Titolo: Chi ha paura della rivoluzione?
Sottotitolo: Terza edizione aumentata e corretta
Note: Pensiero e azione N. 44
Prima edizione: maggio 1986
Seconda edizione: gennaio 1990
Terza edizione: settembre 2014
SKU: pensiero-000044
Dimensioni: cm 15 x 21,5
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    Introduzione alla terza edizione

    Nota per il lettore

    Introduzione alla prima edizione

    Pochi passi avanti, molti indietro

      È possibile chiamarci fuori?

      Chiese, idoli e tabù

      Irrazionalità e rivoluzione

      Chi ha paura della rivoluzione?

    La fuga nella fantasia

      Servizi segreti

      Il fantasma della spia

      La provocazione immaginata dappertutto

      L’equivoco critico

      Limiti e prospettive del situazionismo

    Mantenersi alla superficie

      Di un certo Proudhon, di alcuni imbecilli e di altre cose

      Le presunte neutralità dei servi dei padroni

      Il banchetto per il centenario di un certo Bakunin

      La cultura libertaria della buona volontà

      Passeggiate sull’anarchismo

      Il Giappone è lontano

      Confusamente a dispetto di tutto

      Cecilia santificata

      Godwin per bambini

      Le chiacchiere sulla delegittimazione

    Ancorarsi al dogma

      La santificazione del ruolo dell’organizzazione anarchica

      Pedagogia libertaria e inquinamento socialdemocratico

    Pulire l’insegna

      Il cappello del prete

      Lo sfìzio del barone

      Necessità di bottega

      Ritorna il problema del prete

      Un giallo politico contro le donne

    Infamia pura e semplice

      Delatori e avvoltoi

      Montanelli, l’infame

      Il labirinto delle assurdità

      Polizia e carabinieri

    Brancolare nell’ignoranza

      Come scrivere di cose che non si conoscono

      L’avventura di un editore di provincia

      Gli intellettuali alla gogna. Il falso come strumento di lotta

    Non sapersi decidere

      Un’ottima lettura a metà

      I limiti dello storico

      Sperduti nella rivoluzione russa

    Redigere il catechismo

      Catechismo n. 1

      Catechismo n. 2

    La natura soprattutto

      Scontro di classe e difesa della natura

      Limiti attuali del movimento ecologista

      Ricominciamo daccapo

      Daccapo

      Per noi no

      L’asino di Buridano

      Facciamo presto

      Il cuore sull’altopiano

      Sisifo, o dell’ottusità

    Postfazione del 1990

    Individuare il nemico

      La vita e la morte

      Il nano e la merce

      Abiti e idola

      Elogio della divisa

      Un treno, alla stazione di Napoli

      Contro tutti i vedovi inconsolabili

      Facciamo a chi ne ammazza di più?

      La guerra del lavoro

      Polverizzazione

      Riconoscimento del nemico

      Quando il futuro arriva tra capo e collo

      La coda pelosa del perbenista

      Solidarietà come attestazione in vita

      L’antimilitarismo in epoca di svilimento

      Uccidere

Introduzione alla terza edizione

Ecco un libro che non pensavo di fare uscire un’altra volta. Non perché lo ritenessi fuori tempo, superato, chiacchiere da lasciare in fondo ai ripiani di una biblioteca, ma perché molti di questi problemi li pensavo chiariti una volta per tutte. Non è così. Non ci sono problemi che si chiudono per andare oltre. In fondo si ricomincia sempre daccapo.

Per esorcizzare questa prospettiva, alla mia età un poco inquietante, ho tolto il sottotitolo, che pure ai suoi tempi mi era sembrato spavaldamente provocatorio, quel “Ricominciamo daccapo” che ora mi pare una inutile civetteria.

Sia detto chiaramente, questo è un libro che si rivolge, e si rivolgeva, ai paurosi, non ai coraggiosi, che quest’ultima genia mi ha sempre causato problemi e dolori di pancia. Non ai paurosi che si ficcano sotto il letto e chiudono gli occhi in preda al panico non appena soffia il più piccolo alito di vento – altro che bufera – ma ai paurosi (come me, che tale sono) i quali costruiscono il proprio coraggio partendo dall’oltrepassamento della paura.

Anche a me fa paura la rivoluzione. E chi la sogna come il caos inverato, rigurgitante cadaveri dappertutto, e sangue e budella contorte, è un imbecille che non ha mai messo un dito nell’acqua fredda. Chi invece ha immerso le mani fino in fondo in pastoie non proprio belle da ricordare, sa perfettamente che la rivoluzione, o comunque un sommovimento molto più circoscritto e limitato, diciamo il pallido affacciarsi all’orizzonte di un accenno insurrezionale concreto, è sacrificio e sofferenze, dolore e morte. E ciò può essere visto solo come un passaggio stretto per migliorare – con la distruzione e la morte, questo è fuor di dubbio – la società di merda in cui ci costringono a vivere.

Pensare, al contrario, che il caos primigenio, venuto a trovarci nella strada, improvvisamente schierato a fianco delle nostre giuste rivendicazioni di lotta, possa risolvere per noi i nostri problemi, mi ricorda tristemente chi vedeva soggetti rivoluzionari dappertutto, talpe intente a scavare il terreno della storia, esseri più o meno fantomatici generosamente disponibili a lavorare al nostro posto.

Nulla di tutto questo. La rivoluzione, e tutti i processi che a essa si accostano, sono prodotti della nostra attività e della nostra capacità di trasformare le condizioni sociali che ci circondano. Niente ci è dato dai meccanismi stessi. Non sono nostri alleati né la fame né lo sfruttamento né la miseria né la schiavitù, e tutto il resto che costituisce l’armamentario con cui il mostro statale ci opprime e ci gestisce secondo i suoi specifici interessi. In fondo la politica è la scienza che riesce a far fare alla gente quello che questa non vuole fare. Invertendo l’ordine dei fattori non siamo antipolitici soltanto, fatto veramente trascurabile, ma siamo l’assolutamente altro. L’impensabile che una volta pensato si deve gettare dietro le spalle per andare avanti, per realizzare le condizioni di qualcosa di altrettanto impensabile, l’assolutamente diverso, nel modo in cui la qualità è l’assolutamente diverso della quantità e non è una più o meno grande aggiunta in più.

Con buona pace dei sognatori di fanfaluche.

 

Trieste, 1° maggio 2014

Alfredo M. Bonanno

Nota per il lettore

A rischio di sembrare pedante voglio precisare alcune cose che mi sembrano indispensabili a seguito degli eventi maturati negli ultimi mesi [1986], successivamente alla stesura dell’introduzione di questo volume.

Il lettore, mi auguro, ricorderà che questo terzo lavoro si pone come continuazione ed integrazione dei due precedenti: La rivoluzione illogica e Teoria e pratica dell’insurrezione, ed ha come oggetto l’esame dei vari aspetti della “paura” della rivoluzione, sia da parte dei detentori del potere e dei loro servi (più o meno sciocchi), sia da parte degli stessi rivoluzionari.

Si tratta di riflessioni e scontri, anche piuttosto duri, che sono andati maturando nel corso degli ultimi dieci anni ma che solo adesso trovano una migliore possibilità di essere capiti. Adesso che la desistenza e il tradimento dilagano, appaiono meglio i giochi del passato, le titubanze e i falsi estremismi, entrambi frutti di una mentalità frettolosa e superficiale.

Ben altre cose andrebbero quindi dette e approfondite. Ma non è possibile riscrivere dieci anni di interventi redatti tutti con un unico scopo, né rileggerli con la luce del senno del poi.

Una cosa però la voglio affermare. Non è più il tempo dei pudori e dei tabù, come non è più il tempo di nascondere sotto il manto caritatevole dell’ignoranza o dell’imbecillità quella che non si può chiamare altrimenti che rifiuto della lotta rivoluzionaria, innamoramento dello stato di quiete, baloccamento con innocue dichiarazioni di principio.

Ormai siamo arrivati alle aperte giustificazioni della desistenza e del compromesso, alla ricerca di strade per il patteggiamento col potere, al rifiuto della rivoluzione, all’esaltazione delle pratiche perbeniste e pacifiste che poco hanno a che vedere con lo scontro di classe e col nemico che ci sta davanti e che continua a diventare sempre più forte. Ormai lo squallore si diffonde a macchia d’olio ed occorre dire con fermezza come stanno le cose. Occorre anche dire addio per sempre a tutti coloro che s’indirizzano verso le pratiche della desistenza: dalle richieste di amnistia alle ciarle sulla delegittimazione, dai dissociati ai riscopritori delle virtù teologali del pacifismo.

Che ognuno faccia la sua strada. Per me ritengo che si possa e si debba ricominciare daccapo.


Catania, 5 aprile 1986

Alfredo M. Bonanno

Introduzione alla prima edizione

Ci sono molti modi di avere paura. Spesso si tratta di reazioni a stimoli esterni che avvertiamo contrari e che intervengono nella nostra realtà portando scompiglio, distruzione, annichilimento.

Ma la paura vera è solo quella che si impadronisce di noi quando ci rendiamo conto di non avere sufficienti capacità di difesa davanti a quello che ci minaccia.

Creiamo allora punti di riferimento, valori di appoggio, per aiutarci a sopportare lo stato di angoscia.

L’oppressione, lo sfruttamento, la stratificazione del potere, il controllo sociale, li avvertiamo come altrettanti elementi di disturbo della nostra personalità. Limiti e confini al di dentro dei quali la nostra sofferenza si ingigantisce sempre di più. Quando prendiamo coscienza ci rendiamo conto della necessità di abbattere questi ostacoli sulla strada della nostra liberazione. Ma, nello stesso momento della tensione rivoluzionaria, quando la presa di coscienza raggiunge il suo punto culminante, ci rendiamo anche conto che quei limiti e quei confini erano costitutivi – e non in ultima ipotesi – dalla nostra stessa personalità: distruggendoli attacchiamo noi stessi. Partorendo l’uomo nuovo che è in noi dobbiamo uccidere l’uomo vecchio. E ciò, spesso, ha tutto l’aspetto di un suicidio.

Non sappiamo orientarci più nel ginepraio sociale. Le norme precedenti ci vengono meno perché le sappiamo ingiuste e infondate. Una nuova regola di vita non è disponibile, secondo quel vago senso di giustizia rivoluzionaria che dentro di noi ha preso corpo. Esistono tante vie traverse, tante piccole strade di accomodamento, tanti sentieri che si aprono invitanti nella fitta vegetazione. Allora ci andiamo a nascondere in uno di questi buchi verdi.

Il presente libro fornisce una scelta, che ritengo sufficiente, di alcuni atteggiamenti di paura. Diciamo che quando l’uomo si trova in una situazione di difficoltà perché non riesce a fronteggiare la realtà che lo sovrasta, per sopravvivere si dà segni particolari, simboli che hanno tutti una matrice culturale. Giustificazioni colte, giustificazioni primordiali: il problema non cambia.

La fuga nella fantasia. Il campo culturale più ampio e dignitoso. Il romanzo che sostituisce la realtà. L’analisi acuta che spesso è la sola vera e, proprio per questo, si trasforma nel più suadente dondolio. La verità, sappiamo, non è semplice avvenimento oggettivo, rispecchiamento di qualcosa che è là e che tutti possono vedere una volta che venga sufficientemente illuminata. La verità richiede impegno continuo, sacrificio personale a tutti i livelli. Non basta il semplice salto qualitativo che una superiore cultura può fornire. Questo salto avviene nel vuoto, ma salva dalla paura, ricaccia indietro i fantasmi, aiuta a vivere. L’analista che gioca con le sue solite carte è abituato a questi patteggiamenti con la propria coscienza. Se le cose si fanno troppo difficili, allora ripiega sull’acrobata che è in lui, sulle proprie facoltà intellettuali, richiedendo loro un salto spettacolare quanto più ardito possibile. Nell’ammirare se stesso scongiura la paura. Egli si sente sicuro della propria verità. Gli altri possono fare quello che vogliono, attacchino pure il potere, tanto ancora non è il momento (quando questo momento verrà, allora egli saprà bene come comportarsi). Per adesso però si limita alla critica. La critica: questa dama dalle mille moine ammaliatrici. Egli ne conosce tutti i belletti, sa perfettamente sotto quanti strati di lacca nasconde le sue rughe profonde. Ma non ne parla, non rivela l’inganno, è pieno di pudori con i quali si aiuta a sopportare l’immagine del proprio gesuitismo. Certo, non tutti possono fare ricorso a questo strumento di consolazione. I più adatti a maneggiarlo sono gli scaltri elaboratori delle analisi, gli accorti amministratori delle ipotesi sconvolgenti, i giocolieri del può darsi. Ed è sempre benvenuto chi vuole dormire con loro. Il risveglio è rimandato quanto più lontano possibile.

Mantenersi alla superficie. È il motto degli animali che nuotano sbuffando l’acqua, imponenti e stupidi. In questo modo si credono superiori alle tempeste, perché come quel famoso re travicello non pescano mai nel fondo. Galleggiando pensano di essere superiori a tante altre cose che, penetrando negli abissi del problema sociale, ne sentono realmente gli aspetti, anche quelli più nascosti e paurosi. Alla superficie la paura è sempre minore. Si illudono di non mettere in gioco molte cose. Trovano facilmente un orientamento. Uomini e cose rispettano gli animali di superficie, non danno loro accanitamente la caccia. Gli oggetti appaiono limpidi, la verità chiara, le distanze precise, i discorsi semplici. La scienza assolve al proprio compito. Gli scienziati anche. Questi ultimi sembrano non essere sempre al servizio del potere. Alcune volte paiono anche brave persone, basta saperli individuare. Di queste brave persone ci si può fidare. Sono loro a fornire gli orientamenti. In fondo sono in buona fede. In più sono anche vicini alle leve del potere. Ogni tanto è anche possibile che ci scappi qualche buona prebenda: un posto all’università, la direzione di qualche giornale, una buona parola, uno sguardo invitante. Tutte cose sostanziose che aiutano a scongiurare la paura. E se gli eventi precipitassero? Se il terreno mancasse sotto i piedi? Se improvvisamente s’iniziasse la caccia ai bottegai e ai paraninfi – di ogni genere – come ci si distinguerebbe nella notte delle vendette? Strana sorte di chi fa un lavoro che se venisse ben fatto finirebbe per costituire una delle cause principali dello sconvolgimento del proprio assetto di vita. Un modo di lavorare alla propria distruzione. Niente di più pauroso e precario. È bene mettere a tacere tutto ciò. Scivolare leggeri sopra le onde e darsi la mano con qualche altro animale più vicino alle acque del potere. Aiutati che dio ti aiuta.

Ancorarsi al dogma. L’istupidimento del simbolo esorcizzatore della paura corrisponde alla sua trasformazione in dogma. Non esistono altre strade per mettere a tacere l’avverso andamento della situazione esterna. In genere è un procedimento di autoinvestitura. Dopo essersi riconosciuti come “semplici analisti”, molti si convincono facilmente che l’attacco di cui l’aria è satura non può essere diretto contro di loro. Che cosa hanno a che fare con la gentaglia contro cui la burrasca s’indirizza? Occorre chiarire bene come stanno le cose. Loro sono intellettuali, specialisti di materie specifiche, rimescolatori di paccottiglie. Non fanno male, non vogliono male, non desiderano male. Il loro dogma è l’assoluta verità. La concepiscono immacolata da condizionamenti e compromessi. Nel vuoto del loro cervello rintronano continuamente le parole del dogma. Le hanno rese facili per poterle ricordare. Non intendono ascoltare, altrimenti qualcuno potrebbe scambiarli per ciò che non sono, per ciò che non vogliono essere. E per mettersi ancora di più al sicuro, vanno tracciando giri concentrici di demarcazione, ficcando nel terreno i paletti ben visibili dei giudizi e delle distinzioni. Questi stanno dalla parte della verità, gli altri dalla parte della menzogna. Chi lo dice? Ma loro stessi, naturalmente. Chi volete che lo dica? Non basta la loro garanzia? La loro dottrina? La loro incontaminata fede di dogmatici in servizio permanente? Il resto sono chiacchiere.

Pulire l’insegna. Ogni mattina, con accuratezza. La bottega innanzi tutto. Possono vendere ogni cosa. Negli ultimi tempi è andata bene la merce di “sinistra”. Domani non sappiamo. Vedremo. In fondo il loro è mestiere senza pericolo. Chi volete possa mettere paura a un bottegaio che dentro i confini del proprio bugigattolo è signore e padrone? E poi, in fondo, fanno di tutto per allontanare la minaccia che incombe su di loro. La minaccia della rivoluzione la combattono in modo concreto. Sono coerentemente controrivoluzionari. Gli altri possono non saperlo, ma essi lo sanno sempre. La loro fede è la bottega. La loro idea è orientata verso dove si fa più grana. In genere si annidano fra i preti. Sono gente intelligente e, spesso, di gusto. Capiscono subito da quale lato soffia il vento e non si fanno pregare. Oggi i preti di “sinistra” abbondano. Ecco perché sulla loro insegna figura un cappello da prete. Non sta bene? E chi volete che lo veda?

Infamia pura e semplice. Di questa specie di animali repellenti e dannosi è bene parlare in modo chiaro. Sono miserabili pagati dal potere. Hanno ormai fatti il callo al loro lavoro e quindi non cercano nemmeno la strada per uscire dalla paura. Vivono come tutti gli altri responsabili dello sfruttamento: in attesa della morte che sperano sempre possa essere “naturale”.

Brancolare nell’ignoranza. In fondo sono fra i più simpatici paurosi che si conoscano. Simili alle talpe non vedono dove vanno. Scavano il terreno nel punto più morbido e lontano da altri scavi. Di regola prendono lo stipendio dalla scuola e per questo stesso motivo continuano a scavare. In fondo non sanno nemmeno che cosa toccano (anzi sfiorano), procedono tranquilli con quel tanto di paura generalizzata che è nel cuore di tutti coloro che nello stato attuale delle cose – e nel suo mantenimento senza scosse – vedono la possibilità della propria animalesca sopravvivenza. Esseri morti senza saperlo. Banalità quotidiane di cui non varrebbe la pena discutere se non capitasse a volte di rintracciare segni dei loro scavi nel nostro percorso. Non mancano ovviamente quegli individui di corto cervello che ritengono queste tracce opera positiva per la rivoluzione. Come si sa gli idioti giudicano sempre positivamente l’opera di altri idioti.

Non sapersi decidere. È una malattia atroce. In fondo gli incerti sono i paurosi di migliore disposizione di spirito. Vorrebbero fare ma, come Don Abbondio, non avendo il coraggio, non sanno neppure dove prenderlo a prestito. Per tale motivo restano incerti, afflitti da una doppia maledizione: la paura del nemico e la paura di se stessi. In ogni loro pensiero intravedono la possibilità di un riposto pericolo. Si censurano e si autolimitano. Finiscono per soffocare nelle proprie costruzioni difensive.

Redigere il catechismo. Sono spiriti sistematici. Ripetitori di inutile ciarpame organizzativo, venditori al dettaglio di merce che ormai si trova in bella esposizione nei super-marcket dei grandi partiti di ogni colore. Non hanno fantasia, quindi hanno anche poca paura. Sognano dialoghi illuministi con le masse e costruzioni piramidali di movimenti specifici. Sono, in fondo, innocui risolutori di parole crociate. Nel loro passatempo, povero di spirito, fanno anche tenerezza.

La natura soprattutto. Anch’essi hanno poca paura. Della rivoluzione forse potrebbero averla, se non altro perché metterebbe in moto forze “naturali” (e quindi umane) di tale portata da sconvolgere i loro piani virginali. Ma a tutto questo non pongono pensiero. Il problema che li travaglia è più vicino, immediato. Addirittura colossale. Su questo fronte si battono da bravi pacifisti e non si accorgono di andare a ingrossare le fila delle nuove forme della controrivoluzione.

Un posto particolare in questo libro avrebbero dovuto occuparlo altri paurosi, quelli che fuggono verso il partito, armato o non armato. Ma di questa speciale categoria di orfani mi sono occupato praticamente di continuo, sia in questo stesso volume che negli altri due che logicamente lo precedono: La rivoluzione illogica e Teoria e pratica dell’insurrezione. Non è quindi per usare loro un trattamento di favore che non vengono qui inclusi, ma solo per non ripetere cose già dette.

Di fronte a tutto questo spettacolo si colloca il progetto di coloro che intendono ricominciare daccapo, che vogliono impadronirsi un’altra volta del cielo.

Il lettore attento ricorderà gli sforzi che abbiamo fatto insieme per decifrare il cammino tortuoso e contraddittorio della rivoluzione. Solo dopo aver capito fino in fondo quante infinite volte si è costretti a ricominciare si può capire anche in che modo si sviluppa il processo rivoluzionario. Chi si era illuso di trovarsi davanti a una guerra in campo più o meno aperto, a un movimento di massa capace di sanzionare in tempi brevi una vittoria o una sconfitta, deve ricredersi. La lotta è lunga e le vicende sono alterne. Per questo ricominciamo sempre, proprio perché non abbiamo mai “lasciato”. Chi abbandona oggi non può sperare di ricominciare domani. L’abbandono della lotta segna il dissolvimento della propria identità di compagno. Molto di più in momenti come questo in cui ogni segno di cedimento viene registrato e amplificato dal potere.

Quando da tutte le parti si avanzano dubbi e si prendono distanze, è allora il momento di affermare con la maggiore chiarezza che noi siamo per l’azione rivoluzionaria e che la nostra non è solo una semplice dichiarazione ma anche il segno di una proposta organizzativa in atto.


Londra, 24 luglio 1984

Alfredo M. Bonanno

Pochi passi avanti, molti indietro

È possibile chiamarci fuori?

Nel corso della lotta rivoluzionaria ognuno di noi è portato spesso a conclusioni che appaiono logiche perché dettate dalla cosiddetta evidenza dei fatti.

Sull’ondata dei successi e della crescita di un movimento che studia l’apprendistato dello scontro di classe, siamo portati a concludere che la rivoluzione sociale è alle porte e che tanto vale scendere in strada e darle l’ultima spallata. Sul riflusso di pentimenti e dubbi, di fronte all’aumento della repressione nei riguardi di un movimento che si lecca le ferite, siamo portati a concludere che tutto è finito e che bisogna tirare i remi in barca, chiudersi in casa e pensare alle nostre domestiche faccende.

Tutto ciò è errato, ma è molto naturale. Accade, è accaduto e continuerà ad accadere. Ciò non toglie che qualche riflessione possa tornare utile.

Il problema centrale non è quello dell’errore soggettivo, per cui il singolo diventa il filtro interpretativo dei fatti sociali, mentre le sue paure, a loro volta, si riflettono in una serie di mancati interventi che danno corpo a quello che si chiama riflusso. Questa è solo una piccola parte del quadro generale della situazione. La dimensione complessiva della totalità rivoluzionaria coinvolge il singolo ma lo pone in rapporto contraddittorio con il livello dello scontro, con quella realtà di classe verso cui, bene o male, si dirige. È questa dimensione globale che deve essere considerata, non solo ciò che il singolo pensa di se stesso (del proprio ruolo), e nemmeno ciò che obiettivamente può essere considerato come insieme delle forze in campo. Siamo noi che cerchiamo in tutti i modi di sfuggire a questa concezione più ampia dello scontro di classe, per viverne, a volte male, ma almeno (crediamo) saldamente, quella porzione che ci sta più vicina: la porzione soggettiva.

I fatti sociali hanno una loro struttura, un loro ordine, una loro legalità che può essere decodificata con tutta una serie di analisi e quindi più o meno svelata e descritta. Ma così facendo non si coglie ancora il rapporto reale che esiste tra questo insieme di fatti reali e lo scontro di classe. Perché l’insieme dei fatti possa essere considerato quello che effettivamente è, cioè luogo e contenuto dello scontro di classe, occorre che noi lo identifichiamo come tale, cioè occorre che noi stessi vi entriamo dentro, ci compenetriamo con esso. Finché ci chiamiamo fuori (e vedremo subito quali sono i modi in cui si realizza questo chiamarsi fuori), su quell’insieme di fatti possiamo disegnare una miriade di analisi senza riuscire a vederlo nella sua giusta luce di luogo e contenuto dello scontro sociale o di classe.

La realtà, quindi, non è per il singolo “l’altro mondo”, qualcosa di indipendente che può essere conosciuta solo per descrizione approssimativa: fermandosi a questa barriera del fittizio ci si consegna intatti all’incomprensione. Ma, e qui sta il vero problema, non può essere attinta con un semplice moto dell’animo, con una volontaria decisione; il coinvolgimento non è esclusiva conseguenza di quello che vogliamo noi, è anche, e principalmente, effetto di un determinato livello dello scontro.

Abbiamo pertanto che la totalità rivoluzionaria diventa causa e non effetto della nostra decisione di essere rivoluzionari, mentre, nello stesso tempo, il nostro essere rivoluzionari, nel senso totale, senza fughe o paure, diventa uno degli elementi che caratterizzano la totalità stessa.

Comprendere la propria realtà di classe e la propria funzione all’interno della totalità rivoluzionaria ha il senso dell’impadronirsi, dell’entrare in possesso di qualcosa che prima non si aveva. Che questo qualcosa si chiami coscienza o altro non è qui importante deciderlo, ma è significativo che si sottolinei che non vi può essere impadronimento di qualcosa se non si ha, contemporaneamente, l’abbandono all’altro, la consegna. Volendo tenere tutto per sé non si abbraccia nulla, l’azione del comprendere è contemporanea a quella del dare. Ecco perché la descrizione non è sufficiente, come non è sufficiente l’analisi dei fatti sociali, questi non diventano mai luogo e contenuto dello scontro di classe se non ci coinvolgono, se non siamo noi a dare qualcosa di più di una parte di noi stessi. La totalità rivoluzionaria, infatti, non chiede niente di più e niente di meno che la totalità di noi stessi, a cominciare dalla nostra esistenza quotidiana, ultima spiaggia su cui il nostro io proprietario combatte all’ultimo sangue.

Le fughe sono possibili di fronte alla rivoluzione. Una delle classiche direzioni di fuga è il ripiegamento verso l’evoluzionismo, verso il gradualismo, verso la logica dell’“a poco a poco”. Da questo compromesso al riformismo vero e proprio il passo è breve. Molti compagni si scontrano con la paura del coinvolgimento totale e ripiegano sull’illusione quantitativa, sull’educazionismo. Lo spirito bottegaio alimenta sogni feroci. Nella penombra delle botteghe si tramano distruzioni di mondi. Ma non appena ci si affaccia sulla soglia si aspetta che si sia in migliaia, anzi in milioni, prima di cominciare a fare qualcosa, qualsiasi cosa. Da per se stessa la ricerca del quantitativo non sarebbe un’illusione (l’unione fa la forza, come si sa), ma lo diventa nel momento in cui si trasforma in alibi per chiamarsi fuori dal proprio coinvolgimento, dalla propria situazione, per definirsi “specialista” in educazionismo e per prendere le distanze da tutte quelle pratiche che l’azione rivoluzionaria rende indispensabili.

Un altro tipo di fuga è quello che si realizza col rinchiudersi nel ruolo circoscritto dell’organizzazione specifica clandestina. Anche qui la paura è alla base della scelta. Apparentemente sembrerebbe che questa scelta sia la più coinvolgente possibile, ma non è della persona fisica che qui stiamo parlando, come se fosse possibile dividere una persona in settori o specializzazioni. Il coinvolgimento che la totalità rivoluzionaria richiede non esclude, di certo, la lotta armata, come non esclude, a volte, la clandestinità; ma non trasforma queste forme in istituzioni circoscritte e specialistiche. Tra l’imbracciare un fucile e sparare perché si è convinti che non c’è altro da fare, e il dedicarsi a un’attività di propaganda educazionista perché convinti che non si possa fare altro, dal punto di vista della totalità rivoluzionaria non c’è differenza: siamo di fronte a due fughe verso la “specializzazione”. Il clandestino deve accettare regole, ben precise, imposte dalla situazione dello scontro armato; ma non deve arrivare a interiorizzarle, trasformando queste regole nella totalità del suo mondo e delle sue prospettive. così facendo si accelera, invece di contrastarla, l’azione repressiva dello Stato.

Il superamento delle specializzazioni garantisce quelle caratteristiche del coinvolgimento che rendono produttiva la totalità rivoluzionaria. Al suo interno il singolo vive la propria vita nella pienezza delle forme che la presente situazione rende possibile e, nello stesso tempo, contribuisce a modificare queste forme in una crescita progressiva, personale e oggettiva, che ha tempi suoi e che non può commisurarsi agli ondeggiamenti dei rapporti di forza così come appaiono nelle diverse fasi dello scontro di classe. E quando anche le vicende della repressione dovessero costringere alla momentanea riduzione dell’attacco, all’accentuazione estrema delle cautele di cui è punteggiata ogni fase di difesa; quando anche dovessimo cadere prigionieri del nemico, questa eventualità non potrebbe in alcun modo intaccare quella pienezza di vita che ci consentiva, in momenti di scontro più aperto e di crescita oggettiva del movimento, di sentirci rivoluzionari nel vero senso della parola.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 32, 1980, pp. 14-15]

Chiese, idoli e tabù

Extra ecclesiam nulla salus. “Fuori della Chiesa non c’è salvezza”. Tutto l’anarchismo si compendia in una dura e appassionata critica a questo luogo comune del potere. Da nessuna parte sono arrivate parole altrettanto chiare di denuncia nei confronti di ogni organizzazione (Chiesa, Stato, partito, corporazione) che pretende imporre se stessa agli individui in nome di obiettivi e valori ritenuti superiori e assoluti.

Ma, molto spesso, se la critica è facile sul piano delle astrattezze, diventa difficile quando scende sul terreno della pratica, per essere poi difficilissima sul terreno della pratica quotidiana.

Gli anarchici sono stati molto efficienti e chiari nella loro critica del partito, allargando l’analisi dal partito di stampo fascista fino al partito di stampo leninista, indicando le costanti che legano questa forma organizzativa della politica ben al di là delle illusioni ideologiche.

Una minoranza di anarchici ha anche, abbastanza efficacemente, indicato un ulteriore grado di penetrazione estendendo questa critica non solo al partito (e quindi non solo allo Stato, in alto, e alla famiglia, in basso) ma anche a quelle strutture organizzative rivoluzionarie che si presentano come negazioni del partito (stiamo parlando delle diverse soluzioni che l’anarchismo ha scoperto per strutturarsi come organizzazione politica). Si è così trovato che non basta l’etichetta per essere esenti dal cancro della “Chiesa”, e che il “partito” può ricostruirsi sotto forme nascoste e striscianti, presentare pericoli altrettanto consistenti e causare danni altrettanto considerevoli.

Quello che non mi pare sia stato fatto, almeno con quella chiarezza che argomenti del genere rendono indispensabile, è un ulteriore approfondimento di questa critica. La “Chiesa” può ricostituirsi al di là del rifiuto del partito, appunto, in forme organizzative che presentano gli stessi schemi sia pure sotto aspetti più simpatici; ma può anche ricostituirsi al di là della critica a queste stesse forme organizzative; può cioè ricostituirsi sul piano delle idee, dei luoghi comuni, delle costanti che accettiamo per definitive in ogni singolo aspetto della vita di tutti i giorni. Ecco quindi che mi pare urgente portare la riflessione critica anche all’interno di quei “tabernacoli” che di regola non vengono violati se non con grave scandalo. L’insieme di questi tabù inviolabili, di questi “idola” che restano immobili da secoli davanti ai nostri occhi, pur così critici, l’insieme di questi ostacoli sul cammino della liberazione, costituisce una ulteriore “Chiesa”, la “Chiesa” definitiva e più insidiosa, la “chiesa” da cui è per tutti difficile uscire se non con fatica e dolore.

Non solo, ma quanto più “radicali” siamo stati nel portare alle estreme conseguenze la critica di ogni “mamma” organizzativa (partito, strutture istituzionali camuffate in vario modo, ecc.), tanto più siamo legati a questa “Chiesa” ultima, tanto più teniamo a garantire il senso di protezione e di sicurezza che ci viene da questi “tabernacoli” che difendiamo a costo della stessa libertà. Il nostro atavico sentimento di schiavi si risveglia e ci induce a dipingere di rosa quelle ultime catene che proprio perché più sottili sono più subdole di quelle grosse catene che attiravano tanto facilmente la nostra attenzione critica.

Prima di fare un elenco, necessariamente approssimativo, di questi “idola”, dobbiamo dire un’ultima cosa: essi si presentano tutti indistintamente sotto l’aspetto allettante di valori, e, considerati per quel che potrebbero essere – una volta liberati dalla “sacralità” che li avvolge –, costituiscono effettivamente un programma di valorizzazione, solo che proprio perché diventati “sacri”, hanno contribuito a cristallizzare quel programma riducendolo al solo aspetto fideistico e acritico. La distruzione della Chiesa delle idee, di quest’ultimo, subdolo, baluardo del potere, non riguarda pertanto la messa in causa del programma di valorizzazione che attraverso questi punti di riferimento si può realizzare, bensì riguarda l’eliminazione del deposito religioso che regge la “Chiesa delle idee”, molto più forte della Chiesa storica.

Il primo tabù che possiamo considerare come elemento coordinatore di questa struttura chiesastica delle idee, è dato dal concetto di dialogo, con tutto l’ampio corredo di concetti collaterali e dipendenti: democrazia, permissività, progresso, riforma, ecc. Certo potrà sembrare strano che si consideri ancora vivo e vegeto questo tabù che tutti noi avevamo dato per defunto – ridendoci sopra – tanti anni fa. Eppure credo che questa preoccupazione non sia infondata. Certo, abbiamo sepolto la forma ufficiale del “dialogo”, quella che avevamo mutuata da una certa “Chiesa” più intelligente che voleva camuffare le proprie incapacità di potere con aperture e discussioni; ma in ognuno di noi non è morta del tutto la “fede” nel dialogo, la “speranza” che possiamo convincere con le chiacchiere chi non si lascia convincere, e la “carità” che riteniamo di dovere verso i nostri nemici. Queste tre “virtù” assillano la nostra concezione paleolitica della liberazione. Parliamo spesso, con una certa aria che non vorrebbe dare importanza a quello che diciamo, rimandando a “fatti” che da soli dovrebbero mettere a tacere le nostre chiacchiere, ma, in fondo in fondo, crediamo alle nostre parole, il loro suono ci affascina ancora, la loro sacralizzazione verbale, nell’antico senso del “verbo” cristiano, non smette di occupare le nostre fantasie. E allora sogniamo possibili discorsi definitivi, a tutti comprensibili perché chiari, ci illudiamo nella fabbrica di strumenti di informazione e controinformazione, perché da questi dovrebbe nascere chissà cosa, come Minerva dalla testa di Giove. E strilliamo, altamente strilliamo, quando il potere ci minaccia o ci tappa la bocca, o viene meno alle sue regole da borsaiolo riguardanti la libera circolazione del pensiero. Spesso, quando l’urgenza dello scontro ci fa essenzializzare il discorso, quando dal vano sperare si passa al disincantato operare, allora quasi abbiamo paura di quello che stiamo per dire, proprio perché questo dire si avvicina drammaticamente al fare: abbiamo quasi una reazione di paura davanti al pericolo che la “Chiesa delle idee” si possa frantumare sia pure per poco. L’equivoco educazionista si nasconde anche dietro alcune di quelle azioni che, apparentemente, risultano più estreme, anche dietro la lotta armata e quell’insieme di aspettative che, più o meno legittimamente, essa lascia in piedi: ucciderne alcuni per educarne molti. Strano modo davvero di ritrovare le illusioni quantitative del riformismo partitico. Non mi pare si sia riflettuto abbastanza sul fatto che il senso dell’azione (anche armata) deve ricercarsi attraverso la funzione che essa assolve all’interno dello scontro di classe e non nel rapporto diretto che è costretta a fissare nei termini spettacolari imposti dal potere. Per cui, inseguendo quest’ultimo filone di comunicabilità, specie nei momenti in cui l’altro, quello che passa attraverso la reale corrispondenza con le lotte sociali in corso, è affievolito o troncato; si ricostituisce l’illusione tipicamente chiesastica del significato che ci viene dall’esterno e che ci significa (noi e le nostre azioni) e su non cui abbiamo nulla da dire se non ripetere all’infinito una lezione appresa a memoria. Illusione è quella che ci porta a credere nel potere di convincimento delle parole, ed illusione è quella che ci porta a credere nell’identico potere di convincimento della pistola. Le due cose, come qualsiasi altro mezzo, sono mute quando non parlano attraverso il senso più ampio e rivoluzionario che dà loro il livello dello scontro di classe in atto.

Il secondo tabù costituisce l’elemento strumentale della “Chiesa delle idee” ed è dato dal concetto di ragione, da cui derivano i collaterali concetti di razionale, ragionevole, logico, e così via. Noi ci poniamo come rivoluzionari distruttori del mondo della morte e del potere, ma voghamo che questo progetto di distruzione sia conseguente, incanalato, ragionevole, comprensibile; non ci accorgiamo, spesso, che la chiave della sua comprensibilità ci viene fornita proprio da tutto quello che intendiamo distruggere, per cui man mano che questa distruzione avanza, cresce in noi il panico perché non riusciamo più a capire quello che succede. I fatti sopravanzano di gran lunga ogni nostra previsione, anche la più estrema, con l’aggravante che noi siamo la nostra stessa previsione, per cui ci facciamo sempre cogliere alla sprovvista in quanto nessuno può pensare il non pensabile e l’avvenire è sempre qualcosa che non poteva essere pensato, quindi qualcosa di diverso dalle esperienze e dalle regole della logica e della ragione. Quando la rivoluzione chiede “tutto e subito”, travolgendo al suo passaggio ogni progetto “ragionevole” di noi tutti, benpensanti dell’estrema decisione, restiamo spiazzati, affrettandoci subito ad adeguarci e dimenticando che il nostro ruolo dovrebbe essere proprio quello di precorrere i tempi della distruzione, di accelerarla e non di restare sbalorditi davanti alle sue manifestazioni. In fondo siamo tutti accaniti collezionisti del quantitativo: vogliamo continuare a misurare quello che facciamo, mettere ordine nelle nostre cose, nella nostra “proprietà”. All’interno del piccolo (o grande) parco delle nostre illusioni e delle nostre speranze, siamo i ragionieri di noi stessi. Guai poi quando il giacobino che sonnecchia in ognuno di noi pretende presentare il conto alla storia erigendo tribunali e patiboli. La strada critica per mettere in luce gli aspetti deleteri di questi “tabernacoli” è irta di ostacoli. Sarebbe infatti un banale passaggio da un “tabernacolo” a un altro il gettare alle ortiche la “ragione” per bruciare incenso sull’altare della “non ragione”. Adorare un dio diverso non è mai stata dichiarazione di ateismo. La critica ha una funzione di discernimento, di separazione, non di capovolgimento della frittata. Una corretta critica del luogo comune che si riassume attorno al concetto di “ragione”, se passa ancora una volta attraverso una rilettura dell’irrazionalismo non è per questo ebete accettazione di ogni idiozia spontaneista con la quale si baloccano, come fanciulli, tanti compagni che si professano individualisti.

Il terzo “tabù” fornisce l’elemento fideistico alla “Chiesa delle idee”. Esso è costituito dal concetto di verità con i correlati concetti di vero, falso, esatto, verificabile, giusto, buono e così via. Un piccolo avvicinamento da parte mia a questo “tabernacolo” ha suscitato tempo fa un vero e proprio vespaio con uno sfoggio tale di incomprensioni da fare paura. Luoghi comuni come: “la verità è rivoluzionaria” non dicono nulla sulla verità come pure sulla rivoluzione. Costituiscono un elemento delle litanie della religiosità di cui si discute. La verità, per certi aspetti, è una qualità del giudizio, quindi una proprietà della volontà. Noi pensiamo, diciamo o facciamo, e tutto ciò può essere più o meno adeguato alla realtà. Più questo adeguamento è vicino alla realtà, più quello che pensiamo, diciamo o facciamo è vero. Ogni altra interpretazione del concetto di verità non costituisce che un intralcio nel suo uso strumentale (cioè di conoscenza e di modificazione della realtà). Ma spesso noi siamo tanto convinti di quello che diciamo o facciamo o pensiamo che lo spacciamo senz’altro per la “verità”. In quel momento, spegnendo ogni luce critica, accendiamo un cero sull’altare della nostra “Chiesa delle idee”.

L’elenco potrebbe continuare ma qui ho voluto solo gettare una piccola pietra in uno stagno che potrebbe nascondere acque più sporche di quanto s’immagini.

Basta riflettere sul fatto che sviluppando una critica corretta su questa che chiamo “Chiesa delle idee” si può in modo diverso e più efficacemente (almeno mi pare), affrontare una critica del partito e dell’organizzazione. Viene allora spontaneo chiedersi con angoscia: quanti di questi “tabernacoli” ci portiamo dietro nelle nostre analisi e nelle nostre azioni, come pure nella nostra vita di tutti i giorni?

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 54, 1981, pp. 14-15]

Irrazionalità e rivoluzione

Esiste una piccola critica sotterranea contro la ragione. Non quella accademica, visibile in trattati e manuali, ma quella spicciola, che ognuno di noi porta nel cuore. È di questa che vorrei parlare e del suo rapporto con la rivoluzione.

C’è da dire comunque subito che non è un discorso facile. Il mito della ragione che fonda il comportamento razionale dell’uomo è duro a morire. Molti compagni hanno introiettato comportamenti rigidi, mentalità tipicamente operaiste e borghesi, scale di valori costruite appositamente nei laboratori etici della filosofia per spegnere gli istinti di rivolta e distruzione che sono a fondamento della liberazione possibile.

Spesso si confonde critica della ragione con mitologia irrazionale. Si incute paura agli altri dicendo che bisogna, a qualsiasi costo, tenere desta la ragione perché il suo sonno genera i mostri. Si tratteggiano i lati irrazionali del fascismo e del nazismo, dimostrando così che solo attraverso la razionalità si può costruire un mondo migliore e non abitato da quegli esseri spaventosi che abbiamo visto in circolazione in un non lontano passato.

Tutto ciò è senz’altro vero, ma occorre tenere presente alcune cose. Primo, l’irrazionalismo di fondo dei fascisti e dei nazisti era un elemento mitologico espresso ad arte e destinato essenzialmente a imbrogliare le masse. La loro azione era estremamente razionale e conseguente. I metodi impiegati per la conquista del potere, per fissare gli accordi e i reciproci aiuti con la borghesia dominante, erano metodi perfettamente adeguati alle circostanze e non si possono in alcun modo definire privi di razionalismo politico. La loro azione rackettistica potrà criticarsi in molti modi ma non certo sul piano della mancanza di consequenzialità. È stata la critica marxista – per altro ancora dominante sul mercato intellettuale – a dirci che il fascismo e il nazismo furono movimenti irrazionali e causarono i guai che sappiamo proprio perché riuscirono ad addormentare la ragione svegliando gli orribili mostri del mito e del sogno. Loro (i marxisti), al contrario, fedeli assertori della ragione, hanno costruito, col socialismo reale, un mondo perfetto in cui non ci sono mostri. Ognuno vede che questa tesi non è sostenibile. I mostri dell’oppressione si svegliano quando si spegne lo stimolo alla lotta. E questo istinto o, se si preferisce, questo bisogno essenziale, si può spegnere solo con un processo perfettamente razionalizzato di dominio (o, comunque, con un processo che tende a razionalizzarsi al più alto grado possibile), anche se poi risulta avvolto in un involucro irrazionale che, per il fascismo e il nazismo, erano le mitologie razziste e per il socialismo reale sono le mitologie internazionaliste.

Il fatto è che non si può fissare un limite esatto tra razionalità e irrazionalità, se non nel comportamento di gruppi politici diretti alla conquista del potere. Questi elaborano, di regola, un progetto che è un misto delle due cose, e dalla migliore o peggiore adeguatezza alla situazione dello scontro di classe si vede che si tratta di un miscuglio idoneo o meno ai loro scopi.

Ma questo modo d’intendere il termine “ragione” non ci riguarda. Noi non vogliamo essere “ragionevoli” e quindi “razionali” in questo modo. Per questo motivo non ascoltiamo le voci pacate e riflessive di chi ci parla di attendere, di metterci d’accordo, di riflettere, di misurare bene, di approssimarci a poco a poco a quello che vogliamo. Per questo motivo abbiamo sempre parlato di “tutto e subito”.

Prendete un testo di qualsiasi socialdemocratico, uomo politico o scienziato, anzi, per meglio capire come sta la realtà, prendete un testo di uno che si occupa di metodologia del ragionamento, di uno che si occupa di scienza. Osservate il suo cauto atteggiamento. I suggerimenti che vi dà in merito a quello che dovete fare per procedere “a poco a poco”, facendo errori e correggendoli, nella strada del miglioramento e delle piccole modificazioni progressive della vostra situazione attuale. Osservate con quanta cura egli non vi dice nulla in merito a cosa veramente fare per scuotere, subito, l’oppressione che vi impedisce di respirare. La sua fede nel progresso è veramente ammirevole. Le cose si aggiustano perché esistono di già nel presente gli elementi della loro futura sistemazione. Occorre fare in modo che chi detiene il potere oggi si accorga di agire male e si corregga, dia più spazio a coloro che vengono oppressi: migliori leggi, migliori salari, fabbriche più pulite, produzioni meno nocive, ambienti vivibili, natura meno contaminata, prodotti migliori dal punto di vista qualitativo, più tempo libero, vacanze periodiche in posti meravigliosi, un avvenire per i propri figli, carceri più razionali, manicomi aperti, ospedali meno improvvisati. Tutto questo si può ottenere. Occorre però impegnarsi a volerlo. Non pretendere troppo da chi gestisce risorse limitate che spesso prendono strade traverse e si indirizzano su speculazioni sbagliate. Ma si tratta di errori di percorso. Il progresso marcia ineluttabile verso un avvenire migliore. Guardate la differenza che passa tra la nostra vita oggi e quella dei nostri padri e dei nostri nonni. Va bene che siamo seduti su un cumulo enorme di bombe atomiche sufficiente a far saltare per aria il pianeta non una ma almeno cinque volte. Ma si tratta di un male necessario, per controbattere le altrui irrazionalità e pazzie. Ancora non si è sicuri di potere evitare una guerra mondiale, per questo motivo facciamo delle piccole guerre, in continuazione, proprio allo scopo di non farne una decisiva, una volta per tutte. Non è ragionevole tutto ciò? Non è forse molto ragionevole?

Lo scopo a cui è stata asservita la ragione è quello di separare l’uomo dal mondo in cui vive, fornendo giustificazioni al fatto che quest’ultimo gli diventa ogni giorno più estraneo e nemico. E le giustificazioni sono tutte fondate sul fatto che la situazione è transitoria e che si sta facendo quanto possibile per rimediare. Più spesso ancora la ragione individua capri espiatori contro cui indirizzarsi per spiegare meglio perché le cose vanno male. Ieri erano le streghe e le minoranze religiose. In un recente passato gli Ebrei, i neri, gli zingari. Oggi sono i terroristi. Domani si troveranno altri espedienti. Nel frattempo le cose continueranno ad andare male per i molti e benissimo per i pochi privilegiati. Quella stessa ragione che ieri ci aveva aiutato a scoprire i meccanismi irrazionali della religione, denunciandone, nel periodo illuminista, il fondamento repressivo, poi è andata ancora avanti, finché è diventata essa stessa, in quanto ragione, strumento repressivo. Nella sua passata spiegazione del mondo, quando si alzava impavida a sfidare lo strapotere della Chiesa, la ragione divenne un intermediario tra l’uomo – troppo pauroso e quindi ciecamente nelle mani di un pugno di intellettuali – e il potere. Poi questa funzione positiva si è andata cristallizzando, fino a diventare la chiave di volta dell’attuale struttura di potere che non si basa più sul terrore ma sul consenso.

Occorre però intendersi bene su questo problema del rapporto tra rivoluzione e irrazionalità. Si tratta di un problema che deve essere impostato su nuove basi e quindi risente moltissimo della nostra capacità di eliminare, dentro di noi, i soliti pregiudizi di cui molto spesso nemmeno ci rendiamo conto. Per dare ascolto alle ragioni del cuore occorre sentire bene queste ragioni, che non sono sempre in contrasto con quella ragione che si crede superiore e che – di regola – viene sollecitata a dominare il mondo della conoscenza. Spesso molti atteggiamenti degli altri ci feriscono e quindi siamo portati a non comprenderli. Ci chiudiamo nella nostra sensibilità offesa. Ma comprendere ha sempre il significato di “prendere-insieme”. Se ci chiudiamo, affidandoci all’ottica esclusiva della ragione ortodossa, non possiamo comprendere, possiamo solo “prendere” o “lasciare”. Questo significa scendere nelle azioni degli altri, e procedere verso una relazione che può costarci molto. In termini di certezze, di sicurezze, di luoghi comuni che per noi sono intoccabili e su cui giuriamo continuamente senza accorgercene. Questa non è una cantata al pluralismo. È, al contrario, un avviso contro l’unidimensionalità del nostro modo di essere. Gli altri, e quindi il mondo esterno, sono più spesso, per noi, una serie di categorie. Non siamo in grado di attingere direttamente alla realtà se non usciamo da questo campo di concentramento categoriale. Col ragionamento non possiamo farlo. Qualcuno cerca di riuscirci con il ricorso a stimoli esterni. Ma è simile a un cieco che cammina col bastone. Tasta il terreno, il muro, l’orlo del fossato, ma non li vede. Questi stimoli esterni sono anch’essi categorie e quindi dipendenze. Certi prodotti possono farci “sentire” un poco più oltre. Ma è la nostra percezione che si allarga ed invade la realtà degli altri, la realtà nel suo insieme. In questo modo la storniamo a nostro vantaggio. Ne facciamo quello che vogliamo. Ci è gradita se era gradevole la situazione di ottusità precedente, ci sconvolge se quella situazione non era tollerabile. Proiettiamo in avanti la nostra ombra, non vediamo quello che c’è avanti. L’obiezione del viaggio inverso, dentro il proprio stesso essere, non ha motivo di esistere. Il problema è lo stesso, forse anche peggio. Anche in quella direzione – che poi non è un’altra direzione ma è sempre la stessa, semplicemente su piani diversi – non sentiamo altro che l’acutizzazione di noi stessi, non vediamo altro che quello che c’era già. È triste pensare con quale ingenua fede molti compagni si affidano a queste incredibili situazioni. A parte tutti i discorsi di auto-condizionamento, c’è il fatto indiscutibile che non superiamo il momento della ragione. Questo cane da guardia presiede a tutte le operazioni relative: misurazioni, soppesamenti, considerazioni qualitative, aspetti estetici, istanze erotiche. Tutto ciò uccide quelle profonde ragioni del cuore che sono così delicate e timide e non possono certo competere con la dilagante schematicità della ragione razionalizzante.

È una situazione paradossale. Sentiamo dentro di noi l’urgenza di capire, di sentire, di approfondire, di sentirci diversi. Nello stesso tempo siamo sempre giudici arcigni di quello che succede fuori di noi. Impieghiamo sempre le stesse categorie. Se, a esempio, un odore non ci piace, non ci chiediamo perché. Lo releghiamo nel limbo dei cattivi odori e andiamo avanti. La nostra ragione ordinatrice lo inserisce in una categoria. Da quel momento siamo condizionati a rifiutarlo. Tra noi e questa esperienza costruiamo una barriera e andiamo avanti. Ma dove andiamo? Verso altre barriere e altre categorie. Se un gesto lo consideriamo aggressivo lo inseriamo immediatamente in una categoria negativa, quella dell’oppressione, e lo rifiutiamo. Nessuno può avere il diritto di esercitare una violenza su di noi. La ragione ordinatrice ci ammonisce severa su questo punto. Ma nello stesso tempo ci dice che certe violenze sono tollerabili perché necessarie e ne impediscono altre peggiori. Certo noi rifiutiamo questo corollario, appellandoci a quell’altro aspetto della stessa ragione che ci denuncia la possibilità dell’errore dappertutto, anche nelle formulazioni della ragione stessa. E allora attendiamo che si giunga alfine a una formulazione migliore di questo problema della violenza che siamo costretti a subire, e, nello stesso tempo, consideriamo con un occhio diverso quella parte di violenza che la ragione ci dice necessaria, almeno allo stato attuale delle cose. Poi un giorno scopriamo anche in noi un gesto aggressivo, anche verso coloro che amiamo; le condizioni reali dei nostri rapporti più essenziali e intimi sono, spesso, aggressive. E poi scopriamo anche che qualche volta amiamo questa aggressività. Scopriamo che dal profondo del nostro essere viene fuori qualcosa di cui siamo profondamente affascinati e gelosi, una forma di aggressività. E la stessa cosa scopriamo negli altri. E la stessa scoperta ci porta qualche volta a sentire un senso di piacere, di improvviso consapevole gradimento di fronte all’aggressività dell’altro. Davanti a tutto ciò non possiamo non provare un senso di panico. Non siamo preparati a queste esperienze. La montagna categoriale precipita su di noi. Schiaccia col suo peso queste sensazioni oscure, ci rassicura a disastro avvenuto, ci dice che non era niente, ci canta una ninna-nanna, ci addormenta con le parole della ragione, ci racconta che dentro ognuno di noi c’è un uomo cattivo che bisogna mettere da parte. E torniamo ad addormentarci tranquilli.

Il fatto è che le ragioni del cuore sono altamente possessive. Intendono impadronirsi dell’altro, della realtà tutta. Non per tesaurizzarla. Il loro metro di valutazione è l’assoluto dispendio, il dilagare della prodigalità. L’egoismo è stato qualche volta rintracciato e anche rivalutato dall’esperienza individualista, ma sempre con il procedimento della ragione ordinatrice. Stirner è un monumento in questo senso e rappresenta il segno del confine di un territorio oltre il quale comincia il dominio della morte. Ma le ragioni del cuore non si danno pensiero dei procedimenti strettamente logici del discepolo di Hegel. Intendono impadronirsi del mondo. Tutto intero. Ora e subito.

Ecco perché la rivoluzione non sarà mai tale se non sarà, per prima cosa, la mia rivoluzione.

La ragione ordinatrice trasforma in merce l’oggetto esterno. Non può fare diversamente. Lo statuto della comprensione razionale è esteriorità e uniformità. Le categorie sono anch’esse merce, ma sono anche lo strumento con cui ci orientiamo nel mondo delle merci. Le ragioni del cuore stravolgono invece lo statuto dell’oggetto. Non lo blandiscono o lo esaltano, lo scuotono dalle fondamenta. Proprio per questo non lo ordinano, non lo classificano e quindi non lo trasformano in merce. Alla prima di queste dimensioni appartiene la proprietà, alla seconda il possesso.

Una cosa non è mai veramente mia se io non la posseggo. Se ne sono proprietario non possiederò quella cosa ma semplicemente il suo valore di scambio. Cioè, non mi interessa la cosa per quello che essa significa per me, mi interessa invece il valore commerciale relativo, per quello che può significare la sua vendita.

Lo stesso vale per le persone. Se io non posseggo veramente una persona, questa per me ha un solo valore, il suo significato di scambio. Molti rapporti che abbiamo non hanno a loro fondamento il possesso reciproco, ma l’aggressione e la reciproca sfiducia. Ognuno di noi cerca di ottenere dall’altro quanto più è possibile, perché solo in questo ottenere, cioè nel rapporto di scambio, sta il significato di quell’altro e del rapporto che ci lega a lui. Il possesso in questo caso non esiste. Non mi si possiede, si accumula reciprocamente una serie di rapporti, ci si ritiene proprietari di questi rapporti. Si fissano così regole di comportamento, si impongono categorie, limiti, autonomie personali, diffidenze e circospezioni.

Il possesso è invece abbandono di sé nell’altro, quindi è penetrazione totale, complessiva, senza limiti e senza paure. Ma questo abbandono significa modellazione di sé nell’altro, dispiegamento completo della propria personalità. Significa anche sentire che il territorio dell’altro si apre alla propria penetrazione, nel momento stesso in cui ci si sente penetrati. Questo duplice aspetto del possesso non è percepibile attraverso la ragione ordinatrice che tende a separare i due momenti: quello della penetrazione e quello dell’essere penetrato. In questo modo la ragione dominante separa il soggetto dall’oggetto. A seconda della propria posizione di solitudine ci si sente penetratori o penetrati, mai le due cose nello stesso tempo. Da ciò deriva la confusione riguardo il concetto stesso di possesso, come pure l’altra confusione, quella di attribuire alle incomprensioni altrui il proprio sentirsi ridotto a oggetto.

È la paura della totalità che fa arretrare davanti all’idea di possesso. Preferiamo retrocedere sul possesso separato. Io possiedo te e tu – in modo diverso e per me incomprensibile e nemico – possiedi me. Questo procedimento è più facile, più a portata di mano, perché è codificato dalle regole della ragione dominante. Poi, non potendo mettere a tacere per sempre le spinte delle ragioni del cuore, soffriamo come cani del nostro sentirci posseduti e del contemporaneo desiderio di possesso.

Allo stesso modo succede per tutte le cose, le persone, le idee, i rapporti. Spesso parliamo di “passione”, e la consideriamo cieca e, frequentemente, transitoria. Diciamo allora che la passione ci trascina e ci impedisce di ragionare. È un modo come un altro di dare corpo alla spinta delle ragioni del cuore.

Allora ci sentiamo male, entriamo in crisi, retrocediamo nello scetticismo o avanziamo a tentoni in sicurezze esterne nel disperato tentativo di mettere ordine in noi stessi e in quello in cui crediamo. L’individualismo scettico è un modo di mettere le mani avanti e i piedi indietro. Di difendere la propria incolumità davanti al pericolo del coinvolgimento. Lo stesso per l’oggettivismo partitico. Ci mettiamo anima e corpo nelle braccia del partito. Sentiamo la necessità che la “mamma” organizzazione faccia sentire il suo affetto, ci protegga.

In fondo abbiamo paura della rivoluzione. È proprio lei che apre le ragioni del cuore e sovverte la ragione dominante. Distrugge il tiranno che ci sta davanti, nemico odiato da sempre, ma distrugge anche le sicurezze che sono in noi. E di questo abbiamo paura. Ci affidiamo allora ai cosiddetti passaggi dolci. Costruiamo strumenti che consideriamo come possibilità di avvicinamento alla rivoluzione: organizzazioni, gruppi, concezioni, azioni, idee. Ma in fondo all’animo nostro, quando sentiamo battere più forte del solito le ragioni del cuore, non sappiamo cosa realmente potremmo fare nel corso e dopo la rivoluzione.

In fondo siamo uomini e donne dell’al di qua. Lo sconvolgimento totale di ogni regola ci fa paura. Possiamo teorizzarlo, farcene sostenitori. Diventare critici feroci di chi intende difendere lo stato delle cose com’è oggi. Ma dentro di noi abbiamo paura.

Ce ne accorgiamo in una carezza, in un gesto, in un improvviso scoppio di gioia, in un sogno. Quando tutte queste cose ci giungono dall’esterno inaspettate, fuori della logica che l’ortodossia impone all’attesa, ci sconvolgono. Noi abbiamo bisogno di luoghi comuni, di ripetitività, di addomesticamento. Poi, dopo, possiamo anche fare la critica di tutto ciò, ma prima dobbiamo sentirci sicuri, su di un terreno conosciuto, amico. In fondo siamo abitudinari e casalinghi. Per questo, in fondo, abbiamo paura della rivoluzione.

 


[Introduzione a Brinton / Comune Zamorana / Carruba / Carroll, Irrazionalità e rivoluzione, Catania 1983, pp. 5-14]

Chi ha paura della rivoluzione?

Che la rivoluzione, una volta realizzata, costituisca, almeno nella sua fase iniziale e dirompente, l’occasione di un dilagante fenomeno distruttivo di ogni ordine costituito sullo sfruttamento, è cosa pacifica e nessun anarchico, mi pare, ha mai trovato nulla da obiettare. Che ad avere paura di questo momento distruttivo, in cui emergono incredibili forze nella massa degli oppressi, siano coloro che traggono beneficio dall’oppressione, è anche pacifico, essendo questi ultimi coloro che sono travolti dal furore della violenza risanatrice. Eppure, se ben si considerano alcune reazioni improvvise che, qua e là trapelano nei discorsi di alcuni compagni, una qualche paura, o, per essere meno drastici, un qualche senso di incertezza e di panico lo avvertiamo in molti.

Comunque, senza volere dividere gli anarchici in due campi: quelli che soffrono della sindrome della rivoluzione realizzata e quelli che ne sono esenti, diciamo che tutti, chi più e chi meno, abbiamo realmente paura della rivoluzione come fatto possibile, che può accadere domani, improvvisamente e che, nel suo esplodere, può trovarci impreparati e sbigottiti.

E la funzione della minoranza anarchica?

Molti compagni sono fortemente sospettosi riguardo i compiti e le possibilità di una minoranza anarchica di fronte allo scontro sociale. Grosso modo questi sospetti derivano da una malcomprensione del concetto stesso di minoranza. Questi compagni s’immaginano l’azione rivoluzionaria anarchica come un “seme sotto la neve”, un lento depositarsi di concetti, comportamenti, atti pedagogici, esempi illustri, analisi chiarificatrici; da cui emergerà, poi, di fronte al contemporaneo evolversi dei rapporti sociali, economici, politici, ecc., la condizione ideale della rivoluzione. Ecco: questo modo di vedere le cose mi sembra sbagliato.

La minoranza anarchica deve agire in ogni modo per realizzare quelle condizioni che portano alla rivoluzione. Deve agire “in ogni modo”, cioè non soltanto limitandosi alla chiarificazione analitica dei problemi sociali, economici, politici, ecc., ma anche attaccando e, possibilmente, distruggendo, sia pure su obiettivi parziali, gli oppressori di ogni risma.

Sul piano insurrezionale, quindi sul piano della scelta di obiettivi settoriali da isolare e distruggere, pur nella momentanea inerzia della grande maggioranza degli sfruttati, la minoranza anarchica è agente, quindi, proprio perché tale, deve darsi quegli strumenti minimi indispensabili – organizzativi e operativi – che consentono di realizzare in concreto questi obiettivi settoriali, in modo da evitare che essi restino puro velleitarismo spontaneista. Se questo equivoco cade, come non c’è ragione che non cada, mi pare di già avviato a soluzione il problema del “chi ha paura della rivoluzione?”; non essendo pensabile che chi ha lavorato per tempo alla realizzazione di attacchi parziali e limitati si lasci travolgere da un improvviso panico davanti alla generalizzazione del suo minuscolo modello operativo.

Ma restano altre obiezioni. In effetti, dopo tanti secoli di oppressione e tanti decenni di attacchi specifici contro il nostro movimento, molto spesso preso di mira come referente privilegiato dagli oppressori di turno, noi anarchici ci siamo quasi “innamorati” della sconfitta. Non sono certo, ma mi pare che in molti di noi lo spirito del martirio prevalga su quello del vincitore. L’aureola del santo che si sacrifica, isolato e bellissimo, per le plebi incoscienti, inconsapevoli e irriconoscenti, è troppo splendente di luce per non preferirsi ai problemi concreti e niente affatto simpatici di chi si trova davanti a una insurrezione vittoriosa e deve fare i conti con le speranze millenariste della gente. Per non parlare della colossale difficoltà dei problemi di chi si trova davanti a una rivoluzione vittoriosa. Sono problemi di natura organizzativa, economica, militare che, quasi quasi, fanno preferire il magnifico sacrificio isolato di chi si erge vendicatore al di sopra della massa. Eppure, se non vogliamo scomparire realmente nelle pagine del folclore storico, dobbiamo spezzare l’iconografia che ci vuole perdenti, ma spezzarla anche dentro i nostri cuori e non solo nei nostri ragionamenti. In caso contrario tutto quello che faremo, anche le azioni insurrezionali cui parteciperemo, saranno contrassegnate non con la bandiera nera delle rivendicazioni giuste degli sfruttati, ma con quella bianca della sconfitta e della resa a priori. E il nostro sacrificio, se potrà esaudire il bisogno intimo di sacrificarci per un ideale, non incontrerà di certo l’approvazione degli oppressi e degli sfruttati, che di sacrifici ne hanno già fatti fin troppi e che non amano molto coloro che insistono nel sacrificarsi anche quando la vittoria è a portata di mano.

Bando quindi ai discorsi che sostengono che la forza di una azione rivoluzionaria si calcola dal numero dei morti e dei compagni prigionieri. A mio avviso, fino a prova contraria, si calcola dal numero dei morti del nemico, dal quantitativo di strumenti di oppressione distrutti e dal numero di possibilità concrete realizzate nella prospettiva di fare arrivare al loro naturale sbocco rivoluzionario le singole azioni isolate. Ogni altra valutazione è non solo negativa, ma è il segno indiscutibile di un residuo di innamoramento della morte.

E ancora. Il narcisismo della perfezione attira molti di noi. Il nostro modello non ammette discussioni, siamo quelli della purezza e dell’isolamento dorato. All’interno della torre d’avorio delle nostre idee non permettiamo discussioni – né tanto meno concordia temporanea di azioni e di fatti – respingendo ogni concessione alla realtà dello scontro di classe. In questo modo, nel migliore dei casi, sembriamo profeti isolati di un mondo migliore che riassume i desideri degli oppressi, mentre in realtà siamo noi stessi i principali imbalsamatori del nostro ideale. Scendendo dall’empireo delle costruzioni ideali alla realtà dello scontro siamo costretti ad abbandonare il nostro narcisismo, ma non per questo – come alcuni temono – corriamo il rischio di abbandonare il nostro motto di lotta che deve essere: “tutto e subito”. Qui si nasconde una apparente difficoltà. Alcuni compagni pensano che affrontare problemi concreti: organizzativi, militari, economici, strutturali, ecc., faccia scadere il nostro sforzo dal piano sociale a quello politico, impedendoci di proporre il nostro programma del “tutto e subito”, in quanto verremmo ad abbassarci al livello dei programmi dei “riformisti” camuffati da rivoluzionari. Tutto ciò è errato. La lotta su obiettivi precisi, se non vuole essere velleitaria e meramente ideologica, deve essere condotta sempre su obiettivi parziali, adeguando i nostri mezzi (quelli della minoranza rivoluzionaria) agli scopi (quelli della grande maggioranza degli sfruttati). Ma nella sua parzialità la nostra lotta contiene il segno della totalità rivoluzionaria in quanto non si presenta come finalizzata esclusivamente al raggiungimento dell’obiettivo parziale (per quanto questo obiettivo sia quello che la rende reale e realizzabile), ma va oltre, verso ulteriori obiettivi parziali; perché dal continuo realizzarsi degli obiettivi parziali emerga il disegno realizzativo della totalità rivoluzionaria del “tutto e subito”.

Diventano logici e accettabili, in questa prospettiva, i progetti rivoluzionari parziali che esaminano e criticano le forme organizzative realizzabili dalla minoranza, fissando i rapporti possibili con le strutture all’interno delle quali la grande massa degli sfruttati continua il suo consensuale adeguamento al capitalismo. Ora, se questi rapporti con le strutture del potere devono essere di scontro aperto e totale, non per questo devono essere racchiusi all’interno di un vuoto verbalismo ideologico. Non basta dire che siamo contro lo Stato, perché tanto nel più ci sta anche il meno. Occorre dire che essendo contro lo Stato siamo anche contro tutte le forme in cui lo Stato si realizza; quindi siamo contro il governo, la magistratura, la polizia, i padroni, i sindacati, ecc. E non basta dire tutto ciò, occorre fare quanto necessario perché questo nostro “essere contro” si realizzi in attacchi precisi, non solo verso lo “Stato” in generale, che anche qui si potrebbe nascondere l’equivoco dell’insabbiamento della nostra azione (tanto non si sa bene dove trovarlo questo “Stato”, specie quando si ha poca voglia di trovarlo); ma contro tutte le forme sociali che realizzano lo Stato.

Educandoci alla modestia non rinunciamo per questo alla nostra vocazione rivoluzionaria, come non mettiamo in discussione il nostro ideale anarchico. Riconoscendoci parte del più ampio flusso rivoluzionario che la società genera dalle sue viscere sofferenti, non per questo ci accomuniamo ad altre concezioni e ad altre maniere d’azione che non condividiamo e che, domani ed anche subito, saremmo pronti a fronteggiare in armi. Scendendo dal piedistallo del nostro massimalismo ideologico non accettiamo compromessi, affermiamo soltanto che la lotta rivoluzionaria, se non vuole essere vano dibattito di chiacchiere, delittuosa diatriba a spese del sangue degli sfruttati, deve valutare concretamente lo scontro di classe in atto ed inserirsi al suo interno, non starsene in attesa di un segno (che non verrà mai) di unità ideologica della grande maggioranza degli sfruttati.

In funzione di simili scelte la nostra attività diventa allora più circoscritta e più precisa. Abbiamo bisogno di meno discussioni e più fatti concreti. Non ci servono molto le grandi analisi sul perché della vita e sul valore dell’anarchia, mentre urgono le analisi sugli strumenti di cui disponiamo, sulle forze della reazione, sul condizionamento degli sfruttati al consenso, sui bisogni reali di questi ultimi, sugli organismi da costruire per affrontare e superare il momento più delicato dello scontro, sul passaggio dalla fase insurrezionale a quella rivoluzionaria vera e propria.

Ma tutte queste analisi concrete resterebbero lettera morta, ancora una volta chiacchiere camuffate di concretezza, se ognuno di noi, nel più profondo di se stesso, non smettesse di avere paura della rivoluzione, disponendosi a fare quanto è possibile per realizzarla, a livello personale e a livello collettivo.

Solo allora parlare di vittoria assume un senso nuovo e non equivoco, mentre tutte le sensazioni del sacrificio e del martirio si allontanano silenziosamente fino a sparire del tutto.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 35, 1981, pp. 4-5]

La fuga nella fantasia

Servizi segreti

Spesso si fa riferimento al ruolo che i servizi segreti svolgono all’interno dell’organizzazione repressiva dello Stato in un paese come l’Italia. Tracce di questa attività emergono alla luce del sole di tanto in tanto, arrivando fino all’onore del banco degli accusati in tribunale. Altri riferimenti risultano più sfumati: supposizioni, accenni, illazioni. La stampa padronale è spesso imbarazzata nel cercare di assumere l’atteggiamento severo del censore, sposandolo con quello accomodante di chi sa che certe cose non possono andare diversamente. Tra scandali e imbrogli vari, tra azioni riuscite e provocazioni non condotte a termine (di cui, ovviamente, non si hanno indicazioni), tra guerre di corridoio che vedono le lotte dei vari “corpi separati”; non si può dire che i servizi segreti, in quanto organizzazione specifica repressiva militare e “clandestina” dello Stato “democratico” italiano, possano dirsi “efficienti”. Ben più efficienti appaiono corpi meno “clandestini” ma che agiscono in una effettiva clandestinità, senza coprirsi del ridicolo di un segreto di pulcinella che nessuno rispetta perché a tutti appare frutto delle mire egemoniche del gruppo di potere avverso.

La figura del supersbirro poliglotta, capace di sposare il karate alla perfetta conoscenza della più raffinata cucina francese è frutto di una oleografia che ha fatto definitivamente il suo tempo negli anni Sessanta. Ritengo che oggi il servizio segreto italiano non sia da considerarsi – se mai lo è stato – fra i più efficienti del mondo, pur agendo in un paese che possiede una delle polizie meglio attrezzate e finanziate. Come dire che il nemico esiste ed è molto più vicino di quanto non si pensi, ed è il vecchio, comunissimo, visibilissimo, numerosissimo carabiniere; non trascurando l’apporto che le diverse polizie danno al quadro generale della repressione. In questo senso voglio sottolineare che non occorre scomodare la fantapolitica, come il malaccorto libro del pur bravo Sanguinetti (vedi più avanti a p. 59) ha fatto. Non siamo davanti a diabolici 007 che sono dappertutto perché sono bravi e superorganizzati; ma siamo davanti al nostro nemico tradizionale: la polizia al servizio del padrone che è cresciuta, si è moltiplicata, ha acquisito nuove tecniche e mezzi più moderni, ed agisce – pur nei limiti e con le debolezze che sono specifiche della polizia di tutti i tempi – certamente meglio e più spregiudicatamente di quanto non avveniva in passato.

Ritengo che il servizio segreto oggi, specie in un paese come l’Italia, lacerato da ragguardevoli contraddizioni non solo a livello sociale ma anche a livello politico, svolga, più che altro, una funzione di specchietto per le allodole. Agendo in direzioni che sono praticamente le stesse della polizia e dei carabinieri, attira immancabilmente su di sé maggiore attenzione di questi ultimi, i quali, per definizione, dovrebbero dedicarsi a compiti non proprio da “servizio segreto”; ed attirando l’attenzione convoglia in una falsa pista tutti i “contro” servizi segreti che non mancano di trovare spazio in ogni parte del mondo. La lotta tra queste “superspie” da commedia si scatena a livello fittizio, con grande dispendio di energie e con scarsissimi risultati, mentre i veri risultati, quelli sostanziali, sono raggiunti dagli strumenti repressivi tradizionali, che nessuno sospetterebbe impegnati anche in attività che una volta costituivano riserva di caccia degli 007. Possiamo dirci quasi certi che ogni organizzazione di potere oggi, in una situazione come quella italiana, possiede il proprio “servizio segreto”. I partiti lo posseggono, i padroni, le grandi banche, i gruppi di pressione, anche. Scendendo più giù, ogni struttura possiede tutta una scala non trascurabile di “servizi segreti”. Ognuno spia per conto di qualcuno, ed è a sua volta spiato. Una rete incredibile di “filature” viene tessuta sul corpo sociale, col risultato che se tutti spiano qualcuno e vengono a loro volta spiati, finisce che questa attività non ha più senso.

Questo discorso è dettato da tre ordini di preoccupazioni.

Primo. Il diavolo è brutto, ma mai al punto di come lo si dipinge. La repressione è una struttura organizzata in modo mirabile, ma non è perfetta. I capitalisti sono mostri a sangue freddo capaci di studiare tutti i mezzi per raggiungere il loro scopo, ma sono uomini e hanno i limiti di tutti gli uomini. Lo Stato è il sedimento di secoli di tradizione, di storia, di miseria e di sofferenze, ha mezzi notevoli a sua disposizione, ma è dilaniato da contraddizioni enormi. I partiti e i sindacati hanno strumenti di grande portata nelle loro mani, controllano il parlamento e i luoghi di produzione, ma non sfuggono alla legge comune di ogni struttura di potere: la contraddittorietà; pur avendo bisogno di schiacciare la gente non possono fare a meno del consenso. La polizia, infine, è il braccio armato del capitale, viene sostenuta in tutti i modi, con uomini e mezzi, adesso ha anche stipendi migliori e quindi può impiegare uomini più preparati, ma non è perfetta.

Ecco, una delle mie principali preoccupazioni, quando si illustrano con fare sbigottito le grandi possibilità del nemico, è che questi chiarimenti, pur assolvendo a un compito di grande importanza, possono sortire contemporaneamente un effetto deleterio: quello di scoraggiare i compagni, portandoli alla conclusione che il nemico è troppo forte, praticamente onnipotente e quindi invincibile.

No! Per quanto possa essere bene organizzata, la struttura repressiva ha i suoi punti deboli, ed è la che noi colpiremo. Per quanto possano essere mostri a sangue freddo, i capitalisti sono uomini e un proiettile 7,65 fa loro un buco nella pancia come a qualsiasi altro comune mortale. Per quanto lo Stato possa essere la somma storica di ogni ignominia e di ogni stortura, non è che un groviglio disumano di contraddizioni, ed è in queste contraddizioni che il rivoluzionario trova le sue armi. Per quanto i partiti e i sindacati sembrino avere in mano tutte le forze vive della società, per quanto gli sfruttati cadano nell’equivoco del lavoro e della produzione e accettino la catena che li fa schiavi, esiste sempre un anello di questa catena che è più debole degli altri, ed è là che porteremo il nostro martello liberatore. Per quanto la polizia possa essere ben armata a difesa del capitale, è anch’essa fatta di uomini, con tutte le meschinità, le paure e le debolezze dei venduti e dei traditori, e da ciò deriva la reale possibilità di combatterla e vincerla.

Parlatemi del diavolo, dipingetemelo nel modo più chiaro possibile, ma per carità non fatemi con le vostre descrizioni più paura di quanta me ne fa lui stesso con la sua presenza!

Secondo. In merito alla situazione politica generale, il processo contraddittorio che emerge a livello produttivo all’interno del capitale ha riscontro anche a livello organizzativo nelle diverse parti dello Stato: quindi non escluse le diverse polizie.

Sarebbe quanto meno strano che uno Stato che è dilaniato da contraddizioni tali che consentono continuamente l’emersione a livello pubblico di scandali per peculati, imbrogli e malversazioni, per connivenze con la mafia, coi fascisti e altre attività del genere, sia perfettamente funzionante poi solo a livello di organizzazione delle polizie.

Non dobbiamo sottovalutare che lo stesso involucro “democratico” in cui viene avvolta, bene o male, la sostanza repressiva dello Stato nel suo insieme, scatena contraddizioni che sono limiti oggettivi a una “corretta” soluzione del problema del controllo sociale, e che costituiscono altrettante crepe in un palazzo che se non crolla, manifesta però segni certi di instabilità. Ora, perché questa instabilità generalizzata dovrebbe tradursi immediatamente in saldezza incrollabile solo per quanto concerne le polizie?

Terzo. Di questa verità sono più che mai convinti proprio gli stessi responsabili della repressione in Italia. Infatti essi cercano, partiti democratici in testa, di fare scadere l’importanza dei servizi segreti, svelandone a più non posso i segreti, che tali non sono mai stati. Compiuto questo lavoro perfezioneranno la smilitarizzazione della polizia di Stato che verrà sempre più ridotta a compiti di supporto amministrativo; getteranno un’altra dose di discredito sugli altri corpi (ad esempio, la Finanza), completandone la smilitarizzazione, e punteranno tutte le loro carte sui carabinieri. E tutto ciò proprio perché sono perfettamente convinti che le cose, adesso, non vanno come dovrebbero andare e che ci sarà bisogno, specialmente in futuro, di uno strumento repressivo di prim’ordine e realmente efficace, e questo strumento cercheranno di costruirlo con i carabinieri.

La conclusione è quindi che al momento attuale [1980] abbiamo davanti un corpo di polizie che raggiunge notevoli risultati non tanto perché è ben organizzato ed efficiente, ma perché si trova davanti un movimento rivoluzionario che è appena agli inizi della sua lunga strada organizzativa. Non per nulla la consistenza e la struttura organizzativa che i corpi sociali si danno non sono conseguenze delle decisioni dei singoli ma effetto (e contemporanea causa) del livello dello scontro di classe.

Prego quindi tutte le cornacchie che starnazzano invitandomi a strappare i pochi capelli che mi sono rimasti o (secondo i gusti) a cospargerli di cenere, a riflettere sulla portata di quello che dicono. Il nemico è forte, fortissimo, ma ha la sua debolezza; e noi siamo deboli, debolissimi, ma abbiamo la nostra forza. Cerchiamo di non contribuire a spegnere questa nostra forza illustrando la grande forza del nemico e dimenticandoci di farne vedere anche la debolezza.

E non dimentichiamo che nella lotta, pur con una notevole disparità di mezzi e di strutture, noi abbiamo dalla nostra la possibilità di gettare sul piatto della bilancia la spada pesantissima del nostro convincimento rivoluzionario.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 32, 1980, pp. 16-18, col titolo: La repressione e il ruolo specifico dei sevizi segreti]

Il fantasma della spia

Impressiona non poco chi oggi, col vento che tira, si dichiara, in anteporta, non solo disponibile a dire la verità, tutta la verità, ma anche a sentirsi capace di dirla. E Sanguinetti ha senz’altro questa coscienza di volere dire quello che lui reputa essere la verità, oltre ad avere la coscienza di saperlo dire nel modo migliore, secondo il crisma panflettistico della corrente letteraria “altra”.

Ora, io ritengo che i guai per una persona cominciano proprio quando finisce per convincersi di essere tanto bravo; guai non dissimili da quelli che accadono quando qualcuno si convince di essere tanto bello, tanto forte ed altre faccende del genere. Sia detto con chiarezza, il caso di Sanguinetti è molto più grave. Non è infatti quello di chi si convince superficialmente di una cosa – ma in fondo sa di essere ben altro – per cui il tutto si riduce a semplice sovrabbondanza di narcisismo; ma quello di chi si convince e basta, e su questa sua convinzione costruisce un palazzo impenetrabile, all’interno del quale si chiude, preoccupandosi solo di verificare se, di tanto in tanto, non si aprano, qua e là, delle crepe, per provvedere subito a chiuderle ermeticamente.

Sanguinetti è bravo con la penna, scrive in modo chiaro e diretto, avvincente, fa cogliere al lettore le sensazioni e le interpretazioni che crede necessarie, non è dispersivo, usa la retorica nel migliore dei modi, non dispiacendogli banalità vetuste che però riammoderna per i palati contemporanei della cui rozzezza ci sembra anche lui abbastanza convinto. Ha un solo difetto: è cosciente al sommo grado di tutto ciò. Scrive bene e lo sa. La stessa sensazione che si prova parlandogli – che stia, cioè, ad ascoltare se stesso, il rumore delle proprie parole, e a considerare gli effetti che hanno sugli altri, piuttosto che quello che gli altri dicono o fanno – si ha leggendo le sue cose. E questo libro in particolare dà appunto l’impressione che lui si veda scrivere come si ascolti parlare.

Certo, tutto ciò può essere una mia impressione, e siccome fa a pugni con quanto lui stesso scrive e dice, con le sue affermazioni di volere offrire “qualche verità di cui aver paura”, e di volere realizzare “con le parole quella stessa insubordinazione totale, clamorosa e salutare, che con i vostri atti [degli operai] e le vostre lotte contro il lavoro voi esprimete meglio”, penso che la mia deve essere una impressione fuor di posto, in quanto Sanguinetti è un uomo d’onore.

Certo, sembrerebbe che egli parta da un progetto unico, più o meno bene formulato quasi undici anni fa, che lo Stato sia in grado di controllare ogni genere di eversione parcellare e che la sola possibile sia quella di massa, che diventa insubordinazione prima per trasformarsi poi in insurrezione e così via. Che ogni altro tentativo, appunto parcellare o minoritario, per il solo fatto di essere costretto a seguire alcune regole fisse (non ultime quelle della cautela e della lotta clandestina) sia costretto non tanto a cadere nelle mani del servizio segreto, quanto a essere fin dal suo inizio materia prediletta dei servizi segreti. Che ciò avvenga in modo oggettivo o soggettivo, cioè che ci siano infiltrazioni o che si tratti di vere e proprie costruzioni fin dall’origine fatte da queste onnipotenti forze segrete dello Stato, la cosa non ha molta importanza: quello che conta è che essendo la sola soluzione valida quella dell’insurrezione di massa, ogni tentativo minoritario diventa condannabile, quindi deve subire l’onta del nome “terrorismo”, la qual cosa equivale a una sanzione ideologica più o meno da spartirsi con ogni mezzacalzetta dell’informazione padronale; quindi deve essere diretto e gestito in prima persona dallo Stato.

In questo modo tutto diventa chiaro al nostro Sanguinetti. Le Brigate Rosse sono lo Stato, la prova maggiore è che hanno rapito Moro o, se si preferisce, che lo hanno ucciso, o che non hanno saputo cavargli di bocca niente d’importante. Volete altre prove? Eccole: le azioni che realizzano oggi le organizzazioni armate clandestine in Italia sono tutte opera del servizio segreto, nazionale e internazionale: si tratta della continuazione del geniale colpo di Piazza Fontana – per tempo svelato e rettamente interpretato dai compagni situazionisti fin dai primi battiti d’ala. E siccome le cose sono andate in questo modo in quella occasione, non c’è motivo perché vadano diversamente ora. Un’altra prova: il commissario Calabresi è stato ucciso dal servizio segreto, e si tratta dell’operazione intermedia (insieme a quella di Feltrinelli) per passare alla costruzione delle organizzazioni armate clandestine. Ma quanto lavora questo servizio segreto!

Con simile procedimento possiamo affermare tutto e, per giunta, gettare in faccia alla gente prove che non esistono, minacciando gli increduli (o, se si preferisce, terrorizzandoli) con l’anatema dell’ottusità e della cretinaggine, se non con quello della complicità o peggio, che ogni pontefice dell’intelligenza letteraria si crede in diritto di lanciare.

E se a esempio affermassimo – con pari attendibilità –che Calabresi è stato ammazzato da compagni? Tanto, un’affermazione vale l’altra. E se affermassimo che nelle organizzazioni armate oggi in Italia le infiltrazioni sono praticamente finite perché impossibili dai tempi di Girotto e Pisetta? Tanto, una affermazione vale l’altra. Che razza di metodo di ragionamento sarebbe questo? A quali risultati arriveremmo? E se invece di gettare qui queste affermazioni, vi costruissimo sopra un bel ragionamento, con tante pseudo-prove del genere di quelle fornite da Sanguinetti, che cosa ne verrebbe fuori? Chiaramente un’altra cretinaggine: magari scritta meno bene, ma sempre una cretinaggine.

Che Lenin abbia avuto tra i piedi un infiltrato e che il capo dell’organizzazione esecutiva dei socialisti rivoluzionari russi sia stato un membro del servizio segreto dello zar, non solo non ha nulla a che vedere con il ragionamento che dovrebbe riguardare le cose in Italia oggi, e lo scontro armato in atto nel nostro paese [1979]; ma non ha nemmeno in se stesso un nesso ragionevole: non è un caso, infatti, che Lenin sia andato al potere, malgrado le spie che lo circondavano. Il problema – e il pericolo – quindi non consiste tanto nella presenza di spie e di infiltrati nelle organizzazioni armate oggi in Italia, ma nei diversi progetti politici che queste cercano di realizzare (conquista del potere, alleanze, referenti e così via). Astrarre il ragionamento da ciò, dalle singole posizioni politiche, per rinchiudere il discorso all’interno del fenomeno “terrorismo” è chiara (anche se, forse, involontaria) operazione idealista, tipica di ogni buon letterato che, simile al monaco medievale nell’accingersi a scrivere la “cronica” dell’anno in corso, si affacciava alla finestra della propria cella per informarsi sugli accadimenti del contado.

Tutto ciò non torce un capello alla gradevole lettura dello scritto di Sanguinetti. È ora che i compagni apprendano a gradire anche la fantapolitica, specie se è di buona qualità letteraria.

[Pubblicato su “Anarchismo” n. 32, 1979, pp. 311-312. Recensione a G. Sanguinetti, Del terrorismo e dello Stato, Milano 1979]

La provocazione immaginata dappertutto

Che il fumetto abbia una sua dignità e validità come mezzo espressivo è fuor di dubbio. Da Outcault a Schultz, per quasi settant’anni si è assistito a una evoluzione di questo strumento, per arrivare dalle iniziali “evasioni”, all’impegno politico attuale. Di più, il tentativo realizzato da Catilina (... quo usque tandem abutere... patientia nostra?...), generalizza il disegno, non riuscendo a utilizzare quei processi di reiterazione che, proprio nel fumetto di satira politica, costituiscono il fondamento della “sopportabilità” della lettura. Se si riflette, nei lavori di Feiffer (che risalgono per linea ascendente ad Al Capp e alle vicende di Li’l Abner, pubblicate subito dopo la crisi del 1929), come in quelli di Quino o del nostro Chiappori; la creatività è nella ripetizione, la sorpresa (e, quindi, la sollecitazione) è nell’osses-sionante ripetersi del tratto. Qui il problema è eluso. Il messaggio è realizzato con una larga (troppo) concessione al contenuto del racconto (storia) e, proprio per questo, risulta pesante, come un fotoromanzo.

Questo per quanto concerne la tecnica impiegata nel lavoro. Riguardo l’interpretazione politica posso dire subito che non sono d’accordo. Che i servizi segreti si intromettano negli “affari” italiani, che la provocazione (nazionale ed estera) giochi molte volte un certo ruolo nella lotta politica in Italia, che le organizzazioni di lotta armata prestino il fianco alle infiltrazioni; sono faccende scontate. Ma che tutto debba “per forza” essere interpretato in questa chiave, mi sembra assurdo e finisce per far torto agli sforzi e ai sacrifici che tanti compagni sopportano per realizzare l’ideale del comunismo.

Va bene la critica alle organizzazioni staliniste o leniniste che, in una situazione come quella attuale [1977), persistono nel proporre una struttura clandestina armata di tipo centralizzato, allo strapotere organizzativo dello Stato; ma questa critica non deve mai arrivare a disconoscere la validità della lotta contro lo Stato e la possibilità che questa possa, in un domani prossimo, realizzarsi – sempre sul terreno dello scontro armato – in forma diversa da quella del partito militare chiuso e centralizzato.

Dare a intendere che le mani dei tedeschi, dei russi e degli altri servizi segreti siano dovunque, che non si possa sfuggire allo strapotere delle loro perfette organizzazioni tecnocratiche, significa ammettere implicitamente il fallimento della strategia armata in Italia, fallimento in assoluto, senza che si siano analizzati criticamente i tentativi di realizzazione fino a questo momento portati avanti. Quindi, significa non affrontare il problema delle conseguenze della visione autoritaria dell’organizzazione, significa non comprendere che al di là può sempre svilupparsi quell’organizzazione popolare di resistenza armata (di cui lo Stato ha tanta paura) che si ingrandisce senza aspettare gli ordini di un qualche specialista della guerriglia, che trova da sola i propri obiettivi, che realizza una strategia libertaria contrapponendosi (in una critica pratica) alla strategia autoritaria dei partiti militari.

Indicare il pericolo dell’intrusione dei servizi segreti stranieri è giusto ed importante, trasformarlo nell’unica forza esistente sul fronte dello scontro è parziale e mistificatorio. Una tesi come quella sviluppata nel libro è funzionale solo a chi vuole snaturare il significato delle esperienze di lotta armata che si sono sviluppate in Italia, in questi ultimi anni. Anziché operare una critica esauriente e costruttiva, indicando i limiti e i pericoli della visione leninista del partito militare; anziché analizzare una possibile strategia differente, capace di dare frutti diversi; si rinchiude tutto nel quadro della provocazione e si finisce per spingere alla conclusione che, in ultima analisi, questi compagni sono solo degli ingenui strumentalizzati dai tecnocrati tedeschi e russi, abili nell’arte del complotto.

Fortunatamente la realtà sembra essere abbastanza diversa. Anche se la provocazione esiste e non può trascurarsi, esiste e si sta estendendo una rispondenza sempre più ampia negli strati sfruttati [1977], una rispondenza che è anche disponibilità allo scontro armato inteso nei termini della resistenza popolare contro lo strapotere della collaborazione padroni-riformisti. E in questa direzione, l’iniziativa può ancora una volta restare nelle mani degli sfruttati.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 15, 1977, pp. 155-156. Recensione a L. Catilina, Il morto è in tavola. I servizi segreti negliaffariitaliani, Milano 1977]

L’equivoco critico

Notevole esercitazione filosofico-metafisica in chiave situazionista quella di Simonetti. Non varrebbe la pena parlarne, sia pure in breve, se non rappresentasse, a quanto pare, un modello. Il contorto pensiero di un tizio può assumere forme incredibili di autoconsiderazione, fino a estrinsecarsi sotto l’aspetto più grave, quello dell’apparente oggettivizzazione. È il nostro caso.

La critica viene a essere staccata da una consequenzialità reale e resta librata a mezz’aria, tra lo scontro di classe e le riflessioni teoriche del passato, giudicate muffite e da mettere in soffitta. Non teoria, non ideologia, non politica: ma critica. Verrebbe di fatto spontanea una difesa dell’ideologia se, in questi termini, non si capovolgesse subito nel suo nulla integrale. È questo il guaio di simili scritti. Come le poesie, o la musica, hanno l’apparenza di dirti qualche cosa, qualche cosa che stai per afferrare ma che poi sfugge. Ricordo o sogno, non ha importanza: l’esistenza dell’autore conta, centralizzata essa regge tutto, dallo scopo dimostrativo alla radice del ragionamento.

Strana concordanza con Zolla e un ipotetico Marx, innamorato dei libri di critica. Questo il vero contenuto della lotta di classe: ripresentazione della sostanzialità del conflitto nella fattualità, smarrimento della politica e dell’economia, rivissute attraverso i disagi e le peripezie della storia della coscienza di classe. Fittizio dominio del capitale, rivedibile attraverso il processo critico dell’ascoltatore delle nenie del pastore errante (ma non del metallurgico in sciopero), via via trasferibile sul piano interpretativo di una critica della critica.

La logica hegeliana (dimenticavo di avvertire il lettore che in Simonetti Hegel è di casa, nume tutelare alla pari di Totò e Caterina Caselli) avverte che non solo le proposizioni esortative cadono nel pantano dell’ideologia, ma anche quelle critiche, quando smarriscono il senso dei limiti del processo storico. Dio e logica, alternativa che si riduce alla identificazione: ideologia e critica, unificate, malgrado tutto, nell’incomprensione e nella nebulosità. Il trucco di Caco si ripresenta molto spesso nella storia.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 2, 1975, p. 109. Recensione a G. E. Simonetti, Contro l’ideologia del politico, Milano 1974]

Limiti e prospettive del situazionismo

Il situazionismo è praticamente un cane morto. I motivi di questa dichiarazione sono tanti ma si possono riassumere nella formula della critica critica. Nessuno, che voglia fare qualcosa, può realmente fare e disfare nello stesso tempo. Ora, come ognuno vede benissimo, nella ripetizione del secondo termine “critica”, sta la negazione del primo termine. Come dire che una critica critica è una critica che non esiste, una critica che annulla se stessa.

È un vero peccato che tante splendide intelligenze siano state sprecate dietro un abbaglio di tale portata. Ma non erano in fondo che fatiscenti promesse, acrobati della parola, funamboli di un discorso che per la sua stessa inconsistenza pareva dovesse condurre chissà dove.

Morto il cane anche le pulci devono trasmigrare. Alcune di loro sono morte col grosso animale che le ospitava. Altre tacciono più o meno pudicamente. Altre ancora hanno sollevato all’ennesima potenza il denominatore comune dello scetticismo. Rileggono e riscrivono le stesse cose. Riparlano fra loro degli stessi problemi. L’acutezza analitica è un po’ il loro cruccio, una specie di condanna senza appello.

Ma andiamo con ordine. Diciamo subito quello che questo scritto non è. Esso non può essere una critica del situazionismo. Nel proprio stesso svolgersi la critica critica mangia se stessa. Al fondo non esiste più nulla.

Se si osserva l’arco di sviluppo degli ultimi venti anni di teorizzazioni situazioniste si può fare un museo delle ovvietà. Solo che sono sempre state ovvietà dette un attimo dopo il loro momento opportuno. Le ovvietà dette al momento opportuno non sono banali tautologie, sono spunti analitici di grande importanza perché proprio le cose più visibili sono quelle che meno si colgono. Ma quando si slitta di quel tanto necessario per mettersi al sicuro, allora l’ovvietà ridiventa quello che è: banale tautologia.

La metodologia del disagio è tipicamente francese. Ed il situazionismo è un prodotto dell’ingegno francese, dello spirito di finezza pascaliano, con tutte le conseguenze di una rigida morale se non proprio di Portoreale, quasi. Osservate con quanta maniaca diligenza questi bravi monaci della parola rincorrono l’espressione, l’aspetto esteriore della forma scritta, fino alla stessa pagina stampata, fino al grottesco e ridicolo terrore che hanno dei refusi. Chi ha pratica di cose stampate sa perfettamente che i refusi sono ineliminabili, come la cattiva erba essi allignano sempre e si nascondono in modo imprevedibile. Ma i nostri bravi monaci hanno una morale perfezionista fondata sulla forma: bisogna inseguire gli errori, fino in fondo, anche a costo di correggere un libro a penna in tutte le copie della sua tiratura.

Qualcuno potrebbe dire: nulla di male, una mania come un’altra. No, pur se innocua fissazione si tratta di una indicazione che torna utile per alcune riflessioni. Lo spirito di finezza francese è rigidità di contenuti nell’estrema versatilità della forma. La grande attenzione data a quest’ultima torna utile per nascondere la prima. Dopo avere letto pagine e pagine finite per lasciarvi prendere dall’andamento delle frasi, dalle singole parole, dal contesto formale che è a volte di notevole perfezione tecnica. Poi, quando avete finito di leggere, e vi chiedete cosa avete letto, cosa vi ha portato quella lettura, vi svegliate come da un sogno, vi sentite impiastricciati di qualcosa di indefinibile da cui risulta difficile liberarsi. Avete senz’altro stabilito un certo quale legame col testo, ma è uno strano legame, non vi porta a una fruizione reale di quello che era il messaggio presumibile dello scritto, ma a una sua fruizione immaginaria, quasi irreale, fantastica.

Ciò spiega la grande fortuna di molti scritti situazionisti. Sono praticamente dei romanzi brevi sul modello del Candide. Ne hanno la struttura complessiva, il taglio del periodare e finanche la cadenza linguistica. Purtroppo, a volte, non ne hanno il genio condensativo. Ma perfino il bellissimo libretto di Voltaire non è certo sufficiente come critica dell’ottimismo leibniziano. Ben altri argomenti occorrono. In epoche in cui le contraddizioni tagliano in due il corpo sociale, gli splendidi paradossi lasciano il tempo che trovano.

In questo senso mi sembra corretto parlare di “situazionisti” e non tanto del situazionismo, che l’assenza stessa di una teoria a volte per loro comporta la presenza di una miriade di modi di vedere il mondo, tutti in lotta l’uno contro l’altro, tutti ugualmente diretti a sfondare porte aperte esattamente il giorno dopo che qualcuno aveva forzato la serratura.

Emerge quindi a tutta luce la loro origine artistica, il loro legame con l’estetica del parziale, la loro incredibile incapacità di comprendere il percorso reale dell’insieme sociale. Cominciando con l’antica idea della “deriva” in alcuni di loro si apre un campo d’azione notevole, qual è quello del rapporto con lo spazio, del rapporto dell’individuo e della classe con lo spazio sociale. I risultati sono incredibilmente superficiali. L’insolenza individuale copre l’effettiva capacità analitica. Il gioco di parole, l’abilità nel deviare i luoghi comuni della letteratura, il sogno di piccole cose che si incastonano abilmente in un meraviglioso mosaico orientale, tutto si riconverte in riproduzione spettacolare del modello artistico, una transizione continua verso il comportamento definitorio che però viene rinviato all’infinito.

Lo stesso con l’altra fondamentale nozione di “spettacolo”. Nata il giorno dopo il clamoroso attacco contro il teatro della morte, segue in senso critico le vicissitudini dei resti di quello spettacolo che gli antichi chiamavano semplicemente “realtà”, vicissitudini che si svolgono nel corso di una lotta senza quartiere contro la sperimentazione e l’improvvisazione dei significati. Anche oggi quella lotta non è finita, non per l’incapacità dei vari “laboratori”, semplicemente perché non è finito il capitalismo che riproduce se stesso, il laboratorio teatrale e il concetto di spettacolo (e ovviamente anche il suo contrario). Per sfuggire al circolo chiuso di questa autofagocitazione i situazionisti si sono visti costretti a raddoppiare la critica della società capitalista in una critica dei suoi meccanismi e dei suoi riflessi nella vita quotidiana. In questo senso prima parlavo di critica critica. Non è mai accaduto che si riuscisse a riportare il livello della critica della vita quotidiana (notevole sotto molti aspetti), al livello della critica della società nel suo insieme. Le due cose sono state tenute religiosamente separate, facendo del quotidiano lo spazio delle situazioni e sacrificando le creatività esclusivamente nella determinazione di queste ultime, fino al parossismo del microcosmo linguistico, fino alla paranoia del rigo stampato o dell’immagine estrapolata (a esempio, i fumetti), o della citazione reazionaria che mostra la corda cosiddetta di sinistra. La fissità della fruizione capitalistica è senz’altro una idea di notevole potenzialità in senso rivoluzionario. Ne è una prova la serie di tentativi compiuti un po’ dappertutto di utilizzare questa idea in contesti spesso diversi e anche contraddittori. Anche i partiti armati, almeno recentemente, hanno fatto trapelare quest’idea, naturalmente non in senso autocritico. Ma questa potenzialità non è stata messa in evidenza. L’idea di “spettacolo” è rimasta statica, una visione della realtà, uno spaccato specifico con pretese di dar conto di una relazione globale. La tragica contraddizione era anche nel vecchio problema teatrale: entrare all’interno del muro di cinta dello spettatore, violentarne la passività, provocarne la reazione. Lo spettacolo però, in questo modo, si trasferiva nello spazio. Da un punto centrale diventava periferico, da unico si frantumava in mille piccoli aspetti tutti ugualmente spettacolari. Non aveva più la capacità di ricostruire lo spettacolo delle grandi masse in ginocchio davanti al dittatore, ma si vedevano milioni di persone (una grande massa, senza alcun dubbio) in ginocchio davanti ai televisori, alle automobili, alle lavatrici. La sorte dell’idea di “spettacolo” è stata parallela a questo profondo cambiamento del capitalismo. Dalla simbologia impositiva e mitica, alla simbologia democratica e mitologica. Le levatrici di questa nascita della mitologia dal mito sono stati proprio i situazionisti e tutti coloro che hanno rimasticato il loro servizio.

Le altre idee fondamentali dei situazionisti hanno lo stesso difetto: sono tutte nate il giorno dopo. La critica del contropotere (a esempio, bolscevico) non si avvicina nemmeno lontanamente a quella fatta da Machno o da Volin. Proprio gli errori di Machno, la sua spinta verso una migliore strutturazione dell’intervento rivoluzionario, sono ciò che manca nei situazionisti. Li avessero commessi anche loro, anziché baloccarsi con l’organizzazione mondiale dello sconvolgimento artistico, avrebbero potuto spezzare il cerchio chiuso della propria critica, commisurarsi a un errore preciso e non a un cumulo spaventosamente alto di belle idee, tutte incontestabilmente giuste, ma tutte tautologicamente suicidate nel momento stesso della loro nascita. Uguale discorso per la critica dell’intellighentsia che si propone come contestatrice del potere e nuovo sbocco intellettuale. Ma gli stessi situazionisti sono stati, praticamente da sempre, una ristretta confraternita di intellettuali, in contatto fra loro, con un continuo scambio di scritti, lettere, riviste, conferenze. Di fatto costituivano una elite, in pratica la loro coscienza d’esserlo li torturava. Non potevano spezzare una simile congiura del destino se non accettandola fino in fondo nell’azione concreta, ma questo era loro precluso perché qualsiasi azione andava prima realizzata nel vitro dell’analisi e sperimentata nel vitro ancora più miserabile della situazione costruita. Ciò consentiva certamente di vedere limiti ed oscenità, ma non permetteva di uscirne. Alcuni hanno scelto il silenzio, altri il suicidio. Questi i migliori fra loro. Gli altri, i più realisti del re, non potevano nemmeno intraprendere autonomamente una di queste strade, quindi restavano arlecchini servitori di infiniti padroni, beati fruitori di un prodotto d’alta qualità intellettuale, droga fra le droghe, peso inutile fra tanti pesi della società del capitale.

Consideriamo l’idea di “provocazione”. Intellettualmente questo procedimento è notissimo e consiste nel rivoltare come un cappotto vecchio la posizione dell’avversario. Qualcuno afferma di essere razzista? Lo si provoca non tanto presentando critiche alla sua tesi, ma capovolgendola, estremizzando l’uguaglianza di tutti gli uomini. Un altro componente della provocazione può essere l’uso di strumenti del nemico indirizzati contro le sue intenzioni. a esempio, qualcosa di simile è stato fatto con i deliziosi fumetti porno di Topolino. Altri metodi provocatori sono l’ironia applicata allo sguardo (mai alla critica), lo spirito di finezza applicato alla catena causale degli eventi (mai agli eventi stessi), l’auto-elogio, l’uso di difficili e improbabili formulazioni filosofiche trattate come mercanzia elementare, la rivalutazione dei luoghi comuni visti con l’occhio dell’artista, la non paura del ridicolo ma sempre con la misura di salvaguardia, e via dicendo. In questo modo la “provocazione” cade a livello di marchingegno intellettuale, espediente retorico per scalzare gli argomenti dell’avversario, per capovolgerli, non per trascinarli a viva forza sul terreno dello scontro.

Chi si appresta a simili turlupinature può essere guardato con un occhio benevolo o terrorizzato – secondo i punti di vista – ma è sempre l’altro da sé, l’incomprensibile meteora dallo spumeggiante acume che attraversa improvvisamente il cielo dei mortali. Nulla accade dopo il suo passaggio perché nulla si voleva che accadesse.

Anche l’altra idea di “rivoluzione permanente nella vita quotidiana” non esce dal ghetto specialistico. L’esempio più eclatante e, nello stesso tempo, più ridicolo di questa operazione è stato quello realizzato a spese dell’avanguardia artistica europea. Il pagamento è stato fatto subito, da parte di quest’ultima, in contanti (tanto i soldi li aveva guadagnati per tempo con la propria “salade”), ed è consistito nel pieno riconoscimento della fondatezza della critica situazionista. E chi non sa oggi, in quanto artista, di essere un servo e un riproduttore del capitale? Forse per questo non si dipingono più quadri, non si scrivono poesie o romanzi? E la guardia strettissima montata ai comportamenti quotidiani delle minoranze rivoluzionarie in azione, dal “Zengakuren” al “M.I.L.”, ha forse impedito gli aborti dei partiti armati più recenti nella nostra esperienza? Nulla di ciò che viene consegnato all’esclusiva memoria del sublime può avere effetto al di qua delle nuvole. L’immaginario violentemente non mercificato è merce proprio nel momento della sua separatezza. Per evitare il vicolo cieco dovrebbe accettare la strada della merce e, poi, da qui, agire per sconvolgere la struttura del mondo delle merci. Nessuna purezza adamantina può diventare fatto reale se prima non si sporca le mani nel fango della quotidianità. Contemplare quest’ultima come fatto lontano da sé, dettagliato e circoscritto in tutti i particolari, è ulteriore processo produttivo, quindi mercificazione. La permanenza di un “atteggiamento rivoluzionario” diventa quindi un processo retrospettivo di autocoinvolgimento senza fine, una anabasi del ghetto, fatta la quale si può ripetere la solenne frase che “tutto va bene e la figlia del re riposa nel suo letto”.

Il destino tragico del situazionismo è quindi stato quello di andare incontro a un colossale imbroglio, costruito con le proprie mani, fatto nella migliore buona fede, realizzato con arte a volte sopraffina e, soprattutto, dicendo delle cose “vere”.

Ma come si può dare vita a un imbroglio, e quindi a una mistificazione, partendo dalla “verità”?

Sostanzialmente in due modi: primo, dicendola solo il giorno dopo (e questo aspetto lo abbiamo già visto); secondo, limitandosi a “dirla”.

“Dire la verità”. Ecco il secondo punto della penosa vicissitudine situazionista. Indiscussamente molti di loro hanno “detto la verità”, nel senso che quello che hanno detto aveva la pretesa di “superare” la situazione quotidiana (certamente non rivoluzionaria) per creare, in modo permanente, per quanto possibile, una situazione nuova. Ma la situazione “nuova”, come ognuno vede, non può essere creata a partire da un superamento della precedente situazione ottenuta grazie a qualcuno che “propone” la verità. Si tratterebbe allora di un superamento che mantiene, in se stesso, tutti gli elementi della precedente situazione. Non li mantiene nel loro reciproco relazionarsi, in quanto questo aspetto subisce continue modificazioni, ma li mantiene nel loro reciproco riconoscersi di valore, nel loro valorizzarsi. “Dire la verità”, quindi, non modifica la realtà, caso mai è un primo approccio alla modificazione della realtà, l’approccio che di regola viene definito analitico. Ma questo “dire” deve essere critico, cioè deve commisurare la staticità del vero che si dice con la dinamicità del falso in cui questo vero si va a inserire. Quanta tristezza nelle grandi dichiarazioni di verità. Non sempre possiamo ipotizzare un’ingegneria del male in tutto quello che si dice. Molti patrioti spagnoli morivano gridando “abbasso la libertà” sotto i plotoni di esecuzione dell’esercito napoleonico invasore. Era un modo di fare una critica “vera” al comportamento di quegli uomini che fucilavano in nome della “libertà, dell’uguaglianza, della fraternità”, sotto il simbolo del tricolore rivoluzionario. Ma era una verità che fa tristezza. Nel momento in cui quegli uomini, davanti alle bocche dei fucili nemici, si accingevano a “dire” la verità, il loro sforzo precedente rientrava nella dimensione comprensibile dei fucilatori. Questi ultimi sparavano e pensavano di uccidere banditi senza Dio e senza patria. Per una strana vicenda di capovolgimento i situazionisti hanno detto prima la verità, prima di farsi fucilare, non mentre li stavano fucilando. Adesso che sono un cane morto potrebbero pure “farla” la verità, le cose, per loro, non cambierebbero di una virgola.

Il fatto semplice è che “fare la verità” non sempre coincide con il “dirla”. Vi sono a volte differenze enormi. Il coinvolgimento sul piano quotidiano è globale. Non può essere visto come dall’esterno: un processo di critica che tende a sconvolgere per poi coinvolgere. Nulla del genere è mai stato possibile. In vitro non possiamo sconvolgere che altri come noi, gli abitanti del pianeta immaginario, gli adoratori della verità in pantofole, recitatori di giaculatorie artistiche, con le mani in pasta nei movimenti di avanguardia d’Europa e d’America. Il quotidiano reale resta refrattario alle alchimie. Nel crogiuolo delle loro prove i situazionisti ritrovano sempre il medesimo quantitativo di oro che avevano messo al principio, nessuna pietra filosofale, nessuna formula misterica può risolvere il problema.

Tutta quella grande capacità critica che consentiva loro di realizzare il primo passo, il momento analitico, viene ributtata in faccia, come la classica torta, nel momento della critica di ritorno. I situazionisti, in questo modo, ricompongono il velo cucendo accuratamente i pochi strappi che vi avevano causato. Il ciclo si chiude. Le polemiche, le speranze, gli entusiasmi e le scomuniche sono roba del passato. Ognuno di loro è oggi un bravo signore con il proprio conto in banca o con la speranza di averlo al più presto. Per quelli che hanno scelto la strada dell’oblio, la loro intelligenza spesso viene offesa da iniziative apologetiche che siamo sicuri non gradiscono. Come un treno che viaggia in senso inverso al nostro, adesso, sono arrivati alla loro stazione, noi siamo ancora in viaggio.

Rileggendo ora le loro cose, alcune delle loro innumerevoli cose, risentendo la loro voce, si resta quasi colpiti dall’incredibile abilità nel capire. Anche adesso, che sono scesi dal treno e indugiano nella stazione di arrivo, carichi di bagagli e di ricordi, anche adesso hanno un acume profetico, sono in grado di capire cose che per noi sono decisamente troppo difficili. Ma la loro mania della battuta a qualsiasi costo li perde. Il loro gusto per il romanzo di avventure li precipita in trame deliziose ma ben lontane dalla realtà. Il loro barocchismo li rende a sé stanti, tralicci poco illuminati d’una struttura che non si comprende ma che si sa, qualcosa deve pur significare.

Se dovessi scrivere due epitaffi, per i limiti del situazionismo scriverei: “Era troppo intelligente”; per le sue prospettive invece scriverei: “Anche il cane è un animale intelligente (da vivo)”.

Un lungo discorso a parte meriterebbe la fortuna del situazionismo. Non mi pare fuori luogo dire qualcosa qui, in un momento in cui – sotto certi aspetti – stilo un rendiconto che, se certo non è benevolo, ha almeno la pretesa di voler essere funzionale a qualcosa: a spazzare via il terreno dalle inutili cianfrusaglie. Chi ha il culto del bello e non si accorge della polvere e dell’odore di muffa, sarà senz’altro contro di me. Le scarse capacità estetiche di cui dispongo non mi consentono di fare altrimenti.

Dappertutto dove esiste un giardino zoologico di compagni, ognuno dei quali ha letto – qui e là – qualcosina su un po’ di tutto, troverete sempre uno o più “situazionisti”. Dove la lotta si sviluppa, dove lo scontro di classe trova gli elementi più vivi della sua estrinsecazione, i situazionisti non esistono. Nel migliore dei casi sono ricordi lontani, come le letture fatte a scuola. Quando si affrontano problemi concreti i baloccamenti si scordano facilmente. Quando non si ha altro da fare si è bizantini per vocazione e in fondo anche per necessità. La geografia del situazionismo corrisponde quindi esattamente, e in modo inverso, alla geografia dello sviluppo delle lotte non dico nel mondo ma con assoluta certezza in Europa. Sarebbe cattiva coscienza attribuire a loro questa arretratezza, anche se sono proprio alcuni dei loro epigoni più curiosi a ipotizzare influenze decisive (e quindi in senso negativo) sulle lotte del movimento specifico.

È tempo adesso di una collocazione critica dei loro contributi. La separazione del grano dal loglio non è facile perché è un terreno floridissimo di piante esotiche di ogni genere. Non so sinceramente a chi potrebbe venire in mente di fare un simile lavoro. Forse questo scritto, così duro nei loro confronti, potrà contribuire a sollevare quel minimo di polemica necessaria all’approfondimento. Nella speranza che le solite cariatidi non s’incarichino di farmi sapere di essere sempre vive e vegete (a sostenere sempre tutto il mondo sulle spalle). La modestia non è mai stata la dote più visibile di Atlante.

Nel panorama complessivo esiste certo qualcuno meno chiuso degli altri, meno incapace di capire i limiti della propria acutezza e di costringersi se non a essere miope almeno a non inforcare a forza gli occhiali del presbite. Questo qualcuno non è esente dagli stessi difetti: iper-criticismo, massimalismo astratto, supervalutazione del proprio modo di vedere le cose, feticismo della parola, funambolismo del pensiero, carenza di propositività. Però c’è da dire che questo qualcuno, quando non torna ad accingersi alla redazione di “romanzi gialli”, ha idee non proprio del tutto peregrine sull’insurrezione. Queste idee sono, in sostanza, il nucleo più significativo del situazionismo attuale e l’unico sbocco pratico e teorico che esso può avere in prospettiva. Sempre se i situazionisti riusciranno a liberarsi da tutte le ambasce che li condannano, adesso come in passato, alla contemplazione del proprio ombelico.

[Introduzione a Ratgeb / Karamazov / Voyer / Ghirardi / Preziosi, Limiti e prospettive del situazionismo, Catania 1983, pp. 5-15]

Mantenersi alla superficie

Di un certo Proudhon, di alcuni imbecilli e di altre cose

Nel mondo dei fantasmi, quello abitato dalle ideologie che – per intenderci – si scambiano fra di loro e si fanno scambiare volentieri per cose reali, in questi ultimi tempi [1978], c’è stato un gran scompiglio.

Qualche imbecille ha parlato di “nuova proposta analitica che viene a contrapporsi alle proposte leniniste e marxiste”, riferendosi alle stupidaggini dette da Craxi, altri – più in fondo alle vicende del palazzo dei fantasmi – hanno parlato di svolta ideologica elaborata non da Craxi, il quale, beato lui, naviga nelle nebbie della più bieca ignoranza, ma da un gruppo di sociologi vicini al Partito Socialista.

Non è mancato chi ha anche indicato, all’interno di questo gruppo, qualche sociologo di maggior merito, definendolo “un onesto riformista e un buon conoscitore del pensiero anarchico e libertario”, affermazione che farebbe ridere se non suonasse tragica.

Ma, andiamo con ordine.

La rispolveratura di Proudhon fa parte, come anche gli imbecilli comprendono, di una proterva manovra di potere del Partito Socialista che, inviato qualche suo lacchè nel palazzo dei fantasmi, lo ha incaricato, nel più breve tempo possibile, di mettergli in piedi un impianto ideologico da servire come base per una contrapposizione all’incerto marxismo del Partito Comunista e all’incredibile pasticcio liberal-cattolico-protezionista della Democrazia Cristiana. Il lavoro richiesto non era difficile, anche perché elementi precedenti indicavano (come vedremo meglio più avanti) che lacchè del Partito Socialista erano andati per i fatti loro, di tanto in tanto, a far visita al palazzo (non si sa mai, la cosa può sempre tornare utile per faccende di stretto sapore pecuniario, come: carriere, prebende, riconoscimenti, sovvenzioni ed altre amenità).

Fatto il suddetto lavoro, questa brava gente, non trovando ostacolo alcuno (quel palazzo, come ognuno sa, è incustodito e chiunque vi può accedere con facilità, basta saper leggere e buttar giù qualche frase in discreto italiano), fatto questo lavoro, i nostri amici socialisti, con in testa – tanto per non fare nomi – quel degno Pellicani (onesto riformista e buon conoscitore del pensiero anarchico e libertario), sono tornati dal loro padrone e gli hanno messo in bocca le parole del nuovo credo: Proudhon, gigante del passato, è ancora in grado di ergersi contro Marx, altro gigante del passato.

Apriti cielo! Andare a ripescare proprio Proudhon, affermano subito i lacchè al servizio del Partito Comunista, dopo che Marx lo aveva definito “piccolo borghese e bottegaio”. Anche gli anarchici si sono subito risentiti, e tirando fuori dal dimenticatoio i propri ricordi – chi mai si era interessato negli ultimi anni di tale Proudhon, in fondo in fondo considerato anarchico ma con tanti e tali pregiudiziali che era meglio lasciar perdere? – (qualcuno dei compagni si è anche risentito facendo una conferenza sul problema di Proudhon oggi) ed hanno rivisitato il loro castello dei fantasmi (non si sa mai), insistendo poi sul copyright: “su questo le mani le avevamo messo prima noi”, riformista o rivoluzionario che sia stato, Proudhon è nostro, la storia ce lo ha dato (grazie all’avallo marxista) e guai a chi ce lo tocca.

Da canto loro, i lacchè del Partito Socialista, asciugandosi il muso lordo del sangue dei lavoratori, hanno affermato che i comunisti non avevano nulla da ribattere su Proudhon, rifacendosi a Marx, in quanto non solo avevano rinnegato il marxismo ma avevano accettato strade riformiste che il riformista Proudhon non avrebbe per nulla disdegnato. Riguardo agli anarchici, insistevano, togliendosi con cura qualche pezzetto di carne dei lavoratori rimasto loro tra i denti, nemmeno loro avevano di che lamentarsi in quanto “in un certo senso Craxi si è comportato come Errico Malatesta negli anni venti quando, pur dicendosi per l’unione delle sinistre contro il fascismo, insisteva nel sottolineare le differenze di principio esistenti fra anarchici e comunisti”.

Tutta questa odiosa faccenda ha l’aria di assomigliare a un teatrino di campagna, quello che spesso viene messo in piedi nelle piazze di paese. Le marionette, dai colori vivaci, si alternano sulla minuscola scena, ma le mani dei pupari che danno loro vita sono sempre le stesse: ora viene messo giù un personaggio e un altro entra in scena, ora quest’ultimo viene rigettato nel buio per far posto a quello che prima era stato accantonato.

La sostanza delle cose, la vita vera e palpitante, resta nascosta agli spettatori, seduti sulle panche di legno o in piedi, ed è bellissimo guardare tante facce di bambini col naso per aria e a bocca aperta immedesimarsi in quelle vicende, farle proprie, parteggiare ora per questo ora per quel personaggio, magari dolendosi dei guai dell’uno e rallegrandosi delle gioie dell’altro.

Noi di “Anarchismo” che avevamo avuto l’impudenza di pubblicare nel 1975 l’opera economica fondamentale di Proudhon, tra il gelido silenzio di quasi tutti i compagni anarchici (ma cosa andate a ripescare questa roba ormai sorpassata?), in questi ultimi due mesi [1978] abbiamo visto esaurirsi la tiratura di quel volume che, prima, si vendeva malissimo; dimostrazione, ove ce ne fosse bisogno, del processo automatico di trasformazione dell’ideologia in merce, processo che il capitale realizza per il fatto stesso dell’esistenza del mercato, senza star lì a prendere le distanze se si è anarchici o socialisti. Il nostro volume era sul mercato (e non dimentichino i nostri compagni lettori che uno dei motivi – e non fra gli ultimi – della nostra collana di classici è proprio quello di fare libri per venderli), e l’ondata ideologica messa in movimento dai messeri del Partito Socialista lo ha trasformato in merce appetibile.

Riguardo alle umoristiche vicende del dibattito sulla posizione teorica di Proudhon e sulla sua contrapposizione a Marx non è molto importante soffermarsi. Tutti lo stanno facendo, che senso avrebbe ribattere qui il chiodo? Lo ha fatto Berti, definito dai compagni della rivista “A”, “sicuramente uno dei più preparati storici del movimento” (foto a fianco), che cosa potrei aggiungere di nuovo?

Lo hanno fatto quegli altri, gli imbecilli lacchè al servizio del Partito Socialista, lo ha fatto l’“onesto riformista” Pellicani, che, a dire il vero, tempo fa mi aveva inviato una lettera richiedendomi – per recensione – il libro di Proudhon da noi pubblicato e altri volumi della stessa collana – lettera che ho cestinato, mandando a quel paese questo “buon conoscitore del pensiero anarchico”: che li comprasse nelle librerie i nostri libri.

Lo hanno fatto tanti altri, da Valiani a Salvadori, giù, giù fino ai liberali. I fascisti sono rimasti un poco interdetti, poi hanno, evidentemente con virile atto di coraggio, deciso che loro non si riconoscevano nelle tesi di Proudhon, nemmeno in quelle della Pornocrazia. E si sono messi l’anima in pace.

Osservando bene, l’operazione condotta dagli sgherri di Craxi non è altro che una grande cortina di fumo, diretta a nascondere il progressivo schiacciamento del partito tra i due colossi della reazione imperante. Un modo come un altro di strillare forte, qualsiasi cosa, anche parole inconsulte, per farsi sentire dalla gente. Una specie di vano dibattersi di chi non sa più nuotare perché paralizzato dalla paura. Se dovesse cessare questa paura cesserebbero anche le chiacchiere su Proudhon.

Il condensato che delle posizioni teoriche di Proudhon è stato fatto non ha senso alcuno, essendo prodotto dai servitori di un potere a esclusivo beneficio di quest’ultimo. L’operazione ricorda quella realizzata da Mussolini e da Gentile. Il primo incaricò indirettamente il secondo di realizzare al più presto una certa base filosofica e una giustificazione logica per il fascismo. A dire il vero non poteva scegliere meglio: professionista il Gentile lo era veramente, di quella bravura tecnica che rende gli uomini privi di scrupoli ancora più pericolosi. E il filosofo siciliano si mise al lavoro, fece la sua brava visita al castello dei fantasmi e fornì al suo duce e padrone lo stretto indispensabile per giustificare “teoricamente” la dittatura fascista. Insieme al collega tedesco, quel Rosenberg a cui fu commissionata più o meno la stessa operazione, Gentile trovò la fine che meritava.

Come mai, mi chiedo, invece di darsi da fare per ficcare una pallottola nel bel mezzo della fronte ai corrispondenti (in sedicesimo) nostrani e contemporanei di simili predecessori, squallide figure oscillanti dalla socialdemocrazia al cattolicesimo, dal comunismo autoritario allo stalinismo di rigetto; come mai, a questa masnada di traditori della causa dei lavoratori, si continua a dar credito, facendoli parlare nei nostri convegni, nelle nostre assemblee, invitandoli a “dire la loro” nei nostri giornali?

È significativo che chi consente a questi traditori di parlare fianco a fianco degli anarchici, avverte una specie di disagio, tanto che i compagni responsabili di simili “leggerezze” sentono il bisogno di affiancare al nome di questa gente epiteti “qualificanti” come: “onesto riformista”, “profondo conoscitore dell’anarchismo”, “storico del sindacalismo” e faccende del genere.

Intendiamoci bene. Con queste osservazioni non voglio per nulla dire che gli anarchici, in quanto “portatori della verità”, devono stare attenti alle contaminazioni, evitando di “parlare” con gli altri, sul piano culturale e scientifico. Non si tratta di tenere le nostre cose nel chiuso delle nostre chiese, tendenza contro cui mi sono sempre battuto, e anche coloro che non condividono le mie posizioni non possono non darmene atto. Il fatto è che bisogna avere il coraggio di dichiarare fino in fondo che il dialogo e la democrazia sono mistificazioni, che facendo parlare i traditori dei lavoratori non si accresce il patrimonio culturale, perché l’unico patrimonio del genere è quello che le lotte degli sfruttati vanno accumulando ogni giorno, non le stupidaggini che su quelle lotte uomini di cultura asserviti al potere vanno dicendo di tanto in tanto.

Illudersi che la partecipazione di questi meschini lacchè del potere, in un modo qualsiasi possa tornare utile agli sfruttati, è illusione tragica che rispecchia, sul piano ideologico, quell’altra illusione che, sul piano pratico, si chiama fronte popolare, collaborazione con le “forze” della sinistra.

Volendo, per un attimo, scendere più da vicino verso le cose fatte da Proudhon, non si può tacere come tutta la sua opera sia stata una immane lotta contro quelle che oggi definiremmo destra e “sinistra”, una lotta a volte contraddittoria, perché contraddittoria è la realtà, specie quando ci si rifiuta di fare intervenire un principio astrattamente consolidante, quale quello fissato nel meccanismo dialettico hegeliano-marxista. Ora, Proudhon, ai suoi tempi, non era per nulla lo sconosciuto che oggi appare. Era al centro di un movimento politico che non solo continuò molto tempo dopo di lui, travagliando anche le vicende domestiche dello stesso Marx (ricordare la presenza in famiglia di Longuet), ma era egli stesso un lottatore, non un visionario perduto fra le sue carte, un dottrinario che intende consegnarsi senza reagire ai denti da topo di un qualsiasi Pellicani o Sciacca. Per andare a far visita a un amico era capace di farsi a piedi Parigi-Lione e, non trovandolo, rifarsi, sempre a piedi, lo stesso tragitto. Era un uomo che lavorò seriamente in vita sua, da operaio manuale, da tipografo e da operaio intellettuale, trovando sempre il modo – forse alcune volte confusamente – di attaccare lo sfruttamento e i suoi artefici. Era un uomo che fino all’ultimo, vecchio e sfibrato dal carcere e dalle persecuzioni, pur con le cautele letterarie che ritenne opportuno usare, attaccò ancora una volta il potere, dichiarandosi senza mezzi termini dalla parte del popolo.

Un suo famoso intervento, prima della prigione, all’Assemblea Nazionale, il 31 luglio 1848, raccoglie gli insulti unanimi dell’assemblea, dai legittimisti reazionari ai progressisti repubblicani, ai comunisti autoritari. Il suo attacco contro la destra e contro la “sinistra” – attacco contemporaneo su due fronti, l’unico attacco possibile per un anarchico conseguente – e la sua affermazione della “necessità di una reale costituzione sociale che renda superflua qualsiasi costituzione politica”, furono respinti con 691 voti su 693 e con un provvedimento di biasimo contro di lui.

Ma, chiaramente, non sono queste le cose che possono essere recepite da gente della risma di Pellicani, Settembrini, Salvadori. E i compagni anarchici che intervengono nel problema, adesso, debbono far chiarezza immediata; primo, sulla posizione strumentale (e quindi controrivoluzionaria) di questa gente; secondo, sulle analisi che ancora oggi sono valide nell’opera di Proudhon, analisi che devono essere fatte valere indipendentemente dal contributo (ripeto, sempre strumentale) dei vari soloni marxisti, cripto-marxisti, cattolici o proudhoniani che imperano nelle università, che appestano le biblioteche, che infestano i giornali di regime.

Fare un campionario di queste possibili analisi è certamente inutile, per compagni anarchici preparati come sono quelli che si occupano dell’argomento. Comunque, se dovessi lavorarci io, mi dedicherei alle analisi di Proudhon sul rapporto politica-società, sul confederalismo (da non confondersi con il federalismo), sul rapporto confederalismo e sindacalismo, sull’astensionismo, sulle classi, sul rapporto contadini-operai, sulla borghesia, sui processi dialettici, sulla storia e via discorrendo.

E questo non mi sembrerebbe un “utilizzo” di Proudhon oggi, nel senso dell’operazione portata a compimento da Craxi e accoliti, ma un contributo al patrimonio di idee del movimento rivoluzionario, contributo che, però, può essere realizzato solo dai rivoluzionari e non da rimestatori di cadaveri.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” nn. 23-24, 1978, pp. 260-263]

Le presunte neutralità dei servi dei padroni

Dal 25 al 27 marzo del 1978 si tenne nell’Aula Magna della Facoltà di Architettura di Venezia un convegno su I nuovi padroni, organizzato da alcuni compagni anarchici vicini all’area della rivista “A”.

Fra le relazioni quelle più interessanti e cospicue erano: la relazione di A. Bertolo, “Per una definizione dei nuovi padroni”; quella di L. Pellicani, “Comunismo e burocrazia”; quella di E. V. Trapanese, “La riproduzione di classe dei ‘nuovi padroni’”; quella di N. Chomsky, “Gli intellettuali e lo Stato”; quella di N. Staffa, “Il controllo delle abitazioni in Gran Bretagna” e quella di C. M. Rama, “Franchismo e classe superiore spagnola”.

Le altre relazioni, meno importanti e significative, fecero, comunque, da degno corredo a questa iniziativa culturale che non poteva non impressionare il movimento anarchico internazionale, per la sua importanza e per il profondo contributo che certamente queste analisi non hanno mancato di dare al maturarsi delle coscienze rivoluzionarie e anarchiche.

Per i lettori, il prefattore tiene a sottolineare che seguivano il convegno, nella sullodata Aula Magna, nelle ore “centrali” (non si capisce il senso della parola “centrali”, ma forse si riferisce alle ore assegnate alle relazioni più importanti) circa quattro-cinquecento persone, mentre due-trecento sopravvivevano al termine delle sessioni pomeridiane.

Si tratta – scrive il prefattore (A. Bertolo) di “una prova indiscutibile del successo complessivamente riscosso dal convegno, una testimonianza insieme dell’interesse suscitato dagli studi presentati e della serietà dell’uditorio”.

Riguardo la presenza di studiosi non libertari lo stesso prefattore precisa: “Come già per il convegno bakuniniano, anche a questo convegno gli organizzatori hanno invitato studiosi di diversa matrice ideologica e di diversa impostazione metodologica. Alcuni hanno accettato di partecipare. Così, ad analisi propriamente libertarie si sono alternate – seppure in numero minore – altre che muovevano da posizioni liberalsocialiste o più o meno marxiste (più o meno nel senso che il lessico e le categorie usate lo sono, ma lo spirito non è dogmatico)”.

Un altro prefattore, R. Ambrosoli, nel suo “indirizzo d’apertura”, ci fa sapere che la presenza di alcuni studiosi di “diversa matrice ideologica”, ha fatto ritenere opportuno agli organizzatori di dividere il convegno “in una parte analitico-conoscitiva (diciamo più ideologicamente ‘neutrale’, fatte le suaccennate riserve sulla ‘neutralità’ delle scienze umane) ed in una più legata alla prassi sociale libertaria, per non coinvolgerli arbitrariamente in un discorso più propriamente ‘nostro’”.

Personalmente mi ritornano sempre i vecchi dubbi, più volte fatti presente. Tutte queste distinzioni tra neutralità e neutralità tra virgolette, mi sfuggono. Tutta questa presenza di “spirito che non è dogmatico” mi sfugge. Tutte queste persone “liberalsocialiste” o quasi-marxiste, continuo a non comprendere cosa ci facciano in un convegno organizzato da anarchici. Infatti, le ipotesi sono due: o si crede nella “neutralità” della scienza, e allora il confronto è legittimo, o si afferma che la scienza non può essere “neutrale”, e allora il confronto è delittuoso, in quanto col nemico e con i suoi servitori non si dialoga.

Quando Ambrosoli, nello stesso indirizzo d’apertura scrive: “... noi studiamo i nostri padroni (scientificamente, sì, se questo significa con rigore e sistematicità) non perché essi sono semplicemente un interessante fenomeno sociale, ma perché essi sono nostri nemici [sottolineature nel testo]...”, vuole forse escludere gli ideologi liberal-socialisti e gli ideologi quasi-marxisti dal numero dei “nuovi padroni”? e quindi dal numero dei nostri nemici?

Queste “incertezze” politiche dispongono male il fruitore degli sforzi analitici realizzati, il quale non può – se cosciente dei pericoli del pantano ideologico – non chiedersi: se analisi libertarie stanno una a fianco all’altra con analisi autoritarie prodotte da notissimi servi dei padroni, in che modo posso considerare utilizzabili le prime, quando (a parte il nome di chi le ha scritte), nulla, o ben poco, appare leggibile come discriminante? Se qualcuno, solo perché ha uno spirito non dogmatico può sostenere le ideologie del potere in carica, anche nei nostri convegni, come faccio, quando leggo le analisi di questo qualcuno, corredate dal suo noto “spirito antidogmatico”, a non restare sospettoso, specialmente quando la materia che si approfondisce è quella relativa alla struttura e alla consistenza della classe che dà da mangiare all’autore provvisto di tanto opportuno spirito non dogmatico?

Credo che queste siano domande più che legittime, che tutti i compagni debbono porsi.

Come leggere le tirate massimaliste di Ambrosoli (noi studiamo i nuovi padroni... perché essi sono nostri nemici), e di Bertolo (la lotta di classe non diventerà lotta consapevolmente rivoluzionaria se non diventa chiara la identificazione di un nuovo nemico di classe nella tecnoburocrazia)? Guardate che questi due compagni usano, stranamente, la parola “nemico” quando si apprestano a concludere i loro sforzi analitici, per valutare la classe dei padroni. Ci vogliono dire chiaramente che queste analisi sono dirette ad accrescere la consapevolezza (cioè la coscienza di classe) che i padroni sono cambiati e che pur essendo cambiati sono sempre i nostri nemici.

Ora, questo stesso concetto è leggibile nelle analisi dei traditori della classe degli sfruttati? Se è leggibile, la presenza di quelle analisi è utile, ma dobbiamo ammettere la “neutralità” della scienza, la buona fede, il buon cuore, lo spirito non dogmatico. Viceversa, se non è leggibile, che cosa ci stanno a fare quelle analisi se non a riempire pagine che si potevano usare diversamente?

In fondo a queste iniziative, democraticamente aperte al dialogo con le forze del nemico, si nasconde – o almeno mi pare si nasconda – il grosso equivoco del democraticismo. E tutto ciò puzza di socialdemocrazia.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” nn. 26-27, 1979, pp. 145-146. Recensione a AA.VV., I nuovi padroni, Milano 1978]

Il banchetto per il centenario di un certo Bakunin

L’anno successivo al centenario della morte di Bakunin è stato caratterizzato dall’impegno di molti compagni nel campo editoriale, impegno diretto a colmare una lacuna che trovava origine in una qualche paura che il pensiero bakuninista ha sempre fatto a certi rivoluzionari molto pii.

Cogliendo l’occasione, anche alcune case borghesi si sono affrettate a far sortire il loro contributo, disputandosi una fetta non trascurabile del mercato dei libri che risulta interessata alle “cose” anarchiche. Mondadori docet.

Anche noi di “Anarchismo”, nei limiti delle nostre forze, ci siamo dati da fare per non farci passare la bistecca sotto il naso, ed abbiamo fatto uscire tra il giugno 1976 e l’agosto 1977 cinque volumetti col pretenzioso titolo di Opere complete, che iddio ci perdoni.

Tanta impressionante solerzia può forse nascondere un progetto egemone? Che gli anarchici vogliano contrastare il passo ai “dotti” marxisti sul terreno dell’ideologia e del “chi più ne ha più ne metta”? Per quanto ci riguarda i nostri scopi sono stati diversi (più modesti), qui non si batteva un chiodo, e non sapendo fare altro che libri (male, a detta di qualcuno) abbiamo pensato che non c’era occasione migliore di questa per fornire uno strumento (facendoselo pagare, magari un po’ caro). Per scrupolo di coscienza abbiamo anche messo un’indicazione di lettura, una specie di freccia indicativa, all’inizio, a scanso di equivoci, per quanto su quelle “introduzioni” non facessimo molto affidamento, almeno come strumento di chiarificazione. La preoccupazione di riportare il discorso “storico” dal fumo accademico alla realtà dello scontro, ci ha, spesso, giocato dei brutti tiri, come quando abbiamo fatto morire Herzen un anno prima (o un anno dopo, adesso non mi ricordo). Guaio serio, questo delle date. Certo le schedature nelle biblioteche sono un lavoro di somma importanza, contribuendo – insieme alle pietre – a innalzare le barricate nelle rivoluzioni (o no?). Comunque, per motivi contingenti e non dipendenti dalla nostra volontà, vuol dire che le nostre barricate, al momento opportuno, le faremo solo con le pietre.

Sui quattro libri che ho sott’occhio non c’è molto da dire, una volta che si parta dal presupposto della cultura “ufficiale” di sinistra. Buon lavoro d’archivio quello di Damiani che ci fa conoscere una parte del lavoro di Bakunin generalmente trascurata (per quanto mi riguarda, assolutamente ignota). Belle queste ricerche. Ci fanno rivivere un’atmosfera che possiamo vedere solo sulle cartoline illustrate del buon tempo antico e sulle foto ingiallite dei nostri nonni. Uomini con la barba fluente e il fiocco nero, mantelli ampi, fucili a trombone. Chissà come sarebbe rimasto il buon vecchio Bakunin davanti a un poliziotto armato di mitra o davanti a un congegno elettronico? In ogni caso, queste ricerche ci fanno sentire più forti. Se voi suonate le vostre trombe, noi suoneremo le nostre campane. Quindi, cessate di fare i gradassi, perché anche noi sappiamo battere su quel tasto.

I marxisti, attoniti, tacciono.

Più chiaro, in questo senso, è stato lo scopo dei compagni che hanno organizzato il “Convegno internazionale di studi bakuniniani” a Venezia. Nell’Introduzione al volume degli “Atti” si legge: “Quella degli organizzatori è stata una specie di sfida, fatta innanzitutto dagli anarchici a se stessi, per dimostrare di potere ancora essere un punto di riferimento per il pensiero antiautoritario e di saper affrontare il confronto culturale”.

Questo progetto ci riempie di giusto orgoglio, finalmente vi sono compagni che vogliono porsi come punto di riferimento culturale. Se ne sentiva veramente il bisogno, visto il casino che c’è in giro. Solo che questo lavoro, di indiscussa validità, non può (a mio parere) essere fatto senza tenere conto di una pregiudiziale: la cultura è un fatto di classe non un fatto assoluto. Da ciò deriva che un qualsiasi Masini, per quanto bravo possa essere a schedare biblioteche, non può mai fare un discorso accettabile su Bakunin in quanto la sua posizione politica è quella dei traditori della causa dei lavoratori. Lo stesso dicasi per altra gente come Pellicani, Penzo, Settembrini, ecc.

Questo è un fatto. Le conseguenze logiche sono due: o si accetta il presupposto di una cultura e di una scienza ideali che sono al di sopra delle classe, e quindi mi interessa stare ad ascoltare Masini, Pellicani, Settembrini; o non lo si accetta, ritenendo che la scienza e la cultura vadano verificate nel vivo dello scontro di classe, ed allora non mi interessa più stare ad ascoltare questa gente, né tanto meno assommare i loro interventi a quelli di compagni anarchici, dando a intendere, all’esterno, che esiste una corrispondenza di amorosi sensi, quanto meno falsa e pericolosa.

La vera critica che dobbiamo rivolgere a questa gente, anche e principalmente quando si interessa della tradizione dell’anarchismo, dovrebbe essere quella delle loro colpe, sul piano concreto, delle loro responsabilità, delle loro complicità con una situazione attuale di sfruttamento. Non dovrebbe essere una semplice critica sul piano dell’oggettività storica, sul piano delle ricerche, sul piano della scienza assoluta, al di sopra di tutto e di tutti.

Un malinteso pluralismo ci potrebbe portare a inganni ideologici di cui gli sfruttati non hanno veramente bisogno. Nel momento storico che attraversiamo queste riflessioni dobbiamo farle, anche se possono dispiacere a qualche compagno, anche se possono sembrare eccessive. Gli anarchici non sono uomini di partito, questo è notissimo, ma non per questo sono interclassisti e non hanno una visione della divisione dello scontro storico. Possedendo chiara questa visione essi prendono le parti degli indifesi, degli oppressi, degli sfruttati, contro gli oppressori e gli sfruttatori, quindi sono uomini di parte. Il loro antiautoritarismo non potrà mai arrivare fino a dare spazio ai fascisti, ai padroni. Ed è ora di comprendere che la facciata “democratica” dei nostri padroni, insieme alla facciata “progressista” dei loro reggicoda, non ha nulla da invidiare alla dannosità e alla pericolosità dei fascisti e dei vecchi padroni.

Con queste parole non voglio insegnare cose nuove ma solo indicare un pericolo, una trappola ideologica, una non corretta interpretazione del pluralismo anarchico.

[Pubblicato su “Anarchismo” n. 18, 1977, pp. 350-351. Recensione a M. Bakunin, Azione diretta e coscienza operaia, Milano 1977; F. Damiani, Bakunin nell’Italia post-unitaria, Milano 1977; M. Bakunin, Libertà, uguaglianza, rivoluzione, Milano 1977; AA.VV., Bakunin cent’anni dopo, Milano 1977]

La cultura libertaria della buona volontà

Partendo dal presupposto – giustissimo – che l’area del pensiero libertario sia oggi ricca e dinamica, la rivista “An.Archos” si propone di cercare spazi per nuovi contributi da parte delle varie tendenze libertarie, in modo da allargare il dibattito e sviluppare una metodologia critica, demistificante le strutture dominanti del sapere, le quali impediscono di progettare altro che non sia dentro la miseria della società attuale.

Questo della cultura libertaria è certamente un grosso problema. Non che non esistano uomini di cultura che si proclamino e che siano sostanzialmente libertari, oppure che non sia possibile parlare di “cultura libertaria”, ma il vero ostacolo è dato dal fatto che il presupposto è contraddittorio per cui deve essere superato nel momento stesso in cui lo si pone.

Cerchiamo di chiarire meglio. Le esperienze culturali di ognuno di noi (e gli anarchici e i libertari non fanno eccezione), emergono da un universo culturale, da una serie di presenze dottrinali e ideologiche, che sono date, che costituiscono quella che viene chiamata la “tradizione”. Ma anche l’universo culturale del potere e della repressione emerge dalla stessa matrice. In questa, ovviamente, è stata da tempo operata una seria distinzione – di cui i termini sinistra e destra sono semplici simboli per meglio intenderci – ma non c’è chi creda seriamente e fino in fondo alla validità di questi simboli, una volta che si scenda nel profondo dei meccanismi culturali. Infatti, sarebbe legittimo chiedersi: uno stalinista è di destra o di sinistra? Il libro di Lukács La distruzione della ragione, che è indiscussamente un libro stalinista, è un libro di destra o di sinistra? E così di seguito, fino alla nausea. In sostanza, non è possibile farsi domande del genere.

Dall’insieme della tradizione culturale emerge un portato istituzionale di cui tutti, più o meno, facciamo parte. Nessuno di noi può scagliare la prima pietra perché indenne da peccato. Non è che siamo autoritari perché abbiamo letto Platone o Marx, e neppure siamo antiautoritari perché abbiamo letto Zenone o Kropotkin. Quello che siamo, intimamente, ci viene sollecitato dalla nostra risposta allo scontro di classe. E questa risposta è anch’essa parte della nostra cultura e delle nostre intenzioni di manipolarla in quanto strumento di modificazione della realtà. Ora, se, in quanto coscienti dello sfruttamento, ci disponiamo alla lotta per ridurre l’oppressione – in un modo o nell’altro – (e non possiamo fare ciò se non ne sentiamo profondamente l’urgenza), solo allora si opera una discriminante nel nostro intimo innesto culturale. Prima, per quanti sforzi avessimo fatto, tutti in buona fede, per dichiarare ai quattro venti la nostra matrice di “sinistra”, le nostre buone intenzioni, i nostri proponimenti, le nostre fatiche, i nostri risultati, non saremmo stati in alcun modo capaci di diventare la vacca che si distingue nell’oscurità della notte per il diverso colore del mantello.

Nessuno nega che siano possibili buone volontà intellettuali capaci di produrre stimolanti analisi, modificazioni metodologiche importanti, ricerche storiografiche di stravolgente contenuto. Qui si vuole solo dire che quando si portano questi contributi al banco critico del movimento rivoluzionario, tutti, indistintamente, devono possedere una leggibilità immediata, cioè devono essere riconducibili immediatamente a una fruizione in termini di affrontamento di classe. In caso contrario, questi contributi verrebbero consegnati al grande archivio della cultura tradizionale, con tutte le conseguenze, e nessun segno esteriore specifico sarebbe sufficiente a salvarli dall’annegamento, nessuna indicazione ideologica, nessuna sigla, nessuna bravura stilistica, nessuna “firma” più o meno conosciuta.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” nn. 26-27, 1979, pp. 146-148. Recensione a “An.Archos”, Rivista trimestrale, anno I, n. 1, gennaio-marzo 1979]

Passeggiate sull’anarchismo

Raccolta degli scritti di Damiani apparsi nel decennio precedente al 1975 sui più svariati argomenti attinenti alla propaganda e all’analisi dell’azione anarchica. Vi sono articoli sulla scuola, sul sindacalismo, sui problemi economici, sul fascismo e molti altri di diverso taglio e valore. Vi sono articoli teorici che parlano del problema dell’organizzazione (che poi sono fra i più interessanti), degli extra-parlamentari, della lotta sociale.

Purtroppo il valore degli interventi, alcuni stranamente assortiti, disparati fra loro, come se messi insieme alla rinfusa, appare molto discordante. Interessanti notazioni sull’organizzazione si collocano accanto a polemiche e chiarimenti contro questo o quel compagno che scadono d’importanza. Valide considerazioni sui sindacati si intrecciano con strane, e personali, teorie sulla proprietà, del tutto prive di fondamento logico.

Sull’argomento della proprietà, evidentemente, si è inserito un mancato chiarimento tra possesso e proprietà, tra strumento di produzione e oggetto di consumo. Ed è strano che questo sia accaduto a un uomo dalla lunga militanza nelle lotte sociali.

In definitiva il libro non mi pare positivo. In ogni caso, la sua lettura è dispersiva in modo particolare per giovanissimi compagni che si avvicinano oggi alle posizioni anarchiche. Personalmente ho sentito non poche perplessità provenienti proprio da compagni giovani che ne hanno affrontato la lettura. Il motivo di fondo di questa conclusione negativa è che Damiani ha messo troppa carne sul fuoco, vagando, più o meno a suo agio, su argomenti molto diversi e portandosi dietro non pochi preconcetti. Anche non considerando il discorso sulla proprietà, su cui tanti compagni si sono soffermati, che non costituisce la sola perla del libro, restano gli altri discorsi. Volendo, presi uno dopo l’altro, sono anche logici, ponendosi sulla dirittura del rapporto anarchico tra mezzi e fini: scegliendo bene i mezzi non si possono non raggiungere i fini proposti dall’anarchismo, cioè l’anarchia, in quanto questa – secondo Damiani – sarebbe realizzabile in qualsiasi tempo e luogo (prima e dopo Galilei), non avrebbe relazione con lo sviluppo scientifico, non si porrebbe problemi di natura tecnica, ma sarebbe qualcosa di estraneo ai sistemi filosofici e alle scoperte scientifiche. Per cui, continua Damiani: “Dal giorno in cui fra gli uomini, sulla terra ci sono state ingiustizie ed oppressioni causate e volute da volontà umane, e fino a quando queste ingiustizie ed oppressioni persisteranno, indipendentemente dal grado di sviluppo scientifico raggiunto, ci sarà la necessità di combattere per realizzare una forma di organizzazione sociale che le faccia scomparire. E sarà l’Anarchia”. Questo discorso ci pare abbastanza pericoloso. Innanzi tutto non è vero che l’anarchismo non abbia avuto, e non abbia oggi, un suo sviluppo storico legato a posizioni scientifiche e filosofiche. Non è vero che Malatesta non si possa collegare con il pensiero e la scienza del suo tempo (e allora cosa sarebbe? una specie di semidio in possesso della verità?). Non è vero che l’anarchismo è sempre uguale a se stesso, allora sarebbe qualcosa di metastorico e negherebbe l’idea stessa di trasformazione della realtà, l’idea di libertà.

Comunque l’argomento è molto delicato e difficile ed è soltanto uno dei cento argomenti presi da Damiani.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” nn. 10-11, 1976, p. 291. Recensione a M. Damiani, L’anarchismo degli anarchici, Iglesias 1995]

Il Giappone è lontano

La Breve storia del movimento anarchico giapponese è un libretto pieno di nomi e date, riferimenti e fatti, dovuto a V. Garcia, autore che già ci aveva dato un’indagine sul Giappone e una sull’America. Come quei precedenti libri, anche questo è documentato ma superficiale.

Il libro non si pone problemi, non affronta nel vivo le tematiche sociali di una struttura produttiva, come quella giapponese che rappresenta un modello non trascurabile anche per i progetti del capitalismo occidentale (basti pensare all’integrazione delle comunicazioni). I compagni giapponesi si sono trovati a lottare contro questa struttura ed hanno deciso, fra l’altro, nel 1968, lo scioglimento della F.A.J., ma Garcia non ci dice il perché. a un certo punto ne accenna, riportando il testo della dichiarazione dell’ultimo segretario dell’organizzazione, Miura, ma si tratta di un documento ufficiale che conoscevamo.

In sostanza, almeno a quanto mi venne riferito nel 1973 da tre compagni giapponesi, anch’essi citati nel libro in questione, lo scioglimento fu attuato per una riconosciuta inefficienza dell’organizzazione di fronte ai compiti di lotta che il movimento, nella sua dimensione concreta, era chiamato a svolgere. Ma Garcia elude l’argomento, facendoci capire che tutti i compagni in Giappone si sforzano perché un giorno possa risorgere la F.A.J., cosa che non mi pare molto vicina alla realtà, quando invece le lotte degli anarchici giapponesi sono, più che mai, dirette a riportare il movimento, nel suo complesso, al di dentro delle lotte, senza questioni di sigle e di schieramenti.

A parte queste pecche di superficialità, il libro sembra utile per una informazione generale sulla storia passata del movimento anarchico giapponese.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” nn. 10-11, 1976, pp. 291-292. Recensione a V. Garcia, Museihushugi. Breve storia del Movimento anarchico giapponese, Iglesias 1976]

Confusamente a dispetto di tutto

Alcuni anni fa discutemmo della possibilità di pubblicare questo scritto di J. Olday con alcuni compagni inglesi, responsabili delle edizioni Bratach Dubh. Si arrivò alla conclusione che si trattava di un’analisi confusa, contraddittoria e scarsamente significativa, anche se, in alcune parti, interessante.

Adesso, che esce la traduzione italiana, non mi pare che si possa modificare l’opinione passata.

Dovuto alla penna di un vecchio militante anarchico, recentemente scomparso, questo libretto spazia attraverso esperienze di lotta che vanno dall’insurrezione spartachista alle Brigate Rosse, non sempre con quella cognizione di causa che sarebbe legittimo aspettarsi.

Sbalorditivi i passi in cui si fanno accostamenti tra la RAF e le SA di Röhm, oppure con la “Feme”, organizzazione di assassini fascisti. Non mancano i punti in cui si conclude per la necessità di un attento controllo delle organizzazioni clandestine, quindi per una necessità di “eliminare le spie”, per poi ammettere che, però, i gruppi clandestini oggi sono inquinati da “confusionari, acritici, romantici, avventurieri, psicopatici-depressi”, insomma dai “rifiuti della società, dal cosiddetto ‘Lumpenproletariat’”.

Poi, di colpo, si passa a una condanna di quei compagni che dicono: “La resistenza armata è un suicidio”, per cui il lettore è introdotto in una esaltazione della lotta armata, sia difensiva che di attacco.

Testo confuso e scarsamente penetrante, come si è detto, con in più il gravame di una traduzione approssimativa e scarsamente rispettosa delle significanze della lingua italiana.

[Pubblicato su “Anarchismo” nn. 26-27, 1979, p. 146. Recensione a J. Olday, A dispetto di tutto. Anarchismo e lotta armata, Torino 1979]

Cecilia santificata

Dalle esperienze dell’Internazionale pisana (1873-1883) al grande esperimento della comune Cecilia in Brasile, l’attività di Giovanni Rossi è esaminata con sufficiente larghezza. Trattandosi di documenti non facilmente rintracciabili, il lavoro è senz’altro utile e meritorio.

Naturalmente non bisogna chiedere troppo a sforzi come questo. Il problema delle comuni anarchiche è problema che tocca anche oggi molti compagni, ma l’autrice non se ne cura, il suo solo interesse è quello di seguire l’evoluzione del pensiero e dell’azione di Rossi e dei suoi compagni, facendo riferimento, di passata, alle critiche di Malatesta, critiche che si possono riassumere nel concetto di “tradimento rivoluzionario”.

È ovvio che la realtà è molto più complessa. Quello che Rossi cercava, e che fece di tutto per realizzare, è diventato oggi [1977] oggetto della ricerca di molti compagni: mutate le condizioni dello scontro di classe, molti problemi della convivenza sono rimasti intatti, perché più o meno intatto è rimasto il problema dello scontro tra la dimensione umana e quella politica.

A mio avviso, una corretta impostazione del problema delle comuni va problematizzata con i seguenti punti di discussione:

a) È legittimo abbandonare la linea dello scontro di classe, nei luoghi della produzione e dello sfruttamento? Oppure l’azione costruttiva delle comuni non può definirsi un vero e proprio abbandono e deve, quindi, riportarsi all’interno del quadro dell’attacco che gli sfruttati rivolgono al capitale?

b) È possibile la realizzazione di “esperimenti” comunisti in una società che è fondata sulla sopraffazione dell’uomo da parte dell’uomo?

c) Hanno, questi esperimenti, un qualche valore educazionista? Oppure sono da considerarsi positivi solo per i problemi che causano al capitale?

d) Una vita “alternativa” può sempre essere recuperata dal sistema? Oppure ci sono dei limiti al di là dei quali il sistema non recupera più nulla e comincia ad accusare i colpi?

Tutte queste domande avrebbero arricchito il libro della Gosi di varie problematiche che, qua e là, affiorano negli stessi scritti di Rossi, ma che non vengono sottoposti a una vera e propria analisi critica. L’autrice preferisce, invece, dare spazio e dignità di capitolo all’esperienza di “libero amore” realizzata nella comune Cecilia e documentata dallo stesso Rossi in un opuscolo del 1893. In questa esperienza, a parte la buona volontà dei compagni e le preoccupazioni psicoanalitiche a posteriori di Rossi scrittore, non esistono elementi di un valido approfondimento. Tutto si riduce ad affermazioni scontate e a luoghi comuni.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” nn. 16-17, 1977, pp. 297-298. Recensione a R. Gosi, Il socialismo utopistico. Giovanni Rossi e la colonia anarchica Cecilia, Milano 1977]

Godwin per bambini

Mettendo da parte l’inutile introduzione della Tomasi, di cui si sarebbe potuto benissimo fare a meno, il volume presenta un’analisi abbastanza obiettiva del pensiero di Godwin riguardo il problema pedagogico.

C’è da precisare che l’autore, pur seguendo con puntigliosità i luoghi dell’itinerario di Godwin, finisce per concludere in modo socialdemocratico sulla concezione di “progresso” che, ben lungi dall’essere ortodossamente illuminista, assiste tutto il pensiero di Godwin e, quindi, anche quella parte più specificamente pedagogica. Nel pensiero di Godwin, come appare chiaro per chi ha una qualche dimestichezza con la sua opera principale, è costante la preoccupazione di garantire uno sviluppo rivoluzionario della situazione presente, di indicare i pericoli di una involuzione delle istituzioni nel senso di una maggiore tirannia ed oppressione camuffate sotto le vesti della democrazia. E l’esempio più chiaro che gli capita di fare è proprio quello relativo all’educazione del fanciullo. Non vale nulla la miglior riforma del mondo, se poi tutto deve procedere in base a un programma fissato dallo Stato. Eppure, nonostante questa affermazione di principio, resta il fatto che l’azione rivoluzionaria deve essere condotta all’interno della dimensione reale in cui agisce e detta legge il potere. Volerne uscire, con un volo di fantasia, equivale a favorire il potere stesso, che di questi voli sa fare buon uso. Quindi, non “piedi a terra” nel senso di essere disposti ad accettare, in parte, il potere, come male minore; ma “piedi a terra”, cioè realismo, nel senso di constatare che anche l’educazione coercitiva del potere, ha – come un coltello – due tagli e che può essere ritorta, se in quella direzione si lavora, come un’arma contro il potere.

Godwin non si illude di trasformare l’educazione autoritaria con la forza della riflessione filosofica, sa che per trasformare il potere occorre abbatterlo. In questo è ben lungi dalla illusione (interessata) della socialdemocrazia di ogni tipo. Il suo realismo politico consiste nello studiare il migliore dei modi per distruggere il potere anche nella persistenza degli strumenti specifici dello sfruttamento, tra i quali è da annoverare lo strumento autoritario dell’educazione.

Questo argomento, mi pare, andava meglio approfondito nel lavoro di Argenton, cui sarebbe stato legittimo chiedere una migliore conoscenza dei testi anarchici che interpretano ed approfondiscono la posizione filosofica di Godwin.

Da una scorsa alla bibliografia appare chiaro che questo sforzo il nostro autore non l’ha compiuto. Basta vedere il credito che dà a centoni come quello di Woodcock, di Zoccoli, fino a quello, recentissimo, di Tarizzo. Per non parlare della citazione di Sernicoli che dovrebbe fare arrossire chiunque.

Tutto sommato, un approccio che nel paese degli orbi può anche sembrare una cosa notevole.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 15, 1977, pp. 156-157. Recensione a A. Argenton, La concezione pedagogica di un classico dell’anarchismo: William Godwin, Bologna 1977]

Le chiacchiere sulla delegittimazione

In questi ultimi anni si sono fatte molte chiacchiere sulla rivoluzione. Alcuni professori universitari, qualche maestro di scuola con gravi problemi personali di adattamento, alcuni giornalisti al soldo degli interessi del capitale, specialisti di sociologia e di economia, non pochi autodidatti dalle indigeste letture; tutti insieme, si sono interrogati affannosamente sul mistero della rivoluzione.

Siamo in una fase rivoluzionaria? È finito il periodo della rivoluzione? Essa è ancora possibile? L’anarchismo è rivoluzionario? E simili domande si sono allungate più del necessario.

Una ventata di cultura “radical” americana è penetrata in Italia, nell’ambiente anarchico, supportata da qualche divulgatore universitario di casa nostra, da qualche intellettuale spagnolo démodé e da qualche compagno attivo in passato ma oggi praticamente ridotto a fare da innocuo ripetitore delle tesi dell’accademia.

Di per sé la cosa non sarebbe seria se non cadesse a proposito (ma è proprio un caso?) in un momento in cui la “desistenza” generalizzata e le varie proposte di amnistia più o meno “domandate” o “imposte”, dilagano dappertutto.

Luciano Lanza, della redazione di “Volontà”, ci fa sapere che questo è uno dei periodi in cui c’è l’eclissi della rivoluzione. Caduto il mito del proletariato la rivoluzione diventa irrealizzabile. Secondo questo compagno, esperto in problemi economici ed ex direttore di un quotidiano di affari, la nuova rivoluzione deve riunire in sé “il riformismo e il rivoluzionarismo”, cioè deve fare “cose concrete, banalmente quotidiane, ma sapendovi imprimere il segno del possibile totalmente altro”.

Egli apre il discorso sulla negazione di legittimità, ma non ci dice cosa si debba intendere, in una simile prospettiva, per ideale rivoluzionario. Vuole portare dentro la rivoluzione il riformismo, ma non ci dice come ci si potrebbe distinguere dall’involucro ben confezionato che il potere ama avvolgere attorno alla repressione e all’imbroglio politico. La rivoluzione è vista da Lanza come non raggiungibile senza il ricorso ai piccoli passi e agli aggiustamenti di tiro. Va da sé che l’insurrezione non è nemmeno presa in considerazione.

Un altro lavoratore dell’intelletto, Tomás Ibáñez, professore a Barcellona, ci fa sapere che la rivoluzione è antitetica al pensiero anarchico. Il desiderio di rivoluzione va bene, il progetto di rivoluzione no, quest’ultimo è per forza “un’impresa totalitaria e uno strumento di dominazione”. C’è da chiedersi cosa mai questo degno professore abbia in mente quando parla di rivoluzione. Più avanti egli ci fa sapere che l’idea di rivoluzione contiene sempre un elemento teologico e un elemento totalitario e deterministico. Tutto ciò è ovviamente contrario all’anarchismo. In questo modo, il pensiero anarchico deve “abbandonare il concetto di rivoluzione e riconoscere l’impossibilità di una società privata delle relazioni di potere”. Ognuno è libero di trarre le conseguenze che vuole da simili affermazioni, per altro pubblicate da un giornale anarchico.

Altre chiacchiere sulla rivoluzione le leggiamo in un intervento di Fraccaro che scrive questo rimprovero rivolto all’anarchismo: “Identificandosi nell’evento della rivoluzione ha confuso il suo essere rivoluzionario con una sua manifestazione storica, il tempo con l’essere, il suo essere rivoluzionario con il fare la rivoluzione”. Non sappiamo cosa suggerisca di fare il compagno in questione, comunque il rimprovero ci sembra tanto simile alla vecchia battuta di Hegel del “dover essere” che si doleva delle attitudini troppo brutali dell’“essere”. L’anarchismo avrebbe come “immanente” in sé la rivoluzione, quindi dovrebbe non curarsi degli eventi concreti che hanno una sia pur tenue relazione con quest’ultima proprio perché fuorvianti, mentre dovrebbe andar dietro alla sua creatività che, ovviamente, contiene la rivoluzione. Notevole esempio di teologica dissertazione sulla trinità rivoluzionaria.

Un onesto professore dell’Università di Lisbona ci fa sapere, papale papale, che l’anarchismo deve essere non rivoluzionario. Esso poteva avere una simile pretesa una volta, ma oggi, “chi riesce a vedere nelle vesti di un rivoluzionario un programmatore di computer... con moglie, villa, due automobili, barca a vela...”. Finché si resta nel campo dell’utopia l’anarchismo può parlare di rivoluzione, ma quando si considera un orientamento strategico le cose cambiano.

Gli stessi chiacchieroni della rivoluzione si uniscono ad altri mesti assertori del nuovo credo della rinuncia nell’affermare che se la rivoluzione è fallita, ancora più evidente è il fallimento dell’insurrezione.

Andrea Papi ha dedicato un libro all’argomento (La nuova sovversione ovvero la rivoluzione delegittimante) che, secondo me, ha alcuni aspetti superficiali imputabili alle scarse conoscenze specifiche dell’autore in materia teorica (ad esempio, di psicologia, di filosofia, di economia), ed altri aspetti contraddittori imputabili alle sue decisioni pratiche, tipiche di chi ha concluso il proprio desiderio – che era ben altro delle afflitte e affliggenti notazioni di oggi – nella morta gora di un provincialismo intellettuale e pratico.

Non voglio qui discutere del libro di Papi ma di quello che esso significa oggi nell’attuale situazione del movimento anarchico. In primo luogo l’autore sfonda una porta aperta sviluppando una critica dell’insurrezione intesa nel senso ottocentesco del termine, ma molto intelligentemente non si dà cura di operare delle distinzioni e di spiegare al lettore che non esiste solo un tipo di insurrezione.

Ciò toglie validità al suo lavoro e lo rivela come tendenzioso e disinformato. L’insurrezione cui andava (e teoricamente va) dietro il movimento anarchico che agiva (e agisce) come organizzazione di sintesi, è fatto morto e sepolto. Era questa insurrezione che risentiva delle pesantezze deterministiche. Oggi la cosa può essere diversa, ma deve essere chiarita.

Papi avrebbe dovuto distinguere poi tra sommossa e insurrezione e il non averlo fatto mostra che lui stesso non si è reso conto della differenza, tutto preso dalla necessità di sfondare porte aperte.

Ma qui mi voglio solo occupare di due cose. La prima – gustosissima e spassosa –, è la sua vicenda intellettuale con un certo Le Bon, di cui diremo subito; la seconda, è la sua soluzione delegittimante, di cui diremo più avanti.

Gustave Le Bon viene spacciato nel libro di Papi come autore di un lavoro “più che mai attuale”. Ora la cosa è comica perché il libro di Le Bon è del 1895 e lo stesso Papi, qualche pagina dopo, si lamenta del fatto che “nello sviluppo del movimento anarchico non c’è una localizzazione psicologica, sostanzialmente perché quando è nato la psicologia era ancora in fasce, mentre dominava una cultura tesa al progresso e alla scienza positiva”. Quindi il contributo del nostro degno compagno allo sviluppo dell’analisi psicologica all’interno del movimento si riduce a suggerire la lettura di un libro del 1895. E che libro! Un secondo aspetto comico nella ricerca di Papi è dato dal fatto che lui rimprovera di determinismo il movimento anarchico insurrezionalista e poi basa la sua critica facendo ricorso a un rudere del determinismo positivista del secolo scorso come Le Bon. Infine, il terzo aspetto comico è dato dal fatto che egli si sente quasi in difetto per avere tirato fuori dalla biblioteca il suddetto reperto archeologico e quindi ricorre all’appoggio di Schumpeter, Jung, Freud e Reich, come a dirci che se tanta intellettualità ha approvato il lavoro del lontano sociologo francese, anche noi dobbiamo inchinarci e accettarne le conclusioni.

Ora, non è certo così che si utilizzano i risultati della ricerca scientifica accademica, ma in senso ben altrimenti critico.

La ricerca di Le Bon, per chi è pratico di queste cose, ha subito, nel corso di novant’anni, alcuni approfondimenti che hanno messo a nudo le pecche metodologiche e teoriche di partenza. Innanzitutto il positivismo di partenza, come clima culturale che la produsse, oggi è morto e sepolto. L’ultimo sviluppo utile della posizione di Le Bon è quello di Lucien Lévy-Bruhl così come appare nelle ricerche sulla “mentalità primitiva”; ma riguarda solo l’impenetrabilità del pensiero delle masse alla coscienza razionale. Nessun altro autore, con buona pace della quadruplice alleanza citata da Papi, si assumerebbe l’incarico di dire qualcosa di utile a favore del mummificato Le Bon.

In effetti il brav’uomo partiva dalle tesi del suo compagno di cordata Taine che, in un libro dal titolo L’ancien regime (1876), aveva fatto rivivere l’orrore che ai suoi occhi di borghese suscitava lo spettacolo della rivoluzione francese (certamente studiato anche attraverso il personale e terribile ricordo della Comune di Parigi). E altrettanta paura il sommovimento di popolo infuriato faceva a Le Bon. La stessa paura sentirà il marchese Pareto, discutendo della Comune, e tutti gli altri illustri collaboratori dell’Accademia di Francia.

Erano le masse che si affacciavano sul terreno dello scontro di classe. Il loro debutto era sempre contrassegnato dalle spinte delle sommosse, improvvise e terribili, spesso causate da accidenti apparentemente marginali ma, in fondo, incanalate nell’alveo degli avvenimenti storici dalle profonde modificazioni nella struttura sociale che la rivoluzione industriale andava determinando.

La paura di queste masse era tremenda. Il conservatore Le Bon manifesta la propria ripulsa nei riguardi di una marmaglia che si muove, che mette in mostra il proprio putridume, le piaghe di una sofferenza indicibile: che ha il coraggio di affacciarsi nei palazzi dei ricchi, turbando la loro decorosa ed ordinata vita quotidiana, razionale e prevedibile.

Proudhon ha notevoli analisi sul ruolo delle grandi masse e sul loro affacciarsi nello scontro di classe. Perfino Tolstoj ha orecchi e cuore per questo avvenimento quando in Guerra e Pace ci fa vedere come il crepuscolo di una civiltà possa realizzare la propria filosofia nelle masse in rivolta.

Le Bon, no. Non può. Gli manca il coraggio.

Per la verità il reazionario francese ha uno scopo più limitato e cauto. Vuole studiare i meccanismi psicologici che muovono piccoli gruppi di persone, messisi insieme per qualsiasi motivo, ad agire spesso in modo irrazionale, illogico e perfino incivile o barbaro, arrivando fino alla distruzione, al linciaggio. Non gli interessa lo sviluppo di questi piccoli gruppi in masse organizzate politicamente. Quindi non è corretta la deduzione che Papi fa delle ipotesi di Le Bon. Questi, in pratica, si era limitato ad affermare una cosa verissima: che quando alcuni di noi ci troviamo in un certo numero e cominciamo a costituire quello che empiricamente si chiama “folla”, precipitiamo a un livello di intelligenza e responsabilità molto inferiore a quello che di regola possediamo individualmente presi.

Quando Le Bon estende il termine “folla” a gruppi più strutturati di individui lo fa in senso improprio. Infatti, non sono le folle che si trasformano in masse, ma le masse che producono le folle. Questo piccolo difetto nell’analisi di Le Bon rende ridicolo il suo utilizzo oggi, come giustamente hanno fatto notare sociologi positivisti (come Tarde) e non positivisti (come von Wiese). Si tratta di un errore tecnico commesso da Le Bon che non impedisce di valutare correttamente il fatto di come la sua posizione sia tutta una conseguenza della paura che la borghesia ha degli assalti improvvisi e irrazionali degli sfruttati in rivolta.

Lo studio dei meccanismi che reggono i comportamenti collettivi è andato molto oltre dall’epoca di Le Bon. Pensare ancora valida l’ipotesi del “contagio” cui faceva riferimento il reazionario francese dell’Ottocento, sulla scia del suo degno compare Taine, è realmente una dimostrazione di disinformazione e di ignoranza sociologica.

Non voglio dilungarmi sul problema ma bisogna almeno ricordare l’importanza della “pulsione psicologica” individuata all’interno delle masse da studiosi di matrice psicoanalitica, oltre alla componente della “solidarietà disorganizzata” individuata dalla scuola tedesca di sociologia e alla componente della “fusione parziale” studiata dalla scuola francese. Non si tratta di grandi scoperte, ma le citiamo solo per indicare che la strada si disnoda ancora lungamente dopo gli isterismi di Le Bon e che quindi ci pare approssimativo e superficiale parlare ancora oggi di un suo possibile utilizzo analitico.

Ho voluto infine dilungarmi su questo aspetto – quasi comico – del lavoro recente di Papi per indicare, in dettaglio, un metodo e un livello di approfondimento che ha ben poco di serio.

Nel generale disinganno che gli spiriti deboli hanno riguardo lo svolgimento dell’attuale livello dello scontro di classe, si affaccia la “nuova” ipotesi della delegittimazione.

In pratica è una versione sofisticata del riformismo socialista e pacifista, caro alla filosofia “radical” americana.

Brave persone che non vogliono accettare la logica del potere ma non vogliono – nello stesso tempo – perdere i benefici del proprio status di professionisti, impiegati postali, maestri di scuola, professori universitari, impiegati di banca ed altre attività del genere. Qualche lavoratore “del braccio”, sbandierato ai quattro venti come una volta si ricorreva al fratello più grande e più grosso quando eravamo bambini per mettere paura ai nostri avversari, vi si trova dentro solo perché imbambolato davanti ai titoli di queste degne persone, tutte munite, con maggiore o minor credito, di pedigree universitario.

In che cosa consista questa prospettiva, indicata come la sola strada percorribile per gli anarchici che vogliono abbandonare il terreno insurrezionale, non è chiaro.

Un portaborraccia dell’università di Palermo, a nome Salvo Vaccaro, che continuamente ci affligge dalle colonne di alcuni periodici anarchici con le sue analisi, e che recentemente si è particolarmente segnalato alla benemerenza rivoluzionaria per le sue acute condanne del “terrorismo antimilitarista”, ha sviluppato una confusa congerie di farfugliamenti, sempre distribuiti con magnanimità su di un foglio anarchico (“Volontà”), particolarmente ospitale riguardo idiozie del genere.

Ebbene, questo compagno anarchico-riformista ci fa sapere, dall’alto del suo sapere da diploma universitario, che “occorre sviluppare una cultura del cambiamento; occorre innescare processi tendenti a esso; occorre controllare tali processi in tempo reale per influire su percorsi casuali che possono imboccare; occorre attrezzarsi a ciò, apprestando strumenti teorici e pratici (culturali, mentali, organizzativi, ecc.) quanto più duttili e malleabili sia possibile; complessi a tal punto da saper cogliere la complessità dei processi di cambiamento; ricchi a tal punto da trovar sempre nuove vie; nuovi inneschi, nuove strategie, da contrapporre alla realtà organizzata dal dominio statuale-capitalistico; attuali a tal punto da mantenere una costanza di pressione e di impegno pur nelle piccole trasformazioni quotidiane che mutano gradualmente il quadro della situazione; veloci a tal punto da evolversi in tempo reale, facendo corrispondere nel tempo le scansioni del proprio ritmo con quelle della realtà in via di mutazione costante”.

Mi sono chiesto se questo testo, e tutto l’intervento, non fosse una semplice esercitazione retorica. E lo stile: ampolloso, con i suoi attacchi ben allineati, costanti, messi in fila, riconfermava il mio dubbio. Poi ho riflettuto di più. Perché nulla di preciso si dice su questa delegittimazione che non siano le solite chiacchiere su di un comportamento “diverso”, quotidianamente e poveramente “diverso”?

E allora mi sono chiesto il vero significato di affermazioni come quelle di Papi: “Il maggior numero di persone deve cominciare a considerare luogo comune, più o meno come andare al cinema, il concetto e la pratica di libertà, intesa nel senso che ogni scelta, qualsiasi scelta, ha diritto di esistere al pari di tutte le altre, senza prevaricare né essere prevaricata. È accettazione totale, sullo stesso piano, di chi pensa e agisce anche al contrario e, al di là delle differenze, deve avere la stessa possibilità di manifestarsi”.

L’animo pedagogico di Papi non è lo stesso del retore della scuola siciliana. Papi è più chiaro. Non dice assolutamente nulla lo stesso, ma lo dice con maggiore chiarezza.

Occorre riformare la mentalità, educare all’impiego di una miriade di tecniche e di comportamenti che impongano al potere la parità di “diritto” delle manifestazioni più diverse.

La delegittimazione parte dall’assunto che il potere non può gestire la pluralità di opinioni.

Si tratta di un tragico errore.

 


[Relazione ciclostilata al Convegno su “Anarchismo e progetto insurrezionale”, Milano ottobre 1985, pubblicata in Atti del ConvegnoAnarchismo e progetto insurrezionale”, 13 ottobre 1985, Catania 1986, pp. 51-58]

Ancorarsi al dogma

La santificazione del ruolo dell’organizzazione anarchica

Il libro di Gino Cerrito si divide in due parti: una prima, scarsamente utile, costituita da considerazioni storiche scontate e personali valutazioni dell’autore; una seconda, assai più utile perché costituita da documenti, alcuni dei quali non facilmente reperibili, che l’autore ha potuto aggiungere in appendice al suo lavoro.

Facciamo un elenco di questi documenti che sono, a mio avviso, l’unica giustificazione per l’acquisto del libro: la piattaforma di Archinov (per altro già in circolazione in Italia, ciclostilata a cura del Gruppo Durruti di Firenze), le risposte alla piattaforma (ma ne mancano alcune, come quella della Korn, pubblicata recentemente [1973] in Francia), l’esperimento dei GAAP (che l’autore definisce “neo-marxista”), il patto associativo della FAI e via via altri documenti interni del movimento, sulla cui opportunità di pubblicazione ci sarebbe molto da dire.

Ma, come è dovere di chi si occupa di un libro, le considerazioni di Cerrito devono essere analizzate in dettaglio.

I primi due capitoli del lavoro hanno un interesse quasi esclusivamente storiografico o meramente teorico, trattando di fatti e concezioni voltati e rivoltati parecchie volte. Solo nel secondo capitolo si affaccia una prima valutazione personale dell’autore: condanna indiscriminata delle azioni palestinesi e della Banda Baader-Meinhof, come pure della prassi rivoluzionaria dell’IRA. È caratteristico degli intellettuali arrogarsi il compito di giudicare le azioni di coloro che combattono e muoiono nel corso di attacchi concreti, pretendendo di giudicare questi ultimi sul piano astratto di una morale assoluta e non sul piano concreto di una ben precisa situazione (sociale ed economica) di sfruttamento e di terroristica attuazione dei piani di sterminio statali. Cerrito trova parole di recriminazione per le azioni suddette ma nulla ci dice sul terrorismo vero e proprio, cioè su quello che ha distrutto il popolo palestinese, sulla polizia tedesca che spara a Monaco sui rapitori e sugli ostaggi, sugli Stati Uniti che stendono una coltre di napalm sul Vietnam e così via. Questo ricorso alla morale astratta, considerata come una legge vigente al di sopra delle realtà concrete di lotta, è un tipico atteggiamento “liberale”, prodotto da quell’ideologia borghese che intendeva, in questo modo, salvaguardare il suo diritto allo sfruttamento. Con ciò non voglio affermare che qualsiasi azione sia giusta in qualsiasi modo compiuta. Voglio solo negare il diritto a un cacasenno di ergersi a giudice di cose che non può capire: che il professor Cerrito continui a occuparsi di questioni storiografiche o a compilare eruditissime bibliografie dell’anarchismo, faccia il suo mestiere e non pretenda di capire cose che il suo cervello reso ottuso dall’inazione e dalla polvere delle biblioteche non potrà mai capire.

In un altro capitolo, dedicato agli “orientamenti” programmatici del dopoguerra, le cose si complicano. Insufficienti i riferimenti al Movimiento Libertario Español, superficiale e male impostata l’analisi dei problemi dell’anarchismo spagnolo, solita storia riassuntata (questa volta) del movimento anarchico italiano dal dopoguerra al 1950 circa. Se è giusta la considerazione della intolleranza più volte manifestata da parte dei compagni più vecchi nei riguardi dei giovani, non è da tacere il fatto che per motivi che non conosciamo Cerrito ha creduto opportuno non parlare di quell’attività che già intorno agli anni ’50 si andava delineando in Italia a seguito dell’azione di certi gruppi anarchici, anche in collegamento con l’estero. Purtroppo l’analisi resta sempre a un livello intellettualistico, lamentando, a esempio, la carenza di testi anarchici di fronte alla piena dilagante di testi marxisti (piena che poi non era tale intorno agli anni ’50), lamentando una indigesta lettura di Stirner o la presenza disturbatrice degli opuscoli anticlericali delle edizioni “La Rivolta”.

Più interessante il capitolo dedicato alla “esperienza dei Gruppi Anarchici d’Azione Proletaria”, anche per la carenza di documentazioni e di analisi di questo fenomeno politico.

Nel capitolo dedicato alla “frattura del movimento anarchico italiano” più gravi si fanno le carenze del nostro autore. Ancora niente sull’attività dei gruppi non aderenti alle organizzazioni principali (FAI, GIA, GAF), come se tutto il movimento anarchico, di fatto, si risolvesse, fino al 1968, in queste tre sigle e nelle vicende spesso farsesche del “Patto”.

Ma è sempre la direttrice interpretativa di tutto il lavoro a costringere l’autore a non allontanarsi da una considerazione meramente culturale del problema. Anche l’interpretazione data del situazionismo e della sua “deviante” influenza in Italia è assai superficiale. Non si spiega, a esempio, perché diversi gruppi caddero in questa trappola continuando ad agire all’interno di strutture ufficiali del movimento, non si spiega perché la rielaborazione francese del situazionismo, nella forma, poniamo, data da Cohn-Bendit, riuscisse ad affascinare molti compagni fino al Congresso internazionale delle federazioni anarchiche dell’autunno 1968 e fino ai convegni della FAI e dei GIA tenutisi rispettivamente a Carrara e a empoli nel novembre 1969. Certo, non è sufficiente spiegare tutto ciò con la condanna (improvvisa e spietata, questa volta) dei quattro intellettuali che dirigevano il movimento situazionista dall’alto, come non si spiega con la vecchia questione della teoria della lotta di classe reinterpretata in chiave antiautoritaria per contrabbandare un novello marxismo, ben più pericoloso o, al limite, una novella tendenza soreliana. Tutto, in questo modo, resta nell’ombra. Emerge soltanto la normale vicenda di una discussione accanita tra gruppi aderenti alle organizzazioni ufficiali del movimento e non un tentativo onesto di delineare una storia quanto più prossima alla realtà dei problemi del movimento anarchico italiano e della sua attività. Ed è in questo senso che il nostro professore, non perdendo l’abitudine accademica, finisce per citare se stesso, cioè un suo intervento al Convegno della FAI del ’69, avendo la bontà di autoqualificare questo suo intervento come qualcosa che fece restare “disorientati” i situazionisti.

Ma è nell’ultimo capitolo, dal titolo: “Le nuove tendenze piattaformiste”, che si sviluppano in pieno le tesi del nostro autore, ed è qui che dobbiamo fermare l’attenzione. Per prima cosa salta all’occhio la critica del classismo deterministico costruito (o meglio, accennato) da alcuni gruppi anarchici italiani, critica che da per se stessa avrebbe una sua validità, se non venisse legata da Cerrito a un’analisi superficiale e priva di fondamento sociologico. Innanzi tutto, come mi è accaduto di dire molte volte, il problema del classismo è problema di chiarificazione filosofica e concettuale, problema che emerge netto dalle nebbie di una assai mal fatta lettura di Marx. In pratica, la dimensione esatta del problema, a mio avviso, è quella di considerare il conflitto di classe come realmente esistente, non tanto perché quest’ultimo costituisca – oggi o in passato – la vera essenza della realtà o il vero motore della storia, quanto perché esso può costituire, per chi intenda agire sulla realtà, un valido strumento interpretativo, un modello di valutazione di certi fenomeni che altrimenti svanirebbero in un grigiore indefinito. Se parlare del conflitto di classe come motore della storia è assurdo, come giustamente nota Cerrito, è altrettanto assurdo concludere che la sua non esistenza è palese e che questa è denunciata dal fatto che oggi il movimento operaio persegue scopi diversi da quelli di sempre. Questa conclusione è non solo assurda ma delittuosa, una volta che per ventura riuscisse a sortire dalle assonnate pagine di un libro scritto da un intellettuale, per arrivare realmente come messaggio alle masse.

Se oggi gli anarchici non sono così attivi all’interno del movimento operaio come lo erano una volta (ma anche questo riferimento a un tempo passato andrebbe precisato e non lasciato lì come una cosa assolutamente uniforme e certa), ciò dipende dal fatto che una volta il lavoro sindacale (almeno in Italia) veniva svolto da militanti operai, da militanti vicini al mondo operaio, i quali costituivano in media la parte più numerosa del movimento anarchico. Oggi [1973] la situazione è esattamente capovolta: la maggior parte del movimento è costituita da compagni che vengono dall’ambiente studentesco e che cercano di penetrare nell’ambiente operaio operando dall’esterno, con tutte le difficoltà che questo tentativo comporta.

Ma, accanto a tale valutazione estrinseca, dobbiamo collocare una valutazione intrinseca del problema. La scarsa incidenza sul movimento operaio è anche determinata dal discorso codista e riformista che gli anarchici insistono a fare quando entrano in contatto con il mondo del lavoro. È naturale che in questo settore esistano delle esigenze rivendicative, ma non è naturale che gli anarchici se ne impadroniscano acriticamente, facendone la propria bandiera, sia pure con la clausola finale che la rivendicazione parziale è soltanto un mezzo e non un fine, un mezzo per iniziare la futura rivoluzione sociale. Ben più qualificati e potenti, in questo senso, sono gli organismi sindacali tradizionali, operanti da sempre all’interno di una logica rivendicativa e legati al discorso di potere dei vari partiti. È certo che se gli anarchici avessero per tempo impostato il loro contatto su di un altro livello, avrebbero avuto una possibilità di sviluppo all’interno del movimento operaio senz’altro maggiore. Vediamo di capire il perché.

L’azione anarcosindacalista in Italia, negli ultimi anni almeno, ha avuto un netto sviluppo in alcune zone, come a esempio in Liguria. Questi compagni hanno voluto impiegare mezzi di penetrazione all’interno del movimento operaio che in se stessi possono sembrare libertari ma che sono stati da tempo codificati e resi innocui dal potere socialdemocratico. Comitati, consigli o lotte per il salario garantito, a mio avviso, debbono costituire soltanto una parte del compito sindacale che gli anarchici si debbono assumere, l’altra, forse più determinante e qualificante per loro, deve essere impostata sull’attacco diretto alla barbarie padronale, attuato con forme precise che esulano dalla strategia sindacale riformista. Spesso invece i compagni si sono trovati di fronte a realtà di lotte avanzate, portate avanti dagli stessi operai che avevano finito, da per se stessi, per superare lo schema suggerito e sostenuto dai nostri compagni, schema che, a una analisi preventiva, era stato valutato all’interno dei gruppi anarchici, decisamente più in là della strategia sindacale riformista. È logico che quando questi fenomeni si sono verificati (Pordenone, Marghera, Torino, ecc.), gli operai hanno finito per concludere che la posizione degli anarchici non si differenziava per nulla da quella degli altri sindacalisti traditori e, infine, quando la loro lotta veniva riassorbita dal potere tramite la mediazione dei capi sindacali, nella loro sfiducia e nel loro sconforto perdevano di vista quella sia pur minima coscienza che li aveva portati a individuare nei compagni anarchici qualcosa di diverso.

Ed eccoci all’ultima avventura di questo libro che, ingiustificato sul piano di una pubblicazione che si rivolge al movimento anarchico, diventa addirittura assurdo una volta che lo si consideri alla luce delle necessità rivoluzionarie generali che, evidentemente, non sono soltanto quelle proprie del movimento anarchico. La perla più notevole della collezione è il discorso finale sulla violenza. È il classico discorso mistificante di chi intende restare al caldo di una posizione comoda, avendo quindi paura di essere frainteso come estremista, cosa quest’ultima che potrebbe turbargli il sonno per lungo tempo.

La tirata comincia col condannare la “formula pisacaniana” di certi gruppi italiani, con la quale si cerca di fondare un “volontarismo privo di giustificazione storica”. Nello stesso tempo e nella stessa pagina si cerca di rivalutare la spinta insurrezionale che caratterizza l’anarchismo da sempre, definendo “irrazionale” l’atteggiamento contrario.

Ma si tratta di un banale ritrovato retorico. La posizione del nostro autore è molto chiara. Le sue tirate ulteriori sulla violenza difensiva, sulla violenza che “deve essere contenuta nei limiti della stretta necessità”, sulla violenza che deve essere “mezzo per perseguire scopi umani”, non sono altro che l’anticamera per la condanna di una violenza che mette in atto un processo rivoluzionario in corso, della violenza d’attacco contro il potere, della violenza che trova la propria giustificazione nella violenza costante dello sfruttamento e dell’alienazione umana.

È in questo modo che Cerrito si apre la strada a una critica aspra delle analisi attuate dal Gruppo Durruti di Firenze e pubblicate sul Bollettino Interno della FAI intorno alla prima metà del 1972. A parte il fatto che la pubblicazione di questi documenti e la relativa analisi possono essere considerate una vera e propria delazione, della quale, siamo certi, i compagni di Firenze avranno beneficiato senz’altro, delazione involontaria che soltanto uno sprovveduto intellettuale poteva portare a compimento e non un compagno “anziano” come si perita di autodefinirsi Cerrito; resta il fatto che la critica alla posizione del Durruti è assurda e dequalificante.

Nella stessa critica il nostro autore accomuna il numero unico “Sinistra Libertaria” (un solo numero unico e non più numeri come egli impropriamente scrive), definendolo: “frutto della fertile anche se non molto originale fantasia di Alfredo M. Bonanno”. Solo che questa volta la delazione del nostro professore è stata inutile perché la polizia aveva provveduto ad arrestarmi prima dell’uscita del libro di Cerrito, ed ero già stato processato e condannato a due anni di prigione quale responsabile del suddetto numero unico, cosa che il beneinformato critico omette di indicare perché, ovviamente, ritenuta marginale. C’è solo da aggiungere che il numero unico in questione non fu affatto frutto della mia fantasia ma venne redatto e discusso insieme a diversi compagni, in diverse riunioni e in diverse zone della nostra penisola.

Ma torniamo al nostro argomento. Per salvarsi dal riformismo non è sufficiente che Cerrito si limiti a criticare l’amena lettera aperta pubblicata da alcuni compagni “anziani” sul Bollettino Interno della FAI (quello stesso che conteneva la posizione del Durruti), in particolare sottolineando l’affermazione che “la Parigi rivoluzionaria del 1968 è rimasta politicamente un episodio dimenticato...”. Esaltare il maggio francese non significa ricostituirsi una verginità rivoluzionaria, ma, nel caso nostro, considerando che Cerrito ne esalta soltanto l’influenza incontestabile “sull’opinione pubblica mondiale”, serve solo a riconfermare la valutazione che ho dato di tutto il suo lavoro: un lavoro da intellettuale, una semplice esercitazione.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 1, 1975, pp. 53-56. Recensione a G. Cerrito, Il ruolo dell’organizzazione anarchica, Catania 1973]

Pedagogia libertaria e inquinamento socialdemocratico

Strano titolo per questo libretto, e la responsabilità dello sviamento in cui cade il lettore è tutta dell’editore. Altrettanto strano sarebbe stato il titolo originale: Ensayo de pedagogia utopica, che non si comprende bene in che maniera l’utopia possa farsi entrare nello strumento dell’insegnamento, salvo che accettando il rinvio all’infinito di una distruzione della scuola.

Difatti, l’idea che il lettore ricava del “nuovo concetto di educazione”, è che la manipolazione dell’allievo è inevitabile e che quindi tanto vale che sia dichiarata apertamente, portata fino in fondo, allo scopo di educare allo spirito critico “considerando sempre che ciò che pretendiamo trasmettere, le capacità che vogliamo creare, non sono verità assolute e indiscutibili, ma verità obiettive che devono essere discusse ed analizzate dagli stessi discenti”. Che poi sarebbe una specie di santificazione dello “spirito critico”, elevazione a potenza di quell’ideale democratico di apertura e di dialogo che ovunque, nelle illuminate borghesie contemporanee, sta prevalendo sui vecchi ideali dell’autoritarismo e della verga.

Francamente qui sorgono delle perplessità. Gli autori scrivono: “Il superamento di questo dualismo [tra uomo e mondo], l’alternativa autogestionaria, recupera il suo valore nella categoria del lavoro, poiché attraverso questo l’uomo si realizza come persona che trasforma il mondo ed allo stesso tempo il mondo viene trasformato dall’uomo così creandosi le relazioni tra loro”. Ma come, questi ruderi non erano le vecchie tesi del buon Engels? lettore disattento e affrettato di Marx? Ma forse mi sbaglio.

Ancora più avanti si legge: “Non c’è il minimo dubbio che uno dei problemi fondamentali che attualmente qualsiasi educatore si trova a dover affrontare consiste nella difficoltà di motivare gli allievi allo studio, dato l’assoluto disinteresse con cui questi trattano i libri; se gli allievi potessero sperimentare fin dall’inizio l’incidenza della loro educazione nella società in cui vivono attraverso il lavoro, alternando così istruzione e lavoro, o meglio istruendosi attraverso il lavoro, la possibilità della formazione di questi allievi verrebbe considerevolmente ampliata e contemporaneamente questa possibilità avrebbe ripercussioni rivoluzionarie di grande portata”.

E dagli, non ci sarà mai verso di mettere a tacere questi pianificatori del lavoro altrui, che non solo vedono tutto attraverso il momento produttivo, ma ci vedono anche delle “ripercussioni rivoluzionarie di grande portata”. Che sia questa una malattia contagiosa? Tutti i pedagogisti si sono preoccupati di fare “studiare” i ragazzi e tutti hanno trovato che “trattano male i libri”. Bisogna quindi trovare un metodo che faccia loro apprendere (quello che vogliono i pedagogisti) in modo più simpatico (teoria dell’interesse), mettendo da parte i libri se questi sono tediosi. A nessuno viene in mente che i ragazzi possono anche apprendere il non apprendere, interessati alla distruzione di qualcosa che avvertono estraneo e ostile, anche se si dimensiona nella fattispecie di un libro scritto da un “profondo pensatore anarchico” come Mella o da uno dei “maggiori filosofi del XX secolo” come Whitehead.

Ma i ragazzi “devono” apprendere le regole della vita, “devono” farlo il più presto possibile, perché solo “facendo” secondo quelle regole essi superano il dualismo che li separa dal mondo (natura), cioè esistono solo a condizione di “fare” se stessi col lavoro e lo studio (integrati insieme): questa è la proposta autogestionaria della pedagogia. E, in armonia con questa proposta, più avanti si legge: “A partire dagli otto anni il bambino deve cominciare già a lavorare, ed alternare gli studi e le attività trasformatrici e produttive... A partire dai tredici anni l’allievo ha già la maturità sufficiente per mettersi a lavorare a fianco degli adulti nelle fabbriche-scuola, dove alternerebbe il lavoro con lo studio di diverse materie, specialmente quelle che fossero maggiormente collegate alla sua occupazione, anche senza perdere mai di vista il carattere interdisciplinare che deve rimanere in ogni insegnamento. Da questo momento l’educazione ed il lavoro saranno sempre uniti poiché ci sarà un’educazione permanente. Quando un allievo manifesterà il desiderio di ampliare i propri studi e la collettività lo giudichi opportuno, potrà accedere a scuole superiori, in cui si metterà al corrente dei progressi avvenuti e delle tecniche e delle conoscenze di cui c’è bisogno per progredire nel lavoro...”.

Riflettendo sulla grande importanza che all’interno della CNT spagnola occupa, se non vado errato, il sindacato scuola, si ha misura – leggendo questo libretto – della grande strada da percorrere sulla via della rivoluzione sociale, al di là dell’illusione quantitativa che si cela dietro le cifre con tanti zeri che indicano i partecipanti ai comizi confederali spagnoli [1977]. Una riflessione critica sulle presenze socialdemocratiche all’interno del nostro movimento e sulle vie che queste presenze percorrono quasi meccanicamente nell’impostazione di certi problemi e nello sviluppo di certi settori d’intervento nella realtà, sarebbe urgentissima e importante. Nella società che emerge dalla lettura del libretto in esame, o, almeno, all’interno della proposta di modifica della struttura dell’insegnamento attualmente vigente, chi scrive si metterebbe subito a organizzare i bambini contro il lavoro, contro lo studio e contro la fusione del lavoro e dello studio. Spegnere le grandi energie rivoluzionarie dei bambini e dei giovani, partendo dalla premessa (errata) che l’uomo si riconosce in quanto tale perché lavora (cioè è quello che fa), e dalla soluzione semplicistica che basta mettere insieme studio e lavoro per saltare il fosso rivoluzionario, è un atto di grave responsabilità che può avere forti conseguenze controrivoluzionarie.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” nn. 16-17, 1977, pp. 298-299. Recensione a C. Diaz e F. Garcia, Per una pedagogia libertaria, Torino 1977]

Pulire l’insegna

Il cappello del prete

Un libro che lascia perplessi, valido sotto il profilo della documentazione, meno valido sotto quello più ampio dell’inquadramento ideologico che, com’è naturale, non può prescindere da alcune chiarezze e da una certa omogeneità.

Cominciamo con le cose valide. Una documentazione sulla rivoluzione spagnola, sulla CNT e sull’anarcosindacalismo, nomi, date e avvenimenti che non sempre sono conosciuti in Italia dai compagni e quasi certamente sono ignoti alla grande massa dei lettori. Certo, questa documentazione avrebbe potuto essere più attendibile, a volte, come ci accade di notare – di passata – riguardo l’attentato Morral, o i motivi veri che condussero alla fucilazione di Ferrer. Esistono, a quanto mi risulta, almeno due grossi volumi sulla Settimana Tragica che danno un approfondito esame dei due problemi, per non ricordare le ricerche specialistiche che documentano cose molto più precise (ad esempio la ricerca di F. Romero Maura, pubblicata su “Past & Present”, dicembre 1968, pp. 130-183). Ma non si tratta di cose molto importanti. L’insieme della documentazione è abbastanza valido e la lettura può risultare interessante.

Veniamo, adesso, alle cose meno valide. Innanzi tutto l’Introduzione all’edizione italiana, firmata (e non comprendiamo perché) da “un responsabile dell’edizione spagnola”, dove si leggono cose che si possono definire almeno “strane”. Si parla dei sindacati cattolici spagnoli anteriori al 1939, quelli del marchese di Comillas, per intenderci, e si dice che erano animati da “preti forniti più di intenzioni che di capacità di riuscita”. Ma “riuscita” in che cosa? E poi si aggiunge che a causa del loro interclassismo questi sindacati caddero in una “posizione reazionaria per mancanza di una propria visione, ma anche a causa di una mancanza di perspicacia non certo meno grave da parte dello stesso movimento operaio che non si seppe aggregare al proprio fronte di lotta, perdendo in questo modo, per l’anticlericalismo, una parte importante del popolo, in specie nelle zone agricole e di industrializzazione più recente”. Guarda guarda... la responsabilità dei sindacati gialli sarebbe quindi del movimento operaio e della sua lotta contro la Chiesa, ricettacolo tradizionale della più oscura forma di reazione in Spagna. Una tesi del genere, più la leggo e più mi appare sbalorditiva. Penso – ma forse perché sono maligno di natura – al nostro compromesso storico, ma subito mi pento del pensiero. No! non può essere. Eppure la realtà credo sia questa, infatti più avanti l’estensore dell’Introduzione parla di una “dialettica Chiesa-movimento operaio”. Purtroppo bisogna fare attenzione con questi libri, avvertire i compagni che vengano presi con le limitazioni che hanno e non accettati in blocco.

Non è sufficiente che l’editore italiano (la Jaca Book) pubblichi libri anarchici, che consideri l’anarco-comunismo come un interlocutore privilegiato. Tutto ciò non garantisce. Di volta in volta, ogni libro che tratta dei problemi dell’anarchismo deve essere sottoposto alla doppia critica del contenuto e dell’involucro ideologico in cui, coscientemente, il produttore intende avvolgerlo. E questo involucro, spesso, puzza di bruciato.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 7, 1976, p. 57. Recensione a J. Gomez Casas, Storia dell’anarcosindacalismo spagnolo, Milano 1975]

Lo sfìzio del barone

Grosso volume che ci riporta all’attenzione editoriale riguardo il nome di Merlino. Onesto lavoro di raccolta e di documentazione di Venturini, non nuovo a imprese del genere, deturpato da una inutile, ma significativa (in un certo senso), Introduzione di Frosini.

Vediamo di scindere le due cose e, quindi, due ordini di interessi nella lettura del volume. Gli scritti di Merlino, per la maggior parte appartenenti al periodo del ripensamento riformista del teorico socialista, rivestono un grande interesse per il lettore medio italiano che, spesso per la prima volta, sente parlare di un teorico non facilmente collocabile all’interno di una scuola, sia pure di revisione e modificazione marxista. Titolo d’occasione del libro: Il socialismo senza Marx non rende ragione a Merlino che si batté molto, appunto nel periodo suddetto, cui fanno capo gli scritti dell’antologia, per una revisione critica del pensiero marxista, senza per questo perdere del tutto di vista quegli elementi positivi che gli venivano dal suo passato di militante anarchico.

A parte la lettura dei testi, che consiglio a prescindere dalle note introduttive, alcune cose mi disorientano anche nelle brevi annotazioni di Venturini. Perché quei riferimenti a Spadolini, a Calogero e a Salvemini? Quale guida per il lettore possono costituire tutti e tre, in gruppo, davanti a un vero grosso pensatore quale fu Merlino, anche a livello europeo? Strane affermazioni, come quella che si può essere libertari senza essere necessariamente anarchici, mentre non si può essere anarchici senza essere libertari, che appartengono alla categoria di quelle frasi che non capirò mai.

La parte recitata da Frosini è veramente incredibile. Superficiale e disinformata la carrellata della critica al marxismo in Italia, raggiunge la massima improntitudine nella tirata finale secondo la quale la lettura di Merlino dovrebbe ravvivare “ideali e speranze in un’Italia migliore”. Ma come si possono scrivere stupidaggini simili?

La verità è che i pensatori liberali, e Frosini ne costituisce un bell’esemplare, non hanno più nulla da tessere e accettano qualsiasi tipo di filo. In questi ultimi tempi [1975], il filo anarchico si trova a disposizione e viene riscoperto e utilizzato, con tutta la disinformazione che si rende necessaria. Operazioni parallele vengono contemporaneamente condotte su Proudhon, complice questa volta l’UTET di Torino. Bisogna avere il coraggio di denunciare queste cose e non restare come allocchi a bocca aperta quando qualche barone universitario si degna di rivolgere il suo illuminato pensiero sui problemi e sui pensatori dell’anarchismo. Ma è discorso che faccio da tanto tempo e corro il rischio di risultare stucchevole.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 6, 1975, p. 321. Recensione a F. S. Merlino, Il socialismo senza Marx. Scritti dal 1897 al 1930, Bologna 1974]

Necessità di bottega

Il libretto è stato scritto “a caldo” dalla Goldman, davanti alle prime delusioni che subiva incontrando i risultati bolscevichi della rivoluzione dei soviet proletari e contadini della sterminata terra russa. Delusioni che poi troveranno sistemazione più ampia e particolareggiata in un altro lavoro della stessa autrice.

Sebbene limitato a poche considerazioni, lo sforzo analitico esiste e cerca di cogliere i momenti e le impressioni del popolo minuto, di coloro che la rivoluzione l’hanno fatta e che adesso pagano le conseguenze dell’avere consegnato il potere nelle mani del governo dittatoriale bolscevico. Uno scritto breve è dedicato ad alcune impressioni ricavate da una visita a Kropotkin vecchio; un altro riguarda la vicenda di Maria Spiridonova.

La stessa Introduzione di Rocker è superficiale e non apporta novità al testo. Forse sarebbe stato meglio ometterla.

Comunque, al di là del nome della Goldman, che oggi trova spazio in libreria, mi chiedo che senso ha, per chi persegue una politica editoriale precisa, in una certa direzione, pubblicare, oggi, un saggio del genere che non può non far cattiva figura davanti ad analisi sullo stesso argomento che godono di maggiore prospettiva e maggiore approfondimento (compresa quella della stessa Goldman). Resta il valore dell’immediatezza della testimonianza, ma è troppo poco per giustificare la ripubblicazione di un testo, specie in tempi come questi [1977], tempi che necessitano di denunce precise e circostanziate contro i massacratori di ogni genere e di ogni colore, e non consentono approssimazioni.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” nn. 16-17, 1977, p. 299. Recensione a E. Goldman, La sconfitta della rivoluzione russa e le sue cause, Milano 1977]

Ritorna il problema del prete

Traduzione del notissimo opuscolo edito in Gran Bretagna dal gruppo “Solidarity” e che può essere considerato una originale cronologia della degenerazione dei soviet sotto l’influenza nefasta del Partito Bolscevico.

In sostanza il libro, almeno nella traduzione italiana, si prefigge scopi un poco più ampi. Con una Introduzione, dovuta all’editore italiano, si vuole collocare l’analisi di Brinton (giustamente) nel quadro attuale [1976] della situazione politica in Italia, mentre con un’appendice si vuole fare conoscere la posizione di “Solidarity” (posizione per altro non del tutto condivisa dal gruppo nella sua complessità). Quindi le cose importanti di questa pubblicazione sono tre: l’introduzione editoriale, il testo, l’appendice. Esaminiamole separatamente.

Purtroppo, la posizione della Jaca Book mi appare sempre più confusa. Che senso ha parlare di “passione di comunismo”? Che senso ha parlare di una società che deve andare “dall’alienazione alla gioia”? o del fatto che “proprio perché si è ‘separati’ la gioia tende a divenire un assente, l’assente”? E se gli “Arturo Ui” sono i capetti del PCI, che senso ha affermare e non chiarire che la loro ascesa può essere arrestata, questa volta? per poi aggiungere, subito dopo, che la paura, il dire “è eccessivo”, “non è possibile”, “non esageriamo”, può sembrare un discorso fascista ma non lo è?

Francamente siamo davanti a un bell’esempio di discorso giusto fatto (volutamente) in modo errato. Volutamente perché la stessa costruzione discorsiva del “pezzo”, scarna ed efficiente, ci impedisce di attribuire a una non sufficiente competenza il senso di confusione che se ne ricava leggendo. Il guaio è che i collaboratori della Jaca Book, malgrado tutte le loro aperture all’anarcocomunismo, all’anarcosindacalismo, tutte le loro dichiarazioni libertarie, i loro abbracci con l’autonomia e il consiliarismo, sono cristiani illuminati, e come tali non riescono a vedere le cose da un’ottica materialista. Giusto il discorso della gioia: la rivoluzione è gioia (diceva fra gli altri lo stesso Bakunin), ma non è giusto il discorso della fuga dall’alienazione alla gioia, processo irrazionale se destinato a fondare il momento rivoluzionario al di là, e come obiettivo privilegiato, della riappropriazione dei mezzi di produzione e della loro gestione autonoma. Giusto anche il discorso sulla “passione”: chi, vivendo nella inutilità di tutti i giorni, non ha grande bisogno di “passione” per lottare per il comunismo? ma non è giusto se diventa quella straordinaria paccottiglia che costituisce il filtro della “presenza del Cristo”. Giusto dire che possiamo arrestare l’ascesa dei nuovi Arturo Ui: ma perché allora avere paura che il nostro discorso sembri fascista? Se fatto in modo chiaramente materialista non può esserci questo pericolo, e nel caso che gli organismi repressivi del PCI mettano in moto una condanna in questo senso non dovrebbe essere difficile dimostrare che il loro abbandono sostanziale del materialismo di fondo li rende, essi, veramente fascisti.

Sono domande che mi pongo e che non trovano risposta nel lavoro della Jaca Book.

Anche di questo problema ho parlato con alcuni compagni del gruppo “Solidarity”, a Londra, ma non mi hanno saputo rispondere. La Gran Bretagna è tanto lontana.

Ma veniamo al libro. Ben più che una scarna cronologia.

Indagine documentata sui primi anni della rivoluzione russa e sulle responsabilità del suo degenerare. Non indagine legata a questo o a quel giudizio positivo sull’operato di singoli personaggi: aveva torto Lenin e ragione la Kollontai, aveva torto Trotskij e ragione Machno; ma un’analisi di come gli strumenti creati dagli operai, gli strumenti del controllo operaio, del tutto estranei a una minoranza di rivoluzionari professionisti che costituiva il Partito Bolscevico, siano stati dapprima conquistati con infiltrazioni e poi indirizzati verso la più completa degenerazione: il controllo della base operaia e contadina si trasformò nel controllo del partito. La borghesia uscì quindi indenne dalla rivoluzione, riprendendo sotto altra forma il dominio che aveva prima: la nazionalizzazione non era certo riuscita a spaventarla. Brinton trova superficiale l’analisi di Volin (La rivoluzione sconosciuta), che attribuisce il fallimento della rivoluzione al fatto che non sia stata abolita la struttura statale nella sua interezza. Qui, a mio avviso, c’è un non trascurabile equivoco, dovendosi attribuire all’affermazione “distruzione dello Stato” un significato molto più ampio e più costruttivo della semplice abolizione delle preesistenti strutture. Comunque, riguardo il libro di Volin, non ci si può basare sull’edizione italiana di RL (e neppure, ovviamente, sulle diverse ristampe di questa edizione) in quanto mancano i passi (anche la censura anarchica funziona) relativi all’organizzazione (che si possono leggere nell’edizione francese o in quella inglese curata dai compagni americani di Black & Red).

Qualche parola sulla piattaforma del gruppo “Solidarity”: “Chi siamo, cosa vogliamo”. Troppo vaga, superata, a mio avviso, dallo stesso lavoro del gruppo che, fino al 1976 aveva pubblicato più di 60 opuscoli e diversi libri, trattando argomenti vari ma privilegiando la critica alle degenerazioni staliniste e bolsceviche, l’indagine sulle realizzazioni autogestionarie, la lotta contro il lavoro, le analisi sul capitalismo moderno, sull’autonomia operaia, sull’autogestione in senso teorico, ecc.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 9, 1976, pp. 157-158. Recensione a M. Brinton, I Bolscevichi e il Controllo Operaio, Milano 1976]

Un giallo politico contro le donne

E ti pare che non avrebbero colto l’occasione per pubblicare La Pornocrazia, la famigerata (e introvabile) operetta di Proudhon, correndo a perdifiato sulla spinta che la polemica scatenata da Craxi ha dato al nome e alle faccende letterarie del vecchio Proudhon?

Nel bosco foltissimo delle nostre patrie lettere si trova sempre qualcuno lesto di penna, come si trova sempre qualche editore lesto di idee. Dall’incontro sortisce facilmente il libretto che vive sulle vicende altrui, come la pulce nel pelo del cane.

Placido si dilunga armoniosamente dissertando, ma con l’aria di non volerlo fare, tra le vicende di una lettura craxiana di Proudhon, facendoci entrare – a suo dire – nell’atmosfera tipicamente settantottesca del rapimento Moro. Cosa c’entra? direte voi, eppure c’entra, così come il Sessantotto che, bontà sua, era accaduto dieci anni prima, ma che c’entra lo stesso, per uno di quei curiosi paralleli storici che tutto spiegano per il semplice fatto di non spiegare nulla.

Quindi, tra la grigia compostezza del cadavere di Moro, e le lunghe sfilate degli studenti della Sorbona, tra il faccione placido (aggettivo del faccione di Craxi e non cognome dell’estensore dell’Introduzione) del segretario del Partito Socialista Italiano e la lunga ombra del non mai ben celato Berlinguer, finisce per aleggiare il fantasma distorto di Proudhon. Ma tanto, chi se ne frega. Quanti volete che fossero quelli che avevano letto Proudhon “prima” di Craxi e, tutto sommato, quanti volete che siano quelli che l’hanno letto “dopo”? Le mode letterarie, si sa, durano poco, fanno tanto baccano, alleggeriscono le librerie, danno qualche fastidio ai commessi delle biblioteche pubbliche, ma lasciano la gran massa dei lettori nella stessa “placida” ignoranza di prima.

Dunque. Proudhon, ma chi era costui? Un fallocrate sessuofobo, afferma placidamente il nostro amico Placido, leggendo tra le righe della “lettura” di Craxi, il quale avrebbe fatto un’operazione di rara intelligenza culturale e politica (tanto grande da superare le più alte vette dell’acume di Martelli, di Signorile e di Pellicani messi insieme) dando a vedere di aver letto il Proudhon che tutti avevano letto (o non letto, fingendo di leggerlo), e impostando invece il suo ragionamento su quel Proudhon sessuofobo e fallocrate che nessuno aveva letto (e nemmeno affermato di avere letto). Ne viene fuori un intrigo degno della migliore giallistica: Craxi inganna tutti, imposta il suo ragionamento sul Proudhon sessuofobo, dando a vedere che si tratta del “solito” Proudhon, arrivando a conclusioni autoritarie e sostanzialmente favorevoli a una apertura alla collaborazione delle sinistre, quando tutti pensavano che stesse sostenendo la tesi libertaria dell’autogestione.

Grande immaginazione dei lettori di gialli! Fortuna che l’altrettanto placido Berlinguer non alimenti la stessa abitudine e, da buon sardo – corto di fantasia ma di cervello fino – non abbia creduto opportuno cadere nel tranello genialissimo del sagace Craxi.

Questo il sottofondo da anticamera di dentista che si coglie nell’urgenza culturale ed editoriale di dare alla luce La Pornocrazia. Nessun intento di inserire il testo in questione all’interno del vasto affresco che Proudhon dipinge della sua epoca e delle contraddizioni che la caratterizzavano. Sarebbe come pubblicare le lettere di Marx riguardanti il problema di dare marito alle figlie, dove emergono tutte le preoccupazioni del padre di famiglia piccolo borghese, e pretendere di interpretare, sulla scorta di tali documenti, il suo pensiero filosofico e politico.

Proudhon non fu soltanto il pensatore anarchico dell’autogestione, il critico consequenziale e raffinato del potere in tutte le sue forme. Fu anche il sociologo che volle affrontare l’ampia tematica che il suo tempo gli suggeriva, non sottraendosi a nessuna delle conclusioni che quell’analisi comportava. Come uomo, coerente con se stesso e con i propri princìpi, non poteva affidarsi al volo pindarico dell’utopia, anzi, in nome di un’impronta di realismo politico, suggeriva sempre la necessità di evitare le “enfantinerie”, condannando con ciò proprio gli utopisti.

È molto facile oggi leggere il Proudhon de La Pornocrazia, velenoso volumetto contro le donne, ma non è molto utile per comprendere il fenomeno “Proudhon”, in quanto ci mostra uno dei lati discutibili dell’ampio ventaglio delle tematiche del pensatore francese, tralasciando quelle notevoli intuizioni che tutt’ora lo rendono molto poco strumentalizzabile da parte di questa o quella cosca politica. Comunque penso si tratterà di un libretto che magari molti compreranno ma che ben pochi leggeranno. Il problema “Proudhon” resta ancora aperto.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 28, 1979, pp. 228-229. Recensione a P.-J. Proudhon, La Pornocrazia o le donne nei tempi moderni, Bari 1979]

Infamia pura e semplice

Delatori e avvoltoi

Ogni fase dello scontro sociale ha andamenti abbastanza costanti. Certe condizioni oggettive dello sfruttamento, le contraddizioni sociali ed economiche di fondo, la circolazione delle idee di liberazione, spingono le minoranze ghettizzate alla rivolta. Questa rivolta assume determinate forme che si scontrano con le strutture repressive del potere. Dopo un periodo di sviluppo dello scontro in corso, non maturandosi eventi più grandiosi, come la rivoluzione o, almeno, come insurrezioni sufficientemente generalizzate, si ha un appiattimento delle forme di lotta e un rincrudelirsi delle strutture di repressione. È il momento dei delatori e degli avvoltoi.

Ma anche nella fase di appiattimento o, peggio, di recessione, di sfiducia e disillusione, non bisogna dimenticare che l’obiettivo primario della lotta non era la lotta stessa, ma la determinazione di quelle condizioni che avrebbero potuto (e avrebbero anche non potuto) fare scoppiare le contraddizioni realmente rivoluzionarie. Come non bisogna dimenticare che quello che sul momento e nell’ottica a breve termine sembra lavoro sprecato, vite umane dissipate, migliaia di anni di carcere inutilmente subiti: risorge ben presto a nuova linfa, fiorisce con nuovi germogli e dà frutti che né i delatori né gli avvoltoi potranno distruggere.

È questo l’andamento della lotta di classe. Chi si era imbarcato sulla nave dello scontro armato credendo di fare una breve crociera, una corsa di piccolo cabotaggio, forse fa appena in tempo a sbarcare [1980], ed abbia almeno il pudore di non trasformarsi in delatore, vendendo se stesso e i compagni, la propria coscienza di rivoluzionario e le vite di coloro che più ama, per un miserabile piatto di lenticchie che domani il potere metterà sotto il muso a tutti.

I giudici ci fanno sapere che i “delatori” sono centinaia e che, comunque, si tratta di un fenomeno che ormai ha inquinato totalmente l’area della lotta armata. Il PCI insiste sulla necessità che si prendano decisioni in parlamento in merito a una discriminazione nel trattamento dei pentiti e che si valuti questa discriminazione, dal punto di vista quantitativo, in funzione del reale contributo che questa gente ha dato alla distruzione del fenomeno della lotta armata.

Quel vecchio rudere di Valiani, dall’interno del bunker della Banca Commerciale Italiana, non si dà per inteso, ma con tutta la protervia di chi è sordo e crede di essere solo al mondo, invita a una maggiore severità nell’applicazione della legge, a estendere il fermo di polizia, la tortura e, perché no, la pena di morte. Come in ogni farsa le parti che sono apparentemente in contrasto tra loro, sul piano del pathos drammatico si completano e si perfezionano a vicenda. Il miserabile Peci ha fatto scuola, seguito dai vari Sandalo, Paghera e consoci. Il PCI promette l’amnistia, seguito da giudici e presidenti. Valiani insiste sulle pene più severe, accomunandosi ai fascisti e suonando fuori tempo nella grande orchestra della reazione.

Da quello che si è capito, lo Stato ha avuto i suoi risultati solo utilizzando le squallide figure dei delatori, non avendo ottenuto gran cosa con tutti i soldi spesi e con i mezzi sofisticati dell’elettronica moderna. Ciò fornisce un primo insegnamento. La polizia moderna, come quella borbonica fondata dal famigerato Maniscalco, come quella di tutti i tempi, si basa quasi esclusivamente sulle indicazioni delle spie. Senza spie una polizia vale il dieci per cento di quello che potrebbe valere. Diceva il suddetto Maniscalco: “Quando tre persone si riuniscono insieme per congiurare contro lo Stato, il terzo è mio”. E non aveva poi tutti i torti. Delatori e miserabili non si nasce ma si diventa, e la debolezza delle proprie convinzioni è la strada migliore per arrivare a vendere i compagni. Quando si è in ventimila in piazza e si spaccano le macchine di grossa cilindrata, e si rompono le vetrine dei negozi, e poi si attaccano le macchine dell’odiata polizia, e poi a qualcuno spunta nelle mani, come per miracolo, una pistola e parte qualche colpo, e così via; allora, quando questo accade, nell’euforia del momento, tutto sembra facile. E da cosa facile in cosa facile si arriva alla lotta armata, alle regole della lotta clandestina, all’attacco diretto al potere, ai suoi rappresentanti, alle sue ricchezze. È una lotta dura, una lotta che non deve essere lasciata cadere nel circolo vizioso della lotta per la lotta, della lotta fine a se stessa, della lotta che si riproduce perché non trova altri sbocchi. In questo caso si avvia un processo di standardizzazione delle lotte, una vera e propria burocratizzazione che se da un lato consente la presenza del simbolo, dall’altro uccide ogni contenuto rivoluzionario, ricacciando indietro la ricerca di quegli sbocchi verso l’esterno che sono la sola soluzione possibile oltre che il solo motivo plausibile per cui si era cominciata una lotta minoritaria. Allora affiorano le debolezze personali, le incertezze teoriche diventano pesanti come pietre, le proprie motivazioni si fanno non troppo chiare, mentre sembravano chiarissime all’inizio. Quello che resta è una improvvisazione, una inconsistenza, un vago ribellismo, cose che se riescono a produrre il ribelle di un momento, non sempre sono capaci di produrre il rivoluzionario di sempre. E allora si accetta la mano tesa del nemico, si entra a patti con la propria coscienza, si arriva a giustificare l’odiosa decisione di vendere i compagni col fatto che la lotta armata non ha uno sbocco e che tanto vale che questa esperienza si concluda quanto prima possibile per cominciarne un’altra. No! non ci saranno altre esperienze per i miserabili e per i delatori, se non l’emarginazione perpetua da quegli ambienti di compagni che una volta erano così ospitali e lo stipendio, più o meno consistente e duraturo, che passa il ministero degli interni; il tutto accompagnato dal terrore continuo di vedere un giorno ergersi davanti ai propri occhi la testa di medusa della giusta vendetta.

Ma, in fondo, come diceva Don Abbondio, quando uno il coraggio non ce l’ha, nessuno glielo può dare. Quindi tanto vale che questi miserabili si trovino al più presto davanti alle conseguenze delle proprie decisioni: prendano quanto devono prendere oggi da uno Stato, altrettanto miserabile e vigliacco, che porge questi trenta maledetti denari, attendendo domani l’immancabile giusta vendetta. E qualora questa tardasse a venire, attendendo quell’insoddisfazione, quel senso di disagio e di schifo che non mancano mai di prendere gli infami davanti al tribunale di se stessi.

Ma di un’altra categoria di delatori occorre anche parlare. Non di quelli a cui la paura, ora, nel chiuso di quattro mura di isolamento, ha sciolto la lingua, ma di coloro, ancora più schifosi e ributtanti, se possibile, che hanno aspettato il momento di questo apparente riflusso per sputare tutto il fiele che avevano accumulato in corpo negli ultimi anni. Intendo riferirmi a quegli organismi di sinistra, anche cosiddetta rivoluzionaria, e a quegli individui che fino a ieri facevano parte del movimento e che oggi [1980] prendono le distanze, differenziandosi in una loro personale pratica di lotta (chiaramente inesistente) e facendo, in questo modo, piombare gli strali dell’attenzione di polizia e magistratura su quei compagni che mantengono le posizioni rivoluzionarie. Si tratta di delazioni che si possono definire “indirette”. Non è possibile prevedere, al momento, quanto danno faranno queste delazioni, però di una cosa si può stare certi: la struttura mentale che in passato spingeva a gridare alla provocazione quando dei compagni sceglievano metodi di lotta più avanzati, adesso spinge, con certezza matematica, alla delazione. Facciano attenzione tanti supercritici del passato recente e meno recente a non farsi risvegliare nel proprio intimo questa splendida vocazione, potrebbero andare incontro a grossi dispiaceri. Anche di questa gente la futura rivoluzione proletaria farà giustizia, non tanto singolarmente come individui, che purtroppo la storia molte volte ha la memoria labile, ma come posizione politica e come organizzazione. E, dopo i delatori, gli avvoltoi.

Armati del becco uncinato della loro critica tardiva sono piombati e piomberanno su tutto: sui compagni, sulle esperienze fatte, sugli errori commessi, sulle conseguenze politiche e rivoluzionarie che ne sono derivate. Questa critica da tartufo sarà sufficientemente miope da non scorgere il lato positivo di tante lotte e di tanti sacrifici, il lato positivo che oggi deve essere difeso a qualunque costo, per essere riconsegnato intatto al movimento rivoluzionario di domani. Ma questi uccellacci, rodendo e criticando, finiranno per distruggere tutto, per macchiare tutto, per rendere tutto inutile e da dimenticare. Adesso gli “avevamo detto” cominceranno a sprecarsi; le analisi capaci di dimostrare (standosene a casa in poltrona) che la lotta armata è stata una strada senza sbocco e che non bisognava imboccarla perché le conseguenze sono state durissime per il movimento rivoluzionario, non si conteranno più, tutti gli opportunisti di qualsiasi pelo ci canteranno le stornellate della recriminazione e, cercando di fare a pezzi quello che pensano sia il cadavere della lotta armata, daranno il loro modesto contributo, a fianco dei delatori, all’opera repressiva dello Stato.

Consigliamo a questi uccelli di non abbandonare i domestici nidi e di starsene a covare le proprie uova. C’è tempo per rosicchiare cadaveri e, prima di tutto, occorre che questi cadaveri ci siano.

Proprio qui si colloca il nostro modo di vedere le cose. La sconfitta, più o meno completa e più o meno accettata da tutti i compagni, di una forma di lotta non costituisce per nulla la sconfitta del movimento rivoluzionario, anzi non può che apportare un contributo costruttivo alla realizzazione delle future forme di lotta. Solo l’intestardirsi in forme di lotta che la reale consistenza dello scontro di classe indica come superate, può veramente danneggiare e rendere irrealizzabile per lungo tempo la rivoluzione.

La realtà che ci sta davanti mi sembra molto diversa da come il potere ha interesse a farcela vedere. Le delazioni, le promesse di riduzione delle pene, i volteggi dei soliti avvoltoi, ci vogliono far capire che siamo davanti alla definitiva sconfitta della lotta armata. Penso che tutto ciò indichi una cosa sola: la sconfitta di un modello di lotta armata e precisamente quello impersonato dalle Brigate Rosse e organizzazioni similari. Oggi siamo davanti alla reale sconfitta della tesi strategico-politico-militare di un’organizzazione clandestina che, con minori o maggiori raccordi con l’esterno, fronteggi e pretenda di sconfiggere lo Stato. Che gli avvoltoi svolazzino pure su questo cadavere, su questa ipotesi fallita. Insistere più a lungo su questo modo di vedere le cose sarebbe suicidio e non porterebbe che danni al movimento rivoluzionario nel suo complesso.

Ma quello che non è stato sconfitto è il modello della lotta armata generalizzata, della lotta che prepara e realizza lo scontro insurrezionale, della lotta che riconoscendo le oggettive condizioni dello scontro attuale si prepara e sceglie i mezzi più adatti per raggiungere i suoi fini e non si intestardisce nell’uso di mezzi che allontanano sempre di più quei fini.

La critica corretta deve contribuire a un approfondimento di queste condizioni, deve indicare i limiti delle esperienze del passato e le prospettive riguardanti le cose da fare. Non deve essere l’avvoltoio che fruga fra i cadaveri, ma l’aquila che s’innalza alta nel cielo per meglio scorgere il lontano orizzonte.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 31, 1980, pp. 21-23]

Montanelli, l’infame

Tra i diversi articoli pubblicati [1980] sul ritrovamento delle presunte piste di colpevolezza riguardo l’uccisione del commissario Calabresi, il boia che uccise Pinelli, tutti articoli che fanno a gara a chi trova la soluzione più ingegnosa e più romanzesca per giustificare il ritorno sull’argomento, spicca il contributo di Montanelli.

Questo vecchio rudere fascista scrive sul suo fogliastro uno degli articoli più infami che siano usciti dalla sua infame penna di venduto al potere. Non avendo più l’uomo del destino davanti a cui inginocchiarsi nel modo abietto dell’epoca fascista, trova comunque il modo di rendersi utile all’attuale traballante potere democratico, che se non fornisce più uomini del destino fornisce prebende, riconoscimenti e sicurezza economica.

La tesi sostenuta è lineare: quel “povero” Calabresi era una brava persona come, per altro, anche Pinelli, che non c’entrava con le bombe. Non si sa chi abbia messo queste bombe, solo che forse Pinelli qualcosa sapeva e qualcosa aveva pur accennato al suo “amico” Calabresi, con cui si davano del tu, per poi trovarsi ricattato da quest’ultimo (che non è nemmeno una bella cosa) e, davanti alla prospettiva di passare per una (involontaria) spia, si suicida spiccando un salto dal quinto piano. È stata tutta colpa dei giornalacci della sinistra che dando addosso a quel poveretto di Calabresi, unicamente colpevole di avere giocato uno scherzo a Pinelli, hanno spinto quei ragazzacci sconsiderati che maneggiano le pistole, a ucciderlo. Succo dell’articolo: i fascisti non c’entrano, è tempo che la magistratura e le polizie ritornino a inquisire la sinistra e, ovviamente, gli anarchici. Valpreda si prepari.

Sbalordirsi davanti a tanta improntitudine non è sufficiente. Tempo fa [1977], riflettendo quasi con me stesso, scrivevo che non era comprensibile perché a una bestia di questo genere avessero sparato alle gambe, quando sarebbe, forse, stato meglio sparargli in mezzo alla fronte. Per non avere a sufficienza sottolineato questo “forse”, cioè (nota per l’immancabile censore: per non essere stato sufficientemente chiaro nell’avanzare un’ipotesi, cosa del tutto diversa dall’incitare qualcuno a prendere la pistola e a sparare in mezzo agli occhi, come se poi fosse tanto facile trovare qualcuno che si lasci incitare a qualcosa del genere!), per non avere sottolineato questo “forse”, dicevo, mi sono trovato con una condanna a un anno e mezzo che se mi ha, forse, insegnato a scrivere meglio (grande forza didattica dello sbirro), non mi ha certo aiutato a capire perché diavolo non hanno sparato in fronte a una bestia come questa.

Che quei loschi figuri, racchiusi in una stanza al quinto piano della Questura di Milano, con in loro balia l’inerme Pinelli, siano senz’altro responsabili della morte del nostro compagno, è una verità tanto chiara che solo infami mestieranti e spie al soldo del più bieco dei padroni possono ancora mettere in dubbio. Non solo questa tesi è stata sostenuta dalla sinistra (e, scusate se è poco, con i tempi che corrono, anche dal Partito Comunista), ma anche da quelle fasce progressiste e laiche che si avvicinano alla sinistra quanto il diavolo all’acqua santa. Ogni uomo dabbene, pur nella sua assoluta estraneità a ogni idea politica di sinistra, purché abbia un minimo di resipiscenza morale, non può non accettare, anche adesso, la tesi dell’uccisione deliberata e fredda, consapevole e premeditata di Pinelli. Che poi l’“umanissimo” Calabresi era uso a fare minacce di defenestramento, questo può essere anche confermato dai compagni che furono inquisiti e torturati per le accuse relative alle bombe della Fiera campionaria. Che questa degna persona fosse l’uomo di fiducia di una certa corrente della Polizia legata agli interessi e ai contatti della CIA è stato provato nel corso del processo a Baldelli, sia pure – se non ricordo male – in forma indiretta. Che poi, infine, tanto fango e tanta miseria morale si nascondano dietro tutto l’“affare” della Strage di Stato, questo è emerso, all’occhio non certamente critico di più di quindici milioni di italiani, nel corso delle trasmissioni televisive dedicate al processo di Catanzaro.

Come è mai possibile che, a distanza di tanti anni, dopo tante prove accumulate a carico dei massimi esponenti dello Stato, dopo che nella coscienza pubblica si è ormai introdotta la certezza che a mettere le bombe furono i fascisti, con l’aiuto degli organi del Ministero degli interni, dopo che un agente del servizio segreto è stato condannato all’ergastolo, dopo che gli stessi servizi segreti sono andati a gambe per aria in modo tale che ancora non si sono rialzati: come è mai possibile che dopo tutto ciò si ritorni ancora alla vecchia tesi degli anarchici? si infanghi il nome di Pinelli? si tenti di riabilitare la memoria del commissario Calabresi?

L’occasione del momento è data dalla notizia giornalistica che coloro che giustiziarono Calabresi non erano (forse) di “destra”, come si affermò a suo tempo, ma erano di “sinistra”. A me, francamente, la cosa interessa molto poco. Non so chi possa avere ucciso il “povero” Calabresi, non so se a stenderlo siano stati i compagni o siano stati i fascisti, so solo che era un commissario di polizia e che era responsabile della morte di Pinelli.

E quand’anche fossero stati i compagni? Quale pietà, quale conforto, quale umanità trovò il povero Pinelli nel momento che le mani omicide lo gettarono nel vuoto, dall’altezza di cinque piani? Se la vendetta non è rivoluzionaria, è pur sempre un moto dell’animo umano, e solo imputriditi mestatori politici possono vedere in quanto è accaduto a suo tempo una “provocazione” fascista. La tesi che a uccidere Calabresi furono i fascisti divenne indispensabile, non come ipotesi ma come certezza, perché, in un dato momento storico, al PCI convenne aiutare gli anarchici e schierarsi come paladino della democrazia contro le mire eversive dei golpisti. Adesso, che questa fase storica è passata, si ritorna non alla probabile colpevolezza dei fascisti, ma alla certezza che a uccidere Calabresi sono stati i compagni. Si tratta di interpretazioni politiche che non ci riguardano. Non interessa approfondire le probabilità a favore di una tesi o dell’altra, quello che interessa è difendere la memoria di Pinelli e, maggiormente, impedire che si costruisca un’altra provocazione contro gli anarchici.

La nostra lotta contro le provocazioni e contro le montature, alcune delle quali sono state rivolte contro la redazione della rivista “Anarchismo” e contro tutti i compagni anarchici più impegnati sul fronte delle lotte, non è stata però quella di defilarci dallo scontro, lasciando intendere che dopo tutto siamo “bravi ragazzi” e che lo Stato potrebbe lasciar correre e far finire tutto a tarallucci e vino.

No! Noi siamo nemici irriducibili dello Stato e dei suoi ordinamenti di morte. Non accettiamo, non abbiamo accettato e non accetteremo compromessi di alcun genere. Finché ce lo consentiranno denunceremo, con quanta forza avremo nei polmoni, ogni tentativo di provocazione e ogni montatura. Denunceremo attaccando a nostra volta e non difendendoci.

E questo di Montanelli, per quanto squallido e mestamente nostalgico, è il segno di una ripresa della parte più reazionaria delle forze repressive. La lotta potrebbe farsi molto più dura di quanto non sia accaduto finora.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 31, 1980, pp. 8-9. Pubblicato anche su “Sicilia Libertaria” n. 15, 1980]

Il labirinto delle assurdità

Che di un vero e proprio labirinto si tratti non c’è dubbio alcuno, solo che questo intricato insieme di assurdità e di nonsenso, si trova nella testa del povero Settembrini, acciaccatosi in letture indigeste per la sua anima di “liberale” in servizio permanente agli ordini dei padroni.

Un lavoro del genere non ha bisogno di molto spazio per essere individuato per quello che è: una pattumiera pericolosa per i rivoluzionari, dal momento che lascia capire al lettore meno attento che, dopo tutto, la confusione e la contraddittorietà è diffusa fra gli anarchici; da cui si deduce che non vale la pena di approfondire le loro istanze teoriche, pur tanto differenti e ricche, in quanto si finisce per entrare in un labirinto da cui non è facile venire fuori.

Gloriosa riprova di come questi pennivendoli al soldo del regime vadano trattati (a priori), con la dovuta dose di disprezzo e di parzialità, sì, proprio di parzialità; evitando di trattarli con quella cortesia e quell’accondiscendimento che tanti compagni, evidentemente meglio educati del sottoscritto, spesso non sono stati in grado di sopprimere.

Stante la pericolosità di simili individui, tempo fa avevo sottolineato l’urgenza che, qualora se ne presentasse l’occasione, non sarebbe disdegnabile far loro assaggiare il sapore del piombo ma, in anteprima degli interessati censori polizieschi, altri censori, paludati nelle vesti candide del compagno moralista di turno, mi hanno rimproverato una tendenza irrefrenabile per il sangue e la violenza. Bene! Dato che non è parso opportuno auspicare una giusta lezione nei confronti di simile gentaglia, non mi resta che augurare lunga vita ai manipolatori delle idee rivoluzionarie, perché possano impunemente continuare nel loro proficuo lavoro, sfornando libri e articoli, collezioni più o meno umoristiche e più o meno tragiche di mistificazioni, a uso delle nuove generazioni e a esclusivo beneficio del potere.

Per gli ingenui che avevano fatto un raffronto molto superficiale (giudicato clamorosamente errato dai soloni della scienza rivoluzionaria), cioè per coloro che avevano ritenuto parimenti grave sfruttare, sostenere lo sfruttamento e imbrogliare le limpide acque della rivoluzione, allo scopo di rendere sempre più agevole il dominio di una minoranza sulla maggioranza, a questi ingenui non resterebbe che la mesta soddisfazione di far collezione di ‘“perle” della mistificazione, infilandole una dopo l’altra per farne collane di morte.

Comunque, poiché quegli ingenui sono ancora tali (l’ingenuità è una malattia inguaribile, che si aggrava col tempo), non sono nemmeno buoni a fare questo lavoro di ricerca, a cui l’altrui sagacia critica vorrebbe condannarli.

Un esempio: la “summa” di Settembrini è piena di grosse mistificazioni. Assai simpatica quella diretta al lettore dell’indice del primo volume, il quale trova, fra gli scritti di Bakunin, una lettera dal titolo: “O rinunciare ad agire o adottare il sistema gesuitico”. Quando, invece, nella lettera in questione, pubblicata anche nel V volume delle Opere complete (edizioni Anarchismo), non esiste alcun titolo del genere, ma solo un passo che suona in questo modo: “Bisognava o rinunciare ad agire, oppure adottare il sistema gesuitico”, con cui Bakunin si riferisce a una alternativa davanti la quale si venne a trovare Nečaev, alternativa risolta da quest’ultimo abbracciando il terrorismo segreto di stampo giacobino-gesuita. È chiara la forte impressione che il lettore, non proprio provveduto, riceve nell’apprendere che esiste un pezzo di Bakunin dal titolo tanto chiaro a favore del gesuitismo.

Simili giochi sono sparsi dappertutto nel lavoro di Settembrini, e assurgono a grande evidenza nel primo volume, con l’inserimento di alcuni scritti di Mussolini (sì, proprio lui), e nel secondo volume di alcuni scritti e documenti delle BR (sì, proprio loro).

Degne di nota due altre “perle”. Un riferimento a un passo del libro di Bauman, in cui viene riportato un volantino tedesco che tratta della lotta di liberazione dei Palestinesi e condanna l’atteggiamento razzista degli Israeliani. L’olimpico Settembrini mette il titolo: “Antisemitismo anarchico”, che è fra le cose più umoristiche e macabre che mi sia capitato di vedere negli ultimi tempi.

L’altra “perla” è l’inserimento, alla fine del secondo volume, di un ultimo capitolo dedicato all’“anarco-capitalismo”, il movimento di assai dubbia origine, nato in America e sostenuto in Italia dalla rivista “Claustrofobia”. Sullo squallore delle tesi di questa rivista e dell’“anarco-capitalismo” in genere, non è qui il caso di dilungarsi, ma giova riflettere sull’operazione mistificatoria di Settembrini che non batte ciglio nel procedere a un ulteriore affastellamento del suo materiale, purché il risultato sia quello della miglior confusione possibile: la costruzione di un bel labirinto.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 28, 1979, pp. 227-228. Recensione a D. Settembrini, Il Labirinto rivoluzionario, Milano 1979]

Polizia e carabinieri

I carabinieri e la polizia costituiscono il braccio armato della reazione, sono gli strumenti più avanzati dei padroni per colpire, subito e nel modo più brutale, ogni iniziativa degli sfruttati che cerchi – in un modo o nell’altro – di riprendere quello che è stato loro tolto.

È bene riflettere un poco sulla loro funzione perché, anche di recente [1979] sono state rimesse in giro delle chiacchiere in merito a una possibile considerazione positiva del loro compito. Dopo tutto, qualcuno ha avuto il coraggio di affermare che sono dei lavoratori. E ad affermare ciò non erano reazionari o socialdemocratici di vecchio pelo, ma compagni anarchici.

In quanto strutture organizzate e armate dello Stato non si richiederebbe molto di più di quanto detto per concordare sul fatto che sono elementi indispensabili della repressione e, come tale, vanno considerati nemici degli sfruttati.

Invece, i partiti della sinistra e i più recenti partitini della cosiddetta squallida “estrema” sinistra, facendo coro con i sindacati, affermano che carabinieri e polizia sono costituiti da “poveri” proletari che cercano di guadagnarsi il pane facendo “un mestiere come un altro e, per giunta, più ingrato e più pericoloso di un altro”.

Questa gente cerca spudoratamente di mistificare la realtà delle cose, gettandosi allegramente dietro le spalle più di un secolo di lotte proletarie, nel corso delle quali i carabinieri e la polizia sono stati sempre strumenti della repressione. L’intento mistificatorio è fin troppo evidente.

I carabinieri e la polizia sono, è vero, nella maggior parte dei ranghi minori, costituiti ancora da sottoproletari provenienti dal sud e dal profondo sud; ma sono sottoproletari che hanno rinnegato la loro origine di classe mettendosi a disposizione dei padroni per reprimere e, all’occorrenza, per sparare contro i loro fratelli che si ribellano allo sfruttamento. La loro attività, diretta a sottrarli alla miseria, non fa altro che affossare nella miseria e nella criminalità altri fratelli, altrettanto miseri e affamati quanto lo erano loro prima di vestire la divisa del fango e del disonore.

E il disprezzo che la povera gente, quella che sa bene come questi suoi figli siano traditori, si vede con chiarezza nel carico di odio e di distacco con cui si riempie la parola “sbirro”. Anche queste considerazioni, se si vuole marginali, hanno la loro importanza, in quanto portano con sé tutto il peso del costume popolare, formatosi nel corso di secoli di sfruttamento.

Occorre anche tenere presente che questi cosiddetti “lavoratori”, non intervengono nel processo produttivo, cioè non realizzano nessun incontro tra la forza lavoro e la merce (per quanto discutibili possano essere i risultati di questo incontro), ma si limitano a concretizzare il proprio “lavoro” nel rendere possibile lo sfruttamento stesso. Essi sono, infatti, la minaccia, presente e visibile, diretta contro coloro che rifiutandosi di accettare la logica della decimazione, intendono ribellarsi. Le cose e le persone dei padroni sono intoccabili, in caso contrario sono pronti i carabinieri e la polizia, i quali, al soldo degli interessi padronali, intervengono pesantemente per dissuadere ogni ribellione e per convincere i ribelli a tornare nelle fabbriche, nelle campagne e nelle scuole.

Se questo può considerarsi un “lavoro”, allora anche quello che svolgono i padroni è un “lavoro”, e quindi perché non concludere – come fece il fascismo – per la necessità di un sindacato unico di tutti i “lavoratori”, comprendente perciò sia i padroni che i poliziotti? Non sarebbe questa la logica conseguenza dell’affermazione che i poliziotti e i carabinieri sono tutti proletari e lavoratori? E non saremmo davanti al più spudorato ripristino della dittatura fascista?

Ci pensino bene i compagni che si fanno ingannare dalle chiacchiere del PCI o della FGCI, come pure dai ragionamenti distorti, pieni di distinguo, dei partitini che hanno perso la loro roboante matrice rivoluzionaria a parole. Ci pensino bene e pongano mente a quanta responsabilità, singolarmente, si assumono, di fronte agli sfruttati, prestando la propria collaborazione e giustificando l’operato di forze che sono chiaramente antiproletarie e filopadronali. Ci pensino bene prima di difendere carabinieri e polizia, da sempre strumenti repressivi nelle mani degli organizzatori dello sfruttamento.

E non credano, coloro che oggi si danno tanta pena di riscoprire una matrice proletaria nei carabinieri e nella polizia – se il disegno repressivo dei padroni dovesse andare in porto, quando questi non avranno più bisogno del consenso delle “estreme” sinistre –, di salvarsi dai colpi di manganello e dai pestaggi, solo per avere un giorno titubato nel denunciare le colpe di classe degli appartenenti a questi organismi repressivi, perché saranno fra i primi a cadere, saranno fra i primi a essere criminalizzati.

Mantenere fermo il proprio atteggiamento critico nei confronti del potere e delle sue organizzazioni repressive (di qualsiasi forma e colore) è il punto essenziale di ogni rivoluzionario. Le mode passano, le titubanze si alternano, i livelli dello scontro si modificano, gli interessi si affrontano, la lotta di classe resta fin quando non saranno scomparsi i padroni e i loro servitori.

 


[Pubblicato su “Terrorista è lo Stato”, Numero unico, 1979, p. 4]

Brancolare nell’ignoranza

Come scrivere di cose che non si conoscono

Nella collana “Educatori antichi e moderni” della Nuova Italia, questo libro fa bella mostra di sé affrontando un argomento “scabroso”: l’ideologia libertaria e il contributo che gli anarchici hanno dato al pensiero e all’azione pedagogica. Lettura interessante, va da sé, lettura istruttiva, e la professoressa che ha approntato il lavoro, insegnante di storia della pedagogia all’Università di Firenze e collaboratrice della rivista “Scuola e Città” – ci fa sapere premurosamente l’editore – ha fatto sicuramente del suo meglio.

Eppure, questi lavori mi lasciano insoddisfatto. Mi capitò una volta, traducendo un libretto di Joll – che pubblicammo con le Edizioni Underground nel 1972 – mi capita adesso con questo volume. Perché mai un professore universitario, con tanti problemi che ci sono, con tanti settori mummificati, con tanti dinosauri da disossare, si dedica a mummificare qualche cosa che riottosamente insiste a non essere mummificata? Certo, perché il settore è vergine, qualche mente maligna mi potrebbe suggerire. Ma resto lo stesso non soddisfatto.

Chi non è addentro alle segrete cose della storia dell’anarchismo può restare fortemente impressionato dallo sforzo fatto, ma tutti coloro che hanno un qualche interesse reale al problema rivoluzionario, si rendono conto che le pagine sulla contestazione studentesca scritte dall’autrice, sono semplicemente grottesche. Le stupidaggini sull’anarcoide Marcuse e sui suoi sforzi “di introdurre nell’azione contestatrice una certa organizzazione” sono veramente esilaranti. E se tutto il resto – diciamo la parte storica – fosse allo stesso modo?

Facciamo una verifica prendendo, a titolo di esempio, la nota bibliografica su Kropotkin, cioè un lavoro da professore universitario. Leggiamo: Parole di un ribelle (1885), evidentemente si tratta della prima edizione edita da Marpon e Flammarion a Parigi a cura di E. Reclus. La morale anarchica (1891), la “logica” bibliografica avrebbe voluto che si citasse la prima edizione, quella del 1889, fatta da “Temps nouveaux” e non una non precisata ulteriore edizione francese. L’anarchia nella rivoluzione socialista (1892), un libro ignoto di Kropotkin, ma (bando agli scherzi) si deve trattare di un errore tipografico, l’opuscolo in questione s’intitola L’anarchia nell’evoluzione socialista e la prima edizione non è del 1892, come indica l’autrice, ma del 1887, fatta a cura del giornale “Révolté” e riproduce una conferenza alla sala Lévis (in tutto 31 pagine). Si ha una ristampa nel 1888 e una seconda edizione nel 1892. Una ulteriore ristampa venne fatta a Bruxelles nel 1895 a cura di “Temps nouveaux”. Un altro libro a me sconosciuto è L’anarchia, sua filosofia e suo metodo (1896), stranamente edito lo stesso anno del libro di Kropotkin portante il titolo L’anarchia, sua filosofia, suo ideale (Stock, Parigi 1896, in 18°, p. 59). La Grande rivoluzione risulta pubblicata nel 1911, lo stesso anno della traduzione italiana di Ginevra, invece che nel 1909 (Stock. Parigi, n. 3 della “Bibliothèque historique”). L’Etica appare con un’edizione del 1912 che mi pare almeno improbabile in quanto l’edizione russa (che, a quanto mi risulta, è la prima) è del 1922.

Non voglio insistere anche perché ritengo inutile un lavoro del genere. Ho accennato a questi problemi perché mi è sorto un dubbio sulla metodologia che tanti professori universitari impiegano nell’avvicinarsi a settori storici di ricerca che fanno gola per la mancanza di concorrenza. Sicuramente anche nelle mie stesse precisazioni vi possono essere degli errori ma, almeno, non possiedo l’infallibilità professorale. Sarei intanto molto grato all’autrice se mi facesse sapere quali furono le collaborazioni di Kropotkin alla “Révue de Deux Mondes” in quanto, pur avendo condotto ricerche specifiche in questa enorme “enciclopedia della borghesia francese”, il nome del grande rivoluzionario russo mi è sfuggito. Un’altra cosa che vorrei sapere, in quanto siciliano, che diavolo ci fa Nino Bixio fra gli anarchici ex mazziniani (... se la buonanima dell’avvocato Lombardo lo venisse a sapere), ma evidentemente si tratta di un’omonimia.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” nn. 4-5, 1975, p. 251. Recensione a T. Tomasi, Ideologie libertarie e formazione umana, Firenze 1973]

L’avventura di un editore di provincia

Domanda: Che cosa può fare un piccolo editore di provincia (specie nel profondo sud) quando si mette in mente di “lanciare” una collana di testi politici, senza avere le mani in pasta?

Risposta: Rivolgersi al parco buoi dell’Università. Scegliere un animale non molto grosso (altrimenti costa troppo) e pregare iddio che tutto vada per il meglio.

Domanda sciocca: Può l’animale universitario smettere di brucare l’erba cresciuta all’interno del recinto del potere?

Come tutti sanno la risposta a una domanda retorica (e sciocca) è inutile.

Il volume di Pelloutier è stato stampato da un innocuo commerciante di libri del nostro profondo sud, che ne ha affidato la cura (non nel senso di Heidegger) a un professore universitario, anch’egli del profondo sud, desideroso di avere la propria “collanina” da dirigere. Che questa “collanina” si chiami “Pensiero militante” non ha molta importanza, purché collanina sia e di collana dia l’impressione di essere. Di cosa e per chi debba militare è fatto decisamente marginale. Il metodo è il seguente: il professore adocchia la gratificazione accademica (che nemmeno di soldi, credo, si possa parlare, vista la fame che alberga dappertutto), accetta; sguinzaglia i propri negri (studenti e assistenti) sulle tracce di qualche autore non proprio esaminato fino in fondo, ne trae le debite conseguenze, viene fuori il libro.

Che in questi ultimi tempi, questi autori non esaminati in profondità, siano in molti casi anarchici, è un fatto scontato ma che ha i suoi lati interessanti. Il complesso dell’azione e del pensiero anarchici potrebbe essere addentato da questi topi di biblioteca e finire per risultare tagliuzzato in tanti piccolissimi pezzi, con lo scopo non confessato di dimostrare che, in definitiva, l’anarchismo è una dottrina come le altre, qualcosa che si può codificare nelle pagine di un libro (o di tanti libri) e, poi, mettersi il cuore in pace. Non solo, ma per questa gente l’operazione ha anche il lato favorevole di svolgersi su di un terreno quasi sempre vergine, dove eventuali “controlli” su svarioni e idiozie, non sempre sono facili e possibili.

Ecco quindi che il nostro curatore universitario mette insieme cinque scritti, appioppa loro il titolo che crede più opportuno, senza tenere conto, a esempio, che lo scritto sull’arte ha ben poco a che vedere con gli altri quattro, elabora una non molto impegnativa Introduzione, e mette avanti il proprio nome come studioso di un settore che, oggi, attira non pochi interessi e attenzioni.

Ma veniamo al sodo. La figura di Pelloutier non può oggi proporsi acriticamente all’attenzione del movimento rivoluzionario che, proprio sulla linea della critica al sindacalismo, svolge le analisi più approfondite e interessanti. Farlo significa due cose: a) essere assolutamente fuori della realtà (caso appunto del professore che vive fra le sue carte), b) essere funzionali alle strategie padronali.

Che una certa intuizione in questo senso ci sia stata è evidente, difatti in copertina appare quanto segue: “In un momento politico come quello attuale, caratterizzato da profonde tensioni sociali e da inquietanti segni di disagio provenienti da settori della sinistra tradizionale, proporre la lettura di alcuni scritti di Fernand Pelloutier sullo sciopero generale e l’organizzazione del proletariato acquista un particolare significato politico che si aggiunge all’interesse più propriamente storiografico che tali scritti potranno sollevare”.

Ma l’operazione appare incerta. Da un lato vorrebbe timidamente aprirsi con una specie di proposta di lettura a quelle frange che guardano criticamente la muffa attuale che copre il sindacato e sospettano dei partiti; ma questa apertura non deve sembrare qualcosa di troppo impegnato, la carta del valore storiografico deve sempre essere tenuta presente. Allora, che professori si sarebbe?

Questa ambivalenza segna tutta l’Introduzione del buon Sciacca. L’anarchismo di Pelloutier è fatto balenare qua e là, come risultato di tentennamenti nel suo pensiero che, per altro, viene visto come frutto esclusivo dell’azione. Insomma, un agitatore sindacale con le idee ondeggianti tra lo sciopero generale come forma di difesa e lo stesso sciopero come forma di attacco per la rivoluzione sociale (sottolineato). Ora più violento, ora meno violento, ora influenzato, ora influenzatore, ora soreliano, ora allemanista, ora proudhoniano, ora guesdista, ora collaboratore di “La Cocarde” (una specie di periodico di tendenza nazionalista dove addirittura scriveva Barrès). Questo modo di procedere ci è noto. Lo ha impiegato, con maggiore respiro, il famigerato Bravo nel volume Gli anarchici (Utet). questo signore mise insieme ai diversi autori anche W. Marr, quasi sconosciuto scrittore anarchico tedesco che poi finì nelle fila dell’antisemitismo. Ciò a dimostrare che con questi anarchici non si sa mai. Non hanno le idee chiare, non hanno una ideologia chiara, non hanno una strategia chiara. Qualche volta, anche la gallina cieca può trovare il chicco di grano al posto di quelle che ci vedono, ma è un caso raro.

Tale il caso del sindacalismo rivoluzionario. La gallina cieca (secondo il nostro Sciacca) trovò il chicco di grano, cioè la strada più efficiente per la lotta contro il capitale: la strada del sindacalismo rivoluzionario. Oggi, essendo esclusa la capacità degli anarchici di proporre azioni valide e strategie rivoluzionarie, la sola cosa da fare è ristampare gli opuscoli del passato e suggerirne la lettura. Nell’Introduzione si legge: “La risposta che ci viene dagli scritti di Pelloutier è chiara e semplice nello stesso tempo: [il sindacato] è lo strumento per giungere all’emancipazione della classe operaia. Ma poiché sarebbe illusoria una emancipazione che provenisse dall’esterno, la vera e definitiva emancipazione del proletariato non può non essere che una conquista dello stesso proletariato, una auto-emancipazione... Dunque, il rapporto socialismo-sindacalismo in Pelloutier appare radicalmente capovolto rispetto a quanto veniva affermato (e in una certa misura viene ancor oggi affermato) dai partiti socialisti ‘ufficiali’: il socialismo è un mezzo, il sindacalismo – e quindi l’autoemancipazione operaia – il fine”.

Si intende spacciare, in questo modo, l’organizzazione autonoma del proletariato con il sindacalismo, in un momento, come quello attuale, che vede la svendita definitiva dei produttori, attuata proprio dai sindacalisti. Non è difficile cogliere il movente reazionario e la copertura ideologica che spingono a tanta fatica il nostro professore. Il sindacato non è solo lo strumento dell’autoemancipazione, ma è anche il fine, dato che l’autoemancipazione non potrebbe essere soltanto mezzo ma deve per forza essere lo scopo delle lotte.

Simili storielle non fanno molto brodo, non incantano più, non riescono a nascondere il piano reazionario che covano al di sotto. Però, specie quando girano all’interno dell’università, possono imbrogliare gli allocchi.

A questo punto, cosa vale precisare che la prima Borsa del Lavoro nasce il 3 febbraio 1887 a Parigi, e non nel (generico) 1888, come si premura a farci sapere il nostro erudito professore? Evidentemente ben poco.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” nn. 16-17, 1977, pp. 299-301. Recensione a F. Pelloutier, Lo sciopero generale e l’organizzazione del proletariato, Catania 1977]

Gli intellettuali alla gogna. Il falso come strumento di lotta

Indurre il nemico in errore, scompigliare le sue carte, mettere confusione nelle sue strategie, misurare le sue debolezze in materia di comprensione della tattica avversaria, far vedere i ritardi dei suoi tempi di reazione, sono elementi positivi di un progetto rivoluzionario che non può cadere nell’equivoco di una sacralizzazione della verità.

Fra i falsi più noti c’è un numero speciale di “Le Monde Diplomatique” spedito nella prima quindicina di novembre del 1977, subito dopo l’uccisione dei compagni del gruppo Baader, a tutti gli abbonati. Gli articoli, firmati dai più autorevoli collaboratori del quotidiano parigino, sviluppavano critiche alle versioni ufficiali fornite dalle autorità tedesche sul massacro dei detenuti della RAF in carcere. La riproduzione grafica era perfettamente fedele. Scoppiò uno scandalo utilissimo per rompere la cortina di silenzio e di conformismo che tutti gli organi di informazione avevano steso sui fatti, in omaggio alla politica di Schmidt e all’egemonia del capitale tedesco.

Più o meno alla stessa epoca usciva il libretto: Enrico Berlinguer, Lettere agli eretici, un falso epistolario del segretario del PCI con i dirigenti della nuova sinistra italiana. Buona riuscita del falso perché si discute molto del contenuto del libro che mette in ridicolo i tentativi del Partito Comunista di recuperare ogni forma di dissenso politico in Italia.

Nella mattinata del 28 settembre 1978 un nucleo di Azione Rivoluzionaria interrompeva le comunicazioni urbane di Milano facendo saltare un traliccio alimentatore della metropolitana. In quell’occasione veniva distribuito un volantino con la falsa firma delle confederazioni sindacali con cui veniva indetta una giornata di lotta contro la tortura, le carceri speciali e la svolta reazionaria del movimento sindacale.

Il 5 ottobre 1978 usciva a Forlì un falso manifesto con il bollo del Comune che riportava alla vecchia tariffa di 100 lire il biglietto degli autobus aumentato a 200 lire con un provvedimento della giunta.

Ai primi di novembre, in concomitanza con la festa delle forze armate, venivano recapitate a Torino migliaia di false cartoline di richiamo alle armi.

Ma il falso più clamoroso resta senz’altro il “testamento politico” di Sartre, diffuso nel gennaio del 1978 e riproducente un opuscolo di Joseph Déjacque, dal titolo La question révolutionnaire, scritto nel 1854 e ripubblicato recentemente in Francia dalle edizioni “Champ libre” nel volume A bas les chefs! (Paris 1971). Il clamore suscitato da questo falso nella stampa nazionale e internazionale è stato di tale portata da confermarmi, qualora ce ne fosse stato bisogno, che si può veramente mettere in crisi il potere (in questo caso il potere dei letterati) con un opportuno e tempestivo uso del falso.

Io stesso ho parlato direttamente con giornalisti e letterati di fama, praticamente in preda al panico per non sapere interpretare un rebus che veniva loro sottoposto. Di più, lo stesso vecchio Sartre si è trovato con le mani legate anche per una difesa “legale” dei suoi interessi di letterato e uomo politico. I suoi avvocati sono infatti intervenuti, ma sempre con molta gentilezza e sempre pregando, mai minacciando: non si poteva evidentemente esporre il sacro rudere alla vergognosa accusa di avere trascinato in tribunale un gruppo di irriverenti e giocosi falsari.

Il falso, la falsificazione di un oggetto o di un’idea può, in determinate circostanze, costituire uno strumento di lotta rivoluzionaria. L’operazione realizzata dalle Edizioni “Anarchismo” con il falso libretto attribuito a Sartre, col titolo Il mio testamento politico, si proponeva i seguenti obiettivi: a) misurare il grado di confusione e di idiozia che esiste all’interno della cosiddetta cultura di sinistra; b) verificare la diffusione di un simile fatto e i tempi di reazione e di controllo delle strutture culturali; c) fornire infine uno strumento, un’indicazione che potesse venire sviluppata in futuro in modo ben diverso e con diversi obiettivi.

Il testo pubblicato sotto il nome di Sartre è un classico della metà dell’Ottocento francese, un classico dell’anarchismo. La traduzione, integrale, da me fatta, ha subito solo due o tre modificazioni con la sostituzione dei nomi di Mitterand, Marchais o Giscard al posto dei correlativi nomi dell’epoca. In più è stata aggiunta una breve nota iniziale in cui a Sartre veniva attribuita una nuova simpatia per gli anarchici e un meno pesante ricordo del suo amico Camus, nota non del tutto campata in aria se in una non lontana intervista lo stesso imperscrutabile vecchio aveva affrontato il problema del proprio “anarchismo”.

C’è da dire subito una cosa: nel nostro universo intellettuale di sinistra o, almeno, in quello che più da vicino finisce per imbrattare i giornali, la vera preoccupazione non è stata tanto quella di vedere se e come Sartre avesse potuto scrivere quelle cose, ma l’incredibile modo in cui le aveva scritte, dando per scontato – almeno in prima battuta – che una volta che un libro porta indicato il nome di un autore, questo deve averlo scritto, essendo, per definizione, impossibile fare scherzi simili alla buona fede dei lettori. Non sono nemmeno mancati i più approfonditi sartriani che, sgomenti davanti a tanta pochezza letteraria, sono andati a rileggersi certe riflessioni del filosofo in merito ai processi di destrutturazione delle forme di espressione, tornandosene più frastornati di prima. Altri hanno ripescato i passi introduttivi dettati da Sartre per le opere di Fanon. La più gran parte ha finito per concludere per una specie di “collage”.

In realtà, prima che lo stesso incaricato di Sartre a Parigi facesse conoscere l’opinione del filosofo in merito al falso in circolazione, nessuno aveva le idee chiare. Dopo, tutti si sono lamentati di come possano succedere cose del genere, attribuendomi, secondo i gusti, superficialità o ignoranza, per non aver saputo individuare, come non sartriano, un prodotto che altri mi aveva fornito per tale. Che questi signori si mettano il cuore in pace. Il prodotto non è di Sartre e non solo lo sapevo perfettamente, ma il falso è stato studiato e realizzato per i motivi sopra indicati.

A parte Umberto Eco, il cui intervento su “L’Espresso” del 2 aprile 1978 merita un approfondimento, gli altri vanno messi tutti nello stesso sacco. Forse una distinzione si può fare per i “giornalisti” veri e propri, come Riva o Grasso, i quali, facendo il proprio mestiere, hanno cercato di andare più a fondo. Gli altri, i letterati, non hanno capito dall’inizio alla fine, mostrando, non solo la comune ignoranza, ma una irriducibile perseveranza nel parlare, a qualsiasi colore appartengono, di cose che non sanno.

Prendiamo il primo del mucchio, quel Costanzo Costantini che scomoda ben nove colonne de “Il Messaggero” del 12 marzo 1978 per farci sapere le sue personali elucubrazioni intorno allo stile di un testo che non poteva neanche lontanamente somigliare a quello di Sartre. E chi mai poteva pretendere qualcosa del genere da un testo vecchio di 130 anni, se non un sommo concentrato di razionale ottusità critica? Se avessi voluto dare spazio alle riflessioni dei recensori avrei addolcito il testo in modo da rendere loro più difficile l’analisi, consentendo, in questo modo, ben altre papere. Ma lo scopo non era questo, non erano certo i Costantini e i loro degni soci di “Paese Sera”, “La Stampa”, “Tutto Libri”, “La Repubblica”, “La Voce Repubblicana”, “Il Tempo”, che mi interessavano.

Ma torniamo allo sforzo critico del nostro branco di macinatori di colonne. Si chiede: perché tutto questo è stato fatto? Per soldi? Per confondere le idee dei “ragazzi” del movimento? Suprema ingenuità! che non si accorge che a restare con le idee confuse non sono i “ragazzi” del movimento, come vengono chiamati, ma proprio quelle sacre vestali della cultura di “sinistra” che non capiscono più nulla quando, anche solo per un attimo, si sostituiscono sotto i loro occhi le solite quattro carte con cui si divertono a giocare.

Da notare, poi, la patetica difesa del povero vecchio Sartre, monumento di coerenza in una società che va in completo sfacelo morale, attaccato con ingiurie di ogni tipo e perfino con bombe al plastico, mentre lui “continua a battersi con i mezzi che gli sono consentiti dalla stanchezza e dalla quasi cecità, sbagliando e non sbagliando...”. Per evitare i rischi, sempre possibili con l’imprevedibile vecchio, ci si mette così al sicuro.

Onde dare un quadro dello squallore che ci circonda segnalo che non sono mancati coloro che hanno perfino creduto (potenza della carta stampata!) alla paternità sartriana, come il recensore de “La Voce Repubblicana” (del 18 febbraio 1978), un non meglio (per sua fortuna) identificato g. mazz., che si dilunga per ben tre colonne per concludere che dopo quest’ultimo scritto di Sartre è meglio tornare a leggere La nausea o il Flaubert.

Un certo signor Compagnone, dalle colonne di “Tutto Libri” (8 aprile 1978) esprime la sua profonda preoccupazione per il fatto che gente come il sottoscritto possa avere la “responsabilità” di una rivista se poi è tanto irresponsabile da non “vedere” che un testo di quel genere non è di Sartre. E si chiede costernato come hanno fatto gli anarchici di oggi a perdere quella loro profonda “correttezza” che una volta li caratterizzava. E, a questo punto, il nostro caro amico tira fuori dal cappello, con destrezza degna di migliore causa, non il solito coniglio, ma il solito amico anarchico (e chi, oggi, non ha un amico anarchico da tirare fuori al momento opportuno; Zaccagnini, ex segretario DC, ne aveva uno e lo tirò fuori al momento della crisi del suo partito, facendosi vedere in lacrime al funerale dell’amico, il quale aveva anche fatto la resistenza con lui, e altre cose del genere). Anche il signor Compagnone ha un amico anarchico, o lo aveva, ma un anarchico di quelli veri – non come il sottoscritto – un anarchico di quelli che rifiutano la violenza, il quale, nel corso di non so che moti insurrezionali accaduti in quel di Napoli, riuscendo improvvisamente a entrare nella stanza del Prefetto, invece di sparargli in mezzo agli occhi, come sarebbe stato logico aspettarsi, si sorprende del maleducato atteggiamento di quest’ultimo, che gli imponeva con malgarbo di uscire subito invece di farlo accomodare e discutere sul modo migliore di farsi sparare in mezzo agli occhi, e, disgustato dalla cattiva educazione del funzionario governativo, lo abbandona con sdegno e superiorità al suo destino. Ecco il comportamento dei veri anarchici! È chiaro che ogni commento è superfluo. È questo il livello medio di coloro che tengono in mano le forbici della cultura ufficiale, che poi – per chi non lo sapesse – è quella di sinistra. Ora, questo branco di stupidi ripetitori, quando tutte le carte del gioco sono al loro posto, mettendo insieme letture e rimasugli culturali vari, riescono a dare l’impressione di saper fare funzionare il cervello; quando, invece, qualche cosa viene messa fuori posto, la loro squallida sostanza emerge con cruda chiarezza.

Ben più serio, al contrario, e ben al di sopra di tante stupide chiacchiere, è il discorso di Eco, sebbene risulti stranamente incerto nel suo svolgersi, come se non volesse ammettere le conseguenze ultime delle sue stesse premesse. Egli dice: “Lo Stato moderno si fonda sul consenso, non soltanto sulla coercizione. Qualsiasi gruppo di persone unite da un qualsiasi rapporto, se dà delle notizie deve darle vere perché, in caso contrario, gli altri se ne accorgono e il gruppo viene giudicato inattendibile. Se tutti mentono, comincia la guerra di tutti contro tutti. Così non vengono distrutti i rapporti di potere, ma gli stessi rapporti di vita. Oppure emerge una forma di potere talmente forte che finisce per tagliare la lingua a coloro che si permettono anche una semplice figura retorica. Ma, in definitiva – conclude Eco – la cosa è meno grave di quanto sembri perché, in effetti, “questo tentativo di attacco alla periferia del sistema è altrettanto sbagliato del preteso attacco al ‘cuore’ del sistema stesso. Se l’utopia della rivoluzione si trasforma in un progetto di disturbo permanente a corto raggio, si crea una nuova forma di Patto Sociale”.

Innanzi tutto chiariamo una cosa. La tecnica della falsificazione è adottata in forma istituzionale dallo Stato e dalle varie strutture del potere. Basta pensare al modo in cui gli organi di informazione hanno gestito il fatto del sequestro Moro a opera delle BR, per rendersi conto della realtà di questa affermazione. È inutile rifare il discorso sui processi ideologici, sulle deformazioni e così via. Su questo punto penso che siamo tutti d’accordo. In fondo, la funzione della cosiddetta cultura di sinistra, quando lo Stato era altrove, fu proprio quella di fungere da “controinformazione”. Ma, ora che questa cultura si sta facendo Stato, separandosi definitivamente da quegli interessi che prima, in un certo qual modo, rappresentava, ecco che si identifica con la mistificazione ideologica. Da controinformazione diventa informazione e basta.

L’errore di Eco è che non riesce a uscire dal modello potere / contro-potere. Egli si immagina che la contrapposizione sia tra un sistema ben articolato e un altro sistema, altrettanto articolato, ma minoritario, o un gruppo o un insieme di gruppi di nuovo potere che tentano la scalata. E si chiede cosa potrà succedere nel caso in cui questo nuovo sistema decida di adottare la tecnica del falso, non come semplice gestione ideologica dell’informazione (compito istituzionale di chi detiene il potere), ma come strumento rivoluzionario.

Facciamo un esempio. Un’organizzazione rivoluzionaria mette in circolazione un documento falso, attribuito alle Ferrovie dello Stato, dove si afferma che in un giorno preciso si può viaggiare gratuitamente, oppure fa circolare la notizia, anche ricorrendo, con un espediente abbastanza semplice, ai grandi mezzi di informazione, che per l’indomani, a esempio, si potranno prendere gratuitamente le merci nei supermarket Standa, perché si festeggia il cinquantenario della fondazione. È ovvio che le situazioni che si creeranno potranno essere abbastanza difficili per il potere. Presumibilmente un gran numero di persone si presenterà per ritirare gratuitamente la merce o per viaggiare senza pagare il biglietto. Su scala locale è facile immaginare le complicazioni che si possono causare con iniziative simili, molto semplici a realizzarsi.

Mettiamo adesso che la stessa organizzazione pretenda di utilizzare lo strumento del falso nei confronti dei propri militanti. Perché è questa l’ipotesi assurda avanzata da Eco. È chiaro che si autodistruggerà in quanto organizzazione, per lo stesso motivo per cui aveva contribuito a distruggere o a mettere in difficoltà gli strumenti di controllo del potere. Ma, a parte la scarsa validità di un’ipotesi del genere, resta il fatto che la cosa non può in alcun modo interessare il movimento generale nel suo complesso, il quale non si accorgerà nemmeno di questo suicidio organizzativo, interessandogli solo quelle azioni e quelle chiarificazioni che riguardavano la propria effettiva situazione di classe, e non faccende interne a organizzazioni più o meno specifiche. Dando ai propri militanti indicazioni false, una organizzazione si suicida, ed è quanto è accaduto, sotto un certo aspetto, con diverse organizzazioni che avevano finito per ideologizzare il rapporto tra minoranza dirigente e militanti. Le indicazioni che la prima forniva, se non proprio false, erano mistificatorie nei confronti di una realtà che bisognava di altre indicazioni. Ecco quindi verificarsi puntualmente la disgregazione e lo scioglimento.

Ma il nostro problema è profondamente diverso. Se è falso il comunicato, redatto in modo opportuno e messo in circolazione attraverso i canali adatti, in cui si dice che è possibile prendere il treno senza pagare o andare a fare la spesa gratis; non è falso il bisogno della gente di prendere il treno e non pagare, di prendere la roba da mangiare e non pagare. Se è falso, nel nostro caso, il nome di Sartre scritto su quel libretto, non è falsa la necessità di attaccare la borghesia, i padroni, lo Stato, in qualsiasi modo, dovunque e comunque, ricorrendo a qualsiasi mezzo. Non importa se a sottolineare questo reale bisogno di classe sia il nome di Sartre e se poi si scopre che questa indicazione era falsa, resta l’altra indicazione, quella che falsa non può essere, quella di uccidere chi ci opprime.

Solo nel caso in cui il falso, o la falsificazione ideologica, dall’involucro si estenda al contenuto, il risultato può essere dannoso per gli sfruttati. In tutti gli altri casi, quando il contenuto del messaggio è valido, il falso a cui si è fatto ricorso per mettere il messaggio in circolazione, o per individuare le debolezze del nemico, se viene colto dagli sfruttati, resta nei limiti di quello che è: uno strumento di lotta.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 20, 1978, pp. 86-89]

Non sapersi decidere

Un’ottima lettura a metà

Una dettagliata, attenta e spregiudicata analisi dell’anno fondamentale della rivoluzione spagnola. Carlo Semprun Maura, un ex marxista che si è avvicinato recentemente alle posizioni antiautoritarie e libertarie, disegna lo scontro tra anarchici e stalinisti, tra proletariato e burocrazia di ogni genere, senza fare ricorso a quell’iconografia che è facile trovare in scritti sullo stesso argomento.

Il filone più interessante di lettura, in questo libro, è proprio la decisa intenzione di penetrare addentro le cose, non fermandosi davanti a simboli o bandiere di qualunque colore, per indicare come, a volte, anche le organizzazioni anarchiche siano cadute in errori di tipo autoritario, in involuzioni burocratiche, in violenze verso la base. Questa ricerca, come ogni altra che concorra a far luce sui compiti dell’anarchismo e sui pericoli della sua sempre possibile involuzione, mi pare importante in quanto, se da un lato ritengo primario l’impegno di analizzare la posizione dei padroni e dei loro servitori; dall’altro ritengo non trascurabile l’esame delle azioni concrete delle organizzazioni anarchiche passate e presenti, individuando i pericoli che emergono da teorie o scelte strategiche che solo di nome, qualche volta, corrispondono alla scelta fondamentale dell’anarchismo. E il libro di Semprun Maura centra bene questa comune preoccupazione, approfondendo l’analisi degli errori del movimento con coraggio e senza mezzi termini.

È quindi giusto che si intraprenda una rinnovata analisi dell’anarchismo spagnolo durante la rivoluzione, anche partendo da alcune affermazioni “provocatorie” dello stesso Semprun Maura. A proposito delle collettivizzazioni egli scrive: “Tutti, in effetti, erano in un modo o nell’altro contro le collettivizzazioni, tranne i lavoratori stessi. Certo, la CNT-FAI rivendica le collettivizzazioni come creazione ‘propria’ e, nella maggioranza dei casi, sono stati i militanti di queste organizzazioni a prenderne l’iniziativa. Ma anche il Decreto che le limita e le snatura è in gran parte opera della CNT. E tutte le misure amministrative e burocratiche scaturite dal Decreto, con lo scopo di liquidare l’autonomia operaia, verranno prese con la partecipazione attiva della CNT-FAI”.

L’analisi sul processo di burocratizzazione delle organizzazioni anarchiche, in primo luogo quelle sindacali, è chiarissima e dovrebbe far riflettere molti compagni che sostengono, oggi [1976], ciecamente, un anarcosindacalismo astoricamente considerato, senza inserirsi criticamente nelle strutture logiche del sindacalismo che sono più o meno simili a prescindere dalle forme politiche in cui di volta in volta si avvolgono. Così scrive il nostro autore: “Ma non illudiamoci: malgrado la loro bandiera rossonera e i discorsi sulla libertà, si tratta proprio della burocrazia, vale a dire d’una classe separata di dirigenti, che si cristallizza attorno a degli interessi specifici collegati all’esercizio del potere, di un potere, beninteso, al tempo stesso economico e politico, che parla ‘in nome del proletariato’, vale a dire al suo posto, mentre il proletariato dal canto suo parla sempre di meno, prima d’essere definitivamente imbavagliato!”.

Ed ecco due interessanti perle a sostegno di quanto precede: una dichiarazione di Juan Peiró, su “Solidaridad Obrera”, quando era Ministro del Governo Centrale: “Ciò che ho sempre voluto dire, e che ripeto oggi, è che prima di prendere in considerazione collettivizzazioni e socializzazioni che hanno oggi tutto il cattivo gusto del corporativismo, bisogna dare la precedenza alla creazione degli organismi che abbiano la capacità di dirigere e amministrare la nuova economia”. E una dichiarazione di Cipriano Mera, muratore anarchico, diventato poi nel 1937 generale e comandante di un corpo d’armata, rilasciata sempre a “Solidaridad Obrera”: “Al mio fianco non voglio vedere che dei combattenti. Nella mia divisione non voglio sapere chi appartiene alla CNT e chi all’UGT, chi a un partito repubblicano e chi a un partito marxista. La situazione esige e io imporrò d’ora in avanti una disciplina di ferro, disciplina che avrà il valore che si dà alle scelte volontarie. A partire da oggi non rivolgerò più la parola che ai capitani e ai sergenti”.

Quindi un interessante tentativo di inserire un’analisi critica della rivoluzione spagnola anche all’interno del territorio sacro che generalmente viene riservato alle commemorazioni e alle esaltazioni. Bene. Non sono tanto d’accordo su certe analisi riguardo lo schieramento autoritario e sui rapporti tra le forze in gioco, come quelli riguardanti le influenze dei servizi segreti. Importante, invece, il ruolo preciso che viene assegnato alle masse in rivolta, che individuano il segno e la direzione dell’attacco per poi cadere vittime dell’involuzione burocratica o dei tradimenti degli autoritari.

Solo la conclusione del libro, in armonia col piccolo libretto che porta il titolo Ni Dios, ni Amo, ni CNT, non mi trova d’accordo. Per l’autore il solo movimento rivoluzionario è la rivolta che qua e là scoppia nelle masse, senza che si possa parlare di movimenti organizzati storicamente perché tutti minacciano di dirigersi verso una precisa involuzione in senso autoritario. Conclusione che nega ogni possibilità di costruire un movimento anarchico efficiente e in linea con i princìpi dell’anarchismo, un movimento che possa non solo “aspettare” l’istanza di rivolta nelle masse, ma che possa incidere in modo decisivo in senso liberatorio, lavorando al di dentro delle masse stesse senza alcuna pretesa di volerle dirigere verso questo o quell’obiettivo fissato dall’alto.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 12, 1976, pp. 363-364. Recensione a C. Semprun Maura, Rivoluzione e controrivoluzione in Catalogna, Milano 1976]

I limiti dello storico

Interessante libro di documentazione sui rapporti tra Bakunin e Nečaev, ma assai limitato per ciò che riguarda una valutazione storico-politica dell’opera di Bakunin e del suo rapporto-scontro con la figura del giovane Nečaev.

In realtà, la complessità dell’“affare”, almeno dal punto di vista storico, non è poi tanta. Bakunin incontra e dapprima collabora con Nečaev, poi, accortosi dei metodi piuttosto discutibili di quest’ultimo, lo abbandona al suo destino, dissociandosi dalle sue iniziative e, in modo specifico, dal suo modo di agire nei confronti dei compagni stessi. Dal canto suo, Confino, scava in quella direzione che tanto piace oggi al pubblico di bocca buona: la direzione “a sensazione”, quella che coglie l’aspetto stravagante dei personaggi (possibilmente da non trascurarsi l’argomento sessuale di un Bakunin “innamorato del bel giovane Nečaev”, difatti non a caso il libro esce nella collana dell’Adelphi dei “Casi” dove ha già trovato posto quel Memorie di una maitresse americana, a cura di Stephen Longstreet, che è andato a ruba.

Il fatto nuovo – e l’indole bonaria di Confino non poteva produrre qualcosa di diverso – è che il buon Bakunin si salva per una sua quale sbadataggine che appare come congenita al suo carattere; sbadataggine e superficialità che gli impediscono di cadere del tutto nelle trame del “bel tenebroso” Nečaev. Affascinante la conclusione dove si vede un Bakunin subito dimentico del fattaccio occorsogli, immergersi “verso le nuove avventure”, prepararsi “a portare lo stendardo della rivolta sulle barricate di Lione”.

Purtroppo, signori miei, l’incontro-scontro Bakunin- Nečaev ha significati molto più profondi di cui, per ragioni di spazio, non posso parlare a lungo qui, ma che ho sviluppato nella Introduzione al vol. V delle Opere complete di Bakunin, edite dalle Edizioni Anarchismo. Mi limito quindi a una specie di inventario dei problemi che l’argomento solleva, oggi, per noi, e non tanto dal punto di vista mummificato dell’indagine storica.

La dedizione assoluta alla causa rivoluzionaria implica l’uccisione dell’uomo nel rivoluzionario? Implica una serie di contraddizioni? L’emersione dei sentimenti – che caratterizzano l’uomo – è da condannarsi? È da considerarsi un elemento di disturbo che si può controllare, oppure un elemento che riesce a esaltare la carica rivoluzionaria? Altro problema: fin dove è possibile spingere il calcolo politico nella lotta contro il nemico di classe, quando questo calcolo comporta il sacrificio dei compagni? Possiamo assumerci la responsabilità di sostenere una tesi, spingendo gli altri all’accettazione di un’analisi che riteniamo fondata, quando, nello stesso tempo, ci rendiamo conto che questo comporta la crescita di rischi innumerevoli per questi altri? E la “causa”, la possiamo oggettivare, oppure resta sempre legata a un agire soggettivo, a una commistione di sentimenti che non possono sradicarsi totalmente? E le conseguenze di questa commistione, non coinvolgono altre persone? Possiamo assumerci anche questa responsabilità? L’organizzazione clandestina – a volte indispensabile – ci costringe a decisioni che riguardano il “nostro essere nel mondo”: può essere legittimo oggettivare la necessità della vittoria finale al punto da ingannare noi stessi sulle possibilità di questa vittoria e ingannare gli altri? E se dovessimo diventare ragionieri della contabilità della rivoluzione, siamo sicuri che non spegneremmo quell’entusiasmo che si accende tanto facilmente davanti alle grandi aspirazioni, alle grandi illusioni, alle grandi utopie e, perché no, anche davanti alle grandi bugie? Non uccideremmo questo entusiasmo dicendo ai compagni: contiamoci prima di andare all’assalto?

Ma tutti questi problemi non competono allo storico e, da buon specialista, Confino si limita a fornirci un’esatta oleografia.

Ancora una volta, al termine della lettura, la bocca resta amara. Ma quando nascerà, finalmente, la nuova corrente storiografica della rivoluzione?

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 13, 1977, pp. 42-43. Recensione a M. Confino, Il catechismo del rivoluzionario. Bakunin e l’affare Nečaev, Milano 1976]

Sperduti nella rivoluzione russa

Due libri sulla rivoluzione d’ottobre.

Nel primo una non molto lunga ma esauriente Introduzione di P. Avrich guida la lettura di una cinquantina di documenti anarchici del periodo rivoluzionario.

L’utilità del lavoro s’impone da sé. Si tratta, per la maggior parte, di testi inediti che la difficoltà delle fonti e della lingua avrebbero impedito di far conoscere. Tutti insieme stanno a testimoniare i tentativi, i sacrifici e gli errori degli anarchici, dal momento in cui la rivoluzione mosse i primi passi fino alla definitiva stabilizzazione del potere bolscevico. Non mancano i documenti dei gruppi individualisti che sorprendono per la loro novità, visto che eravamo abituati a leggere solo gli scritti degli anarco-comunisti russi. Una vasta rete di attività anarchica si delinea da questi scritti; una rete che ebbe costantemente il coraggio di opporsi non solo al dilagare del nuovo potere, ma anche ai tentennamenti degli illusi che decisero per una iniziale collaborazione a livello di comitato centrale.

Per come si presenta il lavoro di Avrich può considerarsi una prima approssimazione. Manca molto per cominciare una prima indagine che presenti anche un bilancio politico e strategico. I lavori di Machno e di Aršinov, in questa direzione, sono altrettanti punti di riferimento ma non sono sufficienti. Le documentazioni su Kronstadt fanno altrettanto, ma le tessere del mosaico sono ancora mancanti in gran numero.

Allo stato presente delle ricerche la sola conclusione possibile è quella che emerge spesso nelle considerazioni di molti compagni spagnoli che vissero l’esperienza bruciante della guerra civile: i fascisti possono anche essere di colore rosso, non è sempre facile individuarli, ma quando se ne hanno in mano le prove, quando dalle premesse teoriche ci si sposta sul terreno delle repressioni pratiche, non bisogna esitare: nemici i primi in camicia nera, nemici i secondi in camicia rossa. Il futuro degli sfruttati sta soltanto nell’abolizione totale e immediata di ogni potere.

Col secondo libro Avrich colma una lacuna sia nel settore delle ricerche sulla storia del movimento anarchico, come nel settore delle ricerche sulla storia della rivoluzione russa. La vasta documentazione raccolta dall’autore, la sua conoscenza degli avvenimenti storici ricavata dalla consultazione di fonti dirette, la sua preparazione di storico che ha già dato non pochi contributi a livello universitario, ci obbligano a indicare in questo volume una lettura insostituibile per tutti quei compagni che vogliono sapere qualcosa di più di quanto contenuto nel diffusissimo libro di Volin o nelle varie ricerche su Machno e su Kronstadt.

Detto questo, è necessario dar conto dei limiti e degli aspetti negativi dell’opera. Il primo limite è quello della quasi totale mancanza di intelligenza rivoluzionaria di cui l’autore dà ampia dimostrazione. In sostanza, egli passa immune, come un santone indiano tra le fiamme, attraverso il gran quantitativo di documenti messi in fila l’uno dietro l’altro, senza che dal loro esame riesca a tirare fuori una sia pur minima considerazione sulle condizioni dello scontro nel momento in cui quei documenti vennero prodotti. L’andamento stesso del volume ha più il tono del libro scolastico di storia che quello della ricerca storica diretta a chiarire problemi validi anche oggi, diretta a militanti impegnati nella lotta.

Questa “riconferma” ci spiega, adesso, il perché, a esempio, Avrich sia caduto nell’“equivoco” di stilare una sia pur breve Introduzione all’orribile paccottiglia di Tarizzo (L’Anarchia). senza rendersi conto di come il suo gesto tornasse molto utile all’impero editoriale della Mondadori, accreditando qualcosa che veramente aveva solo un significato reazionario.

Questa mancanza di intelligenza lo porta a sviluppare un lungo capitolo dedicato ai “terroristi” (senza virgolette) ponendo l’insieme delle azioni da questi compagni realizzate, come una vera e propria tendenza del movimento, ma non spiegando le motivazioni teoriche di fondo e, il più delle volte, ricorrendo a un linguaggio e a definizioni degne di un “mattinale” della polizia. Egli scrive: “Chernoe Znamia e Beznachalie... preconizzavano una campagna di terrorismo illimitato contro il mondo borghese”. “Chernoe Znamia (La Bandiera Nera, l’emblema anarchico), probabilmente era la formazione più consistente di terroristi anarchici dell’impero...”. “La storia di questi giovani era contrassegnata da un fanatismo esasperato e da una violenza ininterrotta. Essi furono il primo gruppo anarchico a inaugurare una deliberata politica di terrore contro l’ordine costituito”. “Per impadronirsi di armi, bande anarchiche saccheggiavano armerie, stazioni di polizia e arsenali”. “Gli episodi di violenza erano anche più numerosi nel sud... organizzarono dei ‘reparti di combattimento’ di terroristi, che allestirono laboratori di bombe, compirono innumerevoli omicidi e rapine, bombardarono fabbriche e ingaggiarono sanguinosi combattimenti con i poliziotti che irrompevano nei loro nascondigli”. “... non avevano bisogno di alcuna provocazione speciale per buttare una bomba in un teatro o in un ristorante: bastava loro sapere che in quei luoghi si trovavano solo dei cittadini abbienti”. “... i ribelli del gruppo Beznachalie erano degli ardenti sostenitori del terrore ‘senza motivi’. Ogni colpo sparato contro i funzionari del governo, i poliziotti e i proprietari terrieri era considerato un’azione progressiva poiché essa faceva vedere il ‘contrasto di classe’ tra le moltitudini sommerse e i loro padroni privilegiati”. Tralascio di fornire altri esempi.

Avrich, che documenta queste posizioni con serietà, ma che si lascia sfuggire una serie di affermazioni e di termini, come abbiamo detto, del tutto privi di intelligenza rivoluzionaria, manca anche, ed è la cosa più seria, di un sia pure modesto tentativo di spiegare il fenomeno della lotta armata che gli anarchici russi condussero contro il potere zarista, subito dopo la rivoluzione del 1905. Secondo i dati da lui stesso forniti vennero uccisi, tra il 1905 e il 1916, circa 4.000 imprenditori, funzionari dello Stato, ufficiali dell’esercito, giudici e altri responsabili della repressione contro il popolo. Gli anarchici pagarono duramente questo scontro, lasciando sul terreno un numero quasi identico di compagni, uccisi negli scontri a fuoco con la polizia, giustiziati nelle galere, impiccati. Di questo vasto fenomeno di attacco contro il potere, non c’è ombra di analisi nel libro di Avrich. Il lettore riceve l’impressione che quelle lotte non furono altro che uno fra i tanti aspetti dell’anarchismo russo, accanto all’anarcosindacalismo e al comunismo anarchico. Le cose non stanno propriamente così.

In effetti, le altre “correnti” dell’anarchismo, basandosi sulla loro posizione riformista e mistificatrice del messaggio da portare alle masse, posizione che assumerà contorni ancora più gravi dopo, al momento dell’altra rivoluzione, quando l’opera negativa di Kropotkin – che nel frattempo aveva dato il colpo finale con il suo manifesto combattentista contro gli Imperi centrali – opera diretta a spegnere sul nascere ogni tendenza insurrezionale e di rivolta, avrà il suo massimo dispiegamento e determinerà non poche conseguenze di contrasto e di confusione; le altre correnti dell’anarchismo, dicevamo, non stettero con le mani in mano, ma attaccarono violentemente i compagni che ritenevano valido lo strumento dello scontro armato, apportando, a sostegno teorico di questo loro attacco, né più né meno che le stesse paccottiglie che oggi vengono utilizzate con una funzione identica anche se – per fortuna – meno pericolosa.

L’estensore dell’Introduzione all’edizione italiana del libro di Avrich, giustamente intravede il problema e cerca di darsene spiegazione – dal suo punto di vista – scrivendo: “... bisogna dire subito che la sua propensione a sottolineare gli aspetti e gli avvenimenti più spettacolari e rumorosi dell’anarchismo russo a volte ha nociuto a questa doverosa ricerca. Un tipico esempio è dato dalla mescolanza dei due diversi livelli di ricostruzione e di interpretazione: quello relativo ai fenomeni di insubordinazione spontanea e non orientata ideologicamente e quello invece voluto e prodotto dall’azione consapevole ed organizzata del movimento anarchico. Il carattere libertario ed ‘estremistico’ di alcune rivolte antiistituzionali delle masse oppresse, carattere che non comportava sempre e necessariamente la presenza attiva degli anarchici, è qui considerato alla stessa stregua dei tentativi compiuti secondo una logica ed una strategia predeterminata. Sebbene la storia dell’anarchismo comprenda sempre questi due momenti senza una soluzione di continuità, in sede di interpretazione storica essi vanno però spiegati come due differenti modi di essere dell’anarchismo stesso. In caso contrario risulterebbe incomprensibile e non rintracciabile l’oggettiva delimitazione fra il campo specifico del movimento anarchico e quello molto più vasto, ma anche molto più eterogeneo, del movimento generale degli sfruttati”.

E poi continua: “L’eccessiva importanza data dallo storico americano alla frazione ‘terrorista’ del movimento anarchico russo è significativa a questo riguardo. Il lettore è portato a pensare che vi sia da parte dell’anarchismo una vocazione di fondo alla pratica della violenza, tanto individuale quanto collettiva. Ora, non solo questo è falso sul piano obiettivo dei fatti, perché questo tipo di lotta, in Russia come negli altri paesi, non coinvolgeva che una piccola parte del complessivo movimento anarchico, ma falso è pure in sede di interpretazione storica”.

Se critica andava fatta all’ingenuità di Avrich non mi pare proprio sia questa che il curatore dell’edizione italiana sembra tanto preoccupato a portare avanti. Avrich non ha saputo (o voluto) spiegare che il vero terrorismo (il solo terrorismo) è quello dello Stato, che non c’è bisogno di “provocazione speciale” per sparare sui pescecani e sugli affamatori che si annidano nei grandi alberghi e nei caffè alla moda, che gli attacchi degli sfruttati sono – in modo particolare in certi momenti storici – sempre violenti e incontrollabili, che è vana cosa chiedersi il perché di queste esplosioni alla luce di una morale neo-cristiana che finisce per impedire la visione chiara dei motivi che determinano gli scoppi della violenza proletaria. Se queste sono le colpe di Avrich, esse non possono correggersi solo specificando che tra il movimento anarchico e il movimento generale degli sfruttati esiste una grande differenza, e che questa è da reperirsi nella predeterminazione ideologica che guida il movimento anarchico.

Il guaio, con queste faccende, è che anche i migliori compagni – come fu appunto Kropotkin ai tempi della rivoluzione russa – presi dall’impegno della lotta e tenacemente attaccati alle proprie analisi, non si rendono conto (molte volte) che incidono con la propria personalità e con la propria autorevolezza in modo assai simile ai produttori di ideologia che sono tanto bravi a indicare come colpevoli nei partiti autoritari. E Kropotkin, ai suoi tempi, come anche lo stesso Avrich fa vedere, svolse un ruolo non trascurabile di spegnitore degli incendi insurrezionali attivati dagli anarchici, di mediatore tra le diverse tendenze anarchiche, di pubblico accusatore del comportamento di quei compagni che accettavano lo scontro armato, con tutti i limiti che questo comporta.

Uno dei meriti del lavoro di Avrich, su questo problema, è anche quello di darci documentazioni riguardo al ruolo a cui stiamo facendo cenno, svolto da Kropotkin, sfatando quel luogo comune che vuole il gran vecchio, in quel torno di tempo, del tutto dedito alle sue ricerche scientifiche e lontano dalla militanza attiva. Al contrario, Kropotkin, sebbene vecchio, lavorava attivamente in quella direzione che riteneva giusta e fu uno degli elementi di ulteriore confusione, almeno per quei compagni che si aspettavano chiare indicazioni sulla condotta da tenere, sia nello scontro con i vecchi padroni che in quello contro i nuovi padroni, cosiddetti rivoluzionari. La sua mancanza di chiarezza e la sua tenace opera di mediazione a tutti i costi, determinarono lo spegnimento delle capacità costruttive del movimento anarco-comunista che, spesso, proprio da quella mancanza di indicazioni, si vide costretto ad accettare una collaborazione suicida con i bolscevichi, anche a livello di ripartizione dei compiti del potere periferico; e determinarono anche lo scoramento in quei compagni che, come Machno, erano impegnati nella continuazione dello sforzo militare contro il nemico di classe (di ogni colore), e speravano di ricevere dal “gran vecchio” un sostegno teorico e morale alla propria opera.

Per concludere citiamo un passo tratto dalle ultime pagine del libro di Avrich, molto indicativo perché costituisce una specie di analisi conclusiva del lavoro stesso: “Gli anarchici rifiutavano i pregiudizi della civiltà borghese nella speranza di una trasformazione radicale della natura umana e delle relazioni tra l’individuo e la società. Ma se rifiutavano i dogmi del loro tempo come artificiali ed astratti e lontani dalla vita reale, il loro modo di avvicinarsi alla felice società del futuro difficilmente si sarebbe potuto definire pragmatico ed empirico. Tesi all’utopia, gli anarchici non badavano molto alle necessità di un mondo in rapida trasformazione, essi di solito evitavano analisi concrete e precise delle condizioni sociali ed economiche e non potevano o non volevano venire a patti con le inevitabili realtà del potere politico. Al posto dei vangeli religiosi e metafisici del passato, essi sostituivano un vago messianismo che soddisfaceva le loro attese millenaristiche...”. Come si vede, questa geremiade ricalca i più triti luoghi comuni della critica alla vaghezza e all’insufficienza dell’anarchismo. Non è venuto in mente all’autore il grosso problema della proposta concreta, reale (anche dal punto di vista teorico), che gli anarchici portarono avanti nelle lotte in Ucraina e in decine di altre situazioni molto meno note, proposte che suggerivano un nuovo indirizzo della rivoluzione, quello della ricostruzione del mondo contadino sulla base della libera comune, punto di riferimento della quasi totalità della realtà produttiva della vecchia Russia. E questa proposta, realizzata nel corso stesso delle lotte da Machno, costituiva, in quel momento, un’alternativa tanto pericolosa che i bolscevichi fecero di tutto per distruggere anche il ricordo di coloro che cercarono di realizzarla. Altro che attese messianiche e vaghe utopie.

 


[Primo pezzo: pubblicato su “Anarchismo” n. 13, 1977, pp. 44. Recensione a P. Avrich, Gli anarchici nella rivoluzione russa, Milano 1976. Secondo pezzo: pubblicato su “Anarchismo” n. 21, 1978, pp. 173-175. Recensione a P. Avrich, L’altra anima della rivoluzione. Storia del movimento anarchico russo, Milano 1978]

Redigere il catechismo

Catechismo n. 1

I Gruppi anarchici federati hanno steso il loro programma e lo forniscono al movimento. Lo scarno testo dell’Accordo federativo è preceduto da un breviario anarchico in cui sono fissati i punti essenziali della “dottrina” dei GAF. La posizione, già nota, ma opportunamente riportata in appendice al libretto, fissata nella lettera aperta al movimento del 9 dicembre 1973, è allargata e ribadita.

A mio avviso restiamo sempre nel regno delle ombre. Questo documento programmatico ci dice tutto: quello che è l’anarchismo e quello che è l’anarchia, poi ci illustra un modello di società gerarchica che parte dalla presenza indiscutibile della lotta di classe, solo che queste classi sono tre e non due. Vecchia scusa per uscire dal buco dialettico, di cui ho già parlato nel mio libro La dimensione anarchica (III ed., pp. 487-499). Poi la solita tirata sulle multinazionali e sul tardocapitalismo (arcisolita indigestione del solito Galbraith e soci). Il lettore prende coraggio quando si parla dell’Italia, ma dopo poche righe si accorge di essere davanti alla solita storia: sigle, numeri, modelli di sviluppo, alternative di scontro. Il discorso sul PCI è ancora più deprimente.

Il libretto ha grandi pretese: proporre al movimento un catechismo su cui costruire qualcosa di ben piantato, che possa crescere quantitativamente. Personalmente ho letto con grande attenzione ma non ne ho cavato fuori molto. Leggiamo insieme: “Il progetto anarchico è un progetto rivoluzionario, perché la costituzione di una società egualitaria e libertaria è possibile solo con una rivoluzione... La scelta rivoluzionaria è scelta obbligata, perché la rivoluzione è un passaggio obbligato per ogni trasformazione sostanziale della società”. E più avanti: “Il progetto rivoluzionario anarchico deriva dalla lotta di classe degli sfruttati la garanzia della sua possibilità di realizzazione”. E ancora: “Le condizioni soggettive necessarie a una rivoluzione sociale libertaria possono essere schematicamente indicate come massimo sviluppo possibile, qualitativo e quantitativo, del movimento anarchico e della presenza libertaria organizzata nel conflitto sociale e come massima diffusione possibile della coscienza critica, dello spirito antiautoritario di rivolta”. E ancora: “Il movimento anarchico deve costituire un punto di riferimento teorico per gli sfruttati, portatore del progetto anarchico (rivoluzionario-libertario egualitario) nella sua interezza e coerenza ed insieme nella sua diversificazione pluralistica”.

Il fatto è che il libretto vuole condensare troppo. Usa il metodo dei preti (quello del catechismo) ma tratta di una materia che non può facilmente entrare in schemi e battute di poche parole. Ecco perché saltano fuori affermazioni tautologiche come le prime due sopra citate, o affermazioni che si richiamano alla crescita quantitativa del movimento come soluzione unica per la rivoluzione sociale anarchica; tesi esposta nella terza frase riportata che viene sostenuta dall’ultima citazione, nella quale il movimento anarchico è visto come “punto di riferimento teorico degli sfruttati”.

Il capitoletto sulla “violenza e lotta armata” è un capolavoro di concisione nullificante o di equilibrismo letterario (a scelta). Innanzi tutto si ammette che esistono anarchici terroristi dichiarati, senza ovviamente far presente che il vero terrorismo è quello di Stato (“Tranne piccole frange di non-violenti e di terroristi, gli anarchici hanno...”). Si fissa per scontato – cosa non vera – che gli anarchici hanno giustificato sul piano etico solo “L’impiego della violenza difensiva o giustiziera”, ma limitando molto anche questa prima concessione con l’affermare: “salvo esprimere giudizi anche diversi sul piano dell’utilità e della opportunità in considerazione del fatto che l’uso di mezzi violenti può provocare conseguenze politiche e psicologiche di volta in volta diverse ed opposte a seconda del tempo, luogo, modalità”. La conclusione è lapidaria: “A nostro giudizio, oggi in Italia e in genere nei paesi industriali formalmente democratici, questo bilancio è nettamente deficitario e quindi il nostro giudizio è negativo come pure è negativo, in linea di massima, sull’uso di mezzi violenti non condivisi dalla coscienza collettiva degli sfruttati o quanto meno da larghe minoranze ribelli”.

Il libretto, nella sua visione complessiva, mi pare assai modesta cosa. La pretesa stessa di “fornire” una dottrina mi pare faccenda molto discutibile, obbligando gli estensori a redigere una sequela di giudizi, uno dopo l’altro, che non emergono dalla verifica di precise situazioni di lotta, che vengono tracciati nel chiuso di qualche gruppo, se non nella solitudine di qualche compagno, più bravo degli altri ad azzeccare garbugli. Certo, il materiale sviluppato in Un’analisi nuova per la strategia di sempre, è stato spurgato di tutte quelle parti che mostravano di più la corda, e non può negarsi che uno sforzo di sintesi è stato fatto, e forse anche lodevole, ma quello che nuoce è la visione “illuministica” che informa il tentativo, nella sua globalità, il senso stagnante della calibrata prudenza che sembra emergere tra le righe, la mancanza di aderenza alla realtà.

A mio avviso il movimento anarchico non ha bisogno di nuovi catechismi, i vecchi bastano per baloccare i compagni che amano giocare con queste cose; non ha nemmeno bisogno di “modalità” confederali (almeno per il momento). Ha bisogno di ritrovarsi nelle lotte oppure correrà il rischio che queste le passeranno sotto il naso, gestite da riformisti o da “partiti armati del proletariato”. Chi si balocca oggi con astratte teorie, filtrando il distillato di un movimento fantasma su analisi magari ben fatte ma prive di sbocco concreto perché usufruite da pochi addetti ai lavori, potrebbe essere domani chiamato a dar conto delle proprie responsabilità.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 9, 1976, pp. 156-157. Recensione a Che cosa sono i G.A.F., Torino 1976]

Catechismo n. 2

Dopo il manualetto dei GAF, questo dei Gruppi d’iniziativa anarchica viene a chiarire il panorama dell’anarchismo italiano organizzato, in attesa che quello che verrà dedicato alla FAI [in seguito, mai venuto alla luce, almeno fino a oggi, 2015], concluda la triade delle sigle fascinose e, con buona pace di tutti i compagni, metta fine a questa lodevole iniziativa.

Se lo sforzo dei GAF aveva almeno la pretesa di apprestare un supporto teorico all’anarchismo, pretesa discutibile e, spesso, infondata, ma comunque onestamente sviluppata nelle diverse componenti dell’analisi, lo sforzo dei GIA. almeno con questo libretto, è quello di dichiararsi difensori dell’ortodossia, o meglio: “dell’integrità storica e basilare dell’anarchismo”. Questa lotta per la conservazione della dottrina anarchica viene condotta da questi compagni con mezzi – come il giornale “L’Internazionale” – che necessitano di miglioramenti ma che, dato che questi non sono possibili, tanto vale che restino così come sono, per evitare inquinamenti. Infatti scrivono: “[“L’Internazionale”] necessita, ovviamente di migliorare, ma i compagni sono contenti lo stesso perché sanno che coloro che vi lavorano, lo fanno con impegno, con entusiasmo, con sacrifici, dando tutto quello che le loro capacità e possibilità consentono...”. E chi si contenta gode.

Leggendo il libretto si ha l’impressione che questa “grande polemica” con la FAI, sia tutto quello che questi compagni hanno fatto. Certo è un’impressione falsa, perché un’organizzazione come i GIA chissà quanti interventi nel vivo delle lotte concrete avrà fatto, dal suo sorgere a oggi, e quanti ne ha in corso: interventi nelle scuole, interventi nelle fabbriche, interventi nelle campagne, interventi nei quartieri. E chissà quante analisi elaborate su questi interventi: sappiamo che questi compagni sono antisindacalisti, quindi tutti gli interventi che faranno nelle fabbriche avranno questa interessantissima visione della lotta nel mondo del lavoro. Sappiamo che non condividono l’analisi marxista delle classi (perfetto!), quindi chissà quante analisi avranno fatto delle diverse composizioni della massa degli sfruttati nelle zone in cui loro operano. Quante cose interessanti ci si sarebbe aspettato di leggere in quel libretto! Critici del sindacalismo, critici della visione classista, critici dell’organizzazione nel senso voluto dalla FAI, quante esperienze di lotta avrebbero potuto documentarci!

Invece, straordinariamente, il libretto tace su tutto ciò. Ci documenta una polemica stantia, ci riporta un brano introduttivo che aggiorna quella stantia polemica, lanciando qualche strale contro i GAF. Tutto qui. Che sotto tutte queste parole, sotto tutta questa organizzazione, non ci siano interventi concreti nella realtà delle lotte? Che si tratti solo di tesi vaghe e definitorie, portate avanti da alcuni compagni che si baloccano con questioni di posizione all’interno del movimento? No! non è possibile! Che senso avrebbe tenere in piedi un’organizzazione anarchica se questa ha come solo scopo quello di fare un giornale, di riunire ogni tanto qualche militante in congressi e convegni, e di battersi a suon di tesi controverse, con altri compagni? Non lo so, e forse, come me, molti compagni si porranno questa domanda e aspetteranno invano una risposta.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 13, 1977, pp. 43-44. Recensione a Che cosa sono i G.I.A., Torino 1976]

La natura soprattutto

Scontro di classe e difesa della natura

Non è possibile difendere la natura. Non è possibile difendere l’uomo, le sue cose, la sua storia, il suo futuro. Quindi non è possibile nemmeno difendere la natura. Per gli stessi motivi – che vedremo adesso – non è possibile una utilizzazione “pulita” delle risorse naturali, delle piante, degli animali. Non è possibile parlare di ecologia se non in termini di scienza per migliorare lo sfruttamento. Non è possibile strategia riformista che non si traduca in rafforzamento del capitalismo e quindi in ulteriore spinta alla distruzione della natura. Se si vuole intraprendere una strada di difesa effettiva della natura occorre distruggere i padroni, lo Stato, il potere e lo sfruttamento.

Prima di andare oltre bisogna anche dire con chiarezza che della cosiddetta natura fa parte anche l’uomo, questione che viene spesso dimenticata da tante dame di carità che militano nell’esercito della salvezza dell’ambiente. Ora la lotta per salvare l’uomo dalla distruzione è lotta per la difesa della natura.

Altro pensierino gentile, prima di continuare, è quello che riconduce alle sue reali dimensioni la parola “naturale”. Oggi si fa uno spreco di questa parola. C’è una intera branca del capitalismo maturo che si sviluppa sui prodotti definiti “naturali”. Nessuno può vivere in modo “naturale” in un mondo come questo. Ognuno di noi produce e distrugge, consuma e viene distrutto. O si spezza questo ciclo senza uscite, o sarà la morte per tutti, uomo in primo luogo. Per un altro verso, poi, l’uomo, anche in una società libera, può avere sempre un determinato rapporto con la natura, che comprende anche l’uomo, ma è, nello stesso tempo, qualcosa di diverso, con leggi sue proprie alle quali egli può adeguarsi fino a un certo punto. In fondo l’uomo è un animale non perfettamente consequenziale allo sviluppo della natura, la quale segue processi che non si possono minimamente commisurare all’idea (tutta moderna) che noi abbiamo di “progresso”. Ecco perché non sarà mai possibile svuotare degli intimi significati mitici il vegetarismo. A parte le sue contraddizioni, quello che lo contraddice nel più profondo della propria stessa ideologia è la sua pretesa di essere “naturale”.

Tutto ciò non sposta ovviamente il modo corretto d’intendere un rapporto dell’uomo con la natura, che è l’unico modo di impostare la vita dell’uomo. Tutti gli altri esempi di programmazione umana, dall’educazione sessuale al controllo delle nascite, dalla genetica alla biologia, sono percorsi distorti dall’esercizio del potere. I vecchi discorsi sull’oggettività della scienza sono già stati accantonati da un riflesso condizionato che ritrasforma in ideologia scientifica la critica della scienza, allo scopo di fare andare avanti. Allo stesso modo in cui le centrali solari sarebbero un ottimo affare per il capitalismo (semplicemente più a lunga scadenza e meno controllabile – al momento attuale [1983] – e quindi non preferibile, in base alla sua logica, alle centrali termonucleari), le industrie che producono sistemi di depurazione ridanno vita a cicli produttivi del capitale che minacciavano di interrompersi.

È importante questo luogo comune di vivere in modo “naturale” perché rappresenta l’altro aspetto della tendenza, allo stesso modo errata, di ritenere possibile ritagliare spazi di “naturalità” all’interno del progetto di morte che il capitale e lo Stato vogliono realizzare.

È la vecchia storia del garantismo e degli spazi di agibilità. Non si può negare la loro grande utilità per la lotta, ma non possono costituire una lotta finalizzata a se stessa, come accade per una gran quantità di compagni che si scoprono l’animo della crocerossina e non riconoscono possibili e utili altri interventi nel sociale se non quelli destinati a difendere la natura, a denunciare la repressione, a sostenere il morale dei compagni in carcere, a fare bellissime dichiarazioni che però hanno il difetto di non ottenere alcun risultato.

La lotta intermedia è sempre preparazione del terreno per la realizzazione insurrezionale, per il coinvolgimento dei proletari e per l’attacco contro il nemico di classe. Se si partecipa a questo tipo di lotte, come appunto quelle contro la distruzione della natura (e quindi anche dell’uomo), con l’idea che ci si deve fermare a metà strada, restare nella legalità stabilita dal potere, accettare il dialogo nei modi e nei termini fissati dalla controparte; ebbene, allora quella lotta è funzionale solo a due cose: a mettere in pace la coscienza di chi vi partecipa e a rafforzare la repressione.

Per questi motivi la difesa della natura, nel suo più ampio significato, non può essere separata dallo scontro di classe.

Prendiamo il caso dell’organizzazione inglese che lotta per la “liberazione degli animali”. Niente di più riduttivo di un progetto del genere. Gli animali sono in catene perché l’uomo è in catene. Dall’interno della sua prigione l’uomo non ipotizza rapporti che non siano collegati con le sbarre e con i propri aguzzini. Per questo motivo uccide gli animali. Non solo per cibarsene e per coprirsi, ma per trasformare tutto ciò in moda, in assurda e inutile strage. Personalmente sono favorevole alla bistecca, ma non a un’alimentazione che trovi essenziale e ineliminabile il consumo di carni o che non si ritenga regolabile su altri ritmi che non siano quelli dell’avidità dopo la lunga astinenza. Allo stesso modo sono favorevole a coprirmi con le pelli di animali, ma non ad agghindarmene. Ecco perché ammiro molto il lavoro di questi compagni inglesi che non si limitano a una critica contro il maltrattamento degli animali (tradizionale nella loro cultura) o contro l’estinzione di alcune specie, ma mettono mano a far saltare le pelliccerie e, forse, domani potrebbero anche decidersi a far saltare le macellerie. La loro critica non si valorizza per l’uso della dinamite, ma semplicemente perché colpiscono il meccanismo capitalista che produce la distruzione degli animali, il che mi sembra molto corretto, come analisi e, pertanto, come azione.

Ma torniamo al nostro problema centrale. Le lotte intermedie, nel campo dell’ecologia e della difesa della natura, sono il terreno preferito di un movimento di riflusso che non vuole perdere l’inveterata abitudine di “fare qualcosa”, ma non vuole nemmeno decidersi a portare un attacco serio al meccanismo del capitale. Questo “fare qualcosa” consiste nel riempirsi di belle parole (ad es. coloro che si dichiarano contro le centrali nucleari o contro le basi missilistiche, ma poi, quando balena all’orizzonte la possibilità anche minima e microscopica di fare qualcosa sul serio trovano mille obiezioni e preferiscono indietreggiare sulle semplici dichiarazioni di principio), consiste nel costituire gruppi e movimenti anche di notevole consistenza numerica, consiste nel programmare lotte di un certo tipo, basate essenzialmente sulla pregiudiziale della “nonviolenza”.

Dietro questo movimento c’è tutta una cultura del “di già visto”. Un raffazzonato intruglio di sentimento dell’Oriente e di guevarismo immaginario. Come i vecchi movimenti dei flagellanti, questa brava gente si autoimpone massicce dosi di sacrifici, dormendo all’aperto, mangiando poco e male, vestendosi malissimo, facendo discussioni idiote e barbine che annoiano a morte per primi loro stessi, e così via. Non dico che tutti siano professionisti di questo neo-francescanesimo. Alcuni lo professano semplicemente a mezzo servizio. Tutti però ne condividono il senso apocalittico di fondo, il nullismo religioso intrinseco nella pratica nonviolenta, il sadomasochismo implicito. Bisogna vederli imperterriti nel fango e sotto la pioggia, nel corso delle loro manifestazioni, quando si siedono per terra e nessuna forza umana ragionevole può sradicarli. Familiarizzano subito cortesemente con la polizia, aspettando di prendere la solita dose di familiari legnate. Costringono sadicamente il poliziotto a stare nello stesso fango e sotto la stessa pioggia, mentre masochisticamente anch’essi ne godono tutti i benefici relativi. Quando ricevono le legnate (gli arresti sono ovviamente rarissimi e per lo più si tratta di fermi), per loro la cosa equivale all’autoflagellazione degli antichi mistici del Trecento che percorrevano le campagne e le città d’Europa alzando alte lodi al Signore.

Questo notevole numero di brava gente è ovviamente strumentalizzato da vecchi marpioni di ogni tipo. Partito Comunista in testa, che si è fatto promotore della installazione delle centrali nucleari, ma non vuole i missili americani a casa propria. Poi altre forze, non sempre di chiara origine politica. A esempio i verdi tedeschi che ricevono soldi da qualcuno, ma da chi? Forse da qualche paese arabo? Poi c’è la Chiesa cattolica, quella protestante, i valdesi, le Chiese di nuovo conio, i movimenti orientali di ogni colore. Tutti insieme appassionatamente.

Ogni tanto, tra di noi, c’è qualche compagno, notoriamente dotato di scarse capacità intellettive, che si fa affascinare dal comportamento individuale di questo o di quel personaggio, dalla sua capacità di subire legnate, dalla sua costanza nello stare inginocchiato nel fango o cose del genere. Se si deve essere sinceri sono cose che sbalordiscono. In che modo si può essere tanto stupidi non è facile capirlo. Comunque non bisogna cadere in questo genere di equivoci. Fare non significa nulla se non si è coscienti di quello che si sta facendo. Altrimenti tutto va a finire esattamente nelle braccia del padrone.

Questa è la sorte di tutti i movimenti del tipo “disarmo unilaterale”, i quali non si rendono conto della loro funzionalità al progetto capitalista. Oggi l’utopia idiota diventa sempre più indispensabile al genere di dominio che la socialdemocrazia sta impostando. Più il dissenso platonico si agita, più si rafforza negli sfruttati la convinzione che si può esprimere la propria opinione critica, convinzione che è l’anticamera indispensabile del reperimento del consenso. Un altro tipo di gestione del potere non avrebbe bisogno di simili idiozie, ricorrerebbe alla repressione pura e semplice, quindi abolirebbe ogni movimento del genere, come accade nei regimi fascisti. Ma ciò non perché questi movimenti siano realmente dannosi per il potere, ma perché non si coordinano bene con il progetto repressivo fascista. Nel progetto socialdemocratico invece questi movimenti sono previsti e voluti dallo stesso potere.

Questa lezione vale naturalmente anche per l’antimilitarismo. Il vecchio Stato borbonico, di estrazione napoleonica, non poteva tollerare e nemmeno immaginare che si facesse una critica dell’esercito. Oggi una critica del genere potrebbe pubblicarsi sul “Carabiniere” e viene senz’altro pubblicata su “La nuova polizia”. Ciò non significa che queste critiche, se ben fatte, siano del tutto acqua pestata nel mortaio. Sono importanti solo se aprono la strada a qualche cosa che viene dopo. Ma quando questo qualche cosa non viene, quando i compagni che partecipano, proprio al momento di questo qualche cosa, fanno un passo indietro perché hanno paura o perché vogliono chissà quali garanzie di riuscita, allora il tutto risulta funzionale esclusivamente al potere che non si turba più delle critiche, anzi le sollecita, aprendo ai contestatori di oggi le cattedre di domani.

Allo stesso modo patetici sono quei compagni che si rinchiudono nel guscio delle loro piccole pratiche “alternative”, che si ghettizzano in un lavoro di miseria in cui realizzano solo la propria identità di emarginati. In queste isole la presenza del capitale si sente vistosa e imponente, come nelle grandi banche. Là robot meccanizzati sotto forma di uomini lavorano a moltiplicare ciò che non ha senso. Qui altri robot, altrettanto meccanizzati, lavorano a negare quell’altra dimensione, ma lo sforzo della negazione è tale che prende la propria vita fin dalle fondamenta. Dall’abbigliamento al mangiare, dal fare l’amore al produrre, dal consumare all’immaginare. Tutto in questi ghetti ricorda quello che non si vuole ammettere. Come chi comincia a far rapine perché poi vuole fare altre cose e finisce per fare solo rapine perché non sa far altro; allo stesso modo queste brave persone lavorano perché vogliono arrivare alla negazione del lavoro, ma finiscono solo per lavorare (nel peggiore dei modi) perché in fondo non sanno fare altro.

In altri luoghi, altri costumi e identiche situazioni. Come chi vive a carico dello Stato, con i pochi miserabili quattrini dell’assistenza sociale, con i quali non muore di fame (gli pagano anche la casa, qualche straccio e qualche mobile per non dormire per terra), ma muore di inutilità, di sopravvivenza, di autocoscienza della propria situazione di miseria morale.

Se si vuole seguire l’indicazione di coloro che vogliono la “liberazione degli animali”, allora non solo le pelliccerie dovrebbero saltare in aria. Negli uffici di collocamento e di assistenza non sono forse appese, bene in vista, le coscienze rivoluzionarie di tanti compagni che avevano sognato la libertà? E non sono scalpi simili a quelli degli animali?

Ineluttabilmente si arriva alla conclusione che solo la lotta reale, seria, efficace, diretta ad attaccare il nemico di classe, può modificare le condizioni che il capitale e lo Stato impongono alla natura nel suo insieme (uomo compreso); condizioni che sono terribilmente inaccettabili per quest’ultima e che minacciano di condurre al disastro. Ma pretendere di difendere questo spazio o quell’isola di sopravvivenza, questa parte o quell’altra dell’ambiente, questa o quella specie animale, e poi fermarsi lì, aspettando che il capitale e lo Stato arretrino verso territori in cui la natura e l’uomo non risultino attaccabili, è semplice follia.

L’ingenuità e l’interessata stupidaggine di coloro i quali credono nell’autonomia di questi spazi è vasta come il mare. Il loro ragionamento è semplice: la società presente, pur se in balia dell’oppressione, è attraversata da isole di autosufficienza, di autogestione, di indipendenza individuale e collettiva. Queste isole sono possibili perché nell’uomo, accanto al sentimento dell’obbedienza, c’è anche quello del rifiuto. Si creano pertanto situazioni di ribellione intrinseca che strappano allo Stato e al capitale elementi del loro controllo e li trasformano in piccole libertà dove questi mostri dalle cento braccia non arrivano a penetrare. Per un altro aspetto questo ragionamento sottolinea una cosa altrettanto importante: non è vero che gli uomini sono sempre uno contro l’altro armati. Nel mondo esistono mille esempi di mutuo appoggio, di reciproco sostegno, di amore, di solidarietà. Questi esempi fanno sperare bene per il futuro. Tutto quello che oggi occorre fare è svilupparli sempre di più, diffonderne il significato, farli passare da comportamento immotivato a cosciente costruzione di solidarietà reciproca.

Non c’è dubbio che questi due ragionamenti affrontano due realtà molto importanti. Si sa perfettamente che la stragrande maggioranza degli atti umani sono sottratti a un controllo diretto dello Stato e del capitale. Ma esiste anche un controllo indiretto. Quel consenso accettato fin nelle più intime convinzioni fa convivere accanto alla solidarietà il legittimismo, accanto al rifiuto di una imposizione l’accettazione di mille altre.

Se queste singole situazioni vengono isolate e sollecitate a svilupparsi in quanto manifestazioni embrionali di quella che sarà la società futura, in questo modo viene ucciso, fin d’adesso, il loro potenziale rivoluzionario, trasformandole in alibi più o meno comodi per chi avverte l’estraneità del nemico ma non ne vuole accettare le conseguenze fino in fondo. L’approfondimento della lotta non può aversi nella moltiplicazione di situazioni microscopiche, ma nel passaggio a livelli superiori dello scontro. L’illusione che sia possibile uno sviluppo infinito della solidarietà e della rivolta circoscritta è data da un errato concetto dello spazio sociale. Ci si immagina che l’individuo, o i piccoli gruppi di individui, siano uno spazio ben circoscritto del più grande territorio in cui agiscono le forze statali e capitalistiche. Ci si immagina che questo piccolo spazio venga difeso e che al suo interno non riescano a penetrare le idee e le forze del nemico. Ma tutto ciò è un’illusione che viene proprio dalla mentalità borghese della famiglia unicellulare, della casa microscopica e ben protetta, degli ambienti chiusi, circondati da muri, da segnali di divieto. In nessun proletario vissuto in condizioni di estrema indigenza può albergare un’idea del genere, egli sa che la casa non è mai chiusa all’esterno, che non c’è verso di impedire l’ingresso ai vicini, altrettanto famelici e desiderosi di sapere quello che stai facendo. Egli sa che nelle baracche e nelle grotte non ci sono usci, non c’è intimità, non ci sono segnali di divieto.

In pratica lo sviluppo di queste cosiddette “isole” non è possibile, anche quando diventassero un numero infinitamente più grande di quello che sono oggi. La rivolta di oggi è sempre parziale, diretta contro questo o quel simbolo. Si tratta per lo più del rifiuto di qualcosa, ma non coinvolge il sistema statale e capitalistico nel suo insieme. Nessun individuo singolo o piccolo gruppo può superare questo limite. Se siamo antimilitaristi possiamo fare un’obiezione totale (e, a volte, anche parziale) del servizio militare, possiamo dimostrare contro l’esercito e cento altre cose, ma non possiamo – da soli – attaccare e distruggere le condizioni che rendono possibile e logico l’esercito. Anche se gli antimilitaristi diventassero migliaia, o milioni, per distruggere realmente l’esercito occorrerebbe distruggere lo Stato e il capitale, forze che non starebbero certamente inerti a veder crescere all’infinito il numero degli antimilitaristi e, quel che è peggio per loro, l’organizzazione che li lega e li trasforma da portatori di rifiuto in realizzatori della rivoluzione.

Illudersi quindi sulla validità di questo lavoro di crescita microscopica come unica e sola strada per arrivare a eliminare la distruzione della natura (e quindi anche dell’uomo), è un non senso. Ogni lotta intermedia, che tiene evidentemente conto del grande potenziale di rivolta e di solidarietà che si nasconde dentro ognuno di noi, deve programmarsi, fin dall’inizio, uno sbocco ulteriore, in caso contrario diventa funzionale proprio a quelle forze contro cui vuole lottare.

Cade quindi definitivamente l’ipoteca a priori imposta dalla nonviolenza. Se fosse possibile una crescita infinita di queste potenzialità attuali, di solidarietà e di ribellione, restando sempre nell’ambito della legalità, stabilendo con il nemico un trattato – pacifico – di coabitazione in territori diversi; allora la nonviolenza avrebbe una sua logica. Il fatto è che se dobbiamo considerare la reale ed effettiva incidenza di tutte queste lotte sugli interessi dello Stato e del capitale, dobbiamo anche tenere in conto una reazione di questi ultimi contro le nostre iniziative, reazione tanto più prevedibile e logica quanto più si riflette sul fatto che essa – nella sua violenza repressiva – non ha nulla di eccezionale o di contrario al cosiddetto “diritto”. La violenza terroristica dello Stato e del capitale è faccenda di ogni giorno. La vediamo dappertutto. La negazione dei limiti del cosiddetto “Stato di diritto” è in tutte le azioni repressive, in tutto ciò che serve a mantenere il potere. La morale dei padroni è sempre quella che vuole insieme il Lione e la Golpe, ora l’uno, ora l’altra, ora il mitra e il manganello del poliziotto, ora il confetto dolce per attirare il consenso. Ma sia nella forza bruta del Lione che nell’astuzia della Golpe c’è sempre la violenza terroristica contro cui dobbiamo, per forza, opporre la nostra violenza liberatoria che, per prima cosa, è progetto rivoluzionario globale.

Stanno proprio qui i limiti delle lotte intermedie. Per loro natura non si possono presentare come lotte violente senza incontrare di colpo, anche quando sono in fase di organizzazione, una risposta repressiva di tale portata da sgomentare qualsiasi sviluppo. Queste lotte hanno quindi una logica premessa interlocutoria, accettano i limiti imposti dal nemico, ne mutuano i princìpi falsi e ipocriti di legittimità e di diritto, di dissenso e di opinione. Per avere un senso non possono impedirsi uno sbocco violento e generalizzato. Nel caso in cui l’azione coordinata della repressione nemica e della indecisione dei compagni impedisca il passaggio a questa fase, quelle lotte sono destinate a spegnersi e tutti gli sforzi fatti serviranno solo ad accreditare la posizione del nemico.

Come ogni altra lotta intermedia, tutto il movimento di difesa della natura, deve poter procedere al di là della fase controinformativa e dimostrativa, cioè al di là della stessa fase intermedia.

Ciò non è possibile con una decisione minoritaria che imponga il ruolo di una specie di “partito d’avanguardia”. Occorre che la gran parte della gente interessata a questo obiettivo si renda conto della illogicità di un’azione separata e si organizzi per sviluppare l’intervento coordinandosi con le altre lotte sul fronte dello scontro di classe.

Ad esempio una lotta nelle fabbriche contro la nocività è stata condotta, e lo è tutt’ora, dal sindacato, con lo scopo di ottenere migliori condizioni di lavoro. Ma noi sappiamo benissimo che a essere nocive non sono solo “alcune” lavorazioni, o “alcune” condizioni di lavoro, ma è il lavoro nel suo insieme, il lavoro in quanto sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Una lotta contro la nocività quindi, per essere tale, deve perdere il suo carattere specifico di lotta intermedia in difesa delle condizioni naturali, e acquistare un carattere globale di lotta rivoluzionaria per la distruzione del lavoro.

Su questo particolare esempio, e su cento altri che se ne potrebbero portare, la posizione dei sindacati non va combattuta perché non è giusto lottare per migliori condizioni di lavoro e di vita (in caso contrario non sarebbe giusto lottare per nulla), ma perché la loro lotta si ferma alla prima fase. Nostro compito diventa pertanto quello di coinvolgere la gente per una lotta che, pur essendo intermedia, si sviluppi (avendo le premesse fin dall’inizio) verso una lotta più ampia e globale che tenga conto del livello dello scontro di classe.

 


[Introduzione a La Hormiga / Vroutsch / Duval, Scontro di classe e difesa della natura, Catania 1983, pp. 5-12]

Limiti attuali del movimento ecologista

Il situarsi di fronte alla situazione sociale, caratterizzata dallo scontro di classe, è sempre un fatto relativo. In fondo nessuna scelta è decisiva (fino in fondo). Il potere non può trovare una soluzione definitiva al problema di come continuare il dominio, gli sfruttati non hanno davanti una strada sicura per arrivare alla liberazione.

Il primo e i secondi procedono per tentativi e applicano metodi diversi.

Il primo è restio al cambiamento, ma non ne può fare a meno del tutto. I secondi hanno bisogno assoluto di cambiare una realtà che li opprime, ma non possono del tutto abbandonare il mondo che li ospita, pur relegandoli al più infimo gradino sociale.

La logica rivoluzionaria è quella che pur riconoscendo la limitazione dei mezzi e delle possibilità, cerca di trovare una strategia e un metodo tali da incidere in senso modificativo, riducendo al minimo quanto per forza di cose non è possibile cambiare subito.

Ma c’è un punto da sottolineare in modo chiaro. Occorre vedere di non arrecare, con il proprio intervento, un rafforzamento nella posizione del nemico. Gli sfruttati hanno il dovere di fare calcoli del genere, il potere può farne a meno. Quest’ultimo, infatti, viaggia a breve termine, manca di progetti di notevole respiro, gli basta sopravvivere. I primi, al contrario, hanno tutto un mondo da ereditare, il loro è un progetto di lunga durata, e hanno tutto l’interesse a rendere sempre più precaria la posizione del nemico.

Quello che manca nella visione degli ecologisti è proprio questa concezione di evitare di fornire strumenti alla controparte.

Ogni tentativo che non coinvolga la società nel suo insieme ma che si limiti a un intervento parcellare, ricavando gli elementi di questo intervento dalla contraddittorietà sociale attraverso cui emergono, non può non trasformarsi in un segnale di allarme per il potere, in un’anticamera della futura ristrutturazione.

Ora, non è nostro interesse fornire strumenti utili a fare andare meglio le cose. Più lo Stato si indebolisce, più crescono le contraddizioni sociali, più il nostro progetto rivoluzionario si avvia verso una migliore penetrazione nella società. In un periodo di stabilizzazione si risvegliano gli accomodamenti, le attese e soprattutto si disamorano i compagni dalla lotta sociale.

Quello che lo Stato ci chiede è solo di dargli il tempo di sistemare le cose. Esso è il primo a riconoscere che la maggior parte della realtà sociale è contraddittoria e lacerata, ma chiede comprensione, sacrifici e collaborazione. Chiede consenso e sostegno morale, lavoro e sopportazione.

Noi non siamo disponibili a percorrere queste due strade: quella del consenso e quella della collaborazione.

Non vogliamo ammettere che la soluzione attuale sia perfettibile perché non ammettiamo che sia il risultato del massimo progresso raggiungibile.

Non crediamo nella razionalità assommatrice di cui la storia ci fornisce esempi agghiaccianti. Perfezionando la situazione attuale si starà sempre peggio, sempre più grandi e pericolosi sacrifici saranno richiesti, mentre si sposterà sempre più in avanti la carota della perfettibilità sociale. Nuovi padroni si sostituiranno ai vecchi, nuove tragedie si susseguiranno.

Qualora fossimo in grado di individuare gli errori della struttura sociale esistente faremmo di tutto per acuirli e non certo per ridurli o eliminarli. Ed è proprio da quegli errori (o presunti tali) che nasceranno le occasioni rivoluzionarie di domani. Per questo motivo siamo contro la tecnologia. Non perché vogliamo rinverdire le lotte luddiste, ma perché riteniamo che questa tecnologia non sia utilizzabile in forma rivoluzionaria. Almeno, non in tutte le sue espressioni. Anche possedendo l’apparato tecnologico di attacco più avanzato (ad esempio, la bomba atomica), non potremmo certo usarla in una prospettiva rivoluzionaria liberatoria. Forme più rudimentali di tecnologia possono essere usate, e in pratica lo sono giornalmente nello scontro di classe, per attaccare il nemico, ma ciò non ha nulla a che vedere con lo sguardo ammirato con cui alcuni compagni si rivolgono verso il progresso tecnologico. Quest’ultimo è solo fonte di ulteriore dominio e di perfezionamento del consenso.

La rivoluzione spazzerà via la tecnologia attuale aprendo alla fantasia creatrice dell’uomo in via di liberazione ampi spazi di utilizzazione dei ritrovati tecnologici, talmente diversi da quanto oggi ci sia di immaginabile che non è possibile porre la situazione attuale in rapporto con una situazione post-rivoluzionaria. Tutto verrà stravolto: scala di valori tecnologici compresa (in primo luogo).

Quello che sappiamo per certo, almeno in questo momento, è che non possiamo accedere a un uso della tecnologia che possa essere stornato contro il potere. Non è questione di uso, ma questione di sostanza. La tecnologia è di già, da per se stessa, potere e non si limita a diventarlo secondo l’uso che se ne fa.

Nella medesima ottica ritengo fortemente limitativo il volere ridurre il progetto rivoluzionario agli interessi ecologici. Il potere ha tutto l’interesse di chiuderci in una sezione dell’intervento sociale. Lottarmatisti, pacifisti, ecologisti, antimilitaristi, ecc. Siamo così tutti specialisti di un settore del problema sociale. Qui ci crediamo a nostro agio e finiamo per concludere che la realtà è quella che vediamo (solo quella), proprio perché il resto è fuori della nostra portata. Da ciò ad ammettere che la cosa che vediamo è la più importante, il passo è breve.

Il nostro intervento deve essere quanto più vario possibile, almeno nei limiti delle nostre possibilità. O, almeno, ammettere che se non ci è possibile un intervento ad ampio raggio, ciò costituisce un nostro limite e non una scelta a cui diamo una valenza positiva.

E poi, cosa dobbiamo difendere? Di questo assetto attuale tutto ci è estraneo e nemico. La natura, su cui tante serenate sono state intonate, non è amica dello sfruttato, ma è uno strumento nelle mani dello sfruttatore, strumento che non possiamo strappargli se prima non lo attacchiamo e lo sconfiggiamo o, almeno, lo mettiamo in difficoltà su tutti gli altri settori.

Difendere una parte della natura contro gli atteggiamenti di rapina che il capitalismo mette in pratica, significa collaborare a quella razionalizzazione dell’uso delle risorse che è uno dei grandi problemi dell’economia, significa collaborare a una rifondazione del capitalismo su basi migliori e più durature.

Quale la conclusione? Quella di collaborare anche noi alla distruzione dissennata della natura? Certamente no.

Anche la lotta ecologica, o il movimento per una ecologia che intervenga nel vasto movimento dei problemi sociali, può essere un punto di inizio (non di arrivo) di grande importanza. Ma poi la lotta va spostata sempre più avanti. L’ecologia può, al massimo, essere occasione per una lotta sociale sempre più radicale e avanzata, non può mai costituire un punto di approdo.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 47, 1985, p. 23]

Ricominciamo daccapo

Daccapo

La bellezza dell’anarchia e la luce della libertà non nascono dal semplice impulso dell’ideale e dai sogni che pure ci spingono ad andare avanti. Come la splendida rosa esse fioriranno nel fango che la società divisa in classi continua a produrre.

Non vi sarà anarchia e non vi sarà libertà se non attraverseremo fino in fondo il doloroso sentiero delle insurrezioni, delle rivoluzioni parziali, delle repressioni, delle sconfitte, delle vittorie. Fino in fondo.

Illudersi che qualcuno possa percorrere una via diversa conduce all’aumento del prezzo da pagare.

Noi rivoluzionari anarchici, consapevoli del nostro compito, nella piena coscienza dei limiti della nostra azione, ci riconosciamo per quello che siamo: soggetti agenti di un processo mostruoso e superbo, contraddittorio e lineare, un processo che contemporaneamente uccide la realtà vecchia e fa nascere la nuova. Ma nel fare ciò noi partecipiamo della realtà vecchia. Vi siamo dentro fino al collo. Spesso lanciamo il nostro cuore oltre l’ostacolo, ma ben poco di più. Sogniamo la totalità rivoluzionaria capace di cambiare noi stessi insieme all’intero sistema dei rapporti sociali, ma gli eventi finiscono per sovrastarci mentre siamo ancora intenti agli adempimenti del passato.

E la tragedia è che non possiamo fare altrimenti. Una volta coscienti della necessità di fare determinate cose non possiamo tornare indietro. Non avremmo più rispetto per noi stessi. Fuggendo ci considereremmo traditori, saremmo traditori.

Per questo siamo orgogliosi di andare avanti. Ricostruiamo puntualmente quello che il nemico ci ha distrutto. Ma la nostra ripetizione non è mai la stessa cosa. Nell’ottica ristretta di una valutazione politica spesso siamo sconfitti e rigettati indietro. Nel processo sociale, considerato nel suo insieme di rapporti, nessuno sforzo è speso vanamente se ha lo scopo di attaccare il potere. E impercettibilmente andiamo avanti.

Questo è un concetto difficile. Vi sono uomini che lo colgono al volo, che lo sentono nella pelle subito. Ve ne sono altri per cui lunghi approfondimenti sono necessari. Per altri ancora non c’è che fare: il senso del fluire della realtà dello scontro di classe resterà per loro sempre incomprensibile.

Fin quando esisteranno compagni anarchici capaci di sentire la logica di questo processo e il ritmo del suo pulsare, sarà sempre possibile dare vita a una minoranza di rivoluzionari coscienti della propria funzione, convinti di quello che bisogna fare e determinati a farlo. E questa minoranza, come organizzazione specifica, sarà uno dei principali strumenti di cui disponiamo per accelerare il processo rivoluzionario.

L’organizzazione che questi compagni si daranno potrà prendere nomi e forme diverse, anche in funzione di situazioni contingenti o di diversi livelli dello scontro di classe, ma possiederà alcune costanti: darsi carico di attaccare le strutture e gli uomini del potere, mantenere una coerenza nelle azioni che sia facilmente comprensibile, difendersi dagli attacchi del nemico con i mezzi e le cautele necessari, inserirsi nella realtà delle lotte, evitando di farsi ghettizzare con una eccessiva specializzazione delle strutture interne, con un’atrofia delle procedure di garanzia.

Nel suo evolversi questa organizzazione sarà ora punto di riferimento e di coagulazione delle forze rivoluzionarie, impresa comune di tutti quei compagni che odiano l’apparenza e la superficialità; ora strumento capace di realizzare progetti anche minimi, attacchi anche marginali, officina di preparazione per progetti più ampi e attacchi più efficaci. A volte prenderà la forma di un’organizzazione specifica minoritaria, perché, in un determinato momento, risulta insostituibile l’impiego dei mezzi di cui un’organizzazione del genere può disporre, facendo in modo di non chiudersi nel cerchio della militarizzazione. A volte si allargherà fino a comprendere nuclei dell’organizzazione di massa, capaci però di sfuggire all’equivoco rivendicazionista, elementi di una diffusione sul territorio delle idee della conflittualità permanente, dell’attacco violento e dell’autogestione delle lotte.

La soggettività rivoluzionaria e l’organizzazione oggettiva sono due poli contraddittoriamente capaci di integrarsi e produrre modifiche qualitative l’uno sull’altro. In quanto limiti oggettivi di ogni azione non possono indirizzarsi verso uno sviluppo separato senza andare incontro a chiusure asfissianti e monotoni luoghi comuni. La creatività e l’invenzione, di cui il processo rivoluzionario ha bisogno, non sono il prodotto del soggetto e nemmeno dell’organizzazione. Sono la conseguenza contraddittoria del loro rapporto. Esaltare il primo a scapito della seconda conduce a fatali ingenuità, a purismi fuori luogo, a velleità eroiche, a superbe ma inefficienti affermazioni di se stessi, a ridicole rodomontate. Farsi schiacciare dalla seconda a danno del primo, conduce all’appiattimento del processo rivoluzionario, alla sacralizzazione del mito della clandestinità e del segreto, alla monotonia della routine esecutiva.

Commisurare con la logica dell’assennatezza tutto quanto avviene nella realtà dello scontro, conduce a una prevalenza degli aspetti regolativi dell’organizzazione. Si è ragionieri della rivoluzione. Più spesso esecutori di basse necessità. Indispensabili, certo, ma non per questo da sopravvalutare.

Abbandonarsi agli stimoli irrazionali della soggettività sgretola gli aspetti essenziali dei rapporti, la loro prevedibilità, la loro comprensibilità per tutti. Gli impegni presi vengono immolati sull’altare di una falsa creatività, scambiando la libertà del soggetto con la gratuità dei rapporti con gli altri, la serietà con la tetraggine, la gioia con la soddisfazione immediata.

Ed è proprio nella ricerca di una via costruttiva tra le due tendenze contraddittorie che bisogna sempre ricominciare daccapo per non smarrire il senso profondo della realtà rivoluzionaria.

 


[Pubblicato su “L’Anarchia”, Numero unico, 1982, p. 1]

Per noi no

No, per noi no, per noi non è finita.

Iniziamo subito con lo sgombrare il campo da un luogo comune che qualcuno ci ha cucito addosso. Ci hanno definiti rissaioli, brutti e cattivi, irrispettosi delle altrui anzianità di servizio (per la verità, anche delle nostre), polemici, pestatori di calli, inarrendevoli persecutori degli inquinamenti socialdemocratici e perbenisti che serpeggiano nel nostro movimento. Ebbene, teniamo qui a chiarire una volta per tutte la infondatezza di questa interpretazione del nostro lavoro. No, non siamo assolutamente quello che ci accusano di essere. Siamo molto di più, e, se per limitazioni oggettive e incapacità personali, abbiamo semplicemente dato l’impressione che abbiamo dato, cercheremo di darne una migliore in futuro, penetrando più a fondo, turbando più spesso il mare della tranquillità che sembra cullare i sogni di molti compagni.

Certo le ingenuità sono difetti comuni a tutti, ne abbiamo sofferto e ne soffriamo. Le limitazioni personali e le incapacità sono anch’esse comuni e non c’è motivo per cui proprio noi dobbiamo fare eccezione. Quello da cui siamo esenti è però la malafede. Con ciò non vogliamo dire che ci siano compagni in malafede, che abbondino i voltagabbana, gli arrivisti, i megalomani e gli affetti da liderismo congenito. A volte è possibile che qualcuno di questi compagni vada a finire, a esempio, nel Partito Socialista o nel Partito Liberale: altre volte è pure possibile che qualcun’altro riesca a trovare un lavoro ben retribuito in qualche giornale o in qualche università proprio grazie alle amicizie che si era costruito con la propria attività che, in quanto anarchica, doveva per altro essere la meno indicata a costruire piattaforme carrieristiche. Altre volte c’è chi si limita a gestire il dominio del proprio orticello, facendo accurata attenzione che altri non venga a zappare fuori del seminato, e finendo quindi per impedire che altri proponga analisi, sviluppi conseguenze e realizzi azioni che minaccino di tradursi in pericolosi tentativi di smuovere le acque stagnanti, in sollecitazioni alla lotta e allo scontro sociale. Ma chi è esente da simili mali? In pratica, nessuno. E quindi, si potrebbe dire, ed è stato detto: se tutti siamo afflitti dagli stessi mali, se vediamo con chiarezza i difetti degli altri mentre non ci accorgiamo dei nostri, chi ci autorizza a essere critici, anzi ipercritici? Nessuno ci autorizza. Non abbiamo bisogno di autorizzazione alcuna. Andiamo avanti per la nostra strada. Che qualche altro – se crede – faccia lo stesso verso di noi, oppure ci dimostri la correttezza rivoluzionaria di voltar gabbana, di stipulare compromessi per la difesa del proprio miserabile orticello, di calunniare dietro le spalle, di difendere a denti stretti un tragicomico liderismo.

Cosa volete farci, siamo uomini di parte. Crediamo nell’azione di parte, nella logica di parte, nella verità di parte. Non riteniamo possibili le grandi aperture di massa, gli orizzonti pieni di popolo ondeggiante, gli accordi d’azione con altre parti del movimento rivoluzionario basati sul vogliamoci bene, gli abbracci pubblici e i baci di giuda. Quando, per motivi strettamente politici, ci sediamo a un tavolo di trattative, ci portiamo sempre il coltello in tasca. Cerchiamo di fare pesare la forza dei nostri argomenti partendo dal lavoro rivoluzionario che abbiamo fatto e non abbiamo ingenue fiducie su comunanze ideologiche che nascondono quasi sempre il preconcetto e il sospetto.

L’unica differenza è che queste cose noi le diciamo apertamente, altri invece le pensa ma non le dice, e quando si arrischia a dirle ha cura di parlare sottovoce, nei corridoi, con lo stesso atteggiamento delle spie della polizia.

Come spesso accade, al concludersi di un ciclo storico di lotte sociali, si presenta la tendenza al riesame, alla riflessione, spesso alla perplessità e al dubbio. Tutto ciò, da per se stesso, non può definirsi un danno. Andare avanti con l’andatura del bove legato al suo giogo potrebbe avere tutto l’aspetto esteriore della forza e della costanza ma non riuscirebbe mai a nascondere la mancanza di idee e la profonda idiozia. Non è vero che in un momento come questo non ci sia più nulla da fare e che non sia possibile, guardandosi attorno, trovare quel nucleo di compagni disposti a continuare la lotta inventando sempre nuovi interventi all’interno dello scontro di classe in atto. Ma per trovare questi compagni occorre cambiare per prima cosa noi stessi, le nostre analisi, il nostro modo di disporci verso la lotta, la nostra stessa vita. Cambiare però non significa rifiutare l’esterno per lasciare intatto l’interno.

Occorre però riuscire a dire questa nostra diversità, evitando la trappola del già costituito, del modulo che si ripete, del tipo che gli altri ci hanno costruito addosso. Lo schema di lettura finisce per sconvolgere la realtà del significato di quello che si vuole dire, vi si sovrappone, lo domina. Potresti allora continuare all’infinito, anche dicendo cose di un certo interesse, ma comunicandole all’interno dello schema. I lettori si tranquillizzerebbero subito, comprerebbero la tua merce per sentirsi, ogni volta, sempre più tranquilli. E tutti cullerebbero i propri sogni nel mare della tranquillità.

Spezziamo allora questi schemi. Se eravamo brutti e cattivi, cerchiamo di esserlo ancora di più, visto che diventare buoni e digeribili non sarebbe altro che l’accettazione supina di una ridondanza pilotata dal potere. Se eravamo rissosi, cerchiamo di esserlo ancora di più, di quella rissosità conscia della propria forza che travalica nell’ordinata ricerca dello scontro e non si abbandona all’isteria dell’occasione e del momento. Se eravamo insofferenti di ogni perbenismo, cerchiamo di esserlo ancora di più, anche di quel perbenismo che vuole costruire limiti alla parola, ostacoli all’analisi, interdetti all’azione.

Non legandoci a falsi problemi di cambiamento esteriore, ripresentandoci sempre per quello che siamo ed eravamo, possiamo proporre, nella pienezza della sua maturità, il cambiamento che si è operato in noi, ben al di là della semplice sostituzione di una sigla con un’altra. E i nostri compagni d’affinità non li troveremo per caso sull’onda di un equivoco causato da una parola nuova, da un nuovo atteggiamento, da una moda veicolata con furbizia: al contrario li troveremo, se li troveremo, perché si uniranno a noi sulla base di un obiettivo comune, chiaro a sufficienza, perché legati a noi dal comune amore per certe cose e dal comune odio per certe altre. Diversamente potremmo impiantare una fiera del quantitativo, mettere a profitto gli ultimi risultati della tecnica della comunicazione mistificata, potremmo (qualora ne avessimo la possibilità finanziaria) diversificare al massimo le forme del nostro modo di dire per attirare gli allocchi e i meno allocchi; potremmo gonfiare i nostri polmoni per parlare a masse numerose e illuderci così di andare avanti, di crescere, di costruire le condizioni della rivoluzione; e non avremmo altro risultato che l’inconcludente artificiosità di un affollato giardino zoologico; esemplari di varia umanità uniti insieme nell’estraniante comunanza di un’ideologia. Ma, per un’altra strada, potremmo ridurci al disgusto e al disprezzo, all’angusta cerchia dalle mura merlate di un soliloquio che pretende di aver capito tutto e tutto avere “in gran dispitto”; potremmo concludere mestamente che non è possibile trovare quei nostri compagni d’affinità e che la ricerca non è più possibile nel gran merdaio che ci circonda. Finiremmo allora in un tristo scetticismo che farebbe un ben comico contrasto con l’inguaribile ottimismo che ci ha contrassegnato finora. E se di una malattia dobbiamo morire è meglio quella di Cervantes che quella di Sterne.

Rinchiusi nella tana della nostra disillusione, amareggiati per le altrui incapacità di capirci, desiderosi di fare senza sbagliare, sollecitati all’azione ma con le condizioni preventive del successo: da questa condanna di Tantalo non potremmo venire fuori se non con un appello all’ottusità e all’ottimismo. All’ottusità del ricominciamo daccapo e all’ottimismo del rivoluzionario che guarda il mondo con occhi sempre giovani.

Ma l’ottusità può essere sintomo di chiusura mentale, di adeguamento al proprio personaggio, di banale ripetizione di schemi collaudati e proprio per questo tranquilli e ripetitivi. Con la scusa di serbare la propria coerenza si corre il rischio di ripresentare se stessi con una esasperante monotonia: brutti e cattivi ieri, brutti e cattivi oggi. Prevedibili, standardizzati, promotori di una catena di montaggio della rivoluzione, depositari del verbo della violenza allo stesso titolo con cui altri sono depositari del verbo del pacifismo e dell’aggiustamento socialdemocratico. Ciò è stato detto, intelligentemente fatto capire, ed è stato anche uno fra i tanti problemi che si sono posti davanti all’ipotesi di riprendere le pubblicazioni di “Anarchismo”. La stessa sigla editoriale non era forse una garanzia di continuità nel tempo? Non poteva indicare la persistenza della parte deleteria dell’ottusità, un modo di rifarsi la faccia allo scopo di coltivare il proprio striminzito e ridicolo orticello?

Non c’è dubbio che questo pericolo esiste, come non c’è dubbio che ci sentiamo la capacità di affrontarlo. Ripresenteremo tesi che – a volte – potranno sembrare ripetitive ma occorrerà fare attenzione. La ripetizione è quanto di immutato persiste nel processo modificativo della realtà: lo scontro sociale si evolve, si alza, si abbassa; in quanto scontro sussiste, almeno fin quando grossi scrolloni non ne sposteranno la radicalizzazione in una parte diversa dello spazio sociale. Le strategie si evolvono, i mezzi a disposizione devono necessariamente essere sottoposti a critica costruttiva, i metodi restano gli stessi. Non sempre si può avere un impiego identico dello stesso metodo, ma ciò è conseguenza del gioco delle strategie e del rapporto tra mezzi a disposizione e scopi che si vogliono raggiungere. Tutto ciò fa pensare alla necessità improrogabile di procedere comunque, a qualsiasi costo, alla formulazione di nuovi metodi. Questo è un grossissimo errore che non si manca mai di pagare con la disillusione o con la ricerca formale di vestiti nuovi, di nuovi atteggiamenti, di forme paradossali, nella speranza che questi vestiti, queste forme e questi atteggiamenti ci possano dare quello che invece sarebbe stato più logico andare a ricercare nell’ottuso impiego degli antichi metodi. La vecchia dinamite continua ad assolvere al proprio compito rivoluzionario, oggi come ai tempi di Bakunin, solo che oggi bisogna sapere bene dove andarla a collocare, altrimenti si corre il rischio di mettere gli effetti dello scoppio all’attivo del bilancio del potere. Le condizioni dello scontro si evolvono, le strategie d’intervento devono parimenti evolversi, ma nella persistenza della disponibilità di alcuni mezzi non bisogna avere paura di adottare i metodi del passato. Con ciò non si è sostenitori di una nostalgia rivoluzionaria fuori del tempo, si è soltanto coscienti della validità di metodi di lotta che non possono essere revocati in dubbio perché i risultati di una fase dello scontro sociale non hanno corrisposto alle attese più ottimiste.

Per questo siamo cauti nei confronti delle novità e non ci lasciamo affascinare dalle forme che la stessa logica del potere continuamente ci mette sotto gli occhi e ci sottrae con l’abilità di un prestigiatore. Facciamo sforzi notevoli per spezzare il ritmo incalzante che vorrebbero imporci i fabbricanti di novità: la riduzione dei tempi di fruizione del messaggio è incredibile, siamo arrivati a una velocità da cinematografo. Le immagini si susseguono e non riusciamo a guardarle realmente, le vediamo perché abbiamo interiorizzato un ritmo di lettura, allo stesso modo in cui un dattilografo velocissimo riesce con difficoltà a scrivere a mano perché il suo ritmo di ragionamento si è ormai adeguato alla velocità della macchina da scrivere. Ciò vale per le analisi che facciamo e per la percezione che di esse riusciamo ad avere.

È stato sottolineato il fatto che pur rendendosi conto della persistenza di quanto va riconfermato, l’indispensabile modificazione va fatta fino in fondo, non trascurando l’aspetto formale che non è certamente secondario. Giusta osservazione, ma anch’essa dentro certi limiti: in fondo, non è così facile separare il contenuto dell’analisi dal veicolo con cui la si comunica. Ciò non tanto nel senso che bisogna adeguare questo a quello, quanto nel senso che spesso adeguando il veicolo crediamo di farci comprendere mentre i nostri fruitori non sono andati al di là della ricezione del veicolo in quanto tale, ed il contenuto del messaggio è stato fagocitato dall’accuratezza, spesso vuota e barocca, del veicolo che pretendeva di garantire la fruizione.

Abbassando il tiro possiamo vedere le cose nella loro realtà. Non abbiamo grandi mezzi a disposizione e, in fondo, non abbiamo un referente che possa essere assunto, per definizione, come in grado di separare il grano dal loglio. Come non riusciremmo – e in pratica spesso non ci siamo riusciti – a nascondere la monotonia di certi temi e la ripetitività di certe analisi, allo stesso modo non riusciremmo mai a sostenere, con adeguati mezzi formali, contenuti che posseggono una loro validità in quanto sono da usare al più presto possibile. I compagni sono senza dubbio più intelligenti e perspicaci di quanto noi stessi immaginiamo.

Veniamo adesso agli interventi che riteniamo indispensabili e urgenti. Il crollo delle ripartizioni della tranquillità ha ridotto l’effetto confortante delle ideologie, ciò comporta la ripresa di un discorso altre volte fatto tra le righe: irrazionale/razionale, soggettivo/oggettivo, illogico/logico, progresso/conservazione, sono gli elementi di polarità fittizie che hanno condizionato una gran parte delle nostre analisi, elementi su cui bisogna tornare per capovolgere il rapporto che ci legava a una visione scolasticizzata del movimento rivoluzionario. I tempi sono maturi per contribuire a rompere luoghi comuni e santuari intoccabili. L’iconografia del passato che santificava la logica della parzialità, può essere finalmente scarnificata facendo risaltare la matrice comune di ogni progetto che dell’aggiustamento fa condizione e ipoteca del futuro. Il fascismo diventa multicolore, vivace, carico d’insidie. Vi si può cadere dentro in buona fede, credendo di fare cosa intelligente, ragionevole, progressiva, logica. Buttare giù dagli altari nuovi idoli non è cosa facile. Molti di essi sono penetrati fino in fondo nei nostri cuori. Strapparceli dal petto sarà cosa complessa e traumatica.

Poi occorrerà spiegare come la persistenza di validità di alcuni metodi non significhi ossequio a sigle o a momenti storici del passato, a uomini e a idee che non riescono a modificarsi pur restando gli stessi ma si intestardiscono a restare gli stessi e basta. Si tratterà di ammissioni dolorose, di tragiche cauterizzazioni, di uccisioni di miti promozionali che non riuscivano a venire fuori dalla logica del quantitativo. Tutto ciò andrà fatto allo scopo di sgarbugliare il groviglio di confusioni che è stato tessuto intorno a realtà precise: il carcere, la lotta armata, i compagni in galera, il livello dello scontro, il futuro dell’azione rivoluzionaria, l’evoluzione delle sue forme, il mantenimento dei suoi significati non variabili.

E l’insurrezionalismo, il progetto complessivo di una lotta sociale polivalente che s’indirizza alle organizzazioni di massa allo scopo di sollecitarne la costituzione in vista di processi insurrezionali e non per una indefinita crescita quantitativa; come pure s’indirizza alle organizzazioni specifiche, in forme diverse a seconda delle necessità, dal lavoro di proselitismo al lavoro clandestino. Anche in questa direzione le idee sono molto ingarbugliate e non manca chi, con un progetto preciso, cerca di confonderle di più.

Infine l’indagine critica sugli infingimenti, sulle cautele, sui possibilismi, sui cedimenti, sui recuperi e le sentenze di sconfitta o di successo. Noi non siamo di quelli che tirano il sasso e poi nascondono la mano, e abbiamo un odio profondo contro tutti coloro che strettamente abbarbicati alle proprie poltrone tranciano il mondo in minutissimi pezzetti. E qui ci occupiamo anche di loro.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 40, 1983, pp. 1-5]

L’asino di Buridano

Un filosofo di tanti secoli fa aveva un asino che dalle elucubrazioni metafisiche del suo padrone prese una brutta malattia: quella di non sapersi decidere tra il secchio con l’acqua e il secchio con l’avena, e di questa malattia ne morì. Il filosofo si chiamava Buridano e l’asino che gli apparteneva era quindi l’asino di Buridano.

Ma l’indecisione non è una malattia del tutto accidentale. Spesso il non sapere quale strada prendere, quale scelta fare, nasconde una strada già presa e una scelta già fatta: quelle del minore rischio e dell’accomodamento, della rinuncia e del compromesso.

Molti compagni si comportano come l’asino di Buridano e fanno sapere, con tanto di analisi e circonlocuzioni più o meno da manuale, che non si può fare nulla perché non è il momento più adatto, per noi rivoluzionari, oppure – se si preferisce – che possiamo fare molte cose, ma tutte coerentemente adeguate al momento attuale, facendo in modo di non entrare in contrasto con i limiti che il potere ci ha assegnato (in via di restringimento). Le due strade si equivalgono nella decisione di fondo di non turbare i progetti del potere. In fondo, l’asino di Buridano morì non tanto perché non seppe decidersi se prima mangiare e poi bere (o viceversa), ma perché aveva deciso di non voler decidere, e in questo il suo padrone-filosofo gli aveva dato ottimi suggerimenti.

Morti per l’azione anarchica sono quindi molti di quei compagni che ritengono indispensabile commisurare il che fare alla circoscritta agibilità politica fissata dal potere.

In clima di caccia alle streghe, quando da tutte le parti si tuona contro il “terrorismo”, molti compagni si riscoprono un animo legittimista e mettono sul tavolo le loro carte in regola, facendo dichiarazioni che vogliono apparire come altrettanti passaporti per entrare nel territorio dell’agibilità politica. Anche parlando di argomenti abbastanza lontani dai problemi dello scontro armato, spesso trovano il modo di fare veicolare le proprie distanze da questo “terrorismo”, confortando il potere sulle proprie intenzioni “sane” e “corrette” e mettendo avanti le mani su possibili confusioni.

In questo modo si dimenticano alcune cose che – anche a costo di ripetermi – voglio riaffermare nella loro linearità schematica.

Il vero e solo terrorismo è quello dello Stato e delle organizzazioni sostenute dall’azione statale e dirette a realizzare il dominio.

La forma migliore per attaccare lo Stato e i suoi strumenti di morte, è quella anarchica, la quale risulta sempre diretta all’abolizione immediata e definitiva del potere. Ciò non significa che altre esperienze di lotta, non condivise dagli anarchici, si debbano condannare in blocco come “terrorismo”.

Occorre sottoporre queste esperienze a una critica profonda e costruttiva e non allinearsi al coro dei ripetitori imbecilli del verbo statale. E questa critica deve essere diretta a sottolineare gli errori commessi da una visione esclusivamente militarista dell’azione armata, da una concezione stalinista ormai superata dell’organizzazione politica, da uno scontro bipolare tra potere statale e “potere rivoluzionario”.

Fatto questo non bisogna però sottovalutare che sono stati portati attacchi al nemico di classe, che questo ha mostrato più che mai alcune sue debolezze, come pure alcune sue capacità di ristrutturarsi e di rafforzare il dominio e la repressione.

Legare in modo deterministico l’aumento della repressione alla lotta di questi ultimi anni è pura stoltezza e porta alla conclusione che è meglio scriversi all’azione cattolica per non disturbare il potere e non spingerlo a diventare ancora più cattivo di quello che è.

Non bisogna infine spingersi tanto oltre nel presentare le nostre credenziali di “onesti” militanti contrari al “terrorismo”. Infatti, così facendo, di precisazione in precisazione, arriveremo perfino a rinnegare quelle che sono le nostre prerogative essenziali: cioè di essere sostenitori della lotta contro gli sfruttatori per l’abbattimento immediato, definitivo e necessariamente violento dello Stato e per la costruzione (che non potrà non avvenire senza ostacoli) della società libera e anarchica.

 


[Pubblicato su “L’Anarchia”, Numero unico, 1982, p. 3]

Facciamo presto

La possibilità concreta di un dissenso politico fondato su basi rivoluzionarie, si restringe sempre di più. Tutte le forze del capitale sono dirette a criminalizzare le componenti rivoluzionarie del movimento proletario.

Per questo motivo occorre fare presto, occorre denunciare le alleanze delittuose che si sono strette tra capitalisti e sinistra tradizionale, nel disperato tentativo di chiarire agli sfruttati la natura e la consistenza della morsa d’acciaio che si sta chiudendo sulle loro speranze di liberazione.

Il capitale si è reso conto che non può più costringere i lavoratori ai sacrifici ricorrendo ai mezzi forti (fascisti e polizia), per cui preferisce rivolgersi ai mezzi più sottili (partiti di sinistra e partiti dell’area del defunto extraparlamentarismo). Sono proprio queste forze che, sposando gli interessi più reazionari del capitalismo multinazionale, propongono una tregua di classe, spingendo le masse degli sfruttati verso lotte marginali e senza scopo rivoluzionario, mentre patteggiano la resa incondizionata di ogni potenziale di concreta opposizione.

La polizia e i carabinieri, strumenti ciechi di oppressione all’ordine del padrone di turno, vengono usati contro coloro che non intendono accettare questa logica di collaborazione con le forze della morte. Le minoranze degli sfruttati vengono così criminalizzate e trovano ospitalità nelle carceri speciali, vengono trascinate davanti a tribunali speciali, subiscono processi speciali e condanne speciali.

In più, per rendere più saporita la minestra, viene impiegato, da parte di questi lanzichenecchi al servizio dei padroni (PCI, PSI, sindacati, frange giovanili dei partiti di sinistra e partitini reggicoda) un vero e proprio terrorismo psicologico diretto a fare apparire le residue aree di dissenso rivoluzionario come “squadristi camuffati da comunisti”. È l’antica accusa che da sempre i partiti del potere lanciano contro coloro che non condividono le loro posizioni, è l’accusa che non si contenta di attaccare fisicamente l’avversario, ma lo vuole anche uccidere moralmente, facendolo passare per quello che non è.

Chi disturba la quiete dei cimiteri non solo deve essere arrestato, incarcerato e, qualche volta, ucciso ma anche deve essere squalificato politicamente, in modo che non abbia più credibilità davanti alla massa degli sfruttati.

Nei confronti di noi anarchici questa strategia non è nuova. I vari partiti comunisti, nelle varie situazioni storiche, l’hanno impiegata per impedire che costituissimo un punto di riferimento per gli sfruttati, un punto chiaro e senza compromessi, capace di indicare la strada della rivoluzione e non quella dei patteggiamenti col potere. Per questo motivo gli anarchici sono stati fucilati dai comunisti in Russia e in Spagna, in Ucraina e a Kronstadt. Ed è ragionando sui loro cadaveri che la storia ha poi dovuto riconoscere che coloro i quali accusavano gli anarchici di tradimento stavano costruendo uno dei regimi più biechi e controrivoluzionari mai esistiti.

Gli anarchici ritengono indispensabile l’attacco immediato e senza mezzi termini contro le strutture e gli uomini del capitale e contro tutte le forze che servono di sostegno a quest’ultimo e garantiscono la continuazione dello sfruttamento. Ritengono indispensabile la denuncia immediata di queste alleanze e di questi tradimenti, per fare conoscere agli sfruttati il terribile destino che li attende nel caso in cui il disegno reazionario riuscisse a concludersi.

Nessuna accusa infamante potrà arrestarci, da qualsiasi parte venga. Nessuna intimidazione, nessuna condanna potrà tapparci la bocca. Le responsabilità dei servitori del capitale vanno denunciate perché gli sfruttati sappiano, al momento opportuno, riconoscere il proprio nemico.

 


[Pubblicato su “Terrorista è lo Stato”, Numero unico, 1979, pp. 1-3]

Il cuore sull’altopiano

Si può tornare indietro a riprendere il proprio cuore lasciato lassù? Io penso di sì. La lotta ricomincia.

Si possono fare molte affermazioni sarcastiche e irriverenti nei confronti di chi – ormai da molto tempo – ha concluso la sua traiettoria di impegno sociale per ritornare alle precedenti sudate carte o al proprio tornio in fabbrica (adesso tramutatosi in computer) o ai propri sogni esoterici o ai propri fantasmi individualisti di distruzione del mondo.

E anche noi ne abbiamo fatti diversi di ammiccamenti e critiche salate. In particolare contro l’alibi di volere far derivare la disistima per l’impegno sociale non da decisioni personali ma da accadimenti estranei, dal movimento in genere, dalle mancate realizzazioni rivoluzionarie.

Non si può negare però che allontanandosi nel tempo quelle disgustose retromarce, adesso si debba tirare un minimo di bilancio credibile, facendo un’analisi che possa restituire vergogna a chi altro non merita e dignità di uomo a chi ha avuto il coraggio di ammettere, per primo a se stesso, di non potere continuare un impegno divenuto troppo gravoso e, nel tirarsi indietro, lo abbia fatto in maniera chiara e senza coperture da saltimbanco.

So che questo discorso dispiacerà a molti. A coloro che mai dubitarono delle possibilità di continuare la lotta e a coloro che retrocedettero. Ma è discorso che va fatto, perché non mi sembra giusto accomunare nel disprezzo e nell’ignominia, voltagabbana e persone coscienti dei propri limiti.

E poi penso, in tutta coscienza, che noi si possa svolgere questo discorso, non avendo mai ceduto d’un palmo, mai concesso spazio ai tentennamenti imposti dall’alterno svolgersi dei fatti repressivi, mai dubitato della possibilità di ricominciare daccapo, ottusamente daccapo.

Adesso che si avvertono i segni di una ripresa rivoluzionaria è giusto approfondire le distinzioni.

Chiariamo subito che qui non mi riferisco al pentitismo e al dissociazionismo clamoroso, quello che si è vestito dell’ignobile gesto di giuda e quello che ha fatto ricorso alla toga dell’avvocato e del retore per operare distinzioni e sottigliezze metafisiche.

Mi riferisco a chi si è semplicemente ritirato dalla lotta. Non giudicando per non essere giudicato, non accampando giustificazioni, non sviluppando cortine fumogene che nulla potevano nascondere.

Ecco, io penso che questi compagni hanno lasciato il cuore sull’altopiano.

Sono convinto, cioè, che la loro decisione di tirarsi indietro – e sono migliaia – fu dettata dalla considerazione che ormai un intervento sulla base dei modelli analitici precedenti non era più possibile. Per cui, essendo la maggior parte di loro troppo intelligenti per non rendersi conto dell’inutilità degli sforzi, ma troppo legati a schemi fissi di ragionamento (veicolati dai tanti anni di militanza passata) per avere la capacità di sviluppare nuove prospettive, hanno finito per concludere che era meglio fare un passo indietro.

Ma quando si abbandonano (o si mettono semplicemente da parte) ideali e sogni, speranze e bisogni di liberazione, non si vive più tranquilli. Ogni cosa sembra assumere una dimensione diversa, distorta, priva di valore. I vecchi amici, il lavoro, la famiglia, gli interessi culturali o gli stessi svaghi hanno un aspetto stranamente diverso. Per quanto parziali e approssimative possano essere state le esperienze di lotta, per quante delusioni possano avere arrecato, non si può dimenticare la luminosità solare dell’ideale, il coinvolgimento del sogno di libertà, la simpatia e la bellezza dei compagni, il senso di pienezza di vita che si avverte stando con loro. Appartandosi ci si incrudelisce, la realtà scade nel valore del quotidiano, nell’espediente temporaneo, nell’oggetto che rifugge dalla qualità, nel mezzo di fuga. Le esperienze possono susseguirsi le une alle altre, ma devono diventare sempre più coinvolgenti e sempre più forti. Ma nel mondo del fittizio, dove l’ideale rivoluzionario è stato bandito, non esistono esperienze di questo tipo se non artificiali e forzate. Ed è per questo che si pensa con nostalgia al cuore che è rimasto sull’altopiano.

Certo lassù si correvano rischi, in primo luogo i rischi delle delusioni, tanto più cocenti quanto più l’impegno ci coinvolgeva totalmente. Ma questo fa parte delle umane vicende. Al di là dei rischi di ogni genere c’era la vita. Vivere sull’altopiano è difficile per tutti, ma proprio nella difficoltà la vita acquista valore e gusto che nessun condimento artificiale può dare nella neghittosità di tutti i giorni, nella sopravvivenza forzata.

Si può tornare indietro a riprendere il proprio cuore lasciato lassù?

Io penso di sì.

La cosa è possibile per coloro che hanno vissuto un’esperienza reale, non certo per i morti da sempre che nemmeno si accorgono più di respirare fin dalla nascita un’aria sepolcrale. Ma gli altri, quelle migliaia di compagni, ormai disseminati e isolati in un contesto che non può non essere loro terribilmente estraneo, questi possono, anzi devono, tornare indietro. La lotta ricomincia. Con la lotta ricominciano i problemi di ricostruzione, sia analitica che organizzativa.

Nessuna cosa resta ferma. Meno che mai per i rivoluzionari. Ogni ondata si ripresenta del tutto nuova, con idee, sentimenti, progetti, assolutamente impensabili appena pochi mesi prima. L’aria dell’altopiano è sempre la stessa, rarefatta e difficile da respirare ma, quando la si è respirata, difficile da dimenticare.

Quali possono essere gli ostacoli personali a un ritorno alla lotta? Prima di tutto l’amor proprio. Questo stupido senso del valore indiscutibile di se stessi, del fatto che si deve avere ragione per forza in tutte le cose, miete più vittime di ogni altro morbo. Segue la paura del ridicolo e quella del sospetto che gli altri potranno nutrire.

Secondo me sono paure del tutto infondate. E poi, chi sono questi altri che potrebbero arrogarsi il diritto di alimentare sospetti e atteggiamenti sprezzanti? A ben guardare ognuno di noi ha dubbi, anche se poi li supera. Nessuno può dirsi esente da questa debolezza umana.

Un altro ostacolo potrebbe essere quello del disprezzo per i livelli minimi di lotta. Chi si è battuto in situazioni ormai passate, prova un disagio che confina con la disillusione a ricominciare daccapo. Spesso c’è una nausea, a esempio, per il vecchio volantino o per la propaganda. Un mal riposto senso dell’efficientismo fa vedere questi strumenti minimi di intervento come superati. Non ci si rende conto che l’attività rivoluzionaria non getta mai nulla nella spazzatura. Ogni strumento ha la sua importanza solo che deve essere rapportato a un determinato livello dello scontro. E poi l’impiego di certi mezzi si può adeguare velocemente alle mutate condizioni. La realtà sembra non fare tesoro degli accadimenti passati, e quando l’ondata ricomincia a formarsi, tutto sembra rinascere in forme embrionali, ma questi embrioni portano in sé i geni del passato, una riposta memoria che può improvvisamente palpitare in modo diverso.

Come nessuno trovava nulla da dire in merito al ritiro dalla lotta, ritiro che, torno a sottolineare, mai si vestiva dei camuffamenti ideologici degli imbroglioni o della disponibilità dei traditori: adesso nessuno può fare commenti.

Lo scontro di classe non è monopolio di nessuno. La propria coscienza è lo stimolo unico e indiscutibile. Quando questa è stata presa in termini di classe si può tornare indietro solo mettendola a tacere, anche con mezzi brutali, ma deve smetterla di continuare a stridere dentro di noi. Gli infami di ieri e di oggi non avevano mai preso coscienza, il loro era un brutto gioco avventuroso, una puntata alla roulette russa. Lo stesso per gli imbroglioni ideologici, i dissociati di ieri e di oggi. Per questi la coscienza era un mero arzigogolo intellettuale, spesso culturalmente modesto, ma sempre frutto di avventatezza analitica e non determinato dalle ragioni del cuore.

I compagni veri, alcuni dei quali hanno fatto un passo indietro, dovrebbero potere testimoniare che questo stimolo rabbioso continua ad agire dentro di loro, a non lasciarli in pace. È questa la coscienza di classe, la quale una volta raggiunta non ci lascia più. Essa è mezzo distruttivo che se non viene impiegato nell’attacco contro il nemico di classe finisce per distruggere noi stessi.

Adesso è forse giunto il momento di tornare a riprendere il cuore lasciato lassù. Sulla certezza delle condizioni oggettive di ripresa della lotta possono esserci dubbi, forse ci stiamo ingannando, forse siamo davanti a sensazioni e a fuochi di paglia. Allora bisognerà continuare a lavorare perché l’ipotesi si trasformi in realtà. Non è certo la ripresa della lotta che diventa stimolo essenziale a tornare sull’altopiano, ma al contrario, la propria indomabile coscienza che spinge sempre avanti e vuole tornare lassù. E sarà proprio questo ritorno al lavoro rivoluzionario e questo contributo che potranno avere la loro parte nella ripresa delle lotte.

Ancora una volta la soluzione dei problemi della persona va cercata nella persona stessa e non in condizioni più o meno favorevoli che piovono dall’alto.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 46, 1985, pp. 12-13]

Sisifo, o dell’ottusità

Riprendere in mano le condizioni della propria esistenza. L’insieme delle condizioni dello sfruttamento cerca di realizzare l’estraniazione di noi stessi davanti al giudizio che ognuno ha di sé. Esistere non può avere altro significato che quello di venire fuori. In caso contrario, non esistiamo, ma giacciamo, preda inerte e passiva, nelle mani del meccanismo che ci estranea e ci trasforma in condizione di scambio.

La tragicità della situazione è solo un aspetto del problema. L’altro aspetto è la sua comicità. Se il pathos mortale ci circonda, fino a diventare semplice effetto di fondo, davanti al quale non battiamo nemmeno ciglio, come quando vediamo sfrecciare impassibili i bolidi di morte della polizia lanciati all’inseguimento di ipotetiche malformazioni sul filo dei centocinquanta all’ora, a sirena spiegata: siamo ben poco disposti ad abbandonare Thanatos non solo per il complesso Dioniso, ma anche per le più modeste baccanti. Il nostro guaio è che siamo fin troppo seri. Non ci rendiamo conto che la farsa della situazione in cui ci troviamo è l’altra faccia della medaglia, cioè l’altra faccia della sua tragicità. E, come in ogni farsa, ridere è d’obbligo. Chi non sa ridere della propria condizione non è disposto al suo superamento proprio perché non l’ha riconosciuta come tale: condizione disastrosamente contraddittoria e beatamente esilarante. Carnefici e vittime nello stesso tempo dobbiamo essere capaci di ridere del nostro essere maldestri, antidoto sicuro per il maggior dolore che ci procuriamo per non essere sufficientemente pratici nel tagliare teste.

Nel rifiuto del sacro mito della produttività (giusta lotta per anni combattuta al buio e tra l’altrui incomprensione), siamo stati troppo seri, troppo conclusi nei nostri palazzi teorici privi di finestre. Abbiamo distrutto il mito produttivo, serbando in cuore un vasto catalogo mitologico che ancora non si è esaurito e a cui attingiamo senza parsimonia. Se adesso ci grattiamo la pancia al sole, come i lazzaroni napoletani davanti a palazzo reale, facciamo brutti sogni: dopo tutto, furono proprio quei lazzaroni che, svegliatisi, attaccarono e distrussero la prima repubblica democratica napoletana, facendo impiccare la povera eroina nobile e il povero giureconsulto proletario. Anche grattandoci la pancia al sole, non sappiamo farlo con serietà, cioè ridendo.

Siamo troppo intelligenti. Dietro ogni angolo intravediamo oscure macchinazioni, che poi esistono per davvero e sono, spesso, esilaranti, ma noi non ce ne accorgiamo più: la loro esistenza non ci tocca nemmeno, per noi avevano valore solo quando ce le eravamo immaginate, le avevamo scoperte dietro l’angolo, in piena tetraggine analitica. Dopo, passiamo avanti, verso altre lambiccate ipotesi sulla realtà, mentre questa continua a sfuggirci. Perciò siamo tanto intelligenti, e tanto tetri. Se fossimo più vicini alle cose, se riuscissimo a uscire da noi stessi, quindi a esistere; allora saremmo sicuramente più coscienti di quanto ci sia di ridicolo e vano nella realtà stessa e in noi. E ridendo della nostra intelligenza abbatteremmo il mito della monoliticità del sapere, della prevedibilità della storia, della onnicomprensività dell’analisi.

Riscopriremmo le modulazioni della soggettività, la grande ricchezza della capacità di ogni singolo individuo cosciente di ricominciare daccapo, dal punto di partenza, la tremenda opacità dell’accumulazione. Ogni volta ci ritroveremmo come Sisifo in fondo alla valle a spingere il nostro masso in avanti, certi che il masso non è mai lo stesso, che la valle non è la stessa, che la china presenta caratteristiche sempre diverse.

Nel mito di Sisifo non c’è il senso della condanna ma quello della gioia. Il gigante gioca col dio che ha preteso condannarlo a una ripetizione eterna. Egli sa che non è possibile ripetizione alcuna, che solo il dio vendicatore crede in simili idiozie. Lui, il gigante ottuso e invitto, continua nella sua fatica rivoluzionaria. Continua e ride. È contento di avanzare lentamente sotto lo sforzo del masso che lo sovrasta, attaccando i cieli e il creato con l’ironia del suo gesto ottusamente metodico e ripetitivo. Altrove la falsa volizione diventa buio pesto e incomprensione. L’intelligenza di coloro che si sono asserviti al dio contrasta acutamente con l’ottusità del ribelle. Nel mondo dell’intelligenza dei lacchè, il gigante ottuso è il solo libero rappresentante della rivolta e della forza rivoluzionaria.

La fantasia che insegue fantasmi vani nelle nebbie delle mattinate freddolose, non sa di essere tragicamente ripetitiva. I suoi sogni sono riprodotti in serie dalla ripetitività del capitale. Non più spettacolo, ma impacchettamento e confezione. L’inventiva degli esercizi ginnici del tempo libero si orna dei crisantemi dell’obitorio mentre festeggia le acutezze muscolose della propria liturgia. Le sedi della massima espressione della libertà in catene, le voci dei cantori delle laudi del capitale, l’intelligenza militante, appaiono sempre più come stanche salmodie di cui si è ormai perso persino il senso delle parole.

E allora l’oscura ripetizione diventa lentamente coscienza di se stessa, rintraccia, a poco a poco, il sentiero nella foresta, abbatte gli ostacoli che gli si sono abbarbicati attorno. La nichilista ottusità riaffiora attraverso il grigiore di una spudorata acutezza che non ha mai avuto sufficiente acume per comprendere la propria miseria. Il rito della ripetizione produttiva trabocca improvvisamente nell’aspetto comico di questo spettacolo che ha ormai fatto calare la tela sull’ultimo atto. Proprio respingendo verso l’alto il sasso immane delle proprie fatiche fisiche e ideologiche, lo sfruttato vede accendersi la luce di un nuovo modo di comprendere la propria situazione. E ciò mentre il dio immoto e idiota, nella sua suprema intelligenza, non si accorge che sotto il gesto lento e ottuso cova il fuoco della gioia ritrovata, dell’esplosione che spacca definitivamente il rapporto di sfruttamento, che supera l’intelligenza della morte e porta alla vita sublime della libertà l’ottusità di ieri che era. si, neghittosa complicità, ma era anche forza distruttiva immagazzinata, slancio liberatorio.

Il rifiuto, la rivolta, l’accettazione dello scontro, il gesto sprezzante contro chi ci opprime, non sono mai considerati “atti intelligenti” da chi detiene il potere. Non perché questi atti attacchino il suo predominio di classe (da questo punto di vista chi detiene il potere li considera semplicemente delittuosi), ma perché non corrispondono ai canoni di ciò che il potere considera “intelligente”, “vivace”, “acuto”. Di regola, ogni atteggiamento di rivolta, ogni fatto distruttivo, ogni decisione che mette in forse lo stato di equilibrio della repressione, sono considerati atti, se si vuole, intelligenti e significativi, ma solo se si verificano di rado, se hanno il carattere della limitatezza, se sono facilmente circoscrivibili. In caso contrario, sono il segno più certo dell’ottusità. Chi si ribella una volta può essere considerato dal potere un uomo intelligente, per quanto contemporaneamente lo consideri un soggetto da perseguirsi dal punto di vista legale. Ma chi insiste nel ribellarsi, dopo essere stato punito, dopo cioè che gli è stato spiegato come il suo “gesto sia contrario a quanto in materia pensano gli altri”, allora non è più una persona intelligente, è uno stupido, un ottuso.

Ecco, Sisifo è un ottuso, egli non è il ribelle di un sol giorno, è il ribelle che ha fatto della propria ribellione il metodo di ogni momento e che ha scoperto come all’interno della ripetitività, così ben congegnata dal dio-capitale, si colloca la fonte inesauribile del comico, contro cui nessuna forza della morte può qualcosa. Egli sa che l’illusione del dio-capitale, che tutto resti come prima e che la sua fatica di ribelle sia inutile, è proprio il punto debole che porterà questo dio alla sconfitta.

Occorre però che la comicità del rapporto emerga alla coscienza, occorre che divengano intelligibili i simboli di cui è lastricato il percorso da compiere, che sono sempre diversi perché cambia sempre la realtà al cambiare dei rapporti di forza. L’intelligenza e la fantasia del tetro servitore di cadaveri non coglie tutto ciò. Per lui l’altra ripetizione, quella che si presenta sotto le forme sempre diverse dell’identico a se stesso, solo quella va salvaguardata, non accorgendosi che proprio lì il dio-capitale sta realizzando il suo massimo capolavoro: la trasformazione dello spettacolo in ripetizione all’infinito.

Ma Sisifo sa come cogliere i piccoli segni del cambiamento. E il dio-capitale non se ne accorge. E il gigante se ne ride, mentre prepara ottusamente la condizione definitiva della liberazione: il ribaltamento del mondo della morte in quello della vita e della gioia.

 


[Pubblicato su “Anarchismo” n. 32, 1980, pp. 23-24]

Postfazione del 1990

Rileggendo tutti e tre i volumi: La rivoluzione illogica, Teoria e pratica dell’insurrezione e questo: Chi ha paura della rivoluzione?, mi sembra che si possa cogliere un filo comune, un tentativo abbastanza dettagliato di costruire un’analisi rivoluzionaria che consenta un intervento nella realtà dello scontro attraverso l’impiego del metodo insurrezionale.

Mi rendo conto che le parole non bastano. Molte delle cose dette sono condivise da diversi compagni, in discussioni e confronti, ma poi, di fronte all’azione concreta, emergono le contraddizioni e i malintesi.

Tutto ciò è spiacevole, ma è umano, fin troppo umano.

Occorre tenerne conto, anche se di volta in volta si traduce in una delusione e in molteplici amarezze.

Quale il motivo? Forse la poca chiarezza? Forse l’andamento alterno e spesso deludente delle vicende di classe? Forse la paura della rivoluzione? Certamente tutto questo insieme.

C’è poi il silenzio. Io non ho nulla contro chi tace. Anzi, il silenzio può, a volte, essere più eloquente della parola. Ma bisognerebbe tacere per cosciente decisione di non parlare e non per evitare di dire stupidaggini. La paura, sotto qualsiasi forma, è sempre un fatto negativo.

Il silenzio condiziona la lettura. La fruizione diventa elemento del giudizio, l’obiettivo è quello del minore danno possibile, del minore turbamento. Qualsiasi cosa purché tutto resti come prima, dando l’impressione del cambiamento.

Mi rendo conto che alcune delle mie tesi sono poco chiare. E non tanto per motivi di esposizione letteraria, della quale, per la verità, mi sono sempre curato poco; quanto per la riprova delle condizioni reali dello scontro di classe, riprova che consente la trasformazione delle teorie in elementi esplicativi di fatti (azioni esse stesse) evitando il loro permanere allo stato di semplici presupposti analitici.

Molti di noi leggono solo quello che le condizioni oggettive in cui si trovano impongono loro di leggere. Capiscono, di conseguenza, una parte di quello che leggono. Quando i fatti li sovrastano, si scoprono in grado di capire molte cose, ma non è loro bravura, è semplicemente che queste cose sono diventate chiare di colpo. Nella marea montante costoro diventano più alti, arrivano, con lo sguardo, un poco più lontano; quando le acque si ritraggono, ritornano a non vedere. Per giustificarsi si lamentano delle altrui oscurità. Molti di noi sono portati ad attribuire agli altri le proprie limitazioni.

Poi ci sono quelli che capiscono perfettamente, ma si studiano ad arte di assumere l’aspetto di coloro che non capiscono. Costoro non fuggono nel silenzio, anzi parlano a sproposito e del vuoto delle loro chiacchiere si fanno un nascondiglio dove andare a riporre il proprio animo di bestiole impaurite. Anche da questa parte non ci si può aspettare attenzione e riscontro.

E le sfumature potrebbero continuare fino al cesello e al particolare. Ma non avrebbero senso. La pietà impedisce di andare avanti. Cosa dire di coloro che rinviano l’impegno con se stessi (prima che col proprio nemico), lo rinviano all’infinito, smarrendosi nel fare di ogni giorno, nel quotidiano sopravvivere, nell’illusione che dopo l’ultima difficoltà si ricomincia davvero e seriamente daccapo? Nulla. Forse un giorno cambieranno, forse no. Rattrista vederli come scoiattoli al lavoro.

Per il momento non sono riuscito ad andare più in là. Questi tre libri costituiscono un primo livello di approfondimento. Mettono su una serie abbastanza dettagliata di analisi e, tutti insieme, riescono a costruire una teoria insurrezionalista e rivoluzionaria.

Il resto è lavoro in corso.

Individuare il nemico

La vita e la morte

Bisogna raccogliere le forze e rispondere, rispondere all’orrido, ai cavalieri apocalittici che avanzano all’orizzonte sotto un cielo primaverile e con indumenti d’operetta: pagliacci, ballerini e perfino tute da operaio.

Bisogna armarsi e tenersi pronti a rispondere in maniera non solo adeguata, ma eccessiva. Non possiamo sghignazzare più forte di fronte alle sghignazzate di un pagliaccio, non possiamo fare una piroetta più agile di fronte alle gambe in movimento di un ballerino che segue la musica con perfetto tempismo. Né possiamo ricordare all’operaio traditore di avere rinnegato la propria coscienza di classe se non ci sono ormai da tempo né coscienza né classe.

Rispondere dobbiamo, in modo diverso.

Una volta pensavamo che il nemico avesse panni neri, segnali della morte e della battaglia fino all’ultimo sangue, oggi scopriamo che ha semplicemente il volto sospettoso e un po’ arcigno, ma solo un poco, del vicino di casa. Gagliardetti con teschi e mazze ferrate non sono più le bardature dei cavalieri che avanzano all’orizzonte e non ci sono nubi foriere di tempesta.

Non vengono avanti per file compatte, ma in formazioni sparpagliate, cioè non ricordano per nulla l’animo militare che pure dovrebbero continuare ad avere, e che forse hanno, ma che celano benissimo sotto pacche paciose e progetti condivisibili. Non è la razza che campeggia nei loro discorsi, ma soltanto la paura del clandestino, non il diverso per pelle ma chi non si mette in regola, non ha un lavoro e non accetta di sottostare alla logica del gioco: cedere il passo con cortesia agli inclusi benestanti o aspiranti tali, portare agili catene ai piedi, non farle tintinnare troppo, aspettare con pazienza che arrivino i certificati necessari per diventare “negri da cortile”, indispensabile ultima riserva dell’esercito immenso degli sfruttati.

Non le teorie adesso lasciano il segno delle frustate sulla schiena, le teorie del dominio e del segno di Dio in nome del quale vincere gli infedeli, ma la convivenza civile, le strisce pedonali, i cassonetti della spazzatura e la raccolta differenziata. Chi non entra in questo ordine di idee si è di fatto messo fuori da solo, lo faccia per un residuo di coscienza di classe (cosa che ormai ricorda più che altro le vicende tenebrose di Cappuccetto rosso e del lupo), o semplicemente perché non è riuscito in tempo a trovare un pezzo di carta che lo metta in regola con un lavoro da schiavo, non ha importanza: basta non trovarsi da questa parte della doppia linea bianca, o sei fritto.

Chi fissa queste regole se non la politica? O, per meglio dire, gli automi dissennati e sconci che rivestono cariche politiche democraticamente concesse loro dalla suprema volontà popolare? Ma com’è possibile ciò se la politica ha avuto un collasso coronarico ed è stata messa in coma farmacologico?

Difatti c’erano arrivati segnali di questa grave carenza vitale di un mostro ormai pluricentenario, una volta focoso aggressore di poteri terreni e celesti, oggi ectoplasma con difficoltà respiratorie. Ed erano segnali forti. Da ogni parte, da destra e da sinistra (si fa per dire, tanto per non perdere l’abitudine), erano arrivati segnali e certificati ineccepibili. Quindi, alla resa dei conti, al conteggio conclusivo dell’ultima pagliacciata elettorale, se di pagliacciata nel vero senso del termine si doveva trattare, non potevano che andare su i pagliacci più coerenti con il proprio canovaccio da commedianti, e giù quelli che balbettavano nella recita del nuovo copione, oppure rimanevano imbambolati tra vecchie parole d’ordine fuori del tempo (e della sostanza della realtà) e nuove condizioni, appunto pagliaccesche, capaci di accattivare lo stupido gregge dei deleganti.

Bisogna rispondere, adesso, non lasciarsi ingannare dagli atteggiamenti possibilisti, da programmi che tanto anche l’altra parte (che conta parlare di sinistra o di destra, adesso sono soltanto indicazioni per passeggiate scolastiche) poteva proporre più o meno bene, bisogna rispondere prima che anche questa residua capacità di resistenza venga soffocata dalla miseria montante.

Il disamoramento produce disinteresse, ma anche qualcosa di peggio, produce un bisogno di stornare la propria attenzione, di smettere di riflettere sui guai propri e degli altri, quello che Pascal chiamava divertissement, mandiamo tutti a fare in culo e dedichiamoci alle tante occasioni di placare la nostra rabbia: la musica, il cinema, lo sport, la letteratura e perfino la televisione. Andiamo, compagni, un governo di pagliacci e buffoni sa bene come offrirci passatempi, sa bene l’importanza dormitiva dell’intrattenimento. Lo stesso pagliaccio nano in capo è un gestore di intrattenimenti pubblici ed è certamente un genio nel suo mestiere. Possiamo fidarci.

Proviamo ad andare di fronte a qualche fabbrica, come si faceva una volta, e chiediamo agli operai, in un bel volantino mozzafiato (poche righe, per favore), perché hanno preferito il razzismo (questa volta dichiarato) leghista al tradizionale voto a “sinistra”. Se non ci picchiano subito e se non scoppiano in una risata liberatoria, la risposta potrebbe essere del tipo: ma di quale sinistra state parlando, di quale razzismo, di quali leghisti? Qui c’era qualcuno che prometteva qualcosa di concreto, qui, proprio dietro l’angolo di casa, e abbiamo dato fiducia a questa promessa. Perché avremmo dovuto darla a un pagliaccio diverso, forse perché vestito di rosso? Ma fateci il piacere, andate via prima che vi pigliamo a calci in culo.

E come dar loro torto. Anche i briganti calabresi, che combattevano contro i bersaglieri piemontesi dopo la cosiddetta unità d’Italia, accettavano volentieri gli aiuti del re di Napoli, opportunamente nascosto sotto il letto del papa, e andavano in battaglia dietro i labari delle madonne, ma solo perché ricevevano concretamente aiuti in denaro, sostegno specialistico spagnolo alla loro guerriglia e armi, mentre da Garibaldi non avevano avuto altro che le fucilazioni di Bronte e le mancate promesse di dare le terre dei latifondi siciliani e calabresi ai contadini. Lo stesso per la Vandea, perché combattere per la rivoluzione di Parigi che per prima cosa aveva messo le tasse centralizzate (prima erano soltanto locali) e la sconosciuta coscrizione obbligatoria, strumento di distruzione e fame per i contadini che non avevano più chi potesse lavorare i campi se non donne, vecchi e bambini. Questo non è un discorso giustificativo del comportamento degli operai, del cui voto non ci importa un fico secco, è un tentativo di capire qual è in questo momento la situazione.

Niente operai, niente più classe operaia (questo lo sapevamo da tanto tempo che ormai le nostre analisi sono invecchiate nel religioso silenzio delle pagine che le contengono), niente coscienza di classe, niente risposta adeguata a una certa distribuzione dei mezzi di produzione. Con buona pace di tutte le analisi di Marx e compagni, il capitale, grazie alle nuove tecnologie, ha cancellato il concetto di “crisi terminale” e reso inutile qualsiasi talpa capace di lavorare al posto nostro, cioè al posto degli sfruttati in grado di comprendere il proprio sfruttamento, di rendersene coscienti.

Se in Svizzera il primo sciopero dell’Internazionale, organizzato da Bakunin, non vide la partecipazione degli operai della “fabbrica”, cioè gli orologiai, ma solo dei manovali dei cantieri edili (tutti stranieri e precari), il motivo fu che la propaganda bakuninista andò verso quest’ultima fascia di sfruttati e non verso la prima, considerata troppo integrata e privilegiata. Sarebbe come se oggi indirizzassimo la nostra propaganda rivoluzionaria ai clandestini e ai prigionieri dei “Centri di permanenza temporanea”, per realizzare la nostra non più prorogabile risposta e non ci limitassimo a una lotta contro la reale condizione di prigionia che questi luoghi realizzano. Ma siamo diventati pazzi? Gli edili di Bakunin erano dei frontalieri e cercavano soltanto di migliorare le proprie condizioni di lavoro, non lottavano “anche” per avere la cittadinanza svizzera, della quale non sapevano cosa farsene.

Niente affascina di più il povero disgraziato, sfruttato e instabile, con famiglia a carico e un subisso di debiti perché obbligato a seguire gli ordini mediati del consumismo dilagante, del decisionismo dei governanti. Ma questa virile conferma delle doti fattive del nano maligno deve essere preceduta da un’opportuna situazione di instabilità, di insicurezza, di pericolosità: violenze nelle strade, stupri, rapine, furti, scippi, ecc., in modo particolare sulle donne, anche se poi, nell’intimo di tutti questi perbenisti con cucina economica a casa, soggiorno in laminato plastico e automobile da pagare giù in strada pronta a prendere fuoco al passaggio del primo appassionato di pirotecnica, c’è fissa l’idea che queste donne stuprate, in fondo in fondo, se la sono voluta e per l’ora, e per il luogo e perché no, perfino per il loro atteggiamento provocatorio. Quanta merda viene a galla rimestando in fondo a una fogna.

La fine della politica contrassegna l’inconsistenza di ogni politica, anche nell’epoca della sua massima significatività. Oggi che quelle apparenze sono cadute questa triste figura ha mostrato le proprie nudità decrepite. Si aprono altri orizzonti di delega rappresentativa? Forse sì, e la tecnologia potrebbe dare il suo contributo, proponendo sistemi democratici diretti capaci di ingabbiare molto meglio e molto più in fretta ogni residuo di dissenso. Le antiche palpitazioni anarchiche per la democrazia diretta e per l’autogestione, private della condizionale preventiva di autogestione della lotta, si dimostrerebbero per quello che sono sempre state: forme particolarmente raffinate di gestione adulta del potere. Il seppellimento della politica potrebbe fare sorgere necessità di lotta molto più impellenti di quelle di oggi, in un momento in cui il suo cadavere (della politica) è ancora fresco.

Mette conto parlare di quei fantocci della sinistra? Non credo, prendete per esempio un personaggio come Boselli, che nel 1977 era nel gruppo anarchico della Federazione Anarchica Italiana di Bologna e che prima della grande manifestazione dei tre giorni, di fronte al rischio di una rottura del corteo e di un assalto a piazza Maggiore dove si trovavano i parà fascisti e il cardinale di turno che celebrava una messa, si mise d’accordo con il questore per garantire la fuga incolumi dal corteo dei compagni della FAI. Una nota di colore? Forse, ma non fino in fondo. Un pezzo di merda nasce tale e così resta per sempre. E anche altri, pensate a un Manconi che nel carcere di Rebibbia contrabbanda una giornalista come sua compagna e nel chiedermi un breve incontro nella rotonda del braccio G11, dove mi trovavo, mi estorce una falsa intervista regolarmente pubblicata l’indomani da “La Repubblica”. Ma bando alle chiacchiere personali. Di questi miserrimi personaggi non vale parlare a lungo.

A chi avrebbero dovuto consegnare se stessi, nel disastro di un voto che tale resta per un astensionista come me, ma che per loro, operai da sempre, lavoratori e sfruttati dalla nascita, poteva ancora rappresentare un valore, o almeno un simbolo con una larva di contenuto? Al pusillanime Veltroni, alla volpe D’Alema, al pubblico ministero Di Pietro delle cui nefandezze giudiziarie a carico di poveri disgraziati, quando non era ancora una star giustizialista, ho tanto sentito parlare nel carcere di S. Vittore e in quello di Bergamo?

Certo, uno smagato e riflessivo anarchico, lettore di Malatesta e Galleani, potrebbe rispondermi che non avrei dovuto farmi illusioni elettorali, e non mi resterebbe che essere d’accordo con lui. Ma non è di illusioni residue di natura democratica che sto parlando in queste pagine.

Il feticcio parlamentare lo conosco anch’io, mi auguro che almeno su questo mi si faccia credito, quello che mi preme chiarire è in che modo ci sia stato un tramonto della politica senza che a corrispondergli e a controbilanciarlo sia venuta alla luce una volontà di attaccare con altri mezzi il nemico di sempre, il padrone e lo sfruttatore.

Quali sono stati gli elementi essenziali di questa mancata risposta in prima persona? Spazi di riserva? Disamoramento per le chiacchiere possibiliste e inutili della sinistra pretesa conflittuale? Parità di progetti e segnali d’ordine provenienti da qualsiasi lato? Vecchiaia inoltrata di programmi e persone? Paura dello straniero in casa? Paura del diverso che dilaga la notte per le strade e stupra e azzanna alla gola come lupo affamato? Effetto dirompente dell’iconografia del nano maligno capace del gesto taumaturgico?

Non so, non è facile dare risposte semplici e dirette. Un insieme talmente intricato e compromesso ha giocato in maniera diversa nei vari equilibri politici che si succedevano da decenni. La miseria e lo squallore generalizzati hanno creato un clima di disprezzo e di mancanza di dignità che ammette qualunque nefandezza come la cosa più semplice di questo mondo. Se la repressione può darci lo stesso pezzo di pane con un piccolo aumento di sicurezza, ebbene, evviva la repressione. Il manganello è sempre un mezzo che in fondo parla alle coscienze, quindi è anch’esso un mezzo etico anche se lascia segni sulla pelle, diceva seriamente Giovanni Gentile in una conferenza tenuta a Palermo nel 1932. Ancora oggi valido, questo ragionamento. Che queste manganellate arrivino dunque sulle teste di chi pensava che con questi miserabili, di ogni risma e origine, colore e consistenza, si potesse dialogare.

Bisogna rispondere, organizzarsi per rispondere. Il nemico non è alle porte, Sagunto è stata espugnata, il nemico è entrato dentro e dilaga.

Ma che vuol dire rispondere? Mettere insieme quattro parole come quelle con cui stiamo facendo gemere i torchi noi e andare avanti come se nulla fosse successo? Trovare una panacea sofisticata per la nostra vecchia coscienza? Andiamo, non prendiamoci in giro.

Non vuol dire nemmeno vestire le candide vesti dei custodi del tempio ideologico, dove nell’urna sacra giacciono incontaminate le nostre dichiarazioni di principio. Né ficcare piccoli stecchi di legno, opportunamente limati, nelle piaghe degli altri, quelli che continuano a dire e a fare le cose di sempre, come se la palla del mondo rotolasse sul medesimo declivio verso le gloriose sorti della realizzazione anarchica, quando che sia nel tempo.

Rispondere vuol dire per prima cosa cercare dentro la propria coscienza, se per caso non abbiamo dimenticato di fare pulizia dentro di noi e non abbiamo nascosto, come ormai mi sembra d’uso comune, nessuno escluso, la polvere sotto i tappeti. Mettere fuori, per sé non per gli altri, i propri limiti, i limiti del proprio modo di pensare, le inadeguatezze da coperta troppo corta, le ridicole paccottiglie contrabbandate per merce di prim’ordine. I salamelecchi reciproci in attesa di fare sul serio o, al contrario, i colpetti di spillo, isolati e anche in meno di pochi. Avremmo dalla nostra il privilegio di alzare la testa fuori dalla merda.

 


[Pubblicato su “Senza Titolo” n. 1, autunno 2008, pp. 12-24]

Il nano e la merce

Al di là della lettura superficiale, rapida, a volo d’uccello, il segno è matrice, punto di riferimento sufficientemente costante, che garantisce l’identificazione radicale del lettore con la propria designazione utopica. Vedo un nano e dico: ecco un nano. Sono cortese col nano, è un uomo come me, ma lui non è cortese con me, lui è malignamente intento a farmi del male. Fenomenologia del nano.

Mi fermo a riflettere, ho pazienza, io. Gradevolezza delle assonanze, ritmo non incalzante del ricordo, strutturazione pluritonale della ripetitività, non sono qualità sufficienti per incanalare la lettura. Il senso profondo di questa malignità mi sfugge. Che sia nascosto nella differenza di classe? Forse, non credo che questo concetto portante dello scontro in cui sono impegnato possa spiegare tutto, anche se spiega molto e ancora molto di più potrebbe tornare a spiegare in futuro. Nel deserto del moderno amplesso della carta disegnata, tratteggiata, baluginata, si può ricostruire, insieme, il nodulo osceno del capitale, mostro esangue che sprizza vitalità standardizzata da tutti i pori: acquisiamo, sfogliamo, consumiamo, accumuliamo, sempre pronti a ripetere l’allucinante commedia, produttori inconsapevoli e ancor meno consapevoli consumatori. Il nano giganteggia in questo malebolge. “Luogo è in Inferno detto Malebolge, / tutto di pietra di color ferrigno, / come la cerchia che dintorno il volge”.

Se il segno è matrice deve possedere una porticina angolare, nascosta al bivio tra l’assurdo e il senso, capace di fare penetrare il gioco della ripetitività per scioglierne il lessico mortale delle sue forme: operazione criptografica che corrisponde alla intellettualizzazione alienata del consumo. Che senso ha capire perché il nano mi ordina di consumare se, alla fin fine, sono proprio io che accetto il gioco e seguo le regole da lui imposte? La matrice propone il motivo; il nano è l’eterno uomo con i suoi eterni difetti, le simbologie dei suoi cosiddetti pregi, l’arco retrattile dell’umorismo che come ogni lama ha due tagli, ambedue capaci di mozzarti la lingua e non solo il respiro. Ridere, da solo, non basta – diceva Epicuro – ma filosofare, bisogna. Cosa difficile con i tempi che corrono.

Il volo dell’uccello può essere anche rapidissimo. Oggi hanno imparato a volare basso i piccoli volatili, e veloci per sfuggire al radar della doppiette, ma non sempre ci riescono. Il lettore non sa ancora volare basso, volteggia sicuro sul testo, crede di cogliere il senso, il messaggio, il contenuto, e cade centrato in pieno dal cacciatore: non c’era senso, messaggio, contenuto alcuno da cogliere, il tutto era un atroce tranello. Anche il cacciatore era falso, ma con la doppietta vera, falso era pure il campo fiorito, il pantano, il fiume, falsi siamo noi anche, che leggiamo e aspettiamo l’ultima pallottola del cacciatore.

La vicenda del nano maligno implica almeno tre cose: la visione dell’immagine contraddittoria come contenuto della coscienza ma anche come condizione collettiva – lo specchio dello sfruttamento riflette una classe disomogenea e smarrita, i quarant’anni del deserto stanno davanti o di dietro (non è facile saperlo); il suo riferimento al futuro come fantoccio per impaurire i deboli di spirito – ogni bambino teme le reazioni del suo Caraglionis; la concezione del momento storico presente come coordinazione oggettiva con il passato – le gloriose barricate, sparate compagni.

La contraddittorietà di partenza è elemento fondamentale del dispiegarsi narrativo. Il nano è nano (ma cos’è poi un “vero” nano?) solo in punta di penna, in una sfumatura, in un particolare povero e meschino, quasi avesse un suo profondo pudore ad apparire come tale.

Con l’urgenza del fare appare il feticcio della merce che propone in primo piano la contraddittorietà della coscienza, salvandone l’elemento collettivo, ma non riuscendo a inserire il rapporto ambivalente tra realtà e coscienza. Se la coscienza propone il feticcio nano come simbolo dell’uomo da niente, la realtà dell’uomo (o almeno il suo residuo) ripropone il feticcio merce come simbolo di se stesso e del nano. Quest’ultimo aspetto è lasciato alla sagacia del lettore, è ben al di là del segno, consente una fruizione ma deve essere cercato sotto una montagna di rifiuti (non in senso metaforico), ecco perché è sottolineato qui.

La contraddizione è sempre istanza in equilibrio dinamico tra due o più punti che si combattono e si accolgono, respingendosi e accettandosi. Se è ripetitiva lo è solo perché mostra il lato accessibile di se stessa, il solo attraverso cui la posso penetrare e comprendere, il lato del feticcio e della merce. Mi alzo e faccio sempre le stesse cose, ogni mattina, ogni sera. Poi, con un solo gesto, la portatrice di falce taglia alla radice, ed è subito tutto sparito. Sembra una eguagliatrice, ma non è così, almeno non del tutto. Cadono quasi sempre teste di poveri disgraziati, quando qualcuno finisce per soccombere, dopo tutto è la legge dei grandi numeri, è un giorno di festa nei piani bassi di Malebolge.

In questo senso il nano maligno non è “sogno” sciolto nella coscienza, operazione intellettualistica di un incantesimo racchiuso nel corpo del nano, che stravolge se stesso in continui tentativi tutti impotenti di uscire fuori della forma “nano” per non far altro che ripresentarsi costantemente tale e pur sempre diverso. No, è carne concreta, in disfacimento, ma per il momento concreta.

Questo incantesimo del concetto non si scioglie, anzi il contatto stesso diventa sempre meno accessibile, in una ossessione, come chi ripetendo all’infinito il suono di una parola familiare riesce a smarrirne il significato, restando in possesso di un puro suono e nient’altro.

Ma è qui la geniale trovata del pudore anti-mistico, non riportando banalmente il sogno a dato della coscienza, non sciogliendone l’incantesimo come fenomeno onirico che lascia intatta la realtà per quella che è, anche se inconoscibile (nessuno ha visto un “vero” nano maligno se non in margine al tratto, al disegno immaginato, quasi volesse scusare se stesso di essere là), il pudore ottiene il non trascurabile risultato di non introiettare il feticcio della merce a livello coscienziale e di consentirne il rifiuto. Prima di tutto siamo realisti, empiricamente realisti.

Il nano è lo sposo mistico della merce, la merce è la sposa mistica del nano maligno. Qui sta l’opus circulatorium dell’alchimia. Il matrimonio è stato consumato da tempo e non ce ne siamo accorti.

Ciò significa qualcosa di più, il sogno ripetuto, la trama che ripropone se stessa, il nano che non viene abbandonato ma che è sempre sul punto di esserlo, la minaccia continua che da quei tratti fuoriesca un uomo, un “vero” uomo maligno, nano per giunta. Con i suoi limiti e le incredibili ottusità del segno grafico nanesco, tutto ciò alimenta un desiderio, il ritrovamento del futuro come utopia del presente. La forca, scrive de Maistre, è una componente indispensabile dell’amministrazione pubblica.

È in questo inesausto tentativo globale di tratteggiare l’uomo, un “vero” uomo sia pure nano, un uomo liberato dai difetti del presente, tollerati per una qualche intuizione di risposta taumaturgica, che molti aspettano che la realtà nanesca alfine assurga alla compattezza utopica del futuro, si collochi in una dimensione collettiva di possibile fruizione. I sogni balbettano spesso, specialmente all’alba di ogni nuovo corso di gestione del potere.

Per meglio sensibilizzare questa gradualità progressiva consigliamo a tutti i leccatori in circolazione, postisi rispettosamente alle terga del nano, un diverso modo di percezione, fare venire fuori dal fumus generalizzato un nuovo ectoplasma, magari sempre sorridente, ma che almeno faccia un gesto salvifico in meno e qualcosa di concreto in più. Il feticcio della merce entra chiaramente nella coscienza collettiva, la governa e la regge, l’alleva per i decenni futuri, anche se i grandi progetti del passato, carichi di gloria e di medaglie appuntate sulla bandiera, sono acqua passata.

Parecchi segni si guardano a distanza, si accresce il senso di una conclamazione più vasta, disarmonica e coerente nello stesso tempo. Non il singolo uomo procede per il futuro, ma tutti insieme, gli adoratori del nano, uniti nella comunione del loro segno grafico, nella loro angosciata ripetitività, fuoriescono dai limiti della contraddizione coscienziale per diventare oggetti reali, molecole di un mondo in miniatura dove tutto ruota attorno al nano maligno, emettendo e ricevendo, distribuendo con parsimonia ma sufficientemente, malignità. Costruzione puntuale dell’utopia di dominio che sta mutuando velocemente tutti i difetti (e i pochi pregi) di quella presupposta di liberazione.

La carta delle sofferenze e dei difetti non duplica mai la costellazione dei tic, ma riprende la sua graduale sostanza di iter infernale, tracciato astronomico della quiete cosmica valida per tutti (non siamo forse tutti figli di Dio? fratelli uguali e liberi?), peregrinazione stellare di una cometa di segnacci che avrebbero potuto gestire un significato opposto. L’arcaico dei difetti diventa riferimento utopico a una società migliore, non certo quella della liberazione, ma migliore, una sorta di armonica ricomposizione dagli equilibri spaesati dal feticcio merce, dall’aggiunta complementare alla realtà che il capitalismo realizza con lo sfruttamento, dalla sovrapposizione alla miseria, all’umano che così, sotto il segno del nano maligno, diventa non misero soltanto ma anche miserabile.

Facendo della ripetitività il segno della comprensione, mutuo ammiccare d’occhi tra autore e lettore, essenziale condizione dell’eterno ritorno del segno allo stesso posto, ovvietà che è rigidezza del presente, faccio diventare il segno nanesco fantasma, aporia infernale, categoria dell’ascolto segnico che traduce l’arcaico del difetto e del limite umano, nell’utopico segno liberatorio attraverso l’avventura terrena della miseria.

La trasparente lettura dell’utopico è possibile, pur nella permanenza dell’arcaico, perché la ripetitività consente la visione della distruzione. Nessuno di questi segni con cui il nano è nano, quindi esiste come nano e come uomo (ma quale altra esistenza un miserabile del genere potrebbe possedere?), reggerebbe alla realizzazione dell’utopia, tutti si trasformerebbero in segni della propria distruzione, non più nano-uomo-maligno, ma nano-e-basta, timido, al di sopra del pantano. Dappertutto uscirebbero dalle nuvole, foriere di pioggia, vigorosi volatili capaci di conficcare il proprio becco nell’occhio esterrefatto dei saltimbanchi che profondavano alle terga del nano. “L’uomo ha mille aspetti, ma se ne scorge sempre soltanto uno. Il cielo è tempestoso e le acque livide, gli uccelli volano basso”. (Jean Paul).

È proprio questo il momento storico precedente alla fase del passaggio dall’arcaico all’utopico, che potrebbe consentire il raccordo tra il dato oggettivo e la rinascita della coscienza. Ci sono timidi segnali in questa direzione. Qualcuno, qua e là, comincia ad alzare la testa, a svegliarsi dal sonno e dall’incantesimo. “Ta balle, mon enfant, était une prière”. (Max Jacob). Dopo tutto, il nano veste sempre allo stesso modo e dice sempre le medesime corbellerie.

La ripetitività è un modo di essere del capitale, nel reificarsi in quanto feticcio e in quanto merce, non è l’assenza dell’oggetto, che deve potersi riscattare per l’uomo, non per il quantitativo di capitale che lo ha prodotto in quanto oggetto conducibile sul mercato, oggetto di scambio per riprodurre un quantitativo maggiore di capitale. Nessuno comprerebbe o semplicemente accetterebbe variazioni significative del nanismo codificato, tutto deve sempre essere lo stesso e apparire diverso. Chapeau al nano, bisogna riconoscerlo.

Ma il dato storico, le limitazioni e i difetti, lo stesso contenuto dell’incontro segnico, non devono essere sottratti al valore apparentemente liberatorio della soggettività, cioè non deve operarsi una trasposizione nel significato collettivo del discorso segnico, sfogarsi in questo odio nel nulla, il nano deve potersi reidentificare nuovamente con facilità, il suo sorriso deve essere sufficientemente stereotipato senza apparire stucchevole (cosa di per sé impossibile), e via di seguito.

Si tratta dell’altro lato della medaglia. Non c’è dubbio che le due prospettive si possono riassumere in una superiore contraddittorietà, quella che porta con sé il segno e la realtà, l’arcaico e l’utopico. Nella generalizzata ambivalenza di Malebolge nessuno avrebbe la sagacia di accorgersene.

Quanto accade all’autore (sarebbe meglio dire al portatore) del segno non è molto diverso da quanto accade al fruitore dal segno stesso. Mi immedesimo nel nano, la sua malignità entra in circolo nelle mie ossa, faccio malignamente quello che fino a ieri facevo agevolmente con la normale coscienza ingenua di qualsiasi imbecille che passeggia sulla faccia della terra. “Esiste l’enigma di un potere che ha superato ogni forma di potere sociale fino a diventare di per se stesso inesorabile distruzione. Il gioco delle parti si annulla in una tensione soggettiva. Nessuno, a un certo punto, riesce più a farsi una ragione delle regole del gioco”. (Wolfgang Sofsky).

È il momento della prevalenza del segno sulla realtà. Ambedue possono abbandonarsi all’attitudine del flaneur: portatore del segno (nano e nanismo), da un lato, e fruitore dall’altro lato. “Anche il dolore, perfino il dolore, può diventare una cosa nostra”. (Rainer Maria Rilke). Ognuno passeggia all’interno del proprio universo monodimensionale, nel Malebolge demoniaco sfiancato e pallido, ma usufruisce del segno-nano, si incontra con questo ectoplasma sgorbio e degradato, e si sente capace di accettare il mondo, le regole e i muri di cinta che lo circondano.

Dapprima timidamente, poi sempre più decisamente apprende a essere sicuro di sé, un imbecille che della propria idiozia si fa un punto di forza grazie all’afflato nanesco che puntualmente gli perviene come il soffio divino che dette animo alla prima creta.

Il nano si tuffa allegramente in un’acqua gelida, circoscritta, in vista di un orizzonte terreo, che appare a volte geometricamente organizzato, il fruitore lo segue con una terribile pelle d’oca. Le loro vicende si inseguono, si capiscono, da lontananze ragguardevoli a vicinanze da vertigine.

Il fruitore, meticoloso e meditabondo, non sente quasi più il bisogno di appigliarsi a qualcosa di concreto, il segno-nano è abile, sicuro, sembra inchiavardato bene a qualcosa di materiale. La saldezza dall’ambito sovrastrutturale domina il fare quotidiano e l’utopia, insieme pervengono alla comune accettazione del processo globale. Gli schermi proiettano all’infinito la duplicazione delle immagini: il nano è la merce e viceversa.

Da questo momento la lettura ridiventa percorso in comune, non più avventura contraddittoria, ma riappacificazione per parti, per sezioni, per simboli, per singoli momenti, per feticci. Diventa anticamera del più grande feticcio, quello dell’addormentamento generalizzato. Ribellarsi è da stolti, essendo nelle mani di un simile condottiero, nano ma gigante nello stesso tempo, ecco la conclusione che vogliono metterci sotto il naso.

Il nano e il fruitore si ritrovano insieme nel grande relitto del mondo. Dallo sfondo del loro passeggiare insieme, per itinerari diversi e ora straordinariamente coordinati, emerge il suggerimento cristallizzato nell’arcaica brutalizzazione di un avvenimento antropofagico e ognuno sa che nano non mangia carne di nano. L’istanza didascalica è troppo facile e scoperta, ben diversa dall’astrattezza assonnata del “Dio nano”.

Non per nulla il segno è più sicuro di sé nei tratti distintamente specificati dei commensali osceni che lo circondano, mentre nell’imbracciare la folgore non può non nascondere un certo imbarazzo. Ognuno ha i suoi limiti, perfino un tratto di penna.

L’azione coordinata nano-estatico-imbecille insiste per costruire attorno all’oggetto di gesso (il nano in questione, in fondo, è una finta pipa di gesso, oppure la trota gigante di Jerome K. Jerome) un contenuto pragmatico. Perché diavolo qualcuno comprerebbe l’immagine di un nano maligno?

L’acquirente, nel mettere mano alla tasca, si dovrebbe chiedere, da buon padre di famiglia, se non da illuminato e volonteroso raddrizzatore di torti, a che gli potrà servire un segno-nano del genere? Eppure la stessa assenza di contenuto pragmatico cospira in modo demoniaco contro ogni possibilità di una vera e propria risposta concreta. L’angustia del tratto (in fondo, poche linee) fa pregustare l’immaginazione che continui il segno al di là del limite grafico raggiungibile.

È la fantasmagoria che viene fortemente contrastata dalla prospettiva pragmatica dell’attesa mercantile, dal corrispettivo del feticcio-merce.

Oltre la fruizione immediata e ovvia di un territorio dell’usato, commercio abitudinario tra mercante e compratore, tra standardizzato ideatore di battute per nani maligni e allenato fruitore di immagini oscene, oltre l’ambito circoscritto della piazza del mercato, del trasporto colossale del capitale, delle operazioni di reificazione che sbocciano nel campo mortale dello spettacolo produttivo, oltre la codificazione segnica e l’angosciosa icona della differenza perduta, oltre tutto ciò esiste pur sempre qualcosa di diverso; l’attuazione della fantasmagoria come categoria oggettivamente attinente alla storia, preparazione obiettiva e concreta della coscienza sostitutiva dei fantasmi del passato, ormai disfatti nella polvere dei ricordi. Il nano svolge il suo compito di ponte di collegamento tra oggetto e contenuto della coscienza. Non lo sa, né lo possono sapere gli imbecilli che gli fanno da coro attorno, ma questo pericolo esiste, ed è concretamente serio. Bisogna intervenire per rompere qualsiasi concordantia oppositorum.

Non metafore sostitutive, ma immagini concrete: distruzione e morte.

 


[Pubblicato su “Senza Titolo” n. 1, autunno 2008, pp. 36-53]

Abiti e idola

Indosso gli abiti per coprirmi (freddo, pudore, e tutto il resto), ma non mi sono spesso posto il senso di questa parola, che vuol dire “abito”? Anche mettendo da parte i significati scientifici e quelli letterari resta la derivazione da habitus, parola latina semplice che però non ha nulla a che vedere con i vestimenti, piuttosto significa aspetto, contegno. In altre parole ha un lato attivo e uno passivo. Mi do un contegno indossando un abito, per gli altri assumo un aspetto a cui l’abito che indosso non è estraneo.

In molte cose che facciamo indossiamo i panni che riteniamo adatti, quest’abito sì, quello no.

Molti hanno una loro profonda filosofia composta da una serie di sottodistinzioni, produttrice di stati d’animo che consentono di affrontare più o meno bene quello che devono fare e, in questo modo, l’abito è una protesi che li aiuta e li sorregge nelle debolezze quotidiane comuni a tutti. Estremizzando la cosa, penso siano pochi coloro capaci di andare a comprare il latte con cilindro e marsina.

E gli idola, che cosa sono gli idola? Sono oggetti o immagini a cui si attribuiscono caratteristiche e poteri divini, quindi costituiscono un riferimento per la nostra necessità di ammirare qualcosa di favoloso e di fuori del normale. Non ci aiutano certo ad avere una immagine corretta della realtà che ci circonda e, in ultimo, derivano dalla parola greca eídolon che sta per simulacro.

“La qualità è qualcosa che va al di là delle concezioni oggettiva e soggettiva, perché non risiede solo nel mondo materiale o solo nella mente. La qualità è una terza entità, indipendente dalle altre due, è il punto in cui soggetto e oggetto si incontrano. Essa è un evento tramite il quale il soggetto prende coscienza dell’oggetto, in quanto gli oggetti creano nel soggetto la coscienza di sé. La qualità è l’evento che rende possibile la coscienza sia dell’uno che degli altri. Questo vuole dire che la qualità è causa del soggetto e dell’oggetto, non viceversa. Questa è la rivoluzione copernicana. Non sono il soggetto e l’oggetto a determinare la qualità, ma è questa a determinare gli altri due, perché è realtà primaria, esistente prima di quella intellettuale, che è invece secondaria”. (Robert Maynard Pirsig)

Mi do un contegno quando non sono certo di quello che devo fare, di come devo affrontare un problema, vesto cioè un abito di prudenza, di attesa. Poi mi appello al mio essere uomo, cioè appartenente a una specie che condivide, più o meno, certe paure e certi accorgimenti per fare fronte a queste paure. Sono, in questo modo, in balia di quello che ho sperimentato, letto, studiato e perfino capito. In genere molto poco. Poi il mio contegno cambia, mi metto un abito diverso, affiorano le paure mie, personali, non quelle della mia specie, ma proprio quelle più oscure e intime, che non confesso neanche a me stesso, e che di regola annego nell’idolo che accetto perché comune a tutti gli altri. Questo secondo idolo è quello della spelonca, quello che sta chiuso dentro di me, a cui officio un rito con gli abiti adatti (non necessariamente pantofole e pigiama). Ma le cose possono diventare anche più difficili, posso essere costretto ad assumere un contegno idoneo a parlare con gli altri, qui occorre un abito adeguato. Imparo così a diventare eloquente, sono capace di impressionare l’ascoltatore, mentre davanti ai miei occhi si materializza un idolo ancora diverso, quello della paura di sbagliarmi nella comunicazione, nell’uso della parola, nel mio stesso collocarmi come figura attiva nel foro, dove gli occhi aguzzi di tutti sono in grado di penetrare attraverso i miei contegni (non necessariamente l’abito del rivoluzionario è qui sufficiente a coprire le mie nudità). Se la paura si allarga ancora, ripiego sull’abito dell’attesa, declino agli affabulatori il contatto con l’idolo del teatro, quello che mi aiuta ad addormentare la mia paura raccontandomi favole e storielle letterarie più o meno degne di questo nome.

“Per interpretare l’esperienza, la nostra cultura ci consegna un paio di occhiali mentali nelle cui lenti è incorporato il concetto di primato dei soggetti e degli oggetti. Se uno si mette occhiali un po’ diversi, o se, dio l’aiuti, rinuncia a usare gli occhiali, la tendenza naturale di quelli che continuano a portarli è di considerare le sue affermazioni quanto meno stravaganti, se non addirittura folli”. (Robert Maynard Pirsig).

Da questa lunga metafora del grandioso lavoro simbolico di Francesco Bacone si ricava un’importante riflessione: sono inseguito dalla paura, mi copro e costruisco idoli di riferimento perché sono inquieto e tremo di paura. Più alzo la voce e indosso abiti adeguati al combattimento e più, quasi sempre, sono soltanto un cialtrone. “Il martellar de la maggior campana / fe’ più che in fretta ognun saltar dal letto, / chi diedesi a l’arma, e chi balzò le scale, / chi corse alla finestra, e chi al pitale”.

La realtà sociale che ci sta davanti è abbastanza nota, anche se occorre continuamente tenerla sotto controllo analitico. La studiamo, l’analizziamo, ne separiamo i singoli componenti contraddittori, ne approfondiamo le contraddizioni. Ed è un lavoro che ci tiene molto occupati.

Nello stesso tempo, con l’altro occhio, quello intimo, il terzo occhio di Śiva, guardiamo a quello che accade nel cortile vicino, quanto stanno chiocciando le chiocce, e in che modo, se sono nati pulcini, se c’è qualcuno che sta allevandosi una cresta più alta del solito, se qualcuno starnazza e saltella fuori del seminato (metaforicamente da noi preventivamente contrassegnato). Questo terzo occhio, contrariamente a quello che si crede, non è l’occhio della saggezza e nemmeno quello della compassione, è un occhio strabico e assetato di sangue, implacabile, non aspetta altro che di essere cosparso della polvere delle pire dove qualcuno è stato bruciato. Un nemico? Non lo so.

In ogni caso questa osservazione, due o tre occhi non bastano, non si conclude mai, non si passa spesso dal fare all’agire, quasi sempre si resta nel chiocciare di gallinacci. Ma ciò non dipende da una nostra paura, che questa l’abbiamo più o meno esorcizzata con il ricorso a uno qualsiasi degli idoli visti prima, e poi il mio abito non è forse quello di cerimonia, naturalmente di cerimonia funebre? Dipende invece dalla chiamata alle armi. Non quella che una volta richiedeva la cartolina rosa, ma dall’iniziativa repressiva del potere.

Faccio tre esempi e non li metto né in ordine di pregnanza rivoluzionaria né in ordine temporale né in ordine di agibilità partecipativa: la lotta contro l’alta velocità, l’emergenza rifiuti, la condizione dei prigionieri nei “centri di permanenza temporanea”. Uso termini non miei, ma mutuati da quello che l’opinione corrente fornisce dietro ordine del potere. Comunque, penso che ci si intenda.

Ma non aspetto, fremo sui miei piedi, come facevano i vecchi corridori motociclisti quando dovevano prendere la rincorsa a piedi prima di balzare in sella non avendo la messa in moto a bordo. Fremo e aspetto. Sono un cavallo di razza, io. Anzi, per essere più sicuro di non perdere nemmeno un colpo, mi metto d’accordo perché chi ha l’orecchio più affinato su un qualsiasi problema repressivo posto sul tappeto dallo Stato mi avverta, consentendo lo scatto automatico dei garretti.

Ma io, anarchico, ho dalla mia una carta vincente. Ho il mio abito (quello del rivoluzionario, per l’appunto), ed ho anche i miei “idola fori”, i miei idoli che mi vengono incontro per permettermi di comunicare agli altri il mio progetto, opportunamente chiuso nelle mie sacre carte e sperimentato in maniera ineccepibile da tanto tempo.

Se ci sono le masse io, anarchico, so che queste di fronte al problema specifico che li opprime e li soffoca si muoveranno immancabilmente nel modo che ho trovato descritto nel mio progetto. Non può essere diversamente, dentro di me ci sono gli “idola specus”, gli idoli della caverna, che sono soltanto dentro di me, che mi garantiscono questo rapporto intimo, inevitabile come una sbronza dopo aver bevuto.

Ebbene, e se le masse non ci sono? Se tardano a venire? Se si sono arruolate, appunto in massa, nelle fila tanto promettenti del nano maligno?

Io penso che in questo caso né il progetto diventa per forza di cose inconsistente e quindi inapplicabile, né il mio agire viene bloccato una volta per tutte.

Vogliamo provare a riparlarne? Chiudiamo, sia pure per qualche tempo, l’assetato occhio di Śiva.

 


[Pubblicato su “Senza Titolo” n. 1, autunno 2008, pp. 72-79]

Elogio della divisa

“Meglio che non ci rubino niente: almeno così non si avranno guai con la polizia”. (Karl Kraus).

Senza la polizia niente Stato. Se per i teorici della democrazia quest’ultima è il punto di arrivo della massima estensione possibile della mia libertà di fronte al rispetto per la libertà concretamente identificabile degli altri, questo punto di arrivo porta i contrassegni del poliziotto.

Non c’è figura istituzionale dello Stato, dal presidente della Repubblica all’ultimo vigile urbano di uno sconosciuto paesetto, che non comprenda in sé, avvolto nella carta trasparente delle chiacchiere ideologiche, l’autorità del poliziotto. Ciò è chiaro riflettendo sulla protezione legale, via via sempre più sfumata ma mai inesistente, di cui queste figure godono. Non posso sbeffeggiare né il presidente della Repubblica né il più rimbambito dei vigili urbani senza trovarmi ad affrontare un giudizio in tribunale in base a un articolo del codice penale.

Il fatto è che perfino il conducente di un autobus (incaricato di un servizio pubblico) gode di una certa protezione istituzionale e mette così in mostra, visibilmente, un piccolissimo lembo di divisa poliziesca.

Lo Stato odierno, il più democratico degli Stati odierni, dove tutti gli uomini politici si riempiono la bocca quotidianamente con parole di libertà, è sempre uno Stato di polizia.

“L’uomo è un animale stupido”. (Nicolas Chamfort).

La vecchia definizione di “Stato di polizia”, basata sull’esistenza di leggi che sospendevano i “diritti” dei cittadini per un certo periodo di tempo o in certe occasioni, regge ancora oggi. Queste sospensioni e questi divieti esistono ancora, e ognuno si sente sottoposto a indagine dal primo momento in cui è avvicinato da un poliziotto (di qualsiasi genere).

Ora, non c’è uomo che, investito da un potere qualsiasi, non si trasformi. L’autorità che quel potere conferisce secerne il peggio di ogni uomo, fa venire alla superficie la miseria aggressiva che la stupidità e la vigliaccheria tengono sommersa quasi sempre per paura. La divisa funziona come segnale per gli altri: “attento, io sono un’autorità e, in base a questa investitura sacra, non solo sono intoccabile, ma sono anche autorizzato a sottoporti a indagine”. Ma questo straccio e i relativi, ridicoli, ammennicoli che lo identificano con maggiore precisione, ha anche una conseguenza funesta su chi lo indossa: mette alla luce quella vigliaccheria e quella miseria di cui dicevamo prima, e le avvolge in una sorta di crescendo di stupidità che quasi sempre impedisce al buonsenso e alla intelligenza (anche i poliziotti, sebbene raramente, possono possedere qualche residuo di quest’ultima qualità non proprio comune) di ostacolare quel crescendo. Se il comune imbecille, privo di contrassegni, ha bisogno quasi sempre di dire: “lei non sa chi sono io!”, per affermare se stesso, l’uomo in divisa non ha questa necessità, la divisa parla per lui.

Prendete adesso un esemplare qualsiasi di uomo in divisa, e nella mia ormai lunga vita ne ho conosciuti a migliaia. I migliori fra essi, e debbo ammettere di averne individuati una manciata, seppure capaci di frenare gli istinti bestiali che il proprio lavoro metteva in moto, erano tutti, e ne convenivano discutendo con me, che riuscivo a stringerli di fronte alle loro responsabilità, dei vigliacchi. Quasi sempre vedevano l’ignominia attorno a loro ma non muovevano un dito per non perdere il lavoro e la pensione. Guardando da un’altra parte, questa cosiddetta elite intelligente e di buon animo era quindi anche peggiore del bruto picchiatore nel buio di una stanza appositamente attrezzata.

Ma che conta parlare dei pochi di fronte ai molti?

Il massacro “portoghese” (definizione data da un funzionario di polizia) a cui abbiamo assistito a Genova nel 2001 in occasione del G8 non è stato che la messa in scena, a livello un poco più ampio e meno camuffato, di una pratica che coinvolge la totalità dei poliziotti.

“Solo due cose sono infinite, l’universo e la stupidità umana, e non sono sicuro della prima”. (Albert Einstein).

Con il termine “poliziotti” intendiamo tutti coloro che indossano una divisa militare o paramilitare, esercito, carabinieri, finanza, polizia, polizia penitenziaria, vigili urbani, guardie private, ecc.

Non molti sanno che in tutte le stazioni di carabinieri, in tutti i commissariati di polizia e in tutte le caserme di qualsiasi tipo, esistono attrezzi e stanze speciali dove si custodiscono, pronti all’uso, strumenti di tortura adeguati a fare “parlare” coloro che in vista di dare fondamento alle “indagini in corso” si trovano nella disgraziata situazione di affrontare questa prova. Nessuno pensi che si tratta di “vergini di Norimberga” o fruste medievali, basta un sottopancia di cavallo in cuoio, un grosso secchio pieno d’acqua sporca, uno strofinaccio umido, un elenco telefonico e due mani robuste. Non ci sono indagini che non sono sostenute da opportuni ammorbidimenti.

Chi scrive ne sa qualcosa.

Quando a questi cani alla catena viene allentato il guinzaglio, in altri termini quando chi sta al governo manifesta chiari segni di strette autoritarie, le peggiori attitudini sadiche si manifestano subito e si innesta una sorta di moltiplicatore che spesso arriva agli estremi. Dietro i campi di sterminio nazisti ci stava un meccanismo teorico e di propaganda vastissimo che aveva reclutato i migliori cervelli fra gli scienziati tedeschi dell’epoca.

Ma, nel suo piccolo, ognuno fa qual che può.

Fra le tante torture che ho subito, mi ha fatto particolare impressione la presenza di due donne nel corso del “trattamento”, durato undici ore, che è stato adottato nei confronti miei e del compagno che era con me, dopo l’arresto per la rapina di Bergamo, nel febbraio del 1989, nella locale questura. È stata l’unica volta in cui ho visto delle donne presenti in situazioni del genere. La parità dei sessi, anche vent’anni fa, era a buon punto.

In nome della democratica repubblica.

 


[Pubblicato su “Senza Titolo” n. 2, inverno 2008, pp. 14-18]

Un treno, alla stazione di Napoli

“Io lo so che parlo perché parlo, ma è pur necessario che se uno ha addentato una perfida sorba la risputi”. (Carlo Michelstaedter).

Circa cinquecento sostenitori della squadra calcistica di Napoli intenzionati, e opportunamente organizzati, ad andare a Roma per la partita, qualche mese fa si sono trovati alla stazione della loro città senza la possibilità di partire. Nessuno si era preso la briga di approntare un treno speciale e la maggior parte di questi bravi ragazzi non si era nemmeno curata di pagare il biglietto.

Che fare? Nessun problema. La consistente massa di delusi, punti nel vivo della propria passione domenicale, ha espropriato un Intercity in attesa di partire, cacciato in maniera non certo cortese i viaggiatori di già a bordo regolarmente, questi sì, muniti di biglietto, ha preso posto sul convoglio e ha obbligato i dirigenti della stazione a farla partire per Roma provvedendo, nel frattempo, a danneggiare tutti i vagoni per qualche centinaio di migliaia di euro.

La faccenda merita una riflessione.

Diciamo subito che dei biglietti fatti e non fatti non ce ne importa nulla, come nulla ci dicono le lamentele dell’amministrazione ferroviaria per i danni subiti dal mezzo di trasporto: a ognuno il suo modo di vedere le cose. Ben altri problemi presenta un fatto del genere.

Del disagio dei poveri passeggeri ci importa ancora meno, anche se nel caso ci fossimo trovati a bordo, costretti a cedere di fronte alla violenza di questi giovanotti armati di spranghe, ci saremmo trovati anche noi parecchio in difficoltà. Ma non è ancora qui il punto su cui vorremmo richiamare l’attenzione.

Ora, ci chiediamo, Napoli è una delle città più sotto tutela di forze dell’ordine e, adesso, perfino di forze dell’esercito in perfetta tenuta mimetica. Come mai, anche un solo tentativo di impedire quell’esproprio non è stato fatto, ma si è lasciato non solo partire il convoglio (cosa che come ognuno sa richiede la collaborazione e l’assenso di parecchi funzionari delle ferrovie), ma gli è stato fatto fare l’intero percorso fino a Roma? Come mai si è lasciato che queste persone distruggessero quasi totalmente le attrezzature di viaggio del treno stesso?

E qui sorge palmare un’evidenza: lo Stato non ha potuto affrontare in modo militare la situazione. Ma come, ci si chiede, uno Stato, dotato di mezzi militari non trascurabili dichiara forfait di fronte a una sfida di questo genere? Come mai non circondare la stazione e attaccare con strumenti antiguerriglia questi cinquecento campioni del “fai da te”? Non si poteva evacuare la stazione, circondarla con carabinieri e poliziotti in tenuta da combattimento, e dichiarare guerra a oltranza?

Evidentemente non si poteva.

“Nichilismo, cinismo o stupidità, queste sono le alternative politiche del nostro tempo”. (Nicolás Gómez Dávila).

Qui interviene la nostra “interessata” riflessione. Perché non si poteva? Quando un numero non molto elevato (cinquecento sono sì una bella forza d’urto messa in campo, ma non sono certo un movimento insurrezionale in atto) di persone, deciso a ottenere qualcosa contro la volontà delle forze dell’ordine preposte a mantenerlo quest’ordine, si muove, non lo si può fermare senza scatenare una violenza che poi non è facile né gestire dentro limiti politici accettabili sul posto, né successivamente fare passare in ambito politico dentro il paese e all’estero, visto che lo Stato italiano è costretto a esibire continuamente, di fronte a censori non certo benevoli, la propria legittimità democratica. Si è preferito soprassedere, fare finta di niente, lasciare sfogare lo scontro immediato e violento, fare in modo di controllare a distanza, rinviare a un momento migliore, quando la vis originaria si sarebbe spenta per autoconsunzione.

Anche questa è certamente una scelta politica, ma denuncia uno dei limiti della “forza” statale. Non può dilagare, questa forza, senza mostrare quegli aspetti orripilanti che si sono visti a Genova nel 2001 e che continuano a mettere in subbuglio l’animo di benpensanti, di certo non desiderosi né di disordine né di attacchi contro la polizia.

Si potrà rispondere che si è preferito scegliere la linea morbida visto la caratteristica estemporanea e non rivendicativa a lungo termine (ad esempio, manifestazioni per ottenere scelte diverse da parte governativa o per problemi di lavoro, di ambiente, di salute, ecc.), oppure perché semplicemente si era impreparati trattandosi di qualcosa di imprevedibile. Obiezioni inconsistenti. Non dico che sul piano puramente militare lo Stato non possedeva in quel momento una forza adeguata all’affronto subito, dico soltanto che la valutazione “politica” delle conseguenze di uno scontro condotto secondo le regole, appunto militari, e condotto fino in fondo, hanno fatto scegliere la linea morbida dell’accomodamento.

Riflessione aggiuntiva e ancora più importante: per uno Stato che si appresta a stringere su tanti aspetti della convivenza civile, della sopravvivenza e dell’economia, per uno Stato che intende andare incontro a una gestione autoritaria della cosa pubblica, sarà sempre più indispensabile inoculare nell’opinione della gente la necessità, di fronte a qualsiasi manifestazione di dissenso, anche in maniera più organizzata di quella dei tifosi napoletani, e anche riguardanti argomenti ben più pregnanti e significativi per la vita sociale di tutti, di stringere e di ricorrere alla violenza repressiva più estrema. Il regime autoritario che stanno costruendo passerà anche attraverso la correzione di sbavature come questa, di per sé poco significanti, ma indicative di una debolezza che nessun autoritarismo può tollerare.

Creando una maggiore familiarità con un clima autoritario generalizzato, cosa che è in corso di realizzazione, si potranno mettere in campo quei moduli di intervento repressivo militare (adesso perfino l’esercito è a portata di mano), con un disturbo più ridotto dell’immagine democratica.

[Pubblicato su “Senza Titolo” n. 2, inverno 2008, pp. 28-32]

Contro tutti i vedovi inconsolabili

A tutti è venuto a mancare qualcosa. La vedovanza è condizione generalizzata.

La sinistra si è persa per strada i suoi ideali. Quali ideali? Forse quelli dei massacri staliniani o di Pol Pot? No di certo. Forse quelli di una socialdemocrazia che sempre di più non aveva di sinistro che lo stridore dei propri denti di fronte allo strapotere capitalista? No di certo. Forse il balbettio di qualche frangia sindacale, subito zittita dalla voce grossa del padrone di turno? No di certo. La vecchia talpa ha smesso di scavare.

La destra si vergogna dei suoi trascorsi come un gatto scoperto con la zampa nella marmellata. Cerca di ripulirli. Il Duce sì, le leggi razziali no. La croce celtica sì, il saluto romano no. Roba da morire dal ridere. I pagliacci recitano tutti a soggetto, e ve ne sono di quelli più ridicoli di qualsiasi copione.

Il centro non ha titolo per nulla, ingoia velocemente pillole politiche rivitalizzanti, ma si nutre in fondo dell’olio della vecchia balena bianca.

“Rimbambiti cavalli e cavalcatrici oscene, pagliacci che non fanno ridere e giganti sbracati. È il trionfo di una materia fecale, graveolente, sdrucita, linguisticamente degradata, non una festa di gente, ma il berciare d’una muta di diavoli, pazzi, sozzi”. (Carlo Emilio Gadda).

Considerazioni di bottega che valgono poco o niente. Stiamo sprecando il nostro tempo, e la nostra carta (per altro costosa). E ci è stato anche detto, bacchettatori inveterati se ne trovano dappertutto.

Ma vi suggeriamo di non abbandonare la lettura. Forse qualche cosa da dire l’abbiamo e perfino qualcosa di interessante.

Perché piangono questi vedovi inconsolabili? Per le prebende perdute (alcuni)? Non tanto, in fondo non è nemmeno questione di soldi. Per non potere dare libero sfogo al proprio nazionalismo da quadrivio (altri)? Non tanto, in fondo la faccia di un politico di destra (non è vero sig. Fini?) è come quella del proprio culo, specie quando fa visita con la kippah in testa alla sinagoga di Gerusalemme. E allora?

“I tiranni, saziata la loro ferocia, diventano inoffensivi. Tutto rientrerebbe nell’ordine se gli schiavi, invidiosi, non pretendessero anch’essi di saziare la loro. È proprio l’aspirazione dell’agnello a farsi lupo la causa di gran parte degli avvenimenti. Coloro che non possiedono zanne sognano di averne, vogliono divorare a loro volta e ci riescono grazie alla bestialità del numero”. (Emil Michel Cioran).

Tutti piangono perché non possono, ciascuno a loro modo, e tutti con diversi ma parimenti considerevoli danni, occuparsi dell’“uomo”.

Per carità signori, verrebbe da gridare loro, lasciate in pace questo povero “uomo”, non vedete che non riesce a difendersi dalla feroce e spietata guerra di appropriazione che le ideologie di ogni genere gli hanno scatenato contro? Il colpo più terribile gli è stato inferto adesso, proprio in questi ultimi anni, per mano dei sacerdoti laici (e non) della democrazia. Tutti vogliono prendersi cura di lui, dei suoi problemi, assicurargli un futuro migliore, proporgli un valore assoluto (abbasso il relativismo!), indicargli un obiettivo, uno scopo per cui è degno trascorrere la propria vita al servizio di qualcosa. Tutti sono in preda a una ipersensibilità umanitaria che stomaca, tutti sono diventati professori di morale che aborriscono qualsiasi istante di sosta, qualsiasi momento di respiro libero (o quasi-libero). Tutti hanno a cuore la comunità (ma quale?), tutti cercano di raggruppare quanta più folla è possibile (manifestare, prima di tutto, impadronirsi della piazza per far sentire a tutti la propria idiozia fino in fondo), tutti conteggiano un’oscena proliferazione continua e la mettono in avere del proprio libro paga.

Gli uomini dovrebbero essere liberi, e sono in catene. Tutti si occupano di verniciare queste catene, nessuno cerca di spezzarle.

Scusate se saltiamo di palo in frasca, tanto per mettervi a vostro agio. E gli anarchici?

Gli anarchici, udite, udite, anche loro si sono comprati barattoli di vernice invece di procurarsi candelotti di dinamite. A quanto sembra, visto che non mi sembra di sentire detonazioni, con questa vernice stanno facendo brillare a nuovo le catene dell’“uomo”, e ci si mettono d’impegno. Forza compagni, ancora un poco e sarete perfetti verniciatori, le ossa di Andrea Costa sobbalzeranno di contentezza nella tomba. Il fatto è che anche gli anarchici, da perfetti umanisti, hanno a cuore il destino dell’“uomo”. L’anarchia sarà (o no?). E se sarà, se il gran giorno arriverà, sia pure improvviso, bisognerà essere pronti a compiere l’ultimo passo, quello che metterà finalmente allo scoperto la bontà “naturale” dell’uomo. Il fiore più bello della serra alla fine sboccerà incontaminato sulla terra libera dall’oppressione e dallo sfruttamento. Ognuno si balocca come vuole. Ci sono ancora bambini che credono a Babbo Natale.

Torniamo al palo e abbandoniamo la frasca.

Non posso guardare in faccia l’internazionalismo proletario senza pensare ai massacri staliniani, non posso sentire le stupidaggini del sindaco di Roma sulla croce celtica senza pensare ai campi di concentramento dei nazisti, ai milioni di ebrei, zingari, omosessuali, handicappati, donne, bambini e vecchi messi a morte con uno dei sistemi più efficienti che la storia ricordi e con la collaborazione dell’americana IBM.

Dietro questi massacri non c’erano aberrazioni passeggere, transitorie concessioni a tesi filosofiche irrazionali, rifiuto di prendere in considerazione l’“uomo”, al contrario, c’era tanta, ma tanta riflessione filosofica e tanta “ragione” al lavoro. Mai come in questi due casi, che storicamente sono sembrati lontani e antitetici tra loro, la ragione è stata chiamata all’opera e l’intelligenza scientifica russa e tedesca messa al lavoro.

Quello che spingeva gli stalinisti e i nazisti ai grandi massacri era una profonda preoccupazione per il futuro dell’uomo. Può sembrare paradossale ma questa tesi, assolutamente documentabile, spiega due cose: da un lato la volontà di costruire l’“uomo nuovo”, dall’altro la volontà di difendere a qualsiasi costo questa costruzione contro le presunte forze intenzionate a impedirla.

Cominciamo dalla strada in salita. La rivoluzione russa, per mezzo di Lenin, aveva indicato la necessità di distruggere la borghesia, e questo va bene. Ogni rivoluzione che agguanta il potere sviluppa la sua violenza prima di tutto contro i suoi nemici. Ma dove si ferma se gli insetti nocivi da distruggere sono tutti sterminati? Dove va a cercare altre sanguisughe? Dove altri scorpioni? (Sono tutte parole di Lenin, non di Stalin). La mano passa prima di tutto all’epurazione degli stessi rivoluzionari. Il processo di essenzializzazione si radicalizza. Non tutti hanno la medesima visione dell’“uomo nuovo”, ed è bene che questa visione non si frammenti. Chi vince alla fine è la monoliticità della dittatura. La posta in gioco è troppo alta, non si possono fare concessioni né ai vecchi pidocchi né ai nuovi.

“La neve cadeva e non aveva presa sulla terra intrisa di sangue. I destini umani non sono benevoli”. (Anton Cechov).

Con il passare del tempo l’internazionalismo proletario diventa un paravento per regolare i conti prima e per uniformare la società dopo. L’umanesimo è quello delle fucilazioni di massa, delle città svuotate da Pol Pot, dei genocidi e dei milioni di teschi raccolti a dimostrazione di dove può condurre l’ideale di libertà posto in mano ai carnefici garantiti da un qualsiasi Stato.

E poi, la strada in discesa. La patria, il sangue, la famiglia, Dio. Il nuovo popolo ariano da costruire, l’ideale nazionalsocialista, sposato da milioni di persone, diffuso, studiato, approfondito, propagandato senza vergogna ai quattro venti, considerato come la nuova filosofia per l’uomo forte e sano, prodotto dagli studi sulla razza e dagli esperimenti di eugenetica. Quasi tutti gli scienziati tedeschi, salvo pochissime eccezioni, lavorarono al progetto di sterminio dei subumani: ebrei prima di tutto. Il progetto intendeva costruire l’“uomo nuovo”, libero alfine dalle contaminazioni razziali, la “razza del futuro”, capace di estendersi a Est, per ridurre i popoli slavi in assoluta schiavitù, per farne automi da lavoro.

“Adesso dilaga l’inquietante razza degli spettri”. (Amleto).

Nel mezzo la scelta democratica: i bravi perbenisti che si fanno gli affari propri e, tra un guadagno e l’altro, tra una prebenda azionaria e un gettone di presenza, propongono ai poveri di tutto il mondo, ai popoli che gemono sotto le dittature, il proprio modello di governo, come se questo potesse andare bene dappertutto, come se fosse la soluzione per mettere finalmente in atto, portandolo alle estreme conseguenze, il progetto dell’“uomo nuovo”. Questa soluzione, che molti considerano la migliore, è anch’essa foriera di guerre, massacri e genocidi. Per carità, con le migliori intenzioni umaniste.

Il comunismo autoritario (stalinismo, per intenderci, ma non solo) non è certo, in questo momento, dietro l’angolo. La soluzione democratica sta prendendo sempre più piede e studiarne i pericoli non è semplice, anche per il particolare rapporto che intreccia e continuamente modifica in corso d’opera con il capitalismo internazionale. La globalizzazione è una forza repressiva di natura economica (il vecchio imperialismo ha mutato pelle ma non sostanza) che utilizza la democrazia come processo politico, quindi di supporto per il reperimento del consenso e per la gestione delle sbavature. Le difficoltà di questo processo, tutt’altro che definitivo, che continuamente subisce colpi tremendi dalla gestione internazionale unificata dello sfruttamento e del latrocinio finanziario, può rendere sempre più urgente il ricorso alle politiche di destra, in altre parole a una forma più o meno ammodernata di fascismo.

Ma veniamo alla destra, veniamo al fascismo che rischia di non rimanere nei libri di storia come una parola di otto lettere. Il fascismo rialza la testa, se si vuole in modo grottesco e farsesco (ma non è stata sempre una delle sue caratteristiche?). E sta bene, concordo, non chiamiamolo fascismo. Chiamiamolo “nanismo” o “imbecillismo” o “mimetismo politico”. Ma in qualche modo bisogna chiamare questo continuo messaggio che viene rivolto a tutti gli imbecilli di questo mondo che vivono nell’illusione di essere portatori di valori esclusivi, assoluti, non relativi, a cominciare dal papa, Benedetto XVI, autoritario benedicente gli autoritari. Kierkegaard è il sosia spirituale di Dostoevskij.

“Il male è lo stato normale degli uomini”. (Fëdor Dostoevskij)

L’elencazione tradizionalista dei valori non è più esattamente quella comprendente il sangue, ma il luogo sì. E l’abbinata sangue-luogo, non era proprio alla base di ogni razzismo fino all’altro giorno? Cioè fino a quando i gatti si chiamavano gatti? Oggi che i fascisti si definiscono “antifascisti”, il mio vecchio discorso: “Che ne facciamo dell’antifascismo” torna di moda. Se tutti siamo antifascisti nessuno lo è più veramente, quando cala la sera tutte le vacche sono grigie.

I risultati si vedono dappertutto. Un gruppo di ragazzi neri ucciso dalla camorra a colpi di mitra, un ragazzo nero massacrato a sprangate, altri bastonati selvaggiamente, ghetti dappertutto, quartieri circondati da un muro, vigili urbani diventati sceriffi violenti agli ordini di sindaci fascisti e leghisti (variante ancora più imbecille, se possibile), perfino delle sagome di legno raffiguranti bambini neri ridipinte di bianco. La bestialità e l’ignoranza non hanno limiti.

Ecco, a questa pagliacciata bisogna rispondere per le rime, esattamente. Organizzarsi e rispondere, non attendere che la situazione degeneri più di quanto sia degenerata. Va bene. Molti diranno che questi giovani dementi che salutano romanamente dentro e fuori gli stadi sono soltanto folcloristici, visto che anche i loro dirigenti di ieri li sconfessano. Non sono d’accordo.

Nel carcere di Trieste, appena qualche mese fa [2008], ho conosciuto il capo degli “ultras” della Triestina, una bestia alta più di due metri con il cervello di un bambino viziato di due anni. Il suo stipendio, pagato dal locale club calcio, era di sole 500 euro al mese, il suo lavoro: aizzare le sue truppe, costituite da imbecilli par suo, contro questa o quella squadra, secondo le indicazioni dei dirigenti che pagavano. Ora, mi sono chiesto, se a questo stesso imbecille, o a qualcuno appena più intelligente di lui, invece di uno stipendio di 500 euro venisse pagata una retribuzione ben più elevata, le cose si metterebbero molto male. Ma questa cifra più elevata potrebbe essere pagata solo da una committenza diversa da un banale club di calcio.

Quello che manca all’attuale frangia autoritaria, che si palleggia fra le mani mazze chiodate e gagliardetti con il fascio littorio, è una vera e propria committenza. Se interessi padronali veri, economicamente significativi, venissero colpiti da più solide organizzazioni difensive e di attacco degli sfruttati: scioperi, sabotaggi, occupazioni, ecc., immediatamente questa committenza potrebbe esserci e allora la pericolosità di questi imbecilli sarebbe di molto più preoccupante.

In definitiva, sono convinto che il razzismo e l’autoritarismo costituiscono un binomio indissolubile. Il primo è la base diciamo “culturale” di un clima prodotto dal medesimo razionalismo umanistico che alimenta il secondo. È su questa tesi che bisognerà lavorare molto in futuro.

Tutti i fautori dell’ortopedia sociale si danno la mano. Tutti vogliono combattere il male, tutti vogliono individuare, al più presto possibile, dove questo male risiede, dove si annida, per poterlo più facilmente estirpare. Certo, per ripulire bisogna cominciare a colpire le persone che questo male incarnano, come si faceva una volta con le streghe. Il diverso porta con sé questo male, lo porta nel colore della pelle, nella lingua, nelle proprie abitudini, nello stesso vestiario. Il diverso inquina la mentalità che ci appartiene, egli è il male: eliminiamolo e, siccome siamo democratici e non vogliamo (come sarebbe più sbrigativo e facile, seguendo il modello nazionalsocialista) eliminarlo fisicamente, lo mettiamo in quarantena, ci accertiamo che sia disponibile a integrarsi, lo collochiamo in ghetti, lo schediamo, lo controlliamo e, solo se non possiamo fare altro, ci limitiamo a guardarlo con sospetto. Ebbene, sì, questo sospetto almeno lasciatecelo. Così ragiona il perbenista che spranga in mano ha ammazzato come un cane un ragazzo di vent’anni avendo perso il lume degli occhi per il colore della sua pelle.

Il male siamo noi, ancora una volta, siamo noi e la nostra pretesa di mettere ogni cosa al suo posto, uomini in primo luogo. Il male siamo noi e il nostro modello di perfezione sociale democratica, che vogliamo esportare in tutto il mondo, a costo di scatenare guerre insanabili.

Il male si annida nella nostra mentalità che cerca di curare le malattie e non il male, i filosofi hanno da sempre interpretato il mondo e hanno visto soltanto i derivati del male, le conseguenze, non hanno saputo risalire alle origini di ciò che appare, al male che si nasconde nel nostro cervello analitico. Così, siamo diventati aridi e piatti, implacabili come ragionieri da obitorio e occhiuti come contabili da campo di sterminio. Queste sono le verità che ci rinviamo l’uno l’altro e su cui giuriamo fedeltà tutte le mattine.

Non ci sono verità e non ci sono certezze, il caos ci circonda, il mondo è laido e lo stanno coprendo del vomito di tutte le teorie del benessere generalizzato, della salvezza tramite il mercato e il capitale. Cerchiamo di fondarci sulla nostra stessa inassimilabilità, sulla nostra refrattaria unicità, sul coraggio del nostro cuore.

Attacchiamo adesso. Dopo potrebbero restarci solo chiacchiere.

 


[Pubblicato su “Senza Titolo” n. 2, inverno 2008, pp. 33-45]

Facciamo a chi ne ammazza di più?

Misurare una guerra, anzi un’invasione, dal numero dei morti subiti dall’invasore (pochi) o dal numero dei morti di chi l’invasione subisce (molti) è un’aritmetica da becchini che non convince. In guerra nessuno ha ragione e quindi tutti hanno torto.

Ma rispondere con le proprie forze (senza limiti diseguali a quelle del nemico) è pur sempre necessario se si viene attaccati, e questa si chiama “guerra difensiva”. È legittimo l’uso di questa distinzione da manuale di guerriglia? No, non è legittimo.

“Lo Spirito guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell’assoluta devastazione”. (Georg Wilhelm Friedrich Hegel).

È legittimo che l’aggressore, dall’alto della sua strapotenza militare (uno dei più forti eserciti tecnologici del mondo) risponda senza limitarsi in alcun modo al continuo stillicidio di razzi che piovono su alcune città del proprio territorio? No, solo apparentemente è legittimo.

Sotto questi apparati di guerra, del piccolo che aggredisce per non morire soffocato nel proprio territorio privo di sbocchi, e del grande che non trova requie pressato com’è dalla propria opinione interna che chiude gli occhi di fronte ai crimini passati a presenti (riduzione di una intera popolazione all’interno di una sorta di campo di concentramento), ci sono errori logici che l’occhio occidentale non vede.

Dietro la muscolosità del fare aggressivo ci sta una stupida creduloneria ricavabile, come intenzione confusa e incerta, da un orizzonte di onnipotenza che si fa sempre più ampio senza riuscire a chiudere il cerchio. Il furore del possesso è cieco e alimenta fantasie di potenza che sono solo feroci baloccamenti, tutt’altro che motivazioni universalmente riconosciute come moralmente fondate. Le piaghe del passato si riaprono tutte le volte che nuove piaghe vengono inferte a chi cerca di respirare.

Poiché nessuno qui vuole avere l’esclusiva del possesso di buoni e onesti occhi, capaci di valutare il giusto e l’ingiusto, resta soltanto la realtà quotidiana di chi ne ammazza di più e di chi ne ammazza di meno. Personalmente dissento.

Bisognerebbe vedere le condizioni di vita dei campi palestinesi per rendersi conto di quale può essere il livello minimo di sopravvivenza di una popolazione che è stata cacciata via dalle proprie case dall’oggi al domani e che da decenni soffoca in spazi ristretti e senza speranza. L’indottrinamento religioso, specialmente per un palestinese, è del tutto secondario, chi conosce la situazione non può pensarla diversamente. Chi sostiene una guerra continua, anche ricorrendo a mezzi tecnologicamente inadeguati, dà sfogo a un sentimento diffuso non solo di vendetta o di rivalsa, che sarebbe ben poca cosa, ma al desiderio di rendere visibile un popolo che è stato ridotto allo stato di fantasma.

La sequela dei lanci propagandistici (gli obiettivi colpiti sono pur sempre uomini e donne uccisi, per carità), non costituisce una reale pressione militare sull’eterno nemico, cioè sugli Israeliani, ma solo sugli astanti, i pasciuti e distratti fruitori delle secrezioni purulente dei vari opinionisti che sporcano le pagine di tutti i giornali del mondo, nessuno escluso. Questa pressione è costata sofferenza e morte, l’una e l’altra messe cinicamente sul conto da parte della dirigenza palestinese più oltranzista, e considerate come unica carta da giocare. Ancora una volta, senza volere minimamente chiudere gli occhi di fronte a questi giochi di potere, è sconcertante vedere quanto tutto questo sia facile da realizzare in una condizione come quella palestinese. La risposta è stata invece una vera guerra, regolarmente persa da parte di Israele, da un punto di vista strettamente militare, perché nessuna guerra può essere vinta, neanche contro un nemico infinitamente più debole, specialmente oggi, tanto che la struttura stessa degli eserciti (escluso quello israeliano) e la mentalità militare, si stanno dappertutto camuffando con la barba finta di un pacifismo e di una difesa contro le aggressioni.

Non dimentichiamo infine, ed è per questo che qui ne facciamo segno, che l’aiuto agli Israeliani viene da ogni parte del mondo, quindi anche dall’Italia, aiuto in sottoscrizioni dei prestiti quasi a fondo perduto e in finanziamenti più o meno occulti. E viene anche da una miriade di aziende e organizzazioni che, anche in Italia, fanno affari con Israele, senza tenere conto di nessuna considerazione morale, di nessuna buona intenzione pelosa dei vari tribunali internazionali per i crimini di guerra e delle varie pressioni diplomatiche.

Il denaro non puzza.

 


[Pubblicato su “Senza Titolo” n. 3, primavera 2009, pp. 9-14]

La guerra del lavoro

L’eterno meccanismo dello sfruttamento è sempre lì. Come un antico dio selvaggio continua a inghiottire le sue vittime macinando, bruciando, schiacciando, squagliando, polverizzando giovani vite costrette a vendersi per pochi soldi di paga, spinte dalla fame (in minima parte) e dalle rigide regole di bisogni indotti (in massima parte). In continua modificazione nella storia questo meccanismo, alla lunga, non mostra per niente le caratteristiche dell’emancipazione progressiva.

Escludendo la parte finale di quanto detto sopra, sembrerebbe di leggere la descrizione delle condizioni di lavoro nelle fabbriche dell’epoca vittoriana. In effetti, le cosiddette conquiste del mondo del lavoro sono sistematicamente inghiottite dal meccanismo produttivo e risputate sotto forma di allettanti promesse fondate su nulla. Alla vecchia miseria materiale – mancanza di pane, essenzialmente – corrisponde adesso la miseria intellettuale e quindi morale. Tutto si vende, non solo la forza fisica, quindi il proprio tempo, ma anche le porzioni restanti di questo medesimo tempo, in mille modi attirati in un cerchio consumistico in cui tutto è commisurato al guadagno e al possesso, ai simboli fasulli di una ricchezza mimata negli aspetti più stupidi e meno sostanziosi.

E invece si tratta di uno spaccato moderno e riguarda le morti sul lavoro. Porzione presa in esame: quella italiana, nell’anno 2008, nessuna presunzione di completezza (che vale la completezza di fronte a un fenomeno del genere?, un morto soltanto è di già più di quello che è possibile sopportare senza rimboccarsi le maniche e attaccare subito questo sistema produttivo di morte).

Altro che riconoscimento attraverso il lavoro, identificazione di una comunità di interessi, gli interessi dei produttori, sia pure contrapposti in maniera radicale a quelli degli organizzatori della produzione. Questa tipologia conflittuale non esiste più. Non che sia intervenuta la pace sociale a ottundere la comprensione degli sfruttati – al contrario – la disgregazione della classe è ormai cosa talmente radicata nella mentalità comune, nello stesso spirito del tempo, che non è nemmeno in discussione una sorta di difesa che non vada oltre alle coloriture politiche degli strombazzatori di regime, di qualsiasi parte si ritengano sostenitori. Il lavoro non unisce più, non unisce in vista di una divisione più radicale e ben identificabile, non unisce perché il cervello dei produttori si è fluidificato con il fluidificarsi della produzione stessa. Il capitale, da canto suo, da flusso che era si è trasformato in apparenza pura, o sta per concludere i contratti che tale lo sigilleranno all’interno della evanescenza delle roccaforti finanziarie.

Che queste siano state sottoposte a una sorta di brutto risveglio mattutino, è faccenda di poco conto, e lo spauracchio fatto balenare ai potenti di tutto il globo, a partire dal negro da cortile che si è accinto da poco a governare l’America, non farà che rinfocolare le velleità produttivistiche, e quindi di più oculato e attento sfruttamento (morti sul lavoro comprese), con una fuga dal regno dei fantasmi che per un certo periodo, più o meno un doppio trend di quasi dieci anni, aveva ospitato circolazioni finanziarie e guadagni fasulli da favola.

La vecchia fabbrica è sempre là, anche se spostata di qualche migliaio di chilometri nello spazio sociale che uniforma ormai tutto il globo, spostata in modo che si continui il massacro in paesi meno attenti a queste guerre e a queste carneficine, sempre meno cruente quantitativamente di quelle guerre e di quelle carneficine che tribalmente accecano gli occhi da ogni parte.

Dappertutto i massacratori sono all’opera. I denti sono rimasti aguzzi e affilati e, specialmente adesso che mordono meno nel mondo dei sogni della finanza e della borsa, torneranno più accanitamente a mordere dove si producono oggetti, per altro altrettanto illusori e inutili nella loro stragrande maggioranza.

Il numero dei lavoratori uccisi è molto più alto di quello registrato dalle notizie estemporanee ricavabili dai giornali e dalle stesse statistiche ufficiali, per altro non di facile interpretazione. Molti muoiono in maniera indiretta, diciamo così nel recarsi al lavoro, per lo stress e le conseguenti fughe illusorie nell’alcol e nelle droghe, nella sempre più alta insignificanza che attribuiscono alla propria vita, prigionieri ormai di un meccanismo perverso di ripetizione e noia. Boulot-metro-dodo.

“La sofferenza distrugge il fare, lo chiude nel suo significato profondo di lavoro, di produzione con fatica. Molte variazioni si possono avanzare su questo tema di fondo ma non cambia molto la sostanza del problema”. (Donatien Alphonse François de Sade).

Molti non sanno più cos’è la vita, spenti e accecati per sempre in una prigione chiamata famiglia con rate da pagare, figli da mantenere, coniuge da tenere a distanza. La ferocia cresce e viene trasmessa alla florida discendenza, florida di valori vacui e assurdi, fantasmi privi perfino del classico lenzuolo, che perpetuano noia e falsa sicurezza di sé, che sollecitano a soddisfazioni insoddisfacenti, maniacali specchietti per allodole cieche. La droga ha tante forme per esprimersi e conquistare il proprio spazio. Gli adulti si drogano di lavoro, e a volte ne muoiono, i giovani di noia e di apparenze e, ancora più spesso, vi restano prigionieri morendo in una opaca mattinata al volante di un auto, ubriachi, o raggomitolati su se stessi refrattari a qualsiasi sogno degno di questo nome. “L’uomo è legato alle cose, è al centro di esse, e se rinuncia alla sua attività realizzatrice e rappresentativa, se si ritrae apparentemente in se stesso, non è per congedare tutto ciò che non è lui, le umili e caduche realtà, ma piuttosto per trascinarle con sé, per farle partecipi di questa interiorizzazione in cui esse perdono il loro valore d’uso, la loro natura falsata, e perdono anche i loro stretti limiti per penetrare nella loro vera profondità”. (Maurice Blanchot).

Quando capiremo che la vita non accetta cancelli o segnatempo, non ammette compromessi in vista di un benessere che sembra vicino ma che invece si allontana sempre di più? Battersi ora o mai più, questa è l’alternativa. Attaccare ora o inghiottire merda per tutto il resto dei nostri giorni. “Il mondo vero e il mondo apparente – questa antitesi viene da me ricondotta a rapporti di valore. Noi abbiamo proiettato le nostre condizioni di conservazione facendone dei predicati dell’essere in generale. Muovendo dalla necessità di esser stabili nella nostra fede per prosperare, abbiamo fatto sì che il mondo “vero” non sia un mondo che muta e diviene, ma un mondo che è”. (Friedrich Nietzsche).

La colata di acciaio liquido che squaglia giovani corpi è una spaventosa visione che può estendersi a tutto il mondo del lavoro, mentre tragici pagliacci mimano una difesa sindacale che non fa altro che rafforzare le sempre più palesi incapacità del capitale di sfruttare senza grossi scompensi e spudorati traumi. La rappresentazione della miseria è sempre una recita su di un canovaccio in cui la povertà reale è scambiata per ricchezza, dove il vuoto dell’apparire è riempito da continui apporti di sofferenza e sacrifici in nome del dio del nulla.

Quando finiremo di considerare i lavoratori solo come vittime e non anche come corresponsabili dei crimini dei padroni?

Quando cominceremo a capire che è arrivato il momento di distruggere il lavoro e di passare all’attacco che getta le basi per la riappropriazione della propria vita?

Ed ecco la classica domanda castrante: che cosa mangeremo se non dovessimo più lavorare?

Smascherare i tartufi che si nascondono dietro questo apparente sillogismo dettato dal buon senso. Ogni pragmatista, con tanto di pedigree di ragionevole filosofia, è un miserabile al servizio del padrone che lo coccola e lo finanzia lasciandolo comodamente seduto in uno scranno parlamentare o in una poltrona universitaria.

Distruggere il lavoro significa guardare criticamente la propria vita, quello che ci viene sottratto in termini di tempo, di godimento, di sogno, di fantasticherie a occhi aperti. Quello che ci viene quotidianamente suggerito come indispensabile – che indispensabile non è per nulla. Costruire, gradualmente, un progetto vivibile, non un’attesa della morte fra attrezzi fabbricati apposta per rimbambire e costringerci ad accettare la spazzatura che loro ci obbligano a produrre.

Distruggere il lavoro significa prima di tutto distruggere i modelli perbenisti che ci hanno inculcato e che tutti siamo chiamati, quotidianamente, ad applicare e a perfezionare.

È inutile piangere sui poveri corpi martoriati dei nostri compagni uccisi se poi l’indomani indossiamo, opportunamente ripulite, le loro tute e andiamo incontro agli stessi rischi.

Smettiamola di battere le mani ai loro funerali, o di presenziare – tristi figuri in nero – alle farse recitate in tribunale per ottenere quei quattro soldi di indennizzo, come se fosse possibile pagare in contanti (quando che sia nel tempo, presto o tardissimo) la carne martoriata dei caduti.

Ecco la parola “caduti”, parola desueta, ricorda i caduti in guerra. Anche in quelle occasioni ci si faceva macellare per la maggiore gloria della nazione, e ci sono imbecilli che ancora sognano quelle immolazioni inutili e disgustose, sollecitate da imperiosi ghigni di comandanti macellai patentati. I morti erano migliaia eppure sempre nuove divisioni venivano preparate nelle retrovie e inviate al fronte, a morire, inutilmente. Lo stesso accade oggi, ogni giorno, il numero non conta, se minore questo o maggiore quello, sempre di guerra si tratta, di massacro senza senso.

Se qualcuno deve restare sotto un torchio, o tagliato in due da una sega impazzita, o dissolto da una colata di acciaio, o schiacciato da un crollo, che sia un padrone o uno dei tanti reggicoda, che ce ne sono parecchi, basta guardarsi attorno.

La vita è la nostra, e chi muore – malgrado gli applausi – ha sempre torto e non può nemmeno rammaricarsi di non avere agito prima uccidendo lui il padrone che, più o meno direttamente – lo ha ucciso.

Non è mai troppo tardi.

 


[Pubblicato su “Senza Titolo” n. 3, primavera 2009, pp. 26-33]

Polverizzazione

L’appiattimento morale è conseguenza inevitabile della perdita di cultura. Questa allinea tutti al più basso livello del riconoscimento reciproco, miseria riflette miseria e la ingigantisce.

La cultura è l’aria che respiriamo, e questa è rarefatta e impoverita, oltre che inquinata, questa riduzione all’osso produce, a sua volta, assuefazione a qualsiasi messaggio autoritario proveniente dall’alto, da organismi e figuri che ci si immagina siano in grado di governarci, visto che non siamo capaci di farlo da soli.

“Rinunciare tu devi, rinunciare! È questo l’eterno motivo che suona all’orecchio dei più. A cambiare non è stata la strega, ma il mondo che le stava attorno. Fino a quando essa esiste, il suo personaggio resta sempre lo stesso”. (Johann Wolfgang Goethe).

Non che una volta ne fossimo capaci, questo no, però, ognuno nel suo campo, gli studenti fra gli studenti, gli operai fra gli operai, i contadini fra i contadini, i padroni fra i padroni, aveva la sua cultura di settore, per meglio dire di classe, e in base a questa era capace di governarsi da sé, dentro certi limiti, questo è ovvio, senza pensare di autogovernarsi in tutto. L’accettazione del dominio, se voleva essere fatta passare, doveva venire imballata in convenienti involucri ideologici, capaci di spezzare gli interessi coesi di classe e di suggerire, o fare intravedere, un “superiore” interesse: poniamo quello della gloria nazionale, e qualche altra illusione del genere.

Oggi la polverizzazione culturale ha rimescolato le carte, perfino i padroni hanno bisogno di protesi esterne per governare i propri interessi, che permangono quelli dell’estrazione forzata dello sfruttamento, e queste protesi comprendono espedienti chimici e anche ideologici, forse più i primi che i secondi.

La polverizzazione, com’è ovvio, colpisce di più i livelli più deboli della formazione sociale, quelli che anche volendo accedere al patrimonio culturale (decisione individuale di per sé piuttosto improbabile da cogliere e in ogni caso di difficile realizzazione) non trovano dove soddisfare questo bisogno, visto lo svuotamento quasi assoluto della scuola e la sua trasformazione in luogo di circolazione spettacolare dell’apparenza. “Oh bel mondo / tu sei orrendo”. (Heinrich Heine).

Mancanza di cultura significa, prima di tutto, mancanza di identità. Molti non sanno neanche chi sono, pensate un poco se possono sapere che cosa vogliono. In questo numero sempre più ampio di esclusi polverizzati bisogna inserire anche gli immigrati costretti ad assorbire una identità diversa dalla loro se vogliono avere almeno la speranza di non essere oggetto di attenzioni poliziesche immediate: trovare un lavoro, parlare italiano (si fa per dire), dimenticare le proprie origini e, se possibile, perfino i propri fantasmi religiosi.

“Se il mio occhio è aperto, è un occhio, se è chiuso, è lo stesso occhio. Reciprocamente niente si aggiunge o si toglie al legno nell’essere visto. Ora, comprendetemi bene! Se accade che il mio occhio, uno e semplice in se stesso, sia aperto e rivolto con lo sguardo al legno, ciascuna delle due cose rimane quella che è, tuttavia, nel compimento della visione, divengono a tale punto una sola cosa, che si può dire con verità occhio legno, e il legno è il mio occhio”. (Meister Eckhart).

Smarriti fra smarriti, polverizzati né più né meno degli altri polverizzati, è solo un razzismo d’accatto che qualifica gli immigrati di una certa etnia come più pericolosi. In effetti la pericolosità sociale di questa enorme massa di esclusi è abbastanza omogenea, con punte più acute nelle fasce più giovani, dove le pulsioni insoddisfatte, l’assenza di un futuro plausibile, la rabbia per la nientificazione di qualsiasi sforzo per migliorare la propria condizione, uno stile di vita fortemente chiuso nella propria individualità di miseria se non di fame, di assenza di solidarietà, produce aggressività.

Aggressività contro tutto e contro tutti, ma prima e più facilmente contro i più deboli. Il misero culturalmente, quindi individualmente chiuso nella sua incapacità di capire la bellezza della vita in funzione degli altri, della reciprocità e della solidarietà, questo povero essere carico di potenzialità inespresse e di fantasie alimentate dal gioco spettacolare che caratterizza la civiltà in cui tutti siamo immersi, si scatena. In tanti attaccano e stuprano una donna, in tanti danno a fuoco un vagabondo, in tanti picchiano selvaggiamente un nero: che i primi siano rumeni, i secondi italiani di buona famiglia, i terzi vigili urbani di Parma, non è che un dettaglio secondario, buono per aizzare razzismi mai sopiti, lasciare a bocca aperta benpensanti lettori di giornali e colpire i delicati sentimenti (ancora una volta si fa per dire) di una sinistra che vede la (ex) sua Parma covare serpi in seno.

Se non fossimo nella condizione miserrima in cui anneghiamo pensate seriamente che potremmo tollerare le canagliate che giornalmente recitano gli uomini politici di qualsiasi colore e sapore? In primo luogo il governo e la persona del suo presidente del consiglio, il mai sufficientemente dileggiato sig. Berlusconi, principe delle barzellette?

Quel pagliaccio ci rappresenta tutti, noi siamo lui, e lui è tutti noi. Finché staremo con la coda fra le gambe, ascoltando senza muovere un muscolo che un facciatosta fascista come il presidente della camera, allievo del razzista Almirante, si dichiari “antifascista”, ci meritiamo di peggio.

E il peggio non tarderà ad arrivare.

 


[Pubblicato su “Senza Titolo” n. 3, primavera 2009, pp. 44-48]

Riconoscimento del nemico

“La filosofia forma un circolo perché essa, in ognuna delle sue parti, deve prendere le mosse da qualcosa di indimostrato, che è invece il risultato di qualche altra sua parte”. (Georg Wilhelm Friedrich Hegel)

Proviamo a guardare dentro di noi, nel più profondo di tutto ciò che anni di esperienze più o meno importanti, accumulate alla rinfusa, hanno sedimentato. Abbiamo rispetto di noi stessi? Oppure siamo pagliacci anche noi, solo leggermente più abili nel camuffare la nostra pusillanimità?

“Anche i carnefici, prima di andare a cena, si lavano le mani”. (Seneca il vecchio).

Se riteniamo di essere degni, per primi con noi stessi, di questo rispetto, allora andiamo avanti. Abbaiare al vento non monta, tanti lo fanno e sono soltanto gole profonde che rigurgitano pasti mal digeriti. Se abbiamo un fondamento saldo e profondo, un convincimento incrollabile nella bontà delle nostre scelte di vita, allora andiamo avanti. Queste parole ci riguardano, intendo riguardano questa piccolissima congerie di dissennati che credono ancora nella propria dignità e nel proprio coraggio, che non si sono mai fatti illusioni, che non hanno mai tremato nel dotare della forza necessaria il colpo da dare al momento opportuno.

“Quel che è limitato a una vita naturale non può da sé andare oltre la sua esistenza empirica immediata, ma è spinto al di là di tale esistenza da un altro, e questo fatto d’essere proiettato al di là è la sua morte”. (Georg Wilhelm Friedrich Hegel).

Non è di coerenza che sto parlando, tutti più o meno ci diamo un quadro progetto e lo portiamo a compimento con discordanze e sbavature che sarebbe disumano condannare, mi riferisco alla prospettiva di fondo, quella che sta al di sotto delle dichiarazioni di principio. Che vale andare in giro con la A cerchiata stampata in fronte se poi la mano trema con una bomba tra le mani e la stanza si riempie di fumo a causa di una miccia che non vuole saperne di spegnersi senza far saltare per aria il mondo?

“Spesso è proprio la conseguenza inizialmente negativa di un mancato riconoscimento che porta la ricerca a risultati dapprima illusori e posti male, ma poi interessanti e capaci di produrre intuizioni e processi di ragionamento del tutto impensabili diversamente”. (Max Ernst).

Il nostro modo di essere, il nostro stile, la nostra connaturata capacità di affrontare lo scontro che noi stessi cerchiamo anche se spesso ne perdiamo di vista le connotazioni, è ravvisato dal nemico, siamo riconosciuti per quello che siamo, per la nostra potenzialità se non proprio per la nostra forza oggettiva. Ma noi, proprio noi, siamo capaci di riconoscere il nemico?

Il riconoscimento o è reciproco o non esiste. Se vengo riconosciuto dal nemico come suo acerrimo antagonista, ma non lo sono veramente, perché in fondo al mio cuore alberga la notte dell’incertezza, verrò spazzato via al primo contatto, abbasserò la testa, arrossirò con la mano tremante, mentre il peso del sasso che avrei dovuto lanciargli in faccia diventa di piombo e mille braccia più forti delle mie non potrebbero sostenerlo, tanto meno lanciarlo. Anzi, più il riconoscimento da parte del nemico è infondato e più la sua repressione sarà feroce e inconsulta, comprenderà di avere di fronte un pusillanime e di potere spadroneggiare come meglio crede. E siccome il nemico di classe, per definizione, è un vigliacco e un feroce aguzzino (non dimenticarsi mai dei borghesi impauriti che nei giorni della sconfitta della Comune di Parigi cavavano gli occhi con i puntali degli ombrelli ai cadaveri dei comunardi), farà strame della mia pochezza.

Il rispetto per me stesso impone il rispetto al nemico, impone un procedimento di contrasto che se non proprio garantisce sempre il mantenimento delle regole, permette di fronteggiare lo scontro nell’ambito delle forze che ci siamo date. Sottolineare le stesse differenze tra noi e l’avversario è importante, non ricorrendo alle scariche di adrenalina ma proprio alla forza delle nostre motivazioni. Queste sono quasi sempre espresse male, accatastate nella foga del rancore e dell’eccitazione, ripristinano e riportano a galla epiteti più che considerazioni, vomitano il proprio ribrezzo più che impongono la propria forza d’animo e la chiarezza dei motivi per cui ci si trova a individuare lo spazio dove il nemico alloggia con i suoi segni di sopruso e di sfruttamento.

Il riconoscimento del nemico è un segnale di crescita mia, una presa di coscienza, è il momento in cui non mi fermo al simbolo, ma da questo passo alla cosa simboleggiata, scavo nella realtà, non brucio una bandiera ma attacco un interesse in corso di svolgimento, un individuo che quell’interesse cura e garantisce, un progetto, un flusso del capitale. Non ogni fantasma che mi viene agitato sotto il naso, come la classica salsiccia odorosa, mi trascina con sé, non sono un cane, sono un uomo e ho alcune capacità, spesso limitate, ma le posseggo e voglio usarle per colpire meglio possibile, per non scambiare i mulini a vento per giganti. La forza di don Chisciotte, contrariamente a quanto si crede, è che egli non vedeva giganti al posto dei mulini a vento, ma proprio mulini a vento e attaccava, lancia in resta, proprio mulini e non giganti, solo che pensava che un mago cattivo avesse camuffato i giganti sotto le spoglie false di mulini, per nasconderli alla sua giusta vendetta.

È così che se agisco mi faccio contenuto io stesso, non sono un qualsiasi individuo convinto (a ragione o a torto) di dovere colpire un obiettivo dannoso, ma sono io stesso quel convincimento carico di senso ben al di là di quello che posso aver letto e perfino capito. È nel contenuto che sono diventato che devo inserire il riconoscimento del nemico, egli così è entrato in me stesso, me lo sono covato per tanto tempo, ne conosco i limiti e le perverse intenzioni, essi sono qui, partecipi del mio contenuto, sto guardando nell’abisso, e non ho paura perché il mio sguardo resta fermo, non ci sono pertanto né indecisione né sorpresa in quell’agire che mi caratterizza, non c’è nulla del nemico che non ho riconosciuto, ed è a queste sole condizioni che io, io soltanto, sono la sua negazione critica, il suo rifiuto distruttivo, la sua sola possibilità di cancellazione.

Un pericolo concreto è per l’agire l’ipotesi di attuare un attacco prematuro, quindi inconsapevole dei limiti e delle potenzialità dell’agire stesso nei riguardi del nemico. Ciò porta a una concezione ossessiva e ascetica del rapporto con l’obiettivo individuato come una sorta di iniziazione incomprensibile e realizzabile per vie alternative alla conoscenza fattuale di cui il lungo lavoro preparatorio costituisce fonte e riserva nello stesso tempo. Mi vincolo in questo modo all’ipocrisia di una condizione privilegiata in cui la sola valutazione che conta è l’autostima, decisa quasi sempre da uno stato d’animo soffuso di imbecille sopravvalutazione dei mezzi a disposizione.

Inquieto, trasgressivo, a volte irresistibilmente deciso all’aggressione, ho vissuto una vasta gamma di condizioni vitali, ma solo il riconoscimento del nemico mi rende protagonista di me stesso, mi impedisce di andare sempre alla ricerca di un velo dietro cui filtrare l’ansia di possesso. Queste attitudini e questa precauzione sono state sempre, per me, le condizioni della intensità attiva, spesso smarrita nell’urgenza dell’agire, a volte convogliata violentemente in una scelta esclusivamente simbolica, ma poi alfine corretta dal riconoscimento che il nemico stava altrove, disposto sempre a fornirmi i contenuti necessari al mio attacco.

Riprendermi i contenuti del riconoscimento, dapprima cercati e intravisti e poi circoscritti e sottoposti a interpretazione critica negativa, è il passo verso l’agire. Pure rimanendo un passo argomentativo il riconoscimento coglie gli estremi essenziali del nemico e li lega alla conflittualità quotidiana che minaccia di uniformare qualsiasi risposta nei termini di comodo di un aggiustamento. Non ho più un banale risentimento rivelatosi insussistente, sono andato oltre, sono anche al di là dell’interpretazione che sviscerava contenuti e li preparava ai contrasti successivi. Sono io finalmente quei contenuti, e sono anche, nello stesso tempo, l’audacia necessaria all’azione, è questo il sigillo della mia rinuncia al marchio altrimenti indelebile di facitore coatto. Se mi indirizzassi verso l’azione con la stiva piena della vecchia zavorra ricolma di cieca aggressività, andrei a fondo senza nemmeno uscire dal porto.

“Dio ha perso ogni partecipazione alla creatività umana, e quindi non è più in grado di fornire all’uomo un alibi contro la paura. Non vedo nessuna lampada più brillante del silenzio, non ho udito nessun discorso migliore dell’inesprimibile”. (Abu-Yazid-al-Bistami).

Ecco quindi che il nemico esce dalla sua “esistenza solitaria” e viene sotto la luce dei riflettori approntata dal mio contenuto. Lo riconosco e quindi posso colpirlo, posso colpirlo perché metto in gioco me stesso, non sono un boia che colpisce sotto la garanzia della legge, sono un “fuori” legge, l’unica garanzia della mia azione sono io stesso, quindi il mio contenuto, quindi il riconoscimento del nemico che fa parte del mio contenuto. Se restassi al nemico estraneo e permanessi nell’accecamento passionale che mi strapperebbe alle mie sonnolente considerazioni sulla sua pericolosità o sulla sua estraneità ai miei interessi, sia pure di classe, dovrei trovare la forza per colpirlo non in me stesso ma in una qualche particolare responsabilità sua, di quest’essere sconosciuto che valutazioni estranee mi hanno permesso di considerare nemico.

Quasi sempre la ricerca di una “documentazione” prelude all’illusione di completezza che garantirebbe contro l’agire avventato e privo di fondamento. Ed invece è proprio questa ricerca continua, questa sete di ulteriori conferme, questo rinvio allo specialista che sa tutto di tutto e può illuminarmi sulle nefandezze altrui, quindi consentirmi di agire in perfetta buona coscienza, che può bloccarmi. La povertà di questo atteggiamento è palese, ecco perché le anticamere controinformative sono piene di fannulloni boccaperta che attendono solo un segnale, quello decisivo che, guarda caso, non arriva mai. Nessuno è infatti in grado di fornire il completamento, la parte mancante, il tassello definitivo, quella minuzia che metterebbe finalmente in luce le responsabilità di chi ci sta di fronte e garantire a noi che vogliamo agire il fondamento etico della nostra azione. A volte si ha quasi il presentimento che questa è una strada sbagliata, ma la si continua a percorrere perché qui, proprio qui, si è sempre in ottima (e spesso numerosa) compagnia. Che si può chiedere di più, come fondatezza delle proprie tesi, del grande numero di coloro che le condividono? Che importa che qualcuno di questi, non dico tutti ma qualcuno, sia palesemente avvolto in paludamenti da trivio politico? Alla lunga il cercatore accanito di conferme neanche se ne avvede. Credendosi cocchiere non si accorge delle alette che gli frusciano sul dorso. “L’uomo è una bestia”. (George Grosz).

Gettare in faccia all’“esistenza solitaria” del nemico la mia mancanza di completezza equivale a rendere lo scontro cieco, dove a prevalere è soltanto la ferocia organizzata, la determinazione salariata dello sbirro e la professionalità del boia. Nel riconoscere il nemico pongo lo scontro fuori da ogni intellettualistica illusione di completezza, la mia semplice esistenza di “fuori” legge è contenuto per me adeguato alla mia reazione di attacco, nel corso di questo movimento, senza attese e senza speranza di completamento, trovo tutti i motivi e tutte le giustificazioni etiche per collocarmi in quella relazione riconoscente che mi presenta al nemico come l’assolutamente altro, qualcuno con cui non è possibile scendere a patti, la negazione dell’ordine esistente e il rifiuto di partecipare a qualsiasi altro ordine futuro.

Nessun patteggiamento, nessuna collaborazione, nemici per sempre.

 


[Pubblicato su “Senza Titolo” n. 3, primavera 2009, pp. 49-57]

Quando il futuro arriva tra capo e collo

“Con gli anni ci si abitua a tutto, anche alla vertigine”. (E. M. Cioran).

Pochi ormai pensano, confortevolmente, di possedere un patrimonio culturale disponibile in qualsiasi momento, solido, coerente, capace di costituire una riserva a cui attingere senza parsimonia, un patrimonio di esperienze, di tecniche, di letture, insomma una cassaforte di verità, un insieme di testi sacri su cui giurare e su cui fondare la propria vita, passioni e azioni comprese.

Tranne pochi casi di protervia, indurita nella riottosa incapacità di comprendere gli altri, quasi tutti non giurano più sulle proprie conoscenze, anzi, al contrario, guardano al futuro con un profondo senso di insoddisfazione: che accadrà? che faremo? come ci conceranno per le feste?

Gli anarchici non fanno eccezione, anche se l’incartapecorimento di taluni è talmente visibile da risultare persino ridicolo, osservando le movenze che vorrebbero essere di danza e sembrano soltanto un balletto di orso alla catena.

D’altra parte molti compagni si affacciano al dilemma dell’agire o del lasciarsi fare con spirito candido, o almeno con quella sana ignoranza che è talmente capiente da ospitare qualsiasi cosa, perfino quel simulacro di “verità” su cui i sapientoni inveterati continuano a giurare.

Fornire loro un breviario facile facile? Dire che la morte della verità è stato un accadimento parallelo alla morte di dio? Lasciare che il futuro li punisca come ha punito e continua a punire tutti, prendendo di sorpresa? Ma la parola del destino non è facile da cogliere. Come diceva Hölderlin, essa può passare sulla mia testa come una stella cadente senza che io la veda. “Con le parole si tratta di sapere chi è il padrone”. (Lewis Carroll).

In un modo o nell’altro dobbiamo imparare, e imparare, qualsiasi cosa, è sempre un prevedere, un guardare oltre quell’appannato specchio che ci separa dai giorni che verranno.

Moriamo lentamente se non ci ribelliamo, e ribellandoci moriamo tutto in una volta. Queste due tipologie possono caderci fra le braccia, abbandonarsi a noi, oppure non appartenerci, prendere possesso del nostro corpo, a poco a poco, lavorarci dentro come un enorme verme solitario.

I ritmi perversi del potere sembrano scanditi su verità consolidate, su procedimenti di tutta certezza, chi comanda dà l’impressione di sapere quello che sta facendo, ma si tratta solo di un’apparenza. Il potere, in tutte le sue sfumature, va avanti navigando a vista, le grandi scienze che interpretano il futuro: l’economia e la sociologia, con la loro serva sciocca, la matematica, si sono rivelate arti malvestite, tutt’altro che capaci di fornire indicazioni precise. Lo sfruttamento lavora a colpi di maglio, cerca di trarre tutto il guadagno possibile non curandosi del materiale umano che manda al macero.

Non possediamo parole semanticamente adeguate a parlare dall’interno della puntualità attiva, una continua metamorfosi ci porta con sé mentre le capacità cognitive, parola vecchia, e fattive, parola vecchissima e già scomparsa, si acuiscono privandoci del loro originario significato. Non mancano, questo è ovvio, le impennate e le contraddizioni, ma esse rientrano tutte nel movimento complessivo della coscienza diversa. Ci moviamo nel senso perduto, quello che è l’azione non è mai né utile né sensato, per questo è così micidiale e radicale, è imprevedibile come una vertigine tumultuosa e inarrestabile. La diversità che ci circonda torna sempre alla concrescenza della puntualità, non si allarga in gestualità più complesse ed espressive, variegate e a volte commemorative di altre esperienze ormai ridotte all’inconsistenza di fantasma nel dilagante svilimento.

I rivoluzionari sognano da par loro la distruzione, coinvolgendosi nel migliore dei casi in considerazioni sul futuro che sanno troppo di passato, che cercano di proporre qualcosa di rimasticato spacciandolo per nuovo. Non basta la ghigliottina per creare un mondo nuovo, ma non bastano nemmeno le buone intenzioni, le idee pulite o ripulite in nome di una salvezza del mondo quale che sia purché prevedibile e accettabile. Nulla che coinvolga l’irrimediabilmente inconcepibile, che dia libero corso all’imprevedibile.

Se cerchiamo di dare un’articolazione diversa al segno tautologico della confortante produzione, dobbiamo per forza concludere per l’impossibilità. Fermando qui la riflessione, continuiamo a fare ma è come se ci ritraessimo in noi stessi, se risucchiassimo ogni resistenza nell’accettazione senza rifiuto. Il fare ripetitivo che riempie le nostre quotidianità ci cattura e cancella tutto il resto, la volontà ci è accanto come un avvoltoio paziente e aspetta la nostra immobilità di morte. La monotonia scandisce via via, temporalmente, il nostro avvicinamento al silenzio mortale della resa senza condizioni.

La riflessione rovente sull’agire mi spinge a ipotizzare traslazioni metaforiche impossibili. Facciamo e riflettiamo sul punto estremo del nostro essere rivoluzionari. Sono parole convenzionalmente dotate di senso, tutto qui. La nostra presenza di fronte all’azione è l’assolutamente altro, l’indicibile, se qui ne parlo è perché non ho altro modo di indicare il silenzio attonito che ci circonda mentre l’occhio glauco del futuro continua a fissarmi immutato. Preferirei tacere di questo e ricorrere alle riflessioni ordinative, tranquillizzanti, ma so che la morte non è legata all’azione ma all’azione che sta per agire e che ancora non ha avuto la tanto attesa risposta che parte dalla decisione che taglia con gli indugi vigliacchi e con i temporeggiamenti miserabili. Questo punto sospeso nell’universo desolato dello stare per accadere, punto da cui si diparte la vita e la trasformazione qualitativa, è l’esperienza più alta della morte ed è per questo che ne parlo senza avere la forza per farlo capire fino in fondo.

Per me questo punto estatico di fronte al futuro, se potesse parlare, svelerebbe il mistero dell’azione. Ho vissuto quel punto e ho capito che, in quell’istante fuori del tempo, non c’era niente da indovinare né da perdere. Quello che avevo da perdere lo avrei visto dopo l’azione, nel ritorno alla riflessione che giustifica e mette ordine. Perdere la vita non è possibile, perché si può vivere perdendo tutto e si può morire possedendo, se non tutto, almeno moltissimo.

“La rivolta è per natura istintiva, caotica e spietata. Questa passione indubbiamente negativa è ben lontana dal permettere di raggiungere l’altezza della causa rivoluzionaria; ma senza di quella quest’ultima sarebbe inconcepibile e impossibile perché non può esserci rivoluzione senza distruzione vasta e appassionata, una distruzione salutare e feconda dato che appunto da questa e solo per mezzo di questa si creano e nascono nuovi mondi”. (Michail Bakunin).

Vogliamo in questo modo sconvolgere l’assetto controllato del mondo, il ritmico scandire dello sfruttamento, prevedendo, anticipando, dove la nostra azione andrà a parare, tutte le conseguenze di quello che il nostro attacco contro l’esistente sarà capace di determinare. Non ci rendiamo conto che l’azione rivoluzionaria non ha un senso in se stessa, fissato una volta per sempre, sia pure un senso che attiene completamente alla distruzione dello sfruttatore o della classe degli inclusi, o qualsiasi altra determinazione si decida di accettare.

Se custodiamo nell’intimo di noi stessi questo irrinunciabile sacrario delle certezze, con il quale formiamo un argine che deve tutelarci contro l’imprevedibile della nostra stessa azione rivoluzionaria, per non parlare degli accomodamenti che le vicende quotidiane ci costringono a porre in atto, fissiamo degli inamovibili punti di riferimento che ci garantiscono e, nel garantirci, saldano una volta per tutte le nostre catene.

Così ci rigiriamo fra le mani quello che stiamo facendo, la nostra stessa azione rivoluzionaria, esaminiamo con accuratezza i termini delle sue corrispondenze con i canoni incontrovertibili del conflitto che reputiamo eterno con l’eterno nemico, curiamo che niente possa contaminare la nostra purezza fatta di ideologia e di chiacchiera, e alla fine ci ritroviamo incomprensibili a noi stessi, non solo a quei quattro gatti che orecchiano le nostre pretese giacobine.

Siamo contrari a tutti i princìpi, siamo anarchici, eppure ci ritroviamo avvolti in un lenzuolo di archetipi che ci imbalsamano riducendoci allo stato di mummia. Siamo sacerdoti di princìpi e manipolatori di teorie che fissano le distanze da quanto ci separa dal nemico di sempre, l’odiato incluso che perfeziona il suo dominio assoluto anche grazie alle nostre contrapposizioni fittizie, alle nostre controinformazioni dettagliatissime, alle pratiche attestanti soltanto la nostra esistenza in vita.

Se vogliamo fornirci di un progetto, quest’ultimo deve avere anche queste perplessità al proprio interno, deve possedere – se consideriamo questo aspetto insostituibile – anche uno scheletro duro, una metodologia di attacco prefissata, uno schema organizzativo comprensibile e attuabile, ma non deve costituire il nostro alibi di esistenza, il nostro passaporto verso il regno dell’anarchia, il nostro incorruttibile punto di riferimento.

Il fatto, il di già accaduto e mai portato a compimento, i meccanismi che ne regolano le relazioni quantitative, sono ombre che a malapena distinguiamo. Se restiamo in questo ginepraio di promesse non mantenute moriamo soli, e per questo non c’è rimedio, ma di una solitudine affollata di fantasmi, dove non è possibile ascoltare la voce del destino. Davanti alla morte del fare quantitativo ogni progetto e ogni coinvolgimento sono ombre, l’agire è una lontana favola, la teoria rivoluzionaria una nenia di vecchia sdentata che culla un bambino prima di addormentarlo. La morte ha la meglio sul fare, può intaccare perfino la rivolta, ma non può nulla di fronte all’azione che coglie la remota parola del destino. È l’azione che mette a tacere la parola dalla lingua di cera, la faccia di segatura e che scatena il delirio della fine, le ultime e uniche affermazioni vere della vita. La lotta tra l’azione e la morte non ha né vinti né vincitori.

Alla radice di un progetto del genere sta l’assenza del dominio, quindi anche l’assenza e la radicale negazione di ogni ricostituzione di qualcosa di stabile sia pure nella transitorietà di un attacco contro il nemico. Rifiuto la ricostituzione di qualsiasi forma di autorità, perfino un tenue baluardo, un foglio di carta velina su cui sta scritto il proclama di abolizione dello sfruttamento, rifiuto anche questo. Quello che odio non si abolisce per decreto, anche se questo sta scritto in un apparentemente innocuo foglio di carta.

Parliamo insieme di processi, di tensioni, di metodi, di luoghi e di accadimenti, di responsabilità di gruppo e individuali, parliamone quanto vogliamo, ma poi, per favore, smettiamo di parlare e passiamo all’azione, senza per questo pretendere che la stessa azione sia punto di cominciamento di qualcosa di definitivamente vero e giusto.

Niente può aprirci lo scrigno di ciò che ci sta di fronte e niente può vaccinarci contro le sorprese che il futuro porterà sempre con sé.

 


[Pubblicato su “Senza Titolo” n. 4, Autunno 2009, pp. 9-17]

La coda pelosa del perbenista

Quattro poliziotti: Luca Pollastri, Enzo Pontani, Paolo Forlani e Monica Segatto hanno ucciso Federico Aldrovandi picchiandolo fino a fargli scoppiare il cuore.

Non siamo un foglio che cerca di toccare la sensibilità dei lettori, quindi non ci interessa insistere sui manganelli rotti, i tentativi di giustificare il massacro da parte dei dirigenti della polizia, i pianti della famiglia e tutto il resto. Non ci interessano non per nostra inveterata insensibilità, ma perché pensiamo che il problema non sia questo.

I quattro personaggi sono stati bene inquadrati da un volantino distribuito dagli anarchici di Ferrara che dice: “Sempre, solo e comunque assassini”, che peraltro ci pare insufficiente.

C’è la condanna a pochi anni e qualche mese, e il desiderio di qualcuno, anche benpensante e benintenzionato, di una condanna maggiore. Ecco, è su questo punto che vorremmo riflettere.

Gli avessero dato il massimo della pena: l’ergastolo, forse saremmo qui a stendere l’elogio di una giustizia in regola? No di certo.

Non ci interessano gli anni di carcere che uomini appartenenti alla medesima organizzazione omicida (lo Stato), solo indossanti divise di colore diverso, si servono l’un l’altro in un piatto di lenticchie condito con tutti i rituali di garanzia. Non ci interessa la loro concezione retributiva o rieducativa del codice penale, ma non ci interessano nemmeno i pruriti perbenisti di chi auspica condanne più alte per i colpevoli.

“La storia è poco più che l’elenco dei delitti, delle follie, delle disgrazie dell’umanità”. (Edward Gibbon).

Che questi quattro figuri siano stati gli autori del massacro di quel povero ragazzo è fuori di dubbio, perfino per le tutt’altro che imparziali attenzioni della magistratura, ma che questo li possa fare definire secondo il nostro metro di giudizio colpevoli, è un’altra questione. Ma colpevoli di cosa? Hanno fatto il loro mestiere come lo fanno migliaia di loro colleghi ogni giorno, hanno torturato senza riuscire a fermarsi prima, come fanno ogni giorno in tutte le questure, in tutte le caserme, italiane e di tutto il mondo.

Costoro non ci fanno né più né meno ribrezzo dei loro colleghi, è l’istituzione che produce questi assassini, non il momento di follia, o di eccesso colposo, non la cattiveria del singolo, non la ferocia del manganellatore in vena di fare lo sceriffo di turno. Non saranno certamente gli anni di carcere che potranno risolvere questo problema o farci vedere in una luce diversa il ruolo e il pericolo che tutte le istituzioni presentano.

I perbenisti continuino a desiderare lunghi soggiorni in carcere e a sognare ravvedimenti dietro le sbarre, noi abbiamo altro da desiderare o da sognare.

 


[Pubblicato su “Senza Titolo” n. 4, Autunno 2009, pp. 40-43]

Solidarietà come attestazione in vita

Molti compagni producono solidarietà come i tignosi producono pidocchi. Ne fanno in grande quantità, di ogni genere, verso ogni genere di bisognosi di attestazioni solidali: verso i perseguitati, verso gli oppressi, verso gli umili, verso i minorati, verso tutti coloro a cui è stato o sta per essere sottratto qualcosa.

Fornire solidarietà non è vero che costa poco, come qualche malevolo pensante ritiene, cercando comunque di dirlo sottovoce, al contrario ha un prezzo, costa tanto, costa in termini di impegno, di levatacce (poche) per recarsi nei luoghi fisici dove si consuma la prevaricazione, di seratacce (molte) passate a discutere su come organizzarsi nel modo più opportuno per assistere e soccorrere ogni sorta di bisognosi.

Rivoluzionari con l’animo candido di sorelle clarisse e il camice da infermiere sono a poco a poco sfioriti ingrassando e invecchiando all’ombra di questi procedimenti assistenziali senza deflettere un solo istante. Ormai li si può vedere giorno e notte attaccati al proprio telefonino in conversazioni con altri assistenti sociali di ogni pelo per meglio produrre solidarietà, senza una interruzione, senza una perplessità, senza un dubbio. La specializzazione non li avvilisce, al contrario li riconferma in vita.

La vita, considerata complessivamente, e quindi in un quadro paradigmatico ridotto e semplicemente modulistico, oscilla tra fare e agire. La prima posizione è stabile, temporalizzata, garante di una certa consapevolezza seppure incompleta, e gratificante, anche se produce alla lunga assuefazione alla stupidità. La seconda è incerta, provvisoria, sganciata da posizioni stabili e prefissate, frammentaria e discontinua, accade e fa accadere in una punta non temporale.

“La stupidità aiuta. Essere ottusi è la migliore protezione dai rischi della libertà”. (E. M. Cioran).

Ora, da molti anni – perfino da troppi anni – ci chiediamo che cosa si debba intendere per solidarietà. Una dichiarazione d’intenti? un riconoscimento della situazione di distretta in cui si trova qualcuno? un comunicato nei riguardi dell’ente repressore che l’oggetto della repressione non è solo ma trova al suo fianco noialtri agguerriti combattenti sprovvisti di comunità d’intenti ma tutti orecchi nel cogliere ogni alzata di manganello?

Capisco che qualche compagno si possa trovare nella situazione oggettiva, e circoscritta, di essere di fronte a situazioni repressive specifiche che toccano il cuore. Capisco anche che molti compagni di cuore tenero queste situazioni quasi quasi se le calamitano addosso operando se non proprio scelte di vita almeno scelte di campo.

Ma la solidarietà rivoluzionaria è altra cosa.

“La vita è lotta e la solidarietà per la vita è lotta e si fa nella lotta. Non mi stancherò di ripetere che la cosa che ci unisce di più gli uni agli altri sono le nostre discordie. E la cosa che unisce di più uno a se stesso, ciò che forma l’unità intima della nostra vita, sono le nostre intime discordie, le contraddizioni interiori delle nostre discordie. Uno trova la propria pace dentro di sé, come don Chisciotte, soltanto per morire”. (Miguel de Unamuno)

Vediamo, per l’ennesima volta, di chiarire il problema.

Penso, per amore di discussione, che si possano ipotizzare due situazioni: la solidarietà che intendo dare agli esclusi in generale e quella che intendo dare ai compagni colpiti dalla repressione. Parrebbe la medesima cosa ma non lo è. Nei confronti dei primi posso denunciare i processi repressivi ma il mio scopo primario non può fermarsi qua, deve andare oltre, devo cioè cercare di organizzare gli esclusi in questione per realizzare insieme a loro un attacco contro gli strumenti e gli uomini che questa repressione realizzano. Nei confronti dei secondi la mia solidarietà rivoluzionaria può consistere solo nel continuare il progetto rivoluzionario per cui quei compagni sono stati colpiti dalla repressione.

È evidente che in ambedue i casi il momento iniziale della solidarietà è solo un passaggio, perfino pleonastico se non meramente secondario, per andare a un momento successivo. Nel caso degli esclusi in generale ha lo scopo non fine a se stesso di farmi conoscere per presentare il progetto organizzativo, questo sì di natura rivoluzionaria. Nel caso dei compagni la semplice solidarietà è quasi controproducente se il mio vero scopo rimane quello di continuare il loro progetto, perché potrebbe mettere a repentaglio proprio questa continuazione, facendo sapere pubblicamente una condivisione di intenti che non è sempre utile portare a conoscenza della repressione. Va da sé che se io non condivido il progetto dei compagni oggetto dell’attacco repressivo non sono disponibile nemmeno a fornire loro la mia solidarietà, in caso contrario quest’ultima sarebbe solo una banale manifestazione di esistenza in vita da parte mia (ecco: sono qua, esisto anch’io) e non avrebbe nulla di rivoluzionario.

Per molti, al contrario di quanto improvvidamente qui viene esposto, la solidarietà è la comoda casetta dove alloggiare la propria miseria quotidiana. In questo modo essere solidali con chi si trova in carcere (stalinisti compresi) diventa uno sport da praticare a tempo pieno, con il lodevole risultato di sentirsi vivi e utili a qualcosa.

Improbabili gruppi musicali, frequentatori di conventicole da osteria, scampagnatori domenicali, si riuniscono con ritmi degni di migliore causa e assistono tutti coloro che alzano il braccio in segno di aiuto: carcerati e migranti in primo luogo, questi due settori sono praticamente inesauribili. And so on.

 


[Pubblicato su “Senza Titolo” n. 4, Autunno 2009, pp. 44-48]

L’antimilitarismo in epoca di svilimento

“C’è un impoverimento fluttuante ma estremamente ampio e continuo, della forza della consapevolezza, impoverimento provocato dall’enorme quantità delle strutture automatiche e interagenti le cui operazioni costituiscono la personalità”. (Charles Tart).

Abbiamo approntato un lungo elenco di industrie produttrici di armi in Italia. Man mano che approfondivamo questo lavoro in noi l’indignazione cresceva. Ma com’è possibile, ci siamo chiesti, che migliaia di lavoratori, di esclusi, di poveri disgraziati con paghe da miseria, si vendano ai padroni collaborando alla produzione di morte, di ordigni che producono morte in tutto il mondo e che rendono possibile la guerra contro popolazioni spesso inermi o insorte con mezzi di fortuna per attaccare gli invasori?

E tutta la retorica della Resistenza di casa nostra? Possibile che non venga fuori in queste maestranze un briciolo di coscienza, una specie di resipiscenza di classe?

Era questo il discorso che stavamo quasi per fare in punta di penna, ma che non faremo.

Quello che speriamo leggerete, cari compagni, non è un articolo “antimilitarista”. Piuttosto è un lungo chiedere senza trovare risposte, un avanzare domande che nemmeno noi riusciamo a capire se sono fondate o meno.

Il suggerimento lieve e sfumato, l’accenno appena intravisto, perché tale è l’intuizione dell’immane baratro che ci si spalanca davanti ai piedi, scatena una comprensione sensibilmente dolorosa del pericolo che ci circonda. Tutte le prospettive di completamento entrano così in crisi, in contraddizione, e il ruolo del semplice continuare a fare con obiettivi di modesta crescita quantitativa si abbassa a semplice contenitore, ruolo ricettivo che ha una certa fondatezza ma che potrebbe determinare una unilaterale svalutazione della conoscenza e del compito che quest’ultima svolge nell’azione. Insistendo nel dare spazio alla intuizione della miseria generalizzata, da un lato, e non svalutando in modo assoluto la conoscenza, dall’altro lato, si rafforza il processo verso l’azione. In fondo questa è un destarsi a nuova vita, non è un movimento fra i tanti.

Viviamo nell’impoverimento sociale che tutti ci produce e riproduce continuamente, i produttori che lavorano in queste industrie di armi sono nella stessa miseria che ospita anche noi, tanto bravi nel metterli alla gogna e nel sottolineare la loro insipienza. Ci fermassimo qua non saremmo migliori di loro e il nostro “anti” qualcosa sarebbe uno schermo ideologico e null’altro.

Il rifiuto dell’attacco immediato riesce spesso a dare risultati possessivamente accumulabili e specificamente vantabili in termini di fare, da cui è difficile spiccare il volo verso una vera e propria azione rivoluzionaria, progressivamente coordinata sulla base di un preciso progetto. Così ci si avvolge in una sorta di asservimento al risultato conseguito, terreno di riconoscimento, sèguito, applausi, imbecilli di contorno e tutto il resto. La rinuncia a tutto ciò è a volte vista come un trauma senza sbocchi, un vero e proprio salto nel buio.

La coazione a ripetere imposta dallo svilimento che tutti ci avvolge, causa perdite di profondità che svuotano ogni tentativo di comprensione fissato a priori. Ciò nega un dialogo più aperto con regioni e piani sconosciuti della realtà, con interstizi inammissibili alla semplice linearità. Individuato uno scopo, questo si rivela subito illusorio e viene immesso nell’insieme delle cose fatte e quindi in una prospettiva altrettanto illusoria, quella della completezza. Tutto ciò è molto conosciuto e può sembrare un punto ormai accertato, eppure c’è sempre un’enfasi eccessiva nella forza e nella onnicomprensiva capacità di accumulare guadagni decifrabili nella quotidianità. Ciò alimenta la presunzione e l’orgoglio che da ogni seme di conoscenza possa fiorire un rigoglioso albero, il che non è altro che una forma particolarmente sottile di stupidità.

Gli strumenti della conoscenza possono modificarci, anche profondamente, ma se siamo troppo legati alle cautele del quantitativo saranno anche i nostri desideri a essere modificati, di pari passo, e a sollecitarci a tradire ogni intenzione verso l’attacco. Questo fenomeno di ripiegamento azzera o riduce al minimo la piattaforma attiva da cui partire e ciò a volte accade prima che possano manifestarsi segnali importanti sia pure nel silenzio della riflessione.

Scoprire in noi, improvvisamente, il sentimento oceanico di dissolvimento delle corrispondenze e dei bilanciamenti protocollari, è una esperienza sconvolgente. Intuiamo un mondo diverso e ci sentiamo indissolubilmente legati a questo mondo, anche senza legami visibili o rafforzabili in maniera continuativa. Questo orizzonte fantastico ci attira anche quando siamo immersi fino al collo nella stupidità che scandisce le nostre giornate. L’ampiezza e la diversità non sono elementi strettamente necessari, non è la portata dell’intuizione a sconvolgerci, bastano piccole consapevolezze, anche se sono subito respinte, sia pure in attesa di qualcosa di migliore, di più profondamente radicato.

Quello che esiste fuori di noi è anche nella nostra coscienza, fa parte di noi, e non sono le parole che possono fornirgli qualcosa di nuovo, trasformandolo nel contrario di quello che è, questo sarebbe puro idealismo o anche il suo esatto contrario: bieco realismo perbenista, quello per intenderci dei piedi per terra.

Nell’interpretare il mondo, quindi anche nel criticarlo, antimilitarismo compreso, noi lo riproduciamo, cioè ci poniamo come specchio dove la realtà si riflette e continua a essere giustificata, in altri termini continua ad andare avanti anche con il nostro avallo critico, con il nostro chiamarci fuori, con il nostro essere “anti” qualcosa. Di più. Il nostro sforzo di mettere in rilievo i guasti che la realtà comporta, i pericoli per l’umanità, per l’estinzione del pianeta e di tutto il resto, fornisce elementi di recupero e di controllo, in altri termini è un atto di spontanea partecipazione repressiva. Vestiamo la divisa del carabiniere gratuitamente e senza accorgercene. La cosa ci mette a posto con la nostra coscienza infelice e ci trasforma in ebeti soddisfatti e contenti.

La grottesca sollecitudine del quantitativo è rivolta a continue modificazioni che sono aggiustamenti diretti a liberarsi dalla tirannia della mancata completezza. Ciò porta a formazioni su piani differenti che causano slittamenti privi sempre più di senso codificabile. Slittamenti e resistenze di fronte all’unificazione accumulativa rinviano a percorsi alternativi, scavati in profondità innominabili, dove continuamente emergono mondi non detti e che occorre, di volta in volta, nominare. La passività e la paura circolano lo stesso in questi percorsi, ma la pretesa di nascondere in qualche modo la povertà generalizzata, ogni volta deve smascherarle e riconoscerle, procedimenti complessi che prevedono una complicità di nuovo conio.

Ma conoscere la realtà non è interpretarla per misurare la distanza che separa le nostre pie intenzioni dalle sue diaboliche realizzazioni, conoscere è trasformare, cioè unificare dentro di noi quella conoscenza polverizzata (mille e mille misfatti vengono compiuti dal nemico che ci opprime) e unificarla in un progetto di attacco, in un atto di spontanea decisione che prende spunto certamente da quella conoscenza primordiale ma a essa non si ferma, anzi va avanti oltrepassandola e individuando i punti da colpire. Questa individuazione è processo creativo di nuove forme realmente esistenti, non solo parto della nostra fantasia, e queste forme vengono in vita diversamente una dall’altra, non sono banali riproduzioni di una modellistica progettuale, in quanto in ognuno c’è intera la nostra natura specifica di individui, con tutta la nostra stupidità ma anche con tutta la capacità di migliorarci e di migliorare il mondo che ci circonda.

Utilizzando da una parte le nostre conoscenze teoriche, in altri termini il nostro progetto rivoluzionario, dall’altro l’esperienza diretta della realtà, produciamo conoscenza, la nostra conoscenza, strumento di volta in volta nuovo, che ci porta con sé principalmente a livello emotivo, strumento che amiamo e che curiamo con tutte le nostre attenzioni e per il quale siamo disposti a fare ogni sforzo perché è proprio esso che consolida in sé tutti i nostri sogni. Queste conoscenze sono quindi una sorta di specchio vivente di almeno tre elementi: a) il nostro progetto rivoluzionario, b) la realtà che ci circonda, c) i nostri desideri di trasformarla.

Il progetto rivoluzionario non è una camicia di forza dentro cui fare entrare la realtà. Ma è esso stesso un atto creativo. Sia pure rivestito di parole, quindi momentaneamente prigioniero di una specifica formulazione, non aspetta altro che di prendere il volo verso l’esperienza concreta, nuovamente concreta, diversa per necessità di cose da quell’esperienza che lo ha visto nascere. Anch’esso è un desiderio, un atto d’amore, un movimento in corso, non un oggetto già costruito, fermo nel tempo e soggetto all’usura che questo inesorabilmente esercita su tutti gli oggetti. Di questo fatto ci si può rendere conto esaminando le diverse conseguenze che il medesimo progetto determina in situazioni diverse e nelle mani di compagni diversi. L’azione rivoluzionaria, se parte da un progetto preciso, non riproduce uno stampo di già fatto nello spazio e nel tempo ma nell’applicarlo lo trasforma e nel trasformarlo trasforma la realtà. Non porta le cose dentro il progetto ma il progetto dentro le cose, e poiché queste ultime sono sempre diverse, in sé come relazioni e come oggetti e nella loro totalità, non è mai possibile prevedere con esattezza dove fermare la trasformazione e del progetto e delle cose stesse. L’intelligenza del rivoluzionario presiede a questo scambio, a questo reciproco passaggio, ed è in grado di dare vita a sempre nuove forme creative di organizzazione, non giocando a sostituire vecchi concetti con nuove parole, ma veramente entrando nella realtà fino in fondo.

E della realtà che ci circonda? Di questa realtà, che cosa ne diciamo?

Ecco il punto. Lo svilimento che la caratterizza, che caratterizza la nostra epoca, non ci vede estranei. Noi, come tutti, siamo figli della nostra epoca, svilita questa siamo sviliti anche noi. Anche noi anarchici, per intenderci. Pensarci immuni è sognarci mosche cocchiere. La differenza nelle prospettive del mondo, che indubbiamente continua a esserci – le parole non mancano mai e i nostri “anti” rimangono ineffabili – non basta. Alla fine corriamo il rischio di dire qualcosa e di contribuire, senza volerlo, proprio al suo contrario. Impoveriti in un impoverimento generale, rifiutiamo di ammetterlo. La prima conseguenza di ciò è una tracotanza nuova nelle nostre affermazioni. A parole siamo i padroni del mondo, lo rivoltiamo come un calzino. Ma come lo percepiamo? È vero che siamo in grado di prenderlo in considerazione criticamente, quindi di legittimare le nostre critiche con quella vera sintesi che rimane padrona dei tanti aspetti del problema? Io penso di no. Ciò revoca in dubbio non solo l’interpretazione del mondo che ci circonda – cosa per altro pacifica – ma anche l’impiego del progetto rivoluzionario stesso. In una miseria generalizzata la nostra miseria avrà pure delle sfumature meno gravi (questo resta da dimostrare), ma è di già sufficiente a renderci ebeti di fronte al compito distruttivo che dovremmo proporci. In fondo l’azione rivoluzionaria non è un oggetto che una volta prodotto sta lì in vetrina pronto per la vendita. Essa è un processo che si ripete continuamente e continuamente deve essere compreso e per comprenderlo occorre l’intelligenza adeguata del rivoluzionario. Ma dove trovare questa intelligenza nella miseria dello svilimento, quando da ogni lato fioriscono imbecilli come funghi? Ahimé, il sentirsi circondati da stupidi rende stupidi, è inevitabile.

E lo stupido si lascia trascinare dall’immiserimento generale, non oppone neanche quel minimo di resistenza che sembrerebbe indispensabile al respiro di ogni uomo degno di questo nome. In tale atmosfera non c’è niente che valga la pena veramente di portare avanti, di accudire con amore, di sognare in quanto perfezione realizzata, non c’è nulla di bello, solo l’ordine e la regola regnano incontrastati. Tutto si appiattisce sul minimo sforzo, sull’individuazione della causa prossima, sulla collaborazione, sul chinare la testa offrendo al dio dell’uniformità perfino il proprio dissenso. Ognuno si trova a proprio agio in questa poltiglia indifferenziata, indossa la propria divisa, si deturpa con gli stessi segni, ascolta i medesimi brusii, si impone il medesimo ritmo di perdita di senso e di speranza. I deboli vengono azzerati da questa disciplina che sembrerebbe lasciare la massima libertà a ciascuno e che schiaccia come mai il terrore del passato si era sognato di fare. I miglioramenti apparenti producono disgregazione e povertà di idee, pessimismo d’accatto e opportunismo. I forti si impongono di sembrare tali, quindi finiscono per non esserlo più. Si danno discipline di comportamento, non prospettive di attacco, simulazioni di salute. Non si ribellano, si limitano a mimarne i segni esteriori.

Lo svilimento non ha bisogno di essere raffigurato, le sue produzioni sono fatte nel segno della pienezza, dell’apparenza che raffigura la realtà, che dell’immagine vuota si appaga e si vanta, saziandosi a sufficienza. In questo modo l’esistenza quotidiana – polverizzata nelle tante piccole cose da fare – sopravvive a se stessa in una continua secrezione di ripetitività: un volantino oggi, un giornaletto domani, un presidio domani l’altro, un convegno, un dibattito, una passeggiata serale ai margini del villaggio. La putrefazione dilaga sotto l’aspetto della vita, sceglie i temi della propria dissoluzione come si scelgono le proprie letture, sulla base delle sillogi correnti. In fondo l’ottimismo domina mentre dappertutto regna lo svilimento.

“Ogni fatto naturale al quale l’uomo colleghi l’idea di malvagità e di colpa, come ancora oggi, a esempio, egli suole fare riguardo alle cose erotiche, disturba e offusca la fantasia, rende lo sguardo sfuggente, induce l’uomo a prendersela con se stesso e lo rende insicuro, gli toglie la fiducia in sé. Persino i suoi sogni ne ricevono un sapore di coscienza tormentata. E tuttavia, questo soffrire per ciò che è naturale, è nella realtà delle cose affatto immotivato, è solo la conseguenza di opinioni sopra le cose. È facile comprendere come gli uomini diventino peggiori, definendo cattivo ciò che è inevitabilmente naturale e considerandolo poi sempre in tale modo. L’artificio delle religioni e delle metafisiche che vogliono l’uomo malvagio e colpevole per natura è quello di rendergli sospetta la natura e di fare così diventare cattivo lui stesso, egli impara infatti a sentirsi cattivo, dal momento che non può spogliarsi dell’abito della natura. Dopo avere vissuto a lungo in ciò che è naturale, egli a poco a poco si sente gravato da un tale fardello di colpe, che occorrono potenze sovrannaturali per sollevare quel peso, così fa la sua comparsa quel bisogno di redenzione di cui abbiamo parlato, che corrisponde a una colpevolezza nient’affatto reale, bensì immaginaria”. (Friedrich Nietzsche).

Arrivati alla modificazione dimidiata, tagliata in due e irrimediabilmente priva della qualità originariamente saldata all’attuale quantità, se ci ribelliamo non siamo semplicemente contro tutto questo, ma per tutto questo e per quello che è sfuggito via. Il nostro non può essere un semplice atteggiamento negativo, tagliare la sofferenza insopportabile e basta, ma andare oltre questa prigione pietrificata, oltre questi mugolii e queste urla destituiti di dignità. Ritrovare la complessità della completezza, è questa l’azione rivoluzionaria nel territorio desolato che ci circonda, è questo il necessario viatico.

Una scansione degli eventi produttivi, se inserita in sporadici tentativi critici, si caratterizza per la sua persistenza intervallata da accettazioni supine e da rigetti disperatamente inconsulti, ed è quindi funzionale proprio allo svilimento. Speranze fioriscono, si intravedono, scompaiono. Nell’azione siamo continuamente chiamati a recidere il filo fragile che ancora ci collega alla modificazione produttiva. Il segno presente della morte, le configurazioni oniricamente distruttive che realizziamo nella puntualità della coscienza ormai ridotta in briciole, materializzano ombre del passato e con queste si scontrano, anche se non possono essere questi ricordi a mortificare il sogno di una forza dirompente, le antiche palpitanti parole rivolte al silenzio del futuro. Eppure sono là queste remote presenze, le avvertiamo in un trasalimento, in una improvvisa tentazione di speranza, in un alleggerirsi della nostra tensione intensificativa. Si tratta di un intreccio che si ripropone continuamente attraverso l’oltrepassamento stesso, tra diversità e immediatezza, un intreccio sfilacciato e fluttuante, stiracchiato da un lato verso le equilibrate esperienze e dall’altro verso la puntualità coltivata da mille intuizioni e realizzata forse soltanto in un colpo, coinvolgimento, vortice che turbina attorno a noi.

Può uno stupido sognare la trasformazione della realtà? Certo che può (ultimo punto dell’elenco di cui sopra), ma sarà una trasformazione stupida.

Un elenco di fabbriche produttrici di armi. Un elenco ghiotto. [Cfr. “Senza Titolo” n. 4, Autunno 2009, pp. 62-74]. Che ci dice questo elenco filtrato attraverso lo svilimento generalizzato in cui viviamo? Che rappresentazione oggettiva ce ne facciamo?

Questo elenco non è un punto dove arrivare per sbigottire il proprio risentimento, ma un punto da cui partire per andare oltre i limiti ormai rinsecchiti dei nostri progetti “anti” privi di sugo.

Argomento da riprendere, magari con qualche riflessione da parte dei pochi lettori che ci seguono.

 


[Pubblicato su “Senza Titolo” n. 4, Autunno 2009, pp. 49-61]

Uccidere

Uccidere è privare qualcuno della propria vita, l’estrema offesa che un essere umano può imporre a uno o a più altri esseri umani.

Posta in questi termini l’uccisione di qualcuno uguale a noi – tutti gli uomini sono uguali – sembrerebbe un fatto raro, e invece non lo è. Non tanto perché la maggior parte di questi omicidi resta sconosciuta, ma perché sono tante le ragioni che rendono normale la morte imposta a qualcuno.

“Coloro che scavano più a fondo si vedono gettati nell’esistenza come in un campo di macerie, di azioni inautentiche. Ma la vita si ribella. In profondo essa avverte un moto d’orrore all’idea che l’intera vita possa svolgersi così. In profondo, essa si spaventa al pensiero della morte. Il lutto è quello stato d’animo per cui il sentimento rianima il mondo svuotato gettandovi una maschera, per provare un piacere enigmatico alla sua vista”. (Walter Benjamin).

I Paesi cosiddetti civili hanno abolito la pena di morte (non tutti) ma non si preoccupano più di tanto delle morti sul lavoro, degli incidenti stradali, degli omicidi organizzati dalle strutture di potere parallele (mafie, servizi segreti, polizie, ecc.) e non si preoccupano per nulla degli inquinamenti che causano migliaia di morti, basta pensare al modo in cui fino all’ultimo è stato giustificato e pubblicizzato l’uso dell’amianto per farsene un’idea.

Non occorre risalire tanto indietro per arrivare al diverso trattamento morale riservato ai Tedeschi (perdenti) che hanno ucciso milioni di ebrei nei campi di concentramento e agli Americani (vincenti) che hanno ucciso centinaia di migliaia di Giapponesi e di Tedeschi a Hiroshima, Nagasaki e Dresda.

Severino Di Giovanni nell’Argentina degli anni Venti fu fucilato per le sue azioni di attacco contro il capitale e le istituzioni di quel Paese dove era costumanza diffusa fra la borghesia andare, in Patagonia, a caccia di Indios uccidendoli a fucilate come camosci.

“Ogni testa è un deposito dove dormono statue di dèi e di dèmoni di ogni dimensione ed epoca, il cui inventario non è mai stato fatto”. (Michel Butor)

In questi ultimi anni, venuti a scadenza i termini di legge per la semilibertà e la libertà definitiva di tanti condannati all’ergastolo per omicidi e altri reati commessi a partire dagli anni Settanta, si sente in giro una geremiade di recriminazioni, da parte delle associazioni di perbenisti ansiosi di vedere carcerazioni sempre più lunghe e più efferate, e “ex qualcosa”, di destra o di sinistra, desiderosi a loro volta di giustificare il credo rieducativo di quel codice in base al quale sono stati condannati e dopo lunghi anni rimessi in libertà.

Quante occasioni perdute di fare silenzio, un silenzio dignitoso al posto di parole pietose.

Perché tanta gente è stata uccisa? Perché tanti sono diventati uccisori? Da quello che oggi emerge da una congerie confusa di dichiarazioni e giustificazioni, per non parlare dei libri e dei film, nessuno sa perché. Un’ondata collettiva di follia generalizzata ha travolto tutti? Ebbene non è stato così, bisogna dirlo chiaramente.

Alcuni hanno ucciso pochi per educare molti, ed è errore tipico di chi in fondo al cuore alberga il medesimo concetto terroristico dell’azione repressiva statale. Destra e sinistra, in tale campo, si danno la mano. L’ordine da questa gente sognato, adesso che la distanza si è fatta consistente e le riflessioni a caldo sono remote, ci appare non molto diverso. Lo Stato agisce anche oggi allo stesso modo, terrorizza i pochi per indurre i molti a restare nei ranghi.

Ma alcuni hanno ucciso per altri motivi. Hanno ucciso per vendicare un sopruso patito, hanno ucciso per azzerare l’esistenza di singoli responsabili della repressione e dello sfruttamento. In questo caso, senza nessuna pretesa educativa, senza nessuno sforzo immaginativo diretto a sistemare una volta per tutte le cose, uccidere è stata un’azione ben fatta.

Un solo esempio: Luigi Calabresi.

E senza fare troppe sbrodolature, senza perdersi negli insensati gineprai di rivendicazioni e giustificazioni.

 


[Pubblicato su “Senza Titolo” n. 4, Autunno 2009, pp. 75-79]

 
 

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