, e con quali conseguenze, la contraddizione rilevata si dispiega all’interno dell’orientamento e produce maggiori o minori possibilità di pervenire all’obiettivo indicato. Le vie dell’azione non sono sempre diritte.

E le contraddizioni più rilevanti, quelle che fanno subito gridare alla non adeguatezza dell’orientamento se non proprio – ed in questo caso il grido sarebbe senz’altro gratuito – alla prevalenza della pratica o della teoria, sono quelle, appunto, che non sanno decidersi sugli effetti reciproci di un rapporto teoria-pratica e pretendono separare quello che separabile non è.

Per concludere, il vero problema non è quello di rintracciare una uniformità di comportamento (nessuno è privo di contraddizioni) nell’orientamento diretto verso un obiettivo, quanto quello di cogliere questo orientamento nel suo insieme, come totalità inscindibile di teoria e pratica, come, appunto, azione diretta a trasformare la realtà. In questo sta il valore di quello che facciamo, non in una sua pretesa linea di purezza o di coerenza a tutti i costi, non nel racchiudersi dentro un territorio dove l’aria è tanto rarefatta da non consentire contrasti e contraddizioni, e neppure dentro un continuo dispiegarsi delle velleità personalistiche di chi non vuole idealisticamente ammettere che nella realtà non è solo lui a decidere. Non esistono teorici e pratici, ma esistono coloro (pratici o teorici che siano i loro orientamenti, almeno a loro stesso giudizio) che vogliono o non vogliono contribuire a trasformare le cose, dall’attuale assetto “normale” ad un assetto radicalmente diverso. Esistono servi che stanno bene nella divisa di uniformità e uomini che si vogliono liberare e per questo sono decisi a lottare.

La tirannia della debolezza

Dappertutto oggi ci imbattiamo nella debolezza. Siamo deboli e, quando non lo siamo, ci mostriamo tali, per paura di sembrare diversi.

La sicurezza di sé, la conoscenza di sé e degli altri, e delle cose, non è di moda, anzi sembra roba vecchia, superata, anche di cattivo gusto. Non ci impegniamo quindi a fare meglio e bene le cose che facciamo – sto parlando delle cose che vogliamo fare, non di quelle che ci obbligano a fare – dato per certo che ci sono pur sempre cose che vogliamo fare, anzi cose per cui siamo disposti a qualunque cosa pur di farle. Ma, contrariamente alla logica stessa, le facciamo male, superficialmente, con approssimazione. E di questa debolezza, ce ne facciamo, se non proprio un vanto, almeno una specie di schermo dietro cui nasconderci.

Siamo quindi schiavi della debolezza, di questo nuovo mito che si sta diffondendo dappertutto.

Non è qui in discussione un discorso sulla “forza”, la quale è sempre una forma di debolezza camuffata, ma un discorso sul modo di respingere l’imbroglio, l’appiattimento dei valori, lo snaturamento degli strumenti per vivere e attaccare i nostri nemici.

Il modello che ci viene proposto è quello perdente, il modello della vittoria per rinuncia, per abbandono, per rallentamento. Il potere ha interesse che in tutte le cose ci disponiamo in modo non adeguato alla realtà. Pensiamo poco, ragioniamo male, subiamo passivamente i messaggi che ci mandano i grandi mezzi di informazione, non reagiamo.

Ci stanno costruendo dentro una personalità che sta a mezza strada tra l’idiota e il collezionista. Da un lato, capiamo poco, dall’altro, sappiamo moltissimo: tutte cose inutili e dispersive, notizie da enciclopedia tascabile. Ci hanno convinti che abbiamo il diritto di essere stupidi, ignoranti e perdenti.

L’efficientismo lo abbiamo rinviato verso la classe avversa, lo abbiamo isolato come modello produttivistico appartenente al potere. E ciò è stato più che giusto, indispensabile. Fin quando si trattava di danneggiare il nostro nemico di classe, era giusto essere assenteisti e rinunciatari. Ma poi abbiamo introiettato il modello, e la parte avversa si è presa la sua rivincita. Siamo diventati rinunciatari anche con noi stessi, con le cose che desideriamo fare.

Così siamo andati alla ricerca delle farfalle, del pensiero orientale, dei prodotti e del modo di pensare alternativo, del modello disinteressato e non incisivo. Per non aspettare che i denti ci cadessero di bocca da soli, ce li siamo strappati ad uno ad uno. Adesso siamo felici e sdentati.

I laboratori del potere stanno programmando per noi un modello di vita rinunciataria. Naturalmente, solo per noi. Per la minoranza degli inclusi il modello è sempre quello dell’aggressività e della conquista. Noi non siamo più i barbari violenti e sanguinari che si scatenavano nelle improvvise insurrezioni e nelle rivolte incontrollabili. Siamo diventati filosofi del nulla, scettici dell’azione, blasé e dandy.

Non ci accorgiamo del fatto che ci stanno restringendo la lingua e il cervello. Non sappiamo quasi più scrivere, cosa importante per comunicare con gli altri, con molti altri. Non sappiamo quasi più parlare. Ci esprimiamo in un gergo striminzito fatto di luoghi comuni televisivi e sportivi, giornalistici e da caserma che sembra aiutare la comunicazione, mentre la tradisce svilendola ed evirandola.

Ma, quel che è peggio, non sappiamo quasi più fare sforzi. Per nessuna cosa, o quasi. Non sappiamo impegnarci. Poche scadenze, pochi fatti da portare a compimento, qualche lettura obbligata, una riunione, un’azione, ci prostrano e ci rincoglioniscono. Al contrario, passiamo ore ad ascoltare (senza capire) una musica priva di contenuti, canzoni in lingue sconosciute, rumori che riproducono la fabbrica o l’auto in corsa o la motocicletta. Anche quando ci perdiamo nella contemplazione della natura (di quel poco che resta) non siamo noi che andiamo a fare una passeggiata, ma è la passeggiata che entra dentro di noi, accettiamo luoghi comuni, schemi ecologici, modelli naturalistici, fabbricati sempre nel laboratorio del capitale (quello alternativo, che è peggiore del primo). Ma non sappiamo nulla del vero rapporto con la natura che richiede impegno e forza, aggressione e lotta e non semplice contemplazione.

Non mi si venga a fare il discorso sul comportamento aggressivo quale è quello del capitale e dei suoi zombie, comportamento contro il quale dobbiamo necessariamente costruire un nostro comportamento tollerante. So perfettamente cosa sia l’aggressività del capitale e dei partecipanti alla Parigi-Dakar. Non è di questa aggressività che voglio parlare. E, in fondo, nemmeno dell’aggressività. Le parole sono ingannatrici. Qui voglio parlare della necessità dell’agire, che si contrappone al baloccarsi mentre la nave sta andando in fiamme.

O si è convinti delle profonde e decisive trasformazioni che si stanno realizzando in questi anni, trasformazioni nel capitale e nel potere, tali che sconvolgeranno l’attuale assetto della nostra vita per chissà quanti decenni; o non si è convinti. In questo ultimo caso, è giusto che ognuno insegua le farfalle del suo sogno: i miti del buddismo, della medicina omeopatica, della filosofia zen, della letteratura d’evasione, dello sport o di qualsiasi altra cosa possa far piacere, compreso il piacevole distacco dalla grammatica e dalla lingua.

Ma, se si è convinti della prima tesi, cioè se si è convinti che qui sta andando avanti un progetto che ci vuole ridurre in schiavitù, principalmente in una schiavitù culturale in cui saremo anche privati della possibilità di vederci in catene, allora non si potrà più tollerare la tolleranza, e nemmeno l’irriducibile tendenza alla rinuncia e all’abbandono.

Non bisogna credere che il discorso che sto facendo sia attinente soltanto a quei compagni, o cosiddetti tali, che si sono lasciati dietro le spalle un passato di impegno rivoluzionario, e adesso, come se nulla fosse, vanno pascolando pacificamente fra i verdi, gli arancioni, i buddisti o altre mandrie. Mi riferisco anche a tutti coloro che sostengono di essere ancora rivoluzionari ma vivono, ogni giorno, la tragedia di un progressivo inquinamento fisico e mentale.

Non si tratta quindi di un banale, e per certi aspetti scontato, appello all’impegno. Di questi appelli, ormai, sono piene le fosse. Stiamo parlando di un progetto da laboratorio, in corso di perfezionamento, un progetto che il capitale sta realizzando per toglierci le possibilità stesse della lotta, a poco a poco e in modo indolore, un progetto che sta camminando di pari passo con le profonde ristrutturazioni dell’intera formazione economico-sociale. Il nostro non è quindi un appello volontaristico o, se si preferisce, un grido di avvertimento lanciato nel deserto. Il nostro vuole essere, per quanto limitato e approssimativo, un primo, piccolo, contributo analitico per capire meglio le profonde modificazioni della realtà che ci circonda.

Delle regolarità

Delle regolarità. Ma anche, del bisogno delle regolarità. Dapprima quelle periodiche, poi quelle personali, quel ritmo degli equilibri biologici e sociali che ci fa scoprire, bene o male, aspetti di incommensurabile bellezza nella più disastrosa delle situazioni.

È in nome delle regolarità, delle prevedibilità, delle uniformità che sono stati commessi i più spaventosi delitti, le atrocità più incredibili. Ed è sempre la nostra regolarità che vogliamo imporre agli altri, la regolarità della nostra Chiesa, del nostro Credo, della nostra Fede, siano questi aggeggi laici e, perché no, perfino rivoluzionari.

Ed ognuno giura sul proprio itinerario di regolarità e guata truce quello degli altri, sospettando malevoli intenzioni, che poi sono del tutto vere.

Chi osserva l’agire altrui, e non lo capisce, ricorre subito ad un espediente: lo squalifica, lo demonizza, lo disprezza. In questo modo, si illude di capirlo, mentre non fa altro che denunciare la propria ignoranza, se non addirittura la propria malafede. Per questo chi agisce è sempre visto di cattivo occhio da chi trova scuse per non attaccare il nemico. Ed il coraggio e la decisione del primo non vengono mai riconosciuti se non attraverso la calunnia e il parlottio da corridoio. Meschine figure della regolarità si aggirano nei meandri più fetidi del movimento rivoluzionario e riempiono le loro tristi giornate con comportamenti da poliziotto e da delatore.

Cosa possiamo fare?

Il male è proprio in questo bisogno smodato di regolarità che tutti possediamo. Alcuni lo superano, come speriamo di fare noi, almeno qualche volta, ammettendo che gli altri possano pensarla diversamente, ma nessuno ne è immune. Noi siamo spesso in attività contro il comportamento degli altri. E questo è certo, almeno ad una prima analisi, un atteggiamento che si rifà ad alcune regolarità nostre considerate superiori a quelle degli altri. E se le cose stessero solo così, saremmo anche noi esseri spregevoli e condannabili. Ma pensiamo che le cose non stiano proprio così. Vediamo insieme i perché con un poco di attenzione.

Per prima cosa, non siamo d’accordo con alcune prese di posizione che hanno la sostanza (visibile a tutti) della desistenza e dell’accomodamento. Quando siamo stati contro l’amnistia, contro la dissociazione, contro le più o meno aperte dichiarazioni di sconfitta di un metodo (quello dello scontro diretto, distruttivo ed immediato) che tutti dicevano ormai superato, lo siamo stati perché ritenevamo che non si potessero consentire comportamenti che nei fatti non solo svendevano un patrimonio di lotte che andava salvato (per quanto contemporaneamente sottoposto a critica), ma anche perché la cosa finiva per andare a cadere sulle spalle di coloro che non accettando compromessi restavano (in un modo o nell’altro) fermi e incrollabili sulle proprie posizioni. Non fu quindi questione di regolarità, ma solo questione di strategia rivoluzionaria, la quale può pure non piacere, ma resta lo stesso fondata sull’attacco e non può essere trasferita sul terreno del patteggiamento.

Quand’anche siamo stati affetti dell’irriducibile mania di restare legati al metodo insurrezionale, all’attacco distruttivo del nemico di classe, lo siamo stati – e questo ci deve per forza essere riconosciuto anche dai nostri peggiori detrattori – alla luce del sole. Quando abbiamo voluto dare del cretino a qualcuno lo abbiamo fatto senza peli sulla lingua, come quando abbiamo dato della spia a qualcun altro o del poliziotto a qualcun altro ancora.

Non credo che tutti coloro che restano legati alle proprie regolarità abbiano avuto lo stesso coraggio delle proprie azioni. Almeno di alcuni abbiamo la certezza che di comportamenti del genere si siano resi responsabili. Pensiamo, senza ombra di dubbio, che questo modo di agire (parlare dietro le quinte, giostrare maldicenze per lettera, tracciare apocalittiche descrizioni di piani e modi di agire, recitare i ruoli della polizia e degli altri strumenti repressivi dello Stato), sia connaturato a chi ha ormai assorbito l’attività rivoluzionaria all’interno di quella politica. Molti sono diventati (ma forse non sono mai stati altro) politici, ed agiscono come tali.

A loro va tutto il nostro disprezzo.

Le ragioni della distruzione

Se l’intenzione distruttiva si concretizza al di là di ogni possibile desiderio o fantasia, svella l’interna composizione contraddittoria, il ritmo alterno e insolubile della notte e del giorno. Facendo scorrere fra le dita le fragili tracce polverizzate di quello che si presentava giocattolo in sé conchiuso e sufficientemente individuato, non si può restare esenti dal coinvolgimento. Non c’è gioco che non ci giochi fino in fondo, per quanto i nostri sforzi salvifici possano costruire una piattaforma di certezze oggettive. L’apparenza della durata cede la propria maschera, si dimette dal compito programmatico di risolvere preventivamente le possibili incertezze dell’evento futuro.

Non c’è più un dietro da scoprire, un compito da analizzare e risolvere in nome d’una verità capace di assolversi dalla liquidazione che costantemente proponiamo alla realtà in nome della vita. Smettendo drasticamente l’impiego di una misura storicamente quantitativa, non vediamo più il confine solido e confortante dell’orizzonte quotidiano, per cui facciamo presiedere al governo del mondo, per quel che ci riguarda, il dubbio e l’angoscia.

La volontà distruttiva si apre alle condizioni sconfinate del mondo, all’assenza delle asfittiche misure protocollari cui siamo abituati e da cui traiamo conforto e sicurezza. Per questo motivo, senza eccezioni, ci ritraiamo spaventati di fronte al friabile venire meno delle certezze. L’imperioso gioco del mondo – scriveva Nietzsche – mescola l’essenza con l’apparenza, l’eterna stravaganza vi mischia anche noi, a caso. Il rigetto delle convenzioni è per forza movimento gratuito, in caso contrario l’interpretazione attiva di quanto possediamo viene annullata e uno scopo imposto dall’esterno torna a riproporsi, imperiosamente. Siamo così portati a credere in un movimento oggettivo della storia, un sostituto delle nostre poche forze, capace di vendicare le nostre miserie, prescrivendo scopi e realizzandoli.

Vivendo la vita fiduciosamente acritici, legati alle regole che delimitano il campo, sentiamo il flusso della tradizione penetrare in modo ragionevole nelle nostre vene, addormentarci per non farci pensare. Sappiamo in questo modo chi siamo e che cosa vogliamo, perché compiti fissati precedentemente elaborano la nostra condizione e ci fanno sapere cosa dobbiamo volere. Confondiamo in questo modo necessità con libertà, e ci accodiamo più o meno felici alla consuetudine dei mansueti. Il valore in termini di abitudine di tale sapere non va trascurato, ma nemmeno alzato sugli altari. Non appena riflettiamo un poco, eccoci assaliti dall’inquietudine. Lo stupore della nostra pochezza si abbatte sulle nostre considerazioni, mentre ci accorgiamo che ogni certezza è nulla, ogni superba fondatezza tecnica soltanto, illusione e imbroglio, quando non accecamento e disumano desiderio di dominio.

La salda sicurezza di Edipo non ha confini, come potere terreno e come sapienza umana. Eppure la peste penetra nella città e sollecita alla riflessione, e con questa all’indagine negativa, impietosa, all’inquietudine e alla scoperta spaventosa. Edipo deve cavarsi gli occhi per vedere fino alle più remote conseguenze, al di là di quei sensi che tanto palesemente l’imbrogliavano. Deve distruggere la certezza dell’apparenza per arrivare a fondatezze dapprima inattingibili. La tecnica è certo una grave violenza alla più profonda radice della realtà, a quella inattingibile qualità che la quantità strutturata allontana costantemente da sé, ricevendone involontariamente determinazione e forza. E questa violenza, produttrice di benessere e di miglioramenti, di società in cui l’uomo annega la sua grande aspirazione alla vita, richiama un’altra violenza, rigeneratrice quest’ultima, anche se non del tutto capace di porre rimedio definitivo e stabile. Non c’è pace conclusiva, questo è certo, ma un contenimento degli effetti spaventosi della genialità produttiva dell’uomo, questo sì, ed è là lo scopo della consapevole volontà distruttiva, una ricerca della realtà al di là dei giochi dell’evidenza. I trionfi della tecnica sono sempre illusori quando non accompagnati dalla riflessione critica, e nessuna scienza, destinata a tessere elogi e fabbricare arnesi, può criticarsi da sola, nessuno artefice accecato dall’orgoglio della propria opera può improvvisarsi Penelope.

Ma, per capire le ragioni della distruzione dobbiamo conoscere la realtà nell’insieme delle sue possibili aperture, dobbiamo quindi, prima di tutto, scoprire e tenere da conto le regole che la presentano come espressione produttiva in sé conclusa e razionale, regole che si possono riassumere nei suoi aspetti tecnici. Per capire il perché della distruzione, dobbiamo andare al di là delle apparenze formalmente ineccepibili del mondo, dobbiamo possedere una conoscenza del mondo più severa e negativamente approfondita di quanto non consente il rigido formalismo del linguaggio tecnico. Indirizzando verso la distruzione proponiamo atti di grande responsabilità, movimenti che superano il semplice atteggiamento del consigliare e del restare al di qua del coinvolgimento. Riflettere sulla distruzione non è esso stesso un atto distruttivo, semplice movimento preventivo, potrebbe anche tradursi in un ostacolo alla distruzione, una sorta di alibi per parlare e basta, una nuova scienza delle occasioni perdute, di spensieratezza e serenità fatte svanire fra le complesse articolazioni della chiacchiera. Il coinvolgimento comunque spazza via questi pericoli e propone il segno attivo della trasformazione, il movimento irriflesso e ininterrotto.

Vista in se stessa, la distruzione, come fattività tecnicamente precisabile, rientrerebbe nell’ambito del gioco tecnico, regole e norme, cautele e precetti, tutto qui. Eppure, proprio in questo pacchetto di conformità convenzionali, più o meno articolato, si trova il limite e l’irrealtà distruttiva. Come fare, il distruggere non si differenzia dal produrre, rientra nella manipolazione di oggetti, nel ritmico accumularsi dei significati nel mondo della quotidianità. Come gratuità di effetti, come negazione del momento utilitaristico, questo fare si capovolge in agire, o, almeno, in possibile occasione dell’agire. Non tutte le azioni sono distruttive e non tutte le distruzioni sono attive. Questo punto nodale andrà spiegato bene in queste pagine.

L’uomo ha un significato realmente umano soltanto nel caso in cui riesce a proiettarsi verso la libertà. Il movimento verso questa prospettiva profondamente diversa, realizza gli aspetti più importanti della vita di ognuno di noi. Ritraendoci nel ritmo accumulativo dell’ordine costituito, nel fare coatto che ci cristallizza in ruoli e stati ben fissati, fuggiamo alle nostre responsabilità e quindi non ci realizziamo in quanto uomini, accontentandoci di diventare specialisti in qualcosa, magari in semplice sopravvivenza. Questo progetto vitale viene spesso nascosto e ignorato. Nascosto con mille artifici involontari, ignorato attraverso il rifiuto della possibilità di rivelarsi a se stessi per quello che si è. Cogliendo gli aspetti mortali che costellano la realtà sociale, strutturalmente allineati nelle realizzazioni tecniche del potere, ci si vede come riflessi in uno specchio deformante, capace di proporci soltanto l’immagine di un’infallibile sicurezza. Si tratta di quelle interpretazioni consolidate che l’ideologia di turno, dal pulpito del dominio, impone come essenziali. La felicità si confonde in questo modo con l’appartenenza ad una cosca mafiosa, ad un gregge politico, ad un’élite intellettuale qualsiasi. Una ben triste difficoltà.

Una grande serietà d’intenti pervade la produzione coatta di quel mondo di oggetti dove anneghiamo, oggetto fra gli oggetti, scomparendo come uomini e riapparendo come produttori. Tutto quello che è privo di senso, rifiuto del massiccio intervento recuperativo, appartiene di già all’allucinata storia della distruzione. Perfino alla storia della distruzione di noi stessi. L’abbandono degli scopi catalogati contrassegna un’attività dissennata, negatoria e senza scopo. Nel momento in cui gridiamo più forte il nostro impegno umano e sociale, prendiamo l’aspetto contorto di chi declina ogni impegno e cerca di chiamarsi fuori. Tutti sanno che chiamarsi fuori è impossibile, ed è per questo che l’attività distruttiva viene indicata come un rifiuto delle coordinate sociali, quindi della vita umana in generale. L’ideologia dominante disegna le delimitazioni con tratti fortemente marcati, e non ci pensa più.

Ma l’attacco distruttivo, non intimidatorio, ma coerentemente diretto contro le concretizzazioni del potere, è tutt’altro che un chiamarsi fuori, è l’espressione di uno schema di vita diverso, un’apertura nell’immediato e non in un futuro sempre immaginato e mai realizzato, verso un mondo in cui la libertà può essere visitata con maggiore frequenza e più grande facilità, anche se non raggiungibile una volta per tutte, in maniera definitiva. E questo mondo lo si tratteggia proprio in quegli attacchi, segno del rifiuto e della critica negativa, qui e subito. Per il momento pause isolate e discontinue, qualche volta soltanto momenti di distensione per riprendere le forze, ma sempre azioni leggibili in una fase prospettica, in cui diventano elementi di un movimento complessivo al momento soltanto ipotizzabile. Se il fare coatto pretende racchiudere tutta la serietà della vita quotidiana, lo faccia, rivendichiamo allora la matrice ludica dell’atto distruttivo. Che questo universo distruttivo appaia come inautentico a qualcuno, premuroso di misurare in termini quantitativi, risultati e scopi da raggiungere, crescite di partiti e movimenti, ciò è comprensibile. Lasciamo pertanto ognuno alle proprie preoccupazioni.

Molti aspetti ludici della vita sono di grande importanza, basta pensare al gioco dell’amore, per esempio, e spesso vengono ricondotti alla serietà commerciale solo per smussarne le parti più pericolose. Il recupero della distruzione è senz’altro possibile, ma esso risulterà tanto più difficile quanto meno programmatica in termini di scopo si presenterà la distruzione stessa. La finalità che qui si cerca di suggerire è pertanto indiretta, necessariamente non leggibile all’interno del gesto, ma ricostruibile nel rapportarsi diretto di chi realizza l’atto distruttivo. I protocolli si sospendono, quindi nessuna valutazione appare pertinente, se non come misura repressiva o brutalmente poliziesca. Gli effetti non sono visibili, al di là delle ceneri che appaiono come momenti staccati, produzione ineliminabile di oggetti consegnati alla cronaca del fatto inserito nell’atto distruttivo stesso, essi scompaiono in un tempo vuoto dove viene risucchiata anche l’inquietudine del fare coatto, dove emergono le componenti decisionali sulle quali sarà possibile programmare altri interventi distruttivi. La distruzione si estranea quindi dall’ambito della coscienza conservatrice e ordinatrice, per qualificare liberamente un momento della nostra vita diverso dagli altri, un momento in cui diciamo no radicalmente alla responsabilità che abbiamo nel consentire l’unità del processo produttivo che ci opprime e ci soffoca. Questo no, radicale nel suo vuoto contenuto, getta le basi per la costruzione di una personalità libera, qui, nell’immediato stesso dei compromessi e delle parzialità. Si tratta, come tutte le qualità, di qualcosa di transitorio, di balenante, che dobbiamo lasciare andar via se vogliamo che di essa permanga traccia, segno da seguire per continuare altrove, in un altro momento, il nuovo itinerario della diversità.

L’assenza di contenuto diventa in questo modo capace di procurare un modulo trasformativo della realtà, a partire dalla nostra vita quotidiana, dove entrano rapporti e valutazioni, ritmi e misure profondamente segnati da una sorta di parafrasi della serietà fattuale, quella che continua comunque a comprimerci nella produzione del fare coatto. Che strano carattere ludico è mai questo? Che strana mancanza di serietà, se tutto prende improvvisamente un senso profondamente serio, anche il gioco d’ombra che si delinea alle nostre spalle? Quindi quel tempo vuoto era vuoto per la mancanza del senso di pienezza, e di panico, che dà la vita intenta a scorrere, gli anni che passano e il profilo disgustoso della morte nascosto accuratamente dietro l’accumulo delle piccole conquiste giornaliere, risoluzione di problemi importanti, successi in carriera, o semplicemente la soddisfazione d’avere ancora una volta sbarcato il lunario. Quindi non era vuoto, ma pieno di una irrealtà ricca di conseguenze, una negazione critica, non semplice apparenza, un solido riferimento al di là di tutto ciò che continua a pretendere il monopolio dei riferimenti e delle distinzioni.

Il concetto della vita come imitazione di un modello ideale, più o meno vicino ai presupposti convenzionali fissati dalla società, ha dominato fino ad oggi l’orizzonte del mondo produttivo fondato sull’industria. Una realtà che s’avvia a fare a meno di questo mondo produttivo, sostituendolo con un modello differente, molto meno rigido e quindi più adatto a improvvise modificazioni, propone da per se stessa una critica ad ogni mimesi, ad ogni riflesso o rispecchiamento. Ma questa critica non basta, anzi, da sola, essa è funzionale al recupero del consenso, al ristabilirsi dei rapporti di dominio nel mutare delle condizioni complessive. Restiamo prigionieri di queste ingannevoli, e per molti aspetti affascinanti modificazioni, se crediamo che la distruzione sia riconducibile semplicemente ad un’apparenza derivata, ad un riflesso ulteriore, una parentesi dentro cui gestire il sovraccarico di tensione, l’insieme pericoloso degli istinti di rivolta.

Con questo non vogliamo ingannare nessuno, né ingannarci personalmente intorno ad una presupposta possibilità limite della distruzione, un riverbero del conclusionismo progressivo semplicemente capovolto. La vita è proprio questo guardare alle possibilità non sfruttate, a quello che si è lasciato perdere, perché soltanto alcune di esse erano e sono possibili, mentre le altre erano e sono soltanto potenziali. Ciò accade anche per l’azione distruttiva che sprigiona solo alcune delle sue possibili potenzialità, sviluppando una parte delle relazioni complessive e a queste dando sollecitazione e significato. Il resto viene messo da parte, spesso bruscamente, e guardando indietro ci rammarichiamo di quello che si è perduto, perfino a volte della stessa paccottiglia produttiva che è andata in fumo, perché siamo sempre fatti alla stessa maniera, condizionati dall’atmosfera e dalla spinta del fare coatto e in questo mondo dell’effimero continuamente ci riconosciamo come oggetti e rimpiangiamo di non essere altro che oggetti. Ma l’esaurirsi delle potenzialità praticamente illimitate nelle pur semplici possibilità raggiunte, ancor che nella distruzione viene a mancare l’elemento dello scopo e del calcolo politico, riconferma l’inesorabile legge della vita, il fiero ripresentarsi del limite che tutti ci contrassegna.

Osservando bene, però, anche nell’ambito della nostra pochezza, la distruzione legge più avanti nel novero infinito delle possibilità e indirizza meglio nella distesa sconfinata, e per molti aspetti desolatamente sconosciuta, del mondo non definito e quindi non vincolato dalle norme della ragione dominante. E lo fa perché nell’azione distruttiva ci liberiamo di tutti i significati pesanti della nostra storia, scegliendo creativamente quello che vogliamo essere, almeno per un momento, ricollegandoci a tutti i desideri di tutti gli uomini liberi che sognano questi territori sconfinati, ma non sono capaci di mettervi piede. La distruzione ci porta quindi in uno spazio e in un tempo immaginari, vuoti di contenuto, per le regole del gioco autoritario del tutto privi di valore, anzi spaventosamente antitetici ad ogni valore riconosciuto. Ma il brusco segnale di questa privazione corrisponde al venire meno proprio di quegli schemi convenzionali che ci hanno oppresso e racchiuso per tutta la vita. D’accordo, questo venir meno non dura, non ha spessore temporale o spaziale, ma ha spessore vitale per noi che lo cogliamo ponendolo in atto. La spaventosa conseguenza, per i preoccupati custodi del tempio, è proprio questo venir meno, non il suo stabilirsi su basi concrete, che finirebbe per proporre irrimediabilmente una gestione del potere con tutti i presupposti del consenso e della gestione.

Esistono comunque due momenti specifici nei quali l’azione distruttiva, venuta radicalmente a perdere il suo contenuto di verità, ricade come proposta concreta, positiva, non più criticamente negativa, nell’ambito delle distinzioni sociali vigenti nel campo, nella vita quotidiana. Ci limitiamo qui a indicarli in maniera diciamo programmatica.

Il primo riguarda le condizioni che l’azione distruttiva trova, il secondo quelle che lascia dopo il suo realizzarsi. Nessun velleitarismo. L’uomo vive nel mondo come un ospite estraneo. I suoi interessi spesso sono sollecitati da calcoli minimi, d’una utilità disarmante. Ciò è consentito nell’ambito delle semplici modificazioni quotidiane del fare coatto. Chi assume su di sé il carico della scelta distruttiva deve operare diversamente, cogliere relazioni e raccordi, significati e intenzioni che gli altri non colgono. Non può permettersi distrazioni. Non può restare cieco di fronte alle sofferenze e alle miserie. Ma non può neanche lasciarsi trascinare da un malinteso pietistico che lo condurrebbe direttamente nella trappola del collaborazionismo. La distruzione non cuce toppe, lavora molto più a fondo e non è facile cogliere le ramificazioni indirette che la spiegherebbero perfino alle ottusità interessate dei filistei.

L’accesso logico alla distruzione

Prima di tutto il superamento degli ostacoli logici, radicalmente connaturati alle difese dell’antica costruzione culturale, sulle quali la società fonda il proprio tessuto connettivo. La metafora della vita, distruzione primaria essa stessa, attutisce qualsiasi contrasto. Possiamo convivere con la distruzione. Non è in fondo il processo vitale che ce lo suggerisce? Si può pensare ad una giustificazione più rigorosa e netta? Non c’è forse qualcosa dentro di noi che ci distrugge continuamente, facendoci vivere? anzi costituendo il passaggio fondamentale tra la morte e la vita, tra la confusa genericità dell’esistenza e la specifica possibilità di questa mia esistenza, con le sue irrimediabili caratteristiche?

Ma la metafora biologica nasconde sempre un pericolo, una crux rationis, come ho dimostrato molti anni fa. L’accumularsi compiaciuto delle condizioni della nostra esistenza quotidiana, il rispetto con cui ne osserviamo i ritmi e le scansioni della normalità che la contraddistingue, non ricordano più l’intima lotta tra la morte e la vita, appaiono cristallizzati dietro il dèmone della maschera, mentre l’elevazione mitica del vissuto, del posseduto, ci rimanda una realtà fuori misura, statica nel suo riflettere l’immagine dell’acquisizione gratificante, del riconoscimento sociale, dell’utilità scambiabile sul mercato.

L’accesso logico alla distruzione va individuato quindi per due vie. La prima, individuale, è data dalla rottura dell’area sacra del tempio, l’isolamento dalle produzioni di utilità; la seconda, collettiva, è data dalla risposta corrispondente ad ogni singola “rottura”, in termini di aspirazioni generali all’ordine e alla ripetitività.

Nel progetto distruttivo si conclude, arrestandosi, ogni sacralizzazione, il dèmone dell’incompiutezza prende il sopravvento, assegnando nuovi parametri al progetto, astratti momenti di una verità sempre sul punto di essere colta e mai definitivamente conclusa. La distruzione, se conclusa in sé come progetto assegnato, non corrisponde più al discorso che stiamo facendo, come qualsiasi lavoro distruttivo di un qualsiasi artificiere chiamato a buttare giù una casa secondo le regole d’arte. E non vi corrisponde perché non vuole essere apparenza distruttiva, ma reale distanza dal prodotto, anche da un qualsiasi ammasso di macerie misurabile a metri cubi.

L’indizio più consistente di questa irrealtà della distruzione è dato dalla sua lontananza dalla possibile spiegazione corrente, almeno in termini di effetti distruttivi. L’incepparsi del meccanismo della quotidianità, nella sua instancabile, e inarrestabile, capacità di produrre oggetti, non è lo scopo essenziale della distruzione. I movimenti dell’apertura individuale sono fusi inestricabilmente con questo meccanismo che, ad una lettura immediata dei risultati, non permette di cogliere differenze tanto sottili. Il sogno di Faust era quello di separare la realtà dall’apparenza, ma gli strati dell’apparenza non sono soltanto “superfici” della realtà, sono essi stessi realtà, quindi, una volta scalzati, anche la realtà ne risulta scalfita. In fondo, è di questo che l’uomo ha paura, che gli si portino via, a un livello profondo, le sue apparenze, quelle che gli garantiscono una vita in catene, ma comunque una vita quale che sia, sempre meglio di un turbinoso caos, dove apparenza e realtà si mescolano insieme dando al giorno l’irrealtà della notte.

Ma l’uomo è in grado di capire questo rapporto tra distruzione e produzione solo spezzando il cerchio reclusorio del fare coatto. In caso contrario, perdendosi nel dettaglio non vede più la realtà, ma l’immagine di questa, fornita dai laboratori del potere. Le sue iniziali propensioni verso la diversità, si acquietano nel modulo quotidiano della vita, nella serietà delle cose da fare, nella responsabilità del ruolo che impone comportamenti e attende risposte. I due aspetti della distruzione, individuale e collettivo, si riverberano reciprocamente, lasciando che l’estasi giocosa del singolo venga codificata dalle tematiche antropologiche della collettività armata di buone intenzioni.

Decidendo la nostra libertà, ci decidiamo noi stessi, nel nostro possibile destino, che così attivamente trasformiamo, non assistendo alla sua potente azione modificatrice nei nostri confronti. Nell’infinito e possibile numero delle modificazioni, sono poche, anzi pochissime, le occasioni veramente distruttive, quelle che non accettano nemmeno il modulato richiamo delle sirene sovversive. Ma, per venire fuori da se stesso, condizione essenziale per essere quello che si è, occorre che l’esistenza quotidiana sia ridotta alla sua naturale essenza occasionale, di ripetizione codificata. E la distruzione, che coinvolge in primo luogo il progetto che siamo noi stessi, il nostro progetto, di noi in quanto esseri singoli e irripetibili, è qualcosa di profondamente diverso da qualsiasi differente accesso alle variazioni della vita.

Nella distruzione, quando questa sia in grado di coinvolgere noi stessi, l’intelligenza del mondo si riflette nelle scelte di vita che conduciamo, non proprio in tutte, che sarebbe impossibile e disumano, ma almeno in alcune essenziali, punti di raccordo e di snodo per possibili scelte future. Così, l’atto essenziale dell’uomo è la distruzione, intesa come progetto trasformativo della propria vita e di quella degli altri, lettura trasformativa della vita attraverso l’intelligenza degli altri, il livello collettivo di universale corrispondenza vitale al di là dei simboli e dei codici.

Che la distruzione venga condannata come apparenza è fatto assodato. Una copia rovesciata della costruzione, un banale riflesso, anticamera di progetti ricostruttivi. Quello che sta dietro alla distruzione, quando viene a prendere corpo è assai simile alla morte, alla negazione della vita. E, difatti, essendosi la vita ricondotta alla passività della morte, quando al contrario si anima e si muove, finisce inevitabilmente per puzzare d’obitorio. Sull’irrealtà della distruzione si sono espressi in parecchi, ma l’hanno fatto solo partendo dalla realtà del positivo, delle cose prodotte e accumulate nella significatività del quotidiano. La mancanza di senso della distruzione, ha condotto tutto questo coro di angeli ad ammettere che la sola spiegazione possibile della distruzione, la sua sola legittimità, potrebbe essere quella di un’anticamera della futura costruzione. Insomma, una sorta di parafrasi alla normalità della vita, una sospensione assai simile a quella ludica, dove si ritemprano le forze per riprendere a costruire oggetti, a sognare traguardi, a imporre condizioni.

Ma, la distruzione non deve essere racchiusa solo nel fatto meramente sostitutivo, per cui alla produzione si sostituisce una sorta di produzione in negativo, all’oggetto denso di presunte utilità, un oggetto adeguato a future utilizzazioni, essa deve essere vista nel suo insieme progettuale che non ha nulla del mondo racchiuso nella parafrasi del sostitutivo. Il riconoscimento dei limiti della produzione è inizio di un’apertura a qualcosa d’altro, contatto straordinario con se stessi, individuazione di territori tutti da scoprire, dell’altro da scoprire dentro di sé. L’esperienza distruttiva è pertanto fondamentale, ed il fatto che l’uomo cerchi continuamente di fuggirla indica chiaramente l’importanza che essa mantiene come limite del mondo dei segni e dei codici, come indicazione di un mondo diverso. Nelle antiche vicende della conquista lo scontro avviene tutto al di qua del campo quotidiano, dove il senso mantiene i suoi ferrei legami con la ripetitività. Qui, l’uomo acquisisce, confeziona, conserva, custodisce, difende, possiede. Un elenco di realtà continuamente modificate solo per farle restare ferme al loro posto, possedute perché in fondo definitivamente assegnate alla morte, a quella codificazione delle specificità che annulla ogni cambiamento nella parità della sorte possibile. Nella distruzione, il contesto viene messo in discussione, riportato alle sue condizioni essenziali di possibilità negativa, di rifiuto dei codici di sicurezza. E questo accade solo se non ci si aspetta nulla dalla distruzione stessa, se non si hanno progetti possessivi basati sui risultati della distruzione, se l’oggetto da distruggere, al di là delle condizioni della fenomenologia oggettuale disponibile sul mercato, siamo noi stessi e solo noi stessi.

Prova che ci riguarda, quindi, la distruzione. E ci riguarda ponendoci al centro del mondo, di un mondo che non ha più parametri di certezza, nemmeno quella sovvertitrice del piacere, singolo, irripetibile, individuale. La spensieratezza della distruzione non accetta preliminari ordinativi, non può tollerarli sotto pena di trasformarsi in un rito di ulteriore verifica, proprio di quelle coordinate contro cui vanamente ci si indirizzava nei processi critici di approfondimento dei quali si adorna con tanto chiasso la vicenda diurna della nostra specie. E se questa spensieratezza corrisponde, per breve momento, alla gioia dei nostri sensi, anche questo è un piccolo campanello d’allarme, l’indicazione di un’uscita di sicurezza, al di là della quale stanno pronti gli imballatori di ogni ottima intenzione, i recuperatori in extremis, mentre tutt’intorno dilaga il luccichio delle apparenze e la morbida sensualità ritrovata del possesso.

Ugualmente da disprezzare è l’attitudine conservativa di chi difende i suoi piccoli guadagni, personali e sociali, insistendo in minutaglie che gli regalano soltanto sottomissione e controllo, allo stesso modo di chi attacca a fondo, pensando di andare alla radice delle cose, illudendosi di giungere al cuore di chi gli sta davanti, del nemico, e non accorgendosi di ritmare le proprie con le altrui scadenze, i propri significati con i codici dei dominatori.

La vita ha un profondo disgusto per tutto quello che sa di accumulativo, segnando in positivo quello che per lei è strettamente negativo, la quantificazione del tempo biologico proprio della specie, certamente puntiforme, evento miserrimo in se stesso, ma conchiuso e dotato di significato se visto dall’interno. Non potendo rifiutare, o, per meglio dire, non volendo rifiutare tutto ciò così su due piedi, che la cosa sarebbe sempre possibile, l’uomo si acconcia a tramutare il disgusto in desiderio e quindi descrive, prima di tutto a se stesso, con dovizia di particolari, il succedersi dei fatti produttivi, l’allucinante serie delle oggettualità, le occasioni del collezionismo mondano, per convincersi che tutto ciò corrisponde esattamente alla vita, al vivere la vita.

Ma l’uomo può veramente tutto questo? Può spezzare il cerchio delle circostanze naturali e volontarie che lo tengono prigioniero della propria coscienza? Lo può fare accentuando fino alle estreme conseguenze il dominio sulle forze che lo sollecitano alla prevedibilità e alla produzione. Il semplice scrollare il mondo non produce effetti distruttivi, costituendo spesso un vano dibattersi, quando non una fuga di fronte ad ostacoli più grossi di noi, giudicati insuperabili. L’accettazione dello scontro invece conduce, se non si vuole soccombere, e di queste vicissitudini farsene una pena, all’apprestamento di mezzi idonei. E questa parte costruttiva, pur non possedendo, presa in se stessa, migliore giustificazione di tanti altri aspetti della monotona vicenda produttiva, è lo zoccolo duro della distruzione. Capire la realtà è un passo verso la sua accettazione, gratificazione, consenso e tutto il resto, ma è anche un passo che propone una possibilità ulteriore, la rottura con lo stesso processo di comprensione, la riduzione di quest’ultimo a faccenda meramente strumentale, il prosieguo diverso in direzione vietata. E tutto ciò non ha compartimenti separati, ma costituisce un movimento unico dentro cui le spinte all’apertura vengono quasi sempre viste come perturbazioni e velleità da appianare.

Quindi, sacrifichiamo la completezza del sapere, la sua unità, il formalismo del linguaggio, lo scheletro radicale della ragione e perfino l’unitaria coerenza della filosofia. Sacrifichiamo tutto e andiamo avanti. Se qualcosa resterà sarà utile per l’azione, in caso contrario avremo scritto un avventuroso romanzo. Comunque, qui dobbiamo limitarci a verificare se esistono le condizioni per un accesso logico alla distruzione e se è possibile dire qualcosa in merito. Restando nell’ambito di un problema linguistico, devo ammettere che questo accesso logico non può essere descritto. La conclusione è negativa in assoluto.

Non è tanto un problema di tecnica filosofica, ma proprio di accettazione di protocolli o di rifiuto degli stessi. Rifiutandoli, il linguaggio cade. Resta solo il silenzio. Accadrà allora quello che predisse Lucrezio, che ita res accendent lumina rebus, che così le cose illumineranno le cose? Non lo so. Né si tratta di una questione d’élite, cioè di illuminati e privilegiati in grado di capire quello che gli altri non capiscono, perché la necessità di questo accesso l’avvertiamo tutti, senza eccezione, e tutti sappiamo cos’è e come si contrappone alle regole che tutti ci opprimono. Spesso quello che è difficile è capire proprio queste regole e il meccanismo della ragione che le utilizza per spiegare ogni cosa a propria immagine.

Dobbiamo qui ammettere, senza pudori, che alla base di qualsiasi rifiuto della produttività quotidiana ci sta l’inquietudine, esperienza che facciamo tutti e che non riusciamo a risolvere se non acquietandola o sconvolgendola. Solo nell’ipotesi dell’acquietamento interviene la ragione a fornire giustificazioni a posteriori. Nella fase crescente dell’inquietudine, non c’è discorso che tenga, sullo sfondo c’è solo l’intuizione, un prevedere le vicende dell’accadimento prima che la recita abbia inizio, come la prescienza di chi va a teatro avendo letto la commedia che si reciterà. Questa intuizione ci permette di avere il sospetto che dietro la realtà accumulata e i movimenti della coscienza immediata, sulla cui acquiescenza ci addormentiamo ogni notte, ci può essere un’altra realtà che la ragione nasconde e non svela come invece sembrerebbe. Questa realtà l’avvertiamo nei nostri movimenti vitali, nei desideri, nelle idee confuse che spesso si sovrappongono alle riflessioni codificate, nei sentimenti, nei bisogni, tutti elementi che spesso sono a portata di mano e che ci affrettiamo a protocollare per fornire loro un visto d’entrata in questa zona della realtà, pur sapendo benissimo che dovrebbero poter liberamente restare altrove, in quella regione assolutamente ignota, il cui accesso spesso avvertiamo gelosamente custodito proprio da coloro che dicono di essersi assunti il compito di fare chiarezza e pulizia. C’è forse qualcuno che non ha avvertito ciò? Che non lo ha capito, anche senza saperlo spiegare, mille volte nella propria vita, in mille occasioni differenti? Qui non si tratta di intuire essenze o princìpi d’identità, si tratta al contrario di intuire un sospetto, l’esistenza d’un imbroglio e di una realtà artefatta, fabbricata, che è quella stessa nostra realtà, quella a cui diamo una mano e un sostegno, non quella del nemico, perché il nemico siamo anche noi stessi.

Ma come tradurre tutto questo in parole? Come dirlo? Occorre un linguaggio diverso, anziché un protocollo e un raccordo di convenzioni. Occorre un linguaggio concreto, essenziale. L’unico linguaggio che conosco, il quale può avvicinarsi a questo livello di completezza è me stesso, la mia totalità personale, la mia vita individuale, singola e irripetibile. Per dire la diversità, momento indispensabile della distruzione, occorre il mio coinvolgimento, il mio rischio personale. Questo linguaggio non si può forse articolare nelle infinite modulazioni del linguaggio della ragione, ma ha su quello un privilegio non piccolo, è un linguaggio che non ammette recuperi contraddittori.

Questa condizione personale coglie l’inquietudine come mezzo dell’intuizione, come possibile svolgimento del rischio che si è iniziato a correre. Pertanto, dal momento in cui il coinvolgimento è in atto, l’apertura all’azione distruttiva diventa possibile perché l’inquietudine sta svolgendo il suo discorso di rifiuto di ogni riassorbimento e acquietamento. La precarietà della condizione inquieta può essere facilmente razionalizzata, ma solo come richiamo all’ordine. Rinunciandovi, si propone un discorso diverso, che è discorso e linguaggio in atto, capacità di esprimersi non traducibile in codici in quanto nell’espressione stessa è negazione del codice, assoluta mancanza di coordinazione, altrove puntuale. La ragione giudicante non può fare altro che prenderne atto e iniziare le pratiche di criminalizzazione.

Gli aspetti segnici di questa comunicazione in physiologicis sono le modificazioni concrete che la coscienza immediata subisce, che il corpo manifesta, non le parole che eventualmente vengono espresse, come per accidente. E queste modificazioni non tardano a presentarsi. La cognizione della distruzione brucia l’inquietudine, spingendola fino alle sue massime possibilità. Senza nessuna forza di recupero, essa divampa nella vita e nell’agire dell’individuo. Non passa certo inosservata. Il corpo stesso avverte un profondo cambiamento reagendo spesso, per quanto non si possa dire in quali modi precisi, somatizzando decisioni e pensieri, producendo sostanze, alimentando o combattendo situazioni patologiche e così via. Il coinvolgimento comincia a parlare la sua lingua. Bisogna però capirla, cosa che non sempre è facile. Ad esempio, ho spesso detto che la coscienza diversa, se non agisce finisce per distruggere se stessa. Ed è vero, in quanto il coinvolgimento vuole spazio alle proprie motivazioni. Se non trova questo spazio se lo ricava al proprio interno, macerandosi e rifiutando di accettare acquietamenti.

Il linguaggio che esprime questa diversa condizione della coscienza è quindi assolutamente estraneo alla ragione. Allo stesso modo in cui quest’ultima è pacificazione anche dei contrari, il linguaggio della distruzione è dilaniamento. Il mito di Dioniso, dilaniato dai Titani, simboleggia qui il rapporto antitetico irrimediabile tra diversità e immediatezza, tra rottura del mondo e sua accettazione codificata. La vita, come realtà, si contrappone nel mito all’artificio, che è vita anch’esso, ma immiserita, ridotta alla funzione utilizzabile della cosa, all’oggetto, all’impoverimento dell’utilità, pur tuttavia necessaria alla vita stessa. Il dilaniamento spezza il rito e consente alla vita di ripresentarsi continuamente come trasformazione, nel senso visto bene da Eraclito. Non eternità statica, ma eterno movimento.

Elemento essenziale di questo nuovo linguaggio diventa il gioco, l’inutilità del tragitto, almeno in termini di possesso e accumulazione, e questi elementi sono simboleggiati come segni nel mito stesso di Dioniso, nei giocattoli, nella palla specialmente, ma anche nei dadi e nello specchio. Il vero discorso è quindi non interessato, non può proporsi un obiettivo preciso, quantificabile, se ne deve allontanare radicalmente, come se ne allontana il gioco. Ma lo deve fare senza una regola, quindi senza la regola che governa anche il mondo dei giochi, per questo i giocattoli del dio dilaniato sono sparpagliati accanto alle sue membra disiecta.

Non è questo il luogo per approfondire l’analisi su Dioniso che mi propongo di sviluppare in altra sede, qui penso solo di impiegare alcuni elementi di quell’analisi che possono far comprendere meglio le condizioni di un possibile linguaggio della diversità, per come si possono ricavare dal mito in questione.

La vita, come insieme di condizioni molteplici che bisogna sciogliere, dipanare fino in fondo, preclusioni all’ingresso, fulcro attorno al quale girano le negazioni dell’obbligo, incertezza e panico, rappresentazioni corpose di apparenza, riflessioni da cui non ci si può allontanare; duplicazione all’infinito, lo specchio, una molteplicità inestinguibile, capacità di relazionarsi al di là di qualsiasi affievolimento; affermazione della nozione di necessità, ma non come obbligo imposto dalle regole, proprio come assenza di regole.

Le regole del fanciullo sono quindi sospensione delle regole dell’adulto, quelle del potere. Sono godimento e libertà, ma, nello stesso tempo, dolore e morte. Dioniso non è soltanto il dio del ritorno eterno, dell’eternità come vita che non muore mai, è anche il dio della morte, il segnale della follia. Dioniso è il dio folle, il suo arrivo segna l’eccesso, il contemporaneo segno del godimento e del dolore, della gioia e della sofferenza, del gioco e dell’oppressione. Solo che questi momenti non sono traducibili nelle parole della ragione, in quanto non corrispondono i rispettivi contenuti. Il fanciullo gioca, e giocando comanda. Il folle sragiona, e proprio sragionando indica la via. Il massimo del godimento travalica nella sofferenza e questa richiama nel ricordo la gioia. Chi non ha provato il dolore non può accedere alla gioia. La necessità del comando del fanciullo si distingue profondamente da quella dell’ordine imposto dalla ragione.

Tutto ciò non deve essere inteso come correzione di quanto c’è di errato nell’ambito accumulativo. Un segno pedagogico qui sarebbe fuor di luogo. La diversità ha un linguaggio proprio e intraducibile, in cui i protocolli temporali e spaziali sono stravolti. La contemporaneità di vita e morte, ad esempio, non è da considerarsi come presenza dell’una ed assenza necessaria dell’altra, ma proprio come compenetrazione reciproca, come impossibilità della vita senza la morte, e viceversa. Non si tratta di un’allegoria della realtà, quella per intenderci della produzione che viene di tanto in tanto sospesa dalla fantasia, guardando il cielo attraverso i vetri appannati della finestra, per riprendere coraggio e continuare a produrre. Nessuna allegoria. Nessun messaggio è possibile da questa parte. Questo genere di bisogni non ha nulla a che vedere con il genere che dilaga dall’altra parte. La distanza è tale che non esistono mezzi di comunicazione.

Nessuna analisi può essere realmente utile alla distruzione, ma è quest’ultima che costituisce l’analisi nella sua stessa vicenda, proponendo a se stessa sbocchi e conclusioni, prassi e deduzioni teoriche. L’arretramento della riflessione analitica fa paura, quindi produce condanna e disprezzo verso tutto quello che non rende possibile l’analisi stessa. Ciò indirettamente riconferma proprio la limitatezza della ragione e le sue costanti preoccupazioni di controllo. L’aperto riconoscimento, tutto immediato, dell’instaurazione definitiva dell’inquietudine nell’ambito della coscienza fattrice, porta come conseguenza il sospetto nei riguardi di tutte le pratiche di sistemazione e accomodamento. Ogni distinzione, come quella classica tra gioco e lavoro, è significativa al massimo, in quanto indica la coscienza immediata come afflitta da una malattia insanabile, quella della paura. Kant distingue il gioco dal lavoro in questo modo: “Il gioco è un’occupazione per se stessa piacevole e non abbisogna di altro scopo”, mentre “il lavoro è un’occupazione di per se stessa spiacevole, penosa, e che attrae soltanto per il risultato che promette, ad esempio, per la ricompensa”. Queste definizioni non hanno bisogno di particolari commenti per denunciare la spaventosa piattezza della filosofia analitica e di ogni pensiero che concorre a sistemare il mondo.

Il passaggio a considerazioni più appropriate del problema del gioco richiese il superamento di considerevoli difficoltà. Sospetti nei riguardi della possibile appartenenza ad un dominio differente della ragione ce ne sono sempre stati, poniamo nelle considerazioni di Schiller riguardo l’animale che gioca solo nella pienezza delle sue forze e della sua esuberanza vitale, ma non erano sufficienti. L’utilizzo pedagogico del concetto, con i suoi scopi normalizzanti, disperse poi del tutto le possibilità iniziali, che erano per altro modeste. In tempi recentissimi alcuni autori hanno parlato del lavoro che dovrebbe trasformarsi in gioco per essere così liberamente accettato, dimostrando in questo modo di non capire cos’è il gioco.

Il gioco è condizione altra regolata in maniera diversa, comando giocondo, reggimento posto nelle mani di un fanciullo, sparizione della necessità e permanenza dell’obbligo, perfino della sofferenza, del dolore e della morte. La produzione ha potuto codificare tutto questo nell’ambito del gioco del capitale, ma fino ad un certo punto. Non sono pochi coloro che giocando muoiono, dal pugilato al “salto del coniglio”. Mettere la propria vita in gioco è atteggiamento della coscienza immediata, ma non ha nulla a che vedere col coraggio del coinvolgimento che gioca diversamente. La spiegazione di questa differenza sta in una concezione differente della violenza.

Una filosofia relazionale consegna l’uomo alle sue responsabilità, non gli conferisce acquisizioni definitive o tranquille pensioni di vecchiaia. Gli fa capire, nei limiti di queste cose, che fuggire dal carcere è sempre possibile, anche se non c’è nulla di sicuro, né nella fuga, né nelle conseguenze della fuga. Ma di già, la fuga in se stessa, la fuga verso la libertà, è segno di vita, di vitalità e di gioia. La sottrazione al produttivo contingente, che schiaccia con le sue regole fenomeniche prevedibili e sostanzialmente previste, è un bisogno essenziale. Le sacche di parcheggio, appositamente costruite dal meccanismo produttivo, per ritemprare le forze, sono un espediente meschino, una formula concordiae.

Pertanto, come ogni pensiero umano che vuole servire realmente per muoversi verso la libertà e non per nascondere l’horror vacui, deve rifiutare, dichiararsi contro, negare quello che viene presentato come mundus intelligibilis, e con lo sviluppo di una reale critica negativa, delimitare seriamente i confini della ragione, ingenii limites definire. Questo non è un compito, simile agli imbrogli metafisici che la scienza del pensiero assegna ai dissidenti, mettendoli dietro la lavagna. La comunità resta sempre integra e salva, le sfumature della diversità sono soltanto messe tra parentesi, al resto si provvederà dopo. Questo invece è un compito completamente differente che rifiuta ogni concezione octroyée del potere.

Attenzione alla polemica sull’aristocrazia del pensiero, poniamo com’è condotta da Hegel. L’uniformazione della ragione, così come si vede nella produzione modificativa, nella costituzione dell’oggetto, è certamente valida per tutti e quindi tutti unifica sotto il minimo comune denominatore. Ma questa è l’uguaglianza del terrore e del bisogno, la miseria a cui tutti ci dobbiamo sottoporre in nome d’un principio di fraternità verso i nostri fratelli poveri. È su queste idee che sono state costruite le peggiori tirannie, ed è proprio in nome della virtù che la ghigliottina ha funzionato senza interruzioni. Dobbiamo portare tutti al massimo livello di libertà, non ridurre la libertà al minimo livello perché non ci siano privilegi. Questo secondo ragionamento purtroppo è l’unico che la ragione può fare.

Rifiutare i protocolli e le convenzioni significa rimettere tutto in discussione, quindi rendere difficile la vita a chi, per motivi tutti suoi, l’ha di già tanto difficile. Purtroppo, non ci sono altre strade. L’appiattimento sacrifica tutti al livello del più debole, mentre dobbiamo fare carico al più forte di trascinarci con lui, non come guida ma come segno o livello di quello che le possibilità umane possono raggiungere. Solo che quello che il più forte ci dice, con i suoi sforzi e le sue realizzazioni, non deve essere inteso nell’ambito della logica analitica, perché allora comprenderemo solo la sua funzione di leader, di capo, di guida, e non al contrario la sua natura umana che si sforza per andare al di là. Se lui stesso propone un modello razionale della propria vita, allora il re torna ad essere nudo, e senza volerlo denuncia i suoi scopi di dominio. Tutto quello che fa, l’uomo con maggiori possibilità, nello stesso tempo lo deve negare, cioè rifiutare come costruzione e come acquisizione, come accumulo per la vittoria, considerandolo solo vittoria per la sconfitta. Così, a prescindere dai progetti specifici cui si è dedicato, egli costituisce un parlante della diversità, egli stesso diventa un linguaggio diverso.

Così la critica radicalmente negativa viene sempre vista come la negazione di ogni capacità ragionativa, proprio perché non resta sul medesimo terreno della ragione, ma vi si contrappone dall’esterno, utilizzando materiali che se all’origine appartenevano alla quotidianità, qui restavano solo come negazione apparente, contraddizione riassunta e superata nell’ambito del meccanismo della ragione stessa. La diversità è coscienza di se medesima nella ristrettezza dell’esperienza che sta facendo, la quale per quanto vasta non può dirsi capace di riassumere in sé tutti i movimenti del reale, almeno non a livello cosciente, ed anche sotto questo aspetto metodologico, di attività circoscritta, si contrappone all’oggettualità del fare che nel singolo pezzo prodotto riassume l’interezza del mondo.

Difatti, fabbricato un oggetto si può dire che si siano fabbricati tutti, nell’utensile dell’antico uomo c’era la logica della moderna protesi tecnologica, e c’era per intero, cioè c’era la corrispondenza a certi protocolli, se non altro di effetto e di causa. Nell’esperienza interpretativa e trasformativa, ogni movimento è una novità, e il nuovo, secondo Baudelaire, è fratello della morte. Così, ogni movimento non ha dentro di sé uno scheletro protettivo che lo sorregge nei momenti di bisogno, giustificandone anche gli aspetti contraddittori. L’esposizione al fallimento è perciò totale. Ad ogni minima incertezza del coinvolgimento, tutto ripiomba nell’immediatezza, dove le cose si possono sempre sistemare. Qui, la certezza è a portata di mano, proprio perché interna al meccanismo della ragione, il quale deve garantire contro ogni dubbio il funzionamento del processo.

Il peccato fondamentale di tutti i tentativi fatti al di fuori degli obiettivi della ragione, obiettivi di controllo e normalizzazione, è stato che si è preteso utilizzare lo strumento a fini differenti, cioè si è cercato di ragionare in maniera non ragionevole, cosa evidentemente impossibile. Anche nelle tesi più stravaganti, si è cercato sempre di individuare un fondamento di ragionevolezza, pensando in buona fede di dar loro una consistenza che ne avrebbe garantito l’accettazione nel mondo della logica, e non accorgendosi di preparare proprio l’elemento su cui l’attacco della logica si sarebbe diretto per distruggerle. Non dico qui che ogni stravaganza ha la sua fondatezza. Ve ne sono semplicemente di futili, e devono essere guardate come passatempo e romanzo, ma ve ne sono che propongono interessanti diversità, solo che sprecano tutto cercando di garantirsi col sostegno delle convenzioni protocollari.

Se si vuole dire non quello che sta accadendo in un meccanismo irreprensibile, per come è organizzato, ma quello che si desidera veramente, al di là di qualsiasi garanzia, perché ci si sente esclusi da questo sogno lontano proprio da tutto quello che ovatta e racchiude, non si può fare affidamento sulla parola della ragione. Se si vuole capire la vita bisogna viverla, non farsela spiegare. La vita è anche la ragione, ma in minima parte, proprio quella parte che l’uomo ha ingigantito per farsene un’ancilla theologiae, una scorciatoia per arrivare al bisogno di tutela e di sottomissione che si sente quando le cose si mettono male. Ma il desiderio di vivere è un’altra faccenda, sta del tutto fuori della ragione e l’orgogliosa intenzione accumulativa dei produttori di oggetti ha cura di tenerlo sempre a distanza, perché non riconducibile se non in effige alle norme della razionalità. La vita non è nei meccanismi di non contraddizione, non ci sono procedimenti o movimenti fissati in precedenza, sempre identici fra loro, che possono garantirla. Non c’è fatto banale che non coglie di sorpresa e terrorizza, non appena lo si mette a fuoco. Ci si sorprende di continuare a vivere davanti al terrore d’una simile scoperta, al riparo pietoso dell’ombra che ci sta alle spalle. Ma, in realtà, non appena voltiamo l’angolo ci facciamo riprendere dalla bellezza del sogno e dell’avventura, pensiamo che tutto ridiventa possibile con breve sforzo. Si tratta di un’illusione, ma efficace. È questo intersecarsi di movimenti, i quali hanno una rispondenza testuale con il nostro stesso corpo, che costituisce nella sostanza il linguaggio della diversità.

La ragione organizza e spiega, quindi anche rappresenta con il linguaggio, il mondo della produzione coatta, dell’oggettualità dominante. Con ciò non uccide la realtà, semplicemente cerca di cristallizzarla, per consentire la formazione e l’articolazione delle strutture e di quello che costituisce il mondo della quotidianità. Ma la vita, quindi la realtà, anche per come la si può cogliere negli aspetti più rigidi, non è questa conclusione organizzativa, essa dilaga altrove, nella semplicità del dispiegamento finalmente libero, sia pure per un attimo. Di questo aspetto non riusciremo mai a parlare con opportuna efficienza, meno che mai con l’efficienza autogiudicante della razionalità. Tutti i movimenti della diversità parlano un linguaggio qualitativo che si esprime in perenne traduzione mutuata dai simboli del quantitativo, cioè approssimativamente e difettosamente. Quello che c’è di veramente estraneo ed ignoto in ogni aspetto della realtà, non potrà mai venire alla luce, ma gli effetti della distruzione trasformativa, quelli sì, ed anch’essi costituiscono linguaggio, per chi naturalmente ha intenzione di stare ad ascoltare.

Apprendiamo in questo modo che l’uomo non vuole conoscere, ma vuole essere libero di conoscere, il che non è la stessa cosa. La conoscenza è un mezzo, la libertà lo scopo. Ma la ragione dominante non può ammettere altro scopo che se stessa. Non potendo comunque porsi alla fine del processo, ma nel processo stesso, e all’inizio, pone alla fine la verità, cioè un simulacro di qualità quantificata nel rispecchiamento della realtà.

Da un punto di vista strettamente razionale, la ragione non considera differenti realtà e apparenza, purché ambedue facciano parte del medesimo mondo convenzionale. Nell’ambito del quale la non differenza fra questi due aspetti della vita, si traduce in realtà essa stessa, e delle più consolidate, basta pensare alla funzione regolatrice dell’ideologia. Gli svolgimenti presenti del dominio hanno chiarito questa equivalenza, dimostrando arretrata la tesi nicciana che affermava fondata sull’utile la preminenza assegnata al vero nei riguardi dell’apparenza. Oggi, forse, volendo precisare meglio, il rapporto si è capovolto. Comunque, poiché di questo non si è mai sicuri, è bene dire che apparenza e realtà per il dominio si equivalgono.

La perfetta corrispondenza logica dei codici, considera conchiusa la possibilità vitale dell’uomo nell’ambito della produzione di oggetti. L’apparenza dell’accumulo possessivo, sotto la veste di riorganizzazione culturale e creazione di idee, soddisfa ogni bisogno di novità e d’invenzione. Che la vita nell’ambito di questi protocolli vi soggiorni dimezzata e costretta in schiavitù, non ha molta importanza, se non per alimentare i lamenti degli addetti al suono della lira. Ogni obiezione è considerata come non avenue e riciclata nel processo di razionalizzazione. Il fatto che la vita continua a proporre inquietanti interrogativi, viene messo da parte, fin quando non trova modo di diventare talmente pressante da non potere più essere messo via.

Il fatto stesso di restare affascinata, e sconvolta, dall’inquietudine dovrebbe gettare il sospetto fra le certezze della ragione riguardo la tenuta della coscienza immediata, del mondo produttivo come insieme compiuto ed equilibrato. Dovrebbe far pensare che le convenzioni non spiegano tutto, che le comunicazioni pervenute, da cui l’inquietudine, lasciano intendere l’esistenza di qualcosa di diverso, e che quindi la ragione non è tutta la realtà. Ma il meccanismo non è duttile, anzi è piuttosto nodoso. Ne deriva che l’unica soluzione di cui fa uso è il recupero dell’inquietudine nella rappacificazione, cioè nel tentativo di rappresentare il diverso come deviante dalla norma, quindi in rapporto sempre con le condizioni protocollari, in base alle quali, appunto, si misura l’estensione della devianza. Tutti i tentativi fatti dai gestori razionali dell’irrazionalismo filosofico sono stati diretti a trovare un metodo, ovviamente razionale, per leggere il linguaggio della vita, che secondo Dilthey, e giustamente, non può essere condotta dinanzi al tribunale della ragione.

Tutto ciò è verissimo, ma scarsamente osservato perché ognuno sente il bisogno di farsi rivedere le bucce. Un riscontro che mette l’animo in pace e garantisce per il futuro. Esistono quindi due direzioni di ricerca, se vogliamo intenderla in questa maniera. Una che dovrebbe ricollegare le testimonianze più significative di quanto è accaduto nella diversità, e che poi è stato riportato davanti al tribunale della ragione, dove com’è ovvio ha subito la condanna che si meritava; un’altra che dovrebbe esaminare i movimenti linguistici tipici della fattività coatta in un ambito d’interpretazione non più banalmente quantitativo.

Ora, per stringere sul nostro argomento, che se da un lato partecipa dell’universale bisogno comunicativo, dall’altro ha peculiarità tutte sue, c’è da dire che il linguaggio del coinvolgimento, se deve utilizzare il materiale della ragione, almeno in parte, però costruendo nell’interpretazione qualcosa d’altro con lo stesso strumento, bisogna che quest’ultimo muti significato, cioè sia capace di esprimere una differenza. Rompendo però la stretta aderenza logica che regna nel linguaggio razionale, si corre il rischio di autorizzare qualsiasi arbitrio, di rendere la parola stessa priva di significato. È questo un rischio che bisogna correre, se vogliamo scrivere un resoconto dei viaggi nel territorio della desolazione. Anche risultati deludenti hanno una loro leggibilità, che non bisogna commisurare sul parametro dei protocolli.

Ci sono delle bizzarrie non facili a capirsi nei segnali che giungono dal territorio della diversità, ma smontando dalla cattedra giudicante, possiamo imparare a leggere quei segni in base alla grammatica del desiderio, anziché a quella del sacrificio. Tutto quello che appare strutturato nell’ambito dell’immediatezza, qui viene convogliato verso una sua destrutturazione, quindi rotto, frantumato, dilaniato nelle componenti, sottoposto ad una sottrazione radicale di significato, capovolto nel suo contrario, dileggiato, contraddetto senza possibilità di recupero. Lo scatenamento del desiderio è senza limiti, ma questa illimitatezza è solo sulla carta, proprio quando ci sciolgono dalla catena abbiamo difficoltà a camminare. È una conseguenza dell’essere stati a lungo schiavi.

Ma la realizzazione del desiderio nella diversità non è fare immediato, non segue le condizioni a cui la coscienza dell’accumulo è abituata: non corrispondono i tempi, né le conclusioni. Lo scatenarsi del desiderio è preparazione trasformativa, alimento, materiale di un progetto che non si chiude nel gesto quantitativo, ma aspira alla qualità, al cambiamento radicale, alla trasformazione attiva, all’azione. Tutto quello che la diversità riesce a dire è quindi discorso d’apertura, prospettiva in vista di qualcosa d’altro, di profondamente altro, non dichiarazione in vista di un completamento immediato, di una soddisfazione del desiderio qui e subito. Ma il desiderio parla solo di se stesso, e parla in termini logici. Per quanto questi possano apparire fantastici c’è sempre una ferrea logica in tutti i desideri, in tutte le stravaganze.

Il desiderio parla di se stesso, ma accenna alla vera e propria fantasia, cioè al progetto attivo della trasformazione. Se si limitasse ad accennare a se stesso, aspirerebbe alla propria realizzazione immediata, quindi sarebbe di già segno di paura e ritiro del coinvolgimento. L’immediatezza del desiderio è la sua realizzazione nell’ambito dell’accumulo, della vita di tutti i giorni, dove in fondo qualsiasi desiderio, anche il più strano e impensabile, può realizzarsi e giustificarsi in base alla ragione. Sade docet. Quello che caratterizza il linguaggio della diversità non è quindi il desiderio, ma la traslazione del desiderio nella prospettiva dell’azione. Il vero motivo per cui il desiderio sollecita alla diversità è la sua antica origine inquieta, la sua matrice di senso, il suo contenuto immediato, sostanziale, accumulato e ragionevole. Non dimentichiamo il ruolo essenziale dell’universo modificativo nel produrre desideri e nel soddisfarli.

Quindi, non tutti i desideri sono movimenti della diversità. Una selezione preventiva avviene a livello del controllo volontario, come rimozione e cancellazione dell’inquietudine. Qui, tutti i desideri di natura quantitativa, il volere di più, vengono proiettati in una prospettiva, illusoria beninteso, di possibile soddisfazione. La libertà del progredire insieme, la produzione come fare coatto, lasciano sempre la possibilità di coprire tutti i desideri, ma in genere li soddisfano con sostituzioni e surrogati più o meno evidenti, oppure con cancellazioni preventive tramite i meccanismi di status e di ruolo che irreggimentano e prevengono.

Il desiderio che si alimenta nell’inquietudine e che la volontà combatte, ma non arriva, almeno non sempre, a controllare, è il desiderio della qualità. Ne consegue che il linguaggio di cui si alimentano i movimenti diversi sarà un linguaggio della qualità, in sostituzione di quello della quantità. Ma, come sappiamo benissimo, il linguaggio dell’immediatezza ha parole ben precise per illustrare e rappresentare la qualità. Queste parole, quasi sempre, fanno riferimento, rappresentano, i residui, cioè i valori di campo. Una critica distruttiva di questi valori svilupperà concretamente il linguaggio della diversità.

Ma questo sviluppo non può avvenire in modo diretto. Certo, può verificarsi un passaggio attraverso l’apertura di problemi di valore strettamente attinenti al quotidiano, anzi questo è il caso più comune. Domande di natura etica, quasi sempre, che tutti ci poniamo e alle quali non sappiamo dare risposta. Ma non è qui l’aspetto più importante. Il linguaggio trasmette desideri qualitativi, quindi necessariamente attinenti ai valori quotidiani, ma la ricezione deve essere mascherata. Compito della coscienza diversa è quindi quello di costruire questi camminamenti segreti, queste trappole, insomma tutto l’armamentario più sofisticato dell’interpretazione. Il linguaggio non deve parlare direttamente, se no corre il rischio della banalizzazione.

La molteplicità delle convenzioni razionali e l’estrema artificialità di tutte le distinzioni quotidiane, si riducono moltissimo nell’ambito del desiderio. Infatti, se desiderare è possibilità estesissima e dettagliata, anche al di là delle attese immediate, nel campo del fantastico questa larga estensione concerne fatti quantitativi, non desideri qualitativi. Nel momento in cui il desiderio si presenta come aspirazione violenta alla qualità, esso perde in estensione quello che guadagna in intensità. Il desiderio di garanzia, di tutela, poniamo, quello che ci spinge a desiderare di essere al sicuro in casa, geborgen, ha caratteristiche quantitative, riguardanti l’aumento delle procedure di tutela e controllo, le tecniche di difesa e tutto il resto. Come desiderio di sicurezza esso varia d’intensità con una relazione molto approssimativa, fissata con queste misure quantitative.

Al contrario, variazioni considerevoli nel desiderio di sicurezza possono determinarsi a seguito di intuizioni che fanno avvertire un senso d’inquietudine. Da questo momento, non c’è più il desiderio della protezione, ma, al contrario, il desiderio di essere liberi dal pericolo, la prospettiva di una scomparsa del senso opprimente, spesso devastante, di inquietudine, il quale, se per molti aspetti si lega ad altri movimenti dell’immediatezza, per quello specifico che stiamo esaminando può presentarsi come minaccia. Si comprende adesso perché tutti gli aspetti quantitativi s’indirizzano sempre, e non potrebbe essere diversamente, nel senso dell’accumulo. Quindi, nel caso in specie, aumento dei sistemi difensivi e di chiusura, aumento che può continuare all’infinito senza che con questo si arrivi a soddisfare il desiderio di sicurezza. Non credo che qualche chiavistello in più possa sollevare dal problema di sentirsi in pericolo. Al contrario, la soddisfazione del desiderio di sicurezza si ha proprio nell’accedere alla libertà di sentirsi finalmente senza questa oppressione del pericolo. Nelle immaginazioni di questo genere, come nelle fantasie, non avvertiamo mai condizioni di maggiore chiusura, ma proprio di maggiore libertà. Chi si sente minacciato non sogna di chiudersi in una cella, ma al contrario sogna gli spazi infiniti della libertà, gli orizzonti limpidi e chiari, dove può vedere che non ci sono minacce e che finalmente si è potuto liberare dall’inquietudine. Ogni accettazione del potere, in vista di una presunta garanzia, è sempre fatta in nome di una libertà immaginaria che si presume possa essere garantita dal dominio accettato. L’equivoco razionale sta qui. Sul piano del desiderio non si tratta di un equivoco, ma di una precisa e dettagliata richiesta, la quale viene stornata e distorta nell’ambito del quantitativo.

Prendiamo in esame il desiderio sessuale, per come spesso si manifesta nell’ambito della ragione dominante, cioè come possesso e controllo dell’altro, come riduzione ad oggetto capace di fornire determinate prestazioni secondo il proprio modello convenzionale di soddisfazione sessuale. L’inquietudine qui nasce dal fatto che sospetti vari si sviluppano in merito all’adeguamento dell’altro alle nostre necessità, puramente immaginarie. L’altro, per mille motivi che non è il caso di esaminare qui, ha sempre bisogni e desideri suoi, che spesso si adattano ai nostri solo per una mal riposta relazione di affetto, amicizia, affinità, movimenti che, a loro volta, possono trovare fondamento reale su altri aspetti della coscienza immediata, pur nella persistenza di un vivissimo contrasto di natura sessuale.

Questa condizione, talmente diffusa da potersi definire una regola del rapporto sessuale, sollecita una deformazione del desiderio, non tanto come vero e proprio desiderio fisico di soddisfazione sessuale, quanto di intensificazione quantitativa del rapporto, allo scopo di pervenire, in che maniera non si sa proprio, ad ottenere quello che fin dal primo momento si vedeva come difficile da raggiungere. Ma, nei dettagli quantitativi, nei bizantinismi tecnici del sesso, non c’è nessun orizzonte di completezza, l’estensione del quotidiano è senza limiti, e ogni proposta oggettuale ripete se stessa nell’eterna variante del modo di essere del mondo.

L’originale desiderio di possesso non può trovare soddisfazione nel quantitativo. È la classica illusione di Don Giovanni, la sua coazione a ripetere, la triste storia delle gare di Casanova. L’unica strada per il desiderio è allora quella di immaginarsi una libera disponibilità dell’altro. Desiderio che in breve cade prigioniero anch’esso della trappola quantitativa, perché si tratta solo di un capovolgimento dell’obiettivo. La libera disponibilità dell’altro verrebbe così ad essere, di volta in volta, commisurata in prospettive di natura quantitativa e non potrebbe che tradursi in un fallimento. A questo punto, il desiderio ha solo una strada, quella di vedersi esso stesso libero, libero di cedere all’altro, di farsi condurre al di là della propria presenza vigile e controllora, dove l’altro desidera, di farsi prendere per mano. La libertà immaginata come espediente quantitativo, ancora una volta si rivela per negazione della libertà, mentre il rifiuto di ogni registrazione accumulativa del quotidiano, la consegna di se stessi al desiderio dell’altro, apre un altro capitolo del libro della libertà, un capitolo del tutto diverso.

Qualsiasi desiderio è sempre desiderio della libertà, in quanto restringendosi a desiderio del quantitativo, cioè dell’accumulo, del possesso di oggetti, si condanna da sé all’insoddisfazione e al continuo rinvio all’infinito. In altre parole, ciò significa che in ogni desiderio, in fondo, sta il desiderio della realtà, l’originaria comunione con la realtà nel suo insieme. La nascita stessa del desiderio non avrebbe senso altrimenti, non nascerebbe mai, ma si verificherebbero solo adeguamenti o perfezionamenti alle condizioni quotidiane. Il radicalmente altro, la trasformazione sognata, una volta che scende nei dettagli si svaluta, diventa il fantasma del desiderio, non svolge più la sua funzione stimolante verso la diversità. La coscienza immediata sa perfettamente ciò, ed alimenta fantasmi, un’industria che produce desideri allo stesso modo in cui un’altra produce saponette.

La fame di libertà si verifica anche nella fuga dalla libertà, nella paura e nel mancato coinvolgimento, dove tutta una serie di attività linguistiche servono da copertura e giustificazione. La ragione sa perfettamente tutto ciò, e ha previsto la possibilità di un recupero del desiderio, anche della paura che è una sorta di desiderio rovesciato. Ma la quantità non soddisfa la fame di qualità. L’uomo della diversità avverte desideri come l’uomo del quotidiano, difatti non si tratta di due uomini, ma di uno solo. Comunque, il desiderio può essere, esso stesso, come unità simbolica, trasferito nell’ambito del quantitativo, tutto in una volta, e qui trovare soddisfazione ed acquietamento, per poi ripresentarsi intatto sotto aspetti differenti. Oppure, può essere interpretato, ma ciò richiede un avvenimento in corso, cioè l’apertura alla diversità distruttiva. In questo senso, il desiderio viene mascherato, sottoposto ad una cifra, per portare alla superficie la sua vera natura di aspirazione alla libertà. Poiché questa tendenza è proprio nel movimento più elementare dell’immediatezza, l’insieme dell’accumulo quotidiano concorre a confonderla, capovolgendola.

Per la logica dell’a poco a poco, questo recupero del desiderio è faccenda quotidiana. Infatti, le equivalenze sono sempre diversità, sia pure ridotte al minimo. Ogni tautologia, in questo modo, acquista diritto alla sua propria differenza in quanto i due termini che la compongono non sono assolutamente identici, ma sono uguali. Questo discorso della differenza, come sostituto della diversità è allettante in quanto potrebbe acquietare, almeno formalmente, l’inquietudine, in una prospettiva di crescita soddisfacente, differenza dopo differenza, fino al completamento della desiderata diversità. Il sofisma non è facilmente visibile.

Senza anticipare temi e approfondimenti che saranno sviluppati altrove, bisogna dire qui che al di là dei singoli tentativi con i quali si può interpretare il movimento della diversità allo scopo di procurargli i fondamenti accessibili per una attuazione trasformativa, c’è la necessità di una lettura omogenea, capace di dar conto in modo diverso di tutto quello che nella quotidianità si svolgeva in maniera razionale. Per ogni avventura nel territorio della diversità non c’è solo un testo dell’avvenimento, trascrizione più o meno comprensibile, in linguaggio tradotto, dell’esperienza, ma c’è anche la consistenza qualitativa dell’esperienza stessa, al di là di quello che essa poteva aver realizzato in termini trasformativi. Questa considerazione presenta ulteriori possibilità di lettura non strettamente razionali, collegate in primo luogo con un’applicazione del metodo della diversità, cioè del desiderio, della sollecitazione verso la libertà. Non c’è modo di isolare ogni singolo movimento, ogni strumento prelevato dal laboratorio della quotidianità e sottoposto ad interpretazione. Questo lavoro appartiene sempre all’accumulo ed è lavoro a posteriori. Al momento di tirare i conti, tutto ridiventa ragione e razionalità.

Ma nel corso del viaggio, quando si è nel territorio della desolazione, il senso dell’avventura è dato, a quanto sembra, da un’impressione complessiva della diversità, da un ritmo, da una tensione che attraversa tutto il movimento e che non è possibile isolare qui o là. Anzi, cercando di identificare un procedimento ideale, nel caso in specie quanto più lontano possibile dall’abbraccio soffocante della ragione, si conclude necessariamente per l’annullamento di ogni proposta che sfuma così nell’assurda gratuità. La diversità, con tutti i suoi limiti e le sue specialistiche condizioni di significanza, deve esclusivamente manifestare se stessa, non cercare di mimare le condizioni della razionalità dominante. La sua vita, in quanto diversità, è talmente ricca da non avere bisogno di scheletri interni per reggersi in piedi. Contro di essa, la critica logica dell’empirismo, la sottile ironia dei benpensanti che si meravigliano delle assurdità e degli attentati contro la ragione, non hanno presa che a condizione di accettare come condivisibile la logica della ragione stessa. Il resto sono soltanto petizioni di principio.

Il desiderio non è solo una dichiarazione d’intenti, è una manifestazione della vita, la quale si sente estranea alla condizione della quantità e chiama la perduta qualità, la semplicità dell’originario dispiegamento. Come tale, questo richiamo è veramente il pensiero del mondo, il Gedank der Welt, quindi, contrariamente a quanto è stato detto, spesso con autorevolezza, non si tratta di un atteggiamento aristocratico, ma proprio del contrario, dell’unico vero atteggiamento collettivo, totalmente partecipativo nei riguardi di tutti coloro che non hanno interessi e preclusioni dirette a mantenere il dominio della ragione, quindi anche, e principalmente, il potere politico.

Quest’urlo della vita lo avvertiamo tutti, ed è stata una delle più gravi mistificazioni compiute dalla filosofia del dominio, quella di averlo attribuito soltanto ad una categoria di ispirati, aristocratici, mistici o veggenti, capaci, chissà per quale motivo, di sentire qualcosa che gli altri ignoravano, oppure, ancora peggio, mestatori ed imbroglioni che niente sentivano, ma davano a vedere di sentire allo scopo di camparci sopra. Questa vita, che tutti avvertiamo, e che urla nella nostra carne in modo sordo e incomprensibile, ma che spesso arriva a tradursi in desideri e perfino in immagini, è la materia di tutti i discorsi, l’obiettivo di tutte le nostre pene, lo scopo non dichiarato ma presente di ogni fare. Per quale motivo metteremmo insieme prerogative e strumenti, capacità e conoscenze, se non avessimo da soddisfare questo stimolo atroce che ci stacca pezzo per pezzo la coscienza? Dormiremmo sogni più o meno tranquilli, intervallati da risvegli pigri e rilassati.

Non sappiamo codificare quest’urlo, nelle sue varie modulazioni, né qualche volta ci interessa farlo. Non possiamo modificarlo in un linguaggio metodologico in grado di soddisfare tutte le nostre domande. Esso è là, come una costante fisiologica, a contrastare ciò che veramente ci appare, a questo punto, come un’anomalia fisiologica, cioè il respiro condizionato e perfetto della quotidianità.

Il cammino inverso

Sono arrivati tempi di dubbi e di incertezze. Le nuove e vecchie paure sollecitano alla ricerca di garanzie. Nel mercato dove vengono gestite le faccende umane si contrattano alacremente nuovi modelli di conforto. Madonne piangono, politici promettono; dappertutto la guerra e la miseria, la ferocia e l’orrore dilagano [1995], rendendoci ormai incapaci perfino di sentire sdegno se non proprio di ribellarci.

La gente ha fatto presto ad abituarsi al sangue. A malapena sente l’odore dei massacri e ogni giorno ne attende di nuovi, di più incredibili: Tokio, Gaza, l’immutabile Bosnia, il Burundi, e altri luoghi ancora, remoti, lontani, eppure vicini. Quello che chiede è di restarne fuori. Di essere informata, anche delle minime stragi casalinghe, quelle del sabato sera ad esempio, che cadenzano decine di morti settimanali, e ciò al solo scopo di saperlo per dimenticarsene.

In un mondo che si rivela sempre più debole in significati reali, in motivazioni che danno contenuti alla vita, in progetti che meritano di essere vissuti, la gente dà via libera ai fantasmi che sono a portata di mano, fantasmi che escono dagli atelier del potere. Uno di questi fantasmi è quello della religione. Non una religione qualsiasi, oggettivata in pratiche distanti e scontrose, governata da preti e simulacri privi di senso, ma una religione che possa raggiungere la vuotaggine della propria mente, riempiendola di futuro, cioè di speranza.

So bene che non esiste una religione del genere, ma esistono molte persone che si danno da fare per sfruttare il bisogno che di essa si ha. Contro questo bisogno non valgono le pretese razionaliste dei cartesiani reduci dei successi con cui hanno conquistato, e distrutto, il mondo. Le loro chiacchiere di certezza scientifica non incantano più nessuno. Nessuno è disponibile, se non una minuta schiera di irriducibili intellettuali, a credere nella capacità della scienza di risolvere i problemi dell’uomo, di dare una risposta a tutte le domande concernenti le eterne paure dell’ignoto.

Ora, accade che anche noi anarchici ci lasciamo prendere da questa straordinaria lacerazione, alla quale invece dovremmo restare estranei, se vogliamo trovare una strada per l’azione, una strada capace di farci capire la realtà, e quindi di metterci in grado di trasformarla. Anche noi non sappiamo bene cosa fare.

Da un lato, ci ritraiamo, inorriditi, di fronte alle manifestazioni sempre deliranti e disgustose, della fede, in tutte le sue forme. Abbiamo, qualche volta, pietà per l’uomo che si china, che soffre sotto il dolore, e quindi accetta l’immagine dell’incredibile fantasma, e spera, e continua a soffrire e a sperare, ma non più di questo possiamo avere per lui. Subito dopo subentra lo sdegno e con lo sdegno il rifiuto, l’allontanamento, il rigetto.

Dall’altro lato, anche guardando attentamente, che cosa troviamo? Troviamo una miseria altrettanto spregevole, solo che sa vestirsi elegante, con gli abiti della cultura e del ben dire. Quest’ultima miseria crede nella scienza e nel mondo che si può sistemare, nel mondo che va verso i suoi destini migliori. Ma chiude gli occhi e si tappa le orecchie, aspettando che la bufera si plachi, incosciente e spietata nei confronti del dolore e della miseria di tutto il resto del mondo. Anche quest’universo di specialisti e di persone perbene ci fa schifo, per molti aspetti quanto e più dell’altro, che almeno dalla sua aveva l’ignoranza e la forza appassionata del sentimento.

Ma noi, noi cosa facciamo? Non ci battiamo il petto, né andiamo in giro col règolo nel taschino. Non crediamo in Dio e nemmeno nella scienza. Non ci interessano i taumaturghi e nemmeno i sapienti in camice bianco. Ma, siamo poi così al di fuori di tutto ciò?

Non credo. Riflettendo appena, ci rendiamo conto che siamo anche noi figli del nostro tempo. Ma, essendo anarchici, lo siamo in maniera rovesciata. Pensiamo ingenuamente che basti rivoltare come un guanto gli errori degli altri per avere la verità bella e scodellata a badili. Non è così.

Per cui, rifiutando quanto di oscuro c’è nei tempi in cui viviamo, puntiamo i piedi nelle certezze di una scienza diversa, questo sì, una scienza che dobbiamo costruire tutta noi, da cima a fondo, ma che come quell’altra si baserà soltanto sulla ragione e sulla volontà. E, allo stesso modo, rifiutando quanto c’è di funzionale e utilitaristico nella scienza, andiamo alla ricerca di sensazioni e sentimenti, intuizioni e desideri dai quali ci aspettiamo risposte per tutte le domande, risposte che non possono arrivare in quanto si sbriciolano nelle nostre antiche mani troppo grossolane.

Così barcolliamo ora in un senso, ora in un altro. Non abbiamo le certezze ideologiche di alcuni decenni addietro, ma le critiche che abbiamo sviluppato non sono ancora in grado di dirci con un minimo di attendibilità cosa fare. Pensandoci in grado di agire al di là di ogni valore, di ogni fondamento, nel momento in cui ci chiediamo cosa fare non sappiamo darci risposte sicure.

In altri tempi avevamo meno paura del ridicolo, eravamo più ottusi nel nostro fare puntiglioso e coerente, meno preoccupati di faccende di stile. Ho paura che ci siamo innamorati troppo delle sottigliezze, delle sfumature. Continuando su questa strada potremmo anche perdere il senso d’insieme che non ci ha mai fatto difetto, quel senso progettuale che ci faceva sentire radicati nella realtà, parte di qualcosa in corso di trasformazione, non semplici monadi brillanti di luce propria, ma oscure le une alle altre.

Continua a parlarmi

Affacciandosi alla comprensione di se stessi, e degli altri, si scoprono aspetti della conoscenza spesso insospettabili. Quando avviciniamo un problema da noi poco conosciuto, o una persona che ci è ignota, proviamo un senso di panico (o di piacere, sottile differenza mai del tutto chiarita). Riusciremo a venirne a capo? ci chiediamo. E la risposta non è sempre positiva.

Il più delle volte guardiamo lo “straniero” con sospetto, col sospetto che sempre ci viene dalla differenza non ancora codificata. Cosa ci porterà lo “straniero”? Di certo delle novità, e queste come saranno? Potranno essere buone o cattive, comunque turberanno i nostri equilibri, i sonni (e i sogni) che spesso facciamo tra un brusco risveglio e l’altro.

Da qui la necessità di non scoprirci più di tanto. I confini del nostro mondo personale, il nostro mondo quello che siamo disposti a difendere fino alla morte, perché è di esso che ne va quando rischiamo l’avventura dell’ignoto, questi confini si irrigidiscono e propongono uno schema interpretativo. Lo “straniero”, uomo o problema non fa differenza, viene così catalogato nell’ambito dei nostri schemi, diluendo la forma nella struttura la comprimiamo a forza, pretendiamo così che l’altro si adegui alle nostre necessità. In questo modo, dopo averlo ucciso, in modo rituale per quel che possiamo e nell’ambito delle nostre capacità di uccisori, lo riproduciamo adatto ai nostri scopi, perfino ad alimentare i nostri pruriti, sogni e sonni compresi.

Così alcuni di noi, e non certo fra i peggiori, senza accorgersene, si avvolgono nel bozzolo delle codificazioni, giudicando o sospendendo il giudizio. Ma questa sospensione, nella pratica giornaliera, si traduce sempre nel lasciare che l’altro si collochi da sé nell’ambito delle nostre prospettive, senza ribellarsi e quindi senza bisogno che noi gli si faccia violenza. Il comune senso del ridicolo aiuta in questi casi a rintracciare sintonie che altrimenti si rivelerebbero come inesistenti.

Non urlare, per favore, il tuo disprezzo per l’ordine, basta che mi dimostri che il tuo modo di vivere segue una logica del qualitativo, vivace, danzante, e non l’impegno della routine della quiete e del codice. Ma dimostramelo con concatenazioni logiche, accurate. Per favore, dimmi che sei pazzo, come lo sono anch’io, ma dimmelo con chiarezza. Parlami, per favore, dello spaventoso brivido delle tenebre, ma parlamene alla luce del sole, che io possa vederlo, qui e subito, raffigurato nelle distinte favelle cui sono stato educato.

Confortami con le tue nenie sulla distruzione, esse sono dolce ninnananna per i bisogni del mio cuore, ma parlamene in maniera ordinata, che io possa capirle, e con esse, grazie ad esse, capire cos’è la distruzione. Insomma, che le parole mi arrivino ben organizzate tra loro, guai se ti mettessi ad urlare, non ti ascolterei più. Distruggere va bene, ma con l’ordine che la logica impone. Altrimenti andiamo nel caos dell’irripetibilità, dove tutto svanisce nell’incomprensibile. Sì, d’accordo, qualcosa mi arriverebbe anche attraverso il vociare imbarazzante d’un mercato algerino in un giorno di festa, ma io non sono abituato a quella vita, alla danza imprevedibile e fugace, all’improvviso apparire dello “straniero”, bisogna che tu metta davanti a me il codice dell’abitudine, che il linguaggio si faccia carico d’intermediarità. Parlami, ti prego, che la parola diventi per me il cordone ombelicale col mondo del di già accaduto, che niente si presenti come l’essere gettato improvvisamente nell’oscura dimensione del caos.

Parlami d’amore, del tuo amore, per me, di ogni amore possibile, anche del più remoto e difficile da capire, della violenza che gli cammina a fianco, della violenza e della morte, ma parlamene, quindi fammelo vedere con gli occhi della mente, prigioniero, catturato nel tessuto limaccioso e corruttibile delle parole. Parlamene cautamente, te ne prego, che il mio cuore possa sopportare il contraccolpo. Poi ci farò l’abitudine. E, proprio per avermene parlato, l’amore mi diventerà familiare, e lo porterò con me dappertutto, come si porta un coltello in tasca, un oggetto pesante che fornisce sicurezza. Di quell’altra possibilità, dello “straniero” che mi si era presentato davanti agli occhi, improvvisamente, come un ladro, non me ne fare più cenno, abbandona l’alto urlo nella notte.

Parlami della società del futuro, dell’anarchia, in cui tu e io crediamo, descrivimi le sue condizioni d’incertezza, l’imprevedibilità dei rapporti fra esseri umani finalmente liberi da ogni costrizione, raccontami con le tue parole calme, suadenti, il ribollire delle passioni che si scateneranno, l’odio e il desiderio di distruzione che non scompariranno da un giorno all’altro, la paura e il sangue che non smetteranno di serpeggiare e correre nelle vene d’una società finalmente differente da ogni incubo del passato. Parlamene, te ne prego, ma fallo in modo che non mi metta paura, parlamene ordinatamente, raccontami di quello che faremo, tu e io, e gli altri, e i compagni, e coloro che compagni non sono mai stati ma che da un momento all’altro capiranno, tutti insieme, per costruire, qualcosa qua, qualcosa là, a poco a poco, mentre tutt’intorno la vita, la vera vita intendo, comincerà a rifiorire. Ma parlamene con la logica della comprensibilità. Non mi urlare nell’orecchio quello che ti urla dentro, mi metteresti paura, tienilo per te. Tieni per te il bisogno di distruggere, forse di continuare a distruggere. Tieni per te le difficoltà di coordinarti con i miei bisogni, con le mie idee. Tieni per te l’irriducibile forza che ti porta lontano da ogni accettazione delle mie volontà, volontà, la tua, insopprimibilmente avversa ad ogni codificazione, come la mia, per altro. Non mi dire tutte queste cose, finiresti per farmi paura.

Ti prego, non darmi altre preoccupazioni.

Nota editoriale

Riporto le indicazioni dei giornali e delle riviste dove alcuni dei pezzi qui pubblicati sono usciti per la prima volta. Vista la frequenza e l’eterogeneità degli pseudonimi talvolta impiegati, gli stessi non vengono segnalati. Per lo stesso motivo non vengono segnalati i casi di articoli non firmati. Per il fatto di essere qui riprodotti, senza altra indicazione, s’intendono tutti scritti da me.

Tutti gli articoli e i saggi pubblicati sono stati riveduti e aggiornati.

“La bestia inafferrabile”, pubblicato su “Canenero” n. 13, del 3 febbraio 1995, p. 5.

“Fuoco sulla Casa Bianca”, pubblicato su “Canenero” n. 2, del 4 novembre 1994, p. 9.

“Senza un motivo, per mille motivi”, ib., p. 3.

“Il colera dietro le spalle”, pubblicato su “Canenero” n. 3, dell’11 novembre 1994, p. 2.

Appuntamento con l’apocalisse, ib., p. 3, col titolo “Come un ladro nella notte”..

Nelle campagne della Malesia, pubblicato su “Canenero” n. 12, del 27 gennaio 1995, p. 3, col titolo “La scimmia e il contadino”.

“Fino all’ultima pallottola”, pubblicato su “Canenero” n. 15, del 17 febbraio 1995, p. 3.

“L’autorità è morta di coltello”, pubblicato su “Canenero” n. 19, del 17 marzo 1995, p. 5.

“Un modo sicuro”, pubblicato su “Canenero” n. 27, del 19 maggio 1995, p. 7.

“In gruppi di tre o quattro”, pubblicato su “Canenero” n. 31, del 16 giugno 1995, p. 3.

“Ma siamo proprio sazi di chiacchiere”, pubblicato su “Provocazione” n. 21, giugno 1989, p. 6.

“Come giocarsi la vita e perché”, ib., p. 7.

“Prevalenza della pratica?”, pubblicato su “Provocazione” n. 13, aprile 1988, p. 8.

“La tirannia della debolezza”, pubblicato su “Provocazione” n. 11, febbraio 1988, p. 5.

“Delle regolarità”, pubblicato su “Provocazione” n. 10, gennaio 1988, p. 2.

“Le ragioni della distruzione”, pubblicato su “Ludd 2000” n. 1, aprile 1992, pp. 42-50.

“L’accesso logico alla distruzione”, pubblicato su “Ludd 2000” n. 2, settembre 1992, pp. 7-39.

“Il cammino inverso”, pubblicato su “Canenero” n. 23, del 14 aprile 1995, p. 4.

“Continua a parlarmi”, pubblicato su “Canenero”, n. 28, del 26 maggio 1995, p. 4

 
 

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