Titolo: Manifesto
Data: 1850
Note: Titolo originale: Manifeste de l’Anarchie, Paris 1850
Prima edizione italiana: Altamurgia editore, Collana “Scrutini”, Ivrea 1975
Traduzione di Alberto Toninello
Nostra edizione: novembre 2013
Opuscoli provvisori n. 37
SKU: opuscoli-000037
Dimensioni: cm 10 x 10,5
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Nota introduttiva

Contro la follia politica, prima di tutto, poi contro la schiavitù volontariamente accettata a causa della delega fatta pervenire, attraverso le elezioni, agli uomini politici che ne approfittano per sfruttare le masse ed arricchirsi facendo solo i propri interessi.

Quasi sconosciuto, Bellegarrigue fu un individualista anarchico che portò alle estreme conseguenze logiche la lotta contro l’imbroglio elettorale e contro la società fondata sulle pretese scientifiche del contratto sociale. Nato tra il 1820 e il 1825 partecipò alla rivoluzione del 1848. Morì alla fine del XIX secolo probabilmente in America centrale. Nel 1850 pubblicò come redattore unico il giornale “L’Anarchie, Journal de l’Ordre”, di cui lo scritto che segue è il “Manifesto”, fatto uscire nell’aprile dello stesso anno.


Trieste, 2 novembre 2011

Alfredo M. Bonanno

Nota introduttiva all’edizione Altamurgia

L’individualismo di Bellegarrigue, il suo privilegiare l’affermazione personale, ha il senso, come egli stesso afferma, di “un’appropriazione di sé a se stesso, di un appello alla sua identità, di una protesta contro tutte le supremazioni”; cioè è l’atto della sua propria presa di possesso. Si tratta del rifiuto dell’alienazione politica ed economica, del rifiuto del principio dell’abnegazione e del sacrificio, su cui essa si fonda, per l’affermazione, al contrario, dell’etica del piacere come vero destino dell’uomo. Bellegarrigue non ha infatti che una dottrina, questa dottrina non ha che una formula, questa formula non ha che una parola: godere. È inutile negare il fascino di una simile formula e la potente suggestione che da essa scaturisce.


[1975]

Domenico Tarantini

L’anarchia è l’ordine

Se mi preoccupassi del senso comunemente dato a certe parole, avendo un errore volgare fatto di “anarchia” il sinonimo di “guerra civile”, avrei orrore del titolo che ho messo in testa a questa pubblicazione, perché ho orrore della guerra civile.

Mi onoro e mi compiaccio nello stesso tempo di non aver mai fatto parte di un gruppo di cospiratori né di un battaglione rivoluzionario; me ne onoro e me ne compiaccio, perché questo mi serve a stabilire, da una parte, che sono stato assai onesto per non ingannare il popolo, e dall’altra, che sono stato assai abile per non lasciarmi ingannare dagli ambiziosi. Ho visto passare, non posso dire senza emozione, ma almeno con la più grande calma, i fanatici e i ciarlatani, provando pietà per gli uni e disprezzando sommamente gli altri. E quando, avendo disposto il mio entusiasmo a non muoversi che nel ristretto spazio di un sillogismo, ho voluto, dopo lutti sanguinosi, tirare la somma del benessere che m’aveva portato ciascun cadavere, ho trovato zero al totale; ora, zero, è niente.

Io ho orrore del niente: ho dunque orrore della guerra civile.

Perciò se ho scritto anarchia sul frontespizio di questo giornale, non può essere, di conseguenza, per lasciare a questa parola il significato che le hanno dato, fortemente a torto, come spiegherò tra breve, le sette governamentaliste, ma per restituirle, al contrario, il diritto etimologico che le concedono le democrazie.

L’anarchia è la negazione dei governi. I governi, di cui noi siamo i pupilli, non hanno naturalmente trovato niente di meglio da fare che allevarci nel timore e nell’orrore del principio della loro distruzione. Ma come, a loro volta, i governi sono la negazione degli individui o del popolo, è razionale che il popolo, divenuto accorto sulle verità essenziali, riporti sulla negazione di sé tutto l’orrore che aveva dapprima sentito per la negazione dei suoi istitutori.

L’anarchia è una vecchia parola, ma questa parola esprime per noi un’idea moderna, o piuttosto un interesse moderno, perché l’idea è la figlia dell’interesse. La storia ha chiamato “anarchico” lo stato di un popolo in seno al quale si trovano più governi in competizione; ma una cosa è lo stato di un popolo che, volendo essere governato, manca di governo precisamente perché ne ha troppo, e un’altra lo stato di un popolo che, volendo governarsi da sé, manca di governo precisamente perché non ne vuole più. L’anarchia antica è stata effettivamente la guerra civile e, questo, non perché essa esprimeva l’assenza, ma invece la pluralità di governi, la competizione, la lotta di classi governatrici. Il concerto moderno di verità sociale assoluta o di democrazia pura ha aperto tutta una serie di conoscenze o di interessi che rovesciano radicalmente i termini dell’equazione tradizionale. Così l’anarchia, che, messa a confronto col termine monarchia, significa guerra civile, non è niente meno, dal punto di vista della verità assoluta o democratica, che l’espressione vera dell’ordine sociale.

In effetti:

Chi dice anarchia dice negazione del governo;

Chi dice negazione del governo, dice affermazione del popolo;

Chi dice affermazione del popolo, dice libertà individuale;

Chi dice libertà individuale, dice sovranità di ciascuno;

Chi dice sovranità di ciascuno, dice uguaglianza;

Chi dice uguaglianza, dice solidarietà o fratellanza;

Chi dice fratellanza, dice ordine sociale.

Al contrario:

Chi dice governo, dice negazione del popolo;

Chi dice negazione del popolo, dice affermazione dell’autorità politica;

Chi dice affermazione dell’autorità politica, dice dipendenza individuale;

Chi dice dipendenza individuale, dice supremazia di classe;

Chi dice supremazia di classe, dice ineguaglianza;

Chi dice ineguaglianza, dice antagonismo;

Chi dice antagonismo, dice guerra civile;

Dunque, chi dice governo, dice guerra civile.

Non so se quello che ho appena detto è nuovo, eccentrico o spaventoso. Non lo so e non mi preoccupo di saperlo. Ciò che so è che posso mettere arditamente i miei argomenti in gioco contro tutta la prosa del governamentalismo bianco e rosso passato, presente e futuro. La verità è che, su questo terreno, che è quello di un uomo libero, estraneo all’ambizione, accanito nel lavoro, disdegnoso del comando, ribelle alla sottomissione, io sfido tutti gli argomenti del funzionarismo, tutti i logici dell’emarginazione e tutti i pennaioli dell’impostura monarchica o repubblicana, che si chiami altresì progressiva, proporzionale, fondiaria, capitalista, sul possesso o sul consumo.

Sì, l’anarchia è l’ordine; mentre il governo è la guerra civile.

Quando la mia intelligenza penetra al di là dei miserabili dettagli sui quali si appoggia la polemica quotidiana, io trovo che le guerre intestine che hanno, in tutti i tempi, decimato l’umanità si riallacciano a questa unica causa, esattamente: l’abbattimento o la conservazione del governo.

Nel campo politico, sgozzarsi ha sempre significato sacrificarsi per la conservazione o l’avvento di un governo. Mostratemi un posto dove l’uomo si assassina in massa apertamente, vi farò vedere un governo alla testa della carneficina. Se voi cercate di spiegarvi la guerra altrimenti che come un governo che vuole venire e un governo che non vuole andarsene, perderete il vostro tempo; non troverete niente.

La ragione è semplice.

Un governo è fatto. Nello stesso istante in cui il governo è fatto ha le sue creature e, di conseguenza, i suoi partigiani; e nello stesso momento in cui ha i suoi partigiani, ha anche i suoi avversari. Ora, il germe della guerra civile è fecondato da questo solo fatto, perché non potete assolutamente fare in modo che il governo, investito di tutto il suo potere, agisca nello stesso modo nei riguardi dei suoi avversari come nei riguardi dei suoi partigiani. Non potete assolutamente fare in modo che i favori di cui dispone siano ugualmente ripartiti tra i suoi amici e i suoi nemici. Non potete assolutamente fare in mode che quelli non siano favoriti, che questi non siano perseguitati. Voi non potete dunque affatto fare in modo che, da questa ineguaglianza, non esca presto o tardi un conflitto tra il partito dei privilegiati e il partito degli oppressi. In altre parole, una volta che il governo si è costituito, non potete evitare il favore che fonda il privilegio, che provoca la divisione, che crea l’antagonismo, che determina la guerra civile.

Dunque, il governo è la guerra civile.

Ora se è sufficiente essere, da una parte, il partigiano, e, dall’altra, l’avversario del governo per determinare il conflitto tra cittadini; se è dimostrato che al di fuori dell’amore o dell’odio che si porta al governo, la guerra civile non ha alcuna ragione di esistere, questo vuol dire che è sufficiente, per stabilire la pace, che i cittadini rinuncino, da una parte, a essere i partigiani, e, dall’altra, a essere gli avversari del governo.

Ma cessare di attaccare o di difendere il governo per rendere impossibile la guerra civile, non è niente di meno che non tenerne più conto, metterlo tra i rifiuti, sopprimerlo al fine di fondare l’ordine sociale.

Ora, se sopprimere il governo è, da un lato, stabilire l’ordine, è, da un altro lato, fondare l’anarchia; dunque, l’ordine e l’anarchia sono paralleli.

Dunque, l’anarchia è l’ordine.

Prima di passare agli sviluppi che verranno, prego il lettore di premunirsi contro la cattiva impressione che potrà fare su di lui la forma personale che ho adottato allo scopo di facilitare il ragionamento e di precisare il pensiero. In questa esposizione, Io significa molto meno lo scrittore che il lettore e l’uditore: Io è l’uomo.

La ragione collettiva tradizionale è una finzione

Posta in questi termini, la questione si trova ad avere, al di sopra del socialismo e dell’inestricabile caos che gli hanno portato i capi scuola, il merito della chiarezza e della precisione. Io sono anarchico, ugonotto politico e sociale; io nego tutto, non affermo che me stesso; perché la sola verità che mi sia dimostrata materialmente e moralmente, con delle prove sensibili, comprensibili ed intelligibili, la sola verità vera, sorprendente, non arbitraria e non soggetta ad interpretazioni, sono io. Io sono; ecco un fatto positivo; tutto il resto è astratto e cade nell’X matematico, nell’ignoto: non ho da occuparmene.

La società consiste essenzialmente in una vasta combinazione di interessi materiali e personali; l’interesse collettivo o di Stato, in virtù del quale il dogma, la filosofia e la politica riunite hanno fino ad oggi reclamato l’abnegazione integrale o parziale degli individui e dei loro beni, è una pura finzione, che nella sua veste teocratica è servita di base alla fortuna di tutti i cleri, da Aaron fino al signor Bonaparte. Questo interesse non esiste che in quanto contenuto nella legislazione. Non è mai stato vero, non sarà mai vero, non può essere vero che c’è sulla terra un interesse superiore al mio, un interesse al quale io devo il sacrificio, anche parziale, del mio interesse. Non ci sono sulla terra che degli uomini, io sono un uomo, il mio interesse è uguale a quello di qualunque altro; io non posso dovere che ciò che mi è dovuto; non si può rendermi che in proporzione di ciò che do, ma non devo niente a chi non mi dà niente; dunque non devo niente alla ragione collettiva, ovvero al governo, perché il governo non mi da niente ed esso non potrebbe mai darmi tanto, di quello che d’altra parte non ha, quanto quello che mi prende. In tutti i casi, il migliore giudice che conosca dell’opportunità delle scelte che devo fare e della probabilità del loro ripetersi, sono io; non ho a questo riguardo né consigli né lezioni né soprattutto ordini da ricevere da nessuno. È dovere di ciascuno, e non solamente un suo diritto, applicare questo ragionamento a se stesso e non dimenticarlo. Ecco il fondamento vero, intuitivo, incontestabile, indistruttibile del solo interesse umano di cui si debba tener conto: dell’interesse personale, delle prerogative individuali. Vuol forse dire questo che io voglio negare assolutamente l’interesse collettivo? No, certo. Solamente, non amando parlare invano, non ne parlo. Dopo aver posto le basi dell’interesse personale, agisco a riguardo dell’interesse collettivo come devo agire nei confronti della società quando vi ho introdotto l’individuo. La società è la conseguenza inevitabile e necessaria dell’aggregazione degli individui; l’interesse collettivo è, allo stesso titolo, una conseguenza provvidenziale e fatale dell’aggregazione degli interessi personali. L’interesse collettivo non può essere completo che in quanto resti intatto l’interesse personale; perché, come non si può intendere per interesse collettivo che l’interesse di tutti, basta che, nella società, l’interesse di un solo individuo sia leso perché immediatamente l’interesse collettivo non sia più l’interesse di tutti ed abbia, di conseguenza, cessato di esistere.

È così vero che l’interesse collettivo è una conseguenza naturale dell’interesse personale nell’ordine fatale delle cose, che la comunità non mi prenderà il mio campo per tracciarvi una strada o non mi domanderà la conservazione del mio bosco per bonificare l’aria se non indennizzandomi nella maniera più larga. È qui il mio interesse che governa, è il diritto individuale che pesa sul diritto collettivo; io ho lo stesso interesse che la comunità ad avere una strada e a respirare l’aria sana, tuttavia abbatterei il mio bosco e terrei il mio campo se la comunità non mi indennizzasse, ma come il suo interesse è d’indennizzarmi, il mio è di cedere. Tale è l’interesse collettivo che risulta dalla natura delle cose. Ce n’è un altro accidentale e anormale: la guerra; quello sfugge alla legge, esso fa la legge e la fa sempre bene; non ci si deve occupare che di ciò che a costante.

Ma quando voi chiamate interesse collettivo quello in virtù del quale fermate il mio laboratorio, m’impedite l’esercizio di tale attività, confiscate il mio giornale o il mio libro, violate la mia libertà, mi vietate di essere avvocato o medico in virtù dei miei studi personali e della mia clientela, m’intimate l’ordine di non vendere questo, di non acquistare quello; allorché infine voi chiamate interesse collettivo quello che invocate per impedirmi di guadagnare la mia vita alla luce del sole, nel modo che più mi piace e sotto il controllo di tutti, dichiaro che non vi capisco, o, meglio, che vi capisco troppo.

Per salvaguardare l’interesse collettivo, si condanna un uomo che ha guarito il suo simile illegalmente, – è un male fare il bene illegalmente – con il pretesto che non ne ha i titoli; si impedisce a un uomo di difendere la causa di un cittadino (libero) che gli ha data la sua fiducia; si arresta uno scrittore; si rovina uno stampatore; si incarcera un propagandista; si manda in corte d’assise un uomo che ha lanciato un grido, o che si è atteggiato in un certo modo.

Cosa ci guadagno io in tutte queste disgrazie? Cosa guadagnate voi? Io corro dai Pirenei alla Manica e dall’Oceano alle Alpi, e domando a ciascuno dei trentasei milioni di Francesi quale profitto hanno ricavato da queste crudeltà stupide esercitate in loro nome su degli infelici di cui le famiglie gemono, i cui creditori s’inquietano, di cui gli affari vanno in rovina e che magari si suicideranno dal dispiacere o diventeranno criminali per rabbia quando si saranno sottratti ai rigori che sono loro fatti subire.

E di fronte a questa questione nessuno sa cosa ho voluto dire; ciascuno declina la sua responsabilità in ciò che è successo; la disgrazia non ha fatto giungere niente a nessuno: lacrime sono state versate, degli interessi sono stati lesi in pura perdita. Eh! è questa mostruosità selvaggia che voi chiamate l’interesse collettivo. Io affermo, per quanto mi riguarda, che se questo interesse collettivo non è un turpe errore, io lo chiamerei la più vile delle bricconate.

Ma lasciamo stare questa furiosa e sanguinosa finzione, e diciamo che, consistendo il solo modo di arrivare ad ottenere l’interesse collettivo nel salvaguardare gli interessi personali, resta dimostrato e abbondantemente provato che la cosa più importante, in materia di sociabilità e di economia, è di favorire, innanzi tutto, l’interesse personale. Ho dunque ragione di dire che la sola verità sociale è la verità naturale, è l’individuo, sono io.

Il dogma individualista è il solo dogma fraterno

Che non mi si parli affatto della rivelazione, della tradizione, delle filosofie cinese, fenicia, egiziana, ebraica, greca, romana, tedesca o francese; al di fuori della mia fede o della mia religione di cui non devo render conto a nessuno, non so che farmene delle divagazioni degli antenati; io non ho antenati. Per me, la creazione del mondo è datata dal giorno della mia nascita; per me, la fine del mondo deve compiersi il giorno in cui restituirò alla massa elementare l’apparato e il respiro che costituiscono la mia individualità. Io sono il primo uomo, io sarò l’ultimo. La mia storia è il riassunto completo della serie dell’umanità; io non conosco, non voglio conoscere altro. Quando soffro, che bene mi viene dalle gioie altrui? Quando gioisco, che cosa ricavano dai miei piaceri quelli che soffrono? Cosa mi importa quello che si è fatto prima di me? In che cosa sono toccato da quello che si farà dopo di me? Non ho da servire né da olocausto al rispetto delle generazioni estinte né da esempio alla posterità. Io mi racchiudo nel ciclo della mia esistenza, e il solo problema che ho da risolvere è quello del mio benessere. Non ho che una dottrina, questa dottrina non ha che una formula, questa formula non ha che una parola: godere. Giusto chi la riconosce; impostore chi la nega.

Quella dell’individualismo crudo, dell’egoismo innato, non lo nego affatto, lo confesso, o constato, me ne vanto. Mostratemi, perché l’interroghi, quello che potrebbe dolersene e biasimarmi. Il mio egoismo vi causa qualche danno? Se dite no, non avete niente da obiettare, perché sono libero in tutto ciò che non può nuocervi. Se dite sì, voi siete un baro, perché il mio egoismo non è che la semplice appropriazione di me a me stesso, un appello alla mia identità, un’affermazione della mia individualità, una protesta contro tutte le supremazie; se vi ritenete lesi dall’atto che io faccio della mia propria presa di possesso, per la conservazione che io opero della mia propria persona, cioè a dire della meno contestabile delle mie proprietà, voi riconoscete che vi appartengo o come minimo che avete delle mire su di me; siete già uno sfruttatore o lo state diventando, un accaparratore, uno bramoso dei beni d’altri, un ladro.

Non c’è via di mezzo; o è l’egoismo che è di diritto, o è il furto; o è necessario che io mi appartenga, o è necessario che cada in possesso di qualcuno. Non si può affatto dire che io mi rinneghi a profitto di tutti, poiché tutti devono rinnegarsi come me, nessuno ci guadagnerà a questo gioco stupido che ciò che avrà già perduto, e resterà per conseguenza pari, cioè a dire senza profitto, ciò che renderebbe evidentemente questa rinuncia assurda. Dal momento dunque che l’abnegazione di tutti non può giovare a tutti, deve necessariamente giovare a qualcuno; questi qualcuno sono allora i padroni di tutti, e sono probabilmente quelli che si dorranno del mio egoismo. Ebbene, che incassino la giusta ricompensa che ho, appena sottoscritto in loro onore.

Ogni uomo è un egoista; chiunque cessa di esserlo è una cosa. Colui che pretende che non bisogna esserlo è un ladro.

Ah! sì, capisco. La parola suona male: l’avete applicata fino ad oggi a quelli che non si accontentano dei loro propri beni, a quelli che accaparrano i beni d’altri; ma quelle persone rientrano nell’ordine umano, voi invece non ci siete. Lamentandovi della loro rapacità, sapete cosa fate? Constatate la vostra imbecillità. Avete creduto fino ad oggi che ci fossero dei tiranni. Ebbene vi siete sbagliati, non ci sono che schiavi: laddove nessuno obbedisce, nessuno comanda.

Ascoltate bene ciò: il dogma della rassegnazione, dell’abnegazione, della rinuncia di sé è stato predicato alle popolazioni. Che ne è risultato? Il papato e la sovranità per grazia di Dio, da cui le caste episcopali e monacali, principesche e nobiliari. Oh! il popolo s’è rassegnato, s’è annullato, s’è rinnegato a lungo; è bene questo? Che ve ne sembra?

Certo il più grande piacere che possiate fare ai vescovi un po’ confusi, alle assemblee che hanno sostituito il re, ai ministri che hanno sostituito i prìncipi, ai prefetti che hanno sostituito i duchi grandi vassalli, ai sottoprefetti che hanno sostituito i baroni piccoli vassalli, e tutta la sequela di funzionari subalterni che fanno veci di cavalieri, visdomini e nobilucci della feudalità; il grande piacere, dico, che possiate fare a tutta questa nobiltà del bilancio, è di rientrare al più presto nel dogma tradizionale della rassegnazione, dell’abnegazione e del rinnegamento di voi stessi. Voi troverete ancora tra loro dei protettori che vi consiglieranno il disprezzo delle ricchezze col rischio di sbarazzarvene; troverete tra loro dei devoti che, per salvare la vostra anima, vi predicheranno la continenza, salvo a trarre d’impaccio le vostre donne, le vostre figlie o le vostre sorelle. Non c’è male. Noi non manchiamo, grazie a Dio, di amici devoti che si danneranno per noi se ci convinceremo a guadagnare il cielo seguendo il vecchio cammino della beatitudine, dal quale essi si tengono lontani cortesemente, al fine, senza dubbio, di non sbarrarci la strada.

Perché tutti questi continuatori dell’ipocrisia antica non si sentono più in equilibrio sugli scranni creati dai loro predecessori? Perché? Perché l’abnegazione se ne va e l’individualismo preme; perché l’uomo si trova assai bello per osar di gettare la maschera e mostrarsi infine tal qual è.

L’abnegazione è la schiavitù, l’avvilimento, l’abiezione; è il re, è il governo, è la tirannia, è il lutto, è la guerra civile.

L’individualismo, al contrario, è l’affrancamento, la grandezza, la nobiltà; è l’uomo, è il popolo, è la libertà, è la fraternità, è l’ordine.

Il contratto sociale è una mostruosità

Che ciascuno nella società si affermi personalmente e non affermi che sé, e la sovranità individuale è fondata, il governo non ha più posto, ogni supremazia è distrutta, l’uomo è l’uguale dell’uomo.

Ciò fatto, cosa resta? Resta tutto ciò che i governi hanno vanamente tentato di distruggere; resta la base essenziale e imperitura della nazionalità; resta il comune che tutti i poteri perturbano e disorganizzano per farne una cosa loro; resta la municipalità, organizzazione fondamentale, esistenza primordiale che resiste a tutte le disorganizzazioni e a tutte le distruzioni. Il comune ha la sua amministrazione, il suo giurì, i suoi organi giudicanti; li improvviserà se non li ha. Essendo, dunque, la Francia municipalmente organizzata da se stessa, e democraticamente organizzata di per sé. Non c’è, in quanto all’organismo interno, da fare niente, tutto è fatto; l’individuo è libero e sovrano nel comune; il comune, individuo complesso, è libero e sovrano nella nazione.

Ora, la nazione, o i comuni, devono avere un organo sintetico e centrale per regolamentare certi interessi comuni, materiali e determinati, e per servire da interlocutore tra la comunità e l’estero? Questo non è un problema per nessuno; e non vedo che ci sia da inquietarsi troppo per ciò che tutti ammettono come razionale e necessario. Quello che è in questione è il governo; ma un arbitrato e una cancelleria, dovuti all’iniziativa dei comuni, rimasti padroni di se stessi, possono costituire, se si vuole, una commissione amministrativa, ma non un governo.

Sapete ciò che fa che un sindaco sia aggressivo in un comune? È il prefetto. Sopprimete il prefetto, e il sindaco non s’appoggia più che sugli individui che l’hanno nominato; la libertà di ciascuno è garantita.

Una istituzione che dipende dal comune non è un governo; un governo è una istituzione alla quale il comune obbedisce. Non si può chiamare un governo quello sul quale pesa l’influenza individuale; si chiama un governo quello che schiaccia gli individui sotto il peso della sua influenza.

Quello che è in questione, in una parola, non è l’atto civile, di cui esporrò prossimamente la natura e il carattere, è il contratto sociale.

Non c’è, non può esserci un contratto sociale, innanzi tutto perché la società non è un artificio, un fatto scientifico, una combinazione della meccanica; la società è un fenomeno provvidenziale ed indistruttibile; gli uomini, come tutti gli animali di costumi miti, sono in società per natura. Lo stato di natura è già lo stato di società; è dunque assurdo, quando non è infame, voler costituire, con un contratto, ciò che è costituito di per sé e a titolo fatale. In secondo luogo, perché il mio modo d’essere sociale, la mia attività, la mia fede, i miei sentimenti, i miei affetti, i miei gusti, i miei interessi, le mie abitudini cambiano, o ogni anno, o ogni mese, o ogni giorno, o più volte al giorno, e che non mi piace di impegnarmi di fronte a nessuno, né a parole né per iscritto, a non cambiare né d’attività né di convinzione né di sentimento né d’affetto né di gusto né d’interesse né d’abitudine; dichiarando che se io avessi preso un simile impegno non sarebbe stato che per romperlo, e affermando che se me lo si fosse fatto prendere di forza, sarebbe stata la più barbara e nello stesso tempo la più odiosa delle tirannie.

Ciononostante, la vita sociale di noi tutti è incominciata per contratto. Rousseau ha inventato la cosa, e da sessant’anni il genio di Rosseau si trascina nella nostra legislazione. È in virtù di un contratto, redatto dai nostri padri e rinnovato proprio ultimamente dai grandi cittadini della Costituente, che il governo ci ingiunge di non vedere, di non intendere, di non parlare, di non scrivere, di non fare che ciò che ci permetterà. Tali sono le prerogative popolari di cui l’alienazione costituisce il governo degli uomini; questo governo, io lo metto in discussione per quanto mi riguarda, lasciando d’altronde agli altri la facoltà di servirlo, di pagarlo, di amarlo, e finalmente di morire per lui. Ma quand’anche tutto lo stesso popolo francese acconsentisse a voler essere governato nella sua istruzione, nel suo culto, nelle sue finanze, nella sua industria, nella sua arte, nel suo lavoro, nei suoi affetti, nei suoi gusti, nelle sue abitudini, nei suoi movimenti, e perfino nella sua alimentazione, io dichiaro in pieno diritto che la sua schiavitù volontaria non impegna più la mia responsabilità, che la sua stupidità non compromette la mia intelligenza; e sì, infatti, la sua servitù si estende su di me senza che mi sia possibile sottrarmene; se è noto, come non ne saprei dubitare, che la sottomissione di sei, sette o otto milioni di individui a uno o più uomini comporta la mia propria sottomissione a questo stesso o a questi stessi uomini, io sfido chiunque a trovare in questo atto altra cosa che un’insidia, e affermo che in nessun periodo la barbarie di un popolo ha esercitato sulla terra un brigantaggio meglio caratterizzato. Vedere, in effetti, una coalizione morale di otto milioni di servi contro un uomo libero è uno spettacolo di vigliaccheria, contro la barbarie del quale non si saprebbe invocare la civilizzazione senza ridicolizzarla o renderla odiosa agli occhi del mondo.

Ma io non saprei credere che tutti i miei compatrioti provano deliberatamente il bisogno di servire. Ciò che io sento tutti devono sentirlo; ciò che penso, tutti devono pensarlo; perché io non sono né più né meno che un uomo; io sono nelle condizioni semplici e laboriose del primo lavoratore venuto. Mi stupisco, mi spavento di incontrare ad ogni passo che faccio nella via, ad ogni pensiero che accolgo nella mia testa, ad ogni impresa che voglio cominciare, ad ogni scudo che ho bisogno di guadagnare, una legge o un regolamento che mi dice: Non si passa per di là; non si pensa questo; non si intraprende quello; si lascia qui la metà di questo scudo. Di fronte a questi molteplici ostacoli, che si levano da tutte le parti, il mio spirito intimidito sprofonda verso l’abbrutimento; non so da che parte girarmi; non so che fare, non so cosa diventare.

Chi dunque ha aggiunto ai flagelli atmosferici, alle decomposizioni dell’aria, alle insalubrità dei climi, al fulmine che la scienza ha saputo domare, questa potenza occulta e selvaggia, questo genio malvagio che attende l’umanità fin dalla culla per farla divorare dall’umanità? Chi? Ma sono gli stessi uomini che, non avendone abbastanza degli elementi, si sono ancora dati gli uomini per nemici.

Le masse, ancora troppo docili, sono innocenti di tutte le brutalità che si commettono in loro nome e a loro pregiudizio; esse ne sono innocenti, ma non ne sono ignare; io credo che, come me, esse le sentano e se ne indignino; io credo che, come me, esse si affrettino a farla finita; solamente non distinguendone bene le cause, non sanno come agire. Io sto provando a fissarle sull’uno o sulll’altro punto.

Cominciamo col segnalare i colpevoli.

Dell’attitudine dei partiti e dei loro giornali

La sovranità popolare non ha organi nella stampa francese. Giornali borghesi, giornali nobili, giornali sacerdotali, giornali repubblicani, giornali socialisti: Servitù! domesticità pura; lucidano, sfregano, spolverano i finimenti di qualche cavallo politico in attesa di un torneo, di cui il potere è il premio, di cui, per conseguenza, la mia servitù, la servitù del Popolo sono il premio.

Eccettuato “La Presse” che, talvolta, quando i suoi redattori dimenticano di essere orgogliosi per restare fieri, sa trovare qualche elevazione di sentimenti; eccettuato “La Voix du Peuple” che, di tanto in tanto, esce dalla vecchia routine per gettare qualche lume sugli interessi generali, non posso leggere un giornale francese senza provare per quello che lo ha scritto una pietà molto grande o un disprezzo molto profondo.

Da una parte, vedo venire il giornalismo governativo, il giornalismo possente per l’oro del bilancio e per il ferro dell’armata, quello che ha la testa cinta dell’investitura dell’autorità suprema e che tiene nelle sue mani i fulmini che questa investitura consacra. Lo vedo venire, dico, la fiamma nell’occhio, la schiuma sulle labbra, i pugni chiusi come un re dei fori, come un eroe del pugilato, che apostrofa a proprio agio e con una vigliaccheria brutale un avversario disarmato contro il quale può tutto e dal quale non ha niente, assolutamente niente da temere; trattandolo da ladro, da assassino, da incendiario; recingendolo come bestia feroce, rifiutandogli il cibo, gettandolo nelle prigioni senza sapere come, senza dirgli perché e applaudendosi di ciò che fa, vantando la gloria che ne ritira, come se lottando contro della gente disarmata rischiasse qualcosa e corresse qualche pericolo.

Questa codardia mi rivolta.

Dall’altra parte, si presenta il giornalismo dell’opposizione, schiavo grottesco e male allevato; che passa il suo tempo a lagnarsi, a piagnucolare e a domandare grazia; che dice ad ogni sputo che riceve, ad ogni cazzotto che gli si molla: Voi vi comportate male verso di me, non siete giusto, non ho fatto niente per offendervi; e che discute stupidamente, come con le cose legittime, le invettive che gli sono indirizzate: non sono un ladro, non sono un assassino, non sono affatto un incendiario; venero la religione, amo la famiglia, rispetto la proprietà; siete piuttosto voi che tenete in dispregio tutte queste cose. Io sono migliore di voi e voi m’opprimete. Non siete generosi.

Questa bassezza mi indigna!

Contro dei polemisti simili a quelli che incontro nell’opposizione comprendo la brutalità del potere; comprendo, perché, dopo tutto, quando il debole è abietto si può dimenticare la sua debolezza per non ricordarsi che della sua abiezione; ora, l’abiezione è una cosa irritante come ciò che striscia e che si stritola sotto il piede, come si schiaccia un verme di terra.

Ciò che non capisco in un gruppo d’uomini che si chiamano democratici e che parlano in nome del Popolo, principio di tutta grandezza e di tutta dignità, è l’abiezione.

Colui che parla in nome del Popolo, parla in nome del diritto: ora io non capisco che il diritto s’irriti, non capisco maggiormente che si degni di discutere con l’errore, a maggior ragione devo non capire che esso possa scendere fino al lamento e alla supplica. Si subisce l’oppressione, ma non si discute con essa quando si vuole che muoia; perché discutere è transigere.

Il potere è istituito; voi vi siete dati un padrone; vi siete messi (tutto il paese per i vostri adorabili consigli e per le vostre iniziative), si è messo a disposizione di qualche uomo; questi uomini usano della forza che voi avete loro dato; essi ne usano contro di voi e voi vi compatite? Perché? E cosa avevate pensato, che se ne servissero contro essi stessi? Non avete potuto pensare ciò; che avete perciò da biasimare? La potenza deve necessariamente esercitarsi a profitto di quelli che l’hanno e a pregiudizio di quelli che non l’hanno; non è possibile metterla in movimento senza nuocere da una parte e favorire dall’altra.

Che fareste voi se ne foste investiti? O non ne usereste del tutto, che equivarrebbe a rinunciare puramente e semplicemente all’investitura; o ne usereste a vostro beneficio e a detrimento di quello che l’hanno adesso e che non l’avrebbero più; allora cessereste di lamentarvi, di piagnucolare e di domandare grazia per assumere il ruolo di quelli che vi insultano e per passare loro il vostro; ma che importa a me, Popolo, che non ho mai il potere e che però lo faccio; a me, che pago danaro all’oppressore, chiunque sia e dovunque venga e che sono sempre l’oppresso in qualche modo, che la cosa si capovolga; che importa a me di questa altalena che, a turno, abbassa ed esalta la codardia e l’abiezione? Che cosa ho da dire del governo e dell’opposizione, se non che questa è una tirannia in formazione, e che quello è una tirannia in atto? E in che cosa mi conviene disprezzare meno questo campione che l’altro, quando tutti e due non si occupano che di edificare i loro piaceri e le loro fortune sui miei dolori e sulla mia rovina?

Il potere, è il nemico

Non c’è giornale in Francia che non sostenga un partito, non c’è partito che non aspiri al potere, non c’è potere che non sia nemico del popolo.

Non c’è giornale che non sostenga un partito, perché non c’è giornale che si elevi a quel livello di dignità popolare dove troneggia il disprezzo calmo e supremo della sovranità; il Popolo è impassibile come il diritto, fiero come la forza, nobile come la libertà, i partiti sono turbolenti come l’errore, stizzosi come l’impotenza, vili come il servilismo.

Non c’è partito che non aspiri al potere, perché un partito è essenzialmente politico e si forma, di conseguenza, dell’essenza stessa del potere, sorgente di ogni politica. Poiché se un partito cessasse d’essere politico cesserebbe d’essere un partito e rientrerebbe nel popolo, cioè a dire nell’ordine degli interessi, della produzione, dell’attività industriale e degli scambi.

Non c’è potere che non sia nemico del popolo, perché qualunque siano le condizioni in cui è posto, qualunque sia l’uomo che ne è investito, in qualunque modo lo si chiami, il potere è sempre il potere, cioè a dire il segno inconfutabile dell’abdicazione della sovranità del popolo; la consacrazione di un dominio supremo. Ora, il padrone, è il nemico; La Fontaine l’ha detto prima di me.

Il potere è il nemico nell’ordine sociale e nell’ordine politico.

Nell’ordine sociale:

Perché l’industria agricola, la madre nutrice di tutte le industrie nazionali, è schiacciata dall’imposta di cui la colpisce il potere e divorata dall’usura, sbocco fatalmente del monopolio finanziario, di cui il potere garantisce l’esercizio ai suoi discepoli o agenti.

Perché il lavoro, cioè a dire l’intelligenza, è espropriato dal potere, aiutato dalle sue baionette, a profitto del capitale, elemento grezzo e stupido in sé, che sarebbe logicamente la leva dell’industria se il potere non impedisse la loro mutua associazione, che non ne è invece che il funerale, grazie al potere che lo separa da essa, che non paga che a metà e che, se esso non paga del tutto, ha, per suo uso delle leggi e dei tribunali, qualche istituzione governativa disposta a rinviare di molti anni la soddisfazione dell’appetito del lavoratore leso.

Perché il commercio, imbavagliato dal monopolio delle banche, di cui il potere ha la chiave, e strettamente legato per il nodo scorsoio di una regolamentazione turpe, di cui il potere tiene l’estremo capo, può, in virtù di una contraddizione che sarebbe un certificato di idiotismo se non esistesse presso il popolo più spirituale della terra, arricchirsi indirettamente, in maniera fraudolenta, sulla testa di donne e fanciulli, mentre gli è proibito rovinarsi sotto pena d’infamia.

Perché l’insegnamento è decurtato, cesellato, ritagliato e ridotto alle ristrette dimensioni del modello confezionato a questo scopo dal potere, in tal modo che ogni intelligenza che non porti il marchio del potere assolutamente è come se non esistesse.

Perché paga, tramite il potere, il tempio, la chiesa e la sinagoga chi non va né al tempio né alla chiesa né alla sinagoga.

Perché, per dire tutto in poche parole, è criminale chi intende, vede, parla, scrive, sente, pensa, agisce in maniera diversa da come il potere gli ingiunge di intendere, di vedere, di parlare, di scrivere, di sentire, di pensare, di agire.

Nell’ordine politico:

Perché i partiti non esistono e non insanguinano il paese che con e per il potere.

Non è il giacobinismo che temono i legittimisti, gli orleanisti, i bonapartisti, i moderati, è il potere dei giacobini.

Non è ancora il legittimismo con cui combattono i giacobini, gli orleanisti, i bonapartisti, i moderati, è contro il potere dei legittimisti.

E reciprocamente.

Tutti quei partiti che voi vedete muoversi alla superfice del paese, come fluttua la schiuma su una materia in ebollizione, non si sono dichiarati la guerra a causa delle loro dissidenze dottrinali, ma proprio a causa della loro comune aspirazione al potere; se ciascuno di questi partiti potesse dirsi con certezza che non peserà più su di lui il potere di alcuno dei suoi antagonisti, l’antagonismo cesserebbe istantaneamente, come cessò il 24 febbraio 1848, all’epoca in cui il popolo avendo distrutto il potere si era assimilato i partiti.

È dunque vero che un partito, qualunque esso sia, non esiste e non è temuto che perché aspira al potere, è dunque vero che non è pericoloso nessuno che non abbia il potere; è vero, di conseguenza, che chiunque ha il potere è automaticamente pericoloso; è, per contro, abbondantemente dimostrato che non può esistere altro nemico pubblico che il potere.

Dunque, socialmente e politicamente parlando, il potere, è il nemico. E avendo dimostrato più avanti che non ci sono partiti che non aspirino al potere, ne consegue che ogni partito è premeditatamente il nemico del popolo.

Il popolo non fa che perdere il suo tempo e prolungare le sue sofferenze facendo proprie le contese dei governi e dei partiti

È così che si spiega l’assenza di tutte le virtù popolari in seno ai governi e ai partiti; e così che, in questi gruppi nutriti di piccoli odi, di miserabili rancori, di meschine ambizioni, l’attacco è caduto nella vigliaccheria e la difesa nell’abiezione.

Bisogna uccidere il vecchio giornalismo; bisogna destituire questi padroni senza nobiltà che hanno paura di diventare servi; bisogna cacciare questi servi senza fierezza che aspettano il momento di farsi padroni.

Per comprendere quanto è urgente distruggere il vecchio giornalismo, è necessario che il popolo veda chiaramente due cose.

Innanzitutto, che esso non fa che trascurare i suoi affari e prolungare le sue sofferenze facendo sue le contese dei governi e dei partiti, dirigendo la sua attività verso la politica invece di applicarla ai suoi interessi materiali.

E, in secondo luogo, che non ha niente da attendersi da nessun governo né da nessun partito.

Salvo a dimostrarlo ulteriormente in modo più preciso, io affermo infatti che un partito, spogliato di questo stato e di questo prestigio patriottico di cui si circonda per abbindolare gli sciocchi, non è niente altro che una unione di volgari ambiziosi che danno la caccia ai posti.

Ciò è così vero che la Repubblica non è parsa sopportabile ai realisti che dal momento in cui le funzioni pubbliche sono state occupate dai realisti che, lo posso giurare, non domanderanno mai di ristabilire la regalità se li si lascia occupare in pace tutti i posti della Repubblica. Ciò è così vero che i repubblicani non hanno trovato il realismo sopportabile che dal momento in cui, sotto il nome di Repubblica, essi l’hanno gestito ed amministrato. Ciò è infine così vero che il partito borghese ha fatto dal 1815 al 1830 la guerra ai nobili, perché i borghesi erano tenuti lontani dai posti d’impiego; che i nobili e i repubblicani hanno fatto dal 1830 al 1848 la guerra ai borghesi, perché gli uni e gli altri erano tenuti lontani dai posti d’impiego stessi e che, dopo l’avvento al potere dei realisti, il grande rimprovero dei repubblicani contro di essi è che hanno destituito dei funzionari di formazione sedicente repubblicana, riconoscendo così, con una naturalezza toccante che, per essi, la Repubblica è una questiono marginale.

Per la stessa ragione per cui un partito si muove per appropriarsi dei posti e del potere, il governo, che ne è provvisto, si agita per conservarli. Ma come un governo si trova, a torto o a ragione, circondato da un apparato di forze che gli permettono di braccare, di perseguitare, di opprimere quelli che vogliono spogliarlo, il popolo che, per contraccolpo, subisce le misure oppressive provocate dall’agitazione degli ambiziosi e di cui, d’altronde, la grande anima si apre alle tribolazioni degli oppressi, sospende i suoi affari, segna un punto di arresto nella via progressiva che percorre, si informa di ciò che si dice, di ciò che si fa, si riscalda, si irrita e finalmente presta man forte per contribuire al rovesciamento dell’oppressore.

Ma il popolo non essendosi battuto per esso, constatato che il diritto, come spiegherò più in là, non ha per trionfare bisogno di combattere, ha vinto senza profitto; messo al servizio degli ambiziosi, il suo braccio ha sospinto al potere una nuova cricca al posto della vecchia e ben presto, divenendo gli oppressori della vecchia, gli oppressi, il popolo che, come più avanti, riceve ancora il contraccolpo delle misure provocate dall’agitazione del partito vinto e di cui, come sempre, la grande anima si apre alla tribolazione delle vittime, sospende di nuovo i suoi affari e finisce per prestare una volta di più man forte agli ambiziosi.

Ma, in definitiva, il popolo in questo gioco brutale e crudele non fa che perdere il suo tempo e aggravare la sua situazione; si impoverisce e soffre. Non avanza di un solo passo.

È difficile, l’ammetterò senza ripugnanza, che le frazioni popolari che sono tutto sentimento e tutta passione si contengano quando il pungolo della tirannia le colpisce troppo intensamente; ma è dimostrato che l’impeto dei partiti non riesce che a peggiorare le cose, se è provato inoltre che il male di cui il popolo ha da lamentarsi gli è arrecato da dei gruppi che, solo per il fatto che non agiscono come lui, agiscono contro di lui, non resta ai partiti che fermarsi, in nome del popolo che essi opprimono, che impoveriscono, che abbrutiscono e che abituano a non fare altro che lamentarsi. Non c’è da contare sui partiti, il popolo non deve contare che su se atesso.

Senza risalire molto indietro nella nostra storia, prendendo solamente le pagine dei due ultimi anni trascorsi, è facile vedere che le leggi oppressive che sono state emesse hanno tutte, come causa prima, la turbolenza dei partiti. Sarebbe lungo e fastidioso farne qui l’elenco, ma devo dire, per conformarmi all’esattezza dei fatti storici, che se, dal febbraio 1848, una misura tirannica può essere citata che non si appoggi su delle provocazioni di partito, che sia dovuta al beneplacito del potere, è quella di cui il signor Ledru-Rollin ingiunse, nelle sue circolari, l’esecuzione ai suoi prefetti.

Da quest’epoca le prerogative popolari se ne sono andate una ad una, per essere state scoperte e abbandonate all’impazienza e all’agitazione degli ambiziosi. Non potendo il potere discriminare, la legge colpisce tutti di colpi che solo i partiti dovrebbero subire, il popolo è oppresso, la colpa non è che dei partiti.

Se i partiti non sentissero il popolo alle loro spalle, se, per lo meno il popolo occupato esclusivamente dai suoi interessi materiali, dalle sue attività industriali, dal suo commercio, dai suoi affari, coprisse della sua indifferenza o anche del suo disprezzo questa bassa strategia che si chiama la politica, se prendesse, a riguardo dell’agitazione morale, l’atteggiamento che prese il 13 giugno di fronte all’agitazione materiale, i partiti, improvvisamente isolati, cesserebbero di agitarsi; il sentimento della loro impotenza gelerebbe la loro audacia; si esaurirebbero immediatamente, si sgretolerebbero a poco a poco nel seno del popolo e, infine, scomparirebbero e il governo che non esiste che per l’opposizione, che non si alimenta che dei problemi che i partiti gli suscitano, che non ha ragione d’essere che nei partiti, che, in una parola, non fa da cinquant’anni che difendersi e che, se non si difendesse più, cesserebbe di esistere, il governo, dico, imputridirebbe come un corpo morto; si dissolverebbe da se stesso, e la libertà sarebbe fondata.

Il popolo non ha niente da aspettarsi da nessun partito

Ma la scomparsa del governo, l’annientamento dell’istituzione governativa, il trionfo della libertà di cui tutti i partiti parlano, non farebbero realmente l’interesse di nessun partito, poiché ho abbondantemente provato che un partito, per il solo fatto che è partito, è essenzialmente governativo. Anche i partiti si guardano bene da lasciar credere al popolo che possa trattarsi di governo. Dalla loro polemica quotidiana risulta, infatti, che il governo agisce male, che la sua politica è cattiva, ma che potrebbe agire meglio, che la sua politica potrebbe essere migliore. In fin dei conti, ogni giornalista lascia nel fondo dei suoi articoli questo pensiero: se io fossi là, vedreste come governerei!

Ebbene! vediamo se veramente c’è un modo equo di governare; vediamo se è possibile creare un governo dirigente e d’iniziativa, un potere, un’autorità sulle basi democratiche del rispetto individuale. Mi interessa esaminare a fondo questa questione, perché ho detto poco fa che il popolo non ha niente da aspettarsi da nessun governo né da nessun partito e mi affretto a dimostrarlo.

Eccoci nel 1852; il potere che sperate di avere, voi montagna, voi socialismo, voi moderati – io non ci tengo – l’avete. La maggioranza è orientata a sinistra, me ne compiaccio; siate i benvenuti. Fatti i complimenti, come concepite voi il da farsi?

Voglio ignorare le vostre divisioni intestine; mi astengo dal vedere tra voi Girardin, Proudhon, Louis Blanc, Pierre Leroux, Considerant, Cabet, Raspail o i loro discepoli; suppongo che regni tra voi una perfetta unione, per servirvi suppongo l’impossibile, perché voglio, innanzi tutto, facilitare il ragionamento.

Eccovi dunque d’accordo, che farete?

Liberazione di tutti i prigionieri politici; amnistia generale. Bene. Voi non farete eccezione per i prìncipi, senza dubbio, e dimostrerete così di temerli e questo timore tradirà un vostro difetto; quello di riconoscere che si potrebbe bene preferirli a voi, riconoscimento che implicherebbe l’incertezza da parte vostra sul fatto di compiere il bene generale.

Le ingiustizie, una volta riparate nell’ordine politico, investono l’economia e la sociabilità.

Voi non farete bancarotta, va da sé, siete voi che avete recriminato contro il signor Fould; l’onore nazionale che intendete alla maniera di Garlier, 45 centesimi, vi farà un dovere di rispettare la Borsa a scapito di trentacinque milioni di contribuenti; il debito creato dalle monarchie ha un carattere troppo nobile perché tutto il popolo francese non debba salassarsi annualmente di quattrocentocinquanta milioni a profitto di un pugno di aggiotatori. Comincerete dunque col salvare il debito, noi saremo rovinati ma onorabili, queste due qualifiche non s’accordano granché con i tempi che corrono; ma, infine, voi fate ancora come ai vecchi tempi e il popolo oberato, come prima, ne penserà ciò che vorrà.

Ma, ora penso, voi dovete prima di tutto esonerare i poveri, i lavoratori, i proletari; arrivate con una legge contributiva sui ricchi. Alla buon’ora! io sono capitalista e voi mi domandate l’un per cento, diavolo! come cavarmela? Pensandoci bene, non sono io che utilizzo il mio capitale; io lo presto all’industria; l’industriale, avendone grande bisogno, non smetterà di prenderlo per l’un per cento in più, a dunque su di lui che mi rifarò della contribuzione. L’imposta sul capitale cade netta sul naso del lavoro.

Io sono redditiere e voi colpite la cedola, questo è inquietante, per esempio. Tutto sommato, però, c’è un mezzo per tirarsene fuori. Chi è quello a cui devo? È lo Stato. Poiché è lo Stato, la disgrazia non è grande; l’imposta che pesa sulla cedola deprezza immediatamente di tanto il valore di questa cedola; essendo la cedola deprezzata a svantaggio del debitore che è lo Stato e a profitto del Tesoro che è lo Stato; lo Stato tira dalla sua tasca per mettere nella sua cassa e resta pari ed io pure. Il giro è molto bello e confesso che siete d’una bella forza.

Io sono proprietario di case in città e voi tassate gli appartamenti; su questo non ho niente, assolutamente niente da dire. Vi arrangerete con i miei affittuari; perché non mi supporrete, senza dubbio, così sciocco da non coprirmi dell’imposta sull’affitto.

La parola più priva di senso che sia stata pronunciata, dopo la rivoluzione di febbraio è questa: l’imposta sui ricchi! parola, se non perversa, quanto meno profondamente irriflessiva. Io non so chi siano i ricchi in un paese come questo dove tutti sono indebitati e dove le usanze sono tali che spingono la maggior parte dei proprietari, possidenti e capitalisti, a spendere, per anno, più del loro profitto. In ogni caso, accettata l’esistenza del ricco, vi sfido a colpirlo, i vostri tentativi su di lui, non indicano che una grossolana ignoranza delle leggi elementari dell’economia sociale e della solidarietà degli interessi. Il colpo che voi vorreste portare ai ricchi andrà a colpire il fabbricante, il proletario, il povero. Volete esonerare il povero? Non tassate nessuno. Amministrate la Francia con 180 o 200 milioni, come si amministrano gli Stati Uniti; ora, 200 milioni in un paese come la Francia si trovano senza farci caso; non ne spendiamo 100 niente altro che per fumare dei cattivi sigari?

Ma, per questo, non bisognerebbe che amministrare e voi volete governare; è ben altra cosa. Colpite dunque i ricchi, dopo di che regolerete i vostri conti con i poveri.

Già la formazione del vostro bilancio vi procurerà un buon numero di malcontenti; queste questioni di soldi, vedete, sono molto delicate. Infine, passiamo oltre.

Proclamate la libertà illimitata della stampa? Ciò vi è proibito. Non cambierete la base dell’imposta, toccherete la fortuna pubblica senza prestare il fianco ad una discussione della quale non uscirete bene. Mi sento personalmente disposto a provare, chiaro come il giorno, la vostra imperizia su questo punto e la necessità della vostra conservazione vi farà un imperioso dovere di farmi tacere, senza contare che farete bene.

La stampa non sarà dunque libera, a causa del bilancio. Nessun governo con un grosso bilancio può proclamare la libertà di stampa; ciò gli è espressamente vietato. Le promesse non vi mancheranno; ma promettere non è mantenere, domandate al signor Bonaparte.

Voi conserverete evidentemente il ministero dell’istruzione pubblica e il monopolio universitario; solamente, dirigerete esclusivamente l’insegnamento nel senso filosofico, dichiarando una guerra atroce al clero e ai gesuiti, ciò che mi farà diventare gesuita contro di voi, come mi faccio filosofo contro il signor de Montalembert, in nome della mia libertà, che consiste nell’essere ciò che mi piace di essere, senza che né voi né i gesuiti abbiano niente a che vedere.

E i culti, abolirete il ministero dei culti? Ne dubito. Mi immagino che, nell’interesse dei governomani, creerete dei ministeri piuttosto che sopprimerne. Ci sarà un ministero dei culti come oggi e io pagherò il curato, il pastore e il rabbino perché non vado né alla messa né alla predica né alla cena.

Conserverete il ministero del commercio, quello dell’agricoltura, quello dei lavori pubblici, quello dell’interno soprattutto, perché avrete dei prefetti, dei sotto-prefetti, una polizia di Stato, ecc., e conservando e dirigendo tutti questi ministeri, che costituiscono precisamente la tirannia di oggi, continuerete tuttavia a dire che la stampa, l’istruzione, i culti, il commercio, i lavori pubblici, l’agricoltura sono liberi. Ma è proprio ciò che dite in questo momento. Che farete voi che non facciate oggi? Quello che farete ve lo dirò: invece di attaccare, vi difenderete.

Non vedo per voi altre risorse che di cambiare tutto il personale delle amministrazioni e degli uffici e di agire a riguardo dei reazionari come i reazionari agiscono verso di voi. Ma questo non si chiama governare, questo sistema di rappresaglia costituisce il governo? Se devo giudicare da quello che succede da quasi sessant’anni, se mi rendo ben conto della sola cosa che avete da fare divenendo governanti, affermo che governare non è nient’altro che battersi, vendicarsi, castigare. Ora, se non vi accorgete che è sulle nostre spalle che siete battuti e che battete i vostri avversari, noi non sappiamo, da parte nostra, dissimularlo e credo che lo spettacolo debba arrivare alla sua conclusione.

Per riassumere tutta l’impotenza di un governo, qualunque esso sia, a fare il bene pubblico, dirò che nessun bene può uscire se non da riforme. Ora, essendo ogni riforma necessariamente una libertà, e essendo ogni libertà una forza acquisita dal popolo e, per contro, un attentato all’integrità del potere, ne consegue che la via delle riforme che, per il popolo, è la via della libertà, non è per il potere che la via fatale del decadimento. Se dunque voi dite che volete il potere per fare delle riforme, ammettete nello stesso tempo che volete raggiungere potenza con lo scopo premeditato di abdicare alla potenza. Inoltre, siccome non sono così stupido da credervi di così poco ingegno, mi accorgo che sarebbe contrario a tutte le leggi naturali e sociali, e principalmente a quelle della propria conservazione, alla quale nessun essere può venir meno, che degli uomini investiti della forza pubblica si spogliassero, di loro completa volontà, e dell’investitura e del diritto principesco che permette loro di vivere nel lusso senza affaticarsi a produrlo. Andate a raccontare le vostre panzane altrove.

Il vostro governo non può avere che un obiettivo: vendicarvi di questo, proprio come quello che vi seguirà non potrà avere che uno scopo: vendicarsi di voi. L’industria, la produzione, il commercio, gli affari del popolo, gli interessi della moltitudine non s’accordano con questi pugilati; io propongo che vi si lasci soli a lussarvi le mascelle e che noi pensiamo ai nostri affari.

Se il giornalismo francese vuole essere degno del popolo al quale si rivolge, deve cessare di fare sofismi intorno alle cose deplorevoli della politica. Lasciate che siano i retori a fabbricare a loro piacimento delle leggi che gli interessi e le usanze supereranno, se vi piacerà di non interrompere, con i vostri schiamazzi inutili, il libero sviluppo degli interessi e la manifestazione dei costumi.

La politica non ha mai insegnato a nessuno il mezzo di guadagnare onorevolmente il suo pranzo; i suoi precetti non hanno servito che a stipendiare la poltroneria e a incoraggiare il vizio. Non ci parlate dunque più di politica. Riempite le vostre colonne di studi economici e commerciali; diteci ciò che è stato inventato di utile; quello che, in un qualunque paese, si è scoperto di materialmente o di moralmente proficuo per l’accrescimento della produzione, per l’aumento del benessere: teneteci al corrente dei progressi dell’industria, in modo che noi troviamo, attraverso queste informazioni, il modo di guadagnare la nostra vita e di condurla in un ambiente confortevole. Tutto questo, vi dico, ci importa più che le vostre dissertazioni stupide sull’equilibrio dei poteri, sulla violazione d’una Costituzione che, rimasta vergine, non mi pare, a parlarvi francamente, molto degna del mio rispetto.

Dell’elettorato politico o suffragio universale

Ciò che ho appena detto mi porta naturalmente all’esame delle cause che sono all’origine dei vizi di cui ho parlato. Queste cause sono per me da ricercarsi nell’elettorato.

Sono passati due anni da che, per delle sordide ragioni di cui voglio ben credere che i partiti non si rendano conto, si mantiene il popolo nella convinzione che non arriverà alla sovranità, al benessere, che con l’aiuto e l’intercessione di rappresentanti regolarmente eletti.

Il voto – tesi municipale a parte – può condurre il popolo alla libertà, alla sovranità, al benessere, assolutamente come il dono di tutto ciò che possiede può condurre un uomo alla fortuna. Voglio dire con questo che l’esercizio del suffragio universale, lungi d’esserne la garanzia, non è che la cessione pura e semplice della sovranità.

L’elettorato, di cui i sofisti dell’ultima Rivoluzione hanno tanto e così seriamente parlato, l’elettorato, anteposto alla libertà, come il frutto davanti al fiore, come la conseguenza prima del principio, come il diritto avanti al fatto, è la più solenne insulsaggine che sia mai stata immaginata in ogni tempo e in ogni paese. Non solamente quelli che si sono permessi, quelli che hanno avuto l’audacia di chiamare il popolo a votare prima di averlo lasciato consolidare le sue libertà, hanno solamente abusato della sua inesperienza e della sua docilità timorosa, che una lunga dipendenza ha impresso al suo carattere; ma hanno anche, dando degli ordini al sovrano e dichiarandosi, per questo solo fatto, superiore a lui, misconosciuto le regole elementari della logica, ignoranza che doveva condurli a cadere vittime della loro invenzione abnorme, e ad andarsene, spinti dal risultato del suffragio universale, a errare tristemente nell’esilio.

Cosa strana, e sulla quale devo, innanzitutto, nell’interesse della dimostrazione che seguirà, richiamare l’attenzione del lettore, è infatti che il suffragio universale si è volto a profitto del gruppo formato da tutto il servitorame delle monarchie e cioè a vantaggio dei suoi nemici dichiarati. Il popolo ha detto grazie a quelli che l’avevano asservito; ha loro dato, con il suo voto, il diritto che essi hanno di fargli la caccia alla rete e al richiamo, alla posta o all’inseguimento, al tiro libero o alla trappola, con la legge per arma e i loro simili per cani.

Certo, in presenza di un soggetto che distrugge quelli che gli hanno dato l’esistenza e che rende onnipotenti quelli che l’hanno torturato nel suo nascere, mi è ben permesso, credo, di non accettare senza esame questo preteso palladio della democrazia, che si chiama elettorato o suffragio universale. Mi prendo anche la responsabilità di dichiarare che lo combatto, come si combatte una cosa malefica, una mostruosità senza proporzioni.

Il lettore ha già capito che si tratta qui, non di contestare un diritto popolare, ma di correggere un errore fatale. Il popolo ha tutti i diritti immaginabili; io mi attribuisco, da parte mia, tutti i diritti, anche quello di bruciarmi il cervello o di andare a gettarmi nel fiume, ma, a parte che il diritto alla mia distruzione si pone al di fuori della legge naturale e cessa di chiamarsi un diritto divenendo una anomalia del diritto, una forma di disperazione, questa esaltazione abnorme che, per facilitare il ragionamento, chiamerò ancora un diritto, non potrebbe darmi, in nessun caso, la facoltà di far subire ai miei simili la sorte che mi tocca subire personalmente. È così anche riguardo al diritto di votare? No. In questo caso, il votante trascina nella sua stessa sorte anche chi si astiene.

Io mi ostino a credere che gli elettori non sappiano che si suicidano civilmente e socialmente andando a votare: un vecchio pregiudizio li estranea da se stessi, l’abitudine che hanno di accettare il governo impedisce loro di vedere che non conviene ad essi che essere con se stessi. Ma supponendo, per assurdo, che gli elettori che abbandonano i loro affari, che trascurano i loro interessi più urgenti per andare a votare siano consapevoli di questa verità, vale a dire: che si spogliano, con il voto, della loro libertà, della loro sovranità, della loro fortuna in favore dei loro eletti che, ormai, si sono sostituiti di fatto ad essi stessi; supponendo che accettino ciò e consentano liberamente ma follemente a mettersi alle dipendenze dei loro mandatari, non vedo perché la loro alienazione debba comportare quella dei propri simili. Io non vedo, per esempio, come né perché i tre milioni di Francesi che non votano mai sono passibili dell’oppressione legale e arbitraria che fa pesare sul paese un governo costituito dai sette milioni di elettori votanti. Io non vedo, in una parola, perché debba accadere che un governo che io non ho fatto, che non ho voluto fare, che non acconsentirei mai a fare, venga a chiedermi obbedienza e danaro, sotto il pretesto che vi è autorizzato dai suoi artefici. C’è qui evidentemente un inganno sull’oggetto, del quale è importante spiegarsi, è ciò che sto per fare. Ma prima farò la riflessione seguente che mi suggerisce l’avvenimento elettorale del 28 corrente mese.

Quando mi è venuto in mente di pubblicare questo giornale, non ho né scelto il giorno adatto né pensato all’elezione che si preparava; d’altra parte le mie idee sono troppo in alto perché possano mai adeguarsi alle circostanze ed alle eventualità. In più, supponendo dannoso per qualche partito l’effetto dell’esposizione qui appresso – supposizione ben gratuita sicuramente – una voce di più o di meno a destra o a sinistra non cambierà la situazione parlamentare. E se, dopo tutto, sotto i colpi dei miei argomenti, il sistema parlamentare dovesse crollare tutto intero, questo mi impedirebbe quanto meno di passare oltre poiché, si è capito, che è precisamente questo sistema che combatto.

Del resto, è molto meno importante sapere se procuro qualche inquietudine ai fanatici del suffragio universale o ai suoi profittatori, che di assicurarsi se le mie dottrine si appoggiano sulla ragione universale; ora, per ciò che riguarda quest’ultimo punto, sono assolutamente tranquillo; e oso dire che, se non fossi del tutto garantito dall’oscurità del mio nome contro gli attacchi di quelli che si nutrono dell’elettorato, troverei ancora, nella solidità delle mie deduzioni, un rifugio dove la prudenza vieterebbe loro di venirmi a cercare.

I partiti accoglieranno questo giornale con disprezzo; è, secondo la mia opinione, la cosa più saggia che potranno fare. Sarebbero costretti a portare ad esso troppo rispetto se non lo disdegnassero. Questo giornale non è il giornale di un uomo, è il giornale dell’Uomo o non è nulla.

L’elettorato non è e non può essere attualmente che una frode e una spoliazione

Ciò detto, affronterò la questione senza preoccuparmi dei sentimenti di paura o dei sogni di speranza che potranno spingere di volta in volta in mio favore o contro di me gli evocatori della monarchia e i profeti della dittatura. Usando dell’inalienabile facoltà che mi danno il mio titolo di cittadino e il mio interesse di uomo, e ragionando senza passione come senza debolezza; austero come il mio diritto, calmo come il mio pensiero, dirò:

Ogni individuo che, nello stato presente delle cose, depone nell’urna elettorale una scheda politica per l’elezione di un potere legislativo o di un potere esecutivo è, se non volontariamente, quanto meno a sua insaputa, se non direttamente, quanto meno indirettamente, un cattivo cittadino. Confermo la parola senza togliere nulla.

Posta la questione in questo modo, mi sbarazzo in una sola volta e dei realisti che perseguono la realizzazione del monopolio elettorale, e dei governamentalisti repubblicani, che fanno della formazione dei poteri politici un prodotto del diritto comune; cado, in realtà, non nell’isolamento, ciò che, d’altra parte, mi preoccuperebbe poco, ma nel mezzo di quel vasto nucleo democratico – più di un terzo degli elettori iscritti – che protesta, con un’astensione continua, contro l’indegna e miserabile sorte che ad esso procurano, da più di due anni, la deleteria ambizione o la non meno deleteria ruberia dei partiti e dei fannulloni.

Su 353.000 elettori iscritti nel dipartimento della Senna, 260.000 solamente hanno preso parte al voto del marzo scorso e il numero delle astensioni è stato anche meno elevato questa volta che non nelle elezioni precedenti.

Essendo Parigi un centro politico più attivo degli altri e contenendo, di conseguenza, meno indifferenti della provincia; è esatto dire che i poteri politici si formano al di fuori della partecipazione di più di un terzo dei cittadini del paese. Ora, è a questo terzo che mi richiamo; perché là, se ne converrà, non c’è né la paura che vota sotto pretesto di conservare né l’ambizione che vota per conquistare né l’ignoranza pecoresca che vota per votare; là c’è quella serenità filosofica che attinge in una coscienza placida il lavoro utile, la produzione non interrotta, il merito oscuro, il coraggio modesto.

I partiti hanno qualificato come cattivi cittadini questi saggi e seri filosofi degli interessi materiali, che non si mischiano ai saturnali dell’intrigo; i partiti hanno orrore dell’indifferenza politica, metallo senza pori che nessuna dominazione può corrodere. È tempo di tener conto di questi legionari dell’astensione, perché è tra essi che si trova la democrazia; è presso di essi che risiede la libertà, così esclusivamente, così assolutamente, che questa libertà non sarà acquisita alla nazione che il giorno in cui il popolo intero imiterà il loro esempio.

Per chiarire la dimostrazione che sto facendo, devo eliminare due cose: Primo, qual è l’obiettivo del voto politico? Secondo, quale deve essere inevitabilmente il suo risultato?

Il voto politico ha un duplice obiettivo: l’uno diretto, l’altro indiretto. Il primo obiettivo di un voto politico è di costituire un potere; il secondo è – una volta costituito il potere – di rendere i cittadini liberi e di ridurre gli oneri che pesano su di essi; è, inoltre, di rendere loro giustizia.

Questo è, se non mi sbaglio, l’obiettivo riconosciuto del voto politico, quanto all’interno. Per l’estero non è qui in questione.

Già, dunque, andando a votare e per il solo fatto del suo voto, l’elettore riconosce che non è libero e attribuisce a quello che nomina la facoltà di liberarlo; confessa che è oppresso, e ammette che il potere ha la forza di risollevarlo; dichiara di volere l’istituzione della giustizia e concede ai suoi delegati ogni autorità per giudicarlo.

Molto bene. Ma riconoscere a uno o più uomini la capacità di rendermi libero, di risollevarmi e di giudicarmi, non è porre, fuori di me, la mia libertà, la mia forza, il mio diritto? Non è ammettere formalmente che questo uomo o questi uomini che possono liberarmi, sollevarmi, giudicarmi, non solamente restano padroni di opprimermi, di rovinarmi, di giudicarmi male, ma sono anche nell’impossibilità di fare altrimenti, considerato che, essendosi sostituiti a tutti i miei diritti, io non ho più diritti e che proteggendo il diritto, essi non fanno che proteggere se stessi?

Se io chiedo qualche cosa a qualcuno, ammetto che questo qualcuno ha ciò che gli chiedo; sarebbe assurdo che facessi una petizione per ottenere ciò che fosse in mio possesso. Se avessi l’uso della mia libertà, della mia fortuna, del mio diritto, non andrei a chiederli al potere. Poiché se li chiedo al potere, è probabilmente perché esso ne è il possessore, e, se esso ne è il possessore, non vedo affatto quali lezioni abbia a ricevere da me riguardo all’uso che ritiene opportuno farne.

Ma come mai il potere si trova ad essere possessore, di ciò che mi appartiene? Come lo tiene? Il potere, prendendo per esempio quello che ci è davanti, è costituito dal signor Bonaparte che, ancora ieri, era un povero proscritto senza troppa libertà e non aveva più soldi che libertà. Di settecentocinquanta Giove-tonanti che, vestiti come tutti e non più belli certamente, parlavano qualche mese fa, come noi e non meglio di noi, oso dirlo; di sette/otto ministri e dei loro accoliti, di cui, la maggior parte, prima di tirare la coda del bilancio, tiravano quella del diavolo, con almeno altrettanta ostinatezza che il primo venuto tra i semplici scrivani. Come è successo che questi poveri tapini di ieri siano i miei padroni di oggi?

Come mai questi signori detengono il potere nel quale voi avete ogni libertà, ogni ricchezza, ogni giustizia? Con chi bisogna prendersela per le persecuzioni, le imposizioni, le iniquità che noi tutti subiamo? Coi votanti evidentemente.

La Costituente che ha cominciato a tirarci in ballo; il signor Luigi Bonaparte che ha continuato la strumentazione, e l’assemblea legislativa che è venuta a rinforzare l’orchestra, tutto questo non si è fatto da solo. No, tutto questo è il prodotto del voto. A tutti quelli che hanno votato risale la responsabilità di ciò che si è fatto e di quello che seguirà. Questa responsabilità noi non l’accettiamo, noi, democratici del lavoro e dell’astensione; andate a cercare altrove e non presso di noi la solidarietà con le leggi oppressive, con i regolamenti inquisitoriali, con gli scannamenti, con le esecuzioni militari, con le incarcerazioni, con i trasferimenti, con le deportazioni, con la crisi immensa che schiaccia il paese. Andate, maniaci del governo, a battere il vostro petto e a prepararvi al giudizio della storia! La nostra coscienza è tranquilla. È già abbastanza che, per un fenomeno che ripugna ad ogni logica, noi subiamo un giogo che voi solo avete fabbricato; è già abbastanza che abbiate consegnato, con ciò che vi apparteneva, ciò che non vi apparteneva, che dovrebbe essere inviolabile e sacro: la libertà e la fortuna degli altri.

Il diritto di primogenitura e le lenticchie del popolo francese

E non crediate, borghesi ingannati, gentiluomini rovinati, proletari sacrificati, non crediate che ciò che è accaduto potesse non accadere, se voi aveste nominato Pietro invece di Paolo, se i vostri suffragi fossero andati a Giacomo invece che a Francesco. In qualunque modo votiate vi cedete, e chiunque sia il trionfatore, il suo successo vi travolge. All’uno come all’altro voi dovrete chiedere tutto; dunque non avrete più niente.

D’altra parte, capite bene questo – non è affatto della scienza, è della pura e semplice verità – se il male, fosse venuto dai reazionari solamente, se i rivoluzionari avessero potuto fare la vostra fortuna, sareste ricchissimi; perché tutti i governi da Robespierre e Marat – siano le loro anime davanti a Dio – hanno appartenuto ai rivoluzionari; questa assemblea che avete qua, sotto gli occhi, si compone anch’essa in totalità di rivoluzionari. Nessuno è stato più rivoluzionario del signor Thiers, l’amministratore di Nostra-Signora di Loreto; il signor de Montalembert ha pronunciato, sulla libertà assoluta, dei discorsi tali che nessuno ne saprebbe fare di migliori. Il signor Berryer ha cospirato dal 1830 fino al 1848. il signor Bonaparte ha fatto della rivoluzione per iscritto, con le parole e con le azioni; non parlo della Montagna, cenacolo che ha avuto nelle sue mani, per molti mesi, mezzi di governo per coprirvi di un manto d’opulenza. Tutti gli uomini hanno fatto della rivoluzione fintantoché non hanno fatto del governo; ma tutti gli uomini, anche, quando hanno fatto del governo, hanno soffocato la Rivoluzione. Io che vi parlo, se voi vi immaginaste un giorno di mandarmi al governo e se, in un momento d’oblio o di vertigine, invece di provare pietà e disprezzo per la vostra stupidità, accettassi il titolo di ricettatore del furto che voi avete perpetrato su voi stessi, io giuro Dio che ve ne farei vedere delle belle! Le esperienze fatte non vi bastano? Siete ben difficili.

Voi avete fatto proprio recentemente un governo bianco il cui unico obiettivo – e non sapreste fargliene biasimo – è di sbarazzarsi dei rossi. Se fate un governo rosso, il suo unico obiettivo – e sarebbe bello che lo trovaste mal fatto – sarà di sbarazzarsi dei bianchi. Ma i bianchi non si vendicano dei rossi e i rossi dei bianchi che a colpi di leggi proibitive e oppressive; su chi pesano queste leggi? Su quelli che non sono né rossi né bianchi, o che sono, a loro spese, ora bianchi e ora rossi, sulla moltitudine che non ne ha nessuna colpa; cosicché il popolo è tutto contuso per le mazzate che i partiti si danno sulla loro schiena.

Io non critico il governo; esso è stato fatto per governare, esso governa, usa del suo diritto, e, qualunque cosa faccia, io dico che fa il suo dovere. Il voto, dandogli potenza, gli ha detto: il popolo è perverso, a voi la rettitudine; esso è passionale, a voi la moderazione; esso è stupido, a voi l’intelligenza. Il voto, che ha detto ciò alla maggioranza attuale, al presidente in carica, lo dirà anche (perché non può dire niente di più, niente di meno) a una maggioranza qualunque, a un presidente qualunque esso sia. Dunque, con il voto, e quello che produce, il popolo si mette, corpo e beni, alla mercé dei suoi eletti perché essi usino e abusino della sua libertà e delle sue fortune; non avendole fatto nessuna riserva, l’autorità non ha limiti.

Ma la probità, si dice! Ma la discrezione! Ma l’onore!… fumo. Voi fate del sentimento quando bisogna fare delle cifre; se investite i vostri interessi sulle coscienze, investite a fondo perduto; la coscienza è a valvola.

Riflettete un istante su ciò che fate. Voi vi stringete attorno ad un uomo come attorno ad una reliquia; baciate il lembo del suo abito; l’acclamate fino all’assordimento, lo coprite di regali; imbottite le sue tasche d’oro; vi spogliate, a suo profitto, di tutte le vostre ricchezze; gli dite: Siate libero al di sopra dei liberi, al di sopra degli opulenti, forte al di sopra dei forti, giusto al di sopra dei giusti, e vi immaginate in seguito di controllare l’uso che egli fa dei vostri regali? Vi permettete di criticare questo, di disapprovare quello, di calcolare le sue spese e di chiedergli dei conti? Quali conti volete che vi renda? Avete emesso la fattura di ciò che gli avete dato? La vostra contabilità è in difetto? Ebbene; siete senza titoli contro di lui; il conto che vorreste presentare non ha base; non vi deve niente.

Adesso gridate, strepitate, minacciate, è un affanno inutile; il vostro obbligato è vostro padrone: inchinatevi e passate.

Nei racconti biblici è detto che Esaù vendette il suo diritto di primogenitura per delle lenticchie. I Francesi fanno di meglio, regalano il loro diritto di primogenitura e le lenticchie insieme.

Ciò che fa nascere i governi non è ciò che li fa vivere

Ripeterò qui che non contesto il diritto; quello che contesto, come cosa inopportuna, è l’uso attuale del diritto. Io dico che prima di fare uso del diritto che mi è riconosciuto di nominare dei delegati, è importante che cominci col fare atto di sovranità, per costituirmi materialmente nei fatti, per rendermi conto di ciò che devo fare personalmente e di ciò che deve rientrare nelle attribuzioni dei miei delegati. Devo, in una parola, fondare me stesso prima di fondare qualunque altra cosa. Le istituzioni non devono essere fatte con delle leggi, sono esse, al contrario, che devono fare le leggi. Prima mi istituisco, dopo farò delle leggi.

Non bisogna perdere di vista che la teoria del diritto alla quale noi ci rifacciamo direttamente, si basa su una pretesa priorità che avrebbe il governo sul popolo. Tutta la nostra storia, tutta la nostra legislazione, sono fondate su questa monumentale assurdità, e cioè che il governo è una cosa che precede il popolo, che il popolo è una derivazione del governo; che c’è stato o ha potuto esserci un governo anteriormente all’esistenza di un popolo. Ecco ciò che è accettato: gli annali del mondo sono scolpiti in questa abiezione dell’intelligenza umana. Fintanto, dunque, che durerà il governo, il principio della sua anteriorità resterà intatto, il diritto divino si perpetuerà tra noi e il popolo, il suffragio del quale sostituisce l’antica consacrazione, non sarà mai, qualunque nome prenda, che un suddito.

Il passaggio dalla teocrazia alla democrazia non può, in alcun caso, avvenire attraverso l’esercizio del diritto elettorale, perché questo esercizio ha come suo obiettivo specifico quello di impedire al governo di perire, cioè di mantenere e anche ravvivare il principio della priorità governativa. Bisogna, per passare da un regime all’altro, spezzare il meccanismo della delega. Bisogna, poiché esso è fatalmente sospinto verso il rispetto della tradizione teocratica, interrompere l’uso della delega e non riprenderlo che dopo aver introdotto nei fatti sociali l’esercizio stabile del governo di se stessi, dell’autogoverno. Non è che dopo aver fatto atto di possesso che io devo razionalmente porre un gestore sul mio domani; se io ce l’ho prima di aver mostrato i miei titoli, egli rifiuterà di riconoscermi e avrà ragione.

Ma ecco ciò che intendo dire: l’unanimità è, su ogni questione come in ogni paese, irrealizzabile. Eppure, nella situazione in cui ogni governo deriva dal voto, non occorrerebbe niente meno, per impedire ad un governo di nascere, che l’astensione unanime; perché, supponendo che nove milioni di elettori su dieci milioni s’astenessero, resterebbe sempre un milione di votanti per fare un governo, al quale la nazione tutta intera sarebbe costretta ad ubbidire; ora ci sarà sempre in Francia un milione di individui che avranno interesse a fare un governo; dunque la proposta è assurda.

Io rispondo. Non è necessario trovare un milione di uomini per fare un governo; centomila, diecimila, cinquecento, cento, cinque individui possono farlo, un cittadino tutto solo può costituirlo. Lafayette fece da solo, nel 1830, re Luigi Filippo; e durante i diciotto anni che seguirono questo avvenimento, il potere parlamentare si è formato, in un paese di 35 milioni d’anime, con il semplice concorso di 200.000 censuari. Quanto ristretto che sia il numero dei cittadini che concorrono a fare un governo, che importa! Ciò che ci tengo a constatare qui, è che nessun governo saprebbe vivere senza il beneplacito della maggioranza nazionale.

La filosofia e, dopo di essa, una scuola ben più sicura, la scuola dell’esperienza e dei fatti, hanno dimostrato, in maniera inconfutabile, che la ragione vera del governo sta, non già nel concorso materiale o elettorale dei cittadini di un paese, ma invece nella fede pubblica o nell’interesse, perché la fede e l’interesse sono la stessa cosa.

Il governo che abbiamo in questo momento è dovuto ai giochi elettorali di sette-otto milioni di cittadini molto obbedienti che hanno perduto ciascuno, con la migliore grazia del mondo, due o tre giornate di lavoro, per non lasciar scappare l’occasione di darsi, corpo e beni, a degli uomini che non conoscevano, ma ai quali hanno assicurato cinque monete da cinque franchi al fine di fare amicizia. Vi sembra che l’assemblea legislativa e il signor Bonaparte siano insediati più solidamente di quanto furono e la Camera dei Deputati del 1847, creata da duecentomila censuari solamente, e Luigi Filippo, creato da un solo uomo? Ditemi se pensate che un governo che fosse stato fatto da un milione, almeno, di individui, può essere più meschino, più impopolare, più confuso di quello al quale otto milioni di individui hanno dato vita. Evidentemente non lo pensate. Non c’è un uomo qui – e quando dico uomo, intendo dire il contrario di funzionario – che non abbia avuto i suoi interessi o la sua fede profondamente lesi dai regimi che sono stati successivamente instaurati dal 1848; non c’è, di conseguenza, un uomo che abbia a felicitarsi del risultato del suo voto e che possa credere che, dalla sua astensione, avrebbe potuto sorgere una cosa peggiore di quella esistente. Siete, dunque, costretti ad ammettere che avete, per il più misero risultato, perso il vostro tempo, a meno che non entri nelle vostre intenzioni – intenzioni, in questo caso, ben strane in verità – di perdere sempre il vostro tempo. Ritengo che dovete essere molto vicini a sacrificare il voto a delle più sostanziali realtà. È già una posta molto cattiva per il potere il vostro malcontento, ma se esso non avesse la vostra scheda per darsi coraggio, sarebbe molto debole, e dubito che potrebbe tenere le carte.

Non l’unanimità nell’astensione, dunque, quello che importa ottenere; come non è necessaria l’unanimità del voto per formare il governo; l’unanimità nell’inerzia non saprebbe essere la condizione essenziale per l’avvento dell’ordine anarchico che è nell’interesse e, di conseguenza, nell’onore di tutti i Francesi realizzare. Ci saranno sempre abbastanza funzionari, avventizi e aspiranti; ci saranno sempre abbastanza redditieri di Stato e pensionati del Tesoro per costituire un personale elettorale, ma il numero dei Cinesi che vogliono ad ogni costo pagare tutti questi mandarini si riduce di giorno in giorno, e se ne restano ancora diciannove, da qui a due anni, dichiaro che la colpa non sarà mia.

D’altra parte – poiché bisogna dire tutto – cos’è che voi chiamate suffragio universale?

C’è un giornale che dice: bisogna eleggere il cittadino Gouvernard.

Poi si presenta un altro giornale che obietta: No, bisogna eleggere il cittadino Guidane.

Non ascoltate il mio antagonista, risponde di rimando il primo giornale, il cittadino Gouvernard è il solo candidato necessario, eccone i motivi, ecc.

Guardatevi dal prestar fede a quello che vi dice il mio avversario, replica il secondo giornale, non è possibile che il cittadino Guidane, eccone la ragione, ecc.

In questo frattempo scende in lizza, dopo essersi mantenuto sin qui chiuso in una riserva olimpica, un terzo giornale, il più grosso della specie, che pronuncia dottoralmente questa sentenza: bisogna eleggere il signor Gouvernard.

E lo si elegge il signor Gouvernard.

E voi dite che è il popolo che ha fatto l’elezione?

Chiederò ai vostri bussolotti e alle vostre palline il permesso di trovare poco esatto questo modo di esprimersi.

Questo sia detto per regolare i miei conti con la forma e senza compromettere le mie riserve quanto alla sostanza.

Ma io conosco dei repubblicani, o dei cittadini pretesi tali, che hanno grande paura che il popolo, non votando, favorisca la rinascita della sovranità reale. Sono dei grandi repubblicani che hanno reso, a quanto si dice, dei ragguardevoli servigi, servigi di cui affermo che né voi né io abbiamo visto l’ombra, sia in moneta, sia in libertà, sia in dignità, sia in onore. In lingua volgare, lingua che è la mia, la paura che provano questi repubblicani esprime l’afflizione che loro causerebbe l’impossibilità della loro elezione personale. Io smitizzo un po’ il patriottismo, può essere, ma che volete, non sono nato poeta, e nella matematica della storia ho trovato che senza questi repubblicani la monarchia sarebbe morta e sotterrata da sessant’anni; che senza questi repubblicani che hanno reso alla monarchia il già citato servigio di ristabilire l’autorità ogni volta che il popolo ha voluto darle uno scossone, sarebbe già molto tempo che i Francesi, me compreso, sarebbero liberi. I realisti, credetelo, non andranno molto lontano il giorno in cui questi repubblicani avranno l’estrema cortesia di non fare più del realismo. I realisti, ve l’assicuro, s’arresteranno ben presto allorquando invece di lasciar loro semplicemente la maggioranza, noi abbandoneremo loro il campo elettorale tutto intero.

Ciò che ho detto parrebbe strano, non è vero? È strano in effetti; ma è la situazione che è strana, e io non sono di quelli che rivestono le situazioni nuove con i vecchi panni che affollano da mezzo secolo tutte le stamberghe del giornalismo rivoluzionario.

Smascherare la politica è distruggerla

Mi spiego, e, costretto a ripetermi, porrò adesso questa domanda: Che dice l’elettore deponendo la sua scheda nell’urna?

Con questo atto l’elettore dice al candidato: Vi do la mia libertà senza restrizione né riserve; metto a vostra disposizione, abbandono alla vostra discrezione la mia intelligenza, i miei mezzi d’azione, i miei averi, i miei redditi, la mia attività, tutta la mia fortuna; i miei diritti e la mia sovranità. Di conseguenza, resta inteso che la libertà, l’intelligenza, i mezzi d’azione, gli averi, i redditi, l’attività, la fortuna, i diritti, la sovranità dei miei figli, dei miei congiunti, dei miei concittadini, tanto attivi che inerti, cadono, con tutto ciò che io vi trasmetto, dalla mia testa, nelle vostre mani. Il tutto vi è rimesso perché ne facciate l’uso che vi sembrerà opportuno; la mia garanzia, è il vostro onore.

Questo è il contratto elettorale. Argomentate, controbattete, discutete, girate, rigirate, poetizzate, sentimentalizzate, non cambierete nulla. Così è il contratto. È lo stesso nei riguardi di tutti i candidati; repubblicani o realisti, l’uomo che si fa eleggere è il mio padrone ed io sono una cosa sua; tutti i Francesi sono una cosa sua.

Resta dunque assodato che l’elettorato consacra e l’alienazione di ciò che appartiene a sé, e l’alienazione di ciò che appartiene agli altri. È evidente, pertanto, che il voto è, da una parte una truffa, e dall’altra una cattiveria, diciamolo chiaramente, una spoliazione.

Il voto non sarebbe che una truffa universale se tutti i cittadini fossero elettori, e se tutti gli elettori votassero; perché, in questo caso, resterebbero pari, gli uni verso gli altri, per ciò che tutti avranno perduto con l’azione di ciascuno; ma che un solo elettore si astenga o sia impedito, e la spoliazione comincia. Che su nove-dieci milioni di elettori, tre milioni si astengano – numero che è oggi già realizzato – e gli spogliati formano già una minoranza abbastanza imponente perché si possa fare a meno di tenerne conto. L’antico principio dell’onestà del potere è intaccato; ora, notate bene che la decadenza del potere è proporzionale alla rovina di questo principio.

Supponete che la metà degli elettori iscritti resti in disparte, la situazione diventa grave per i votanti e per il governo che avranno fatto; lo scetticismo politico di tutta una metà del corpo sociale deve visibilmente mettere in crisi le vecchie convinzioni dell’altra metà. E se si considera che sarà precisamente della parte dell’indifferenza calcolata, motivata, meditata che si troverà l’intelligenza o la libertà, che sono tutt’uno, mentre che non ci sarà della parte del voto che l’istinto pecoresco e tradizionale, l’ignoranza o l’abnegazione, che sono la stessa cosa, ci si farà facilmente un’idea della disfatta che, in un tale stato di cose, investirebbe il vecchio governamentalismo. Noi siamo arrivati ora anche a questo: perché se quattro milioni di elettori non si sono ancora astenuti, non è che abbiano da felicitarsi di aver votato. Ora, ogni pentimento implica il riconoscimento d’un errore.

Adesso insistiamo sull’ipotesi. Supponiamo che tutti gli avversari del realismo, convertiti al principio moderno che il potere non può essere onesto, disertino il voto motivando la loro diserzione con questa incontestabile verità che il voto è nello stesso tempo una truffa e una spoliazione, e, immediatamente, i realisti non avranno più complici; al di fuori di essi non troverete che degli uomini lesi con una giustificazione. L’elettorato, divenuto un misfatto per l’illuminazione dello spirito pubblico, li farà decadere direttamente e senza spartizione: i ladri sono smascherati. O piuttosto, in omaggio al senso comune, diciamo che non vi sono più ladri del tutto; perché, da quando la questione si trova ridotta a questi termini duri, ma semplici e soprattutto veri, da quando la politica, discesa dalle sue antiche e ciarlatanesche altezze, è restituita ai misfatti di cui è sempre stata il genio nascosto, ma reale, la finzione governativa sparisce e l’umanità si libera di tutti i malintesi che hanno, fino ad oggi, generato la lotta e i deplorevoli avvenimenti che ne sono stati il seguito.

Ecco la rivoluzione. Ecco il rovesciamento calmo, saggio, razionale del principio tradizionale! Ecco la sostituzione democratica dell’individuo allo Stato, degli interessi all’idea. Nessuna perturbazione, nessuna scossa potrà prodursi in questo maestoso schiarimento delle nubi storiche; il sole della libertà si mostra senza temporali, e ciascuno, prendendo la sua parte dei suoi raggi generosi, si muove ormai in pieno giorno e si preoccupa di trovare nella società il posto che dovrà occupare con le sue attitudini e il suo genio.

Per essere libero, vedete, non c’è che da volerlo. La libertà, che abbiamo scioccamente imparato ad aspettarci come un dono degli uomini, la libertà è in noi, la libertà siamo noi. Non è coi fucili né con le barricate né con le agitazioni né con gli affanni né con le fazioni né con i voti che bisogna procedere per ottenerla, perché tutto questo non è che sfrenatezza. Ora, la liberta è onesta e non la si ottiene che con la riservatezza, la serenità e la decenza.

Quando voi chiedete la libertà al governo, la stupidità della vostra domanda dimostra immediatamente ad esso che non avete nessun concetto del vostro diritto; la vostra petizione è l’atto di un subalterno, voi dichiarate la vostra inferiorità; constatate la sua supremazia e il governo approfitta della vostra ignoranza e si comporta nei vostri riguardi come ci si deve comportare nei riguardi dei ciechi, perché voi siete dei ciechi.

Coloro che ogni giorno, nei loro giornali, chiedono in vostro nome delle immunità al governo fanno – mentre vi lasciano credere che lo rovinano e l’indeboliscono – la forza e la fortuna del governo, forza e fortuna che essi vogliono conservare, perché le vogliono raggiungere un giorno col vostro concorso, popolo imbrogliato, ingannato, beffato, derubato, preso in giro, turlupinato, oppresso, fustigato da degli intriganti e da dei cretini che vi fanno inarcare la schiena adulandovi, corteggiandovi come una potenza, ricoprendovi di titoli pomposi come un re d’operetta e presentandovi anche come principe delle catapecchie e delle carceri, monarca della fatica, sovrano della miseria, alla derisione del mondo.

Io non ho, per canto mio, da adularvi; perché non voglio prendervi nulla, neanche la parte che mi spetta delle vostre miserie e delle vostre vergogne. Ma ho da chiedervi, a voi, capitemi bene, e non al governo, che non conosco, che non voglio conoscere, ho da chiedervi la mia libertà che avete impacchettato nel dono che avete fatto della vostra. Non ve la domando come impegno che dovete assumere per me; infatti, perché io sia libero è necessario che lo siate anche voi. Sappiate esserlo. Per questo è sufficiente che non innalziate nessuno al di sopra di voi. Allontanatevi della politica che divora i popoli e applicate le vostre attività alle faccende che le nutrono e le arricchiscono. Ricordatevi che la ricchezza e la libertà stanno assieme come stanno assieme la servitù e l’indigenza. Voltate le spalle al governo e ai partiti che non ne sono che i valletti. Il disprezzo uccide i governi, perché solo la lotta li fa vivere. Deponete questo sovrano che non discute con la sua gente e ridete delle mene ridicole del realismo bianco e del governamentalismo rosso. Nessun ostacolo potrà resistere davanti alla manifestazione calma e progressiva dei vostri bisogni e dei vostri interessi.

“Fintantoché il re di Tillac ignorò chi fosse, dice una leggenda guascone, l’intendente lo maltrattò duramente; ma quando la dama Giovanna, sue nutrice, gli fece conoscere i suoi titoli e le sue qualità, la gente del castello, con l’intendente in testa, vennero ad umiliarsi davanti a lui”.

Che il popolo mostri ai suoi intendenti che non si rinnega più; che cessi di mischiarsi alle polemiche d’anticamera, e i suoi intendenti taceranno, prendendo di fronte ad esso un atteggiamento di rispetto. Deve a se stesso la libertà, la deve al mondo che aspetta, la deve ai figli che nasceranno.

La politica nuova sta nel rifiuto, nell’astensione, nella non collaborazione civica e nell’attività industriale, in altri termini, nella negazione stessa della politica. Svilupperò altrove più ampiamente questo argomento. Adesso mi è sufficiente dire che se i repubblicani non avessero votato alle ultime elezioni generali, non ci sarebbe stata opposizione all’assemblea, non ci sarebbe stata, a dire il vero, l’assemblea stessa. Non ci sarebbe stato che il caos tra i legittimisti, gli orleanisti, i bonapartisti che si sarebbero rovinati, gli uni con gli altri, con grave scandalo e che sarebbero caduti tutti e tre, a quest’ora in cui sto scrivendo, sotto i fischi esilaranti della libertà.

Conclusione

Da tutto ciò che ho detto – e ritornerò in seguito, sia su ciò che ho dimenticato, sia su ciò che non ha potuto essere sviluppato interamente in questa esposizione – risulta che l’obiettivo del voto politico è la formazione di un governo; ora, avendo dimostrato che la formazione di un governo, e dell’opposizione che ad esso serve come garanzia essenziale, era la consacrazione di una tirannia inevitabile, la cui origine è da ricercarsi nel dono spontaneo che i votanti fanno, ai loro eletti, delle loro persone e dei loro beni, così come delle persone e dei beni dei non votanti; ne consegue che, mentre l’alienazione della sovranità può non essere una sciocchezza, ma, un diritto, quando quello che aliena non dispone che della sua parte, questo atto cessa di essere una sciocchezza o un diritto e diventa una spoliazione quando, avvalendosi della brutale ragione del numero, esso fa subire alla sovranità delle minoranze la propria sovranità.

E aggiungo che essendo ogni governo necessariamente una causa d’antagonismo, di discordia, di scannamento e di rovina, colui che, con il suo voto, concorre alla formazione di un governo è un provocatore di guerra civile, un promotore di crisi e, di conseguenza, un cattivo cittadino.

Sento a questo punto i repubblicani del funzionarismo gridare: Al tradimento! Non mi emoziono; perché li conosco meglio di quanto non si conoscano essi stessi. Ho un conto vecchio di sessant’anni da regolare con essi, e il loro fallimento, di cui io mi faccio curatore, non è dei più divertenti.

Sento anche i realisti e gli imperialisti chiedersi se non ci sarebbe qualche cosa da spigolare nella messe che io mostro; non sono turbato, perché ho valutato nella maniera più giusta il valore delle loro anticaglie.

L’avvenire non appartiene né a questi né a quelli, grazie a Dio; e la monarchia per mettere il suo ultimo dente, non aspetta che di veder cadere l’ultima unghia della dittatura.

Io mi propongo di togliere a queste signore e l’unghia e la radice.

A noi tre!

 
 

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