Titolo: Charles Baudelaire. Studi sull’assurdo
Note: Pensiero e azione N. 17
Prima edizione: marzo 2013
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Dimensioni: cm 15 x 21,5
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A mio padre
e al 2 novembre 1958, domenica mattina

Elevazione

Librandoti su in alto, sopra stagni e vallate,
e montagne, e marine, e nuvole, e foreste,
oltre il sole, oltre i campi dell’etere celeste,
oltre il confine ultimo delle sfere stellate,
 
tu ti muovi, o mio spirito, con piena agilità
e, come un nuotatore che s’abbandona all’onda,
allegramente fendi l’immensità profonda,
in preda a un’indicibile e maschia voluttà.
 
Oh, via da questi miasmi, da questi immondi climi,
sali a cercar riscatto in un cielo diverso;
e come a un puro nettare apri le labbra al terso
fuoco disseminato negli spazi sublimi!
 
Scosso il vasto fardello di triboli e di pene
che incombe sulla vita e la colma di brume,
oh, felice chi può con vigorose piume
balzar verso le lande luminose e serene;
 
e sente come allodole, nei cieli alti perdute,
i suoi pensieri all’alba liberamente ascendere,
e plana sulla vita e senza pena intende
il linguaggio dei fiori e delle cose mute!

Introduzione

Baudelaire è il genio della contraddizione. È forse il poeta francese che ho tradotto per primo, con tutte le conseguenze del caso. Continuo gioco degli equivoci nell’autore e nel traduttore, poi corretti dalle migliori traduzioni disponibili all’epoca. Ma non tutti quegli equivoci sarebbero dispiaciuti a Baudelaire che considerava il più grande pittore del romanticismo un illustratore di giornali di moda.

Sbalordire per contraddire. Intrecciare a doppia tessitura l’essere e l’apparire, l’amore e la prostituzione, il ricatto e i prestiti non restituiti. In un momento in cui lottavo disperatamente per entrare in un ambiente chiuso e, in ultima analisi, ostile, non poteva, per me, esserci autore più vicino all’esistenzialismo, anche se nessuno in pratica ne proponeva la collocazione ufficiale. Ma, come ho detto, la cosa non mi preoccupava per niente. Qui non ci sono né Hegel né cristo – e nemmeno l’afflato positivo del povero Abbagnano – ci sono bordelli e prostitute, nere tisiche e cigni sul punto di morire asfissiati, vecchie che sognano gli alti splendori e ciechi che non sanno dove concluderanno la loro notte. Non c’è la natura, ma c’è l’uomo con la sua miseria, la povertà smunta e triste, la codardia che rinuncia a lottare, c’è insomma l’essere che vuole apparire quello che non è e l’apparire che vuole essere.

Eccolo ne “Il cigno”

                                A Victor Hugo

I.
 
Penso oggi a te, Andromaca: quel così triste e vile
rivolo in cui un dì ti specchiasti commossa,
nel fulgore del tuo cordoglio vedovile,
quel falso Simoenta che il tuo piangere ingrossa,
 
d’un tratto ha fecondato la mia fertile mente,
passando io per il nuovo Carosello. È cresciuta,
Parigi: e un’altra, ormai (ah, più volubilmente
del cuore d’un mortale una città si muta!);
 
e io solo in ispirito quel campo di baracche
rivedo, e l’erbe, i mucchi delle colonne cieche,
i macigni chiazzati di verdognole zacchere,
i bazar dalle ingombre luccicanti bacheche.
 
Là, dove s’attendava già un serraglio, un mattino
vidi, nell’ora in cui il Lavoro si desta
sotto un cielo lucente e freddo, e lo spazzino
alza nell’aria tacita una fosca tempesta,
 
vidi un cigno che, evaso dalla gabbia, sfregava
con i piedi palmati le scabre selci, e tutto
il candido piumaggio al suolo trascinava;
il becco protendendo a un rigagnolo asciutto,
 
bagnava nella polvere inquietamente l’ali
e diceva, il bel lago nativo rimpiangendo:
“Acqua, non piovi, dunque? folgore, e tu non cali?”.
Questo infelice io vedo, mito strano e tremendo,
 
talora, come l’uomo d’Ovidio, verso il cielo
azzurro, verso il muto implacabile scherno
del cielo azzurro, torcere dal collo il capo anelo,
quasi a Dio rivolgesse un rimprovero eterno!
 
II.
 
Parigi è un’altra, ma la mia malinconia
non cangia, e in ogni cosa – vecchi sobborghi o insigni
palazzi, pietre o travi – scopro un’allegoria;
e i miei cari ricordi pesan come macigni.
 
Così dinanzi a questo Louvre torna, e m’opprime,
l’immagine del cigno, del mio gran cigno bianco
dai gesti di demente, ridicolo e sublime
come gli esuli, morso da un cruccio avido il fianco;
 
e a te ripenso, Andromaca, che sogni genuflessa
presso un sepolcro vuoto, strappata via dal seno
d’un gran sposo per essere dall’empio Pirro oppressa:
ahimè, vedova d’Ettore e consorte d’Eleno!
 
Penso alla negra scarna che la tisi consuma,
e che con occhio torvo, andando nella mota,
ricerca dietro il muro immenso della bruma
i superbi palmizi dell’Africa remota;
 
a chiunque ha perduto ciò che non si ritrova
mai più, mai più! agli esseri, di lacrime nutriti,
che, generosa lupa, l’Angoscia allatta e cova,
ai magri orfani simili a fiori inariditi!
Così nella foresta dove esiliar mi voglio
soffia un vecchio Ricordo nel grande corno ognora!
Io penso ai marinai scordati su uno scoglio,
ai prigionieri, ai vinti... ad altri, ad altri ancora!

Baudelaire è punto nodale tra la trionfante borghesia francese e l’altro aspetto della medaglia, tutti coloro che quel trionfo stavano pagando sulla propria pelle, è il poeta che incide profondamente i bubboni di un tessuto sociale marcio che puzza di morto, mentre dappertutto sfavillano le luci imperiali. Ma non è uno stereotipato rivoluzionario che ragiona per schemi, va al di sotto dell’apparire, scende nell’essere, e qui non arretra davanti a nulla, è veramente l’esplosione che la filosofia dell’esistenza attendeva, solo che i sismografi universitari nemmeno potevano registrarlo e ancora oggi continuano a non farlo. Egli scolpiva con pochi tratti la melma del suo tempo, non molto diversa da quella di oggi, basta fare i dovuti raffronti.

Taglia netto ne “Il ribelle”

Piomba rabbioso un Angelo giù dal cielo sull’empio,
come un’aquila, e prende per i crini a squassarlo,
gridandogli frattanto: “Questo ti sia d’esempio!
Io sono il tuo buon Angelo, capisci, io che ti parlo.
 
Sappi che, senza storcere il naso, ti conviene
amar l’ebete e il povero, lo storpio e il criminale,
perché tu possa offrire a Gesù, quando viene,
con la tua carità un tappeto regale.
 
Così è l’Amore: prima che il tuo cuore si sazi,
alla gloria di Dio raccendi la tua estasi:
voluttà non effimera, voluttà vera è questa!”.
 
E l’Angelo, carnefice innamorato, strazia
con pugni di gigante l’empio quanto più può;
ma il dannato risponde eternamente: “No!”.

Poeta del profondo, scende senza mezzi termini alla base delle cose che lo circondano, che gli altri ammirano e desiderano, e ne denuncia il fondamento mefitico. Incide con i suoi versi un bassorilievo entusiasmante dei vizi dell’epoca e vi contrappone le proprie scelte, che gli altri scandalizzandosi definivano viziose. Bastano poche parole, qualche verso, o una frase delle tante lettere alla madre Caroline o al notaio che doveva versargli una miseria di vitalizio, per fare emergere i limiti e i contorni dei grandi personaggi del suo tempo. Per gli scrittori, alcune critiche terribili e pertinenti si riassumono in poche parole. Ma quello che manca, e se ne sente claustrofobicamente l’assenza, è l’aria e lo spazio. Non si respira nella mota e Baudelaire non respira e non cerca con lo spazio una natura la cui sbandierata “innocenza” lo offende, e non faceva respirare neanche me. Mi condusse subito in un’atmosfera sussidiaria, dove ogni distensione e calma considerazione delle cose mi era preclusa. Non solo per l’atmosfera dei bordelli, che conoscevo, ma per quella della vita come prostituzione generalizzata, dove ognuno evita di scendere in profondità per non incontrare la versione mostruosa di se stesso. Il dettaglio di questa condizione umana è vasto e si arricchisce di esemplari sempre nuovi, Baudelaire era un pittore di microstorie dell’incubo a cui si riduce la vita sotto il dominio della borghesia trionfante. Il pezzo di strada che conduce dalla Sorbona ai vicini giardini del Lussemburgo è emblematico.

“Il gioco” è uno spaccato impressionante:



Su lisi, canape cortigiane decrepite
– cera smorta, occhi fatui e fatali, bistrate
sopracciglia che ammiccano e mandano uno strepito
di pietre e di metallo dalle orecchie affilate;
 
curvi sul gioco visi che labbra più non hanno,
labbra senza colore, mascelle senza denti,
e dita ossute, in preda a un infernale affanno,
che frugan tasche vuote e corsetti frementi;
 
lividi globi in fila e lampadari immani,
da sozze volte penduli, ricingono di luce
le fronti tenebrose dei poeti sovrani
che qui a vendersi l’anima una furia conduce...
 
questa la fosca scena che in un sogno notturno
io vidi innanzi ai miei sagaci occhi disporsi:
freddo, muto, in un angolo dell’antro taciturno,
coi gomiti sul tavolo, me stesso anche vi scorsi,
 
che invidiavo a ciascuno quell’assillo testardo,
a quelle vecchie ganze la funebre gaiezza,
quel loro far mercato, tutti, senza riguardo,
l’uno del vecchio onore, l’altra della bellezza!
 
E in cuor tremai, scoprendo che invidiavo chi corre
anelando alla bocca d’abisso avida e brulla,
chi, ubriaco del suo sangue, non esita a preporre
il dolore alla morte, la dannazione al nulla!

Non riuscivo a capire se questo suo progetto, che perseguiva oscuramente, fosse dettagliato per primo dentro l’animo suo, oppure le vicende della sua vita glielo imponessero come un copione fissato a priori. Mi affascinava la constatazione, sempre riconfermata, che malgrado la sua miseria – non lontana poi dalla mia sparpagliata in una Torino precedente allo sviluppo industriale – non avesse mai accettato commissioni a pagamento da parte di qualcuno, cosa che invece io facevo col mio impiego in banca, e la cosa mi metteva a disagio. Ma io non scrivevo poesie e avevo un sogno da realizzare, laurearmi in filosofia. Non l’ho fatto, a Torino, né l’una né l’altra cosa. I sogni, l’ho scoperto più tardi, si realizzano con un’arma in mano. Ma questa chiarezza era, per me, ancora lontana. Baudelaire mi indicava altre prospettive, forse ancora più estreme.

Eccolo ne “Il nemico”

I miei vent’anni furono una buia tempesta
che a volte illuminava un raggio repentino;
piogge e fulmini fecero tale scempio che restano
ben pochi rossi frutti, ormai, nel mio giardino.
 
Ecco di già l’autunno delle idee ho toccato,
e por mano è mestieri a badili e a rastrelli,
per rassodar da capo il terreno allagato,
dove l’acqua fa buche profonde come avelli
 
E chi sa se trovare sapranno, le corolle
nuove ch’io sogno, in questo greto umido e molle
il mistico alimento cui chiedere vigore?
 
Ahi dolore! Va il Tempo mangiandosi la vita
e l’oscuro Nemico che ci logora il cuore
cresce e vive del sangue d’ogni nostra ferita!

Mi rendevo conto dei miei sforzi per capirlo e, per converso, vedevo come quello che lui mi andava dicendo gli veniva spontaneo come respirare, non c’era traccia di sforzo in lui, se ne vede invece parecchia nei miei scritti dell’epoca. Questo fatto mi faceva sentire a disagio, cosa che non provavo più leggendo Croce e non avevo mai provato leggendo Gentile.

Come si fa a penetrare l’essere come ha fatto Baudelaire con tanta sintesi in poche parole, spesso insignificanti, se isolate dal contesto? Non lo sa nessuno di coloro, e sono legione, che si sono occupati di lui. La sua presupposta volgarità, minima di fronte ad altri scrittori francesi dell’epoca, non era un freno ma uno strumento usato sapientemente, ma l’eleganza non era mai affettata, non c’era mai in lui una posa cattedratica, una cadenza olimpica, una riappacificazione sia pure transitoria. Non viveva di rendita ma di elemosine e questo non poteva non lasciare i segni sul suo corpo e sulla sua faccia. Non si curava di rispecchiare ciò che odiava – che poi era quasi la totalità di quanto lo circondava – gli bastava un dettaglio diffidente, ironico, vivace, e il risultato era raggiunto. Ecco come scrive alla madre: “[Parigi, 6 Maggio 1861]. La mia situazione. C’è chi mi saluta, chi mi fa la corte, forse c’è chi mi invidia. La mia situazione letteraria è più che buona. Posso fare ciò che voglio. Mi verrà stampato tutto. Poiché ho una specie d’ingegno impopolare, guadagnerò poco denaro, ma lascerò una grande fama, lo so, a patto che abbia il coraggio di vivere. Ma la mia salute spirituale; detestabile; forse perduta. Verrò subito alle cose concrete, ossia attuali. In verità, ho bisogno di essere salvato, e soltanto tu puoi salvarmi. Voglio dire tutto oggi. Sono solo, senza amici, senza amante, senza cane, senza gatto, nessuno con cui lamentarmi. Ho solo il ritratto di mio padre, che resta sempre muto”.

Questo borghese, figlio di una borghese risposata con un generale, è uno straccione e un emarginato, senza per questo rinunciare coscientemente alla sua estrazione di classe. Guarda il caos del suo tempo e lo riproduce come essenziale elemento dell’avventura umana, lo riconosce e lo sigilla definitivamente. Non vuole uscire da questa dimensione, anche quando scrive lettere private usa lo stesso sigillo, imprime lo stesso tocco e ottiene lo stesso risultato. Ne trasse l’insegnamento mortale che ogni tassello di vita è la vita nel suo insieme, la mia vita e quella degli altri che confluiscono in me, come io confluiscono in loro. Ecco perché la vita è nella morte e la morte è nella vita.

Eccolo, spietato, rivolgersi al futuro, “Al lettore” delle Fleurs du Mal:

La stoltezza, l’errore, l’avarizia, la colpa
ci occupano l’anima e il corpo ci fan guasto,
e noi ci offriamo ai nostri cari rimorsi in pasto,
come il povero sfama le zecche che lo spolpano.
 
Siamo incalliti reprobi e penitenti pavidi;
d’ogni nostro confiteor facciam lucro e commercio,
poi torniamo nel fango lietamente a giacerci,
speranzosi che vili lacrime ce ne lavino.
 
Satana Trismegisto lungamente ci culla
sul cuscino del male lo spirito stregato,
e dei nostri propositi ogni ricco carato
fa con esperte alchimie svaporare nel nulla.
 
È lui che regge i fili dei fantocci che siamo:
ci lasciamo sedurre dall’oggetto più basso,
e ogni giorno all’Inferno senza orrore, d’un passo,
attraverso mefitiche tenebre discendiamo.
 
Come un vizioso povero succhia e copre di baci
il seno martoriato d’una vecchia sgualdrina,
noi rubiamo una gioia rapida e clandestina,
e tutta la spremiamo, come un’arancia fracida.
 
Compressa, innumerevole, come vermi in fermento,
ci fa baldoria in capo un’orda di Demoni,
e, quando respiriamo, la Morte nei polmoni
di nascosto dilaga con confuso lamento.
 
Se lo stupro e l’incendio, il pugnale e il veleno,
di vezzosi ricami non hanno ancor guarnito
dei nostri giorni il grigio miserevole ordito,
e che ogni volta, ahimè, l’animo ci vien meno!
 
Ma frammezzo la lonza, la pantera, la vipera,
lo sciacallo, la scimmia, l’avvoltoio, la biscia,
fra i mostri che grugniscono, latrano, urlano, strisciano
nell’infame serraglio che i nostri vizi stipa,
 
uno ve n’è, più laido, più maligno, più immondo,
che senza grandi gesti, senza grida di guerra,
farebbe di buon grado diroccare la terra,
e in un solo sbadiglio ingoierebbe il mondo:
 
il Tedio! Pregni gli occhi d’un suo pigro rovello,
egli sogna patiboli, fumando il narghilè:
tu questo molle mostro conosci al par di me,
o ipocrita lettore, mio simile, fratello!

Quello che a me sembrava sulle prime una sterile contemplazione delle cose umane, sterile e voluttuosa insieme, scoprivo, a poco a poco, avanzando nella lettura, che Baudelaire aveva altri scopi e non contemplava per niente. Scendeva giù, fino in fondo alla caverna, e restava coinvolto nella bolgia che qui si recita nell’apparire spacciato come essere. Questo totale coinvolgimento prese anche me per la gola, mi rese agitato, desideroso di penetrare i destini dell’uomo, di scendere nella intimità di quella caverna perché lì c’era la creazione vera, di arrivare a essere scarnificando l’apparire, denunciandolo nelle sue assolute pretese di copertura, di sovraccopertura, presentandosi come principio quando era solo un misero mezzo escogitato per dare spazio all’inverosimile e al nefando gioco umano dell’esistenza dimidiata.

L’incontro tra contenuto e forma è un fenomeno quasi unico per l’epoca di Baudelaire, ancora divisa tra l’astratto e il concreto, tra Ingres e David. Qui la guida è forma e la forma guida il pensiero dominante, non la singola espressione, ma l’opera intera. Per me fu una scoperta che mi ripropose il problema suggeritomi dalla cosiddetta critica ermetica, a cui ho fatto cenno. Baudelaire sovrasta i contemporanei perché questa funzione non è alchimia ricercata e voluta, ma spontanea realizzazione nel momento in cui si difende quasi dalle cose che lo attorniano e l’attaccano. In un certo senso non mi resi conto che in lui c’era quasi l’abolizione del pensiero costruito a tavolino, conchiuso in sé, autoreferenziale, privo di sbavature. Questo pensiero ordinato e asfittico sarebbe stato un pessimo veicolo per la sua poesia e un’occasione sprecata per quello che aveva da dire. Lasciare che il dire fluisca secondo la musica a volte dissonante che le è propria nelle grandi occasioni letterarie, e Baudelaire è una di esse, un’isola senza contatti o scambi con la terraferma.

Non mi accorsi subito della dottrina segreta di Baudelaire, non ne avevo i mezzi, avrei dovuto avere una frequentazione con la pittura di Jean-Baptiste Chardin che non possedevo. Ero ancora convinto di quello che appare nel dire è tutto quello che c’è da cogliere, poi la vita mi ha spiegato di quanti e quali piani interpretativi è fatta la parola, e ancora, alla mia età, non finisco di apprenderne altri, sconvolgenti. L’estrema significatività è compressa in uno stretto ginepraio che bisogna dipanare, poi ci si accorge che ogni filo è collegato con altri labirinti che si aprono e contribuiscono all’originaria significatività. Particolarmente è in Baudelaire che mi accade sempre di riscoprire percorsi nuovi, in Baudelaire e in Nietzsche. Ma questo venne dopo, per me, molto dopo. Sul momento, a cui si riferiscono queste riflessioni, mi resi conto che molti elementi di quello che coglievo, confluivano tutti su un punto, un elemento ulteriore, considerato fonte continua di nuove amarezze per Baudelaire, la sua vita, una sorta di combattimento sterile ma indispensabile con i nemici, tutti sommati nella figura del notaio Ancelle. È a quest’ultimo che indirizza la lettera del 30 giugno 1845 annuciante il suicidio: “Mi uccido perché mi credo immortale, perché spero”. Era l’inanimato, l’ossuto e incoercibile estraneo mondo della melma, che lo colpiva e che, nello stesso tempo, costituiva il punto da cui partire per allontanarsi quanto più possibile dall’indifferenza umana e dal sangue della caverna nelle cui profondità era sceso.

Non appartiene a Baudelaire la preoccupazione di differenziarsi dalle condizioni portanti del proprio tempo, anzi le rappresenta spontaneamente. È l’uomo in improbabili vestiti cenciosi che attraversa Parigi per riscuotere una misera somma in prestito, ma che nel frattempo costeggia il muro di nebbia che pretenderebbe separarlo dalla realtà e che invece lo lega ad essa indissolubilmente. Quel muro, e la negra tisica, è lui, e la violenta urbanizzazione borghese della città lo colpisce con le sue trasformazioni che distruggono un mondo logoro ma vitale per sostituirlo con un tronfio e pomposo inno al bottegaio vincitore. Egli coglie il suo tempo e quest’ultimo coglie lui nell’incertezza della sua vita. Coglie un tempo onnicoinvolgente, un tempo che permette sempre meno isole autonome di umanità, un tempo appiattente che centrifuga al margine tutti i tentativi temerari di capirlo e quindi di smascherarlo. In questo rapporto bifronte – tra Baudelaire e il suo tempo –, reversibile e incompletabile, almeno per le mie letture di quel momento, c’è una vibrazione inopportuna che capovolge tutti i tentativi di mettervi ordine, per primi quelli stessi di Baudelaire. La potenza di questo rapporto non è una banale interpretazione, va più in profondità, scopre durezze dove la facciata espone fluidità e drappeggi, cesella smalti dove appaiono nature morte orribili, rappresentanti delle cose della caverna, dove il fango continua a ribollire.

Impressionante la forza de “I sette vecchi”

A Victor Hugo

Brulicante città, città piena di sogni,
dove abbranca i passanti lo spettro meridiano!
Scorrono come linfe i misteri per ogni
interstizio e meandro del pietroso titano.
 
Era l’alba: si ergevano, cresciuti dalle brume,
i tetti, in fila, ai lati della squallida via,
a guisa dei due argini fra cui trabocca un fiume,
e gravava nell’aria una gialla foschia,
 
al cuore dell’attore fondale conveniente;
io andavo, irrigidendo i nervi come un prode,
e fiaccandomi in vani dibattiti la mente,
lungo il sobborgo scosso da fragorose ruote;
 
ed ecco vidi un vecchio: i suoi stracci non meno
gialli erano, e sudici, di quei cieli piovosi;
non fosse per lo sguardo carico di veleno,
avrebbe fatto a rivoli piovere le elemosine.
 
Le sue pupille, intinte come entro uno sbocco
di fiele, l’aria intorno rendevano più cruda;
irta di lunghi peli, tesa come uno stocco,
la barba s’aguzzava come quella di Giuda.
 
Non curvo era, ma quasi in pezzi: gamba e schiena
gli facevano insieme un angolo perfetto,
sicché, fornendo l’ultimo strambo tocco alla scena,
il bastone gli dava l’andatura e l’aspetto
 
d’un giudeo con tre zampe, o d’una brenna greve.
Così s’impastoiava con le povere uose,
quasi pestasse morti, nel fango e nella neve,
non tanto indifferente quanto ostile alle cose.
 
Seguiva un altro: in tutto – cenci, barba, dorso, occhi,
bastone – uguale al primo, da uguale erebo sorto,
centenario gemello! E i due, spettri barocchi,
con passo uguale andavano verso un ignoto porto.
 
In che trappola infame ero dunque caduto?
quale maligna sorte m’umiliava, e perché?
Sette volte io contai, di minuto in minuto,
ripetersi il sinistro vecchio dinanzi a me.
 
Tu che del mio spavento ti fai gioco, e non senti
per ogni fibra correrti un brivido fraterno,
sappi che, pur sdentati e grinzosi e cadenti,
i sette mostri avevano un non so che d’eterno!
 
Avrei, senza morirne, l’ottavo contemplato,
turpe Fenice, sosia ironico e fatale,
genitore a se stesso, e da se stesso nato?
Ma io volsi le spalle al consesso infernale,
 
e rincasai, mi chiusi dentro con la mia febbre,
sconvolto, esasperato, da pazzi incubi invaso,
come chi vede doppio con le pupille ebbre,
ferito dalle leggi dell’assurdo e del caso.
 
La mia ragione invano s’avvinghiava alla barra:
ogni sforzo schernivano implacabili l’onde,
e danzava, danzava l’anima mia, gabarra
senz’alberi, su un vortice mostruoso e senza sponde!

Il colpo d’occhio psicologico non è frutto di razionali approfondimenti ma viene messo a fuoco come se fosse la condizione malata e infetta ad attirarlo con l’affermazione che l’uomo è quella cosa là, non l’apparire edulcorato che viene di regola messo in commercio. L’idea astratta di un modello da riprodurre gli era estranea, e questo mi confortava molto, essendo una delle tesi portanti della mia ricerca sull’esistenzialismo, nei suoi confronti aveva sempre pronto lo strale dell’ironia e quello del sarcasmo. Non gli importava molto di ferire un mondo che lo feriva costantemente anche soltanto con la propria falsa benevolenza.

Ho avuto spesso l’impressione, leggendolo, e penso di mantenerla ancora, che tranne pochissimi, gli altri lo infastidissero, anche i pochi amici intimi e tolleranti, anche la madre, nei cui confronti era un amante geloso e scontroso nello stesso tempo, per non parlare dei nemici dichiarati. I suoi anatemi sono contro l’umanità della caverna, che sguazza nel limo, che inzacchera anche lui. Eppure ho sempre pensato che non c’era nulla di esorcizzante in queste distanze, in esse si vede bene che c’era solo una profonda repulsione fisica. La relazione con Jeanne Duval è emblematica. La donna le era congeniale eppure la respingeva, non viveva bene con lei ma non poteva sopportare la sua assenza, eppure le sue giustificazioni a posteriori, dopo la rottura, non convincono.

Questo straordinario poeta era mediocremente colto, eppure la cultura perviene nei suoi lavori, e perfino nelle lettere personali, per vie traverse, impraticabili per un uomo qualsiasi, anche molto più dotto. Era l’epoca sua che penetrava dentro di lui, la realtà, prima di tutto Parigi, cioè il centro del mondo. Una città intrisa della cultura del momento in una maniera che nessun’altra città è mai stata. Per Baudelaire essa era come un faro, o un talismano, coglieva quello che quel faro illuminava, si faceva guidare da quello che quel talismano rinveniva e tutelava. Ma ciò, pure apparendomi sulle prime farraginoso, mi convinse poi che non c’era in Baudelaire nessuna intenzione parodiaca, andava semplicemente dritto per la sua strada, solo che questa strada era contorta, non aveva scansioni canoniche, non prevedeva tradimenti perché non era tenuta a una qualche fedeltà a un percorso prestabilito.

“Il crepuscolo del mattino”



La diana entro i cortili militari cantava,
e al vento del mattino i lumi si smorzavano.
 
Era l’ora che un folto sciame di sogni mali
i bruni adolescenti torce sui capezzali;
quando, come un cruento guizzante occhio, la lampada
sulla luce dell’alba forma una rossa stampa,
e l’anima, su cui la rozza carne pesa,
del giorno e della lampada imita la contesa.
Come una faccia in lacrime asciugata dal vento,
l’aria è piena di cose che durano un momento.
L’uomo è stanco di scrivere, e la donna d’amare.
 
Le case cominciavano qua e là a fumare:
le mondane con livide palpebre e bocche aperte
giacevano sepolte nel loro sonno inerte;
mentre le mendicanti dai seni macilenti
fiatavan sulle dita e i tizzi semispenti.
Era l’ora che il freddo e la miseria sogliono
alle gestanti in pena infuriare le doglie;
come un singhiozzo franto da sanguinose schiume,
lungi un canto di gallo lacerava le brume;
e un ocean di nebbia fluttuava sui tetti;
i morenti esalavano, in fondo ai lazzaretti,
il rantolo supremo in soffi tronchi e sordi;
rincasava il vizioso, stremato dai bagordi.
 
L’aurora infreddolita, in veste verde e rosa,
veniva lenta lungo la Senna silenziosa;
stropicciandosi gli occhi, imbracciava, la nera
Parigi, la sua sporta di vecchia mattiniera.

Solo che questa strada contorta si intersecava a volte con quella imperterrita dei benpensanti, sua madre in testa, il padrigno, i notai, e tutto il resto. Questi borghesi ferreamente legati al potere in carica erano sempre pronti a richiamarlo all’ordine, avvelenandogli la vita. Il 1848 fu una breve lieta parentesi, ma non rispondeva alle sue aspettative, solo sperava che fucilassero il marito di sua madre, cosa che non avvenne.

I suoi versi mi lasciarono una traccia profonda senza che potessi dire in che cosa questa traccia consistesse, solo che scendeva nelle mie pagine – centinaia e centinaia – fluidificando ciò che ancora in me era rigido e composto. Non era veramente ciò che leggevo di lui a colpirmi, più spesso era la pura forma, l’impronta di una penetrazione muta e logorante, assolutamente autosufficiente, qualcosa che avvertivo precedere il componimento che avevo sotto gli occhi e che prendeva corpo man mano che procedevo nella lettura, per poi svanire alla fine, lasciando una sorta di alone magico di potenza della parola che continuava a riecheggiare nella mia testa. La perfezione di certe intuizioni con quello che mi riusciva di capire dopo la lettura mi sbalordiva. Non saprei, nemmeno ora, cogliere meglio il dire di Baudelaire, pensarlo assorto e intento a convincermi con gli strumenti del ragionamento mi è impossibile.

 

Finito nel lager di Amfissa (Grecia) il 15 dicembre 2009

Alfredo M. Bonanno

* * * * *

La musa malata

Che hai dunque stamani, povera musa mia?
Nei tuoi occhi s’affollano notturne larve, e a verso
a verso ti si stampano ripugnanza e follia
sui colori del viso, fredde, smorte, perverse.
 
Il roseo silfo e il succubo verdastro una malia
di spavento e d’amore alle tue labbra offersero?
O t’abbrancò con fredda dispotica energia
l’incubo, e in fondo a un mitico Minturno ti sommerse?
 
Oh, sprigionando un alito di fragrante salute,
ti si gonfiasse il seno di voglie risolute,
e il sangue tuo cristiano fluisse in ritmi esatti,
 
come le antiche sillabe dal numeroso battito,
che a gara col gran Pan, signore delle biade,
Febo, padre dei cantici, del nume suo pervade!

Charles Baudelaire o della timidezza

Dai frantumi intellettualistici e artificiosi, dai secchi tronconi romantici e mediocri che esasperano con maniaca lucidità gli stessi temi, che impongono i tradizionali concetti come formule definitorie, come clausole senza residui; giungere a vedere il mondo di Charles Baudelaire, è come ritrovare un’autenticità di fede e un’interezza di vita. In esso affiorano tutte le basse e inconfessabili manifestazioni che la vita ci offre, tutto il colore e l’icastica espressività di una concezione personale dei valori spirituali al di là degli imperativi vincolanti della Fede e della Morale.

A chi legga non soltanto i Fiori del male ma tutti gli altri abbozzi da lui tentati sotto l’apparente fragilità vedrà delinearsi il solido, quasi con continuazione ostinata da grande fatica contadina, che grava su una sola idea, su un solo problema: la donna.

Così nella poesia “A una passante”

Urlava attorno a me la via, senza pietà.
Alta, snella, in gramaglie, sovranamente triste,
con sontuosa mano sollevando le liste
dell’abito, guarnito di ondosi falpalà,
 
e con gamba di statua, passò una donna: vidi,
bevvi nell’occhio suo, con spasimi d’insano,
come in un cielo livido, gravido d’uragano,
dolcezze ammalianti e piaceri omicidi.
 
Fu un lampo... poi la notte. Fuggitiva beltà,
nel cui sguardo, all’istante, l’anima mia risorse,
non ti vedrò più dunque che nell’eternità?
 
Altrove, e via di qui! Troppo tardi! mai, forse!
Poiché corriamo entrambi a ignoto e opposto sito,
o tu che avrei amato, o tu che l’hai capito!

Baudelaire ha il cuore avido di affetti e ricco di una sensibilità financo morbosa, ma nessuno meno di lui riesce a cogliere la vera essenza dell’amore. Lungamente si è discusso sull’esistenza di particolari inibizioni sessuali che lo ponevano in uno stato di squilibrio fra le sue possibilità fisiche effettive e le sue rappresentazioni fantastiche dell’amore. Lo si disse un anormale che al momento di tradurre in pratica le proprie immagini cerebrali veniva sopraffatto da inibizioni invincibili, e per portare a termine il doloroso incanto doveva ricorrere a stimoli esterni che soltanto dalle bassezze della più intima depravazione potevano venirgli.

In effetti l’origine del male s’ha da cercare in un forte trauma infantile, causato dall’acrimonia ingiustificata del patrigno, che da uomo pratico e autoritario mal digeriva la vocazione poetica di Charles, il suo spirito innamorato delle bellezze dell’arte, la sua mente aperta a tutto ciò che isola dalla vita comune e dalla impronta della monotonia. Da ciò una fanciullezza infelice, una giovinezza anelante ad irraggiungibili libertà: unico risultato la timidezza che lo porta a racchiudersi in se stesso e a odiare tutto quello che agli altri è facile, fin troppo facile!

Questa la tragedia! intuire l’amore sanamente condiviso, come manifestazione equamente distribuita fra piacere fisico e comunione spirituale, vederlo raggiungere da tanti suoi amici, anche più giovani di lui, e dovere rinunciare a quello che è suo legittimo desiderio per ricadere nell’abiezione più degradante. Di questa sua intima, mai confessata, timidezza egli soffre profondamente e ne cerca rifugio in un amore grandissimo verso la madre dal quale a tratti si stacca per lanciare anatemi carichi di odio verso la donna in genere. Così gli scrive in una lettera: “[Parigi, 6 Maggio 1861]. Tutte le volte che prendo la penna per esporti la mia situazione, ho paura; ho paura di ucciderti, di distruggere il tuo debole corpo. Ed io, io mi trovo continuamente, senza che tu l’immagini, sull’orlo del suicidio. Credo che tu mi ami appassionatamente con animo cieco, così forte è il tuo carattere! Io, ti ho amata appassionatamente nella mia infanzia; ci fu, nella mia infanzia, un’epoca d’amore appassionato per te; ascolta e leggi senza paura. Non te ne feci mai parola. Mi ricordo di una passeggiata in fiacre; uscivi da una casa di cura dove eri stata relegata, e mi mostrasti, per provarmi che avevi pensato a tuo figlio, dei disegni a penna che avevi fatto per me. Non credi che ho una memoria terribile? In seguito, la piazza Saint André des Arcs e Neuilly. Lunghe passeggiate e perenni tristezze. Mi ricordo dei quais, che erano così tristi la sera. Ah! questo fu per me il bel tempo delle tenerezze materne. Ti chiedo scusa se chiamo bel tempo quello che certamente fu brutto per te. Ma io ero sempre vivente in te; tu appartenevi soltanto a me. Idolo e compagno ansie eri per me. Forse ti stupirai che io possa parlare con passione di un tempo tanto remoto. Io stesso ne sono stupito. Forse perché, ancora una volta, ho concepito il desiderio della morte, i fatti antichi mi si dipingono così vivi nel mio animo”.

Una delle più belle liriche “Le metamorfosi del vampiro”, chiarisce il concetto che Baudelaire ha della donna: strumento di dannazione preferita del demonio, immondo otre schifoso, essere irrimediabilmente inferiore, vampiro alle cui voglie ci si abbandona credendolo angelo.

Torcendosi qual serpe sui carboni, col petto
schiacciato contro i ferri del busto troppo stretto,
la donna queste frasi, pregne d’essenze rare,
dalla bocca di fragola si lasciava colare:
“Umida è la mia bocca, e so per lunga prova
inabissar l’antica coscienza in un’alcova.
Sui miei seni in trionfo asciugo tutti i pianti
e faccio ai vecchi ridere il riso degli infanti.
Per chi mi vede nuda emergere dai veli
riassumo le stelle, la luna, il sole, i cieli!
E nel piacer sì dotta, mio caro savio, sono
– quando fra le mia braccia temibili abbandono,
forte e fragile, timida e libertina, al morso
dell’amante che stringo i frutti del mio torso –
che, su questi guanciali in subbuglio languenti,
per me si dannerebbero i cherubi impotenti!”.
 
Poi che m’ebbe succhiato dall’ossa ogni midollo,
e mi volsi a guardarla, non ancora satollo,
per baciarla a mia volta, non vidi che un rotondo
otre dai fianchi viscidi, gonfio d’umore immondo.
Chiusi gli occhi, colpito da gelido terrore,
e quando li riapersi, nel diurno chiarore,
più non c’era al mio lato il fantoccio possente,
rimpinzato di sangue, bensì confusamente
tremavano reliquie di scheletro, che sole
stridean senza riposo, come le banderuole
e le insegne di latta, attaccate ad un perno,
che il vento fa ballare, nelle notti d’inverno.

Non che gli manchi lo svago femminile, ci sono sempre tante donne per le strade di Parigi, e i suoi amici sono sempre pronti a presentargli la compagnia di una di quelle amiche che loro si sono tranquillamente scelte per una serata. Tutt’altro, anzi egli imbastisce una lunga relazione con una conturbante venere negra, Jeanne Duval, che lo avvince con le grazie della sua chioma nera, crespa, foltissima, con i suoi seni “échartés” con il suo corpo “fin et souple, contrastant avec des bauches et des courbes trés copieuses”.

Ed è lo scontro, ecco il “Duellum”
Due guerrieri un sull’altro si son scagliati a gara:
l’armi di luci e sangue hanno l’aria sconvolta.
Son questi incroci e strepiti di lame la fanfara
dei giovani che agita amor la prima volta.
 
Le lame sono in pezzi: come i nostri vent’anni,
cara! Ma i denti e l’unghie affilate e il furore
san presto vendicare della spada gl’inganni.
Per i cuori maturi, che piaga acre, l’amore!
 
Nel burrone ove lonze e gattopardi han covo,
ferocemente avvinti piombano i nostri eroi,
a fiorir con la pelle l’irto arido rovo.
 
Tale abisso è l’inferno, che i nostri amici ingoia!
Caliamoci, empia amazzone, senza un rimorso,
e l’odio che ci brucia non si spenga mai più!

Dopo lunghi anni di questi abbrutimenti, ormai vecchia la Duval, il poeta vagheggia amori più elevati e più puri. Questo è il periodo (1851) in cui conosce M.me Aglaé Joséphine Savatier [o Sabatier], regina del salotto di via Frochot, frequentato da de Musset, Flaubert, Gautier, De Goncourt. L’incontro per entrambi avrebbe potuto essere molto felice; in fondo sono due anime sensibili e appartenenti ad un ambiente di gran lunga diverso dal lerciume nel quale si era degradato Baudelaire in precedenza. Da questa nuova speranza egli sembra quasi vivificato, ritrova forza, letizia, vivacità, e fa progetti, chiede consigli, ne dà e già in cuor suo imbastisce (senza però ancora niente far trapelare) tutte le infinite, belle e oneste possibilità di una vita regolare sebbene non rischiarata dalla luce del matrimonio.

Ma ahimè, quando giunge il momento di dichiararsi, quando si stanno per compiere i voti di entrambi, Baudelaire non riesce a superare la sua timidezza e il sogno dilegua, assumendo i dolorosi contorni di una speranza perduta. Sentimento espresso magnificamente in “Spleen” [LXXVIII]

Quando il ciel basso e grave pesa come un coperchio
sull’anima che geme, da lunghi tedi oppressa,
e colma l’orizzonte, abbracciandone il cerchio,
d’un lume bigio, triste più della notte stessa;
 
quando si fa la terra un chiuso umido speco
dove va la Speranza, sbattendo negli assiti
con l’ali sue ritrose di pipistrello cieco,
o picchiando la testa contro i tetti marciti;
quando la pioggia stende i suoi sbiechi ricami,
imitando le grate d’un’immensa bastiglia,
e una torma silente di tarantole infami
in fondo ai nostri cerebri mille reti aggroviglia;
 
d’un tratto furibonde campane si scatenano,
e contro il cielo levano un cupo urlo di morte,
come anime al bando, raminghe anime in pena,
che senza requie gemano dietro le nostre porte.
 
E lunghi lenti feretri m’attraversano l’anima
senza un rullo, una musica; singhiozza prigioniera
la Speranza; l’Angoscia sul mio riverso cranio
pianta, esosa e feroce, la sua nera bandiera.

È la fine, malgrado che la Savatier cerchi in tutti i modi, nelle sue lettere di aiutarlo ad esternare i suoi sentimenti, egli colpito nel suo orgoglio di maschio recalcitra e ripiomba sempre più nel vizio.

Il dramma di Baudelaire è tutto qui; l’amore è andato a cercarlo anche nei più spaventosi aspetti per paura di non averlo più. È sempre scaturito da una paura il suo mondo. A causa di questa ricerca violenta e necessaria, l’amore gli è sfuggito inesorabilmente, come inesorabilmente sfugge davanti all’assetato il sahariano miraggio di deliziose fontane. Provò allora ad idealizzarlo con la speranza di irretirlo e di ammansirlo ma alla fine capì che tutto quello non era fatto per lui, e cercare di conquistarlo per forza, “vigoureusement, crânement, orientalement” sarebbe stato inutile. Da quel momento egli non lavorò più alla ricerca ma aspettò la liberazione con l’aiuto esulcerante delle droghe orientali. E quando finalmente giunge nella casa di salute di via del Duomo, un solo viso era chino su di lui morente, il viso ormai avvizzito di Aglaé Savatier, ma ispirante lo stesso una luminosa dolcezza.

 


[Pubblicato sul “Corriere di Sicilia” del 2 novembre 1958. Le citazioni, soppresse nell’originale per motivi di spazio, sono state ripristinate]

* * * * *

La musa venale

O musa del mio cuore, amante dei manieri,
quando Gennaio i venti scatenerà nel cielo,
avrai nei cupi ozi delle sere di gelo
per i tuoi piedi lividi un tizzo nei bracieri?
 
Rianimerai le spalle assiderate al velo
notturno che s’insinua oltre gli scuri? o speri,
sentendoti borsello e stomaco leggeri,
che gli astri azzurri piovano oro per il tuo zelo?
 
Ahimè, se vuoi lucrare ogni sera il tuo cibo,
devi a guisa d’un chierico agitare il turibolo,
e cantar senza crederci Te Deum a non finire,
 
o, pagliaccio famelico, le tue grazie esibire,
e i tuoi lazzi impregnati da invisibili pianti,
perché scoppino i fianchi, dal ridere, ai passanti.

Baudelaire e la sua fortuna in Italia

Sebbene esistano diversi tentativi di dettagliare le linee essenziali della fortuna di Baudelaire in Italia, non si può dire che possediamo una vera e propria storia dell’influenza esercitata dal poeta francese nel nostro mondo letterario, come pure non possiamo indicare una valida ricerca bibliografica che descriva con approfondita completezza i due filoni della critica e delle traduzioni.

Nel presente studio ci orienteremo di più verso quei lavori che affrontano il problema della traduzione italiana delle poesie di Baudelaire, per quanto, ovviamente non sia possibile tenere costantemente divisi i tentativi di interpretazione critica e gli sforzi dei traduttori. Occorrerà, infatti, indicare, di volta in volta, i debiti che questi contraggono con quelli, debiti che – nel loro insieme – costituiscono quell’ambiente culturale in cui il traduttore vive ed opera, non altrimenti del critico letterario e dell’operatore culturale in genere.

Quindi, problemi tecnici, di realizzazione dell’opera linguistica – e problemi, come avremo modo di vedere, non sempre agevoli – ma problemi anche di analisi estetica, di valutazione filosofica, di assorbimento di una tradizione culturale ricchissima prodotta da un paese, la Francia, che è stato sempre punto di riferimento per la nostra cultura.

Il lavoro più organico che conosciamo, riguardo il problema di Baudelaire nelle traduzioni italiane, è quello di Giuseppe Bernardelli (Baudelaire nelle traduzioni italiane, Milano 1971), che fornisce un’indagine sulle traduzioni di questo poeta nella nostra lingua con particolare considerazione del momento divulgativo e volgarizzatore della traduzione stessa, in quanto strumento di ulteriore diffusione di un’opera. Bernardelli ci propone subito il problema strutturale di una ricerca diretta a ricostruire un filone omogeneo di traduzioni, rapportabile, con un minimo di costanza, allo svolgimento di una storia della critica letteraria e sottraibile a quei fattori extra-estetici ed extra-letterari che sempre minacciano il “problema” della traduzione.

Risulta quindi indispensabile – almeno per noi che dell’ampio tratteggio del problema dell’opera poetica di Baudelaire ci limiteremo alla dimensione microcosmica di un solo componimento – dar meno spazio a quella vasta cornice genericamente letteraria, per addentrarci più specificamente nei problemi tecnici d’indole linguistica che se non sono assolutamente avulsi da quella, costituiscono un non trascurabile argomento di osservazione.

E la ripresa, e la trasposizione italiana, del linguaggio di Baudelaire coinvolge (e spesso travolge) le forme del traduttore che, a volte, attinge all’esterno per darsi quella nomenclatura e quelle idee che gli consentono l’approccio alla “maniera” lirica del poeta francese, ricca di organicità ma utilizzante un materiale povero e una figurazione spesso da luogo comune.

In una simile prospettiva, le ricerche generiche sulla poetica di Baudelaire possono essere di scarso aiuto. Infatti, come vedremo, solo di scorcio e in riferimento a certe presenze figurative del componimento che analizzeremo, si possono prendere in considerazione le ampie analisi condotte in Francia e specificamente afferenti alla fortuna francese o ai rapporti con la letteratura anglo-americana.

Il lavoro di Henri Peyre (“Remarques sur le peu d’influence de Baudelaire”, in “Revue d’Histoire Littéraire de la France”, avril-juin 1967, année 67, n. 2, pp. 424-436) – per fare un esempio – pur trattando di influenza in varie aree letterarie europee e extra-europee, tace riguardo l’Italia.

Poi, le informazioni di scorcio. Emilio Praga introduce Baudelaire nella cultura italiana, o meglio nell’ambiente letterario lombardo. Gaetano Mariani (Storia della Scapigliatura, Caltanissetta-Roma 1967, pp. 907 sgg.) parla della presenza del poeta francese all’interno della Scapigliatura. Lo studio di Pietro Nardi (Scapigliatura, Bologna 1924), approfondisce la ricerca con accuratezza. In sostanza il rapporto Baudelaire-Praga è forse il più significativo di tutti. Altre presenze in Iginio Tarchetti e Arrigo Boito.

Su questo argomento è importante il lavoro di Guy Tosi, “Aperçus sur les influences littéraires françaises en Italie dans le dernier tiers du XIXe siècle”, in “Rivista di Letteratura Moderna e Comparata”, settembre 1966, pp. 165-167, e gli appunti di Carlo Cordié (“La fortuna di Baudelaire in Italia”, in “Notiziario Culturale Italiano”, dicembre 1968).

Poi la fortuna di Baudelaire si allarga al Piemonte, a Bologna e altrove. Pietro Nardi ci parla di quelle derivazioni scapigliate che condussero l’influenza del poeta francese in Piemonte. Riguardo Bologna il discorso è molto più complesso. Nel 1872 Giuseppe Chiarini fa leggere Baudelaire a Carducci. Su tutta la vicenda, molto interessante il saggio di Pietro Paolo Trompeo (Carducci e d’Annunzio, Roma 1943, pp. 33-68). Altri rapporti: quello con Olindo Guerrini, di cui ci parla Gianni Nicoletti (Introduzione ai Fiori del Male, tr. it., Torino 1963), quello con d’Annunzio, di cui ci parla il suo segretario, Tom Antongini (“D’Annunzio e Baudelaire”, in “Letterature Moderne”, luglio-agosto 1953, pp. 445-448).

In sostanza – come vedremo meglio a suo luogo – dall’esasperata ma provinciale esaltazione degli scapigliati, si passò alla vicenda classica di Carducci, con relativa messa in sordina di non pochi temi cari a Baudelaire, per ripresentare il tutto nell’avventura decadentista che suggeriva non trascurabili ritorni ad una non sempre cosciente ripresa degli stilemi del poeta francese.

È da dire che, a parte il contatto di Praga, che per essere vissuto in Francia non aveva avuto grossi ostacoli a sentire l’influsso delle Fleurs, tra il 1870 e il 1890 il Baudelaire noto in Italia è quello dei Petits Poèmes en Prose. Per cui, ad esempio Carducci, va da un giudizio come “artista finissimo” (del 1872) ad un giudizio del 1880 che mette insieme Baudelaire e gli scapigliati in una condanna più o meno senza assoluzione.

Intorno a quegli anni fioriscono i giudizi negativi. Bernardelli (Baudelaire nelle traduzioni italiane, op. cit., p. 352), riporta quelli di Giulio Salvatori, di Giovanni Marrani e di Carlo Dossi, per cui scrive: «Rifiuto del Baudelaire delle liriche, esaltazione di quello, più vicino al clima delle lettere nostre, dei Petits Poèmes en Prose; le traduzioni confermano questa linea… tra la prima traduzione, subito largamente recepita, dei poemetti in prosa e quella de Les Fleurs du Mal corrono ben tredici anni». (Ib., p. 353).

Documento delle resistenze incontrate dal Baudelaire delle Fleurs sono le introduzioni alla traduzioni che vanno dopo il 1884, prima tra tutte quella di Girolamo Ragusa Moleti (Poemetti in Prosa, traduzione e introduzione di Ragusa Moleti, Edoardo Sonzogno Editore, Milano 1884, pagine 96, in 16°, “Biblioteca Universale, n. 116”).

A questo punto la conoscenza del poeta francese in Italia è sufficiente perché vengano fissati paralleli e perché l’analisi estetica e letteraria venga inscritta in schematismi positivistici di stampo pseudoscientifico, come quello di Cesare Lombroso e di Max Nordau. Sul rapporto tra “simbolismo” in Italia e Nordau, importante il lavoro di Nicoletti (“Max Nordau e i primi critici del ‘Simbolismo’ in Italia”, in “Studi Francesi”, n. 9 (1959), pp. 433-438), che ne indaga le conseguenze riguardo il concetto di degenerazione, concetto fondante la cosiddetta “letteratura d’eccezione”.

Esempio tipico delle tematiche di un certo positivismo fu, ai suoi tempi, il volume di Vittorio Pica: Letteratura d’eccezione: Paul Verlaine, Stéphane Mallarmé, Maurice Barrès, Anatole France, Francis Poictevin, Joris Karl Huysmans, Milano 1898.

È nel 1893 che inizia il tentativo vero e proprio di reazione contro il modello satanico e degenerato di un Baudelaire preda della più morbosa decadenza. Modificazione di riferimento estetico e tematico, modificazione nella realizzazione della traduzione. Prova non minima del rapporto che coinvolge il fatto linguistico al fatto letterario. La traduzione di Sonzogno appare molto lineare e aderente al testo. Dovranno passare molti anni, ma la tesi che riprenderà Ardengo Soffici nelle pagine de “La Voce” sarà sempre questa e non la precedente di un perverso poeta perduto dietro le sue fantasie piene di “cadaveri lubrici”. Il grande romantico assetato d’infinito e d’ideale prende definitivamente il posto del “poeta d’eccezione”.

Dal 1910 al 1920 una lunga serie di ripetizioni in questo senso, che poi sono una conseguenza diremo “di massa” del processo di sprovincializzazione della cultura italiana. Se per Sonzogno, alla fine del secolo precedente, era un fatto di gusto personale, per “La Voce” degli anni Venti è un fatto di costume letterario, mentre per gli altri scrittori che si metteranno sulla scia del gruppo de “La Voce” sarà un fatto di adeguamento ad un’interpretazione corrente. Tanto corrente da spingere Mario Praz a ripresentare la problematica satanica per quanto concerne Baudelaire, quasi per un tentativo di bilanciare la corrente contraria. «È la poesia di Baudelaire, – scrive Praz – nutrita di Poe e di de Sade, il cui pessimismo cosmico è più simile all’eresia manichea che alla religione cristiana: “Absolu! Résultante des contraires! Ormuz et Arimane, vous êtes le même!”. È la narrativa di Flaubert, per il quale “Néron vivra aussi longtemps que Vespasien, Satan que Jésus-Christ”. Dei Canti di Maldoror di Lautréamont, il quale confessa di aver “cantato il male come hanno fatto Mickiewicz, Byron, Milton, Southey, A. de Musset, Baudelaire”. Di Swinburne che, avvinto dalla teologia gnostica di de Sade, declama il suo uomo in rivolta: “…potessimo ostacolare la natura, allora sì il delitto diventerebbe perfetto e il peccato una realtà. Se l’uomo potesse far questo, se egli potesse intralciare il corso delle stelle e alterare il tempo delle maree; se potesse cambiare i moti del mondo e trovar la sede della vita e distruggerla; se potesse entrare in cielo e contaminarlo, nell’inferno e liberarlo dalla soggezione; potesse trar giù il sole e consumare la terra, e ordinare alla luna di spargere veleno o fuoco nell’aria; potesse uccidere il frutto nel seme e corrodere la bocca del pargolo col latte di sua madre; allora si potrebbe dire d’aver peccato e d’aver fatto del male contro natura”». (La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Firenze 1967, pp. 23-26).

Il periodo 1921-1940 costituisce quello che si può chiamare “il terzo tempo della fortuna di Baudelaire in Italia”. Escono i giudizi di Benedetto Croce (“Baudelaire”, in “La Critica”, XVII, 20 marzo 1919, pp. 65-75), di Cesare De Lollis (“Baudelaire”, in “Nuova Antologia”, n. 16, ottobre 1921), di Mario Bonfantini (Vita, opere e pensieri di Ch. Baudelaire, Novara 1928). La caratteristica di questo periodo è data dal fatto che gli interventi non hanno quasi mai carattere divulgativo, ma perseguono, al contrario, un intendimento scientifico-critico. A loro volta, le traduzioni risentono positivamente dell’alzarsi del tono della ricerca critica. Alessandro Pellegrini traduce le Pagine sull’arte e la letteratura (Milano 1938) che escono nella collana diretta da Papini. In questo periodo escono cinque traduzioni integrali delle Fleurs, contrassegnate da non pochi esperimenti stilistici.

Un problema a parte occupa una sorta di dilettantismo che fiorisce proprio in questo periodo. Accanto all’acutezza maggiore raggiunta dalla critica, e accanto ad ottimi tentativi di traduzione, si pongono esperimenti di traduttori che non posseggono quel corredo tecnico e artistico indispensabile ad affrontare testi tanto complessi come quelli di Baudelaire.

Ad apertura del dopoguerra si pone il tentativo di Riccardo Bacchelli che suggerisce una maggiore «simpatica partecipazione e corrispondenza ereticale» (Lo spleen di Parigi e altre traduzioni di Baudelaire, Milano 1947, p. 6) con l’autore, per cui «giova che il traduttore confessi il passato, per incorrere nel biasimo e dividere coll’autore la riprovazione». (Ibidem).

Ben dieci le traduzioni integrali delle Fleurs dal 1945 a oggi [1973]. Malgrado la notevole preparazione dei traduttori e l’assenza di quel fenomeno dilettantistico che aveva inquinato a fondo e in maniera fastidiosa il periodo precedente, tra le due guerre, i risultati – a quanto afferma lo stesso Bernardelli (Baudelaire nelle traduzioni italiane, op. cit., p. 384) – «non sono mai andati più in là del risultato decoroso e gradevole». Ciò starebbe a significare la grande difficoltà di fondo del rendere in altre lingue la poesia di Baudelaire.

Procedendo in questa nostra ricerca ci pare necessario, per prima cosa, chiarire i fondamenti stessi del fenomeno “traduzione”, del perché, in un dato momento, ci si accinge a trasportare in un’altra lingua un testo poetico, con tutte le conseguenze e limitazioni del caso. Ciò fino ad arrivare alla domanda: è possibile tradurre? Dalla quale domanda ne scaturisce subito un’altra; perché alcune traduzioni sono migliori di altre?

La problematica, come è facile comprendere, è molto delicata e richiederebbe un approfondimento ben più organico di quello che potremo darle, però, in una sede come questa, sarà almeno utile fissare gli elementi più importanti, quelli che troveranno riscontro nel terreno concreto della ricerca, cioè nel terreno comparativo che andremo a sondare a fondo, in tutte le sue varianti, quando affronteremo il componimento “L’Homme et la mer”.

Avremo poi necessità di approfondire due direzioni dell’analisi: quella che ci deve chiarire i pilastri fondamentali della fortuna di Baudelaire in Italia, sia come traduzioni che come studi specialistici o, addirittura, imitazioni o specifici suggerimenti, e quella che ci deve mettere in grado di avere un ordine schematico nel gran numero di traduzioni prodotte fino ad oggi. Il tracciato esposto in questa parte iniziale si limita pertanto a suggerire un tipo di approccio al problema, quello che cercheremo di approfondire più avanti è, invece, l’effettiva sequenza delle traduzioni, la loro collocazione, i limiti, i pregi.

 


[1973]

* * * * *

A una Madonna

                  Ex voto di gusto spagnolo

Madonna, amante mia, io ti voglio innalzare
in fondo al mio dolore un sotterraneo altare,
e scavar del mio cuore nell’angolo più scuro,
lungi dall’occhio cupido e dal sogghigno impuro,
tutta d’azzurro e d’oro una nicchia smaltata,
dove tu sorgerai, Statua meravigliata.
I miei bei Versi, intrecci di vergine metallo,
finemente incrostato di rime di cristallo,
ti cingeran la fronte come un serto regale,
e la mia Gelosia, o Madonna mortale,
saprà tagliarti – rigido, pesante, di modello
barbarico, e guarnito di sospetto – un Mantello,
chiusa garitta a guardia dei tuoi segreti incanti,
non trapunto di Perle, ma di tutti i miei Pianti.
La tua Veste sarà la mia fervida Brama,
che fluttua in aria, e sale, e in basso si dirama,
e sui picchi si culla, nelle valli si posa,
d’un bacio rivestendoti il corpo bianco e rosa.
Con la mia Devozione fare vaghi Scarpini
di raso, che, umiliati dai tuoi piedi divini,
sappian, teneramente cingendoli, le forme
per sempre conservarne, come stampo conforme.
 
Se poi non potrò togliere, malgrado ogni mio zelo,
per tuo Sgabello argentea una Luna dal cielo,
porre sotto i tuoi piedi il Serpente omicida
che mi morde le viscere, perché tu lo derida
e schiacci, questo mostro gonfio d’ira e di sputi,
vittoriosa Regina che redimi i perduti!
Vedrai dinanzi a te disporsi i miei Pensieri,
come all’altar fiorito della Vergine i Ceri,
e guardarti con occhi di fuoco, senza fine,
ricamando bagliori sulle volte turchine.
E poiché tutto in me t’ama d’amore immenso,
tutto diventerà Mirra, Olibano, Incenso,
e a te si leverà, picco bianco e nevoso,
come Nuvola il mio Spirito tempestoso.
 
Infine, a far compiuto il tuo travestimento
di Maria, per sposare l’orrore al sentimento,
funebre voluttà! sette aguzzi Pugnali
mi foggerò coi sette Peccati capitali,
aguzzino contrito, e un dopo l’altro, a mo’
di calmo giocoliere, tutti li pianterò,
dell’amor tuo mirando alla fibra più fonda,
nel tuo Cuore che palpita, che singhiozza, che gronda!

Il problema della traduzione

Con il rinnovamento politico e culturale degli studi italiani, avviatosi agli albori dell’Ottocento, si continuò, intensificandola, quell’attività di traduzione delle lingue straniere moderne e delle lingue antiche classiche, che aveva caratterizzato la fine del secolo precedente.

Solo che l’insieme di questa attività di traduzione, per quanto benemerita, non si pose quasi mai il problema dell’analisi del processo stesso della traduzione come fatto creativo, lasciando che si trasferissero i testi alla meno peggio, secondo le capacità dei singoli traduttori, dalle lingue originali all’italiano.

Certo, alcuni tra i migliori letterati, come Monti, Cesarotti, Pindemonte, Foscolo, ed altri, si posero grossi problemi di stile e di “acclimatazione” del prodotto poetico straniero, ma non si può dire che arrivassero a formulare il problema, tutto moderno, della stessa legittimità della traduzione e del perché alcune traduzioni sono buone e altre meno buone o cattive.

In definitiva, le traduzioni poetiche dal francese non furono poi molte. Ludovico Antonio Vincenti tradusse il Vert-vert (Rouen 1734) di Jean-Baptiste Gresset (citato da G. Mazzoni, L’Ottocento, vol. I, Milano 1953, p. 85), Vincenzo Monti tradusse La Pulcelle d’Orléans di Voltaire durante il suo esilio a Parigi (1800-1802), ma poi la tenne nel cassetto per paura di compromettersi. Una edizione è stata curata da Giulio Natali per l’editore Formiggini nel 1925. Sarà proprio Carducci a dare una buona valutazione di questo tentativo di traduzione. (Cfr. G. Mazzoni, L’Ottocento, vol. I, op. cit., p. 86). Antonio Bruttura tradusse L’Art poétique [1674] di Nicolas Boileau e la pubblicò a Parigi nel 1811. Ma in quel torno di tempo uscivano pure le traduzioni dall’inglese di Foscolo e di Berchet. Fondamentale la traduzione di A Sentimental Jorney (1768) di Laurence Sterne da parte di Foscolo.

Sarà la seconda metà del secolo a modificare l’impegno e l’ampiezza dell’azione dei traduttori italiani, sebbene, per aversi una riflessione sul problema stesso del tradurre, si doveva aspettare molto di più.

Oggi il problema va posto, schematicamente, in questi termini. Vediamoli con Christopher Middleton: «Tradurre è una questione pratica, concreta. È incidenza nel mondo, in senso creativo, in quanto trasformazione personale, singola, irreperibile della realtà da tradurre, senza che questo sia socialmente insignificante, non apra cioè nuove istanze sociali e storiche». (“Perché tradurre una poesia?”, in “Teoresi”, anno XXV, nn. 1-2, gennaio-giugno 1970, p. 130. La traduzione, un vero rifacimento, dell’articolo è stata fatta da E. Landolt. L’articolo originale è apparso su “Aksente”, 1969, n. 6).

Quindi il traduttore non è un semplice “computer” che mette insieme le correlazioni linguistiche esistenti tra una lingua e l’altra e ne realizza i rapporti corrispondenti in suoni e parole.

Beniamino Dal Fabbro, traduttore italiano di Paul Valéry, citando una lettera di quest’ultimo, del settembre 1942, scrive: «Il lavoro di traduzione, cominciato nel 1935 col “Cimitero marino”, s’è esteso via via a tutti i poemi degli Charmes, alla Jeune Parque, all’Album de vers anciens e alle Pièces diverses, e traverso innumerevoli rifacimenti e radicali revisioni, si può considerare compiuto verso il 1950 con una minuziosa “intonazione” interna e reciproca dei testi.

«Dopo alcune anticipazioni, apparse su periodici letterari, l’intero libro degli Charmes, col titolo Gli Incanti fu pubblicato a Milano nel 1942, con un’introduzione critica e senza il testo francese. In appendice al volume, una nota dichiarava il carattere e i limiti del lavoro:

«“Dei componimenti tradotti ciascun lettore è libero di stabilire il rapporto, stretto forse, quanto meno palese, coi testi primitivi, da cui essi derivarono materia e slancio; i quali, come sono conformati, non pretendono di riprodurli meglio di quanto, riguardo agli Charmes francesi, lo possano gli italiani “Incanti”, ma piuttosto, riesprimendoli secondo i modi della nostra letteratura e d’una qualche tecnica del verso e della strofa, d’attingere talvolta a una propria poesia, se anche riflessa”».

«Della plausibilità dei suoi propositi e risultati il traduttore ebbe conferma da Parigi, in una lettera del settembre 1942 di Paul Valéry, a cui egli era riuscito a far giungere traverso la Svizzera, nonostante le avverse circostanze della guerra in corso, il volume degli “Incanti”:

«“Ho ricevuto da qualche giorno Gli Incanti di cui mi avete fatto una sorpresa. Dopo la lettura, la sorpresa è diventata una molto gradevole e felicissima sorpresa… Ho avuto il piacere di osservare la grande esattezza della vostra trasposizione rimarcabilmente fedele, e – per quello che ne posso giudicare – la musicalità del verso parallela al mio verso mi è parsa eccellente. È là ciò che vi appartiene in proprio e che fa de Gli Incanti la vostra opera personale”. […].

«Dal 1950 a oggi [1962] le “Poesie di P. Valéry” hanno aspettato un editore disposto a pubblicarle senza il testo francese, ossia come una traduzione non soltanto condotta in versi italiani ma col proposito di dare nella nostra lingua un equivalente anche poetico del testo francese, a conferma di quei principii “del tradurre” che il traduttore ha compendiato in appendice al citato volume La sera armoniosa, e in particolare del seguente paragrafo:

«“Contrariamente a quanto si crede, una traduzione di poesia non sostituisce affatto il testo straniero, non esonera nessuno dal conoscerlo, non viene per nulla in soccorso a chi non sia in grado di leggerlo o di penetrarlo”.

«S’aggiunge qui, a togliere ogni equivoco, che la traduzione di tipo letterale e interlineare, con l’indispensabile testo a fronte, può essere utile agli scopi dichiarativi e informativi del testo stesso, diversamente dalla traduzione di poesia, che tanto più riesce a esser tale quanto più ha una propria autonomia lirica». (Citato in P. Valéry, Poesie e il dialogo. L’anima e la danza, traduzione di B. Dal Fabbro, Milano 1969, pp. 206-207). Poco più sopra, Dal Fabbro aveva scritto: «Qui Valéry vuole indicare due punti fondamentali del problema del tradurre poetico: a) la trasposizione fedele, b) la creazione poetica del traduttore, punti che non solo condizionano la riuscita dell’opera, ma che – presi a priori – ci spiegano la stessa “scelta” operata dal traduttore, di avvicinarsi a questo invece che a quel testo poetico».

Continua Middleton: «Perché tradurre una poesia? Cos’è che mi spinge a tradurre questa o quella poesia piuttosto che un’altra? Non certo la sensazione che abbia capito una poesia più di un’altra. Proprio il contrario. Mi attrae quella poesia che mi si presenta come un enigma». (“Perché tradurre una poesia?”, in op. cit., p. 130).

Ma questa “enigmaticità” – ci spiega con acume il suddetto autore – non ci viene da problemi di comprensione linguistica o da problemi interpretativi, cioè non è faccenda soltanto legata a quegli aspetti tecnici che si riassumano nel corredo tecnico che deve far parte degli strumenti a disposizione del traduttore, si tratta di qualcosa di più complesso, qualcosa che esula dal contatto stesso immediato della “semplice lettura” del pezzo poetico da tradurre, qualcosa che si deve poter riportare al rapporto complessivo del traduttore con tutta l’opera dell’autore da tradurre.

Questo rapporto deve essere un qualcosa “da chiarire”, non un qualcosa di scontato, che meccanicamente possa “trasferirsi” in strutture linguistiche differenti. E al chiarimento non può risultare estranea la padronanza della lingua, non della lingua straniera – che ciò nella maggior parte dei casi deve considerarsi scontato – ma proprio dell’italiano, fenomeno curioso ma presente in molte traduzioni, anche se a dire il vero meno oppressivo per quel che concerne le traduzioni di poeti stranieri.

In questo modo la traduzione diventa “scoperta” e “invenzione”, una sorta di “risvegliamento linguistico” che svolge un’azione sulla fantasia del traduttore e lo trasforma in “creatore” nella propria lingua. Uno scambio costante di travasi e di prestiti che fa parte della storia letteraria italiana e non soltanto della storia della nostra lingua.

«L’enigmaticità del testo – insiste Middleton – si configura proprio in un sentimento di affinità e di ripulsa (di vicinanza e di lontananza). Quando tento di risolvere il problema interpretativo, di dare una configurazione linguistica al testo da tradurre, tale bipolarità, in un primo tempo, mi eccita in modo oscuro, per cui non so se più o meno verrà fuori qualcosa. Questo momento negativo è qualcosa di meraviglioso, di eccitante: questo non-sapere». (Ib., p. 131).

Certo, queste notazioni psicologiche sono di notevole interesse, ma ci sembrano attingere troppo ad un ambito autobiografico, quando, invece, ci necessiterebbero altre notazioni di valore più oggettivo, stante che il tradurre, anche quello di cose poetiche, è pur sempre un fatto che attinge legami indissolubili con la frontiera tecnica che separa due lingue, cioè due mondi strutturali diversi.

Scrive Ivos Margoni, in anteporta alla sua traduzione di Rimbaud: «Non c’è problematica che mi sia più estranea (perché artificiale) di quella del tradur poetico. La sola filosofia attendibile in materia è per me quella dell’antica saggezza della nostra lingua; il compito del traduttore sarà dunque di tradire bene, e cioè fedelmente, conservando, per quanto gli è possibile, la coloritura ritmica, lessicale, stilistica e insomma storica degli originali. Per quel che riguarda i risultati raggiunti con questo principio nella nostra versione, giudicherà il lettore non sprovvisto di nozioni francesi e, soprattutto, cosciente del tour de force costituito dal fatto che le Poésies sono state trasposte non solo in versi regolari, ma anche sempre corrispondenti, nel numero, a quelli degli originali francesi. Conosco l’antipatia dei traduttori italiani nei riguardi del doppio settenario, o martelliano, che ho adottato per rendere gli alessandrini di cui si è servito quasi sempre Rimbaud nella prima raccolta. Questo verso è generalmente accusato di essere artificiale, pesante, monotono, privo di seri antecedenti italiani e dunque sprovvisto di prestigio poetico, decisamente inferiore, in ogni caso, all’endecasillabo, verso insieme lirico e narrativo, come appunto l’alessandrino. L’uso dell’endecasillabo mi era vietato dalla necessità di evitare, per non creare fastidiosi squilibri fra le due pagine, di allungare la versione, ma una prima obiezione plausibile agli argomenti citati è che se il martelliano è pesante e monotono, lo è sicuramente anche l’alessandrino, al quale corrisponde assai bene. Questo giudizio negativo, d’altronde, è stato ed è condiviso da molti poeti francesi dall’Ottocento ad oggi e la quasi completa scomparsa del verso di dodici piedi dalla letteratura moderna d’oltralpe non è soltanto dovuta all’imporsi, a partire dall’epoca simbolistica, del verso libero, ma anche alle sue scontate insufficienze, come dimostra lo stesso Rimbaud (“scopritore”, in Marine e Mouvement, del verso libero) il quale, sbarcato a Parigi, si recò da Banville per chiedergli quando ci si sarebbe decisi ad eliminare quell’“esametro” che egli aveva già schernito in Ce qu’on dit au poète à propos de fleurs. Per quel che riguarda la traduzione, l’obiezione massima è però questa: il metro, in ogni lingua, non è un’astratta misura ritmica ma, ovviamente, una struttura sintattica del discorso e basterà ricordare, a questo proposito, l’insofferenza dei classici nei riguardi dell’enjambement. Chi si serve dell’endecasillabo sarà dunque costretto, dato che si tratta di un verso più breve dell’alessandrino, a sconvolgere la disposizione sintattica del discorso nel verso, moltiplicando così i penosissimi rejets. Solo il talento può ovviare a questo grave handicap iniziale (citerò, per rimanere nell’ambito di questa collezione, l’eccellente Baudelaire di Luigi de Nardis), ma io penso che al traduttore cui non sorrisero gli dèi si debba chiedere non il talento, ma l’infedele fedeltà di cui ho detto sopra. Mi si potrebbe anche opporre che una poesia va ricreata come sarebbe stata scritta se fosse stata redatta in italiano, ma l’obiezione e speciosa, dato che la poesia è stata invece redatta in francese e che si tratta quindi di trasmettere nella nostra lingua le particolarità tecniche, il colore stilistico e la struttura sintattica di quella straniera.

«Un problema più serio era quello della scelta del linguaggio poetico. Bisognava scartare subito la koinè lirica contemporanea, artificiosa e accademica: applicarla al Rimbaud stilisticamente e lessicalmente romantico o parnassiano delle Poésies avrebbe costituito un travisamento storico palese e risibile. La soluzione più ragionevole era dunque di ricorrere a un italiano ottocentesco ma decisamente depurato da ogni scoria scolastica, al fine di evitare, traducendo Rimbaud, di fare un pastiche di una zona della nostra tradizione letteraria. Così, il lettore potrà afferrare concretamente lo stacco vertiginoso che esiste, anche nel linguaggio, fra il primo e l’ultimo Rimbaud.

«È stato invece impossibile rendere ritmicamente regolare la versione della maggior parte dei Derniers vers. Facendosi ermetica, la lingua esclude infatti, da qualsiasi metro sia retta, la possibilità di ricercare sinonimi più lunghi o più brevi, di togliere l’aggettivo inessenziale, di dare il sopravvento alla parola-chiave, di sistemare la zeppa (inevitabile, anche se, in questa traduzione, molto rara), e paralizza dunque il movimento di ricostruzione analogica che permette di realizzare un metro regolare senza tradire il discorso originale e i suoi caratteri. Per quel che riguarda i versi brevi e la musica delle canzonette ermetiche, sarebbe stato auspicabile, ovviamente, renderli in modo altrettanto rapido e “ingenuo”, ma il fatale estendersi del verso italiano rendeva vana l’impresa: tradurre in settenari o in ottonari l’“ingenuità” dei quinari francesi sarebbe stato falsare la tonalità, e dunque la musicalità rimbaldiana. Abbiamo dunque tentato, quando la cosa era possibile, di trasporre l’atmosfera delle canzonette grazie a un ritmo che la ricreasse liberamente.

«Tradurre il Rimbaud ermetico significa anzitutto interpretarlo, giungere insomma a determinare con la massima esattezza possibile la fisionomia talora sfuggente di ogni parola, cercare di conservarne il rilievo e la qualità evocatrice e di ricostruire quei valori ritmici e sintattici che rendono cosi rigorosa e numerosa, nell’apparente libertà, la prosa del poeta, o meglio, quella forma nuova di poesia che egli ha voluto realizzare al di fuori degli schemi metrici tradizionali. Il problema della traduzione delle prose ermetiche è dunque sostanzialmente eguale a quello della versione dei versi, con la differenza, tuttavia, che l’assenza di autorevoli tradizioni italiane nel genere del poème en prose rende forse più arduo lo sforzo e più contestabili i risultati» (A. Rimbaud, Œuvres-Opere, traduzione di Ivos Margoni, Milano 1971, pp. XLVI-XLVIII).

Quindi il tradurre (bene) una poesia è sempre fare un’operazione artistica di notevole impegno. Significa dar vita ad una realtà “nuova”, a qualcosa che prima non esisteva, qualcosa che pur trovando vita in una data lingua, ha radici in una lingua diversa, il frutto di un passaggio artistico di una frontiera tecnica altrimenti non valicabile in maniera degna.

Volendo usare termini più specifici in quanto abbiamo descritto, si può dire che l’operazione del tradurre deve essere contemporaneamente una “trasfigurazione” e una “sostituzione”.

Middleton scrive: «Se nel tradurre i due principi del “trasformare e sostituire” vengono realizzati, avremo la fedeltà al testo e la libertà di un tradurre come atto originale. Se i due momenti vengono staccati l’uno dall’altro, la pura trasposizione darà risultati banali e la pura trasfigurazione non sarà mai un rifacimento artistico». (“Perché tradurre una poesia?”, in op. cit., p. 133).

Così l’operazione del tradurre, che spesso viene considerata, in assoluto, un tradimento, cioè una “sottrazione” operata a danno dell’originale, può, se è ottima cosa, diventare una “aggiunsione”, un qualcosa che l’originale viene a guadagnare.

Ecco come affronta l’argomento Luciana Frezza, traduttrice di Mallarmé: «La presente edizione dell’intera opera poetica di Mallarmé, corredata di traduzione e commento, si propone di contribuire a far partecipe il maggior numero di lettori italiani della difficile e schiva bellezza di questa poesia. Il commento utilizza gli apporti più rilevanti della critica mallarmeana, sulla base di una lettura personale (che consiste, necessariamente, d’innumerevoli riletture) costantemente tesa nello sforzo di raggiungere, di auscultare il poeta, e lui solo. La traduzione, condotta sull’edizione de La Pléiade, è nata dalla mia personale esigenza di comprendere Mallarmé attraverso un’attenzione e una tensione di lettura superiori al normale, quali, cioè, una traduzione di poesia le richiede. Il criterio fondamentale cui mi sono attenuta è stato quello d’una fedeltà globale al poeta, che dedicandosi con minuzia e scrupolo alla traduzione dell’opera sua, andasse assorbendone di pari passo i modi espressivi, il gusto, i vizi e le manie, cercando di ottenere effetti simili con mezzi simili; che fosse, in sostanza, una sorta di imitazione di Mallarmé.

«Questo è quanto mi sono proposta soprattutto per i testi poetici più sibillini, le “Ariette”, i “Sonetti”, la Prose pour des Esseintes, qualcuno dei Tombeaux, dove bisognava muoversi con cautela su un terreno infido, tra bivi e trabocchetti, in labirinti arditamente costruiti sulla sintassi. E proprio là era più importante non tradirlo, in questi componimenti in cui è racchiusa l’essenza più segreta della sua personalità poetica – anche se tanta bellezza è profusa in tutta la sua opera, a partire da talune poesie del periodo parnassiano, in cui Mallarmé, pur operando una lenta ricerca del proprio stile; mira sostanzialmente a una forma levigata e armoniosa e veste sovente il suo pensiero di immagini di derivazione letteraria; in cui il suo dramma, prima di affilarsi in ironico sorriso, è ancora un grido di ribellione, un ingenuo scoramento, una disperazione torbida di tono baudelairiano (ma non per questo meno “sua”); su fino alla singolare, quasi dannunziana Ouverture ancienne e al raggelato e patetico incanto della Scène di Hérodiade, fino all’Après-midi d’un Faune dove si fondono tutte le sue esperienze estetiche, si accumulano le suggestioni di poesia, musica e pittura insieme. Sebbene non possa negarsi che l’oscurità rappresenta, in alcuni casi limite, l’involuzione dell’arte mallarmeana, sì che spesso egli non raggiunge una forma così pienamente realizzata come, per esempio, nell’Après-midi, tuttavia par di sentire che una tale bellezza gli è impercettibilmente più esterna del linguaggio cifrato cui consegna la sua disperazione, e che tali ironici messaggi, scanditi al termine del suo iperbolico itinerario, sono quelli che ci forniscono i tratti inconfondibili della sua fisionomia.

«Sempre riferendomi alla traduzione, dirò che ho tentato, non di riprodurre materialmente, cosa impossibile, la complessa musicalità del testo (fatta di segreta musica verbale non disgiunta da una più sensoriale armonia), ma di suggerirne, come un’eco genuina e diretta, il ricordo, sostituendo i suoi giri di frase, le sue cadenze e i suoi accostamenti sonori con altri analoghi e cercando di mantenere lo stesso schema (versi brevi o versi lunghi, numero dei versi in ciascuna strofa), in modo che una somiglianza visiva contribuisse ad avvicinare ancor più la traduzione all’originale. Per i componimenti in versi alessandrini, i grandi “Sonetti”, Hérodiade (Ouverture e Scène), il Toast funèbre, ho adottato una metrica costruita essenzialmente su gli accenti e quindi variabile quanto al numero delle sillabe di ciascun verso. Ciò mi ha consentito di inserirvi un numero considerevole di parole, data la natura più solida e ingombrante della lingua italiana, e d’imprimere alle poesie una cadenza autonoma». (S. Mallarmé, Poesie, traduzione di Luciana Frezza, Milano 1966, pp. VIII-IX).

E Gesualdo Bufalino, non superlativo traduttore di Baudelaire, gigioneggia sul suo lavoro nel seguente modo: «Le ragioni del traduttore. Nel 1936 avevo 16 anni. Mi venne in mano, nella profonda provincia dove vivevo, una traduzione in prosa de Les Fleurs du Mal, che portava segnati per avventura gli stacchi fra strofa e strofa. Questo mi consentì, essendomi inaccessibile l’originale, l’impresa abbastanza eroica d’una retroversione, in virtù, appunto, di quegli spazi bianchi, che, isolando quartine e terzine, aiutavano a trovare all’interno di ciascuna, con certosina polizia, i mots-sésame delle rime; e, partendo da queste, a risarcire in qualche modo i misteriosi alessandrini perduti. Fu come lavorare champollionamente su una lingua scomparsa, spiandone ogni volta il riaffiorare con gli stessi occhi del fotografo che interroga i negativi nella bacinella. Ne ricavai emozioni vicarie di non spregevole natura, ma altresì una finale mortificazione quando, anni dopo, potei confrontare con l’originale i miei maleducati restauri.

«Vent’anni più tardi altra storia: vittima d’un marasma nervoso, non so come scoprii che m’aiutava a guarirne la medicina del tradurre. Così m’applicai a volgere, stavolta dalla lingua sua nella mia, il mio solito poeta. Scelsi ereticamente il criterio isometrico, non solo perché convinto che lo consigliassero le categoriche scansioni dell’originale, ma perché m’ero accorto, nelle mie ore bianche, che la ricerca, prima, e la scoperta, poi, delle possibili rime italiane, serviva miracolosamente a chiamare il sospirato sollievo del sonno: come se l’erezione di quei pilastri e cardini avesse la virtù – molto meglio che la conta di pecore cara agli empirici – di sbarrare le mie fragili porte mentali alle tentazioni della notte. Così nacque questa mia versione: un po’ come placebo, un po’ per una fiducia nella prosodia come architettura simbolica e salvifica dell’universo. E sarebbero deboli scuse, ma vi si aggiunge, riguardo al tradurre i classici, una mia ingenua e inveterata persuasione: che taluno d’essi, e Baudelaire fra questi, non sopporti d’essere sbucciato della propria solenne armatura senza perdere più di quanto altrimenti guadagnerebbe. E, che una tale disobbedienza, apparentemente esteriore, non solo stravolga subito l’aura storica dell’opera, ma costituisca la prima istigazione ad aggiungerle i nostri vizi. Delitto che so di non avere evitato, ma in cui sarei forse incorso più gravemente, se mi fossi concessa più libertà.

«Null’altro da dichiarare». (Le ragioni del traduttore, in Ch. Baudelaire, I fiori del male, traduzione di Gesualdo Bufaliano, Milano 1983, pp. XXX-XXXI).

C’è da aggiungere che, ritornando all’aspetto tecnico del tradurre, la conoscenza del “quadro interpretativo” esistente, specifico e generale, cioè specifico per quanto riguarda quel testo e quell’autore, generale per quanto riguarda quella tendenza cui l’autore si appartiene, questa conoscenza è indispensabile.

A questo proposito scrive Giuseppe Antonio Brunelli: «Ogni traduzione, in quanto interpretazione e ricostituzione di un testo letterario, comprende un’operazione critica ed una operazione stilistica. Quest’ultima, a sua volta, comporta una esercitazione stilistica ed una poetica invenzione. Di qui la necessità di rifarsi, appena è possibile, al testo originale e irripetibile, e l’utilità di raffrontare e studiare traduzioni diverse come altrettanti momenti di una più ricca lettura critica e come altrettante possibilità di discutere circa l’interpretazione del testo originale». (Omaggio a Charles Baudelaire, Messina 1971, p. 7).

Il che mi sembra una chiara conclusione del discorso sul tradurre, e una buona risposta alla domanda: è possibile tradurre? L’operazione del traduttore diventa, oltre che elaborazione di un processo tecnico-linguistico, fatto creativo e, in quanto tale, fatto critico. L’impatto specifico con la lingua italiana fa passare in secondo piano perfino la conoscenza della lingua straniera, che com’è giusto che sia, deve esserci, perché nel caso di una sua difettosità, il risultato prende altre strade. Non occorre ricordare qui il lavoro di Vincenzo Monti sull’Iliade e il sarcasmo di Foscolo. Il primo resta una grandissima opera d’arte, il secondo uno schizzo di veleno da combriccola di letterati.

In questo senso, lo stesso Brunelli continua: «… operazione critica che della traduzione dovrebbe fare, più che un “supplemento”, il complemento e completamento della lettura del critico». (Ib., p. 8).

E qui il discorso si aprirebbe alla funzione sociale ed educativa dell’opera del traduttore, funzione che spesso sfugge nell’esame delle fortune dei singoli poeti, ma che esiste ed è possibile rintracciare. In ultima analisi, compito del traduttore, come quello del poeta, è quello di «promuovere la sensibilità dei propri contemporanei e dar forma al loro mondo emotivo». (C. Middleton, “Perché tradurre una poesia?”, in op. cit., p. 134).

 


[1973]

* * * * *

Abele e Caino



I.
 
Razza d’Abele, eccoti il pane, il vino,
il sonno: Dio ti sorride indulgente.
 
Striscia nel fango, razza di Caino,
vivici e muorici miseramente.
 
Razza d’Abele, l’incenso che offri
alle nari degli angeli si sposa.
 
O razza di Caino, quel che soffri
non avrà dunque mai fine né posa?
 
Razza d’Abele, guarda: ti fiorisce
ogni seme, le mandrie sono sane.
 
O razza di Caino, le tue viscere
urlano fame, come un vecchio cane.
 
Razza d’Abele, scàldati che annotta,
scàldati il ventre all’avito camino.
 
Tu, povero sciacallo, in una grotta
trema di freddo, razza di Caino!
 
Razza d’Abele, cresci, fa’ all’amore:
anche il tuo oro prolifica, vedi!
 
Tu, razza di Caino, ardente cuore,
guai se a voglie sì vaste ti concedi!
 
Razza d’Abele, al par che nelle scorze
la cimice, tu pascoli e rifigli!
 
O razza di Caino, con le forze
ultime dietro trascìnati i figli!
 
II.
 
Ah, farai grassa con la tua carogna,
razza d’Abele, la fumante terra!
 
O razza di Caino, ti bisogna
lottare ancora a compier la tua guerra.
 
Razza d’Abele, onta su te: la spada
non sa più con lo spiedo contrastare!
 
O razza di Caino, fatti strada
al cielo e fanne Dio precipitare!

Ancora sulla fortuna di Baudelaire in Italia

Le influenze letterarie francesi in Italia nella seconda metà dell’Ottocento, nel loro insieme, hanno ricevuto soltanto una sistemazione molto approssimativa. (Fondamentale, fino a un certo punto, il lavoro di Carlo Pellegrini, Relazioni tra la letteratura italiana e la letteratura francese, nella miscellanea Letterature comparate, Milano 1948, pp. 57-63). Molti elementi dovrebbero esaminarsi per approfondire questo genere di ricerche. Guy Tosi scrive: «Uno studio completo della questione dovrebbe dapprima tenere conto di tutti i fattori che hanno potuto, tra il 1870 e il 1900, facilitare o ostacolare le influenze letterarie francesi in Italia: strutture e circostanze politiche, sociali, religiose, culturali: il ruolo della stampa, delle edizioni, delle biblioteche, dei librai, della scuola e dell’università, delle esposizioni, dei viaggiatori, in breve, di tutto ciò che riguarda la sociologia della letteratura. Non sembra che si sia spesso fatto attenzione al problema sotto tutti i suoi aspetti». (“Aperçus sur les influences littéraires françaises en Italie dans le dernier tiers du XIXe siècle”, op. cit., p. 165).

Il quadro generale ha, evidentemente, precise conseguenze con lo stato delle ricerche specifiche sulla fortuna di Baudelaire in Italia. Lo stesso autore sopra citato scrive che: «La curva della fortuna di Baudelaire resta da tracciare». (Ib., p. 170).

Un suggerimento specifico ci viene dalla ricerca condotta da Giuseppe Bernardelli, il quale, pur riconoscendo la grande validità di lavori dall’ampio respiro, come quello di Mario Praz, afferma un’altra necessità, quella di evitare che la ricerca a questo livello diventi evasiva – ampliandosi enormemente – nel tentativo di coinvolgere tutta la sensibilità e la tematica romantica, mentre Baudelaire, in definitiva, rappresenta solo una parte di quest’ampio svolgimento. E, precisamente scrive: «Più pertinente e puntuale sarebbe un’analisi che fosse condotta, oltre che a livello tematico, a livello linguistico e stilistico. Una storia di stilemi, in altre parole. Baudelaire crea, alla metà del secolo, un linguaggio lirico, una “maniera”, rassodando, in opera di organicità e densità eccezionali, la pasta spesso flaccida della lirica romantica». (Baudelaire nelle traduzioni italiane, op. cit., p. 354).

La qual proposta, per noi che dovremo occuparci della fortuna di Baudelaire, in funzione delle traduzioni di un suo singolo componimento poetico, ci pare un’ottima guida da seguire.

La prima influenza significativa di Baudelaire in Italia si ha intorno al 1860. Emilio Praga, che aveva subito l’influenza di Victor Hugo, di Alfred de Musset e di Heinrich Heine, è il tramite di questo ingresso nel quadro letterario della Lombardia. In alcune poesie di Praga stesso la presenza stilistica di Baudelaire si traduce «in innaturalezze e irragionevolezze, cercate ad effetto» (G. Mazzoni, L’Ottocento, vol. II, op. cit., p. 1374), oltre che in vera e propria imitazione di metri e di ritornelli. La premessa è quella di “cantare il vero”. Ma ecco il Preludio a Penombre:

«Noi siamo i figli dei padri ammalati:
aquile al tempo di mutar le piume,
svolazziam muti, attoniti, affamati
sull’agonia di un nume.
 
Nebbia remota è lo splendor dell’arca,
e già all’idolo d’or torna l’umano,
e dal vertice sacro il patriarca
s’attende invano;
 
s’attende invano dalla musa bianca
che abitò venti secoli il Calvario,
e invan l’esausta vergine s’abbranca
ai lembi del Sudario...
 
Casto poeta che l’Italia adora,
vegliardo in sante visioni assorto,
tu puoi morir!... Degli antecristi è l’ora!
Cristo è rimorto!
 
O nemico lettor, canto la Noia,
l’eredità del dubbio e dell’ignoto,
il tuo re, il tuo pontefice, il tuo boia,
il tuo cielo, e il tuo loto!
Canto litane di martire e d’empio;
canto gli amori dei sette peccati
che mi stanno nel cor, come in un tempio,
inginocchiati.
 
Canto le ebbrezze dei bagni d’azzurro,
e l’Ideale che annega nel fango...
Non irrider, fratello, al mio sussurro,
se qualche volta piango:
 
giacché più del mio pallido demone,
odio il minio e la maschera al pensiero,
giacché canto una misera canzone,
ma canto il vero!». (Milano 1864, p. 7).

Un interessato uso di Praga ai fini nazionalistici fece il fascismo. (Cfr., C. Linati, “Ritratto romantico”, in “Primato”, I, 6, 1940, pp. 19-22).

Altro personaggio che fissa il contatto del grande poeta francese con la “nuova Italia” è Iginio (Ugo) Tarchetti, autore di alcuni romanzi fra cui uno antimilitarista (Una nobile follia, Milano 1869) e alcune raccolte di poesie fra cui Disjecta (Bologna 1879) da cui è tratta la seguente dove l’influenza di Baudelaire è palese:

«Quando bacio il tuo labbro profumato,
Cara fanciulla, non posso obbliare
Che un bianco teschio v’è sotto celato.
 
Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso,
Obbliar non poss’io, cara fanciulla,
Che vi è sotto uno scheletro nascosto.
 
E nell’orrenda visione assorto,
Dovunque o tocchi o baci, o la man posi...
Sento sporger le fredde ossa di morto!».

(“Memento”, XII).

Con Giovanni Camerana la presenza francese si sposta verso il Piemonte. Magistrato e critico d’arte, acquerellista e disegnatore, morto suicida, questo poeta venne considerato dai contemporanei e amici di fede stilistica, come l’ultimo romantico. Ecco una sua poesia tratta dal volume Versi, Torino 1907, pubblicato postumo a cura di Leonardo Bistolfi.

«Io sarei là, in ginocchio, a contemplarla
intensamente, ardentemente, ed ella
guardandomi col suo sguardo di fata,
sguardo che parla;
nuda, coi capelli sparsi, e abbandonata
con posa di nereide
sui rossi drappi di velluto e bella
come una Dea, nella calma profonda
della sua stanza e tra vaganti effluvii
delle altere magnolie e delle viole
mi direbbe parole
soavi come un estivo crepuscolo,
perfide come l’onda». (9 maggio, 1871)

Non mancarono altri verseggiatori, come Alessandro Arnaboldi (vicino al gruppo milanese) che pur trattando di tematiche quanto mai varie (ad esempio, le banche popolari o il traforo delle Alpi) affrontò argomenti specifici della poetica romantica francese, in particolare nel poemetto “La suonata del Diavolo” (Versi, Milano 1872). Su questo autore cfr. P. Nardi, Scapigliatura, op. cit., p. 229.

L’imitazione in senso stretto, iniziatasi intorno al 1860 – come abbiamo visto – raggiunge il suo periodo di massima intensità dal 1875 al 1885. Bernardelli, esaminando la rivista di Torino “L’Arte in Italia”, ha trovato nel maggio 1870 (anno II, dispensa V, p. 80) alcuni commenti di Camerana posti a descrizione di tre tavole (collocate in appendice) riguardanti una litografia di Pio Taglieri. Ebbene, secondo il giudizio del suddetto critico, il commento è una imitazione non solo contenutistica ma anche stilistica della poesia di Baudelaire “Reversibilità”, di già citata qui sopra. Nel numero del gennaio 1870, un componimento dal titolo “Sul cretoso declivio a piombo sfolgora”, è una imitazione metrica della poesia “La musica” di Baudelaire. Ora, Bernardelli non indica che i versi in questione sono una quartina:

«Sul cretoso declivio a piombo sfolgora
il sol meridiano;
profilo giallo che spicca in sul diafano
orizzonte lontano»

e che sono di Camerana. Riguardo il parallelismo a me sembra opinabile, come il lettore può giudicare da sé:

“La musica”



Spesso è un mare, la musica, che mi prende ogni senso!
A un bianco astro fedele,
sotto un tetto di brume o nell’etere immenso,
io disciolgo le vele.
 
Gonfi come una tela i polmoni di vento,
varco su creste d’onde,
e col petto in avanti sui vortici m’avvento
che il buio mi nasconde.
D’un veliero in travaglio la passione mi vibra
in ogni intima fibra;
danzo col vento amico o col pazzo ciclone
 
sull’infinito gorgo.
Altre volte bonaccia, grande specchio ove scorgo
la mia disperazione!

Ai primi del 1872 Carducci prende contatto, per la prima volta, con la poesia di Baudelaire, come abbiamo visto, con la mediazione di Giuseppe Charini. Era quest’ultimo un vero e proprio benemerito delle fatiche della traduzione. A Livorno avrebbe dato inizio, proprio nella stessa estate del 1872 (insieme a Ottaviano Targioni Tozzetti) a un giornale intitolato “Il Mare”, in cui sarebbero apparse traduzioni di Platen, Goethe, Heine, Hugo e tanti altri. In questi primi mesi del 1872, Chiarini era vicino a Carducci per avere fatto parte, con quest’ultimo, del cosiddetto “gruppo degli amici pedanti”, comprendente oltre ai due e al ricordato Targioni Tozzetti, anche Giuseppe Torquato Gargani.

L’impressione di Carducci fu notevole. In una lettera, sempre a Chiarini, del 9 aprile, scritta sotto l’influenza della prima lettura, afferma: «Ieri ebbi il Baudelaire per non sbagliarmi, ordinai tutte le opere, comprese anche le traduzioni del Poe. Ho letto pochissimo, ma parmi, a modo suo, artista finissimo e padrone nell’uso de’ suoi strani ghirigori e delle profonde incisioni: è singolare, e a molti passi, bello, proprio bello». (Citato da P. P. Trompeo, Carducci e d’Annunzio. Saggi e postille, Roma 1942, p. 33).

Veniamo adesso alla durissima polemica che Carducci condusse in difesa del proprio “Satana”.

A te, dell’essere
principio immenso
materia e spirito,
ragione e senso;
mentre ne calici
il vin scintilla
sì come l’anima
ne la pupilla;
mentre sorridono
la terra e il sole
e si ricambiano
d’amor parole,
e corre un fremito
d’imene arcano
da’ monti e palpita
fecondo il piano;
a te disfrenasi
il verso ardito,
te invoco, o Satana,
re del convito.
Via l’aspersorio,
prete, e il tuo metro!
no, prete, Satana
non torna in dietro!
Vedi: la ruggine
rode a Michele
il brando mistico;
ed il fedele!
spennato arcangelo
cade nel vano.
Ghiacciato è il fulmine
a Geova in mano.
Meteore pallide,
pianeti spenti,
piovono gli angeli
dai firmamenti.
Nella materia
Che mai non dorme,
re dei fenomeni,
re delle forme,
sol vive Satana.
Ei tien l’impero
nel lampo tremulo
d’un occhio nero,
o ver che languido
sfugga e resista,
od acre ed umido
provochi, insista.
Brilla de’ grappoli
nel lieto sangue,
per cui la rapida
gioia non langue,
che la fuggevole
vita ristora,
che il dolor proroga,
che amor ne incuora.
Tu spiri, o Satana,
nel verso mio,
se dal sen rompemi
sfidando il dio
de’ rei pontefici,
de’ re cruenti;
e come fulmine
scuoti le menti.
A te, Agramainio
Adone, Astarte,
e marmi vissero
e tele e carte,
quando le ioniche
aure serene
beò la Venere
anadiomène.
A te del Libano
fremean le piante,
dell’alma Cipride
risorto amante:
a te ferveano
le danze e i cori;
a te i virginei
candidi amori,
tra le odorifere
palme d’Idume,
dove biancheggiano
le ciprie spume.
Che val se barbaro
il nazareno
furor dell’agapi
dal rito osceno
con sacra fiaccola
i templi l’arse
e i segni argolici
a terra sparse?
Te accolse profugo
tra gli dei lari
la plebe memore
nei casolari.
Quindi un femineo
sen palpitante
empiendo, fervido
nume ed amante,
la Strega pallida
d’eterna cura
volgi a soccorrere
l’egra natura.
Tu all’occhio immobile
dell’alchimista,
tu dell’indocile
mago alla vista,
schiudi del torpido
chiostro i cancelli,
riveli i fulgidi
cieli novelli.
Alla Tebaide,
te nelle cose
fuggendo, il monaco
triste s’ascose.
O dal tuo tramite
alma divisa,
benigno è Satana;
ecco Eloisa.
In van ti maceri
nell’aspro sacco:
il verso ei mormora
di Maro e Flacco
tra la davidica
nenia ed il pianto;
e, forme delfiche,
a te da canto,
rosee nell’orrida
compagnia nera,
mena Licoride,
mena Glicera.
Ma d’altre imagini
d’età più bella
talor si popola
l’insonne cella,
Ei, dalle pagine
di Livio, ardenti
tribuni, consoli,
turbe frementi
sveglia; e fantastico
d’italo orgoglio
te spinge, o monaco,
su il Campidoglio,
E voi, che il rapido
rogo non strusse,
voci fatidiche,
Wiclef ed Husse,
all’aura il vigile
grido mandate:
s’innova il secolo,
piena è l’etate,
E già già tremano
mitre e corone:
dal chiostro brontola
la ribellione,
e pugna e predica
sotto la stola
di fra’ Girolamo
Savonarola.
Gittò la tonaca
Martin Lutero:
gitta i tuoi vincoli,
uman pensiero,
e splendi e folgora
di fiamme cinto;
materia, inalzati;
Satana ha vinto.
Un bello e orribile
mostro si sferra,
corre gli oceani,
corre la terra:
corusco e fumido
come i vulcani,
i monti supera,
divora i piani,
sorvola i baratri;
poi si nasconde
per antri incogniti,
per vie profonde;
ed esce; e indomito
di lido in lido
come di turbine
manda il suo grido,
come di turbine
l’alito spande:
ei passa, o popoli,
Satana il grande:
passa benefico
di loco in loco
su l’infrenabile
carro del foco.

«Polemiche Sataniche

 

«Il giornale di Bologna – “Il Popolo” – ripubblicava l’8 dicembre 1869 l’“Inno a Satana”; e il giorno di poi dava luogo alla seguente lettera di Quirico Filopanti:

«Caro Enotrio,

«nel suo insieme il vostro componimento non è poesia; è un’orgia intellettuale. Esso ha, fra gli altri, un difetto per me capitale: quello di essere antidemocratico.

«È antidemocratico nella forma, conciossiachè, mentre la fraseologia del medesimo è appena intelligibile a quelli che hanno avuto una completa educazione di collegio, il popolo non ne comprenderà una decima parte.

«E ancora più antidemocratico nella sostanza, poiché si tradisce, non si giova, il popolo, divinizzando il principio del male.

«Petruccelli della Gattina ha fatto un romanzo il cui eroe è Giuda Iscariota. Voi con un ingegno maggiore di quello del Petruccelli, siete caduto in una aberrazione anche più colossale. Se diceste apertamente alle moltitudini che Giuda e Satana sono esseri immaginari, trovereste migliaia di persone sensate che vi approverebbero: ma allorché, pur credendoli imaginari, fingete di prenderli per personaggi reali, siate coerente alla vostra finzione, e date a quei due odiati nomi il senso che vi attribuiscono le genti; cioè prendendo l’uno per la personificazione del più vile ed abominevole tradimento, e l’altro come la personificazione di tutto ciò che osteggia la virtù ed il benessere degli uomini. Forse vi siete inteso di inneggiare alla Natura, all’Universo, al Gran tutto, a Pan, cose o più veramente cosa immensa, buona ed augusta. Ma perchè chiamarla col bruttissimo nome di Satana?

«Ogni scrittore, più specialmente il poeta, dee prendere la lingua tal quale è, e non fabbricarsene una a ritroso dell’uso e del senso comune. Siete in facoltà, quando parlate nella vostra testa tra voi e voi, di chiamar fuoco ciò che noi chiamiamo acqua, e vice versa; ma questo non vi toglierà di essere fraintesi o scherniti, se vi avventurate a dire ad altrui che il fuoco bagna e l’acqua asciuga. Così, quando esclamate

«Salute, o Satana,

O ribellione,

«voi credete senza dubbio di fare uno splendido elogio del vostro protetto; invece rendete un segnalato servigio al sedicente Concilio ecumenico, ed ai nemici di tutte le rivoluzioni, anche giuste e necessarie.

«M’aspetto da voi una spiritosa risposta, alla quale io non replicherò, checché diciate; imperciocchè desidero rimanervi amico, a patto soltanto che non pretendiate che io lo sia egualmente di Satanasso.

«Voglio rimaner fedele ai due grandi principii che ebbi già la fortuna di proclamare in Campidoglio, e che spero di poter proclamare di nuovo: Dio e Popolo.

 

«Nel numero 10 dicembre de “Il Popolo” usciva questa risposta:

«A Quirico Filopanti.

«Caro e onorando amico.

«L’“Inno a Satana” è lirico almeno in questo, che è l’espressione subitanea, il getto, direi, di sentimenti tutt’affatto individuali, come mi ruppe dal cuore, proprio dal cuore, in una notte di settembre del 1863.

«L’anima mia, dopo anni parecchi di ricerche e di dubbi e di esperimenti penosi, aveva alla fine trovato il suo verbo; e Verbum caro factum est: ella gittò allegra e superba all’aria il suo epinicio, il suo eureka. Avrà abbracciato dell’ombre, può darsi: avrà, invece del grido dell’aquila di Pindaro, fatto il verso del barbagianni, può darsi più che probabilmente anche questo. Ma certamente io non intesi fare cosa di parte; non un evangelio né un catechismo né un salmo per chi che sia. Tanto era lontano dal pensiero della propaganda (la quale io lascio di gran cuore ai teologi e ai filosofi sistematici), che stampai l’inno sol due anni appresso, e in poche copie, che regalai a pochi amici o conoscenti. Me lo ristamparono in giornali democratici, massonici, mezzi e mezzi, a Palermo, a Firenze, a Spoleto, senza farmene né pure un cenno avanti. Almeno l’amico Bordoni del “Popolo” me ne ha chiesto il permesso; doveva io dirgli di no? o perché? Dunque, onorato amico, questo riman fermo, che l’inno è roba tutta mia, sangue del mio sangue, anima dell’anima mia, e non un manifesto politico d’occasione. Errò per via di bene, ma errò il “Popolo”, quando scrisse che Bologna avea fatta la sua protesta contro il Concilio mandando al Comune l’autore dell’Inno a Satana. Troppo onore per un rimatore: novantanove su cento di quelli che votarono per il Carducci sapevano molto di Enotrio Romano e di Satana!

«Del resto, tu non potevi non intendere a qual nume inneggiassi io. Tu l’hai detto: alla Natura. E alla Ragione: aggiunge il redattore del “Popolo”, sì, ho inneggiato a queste due divinità dell’anima mia, dell’anima tua e di tutte le anime generose e buone: a queste due divinità che il solitario e macerante e incivile ascetismo abomina sotto il nome di carne e di mondo, che la teocrazia scomunica sotto il nome di Satana.

«Satana per gli ascetici è la bellezza, l’amore, il benessere, la felicità. Quella povera monacella desidera un cesto d’indivia? in quel cesto v’è Satana. Quel frate si compiace d’un uccellino che canta nella sua cella solinga? in quel canto v’è Satana. Ecco, nella caricatura ridicola della leggenda, quel feroce ascetismo che rinnegò la natura, la famiglia, la repubblica, l’arte, la scienza, il genere umano; che soppresse, a profitto della vita futura, la vita presente; che, per amore dell’anima, flagellò, scorticò, abbrustolì, agghiadò il corpo.

«Per i teocratici poi, mette conto ripeterlo? Satana è il pensiero che vola, Satana è la scienza che esperimenta, Satana il cuore che avvampa, Satana la fronte su cui è scritto Non mi abbasso. Tutto ciò è satanico. Sataniche le rivoluzioni europee per uscire dal medio evo, che è il paradiso terrestre di quella gente; i comuni italiani, con Arnaldo, con Cola, col Burlamacchi; la riforma germanica che predica e scrive libertà; l’Olanda che la libertà incarna nel fatto; l’Inghilterra che la rivendica e la vendica; la Francia che l’allarga a tutti gli ordini, a tutti i popoli, e ne fa legge dell’età nuove. Tutto ciò è satanico; colla libertà di coscienza e di culto, colla libertà di stampa, col suffragio universale; s’intende.

«E Satana sia. Dice bene il Bordoni e diceva bene David, se non m’inganno: “Nelle loro maledizioni ci esaltiamo, e ci gloriamo nei loro vituperi”. Noi siamo satanici.

«E perchè no? Satana non è egli un tipo per eccellenza artistico? Pigliamolo nel Testamento vecchio. Egli è il primo ribelle contro il dispotismo accentratore e unitario di Geova nel deserto della creazione. Egli è vinto: ma l’arcangelo Michele, a cui l’ascetismo vestì dal medio evo in poi un magazzino d’armi che non finisce mai, tant’è, m’ha l’aria d’un gendarme; e io sto per il vinto.

«Sto per il vinto; e, senza volerlo, inchinava un po’ per il vinto anche l’apologista del supplizio del re d’Inghilterra, anche il segretario del Cromwell, anche Giovanni Milton. Come terribile l’ha egli dipinto, come maestosamente aggrondato! Quando leggo nel Paradiso perduto il concilio di Satana, parmi che da quei versi mi venti su ‘l viso l’aura tempestosa del Lungo Parlamento che condannò Carlo primo, e l’anima mia ritorna alle notti sublimi della Convenzione francese.

«Sto per il vinto, e per il tentatore. Che cosa disse egli infatti, questo tentator generoso, alla compagna dell’uomo? Le accennava nell’orto di Geova, in quell’orto chiuso e uniforme, le accennava l’albero mistico che portava il pomo della scienza e della vita, del bene e del male; e – Mangiate, le disse, di questo; e sarete siccome iddii. – E che cosa altro, di grazia, dissero agli uomini Pitagora, Anassagora, Socrate, Platone, Aristotele? Che cosa altro dissero loro il Galileo, il Newton, il Keplero, il Descartes, il Kant?

«Di questo ribelle magnanimo, di questo tentator generoso, Moisè, per ossequio alla razza sacerdotale cui apparteneva, Moisè, troppo memore della servitù dell’Egitto ove i pantani del Nilo producevano sacerdoti e serpenti, Moisè, dice, ne fece un rettile. Tu sai, onorando amico, se il cattolicismo ha caricato poi di sassi, di fango e di onte questo povero rettile. Rettile? che dico? Ne fece nelle sue ebre fantasmagorie del medio evo, un mostro, con corna e coda e con tale un corredo di deformità che andava crescendo grottescamente nei secoli. Domandane a Dante e al Tasso.

«In questo caso, io oppresso dalla società fin da’ primi anni, mi dichiarai per il ribelle alla monarchia solitaria di Geova, per il tentatore degli schiavi di Geova alla libertà e alla scienza, per l’oppresso dalla gendarmeria di Geova. E, se Ary Scheffer lo aveva tratteggiato sublime di malinconia e involto di fosco splendore, io l’ho cantato raggiante e tonante e folgorante di vita su l’universo. Lo Scheffer lo figurava quando il misticismo pareva voler collegarsi alla libertà: io lo canto, avendo in cospetto il regno della ragione. Del resto tu, mio onorando amico, grida pure il tuo vecchio e glorioso grido, Dio e popolo. Con cotesto grido combatterono per la libertà e per l’onore dell’Italia Roma e Venezia; e io mi scopro il capo dinanzi agli uomini che lo profferiscono, dinanzi agli uomini che contano omai quarant’anni di sacrifizi e di abnegazioni non ascetiche ma romane.

«Solo una cosa m’è dispiaciuta nella tua lettera: quel “M’aspetto da voi una spiritosa risposta alla quale io non replicherò, checché diciate”. È vero: nella mia faretra, per dirlo alla pindarica, ormai che sono in vena, io serbo delle frecce, alcune acute come pungiglioni, altre anche avvelenate. Ma queste le riserbo per certi paladini che m’intendo io, quando non me ne ritenga il disprezzo. Tu e dall’ingegno e dalla virtù e dalla vita incontaminata, spesa tutta per la libertà e per il bene hai autorità di ammonirmi e di consigliarmi: per te io non ho che ghirlande di fiori, dei fiori nati alle aure più pure dei liberi monti.

«Addio. Credi che a immenso intervallo per l’ingegno, ma a non piccolo intervallo per le idee, io sono lungi dalla poesia satanica dello Shelley. Io non sono scettico. Io amo e credo. E ti stringo la mano onorata

«Giosué Carducci
«(Enotrio Romano).

«Nota: Riprodussi questi articoletti di polemica senza nessuna altra variazione che fosse di parole. Ma, circa a quel che dissi dello Shelley su la fine della lettera al Filopanti, Giuseppe Chiarini, il quale si è compiaciuto di dare un’occhiata alle stampe di questo volume, mi avverte: “Il giudizio che con queste parole tu dai dello Shelley è falsissimo. Lo Shelley non è uno scettico: lo Shelley ama e crede più di te; lo Shelley è un visionario fantastico, che vuole, demolito Iddio, rifare secondo natura e ragione tutto l’edifizio sociale: è un prosecutore idealista della rivoluzione francese, un sognatore di giustizia, d’amore, di virtù. Anche a lui è accaduto quel che a Satana: la leggenda lo ha trasformato. Aggiungo un’altra cosa: diversissimo nella forma, il tuo inno nei concetti ha molto dello schelleyano”. Io errai per ignoranza, e non potrei far migliore ammenda che riferire tali e quali le parole dell’amico, confessando il torto mio dell’aver parlato di cose che non conoscevo bene.

 

 

«Nei numeri 27 e 28 dicembre 1869 dello stesso giornale “Il Popolo” usciva quest’altra risposta:

 

«Al critico del Diritto

«Il critico del Diritto, il quale mi viene all’incontro con aria tra il lottatore e il definitore, tra lo spadaccino e il cattedrante, sotto la forma d’una sbilenca gutturale dell’alfabeto greco, la K, comincia dall’affermare – Satana è la ribellione. Ecco il senso dell’inno di Enotrio Romano.

«Veramente, non tutto. A me pareva, e pare, di aver inneggiato da principio la natura nel senso cosmico; mi pareva, e pare, di aver proseguito inneggiando la incarnazione più bella ed estetica della natura nell’umanesimo divino della Grecia; mi pareva, e pare, di aver finalmente cantato la natura sempre e l’umanità ribelli necessariamente nei tempi cristiani all’oppressura del principio di autorità dogmatico congiunto al feudale e dinastico. Mi pareva in somma di avere adombrato, come in una poesia lirica potevasi, la storia del naturalismo, panteistico, politeistico e artistico, storico, scientifico, sociale. Chieggo perdono che tutti questi epiteti altosonanti, che non son del mio gusto; ma bisogna pure intendersi, e in fretta.

«Ma Kappa del Diritto non vuole del concetto mio afferrare che una parte; della mia piccola epopea non guarda che a un episodio, a due versi; e dice – Ecco tutto. Il Satana di Enotrio Romano è la ribellione.

«Sopra che, Kappa mi fa una lezione; come qualmente ribelli sono anche i briganti di Calabria, e non v’è ribellione la quale ragioni e discuta; e mi domanda se io ho trovato la linea che separa l’esercito degli insorti in nome d’un’idea pura da quel dei ribelli per un pregiudizio, e se non mi pare che la superstizione stessa sia santa agli occhi della vittima che per essa s’immola. Vero è ch’egli mi concede benignamente che il brigante di Calabria non sia il mio Satana. Sfido io: con tutti quelli agnusdei a dosso.

«La lezione è, del resto, serenamente ingenua. Ma come? non avete voi, signor mio, presentito la risposta? Sì, io posso ammirare, se volete, la fede cupa e feroce de’ vandeani, e il lor precipitare, uomini, donne e fanciulli, dalle ceneri dei loro villaggi, per le campagne fumanti, su le legioni dei turchini; e ciò per la causa di un dio che li lascia scannare e abbrustolire, e di re che lesinano a Londra il quattrino e sbordellano a Venezia. Li posso ammirare: ma sto coi turchini, e faccio fuoco sui vandeani. Così vuol Satana, la forza vindice della ragione.

«Conosci tu, o poeta, una ribellione che ragioni e discuta?

«Ne conosci tu una, o critico, che non ragioni? Quando si afferma il no si è analizzato il sì, Quando uno che giace si solleva contro un altro che gli sta sopra, ha fatto almen tre giudizi, su lo stato suo, su la condizione di chi gli è sopra, su le relazioni fra quello stato e questa condizione; un sillogismo perfetto, insomma. I bruti non si ribellano: e né pure i filosofi alessandrini. Ciò pe ‘l ragionamento.

«Quanto al discutere, le ribellioni veramente non discutono esse o discutono con argomenti loro speciali; ma per lo più portano le conclusioni o avanzano le premesse. Conoscete voi un ergo più logico del 10 agosto 1792 e che meglio conchiuda l’antecedente del 14 luglio 1789? E quale argomentazione contro le Speranze d’Italia di Cesare Balbo e le teoriche dei moderati del quarantasette ha vinto in perspicuità le cinque giornate di Milano? E qual premessa v’è stata al mondo più vasta e terribile delle giornate di giugno 1818?

«Certamente le ribellioni non compongono trattati, ma coi trattati caricano i fucili. Qualche palla che percosse la Bastiglia dove esser calcata con uno straccio di pagine del Contratto Sociale. E nella fucilata che risonò per le eleganti scalee delle Tuilleries vi era forse qualche sprazzo dell’anima tua, o Diderot.

«Ma, oppone Kappa, lo studio della vita e dell’universo ci mostra: che non v’è una forza ribelle soltanto; che anzi vi sono due forze, l’azione e la reazione; che il mondo appare dominato sovranamente dalla legge della contraddizione; che il fatto, non isolato e circoscritto, ma indefinito; che il fenomeno non termina in se medesimo, ma si lega a un altro fenomeno; che tutto in somma nell’Universo relativo, che tutto s’incatena, si limiti, si prolunga.

«Bene. Sapevamcelo.

«Che farà dunque il Satana della ribellione in questo immenso e complicato universo dei fatti e delle idee? – domanda Kappa.

«Al meno meno farà quel che il Satana della leggenda, quando a forza di tentazioni novissime e sottilissime aveva indotto un povero anacoreta nel peccato mortale di tenersi per santo e di far dei miracoli. Il Satana della leggenda finiva la festa con un solenne scroscio di risa infernali. Il Satana della ribellione riderà di volo (ha altro da fare) del vedere certe brave persone perdere il tempo a mettere assieme certe loro locuzioni e creder su’l serio di far dei pensieri, del vederle nelle regioni vaporose delle formole andare cercando ostacoli di nebbia da mettergli fra i piedi.

«Lasciamo le formole, proprietà troppo individuale a un tempo e troppo poco determinata; e veniamo ai fatti che sono in possesso di tutti.

«Ma come? Perchè senz’Anito non s’intende Socrate e senza il Gessler non v’è Guglielmo Tell, volete voi ch’io non protesti col pensiero e col fatto contro i preti inquisitori e contro i tiranni feudali! Perchè alla gran rivoluzione dei grandi giacobini dove succederà, grazie all’impero, la piccola reazion dei piccoletti congregazionisti, volete voi ch’io riconosca la Ristorazione? Perchè senza la pena di morte non avremmo avuto il martirio di Socrate, di Cristo, di Giovanni Brown, mi vorreste consacrare il carnefice? Eh via! le son parole.

«Ma son parole con le quali da certa gente che vuole i suoi comodi si sdrucciola comodamente all’adorazione del fatto compiuto, dalla necessità storica che si rivela col barbaglio dell’acciaio e dell’oro. Siete voi come da Cesari, cari signori? Allora voi col vostro dio officiate (perchè non potreste ammettere, in grazia dello statuto, un dio officiale, fatto compiuto?) approvate pure il buon successo e cantate il Tedeum a colpi di Stato. Noi ci volgiamo venerando alle prigioni e ai patiboli. Victrix causa diis placuit sed victa Catoni.

«Mi accorgo ora di essere acerbo anzi che no verso il mio critico, il quale in fondo ammette, come vedremo, dell’idea mia tanto che basta perché ci troviamo sur un punto d’accordo. Son dunque acerbo. Ma la colpa e tutta mia? E non vi è ella in Italia una certa critica, e specialmente quella che credesi nuova e reazionale, la quale abusa un po’ troppo del parlare per via di oracoli, la quale precede un po’ troppo co’ passi della sibilla incamminantesi al tripode?

«E il tripode è il più delle volte una cattedra di legno più o meno tarlato, più o meno verniciato; e gli oracoli sono edizioni ritoccate dei boccali di Montelupo; e la sibilla spira un odor di pedagogo da far raggrinzare il naso a tutti gli uomini di bon gusto; figuratevi a chi inneggia il Satana della ribellione, come dice Kappa!

«Il qual Kappa, per esempio, ha una maledetta aria di essersi voluto impancare fra Quirico Filopanti e me un po’ po’ con le intenzioni e tutto affatto con l’atteggiamento del Napoleone manzoniano:

«Ei fe’ silenzio, ed arbitro

Si assise in mezzo a lor.

«A proposito, perchè nomina egli il segretario dalla Costituente romana, il patriotta e lo scienziato onorando, con lo sproposito grammaticale il Quirico Filopanti? Vorrebbe ella esser cotesta una smorfia di dispetto barbaramente scimmieggiata dal gergo curiale? Kappa dunque, sedutosi su la sua cattedra in mezzo a noi par guardarci con un suo certo risolino, e – il Quirico, ei dice, è un povero di spirito che si scandalizza di nulla; e tu, o poeta (mi interpella, come sentite, assai democraticamente), e tu sei molto indietro d’idee. Noi abbiamo camminato di molto; e per ciò ora ci riposiamo osservando tutto, giudicando tutto, ricercando la legge dietro il fenomeno. Noi delle idee ne abbiamo a bizzeffe, e di sì fatte che se le mettessimo fuora! ... Ma ora è il tempo del divenire, ora si ponza, e di lotta non c’è bisogno. E per ciò le teniamo nella scatola dei fiammiferi.

«Da vero eh?

«Kappa, del resto, salvo la mutria del pedagogo, salvo il posare dell’uomo che ha i cocomeri in corpo, dev’essere una buona e brava persona. Egli fa del pedagogo, quando mi domanda se io con Satana voglio risuscitare l’assoluto condannato dalla scienza e dalla coscienza del nostro secolo, se io voglio con Satana opporre altare ad altare, dio a dio. Ma che vi pare, maestro? sono elleno cose queste da dirsi né men per ischerzo? Si posa come l’uomo de’ cocomeri, quando, sgranata una filza di noi che paion tanti paternostri d’un rosario, conchiude: “Come volete che ci appassioniamo per Geova e per Satana noi, che vediamo nell’uno e nell’altro due creazioni dello spirito umano?” To’, ce lo vedete soltanto voi? Oh il raro uomo selvatico da mostrarsi ne’ giorni di fiera!

«Ma poi Kappa si degna d’interpretarmi, e m’interpreta, in parte, da quel brav’uomo che è. “Il Satana del poeta (egli dice) ha avuto diversi nomi attraverso i secoli. Si è chiamato Socrate ecc... Si è chiamato Cristo ecc. Si è chiamato Galileo ecc... Dove un uomo combatte, soffre e muore per un’idea, per la giustizia, per la verità, ivi è una incarnazione di quella forza misteriosa che gli uni chiamarono Geova, gli altri Satana, ecc.”.

«Benissimo. Ma via quel Geova! Via il dio-re-prete della casta ieratica de’ semiti, il quale altro non fece a’ suoi bei giorni che inebriare di sangue e di furor militare, e d’egoismo, e d’odio al bello al vero all’umano, quel piccoletto ostinato e valoroso popolo degli ebrei! Via Geova! Non lo vogliamo! E anche su quella misteriosa forza avremmo che dire. Per noi essendo quella forza non altro che la ragione collettiva, come dicono, del genere umano, non ci vediamo misteri.

«Ma, stando così le cose, e il mio Satana essendo, per confessione dello stesso Kappa, da per tutto dove un uomo combatte soffre e muore per un’idea, per la giustizia, per la verità, perchè non comprende egli il Satana della ribellione nel mondo d’oggigiorno?

«“Il mondo (egli dice) fino a ieri fu un edificio che riposava sulla fede cieca dell’assoluto. Religione, politica, letteratura, tutto portava l’impronta di questo concetto. Non vi era allora dubbio nelle anime ...”. E sèguita affermando che oggi v’è il dubbio; che oggi non si sa qual sia il campo di Satana e quale il campo di Dio; che oggi tutto è relativo e mutevole, tutto è problema; che oggi nulla è, tutto diviene.

«No: io sono qualche cosa; e perché sono qualche cosa, vivo e combatto. No: io non voglio aspettare che il tutto divenga, con le mani in mano o sotto le ascelle o incrociate su ‘l petto, e guardandomi la punta del naso, come i solitari del monte Athos, o il bellico come gli ioghi. Io non sono né un iogo, né un pope, né un magister di filosofia.

«E poi chi vi ha detto che l’assoluto non impronta più la religione? O i nuovi misteri che van ripullulando a piè del gran tronco della chiesa cattolica? o il rifiorire del dogmatismo e del teologismo anglicano e luterano? che significa ciò?

«Chi vi ha detto che l’assoluto non impronta più la politica? O il primo articolo dello statuto? o il per la grazia di Dio? Non vogliamo illuderci: in quelle due cose (parole per voi altri) c’è pur tanto da accendere alla prima occasione propizia di una buona infornata di deputati clericali e d’un momento di resipiscienza religiosa, da accendere chi sa che bellezza di roghi qui in piazza san Domenico e costà in piazza santa Maria Novella, e bruciar teologicamente e costituzionalmente voi se non mettete giudizio, e me, che probabilmente non lo metterò.

«Per intanto voi avete costà in Firenze un ministro, un ministro proprio del Diritto, e il suo positivista segretario, che imposero l’obbligo della dottrina cristiana a tutte le scuole elementari. Per intanto voi avete costà in Firenze, e sempre nella veneranda badia del conte Ugo ove il ministero dell’istruzione risiede fra due chiese, voi avete degl’impiegati così detti superiori che ai filosofi hegeliani i quali vanno a render loro visita impongono il rispetto della religione cattolica. Per intanto voi avete costà in Firenze, e sempre nella veneranda badia, persone le quali nelle conferenze magistrali sonosi studiate di mandar persuasi i professori liceali di filosofia che nell’insegnamento filosofico il mistero almeno della trinità e quelli della incarnazione e della redenzione (e perché non anche gli altri?) bisognava pure ammetterli e sostenerli. Per intanto voi avete costà in Firenze la semi-officiale filosofia ortodossa del sig. Augusto Comte, la quale sotto forma di ristretti eleganti a pochi soldi vola svolazza e si volatilizza nei cervelli giovanili per le scuole italiane. Per intanto, voi morbidi scettici, voi razionalisti annacquati, e costà in Firenze e da per tutto, seguitate ad inchinarvi all’opera letteraria di Alessandro Manzoni, che (dicasi con rispetto all’ingegno dell’uomo, ma francamente e satanicamente) che rinfiancando il cattolicismo e promovendo il neoguelfismo ha tanto nociuto all’Italia. Ed è dolce cosa a vedere come cotesti uomini letterati che elessero la parte migliore, arrabattandosi intorno alla fama del vecchio illustre milanese, abbiano preso argomento dall’accettarne le teoriche su la lingua per fare lor coloniette di morale cattolica e di dolciume letterario in diverse contrade d’Italia: e dolce cosa a vedere una gioventù squarquoia e slombata agitarsi tutta in solluchero all’idea d’introdurre I Promessi Sposi nelle scuole e di proporli come unico e sommo esempio di prosa alla nazione. Oh Boccaccio, oh Machiavelli, primi razionalisti e realisti italiani! O scettici che andate in visibilio ai miracoli raccontati da fra’ Galdino quando va dalle commari alla cerca: o razionalisti che incurvate il capo alla benedizione di padre Cristoforo: Dio sia con voi. Voi avete bisogno d’un guanciale ove riposare l’animuccia trafelata. Ma cotesta non è via per cui si approdi a libertà. E intanto costa in Firenze ed altrove, ove la buona scuola lavora, avete mitriato nuovo poeta d’Italia il sig. Giacomo Zanella, che della scienza si fabbrica scale per l’assoluto e che facendo un inchino alla ragione battezza l’eleganza pagana di Virgilio e Catullo nelle pilette delle chiese di Maria. O buona e pietosa scuola, tu hai sollevato colle tue pure mani i pesciolini che fuor delle onde mistiche del Giordano boccheggiavano su le arene del dubbio e li hai restituiti nelle grandi acque dell’ideale del Manzoni e nelle chiare fresche e dolci acque del sig. Zanella: oh, buona e pietosa scuola!

«E in più spirabil aëre

Pietosa il trasportò!

«Ma intanto Kappa dice che l’assoluto non impronta più la letteratura; ed egli sta osservando il divenire del nulla.

«A questi ultimi giorni il re di Prussia, all’occasione che i ministri della sua confessione gli erano intorno per ragione di complimenti, rivolse loro la parola più seria del consueto, ed evangelizzò. Sì, il re del diritto divino, che cominciò a constituire la gran patria alemanna col diritto di conquista, evangelizzò: come troppi fossero gli assalti che la chiesa dei fedeli soffriva: come bisognasse pur credere a ogni modo che il messia è proprio e legittimo figliuolo di Dio padre: come il credere altrimenti fosse mala cosa, e a lui, oltre ogni dire, spiacente. Ora i filosofi di Berlino, buona e cappata gente se altra ve n’ha, sono tanti anni oramai che stanno osservando, come per parte sua fa Kappa. E quante idee intanto han sollevato! acute ed eminenti di certo, ma, a dir vero, un cotal po’ vaporose, come a punto le cime dei loro abeti. Ma acute ed eminenti, e null’affatto vaporose, e tutt’affatto solidamente metalliche, sono anche le punte degli elmi dei corazzieri del re teologo.

«Ultimamente Kappa dice che io, pur cercando d’intonare un inno di rivolta contro la chiesa, le rendo in vece omaggio, perchè non ho fatto altro che vestire il demonio con la luce divina dell’angelo celeste, e che il prete di Roma, mutando il nome di Satana in quel di Geova, potrebbe dell’inno mio fare un cantico ortodosso.

«Si provi pure il prete di Roma, e canti, se vuole, la Venere anadiomène e il bello e candido Adone, e canti la cupa congiura del medio evo e l’ardita riscossa del rinascimento, e Martin Lutero e la scienza e la macchina del vapore. Contento lui, contenti tutti, anche Kappa. Il quale, se, prima di scrivere, avesse riletto, sarebbesi certificato che il mio Satana non ha di angelo nulla. Io con gli angeli non me la dico: gli lascio stare a mezz’aria, fra cielo e terra, in compagnia dei passerotti, e degli scrittori vaporosi.

«Il mio Satana è piuttosto una specie di ebreo errante, che per panteistica trasformazione passa di fenomeno in fenomeno, di mito in mito, d’uomo in uomo. E così segue da molti secoli. Se una forma propria volessi dargli, lo rappresenterei giovine di verde e immortal gioventù, come gli dei della Grecia, ma severo e mesto ad un tempo nella sua raggiante bellezza. Con una spada nell’una mano e nell’altra una fiaccola egli salirebbe di monte in monte, guardando all’alto. Excelsior è il suo motto, come quel dell’ignoto peregrino americano del Longfellow. E nella imaginazione mia egli non può sostare che su la cupola di Michelangelo, in vetta al San Pietro. Quando egli sarà colassù, noi suoi fedeli sotterreremo finalmente Geova. Perocché cotesto vecchietto che, che che ne paia a Kappa, è vivace: altri è affaticato finora a seppellirlo, ed egli fa mostra di rassegnarsi; ma ad un tratto scoverchia la tomba, e salta fuori, e va girondolone pel mondo, sprizzando di fra i buchi del suo lacero mantelluccio ebreo qualche raggio crepuscolare che abbaglia e accieca gl’incauti. Ma noi lo sotterreremo profondo, più profondo che i cretesi non facesser con Giove: perocchè gli accatasteremo a dosso la grave mora del cattolicismo romano. Questo è l’officio degl’italiani. Allora, sepolto l’antico avversario, Satana si dileguerà anch’egli nei crepuscoli del vespero e spunterà il nuovo giorno. Per adesso,

«Salute, o Satana,
o ribellione,
o forza vindice
della ragione.

«Giosuè Carducci
«(Enotrio Romano).

«Per chi fosse curioso di tutta intera la polemica intorno al Satana, ecco anche due note, che le attengono, dalla edizione fiorentina delle Poesie di Giosué Carducci (Barbera, 1871).

«Questo inno a Satana, ripubblicato dall’animoso e ingegnoso direttore de “Il Popolo” di Bologna, E. Bordoni, l’8 dicembre 1869 che si apriva il Concilio ecumenico, spiacque forte all’amico mio Quirico Filopanti; e me ne rimproverò e lo chiamò ricisamente un’orgia intellettuale. Non ci voleva altro: tutti, per qualche giorno, si occuparono de’ fatti miei: i democratici politici sbofonchiarono, i filosofi compassionarono, i clericali mi paragonarono a Troppmann e nei giornali e per lettere più o meno anonime mi promisero l’inferno senz’altro; fino il bordello spalancò tutte le sue camere per dirmi – Fatti in là, tu se’ indecente, – e la fogna mi sbuffò in viso una tanfata d’indignazione. Nelle risposte al Filopanti e al critico del Diritto io credo di aver mostrato la ragionevolezza, la moralità, la opportunità dei miei intendimenti, e a quelle rimando chi non mi vuole male.

«Qui, poiché ripetermi non voglio, chiedo licenza a un amico mio di riportare la interpretazione ch’ei fece del Satana nel primo numero dell’“Ateneo italiano” (7 gennaio 1866), quando esso Satana, dato in luce la prima volta nel novembre del 1865 in Pistoia con la data d’Italia anno MMDCXVIII dalla fondazione di Roma e col nome, che allor presi per la prima volta, di Enotrio Romano, cresceva pur all’ombra di fama occulta e bruna.

«“Questa (diceva Enotriofilo) non è certo poesia da santi, ma da peccatori; peccatori che non s’involano ai consorti nelle fitte selve, né le proprie virtù appiattano, che altri non ne goda o non le tenti; che delle umane allegrie, degli umani conforti, non si vergognano; e delle vie aperte non se ne chiudono nessuna. Non laude, ma inno materiale, Enotrio canta, dimentico delle maledizioni che dà il catechismo al mondo, alla carne, al demonio.

«“L’ascetismo perde i difensori e le vittime: l’uomo non va gingillandosi tra le aspirazioni, le inspirazioni, le espiazioni de’ mistici. I diritti rispetta: cerca e vuole il bene; ma l’amore alla donna non gli sembra peccato, né i sollazzi festevoli de’ bevitori. Ora in quegli occhi ardenti e ne’ scintillanti vasi c’è Satana. – Alle gioie della terra guardavano i riti degli Ariani, poi da’ riti Semitici o mascherati o scacciati; ma il popolo non li dimenticò, e alle segrete virtù della natura durò lungamente a chiedere i prodigi degli stregoni, suoi sacerdoti, e salute e profezie. Ora il maestro è Satana. – Alle gioie della terra, ubriachi di paradiso, si tolgono gli anacoreti: ma natura, tarpate le ali, meno agile al volo, salta loro adosso. I canti, fuori da quelle celle non empii, coi fiori della poesia vergine, colle gesta dei forti, rifrugano nelle assopite coscienze e le avvampano. Ora, o conducano alle fantasie macerati cadaveri o imaginette di femmine o trionfi di soldati, que’ canti escono della bocca di Satana. – Di sotto al fumo de’ bruciati, veggonsi frati rifarsi uomini, innamorati di gloria civile, di nuovi teoremi, di nuovi dommi: cocolle di domenicani e di agostiniani cadono a terra: s’agita l’ingegno; slegato per poco tempo, poi da ogni setta che invecchia rincatenato, ma nelle giovanili scuole che ne rampollano sempre rinnovellato con forza. – Ora è una tentatrice, un demonio anche la libertà: lo svolgimento delle umane attività, onde ci cresce insieme il pane e il sorriso, la ricchezza e l’onore, non è che Satana. Ma Satana che non china il capo dinnanzi alle imprecazioni degli ipocriti; ma glorioso a’ sereni aspetti di chi applaude. Così canta Enotrio, e sopra al carro satanico guida in trionfo il suo iddio...

«“Quest’inno sgorga a due fonti, e, presto congiunte, placide ne scendono le correnti; i beni della vita e l’ingegno ribelle alla servitù. Ma c’è altra acqua che a forza vi entra e più da alto precipita, più rapidamente, e con fremito e rigoglio vi mescola le sue onde; strepito, non armonia. – Il Tentatore che, pungendoli, ridona al mondo gli eautontimorumeni de’ chiostri e delle selve, e alle scienze le vigliacche pecore della tradizione non è

«… dell’esssere
Principio immenso,
Materia e spirito,
Ragione e senso.
«“Altri inni voleva l’unità panteistica”.

«Alla quale ultima osservazione dell’amico mio altre se ne potrebbero aggiungere, specialmente circa lo svolgimento lirico e la forma di questa poesia, che non è, come alcuni miei benevoli vogliono credere, gran cosa. Ma ora sono in via di difendermi; e per ciò vorrei mi fosse lecito, quando agli intendimenti miei, ripetere quel che Arrigo Heine diceva di sè: “Io non appartengono ai materialisti che incarnano lo spirito... non appartengo agli atei che negano, io affermo”.

«Con tutto ciò, e per quante dichiarazioni io faccia, so bene che certe censure ingenue (dico così per modo di dire) non le potrò evitar mai come quella d’uno scrittore dell’Italia centrale (credo) di Reggio, il quale del mio affermare che il benessere la felicità la bellezza sono cose altamente umane e non bestemmiabili con l’inciviltà dell’ascetismo dava queste ragioni: che in fatti io sono un buontempone, che viaggio su le strade ferrate in prima classe, e che mi piacciono le violette; quelle, s’intende, alla Dumas. Io m’imagino che quello scrittore sia giovine, e gli dico: Voi potete non intendere o volere non intendere gl’intendimenti miei: ma, quando pretendete illustrare lo scritto con la vita, cotesta vita dovete conoscerla. Sapete voi che cosa potrebbe essere quel che ora avete fatto? Per ora è una leggerezza. A un altro signore debbo pur dire una parola: a un altro signore, già affermantesi amico mio e al quale non so di essere stato mai nemico io. Egli mi rimproverò la restuccia satanica rubata a un Michelet; e mi par che aggiungesse, a un Michelet, dico, con un punto ammirativo. Ho detto mi pare, perché egli tratta così d’alto in basso Giulio Michelet, l’autore della Storia di Francia, in uno scrittarello facondo su un telone dipinto pel teatro del Cairo, scrittarello dedicato all’Altezza reale del Kedive; ei è così piccol fascicoluccio che mi andò smarrito tra le carte. Povera Italia! Del resto, ch’io abbia attinto dal Michelet, lo dissero anche due benevoli miei, Adolfo Borgognoni e Luigi Morandi. Certo: la lettura delle opere del Michelet, e di quelle, aggiungo io, confessandomi, del Heine, del Quinet, del Proudhon, hanno conferito al mio Satana, qual meraviglia!

«In que’ giorni che alcuni fogli italiani fecero un po’ di chiasso dell’“Inno a Satana”, l’“Unità Cattolica” cavò fuora da un libretto di mie rime, impresso del 1857 in San Miniato, una lauda spirituale su la processione del Corpus Domini, per istruire alcuni confronti fra il Giosué Carducci del cinquantasette, quando Pio nono comandava a Bologna e il Granduca di Toscana a San Miniato e correa l’andazzo della religione, e il Giosué Carducci del sessantanove e settanta nell’andazzo dell’empietà comandando Lanza a Firenze e Bardessono a Bologna.

«Veda bene la “Unità Cattolica”: ella può dire quel che vuole, ma il comend. Lanza e il conte Bardessono sono così innocenti dell’empietà mia, come è vero che Leopoldo secondo di Toscana avrà certamente molti meriti appo Dio, salvo quello di avermi con la sua verga tenuto entro il branco delle pecorelle bianche. Se lo scrittore dell’“Unità Cattolica” non si fosse fermato alla prima stazione o alla prima osteria, vo’ dire alla prima indicazione d’alcuno de’ suoi pii corrispondenti di Toscana, se egli avesse avuto in mano e sfogliato il libretto, avrebbe trovato subito alla pagina 7 l’orribile verso “Il secoletto vil che cristianeggia”, non voluto pubblicare dallo stampatore senza un calmante di nota, e che ciò non di meno fece allora scandalo anche a certi cui oggi apparisce superstizioso fino il culto della dea Ragione. Se egli avesse chiesto notizia di me a chi meglio mi conosce anche fra’ suoi amici, avrebbe saputo come io tanto seguitavo l’andazzo della poesia religiosa allora di moda, che del cinquantacinque, essendosi nuovamente scoperto in Pisa non so che santo o beato, io ragazzo parodiavo gli inni sacri così:

«Oggimai che ritornati
Son di moda e stinchi ed ossa
E né meno gl’impiccati
Son sicuri nella fossa,
Anche a voi la quiete spiace,
Fra’ Giovanni della Pace?...
Gloria a Cristo ritornato
Fra i bagagli di Radeschi
Su l’altare appuntellato
Dalle picche de’ tedeschi:
Convertì la baionetta
Questa terra maledetta.
Questa terra, che del nostro
Sangue e pianto è molle ancora,
Brontolando un paternostro
Su zappiamo alla buon’ora
Per trovare ossa di santi
E di frati zoccolanti...

«Come va dunque il negozio della lauda su Il Corpus Domini e dell’ode per la b. Diana Giuntini? Ecco qui. Passai l’anno 1857 fra Santa Maria a monte e San Miniato; e sapendomi pizzicar di poeta, i festaioli di que’ paesi due volte ricorsero a me per il sonetto. Io allora ero tutto in Orazio e nei trecentisti (Frigida pugnabant calidis, humentia siccis); e mi saltò in capo di mostrare che si potea fare poesia religiosa tra pagana e cristiana e anche cristiana pura ma non manzoniana, e di provare infine che la fede nella forma non ci entrava e che pur senza fede si potevano rifare le forme della fede del beato trecento: era come una scommessa. Così per una festa di Santa Maria a monte feci quest’ode alla b. Diana in stile oraziano, e indi a due mesi per altra festa in Castelfranco quella lauda spirituale nello stile del secolo decimoquarto e decimoquinto, alla quale, per indizio del mio intendimento, inscrissi due versi del Casa:

«E con lo stil ch’ai buon tempi fioria
Poco da terra mi sollevo ed ergo.

«Tanto è vero che fin d’allora Napoleone Giotti, in un giudizio molto savio ed onesto su le mie rime stampato ne “Lo Spettatore”, mi rimproverò questo scetticismo di forma pel quale da Febo Apolline passavo al Corpus Domini. Aveva ragione; ne io poi negli anni seri ho più commessi di questi sacrilegi retorici. Del resto si persuada la “Unità Cattolica”: pur troppo fin da’ bei tempi di Leopoldo secondo io era fra’ capretti neri; e non fui mai né pure un micolin giobertiano. Altri poi da cotesti confronti della “Unità Cattolica” e dal sentir ricordata certa grammatica italiana dell’ab. Facondo Carducci ebbe pur dedotto che anch’io un tempo mi sia trascinato fra le gambe un po’ di sottana nera. Oh no, né scrissi grammatiche né dissi il breviario né portai tonaca mai.

 

«Aggiungiamo da Arte e critica nei Bozzetti critici e Discorsi letterari di Giosué Carducci (Livorno, Vigo, 1876):

 

«Il sig. Zendrini rimescola la questione del Satana. Io di quel Satana oramai ne ho fin sopra gli occhi, e sono stufo, più che stufo, del dover riparlare di lui e di me. Ma dimostrare come certa gente fa la critica e qual sorta di critica da certa gente è spacciata per arguta, dotta, ingegnosa, e specialmente imparziale, mi par che sia bene; e forse che anche di questo m’illudo. Il sig. Zendrini in somma prova e riprova: 1° che Dante e il Tasso e il Milton hanno dipinto il diavolo altrimenti da me: grazie, essi erano i poeti della fede: 2° che altrimenti l’hanno rappresentato anche il Goethe e il Byron e il Heine: grazie ancora, essi maneggiavano epicamente o drammaticamente il diavolo leggendario: 3° che la fantasia popolare concepisce il diavolo altrimenti: mille grazie per l’ultima volta, il popolo nel diavolo ci crede, o ci credeva. Dopo ciò il sig. Zendrini si degna d’ammettere che nel Satana io abbia voluto rappresentare un’idea filosofica, ma per tale rappresentazione egli crede che avrei fatto meglio a sceglier Prometeo, come fecero il Monti e lo Shelley; e qui grandi lodi dei due poeti. Alle quali io consento di lietissimo cuore: ma da che il Monti e lo Shelley rinnovarono così bene filosoficamente il gran titano di Eschilo, non pare anche al sig. Zendrini che sarebbe stato e imprudente e impudente ed inutile se l’avessi ripreso a trattare io di terza mano? A ogni modo, non era il caso: Prometeo raffigura stupendamente la lotta del pensiero umano col teologico in generale: io doveva rappresentare la vitalità la guerra la vittoria del naturalismo e del razionalismo dentro e contro la chiesa cristiana: e Prometeo a ciò non mi serviva, invece mi serviva benissimo Satana. È vero o non è vero che la chiesa cattolica, anzi tutte le chiese cristiane, ha ed hanno sempre maledetto e maledicono come orgoglio satanico, come opere e istigazioni diaboliche il libero pensiero, la scienza, i sentimenti umani e naturali, tutte in somma le belle cose che enumerai nella lettera a Quirico Filopanti? È vero o non è vero, che Gregorio decimosesto titolava d’invenzione diabolica il vapore? Dunque volete che tutto ciò sia Satana? E Satana sia. Viva Satana! Ecco il concetto e la ragione dell’inno a Satana. Tutte queste cose furono da me dette e ridette nelle risposte al Filopanti e al critico del Diritto. – Ma no – ripiglia il sig. Zendrini non dandosene per inteso e stemperando in otto paginone con molto loquace malignità quel che il Filopanti disse con molta onestà in due paginette – no, voi non potevate farlo, perchè il tipo del Satana è determinato. – E io l’ho fatto: che cosa ci farebbe Ella, professore mio? Che cosa ci fa il sig. Zendrini? Delle solite. – Ma come? – egli oppone – voi m’incarnate Satana nel Savonarola e in Lutero, due dei più credenti e convinti cristiani! – Non io, professore, non io; ma la chiesa cattolica. Tutto ciò che insorge contro lei, tutto ciò che accenna a uscire fuor di lei, non pur dubitando o riformando, ma ricordando, ammonendo, deplorando, per lei è satanico: e Alessandro sesto, il nefando, doveva maledire la perversità diabolica del frate di San Marco; e Leone decimo, il pagano, avvertire popoli e principi a guardarsi dalle diaboliche seduzioni del frate di Sant’Agostino. Tutto ciò non capisce, o vuole non capire, il sig. Zendrini, e osserva: “Forse l’essere il Savonarola un repubblicano (come poteva esserlo egli, fiorentino del secolo decimoquinto, riformatore e frate) ha sedotto il Carducci a crearne un repubblicano moderno, a fare un moderno razionalista d’uno de’ più fanatici e austeri fra i credenti”. Il sig. Zendrini pare si dia a credere che basta lo sgrammaticare per non esser pedanti: ma di rado a me è avvenuto di trovare fra i grammatici un pedante della forza sua, se pedante è da dire chi fa lezione a ogni piè sospinto e su cose che tutti conoscono. Certo il sig. Zendrini non è obbligato a sapere come o quanto nel 1865 io scandalizzassi i neopiagnoni fiorentini con quel che dissi del Savonarola in un discorso all’Ateneo! poi stampato in un giornale di Firenze. Ma vegga, se vuole, il discorso che misi innanzi alle poesie toscane del Poliziano nel 1863; e legga anche, o egli o il lettor mio, queste due pagine de’ miei Studi letterari:

«“E pure, mentre per un lato l’elemento ecclesiastico seguitava esagerando la sua trasformazione romana sino a far pagana la corte dei papi, il principio religioso, per l’altro lato, contro il sensualismo classico del Pontano, contro lo scetticismo popolaresco del Pulci, contro il paganesimo artistico del Poliziano, contro l’idealismo romanzesco del Boiardo, contro la corruzione dei Medici, di Firenze, d’Italia e della Chiesa, contro il Rinascimento in somma, insorgeva con un ultimo tentativo di ascetica reazione in persona di Girolamo Savonarola. Non tutto il clero, a dir vero, avea seguitato il ponteficato nella sua abiettazione, e nella sua degenerazione la Chiesa: che anzi, quanto più quella e questa avanzavano, tanto più, in quegli ordini specialmente che parteciparono con maggiore ardenza al rinnovamento cattolico dei secoli decimosecondo e decimoterzo, andavano crescendo gli spiriti dell’opposizione: la quale negli scrittori ascetici del trecento e del quattrocento va sempre più maturando un cotal concetto di riformazione, tanto più chiaramente accennato quanto quegli scrittori sentivano la necessità di raffermare, purificando la Chiesa, il sentimento cristiano e il dogma cattolico contro la civiltà profana che d’ogni parte dilagava e premeva. E il movimento di opposizione cristiana mise capo in Girolamo Savonarola. Nel quale, posto, per un’incidenza che non è tutta caso, tra il chiudere del medio evo e l’aprirsi della modernità, quasi a raccogliere e benedire gli ultimi aneliti della libertà popolana già sorta nel nome del cristianesimo e a mandare l’ultima vampa di fede verso i tempi nuovi, voi vedete convergere le aspirazioni più pure, voi vedete rinascere le figure più ardite del monachismo democratico. In lui lo sdegno su la corruzione della chiesa che traeva alla solitudine i contemplanti, in lui l’amore alle plebi fraterne che richiamava su le piazze e fra le armi dei cittadini contendenti ad uccidersi i frati paceri, in lui la scienza teologica e civile di Tommaso, in lui il repubblicanismo di Arnaldo, in lui finalmente anche le fantasie e le fantasticherie di Iacopone da Todi. E di quel pensiero italiano che intorno alla religione andavasi da secoli svolgendo nell’arte nella scienza nella politica, di quel pensiero che è lo stesso così in Arnaldo repubblicano all’antica come in Dante ghibellino e nel Petrarca letterato, così in fra Iacopone maniaco religioso come nel Sacchetti novelliere profano, il Savonarola pronunziò la formola: Rinnovamento della Chiesa. Era troppo tardi. Quel che nella mente italiana del Savonarola era avanzato di intendimento civile fra le ebrietà mistiche del chiostro, ei lo depose gloriosamente nella instituzione del Consiglio grande: del resto, come martire religioso, salva la reverenza debita sempre a cui nobilita il genere umano attestando col sangue suo la sua fede, come novatore mistico, egli (perché no ‘l diremo?) egli è misero. Rivocare il medio evo su la fine del secolo decimoquinto; far da profeta alla generazione tra cui cresceva il Guicciardini, ridurre tutta a un monastero la città ove il Boccaccio avea novellato di ser Ciappelletto e dell’agnolo Gabriele, la città ove da poco era morto il Pulci; respingere le fantasie dalla natura, novamente rivelatasi, alla visione, le menti dalla libertà e dagli strumenti suoi novamente conquistati, alla scolastica, fu concetto quanto superbo, altrettanto importuno e vano. Il Rinascimento sfolgorava da tutte le parti; da tutti i marmi scolpiti, da tutte le tele dipinte, da tutti i libri stampati in Firenze e in Italia, irrompeva la ribellione della carne contro lo spirito, della ragione contro il misticismo; ed egli, povero frate, rizzando suoi roghi innocenti contro l’arte e la natura, parodiava gli argomenti di discussione di Roma: egli ribelle, egli scomunicato, egli in nome del principio d’autorità destinato a ben altri roghi. E non sentiva che la riforma d’Italia era il rinascimento pagano, che la riforma puramente religiosa era riservata ad altri popoli più sinceramente cristiani; e tra le ridde de’ suoi piagnoni non vedeva, povero frate, in qualche canto della piazza sorridere pietosamente il pallido viso di Nicolò Machiavelli!”.

«E ora veniamo alle mie imitazioni. Il sig. Zendrini, con quel modo di dire che dice e non dice, accenna, com’io, citando gli autori i quali conferirono all’idea del mio Satana, dimenticassi il Baudelaire. Potrei rispondere che citai anche troppi, e che in fine in fine il Satana come creazione lirica non lo riconosco da alcuno; potrei rispondere che nel 1863 io non conosceva il Baudelaire. Ma io non sono né tanto umile né tanto superbo da volere che gli avversari mi credano su la parola. Carte in tavola. Ecco “Le litanie di Satana” di Charles Baudelaire nella traduzione italiana di Giuseppe Borghi:

«Oh tu, che degli Angeli sei il più sapiente e il più bello
Dio tradito dal fato, e di laudi privato,
O Satana, abbi pietà del mio essere misero!
O Principe d’esilio, bersaglio di torti,
Tu che, vinto, ti rialzi ogni volta più forte,
O Satana, abbi pietà del mio essere misero!
Tu che tutto conosci, gran re dell’impero di sotto,
Guaritore ormai noto d’umani tormenti,
O Satana, abbi pietà del mio essere misero!
Tu che anche ai lebbrosi, ai paria esecrati,
il gusto dell’Eden insegni per mezzo d’amore,
O Satana, abbi pietà del mio essere misero!
Tu che dalla Morte, tua vecchia ed intrepida amante,
La speranza fai nascere, un’incantevole folle!
O Satana, abbi pietà del mio essere misero!
Tu che doni al proscritto uno sguardo calmo e sublime,
che intorno a un patibolo un popolo intero castiga,
O Satana, abbi pietà del mio essere misero!
Tu, che sai delle terre invidiose in qual canto,
Il Dio geloso le tue gemme preziose ha nascosto,
O Satana, abbi pietà del mio essere misero!
Tu, che con gli occhi saputi conosci gli arsenali profondi
Dove il popol dei metalli dorme seppellito,
O Satana, abbi pietà del mio essere misero!
Tu che ascondi con l’immensa tua mano gli abissi
che s’aprono al sonnambulo errante lungo gli edifici,
O Satana, abbi pietà del mio essere misero!
Tu che, d’incanto, addolcisci le vecchie ossa
dell’ebbro nottambulo pestato dai cavalli,
O Satana, abbi pietà del mio essere misero!
Tu che per consolar l’uomo stanco che soffre,
ci insegnasti a mescolare lo zolfo e ‘l salnitro,
O Satana, abbi pietà del mio essere misero!
Tu che stampi il tuo marchio, o complice sottile,
sulla fronte di Creso impietoso e codardo,
O Satana, abbi pietà del mio essere misero!
Tu che insinui negli occhi e nel cuore di giovani donne
il culto della piaga, l’amor degli stracci,
O Satana, abbi pietà del mio essere misero!
Sostegno degli esiliati, luce degli inventori,
confessore degli impiccati e dei cospiratori,
O Satana, abbi pietà del mio essere misero!
Padre adottivo di quei che con collera nera
dal paradiso terrestre Dio Padre ha scacciato,
O Satana, abbi pietà del mio essere misero!

Preghiera

Siano gloria e laudi a te, o Satana, nell’alto
dei cieli, dove tu regnasti, e negli abissi
dell’Inferno, in cui, vinto, tu sogni in silenzio!
sotto l’Albero della Scienza fa’ che un giorno riposi
l’anima mia a te vicino, nell’ora che sulla tua fronte
come un nuovo Tempio i suoi rami s’intrecceranno!».

(G. Carducci, Satana e polemiche sataniche, XIV edizione, Bologna, Nicola Zanichelli 1882).

 

Le considerazioni e i parallelismi, come i bilanci a credito e a debito, Carducci li lascia ai lettori. E fa bene. Comunque, nel corso di un chiarimento polemico, messo in una Introduzione ai Nuovi versi di Vittorio Betteloni (Bologna 1880), scrive riferendosi alla influenza di Baudelaire su Praga e «alle innaturalezze e alle irragionevolezze cercate ad effetto, e non pure le bruttezze stupide (dico così perché è proprio così)». (Ib., p. 7). Qui, pur trattandosi di un rimprovero rivolto a Praga, il giudizio, alquanto pesante, si riflette anche su Baudelaire, mentre l’accento ammirativo di qualche anno prima sembra scomparso del tutto (effetto delle polemiche che abbiamo visto sopra?). In sostanza, come dimostra Trompeo nel suo studio (Carducci e d’Annunzio, op. cit., p. 34), Carducci ebbe sì un istinto classico che, in ultima analisi, finì per prevalere sugli altri, ma anche altre diverse esperienze culturali, che spesso riuscì ad armonizzare, mentre altre volte non gli riuscì di impedire il prevalere dell’abbandono romantico.

L’influsso di Baudelaire su Carducci raggiunge il massimo (per altro riconosciuto dalla stesso Carducci) nella poesia “Vendette della luna”.

«Te, certo, te, quando la veglia bruna
Lenti adduceva i sogni a la tua culla,
Te certo riguardò la bianca luna,
Bianca fanciulla.
 
A te scese la dea ne la sua stanca
Serenitade e con i freddi baci
China al tuo viso – O fanciulletta bianca, –
Disse – mi piaci. –
 
E al fatal guardo, ove or s’annega e perde
L’anima mia, piovea lene il gentile
Tremolar del suo lume entro una verde
Notte d’aprile.
 
Ti deponea tra i labbri la querela
De l’usignuolo al frondeggiante maggio,
Quando la selva odora e argentea vela
Nube il suo raggio;
 
E del languor niveo fulgente, ond’ella
Ride a l’Aurora da le rosee braccia,
Ti diffondeva la persona bella,
La bella faccia:
 
Onde a’ cari occhi tuoi, dal cui profondo
Tutto lampeggia quel che ama e piace,
Nel roseo tempo che sorride il mondo
Io chiesi pace:
 
Pace al tuo riso, ove fiorisce pura
La voluttà che nel mio spirto dorme,
E che promesso m’ha l’alma natura
Per mille forme.
Ahi, ma la tua marmorëa bellezza
Mi sugge l’alma, e il senso de la vita
M’annebbia; e pur ne libo una dolcezza
Strana, infinita:
Com’uom che va sotto la luna estiva
Tra verdi susurranti alberi al piano;
Che in fantastica luce arde la riva
Presso e lontano,
 
Ed ei sente un desio d’ignoti amori
Una lenta dolcezza al cuor gravare,
E perdersi vorria tra i muti albori
E dileguare».

(Giambi ed Epodi. Rime Nuove, ed. nazionale, Zanichelli, Bologna 1942, p. 102).

 

Così Trompeo: «“Le Vendette della Luna” sono specificatamente baudelairiane nell’ultima parte, dove dalla donna che ha i colori lunari e la malia lunare si passa al paesaggio lunare, e la donna non c’è più, o per meglio dire è una cosa stessa col paesaggio, perché – il procedimento è tipicamente baudelairiano – in virtù di quello scambio che ho già chiamato simbolistico o panteistico, o che Baudelaire chiama “métamorphose mystique”, donna e paesaggio suscitano nel poeta la stessa gamma di sensazioni e di sentimenti». (Carducci e d’Annunzio, op. cit., p. 52).

E così lo stesso Carducci mette le mani avanti in una nota all’edizione fatta a Imola da Galeati nel 1873 delle Nuove poesie: «Del resto le cose che piacevano tanto al povero Carlo Baudelaire, potente ingegno ammalato, per esempio les chats qui se pâment sur les pianos et qui gémissent comme les femme, d’une voix rauque et douce, et les fleurs sinistres qui ressemblent aux encensoirs d’une religion incunnue, piacciono così poco a me, che la poesia non deve altro che il principio della poesia in prosa di lui». (Citato in Ib., p. 50).

Sul punto di dar conto di questa “ripensata” di Carducci, è bene fermarsi su una riflessione significativa riguardante le idee sociali che attraversavano, in quel torno di tempo, l’ambiente letterario dell’“Italia unificata”. Con tutto quel che di provinciale che non si era ancora riuscito ad eliminare, la scapigliatura lombarda e piemontese, il giacobinismo confuso del Carducci dei Giambi e il suo persistente (in quell’epoca) anticlericalismo, e la stessa diffusione delle poesie di Baudelaire, di cui veniamo discorrendo, sono fenomeni da riportarsi all’ambiente sociale di quegli anni che vedeva l’agitarsi non proprio chiaro delle tendenze democratiche giacobine e garibaldine e le prime apparizioni del socialismo libertario portato in Italia da Bakunin.

Anche nello specifico della vicenda della fortuna di Baudelaire, questa situazione non è senza conseguenze. Il “cambiamento” di Carducci segna il suo più ampio cambiamento di prospettiva. Infatti, nel cosiddetto periodo rivoluzionario egli difende Lorenzo Stecchetti, loda Vittorio Betteloni, accorda una giusta considerazione agli scapigliati, fa l’apologia del realismo e della spregiudicatezza ed è perfino non molto duro con i poeti veristi di cui finisce anche per esaltare il contenuto di polemica sociale. Scrive Natalino Spegno: «Erano gli anni in cui anch’egli imprecava contro il gusto borghese, contro i pregiudizi e le paure dei moderati, e guardava con terrore al pericolo di diventare “il poeta laureato dall’opinione pubblica”, gli anni in cui la sua passione garibaldina esplodeva e traboccava violentissima in versi e prosa; e il suo giacobinismo lo traeva a consentire con tutte le esigenze di progresso politico e di riforma economica». (Storia di Carducci, in Ritratto di Manzoni e altri saggi, Bari 1961, p. 243).

Poi, la borghesia ha paura, le minacce al predominio dell’assetto capitalistico dell’Italia unificata si fanno ben più sostanziali: i moti contadini e quelli del proletariato della nascente industria. Le sue frange intellettuali (quindi anche Carducci e tutti coloro che avevano interesse a rivedere i testi di Baudelaire) vengono contagiati da questa paura e si mettono al servizio dei gruppi più retrivi ma più potenti, della classe dominante. Così continua Sapegno: «A questa involuzione corrisponde, dal punto di vista dell’arte, un impoverirsi e restringersi della materia sentimentale, del lievito umano e poetico; una carenza affettiva e un ristagno formale; un distacco sempre più grave dai temi della vita reale, che si risolve di volta in volta nel conformismo della retorica e nell’abbandono ai miraggi dell’evasione del sogno». (Ib., p. 255). In un certo modo eccezione fa a questa tendenza il forlivese Olindo Guerrini che, sotto il nome di Lorenzo Stecchetti, insiste nella linea indicata dalla scapigliatura, da Praga. La sua tematica poetica e sociale è forse un poco di maniera, almeno così appare oggi che siamo abituati a ben altre elaborazioni, ma lo sforzo di incidere nelle menti italiane dell’epoca, portate – almeno per quella classe che sapeva leggere – a vedere nello Stato il prodotto di un avvenimento rivoluzionario e non il trasformarsi di una vecchia reazione in una nuova, questo sforzo fu senz’altro notevole e seppe mantenersi immune da quei tentennamenti che altri caratterizzarano, per primo lo stesso Carducci, che finì col giudicare il suo “Inno a Satana” una “chitarrata”.

“Il Canto dell’odio” è certo uno dei punti più alti di questa corrispondenza incontaminata con Baudelaire:



«Quando tu dormirai dimenticata
sotto la terra grassa
E la croce di Dio sarà piantata
ritta sulla tua cassa
 
Quando ti coleran marce le gote
entro i denti malfermi
E nelle occhiaie tue fetenti e vuote
brulicheranno i vermi
 
Per te quel sonno che per altri è pace
sarà strazio novello
E un rimorso verrà freddo, tenace,
a morderti il cervello.
 
Un rimorso acutissimo ed atroce
verrà nella tua fossa
A dispetto di Dio, della sua croce,
a rosicchiarti l’ossa.
 
Io sarò quel rimorso. Io te cercando
entro la notte cupa,
La mia che fugge il dì, verrò latrando
come latra una lupa;
 
Io con quest’ugne scaverò la terra
per te fatta letame
E il turpe legno schioderò che serra
la tua carogna infame.
 
Oh, come nel tuo core ancor vermiglio
sazierò l’odio antico,
Oh, con che gioia affonderò l’artiglio
nel tuo ventre impudico!
Sul tuo putrido ventre accoccolato
io poserò in eterno,
Spettro della vendetta e del peccato,
spavento dell’inferno:
 
Ed all’orecchio tuo che fu sì bello
sussurrerò implacato
Detti che bruceranno il tuo cervello
come un ferro infocato.
Quando tu mi dirai: perché mi mordi
e di velen m’imbevi?
Io ti risponderò: non ti ricordi
che bei capelli avevi?
 
Non ti ricordi dei capelli biondi
che ti coprian le spalle
e degli occhi nerissimi, profondi,
pieni di fiamme gialle?
 
E delle audacie del tuo busto e della
opulenza dell’anca?
Non ti ricordi più com’eri bella,
provocatrice e bianca?
 
Ma non sei dunque tu che nudo il petto
agli occhi altrui porgesti
E, spumante Liscisca, entro al tuo letto
passar la via facesti?
 
Ma non sei tu che agli ebbri ed ai soldati
spalancasti le braccia,
Che discendesti a baci innominati
e a me ridesti in faccia?
 
Ed io t’amavo, ed io ti son caduto
pregando innanzi e, vedi,
quando tu mi guardavi, avrei voluto
morir sotto a’ tuoi piedi.
 
Perché negare – a me che pur t’amavo –
uno sguardo gentile,
quando per te mi sarei fatto schiavo,
mi sarei fatto vile?
 
Perché m’hai detto no quando carponi
misericordia chiesi,
e sulla strada intanto i tuoi lenoni
aspettavan gl’Inglesi?
 
Hai riso? Senti! Dal sepolcro cavo
questa tua rea carogna,
nuda la carne tua che tanto amavo
l’inchiodo sulla gogna,
 
E son la gogna i versi ov’io ti danno
al vituperio eterno,
a pene che rimpianger ti faranno
le pene dell’inferno.
 
Qui rimorir ti faccio, o maledetta,
piano a colpi di spillo,
e la vergogna tua, la mia vendetta
tra gli occhi ti sigillo». (Postuma, Bologna 1877).
 
In corrispettivo paragonare la poesia di Baudelaire “Una carogna”.
 
Ricordi tu l’oggetto, anima mia,
che vedemmo quel mattino d’estate così dolce?
Alla svolta d’un sentiero un’infame carogna
sopra un letto di sassi,
 
le gambe all’aria, come una femmina impudica,
bruciando e sudando i suoi veleni,
spalancava, con noncuranza e cinismo,
il suo ventre pieno d’esalazioni.
 
Il sole dardeggiava su quel marciume
come volendolo cuocere interamente,
rendendo centuplicato alla Natura
quanto essa aveva insieme mischiato;
 
e il cielo contemplava la carcassa
superba sbocciare come un fiore.
Il puzzo era tale che tu fosti
per venir meno sull’erba.
 
Le mosche ronzavano sul ventre putrido
da cui uscivano neri battaglioni
di larve colanti come un liquame
denso lungo gli stracci della carne.
 
Tutto discendeva e risaliva come un’onda,
o si slanciava brulicando:
si sarebbe detto che il corpo gonfio
d’un vuoto soffio, vivesse moltiplicandosi.
 
E tutto esalava una strana musica,
simile all’acqua corrente o al vento,
o al grano che il vagliatore con ritmico movimento
agita e volge nel vaglio.
 
Le forme si cancellavano riducendosi a puro sogno:
schizzo, lento a compiersi,
sulla tela (dimenticata) che l’artista
condurrà a termine a memoria.
 
Dietro le rocce una cagna inquieta
ci guardava con occhio offeso,
spiando il momento in cui riprendere
allo scheletro il brano abbandonato.
 
– Eppure tu sarai simile a quell’immondizia,
a quell’orribile peste,
stella degli occhi miei, sole della mia natura,
mia passione, mio angelo!
 
Sì, tu, regina delle grazie,
sarai tale dopo l’estremo sacramento,
allora che, sotto l’erba e i fiori grassi,
andrai a marcire fra le ossa.
 
Allora, o bella, dillo, ai vermi
che ti mangeranno di baci,
che io ho conservato la forma e l’essenza divina
di tutti i miei decomposti amori».

(Les Fleurs du Mail, XXIX, trad. De Nardis).

 

Con d’Annunzio l’influenza di Baudelaire raggiunge il suo aspetto decadente ed esteriore. Scrive Guy Tosi: «Anche d’Annunzio tra l’Intermezzo di rime e Il Poema Paradisiaco prende in prestito da Les Fleurs du Mal, nello stesso tempo che il loro abbandono e la loro tristezza carnali, anche dei temi, delle immagini, dei ritmi e “sa forêt de simboles”». (“Aperçus sur les influences littéraires françaises en Italie dans le dernier tiers du XIXe siècle”, op. cit., p. 117).

È sempre riguardo l’Intermezzo di rime (Roma 1884) che Trompeo scrive: «E il libro, un po’ per esibizionismo dilettantesco di letterato, un po’ per la coscienza profonda ch’egli aveva del suo triste servaggio, Gabriele lo concepisce proprio come le sue Fleurs du Mal». (Carducci e d’Annunzio, op. cit., p. 108).

Il fatto più interessante in queste affermazioni, ci sembra l’aperta ammissione che il rapporto fu di adeguamento a certi stilemi, più che di sostanziale “comprensione” della intenzione artistica di Baudelaire. E la spiegazione possiamo trovarla in una presa di posizione di Natalino Sapegno: «… la povertà della sua cultura può benissimo convivere con una relativa erudizione letteraria, perché essa importa, ancora una volta, non assenza ma superficialità di nozioni, l’assimilazione tutta esterna e mnemonica di un repertorio lessicale e stilistico ripreso e rimescolato senza la pur minima coscienza delle sue intrinseche ragioni storiche». (“D’Annunzio più retore che poeta”, in “La Stampa” del 17 aprile 1963).

Donde ci sembrano alquanto affannose e non sostanziali le intenzioni di Ton Antongini quando vuole difendere d’Annunzio dal paventato “inquinamento” derivante dal concetto baudelariano di “spleen”. Infatti, Antongini scrive: «Lo spleen, messo alla moda verso la metà dell’Ottocento da Carlo Baudelaire che vi dedicò molti dei suoi versi e singolarmente, se ne servì come titolo per ben quattro sue composizioni poetiche, non turbò mai i sonni del nostro Grande, il nome “spleenetico” e il più anticrepuscolare dei poeti». (“D’Annunzio e Baudelaire”, in “Letterature moderne”, op. cit., p. 445). Ma poi deve ammettere un fatto che ci sembra caratteristico e che prova in modo lampante la bontà della tesi di Sapegno: «… evocando un verso di Marziale che gli “par bello di suono e di lume”, d’Annunzio aggiunge che questo verso “gli è lecito interpretarlo secondo il suo spleen”. L’esametro citato è: “Et numerosa linunt stellantem splenia frontem”». (Ib., p. 446). Dove è andata a finire l’originale influenza di Baudelaire? Solo il “suono” di qualche parola è restato. Qui l’inglese “spleen” viene accostato al latino “splenia” (nei, cioè macchie della pelle), con tutte le conseguenze del caso.

Ma, ormai, da diverso tempo Baudelaire è veramente entrato nella letteratura italiana. Più che di influenze sporadiche e parziali, più che di tentativi di qualche uomo di lettere o di qualche poeta, si configura adesso un interesse di massa che produrrà il naturale stimolo alle traduzioni, mentre queste ultime non faranno altro che aumentare il sempre crescente interesse per il poeta francese.

 


[1973]

* * * * *

La boccetta



So pungenti profumi che non trovano stallo
che li rinserri: pare che buchino il cristallo.
Quando una teca s’apre, ch’è dall’Oriente giunta,
la cui toppa con stridulo lungo lagno s’impunta,
 
o in una casa vuota, polveroso e tarlato,
uno stipo che esala un tanfo di passato,
vi si trova una memore vecchia fiala, talvolta,
da cui vivida erompe un’anima sepolta.
 
Mortuarie crisalidi, mille sogni e pensieri
dormivan nella tenebra con palpiti leggeri,
e ora apron l’ali, balzano verso l’alto,
tramati d’oro, tinti di rosa e di cobalto.
 
Ecco nell’aria inquieta volteggia in lenti giri
ebbro il ricordo; gli occhi si chiudono; il Delirio
coglie l’anima vinta, e la spinge a due mani
verso un abisso scuro di tutti i miasmi umani;
 
sul ciglio d’un abisso secolare la stende,
dove, putido Lazzaro che si strappa le bende,
il cadavere s’agita e si desta, spettrale,
d’un vecchio amore rancido, leggiadro e sepolcrale.
 
Così, quando si spenga di me ogni compianto
fra gli uomini, e buttato io rimanga in un canto
d’un qualche tetro stipo, vecchia fiala vischiosa,
lercia, squallida, sporca, polverosa, corrosa,
 
io sarò in tua bara, vezzosa pestilenza,
prova della tua forza e della tua violenza,
caro tossico offertomi dagli angeli, liquore
che m’uccide, tu vita, tu morte del mio cuore.

La traduzione delle Fleurs du Mal in Italia

Il 25 giugno 1857 esce Les Fleurs du Mal, pubblicato presso i librai editori Poulet-Malassis et De Briose, 4 rue de Buci a Parigi, comprendente solo cento poesie. Il libro è in vendita a 3 franchi la copia. Il 5 luglio l’attacco de “Le Figaro” con un articolo firmato Gustave Bourdin contro questi versi in cui “l’odioso rasenta l’ignobile”. Equivale a una denuncia al Parquet, che non tarda a farsi sentire. Il 17 luglio il libro è sequestrato. Il 20 agosto il tribunale di prima istanza (correzionale) condanna Baudelaire a 300 franchi di ammenda e ordina la soppressione di sei poesie considerate offensive per la morale pubblica e il buon costume.

Non è inutile notare che sotto l’Impero solo tre libri vennero processati: Madame Bovary di Flaubert (che aveva protezioni in alto loco), Les Fleurs du Mal di Baudelaire e La Justice dans l’Eglise et la Révolution di Proudhon (che venne incarcerato a Sainte-Pélagie).

Nel 1861 esce la seconda edizione delle Fleurs du Mal, ma cade nel disinteresse generale. La prima edizione, di 1300 esemplari si era venduta in breve tempo, la seconda di 1500 resta quasi totalmente invenduta per circa due anni. La propaganda tutt’altro che positiva del processo aveva avuto i suoi effetti.

La vita di Baudelaire si svolge con tutte le vicissitudini e i tormenti che sono noti fino al 31 agosto 1867, giorno della sua morte nella clinica “hydrothérapique” di Chaillot.

La terza edizione delle Fleurs appare nel 1868 ed appartiene all’edizione postuma in sette volumi curata da Étienne Jean Théodore de Banville e Charles Asselineau. In merito all’elaborazione di questa edizione, Raymond Decesse scrive: «Fu voluta e preparata dall’autore che aveva corretto e completato l’esemplare della prima edizione del 1861 di cui Asselineau si è servito. Ma nulla ci assicura che le correzioni siano state definitive, che i venticinque pezzi aggiunti fossero stati tutti destinati a Les Fleurs du Mal, e soprattutto che dovevano occupare il posto che gli editori hanno loro attribuito. Non possiamo quindi né non tenere conto né accettare in blocco quello che questo testo ci consegna». (Introduzione a Baudelaire, Les Fleurs du Mal, ns. tr., Parigi 1966, p. 27).

Come si è detto la fortuna di Baudelaire in Italia, almeno nel periodo tra il 1870 e il 1890 è quasi esclusivamente fortuna dei Petits Poèmes en Prose. Il clima letterario risente di riflesso delle turbolente vicende del clima sociale e – involontariamente – spesso si rinchiude in più comodi schemi estetici. Si tratta di una forma involutiva che è documentabile, sul terreno ideologico, in tutti i campi e gli aspetti della vita culturale, letterale ed artistica italiana. E in molti “lavoratori della penna”, in molti traduttori, di preparazione esclusivamente letteraria, questa presenza è ancora più viva e indicativa. La sostanza concreta della miseria, la fame, la lotta delle classi, le vicende del nuovo aspetto rivoluzionario delle plebi, cioè del socialismo, vengono o esaltate attraverso un impianto retorico che finisce per smussarle e renderle inefficaci, oppure accantonate e sostituite con problematiche estetizzanti e del tutto sovrastrutturali.

La traduzione di Riccardo Sonzogno, la prima completa in Italia, esce a Milano nel 1893 per i tipi dello zio, Edoardo Sonzogno. È un bel volume di 385 pagine in ottavo, con copertina in falsa pergamena. La traduzione è condotta sulla seconda edizione del 1861. Seguono, col titolo Nuovi Fiori del Male le sedici poesie pubblicate nel 1866 sul “Parnasse Contemporain”, mentre altre nove sono sotto il titolo Poesie sparse. Viene anche pubblicata la prefazione di Pierre Jules Théophile Gautier, insieme ai saggi critici di Charles Augustin de Sainte-Beuve, di Charles Asselinéau (con l’accento acuto in più), di Jules Amédée Barbey d’Aurevilly e di Émile Deschamps.

Sonzogno compie un grosso lavoro di intelligente e meditata traduzione, alla base del suo sforzo e a giustificazione delle sue stesse scelte tecniche (rifiuto del verso, ad esempio) sta un tentativo più ampio di controbattere quella tendenza che abbiamo visto sopravvalutare all’eccesso le presenze cosiddette “sataniche” in Baudelaire.

In sostanza, finito il vero e proprio periodo del romanticismo rivoluzionario, il riflusso reazionario (Secondo Impero in Francia) aveva dato inizio a una tendenza pseudo-scientista con forti componenti biologistiche, tendenza che sulle ali del positivismo terrà banco fino ai primi decenni del secolo successivo. Basta pensare alla criminologia italiana di Cesare Lombroso e a quella francese di Alexandre Lacassagne. Con maggiori interessi verso la critica d’arte è l’opera di Max Nordau che ebbe una non trascurabile influenza in Italia. Ecco cosa afferma Lombroso riguardo Baudelaire: «Egli mostra nel ritratto tutto il tipo del megalomane, sicché l’avrebbe indovinato pazzo anche un non alienista... Mandato nell’India per esercitarvi il commercio perdette ogni cosa, e non ne riportò che... una negra a cui dedicò versi lascivi... Ebbe passioni morbose in amore: per donne laide, bruttissime, negre, nane, giganti... Cangiava d’alloggio tutti i mesi... Cercava di mostrarsi originale ubriacandosi davanti alle persone altolocate...». (L’uomo di genio, vol. I, Roma 1971, pp. 158-159).

Scrive a questo proposito Nicoletti: «Quando […] la critica italiana cominciò a interessarsi di quei poeti che, genericamente, chiamava “simbolisti” e “decadenti”, fonte a volte inconfessata ma non piccola delle sue perplessità e di parecchi spropositi, fu l’opera di Max Nordau. Questi volendo gettar ponti su pretesi abissi di degenerazione con l’ausilio della diffusa atmosfera positivista educò più di un capo scarico, e perfino qualche onesto studioso; sia incastrandosi proprio nel momento in cui la critica italiana mostrava nuova volontà di orientamento, sia pesando per via indiretta su giudizi posteriori, fabbricò l’armatura di un falso schema critico in cui lombrosiani, realisti e faciloni si trovarono a loro agio». (“Max Nordau e i primi critici del ‘Simbolismo’ in Italia”, in op. cit., p. 433).

E importante appare la capacità di Sonzogno di rendersi conto dell’urgenza di mettere in luce una certa lettura di Baudelaire che dall’infatuazione demoniaca poteva andare a cadere nella “nullificazione” estetizzante, perdendovi in questo modo il senso concreto del suo messaggio, che buono o cattivo (dal punto di vista morale) che fosse, messaggio restava, anzi “doloroso programma”. Certo perfino in Sonzogno è visibile la tendenza all’esaltazione del poeta “malato d’infinito e assetato d’ideale”, ma è anche presente la preoccupazione di rendere bene il testo, sfuggendo alle tentazioni di tradurlo in poesia.

Ecco la “Dedica” allo zio, redatta da Sonzogno in anteporta al citato volume della traduzione: «A te zio, per l’affetto padre, offro riconoscente questa modesta prova di lavoro; e – certo che nell’intelligente bontà dell’animo tuo saprai perdonare la povertà del tentativo – dirò a te le poche parole che avrei dovuto rivolgere al lettore.

«Delle opere e della vita di C. Baudelaire parlano diffusamente: Teofilo Gautier nella Prefazione ai Fiori del male, ricordando in quello studio critico l’originalità della concezione e l’inestimabile pregio – per lungo tempo disconosciuto – di quel capolavoro; Sainte-Beuve, di Custine, Deschamps, in lettere inviate a Baudelaire; Barbey d’Aurevilly, ed Asselineau in altri studi critici, che – seguendo l’esempio dell’autore – raccolsi in appendice.

«Il mio compito si limita a quello modesto del traduttore in prosa. Non pensai neppure ad una traduzione ritmica che oggi ancora – a lavoro compiuto – ritengo impossibile. Certo si potrebbe recare in versi qualcuna delle composizioni meno caratteristiche, ma – pur disperando di raggiungere la perfezione dell’originale – il numero sarebbe troppo esiguo. Nessuno potrà né dovrà – a mio avviso – tentare la traduzione in poesia dell’opera completa.

«Chi mai saprebbe rendere la fluidità e la sonorità del verso, la realtà selvaggia e la ferocia magistrale delle espressioni, l’intensità, l’originalità e la freschezza delle concezioni, costringendo le immagini e le parole nel verso? Se un ingegno superiore vi si attentasse – pur riuscendo a darci una buona traduzione – forse verrebbe di molto scemata la personalità squisita di quel temperamento d’artista originale ed esuberante; certo non potrebbe conservare quella sapiente struttura architettonica – che ricorda Dante e il divino poema – per la quale tutte le poesie, singolarmente perfette, concorrono alla perfezione ultima, con una mirabile unità di concetto e forma. Una sola lieve dissonanza diventerebbe un’atroce stonatura, guastandone la complessa armonia, e l’opera d’arte – incantevole arco di meraviglie – cadrebbe in rovina.

«Ecco perché la mia traduzione è in prosa. E neppure questo mi salvò dall’incontrare grandi difficoltà. Ho conservato l’asprezza e la crudeltà della frase, nulla aggiungendo o togliendo, attenendomi coscienziosamente all’originale, e presento alla critica un lavoro scrupolosamente accurato, senza la pretesa della perfezione.

«E la sarebbe completa, se potessi, nell’Italia nostra, contribuire col povero ingegno mio al movimento di riparazione – già iniziato in Francia da qualche anno e ora quasi compiuto – verso la pallida ombra del poeta che ebbe una vita tanto agitata, per avere fedelmente seguito quello che egli – con la triste rassegnazione degli esseri d’intelletto, delle anime malate d’infinito e assetate d’ideale – chiamava il suo doloroso programma.

«Milano, settembre 1893

«Riccardo». (C. Baudelaire, Fiori del Male, traduzione di Riccardo Sonzogno, op. cit., p. 5).

Ha precisato Bernardelli: «Sonzogno ha perfettamente capito la complessità della poesia di Baudelaire, miracolosamente al limite del sublime e del grottesco, e mette in guardia dai facili approcci». (Baudelaire nelle traduzioni italiane, op. cit., p. 358).

Una seconda edizione, riveduta e corretta, della traduzione di Sonzogno, esce sempre con le edizioni dello zio nel 1896 (228 pagine in sedicesimo, facente parte della “Biblioteca Universale”, nn. 229-230). La stessa edizione verrà ristampata più volte fino al 1932.

Col titolo di Reliquiae vede la luce nel 1895 una piccola edizione d’amatore, curata sempre da Sonzogno, per i tipi dell’editore Locatelli & Co. di Milano. Questo volume è l’unica opera di Sonzogno pubblicata presso un editore diverso dallo zio e non è opera per un vasto pubblico, ma destinata agli amatori per cui il prezzo è piuttosto alto. La veste grafica è molto accurata e la carta preziosa sulla quale è stampato è molto costosa. La copertina è di pergamena. La scelta di un editore lontano dai circuiti popolari, è significativa. Riccardo Sonzogno voleva completare un’operazione filologica di recupero delle liriche di Baudelaire nel loro insieme e non compiere un’operazione commerciale, che pur era riuscita per l’insieme delle Fleurs.

Il titolo, proposto nella forma latina Reliquiae, definisce queste poesie a margine come “residui”, come “oblate”, “ciò che rimane di qualcosa”, nel nostro caso ciò che è rimasto a margine, per condanna e per scelta.

Si cerca quindi con questa edizione di continuare l’opera intrapresa con la pubblicazione due anni prima della traduzione delle Fleurs, lavoro svolto da Sonzogno con l’intento di contribuire a una riparazione riguardo il poeta.

La raccolta comprende oltre alle poesie condannate, altre tre poesie che hanno suscitato scandalo, vari apparati di documentazione e le note del traduttore che seguono ogni lirica, alcune anche con la funzione di commento al testo.

Reliquiae contiene l’estratto della sentenza del Tribunale di Parigi del 20 agosto 1857, il testo della lettera di Hugo del 30 agosto 1857, l’“Epigrafe per un libro condannato”, le poesie incriminate: “Lesbo”, “Femmine Dannate”, “Il Lete”, “A quella che è troppo gaia”, “I gioielli”, “Le metamorfosi del vampiro”, e altre poesie: “Lola di Valenza”, “Le promesse di un viso”, “Il mostro o il paraninfo d’una ninfa macabra”.

Sonzogno sceglie anche qui di proporre una traduzione in prosa, attenta ai contenuti e filologica per quanto riguarda la forma, ma con qualche censura e attenuazione, come vedremo. Manca, come sempre, il testo a fronte.

Manca anche una premessa, ma i materiali critici sono disposti in modo da far compiere al lettore un percorso di conoscenza dei testi che sembra espressione di una radicale incomunicabilità.

L’estratto della sentenza del Tribunale di Parigi, del 20 agosto 1857, presenta subito, dalla prima pagina, la realtà della condanna e della soppressione delle sei liriche e la motivazione morale di questa decisione censorea: “Effetto funesto dei quadri che egli presenta al lettore, e che nelle poesie incriminate, conducono necessariamente all’eccitazione dei sensi per mezzo di un realismo grossolano che offende il pudore”.

Dall’altra parte si presenta la reazione del mondo dell’arte con il giudizio contenuto nella lettera di Victor Hugo del 30 agosto 1857, il poeta francese più noto saluta Baudelaire con l’appellativo “poète”: “Vi stringo la mano poeta, la vostra condanna è una corona in più”.

La terza voce in campo è quella dello stesso Baudelaire che parla attraverso un sonetto esplicativo: “Epigrafe per un libro condannato”.

Non scrissi, o lettore innocente,
pacifico e buon cittadino,
per te questo mio saturnino
volume, carnale e dolente.
 
Se ancora non hai del sapiente
Don Satana appreso il latino,
non farti dal mio sibillino
delirio turbare la mente!
 
Ma leggimi e sappimi amare,
se osi nel gorgo profondo
discendere senza tremare.
 
O triste fratello errabondo
che cerchi il tuo cielo diletto,
compiangimi, o sii maledetto!

Baudelaire chiede al suo lettore ipocrita: curiosità, sofferenza, ricerca, amore e una lettura particolareggiata; solo grazie all’esplicitazione ed esecuzione di queste premesse nasce la vera comprensione del testo poetico. Il lettore è invitato ad uscire dallo schema del perbenismo, a seguire il corso di retorica presso Satana per riuscire a comprendere queste liriche e, dopo averle conosciute, ad amarle.

È lo stesso percorso mentale ed affettivo che Sonzogno, scegliendo questo sonetto, vuole fare intraprendere ai lettori italiani, invitati fra l’altro anche alla lettura diretta del testo, unico modo per avvicinarsi alla realtà profonda del poema.

Il 6 giugno 1849 Proudhon fu arrestato per un articolo sulla responsabilità presidenziale e tornò in libertà nel giugno 1852.

Ecco cosa scrive Giuseppe Ferrari riguardo la sua esperienza di una visita in carcere a Sainte-Pélage: «Non dimenticherò mai i giorni, in cui rendeva la visita del lunedì a Proudhon nella prigione di Santa Pelagia, che rinchiudeva pure altri uomini politici. Noi partivamo dai punti lontani di Parigi, giungevamo dinanzi alla fortezza verso le cinque; vi si penetrava con passaporto regolare; una stanza nuda, chiara, ariosa, isolata ci serviva di sala; vi apparecchiavamo noi stessi la mensa, e il nostro disprezzo per tutti i governi del momento ci faceva più liberi che non lo fosse Luigi Napoleone all’Eliseo. Era l’indomani del 13 giugno 1849, cioè della sconfitta delle due democrazie di Francia e d’Italia: la prima era stata vinta resistendo alla spedizione di Roma e l’alta Corte di Versailles le aveva tolti trentatre deputati; l’altra era stata dispersa dalla restaurazione del papa sotto la bandiera repubblicana della Francia. I due più grandi idiotismi del mondo moderno, la monarchia francese e il papato italiano si rialzavano a nome della libertà, dell’eguaglianza e della fratellanza; i regi di Parigi predicavano la vera libertà; i prìncipi italiani si dicevano legittimi, amati e venerati, grazie alle baionette austro-repubblicane e, la commedia essendo perfetta e il controsenso universale, n’eravamo lietissimi. Non un’imprecazione, non un gesto d’impazienza, non una nube di tristezza; durante il pranzo si parlava brevemente delle più inopinate possibilità; conoscevamo i vulcani che dovevano sconvolgere l’Europa; dei re avrebbero bussato alla porta per dare il loro avviso che forse sarebbero stati ammessi alla conversazione. L’avvenire era sicuro e giaceva, per così dire, ai piedi dei convitati: l’uno doveva entrare all’Assemblea, l’altro in un ministero, chi era atteso da una direzione ferroviaria, chi da una vasta amministrazione; vi s’incontrava Courbert, che doveva rovesciare la colonna Vendôme, Beslay, che doveva salvare la banca di Francia, Braziano che, condannato da Napoleone, doveva rivederlo qual ambasciatore dei Principati danubiani. Alfred Darimon, l’alter ego di Proudhon, sempre illeso in mezzo al fuoco, doveva sostenere il proletariato contro l’Impero; Langlois e Vauthier, condannati a vent’anni di reclusione, non potevano mancare al convegno e nessun’autorità osava interdirlo a madama Vauthier, intrepida fiorentina, che aveva assistito il marito nello scavo di un sotterraneo per la fuga. Vedevamo gli innumerevoli fili di ferro del socialismo partire in tutte le direzioni ed eravamo certi di potervi contare per giungere a traverso l’impossibile a lontanissima meta, con meraviglia dei buoni e felicissimi borghesi che ci credevano annullati per sempre.

«Proudhon serviva di punto di riunione, non a causa di una teoria o di una dottrina o di una filosofia o di un impegno preso, ma a nome della libertà la più assoluta nell’interesse delle moltitudini.

«Altri poteva essere più audace nello sfidare i governi, formidabile sulle barricate, più insidioso nel preparare silenziosamente e bombe e cospirazioni e fucili; ma egli sorpassava tutti deridendo spietatamente la pretesa eternità di ogni dominazione. Con una parola ne additava qui il punto vulnerabile, là il guasto crescente, altrove la forza non sua, dappertutto la contraddizione che lo avrebbe strangolato a giorno fisso; pareva un titano, e nessuno più di lui meritava di essere chiamato incendiario.

«Dove prendeva egli la sua forza? Per qual prestigio sovrastava a tanti uomini di sì vari intendimenti? Un quarto di secolo e ormai scorso, gli avvenimenti non hanno mancato; la Francia non è più la stessa, eppure non può dimenticarlo né persuadersi che sia morto; rilegge i suoi scritti, scorre avidamente la sua corrispondenza e delle lettere, sfuggitegli sotto l’impero delle circostanze più volgari, sembrano scolpite per l’eternità. D’onde adunque questa longevità di un morto in mezzo a tanti uomini che si sopravvivono?

«Il suo merito è di essere l’operaio che pensa, che scrive, che discute per la prima volta; l’operaio, nulla di più, nulla di meno; l’operaio coi suoi reclami, colle sue collere, col suo avvenire che sente, indovina e raggiungerà a qualunque costo. Molti scrittori ebbero origine umile ed infelice; molti, uscendo dalle fabbriche e dalle officine, s’imposero coll’industria, con lo scambio, colle invenzioni, colla penna. Pierre Leroux era un compositore di stampe; Jasmin d’Agen un parrucchiere; quanti lavoranti non sostennero la causa del popolo in Germania, in Inghilterra, in America? Quanti capi di repubbliche non emersero dalle classi più infime? Ma si facevano strada conquistando un posto nella società qual’era; divenivano capitani, scrittori, signori, quasi fossero nati nell’opulenza; supplivano all’educazione borghese con una propria energia; imitavano l’astronomo Herschel, che si guadagnava la vita nell’orchestra di un pessimo teatro, e si rivelavano come se avessero studiato Virgilio, o discutevano sulla Repubblica di Platone quasi fossero allievi della Scuola Normale. Nessuna traccia della loro origine o di nuovi sentimenti, nel mentre che Proudhon è davvero l’uomo delle moltitudini, il plebeo che interviene col suo piglio, colla sua veste, con le sue scarpe a chiodi; sa che cammina su tappeti non a lui destinati, che il suo posto sarebbe nell’anticamera, o che dovrebbe vestirsi altrimenti; ma col suo ingegno si fa accettare per forza, nessuno guarda a’ suoi abiti, s’intende la sua voce quadrata ed egli parla competentemente di scienza, penetra colla più perfetta intelligenza in ogni mistero letterario e rimane colla più profonda ostilità per le convenienze accademiche, le ricche cornici, le bellezze d’uso, i giri oratori, i preamboli, le smorfie, le cerimonie che servono di garanzia alla vecchia società. Sa il latino per burlarsene, la filosofia per assalire la Sorbona, la storia per non essere dell’Istituto, la letteratura per deridere gl’immortali cointeressati nell’Accademia coi grandi signori e coi signori ministri, e chi vuol accusarlo di essere ed incongruo trovasi ipso facto costituito dalle proprie dichiarazioni eclettico e gesuita e, classificato fra i privilegiati, non può trarsi il dardo lanciatogli senza allargare la ferita. Né si tenti di accostarglisi con idee liberali, per illuminare il popolo, come si dice, per migliorare la sorte delle classi inferiori, per fare dell’operaio un borghese col diritto di avere un letto all’ospitale o una farmacia gratuita; egli è il primo nemico di sì lento progresso che lo snatura, lo disanima, ribadisce le sue catene e conferma la società a lui nemica. Il suo posto o nulla, e voi state al vostro, se potete.

«A stento i suoi scarsi studi gli valsero di farsi accettare come compositore in una stamperia; poi vi diventava correttore; non lo dispensarono dal giro tradizionale di Francia, il giro della miseria, e qui pure domina la mala fortuna, e lo vediamo risoluto difensore dei compagni contro i padroni, audace negli scontri; nel tempo stesso accetto agli autori, di cui corregge le stampe, poi loro consigliere, loro collaboratore, crearsi una specie d’industria intermediaria tra la tipografia e la letteratura e farsi larga la via ad altro avvenire. Presto i suoi intimi l’apprezzano, indovinano che le moltitudini intenderanno la sua voce, che sarà tribuno, riformatore, e gli amici lo ammirano talmente che l’uno di essi, Fallot, gli annunzia che sarà un autore, un filosofo, l’uno dei lumi del secolo, una gloria francese e, colto dal colera, sul suo letto di morte e talmente invaso dalla grandezza futura di Proudhon che rizzandosi subitamente colla vigoria di un giovane: – Giurami – gli dice – giurami di darmi l’immortalità –; scena che resta ammiranda nelle prime pagine della corrispondenza di Proudhon.

«D’ordinario si crede che basti il pensare per scrivere e lo scrivere per giungere al pubblico. Fra questi tre termini hannovi degli abissi dove si perdono innumerevoli virtualità. In primo luogo per pensare bisogna vivere, nutrirsi, alloggiare, dare ad un mestiere, ad una professione i nove decimi del proprio tempo, senza contare che le tentazioni dell’ozio, dei piaceri, delle passioni sono mille volte più esiziali che le più feroci persecuzioni, le quali almeno concentrano il pensiero sul proprio oggetto. Data poi un’idea, a che giova se non sapete esprimerla, se la parola vi manca, se la frase vi tradisce, se non trascinate il lettore di pagina in pagina, se non l’obbligate a riflettere sul vostro lavoro, ad appropriarselo o a combatterlo in modo che vi resti preso come in una rete? E una volta il manoscritto ripulito, perfezionato, di esito sicuro, conviene recarsi dall’editore che risponde invariabilmente di non volersi incaricare della prima pubblicazione di un autore, ed i suoi confratelli vi ripetono esattamente le stesse parole». (P. J. Proudhon [1875], in Scritti politici, Torino 1973, pp. 1051-1054).

Anche chi scrive è stato condannato e incarcerato più volte per articoli e libri. La prima condanna (a due anni e due mesi) l’ho avuta per un articolo pubblicato sul numero unico “Sinistra libertaria”. (Il testo incriminato si trova ora in Teoria e pratica dell’insurrezione, Catania 2003, pp. 132-137). La mia prima lettera scritta dal carcere, indirizzata ai compagni, è invece la seguente:

«Dal carcere di Catania, senza data, prima del processo [mese di novembre 1972].

«Cari...

«non mi riesce di scrivere a lungo, chino su questa scatola debbo riprovarci più volte, interrompendomi spesso. Non ho la macchina da scrivere e questo mi impaccia molto.

«Sono contento di stare a condurre una battaglia, ma non ne ho ancora bene afferrato il ritmo.

«La vita qui è allucinante. Tutti i giorni uguali. Dormire mangiare leggere passeggiare, dormire mangiare e così via…

«Sono chiuso in una cella di tre metri e ottanta per due, è un po’ come abitare in un cesso. Quando credi di averci fatto il naso ti accorgi di trovare una tonalità di puzza che non avevi scoperto prima. In questi pochi metri quadrati infatti coabito, oltre che con il cesso, anche con un certo rudere di lavandino dotato di meravigliose colture di muschio.

«Il letto e la bilancia (un armadietto pensile metallico che serve per la roba da mangiare e per sbatterci la testa) completano l’arredamento.

«Le prime notti trascorse in cella sono state abbastanza movimentate: i topi volevano prendere contatto con il nuovo pensionante.

«Da parte mia nessuna obiezione se avessero fatto meno rumore, ma il fatto che fossero capaci di svegliarmi (unitamente al pig di turno che ogni due ore ti accende la lampada da cento della cella e guarda dal buco della porta per accertarsi se sei ancora lì, se sei stato mangiato dai topi, o se hai segato le sbarre della finestra e sei fuggito), questo mi rompeva i coglioni.

«Dopo opportune consultazioni con gli altri detenuti ho scoperto che i simpatici e rumorosi visitatori venivano su dalla fogna (regolarmente priva di collo d’oca) insieme al profumo di cui ormai, sono sicuro, non saprei fare più a meno.

«Ma dalle consultazioni e dagli opportuni provvedimenti ho potuto beneficiare solo dopo quattro giorni. Per tutto questo tempo non ho potuto avvicinare nessun detenuto. Ero infatti in isolamento.

«Solo i pigs e nient’altro.

«Tutti alquanto desiderosi di sapere cosa si nascondesse dietro questo grosso uomo che sapeva restare calmo per venti ore in un buco fetido senza andare in escandescenze, senza chiedere nulla, senza pregarli di un favore.

«Poi hanno saputo che ero uno scrittore. Peggio! La loro curiosità di ottimi servitori del sistema non ha avuto limiti. Sfumava per loro il gioco crudele di farmi sbottare per poi chiudermi in una cella di punizione (versione peggiore di quella normale, con topi più grossi e cesso più fetido).

«Il quinto giorno sono stato dichiarato “detenuto comune” e sono uscito all’aria con gli altri. Ho trovato dei compagni, ho incominciato lo studio dei problemi del carcere, il modo di iniziare una lotta per accelerare il processo di miglioramento della vita di coloro che stanno qui dentro.

«Dopo una settimana sono stato portato alla presenza del capo dei pigs, una bestia piccola e troppo intenta a pescare con il grugno nel truogolo per degnarmi della sua attenzione. Mi sono presentato alla sua augusta presenza.

«Due occhi inutili mi hanno studiato strappando un inutile cervello alle complicazioni digestive pomeridiane.

«La degna persona ha tenuto a farmi sapere che la sua lunga esperienza di direttore delle carceri (leggi “aguzzino”) gli aveva fatto conoscere molti intellettuali e che spesso, questi, nel carcere, si lamentavano e piangevano e non sapevano darsi pace. Il mio silenzio forse lo ha infastidito, per cui, bagnandosi il muso, stava riprendendo a parlare. Ma l’ho interrotto.

«– Ha mai conosciuto, tra quelli che lei definisce intellettuali, dei rivoluzionari?

«– Ho conosciuto i partigiani.

«– Bene: allora deve ricordarsi che tutti i rivoluzionari, e in particolare tutti gli anarchici, non si sono mai lamentati di stare in galera. Non è nostra abitudine il lamento, ma la lotta. Taceremo sin quando non possiamo impugnare un’arma per colpire e allora il nostro grido non sarà di paura, ma di vittoria.

«La grossa sfuriata che stava per salirgli alla gola non so come venne bloccata, i suoi occhietti ritornarono a contemplare le carte del tavolo, compresi che potevo andarmene.

«Non sono stato più portato dal capo dei pigs.

«Le mie giornate sono adesso, dopo tre settimane di detenzione, alla vigilia del processo, migliori. Ho la fortuna di parlare, nell’ora d’aria, con i detenuti, cercando di capire la loro mentalità e i loro problemi. È un’umanità… [parola illeggibile] quella che sta qui dentro. Ladri, assassini, rapinatori, estortori, scippatori, rissatori, hanno tutti una loro logica, precisa, anche se non hanno mai trovato qualcuno che spieghi loro perché esiste la cosiddetta criminalità. Recitano con gravità il loro ruolo di ribelli perché la società non può accettare le loro richieste, che a volte sono veramente modeste. Invece di andare a lavorare in Germania e restare lontano dalle loro famiglie per anni, preferiscono correre il rischio del furto e poi, quando vengono presi, scontano pazientemente la galera. Per loro è un lavoro e lo prendono seriamente.

«Puoi vedere, all’aria, i borsaioli passeggiare con i borsaioli, i rapinatori con i rapinatori, gli scippatori con gli scippatori. Unica regola inderogabile: i rei di delitti contro i bambini e di delitti sessuali: sono messi al bando.

«Anche il problema sessuale è molto diverso da quello presentato dalla letteratura che si è sviluppata sull’argomento. Questi detenuti sono nella maggior parte dei grossi bambini che si vergognano di dire che ricorrono alla masturbazione. Le celle sono tappezzate di figure di donne, non di donne nude, come uno si aspetterebbe, ma vestite. Nella mia ci sono almeno quattro foto, ritagliate da un rotocalco, di una nota cantante in minigonna, una pubblicità della birra Peroni e diverse foto di donne in bikini.

«In effetti, la mancanza della donna non comporta soltanto una frustrazione di bisogni sessuali. Qui pesa il distacco dalla donna amata, dalla compagna che pensa come te, che lavora come te, che lotta come te […].

«Per il resto non ci si può lamentare: il mangiare è un fatto che presenta molti aspetti umoristici, aiuta a passare il tempo e rende allegri.

«La carne è il piatto forte (due volte la settimana), ogni detenuto ne riceve un pezzetto di circa cento grammi, di cui almeno un ottanta per cento è grasso, il resto è stoppa colorata. Quasi nessuno è sopravvissuto alla pastasciutta, i più temerari sono finiti in infermeria e poi sono stati portati al carcere di Messina per le cure appropriate al caso (il compagno Nunzio Biuso è uno di questi).

«Il latte del mattino è l’unica cosa che si può considerare commestibile (anche se una commissione di detenuti ha scoperto che in cucina succedono terribili battaglie per impedire ai topi di morirvi annegati ingloriosamente).

«Sopportabili pure i minestroni, avendo cura di togliere la pasta perché immangiabile.

«Dopo quasi dieci giorni di questa superalimentazione sono riuscito ad avere qualche soldo da casa e ho potuto comprare una fetta di carne arrosto al giorno (da mangiarsi subito se non la si vuole vedere trasformata per incanto in una superba tomaia per calzature).

«[…].

«Sono convinto che ora più che mai si deve attaccare il potere per strappargli la maschera del perbenismo socialdemocratico e scoprire la vera sostanza repressiva e antilibertaria. Questo può anche avvenire tramite la triste vicenda della coartata libertà di parola. Non mi difenderò quindi, ma all’opposto attaccherò, accusandoli di ostacolare con ogni mezzo il processo di liberazione rivoluzionaria delle masse, di impiegare la magistratura, la polizia, le leggi e tutto quanto costituisce l’apparato statale in senso antiprogressista e antidemocratico, di provocare la fascistizzazione delle istituzioni.

«Le masse hanno il diritto di organizzarsi liberamente e, quando lo Stato denuncia con chiarezza la sua eterna sostanza di prevaricazione e di morte, hanno l’obbligo di attaccarlo e distruggerlo. La parte più sensibile della massa, gli intellettuali, se non vogliono tradire il compito storico che li aspetta, debbono contribuire con gli scritti e con l’azione a questa lotta. Ogni scusa che porteranno avanti sarà soltanto un ozioso alibi contratto con la propria coscienza. È, per la verità, assai difficile che una classe privilegiata come quella degli intellettuali possa scrollarsi di dosso l’ipoteca terribile del desiderio di comandare e prevalere, ma, sia pure nel deserto, è sempre possibile trovare una piccola zona d’ombra e là cominciare a lottare […].

«Alfredo».

(Aa. Vv., Antigruppo 73 a cura di Vincenzo Di Maria e Santo Calì, vol. II, Catania 1972, pp. 485-490).

 

“Reversibilità” è tradotta nel 1895 da Vittoria Aganoor Pompili, nata a Padova di famiglia di origine armena, amica di Giacomo Zanella e di Domenico Gnoli (“Roma Letteraria”, 10 dicembre 1893). “Confessione” è tradotta dallo stesso Gnoli, notissimo studioso della poesia di Gioacchino Belli (“Fiammetta”, 11 marzo 1897).

Nel 1910 Alfredo Libertini pubblica un Saggio di traduzioni poetiche e di versi originali, stampandole presso la tipografia Montes a Girgenti (Agrigento). Si tratta di un piccolo volume in sedicesimo di 48 pagine. Sono tradotte, di Baudelaire, metricamente: “Elevazione”, “Il crepuscolo del mattino”, “Il crepuscolo della sera”, “Spleen”, ecc. Quattro anni dopo lo stesso autore pubblicherà il saggio I poeti francesi d’occasione e Carlo Baudelaire, Girgenti 1914, pagine 35, definito da Bernardelli: «Denso di imprecisioni e notevolmente in ritardo sul suo tempo (si ricordi la “letteratura d’occasione” di Vittorio Pica)». (Baudelaire nelle traduzioni italiane, op. cit., p. 364).

Senza data (ma del 1911) esce a Milano per la Società Editoriale Milanese una ulteriore traduzione col titolo Le liriche. 96 pagine in sedicesimo. Fa parte de “La Biblioteca per tutti” n. 58. Come struttura si tratta di una raccolta che ricorda le Reliquiae curate da Sonzogno. Essa comprende “Una scorreria attraverso lo studio critico di Teofilo Gautier” di Icilio Bianchi che traduce, di seguito, un primo gruppo di poesie di Baudelaire raggruppandole sotto la rubrica “Poesie incriminate” e un secondo gruppo sotto il titolo “Rottami”. Questa edizione ha una sorta di nota che attacca il puritanesimo, definito idiota, della sentenza di condanna del tribunale francese.

La prima traduzione in versi italiani è di Giosafatte Tedeschi ed esce a Catania nel 1913 per le edizioni Giannotta con introduzione di G. A. Costanzo, un poeta di Melilli le cui poesie vennero ammirate da Manzoni e Settembrini (G. Mazzoni, L’Ottocento, vol. II, op. cit., p. 1380). Il completamento di questa edizione uscirà, sempre curata da Tedeschi e con prefazione di Costanzo, tramite l’editrice “La Sicilia” di Messina. Il volume di 250 pagine è in sedicesimo e comprende 123 poesie divise in quattro sezioni. Nell’Introduzione col titolo “Ancora ai lettori” Tedeschi scrive: «Anche la rima non ho trasandato, questa droga piccante non indifferente al buon sapore artistico, e di cui lo stesso Poeta francese non volle fare a meno. Così italianamente condite, le forti, a volte nebulose, creazioni del grande originale Poeta francese, offro, sul vassoio del mio paziente lavoro, al fine palato dei miei lettori; e se non lo scoppiettio di piacere delle loro bocche, m’imprometto almeno di non provocare sui loro visi la smorfia del disgusto». (Citato da G. Bernardelli, Baudelaire nelle traduzioni italiane, op. cit., p. 370). E quell’“m’imprometto” crediamo sia sufficiente a dare la misura del lungo lavoro di Tedeschi e della difficoltà dei suoi lettori a gustarne i risultati.

La traduzione di Vincenzo A. Aloysio, allievo di Giovanni Bovio, non ho potuto trovarla. Essa venne pubblicata a Roma senza data (ma 1913) e, sulla base della descrizione di Bernardelli (ib., p. 386), era un in-folio di 8 pagine stampato dalla Casa Editrice Latina.

Nel 1914 esce a Firenze un’altra traduzione pubblicata dalla Editrice Quattrini, di 157 pagine in sedicesimo. Si tratta di un tentativo in versi liberi così giudicato da Bernardelli: «… resa in una scrittura che riprende fondamentalmente la cadenza della canzone leopardiana ma sembra a tratti anche anticipare le disarticolazioni della lirica ermetica». (Ib., pp. 364-365).

Paolo Buzzi cura, durante la guerra, per l’Istituto Editoriale Italiano di Milano, una nuova traduzione in versi liberi. Il volume è in trentaduesimo a causa della scarsa reperibilità e degli alti prezzi della carta. È il 1917. Importante la collana dove entra Baudelaire. Si tratta della “Raccolta di breviari intellettuali” in cui le Fleurs occupano il n. 2 dopo La dottrina nazionalista di Maurice Barrès. Una nuova edizione di questo lavoro di Buzzi esce per l’Editore Barion a Milano nel 1922. Il volume, di 263 pagine, è sempre in trentaduesimo. La penuria della carta andava scemando ma il gusto del librettino restava. È da notare come non a caso Buzzi proponga il verso libero essendo stato collaboratore della rivista di Marinetti “Poesia” e avendo partecipato alla stesura dell’“Inchiesta internazionale sul verso libero” (“Poesia”, 9 ottobre 1905).

Quattro anni dopo la traduzione di Buzzi, la Casa Editrice Italiana di Milano pubblica un’altra traduzione dovuta a Dacio Cinti. Vi sono comprese le poesie condannate. Il volume di 286 pagine è in sedicesimo. Nello stesso anno, sempre con la stessa editrice, escono i Poemetti in Prosa dello stesso traduttore. Cinti era stato segretario della rivista di Marinetti.

Una nuova traduzione esce nel 1928 con le edizioni Corbaccio di Milano. Il volume è di 286 pagine in sedicesimo.

Nel 1921 esce una scelta di brani tratti da opere diverse aventi per oggetto la donna. Il titolo è La Donna e l’amore. Edizione Libreria Editrice Moderna, Galleria Mazzini, Genova. Il volume è di 69 pagine in sedicesimo. La collana porta il titolo “I libri dell’amore”. Vi si trovano incluse tre poesie di Baudelaire.

Uno sfortunato tentativo di traduzione è fatto da Massino Spiritini con il suo Poeti di Francia (1400-1900), che porta il sottotitolo Calchi e ricami. Questo libro esce nel 1927 e porta tre poesie di Baudelaire. Esso dà inizio a una ondata di dilettantismo che si farà sentire sempre di più in questo periodo. Una seconda edizione accresciuta e presentata come seconda serie, esce a Lanciano nel 1929 per l’editore Carabba. Oltre alle traduzioni di Spleen si aggiungono altre due poesie di Baudelaire. Un altro libro di Spiritini uscirà nel 1942 per la Editrice Libreria “Dante” di Verona. Un volume di 242 pagine in sedicesimo. Si tratta di un’antologia di traduzioni col titolo: Autori stranieri (francesi, inglesi, nordamericani, tedeschi, russi). Di Baudelaire sono presenti due poesie.

Anch’essa molto dilettantesca è la traduzione di Salvatore Alonzo, fatta uscire nel 1930 presso l’editore Massima, senza luogo di edizione ma si tratta di Prato. Volume di 432 pagine in sedicesimo. Il testo delle Fleurs è preceduto da una Prefazione del traduttore e da uno studio sul poeta dal titolo: Baudelaire ossiaIl dramma della bestialità”. Comprende le poesie condannate e un’aggiunta di venticinque poesie considerate sotto il raggruppamento di “supplementi”. Il giudizio di Bernardelli è drastico: «Traduzione arcaicizzante e tardo-dantesca». (Baudelaire nelle traduzioni italiane, op. cit., p. 372).

Il volume I più bei poemi dei Fiori del Male, con traduzioni di Antonio e Maria d’Albavilla, stampato a Catania nel 1930 in-folio, non è stato possibile trovarlo, ma non dovrebbe essere documento molto importante. Secondo quanto riporta il Bernardelli la traduzione è metrica e la selezione è di sole quarantaquattro poesie. (Ib., p. 372).

Sulla stessa linea della traduzione di Spiritini è quella di Alfredo Libertini che Bernardelli definisce «metastasieggiante e canzonettiera». (Ib., p. 372). Il volume di XV-183 in sedicesimo venne pubblicato a Lanciano dall’editore Carabba nel 1931. Vi si trova una imprecisa ed approssimativa Introduzione del traduttore.

L’anno dopo Vincenzo Errante – un germanista – dava alle stampe, con le Edizioni del Liocorno di Milano, un Saggio di traduzioni in versi dalle liriche di Baudelaire. Edizione non in vendita di appena cento esemplari. Molti anni dopo, nel 1953, usciranno le Fleurs.

Onesta e dignitosa, a volte anche pregevole, la traduzione di Adele Morozzo della Rocca, pubblicata dall’UTET di Torino, per la prima volta nel 1933. Volume di 208 pagine in sedicesimo. La collana è quella dei “Grandi scrittori stranieri” fondata da Arturo Farinelli. Precede le traduzioni una introduzione biografica e critica. Si tratta di un’edizione più volte ristampata.

Intaccata dello stesso dilettantismo di Spiritini e di Libertini, è la traduzione di Cesare Sofianopulo, che non abbiamo reperito. Il volume, in base ai repertori bibliografici correnti, è stato pubblicato a Trieste dalla Licinio Cappelli nel 1937.

Nel 1944 escono alcuni tentativi di Beniamino Dal Fabbro col titolo: La Sera armoniosa e altre poesie tradotte da Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Mallarmé, Valéry, Góngora, Poe, Rilke, ecc. Un volume di 173 pagine in ottavo. Di Baudelaire sono tradotte quattro poesie. L’anno dopo uscirà la traduzione delle Lettere alla madre di Baudelaire (Bompiani 1945).

Ritorna la limitatezza dilettantesca con la traduzione di Enrico Vito Pannunzio, pubblicata nel 1946 da Bèrben Editore in Modena e Milano, che non abbiamo reperito.

Nel 1946, in un volume a cura di Mario Praz e Ettore Lo Gatto, dal titolo Antologia della Letteratura Straniera, Sansoni, Firenze 1946, due volumi, complessive pagine 1112, in ottavo, escono di Baudelaire, tradotte metricamente, “Elevazione” e “La vita anteriore”, tradotte da Giovanni Cena e altre poesie, sempre di Baudelaire, tradotte dallo stesso Praz.

L. G. Tenconi è il traduttore di una edizione de I Fiori del Male, uscita per i tipi dell’editore A. Barion jr. di Sesto S. Giovanni nello stesso 1946. Un volume di 225 pagine in ventiquattresimo. Collana “Orchidee” nn. 14-15. Un secondo volumetto, col titolo I Fiori relitti, esce nel 1948 (225 pagine) sempre in ventiquattresimo. Comprende tutti i restanti versi di Baudelaire e l’apparato esegetico.

Nel 1947 Riccardo Bacchelli si occupa di Baudelaire in un libro: Scampato dal fuoco: Lo Spleen di Parigi e altre traduzioni da Baudelaire, con aforismi e fantasie, editore Garzanti di Milano. Volume di 384 pagine in sedicesimo. Di già Bacchelli aveva tradotto e pubblicato sulla “Nuova Antologia” del 13 maggio 1930 alcuni poemetti in prosa di Baudelaire. Bernardelli non sembra molto soddisfatto dell’esito di questi tentativi. Così scrive: «Esso nasce come esercizio letterario e con intento d’arte, senza pretese divulgative o commerciali, restando, probabilmente, una delle migliori versioni dei poemetti in prosa. Non evita tuttavia a volte l’impressione di artificio, di “esercizio” appunto del letterato in cerca della originale e saporosa soluzione linguistica». (Baudelaire nelle traduzioni italiane, op. cit., p. 390).

L’editore Dall’Oglio di Milano pubblica nel 1948 un I Fiori del Male comprese le poesie condannate, senza l’indicazione del traduttore.

Annunziato Presta pubblica un I Fiori del Male, Poemi aggiunti, Reliquie, in traduzione ritmica, per i tipi dell’editore Angelo Signorelli di Roma. L’anno di pubblicazione è il 1948, il volume di pagine XXX-228 è in ottavo.

Un altro tentativo, quello di Alberto Airoldi, da noi non reperito, esce nel 1952, col titolo I Fiori del Male, per le Edizioni del Licinium Erba, in un volume di 202 pagine in sedicesimo, secondo la specificazione bibliografica corrente. Il Bernardelli a proposito di questo lavoro precisa: «Si tratta di una edizione di soli seicento esemplari numerati comprendente centosei poemi, più le poesie condannate in appendice. La versione è metrica». (Baudelaire nelle traduzioni italiane, op. cit., pp. 392-393).

Il lavoro di Vincenzo Errante, già iniziato nel 1932, come si è visto, si conclude con l’edizione del volume Parnassiani e Simbolisti francesi, uscito con la Sansoni di Firenze nel 1953. Si tratta di un libro di XL-578 pagine in ottavo. Di Baudelaire sono tradotti metricamente una quarantina di componimenti. Riguardo questa traduzione Bernardelli scrive: «La versione italiana [di Vincenzo Errante] restituisce bene e senza stiracchiamenti l’andamento discorsivo del testo baudelairiano mantenendosi semmai (ed è scelta intelligente) un gradino più sotto del tono linguistico e ritmico dell’originale… E tuttavia, l’industria del traduttore fa maldestro e immeritato naufragio nella chiusa del sonetto, dove il calibrato ultimo verso è risolto nella più pesante e frusta delle clausole». (Baudelaire nelle traduzioni italiane, op. cit., pp. 375-376). Il fatto è che Errante sosteneva la “possibilità del tradurre Baudelaire in versi”, con la stessa conclusione cui arriva il critico che stiamo seguendo, cioè Bernardelli. Vediamo cosa scrive il traduttore nella sua Introduzione al libro Parnassiani e Simbolisti francesi: «Anche contro questa antologia, prevedo che reagiranno i sostenitori ad oltranza della “impossibilità” di tradurre “in poesia” particolarmente i poeti lirici d’altra lingua. Non intendo riaffrontare qui la vessata quaestio sulla quale ho già altre volte sostenuto anche in vivaci polemiche, il mio punto di vista, precisando i limiti entro i quali restano inclusi perfino i risultati migliori del “tradurre in versi”. È ovvio, d’altronde, che questo libro intende ipso facto riaffermare non solo la fede nel suo autore sulla “possibilità” del tradurre in versi, ma anche la “necessità” del tradurre in poesia la poesia. Proprio per non defraudare la poesia dell’elemento suo forse più peculiare, più organico e più vitale: il melos». (Introduzione a Parnassiani e Simbolisti francesi, Firenze 1953, p. XXXVII).

Come vedremo, altri si porranno lo stesso problema.

Nel 1954 esce un piccolo contributo di Giovanni La Selva dal titolo Incontri con la poesia di Baudelaire. Si tratta della relazione presentata al raduno centrale del 28 aprile 1954 di Marina di Massa, del Rotary Club di Carrara e Massa. Esce stampato dalla tipografia Capanna di Borgotaro in 16 pagine in ottavo. Vi sono contenute traduzioni metriche di sei poesie di Baudelaire. Come vedremo, nel 1958, lo stesso traduttore darà un’edizione de I Fiori del Male.

Lo stesso anno Diego Valeri raccoglie una serie di otto conversazioni radiofoniche, pubblicandole col titolo Il Simbolismo francese (Da Nerval a De Régnier). L’editrice è la Liviana di Padova, il volume di 130 pagine è in sedicesimo. La collezione in cui esce porta il titolo “Guida di cultura contemporanea”. Contiene una traduzione ritmica di due componimenti di Baudelaire.

La “Biblioteca Universale Rizzoli” nn. 906-907, pubblica un volumetto in sedicesimo di 130 pagine nel 1955 dal titolo Lo Spleen di Parigi, contenente i poemetti in prosa. Traduzione di Piero Bianconi.

Il meglio di Charles Baudelaire è una raccolta pubblicata dalla Longanesi nel 1955 con una Introduzione di Henry Furst. Un volume di 638 pagine in sedicesimo. Fa parte della collezione “Il Meglio” con il n. 9. La traduzione è di Orsola Nemi e contiene due componimenti di Baudelaire e lo Spleen.

Sempre Giovanni La Selva pubblica un altro volumetto, come quello del 1954, presso la stessa tipografia di Borgotaro, e sempre in ottavo. Pagine 16. Il titolo è: Altri incontri con la poesia di Baudelaire. L’occasione un ulteriore raduno conviviale del Rotary Club di Carrara e Massa. Vi si trovano tradotti dieci pezzi da I Fiori del Male.

Nel 1957, Dall’Oglio di Milano, che già nel 1948 nella Collana “I Cervi” era uscito con una traduzione anonima de I Fiori del Male, pubblica, nella Collana “Ammiraglia” con il n. 6, una bella edizione dal titolo: I Fiori del Male. Relitti. Nuovi Fiori del Male. La Fanfarlo. I Paradisi artificiali. Lo Spleen di Parigi. Diari intimi. Pagine sparse, il tutto a cura di Clemente Fusero. Un volume di 727 pagine in ottavo.

Lo stesso anno, sempre a Milano, ma senza data, esce da Schwarz un saggio di traduzioni dal titolo: Da Baudelaire, Mallarmé, Whitman di Carlo Graziani. Un volume di 46 pagine in ottavo. Vi si trovano tradotti metricamente dodici componimenti di Baudelaire.

Una Antologia di poeti maledetti, con traduzioni metriche di Vittorio Pagano, esce stampata in una tipografia di Pajano in Galatina nel 1957. Contiene ventiquattro testi di Baudelaire. Edizioni Dell’Albero di Lucugnano. Il libro non l’ho visto ma conoscevo Pagano, un geniaccio leccese, praticamente autodidatta. In una lettera del 2 marzo 1974 mi scriveva riguardo a questa Antologia che Baudelaire è vissuto sempre “tra un paradiso artificiale e un inferno vero”.

L’anno dopo esce la traduzione integrale di Giovanni La Selva: I Fiori del Male, che porta così a compimento i suoi diversi tentativi, già visti prima. Editore: Ceschina di Milano. Il volume è di 311 pagine in ottavo. Vi si trova una Introduzione di Fernando Palazzi che ci è parsa assai modesta cosa. La conclusione più strana, sottolineata da Palazzi, è che dato che La Selva ha fornito un’ottima prova di traduttore in versi, è quindi poeta, per cui non ci resta che aspettare le sue poesie originali, e a sostegno della sua tesi cita Diego Valeri: «E poiché giustamente il mio amico Diego Valeri dice che tradurre è comporre, ritengo che, dopo questa prova di bravura, La Selva può ormai liberarsi dal timore riverenziale che sopra abbiamo detto ed è ben degno di dare al pubblico un secondo volume di sue liriche originali». (Introduzione di F. Palazzi a Charles Baudelaire, I Fiori del Male, Milano 1958, p. 13). Il che non è stupidaggine da poco.

Una vasta selezione de Les Fleurs du Mal, ben 77 poesie, ed altre tratte da Epaves e Nouvelles Fleurs du Mal, vengono pubblicate in un volume dal titolo Poesie dalla Nuova Accademia Editrice di Milano nel 1959, con traduzione di Romano Palatroni, introduzione di Enea Balmas e note di Gino Regini.

Lo stesso anno, nel libro di Mario Luzi: L’idea simbolista, edito da Garzanti a Milano, escono tradotte metricamente “Correspondances” (nella traduzione di Panunzio), “L’albatros” e “élévation” (in quella di Valeri) e “La Vie antérieure” (in quella dello stesso Luzi).

Dopo il tentativo interessante del 1954, Diego Valeri pubblica, nel 1960, con Mondatori un bel volume di 424 pagine in sedicesimo nella famosa collana “Lo Specchio – I Poeti del nostro tempo”. Il titolo: Lirici francesi. Vi si trovano le traduzioni metriche di sei poesie di Baudelaire. Nel 1962 uscirà una Introduzione dello stesso Valeri, alle traduzioni di Furlan, che vedremo più avanti.

Esce il saggio curato da Luigi De Nardis di traduzioni di Baudelaire, saggio che si concluderà nel più organico volume pubblicato qualche anno dopo da Feltrinelli. Questo libro, del 1961, è pubblicato con l’editore Neri Pozza di Venezia ed è di 331 pagine in sedicesimo. Il titolo: I Fiori del Male. Relitti. Supplemento ai Fiori del Male. La traduzione è metrica.

Per le Edizioni del Club del Libro, esce a Milano, senza data, ma 1962, un grosso volume di 653 pagine in ottavo, con le traduzioni di Tullio Furlan, e con la già citata introduzione di Diego Valeri. Il titolo: Les Fleurs du MalI Fiori del Male. Versione ritmica integrale. Non abbiamo reperito questa edizione ma un’altra fatta dalla Edipea di Novara nel 1974.

Le edizioni Curcio pubblicano nel 1964 la traduzione di Giorgio Caproni, pregevole saggio di una versione non ritmica. Il volume contiene sedici tavole di Orfeo Tamburi, è di 524 pagine in ottavo. In appendice riporta le sei poesie condannate.

Lo stesso anno escono presso le Edizioni Zibetti di Milano, nella Collana “Biblioteca Universale Zibetti” n. 213, I Fiori del Male. Relitti. Supplemento ai Fiori del Male. Poemi diversi. Traduzione di L. C. Tenconi. Si tratta di una nuova edizione dell’opera che era già uscita nel 1946 per i tipi dell’editore A. Barion jr. di Sesto S. Giovanni, di cui ci siamo occupati prima.

Sempre lo stesso anno viene pubblicata la traduzione completa di Luigi De Nardis presso Feltrinelli, con Saggio introduttivo di Erich Auerbach. Il volume di 368 pagine in sedicesimo esce nella “Universale Economica”. Scrive lo stesso Auerbach: «… le immagini della realtà che sorgono in lui [Baudelaire] sono intese in senso assolutamente simbolico, ma concretizzano sempre nel modo più convincente un dato di fatto atroce, una realtà terribile – e questo perfino quando il controllo della ragione è in grado di stabilire che non si può trattare di realtà sensibile. [...] Questo simbolismo si serve quindi di immagini, alla cui estrema efficacia realistica nessuno si può, e nemmeno si deve sottrarre: questa è infatti la precisa volontà dell’artista. Nonostante l’attenzione agli aspetti più macabri, vili e orridi della realtà quotidiana, Baudelaire adottò ugualmente uno stile alto e sostenuto, rimanendo sostanzialmente legato alle forme metriche tradizionali; per questo motivo, egli fu il primo ad esprimere in modo sublime dei soggetti che per il loro carattere non sembravano adatti a tale forma, dando così alla sua epoca un nuovo stile poetico: un misto di meschino e spregevole e di sublime, che si valeva di ciò che vi era di ripugnante nella realtà esteriore per una rappresentazione simbolica, cosa che egli portò a uno sviluppo impensabile prima di lui e che comunque non era mai comparso nella poesia lirica». (Ib., p. XII). Nella Nota esplicativa De Nardis precisa: «Nel caso delle Fleurs du Mal, la lettura critica si pone come fondamento di qualsiasi tentativo di riportare in altra lingua gli originali; anche a scapito della resa poetica, anche se a volte costa fatica rinunciare a un allettamento metrico o verbale, una episodica e in sé poeticamente valida soluzione, quando si discosti dalle concrete risultanze della lettura critica, può pregiudicare l’interna coerenza strutturale e artistica della composizione baudelairiana e vedersi quindi annullato il vantaggio di quello scatto, di quel libero movimento, perché resa incomprensibile (perché non più positivamente valida) dal suo isolato vagheggiamento di sé». (Ib., p. VII). De Nardis propone quindi un tentativo di versione poetica ma con alcune cautele, quali, ad esempio, l’impiego dell’endecasillabo al posto dell’alessandrino.

Appare nel 1967 una nuova edizione della traduzione di Cesare Sofianopulo, I Fiori del Male, anche questa, per noi, irreperibile (Editore Del Bianco, Udine).

Nel 1970 (nuova edizione nel 1976) i Fratelli Fabbri di Milano pubblicano I Fiori del Male. Poesie complete, con presentazione e versione integrale di Francesco di Pilla. Un volume di 286 pagine in sedicesimo, inserito nella Collana “I Grandi della Letteratura” n. 90.

Giuseppe A. Brunelli, nel 1971, pubblica, con i tipi della Peloritana Editrice di Messina un Omaggio a Charles Baudelaire, volume di 246 pagine in ottavo grande. Contiene tradotte molte poesie di Baudelaire.

Ancora Mondadori, nel 1973, ci dà un volume dal titolo Poesie e Prose a cura di Giovanni Raboni. Nel 1983 esce per Mondatori la traduzione di Gesualdo Bufalino, che qui seguiamo per i testi citati di Baudelaire.

Secondo Bernardelli (Baudelaire nelle traduzioni italiane, op. cit., pp. 382-384) tutte queste traduzioni, complete o parziali, de Les Fleurs du Mal, si possono raggruppare in tre periodi. 1° Il periodo della versione in prosa. Caratterizzato da una “professione di umiltà” e quindi dalla rinuncia, di fatto, a rendere la “retorica” di Baudelaire in una qualche soluzione in versi. I migliori rappresentanti di questo periodo sono Sonzogno, Buzzi, Cinti e Adele Morozzo della Rocca. 2° Il periodo del baudelairismo trionfante. Caratterizzato da molta approssimazione e dilettantismo. Le forme stilistiche assumono atteggiamenti aulico-dannunziani. Rappresentanti di questo periodo Tedeschi, Libertini, Alonzo. Forse si potrebbe includere anche la traduzione di Errante, sebbene abbia una propria austerità e dignitosità che la differenzia non poco dalla altre. 3° Il periodo attuale. Inizia come reazione al dilettantismo e alla magniloquenza del periodo precedente e prende l’avvio dai tentativi di De Nardis di applicare la scrittura della lirica italiana contemporanea al testo di Baudelaire. Lo stesso Bernardelli conclude a proposito di quest’ultimo periodo e dei tentativi di De Nardis: «De Nardis infine (e con lui di Pilla) reagisce a trent’anni di malgusto con una scelta radicale. Preoccupato anzitutto di ritrovare una misura e una sobrietà di cui i traduttori d’anteguerra – formati in un altro clima – non sentivano il bisogno, abbandona il proposito di ricalcare Baudelaire, adotta la scrittura della sua generazione e in quella cala e assesta la materia de Les Fleurs du Mal. E dunque: verso sciolto, enjambements, procedere sintattico mosso, allontanamento in genere dagli schemi organizzativi e retori baudelairiani. Concretamente, tutto questo si traduce in una smorzatura della sonorità del testo, in un salto tonale in senso discendente». (Baudelaire nelle traduzioni italiane, op. cit., p. 382).

Chiave di lettura, questa, molto utile, per avvicinarsi alle traduzioni più recenti che, come si è detto, sono non solo le migliori ma le più vicine al nostro modo di intendere oggi la poesia, al nostro gusto.

 


[1969], [1991]

* * * * *

Il Lete



Viemmi sul cuore, anima sorda e fiera,
ignavo mostro, adorabile tigre:
voglio tremando perdere le pigre
dita nel folto della tua criniera;
 
e la mia fronte, morsa dal dolore,
affondar nella tua gonna odorosa;
e respirar, come una vizza rosa,
il dolce lezzo del mio morto amore.
 
Vo’ dormire e non vivere, dormire!
Senza rimorso, con l’anima immersa
nel sonno, morte soave e diversa,
di baci il cupreo tuo corpo coprire.
 
Per spegnermi i singhiozzi entro la gola
nulla uguaglia l’abisso del tuo letto;
sulle tue labbra ha il forte oblio ricetto,
e il Lete nei tuoi baci umidi cola.
 
Deliziandomi ormai del mio destino,
l’orme ne seguirò, docile e pronto:
martire che sollecita l’affronto,
e il cui fervore infuria l’aguzzino,
 
succhierò, per placare il mio rancore,
il nepente e il benefico veleno
dai vaghi capi dell’erto tuo seno,
che non ha mai imprigionato un cuore.

Genesi della poesia “L’uomo e il mare” nella vita di Baudelaire e nella cultura romantica

Il tema del mare aggiunge le sue attrazioni poetiche, il suo colore e i suoi ritmi, al complesso architettonico che costituisce l’insieme delle Fleurs du Mal.

Baudelaire, tra il giugno del 1841 e metà febbraio del 1842, fa un viaggio per mare, organizzato dal patrigno. Arriva fino all’isola Maurizio e a La Riunione. Il ritorno avviene passando per il Capo. La poesia “L’albatro” descrive una scena di questo viaggio, tanto importante per il poeta: i marinai che si divertono a prendere gli albatri, “uccelli d’altomare”, che seguono la nave. Una volta sulla tolda, questi uccelli, così eleganti, diventano brutti e comici, perdono la loro bellezza. Il mare e i suoi abitanti sono ancora una volta occasione per una corrispondenza poetica. In quell’essere così “esule” il poeta si identifica.

Spesso, per passatempo, acchiappano i gabbieri
un di quei grandi albatri, uccelli d’altomare,
che, come pigre scorte, i nomadi velieri
sogliono sugli amari vortici accompagnare.
 
Sono appena deposti sul ponte che s’accasciano,
questi re dell’azzurro, con vergogna impotente,
e le grandi ali candide lungo i fianchi si lasciano
pendere come remi malinconicamente.
 
Il viator volante, com’è sgraziato e stroppio!
Lui, già sì bello, come laido e comico sembra!
V’è chi il becco gli stuzzica con la pipa, chi zoppica,
scimmiottando l’impaccio delle povere membra.
 
Poeta, anche tu abiti nel cuore della folgore,
e sfidi i dardi, e sopra le nuvole t’accampi:
esule sulla terra, fra i dileggi del volgo,
nell’ali di gigante ad ogni passo inciampi!

Come vedremo più avanti, spesse volte, nelle Fleurs du Mal, ritorna il tema del mare con la sua presenza indimenticabile, che il poeta rivive anche attraverso i tetti e i grandi cieli di Parigi.

Scrive Robert-Benoît Chérix: «Il poema de “L’uomo e il mare” è il monumento di questa adorazione». (Commentaire de Les Fleurs du Mal. Essai d’une critique integrale, Paris 1962, p. 77). In questa poesia il tema del mare, inteso come specchio, è, come scrivono Jacques Crépet e Georges Blin, «abbastanza usato, ma bisogna tenere presente che per Baudelaire questo tema è preso in senso universale, nell’allegoria cui si riferisce che rinvia alle corrispondenze dei sentimenti umani». (Les Fleurs du Mal, édition critique, ns. tr., Paris 1942, p. 320).

Il concetto di “corrispondenza” è molto importante nella poesia di Baudelaire.

“Corrispondenze”



È la Natura un tempio dove a volte viventi
colonne oscuri murmuri si lasciano sfuggire:
tu, smarrito entro selve di simboli, seguire
da mille familiari segreti occhi ti senti.
 
Come echi lontani e lunghi, che un profondo
e misterioso accordo all’unisono induce,
coro grandioso come la tenebra e la luce,
suoni, colori e odori l’un l’altro si rispondono.
 
Conosco odori freschi come parvole gote,
teneri come òboi, verdi come giardini;
altri, corrotti e ricchi, attingono remote
espansioni, al di là degli umani confini...
E sono i1 belzoino, l’ambra, il muschio, l’incenso,
che cantano le estasi dell’anima e del senso.

Attraverso l’immaginazione il poeta ordina la natura per corrispondenze, allo scopo di costruire un’unica, armoniosa, percezione intellettuale dell’universo percepito attraverso i sensi. In questo senso “L’uomo e il mare” contiene nella prima quartina la corrispondenza dell’anima che contempla, come per riflesso, le immagini della propria profondità e della propria amarezza. La seconda quartina contiene la corrispondenza del cuore, che trova la calma nell’“indomito lamento” delle onde, qualcosa come un’aperta confessione delle proprie angosce. La terza quartina stabilisce la corrispondenza tra due vite tenebrose e nascoste, tra due mondi: quella dell’uomo – che resta insondabile – e quella del mare, che è inconoscibile. L’ultima quartina completa il parallelismo e denuncia il segreto antagonismo tra l’uomo e il mare, sempre avversari all’ultimo sangue.

Lo stesso Baudelaire ci spiega i motivi del godimento dell’uomo nel contemplare il mare. «Perché lo spettacolo del mare è così infinitamente ed eternamente gradevole? Perché il mare offre in una volta l’idea dell’immensità e del movimento. Sei o sette leghe rappresentano per l’uomo il raggio dell’infinito. Ecco un infinito diminuitivo. Che importa, se basta a suggerire l’idea dell’infinito tale e quale? Dodici o quattordici leghe di liquido sono bastanti per dare la più alta idea di bellezza che sia offerta all’uomo nel suo abitacolo transitorio». (Mon cœur mis à nu, a cura di Claude Pichois, Genève 2001, p. 54, nostra trad.). Lo stesso Pichois scrive: «Si tratta di uno dei testi più esplosivi della letteratura francese». (Ib., p. 7).

Un altro passo, in cui Baudelaire prende il problema del mare dal punto di vista poetico, è contenuto nei Petits poëmes en prose. Qui egli scrive: «Non potevo […] staccarmi da questo mare così meravigliosamente seducente, da questo mare così infinitamente vario nelle sue spaventose semplicità, e che sembra contenere in sé e rappresentare con i suoi giochi, i suoi aspetti, le sue collere e i suoi sorrisi, gli umori, le agonie e le estasi di tette le anime che sono vissute, che vivono e che vivranno». (Paris 1869, ns. tr., p. 107).

Il riferimento qui contenuto, del poeta di fronte al mare, oltre alle sue esperienze di viaggio marittimo, si deve riportare ai soggiorni presso la madre. Quest’ultima, dopo la morte del secondo marito, quel generale Aupick che aveva organizzato il viaggio del poeta verso le Indie, era rimasta a vivere in una piccola casa in riva al mare, casa acquistata dal defunto consorte. Qui, il poeta si rifugiava qualche volta, lontano dalla vita di Parigi e dai suoi debiti. L’amore per il mare lo spingeva verso quel rifugio, unitamente alla sua nostalgia per l’aria del mare e gli orizzonti infiniti. Dalla casa, in fondo al giardino, si accedeva direttamente in riva al mare, da dove si poteva vedere l’estuario della Senna.

La sua residenza a Honfleur è definita da Baudelaire “il più caro dei miei sogni”. Egli amava particolarmente il porto della piccola città, dove faceva frequenti passeggiate. È proprio l’immagine poetica del porto che completa il lirismo del mare. Nel porto egli vede il soggiorno tranquillo di un’anima stanca della lotta della vita. In generale, la tematica del mare è largamente presente nell’epoca romantica.

Crépet e Blin sviluppano un parallelo tra “L’uomo e il mare” e alcuni passi del Childe Harold’s Pilgrimage di George Byron, in cui il mare è definitivo “profondo e tenebroso”, “terribile, impenetrabile, solitario”. (Les Fleurs du Mal, édition critique, op. cit., p. 319).

Un altro raffronto è possibile fare con “Il canto delle Oceanidi”, una poesia di Heinrich Heine:

Pallore seròtino cala sul mare
e solo, coll’anima sola,
siede là un uomo sui brulli frangenti
e guarda coll’occhio freddo di morte
su, lontano, nel cielo freddo di morte,
e guarda sulle ampie ondate del mare.
E sulle ampie ondate del mare
passano, vele dell’aria, i suoi gemiti,
e quindi ritornano afflitti,
e trovano chiuso quel cuore
dove volevano ancorarsi...
Ei geme sì forte che i candidi alcioni
spauriti si levan dai nidi di sabbia
e a stormi l’accerchiano;
ed ei dice loro ridenti parole

Il raffronto più dettagliato è quello con le pagine iniziali del romanzo di Balzac L’Enfant maudit (1831-1836), dove, fra l’altro, si legge: “Il mare diventava per lui un essere animato, pensante. Sempre, in presenza di questa immensa creazione le cui meraviglie nascoste contrastano enormemente con quelle della terra, egli scopriva la ragione di molti misteri”. Queste pagine sembrano quasi seguire il movimento della prima parte della poesia “L’uomo e il mare”. Balzac immagina una specie di appassionato dialogo tra il fanciullo e il mare. La stessa idea viene ripresa da Baudelaire che l’interpreta a suo modo dandogli un diverso significato. In questo incontro, in questo dialogo, due abissi si urtano: quello dell’oceano e quello del nostro cuore.

Antoine Adam (Les Fleurs du Mal, a cura di, Paris 1961) sviluppa questo parallelo in modo soddisfacente, facendo vedere come Balzac descrive il rapporto tra il fanciullo e il mare. Per il fanciullo il mare è un essere vivente, pensante, a cui diventa possibile confidare i propri pensieri. Il mare rivela al fanciullo stupefacenti malinconie, facendolo piangere, quando, calmo e triste, riflette un cielo grigio carico di nuvole.

Il contrasto tra i due abissi: quello dell’uomo e quello del mare, sono comunque assenti in Balzac. Da questo punto di vista il tentativo poetico di Baudelaire si sviluppa per altre strade.

 


[1969], [2002]

* * * * *

Paesaggio

Per compor le mie egloghe con verecondo zelo,
voglio come gli astrologhi dormir vicino al cielo,
e trasognando udire vagar sui tetti il lento
cantico che rapisce ai campanili il vento.
Col mento fra le mani, svegliarsi le fucine
vedrò dalla mia specola, garrule e canterine,
e i camini, e le guglie, alberi di granito,
e i cieli alti che insegnano l’eterno e l’infinito.
 
Dolce è vedere nascere attraverso le brume
la stella nell’azzurro, alla finestra il lume;
salire al firmamento i fiumi di carbone,
splender la luna, cinta d’un fantastico alone.
Così di mese in mese: che se poi, con la lunga
uggia delle sue nevi, l’inverno sopraggiunga,
chiuso dentro, al riparo di mille chiavistelli,
erigerò nel buffo favolosi castelli.
Allora sognerò paesi dal bluastro
orizzonte, acque tremule in vasche d’alabastro,
baci, uccelli che cantano giorno e notte, e le scene
più fanciullesche e tenere che l’Idillio contiene.
Frema pur la Sommossa dietro i miei vetri:
io non leverò nemmeno il capo dal leggio,
così a fondo sarò tuffato nel piacere
di evocar col mio semplice gusto le primavere,
e di trar dal mio cuore un sole, e in un repente
cielo cangiare il fuoco che mi brucia la mente.

“L’homme et la mer”
Analisi delle traduzioni
Problemi tecnici e problemi estetici

“L’homme et la mer” è la quattordicesima poesia di “Spleen et Idéal”, il primo gruppo delle Fleurs. Ad Alfred de Vigny, in una lettera del 16 dicembre 1861, Baudelaire scrive: «Il solo scopo, il solo elogio che sollecito per questo libro è che si riconosca che esso non è un semplice diario ma ha un inizio e una fine. Tutti i poemi nuovi sono stati fatti per essere adattati ad un quadro singolare che avevo scelto». (Citato da R. Decesse, Introduzione a Baudelaire, Les Fleurs du Mal, op. cit., p. 30).

Lo stesso Decesse propone uno schema in cui “Spleen et Idéal” è diviso in due parti, la prima “Idéal”, la seconda “Spleen”. Questa prima parte comprende altre due parti, “L’art” e “L’amour”. “L’art”, a sua volta si divide in due altre parti, “Le poète” e “La beau”. “Le poète” si ripartisce in tre parti ulteriori.

“L’homme et la mer” è del 1852 e, secondo Decesse «mostra l’uomo in uno specchio dove egli si perde, in una composizione abissale». (Ib., p. 49).

Ecco il testo originale (riproduco l’edizione curata da Gesualdo Bufalino per Mondadori nel 1983). Come ho avuto occasione di dire più sopra, non si tratta certo della scelta più felice, ma avendo discusso a lungo con l’autore nel corso dei due anni da me passati a Comiso (1981-1982) conclusi col tentativo di occupare la base missilistica, ho potuto constatare se non altro la sua preparazione tecnica e la sua buona volontà, oltre che la sua improntitudine (tradurre in versi è sempre una soluzione spudorata). Tutte le citazioni delle Fleurs du Mal contenute in questo libro sono tratte da questa edizione, anche se evito, perché pubblicata successivamente alla conclusione del mio lavoro, di discuterne i meriti e i difetti.

“L’homme et la mer”



Homme libre, toujours tu chériras la mer!
La mer est ton miroir; tu contemples ton âme
Dans le déroulement infini de sa lame,
Et ton esprit n’est pas un gouffre moins amer.
 
Tu te plais à plonger au sein de ton image;
Tu l’embrasses des yeux et des bras, et ton cœur
Se distrait quelquefois de sa propre rumeur
Au bruit de cette plainte indomptable et sauvage.
 
Vous êtes tous les deux ténébreux et discrets:
Homme, nul n’a sondé le fond de tes abîmes;
ô mer, nul ne connaît tes richesses intimes,
Tant vous êtes jaloux de garder vos secrets!
 
Et cependant voilà des siècles innombrables
Que vous vous combattez sans pitié ni remord,
Tellement vous aimez le carnage et la mort,
ô lutteurs éternels, ô frères implacables!
 
“L’uomo e il mare”
 
E tu sempre amerai, uomo libero, il mare!
In lui ti specchi intero: nei giuochi sempre nuovi
delle sue onde innumeri i moti tuoi ritrovi,
e nei suoi acri vortici le tue latebre amare.
 
In seno alla tua immagine entri senza spavento,
e con gli occhi e le braccia l’accarezzi: il tuo cuore,
talora distraendosi dal suo proprio rumore,
gode di quel selvaggio, indomito lamento.
 
Nessuno è come voi tenebroso a discreto:
chi osa, uomo, calarsi nei tuoi gorghi profondi?
chi, mare, a te contendere i beni che nascondi?
Tanto siete gelosi d’ogni vostro segreto!
 
Ma ecco, un contro l’altro, in spietati duelli
v’accanite da secoli a tentare la sorte:
a tal punto vi eccita il massacro e la morte,
o lottatori eterni, disumani fratelli!

Il primo gruppo di traduttori che esaminiamo, secondo la ripartizione vista prima in tre sezioni, appartiene al “periodo della versione in prosa”. Sono Riccardo Sonzogno, Paolo Buzzi, Decio Cinti e Adele Morozzo della Rocca.

Il primo tentativo in assoluto, come sappiamo, è quello di Sonzogno, che si pone molti problemi d’indole stilistica e tecnica.

Ecco, intanto, la traduzione in prosa:

 

«Uomo libero, tu amerai sempre il mare! Il mare è il tuo specchio; tu contempli la tua anima nello svolgersi infinito della sua onda, e il tuo spirito non è un pelago meno amaro.

 

Ti compiaci nel tuffarti in seno alla tua immagine; l’avvolgi con li occhi e con le braccia, e il tuo cuore si distrae talvolta dal suo proprio battito al rumore di un lamento indomabile e selvaggio.

 

Siete ambedue tenebrosi e prudenti: uomo, nessuno ha mai scandagliato il fondo de’ tuoi abissi, o mare, nessun conosce le tue intime ricchezze, tanto siete gelosi dei vostri segreti!

 

E pure ecco, da innumerevoli secoli vi combattete senza pietà né rimorso, tanto amate la carneficina e la morte, o lottatori eterni, o fratelli implacabili!».

(I Fiori del Male, con prefazione di T. Gautier, ecc. Prima traduzione italiana in prosa di Riccardo Sonzogno, Milano 1893, p. 95).

 

Comprendendo chiaramente la difficoltà della poesia di Baudelarie, Sonzogno ha impiegato un metodo sobrio e misurato, facendo un lavoro che se è senza eccessive pretese ha, almeno, la validità di essere utile.

Non che Sonzogno non si rendesse conto del valore del verso di Baidelaire in se stesso, anzi tutt’altro, come appare chiaramente dal seguento passo dell’Introduzione: «“Sorrente m’a rendu mon doux rêve infini”. Ogni orecchio sensibile comprende la vaghezza di questa consonante liquida ripetuta quattro volte e che sembra cullarvi sulla sua onda nell’infinito del sogno come una piuma di gabbiano sull’onda azzurra del mare napoletano. Si trovano frequenti allitterazioni nella prosa di Baudelaire, e gli antichi poeti scandinavi ne facevano gran uso. Queste minuzie sembreranno certo molto frivole agli utilitarii, ai progressisti, agli uomini pratici o semplicemente spirituali, che pensano con Stendhal che il verso sia una forma infantile, buona per le età primitive, e chiedono che la poesia si scriva in prosa come è proprio di un’epoca assennata. Ma sono questi particolari che fanno i versi buoni o cattivi e che dimostrano se uno è o non è poeta». (Ib., p. 44).

E, a scanso di equivoci, Sonzogno evita di “far versi” lui stesso e ci fornisce una traduzione in prosa. C’è da precisare che ovviamente anche la traduzione in prosa presenta le sue difficoltà e non è certo in grado di assolvere a tutti i compiti proposti dal testo. Ad esempio, la parola “chériras” ha, nella lingua originale, un senso di “tenerezza” che non si può dire sia necessariamente compreso nell’italiano “amerai”. D’altro canto non si poteva tradurre con “amerai teneramente”, a rischio di allungare troppo la musicalità del contesto che, malgrado l’essenza del metro, non può stendersi all’infinito.

Difatti, nello stesso gruppo che stiamo esaminando, per il quale la traduzione di Sonzogno dovette senz’altro servire da guida e da riferimento, le scelte sono abbastanza obbligate. Buzzi usa “adorerai”, ma si tratta di un evidente peggioramento.

Un certo miglioramento viene realizzato dai tre traduttori seguenti riguardo la parola “gouffre”, realizzata da Sonzogno alquanto infelicemente col tardo-dantesco termine di “pelago”. Più onesto termine “abisso”, restato invariabile nei tre successivi traduttori.

Il secondo gruppo di versi presenta un groviglio difficile con le tre parole: “rumeur”, “bruit”, “plainte”, troppo vicine per non causare, in italiano, notevoli difficoltà di collocazione in modo tale da dar conto dell’originale francese. Sonzogno linearmente propone un accoppiamento “battito”, “rumore”, “lamento”, che se non è geniale è almeno onesto. Di quanto scada Cinti ognuno se ne può avvedere: “rombo”, “fragore”, “lamento”. Lo stesso Buzzi, che non fa altro che ripetere due volte lo stesso termine: “rumore”, “rumore”, “lamento”. E la Morozzo della Rocca, con maggiore garbo, ma al di sotto di Sonzogno (almeno ci pare): “palpiti”, “suono”, “lamento”.

È chiaro, qui, la pretesa futurista di Buzzi e di Cinti di dare – forse involontariamente – un certo dinamismo al loro tentativo. L’impiego di termini come “rombo” per tradurre “rumeur” e “fragore” per tradurre “bruit”, e l’impiego della ripetizione “rumore”, “rumore” per tradurre la coppia “rumeur”, “bruit”, non sono facilmente spiegabili in maniera diversa.

Nel terzo gruppo la parola “sondé” trova in Sonzogno una disastrosa trasposizione in “scandagliato”, corretta da Cinti in “scandagliò”, la qual cosa non fa che peggiorare la soluzione precedente. Più corretto Buzzi con “sondato”, ma con un risultato per il lettore italiano non certo migliore. La Morozzo della Rocca ha (a nostro avviso) la soluzione più adatta, impiegando il termine “penetrato” che, comunque, svisa il senso del testo restando più superficiale.

Sempre nel terzo gruppo di versi, l’ultimo “Tant vous êtes jaloux de garder vos secrets!” perde una parola con Sonzogno che rende: “tanto siete gelosi dei vostri segreti!”. Perdita necessaria a causa del termine “scandagliato” che aveva finito per deformare la musicalità – e quindi la lunghezza – dell’intero pezzo. Di ciò non si rende conto Cinti (che ci appare come il più infelice tra i quattro traduttori), il quale pur utilizzando il termine “scandagliò”, altrettanto lungo di “scandagliato” (almeno dal punto di vista di una metrica ideale) traduce il verso di cui sopra con “tanto siete gelosi di serbare i vostri segreti”, finendo per allungare troppo il tutto. Buzzi, partendo dal suo “sondato”, si può permettere la seguente versione: “tanto voi siete gelosi di custodire i vostri segreti!”. La Morozzo della Rocca, che impiega il suo più signorile “penetrato”, sufficientemente corto, realizza forse la chiusura migliore del gruppo di versi: “gelosi come siete di custodire i vostri segreti!”, che poi è la più aderente al testo.

L’ultimo gruppo ha l’ostacolo della parola “carnage”, resa da Sonzogno con il pesante termine “carneficina”, imitato da Buzzi, e sostituito da Cinti e dalla Morozzo della Rocca col termine, non proprio adatto, di “strage”.

Di questo gruppo di traduzioni, la migliore è quasi certamente quella di Sonzogno, seguita, per delicatezza di toni e scelta appropriata di alcuni termini, da quella di Adele Morozzo della Rocca. Restano più indietro le due traduzioni di Buzzi e Cinti. Inoltre, nello sforzo di Sonzogno appare chiaramente il tentativo di “recuperare” un Baudelaire meno “compromettente”. Così scrive Bernardelli: «Siamo sempre nell’ambito di una asciuttezza linguistica e di una efficace umiltà traspositiva che raramente i traduttori successivi sapranno ritrovare. Ogni poesia è accompagnata da una nota filologica e letteraria che tende a giustificare l’elemento “compromettente” che essa contiene inquadrandolo, con sobrietà e intelligenza, nell’economia complessiva della poetica baudelairiana… Non più Baudelaire “ammalato”, di un “progresso che finisce per essere una decadenza”, uomo di cui “tutto è anormale”, personalità morbosa… ma Baudelaire grande romantico e grande stoico a un tempo, “anima malata d’infinito e assetata d’ideale” che pone volontariamente tra il proprio dolore e il volgo impudente il diaframma della perversione e della decadenza». (Baudelaire nelle traduzioni italiane, op. cit., pp. 360-361).

Nel secondo periodo di traduzioni che abbiamo definito “del baudelairismo trionfante”, esaminiamo quattro tentativi: quello di Giosafatte Tedeschi, quello di Salvatore Alonzo, quello di Alfredo Libertini e quello di Vincenzo Errante. Riportando il testo completo della traduzione ci si può rendere conto del grave peggioramento che si è verificato per naturale conseguenza dell’impiego forzatamente acritico del processo di trasposizione poetica:

«Uomo libero, tu sempre
Fortemente amerai il mare;
E il tuo specchio; la tua anima
Tu potrai ben contemplare
Nello svolgersi infinito
Dei suoi flutti, dappoiché
Il tuo spirto meno amaro
Fondo baratro non è.
 
Di tua imago in seno immergerti
Ti compiaci; con amore
Dalle tue braccia e dagli occhi
La circondi, ed il tuo cuore
Dai medesimi suoi battiti
Di distrarsi spesso ha l’aggio
Al rumor di quel lamento
Indomabile e selvaggio.
 
Siete entrambi tenebrosi
E prudenti: a niuno al mondo
Di sondare, o uomo, è dato
Dagli abissi tuoi il profondo;
Niuno, o mar, conosce appieno
I tesor che porti ascosi,
Tanto dei segreti vostri
Sapet’essere gelosi!
 
Nonostante ciò, da secoli
Infiniti eccovi già
A combattervi senz’ombra
Di rimorso e di pietà,
Si vi piacciono la morte
E gli orribili macelli,
O perpetui lottatori,
O implacabili fratelli!».

(I Fiori del Male, prima traduzione in versi italiani di G. Tedeschi, Catania 1913, pp. 59-61).

La caratteristica essenziale di simile versione è la ridondanza retorica, l’amplificazione ritmica e semantica, la magniloquenza gratuita o di stretto servizio alle necessità metriche, comunque del tutto fuori posto nei confronti del testo originale.

Nel primo gruppo di versi troviamo aggiunte parole come “fortemente”, “ben”, “dappoiché”, “fondo”. Nella traduzione di Libertini, le aggiunte dello stesso gruppo di versi sono “bene”, “c’è dato”, “inver”. In quella di Alonzo: “ti chiama”, “davanti”. Il tentativo di Errante, più leggero, riporta solo l’aggiunta: “profonde e amare” che sostituisce l’originale “amer”.

Il secondo gruppo di versi ha, nella traduzione di Tedeschi, la seguente aggiunta: “aggio”; in quella di Libertini: “di lei”; in quella di Alonzo: “senza”; in quella di Errante: “eternale”. Tutto sommato il tono retorico si affievolisce un poco nei confronti del primo gruppo.

Il terzo gruppo di versi ripresenta pesanti aggiunte. Tedeschi: “a niuno al mondo”, “è dato”, “appieno”, “sapete”; Libertini: “de’ tuoi fondi”; Alonzo: “a un tempo”; Errante: “persistete”, “sonda”, “cuori”, splendori”.

Ed infine l’ultimo gruppo di versi ha le aggiunte seguenti: Tedeschi: “senz’ombra”, “sì”, “orribili”; Libertini: “per vero”, “ancor”; Alonzo: “sorsero”, “dacché”, “l’atra”, “prediligete”; Errante: “sono ormai”, “secoli secoli”, “sterminati”, “dispietata morte”, “entrambi”, “fiori agonisti”.

L’analisi delle parole che abbiamo condotto per il primo gruppo di traduzione, presenta qui maggiori difficoltà, visto la più ampia ridondanza retorica e il necessario, sostanziale, cambiamento delle posizioni.

Il termine “chériras” è reso da Tedeschi col tradizionale “amerai” e da Alonzo col non meno collaudato, ma banale, “adorerai”. Libertini e Errante impiegano il foscoliano “avrai pur caro” e “avrai tu sempre caro”, chiaramente retorico.

Riguardo il problema della presenza dei tre termini: “rumeur”, “bruit”, “plainte” le cose si complicano. Tedeschi usa “battiti”, “rumor”, “lamento”, tradendo il primo termine e aggravando il tradimento con un “medesimi suoi battiti” che dovrebbe rendere “de sa propre rumeur”, senza, ovviamente, riuscirci. Non parliamo poi del “rumor” che dovrebbe rendere “bruit” e che in se stesso andrebbe pure bene se non fosse distrutto dalla parola precedente, che è nientemeno “aggio”, per cui si ha:

“Di distrarsi spesso ha l’aggio
Al rumor di quel lamento”,
che dovrebbe rendere
 
“Se distrait quelquefois…
Au bruit de cette plainte…”.

Libertini impiega “battere”, “rumore”, “voce”. Il risultato, seppure meno retorico è abbastanza sgradevole, specie in “de la voce selvaggia e indomabil di lei”, che dovrebbe rendere “de cette plainte indomptable et sauvage”.

Alonzo ci fornisce “rumore”, “suon”, “lagno”, con risultati almeno pari alla “voce” di Libertini, avendosi “questo lagno selvaggio e senza freno” con pretese di rendere: “de cette plainte indomptable et sauvage”.

Errante scrive qualcosa di tutto suo con ben poche relazioni col testo. La sequenza impiegata è “fragore”, “eco”, “pianto”, con un certo ricordo della traduzione di Cinti e del suo insolito “fragore”.

Nel terzo gruppo di versi il termine “sondé” è tradotto con la parola “sondato” da Tedeschi, termine che abbiamo visto già utilizzato da Buzzi. Libertini adotta la stessa soluzione. Alonzo, usando una parafrasi simile a quella di Adele Morozzo della Rocca, sceglie il termine “veduto”, più o meno simile al “penetrato” della traduttrice, ed altrettanto superficiale. Una strana soluzione è invece quella di Errante, che trasforma il verbo in un sostantivo di dubbio gusto e ci parla di “nessuna sonda giunge sul fondo dei cuori”.

Il termine “carnage”, del quarto e ultimo gruppo, è reso con un plurale “macelli” da Tedeschi; con il solito “strage” da Libertini e da Alonzo, che riprendono le soluzioni di Cinti e della Morozzo della Rocca, con la particolarità che in Alonzo rinviene un suo specifico cattivo gusto nell’aggiungere immediatamente “e l’atra morte”. Errante impiega il termine “sterminio”.

A parte il lavoro di Errante, che qui si accomuna per le caratteristiche esteriori e per i risultati definitivi dell’effetto retorico, le altre tre traduzioni vennero prodotte in un clima generale: quello prefascista e fascista, che non rifuggiva (prima) ed esaltava (dopo) dal valore della lingua come elemento di sublimazione della nazionalità. Caratteristiche le parole di Alonzo nell’Introduzione del suo lavoro: «Questo tentativo di tradurre in versi italiani i Fiori del Male è fatto col solo scopo di provare ancora una volta che la nostra superba lingua è una miniera inesausta, la quale concede ad ogni pioniere volenteroso e tenace la possibilità di ricostruire con gemme nostre ogni gioiello nato sotto altro clima ed altra veste, nella stessa forma poetica». (Introduzione di S. Alonzo a Ch. Baudelaire, I Fiori del Male, Firenze 1930, p. 7). Insomma, una specie di produzione autarchica delle Fleurs, adatta allo spirito degli anni Trenta italiani, lo spirito del grande consenso.

Ultimo gruppo di traduzioni è quello che si può collocare subito dopo la guerra e che dura fino ai giorni nostri. La quasi totalità di queste versioni è metrico-ritmica.

Le soluzioni più interessanti sono quelle presentate da De Nardis, di Pilla, Brunelli, Caproni.

Vediamo un’analisi globale.

La soluzione di De Nardis:

«Sempre il mare, uomo libero, amerai!
Perché il mare è il tuo specchio; tu contempli
Nell’infinito svolgersi dell’onda
L’anima tua, e un abisso è il tuo spirito
Non meno amaro. Godi del tuffarti in seno
Alla tua immagine; l’abbracci con gli
Occhi e con le braccia, e a volte il cuore
Si distrae dal suo suono al suon di questo
Selvaggio ed indomabile lamento.
Discreti e tenebrosi ambedue siete:
uomo, nessuno ha mai sondato il fondo
dei tuoi abissi; nessuno ha conosciuto,
mare, le tue più intime ricchezze,
tanto gelosi siete d’ogni vostro
segreto. Ma da secoli infiniti
senza rimorso né pietà lottate
fra voi, talmente grande è il vostro amore
per la strage e la morte, o lottatori
eterni, o implacabili fratelli!».

(Ch. Baudelaire, I Fiori del Male, traduzione di L. De Nardis, Milano 1965).

Riguardo il suo tentativo, scrive lo stesso De Nardis: «La cadenza della poesia baudelairiana, com’è noto, è strettamente legata al paziente travaglio metrico, alla lotta accanita con la cesura e le rime, con le strutture atrofiche e gli schemi compositivi: ora chiunque apra a caso questo libro si accorgerà che il traduttore è stato solo episodicamente fedele alla versificazione degli originali, all’accanito e non sempre felice gioco delle rime, alle strutture metriche adottate da Baudelaire. La infedeltà è solo apparente: ho avuto sott’occhio durante questi anni parecchie versioni cosiddette fedeli, e non ho potuto fare a meno di ammirare la perizia metrica (l’avesse avuta Baudelaire) dei traduttori, disperatamente impegnati a darci il calco, spesso abbellito, di quelle strutture, di quei ritmi. Ma i suoi non erano gli stessi (e quindi i significati), metà delle parole non appartenevano a Baudelaire e l’altra metà, sforzata dentro scarpe non sue, gemeva e si disperava con curiosi accenti, in una strana lingua fatta di tutti i cascami retorici della poesia italiana, accumulatisi in tanti secoli». (Ib., p. XI).

La scelta dell’endecasillabo, per De Nardis, è un mezzo di “pulizia” stilistica, assicurandogli questo verso una certa costanza della linea lirica, intesa in senso antiromatico (su dichiarazione esplicita dello stesso traduttore).

Bernardelli non è d’accordo scrivendo: «Questo è certo un dignitoso esempio di scrittura poetica media quale si praticava tra il ‘40 e il ‘60… Ma essa è anche, a parere nostro, piuttosto lontana dalla maniera baudelairiana e, in definitiva, dal registro psicologico e dalla coloritura tipica di Baudelaire, il quale pratica una scrittura estremamente complessa, densa di effetti, spesso sonante aritmicamente esaltata, artificiata sapientemente». (Baudelaire nelle traduzioni italiane, op. cit., p. 379).

Un altro importante tentativo è fatto da di Pilla:

«Uomo libero, sempre amerai il mare!
È il tuo specchio; contempli la tua anima
Nel volgersi infinito dei suoi flutti,
E il tuo spirito non è certamente
Abisso meno amaro. Ti compiaci
D’immergerti nella tua stessa immagine;
Tu l’abbracci con gli occhi e con le braccia,
E il tuo cuore talvolta si distrae
Nel proprio battito al rombo di questo
Indomabile gemito selvaggio.
Siete ambedue tenebrosi e discreti
Nessuno, o uomo, ha mai sondato il fondo
Nei tuoi baratri, nessuno conosce,
O mare, le tue intime ricchezze,
Così gelosi dei vostri segreti;
Innumerevoli vi combattete
Senza pietà o rimorso, tanto amate
Carneficina e morte, o lottatori
Eterni, implacabili fratelli!».

(Ch. Baudelaire, I Fiori del Male. Poesie complete, a cura di Francesco di Pilla, Milano 1976).

La differenza tra la traduzione di De Nardis e quella di di Pilla, sebbene poco appariscente, è notevole. Il tono di di Pilla è più smorzato, un tono che è stato definito “quasi parlato”, con una tendenza a spegnere le alzate liriche dell’originale.

Bernardelli non approva nemmeno questa soluzione e scrive: «Come quella del De Nardis, questa del di Pilla ha il pregio della continuità e della dignità linguistica: evita le zeppe, le ridondanze, le commistioni stilistiche e le punte enfatico-comiche delle traduzioni d’anteguerra, ma lascia al lettore che conosce l’originale l’impressione di un Baudelaire depauperato e intisichito oltre la misura che è d’obbligo concedere in un lavoro di traduzione». (Baudelaire nelle traduzioni italiane, op. cit., p. 381).

Vediamo la soluzione proposta da Brunelli:

«Uomo, spirito libero, tu sempre la amerai!
È quest’acqua il tuo specchio; qui l’anima contempli
Al rotolarsi candido e infinito dell’onda;
né meno fonda e amara voragine tu sei.
 
Giù in seno alla tua immagine ti tuffi! E in quel miraggio,
ecco abbracciarti all’onda con gli occhi e con le braccia;
or si distrae il cuore dal suo proprio rumore
al suono di quel gemito indomito e selvaggio.
 
Ed entrambi voi siete discreti e tenebrosi.
Uomo, chi ha mai sondato dei tuoi abissi il fondo?
Chi sa le tue ricchezze al mondo, onda infinita?
Tanto i segreti siete di serbare gelosi.
 
Ma tra voi, tuttavia, dai secoli insondabili,
vi combattete, senza né pietà né rimorso,
tanto alla strage avete e alla morte ricorso,
o lottatori eterni, o fratelli implacabili!».

(G. A. Brunelli, Omaggio a Charles Baudelaire, op. cit., p. 129).

I risultati di questo tentativo sono molto interessanti. Per primo si impone l’analisi di Brunelli riguardo il senso stesso della poesia di Baudelaire e la “necessità” di recuperare il messaggio della femminilità del termine francese “mer”, impossibile a reinserirsi nel termine italiano “mare”. Da qui la decisione di adottare il termine “distesa marina”, ripetuto con processo metonimico nell’altro “quest’acqua”.

Così scrive Brunelli: «… nell’immagine femminile del liquido elemento conservata nella traduzione (femminile in francese “mare” avrebbe qui introdotto il maschile) felicemente si specchia, si ritrova e ci completa l’immagine di questo figlio della terra che dalla distesa marina può sentirsi a un tempo attirato e respinto; ma quei due, come tra uomo e donna, come tra amanti, si combatte un’implacabile guerra, com’è illustrato da antiche e moderne letterature, dalle pagine dell’Ecclesiaste, di Teofrasto, di Agostino, su su fino a Strindberg e a noi, quando parliamo della donna e della passione amorosa». (Ib., p. 129).

Vediamo di completare la nostra analisi su alcune parole chiave che abbiamo già condotta per i precedenti due gruppi di traduzioni. Qui il problema assume una ulteriore complicatezza. Mentre nel primo gruppo si aveva da rendere solo il significato, mentre nel secondo gruppo si finiva per cadere in sovrabbondanze superflue, in questo terzo gruppo le sovrabbondanze hanno quasi sempre un senso (quindi non sono retoriche in assoluto) e le scelte cercano di combinare il punto di vista della traduzione in prosa, con quello più azzardato della versificazione. Tranne rari casi, come quello del funambolico, ma bravissimo (a nostro avviso) Caproni, che della palestra della vecchia “Fiera Letteraria” (quella di Cardarelli) ebbe a fare tesoro, tranne rari casi, dicevamo, l’endecasillabo è abbastanza consono alle necessità di questo incontro a metà strada.

In conclusione possiamo dire che tra la prima soluzione, di rendere in prosa il testo di Baudelaire, ed il secondo di renderlo, forzatamente, in versi, sia senz’altro da preferirsi lo sbocco del verso libero, anche con qualche occasionale puntata su rime obbligate. Il risultato di dosaggio è ovviamente alquanto modesto, ma è almeno molto più decoroso e gradevole dei risultati precedenti.

 


[1975], [1991]

* * * * *

L’orgoglio punito

A quei tempi mirabili che la Teologia
fioriva con più linfa e migliore energia,
corre fama che un giorno un eccelso dottore,
dopo avere sforzato più d’un arido cuore,
e averlo scosso in fondo ai suoi ciechi meati,
poi che verso la gloria del cielo ebbe varcati
tramiti mai uditi, che ignorava lui stesso,
che solo ai puri spiriti percorrere e concesso,
come chi in vetta a un’alpe e colpito dal panico,
gridò repente, in preda a un orgoglio satanico:
“Mio piccolo Gesù, t’ho spinto ben in alto!
Ma se al tuo punto debole avessi mosso assalto,
null’altro che un risibile aborto divenuto,
saresti dalla gloria nell’infamia caduto!”.
 
Nel medesimo istante il senno lo lasciò;
il fulgor di quel sole d’un velo s’alluttò;
il pieno caos irruppe in quell’intelligenza,
già vivo tempio, pieno d’ordine e d’opulenza,
dove, sotto le volte, tutto era ricco e chiaro.
Ora silenzio e notte entro vi s’installarono,
come, persa la chiave, d’una botola accade.
Da allora egli vagò per i campi e le strade,
quasi bestia randagia, insensibile a tutto,
come una cosa logora sporco, inutile e brutto,
impotente a distinguere le estati dagli inverni,
esposto dei monelli alle risa, agli scherni.

Delle tante vie senza uscita

“Cielo ombroso”



Mi par gli occhi t’adombri una vaga caligine:
gli occhi tuoi misteriosi (azzurri, verdi, grigi?),
teneri a volte, a volte estatici o crudeli,
specchiano l’indolenza e il pallore dei cieli.
 
Tu ricordi quei bianchi, tiepidi, annuvolati
giorni che in pianto sciolgono i cuori ammaliati,
quando i vigili nervi, che torce un male informe,
insorgono a schernire lo spirito che dorme.
 
Talora in te i begli orizzonti ravviso,
che illumina fra nebbie un sole all’improvviso...
Come t’accendi e brilli, umido paesaggio,
su cui da un cielo ombroso cade rapido un raggio!
 
O perigliosa donna, o climi seducenti!
potrò pur la tua neve amare, e i vostri venti?
cavare saprò mai dal feroce gennaio
piaceri più pungenti del ghiaccio e dell’acciaio?

L’inno alla fraterna visione della vita come esperimento collettivo ha come sbocco la proiezione dei massacri, il flusso della morte indirizzata alle sotterranee vicende della caverna che li ospita. Come sorprendersi di tutto ciò? Baudelaire non ne discute ma se ne lascia discutere, si lascia andare alle sensazioni del cielo “brouillé”, qualcosa di profondamente diverso del sempre “ombroso” che il nostro traduttore ha scelto. È il senso della perdita che ne viene fuori, del sentirsi perduto nella bruma, nella percezione liquida di un’aria che diventa, a poco a poco, sempre più irrespirabile. Lo è per questione atmosferiche? Anche, ma prima di tutto per la presenza dell’uomo. Quest’essere perduto che si aggira cercando una poco plausibile giustificazione razionale ai suoi misfatti tecnici che dovrebbero garantirgli la conquista dei cieli.

Se lo spirito dorme, a causa del veleno che respira, da cui ormai è irrimediabilmente impregnato, la sua parola digiunerà nel proprio stesso sforzo di parlare, di dire. Anche l’urlo finirà per restare strozzato in gola. Ognuno scava per conto suo nel proprio territorio, cieco e sordo a ogni motivo dell’altro, che non sia quello del pericolo di una possibile aggressione. Talpa fra le talpe. Non si accetta la conoscenza per andare oltre, ma vi ci si immerge come in un mare tumultuoso, abbandonandosi sfiniti alla mancanza di significato, basta possederla ed è tutto fatto, semplicemente fatto, mutuamente un fatto insignificante, una critica che non ha denti per mordere.

Il feroce gelo che tutti ci accomuna irride ai vari tentativi di lasciare il porto delle nebbie, visto che ogni partenza deve tenere conto dell’abbandono di tutte le sicurezze che ci garantiscono e ci legano. Nessuna certezza nell’avventura, nemmeno quella di un sole improvviso all’orizzonte.

«All’inizio dell’esperimento, Albert era in grado di reagire emozionalmente soltanto con reazioni elementari di paura, collera e amore, mentre a conclusione dell’esperimento, durato cinque giorni, il bambino era indotto a reagire a uno stimolo condizionato con una risposta condizionata. Albert era solito giocare con un gattino bianco, senza mostrare alcuna paura dell’animale. In prove successive, si faceva in modo da associare un rumore violento, come la percussione d’una sbarra di metallo, ogni volta che il bambino toccava il gatto. Le reazioni emozionali di paura venivano in tal modo associate a quelle suscitate dalla vista del gatto. Al termine dell’esperimento, si costata che, alla vista del gattino, Albert piange, volta indietro la testa, s’alza, barcolla e quindi fugge rapidamente a quattro zampe». (J. B. Watson, Behaviourism, New York 1925, p. 153).

Accumuliamo solo inquietudini e insoddisfazioni, possiamo arrivare fino a un certo punto, dopo dobbiamo abbandonare il gioco, le vene e i polsi non ci reggono più e ci rassegniamo alla sconfitta della ripetitività. Eppure la luce di qualcosa di diverso è appena dietro la collina, esattamente dove sorge il cimitero.

“Il gatto”



I.
 
Nel cervello un bel gatto, un dolce, fiero,
incantevole gatto mi passeggia,
come fosse il padrone dell’alloggio,
e miagola con timbro sì leggero
 
e tenero che quasi non lo intendo;
pur questa voce sua ricca e profonda,
sia che brontoli o placida s’effonda,
racchiude un incantesimo stupendo.
 
Si sgrana e filtra dentro in lente spire
fino al fondo di me cieco e perso;
mi sazia come il battito d’un verso,
e mi delizia come un elisire.
 
Sopisce i mali più crudi, contiene
per chi l’ascolta ogni estasi e sogno;
di parole giammai non ha bisogno
per intrecciare le frasi più piene.
 
No, non so archetto che meglio mi morda
il cuore, ineguagliabile strumento,
e ne ricavi più regale accento,
facendone vibrar l’intima corda,
 
della tua voce, o strana, o misteriosa
creatura, serafico soriano,
in cui, come in un angelo, all’arcano
più sottile una musica si sposa.
 
II.
 
Sì forti aromi la sua bionda e bruna
pelliccia esala che, una sera, quasi
fin nell’anima intriso ne rimasi:
colpa d’una carezza, solo d’una!
 
Genio del luogo e spirito natio,
tutto egli giudica, tutto presiede
e ispira dalla sua regale sede:
chissà, forse è una fata, forse è un dio.
 
Quando a lui gli occhi miei docili giro,
obbedendo a un magnetico richiamo
che m’incatena all’essere che amo,
e la mia stessa anima rimiro,
 
vedo con meraviglia come arda
un fuoco nelle sue pupille pallide,
opali vivide, lanterne gialle,
di fronte a me, che immobili mi guardano.

Molti sono gli enigmi in base ai quali le attrazioni si sviluppano, esplodono e muoiono. Non ci sono regole, poteri fra uomini, che sembrano durare in eterno, vengono spazzati via a livello collettivo e individuale. Sarebbe assurdo considerare l’eternità come qualcosa che, sia pure di striscio, sfiori questo mondo, dove pallide ombre si affaticano a giocare ruoli diversi, tutti platealmente buffoneschi. Il coraggioso? Un indiscreto che ardisce alzare appena appena il capo, un beffardo che getta il suo cuore oltre l’ostacolo, per poi ritrovarsi a doverlo raccattare, nella migliore delle ipotesi, se la storia non s’incarica di spazzarlo via come un inutile relitto, un ricordo del passato che gli astanti, perplessi, si chiedono che cosa voglia mai significare, se non proprio chi sia, o meglio, chi fosse.

Sarebbe facile immaginare geniali percettori di tensioni passeggere, tentacolari intuitori di potenze in circolazione, movimenti che si offrono a orecchie non solo acute ma anche indiscrete. Il più delle volte si tratta di semplice sfacciataggine, spudorate improntitudini si sostituiscono a forze reali, a potenzialità coltivate, mentre sterilità palesi si presentano con garbo sufficiente a spacciarle per meriti e sostanza. Ognuno ha il proprio segreto, come quello del gatto nella testa di Baudelaire, e se lo tiene. Magari si rode dentro, cerca di avvolgerlo in carta poco appariscente perché nessuno se ne accorga, ma alla fine la pelle del coniglio viene fuori sempre, solo gli imbecilli sanno nascondersi tanto bene perfino all’occhio di lince dei cacciatori di teste. Mai confessare di avere colto il fulgore negli occhi dell’altro, il lampo dell’emozione, il fremito della paura o dell’amore, il sentimento inconfessabile di essere semplicemente un uomo, una donna, insomma un qualcosa che possiede un cuore nel petto, capace, non sempre ma qualche volta, di proporre azioni fondate su ragioni che la ragione non vede o che, se vede, cerca di nascondere in tutti i modi. Questa confessione può avere conseguenze funeste che non sempre si è in grado di controbattere.

La logica non può fornire uno strumento efficace se non nelle condizioni quantitative. La modificazione produttiva è il suo regno. Anche i sentimenti devono adattarsi a questa rigida regola. Certo, ci sono condizioni critiche che consentono a tutto ciò di mostrare il suo lato negativo, conoscibile e documentabile, qualcosa che se scorticato fino in fondo non può poi essere messo a tacere. Ma si tratta di giocarsi la vita, e questo, per il momento, resta un altro discorso.

Riuscire a fare vibrare l’intima corda del cuore mette a soqquadro tutte le difese, espone all’estrema potenza della qualità, all’infinita desolazione di cui non c’è modo di parlare. L’azione è in se stessa muta. Ciò che eventualmente dico di essa è sempre una rappresentazione che riflette, a mio modo, nei limiti che mi sono concessi, il respiro del deserto, che circola liberamente nell’agire.

«È evidente che si tratta in fondo della vecchia accusa secondo cui le masse cercano soltanto distrazione, mentre l’arte esige dall’osservatore il raccoglimento. Si tratta di un luogo comune. Resta soltanto da vedere se esso costituisca un terreno utile per lo studio del cinema. – È opportuno qui considerare le cose più da vicino. La distrazione e il raccoglimento vengono contrapposti in un modo tale che consente questa formulazione: colui che si raccoglie davanti all’opera d’arte vi si sprofonda; penetra nell’opera, come racconta la leggenda di un pittore cinese alla vista della sua opera compiuta. Inversamente, la massa distratta fa sprofondare nel proprio grembo l’opera d’arte». (W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Arte e società di massa, tr. it., Torino 1956, p. 44).

Il mondo è il regno delle mie rappresentazioni, anche quella del deserto in cui ho agito, e di cui non posso parlare se non risolvo il mio rapporto con il mezzo espressivo, la parola in primo luogo. Povere rappresentazioni, ma sono le mie e io vivo proprio perché sono in grado di usarle per la mia vita. Arricchirle è sempre possibile, ma alla lunga diventa esercizio improduttivo perché tendo a ripetere le stesse cose, a farmi coraggio nel buio. Forse per questo, a volte, strillo tanto senza motivo.

“Invito al viaggio”



Bimba, sorella mia,
che cara fantasia,
pensa, potercene laggiù fuggire!
Là dove a meraviglia
tutto ti rassomiglia,
amare e vivere, amare e morire!
Da quegli ombrosi cieli
un sole, se trapeli
madido, sparge un misterioso incanto
che mi prende la mente,
come perfidamente
gli occhi tuoi, quando brillano nel pianto.
 
Tutto, laggiù, è ordine e beltà,
magnificenza, quiete e voluttà.
Mobili, fatti lustri
da un lungo uso di lustri,
adornerebbero la nostra stanza;
s’unirebbe l’odore
d’ogni più raro fiore
dell’ambra alla volubile fragranza,
le ricche volte, gli ampi
specchi dai mille lampi,
lo splendor della vita orientale,
parlerebbe ogni cosa
all’anima curiosa
la dolce arcana sua lingua natale.
 
Tutto, laggiù, è ordine e beltà
magnificenza, quiete e voluttà.
Guarda su quei canali
piegare al sonno l’ali
i velieri dall’estro vagabondo:
non sai? per farti pago
il cuore in ogni svago
sono venuti qui di capo al mondo.
I dorati tramonti
accendon gli orizzonti,
le campagne, i canali, la città,
d’un lume di giacinto;
s’assonna il mondo vinto
in una calda luminosità.
 
Tutto, laggiù, a ordine e beltà,
magnificenza, quiete e voluttà.

È la perdita di sé nell’assolutamente altro. Non possiamo restare perennemente in attesa di essere guariti dalla malattia del possesso, dobbiamo fare qualcosa per andare via, per fuggire da questa prigione, dobbiamo liberarci. Confessarci deboli è un attacco contro tutte le nostre potenzialità, un azzeramento e un ridursi da sé in schiavitù. Il viaggio non è mai una fuga, in caso contrario non è un viaggio ma qualcosa di simile a una passeggiata nella propria camera. L’esotismo è un travestimento per fare accettare il vero ignoto che è dentro di noi e non in territori o in isole remote. Il deserto alberga da questa parte, e quando il vento della notte soffia più forte non proviene dalle dune ma dall’animo in tempesta che si ribella contro ogni criminale tentativo di stabilizzazione.

La fecondità di ogni spostamento sta tutta nel concetto di andare oltre, cioè di oltrepassare. Nella stessa rammemorazione, con la quale rimetto l’azione al centro del mondo fattivo, realizzo qualcosa di tanto importante quanto riduttivo. Svendo il mio ideale, che nessuno dovrebbe manomettere, e lo faccio con la migliore buona intenzione, cioè per dire agli altri, a coloro per i quali la realtà è ancora disegnata dalle ombre nel muro della caverna dei massacri, che andare in capo al mondo è possibile, purché si sia disposti a lasciare la propria zavorra sul molo di partenza. Solo la mia paura può essermi di ostacolo, solo essa è veramente demoniaca e, a volte, insormontabile, quando blocca tutti i muscoli e mi impedisce di valutare veramente, e fino in fondo, il senso di quello che temo di mettere a rischio. Come se in quello che nascondo sotto la tunica ci sia sul serio qualcosa d’importante, che meriti attenzione e giustifichi i sacrifici della mia abiezione. A quando una notte di San Bartolomeo dei miei possessi?

«Così il pensiero del cuore getta il suo raggio nei diffusi bagliori del paese che noi tutti siamo, in cui noi tutti agiamo, in cui finalmente irrompiamo in modo decisivo mentre siamo volti all’ascolto del nostro arrivo, della nostra parola risolutiva». (E. Bloch, Spirito dell’utopia, tr. it., Firenze 1980, pp. 235-236).

Al largo, nel corso del vero viaggio della mia anima inquieta, trovo l’infinita potenza realizzata, perfino il mio destino, l’ostacolo maggiore con cui dovrò pur fare i conti, mi sta dietro le spalle. Certo non sono io la suprema determinatezza che non ha bisogno di specificazioni, ma sono in un mondo che mi è completamente estraneo, quello dell’azione, e vi sono perfettamente cosciente, di una coscienza diversa di quella immediatezza all’interno della quale la parola mi tornerà necessaria per chiudere i conti col destino.

“Raccoglimento”



Suvvia, ragiona, calmati, povera Pena mia.
Tu chiamavi la Sera: diggià scende, la sento;
recando pace agli uni ed agli altri tormento,
un’aria scura avvolge ogni casa, ogni via.
 
Mentre il codardo branco dei mortali s’avvia,
frustato dal Piacere, carnefice cruento,
a cogliere in servili festini un pentimento,
tu prendimi la mano, mia Pena, e vieni via.
 
Fuggiamo altrove; guarda: si sporgon dai balconi
del cielo, in vesti antiche, le defunte Stagioni;
il radioso Rimpianto da buie acque rinasce;
 
un’arcata di ponte il Sol morente inghiotte;
e ascolta, cara, ascolta, come un funebre strascico
all’Oriente i passi teneri della Notte.

Qui è l’intrinseco che si impone, al di là dell’accadere, banale, c’è un altro accadere, dove l’uomo si immerge mortificato nelle sue possibilità, tagliato fuori, azzerato, ridotto a semplice apparenza, eppure provvisto ancora della capacità di avvertire la sofferenza, l’unica bussola che indica sempre la stessa direzione in una città che inghiotte ogni ombra riproducendola sulla parete dei massacri. L’impudenza del festino è il vero surrogato della vita, l’inghiotte e la risputa fuori, masticata, deformata, disgustosamente in grado di biascicare convenevoli d’uso. È l’inefficacia della quotidianità descritta dai pittori alla moda, dai figurini dei giornali pubblicitari, dai giornalisti. La notte non dovrebbe tardare a venire coprendo con la sua misericordiosa inesorabilità tutto questo millantare piagnucoloso, questa semi-conoscenza che non è altro che ignoranza provvista di bargigli, balbettii di stupori mattutini che la sera si trasformano in ebeti sbadigli. Chi soffre di tutto questo, non è assolto dall’essere compartecipe, il poeta lo sa e se ne duole, ma non può farci nulla, il mondo è sempre più forte dell’uomo, ospite transitorio e imbelle. Alla fine trasforma la sua stessa sofferenza in scambievoli pettegolezzi, in un blaterare che pretende sostituire lo scambio di idee, mentre non fa altro che perpetuare la chiusura mentale delle portinaie.

Se mi lascio inglobare in questo movimento, non molto differente da quello descritto da Baudelaire, con qualche falpalà in meno e minigonna in più, resto un aspetto marginale dell’accumulo, una breve passeggiata sotto il sole d’autunno, se rifiuto, dapprima criticamente e in modo negativo, comincio a volere diventare quello che sono, cioè mi avvicino all’azione. Non posso entrare nella realtà vera e propria, determinatezza assoluta, ma posso intuire quello che là essa mi fa ascoltare, la sua voce si mischia e si sovrappone a quella delle ombre e delle apparenze, è la voce dell’abisso e della desolazione, non risolvo il procedere metodico del fare con un altezzoso rifiuto, non agisco con tutta semplicità, ma rompo comunque il cerchio nebuloso che mi costringe a respirare l’aria infetta del mondo che mi opprime e pretende di catturarmi definitivamente.

«Criticamente, si può riconoscere solo una ragione che non cerchi garanzie fuori di sé, che rifiuti l’equivoco così di ogni misura data, come di ogni fondamento cercato “al di là” del libero uso della stessa ragione: ragione storica, insomma, o, se si vuole, semplicemente ragione». (E. Garin, La filosofia come sapere storico, Bari 1959, p. 32).

È proprio questo guanciale morbido che pretendendo di dire tutto di sé fa vedere i limiti di ogni pretesa della ragione dominante. Riflettendo bene ci si accorge che c’è ancora molto da dire, oltre questo confine custodito dalle baionette e provvisto dei pennacchi colorati del vincitore di tutte le guerre, il potere in carica. Sovvertire questa condizione primaria dell’oppressione è, in ogni caso, una perdita di conoscenza, almeno in prima battuta. La saggezza è il ritrovamento dopo un lungo e periglioso percorso. Improbabile.

“De profundis clamavi”



Io Ti chiedo pietà, o mio unico amore,
dal tenebroso abisso in cui sono caduto;
è un universo squallido e d’ogni luce muto,
dove nell’ombra nuotano la bestemmia e l’orrore.
 
Un sole senza vampe per sei mesi vi dura,
poi per altri sei mesi la notte occupa il suolo;
e un paese più nudo e inospite del polo:
né bestie, né ruscelli, né boschi, né verzura.
 
E dunque non c’è orrore che vinca sotto i cieli
la silente ferocia di questo sole gelido,
e questa immane notte, al vecchio Caos uguale.
 
Io invidio la sorte d’ogni abietto animale
che può felice immergersi in un torpore ottuso,
così pigro del tempo si sgomitola il fuso...

Potrebbe confondersi con la visione estatica di un’ipotesi, qualcosa di remoto alla vita concreta, invece è proprio la concretezza che qui è messa a nudo, la concretezza dell’inessenziale, del superfluo, dell’assurdo. La perdita dell’innocenza è un assassinio feroce, un atto di terrificante aggressione, il ripetersi – materia da poeta, certamente – della primaria caduta, del gesto inconsulto di Eva. Eppure è questa la vita nella caverna dei massacri, pochi l’hanno descritta come Baudelaire, pochi l’hanno vissuta veramente, giocandosi tutto in una volta il proprio passato e il proprio futuro. L’amore potrebbe vincere il gelido riflesso metallico di un sole inutile, ma è l’amore per l’azione che potrebbe farlo, non l’amore che si adagia tra due lenzuola aspettando un momento di soddisfazione effimera, come tutte le soddisfazioni a cui il fare quotidiano ci ha educati. Sarebbe profanazione e delirio, ancora una volta gioco delle ombre, finzioni puerili, letteratura.

Immergersi nel fare, nella puerilità atroce di cui discutiamo, è indispensabile per cogliere le condizione del viaggio verso l’azione, dove l’esperienza diversa si realizza. Conoscenza quindi del fango, e quando mai la conoscenza è stata qualcosa di separato dal fango che ospita gli uomini che la gestiscono, la sfruttano e l’utilizzano per i loro scopi di dominio? Poi, togliere gli ormeggi, alzare le vele. La valutazione meramente empirica delle concordanze e dei fenomeni – anche le esperienze più atroci sono parte di queste due categorie – non annichilisce la sapienza, anzi la basa su qualcosa di concreto da cui partire, sull’esistenza effettiva del mondo, anche se poi questa esistenza si rivela parziale e incompletabile. La potenza del mondo e delle agghiaccianti intuizioni di Baudelaire, sono misere condizioni analitiche e bastano solo se ci si ferma in se stessi e di se stessi ci si compiace. L’infinita indifferenza della realtà non può dire nulla e nulla fare sapere di sé, a parte l’evidenza che è, né io posso parlare della realtà se non in termini di modesta metafora per come sto facendo ormai da troppo tempo.

«L’essenziale è l’eccitazione come tale: uno stato in cui tutti insieme lamentino qualcosa». (E. Canetti, Massa e potere, tr. it., Milano 1988, p. 114).

Vivere la critica negativa, anche nel modo estremo in cui ce la propone Baudelaire, scarnifica la carne della quotidianità, che di solito accettiamo come irremovibile, quindi pone l’esigenza essenziale di capire cosa si nasconde dietro la sua apparenza, di certo non una possibile completezza. Nello stesso tempo, questa critica capace di toccare i nervi sensibili nascosti dietro la patina perbenista che copre quasi tutti i nostri gesti e le nostre idee, rinvia a un’esperienza diversa, in grado cioè di intuire una presenza che qui è avvertibile come assenza. Non spetta a questa critica costruire nel mondo un simulacro di unità, essa deve riconfermare il destino della separatezza, l’indispensabile accidentalità che attende, nella migliore delle ipotesi, la proposta possibile del destino. La poesia elabora le intuizioni dell’assolutamente altro e le traduce in contributi, a volte sconvolgenti, per la conoscenza, senza pretendere un impossibile superamento, quale che sia, della realtà che ci sta sotto gli occhi, quella dei massacri nella caverna. La forza dell’azione sta altrove, nella capacità di trasformare questo mondo che continuiamo a fare nel modo orrendo in cui si va sempre di più cristallizzando.

“Il serpente che danza”



Che delizia, se giaci mansueta
nelle tue membra belle,
mirarti, o cara, qual tremula seta,
tutta lampi la pelle!
 
Sul tuo crine, nel cui gorgo profondo
acri profumi aduni,
oceano odoroso e vagabondo
di flutti azzurri e bruni,
 
al par d’un brigantino che si desta
al vento antelucano,
il mio spirito estatico s’appresta
verso un cielo lontano.
 
Sono i tuoi occhi, onde nulla d’amaro
né di dolce si spreme,
due fredde gemme in cui l’oro e l’acciaro
si mescolano insieme.
 
Quando elastica e ritmica t’avanzi,
con bella ondulazione,
par di vedere un serpente che danzi
in cima ad un bastone.
 
Sotto l’accidia, fardello pesante,
la tua nuca fanciulla
come il capo d’un giovane elefante
mollemente si culla.
 
E il corpo tuo si dondola e s’inarca
come lieve sull’onda
piega, or su un fianco or sull’altro, una barca
e i pennoni v’affonda.
 
Se poi, turgido fiume che al disgelo
dal suo letto trabocca,
un fiotto di saliva ti fa velo
agli orli della bocca,
 
d’un imperioso vino di Boemia
gusto l’aspro sapore,
liquido firmamento che dissemina
stelle sopra il mio cuore!

Nella stessa visione magnifica dell’andatura della donna amata sta, nascosta dietro il velo dell’immaginazione, l’angoscia del niente. Possibile che tutto si fermi qui? Possibile che l’attrazione fisica sia parentesi e porto dove ormeggiare al sicuro dai tormenti della vita? Oppure è tutto il contrario. Un luogo dove, insieme all’accrescersi del desiderio, cresce anche la consapevolezza del limite di questo desiderio che tutti sembra divorare in una soddisfazione mai sazia, sempre capace di rinnovarsi, dimostrando in questo modo la propria sostanziale incompletezza. Storna l’attenzione, addormenta la coscienza, oppure esaspera la tensione che tutto ripresenta come prima? Domande sotto forma di affermazioni. La nave è padrona del mare, lo domina e lo solca, attraversa le grandi distanze e approda a lidi remoti, inimmaginabili. Ma essa è solo un piccolo fuscello nell’immensità del liquido che la circonda. In fondo si tratta di un dominio apparente, che in ogni istante risiede sull’orlo dell’abisso. La letteratura non riesce a nascondere questa realtà, lavora sull’apparenza ma non è solo apparenza, proprio perché si propone solo come apparenza. La sua frivolezza accidiosa stacca un assegno a vuoto tutte le volte che sembra in grado di acquistare la sicurezza del mondo che la circonda.

«Il cristianesimo si arrende di fronte al dolore, e calunnia la vita. Per far valere il suo giudizio negativo, cerca di sopprimere ogni istanza in contrario, sino a combattere la gioia. La divinità è chiamata in causa, da questa religione, nella sua antica funzione ebraica di giustiziera – giustiziera della gioia. Differente può essere il concetto di divinità, in una religione antitetica – come difensore della gioia». (G. Colli, La ragione errabonda, Milano 1982, pp. 149-150).

Nell’amore c’è qualcosa di più della concretezza immediata, c’è una sorta di necessità di fronte alla quale la contingenza ammutolisce. Non è facile cogliere questa tensione. In effetti, nell’amore tutto manca di essenzialità, tutto è un “vi ritorneremo”, tutto aspira a una positività possessiva che si rivela fasulla e approssimativa. Eppure, a un certo punto, questa approssimativa brama di tutela e di garanzia si scioglie – o almeno si può sciogliere – e scaturiscono sensazioni e sentimenti che fanno ammutolire il ciarliero dispiegamento delle parole di fronte ad una prospettiva assolutamente opposta. Il sapere che fondo sulla notevole estensione della conoscenza, improvvisamente tace. I denti della ragione negativamente critica non mordono più. Intuisco che c’è qualcosa di diverso nelle mie vene, che il mio cuore canta una musica sconosciuta, è la voce dell’abisso, la stessa che avverto nell’azione. È certo un apparire che si manifesta, con sfumature molteplici, ma sempre un apparire. Se riesco a leggere attraverso l’ombra che si proietta nel muro della caverna del massacri, scorgo l’inizio di un camminamento segreto, labirintico, che mi porta ai margini della foresta. Spetterà a me andare oltre o tornare indietro. In fondo tutto questo è solo una questione di coraggio.

“La bella nave”



O mia tenera maga, voglio dirti le lodi
delle tante bellezze di cui t’adorni e godi;
la tua bellezza dipingerti voglio,
fatta d’acerba grazia e d’adulto rigoglio.
Quando vai sventagliando con l’ampia gonna l’aria,
sembri una bella nave che prenda il largo, carica
di vele, sopra l’acque dondolandosi
secondo un ritmo dolce, un ritmo pigro e blando.
 
Sul collo largo e pieno, sugli omeri opulenti
come un trofeo d’insolite grazie la testa ostenti,
e placida non meno che imperiosa
per la tua via procedi, fanciulla maestosa.
 
O mia tenera maga, voglio dirti le lodi
delle tante bellezze di cui t’adorni e godi;
la tua bellezza dipingerti voglio,
fatta d’acerba grazia e d’adulto rigoglio.
 
Il tuo seno che sforza la seta, baldanzoso
e superbo, il tuo seno è un mobile prezioso,
nei cui pannelli lucidi e bombati,
come in due scudi, i lampi rimangono impigliati.
 
Scudi piccanti, ch’armano rosee punte protese!
Stipo colmo di mille dolcissime sorprese,
di vini, di profumi, di liquori
che accendono una febbre nei cervelli e nei cuori!
 
Quando vai sventagliando con l’ampia gonna l’aria,
sembri una bella nave che prenda il largo, carica
di vele, sopra l’acque dondolandosi
secondo un ritmo dolce, un ritmo pigro e blando.
 
Le nobili tue gambe contro le balze guizzano
e in fondo al cuore oscuri desideri ci aizzano,
come due fattucchiere che un immondo
beveraggio rimestino in un vaso profondo.
 
Fra le tue braccia, boa scintillanti e feroci,
che sanno farsi giuoco degli ercoli precoci,
serri l’amante con un tale ardore
che par tu voglia fartene un suggello sul cuore.
 
Sul collo largo e pieno, sugli omeri opulenti
come un trofeo d’insolite grazie la testa ostenti,
e placida non meno che imperiosa
per la tua via procedi, fanciulla maestosa.

La superficie, la bellezza. Forse l’accidiosa visione dell’amore? Non credo. La paura di vedere oltre non c’è, c’è solo un momento, importante, di tu per tu con la donna nel pieno della sua prorompente capacità di dominio, di cui lei stessa non è in grado di valutare la pienezza. Sono poche le donne che raggiungono, in tempi opportuni, questa consapevolezza. Quasi sempre si tratta di una sensazione inconscia, quindi non ben commisurabile. Dopo, quasi sempre, è troppo tardi. Le disavventure del mondo, quasi sempre, le hanno travolte. Parole. Il poeta le usa magnificamente, ma non può nascondere che la nave veleggia verso quelle tempeste che prima o poi usciranno dal fondo dell’orizzonte per il momento tranquillo. Qui si ha come la sensazione che Baudelaire si stia aggrappando alle parole per evitare il sopraggiungere del silenzio insostenibile, quello che il destino gli prepara di soppiatto, in agguato come un sicario, quello della negra tisica, del muro scrostato e lebbroso, del cielo nemico e oscuro, delle strade piene di vecchi e di ubriachi.

«L’importanza della classe borghese, esclusa dal governo e, si può dire, da ogni attività politica, genera una passività che si estende a tutta la vita culturale. Il ceto intelligente, composto d’impiegati subalterni, maestri di scuola e poeti estraniati dal mondo, si abitua a tracciare una linea divisoria tra la vita privata e la politica, e a rinunciare senz’altro a ogni influsso pratico». (H. Hauser, Storia sociale dell’arte, vol. II, tr. it., Torino 1956, pp. 117-118).

Immobilizzata dall’inquietudine, la coscienza immediata si rivolge altrove, dove non può costruire sistemi o accampare certezze dimostrate. Solo a posteriori accamperà i propri diritti di intelletto conoscente, esaminerà e illustrerà esperienze straordinarie, ma non ne comprenderà la ragione, perché quelle esperienze sono assolutamente irragionevoli, non accettano modulazioni capaci di catturarle. Poiché queste intuizioni diverse, momenti in cui è la stessa coscienza a essere diversa, si rinnovano ogni volta come se fosse l’assolutamente ignoto, non c’è una loro scienza, mancando il concetto di ripetizione. La positività del costruito, dove il possibile prende corpo abbandonando la stessa indicazione del destino alla capacità fattiva, è tutta all’interno della ragione, ma non sarebbe quella che è senza l’assenza, che prima di tutto è assenza della ragione. La donna e la nave sono elementi intercambiabili grazie al ricorso alla dominazione, la parola dà corpo concreto, dicibile a quella nuova assenza che è sì quella precedente, indicibile e desolata, ma è anche quella nuova, creata dalla desolazione dell’intuizione qualitativamente diversa.

“L’irrimediabile”



I.
 
Uno spirito (Forma, Essere o Idea)
partito dall’azzurro alto e caduto
in uno Stige limaccioso e muto
che mai d’un occhio di cielo si bea;
 
un Angelo, malcauto viaggiatore
tentato dall’amore del difforme,
che tra le spire d’un incubo enorme
si divincola al par d’un nuotatore,
 
e con angoscia di morte sostiene
l’urto d’un mulinello smisurato
che va cantando come un forsennato
e spicca grandi balzi entro le tenebre;
 
un infelice stregato che in cave
cantine brulicanti di serpenti
cerca con futili brancolamenti
inutilmente la luce e la chiave;
 
un dannato che, privo di lanterna,
sull’orlo d’un abisso la cui umida
profondità dal tanfo si presume,
scende una scala senza appoggi, eterna,
 
e attorno insonni esangui mostri avvista,
dai larghi occhi di fosforo, le cui
luci la notte rendono più buia
e attorno a sé cancellano ogni vista;
un bastimento che al polo s’impaccia,
chiuso quasi in un vitreo sudario,
né ritrova il funesto itinerario
per cui si perse nell’immensa ghiaccia;
 
oh, d’una ferrea fatalità
lampanti simboli, quadro perfetto:
bisogna proprio dirlo, il Maledetto
fa sempre bene tutto quel che fa!
 
II.
 
Un cuore curvo a mirare se stesso,
quale dialogo è mai, limpido e scuro
pozzo di Verità torbido e puro,
in cui un astro livido è riflesso,
 
un grande faro ironico e infernale,
fiaccola delle grazie del demonio,
solo orgoglio e sollievo, testimonio
supremo, ed è la coscienza nel Male!

Elenco dell’impossibile rifiuto, precisazione di tutto quello che paralizza il sentimento, che lo getta in un luogo chiuso e asfittico dove è costretto a rimuginare la propria impotenza, aspirazione alla bellezza fatta strame, esaltazione dell’apparenza e discredito dell’essenziale, di tutto quello che sia pure alla lontana può ricordare l’essere, ciò che semplicemente è e non può non essere. Il poeta si ferma sul limitare dell’oltrepassamento, il suo agire è quindi paradossalmente inciso sulla sua pelle non in quanto azione ma in quanto paradosso del fare, gioco delle parole che rissosamente lo assalgono volendo impadronirsi dei suoi sentimenti, contaminarli, codificarli, proporli come luoghi dell’orrore banale, della comunanza di valori universalmente accessibili a tutti, quando solo lui, nel chiuso della propria azione – questa sì vera e propria avventura nella qualità – può decidere in qual modo legittimarle, quelle parole, come sottrarle alla formula approssimativa che esse vorrebbero cristallizzare, supporto e lubrificazione del fare coatto, indirizzo verso la caverna dei massacri, scipito ed esangue divenire della quotidianità. In quale altra maniera potrebbe legittimarsi un sentimento che intende reggere l’urto con una vita di stolida sopraffazione? Il Male, di per sé, corredato da una superba maiuscola, non è che un modo come un altro di sottolineare la forza della coazione a fare, un noioso ripetere di formule e abbecedari, navigare alla larga, ecco la soluzione. Discutere dell’agire è forse pretendere troppo. Ma come si fa a non tenere conto della propria vita in gioco? Non è bastevole questa sola puntata per andare oltre, anche oltre il punto di non ritorno?

«Poiché si era notato che spesso una eccitazione rendeva la mente più lucida e ispirava idee felici, si ritenne che, con le eccitazioni più intense, si divenisse partecipi delle idee e delle ispirazioni più felici: e così si venerò il folle come saggio e dispensatore di oracoli. Alla base di ciò sta una deduzione errata». (F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, 127).

L’esperienza diversa non può essere considerata assoluta, cioè assolta da qualsiasi specificazione, difatti su di essa torno, e con me lo stesso poeta, per riviverla, non per quello che essa è, ma per quello che posso rammemorare grazie alle parole e alle loro limitazioni. Tra il turbinio dell’irrimediabile e le parole che lo concretizzano in Baudelaire c’è uno spazio dove se l’esperienza fosse completata una volta per tutte non si potrebbe entrare a piacimento, e invece non è così. Quel battito del cuore non è fuori di me come qualcosa che mi sovrasta, per cui non posso pervenire a capirlo muovendo dalle mie inveterate custodie di senso, ma è anche dentro di me, movimento e stasi nello stesso tempo, dubbio e certezza, contrasto e quiete. Le parole del poeta non mi garantiscono il mio sapere, non possono nemmeno presentarsi come sostitute dell’assenza, eppure essere mi indicano un percorso, un saluto sul punto dell’oltrepassamento, una linea di orizzonte che so essere stata oltrepassata, anche se non so con quali risultati né con quali costi personali, con quali dolori e sacrifici. Aspetto la forza per dire la mia esperienza diversa, questa cammina parallela al mio ritorno nell’ambito del fare, nel commercio mercantile delle parole, qui sono io che punto i piedi sul terreno compatto della conoscenza, se non lo facessi andrei avanti verso la follia, non ci sarebbe partita, resterei sconfitto, non solo affascinato, ma sconfitto e distrutto. Invece mi posso commisurare e con questo valutare le mie forze, il fondo di me stesso non posso attingerlo né il fondo del poeta che colgo con una intuizione dolorosa come uno spasmo allo stomaco, poi devo andare oltre, superare l’apertura verso la qualità. I miei pensieri ritardatari e conservativi mi danzano attorno e poi scappano via, il terreno della desolazione qualitativa non è loro congeniale. Perché, a distanza di più di mezzo secolo, posso ancora parlare lo stesso linguaggio col mio destino? Non c’è una risposta certa a questa domanda. Forse perché non ho mai smesso di mantenere un discorso con lui, forse perché tutto quello che mi sembra che, a un certo punto, mi sia precipitato addosso, in fondo, l’avevo discusso sulla base di possibilità propostami da lui. Discorso e accidente, corni dello stesso altare dei sacrifici.

“A colei che è troppo gaia”



Tutto di te, testa e gesti, seduce
come un paese bellissimo; il riso
in dolci onde gioca sul tuo viso,
come una brezza in un cielo di luce.
 
Il misero passante, se lo sfiori
abbarbagliato per sempre rimane
dalla salute che in chiare fiumane
da braccia e spalle ti zampilla fuori.
 
Se poi di un nembo di festose tinte
a profusion semini le vesti,
ecco ai poeti l’immagine presti
d’un ballo di corolle variopinte.
 
Vesti folli, emblematica figura
del tuo screziato spirito, o mia folle
creatura, per cui l’anima bolle
d’odio e d’amore in uguale misura!
 
A volte, mentre in preda all’atonia,
mi trascinavo in un giardino ameno,
ho sentito del sole nel mio seno
la trafittura, come un’ironia;
 
e tanto m’hanno dell’aria e dell’erba
le meraviglie umiliato il cuore,
che volli vendicarmi sopra un fiore
della Natura e della sua superbia.
 
Così una notte, nell’ora che accende
le voluttà, verso i caldi trofei
della tua carne strisciare vorrei,
come un vigliacco, nel silenzio grande,
 
per castigar la tua gioia di vita,
il petto tuo pacificato battere,
e aprirti nelle membra stupefatte
una profonda e spaziosa ferita;
 
ed infine (oh vertigine novella
e dolce delle mie fibre commosse!)
per queste labbra più floride e rosse
il mio veleno infonderti, sorella!

Entrare dentro l’inconoscibile, nel regno assoluto dell’altro, dove sarebbe bello installare il proprio codice velenoso, le proprie certezze. Il dominio è un sogno fondato sul possesso, quindi impossibile. Posso avere qualcuno, o qualcosa, solo rinunciando a possederli. Ho impiegato buona parte della mia ormai lunga vita per capire questo assioma semplicissimo. Non si torna indietro con in mano la vittoria. Tutti coloro che hanno pensato di farlo, che si sono inorgogliti nel farlo, gonfiando il petto come tacchini, una volta aperte le mani si sono trovati con niente dentro. Il vuoto, soltanto il vuoto era loro compagno. Il vuoto e la morte. Baudelaire se ne rende conto da poeta, nebulosamente, e lo afferma dopo avere illustrato il progetto che conquista, il quale, come tutti i progetti, è fatto di parole, è sostanziato di parole, cioè di bagliori e ciarpame. Abbiamo noi la possibilità di cogliere quello che sta dietro le parole? I giudici che condannarono questa poesia non l’avevano. Va bene, si potrebbe concludere, erano semplicemente pubblici ministeri. Non basta, bisogna andare oltre. Fermarsi alla lettera è un modo come un altro per pretendere una garanzia, anche se non si possiede il marchio dell’infamia stampigliato sulla pelle, come lo posseggono i procuratori del re. Fermarsi rende superficiali e sconnessi, andare oltre prepara all’impatto con l’altro, con l’assolutamente diverso, col territorio della qualità. Ciò comporta la necessità di porsi delle domande alle quali non è mai possibile rispondere in modo soddisfacente. Ogni domanda ne figlia istantaneamente un’altra, è una catena senza soluzione di continuità. La stupidità della certezza è sempre in agguato, melliflua e confortante come una tazza di tè.

“Inno”



All’angelo bello, alla dea
che in cuore il suo lume superno
mi spande e in eterno mi bea,
salute, salute in eterno!
 
I giorni che vivo m’impregna,
qual brezza di sapido sale,
e all’anima avida insegna
il gusto d’un cielo immortale.
 
Sacchetto che fresco profuma
l’interno d’un nido adorato,
turibolo occulto che fuma
fra l’ombre notturne, scordato,
 
potessi con modi veraci
cantarti, mio indomito amore,
granello di muschio che giaci
nel fondo segreto del cuore!
 
All’angelo buono che bea
di sole il mio gelido inverno,
mia gioia, mia vita e mia dea,
salute, salute in eterno!

Modello o sostanza? Chi può saperlo. Forse momento di riposo, ripresa di fiato per un corridore ormai esausto. Il ritmo aiuta perché riposante, ma è anche maschera e facciata di una realtà irreale, di una sostanza di apparenza che accetta, per una volta, di giocare a rimpiattino con le ombre. Queste stanno a fare il loro lavoro. Il poeta le osserva ed ha altro per la testa. Non è certo un chiacchierone, nemmeno in questo caso, non apre bocca per stornare l’attenzione poco plausibile di rimbambiti ascoltatori. Il gelido inverno deve essere sempre riscaldato. Che alla bisogna venga invocato un angelo buono, ben fatto sia, ma solo i teneri cuori di lettori d’accatto possono cadere nel tranello. Sullo sfondo c’è il tarlo che saccheggia l’animo, che non ammette tregue o pusillanimità.

«Bellezza dell’ideale e sublimità vanno accuratamente distinte. Infatti nell’ideale l’interno compenetra la realtà esterna di cui è interno, in questa guisa, che i due lati appaiono reciprocamente adeguati e reciprocamente perciò compenetrantisi. Nel sublime, invece, l’esistenza esterna, in cui la sostanza viene portata ad intuizione, è abbassata nei confronti della sostanza, in quanto questo atto e il valore strumentale dell’esistenza esterna sono l’unico modo perché possa essere reso intuibile dall’arte l’unico Dio, che per sé è senza forma e non può essere espresso nella sua essenza positiva da nulla di mondano e di finito. Il sublime presuppone il significato in una autonomia di fronte a cui l’esterno deve apparire solo come subordinato, nella misura in cui l’interno non vi appare ma va tanto oltre che a rappresentazione non viene appunto nient’altro che questo essere ed andare oltre». (G. W. F. Hegel, Estetica, tr. it., Torino 1967, pp. 419-420).

Il non luogo del sentimento non si trasforma nella condizione mondana che culla la mia impotenza, al contrario è questa condizione misera che arricchisce se stessa grazie a un fare proprio il non luogo del sentimento, intuendolo nella qualità perduta e ritrovata. Se il sentimento fosse irraggiungibile anche contro i termini qui proposti, il problema si trasformerebbe nell’individuazione di un dio, la mobilità del sentimento sarebbe un continuo tornare indietro, ritrarsi di fronte alla mia ricerca. Se dovessi fermare dentro di me il sentimento, possedendolo almeno per una volta, sarei io stesso dio. Non c’è potenza che non possa essere ricondotta al fare, ma il sentimento non risponde se interpretato in termini di potenza, esso è in fondo desolazione, assenza di accumulo e di possesso.

“Don Giovanni all’inferno”



Poi che al guado d’abisso Don Giovanni a Caronte
ebbe sborsato l’obolo, con un fiero cipiglio
d’Antistene e con mani vendicative e pronte
un cupo mendicante ai remi diè di piglio.
 
Donne dai seni penduli e dalle vesti aperte
si torcevano sotto il nero firmamento,
e, qual branco di vittime all’ecatombe offerte,
dietro di lui muggivano monotono un lamento.
Sganarello, ridendo, chiedeva il suo stipendio,
e Don Luigi alzava la vecchia mano stanca,
per accusare all’ombre vaganti il vilipendio
sparso dall’empio figlio sulla sua fronte bianca.
 
La magra e casta Elvira, chiuso nel lutto il viso,
allo sposo sleale, all’amante impudico,
parea tremando chiedere un ultimo sorriso,
che avesse la dolcezza del giuramento antico.
 
Un grande uomo di pietra, entro l’arme vegliando,
fendea, ritto al timone, la tenebra profonda;
sdegnoso d’ogni vista, l’eroe, curvo sul brando,
solo scrutava il solco della barca nell’onda.

Brandelli di sensazioni, un insieme slegato di sentimenti e figure incartapecorite nella propria storia, solida, quest’ultima, come una cornice di bronzo, incrollabile come lo straccio del convitato che immobile, qual pietra deve essere, osserva sdegnoso il tutto. Il ricordo di un lontanissimo Caronte è là a bloccare reazioni nuove, come deve essere. L’insensatezza della ripetitività è tutta qui. L’uomo cerca di propagare all’infinito la sua smania di fare, il periglioso stimolo della volontà, illudendosi di un completamento inattingibile. Progetto insensato, sentimenti esacerbati, conclusioni tristemente noiose. Ognuno è legato con formidabili catene al proprio carro, che con un nome altisonante chiama vita. Si scatena acidamente per rompere le catene ma non si accorge che non è questa la strada. Nessuna parola può sciogliere l’acciaio in cui quei legamenti sono fusi. Altre le strade per arrivare a perforarle, il primato del dire è di là da venire.

«Cose, come per esempio la grandezza, la sanità, la forza e, in una parola, della sostanza di tutte le cose, di ciò che ciascuna è. La verità di esse si contempla forse mediante il corpo o avviene che chi di noi si accinge più degli altri e con più accuratezza a pensare ciascun oggetto della sua indagine in sé, costui si avvicina il più possibile alla conoscenza dell’oggetto? E potrà farlo nel modo più puro chi si dirigerà verso ciascun oggetto, il più possibile, con il solo pensiero, senza intromettere nel pensiero la vista e senza trascinarsi dietro con il ragionamento alcun altro senso, ma utilizzando solo il puro pensiero di per se stesso, andrà a caccia di ciascuno degli enti in sé nella sua purezza, dopo essersi liberato il più possibile da occhi, orecchie e, a parlar propriamente, da tutto il corpo, perché turba l’anima e non le consente di acquistare verità e intelligenza, quando comunica con essa. Non è forse costui, Simmia, se mai altri, che coglierà l’essere? È straordinariamente vero, disse Simmia, ciò che dici, Socrate». (Platone, Fedone, in Dialoghi filosofici, vol. I, tr. it., Torino 1995, pp. 530-531).

Poiché nella esperienza diversa porto con me me stesso, e poiché io sono anche fare e modificazione, l’intuizione del sentimento, puntando i piedi sull’immediatezza, porta nella diversità una parte del fare. Sembra possibile a questo punto che il mondo del fare, quello della triste quotidianità, in certe condizioni intuitive – la barca di Caronte e il ricordo dell’albero che cede tutte le sue foglie – venga a fare parte della qualità. Non c’è dubbio nemmeno che la follia porta con sé più del necessario. Ma questa presenza, qualora fosse individuata, lo potrebbe essere sempre per via intuitiva, quindi ancora una volta non dicibile. La possibile avventura viene così immediatizzata, ma è ricondotta all’accumulo se non si opera quel coinvolgimento che toglie di netto qualsiasi garanzia o calcolo. Se potessi calcolare quanto di me passa nel territorio del sentimento – che succede di me lettore di Baudelaire? – il sentimento arretrerebbe fino a scomparire, sarebbe cioè costretto a muoversi e a diventare dio o a scomparire.

“La bellezza”



Io sono bella, o uomini, come un sogno scolpito,
e tutti v’ho sfiancato sulla mia carne quieta,
ma l’amore che so ispirare al poeta
e, al par della materia, tacito ed infinito.
 
Sfinge velata in soglio, su nel cielo m’esilio;
nel mio petto di cigno un cuor di neve dorme;
aborro il movimento che scompone le forme,
né mai ad una lacrima né ad un riso m’umilio.
 
I poeti, dinanzi alle mie grandi pose,
di cui rubo alle statue l’esemplare superbo,
spenderanno la vita in fatiche studiose.
 
Io, per stregarli e farmene docili amanti, ho in serbo,
specchi ove senza macula ogni cosa discerno,
gli occhi, i miei larghi occhi dal lume sempiterno!

La perfezione non ha storia, tanto meno un’autostoria, sarebbe qualcosa di sgangherato che metterebbe in luce quello che sta sotto, uno scheletro stanco, ossa e carne in attesa di putrefazione a più o meno breve scadenza. La vita sta altrove, non nel medio dipanarsi di vicende acciaccate, in un modo o nell’altro, ma in una perfezione che è di per sé assenza di perfezione, contrasto e disarmonia. Un pupazzo nelle mani della storia non è bello a vedersi, nemmeno se agghindato dai colori che di solito fanno contorno ad una bella donna. Quale la differenza? Nelle armi di cui dispongono? Trascurabili artifici. Le armi sono protesi e come tali scompaiono molto tempo prima di coloro che sono abituati ad impugnarle. La demenza ha molti aspetti sconosciuti. La normalità è uno di questi. L’eccezione superlativa è la forma più conosciuta di questa atroce condizione del fare. Brulichio di minuscoli accadimenti, soli che tramontano sui soliti orizzonti, lune che sorgono su paesaggi notturni densi del solito brivido. C’è ben altro in Baudelaire, raccoglierlo non è facile, occorre non farsi trarre in inganno dai percorsi obbligati, a volte ben diversi dal muro grigio costeggiato a tentoni dalla negra tisica. La magnificenza della privazione riempie la vista allo stesso modo del ridondante manierismo, si tratta di punti di vista. Dopo tutto l’oggettualità a cui siamo abituati nel mondo coatto che ci circonda può essere vista in tanti modi, colta, intuita, solo in un modo, vivendola fino in fondo, fino a sanguinarne.

«Ho capito perché dalla nostra vicinanza non è potuto nascere niente di reale: perché lei, o era me con tutte le sue forze e quindi soverchiante, oppure era il mio Contro Io e allora naturalmente un advocatus diaboli, un pallido doppio e costante oppositore, senza fondamento personale. Quanto possa aver sofferto di tutto questo è difficile da scoprire, è comunque stato inutile per ambedue e senza sbocco. Le belle lettere che di quando in quando mi scriveva, erano mie, lettere mie, nel mio stile, oppure non mi scriveva affatto». (R. M. Rilke - L. A. Salomè, Epistolario 1897-1926, tr. it., Milano 1992, p. 173).

Anche il salto senza ritorno è stato considerato un modo di porsi in relazione, ma venendo a mancare l’esperienza diversa nel senso della coscienza, tutto rimane immerso nell’indifferenza. Se questo non è possibile, cioè se l’indifferenza è turbata, il sentimento rigetta via l’intrusa coscienza diversa e tutto si chiude nell’indifferenza. Rilke lo sperimentò. La Salomé non ne fu capace.

“I gioielli”



La diletta era nuda e, conforme al mio gusto,
non aveva serbato che i sonori gioielli,
traendone un aspetto opulento e venusto,
quale le schiave more ai loro dì più belli.
 
Quando quell’abbagliante mondo di pietre e d’oro
il vivido e ironico suo strepito produce,
io entro come in estasi, talmente m’innamoro
di tutto ciò che mescola la musica alla luce.
 
Era dunque sdraiata, e si lasciava amare,
sorridendo beata dall’alto del divano
al mio amore, profondo e dolce come il mare,
che a lei saliva come al suo scoglio lontano.
 
Come ammansita tigre fissandomi, in un blando
vago sognare assorta, variava pose a prova,
e il candore, coi gesti di lascivia mischiandosi,
alle sue metamorfosi dava una grazia nuova.
 
Frattanto agli occhi miei sereni e penetranti,
lisce com’olio e ondose come d’un cigno, terga
e cosce e braccia e gambe passavano davanti,
e il ventre e i seni, grappoli della mia ricca pergola,
 
balzavano a turbare fin nel quieto suo stallo
l’anima mia, più ambigui degli Angeli del male,
e a discacciarla alfine dal picco di cristallo
sul quale s’era assisa, solitaria e regale.
 
In lei quasi vedevo – bizzarro innesto! – l’anche
dell’Antiope congiungersi col busto d’un bambino,
tanto la vita dava ampio risalto al fianco.
Sui toni fulvi e bruni il bistro era divino!
 
E poiché s’era il lume rassegnato a morire,
e solo nella stanza durava un fuoco languido,
quante volte la vampa tornava a rifiorire,
tante l’ambrata pelle irrorava di sangue!

La visione di questa improvvisa nudità, animale selvaggio, immobile e pronto a scattare, avrebbe bisogno di un supporto ascetico, di una prova di silenzio. Invece c’è solo un fuoco languido, qualcosa che sta per morire, isterico destino di una forza messa da canto, abbandonata, assottigliata. Nessuna opera di forza, nessuna muscolosità. Rinvigorire potrebbe significare immettere vitalità nella smorta condizione quotidiana. Non è possibile. Il viaggio deve essere molto più tortuoso e lungo. Labirinto e prova. Nessun passaggio meravigliosamente diretto può esserci tra bellezza e turpitudine, tra qualità e quantità. L’oggettualità resta per sempre estranea all’oggettività. Quando si attinge quest’ultima non c’è un segnale particolare che scatta da qualche parte, simile ad un allarme segreto. Neanche il nostro cuore – alla lunga – se ne accorge, almeno sulle prime. Potrebbe farci l’abitudine a una puntualità improvvisa e rapinosa. Non è facile che accada ma può accadere. Quello che gli occhi vedono il cuore non riconferma, c’è in quest’ultimo una sorta di vandalismo che taglia netto e mette a nudo, scarnifica. Baudelaire lo sa benissimo e affronta le opacità del suo tempo – ma quelle del nostro in che cosa differiscono? – con impavido coraggio. Va fino in fondo ai suoi paradisi falsificati, alle sue praterie bruciate, ai suoi fondali mal dipinti, alle sue smorfie di vecchiaia e di cadavere. Nessuno qui ha desiderio di avvinghiarsi come una pianta rampicante ai rimpianti di una bellezza che minaccia continuamente un bizzarro innesto.

«Il giudizio propriamente detto è l’atto che riferisce un contenuto ideale (riconosciuto come tale) a una realtà oltre l’atto. Questo pare forse più scabroso di quello che effettivamente sia. Il contenuto ideale è l’idea logica, il cui significato è stato per l’appunto definito. Viene riconosciuto come tale, quando ci è noto che, per se stesso, non è un fatto ma un aggettivo vagante. Nell’atto dell’asserzione lo trasferiamo e lo uniamo con un sostantivo reale. E percepiamo, in pari tempo, che la relazione così posta non è creata dall’atto, né semplicemente risulta vera in esso o per sua prerogativa, ma è reale indipendentemente e oltre l’atto medesimo. Se per esempio consideriamo il serpente di mare, fin qui ne abbiamo soltanto un’idea e non ancora un giudizio. Cominciamo col chiedere: Esiste? Indaghiamo se “esso esiste”, se sia realmente vero, o soltanto un’idea. Quindi avanziamo e formuliamo il giudizio: “Il serpente di mare esiste”. Per compierlo che cosa abbiamo fatto? La risposta è questa: abbiamo qualificato il mondo reale con l’aggettivo del serpente di mare, ed abbiamo pure riconosciuto che, anche prescindendo dal nostro atto, il mondo è così qualificato. Un giudizio è per noi vero, quando il suo enunciato è qualcosa di più che un’idea, vale a dire è un fatto o è di fatto. Non intendiamo dire, naturalmente, che come un aggettivo del reale l’idea permanga un indefinito universale. Il serpente di mare, se esiste, è un individuo determinato; e, se ci fosse nota la verità intera, saremmo in grado di stabilire esattamente in che modo esiste. Nuovamente, quando nell’ora del crepuscolo dico: “quello è un quadrupede”, qualifico la realtà, che ora appare nella percezione, con questo universale, mentre il quadrupede attuale è, naturalmente, assai di più di quattro gambe e una testa. Ma, asserendo l’universale, non intendo escludere la sua peculiarità che mi è ignota». (F. H. Bradley, I principi della logica, tr. it., Milano 1951, pp. 118-119).

Il sentimento non esclude il giudizio, anzi lo presuppone. Non il giudizio necessariamente selettivo, ma quello che non ha paura della caoticità dell’impossibile che insiste a ripresentarsi sotto vesti differenti. L’esperienza della qualità, dove il sentimento può trovare la coscienza di sé o coscienza diversa, presuppone l’orientamento di fondo, cioè una relazione con la quantità, il mio profondo travaglio interpretativo apporta notizia della quantità. Ogni sentimento, per quanto desolato, ha il suo corrispettivo nella quantità che lo fa vivere nel mondo come giudizio di valore, ma nella qualità non c’è altro che se stessa, la realtà attiva che è e non può non essere. La qualità del reale è certamente nel mio coinvolgimento che mi consente di andare oltre la lettera di quello che percepisco e oriento, ma sta anche nella quantità del fare, nel giudizio che vince l’indifferenza che mi impedirebbe ogni distinzione. Nell’azione sono e non posso fare altrimenti, in caso contrario sarei racchiuso nella non libertà di agire. La libertà vera, che sperimento nell’azione è il volere essere del mondo, che soccombe nella conquista inappagabile, nel potere non essere, difatti scompare di fronte alla domanda fondamentale, tutto qui? Se la volontà fonda il fare, l’agire è fondato sull’abbandono, e qui il sentimento guida per mano verso l’assolutamente altro. Non è una garanzia, e forse definirlo una guida è improprio, ma l’ho sempre avvertito come un sottofondo su cui poggiare i piedi, su cui fare assegnamento, grazie a cui non avere paura fino in fondo, anche nella notte del deserto, quando il vento soffia e non c’è modo di farlo tacere.

“La vita anteriore”



Gran tempo sotto vasti portici ho dimorato,
che splendevano d’oro al sole, alti sul mare,
e che a grotte basaltiche facea rassomigliare
a vespero il solenne diritto colonnato.
 
L’onde, dei firmamenti rotolando le chiare
immagini, sposavano in un mistico afflato
al lume del tramonto, dai miei occhi specchiato,
il rombo delle loro sovrumane fanfare.
Vissi a lungo laggiù, immerso dentro calme
voluttà, nell’azzurro, fra flutti e luci ardenti,
accanto a schiavi nudi, impregnati d’unguenti,
 
che la fronte m’ombravano con ventagli di palme,
ansiosi solamente d’indovinare quale
mi facesse languire misterioso male.

Il ricordo è dell’azzurro, i colonnati dell’infinito. Oggi ci siamo strappati queste immagini dal cuore, abbiamo smesso di essere di ritorno da un viaggio nell’infinito. O lo dobbiamo ancora intraprendere, questo viaggio, oppure siamo di già morti senza saperlo. Quella perdita è il nostro rimorso, il pungolo che ci tiene svegli la notte, l’opacità del nostro sguardo quando osserviamo quelle antiche movenze che dovrebbero essere luminose ma che non riusciamo a non vederle attraverso una nostra bruma personale, frutto della nostra micragnosa consapevolezza di esseri dimidiati. Invece di mirifiche e lontane spiagge, rasentiamo barcollanti muri infetti e guardiamo inebetiti le smorfie che la modernità continua a propinarci senza battere ciglio. Che monta credere di essere nel presente e non nel passato se la nostra prigione è proprio qui, nell’attimo, nella porta carraia di cui parlava la lungimiranza di Nietzsche? I ventagli di palme non coronano più il nostro paese di elezione, rappresentano un miraggio di salvezza. Stiamo tutti affogando nella melma. Per strapparci il cuore non abbiamo molto tempo, dobbiamo gettarlo oltre l’ostacolo.

«Ma chi non si uccide e annienta – per quel tanto, beninteso, di significato relativo di cui queste parole sono capaci, – la vita che altro può essere se non la sintesi in cui non c’è oggetto senza soggetto, e questo si ritrova in quello? Per quanto sia il rilievo della differenza, onde il soggetto sente l’alterità, attraverso la quale si realizza la sua intima medesimezza, non c’è coscienza del differente, senza coscienza di questa medesimezza; perché in questa diversità e identità insieme consiste quell’autocoscienza, che è l’essenza del reale. Il momento artistico nell’equilibrio della sintesi si contempera col momento religioso dell’oggettività; ma per contemperarsi deve sopravvivere, e sopravvive, ed è l’anima di questa vita, che è la sintesi. La gioia dell’arte si può espandere equabilmente e come distendersi e sciogliersi nella calma del pensiero, non mai tanto severo da non essere dentro come percorso e avviato dal brivido segreto del compiacimento, onde il soggetto si possiede, possedendosi fermamente nella verità. Può il pensiero pensante astrarre da sé medesimo, e figgere idealmente il suo sguardo nel logo astratto; ma quello sarà sempre il suo logo astratto; in cui la stessa astrazione da sé non è assenza, ma presenza e prova di sé e del proprio potere. Tutta la vita, tutta la realtà è il laborioso e doloroso processo del pensiero, attualità dello spirito. Ma lo spirito è lo spirito della natura, per chi ben l’intenda. La quale è sempre lì a reggere ogni fatica, ad animare ogni cuore, a spoltrire e smaterializzare ogni inerte essere traendolo alla vita, che è moto e pel moto passaggio dal non-essere all’essere. Lancia che ferisce e risana, in eterno». (G. Gentile, La Filosofia dell’arte, Firenze 1950, p. 260).

La coscienza diversa, colta nell’intuizione del sentimento artistico, anche se limitata e, forse, propedeutica ad una ulteriore esperienza più significativa, quella dell’azione vera e propria, fruisce di un abbandono coniugato con un coinvolgimento, in questo connubio sta il rapporto col destino, il quale può anche non venire alla luce, può andare sprecato nella mancata o inadeguata rammemorazione. La qualità è desolata perché non può essere voluta con la volontà, ma attraverso una diversa peripezia. Questa desolazione è perfino affollata nella sua diversità in quanto è radicalmente altro dell’indifferenza. Il suo non volere comprende il rifiuto dell’indifferenza.

“Il tramonto del sole romantico”



Oh, quanto è bello il sole che sorge allegro e forte
e il suo buondì ci lancia come uno scoppio rosso!
Felice chi ne può con animo commosso
salutare, gloriosa più d’un sogno, la morte!
 
Ricordo!... Ho visto tutto, la fonte, il solco, il fiore,
anelar come vivido cuore sotto i suoi sguardi.
– Corriamo all’orizzonte, presto, corriamo, è tardi,
che non ci sfugga almeno l’ultimo obliquo ardore!
Ma io rincorro invano il Dio che s’allontana;
stende l’ineluttabile Notte su noi, sovrana,
le abbrividenti ali, funeste, umide, opache.
 
Un lezzo di sepolcro nelle tenebre vagola,
e il mio timido piede ai margini del brago
schiaccia rospi imprevisti e lubriche lumache.

Correre verso il tramonto, vincere il tempo che avanza ineluttabile. Non è possibile, è una tragica illusione. La notte arriva puntuale, ingannatrice salvezza, ed è tutto perduto. Siamo senza avvenire se non spezziamo adesso, proprio qui, la scorza che ci sta crescendo attorno, in funeste e umide ali. Non siamo farfalle che possiamo volare via e giocarci in un sol colpo la nostra breve esistenza, abbiamo a che fare con accadimenti spesso più grandi di noi, non possiamo essere né troppo pietosi né troppo rigidi. Proliferano le angosce e le paure, bene, è questa la vita, che cosa ci aspettavamo? C’è ben poco da costruire, materialmente beninteso, quello che mettiamo in piedi viene spazzato via dal fetore del cadavere che si porta dentro.

«Il senso comune converrà con noi che l’essere detto libero è quello che può realizzare i suoi progetti. Ma perché l’atto possa comportare una realizzazione, conviene che la semplice proiezione di un fine possibile si distingua a priori dalla realizzazione di detto fine. Se basta concepire per realizzare, eccomi immerso in un mondo simile a quello del sogno, in cui il possibile non si distingue affatto dal reale. Io sono quindi condannato a veder il mondo modificarsi correlativamente ai mutamenti della mia coscienza, non posso compiere, in riferimento alla mia concezione, la “messa tra parentesi” e la sospensione del giudizio che distinguerà una semplice finzione da una scelta reale. Dal momento che l’oggetto viene semplicemente concepito, esso non sarà più né scelto né solamente desiderato. Essendo abolita la distinzione fra il semplice desiderio, la rappresentazione che potrei scegliere e la scelta, la libertà sparisce con essa. Siamo liberi allorché il termine ultimo dal quale ci facciamo dire ciò che siamo è un fine, cioè non un esistente reale». (J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, tr. it., Milano 1968, p. 584).

Non è col semplice fare che posso immaginare possibile un mutamento nella qualità. La molteplicità delle produzioni e la stessa trasformazione che l’azione determina non la sposta dal suo semplicemente essere quello che è. La completezza non può essere completata. Il fondamento della trasformazione sta nel mio coinvolgimento non nella qualità in sé considerata. Quest’ultima e la sua desolazione possono permettere il molteplice dispiegarsi dell’esperienza diversa, ma non si modificano né si trasformano. L’azione agisce nel mondo producendo quello che senza l’esperienza nella qualità sarebbe stato impossibile produrre.

“La Morte degli amanti”



Avremo letti intrisi di sentori
tenui, divani oscuri come avelli,
sulle mensole nuovi e strani fiori,
nati per noi sotto cieli più belli.
 
Consumandosi a gara, i nostri cuori
come due grandi torce due ruscelli
verseranno di vampe e di fulgori
nei nostri spiriti, specchi gemelli.
 
Una sera di rosa e azzurro mistico,
un lampo solo ci vedrà commisti,
lungo singhiozzo carico d’addio.
 
Un Angelo, schiudendo le porte,
a ravvivar verrà, gaudioso e pio,
gli specchi opachi e le due fiamme morte.

Basta con il taglio rassicurante degli accadimenti. Non c’è da restarsene rassicurati, anzi, al contrario. Né ci sarebbe ormai spazio per estremizzarli, questi accadimenti, per renderli più sanguinosi e tragici di quello che sono, la realtà supera qualunque fantasia, anche la più esasperata. Le turpitudini non si nascondono nelle alcove, qui tutto resta come sempre uguale a tutto, ma scendono nelle strade e dilagano per il mondo. Forse l’alcova è il solo luogo dove la ripetizione regna ancora sovrana, con tutte le sue mille varianti, e dove non c’è nulla di nuovo, o di particolarmente estremo. L’orrendo delitto sta altrove, orrendo perché stupido, come stupida è la ferocia muta e sorda. L’animale eretto sa come metterle e frutto per alimentare la caverna dei massacri. La barbarie non è più la specializzazione di gruppi precisi, adesso è patrimonio di tutti, ognuno ne usa la parte che si è conquistata e che tiene a mantenere bene in funzione. L’angelo curioso di Baudelaire schiude le porte e non vede niente, solo due fiamme morte. Le contingenze sono ormai insostenibili, non bastano più le tecniche filosofiche per tenerle in piedi. La ragione non accetta più commistioni con l’azzurro mistico, lo stridore sarebbe troppo forte.

«Lo spirito, almeno in apparenza, non è un grand mot di Heidegger». (J. Derrida, De l’esprit, Paris 1987, p. 15).

La critica negativa incide sul fare ma presuppone, attraverso l’interpretazione, l’agire. Non si tratta di un modello remoto, che avrebbe l’aspetto esangue di un fantasma o di un’ombra, duplicazione di quei lemuri che ben comosciamo, da questa parte. Oltrepassando il fare, l’esperienza diversa penetra nella qualità e presuppone una condizione immutabile come infinita possibilità di essere. Sono le mie limitatezze che restringono le possibilità di sentire fino in fondo le esperienze del campo. L’agire mi propone possibilità, il fare modelli da seguire. L’agire può non verificarsi e la possibilità abortire nella concordanza con le regole. Il modello non può non essere realizzato, anche se poi nel fare la modificazione produce continui cambiamenti che però non mettono in discussione la necessità delle regole. I due processi logici, il tutto e subito e l’a poco a poco non hanno nessi di collegamento, la possibilità si apre alla totalità dell’esperienza diversa ma è costretta a chiudersi di fronte al limite della follia, il modello resta chiuso nell’abbraccio della regola ma riceve un contributo dalla rammemorazione che ravviva le considerevoli capacità modificative. La rammemorazione non è guidata dal tutto e subito, è sempre una espressione del mondo e quindi resta una specificazione che segue le regole del mondo.

“L’orologio”



Orologio! impassibile, sinistro, orrido iddio,
il cui dito minaccia e proclama: “Ricorda!
I vibranti Dolori presto avverrà che mordano
come dardi infallibili il tuo cuore restio.
 
Rapido all’orizzonte il diafano Piacere
sparirà come silfide dietro le quinte; ingoia
ciascun attimo un frusto della povera gioia
che all’uomo sulla terra fu concesso godere;
 
per tremila seicento volte all’ora il Secondo
ti bisbiglia: Ricorda! ed ecco Adesso già
stride con voce d’ape: Io sono Poco fa,
e t’ho succhiato il sangue col pungiglione immondo!
 
Souviens-toi! Remember, o prodigo! Memento!
(La mia gola d’acciaio discorre in ogni lingua...)
Sfrutta, pazzo mortale, avanti che s’estingua,
dei labili minuti l’aurato giacimento!
 
Ricorda che per legge il Tempo ad ogni ruota
vince senza barare e more non accorda.
Il giorno scema e cresce la tenebra; ricorda!
L’abisso ha sempre sete, la clessidra si vuota.
 
Non molto ancora, e poi la divina Occasione,
e l’augusta Virtù, la tua vergine sposa,
e i1 Pentimento (ahi, l’ultimo rifugio!), e ogni cosa,
ti dirà: cosa aspetti? Muori, vecchio poltrone!”.

Gli operai in rivolta della Comune di Parigi spareranno sugli orologi. Il tempo segna la scansione inesorabile dello sfruttamento. Nella sua aleatorietà positiva ritma la bramosia di distruzione, il desiderio di morte, l’imminenza della vita e, quel che è peggio, l’impossibilità della completezza. Niente è più insolito di questa spasmodica ricerca della misura all’interno della non misurabilità. Da un altro verso, è inutile spiare continuamente il decorso della ineluttabilità, eppure tutti lo facciamo, spettando l’accadimento epocale che darà una svolta alla nostra vita. Ma questo, quando arriva, e non è mai da solo, è sempre di già passato se lo cogliamo per quello che può avere di senso. Non possiamo educarci all’assenza di tempo, allo stesso modo in cui non possiamo fare come se non esistesse, eppure si tratta di una finzione che ha valore solo nell’ambito coatto. Nell’azione non c’è tempo, tutto è nell’istante, incisione nella carne compresa. Il sentimento coglie questa puntualità ma se la lascia sfuggire facendola scorrere come sabbia fra le dita.

«È il tempo che mantiene l’uomo nella sua finitudine mantenendolo nella problematicità del rapporto trascendentale tra la possibilità ontica e quella ontologica. Il presente temporale dell’uomo è lo stesso atto per cui l’uomo è un ente finito. Ma questa finitudine assume il suo intero significato, e la temporalità (che può anche essere superficialità e dispersione) diventa, storicità, cioè concentrazione significativa, solo quando l’uomo decide proprio nel senso della sua finitudine, assumendo questa finitudine come sua stessa natura e conservandosi ad essa fedele». (N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, Torino 1957, p. 31).

L’azione che realizzo attraverso la possibilità offerta dal destino è tale perché io l’ho resa possibile, non è un premio o un appuntamento temporalmente accidentale. Se fosse soltanto possibile potrebbe non venire mai agita nella sua realizzazione, essa è possibile ma porta nel mio destino i segni della mia esperienza diversa. Tutto questo deve intendersi in un processo o movimento complessivo che sfugge e viene continuamente catturato dalla modificazione. Alla fine la stessa possibilità diventa modulo, ma non nasce come tale né viene dalla produzione del modulo in quanto espressione del fare. L’io possibile del mio destino ha in sé il destino del modulo, e il prodotto del mio fare ha in sé la possibilità di attingere, attraverso il mio coinvolgimento, la diversità qualitativa. La qualità comprende questo intero universo ma non può viverlo se non sotto la semplice espressione di totalità puntuale. Un azzeramento dello spazio e, principalmente, del tempo.

“Il balcone”



Madre delle memorie, amante delle amanti,
fonte d’ogni mia gioia e d’ogni mio dovere,
ricorderai le tenere nostre ebbrezze, davanti
al fuoco, e l’incantesimo di quelle lunghe sere,
madre delle memorie, amante delle amanti!
 
Le sere accanto al palpito luminoso dei ceppi,
le sere sul balcone, velate d’ombre rosee...
Buono il tuo cuore, e dolce m’era il tuo seno: oh, seppi
dirti, e sapesti dirmi, inobliabili cose,
le sere accanto al palpito luminoso dei ceppi!
 
Come son belli i soli nelle calde serate,
quanta luce nel cielo, che ali dentro il cuore!
Chino su te sentivo, o amata fra le amate,
alitar del tuo sangue il recondito odore...
Come son belli i soli nelle calde serate!
 
Un muro era la notte, invisibile e pieno.
Io pur sapevo al buio le tue pupille scernere,
e bevevo il tuo fiato, dolcissimo veleno,
e i piedi t’assopivo entro mani fraterne.
Un muro era la notte, invisibile e pieno.
 
Io so come evocare i minuti felici,
e rivivo il passato, rannicchiato ai tuoi piedi:
e infatti nel tuo mite cuore e nei sensi amici
tutta chiusa la languida bellezza che possiedi
Io so come evocare i minuti felici...
 
O promesse, o profumi, o baci senza fine,
riemergerete mai dai vostri avari abissi,
come dal mare, giovani e stillanti, al confine
celeste i soli tornano dopo la lunga eclissi?
– O promesse, o profumi, o baci senza fine!

La luce corporea, il ricordo anch’esso corporeo, scricchiolano insieme in un quadro che sembra esente dall’ipoteca finale, dalla conclusione negativa. Non è così, ma può sembrarlo ed è questo che spesso è accaduto. L’avvenire che il poeta vede dal balcone è esattamente a ritroso, un avvenire terribile, bloccato, esaltante nella bellezza del momento contestuale – il pulsare del seno e del sangue – ma incapace di reggere al crollo di tutte le illusioni. Un momento in cui lo scoraggiamento sembra assente è proprio quello che segna il più alto livello di scoraggiamento. Perché battersi? Che ne sarà delle promesse e dei profumi? Torneranno? Non si può essere certi, malgrado le reiterate esclamazioni di certezza. Il poeta distrugge distruggendosi, non c’è altro modo per costruire nuovi mondi, per lo stesso motivo odia odiandosi, la strada è sempre quella. Non è una questione di scetticismo, è una reazione fisiologica. Il mondo è troppo immerso nella melma per meritare qualcosa di meglio. Gli sprazzi di luce sono soltanto sprazzi, intermittenze di felicità che non possono racchiudersi in un possesso. La mano che cerca di stringere si trova alla fine a serrare l’aria, il nulla.

«Si accumulano e sgorgano, di giorno in giorno, esperienze, vicende vissute, pensieri su di queste e sogni su questi pensieri, – una smisurata, affascinante ricchezza! Tale spettacolo fa venire il capogiro; io non riesco a capire come si possa dir beati i poveri di spirito! – Tuttavia, talvolta li invidio, quando sono stanco: perché l’amministrazione di una tale ricchezza è una difficile cosa, e la sua difficoltà non di rado soffoca in me ogni felicità. – Sì, se bastasse soltanto guardarla, questa ricchezza! Se si fosse solo gli spilorci delle proprie conoscenze!». (F. Nietzsche, Aurora, V, 476).

La realtà è per se stessa ciò che può non essere e che, parimenti, non può non essere. La negatività, che qui si manifesta, è quella critica, la quale spinta al suo massimo punto cancella il mondo che diventa impossibile. La produzione, nella sua apparente certezza, potrebbe scomparire senza nessuna difficoltà. La quantità esiste perché ci sono io a orientarla, altrimenti non ci sarebbe nemmeno la qualità, ma solo l’indifferente a tutto. La possibilità di questa condizione è impossibile perché la realtà non è una possibilità, ma semplicemente è. Le condizioni non accumulative della qualità non mettono in discussione la realtà, anche se prive di coordinate spaziali e temporali. La puntualità qualitativa è e non ha bisogno di potere non essere, essa è anche tempo e spazio ma temporalizzata e spazializzata.

“A una signora creola”



In un paese aulente e tiepido conosco
una signora creola, ricca di grazie nuove:
di rossi alberi e palme la vidi sotto un chiosco,
donde sopra le palpebre sonno e silenzio piove.
 
La bruna incantatrice ha un viso ardente e fosco,
e il collo con movenze nobili e rare muove;
alta e agile incede come arciera di bosco,
con quieto riso e occhi che mai nulla commuove.
 
Se della verde Loira o della Senna in riva
andaste, ove la gloria verace si coltiva,
bella, degna d’ornare castelli leggendari,
 
quanti sonetti, al cenno dei grandi occhi, i poeti,
più d’ogni vostro negro umili e mansueti,
vi offrirebbero, in fondo ai parchi solitari!

Qualcosa del dolcestilnovo si trova qui, come di passata, frammista ad una indolenza e a una strana aura di pace, coperta dall’alibi di trovarsi in un luogo tanto remoto, al di fuori di ogni sospetto di commistione con i luoghi della putredine. Il poeta si illude e illude il lettore. Un gioco che sospende la cancrena della bruttura e lascia libero sfogo alla fantasia. La donna sullo sfondo è totalmente irreale, e lo è proprio perché probabilmente corrisponde a un ricordo preciso dei tanti che gli si affollavano alla mente del viaggio fatto in gioventù. E lui si schiera in mezzo alla schiera di poeti genuflessi, più umili di poveri servitori, e in questa comunità di intenti poetici trova un attimo, ma soltanto un attimo, di illusoria pace. L’amore, qui indirettamente si sottolinea, è comunque ben altro, non è questa pace della visione, ma è la religione del contrasto e dell’estrema sofferenza.

«L’agonia è, dunque, lotta. E il Cristo è venuto a portarci l’agonia, lotta e non pace. Ce l’ha detto egli stesso: “Si ricordava del fatto che i suoi, quei della sua famiglia, sua madre e i suoi fratelli, l’avevano preso per pazzo, per alienato e lo erano andati a cercare”. (Marco, III, 2, 1). E un’altra volta: “Sono venuto a portare il fuoco in terra e che cosa voglio, se non che prenda?... Credete che sia venuto a portare la pace in terra? No, vi dico, ma divisione: d’ora innanzi ci saranno cinque nemici in una sola casa; tre contro due e due contro tre: il padre contro il figlio e il figlio contro il padre, la figlia contro la madre e la madre contro la figlia, la suocera contro la nuora e la nuora contro la suocera” (Luca, XII, 49-54). “E la pace?” ci si chiederà. Perché si possono riportare altrettanti passi e molto più espliciti, in cui ci si parla di pace nel Vangelo. Ma il fatto è che questa pace è nella guerra e la guerra nella pace. E questa è l’agonia». (M. De Unamuno, L’agonia del Cristianesimo, tr. it., Milano 1946, pp. 11-12).

Il sapere si concretizza nell’accumulo, cioè storicamente appare come passato. Ma il presente ribolle di forze contrastanti. Conoscere fino in fondo l’amore è, per questo motivo, impossibile, almeno come illusione e idillio. La conoscenza è anche frutto di queste lotte, non è semplice sedimentazione di concordanze acquisite. Il desiderio di conoscere e quello di possedere sono la medesima cosa, desiderio impuro di completezza, chiudere gli occhi davanti alle ridicole pretese del possesso totale, ma è anche riconoscimento di questa impossibilità, quindi inquietudine. L’indagine su ciò che è assente, che rappresenta l’abisso incolmabile dell’altro, non può avviarsi se non attraverso il coinvolgimento nel territorio della qualità. È proprio da questa desolazione che verrà fuori una nuova dimensione quantitativa.

“A una malabarese”



Esigue, come i piedi, hai le mani, ma l’anca
larga, da ingelosirsene ogni più bella bianca;
care al severo artista, membra tenere e belle;
grandi occhi di velluto, più neri della pelle.
 
Dove il tuo Dio ti volle, su azzurra e calda ripa,
e tuo compito accendere al padrone la pipa,
cangiare l’acqua e i balsami nelle coppe profonde,
respingere dai letti le zanzare errabonde,
e, all’alba, quando i platani cominciano a cantare,
ananassi e banane al bazar comperare.
Vai tutto il giorno, scalza, a zonzo, canticchiando
sottovoce perdute, ignote nenie, e quando
scende infine la sera dal mantello di porpora,
adagi dolcemente su una stuoia il tuo corpo,
e abbandoni il tuo essere, che ugual grazia fiorì,
a volubili sogni, pieni di colibrì.
 
Perché dunque alla Francia, felice bimba, pensi,
dove il dolore falcia gli uomini troppo densi?
Perché alle forti braccia dei marinai t’affidi,
e dici addio ai cari tamarindi dei lidi?
Ahimè, vestita appena di mussolina lieve,
rabbrividendo al vento, alla pioggia, alla neve,
come rimpiangeresti gli ozi calmi e sereni,
se, nel busto brutale serrando i fianchi e i seni,
dovessi raccattare nel nostro fango un pane,
e vendere il profumo delle tue grazie strane,
pensosa, entro la sudicia caligine, le vuote
fantasime inseguendo delle palme remote!

Ancora una volta è la bellezza di un mondo remoto che appare e, questa volta, viene descritto in molti aspetti e con taglio partecipante e perfino felice. Ma poi sopravviene l’esatta conclusione, la fine prevedibile di tanta bellezza fagocitata dalla metropoli che tutto insozza e tritura riducendo la bella malabarese alle dimensioni spaventose del cigno morente e della negra tisica. Le affermazioni finali non sono un consiglio di tornare indietro. Indietro nessuno può tornare veramente, nessuno uscirà vivo da questa condizione cittadina, schiacciata da un meccanismo ottuso e miserabile che tiene la bellezza alla stessa stregua dello strame, per farsene ornamento transitorio di una sera o di pochi momenti di amore a pagamento. In tali condizioni, accolta dalle spire invide, la donna vede sfiorire la propria bellezza e non sa né come sfuggire né come restare, si affida quindi alle forze che la terranno prigioniera e, in fondo, questa sua condizione è uguale a quella del poeta che va ramingo, di quartiere in quartiere per raccattare i pochi franchi che gli permettono di sopravvivere nella miseria quotidiana.

«Ai valori del gradevole e dello sgradevole corrispondono speciali gruppi di valori consecutivi (valori tecnici e valori-simboli), che non è questo il luogo di trattare. Come seconda modalità si presenta l’insieme dei valori del sentire vitale. Questa modalità abbraccia tutte le qualità comprese tra il nobile e il volgare (in contrapposizione tra loro) o anche tra il “buono”, in quella particolare pregnanza di significato per cui viene equiparato all’“abile”, e il “cattivo” (Schlecht), a cui veramente l’abile si contrappone (e non già al “malvagio”, (Böse). Valori consecutivi sono quelli che fanno parte della sfera della “prosperità” e del “benessere”, naturalmente subordinati al “nobile” o all’“ignobile”. Stati emozionali corrispondenti a questa modalità sono tutti i modi del sentimento vitale (ad esempio il sentimento della vitalità in ascesa o in decadenza, della salute e della malattia, della vecchiaia e della morte, sentimenti come “esausto” ed “esuberante”, ecc.). Reazioni sentimentali corrispondenti sono, ad esempio, il rallegrarsi e il rattristarsi (di una specie particolare). Reazioni istintive sono il coraggio, l’angoscia, l’impulso della vendetta, la collera, ecc. Il campo di queste qualità e dei loro correlati non può essere qui interamente descritto. I valori vitali sono una modalità autonoma e non possono venir ricondotti ai valori del gradevole e dello sgradevole, né a quelli spirituali. Nel disconoscimento di questo dato di fatto sta il difetto fondamentale delle dottrine etiche sino ad oggi». (M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, tr. it., Milano 1943, pp. 103-104).

Ogni nuova conoscenza guarda sempre indietro, fa tesoro della rammemorazione, ma non è capace di sfruttare le possibilità del destino, queste solo al singolo dicono qualcosa, ma è un dire nascosto i cui pezzi devono essere messi insieme e interpretati lontano dalla paura. Il fatto è povera esperienza se commisurato all’agito, ma questa meravigliosa diversità, con tutti i suoi vantaggi, diventa conoscenza solo attraverso il fare. La limitatezza della conoscenza, questo suo essere essa stessa fatto e null’altro, è anche la sua durezza e la sua forza. Nell’assenza, che nel mondo viene intuita, l’oltrepassamento permette un viaggio nell’oggettività dell’essere da cui è possibile ricavare l’intuizione di una precedente unione, scomparsa nello sforzo orientativo che ha dato origine alla conoscenza. Ecco perché siamo qui, nel fare, e non altrove, nell’agire, ed ecco perché aspiriamo all’agire e cerchiamo di salpare con tutte le vele al vento dal porto del fare. Poiché l’intuizione dell’essere – per esempio sotto la forma del sentimento – appare qui, nel mondo, non è possibile che essa sia autonoma rispetto all’essere, perché quest’ultimo sarebbe allora tagliato fuori e arroccato nell’assoluta inaccostabilità. In fondo indifferenza e impenetrabilità sono due condizioni che non si possono sovrapporre.

“Il tossico”



Il vino sa vestire d’un prodigioso lume
la stamberga peggiore,
e fabbricare portici di fiaba con le spume
del suo rosso vapore,
come un occiduo sole che splenda fra le brume.
 
L’oppio all’illimitato più vasti spazi dà,
nuovi confini adempie,
dilata il tempo e aguzza il piacere, di empie
e nere voluttà
fino all’orlo, e più ancora, il cuore ci riempie.
 
Tutto questo non vale il tossico che versano
le tue verdi pupille,
laghi ove rispecchia le tremule postille
l’anima mia riversa,
gorghi amari ove a bere scendono i sogni a mille.
 
Tutto questo non vale il tremendo prodigio
dell’acre tua saliva,
che, senza più rimorsi né forze, alla deriva,
su onde di vertigine,
immemore mi spinge alla funerea riva.

Verso la profondità il viaggio è praticamente senza fine. Solo all’esterno, per un visitatore superficiale, può accadere di confonderlo con l’andare ancora più oltre, al di là del punto di non ritorno, ma si tratta di due condizioni diverse. La protesi di cui discorre Baudelaire è tutta interna al fare, al misero fare delle condizioni diseredate, marginali, di chi preferisce escludersi ed allontanarsi dagli altri allo scopo di meglio cogliere le profondità più a portata di mano. È ovvio che anche il viaggio verso la diversità è un viaggio solitario, ma si tratta di ben altra cosa. In fondo, la funerea riva è un porto dove non ci sono navi che alzano le vele, ma solo carcasse in disarmo. La conquista della gloria necessita di infingardaggine, meschinità, espedienti, pesantezza di movenze. Chi è leggero e vola un poco più alto, non va a caccia di gloria, se vi inciampa – in fondo è stato anche questo il caso di Baudelaire, seppure per motivi differenti di quelli che sto illustrando qui – è solo un malaugurato caso che ve lo costringe.

«La convinzione, che costituisce il pessimismo, che la nostra miseria mondana non possa essere pensata più grande di quello che è in realtà, in Schopenhauer non era accompagnata da dolore, restava una rappresentazione ricca della forza della sua chiarezza e vividezza: essa era per lui immagine, non destino. Né la comprensione per il mondo sofferente lo penetrò al punto che egli sotto il suo peso effettivamente ne soffrisse, né egli stesso fu preda di un destino doloroso. Non visse lo stato di cui si dice: “quando il dolore dell’umanità vi prende alla gola!...”. Non fu un penitente e un asceta, come Buddha, né un sofferente, come Leopardi». (K. Fischer, Schopenhauers Leben Werke und Lehre, (vol. IX della Geschichte der neuern Philosophie), Heildelberg 1898, ns. tr., pp. 134-135).

Per molti aspetti vicini, il caso di Schopenhauer non è quello di Baudelaire. Fischer lo spiega egregiamente. Il pessimismo comune aveva origini e manifestazioni differenti. La principale di queste differenze era il rapporto con la donna. Per quanto tempestoso e contraddittorio, nel caso di Baudelaire, questo rapporto non solo era l’elemento fondante di tutta la sua visione del mondo, ma anche era fonte di sempre nuove considerazioni e scoperte. La donna esisteva in carne e ossa, era un essere da amare o da odiare, ma era sempre, e in ogni caso, un essere vivente. Per Schopenhauer era solo un ectoplasma da cui tenersi lontano, perché ogni rapporto con lei poteva ingenerare quelle condizioni di disturbo che avrebbero impedito la calma necessaria alla riflessione filosofica.

“A Théodore de Banville”



Tu ghermisti ai capelli la Dea recalcitrante
con tale disinvolta iattanza di padrone,
da somigliare, in vista, a un giovine lenone
che con pugno di ferro malmenasse l’amante.
 
Con occhi arsi dal fuoco della precocità,
hai saputo por mano, orgoglioso architetto,
a più d’un edificio ardito ma corretto,
stupenda promettendoci la tua maturità.
 
Poeta, da ogni poro il nostro sangue cola:
forse dunque la tunica di Nesso, che da sola
schiudeva un fiume funebre nei polsi degli umani,
 
fu per tre volte intinta nelle bave pungenti
di quei vendicativi ed immani serpenti
che, ancora in fasce, Ercole strozzò con le sue mani?

Fare versi è anche un mestiere. Sorprendentemente non era questo il mestiere di Baudelaire, che sui versi ci moriva. Non venivano su spontaneamente, come accadeva al superficiale suo amico de Banville, egli era un forzato della rima, un condannato al lavoro ingrato della lima. Spesso c’è da chiedersi se la facilità nello scrivere non sia un sovraccarico negativo sull’esito dello scritto. C’è anche una sottile ironia negli elogi di cui sopra? Forse. Ma Baudelaire andava per altri lidi, verso altre spiagge.

Feroce Cioran, non senza ragione: “Tanto spesso i santi hanno fatto ricorso alla facilità del paradosso che è impossibile non citarli nei salotti”.

È il limite di chi permane nella coscienza immediata e, da questo osservatorio circoscritto ma sicuro – dentro certe prospettive – osserva criticamente il mondo e se ne duole.

“La Distruzione”



Senza posa al mio fianco s’agita il Maledetto,
e come un vago soffio nell’aria si dirama;
io lo respiro e sento che mi versa nel petto
il fuoco d’un’eterna e colpevole brama.
 
A volte, poiché sa quanto l’Arte m’attiri,
d’una maliosa donna le sembianze disegna
e coi più gesuitici e speciosi raggiri
ignobili misture alle mie labbra insegna.
Così, senza né forze né fiato, mi conduce
lontano, ove nessuna orma di Dio riluce,
nelle piane del Tedio, infinite, deserte;
 
e getta nei miei occhi pieni di confusione,
mucchi di vesti sozze, grandi ferite aperte,
e la tua sanguinosa maschera, o Distruzione!

Infinitamente lontano dal nostro concetto di distruzione, per Baudelaire si tratta di qualcosa che si respira nell’aria e che improvvisamente aumenta il suo afrore, come accade ad una donna accaldata. A ritoccare queste visioni (poetiche o rivoluzionarie, non è questo il punto) ci pensa la vita, giorno per giorno. Smaliziarsi è anche questo, constatare come la morte, con la sanguinosa maschera della distruzione, viaggi costantemente a fianco di tutto quello che facciamo, come il fare stesso sia in costante diretto contatto con la caverna dei massacri.

Così Marx, con pari odio di Baudelaire sui costruttori giornalistici di miti quotidiani: “Finora si era creduto che la formazione dei miti cristiani sotto l’impero romano fosse stata possibile perché non era stata ancora inventata la stampa. Proprio l’inverso. La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bue borghese ci crede e li diffonde) in un giorno, di quanto una volta se ne potevano costruire in un secolo”.

Se l’intuizione mi trascina via, l’esperienza che faccio della qualità non può essere considerata conoscenza acquisita. La stessa preparazione critica negativa, l’immane accumulo di considerazioni che abbondano nel poeta, cioè l’interpretazione, è solo un apprestarsi all’agire, un fare critico, un riassetto dell’accumulo, una radicale riforma dell’archivio, tutto quello che si vuole, ma non è azione. Le Fleurs non sono mai stati un manuale di combattimento.

“La gigantessa”



Al tempo che Natura, artefice indefessa,
concepiva ogni giorno qualche forma inumana,
avrei voluto vivere presso una gigantessa,
come un gatto lascivo ai piè d’una sovrana;
 
vederle, insieme all’anima, fiorir le membra, e farsi,
in terribili giuochi, sempre più grandi e piene;
scoprir, mirando gli occhi, d’umide brame sparsi,
se mai covi una torbida fiamma nelle sue vene
 
percorrere a mio agio le sue splendide forme;
arrampicarmi in vetta al suo ginocchio enorme;
e quando le interviene sotto l’afa maligna,
 
di coricarsi esausta attraverso la vigna,
all’ombra dei suoi seni pigramente sognare,
come ai piedi d’un monte un gaio casolare.

Propendere seriamente verso una realtà priva di contenuto reale non è sogno. Nel sogno, il movimento è inverso, è il sogno che propende verso di noi e costruire una immaginazione alterata, perfino ridicola o gratuita, senza neanche preoccuparsi delle conseguenze che può avere, questa fantasia, sugli altri che ci vedono, in questo modo, abdicare al controllo logico che tutti siamo costretti ad esercitare, gli uni con gli altri, nell’ambito del fare coatto. C’è qualcosa di radicalmente diverso dal sogno in questi versi, qualcosa che fa impallidire le fantasie di un Swift, e andare oltre, in fondo l’immagine della donna si duplica in queste fantasie con quella della grande terra o, se si preferisce, delle Madri. È una delle rare volte in cui la “natura” appare, ma invia un segno necessariamente deformato, eccessivo, cerca in tutti i modi di adeguarsi alla gigantologia che il mondo moderno va costruendo attorno al poeta, distruggendo le tracce di una vita passata, forse, ma non certamente, quella, a misura d’uomo. È il crepuscolo che monta, di caduta non si parla nemmeno, questa è sottointesa, quindi comprensibile solo per orecchie smaliziate, che non arrossiscono più di fronte alle illusioni, anzi le coltivano e se ne cibano quotidianamente.

«La questione della veritas cristiana diviene in senso accentuato la questione della iustitia e della iustificatio. Secondo la concezione della teologia medioevale, la iustitia è la rectitudo rationis et voluntatis, ovvero la rettitudine della ragione e della volontà. Detto in breve: la rectitudo appetitus rationalis, la rettitudine della volontà, l’aspirazione alla rettitudine, è la forma fondamentale della volontà di volere. Già secondo la dottrina medioevale la iustificatio è il primus motus fidei – il movimento fondamentale dell’atteggiamento di fede. La dottrina della giustificazione, e precisamente come questione della certezza salvifica, diviene il centro della teologia evangelica. (M. Heidegger, Parmenide, tr. it., Milano 1999, p. 77).

Proprio nella parte critica la conoscenza viene a capo delle proprie responsabilità ma non del proprio destino, è padrona circoscritta sempre al fatto, per quanto adesso riesca a vedere anche gli aspetti etici. Essa continua a fare volare tardi l’uccello della dea, ma comincia a capire che le possibilità del destino le aprono baratri sotto i piedi. Il completamento continua a restare lontano, a essere rinviato. Il mondo esiste perché deve esistere, io sono qui perché il mondo sarebbe stato differente se al posto mio ci sarebbe stato mio fratello, nato morto un anno prima di me. Ma questa conferma obbligatoria è a posteriori, riguarda la creazione di questo mondo, non la separazione dall’essere. La percezione che manda via la qualità, mi offre l’occasione di avvicinarmi al punto di vista della massima intensificazione, ma questo avvicinamento non è completo, a un certo punto il mio desiderio di possesso lo fa saltare via. Non posso mai raggiungere l’essere, ma l’intero apparato produttivo e quello interpretativo non annegano mai nell’essere, questo resta sempre remoto, resta sempre quello che è.

“L’alba spirituale”



Quando sui debosciati l’Alba bianca e vermiglia
sorge e stringe alleanza col vorace Ideale,
per l’occulta rivalsa d’un mistero fatale
nel sonnacchioso bruto un Angelo si sveglia.
 
L’azzurro Cielo Mistico dalle volte innaccesse,
vertiginoso abisso lusinghevole, s’offre
e si spalanca al vinto che sogna ancora e soffre.
Così, Dea adorata, intatto e lucido Essere,
 
sulle fumose ceneri dell’ebete bagordo
agli occhi miei sgranati aliando ritorna,
sempre più terso, roseo e bello, il tuo ricordo.
 
Già il sole i lumi tremuli delle torce frastorna:
così, raggiante anima, l’invincibile e puro
tuo fantasma somiglia al sole imperituro!

Poesia dedicata (ma non indicata) alla Sabatier e scritta presumibilmente quando il poeta si trovava sequestrato in un bordello di Versailles per mancanza di soldi. Dal fondo di un baratro è sempre possibile alzare gli occhi verso il sole, un sole intramontabile, inamovibile, fisso, bruciante come il dito del dio della vendetta. Attorno l’insuccesso, non tanto la deboscia, che questa non disturba, ma l’ottusità del mondo che impone le proprie delusioni e le costanti amarezze che lo intessono, a tutti come linea da seguire per andare avanti, fino in fondo, in questa valle di lacrime. Lucida infingardaggine? Può darsi, ma che monta? Il risultato è lo stesso. Vivere di espedienti non è vero che aguzzi l’ingegno, lo abbrutisce. Il poeta si salva perché riesce a mettere questa sua vita zoppicante tra parentesi e trovarsi a tu per tu non solo con il notaio Ancelle, triste incombenza del ventre e delle sue necessità quotidiane, ma con il nulla da cui trae gli insegnamenti più importanti.

«Se Fichte ha detto che l’autocoscienza divina non può essere pensata e se Schelling ha spiegato che il linguaggio fallisce non appena vuole esprimere l’Assoluto, Hegel accoglie questo “irrazionalismo” nel proprio sistema. In effetti l’Assoluto non si può fissare o significare in nessun pensiero, in nessun’espressione, perché è in nessun posto essendo dappertutto, è il nulla, essendo l’essere; è inesprimibile perché è l’esprimere stesso, non è formulabile in nessun pensiero, perché è il pensare stesso». (R. Kroner, Von Kant bis Hegel, vol. II, ns. tr., Tübingen 1961, p. 283).

Niente può muovere la qualità e niente può muovermi nella qualità. L’indeterminato è la mia creazione mai completa, il mondo, ma nel punto immobile in cui può riassumersi esso è determinato e immobile una volta per tutte. Il fatto che io possa dire ciò è la prova che l’abbraccio della qualità non è completo, che posso prendere le distanze e individuare differenze, cioè che posso pensare. Ma il destino che mi viene incontro non mi dice niente se non sono a sovvertire queste condizioni mute, andando oltre. La parola può descrivere questi movimenti, ma non può scavare nella qualità, essa sa che è figlia del mondo e delle apparizioni che in esso vengono chiamati fatti. Per evitare che tutto si azzeri nella fissità dell’incomprensibile, devo gettare me stesso nel piatto della bilancia, capovolgere il peso. Non so se questo gesto, in sfregio alla volontà e al controllo, veramente oltrepassa qualcosa, so che tutte le volte che colgo una condizione del genere sono cosciente che qualcosa di diverso sta accadendo. In fondo, la qualità non è nulla di più complicato.

“Confessione”



Una volta, una sola, dolce e cara creatura,
il tuo bel braccio al mio si concedé
(di quella sera ancora il ricordo perdura
nel tenebroso fondo, entro di me).
 
Era tardi; la luna al suo colmo uguagliava
d’una medaglia nuova il chiaro lume,
e la solennità notturna dilagava
su Parigi sopita, come un fiume.
 
Sbucando dai portoni, rasente gli edifici,
gatti furtivi rizzavan le attente
orecchie, o come care fantasime d’amici
ci venivano dietro lentamente.
 
Ed ecco in questa libera intimità, che insieme
al mite lustro era nata fra noi,
da te, ricco e sonoro strumento ove non freme
che una radiosa immagine di gioia,
 
da te, dalla tua anima trasparente e gioconda
al par d’una fanfara mattutina,
un gemito sfuggì vacillando (profonda,
bizzarra nota!), come una bambina
 
scarna, sudicia, torva, rossor della casata,
che dal nascosto umido soggiorno
dove i suoi l’hanno a lungo tenuta segregata
ritorni infine a rivedere il giorno.
 
Povero angelo mio, il tuo grido improvviso
questo diceva: “Tutto al mondo è vano,
e per quanto si mascheri e s’impiastricci il viso,
si scopre ovunque l’egoismo umano.
 
Costa apparire bella al mondo che t’ammira,
costa come lo sforzo eterno e uguale
d’una frigida e folle ballerina che stira
le labbra in un sorriso artificiale.
 
Costruire sui cuori è cosa senza senso,
tutto si sgretola, amore e beltà
poi l’Oblio le macerie nel suo paniere immenso
raccoglie e all’Eterno le ridà!”.
 
Sovente ho rievocato gl’incantesimi casti
di quella luna, e i silenzi, il languore,
e la cosa terribile che a bassa voce osasti
confessare alla grata del mio cuore.

Sul finale è forse la Sabatier a cui Baudelaire dà voce. È ben dura sorte l’essere “sempre” una bella donna, l’apparenza è sempre dura, allo stesso modo delle ombre che tappezzano la parete della caverna dei massacri, specialmente se ha coscienza della propria lontananza dall’essere. Nel cuore della finzione d’amore, dove si annidano gli sforzi segreti e le pene di ogni prostituta, sta l’elenco dei rovesci, delle amarezze di giocare un ruolo che, in fondo, dimostra giornalmente la miseria umana in tutte le sue varianti più estreme. Non il gioco superficiale e meccanico del sesso, ma quello più profondo e disumano del confessionale, dello psicanalista d’accatto, che si è obbligati a giocare fino in fondo. Una sfilata di sconfitte, o di possessi colorati con i sacri emblemi delle vittorie, ma che sanno di insoddisfazione e di povertà spirituale, di fallimento, in povere parole. Più della soddisfazione sessuale l’uomo, nell’amore a pagamento, va alla ricerca di un muro basso a cui appoggiare i propri insuccessi, ai quali resta attaccato forse più dei possessi e delle conquiste, in quanto questi ultimi sono visibili a tutti mentre gli altri, i fallimenti, è costretto a nasconderli perfino a se stesso.

«La nostra realtà non è una totalità compiuta, né qualcosa di atemporale. La lotta nell’amore per l’esistenza. Poiché l’esistenza esiste per noi solo nella sua manifestazione, la sua azione consiste nel decidere se manifestarsi o meno. La cura per l’esserci empirico e la cura per l’esistenza hanno, dunque, origini completamente differenti. Se l’esistenza si realizza solo nella manifestazione, e questa solo nel volgere delle situazioni che si trasformano nel corso del tempo, la silenziosa armonia di quell’accordo atemporale che si realizza nella quiete dell’intima comprensione che si stabilisce tra esistenza ed esistenza è solo un istante evanescente in una lotta amorosa che, per la sua oscurità, nasce solo in situazioni occasionali. Il fatto che la certezza dell’essere scaturisca solo dalla lotta per la manifestazione costituisce, per l’esistenza nell’esserci, la situazione-limite in cui l’esistenza può giungere tanto alla più profonda coscienza di sé, quanto alla più radicale dispersione. Il fatto stesso che proprio quando credo di esser-me-stesso non posso evitare un’ulteriore problematizzazione per poter giungere ad una autentica realizzazione nel tempo, è un sintomo dell’inevitabilità di questa lotta. Nella manifestazione, infatti, non c’è nulla di esistenzialmente definitivo. L’esistenza è propriamente ciò che è, perché si rivela nella situazione-limite della lotta rivelatrice. Identificata con questo processo di lotta che nasce dalla preoccupazione per l’essere autentico, la comunicazione esistenziale e la realizzazione di questo essere. Nell’oscurità della manifestazione, questa lotta amorosa cerca l’origine nella reciprocità delle esistenze, non come disposizione del carattere empirico dell’esserci in una supposta identificazione della propria e dell’altrui natura, ma come libertà che decide nella chiarezza visibile della conoscenza. La lotta, che ha come sua origine e come suo fine il conseguimento di un senso ultimo che, pur non rivelandosi, agisce nelle situazioni e nelle finalità che di volta in volta si presentano, si sviluppa nella concretezza del presente, valorizzando ogni cosa, anche la più piccola. La lotta cerca questa sua manifestazione sulla via delle oggettività. Nell’ambito delle esattezze coglie tutto ciò che è conoscibile, non in vista di un’esattezza universalmente valida, ma di una verità che, nella situazione presente, si esprime come verità dell’essere che si realizza in questa comunicazione. La lotta non pone alcun limite alla domanda, intesa come mezzo critico e come purificazione dell’anima. In questa lotta non c’è alcuna violenza. Non c’è vittoria o sconfitta di una delle due parti, perché sia la vittoria, sia la sconfitta sono comuni». (K. Jaspers, Filosofia, tr. it., Torino 1978, pp. 719-720).

Il possibile che mi viene incontro dal destino non è esclusivamente e banalmente ciò che può accadere. Sono io che con la mia esperienza diversa ho caricato il mio destino di questa possibilità, invece di strutturarmi una vita causale o minimamente dettagliata, ma indifesa di fronte all’azzardo che nel destino è implicito. Il controllo è infatti sempre strame in balia di forze sconosciute. Il mio caricare, il destino lo ha tratto fuori dalla contingenza e lo ha plasmato alle nuove rammemorazioni della qualità, dell’avventura nell’assolutamente altro.

“Il gusto della menzogna”



Quando mi passi innanzi, dolce amore infingardo,
al canto dell’orchestra che fino al tetto spazia,
e sospendendo il passo armonioso e tardo
volgi in giro il profondo lume degli occhi sazi;
 
quando il pallido viso miro, che ti colora
il gas in fiamme, e un morbido fascino fa leggiadro,
e dove i roghi occidui accendono un’aurora...
e lo sguardo che attira come quello d’un quadro,
 
mi dico: “Corn’è bella, e stranamente fresca;
grande torre regale, il ricordo possente
l’incorona, e il suo cuore, sfatto come una pèsca,
maturo è, come il corpo, per l’amore sapiente”.
 
Sei il frutto d’autunno dal gusto senza pari,
sei sul funebre marmo vaso lacrimatorio,
profumo che dà sogni di oasi solitarie,
guanciale carezzevole, grande mazzo di fiori?
 
Pupille malinconiche io so, dietro i cui veli
nessun inestimabile mistero si nasconde
belle arche senz’oro, teche senza cimeli,
di voi, o firmamenti, più vuote, più profonde!
 
Pure, non basta forse che tu sia l’apparenza
per salvarci dall’orrido vero che detestiamo?
Che importa se in te regnano stoltezza o indifferenza?
Salute, fregio o maschera: sei bella, ed io ti amo.

Nessuna iniziativa di fronte alla lotta contro l’evidenza. E perché mai bisognerebbe lottare per salvare l’apparenza che si veste di menzogna? Non potrebbe essere – specie nei sentimenti – proprio questa l’occasione segreta perché dal velo che rivaleggia con la verità, possa uscire fuori una traccia, almeno una esile traccia, dell’essere agognato? Forse, ma poco probabile. La vita è costellata di questi dubbi ed annega sistematicamente nelle pozzanghere del fare coatto. L’abbandono serve per andare oltre, ma bisogna possedere mezzi adeguati, altrimenti si precipita a metà strada, nel gesto del saluto è implicito il tradimento, la rinuncia, la paura, non più il coraggio e l’intrepido volgere lo sguardo al di là dell’ostacolo. La menzogna è un mistero? Non proprio. A volte l’affermazione nuda e cruda della realtà – apparente, come è logico che sia la vicenda delle ombre e dei fantasmi – si traduce in un lavoro da anatomista, freddo e spoetizzante, come tagliare a pezzi un cadavere. Il labirinto è il luogo della ricerca, e i sentimenti vanno messi alla prova di questo turbine vorticoso e imprevedibile, altrimenti sono soltanto la recita del catechismo e nulla di più.

«I rapporti fra scienza e filosofia affondano le loro radici nel fatto che entrambe hanno fra i loro scopi quello di accrescere le nostre conoscenze. Parecchie volte si afferma che la scienza mira ad accrescere le nostre conoscenze intorno ad argomenti particolari mentre la filosofia si occupa prevalentemente di problemi generali (per esempio delle condizioni richieste per conseguire la verità). Ma la distinzione fra particolare e generale è tutt’altro che chiara: per es., in che senso possiamo sostenere che la gravitazione newtoniana è un argomento particolare, e in che senso possiamo sostenere che il famoso “cogito ergo sum” di Cartesio è un problema generale? L’unica tesi seriamente difendibile sembra invece la seguente: la pretesa di trovare una demarcazione universalmente valida fra scienza e filosofia è illusoria; esse hanno avuto rapporti diversi nelle varie epoche della storia, proprio perché il significato stesso dei due concetti di scienza e filosofia ha subito profonde modificazioni col trascorrere del tempo. Sembra dunque sensato limitarci a esaminare i loro rapporti entro qualche indirizzo di pensiero a nostro giudizio di particolare interesse. Per le filosofie a direzione metafisica il compito fondamentale delle indagini filosofiche sarebbe quello di pervenire alla determinazione di verità incontrovertibili, che proprio per la loro assolutezza non dovranno dipendere dall’esperienza né dalle disposizioni particolari del soggetto conoscente. Esempi di tali verità incontrovertibili sarebbero i princìpi della logica formale di Aristotele, il principio di causalità, quello di ragion sufficiente, ecc. Il compito specifico delle scienze sarebbe invece quello di applicare gli anzidetti princìpi allo studio dei singoli campi fenomenici». (L. Geymonat e G. Giorello, Le ragioni della scienza, Bari-Roma 1986, pp. 5-6).

L’atto che ho portato a compimento compete al destino mio e si materializza nella possibilità che quest’ultimo mi offre. La trasformazione ha conseguenze possibili non certe nell’ambito, ma non impossibili a indirizzarsi sui medesimi sviluppi dell’esperienza diversa. Questo possibile è oltre il contingente della modificazione, almeno fino al momento in cui non lo riduco alla condizione di fatto. Il destino che così contribuisco a indirizzare non è tutta la mia vita, ma ne è una parte consistente, si allunga particolarmente nelle ombre della sera e qui posa in attesa dell’ultimo volo. La qualità è dietro il destino e le mie esperienze stanno dietro le mie spalle, fronteggiano il destino, esse non sono lontane. L’abbandono ha segnato la mia vita, il coinvolgimento l’ha stravolta, non c’è modo di ricompattarla in un modulo lineare. Non c’è sugo.

 

“Sogno parigino”

A Constantin Guys

I.
 
Di un tal terrificante paesaggio,
quale non vide mai occhio mortale,
il lontano e recondito miraggio
stamani ancora la mente m’assale.
 
Come il sonno e fecondo di miracoli!
Per un capriccio singolare avevo
espunto via da questi miei spettacoli
la flora innumerabile e mutevole;
 
e, fiero del mio genio, qual davanti
al quadro suo s’innamora un artista,
assaporavo i monotoni incanti
dell’acqua al marmo e al metallo commista.
 
Una Babele di scale e d’arcate,
era un palazzo dai mille battenti,
popolato di vasche e di cascate
sull’oro opaco o lucido spioventi.
 
Cateratte vedevo, come ampi
e pesanti tendaggi di cristallo,
con incessante brivido di lampi,
pendere da muraglie di metallo.
 
Cinti non d’alberi ma di colonne,
vedevo stagni dalle acque torpide,
su cui naiadi stavan, come donne,
chine a specchiare i giganteschi corpi.
 
Entro due verdi e rosate banchine
glauche fiumane correvano verso
l’invisibile punto dove ha fine,
tra milioni di leghe, l’universo.
 
E quante gemme ineffabili, e mari
magici; quanti specchi smisurati,
che rifletteano oggetti così chiari
da esserne essi stessi abbacinati!
 
Con onde neghittose e taciturne
più d’un Gange nell’etere colava,
e la ricchezza delle fluide urne
in gorghi di diamante riversava.
 
Architetto di favole, a mio gusto
soggiogavo un oceano, i ribelli
flutti umiliandone entro un angusto
cunicolo, incrostato di gioielli.
 
Terso e iridato, fra tanti colori,
pareva splendere finanche il nero;
incastonava l’acqua la sua gloria
nel raggio, fatto cristallo leggero.
 
Nessuna stella in cielo, tuttavia,
un’impronta di sole all’orizzonte:
ardeva quella fantasmagoria
d’un lume singolo, senza confronto!
Infine, sul prodigio semovente,
si librava (tremenda novità:
tutto per l’occhio, e per l’orecchio niente!)
un silenzio di immota eternità.
 
II.
 
Riaperti gli occhi colmi di faville,
ho rivisto l’orrore del mio tetto;
e ripensando ho risentito i mille
aculei dell’affanno maledetto.
 
La pendola con suono agro di morte
scandiva brutalmente mezzogiorno:
sopra la triste, inerte terra smorte
ombre calavano dal ciel piovorno.

Un camminamento enorme, inestricabile, non i banali Salons – come è stato detto – ma un mondo in sé chiuso per sempre, autosufficiente e soffocante come una metropolitana o una miniera. La modernità non può trattenersi di attaccarci, di porre noi stessi, uomini della sua età (non della nostra, ché di età epocale siamo privi), al centro dei suoi colpi. Siamo noi a essere “sotto osservazione”, oggetti di un culto strano, materiale di studio e cavie da tagliare a fettine. Per questo lo spirito del tempo beve il nostro sangue, ci salva e ci considera sue appendici, parte del suo immenso corpo concavo. Siamo noi che minimizziamo la modernità, la guardiamo con occhio tra ammirato e terrorizzato, tra comprensivo e annuente, senza sapere bene dove si ferma la nostra scienza e comincia la favola che mille bocche interessate continuano a cantarci in tutte le lingue. Così tuteliamo l’odio che la modernità cova nei nostri confronti, lo nutriamo, facciamo sacrifici affinché si mantenga in vita. Utilizziamo tutto quello che essa ci suggerisce – dalla moda ai ritrovati scientifici, sacri questi ultimi come la prima, per carità! che nessuno li tocchi – e alla fine, al colmo dell’accondiscendenza ce ne disinteressiamo. E la rabbia? Questa va minimizzata, ridotta ai margini. Qualche esagitato con la testa fuori posto, nulla d’importante.

«Ad un concetto non si aggiunge nulla in più, sia ch’esso abbia o non abbia l’esistenza: nulla importa al concetto di questo; perché esso ha ben l’esistenza, cioè esistenza di concetto, esistenza ideale. Ma l’esistenza corrisponde alla realtà singolare, al singolo (ciò che già insegnò Aristotele): essa resta fuori, ed in ogni modo non coincide con il concetto. Per un singolo animale, una singola pianta, un singolo uomo l’esistenza (essere o non essere) è qualcosa di molto decisivo; un uomo singolo non ha certo un’esistenza concettuale. Il modo nel quale la filosofia moderna parla dell’esistenza mostra ch’essa non crede all’immortalità personale, la filosofia in generale non crede, essa comprende solo l’eternità dei concetti». (S. Kierkegaard, Diario, vol. I, tr. it., Brescia 1962, p. 55).

Il possibile è più ricco del coordinato corrispondente che deve rispondere alle regole. Anche questo aspetto del fare può non accadere, quindi a parole non essere fatto, ma la sua possibilità non aveva alternativa sostanziale, non sono io che trasformo le condizioni a monte, è la concretezza modificativa che può non verificarsi. La possibilità di cui mi parla il destino è il messaggio dell’oltrepassamento che indirizzo cogliendone il pieno contenuto nel mondo. La parola descrive e dà vita ai movimenti percettivi, produttivi, interpretativi, indirettamente perfino a quelli trasformativi, ma non può accamparsi nella qualità. La desolazione dell’essere non può trovare espressione, può venire affermata solamente. Questa avventura della parola è sempre distinzione, ma è anche un manifestarsi della comunità d’intenti con l’essere, l’allontanamento dalla quiete originaria, sofferenza e inquietudine, e queste vengono vissute attraverso l’esperienza del mancato completamento. L’apparire, che la parola rende possibile, è anche descrizione infelice e parziale dell’antica unità, di quell’essere che è e che non può non essere.

“I fari”



Rubens: fiume d’oblio, giardino di pigrizia,
fresco guancial di carne, dov’è vietato amare,
ma in cui la vita in fervidi palpiti si delizia,
come nel cielo l’aria, come nel mare il mare.
 
Leonardo da Vinci: specchio scuro e profondo,
dove con un sorriso d’alto mistero appaiono
angioli ad incantarci, soavi, entro lo sfondo
d’un ombroso paese di pini e di ghiacciai.
 
Rembrandt: un lazzaretto bisbigliante, ove sola
una gran croce pende sui nudi muri tetri;
salgon preghiere e lacrime dalle sozze lenzuola;
guizza un raggio d’inverno improvviso sui vetri.
 
Michelangelo: vago paese, ove Titani
s’accozzano con Cristi, e balzano nel rosso
vespro forti fantasime che con convulse mani
i ferrei sudari si strappano di dosso.
 
In te furie di pugili, fauni dal molle fianco,
e la beltà dei ladri e dei diseredati,
o gran cuore superbo, uomo livido e stanco,
Puget, mesto monarca d’un bagno di forzati.
 
Watteau: un carnevale ove trasvola e brucia
al par d’una farfalla, più d’un cuore famoso;
scenari freschi e teneri sotto fulgide luci
spandono la follia sul ballo turbinoso.
 
Goya: incubo colmo d’arcani senza fine;
feti cotti in un sabba, su qualche orrida balza;
laide streghe allo specchio; ignude ragazzine
che per tentare il diavolo si tiran su la calza.
 
Delacroix: s’affolla d’iniqui angeli, fosco
di sempreverdi abeti, un sanguinoso stagno;
sotto cineree nuvole strane cacce nel bosco
passano, qual di Weber un soffocato lagno.
 
Tutti questi anatemi, e bestemmie, e domande,
e estasi, e lamenti, e lacrime, e osanna,
sono un’eco che mille anfratti si rimandano,
per i cuori mortali obliviosa manna.
 
Son la parola d’ordine di mille sentinelle,
messaggio che si scambiano col grido le ridotte;
segnacolo di luce su mille cittadelle,
voce di cacciatori sperduti nella notte.
 
E invero è la più alta prova e testimonianza
di dignità, Signore, che ti possiamo offrire,
questo singhiozzo ardente che d’evo in evo avanza
e vien sulle tue rive senza tempo a morire!

Non è uno schema scolastico delle preferenze pittoriche di Baudelaire, quanto una misurazione di campo, un segnale verso le varie tensioni che affollavano l’animo suo e che trovavano concretizzazioni varie in alcuni artisti, per altro non considerati – singolarmente presi – nemmeno troppo significativi. Le preferenze personali sue, come sappiamo, andavano verso altre, sorprendenti, soluzioni. Un disegnatore di modelli per sarte, ad esempio. Qui però c’è un elenco di statue della verità, una serie di salvacondotti rilasciati ma non richiesti a coloro che vorranno utilizzarli, senza farsene schiavi o adoratori incapaci di giudizio. Troppo affollata questa galleria per non sentire di solitudine e di sterilità.

Husserl credeva di opporsi a Heidegger quando, nel 1931, scriveva: “Mi sembra che un motivo originario, per la scienza e per l’arte, sia insito nella necessità del gioco e specialmente nella motivazione di una ‘curiosità teoretica’ giocosa, che non scaturisca dalla necessità della vita, né dalla professione, né dal contesto finalistico dell’autoconservazione, ma voglia guardarsi le cose, fare la loro conoscenza, cose che non la ri-guardano per nulla”.

Il fare è realizzazione e la coscienza determinata a fare è l’immediatezza che fa. La qualità non può fare, per cui è limitata nei confronti della potenza della volontà che estrinseco nel mondo. Per quanto possa essere minima questa limitazione caratterizza la qualità e la racchiude nel non potere essere quantità, nell’inedia assoluta dell’indifferenza. La desolazione della qualità, che è soltanto, ne rispecchia l’incidere della produzione orientativa, cioè l’allontanamento dalla quantità. La contingenza del fare non ammette né l’indifferenza della qualità né la solitudine dell’agire. Nella coscienza diversa, sperimentando intuitivamente la qualità, mi avvicino alla condizione essenziale dell’essere ma non posso raggiungerla. L’estrema libertà che sono costretto a interrompere con la domanda fondamentale, corrisponde all’estrema concentrazione indifferente dell’uno. I due movimenti verso l’azione e verso il fatto sono antitetici ma si risolvono nell’immobilità puntuale dell’azione, da cui dicendoli li traggo fuori creando io stesso il mondo con tutte le sue corrispondenze e i suoi limiti. Niente dell’essere può diventare oggetto della vista e della conoscenza, ma indirettamente ne parlo, sia a livello produttivo, nel fare, che rammemorativo, nell’agire. La sofferenza della mancata completezza è tanto più grande quanto più mi avvicino alla qualità. Posso anche vivere una vita piena di oggetti, possessi da idiota, e sentirmi pieno e felice come qualsiasi imbecille gonfio della propria stupida forza e del proprio possesso di beni, ma alla fine devo ammettere di avvertire una inquietudine, sia pure leggera.

“Un fantasma”



I. Le tenebre
Nelle gemonie di tristezza nera
dove sepolto m’ha la Malasorte,
sinistro ostello dalle luci morte
cui presiede la Notte, aspra megera;
 
dove a dipinger tenebre un Iddio
beffardo mi condanna; e dove, cuoco
dai funebri appetiti, io metto al fuoco
e mangio a brano a brano il cuore mio;
 
nasce a tratti, e s’accresce, e brilla, e sale
uno spettro di grazia e di splendore;
dal suo sognante incedere orientale
 
ravviso, appena sboccia in pieno fiore,
l’ospite bella che qui s’introduce:
Lei! tenebrosa, eppure tutta luce!
 
 
II. Profumo
 
Lettore, a volte in chiesa hai respirato,
indugiando a saziare il gusto ingordo,
un gran d’incenso? hai mai socchiuso il bordo
d’un sacchetto di muschio stagionato?
 
O magica delizia, ove ogni accordo
rivive oggi, e ci esalta, del passato!
Così l’amante su un corpo adorato
coglie il fiore squisito del ricordo.
 
Dal crine suo, elastico e cresputo,
turibolo d’alcova e sacca viva,
crudo e ferino un effluvio saliva.
 
E nelle vesti, mussola o velluto,
pregne del corpo suo giovine e nuovo,
un sentor di pelliccia aveva covo.
 
 
III. La cornice
 
Una bella cornice a una pittura,
pur se firmata da un’illustre mano,
aggiunge un tocco incantevole e strano,
isolandola fuor della natura.
 
Non altrimenti alla rara figura
tutto, metallo o gemma, oro o divano,
si veniva intonando a mano a mano:
serviva d’orlo alla sua luce pura.
 
Pareva a volte creder ch’ogni cosa
fosse pronta ad amarla; voluttuosa
le nude membra tutte abbandonava
 
all’abbraccio del lino e della seta,
e, lenta o brusca, a ogni gesto mostrava
d’una scimmia la grazia irrequieta.
 
IV. Il ritratto
 
Malanno e Morte han fatto poche ceneri
del nostro fiammeggiante alto falò.
Di quei grandi occhi suoi fervidi e teneri,
della bocca ove il cuor mi s’annegò,
 
dei baci pari a un dittamo possente,
degli affetti, dei vividi splendori,
anima mia, che è mai rimasto? Niente,
salvo un disegno scialbo a tre colori,
 
che come me si strugge in solitudine,
e che ogni giorno, vecchio malandrino
il Tempo lima con l’ali sue rudi
 
Dell’Arte e della Vita atro assassino,
tu non m’ucciderai nella memoria
lei che fu la mia gioia e la mia gloria!

Il profumo e il corpo, elementi che si sovrappongono ed entrano in contrasto, fornendo le coordinate della sensualità ma, più di ogni altra cosa, della verità. Come si fa ad esplorare un mondo di apparenze e di fantasmi? Possedendo per metro la verità. Non quella classica, basata sul rispecchiamento, ma la verità che parte da una sostituzione creativa, che ripensa la realtà e la rimuove portandola altrove, verso altri lidi, obbligandola, spesso inconsapevolmente, a rivelare la propria intima essenza, quella che a tutti i costi il mondo vuole che rimanga nascosta. Nel clima delle convinzioni ideologicamente radicate, sentire con il proprio corpo crea fantasmi che hanno una possanza molto più efficace di qualsiasi adeguamento agli ordini del potere in carica (o dello spirito del tempo, se quest’altra faccia del medesimo problema piace di più). Solo a questo prezzo si può costruire l’altra faccia dell’idea corrente ed esercitarsi a colpire criticamente (e quindi, negativamente) la faccia conosciuta, di solito sorridente e ben pensante, dell’idea che domina il cielo che ci sovrasta e ci controlla.

«L’esistenza è, per così dire, assopita di fronte alla morte, perché la morte non serve a risvegliare la possibile profondità dell’esistenza, ma solo a render tutto insignificante. Io mi perdo nel vuoto delle mere apparenze quando mi aggrappo a qualcosa di particolare come se la sua consistenza non avesse fine, come se fosse qualcosa d’assoluto; quando mi aggrappo alla durata, come tale; quando, nel raggiungere degli scopi finiti, mi lascio dominare dall’angoscia e dal terrore senza rendermi conto che si tratta di semplici mezzi che occorrono all’esserci per elevarsi; quando nell’esserci mi lascio dominare dalla smania di vivere, dalla gelosia, dall’ambizione, dalla superbia, senza ritrovare in queste cose, da cui momentaneamente dipende la mia natura sensibile, il cammino in grado di ricondurmi a me stesso. Ovviamente, tutto ciò che si fa nel mondo, lo si fa come esserci, che in sé è assolutamente irrilevante, perché destinato a perire. Se però una linea d’azione diventa essenziale come manifestazione dell’esistenza, allora anche ciò che è oggettivamente insignificante può avere un certo peso. La morte diventa, allora, lo specchio dell’esistenza, perché ogni manifestazione è destinata a dileguarsi se l’esistenza è la sostanza dell’esserci. La morte, quindi, è assunta dall’esistenza non già come una speculazione filosofica o come un sapere verbalmente comunicabile, ma come una conferma di se stessa e come una relativizzazione del mero esserci. Per chi esiste nella situazione-limite la morte non è né intima né estranea, né nemica né amica, ma è l’una e l’altra cosa nel movimento delle forme tra loro contraddittorie. La morte non è una conservazione della sostanza dell’esistenza, se questa assume di fronte ad essa un certo atteggiamento univoco, sia esso quello della rigorosa atarassia che si sottrae alla situazione-limite con la rigidità di un se-stesso che, nella sua puntualità, non è più colpito dalla morte, o quello di una negazione del mondo che si illude e si consola coi fantasmi di un’altra vita nell’al di là». (K. Jaspers, Filosofia, op. cit., p. 700).

Spostandosi dalla qualità alla quantità – movimento per altro ineluttabile – l’esperienza aumenta la sua capacità di modificare il mondo, ma diminuisce quella di trasformarlo. Alla fine posso pure parlare dell’essere, senza per questo disturbarlo nella sua indifferente quiete. Se l’essere non fosse questa indifferenza non potrei ricevere una possibilità di esistenza dal destino. Tutto sarebbe aleatorio, anche il caso che mi traduce spesso la vita in una pantomima priva di senso. Nella persona più sensibile, che mette in gioco se stessa, la sofferenza cresce e con essa il desiderio della qualità e un remoto bisogno di totalità, di quell’essere di cui non sa nulla e da cui con infinito dolore questo mondo della percezione si è staccato. Non si tratta di uno spirito di riconciliazione, non potendo qui parlare di contraddizione da superare, ma di dolore vero e proprio, che si può alleviare solo lottando per la trasformazione di un mondo miserabile alla luce della qualità. Nessuna completezza possibile, ma la soddisfazione di avere realizzato la possibilità che il destino ha offerto. L’eterna ricerca di una ulteriore distinzione rende in grado di affrontare questa vita con una maggiore forza conoscitiva. Ma questo è solo un momento. Se restasse ottusamente legato alla conoscenza diventerebbe mostruoso, una macchina indistruttibile capace solo di vedere la guerra e la conquista.

 

“Le vecchierelle”

A Victor Hugo

I.
 
Spesso per trivi e vicoli di vecchie capitali,
dove l’orrore stesso si cangia in incantesimo,
io vò seguendo, docile ai miei estri fatali,
creature decrepite dalle grazie inattese.
 
Eppure questi mostri sbilenchi, questi nani,
stroppi, ingobbiti esseri, furono un tempo donne,
Laidi, Eponine... Oh, amiamole! Sono tuttora anime!
Sotto i freddi corpetti e le lacere gonne,
 
contro la sferza iniqua di tramontana arrancano,
sobbalzando al precipite croscio delle vetture,
e stringendosi come magre reliquie al fianco
borse adorne di fiori o di arcane figure.
 
A passi brevi trottano come fantocci imbelli,
o si van trascinando come bestie colpite,
o controvoglia ballano, poveri campanelli
scossi da un empio demone: pure, così sfinite,
 
ci guardan con pupille pungenti come aghi,
brillanti come pozze d’acqua notturna, chiare
pupille di bambina che ride a quanti vaghi
spettacoli di luce la san meravigliare.
 
Ci avete mai badato che, su per giù, son strette
certe bare di vecchia come quelle d’un bimbo?
In questa concordanza di feretri sa mettere
la Morte un suo bizzarro e suggestivo simbolo,
 
sicché, quando taluna di queste larve inferme
vedo a Parigi perdersi tra la folla che pullula,
ho sempre l’impressione che pian piano l’inerme
essere se ne vada verso una nuova culla;
 
o cerco, appropriando la geometrica norma
a membra così varie, di calcolar le volte
che dovrà l’artigiano correggere la forma
della scatola in cui giaceranno sepolte.
 
Quegli occhi son cisterne colme d’immensi pianti,
crogiuoli che iridò un metallo bagnato;
oscuri occhi ove beve invincibili incanti
chiunque abbia l’austera Avversità poppato!
 
 
II.
 
Del defunto “Frascati” le vestali amorose;
le alunne di Talia, che ricordarsi può
solo un suggeritore sepolto; le famose
vanesie che ai bei tempi il “Tivoli” ombreggiò...
 
tutte quante m’inebriano! E v’è fra esse chi,
benché fragile, un nèttare fece del suo patire,
e disse al Sacrificio, che l’ali sue le offri:
“In cielo, o grande Pegaso, fammi con te salire!”.
 
Dalle patrie sventure l’una percossa e afflitta,
l’altra che dal marito soffrì diuturne pene,
l’altra ancora, Madonna dal figlio suo trafitta...
Tutte insieme farebbero di lacrime una piena!
 
III.
 
Quante mai ne ho spiate, vecchierelle siffatte!
Fra l’altre una, nell’ora quando il sole declina,
lasciando in cielo aperte mille piaghe scarlatte,
in disparte, pensosa, stava su una panchina,
 
attenta ad un concerto, un di quelli che fanno
di marziali oricalchi risonare i giardini,
e nell’oro esaltante del crepuscolo danno
non so che baldo fremito al cuor dei cittadini.
 
Fiera, impettita ancora, e convinta, sorbiva
con ebbre orecchie il canto bellicoso e sonoro,
e a volte la pupilla di vecchia aquila apriva,
cinta il marmoreo capo d’un ideale alloro.
 
IV.
Così voi camminate per il caos brulicante
della grande città, stoiche, con occhi asciutti,
madri dal cuor che sanguina, vecchie sgualdrine, sante,
voi il cui nome fu un giorno sulla bocca di tutti.
 
Nessuno sa chi siete, nessuno sa che foste
la bellezza, la gloria! Per prenderne sollazzo,
un ubriaco v’insulta con salaci proposte;
dietro, ignobile e vile, vi sgambetta un ragazzo.
 
Vergognose d’esistere, tremanti e rattrappite
ombre, senza un saluto, curve, rasente i muri,
seguendo i vostri strani destini, voi fuggite,
o rimasugli umani per l’eterno maturi.
 
Ma io che da lontano veglio teneramente
i vostri passi incerti, con lo sguardo inquieto
d’un padre, io so cavare, in modo sorprendente,
da voi inconsapevoli un piacere segreto.
 
E colgo di passioni novelle in voi gli indizi,
rivedo il vostro limpido o cupo ieri, qual fu;
e il mio cuore s’esalta di tutti i vostri vizi,
splende, moltiplicandosi, d’ogni vostra virtù.
 
Famiglia mia, congeneri rovine solitarie,
ogni sera io vi lancio il mio solenne addio!
Domani ove sarete, Eve ottuagenarie,
su cui pesa l’artiglio terribile di Dio?

Non sono le vecchie ad essere in gioco – allucinazioni e fantasmi quotidiani di Baudelaire – ma la vita stessa nel suo insieme. La vita che è giovane e bella e, nello stesso tempo, è paurosa e debole: vecchiaia, miseria ridicola e sofferente, verso la quale tutti volgono con commiserazione lo sguardo mentre pensano, ma quando questo rudere si toglierà di mezzo? Il clima asmatico che circola in questi versi è quello della mancanza dell’ossigeno, del ridursi dello spessore dei polmoni, della tisi e dell’avvizzirsi della pelle, dell’incapacità di riconoscere la propria triste condizione di vecchio, e quindi di imbellettarsi per sembrare quello che non si è più. Dappertutto, specialmente nella grande città, in ogni angolo di strada, in ogni tugurio, agonizzano vecchi, residui di donne e di uomini, con i loro ricordi intatti e, quel che è ancora più tragico, con le loro intatte ambizioni. E l’artiglio di Dio è sospeso sulle loro teste inconsapevoli. La campana suonerà per loro, è solo questione di pochi istanti.

«Ogni grande filosofia ha un primo tempo, che è un tempo di metodo, e un secondo tempo, che è un tempo di metafisica. Quando si dice che il platonismo è una filosofia della dialettica, e il cartesianismo una filosofia dell’ordine, e il bergsonismo una filosofia del reale, li si coglie tutti e tre nel loro tempo del metodo. Quando si dice che il platonismo è una filosofia dell’idea, e il cartesianismo una filosofia della sostanza, e il bergsonismo una filosofia della durata, li si prende tutti e tre nel loro tempo di metafisica. Si sono viste battaglie vinte nel disordine stesso, e dal disordine, proiezioni di panico, non si sono mai viste stanchezze e vecchiezze produrre, per errore, opere di novità. Nel disordine può esserci una certa fecondità. L’abitudine e la vecchiaia simulano invano la giovinezza. Tutto sta nell’incorporazione, nell’incarcerazione, nell’incarnazione. E ancora qui, appunto qui, siamo costretti a parlare il linguaggio bergsoniano, e appunto qui non se ne parlerà mai un altro. Tutto sta nell’inserzione, e l’inserzione è estremamente rara. Di Dio, non c’è stata che una incarnazione, e delle idee stesse vi sono pochissime incarnazioni. Quando, anziché guardare un’idea in aria, di colpo la si prende sul serio, in questo c’è, e questo forma, una rivoluzione. E la storia conta tre o quattro soltanto di queste grandi scosse». (Ch. Peguy, Notes sur H. Bergson et la philosophie bergsonnienne, ns. tr., Paris 1958, p. 1289).

L’essere è condizione perfetta che non può manifestarsi, resta mistero irrisolto, percezione mancata. La sua mancanza di esteriorizzazione lo rende perfettamente chiuso in sé, privo di distinzione, impossibilitato a porsi contro se stesso. Io provo a specificarlo ma non accedo a nessuna possibile descrizione. Ciò che potrebbe distinguerlo dovrebbe provenire dall’essere stesso, dovrebbe costituire una distinzione uguale a ciò che intende distinguere. Non è nemmeno nella condizione di identità con se stesso, perché ciò sarebbe un movimento e una distinzione. La perfetta coesione dell’essere racchiude puntualmente il tutto, ma ciò non appartiene alla mia esperienza, per quanti sforzi faccia ne resto sempre estraneo. Le parole che uso portano in loro stesse una contraddizione che le azzera e le restringe nella condizione di rimando all’assenza. Ma l’essere non pone niente fuori di sé, quello è il gioco del mondo che vede l’altro, l’essere, come il luogo della qualità. Nell’essere invece non c’è niente, né qualità né quantità, ma questo niente, intensificato al massimo, è il punto che tutto comprende in sé. Se avesse la possibilità, da sé, di opporsi a sé, sarebbe dio creatore, ma questa è la mia caratteristica non la sua, il creatore sono io, la possibilità che mi proviene dal destino arriva a me, non passa attraverso l’essere, è la mia esperienza nella qualità. Non soddisfacendomi completamente, questa distinzione è tenuta da conto ma messa da parte, aspetto qualcosa di differente, avverto nel piccolo mondo che ho creato, il peso di un’assenza non accidentale, ed è verso di essa che mi indirizzo. Ma l’ostacolo principale da oltrepassare è la mia volontà di possesso. L’assenza non è percepibile ma solo intuibile, mi parla solo se io non la interrogo, se non esigo risposta, e la sua parola è la terribile voce dell’abisso. Da questo momento comincia una strada pericolosa verso l’apertura alla diversità. Non c’è dubbio che la forza del fare contiene una visibilità che compartecipa della presenza dell’agire. Ma questi due movimenti tendono ad allontanarsi reciprocamente seguendo l’itinerario dell’orientamento. Ciò non vuole dire che non c’è anche una visibilità dell’essere.

“Il crepuscolo della sera”



Complice dei ribaldi, ecco già la leggiadra
sera a passi di lupo giunge, come una ladra;
lento si chiude il cielo, come una grande alcova,
e una belva si muove nell’uomo, avida e nuova.
O dolce sera, premio di chi, senza mentire,
le affaticate braccia guardandosi, può dire:
“Oggi s’è lavorato”, tu che sai consolare
l’anime tribolate dalle pene più amare,
lo studioso ostinato che già reclina il ciglio,
l’operaio che curvo ritorna al suo giaciglio!
Pesantemente, intanto, nell’aria orde di neri
demoni si risvegliano a guisa di banchieri,
e su imposte e tettoie ciecamente s’avventano.
Nelle vie, fra le luci che la bora tormenta,
s’accende il Meretricio, e si scava, alla pari
d’un formicaio, mille labirinti e ripari,
aprendosi dovunque qualche varco nascosto,
come avanza nell’ombra furtivo un avamposto,
e nel grembo di fango delle città malsane
di soppiatto muovendosi, come il verme nel pane.
Qua e là le cucine s’odono ora ansare,
e muggire i teatri, e le orchestre russare;
ora, in combutta, mettono bari e sgualdrine il piede
nei locali ove il gioco le sue gioie concede,
mentre i ladri, che posa non hanno né pietà,
vanno anch’essi al lavoro, e piano piano già
forzano gli usci e vuotano le casseforti infrante,
per viver qualche giorno e vestire l’amante.
 
Chiuditi in te in questo solenne attimo, o mia
anima; ignora l’urlo che sale dalla via.
Questa è l’ora che accresce gli spasimi del male,
e di sospiri e aneliti riempie l’ospedale,
quando il comune abisso ad uno ad uno inghiotte
i morenti, abbrancati dalla squallida Notte.
– Mai più per loro, a sera, l’odorosa pietanza,
né, accanto al fuoco, un viso di donna, in una stanza...
 
Del resto, i più non hanno nemmeno conosciuto
il bene d’una casa, non hanno mai vissuto!

È nella sera che si rivela la città con tutti i suoi sotterranei maneggi, le sue attività che la luce del sole non caldeggia, i respiri mozzati o sospesi, le ambizioni smembrate, le piaghe mal guarite, le malattie messe da canto in attesa di sposarsi con la morte. È nella sera della città che tutto questo amalgama dilaga, mentre gli uomini seri, attenti e coscienziosi se ne stanno in disparte, a consumare le loro monotone cene, a preparare i loro stanchi giacigli per potere l’indomani riprendere una vita che nessuno di loro scopre essere semplicemente una morte prematura, priva di funerale. La futilità dilaga nel mondo, scorre a rivoli limacciosi per tutte le strade della grande città, una futilità cosciente, imposta dalla volontà di sapere chiudere gli occhi al momento opportuno. Non è l’amore o, almeno, la pietà, che si affaccia timidamente da qualche portone male illuminato, solo richieste di pagamento, ordini di cattura e scetticismo.

«I due momenti costitutivi della curiosità, l’incapacità di soffermarsi nel mondo ambientale e la distrazione in possibilità sempre nuove, fondano quel terzo carattere essenziale di questo fenomeno a cui diamo il nome di irrequietezza. La curiosità è ovunque e in nessun luogo. Questa modalità dell’essere-nel-mondo svela un nuovo modo di essere dell’Esserci quotidiano nel quale esso si sradica costantemente. La chiacchiera fa da guida alla curiosità e dice ciò che si deve aver letto e visto. L’essere-ovunque-e-in-nessun-luogo della curiosità è affidato alla chiacchiera. Questi due modi di essere quotidiani del discorso e del vedere, caratterizzati dallo sradicamento, non sono semplicemente-presenti l’uno vicino all’altro; un’unica maniera di essere li tiene costantemente uniti. La curiosità per cui niente è segreto, la chiacchiera per cui niente è incompreso, dànno a se stesse, cioè all’Esserci che le fa proprie, sicura malleveria di una vita veramente “vissuta”. Ma questa presunzione pone in luce un terzo fenomeno caratteristico dell’apertura dell’Esserci quotidiano. Se ciò che si incontra nell’essere-assieme quotidiano è tale da risultare accessibile a tutti e siffatto che chiunque può dire qualunque cosa su di esso, non ha più senso chiedersi se una cosa è stata oggetto di un conoscere genuino oppure no. Questa equivocità non investe soltanto il mondo, ma anche l’essere-assieme come tale e il rapportarsi stesso dell’Esserci al proprio essere. Tutto sembra genuinamente compreso, afferrato ed espresso, ma in realtà non lo è; oppure non sembra tale, ma in realtà lo è. L’equivoco non riguarda soltanto la disposizione e l’impiego dell’utilizzabile che si incontra nell’uso e nella fruizione, ma si è già inserito saldamente anche nella comprensione come poter-essere, nella disposizione del progetto e nella predisposizione delle possibilità dell’Esserci. Non soltanto ognuno sa e discute di qualsiasi cosa gli sia capitata o gli venga incontro, ma ognuno sa già parlare con competenza di ciò che deve ancora accadere, di ciò che manca ancora, ma dovrebbe “ovviamente” esser fatto. Ognuno ha già sempre presentito e fiutato ciò che gli Altri hanno presentito e fiutato. Questo esser-sulla-traccia, ma per sentito dire (chi è effettivamente sulla traccia di qualcosa non ne parla), è il modo più subdolo in cui l’equivoco può presentare all’Esserci le sue possibilità, perché le vanifica fin dall’inizio». (M. Heidegger, Essere e tempo, tr. it., Torino 1978, pp. 276-277).

Partendo da un impossibile che si organizza e produce nel fare, metto avanti una possibilità diversa, che ha sperimentato la qualità, ma della quale ha solo ciò che riesco a rammemorare. La distinzione mi appartiene, ma io so che è un gioco delle apparenze onde rendere possibile l’impossibile, il mondo nelle sue varie espressioni conoscitive, in primo luogo la parola. In fondo, però, questa distinzione strumentale, pure restando indispensabile è riassunta nell’essere, quindi azzerata e fatta scomparire, se non la risveglio a nuova vita con la mia esperienza diversa. Io mi creo il mondo e poi lo oltrepasso pervenendo alla qualità che ho dovuto allontanare, affievolire. Questa manifestazione di forza si esprime con l’abbandono e non può essere confusa con un qualsiasi possesso. Nella conoscenza limitata e circoscritta sta il seme dell’essere. Il concetto è tradotto in quello di completezza. La coscienza immediata avverte non solo la separazione dalla qualità, di cui è stata artefice, ma anche la mancanza della completezza. I due aspetti spesso si ricompongono nell’inquietudine generalizzante del fare, nella brana del possesso, ecc., ma il desiderio di conoscere, in questa maniera, diventa finalizzato a se stesso e non può spiegarsi altrimenti. Io parlo del particolare e penso al generale, di questo non so parlare, ma i riferimenti, molteplici e intrecciati, mi danno spazio. La mia spinta sente la qualità perduta e vuole oltrepassare la condizione presente di inedia e di distretta, ma questo cogliere non si lascia da solo attirare dalla desolazione dell’essere, se avesse coraggio fino in fondo chiederebbe l’essere, ma l’intuizione si limita spesso a patire questa richiesta, si autolimita di fronte all’impossibile, eppure nella qualità è proprio l’impossibile che si sperimenta.

 

“Danza macabra”

A Ernest Christophe

Col gran mazzo di fiori, il fazzoletto, i guanti,
della regal statura come un vivo fanatica,
essa incede con agio, e i modi noncuranti
ostenta d’una magra civetta un po’ lunatica.
 
Si vide mai al ballo vita più smilza? Effuso
in ampi e ricchi giri, con nobile turgore,
l’abito le trabocca sul piede scarno, chiuso
da uno scarpino a fiocchi, vezzoso come un fiore.
 
La calza che le sfiora e infiora le clavicole,
come un rivo lascivo le rocce delle sponde,
pudicamente salva dalle celie ridicole
le sepolcrali grazie che a tutti essa nasconde.
 
Buio e vuoto s’annidano in quelle occhiaie spente,
ed il cranio, di fiori con somma arte adornato,
sulle fragili vertebre trema languidamente.
O fascino d’un nulla follemente agghindato!
 
C’è chi in te vede appena una caricatura:
amanti che s’inebriano di carne ed hanno a vile
l’eleganza indicibile dell’umana struttura.
Tu assecondi, o gran scheletro, un mio gusto sottile!
 
Sei qui per disturbare la festa della Vita
con la tua forte smorfia? O superstiti brame
credula alla tregenda del Piacere t’invitano,
dando di sprone ancora al tuo vivente ossame?
 
Al canto dei violini, al calore dei lumi,
speri di spazzar via le visioni beffarde?
O vieni forse a chiedere di placare nei fiumi
della crapula il fuoco infernale che t’arde?
 
Cisterna senza fondo di stoltezze e di sbagli,
dell’antico dolore alambicco tenace!
Bramosa ancora vedo torcersi, fra i tramagli
delle tue curve costole, l’aspide senza pace!
 
Ma gli amorosi inviti e i vezzi sono vani,
io temo, né ti valgono un solo ammiratore:
chi comprende lo scherzo, fra questi cuori umani?
Solo i forti innamora l’incanto dell’orrore!
 
I tuoi occhi profondi la vertigine danno,
e celano pensieri terribili: oh, i prudenti
ballerini fissare a lungo non sapranno
il perpetuo sorriso dei tuoi trentadue denti!
 
Ma chi non s’è mai stretto uno scheletro al petto?
Chi non s’è della morte cibato ogni mattino?
Cosa importano l’abito, il profumo, l’aspetto?
Presume d’esser bello chi diserta il festino.
 
Baiadera camusa, baldracca trionfale,
dì a questi ballerini che fanno i ghiribizzi:
“Cupidetti sdegnosi, cipria o minio, che vale?
Voi puzzate di morte. Scheletri ambrati, vizzi
 
Antinoi, bellimbusti dal mento sbarbatello,
salme lustrate a nuovo, Adoncini canuti,
di questa danza macabra l’eterno carosello
vi trascina in lontani paesi sconosciuti.
 
Dai freddi lungosenna all’infocato Gange
salta e si sdilinquisce l’uman gregge, né scorge
da una crepa del tetto la tuba dell’Arcangelo,
qual tenebroso schioppo, sinistramente sporgere.
 
Sotto ogni sole e clima, o buffa Umanità,
mentre tu ti dimeni sta la Morte a guardare,
e spesso come te mirra al capo si dà,
e ironica accompagna te demente a danzare!”.

È la danza della vecchia puttana, della morte incombente, maliziosa e sovrana, incapace di imbrogli. Parla chiaro ma l’uomo è sordo da quell’orecchio e guarda altrove, distratto volontario sembra sognatore ed è solo un imbecille che avanza ad occhi chiusi su di una china inarrestabile. Non si tratta di un dubbio che assale di tanto in tanto, ma di una fortezza dalle mura invalicabili, dove, nella sala principale, siede la morte con la sua falce, l’ospite inatteso, sepolcrale ed enigmatico, non dispensatore di ossessioni ma di certezze, anzi di un’unica e sola certezza. I segni di quest’ospite silenzioso sono sempre gli stessi, la sua maschera immobile. Non potete commuovervi davanti alle sue occhiaie senza fondo, tanto non comprenderebbe, resterebbe seduto al suo posto, nella sala centrale, in attesa, con la falce nelle mani, incapace di ascoltare i vostri motivi, bellimbusti agghindati, motivi inutili come i vostri riccioli biondi.

«Di per sé già quell’alto grado di cautela nel giungere a conclusioni e ogni tendenza scettica costituiscono un grande pericolo per la vita. Non sarebbero sopravvissuti esseri viventi se non fosse stata coltivata, in modo straordinariamente forte, la tendenza contraria, ad affermare piuttosto che a sospendere il giudizio, a errare e fantasticare piuttosto che ad attendere, ad acconsentire piuttosto che a negare, a giudicare piuttosto che a essere giusto; e noi, di solito, sperimentiamo soltanto il risultato della battaglia, tanto rapidamente e di nascosto si svolge dentro di noi questo antichissimo meccanismo». (F. Nietzsche, La gaia scienza, III, 110).

Se pongo come possibile il raggiungimento della qualità, dopo che l’ho allontanata dal mondo, è perché non posso restare prigioniero della flessibilità della modificazione, ho bisogno di una scuola più dura e più seria, quella della desolazione, è qui che mi trovo a mio agio, che sperimento il mio vero coraggio, non i baloccamenti delle barricate. Anche la parola cambia, l’a poco a poco è sostituito dal tutto e subito, i balenii dell’intuizione prendono il posto della fatica che centellina il conoscere. Quello che prima, nell’a poco a poco tendeva a riconciliarsi nell’equivalenza dell’accumulo, adesso, nel tutto e subito, tende fino all’estremo oltrepassamento di qualsiasi prodotto che intende affermare se stesso in quanto definitivamente espressione del mondo. L’essere comprende tutto questo ma non ne può esprimere le specificazioni, la qualità gli è estranea allo stesso modo in cui gli è estraneo il mondo. Un occhio non acceso all’attenzione del tutto e subito potrebbe considerare l’essere come una somma, ma non coglierebbe il problema, esistono una infinità di somme ma l’essere semplicemente è. La possibilità di coglierlo domina tutti i tentativi di affrontare il messaggio dell’assenza, altrimenti detto presenza dell’altro.

“Un viaggio a Citera”



Liberamente in cielo il mio cuor si librava,
fra i cordami planando, gaio come un uccello;
angelo ebbro di luce e di sole, il vascello
sotto l’immacolato azzurro scivolava.
 
Che nome ha mai quell’isola triste e buia? Citera,
risposero, un paese celebrato nei canti,
l’usuale Eldorado di tutti i vecchi amanti:
dopotutto, guardatela, è una magra riviera!
 
– Patria dei dolci arcani, delle feste del cuore!
Sui mari tuoi l’antico fantasma dell’indoma
Venere ancora aleggia come un profuso aroma,
e gli spiriti colma d’amore e di languore.
 
Piagge verdi di mirti, d’ampi fiori odorose,
voi da tutte le genti in eterno onorate,
voi cui sospiri approdano d’anime innamorate,
come l’incenso palpita su un giardino di rose,
 
o come d’un colombo il verso uguale e roco,
non eravate ormai che un ben povero scoglio,
da stridi aspri sommosso, disabitato e spoglio...
Pure una strana sagoma scoprivo a poco a poco.
 
Non era un tempio dentro silvestri ombre tenaci,
dove la sacra vergine viene a cogliere i fiori,
ardendo in ogni fibra di segreti calori,
e schiudendo la veste alle brezze fugaci;
 
ma (sfioravamo intanto la costa, sì da presso
da turbare gli uccelli con la candida vela)
una forca a tre bracci, ecco, ci si rivela,
sullo sfondo del cielo nera come un cipresso.
 
Sull’impiccato s’erano issati crudi uccelli,
che il corpo ne straziavano, diggià disfatto e guasto:
ciascuno, come un pungolo, di quel putrido pasto
figgeva il becco impuro nei grondanti brandelli.
 
Due buchi erano gli occhi, e dal ventre squarciato
si spandevano grevi sulle cosce le entragna;
coi becchi, rimpinzandosi dell’odiosa cuccagna,
l’avean quegli aguzzini totalmente castrato.
 
Ai piedi del patibolo, fiutando l’aria inerte,
s’aggirava una torma di bestie invide e cupe;
spiccava in mezzo agli altri un più grosso quadrupede,
come fra gli aiutanti carnefice solerte.
 
Uom di Citera, figlio d’un cielo così bello,
tu senza una parola pativi quegli insulti,
in conto dei peccati e degli infami culti,
per cui ti fu per sempre interdetto l’avello.
 
Ridicolo impiccato, t’è vicino il mio cuore:
a veder le tue membra pendere a tutti i venti,
sentii, come un rigurgito, risalirmi fra i denti
la lunga onda di fiele dell’antico dolore.
 
Pover’uomo, che il cuore caramente rimembra,
atroci corvi e nere pantere come un tempo
sentii davanti a te tornare a fare scempio
con becchi e con mandibole di tutte le mie membra.
 
Bello era il cielo, e placide le acque: tuttavia
ogni cosa appariva insanguinata e nera;
come dentro una rigida funebre coltre,
s’era sepolta la mia anima in quella allegoria.
 
Sulle tue prode, o Venere, vidi solo una gogna
simbolica, e l’immagine mia stessa penzolarne...
Dammi forza bastante, Signore, che la carne
io possa e il cuore mio mirar senza vergogna!

Mai contrasto fu più estremo – o più vicino, inconsapevole e superficiale ospite degli amori divini – l’isola della dea e la forca triplice da cui rimasugli di carne umana marcia pendevano per essere straziati da immondi animali. Non è certo quale delle due immagini prevalga sull’altra. Forse il peso e l’orrore della seconda spengono la bellezza della prima, oppure è proprio questa bellezza che accentua quell’orrore e quindi finisce per dominare la scena? La risposta non è facile. Certo, la morte è faccenda terrena, anche in questi modi estrema, dove il cadavere è fatto a brani ed esposto al ludibrio di ingordi mangiatori di carne putrefatta, l’amore è faccenda divina, e solo in questo caso resta alto e puro come un bianco colombo. Ma noi sappiamo bene che anche l’amore è faccenda terrena, e che quindi anche dietro le bellissime fattezze della donna amata si cela proprio quel cadavere che sarà, ineluttabilmente, senza smancerie che nascondono solo fetide certezze. Chi cerca di andare oltre questa disastrosa dicotomia è tanto greve che corre subito alla ricerca di un’altra, solo pudicamente coperta di veli e di metafore, oppure è un infatuato e odioso bugiardo che vende materiale di scarto come qualcosa di prima mano. Anche i torturatori – e quanti ne ho conosciuti chini sul mio povero corpo, intenti al loro lavoro – hanno avuto i loro amori, i loro sogni e, perfino, i loro momenti di debolezza. E, in genere, gli uomini non espongono da soli il proprio cadavere ad essere smozzicato dal becco adunco degli avvoltoi.

«Non mi si fraintenda: da tali nemici congeniti dello spirito nasce ogni tanto quel raro frammento di umanità che il popolo venera col nome di santo, di saggio; da tali uomini emergono quei mostri della morale che fanno rumore, che fanno storia: sant’Agostino fu uno di questi. Il timore dello spirito, la vendetta sullo spirito: quanto spesso questi vizi vigorosi e istintivi divennero fonte di virtù! E, detto fra noi, persino quell’esigenza di saggezza che caratterizza i filosofi e che ogni tanto è comparsa qua e là sulla terra, la più pazza e immodesta di tutte le esistenze, – non è stata sempre, sinora, in India come in Grecía, soprattutto un nascondiglio? –». (F. Nietzsche, La gaia scienza, V, 359).

Non è soltanto accumulo il fare ma è anche identificazione per quanto possibile esatta, e questo è lo spazio della parola. L’orientamento è effetto della parola. L’abisso della qualità fa risuonare solo una voce remota, mentre il fare articola e spiega. La storia è possibile comprenderla perché la si fa, la conoscenza è resa possibile dal fare, ma né storia né conoscenza ci sarebbero senza la parola. L’esperienza nella qualità è il risultato non solo di tutto questo lavoro, che in quanto risultato potrebbe essere solo un mero desiderio di possesso, ma anche del mio coinvolgimento su cui il fare cresce e si sviluppa in interpretazione. Il senso profondo del fare, su cui sono certo di tornare come possibilità del destino, è quindi proprio nel suo oltrepassamento, e questo navigare in mari sconosciuti prelude sempre a un ritorno a casa. L’impresa straordinaria, il più grande possesso mai tentato, precipita nel suo punto più alto, la libertà, proprio perché è solo la sconfitta che fornisco a questa impresa, il significato umano che la desolazione qualitativa non poteva dargli. La qualità rinvia ad una totalità più alta e più rarefatta, rinvia alla follia, oppure alla propria negazione. Il pensiero più acuto, solamente intuibile, si rivela un battito del cuore, uno sguardo di sfuggita, e subito mi ritrovo nell’ambito del fare, ma con strumenti più raffinati e coraggio più rinvigorito.

 

“Il viaggio”

A Maxime du Camp

I.
 
Il ragazzo, invaghito di portolani e stampe,
misura l’universo sul suo sogno più ingordo.
Come la terra cresce al lume delle lampade,
e di quanto si scema agli occhi del ricordo!
 
La fronte in fiamme, un’alba, noi lasciamo la sponda,
col cuor colmo di voglie e di rancori amari,
e culliamo, seguendo il respiro dell’onda,
l’infinito che è in noi sul finito dei mari.
 
Gli uni da patrie infami lieti evadono; gli altri
da orribili natali; mentre vogliono questi,
astrologhi annegati entro due occhi scaltri,
fuggir l’esosa Circe dai profumi funesti.
 
Per non esser cangiati in bestie, essi s’inebriano
di spazio e luce e cieli seminati di braci.
Il gelo e il sole, ai morsi aggiungendo le febbri,
lentamente cancellano le stimmate dei baci.
 
Ma i veri viaggiatori partono senz’avere
né meta né ragione; da un fatale richiamo
sospinti, cuori lievi come le mongolfiere,
senza saper perché dicono sempre: “Andiamo!”.
 
Presi da brame vaghe e vane come nubi,
essi sognano (tale la recluta i mortai!)
reconditi piaceri, smisurati e volubili,
il cui nome fra gli uomini non risonò giammai.
 
II.
 
La trottola che balla e la palla che schizza
ci somigliano, ahimè; anche fra due lenzuoli,
nel sonno, l’Ingordigia ci voltola e ci aizza,
come un crudele Angelo che scudisciasse soli.
 
Strana sorte: la meta si sposta senza posa,
e può essere ovunque, poiché non ha dimora;
l’uomo, che mai si stanca di sperare in qualcosa,
per aver quiete, corre, come un demente, ognora!
 
Siamo vascelli erranti che cercano un’Icaria;
s’ode “All’erta!” una voce sul ponte, e di rinvio
grida un’altra dall’albero, ardente e visionaria:
“Amore... gloria... estasi!”. È uno scoglio, perdio!
 
Ogni nudo isolotto che la scolta segnala
appare un Eldorado promesso dal destino!
La fantasia che accende i suoi fuochi di gala
trova solo una sirte al lume del mattino.
 
Povero innamorato di contrade chimeriche!
Dovrem buttarti in mare, legarti crocifisso
al palo, ebbro gabbiere, inventore d’Americhe,
il cui miraggio accresce l’agrume dell’abisso?
 
Così, col naso al cielo e i piedi nella mota,
sogna il vecchio accattone che un eliso gli appaia
e una Capua gli splende alla pupilla immota
dovunque una candela rischiari una topaia.
 
III.
 
Viaggiatori mirabili! Quali nobili storie
vi leggiamo negli occhi, profondi come flutti!
Oh, apriteci le arche delle vostre memorie,
serti stupendi, d’astri e d’etere costrutti!
 
Viaggiar senza vapore vogliamo, e senza vela!
Per distrarci dal carcere che ci rinserra, oh, fate
passar sui nostri spiriti, tesi come una tela,
le vostre rimembranze, d’azzurro incorniciate.
 
Dite, che avete visto?
 
IV.
 
“Onde, deserti e astri,
questo abbiam visto; sempre, per tanti anni, così;
ma, nonostante i mille contraccolpi e disastri,
annoiati ci siamo, per lo più, come qui.
 
Sul mare violetto la gloria delle aurore,
la gloria dei palazzi nell’oro dei tramonti,
ci destavan nell’anima un inquieto ardore
d’affondare in remoti fantastici orizzonti.
 
Ma la più ampia vista, la città più opulenta
non ebbe mai la grazia sottile e suggestiva
dei paesi che il caso con le nuvole inventa...
E, convulsa, una brama pur sempre ci feriva!
 
– Ad ogni godimento la brama acquista forza.
O brama, vecchia pianta che il piacere concima,
mentre ti si rassoda e s’ingrossa la scorza,
sempre più verso il sole si scaglia la tua cima!
 
Crescerai sempre, grande arbore, più vivace
del cipresso? Ma pure scegliemmo una collana
di schizzi per la vostra collezione vorace,
fratelli che adorate ogni cosa lontana.
 
E salutammo idoli dal volto elefantiaco,
troni di rutilanti gioielli costellati,
regge adorne, la cui favolosa magia
sarebbe un sogno folle per i vostri magnati;
 
costumi che per gli occhi sono un’eterna ebbrezza,
donne che d’ocra l’unghie si dipingono e i denti,
giocolieri provetti che il serpente carezza”.
 
V.
 
“E poi, e poi ancora?”
 
VI.
 
“O cervelli innocenti!
Per non dimenticare la cosa capitale,
dappertutto abbiam visto, senza averlo cercato,
dal primo grado all’ultimo della scala fatale,
lo spettacolo uggioso dell’eterno peccato:
 
la donna, schiava abietta, essere altero e stupido,
s’adora senza ridere, s’ama senza vergogna;
l’uomo, tiranno ghiotto, vizioso, duro, cupido,
è schiavo della schiava, rigagno entro la fogna;
dovunque rida un boia c’e un martire che lacrima;
un odore di sangue nell’orgia si pregusta;
il tossico del trono i despoti fa macri;
bacia il popolo e venera, abbrutito, la frusta;
 
più d’una religione salire al ciel presume,
non meno che la nostra, mentre la Santità,
come il pigro si voltola sulle morbide piume,
nei chiodi e nel cilizio cerca la voluttà;
 
l’Umanità ciarliera, ebbra della sua sorte,
gonfia, oggi com’ieri, di pazze febbri il petto,
grida a Dio negli spasimi dell’imminente morte:
‘Mio simile e signore, che tu sia maledetto!’.
 
E i meno sciocchi, arditi amanti dell’Insania,
per sottrarsi al Destino che li tiene a guinzaglio,
chiedon che l’oppio immenso li sciolga dalla pania!
– Ecco del globo intero l’immobile ragguaglio”.
 
VII.
 
Che amara scienza, quella che c’insegnano i viaggi!
Oggi, domani, sempre, un mondo senza gioia,
e monotono, e angusto, specchia la nostra immagine:
oasi d’orrore al centro d’un deserto di noia!
 
Partire? Rimanere? Se puoi resta, ti dico:
parti se devi. Fugge taluno, altri nascosto
vigila, se mai eviti l’insonne, empio nemico,
il Tempo; ed altri va, ahimè, come un Apostolo,
 
come l’Ebreo errante, corridore mai stanco,
né sa trovar veliero o treno che quel crasso
reziario gli svincoli finalmente dal fianco;
c’è infine chi lo uccide senza muovere un passo.
 
Ma quando sentiremo il suo piede sul dorso,
di sperare e gridare “Avanti” ecco il momento!
Come verso la Cina volgemmo un tempo il corso,
con gli occhi all’altomare ed i capelli al vento,
 
c’imbarcheremo allora sui mari delle Tenebre,
lietamente, col cuore d’un passeggero giovane.
Ascoltate le magiche e funebri sirene
che cantano: “Venite, o voi tutti cui giova
 
il Loto aulente; è qui dove s’ammira e coglie
il frutto la cui fame le vostre anime ha invaso.
Su, di strana dolcezza saziatevi le voglie,
davanti a questo sole che non conosce occaso”.
 
Dal familiare accento lo spettro si ravvisa;
a sé laggiù c’invocano i Piladi seguaci.
“Vuoi refrigerio? Nuota a Elettra tua” ci avvisa
colei cui le ginocchia coprimmo un dì di baci.
 
VIII.
 
Morte, vecchio nostromo, è ora di salpare.
Questa terra ci annoia, leviamo gli ancoraggi!
Se neri come inchiostro si mostran cielo e mare,
i nostri fidi petti sono pieni di raggi!
 
Col tuo veleno alleviaci l’asprezza della via!
Noi vogliamo, bruciati da questo interno fuoco,
scendere nell’abisso, Cielo o Inferno che sia,
e annegar nell’Ignoto, pur di trovare il nuovo!

Andare via col vento, levare le ancore. Il viaggio è segno di chiaroveggenza, indizio che si è messa da canto la futilità dell’accumulo e del possesso. Non c’è viaggio se ci si carica di zavorra, il che vuol dire, sicuramente, che ci si può caricare di bagagli. Portarsi dietro la casa non è viaggiare. Spogliarsi, prima di tutto il cervello, liberarlo delle tante occlusioni causate dalla conoscenza. Il viaggio è per i sapienti non per i filosofi. Se si accorda troppa importanza alle cose che ci circondano, che ci garantiscono e ci determinano permettendo agli altri di riconoscerci per quello che siamo, non possiamo mai diventare veramente quello che siamo, perché saranno queste cose a imporci quel contrassegno che è proprio il contrario di ciò che ci abita in cuore. Il possesso è miseria e paura, occorre quindi diffidarne come di una sorta di malattia. Partire è qualcosa di profondamente radicale, tagliare le proprie radici non è faccenda uguale per tutti, diventare stranieri a se stessi, ecco il segreto fondo di ogni terrore, quello da cui fuggiamo. Se non rinveniamo il coraggio necessario la nostra partenza sarà solo una breve ricognizione, un piccolo cabotaggio per spiriti modestamente provvisti, poveracci in cerca di emozioni turistiche.

«Interessante è vedere fin dove in Schopenhauer si può parlare di una intuizione della vita e del mondo di tipo estetico. Senza dubbio sono presenti in alcuni dei motivi della sua filosofia passati in rassegna forti tratti di una considerazione estetica del mondo... L’elemento estetico entra poi in maniera di gran lunga più evidente nella sua filosofia, se si riflette che egli pone il suo filosofare in stretto rapporto con l’arte. Il filosofare consiste per lui, per quel che gli è caratteristico e per il suo aspetto più evidente e più importante, nella intuizione delle idee, cioè in una attività, che è identica per essenza all’attività estetica. E se pensiamo al significato metafisico, che egli attribuisce all’intuizione delle Idee, al genio e all’arte, ne ricaviamo un’impressione ancora più forte del carattere estetico della sua filosofia. Attraverso l’intuire estetico e le figure delle Idee il mondo acquista significato e valore. L’artista è come un redentore del mondo: egli supera in sé medesimo il temporale nell’eterno e facilita, in quanto offre le sue opere alla contemplazione, anche agli altri uomini il mutamento della loro individualità in soggetto eterno. L’arte è cosi per Schopenhauer un evento cosmico che determina essenzialmente il valore dell’esistenza». (J. Volkelt, Arthur Schopenhauer. Seine Persönlichkeit, seine Lehre, sein Glaube, ns. tr., Stuttgart 1907, p. 54).

Il processo del fare e l’avventura intuitiva nell’essere sono processi circoscritti al mondo e alla qualità, per quanto estesi essi sono determinati, nel senso che l’infinita estensione della qualità ha una sua desolazione che io posso vivere solo interrogandola, oltre, la sua estensione mi uccide annientando la mia coscienza. Una rigidità perennemente immobile, come l’essere che è e non può non essere, è tagliata fuori da questi movimenti finiti e infiniti, di certo li comprende, ma solo come espressione puntuale. L’uno risolve in sé ogni espressione della realtà ma non li riflette perché non ha un altro da sé, esso giace nella sua determinazione indifferenziata. Come l’essere coesista con l’altro da sé che è il mondo è un mio fare e un mio agire, sono io che interrompo questa vuota dimensione che è e basta, e l’interrompo chiedendo la domanda fondamentale, tutto qui? Per capire l’essere, altrimenti incomprensibile, lo devo dire, con che la rottura è temporalmente e spazialmente fissata una volta per tutte. Così l’essere chiuso, che non ha mezzi per dire, viene detto e aperto e dal dire l’essere emerge la mia primordiale capacità di percezione.

“Lesbo”



Madre di ludi italici e di greche lussurie,
Lesbo, tu che di languidi e giubilanti baci,
focosi al par d’un sole, freschi come le angurie,
le notti e i dì gloriosi d’ingemmar ti compiaci,
madre di ludi italici e di greche lussurie;
 
o Lesbo, dove i baci son come le cascate
che impavide s’affondano nei gorghi sitibondi
e fuggon gorgogliando e singhiozzando a ondate,
tempestosi e segreti, brulicanti e profondi,
o Lesbo, dove i baci son come le cascate;
 
o Lesbo, dove a gara si cercano le belle,
dove sempre a un sospiro un sospiro si sposa,
tu non meno che Pafo ammirano le stelle,
e non a torto Venere e di Saffo gelosa!
O Lesbo, dove a gara si cercano le belle,
 
Lesbo, terra di notti ardenti e appassionate,
che inducono allo specchio vergini d’occhi cavi
a blandir (vano brivido!) con mani innamorate
della nubile carne i frutti intatti e gravi...
Lesbo, terra di notti ardenti e appassionate,
 
aggrotti pur Platone le vecchie ciglia austere:
nell’eccesso dei baci tu trovi assoluzione,
nobile terra, amabile regina del piacere,
e nei nuovi e preziosi modi della passione...
Aggrotti pur Platone le vecchie ciglia austere!
 
Tu trovi assoluzione nello strazio inumano,
inflitto senza tregua ai grandi cuori aneli
che inseguono un sorriso luminoso e lontano
vagamente intravisto all’orlo d’altri cieli...
Tu trovi assoluzione nello strazio inumano!
 
Chi mai verrà dei Numi a muoverti rimbrotto,
e a dannar la tua fronte, pallida di rovelli,
senza nei piatti d’oro aver pesato il fiotto
di lacrime che in mare versano i tuoi ruscelli?
Chi mai verrà dei Numi a muoverti rimbrotto?
 
Che pretendono i codici del giusto e dell’ingiusto?
O magnanime vergini, onore delle Isole,
il culto in cui credete è, al par d’ogni altro, augusto,
e l’amor si fa beffe di Inferno e Paradiso.
Che pretendono i codici del giusto e dell’ingiusto?
 
Poiché Lesbo fra tutti m’ha scelto sulla terra
per cantare il segreto delle sue belle in fiore,
e dall’infanzia il nero rito mi si disserra
che folli risa mescola con singhiozzi d’orrore;
poiché Lesbo fra tutti m’ha scelto sulla terra.
 
Da allora in cima a Lèucade io scruto gli orizzonti,
come una sentinella dallo sguardo aquilino,
che notte e dì sorveglia se dall’azzurro monti
qualche tremula ombra, tartana o brigantino...
Da allora in cima a Lèucade io scruto gli orizzonti
 
per sapere se l’onda è generosa e buona,
e se, roca frangendosi sulle scogliere avverse,
riporterà una sera a Lesbo che perdona
il cadavere amato di Saffo, che s’immerse
per sapere se l’onda è generosa e buona!
 
Della virile Saffo, amante e poetessa,
più leggiadra di Venere nei suoi cupi pallori!
– S’arrende l’occhio azzurro al nero, cui la spessa
tenebra intorno cinge, tracciata dai dolori
della virile Saffo, amante e poetessa!
 
– Più leggiadra di Venere che si leva sul mondo,
riversando i tesori delle serene ciglia,
e l’irraggiar del corpo sempre giovine e biondo
sul vecchio padre Oceano, che attratto è dalla figlia,
più leggiadra di Venere che si leva sul mondo!
 
– Di Saffo che morì nel sacrilego giorno
in cui volle ad un bruto, violando il nuovo rito,
in pastura suprema offrire il corpo adorno...
Ma lui punì, superbo, il gesto proibito
di Saffo che morì nel sacrilego giorno!
 
Ed è da quella volta che Lesbo si lamenta,
e, sorda ai mille omaggi che le vengono offerti,
ogni notte s’esalta dell’urlo di tormenta
che verso il cielo scagliano i suoi lidi deserti...
Ed è da quella volta che Lesbo si lamenta!

Lamento per l’amore ucciso, per la libertà uccisa, per la sofferenza causata dall’ottusità degli uomini, per le limitatezze del loro cuore e del loro cervello, per la stupidaggine dei costumi e delle leggi. Il poeta si muove con la leggerezza di un uccello che guarda dall’alto il luogo sacro agli amori di Saffo e non può fare a meno di tenere presente il mondo ottuso che lo ospita, che governa la sua quotidianità con la cupidigia di un serpente attorcigliato su se stesso, messo a guardia dei grandi princìpi morali. Spaesato è il suo dire, come spaesati sono tutti gli animi gentili che considerano l’amore più importante di tutte quelle regole che soffocano con la scusa di permettere la vita e la libertà. L’imperativo della repressione dilaga sul mondo nascosto sotto il lenzuolo funebre del perbenismo. Atteggiamenti futili se causano disavventure mostruose, da cui la vera indecenza e la profonda incertezza della nostra condotta. Tutto viene segnato da questa ottusità, la fede e l’incredulità stesse ne risentono e si presentano, ognuna a suo modo, con l’occhiuto atteggiamento del censore degli altrui comportamenti.

«E come un soffio di vento o un’eco, rimbalzando da superfici levigate e solide, viene rinviata al punto di emissione, così il flusso della bellezza, arrivando nuovamente al bell’amato attraverso gli occhi, che sono la via naturale per arrivare all’anima, come vi è giunto e l’ha eccitata al volo, irrora i condotti delle ali, stimola il formarsi delle ali e colma d’amore l’anima, a sua volta, dell’amato». (Platone, Fedro, 255 c-d).

Percepisco il mondo, quindi l’oriento e lo creo, e poi vado alla ricerca della qualità perduta. Non c’è riconciliazione possibile con questa rottura, io ho rotto l’unità con la mia improvvida volontà di potenza, ma non sono in grado di ricompattarla. La cancellazione del mondo non è un gesto della mia volontà, anzi io sono portato a completarlo, a trasportare l’essere nel mondo per rendere quest’ultimo completo. Ma né l’essere né la qualità si possono trasportare nella modificazione. I fantasmi dell’apparenza non hanno corpo concreto. La rammemorazione è dire che soddisfa se non l’antica perfezione dell’essere, almeno la qualità come desolata rinuncia del possesso e della quotidiana immediatezza.

 
 

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Prossime uscite
Rudolf Rocker, Nazionalismo e cultura William Godwin, Ricerca sulla giustizia politica e sulla sua influenza su morale e felicità Alfredo M. Bonanno, Dal banditismo sociale alla guerriglia Luigi Lucheni, Come e perché ho ucciso la principessa Sissi Carlo Cafiero, Anarchia e comunismo Luigi Galleani, La fine dell’anarchismo? Bakunin, Opere vol. II – La Prima Internazionale e il conflitto con Marx A cura di Alfredo Bonanno, Estetica dell’anarchismo