Titolo: Teoria dell’individuo. Stirner e il pensiero selvaggio
Data: 2004
Note: Prima edizione: febbraio 1999
Seconda edizione gennaio 2004
Pensiero e azione n. 7
SKU: pensiero-000007
Dimensioni: cm 15 x 21,5
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Introduzione alla seconda edizione

Un pensiero selvaggio, ecco ciò di cui abbiamo bisogno. Quello di Stirner è un contributo in questa direzione. Come tutti i contributi è soltanto un tentativo, non solo non arriva a conclusioni (e perché dovrebbe?) ma si costruisce da sé gli anticorpi per evitare di arrivarvi. E questo è il massimo segno dell’attitudine selvaggia.

Come trovarci nel mezzo della bufera? Ecco la domanda cruciale. Per quanti sforzi facciamo siamo sempre in avvicinamento, ci approssimiamo. Il salto vero e proprio è troppo traumatico per parlarne. Siamo fiduciosi che la verità di cui siamo fermamente convinti ci farà luce durante il cammino. Le illusioni tardano a morire.

La fede nella verità equivale a quella nel liberatore, nel portatore di libertà. Più la condizione presente appare corrusca e più siamo portati a trasferire le nostre speranze nelle mani di chi saprà operare miracoli. Il liberatore ha dalla sua la verità, perché verità e libertà sono la stessa cosa. Ogni liberatore ci appare come la verga che si alza sulle moltitudini inquiete, un dono del cielo, la gemma che splende nella notte. Ogni liberatore parla dei motivi che lo spingono a sacrificarsi per noi. E, difatti, egli è l’uomo del sacrificio, cioè del “fare sacro”, facendo in modo sacro è l’uomo del sacro egli stesso, e tutto quello che tocca (o pensa) diventa sacro, anche noi, appartenendogli col desiderio di immedesimazione che ci unisce e ci eguaglia, siamo un “suo fatto”, un prodotto sacro del suo fare, anche noi siamo “sacri”. L’inferno scatenato dalle inquietudini feroci, che ci aveva stretto il cuore in una tenaglia infuocata, quell’inferno delle nostre notti di panico, adesso non ha armi contro di noi. La parola del liberatore inveratasi nel suo sacrificio regna sul nostro capo di liberti e ci aureola l’anima.

Dovremmo oltrepassare la soglia del sacro. Ma questo corrisponde all’assassinio, il gesto irrimediabile che ci trasforma calandoci nella realtà effettiva, togliendoci la benda sacra sulla fronte. Il gesto definitivo trionfa entrando da vincitore in quello che custodiamo di più pregiato e insostituibile nella nostra coscienza. Abbiamo abbellito apposta il nostro luogo delle riservatezze, abbiamo apposta alzato i miracoli del nostro modesto annuire portandoli al massimo delle loro capacità e, alla fine, le vecchie acquiescenze si sono evolute in balbettii che cercano di dire osanna, perfino riuscendoci. Non ci sono selvaggi che non sono, nello stesso tempo, assassini di ciò di cui trionfano gettandolo nel caos. Fosse pure il dominio su se stessi. Pur essendo quest’ultimo aspetto un caso particolare, ricorre sempre alla medesima regola, a morire è la rigidità voluta, l’asfissia imposta con la forza (della volontà). Niente può cambiare in meglio un luogo comune. L’assassino non è l’uccisore dell’altro, o di se stesso, ma il negatore delle regole (e di se stesso come pegno della regola). I calcoli atroci, le spaventose ipocrisie che sorreggono il mondo scompaiono insieme alle inquietudini esorcizzate dalla parola sacrificale, col gesto dissacratore che ingigantisce la forza della liberazione facendola diventare globale. Il sogno può veramente governare il mondo.

È l’avvento della legge intelligente, quella che si propone abbandonandosi, quindi rifiutando ogni genere di meccanismo, ogni periodicità che regola successioni o priorità. Essa assume così la forma del caso. Questo ha di certo una sua causa, ma non c’è modo di racchiuderla in una corrispondenza ricorrente. Nel caso c’è però qualcosa di più. C’è giustizia distributiva e saggezza. L’uomo non è amico del caso e quando gli si accosta lo fa con mille cautele, pretendendo ogni sorta di garanzia riparatrice. Vuole che le regole vengano rispettate. Non tutte, certamente, essendoci uomini dabbene che non amano l’oppressione e il controllo soffocante, ma alcune sì: che resterebbe loro in mano nell’eventualità di un completo azzeramento? La coerenza, per esempio, che mondo sarebbe quello in cui la coerenza venisse denudata per quello che è: autodisciplina rispettabile e degna di ogni considerazione, ma sempre disciplina? Bisognerebbe prendere una risoluzione, o rivalutare la disciplina (qualunque disciplina), o approfondire l’autonomia. Vedete bene quali prospettive pericolose si aprono. Se il caso nega la coerenza, affermando il valore primario di quest’ultima ci diciamo subito nemici del caso. Non vogliamo riparare i torti col suo metro di giudizio, ma col nostro, e il nostro è fondato sull’insuccesso del lasciarsi andare. Ogni centimetro della nostra pelle reclama ad alta voce di essere tenuto da conto, e ci punisce se lo trascuriamo.

Il concetto di cooperazione lascia pensare alla forza collettiva, qualcosa di oscuro che si nasconde sotto il processo produttivo per come lo conosciamo noi. Non è immaginabile che questo concetto venga vestito di abiti negativi e quindi agitato quale giustificazione per la condanna del lavoro come condizione essenziale della schiavitù. Di fatto non è facile rendersi conto di quello che spinge la forza collettiva, di cosa consente bene o male all’umanità di superare le prossime ventiquattr’ore e poi andare ancora avanti. Un equilibrio precario di legami fasulli e fedi mal riposte? Senza dubbio anche questo, ma anche qualcosa d’altro. Il sogno della felicità, in primo luogo. Il miraggio della propria vita vissuta e non solo vista dal di fuori, mentre le palpebre si chiudono per il sonno nella metropolitana del mattino. L’amore eccessivo, battiti del cuore e possesso e essere posseduti, mentre la sera si torna a casa troppo stanchi per qualcosa di diverso della solita carezza prima di girarsi dall’altra parte. Un odio radicale, vero, figlio e padre dell’amore, capace di spremere tutta l’adrenalina in una volta, non i soliti surrogati dello stadio o dell’ubriacatura di fine settimana. La bellezza di un sogno sospeso fra il niente della musica, un pensiero che vola subito via fino a restare soltanto sentimento sempre inappagato e sempre risorgente, non gli stereotipi da discoteca o i corrispondenti surrogati intellettuali di chi ascolta sempre lo stesso disco, naturalmente il migliore soltanto per lui. Tutto ciò vive una vita possente all’interno della forza collettiva, ma non è univocamente mezzo di progresso, per non parlare di quell’emancipazione che nessuno sa bene cosa sia visto che nessuno sa da cosa ci si dovrebbe emancipare. (Chi non conosce i tristissimi risultati dell’emancipazione femminile?). Al suo interno, in un vorticoso via vai di contraddizioni e ripresentazioni, di modelli buttati lestamente e di riscoperte vecchie di secoli, si muove il mastodonte produttivo, il connubio artificioso delle cose fatte, del fare bene oleato, degli operai con il loro lavoro, delle massaie con i loro frugoletti e la cucina non più economica, dei pensionati con la loro coda mensile alla posta nell’attesa fremente di godersi il prossimo scippo.

Tutto ciò ha un nome vero: si tratta dell’esistenza, dell’esistenza quotidiana che tutti meniamo in un modo o nell’altro. Ed ha un nome usurpato: “vita”. Molti si gonfiano la bocca con quest’ultimo nome ottenendo come risultato di fare confusione. All’interno del mondo produttivo che tutti ci ospita, anche coloro che sono dotati di corde vocali forti da rintronarci le orecchie, nessuno “vive”, tutti esistono.

Fatta questa precisazione, molte cose possono essere dette più pacatamente e con meno rischi di equivoco.

Non c’è motivo alcuno perché il lavoro debba rendere liberi, il lavoro produce il tipo di schiavitù moderna che ben conosciamo. Guardando in faccia gli uomini e le donne che ci passano accanto vediamo le stimmate dello schiavo, allo stesso modo quando ci laviamo i denti la mattina, sbirciando nello specchio del bagno. Nessuno è privo di responsabilità nei riguardi del processo lavorativo nel suo insieme, tutti partecipiamo dello sfruttamento, siamo, nello stesso tempo, sfruttati e sfruttatori.

Ma detto questo, invece di vedere scomparire tutte le vacche nel grigiore dell’assenza di gradazioni colorate, ecco emergere un altro tipo di considerazione. Non ci sono luoghi privilegiati, non ci sono santuari della rivoluzione, non ci sono individui santificabili per la loro vita (di sacrifici, poveretti), non ci sono esempi da seguire, né teorie salvatutto da mettere in pratica. Distruggere il lavoro è concretamente possibile ma non produce un processo osservabile, qualcosa che nell’ “a poco a poco” diventi positivo e quindi contrapponibile al lavoro stesso considerato come negativo. Questa considerazione vale per ogni attività rivoluzionaria e quindi non c’è motivo perché non valga per la distruzione del lavoro.

La nascita di una forza collettiva capace di distruggere completamente non il lavoro ma le condizioni che rendono, oggi come ieri – ma, speriamo, non come domani –, necessario il lavoro è un’altra cosa. Che tra la mia personale, micropercepibile attività di distruzione del lavoro, e quel processo colossale di distruzione ci sia un rapporto non è affermabile con sicurezza da nessuno. In caso contrario basterebbe suggerire l’aumento delle attività distruttive per garantirsi un risultato quantitativamente accettabile (oltre che accertabile). Invece non c’è accesso a osservazioni aritmetiche, se qualcuno vuole assicurazioni di questo tipo ha sbagliato strada, l’attività distruttiva non è un processo accumulabile ma un movimento circolare che a un certo punto incontra un salto qualitativo proveniente dalla forza collettiva agente in un dato momento, effetto quest’ultima di processi non quantificabili, non conoscibili, completamente caotici e contraddittori fra loro, e singolarmente presi del tutto inaccettabili per qualsiasi considerazione etica. Non è nostro compito fornire certezze a nessuno. La difficoltà principale del rivoluzionario è quella di agire come se avesse quelle certezze assolute che la sua stessa analisi della realtà nega.

Se osserviamo attentamente il meccanismo della produzione, così come potremmo fare con non insormontabili difficoltà osservando alcuni parametri che l’assetto mondiale del capitale ci mette continuamente sotto gli occhi, ci rendiamo subito conto che il lavoro ha subito grandi modificazioni nella sua struttura compositiva ma che è ancora alla base della realtà per come la conosciamo, della nostra esistenza. La società è una società fondata sul lavoro ma la forza collettiva che viene fuori da questo lavoro non è, ancora una volta, riconoscibile in modo chiaro. La cancellazione delle verniciature ideologiche del passato ha dato vita a una politica del tutto nuova, incapace di sollecitare le masse a comportamenti contrastanti con i generici appelli al benessere e al consumo. Gli effetti positivi della pulizia mentale da un lato (fine delle illusioni politiche) corrispondono purtroppo con la crescita di corrispondenti miti di minore significatività e durata, ma lo stesso in grado di agitare la carota davanti al naso del lavoratore. Il benessere, il consumo, la pace, la morte dei cattivi, ecc. Non possiamo più indicare come obiettivo da raggiungere la sottrazione del maltolto dalle mani dei capitalisti. Il furto dell’eccesso produttivo non impressiona, non mobilita più nessuno in un mondo in cui l’arte di arrangiarsi è fondata su espedienti alla giornata. Non ci sono sentimenti seri e quando qualcuno li avverte viene guardato con sospetto. Tutto è immerso in una retorica “debole” che circonda in maniera gelatinosa la nostra giornata suggerendoci solidarietà e antirazzismo come consigli per gli acquisti.

I modelli esplicativi dei meccanismi di funzionamento (veri o presunti, nascosti o palesi) del sistema che ci opprime e ci sfrutta, sono assenti. I marxismi hanno fatto il loro tempo, ultimi eredi di un allucinato mondo hegeliano di ospiti del palazzo dei fantasmi. Ma, se non ho modelli esplicativi per qual motivo fornisco spiegazioni? Mi spiego meglio. Se non posseggo il segreto del funzionamento di un meccanismo che gli altri non capiscono, per quale motivo mi sento autorizzato a parlare del meccanismo in questione? Il fatto è che non solo quando parliamo di questi argomenti non teniamo presente nessun meccanismo vero e proprio, degno di questo nome nel senso del funzionamento suo più o meno perfetto, ma nemmeno teniamo presente questo funzionamento considerandolo come obiettivo da chiarire, misterioso accadimento da svelare. Se osserviamo le presunte leggi dell’economia, e negli ultimi quarant’anni mi sono spesso soffermato a studiarle, c’è da restare sbalorditi nel constatare che esse sono state elaborate dagli economisti (e dai corrispondenti ciurmatori politici) per giustificare e non per spiegare. A cadavere putrefatto si è provveduto a ordinare la bara. In altri termini, avvenimenti sociali più o meno concatenati (in maniera quasi sempre inestricabile) fra di loro si sono accavallati dando vita e interessanti intrecci a prevalente caratteristica economica, insomma a processi riguardanti istituzioni del capitale: denaro, banche, cambi, borse, industrie, commerci, ecc. A ogni istantanea scattata su di loro, diretta a inquadrare certi rapporti e per questo stesso motivo a escluderne altri, si provvedeva a fornire giustificazioni sotto forma di “leggi economiche”. Lo scopo non era evidentemente soltanto platonico ma prima di tutto pratico, occorreva partecipare al sostegno o all’ostacolo di alcuni andamenti in modo da favorire una tendenza o contrastarla. I risultati non ci occupano in questa sede, ma sono stati quasi sempre ridicoli. L’economia è in fondo una triste faccenda di manutengoli e di usurai. Eppure, come Marx si accorse, non è certo la filosofia a renderci un servizio nella comprensione della realtà, occorre anche capire come l’esistenza dell’uomo è prodotta quotidianamente dal lavoro e dalle condizioni di sfruttamento che caratterizzano la società che ci ospita. E, per fare questo, si torna all’economia. Ma bisogna prendere nella dovuta considerazione critica (evitando, se possibile, di mettersi a ridere) i tentativi di scoprire meccanismi sicuri e di fornire spiegazioni di funzionamenti.

E se il progetto del nemico fosse quello, cosciente, di non avere progetto? In questo caso continuare a parlare di progetto sarebbe un modo per rinunciare a capire. Se tutti i progetti (anche il nostro) non reggono e si dimostrano intimamente contraddittori o retti da motivazioni spesso inconfessabili, lontane comunque dal desiderio di fornire spiegazioni, se il fornire spiegazioni è un modo come un altro di vestire una divisa al servizio di qualcuno, qualsiasi progetto si annulla con il suo contrario in una rete in cui l’esercizio della progettualità è paradossalmente l’ultimo ritrovato in materia di olii per le macchine del potere.

La questione si può vedere in un modo un po’ diverso riflettendo sul fatto che è nella nostra natura il bisogno di progettare. Anche gli sconsiderati progettano, appunto il loro essere tali è il risultato della volontà di esserlo. Non volere far progetti è a volte un progettare faticoso e attento ai dettagli. Da chi sta sulla cima della montagna al poveraccio che precipita lungo il pendio come un sassolino, tutti hanno un progetto, solo che non sempre questo ottiene i risultati sperati. Anzi, osservando attentamente, questi risultati non ci sono mai. Chi progetta di mettere i soldi da parte per comprare una macchina o chi la conquista del potere, chi progetta di andare a mangiare un gelato o di uccidere la suocera, alla fine vede questi progetti svanire come nebbia al sole nell’orizzonte delle concretezze che tutto azzerano di fronte alle eventualità non prevedibili, alle complicanze e alle conseguenze di altri progetti, una rete tale di fatti che nessuna mente umana o divina potrebbe tenere presente. Facciamo e andiamo avanti, un granellino di sabbia che viene gettato in mare dall’onda prima di potersi rendere conto di quello che succede. Eppure specifichiamo, distinguiamo, prendiamo in considerazione, giuriamo e ci danniamo l’anima. Eppure andiamo, alla cieca e con scarso intelletto, alla ricerca del nemico, ma lo facciamo e questo è di già molto.

Andando avanti comunque ne traiamo una gioia profonda. Non sappiamo dove stiamo andando ma muoviamo contro il nemico. Ecco il grande segreto dell’azione che coglie quello che non può vedere né immaginare, senza per questo essere condannata alla cecità o alla stupida ripetizione del di già conosciuto. Il sogno getta un ponte verso l’ignoto e non sa bene dove poggiare questo ponte, non ha notizia certa delle fondamenta, eppure costruisce quel ponte. Ogni movimento di attacco contro il nemico singolarmente preso, considerato in se stesso, è pura follia – la distruzione viene di solito così definita – eppure ha una qualità che è altra cosa di qualsiasi assennata considerazione economica. Quando i capitalisti dicono che il lavoro è esso stesso mezzo di liberazione per l’uomo essendo la sua realtà, la sua unica realtà, dicono una cosa assennata, forse nel dettaglio alquanto nebulosa, ma assennata. A dire qualcosa di pazzesco siamo noi quando diciamo (per la verità pochi di noi) che bisogna distruggere il lavoro, che il lavoro uccide gli uomini, li priva della propria vita e li consegna a un’esistenza che è mera sopravvivenza e coazione a ripetere. Perché meravigliarsi dell’assennatezza del nemico?

Nel momento stesso in cui “diciamo” che la distruzione del lavoro è necessaria affermiamo due convinzioni: la prima è quella che la parola è in grado di dire qualcosa di significativo in merito all’argomento in oggetto, la seconda che questo argomento è provvisto di una forza intrinseca che lo rende “necessario”. Se vogliamo uscire fuori dal generico e renderci conto veramente di quello che facciamo, non chiudere gli occhi e affidarci alle giaculatorie o agli scongiuri, dobbiamo andare avanti. Distruggere il lavoro, come tante altre affermazioni che facciamo e che spesso si contraddistinguono parimenti per la loro incontrovertibile fondatezza e per il loro estremismo privo di buon senso (valutazione queste, per me, di natura positiva), non è qualcosa che può essere “fatto”. Certo, possiamo non lavorare, possiamo consigliare agli altri di non lavorare, possiamo criticare coloro che considerano il lavoro la base della vita (quando invece lo è solo dell’esistenza), ma non possiamo distruggere il lavoro. In effetti quello che possiamo fare è contribuire a creare le condizioni perché si sviluppino all’interno delle forze collettive movimenti più o meno ampi che riescano a disporsi criticamente contro il lavoro, e quindi in grado di creare stili di vita e modelli di comportamento che riescano a mettere da parte (fino a un certo punto) il lavoro. Ma le parole “distruggere il lavoro”, e tutto l’insieme linguistico che passa sotto il titolo di “analisi” a questo fine elaborato non sono, in quanto tali, la distruzione del lavoro.

Ragionamento simile va fatto per la “necessità” che individuiamo (o pensiamo di individuare) all’interno del concetto di distruzione del lavoro. Come accade tutte le volte che riflettiamo sulle condizioni che colorano l’esistenza in modo plumbeo e triste, siamo portati ad affermare che per risalire dal fondo del pozzo è “necessario” distruggere questa esistenza e dare, finalmente, libero sfogo alle forze vitali che sono imprigionate dai suoi legami e dalle sue convenzioni. Si tratta di una necessità che pensiamo simile a quella che avverte una persona che sta soffocando, la necessità dell’aria, di respirare aria senza la quale arriva in breve la morte. A fissare le caratteristiche della necessità dell’aria è una mancanza, da cui il soffocamento. Se l’aria fosse disponibile, com’è la regola, non ci sarebbe la sua necessità attuale ma solo una necessità ipotetica che potremmo tenere presente ma che non caratterizza il nostro rapporto con l’aria. Quindi la necessità della distruzione del lavoro è dettata dalle condizioni in cui meniamo la nostra esistenza. Condizioni diverse renderebbero non più il lavoro qualcosa da distruggere? Non lo so. Non mi sembra fondata la tesi che pensa l’uomo un animale che lavora, o che lo pensa come un organismo che morirebbe di inedia senza lavorare. Qui si gioca con le parole, oppure si parla di qualcosa che non si conosce, che nessuno conosce, in quanto nessuno sa cosa succederebbe in una società libera. Molto spesso ci accade di parlare di cose che non conosciamo. L’artigiano comunalista che affascinava Kropotkin è qualcosa del genere, non è in quella direzione che bisogna cercare e, in fondo, nemmeno lui credeva possibile un ripristino di rapporti lontani nel tempo, visto che parlava di “presa nel mucchio”, anche questa fondata su rapporti che nessuno conosce perché nessuno ha mai visto. Oggi però il lavoro è da distruggere, pena la distruzione dell’uomo. Qualsiasi riflessione che cercando di sottolineare gli sviluppi che l’umanità può ricavare dall’attività lavorativa ne sottolinei l’utilità, tiene conto soltanto di un nuovo assetto di potere, riformato quanto si vuole, ma sempre basato sullo sfruttamento. Restando in questa posizione i rapporti con il capitale vengono modificati continuamente ma non si risolvono mai in una completa abolizione del dominio, anzi la riforma stessa tende a riproporre forme di sfruttamento più accettabili e quindi più difficilmente attaccabili da chi intende liberarsi.

Un contrasto irriducibile, una lotta indipendente che riesce a reggersi da se stessa, in grado di attaccare e sconfiggere il nemico, una opposizione capace di sfuggire al martirio delle parti, alla connessione ambivalente di chi fronteggia e mai riesce a diventare la soluzione conclusiva, un pugno definitivamente chiuso e non bisognevole di giustificazione alla propria esistenza, tutto ciò resta comunque un sogno, un fantastico sogno che alimenta gli incubi del potere e le speranze di liberazione. Come tutti i sogni questo immenso movimento di rivolta e di libertà, di desiderio vissuto e di delusione ricacciata indietro, si alimenta di se stesso, non ha bisogno di successi o di luoghi privilegiati dell’utopia con i piedi per terra. Solo i poveri di spirito hanno queste necessità e guardandosi indietro trovano sempre in qualche epoca storica un’età dell’oro che non è mai esistita, una rivoluzione della quale registrare i fasti e dimenticare i nefasti, una figura sociale portatrice dello stimma liberatorio. Gli altri guardano avanti e se rinunciano ai baloccamenti deterministi non possono poi chiudere gli occhi di fronte alle conseguenze, anche alle più estreme. Niente sta dentro la realtà, nascosto come il nocciolo di una pesca. Non c’è un meccanismo quale che sia, dialettico o meccanicistico, progressivo o regressivo, tautologico o eziologico. L’eterno ritorno, interpretato veramente come qualcosa destinato a tornare in essere una seconda volta supera in ingenuità il processo dialettico. Hegel si definiva – come non tutti sanno – l’unico pensatore non dialettico, considerando tutti gli altri filosofi come filosofi dialettici per il motivo semplice che tutti interpretavano la realtà e solo lui si limitava a rispecchiarla. Era la realtà, sempre secondo lui, a essere dialettica, per cui rispecchiandola nel suo divenire ne derivava un’analisi dialettica. Il procedimento dialettico con le sue fasi non è procedimento del pensiero che solo dopo essere stato procedimento della realtà, cioè il pensiero si vede costretto a dialettizzare se stesso, il proprio modo di esprimersi grazie al linguaggio, se vuole riprodurre la realtà e se vuole essere un’espressione della ragione, un processo razionale e non qualcosa di fantastico e di assolutamente altro.

Quanto questo modo di riflettere sia pericoloso lo sappiamo tutti. Non per le conclusioni del povero professore prussiano, quelle per intenderci di una fine della filosofia (e della storia nella filosofia) nel proprio modo di pensare (e dello Stato nel perfetto meccanismo statale prussiano) – che queste conclusioni hanno insospettito anche i sostenitori di destra dell’hegelismo –, ma proprio per la loro capacità di inglobare l’assolutamente altro, quel vago presentimento di una terra sconosciuta e fantasticamente meravigliosa che sta dietro tutte le sovversioni del presente, tutte le ribellioni, i millenarismi, le jacqueries, le rivoluzioni che hanno attraversato la storia. Hegel è pericoloso perché ha realizzato un tentativo mai riuscito a nessun altro filosofo: quello di ricondurre sotto il dominio del razionale, quindi di spiegare e rendere “normale”, ogni espressione di libertà che l’uomo ha sotterraneamente, e con mille difficoltà, alimentato nel proprio cuore, contro tutti i dispotismi e gli sfruttamenti che lo hanno segnato nei millenni della sua storia. Mentre tutti gli altri filosofi si sono allontanati inorriditi da questo movimento sotterraneo, ricacciando indietro i gozzuti che uscivano dai “Miracoli” di Parigi durante il Medioevo come mostri venuti fuori dall’inferno, Hegel li ha accettati nelle braccia della ragione, ne ha fatto interlocutori del Congresso di Vienna, e li ha annullati in una sintesi che ripropone la figura del signore riconosciuta finalmente dal servo, cioè “fatta” a tutti gli effetti. Sono i fraticelli che hanno rigenerato la Chiesa, non certo Gregorio VII. La Riforma ha portato al Concilio tridentino e questo sarebbe affogato nella propria stessa rigidità senza quell’apertura al dialogo diretto con Dio. Ogni cosa rientra per Hegel nella logica del mondo, ogni cosa vi si colloca al posto giusto e risponde alle sollecitazioni provvidenziali che la portano avanti, fino all’estrema ratio, quella che annulla ogni cosa nell’ordine perfetto dell’esistente.

Non c’è modo di controbattere queste tesi restando all’interno di una logica delle contrapposizioni dialettiche. Nessuna di queste partizioni si può isolare in se stessa, nessuna di esse può fornirsi di fondamento autonomo, tutte si trovano collegate irrimediabilmente. D’altro canto, non è con una petizione di principio che possiamo “cancellare” la dialettica, allo stesso modo in cui Bakunin diceva che non si può abolire lo Stato per decreto. In altre parole possiamo dire che noi non siamo pensatori dialettici, e con questo cercare di dare un ordine diverso al nostro modo di pensare, ma questo lo diceva, e faceva, lo stesso Hegel. Possiamo dire che vogliamo rispecchiare la realtà, mantenerci con i piedi per terra e far vedere come ogni tentativo di pacificazione è rigettabile in nome dell’inconcussa fiaccola della ribellione, ma questo lo faceva lo stesso Hegel. Quello che Hegel non diceva (e non faceva) era di andare al di là di questo semplice “dire”. Ma come si fa ad andare al di là di un’affermazione che, essendo metodologicamente programmatica, non solo fissa parametri di riferimento all’indietro – cioè nei riguardi di posizioni che stanno ben fisse a osservare i nostri movimenti – ma anche si proietta in avanti verso quei limiti poco chiari che essa, in quanto affermazione programmatica, dovrebbe contribuire a chiarire? Al di là di ogni dubbio “facendo”, cioè realizzando se stessi fino in fondo. Ma nessun fare, anche portato fino in fondo, permette la realizzazione di se stessi. Il mondo che ci ospita possiede una serie di ruoli che ci imprigionano e che si rinviano uno all’altro. Spezzare uno di questi ruoli non significa abbattere tutta la catena. Si potrebbe correre il rischio di passare tutta la propria esistenza a spezzare ruoli e ritrovarsi incapsulati nel ruolo di chi spezza i ruoli, un ruolo magari creato apposta per noi, i pierini della classe, gli outsider, i reietti, marginalizzati ma pur sempre partecipi come gli antichi gozzuti di una società che non ci ama ma che comunque ci riconosce come gozzuti, quindi ci accetta. Andare oltre, spezzare e tagliare, procedere nella giungla recidendo tutte le liane che ci stanno attorno. Un momento, ma dove conduce questa scelta che appare sulle prime tanto significativa? E poi, è essa stessa una nostra scelta? Oppure dietro di essa si annuncia la mano di chi concede il proprio riconoscimento accettandoci proprio perché col nostro ruolo di oppositori lo riconosciamo come nostro nemico?

Si tratta qui di delineare, come ho fatto qualche volta, le caratteristiche dell’oltrepassamento. La propria condizione è una specificazione che ci circonda e che manteniamo in essere con quello che facciamo. Ciò vale per tutti, anche per gli anarchici che fino a prova contraria è in questo mondo che menano la propria esistenza ed è di questo mondo che parlano quando si prendono a cuore la propria sorte e quella degli sfruttati. Continuando a fare, ciecamente, rafforzano la propria condizione e consentono, via via in maniera sempre più dettagliata, il riconoscimento della controparte. Così corriamo dietro alle scadenze che altri hanno fissato per rispondere “a nostro modo”, per attaccare, per sovvertire l’ordine esistente. Possiamo interrompere, fino a un certo punto, questa falsa coscienza che ci imprigiona all’interno di un ruolo, prendendo veramente l’iniziativa, cioè riconoscendoci per “catturati” all’interno di un carcere non ancora costruito ma in via di perfezionamento. L’iniziativa, passando in mano nostra, ci indica un orizzonte diverso: non più quello che viene fuori dal progetto dell’avversario, quindi dal suo riconoscimento, ma dal nostro progetto, dal nostro individuale progetto che è l’assenza di ogni progetto prefissato, di ogni orticello coltivato in comune col nemico. Questo orizzonte siamo noi stessi, diventare noi stessi è il progetto nuovo che è soltanto nostro e non è condivisibile dal nemico il quale vuole a tutti i costi che noi diventiamo altro da quello che siamo, cioè diventiamo il ruolo che ci imprigiona e che ci caratterizza. Nel riconoscerci in quanto anarchici – per restare nell’esempio – il potere vuole catturarci nel ruolo di anarchici, quindi farci diventare diversi da quello che siamo, diversi secondo i suoi schemi di ragionamento. Il procedimento è uguale a quello con il quale il potere produce ladri e giudici, poliziotti e impiegati al catasto, casalinghe e piloti di formula uno. Cercando di diventare noi stessi, proprio quello che siamo, noi oltrepassiamo questa divisione, andiamo oltre ogni spartiacque voluto dal nemico. Eppure l’oltrepassamento non è un movimento semplice. Non è per niente facile diventare quello che si è.

Poiché nulla di quello che siamo diventati grazie al fare ci appartiene veramente, dobbiamo costruire qualcosa che sia diverso, una coscienza diversa, un modo diverso di vedere il mondo e noi stessi nel mondo. Questo è possibile intensificando la conoscenza di quello che siamo, differenziandoci dal ruolo che gli altri ci vogliono a tutti i costi riconoscere. Nel cogliere tutti gli aspetti della differenziazione andiamo oltre ogni limite, rifiutando di accettare ogni tipo di compromesso, anche quello che ci consegna alla caratteristica principale, quella che riteniamo indispensabile, al nostro stesso essere ribelli, desiderosi soltanto di distruggere il nemico e le sue concretizzazioni. Scendendo nelle profondità del ruolo ne scopriamo tutte le caratteristiche e ognuna di queste si trova in relazione con una caratteristica della controparte. Più conosciamo noi stessi più conosciamo la controparte. Le nostre proposte di lotta diventano così altrettante individuazioni di punti e luoghi sconosciuti del potere, perché sono prima di tutto sconosciuti a noi stessi. Sperimentare vuol dire mettersi in gioco, mettendo così in gioco gli standard del nemico, così ben espressi nelle realizzazioni e nei processi produttivi che ci soffocano. Non esiste un limite a questo movimento, se non quello che decidiamo noi stessi di considerare tale. Poiché questa considerazione ci viene sempre indotta dall’esterno essa è un messaggio indiretto della controparte, un consiglio suadente che spesso siamo portati a non rifiutare. La nostra volontà è schiava di questo meccanismo di accettazione ed è bravissima nel proporre l’accettazione stessa come sua autonoma determinazione. Ci accade così di riconoscere il padrone, ma a livelli da questo insostenibili. Troppo intimamente siamo penetrati nella sua struttura, cogliendo espressioni che non gli sono congeniali, alle quali potrà adeguarsi ma con sforzi considerevoli e costi non sempre programmabili. Tutto ciò non costituisce una guida perché non corrisponde a un modello preciso. Ognuno di noi è un universo a se stante, provvisto di regole interpretative che sono mutuabili con quelle del potere solo a condizione di rifiutare se stessi e accettare un progetto di “miglioramento”, un divenire radioso in cui ognuno provvede a scalare qualcosa: una piramide di successi che ben presto si rivela una corsa assurda verso l’inconsistenza del futuro. Se io voglio, al contrario, diventare me stesso, ecco che le mie regole risultano incomprensibili per il potere, non sono riconoscibili – almeno non del tutto e non immediatamente – pur essendo individuabili, a qualsiasi livello di “diversità” da altri individui che imprevedibilmente si trovano a cogliere quelle affinità che nessuno può prevedere o codificare. Ciò non vuol dire che finalmente si è potuta realizzare una frattura col potere, non vuol dire nemmeno che con il movimento verso una coscienza diversa siamo riusciti ad accedere in un territorio “liberato”, solo vuol dire che il riconoscimento da parte del potere si fa sempre più difficile, mentre al contrario la nostra azione si fa sempre più efficace in quanto cogliamo elementi della controparte non facilmente accessibili ai meccanismi di organizzazione specifici del potere.

Che il nemico si dia un progetto globale, come in questi ultimi anni si va strombazzando da più parti, è poco credibile. La globalità non coglie la totalità per il semplice motivo che la totalità è la negazione del progetto e non può esistere progetto totale. La globalità può rivolgersi a una gestione del mondo nel suo insieme, può promuovere il controllo di meccanismi produttivi che siano tutti collegati fra loro in una rete ormai possibile grazie al tempo reale delle comunicazioni, ma questo non annulla le differenze e non attenua lo sfruttamento, solo sviluppa per tentativi e prove nuovi progetti, sempre a breve termine, capaci di aggiustare una parte del sistema scombinandone cento altre. Il destino di qualsiasi programmazione è quello di cadere nel ridicolo. Ma i capitalisti non se ne danno pensiero: garantito il loro tre per cento, vanno avanti alla ricerca di sempre nuovi spazi di investimento. Dell’umanità e del futuro sono i filosofi a preoccuparsi, tutto rientrando nel gioco delle parti. Da qualsiasi parte si guarda non esiste un meccanismo forte degno di questo nome. Non esiste non perché siano cambiati i tempi ma perché non è mai esistito, sono stati i filosofi e gli scienziati a immaginarselo per spiegare il mondo e per avere un punto di appoggio su cui fondare le loro certezze. La favola di dovere arrivare fino in fondo a ogni “fase” di questo meccanismo è stata essa pure inventata per spiegare in che modo il meccanismo funzionasse. Era infatti ovvio che non potendo procedere diversamente da come procedeva il suo sussistere corrispondesse alla ragione che lo animava. La realtà esiste, e su questo non ci sono dubbi, e per il fatto che esiste deve corrispondere a se stessa. Come ogni tautologia questa affermazione è molto convincente. Tutte le possibilità di essere altrimenti sono affidate al futuro, e qui si collocano le differenze tra i pessimisti e gli ottimisti, tra gli interessati ai destini radiosi dell’umanità e coloro che pensano soltanto ai propri interessi e al famoso tre per cento. Ora, se la realtà è quella che è – muso duro non ammorbidisce la pietra – anche le nostre lotte sono collocate in essa, non sono poste “altrove”, per cui è giusto che richiedano un corrispettivo plausibile: miglioramenti, strutture diverse del vivere sociale, la pace e la felicità per tutti, un lavoro più sicuro e meno faticoso, ecc. Alla fine, somma dei desideri rivoluzionari, l’esproprio dei mezzi di produzione e l’organizzazione del lavoro su base comunitaria. Il comunismo, anarchico, per cortesia. In questa prospettiva, e in tutte le varianti a essa simili, il meccanismo viene ipotizzato esistente e agente davanti ai nostri occhi, per cui ogni singola fase della storia (Hegel o non Hegel) deve essere portata a completamento fino in fondo, pena la presenza di residui ritardatari capaci di sviluppare forze contrastanti col meccanismo progressivo di liberazione. Il rafforzamento del nemico, all’interno del meccanismo, corrisponde a un rafforzamento della controparte: cresce il potere e cresce il contropotere. Il processo benefico della lotta produce alla fine il felice risultato che tutti desideriamo: una società libera senza classi e senza sfruttamento. Come si vede, accettando l’ipotesi di partenza tutto il resto – anche le aberrazioni più estreme – diventa inevitabile. Non si tratta, come è stato detto, di un determinismo fatalista, si tratta di un modello che imprigiona ogni prospettiva all’interno del processo accettato per buono, del fondamento che si ritiene utile per dare solidità alla propria concezione della storia e quindi anche alle proprie decisioni riguardanti il futuro. Se l’esistenza di una parte è basata sul riconoscimento che la parte avversa riesce a sviluppare, se questo riconoscimento viene fuori non solo dalla decisione della parte avversa ma principalmente dal genere di rapporto che si sviluppa tra le due parti, è logico che ogni posizione debba essere sviluppata fino in fondo, che ogni possibilità venga esaurita in tutte le varianti possibili. Solo che questo andare fino in fondo non è che un itinerario della fantasia. Nel rafforzamento della borghesia visto come condizione indispensabile da Marx per la costituzione, nella Germania del suo tempo, di un forte movimento proletario non c’è un limite preciso. Si tratta di una ipotesi che aveva per modello la borghesia francese e quella inglese, di certo più avanzate della frantumata e arretrata borghesia tedesca, ma il ragionamento, per quanto impostato su considerazioni economiche di tendenza, non è sbagliato per questo aspetto scarsamente attendibile ma proprio per il modello che sta alla sua base, cioè il modello dialettico. Parimenti sbagliata sarebbe la pretesa di riuscire a chiamarsi fuori con una semplice dichiarazione di principio. Non sono le parole a fare la differenza.

Essere radicali, esserlo sempre di più, esserlo in modo da apparire più avanti degli altri che si considerano contrari agli attuali gestori del potere, questa strada non porta che alla specificazione del ruolo, del proprio ruolo di contrappositori. Che tristezza quella di riconoscersi per l’altra faccia della medaglia. Il fatto di sapersi comunque dentro il gioco che si sta conducendo è una cosa, il pensarsi altro da questo per il semplice fatto di rivestire una maglia dai colori diversi, è un’altra cosa. Se tutti partecipiamo del possibile mai realizzato ma sempre intravisto, non tutti lo facciamo alla stessa maniera. Eppure siamo tutti dentro l’ordine esistente, quindi in un certo senso siamo tutti responsabili della repressione e dello sfruttamento. Siamo all’interno di un processo che cambia continuamente e che ci cambia senza sosta, siamo noi stessi la forza collettiva che viene schiacciata e che concorre allo schiacciamento. Siamo noi che creiamo e che spegniamo la nostra stessa creatività, che cooperiamo alla realizzazione del futuro e che smussiamo tutte le possibili aperture alla diversità per paura o per acquiescenza. La molteplicità delle strutture che presenta oggi il potere costituito, le infinite variazioni del capitale, l’accelerazione massima delle possibilità di ristrutturazione dei processi produttivi, la flessibilità e la globalizzazione del sistema mondo, tutto questo produce occasioni di lotta, scadenze che vengono di volta in volta affrontate ed esaurite, producono dissenso e rassegnazione, ubriacature di gioia e tristi ripiegamenti in grembo ai più imbecilli conduttori della nuova sovversione teleguidata. Dobbiamo andare oltre questo panorama agghiacciante. Cercare azioni che colpiscano il potere al di là della specificità a cui le ristrettezze geografiche della produzione di una volta ci costringevano, oggi è possibile. Mille suggestioni ci bombardano da tutti i lati, sommergendoci nella uniformità che la stessa molteplicità cova dentro di sé ed esprime nelle forme più banali. Eppure da queste stesse suggestioni possiamo approfondire quei livelli inaccessibili al potere, o raggiungibili solo dopo i nostri interventi. Andare ad attaccare questi livelli è un compito rivoluzionario che passa attraverso la costruzione di una coscienza diversa. Ciò merita un approfondimento. In che modo, per esempio, si modificano i rapporti di dominio a seguito dei cambiamenti della condizione produttiva nel suo insieme? In che modo questi due aspetti, con tutte le loro interrelazioni, si rapportano alle modificazioni della formazione sociale? La nuova gestione politica del potere, con le sue crisi di identità riguardo i partiti e i sindacati, come può concorrere a indicare nuovi livelli di intervento, nuovi obiettivi da colpire, in nuovi modi? Lo sviluppo tecnologico in che modo può concorrere esso stesso a suggerire nuovi livelli di scontro, al di là della stupida, e circoscritta, affermazione che la tecnologia può mettere a disposizione nuove armi e nuovi obiettivi da colpire? Non sono domande oziose, se non altro perché non conosciamo risposte certe.

«Ogni gioco – ha scritto Roger Caillois – presuppone l’accettazione temporanea, se non di un’illusione (per quanto quest’ultima parola non significhi altro che entrata in gioco in-lusio), almeno di un universo chiuso, convenzionale e, sotto determinati aspetti, fittizio. Il gioco può consistere non già nello sviluppare un’attività o nel subire un destino in un contesto immaginario, ma nel diventare noi stessi un personaggio illusorio e comportarci in conseguenza. Ci troviamo allora di fronte a tutta una serie di manifestazioni che hanno come caratteristica comune quella di basarsi sul fatto che il soggetto gioca a credere, a farsi credere o a far credere agli altri di essere un altro. Egli nega, altera, abbandona temporaneamente la propria personalità per fingerne un’altra». (I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine [1958], tr. it., Milano 2000, pp. 36-37). Contrariamente all’interpretazione corrente che questo passo propone, implicita in esso ci sta un’altra lettura. Come sempre accade questa seconda lettura ne introduce infinite altre, tutte contrarie, forse, all’intenzione del lettore perbene, ma non credo del tutto lontane dalle motivazioni dell’autore. Si tratta di un problema interpretativo che meriterebbe altri approfondimenti, che rinvio a un futuro spero non lontano. La seconda considerazione che voglio sviluppare è la seguente: ogni personalità (questa parola è fuorviante) finge di essere tale e attribuisce a questa finzione il crisma della serietà. Il gioco propone alternative – un essere diverso da quello che si è – che apparentemente sembrano un’entrata nel mondo della finzione ma che potrebbero essere invece l’accesso al vero modo di essere quello che si è. Il gioco sarebbe, secondo questa seconda lettura, la realtà di quello che si è, “diventare nel gioco” significa vivere la propria vita negando l’esistenza che pretende imporre un ruolo credibile. L’incredibilità del nostro essere noi stessi è talmente profonda che solo nel gioco diventa (parzialmente) accessibile, ma la realtà che ci circonda condanna questo accesso come un divertissement, come qualcosa di poco serio che serve a distogliere dalle proprie responsabilità e dal proprio compito sociale. Se io gioco e propongo un mio modo di essere che non è quello del ruolo che mi ricopre come una scorza, ecco subito un campanello di allarme: costui è pazzo. Ogni gesto viene allora derubricato nella divagazione, nel non essenziale, nell’apparenza e nella falsità. Mi piacerebbe riuscire a cogliere la sorpresa degli astanti, il loro sconcerto nel constatare la distanza tra quello che si aspettavano di vedere e quello che propongo loro sotto gli occhi, e tutto dipende dalla loro abitudine a vedere soltanto il ruolo, la maschera che la complicità inevitabile col potere mi mette sul viso e a cui sono attaccato come persona, malgrado le difficoltà che trovo nel fare arrivare il mio messaggio attraverso la bocca di cartapesta e gli occhi di celluloide. Non pretendo qui di indicare un percorso di verità, quanto un movimento verso la verità, un procedere qualitativamente diverso indirizzato alla costruzione impervia di me stesso, di quel me stesso che soffoca costretto com’è a indossare abiti smessi e ad agitare non raramente paccottiglie di seconda mano. Nel gioco – e quindi nell’azione come gioco – diversamente all’alternarsi ripetitivo dei ruoli, questo sì indirizzato soltanto al conseguimento di un vantaggio finale, rispetto al dispiego effettivo delle forze, lo scopo si mantiene tutto interno alla stessa attività, è fine a se stesso, si consegna senza residui all’àmbito del piacere, all’appagamento di un qualcosa in più. Se c’è da conseguire un risultato positivo il fatto è assolutamente marginale rispetto alle finalità intrinseche dell’azione, all’eccesso che spinge a giocare, ad agire. Questa eccedenza non è accettabile nel mondo dove regna il principio economico della massimizzazione degli utili e della minimizzazione dei costi.

L’assolutamente estraneo al mondo che ci ospita non esiste, né il vento dell’Est può portarne notizia. Chi non segue le regole del dominio non per questo non ha regole sue, come chi non parla la nostra lingua, non per questo non ha una sua lingua con cui esprimersi. Può anche darsi, e credo sia proprio così, che chi non accetta di misurarsi col potere ma lo sposti come un moscerino fastidioso davanti agli occhi, abbia la beata condizione della non conoscenza, cioè sia realmente distante da quella coabitazione che rende intelligibile lo sfruttamento agli sfruttati, può darsi ma non per questo non ha un suo metro di giudizio per fissare rapporti sociali e condizioni interpretative della realtà. La sua realtà, che qui ipotizzo arcaicamente separata, è pur sempre una realtà compiuta, bastevole a se stessa e coerente con gli elementi interpretativi che la costituiscono. Magari un’orda del genere non produrrà in tempi brevi un libro di “croniche” o un trattato sulle coniche ma riuscirà lo stesso a sopravvivere affidandosi alla propria sete di libertà, prima di tutto libertà dai bisogni quasi sempre non completamente soddisfatti. Salvo a immaginare un’accozzaglia di beoti in preda ai fumi della propria felice condizione sociale, di regola una formazione sociale del genere ha al suo interno mezzi sufficienti per “capire” il nemico. Per un certo tempo potrà anche tenere in sospeso questi mezzi, distanziarsi e darsi atteggiamenti capaci di distinguere, ma non ci saranno colori o ciondoli o amuleti sufficientemente forti da garantire questa sospensione per sempre.

In fondo nessuno può dire, dall’interno, che cosa sente realmente quest’orda di cui parliamo, in quanto se per avventura sua viene a trovarsi all’interno non ha motivo alcuno per parlare in quanto dall’interno di quest’orda non si parla. Ci sono portavoce dei dissidenti, non di un’orda che non intende scendere a partito, ci sono portavoce e perfino scrittori di libri, giornali e opuscoli, ma non posso pensarli all’interno di un’orda che è estranea a tutto il mondo che ci circonda e che, a cominciare dalla lingua, dà significato alla parola scritta (e anche a quella parlata). Solo che la semplice esistenza di questo movimento (chiamiamolo così, visto che queste righe sono scritte da qualcuno che non può fare parte di quell’orda) è una comunicazione, se si vuole non facilmente comprensibile, ma comunque ricca di contenuti, di messaggi, di progetti, di denunce etiche, ecc. E questa comunicazione viene recepita, non può non esserlo, in quanto tutto viene rimescolato nel tutto del mondo che ci opprime e ci mantiene in esistenza. Il rimescolamento avviene quotidianamente, non è un fatto programmato a distanza, non c’è una intenzione delittuosa da parte di qualcosa, è proprio il processo stesso dell’esistenza così come si è andato definendo negli anni più recenti che produce questo calderone. E non è neanche vero del tutto che il messaggio viene inglobato nelle idee del potere costituito e qui snaturato nella sua essenziale significatività, al contrario questo processo è molto più complesso. Quella comunicazione viene fatta propria, le idee che passano (anche se non scritte o dette) vengono a fare parte del patrimonio del potere e qui trovano modo di modificare alcune delle coordinate del comportamento repressivo. Nel senso contrario, quel comportamento “altro”, che l’orda priva di lingua intelligibile aveva manifestato, e che sembrava la sua caratteristica essenziale, a poco a poco prende nuove forme, più addomesticate, si può dire che quella furia iniziale si accasa, si adegua, si ammorbidisce. Solo chi in quell’occasione aveva sviluppato una coscienza diversa può intraprendere percorsi tutti da scoprire, ma quel qualcuno non necessariamente quel suo itinerario personale lo aveva alimentato all’interno del silenzio linguistico di cui l’orda era portatrice. Innamorarsi di certe posizioni estreme può essere foriero di disillusioni. In altro modo le cose potrebbero andare se a proporre una radicalità mai vista, del tutto non concepibile sulla base dei parametri comuni, sia la stessa forza collettiva sollecitata da condizioni di anomia della formazione sociale nel suo insieme. Che questa anomia, o incapacità del potere costituito di far fronte ai suoi impegni, prenda questo o quell’aspetto concreto di mancanza non è di primaria importanza, basta che ci sia. Le condizioni dello scontro potrebbero allora essere del tutto diverse. Con buona pace dei modelli di qualsiasi genere. E che la distruzione cominci.

Trieste, dicembre 2002

Alfredo M. Bonanno

Introduzione alla prima edizione

La mia conferenza su Stirner come filosofo de L’unico [del gennaio 1994] e l’itinerario diretto a ricostruire una “Teoria dell’individuo”, percorso in varia maniera in altri scritti miei qui presentati, mostrano, almeno mi pare, una coerenza di intenti che li legittima a una nuova vita insieme.

Nel raggelante panorama attuale delle letture anarchiche, tornare alle fonti de L’Unico e la sua proprietà è sempre una scossa radicale. Questo spiega, se non altro, la persistente fortuna di uno strano libro che nessuna preoccupazione avrebbe dovuto sollevare nelle attente previsioni del potere, e nessuno, o quasi, interesse nei suoi poco probabili lettori. Mai profezia fu meno attenta.

Mi capita spesso di leggere qualche pagina de L’Unico, anche quando sono intento ad approfondire argomenti di altro genere. Ed è sempre un breve itinerario su un territorio sconosciuto.

Stirner è una lama affilata che penetra in profondità, che non ammette soste, che non si ferma a metà strada, arriva fino in fondo, subito. E lo fa soltanto col pensiero. I fatti, se ci sono, a volte, sono lì per stornare l’attenzione, per ricondurre i piedi a terra e quindi suscitano perfino un sorriso di compiacenza. Il pensiero no. Si muove in maniera lineare, taglia via i ponti con la realtà e con il perbenismo delle comparse intellettuali che si inchinano a vicenda prima di dirsene quattro, annacquate annacquate, che fanno poi tutti i salamelecchi di scusa se, per caso, gli è occorso di toccare qualche nervetto. Il pensiero nudo e crudo di Stirner è un atto barbarico di rara ferocia, eccessivo, il classico elefante che con la sua pachidermica mole si fa spazio nel negozio dei ninnoli filosofici.

Un maestro c’è, ed è evidente, ma è uno strano maestro, quell’Hegel che affilava lame anche lui, per poi fermarsi a metà strada, spuntandone con cura la parte più pericolosa e costruendo proprio in quel punto i nuovi pilastri del potere. Stirner oltrepassa questo punto (Marx aveva invece fatto semplicemente un ulteriore passo indietro nei riguardi del suo maestro – in questo consiste la faccenda della testa e dei piedi della dialettica), l’oltrepassa senza quasi che il lettore se ne accorga. Dopo Stirner non è possibile nessun uso del pensiero se non al di qua della linea di barbarica rarefazione della civiltà e delle sue condizioni di accomodamento che lui tracciò, in maniera attenta, spesso quasi senza farsene accorgere.

Il passo successivo è soltanto l’azione, il regno delle chiacchiere è diventato indicibile. “Io voglio soltanto essere io. Io disprezzo la natura, gli uomini e le loro leggi, la società umana e il suo amore, e recido ogni rapporto generale con essa. E già faccio una concessione se mi servo del linguaggio, io sono l’ indicibile, io mi mostro soltanto”.

Il pensiero che mette fine alla chiacchiera è fatto passare per qualcosa di primitivo, di non sufficientemente acculturato, qualcosa che non conosce garbo e maniere. Ecco perché lo considero barbaro, perché in termini dell’ortodossia linguistica dell’accademia si limita a volte a balbettare nell’impossibilità di continuare a dire la grande pressione emotiva che sta dietro, che sta dentro e che non riesce a venire fuori. Ma perché dovrebbe venire fuori in un ulteriore distinguo del meccanismo hegeliano del pensiero, anche questo, ultimo elemento di comune comprensione, che finisce per essere buttato a mare? Persino i neokantiani provarono a chiedersi chi mai fosse costui, e che volesse dal loro cicaleccio coordinato, visto che di metodo, dopo tutto, se ne curava poco.

Non voglio dire che gli anarchici, da parte loro, si siano tutti resi conto di che cosa significa leggere Stirner. Qualche volta, per motivi non molto dissimili dall’accademia, le loro letture sono state altrettanto desiderose della nenia confortatrice che ritma i momenti precedenti al sonno. E perché dovevano andare diversamente queste letture? Forse che gli anarchici hanno una pietra filosofale nascosta, un qualche segreto che getta luce nel territorio della teoria? Non credo, almeno non lo credo se con questo s’intende una sorta di privilegio prodotto dal semplice fatto di pensarsi anarchici e di dirlo, come categoria dell’esistente, quella consolidata nella profonda e incontaminata purezza del rifiuto del potere. Stirner si sarebbe beffato anche di loro.

Con perfetta osservanza dei princìpi dell’anarchismo.

Catania, 20 agosto 1998

Alfredo M. Bonanno

I. Max Stirner, il filosofo dell’unico

Un discorso su Stirner, un filosofo di poche parole che al centro della propria analisi pone un concetto dichiaratamente indicibile, un concetto che fa a pugni con la possibilità di essere esposto: il concetto dell’unico.

In effetti, questo filosofo è stato fruito un po’ in tutte le salse, è stato cucinato in tante maniere, è stato utilizzato dall’accademia ma è stato utilizzato anche dalle piazze, è stato utilizzato dai filosofi di mestiere ed è stato utilizzato anche dai rivoluzionari. In una conferenza di circa un’ora è difficile riuscire a dare un’idea dell’estrema complessità del pensiero di Stirner. Cercherò di venirne a capo insieme a voi: uno sforzo reciproco per accostarci a un problema affascinante.

Stirner, come dicevo, si può capire in tanti modi. Lo si può leggere direttamente (qua, su questo tavolo, c’è il suo testo essenziale: L’unico e la sua proprietà), lo si può leggere come un romanzo, lo si può leggere come un libro che tecnicamente, fondatamente, ha aspetti di analisi filosofica.

Il mio tentativo di oggi sta un po’ a metà. Cercherò di dar conto delle radici sulle quali e dalle quali questo libro trova origine, e cercherò di far vedere con quali possibilità di utilizzo questo libro può essere letto.

Trovandoci in una Facoltà universitaria di Filosofia qui dentro dovrebbero esserci non pochi studenti di filosofia e anche parecchi compagni che hanno una preparazione di storia della filosofia. Aprirò quindi una parentesi che per loro potrebbe essere superflua ma che forse non lo sarà per tutti gli altri ascoltatori.

Stirner si inserisce nel clima della filosofia hegeliana. Oggi, a distanza di tempo, e al di là di quello che si racconta nei libri di storia della filosofia, è difficile farsi un’idea di che cosa poteva significare la spaventosa macchina del pensiero hegeliano. Che cosa questo meccanismo era riuscito a concretizzare nella cultura tedesca dell’epoca, e quanto riuscirà poi a incidere nella storia del pensiero filosofico considerato nell’insieme del suo svolgimento. Un uomo (Hegel) capace di portare alla luce un flusso di intuizioni che come un fiume sotterraneo aveva attraversato tutta la storia del pensiero umano, comunque tutta la storia del pensiero filosofico occidentale.

Facciamo insieme un piccolo passo indietro. Come sapete Immanuel Kant si pone a un crocevia. Riassume le condizioni del pensiero filosofico precedente, ma si limita a indicare quelle che sono le condizioni costitutive di ogni possibile metafisica futura, di ogni possibile sviluppo del pensiero filosofico. Dopo Kant, e queste sue riduttive intenzioni, nasce il grande idealismo filosofico tedesco (Johann Gottlieb Fichte, Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, Georg Wilhelm Friedrich Hegel).

Il problema lasciato aperto da Kant è quello di capire che cosa c’è dietro il fenomeno, che cosa l’uomo può essere in grado di comprendere al di là dell’apparenza fenomenica della realtà. In effetti, anche oggi noi, nella vita di tutti i giorni, vediamo le conseguenze e la portata di questo problema che apparentemente sembra un’astruseria tecnica. Se consideriamo la realtà, per come la conosciamo, abbiamo di questa realtà una nostra creazione. Non esiste un oggetto, non esiste un fatto che non sia stato inventato, possiamo dire, creato dall’uomo. La stessa natura è una produzione dell’uomo, in quanto è una catalogazione, un’archiviazione operata dai processi conoscitivi dell’uomo. Cosa c’è dietro questo apparato conoscitivo, cos’è la cosa che sta dietro, cos’è il noumeno che sta dietro il fenomeno, cos’è la cosiddetta cosa in sé?

Sono queste le domande che si posero gli “eredi” di Kant. E le risposte, sinteticamente (a parte un periodo di transizione: Salomon ben Josua Maimon, Jacob Sigismund Beck, ecc.), sono le seguenti: la prima, la risposta di Fichte: la capacità dell’Io di costruire e inglobare, di mangiarsi, la realtà. La seconda, quella di Schelling (del primo Schelling, del periodo in cui, in un certo senso, era maestro di Hegel): la capacità della natura e dell’arte di spiegare la realtà (e quindi il secondo momento, l’Io-natura). La terza, quella di Hegel: la capacità di riassumere la realtà all’interno di una nuova sintesi.

Perché sto parlando di questi aspetti, che in un certo senso risentono un po’ della manualistica scolastica? Perché Stirner non è comprensibile fino in fondo se non lo si colloca all’interno di quello che era il clima filosofico della sua epoca, clima contrassegnato dalla dimensione teorica hegeliana.

Occorre quindi che ci addentriamo per forza nella struttura del pensiero di Hegel, pensiero molto complesso che cercherò di riassumere in poche parole. Innanzitutto c’è un bel viaggio della coscienza, per come è descritto nella Fenomenologia dello Spirito [1807]. La certezza sensibile dell’io si pone come unico strumento possibile per conoscere la realtà. Si tratta di uno strumento povero in quanto rende certi soltanto dell’esistenza di un generico io capace di volere. Ma la percezione della realtà, come capacità di definire l’oggetto della conoscenza nell’àmbito delle sue specificità, si basa su di una capacità di fornire, a questo insieme molteplice, una unità, processo a cui provvede l’intelletto. È quindi l’intelletto a stabilire, nella percezione, una differenza tra l’oggetto e il processo del suo riconoscimento, il superamento di ogni specificazione nell’unità percettiva. Questo risolve completamente la percezione nella coscienza, che così diventa autocoscienza.

L’autocoscienza ha una sua storia, in quanto si frantuma in una serie di figure e di fasi che si sviluppano progressivamente. Tenete presente che queste fasi, che sotto certi aspetti possono sembrare chiare, ma che per altri aspetti non lo sono, per come si sono sviluppate nel pensiero di Hegel (Mondo antico, Medioevo, Mondo moderno), le ritroveremo, con la stessa schematizzazione, nel pensiero di Stirner. Nel Mondo antico l’antitesi tra servo e signore, il conflitto, la lotta per la vita e la morte da cui la coscienza servile esce vincitrice. Nel Medioevo questa coscienza, servile e vincitrice, incerta di sé, quindi dolorosamente infelice, cerca una sintesi superiore e la trova nell’ascetismo, nella religione. Infine nel Mondo moderno, in cui l’autocoscienza trova se stessa nella dimensione della ragione, quella dimensione cioè in cui si realizza in quanto tale nelle istituzioni della realtà: la famiglia, la società, lo Stato.

Parallelamente a questo svolgimento, che troviamo nella Fenomenologia dello spirito, uno dei libri più entusiasmanti di Hegel, avviene un altro svolgimento del pensiero hegeliano, quello contenuto nella Scienza della Logica [1812-1816]. Teniamo presente che il libro di logica di Hegel è un libro totalmente diverso da qualunque altro libro di logica, non ha nulla a che vedere con l’Organon [IV s. a.C.] di Aristotele, per esempio. Hegel afferma che la logica è l’idea, le vicende della logica sono le vicende dell’idea e quindi le vicende dell’idea sono le vicende di Dio, perché la logica è Dio. La Logica assume qualsiasi movimento come distribuito in tre fasi, riflettendo in questo la tripartizione precedente. Abbiamo visto le fasi precedenti (Mondo antico, Medioevo e Mondo moderno) e adesso le vediamo riflesse nelle fasi della logica: come prima fase l’idea in sé e per sé, cioè prigioniera della propria chiusura, poi l’uscita, dapprima nella fase della natura, l’idea alienata nell’esteriorità, e poi, nella filosofia dello spirito, l’idea che, ritornata a sé, supera le fasi della chiusura filosofica e dell’estraniazione oggettiva. Hegel ricorda spesso l’esperienza di quando vide per la prima volta lo spettacolo bellissimo delle Alpi e non sentì nessuna emozione: per lui quello spettacolo non esisteva, non gli diceva nulla, era l’estraniazione dell’Io.

La filosofia dello spirito: la scienza dell’idea che ritorna a se stessa, fuori dell’alienazione. Nella prima fase è l’idea in sé e per sé. L’esistenza appare in certa misura non definibile, in quanto non è definibile dal nulla, non è separabile dal nulla, appare come confusa tra essere e nulla. È dalla commistione tra questi due movimenti che viene fuori il divenire. Dal divenire scaturisce l’essenza dell’esistenza, il fenomeno, ciò che è visibile, la dimensione percepibile e, da questo contrasto, che si supera, viene fuori il concetto, la realtà come essenza di se stessa, l’idea.

La seconda fase della Logica, come sappiamo, è la natura, la terza è lo spirito. Lo spirito soggettivo, lo spirito più piccolo, quello più ridotto, l’antropologia, la scienza delle condizioni oggettive, della vita giornaliera del giorno per giorno. Ma questo spirito oggettivo si pone come autocoscienza, l’abbiamo visto nella Fenomenologia dello spirito, e intraprende il viaggio, diventa autocoscienza di sé e diventa finalmente libero. E in che cosa diventa libero lo spirito soggettivo? Ricordate l’intestazione che c’era nei lager nazisti? Diventa libero nel lavoro, diventa libero attraverso il lavoro, diventa libero nelle realizzazioni pratiche, diventa libero nello Stato.

Qua si costruisce veramente la base di ogni futura reazione, di ogni futura conservazione del pensiero, della metodologia, delle istituzioni, della grande Germania che andava nascendo dalla piccola Prussia estremamente militarizzata. È attraverso questo piccolo professore di provincia, che teneva le sue lezioni in dialetto prussiano, che si svilupperà il nocciolo centrale di quello che sarà il pensiero reazionario del futuro. Ecco perché ancora oggi, da tutt’e due i versanti, progressista e conservatore, si discute sulle vicissitudini dello spirito soggettivo: in che modo il soggetto riesce a liberarsi esclusivamente attraverso l’accettazione dell’istituzione, in che modo diventa libero nell’attività pratica, in che modo diventa libero e quindi acquisisce la volontà di liberarsi, la volontà di libertà. E in che modo la volontà di libertà diventa spirito oggettivo, non più soggettivo. Spirito oggettivo che viaggia nella storia, che si realizza nelle istituzioni spaziali e concrete della storia, che si realizza nel diritto dove il soggetto diventa persona, titolare di diritti, con i caratteri della proprietà, che si realizza come soggetto proprietario, che si realizza nella moralità, in quanto attraverso la concezione morale acquisisce la libertà nella volontà o la volontà nella libertà e, dalla sintesi di questi due elementi, nella eticità, in quella dimensione oggettiva in cui si realizza la realtà etica: la famiglia, la società, lo Stato. Vi ricordate la frase di Giovanni Gentile? “Lo Stato è l’essenza etica della realtà”. Lo Stato etico dei fascisti nasce qui, in questa analisi hegeliana.

Dall’unione e dal superamento di spirito soggettivo e spirito oggettivo viene fuori lo spirito assoluto. Cos’è lo spirito assoluto? La concretizzazione finale dello spirito che si realizza nei suoi tre momenti: nell’arte, nella religione, e dall’unione di arte e religione, nella filosofia. La conclusione del pensiero hegeliano è autocoscienza, spirito assoluto, filosofia. La filosofia realizzata. Ecco perché Hegel, senza nessuna ombra di autoesaltazione, poteva dire in tutta sincerità: “Io non insegno una filosofia, io sono la filosofia”. Pensava che con lui si concludesse il processo di sviluppo della filosofia.

Questo discorso che sto sviluppando, un po’ ingarbugliato se vogliamo, un po’ approssimativo, carente per molti aspetti, ci mette in condizione di capire almeno una cosa. C’è, nel pensiero hegeliano, un grande momento, ed è questo: riportare all’interno dell’istituzione ufficiale del pensiero quello che fino a quel momento (almeno sicuramente fino a Fichte, se non fino a Schelling) era stato patrimonio di un pensiero sotterraneo, che molti uomini non accettati a livello ufficiale avevano sviluppato per tutto il corso dei duemila anni precedenti. Non c’è alcun dubbio che Hegel si ricollega al misticismo tedesco, per esempio tramite Franz von Baader, con quei mistici che avevano portato alla luce del sole (nell’àmbito ristretto di piccole conventicole ascetiche e mistiche, come Johann Georg Hamann, per esempio, la bestia nera di Kant, le correnti delle sette dissidenti del protestantesimo, come i Pietisti) istanze di purezza del pensiero e, principalmente, una sorta di importazione delle dimensioni dell’infinito all’interno del finito.

Ma, cosa c’era in quegli uomini di fede, che li faceva affrontare le persecuzioni, se non un profondo desiderio di libertà? (Pensate, per esempio, ai massacri, di cui fu certamente responsabile lo stesso Lutero, con i quali vennero represse le rivolte dei contadini). Questi uomini portavano alla luce il desiderio di comunismo. Certo in modo limitato e circoscritto, in quanto non erano uomini che leggessero molto o frequentassero l’università, ma sentivano profondamente il desiderio di comunismo, il desiderio di vivere in comune, di vivere liberi, il desiderio di negare lo sfruttamento, il desiderio di negare l’obbligatorietà del lavoro, della miseria, della sofferenza e del dolore. Tutto questo Hegel ha la capacità di portarlo all’interno del pensiero istituzionalizzato, di fonderlo con la filosofia tradizionale e di farlo diventare possibile terreno di sviluppo futuro perché su di esso si costruisca successivamente lo Stato definitivo di domani, lo Stato onnicomprensivo, lo Stato capace di inglobare, giustificare e quindi nientificare le istanze sovversive. Questo concetto, questo processo, questo prodotto filosofico, si deve a Hegel.

Hegel muore, se non ricordo male, nel 1831, e lascia un patrimonio che, sulle prime, per la verità, non è ben compreso, ma che per almeno vent’anni anni alimenta un dibattito (con molti equivoci, con molte approssimazioni, anche a causa della stesura delle sue opere), dibattito che si trova riflesso nelle condizioni di sviluppo della Germania, ma anche in quelle dell’Europa.

All’interno di questo “dibattito hegeliano” le posizioni più interessanti, almeno per noi, sono quelle della cosiddetta “sinistra hegeliana”. Discorso vastissimo: i “vecchi” e i “giovani” hegeliani, la destra, la sinistra, il centro, posizioni che furono tratte dalle divisioni del Parlamento francese. A noi interessa qui questo problema solo di passaggio, per arrivare a Stirner che, dal punto di vista della storia della filosofia, si colloca all’interno della sinistra hegeliana. Interessa vedere quali sono le critiche che la sinistra porta al concetto filosofico centrale di Hegel, il quale si riassume in che cosa? nel fatto che lo spirito assoluto si realizza nella storia, nella sua espressione principale, cioè nello Stato.

La prima di queste critiche, certamente la più importante, è quella di Ludwig Feuerbach. Si deve premettere che tutti gli esponenti della sinistra hegeliana hanno cattivo successo all’interno delle istituzioni. Chi per un motivo (persecuzioni della polizia), chi per un altro (persecuzioni della struttura accademica), non fanno fortuna. La loro stessa posizione impedisce qualsiasi sbocco all’interno delle strutture universitarie dell’epoca. Anche Feuerbach ha questa sorte. Comincia con un piccolo accesso alla carriera accademica, perché scolaro di Hegel, perché con lui ha fatto la tesi, perché è hegeliano, almeno nelle primissime fasi. Nel momento in cui interviene per stabilire duramente la sua distanza da Hegel, esaurisce la propria carriera. È chiamato da alcuni studenti a fare una serie di lezioni, non più di due o tre, scarsa presenza, e tutto finisce qua.

Qual è la posizione di Feuerbach? Critica alla concezione del divino, non in quanto negazione del divino. La negazione vera e propria, pur essendo una delle componenti del suo pensiero, è considerata da lui di secondaria importanza. Quindi l’essenza del pensiero di Feuerbach non è l’ateismo, ma l’identificazione degli attributi del divino, la sottrazione di questi attributi al divino e il loro trasferimento (in quanto attributi) all’umano. Tutto quello che nell’analisi teologica (diceva Feuerbach) è appartenuto fino ad oggi alla dimensione del divino, costituisce essenzialmente l’insieme delle qualificazioni dell’uomo, e occorre che ritorni all’uomo. Questo comporta ovviamente una serie di modificazioni, tutta una serie di interessanti dibattiti, che vedremo come invece vengono presi in considerazione da Stirner.

Non è solo Feuerbach ovviamente che si contrappone a Hegel, ci sono altri pensatori. Qui mi interessa dire due parole semplici su un’altra figura: quella di Bruno Bauer: anche lui un outsider della carriera accademica tedesca. Egli si pone a metà strada tra Feuerbach e quelle che saranno, come vedremo, le tesi di Stirner. Egli dice: sì, è giusto trasferire armi e bagagli della divinità nell’uomo, ma in effetti questo trasferimento è pericoloso perché potrebbe, allo stesso modo di una nuova costruzione della “Umanità”, costituire un nuovo punto di riferimento per creare un’altra forma di divinizzazione. Anticipa in questo modo quella che sarà la critica molto più puntuale e radicale dello stesso Stirner. (Su questo punto c’è un dibattito tecnico: chi per primo, Bauer o Stirner, definì questa critica a Feuerbach?).

L’altra posizione interessante è quella di Karl Marx, ed è molto conosciuta, per cui non mi sembra il caso di dilungarsi. Come sapete Marx, su questo argomento, si esprime in dettaglio in un libro che è stato scritto e poi abbandonato (come diceva Friedrich Engels) alla critica roditrice dei topi: L’Ideologia tedesca [1845-1846]. In questo testo, tramite il quale per la prima volta Marx ed Engels chiariscono i fondamenti del loro materialismo storico, e che è stato pubblicato molti decenni dopo la loro morte, si sviluppa la critica a Stirner, sostenendo l’importante concetto che il vero fondamento dell’essenza hegeliana sono i rapporti di produzione, cioè i rapporti economici, sociali, la struttura in cui l’uomo vive, la società concreta.

Adesso entriamo nel centro del pensiero stirneriano. Io ritengo sia utile che ad assistere una parte di questa analisi ci siano delle brevi citazioni de L’unico e la sua proprietà. La cosa potrà sembrare un po’ scolastica, ma diventa indispensabile se vogliamo fare un discorso sia pure appena approfondito sul pensiero di Stirner. Qua si tratta di sfumature che si potrebbero riassumere in un breve concetto: Stirner è contro tutte le santità, contro tutte le ideologizzazioni. Ma dire questo significherebbe dire poco.

Vediamo, per esempio, la critica a Feuerbach. La critica a Feuerbach per Stirner è importante, e così egli scrive: «Pare anche che uomo e io significhino la stessa cosa, e invece l’espressione “uomo” significa, come si vede per esempio in Feuerbach, l’io assoluto, il genere [die Gattung], non l’io singolo, caduco. Egoismo e umanità dovrebbero significare la stessa cosa, ma secondo Feuerbach il singolo (l’ “individuo”) “può elevarsi soltanto al di sopra dei limiti della sua individualità, ma non al di sopra delle leggi, delle determinazioni positive che definiscono l’essenza della sua specie”. Ma il genere, da solo, non è niente e se il singolo si eleva al di sopra dei limiti della sua individualità, egli lo fa appunto come singolo, egli esiste soltanto in quanto si eleva, egli esiste soltanto in quanto non resta fermo; altrimenti sarebbe finito, morto. L’uomo è solo un ideale, il genere è solo un qualcosa di pensato. Essere un uomo non significa adempiere l’ideale dell’uomo, ma invece rappresentare se stesso come singolo. Non il modo in cui io realizzo l’universalmente umano deve essere il mio compito, ma il modo in cui io soddisfo me stesso. Io sono per me il mio genere, sono senza norma, senza legge, senza modello o simili. È possibile che io riesca a fare ben poco di me; ma questo poco è tutto ed è meglio di ciò che potrei lasciar fare di me dal potere di altri, dal condizionamento della morale, della religione, delle leggi, dello Stato, ecc. Mille volte meglio – se proprio bisogna parlare di “meglio” – un ragazzo maleducato di uno saputello, meglio un uomo ribelle di uno docile in ogni occasione. Il ribelle maleducato ha ancora la possibilità di formarsi secondo la propria volontà; il docile saputello, invece, viene determinato dal “genere”, dalle necessità generali, esse sono per lui la legge: in base a esse egli viene destinato a questo o a quello; e infatti che cos’altro è per lui il genere se non la sua “destinazione”, la sua “missione”? Il fatto che io guardi all’ “umanità”, al genere umano, come a un ideale da raggiungere, oppure a Dio o Cristo con lo stesso intento, fa ben poca differenza! Tutt’al più la differenza consisterà nel fatto che il primo ideale è più pallido del secondo. Il singolo, come è la natura intera, così è anche il genere intero.

«Ciò che io sono condiziona ciò che io faccio, penso, ecc., insomma il mio modo di manifestarmi e di rivelarmi. L’ebreo, per esempio, può volere soltanto certe cose determinate, può “atteggiarsi” solo in un certo modo; il cristiano può atteggiarsi ed esprimersi solo cristianamente, ecc. Se fosse possibile che tu fossi soltanto ebreo o cristiano, manifesteresti solamente, com’è ovvio, atteggiamenti da ebreo o da cristiano; ma questo non è possibile; tu resti, nonostante tutti i tuoi sforzi, un egoista, un peccatore contro quel concetto, cioè tu non sei=ebreo. Siccome l’aspetto egoistico trapela ormai dappertutto, si è ricercata un’idea più perfetta che esprima veramente tutto ciò che sei e che contenga, in quanto è la tua vera natura, tutte le leggi in base alle quali devi agire. L’idea più perfetta di questo tipo è stata raggiunta con l’ “uomo”. In quanto ebreo sei troppo poco e il tuo compito non è quello di realizzare appieno il carattere ebraico; essere un greco, un tedesco, ecc., non basta. Ma sii un – uomo e avrai tutto: considera ciò che è umano come la tua missione!». (L’unico e la sua proprietà, tr. it., Catania, 2001, pp. 136-137). Non ha alcuna importanza dal punto di vista della critica della religione se noi trasferiamo, armi e bagagli, tutti gli attributi divini nell’uomo e diciamo che quest’uomo è l’unico essere perfettibile, quando quest’uomo lo consideriamo come una specie a se stante, come una specie astratta, come una santificazione dell’uomo. L’unico uomo che conosco, dice Stirner, sono io stesso. E l’unico uomo che mi interessa e in nome del quale sono disposto a fare qualcosa, sono io stesso. Feuerbach cerca di difendersi da questa critica, ma evidentemente si tratta di una critica radicale, ed egli finisce per non rendersi conto che da questa opposizione critica di Stirner non si esce.

Qual è invece la critica che Stirner svolge nei confronti della posizione di Marx? Critica che non si rivolge soltanto al concetto materialista di Marx, il quale aveva affermato, come abbiamo visto, che l’essenza dell’esistenza è costituita dall’insieme dei rapporti economici e sociali, ma riguarda anche, e principalmente, lo sviluppo conseguente di questa critica, cioè a dire la fondazione di una società libera, di idea e di organizzazione comunista. A questo punto penso che sia molto più illuminante una piccola citazione, a proposito della critica stirneriana del comunismo. Eccola. «Vivace e tumultuosa è la disputa sul “diritto alla proprietà”. I comunisti affermano: “La terra appartiene di diritto a chi la coltiva e i suoi frutti a chi li ha prodotti”. Io ritengo che essa appartenga a chi sa prendersela ossia a chi non se la fa prendere o portar via. Se egli se ne appropria, gli apparterrà non solo la terra, ma anche il diritto di possederla. Questo è il diritto egoistico, cioè se qualcosa è la cosa giusta per me, allora è giusto che io la possegga.

«Altrimenti il diritto ha quel che si dice un “naso di cera”. La tigre che mi assale ha i suoi diritti e io che l’uccido ho i miei. Ma contro di lei non difendo i miei diritti, bensì me stesso». (Ib., pp. 142-143).

E, più avanti: « Si parla tanto di diritti innati e ci si lamenta così: “Dei diritti che sono nati con noi / purtroppo non si fa parola”.

«Quale sarebbe mai un diritto nato con me? Il diritto di diventare signore di un maggiorasco, di ereditare un trono, di godere di un’educazione principesca o nobile, oppure anche, se sono nato da genitori poveri, il diritto di frequentare la scuola pubblica, di venir vestito grazie alle elemosine e, infine, di guadagnarmi un tozzo di pane nelle miniere di carbone oppure in filanda? Non sono forse diritti innati, diritti che io ho ricevuto dai miei genitori nel momento stesso in cui sono nato? Voi dite: no! no! e affermate che in questi casi si abusa del nome di “diritto”, anzi questi sono precisamente i casi che voi tentate di eliminare facendo valere i veri diritti innati. Per giustificare la vostra posizione, voi vi rifate al punto più semplice e affermate che ognuno è, per nascita, uguale all’altro, e cioè uomo. Io voglio concedervi che ognuno nasce uomo e che i neonati sono quindi uguali. Perché lo sono? Soltanto perché non hanno ancora manifestato, con l’azione, alcuna qualità propria, se non appunto quella ovvia di essere – figli di uomini, pargoli nudi. Ma a questo modo sono già diversi da coloro che hanno già fatto qualcosa di sé e che non sono più semplicemente “figli di uomo”, ma invece – figli della propria creazione. Questi ultimi posseggono qualcosa di più dei diritti innati: essi hanno acquisito dei diritti. Che contrasto, che campo di lotta! È la vecchia lotta fra i diritti innati e quelli meritatamente acquisiti! Richiamatevi pure ai vostri diritti innati; non si mancherà di contrapporvi i diritti meritatamente acquisiti. Entrambi stanno sul “terreno del diritto”; ognuno dei due, infatti, ha un “diritto” contro l’altro, il primo il diritto innato o naturale, il secondo il diritto acquisito o “meritatamente acquisito”.

«Ma restando nel terreno del diritto, continuerete a cercare di sostenere con l’autorità i vostri diritti. [“Ti prego, risparmia i miei polmoni! Chi vuole affermare un diritto, basta che abbia la lingua e lo affermerà certamente!”]. L’altro non può darvi ragione, non può concedervi il vostro diritto, non può “rendervi giustizia”. Chi ha il potere ha – il diritto: se non avete il primo, non avete nemmeno il secondo. È tanto difficile raggiungere questa saggezza? Ma guardate come si comportano i potenti! Naturalmente intendo parlare solo della Cina e del Giappone. Provate un po’, voi Cinesi e Giapponesi, a dar loro torto e vedrete come vi getteranno subito in carcere. (Diverso è il caso dei “consigli benintenzionati” che – sempre in Cina e in Giappone – sono permessi, perché non ostacolano il potente ma, semmai, lo favoriscono). Se qualcuno volesse dar loro torto, non avrebbe che una via: la presa del potere con la violenza. Se toglie loro il potere, ha dato loro realmente torto, li ha privati del loro diritto; altrimenti non potrà far altro che stringere i pugni di nascosto o soccombere come un qualsiasi pazzo esaltato». (Ib., pp. 143-144).

Importante questi passi. Molte volte Stirner è stato ritenuto ingiustamente un sostenitore della proprietà individuale, giocando sull’equivoco di che cosa per lui era il concetto di proprietà, che come vedremo è ben altro. E quindi, in lui, è molto chiaro il rifiuto della proprietà comunista, ma anche quello della proprietà capitalista. Continua Stirner: «Tutti i tentativi di legiferare in modo razionale sulla proprietà partono dal golfo dell’amore e arrivano in un mare tempestoso di determinazioni diverse. Anche il socialismo e il comunismo non fanno eccezione. Ognuno deve venir provvisto di mezzi sufficienti e fa poca differenza che trovi questi mezzi ancora in una proprietà personale, come avviene nel socialismo, oppure che li attinga dalla comunità dei beni, come avviene nel comunismo. Il senso dei singoli rimane lo stesso, cioè senso di dipendenza. L’autorità che distribuisce equamente mi fa pervenire soltanto ciò che il suo senso dell’equità, la sua cura amorosa per tutti le prescrive. Nel patrimonio comune non c’è per me, il singolo, un’onta minore che nel patrimonio dei singoli altri; né l’una né l’altra sono cose mie: che i beni appartengano alla comunità, la quale me ne devolve una parte, oppure a singoli proprietari, si tratta per me della stessa costrizione violenta, giacché io non posso decidere né per la prima né per i secondi. Anzi, il comunismo, abolendo ogni proprietà personale, non fa che opprimermi ancora di più, rendendomi dipendente da un altro, cioè dalla generalità o collettività, e per quanto violentemente attacchi lo Stato, ciò che esso persegue è pur sempre uno Stato, uno status, uno stato che ostacola i miei liberi movimenti, un’autorità superiore che mi domina. Il comunismo si ribella a ragione contro l’oppressione che io subisco dai singoli proprietari, ma il potere di cui esso investe la collettività è ancora più tremendo.

«L’egoismo imbocca un’altra via per eliminare la plebe nullatenente. Esso non dice: “Aspetta e riceverai qualcosa in donazione dall’autorità che distribuisce equamente in nome della collettività” (tali donazioni ci sono da sempre negli “Stati”, nella misura in cui a ognuno viene dato “secondo i suoi meriti”, cioè gli viene dato ciò che ha saputo meritarsi con i propri servizi), ma invece: “Allunga le mani e prenditi ciò di cui hai bisogno!”. Così si dichiara la guerra di tutti contro tutti. Io solo decido ciò che voglio avere». (Ib., pp. 190-191).

L’analisi critica di Stirner si configura pertanto come una critica radicale dell’ideologia, di qualsiasi ideologia. Da cosa viene fuori la dimensione del sacro, che è il terreno fertile di tutte le ideologie? Sul concetto di nascita del sacro ci sono interpretazioni diverse: la paura, il numinoso, ecc., però in Stirner tutta questa problematica è vista attraverso il filtro hegeliano. Non dimentichiamo che Stirner è un hegeliano. La storia dello svolgimento del pensiero, e quindi della coscienza dell’uomo, è quella hegeliana. La storia nelle sue tre fasi: a) Il Mondo antico, la gioventù dell’uomo. b) Il Mondo medievale, il passaggio e la frattura filosofica di Proclo. c) Il mondo moderno, come si sviluppa questo mondo moderno, la funzione dell’empirismo e tutte queste cose. Ora, all’interno di questi movimenti Stirner produce una storia della nascita del sacro. Che questo concetto del sacro sia poi trasferito all’uomo e qui diventi in termini concreti (senza disturbare Destut De Tracy, ma parlando in termini feuerbachiani) diventi ideologia, cioè a dire costruzione astratta (metafisica e politica) del sacro, questo avviene alla stessa maniera, perché l’uomo ha bisogno anche oggi di dare una giustificazione trascendente alle proprie azioni, una progettualità, ha bisogno di darsi giustificazioni. Questo accade sia nella dimensione individuale della coscienza immediata, sia nella dimensione della progettualità.

Secondo me questo è un grande problema, all’interno del quale è da rigettare l’ipotesi di un luogo fisico eletto a elaborazione della ideologia. L’ideologia non viene inventata come una fantasia. E su questo punto Schelling è stato illuminante, perché nel ritorno all’insegnamento dopo la morte di Hegel, quando cioè poveretto ebbe finalmente la possibilità di aprire bocca (perché Hegel non permetteva a nessuno di parlare nel corso della propria dittatura filosofica), Schelling ci fa capire come nasce il mito. Il mito non nasce perché qualche teorico sviluppa un’analisi, ma nasce dalla sofferenza della gente, dal bisogno che le persone hanno di darsi una giustificazione del perché esiste il dolore, del perché esiste la morte, del perché esiste la sofferenza. Questo tipo di sviluppo del mito è visibile ed è l’elemento iniziale del ragionamento che fa Hegel e che prende dall’enorme serbatoio degli scritti schellinghiani, non del secondo periodo, che lui non ha potuto leggere, ma del periodo del giornale filosofico che facevano insieme. Fin dai primi scritti di Schelling si fa avanti il concetto del dolore e della morte come elementi irrazionali, capaci di sconvolgere l’organizzazione della ragione all’interno della storia. È da questo che nasce il mito e non dalla elaborazione di qualche filosofo. Quindi, anche oggi noi possiamo affermare con certezza che l’ideologia non si costruisce in laboratorio.

Oggi siamo davanti alla nascita di una nuova ideologia, una ideologia anticomunista, una ideologia liberista, e tutto quello che si vuole. Ma questa ideologia non si trova nei libri. Pensate, il neoliberalismo. Ma non esiste teoria economica più squalificata del neoliberalismo. Pensate veramente che oggi si possa sostenere ancora, da parte di economisti provveduti, senza alcun dubbio quali sono gli inglesi, i giapponesi e gli americani, sostenere ancora il laissez faire, il laissez passer? Ma stiamo scherzando? Però la paura del comunismo crea nella gente l’illusione che questa dimensione liberista possa veramente risolvere i problemi, possa risolvere i problemi di quelli che soffrono, dei paesi arretrati, possa risolvere tutti questi problemi. Così nasce l’ideologia, così si produce la santificazione. Ora, è logico che, di volta in volta, possiamo fare un’analisi specifica di ogni singolo elemento di costruzione della morale corrente, studiare le sue origini, i momenti storici che hanno cristallizzato il tabù in base al quale non si può toccare la donna degli altri, o il tabù dell’incesto, o il tabù del rispetto del padre, la difesa della proprietà, la scissione ereditaria per linea maschile, sono tutte cose che si possono storicamente individuare, ma non per questo siamo in grado di capire come nascono.

La nuova ideologia che nasce sotto i nostri occhi, ideologia assolutamente obsoleta, assolutamente contraddittoria e insignificante, funziona perfettamente. Quindi l’ideologo, o l’intellettuale di mestiere, o il sovvenzionato dallo Stato per fare questo lavoro, e quindi anche in primo luogo il filosofo di professione, sono, come dire, altrettanti esempi di quella marionetta nelle mani della storia di cui parlava Hegel. Costoro, spesso senza volerlo, oppure volendolo ma solo in piccolissima parte (perché questa gentaglia lavora con progettualità addirittura irrisoria), contribuiscono a costruire quella ideologia. A noi spetta solo il compito distruttivo, cercare di venirne a capo, eliminare i risultati negativi. Stirner fa questo lavoro da un punto di vista filosofico, e con questo ci apre la strada, ci fornisce una radicale indicazione. I lettori di Stirner hanno spesso cercato di continuare il suo pensiero da un punto di vista pratico. E, a mio avviso, la storia delle letture pratiche dello stirnerismo è ancora tutta da fare.

Veniamo adesso all’interno vero e proprio del discorso stirneriano. Stirner si pone all’inizio il problema del fondamento, cioè del perché della realtà. Si tratta di un problema tecnico che appartiene alla filosofia hegeliana, ma anche alle filosofie precedenti. Tutti i filosofi sistematici si sono posti il problema della concretezza da cui partire, il Grund su cui basare i propri ragionamenti. Stirner se lo dà anche, in modo giustificabile o almeno spiegabile all’interno del metodo filosofico hegeliano e dei suoi svolgimenti successivi, ma questo fondamento è qualcosa di sconvolgente, addirittura di selvaggio: «Io ho posto la mia causa su nulla». (Ib., p. 13). Teniamo presente che su questo “nulla” c’è stato non poco dibattito. “Nulla” non è “il nulla”. “Nulla” significa l’esclusiva e assoluta eliminazione di qualunque sovradeterminazione dell’Io, che Stirner definisce come “santità”, cioè come concetto di copertura. Dio, autorità, Stato, famiglia, ideale, sacrificio, mondo, morale, etica, tutti elementi che costituiscono l’estraniazione dell’io, la sua negazione, la sua alienazione. Partire dal nulla per Stirner, come dire, è il solo fondamento possibile per l’unico.

«Che cosa non dev’essere mai la mia causa! – egli scrive –. Innanzitutto la buona causa, poi la causa di Dio, la causa dell’umanità, della verità, della libertà, della filantropia, della giustizia; inoltre la causa del mio popolo, del mio principe, della mia patria; infine, addirittura la causa dello spirito e mille altre cause ancora. Soltanto la mia causa non dev’essere mai la mia causa. “Che vergogna l’egoista che pensa soltanto a sé!”.

«Ma guardiamo meglio come si comportano con la loro causa coloro per la cui causa noi dobbiamo lavorare, sacrificarci ed entusiasmarci». (Ibidem). E più avanti: «Come stanno le cose per quel che riguarda l’umanità, la cui causa dovremmo far nostra? Forse che la sua causa è quella di qualcun altro? L’umanità serve una causa superiore? No, l’umanità guarda solo a sé, l’umanità vuol far progredire solo l’umanità, l’umanità è a se stessa la propria causa. Per potersi sviluppare, lascia che popoli e individui si logorino al suo servizio, e quando essi hanno realizzato ciò di cui l’umanità aveva bisogno, essa stessa li getta, per tutta riconoscenza, nel letamaio della storia. Non è forse la causa dell’umanità una – causa puramente egoistica?

«Non è necessario che dimostri, a chiunque vorrebbe imporci la sua causa, che a lui interessa solo se stesso, non noi, solo il suo bene, non il nostro. Provate un po’ a osservare gli altri. La verità, la libertà, la filantropia e la giustizia aspirano forse a qualcos’altro che a farvi entusiasmare e a farsi servire da voi?

«Per esse va benissimo se risvegliano adorazione e zelo. Ma guardate il popolo che viene difeso dall’abnegazione dei suoi patrioti. I patrioti cadono in lotte sanguinose o in lotta contro la fame e la miseria; forse che il popolo se ne interessa? Grazie al concime dei loro cadaveri il popolo diventa un “popolo fiorente”! Gli individui sono morti “per la grande causa del popolo” e il popolo dedica loro due parole di ringraziamento e – ne trae il suo profitto. Questo io lo chiamo un egoismo fruttuoso.

«Ma osservate un po’ quel sultano che si cura con tanto affetto dei “suoi”. Non è forse il puro disinteresse in persona? Non si sacrifica forse di continuo per i suoi? Sì, proprio per i “suoi”! Prova un po’ a mostrarti non suo, ma tuo: per questo verrai gettato in carcere, tu che ti sei sottratto al suo egoismo. Il sultano ha posto la sua causa su null’altro che se stesso: per sé egli è tutto in tutto, per sé è l’unico e non tollera che qualcuno osi non essere uno dei “suoi”.

«E allora, sulla base di questi fulgidi esempi, non volete capire che è l’egoista ad avere sempre la meglio? Io, per conto mio, ne traggo un grande insegnamento e, piuttosto che continuare a servire disinteressatamente quei grandi egoisti, voglio essere l’egoista io stesso». (Ib., pp. 13-14). Ma l’unico, visto fino a questo momento, nel suo sviluppo attraverso le cose che sono state dette, più o meno chiaramente, questo non lo so, potrebbe essere considerato come l’estrema, rarefatta, conclusione dell’hegelismo, come lo spirito assoluto sottratto di ogni altro attributo, come la conclusione della Storia. Cos’è che in effetti sottrae l’unico a questa triste conclusione, cos’è che lo porta fuori realmente dal territorio dello sviluppo storico del pensiero hegeliano?

Non dimentichiamo che c’era qualcosa che pulsava in maniera vitale all’interno del sistema filosofico hegeliano, ed era la sua storicità, la concezione del processo storico come progresso, come sviluppo, che Hegel prende certamente dai filosofi materialisti francesi del Settecento, da Voltaire a Paul Henry Thiry d’Holbach.

Non è senza importanza, a mio avviso, aprire una piccola parentesi su questo punto. Il progresso non è idea che si trova in tutta la storia dell’umanità. È un’idea moderna, che gli antichi non avevano. Per essi il concetto della storia aveva un andamento circolare. Per esempio: Paolo Orano, seguace di sant’Agostino, quando scrive le sue considerazioni subito dopo l’occupazione della città di Agostino da parte dei Vandali, non ha l’idea della morte della Storia, perché la Storia per lui non può morire, in quanto la Storia, essendo circolare, deve ricominciare sempre. Sì, i Vandali avevano distrutto la civiltà, che aveva visto all’opera la grandissima figura filosofica e religiosa di Agostino, ma non potevano distruggere il cerchio, non potevano uscire dalla forma circolare dello sviluppo della Storia. Questo concetto per la prima volta viene spezzato dalla critica radicale degli Illuministi. Viene così fornito all’umanità un concetto di progresso, un meccanismo che si sviluppa e che la Storia acquisisce crescendo e indirizzandosi verso un miglioramento. Hegel fa proprio questo concetto, ma lo fa proprio all’interno di quel sistema triadico che vedeva il trionfo della filosofia come spirito assoluto e come sintesi di arte e religione. Tra parentesi, teniamo conto che anche nel tanto decantato capovolgimento della dialettica che camminava sulla testa e adesso cammina sui piedi (secondo l’affermazione di Marx) non viene intaccato questo movimento triadico. A risolvere e a realizzare la Storia non è più la filosofia assoluta, non è più la filosofia hegeliana, non è più lo spirito assoluto: è il proletariato. Ecco il compito storico di questa classe che, annullando lo scontro con la borghesia, realizza la società comunista libera del futuro.

Nessuno, specialmente dopo gli insegnamenti di questi ultimi anni, che soltanto noi vediamo, avendo avuto la fortuna di poterli vivere, oggi sottoscriverebbe a cuor leggero un’analisi come questa. Stirner non aveva l’esperienza di questi giorni, poteva usare soltanto gli strumenti del pensiero, quindi, con certe considerevoli limitazioni, limitazioni che spesso hanno portato a condanne ingiuste, quali “Stirner piccolo-borghese”, Stirner filosofo di una borghesia che vuole ricostruire le capacità colonialiste e imperialiste della Germania disunita, che vuole tutelare gli interessi della “Unione doganale tedesca”, e così via. Invece Stirner riesce a evitare che l’unico caschi nell’equivoco di un ipotizzabile momento conclusivo dello svolgimento triadico della storia, l’unico in cattiva compagnia con proletariato e spirito assoluto.

L’unico non sta in questa compagnia, ma ha una caratteristica sua particolare: l’unico non è, da solo, autosufficiente. Dopo aver costruito per quasi 250 pagine del suo libro (scritto in modo brillante, nel tedesco giornalistico dei suoi tempi) la tesi dell’unicità dell’unico, Stirner ci dice che l’unico non è autosufficiente. Ha bisogno di qualcosa: ha bisogno della sua proprietà. L’unico è nulla senza la sua proprietà, è un’astrazione. Ma cos’è la proprietà dell’unico: una casa? un bene reale? un contratto d’acquisto? Tutte queste cose invece che sono? santificazioni della realtà, concessioni.

Non riesco a vedere una distinzione, o una vera e propria separazione netta, tra l’unico e la sua proprietà, quando quest’ultima diventa appunto proprietà del primo, in caso contrario l’unico si fissa come spirito assoluto, diventa una santità. Cioè, se fosse possibile l’esistenza dell’unico soltanto e, separatamente, quella della sua proprietà come qualcosa di separato, oppure l’unico soltanto e la ribellione, l’unico e l’unione degli egoisti, sarebbe come dichiarare possibile l’esistenza separata dell’unico e poi della sua proprietà. A me non pare si possa fare questa distinzione. Forse io leggo male Stirner. In ogni caso, per me, si ha un gruppo di elementi che costituiscono l’unico, un tutto in movimento.

Ma, nessuno mi concede la mia proprietà. Se qualcuno mi concede la mia proprietà, se qualcuno mi concede la mia libertà, questa libertà mi rende un liberto, un liberato, cioè uno schiavo che continua a essere schiavo in condizioni di mutata gestione della propria schiavitù. La libertà quindi va conquistata, la proprietà va conquistata. E per conquistarla occorre la forza. Occorre la forza della volontà, occorre la forza della decisione, occorre la forza per riuscire a rompere gli ostacoli morali, i fantasmi, le sacralizzazioni, le santità che ci tengono legati.

Bisogna capire che la filosofia di Stirner non è una filosofia del dialogo. Stirner non è né Martin Buber, né Guido Calogero, con tutto il rispetto per Buber che a me piace molto. Stirner è un pensatore considerevole. L’unico non è l’io del dialogo. Non si apre all’altro per dialogare, ma si apre all’altro per impossessarsene. Impossessarsi anche di se stesso? Non lo so. Non so se sia legittimo pensare anche all’impossessamento di se stesso come altro. Non so se l’altro sia parte integrante del sé, perché questo annullerebbe tutto il ragionamento all’interno della triade. Nell’unico c’è, all’inizio più che altrove, una radicalizzazione, una estremizzazione della triade, la quale resterebbe inefficace, e sostanzialmente ripresenterebbe i limiti del discorso dello spirito assoluto, se non ci fossero tutti gli aspetti di apertura, per usare questo termine, di utilizzabilità degli altri: la proprietà, l’unione degli egoisti. Ora, questi aspetti hanno un senso perché l’unico si muove, se restasse fermo non avrebbero senso.

Quindi l’unico è un movimento, e si muove verso una cosa diversa da sé. Per quel che posso aver capito di Stirner, non sembra accettabile una centralità dell’unico. In caso contrario quest’ultimo avrebbe dentro di sé la dimensione della santità. Perché, che cosa hai tu dentro di te che non sia qualcosa che devi conquistare? Dentro di te non c’è niente, guai se la dimensione dell’unico fosse la santificazione dell’altro dentro di te.

Adesso non ho a disposizione la citazione esatta, ma a proposito del superamento del limite morale, Stirner usa una frase fantastica e dice: guai ad allungare la mano! Se noi allunghiamo la mano per impadronirci di una cosa, quel gesto ci mette fuori legge. Perché, secondo la legge, noi possiamo fare nostro solo ciò che secondo la legge ci viene concesso. Non quello che noi autonomamente decidiamo di fare nostro. Eppure per impadronirci di quello che vogliamo non dovremmo fare altro che allungare la mano per prenderlo. Ma, per arrivare a fare ciò dobbiamo superare un ostacolo. Soltanto quello di cui ci impadroniamo è la nostra proprietà, non ciò che ci viene concesso. Quello che ci viene concesso è il sigillo della nostra schiavitù. Della nostra accettazione di contropartita. Noi abbiamo fatto qualcosa e ci viene dato in contropartita un salario, un pagamento.«Ciò che è in mio potere [ e soltanto questo] – dice Stirner – è mio proprio. Finché io affermo me stesso quale proprietario [finché sono capace di sostenere con la forza questo mio possesso della cosa], io posseggo la cosa, ma se la cosa mi viene tolta da un qualunque potere [io la perdo], sia pure, per esempio, a causa del mio riconoscimento del diritto di altri su quella cosa, il rapporto di proprietà non sussiste più [la mia proprietà cessa]. Così proprietà e possesso finiscono per essere la stessa cosa. Non è un diritto estraneo alla mia potenza a legittimarmi, ma solo la mia potenza stessa; se io non l’ho più, anche la cosa mi sfugge. Quando i Romani non ebbero più alcun potere contro i Germani, l’impero romano universale appartenne a questi ultimi e sarebbe stato ridicolo se qualcuno avesse voluto insistere dicendo che i Romani restavano comunque i veri proprietari. Una cosa appartiene a chi sa prendersela e assicurarsela, fino a che non gli viene tolta di nuovo, così come la libertà appartiene a chi se la prende.

«A proposito della libertà decide solo la forza e siccome lo Stato, sia di cittadini sia di straccioni sia di uomini e basta, è il solo potente, esso è il solo proprietario; io, il singolo, non ho niente: tutt’al più mi viene dato qualcosa in feudo e così divengo vassallo, cioè servo. Sotto il dominio dello Stato non c’è alcuna proprietà mia.

«Io che voglio innalzare il valore di me stesso, il valore della propria individualità, dovrei svalutare la proprietà? No davvero! Così come io non sono mai stato rispettato perché il popolo, l’umanità e mille altre entità generali sono state messe al di sopra di me, allo stesso modo anche la proprietà non è stata riconosciuta fino ad oggi nel suo pieno valore. Anche la proprietà era solo proprietà di un fantasma, per esempio proprietà del popolo; tutta la mia vita “apparteneva alla patria”: io appartenevo alla patria, al popolo, allo Stato e così pure, quindi, tutto ciò che chiamavo mio proprio». (Ib., pp. 186-187).

Però, c’è anche un altro discorso. Stirner lo dice con chiarezza. Allungare la mano, cioè per intenderci l’esercizio della forza, trova un ostacolo, un limite, nella forza altrui, questo è il principio stirneriano ed anche dell’anarchismo.

Anche Michail Bakunin, negli scritti del periodo della guerra franco-tedesca del 1870, si chiede: perché avere paura della guerra civile? La guerra civile scatena gli istinti, anche gli istinti bestiali, però prima o poi si arriva a una conclusione e gli uomini si mettono d’accordo fra di loro. Evidentemente, dietro il caos, dietro la guerra, dietro la morte, dietro tutte le nefandezze umane, c’è la possibilità di costruire una società differente, un futuro differente. Quindi non bisogna avere paura.

Per esempio, non bisogna avere paura della forza. Noi siamo stati educati a una sacralizzazione della tolleranza, a una sacralizzazione del rispetto dell’altro, ecc. Io rispetto l’altro perché a me fa piacere rispettare l’altro, in quanto io amo l’altro. Ma nel momento in cui l’altro non ha intenzioni d’amore nei miei confronti ma di odio, il mio piacere diventa diverso. Diventa diverso perché provo piacere non solo nel difendermi dalle intenzioni dell’altro, ma anche nell’attaccare. Non è affatto detto che io trovi piacere soltanto nel pacifismo, nella tolleranza, nel non attaccare l’altro. Anzi, al contrario. A me piace lo scontro, piace la lotta, perché la lotta fa parte della vita. Ora, se Stirner, e non solo lui ma anche tanti altri anarchici, si fosse limitato soltanto a dire: l’unica soluzione è la forza, andiamo, attacchiamo, distruggiamo, ecc., il suo discorso sarebbe stato parziale. Invece Stirner dice: «Di conseguenza io devo rivendicare per me l’amore, liberandolo dalla potenza dell’uomo.

«Ciò che originariamente era mio, sebbene in modo casuale, per istinto, mi venne poi concesso come una proprietà dell’uomo; io sono diventato feudatario, poiché ero capace di amore, sono diventato il vassallo dell’umanità, nient’altro che un esemplare di questa specie e, amando, ho agito non come io, ma come uomo, come esemplare umano, cioè umanamente. La condizione globale della civiltà è il vassallaggio, perché la proprietà è dell’uomo o dell’umanità e non mia. È stato fondato un enorme Stato di vassalli, che deruba il singolo di ogni cosa e tutto concede “all’uomo”. Il singolo ha dovuto necessariamente, alla fine, esser considerato come un “ricetto di peccati”.

«Forse che non devo provare mai un vivo interesse per la persona di un altro? Forse che la sua gioia e il suo bene non devono starmi a cuore e il piacere che gli procuro non deve valere per me più dei piaceri che io stesso vivo? Al contrario, io posso sacrificargli con gioia innumerevoli piaceri miei, posso rinunciare a innumerevoli cose pur di veder rifiorire il suo sorriso e posso mettere a repentaglio per lui quello che, se lui non ci fosse, sarebbe per me la cosa più cara al mondo: la mia vita o il mio benessere o la mia libertà. Anzi, il mio piacere e la mia felicità consistono per l’appunto nel godere della sua felicità e del suo piacere. Ma c’è qualcosa che io non gli sacrifico: me stesso; io rimango egoista e – godo di lui. Sacrificargli tutto ciò che, se non amassi quella persona, mi terrei stretto, è una cosa molto semplice e perfino più comune, nella vita di tutti i giorni, di quanto non si pensi; ma ciò dimostra soltanto il fatto che una passione è in me più potente di ogni altra. Anche il cristianesimo insegna a sacrificare a questa passione tutte le altre. Ma anche se io sacrifico a una passione tutte le altre, non le sacrifico per questo me stesso, non sacrifico niente di ciò che mi fa essere veramente me stesso, non sacrifico il mio valore proprio e la mia individualità propria. E, se questo caso disgraziato si verifica, non cambia niente che sia per amore anziché per una qualche altra passione a cui obbedisco ciecamente. L’ambizioso che viene trascinato dall’ambizione e che è sordo a ogni consiglio che tenda a ridargli la serenità ha fatto di questa passione la sua tiranna contro la quale non ha più la forza di opporsi: egli le si è dato completamente perché non sa dissolversi, e con ciò liberarsi da essa: è invasato.

«Anch’io amo gli uomini, non solo alcuni singoli, ma ognuno. Ma io li amo con la consapevolezza dell’egoismo; io li amo perché amarli mi rende felice, io amo, perché l’amore è per me un sentimento naturale, perché mi piace. Io non conosco alcun “comandamento d’amore”. Io provo compassione e simpatia per ogni essere dotato di sensibilità e il suo tormento mi tormenta, il suo rallegrarsi mi rallegra: io posso uccidere, ma non torturare. Invece il generoso, virtuoso Rodolfo, il principe dei filistei nei Mystères de Paris, colmo d’ “indignazione” verso i malvagi, prepara per loro torture e sofferenze. La compassione e la simpatia di cui parlavo dimostrano solo che il sentimento di coloro che sentono è anche mio, è mia proprietà, mentre il modo spietato di procedere del “giusto” (per esempio contro il notaio Ferrand) assomiglia all’insensibilità di quel brigante che tagliava o allungava le gambe delle sue vittime a misura del suo letto: il letto di Rodolfo, a misura del quale egli taglia gli uomini, è il concetto di “bene”. Il senso del diritto, della virtù, ecc., rende crudeli e intolleranti. Rodolfo non ha gli stessi sentimenti del notaio, anzi, al contrario, egli sente che “il malvagio ha quel che si merita”: non si tratta certo di compassione.

«Voi amate l’uomo, perciò torturate l’uomo singolo, l’egoista; il vostro amore per gli uomini vi porta a torturarli.

«Se io vedo che il mio amore soffre, soffro con lui e non sono tranquillo finché non ho tentato in ogni modo di consolarlo e rasserenarlo; se lo vedo contento, anch’io sono contento della sua gioia. Questo non significa che ciò che gli provoca gioia o dolore abbia lo stesso effetto su di me, e del resto già il caso del dolore fisico dimostra che io non provo le sue stesse sensazioni: a lui fa male un dente, ma a me fa male il suo dolore.

«Io non posso sopportare quella ruga di dolore sulla fronte amata e per questo, cioè per me, la bacio per farla sparire. Se io non amassi questa persona, potrebbe avere quante rughe vuole, ma a me non importerebbe niente; io tento di allontanare soltanto la mia pena». (Ib., pp. 215-217). Io amo gli uomini, amo tutti gli uomini, ed è proprio qua il fondamento della mia forza, perché mi voglio impadronire dell’altro attraverso la constatazione che lo voglio amare, perché questo mi fa stare bene, mi mette nella condizione di godimento, quindi questo costituisce anche un limite all’impiego della mia forza, perché se io impiegassi la mia forza al di là di questo limite, causerei all’altro una sofferenza e questa sua sofferenza sarebbe la mia sofferenza e quindi il mio godimento scomparirebbe. Ecco il vero ostacolo all’impiego della mia forza. La forza non può essere sviluppata all’infinito, non si può entrare allegramente nel territorio del gesto gratuito, simboleggiato dal Lafcadio di André Gide.

Il problema della proprietà è importantissimo, c’è stato da sempre un vivace dibattito su questo punto. Nel libro Comunità e società [1887, tr. it., Milano 1963], di Ferdinand Tönnies, c’è un’importante distinzione tra possesso e proprietà. Stirner invece aveva detto che non c’è alcuna distinzione. Distinzione che è chiarissima per Tönnies: il possesso è tipico di qualcosa che noi possediamo e da cui possiamo separarci con sacrificio, che possiamo alienare con dolore, con sofferenza. La proprietà è invece quella cosa che noi possediamo col solo scopo di alienarla, perché dalla sua alienazione noi riceviamo una gioia, una contropartita positiva. Poniamo: io sono un libraio e vendo libri, i libri che posseggo non mi dicono nulla. Mi dicono qualcosa nel momento in cui li alieno, perché in contropartita ricevo un pagamento in denaro in base al quale posso fare altre cose che mi premono. Se viceversa prendo in considerazione i libri della mia biblioteca personale, non posso desiderare di alienare i miei libri, in quanto essi mi dicono qualcosa solo nel momento in cui non vengono alienati, non vengono separati da me. Perché nel momento in cui vengono separati da me, poniamo perché li vendo o perché qualcuno li distrugge, mi dicono altro, mi causano dolore, mi causano sofferenza.

La differenza quindi tra possesso e proprietà, com’è stata sviluppata a lungo nel pensiero giuridico e sociologico, in Stirner è assolutamente eliminata. Per lui la proprietà non ha senso se ha come scopo l’alienazione, la merce, il valore di scambio. Ha senso solo nel valore d’uso. L’uso della proprietà. Ecco perché dice che proprietà e possesso sono la stessa cosa. In tal modo proprietà e possesso finiscono per diventare la medesima cosa.

La proprietà mi dà la forza e la forza mi permette di mantenere la mia proprietà. Solo così io esco dal gregge e divento quello che effettivamente sono. La diversità prima non era in me, cresce in me attraverso la ribellione, attraverso l’acquisizione, la forza.

Continua Stirner, «Niente lo Stato deve temere più del mio valore e niente deve tentare di prevenire più accuratamente di ogni occasione che possa presentarmisi di valorizzare me stesso. Io sono il nemico mortale dello Stato e l’alternativa è sempre: lui o io. Perciò lo Stato fa moltissima attenzione non solo a impedirmi di valorizzare me stesso, ma anche a ostacolare tutto ciò che è mio. Nello Stato non c’è alcuna – proprietà, cioè proprietà del singolo, ma esiste solamente la proprietà dello Stato. Solo grazie allo Stato io ho ciò che ho, così come solo grazie allo Stato io sono ciò che sono. La mia proprietà privata è solo quella parte di proprietà sua che lo Stato stesso mi concede, privandone altri membri dello Stato: è proprietà dello Stato.

«In contrasto con lo Stato, io sento sempre più chiaramente che mi rimane ancora un altro grande potere, il potere di disporre di me stesso, cioè di tutto ciò che è soltanto mio proprio e che è solo nella misura in cui è mio.

«Che farò se le mie vie non saranno più le sue e i miei pensieri non saranno più i suoi? Io mi curerò solo di me, senza preoccuparmi dello Stato! I miei pensieri, che non hanno bisogno di sanzione, beneplacito o grazia alcuna, costituiscono la mia vera proprietà, una proprietà di cui posso far commercio. In quanto miei, infatti, essi sono mie creature e io posso scambiarli con altri pensieri: io li do via in cambio di altri, che diventano così la nuova proprietà che io mi sono acquistato.

«Che cos’è dunque di mia proprietà? Nient’altro che ciò che è in mio potere! Quale proprietà sono autorizzato a possedere? Ogni proprietà che ho il potere di autorizzarmi a possedere. Io do a me stesso il diritto di proprietà, prendendomela, ossia conferendo a me stesso il potere del proprietario, i pieni poteri, il potere autorizzato.

«Ciò che nessuno ha il potere di strapparmi, resta mia proprietà; sia dunque il potere a decidere le questioni di proprietà: io voglio aspettarmi tutto solo dalla mia potenza! Il potere estraneo, il potere che io lascio ad altri, mi rende schiavo; possa il mio proprio potere rendermi padrone di me! Io mi riprenderò il potere che avevo lasciato ad altri per ignoranza della forza del mio proprio potere! Io mi dirò che i confini della mia proprietà sono i confini del mio potere e rivendicherò come mia proprietà tutto ciò che mi sento abbastanza forte da poter conquistare; io farò mia proprietà di tutto ciò che io stesso saprò prendermi, dandomene a questo modo l’autorizzazione». (Ib., pp. 189-190).Nel senso stirneriano, beninteso, in quanto come sappiamo lo Stato garantisce l’esistenza della proprietà. Si capisce l’estrema, radicale differenza che c’è tra il concetto statale di proprietà e il concetto stirneriano di proprietà. Qualunque tentativo (e se ne fanno di continuo: Hans G. Helms e, più recentemente, Gian Mario Bravo) di condurre Stirner all’interno di una dimensione reazionaria è indebito.

Elemento essenziale del pensiero di Stirner non è soltanto l’unico, ma l’unico e la sua proprietà. Ma cos’è questa proprietà? Proprietà come forza, proprietà come difesa dell’oggetto posseduto. Cos’è questo oggetto di cui Stirner si vuole impadronire? Sono le ricchezze? sono i segni esterni visibili dello status? Stirner si vuole impadronire dell’altro. Importante capire. È l’altro di cui parla Stirner. La proprietà dell’unico è l’altro. L’altro unico, non l’altro santificato. Non l’uomo investito dalla carica, non il fantasma, non il prete o il sotto-impiegato statale, non il “santo”, ma “l’altro”, l’altro unico. E come avviene questo processo di utilizzo dell’altro? In che modo Stirner si permette, dopo un’analisi sofferta e certamente non fatta a cuor leggero, di parlare del concetto di utilizzo dell’altro? Concetto pesante, che ha fatto molto discutere e che ha fatto pronunciare tante condanne scandalizzate da parte del perbenismo religioso degli ultimi cento anni. Com’è che Stirner arriva a questo concetto? Vediamo se riesco a trovare una piccola citazione.

Ecco. Il valore d’uso dell’altro. «[Non abbiamo alcun dovere]. Solo non riconoscendo più alcun dovere, cioè né legandomi né lasciandomi legare [posso cambiare il presente stato di cose]. Se non ho doveri, non ho nemmeno leggi». (Ib., p. 146). Il dovere per Stirner è la parola essenziale della santità. Più avanti egli scrive: «Per quel che riguarda in generale i “doveri sociali”, non è un altro a decidere la mia posizione verso gli altri, quindi né Dio né l’umanità mi prescrivono un tipo di rapporto con gli uomini, ma sono io stesso a decidere la mia posizione. Ciò si può affermare, in maniera più perspicua, a questo modo: io non ho nei confronti degli altri alcun dovere, così come anche nei confronti di me stesso io ho un dovere (per esempio quello di conservarmi in vita, di non suicidarmi) solo finché mi distinguo in due persone (la mia anima immortale e la mia esistenza terrena, ecc.).

«Io non voglio più umiliarmi di fronte a potenza alcuna e io la richiamo subito all’ordine non appena minaccia di diventare una potenza contro o sopra di me; ogni potenza può essere solo uno dei miei mezzi per affermarmi, così come un cane da caccia è una potenza che noi usiamo contro la selvaggina, ma lo uccidiamo se ci assale. Io abbasserò tutte le potenze che mi dominano a servirmi. Gli idoli ci sono solo grazie a me: basta che non li ricrei e non esisteranno più; le “potenze superiori” esistono solo perché io le innalzo e, al tempo stesso, mi pongo più in basso.

«Così il mio rapporto col mondo è questo: io non faccio più niente per il mondo “per amore di Dio”, io non faccio più niente “per amore dell’uomo”, ma tutto ciò che faccio, lo faccio “per amore di me stesso”. Solo così il mondo mi rende contento, mentre il punto di vista religioso (in cui io faccio rientrare anche quello morale e quello umanitario) è caratterizzato dal fatto che in esso tutto si riduce a un pio desiderio (pium desiderium), cioè a un aldilà, a un qualcosa che non viene mai raggiunto: così la beatitudine universale degli uomini, il mondo morale di un amore universale, la pace perpetua, la fine dell’egoismo, ecc. “Niente è perfetto in questo mondo”. Con questa funesta sentenza i buoni si distaccano dal mondo e si rifugiano nella loro cella a pregare Dio oppure nella loro superba “coscienza di sé”. Ma noi restiamo in questo mondo “imperfetto” perché anche così lo possiamo usare per godere attraverso di esso – di noi stessi.

«Il mio rapporto col mondo consiste nel fatto che io ne godo e l’utilizzo così per godere di me stesso. Il rapporto è godimento del mondo e fa parte del mio – godimento di me stesso». (Ib., pp. 236-237). Non abbiamo nessun obbligo, né verso noi stessi di fare qualcosa, di raggiungere un obiettivo, nemmanco quello di diventare “unici”. Perché se dovessimo cadere nell’equivoco dell’obiettivo di diventare unici, saremmo in piena sacralità. Era questa la critica di Bauer a Stirner quando diceva: stai attento perché potrebbe essere l’unico il fine cui tendeva lo spirito assoluto hegeliano. Il sacrificio è sempre fatto da qualcuno, non dimentichiamolo mai, specialmente dai rivoluzionari, da qualcuno che prima o poi ci presenterà il conto. Da qualcuno che prima o poi vorrà essere pagato in ulteriori sacrifici, se non altro in ubbidienza, in lavoro, in costanza, in ripetizioni di comportamento. Qualcuno che ucciderà la libertà di pensiero, di azione, di sviluppo, di desiderio, di diversità. Quindi, non abbiamo nessun dovere, né verso noi stessi né verso gli altri di far qualcosa per loro. Perché non siamo debitori di nessuno, verso l’essenza di nessuno. «L’essere supremo è certamente l’essenza dell’uomo, ma appunto perché è la sua essenza e non lui stesso è perfettamente identico che noi lo vediamo fuori di lui e lo consideriamo “Dio” oppure che lo troviamo in lui e lo chiamiamo “essenza dell’uomo” oppure “l’uomo”. Io non sono né Dio, né l’uomo, né l’essere supremo, né la mia essenza e perciò in fin dei conti non cambia niente se io penso l’essenza in me o fuori di me. Infatti noi pensiamo effettivamente già da sempre l’essere supremo in un doppio aldilà, interiore ed esteriore al tempo stesso: lo “spirito di Dio”, infatti, è secondo la concezione cristiana anche il “nostro spirito” e “abita in noi”. Lo spirito dimora in cielo e dimora in noi; noi povere cose non siamo appunto nient’altro che la sua “dimora” e se Feuerbach adesso distrugge la sua dimora celeste e lo obbliga a trasferirsi con armi e bagagli da noi, ho paura che noi, suo alloggio terreno, saremo un po’ sovraffollati». (Ib., p. 32).

Ma i problemi dei rapporti con il fantasma del sacro, con i tabù, sono molto complessi. Per esempio, c’è una sacralità del corpo che non si riesce facilmente a superare. Se ti trovi al cinema e accidentalmente urti il tuo vicino di posto col gomito, subito ti viene spontaneo chiedergli scusa. Perché c’è appunto una sacralità del corpo. I contatti non autorizzati tra due corpi superano un limite di sacralità e noi abbiamo una cultura che ci porta a dire “scusa”, “scusa se mi sono permesso di allungare la mano”. Perché in caso contrario l’altro potrebbe avere una reazione violenta contro di noi. Questo limite ideale è il limite della sacralità, che non si può superare facilmente. Ma questo limite non si circoscrive al contatto fra i corpi, ma si estende in generale al contatto della coscienza con la realtà esterna. E la realtà esterna può essere anche la proprietà dell’altro, nel senso capitalista del termine, può essere anche la santificazione di alcuni princìpi di comportamento che si riassumono nella costruzione storica della moralità. A te come a me è stata inculcata fin dalla nascita una serie di elementi sacri che non possiamo superare. Scopare la propria sorella: non si può. Se lo si fa si supera un limite, un limite che certe volte è facile, certe volte è difficile. Allungare la mano, questo è difficile. Cercare di capire che cosa c’è al di sotto di questa struttura di controllo e di santificazione, significa darsi i mezzi per poterla superare, darsi la forza per poterla superare. Non forza fisica.

«C’è forse qualcuno – dice Stirner – o qualcosa che io non amo ma che abbia diritto al mio amore? Viene prima il mio amore o il suo diritto? Genitori, parenti, patria, popolo, città natale, ecc., e infine il prossimo in generale (“fratelli, fratellanza”) affermano di avere un diritto al mio amore e lo rivendicano senz’altro. Essi lo considerano loro proprietà e se io non la rispetto divengo ai loro occhi un ladro che sottrae loro ciò che è loro dovuto, ciò che è loro. Io devo amare. Se l’amore è un comandamento e una legge, è necessario che io riceva un’educazione conforme e che venga punito se contravvengo a questo principio. Perciò io verrò fatto oggetto dell’ “influenza morale” più forte possibile affinché impari ad amare. E non c’è dubbio che si può stimolare e sedurre gli uomini all’amore come ad altre passioni, per esempio anche all’odio. L’odio si trasmette di generazione in generazione solo perché gli antenati degli uni appartenevano ai guelfi e quelli degli altri ai ghibellini.

«Ma l’amore [verso gli uomini] non è un comandamento, bensì, come ogni mio sentimento, una mia proprietà. Acquistatevi, guadagnatevi la mia proprietà e io ve la darò. Se una Chiesa, un popolo, una patria, una famiglia, ecc., non sanno guadagnarsi il mio amore, io non li amerò, e io stabilisco il prezzo del mio amore a mio piacimento». (Ib., p. 217). E più avanti, in modo apparentemente contraddittorio: «Se prima ho detto che io amo il mondo, ora aggiungo: io non lo amo, perché lo anniento, così come io anniento me stesso: io lo dissolvo. Io non mi limito a un solo sentimento verso gli uomini, ma lascio libero gioco a tutti i sentimenti di cui sono capace. Perché non dichiararlo in tutta la sua crudezza? Io utilizzo il mondo e gli uomini! In questo modo posso mantenermi disponibile a ogni emozione, senza che nessuna di esse mi strappi a me stesso. Io posso amare, amare con tutta l’anima e lasciar ardere nel mio cuore la fiamma della passione più violenta, senza considerare l’amato nient’altro che l’alimento della mia passione, alla quale sempre di nuovo dà ristoro. Tutta la mia cura per lui riguarda solo l’oggetto del mio amore, perché il mio amore ne ha bisogno, perché io l’ “amo ardentemente”. Come mi sarebbe indifferente – se non fosse l’oggetto del mio amore! È solo il mio amore che alimento con lui, solo per questo lo utilizzo: io lo godo». (Ib., p. 220).

Ma ancora non è completo il concetto dell’unico, perché il concetto dell’unico si completa con la proprietà ed è con essa che esprime il concetto di forza. Si completa con l’utilizzo degli altri ed esprime il concetto egoistico dell’amore. Ma ha bisogno ancora di una cosa, perché l’uomo non vive da solo, l’uomo vive in una dimensione societaria, ha bisogno degli altri non solo come singoli, ma ha bisogno degli altri come collettività. Stirner, filosofo dell’egoismo, filosofo dell’individualismo, è il filosofo anche della società, di una società particolare, di una unione particolare, dell’unione di tutti gli egoisti. Unione di tutti gli egoisti significa unione in cui tutti i partecipanti hanno i medesimi princìpi da verificare nella realtà: ognuno difende la sua proprietà con la forza, ognuno difende il suo concetto di amore con la forza, ognuno impone il suo concetto di utilizzo dell’altro con la forza. Nel momento in cui questo concetto di utilizzo travalica nella distruzione, nell’attacco, nella negazione dell’altro, io distruggo, attacco e rinnego me stesso, sono in contraddizione con me stesso. La costruzione di questa “unione degli egoisti” è possibile solo nel rispetto dell’altro, non per pena o per desiderio che l’altro non venga a trovarsi in una situazione non gradevole, ma per paura che io abbia a danneggiare qualcosa in me stesso, perché voglio trovarmi in una situazione di godimento.

Forse qualcuno dei presenti ricorderà che nella mia relazione al Convegno su Stirner di Firenze dell’anno scorso sono riportate diverse citazioni di Eraclito. Senza stare a ricordare l’insegnamento di Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher su questo argomento, c’è un rapporto tra molti pensieri di Eraclito e tanti problemi che oggi occupano la nostra attenzione. Voglio leggere una citazione di due righe di Eraclito, il frammento 51: «Armonia di tensioni contrastanti come nell’arco e nella lira». Si tratta di una citazione molta significativa per riflettere non solo sull’unione stirneriana, ma sulla dimensione dell’io, la quale è armonia di elementi contrastanti. D’altro canto, ho sviluppato nel corso della discussione di questa sera una serie di tesi a volte contrastanti: affinità e differenza, fondamento e nulla, non perché ci sia per esempio nel fondamento un elemento di staticità. Tenete presente che hegelianamente il Grund non è statico, ma fa parte del divenire e il divenire è il fondamento, non l’essere o il nulla, ma il divenire in quanto movimento. Quindi c’è in questo discorso eracliteo, e anche stirneriano, la possibilità di pervenire a una concezione differente dell’io che è quella appunto del campo di forze, discorso estremamente attuale fondato sulla concezione della realtà come campo relazionale. Discorso quest’ultimo che Stirner non poteva sapere ma che oggi è al centro dell’attenzione di tanti filosofi.

Io penso che non ci sia una santificazione nel concetto di “unione degli egoisti”, perché siamo davanti a un concetto di diversificazione, di ricerca della differenza. Non si tratta dell’unione degli uomini, dell’umanità. Che poi Stirner, nella concretezza, a mio avviso, non sia stato in grado di darci esempi sostanziali di questa associazione, questo appartiene alle limitazioni che un filosofo incontra sempre quando si trova di fronte al problema di dar conto delle conseguenze della sua teoria nella realtà concreta di tutti i giorni. Però non mi pare che ci sia una santificazione nell’unione degli egoisti. E poi ritengo che noi dobbiamo considerare questa costruzione come un fatto complessivo, non come un fatto che si sviluppa a pezzi, per successive aggiunzioni. Anch’io ho sostenuto la tesi che in Stirner c’è la possibilità di costruire, diciamo indirettamente, la dimensione dell’unico attraverso una ribellione progressiva nei confronti di determinate situazioni che, di volta in volta, si vengono a creare nella vita di tutti noi. E questo è importante come limite del concetto assoluto dell’egoismo stirneriano, in quanto è importante nello stesso tempo avere presente che il concetto dell’unicità, da solo, non significa nulla se non si tenta di tenere presente tutta una serie di elementi fra cui c’è anche l’unione degli egoisti. Questa ha un senso in quanto è unione di unici, di elementi che contemporaneamente si avvicinano e si respingono, cercano la diversità e la trasformano in affinità, e su questa affinità costruiscono (questa è la mia interpretazione) la possibilità di una unione, la quale unione ha una natura concreta, non spirituale o santificata. Non è una costruzione fantastica, fantastica nel senso di adeguata ai fantasmi. Questo vale anche per la dimensione della rivolta. Non a caso Stirner fa una distinzione tra rivolta e rivoluzione: la rivoluzione è una dimensione strumentale e concorre alla costituzione di nuove istituzioni.

Riguardo al problema associativo in genere, Stirner critica Pierre-Joseph Proudhon sulle conseguenze che ne derivano. Perché Proudhon aveva, sulla scia di Adam Smith (ricordarsi per esempio della fabbrica di spilli di cui si parla nelle prime pagine delle Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle Nazioni [1776]), fatto un discorso sulla capacità operativa dell’associazionismo, sulla produzione collettiva, sul mutualismo, e così via. (Un discorso che faremo domani nel corso della conferenza sull’Anarchismo, incontro che ricordo a coloro che sono interessati all’argomento). Ma Stirner non dà all’unione degli egoisti una vita autonoma, a se stante dai singoli egoisti, perché questa vita autonoma sarebbe una santificazione. Egli, allo stesso modo, non dà una vita autonoma alla rivolta, non fissa una esistenza metaforica o spirituale della rivolta, una dimensione oggettiva della rivolta. Il ribelle, secondo Stirner, non esiste, esiste l’unico che si ribella. La rivolta è una dimensione dell’unico, è una proprietà dell’unico, non è una situazione esterna all’unico. Questa proprietà è presente nell’unico, in tutti gli “unici”, proprietà che non è presente nell’unione degli egoisti.

Noi pensiamo spesso l’unione degli egoisti in termini oggettivi, nel senso in cui ci immaginiamo un sindacato, un partito, uno Stato minimo, un’organizzazione rivoluzionaria, che cosa volete che pensiamo, le nostre esperienze sono queste. Oppure possiamo pensare un’altra cosa, che è anch’essa una santificazione, una rarefazione: l’assenza di tutto quello che esiste. Ma l’assenza di tutto quello che esiste è una cosa costituita appunto dalla negazione di tutto quello che esiste, cioè a dire una cosa che è santificazione essa stessa. Quindi l’unione degli egoisti non è universale, se lo fosse la sua unicità sarebbe ancora una volta una santificazione. In questo gioco di bussolotti troveremmo sempre lo stesso fondamento, troveremmo sempre Domine Dio.

C’è una differenza tra totalità e universalità. Secondo Hegel la totalità è l’insieme delle cose che sono, per cui una realtà si sviluppa per quello che essa è, né più né meno. Tu sei quello che sei. E in questo senso sono d’accordo che tu avresti potuto essere diverso da quello che sei. L’universalità è un’altra cosa, è quello che tu dovresti essere, o che avresti dovuto essere e non sei. Questa è una universalizzazione e quindi una sacralizzazione. Non la totalità. La totalità è esclusivamente quello che tu sei. I motivi e le cause efficienti (non stiamo a discutere sulla questione Schopenhauer-Leibniz) concorrono a determinare, insieme alla tua volontà, quello che sei, e solo quello che sei. Ecco perché a un certo punto possiamo affermare che bisogna cercare di diventare quello che si è. Ed è questo il punto in cui si supera la differenza tra totalità e universalità. Comunque, ogni totalità non è universalità.

L’unione degli egoisti ispira paura, pur nelle sue prevedibili ridotte dimensioni. Ancora Stirner: «Il fatto che una società, per esempio la società statale, riduca la mia libertà non m’indigna poi molto. È inevitabile che potenze di ogni tipo, persone più forti di me e in generale tutto il mio prossimo limitino la mia libertà; anche se fossi l’imperatore di tutte le R..., non godrei la libertà assoluta. Ma la mia propria individualità non me la farò strappare. È appunto l’individualità che ogni società ha di mira e che tenta di sottomettere alla propria potenza.

«È ben vero che una società a cui aderisco mi toglie alcune libertà, ma in compenso me ne concede altre; non c’è niente da dire nemmeno sul fatto che io stesso mi privo di questa o di quella libertà (per esempio in ogni contratto). Ma la mia propria individualità, invece, voglio custodirmela gelosamente. Ogni comunità ha, a seconda della sua potenza, la tendenza più o meno forte a diventare un’autorità per i suoi membri e a porre loro delle barriere: essa pretende (e non può non pretendere) un’ “intelligenza da sudditi, limitata”, essa pretende che i suoi membri le siano soggetti, siano suoi “sudditi”, essa sussiste solo grazie alla sudditanza. Questo non implica affatto che non possa esserci una certa tolleranza, anzi, al contrario, la società accetterà volentieri proposte di riforme, rimproveri e critiche, purché siano fatti in vista del suo bene: il biasimo dev’essere “benintenzionato”, non dev’essere “impudente e irriverente”, ossia, con altre parole, deve lasciare inalterata la sostanza della società e considerarla sacra. La società richiede che i suoi membri non escano dai suoi confini e non si sollevino al di sopra di lei, ma restino invece “nei limiti della legalità”, cioè si concedano solo ciò che la società e le sue leggi concedono loro.

«È ben diverso che la società limiti la mia libertà oppure la mia propria individualità. Nel primo caso, essa è un’unificazione, un accordo, un’unione; ma se si attenta all’individualità, la società è una potenza per sé, una potenza al di sopra di me, qualcosa che mi resta inaccessibile e che io posso certo ammirare, adorare, venerare e rispettare, ma non dominare e distruggere: non lo posso fare perché io mi rassegno. La società sussiste grazie alla mia rassegnazione, al mio rinnegamento di me, alla mia viltà chiamata umiltà. La mia umiltà, il mio scoraggiamento costituiscono il suo coraggio, sulla mia sudditanza si fonda il suo dominio». (Ib., pp. 227-228). Quindi abbiamo: l’unico, che non è lo spirito assoluto ma l’utilizzo degli altri, la proprietà fondata sulla forza, l’unione degli egoisti.

Ma l’unico come si muove? Teniamo presente infatti che anche all’interno della filosofia hegeliana (questo grande serbatoio di idee) troviamo, oltre al concetto di progresso, essenziale alla comprensione di molti pensieri di Stirner, il concetto di movimento. Mentre il kantismo è una filosofia statica, cioè appartiene a quelle filosofie tecniche che realizzano determinate condizioni per potere costruire, l’hegelismo è una filosofia dinamica, una filosofia di movimento, una filosofia della Storia. Ma cos’è che fonda il movimento stirneriano? Non può essere l’accettazione, non può essere quel meccanismo essenziale dell’hegelismo che è la conciliazione. In fondo Hegel è conciliante: concilia il pensiero sovversivo sotterraneo, che come abbiamo detto attraversa tutta la storia occidentale, con il pensiero ufficiale, con l’idealismo post-kantiano. Questa conciliazione tra il finito e l’infinito significa una risoluzione dell’infinito nel finito. La realtà è razionale, qualunque cosa è razionale. Perciò qualunque espressione della ragione è reale. Questo binomio, questo straordinario concetto hegeliano, evidentemente non può essere accettato da Stirner in funzione conciliativa, come accettazione di una condizione di fatto all’interno della quale qualunque cosa può accadere. Pensate qual era la situazione della Prussia dei primi vent’anni dell’Ottocento. E in questo preciso contesto Hegel riesce a determinare le condizioni della razionalità del reale. Ma la ragione, per Stirner, è ben altra cosa. Il movimento in Stirner non si basa sulla conciliazione, ma sul suo contrario. Si basa sulla rivolta, si basa sul rifiuto, si basa sulla contrapposizione. Stirner è molto attento a questo problema centrale per la sua filosofia, e fa una distinzione radicale tra rivolta e rivoluzione.

Sia a causa del particolare sviluppo dell’analisi filosofica di Stirner, sia anche perché si tratta di una caratteristica ben precisa del pensiero hegeliano, di tutta la sinistra hegeliana, un approfondimento del pensiero di questo filosofo in termini psicologici, non dico psicanalitici, ma psicologici nel senso herbartiano del termine, a mio avviso, è poco praticabile. Per quanto sia possibile reperire testi di filosofi coevi che hanno avuto la preoccupazione di porre l’elemento psicologico alla base del loro modo di ragionare, come per esempio Feuerbach, il quale ha insistito parecchio sullo psicologismo, non si tratta di qualcosa di reperibile anche in Stirner.

L’analisi psicologica che tiene presente la tesi della coabitazione col mostro è una estrapolazione piuttosto arrischiata del pensiero di Stirner, della quale mi assumo personalmente la responsabilità. Non vorrei confondere farina del mio sacco con farina del sacco di Stirner. Io penso che nel dibattito filosofico contemporaneo lo psicologismo è stato un po’ messo da parte, sia perché ritorna di moda una certa interpretazione della fenomenologia, sia perché ritorna di moda un’applicazione differente di quelle che erano le tesi ermeneutiche, diciamo degli anni Cinquanta. Ora, a parte questo, leggere in chiave spirituale il discorso di Stirner significa ridurlo a una dimensione del genere di Emmanuel Mounier, e a me questo sembra una forzatura considerevole, non me la sentirei di parlare in questo senso. A me Mounier piace, però ci vedo coloriture diverse, ci vedo una santità perfettamente operante. Con questo, in tutta sincerità, cosa che non so se sono riuscito a far trapelare da quello che ho detto, io sono convinto che non c’è una dimensione di santità all’interno dell’unico. Per carità, non voglio con questo indicare zone di assoluta perfezione nella filosofia. Ci andrei un po’ adagio. Non c’è alcun dubbio che in molte posizioni che vengono tortuosamente alla superficie in questi ultimi anni, specialmente come portato di una tensione culturale molto diffusa fra i giovani, ci sono venature di natura spiritualista. Però, a volte, la storia del pensiero ha fatto vedere come parecchi spiritualisti sono stati nello stesso tempo critici radicali della dimensione del sacro. Simili analisi, secondo me, anzi non analisi ma distinzioni, rischiano di diventare nominaliste.

Questo punto non trascurabile del pensiero di Stirner necessita di un ulteriore chiarimento. Stirner è un pover’uomo, dotato di considerevole intelligenza, ma un pover’uomo. Nella sua vita tutto gli è andato male. Il tentativo di addottorarsi in modo di avere la licenza: fallito. Ha la modesta possibilità di insegnare in una scuola femminile di secondaria importanza, ma è costretto a licenziarsi a causa della pubblicazione de L’unico e la sua proprietà, che ai suoi tempi, sia pure in àmbiti ristretti, dovette fare parecchio rumore. Tutti tentativi che lo portano ai limiti della carcerazione. È pieno di debiti. Una latteria che fallisce. Insomma un povero disgraziato, da questo punto di vista. Molti si sono chiesti: ma cosa vuol dire questa dicotomia tra l’essere e l’apparire, tra il pensiero e quello che una persona nella vita è capace di realizzare? Molti pensieri, anche profondi, possono venire in mente a un raté, a un fallito, a uno che fugge dalla realtà, o forse molti di questi pensieri risentono del fallimento della propria vita quotidiana.

Questo è un grosso problema che non possiamo illuderci di risolvere in questa sede, però io vorrei gettare una piccola luce su di esso. Bisogna vedere che cosa uno si propone. Se un uomo, nella propria vita, si propone il palcoscenico dell’esteriorità, il caleidoscopio delle apparenze, il riconoscimento da parte degli altri delle proprie realizzazioni intellettuali, e poi nella pratica non riesce perché è costretto a sopravvivere con i proventi della latteria della moglie, è una tragica situazione. Condizione che non può non affiorare nelle elucubrazioni del suo pensiero. Ma, quando un uomo non si propone tutto ciò, ma si propone il concetto di indicibilità (e questo concetto attraversa tutto il libro di Stirner), il suo problema è diverso. Ogni esito non può essere valutato in termini di successo o di fallimento. L’indicibilità sta a testimoniare che il pensiero non sempre può esprimere quello che ha da dire, non può farlo, è una contraddizione, e in quanto accettiamo di dirla questa realtà di cui non si può parlare, rifiutiamo il postulato conclusivo del Tractatus logico-philosophicus [1921] di Ludwig Wittgenstein in base al quale di quello di cui non si può parlare si deve tacere, che se non altro è norma di prudenza.

Stirner parla, ma sa contemporaneamente che quello che dice non è adeguato a quello che sta pensando. E in questa inadeguatezza si riflette il suo fallimento come uomo. E soltanto in questa inadeguatezza. Mentre nella distanza ermeneutica (in merito alla quale noi siamo chiamati a dare una spiegazione tra quello che non è dicibile e quello che viene detto) si vede l’importanza di quello che è stato scritto e detto pur nella consapevolezza della impossibilità di scrivere e di dire. È un concetto un po’ difficile, ma io penso di essere riuscito a chiarirlo sia pure in piccola parte. Ecco perché Stirner conclude per il silenzio. Gli altri scritti di Stirner, anche importanti, sono scritti occasionali, risposte, difese de L’unico e la sua proprietà. Perché in effetti l’indicibilità di questo libro riflette il concetto della differenza che passa tra ciò che è stato detto e quello che non può essere detto e che continua anche oggi a non poter essere detto.

Questa riflessione apre un orizzonte importantissimo. Io provengo dalla scuola di Nicola Abbagnano, e negli anni Cinquanta ho pubblicato una serie considerevole (considerevole come quantità, non so dirvi come qualità) di studi filosofici sull’esistenzialismo, approfondendo la posizione di alcuni cosiddetti “non filosofi”: Arthur Rimbaud, Friedrich Wilhelm Nietzsche, Giacomo Leopardi, Gide, Søren Kierkegaard e tanti altri. Secondo me uno sforzo importante è quello che cerca di superare la dimensione della “unicità” del libro. I Canti di Maldoror [1868] di Lautréamont sono certamente un libro unico, ma non è questo il problema essenziale. Per esempio Kierkegaard produce tutta una serie abbastanza complessa di scritti e quindi, pur non essendo autore di un libro “unico”, ha però molti punti di somiglianza con la posizione non soltanto filosofica, ma con la posizione esistenziale di Stirner. Se viene bene esaminato, il fallimento della vita di un pensatore ha un significato anche di natura speculativa, in quanto c’è un rapporto tra vita e attività di pensiero, perché in caso contrario si è assurdamente idealisti. Soltanto nel caso in cui ci si colloca nella dimensione dell’utilità oggettiva, del riconoscimento, si può operare una distinzione tra vita e pensiero, cosa che non riguarda Kierkegaard. E la sospensione di qualsiasi possibilità di concretizzare nella realtà del vivente la dimensione visibile del quantitativo, dell’accumulabile, presente in Kierkegaard, come in Rimbaud e in tutti i “poeti maledetti”, dimostra che tutti, produttori o meno di un solo libro, rispecchiano nei propri scritti la loro vita in maniera diretta, lontani come sono dai riconoscimenti istituzionali. Ma questo assume un significato per noi solo nel momento in cui diventiamo capaci di cogliere la tensione che passa tra le tesi sostenute dall’autore e la loro dicibilità linguistica, intesa proprio in termini tecnici. Kierkegaard fa vedere molto bene questa tensione in diversi punti della sua opera, mentre nello stesso tempo fa vedere il significato profondo del suo rifiuto del fidanzamento con Regina Olsen. Rifiuto non accidentale, in quanto si tratta di una sospensione voluta della quantità, di un tentativo di realizzare una dimensione assolutamente nuova del qualitativo, la dimensione dell’etica, dell’amore, quindi qualcosa che resta pericolosamente in equilibrio, una intuizione della libertà che minaccia continuamente di perdersi in un disequilibrio. Il matrimonio con Regina, cosa sarebbe stato? Il sigillo del reale imposto sul fantastico. Ecco perché Kierkegaard rinuncia al matrimonio e si mantiene nella situazione di sospensione. Ora, secondo me, non è tanto l’aspetto accidentale della singola vicenda umana, quanto il significato generale di un destino (per esempio, Kierkegaard ha un destino tragico che lui ritiene legato alla maledizione del padre, l’ascesa del colle nella notte da piccolo insieme col padre, la maledizione lanciata contro un Dio ritenuto responsabile dei guai familiari), tutti elementi importanti nella dimensione religiosa in cui egli vive.

L’insieme di questi elementi ha una considerevole pesantezza morale, costituisce un codice fantasma che grava sull’individuo e, nello stesso tempo, dà forza alla coscienza radicale di parlare di una cosa di cui non è possibile parlare. In fondo noi viviamo nell’àmbito di una coscienza circoscritta, di una coscienza immediata. Quando spezziamo questa chiusura, che è anche un cerchio magico come diceva il nostro amico Stirner, quando spezziamo questa chiusura e cerchiamo di uscirne, tutto quello che costruiamo all’esterno, nell’àmbito della diversità, il nostro progetto dell’effettualità trasformativa, interpretativa (tutti i problemi dell’ermeneutica, per ricordare Paul Ricouer), sono soltanto tentativi di dire una cosa che non si può dire. È questo spesso il destino del filosofo.

Adesso affrontiamo la questione della differenza tra rivolta e rivoluzione. Consentitemi una importante citazione tratta anche questa volta da L’unico e la sua proprietà: «La rivoluzione ordina di creare nuove istituzioni, la ribellione spinge a sollevarsi, a insorgere. Le menti della rivoluzione si domandavano quale fosse la costituzione migliore e tutto quel periodo politico è strapieno di lotte per la costituzione e di questioni costituzionali, anche perché i teorici della società avevano allora un’inventiva non comune per quel che riguarda le istituzioni (falansteri, ecc.). Ma il ribelle (per cautelarmi da una denuncia penale, sottolineo espressamente, benché sia superfluo, che ho scelto la parola ribellione per il suo significato etimologico, e quindi non la uso nel senso specifico che viene condannato dal codice penale) vuole liberarsi da ogni costituzione». (Ib., pp. 234-235).

Stirner a questo punto, lasciatemelo dire, si trova senza argomenti perché altro è aprire la strada ad approfondimenti teorici, altro è criticare, altro è distruggere, altro è estremizzare quelle che sono le condizioni del clima filosofico e politico di un’epoca, altro far vedere i difetti della costruzione hegeliana, altro è costruire un grande libro, un grande progetto, un’affascinante occasione di lettura, altro infine è fornire esempi.

Che cos’è la rivolta? Stirner fornisce un esempio che io personalmente non condivido. Su questo ci sono opinioni e scuole di pensiero molto differenti. Alcuni sostengono la validità di questo esempio (centrale nel libro), altri, come me, ritengono che questo esempio non sia dei migliori. L’esempio di rivolta scelto da Stirner è il cristianesimo. Leggiamo ancora una volta L’unico e la sua proprietà: «Cercando un paragone che illustri più chiaramente la cosa, mi viene in mente, contro ogni aspettativa, la fondazione del cristianesimo. Da parte liberale si rinfaccia ai primi cristiani di aver predicato l’ubbidienza nei confronti dell’ordinamento sociale allora esistente, cioè di quello pagano, di aver ordinato di riconoscere l’autorità pagana e di aver comandato senz’altro: “Date a Cesare quel che è di Cesare”. Eppure quante sommosse ci furono a quei tempi contro l’autorità e il dominio dei Romani, che spirito rivoluzionario mostravano gli ebrei e gli stessi Romani contro quell’impero universale, insomma com’era diffusa l’ “insoddisfazione politica”! Ma i cristiani non ne volevano sapere e non volevano accettare le “tendenze liberali”. Quel tempo era politicamente tanto agitato che, come si legge nei Vangeli, si pensò che il modo migliore d’accusare il fondatore del cristianesimo fosse appunto quello d’incolparlo di “trame politiche”, mentre nessuno era più lontano di lui da tali attività, come gli stessi Vangeli ci dicono. Ma perché non era un rivoluzionario, un demagogo, come gli ebrei avrebbero ben voluto, perché non era un liberale? Perché egli non si aspettava la salvezza da un cambiamento delle condizioni e tutto quell’ordinamento gli era indifferente. Egli non era un rivoluzionario, come per esempio Cesare, bensì un ribelle, non uno che rovesciava gli Stati, ma uno che si sollevava. Per questo il suo principio era solo: “Siate astuti come serpenti”, che esprime la stessa cosa dell’altro principio, più specifico: “Date a Cesare ciò che è di Cesare”; egli non conduceva alcuna battaglia liberale o politica contro l’autorità costituita, ma voleva, incurante di quell’autorità e da essa indisturbato, percorrere la propria strada. E non meno indifferenti del governo gli erano i nemici di questo, perché né l’uno né gli altri capivano ciò che egli voleva ed egli non poteva che tenerli lontani da sé con l’astuzia di un serpente. Ma sebbene non fosse né un agitatore di popoli né un demagogo né un rivoluzionario, egli era (e tanto più lo era ciascuno di quei cristiani primitivi) un ribelle che si sollevò al di sopra di tutto ciò che al governo e agli avversari di questo sembrava sublime, che si sciolse da tutto ciò a cui quelli restarono legati e che al tempo stesso deviò il corso delle sorgenti vitali del mondo pagano, facendo così appassire lo Stato esistente: proprio perché non gli interessava il rovesciamento dell’esistente, egli ne era in realtà il nemico mortale e il suo vero distruttore; egli, infatti, lo murò edificandogli sopra, tranquillo e incurante, il suo tempio, senza far caso alle grida di dolore che venivano da quel che aveva murato.

«Bene, forse quel che è successo all’ordine pagano del mondo capiterà anche a quello cristiano? Una rivoluzione non lo farebbe certo finire se prima non vi sarà una ribellione!». (Ib., pp. 235-236).

In questo esempio Stirner in primo luogo risente dell’analisi hegeliana, e ne risente in modo pesantissimo. Per Hegel la divisione della storia come fatto oggettivo si sviluppa in tre fasi: l’antichità, poi la frattura del cristianesimo, e infine la frattura della riforma. A livello dello sviluppo dell’idea si ha, dopo la filosofia antica, la frattura determinata dal pensiero di Proclo e, infine, quella causata dal pensiero di Lutero. La struttura di questi movimenti è tipicamente triadica ed hegeliana, e rimane più o meno intatta all’interno delle tesi di Stirner. Per Hegel e Stirner il cristianesimo è l’avvento di una nuova era. È fondatissimo quindi il fatto che si parta dalla nascita del Cristo per il computo dell’età moderna.

Il riferimento storico di Stirner è debole per un altro motivo. Perché la condizione del cristianesimo primitivo aveva caratteristiche di natura rivoluzionaria, non di sola rivolta. Il motivo è semplice. Innanzitutto la struttura organizzativa del cristianesimo era alternativa e ostile alla struttura sociale dominante dell’epoca. Per esempio: tra Tertulliano, che è l’ultimo degli apologisti, e Cipriano, che è il primo dei critici, fra i Padri della chiesa, passano poche decine di anni. In questo breve periodo abbiamo, da un lato, Tertulliano che dice: il nostro cristianesimo è perfetto, le nostre comunità sono totali, tranne le donne, cioè mettiamo tutto in comune tranne le donne. Abbiamo uno stile di vita santo e così via. Pochi decenni dopo, con il riconoscimento del cristianesimo da parte del potere in carica, Cipriano può dire: non è vero, nelle comunità ci sono ladrocini, da molto tempo i capi delle comunità si arricchiscono sempre di più. Col passare del tempo, specialmente dopo le conversioni di massa avute in Alessandria, città di vasti commerci e industrie, la proprietà privata torna a essere lo stile di vita più diffuso, caratterizzante le nuove comunità cristiane. Con le parole di Cipriano il periodo degli apologisti è finito.

Se si prendono alcuni passi del Vangelo, oppure le lettere di Giacomo, o una lettera di Pietro, si ha un netto rifiuto della ricchezza. Poi, da Clemente di Alessandria fino ad Agostino, in trecento anni, attraverso un movimento di pensiero e di pratiche repressive, si arriva alla giustificazione della ricchezza. E la ricchezza permette la costruzione di un potere rivoluzionario, che intende conquistare la base del potere in carica. Quindi, l’esempio di Stirner secondo me è mal scelto come ho sostenuto in diverse occasioni. Per quanto riguarda il cristianesimo dei primi secoli penso di saperne qualcosa, ed è su questi approfondimenti dell’argomento che mi sono fondato per rifiutare l’esempio di Stirner. Esso indica anche una sua incapacità a fornire esempi concreti di natura organizzativa e sociale, adeguati alla portata delle sue intuizioni e delle sue critiche filosofiche. Quando Stirner parla dell’unione degli egoisti, punto non di certo secondario nella sua costruzione di pensiero, pone come esempio l’unione dei panettieri per come si realizzava nelle città tedesche della sua epoca, confermando una stupefacente carenza di riferimenti concreti, che spesso caratterizza tutto il suo modo di procedere.

Arriviamo alla questione conclusiva: la rivolta, questo movimento. Cosa intendiamo per movimento? La rivolta è l’impiego pratico della forza nella realtà. Il ribelle è un uomo forte. Su questo, quanti equivoci si sono sviluppati, quante cattive letture, quanti simboli, quanti sacrifici, quante figure esaltanti di compagni che sono morti in nome di un ideale di liberazione... poi, in fondo in fondo, uno ha diritto di morire come crede, di giocarsi la vita come crede.

Io non vedo questi aspetti come negativi, tutt’altro, quello che ci vedo di negativo è che i due percorsi (quello della ribellione e quello della rivoluzione), che devono essere paralleli e devono compenetrarsi tra di loro, non sono visti come tali. Io non sono un ribelle, sono un rivoluzionario. Sono rivoluzionario come sono catanese, come sono un uomo di 56 anni, peso 100 e più chili... ecco, in questo modo sono rivoluzionario. E i rivoluzionari sono soggetti pericolosi, sono antipatici perché sono dei massacratori. Non hanno quelle caratteristiche che esistono invece nel ribelle, il quale magari muore subito sulle barricate. Pensate alle figure parallele di Francisco Ascaso e Buenaventura Durruti. Scoppia il colpo di Stato fascista in Spagna, il popolo si solleva e prende le armi. Ascaso muore il primo giorno, nel corso di uno degli assalti alle caserme di Barcellona, Durruti muore molti mesi dopo. Il ribelle e il rivoluzionario. Il rivoluzionario è un uomo doloroso, che si assume tanti compiti, che affronta discussioni, problemi, approfondisce situazioni delicate e spiacevoli. Chi tende alla luce del sole, chi illumina tutti con il suo gesto, in fondo percorre una strada diritta, non si inoltra nei vicoli della realtà. Ma ognuno sceglie la strada che gli è più congeniale. Anche il rivoluzionario si ribella, ma non è il ribelle. Il ribelle si ribella, ma non è il rivoluzionario.

Cos’è allora l’elemento che sta alla base della rivolta? È l’elemento della forza. Ma la ribellione è soltanto forza? Perché se fosse solo forza avrebbe dei limiti. C’è sempre qualcuno più forte di noi. La forza non può prendere la strada del quantitativo (questo in Stirner non appare molto chiaramente) ma deve prendere la strada della qualificazione, la strada attraverso cui verificare cosa c’è dietro l’assommazione. Perché se noi pensiamo di dovere crescere all’infinito per diventare capaci di ribellarci, non ci ribelleremo mai. Quindi la nostra capacità di ribellione si basa sulla forza. Ma la forza ha una sua limitazione, che non può essere quella della quantità di forza, ma deve essere quella della qualità. Quindi dobbiamo ribellarci, dobbiamo muoverci a partire da un riconoscimento dei nostri limiti. Insomma, c’è la questione di passare un confine. Superare un’apertura. Operare una frattura. Se tutto il discorso di Stirner ha un significato, e non è stato fatto inutilmente, da lui nel suo libro come da noi questa sera, dovremmo avere chiara in mente adesso una cosa. Che i fantasmi che ci stanno davanti sono stati costruiti per impedirci di agire. E che se vogliamo agire, dobbiamo distruggere questi fantasmi. Fantasmi che non sono soltanto davanti a noi, ma che sono principalmente dentro di noi. Sono carne della nostra carne, sono elemento con cui conviviamo tutti i giorni e di cui non possiamo liberarci definitivamente.

Ecco, consentitemi, i limiti del testo di Stirner. In Stirner c’è una concezione del superamento legata alla dimensione hegeliana. In Hegel il concetto di superamento (Aufhebung), è un concetto dialettico, in cui la dimensione superiore riassume e annulla nell’àmbito della sintesi, appunto per sua natura superiore, quelle che prima erano la tesi e l’antitesi. L’unico riassume, con tutte le sue capacità, questo concetto: il concetto di movimento, di ribellione come superamento. È possibile in effetti un superamento? Oppure oggi – specialmente dopo le dolorose vicende del secolo scorso – le guerre, i genocidi, non soltanto passati, ma presenti, quello che la realtà ci pone sotto gli occhi continuamente (pensate alla situazione dei paesi della ex-Jugoslavia), la miseria, la spaventosa mostruosità umana, che cosa l’uomo è capace di fare, cose che sembravano scomparse per sempre e che invece ritornano sistematicamente sotto gli occhi di tutti, oppure oggi si deve per forza concludere con l’idea che niente viene effettivamente superato? Di certo, nel senso hegeliano, un vero e proprio superamento non è possibile.

Cosa si nasconde dietro il concetto di Aufhebung, di superamento dialettico del reale, se non il tentativo spaventosamente ideologico di nascondere la barbarie in nome di un progresso definito che viaggia tranquillamente verso i futuri destini gloriosi dell’umanità. Quando Giovanni Bovio diceva: “Il futuro è l’anarchia”, faceva un’affermazione di fede, esprimeva un desiderio sotto forma affermativa. Nulla di più. Chi può garantire che il futuro sia dell’anarchia e della libertà? Invece il futuro continua, come il presente, a riservare terribili condizioni di mostruosità, di oppressione, di sfruttamento, che sembravano scomparse per sempre.

Non possiamo pertanto accettare il concetto di movimento, di superamento, il concetto del ribelle che supera la propria condizione e che porta dentro di sé e costruisce, e realizza, un mondo definitivamente liberato. Ma continuamente in lui c’è un mondo che conquista e perde la libertà, che la riconquista e la perde ancora una volta, che può sempre riconquistarla e riperderla, perché in effetti non possiamo utilizzare il concetto hegeliano di Aufhebung, ma dobbiamo sostituirlo con il concetto niciano, heideggeriano, di Überwindung, di oltrepassamento. Io spenderei, se mi consentite, una parola su questa radicale differenziazione.

Pensante che il concetto di Übermensch, utilizzato da Nietzsche, è stato sempre tradotto con la parola “superuomo”. Ora, di certo, non è accettabile l’ipotesi di sostituire questa traduzione con una più adeguata, più esatta. Almeno per quel che riguarda l’àmbito delle opere di Nietzsche, la parola “superuomo” deve restare così com’è, se non altro in nome di un secolo di errato lavoro filologico e di pratico utilizzo del termine, con tutti i suoi equivoci. Ma, almeno in sede di analisi, uno sforzo si può fare. Il significato esatto del termine niciano Übermensch, non è quello di “superuomo”, ma di “oltreuomo”. Difatti non c’è niente che superi l’uomo, nel senso hegeliano. C’è però qualcosa che può andare oltre l’uomo e, se pensiamo che in tedesco Unmensch vuol dire “mostro”, “disumano”, ma particolarmente “mostro”, abbiamo allora un rapporto tra Unmensch e Übermensch, tra “disumano” e “oltreuomo”. Nel mezzo c’è il concetto di Überwindung, ossia di “oltrepassamento”. “Oltrepassamento” significa pertanto un particolare modo di superamento, modo in cui nulla viene superato, in cui nulla scompare, ma quel Windung in tedesco vuol dire esattamente “contorcimento”, qualcosa che non riesce a stare fermo a causa di una pulsione interna, una specie di “muoversi nel bisogno” nel tentativo di star meglio, come di un malato che si giri nel letto del proprio dolore, ed è questa Not, questo bisogno che caratterizza il concetto di oltrepassamento. L’uomo non si ribellerebbe se non avesse questo stimolo del bisogno.

Ho fatto un piccolo riferimento a Martin Heidegger, ma non ho detto che sia accettabile in tutti i suoi aspetti la sua tesi dell’oltrepassamento. Ho detto soltanto che si deve a lui e alla sua analisi di Nietzsche (per altro non soltanto al grosso lavoro su Nietzsche, ma principalmente a un breve seminario) l’approfondimento della differenza tra superamento (Aufhebung) e oltrepassamento (Überwindung). Il discorso della radura non è accettabile, mentre è accettabile la lettura dell’oltrepassamento in contrapposizione al superamento. Basta così, se entriamo nello specifico andiamo fuori del nostro scopo.

Questi concetti che ci vengono dalla filosofia successiva a Stirner sono importanti anche per capire Stirner. In fondo però la cosa più importante per noi non è tanto capire Stirner, filosofo fra i filosofi che, al momento opportuno, dobbiamo per forza mettere da parte, quanto capire la realtà in cui viviamo, decidere cosa possiamo fare, come possiamo agire. Adesso possiamo capire che legandoci a un concetto standardizzato di superamento dialettico, nel senso hegeliano, diventiamo più tranquilli (Bovio, la storia, ecc.): la realtà lavora al nostro posto, la talpa scava, dobbiamo solo aiutarla. A causa di questa maggiore tranquillità, possiamo anche restare alla finestra e aspettare che qualcuno si ribelli al nostro posto.

Invece, se partiamo dal concetto che il “mostro” sta accanto a noi, è vicino a noi, sta dentro di noi, se non facciamo attenzione a che questo “mostro” non si impadronisca di noi e di quelli che stanno accanto a noi, vicino a noi, non possiamo veramente discutere e parlare in termini di rivolta dell’individuo, e non possiamo fondare in modo corretto, oltre che operativamente significativo, la distinzione tra rivolta e rivoluzione. Perché tutto quello che Stirner esprime nei riguardi della rivoluzione, nella dimensione del superamento hegeliano, ricade sulla rivolta, annulla la rivolta e la riconduce a una dimensione istituzionalizzata. In effetti, non è il “sonno della ragione a generare mostri”, quanto la ragione stessa. Adolf Hitler, i nazisti, non erano soli, avevano a fianco la gran parte dei Tedeschi che aspettavano senza reagire che si sviluppasse una gestione del potere estremamente mostruosa, ed erano persone molto razionali, molto hegeliane. Alfred Rosenberg e il nostro Gentile, con il suo famoso discorso di Palermo sulla “virtù morale del manganello”, erano persone ragionevolmente hegeliane. Quindi, se questa coabitazione col mostro è chiara davanti a tutti, non bisogna per questo abituarsi al mostro, familiarizzare col mostro, ma dobbiamo fare qualcosa perché questo “mostro” resti se non altro circoscritto e venga conosciuto, denunciato, capìto nei limiti del possibile, e non semplicemente dimenticato, trascurato, o peggio edulcorato, vestito con gli abiti del progressismo democratico.

Se dobbiamo fare questo, dobbiamo anche cercare di capire che abbiamo un compito nella rivolta che non è soltanto quello di trovare un esempio storico, ma quello di cercare il metodo. E il metodo della rivolta è quello di puntare alla differenza, trovare quello che è differente, non solo quello che è differente da noi, ma quello che è differente dalle convenzioni che ci vengono imposte come uniformazione dell’esistente, come amministrazione del già dato, del già acquisito. E questa ricetta della differenza è una ricetta che ci può portare molto lontano, in quanto in fondo ognuno di noi ha paura della differenza.

Quali sono gli strumenti che ci permettono di operare questa ricerca sulla differenza? Certamente non la ragione. Questo non vuol dire che bisogna essere irragionevoli, lasciarsi andare soltanto al sentimento, al giorno per giorno, essere privi di qualsiasi progettualità per il futuro, ma al contrario che bisogna alimentare sospetti nei confronti della ragione. Per cui non possiamo accettare la ragione come unico strumento di guida nella costruzione del nostro futuro, nella costruzione della nostra ribellione, nella dimensione rivoluzionaria che può essere costruita al di là della rivolta.

Quindi ricerca della differenza, ma ricerca della differenza attraverso quelle che Blaise Pascal definiva “le ragioni del cuore”. “Il cuore ha ragioni che la ragione non comprende, bisogna allora fare nostre le ragioni del cuore”, diceva. Queste ragioni del cuore ci fanno capire che c’è una simpatia per l’altro, però questa simpatia ci porta a far vedere che nell’altro, nel diverso, c’è qualcosa anche di noi, qualcosa che riusciamo a leggere in filigrana, mentre in noi la lettura di questo “qualcosa” risulta più difficile perché ci sono le “cristallizzazioni dei fantasmi” di cui parlava Stirner che la impediscono. Nei confronti degli altri siamo spesso molto più vigili. Ma, se noi limitiamo la lettura dell’altro, in quanto differente da noi, per paura, per conformismo, per accettazione del di già dato, la capacità di identificare la differenza non l’abbiamo più.

Adesso però un ultimo punto: se la conoscenza dell’altro, nell’àmbito dell’egoismo stirneriano della costruzione dell’unico in base a quello che si è detto prima, è ricerca della differenza, in fondo, se noi esaminiamo (su questo concetto si badi bene c’è tutto un dibattito oggi, e anche abbastanza controverso), se noi esaminiamo, dicevo, il concetto di differenza, restiamo sempre nell’àmbito del quantitativo. Riflettete un attimo su questa affermazione. Apparentemente la differenza si presenta come concetto qualitativo, ma la nostra coscienza cataloga immediatamente tutti questi segnali in arrivo, li trasforma in senso quantitativo, li colloca in una dimensione del di già conosciuto: cioè, in altri termini, che cosa fa? Se questo è diverso, dice la coscienza, io non lo capisco, però, entro certi limiti, lo catalogo e lo accetto. Perché lo accetto? Perché sono tollerante, perché il diverso non va respinto, perché il nero non deve fare paura, perché il razzismo è condannabile, ecc., io riassumo tutti questi concetti e li catalogo. Ma cosa sono tutti questi concetti? Sono fantasmi. L’antirazzismo è un fantasma. Com’è che tutto questo può non diventare un fantasma?

Io sono razzista non solo quando dico: il negro è diverso, dobbiamo linciarlo, mandarlo a casa, ecc., ma sono razzista anche quando non dico più il negro ma dico il nero, a questo punto sono ancora razzista, perché non è con una “g” che si modifica la realtà. Allora, è razzismo anche quando faccio attenzione e dico: il “nero”, come nell’aneddoto raccontato da Franz Fanon del bambino con la madre nella Metropolitana a Parigi. Il bambino seduto con la mamma davanti a un nero urlava: “Mamma ho paura, il negro è brutto, il negro mi mangia”. La signora imbarazzatissima non sapeva cosa fare, per cui rivolgendosi al nero gli dice: “Signore, la prego, lo scusi, il bambino non sa che lei è un uomo come noi”. Questo è razzismo. Noi siamo ancora razzisti quando tentiamo di fare diventare il nero come noi, civilizzato come noi. Questo è razzismo. Non solo il razzismo del nero linciato, ma è razzismo anche il nero abbassato al livello della nostra civiltà presunta superiore. Questo è anche razzismo. Quindi, il mostro che dorme nel nostro stesso guanciale è molto più complesso di quanto non si trovi nelle schematizzazioni delle santità.

Ognuno con le sue diverse differenze. Perché il primo movimento della rivolta è la ricerca della differenza. Il nero è nero, non è bianco. Cercare di farlo diventare bianco è razzismo.

Nel momento in cui io non mi limito alla ricerca della differenza, ma faccio il passo successivo e fondamentale, travalico dalla differenza all’affinità, cerco di capire che cosa nella differenza c’è di simile a me, di affine a me, che cosa posso costruire con l’altro. Non solo quindi ricerca della differenza, il che sarebbe ancora un agire circoscritto in direzione quantitativa, e quindi ulteriore, tediosa, ricerca del fantasma, ma dimensione della ricerca dell’affinità: struttura finalmente libera del pensiero (entro certi limiti poiché il “mostro” coabita sempre là vicino a noi, si corica e dorme sul nostro stesso guanciale), capace di costruire insieme agli altri qualcosa nell’affinità.

Quindi, se la ricerca dell’affinità come incontro è fondamento, significato, lettura essenziale della differenza, rifacendo il percorso inverso e rileggendo dall’inizio il discorso de L’unico e la sua proprietà, la costruzione dell’unico è possibile solo nella ricerca dell’altro e nell’affinità con l’altro. Qui non regge, secondo me (credo di essere il solo a sostenere una tesi del genere, quindi pensate un poco quanto può essere accettata dagli altri), qui non regge l’annoso e inutile dibattito diretto a fissare una discriminante separazione tra comunismo e individualismo. Perché, se l’individualismo è difesa dell’individuo e costruzione dell’unico, accennata in modo splendido e considerevolmente approfondito da Stirner, se l’individualismo stirneriano significa tutto questo, lo significa perché in fondo non si differenzia dal concetto di comunismo anarchico, perché se lo sbocco dell’individuo visto da Stirner, se l’unico significa libertà dell’individuo, anche il comunismo anarchico significa libertà dell’individuo. Qualunque altra definizione di comunismo ha soltanto il significato di oppressione e di sfruttamento.

Vi ringrazio dell’attenzione.

[Conferenza tenuta all’Università di Firenze, Facoltà di Filosofia, il 13 gennaio 1994. Trascrizione della registrazione su nastro]

II. Il riferimento a Hegel

Infinito-finito. Fichte-Schelling. Processo all’infinito. Cattivo infinito. Tema fondamentale: l’infinito nella sua unità col finito.

Negli scritti giovanili questa unità è celebrata nella religione, in quelli successivi è riconosciuta nella filosofia.

L’unità in questione è riconosciuta non “al di là” del finito, ma nel senso che supera e annulla in se stessa il finito.

Differenza da Friedrich Wilhelm Joseph Schelling e Johann Gottlieb Fichte: questi dicono che l’Io pone il finito come tale facendolo sussistere e giustificandolo. Ma così il finito, per adeguarsi all’infinito che lo pone, è lanciato in un processo all’infinito che lo annulla. Questo infinito è detto da Hegel “cattivo infinito”, o infinito negativo.

Razionale = reale. Realtà = ragione. Negazione del principio unico di Fichte. Negazione dell’assoluto indifferente di Schelling. Negazione di essere e dover essere secondo Immanuel Kant.

In Georg Wilhelm Friedrich Hegel il finito è abolito. La realtà non può essere penetrata dalla ragione, ma è la ragione. Ciò che è razionale è reale, e ciò che è reale è razionale. La ragione è il principio infinito autocosciente. L’identità assoluta di realtà e ragione esprime l’assorbimento del finito nell’infinito.

Hegel non intende dedurre tutta la realtà da un unico principio, come aveva fatto Fichte, perché in questo modo la realtà sarebbe non identica al suo unico principio, allo stesso modo non intende annullare le determinazioni della realtà in un “assoluto indifferente”, come voleva Schelling, ma conservare tutta la ricchezza della realtà.

Con la dissoluzione del finito nell’infinito scompare la distinzione tra essere e dover essere, essi coincidono, in totale opposizione a Kant.

Negazione della fede (Friedrich Heinrich Jacobi). La filosofia come scienza e sistema. Le categorie o concetti non si oppongono alla realtà ma la mediano. Come ragione (realtà) esse hanno forma dialettica.

Se la realtà è ragione, essa è assoluta necessità. La filosofia che la studia è quindi scienza e sistema, e non fede come voleva Jacobi. Questa scienza rende universale il contenuto della realtà mediante categorie o concetti che non si oppongono alla realtà e quindi sono incapaci di accoglierne la ricchezza di particolari, ma sono la realtà stessa che non esclude le contraddizioni, anzi le media per riconoscersi in ultimo fedele soltanto a se stessa. In questo modo la realtà, sinonimo di ragione, si dimostra dialettica.

La fenomenologia dello spirito [1807] è la storia romanzata della coscienza che attraverso erramenti, contrasti e scissioni e quindi infelicità e dolore, esce dalla sua individualità, raggiunge l’universalità e si riconosce come ragione che esiste in atto nelle determinazioni del reale.

Poiché non esiste altro modo di elevarsi alla filosofia come scienza, se non mostrandone il divenire, la fenomenologia prepara alla filosofia.

La certezza sensibile. È il punto di partenza della fenomenologia. È la più povera certezza, in quanto rende certi solo di questa cosa, in quanto presente a noi, ora. Quindi, questa certezza dipende non dalla cosa, ma dall’io che la considera. La certezza sensibile è così una certezza solo dell’io universale.

La percezione. Lo stesso si ha il rinvio all’io universale. Infatti un oggetto non può essere percepito come unico, nella molteplicità delle sue qualità (bianco, cubico, sapido) se l’io non prende su di sé l’affermata unità, cioè non riconosce che l’unità dell’oggetto è da lui stesso stabilita.

L’intelletto. Riconosce nell’oggetto solo un fenomeno a cui si contrappone l’essenza stessa dell’oggetto che è ultrasensibile. Ora, poiché il fenomeno è solo nella coscienza, e ciò che è al di là del fenomeno, o è un nulla, o è qualcosa per la coscienza, questa ha risolto interamente l’oggetto in se stessa ed è diventata coscienza di sé, autocoscienza. I gradi della coscienza: certezza sensibile, percezione e intelletto si sono dileguati nell’autocoscienza. Ma questa autocoscienza si considera anche come altro da sé, come oggetto, per cui si scinde in autocoscienze diverse e indipendenti, da qui nasce la storia dell’autocoscienza del mondo umano.

Storia dell’autocoscienza. Signoria e servitù. Prima figura, tipica del mondo antico. Le due autocoscienze diverse devono lottare per giungere alla piena consapevolezza del loro essere. La lotta implica un rischio di vita o di morte, non delle autocoscienze, ma della loro libertà: essa termina con il subordinarsi dell’una all’altra, nel rapporto servo-signore. Quando il servo giunge alla coscienza della propria dignità e indipendenza, allora il signore cade e la responsabilità della storia resta affidata alla coscienza servile.

Stoicismo e scetticismo. Ulteriori movimenti di liberazione dell’autocoscienza. Nello stoicismo l’autocoscienza, volendo liberarsi dal vincolo della natura, lo disprezza, ma così raggiunge solo un’astratta libertà, in quanto la realtà della natura non è negata, ma solo disprezzata. Nello scetticismo questa realtà è negata e perciò ogni realtà è posta nella coscienza stessa. Ma questa coscienza è ancora la coscienza singola, in contrasto con le altre coscienze: da qui la coscienza infelice.

La coscienza infelice. Vede in questo contrasto la presenza di due coscienze: quella divina e quella umana. È questa la situazione della coscienza religiosa medievale. La riunificazione di queste due coscienze è attuata nella devozione e nell’ascetismo, così la coscienza riconosce di essere se stessa, anche nell’altra, e quindi conclude un ciclo.

Il soggetto assoluto. Apre il ciclo dell’autocoscienza diventata ragione. Essa sa che la realtà esterna è sempre se stessa, ma non ha ancora giustificato questo sapere. Da qui un inquieto cercare con le relative fasi del naturalismo, del rinascimento e dell’empirismo. I vagabondaggi hanno fine quando l’autocoscienza raggiunge la fase dell’eticità.

L’eticità è per Hegel la coscienza che riconosciutasi come ragione diventa cosciente di sé, perché si è realizzata nelle istituzioni storico-politiche di un popolo e soprattutto nello Stato. Ma, prima dell’eticità, l’autocoscienza, delusa dalla scienza, cerca la vita e il piacere. Cerca così di fondarsi sulla legge del cuore, ma poi si accorge che questa non è sentita da tutti e allora cerca la virtù: da qui un contrasto che gli fa capire come a essa non resti che liberarsi dall’individualità, e ciò avviene col porsi nello Stato, nel quale ogni scissione interna scompare e dove si raggiunge la pace e la sicurezza di sé.

La logica. Se la Fenomenologia è un romanzo, l’Enciclopedia delle scienze filosofiche [1817] è una storia. Qui vengono svolte le categorie, cioè i momenti necessari della realizzazione della coscienza infinita.

Hegel indica la ragione infinita col nome di Idea e distingue la Storia, o divenire dell’idea, in tre momenti: a) La Logica o scienza dell’idea in sé e per sé. b) La Filosofia della natura o scienza dell’idea nel suo essere altro. c) La Filosofia dello spirito come scienza dell’idea che dalla sua alienazione ritorna a se stessa, cioè alla sua compiuta autocoscienza. Questa partizione triadica è desunta dal neoplatonismo antico, specialmente da Proclo.

La logica, dice Hegel, è la scienza dell’Idea in sé e per sé, il suo contenuto le è quindi immanente. Essa è l’assoluta verità, Dio stesso. I pensieri della logica non sono dunque pensieri soggettivi, ai quali la realtà rimanga estranea e contrapposta, ma pensieri oggettivi che esprimono la realtà stessa nella sua essenza necessaria. Ma la ragione, in questo senso, non è l’intelletto finito.

Qui Hegel distingue tre momenti della ragione: a) Intellettuale: il pensiero si ferma alle determinazioni rigide. b) Dialettico: fa vedere come quelle determinazioni siano unilaterali e debbano mettersi in relazione con le determinazioni opposte o negative (momento propulsivo). c) Speculativo: mostra l’unità delle determinazioni proprio nella loro opposizione.

Vediamo come si sviluppa la logica.

Concetto di essere. Privo di contenuto, assolutamente indeterminato. Simile al nulla. Il concetto della identità di essere e nulla è il divenire. Ecco la prima triade: essere, nulla, divenire. In questo modo Hegel risolve il problema del cominciamento. Quando l’essere determinato, venuto fuori dall’essere assolutamente indeterminato attraverso il divenire, scopre se stesso, si ha il passaggio all’essenza.

Concetto di essenza. Quando l’essenza si riconosce identica a se stessa, cioè scopre se stessa, si ha l’essenza come ragione dell’esistenza. In questo modo essa diventa da essenza esistenza e nasce il fenomeno. Dall’unione dialettica della ragione e dell’esistenza, si ha la realtà in atto.

Il concetto. L’essenza come realtà in atto diventa concetto. Non il concetto contrapposto alla realtà, concetto puramente intellettuale, ma concetto della ragione, cioè lo spirito vivente della realtà. Questo concetto è in primo luogo soggettivo o puramente formale, poi oggettivo, quale si manifesta negli aspetti fondamentali della natura, e poi è Idea, unità dell’oggettivo e del soggettivo, ragione autocosciente. L’idea è l’ultima categoria della logica, totalità della realtà in tutta la ricchezza delle sue determinazioni.

La filosofia della natura. Hegel respinge fuori dalla realtà, quindi nell’apparenza, ciò che è finito, accidentale, contingente, legato al tempo e allo spazio, e la stessa individualità in ciò che ha di irriducibile alla ragione. Ma tutto ciò deve trovare un posto, una giustificazione, difatti, almeno in apparenza, esso è reale. Trova quindi posto nella natura.

La natura è l’idea nella forma dell’essere altro, per cui, come tale, è essenzialmente esteriorità, la decadenza dell’idea da se stessa.

È assurdo pertanto volere conoscere Dio dalle opere naturali, le più basse manifestazioni dello spirito servono meglio allo scopo.

La filosofia dello spirito. Lo spirito è l’Idea che dopo essersi estraniata da sé nel mondo naturale ritorna a se stessa. Il presupposto dello spirito è perciò la natura, la quale nello spirito rivela la sua finalità ultima e nello spirito scompare come esteriorità per farsi soggettività e libertà.

Lo sviluppo dello spirito si realizza attraverso tre momenti che non restano come realtà particolari, ma sono ricompresi nel momento superiore.

Lo spirito soggettivo. È lo spirito conoscitivo. Esso forma oggetto dell’antropologia e resta attaccato all’individualità e alle condizioni naturali (geografiche, fisiche, ecc.). Esso è coscienza e forma oggetto della fenomenologia dello spirito in quanto riflette su se stesso e si pone come autocoscienza. In questo modo passa dalla coscienza della sua singolarità all’autocoscienza universale, alla ragione.

Lo spirito soggettivo è poi anche, in senso stretto, spirito e costituisce oggetto della psicologia.

Ma il momento culminante della spiritualità soggettiva è quando questo spirito diventa libero e lo diventa con l’attività pratica. Lo spirito umano diventa in questo modo volontà di libertà.

Lo spirito oggettivo. La volontà di libertà qui si realizza in istituzioni storiche. Questo realizzarsi avviene in tre momenti: a) Nel diritto, lo spirito oggettivo è persona, costituita dal possesso di una proprietà. b) Nella moralità, è soggetto provvisto di volontà particolare che però deve diventare volontà del bene universale. c) Nell’eticità, in cui questo contrasto è superato. In essa il dover essere e l’essere coincidono.

La sostanza etica si realizza: a) Nella famiglia, che implica un momento naturale perché si basa sulla differenza dei sessi. b) Nella società, che implica interessi particolari. c) Nello Stato, unità della famiglia e della società civile.

Lo spirito assoluto. È la realizzazione finale dello spirito. È in questa sfera che si è realizzato nella forma dell’eticità, cioè come spirito di un popolo. Nello spirito assoluto lo spirito di un popolo si manifesta a se stesso e si comprende nelle forme dell’arte, della religione e della filosofia. a) Arte: prima categoria dello spirito assoluto. b) Religione: seconda categoria. c) Filosofia: terza categoria. In questa culmina e si conclude il divenire razionale della realtà. Essa è l’unità dell’arte e della religione. Nella filosofia l’Idea pensa se stessa come Idea e giunge all’autocoscienza assoluta. In questo modo l’idea è oggetto, oltre che della filosofia, anche della storia della filosofia la quale è la filosofia della filosofia.

La filosofia della storia. Il principio dell’identità di razionale e reale porta Hegel a identificare in ogni campo lo sviluppo cronologico della realtà con il divenire assoluto dell’Idea. Negli stadi attraverso i quali sono passate l’arte, la religione e la filosofia, Hegel ha riconosciuto le categorie immutabili dello spirito assoluto.

La storia può apparire, egli dice, come una serie di fatti contingenti solo dal punto di vista dell’individuo, dell’intelletto finito, che misura la storia alla stregua dei suoi personali, se pur rispettabili, ideali. La storia è razionale: una volontà divina domina poderosa nel mondo.

Il fine della storia del mondo è che lo spirito giunga al sapere di ciò che esso è veramente. Questo spirito è lo spirito del mondo che s’incarna negli spiriti dei popoli che si succedono all’avanguardia della storia.

I mezzi della storia del mondo sono gli individui con le loro passioni. Hegel non condanna le passioni senza le quali nulla di grande è stato compiuto nel mondo. Ma lo spirito del mondo è sempre lo spirito di un popolo determinato: l’azione dell’individuo sarà tanto più efficace quanto più conforme allo spirito del popolo cui l’individuo appartiene.

Hegel riconosce alla tradizione tutta la forza necessitante di una realtà assoluta. Ma la tradizione non è solo conservazione, è anche progresso. Come la tradizione trova i suoi strumenti negli individui conservatori così il progresso trova i suoi strumenti negli eroi o individui della storia del mondo. Apparentemente quest’ultimi non fanno che seguire le proprie passioni e la propria ambizione, ma si tratta di un’astuzia della ragione che si serve di loro per attuare i suoi fini.

Il disegno provvidenziale della storia si rivela nella vittoria che di volta in volta consegue il popolo che ha concepito il più alto concetto dello spirito.

Ora, siccome il fine ultimo della storia del mondo è la realizzazione della libertà dello spirito, e siccome questa libertà si realizza nello Stato, lo Stato è il fine supremo. La storia del mondo è quindi la successione di forme statali che costituiscono momenti di un divenire assoluto. I tre momenti di essa: il mondo orientale, il mondo greco-romano, il mondo germanico, sono i tre momenti della realizzazione della libertà dello spirito nel mondo.

[1972]

III. Contributo a una lettura critica de L’unico

Si potrebbe trascrivere agevolmente un piccolo trattato dell’individualismo anarchico limitandosi alle citazione tratte da L’unico e la sua proprietà. Sarebbe di certo opera vana, ed è questo che in alcuni casi non pochi studiosi di Stirner si sono limitati a fare. Faccenda discutibile, per persone chiamate ad approfondire tematiche e problemi, ma anche dolorosa, per le conseguenze pratiche negative, quando la stessa cosa, in sostanza, viene fatta da rivoluzionari entusiasti e superficiali.

Tutto il lavoro di Stirner si presta a stiracchiamenti di questo tipo, e quindi può venire utilizzato per accontentare palati facili e spiriti bisognosi di tutela. Ora, la cosa non deve apparire strana, visto che questi lettori, e l’immagine che gli stessi amano proiettare di sé, sembrano lontani dal prototipo umano bisognoso d’aiuto. L’individualista stirneriano ama gridare ai quattro venti di collocare in se stesso, e nella propria forza, il proprio diritto alla vita e alla gioia. Si compiace di affermare che ogni “causa” esterna al proprio io gli è estranea, e quindi la rinnega, identificando soltanto in ciò che è suo la propria causa, insomma una causa “unica”, come è unico il suo “io”.

L’appello alla rivolta ha affascinato tanti anarchici, e non poteva essere altrimenti. Ha affascinato, e continua ad affascinare chi scrive, in quanto anarchico e in quanto uomo che ha dedicato la propria vita alla rivoluzione, ma il fascino di qualcosa non può ottundere le capacità critiche, in caso contrario ogni dichiarazione di principio cade sotto il rasoio che lo stesso Stirner, insieme ad altri filosofi, ha approntato. Rasoio tagliente quanto altri mai. Ogni sacralizzazione è un fantasma che mi porta lontano da me stesso, e quindi risulta, in definitiva, qualcosa di contrario a me stesso. E se questa sacralizzazione fosse quella del proprio stesso io? Se fosse la sacralizzazione del nulla?

Qui voglio proporre una critica a questa tesi fondamentale contenuta ne L’unico, ma principalmente voglio affrontare il problema della rivolta fine a stessa, equivoco tanto più grave, quanto più difficile diventa un suo possibile smascheramento. L’occasione fornita da Stirner è molto importante, infatti nel suo lavoro fondamentale si trovano tutti gli elementi che covano, spesso in maniera irriflessa, modelli di vita che proiettano in avanti istinti di rivolta, desideri di conquista del mondo, stimoli al piacere, utilizzo degli altri, impadronimento dei mezzi di cui il mondo è sovraccarico, e così via, in un montaggio variopinto, gradevole agli spiriti aggressivi. Dopo tutto, la vita non va centellinata, è sempre meglio strapparne grossi pezzi e gustarla anche a costo di sporcarsi le mani.

Il bisogno di un fondamento. Dietro tutta l’opera di Stirner, non solo dietro il suo libro fondamentale, ci sta il bisogno di un fondamento, una base da cui partire. L’elencazione di tutte le basi “false”, come per esempio “Dio”, l’ “uomo”, la “libertà”, la “verità”, ecc., corrisponde a un’altra elencazione di basi “vere”: cioè il “nulla”, l’ “io”, l’ “autoliberazione”, la “proprietà”. Naturalmente questi due elenchi, esattamente corrispondenti, si possono allungare considerevolmente, e nello schema triadico della dialettica hegeliana hanno il proprio “superamento” nella terza fase, quella della sintesi, in cui emerge e si consolida l’ “egoista”, l’ “individualista”.

Tutto il lavoro di Stirner è diretto a costruire questo fondamento e ad allargarlo, passando dall’egoista alla società degli egoisti, sviluppando analisi di grande interesse che hanno costituito e costituiranno anche in futuro l’eterna fortuna di questo filosofo.

Qui voglio dire soltanto una cosa, che svilupperò a partire da questo punto. Come ogni fondamento, anche l’egoista soggiace alle considerazioni critiche di Stirner. Se non si ammette la possibilità che una volta costituitosi questo fondamento, una volta intrapresa la strada della rivolta contro ogni istituzione mondana e divina, una volta trovato l’individualista nei suoi aspetti vitali più intimi, non ci si possa indirizzare verso un’ulteriore visione critica, procedendo oltre, verso altre prospettive, sempre più lontane e sempre più arrischiate, proprio perché prive di fondamento, se non si ammette tutto ciò, l’egoista sarà un “ossesso” anche lui, un ulteriore “fantasma”. È Stirner che ci fornisce il mezzo per arrivare a questa conclusione che lui, comunque, evita accuratamente di proporre in quanto la cosa avrebbe rotto il meccanismo sigillatore della dialettica triadica.

È per questo motivo che spesso l’uomo forzuto, il coraggioso vincitore di mille battaglie, anche con se stesso, il vaticinatore di prospettive di liberazione, conchiude la propria vita nella miseria di una ribellione fittizia, destinata ad accasarsi nell’àmbito della propria immagine, tristemente riflessa nello specchio deformante della vita quotidiana, garantita da meccanismi tutt’altro che individualisti.

Di quale “superamento” parliamo? Interessante domanda. Purtroppo penso che il superamento di Stirner, diretto a costruire l’egoista, sia destinato a cadere nella trappola del fondamento. L’egoista o si costituisce in quanto tale e nel momento che lo fa al primo risultato ottenuto si chiude nel proprio egoismo, sigillandosi in un mondo sia pure unico ma comunque chiuso, o si muove verso l’egoismo, quindi si ribella e acquisisce, si appropria, usa e tutto il resto, non soltanto in vista della costituzione del proprio egoismo, ma per fare qualcosa di questo stesso egoismo, cioè per godere di se stesso, per vivere la propria vita realmente.

Stirner si è posto questo problema, e lo ha risolto affermando che lo scopo deve restare all’interno dell’io egoista. Quindi l’individualista, per non diventare la causa degli altri, cioè non sua, deve essere esso stesso il proprio scopo, cioè deve semplicemente vivere meglio che può. Ma non si tratta di una risoluzione radicale, in quanto il superamento alla fase individualista definita, in modo chiaro, non prende in considerazione il fatto che non si può godere se non di qualcosa che si conosce, e non si può possedere se non qualcosa che si conosce. Lo stesso Stirner afferma che il possesso involontario, come il godimento involontario, non sono che momenti inferiori della vita. Ma, come è facile capire, il conoscere, anticamera indispensabile di ogni godere e di ogni vivere, non può essere chiuso in un fondamento definitivo, ma deve essere continuamente posto in gioco. Non c’è un momento in cui la conoscenza può essere considerata conchiusa, quindi non c’è un momento in cui il proprio godimento può dirsi individualisticamente perfetto.

Un altro modo di considerare il “superamento”. La filosofia di questo secolo ha raccolto l’eredità niciana e ha proposto un differente concetto di superamento, differente da quello hegeliano che presuppone il meccanismo dialettico, l’Aufhebung, che è inevitabile ritrovare anche nella costituzione dell’egoista così come viene proposta da Stirner.

Questo nuovo concetto consiste nel non lasciarsi nulla alle spalle, nel superare partendo dalla propria stessa condizione di bisogno, che altrimenti il superamento sarebbe privo di senso. Questa Überwindung, ripresa in pochi passi della sua opera da Martin Heidegger, è certamente da ricondurre a Friedrich Nietzsche. Se l’egoista è l’uomo nuovo ha bisogno di un superamento che riassuma in sé le forze vecchie, distruggendole nella sintesi che appunto produce il nuovo. Ma a ben riflettere possiamo diventare nuovi? È l’egoista un uomo nuovo? Secondo la stessa analisi di Stirner egli non lo è, non può esserlo. Ma se non può esserlo, se può essere solo quello che è, e solo a condizione di non sacralizzare scopi al di fuori di se stesso, non può nemmeno diventare “nuovo”. Ma l’Aufhebung hegeliana produceva realmente una cosa nuova, faceva scomparire il vecchio. L’egoista distrugge il vecchio uomo, distrugge ogni residuo di verità passata, egli soltanto è la verità. Ma questa distruzione, se portata fino in fondo, distrugge anche se stessa, avendo bisogno per essere reale proprio di un fondamento, e questo viene fornito dall’individualismo, che ben presto, in un modo o nell’altro, nella società degli egoisti o nella ferocia singolare del solitario, trova quiete.

Nietzsche ha notato che definendo il nuovo come il superamento della novità precedente considerata superata – e questo processo critico nell’egoista è garantito dalla riduzione alla sua essenziale proprietà al di fuori di ogni rifiuto sacralizzante l’esterno – si innesta un processo inarrestabile di dissoluzione, il quale impedisce una reale novità, una posizione effettivamente diversa. Ogni processo di Aufklärung, ogni percorso ermeneutico, ogni itinerario critico, selezione dei mezzi utilizzabili dall’individualista nella prospettiva di vivere la propria vita e di goderla, riassume in sé tutto quello che precede, non chiude un periodo e getta via la chiave. Nessuna ribellione risolve problemi, né costruisce definitivamente ribelli. Sono io che mi ribello – e qui ritorna costante l’insegnamento di Stirner – e non la ribellione che mi garantisce la mia individualità. Non diventerò mai un professionista garantito della ribellione. Se faccio della mia ribellione un mestiere, o sia pure uno sport – come purtroppo è il caso di molti compagni che conosco – sarò sempre lo strumento della ribellione, e questa non sarà la mia ribellione, ma io il suo ribelle.

Nietzsche radicalizza il superamento, affermando che nulla può essere effettivamente superato in modo definitivo. L’egoista non può mettere da parte, o tra parentesi, il mondo che ha superato, almeno non può metterlo da parte per sempre. Nessun coraggioso è garantito in maniera assoluta contro la vigliaccheria. Tutte le volte che la vita gli propone un’occasione di vivere il proprio coraggio, egli è questo stesso coraggio, con tutte le sfumature che quest’ultimo comporta. Non è il coraggio in assoluto, il modello del coraggio che si è cristallizzato per sempre nel coraggioso. Nessun essere è perfettamente egoista, neanche l’unico stirneriano, tanto che nella sua assoluta unicità, logicamente solo teorica, per concretizzarsi, per rendersi egoista fino in fondo, ha bisogno degli altri egoisti, ha bisogno dell’unione degli egoisti, e questa condizione di bisogno lascia intendere che appunto la Not sta agendo in lui, e dal bisogno non è possibile altro superamento che quello indicato da Nietzsche e sviluppato dalla filosofia successiva, non quello suggerito per primo da Hegel.

Dall’assenza del fondamento alla diminuzione d’importanza dell’origine. In un passo di Aurora [1881], Nietzsche dice: «Con la piena conoscenza dell’origine aumenta l’insignificanza dell’origine». (Opere complete, tr. it., vol. V, Milano 1964, p. 44). Solo riconoscendo come tale l’estensione del fondamento (Grund), si vede che quest’ultimo non è qualcosa da costruire, su cui poi vivere, ma qualcosa che attraversa tutta la nostra vita, anche quella inautentica, per dirla con Stirner, e anche di quella inautenticità di vita abbiamo bisogno, perché anche quella è nostra proprietà, ci appartiene e, sia pure in controluce, concorre a completare la nostra vita attuale, ogni singolo momento di questa vita che viviamo e che non vogliamo venga smarrita nell’inautenticità.

Così, proprio nel momento in cui il fondamento si allarga anche al passato, scade la sua importanza. Non più un risultato da conquistare, non più norma nuova da instaurare, solo per noi, solo da noi e solo in noi, non più tutto questo, ma patrimonio comune da utilizzare, più intensamente nell’affinità, meno intensamente in tutti gli altri casi.

Non è più quindi il contenuto di questo Grund che adesso ha importanza, non un decalogo nuovo da sostituire al vecchio, come sembra a volte minacciare qualche lettura di Stirner, non una diversa violenza da impiantare nel corpo dell’antica violenza, non una più grande forza con cui sconfiggere una forza meno grande, ma l’assenza stessa della pretesa del fondamento di costituire una garanzia alla vita. E noi non abbiamo in fondo da custodire nessun catalogo, perché non abbiamo nessun luogo sacro dei rituali definitivi, nessun libro sacro, meno che mai Der Einzige.

La bellezza dei colori dell’unicità. In un’epoca in cui la filosofia è stata costretta a trascrivere i dati di una realtà priva di senso, riappare il senso della mancanza di realtà. Almeno intendendo come realtà qualcosa di definitivo, di fondamentalmente definitivo. La base solida su cui Immanuel Kant si illudeva di rendere possibile ogni futura costruzione logica si è rivelata per quello che era, il giardino delle torture. La ragione ha messo a nudo i meccanismi terribili che la regolano. La verità si è scoperta ancella dell’oppressione e mezzana dell’imbroglio.

La condizione dell’unico è quindi particolarmente vivida, estremamente mossa. Non è fissa in maniera irrevocabile. In essa alberga, come altrove, la possibilità del contrario, l’improvviso cedere alla molteplicità del bisogno, agli aspetti deteriori della vita. Per poi riconquistare quello che si è smarrito, in modo radicale, non per paura di perderlo, ma semplicemente per assenza di fondamento certo, una volta per tutte.

L’unicità dell’individualista non costruisce nel deserto della vita quotidiana, ma in un luogo in cui costruire significa distruggere, in cui l’abbattimento degli ostacoli e dei limiti, tutto quello che di supremamente odioso la società ha saputo erigere nei millenni, è momento de-costruttivo, non banale esercizio di critica sia pure radicale. Se usa il martello, o la dinamite, non ha l’atteggiamento compromissorio di chi danneggia il meno possibile perché pensa di essere l’erede di quella parte che resterà in piedi. Il suo buon temperamento naturale, cui non mancava mai di far riferimento Nietzsche, la sua familiarità con l’odio verso tutto ciò che opprime e giustifica l’oppressione, lo fa agire in maniera naturale, spontanea, risparmiandogli, e risparmiandoci, la figura di colui che dopo finisce sempre per presentare il conto.

La vivezza dei colori nell’unicità non può comunque farci scordare la pregnanza di quello che ci circonda. Un oblio, sia pure momentaneo, e ci chiudiamo in una prigione costruita da noi stessi. Questo contesto malato, che pur continua a circondarci, non possiamo mai metterlo definitivamente tra parentesi, né possiamo mettere noi tra parentesi, chiamandoci fuori. Possiamo avere opinioni su tutto il resto, e convogliarle nel senso negativo dell’opposizione all’unicità, ma non possiamo cancellarlo, dobbiamo fare i conti con esso, dominarlo o farci dominare, non ci sono altre alternative.

Così, non possiamo dire che il completamento della nostra singolarità sia intensificazione assoluta di quella vivezza di colori. Né l’una né l’altra possibilità possono conchiudersi definitivamente. L’esperienza dell’unico resta viva e vivida a condizione di rimetterla in gioco in ogni istante, quindi a condizione di non considerarla “completa”.

Conclusione provvisoria. L’unico mantiene tutte le caratteristiche individualiste di cui l’anarchismo è ricco solo a condizione di non fermarsi nel suo percorso di lotta e di ribellione, a condizione di essere costantemente se stesso nel cercare non solo le condizioni della propria differenza, ma anche quelle degli altri. Di più. Queste condizioni, una volta trovate, devono essere viste nella loro possibile affinità, allo scopo di permettere l’identificazione di quel territorio delle differenze che rende possibile l’esercizio delle qualità essenziali dell’unicità, in primo luogo quella di vivere la propria vita nella maniera migliore.

Tutto ciò ha senso solo se si considera la condizione privilegiata dell’individualista come una condizione continuamente in movimento, essa stessa priva di una base solida e definitiva su cui contare in qualsiasi momento. Il rischio e il pericolo sono tali solo quando ci si sente esposti alle avversità, non quando si sa di essere sicuri in un fortilizio ben custodito. Non dimentichiamo che ogni luogo ben custodito, prima di ogni altra cosa, è una prigione.

Non possiamo usare la realtà, nel senso stirneriano dell’individualista, se non la conosciamo, e questa conoscenza è una costante rimessa in gioco, un rischio e un coinvolgimento. Non esiste vera e propria conoscenza nell’arroccamento e nella difesa del proprio territorio, per quanto quest’ultimo possa essere privilegiato.

Possiamo quindi ricondurre, o se si preferisce “rivivere”, nell’àmbito dell’unico, tutte quelle condizioni dell’assenza e del dolore che caratterizzavano la vita inautentica, ma solo quando siamo talmente forti da poterle considerare ulteriori sperimentazioni della nostra forza, esercizi del nostro dominio. Questo, che in effetti è un amplissimo problema meritevole di essere trattato adeguatamente, qui viene solo accennato. L’individualista stirneriano non può avere paura dell’eccesso, neanche dell’eccesso che ha appena lasciato la traccia della propria vita negata, ricacciata indietro e distrutta, e ciò proprio perché sa che ogni distruzione non è mai definitivo abbandono ma, al contrario, permanenza e trasformazione.

Non c’è un progresso su cui giurare e a cui affidarsi. Questa illusione tarda a morire. L’individualista non manca di considerarsi migliore di coloro che si dibattono nella quotidianità del vacuo e non si accorge che proprio questa valutazione etica appartiene a qual mondo di fantasmi su cui Stirner esercitava con tanto acume il suo sarcasmo.

Nessuno si salva dalla generale contaminazione.

[Pubblicato in AA.VV., Fuori dal cerchio magico. Stirner e l’anarchia, Catania 1993, pp. 83-89]

IV. Individualismo e comunismo: una realtà e due falsi problemi

Per questo è tutto continuo: infatti ciò che è si attacca a ciò che è. Parmenide

In questo contributo ci occuperemo di alcune riflessioni filosofiche di grande attualità. L’individuo, da un lato, che sta per essere sommerso definitivamente dall’appiattimento generalizzato della società attuale e, dall’altro, il bisogno di questa società, immaginata e desiderata con forme differenti, spesso confusamente indicate da tanti rivoluzionari sotto l’insegna deformante di “società comunista”. In quest’analisi non ci faremo intimorire né dalla degenerazione che l’amaro tramonto del “socialismo reale” ha causato nell’idea stessa di comunismo, né dai tentativi interessati del liberalismo di ogni genere di mettere avanti il fantasma dell’individuo per nascondere i propri progetti di dominio reale.

L’occasione di queste riflessioni ci viene fornita da una ennesima rilettura del libro di Stirner, sopraggiunta, per quel che mi riguarda, a distanza di oltre dieci anni, rilettura che, come mi era accaduto in passato, puntualmente, contribuisce a suggerire nuove occasioni critiche e nuovi sviluppi filosofici. In fondo, l’attualità di un libro come quello di Stirner non può più misurarsi all’interno del dibattito fra scuole filosofiche diverse, spesso oscuramente contrastanti, immerse in un’atmosfera fittiziamente lacerante, ma pronte in ogni caso a darsi reciprocamente una mano nel garantire la permanenza dell’attuale stato di cose, purché siano fatte salve le illegittime interpretazioni di una filologia ammiccante dall’interno del proprio attivamente custodito ginepraio.

Mettendo da parte queste preoccupazioni, forse procurerò con le riflessioni che seguono non poche delusioni agli attenti ascoltatori, e mi auguro anche lettori. Delusioni ancora più consistenti attenderanno coloro che si aspettavano, come cosa scontata, una discussione sul libro “sacro”, che tale non l’ho mai considerato, ancorché “unico”. Come ogni occasione presentata dai testi “classici”, anche questa è stata, almeno per me e per i miei scontati quindici lettori, soltanto un’occasione per procedere oltre, in quel territorio scoperto della ricerca dove tutto permane precario e approssimativo, con il pericolo costante di perdere legittimità e coerenza man mano che ci si allontana dalla letteralità del testo di partenza e ci si affida alla riflessione che non solo anticipa, ma che spesso segue l’azione.

Una contraddizione tutta stirneriana. Nel testo ho sempre colto una persistente contraddizione, poco importante per chi dell’individualismo anarchico ha una concezione conchiusa e ferreamente autarchica, molto per tutti gli altri, per coloro che considerano questo territorio della vita come uno dei luoghi possibili dell’autenticità, non come l’assoluzione di ogni imbroglio intermedio, contrassegnante, imbroglio e circospezione, nel bene come nel male, l’accorta vicissitudine di chi sa amministrarsi, più che il coraggio di chi invece si spende tutto in una volta.

Come individualisti, siete liberi da tutto, dice Stirner, ma non lo siete quando cercate di liberarvi, quando come liberi siete soltanto i “maniaci” della libertà, esaltati e sognatori. Solo quando la libertà diventa la propria forza questa libertà è perfetta, ma allora non si è più liberi, bensì individualisti. «Die Freiheit kann nur die ganze Freiheit sein: Ein Stück Freiheit ist nicht die Freiheit». (Der Einzige und sein Eigentum, Leipzig 1893, p. 189). «La libertà può essere soltanto la libertà totale; un pezzetto di libertà non è la libertà». (L’Unico e la sua proprietà, tr. it., Catania 2001, p. 121).

Tutto ciò va benissimo, almeno in quanto proposta metodologica, e difatti la contrapposizione esemplificativa tra “emancipazione” e “autoliberazione”, nella sua genericità, conferma l’intento programmatico. L’uomo che si è liberato da sé, der Nicht-Selbst-Befreite, si contrappone all’uomo che è stato liberato, der Freigegebene. Ma la contraddizione si colloca nel fatto, per tanti versi riduttivo e foriero di letture tutt’altro che rivoluzionarie, di suggerire un possibile aggiustamento progressivo riguardo l’abbattimento delle barriere, in modo da accontentarsi di un processo iniziato, non essendo ovviamente possibile abbattere tutte le barriere. Ma ciò non è forse in contrasto con l’equivalenza tra l’essere individualista e l’essere realmente liberi da tutto? A me sembra che questa totalità possibile di libertà, conchiusa nelle mani forti dell’individualista, mani capaci di aprire le fauci del leone societario, mal si coniughi con un progressismo accomodante che di fatto rende l’individualista un uomo con dei compiti (Aufgaben) come tutti gli altri, il quale spesso con la scusa della propria forza si adatta come può giacendo su un pezzo (Stück) di libertà, correndo il rischio di proporre a se stesso le proprie debolezze, i propri limiti (Grenzen), come riprova dell’avvenuto godimento della vita, della propria vita.

In effetti, e qui inizio le riflessioni cui facevo cenno prima, la strada mi sembra molto più complessa e difficile. Il pensiero filosofico degli ultimi cinquant’anni ha di certo contributo a denunciare questa complessità, facendo uscire un po’ tutti gli interessati dall’ingenuità massimalista di un dominio della volontà degli uomini forti. Ma spesso questi approfondimenti hanno lasciato molti cultori di un malinteso stirnerismo, alcuni di nuovissimo conio, nella loro tranquilla ignoranza. La ribellione (Empörung) è un grande momento vitale dell’uomo, del singolo uomo, e ciò anche (e direi preliminarmente) nella condizione della interna insoddisfazione dell’uomo (Unzufriedenheit der Menschen), ma può anche costituire un ulteriore traguardo da raggiungere, uno scopo e quindi una sacralizzazione. Il meccanismo correttivo ideato proprio da Stirner funziona sempre, immancabilmente. Non possiamo arrestarlo, come lo stesso suo autore avrebbe voluto, ma dobbiamo condurlo alle estreme conseguenze. E queste sono, fra l’altro, la negazione di ogni conquista stabile, definitivamente conservata e attentamente custodita, anche quella di se stessi. L’individualista non è tale una volta per sempre, ma se lo è, lo è perché continuamente si mette in gioco, si estremizza nel rifiuto di ogni collocamento definitivo, anche quello del ribelle stabilito una volta per tutte, nella propria divisa mentale di ribelle, sclerotizzato e mummificato. E il limite degli stirneriani, oggi più che mai visibile, e lo diciamo anche se con questa affermazione scandalizzeremo tanti appassionati, è quello di non tenere conto proprio di questa ulteriore e conclusiva possibilità di catalogazione. La contraddizione del testo diventa così accomodamento di esistenza, scelta del possesso sul filo del minore rischio, quando la crescita occhiutamente si contrae in se stessa e si prepara alla difesa.

Al contrario, l’utilizzo di se stesso come criterio di vita è l’unico metro che l’individualista può impiegare. Nella sua assoluta unicità questo criterio diventa criterio di verità (Kriterium der Wahrheit). Così, con forza determinante, noterà Nietzsche: «Das Individuum ist etwas ganz Neues und Neuschaffendes, etwas Absolutes, alle Handlungen ganz sein eigen». («L’individuo è qualcosa di assolutamente nuovo, che crea ex novo, qualcosa di assoluto, tutte le azioni sono assolutamente sue». Frammenti postumi [1882-1884], in Opere complete, tr. it., VII, I, Milano 1982, p. 34).

La debolezza della forza. Ogni dottrina della forza (e questo è il caso di Stirner solo per i suoi cattivi lettori) è irrimediabilmente debole. Ciò vale non solo per la dottrina dello Stato, ma anche per quella dell’individuo. Dietro la forza ci sta sempre la necessità e questa scompare, o almeno si affievolisce, soltanto di fronte al prevalere dell’individuo che si ribella e ribellandosi vince non solo le forze che l’opprimono, ma anche il destino. Per questo Stirner può scrivere: «Möglichkeit und Wirklichkeit fallen immer zusammen». (Der Einzige, op. cit., p. 385). «La possibilità e la realtà coincidono sempre». (L’unico, op. cit., p. 244).

Ma la ribellione non può essere commisurata e valutata semplicemente come forza, in caso contrario non si uscirebbe mai dal binomio costituito dalla forza dell’oppressore e dalla forza dell’oppresso. Questo scontro non ha solo una connotazione quantitativa, ma ne possiede una qualitativa, ed è su quest’ultima connotazione che si opera la rottura in grado di consegnare la forza a se stessa e l’individuo libero al di là delle proprie stesse capacità di potenza. Stirner ha visto bene questo punto, parlando dello scopo della libertà che finisce per diventare sacro in se stesso e quindi per snaturare il libero riducendolo al grado di liberato, ma non sempre i suoi lettori hanno uguale sottigliezza d’intelletto.

La forza ha da sempre affascinato il senso comune (der gemeine Meschen-verstand), il quale ha posto come sua propria legge l’utilità immediata del risultato ottenuto, la piccola conquista liberatoria, e il testo stirneriano qualche volta si presta a equivoci, presto esaltati da un interessato aspetto dell’individualismo cattedratico. Così, la reale debolezza si cela dietro un reboante turbinio di affermazioni, un continuo nascondere la propria Not, il proprio tragico bisogno di tutela e garanzia, dietro il rifiuto di ogni conformità (Richtigkeit).

Oggi finalmente sappiamo che il riconoscimento dei propri limiti, della propria interna condizione di bisogno (innerste Not), è il passo primario per intraprendere qualsiasi itinerario di ribellione, intendendo quest’ultima non solo come ribellione vera e propria (Aufruhr), quanto come Wendung, cioè come una svolta nel bisogno, un cambiamento radicale che riconosce la condizione di bisogno e cerca un rimedio.

Il superamento dell’ambiguità (Mehrdeutigkeit) nell’uso della forza corrisponde non tanto a un vero superamento nel senso hegeliano (Aufhebung), quanto a un oltrepassamento (Überwindung) nel senso niciano, non essendoci niente di definitivamente abolito e niente di definitivamente vinto. Questo oltrepassamento è vittoria sulla debolezza umana, sui limiti e sulle paure, proprio perché trascina con sé l’ostacolo, lo coinvolge nel processo di trasformazione e quest’ostacolo, dapprima considerato come qualcosa di oggettivo, si scopre alla fine essere l’individuo stesso, nell’insieme delle sue credenze, non ultima quella sull’onnipotenza della volontà. «Wahr ist, was mein ist, unwahr das, dem Ich eigen bin». (Der Einzige, op. cit., p. 416). «Vero è ciò che è mio, non vero ciò a cui appartengo». (L’Unico, op. cit., p. 263).

Emergere della differenza. Non c’è cosa più evidente della differenza. Tuttavia, se non la si vuole banalizzare, e quindi far retrocedere qualsiasi riflessione che prende spunto da essa, bisogna introdursi in un territorio tutt’altro che facile.

L’individuo non può bastare a se stesso. Chi s’illude di venire meno a questo limite segna il non oltrepassamento (Unüberwindbarkeit) fissato dal nichilismo, la conformità assoluta del di già dato e acquisito una volta per tutte. Ogni chiusura sigilla la forza che l’ha prodotta, per cui anche il conato più ricco di effettualità tradisce le proprie premesse e tramonta miseramente. Una vollendete Sinnlosigkeit, una perfetta assurdità.

Ma l’apporto del mondo esterno, e principalmente degli altri individui, correttamente impostato, produce una serie infinita di problemi, singolarmente non facili e spesso neanche proponibili. La differenza pura e semplice diventa in questo modo un’astrazione indicibile (unsagbar), insignificante in quanto priva di concretezza umana, di realtà attiva, snaturata dal suo proprio oggetto. Certo, un rimedio ci sarebbe, ed è stato illustrato più volte, si tratta dell’alibi tassonomico, una lunga lista empiricamente falsificabile, dalla quale dedurre, per negazioni successive, il resto positivo, quello che l’altro è e non quello che potrebbe essere. Ogni esperienza, sia pur minima, in questo senso, ha come risultato lo zero più assoluto. Con esattezza ci soccorre l’antica intuizione di Eraclito (Frammento 41 [fine VI sec. a.C.]): «Un’unica cosa è saggezza, intendere come il tutto sia governato attraverso tutto».

Più pertinente, la differenza prodotta dall’intermediazione culturale. L’interpretazione della realtà. L’azione dell’intelligenza sul dato di fatto, della fantasia e del sentimento sulla pretesa “verità” del contesto oggettivo. Un’invenzione, insomma, ma almeno concretamente plausibile, quindi identificabile, sia pure a tentoni.

La differenza in base alla quale rimettiamo in valore l’altro, e che cerchiamo a tutti i costi di difendere, è quindi un nostro prodotto, l’ “ho indagato me stesso” di Eraclito, cioè un riflesso colto e contorto della nostra individualità, intendendo quest’ultima nella estrema complessità del suo essere composto all’interno del quale elementi contrastanti denunciano la propria comune appartenenza (Zugehörigkeit). E questa comunanza è la situazione personale che anticipa l’inevitabile situazione comune, la quale ultima può essere anche vissuta come una prigione, ma non per questo può essere eliminata soltanto con un pio atto della volontà.

Siamo quindi noi che ci concretizziamo nell’azione vitale che ci contraddistingue, calandoci pienamente nella nostra propria vita, subendola, a volte, trasformandola in rarissimi casi, interpretandola più spesso e più malaccortamente di quanto non si creda. Senza questo continuo processo di deformazione, senza quello che Eraclito chiamava “Armonia di tensioni contrastanti come nell’arco e nella lira”, l’individuo non esisterebbe, senza questa continua produzione di aggiunte esemplari l’individuo resterebbe chiuso nella sua vacua insignificanza. Purtroppo ci sono le considerazioni scolastiche – e l’individualismo come ogni altra ideologia ha la sua “scuola” – che impongono di ragionare in tal modo e non in tal altro, facendo venire fuori una considerazione di officina, dove discepoli minuscoli si travagliano l’anima sui grandi cadaveri dei loro maestri. Cacofonie.

L’individuo non coglie la realtà che a partire da se stesso, per cui riflettendo sopra quanto sta attorno al proprio essere individuale vi trasferisce non solo le proprie possibilità di comprensione, ma anche le proprie paure. Ne deriva che sarebbe inutile andare alla ricerca di una differenza oggettivamente fissata per sempre. Questa è oggettivata nella misura in cui riesce a inserirsi nell’insieme costituito dalla situazione che ospita anche l’individuo ideatore della differenza.

Da qui la grande difficoltà della scoperta, della ricerca. Ogni superficialità tassonomica si tradisce subito come ridicola farsa. Al contrario, l’illusione, l’artificio, la finzione sono strumenti utilissimi per l’apprendistato intellettuale necessario alla ricerca della differenza. La verità non ci comunica altro che una muta esistenza catalogabile, riconducibile a una spenta identità. Scavando al di sotto di questa verità, ripercorrendo itinerari sempre più interdetti, riusciamo infine a scoprire differenze reali che prima ci sfuggivano. E si tratta delle nostre differenze, costituite, direi quasi impiantate, nell’altro.

Ma è possibile una ricerca delle differenze? In questi termini non ha senso parlare di ricerca delle differenze. Queste, difatti, se stanate individualmente in quanto tali, appaiono solo elenchi privi di vita, ossa scarnificate sul tavolo anatomico dell’oggettiva verità, esercitazioni tassonomiche. Nessuna ricerca sicura di sé raggiunge il territorio della diversità reale, anzi prima o poi smarrisce la differenza e finisce per sigillare la compiutezza ideale del catalogo. Occorre lo stimolo di un progetto perduto, il rimpianto di qualcosa che si sarebbe potuto trovare e non si è trovato, in innumerevoli ricerche, la somma di tutti i fallimenti del passato, i mille e mille rivoli prosciugati di un’alluvione che fu e che non siamo sicuri di riuscire a riprodurre. Non un percorso circoscritto, segnato da limiti precisi, dal mio al tuo, dialogica tragicommedia ormai suonata in tutte le salse.

Al di là dello schematismo aristotelico che considera identici il toccare e la sensazione, anche nella stessa logica originale, su cui si sono andati adeguando tutti gli altri tentativi di organizzare il pensiero umano, eccettuato quello di Hegel, si ritrova la funzione dell’intuizione immediata, che apre prospettive diverse a qualsiasi teoria della conoscenza che non si faccia schematismo a se stessa. In questo modo, perfino Aristotele, lontanissimo dal dar spazio a concessioni del genere, si affaccia sul terreno parmenideo, dove l’essere, immaginato secondo l’antico insegnamento delle follie dionisiache come una sfera, è qualcosa che sfugge irrimediabilmente alla rappresentazione. L’indagine individualista finisce quindi per assumere una connotazione assolutamente nuova. La riflessione non si limita a catalogare quello che è conosciuto, ma pretende illuminare quello che si ritrae, che assume una maschera e gioca come un fanciullo.

La differenza pura e semplice è un ideale che non ci può affascinare. La natura la produce proprio per riaffermare l’assenza di quella caratteristica esclusivamente umana che permette di identificare la differenza reale. Ogni cellula è diversa dall’altra, ma proprio per questo non ha senso parlare della differenza di una cellula con l’altra. La possibilità di una vera e propria differenza nasce soltanto dopo che si sono individuate delle costanti, delle uniformità, non proprio assolute, questo è vero, che di assolutamente identico non c’è niente, ma sufficientemente in grado di fornire orientamenti e progettualità. Questo è il punto essenziale del discorso che sto facendo.

L’individuo che non è capace di cogliere queste costanti non sa su cosa fondare la propria assoluta individualità, non ha modo di capire l’unicità, la quale finisce per sfuggirgli nell’ugualmente cangiante molteplicità del reale. In questo modo, s’immagina di vivere in una struttura stabile, culturalmente definita, insomma in quello che una volta si chiamava una “civiltà matura”. Una civiltà dove il rapporto tra la norma e la fisicità della natura propone alla ragione una sua normatività differente, quella che, insistendo sulla superiorità della natura rispetto alla ragione stessa, riconduce quest’ultima all’ovvietà del reale, al non attendersi mai nulla di veramente “nuovo”, di sconvolgente, essendoci noi tutti tratti indietro, finalmente chiusi in una posizione gerarchica e in una presupposta funzione essenziale.

Il segreto di Stirner è proprio nel rifiuto di tutto questo, accompagnato però da un fondo sufficientemente uniforme su cui si basa l’unico, e questa uniformità non la si coglie solo nell’aspirazione all’unione degli egoisti, ma proprio nel giovane sorriso del fanciullo, nell’àmbito dissacrante dell’individuo e della sua assoluta, e fondata, pretesa a godere di se stesso, senza limiti e senza scopi posti al di fuori. Stirner non propone un ritorno alla natura, che allora sarebbe stato un ripropositore più o meno hegelianizzato di Jean-Jacques Rousseau. Egli sottintende la natura, e la supera, e fa ciò proprio perché non intende tenere conto delle differenze cosiddette oggettive che la natura ineluttabilmente pone sotto gli occhi di tutti. Il suo è un approfondimento colto, una deformazione programmata e interessante dei dati della realtà, l’opera che produce la costituzione di un mondo artificiale, in cui le condizioni della vita sono determinate dalla capacità del singolo di aprire possibilità, non semplicemente da un vegetare senza sforzi e senza intenzioni. L’arte dell’individualista consiste nel ricondurre la vita, dalla sua prorompente differenziazione, assolutamente priva di significati, all’interno di un quadro significativo di uniformità, dove leggere le proprie differenze e quelle degli altri, ma non per annullare ogni ulteriore alterazione, anzi proponendo via via sempre maggiori e continue deformazioni.

Il modello dell’individuo stirneriano è proiettato verso qualcosa di inesistente, non in una mitica società del passato, selvaggia a volontà. E questa assenza permette di riconfermare quanto stiamo dicendo, nessuna intenzione di ricercare (e ancor meno difendere o garantire) differenze, ma al contrario ricerca di uniformità. Dopo tutto, lo stirnerismo ha le sue regole, discutibili se vogliamo, ma non per questo meno rigide. E il suo grande interesse, almeno per me, è sempre stato proprio nell’impossibile esistenza del mondo esemplare che prospetta, impossibilità che apre orizzonti all’azione, cioè a tutti quei tentativi di trasformazione del mondo in cui viviamo che guardano verso quel modello spesso senza nemmeno capirlo fino in fondo. L’individualismo stirneriano, con tutti i suoi appelli datati, e qualche volta fuorvianti, è una geniale menzogna, una finzione più vera delle tragiche verità che hanno avvolto le realizzazioni storiche delle cosiddette società liberate. Al suo cospetto, la verità distillata dalle idee dominanti è un riflesso ignobile e malsano, espediente empirico per sostenere lo scettro e la tiara. E del mascheramento di fronte a una conoscenza troppo dolorosamente reale parlerà Nietzsche: «[...] und bisweilen ist die Narrheit selbst die Maske für ein unseliges allzugewisses Wissen». («[…] e talvolta la follia stessa è la maschera per un sapere infelice troppo certo». Al di là del bene e del male [1886], in Opere complete, tr. it., VI, II, Milano 1976, p. 194).

Lavorando in modo sotterraneo (quindi in modo tutt’altro che volontariamente plausibile) l’individuo, in un cammino lento e tortuoso, attraverso mille penosi tentativi, a tentoni, in maniera sorda e anonima, ritaglia quei piccoli pezzi di vita che valgono veramente la pena di essere vissuti. Il suggerimento stirneriano è quello di estendere questo processo, via via, a pezzi sempre più ampi, e poi all’intera realtà sociale. Personalmente non credo a questo processo di approssimazioni successive, e l’esperienza di questi ultimi cento anni è dalla parte della mia sfiducia. Occorrono altri metodi per intervenire in modo rivoluzionario nella realtà, ma non si tratta di metodi che si escludono a vicenda. E questo è chiaramente un altro discorso.

La ricerca dell’affinità. Tutto Stirner sarebbe privo di senso, o almeno privo d’importanza per noi, se si racchiudesse nell’illusione di una semplice ricerca della differenza, della propria come di quella degli altri. La sua grande importanza, costante nel tempo com’è facile constatare, è dovuta proprio all’aspetto complementare, quello della ricerca dell’affinità. Il fatto che Stirner non usi questo termine non conta. Cerchiamo di approfondire il problema.

In che modo la ricerca dell’affinità diventa complementare alla ricerca della differenza? La risposta non è semplice.

Innanzi tutto c’è da dire che nessuna individuazione di differenza è possibile senza una conoscenza approfondita della complessità dell’altro, cioè della sua molteplice possibilità di vita. Non è questione di parità di diritti, non si tratta di concedere all’altro un dialogo che comunque sarebbe ulteriore forma di controllo e dominio. Si tratta, al contrario, e nella sua forma più radicale, di entrare in se stessi, nell’intimo dell’individualità, si tratta di costruire dalle fondamenta quell’individualista che altrimenti resterebbe puro conato retorico. Ora, seguendo l’inizio della riflessione filosofica sulla base di Platone, questo altro appare come quello che è esso stesso se stesso, quello che è esso stesso identico a se stesso. Platone, nel Sofista [dopo il 369 a.C.], discute della distinzione (differenza) tra quiete e moto, e dimostra come la differenza tra questi due momenti della realtà consista nel fatto che separatamente essi sono identici a se stessi e che non sarebbe possibile la loro reciproca comprensione se non si identificasse con sufficiente esattezza proprio questa uniformità persistente.

Non è quindi possibile trovare la propria stessa individualità se tutto quello che a questa individualità appartiene, quello che Stirner chiama la sua proprietà, non sia restituito a se stesso, proprio quello che Platone affermava dicendo: “Ciascuno di essi è esso stesso identico a se stesso”. Dove l’impiego del dativo, come ha notato Heidegger, restituisce ogni cosa a se stessa in se stessa e per se stessa. Ogni proprietà nel senso stirneriano ci è interdetta, riducendoci soltanto a possessori passivi di oggetti che non comprendiamo pur producendoli, se non penetriamo questa differenza e se non abbiamo la capacità di collocare questa differenza nel grande flusso delle uniformità.

Una comunanza di elementi. Noi possiamo formare un tutto, e quindi essere insieme (zusammen) con l’altro, possiamo veramente conoscerlo, e utilizzarlo nel senso stirneriano, soltanto se rifiutiamo di ridurlo a mera oggettualità, a semplice strumento di conforto delle nostre paure. E per fare ciò non dobbiamo (né in fondo possiamo) limitarci a garantire, per lui e per noi stessi, le sue differenze, dobbiamo andare oltre, tratteggiare una serie di interventi che ci forniscono la mappa dell’affinità, una conoscenza quanto più dettagliata possibile, che non si realizza mai del tutto ma che comunque, se approfondita, fornisce la base su cui costruire il rapporto con l’altro. Il nostro lavoro è quindi fondato sulla comunanza di elementi e sulla individuazione di quelle parti di differenza che così vengono rilevate e abbandonate nell’appartenenza, quella Zugehörigkeit o, se si vuole, con Heidegger, semplicemente quella Gehörigkeit di cui abbiamo parlato.

Non si devono confondere questi processi conoscitivi con la catalogazione genericamente astratta del particolare e dell’universale, seguendo in questo l’indicazione inesatta di Kant. Qui siamo davanti a un forte procedimento selettivo diretto a formare un tutto organico, strutturato secondo l’elemento comune della conoscenza, non una definizione tassonomica della possibile pluralità di eventi. Aristotele affermava: “la definizione è l’enunciazione dell’essenza”, ma l’atto del definire non è l’applicazione di un principio astratto alla concretezza del reale, la sovrapposizione di una piramide logica, quanto piuttosto la costruzione dei fondamenti della conoscenza, il procedimento, spesso semplice, a volte complesso, con il quale l’altro è esaminato nella prospettiva di individuare possibili affinità, costanti sulle quali costruire qualcosa assieme.

La negazione delle differenze è quindi il procedimento salutare per mezzo del quale queste stesse differenze contribuiscono a definire la realtà e a conoscerla, riflettendosi nell’individualità conoscitiva, accrescendola e rendendola in grado di agire in quanto individuo, al massimo delle sue possibilità. Omnis determinatio est negatio et omnis negatio est determinatio.

Se la permanenza è necessaria, e come tale potrebbe mantenere le pareti della prigione intatte, il cangiamento è soltanto possibile, e come tale modificherebbe all’infinito i confini, ma non potrebbe né superarli, né abolirli. Ma in realtà tra questi due poli non c’è separazione, come accade per tutto quello che esiste. La trascendenza di Platone è soltanto un espediente metodologico, un distacco ordinativo. Giustamente Aristotele l’abolisce introducendo l’ “appartenere” così considerando semplicemente probabile la pura possibilità separata dalla necessità e legando i due termini “atto” e “potenza” l’uno all’altro in modo che scorrano uno nell’altro e viceversa, costruendo in questo modo il concetto di divenire.

Non possiamo dividerci nella differenza, non più di quanto possiamo isolarci dal mondo e sognare territori esclusivamente nostri. Per il medesimo motivo le mostruosità del mondo, anche le più estreme e incomprensibili, sono anche le nostre e non ci possono mai risultare del tutto estranee, non possiamo mai isolarle definitivamente e dire che il senso verso cui ci indirizziamo è quello giusto, il senso della storia e del progresso. «Die Wüste wächst – scriverà Nietzsche – weh Dem, der Wüsten birgt». «Il deserto cresce, guai a chi alberga deserti». (Ditirambi di Dioniso [1885-1888], in Opere complete, tr. it. VI, IV, Milano 1983, p. 17).

Cosa significa essere individualisti? Questa domanda finale, che poniamo al termine del nostro intervento, vuole dapprima riflettere brevemente sul senso da dare alla parola “significa”. Spesso non ci poniamo questo problema, ma proprio nell’argomento che ci occupa la riflessione diventa indispensabile. Un modo errato di concepire il “significato” di qualcosa è quello illustrato nel vecchio libro di C. K. Ogden e Ivor Armstrong Richards, The Meaning of Meaning [1923], dove il problema è ristretto all’influenza delle parole sul pensiero e quindi sulla cosa pensata. Ancora una volta la lingua tedesca ci viene in aiuto. Significare si dice bedeuten, nel senso di “voler dire”, ed è questo il senso corrente del termine, ma esiste un altra parola con una differente modulazione: heißen, che sottolinea il senso di “chiamare a”, “inviare a”. In effetti, l’essere individualisti significa qualcosa solo nel senso di movimento verso la realtà, non nel senso di uno statico possesso di qualcosa, custodito con minore o maggiore attenzione.

Le formulazioni di principio, e la dichiarazione di individualismo fino a prova contraria resta tale, sono semplici notazioni che non si concretizzano se non quando rinviano a una realtà precisa, e questo rinviare (hinweisen) contiene un significato solo quando può dimostrare (beweisen) l’effettiva conquista della propria autonomia individuale. In questo modo l’atto significante è la vera e unica differenza, la proprietà da usare e non da custodire, anzi da spendere al massimo, da bruciare e quindi da vivere. Così Nietzsche: «Man muß seine Leidenschaft in Dingen haben, wo sie heute Niemand hat». «Si deve riporre la propria passione nelle cose in cui oggi non la ripone alcuno». (Caso Wagner [1888], in Opere complete, tr. it., VI, III, Milano 1975, p. 46). La vita diventa così l’unico movimento che riempie di significato l’individualismo, e non viceversa, l’atto significante si scambia con l’affinità conforme a se stessa e diventa atto verificante, fondamento del principio individualista, che torna comunque a smarrirsi un’altra volta non appena il coinvolgimento individuale viene meno e la paura sorge all’orizzonte.

Niente ci garantisce dall’esterno, meno che mai tutto quello che istituzionalmente si appella alla garanzia. Non siamo garantiti né dalla comunità artificiale che ci ospita, né dall’unità che non possiamo non cogliere nel processo conoscitivo dell’altro, quel zusammen di cui abbiamo parlato. Ma non siamo neanche garantiti dal dichiararci individualisti. Noi non apparteniamo a noi stessi se non giocandoci tutte le volte che ciò si rende possibile (e quindi anche necessario). Se ci ritraiamo, se ci tiriamo indietro (sognando di “chiamarci fuori”), ci sperdiamo nell’esteriorità che ci ospita come una prigione, con regolamenti e orari, numeri e riconoscimenti. Solo così possiamo appartenerci e, partendo da questa condizione indiscussamente privilegiata, da questo gehören in movimento, possiamo costruire l’unità del mondo che ci circonda, la nostra unità significativa, quel zusammen che ha fatto cadere le differenze e così, su queste ultime, costruire il processo di affinità.

Il possesso di noi stessi, in fondo la vera Eigenheit, la nostra peculiarità, la vera “proprietà” di cui parla Stirner ci deve appartenere (ancora una volta gehören), e ciò può accadere dopo che noi l’abbiamo condotto all’unità con noi stessi, al di là di qualsiasi differenza possibile, e solo dopo che lo abbiamo trasferito (übereignet) in noi, dopo che ce ne siamo impossessati. E allora, nell’àmbito di questa nuova unità, la molteplicità delle differenze ci parla, assume significato nuovo per noi, e noi ci poniamo in ascolto, e non è trascurabile notare che in tedesco gehören deriva proprio da hören, che vuol dire ascoltare.

L’individualista abita una radura luminosa, non ha paura del buio. Non ha paura di niente. Condizione molto faticosa questa, che non tutti riescono a sopportare. La libertà brucia molto velocemente, bisognerebbe parlare (e scrivere) di meno.«Schreibt man nicht gerade Bücher, um zu verbergen, was man bei sich birgt?». («Non si scrivono forse libri al preciso scopo di nascondere quel che si custodisce dentro di sé?». Al di là del bene e del male, op. cit., p. 201).

[Relazione pubblicata in Individuo e insurrezione. Stirner e le culture della rivolta, Atti del Convegno promosso dalla Libera Associazione di Studi Anarchici (Firenze 12-13 dicembre 1992), Firenze 1993, pp. 157-171]

V. Il mostro in ognuno di noi

Le considerazioni che tutti quanti abbiamo fatto qui dentro, avendo ascoltato gli interventi di stamattina e di questo pomeriggio, sono diverse le une dalle altre: io, per la verità, non sono rimasto perplesso e nemmeno sorpreso, nel senso che trattandosi di botti etichettate si conosceva di già il vino che potevano dare.

Mi dispiace che alcuni di questi studiosi che sono stati tanto bravi nell’indottrinarci stamattina e questo pomeriggio non siano presenti, perché forse potevamo fare insieme alcune considerazioni. Ho preso degli appunti, ma non mi pare il caso di tirarli fuori, almeno non tutti quanti.

Se non altro mi sembra indispensabile porsi alcune domande che non hanno avuto una risposta accettabile. Non che siano domande critiche, quanto domande dell’uomo della strada. Alcune di queste domande non riguardano tanto il testo o il modo di avvicinarsi scolasticamente, nel senso aulico del termine, a Stirner, quanto il modo di chiedersi oggi, in un contesto che velocemente si avvia a trasformarsi, di fronte a tempi, ad anni futuri, che potrebbero essere estremamente duri, chiamandoci a responsabilità estremamente pesanti, cosa vuol dire discutere delle tematiche stirneriane.

In effetti, a me è sembrato che venisse fuori, facendo un riassunto di tutto quello che si è detto stamattina, un certo modo di approssimarsi al problema stirneriano. Mi è sembrato di cogliere un certo avvicinamento, che poi è quello di isolare alcune tematiche all’interno di una prospettiva individualista, nel senso che Stirner si professa e parla più volte lui stesso di individualismo, ci dice quali dovrebbero essere le regole del perfetto individualista, e propone una conclusione attiva di questo individualismo, dettando, in un certo senso, anche le regole per impadronirsi degli strumenti adatti a costruire il perfetto individualista.

A me sembra che stamattina ci si sia limitati a questo àmbito, qualche accenno per la verità è stato fatto stasera riguardo l’unione degli egoisti. Stranamente, è stato l’unico momento in cui si è accennato a quest’altro aspetto della seconda parte del testo di Stirner, il quale non è legato accidentalmente al primo, trattandosi di parti interconnesse fra di loro. Però stasera ci si è fermati a questo secondo aspetto che mi sembra fondamentale, come se fosse possibile vedere questa soluzione finale e conclusiva del discorso di Stirner, alla stregua di una proposta da sviluppare praticamente, in modo più concreto successivamente, come se Stirner l’avesse buttata là in quanto non in grado di trovare, nell’esperienza storica del passato, e nell’esperienza contestuale dei suoi tempi, esempi o comunque modelli progettuali, concretamente progettuali, in grado di dare forza e sostanza alla sua tesi. A me è sembrato così, e quindi indirettamente, anche nella discussione di stasera, in cui si faceva riferimento all’unione degli egoisti, c’era implicito il fatto di subordinare questa conclusione di Stirner alla precedente ipotesi di lavoro, la quale si richiude in questo modo tutta quanta all’interno della costruzione dell’individuo.

Ecco, io penso che questo discorso sia riduttivo, almeno per le necessità di oggi. Noi siamo chiamati ad assolvere al compito di chiederci in che cosa, nel contesto attuale in cui viviamo, in che modo l’individuo possa ribellarsi a una condizione di oppressione, e in che modo da questa ribellione si possa passare a una dimensione collettiva, a una dimensione quindi qualitativamente e quantitativamente differente da quella dell’individuo singolo, capace di estendere e allargare la condizione di ribellione che minaccia, in una lettura esclusivamente scolastica del testo stirneriano, di continuare ad apparire malinconicamente singola.

Capisco che il problema non è esposto in modo organico, però a me è parso, dall’insieme degli interventi di stamattina, che ci fosse questa cesura, come se si avesse il compito esclusivo di parlare di questa mitica costruzione stirneriana dell’individuo che basta a se stesso. Non si è accennato, per esempio, alla sostanziale contraddizione che c’è nel testo di Stirner: come può l’individuo che basta a se stesso e che costruisce un pezzo (Stück) di libertà, a un certo punto diventare individualista, il quale per definizione, in quanto individualista, ha raggiunto la completezza del proprio progetto di costruzione di se stesso?

Ciò non è tanto facile da capire, per un lettore di Stirner modesto, quale posso essere io. Per me i classici sono sempre occasioni di lettura, non fini della lettura, scopi da raggiungere.

Per esempio, stamattina, nell’intervento di Giorgio Penzo, io notavo, quando lui parlava del meccanismo del superamento, una strana, non dico contraddizione, ma una strana insufficienza esplicativa: cos’è questo superamento? A un certo punto l’individuo si supera in una dimensione collettiva, lui non ha detto esattamente questo, però implicitamente io ascoltavo e sentivo e leggevo questo: un superamento dell’individuo nella dimensione collettiva, in una dimensione che è qualcosa di più. La dimensione cui stasera ci si riferiva quando si diceva che la rivolta del singolo determina modificazioni oggettive nel contesto in cui opera.

Questo superamento cos’è? Il superamento hegeliano, cioè la sussunzione (parola orrenda e tipicamente marxista), che significa appunto superamento che riassume in se stesso, superandole, le dimensioni della contraddizione, annullandole, cancellandole? È questo il superamento di cui parla Stirner? Hegeliano, come giustamente è stato notato? Hegeliano, purtroppo, sotto certi aspetti e in certe occasioni, non solo nell’uso della terminologia, ma anche nell’uso della struttura stessa del meccanismo. O qui c’è dentro un’altra cosa, un altro concetto di superamento: c’è l’oltrepassamento? Quell’oltrepassamento che parte dalla definizione del bisogno, del bisogno dell’individuo non ancora completamente perfezionato, non ancora in grado di dimensionare il raggiungimento delle sue totali possibilità di individuo e di individualista.

In questa dimensione di sofferenza, di bisogno, è la lotta che spinge alla liberazione, è essa che diventa esacerbazione del bisogno stesso, estrema e violenta persistenza delle contraddizioni. Nessuna contraddizione possiamo cancellare. Adesso che abbiamo capito che la fine della Storia è in noi e ci stiamo avvicinando alla conclusione del millennio, crollano tutte le illusioni ideologiche del passato e questa realtà l’abbiamo sotto il naso tutti quanti. La Jugoslavia è dietro le porte, una ferocia inaudita dove accadono fatti che avevano fatto immaginare nel passato le mitiche gesta di Attila. È la ferocia dell’uomo che persiste intatta. Guardate che non c’è nessuna ragione addormentata. I mostri non si svegliano perché la ragione si è addormentata, i mostri sono svegliati dalla ragione. Allora cos’è che superiamo? Non superiamo niente noialtri, perché le contraddizioni sono presenti, non c’è sussunzione delle contraddizioni in Stirner, questo è chiarissimo secondo me, come ha notato Heidegger leggendo Nietzsche, cioè c’è questo oltrepassamento nel corso del quale il mostro vive sempre accanto a noi. La contraddizione lacerante è sempre presente, l’oggetto contraddittorio e mostruoso ce lo portiamo dentro.

E allora non c’è nessuna costruzione perfetta del soggetto, ma questa costruzione dell’io è sempre imperfetta, ce la portiamo sempre dentro, il mostro abita in noi e quindi abita anche nell’àmbito delle attività dell’individualista e nello stesso individualista, cioè tutti i limiti che lui crede di aver esorcizzato con la forza della sua volontà si traducono nell’estremo bisogno, nell’estrema Not. È da questo punto piccolo che il singolo può partire per trovare la dimensione dell’altro, trovare la dimensione che si svilupperà in fatto collettivo, ecc. Di questo parleremo domani.

Volevo accennare poi a un ultimo punto riguardante la differenza tra rivolta e rivoluzione. La lettura molto puntuale che è stata fatta questa sera, che ineluttabilmente deve trovarci tutti d’accordo perché è lettura puntuale, minaccia però di cadere tutta in una volta per un difetto di partenza, secondo me. Quando si usano le terminologie filosofiche purtroppo è buona prassi dei filosofi non mettersi d’accordo prima, allora si parla di rivolta, si parla di rivoluzione e si danno per scontato il termine rivolta e il termine rivoluzione. Ora Stirner impiega questi termini magnificamente con l’uso giornalistico – e sottolineo la parola – comune ai suoi tempi, che era tipico di quel gruppo dove aveva fatto le sue esperienze. La stessa cosa fanno Marx e Engels, splendidamente, e anche Stirner ricorre a questo mezzo. Non a caso cita l’esempio del cristianesimo che è un esempio strumentale, perché io vorrei sottolineare due cose: la parola rivoluzione – secondo la lezione impareggiabile di Santo Mazzarino, che è stato professore mio – per gli antichi significava sedizione, quindi l’esempio del Cristo, e qui lasciamo perdere il problema della figura storica del Cristo sul quale ci sarebbe molto da opinare, l’esempio di quello che fu il movimento del cristianesimo antico, non ha nulla a che vedere con il concetto di rivolta né con quello di rivoluzione, perché per rivoluzione, dopo la rivoluzione francese, s’intende completamente un’altra cosa. Stirner questo lo sa, e sa anche che non è affatto vero quello che lui dice sul cristianesimo, perché il cristianesimo non fu quell’esempio che lui specifica in quella pagina, il cristianesimo fu un’altra cosa. Non è affatto vero, come purtroppo ho dovuto ascoltare stasera, che il cristianesimo non si preoccupò delle autorità, non fece nulla contro le istituzioni in carica. Non aveva il cristianesimo primitivo, badiamo bene, non aveva un progetto politico in corso? Basta leggere una parte della Patristica, anche la più elementare, per rendersi conto che invece c’erano tutti questi elementi, basta leggere, lasciamo stare Jacques-Paul Migne e il suo Patrologiae cursus completus [1845-1866], basta leggere il Vangelo per trovare questi elementi. E questo che vuol dire? Vuol dire che Stirner, da buon giornalista politico, utilizza questo esempio strumentalmente, perché così ottiene due risultati. Da un lato, dà fondamento concreto ed estremamente appassionante al dibattito filosofico e storico che c’era nella Germania dei suoi tempi sulle origini del cristianesimo, fornendo un esempio di ribellione, di una ribellione che non è rivoluzione. E, nello stesso tempo, allude, con questo esempio, corroborando la propria tesi, all’ipotesi infondata che il Cristo sia stato esattamente questo ribelle, che però non è rivoluzionario, cioè non un rivoluzionario sul modello dell’epoca successiva alla rivoluzione francese, epoca che non ha nulla a che vedere con il concetto di sedizione catilinaria di cui parlavano gli scrittori dell’epoca romana, dell’epoca delle guerre giudaiche di liberazione.

Allora, secondo me, occorre rivedere il rapporto tra rivolta e rivoluzione, perché leggendolo nel contesto squisitamente stirneriano occorre, in questo caso, vedere come Stirner utilizza strumentalmente e l’esempio del Cristo e il rapporto tra rivolta e rivoluzione, in quanto non esiste la possibilità di impostare il problema in termini così netti: la rivolta è quella cosa e la rivoluzione è quell’altra cosa. Perché – dico solo ciò e poi finisco – mi pare assurdo affermare che la rivoluzione è comunque e sempre la sostituzione di istituzioni con altre istituzioni, per me la rivoluzione è un’altra cosa, e magari ne parliamo domani.

Grazie.

[Intervento a braccio pubblicato in Individuo e insurrezione. Stirner e le culture della rivolta, Atti del Convegno promosso dalla Libera Associazione di Studi Anarchici (Firenze 12-13 dicembre 1992), Firenze 1993, pp. 121-124. Trascrizione della registrazione su nastro]

VI. Oltrepassamento e superamento

Il titolo della mia relazione [Individualismo e comunismo. Una realtà e due falsi problemi, vedi prima alle pp. 123-141] merita un piccolo cappello introduttivo: questo riguarda una presunta antitesi tra individualismo e comunismo. La maggior parte di quello che proverò a dire suonerà un po’ strano, perché appartiene al bagaglio tradizionale del senso comune affermare come cose radicalmente diverse l’individualismo e il comunismo. Addirittura, in tempi attuali, la pioggia e la sedimentazione delle condanne politico-giornalistiche che sono state accumulate sul concetto di comunismo, hanno sigillato con una pietra tombale qualsiasi discussione sull’argomento. E siccome coloro i quali si occupano di queste cose, chierici pagati per farlo, sono stati ben contenti di trasferirsi, armi e bagagli, a parlare di altre cose, si è scoperto che fra queste altre cose c’è anche il discorso sulla rivalutazione dell’assoluta e sacrale, in senso stirneriano, indipendenza dell’individuo.

Questo non toglie, ovviamente, che ci possa essere una differenza tra individuo e collettività, individuo e comunità, individuo e gruppo di individui che vivono insieme, che vivono a contatto reciproco, con rapporti reciproci, vedendo quali sono queste differenze, quali hanno significato concreto, operativamente trasformativo, e quali invece servono soltanto a sedimentare piccoli luoghi, piccoli ghetti di autosufficienza illusoria.

Quindi, io suggerisco di fare un poco mente locale e anche di fare appello alla pazienza che in molti compagni anarchici, per la verità, scarseggia, per affrontare questi problemi che necessariamente presentano alcune difficoltà, in quanto è ineluttabilmente anche un aspetto del dibattito filosofico, quello di cui bisognerà parlare.

Ieri ho visto leoni in gabbia che si aggiravano nella sala in balìa di sentimenti contraddittori, riottosi ad ascoltare e a sentire formulazioni ineccepibili di specialisti, altrettanto dottrinariamente ineccepibili, i quali specialisti dicevano cose indiscutibili. Però questo turbava l’equilibrio rivoluzionario di molti di noi, che non so per quale motivo si aspettavano forse che dalla fonte del sapere ufficiale ci piovesse addosso un contributo chiarificatore per la pratica attiva di trasformazione che ogni rivoluzionario anarchico e insurrezionalista è chiamato a concretizzare nella vita.

Qua siamo davanti a un equivoco fondamentale, che occorre chiarire subito. Nulla, dico nulla, può venirci dall’Accademia, nulla dall’elaborazione colta dei luoghi del sapere. Questo non è un pregiudizio. Nulla può venirci nel senso di operativamente applicabile e trasformabile. Ma quel poco che può venirci, questo poco o tanto che sia, e che qui dentro è stato esposto con sapiente sagacia, avrà un senso solo se filtrato attraverso le nostre capacità di applicazione, solo se vissuto e quindi trasformato all’interno di noi stessi, in nome di quel laboratorio autonomamente e significativamente capace di operare questa trasformazione che è l’individuo.

Il libro di Stirner è certamente un classico della filosofia, e qui è stato molto dottamente inserito all’interno del dibattito filosofico che attraversa gli ultimi centocinquant’anni, con una incredibile ricorrente attualità, e questo è certamente un dato di fatto. Ma, come tutti i classici, come tutte le espressioni dell’umano sentimento, dell’umano pensiero, che si sono realizzate in opere che hanno una loro compiutezza e originalità singola, non è unico soltanto il libro di Stirner, in quanto qualsiasi classico in se stesso è un libro unico, presentandosi come una significativa testimonianza che ci proviene dal passato e che noi dobbiamo leggere e interpretare. Interpretare, badate bene, in quel processo transitorio di avvicinamento a una fase trasformativa in cui quella interpretazione deve fiorire e produrre le effettive capacità trasformative dell’individuo, non più del libro. Noi leggiamo un libro unico, perché sono tutti libri unici, e quello di Stirner è unico come gli altri libri unici, purché lo leggiamo affinché diventi materia nostra, noi lo facciamo nostro, ce ne impadroniamo, diventa una nostra proprietà soltanto nel momento in cui siamo capaci, attraverso quel contributo, di modificare la nostra vita e di trasformare la realtà.

Se non siamo capaci di fare questo, noi possiamo essere i sapienti racchiusi nella classica torre d’avorio, i quali guardano sdegnosamente il volgo e l’ignoranza del volgo, incapaci in effetti di operare quel passaggio all’interno di se stessi, passaggio che ineluttabilmente conduce a una messa in discussione di quella che è la propria vita. Perché la differenza tra il processo di trasformazione e il processo di liberazione – senza stare a ricordare la tesi marxiana su Feuerbach tra interpretazione e trasformazione – consiste in questo, secondo me, che la lettura che facciamo, e il libro di Stirner è una delle tante letture che facciamo, deve avere la capacità di metterci in condizione di trasformare la nostra vita, perché solo questa possibile trasformazione, possibile non certa, può contribuire a modificare le condizioni date di cui parla Stirner. Soltanto attraverso il nostro metterci in gioco, soltanto attraverso la nostra partecipazione diretta, abbiamo in effetti la possibilità di trasformare le condizioni date, in caso contrario le condizioni date resteranno quelle che sono, la ribellione dell’individuo apparterrà a quel momento dialettico, nel senso del peggiore hegelismo, che è tipico di qualsiasi autoassoluzione intellettuale, cioè di quelle classiche contraddizioni che nascono, fioriscono e muoiono all’interno della mente del chierico.

Ora io mi chiedo: in effetti, quanti lettori de L’unico, questa è una domanda che mi ha travagliato negli ultimi trent’anni, si sono avvicinati a quest’opera con uno scopo trasformativo (non che dovessero trasformare l’opera, ma trasformare se stessi attraverso la lettura dell’opera)? Quanti lettori de L’unico si sono avvicinati al testo perché questo potesse essere occasione, fra le tante, e non certamente la migliore o la privilegiata, per trasformare la loro vita, per incidere su quelle che sono le condizioni dell’asservimento, della compartecipazione, della collaborazione a una struttura di potere che ci schiaccia e che costituisce il fondamento e le condizioni di privilegio attraverso cui molti di noi si sono potuti avvicinare a L’unico? Perché, badate bene, la lettura di un libro, di qualsiasi libro, è accidente dovuto al privilegio. Molte persone, forse più degne di noi, non si sono potute permettere, schiacciate dalle condizioni oggettive, la lettura de L’unico.

Milioni di persone hanno letto questo libro, ma cosa ne hanno cavato? Luoghi comuni in cui si esaltava la forza, luoghi comuni in cui si esaltava la costruzione assoluta dell’individuo, un patrimonio ineluttabile attraverso cui magari conquistare il mondo. Anche queste sono state letture de L’unico. In questo campo si è verificato poi l’inserimento di coloro che, ad arte, volevano sottolineare incredibili sviluppi di tipo autoritario, di tipo fascista, di tipo violento, nel senso gratuito del termine.

Detta questa premessa, che potrebbe sembrare fuori luogo, ma che invece è indispensabile, perché sarebbe umanamente assurdo parlare dell’unicità dell’individuo e pensare di chiamarsi fuori, di essere all’esterno dello stesso processo di costruzione dell’unicità dell’individuo, io vorrei accennare, innanzi tutto, a una contraddizione che a me, vecchio lettore di Stirner – superficiale, badate bene, perché non sono uno specialista stirneriano – a me è sempre parsa presente nel testo di Stirner. Secondo me, c’è una strana contraddizione ed è questa: sembrerebbe, leggendo Stirner (qui ho trascritto nella relazione i passi che più attengono a quella che io ho considerata, forse un po’ erroneamente, una possibile contraddizione) sembrerebbe che sia possibile l’idea, l’immagine, di una costruzione perfetta dell’individuo. A un certo punto Stirner si immagina che l’individualista – perché questa parola Stirner la dice e a noi spetta solo il compito di aggiungere “stirneriano” – possa definirsi in modo completo, e possa farlo con una serie di acquisizioni. Ora, se noi esaminiamo il momento storico in cui questo concetto – apparentemente lapalissiano, perché Roma non si costruì in un giorno, le cose si fanno sempre a poco a poco – se noi lo esaminiamo all’interno del contesto del pensiero filosofico europeo di quel momento, non solo filosofico ma in primo luogo scientifico, vediamo come quello era il momento in cui si pensava possibile la costruzione di un avvenire progressivo, la storia avviata verso la realizzazione della filosofia. Perché non è vero che soltanto Stirner scrive e pensa di scrivere un libro unico, una volta per tutte, sul quale poi non più tornare, ma prima di lui il suo maestro aveva detto quelle famose parole: “io non insegno una filosofia, io sono la filosofia”, cioè a dire Hegel aveva pensato di essere l’unico filosofo e Stirner è unico in quanto permane ancora hegeliano, in quanto pensa di poter costruire l’individuo pezzo per pezzo. Secondo me oggi siamo in grado di dire che questo non è possibile, non esiste costruzione possibile fondata sul processo dell’ “a poco a poco”. Senza dubbio Marx ha contribuito a rendere di pubblico dominio in certi ambienti i motivi filosofici di questa impossibilità. Nell’Introduzione al Capitale, credo del ‘56 [1857], non ricordo bene la data – e poi io non sono nemmeno uno specialista marxiano – questo concetto è sviluppato in modo chiarissimo: nessuna cosa può costruirsi a poco a poco, se di già non la possediamo nella sua interezza. Noi possiamo, come dirà molto bene Nietzsche successivamente, diventare, a condizioni estremamente pietose e difficili, soltanto quello che siamo, se non lo siamo non lo potremo diventare, se il coraggio, diceva don Abbondio, uno non ce l’ha, nessuno glielo può dare.

L’impadronimento, quindi, della totalità di ciò che si vuole essere, della totalità dell’individuo capace di trasformare il mondo, è possibile soltanto tutto in una volta. Perché soltanto all’interno della dimensione complessiva è possibile individuare le fasi progressive di modificazione. Teniamo presente che era il momento in cui il pensiero fisico, la scienza fisica, poniamo, la geometria, l’economia politica, annegavano nella certezza. Le equazioni di Léon Walras sono di questo periodo e sono le equazioni che dimostrano l’equilibrio possibile di un sistema economico in evoluzione. Frédéric Bastiat, il teorico del liberalismo francese, cioè a dire della borghesia più forte in quel momento in Europa, afferma le stesse cose: costruzione della possibile società perfetta, a poco a poco.

E gli anarchici, tragicamente, sono qualche volta caduti in questo equivoco.

Io ritengo che questa sia una delle contraddizioni di Stirner, non tanto perché lui non ha proposto gli strumenti oggettivi per vedere meglio dentro questa contraddizione, quanto perché, leggendo il libro in un’ottica dell’ “a poco a poco”, questa contraddizione non può essere compresa fino in fondo.

Fra gli strumenti che Stirner ci propone c’è, indiscutibilmente, il richiamo alla forza, alla capacità dell’individuo di ergersi a contrappositore delle contraddizioni che lo opprimono. Quindi, pagine bellissime che riguardano la differenza importante tra il liberato e il libero, l’uomo liberato come liberazione octroyé dal potere e, invece, chi si libera da sé, l’autoliberato, chi costruisce il proprio futuro, la propria realtà. E certamente questo appello alla forza è importante, ma, e qua dobbiamo ricordare le parole che ho detto all’inizio, la lettura del testo assume particolare connotazione e significato considerata in funzione delle cose che il lettore, e in particolare modo l’anarchico rivoluzionario, intende realizzare.

Molte volte questo testo ha contribuito a creare in tanti compagni una supervalutazione della forza, non rendendosi conto, questi compagni, purtroppo, a mio avviso, lettori sprovveduti di Stirner, che la forza è l’altra faccia della debolezza. E come altra faccia di qualsiasi cosa, appartiene a quell’unità contraddittoria che occorre capire. Vedremo successivamente come e a quali condizioni. Chi si limitasse soltanto a un esercizio della forza per costruire l’autonomia dell’individuo, si accorgerebbe che non esiste forza bastante per eliminare questa contraddizione, ma occorre sempre un’acquisizione di maggiore forza, perché si avverte il limite dell’insufficiente costruzione realizzata e si sviluppa continuamente la necessità e quindi l’angosciosa mancanza di una maggiore forza.

Non esiste l’uomo forte in assoluto, non esiste l’uomo più forte del mondo. Ognuno di noi si dibatte all’interno di certi limiti, e questo c’è un po’ anche in Stirner, questo concetto della violenza, questa analisi a partire da questi limiti, e nessuno può superarli soltanto col concetto della forza, in quanto questi limiti appartengono a quelle che sono le caratteristiche dell’individuo, la sua connaturale essenza umana. Quindi appartengono a quelle che sono le contraddizioni di cui Stirner parla amaramente, secondo me, all’interno di uno schema che è ineluttabilmente privo di sbocchi, in quanto affidato a quel meccanismo apparentemente esaustivo che è la triade hegeliana. Non mi riferisco qui all’uso dei “mongoli” e tutte queste cose, o all’uso delle tre fasi, ecc. Questi sono aspetti formali che appartengono alla scuola e che comunque in ogni caso fanno parte del problema, ma mi riferisco sostanzialmente all’illusione che Stirner coltiva e che appartiene alla possibilità di questo superamento. Ma questa Aufhebung è esattamente la dimensione del superamento hegeliano, in cui le contraddizioni si superano, si aboliscono, si sussumono all’interno di una realtà che le vede scomparire completamente.

Su questo punto ha riflettuto il pensiero successivo, e ha riflettuto particolarmente non soltanto Arthur Schopenhauer, come è stato giustamente e molto dottamente detto ieri, ma in particolare Friedrich Wilhelm Joseph Schelling, che ritorna all’insegnamento dopo la morte di Hegel e dopo la sospensione del divieto che gli era stato imposto. E che cosa dice questo fatto? La ragione non è sufficiente, la contraddizione non si può superare soltanto con l’intelletto, e non basta il nous questo affascinante concetto – pensate che un filologo come Giorgio Colli chiamava nous la donna del suo cuore – questo è un concetto affascinante certamente, e importante, però non basta. Occorre anche rendersi conto che il territorio della desolazione, che sta al di là del territorio apparentemente organizzato e autosufficiente della ragione, può essere accessibile soltanto attraverso la propria vita, attraverso il proprio coinvolgimento, il proprio mettersi in gioco. Non è soltanto l’intuizione che consente il passaggio alla fase successiva, e questo è il limite di un filosofo come Schelling. Ecco perché Søren Kierkegaard risolve in modo drammatico il suo rapporto con Regina Olsen e lo risolve in nome di una trasformazione della propria vita, perché non è pensabile una contrapposizione reale a un dominio della ragione se non mettendo in gioco la propria vita.

Non semplicemente avendo l’intuizione, avendo cioè a dire la vaga (o anche sentimentale, o in quel contesto specifico romantica, oppure semplicemente piacevole, o come si voglia) intuizione di “qualcosa d’altro”. Occorre che questo “qualcosa d’altro” venga scovato, individuato, fatto nostro e al limite occorre che in questo incontro bruciamo la nostra vita, perché ci stiamo mettendo in gioco. Perché se noi teniamo a tutte le condizioni specifiche che rispondono allo statuto del riconoscimento, presente nell’hegelismo ufficiale – Hegel era filosofo ufficiale dello Stato prussiano – se noi teniamo a tutto quello, se noi teniamo alla fine del mese garantito, che un’istituzione ci garantisca il ventisette, siamo davanti a una tragedia irrecuperabile. Badate bene, non sono chiacchiere che vi sto raccontando, sono fatti che ho vissuto personalmente, anch’io sono stato per anni schiavo del ventisette, ma a un certo punto ci vuole una cesura, un taglio radicale, perché se no non si può discutere di certe cose. Va be’, queste sono faccende personali, sorvoliamo.

Vorrei aggiungere ancora una cosa sul superamento, superamento della ragione, superamento dei limiti della ragione. Perché non è vero che il sonno della ragione genera i mostri, secondo me è il contrario. I mostri, poniamo, hitleriani, che oggi sembrano risvegliarsi un poco dappertutto, erano il prodotto della ragione tedesca, ed erano soltanto avvolti in una carta velina di irrazionalismo prodotta dalla accademia germanica, con la specifica capacità organizzativa e amministrativa del “Deutsche Ordnung”. Quindi, secondo me, non superamento nel senso hegeliano, ma oltrepassamento. Il concetto è importante e per questo ci ritorno, sia pure solo per un attimo. Oltrepassamento (Überwindung) significa portare le contraddizioni con noi, non sognare, illusoriamente, che possiamo definitivamente metterle da parte. Perché, badiamo bene, nemmeno operando quella cesura nella propria vita, dichiarandosi completamente altro, è possibile che questo altro sia stabilmente fissato.

Io non propongo di sostituire allo status del professore universitario lo status del rivoluzionario, non propongo di avere praticamente al posto dello stipendio del ventisette la rapina a mano armata, non propongo questo, perché status è quello e status è quell’altro: definitiva incredibile sedimentazione della ragione è la prima e anche la seconda.

Propongo che vengano criticamente vissute le due condizioni e che vengano superate e continuamente messe in gioco, perché se ci si fermasse alla rapina a mano armata al posto dello stipendio del ventisette, come ci sono stati casi concreti, si creerebbe che cosa? L’ideologia dello specialista, il quale in nome della propria presunta superiorità pretenderebbe imporre agli altri la risoluzione definitiva del problema. In altre parole superamento nel senso hegeliano, dove ancora una volta la ragione, attraverso la calzamaglia calata sugli occhi, ripresenterebbe il funzionario in cravatta e giacca.

Oltrepassamento, invece, è il portarsi dietro con sé le contraddizioni, avere la coscienza che non è mai possibile esorcizzare definitivamente i mostri, perché questi convivono con noi, perché sono sempre presenti.

Cosa c’è, quindi, dopo questo oltrepassamento? Evidentemente l’individuo che si rende conto di questa trasformazione radicale della propria vita e vede come questa operi trasformazioni nelle condizioni oggettivamente date, e ciò, come molto bene è stato detto ieri, prende la forma di una ricerca delle differenze.

Ci si accorge allora che la realtà è fatta di altri individui, altri individui differenti da noi, altre realtà differenti da noi. E come è possibile avvicinarsi a queste differenze? Ancora una volta si ripresenta una dicotomia di possibilità, quelle basate sulla ragione giudicante, sull’analisi, e quelle basate, invece, sulla partecipazione, non sull’intuizione soltanto, ma sulla ragione che partecipa e che diviene insieme altro da sé, in quanto la differenza è la realtà stessa, non esistendo identità nella realtà. Anche la formula aristotelica: “A non è non A” è una banalità, come ha chiaramente dimostrato Martin Heidegger in un famoso seminario. Quindi, al di sotto di questa pretesa di poter catalogare definitivamente le differenze, c’è un imbroglio tassonomico. Il catalogo è infinito, noi possiamo fare lunghe, lunghissime elencazioni di quelle che sono le differenze, sognando di impadronircene, di poterle collocare ma, nel momento in cui le raccogliamo e ce le poniamo davanti, queste scompaiono, vengono annullate.

Allora, quale potrebbe essere, secondo me e secondo la mia lettura di Stirner, la differenza? Una continua, reiterata, e sempre modificata, invenzione dell’altro. Cioè cercare l’altro individuo nelle sue possibili linee di comunanza, nelle sue persistenze. Il concetto non è semplice, me ne rendo conto, così chiamo a un poco di pazienza su questo problema.

In effetti, è semplice individuare le differenze, non c’è cosa, appunto, uguale all’altra ma, nel momento in cui scendiamo nella differenza, abbiamo bisogno di una ulteriore discesa. Ed è la stessa tragica, sconclusionata, vicenda della forza. Per conoscere la differenza stiamo impiegando la forza, stiamo penetrando. È questo il modo maschilista di immaginarsi il rapporto sessuale, penetrare nella differenza.

Non ha sbocco questa strada, perché è senza fine. Se invece riflettiamo un attimo e ci fermiamo alla possibile considerazione di farci penetrare dalla differenza e permettere che questo essere ineluttabilmente diverso della realtà ci porti un possibile codice di comunanza, di affinità, allora cogliamo le differenze significative, cioè a dire quelle differenze che per noi, per il nostro essere individui, hanno un senso, non tutte le differenze possibili.

La selezione di queste differenze costruisce e realizza, nella realtà, la limitata, circoscritta, spiacevole – come preferite – possibile identificazione delle differenze. Quindi, in fondo, noi cosa conosciamo? Soltanto “individui” e ciò per limitarci a questo problema, perché potremmo arrivare alla identificazione della realtà naturale, in quanto differenza, ecc. Ma ci allargheremmo molto e queste sono considerazioni che ho svolto in altri momenti e che non mette conto riprendere qui. In questo contesto, quindi, noi identifichiamo un individuo altrettanto diverso da noi, altrettanto individuo come noi, altrettanto desideroso di costruire la propria vita, la propria diversità. Soltanto cogliendo le possibili affinità che questo individuo ha con noi possiamo conoscerlo, perché non è possibile cogliere le affinità senza tenere conto delle differenze e senza conoscere queste differenze cogliere le affinità.

Capisco che queste considerazioni appaiono come chiacchiere banali che in fondo lasciano il tempo che trovano, ma credo che non lo siano del tutto.

Questa operazione, che mi sembra di leggere nelle intenzioni più recondite di Stirner, essendo forse incapace di cogliere quelle che sono le oggettive manifestazioni del libro (ma io sono sempre stato incapace di leggere un libro in modo oggettivo, che poi, tra parentesi, mi sono chiesto quali cose in modo oggettivo sarebbe possibile fare? – ma questo è un altro discorso), come la si può realizzare se non attraverso la costruzione di un processo di mascheramento? E questo Stirner lo intuisce quando parla dell’artificialità della costruzione dell’altro, e quindi della costruzione di sé. Non è un processo naturale. Il rifiuto della naturalità, il rifiuto di quello che era stato individuato come concezione giusnaturalista del diritto, non è altro che il rifiuto della possibilità di identificare un luogo certo della natura, come mi pare d’aver capito, badate bene, con tutti i miei limiti. Quindi è sempre una finzione questa struttura della identificazione. È sempre una finzione, che poi sarà lo stesso concetto che, rielaborato da Nietzsche, prenderà corpo nella figura bellissima della maschera.

Cioè a dire, in effetti, noi possiamo avvicinarci all’altro operando un duplice processo di mascheramento: mascherandoci noi, mascherando quelle che sono le nostre vere intenzioni, per poter utilizzare – nel senso stirneriano, quindi nel senso positivo – l’altro. E però, per fare questo, possiamo e dobbiamo realizzare l’utilizzo dell’altro attraverso una mascheratura della sua oggettività.

Sostanzialmente ho finito, ma prima voglio dire un’ultima cosa.

Ho accennato al fatto che non è possibile chiamarci fuori, l’ho detto all’inizio (qua, nella mia relazione, invece era posto alla fine). Non possiamo chiamarci fuori in quanto dobbiamo cercare di costruire il possesso di noi stessi, cioè a dire dobbiamo cercare di costruire l’autonomia di noi stessi e questo è possibile – secondo me almeno – soltanto in una dimensione in cui non viene esclusa la comunità con gli altri, in cui l’altro viene fatto entrare all’interno di un rapporto con la nostra unicità.

E qui il discorso della “unione degli egoisti” di Stirner – della quale è stato fatto un accenno e che, per altro, non è un caso che sia stato il solo accenno fatto ieri, come se quest’aspetto fosse affidato alla parte marginale della trattazione, cosa che non credo sia così – comunque, questo aspetto – e la mia affermazione farà storcere il muso ad alcuni compagni – per me è centrale. Io penso che l’individuo non soltanto debba costruire se stesso, perché questo è in un certo senso l’apprestamento degli strumenti, io sono strumento di me stesso per realizzare me stesso. Ma, se non realizzo me stesso, non possiedo nessuno strumento di realizzazione. La cosa è contemporanea: mi realizzo nel momento in cui realizzo me stesso come strumento, in quanto io sono scopo di me stesso, e questo è certo. Però nel momento in cui opero questa realizzazione di me stesso, devo avere un progetto che non può essere me stesso: il progetto è qualcosa che supera me stesso e lo supera nella concezione dall’oltrepassamento, non in quella del superamento. Cioè a dire, che porta con me, attraverso me, fuori di me, quelle che sono le contraddizioni che erano in me e nelle condizioni oggettive date che erano fuori di me. Solo questo è possibile come condizione del progetto.

A questo punto comincia la strada che molti possono dire lastricata delle pietre infuocate dell’autoritarismo, perché il processo di costruzione di un progetto è sempre progetto autoritario. È stato fatto qua ieri il raffronto tra Michail Bakunin e Stirner. Raffronto che, secondo me, lascia il tempo che trova, perché fra l’altro non ci sono letture certe di Bakunin da parte di Stirner, per quanto Bakunin fosse nome filosoficamente importante nella Germania degli anni Trenta, tanto è vero che la pubblicazione clandestina di un opuscolo di Engels venne attribuita a Bakunin, come è stato dimostrato da ricerche fatte qualche decennio fa. Pur essendo nell’àmbito di tutti quelli che parteciparono alle lezioni del secondo Schelling, Bakunin è differente, perché non è che Bakunin sia più autoritario o appartenga a un altro aspetto dell’anarchismo, cosa che è stata detta ieri e che a mio avviso non è condivisibile: Stirner ha un particolare anarchismo, Bakunin ne ha un altro, Pëtr Kropotkin ne ha ancora un altro. No! L’anarchismo è un fenomeno estremamente eterogeneo e complesso, articolato, perché è una visione della vita, della realtà ed è anche un modo di vedere la vita in tutti i suoi aspetti, nella sua complessità, non una semplice concezione politica di rapportazione col potere. Quindi, Stirner appartiene all’anarchismo così come Bakunin. La differenza sta nella costruzione dell’individuo, nell’applicabilità di questa costruzione, nell’apprestamento dello strumento, nell’applicazione a un progetto.

Se noi esaminiamo alcuni progetti di Bakunin, come per esempio il progetto che lui realizza nel 1870, sul finire del 1870, alla vigilia della Comune di Parigi, con la sconfitta degli eserciti francesi in atto, ci rendiamo conto della precisa indicazione di lavoro di un anarchico insurrezionalista, rivoluzionario, che opera all’interno di una condizione data, in cui esamina praticamente quelle che sono le forze politico-sociali in campo, cercando la via per incidere sul movimento in corso per spostarlo verso la realizzazione di certi processi di liberalizzazione. È, come dire, che dall’empireo delle realizzazioni possibili, filosoficamente ineccepibili, si scende in quello che un compagno ieri, parlando con il cuore in mano, diceva “sporcarsi le mani”.

Questo è un argomento che a me preme moltissimo, perché gli anarchici, compagni e non compagni che mi ascoltate, non abitano due universi differenti, non sono come Cunegonda del Candide che stava tre giorni della settimana col Vecchio Testamento e tre giorni col Nuovo Testamento, avendo per amanti un rabbino e un cardinale.

Gli anarchici non possono essere come Cunegonda, gli anarchici debbono fare una scelta, ma avendo la capacità e l’incredibile duttilità di pensiero e azione di essere in quella scelta in modo sempre differente, in mutate condizioni. Gli anarchici devono avere la capacità di contrastare, nella realtà concreta, le realizzazioni del potere, cioè quelle strutture che lo portano alle sue estreme conseguenze, alle razionalizzazioni peggiori, per ridurre questo progetto all’interno di limiti, sia pure parzialmente accettabili. Ma devono fare ciò dopo aver superato le condizioni preventive di costruzione assoluta dell’individuo autonomo, autosufficiente, autogestito. In quanto, se facessero le due cose separatamente cosa succederebbe? Facendo la prima parte soltanto, sarebbero stupidi servi di forze sociali e politiche oggettivamente più forti di loro, come è successo amaramente tante volte nella storia: il ‘36 spagnolo, il ‘17 russo, la situazione messicana, sono testimonianze di questa mancata capacità di vedere le cose nella loro varietà estremamente duttile. Se si limitassero a costruire soltanto la seconda parte, l’individuo che si arrocca in se stesso e in nome della forza del singolo si ritiene autosufficiente, si chiuderebbero all’interno del proprio orticello. Queste due prospettive dobbiamo compenetrarle, e dobbiamo compenetrarle anche a scapito di una possibile e ineccepibile lettura di Stirner, e dobbiamo realizzarle – qui l’uso del termine dovere è un luogo comune della lingua – dobbiamo realizzarle anche se nella nostra attività progettualmente rivoluzionaria finiamo ogni volta per ricominciare da capo, come Sisifo.

[Intervento a braccio pubblicato in Individuo e insurrezione. Stirner e le culture della rivolta, Atti del Convegno promosso dalla Libera Associazione di Studi Anarchici (Firenze 12-13 dicembre 1992), Firenze 1993, pp. 145-156. Trascrizione della registrazione su nastro]

VII. Coerenza e incoerenza

Siccome l’argomento stringe sul movimento anarchico mi interessa vedere alcuni punti.

Innanzi tutto il problema della Prima Internazionale. Non si può dire che Bakunin sia molto ravvicinabile alle ipotesi del marxismo. Faceva alcuni ragionamenti errati, per esempio quando affermava che Marx andava bene per l’analisi ma non per la pratica, operando in questo modo la separazione tra due cose che separabili non sono. E questo è un errore che faceva Bakunin, il quale nella pratica realizzativa era molto lontano da Marx. Anche le strade con cui Bakunin e Marx attaccavano lo Stato borghese erano diverse. Per esempio, la sconfitta dell’esercito francese, nel 1870, fa scrivere a Marx una lettera a Engels dove viene detto che la vittoria di Bismarck era una loro vittoria, in quanto consentiva di rafforzare il proletariato tedesco nei confronti della borghesia tedesca, e quindi la loro posizione di rappresentanti del proletariato tedesco nei riguardi dei proudhoniani. Viceversa, sullo stesso argomento, Bakunin dirà che la vittoria di Bismarck è una sconfitta della democrazia in Europa, cioè della lotta per la libertà in Europa, perché la possibilità di vivere sotto il dominio dei Prussiani è qualcosa di impensabile.

Sono due concezioni assolutamente diverse per quanto riguarda la pratica politica ed è diverso anche l’obiettivo finale, perché uno è collettivista e l’altro è comunista, per dirlo semplicisticamente.

Sul problema della democrazia diretta oggi possiamo dire qualcosa di più. Il fatto dell’impossibilità di un funzionamento libertario della democrazia diretta adesso ci è più chiaro, perché con la telematica il potere potrebbe essere in grado di interpellare su qualsiasi cosa in modo diretto i cittadini, ma anche in questa ipotesi non si potrebbe mai provare un’effettiva volontà popolare. E questo è stato studiato in vari modi, in particolare da Kurt Levin, che dimostrò negli anni Quaranta, attraverso due tipi di interventi sperimentali, che la maniera più efficace di convincere la gente è data dal loro coinvolgimento in una discussione assembleare. Infatti, il pensiero delle masse viene manipolato sia dalla tecnica retorica delle argomentazioni, con cui viene trasmesso il concetto, sia perché tutti quelli che ricevono il messaggio non hanno una sufficiente documentazione per decidere. Quindi, chiusura dell’ideologia della democrazia diretta, essa non è possibile!

Gli anarchici sono contro un impiego della discussione assembleare in condizioni in cui c’è una prevaricazione delle minoranze. Le loro assemblee sono invalidate se ciò avviene. Nello stesso tempo, però, gli anarchici debbono pure agire. Nella pratica concreta si ha un fine che è dato dall’interesse comune. Interesse comune che non è quello bello e impacchettato delle elaborazioni ideologiche, fatte al chiuso delle sedi, ma è quello che rispecchia le condizioni “per quanto possibile oggettive” in cui minoranza e massa sono insieme coinvolte. Queste condizioni non sono stabilite una volta per tutte, ma si costituiscono secondo le situazioni contingenti. Interesse comune stabilito altresì dal fatto che da un lato la minoranza non è una minoranza professionale, e dall’altro dal fatto che la massa non ha interessi programmatici al verificarsi di certi fatti, cioè non ha interessi che si protraggono nel tempo, che non sono contingenti all’accadimento che le sta piombando addosso. E per la minoranza è la questione delle mani in pasta, dello sporcarsi le mani e del modo in cui, nei limiti delle cose possibili, con tutte le contraddizioni, si possono ridurre al minimo i guasti, gli autoritarismi, i limiti della condizione assembleare in cui si decide insieme una cosa. Ciò non vuol dire che la minoranza sia sacrificata alla maggioranza. Se non è d’accordo, può sempre non aderire alle decisioni. A ognuno di noi può accadere anche questo: non essere d’accordo dentro di sé, ma aderire alla parte più importante del progetto per acquisire un mezzo maggiore, al quale poi rinunciare se ci si dovesse sentire soffocati dalla maggioranza.

E questo non è un ritrovato tecnico degli anarchici, ma è il modo in cui tutti quanti, tutti i giorni, cerchiamo di sopravvivere, di combattere con chi ci sta vicino e ci stringe sull’autobus affollato, ma che dobbiamo pur prendere se non vogliamo fare la strada a piedi. L’anarchismo è anche questo. Non è il portatore della verità, è un prodotto storico della condizione in cui viviamo, della società dilacerata. Non è la soluzione di tutti i problemi.

Il concetto di coerenza si inserisce all’interno di questa problematica anarchica. Gli anarchici sono coerenti, ma non al di là della propria condizione di sopravvivenza, non sacrificando se stessi al di là dell’impossibile. Molti si chiedono: è possibile essere coerenti fino in fondo? Ci sono stati anarchici coerenti fino in fondo. Ricorderò solo due figure: quella di Francisco Ascaso e quella di Buenaventura Durruti. Sono due rapinatori, compagni anarchici che hanno finanziato le attività del movimento in tutto il mondo. Allo scoppio dell’insurrezione in Spagna, Ascaso prende le armi e muore nel corso del primo assalto a una delle caserme di Barcellona. Durruti si assume invece il doloroso compito di non morire, di non essere coerente nell’immediato, per costruire un’organizzazione e per combattere una lotta contraddittoria, morendo solo dopo aver condotto fino in fondo il doloroso e contraddittorio destino dei compagni anarchici, cosciente di ritrovare la propria coerenza al di là e forse contro ogni concezione astratta della coerenza.

[Intervento a braccio pubblicato in Individuo e insurrezione. Stirner e le culture della rivolta, Atti del Convegno promosso dalla Libera Associazione di Studi Anarchici (Firenze 12-13 dicembre 1992), Firenze 1993, pp. 186-187. Trascrizione della registrazione su nastro]

VIII. Crisi e fallimento

Ritengo opportuno soffermarmi su due concetti. Il primo, è il concetto di crisi. Crisi come coscienza del nostro esistere. Ma come? Prendiamo coscienza del nostro esistere solo quando ci sentiamo in crisi? E quando ci sentiamo bene, siamo forse meno coscienti? Il concetto di crisi, in tutt’altro senso, è molto usato da Marx e dai marxisti. Noi anarchici non vi dovremmo ricorrere, perché l’anarchico non è mai in crisi, è un ottimista nei confronti della vita. L’esistenza è tutta positiva. Gli stati di alternanza tra stare bene e stare male, tra depressione ed euforia, sono elementi dell’esistenza, nei suoi aspetti positivi e negativi. Bakunin, chiuso per cinque anni in condizioni disumane nella fortezza di San Pietroburgo, legato al muro con una catena, invece di sentirsi in crisi, sognava di uscire e di riprendere la lotta.

L’altro concetto di cui voglio parlare è quello di fallimento. Bisogna fare una distinzione tra sconfitta e fallimento. La costruttività della vita ha un senso solo se, una volta che abbiamo fatto nostre le cose che desideriamo, le consideriamo elementi per una possibile successiva sconfitta. Siamo noi stessi a non ritenere definitiva nessuna conquista, a rimettere tutto in gioco, noi e gli strumenti che abbiamo acquisito. Se la nostra mente si cristallizza invece nell’idea di una conquista definitiva, e poi interviene un elemento esterno che distrugge ciò che ritenevamo patrimonio acquisito, e fa sì che ne lamentiamo la perdita, allora bisogna parlare di fallimento.

Quindi, secondo me, è sbagliato usare concetti come crisi e fallimento.

[Intervento a braccio al Convegno di cui sotto, non pubblicato in Individuo e insurrezione. Stirner e le culture della rivolta, Atti del Convegno promosso dalla Libera Associazione di Studi Anarchici (Firenze 12-13 dicembre 1992), Firenze 1993. Trascrizione della registrazione su nastro]

IX. Iconoclasti fino in fondo

Esaurita da tempo la precedente nostra edizione de L’unico e la sua proprietà [Catania 1987] si è resa necessaria una ristampa [Catania 1993]. Il libro continua a essere letto, e di certo gli anni che ci stanno davanti richiameranno sempre più lettori. Tempi duri, forse durissimi, quindi è giusto che trovi spazio la tesi fondamentale di un uomo che seppe trovare risposte adeguate alle condizioni inappellabili della vita, allo scontro e alla fierezza dei ribelli, lontano dalle inutili accondiscendenze che spesso aiutano a sopravvivere facendoci illudere sugli altri e su noi stessi.

Una nicchia, L’unico potrebbe anche essere questo, un luogo caldo e accogliente, dove sfogare i propri istinti di liberazione, e restare fermi al proprio posto, nella graduatoria sociale che ci ospita. E per molti lettori tale potrebbe essere la conclusione, una sofisticata panacea, avvolta nella carta lucida di un prodotto estremo e rarefatto.

Francamente, accanito lettore di Stirner, non mi sono mai del tutto convinto che nelle pieghe inverosimili del libro non ci stia anche questa possibilità, che per altro i filistei di ogni pelo, e gli imbecilli loro confratelli, trovano subito, tirati appena pochi fili del bandolo.

E nel corso degli anni mi sono accorto che molti feroci persecutori delle debolezze altrui non erano che cauti sovvenzionatori delle proprie, deliziati amministratori di ogni particella di piacere, sottratta al vero e proprio desiderio, perché l’insieme complessivo della gestione quotidiana non sfuggisse alle rotaie del di già condizionato, dell’apriori stagnante e ridicolo.

E visto che l’attuale esaltazione di un confuso individualismo sembra dilagare, il sospetto non mi lascia in pace, mettendo la sua coda spinosa nelle mie ulteriori letture di questo testo e spingendomi, diventando scontrosa ritrosia, a riprendere l’argomento.

Poi c’è l’altrove libero, spazioso, desideroso di vivere le proprie esperienze, di spezzare l’andamento sclerotizzato di qualsiasi accumulo di proprietà, anche quello di se stesso, se quelle, lungi dal liberatorio possesso stirneriano, dovessero, com’è tragicamente verosimile, trasformarsi in catene da verniciare, in pesi da stringere al petto. E questo altrove va facendo le sue esperienze, rompendo di continuo gli argini, spezzandosi le braccia, e spesso anche il cuore, nella ricerca di quello che altri avevano distrutto, nel rimescolio costante e inesausto di quanto sembrava definitivamente risolto e accantonato. Nessuna barriera è troppo sacra, neanche quella che involontariamente ci eravamo costruita, accondiscendendo ai luoghi comuni della nostra epoca, ai miti della forza o della debolezza, secondo i gusti, perché qui, a questo punto, la doppia coda del serpente biforcuto si congiunge nelle sue estremità antitetiche.

Iconoclasti lo si è in un solo modo, cercando di esserlo fino in fondo. Chi si ferma a metà strada, non è un iconoclasta, è sempre un prete. Solo chi riconosce l’essenziale validità di un progetto, a breve e a lungo termine, può concedersi soste in un percorso che sa fin dall’inizio non essere in alcun modo conchiuso in se stesso, rarefatto nella perfezione dell’idiozia volontarista. E lo può fare perché operaio del deforme, dell’immediatamente dato come sofferenza e disgrazia, come schiavitù e morte, dall’interno del quale opera realizzando progetti, snidando nemici, attaccando responsabili, distruggendo realizzazioni, morte concreta, oppressione concreta, ferocia concreta. Un lavoro che guarda da lontano, da molto lontano, le splendide chiarezze dell’individualista il quale viaggia verso lidi immacolati, nella purezza del suo ideale, racchiuso dentro la sua lucente corazza incontaminata da spuri compromessi, lontano dalle turpitudini del mondo. Solo che il giuramento sulla propria inattaccabile lucentezza è pur sempre un giuramento, e come tale appanna la luce, la riduce a riflesso deformante, abbisognoso, questo sì, di spiegazioni e continue riverniciature. In breve, chi giura su Stirner non è più un individualista stirneriano.

Il trasferimento dei bagagli del buon Dio, segnalato dalla critica a Feuerbach, e portato all’estrema denuncia proprio da Stirner, potrebbe trovare un ultimo imbroglio metafisico nella stessa tesi centrale de L’unico. Ma gli individualisti sanno ciò perfettamente e non leggeranno mai il loro libro preferito in questa chiave, così immediata e allettante, ma così assurda e contraddittoria.

Cosa faranno, allora?

Cercheranno la via di una maggiore luce critica, scenderanno negativamente fino in fondo alla realtà, scopriranno come sotto l’apparente durezza del principio individualista assoluto, si nasconde la necessità dell’altro, il bisogno e l’estrema indigenza del singolo, solitario nella propria forza, solitario nella propria debolezza. Capiranno, in breve, che combattere sempre a testa bassa può nascondere la tragica incapacità di alzare la testa per considerare il modo migliore di combattere. La scelta e l’individuazione del nemico richiedono acume critico e discernimento analitico. Non si possono riassumere nella dottrina uniformante e superficiale dell’attacco a ogni costo e in qualsiasi modo, con qualsiasi risultato.

E la strada di Stirner non è quasi mai assoluta, nel senso di rarefarsi nell’astrazione filosofica che dimostra soltanto se stessa. Chi presuppone possibile la costruzione di un singolo uomo nuovo, presuppone troppo poco, allo stesso modo di chi si perde nella costruzione del mondo nuovo senza tenere conto del singolo che in quella costruzione dovrà ritrovarsi e costruire la propria identità. Queste esercitazioni per difetto non appartengono a L’unico, e quando sono state estrapolate da letture tendenziose, le si è poi autorizzate al senso grazie a un’aggiunta, diciamo così, pratica, cioè grazie all’impiego di un’etica costruita su misura per l’uomo individuale, astrazione metafisica del tutto simile all’uomo economico, a quello psicologico, storico e tutto il resto.

Non si può adottare, nella lettura di Stirner, quella tecnica di restauro che trova adesso tanto congeniale impiego, producendo immagini convincenti in un’epoca di decadimento e possibilismo. Restauro della fedeltà canina nelle vesti della novità rischiosa e perfino estrema. Le linee della solitudine, come quelle che contraddistinguono il dolore e la sacra follia, non sono mai così nette, corrono lungo percorsi insondabili per intero, dove l’assurdo e l’arbitrario si vestono delle vesti togate di una ragione che fissa canoni sigillandoli con una traccia di sangue.

L’insensatezza dei tempi in cui viviamo non si può guarire prospettando soluzioni definitive, siano pure quelle classicamente rivoluzionarie. La razza pura dei cacciatori di fuoco è quasi certamente un mito. Nessuno va sempre allo sbaraglio, nessuno vive per sempre tra l’incudine e il martello. Ciò non vuol dire che, bene o male, tutti ci accettiamo per quello che siamo. Ribellandoci costruiamo il futuro, ma non ne siamo gli artefici unici, né il futuro è il prodotto della nostra solitaria volontà.

L’individuo, anche l’individuo stirneriano, scopre dolorosamente, proprio adesso, proprio in questi anni che ci avvicinano alla fine del secondo millennio, la sua sostanziale perifericità, e da questa scoperta ricava forza per la costruzione di una nuova centralità, la centralità problematica del possibile rimesso in discussione, non quella statica della conquista cui ci si aggrappa con le unghie e coi denti. Niente può renderci trasparenti a noi stessi. Non riusciremo mai a leggere fino in fondo nella nostra coscienza, nel labirinto inestricabile di controlli e concessioni, di gioie e nefandezze, di altruismi e ottusità. E, in fondo, dietro le ricette autodefinite di Stirner ci sta il passo successivo, quello assolutamente problematico, il passo che apre la porta alla non definibilità dell’uomo, alla sua incompletezza radicale. Proposta come ulteriore, ed estrema, geometria filosofica, la tesi di Stirner, se accettata in questi termini, si contraddice e si cancella. Resta il solito pugno di mosche. Al contrario, aprendo il metodo egoistico a se stesso, cioè accettandolo fino in fondo, lasciandolo operare anche sul risultato suo proprio, cioè sulla sua proprietà, si possiedono finalmente le coordinate del viaggio da intraprendere. Niente di concluso, tutto da riprendere di nuovo, e ancora di nuovo, in un movimento senza fine e senza garanzie di successo.

Il pericolo del riconoscimento della propria incompletezza rassoda le fragili basi metafisiche stirneriane dell’egoismo autofondante, proponendo una fondazione progressiva, mai racchiudibile in una formula. Il reperimento della centralità è quindi un’occasione della stessa perifericità, il risvolto problematico del sentirsi marginale, rigettato verso l’esterno, respinto da un processo privo di regole, ciecamente avviato verso il caos da cui proviene.

E in questo gioco l’arrivo improvviso, e inaspettato, dell’altro, è premio, non attacco o turbativa. Premio, non conquista o padroneggiamento. E premio alla propria possibilità può essere solamente il dono, il dono che l’altro ci fa, parallelo, ma non compensativo, del dono che stiamo facendogli di noi stessi. Così la lettura di qualsiasi possibile affinità con l’altro è prima di tutto conoscenza dell’altro, ma questa conoscenza cade di tono non appena la si racchiude nell’interesse stabile della gestione metafisica, nel palinsesto rigido dei propri valori, che poi sono quelli dominanti banalmente rovesciati. Si risolleva solo quando l’altro riesce a spiazzarci, a coglierci di sorpresa, quando si avvicina a noi come un ladro nella notte, movimento che deve corrispondere al nostro muovere nella direzione contraria, come in un labirinto, alla ricerca di una cosa che non possiamo dire di possedere neanche quando l’abbiamo afferrata, anzi che proprio in quel momento, quando la stringiamo e facciamo nostra, possiamo dire di aver perduto, irrimediabilmente perduto.

Nessuna nozione attuale dell’individualismo può prescindere da queste considerazioni. La tragicità del reale impone l’incertezza, e questa non può cancellarsi con una semplice volontaria alzata di scudi. La volontà non può che accumulare riconoscimenti e possessi, ma non libera l’uomo dalla propria coscienza, gli fornisce gratificazioni e alibi, non acquieta la sua inquietudine. Nessuno può dirsi realmente al sicuro nell’esilio della propria dimora, non c’è castello sufficientemente fortificato dentro cui nascondersi, né riscatto bastevole da pagare. La costruzione dell’uomo nuovo avviene fra le rovine, non possiamo partire da nessuna piattaforma, solo una traccia, una semplice traccia nella foresta e la fermezza del polso. Il resto è semplice ornamento.

[Introduzione a L’unico e la sua proprietà, tr. it., seconda edizione, Catania 1993, pp. 1-5]

X. Le paure del signor de Taillandier

La “Revue des Deux Mondes” viene fondata nel 1829 da Mauroy e Ségur-Dupeyronet. Costituirà per quasi un secolo e mezzo l’immensa enciclopedia della borghesia francese. Scorrendo le sue pagine, almeno fino agli anni Venti del XX secolo, si ha la stessa impressione che facendo una passeggiata dalla Sorbona al Lussemburgo: la forza del capitale diventa visibile, qui si concretizza in palazzi come nella “Revue des Deux Mondes” si concretizza in parole. Rivista letteraria, artistica, filosofica e storica, in quasi tutti i saggi pubblicati non perde mai l’occasione di inneggiare alla grandezza della Francia.

È qui che esce il primo saggio pubblicato fuori dalla Germania su L’unico di Stirner. In effetti è un approccio alla giovane filosofia hegeliana e porta come titolo intero: De la crise actuelle de la philosophie hégélienne. Le partis extrême en Allemagne, volume XIX, anno XVII, luglio 1847.

Saint-René Taillandier, il suo estensore, si scandalizza continuamente leggendo gli ultimi libri usciti in Germania e ne partecipa il lettore francese, proclive com’è ovvio a condividere questo scandalo.

Prima prende di mira l’umanismo di Arnold Ruge all’interno del quale identifica una contraddizione in quanto il filosofo tedesco si era dichiarato contro l’amore di patria. «Se l’amore di patria – egli scrive – è un sentimento ipocrita e una virtù impossibile, perché secondo i nuovi hegeliani, l’amore odia tutte le astrazioni e vuole realtà viventi, l’amore del genere umano non viene a essere condannato in modo ancora più forte da simile sistema?». (De la crise, p. 252). Poi passa al libro di Stirner, giunto a proposito, il solo in grado di fornire il modo per coprire lacune del sistema hegeliano e di fare capire in quali abissi di spaventosa ignominia si viene a cadere seguendo queste tesi.

Ma l’inizio vero e proprio di questa follia non è il libro di Ruge ma quello di Strass. «Strass aveva negato la divinità di Cristo, il testo dei Vangeli non è, secondo lui, che un tessuto di leggende e di miti popolari impressi nei pensieri, nelle preoccupazioni, nei desideri dell’animo umano in una data epoca. Così gli eroi greci hanno avuto le loro leggende, che nascondono tutte un significato profondo e sono la viva espressione della condizione degli spiriti in un certo momento della storia. Di tutte le leggende, la Giudea ha fornito la più bella, la leggenda religiosa, preparata dal carattere del popolo, dalle sue tradizioni, dalle mistiche speranze che esso vi aveva deposto. L’umanità, adorando questa meravigliosa figura di Cristo, non adora altro dunque che la sua propria opera. Si sa quale fu l’effetto di questo libro [di Strass], scritto con calma imperturbabile e con una erudizione degna di un benedettino. Sembrò che l’audacia non potesse andare più lontano». (Ib., p. 254).

E invece ecco Stirner che arriva a turbare i sogni di questa brava gente. Il povero Taillandier ha difficoltà finanche a tradurre il titolo dell’opera di Stirner. Egli scrive: «Il signor Stirner è il nuovo venuto nell’esposizione della scuola hegeliana, il titolo stesso del suo libro non è facile da tradurre. Der Einzige und sein Eigenthum, che non è soltanto l’individuo e la sua proprietà, ma qualcosa di più, bisognerebbe poter dire: l’unico e la sua proprietà. L’unico! Sì, perché non c’è che un solo essere per il signor Max Stirner. Perché mai Feuerbach ci ha parlato del genere umano? Perché mai Ruge ci ha predicato il culto dell’umanità? Si tratta del linguaggio di un cappuccino: l’umanità non esiste, non ci sono che io a esistere, al di fuori di me, non conosco nessuno, non credo a niente. Credere in un genere umano è credere in un’astrazione, in qualche cosa al di sopra dell’uomo, è ritornare alla trascendenza. Ecco la parola vigliacca. Quando la scuola hegeliana accusa qualcuno di trascendenza, è il colpo di fulmine partito dal Vaticano, è la bolla che scomunica l’eretico». (Ib., p. 259). Il critico è fortemente scosso. Per la prima volta qualcuno si scontra con le tesi dell’unico e non può non ammettere che, sia pure dal punto di vista logico, esse sono ineccepibili. I predecessori fanno una figura meschina, sono preti anche loro.

Taillandier, che pure si era impressionato per gli scritti di Strass, Feuerbach e Ruge, adesso deve affermare: «È Stirner che trionfa. E, in verità, io credo che Stirner abbia ragione, io credo molto fermamente che Feuerbach e Arnold Ruge siano colpevoli, che rimangono nella trascendenza, che essi ammettono al di fuori dell’individuo una potenza superiore da cui quest’ultimo dipende, o meglio ritornano alla credenza universale riconoscendo, al di sopra dell’uomo l’umanità, al di sopra dell’umanità il Creatore, al di là del finito l’infinito con i suoi splendori e i suoi misteri. Solo Stirner è conseguente, ed è perciò che vi mette al tappeto. Egli è nel vero quando lancia contro di voi questa terribile accusa che vi sconcerta, e per quel che mi riguarda, senza esitare io voto per lui». (Ibidem).

Il pericolo di sparire è un segno della realtà, così come si dispiega nell’ineluttabile semplicità dei suoi movimenti. Il “nulla” stirneriano mette paura al borghese impettito perché annuncia questa possibile sparizione. Non c’è niente di garantito, nessun modello ideale su cui transitare a fari spenti, nessuna armonia prestabilita, capace di ordinare all’infinito. L’ordine è sempre un prodotto della volontà e si può scardinare. Anzi l’inquietudine lo rimette continuamente in discussione. Allo stesso modo l’ordine complesso di una complessità fittizia come quella dello Stato, il potere che tutto appiattisce. Ma per appiattire deve avere una collaborazione, deve cioè trovarsi un punto d’appoggio in un ordine che è negli oggetti, prodotto insieme a questi.

La parola scritta rende possibile l’ordine del potere, così come noi lo conosciamo e contro cui lottiamo. Se non trova l’ordine nello scritto, il potere viene rinviato a un appiattimento differente, in base a un ordine da ricostruire, punto per punto. Lavoro che potrebbe risultare più difficile del previsto. La speranza: per tre quarti non sa quel che dice, ma per il resto, chissà?

La tradizionale illusione che lo scritto abbia una sua indiscussa validità, illusione che continuiamo a mantenere viva e da cui non è comodo scostarci, si basa sul fatto che quello che scrivo ha un valore superiore a quello che dico. Ciò ha attinenza col conoscere, deposito di certezze che è bene codificare per scritti e non per chiacchiere. Capire diventa quindi legato indissolubilmente a circoscrivere. Qui siamo in piena illusione.

Il desiderio di conciliazione potrebbe frenarci ancora una volta. Siamo sempre stati possibilisti in merito alle nostre idee, specialmente quando le abbiamo viste depositate sulla carta come un cartoccio di cannoli siciliani. Scrivere potrebbe in definitiva stornarci ancora una volta dall’azione. Stirner lo sapeva e Taillandier lo va scoprendo nel corso della sua lettura e ne inorridisce.

Questo destino insito nello scrivere, almeno in una sua possibile conclusione, si offre con troppa facilità, con una sorta di narcisistico bisogno di preservare l’alveo definitivo che l’ospita, la sacra ritualità delle parole. Meglio rinunciare allo scritto che all’azione. Evitare assolutamente di stordirsi con fantasie ottimistiche, tagliare netto. L’unificazione non è restaurazione del dominio, ma abolizione di ogni conclusione, principalmente di quella che si atteggia a soluzione definitiva di tutti i problemi. “Dove prenderò, se è inverno, i fiori”, scriveva Hölderlin.

L’adesione di Taillandier è limitata al punto di vista logico. Difatti esclama: «Vedete quale logica, quale chiarezza, quale sicurezza imperturbabile presso Stirner! Non gli trema certo il cuore nello scatenare rigorosamente le sue dottrine. Uomo felice! Niente scrupoli, niente esitazioni, niente rimorsi. Non è mai esistito un dialettico così ben provvisto di naturale rigorismo logico. La sua penna stessa non trema, essa è elegante senza affettazione, graziosa senza partito preso. Là dove un altro sarebbe agitato, egli sorride naturalmente. L’ateismo gli è sospetto, come qualcosa di ancora troppo religioso, completare l’ateismo con l’egoismo, ecco il compito che vuole assolvere, e con quale slancio, con quale tranquillità d’animo!». (Ibidem).

I suoi predecessori sono messi al muro logico della loro imperdonabile contraddizione. Taillandier è talmente sconvolto che non si accorge di seguire con più oggettività del necessario il pensiero di Stirner. Cercando di abbattere Dio hanno santificato l’uomo, ecco la nuova tesi sbalorditiva di Stirner. L’umanismo non è altro che una metamorfosi del cristianesimo, alla divinità si è sostituito il genere umano, ma così non si è fatto altro che cambiare padrone e servitù. «Ecco Stirner – continua Taillandier – che applica dappertutto, con un furore senza pari, questo principio che Feuerbach indirizzava soltanto contro la divinità. Niente più Dio, niente più genere umano, patria, nulla al di là del mio essere, né un’idea generale, né un principio assoluto, tutto quello che potrebbe ostacolare la libertà, diritto, morale, amore, fraternità, interesse comune, tutte queste non sono che forme con cui si maschera Dio». (Ib., p. 260). E, più avanti: «Tra Stirner e il suo vicino il cammino è distrutto, la comunicazione è impossibile. Non capisco nemmeno perché ha pubblicato il suo libro. A chi l’indirizza? Che cosa vuole?». (Ibidem).

Taillandier inaugura una lunga lista di critici di Stirner costretti a ricorrere all’invettiva o al silenzio. In effetti la reazione è comprensione, e ciò anche a prescindere dal modo di vedere le cose che sta dietro le scelte del critico e dello strumento pubblicistico che ospita le sue parole. Spesso possiamo respingere una tesi non tanto per come ci viene proposta – modo che potrebbe essere ineccepibile – ma per le ridondanze che ci pervengono, per quello che la tesi in questione ci dice senza dire, per i sentimenti che scatena, per le risposte che ci viene di dare, concrete, al di là delle parole o della coerenza logica. Qui siamo davanti a un fenomeno del genere. E, pur lontani anni luce da Taillandier, è un’esperienza che abbiamo fatto anche noi. C’è ne L’unico e la sua proprietà un qualcosa di irritante, qualcosa che respinge e attira nello stesso tempo, che mette in luce la nostra codardia e ci indica insospettate possibilità di liberazione. Così Stirner, con precisione: «Altrimenti vanno le cose se ciò che è tuo non viene considerato esistente per sé, non viene personificato, non viene reso autonomo come uno “spirito”. Il tuo pensiero ha come presupposto non “il pensiero”, ma te stesso. Ma così non presupponi te stesso? Certo, ma non per me, bensì per il mio pensiero. Prima del mio pensiero ci sono – io. Da ciò consegue che non c’è un pensiero che faccia da presupposto al mio pensare, il quale è perciò senza “presupposti”. Infatti il presupposto che io stesso sono per il mio pensiero non è fatto dal pensiero, cioè pensato, ma è il pensiero stesso in quanto è posto, è il possessore del pensiero e dimostra solo che il pensiero non è altro che – proprietà, cioè che un pensiero “autonomo”, uno “spirito pensante”, non esistono affatto.

«Questo rovesciamento del punto di vista comune potrebbe sembrare tanto simile a un vano gioco con le astrazioni che coloro stessi contro i quali esso è diretto potrebbero accettarlo come un innocuo cambiamento, se non ne derivassero grandi conseguenze pratiche.

«Per dirla in modo netto, qui si afferma che la misura di tutto non è l’uomo, ma che io sono tale misura. Il critico servile ha in mente un’altra essenza, un’idea che egli vuole servire; per questo non fa che immolare al suo Dio i falsi idoli. Ciò che avviene per amore di quest’essenza non è altro che – un’opera d’amore. Io invece, mentre critico, non ho in mente neppure me stesso, ma invece godo, mi diverto secondo i miei gusti: e, a seconda dei miei bisogni, mastico fino in fondo la cosa [die Sache] o mi limito a aspirarne il profumo». (L’unico e la sua proprietà, tr. it., Catania 2001, p. 260).

La tristezza della nostra condizione, visto che siamo preda di mille illusioni e di continue speranze irrealizzate, la percepiamo meglio davanti al testo di Stirner, quindi ne siamo turbati, venendoci a mancare le giustificazioni possibiliste che continuamente elaboriamo per sopravvivere. La logica di Stirner notomizza questi tentativi di accomodamento che dissimulano la vera realtà delle cose, sollecitandoci a convenire con le sue analisi. Quando veniamo spinti a smettere di umiliarci e a smettere di cedere di fronte a ogni ostacolo, la prima reazione è quella di aggredire chi sta mettendo a nudo la nostra anima. In fondo, in ognuno di noi c’è una sorta di amore per la servitù, visto che un certo tepore questa lo fornisce a poco prezzo, basta semplicemente accontentarsi e rendere elastica la propria coscienza. Il testo di Stirner ci estenua con una continua riduzione all’osso delle giustificazioni che da secoli ci diamo per inghiottire quotidianamente la vigliaccheria. Alla miseria si prende gusto.

Priva di concretezza, la critica di Taillandier si rivolge alla liricità delle affermazioni. Anche questo è un espediente molto usato. Si tratta di darsi l’atteggiamento di stare per dire qualcosa di elevato, mentre non si sa proprio cosa dire. Questo rischio è davanti a tanti cosiddetti esegeti di Stirner. Ciò è tanto più vero in quanto nella maggior parte dei casi si tratta di letterati, non di filosofi o di economisti. «La vecchia tirannia – scrive Taillandier – tende ininterrottamente a ricomparire sotto nuove forme, tutti i partiti attuali sono suoi rappresentanti. Questo mette avanti il diritto comune, quello la patria, quest’altro l’umanità. Ci sono dei tribuni che si credono chiamati a essere liberatori dell’uomo perché gridano: Pereat mundus et fiat justitia! La giustizia! Il diritto! Sempre astrazioni che prendono corpo, sempre spettri, idoli, ai quali si immolerà l’individuo! Sempre la religione, l’iniquità, l’impostura, che rialzano la testa. Sempre cappuccinate». (Ib., p. 261).

Quanta pena si prende il nostro critico per le bassezze alle quali è stato portato il nobile spirito germanico. «Come fare comprendere – egli si chiede – a un lettore francese questa esaltazione del niente [fatta da Stirner]? Fin quando Stirner attaccava ogni tipo di ideale, questa lotta impossibile dava al suo pensiero come una certa partenza di poesia, egli aveva a volte l’ardire del guerriero, e la temerarietà folle della sua impresa nascondeva almeno quello che c’è di volgare nelle sue dottrine. Adesso che la battaglia è vinta, adesso che egli celebra la libertà conquistata, la pienezza del suo pensiero appare nuda. Immaginate tutte le conseguenze che racchiude questa situazione dell’individuo rimasto solo sulle rovine del mondo morale: Stirner non ne dimentica una. Questi risultati il cui pensiero ci spaventa lo riempiono di gioia. Egli glorifica l’egoismo come altri glorificano la devozione. Ci si dispensi dal presentare questo quadro. Uno dei risultati più belli di Stirner, quello che egli proclama come la buona novella, è che la regola del dovere non esiste. Non ci sono infrazioni possibili a questa regola». (Ib., p. 262).

I luoghi santi della fede del buon borghese sono messi a repentaglio. Deluso nelle sue certezze di buon francese Taillandier si chiede come possa esistere qualcuno tanto pazzo da considerare il mondo, l’intero mondo esistente, come qualcosa di infetto e di riprovevole. È mai possibile che anche i luoghi della santità, proprio per questo loro essere luoghi santi, siano perniciosi? Questo pensiero frustra le sue certezze insaziabili e gli profetizza un futuro di dolori e di dubbi. Dato che la logica di Stirner non è attaccabile in maniera diretta, gli effetti del suo pensiero, inevitabili come la peste, finiranno per renderci tutti peggiori. «Rivelando all’uomo il suo diritto individuale e sopprimendo tutto quello che limita questo diritto, Stirner rende ciascuno di noi più esigente e più avido. Egli alza il suo grido di guerra, dà fuoco alle polveri, solleva l’innumerevole folla di coloro che negano il diritto e la libertà». (Ib., p. 263). Bisogna leggere con attenzione i reazionari, cosa che mi è capitato spesso di fare. Nel loro rancore c’è un fondamento che nessuna ideologia può raschiare via. Mancando fino in fondo di ragionevolezza, queste tirate – avendo un po’ di stomaco – costituiscono una lettura profetica. Qui non è il caso di farsi prendere la mano da sospetti precipitosi: sono parole di chi tiene alla patria, a Dio e all’onore, quindi mettono a nudo l’essenza più profonda del potere, quel desiderio irrazionale di evitare qualsiasi cosa che possa sconvolgere l’assetto fondamentale della legge. Gli indifferenti al passato e all’avvenire sono stupefacenti in alcune loro considerazioni. Non vogliono migliorare le cose e nemmeno tornare indietro a epoche in qualche modo comprensibili per l’uomo moderno. Non amano le riforme e non desiderano che a governare sia l’atavico loro progenitore signore dei corpi e delle anime. Sono in fondo incapaci di dissimulare e appaiono per quello che sono: portatori della coscienza genuina del potere, senza filtri e sfacciate mistificazioni. Ecco come rifletteva Émile Michel Cioran: «Di tutto ciò che i teologi hanno concepito, le sole pagine leggibili e le sole parole vere sono quelle dedicate all’Avversario. Come cambia il loro tono, come si infiamma la loro vena quando girano le spalle alla Luce per occuparsi delle Tenebre! Si direbbe che ridiscendono nel loro elemento, che riscoprano se stessi. Possono finalmente odiare, sono autorizzati: non si tratta più di un mormorio sublime né di ritornelli edificanti. L’odio può essere vile; tuttavia disfarsene è più pericoloso che abusarne. Nella sua grande saggezza, la Chiesa ha risparmiato ai suoi questo genere di rischi: per soddisfare i loro istinti, li aizza contro il Maligno; essi vi si aggrappano e lo rosicchiano: per fortuna, è un osso inesauribile... Se fosse loro tolto, soccomberebbero al vizio o all’apatia». (Sillogismi dell’amarezza [1952], tr. it., Milano 1993, p. 89).

L’occhio di Taillandier osserva con stupore il lavoro di Stirner e vi vede la fine delle idee, delle proprie idee, cioè di ogni idea che garantisca la continuità e la significatività del potere. «Questo sistema [quello di Stirner] non è l’astuzia di uno spirito ardente che acconsente a degradare la filosofia per sollevare le masse furiose. Ancora una volta, la rude franchezza di Stirner avrebbe vegogna a usare queste giustificazioni ipocrite. La forza brutale di cui parlate [Feuerbach e Ruge], che cosa dunque la mette in movimento? Sono le idee senza dubbio, sono le credenze, quali che siano, religiose, politiche, sociali, è tutto ciò che unisce gli uomini con un potente legame e li vota a una causa comune. Ebbene! Nel mondo desolato in cui abita lo spirito di Stirner niente di tutto ciò esiste più. Stirner ha ucciso le idee». (De la crise, p. 263). Ma il colpo finale del nostro critico deve ancora arrivare. Egli non ha paura del crimine commesso da Stirner se non per quel che riguarda le gloriose e insostituibili idee francesi. Ecco il nocciolo del suo ragionamento: Stirner ha avuto buon gioco a distruggere le idee tedesche in quanto queste erano di già morte a causa del loro peccato ideologico iniziale, ma le idee francesi non potranno mai essere uccise dal dialettico tedesco. «La Francia è il cuore dell’Europa. Sognatori sinistri – egli conclude – interrogate questo cuore e ascoltate la sua risposta. Sia che ci predichiate, come Ruge, non so più quale vago sentimento cosmopolita, fondato sull’odio per la patria, sia che vi racchiudiate con Stirner in un odioso egoismo, voi troverete nello spirito della Francia, l’energica condanna delle vostre insensate teorie. Bisogna essere padroni di se stessi, bisogna conoscersi, comprendersi, amarsi e non ci sarà modo di meglio mettere insieme questi due fecondi sentimenti: l’amore del genere umano e l’amore della patria. Quanto agli sfortunati che sperano di distruggere ogni credenza superiore all’uomo e che celebrano l’egoismo come la sola forma completa di libertà, sono questi soprattutto che devono venire a respirare l’aria in cui noi viviamo. Questo soffio gli restituirà la vita». (Ib., p. 264). Queste considerazioni sono significative non tanto per il richiamo al ruolo storico della Francia, per altro condiviso da fior di anarchici (Kropotkin e Bakunin in primo luogo), ma per il nazionalismo che sottendono. Quest’ultima malattia non si dissocia mai dal perbenismo delle idee, dalle prestidigitazioni della verità, dall’umanità senza vergogna che sfrutta in nome del miglioramento e delle elevate vette della morale. Questa divinità estrema tarda a morire. In fondo, la tirata di Taillardier è a favore del proprio governo, di cui la “Revue des Deux Mondes” era espressione diretta. Non dimentichiamo che qualche decennio dopo questa rivista ospiterà, dopo il tradimento della causa rivoluzionaria, gli articoli di Albert Richard sulla presenza di Bakunin a Lione. Eccolo come conclude: «Solo la Germania è responsabile di queste idee. Vi è ormai un troppo grande contrasto, in questo paese, tra la cultura delle intelligenze e la tutela oppressiva dei governi». (Ib., p. 265). La causa dell’ateismo e del conseguente egoismo di Stirner è vista quindi nella condizione oppressiva dei governi tedeschi, paragonati alla situazione libera che si viveva in Francia. È facile rendersi conto dell’enormità di questa affermazione.

Ha scritto Friedrich Nietzsche: «Esiste una opposizione verso se stessi, alle cui più sublimate manifestazioni appartengono alcune forme di ascesi. Certi uomini hanno infatti così gran bisogno di esercitare il proprio potere e la propria avidità di dominio che, in mancanza di altri oggetti, o perché ciò non è loro mai riuscito altrimenti, alla fine si trovano a tiranneggiare determinate parti della propria natura, per così dire sezioni o gradi di se stessi. Così alcuni pensatori professano opinioni che chiaramente non contribuiscono ad aumentare o migliorare la loro reputazione; altri si attirano addirittura il disprezzo altrui, mentre sarebbe loro facile, semplicemente tacendo, rimanere uomini rispettati; altri ritrattano opinioni espresse in precedenza, e non temono d’esser definiti da allora in poi inconseguenti: anzi, si adoperano per questo, e si comportano come quei cavalieri troppo baldanzosi cui il cavallo piace solo quando è imbizzarrito, coperto di sudore e ombroso. Così l’uomo si inerpica per sentieri impervi sui più alti monti, per poter schernire ridendo la sua paura e il tremore delle sue ginocchia; così il filosofo professa vedute di ascesi, umiltà e santità, al cui fulgore la sua stessa immagine risulta atrocemente imbruttita. Questo spezzare se stessi, questo scherno per la propria natura, questo spernere se sperni, cui le religioni hanno dato tanta importanza, è propriamente un grado molto elevato di vanità. Ne fa parte l’intera morale del discorso della montagna: l’uomo prova una vera voluttà nel farsi violenza con pretese eccessive e nel divinizzare poi nella sua anima questo qualcosa che tirannicamente esige. – In ogni morale ascetica, l’uomo adora una parte di sé come Dio, e a tale scopo è costretto a render diabolica la parte che resta». (Umano, troppo umano [1878], I, 137).

Il critico di Stirner, in quanto borghese spaventato, non si rende conto che la sua accusa rimbalza proprio sulle mura che circondano il quartiere del Lussemburgo. Ogni pietra di quegli edifici riflette le tracce di sangue delle tante rivoluzioni che hanno insanguinato la Francia. La prossima, quella del 1848, era ormai alle porte. La successiva Taillandier riuscirà a vederla se, come sappiamo da una sparuta traccia comparsa nella “Gazete des tribunaux”, era vicegovernatore della Tunisia verso la fine del secolo. Una carriera onorata.

[1973]

XI. L’antigiuridismo di Max Stirner

Un’analisi dettagliata della posizione filosofica di Stirner nei riguardi della norma giuridica è assai semplice, ed è uno dei punti di forza dell’anarchismo che caratterizza questo filosofo. Ogni forma di diritto è ridotta al diritto soggettivo, cioè al “mio diritto”, a quello che la mia forza mi permette di possedere. Allo stesso modo, la garanzia del mio possesso è data dalla mia capacità di difenderlo, con la negazione di qualsiasi titolo di proprietà e, quindi, di relativa difesa istituzionale.

Questi due punti essenziali sono approfonditi nel libro di Enrico Ferri, L’antigiuridismo di Max Stirner, Milano 1992, che esamineremo qui di seguito.

Stirner applica in tutto il suo ragionamento un approccio che si potrebbe definire realistico se l’insieme della sua filosofia non risentisse delle categorie logiche hegeliane. Comunque, il realismo stirneriano è diretto alla ricostruzione delle possibilità di un intervento della forza dell’individuo al posto delle regole di convivenza civile, che poi, tradotte nella logica di tutti i giorni, significano sfruttamento e dominio. In ogni caso non è di certo un moralista.

In confronto a Stirner Karl Marx considera conclusa la critica della religione (quindi dell’autorità) da parte di Ludwig Feuerbach. Gli strali di Stirner sono molto acuti e penetrano più profondamente indicando la nuova religione dei “Liberi” come il nuovo orizzonte del sacro.

Così Ferri: «La critica della religione diviene in Stirner critica del “mondo dello spirito”, della modernità e della nuova “antropocrazia” che in essa è stata creata, grazie a quei “pii atei”, come Feuerbach, che hanno spogliato Dio dei suoi predicati divini solo per santificare con essi “l’uomo” e “la società”, che in tal modo si impongono al singolo come le nuove divinità mondane. Tra cristianesimo e modernità non viene avvertita soluzione di continuità, differenza di genere o di principio. Per Stirner, sul piano storico, la modernità ha inizio proprio con il cristianesimo, ma quest’ultimo si attua completamente nella “filosofia moderna”, nel razionalismo che ha inizio con Cartesio, nella nuova moralità laica, nella politica, nello Stato, nella nazione, in ogni “idolo”, in ogni principio “fisso”, “universale”, “estraneo”. (L’antigiuridismo di Max Stirner, op. cit., pp. 70-71).

Tutti i filosofi moderni, anche quelli più avanzati – come Bruno Bauer, Arnold Ruge e Marx – sono soltanto figure dello spirito che procedono alla spiritualizzazione del mondo. Calando nella realtà questi “ossessi”, questi fantasmi privi di consistenza reale ma efficaci come produttori di conseguenze nefaste per l’individuo, si ha la mondanizzazione dello spirito, per l’appunto si ha la costruzione del mondo in cui viviamo. Il principio nuovo è adesso “l’uomo”, inteso come una nuova categoria astratta nella quale l’unico non si riconosce.

Continua Ferri: «Già da quanto sinora ricordato si può evincere come in Stirner manchi del tutto, o meglio come sia aspramente criticato, ogni principio sociale fondato sul “bene comune”. (Ib., p. 74). Si tratta di una mistificazione denunciata con chiarezza. Non c’è una volontà generale libera, solo la volontà del singolo può esserlo, ma a certe condizioni. Oggi sappiamo come questo discorso di Stirner sia tutt’altro che completamente assodato, ma per il momento è un ottimo punto di partenza. Ancora Ferri: «Mentre per Hegel solo la “volontà razionale” è “in sé e per sé”, in quanto libera e reale, per Stirner la ragione è solo un universale astratto, perché solo la singola “opinione”, la “mia ragione” è reale, in quanto sempre omogenea a se stessa e non rinviante ad altro. È quanto, ad esempio, avviene nell’ “unione degli egoisti”, dove le singole individualità usano l’unione per giungere a più alti gradi di sviluppo e permangono omogenee a se stesse perché perseguono, attraverso l’unione, fini propri che solo accidentalmente sono comuni». (Ib., p. 75).

Nello Stato cosiddetto libero non c’è nessuna vera libertà in quanto ogni individuo è tiranneggiato dalle leggi, difatti non può ottenersi la libertà sommando gli arbitrii individuali. Stirner ammette la possibilità di mettere insieme più volontà particolari solo nell’ “unione degli egoisti”, ma si tratta di condizioni speciali, condizioni che entrano in atto quando ognuno riconosce nell’altro un egoista come lui.

«La volontà del popolo – chiarisce Ferri –, “la legge”, intesa come “comando” in cui tale volontà si attua, viene rifiutata, così come sono rifiutate e criticate, in quanto astratte e prive di forza propria, le altre fonti del diritto: la natura, Dio e la ragione. All’origine di tutti questi principi di legittimazione dell’agire giuridico c’è un soggetto storico alienato – sia esso il cristiano o il moderno, poco cambia – che per un verso produce queste rappresentazioni astratte che lo dominano – perché il singolo è all’origine di ogni fenomeno umano – e, per un altro verso, a causa del suo “debole egoismo”, del difetto di una compiuta autocoscienza egoistica, è incapace di smascherare le rappresentazioni che crea in quanto soggetto spirituale, e di ricondurle a sé nella sfera della sua proprietà disponibile, come cose che tratta a suo piacimento. Soltanto quando questa autocoscienza egoistica sarà completamente sviluppata il singolo si proclamerà unica fonte e unico garante del suo “diritto”». (Ib., p. 77).

È nell’individuo che nasce la potenza adeguata a garantire e a rendere possibile il suo diritto. L’unica fonte di questo diritto/potenza sta soltanto in lui. La realtà ha da sempre prodotto invece una rappresentazione astratta della potenza, e l’ha chiamata “diritto”. In fondo è facile confezionare un’utopia, basta avere le mani in pasta nelle cose sacre alle quali afferiscono direttamente i nostri istinti più profondi. Stirner lotta contro l’inaudito, contro il presentimento della catastrofe, e radicalizza la caduta di ogni residua illusione. La solitudine di Stirner si fa sempre più pesante, tutto il mondo dei “filosofi” accanto e intorno a lui diventa sempre più remoto. Le idee di quest’uomo non sono direttamente usufruibili, non si indirizzano a niente di concretamente quantificabile, e di fronte a operazioni di pensiero come questa i filosofi si vendicano con l’ostracismo. Interessanti le considerazioni di Giorgio Colli: «Esempio – assai più tipico di Nietzsche – dell’estraneità del mondo moderno all’uomo superiore. Hölderlin si differenzia nettamente da Keats e Shelley, sia per la sua concezione dell’antichità, che è assai più profonda, sia perché è un “uomo”, è virile. Hölderlin non si stordisce, abbandonandosi alla fantasia, non si culla in ottimismi o pessimismi, in facili metafisiche, in relazioni effeminate. Né maledice come Leopardi, altro debole. Hölderlin fu presentato a Goethe (1794), che non si accorse di nulla. Rapporti con Schiller. Severità di quest’ultimo, che non aiutò mai Hölderlin in modo efficace. Ottusità o egoismo? Appello disperato di Hölderlin a Schiller (1801), prima di partire per Bordeaux, cioè prima della crisi decisiva: Schiller (cui era stato chiesto un posto di insegnante di greco) non rispose neppure, assumendosi una pesante responsabilità. Rapporti epistolari con Kant (quando aveva 16 anni), rapporti con Hegel e Schelling a Tübingen, rapporti con Fichte (a Jena 1794 95, ascoltò anche lezioni): Hölderlin aveva tendenza per la filosofia, ma fu deluso da chi la professava. Forse questo è uno degli elementi essenziali del primo crollo delle sue illusioni (1795). Hölderlin conobbe quasi tutti i grandi personaggi della sua epoca: non fu riconosciuto da nessuno. Rivalutazione di Hölderlin in questo secolo. Non si capisce bene perché. In parte è Nietzsche che l’ha rimesso in auge. E poi il gusto erudito, la “scoperta”. Un po’ anche l’estetismo. Il ritorno al cristianesimo di Hölderlin non è altro che un ritornare fanciullo nell’epoca della follia. Egli scriveva alla madre come un bambino (da ragazzo terribile educazione cristiana). Massima importanza di Hölderlin: scoperta della Grecia autentica. Sua estraneità alla Grecia apollinea di Winckelmann Goethe Schiller. Hölderlin giunge inspiegabilmente a questa comprensione diretta, prescindendo dalla filologia. In ciò si differenzia da Nietzsche. In un certo modo, Hölderlin ha compreso la Grecia più di Nietzsche. Quest’ultimo ha, rispetto a Hölderlin, i difetti: 1) di condurre troppo intellettualisticamente le sue osservazioni sugli antichi (apollineo dionisiaco, concetto di decadenza, tendenza psicologica, concetti morali). 2) di preoccuparsi troppo del rapporto antichi moderni, sia per polemizzare (filologia, cristianesimo, ecc.), sia per trovare un piano di possibile contatto (tragedia-Wagner). 3) di non tentare una creazione sul piano degli antichi. Lo Zarathustra forse vuol essere tale, ma la forma è tutto fuorché greca (barocca, biblica, orientale, ecc.). Hölderlin realizza la forma greca, ed è l’unico a riuscire in questo in tutto il mondo moderno, Hölderlin scrive come Omero, Pindaro, Empedocle, Platone, non per imitazione, ma perché sente quello che sentirono costoro e riesce ad esprimerlo. In questo senso, Hölderlin è l’unico moderno che sia riuscito a staccarsi, a prescindere completamente dal nostro mondo, e ciò attraverso la pura intuizione, e alla qualità del suo ethos, l’unico che abbia “realizzato” la Grecia. Il culmine del suo pensiero è Empedocle, cioè il superuomo che agisce sugli uomini e sulla natura, mentre Zarathustra finisce nella solitudine. Concezione più alta in Hölderlin. Approfondire l’Empedocle. Il fine è la restaurazione di Afrodite, dell’unità, attraverso l’azione dell’uomo dio, attraverso la pluralità, il mondo dell’espressione». (La ragione errabonda, Milano 1982, pp. 88-89). Questi appunti non dimostrano nessuna tesi, sono un poco da considerare alla stregua di uno sfogo dell’anima, però ci appaiono coerenti con le riflessioni che andiamo facendo sul pensiero di Stirner. In molti casi l’estrema rarefazione logica del pensiero selvaggio prescinde dalla realtà logica che dovrebbe ospitare quest’ultimo. Ogni giustificazione teorica riporta alla ragionevolezza, quindi annulla nella contraddizione.

Continua Ferri: «Questo “fantasma”, prodotto da un “io” non ancora cosciente di sé come egoista ed unico, potrà essere vinto e ricondotto al suo creatore solo quando verrà riconosciuto per quello che è: un ente astratto. La presa di coscienza dell’io come unico ente “in sé e per sé”, come totalità compiuta, porta conseguentemente all’annientamento del fantasma “diritto assoluto”, ricondotto come “mio diritto” a funzione della “volontà personale”». (L’antigiuridismo di Max Stirner, op. cit., p. 78).

Un ente astratto, su cui si basano le regole della convivenza civile, deve essere riconosciuto, in caso contrario manca di qualsiasi forza. Il contrario avviene con la forza vera e propria, con la potenza dell’individuo, questa non occorre riconoscerla (Hegel messo da parte?), si impone da sé. Se nel caso del sacro ci vuole una certa dose di ingenuità, nel caso della forza basta misurare se stessi e scoprire le grandi possibilità che si posseggono una volta messi da parte i soffocamenti del sacro. Gli uomini antichi, uomini veri, avevano questo tipo di forza. Il risultato non erano costruzioni metafisiche statali, ma la vita.

«Prima una stirpe aurea di uomini mortali fecero gli immortali che hanno le olimpie dimore. Erano ai tempi di Crono, quand’egli regnava nel cielo; come dèi vivevano, senza affanni nel cuore, lungi e al riparo da pene e miseria, né per loro arrivava la triste vecchiaia, ma sempre ugualmente forti di gambe e di braccia, nei conviti gioivano lontano da tutti i malanni; morivano come vinti dal sonno, e ogni sorta di beni c’era per loro; il suo frutto dava la fertile terra senza lavoro, ricco e abbondante, e loro, contenti, sereni, si spartivano le loro opere in mezzo a beni infiniti, ricchi d’armenti, cari agli dei beati». (Esiodo, Le opere e i giorni [VIII-VII sec. a.C.], tr. it., Milano 1985, pp. 9-10).

Poi venne il “sacro” e la vita si tramutò in esistenza che sacrifica se stessa all’idolo del quantitativo.

Così Ferri: «Alla legittimità astratta del diritto estraneo succede il fatto compiuto che si autolegittima, in quanto il solo “reale”, la forza che non rinvia ad altri che al suo portatore, il diritto del vincitore, perché “solo il vincitore ha diritti”. L’egoista, pertanto, non si pone sul piano del diritto: non rivendica diritti né li riconosce ad altri». (L’antigiuridismo di Max Stirner, op. cit., p. 79). Il disinteresse, l’abnegazione, il desiderio di sacrificio, tendono tutti a fare qualcosa di sacro, qualcosa che si ponga al di sopra come punto di riferimento, come “causa” e da cui ci si aspetta la “regola” capace di produrre gli effetti regolamentativi del diritto. Bisogna distruggere questa prospettiva sacrale. Dice Émile Michel Cioran: «Non c’è evoluzione, non c’è slancio che non siano distruttivi, per lo meno nei loro momenti più intensi». (Sillogismi dell’amarezza [1952], tr. it., Milano 1993, p. 56).

«La giustificazione della norma – continua Ferri –, d’altra parte, non comporta che la norma diventi obbligante in senso deterministico, poiché la condotta doverosa in senso giuridico è pur sempre una delle possibilità praticabili, quindi praticamente trasgredibile: essa è doverosa solo e fino a quando si può trasgredire.

«Il concetto giuridico di doverosità dell’agire è legato a quello di possibilità e quindi di scelta e, d’altra parte, solo in presenza del libero esercizio del giudizio e della scelta si può parlare di responsabilità. La responsabilità è tale solo dove si esercita la libertà, cioè solo in un contesto umano». (L’antigiuridismo di Max Stirner, op. cit., p. 82). Qui Ferri ragiona da giurista o, se si preferisce, da uomo della strada. L’obbligo della norma è deterministico, in caso contrario non si contravviene alla norma ma la si azzera. Che questa norma possa servire da punto di riferimento per la trasgressione è una concezione tipicamente giuridica, collegata con il concetto di possibile scelta e con quello susseguente di responsabilità. Ma l’agire libero non tiene conto della norma, in caso contrario sarebbe un agire in negativo e non avrebbe nulla di trasformativo. La forza, ed è questo il vero discorso di Stirner, è elemento primario, e l’azione che essa esprime, non ha nulla a che fare con quello che avviene nell’àmbito della quotidianità produttiva.

Continua Ferri: «Da quanto sinora detto emergono alcuni requisiti essenziali della giustificazione: essa non riguarda comportamenti deterministicamente determinati, nel senso che non può render doverosi comportamenti praticamente impossibili come non può regolare comportamenti necessitati, che non potrebbero essere altrimenti esercitati. Questi sono requisiti logico-materiali della giustificazione. Ma ne esistono altri logico-assiologici che sono ancor più importanti perché interessano l’agire più propriamente umano, libero e responsabile.

«Nel suo agire l’uomo si pone in un mondo di relazioni nel quale è presente con il proprio progetto di vita e si incontra con l’altro, con gli altri uomini e gli altri progetti di vita, con l’infinito intrecciarsi delle relazioni nel quale la sua esistenza trae alimento e sviluppo. Lo scenario materiale dove si svolge tale esistenza, il mondo, è a sua volta umanizzato, in buona parte reso funzionale ai bisogni ed ai progetti umani. L’esserci dell’uomo nel mondo si mostra sempre come un essere con e insieme all’altro: la caratterizzazione di questo esserci è sempre il risultato delle varie relazioni vissute.

«Poiché la realtà dell’io è interna al sistema delle relazioni in cui si pone il suo stesso sviluppo, tale realtà è direttamente influenzata e condizionata dall’ordine delle relazioni in cui vive e, a sua volta, la influenza come parte rispetto a un tutto. Poiché tra la realtà dell’io e quella delle altre esistenze umane si pone un rapporto di interdipendenza, tanto le leggi che regolano l’ordine delle relazioni che quelle che regolano la condotta del singolo io o di un gruppo umano particolare, devono essere giustificate in modo oggettivo, devono valere per tutti i componenti il medesimo universo di discorso.

«Il dover-essere, in quanto doverosità giustificabile secondo un criterio universale, quindi da tutti comprensibile e approvabile, è la condizione che permette di pensare e di attuare il comportamento trasgressivo.

«Il dover-essere è la condizione necessaria dell’illecito: se ci fosse solo il libero gioco delle possibilità non avrebbe senso parlare di dover-essere, né di trasgressione ed illecito. Il dover-essere, infatti, implica una giustificazione che prescinde dal piano della mera possibilità, poiché è il risultato di un giudizio che, come tale, discrimina e sceglie per porsi su quello del valore. Per questo il giudizio di doverosità precede i fatti possibili e li discrimina, dando loro un senso li sanziona, li qualifica “in un mondo che ha senso solo all’interno dell’esperienza umana”; e si pone come un prius assiologico e un ante factum logico». (Ib., pp. 82-83). Non è un caso che Stirner non ponga in questo modo il problema. Non esiste infatti nel ragionamento di questo pensatore una distinzione tra legge e diritto. La legge è il sacro, non soltanto una norma giuridica fissata letteralmente in un codice quale esso sia. Il sacro della norma è il legame che impedisce il decadimento della struttura di potere e quindi il caos che ne conseguirebbe, in altre parole quella condizione di anomia che prelude agli accadimenti rivoluzionari. La concezione di Stirner è quella imperativistica, per lui “sotto la religione e la politica l’uomo si trova a guardare tutto dal punto di vista del dovere”. Così aveva affermato Immanuel Kant: «La dignità del dovere non ha che fare col godimento della vita; il dovere ha la sua legge speciale, e anche il suo speciale tribunale; e se anche si volessero confondere l’una con l’altro per porgerli mescolati come una medicina all’anima ammalata, essi tuttavia si separerebbero subito da sé; e se non facessero ciò, la prima non agirebbe punto, ma, se anche la vita fisica ne guadagnasse qualche forza, la vita morale scomparirebbe senza rimedio». (Critica della ragion pratica [1788], tr. it., Roma-Bari 1979, p. 106). Se Dio regola la vita religiosa, l’uomo sociale regola la vita politica, e l’uomo razionale regola quella morale. Ma il fondamento della condotta e la giustificazione della obbligatorietà della norma, sono da Stirner rifiutati. Il dover-essere è per lui semplicemente la dimensione della religiosità, di una esistenza in preda all’alienazione.

Ferri si chiede: «Come spiegare, allora, le molte norme di condotta morale, giuridica, religiosa, ecc., ritenute obbliganti e quindi quotidianamente rispettate ed attuate da gran parte dei consociati a cui si rivolgono? La risposta di Stirner è netta quanto semplicistica: ogni norma che pretende regolare la condotta umana sulla base di un principio diverso dell’egoismo, pertanto “estraneo”, ha trovato sinora pratica vigenza solo perché ritenuta proveniente da una fonte legittima, da un’autorità legittima alla quale prestare obbedienza». (L’antigiuridismo di Max Stirner, op. cit., p. 84). Ma non si tratta di considerazione da trascurare. In fondo è questa la sola risposta possibile. La maggior parte della gente ha bisogno di regole di condotta, e lo stesso Stirner ne fornisce una, solo che l’individuo come punto di partenza e l’azzeramento della causa sacra sono due elementi che garantiscono un capovolgimento radicale della sacralità del dominio. Tale procedimento è la prima parte del discorso di Stirner, la parte che si può definire distruttiva, quella costruttiva invece insiste sull’eliminazione del riferimento alla norma sacra. La forza dell’unico non avendo causa se non in se stessa, non ha bisogno di riferimenti giustificativi. Questo è un discorso difficile per un giurista, ed è anche il motivo per cui il mondo segue, quasi del tutto, le regole del diritto. Scrive Cioran: «Il pubblico si getta sui cosiddetti autori “umani”: sa che da loro non ha nulla da temere». (Sillogismi dell’amarezza, op. cit., p. 18).

La cosa si chiarisce meglio nel problema centrale della “unione degli egoisti”.

Afferma Ferri: «È stato giustamente osservato che l’unione stirneriana appartiene all’ordine dei mezzi e non dei fini, ma non si deve pensare che l’unione non rappresenti, per Stirner, anche una nuova forma di relazionalità, essa infatti è definita pure come “il rapporto” (“der Verkehr oder Verein”). La tesi su ricordata è condivisibile nel momento in cui mette in rilievo che il carattere strumentale dell’unione è quello essenziale e che solo in via subordinata l’unione rientra nell’ordine dei fini.

«Le associazioni umane del mondo moderno, la società statale e civile, la comunità nazionale e religiosa, si pongono rispetto al singolo come il fine a cui quest’ultimo deve subordinare la sua vita, per sacrificarla ad un interesse sociale che gli è estraneo. Nell’ “unione degli egoisti” stirneriana tale relazione è capovolta: “l’unione” è il mezzo, lo strumento dell’espansione dell’ego e tende a soddisfare solo “l’interesse personale” del singolo.

«L’unione è “la spada” (das Schwert) con la quale il singolo acquista dimensione concreta come “proprietario”, come colui che domina e, pertanto, regola in sua funzione la rete di rapporti e relazioni con le “cose” che incontra nel suo orizzonte vitale. In tal modo ne fa sue proprietà e la condizione stessa dell’unicità è la proprietà». (L’antigiuridismo di Max Stirner, op. cit., p. 158). L’assenza del fine non riduce tutto alla strumentalità. La forza del singolo è completa, non abbisogna dell’unione per esistere, essa si dissocia dal torpore universale che sonnecchia sotto il dominio del sacro. Ma la stessa forza tende a crescere, ha come modo di esistere non come scopo il potenziamento di se stessa, quindi l’ “unione” interviene a realizzare questa sollecitazione interna. Per capire questa differenza bisogna uscire fuori dallo schematismo giuridico. Non c’è uno scopo della forza del singolo. Quest’ultimo non vede nell’ “unione” un modello ideale di società, una qualsiasi Icaria da perseguire. Se si osservano gli esempi delle utopie dettagliate, da Charles Fourier in poi, c’è in esse uno spreco di cattivo gusto e di stupidaggine. Spesso esse sono di sgradevole lettura, con qualche rara eccezione, ma si tratta quasi sempre di “letture” edificanti, per dare forza alla debolezza dei militanti rivoluzionari che, impegnati nel concreto, con le mani nella melma, hanno pure bisogno di vedere un futuro radioso più o meno lontano. Non è questo il caso di Stirner, ed è anche la spiegazione del perché la lettura di Stirner è inesauribile, intendendo per lettura anche la straordinaria storia della sua “fortuna”. Scrive Cioran: «Via via che liquidiamo le nostre ignominie gettiamo anche le nostre maschere. Viene il giorno in cui il gioco finisce: niente più ignominie, niente più maschere. E niente più pubblico. – Abbiamo presunto troppo dei nostri segreti, della vitalità delle nostre miserie». (Sillogismi dell’amarezza, op. cit., p. 49).

In questo senso non ha ragione Ferri quando dice: «È grazie al criterio di funzionalità che possiamo distinguere “l’unione degli egoisti” da tutte le altre forme associative. Nella relazionalità egoistica l’unione è funzione del singolo, il “noi” dell’ “io”; in quanto funzione e strumento dell’io, suo “oggetto” esclusivo, cioè sua “proprietà” e “creatura”. Nella socialità statale, invece, è l’ “io” funzione del “noi”, il singolo dello Stato. L’unione è costruita, per così dire, sull’io, è un veicolo delle sue esigenze di affermazione; lo Stato, al contrario, umilia l’individualità cercando di ridurre l’uomo a suo “membro”, al “buon cittadino” che Stirner sprezzantemente definisce “uomo artificiale” (gemachter Mensch), a una sorta di prodotto dell’opera dello Stato». (L’antigiuridismo di Max Stirner, op. cit., p. 159). Ogni costruzione segue delle regole, l’unione stirneriana non ha regole se non che ogni singolo resta tale e non può essere raccorciato nella propria forza, cioè non può accettare il male minore per un supplemento di bene. In fondo è questa la regola dello Stato, ben descritta da Thomas Hobbes: per evitare i lupi farsi lupi, per non piombare nel caos costruire uno Stato potente che tutti ci obbliga a rispettare le regole imposte. Dice Cioran: «La libertà è il bene supremo solo per quelli che sono animati dalla volontà di essere eretici». (Sillogismi dell’amarezza, op. cit., p. 104). La vita non c’è dove ci sono le regole, e siccome il singolo è la vita, primordiale espressione prospera della forza, l’unione dovrebbe uccidere il singolo. In questo caso sarebbe una forma di associazione parastatale.

Ancora Ferri: «Abbiamo, pertanto, appena definito due importanti caratteri dell’ “unione degli egoisti”: essa è uno strumento dell’io ed in quanto tale è un moltiplicatore della forza del singolo. Poiché Stirner considera assimilabili individualità e potenza – “La potenza – sono io stesso” –, stabilisce una interdipendenza fra grado della potenza e individualità: accrescendo la potenza dell’io si accresce anche la sua individualità mentre, di converso, ad una limitazione della potenza dell’io corrisponde un ridimensionamento dell’io stesso. “L’unione degli egoisti”, allora, poiché favorisce la moltiplicazione della forza dell’io, determina conseguentemente un accrescimento dell’io stesso». (L’antigiuridismo di Max Stirner, op. cit., p. 161). Giusto, solo che bisogna intendersi riguardo il concetto di accrescimento che ci coglie tutti di sorpresa in quanto siamo abituati a usarlo in maniera quantitativa. In Stirner non c’è traccia di dualismo. L’ “unico” non si contrappone a qualcosa, esiste e basta. Non è perché la sua forza lo fa esistere, e nemmeno perché questa forza gli consente di distinguersi dalla morte che lo Stato spaccia per vita. L’ “unico” è. Questa affermazione è tutta in se stessa, racchiusa come una monade, non si tratta di uno scontro tra le tenebre e la luce. Difatti, non potendo capire questa “unicità” dell’ “unico”, molti sono andati in cerca del luogo dove le tenebre finalmente potevano diradarsi, ma non l’hanno trovato. Le tenebre sono il regno della debolezza, la forza sta altrove e delle tenebre non si cura. Ora, non curandosene non vi si contrappone. L’individuo, per come lo intende Stirner, non è nemico dello Stato (per fare un esempio dualistico classico), ma è “altro”, non se ne cura. Ecco perché la sua rivoluzione è radicalmente di un “valore” diverso, essa è pienamente la rivoluzione della diversità.

Ancora più interessante, se possibile, si fa il discorso di Stirner riguardo la limitazione temporale dell’ “unione”.

Annota Ferri: «L’unione non è una struttura che il singolo trova precostituita e a cui aderisce come ad un partito, o che persiste senza la sua partecipazione, in quanto dotata di un’autonoma sussistenza. L’unione dura se e fino a quando dura l’uso che il singolo fa di questo suo prodotto e strumento.

«Vediamo ora come si sviluppa questa sincronicità fra l’io e l’unione, cioè, per un altro verso, quando si forma e finché dura l’unione stessa. In seguito cercherò di descrivere la nuova relazionalità che in essa si crea.

«L’unione è un “riunirsi incessante”, mai definitivo poiché, già lo sappiamo, non si può mai avere tra singoli una immutabile concordanza di “volontà” e “interessi”. Quando ciò avviene ci poniamo su un altro piano di durata, cioè di temporalità, quello delle società tradizionali. In queste ultime, infatti, l’associazione fra i singoli è considerata indissolubile, data una volta per sempre ed obbligatoria per tutti gli associati. Quando l’unione si “stabilizza”, cioè cristallizza un momento del suo processo di “incessante” riunirsi, trasformandosi in una “società già pronta”, non è più e non può più definirsi “unione”». (Ib., p. 162). È qui il centro della innovazione associativa di Stirner. La limitazione nel tempo. Fin quando durano i motivi che hanno visto nascere l’ “unione” questa ha ragione di esistere, dopo, se dovesse continuare, sarebbero motivi “esterni” a giustificarla, quindi motivi “sacri”. Questo il ragionamento lineare. Nella pratica di lotta questo ragionamento è quanto mai attuale. Il gruppo di affinità, che lo scrivente ha tante volte delineato nelle sue caratteristiche essenziali, in fondo può ricollegarsi con queste intuizioni di Stirner. Nasce fra individui che singolarmente si conoscono (Stirner parlerà infatti anche di “amicizia”), si sviluppa in vista di accrescere la potenza dei singoli, si dissolve quando lo scopo che si prefissava è raggiunto, oppure non ha più ragione di esistere. Se dovesse continuare si trasformerebbe in qualcosa di corporativo, uno strumento di difesa in vista di un futuro migliore, oppure un partito che cerca di sintetizzare nella propria organizzazione tutti gli aspetti della società in vista di formarli nella propria prospettiva futura, cioè di costruire il mondo a venire a propria immagine e somiglianza. Per cui Ferri può concludere, ripercorrendo il pensiero di Stirner: «Il rapporto del singolo con altri singoli, nell’unione, è definibile, in ultima istanza, come rapporto d’uso reciproco per soddisfare un interesse personale e comune. Quando tale interesse viene meno, secondo l’insindacabile giudizio del singolo, viene meno anche la sua associazione “egoistica” con gli altri, per il semplice motivo che egoismo ed interesse personale sono, per Stirner, la stessa cosa: se manca l’uno pure l’altro scompare.

«L’unione non sussiste a prescindere dai singoli che la compongono, di essa si può parlare ma non è una parola, un pensiero o una sintesi concettuale, essa sta piuttosto ad indicare una sommatoria, un insieme fondato sull’uso reciproco.

«Le società tradizionali, associazioni di tipo naturale come la famiglia, o di tipo spirituale come il partito, hanno modalità di formazione, di sviluppo e durata loro proprie, cioè hanno un tempo di vita che prescinde del tutto dal singolo, hanno – si potrebbe dire – una temporalità autonoma». (Ib., p. 164). Ma, pur descrivendo bene, Ferri non coglie il senso profondo del pensiero di Stirner. Se l’ “unione” non sussiste a prescindere dai singoli che la compongono è che essa esiste di già nel singolo individuo che poi la realizza per l’aspetto operativo. In altri termini, un solo individuo è di già un’organizzazione. Quest’ultima tesi, che ho tante volte sviluppato nei miei scritti, è il messaggio di Stirner che si riconferma in tutta la sua analisi relativa all’ “unione degli egoisti”.

Fa notare ancora Ferri: «Alcuni interpreti di Stirner hanno visto nelle modalità di esistenza del gioco le stesse dell’unione. In effetti, già nell’Unico, i bambini che giocano fra di loro sono presentati come un esempio di società egoistica, anche se del gioco non ne è messo in risalto il pur essenziale carattere competitivo, né il fatto che, come è stato rilevato dal Bobbio, ogni gioco tende a stabilire una gerarchia delle abilità, un vincitore e un vinto. Stirner, piuttosto, presenta i bambini che giocano fra di loro come un esempio di relazione alternativa a quella “naturale” della famiglia, in cui il bambino “è nato soltanto”, come un rapporto liberamente scelto e non subito. Con i compagni di gioco (Spielgenossen) si intrattiene un rapporto non gerarchico, il gioco è per il bambino “il rapporto che contrae con i suoi pari”». (Ib., p. 172).

Qui il discorso può essere riportato al rapporto tra amici, ma ha una sua caratteristica. L’elemento essenziale del ragionamento di Stirner è l’assenza assoluta di sacralità nel bambino. A questo riguardo c’è un interessante passo di Cioran: «La cosa che colpisce di più nei racconti utopistici è la mancanza di fiuto, d’istinto psicologico. I loro personaggi sono automi, finzioni o simboli: nessuno è vero, nessuno supera la condizione di fantoccio, di idea smarrita in mezzo a un universo senza punti di riferimento. I bambini stessi vi diventano irriconoscibili. Nello “stato societario” di Fourier essi sono talmente puri che ignorano perfino la tentazione di rubare, di “prendere una mela dall’albero”. Ma un bambino che non ruba non è un bambino. A che pro creare una società di marionette?». (Storia e utopia [1960], tr. it., Milano 1982, pp. 106-107). Il bambino è profondamente diverso da qualsiasi sacralità. Non è in grado di rifiutarla, la ignora semplicemente. Il bene non è esterno a lui, gli sta dentro, necessariamente, come la forza abita l’ “unico”. Le sue imprese non sono destinate al successo, abortiscono sistematicamente, ma è in questo la loro verità, sono tutte rischiarate dall’estraneità all’accumulo. Un bambino può ripetere tante volte il medesimo gesto, fallendo (apparentemente) l’obiettivo, e poi stancarsi senza un motivo alcuno. La pienezza del significato non sta nella somma dei fatti che il bambino realizza, ma nel suo essere totalmente in ogni singolo gesto, nell’immedesimarsi in quello che il momento, istantaneamente, gli propone. Il suo inabissarsi nella vita non ha gioia, ma non ha nemmeno disillusione e rammarico, non ammette traduzioni o spiegazioni – ogni tentativo di questo genere è sempre estraneo e violento – ma si limita a essere.

Riguardo il problema centrale della proprietà Ferri dice: «Vista da una prospettiva egoistica la questione della proprietà non può avere esito diverso dalla conflittualità permanente, lo stesso Stirner lo riconosce senza remore ed infingimenti. Ciò che invece meraviglia è la diffusa tendenza, fra gli interpreti contemporanei di Stirner, a considerare il carattere eversivo dell’Unico come un eccesso puramente verbale, un estremismo linguistico da non confondere con una posizione politica di tipo rivoluzionario. Questi autori sono in genere gli stessi che danno una lettura esistenziale della rivolta stirneriana: essi considerano l’invito di Stirner a divenire egoisti come l’esito ultimo della rivolta e non come la condizione necessaria della stessa. Questi autori trascurano il nesso che lo stesso Stirner stabilisce, a più riprese, tra rivolta, violenza e trasformazione degli assetti sociali, come accade, ad esempio, quando, a proposito della questione sociale della proprietà, Stirner lancia un esplicito appello ad unirsi per sovvertire violentemente l’assetto economico e sociale della proprietà borghese.

«Viste le premesse da cui Stirner muove, non può giungere ad altro che a porre sul piano del confronto-scontro di interessi ed utilità la questione della proprietà. Anche se Stirner non avesse chiarito la sua posizione sull’uso della violenza in materia di proprietà, la liceità del ricorso alla violenza come arbitro ultimo in materia di proprietà, questa prospettiva emergerebbe chiaramente dagli stessi presupposti della sua filosofia. La congiunzione, l’und che lega l’unico alla “sua proprietà”, per un verso qualifica l’unico come proprietario e per un altro definisce come proprietà solo la proprietà egoistica, dell’unico. Non si ha l’unico senza proprietà, così come non si ha proprietà reale se non nell’uso egoistico, cioè incondizionato, dell’oggetto. D’altra parte, il soggetto alienato, il borghese, non ha proprietà reale poiché la proprietà legale è solo una “autorizzazione” al limitato godimento di un bene, ad un uso che non essendo autogarantito, illimitato e incondizionato, non ha nessun carattere che contraddistingue la proprietà egoistica». (L’antigiuridismo di Max Stirner, op. cit., pp. 212-213). Grosso modo questa analisi è condivisibile, anche perché riprende quasi alla lettera il testo principale di Stirner. Niente può venire dal di fuori all’ “unico”, ogni acquisizione è di già dentro di lui, l’ “und” di cui parla Ferri non è un trattino di unione ma è una semplice riconferma. Non c’è “unico” senza “proprietà” e non c’è nemmeno l’inverso. Questa realtà non è un connubio accidentale, non è un rapporto che si può formare e poi, accidentalmente, anche sciogliere, è una unità indissolubile: o esiste nella sua completezza o non esiste. La potenza, si potrebbe dire parafrasando la famosa affermazione di Manzoni riguardo il coraggio, se uno non l’ha nessuno gliela può dare.

Vista dall’esterno, comunque, la proprietà è qualcosa che si aggiunge all’individuo. C’è chi è proprietario e chi non lo è, ma la differenza è solo apparente. Qui Ferri coglie una distinzione che se è in Stirner – come è facilmente verificabile – non appartiene al nocciolo essenziale del rapporto tra “unico” e “la sua proprietà”. Egli scrive: «Per Stirner esistono due essenziali modalità di appropriazione: una prima attraverso l’accordo dato esclusivamente dalla coincidenza di due o più interessi personali, dal costituirsi di un interesse comune, se e fino a quando esso sussiste; una seconda, alternativa modalità di appropriazione attraverso la potenza del singolo, o del singolo che si unisce ad altri per accrescere le sue stesse capacità.

«Stirner considera l’accordo tra due o più interessi personali, e quindi il formarsi di un interesse comune capace di garantire la proprietà, sempre provvisorio perché risultato del coincidere di volontà personali che sono sempre in trasformazione. Data la mutabilità degli interessi personali e la conseguente necessità di ridefinire volta per volta l’interesse comune, non è possibile costituire su queste basi un accordo permanente sulla partizione della proprietà. La seconda modalità di appropriazione, invece, è quella che si esercita attraverso la potenza: “veramente mia è solo la mia forza”, dice Stirner, poiché mentre ogni altra proprietà rinvia ad un ente che la legittimi, la forza non rinvia ad altro da sé, si autolegittima. Queste due possibilità, garantirsi la proprietà attraverso l’accordo fondato sull’utile reciproco o attraverso la potenza, non lasciano spazio ad alternative. Nel caso di conflitto di interessi, infatti, viene esclusa ogni mediazione di un terzo come il diritto o la società». (Ib., p. 213). Qui la distinzione è puramente formale. Se l’ “unione degli egoisti” è ammissibile solo in funzione di un aumento di potenza, è quest’ultima la chiave di volta della proprietà, anche quando da solo il singolo non è in grado di realizzare questo indispensabile possesso. Ogni altra forma di conferimento, ogni altro titolo di natura giuridica, è una sacralizzazione, quindi un fantasma.

«L’antigiuridismo di Stirner – afferma Ferri – appare come un necessario risultato della nuova concezione del soggetto in quanto unico e continuamente ci riporta ad essa.

«Nelle due forme relazionali che Stirner presenta come alternative ai tradizionali rapporti giuridici, cioè nella proprietà egoistica e nell’unione, non esiste il diritto, non c’è un terzo che funge da medio tra i soggetti, il rapporto con l’altro da sé è immediato e diretto.

«L’unico non ha una proprietà perché il diritto, un “terzo”, gliela riconosce ed assicura in quanto “legale”, cioè conforme alla legge. Il medio tra l’io e la sua proprietà è l’io stesso che in quanto potente è “il proprietario”. La potenza non è una facoltà concessa dall’esterno ma la capacità che il soggetto ha di imporsi, di “farsi valere” attraverso l’insieme di ciò che costituisce la sua unicità, per mezzo dell’intera persona.

«Anche nell’unione degli egoisti non esiste un diritto: gli unici non si associano in funzione di un fine generale, come ad esempio la convivenza pacifica, ma per favorire, soddisfare, promuovere, difendere un interesse comune. Tale interesse, però, non è mai “assolutamente interessante”, cioè un interesse “sacro”, ma è sempre particolare, personale, si può abbandonare, sostituire, rinnegare, non fonda nessun tipo di doverosità». (Ib., p. 220). La sottomissione alla legge, indispensabile quando la potenza fa difetto e il suo incremento fallisce attraverso l’espediente provvisorio dell’ “unione degli egoisti”, è un’uguaglianza da caserma, un’uguaglianza fondata sulla servitù. Gli uomini scelgono questa sottomissione per paura e perché si fanno allettare dalla promessa che in contraccambio la legge può garantire loro, senza limiti di tempo, quello che essi da soli, come singoli, non sono in grado di afferrare, di possedere, di avere in proprietà. Non siamo davanti a una prospettiva utopica per abulici in vena di protesi, ma davanti a qualcosa di completamente diverso di cui ancora non si comprendono le conseguenze se non in piccola parte. «Più frequentiamo gli uomini – scrive Cioran – più i nostri pensieri si intorbidano e quando, per rischiararli, torniamo alla nostra solitudine, vi ritroviamo l’ombra che quei pensieri hanno diffuso». (Sillogismi dell’amarezza, op. cit., p. 124).

In fondo l’uomo si sottomette perché ha paura di morire, si illude che concedendosi al sacro senza mezzi termini possa sconfiggere questa paura. Ernst Jünger ha scritto: «In ogni tempo, in ogni luogo, in ogni cuore, la paura dell’uomo è sempre la stessa: paura dell’annientamento, paura della morte. Vincere la paura della morte equivale dunque a vincere ogni altro terrore: tutti i terrori hanno significato solo in rapporto a questo problema primario. Passare al bosco [ribellarsi], quindi, vuol dire innanzi tutto andare verso la morte. Questa strada arriva molto vicino alla morte – anzi, se è necessario, l’attraversa perfino. Il bosco, come rifugio della vita, dischiude i suoi tesori surreali quando l’uomo è riuscito a oltrepassare la linea. Qui si posa la eccedenza del mondo». (Trattato del ribelle [1980], tr. it., Milano 1990, p. 76). Nel linguaggio di Jünger l’eccedenza è questa solitudine dell’ “unico”, la sua assoluta certezza che la vita prima di ogni altra cosa è un non concedersi alla regola sacralizzata del consenso.

Le parole conclusive di Ferri riconfermano questo discorso essenziale per comprendere il pensiero stirneriano: non arrivare oltre, nel pieno vigore del suicidio, ma mantenersi in bilico. Forse è per questo motivo che non pochi hanno cercato un rapporto tra Stirner e Søren Kierkegaard. Ecco ancora Ferri: «In alternativa alle comunità “naturali” e a quelle “spirituali”, cioè alle forme di associazionismo della “storia cristiana”, Stirner annuncia nuove forme di coesistenza. Certo, il nuovo mondo dell’egoismo non è un paradiso, ma una realtà conflittuale in continua trasformazione, dove gli equilibri continuamente si modificano; “l’unico” non è un principe azzurro ma un soggetto che non conosce solidarietà gratuita e neanche la richiede, è abbandonato all’imprevisto, al mutevole; la proprietà egoistica non è rifugio saldo e sicuro ma, piuttosto, conquista quotidiana che deve essere continuamente ribadita; l’altro non è né un compagno di strada né immagine di un Dio lontano: ogni altro è una “cosa” e per ogni altro noi siamo cose, perché nessuno si riconosce nell’altro, non lo incontra mai veramente, lo usa soltanto.

«Questo quadro dell’esistenza egoistica, che a prima vista appare drammatico, è per Stirner il migliore dei mondi possibili. In esso ognuno porta interamente su di sé il peso della propria esistenza, l’intero destino della sua vita, per giunta in un contesto eminentemente conflittuale, ma Stirner ha, nello stesso tempo, una certezza fideistica nelle possibilità e nelle capacità di ognuno, la fede che “ognuno ha mezzi in abbondanza” per “farsi valere”.

«Questa certezza muove tutta la filosofia di Stirner: L’unico e la sua proprietà è la descrizione di una fenomenologia del soggetto che, attraverso la dialettica negativa della storia, nega e fa suo tutto ciò che ostacola la sua assolutezza e, in questo processo, acquista consapevolezza di sé come unico e trasforma il mondo in cui vive secondo questa nuova coscienza». (L’antigiuridismo di Max Stirner, op. cit., pp. 240-241).

E anche queste considerazioni sono accettabili come riflessione sul pensiero di Stirner. Ferri, pur potendosi scandalizzare, sia per i suoi trascorsi di militante anarchico, sia per motivi che non conosciamo, non lo fa, e questo torna a suo decoro.

[1995]

XII. Un refrattario

La pubblicazione di un piccolo opuscolo di propaganda su Stirner va sempre salutata come ottima iniziativa: cambiano i tempi ma non accenna a inclinarsi il successo di lettura ed editoriale de L’unico. Di già questo stesso fenomeno, unico nel suo genere, meriterebbe uno studio e più di una riflessione. Cambiano i tempi, anche catastroficamente e in modo impensabile, e grandi opere sono consegnate all’oblio degli archivi. Chi poteva immaginare, appena pochi anni fa, il tracollo di lettura ed editoriale delle opere di Marx, eppure è quanto vediamo accadere sotto i nostri occhi. Oggi, si può dire che faccia discredito prendere fra le mani un libro di Marx, per non parlare di un libro di Lenin. In URSS hanno spedito al macero non so quanti milioni di copie delle Opere complete dei padri della chiesa marxista, L’unico invece continua ad attirare lettori, spesso sprovveduti, questo è vero, ed essendo libro di non facile interpretazione, l’avvento di un ulteriore opuscolo di propaganda è cosa lodevole.

Nuovo non è questo lavoro di Victor Rudin, vecchio ormai di quasi cento anni, tradotto in italiano da Luigi Galleani, sotto lo pseudonimo di Mentana, ma pienamente valido come metodo di lettura, come guida a un avvicinamento possibile al testo di Stirner, e anche, perché no, come guida a possibili errori da evitare.

Su questo punto occorre dire qualcosa, e penso che possa bastare per il compito introduttivo, essendo argomento di fondamentale importanza. Stirner, come per altri aspetti Friedrich Nietzsche, costituisce una sorta di coperta che tutti tirano ognuno dal proprio lato, senza riuscire a utilizzarla bene in nessun caso. Il motivo è presto detto: si tratta di pensatori estremamente complessi, in cui ogni singolo riferimento s’innesta nel tessuto filosofico di rimandi e frequentazioni non sempre accessibili a una lettura immediata, qualche volta fuorvianti e, infine, non utilizzabili in modo diretto per sostenere una tesi, diciamo così, politica, se non attraverso piccole o grosse forzature.

Per restare nell’àmbito del problema stirneriano il lavoro di Rudin, sindacalista rivoluzionario, risente delle scelte politiche del suo autore, il quale tira appunto la coperta dalla sua parte, e insiste sulle “preconizzazioni” di Stirner concernenti la rivoluzione proletaria e lo sciopero generale. Qualche volta lo strattone è troppo violento costringendo lo stesso Galleani a intervenire con una nota. Altri, ai suoi tempi, utilizzavano Stirner strattonandolo dal loro lato, ed erano i gruppi individualisti, fiorenti specialmente in Francia agli inizi del secolo, ma per altro anche negli USA ai tempi della pubblicazione della “Cronaca sovversiva”, prima editrice della traduzione di questo opuscolo.

Anche da noi, almeno negli ultimi vent’anni, le letture di Stirner sono state molteplici e tutte interessate a dimostrare qualcosa. Anche le codificazioni universitarie, per altro diverse, non facevano eccezione (e perché avrebbero dovuto?), basta pensare al lavoro proditoriamente di parte realizzato da Gian Mario Bravo nell’edizione UTET de L’unico, dove l’opera di Stirner è inserita accanto ai testi di Wilhelm Marr, che poi concluse i suoi giorni come razzista. Il progetto di Bravo era quello di continuare l’inserimento di Stirner nel filone “piccolo borghese” del pensiero reazionario che si camuffa giocando a rimpiattino con la rivoluzione, tentativo di cui i capi in testa sono Marx e Engels. Non occorre dire che questi procedimenti da corridoio di polizia non intaccano il lavoro di Stirner, ben al di là di contingenze di partito, di accidenti di lettura e di bisogni agiografici, spesso fuori posto.

Non mi sembra fuor di luogo dire che oggi, più che mai, una lettura spassionata, nei limiti in cui una lettura può esserlo, del libro fondamentale di Stirner, ma anche degli Scritti minori, possa essere di grande importanza, proprio oggi che assistiamo al velocissimo tramonto dei grandi valori cristallizzatisi nel secolo che sta per concludersi, in primo luogo il valore della “classe operaia” come realizzatrice della rivoluzione.

Quasi vent’anni fa, quando scrissi la mia ricerca su Max Stirner [la seconda edizione si trova nella stessa collana che ospita il presente volume], era ancora al centro di tutte le attenzioni, quindi anche della mia, il problema di come l’unico si ponesse nei confronti della classe proletaria, e quindi poiché questi rapporti c’erano si andava a rintracciarli mettendoli in risalto. Oggi, una lettura del genere, seppure lontana da quella suggerita da Rudin, andrebbe lo stesso rivista. Non ribaltata, ma rivista. I tempi non sono cambiati invano.

Il lavoro di Rudin è utilissimo per alcuni aspetti che occorre sottolineare. Prima di tutto è semplice, per come può e deve esserlo un opuscolo di propaganda. Poi, in secondo luogo, è sintetico, non andando alla ricerca di completezze illusorie. Infine, discute gli elementi fondamentali delle tesi stirneriane: le contraddizioni latenti, il mai risolto problema dei suoi debiti con l’hegelismo, la critica del sacro, la critica del partito, la critica del sacrificio, l’unione degli egoisti, le basi della nuova morale al di là di quella costruita nei laboratori ideologici del potere. Rudin assolve bene, anche per il livello degli studi odierni, a questo compito, per quanto poi vada a chiudersi nel solco ristretto della valenza “proletaria” sottolineata a qualsiasi costo ne L’unico, dove, come ho già detto non che essa manchi, solo si può dire ne resta sullo sfondo, come soluzione a un problema che è visto in tutte le sue complessità proprio nell’oggi e non nella prospettiva utopicamente risolutiva.

Il profondo cambiamento operatosi oggi nella condizione proletaria, la scomparsa delle classiche ripartizioni di classe, la nascita di strati sempre più estraniati da ogni prospettiva di omogeneità e di risposta adeguata a eventuali sollecitazioni frontiste, tutto ciò riporta Stirner nel pieno dell’attualità, dalla quale per altro non era mai mancato, se dobbiamo (e perché non farlo?) basarci sugli indici d’interesse – costanti nel tempo – riguardo L’unico. Alla ribalta oggi ci sono problemi d’identità, personali, di riconoscimento del proprio ruolo, di smembramento, domande pressanti sulla vita, sul destino, sul futuro, sul ruolo della fede, del sogno, dell’utopia, dell’illusione, sul modo di catturare la qualità, la bellezza, la verità, la libertà. E ciò mentre i vecchi meccanismi consolatori e assicurativi di ieri, quelli che pretendevano garantire un passaggio indolore (o doloroso il meno possibile) alla società libera del futuro, si vanno affievolendo sullo sfondo e al loro posto avanzano minacciosi progetti planetari di controllo e di dominio anonimi e disumani, forse più disumani delle stesse peggiori dittature del passato. Oggi, che angosciati ci interroghiamo sul futuro, sulle cose da fare, sugli errori che abbiamo commesso, una guida alla lettura di Stirner può essere un grosso servizio reso a tutti coloro che non vogliono limitarsi a restare nelle incertezze del dubbio o nel vago delle chiacchiere, ma vogliono passare all’azione.

[Introduzione a V. Rudin, Max Stirner. Un refrattario, tr. it., Guasila 1991, pp. 13-15]

XIII. La prima traduzione francese

Nel dicembre del 1899, a Parigi, esce la prima traduzione de Der Einzige und sein Eingentum, l’opera principale di Max Stirner. Il traduttore Robert Reclaire redige una Introduzione che può considerarsi uno dei primi tentativi di approfondire il pensiero del filosofo tedesco.

«Stirner – scrive Reclaire – è essenzialmente anticristiano. Il suo stesso individualismo è una conseguenza di questo carattere primario. Tutto il suo libro è una critica delle basi religiose della vita umana. Spirito infinitamente più rigoroso dei suoi predecessori, la concezione in fondo molto religiosa dell’Uomo non può soddisfarlo, e la sua impietosa critica non si arresta che quando ha eretto sulle rovine del mondo religioso e “gerarchico” l’individuo autonomo, senza altra regola che il suo egoismo». (Ib., p. IX). Oggi, secondo me, non è troppo sottolineare questa componente attiva del metodo analitico impiegato da Stirner. In questo momento viviamo in una condizione di sviluppo dello strumento tecnologico da farci dimenticare, almeno in parte, il ruolo della religione nelle faccende del potere. La tecnica particolare che si indirizza verso la costruzione della società del controllo totale non è aliena dall’impiego di forme avanzate di religione, forse impoverite di contenuto intimo, ma di certo rese più efficaci a causa del loro ricchissimo vocabolario ideologico. L’antica utilizzazione corrente di parole, molto modesta, a quanto dicono gli esperti del settore, è di parecchio aumentata. Anche a non volere ascoltare gli esperti per partito preso c’è da dire che, per quel poco che posso capire, anche a me sembra in corso un’offensiva diretta a impoverire il destinatario del messaggio religioso, annegandolo nella routine delle critiche e ad arricchire al contrario la produzione di materiale diretto al sostegno delle nuove forme di potere. Questo sta accadendo con tutte le possibilità del linguaggio umano in generale, proprio perché si stanno irrigidendo le strutture di comunicazione, per cui queste devono essere rappresentate in aspetti molto schematici e proprio perché, in fondo, il razionalismo tecnologico di oggi non ha più bisogno, come quello di una volta, di tante chiacchiere per accampare la propria giustificazione al dominio.

In nota, Reclaire scrive: «Notiamo di passata che Stirner, che non conosce, se non superficialmente, i primi lavori di Proudhon, risponde in anticipo al pensiero fondamentale della sua De la Justice dans la Révolution et dans l’Eglise [1858], respingendo ogni opposizione tra la Giustizia puramente umana della Rivoluzione e la radicale incapacità di Giustizia della Chiesa. La dignità umana, fonte di giustizia per [Pierre-Joseph] Proudhon, vale la dignità, fonte di morale per [James] Mill. Ma, salvo che non ci si appoggi sulla rivoluzione, esse sono l’una e l’altra ugualmente incapaci di giustificare sia l’idea di sanzione che quella di obbligo. La giustizia dell’una, come la morale dell’altra, sono religiose quindi non sono né morale né giustizia». (Ib., p. XI). Nota importante per sottolineare il fondamento religioso anche della rivoluzione, se quest’ultima non tiene conto delle necessità dell’ “unico”, inteso come punto di riferimento per dare un senso (e quindi una dignità) alla stessa rivoluzione. Ed è proprio in questo modo che dovremmo sviluppare l’interazione tra modo di esprimere una tesi e la realizzazione di un progetto, se non vogliamo che ci venga sottratto l’elemento etico. È superfluo ripetere qui la polemica che ho condotto molti anni fa contro ogni pretesa di raggiungere una distaccata oggettivazione nelle scelte. L’esistenza ha una dimensione sociale che non è separabile dai contenuti dei progetti che ognuno di noi cerca di portare a completamento. È l’insieme di questi contenuti che può risolvere, o meno, il problema di fornire assieme a quel minimo di contenuto indispensabile la base etica che lo rende accettabile dal punto di vista rivoluzionario. Anche il progetto più adeguato, se questa prospettiva lo tradisce, rischia di perdersi in una fantomatica foresta d’imprecisata ferocia.

Continua Reclaire: «Dopo Feuerbach, gli attributi dell’uomo giudicati a torto o a ragione i più alti gli sono stati portati via per essere consegnati nelle mani di un essere immaginato “superiore” o “supremo”, un essere chiamato Dio. Ma che cos’è l’Uomo di Feuerbach, sottolinea Stirner, se non un nuovo essere immaginario formato separando dall’individuo certi suoi attributi, che cos’è l’Uomo, se non un nuovo essere supremo? L’Uomo non ha alcuna realtà, tutto quello che gli si attribuisce è un furto fatto a nome dell’individuo. Poco importa che fondiate la mia morale o il mio diritto e che regoliate le mie relazioni con il mondo delle cose o degli uomini su una volontà divina rivelata o sull’essenza dell’uomo, sempre sarete curvi sotto il giogo straniero di una potenza superiore, umilierete la mia volontà ai piedi di una santità qualsiasi, mi proporrete come un dovere, una vocazione, un sacro ideale questo spirito, questa ragione e questa verità che non sono in realtà che miei strumenti. “L’aldilà esterno è spazzato via, ma l’aldilà interiore resta e ci chiama a nuove lotte”. La pretesa “immanenza” non è altro che una forma mascherata dell’antica “trascendenza”. Il liberalismo politico che mi sottomette allo Stato, il socialismo che mi subordina alla Società, e l’umanismo di Bruno Bauer, di [Ludwig] Feuerbach e di [Arnold] Ruge, che mi riducono a non essere altro che una parte dell’umanità non sono che le ultime incarnazioni del vecchio sentimento cristiano che sempre sottomette l’individuo alla generalizzazione astratta, essi sono le ultime forme del dominio dello spirito, della Gerarchia. “Le più recenti rivolte contro Dio non sono che insurrezioni teologiche”». (Ib., p. XII). Il linguaggio della critica, se lo vogliamo impiegare per abbattere la realtà che ci domina, deve avere forme che siano in grado di sostenere i nostri contenuti, che abbiano slancio di provocazione, che siano capaci di violare e sconvolgere i modi consueti di comunicare, senza lasciarsi avvolgere in sudari sperimentali imposti da logiche di parte. Il libro di Stirner ha da sempre avuto queste caratteristiche, ed è per questo che difficilmente potrà essere usato in funzione di recupero. Progetto e linguaggio devono incontrarsi nello stile e reciprocamente riconoscersi, ed è quello che qui accade.

Ancora Reclaire: «Dio, aveva detto Feuerbach, non è altro che l’Uomo. – Ma l’Uomo stesso, risponde Stirner, è un fantasma che ha la sua realtà soltanto in Me e attraverso di Me; l’umano non è che uno degli elementi costitutivi della mia individualità ed è il mio, allo stesso modo in cui lo Spirito è il mio spirito e che la carne è la mia carne. Io sono il centro del mondo, e il mondo (mondo delle cose, degli uomini e delle idee) non è altro che la mia proprietà, che il mio egoismo sovrano impiega secondo il suo piacere e secondo le sue forze. La mia proprietà non è altro che il mio potere, il mio diritto, non è una concessione che mi accorda un essere esterno e “superiore” a me, non ha altro limite che la mia forza e non è altro che la mia forza. Le mie relazioni con gli uomini, che nessuna potenza religiosa, cioè esterna, può regolare, sono quelle tra egoista ed egoista: io le impiego e essi mi impiegano, noi siamo l’uno e l’altro uno strumento oppure un nemico». (Ib., p. XIII). Affascinati dall’immediatezza abbiamo spento l’unico vizio che in passato ci contraddistingueva, quello del pensare per primo a irrobustire noi stessi, quindi della fede nella differenza, della speranza nella leggibilità futura della nostra forza, al di là di meccanismi di recupero o di tolleranza in grado di autorizzare accettazioni imprevedibili. Anche i parziali e risibili tentativi di aggiustare gli aspetti esteriori, il ricorso a qualche abbellimento esterno, non hanno fatto altro che sottolineare la carenza di fondo, la quale a lungo andare ha spento ogni antagonismo concreto fino all’incapacità di quest’ultimo, ridotto al lumicino, di incidere nella situazione storica e sociale. Al di qua di una certa soglia di rigidità, l’azione si atrofizza, e questa soglia non è determinabile a priori, per cui è sempre bene, e di questo me ne accorgo ora, insistere sulle condizioni propedeutiche, sulla preparazione “in vista di”, piuttosto che fermarsi nell’immobilità, confluenza di contraddizioni incapace di gestire i limiti dell’esistenza.

«Se Feuerbach – insiste Reclaire – si è avvicinato teoricamente alla “morale dell’egoismo”, si è trattato di una inavvertenza derivante dalla sua polemica religiosa, perché la sua dottrina dell’amore doveva tenerlo lontano. Stirner non cade in simili inconseguenze, egli trae con logica impietosa tutte le conclusioni racchiuse nelle basi poste dai suoi predecessori. Una volta capovolto il mondo dello spirito, del sacro e dell’amore, in una parola il mondo cristiano, l’inflessibile dirittura del suo pensiero doveva condurlo a vedere nei rapporti tra gli uomini lo scontro di individualità egoiste e la lotta di tutti contro tutti. Il suo individualismo anticristiano e anti-idealista può legittimamente tacciare di falso individualismo tutte le dottrine alle quali si attribuisce generalmente questo carattere. In effetti, se esse affrancano l’individuo dai dogmi e scuotono in apparenza ogni autorità, lo lasciano servitore dello spirito, della verità e dell’oggetto: per l’unico, lo spirito non è altro che la mia arma, la verità è una creatura, e l’oggetto non è altro che il mio oggetto. Liberali, socialisti, umanitari, tutti questi amanti della libertà, non hanno mai capito le parole “né Dio né Padrone”. “Possessori di schiavi dal sorriso sprezzante, sono essi stessi schiavi”». (Ibidem). Questa interpretazione sottolinea condizioni di fatto, obiettivamente reali, ma, nello stesso tempo, ne è anche l’elaborazione colta e, principalmente, scritta. Non siamo davanti a un processo automatico, per quanto non c’è soltanto la necessità di far fronte a obblighi ideologici di classe. Uno può anche non essere capace di un perfetto adeguamento. Ne viene fuori un prodotto indirettamente utile a fornire indicazioni a riguardo del nemico. Le indicazioni scritte possono essere le più pericolose. Il libro di Stirner è affascinante ma non deve farci chiudere gli occhi. L’assolutamente altro, la diversità raggiunta sia pure per un attimo, è altra cosa. Ancora non abbiamo imparato a diffidare fino in fondo dallo scritto, e ciò dipende dal fatto che non abbiamo imparato a usarlo. I risultati migliori sono accidentali, dovuti più che altro all’artista che non saprebbe dire neanche lui come ha fatto a venirne a capo della riduzione della realtà. Sconoscere del tutto i meccanismi di difesa di fronte a un testo che ci affascina ha avuto qualche volta conseguenze spaventose. Ha portato qualche lettore sprovveduto (ricordare tanti lettori non solo di Stirner, ma principalmente di Friedrich Nietzsche) all’interno della sacralità, lo ha proiettato in un mondo in crescita violenta, quantitativa naturalmente. Una realtà a più degna misura probabilmente dovrà ridurre di molto le tentazioni scritte, sviluppando affinità immediate, dirette, autonome degli individui, nell’àmbito del contatto fisico, della conoscenza di pelle, non per interposta lettura.

Ecco ancora Reclaire: «L’unico è per Stirner il me gedankenlos [privo di pensiero], che non offre presa al pensiero e si sviluppa al di qua o al di là del pensiero logico. È il niente logico da cui sgorgano come da una fonte feconda i miei pensieri e le mie volontà. – Traducendo, e continuando l’idea di Stirner un poco più lontano da dove lui l’ha sviluppata, aggiungeremmo: è questo me profondo e non razionale di cui un pensatore magnifico e inconsistente ha detto: “Fratello mio, dietro i tuoi sentimenti e i tuoi pensieri si nasconde un padrone potente, un saggio sconosciuto, egli si chiama te-stesso [Selbst] e abita il tuo corpo, è il tuo corpo”. Questa è la sorgente viva che Stirner ha fatto sgorgare dalla “dura roccia” dell’individualità e questo è, io penso, il fondo positivo e fecondo del suo pensiero. Ma questo fondo, il logico, antico discepolo di Hegel, non ha fatto che intravederlo, affermarlo, egli ha supposto “il significato di un grido di gioia senza pensiero, significato formidabile che non può essere riconosciuto fin quando dura la lunga notte del pensiero e della fede”, ma, questo marinaio avventuroso errante nell’oceano del pensiero, ha sentito passare la grande voce venuta dalla terra che dice che gli dèi sono morti, ha sentito le onde rompersi contro la vicina costa, ma il suo occhio non ha scorto la terra fra le brume dell’alba, un altro vi poserà il suo piede di sognatore dionisiaco, e questo sarà l’Anarchico, ad approdare a questo porto». (Ib., p. XIV). Certo, anche la distanza è un bene, e Stirner resta distante. Distende i rapporti, sacrifica, è vero, parti essenziali del concetto, quante volte mi sono rammaricato di non riuscire a fermare quell’idea che magari era venuta spontanea parlando con un imbecille, ma tiene a bada le richieste pressanti, i chiarimenti, le deleghe. Dalla distanza alla solitudine il passo è breve. Rivendico quindi questi spazi, visto che ancora ci restano fra le mani, spazi che non ci sono stati sottratti. Occasioni preziose per tornare in me stesso, per sottrarmi alle raffinate tecniche della parcellizzazione. Reclaire ha ragione, solo che – a parte l’afflato lirico – resta da provare se gli anarchici hanno veramente realizzato il progetto di Stirner. Tutto il suo lavoro è compresente e costituisce un problema di difficile soluzione per il controllo totale. Ciò che quest’ultimo restringe da un lato, controllando il singolo, può essere costretto a concederlo dall’altro. Nessun sospetto definitivo riguardo lo scritto può quindi farcelo considerare merce da tenere lontano. C’è sempre la necessità di svelare i movimenti interni al rapporto di classe. E questi non sono mai chiari in assoluto. La cultura scritta è ulteriormente falsata dalle condizioni tecnologiche moderne (molto lontane da quelle di Stirner), le quali accelerano i tempi di fruizione, alleggerendo lo sforzo interpretativo, spesso trasformando il fruitore in soggetto passivo, su cui le informazioni si accumulano nel modo meno faticoso possibile. Ciò toglie di mezzo quasi tutti i benefici culturali, se non altro in termini di utilizzabilità degli strumenti. Alla seria cultura, capace di penetrare nella realtà, pur con tutti i suoi limiti e pericoli, ma questo è un altro problema, si è andata sostituendo una vernice pronta all’uso, capace di dare l’impressione di una conoscenza che è soltanto superficiale, prodotto della pigrizia e della riduzione programmata dal capitale.

Nessuna proposta organizzativa dal punto di vista sociale, ecco la conclusione di Reclaire, che evidentemente dà meno importanza all’ “unione degli egoisti” di quanta ne diamo oggi noi. Egli scrive: «Penso che dal libro di Stirner non può uscire logicamente nessun sistema sociale (intendendo con questo “logicamente” ciò che egli avrebbe potuto trarre e non quello che noi costruiamo sul terreno da lui appianato), come Sansone, si è sotterrato egli stesso sotto le rovine del mondo religioso abbattuto. Questa società bisogna che muoia delle sue proprie menzogne di cui egli conta le pulsazioni che la stanno spegnendo, per cui bisogna ignorarla. Stirner ha potuto distruggere dei valori antichi, ma non crearne di nuovi al posto dei templi degli dèi che ha abbattuto, altri devono riconoscere i materiali sparsi di cui egli non ha colto che l’aspetto esteriore e ricostruire sulle rovine la casa degli uomini». (Ib., p. XV). In questo senso ricordo le significative parole di Max Scheler: “Diventare veri significa trovare la propria posizione”. Muovere verso il proprio mondo significa rifiutare l’impacchettamento altrui, superare il mondo immediatamente dato e progettarne uno nuovo. Stirner stesso ha gettato le basi per questo lavoro interpretativo. Ma per fare ciò, per portare ancora più oltre questo lavoro, occorre avere mantenuto la disponibilità dei mezzi, la chiusura ideologica (anche anarchica, specifica per fare un esempio di tanti individualisti a tempo pieno) corrisponde a una riduzione della forza, a una sua schematizzazione, che è una specie di razionalizzazione, uno degli aspetti più drammaticamente riduttivi. Ogni tentativo di apertura viene previsto e controllato fin nelle intenzioni. Queste vengono codificate e ricostruite in laboratorio. Quando Gaston Bachelard diceva a proposito dell’oggetto “che si tratta non di trovarlo, ma di ritrovarlo, nel senso di riconoscerlo”, si riferiva a questo movimento di ricostituzione dell’esproprio operato della gestione culturale esteriore. Rinchiudere in paesaggi confezionati automaticamente, obbligare e restare incantati davanti alle comunicazioni costruite in laboratorio, significa abbassare l’uomo, restringersi alle condizioni del luogo, e ciò anche per rendere possibile un minimo specifico di comunicazione che perderebbe di intensità, quindi di significato, in un luogo differente. L’universo concentrazionario è cultura esso stesso, l’ultimo obiettivo raggiungibile dalla riduzione logica. Stabilità e condensamento sono gli elementi motori del recupero culturale. Più l’orizzonte si restringe, più è necessaria una riduzione di prospettiva, altrimenti i significati svaniscono nell’incomprensibile. Tutti i presenti sforzi sono diretti a salvare il testo di Stirner dagli attacchi provenienti dagli elogiatori e dai denigratori. Si tratta della medesima, annosa, crociata.

«L’ “unione degli egoisti” – va avanti Reclaire – non differisce dalle altre associazioni che per il carattere delle armi impiegate. L’egoismo dei suoi unici si è semplicemente sbarazzato del suo vecchio apparato di guerra, i suoi combattenti, come i soldati degli eserciti moderni, non marciano più contro il nemico brandendo dei fantocci ornati con figure terribili destinati a spaventare il nemico, nessun dio, nessuna dea discende dal cielo per combattere al loro fianco sotto i tratti augusti della Morale, della Giustizia o dell’Amore. L’egoismo di Stirner è, in una parola, un egoismo-razionale. Il distruttore del razionalismo è lui stesso, a causa della forma logica del suo spirito, un razionalista e l’appassionato avversario del liberalismo resta un liberale. Stirner razionalista persegue fino all’ultimo l’idea di Dio e ne smaschera i camuffamenti delle varie metamorfosi, ma egli finisce fatalmente con una negazione: l’individuo e l’egoismo. Stirner liberale mina in nome dell’individuo i fondamenti dello Stato ma, distrutto quest’ultimo, egli non arriva che a una nuova negazione: anarchia non potendo significare altro per lui che disordine. Se lo Stato, regolatore della concorrenza, scompare, a questo non può succedere che la guerra di tutti contro tutti. Questa concezione del tutto formale dell’individuo spiega il carattere puramente negativo di quello che si potrebbe chiamare la “dottrina di Stirner”, cioè della parte logicamente critica della sua opera. È questo razionalismo e questo liberalismo conseguenti, cioè radicalmente distruttori, che mi permettono sia di negare la possibilità di dare all’ “unico” il “completamento positivo”, di cui Friedrich Albert Lange [Storia del materialismo e critica del suo significato nel presente, 1866] rimpiange l’assenza. Ma sarebbe, penso, mutilare il pensiero del suo autore e disconoscere l’importanza de L’unico e la sua proprietà, vedere in questo solo l’opera di un logico nichilista. Stirner stesso presenta il suo libro come l’espressione spesso maldestra e incompleta di quello che avrebbe voluto dire, pur essendo questo libro l’opera laboriosa dei migliori anni della sua vita, per lui non è altro che un’approssimazione. Tanto a lungo egli dovette lottare contro la lingua che i filosofi hanno corrotto, che tutti i devoti dello Stato e della Chiesa, ecc., hanno falsato, e che è causa di confusione senza fine nelle idee». (Ibidem). La ricerca dell’espressione a questo punto può diventare una nuova arma, per ritardare il restringersi del progetto statale. L’operazione filtro, processo completo dell’interpretazione, è la sollecitazione espressiva, lo scavo nel testo al di là dell’immediata fruizione di quanto è stato scritto. Tutto questo può diventare soltanto ambiguità, gioco di significati, sostituzione ingannevole di simboli, ma può fornire nuovi elementi di comprensione della realtà. Il potere è piuttosto tardo, non è mai stato molto intelligente, in questi ultimi decenni ha ricevuto una straordinaria potenzialità nuova da processi telematici altrettanto stupidi. Notoriamente gli imbecilli governano il mondo, perché il governare è faccenda da imbecilli. Per altro, anche nel proprio piccolo, ognuno può sperimentare la straordinaria tenacia e capacità organizzativa dell’imbecille medio, quello che ci assilla con i suoi costanti richiami all’ordine, e il cui scopo fondamentale è la chiarezza, perché non sa che è nell’evidenza che si costruiscono le nuove trame di potere, assolutamente alla luce del sole e per questo difficilmente comprensibili da parte di coloro che non sono poi del tutto imbecilli. Le ambiguità di Aristotele su questo punto sono tante. Solo un feroce razionalista come Tommaso d’Aquino poteva disinnescarle una per una. Ambiguità ci sono pure in pensatori e matematici, poniamo René Descartes o Pierre de Fermat, e non sono state, ancora, disinnescate. La parola contraddice il silenzio, ma non così ovviamente come si pensa.

È stata messa in luce da molti la nuova grande importanza assunta nello Stato dai fattori “regolativi” nei riguardi dei tradizionali fattori “attivi” o “produttivi”. Per cui, continua Reclaire: «Smontando la “macchina statale” ramo per ramo e mostrando in questa polizia sociale che si estende dal re all’ultima guardia campestre e al giudice del villaggio lo strumento di guerra al servizio dei vincitori contro i vinti, senza altro ruolo che quello di difendere lo stato di cose esistente, cioè perpetrare lo sfruttamento del debole attuale da parte del forte attuale, essi hanno messo in evidenza il suo carattere essenzialmente inibitore e sterile. Lungi dal potere essere una molla per l’attività individuale, lo Stato non può che comprimere, paralizzare e annichilire tutti gli sforzi dell’individuo. Stirner, da canto suo, mette in luce lo spegnimento delle forze vive dell’individuo da parte della vegetazione parassitaria e sterile dei fattori regolativi morali. Egli denuncia nella giustizia la moralità e in tutto l’apparato dei sentimenti “cristiani” una nuova polizia, una polizia morale, avente la stessa origine e lo stesso scopo della polizia statale: proibire, frenare e immobilizzare. I divieti della coscienza si aggiungono ai divieti della legge, grazie a essi, la forza degli altri è santificata e si chiama diritto, la paura diventa rispetto e venerazione, e il cane apprende a leccare la frusta del suo padrone». (Ib., XVIII). La grande urgenza di far fronte agli impegni di lotta produce spesso una essenzializzazione delle tesi rivoluzionarie. La trasmissione necessariamente approssimativa fa il resto. Tutto l’interesse per una trasmissione sostanziale ha ridotto l’individualismo stirneriano a una serie di cliché. Movimenti spettacolari, qualche volta vissuti spettacolarmente. Il linguaggio ha queste possibili ambivalenze, la parola scritta ancora di più. L’unità della coscienza è un’illusione dell’immediatezza che ci conteggia i battiti della vita. “Se l’ottone si sveglia tromba, non ne ho alcuna colpa”, scriveva Arthur Rimbaud. Ma occorre coraggio. Spezzare l’ordine delle cose non è facile. Anche per avviarsi verso la diversità serve prima di tutto un sostegno, forse più di un distacco. La liberazione è esercizio di libertà, ma molti lo vivono nell’ “a poco a poco”, e si sotterrano da se stessi. Si tratta di movimenti preliminari. La posta in gioco è molto più alta, è la differenza tra la vita e la morte. Solo che non sappiamo mai se lo strumento usato ci avvia più o meno dalla parte giusta. Hieronymus Bosch è torturato dalla propria arpa. Rimbaud parlava del “sistematico e ragionato disordine di tutti i sensi”. Manifesto programmatico, più che altro, la cui intenzione venne applicata ferocemente, a costi considerevoli e sempre sotto controllo. Almeno, quasi sempre.

Occorre comunque un buon motivo per continuare. L’uomo se ne inventa, di buoni e di mediocri, tutti i giorni. Rimbaud conclude per il silenzio. Non perché tutto il dicibile era stato detto, ma perché nel dirlo si erano esaurite le possibilità della parola. “Questo incanto! Mi ha preso l’anima” Une Saison en Enfer [1873] è, come sappiamo, il viaggio emblematico nel territorio della desolazione. Una ricognizione fra le più dettagliate della perfezione del disordine, del potere creativo del silenzio. Lo stesso è accaduto a Stirner.

Conclude Reclaire: «Ma l’individualismo così compreso non ha ancora che il valore negativo di una rivolta e non è che la risposta della mia forza a una forza nemica. L’individuo non è che il sostegno logico a mezzo del quale si sono abbattute le bastiglie dell’autorità: non ha una realtà e non è che l’ultimo fantasma razionale, il fantasma dell’unico. Questo unico a cui Stirner approda senza riconoscere il terreno nuovo su cui posa i piedi, credendo di toccare il termine ultimo della critica e lo scoglio dove naufragare ogni pensiero, oggi abbiamo cominciato a conoscerlo: esso si trova nel me non razionale fatto di antiche esperienze accumulate, di grandi istinti ereditati e di passioni, e prese di posizione della nostra “grande volontà” opposta alla “piccola volontà” dell’individuo egoista. In quest’unico del logico la scienza ci ha fatto vedere il fondo comune a tutti sul quale innalzare al di là delle menzogne della fraternità e dell’amore cristiano, una nuova solidarietà, e al di là delle menzogne dell’autorità e del diritto, un ordine nuovo. Su questa terra feconda Stirner mette a nudo la realtà. Il grande negatore oltrepassando cinquant’anni, tende la mano agli anarchici di oggi». (Ibidem). L’illusione classica del finire dell’Ottocento – la grande scienza capace di risolvere i problemi degli sfruttati – si riverbera in queste parole conclusive di Reclaire. Non esiste nessun movimento di fondo talmente essenziale da resistere alla potenzialità dissolvente della realtà. Non ci sono ossature salvifiche capaci di lavorare al nostro posto. Nessuna forza sovvertitrice interna alla realtà, quindi fondata su leggi analitiche, può garantire completezza di procedimento e sigillarsi contro tutti i pericoli di movimenti esogeni. Ci si è illusi moltissimo su questa possibilità, di regola derivante dalle illusioni matematiche. Il potere è arrivato per via diversa a garantirsi contro fughe talmente consistenti da essere pericolose. Ha tagliato il nodo alla radice non prendendosi pena per le conseguenze. Sappiamo come le intenzioni dello sfruttamento sono sempre a breve e medio termine, quello che appare lontano interessa poco o niente.

Il formalismo della macchina analitica imprigiona una linea di contenuti, quella scelta dall’autore, e Stirner nei limiti in cui si può parlare di scelta non riesce a fare eccezione alla regola. Di già una semplice lettura falsa quella linea e suggerisce processi che vengono accantonati in nome delle uniformità dominanti. Reclaire subisce il fascino dei trionfi della meccanica classica. La pluralità dei movimenti è schiacciata da questo andamento mortale che presume identificare una linea di maggiore sicurezza.

In passato questo procedimento non ha mai raggiunto i livelli bassi di oggi, e questo è un bene, ma i pericoli di oggi si sono fatti più subdoli, più difficili da vedere. Per la verità non sono nemmeno sicuro che sia possibile sottrarre alla nullificazione questo stesso libro, anche se adotto alcuni accorgimenti che non esito comunque a definire insufficienti. Bisognerebbe sottrarre quanto più possibile territorio al protocollo e consegnarlo all’invenzione. Non limitarsi a dire di più. Le nuove analisi devono prendere un movimento circolare, tornando in maniera non rettilinea sul movimento precedente, non limitandosi semplicemente a riproporlo. Da ciò la necessità di una passione di riferimento, se non guida. Le costanze tipografiche non bastano. Ogni ritorno suggerisce un’analogia con la possibile riflessione, fornisce nuovi desideri alla passione che lo scritto poteva aver scatenato, fronteggia la codificazione analitica, fino a finire castrato nel codice che lo azzera riproponendo l’urgenza di nuovi tentativi. Ogni passaggio, variabile secondo le possibilità, propone movimenti ulteriori di desiderio e di passione, talmente intensi, a volte, da pervenire a un reale sconvolgimento dell’ipotesi di partenza. Stirner è una lettura selvaggia. A pensiero selvaggio, adeguata lettura.

[1973]

XIV. Individuo e diversità

La negazione circoscritta, prima di tutto. Tentativi di distruggere fino a un certo punto, di ridurre in frammenti l’equazione generativa del potere salvandone gli aspetti non direttamente repressivi. Comunque l’organizzazione è necessaria, in caso contrario è il caos. Il vuoto continua a fare paura. Dopo l’avvento della rivoluzione – distruttiva al massimo grado – occorre ricostruire, rendere possibile la vita. Dentro queste certezze, collocate all’estrema periferia dell’immaginabile, si nasconde uno dei tentacoli più pericolosi della dialettica.

Poiché non posso pensare l’ulteriore passo, la dissoluzione completa della realtà, il vuoto così com’è, semplicemente come assenza di potere, sono necessariamente obbligato a pensarlo come fase di passaggio. Per quanto atroce può apparire, non essendo in grado di spingermi oltre nel territorio della desolazione, divento custode di valori. Scrive Max Stirner: «Voi che sapete dire molte cose profonde su Dio e che per millenni avete “sondato gli abissi della divinità” e scrutato il suo cuore, voi certo saprete dirci come Dio stesso tratti la “causa di Dio”, che noi siamo chiamati a servire. E infatti voi non fate mistero del modo di comportarsi del Signore. Ora, qual è la sua causa? Forse che egli ha fatto sua, come si pretende da noi, una causa estranea, la causa della verità, dell’amore? Questo malinteso vi indigna e voi c’insegnate che la causa di Dio è sì la causa della verità e dell’amore, ma che questa causa non può esser detta a lui estranea, perché Dio stesso è la verità e l’amore; v’indigna la supposizione che Dio potrebbe come noi, poveri vermi, dover appoggiare una causa estranea come se fosse la sua. “Dio dovrebbe assumersi la causa della verità se non fosse egli stesso la verità?”. Egli si cura solo della sua causa, ma poiché egli è tutto in tutto, così tutto è sua causa! Ma noi, noi non siamo tutto in tutto e la nostra causa è davvero piccola e spregevole: per questo “dobbiamo servire una causa superiore”. – Bene, è quindi chiaro che Dio si preoccupa solo di ciò che è suo, si occupa solo di sé, pensa solo a sé e vede solo sé; guai a tutto ciò che a lui non è gradito! Egli non serve quindi qualcuno che stia più in alto di lui e soddisfa solo se stesso. La sua causa è una – causa puramente egoistica». (L’unico e la sua proprietà, tr. it., Catania 2001, p. 13). La dimensione dell’unicità deve essere inserita nella prospettiva della ricchezza non in quella della povertà. Non una riduzione ma un allargamento, un allargamento totale, non un agglomeramento successivo, una serie di aggiunzioni che minaccia di diventare fine a se stessa. Il gioco della tecnologia è quello di indurre l’uomo a una scala infinita di potenziamento. L’accumulo viene racchiuso nella sfera dell’eterno fluire, del risparmio che dà i suoi frutti soltanto a chi ha avuto pazienza e buona volontà. L’attesa sostituisce l’impulso all’azione, la macchina sta lavorando per voi, scusate il fastidio. La vertigine di una moltiplicazione continua induce l’uomo alla rassegnazione. La volontà lo controlla inducendolo a sempre nuovi sforzi, a conoscenze, ad accumuli, a versamenti in banca. Le banalità diventano vanità e viceversa, poi utilità, cioè qualcosa da costruire, da desiderare, ma che deve essere dominato razionalmente, quindi specificato, misurato, calcolato e tutto il resto.

Avendo paura dell’intuizione non l’approfondisco, scappo via, la sostituisco con ipotesi intorno a princìpi assoluti come se questo fosse il vero compito intuitivo, indietreggiando cristallizzo il fare coatto, eminentemente quando questo assume l’aspetto dello scritto, oggetto sopra altri sovrano, garanzia di sicurezza, anatomizzazione dell’intelletto, preziosità del particolare. L’anatomia e l’economia servono entrambi, come scienze del di già accaduto a costruire l’utile. Atteggiamento pratico che nobilita il fare cieco, che taglia corto, andando diritto alla radice degli affari, senza fronzoli. È l’ideologia moderna del pirata con il coltello tra i denti. La sua canonizzazione è la Borsa, dove tutto quello che circola è illusorio.

Fermiamoci qui. Una mia incapacità non può diventare limite per la realtà. Questa ha movimenti suoi che prescindono dai miei valori, da quello che sento il bisogno di immaginare come protesi e salvaguardia di fronte all’incomprensibile. Questi valori estremi, concretizzati in costruzioni “liberate”, vengono proposti come condizioni di “libertà”, ma non è così che stanno le cose. L’azzeramento distruttivo non prevede sussistenza di valori, almeno non lo prevede nella sua realtà, nel suo concretizzarsi, non nell’essere immaginato da questa o da quella testa pensante. Fin quando queste condizioni (che è possibile riassumere nel termine “quantitative”) resteranno in piedi, sia pure come punto di riferimento, non sarà possibile oltrepassare la presente situazione di stallo. I vecchi fantasmi stanno a guardia dei nuovi territori e ne proteggono l’ingresso.

Mi sono spesso riferito alla catalogazione come sinonimo dell’accumulazione. L’uso dei due termini, uno al posto dell’altro, è in fondo esatto, ma la catalogazione permette una sorta di approfondimento accumulativo. Nel sovrapporsi del senso, i processi di riorganizzazione producono ulteriori distinzioni che sono vere e proprie classificazioni o catalogazioni. Il problema della tassonomia sarebbe secondario se non implicasse alcuni aspetti logici che spesso vengono trascurati. Qui ho bisogno di approfondire un poco questi aspetti per far notare come in simili operazioni si verifica una riduzione di qualità e un mantenimento di quantità. Ancora Stirner: «La “natura della cosa” e il “concetto del rapporto” devono guidarmi nel trattare la cosa e nell’istituire il rapporto. Come se il concetto della cosa esistesse per sé e non fosse invece il concetto che noi ci formiamo della cosa! Come se un rapporto che noi stabiliamo non fosse unico per il fatto che siamo unici noi che lo stabiliamo! Come se dipendesse dal modo in cui altri lo classifica! Ma come l’ “essenza dell’uomo” è stata separata dall’uomo reale e questi è stato giudicato in base a quella, così viene separata da lui anche la sua azione, che viene valutata in base al suo “valore umano”. I concetti devono decidere in ogni cosa, i concetti devono regolare la vita, i concetti devono dominare. Questo è il mondo religioso a cui Hegel ha dato un’espressione sistematica, portando un metodo nell’assurdo e perfezionando l’ordine dei concetti in una dogmatica dalle solide fondamenta e ben costruita. Tutto diventa una cantilena di concetti e l’uomo reale è costretto, cioè io sono costretto a vivere secondo queste leggi concettuali. Può forse esistere un più duro dominio della legge? Ma il cristianesimo non aveva forse ammesso fin dall’inizio di voler rendere ancora più forte il dominio della legge ebraica? (“Nemmeno una lettera della legge deve andar perduta!”)». (Ib., pp. 75-76). Il concetto scritto è il massimo strumento con cui mi illudo di superare la finzione, il simbolo che mi consente di entrare nell’àmbito della diversità, non più oggetto utilizzabile ma strumento. Progetto che devo inscrivere in un altro progetto, animandolo, allo scopo di evitare ogni definizione, sorte alla quale non potrebbe sottrarsi in quanto oggetto. Il luogo della discussione e dell’approfondimento è destinato all’esproprio, alla consegna per la dissipazione totale, per l’annullamento. Quello a cui lavoro con attenzione non è altro che una ragnatela per attrarre la disponibilità altrui all’azione. Ma questa deve potere superare tutto l’apparato di regime, le trappole della civiltà, gli imbrogli dell’evidenza controllata. Saggezza in primo luogo vuol dire sapere attendere, fare tesoro delle fessure del potere, di ogni piccola crepa che non si manifesta direttamente ma si tradisce nello stesso atteggiamento di estrema sicurezza. Dove il vero si confonde con il falso, e viceversa. Nelle pieghe della posterità trasandata, ci deve pur essere il gesto risolutore che individua quello che lo scritto ha di già scelto come elemento della propria individuazione.

Se il senso arrivasse isolato all’interno del flusso non sarebbe possibile l’accumulazione in quanto ogni relazione sarebbe assolutamente non identificabile. La molteplicità è sempre frutto di una distinzione possibile all’interno del flusso, in caso contrario non si distinguerebbe una pietra da un cavallo. Nel meccanismo accumulativo quindi persiste un residuo di qualità che consente la distinzione all’interno del senso e anche l’esistenza stessa dell’orientamento verso il senso.

Esattamente Nietzsche: «Questo mi pare uno dei miei passi e progressi più importanti: ho imparato a distinguere la causa dell’agire dalla causa dell’agire così e così, dell’agire in questa direzione, verso questa meta. La prima specie di cause è un quantum di energia immagazzinata, che attende di essere utilizzata in qualche modo e per qualche fine; la seconda specie invece, in rapporto a questa energia, è qualcosa di assolutamente insignificante, perlopiù un minimo caso fortuito sulla base del quale questo quantum si “libera” in un determinato modo: il fiammifero rispetto al barile di polvere da sparo. Tra questi casi fortuiti e fiammiferi io annovero tutti i cosiddetti “scopi” e anche tutte le cosiddette “vocazioni di vita”: essi sono relativamente casuali, arbitrari, quasi indifferenti rispetto all’enorme quantum di energia che spinge, come abbiamo detto, per essere impiegata in un modo o nell’altro. Generalmente le cose si vedono in modo diverso: si è soliti individuare la forza motrice proprio nella meta (scopi, vocazioni, ecc.), secondo un errore antichissimo, mentre quest’ultima indica soltanto la direzione: si è confuso il pilota con la nave. E talvolta neppure il pilota, la forza che indica la direzione... La “meta”, lo “scopo”, non sono spesso soltanto un pretesto per abbellire, un ulteriore autoaccecamento della vanità, la quale non vuole ammettere che la nave segue una corrente in cui si è imbattuta per caso? Che “vuole” andare là perché – deve? Che ha una direzione ma – nessun pilota –? Manca ancora una critica del concetto di “scopo”». (La gaia scienza [1882], V, 360). Per classificare occorre individuare. La coscienza pensa di potere individuare all’interno dell’accumulazione sottoponendo il flusso relazionale a un controllo capace di ridurre al minimo la di già affievolita presenza di qualità. Ma l’individuazione relazionale è un’operazione di completamento, non di riduzione. Qui si colloca la radicale contrapposizione tra logica dell’ “a poco a poco” e logica del “tutto e subito”.

Se si riduce l’individuazione al senso si deve spiegare che cosa individua il mezzo di individuazione, cioè se il promotore della riduzione è un processo relazionale completo o è anch’esso una riduzione. Non c’è dubbio che nell’accumulazione tutto l’insieme è ridotto, cioè privo della qualità o almeno con una qualità raccorciata nel simulacro del residuo. Quindi, il senso da solo non individua. Non possiamo conoscere un contenuto, se non riferendolo a una qualità, se questa è semplicemente un involucro secco, il contenuto giacerà muto come in una bara e l’individuazione non sarà quella della realtà effettiva, ma quella voluta e costruita, secondo i suoi scopi, dal meccanismo stesso di accumulazione. Così Stirner: «Tu per me non sei un essere superiore, né io per te. Tuttavia in ciascuno di noi può trovarsi un essere superiore, che risveglia la venerazione reciproca. Per fare l’esempio più generale, in te e in me vive l’uomo. Se io non vedessi in te l’uomo, perché mai dovrei rispettarti? Tu certo non sei l’uomo nella sua forma vera e adeguata, ma soltanto un suo involucro mortale, dal quale egli può separarsi, senza per questo cessar di esistere; comunque, per adesso questo essere universale e superiore abita in te; uno spirito immortale ha preso, in te, un corpo mortale (perciò il tuo involucro è in realtà “preso in prestito”) e così tu mi rappresenti uno spirito che appare, che appare in te, senza esser legato al tuo corpo o a quest’apparenza specifica, insomma uno spettro. Perciò io non ti considero un essere superiore, ma rispetto semplicemente quell’essere superiore che “si aggira” in te: io “rispetto in te l’uomo”. Gli antichi, invece, non ritrovavano alcun essere superiore nei loro schiavi: “l’uomo” non aveva ancora raccolto grandi consensi. Tuttavia essi vedevano, gli uni negli altri, fantasmi d’altro tipo. Il popolo è un essere superiore al singolo ed è, come l’uomo o come lo spirito dell’uomo, uno spirito che aleggia nei singoli: lo spirito del popolo. Perciò gli antichi onorarono questo spirito e il singolo poteva avere un suo significato solo in quanto serviva questo spirito o un altro a lui simile, per esempio lo spirito della famiglia, ecc.; solo in virtù dell’essere superiore, del popolo, veniva attribuito un valore al “membro del popolo”. Così come tu sei santificato, ai nostri occhi, in virtù dello spirito “dell’uomo” che aleggia in te, allo stesso modo si era santificati, a quei tempi, in virtù di qualche altro essere superiore, come il popolo, la famiglia o simili. Ciascuno viene rispettato, da tempi immemorabili, solo in virtù di un essere superiore, e solo in quanto fantasma viene considerato santo, cioè viene protetto e riconosciuto. Se io mi prendo cura di te, perché ti voglio bene, perché il mio cuore trova alimento e le mie esigenze un soddisfacimento in te, ciò non accade in virtù di un essere superiore, di cui tu saresti il corpo santificato, né perché io veda in te un fantasma, cioè l’apparire d’uno spirito, ma invece per piacere egoistico: tu stesso, col tuo modo d’essere, hai per me valore, infatti il tuo essere non è un essere superiore, non è superiore a te, né più generale di te, è unico come te stesso, perché è te stesso». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., pp. 37-38). Reagisco alla mancanza di chiamata mettendo in atto un meccanismo di diversificazione capace di applicare concatenamenti logici altrimenti impensabili. Rinvio, ma sono io a decidere di rinviare, questo lo considero assodato, mentre non lo è per niente. Vengo interpellato e reagendo ritengo di essere io a interpellare, io col fascio ben circoscritto delle mie esperienze, pieno di bisogni e di desideri. Un potere intelligente – ed è di questo che qui parlo – si inserisce in questi spazi e li abita attrezzando nuove forme di disciplinamento. Molte soluzioni a sfondo empirico sono state avanzate al problema della salvaguardia dell’individuo. Stirner non fa eccezione. Sotto la superficie ineccepibile dal punto di vista filosofico, si nasconde una soda esperienza della quotidianità. Ma non basta, come non bastava l’appello alla bontà della natura umana. Ancora oggi il problema è sempre quello: in che modo posso far fronte a una forte richiesta di soggettività? Le collezioni di cultura “popolare” sono ridicole raccolte di senso comune, il potere le assorbe senza fatica: una colazione leggera.

La prova di questa strana situazione si ha non appena si considera la ristrettezza del campo. «Ogni comprensione – scrive Hans Georg Gadamer – può essere caratterizzata come un insieme di rapporti circolari tra il tutto e le sue parti. La caratterizzazione attraverso il rapporto circolare deve essere tuttavia completata da una determinazione supplementare; io l’esprimerei volentieri chiamandola anticipazione di una “coerenza perfetta”. Questa coerenza perfetta può essere intesa innanzi tutto nel senso di un’anticipazione di natura formale: essa è un’ “idea”. Essa è tuttavia sempre attualmente in opera, allorquando si tratta di effettuare una comprensione. Essa significa che nulla è veramente sotto la forma di un significato coerente. Così, per esempio, l’intenzione della lettura di un testo implica sin dall’inizio che noi consideriamo il testo come “coerente”, fintanto che, almeno, questo presupposto non si riveli insufficiente o, in altri termini, fintanto che il messaggio del testo non si denunzi come incomprensibile. È questo l’istante preciso in cui appare il dubbio e in cui mettiamo in movimento la nostra attrezzatura critica. Non è necessario precisare qui le regole di questo esame critico, poiché in ogni caso la loro giustificazione non potrebbe essere mai separata dalla concreta comprensione del testo. La guida della nostra comprensione: l’anticipazione della coerenza perfetta si dimostra, così, provvista fin dall’inizio di un contenuto non soltanto formale. Infatti, nell’operazione concreta della comprensione non è presupposta unicamente un’unità di senso immanente: ogni comprensione di un testo presuppone che essa sia guidata da alcune attese trascendenti, l’origine delle quali deve essere cercata nel rapporto tra l’intenzione del testo e la verità. Quando riceviamo una lettera, vediamo le cose comunicateci attraverso gli occhi del nostro corrispondente; ma pur vedendo le cose attraverso i suoi occhi, crediamo di dover conoscere, mediante la lettera, non la sua opinione personale, ma l’avvenimento stesso. Mirare, leggendo una lettera, ai pensieri del nostro corrispondente e non a ciò che egli pensa, contraddice il senso stesso di ciò che è una lettera. Parimenti, le anticipazioni implicate dalla nostra comprensione di un documento trasmesso dalla storia, emanano dai nostri rapporti con le “cose” e non dalla maniera in cui queste “cose” ci sono trasmesse. Proprio come crediamo alle notizie di una lettera, poiché supponiamo che il nostro corrispondente abbia assistito di persona all’avvenimento, o ne sia stato validamente messo al corrente, così siamo aperti alla possibilità che il testo trasmesso sia più autentico, per ciò che riguarda la “cosa stessa”, delle nostre proprie ipotesi. Solo la disillusione di aver lasciato parlare il testo da se stesso e di essere così giunti a un cattivo risultato potrebbe spingerci a tentare di “comprenderlo” ricorrendo a un punto di vista psicologico o storico supplementare. L’anticipazione della coerenza perfetta presuppone, dunque, non soltanto che il testo sia l’espressione adeguata di un pensiero, ma anche che esso ci trasmetta la verità stessa. Ciò conferma che il significato originale dell’idea di comprensione è quello di “essere abile in qualche cosa” (“s’y connaître en quelque chose”), e che solo in un senso derivato essa significa comprendere l’intenzione dell’altro in quanto opinione personale. Si ritorna così alla condizione originale di ogni ermeneutica: essa deve essere un riferimento comune e comprensivo alle “cose stesse”. È questa condizione a determinare la possibilità di mirare a un significato unitario, e, dunque, anche la possibilità che l’anticipazione della coerenza perfetta sia effettivamente applicabile». (Il problema della coscienza storica [1963], tr. it., Napoli 1969, p. 85). All’interno di questa provvisoria delimitazione gli elementi della identificazione quantitativa producono parametri tipo: spazialità, impenetrabilità, divisibilità, ecc., allo scopo di staccare, distinguere, chiarire e ogni altra procedura del genere. Ma nessuna cosa può essere realmente staccata dalla totalità del reale, in quanto partecipa all’insieme delle relazioni. Quegli elementi non realizzano quello che sembra siano destinati a realizzare. Fin quando cercheremo di isolare il meccanismo accumulativo, ponendo come unico regolatore la coscienza che controlla, non capiremo che per individuare occorre trovare un elemento negativo che si contrapponga alla positività che nasce dall’inquietudine della coscienza. La diversità manifesta subito la capacità di cogliere l’elemento globale della relazione, mentre l’accumulazione in positivo manifesta altrettanto bene una incapacità in questo senso. Oltre tutto non è molto importante approfondire una critica degli elementi citati prima che caratterizzano l’individuazione quantitativa, basta pensare all’assurdità del concetto di impenetrabilità e a come questo concetto sia stato smontato dalla fisica. Affrontare di petto questo tipo di problemi non conduce a una soluzione. La forza non garantisce nessuna certezza. L’esperienza che travolge sollecita ai comportamenti estremi dove i moti dell’animo fanno velo alle pratiche e alle conoscenze. Nella scelta individuale, accurata e coerentemente diretta alla perdita, la forza pretende alla compiutezza e finisce per ricadere nell’equivoco della quantità. Molti ostacoli sono stati superati in questo senso, molti legami si sono potuti sciogliere, ma non tutto è risolto. La scomparsa di un criterio unitario ha lasciato un buco che in qualche modo si è cercato di colmare con risultati risibili, qualche volta sbandierati ai quattro venti come soluzioni definitive. La dimensione ridotta all’osso propone sempre ulteriori approfondimenti, i livelli degli interstizi sono sostanzialmente illimitati e l’individualità che vi sprofonda dentro ha come unico filo la propria identità, il perno del proprio sapere, strumenti che risultano ovviamente troppo limitati per dare risultati apprezzabili.

La fonte della molteplicità è un problema che si può affrontare solo parlando della realtà in quanto totalità delle relazioni in movimento. In maniera splendida Hegel: «L’amore è un sentimento, ma non un sentimento singolo: dal sentimento singolo, poiché è solo vita parziale e non vita intera, la vita si spinge fino a sciogliersi e a disperdersi nella molteplicità dei sentimenti per trovare se stessa in questo tutto della molteplicità. Nell’amore questo tutto non è contenuto come somma di parti particolari, di molti separati; nell’amore si trova la vita stessa come una duplicazione di se stessa e come sua unità; partendo dall’unità non sviluppata, la vita ha percorso nella sua formazione il ciclo che conduce ad un’unità completa. Di contro all’unità non sviluppata stavano la possibilità della separazione e il mondo; durante lo sviluppo la riflessione produceva sempre più opposizioni che venivano unificate nell’impulso soddisfatto, finché la riflessione oppone all’uomo il suo stesso tutto, l’amore infine, distruggendo completamente l’oggettività, toglie la riflessione, sottrae all’opposto ogni carattere di estraneità, e la vita trova se stessa senza ulteriore difetto. Nell’amore rimane ancora il separato, ma non più come separato bensì come unito; ed il vivente sente il vivente». (Frammento sull’amore: L’amore, in Scritti teologici giovanili [1797-1800], tr. it., vol. II, Napoli 1972, pp. 529-530). La vita dell’amore è vita della caducità nella pienezza, vita nell’aspetto precario che l’amore è solito prendere, precarietà rafforzata non scongiurata dalle cosiddette promesse d’amore, è vita temporalmente delimitata, nella sostanza è l’unità del vivente nei fatti inseparabile. Anche i delusi, capaci di affermare che l’amore è una delle classiche illusioni costruite dai laboratori del potere con tutto il ciarpame letterario messo in circolazione, si rendono conto che la loro ricerca insoddisfatta è solo il riflesso di quell’unità inseguita e quindi ben conosciuta anche se mai raggiunta. Il lutto è il tempo del detto, della parola che cristallizza il “ti amo”, ma tutto questo non sta che a forza – il solito gioco della forza – nell’amore, è la parte che guarda verso l’esistenza, che misura e controlla, chiede conferme e misure storiche. La vita, specialmente oggi, sta educando alla precarietà, ed è tempo che si dicano queste cose.

Io penso che nell’àmbito dell’accumulazione la classificazione diventa possibile solo nella fase riorganizzativa, cioè quando di già si è esaurita l’operazione con cui dal flusso è stato tratto il senso e la qualità è stata ridotta a mero residuo. L’insieme di questa fase si chiama produzione modificativa o fare coatto ed è governata dalla coscienza normale che controlla i vari momenti di lavorazione del flusso relazionale. Nell’àmbito di questo lavoro la coscienza stessa viene accumulata e sottoposta alle regole della catalogazione. «Chi è “pronto al sacrificio”? – si chiede Stirner – veramente tale è colui il quale mette tutto ciò che ha al servizio di una sola cosa, di uno scopo, di una volontà, di una passione, ecc. L’amante che abbandona padre e madre e affronta ogni pericolo e ogni privazione per raggiungere il suo scopo non sacrifica forse tutto ciò che ha? E l’ambizioso che immola a un’unica passione ogni voglia, ogni desiderio e ogni soddisfazione? E l’avaro che rinuncia a tutto pur di accumulare tesori, e il gaudente e altri uomini di questo tipo? Li domina una sola passione, a cui sacrificano tutte le altre.

«Ma questi uomini che sacrificano tutto ciò che hanno non sono forse interessati, cioè egoisti? Siccome essi sono dominati da un’unica passione, ricercano un’unica soddisfazione, ma con tanto più zelo: vivono solo in funzione di questa. Ogni loro atto, ogni loro gesto è egoistico, ma di un egoismo unilaterale, limitato, di corte vedute, un egoismo che è invasamento.

«“Ma queste sono passioni meschine, dalle quali, al contrario di quanto tu dici, l’uomo non si deve lasciar asservire. Bisogna sacrificarsi per una grande idea, per una grande causa!”. Una “grande idea”, una “buona causa” è per esempio la gloria di Dio, per la quale innumerevoli uomini andarono incontro alla morte; il cristianesimo, che ha trovato i suoi martiri ben disposti; la Chiesa in cui soltanto c’è salvezza, che si è nutrita avidamente del sacrificio degli eretici; la libertà e l’eguaglianza, al cui servizio stavano sanguinose ghigliottine.

«Chi vive per una grande idea, una buona causa, una dottrina, un sistema, un’alta missione, deve rinunciare a ogni piacere mondano, a ogni interesse egoistico. Qui abbiamo il concetto della bigotteria pretesca, che può anche essere chiamato, tenendo conto del suo aspetto pedagogico, della pedanteria scolastica; infatti gli ideali sono, per noi, maestri di scuola pedanti. L’uomo spirituale ha precisamente la missione di vivere solo nell’idea e di agire solo per l’idea, per la causa veramente buona». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., pp. 61-62). Questo universo sacrale non è però nettamente separato dalle posizioni che l’ “unico” riesce a conquistarsi, Stirner non lo sapeva, ma oggi è chiaro per tutti. Il mondo in cui viviamo è quello contraddittorio che ricorre allo spaesamento, all’interpretazione, all’allegoria. Il potere non ha un progetto chiaro e definitivo (circoscritto nel suo stesso atteggiarsi a riproduttore di dominio), ma sa perfettamente che può infiltrarsi fin dentro la più intima struttura dei sentimenti, può cioè percorrere fino in fondo un cammino inquietante che ha al proprio termine l’afasia dei significati.

Ogni coscienza, inserendosi in questo meccanismo come relazione, fin dalla nascita, subisce il processo di spoliazione alla pari di ogni altra relazione. Il problema squisitamente kantiano di trovare un’incognita, sulla quale la coscienza si dovrebbe basare per trovare al di fuori del concetto A un predicato B estraneo ad esso, non ha ragione di esistere. Infatti, il flusso relazionale procede indifferenziato. «La libertà e la legge pratica incondizionata risultano dunque reciprocamente connesse. Qui io non domando se esse siano anche diverse di fatto o se una legge incondizionata non sia piuttosto la semplice coscienza di sé di una ragion pura pratica, e se questa sia identica al concetto positivo della libertà; ma domando dove ha inizio la nostra conoscenza dell’incondizionato pratico, se dalla libertà o dalla legge pratica. È quindi la legge morale della quale diventiamo consci (appena formuliamo le massime della volontà), ciò che ci si offre per il primo e che ci conduce direttamente al concetto della libertà, in quanto la ragione presenta quella legge come un motivo determinante che non può essere sopraffatto dalle condizioni empiriche perché del tutto indipendente da esse». (I. Kant, Critica della ragion pratica [1788], tr. it., Roma-Bari 1991, pp. 166-167). La coscienza non è in grado di distinguere e individuare se prima questa distinzione e questa individuazione non sono state rese possibili dal processo accumulativo stesso. Se la coscienza fosse contrapposta a questo processo non si avrebbe mai una individuazione in quanto, per tornare al problema kantiano di cui sopra, il predicato non sarebbe altro che la necessaria conseguenza del concetto principale, senza alcuna differenza, un indeterminato continuo e identico sempre a se stesso. Lo spazio della cosiddetta soggettività è limitato, quindi anche quello del martello che distrugge o che intensifica il desiderio. Prima o poi il confine affiora e, proprio sulla linea, il valore nuovo. Il sapere dell’individuo come qualcosa d’altro della cultura codificata attraversa i secoli avanzando in modo irregolare ma riferendosi sempre alla materialità sociale.

Ne deriva che la classificazione è una conseguenza della riorganizzazione continua del processo accumulativo. Ma essa deve essere colta dalla coscienza, proprio come movimento oggettivo e non come semplice intuizione. Sempre Immanuel Kant: «Il Giudizio in generale è la facoltà di pensare il particolare in quanto contenuto nell’universale. Se l’universale (la regola, il principio, la legge) è dato, il Giudizio che sussume sotto questo il particolare è determinante. Se invece è dato soltanto il particolare, ed il Giudizio deve trovargli l’universale, allora esso è meramente riflettente. Ora, poiché il concetto di un oggetto, nella misura in cui contiene anche il principio della realtà di questo oggetto, si dice scopo, mentre si dice finalità della forma d’una cosa l’accordo di questa con quella costituzione delle cose che è possibile solo mediante fini, il principio del Giudizio, rispetto alla forma delle cose naturali sottoposte a leggi empiriche in generale, è la finalità della natura nella varietà delle sue forme. In altri termini, la natura viene rappresentata, mediante questo concetto, come se un intelletto contenesse il fondamento unitario della molteplicità delle sue leggi empiriche. La finalità della natura è, dunque, un particolare concetto a priori, la cui origine va cercata nel solo Giudizio riflettente». (Critica del Giudizio [1790], tr. it., Torino 1993, pp. 157-158). La coscienza deve cogliere quel particolare contenuto e non un altro, quindi deve conoscere il meccanismo che individua quel contenuto e lo differenzia dagli altri nell’insieme continuamente in ribollimento dell’accumulazione. La cosa è possibile perché la coscienza sente e riconosce che il contenuto che sta considerando, ormai classificato, corrisponde a un proprio contenuto, a una propria classificazione, contenuto e classificazione che sono particolarità e individuazione dell’esteriorità di se stessa. La classificazione è tanto più dettagliata e puntigliosa fino alla mania, quanto più la coscienza rimane estrinsecata verso il meccanismo di accumulazione e si preclude ogni apertura verso la diversità. Per questo motivo la classificazione non potrà mai essere totale, perché parte da una parziale visione della realtà e riconferma questa parzialità all’interno della coscienza obbligandola a estrinsecarsi soltanto verso il controllo. Così Stirner: «Povere creature che potreste vivere tanto felici saltando a modo vostro e che invece dovete ballare al suono della musica di questi pedagoghi domatori di orsi e produrvi in capriole artistiche che non vi verrebbe mai in mente di fare! E non vi ribellate mai, sebbene vi si intenda sempre in modo diverso da come vorreste voi. No, voi ripetete sempre meccanicamente a voi stessi la domanda che avete sentito porre: “A che cosa sono chiamato? Che cosa devo fare?”. Basta che vi poniate queste domande e vi farete dire e ordinare ciò che dovete fare, vi farete prescrivere la vostra vocazione oppure ve la ordinerete ed imporrete voi stessi secondo le direttive dello spirito. Ciò comporta, per quel che riguarda la volontà, questo atteggiamento: io voglio ciò che devo». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., pp. 241-242). Giusto, ma non c’è una sola strada per arrivare (parzialmente) a questo. Non esiste uno stirneriano perfetto, ci sono possibili approssimazioni. Una strada non è uno spostamento netto nello spazio, è un percorso, occorrono occhi buoni per osservare e comprendere quello che la strada rende possibile vedere, ma il percorso è ancora qualcosa d’altro, è quello che nella comprensione può sfuggire annullando così tutte le possibilità che improvvisamente si erano aperte e che in questo modo corrono il rischio di chiudersi. Se davanti a ogni nuova prospettiva mi propongo con la mia vecchia identità sono spacciato, il selvaggio intervenire della novità diventa semplice modificazione, ripetizione e conforto per la mia esistenza incerta e percossa da brividi.

Nella classificazione si solidifica l’accumulazione mentre la coscienza raggiunge il suo più basso livello modificativo, la quasi completa identificazione con l’oggetto prodotto. L’individualità classificata porta un senso tutto suo alla coscienza e la fa sentire classificata anch’essa, interna a un circuito di mutuo controllo e reciproco sostegno. La struttura si singolarizza anonimizzandosi, diventando numero e serie produttiva, trasferisce tutto ciò nella coscienza e da questo trasferimento trova nuovo materiale per ulteriori classificazioni sempre più monotone e ripetitive. La coscienza, da parte sua, attutisce i colpi dell’inquietudine proprio perché in questo modo tutto al suo interno tende alla normalità. Consegnandosi all’oggetto classificato, questo gli restituisce forza e sicurezza di sé. Non è vero, come ha supposto un certo idealismo, che in questo modo la coscienza crea l’oggetto inventandolo, traendolo fuori da un magma informe. Al contrario, è proprio l’abbassamento del flusso relazionale a semplice senso, quindi a processo oggettivante, che riduce la coscienza al medesimo livello, privandola della propria conflittualità. L’errore è stato fatto in quanto risulta evidente che con tutto questo scambio di riduzioni la coscienza otteneva qualcosa, ma non si è capito che il guadagno era un appiattimento e non una crescita. Un esempio illuminante è dato oggi dal fatto che molti giovani per vestire alla moda indossano tutti abiti uguali, anzi per sottolineare questa identità spendono più soldi per comprare abiti uguali e firmati. Una volta, era esattamente il contrario. Se per caso due individui, attenti alla moda e a questi problemi, si incontravano con il medesimo abito ne provavano vergogna e imbarazzo. «Da che parte si potrebbe mai volgere lo sguardo – afferma Stirner – senza incontrare vittime di questo sacrificio che consiste nel rinnegar se stessi? Qui di fronte a me siede una giovane donna che offre forse già da dieci anni sacrifici cruenti alla sua anima. La sua figura è rigogliosa, ma il capo è piegato da una stanchezza mortale e le guance pallide tradiscono il lento dissanguarsi della sua giovinezza. Povera creatura, quante volte le passioni avranno fatto palpitare il tuo cuore e la gioventù, con la sua gagliarda energia, avrà reclamato il suo diritto! Quando il tuo capo si agitava fra i morbidi guanciali, la natura, risvegliandosi, spasimava nelle tue membra, il sangue gonfiava le tue vene e fantasie fiammeggianti riversavano nei tuoi occhi lo splendore della voluttà. Ma ecco apparire il fantasma della tua anima e della sua beatitudine eterna. Inorridivi, le tue mani si congiungevano, i tuoi occhi pieni di angoscia sollevavano lo sguardo verso l’alto, e tu – pregavi. Le tempeste della natura si calmavano, la superficie delle acque tornava tranquilla nell’oceano dei tuoi desideri. Lentamente le palpebre esauste si abbassavano su quella vita ormai spenta, la qualità si dileguava lentamente dalle turgide membra, nel cuore si placavano le onde tumultuose, le mani congiunte gravavano sul seno ormai inerte, ancora un ultimo, lieve gemito, e – l’anima era tranquilla. Ti addormentavi, per ridestarti al mattino a nuove lotte, e nuove – preghiere. Ormai l’abitudine alla rinuncia raffredda l’ardore del tuo desiderio e le rose della tua gioventù impallidiscono nella tua – anemica beatitudine. L’anima è salva, che importa se il corpo perisce? O Taide, o Ninon, come avete fatto bene a disprezzare questa smunta virtù! Meglio una ragazzetta di liberi costumi che mille zitelle incanutite nella virtù!». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., pp. 51-52). Questo è un vero e proprio inno alla concretezza. Il contrasto tra l’essere e il volere essere, di cui rideva Hegel, qui è messo in luce ottimamente. Se la parola è la “dimora” dell’uomo, qui viene passata in secondo piano. L’azione è la sua vera casa, il luogo del pensare stesso. Il pensare è figlio dell’agire ed è condizionato (quindi, alla fine, ricondotto nei limiti e nella prospettiva della morte) dal fare. Certo, io sono costretto a “dire” questo, e anche Stirner lo è, il suo libro lo testimonia, ma la “zitella incanutita” non può “dire” altro che il suo sacrificio, e non può desiderare altro che la lotta per mantenerlo intatto, per contrastare il desiderio. Non può parlare di quest’ultimo se non in maniera indiretta. Ogni specificazione che fa in senso giustificativo delle sue scelte è sempre un ripresentarsi della scelta stessa, non rinvia a qualcosa di diverso se non come nascondimento involontario, una lettura fra le righe.

Così Nietzsche: «I credenti e il loro bisogno di fede. Quanto una persona, per prosperare, abbia bisogno di una fede, quanto di “solidità”, che non vuole subire scosse, perché vi si regge: questo è l’indicatore della sua forza (o, per parlare più chiaramente, della sua debolezza). Mi pare che del cristianesimo, nella vecchia Europa, i più abbiano ancora bisogno: ecco perché esso continua a trovare chi gli presta fede. Perché l’uomo è fatto così: un principio di fede potrebbe essergli confutato anche mille volte, ma se ne avesse bisogno, continuerebbe a ritenerlo vero, conformemente a quella famosa “prova di forza” di cui parla la Bibbia. Alcuni hanno ancora bisogno di metafisica; ma anche quell’impetuoso desiderio di certezza che oggigiorno ampie masse scaricano in modo scientifico-positivistico, il desiderio di voler assolutamente avere qualcosa di solido (mentre l’ardore di questo anelito fa sì che se la prendano comoda per quel che riguarda la fondazione di questa sicurezza): è pur sempre il desiderio di un sostegno, di un puntello, che in realtà non crea religioni, metafisiche, convincimenti d’ogni genere, – ma li conserva. Di fatto intorno a tutti questi sistemi positivisti aleggia la caligine di un certo incupimento pessimistico, un non so che di stanchezza, fatalismo, delusione, timore di nuove delusioni – oppure collera manifesta, cattivo umore, anarchismo dello sdegno e tutti gli altri sintomi o maschere esistenti per la debolezza. Lo stesso zelo con il quale i nostri contemporanei più assennati si perdono in cantucci miserabili e angusti, per esempio le fanfaronate patriottiche (come io definisco quel che in Francia è detto chauvinisme e in Germania deutsch), oppure le ristrette professioni di fede estetica alla maniera del naturalisme parigino (che della natura preleva e mette a nudo soltanto ciò che provoca nausea e stupore al tempo stesso, componente che oggi si ama definire la verité vraie ... ), oppure nel nichilismo di stampo pietroburghese (ovvero la fede nella mancanza di fede, fino al martirio per la stessa), testimonia sempre il primissimo luogo l’esigenza di fede, sostegno, spina dorsale, punto d’appoggio... La fede è sempre massimamente desiderata e urgentissimamente necessaria laddove sussiste una mancanza di volontà: perché è la volontà, in quanto stato d’animo del comando, il segno distintivo dell’autodominio e della forza. Ciò significa che quanto meno uno sa comandare, tanto più desidererà qualcuno che comandi, comandi severamente: Dio, principe, ceto sociale, medico, padre confessore, dogma, coscienza di partito; dalla qual cosa si potrebbe forse dedurre che le due religioni mondiali, il buddhismo e il cristianesimo, potrebbero essere nate e aver conosciuto una diffusione così improvvisa proprio a causa di una mostruosa malattia della volontà. E le cose sono andate davvero così: entrambe le religioni trovarono un desiderio di “tu devi” che una malattia della volontà aveva innalzato sino all’assurdo e portato alla disperazione; entrambe le religioni furono maestre di fanatismo all’epoca dell’infiacchimento della volontà, offrendo così a innumerevoli persone un sostegno, una nuova possibilità di volere, un gusto del volere. Il fanatismo è infatti l’unica ”forza di volontà” a cui possano essere condotti anche i deboli e gli insicuri, in quanto giunge quasi a ipnotizzare tutto il sistema intellettuale sensoriale in favore di un nutrimento sovrabbondante (ipertrofia) di un determinato modo di vedere e di sentire dominante: il cristiano lo chiama la sua fede. Laddove un uomo giunge alla convinzione fondamentale di dover ricevere ordini, diviene credente: in caso contrario sarebbe pensabile una voglia e una forza di autodeterminazione, una libertà della volontà in presenza delle quali uno spirito prende commiato da ogni fede e da ogni desiderio di certezza, abituato com’è a tenersi a funi e possibilità lievi, continuando a danzare anche sull’orlo dell’abisso. Un tale spirito sarebbe lo spirito libero par excellence». (La gaia scienza, 347). Disporsi criticamente nei riguardi dell’incasellamento classificatorio è di già un modo inquieto di operare all’interno del processo accumulativo, significa rinunciare alla sicurezza dell’apparenza. Il pensiero critico non è molto ma è di già un’inquietudine, ancora senza sbocchi, chiusa all’interno di una continua esteriorizzazione. Trascinato dal movimento del senso, il pensiero critico non è sufficientemente libero, lavora a migliorare l’insieme dove si trova e non si pone problemi di distruzione o di apertura. Per fare sviluppare l’inquietudine deve diventare critica aperta e negativa. Ora, qualcosa diventa negativo solo quando comincia a conoscere i propri limiti, in caso contrario resterà eternamente nell’àmbito della positività costruttrice della struttura. La lotta non è veramente tale fin quando non individua l’avversario, le ragioni dell’avversario, e fin quando non smonta queste ragioni. Solo allora può abolire l’avversario, non prima, quando, non conoscendolo e non conoscendone le ragioni, la critica si limitava a trovare giustificazioni per fare andare meglio le cose. Il cambio di classificazione non è lotta, anche se può essere considerato critica positiva.

L’atto trasformativo, che alcuni chiamano creativo, è quando la classificazione si abolisce per ritrovare tracce indicative di differenze, non per far morire la realtà sotto un appiattimento privo di sfumature. Ancora Stirner: «La società che il comunismo vuol fondare sembra avvicinarsi molto all’unione. Essa deve infatti aver per fine il “bene di tutti”, ma proprio di tutti, come Weitling esclama infinite volte, di tutti! Ma quale sarà mai questo bene? Cercano tutti lo stesso e medesimo bene? C’è un bene che sia davvero tale per ognuno? Se così fosse, si tratterebbe del “vero bene”. Ma così non arriviamo proprio al punto in cui la religione comincia a esercitare il suo dominio, il suo potere? Il cristianesimo dice: non curatevi delle bagatelle di questa terra, ma cercate invece il vostro vero bene, diventate pii cristiani: essere cristiani è il vero bene. È il vero bene di “tutti”, perché è il bene dell’uomo come tale (questo fantasma). Il bene di tutti dev’essere allora anche il mio e il tuo bene? Ma se tu e io non riconosciamo quel bene come nostro bene, le nostre esigenze verranno soddisfatte? Nient’affatto! La società ha decretato che un bene è il “vero bene”, per esempio il godimento onestamente guadagnato col lavoro, e se tu preferissi l’ozio ricco di godimenti, il godimento senza lavoro, la società che si cura del “bene di tutti” si guarderebbe saggiamente dal curarsi di quello che è il tuo bene. Il comunismo, mentre proclama il bene di tutti, distrugge per l’appunto il benessere di chi ha sempre vissuto di rendita e che si trovava probabilmente meglio in tale situazione che nella prospettiva delle molte dure ore di lavoro che gli promette Weitling. Questi afferma perciò che il bene di alcune migliaia di persone è inconciliabile con quello di molti milioni e che i primi dovrebbero perciò rinunciare al loro bene particolare “per il bene di tutti”. No! Non bisogna chiedere alla gente di sacrificare il loro bene particolare per quello generale: con questa pretesa cristiana non si arriva a niente; la gente capirebbe assai meglio la raccomandazione opposta, quella di non lasciarsi strappare da nessuno il suo proprio bene, ma di renderlo sempre più saldo. La gente arriva poi da sé a capire che il modo migliore di curarsi del proprio bene è quello di collegarsi ad altri per questo scopo, “sacrificando una parte della propria libertà”, ma non al bene di tutti, bensì al suo proprio. Un appello alla volontà di abnegazione e al sacrificio d’amore per gli uomini dovrebbe ormai aver perso la sua apparenza attraente, dopo che i suoi effetti millenari non hanno portato ad altro che all’attuale miseria. Perché mai continuare ad aspettare invano che il sacrificio ci porti tempi migliori? Perché non sperare piuttosto nell’usurpazione? Il bene non viene più da chi dà e dona con amore, ma da chi prende, si appropria (usurpa), dagli esseri che sono padroni di sé. Il comunismo e, consapevolmente o no, l’umanesimo che impreca contro l’egoismo contano ancora sull’amore». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., pp. 229-230). Entrando nelle cose faccio in modo che le cose entrino in me, me ne approprio. Ma entrare nelle cose significa essere la realtà, non discuterne, approfittare delle sue incertezze per costruirsi un alibi valido per la propria esistenza pacificata. Non posso fare questo suonando la tromba – il limite di Stirner, che in questo senso è un suonatore piuttosto reboante – ma devo intuire il territorio del probabile, dove la resistenza dell’avversario è minore, forse il luogo del “riposo”, dove il contrasto sta quasi per assorbirsi nella consuetudinarietà dell’esistenza. Eppure questa intuizione rischia continuamente di passare inosservata, per mancanza di coraggio di fronte all’allettante prospettiva del “riposo”. Mi rifiuto di pensare, mi addormento cullato dalla sopravvenuta sicurezza (illusoria). Ma non c’è sicurezza alcuna, anzi in questo luogo transitorio l’aleatorietà regna sovrana e i risvegli angoscianti sono molto frequenti. Eppure c’è gente che dorme per anni su questo filo di lama scambiandolo per un ottimo guanciale.

La propria individualità non può essere classificata, senza correre il rischio di abbassarla a uniformità, a categoria, a classe. Si possono considerare indispensabili progetti operativi capaci di arrivare a profonde modificazioni, ma nemmeno una semplice interpretazione è possibile senza mettere in crisi il concetto di classificabilità. Detto questo, non vogliamo essere confusi con i sostenitori di un sensualismo adoratore dell’io o della volontà di potenza o di oblio. Ancora Nietzsche: «Che vi sia un oblio, non è ancora dimostrato; ciò che sappiamo è soltanto che il ricordare di nuovo non è in nostro potere. In via provvisoria noi abbiamo posto in quella falla del nostro potere quella parola “oblio”: proprio come se vi sia una facoltà in più da registrare. Ma cos’è che in fondo sta in nostro potere? – Se quella parola sta in una falla del nostro potere, non dovrebbero stare le altre parole in una falla del nostro sapere riguardo alla nostra potenza?». (Aurora [1881], II, 126). Penso che il problema sia molto più difficile e complesso e dobbiamo impostarlo correttamente al di fuori dei luoghi comuni di una stantia prassi filosofica e metafisica. La nostra individualità non ha, di per sé, la totalità del reale, non ce l’ha nel senso che non la possiede, pur essendo essa stessa, in potenza, la totalità del reale. Per trasformarsi deve coinvolgersi, mettersi a rischio, correre un pericolo. Se restasse estaticamente immobile, o si lasciasse trascinare nella normalità del movimento relazionale, elemento analitico fra i tanti possibili, non sarebbe altro che un elemento classificabile, senza nessuna particolarità. Questo correre un pericolo richiama alla mente l’esperienza concreta, il susseguirsi di una serie di pericoli, non un accadimento eccezionale. La vita è pericolo, l’esistenza è tranquillità. Ma la seconda non è esente dai perturbamenti quotidiani dell’inquietudine, non può mai trasformarmi in oggetto perfetto, sono sempre sulla strada per diventarlo, ma un sospetto di fondo mi trattiene e mi spinge ad andare avanti per una strada leggermente diversa, non la diversità radicale del territorio della desolazione, ma un residuo di qualità che mi fa ringraziare l’evento straordinario di essere nato. Per la verità, in nessun uomo, per quanto possa essere la sua vita simile a quella di Giobbe, può mancare il breve raggio di luce che lo sollecita all’ottimismo. Solo che per ammetterlo ci vuole coraggio, perché potrebbe essere quello il punto di partenza per il coinvolgimento, il messaggio che indica la presenza di un “ritmo” sconosciuto. Molti, in questo caso, preferiscono tornare ai movimenti usuali e chiudersi la porta dietro le spalle.

La complessità delle ripartizioni relazionali si estende alla totalità del reale, ma attraversando il campo si precisa un orientamento verso il senso che si colora di connotati precisi, i quali, affievolendosi ai confini del campo stesso, ritornano a diventare carichi di qualità all’interno del processo di accumulazione. Questo processo circolare si realizza sempre a partire dalla coscienza e da tutte le vicissitudini dell’individuo, ma nelle situazioni collettive assume un andamento più ampio che solo apparentemente sembra diverso, mentre in sostanza è uguale. C’è un gioco sottile di reciproco rinnegamento tra il peso della classificazione e il bisogno di entrare in altre classificazioni, parallelo al desiderio di portare che si contrappone al bisogno di essere portato. La coscienza si pensa come universo chiuso che si estrinseca soltanto verso il controllo del senso, ma ciò non toglie che altri universi, che da parte loro si considerano allo stesso modo come chiusi, esistano e si aprano a relazioni continue. Qui si intravede il gioco della volontà che si fa carico di tutto ciò che le conviene, di ciò che desidera, di ciò che ambisce, e anche di ciò di cui ha paura, se questo le può arrecare un piacere. E di questo farsi carico, per fini propri, ne fa una bandiera e un modello etico. Bisogna avere sempre un sano sospetto verso queste grandi volontà capaci di imporsi il sacrificio di non fumare quando non hanno l’abitudine di fumare. Dietro questa potenza, accuratamente nascosto, ci sta il bisogno che qualcosa si muova da per sé, una realtà che come dato di fatto diventi improvvisamente atto, cioè azione. Il volontarista spia in continuazione i gesti e i trucchi del determinista per trovare nuova forza per i propri gesti e i propri trucchi.

«“Smarrito è il sentiero! Abisso dintorno, e silenzio di morte!” – L’hai voluto tu! Fu la tua volontà a lasciare il sentiero! Orbene, viandante, è così! Che il tuo sguardo sia freddo e chiaro! Sei perduto, se credi – al pericolo». (F. Nietzsche, La gaia scienza, Preludio, 27)

Tornando all’avventura della diversità c’è da precisare in che modo il frazionamento dalla coscienza sia legato a una considerazione oggettiva, e quindi critica, dell’orientamento verso il senso. In caso contrario, quasi certamente i segni d’inquietudine sarebbero stati del tutto insufficienti a determinare la rottura. Quella considerazione critica dispone la diversità a una nuova classificazione, anch’essa diversa, la quale da catalogazione irrigidita, loculo cimiteriale, ridiventa elemento di propulsione in avanti, strumento con cui incidere sulle ancora troppo esili capacità di interpretazione. Agli inizi, pur nella diversità che da passiva diventa attiva, c’è troppo poca capacità di incidenza. La coscienza ha elementi troppo rigidi per non riuscire, anche dopo la separazione, a condizionare la stessa diversità. In altre parole, agli inizi c’è una sorta di feticizzazione dell’uomo che stenta a scomparire, quindi la classificazione operativa iniziale, i nuovi compiti che la diversità si autopropone, sono troppo impregnati di questo sottinteso antropologismo. La classificazione si modificherà man mano che andrà a cedere questo aspetto troppo primitivo della diversità. «Tutta la storia cristiana – scrive Stirner – si riduce a una guerra di preti bigotti contro l’egoismo, una guerra fra uomini di Chiesa e uomini di mondo. La critica più recente porta solo questo cambiamento: la guerra diventa onnicomprensiva e il fanatismo totale. D’altronde esso potrà finire solo dopo essersi sviluppato e sfogato fino in fondo.

«Che cosa m’importa di sapere se quello che penso e faccio è cristiano o no? Che cosa m’interessa di sapere se è umano, liberale, umanitario, oppure inumano, illiberale, disumano? Purché serva a ciò che voglio, purché io ci trovi la mia soddisfazione, dategli i predicati che volete: per me è indifferente.

«Anch’io lotto magari contro le idee che sostenevo appena un momento fa, anch’io cambio improvvisamente il mio modo d’agire; ma non perché non corrisponde al cristianesimo, non perché è contrario agli eterni diritti dell’uomo, non perché magari fa a pugni con l’idea di umanità, di umanismo e di umanitarietà, ma – perché non mi va più tanto bene, perché non mi procura più un godimento pieno, perché io dubito delle idee di prima o non mi piaccio più nel modo d’agire seguìto appunto finora.

«Come il mondo, in quanto mia proprietà, è diventato un materiale che posso usare come voglio, così anche lo spirito, in quanto mia proprietà, va abbassato a materiale di cui io non ho affatto un sacro timore. Allora io non tremerò più, innanzitutto, davanti a nessuna idea, per quanto temeraria e “diabolica” possa essere, perché, se essa minaccia di diventare per me troppo scomoda e insoddisfacente, io ho il potere di annientarla; ma io non mi ritrarrò tremando neppure di fronte ad azione alcuna perché in essa dimora uno spirito empio, immorale, illegale, così come san Bonifacio non desistette affatto, per scrupoli religiosi, dall’abbattere la quercia sacra ai pagani. Come una volta le cose del mondo son diventate vane, così devono diventare vani i pensieri dello spirito». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., pp. 264-265). Il fondamento di cui qui si parla è nascosto, non si tratta dell’utilizzazione inconscia che chiunque fa del mondo producendo la realtà a immagine e somiglianza delle proprie miserie, ma di un utilizzo diretto, voluto, trovato da sé, con un percorso interiore sul quale agisce, ma fino a un certo punto, la condizione storica e sociale. Qui sta, sotto molti aspetti, il limite di Stirner, in quanto questa tesi presuppone che ognuno sia se stesso e che voglia accedere a esserlo fino in fondo, cosa indispensabile nel processo personale di “utilizzo dello spirito”. Se esistono “intenzioni” ideologiche in circolazione, in linea di principio questo movimento non sarà possibile. Quello che la realtà è la parola può solo indicarlo e con questo condizionare la realtà e tutti i modi di avvicinarsi a essa, ma non può dare indicazioni certe in senso contrario.

Un soggettivismo che si era perso in un processo oggettivante, producendo in sé un’apertura, adesso deve tornare a essere per prima cosa un soggettivismo diverso, per poi diventare, infine, un diverso oggettivismo. Sarà saldata così, nella ricomposizione di qualità e senso, la separazione tra soggetto e oggetto. Ma la diversità non è la coscienza, esse non funzionano allo stesso modo, quindi, riguardo il problema che qui ci occupa, si danno due ordini di classificazioni: quella della diversità è soltanto capace di trovare un orientamento nella mancanza di ordine. Si tratta pertanto di un tipo del tutto particolare di classificazione. «L’oggetto intuito deve essere alcunché in se stesso e non solo qualche cosa per altri: perché altrimenti sarebbe semplicemente rappresentazione, e noi avremmo un assoluto idealismo, che alla fine diverrebbe egoismo teoretico, in quanto verrebbe soppressa ogni realtà e il mondo diverrebbe semplicemente un fantasma soggettivo. Se noi, intanto, senza chiedere altro, ci fermiamo completamente al mondo come rappresentazione, allora certo è la stessa cosa spiegarsi gli oggetti come rappresentazione nella propria testa, o come fenomeni manifestantisi nel tempo e nello spazio: perché il tempo e lo spazio stessi non sono appunto se non nella testa dell’uomo. In questo senso poi si potrebbe certamente affermare un’identità dell’ideale e del reale; ma con questo, dopo che c’è stato Kant, non si sarebbe detto nulla di nuovo. È inoltre evidente che in tal modo non si sarebbe esaurita l’essenza delle cose del mondo fenomenico, ma si rimarrebbe ancora dal lato ideale soltanto. Il lato reale deve essere qualcosa toto genere diverso dal mondo come rappresentazione, ossia ciò che sono le cose in se stesse: ed è questa completa diversità dell’ideale e del reale, che Kant ha dimostrato nella maniera più fondamentale». (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione [1818], II, 18). Anziché trovare uno schema prefissato e su di questo insistere fino a costruire rigidità complesse che si chiamano strutture, la diversità evita gli schemi prefissati e quando è costretta a impiegarli, almeno agli inizi, come certamente accade con il linguaggio, che è la struttura inalienabile che l’accompagnerà per molto tempo, studia i modi migliori per incapsulare queste classificazioni strutturali in nascondimenti e duplicazioni che le privino della loro intrinseca pericolosità. La diversità è tale in quanto localizza se stessa all’interno di una situazione che si contrappone all’esteriorità della coscienza, esteriorità che orienta quest’ultima verso il significato.

La localizzazione della diversità in un territorio diverso da quello della coscienza fornisce di già una particolarità di fondo che viene fatta entrare in ogni tentativo di ridisegnare la mappa del tutto ignota di questo territorio. Ogni contenuto rintracciato in questo nuovo territorio potrebbe semplicemente essere rinviato al senso, ma ad impedire questo ritorno in sé della coscienza interviene la particolarità della differenza, cioè il senso pratico della apertura, il riflesso che questa nuova situazione ha in qualsiasi cosa adesso si intraprenda. La particolarità viene fatta propria dalla diversità e si traduce in strumento interpretativo di ogni contenuto, allo stesso modo in cui l’accumulazione ripetitiva e quindi la ripetitività era strumento modificativo della coscienza. La concretezza della diversità è la sua particolarità, il suo modo unico di porsi di fronte a una realtà che per grandi linee non è modificata di molto dalla precedente situazione in cui operava la coscienza. L’evento centrale è stato quello della rottura. Così Stirner: «Soltanto quando abbiamo imparato ad amarci nel proprio corpo e a godere di noi stessi, del nostro corpo e della nostra vita (ma questo può accadere solo nell’età matura, nell’uomo adulto), solo allora si ha un interesse personale o egoistico, cioè un interesse non solo, mettiamo, del nostro spirito, ma invece un interesse alla soddisfazione totale di tutta la persona, un interesse personale. Confrontate un uomo e un giovane, per vedere se il primo vi appare più duro, meno generoso, più interessato. Ebbene, è per questo peggiore? Voi dite di no: è solo diventato più concreto o, come voi anche dite, più “pratico”. La cosa principale, comunque, è che egli fa di se stesso il punto centrale assai più che non il giovane, il quale “si entusiasma” invece per altre cose, per esempio per Dio, per la patria, ecc.». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., p. 18). L’appello alla concretezza è qui di tipo diverso. Stirner indica l’esistenza di una razionalità intrinseca alla scelta, non dimostrabile con la logica. Il ritmo interno di questa nuova razionalità non appare riconducibile a un “discorso”, sia pure quello del libro stesso di Stirner. Confrontare in questo modo, amando fino in fondo, la propria esistenza, significa sfoltirla di buona parte delle condizioni di precarietà che l’avvolgono dando l’impressione di sostenerla comodamente e di muoverla agevolmente. La stilettata giunge alle fonti della vita, alla luce originaria. Procede con un modello ragionativo che è quello del “sentire”, non della mediazione cosciente, insomma cerca di arrivare alla realtà, non si accontenta di restare alla periferia.

La nuova classificabilità però ha anche un altro elemento di differenza, non può legittimamente aspirare a una qualsiasi completezza. Per quanto primitivo e poco articolato possa essere ai suoi inizi il progetto della diversità, non potrà mai ipotizzare una serie di acquisizioni talmente stabili da essere classificate. Per lo stesso motivo, non potrà nemmeno ipotizzare classificazioni delle modificazioni di se stesso a seguito di nuove acquisizioni e, per concludere, nemmeno classificazioni delle stesse modificazioni. Pur sovravvalutando, agli inizi, il valore e la funzione delle acquisizioni e pur non avendo un’idea esatta di che cosa queste acquisizioni riusciranno a determinare all’interno di un quadro, per il momento, esclusivamente interpretativo, la diversità non può arrivare a ipotizzare una vera e propria classificazione.

Dopo i primi accertamenti riguardanti la mappa del territorio ricognitivo comincerà a imparare tecniche di conoscenza completamente contrarie, fondate sulla logica dell’ “a poco a poco” sempre di meno e sempre di più sulla logica del “tutto e subito”. La classificazione, in quest’ultima prospettiva, sarà quindi diametralmente opposta. Ogni strumento sarà impiegato in una prospettiva totale, quindi pur restando, agli inizi, del tutto identico allo strumento precedentemente impiegato nell’orientamento verso il senso, adesso produrrà un effetto universalizzante. Ogni singolo elemento, ogni problema, ogni valutazione, saranno tutti, singolarmente presi, in grado di fornire una spiegazione quanto più ampia possibile, fino ad arrivare a un’ipotesi di spiegazione complessiva. In questo modo proporranno, di volta in volta, una classificazione nuova, quasi sempre sottintesa, ma lo stesso operante nel caso ce ne fosse bisogno. Poniamo una vittoria, quello che siamo soliti considerare come risultato positivo, non potrà essere sommata a un’altra vittoria, in un’accumulazione interagente, ma singolarmente sarà in grado di pre-spiegare e presagire il proprio stesso sviluppo che si concluderà con una sconfitta e in questa capacità sta ancorato un modello diverso di classificazione. Precisa Arthur Schopenhauer, prendendo le distanze: «In sé, del resto, l’Illuminismo è un tentativo naturale, e in questa misura giustificabile, di attingere la verità. Infatti l’intelletto rivolto verso l’esterno, in quanto nudo organo per gli scopi della volontà e quindi qualcosa di assolutamente secondario, è tuttavia solo una parte di tutta la nostra natura umana: l’intelletto appartiene all’apparenza, e ad essa soltanto la sua conoscenza risponde, in quanto esso esiste soltanto al servizio dell’apparenza. Dunque, sarà più che naturale, se non ci si è riusciti con la conoscenza oggettiva dell’intelletto, mettere in giuoco tutto il resto della nostra natura, che pure deve essere cosa in sé, cioè appartenere alla vera essenza del mondo e quindi portare in qualche modo dentro di sé la soluzione di tutti gli enigmi, onde trovare in ciò qualche aiuto – come gli antichi Tedeschi che, quando avevano giocato tutto per tutto, impegnavano la loro stessa persona. Ma l’unico modo giusto e obiettivamente valido di far ciò è cogliere il fatto empirico di una volontà, che si manifesta nel nostro interno e che anzi ne costituisce l’unica essenza, e applicarlo alla spiegazione della conoscenza obiettiva esteriore; come ho fatto io. Invece la via dell’Illuminismo non conduce, per i motivi detti sopra, allo scopo». (Sulla filosofia e il suo metodo, in Parerga e paralipomena [1851], vol. II, tr. it., Milano 1983, p. 20). Una conoscenza razio nale dell’amore non dice nulla all’innamorato, appartiene a un universo che resta racchiuso nei libri, nelle riflessioni sociologiche di stupidi manipolatori di inchiostri. Le sue spiegazioni razionali e perfino fisiologiche per quanto approfondite non fanno sorgere l’amore tra due persone, possono fornire elementi alla conoscenza reciproca, ma restano fuori della sostanza che interessa loro. Pensare che il movimento di cui discutiamo avvenga per volontà delle persone interessate, per semplice decisione volontaria, significa – come fa Schopenhauer – negare qualsiasi possibilità di vivere l’amore. Non è stato difatti un caso che questo filosofo si sia negato a ogni esperienza amorosa. Ci sono “incontri” che avvengono per strade non rintracciabili su di una mappa logica perché fornite da una “conoscenza fondante” che non si appoggia a niente di precostituito ma che si possono considerare quasi come un improvviso affacciarsi della vita all’interno delle regole dell’esistenza.

La diversità fonda la propria normalità, diametralmente opposta alla normalità accumulativa, su di una proiezione acquisitiva – spesso addirittura sconvolgente per risultati e intuizioni – in vista della morte, cioè della sconfitta del progetto onnicomprensivo del singolo flusso relazionale. Ancora Stirner: «Ma non solo io non esprimo i miei pensieri per amor vostro: io non li esprimo nemmeno per amore della verità. No – Come l’uccello canto / che sopra i rami sta: / la melodia soltanto / mi ricompensa già.

«Io canto perché – sono un cantore. Ma di voi faccio uso e ho bisogno perché ho bisogno di – orecchi che mi ascoltino.

«Quando il mondo mi attraversa il cammino (e lo fa ad ogni momento), io lo consumo per calmare la fame del mio egoismo. Tu non sei per me nient’altro che il – mio alimento, così come anche tu, d’altronde, mi consumi e mi usi. Noi abbiamo l’un con l’altro un solo rapporto: quello dell’utilizzabilità, dell’utilità, dell’uso. Noi non ci dobbiamo niente l’un l’altro, perché ciò che sembra che io debba a te lo debbo, se mai, a me stesso. Se io ti mostro un volto allegro, per rallegrare anche te, è a me che interessa la tua allegria e il volto che ti mostro serve al mio desiderio; a mille altre persone che non è mia intenzione rallegrare non lo mostro affatto». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., p. 220).

La ricerca della qualità è un progetto di morte per arrivare alla vita, un morire concreto e conclusivo, per evitare una morte accumulata attraverso un meccanismo alienante. Anche il successo accumulato delle vittorie può tornare a essere un’accumulazione alienante, distruttiva, livellatrice, ma c’è sempre la possibilità di sovvertire questa prospettiva perché siamo noi stessi dentro il processo questa volta, noi stessi coinvolti con tutto il coraggio che possediamo, anche se poco, anche se incerto. Solo accettando la sconfitta dei propri stessi desideri, della propria avidità esistenziale, dei progetti che sono sempre sovradimensionati, possiamo realmente vivere la nostra vita in modo totale. Infatti, quale altro modo ci può essere per l’individuo di possedere la totalità del reale, quindi di essere semplicemente vivo, se non quello di vincere le proprie battaglie, con i mezzi e gli strumenti che lui stesso ha approntato, compreso il proprio coinvolgimento in vista della sconfitta conclusiva? Ogni altro modo finirebbe nel pantano dell’accumulazione, nel desiderio della costruzione strutturale, nel desiderio insano di continuare la nostra esistenza al di là di quello che essa può realmente significare per noi, cioè concretezza vitale, non illusione. Ma ciò richiede una ingerenza attiva, una potente scossa alla impalcatura difensiva che amo costruire anche senza volerlo. In caso contrario mi pongo il problema, sia pure in maniera nebulosa, ma poi il passo successivo resta irrealizzato, pura problematicità, attesa dell’attesa come avrebbe detto Søren Kierkegaard.

Uscendo dalla concezione chiusa del processo di controllo, la diversità spezza il dualismo interno al ciclo coscienza e senso, ciclo che parzializzava il flusso relazionale intervenendo nella componente di qualità in modo riduttivo. La diversità opera con uno scopo globale, fin dal primo momento della rottura, e questa globalità resterà per diverso tempo anche inesplicata a se stessa, un coinvolgimento dapprima generico e superficiale avrà lo stesso genere di riferimento totalizzante come un coinvolgimento molto più articolato. La realtà oggettivata nel campo, caratterizzata come differenza, nel propendersi verso la ricognizione supera l’antico dualismo fin dal primo momento, indirizzando l’intenzione verso un progetto ancora del tutto inesplorato ma di già sufficientemente presente. Ciò consente di ridurre il movimento della coscienza a semplice fatto psichico, impedendo il ripetersi di una situazione che caratterizzava il meccanismo accumulativo. La diversità scopre nel suo svolgersi quello che essa è, cioè ritrova le proprie partizioni, che sono elementi classificabili dall’interno del campo, ma anche strumenti per aprire il flusso relazionale complessivo. «La sola spiegazione del problema del conoscere è che lo spirito – potenza sintetica a priori – conosce le cose perché le crea, elaborando il dato sensibile che trova in sé e trasformandolo in oggetti che sembrano esistere in sé e per sé. L’Idealismo spiega perché le cose sono in me, ma non spiega perché mi resistano – il Realismo spiega perché mi resistano, ma non spiega in che modo sono in me. L’unica soluzione che concilii in unità ciò che le due opposte tesi hanno di giusto è questa: – le cose sono io (Idealismo) ma mi appaiono estranee e resistenti (Realismo) perché io sono fatto in modo che una parte di me resiste e appare estranea all’altra parte». (A. Tilgher, Il casualismo critico [1941], Roma 1942, p. 18). Ogni momento ricognitivo è sempre ripresentazione del senso, sedimentazione delle inquietudini, anticipazione della qualità, teleologizzazione della cosa. Qui l’accumulazione non avviene per sedimentazione e riorganizzazione, come nel caso del senso, ma avviene per riproposizione della totalità nel singolo movimento. Tutto l’originario flusso relazionale viene rivissuto nel nuovo orientamento verso la qualità, nella nuova responsabilità attuale, nello slancio verso l’avventura e il coinvolgimento. Chi osserva il processo, e non può farlo se non dall’interno del campo, è portato piuttosto a considerare una sorta di banale contrapposizione tra due modi diversi, ma in fondo identici, di trattare il senso. Ma la cosa non sta così. Non si tratta di un modo di porsi diverso, ma di una diversità ben più radicale che riprende continuamente ogni apporto relazionale, spingendo in avanti, verso una classificazione continuamente rifondata, in cui non c’è nulla di definitivamente scomparso, ma tutto si ripresenta circolarmente, nella sua totale interezza, per proporre non una riorganizzazione, ma una riclassificazione. Il senso viene reso di nuovo vivente, elemento di scontro e di dubbio, gioco e violenza, perplessità e scommessa, non sedimento che lentamente si deposita per poi disporsi a tardivi processi di sistemazione di scarso significato, almeno dal punto di vista qualitativo. Ogni contenuto viene ripresentato nella differenza, classificato di nuovo, per ogni nuovo movimento ricognitivo, per ogni interpretazione, per ogni salto nel territorio della cosa. Per la prima volta la coscienza ha prodotto il presente e lo ha potuto produrre in quanto differenza e scarto, elemento estraneo, inquieto e capace di determinare turbamenti. «Se la religione ha affermato – dice Stirner – che noi siamo già tutti peccatori, io affermo precisamente il contrario: noi siamo già perfetti! Noi siamo infatti in ogni momento tutto ciò che noi possiamo essere e non c’è mai bisogno che siamo qualcosa di più. Siccome non ci manca niente, anche il peccato non ha alcun senso. Mostratemi ancora un peccatore il giorno in cui nessuno dovesse soddisfare più un essere superiore! Se io devo soddisfare solo me stesso, non sono un peccatore nel caso che non mi soddisfi, perché non violo in me niente di “sacro”; se invece devo essere devoto, ecco che devo soddisfare Dio; se devo essere umano, ecco che devo soddisfare l’essenza dell’uomo, l’idea dell’umanità, ecc. Colui che la religione chiama “peccatore” viene detto dall’umanitarismo “egoista”. Ma ancora una volta bisogna ripetere che, se io non ho il dovere di soddisfare nessuno, l’ “egoista” (del quale l’umanitarismo ha fatto un diavolo all’ultima moda) è un’assurdità. L’egoista che fa rabbrividire gli umanitari è uno spettro esattamente come lo è il diavolo: egli esiste solo come babau e come chimera nel loro cervello. Se essi non avessero continuato a oscillare fra l’uno e l’altro polo dell’antichissimo contrasto di bene e male, ai quali hanno dato i nomi moderni di “umano” ed “egoistico”, non avrebbero neppure riverniciato il vecchio “peccatore” facendone “l’egoista”, rattoppando con una pezza nuova un vestito vecchio. Ma non potevano fare altrimenti: essi ritengono infatti sia loro dovere essere “uomini”. Dei buoni si sono sbarazzati, ma il bene è rimasto!

«Noi siamo già perfetti e in tutta la terra non c’è un solo uomo che sia un peccatore! Ci sono pazzi che si credono di essere Dio Padre, Dio Figlio o l’uomo della luna, e il mondo brulica anche di pazzi che s’immaginano di essere peccatori; ma, come i primi non sono uomini della luna, così i secondi non sono – peccatori. Il vostro peccato è immaginario». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., pp. 265-266). Chi attende il sacro è nel mondo immaginario che gli è stato costruito attorno attraverso una sedimentazione di secoli. La sua attesa costringe l’ipotesi immaginaria a venirgli incontro, e difatti una gran produzione di immagini è destinata a questo scopo: surrogati di una realtà che per poterla prendere bisognerebbe rinunciare all’attesa. Il confine tra queste due modalità di movimento è sottile, molti sono coloro che ritengono si tratti di una sfumatura, di un dettaglio senza importanza. Il mistero sopravviene e lo si sostituisce alla realtà che così resta lontana e non raggiunta. L’attesa continua mentre una pienezza irraggiungibile corrobora colui che attende.

La diversità classifica una realtà che adesso, fuori del meccanismo accumulativo, ricomincia sempre daccapo. Mentre l’accumulazione era un processo all’infinito, come una progressione geometrica, il lavoro molteplice della diversità è un continuo cominciamento. Anche qui non abbiamo nulla da svelare, non dobbiamo denunciare nessun processo di occultamento oggettivo della realtà, nessun progetto di strumentalizzazione, nessuna forza sotterranea da cogliere e sottoporre ad analisi. Non ci sono termini obbligati di funzionamento, tanto meno c’è validità per le classificazioni che potremmo mutuare dall’accumulazione. «La distinzione fra potere e forza è anche evidente in una sfera del tutto diversa: quella della devozione religiosa, nelle sue molteplici sfumature. Ogni fedele sta costantemente in balìa della forza del dio e ne è a suo modo soddisfatto. Le religioni di questo tipo accentuano il concetto di predestinazione divina, l’Islam e il Calvinismo sono specialmente noti per questa tendenza. I loro fedeli anelano alla forza divina». (E. Canetti, Massa e potere [1960], tr. it., Milano 1988, p. 340). C’è un continuo e incessante implodere nella diversità, la quale comincia a dilagare e quindi, come si suole dire, ha anch’essa necessità di elevare steccati e segnali provvisori di riconoscimento. Ma non sono questi i suoi veri e propri obiettivi, quando si solidificano la diversità è di già diventata qualcosa d’altro, un residuo che rinvia e che serve a colmare gli abissi angoscianti dell’attesa.

Le tracce di questo percorso della diversità non sono quindi né disoccultamento, né rinnovamento di quanto è avvenuto altrove. Sono una nuova presentazione e un rinnovamento molteplice che comprende sia il senso che le nuove capacità di cogliere l’orientamento verso la qualità. Quanto arriva al meccanismo di accumulazione e quanto viene man mano attirato dal lontano orientamento verso la qualità. C’è quindi una classificazione diversa che è rifondazione, nel ricominciare daccapo, nel coraggio di coinvolgersi sempre nel medesimo problema che è quello della vita, problema che una volta affrontato si rivela sempre diverso, continuamente in profonda modificazione, continuamente in via di interpretazione e di trasformazione. «Il contrasto fra reale e ideale è inconciliabile e l’uno non può mai diventar l’altro; se l’ideale diventasse reale, non sarebbe appunto più l’ideale e se il reale diventasse ideale, ci sarebbe soltanto l’ideale, ma non il reale. Il contrasto fra i due può esser superato soltanto se si annulla l’uno e l’altro. Solo in questo “si”, nel terzo elemento, il contrasto trova la sua fine; altrimenti, invece, idea e realtà non possono mai collimare. L’idea non può esser realizzata restando idea, bensì solo morendo come idea, e lo stesso vale per il reale». (M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, op. cit., p. 267). Non si deve confondere quello che avviene tra le persone con quello che avviene tra le teorie. Queste non si incontrano, non si compenetrano, vengono filtrate attraverso il fare e qui trovano corpo come oggetti, possono allora far parte di una collezione più o meno vasta e diventare parte dell’equipaggiamento che accompagna nelle discussioni e nelle cosiddette riflessioni, il più delle volte attraverso il filtro del ricordo standardizzato, della rielaborazione di accumulo, il che equivale a dire che risultano teorie ridotte ai minimi termini, speculazioni mediate dalla intenzionalità singola la quale, a sua volta, è in preda alle necessità della volizione. Spezzare questi luoghi comuni potrebbe dare nuovo impulso al discorso stirneriano. Il contrario non mi sembra più possibile.

La classificazione differente di cui parlo è quindi la riassunzione di tutte queste proiezioni all’interno di un’unica relazione, capace continuamente di andare oltre e di restare nella identica intenzione sia riguardo l’obiettivo finale che la produzione degli strumenti idonei al suo raggiungimento. «Se il rinvio all’infinito delle cose mezzi non rinvia mai a un per sé che io sono, la totalità delle cose mezzi è il correlativo esatto delle mie possibilità. E siccome io sono le mie possibilità, l’ordine delle cose mezzi nel mondo è l’immagine proiettata nell’in sé delle mie possibilità, cioè di ciò che io sono». (J.-P. Sartre, L’être et le néant, Paris 1950, p. 251). La classificazione della totalità, è sempre una continua ridefinizione del movimento, un’individuazione inesausta delle diverse specificazioni che continuamente si annullano per poi ripresentarsi ancora una volta differenziate e capaci di produrre nuove differenze. Ciò non vuol dire che questa “corrispondenza” sia percorribile nei due sensi. Un passo indietro scoprirebbe il legame occulto che tiene in piedi qualsiasi concezione di fruibilità, un ricordo sacralizzato dell’origine, un ricordo del tutto alieno da qualsiasi plausibilità che comunque viene trascinato di qua e di là in attesa di sacrificarlo alla definitiva conclusione della completezza. Non arrivando mai questa fase “conclusiva”, il padre ispiratore della manovra resta lontano e al sicuro, il sacro è ancora tale e non viene rimesso in discussione.

In questo sviluppo, che tutto riassume e ripropone in modo sempre nuovo, c’è l’unità relazionale della singola diversità, in cui si ricongiunge l’unità relazionale della totalità del reale. Per questo singolo punto comincia a passare una totalità che era rimasta bloccata dall’iperattività di controllo realizzata dalla coscienza, l’ostacolo che aveva segnato la divaricazione del flusso. L’intenzione diversa implica una diversità relazionale oggettiva, un disporsi diverso del mondo, con caratteristiche maggiormente sottolineate, per i nostri strumenti di conoscenza, all’interno del campo, ma capaci di continuare al di fuori in una proiezione totale. Vista dall’interno del campo questo implodere della classificazione appare difficile a comprendersi ma, non appena la riflessione si sposta, dalle relazioni che legano questa piccola porzione di realtà alla realtà nel suo insieme si capisce meglio, se non proprio definitivamente, il continuo tornare su se stessa della diversità, movimento specifico del suo procedere oltre.

L’apertura scaraventa fuori della coscienza una potenzialità relazionale che fissa raccordi di senso con il processo accumulativo e con le altre diversità. Ancora Jean-Paul Sartre: «L’uomo non è altro che una serie d’intraprese, è la somma, l’organizzazione, l’insieme delle relazioni che costituiscono queste intraprese». (L’existentialisme est un humanisme, Paris 1946, p. 58). Il pensatore francese non spiega però in che modo queste “intraprese” siano potenzialmente aperte alla trasformazione. Per quel che è dato sapere potrebbero restare per sempre racchiuse nel nucleo del fare. Più mi avvicino a capire questa differenza e più l’incolmabile distanza tra la vita e l’esistenza mi appare nella sua evidenza.

La necessità di classificare in modo nuovo queste differenze è certo diversa per quanto riguarda le situazioni di inquietudine in corso nella coscienza, a livello individuale e a livello collettivo. Molti di questi movimenti inquieti sono perdenti, nel senso che non matureranno mai come vere e proprie rotture della coscienza, per cui resteranno sempre e soltanto esteriorizzazioni del senso, contraddizioni nei rapporti di catalogazione e null’altro. I motivi di queste perdite possono essere conosciuti dalla diversità operante, e anche ciò costituisce elemento di classificazione. Il mancato scarto è pur sempre presente nell’accumulazione e quindi si riflette, in modo tutto da verificare, anche nella diversità in fase di realizzazione. «O mio popolo tedesco – scrive Stirner –che molti tormenti hai dovuto sopportare – qual è stato il tuo tormento? Era il tormento di un pensiero che non sa crearsi un corpo, il tormento di un fantasma vagante che prima di ogni canto del gallo svanisce nel nulla e tuttavia continua a bramare la redenzione, il compimento. Anche in me hai vissuto ben a lungo, tu caro – pensiero, tu caro – fantasma. Quasi pensavo d’aver trovato la parola che ti avrebbe redento, d’aver scoperto carne ed ossa in cui lo spirito vagante avrebbe potuto incarnarsi, ed ecco che sento suonar le campane che ti accompagnano al riposo eterno e svanisce l’estrema speranza, sfuma l’ultimo amore, e allora io mi distacco dalla desolata casa dei morti e torno fra i – vivi: “Infatti solo chi vive ha ragione”». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., p. 161). Richiamarsi alla realtà, alla fine di tutte le coperture, è una forma ulteriore di trascendimento? Secondo Stirner la risposta è negativa. Il suo appello commovente è sincero, oggi sappiamo che ha un limite. Il postulato della forza deve contenere in sé le premesse stesse del richiamo alla forza, in altre parole fuggire dalla casa dei morti è possibile ma la fuga è subito segnalata e il muro circondariale si sposta, pensare immobile questo muro – contrassegno di ogni legame – è una illusione come un’altra. Se si sposta non abbiamo che la prospettiva di una ulteriore prigionia. Questa conclusione triste è soltanto in parte vera, e il punto di rottura sta proprio nel trovarsi di colpo al di là, con un salto, mentre il passaggio vero e proprio, ragionevolmente progressivo, a quel che sembra risulta impossibile. Non c’è un punto assoluto (la forza) da cui giudicare il mondo. C’è invece un uso possibile della forza (ma, in questo caso, anche della debolezza) per aggirare i processi di inglobamento. L’itinerario che ne consegue non sarà mai progressivo.

Capovolgendo il problema, la diversità fin dal primo momento della separazione dalla coscienza stabilisce un flusso relazionale indirizzato verso la qualità. Ancora senza rendersene conto, quindi, fissa un progetto che deve tutto venire alla luce, ma che in quanto problematicamente totale è di già in atto nel momento stesso che viene fissato. La classificazione deve anche tenere conto di questo. La diversità nasce nel mondo della qualità ed è di già sufficientemente matura per il salto nel territorio della cosa. Ma questi movimenti vengono continuamente ritardati non tanto dall’assenza della qualità e della cosa, quanto dalla vita stessa che riassume in se stessa tutti questi movimenti, nel singolo battito d’ali di un uccello, ma ha bisogno che vengano esperiti singolarmente all’interno del campo. «La validità oggettiva di ogni sapere empirico poggia sul fatto, e soltanto sul fatto, che la realtà data viene ordinata secondo categorie che sono soggettive in un senso specifico, in quanto cioè rappresentano il presupposto della nostra conoscenza, e che sono vincolate al presupposto del valore di quella verità che il sapere empirico soltanto può darci. A colui che non consideri fornita di valore questa verità – e la fede nel valore della verità scientifica è infatti prodotto di determinate culture, e non già qualcosa di dato naturalmente – non abbiamo nulla da offrire con i mezzi della nostra scienza. Invano egli andrà in cerca di un’altra verità che possa sostituire la scienza in ciò che essa soltanto può fornire, concetti e giudizi che non sono la realtà empirica, e che neppure la riproducono, ma che consentono di ordinarla concettualmente in maniera valida. Nel campo delle scienze sociali empiriche della cultura, noi l’abbiamo visto, la possibilità di una conoscenza fornita di senso di ciò che per noi è essenziale nella infinita quantità del divenire appare vincolata al costante impiego di punti di vista di carattere specifico, i quali da parte loro possono essere empiricamente constatati e vissuti come elementi di ogni agire umano fornito di senso, ma non già fondati validamente in base al materiale empirico. L’ “oggettività” della conoscenza della scienza sociale dipende piuttosto da questo, che il dato empirico è continuamente indirizzato in vista di quelle idee di valore che sole gli forniscono un valore conoscitivo, ed è inteso nel suo significato sulla loro base, ma tuttavia non diventa mai piedistallo per la prova, empiricamente impossibile, della loro validità. E la fede, che sempre è in qualche forma presente della scienza sociale e della politica sociale in tutti noi, nella validità sovra-empirica delle ultime e supreme idee di valore, non esclude ma reca con sé l’incessante mutabilità dei punti di vista concreti da cui la realtà empirica deriva un significato: la vita nella sua realtà irrazionale ed il suo contenuto di possibili significati sono inesauribili, mentre la concreta configurazione della relazione di valore rimane fluida, sottoposta com’è al mutamento nell’oscuro avvenire della cultura umana. La luce, che emana da quelle supreme idee di valore, cade sempre su una parte finita, e continuamente mutevole, dell’immensa e caotica corrente degli avvenimenti che fluisce nel tempo». (M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali [1922], tr. it., Torino 1958, pp. 134-135). Siamo davanti a un riconoscimento parziale della condizione circoscritta del fare. La ricerca ambisce a diventare sistema ma non ci riesce, i ricercatori più attenti notano questa impossibilità. Nessun assoluto può fornire un punto di riferimento valido alla ricerca, si tratta sempre di un procedimento, di un percorso. Questo percorso è la ricerca stessa e la ricerca è l’uomo che cerca. La diversità, pur presentandosi come “altro”, è potenzialmente nel flusso complessivo delle relazioni, ma è pur sempre un’espressione relazionale del campo, cioè una situazione specifica, individuale o collettiva, un elemento che parzializza proprio nel momento in cui tocca il punto essenziale del suo riconoscersi, esso stesso, totalità e quindi tornare a classificare un’altra volta.

Questa finitezza dell’infinitezza, che si riflette nel suo esatto contrario, è un problema che accompagna tutta la filosofia relazionale, contraddistinguendola dalle filosofie analitiche e da quelle dialettiche, dagli empirismi e dagli idealismi. La specificità procede a individuare percorsi, rapporti, strutture, sezioni di mappa, territori complessi, obiettivi e strumenti da impiegare, ma non lavora più col vecchio metodo fondato sulla logica dell’ “a poco a poco”, per cui ogni volta che considera uno di questi elementi si ritrova ad assumere il fondo comune di tutti gli altri elementi, che così diventano, tutti in una volta, facenti parte della propria specificità, che è essa stessa, a sua volta, parte degli elementi di altre specificità. Una classificazione del genere è possibile soltanto con un metodo basato sulla logica del “tutto e subito”, ed è quello che sto cercando di realizzare. Ecco Stirner: «L’oggetto ci trasforma in ossessi, nella sua forma sacra non meno che in quella profana, come oggetto sovrasensibile non meno che come oggetto sensibile. Desiderio e mania hanno di mira sia l’una sia l’altra cosa: l’avidità di denaro e la nostalgia del paradiso sono allo stesso livello. Quando gli illuministi volevano conquistare la gente al mondo sensibile, Lavater predicava la nostalgia per l’invisibile: c’è chi vuol commuovere gli uomini e chi vuole smuoverli». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., p. 250). Non c’è un quod che può “smuovere”, solo un “quo” che indica forza piena, anche se non collocabile temporalmente in qualcosa di preciso. Non appena si identifica l’uomo al centro di questo processo, ecco che ricompare il sacro. La misteriosa pienezza dell’azione viene appannata dalla dettagliata mania riproduttiva del fare.

Se ben si osserva, si tratta di una continuità, la stessa che sarebbe stata rintracciabile anche all’interno del meccanismo di accumulazione se non fosse stata tradita, fino a un certo punto, dalle intenzionalità di controllo della coscienza e dal lavoro di scarnificazione della qualità operato nell’orientamento verso il senso. Con la diversità si ha quindi un ripristino piuttosto violento di questa continuità, che è riflesso della totalità del reale, ma anche del lavoro della volontà. «Non abbiamo oggi più alcuna pietà per il concetto di “volontà libera”: lo sappiamo anche troppo bene che cosa sia – il più malfamato trucco dei teologi che sia mai esistito, mirante a rendere l’umanità “responsabile” nel senso loro, ossia renderla a essi soggetta». (F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli [1888], I quattro grandi errori, 7). La volontà è epocale, mi inserisce nel tempo, mi vuole a parte hominis. Per fare ciò mi riconduce all’origine, al sacro, al fondamento, in altre parole, mi porta verso Dio. È questo il motivo perché gli atei – volontariamente contrari a Dio – sono gente pia. Nell’àmbito del campo anche la diversità appare come continuità di tempo e di spazio, coordinate che ben presto scompaiono non appena ci si avvicina ai limiti di affievolimento e di intensificazione che caratterizzano i passaggi all’insieme delle relazioni, alla logica del “tutto e subito”.

La nuova classificazione è un fatto concesso dentro certi limiti, non tanto temporali, quanto di contenuto. Infatti si tratta di una lotta per fissare un senso che viene travolto ben presto dalla presenza relazionale della qualità o da una disposizione della diversità verso la qualità. In un modo o nell’altro, le singole individuazioni che così sono realizzate risultano utili per una critica negativa delle accumulazioni del senso, all’interno delle quali operano catalogazioni molto rigide che vengono fatte passare come punti fermi della verità o della verificazione operativa della scienza. Il principale insegnamento di questa impostazione è quello di rifiutare ogni risposta definitiva, ogni certezza assoluta, ogni affermazione dogmatica che ponga fine alla critica negativa. La continuità circolare, all’interno della quale, una volta realizzata la saldatura tra qualità e senso, si andranno a collocare infinite serie di classificazioni sempre diverse, non è il cerchio angusto delle eterne ripetitività. Tutt’altro. Al suo interno, nella ripetizione come implosione degli eventi relazionali, nulla accade di identico, ma tutto è profondamente diverso, tutto è continuamente in crisi, e proprio per questo non è corretto parlare di crisi come situazione transitoria destinata a sistemarsi quando che sia in una fase superiore o inferiore. «L’intrepidezza dialettica non si acquista così facilmente e il sentimento di trovarsi soli, anche se si crede di aver ragione, il prendere congedo dall’ammirazione con i maestri accreditati, è il suo discrimen. Certamente non è senza stupore che il dialettico sente dire dallo stesso sistematico: il sistema non è ancora portato a termine. Ahimé, con la conclusione sarà dunque tutto chiaro: ma la conclusione non c’è ancora! Il dialettico non ha ancora acquistato l’intrepidezza dialettica, altrimenti questa gli avrebbe insegnato ben presto l’ironia di sorridere di un progetto simile, dove il prestigiatore si è abbondantemente fornito di scappatoie: perché è una ridicolaggine il considerare tutto come compiuto e dire per conclusione che la conclusione manca! Infatti se manca la conclusione quando si è giunti alla conclusione, è segno che manca anche al principio. Questo lo si dovrebbe quindi dire fin da principio. Ma se la conclusione manca dal principio, questo significa: non esiste alcun sistema. Si può certamente portare a termine una casa, e vi può ancora mancare la corda del campanello; ma rispetto alla costruzione della scienza la mancanza di conclusione ha una forza retroattiva da rendere l’inizio dubbioso e ipotetico: cioè non sistematico. Così fa l’intrepidezza dialettica. Ma il dialettico non l’ha ancora acquistata». (S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia [1846], tr. it., vol. I, Bologna 1962, pp. 210-211). Il dogmatismo è un imbroglio che raccoglie grandi successi fra gli ingenui. La dialettica è un imbroglio forse più difficile da fronteggiare. Fa velo quell’ipotesi di “apertura” che tutti sono stati educati a vedere sotto i confronti contrapposti. Per avere qualcosa fuori di sé è necessario che il qualcosa non sia stato dichiarato assoluto. Infatti la caratteristica essenziale dell’assoluto è la sua complezza. Ma giochi simili si possono fare anche col relativo che fronteggia la sua contraddittorietà. Gli animali dialettici mordono allo stesso modo ma lasciano segni diversi. In effetti, la continuità rimettendo tutto in discussione fissa per sempre una incertezza di fondo della realtà che corrisponde con un movimento totale. Cedere alla tentazione di una formulazione definitiva significa accettare di ripristinare la validità dell’accumulazione, trasformando in una feticizzazione nuova la stessa diversità e tutto il coraggioso e doloroso processo di rottura della coscienza. Così Stirner: «Ma che cosa accadrebbe se l’inumano, voltando coraggiosamente e risolutamente le spalle a se stesso, si liberasse anche del critico che lo tormenta, lasciandolo solo con le sue obiezioni, dalle quali non si sente più minimamente toccato? “Tu mi chiami ‘inumano’ ” potrebbe dirgli “e io lo sono veramente – ma solo per te: lo sono soltanto perché tu mi contrapponi all’umano. Io ho disprezzato me stesso solo finché mi sono lasciato inchiodare in questa contrapposizione. Ero spregevole, visto che cercavo il mio ‘io migliore’ fuori di me; ero inumano, perché sognavo l’ ‘umano’; assomigliavo a quelle persone pie che bramano il loro ‘vero io’ e restano sempre ‘poveri peccatori’; io mi concepivo solo confrontandomi con altri; insomma, io non ero il tutto in tutto, non ero – unico. Ma adesso smetto di considerarmi inumano, smetto di misurarmi e di lasciarmi misurare in relazione all’uomo, smetto di riconoscere qualcosa al di sopra di me, e con questo ti saluto, caro il mio critico umanitario! Inumano, lo sono solo stato, ma ora non lo sono più: adesso sono l’unico, anzi, sono, per tuo scandalo, l’egoista, ma non l’egoista in quanto si lascia misurare in base alla contrapposizione con l’umano, l’umanitario e il disinteressato, bensì l’egoista come – unico”». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., p. 112). L’ “unico” non è l’altro lato della medaglia, ma l’assolutamente diverso, non è il pensamento critico del sacro, ma è il positivo di quest’ultimo valore, un rifiuto rassodato nella decisione di acquisire consapevolezza della propria condizione di possibile diversità. Il vero e proprio salto resta sempre al di là dell’ “egoista”. Lo straniero, il “barbaro”, sono altra questione e fin quando questa altra faccenda non sarà dipanata fino in fondo si continueranno a portare avanti parecchi equivoci. Se gli atei sono gente pia gli unici non lo sono soltanto a condizione di non credersi assolti dal movimento che libera dalla sacralità. Se l’ “unico” si pensa ormai arrivato, è perduto. Nessun pensiero è sufficientemente maturo per dirsi in grado di completare la differenza. Chi è al di là non ha cognizione alcuna del “sacro” contro cui Stirner ha tante frecce nel suo arco, e ciò dipende dal fatto – evidentissimo – che sia Stirner che il suo arco si trovano da questa parte, ancora bene impiantati nelle radici del “sacro”.

Dobbiamo sempre tenere presente il coinvolgimento nella diversità, evitando di correre il rischio, abbastanza grave, di considerare quest’ultima come un’espressione esclusivamente oggettiva, o come una proiezione soggettivistica della coscienza. Non possiamo difatti applicare le regole dell’ “a poco a poco” alla diversità, proprio perché questa ha rotto col mondo della riduzione a oggetto, col mondo della produzione del senso, ma una volta operato il distacco, e iniziato il procedimento classificatorio nuovo, potremmo, anche dall’interno del coinvolgimento, sia pure per un moto dell’animo dettato dalla paura, ripristinare il metodo che ci dava prima tanta sicurezza. Occorre salvaguardare l’intenzione del gioco, il mettersi a rischio.

Ciò salva l’individualità della differenza, perché questo continuo finalizzare la totalità nella prospettiva della diversità crea sempre situazioni e condizioni diverse, mai identiche. Il fascino di questa prospettiva è senza limiti, sconvolgente fino in fondo. È qui che nasce l’elemento incommensurabile, proprio lo scarto della stessa classificabilità, la passione che ci porta verso il singolo, il punto infinitesimale in cui si riassume l’insieme di tutte le possibilità, delle nostre e delle altrui possibilità. È così che amo realmente una persona, che la vita di quella persona diventa la mia vita, unica e irripetibile, proprio perché nel suo continuo modificarsi non è la stessa mai. Un fondamento come quello dell’accumulazione non mi poteva soddisfare. L’uomo non può vivere senza avventura. Ridotto a momento produttivo di semplici modificazioni, infiacchisce e muore. «L’individualità inerisce in verità anzitutto all’intelletto, il quale, rispecchiando il fenomeno, appartiene al fenomeno, che ha come forma il principium individuationis. Essa però inerisce anche alla volontà, in quanto il carattere è individuale: ma esso stesso viene eliminato rinnegando la volontà. L’individualità è dunque inerente alla volontà soltanto nella sua affermazione, ma non nella sua rinnegazione. La stessa santità, che è congiunta ad ogni azione puramente morale, dipende da ciò, che questa deriva, in ultima analisi, dall’immediata conoscenza dell’identità numerica dell’intima essenza di tutto ciò che è vivente. Questa identità, però, si trova soltanto nello stato di rinnegazione della volontà (nirvana), perché la sua affermazione (sansara) ha come forma la sua manifestazione nella molteplicità. Affermazione della volontà di vivere, mondo del fenomeno, diversità di tutti gli esseri, individualità, egoismo, odio, malvagità derivano da una sola radice; similmente, al contrario, mondo della cosa in sé, identità di tutti gli esseri, rettitudine, amore del prossimo, rinnegazione della volontà alla vita. Se ora, come ho sufficientemente mostrato, già le virtù morali nascono dalla comprensione di quella identità di tutti gli esseri, questa però si trova non nel fenomeno, ma solo nella cosa in sé, nella radice di tutti gli esseri; allora l’azione virtuosa è un passaggio momentaneo attraverso il punto, al quale definitivamente si ritorna con la rinnegazione della volontà di vivere». (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 48). La distinzione tra soggettività e oggettività riflette le peggiori conclusioni dell’idealismo. La struttura mitica di ognuna di queste componenti si modifica continuamente proiettando il contenuto dell’una in quello dell’altra e viceversa, ma in nessun momento di questi passaggi c’è una condizione accertata, sono sempre situazioni mitiche che vengono considerate come la realtà e che, per questo solo fatto, hanno conseguenze sulla realtà.

Ma l’individualità contiene un paradosso: nella sua qualità, una volta raggiunta, vuole inserire un senso, spesso a forza, mentre nel senso, una volta rielaborato, vuole escludere la qualità. Ciò può essere certamente evitato, in quanto, a ben vedere, ripresenta il destino circoscritto della coscienza, ma solo riprendendo sempre in mano le condizioni del coinvolgimento. Voglio dire, in condizioni più sottili e specifiche, nel procedere ricognitivo, la stessa diversità non è mai garantita, può sempre incappare nella ripetitività, con dongiovannesca testardaggine può non vedere l’ombra del destino del senso dietro l’apparenza della differenza sempre nuova e allettante. Nel destino, senza dubbio diverso, almeno agli inizi, del burlador moliniano c’è il rifiuto dell’autorità, la ribellione contro il controllo paterno, opprimente, gigantesco, ridotto nei termini simbolici del convitato di Mozart. Ma la ribellione non intacca il simbolo, né del padre, né della donna, segno forse della paura e dell’estremo territorio della diversità vissuta come oggetto, non come cosa, quindi in quanto ribellione morde a vuoto, e si smarrisce senza nessun possesso, senza poter dire che di tanta fatica e di tanta lotta sia restata una traccia, un segno concreto di trasformazione. Ancora Stirner: «Che differenza fra la libertà e l’individualità propria! Ci si può sbarazzare di moltissime cose, ma non di tutto; ci si libera da tante cose, ma non di tutto. Interiormente si può essere liberi nonostante la condizione di schiavitù, sebbene anche solo interiormente si possa ancora una volta esser liberi soltanto da cose di tutti i generi, non da tutto; ma dalla frusta, dal capriccio imperioso del padrone, ecc., non si può, in quanto schiavi, liberarsi. “La libertà vive solo nel regno dei sogni!”. La mia propria individualità, invece, è tutto me stesso: la mia essenza e la mia esistenza, sono io stesso. Io sono libero da ciò di cui mi sono sbarazzato, privato, ma sono proprietario di ciò che è in mio potere o di ciò che posso. Mio proprio lo sono in ogni momento e in qualsiasi circostanza, purché io sappia restare padrone di me e non mi getti in pasto agli altri. Io non posso neppure veramente voler essere libero, perché non è cosa che io possa realizzare o creare: io posso soltanto desiderare di esser libero, aspirarvi in ogni modo: si tratta, infatti, di un ideale, di un fantasma. Le catene della realtà scavano nella mia carne in ogni momento le ferite più profonde. Ma io resto mio. Schiavo di un padrone, io penso solo a me stesso e al mio vantaggio; certo, le sue percosse mi colpiscono: io non ne sono libero; ma io le sopporto solo per calcolo, per un mio vantaggio, per esempio per ingannarlo e ammansirlo mostrandomi paziente, oppure per non attirarmi, con la mia resistenza, qualcosa di peggio. Ma siccome io ho in mente me stesso e il mio proprio interesse, coglierò a volo la prossima occasione propizia per schiacciare il padrone. La mia liberazione da lui e dalla sua frusta sarà allora semplicemente la conseguenza del mio egoismo precedente. Si obietterà forse che io posso essere stato “libero”, cioè “libero in me” o “interiormente”. Ma “libero in sé” non significa “realmente libero” e “interiormente” non significa “esteriormente”. Il mio corpo non è “libero” dalle torture e dalle frustate che subisce sotto il dominio di un padrone spietato; ma sono le mie ossa che scricchiolano sotto la tortura, sono le mie fibre che spasimano sotto i colpi: sono io che gemo, perché il mio corpo geme. Il fatto che io soffro e tremo dimostra che sono ancora in me, ancora padrone di me: io resto mio. La mia gamba non è “libera” dalle percosse del padrone, ma è la mia gamba, da me inseparabile. Il padrone provi un po’ a strapparmela e poi guardi se quel che ha in mano è ancora la mia gamba! Quel che tiene in mano non è altro che il cadavere della mia gamba, che è tanto poco la mia gamba quanto un cane morto è ancora un cane: un cane ha un cuore che pulsa, un cosiddetto “cane morto” non lo ha e perciò non è più un cane». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., p. 119). L’universo del “mio” è coerente, e per questa sua coerenza è stato sottratto, dallo sforzo di Stirner, all’utilizzo improprio e degradante di mezzo per uno scopo estraneo. Adesso, chiuso nella dimensione dell’ “unicità”, questo universo si rende conto di entrare in una risoluzione ontologica del proprio fondamento, o accetta questo passaggio – giustificandosi come possesso qualificante – o lo rifiuta e, in questo caso, non può costituire un valore capace di azzerare le precedenti categorie. La soluzione dell’ “unione” non soddisfa fino in fondo. Il possesso pretende di salvare l’uomo “oggettivamente”, nella concretezza della gamba che è mia e che vive in quanto tale solo perché è mia, non quando mi viene strappata via. Sono io a darle la vita e lei fornisce quel completamento proprietario che mi abbisogna perché io possa essere me stesso. Tutto ciò è convincente, ma non ci dice ancora in che modo stare in guardia contro il nuovo valore che si profila all’orizzonte, e che pretende l’investitura sacrale.

In contrapposizione alla monotonia e alla condanna, perché il senso ultimo del burlador è proprio questo, di un’autocondanna, si pone l’ampiezza di un diverso paradosso, quello della molteplicità degli elementi costretta a una riassunzione unitaria intenzionata verso una pluralità fittizia di esiti. Così l’amore, gli atteggiamenti quotidiani, le lotte, i colori della natura, gli scontri verbali, le miserie, gli slanci di passione, le riflessioni filosofiche, finiscono per sottostare a un disegno classificatorio paradossale. Da una iniziale separazione di temi si arriva a una derubricazione intermedia, un lavoro da provetto anatomista: atomi, schegge, pezzi, frammenti vengono distribuiti secondo una logica che resta ancora quella dell’ “a poco a poco”, per subire sempre continue modificazioni e sempre nuove classificazioni. Così, la singola intuizione diventa un grande mosaico, in cui ogni tassello trova il suo posto logico in base a un suggerimento globale, non più parziale. In quanto elemento parziale esso è di già morto, soppresso insieme alla sua relativa classificazione. «Anche i nostri sforzi più riusciti possono produrre soltanto una rete le cui maglie sono troppo grossolane per il determinismo. Noi cerchiamo di esaminare il mondo esaustivamente attraverso le nostre reti; ma le loro maglie lasceranno sempre sfuggire qualche pesciolino: ci sarà sempre abbastanza spazio per l’indeterminismo». (K. Popper, Poscritto alla Logica della scoperta scientifica [1983], vol. II, L’universo aperto: un argomento per l’indeterminismo, tr. it., Milano 1984, p. 60). La riemersione intuitiva ripropone paradossalmente una classificazione ancora una volta unitaria, fatta attraverso tocchi impercettibili che lasciano comparire e scomparire innesti, ricordi, ipotesi, evidenze, mascherature, trappole, intrecci, motivi, somiglianze, antitesti e contrasti, corrispondenze, nuove classificazioni.

In questo c’è un metodo corale che fissa una diversa unità di misura all’interno della quale ogni elemento riprende una sua collocazione significativa, e ciò tutte le volte che la classificazione si ripresenta nell’intenzionalità differente. Non c’è un aspetto decorativo e superfluo e uno più essenziale. Il disordine essenziale delle relazioni riceve adesso una ordinazione differente che proviene dall’instaurarsi del rapporto con la forma, per quanto lontano quest’ultimo possa essere ancora considerato sulla base del metro valutativo della logica dell’ “a poco a poco”. Un solo particolare, l’attesa di pochi minuti in una camera fatta apposta per l’incontro, la ricerca di piccoli oggetti, un giornale, una pomata, la discussione con un autista troppo insistente, immediatamente un taglio di intenzioni si concentra in una differente classificazione, mettendo in mostra il dono di inesauribili variazioni, attraverso cui posso rivivere l’orrore di una tragedia, l’abbandono di pochi attimi che si condensano in una vita intera, in un’esistenza senza ormai più tempo, senza altre possibilità, un gioco definitivamente accettato e perduto. A differenza dell’antica classificazione, questa che ci appare come nuova possiede una penetrazione sottilissima, si sviluppa quasi senza sforzo in tutte le divisioni dei significati, in tutte le incertezze e le sottigliezze della diversità, in tutti i gesti dell’inquietudine ancora pieni del pesante sonno del senso. I piccoli aggiustamenti dell’analisi sono ormai scomparsi, trattandosi di un procedere uniforme che qui è del tutto sconosciuto. Il nuovo rallentamento gioca spesso anch’esso con l’osservazione psicologica e con l’approfondimento dei caratteri, ma è ancorato all’oggettività dell’orientamento verso la qualità, non è soltanto una cosa, è due cose nello stesso tempo. Non è solo rallentamento ma è, contemporaneamente, accelerazione, sconvolgimento, disordine e pericolo. «La continuità di tutte le azioni dinamiche, premessa incontestata, un tempo, di tutte le teorie fisiche, [è stata] espressa dal noto dogma di derivazione aristotelica: natura non facit saltus. Ma anche in questa fortezza della fisica, sempre rispettata fin dai tempi antichi, l’indagine moderna ha aperto una breccia pericolosa. Sembra in realtà che la natura faccia dei salti, e dei salti assai singolari. Mi sia permesso, per spiegarmi meglio, di servirmi di un paragone intuitivo. Nel caso delle onde dell’acqua la frantumazione dell’energia di movimento si arresta quando gli atomi in certa maniera tengono unita l’energia, perché ogni atomo rappresenta un determinato quantum finale di materia che si può muovere soltanto come un tutto unico. Nel caso dei raggi luminosi e termici, benché essi siano di natura assolutamente immateriale, debbono analogamente entrare in gioco delle cause che tengono unita l’energia radiante in determinati quanti finali, e la tengono unita tanto più efficacemente quanto più brevi sono le onde, ossia quanto più rapide si succedono le vibrazioni». (M. Planck, I nuovi orizzonti della fisica [1913], in La conoscenza del mondo fisico, tr. it., Torino 1942, pp. 50-51). Più l’intenzione si concentra su di un particolare, una scatola per esempio, più il gioco si allarga lentamente a tutte le sfumature del caso, al corteggiamento della qualità, per poi precipitare in un’implosione relazionale, in una rapida e precisa condensazione che si trasferisce nuovamente in classificazione unitaria.

Uno dei problemi della conoscenza è stato quello di chiedersi come potesse stabilirsi una spiegazione plausibile del modo in cui la coscienza viene in contatto con la realtà. Sorse sin dall’inizio la difficoltà di un contatto diretto. In che modo si poteva mai fissare un rapporto conoscitivo tra coscienza e oggetto se non attraverso le immagini che la prima si costruiva del secondo? Per cui l’esistenza stessa del mondo reale finiva per diventare problematica. Da qui la decisione cartesiana di indirizzarsi verso il soggetto. Il fatto era che non si è mai riflettuto abbastanza sulla comunanza indissolubile che lega la conoscenza al senso, elementi, ambedue, dell’orientamento verso il contenuto, prodotti di una separazione di già realizzatasi o, almeno, di una divaricazione in corso di completamento. Così Schopenhauer: «Verosimilmente fu Cartesio il primo a raggiungere quel grado di riflessione, che quella verità fondamentale richiede, e a farne, anche se solo provvisoriamente in forma di riflessione scettica, il punto di partenza della sua filosofia. In verità Cartesio, avendo assunto come unicamente certo il cogito ergo sum e avendo posta invece provvisoriamente l’esistenza del mondo come problematica, trovò l’unico valido ed essenziale punto di partenza ed insieme il vero punto di appoggio di tutta la filosofia. Questo cioè è in maniera essenziale e indispensabile il soggettivo, la propria coscienza. Infatti solo questo è e rimane l’immediato: tutto il resto, qualunque esso sia, è trasmesso e condizionato da quello, ne è dunque dipendente. È allora giusto far cominciare la filosofia dei moderni da Cartesio, come da un padre. Procedendo su questa via, Berkeley pervenne, non molto dopo, ad un vero e proprio idealismo, ossia alla conoscenza che tutto ciò che è esteso nello spazio, cioè il mondo materiale, oggettivo in generale, esiste come tale assolutamente nella nostra rappresentazione, e che è falso, anzi assurdo, attribuirgli, in quanto tale, una esistenza fuori di ogni rappresentazione e indipendente dal soggetto conoscitivo e assumere quindi una materia come semplicemente esistente e dotata di realtà propria. Questa validissima e profonda considerazione costituisce però anche l’intera filosofia di Berkeley: egli si è infatti esaurito in questa affermazione. La vera filosofia deve dunque in ogni caso essere idealista: anzi deve esserlo, se vuole semplicemente essere onesta. Perché niente è più certo, che nessuno può mai uscire da se stesso, per identificarsi immediatamente con le cose distinte da lui: bensì tutto ciò che egli conosce con sicurezza, cioè immediatamente, si trova dentro la sua coscienza. Fuori di questa, pertanto, non vi può essere una certezza immediata: i primi princìpi fondamentali di una scienza però, debbono possedere tale certezza immediata. Per il punto di vista empirico delle altre scienze è convenientissimo assumere il mondo oggettivo come semplicemente esistente: non così per quello della filosofia, che come tale deve risalire ai princìpi e alle origini. Solo la coscienza è data immediatamente, perciò il fondamento della filosofia è limitato ai fatti della coscienza: ossia essa è essenzialmente idealistica. Il realismo, che trova credito presso l’intelletto incolto, perché si dà l’aria di essere aderente ai fatti, prende addirittura come punto di partenza un’ipotesi arbitraria ed è perciò un edificio di vento campato in aria, perché sorvola o rinnega il primissimo fatto: che, cioè, tutto ciò che noi conosciamo si trova nella coscienza. Infatti, che l’esistenza oggettiva delle cose sia determinata da qualche cosa che le rappresenti, e che per conseguenza il mondo oggettivo esista soltanto come rappresentazione, non è un’ipotesi e tanto meno una sentenza arbitraria, o addirittura un paradosso posto per amore di discussione; ma è la verità più certa e più semplice, la cui conoscenza viene resa difficile solo dalla sua troppa semplicità, e perché tutti non hanno sufficiente riflessione, per risalire ai primi elementi della loro conoscenza delle cose. Non può mai esservi un’esistenza oggettiva assolutamente e in se stessa, anzi una tale esistenza è addirittura impensabile: perché ciò che è oggettivo, come tale, ha sempre ed essenzialmente la sua esistenza nella coscienza di un soggetto, del quale è quindi la rappresentazione, determinata per conseguenza dalla coscienza e dalle sue forme rappresentative, che come tali appartengono al soggetto, non all’oggetto». (Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 1).

Che poi questa conoscenza non sia affatto sufficiente e che per la propria stessa incompletezza invii e richiami a un’altra conoscenza, questo è problema che attiene alla radicale diversità che la coscienza stessa può produrre, ma non al come la coscienza possa conoscere nell’àmbito della produzione modificativa del senso. Per altro, l’avventura cartesiana, con il suo rimettere in discussione il fondamento appena trovato, quello dell’evidenza e della chiarezza, e con il suo ricollegare tutto al di fuori dell’uomo, in un Dio artefice della verità, dimostra come ogni dualismo del genere sia impensabile. Questa disavventura cartesiana sarà seguita da altri esempi non meno avventurosi e infelici, dall’estaticismo miracolistico dell’ipotesi di Nicolas Malebranche, all’intera risoluzione di oggetto e idea nella sostanza divina dell’ipotesi spinoziana, fino all’armonia prestabilita in Dio dell’ipotesi di Gottfried Leibniz. Ma la valutazione più completa resta quella di Georg Wilhelm Friedrich Hegel: «Similmente anche nella proposizione filosofica l’identità di soggetto e predicato non deve annientare la loro differenza espressa nella forma della proposizione; anzi la loro unità deve risultare come armonia. La forma della proposizione è il riapparire del senso del determinato, cioè l’accento che ne distingue il contenuto; che pertanto il predicato esprima la sostanza, e che il soggetto s’immerga pur esso nell’universale, ecco l’unità in cui quell’accento si smorza. Il pensare, anziché progredire nel passaggio dal soggetto al predicato, dato che il soggetto va perduto, si sente piuttosto frenato e risospinto al pensamento del soggetto, sentendone la mancanza; o, dacché il predicato fu espresso esso stesso come un soggetto, come l’essere, come l’essenza che esaurisce la natura del soggetto, il pensare trova il soggetto immediatamente anche nel predicato». (Fenomenologia dello spirito [1807], tr. it., vol. I, Firenze 1988, pp. 51-52). In queste elaborazioni il punto dove si rasenta l’incredibilità è quello che ammette tranquillamente l’assoluta marginalità del reale di fronte all’unica realtà esistente, cioè la logica, quindi Dio. Così la realtà diventa una semplice occasione, che può anche scomparire senza che il soggetto se ne accorga. L’estremismo metafisico procede ormai incontrollato fino all’ammissione che tutta la realtà si racchiude nella percezione, non avendo senso parlare di realtà come qualcosa di separato. Il pensiero viene visto quindi come ordinatore, realizzatore e perfino come creatore della realtà, con gradi di compromissione che corrispondono a precise evoluzioni metafisiche.

Diciamo che fra le ipotesi più ragionevoli c’è da sottolineare quella che lascerebbe intendere una realtà esistente, quando e come che sia, ma restante comunque in una zona d’ombra fin quando non viene illuminata e fatta esistere dal pensiero. Questa tesi potrebbe essere interessante se non postulasse la separazione tra pensiero e realtà, cosa che porta per forza ad ammettere una creazione dal nulla di quest’ultima da parte del primo. Ma la coscienza può illuminare la realtà, cioè può conoscerla solo a condizione che si tratti della medesima cosa, cioè che tra coscienza e realtà non ci sia differenza, che tra pensiero e oggetto non ci sia differenza. Al contrario, la differenza va cercata in modi diversi di conoscere, e questo per una incompletezza della spiegazione, non per una differenza tra i due estremi del rapporto. La proiezione della coscienza può quindi rivolgersi verso il meccanismo del senso proprio perché quella è la sua normale disposizione, anche se la spiegazione che ne viene fuori è tutt’altro che completa, anzi è una spiegazione analitica, cioè semplicemente accumulativa. «L’oggetto dell’arte, l’intreccio dell’opera d’arte si dà sempre al lettore come già compiuto, come precedente il racconto su di esso. Questo passato si illumina nel momento in cui passa da uno stato di incompiutezza a uno stato di compiutezza. Ciò si esprime, in particolare, nel fatto che l’intero andamento dello sviluppo dell’intreccio si dà al lettore come passato che, allo stesso tempo, è come se fosse reale. L’azione di un romanzo o di un dramma appartiene a un tempo passato rispetto al momento della lettura. Ma il lettore piange o ride, cioè vive delle emozioni, che al di fuori dell’arte sono proprie del tempo presente. In ugual misura ciò che è convenzionale emotivamente si converte in reale. Il testo fissa la paradossale proprietà dell’arte di trasformare il convenzionale in reale e il passato in presente. In questo sta, tra l’altro, la differenza tra il tempo dello scorrere dell’intreccio e il tempo del suo compimento. Il primo esiste nel tempo, il secondo si converte in un passato, che allo stesso tempo rappresenta un uscire dal tempo in generale. Questa differenza di principio negli spazi dell’intreccio e del suo compimento rende futili i ragionamenti su ciò che è accaduto ai personaggi dopo la fine dell’opera. Se simili ragionamenti compaiono, essi testimoniano di una percezione non artistica del testo artistico e sono il risultato dell’inesperienza del lettore». (J. M. Lotman, La cultura e l’esplosione. Prevedibilità e imprevedibilità [1964], tr. it., Milano 1993, p. 189). In questo modo la coscienza accompagna la realtà, senza con ciò suscitare scandalo filosofico, cioè senza che ciò comporti la conclusione che la coscienza crei la realtà. Si tratta di movimenti diversi del medesimo orientamento verso il senso. Il fatto che dove troviamo un’accumulazione di senso, nello stesso posto troviamo la coscienza al lavoro, non fissa nella medesima logica dell’ “a poco a poco” nessun ordine di priorità e nessuna condizione.

È anche privo di significato il concetto della realtà che si racchiude nella semplice modificazione del pensiero. Ciò è una illusione determinata dal fatto di porre qualcosa come oggetto del pensiero, come se questo qualcosa appartenesse al pensiero, il quale avrebbe di conseguenza il diritto di esercitare una penetrazione conoscitiva. Se la coscienza insiste troppo nelle sue mansioni di controllo finisce per cadere in questa posizione idealista, riducendo il meccanismo di accumulazione, come primo obiettivo, a una semplice proiezione dei propri fantasmi. E, difatti, ciò accade puntualmente quando si smarrisce lo scopo del processo di catalogazione, scopo che, pur nei suoi limiti, è fondamentale per la conoscenza, e lo si porta a fondamento di un processo di duplicazione o rispecchiamento, su cui iniziare la costruzione della verità. Questo era il contenuto della “logica” secondo Hegel: «Ora, prima di tutto, è già fuor di proposito il dire che la logica astragga da ogni contenuto, che insegni soltanto le regole del pensare, senza entrare a considerare il pensato e senza poter tener conto della sua natura. Poiché, infatti, la logica deve aver per oggetto il pensare e le regole del pensare, ha anzi in cotesto il suo particolare contenuto; ha in cotesto anche quel secondo elemento della conoscenza, una materia, della cui natura si occupa. Il contenuto della scienza pura è appunto questo pensare oggettivo. La logica è perciò da intendere come il sistema della ragione pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, come essa è in sé e per sé senza velo. Ci si può quindi esprimere così, che questo contenuto è la esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito». (Scienza della logica [1812-1816], tr. it., vol. I, Bari 1984, p. 24). In questa fase, tragicamente, empirismo e idealismo si danno la mano. Non è un caso infatti che molti matematici hanno posizioni filosofiche molto vicine all’idealismo immanentista. Immaginarsi un emergere del trascendente sotto l’aspetto di oggetto solidamente accertabile costituisce un duplice livello di illusione: da una parte l’emergere, e quindi l’attesa dell’emersione, di qualcosa che non sia di già qui a lavorare contro di noi o per noi, dall’altra parte che questa emersione si solidifichi in base alle regole della logica scientifica, più comode per la nostra percezione angosciosamente indagativa.

Ma fin qui abbiamo discusso della conoscenza analitica, la coscienza conosce il meccanismo di accumulazione del senso perché se lo spiega benissimo, in quanto loro due sono la medesima cosa. In fondo, qualcosa del genere c’era nell’intuizione tomistica con cui si riconosceva all’intelletto la possibilità di conoscere la modificazione prodotta su di esso dall’azione della forma. Ma l’errore di questa intuizione si racchiude nel fatto che le due cose sono pensate sempre separate e quindi la modificazione si considera come prodotta da una parte sull’altra. La conoscenza viene ammessa, e questo e di già un passo avanti, ma viene ridotta solo alla modificazione, non alla parte stessa, per altro nemmeno posta in parallelo con l’altra. Io penso che si possa ragionare in termini affatto diversi. Precisa Stirner: «Il diritto – è una fissazione, prodotta da uno spettro; la potenza – sono io stesso, io sono il potente e il possessore della potenza. Il diritto è al di sopra di me, è assoluto ed esiste solo in un essere superiore, dal quale mi viene concesso come una grazia: il diritto è un dono della grazia del giudice; la potenza, la forza, invece, esistono solo in me, il forte, il potente». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., p. 156). Nella convivenza civile codificata, quindi nella realtà modificativa retta dalla logica dell’ “a poco a poco”, il diritto è un comportamento sanzionato dalla sacralità della legge. L’esistenza qui è sposata in un matrimonio apparente del tutto casto con la verità, nessuno dei due sposi ha mai conosciuto l’altro e nessuno dei due si avvicinerà mai all’altro, tutto avviene per procura. Questo strano connubio custodirà tutti i “documenti” necessari perché, all’occorrenza, uno possa dirsi sostenitore dell’esistenza dell’altro e viceversa. Questa non è la forza, si tratta di una debolezza che si agghinda di orpelli giuridici allo scopo di darsi l’aspetto della forza. C’è da porsi la domanda più importante: che cos’è veramente la forza? Il semplice possesso di sé, senza il presupposto della “sacralità decretata d’ufficio”? Credo che la risposta sia non solo molto più articolata, ma di estrema importanza.

Se riduciamo la conoscenza alla modificazione, illudiamo la conoscenza che questa stessa modificazione sia stata causata da essa, su di una realtà non solo esterna ma anche estranea. Ma ciò non è vero. La totalità delle relazioni propone una soluzione differente anche nello spaccato ristretto del processo di accumulazione. Coscienza e senso sono la medesima cosa in movimenti diversi, producono insieme la modificazione, cioè il più basso livello dell’effettualità e insieme, seppure con gradi diversi, cioè con un affievolimento diverso, vengono coinvolti nell’apertura verso la diversità. Kant era stato più attento di molti filosofi contemporanei: «Il sentimento della nostra inadeguatezza a portarci al livello di un’idea che per noi è legge, è il rispetto. Ora, l’idea della comprensione di ogni fenomeno che può esserci dato, nell’intuizione di un tutto, è un’idea che ci è imposta da una legge della ragione che non riconosce altra misura definita, universalmente valida ed immutabile, all’infuori della assoluta totalità. La nostra immaginazione d’altra parte, anche nel suo massimo sforzo di giungere alla comprensione d’un oggetto dato in una totalità intuitiva, mostra i propri limiti e la propria insufficienza, ma anche al tempo stesso la propria destinazione ad adeguarsi a quell’idea come legge. Il sentimento del sublime della natura è dunque sentimento di rispetto per la nostra propria destinazione, che con una specie di sostituzione rivolgiamo ad un oggetto naturale, che ci rende per così dire intuibile la superiorità della destinazione razionale delle nostre facoltà conoscitive sul massimo potere della sensibilità». (Critica del giudizio, op. cit., pp. 231-232 ). Il rispetto misura la distanza, vernicia il legame e garantisce un minimo di sicurezza. In questo senso diventa superflua l’ultima spiegazione idealista di non potere ammettere l’esistenza di una realtà anteriore al pensiero. Difatti, perché mai la si dovrebbe ammettere questa anteriorità? Via via tutte le spiegazioni necessarie saranno date dalla stessa ragione. Kant è un avvocato.

L’emergere della diversità pone però un problema diverso. Nell’ordine complessivo delle relazioni la diversità è un movimento come un altro, ma l’intensità specifica che essa assume all’interno del campo, pur andandosi ad affievolire nell’estendersi totale delle relazioni, è un luogo certamente capace di determinare livelli dell’effettualità che non erano conosciuti nell’esteriorità del meccanismo accumulativo. A questa diversità di relazioni dobbiamo pure dare una spiegazione. L’apertura della coscienza fissa, sia pure per un attimo, una contrapposizione che è alterità, differenza, scarto. Nulla di ciò era reperibile nel rapporto tra coscienza e senso. Quindi, l’inquietudine ha generato un movimento che abbisogna, adesso, di una spiegazione in termini più approfonditi. La vecchia concezione deterministica aveva fatto sogni differenti. Ecco Pierre-Simon de Laplace: «L’estrema difficoltà dei problemi relativi al sistema del mondo ha obbligato i geometri a ricorrere a delle approssimazioni che lasciano sempre temere che le quantità trascurate abbiano una influenza sensibile. Quando essi si sono accorti dell’influenza, grazie alle osservazioni, sono ritornati sulla loro analisi; modificandola, hanno sempre trovato la causa delle anomalie osservate, ne hanno determinato le leggi e spesso hanno superato l’osservazione, scoprendo ineguaglianze che essa non aveva ancora indicato. Perciò si può dire che la natura stessa ha partecipato alla perfezione analitica delle teorie fondate sul principio della gravitazione universale, e questo, a mio parere, costituisce una delle prove più valide della verità di questo mirabile principio». (Saggio filosofico sulle probabilità [1814], in Opere, tr. it., Torino 1967, pp. 307-308). Oggi non c’è più quest’ordine di certezze, esso è stato sostituito da un ordine di certezze indeterminato, non per questo meno in grado di operare condizioni pratiche in grado di rendere possibile la ricerca scientifica. Il fare che ne viene fuori si può dire stia pestando la stessa acqua nel mortaio da almeno tre secoli. La volontà di potenza ha sigillato tutto il processo scientifico e lo governa dall’esterno secondo regole che solo in via sussidiaria vengono da questo processo verificate e poste in atto. Occorre spogliarsi del pensare governativo, del rappresentare tutto quello che ci sta davanti in termini di scopo da raggiungere.

Ora, la prima cosa che sorge spontanea è che la diversità è certamente contrapposta alla coscienza, ma ha tutte le caratteristiche della coscienza. Fin quando non si pone nell’àmbito della ricognizione si potrebbe dire che soltanto dall’interno della coscienza si può cogliere una vera e propria differenza. L’inquietudine ha prodotto la rottura, lo scarto, ma non ha caratterizzato in modo definitivo la diversità. Questa caratterizzazione si realizza nel processo ricognitivo e in tutto quello che si realizzerà poi nel livello conclusivo dell’effettualità, cioè nella trasformazione. Nulla di questo mondo che si profila all’orizzonte della diversità e che si può riassumere nell’orientamento verso la qualità è conosciuto dalla diversità, per cui non si pone nemmeno il problema di una relazione quale che sia, concreta o apparente. La diversità comincia a sperimentare, attraverso la ricognizione, un territorio che sta avendo una sua vita ricchissima relazionale, costituita da una fitta rete di flussi, a loro volta suddivisi in orientamenti contrapposti. La diversità si inserisce in questa rete. Così, ancora una volta, Hegel: «L’intelligenza pone il contenuto del sentimento nella sua interiorità, nel suo spazio proprio e nel suo proprio tempo. Così il contenuto è l’immagine, liberata dalla sua prima immediatezza e dall’isolamento astratto di fronte ad altre immagini, ricevuta nell’universalità dell’io in genere. L’immagine non ha più la determinatezza completa, che ha l’intuizione; ed è arbitraria o accidentale, isolata in genere dal luogo esterno, dal tempo e dal complesso immediato in cui essa stava». (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio [1817], tr. it., Bari 1984, p. 441). Il guaio della metafisica è stato quello di isolare un rapporto, pensandolo in termini di causa ed effetto, evitando di pensare invece una rete relazionale di un numero praticamente infinito di rapporti che, in questo caso, non sono più semplici collegamenti bilaterali, ma relazioni nel pieno senso del termine. L’antica totalità è scomparsa, forse nascosta in qualche piega del “procedimento”, ma non ne sono tanto sicuro.

Questo grave errore ha portato a ipotizzare possibili situazioni atomistiche tra soggetto pensante e oggetto pensato, per cui il soggetto avendo la possibilità di pensare poteva creare dal nulla qualsiasi cosa, in immagine, e considerarla per questo solo fatto esistente. La coscienza, e pertanto anche la diversità, possono certamente costituire relazioni apparenti, ma queste si affievoliranno in modo e per vie diverse da quelle concrete, tutto qui. Non ci saranno particolari problemi di sudditanza o di dominio, né da parte del pensiero, né da parte della cosa. Con grande attenzione, Stirner: «Come non esaltare la coscienza di Socrate, che gli fa rifiutare il consiglio di evadere dal carcere?! Ma non capite che Socrate è pazzo a concedere agli Ateniesi il diritto di condannarlo? Bene, è lui che se lo vuole: è giusto che finisca così; perché mai accetta di porsi sullo stesso piano degli Ateniesi? Se egli avesse saputo e potuto sapere ciò che era, non avrebbe legittimato nessuna pretesa di quei giudici, non avrebbe concesso loro nessun diritto. Il fatto di non fuggire fu appunto la sua debolezza, il suo delirio, per cui credeva di avere ancora qualcosa in comune con gli Ateniesi, ossia l’idea di essere un membro (e solo un membro) di quel popolo. Ma egli era piuttosto tutto quel popolo in una persona sola e perciò egli soltanto poteva essere il proprio giudice. Non c’era giudice al di sopra di lui ed egli stesso, difatti, aveva voluto esprimere pubblicamente un giudizio su se stesso, valutandosi degno del Pritaneo. Avrebbe dovuto restare sulle sue posizioni e, dato che non aveva pronunciato contro se stesso una sentenza di morte, avrebbe fatto bene a disprezzare la sentenza degli Ateniesi e a fuggire. Ma egli, invece, si sottomise, riconoscendo nel popolo il suo giudice, immaginando di essere piccola cosa di fronte alla maestà del popolo. Il fatto di sottomettersi, come a un “diritto”, al potere violento al quale in realtà soggiaceva, fu tradimento di se stesso: fu virtù. Questo comportamento scrupoloso viene paragonato dagli storici a quello di Cristo, che si dice abbia rinunciato al suo potere sulle legioni celesti. Lutero, invece, agì con grande accortezza quando si fece rilasciare un salvacondotto scritto per il suo viaggio a Worms; Socrate avrebbe dovuto sapere che gli Ateniesi erano suoi nemici e lui solo il giudice di se stesso. L’autoillusione di una “condizione di diritto, di legge” avrebbe dovuto dileguarsi di fronte alla consapevolezza del fatto che il rapporto era un rapporto di potere, di violenza». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., pp. 159-160). Socrate è l’uomo del valore, sacralizza la propria vita e muore da uomo sacro col rispetto anche dei suoi nemici. Un simile destino non lo si augura a nessuno. Stirner è l’anti-Socrate. L’orizzonte stirneriano è la faccia aperta dello sconosciuto che ci propone una panoramica mai vista, un sentiero mai percorso nella foresta sconosciuta. Socrate è la familiarità un po’ rigida del di già al sicuro, che affronta la morte perché ha meno paura di morire di quanto non abbia paura di rompere le regole della convivenza civile.

Il movimento della diversità che si proietta nel territorio ricognitivo, non può essere ridotto a semplice espressione del pensiero. Si tratta di un’attività pratica. L’interpretazione è di già un grado più elevato dell’effettualità, la quale ultima, nemmeno nel grado inferiore, cioè la semplice modificazione, può essere considerata soltanto espressione del pensiero o della pratica. Lo stesso fare coatto, come si ricorderà, e come vedremo in seguito, è sempre un coinvolgimento della coscienza, non è mai pura pratica. Tutta l’attività di ricognizione è ricca quindi di questi tentativi di combinazione, sempre diversi e sempre più complessi di perfezionare l’effettualità, suggerendo non solo ipotesi ma anche soluzioni pratiche. Il nascondimento infatti non avrebbe senso se la diversità fosse soltanto un’espressione del pensiero, in quanto si tratterebbe di un enigma verbale, un gioco di parole, un’esercitazione di abilità della mente. Nietzsche ha visto qui la grande conquista: «La cosa migliore e più alta di cui l’umanità possa diventare partecipe, essa la conquista con un crimine, e deve poi accettarne le conseguenze, cioè l’intero flusso di dolori e di affanni, con cui i celesti offesi devono visitare il genere umano che nobilmente si sforza di ascendere: un pensiero crudo, che per la dignità conferita al crimine stranamente contrasta con il mito semitico del peccato originale, in cui la curiosità, il raggiro menzognero, la seducibilità, la lascivia, insomma una serie di affetti eminentemente femminili fu considerata come origine del male. Ciò che distingue la concezione ariana è l’elevata idea del peccato attivo come vera virtù prometeica: con questo si è trovato al tempo stesso il sostrato etico della tragedia pessimistica, inteso come giustificazione del male umano, cioè tanto della colpa umana quanto della sofferenza per essa meritata. La sventura nell’essenza delle cose – che l’ariano meditativo non è incline a negare con sofisticazioni – e la contraddizione nel cuore del mondo gli si rivelano come un intrecciarsi di mondi diversi, per esempio di uno divino e di uno umano, ciascuno dei quali nella sua individualità è legittimo, ma nella consistenza con un’altra singolarità deve soffrire per la sua individuazione. Nell’eroico impulso dell’individuo verso l’universale, nel tentativo di oltrepassare la barriera dell’individuazione e di voler essere lui stesso l’unica essenza del mondo, egli patisce in sé la contraddizione originaria nascosta nelle cose, vale a dire commette un delitto e soffre. Così dagli ariani il delitto viene considerato maschio, dai semiti il peccato viene considerato femmina; come pure il crimine originale viene commesso dall’uomo e il peccato originale dalla donna». (La nascita della tragedia [1872], 9). La forza necessaria a commettere il crimine scompare poi nell’affrontare (spazzandole via) le conseguenze che ne derivano. Da qui la debolezza, la faccia nascosta della forza, di quella forza che si scopre incapace di portare fino in fondo il delitto, fino in fondo alla sua stessa logica. C’è nel crimine qualcosa d’altro – la rottura della regola, presumo – che va al di là della rottura delle regole specifiche che contrassegnano questo e quel criminale, in ogni criminale ci sta “il criminale” ed è quest’ultimo che pretende un riconoscimento ufficiale, una sacralizzazione. Nella mia vita ho conosciuto centinaia di criminali – ladri, assassini, falsari, rapinatori, ricattatori, ecc. – una volta messa in chiaro la propria posizione, cioè la specifica accusa (sempre rifiutata: in galera ci sono solo innocenti), ognuno di loro ambiva al riconoscimento del proprio status di criminale avente caratteristiche precise, una professionalità, ecc. Ciò è molto comprensibile, è umano, ma è proprio perché è umano che è “sacro”. Si pùò dire che il cinquanta per cento dei reati vengono commessi per alimentare questo fantasma, più che per necessità vera e propria (per fare l’esempio, il mero bisogno economico).

Certo, la diversità deve per prima cosa spiegare a se stessa il significato dei segnali che riceve da parte del territorio che le sta davanti. E queste spiegazioni possono prendere la sostanza di ipotesi, di teorie, ma queste teorie non hanno nulla a che vedere con quelle teorie puramente analitiche della logica dell’ “a poco a poco” che abbiamo visto poco fa, cioè non si basano sull’identità tra coscienza e senso. Qui siamo davanti a una nuova diversità, che per dare spiegazioni esprime giudizi, i quali, in modo critico ma pur sempre insufficiente, almeno per il momento, ripetono i giudizi espressi all’interno dell’accumulazione, dove la qualità, elemento indispensabile per impostare correttamente qualsiasi giudizio che non sia semplicemente analitico, era stata ridotta a semplice residuo. Si arriverebbe così alla conclusione, un po’ mesta a dire il vero, che il giudizio diverso dovrebbe, ancora una volta, adeguarsi alla realtà, con il problema questa volta nuovo che la realtà cui bisognerebbe adeguarsi non è uguale come nel caso del rapporto tra coscienza e senso. Ancora Stirner: «Ma quest’idea amorosa dell’adattarsi gli uni agli altri, dell’attaccarsi gli uni agli altri e del dipendere gli uni dagli altri, è proprio tale da cattivarsi le nostre simpatie? Lo Stato sarebbe dunque, secondo quest’idea, l’amore realizzato, l’essere l’uno per l’altro e il vivere l’uno per l’altro da parte di tutti. Ma se prevale il senso dell’ordine non va perduto il senso del proprio interesse? Non finiremo per essere contenti che l’ordine sia stato stabilito con la violenza, cioè che nessuno possa “pestare i piedi” all’altro, cioè che il gregge sia disposto e ordinato in modo ragionevole? Ma certo, in tal caso tutto si troverebbe nel “migliore degli ordini possibili”; il nome di quest’ordine perfetto è appunto – “Stato”». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., p. 165). Il “riposare in Dio” di Agostino, qui è visto – esattamente – come riposare nello Stato e nelle regole che lo reggono in modo ordinato e ragionevole. Nel caso che lo Stato abbia regole disordinate e pazzesche, una delle frequenti richieste è quella di tornare all’ordine e alla ragionevolezza. Stirner è molto triste quando scrive queste parole. L’uomo e la realtà non riposano nello Stato, questo è tutt’altro che il loro custode e mallevadore, si propone (sempre) come dominatore e sfruttatore, concetti che esprimono non tanto una critica a questo o quello Stato politicamente esistente (questa critica, sempre possibile, è di minore importanza qui) ma proprio all’essenza stessa di qualsiasi Stato.

Dalla diversità nasce invece uno sforzo nuovo per dare spiegazione al proprio lavoro, nello stesso momento in cui lo si sta realizzando. Sto parlando ovviamente del lavoro di interpretazione. Nei riguardi della coscienza la diversità è quindi una coscienza relazionale più acuta, un punto focale di maggiore sensibilità capace di produrre un lavoro del tutto diverso da quello della coscienza nell’esteriorità dei rapporti che quest’ultima intesseva con il senso. È di questa diversità della diversità che dobbiamo discutere un poco se vogliamo capire meglio le condizioni definitivamente diverse di quella che possiamo chiamare teoria. «Come nella vita quotidiana, così pure nella scienza (qualora questa non mistifichi il suo proprio operare lasciandosi deviare da una gnoseologia “realistica”) l’esperienza è l’esser coscienti di essere di fronte alle cose stesse, di afferrarle e di possederle in modo affatto diretto. Ma l’esperienza non è un buco in uno spazio di coscienza, attraverso il quale traluca un mondo esistente prima di ogni esperienza, e neppure una mera assunzione nella coscienza di qualche cosa che le sia estraneo. Tutte le connessioni di coscienza della presentazione che culminano, nel caso favorevole, in un’evidenza, sono attraversate da parte a parte dall’unità dell’intenzionato e infine dell’essente presentato – di quello stesso che continua ad essere polo d’identità intenzionale: non v’è alcun luogo pensabile dove la vita di coscienza sia o debba essere spezzata sì da farci pervenire ad una trascendenza che potesse avere mai altro senso da quello di un’unità intenzionale che si presenta nella stessa soggettività di coscienza». (E. Husserl, Logica formale e logica trascendentale [1929], tr. it., Roma-Bari 1966, pp. 287-288). Le condizioni definitive relazionali si costituiscono per la prima volta, in modo totale, nella diversità e questa costituzione segna il primo spostamento dal cominciamento della coscienza al cominciamento radicale della cosa. È l’intenzionalità di questa diversità, di questo inizio di cominciamento radicale che bisogna approfondire, quindi il suo modo di fornire e di darsi spiegazioni. Le pretese scientifiche dell’accumulazione hanno impedito da almeno trecento anni di interrogare in questi termini la coscienza nell’àmbito dei suoi processi di controllo del senso. E questo impedimento, ormai cristallizzato nelle distinzioni dei diversi settori scientifici, ha suggellato una vera e propria impossibilità.

Ciò non è però possibile, almeno in tempi brevi, con la diversità. Il territorio della ricognizione, tanto per cominciare, non è soltanto l’oggetto territorio, per come potrebbe essere delimitato dall’orientamento verso la qualità nel suo punto di massimo affievolimento, ma è anche l’intenzione operativa della diversità. Le due cose non contrastano e nemmeno si contrappongono, esse semplicemente si immedesimano fino a diventare la stessa cosa. «Nell’ermeneutica, come in Aristotele, l’ “applicazione” non può mai significare un’operazione sussidiaria, aggiungentesi “a cose fatte” alla comprensione: ciò a cui dobbiamo “applicare” determina fin dall’inizio, e nella sua totalità, il contenuto effettivo e concreto della comprensione ermeneutica. “Applicare” non è adattare qualcosa di generale, dato anticipatamente, per illuminare, dopo, una situazione particolare. In presenza di un testo, per esempio, l’interprete non cerca di applicare un criterio generale a un caso particolare; egli si interessa, invece, al significato fondamentalmente originale dello scritto di cui si occupa. Per dilucidare il senso di un’ermeneutica autenticamente storica, siamo partiti dallo scacco dello storicismo, quale l’abbiamo constatato in Dilthey, e abbiamo poi ricordato le nuove dimensioni ontologiche di cui siamo debitori alle analisi fenomenologiche di Husserl e di Heidegger. La conoscenza storica non può essere descritta secondo il modello di una conoscenza oggettivistica, poiché è essa stessa un processo avente tutti i caratteri di un evento storico. La comprensione deve essere intesa nel senso di un atto dell’esistenza, ed è dunque un “progetto gettato”. L’oggettivismo è un’illusione. Anche come storici, cioè come rappresentanti di una scienza moderna e metodica, siamo membri della catena ininterrotta attraverso la quale il passato si rivolge a noi. Abbiamo visto che la coscienza etica è, al tempo stesso, sapere etico ed essere etico. Questa integrazione del sapere nella sostanza della moralità, l’ “affinità” dell’ “educazione” o della “cultura” (nel senso etimologico) della coscienza etica e della conoscenza concreta delle obbligazioni e dei fini, ci servirà da modello per analizzare le implicazioni ontologiche della coscienza storica. Proprio come in Aristotele, ma su di un piano abbastanza diverso, vedremo che la conoscenza storica è, insieme, un sapere storico e un essere storico. La questione sta ora nel determinare più concretamente la struttura della comprensione che è alla base dell’ermeneutica. Essa è, come abbiamo visto, qualcosa di simile a una “affinità” essenziale con la tradizione. Qui ci soccorre una regola ermeneutica tradizionale, formulata per la prima volta dall’ermeneutica romantica, ma la cui origine risale alla retorica antica. Si tratta del rapporto circolare fra il tutto e le parti: il significato, anticipato da un tutto, si comprende attraverso le parti; ma le parti svolgono la loro funzione chiarificatrice solo alla luce del tutto». (H. G. Gadamer, Il problema della coscienza storica, op. cit., p. 77). Lo studio di quello che accade attorno a noi è un accadere attorno a noi, ogni separazione operazionista in due momenti successivi ci porta lontano da quello che sarebbe opportuno fare. Quando ci muoviamo nel campo, sia pure circondati dai legami che ci avvincono (e ci assicurano alle regole) aspiriamo a una libera ampiezza, a quella die freie Weite di cui ha parlato Heidegger. Per quanto allarghiamo il campo della percezione, del nostro fare, e così facendo moltiplichiamo i risultati e le vittorie, non saremo mai davanti a un allargamento vero e proprio. L’unica risposta che riceviamo in questo affannoso “darsi da fare” è semplicemente un aumento della tranquillità fittizia che l’ordine ci fornisce.

La necessità di spiegare l’attività della coscienza si pose drammaticamente in Immanuel Kant, dove rimase intrappolata nel razionalismo oggettivistico. Che la coscienza dovesse muoversi, era evidente a tutti, ma non si poteva trovare altra strada, per questa necessità, che il portato stesso della coscienza, da cui derivava la creazione del pensato, che in questo modo si riduceva a oggetto determinato dalla coscienza stessa. Un’altra soluzione finiva per ammettere l’esistenza di due coscienze, una empirica e una trascendentale, spezzando l’unità del pensiero e riducendo, comunque, la coscienza empirica ancora una volta a oggetto del pensiero. Il caso contrario aboliva la divisione e tutto si riassumeva nella coscienza dominante, cioè quella capace di gestire il pensiero, ma non di pensare se stessa. Infatti, se la coscienza pensa in base alle regole della logica, poniamo dell’ “poco a poco”, queste devono essere interne alla sua esteriorità, per come la vediamo realizzata nell’accumulazione, ma allora la coscienza, restando chiusa in questa esteriorità, non potrà conoscere le regole che la reggono e neppure gli scopi concreti dell’intero meccanismo accumulativo, resterà per sempre legata a un ripetersi del suo compito di controllo. Kant non si è posto in questi termini il problema, ma per quanto riguarda le categorie vi si è avvicinato, non arrivando comunque ad ammettere una possibile esistenza parallela di altre regole logiche, per esempio quelle che qui si definiscono come logica del “tutto e subito”, in quanto ciò avrebbe ridotto le categorie a mera contingenza e fatto sfumare l’universalità e la necessità della sintesi a priori. Ha notato Heidegger: «La comprensione dell’essere, definita così, in pochi tratti, si mantiene sul piano senza scosse e senza pericoli della più pura evidenza. E tuttavia, se la comprensione dell’essere non avesse luogo, l’uomo non sarebbe mai in grado di essere l’ente che è, anche qualora fosse dotato delle più straordinarie facoltà. L’uomo è un ente che si trova in mezzo all’ente, e vi si trova in modo tale, per cui l’ente che egli non è e l’ente che egli stesso è gli sono sempre già manifestati. A questo modo d’essere dell’uomo diamo il nome di esistenza. L’esistenza è possibile solo sul fondamento della comprensione dell’essere. Nel rapportarsi all’ente che egli non è, l’uomo si trova già davanti l’ente come ciò che lo sostiene, ciò cui si trova assegnato, ciò che, con tutta la sua cultura e la sua tecnica, egli non potrà mai, in fondo, signoreggiare. Assegnato all’ente diverso da lui, l’uomo non è in fondo, padrone nemmeno dell’ente che egli stesso è». (Kant e il problema della metafisica [1929], tr. it., Bari-Roma 1989, pp. 195-196). Era stato l’empirismo inglese a sviluppare una critica del razionalismo oggettivistico, con alcuni limiti, come nel caso di John Locke che ripresenta i dati empirici come oggetti razionali i quali incidono in una coscienza assolutamente passiva. Forse l’apertura più interessante è stata la critica negativa di David Hume con cui ogni ipotesi dialogica della coscienza e del suo oggetto viene ridotta a semplice finzione. È l’oggettivismo che viene distrutto da quest’ultima critica e con esso la pretesa della scienza di arrivare a conclusioni valide per tutti. «Ciò che chiamiamo mente, non è altro che un fascio o collezione di percezioni differenti, unite da certe relazioni, e che si suppongono, sebbene erroneamente, dotate di una perfetta semplicità e identità. Noi abbiamo un’idea distinta di un oggetto che rimane invariabile e ininterrotto attraverso una data variazione di tempo: quest’idea noi la chiamiamo d’identità o di medesimezza. Ma, sebbene queste due idee, d’identità e di successione di oggetti in relazione siano in se stesse perfettamente distinte e anche contrarie, è certo, tuttavia, che nel nostro abituale modo di pensare vengono generalmente confuse l’una con l’altra. L’atto dell’immaginazione, col quale consideriamo un oggetto ininterrotto e invariabile, lo sentiamo quasi identico a quello col quale riflettiamo su una successione di oggetti in relazione. Questa somiglianza è la causa dell’errore, perché ci fa sostituire la nozione d’identità a quella di oggetti in relazione. Così ci fingiamo una continuata esistenza delle nostre percezioni sensibili per negarne l’interruzione, e ricorriamo alla nozione di un’anima, di un io, di una sostanza, per mascherare la variazione». (Trattato sulla natura umana [1739-1740], tr. it., Bari 1978, p. 220-221). La coscienza, da sola, non può trasferirsi dal meccanismo dell’accumulazione del senso, in quanto escludendolo essa stessa diventa impensabile, una semplice relazione apparente, per esistere la coscienza ha bisogno di un contenuto e di un processo di accumulazione di questo contenuto. Per questo il kantismo aveva suggerito una sorta di soggettivismo incompleto, ma inaccettabile per le conseguenze negative che può determinare. Ma la coscienza, da sola, non può nemmeno restare nel meccanismo dell’accumulazione, almeno non può restarvi a lungo senza avvertire una mancanza.

In altri termini, la spiegazione del senso non la soddisfa, in quanto si riduce a una continua riorganizzazione dell’archivio. Da qui la ricerca di una identità diversa che sia determinata come persona, come individuo, quindi che si basi sul senso, ma contenga anche una specificazione, cioè un avvicinamento alla qualità. Per fare questo, la coscienza deve scindersi in una diversità ancora non specificata, ma capace di porsi il problema della specificazione, cioè di tendere verso la qualità. «Il rapporto considerato finora fra me e il mondo degli uomini – sottolinea Stirner – presenta una tale ricchezza di fenomeni che lo dovremo riprendere e analizzare di nuovo in molti altri casi; ma qui si trattava solo di delinearne i tratti più evidenti e ormai dobbiamo interromperne la descrizione per passare ad altri due aspetti ai quali quel rapporto rimanda. Io mi trovo infatti in rapporto non solo con gli uomini, nella misura in cui essi manifestano in sé il concetto di “uomo”, ossia sono figli dell’uomo (figli dell’uomo, così come si dice “figli di Dio”), ma anche con ciò che essi hanno dall’uomo e chiamano loro proprio; io mi rapporto insomma non solo a ciò che essi sono grazie all’uomo, ma anche ai loro averi umani. Perciò bisognerà prendere in considerazione, oltre al mondo degli uomini, il mondo materiale e il mondo ideale e dire alcune cose a proposito di ciò che gli uomini chiamano loro proprio sia nel campo dei beni materiali sia in quello dei beni spirituali.

«A seconda del modo in cui il concetto dell’uomo è stato sviluppato e rappresentato, esso ci è stato offerto nella figura di questa o di quella persona di riguardo da rispettare e questo concetto ha portato alla fine a questo comandamento: “Rispetta in ciascuno l’uomo”. Ma se rispetto l’uomo, il mio rispetto deve estendersi anche all’umano, cioè a ciò che è proprio dell’uomo.

«Gli uomini posseggono qualcosa di proprio, e io debbo riconoscere e considerare sano questo qualcosa di proprio. La loro proprietà è costituita in parte da averi esteriori, in parte da averi interiori. I primi sono cose, i secondi qualità spirituali, pensieri, convinzioni, sentimenti nobili, ecc. Ma io devo rispettare sempre soltanto gli averi legittimi o umani; agl’illegittimi e agl’inumani non devo portar rispetto, perché la vera proprietà degli uomini è solo quella che è propria dell’uomo. Un avere interiore di questo tipo è, per esempio, la religione; siccome la religione è libera, cioè è dell’uomo, io non posso intaccarla. Altro avere interiore è l’onore; esso è libero e non può venir intaccato da me (querele per oltraggio, caricature, ecc.). La religione e l’onore costituiscono una “proprietà spirituale”. Fra le proprietà delle cose la principale è quella della persona: la mia persona è la mia prima proprietà. Quindi libertà della persona; ma solo la persona giusta, ovvero umana, è libera, l’altra viene rinchiusa in carcere. La tua vita è tua proprietà, ma è sacra agli uomini solo se non è la vita di un mostro inumano». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., pp. 181-182). La diversità inizia così una diversa spiegazione della realtà, un processo che parte verso la qualità da un punto di vista totale, in una condizione puntuale, senza cioè essere capace di portarsi dietro niente dalla coscienza e senza avere cognizione esatta di cosa le sta davanti. Questa diversità è la totalità, per il momento in termini logici, in quanto fonda la spiegazione interpretativa dal punto di vista della logica del “tutto e subito”, ma come movimento relazionale concreto essa è ancora tutta da sperimentare. Al centro del campo, lo domina e lo sovrasta, forse anche lo supera, ma non è in grado di influire ancora sulla rete relazionale. Figlia della struttura non è una struttura, aspirante alla forma, non ha cognizione alcuna di cosa sia la forma. Man mano che comincerà a muoversi in quanto diversità, compirà tutto quello che stava in lei, giacente come inerte, ma con estrema complicatezza e difficoltà.

L’interpretazione, in quanto attività proiettiva della differenza, non ha nulla della semplicità che sarà poi possibile osservare nel dispiegarsi della cosa. La vita della diversità si costruisce nella totalità con movimenti circospetti e spesso contraddittori, per cui all’inizio, commisurata con un’apparente sicurezza dell’accumulazione, può addirittura sembrare un’eccezione negativa e riduttiva, un incepparsi del meccanismo del senso, un ripiego e perfino un tradimento. La grande sicurezza della catalogazione, pur producendo soltanto semplici modificazioni, sembra un gigantesco universo in movimento di fronte al semplice balbettio della diversità. Ma in questo pigolio iniziale si racchiude la vita costitutiva. «L’irritazione del dubbio causa una lotta per conseguire uno stato di credenza. Denominerò Ricerca questa lotta, sebbene si debba ammettere che a volte questa designazione non è molto adatta. Certamente, la cosa migliore per noi è che le nostre credenze siano tali da poter guidare le nostre azioni al vero soddisfacimento dei nostri desideri: e questa riflessione ci farà respingere ogni credenza che non sembri formata in modo da assicurare questo risultato. Ma la riflessione opererà solo sostituendo un dubbio a tale credenza. Perciò, la lotta inizia con il dubbio, e termina con la cessazione del dubbio. Insomma, il solo obiettivo della ricerca è lo stabilirsi di un’opinione. Si potrebbe supporre che questo non basti, e che noi andiamo in cerca non meramente di un’opinione, ma di un’opinione vera. Ma se mettete alla prova questa supposizione, la troverete senza fondamento: infatti, appena raggiungete una salda credenza, siete perfettamente soddisfatti, sia che la credenza sia vera, oppure falsa». (C. S. Peirce, Il fissarsi della credenza [1877], in Le leggi dell’ipotesi, tr. it., Milano 1984, pp. 91-92). Queste idee di Charles Sanders Peirce costituiscono, in un certo senso, l’altro lato del discorso di Stirner: il dubbio è una forma di leva per aprire le condizioni del controllo consentendo un progetto di ricerca. Tracciare un itinerario di fuga dal controllo non è possibile, anche perché si tratta di movimenti che non si possono consegnare astrattamente, in linea di principio, al “fare” senza che in essi non alberghi di già il germe dell’azione, la potenzialità dell’agire “diverso”. Si può girovagare a lungo per divagazioni sottili e futili luoghi del grande estuario delle utilità, dove il potere s’impantana nello scarso convincimento del valore della propria stessa opera di controllo. Ciò è certamente possibile. La circospezione del fare è un gioco antico della memoria e della presenza, un alternarsi di concessioni e ritrosie, una creazione in cui l’avvertimento intelligente parte dall’assenza e la stupida affermazione di sé, momento in cui si riassumono tutte le percezioni possibili, conduce alla presenza. La circospezione del fare delinea quindi una ulteriore portata del fatto, forse un livello ulteriore, dove non è facile arrivare, neanche per il più occhiuto dei controlli. L’equivoco prende aspetti singolari. Con questo non voglio suggerire un risparmio nel concedersi, ma proprio uno storno, un richiamare volutamente l’attenzione altrove, un voluto occultamento, infine. Un vero mascheramento. L’urgenza del momento lo impone, se non si vuole continuare a lavorare per il re di Prussia. Non si può avere la presunzione di superare la barriera del contesto relazionale semplicemente con un atto di volontà, un desiderio o una scarica di adrenalina. Ma si può fare qualcosa in questa direzione, lasciando stare la struttura ne posso modificare gli assetti. L’illusione risiede invece in una vera impossibilità, cioè nel riportare il fatto a un modello a esso esterno, considerato comunque garantito per la sua appartenenza a una classificazione ideologica.

Capisco che in questa situazione della diversità si possa vedere una qualche eccentricità, un risvolto imprevedibile e bizzarro della normalità della coscienza, per quanto quello che ho già detto a proposito della normalità debba fare riflettere su giudizi del genere, e in ciò ci sarebbe un fondo di verità. In effetti, fin dal momento del disporsi dell’apertura, c’è l’intenzione di ritagliare questo percorso e non quello, di privilegiare queste scelte e non quelle. Un viaggio, non una semplice proiezione, un viaggio dove lo spostamento non appartiene a nessun luogo preciso, una ricerca che essendo interpretazione trasfigura tutte le coordinate del campo e dello stesso orientamento verso la qualità. Un viaggio di esperienze, ma anche di proiezioni concrete, di modificazioni che vengono sottoposte al vaglio interpretativo della totalità. Per cui ogni tappa è un transito perenne, un passaggio, una lieve aderenza al contesto, in netta contrapposizione con quello che altrove, nell’accumulazione, invece appare solidificato e imponente. L’intenzione della diversità è un innamoramento della prospettiva, non per nulla ha, come prospettiva estrema, certo non necessaria ma comunque presente, il delirio. «Cooperate, dunque, voi uomini soccorrevoli e ben intenzionati, a un’unica opera, ad allontanare cioè dal mondo intero quel concetto di castigo che lo ha soffocato! Malapianta peggiore non v’è! Non solo la si è posta nelle conseguenze dei nostri modi d’agire – e come è già spaventoso e contrario alla ragione l’intendere la causa ed effetto come causa e pena! – ma si è fatto ancora di più e si è privata della sua innocenza tutta la pura causalità dell’accadere con questa scellerata ermeneutica del concetto di castigo. Anzi, una tale follia si è spinta così lontano, da far sentire l’esistenza stessa come un castigo, – è come se finora a guidare l’educazione del genere umano fossero state le fantasticherie di carcerieri e carnefici». (F. Nietzsche, Aurora, I, 13). Battersi il petto è attività che rincuora coloro che pensano a un futuro pieno di insidie e di pericoli. Solo nella sottolineatura del controllo e della repressione, quella effettuata dai concetti del senso comune, viene indicata un’attenzione specifica al contesto di sacrificio. Ma spesso si tratta di un’attenzione che riprende una intensità ormai superata nello svolgimento, oppure che dovrà ancora arrivare, senza che ci siano indicazioni in merito. Il motivo di questa sottolineatura è da ricollegarsi con la contraddittorietà stessa dell’utilizzo di alcune affermazioni del senso comune, spesso è proprio questa contraddittorietà a richiamare l’urgenza della sottolineatura, ma non sempre. A volte si sente un alone di ottiminismo nella cosiddetta filosofia della quotidianità, a volte di pessimismo. In genere a prevalere è il primo. A volte alcune concessioni che dovrebbero essere poste in evidenza, perché in grado di suggerire se non altro dubbi sulla bontà del metodo implicito nel “fare” riproduttivo della modificazione, non lo sono. Questo sta a indicare un riferimento ad altra evidenza contigua e contraria. Frequente è l’uso di coppie di significato che sono palesemente in contrasto tra loro.

Non bisogna sottovalutare la critica negativa stessa, di cui la diversità si fa carico e non bisogna pensare che si tratta di problemi semplici della fase iniziale dell’apertura. Qui c’è una sorta di improvvisa mancanza di senso, una privazione di quella copertura che la vita trova nell’àmbito delle ripetizioni e dei luoghi comuni. Ciò persiste anche a lungo, deformando i primi movimenti e le relazioni con l’orientamento verso la qualità. La conquista di un’autonomia di movimento nella ricognizione ha un compito delicato e carico di difficoltà insormontabili. La pesantezza dell’accumulazione e, in modo speciale, delle sue riorganizzazioni, può essere tale da procedere per conto suo, rendendo quasi inutile l’intenzione esplorativa. Non si tratta di processi sotterranei, ma di relazioni che non sono raggiungibili dalla diversità, mentre potrebbero essere facilmente controllati dall’antica disposizione della coscienza. La vita, nella sua concretezza contraddittoria, si confronta continuamente con movimenti tutt’altro che invisibili, ben conosciuti e studiati, ma allo stesso modo ben difficilmente controllabili. Queste forze dell’accumulazione sono sempre espressioni parziali e come tali intervengono dentro i loro limiti, ma essendo forze molteplici finiscono per coprire uno spazio amplissimo, contrastando fortemente l’interpretazione. La totalità, come movimento complessivo delle relazioni, interviene anche nell’interpretazione e si presenta, il più delle volte, come movimento spontaneo, forse meno conosciuto e qualche volta meno comprensibile, ma allo stesso modo individuabile e utilizzabile, naturalmente in senso positivo. «Il vivente in cui la vita stessa come totalità può divenire problema a sé medesima è l’uomo, perciò l’uomo non è natura, non è forma definitivamente fissata una volta per tutte e tutta in una volta e alla quale egli sia forzato di aderire. La sua natura è di non essere natura fissa e determinata. La sua essenza è di non essere essenza. La sua legge è di non essere legato a legge. Nemmeno a quella di non essere legato a legge, di non essere essenza, di non essere natura. Egli può divenire problema a se stesso, ma non è detto che debba divenirlo necessariamente; se lo dovesse, tutto sarebbe problematico in lui, meno la necessità di esserlo, e così per questo lato sarebbe natura, essenza, legge. Egli può essere legato a una forma e non slegarsene mai di fatto, ma necessariamente e immutabilmente legato non è mai. Egli è indeterminazione vivente, e appunto per ciò non è legato all’indeterminazione come a un destino, a una legge, se no, sarebbe determinato come indeterminazione, ma è sempre in ogni attimo della sua vita possibilità di essere altro da quello che è, questa possibilità trapassi o no in attualità. Perciò è contraddittorio parlare della natura dell’uomo, perché l’uomo è uomo appunto in quanto non è natura, presa la parola natura nel senso di vita confitta immutabilmente a un’essenza, a una legge, a una forma. Poiché l’uomo è essenzialmente indeterminato, è assolutamente impossibile conoscerlo a priori, cioè dedurne le manifestazioni da una definizione enunciata una volta per tutte: non si può conoscerlo che attraverso le sue manifestazioni stesse». (A. Tilgher, Filosofia delle morali, Roma 1937, pp. 6 7). Questi movimenti conoscitivi sono pertanto molto flessibili e quasi sempre funzionano come indicazioni di orientamento, qualche volta però possono anche servire per la costruzione di falsi avvertimenti. Questo avviene di regola nell’interpretazione. Facendo attenzione si viene a capo del problema, perché la deviazione non è mai assoluta, né potrebbe esserlo perché in questo caso si annullerebbe nella sua stessa radicale inversione. I movimenti della interpretazione del fare sono quindi sempre concreti, cioè partono da riferimenti specifici dell’accumulo, se non proprio da citazioni letterali di accadimenti o di persone. Questi movimenti specifici riadattano liberamente sensibilità rappresentative delle quali bisogna cogliere la flessibilità, oltre alla singolarità del luogo di provenienza. Non dimentichiamo che questi movimenti costituiscono relazioni di affievolimento, non rispecchiamenti o testimonianze in tribunale.

Le difficoltà che si vanno intensificando man mano che ci addentriamo nell’analisi negativa della logica dell’ “a poco a poco”, trovano anche un loro riflesso nel tentativo corrispondente di dare indicazioni, quanto più possibile graduali e progressive, riguardo il funzionamento della logica del “tutto e subito”. Per il momento queste difficoltà possono essere superate soltanto in parte, e ciò a causa della non facile accessibilità di alcuni problemi e delle complicazioni di natura terminologica e concettuale che ne derivano. Non c’è dubbio che allo stato attuale del presente lavoro, il lettore, che non sto cercando di aiutare in alcun modo, troverà un ostacolo notevole nel capire il funzionamento della rete relazionale. Basta pensare che non ho deliberatamente affrontato una trattazione dettagliata del problema della realtà, del movimento, del campo, ecc. L’impostazione data è anch’essa una risposta al problema della spiegazione, ed è una risposta che ho meditato a lungo. Ho sempre pensato che una ricerca come questa dovesse essere come un labirinto dentro cui trovare qualcosa, trovare una via d’uscita, non trovare nulla e anche morirci dentro. Ho scritto decine di libri e ho voluto mantenere un rapporto generoso con il lettore, prendendolo per mano fin dall’inizio, riconoscendogli un ruolo di destinatario, di privilegiato, come se il libro lo avessi scritto proprio per lui, per chiarirgli le idee, per sollecitarlo a migliorarsi, moralmente e culturalmente. Insomma, ho sempre scritto libri cercando di evitare che avessero problemi di riconoscimento. Essendo, quei libri, nella loro gran parte scritti di analisi rivoluzionaria e sociale, pensavo che le cose andassero sistemate in quel modo, risultando il più possibile gradevoli, accettabili, insomma lavandomi la faccia prima di baciare qualcuno in fronte. “E che cosa significa essere razionali? Conoscere se stessi? No! La ragione è un libro pieno di leggi che si rivolgono tutte contro l’egoismo”, dice Stirner.

Molte delle cose dette in quei libri erano di rottura, alcune lo sono ancora e grosso modo non si può dire che li considero superati o contraddittori con quanto vado affermando qui. Si tratta di un problema di esposizione, problema che si capovolge subito in uno di spiegazione. Pur essendo rivoluzionari, i miei libri precedenti al Trattato delle inutilità [2000] si presentavano come un condensato di ortodossia culturale, erano ben disposti, accattivanti, scritti approssimativamente bene, insomma fatti in modo che la società li potesse accettare come prodotto culturale. Alcune delle tesi innovative in essi contenute, poniamo le analisi sulla società post-industriale, sono state pubblicate espressamente da me almeno con cinque o sei anni di ritardo perché risultassero più comprensibili e quindi più facilmente fruibili. Un libro dovrebbe rompere con tutto ciò. Non come contenuto, ma come struttura. Proprio come struttura dovrebbe essere un contributo alla distruzione della strutture, contro la logica dell’ “a poco a poco”, un’affermazione della logica del “tutto e subito”. Un tale libro dovrebbe attaccare i benefici di cui ha goduto finora il lettore e inseguirlo fin dentro le sue comodità, a cominciare dal titolo. Nessuna spiegazione nel momento in cui nega la possibilità di una spiegazione analitica attraverso le parole. Nell’àmbito della ricognizione un simile libro sarebbe esso stesso un esempio del possibile lavoro della diversità, una spiegazione nel nascondimento, una serie di trappole a doppia entrata e uscita, un labirinto maligno, spiacevole, immorale. Se molti dei miei libri passati sono stati giudicati illegali, quindi immorali, e mi hanno anche fruttato anni di carcere, un simile libro sarei io stesso a definirlo una negazione critica pratica della moralità, un contributo distruttivo radicale di ogni futura possibile moralità. Se il coinvolgimento richiede coraggio, questo deve venire fuori nella spiegazione, altrimenti c’è un tradimento contro noi stessi, non una mancanza di carità verso gli altri, ma un’infamia verso la propria diversità, la propria intenzionalità. Occorre quindi partire da quest’ultimo punto, non da una griglia concettuale predisposta dall’accademia, valida in occasioni probabilmente contrapposte. Il rifiuto della carità mi sembra fondamentale, una qualità religiosa che non mi è mai appartenuta, che non voglio possa, anche marginalmente, contaminare un progetto, forse non conclusivo ma per grandi linee sufficientemente autonomo. Nessun aiuto agli altri, quindi, nessuna concessione che non risulti da un reciproco coinvolgimento, mio e del lettore. Sono disponibile a un solo tipo di spiegazione, quella che si svolge nell’affinità scoperta nel compagno di lotta, forse scoperta e subito obliata, forse scoperta e messa a frutto, sviluppata. Non lo so, ma sempre nell’àmbito del comune rischio, della comune avventura. «Accanto all’essere e alla necessità, Parmenide poneva la categoria della negazione, ma soltanto per proibirla. Il negare appartiene all’essere della ragione, è il suo istinto distruttivo. Parmenide (che conosceva) ha percorso le strade della negazione, ma vuole escluderne gli uomini, con parola misurata e imperiosa. Ma al giovane amico Zenone, [che gli vive al fianco], non può nascondere questa via, e il discepolo fa uso di questa esperienza nel modo più istintivo, distruggendo ciò che si oppone alla dottrina del maestro. Non si tratta però di uno strumento dominabile, né il suo potere dissolvente si può circoscrivere. Così Zenone andò oltre, e non possiamo neppure sapere se il maestro se ne adirò, oppure assistette benevolo, come suggerisce il racconto fantastico di Platone, alla tracotante avventura del pupillo. (Poco importa se storicamente Zenone ha disobbedito – oppure). Il bagaglio di Zenone è leggero, pochi concetti, ma i più universali, e il loro legarsi e muoversi nell’argomentazione (si richiede naturalmente un uomo che accetti di discutere, ma questa è la cosa più facile, in ogni città greca) sono regolati dalla forma del pensiero, di cui quei concetti sono i contenuti, cioè dalla legge dell’alternativa, anch’essa data da Parmenide. Solo che costui l’aveva prescritta per escludere la negazione, mentre chi discute con gli uomini dev’essere pronto a seguire le “due strade”. E così fa Zenone, accorgendosi alla fine che il dimostrare (così si chiama il legame successivo dei concetti con il criterio dell’alternativa) si compie ugualmente, con la stessa necessità, su entrambe le strade (rispetto allo stesso oggetto). La scoperta è sconvolgente, perché in tal caso l’alternativa non può più essere decisa, e l’istinto di aiutare il maestro, che pure ha fornito l’impulso primo, viene alla fine frustrato. La negazione è sfuggita al bando in cui l’aveva relegata Parmenide, e contagiando ogni cosa abbatte ogni ostacolo alla devastazione. (Eppure tutto ciò non è nichilistico)». (G. Colli, La ragione errabonda, Milano 1982, pp. 257-258). Parmenide ha ragione: la distruzione appartiene all’uomo soltanto quando questo la pratica in prospettiva della formulazione di un ordine che considera “superiore”. Facendo molta attenzione si può discutere su questa “superiorità” e riconoscerle limiti, toglierle il fondamento sacrale (Stirner), ecc., ma il procedimento non cambia. Chi fa questo si guarda attorno nell’attesa di un evento straordinario che non può tardare a venire. Enucleare una efficacia distruttiva a uso e consumo degli inetti non mi sembra necessario. A volte ho monumentalizzato questo sforzo, fissandolo in uno schema rigido, immobile, fruibile nel senso da me stesso imposto, con linee e confini da rispettare, insormontabili, inflessibili, aventi la tracotanza di suggerire un’arte del farsi largo che non può essere insegnata, né tanto meno appresa se non “facendo”, e quindi meno che mai ascoltando le circostanze esterne imposte da un pedagogo fuori del tempo. Ma un rapporto distruttivo con la realtà deve essere impostato sulla passione, sulla comune passione, non può essere fissato sui canoni dell’utilitaristico interesse: fai in quel modo perché lì sta la tua utilità e con questa l’utilità di tutti. In nome della rivoluzione, o del papa re, la ghigliottina funziona sempre allo stesso modo. Scrivo queste riflessioni innanzi tutto per me, per perdermi io stesso in questo labirinto, per ingannare me stesso con le mie trappole, con i miei nascondimenti, per guardarmi fisso in faccia attraverso lo specchio dalle mille duplicazioni. So che, uomo come tanti altri, in questo labirinto possono essere rintracciati altri percorsi altrettanto plausibili, tutti differenti dal mio, propugnatore come gli altri e, accidentalmente, estensore di parole, propositore di un’ipotesi analitica, non di un canone di verità fissato definitivamente.

Un’occasione per mettere le basi per una prospettiva felice, sia pure minima, ridotta? Non credo. L’estasi felice non potrà mai più essere di questo mondo, non dell’uomo di oggi, non dell’uomo che dovrà lottare contro la protesi elettronica che lo raccorcia invece di allungarlo. «Immediatamente accanto al dolore del mondo, e spesso sul suo terreno vulcanico, l’uomo ha posto i suoi piccoli giardini di felicità. Che si guardi alla vita con l’occhio di chi dall’esistenza vuole soltanto la conoscenza, o di chi si arrende e si rassegna, o di chi si rallegra per la difficoltà superata, ovunque si vedrà che vicino al male è sbocciata un po’ di felicità – e una felicità tanto maggiore, quanto più il terreno era vulcanico; sarebbe però ridicolo affermare che questa felicità giustifichi lo stesso dolore». (F. Nietzsche, Umano, troppo umano [1878], I, 591). L’antica condanna del cristianesimo contro la felicità ha svolto per intero il suo compito. Oggi cerca di ritagliare gli aspetti marginali, non incide più su di un edonismo che il dominio stesso sollecita e impone come ulteriore elemento di controllo. L’altra concezione, quella fondata sul dovere, impostata dal cristianesimo nella prospettiva del sacrificio e perfezionata dagli illuministi in quella del dovere per il dovere, oggi è ridotta anch’essa ai minimi termini. Interviene invece, con fare minaccioso, un atteggiamento che vorrebbe imporre una legge giuridica e sociale, e soltanto indirettamente da potersi codificare anche come legge morale, in base alla quale garantire la convivenza civile, la pace, il diritto e così via, tutte cose bellissime che tradotte nel linguaggio pratico del dominio significano sfruttamento e guerra, controllo e miseria.

Un comportamento esplicativo, se mi consentite il termine, oggi si presta molto bene ad assecondare il consolidarsi di questa nuova moralità, in modo da frenare la pressione delle passioni e dei desideri che anarchicamente si affacciano in mille modi minacciando l’ “ordine dominante”. Ecco perché propongo libri immorali, non solo nella sostanza, ma anche nel modo di strutturarsi, nella loro composizione, nel loro porsi al lettore. Libri dentro cui c’è una gran parte di me stesso, della mia vita, forse al di là di quello che potrà sembrare accessibile a una prima lettura. Ci sono pieghe e nascondimenti che non è facile snidare, una sfida al lettore e anche a me stesso, una scommessa, un gioco. «In rapporto al modo di vivere dell’umanità per interi millenni, noi uomini d’oggi viviamo in un’epoca assai immorale: la potenza dei costumi si è sorprendentemente indebolita e il senso dell’eticità si è così affinato ed elevato così in alto, che può ben esser definito come volatilizzato. Perciò per noi, per i nati troppo tardi, le idee fondamentali sulla genesi della morale divengono qualcosa di difficile; anche quando le abbiamo trovate, ci rimangono attaccate alla lingua e non vogliono uscir fuori: perché suonano così grossolane! O perché sembrano diffamare l’eticità! Così, per esempio, pure il principio fondamentale: eticità non è nient’altro (e quindi niente più!), che obbedienza ai costumi, di qualunque tipo possano essere; i costumi però sono il modo tradizionale di agire e di valutare. In cose ove non comanda alcuna tradizione, non v’è alcuna eticità; e quanto meno la vita è determinata dalla tradizione, tanto più piccola diviene la sfera dell’eticità. L’uomo libero è privo di etica, perché in tutto vuol dipendere da sé e non da una tradizione: in tutti gli stati primordiali dell’umanità il significato di “cattivo” corrisponde a quello di “individuale”, “libero”, “arbitrario”, “insolito”, “imprevisto”, “incalcolabile”. Sempre si misura secondo il criterio di tali stati: se viene compiuta un’azione, non perché è stata comandata dalla tradizione, ma per altri motivi (per esempio per utilità individuale), anzi perfino per quegli stessi motivi che una volta fondarono tale tradizione, allora viene definita come immorale e come tale è avvertita perfino dal suo autore: infatti essa non è stata compiuta per obbedienza alla tradizione. Che cos’è la tradizione? Un’autorità superiore, cui si obbedisce non perché comanda ciò che è a noi utile, ma perché lo comanda. – E in cosa si distingue questo sentimento di fronte alla tradizione, dal sentimento della paura in generale? Esso è la paura di un intelletto superiore che comanda, di una potenza incomprensibile e indeterminata, di qualcosa di più che personale, – v’è superstizione in questa paura. – Originariamente l’intera educazione e cura della salute, il matrimonio, l’arte medica, l’agricoltura, la guerra, il parlare e il tacere, i rapporti tra gli uomini e quelli con gli dèi appartenevano alla sfera dell’eticità: essa pretendeva che si osservassero delle prescrizioni, senza pensare a come individui. In origine quindi tutto era costume, e chi intendeva elevarsi al di sopra di esso, doveva diventare legislatore e stregone, una specie di semidio: cioè doveva creare dei costumi, – cosa temibile e pericolosa per la vita! – Chi è l’uomo più morale? In primo luogo, chi adempie la legge il più spesso possibile: chi quindi, come il brahamano, ne porta la coscienza ovunque ed in ogni piccola frazione temporale, tanto che continuamente s’ingegna di trovarsi nell’opportunità di adempiere la legge. In secondo luogo, chi la adempie anche nei casi più difficili. Il più morale è colui che sacrifica di più al costume: ma quali sono i sacrifici più grandi? Dalla risposta a questa domanda derivano molte differenti morali; ma la differenza più importante rimane certo quella che separa la morale dell’adempimento più frequente da quella dell’adempimento più difficile. Non ci si inganni sul motivo di quella morale che come segno di eticità esige la più difficile osservanza del costume! Il superamento di sé non viene richiesto per le utili conseguenze che esso ha per l’individuo, ma perché il costume, la tradizione appaiono dominanti, nonostante ogni opposta voglia e vantaggio individuali: il singolo si deve sacrificare – questo esige l’eticità del costume». (F. Nietzsche, Aurora, I, 9). Di fronte alla tradizione una visione problematica del “fare” consegna inevitabilmente una sua leggibilità fissata una volta per tutte, non l’abbandona al caso, non può farlo, non almeno in questo momento, un giorno, chissà? Ma questa fissità procura interessanti movimenti tutt’altro che fissi, tutt’altro che riconducibili al cliché della versione dominante. Essa è una finzione dichiarata, quindi come tale non è protocollo, perché tutti i protocolli sono false finzioni, quindi realtà. La finzione voluta presuppone libertà di movimento. Ancora una volta il gioco alterno della mascheratura potrebbe emergere da questa indicazione di leggibilità. Il luogo della parola, consegnata alla carta, è luogo paradossale, quindi movimento, non tragitto delimitato. Il corpo mummificato dell’estensione logica derivante dalla tradizione è assente, sottratto alle sue estreme conseguenze dissolvitrici. In Nietzsche non c’è personaggio che regga le fila, neanche l’autore, né quell’io che di solito presiede alla fondazione di ogni rappresentazione articolata.

Che ci sia in ognuno di noi un bisogno profondo di far conoscere i propri pensieri è faccenda ormai fuori discussione. La cosa più segreta e impenetrabile, il limite che nessuna macchina elettronica per quanto sofisticata può superare, noi decidiamo, spontaneamente, di metterlo da parte. Vogliamo farci conoscere, vogliamo far sapere agli altri quello che siamo e come la pensiamo. Su ogni cosa abbiamo le nostre opinioni, tanto più radicate e irriducibili, quanto più queste opinioni sono superficiali e approssimative. Torna qui, ricorrente, il tema dell’imbecillità. Molti spiegano per nascondere i propri limiti, le proprie miserie, e spiegando si creano alibi, oppongono eccezioni, avanzano giustificazioni. Alcuni lo fanno in buona fede, spinti dalla loro ingenuità e dal loro candore di lestofanti impliciti, altri sono più velenosi e magari aspettano per anni acquattati nel loro brodo naturale fin quando trovano l’occasione e il coraggio per darti una stilettata.

Certo, per il fatto stesso che siamo noi a pensare in un certo modo riteniamo che questo sia il solo modo giusto e corretto di pensare. E ci meravigliamo altamente che gli altri non capiscano e, spesso, siamo portati a concludere per il tradimento o la vigliaccheria. Questo è umano e comprensibile. Anche l’imbecille, come il verme che attende il suo momento, si dà le sue ragioni e accampa le sue scuse. Anche coloro che si presentano sotto le vesti sacerdotali del possibilismo pluralista, sotto sotto, hanno la loro sacrosanta opinione e nessuno potrà spostarli di un millimetro. In buona o cattiva fede, quando forniamo spiegazioni, non riusciamo mai a evitare di coprire le nostre responsabilità, non riusciamo mai a essere noi stessi. Ancora Nietzsche: «Come si può sentire la propria opinione sulle cose come una rivelazione? Questo è il problema dell’origine delle religioni: ogni volta c’è stato un uomo in cui quel processo fu possibile. Il presupposto di ciò è che egli già prima credeva alle rivelazioni. Ecco che un giorno, all’improvviso, egli conquista il suo nuovo pensiero e il carattere beatificante di una grande e personale ipotesi che abbraccia il mondo e l’esistenza entra così prepotentemente nella sua coscienza, che non osa sentirsi creatore di una tale beatitudine e ascrive al suo Dio la causa di ciò e ancora la causa della causa di quel nuovo pensiero, in quanto, cioè, rivelazione di Dio stesso. Come potrebbe un uomo essere l’autore di una così grande felicità? – suona il suo pessimistico dubbio. Per realizzare questo agiscono in segreto altre leve: si rafforza, per esempio, dinanzi a sé un’opinione avvertendola come una rivelazione, se ne cancella così il carattere ipotetico, la si sottrae alla critica, anzi al dubbio, consacrandola. In tal modo si abbassa se stessi al rango di organi, ma alla fine è il nostro pensiero a vincere in quanto pensiero divino, – questo sentimento, per cui alla fine si resta vincitori, prende il sopravvento su quell’altro sentimento di umiliazione. Sullo sfondo gioca anche un altro sentimento: se si innalza al di sopra di se stessi la propria creazione e apparentemente si prescinde dal proprio valore, rimane senz’altro un’esultanza d’amore e d’orgoglio paterno che compensa tutto e significa qualcosa di più di un compenso». (Aurora, I, 62). Così, la presenza di una direttiva che prosegue grazie alla sua stessa inflessibilità consente di misurare a distanza il procedere di altri movimenti, non da quella direttiva prodotti, né ancor meno dominati, ma con tutto ciò sempre scrutati e indirettamente rappresentati. Gli illuminati si autoconvincono di questo procedimento in atto di cui sono non solo portatori ma anche unici interpreti. I ruoli della finzione intesa come coagulazione di ciò che la tradizione ha potuto solidificare nella parola scritta in irrimediabili modi definitivi, si invertono articolandosi in convergenze di significati, non più di intenzioni programmatiche, di confini e di territori da difendere. Il fruitore non può venire a capo di queste rappresentazioni se non trasportandosi egli stesso nel movimento che le riassume convertendole in possibilità molteplici, quindi fino in fondo incontrollabili. Ma collocare anche il plausibile fruitore della tradizione sulla scena della rimessa in discussione significa assegnargli una parte del lavoro, un completamento impossibile ma iniziabile, che lo porterà a ritrovarsi, dopo qualsiasi parziale cominciamento, e non ce ne possono essere altri, al punto di partenza.

Proprio nella spiegazione si vede in che modo e con quale intensità siamo universi chiusi, forniti di comunicazioni standardizzate. Ci aggiriamo senza un criterio logico, a dritta e a manca, in balia delle nostre impressioni che, di volta in volta, scambiamo per fatti oggettivi. Certo, queste nostre opinioni non sono accidentali, nascono dalle nostre relazioni con la realtà, con gli altri individui, le cose, le strutture, le forme, e così via, ma sono comunque parte di noi stessi, anzi sono esse proprio uno degli aspetti più visibili di noi stessi. Gli altri ci vedono come un complesso di opinioni, in nessun caso ci prendono sul serio al cento per cento. Il modo in cui ragioniamo, la scelta delle parole, il modo in cui ci vestiamo, come mangiamo, come facciamo l’amore, le nostre reazioni inconscie, tutto ciò è visibile agli altri e dà loro indicazioni più o meno precise sulla nostra individualità. Il processo attraverso il quale gli altri ci conoscono è quindi un processo di individuazione, in base al quale siamo individui noi stessi. Appare evidente come una vasta rete di rapporti di estrema incertezza e approssimazione porta alla costruzione di un dato che molte volte consideriamo assolutamente certo. Ognuno di noi dovrebbe partire quindi da una riflessione sulla poca fondatezza delle proprie opinioni, sul fatto che gli altri ci vedono attraverso le loro opinioni altrettanto poco fondate. Cosa fare? Tenere presente i propri limiti e quelli degli altri. Ecco il suggerimento di Hugo Dingler: «Designando col nome di “decernismo” (dal latino decernere, decidere) la filosofia che poggia, per il suo fondamento di validità, su una o più decisioni originarie, possiamo dire: ogni filosofia, in ultima analisi, è decernismo. Noi cerchiamo però qualcosa che ci salvi dalla completa oscurità, permettendoci in qualche modo la costruzione di una filosofia fornita di senso. Vediamo. Certamente vorremo evitare che la proposizione ultima, di cui stabiliamo la validità con un atto del volere, sia un enunciato intorno a una realtà indipendente da noi: infatti, poiché non abbiamo più alcun criterio per fondare ulteriormente in qualche modo la validità di questa proposizione, dovremmo sempre attenderci che il principio stabilito come valido per decisione, non si accordi con un dato indipendente da noi (senza con ciò voler già enunciare qualcosa riguardo a un tal dato). Resta una sola possibilità: non stabilire nulla, nel nostro primo principio, riguardo a ciò che è indipendente da noi, ma solo qualcosa riguardo a quel che da noi dipende: ma ciò è soltanto quel che si suole designare come “la mia volontà”. Essa sola dunque, già in base a questa considerazione esclusivamente pratica, può essere presa come base ultima dei miei asserti di validità. Ogni filosofia, perciò, è volontarismo». (Der Zusammenbruch der Wissenschaft, München 1916, p. 74). Ognuno di noi si è costruito un suo modo di essere e di questo processo costruttivo è più o meno cosciente. Alla base ci sta il desiderio di vederci diversamente, di illuderci di potere rappresentare nella realtà un ruolo più importante di quello che i nostri limiti ci impongono. Anche l’imbecille culla questa illusione, anzi più grande l’imbecillità, più grossa la portata dell’illusione. Anche il verme e l’infame cullano la loro illusione di passare inosservati, di nascondere il loro cuore di conigli e di traditori. Purtroppo gli uomini sono fatti più o meno così, anche ottimi uomini, coraggiosi, capaci di affrontare i rischi della vita, coerenti con le loro idee, che non tradirebbero mai un altro uomo, anche questi uomini sono portati a considerare quelli che stanno dietro come meno importanti di quelli che stanno davanti. Se le loro condizioni oggettive non permettono di mettersi davanti, non resta che illudersi di poterlo fare. Questo esercizio di fantasia non conosce confini. L’operaio che compra la macchina costosa si illude allo stesso modo del dirigente industriale che si atteggia a imprenditore. L’uomo politico che prende decisioni sul futuro della nazione si illude di dominare la scena della storia allo stesso modo dello scienziato che considera definitiva la sua scoperta illudendosi di avere catturato la realtà. Ma non si tratta che di illusioni. Ecco perché le parole di Stirner: «L’ideale “l’uomo” è realizzato non appena la concezione cristiana si ribalta in questa tesi: “Io, questo unico, sono l’uomo”. Il problema concettuale: “Che cos’è l’uomo? ” si è così trasformato nel problema personale: “Chi è l’uomo?”. Col “che cosa” si cercava il concetto per realizzarlo; col “chi” non c’è assolutamente più problema, bensì la risposta è già presente di persona in colui che pone il problema: il problema si risponde da sé.

«Si dice di Dio: “Nessun nome può nominarti”. Ciò vale per me: nessun concetto mi esprime, niente di quanto viene indicato come mia essenza mi esaurisce: sono solo nomi. Di Dio si dice pure che è perfetto e che non ha il compito di aspirare alla perfezione. Anche questo vale solo se detto di me stesso». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., p. 270). Nello spazio sottratto alla tradizione la critica negativa di Stirner proietta un luogo di attualità, una percorrenza irreale ma altrettanto valida, una ricostituzione separata dallo scopo essenziale di ogni riflessione critica, questa volta però resa possibile dall’implicita richiesta della liberazione, evitando il rischio di “indiarsi” in maniera esplicita. Ciò è possibile perché in questo rischio sono state scrostate tutte le tentazioni di completezza, ripiegando sulla semplicità dell’ “unico”. Oggi so, forse con maggiore inquietudine, che la tecnica della riduzione è faccenda da laboratorio hegeliano, al contrario dobbiamo muovere verso l’esagerazione del materiale, l’eccessività e l’abbondanza. La seduzione della mia tesi è tutta qui. Dovrebbe avere la forza di balenare fra le rovine superando ogni voluta obnubilazione del potere, ogni esatta messa a punto al di fuori della libertà, ogni prigionia e ogni carcere.

Anche i rivoluzionari si illudono. Non tanto sulla validità dei loro progetti, che questa è forse una delle cose più concrete della loro attività, quanto nelle piccole cose, nella vita di tutti i giorni, nel mantenimento di distanze impossibili, nell’analisi di fatti lontani e sconosciuti, nell’uso del proprio coraggio, nel senso del ridicolo e in tante altre cose. E, in momenti di stanca, quando le acque della piena sociale defluiscono, queste illusioni pesano come pietre. Anche i rivoluzionari vogliono essere più avanti degli altri, più estremisti, più efficaci, più concreti. Essi hanno poi un mito radicato in profondità, quello del poverismo. Mi si passi l’uso di questa orribile parola, per altro costruita per l’occasione, perché esprime bene il senso dello spettacolo a cui il rivoluzionario vuole partecipare. Il suo status sociale, astrattamente considerato, è quanto più lontano possibile dai codici del comportamento corrente, quindi deve essere non solo diverso, ma anche povero, per dare segno di avvicinamento alla classe inferiore. Da qui un culto del poverismo che alcune volte rasenta il ridicolo e altre volte serve semplicemente a coprire l’imbecillità. Ha scritto Ernest Wiechert: «Noi abbiamo revisionato tante cose che io non capisco davvero per quale motivo non riesaminiamo tutto. Anche le cosiddette verità eterne potrebbero una volta venire bruciate se egli [Dio] non soltanto non risponde, ma sembra proprio che sia diventato muto, gelato di indifferenza, come un terribile maestro davanti a scolaretti piangenti, smarriti: allora potrebbe darsi che qua e là a uno pesi troppo di inginocchiarsi davanti a una parete di granito e di ricevere in risposta l’eco. Che quegli si chieda che amore sia quello che consiste nel sacrificare e nel tacere. Che lascia scorrere il sangue, giorno e notte, fiumi di sangue, che lascia gemere le vittime, giorno e notte, di tutte le età, buoni e cattivi, colpevoli e innocenti. E che siede muto, sorretta la testa con le mani, e vede ciò che ha fatto, e trova che lo ha fatto molto bene. I genitori non sgozzano i loro figli. E se lo fanno, non sostengono in tribunale che lo hanno fatto per amore, io debbo ora ricominciare daccapo, molti di noi lo debbono. Tutto daccapo. Col negare [dire di no] non lo si fa. Si può vivere soltanto se almeno una volta all’anno si può consentire [dire di sì]. Il mio vecchio dio è morto, e il nuovo non è ancora salito al trono. Io non so neppure quale sarà il suo volto. Penso soltanto che occorrerà essere un uomo, per poterlo guardare in faccia. E perciò mi occorre del tempo. Per Dio occorre sempre del tempo in questo mondo, io lo troverò. Ma io troverò un altro volto. Non uno che è da implorare; non uno che è da ringraziare. Non uno davanti al quale venga intonato: “Ora grazie, Dio”, se appena si sono sgozzati mille o diecimila uomini. Giacché poi gli altri dovrebbero intonare “Ora maledizione, Dio”. Io credo che troverò un volto al di là della bestemmia e della gratitudine, sì, non un volto ma una legge. Una legge non ha un volto. Egli non è né buono né cattivo. Questi sono attributi umani ma non divini. Egli è qui, non più lontano e sa di noi quanto il sole che fa maturare o inaridire questo grappolo. Egli è nulla senza il grappolo o senza di noi. Egli è il mare, ma noi siamo l’acqua». (Das einfache Leben, München 1939, pp. 278-279). Penso che oggi si possa porre un rapporto quasi preciso tra l’irrevocabilità di un rifiuto e la sua possibilità di essere recuperato, appiattito. Non che lo sperimentalismo concreto, la pena del procedere oltre nel territorio dell’assenza, venga compreso immediatamente dal potere, con tutta facilità, non dico questo, solo che una critica negativa può fare l’esperienza stessa del recupero, trovarsi nella stanza chiusa del potere senza volerlo e senza saperlo, e quel che è peggio senza smettere di essere sperimentale. Nello sperimentalismo della critica negativa c’è un’ansia di essere capiti proprio perché si esprime un malessere comunicativo che corrisponde esattamente alle condizioni date, quindi c’è una porta lasciata aperta. Il mascheramento deliberato è tutt’altra cosa. Sotto un altro aspetto corrisponde al rifiuto della danza imposta dal potere, al rifiuto di muoversi al ritmo del compromesso. Dichiararlo direttamente questo rifiuto può diventare un’occasione offerta al nemico. Allo stesso modo di quando un’analisi, espressione della massima riduzione a oggetto del pensiero scientifico, viene sviluppata secondo tutte le regole della trattatistica, per cui diventa veramente incomprensibile per coloro i quali si aspettano uno strumento per trasformare la vita, non per modificarla a rate. Si finisce quindi, accettando la logica espositiva dell’ “poco a poco”, per risultare incomprensibili esattamente a quelli che si vorrebbe comprendessero, e perfettamente comprensibili al nemico.

Chiuso nella gabbia delle proprie incertezze e dei propri luoghi comuni, anche il rivoluzionario si adagia sulle soluzioni più facili, finisce per accondiscendere agli atteggiamenti che consentono la riproduzione di un cliché. Cede così davanti alle opinioni degli altri e si fa incasellare in certezze e in precostituiti modi di essere. Agisce solo in funzione di quello che gli altri pensano di lui ed evita accuratamente di urtare la suscettibilità dominante con la propria azione. Il gusto alla moda delle scappellate di cortesia diventa preponderante, per poi scadere in rissose colluttazioni quando la maschera cade e si viene scoperti per quello che si è, perbenisti sotto mentite spoglie. Per uscire da una situazione del genere bisognerebbe impiegare un metodo critico capace di individuare la reale consistenza delle nostre spiegazioni. Ecco Nietzsche: «I Greci vedevano sopra di sé gli dèi omerici non come padroni, e se stessi sotto di loro non come servi, al modo degli ebrei. In un certo senso, essi vedevano solo l’immagine speculare dei più riusciti esemplari della loro casta, dunque una idealizzazione, non un opposto della loro natura. Ci si sentiva reciprocamente affini, esisteva un interesse reciproco, una sorta di simmachia. L’uomo che si dà tali dèi nutre una nobile opinione di sé, e si pone in un rapporto simile a quello che intercorre tra la piccola e l’alta nobiltà; mentre i popoli italici hanno una vera e propria religione da contadini, con la paura continua di potenze malvagie e capricciose e di spiriti maligni. Scomparsi gli dèi olimpici, anche la vita greca fu più cupa e angosciosa. Il cristianesimo invece schiacciò e spezzò completamente l’uomo, e lo gettò nel profondo di una palude: poi, nel sentimento di una abiezione totale, fece d’un tratto balenare lo splendore della divina misericordia, sicché l’uomo, colto di sorpresa e stordito dalla grazia, proruppe in un grido di estasi e per un istante credette di portare in sé il cielo intero. Su questo morboso eccesso del sentimento, sulla profonda corruzione della mente e del cervello ad esso necessaria, operano tutte le trovate psicologiche del cristianesimo: esso vuole annientare, frantumare, stordire, estasiare – solo una cosa non vuole: la misura, ed è per questo che esso è, nel senso più profondo, barbarico, asiatico, non nobile, non greco». (Umano, troppo umano, I, 114). In che modo poteva, questa barbarie, costruire un dominio concreto, duraturo, accettare le regole sempre nuove di un potere politico, giustificare le norme dello sfruttamento, e tutte le altre prospettive della modernità? Modificando se stesso. Non c’è dubbio che il cristianesimo che conosciamo non è più barbaro, non estasia ma si limita a coordinare il processo di gestione, smussando gli ostacoli e favorendo l’accettazione del dominio. La misura della perfezione è lontana dal campo che ci ospita, né possiamo rimetterla in piedi con la distruzione. Un parallelo tra distruzione e barbarie non è coordinato dalla intermediarietà della misura.

Ognuno di noi parte da alcune certezze: sottoponiamole a una critica negativa radicale. Scopriremo che una gran parte di queste certezze è fondata su impressioni e non su dati di fatto. Approfondiamo queste impressioni, facciamo un piccolo inventario dei dati, arriveremo alla sbalorditiva scoperta di quanto fragili siano le fondamenta del nostro giudizio. Scendiamo all’interno delle nostre impressioni, vi scopriremo come esse siano, a loro volta, frutto di altre impressioni mescolate con un numero irrisorio di dati di fatto. Approfondiamo questi ultimi e scopriremo sempre al loro interno una componente di incertezza, un giudizio soggettivo, una valenza ideologica. Ancora Stirner: «Se si vede qualcuno perdersi in un vizio, in una passione, ecc. (per esempio nell’affarismo, nella gelosia, ecc.), ecco che lo si vuole salvare da questo invasamento e aiutarlo a “superare se stesso”. “Noi vogliamo far di lui un uomo!”. Sarebbe proprio bello, ma il fatto è che una nuova forma d’invasamento viene sostituita all’antica. Chi è schiavo dell’avarizia ne viene salvato solo per cadere nelle mani della devozione religiosa, dell’umanitarismo o di qualche altro principio, cioè per venir spostato su un altro punto fisso.

«Questo spostamento da un punto di vista limitato ad uno superiore si esprime nelle parole: i sensi non devono essere orientati verso ciò che passa, ma soltanto verso ciò che non passa, non verso il temporale, ma verso l’eterno, l’assoluto, il divino, il puramente umano, ecc. – insomma verso lo spirito». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., p. 247). Cosa concludere? Nessuna paura, è proprio quando si è criticamente certi dei propri limiti che ci si sente più forti e si possono costruire meglio i propri progetti. In effetti, esistono due modi di avvicinarsi alla realtà, uno intuitivo e l’altro analitico, deduttivo, uno che si fonda sul cuore e l’altro sul ragionamento, e sono ambedue sbagliati.

L’intuitivo tutto cuore, che crede di capire subito la realtà, di sentirla, che ha la presunzione di potere fare a meno dei fatti, resta in balia delle proprie e delle altrui opinioni. Fa simpatia, come la fanno tutti coloro che si abbandonano agli atteggiamenti donchisciotteschi, ma gli manca la serietà, la precisione, l’informazione che non possono essere gettate via in un colpo. Il deduttivo tutto cervello finisce per inaridire se stesso e il proprio progetto. È spesso scettico e sofisticato, presuntuoso per eccesso di informazione, mentre gli manca l’entusiasmo necessario per mettere a frutto il proprio patrimonio di dati di fatto. È quindi anch’egli vittima delle proprie opinioni. «La percezione immediata e la conoscenza immediata non ci possono ingannare. Già da questo si vede che la storia non può essere il loro oggetto, perché la storia ha in sé un’ambiguità, ch’è quella del divenire. Rispetto all’immediatezza il divenire è infatti un’ambiguità per cui diventa dubbio anche ciò che sta più saldo. La contemporaneità immediata può essere soltanto occasione. – a) Può essere l’occasione perché il contemporaneo ottenga una conoscenza storica. Sotto questo aspetto, il contemporaneo delle nozze imperiali è più fortunato del contemporaneo del Maestro: perché quest’ultimo ha soltanto l’occasione di vedere la figura di servo od al massimo qualche azione singolare di cui non può sapere con sicurezza se deve ammirarla oppure indignarsi per essere stato infinocchiato; poiché non gli riuscirà certamente di spingere quel Maestro a ripetere quell’azione, come fanno i prestigiatori, che danno così ai loro spettatori l’occasione di rendersi conto, della situazione di tutta la faccenda. – b) Può essere l’occasione perché il contemporaneo si sprofondi socraticamente in se stesso così che quella contemporaneità svanisca come un nulla in confronto con l’Eterno ch’egli ha scoperto in se stesso. – c) Finalmente (e questa è la nostra posizione, per non ricadere nella posizione socratica) essa sarà l’occasione che il contemporaneo, in quanto non verità, riceva da parte di Dio la condizione ed ora veda la magnificenza con gli occhi della fede. Ora, in quanto ciò che mediante la fede diventa realtà storica e come realtà storica diventa oggetto della fede (i due momenti si corrispondono) è qualcosa d’immediato e si concepisce immediatamente, non c’è errore. Il contemporaneo può certamente far uso dei suoi occhi, ecc., ma stia bene in guardia dalla conclusione. Immediatamente egli non può conoscere che una cosa è accaduta, ma non lo può conoscere neppure mediante la necessità (della logica), perché la prima espressione del divenire è per l’appunto la rottura di continuità. Nel momento in cui la fede crede che qualcosa è divenuto, che è accaduto, essa rende il divenuto e l’accaduto dubbioso nel divenire e il suo “così” resta incerto nel “come possibile” del divenire. La conclusione della fede non è una conclusione, ma una risoluzione, e perciò il dubbio è escluso». (S. Kierkegaard, Briciole di filosofia, ovvero una filosofia in briciole, op. cit., pp. 176-177). Certo, anche questa lettura potrebbe costituire un suggerimento e una spinta a cristallizzare un modello altrettanto protocollare di quello scolastico. In nessun modo esterno di cogliere la realtà, procedendo per tentativi strutturali, ci può essere definitiva sistemazione e certezza di non essere raggiunti dalla sagacia investigativa dell’immediatezza. Ma si può verificare un sano spiazzamento, un ritardo nella lettura e nella relativa, indispensabile, codificazione. Per il momento, in tempi brevi, questo spiazzamento è quello che mi interessa. Non pretendo di presentare un oggetto di cui non sarà possibile scardinare la combinazione. Tenendo conto che in questo campo il mezzo di presentazione non è mai separabile dal fine della fruizione, bisogna anche provvedere affinché questo fine non si mangi il mezzo, rendendolo, in brevissimo tempo, inoffensivo. Rendere più difficile la fruizione non è cosa impossibile, basta procedere nel cammino inverso che di regola viene seguito per ottenere il consenso degli altri. Fra le tante idiozie, Jean Cocteau ha detto almeno una cosa intelligente: “In realtà il pubblico ama riconoscere, detesta che lo si disturbi. La sorpresa lo urta. La sorte peggiore di un’opera è che non le si muova nessun rimprovero, che non si obblighi il suo autore ad assumere un atteggiamento d’opposizione”. Discorso sensato, da buon fabbricante in serie di occasioni sovversive. Ma anche troppo semplice per essere vero.

Mi è stato spesso rimproverato di essere troppo rigido nel presumere che tutti possano arrivare a certe conclusioni, essere in grado di fare certe analisi. Almeno in tempi brevi, mi è stato detto, non tutti sono in grado di capire subito gli elementi essenziali di un problema. Penso che questa critica sia fondata. Esistono persone più dotate e persone meno dotate per l’analisi teorica e per la selezione pratica delle informazioni. E ciò si vede nella ristretta schiera di coloro che si dedicano a queste attività, anche fra i rivoluzionari. Ma gli altri non per questo debbono concludere per un’accettazione supina e per un rigetto di principio. Con un approfondimento critico, anche se in tempi un poco più lunghi, possono sempre arrivare a fare chiarezza nelle proprie opinioni e cogliere errori nei dati di fatto. Questo si deve pretendere, altrimenti si resterà sempre vittima dei propri fantasmi. Non lo si potrà pretendere dagli imbecilli e non lo si vorrà pretendere dai vermi e dagli infami, ma da coloro che sono in buona fede lo si può pretendere. Con grande penetrazione, Nietzsche: «Sono stato capito? – Ciò che mi distacca, ciò che mi mette a parte da tutto il resto dell’umanità è il fatto di avere scoperto la morale cristiana. Per questa ragione mi occorreva una parola che avesse un senso di sfida verso tutti. Non aver aperto prima gli occhi a questo proposito è per me la più grossa sudiceria che l’umanità abbia sulla coscienza, in quanto autoinganno diventato istinto, in quanto volontà di non vedere, per principio, nessun fatto, causa, realtà, in quanto moneta falsa in psychologicis, fino al delitto. La cecità di fronte al cristianesimo è il delitto par excellence – il delitto contro la vita ... I millenni, i popoli, i primi e gli ultimi, i filosofi e le vecchiette – eccettuati cinque, sei momenti nella storia, e me come settimo – si equivalgono su questo punto. Fino a oggi il cristiano era l’ “essere morale”, una curiosità senza pari, – e, in quanto “essere morale”, più assurdo, menzognero, vano, leggerone, dannoso a se stesso di quanto si sarebbe mai sognato anche il più grande spregiatore dell’umanità. La morale cristiana – la forma più maligna della volontà di menzogna, la vera Circe dell’umanità: la sua corruttrice. Non è l’errore in quanto errore a spaventarmi in questo quadro, non la mancanza millenaria di “buona volontà”, di disciplina, di decenza, di coraggio nelle cose dello spirito, che si rivela in quella vittoria – è la mancanza di natura, è il fatto assolutamente raccapricciante che la contronatura stessa ha avuto gli onori supremi in quanto morale e ha continuato a pesare sull’umanità sotto specie di legge, di imperativo categorico! ... Sbagliarsi fino a questo punto, e non un singolo, non un popolo, ma l’umanità! ... Che si sia imparato a disprezzare gli istinti primari della vita; che si sia finta l’esistenza di un’ “anima”, di uno “spirito”, per far andare in rovina il corpo; che si sia imparato a considerare come qualcosa di impuro ciò che è il presupposto della vita, la sessualità; che si sia andati a cercare il principio del male nella profondissima necessità del crescere, nel rigoroso egoismo (– e già la parola è una calunnia! –); e che, all’inverso, si sia visto un valore superiore, ma che dico! il valore in sé! nei segni tipici del declino e della contraddizione degli istinti, nel “disinteresse”, nella perdita del centro di gravità, nella “spersonalizzazione” e nell’ “amore del prossimo” (– morbo del prossimo!) ... E come, sarebbe forse l’umanità stessa in décadence? E lo è stata sempre? – Resta sicuro che le hanno insegnato a considerare valori sommi solo i valori della décadence. La morale della rinuncia a sé è la morale della rovina par excellence, il fatto “io perisco” tradotto nell’imperativo: “dovete tutti perire” – e non solo nell’imperativo! ... Questa morale, l’unica che fino a oggi sia stata insegnata, la morale della rinuncia a sé, tradisce una volontà della fine, nega la vita nel suo ultimo fondamento. – A questo punto resterebbe aperta una possibilità, che la degenerazione non sia dell’umanità tutta, ma solo di quella specie di uomini parassitari, i sacerdoti, che hanno spinto la finzione della morale fino al punto di fissare essi stessi i valori per l’umanità tutta – che seppero vedere nella morale cristiana un mezzo per la loro potenza ... E di fatto questa è la mia visione delle cose: i dottrinari, le guide dell’umanità, tutti i teologi, erano tutti dei décadents: perciò la trasvalutazione di tutti i valori in elementi ostili alla vita, perciò la morale. Definizione della morale: morale – l’idiosincrasia di alcuni décadents, che hanno la mira segreta di vendicarsi della vita – e ci riescono. Io do valore a questa definizione. – ». (Ecco Homo [1888], Perché io sono un destino, 7). La forza registra qui uno degli inni più alti. Ma non riesce a nascondere che l’intenzione di Nietzsche non è quella di imporre una soluzione, quanto quella di guardarsi attorno, arrivato in una condizione altamente rarefatta, se non proprio nella desolazione più assoluta. Viaggiando di conserva con questo progetto Nietzsche ha impiegato pertanto una prima linea di comportamento, quella di non ricercare direttamente le risposte alle domandeche mette sul tappeto. Anche quando le risposte si presentano, per così dire, spontaneamente, ha suggerito risposte provvisorie, spesso dichiaratamente fuorvianti, vere e propria digressioni che preparano il terreno a svolgimenti successivi di cui non si presuppongono neanche le problematiche minimali. Per cui il movimento interpretativo procede quasi sempre secondo un orientamento a spirale, che penetra nel singolo problema senza mostrare un centro di gravità.

Penso che la spiegazione non possa piegarsi alle necessità del progetto, cioè del flusso relazionale che a un certo punto ci raccoglie e che riusciamo a cogliere. Ci sarà sempre una sfasatura. Sia verso il senso che verso la qualità non possiamo mai trovare sicurezza, ed è questo il motivo fondamentale che conduce il mio lavoro, che fornisce una spiegazione diversa sia dalle accumulazioni analitiche, sia dalle intuizioni che presumono di arrivare per vie traverse alla totalità. Il terreno dove si verifica la fondatezza delle possibilità è sempre la ricognizione, prima di ogni ulteriore passo avanti bisogna interpretare, e la spiegazione che qui fornisco sta tutta in questo interpretare, forse anche al di là delle stesse relazioni interpretate. Il crollo dei sistemi complessi fondati su princìpi di certezza non poteva essere più completo. Non possiamo dire se a crollare siano solo le illusioni o anche alcuni elementi concreti che rendevano possibile una vita migliore della presente. Considerazioni del genere non sono soltanto conservatrici e nostalgiche, sono anche stupide. Non siamo noi a determinare le condizioni in cui viviamo, almeno non nella loro gran parte, ma per la parte sia pur minima su cui possiamo intervenire, se vogliamo farlo, dobbiamo fornirci degli strumenti necessari, e dobbiamo anche spiegarli. Per quest’ultimo compito occorre un certo stile. «Quando affermiamo che la filosofia è riflessione, intendiamo sicuramente dire riflessione su se stessa. Ma che cosa significa “sé”? Sappiamo dirlo meglio di quanto non comprendiamo i termini simbolo e interpretazione? Certo, lo sappiamo, ma questo nostro sapere è astratto, vuoto e vano. Stendiamo dunque innanzitutto il bilancio di questa vana certezza. Sarà forse la simbolica che salverà la riflessione dalla sua vanità nello stesso momento in cui la riflessione fornirà la struttura ricettiva di ogni conflitto ermeneutico. Che cosa significa dunque “riflessione”? Che cosa significa il “sé” della riflessione su se stessa? Riconosco a questo punto che la posizione del “sé” è la prima verità per il filosofo posto nel cuore di quella ampia tradizione della filosofia moderna che inizia con Cartesio e si sviluppa con Kant, Fichte e la corrente riflessiva della filosofia europea. Per questa tradizione, che consideriamo come un tutto prima di contrapporne i principali rappresentanti, la posizione del “sé” è una verità che si pone da sé; non può essere né verificata, né dedotta, è insieme la posizione di un essere e di un atto, di una esistenza e di una operazione di pensiero: io sono, io penso; esistere, per me è pensare, esisto in quanto penso; giacché questa verità non può essere verificata come un fatto, né dedotta come una conclusione, deve porsi nella riflessione; la sua autoposizione è riflessione; questa prima verità Fichte la chiamava il giudizio tetico. Questo è il nostro punto di partenza filosofico». (P. Ricoeur, Della interpretazione. Saggio su Freud [1965], tr. it., Milano 1967, p. 58). Nulla di lineare. Ancora una volta un modo di guardarsi attorno. La forza rimane lontana, un ricordo che corrisponde ad altri significati ontologici. Le indicazioni conclusive, i giudizi, sono espressi in modo indiretto, figurativo, cercando di ottenere significati dalle analogie. Tutte le posizioni di arresto con passaggio ad altri problemi, connessi sempre bilateralmente con quello trattato prima, sono segnali precisi di passaggi singolari che tuttavia non interrompono il movimento a spirale, che può continuare a restringersi o iniziare ad allargarsi ulteriormente. La bilateralità dipende dall’innesto sistematico, a ogni posizione di arresto, di una variante che persegue il movimento precedente senza collegarsi con il movimento che segue, così che se la continuazione prosegue nel restringimento della spirale, la connessione bilaterale neanche si nota, pur eseguendo il suo compito di collegamento con il movimento precedente.

Certo, l’incertezza finalmente accettata fornisce una migliore agibilità e uno strumento critico superiore, ironicamente superiore, che però può annientare completamente il senso non solo rifiutandone l’accumulazione, che sarebbe il compito critico del primo momento, ma anche imponendo una specie di sospettosa controrealizzazione. In un mondo che velocemente distrugge e ricostruisce, trovando in questo alternarsi la migliore difesa degli interessi dominanti, purché la distruzione venga mantenuta dentro certi limiti diciamo tollerabili, ci può essere un rischio poco evidente ma molto serio di precipitare lo stesso soggetto in una mancata realizzazione. Così, la spiegazione che sarebbe dovuta partire verso un’apertura della qualità, liberando almeno il terreno ricognitivo da una parte dei sedimenti analitici, finisce per disgregare tutto, rimettendo continuamente in questione ogni conoscenza, ogni principio, ogni intenzione. Conclude Stirner: «Ci si accorse ben presto che non era indifferente che cosa si avesse a cuore o di che cosa ci si occupasse; si riconobbe l’importanza dell’oggetto. Un oggetto più elevato della particolarità delle cose è l’essenza delle cose; anzi, l’essenza è la sola cosa in esse che può esser pensata e appartiene agli uomini pensanti. Perciò non indirizzare più i tuoi sensi verso le cose, ma i tuoi pensieri verso l’essenza. “Beato chi non vede eppure ha fede!”, cioè beato chi pensa, perché ha a che fare con cose invisibili e ci crede. Eppure anche un oggetto del pensiero che ha costituito per secoli un tema di discussione essenziale è ormai diventato tanto indifferente che “non vale la pena di parlarne”. Ce ne siamo accorti, eppure si è voluto lo stesso tener sempre sott’occhio un’importanza dell’oggetto valida di per sé, un suo valore assoluto, come se non fosse veramente la bambola la cosa più importante per il bambino o il Corano per il turco. Finché io non sono per me l’unica cosa importante, è indifferente quale sia l’oggetto su cui si fa tanto scalpore tirandone in ballo l’ “essenza metafisica” e soltanto un mio delitto (piccolo o grande) nei suoi confronti ha valore. Il grado della mia dipendenza e sottomissione indica la mia posizione di sudditanza, il grado del mio peccato rivela la misura della mia propria individualità». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., pp. 247-248). La contemporanea trattazione di due ordini logici, quello dell’ “a poco a poco” e quello del “tutto e subito”, determina una deformazione nel momento espositivo. Ciò assegna alla contemporaneità di avvenimenti e riflessioni anche la possibilità di svilupparsi nel divenire storico, senza che tra i due ordini logici ci sia contrasto, se non apparente. In effetti noi viviamo questi due momenti in modo continuo, accedendo ora alla constatazione immediata di un passato e di un futuro e intuendo senza soluzione di continuità gli aspetti protocollari di questa immediatezza. Ciò comporta una negazione dichiarata e radicale di ogni legittimità delle conclusioni. L’analisi quantitativa non consente unità logica se non accettando gli aspetti qualitativi della duplice deformazione: quella immediata riflessa nell’inquietudine e quella diversa riflessa nell’immediatezza.

Nell’ironia, come segno stilistico del nascondimento, si riflette una duplicità ineliminabile, una considerazione critica che tende a sottolineare le limitazioni oggettive, e una proiezione attiva che ridimensiona le velleità soggettive. La complicità con cui gli strumenti conoscitivi vengono considerati dall’ironia, realizzata nelle tecniche del nascondimento, scende nei risvolti positivi e negativi della decisione, nei limiti della volontà, nelle contraddizioni della struttura. In questo modo si possono individuare, nel percorso ricognitivo, le passioni che sospingono al di là del confine tra morale e bellezza, tra necessità e possibilità, tra senso e qualità. Per fare tutto ciò non basta la semplice accortezza, o l’avara attenzione di chi ama risparmiarsi, è necessario un coinvolgimento capace di mostrare a se stessi e agli altri l’assenza della paura, l’urgenza del desiderio che spinge a scoprire i modi, infinitamente vari, di raggiungere movimenti che non possono essere poi facilmente imprigionati dentro l’armatura del senso e dell’accumulazione. Ecco Hegel: «Parmenide teneva per fermo l’essere, ed era perfettamente conseguente, per ciò ch’egli diceva insieme al nulla, ch’esso non è affatto; soltanto l’essere è. L’essere, preso così assolutamente per sé, l’indeterminato, e però non ha alcuna relazione ad altro. Sembra quindi che da un cominciamento come questo non si possa andare innanzi, partendo cioè dal cominciamento stesso, che un progresso si possa avere solo in quanto all’essere si annodi dal di fuori qualcosa di estraneo. L’essere non sarebbe affatto il cominciamento assoluto, quando avesse una determinatezza; in cotesto caso dipenderebbe da un altro, e non sarebbe immediato, non sarebbe il cominciamento. Se invece è indeterminato, e quindi vero cominciamento, non ha nulla, per cui possa trapassare ad un altro: è in pari tempo la fine. Nulla può scaturirne, come nulla può penetrarvi. Presso Parmenide, come presso Spinoza, non si dovrebbe avanzare dall’essere, o dalla sostanza assoluta, al negativo, al finito». (Scienza della logica, vol. I, op. cit., pp. 84-85). Il problema della spiegazione penso possa trovare qui una sua giustificazione. Hegel entra senza indugi, fin dall’inizio, nel movimento della totalità, e può spiegare questo movimento solo agendovi dall’interno, fornendo di volta in volta, e spesso occasionalmente, lo stretto indispensabile dell’apparato metodologico che cosi viene costruito man mano che lo si impiega. Ora, lo stretto indispensabile a volte è troppo poco, occorre pertanto avere pazienza, fino a che i diversi contributi si completeranno a vicenda, riorganizzandosi in un quadro di comprensione che è poi il lavoro della filosofia hegeliana nel suo complesso.

Fra i problemi fondamentali c’è quello che nella riflessione relazionale non è facile fissare i limiti del campo, quindi occorre, di volta in volta, passare dal modello strettamente umano, in cui alcuni elementi della logica dell’ “a poco a poco” continuano ad avere valore, a un modello complessivo di relazione, con l’intenzione di superare i limiti del campo e ottenere una visione totale della realtà, con un ricorso sempre più approfondito alla logica del “tutto e subito”. Dobbiamo capire che non è ricorrendo a un umanesimo superficiale e approssimativo che capiremo meglio. Per esempio, bisogna accuratamente evitare tutti i ragionamenti occasionali che trovano origine dalle cosiddette relazioni umane, considerate come espressione pura del soggetto, mentre lavorando ai movimenti relazionali della coscienza ci si accorge dell’importanza e dell’influenza degli elementi oggettivi, accumulati nell’enorme catalogazione del senso. Ciò si capisce meglio considerando che la ricerca della qualità non è solo un effetto della spontaneità umana, ma è principalmente un effetto di calcolata perizia. Le due cose si fondono e si completano a vicenda, siamo d’accordo, poiché non si possono fondare ragionamenti seri partendo da un preteso isolazionismo dell’individuo, cosa che corrisponde più o meno alla sua sacralizzazione. Nell’uomo di oggi non c’è soltanto, e spesso, l’intenzione di lasciarsi andare approfittando, quando si può e più che si può delle condizioni favorevoli ed evitando quelle sfavorevoli, c’è anche la ricerca precisa di una artificiosità decadente, la riduzione adeguata della creatività, la formalizzazione dei mezzi comunicativi, l’appiattimento dei sentimenti, insomma una serie notevole di elementi diversi che non può essere tutta riassunta nella cellula uomo che, in questo modo, finirebbe per non significare più nulla. «Qual si sia il contributo che l’orientazione storica possa fornire alla comprensione della crisi attuale, essa non è in grado di rassicurarci intorno al suo sbocco. Da nessun parallelo storico possiamo dedurre la conclusione che tanto oltre non si arriverà. Noi proseguiamo la nostra folle corsa verso l’ignoto. Lo sguardo dell’umanità pensante, che per tanto tempo si era sempre tornato ad affissare nella perfezione antica, ecco che da Bacone a Cartesio in poi si è volto altrove. L’umanità sa che deve cercarsi la sua strada. L’impulso a spingersi più in là mentre si avanza può condurre a un estremo, degenerando in un vano e inquieto brancicare verso tutto ciò che è nuovo, disprezzando tutto ciò che è vecchio. Questo però è modo di comportarsi da spiriti immaturi o superficiali. Un cervello robusto non ha paura del fardello anche greve dei valori culturali del passato, quando si dispone ad avanzare. Noi conosciamo un’irrefragabile verità: se vogliamo conservare la cultura dobbiamo continuare a creare cultura». (J. Huizinga, La crisi della civiltà [1935], tr. it., Torino 1962, pp. 17-18). Cosa fare? Andare alla ricerca del tempo perduto? Dello spazio perduto? Certo, ma non nel senso di un percorso nostalgico da ricostruire. Nella realtà nessuna cosa si ripresenta in modo identico. Il vecchio rapporto con lo spazio lasciava una traccia. Un segno nel luogo fisico, il segno dell’uomo e dei suoi oggetti. Una strada, una piazza, un albero, un crocevia di campagna, un ponte, lo stesso mare e il cielo, i boschi e le montagne, avevano un discorso aperto con l’individuo che sapeva, e voleva, ascoltarlo. E l’affinità con gli altri individui portava gli uomini negli stessi luoghi, ne animava i sentimenti, li spronava all’azione e alla riflessione. Ci si ritrovava singoli, mentre adesso ci si nasconde come elementi di un insieme, di una folla. Una volta eravamo scoperti, spesso anche impreparati e vulnerabili. Adesso siamo sotto la copertura dell’uniformità, della ripetitività. Ci sentiamo più sicuri perché siamo nel gregge. Non esistono punti di riferimento nello spazio, nel tempo. Tutto sta per essere cancellato. I suoni, gli odori, i pensieri, i sogni. Tutto viene prodotto e ri-prodotto. Tutto sta per diventare merce.

Nello stesso tempo bisogna però evitare un’analisi esclusivamente obiettiva, se si preferisce naturalistica, costruendo il disegno ideale di flussi relazionali che solo in parte rappresentano veramente la realtà, mentre quel disegno corrisponderebbe soltanto a un progetto di laboratorio, una forzatura alle necessità ordinative del pensatore. In ambedue i casi si perderebbero di vista l’assoluto fondamento di libertà della relazione e l’assoluta anarchia del flusso relazionale. Mi sembra necessario approfondire meglio il problema della spiegazione, prospettando un maggiore avvicinamento al campo.

Dall’interno del campo, in quanto porzione del reale, la sostanziale libertà delle relazioni e la loro implicita anarchia sono scarsamente visibili in quanto, calandosi in una dimensione più specificamente umana, sorge una serie di ostacoli non facilmente superabile. Per prima cosa, l’uomo non è libero, ma è prigioniero, ostacolato da mille catene che gli vengono chiuse dall’esterno. In queste condizioni, anche considerando la libertà dal punto di vista della totalità, non si vede altro che il movimento relazionale, il quale può anche essere scambiato per l’assoluta necessità. La libertà, infatti, per essere capita, deve essere conquistata, come qualsiasi altra qualità, non osservata da lontano, essa è possibile come lotta, allo stesso modo in cui la relazione è possibile come flusso. Nel campo si rendono però comprensibili alcuni movimenti che già conosciamo, come l’accumulazione del senso, la frattura della coscienza, la ricognizione e il salto, i quali fissano alcune caratteristiche del meccanismo che cerca di impadronirsi dell’oggetto, presentandosi come tentativi del soggetto di aprirsi la strada verso la qualità. Noi conosciamo di già questi movimenti, qui voglio invece aprire al livello più avanzato dell’effettualità, cioè alla trasformazione, in pratica un discorso capace di dire qualcosa in merito alla saldatura possibile tra qualità e senso, all’interno del territorio della cosa e fuori da questo territorio, nel momento in cui l’intenzionalità soggettiva guadagna il flusso ormai ricomposto nei suoi due orientamenti. «Il nostro desiderio non è di fare di due creature una sola, bensì di evadere dalla nostra prigione, dalla nostra unità, di diventare due in una congiunzione, ma meglio ancora dodici, un numero infinito, di sfuggire a noi stessi come in sogno, di bere la vita a cento gradi di fermentazione, di essere rapiti a noi stessi o comunque si debba dire, perché non lo so esprimere; allora il mondo contiene altrettanta voluttà quanto estraneità. Il solo sbaglio che potremmo commettere sarebbe d’aver disimparato la voluttà dell’estraneità e immaginarci di fare chi sa quali meraviglie dividendo l’uragano dell’amore in magri ruscelletti che scorrono su e giù fra un essere e l’altro». (R. Musil, L’uomo senza qualità [1930-1942], tr. it., Torino 1972, pp. 1102-1103). Il processo di appiattimento generalizzato colpisce tutti i linguaggi in quanto, per rendere possibile la trasmissione degli ordini nelle grandi società democratiche di massa, praticamente in quasi tutto il mondo occorre abbassare l’eterogeneità dell’espressione portandola all’uniformità del mezzo di comunicazione. Il meccanismo è più o meno il seguente e si può esemplificare ricorrendo alla televisione. La crescita quantitativa dei dati (notizie) tende a ridurre il tempo disponibile, in immagini e parole, per la trasmissione di essi. Questo porta a una progressiva, e spontanea, selezione dell’immagine e delle parole, per cui da un lato questi elementi, di per sé eterogenei, si essenzializzano e dall’altro lato aumentano come numero.

L’azione riduttiva opera in due sensi. Prima, nel senso dello strumento, che viene sottoposto a un processo di semplificazione e scarnificazione. Poi, nel senso del suo impiego, che viene standardizzato, producendo effetti sempre più vicini a una media accettata da tutti o quasi da tutti. Ciò avviene nella cosiddetta letteratura: poesie, narrativa, teatro, e avviene anche in quel ristretto microcosmo che è l’attività rivoluzionaria di approfondimento dei problemi sociali. La possibilità di leggere in filigrana le condizioni attuali della società e della formazione produttiva sono diminuite, oggi c’è molto meno da portare alla superficie, e sono stati ridotti gli strumenti interpretativi.

Dobbiamo considerare di già unificato questo flusso, di già concretizzato il lavoro della diversità, e dobbiamo anche considerate superato il pericolo di compromissione definitiva all’interno del territorio della desolazione. La diversità, a questo punto, ritorna alla coscienza, nei limiti e alle condizioni che il suo itinerario all’interno della cosa riesce a imporre al senso. Non dobbiamo dimenticare che il più alto livello dell’effettualità è la trasformazione e che la diversità capace ormai di trasformare si trova in una posizione di vantaggio nei confronti della coscienza capace soltanto di ordinare e modificare. La diversità non rientra nella coscienza come elemento acquietato, né vi rientra per sobillare la coscienza, essa cercherà sempre di riprendere ulteriori e praticamente infiniti tentativi di ricomporre la dolorosa separazione tra senso e qualità, ma ogni volta riproporrà alla coscienza un’unione produttiva di trasformazioni della realtà, quindi anche di senso nel significato riduttivo del termine, cioè di senso in quanto prodotto dell’accumulazione. Ancora Musil: «Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta deve tener presente il fatto che gli stipiti sono duri: questa massima alla quale il vecchio professore si era sempre attenuto è semplicemente un postulato del senso della realtà. Ma se il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci dev’essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, per esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o tal altra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: beh, probabilmente potrebbe anche esser diverso. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere, e di non dar maggior importanza a quello che è, che a quello che non è». (Ib., pp.12-13). In una società, quale è stata quella degli anni Ottanta, in cui ancora si osservava una considerevole polarizzazione tra le classi, il compito informativo era quello di portare alla luce una realtà di sfruttamento che il potere aveva interesse a nascondere, quindi anche i meccanismi distorti di estrazione del beneficio produttivo, le trame repressive, le involuzioni autoritarie dello Stato, ecc. In una società come quella attuale, che tende sempre di più verso una gestione “visibile” e una produzione “informatizzata”, il capitale diventa più leggibile proprio perché meno importante è leggerlo, meno importante è scoprirne i metodi di sfruttamento o, almeno, meno essenziale per dar vita a un ipotetico sommovimento.

La società oggi deve essere studiata con strumenti culturali capaci di fornire non solo interpretazioni di fatti occulti, quindi tratti alla superficie, ma anche conflittualità inconsapevoli, molto lontane dall’antica e visibile contraddizione di classe. Ciò per evitare che mettendo in campo il rovescio dei modi di essere si finisca per farsi trascinare in una semplicistica operazione di rigetto, incapace di valutare i meccanismi del recupero, del reperimento del consenso e dell’inglobamento della coscienza dissenziente. Più che di una documentazione adesso abbiamo bisogno di una partecipazione attiva, anche attraverso l’analisi, a quello che deve essere un progetto complessivo. Non ci si può limitare a denunciare, occorre analizzare inserendosi all’interno di un progetto preciso, adatto a essere sviluppato nel corso dell’analisi, qualcosa di più, e questo finché avremo la lingua per parlare. «Socrate: – nessuna cosa è per se stessa una sola; tu non puoi, correttamente, dar nome a una cosa né a una sua qualità; se tu, per esempio, chiami alcuna cosa grande, ecco che essa potrà apparire anche piccola; se la chiami pesante, potrà apparire anche leggera; e così via per tutto il resto, perché niente è uno, né sostanza, né qualità. Dal mutar luogo, dal muoversi, dal mescolarsi delle cose fra loro, tutto diviene ciò che noi, adoprando una espressione non corretta, diciamo che è; perché niente mai è, ma sempre diviene. Su questo punto tutti i filosofi, uno dopo l’altro, a eccezione di Parmenide, si deve ammettere che sono d’accordo, e anche sono d’accordo i migliori poeti dell’uno e dell’altro genere di poesia, Epicarmo della commedia, della tragedia Omero; il quale, dicendo “Padre fu Oceano a’ numi e madre Teti”, intese dire che tutte le cose hanno origine dal flusso e dal movimento. O non credi che egli intese dire così? Teeteto: – Sì, lo credo». (Platone,Teeteto [369 a.C.], 151d-152). La distinzione prima di tutto. Anche l’ “unico” intende salvarla. La barbarie sarebbe la cessazione di ogni processo comunicativo. Questa distinzione non è solo una produzione di oggetti, un continuo progettare produttivo, ma anche un ulteriore passo avanti, essa è anche un “muovere verso” qualcosa che ancora non sappiamo ma che possediamo in cuore come “quello che abbiamo perduto”.

Anche l’antico frazionamento orientativo trasmetteva un significato ed era il prodotto di una trasformazione, ma noi non possiamo sapere il motivo di quella rottura, degli orientamenti, noi possiamo solo parlare di movimenti in corso i quali, una volta descritti, ci possono anche dare indicazioni in merito a possibili future divisioni tra senso e qualità, in quanto il lavoro nell’interno del territorio della cosa non è definitivo in nessun caso. Basta un semplice cedimento, un soprassalto di paura, una ridimensione del rischio, un minore coinvolgimento e tutte le conquiste qualitative si sbriciolano riproponendo un’altra volta la scissione orientativa. In questo modo, intendo quindi che questa scissione è sempre un fatto trasformativo, perché avviene in questo preciso livello dell’effettualità e non può avvenire nei due livelli subordinati. Tutto ciò va ovviamente moltiplicato all’infinito. Si tratta di un continuo mutamento relazionale che disegna un territorio complessivo di relazioni che individualmente identifichiamo in un campo, ma che totalmente può considerarsi una semplice somma di campi.

La vita umana si presenta come contemporanea azione di sapere e di fare, fusione più o meno critica e problematica di consapevolezza e di attuazione pratica. Ciò è vero in quanto la mia vita, quella per cui posso anche permettermi di parlare di una vita umana, in generale, non è soltanto una banale contemplazione di immagini metafisiche, ma è essenzialmente azione che rende attiva anche la consapevolezza di sé e del mondo. Non è possibile quindi proporre due momenti separati, quello della teoria e quello dell’azione. Un primo momento in cui si conosce e un secondo momento in cui si agisce. La volontà, come espressione della coscienza non ancora diversificata, non può determinare l’azione, occorre prima che la diversità produca le condizioni opportune attraverso la ricognizione e attraverso il salto, quindi attraverso un livello dell’effettualità che possiamo identificare col sapere, nella prospettiva del campo, ma la conoscenza non può aversi senza il desiderio di conoscere, la spinta appunto della diversità. «L’anima se ne sta smarrita per la stranezza della sua condizione e, non sapendo che fare, smania e fuor di sé non trova sonno di notte né riposo di giorno, ma corre, anela là dove spera di poter rimirare colui che possiede la bellezza. E appena l’ha riguardato, invasa dall’onda del desiderio amoroso, le si sciolgono i canali ostruiti: essa prende respiro, si riposa delle trafitture e degli affanni, e di nuovo gode, per il momento almeno, questo soavissimo piacere. Perché, oltre a venerare colui che possiede la bellezza, ha scoperto in lui l’unico medico dei suoi dolorosi affanni. Questo patimento dell’anima, mio bell’amico a cui sto parlando, è ciò che gli uomini chiamano amore». (Platone, Fedro [370-360 a.C.], 245a-c). Il luogo dell’amore non è quello idealistico della conoscenza definitiva, del raggiungimento fondato, né quello della sicurezza, della boa di salvataggio. Pur essendo processo e movimento non è nemmeno un procedere privilegiato, carico di significati reconditi e altamente edificanti. Lo stupore lo circonda, più che la coscienza di essere nel vero. La qualità è una prospettiva, non qualcosa che si serra fra i pugni.

La realtà, considerata come oggetto della conoscenza e dell’agire, presenta a sua volta una specie di contraddittorietà. Il dominio ha sempre avuto interesse a indicare questa contraddittorietà tra leggi teoriche, da un lato, e fenomeni, dall’altro, come qualcosa di insormontabile, racchiudendo la scienza e la riflessione dell’uomo all’interno di un relativismo assoluto che finisce per mortificarle. In sostanza, nel campo, nella ristrettezza delle nostre capacità, conosciamo il mondo, questo nostro mondo, che è quello genericamente indicato come l’àmbito dell’agire umano, il mondo all’interno del quale l’uomo ha decodificato la natura e l’ha resa reale. Non si tratta di un mondo di oggetti resi immutabili da una feticizzazione del loro ruolo nei confronti dell’uomo, ma di un mondo in cui le cose, i rapporti e i significati sono elementi venuti fuori dall’agire stesso dell’uomo, un prodotto della sua vita sociale. «L’anima, dunque, poiché immortale e più volte rinata, avendo veduto il mondo di qua e quello dell’Ade, in una parola tutte quante le cose, non c’è nulla che non abbia appreso. Non v’è, dunque, da stupirsi se può fare riemergere alla mente ciò che prima conosceva della virtù e di tutto il resto. Poiché, d’altra parte, la natura tutta è imparentata con se stessa e l’anima ha tutto appreso, nulla impedisce che l’anima, ricordando (ricordo che gli uomini chiamano apprendimento) una sola cosa, trovi da sé tutte le altre, quando uno sia coraggioso e infaticabile nella ricerca. Sì, cercare ed apprendere sono, nel loro complesso, reminiscenza [anamnesi]! Non dobbiamo dunque affidarci al ragionamento eristico: ci renderebbe pigri ed esso suona dolce solo alle orecchie della gente senza vigore; il nostro, invece, rende operosi e tutti dediti alla ricerca; convinto d’essere nel vero, desidero cercare con te cosa sia virtù». (Platone, Menone [387 a.C.], 79e-82b). Quale che sia la bontà del metodo, di per sé, questo non garantisce né tutela. Non sono al sicuro per gli studi che ho fatto, al contrario mi sento più esposto ai pericoli. La concretezza mi sollecita a domandare, non mi fa sentire il saldo suolo sotto i piedi come interpretazione della verità. Non c’è niente di saldo che non possa essere spazzato via come un fuscello. Qual è il ponte?

Sarebbe un errore proporre un modello di rapporto tra il mondo reale e l’uomo sulla base della coscienza che l’uomo ha del mondo, rinviando l’acquisizione della conoscenza a un momento successivo e da costruirsi. L’uomo non ha coscienza assoluta del mondo più di quanto non l’abbia di se stesso, né in termini di totalità del reale, né in termini, più ridotti, di campo. La coscienza non può considerarsi come un sapere insufficiente ma generale, che si contrappone alla conoscenza come sapere sufficiente ma limitato. Io posso avere coscienza di una situazione di sofferenza in cui si trova il mio corpo e posso facilmente localizzarla nei denti. Posso quindi essere cosciente di avere mal di denti, ma questo processo può evolversi sul piano della consapevolezza in molti modi, attraverso l’intervento dei processi conoscitivi, la mia bocca è provvista di denti, qual è la forma di questi denti, perché essi sono sensibili al dolore, quali malattie li intaccano, e così via, senza per altro che si possa dire che questa fase conoscitiva abbia reso adeguato il mio sapere di fronte alla inadeguatezza della coscienza che avevo di esso. Potrei infatti, malgrado l’allargamento dei piani conoscitivi intervenuto dopo, potrei non sapere cosa fare per porre rimedio al dolore. «Poiché dunque il pensiero di un dio si nutre di intelletto e di scienza pura, anche quello di ogni anima che abbia a cuore di accogliere quanto le si addice, quando col tempo abbia scorto l’essere, ne gioisce e, contemplando la verità, se ne nutre e si trova in buona condizione, finché la rotazione circolare non riconduca allo stesso punto. Durante l’evoluzione esso vede la giustizia in sé, vede la saggezza, vede la scienza, non quella alla quale è connesso il divenire, né quella che è diversa perché è nei diversi oggetti che noi ora chiamiamo enti, ma quella che è realmente scienza nell’oggetto che è realmente essere. E dopo aver contemplato allo stesso modo le altre entità reali ed essersene saziata, si immerge nuovamente nell’interno del cielo e torna a casa. E una volta arrivata, l’auriga, arrestati i cavalli davanti alla mangiatoia, li foraggia di ambrosia e dopo questa li abbevera di nettare». (Platone, Fedro, 247c-e). Chiusa l’avventura nella qualità, c’è il ritorno, la rammemorazione, la ricostruzione dell’esperienza vissuta. Ciò può farsi ancora una volta promotore di ambiguità. In ogni caso non può mai costituire un patrimonio da tenere in banca.

In effetti, la conoscenza contrapposta alla coscienza di una realtà non è un diverso modo di conoscere, ma un modo di conoscere il diverso. All’interno del campo io posso avere coscienza di determinati rapporti sociali che mi collocano in una situazione di classe più o meno precisa, e posso verificare movimenti della coscienza, o reazioni, più o meno adeguate a questa situazione di classe, reazioni che mi possono infastidire oppure sollecitare a una maggiore accettazione. Se questa coscienza resta monolitica, si avvierà a esternarsi solo verso l’orientamento del senso, cioè verso l’accumulazione di dati di fatto, di contenuti, ma non raggiungerà la consapevolezza della sua situazione complessiva, quindi anche del meccanismo di accumulazione, se non attraverso un frazionamento nella diversità. In tal modo, la consapevolezza diventa coinvolgimento, quindi consapevolezza di diversi stati di coscienza, per poi trasformarsi in conoscenza vera e propria di diversi stati di cose. Esaminando bene questa fase, attraverso l’itinerario dell’apertura, dell’abbandono e della ricognizione, anche senza andare oltre ci si accorge che non c’è differenza, in termini relazionali, tra fare e pensare. «Straniero – Dimmi: dobbiamo avere il coraggio, mi pare, di pronunciare l’espressione “l’assoluto non essere”? Teeteto – Come no? Straniero – Se uno degli ascoltatori, non a scopo di contesa né per scherzare, ma seriamente dovesse rispondere, dopo aver riflettuto, a che cosa deve essere riferito questo nome, il “non essere”, in riferimento a che cosa e per quale oggetto noi crediamo che egli ne farebbe uso e che cosa indicherebbe a chi lo interroga? Ma questo almeno è chiaro, che il “non essere” non deve essere riferito a qualcuno degli enti. Ma noi diciamo che, se s’intende parlare correttamente, non bisogna definirlo né come unità né come molteplicità e neppure assolutamente chiamarlo “Io”, perché anche con questa espressione lo si designerebbe con una specie di unità». (Platone, Sofista [369 circa a.C.], 285a-b). Ciò non vuol dire che la spiegazione non finisca per accampare diritti indipendenti, capaci di condizionare la decisione del singolo, di obbligarlo a fare, e anche a pensare secondo moduli tutt’altro che liberi. Si consolida quindi, davanti a noi, una opinione feroce, che ci sollecita a un comportamento adeguato, in pensieri e opere, comportamento che poi ritroviamo per intero nel meccanismo dell’accumulazione, in quell’esteriorizzazione che la coscienza fa propria e di cui non riuscirà mai a liberarsi definitivamente. Non resta che battersi contro questa ferocia, imparando a rifiutare ancora prima di imparare a criticare. Il rifiuto, anche per principio, è sempre un’ottima scuola contro la spiegazione che non solo non sapremmo dare ma che, molto più spesso, non potremmo dare.

Sta qui la radice dell’agire considerato deviante, anche formalmente deviante, semplicemente ed esteriormente deviante, come pure del pensare deviante. Questa devianza non è ancora diversità e forse non lo sarà mai, ma è qualcosa, come il segnale che le primi luci dell’alba riverberano nel cielo. Nei periodi di profonde trasformazioni sociali queste si riflettono nella scala dei valori che subisce, a sua volta, sconvolgimenti più o meno profondi. Uno degli elementi fondamentali di questa scala, diciamo uno dei livelli di fondo, è dato dal valore della vita. Della mia vita come di quella degli altri.

Come condannare una spiegazione ringhiosa e rusticana, quando appare, improvvisamente dietro la patina che sta appiattendo tutto? Io non me la sento, per carattere e per riflessione. Innanzi tutto l’ostilità, contro questo assetto perbenista e tollerante, l’ingiuria e il disprezzo contro questa società di scemi e di furbi fondata su di un controllo bigotto e feroce che schiaccerebbe come un insetto molesto qualsiasi spiegazione semplicemente deviante. Un peso che ci sta deformando occorre per prima cosa che venga violentemente respinto. Per questo la spiegazione, quando è realmente capace di tenere conto della totalità relazionale, è un vero e proprio pugno nello stomaco, in grado però di velarsi fino alle tecniche più raffinate del nascondimento hörderliniano, cioè fino al delirio. La monotonia e la tetraggine non sono indispensabili, ma hanno la loro importanza nella spiegazione quando sanno capovolgersi nell’ironia e nel riso. «Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini. Se quei prigionieri potessero conversare tra loro, non credi che penserebbero di chiamare gli oggetti reali le loro visioni?». (Platone,La Repubblica [387 a.C. circa], VII, 514a, 516c). Sia la teoria che l’azione sono relazioni, quindi si inseriscono in flussi, orientamenti e così via. Non sarebbe giusto dire che le teorie determinano conseguenze sulle teorie e le azioni sulle azioni, in quanto non esistono relazioni teoriche e relazioni pratiche. Quando ho parlato di relazioni apparenti mi sono riferito a relazioni che per motivi del loro più o meno immediato affievolimento si smarriscono disperdendosi nella rete universale di tutte le relazioni non arrivando a sviluppare flussi e movimenti significativi. A riconferma di questa impossibilità di distinzione, c’è da dire che non è vero che le teorie interagiscono in un loro universo chiuso, poniamo quello delle accademie ma, come constatiamo tutti i giorni, producono effetti molto concreti nella realtà, e anche effetti su altre teorie che poi finiscono per tradursi in effetti su altre realtà, ecc.

Le azioni allo stesso modo producono effetti non solo nella realtà sociale, nei cosiddetti fatti, ma anche sulle riflessioni relative a quei fatti, cioè sulle teorie. «Socrate – Capisco ciò che vuoi dire. Menone, vedi come ci riduci a quel ragionamento eristico, secondo il quale ad un uomo non è possibile cercare né ciò che sa né ciò che non sa? Non cerca ciò che sa, perché lo sa e non ha affatto bisogno di cercarlo, né cerca ciò che non sa, perché non sa neppure cosa cercare. Poiché tutta la natura è congenere e l’anima ha appreso tutto, nulla impedisce che chi si ricordi di una sola cosa – che è poi quello che si chiama apprendimento – trovi da sé tutto il resto se è coraggioso e instancabile nella ricerca, perché il ricercare e l’apprendere, nella loro interezza, non sono che reminiscenza. Non bisogna, dunque, prestar fede a quel ragionamento eristico: esso ci renderebbe pigri ed ascoltarlo è un piacere che fiacca; mentre questo rende alacri alla ricerca». (Platone, Menone [387 a.C.], 80d-81c). L’elemento che caratterizza in modo profondo questa dimensione teorica e pratica è dato dal confronto tra le strutture e le forme, questo confronto, all’interno del campo, prende l’aspetto di una conflittualità di classe. L’agire umano, almeno nelle attuali condizioni, è fondato sulla divisione in classi della società e sulla conseguente gerarchia delle posizioni sociali, sulla divisione del lavoro, sulle spiegazioni che di questa situazione strutturale vengono fornite, sviluppate, criticate, ecc.

In quanto partecipe dell’agire umano, la teoria, cioè queste spiegazioni, è anch’essa fondata sugli stessi elementi, quindi è caratterizzata dalla medesima conflittualità. «Completamente differente da questo libero pensiero è il pensiero proprio, il mio pensiero, un pensiero che non mi guida, ma è guidato (e continuato o interrotto) da me, sempre a mio piacimento. Questo pensiero proprio differisce dal libero pensiero in modo simile a come la sensualità mia propria, che io soddisfo a piacimento, differisce dalla sensualità libera, indomita, a cui soggiaccio». (M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, op. cit., p. 251). Il nostro agire è quindi funzione di quello che la realtà è per noi, cioè dal punto di vista del campo che ci costruiamo. Tutto ciò con relativi chiaroscuri, contraddizioni, verità e inganni. Di questa realtà, e di noi stessi, abbiamo coscienza immediata, che corrisponde al modo in cui la coscienza si inserisce nella realtà relazionale totalmente considerata e nel meccanismo dell’accumulazione considerato nella sua specifica oggettività.

Ma già il nostro semplice fare, all’interno della catalogazione, modifica questa coscienza iniziale portandola a una più ampia consapevolezza di quanto di distinto e di confuso esiste al suo interno. Questa maggiore consapevolezza, che non ha ancora nulla del futuro coinvolgimento, costituisce l’avvio del processo di conoscenza, sempre all’interno del meccanismo accumulativo. Questa conoscenza elementare, circoscritta al primo livello dell’effettualità, è già conoscenza in atto, cioè capace di riorganizzare l’accumulazione, quindi di produrre autonomamente processi modificativi. Conclude Stirner: «Con l’essere non si giustifica proprio niente. Il pensato è altrettanto del non-pensato, la pietra sulla strada è e la mia rappresentazione della pietra è essa pure. Ambedue sono, ma in spazi diversi: la prima nello spazio esterno, la seconda nella mia testa, in me; io, infatti sono uno spazio come lo è la strada». (L’unico e la sua proprietà, op. cit., pp. 252-253). L’apertura non sarà quindi più un modo di fornire spiegazioni del primo livello, ma di interpretare queste stesse spiegazioni, trasformandole in qualcosa di diverso. Nell’àmbito del campo, la diversità venutasi a creare con l’apertura si profila subito come espressione della conflittualità di classe, modo di essere della coscienza che comunemente viene indicato come presa di coscienza.

Noi non siamo qualcosa di esterno a questa conflittualità che per determinate condizioni favorevoli può capire quello che avviene al suo interno, noi siamo la conflittualità stessa in quanto siamo la realtà con tutte le trasformazioni che avvengono grazie al movimento totale. Dopo la ricostituzione unitaria del flusso relazionale a seguito dell’azione di ricongiungimento della qualità con il senso, attraverso la trasformazione incidiamo sulla realtà. Questa è la spiegazione più adeguata alla logica del “tutto e subito”, ma è anche il livello più alto dell’effettualità. Questa conclusione è una conseguenza della relazione che siamo riusciti a costruire tra coscienza e conoscenza, ben al di là dei meccanismi dell’accumulazione.

L’azione del nostro nemico di classe, come la sua teoria, è diretta a rafforzare il suo dominio in quanto da una situazione di divisione, ordine e gerarchia, esso ricava tutti i vantaggi del dominatore. In questa prospettiva il termine azione è improprio, in quanto il fare della coscienza chiusa si apre soltanto all’interno del processo di accumulazione e ha come obiettivo il controllo. La spiegazione che la coscienza dominante fornisce è diretta a modificare il meno possibile perché tutto resti come prima. La struttura istituzionale assume pertanto l’aspetto frastagliato e meccanico di uno sviluppo ramificato che contrasta fortemente con l’aspetto sfumato e continuo della forma. Voglio aggiungere che l’azione di chi subisce lo sfruttamento è quasi sempre diretta a cambiare le cose perché si possa avere un miglioramento, una effettiva trasformazione se non proprio rivoluzionaria almeno non soltanto esteriore. La forma sociale è quindi in movimento continuo dall’alto verso il basso del campo, la struttura istituzionale è invece statica o si mo-difica molto lentamente e con processi molto faticosi dal basso verso l’alto. Questi riferimenti spaziali, che non vanno confusi con coordinate puramente fisiche, costituiscono solo un esempio.

Quanto detto riguardo l’azione dello sfruttato che tende a liberarsi e del dominatore che frena questa liberazione, cioè per quello che si potrebbe definire pratica rivoluzionaria, vale anche per la teoria della liberazione che si contrappone alla teoria della conservazione o teoria reazionaria. Certo, non tutte le teorie e le azioni del dominio solidificano quest’ultimo, come non tutte le azioni e le teorie della liberazione lo distruggono. Se nella fase della coscienza immediata all’interno del processo accumulativo queste distinzioni sono molto schematiche, quindi possono apparire chiare, nelle fasi successive della realtà dello scontro sfumano in elementi più tenui, specialmente nella fase intermedia dell’interpretazione, per poi riconquistare una chiarezza diversa nell’ultimo livello dell’effettualità, al momento della trasformazione,

Una volta ricostituita l’unità del flusso, all’interno del campo si fissano dei percorsi sufficientemente costanti che risultano costituiti da azioni e teorie che, escludendo i fenomeni non rari di recupero o degenerazione, si possono definire comepercorsi di azione rivoluzionaria e percorsi di teoria rivoluzionaria. In questi ultimi orientamenti diversi possono dar vita a una teoria della liberazione e a una teoria rivoluzionaria vera e propria. Il servizio principale che la teoria rivoluzionaria rende alla rivoluzione sociale è quello di indicare i limiti dell’azione e della teoria che gli oppressi portano avanti, elevando il livello di quella proposta esplicativa che questa azione e questa teoria, nel loro insieme, costituiscono. Nello stesso tempo, la teoria rivoluzionaria indica quanto di utilizzabile per la rivoluzione sociale ci sia nella pratica che oggi consente la permanenza del dominio, mentre denuncia le componenti reazionarie e mistificatorie della teoria ideologica del dominio di classe.

Al concetto di spiegazione trasformativa che abbiamo elaborato fin qui, contrapposto, alla spiegazione analitica basata esclusivamente sul meccanismo dell’accumulazione, viene oggi contrapposta un’altra spiegazione, né attiva, né scientifica nel senso più semplice che si può dare a queste parole. Si tratta di una spiegazione indiretta, costruita attraverso la gestione dei mezzi di informazione e gestita dal potere, il risultato, anch’esso di natura accumulativa, viene chiamato immaginario collettivo. Si tratta di un concetto buttato lì spesso come cosa da tutti risaputa con conseguenze non accettabili. Per quello che si può capire dell’uso di questo strumento di dominio, ancora in corso di perfezionamento, si tratta dell’insieme dei sentimenti che un fatto o una situazione socialmente significanti determinano nella società intesa come insieme di individui. Nello stesso tempo, col medesimo concetto ci si vuole riferire ai moderni mezzi di comunicazione che realizzano il passaggio di questi fatti sociali significativi dal semplice accadimento circoscritto nel tempo e nello spazio alla diffusione di massa. È questa diffusione allargata che consente una spiegazione costruita in modo specifico e capace di avere una persistenza nel tempo e un dilagare senza paragoni nello spazio.

In altre parole, si tratterebbe di un meccanismo inconscio, o almeno non del tutto sotto il controllo della coscienza, ma pienamente inserito nell’accumulazione, attraverso cui i membri della società rappresentano a se stessi i fatti sociali più significativi, attraverso una spiegazione non proprio razionale, realizzata dalle strutture di comunicazione di massa e nelle forme volute dalla struttura politica e culturale dominante. Che questa realtà esista viene dato per scontato. Non c’è dubbio infatti che la gran massa delle persone sia in balia dell’informazione di potere, della cultura e, quindi, delle idee elaborate dal potere. Non c’è nemmeno dubbio, a quanto sembra, che la gran parte della gente reagisca in modo sufficientemente uniforme, tanto da consentire proiezioni e previsioni politiche molto attendibili partendo da campioni assai modesti purché opportunamente selezionati.

La società di massa pensa e agisce in modo massificato, quindi prevedibile. Ciò molto più di quanto accadeva una volta, al tempo in cui la coesione era garantita da un vasto analfabetismo di fondo. È facile capire il gran lavoro che occorrerebbe fare in questa direzione per spaccare questa uniformità facendola diventare critica e contraddittoria, confusa e disperata.

Per tornare al problema della spiegazione, non solo non condivido un uso acritico del primo termine, ma ritengo indispensabile un approfondimento delle conseguenze negative di un suo impiego spensierato. E ciò in modo particolare in tempi come quelli correnti, in una situazione fortemente disgregata, con un gran bisogno di critiche negative e non di protesi ideologiche, critiche che ci facciano capire come agiscono i mezzi di convincimento, come si muovono i grandi persuasori, come si sta per sostituire ai vecchi idoli nuovi concetti altrettanto affascinanti e altrettanto mistificatori. Non voglio dire di essere per una fredda analisi che metta le cose a posto, che pianti un solo albero ideologico al posto di una rigogliosa e variegata foresta spontanea di piante esotiche. Solo che non si possono accettare concetti operativi tanto complessi e contraddittori come se fossero fatti ormai acclarati e messi definitivamente fra gli strumenti da utilizzare.

Molto più importante sarebbe un’analisi in profondità del movimento dei messaggi informativi, cioè come si costruiscano le reazioni di massa e come queste differiscono in funzione della divisione. Al suo interno si aprono spiragli contraddittori. La gente si convince, ma non può fare a meno, nello stesso tempo, di alimentare sospetti e potenzialità di rivolta.

Per completare il discorso sulla spiegazione c’è da ricordare il momento specifico del salto, il passaggio finale dalla ricognizione alla cosa. Si tratta, com’è ormai ovvio, della spiegazione che più delle altre si avvicina alla logica del “tutto e subito” e ciò perché, come si è visto, coglie il momento della riunificazione tra qualità e senso. Si può dire che fino a quel momento la diversità, con tutto il suo lavoro ricognitivo, non è riuscita a cogliere il flusso e quindi a proporre un effettivo approfondimento della conoscenza. Questa pertanto si precipita sulla diversità, nel momento del salto, proprio con quella imprevedibilità che soltanto le cose amate sanno fornire, quando il desiderio prende il sopravvento e mantiene lontano il battere delle ore. Si tratta di una spiegazione che troverà esplicazione definitiva nel flusso ricomposto, ma che viene fuori proprio nel territorio della cosa. Il nuovo apporto qualitativo suggerisce immagini nuove ai vecchi contenuti, rotture delle monotonie dell’accumulazione, effetti esplicativi prima impensabili, nuove associazioni deduttive e, principalmente, messa in crisi dell’antropomorfismo esclusivo dell’antica coscienza immediata.

Non che in questo modo si possa capire, al di là della rasoiata puramente scettica, l’universo, ma si tratta di esperienze esplicative che si sostituiscono alla sufficienza anche morale di quelle analitiche. Qui tutto è assegnato alla consequenzialità logica, all’approssimazione materiale, fatta di piccoli passi, lì tutto avviene sulla base di una consequenzialità diversa, scaturita dai travagli della coscienza protratti attraverso la ricognizione fino al salto. Nell’intero discorso interpretativo sta già la premessa, minuziosa fino al dettaglio, di questo avvicinamento che non deve essere confuso con l’approssimazione materiale del meccanismo accumulativo. I problemi speciali che sorgono nel corso del tentativo di dare conto di questo radicarsi nella ricognizione, contribuiscono nello stesso tempo a costruire un’immagine del tutto diversa della spiegazione conclusiva, quella che costituirà poi, nell’interno della qualità, il riflesso forse speculare ma certamente complementare alla iniziale spiegazione analitica. Il cammino dello strumento logico, dall’ “a poco a poco” al “tutto e subito”, procede parallelamente al procedere concreto della realtà.

Ogni sommovimento del reale, autonomo di fronte alle nostre intenzioni, ci coglie di sorpresa, la sua dissoluzione ci mette in gravi inquietudini, impensabili inquietudini. La nostra teleologia rivoluzionaria è prodotto del tempo in cui viviamo, porta con sé le caratteristiche delle condizioni di servitù in cui stiamo vivendo, anche se se ne vuole liberare, anche se le vuole cancellare. Un desiderio non è una realizzazione, non prende necessariamente corpo, e quando lo fa non è obbligato a soddisfare da sé la realtà.

L’affanno per le regole, il garantirle e custodirle, è presente in tutto L’unico e la sua proprietà. Stirner è figlio di Hegel, sia pure figlio degenere. Egli stesso non spinge fino in fondo le sue armi. Il suo è di certo un “pensiero selvaggio”, come l’ho definito in questo libro, ma si tratta di un pensiero che segue delle regole, non solo intrinseche ma anche estrinseche. Le regole interne sono quelle dell’universo hegeliano, e questo lo sappiamo, quello che sappiamo meno riguarda le regole esterne. Perfino sull’ “unione degli egoisti” sappiamo poco. Fin quando non avremo affrontato a viso aperto queste regole non si sarà fatta una “lettura” adeguata di Stirner. I fantasmi politici resteranno ad aleggiare attorno alle sue cose, come attorno alle nostre.

L’avere affossato tutti i luoghi delle illusioni non ci impedisce, adesso, di illuderci ancora su un possibile luogo della libertà, di collocarlo ancora più oltre, nel regno delle cose compiute. Ma non è possibile una libertà compiuta che non sia una compiuta libertà, e ogni cosa compiuta è conclusa, assolta, cioè assolutizzata, in altri termini “sacralizzata”. Torniamo al meccanismo analitico di Stirner, che per altro non fornisce vie di fuga.

Anche la prospettiva di Stirner, la sua prospettiva in avanti, quella che cerca di gettare le basi di una possibile “costruzione” dopo la distruzione del “sacro”, è in fondo una visione teleologica, un modo semplice per salvarsi la vita. Il valore sostituisce il fondamento iniziale da cui Stirner era partito, e questo valore è una fede nel futuro, nelle capacità dell’uomo di creare qualcosa di meglio del presente in cui viviamo.

Ma il futuro non può essere il luogo dell’oltrepassamento, in quanto è per definizione il luogo dell’inganno e della paura. Tutti questi affanni per cercare dove poggiare i piedi sono tentativi di rendere il futuro comprensibile, tutta l’avventura della scienza è un gigantesco tentativo di “prevedere” il futuro. Ma la rivoluzione non può prevedere il futuro se non in termini di passato, per cui dovendo annichilire questo passato si trova in balia delle eventualità future, con tutte le complicazioni che ne derivano. Non possiamo collocare la rivoluzione nell’avvenimento temporale. Ecco perché gli insorti della Comune di Parigi sparavano contro gli orologi.

Il movimento dialettico cercava di sopperire a questa incapacità individuando un meccanismo oggettivo. Le conseguenze di questa ipotesi sono state disastrose, mentre i risultati positivi derivanti dalla sua applicazione in termini di metodo sono stati piuttosto da ricondursi nel campo delle illusioni. Si trattava di una risposta unitaria a un bisogno unitario, spiegazione del mondo in termini unici, oggi non c’è più la richiesta di una simile spiegazione unitaria. Sappiamo, oggi, che la realtà non è suscettibile di “spiegazioni”, tanto meno unitarie. Abbiamo bisogno di riflessioni critiche che aprano possibilità qualitative diverse, qualcosa di spregiudicato che sappia sovvertire prima di giustificare e accogliere. L’essenzialismo ha fatto il suo tempo, non siamo molto sicuri di una catalogazione proprio perché non la prendiamo più sul serio fino in fondo, e questo vale anche per la negazione dell’essenzialismo stesso. Il dogmatismo, sotto qualsiasi veste si nasconda, è da mettere da parte, come forma di fede subdola e pericolosa per la libertà dell’uomo. Non si tratta di sostituire all’essenzialismo dogmatico qualcosa di trasversale, un movimento interpretativo che colga elementi eterogenei e non li anneghi in un collante unitario, ma di fornirsi di possibilità e occasioni diverse e per fare questo occorre stare attenti a tutti i possibili incidenti che costantemente si presentano nei vari sistemi lineari che governano il mondo. Dappertutto c’è un’apertura, un interstizio che non può essere spiegato secondo le regole della cosiddetta “normalità”, è proprio là che bisogna andare, sia nel quotidiano desiderante sia nella critica negativa di qualsiasi forma di desiderio condizionato in modo diretto o indiretto. Tutto ciò senza sottostare alla tentazione di suggerire un modello soggettivo nuovo, capace di muoversi al di sotto di questi due processi: il desiderio e la sua negazione (diretta o indiretta).

Fissare un valore, quindi una sacralità, sia pure il valore del singolo, dell’individuo, dell’ “unico”, significa prescrivere una linea da non superare, una linea di riferimento. L’oltrepassamento di questa linea diventa così possibile solo a condizione di portarsi dietro una nuova linea, capace di contrassegnare il nuovo confine. Ma è proprio questo contrassegnare che rende il movimento che oltrepassa contraddittorio, e il motivo è che nel passaggio ci si è portati dietro qualcosa del vecchio mondo. La serializzazione governata dal potere ha bisogno della nostra accettazione, e così facendo noi la riproponiamo nel cuore della qualità, azzerando qualsiasi forma di vita e abbassandola a livello di processo di superamento. La contraddizione viene sanata e torniamo a convivere con le lacerazioni.

Il potere resta tutto incluso nella dimensione contraddittoria della produzione. Qui la modificazione continua governa il mondo e ci rende tutti partecipi della struttura di potere, tutti, anche quelli che lo combattono e che si dichiarano, come chi scrive queste righe, rivoluzionari. Anche il libro di Stirner, il suo libro unico è all’interno di questo processo di serializzazione. Lo è dal momento in cui “dice” come stanno le cose, cioè si affida al dire, presenta una serie, logicamente ineluttabile, di deduzioni critiche che fanno vedere perché non c’è modo di illudersi sul destino, sulla funzione e sull’origine del potere. Spezzare questa catena è possibile solo negandosi il diritto a spiegare il modo, il perché e le speranze che hanno determinato la rottura.

Poiché questa conclusione è impossibile, appartenendo alle antinomie irrisolvibili della logica, visto che dal momento che la pronuncio, in quanto conclusione, essa stessa è azzerata dal mio pronunciarla, occorre trovare una strada diversa. Ed è per questo che anche coloro che questa strada non l’hanno trovata, o non l’hanno voluta trovare, possono presentare un interesse rivoluzionario. Pur non essendo “la rivoluzione”, pur restando al di qua, il loro sforzo indica un movimento che è tuttora in corso, non solo una banale speranza ma qualcosa di più concreto.

Eppure questa conclusione somiglia a un banale accontentarsi di fronte a qualcosa che non può essere affrontato e sconfitto. L’uva troppo alta può anche apparire acerba.

La ricerca degli elementi infinitesimali della realtà, di quegli interstizi dove il potere non può facilmente raggiungerci, in fondo, è una riproposizione di valori nuovi, da sostituire ai vecchi, e non vuol dire che questi nuovi valori, orizzontali, non possano come i verticali essere oggi combattuti dal potere e domani da quest’ultimo inglobati e utilizzati. Ci si potrebbe spostare verso territori ancora più infinitesimali, ma il movimento, almeno in linea di principio, non dovrebbe impensierire il nemico. In ogni caso, il punto non sta qui. Non sta nella lotta per sottrarre spazi agibili, che questa è sempre possibile, ma nell’andare oltre, nell’oltrepassare un orizzonte che per quanto possa proporre differenze resta sempre “proposto”, cioè interpretato (criticato negativamente), quindi condiviso con la controparte.

Chi si trova “nella” rivoluzione, soggetto attivo di quest’ultima, ospite privo di tempo in una condizione sospesa che non ha decorso ma effetto, non racconta, agisce. Purtroppo questo agire può essere ritardato in molti modi, specialmente da tutti coloro che cercano di interpretarlo per renderlo “comprensibile” agli altri, ai tanti che “nella” rivoluzione non sono, e in generale è così che vanno le cose. Questi ultimi, anche i migliori tra di loro, godono passivamente di uno spettacolo che comparse non protagoniste cercano di mettere in scena davanti ai loro occhi. In questo spettacolo gli spettatori paganti (l’accettazione ideologica ha sempre un costo) acconsentono volentieri a scoprirsi antagonisti e a parteggiare per la rivoluzione, ma sono individui marginali, obiettivi unificati che vagano alla ricerca di un denominatore comune, una forma simbolica sotto cui nascondere la propria mancanza di contenuti.

La condizione specifica può riservare una migliore prospettiva a tutti coloro che dal punto di vista rivoluzionario hanno messo da parte le antiche prospettive generalizzanti. Non esiste una soluzione valida per tutti, ma ogni obiettivo può essere affrontato secondo le condizioni imposte dalla situazione, ferme restando alcune linee di riferimento metodologico (per fare un esempio, l’insurrezione). Analisi specifiche possono avvicinarsi di molto alle realtà che sono “nella” rivoluzione, per quanto restano sempre al di qua proprio a causa della loro dipendenza dalla parola che per sua propria natura comunicando interpreta, valutando progetta e suggerendo condiziona.

Ciò comporta l’ammissione, a priori, che non esiste possibilità “asettica” di mettere ordine nel quadro delle conoscenze che vengono messe a nostra disposizione dal potere. Il pensiero rivoluzionario è patrimonio costitutivo non solo delle componenti che vogliono distruggere il potere, ma anche del potere stesso. Le tecniche di sabotaggio, poniamo, sono perfettamente conosciute (e al momento opportuno utilizzate) dal potere, solo che in condizioni normali quest’ultimo non le usa e le condanna come contrarie alla convivenza civile. Non è quindi sulla protesi armata che bisogna indirizzare l’attenzione, ma sui rapporti, anche interpersonali, e sulla capacità di costruire una coscienza diversa, capace di vivere, sia pure per brevi esperienze, la qualità.

Non è un caso che oggi si sia fatto finalmente lume sulla impossibilità e sulla inconsistenza di ogni “contropotere” e di ogni “controinformazione”. Non c’è più modo di penetrare in maniera “razionale” dentro i sistemi di controllo e di dominio considerando questa penetrazione in maniera illuminista come qualcosa di asettico.

La sottile penetrazione delle forme di cui sopra, controllo e dominio, all’interno delle regioni del bisogno e del desiderio, pensate queste come luogo dell’automatismo, è ormai un fatto avvenuto. Ma non si può indicare il modello penetrativo vecchio, quello della registrazione e della costruzione, se ne deve sottolineare uno nuovo, basato sulla materializzazione dei rapporti interpersonali, sulla delega del bisogno e del desiderio, sul trasferimento simbolico di ogni loro passata concretezza. Questo passo il potere l’ha compiuto senza specifica programmazione, è stato una specie di effetto secondario dell’introduzione delle nuove tecnologie. Adesso è talmente collegato con il loro uso che non è pensabile un’azione perdurante dell’antico modello repressivo se non in apparati marginali, ottusamente legati a processi che in fondo non sono più necessari.

Non spostare l’ostacolo del “dire”, non fare nulla in attesa che qualcosa penetri comunque, significa condensare il proprio messaggio in una trasmissione codificata secondo regole che non possono essere esse stesse rivoluzionarie. Da questa banale osservazione (tautologica) deriva la quasi totale incomprensibilità di tante affermazioni.

[1989], [1999]

 
 

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