Titolo: Contro la chiarezza. Contro l’oggettività
Sottotitolo: Seconda edizione riveduta e corretta
Note: Pensiero e azione N. 39
Prima edizione
Contro la chiarezza, gennaio 2002
Contro l’oggettività, dicembre 2001
Seconda edizione in un unico volume: maggio 2015
SKU: pensiero-000039
Dimensioni: cm 15 x 21,5
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“Non ascoltando me, ma il logos, è saggio riconoscere che tutto è uno”.

(Eraclito, fr. B50)

“Anassimandro, Parmenide ed Eraclito sono gli unici pensatori iniziali, ma non nel senso che inaugurino e comincino il pensiero occidentale, dato che già prima di loro ‘ci sono’ pensatori. Essi sono pensatori iniziali perché pensano l’inizio. L’inizio è ciò che nel loro pensiero è pensato. Ciò suona come se ‘l’inizio’ fosse una specie di ‘oggetto’ che i pensatori si pongono dinanzi per poterlo pensare a fondo. Ma si è già detto in generale che il pensiero dei pensatori è un arretrare di fronte all’essere, sicché, se nell’ambito del pensiero pensante quello iniziale è il pensiero supremo, allora qui deve avvenire un arretramento di tipo particolare. Questi pensatori, infatti, non si pongono di fronte l’inizio nello stesso modo in cui uno scienziato ‘pone mano’ a qualcosa. I pensatori iniziali non pensano l’inizio nemmeno come se si trattasse di una creazione mentale prodotta da loro stessi. L’inizio non è il frutto della grazia di questi pensatori, con cui essi operano in questo o quel modo, al contrario: l’inizio è ciò che fa iniziare in questi pensatori qualcosa; poiché li reclama in un modo tale da esigere da loro un arretramento estremo di fronte all’essere. I pensatori sono coloro che vengono iniziati? – catturati dall’inizio? – cattura (die vom An-fang An-gefangenen), coloro che da esso vengono raggiunti, per esservi raccolti e riuniti. Già l’idea che ci induce a parlare dell’‘opera’ di questi pensatori è sbagliata. Ma se per il momento usiamo come ripiego questa espressione, dobbiamo nel contempo tenere presente che la loro ‘opera’ – quand’anche ci fosse conservata integralmente – quanto ad ‘ampiezza’ sarebbe assai contenuta in rapporto all’‘opera’ di Platone o di Aristotele, e ancor più a quella dei pensatori moderni. Platone, Aristotele e i pensatori successivi hanno pensato molto ‘di più’, hanno attraversato molti più ambiti e livelli del pensiero, e hanno posto le loro questioni in base a una conoscenza più ricca delle cose e dell’uomo. Eppure tutti costoro pensano ‘di meno’ dei pensatori iniziali. Il caratteristico stato di necessità che costringe il pensatore dell’età moderna a scrivere un libro di più di quattrocento pagine per dire solo qualcosa di ciò che ha da dire è il segno inconfondibile del fatto che il pensiero dell’età moderna si situa fuori dall’ambito del pensiero iniziale. Basta ricordare la Critica della ragione pura di Kant o la Fenomenologia dello spirito di Hegel. Da questi segni riconosciamo che già da molto tempo il mondo si è scardinato e l’uomo si è smarrito. Ma non dobbiamo nemmeno dimenticare che il testo fondamentale della filosofia dell’età moderna, le Meditationes de prima philosophia di Descartes, conta poco più di cento pagine, e che certi trattati decisivi di Leibniz occupano solo pochi fogli. Questi fatti apparentemente solo esteriori indicano che in tali trattati, così semplici e concisi anche nella struttura interna, ha luogo una trasformazione del pensiero che, pur non pervenendo all’inizio, torna tuttavia ad avvicinarsi di nuovo ai confini che lo circoscrivono. Per il fatto stesso che da lungo tempo siamo costretti a procurarci le nostre conoscenze selezionandole dall’eccesso di ciò che si dice e si scrive, abbiamo finito per perdere la capacità di udire quel poco di ciò che è semplice che la parola dei pensatori iniziali dice. La difficoltà di comprensione e il tono faticoso della meditazione non sono dovuti alla presunta osticità dei ‘testi’, ma solo all’impreparazione e all’inettitudine della nostra natura. Considerando che siamo all’inizio, non abbiamo scelta: o ci poniamo in cammino alla volta dell’inizio, oppure ci allontaniamo da esso. Tentiamo di prepararci alla prima possibilità”.

(M. Heidegger, Parmenide)

Introduzione alla seconda edizione

Rimettere le cose a posto, una per una, con maniacale cura. Il sogno di ogni buon conservatore, anche di quello che accortamente, e senza farsene avvedere, alberga dentro di me. Altra via possibile, buttare tutto in un cassetto, da qualche parte, possibilmente in quell’archivio immaginario che ho sempre alimentato con tante carte del passato, in omaggio alla mia disavvedutezza, da un canto, e al mio disprezzo per le documentazioni e le muffe, dall’altro. Archivio puntualmente sversato nel raccoglitore dei rifiuti. Buona pace a tutti.

Ma qui c’è qualcosa che si muove sotto i testi, miei, e mi riguarda anche oggi, alla soglia dei settantotto anni (pochi giorni ed è fatta), soglia fatidica andando ben al di là di quel limite che mi ero prefissato, ingenuamente, come quando giocavo con me stesso, come quando da bambino camminavo saltellando sul marciapiede evitando di mettere i piedi nelle connessure dei lastroni di lava.

E il resto, anche del resto mi importa, in fondo, anche di quell’immensa quantità di scritti che se ne è andata in giro per il mondo sotto nome altrui. Qui non ce ne sono, ma la mia mente proprio adesso, stamani, mentre scrivo queste righe improvvisate al computer, la mia mente va a quelle pagine che avverto come pezzettini di me stesso inciprigniti nel mantenere paternità eterogenee. Un giorno dovrò pure metterci le mani sopra. Ma che c’entra?, dirà il mio inflessibile e unico lettore-correttore, c’entra. Non stiamo parlando, qui, contro la chiarezza? E allora, che ne parliamo a fare? In tanti di quegli scritti ero meno chiaro e più interessato a un altro genere di contenuti di quanto lo sarò di poi, ostinatamente, e spesso distintamente scolastico. Ma non è il caso di continuare a discutere con me stesso, meglio parlare con chi avrà l’ingrato compito di leggere questa introduzione.

Qui si critica la chiarezza, qui si critica l’oggettività. Un abbozzo di critica negativa. Tutto qui. La consapevolezza muore di stenti, anche nella critica negativa. I suoi alimenti solidi, prodotti della dottrina asfittica del possesso, alla lunga la disgustano e vi rinuncia. La sua logica cambia espressione, non ha più evidenze in cui credere, diventa evanescente e sente scorrere acqua nelle vene dove ieri scorreva sangue, sia pure tiepido. Non sono più consapevole di una verità, per quanto immiserita, né ho sospetto fortemente fondato dell’apparenza. Se non taglio netta questa situazione mi ritrovo costruttore di limiti per conto di un nuovo ragionevolissimo governo rivoluzionario. Mi ritrovo nei libri di storia.

Non voglio accodarmi all’ovvietà. Un quadro di leggi regge il mondo e questo a quelle si attiene, non ne può fare a meno. C’è qualcuno che resta rintanato nell’arca delle convenzioni e guarda il mondo esterno con sarcasmo, a volte tagliente e perfino affascinante, ma questo qualcuno è sempre una bestia pelosa che non vuole sputare sui propri interessi. Si attiene alle regole e poi ne chiacchiera male, prendendo da esse distanze apparenti, sviluppando litigi da pianerottolo, forse nemmeno da cortile. Sgretolare quel quadro è un impegno duro che non necessita né di sarcasmo né di supponenza, odio i blasé e odio i detentori della conoscenza, le loro convinzioni vanno in mille pezzi non appena si solleva il vento del deserto.

L’assenza si rivela nella desolazione, qui appare quasi derisoria di tutte le mie preoccupazioni del fare, ma devo entrarci dentro totalmente, altrimenti sono ancora una volta uno spettatore, un eremita andato a meditare nel deserto sui guai della vita nel mondo. Ingigantisco questi ultimi a proporzioni smisurate perché sono là, accanto a me, nel deserto, me li sono portati dietro. Anche se ora li guardo con una certa superbiosità avendoli oltrepassati, fanno parte di un bagaglio che il mio parziale coinvolgimento non è riuscito a buttare via. Appesantendomi si traducono in una espiazione ridicola che mi impedisce di agire.

La conoscenza è processo accumulativo, l’intelligenza conoscitiva è processo selettivo, cioè critica negativa. I due movimenti non si integrano sempre, anzi al contrario è abbastanza difficile che il dominio conoscitivo omologato riconosca l’intrusione critica. Non che possa respingerla, a parte i casi limite del ricorso al codice penale, ma la sommerge e la dissolve omologandone i riferimenti negativi e distruttivi e modificandoli in nuovi moduli di perfezionamento e di accumulo. Per fare un esempio, tra l’esotismo ermetico fittizio di tanti imbecilli e la mistica ci sono differenze abissali, ma ambedue vengono recuperati allo stesso modo e senza preoccupazione. Solo l’azione spezza questo processo omologante e mette in difficoltà la comunicazione, cioè fa entrare un elemento vivo talmente sconvolgente da inceppare temporaneamente il meccanismo. Ciò non vuole dire rinuncia alla parola e alla logica, ma critica negativa, elaborazioni critiche molto più sofisticate per arrivare sempre al medesimo punto, la propria messa in gioco, ma con strumenti in grado di produrre effetti negativi ad alto potenziale distruttivo.

Riprenderò altrove il filo che qui mi piace lasciare malamente tagliato in tronco. Senza salvaguardia per il lettore.


Trieste, 24 febbraio 2014


Alfredo M. Bonanno

Parte Prima. Contro la chiarezza

“Questo cosmo, che è il medesimo per tutti, non lo fece nessuno degli dèi né degli uomini, ma sempre era, è, e sarà fuoco sempre vivente, che si accende e si spegne secondo giusta misura”.

(Eraclito, fr. B30)

“Ma forse non si tratta né di un ‘poema’ nel senso della ‘poesia’, né di una ‘dottrina’. Il modo in cui qui le parole sono dette e il modo in cui il detto è pensato possono essere davvero chiariti solo se prima sappiamo che cosa qui è pensato, e che cosa deve giungere alla parola. Qui la parola viene detta in un modo peculiare, viene cioè pronunciato un detto. È per questo che in seguito chiameremo la parola iniziale di Anassimandro, di Parmenide e di Eraclito il ‘detto’ di questi pensatori. ‘Il detto’ significa l’insieme del loro dire, non solo singole frasi e sentenze. Tuttavia, per non smentire la tradizione, anche noi in un primo momento parleremo del ‘poema didascalico’ di Parmenide. Per sapere che cosa è detto e pensato nelle parole di Parmenide, scegliamo la via più sicura, seguiamo il testo. La traduzione allegata ne contiene già l’interpretazione. Tale interpretazione ha bisogno tuttavia di una delucidazione. Eppure, né la traduzione né la delucidazione hanno un peso fintanto che ciò che è pensato nella parola di Parmenide non ci tocca direttamente. Tutto dipende dal nostro prestare o meno attenzione al richiamo proveniente dalla parola pensante. Solo così, prestando attenzione al richiamo, conosciamo il detto. Ciò a cui l’uomo presta attenzione, il tipo di attenzione che egli dedica all’oggetto dell’attenzione, l’originarietà e la costanza del suo essere attento sono ciò che decide della dignità che viene assegnata all’uomo in base alla storia. Il pensare è l’attenzione per l’essenziale, e in essa consiste il sapere essenziale. Ciò che solitamente si definisce ‘sapere’ è l’intendersi di una cosa e dei suoi elementi distintivi. In forza di siffatta conoscenza noi ‘padroneggiamo’ le cose. Questo ‘sapere’ padroneggiante mira all’ente corrispettivo, alla sua organizzazione e al suo sfruttamento. Tale ‘sapere’ si impadronisce dell’ente, lo ‘domina’, e di conseguenza va al di là di esso, superandolo di continuo. Il sapere essenziale è di tutt’altro genere. Esso mira a ciò che l’ente è nel suo fondamento, mira cioè all’essere. Il ‘sapere’ essenziale non padroneggia ciò che intende sapere, ma ne è piuttosto toccato. Ogni ‘scienza’, per esempio, ma non soltanto essa, è un padroneggiamento conoscitivo, vale a dire una vittoria schiacciante sull’ente e un suo superamento, se non addirittura una sopraffazione. Tutto ciò si compie nella modalità dell’oggettivazione. Viceversa, il sapere essenziale, l’attenzione, è un arretrare di fronte all’essere, un arretrare in cui vediamo e percepiamo essenzialmente di più, vale a dire qualcosa di completamente diverso che nel singolare procedimento della scienza moderna, il quale è sempre un’aggressione tecnica nei confronti dell’ente e un intervento finalizzato all’‘orientamento’ operativo, ‘produttivo’, attivo e affaristico. L’attenzione pensante rimane invece un prestare ascolto a un richiamo che non proviene dai singoli fatti e processi della realtà, e nemmeno riguarda l’uomo negli aspetti superficiali delle sue occupazioni quotidiane. La conoscenza delle ‘frasi’ di Parmenide è legittima solo se nella sua parola si rivolge a noi il richiamo dell’essere, e non qualcosa di oggettuale tratto dalla molteplicità dell’ente. Se non prestiamo attenzione a tale richiamo, qualunque cura dedichiamo alla delucidazione di questo pensiero cade nel vuoto. L’ordine secondo cui delucidiamo i singoli frammenti si determina in base all’interpretazione del pensiero dominante che poniamo a fondamento delle singole delucidazioni, interpretazione che in verità può venire alla luce soltanto gradualmente”.

(M. Heidegger, Parmenide)

Nota introduttiva alla prima edizione

Lo scopo della critica è stato per lungo tempo quello di azzerare la costruzione della cultura, definirla ostacolo al fiorire della vita primordiale, del potente afflato dell’origine. Era tutto questo, e nello stesso tempo, era occhio acuto verso la forma, intollerante e rigorosa ricerca dell’essenziale. La parola faceva velo alla vita, bene: bastava esasperare la parola fino al parossismo della sua capacità espressiva per condurre la vita fuori dal luogo dell’esistenza che minacciava di opprimerla. Di quella critica d’altri tempi, è rimasta soltanto la buccia, che bocche sdentate continuano a succhiare, stomacandoci col loro spettacolo. Il patibolo e il boia parlano, il loro linguaggio è adeguato a quello del magistrato e della legge. L’ordine regna a causa di un cumulo impressionante di parole. La modesta risposta del silenzio lo azzera, non c’è ordine nel silenzio ma pura desolazione. I dogmi dell’ordine non si possono criticare negativamente. Di regola ciò l’ho fatto, e continuo a farlo, ma poi vado oltre, colgo quello che sta oltre la parola critica, che taluno considera l’estrema periferia dell’impero. Non ci sono corrispondenze barcollanti, o esistono o non esistono. Se le nomino le costringo all’esistenza ed esse si ritorcono contro di me, fissando paletti e contrassegni alla mia fantasia. Una incontrollabile fantasia è immaginare il loro crollo e poi assistervi impassibile. Solo le canaglie possono pensare sempre di farla franca.

Disumanizzandosi, la società degli uomini è diventata quella delle loro controfigure che si relazionano nella comune assenza di significato e di autonomia. Sbiadiscono i significati – la parola ne aveva parecchi – complessi e mai del tutto esauriti. C’è da dubitare che dalla miserabile pantomima telematica possa venire fuori qualcosa in grado di risarcire la parola dell’uomo riconducendola scalciante ai passati splendori. Non alla babele delle passate concezioni, o teorie, o incantesimi, o alle tradizionali coperture ideologiche, non dico questo. La parola è morta non perché la società attuale le impedisce di esprimere il medesimo pensiero di cinquant’anni fa, è morta perché non ne esprime uno nuovo, attuale e significativo, capace di fare concorrenza alle altre strade dell’informazione, della comunicazione e della codificazione. La morte della parola ha portato alla superficie un nuovo tipo di critica negativa, che continuiamo a chiamare alla stessa maniera per una sorta di pigrizia verbale. Creo il mondo parlando, dio dell’apparenza assoluta, e gli do la forma del mio pensiero. È un gioco allettante, mi attrae per la potenza che ne ricavo, tutta la conoscenza ruota attorno a me, poi mi accorgo che insieme al possesso mi sono costruito le mie catene. Resto così fermo al palo, la parola mi sovrasta e mi ordina perché ordina alla mia volontà di comunicazioni condivisibili. Sono servo delle corrispondenze a cui ho dato vita e che pensavo mi garantissero la completezza. Invece sono esse a governare la mia creazione. Certo, potrei cancellarle in un colpo, ma per fare ciò dovrei alzarmi in piedi, fronteggiare uno scontro, ma non so se ne ho la forza. Mi devo abbandonare, devo evitare un affrontamento sul medesimo terreno del mondo, governato dalle parole. Occorre che mi faccia avanti in modo diverso, intuendo percorsi e itinerari che mettano a frutto i miei precedenti sforzi critici, altrimenti condannati alla confusione e alla morte.

Lo scritto è diventato cieco per riduzione drastica di autonomia. Non può più lottare per la vita, non può annichilirsi nella sovrabbondanza, visto che nella sua cecità è esso stesso un prodotto della penuria. Anche facendo uno sforzo linguistico, che poi sarebbe un anacronismo al giorno d’oggi, anche producendo gli stessi materiali di un epoca passata, cosa che come tutti sanno non è possibile, mancherebbe il tessuto capace di leggere quello che verrebbe scritto in questo modo, sarebbe un ronzare fuori tempo, fastidioso, come sono stati fastidiosi in passato tutti i tentativi di contrapporre classicismi fuori del tempo a innovazioni sperimentali. L’ironia è bandita per sempre dalla parola, essa ama frequentare obitori. Vecchi meccanismi tornano nuovi a causa della paura di restarne senza. Vengono riverniciati di continuo. Le regole cambiano per restare tali. Anche le parole sono vecchie e ho paura di scalfirle un po’ più a fondo, quindi evito di farle parlare di quello che contengono. L’universo della singola parola è ancora quasi tutto da scoprire. Al suo interno grida la sofferenza di millenni, durante i quali questo universo si è diversificato e mortificato, fino a essenzializzarsi in un estremo metalinguaggio, ma che ha mantenuto la sua costante incapacità di completamento, cioè di risolvere veramente problemi e di dare risposte concrete alle domande essenziali della vita. Affrontare queste mancate risposte vuole dire andare più in là, prepararsi a negare la funzione specificativa, cercare un tutto che potrebbe essere solo l’illusione riflessa dell’apparenza. Se non mi metto alla prova, se non oltrepasso questo mondo che ho creato così perfettamente incapace di completarsi, la mia vita è priva di senso, morirò senza sapere se ho vissuto o meno. Venire fuori dall’evidenza che, non appena scalfita, anche in superficie, si dimostra apparente, per avvertire una possibile diversità e la presenza pesante, qui e ora, dell’assenza. Solo come esercizio mentale questo processo è incomprensibile. Non posso uscire idealmente dalle condizioni che mi hanno tarpato e preconfezionato nei margini di sicurezza attuali. Devo dare un progetto diverso alla vita che mi abbandona, devo riacchiapparla per altre vie, visto che la conoscenza a un certo punto si rivela superbia e orgoglio, apparente concretezza e superficiale affermazione di potenza. Il viaggio di cui parlo deve essere assistito da un rischio della carne, da un mettermi in gioco reale e completo, altrimenti è ancora una volta un affacciarmi alla finestrella del monaco medievale per registrare gli accadimenti nei miei annali.

Ogni nuovo movimento, allora, rappresentava una specie di smascheramento, un cadere malizioso della propria coscienza velata nei riguardi della propria verità, in contrasto con tutto quello che era stato fatto fino a quel momento. Adesso, le condizioni sono differenti. Non c’è nulla da ridurre ai minimi termini. Non c’è nulla da smascherare, nessun vestito da far cadere, in quanto niente viene prodotto con maschera, con coscienza velata. L’immediatezza sta raggiungendo livelli considerevoli di banalità e di controllo, non produce per il velo, né per la sovrabbondanza, e nemmeno per manifestare quel turgore, anche fastidioso, che spesso in passato è stato segno di saturazione. Non c’è nulla che può saturarsi nel sottilissimo, tutto è stato atrocemente mozzato, ridotto a un minimo denominatore comune che funziona da traduttore estemporaneo. Ogni aspetto è fungibile con un altro. Niente sorprese, né forti sensazioni. La parola scritta si è appiattita sull’asfalto lucido delle autostrade moderne. Il viaggio nella diversità non si risolve in un nuovo repertorio, sostitutivo del precedente, a cui posso attingere forse in un modo differente. Questo viaggio è uno spostamento in un territorio che dispone di me e mi porta a trasformarmi per trasformare. L’azione non incide solo sulla realtà, ma prima di tutto su me stesso. Le chiacchiere e gli inganni stanno ormai lontani, essi hanno salutato sul limitare critico negativo del coinvolgimento, ora un uccello mai visto ha spiccato il volo partendo da un mondo in frantumi.

Assolutamente se stessa, per la prima volta, la scrittura aspetta la definitiva consacrazione da parte del computer. Non è il pensiero che vuole annichilire la realtà (prigione e lager) per far sortire la vita nella sua originaria dirompenza, ma l’annichilimento dell’esistenza produce la parola morta che non riesce più a smuovere il pensiero e quindi, indirettamente, a sollecitare la vita. Questo taglierà definitivamente tutti i ponti, impedendo alla cultura di rivolgersi contro il meccanismo produttivo che la condiziona, cioè di svolgere quel lavoro che ha sempre svolto, quella ambivalenza mantenuta dalla nascita della sua autonomia. Al suo posto viene inserita una uniformità consolatoria, adibita a riposo settimanale per produttori stanchi, a lucore standardizzato per attirare gonzi, copertine lucide e quadricromie. Nessuna autonomia è più possibile. Il fatto è un peso che mi opprime, la sua stabilità e sicurezza mi danno un senso di completezza fittizia che mi stomaca, contro cui irrimediabilmente devo ribellarmi. Attorno a me regna la stoltezza di mille e mille acconsentimenti, la piattezza dei desideri coltivati con stanca uniformità, come fare l’amore sempre allo stesso modo. Chiudo gli occhi e la profondità dell’assenza mi lancia il suo richiamo che rimbalza come una palla sulla mia sordità. Sono fermo sulle mie decisioni che ammiro proprio per la loro solidità, decisioni che mi coprono e mi difendono in maniera irrimediabile. Ho bisogno di lasciare che l’inquietudine scavi i suoi condotti sotterranei, che il dubbio mini la mia organica appartenenza alla certezza, ho bisogno di abbandonarmi, di essere io stesso l’abbandono, non un occasionale accadimento. Non più il possesso, i corollari inevitabili del fare, il lavoro, la coazione, la completezza. Al loro posto l’eccesso che si attaglia solo alla libertà, che apre la via pericolosa dell’uno, che mi fa dimenticare di me stesso, che non monta la guardia alla mia ingenua fede nell’accumulo. Basta con l’intenzione frenetica di fare in modo che tutti i pezzi del mondo da me creato siano sotto il mio controllo, basta con il sentimento della durata, con l’illusione della permanenza, l’essenza mi impone un altro genere di frenesia, che non ha obiettivi visibili o conoscibili, ma solo intuibili.

Separata dalle sue speranze più vive, la scrittura si adegua a servire gli interessi immediati, apparendole grandioso anche questo compito, con lo stesso errore commesso in passato con interessi diversi. Da ancella diventa serva. Da tutrice ansiosa e utile, automa stupido e scipito. Il dominio non ha poi tutto questo bisogno della nuova serva, la tiene comunque per casa, in quanto la logica dello sviluppo vuole che si sovrabbondi negli orpelli, purché naturalmente questi siano soltanto tali e non abbiano pretese di vita in proprio. L’abiezione gettata sulla parola mostra l’osso che sta sotto la carne, spoglia la bellezza codificata e mortificante, per andare oltre anche verso una intollerante innocenza che non sa nemmeno che sia il felice torpore di una volta.

Nel regno della sopravvenuta idiozia, ogni scritto diventa uguale all’altro tutti uniti sotto la magnificenza dell’appiattimento. L’esistenza si è svuotata dall’esterno, nelle sue possibilità di significare fortemente se stessa, nel processo storico del divenire. Le grandi piaghe collettive l’hanno privata di dettagli, l’hanno massificata fino all’inverosimile. Parlare di quello che esiste non è più possibile, si può al massimo parlarne cercando così di sottrarsi al processo che conduce ogni acqua al mulino del potere. Alzando l’acme della parola non si fa ricadere in nulla tutto il resto, al contrario, si fanno ormai salterelli di gallina nell’aia che tutti ci racchiude, quella del villaggio globale. Nell’oscurità desolata la mente si rassoda e sgombra il campo degli orpelli che stupidi convincimenti continuano a scolpire come risposta barocca o coprivergogna ai grandi quesiti della vita.

L’ideale sarebbe la riduzione delle modulazioni comunicative a un modello prefissato, contenente tutte le variazioni, opportunamente computerizzate e quindi in grado di far passare quanto necessario, né meno, il che sarebbe dannoso, né più, che per un altro verso sarebbe altrettanto dannoso. Il potere non ha più bisogno di delegare ad apposite specializzazioni gli aspetti riproduttivi della cosiddetta creatività di massa. Le derrate alla moda le costruisce in proprio, le costruisce e le gestisce. Il linguaggio che utilizza non presenta più il classico pericolo del passato, l’eventualità della serpe in seno. Il prodotto non può rivolgersi contro l’incubazione che lo ha determinato, in quanto non è più in grado di separare il suo proprio concetto da quello che lo determina, essendo le stesse espressioni, forse differentemente modulate, altrettanti momenti della collaborazione. La critica negativa è una sorta di medicina per i dubbi dell’immediatezza e un viatico per l’oltrepassamento. Essendo tagliante e gradevole al palato esigente dei massacratori che abitano gli anfratti delle biblioteche, può diventare fine a se stessa e da antidoto modificarsi in veleno. Occorrono polsi fermi per impiegare lo strumento critico senza restare vittime dell’esplosione che si vuole causare.

La fruizione garantita non fornisce più una base da cui partire per sviluppi autonomi, a loro volta garantiti parzialmente e per il resto rifiutati e contraddetti. Nessuna separazione del genere è più possibile. La critica odierna è svuotamento dell’esistenza dall’interno, a partire dai meccanismi produttivi che la rendono possibile. Ma non è atto volontario, di chi guarda questo mondo con la piega sull’angolo delle labbra. È, al contrario, progetto di riduzione consolidato e operante, nei fatti modificativi stessi del fare coatto, che tutti ci imprigionano quotidianamente. Se io suono un pezzo di Bellini al pianoforte, poniamo la Sinfonia della Norma, cosa che mi riusciva, a quel che mi è stato detto, abbastanza bene anche a dieci anni, non posso fermarmi alla “suonatina” di quello che c’è scritto nelle notazioni, se ho più di dieci anni, età da cui si tollera tutto, devo “comporre” da me le arie di quella famosa apertura. Ma, per fare ciò, devo avere qualcosa di più della semplice tecnica pianistica. Devo alzare il modello “perfezionandolo” nella mia esecuzione. In caso contrario non mi è concesso crescere, meglio restare sempre all’età mentale di dieci anni, e se non ho questa capacità è meglio chiudere il pianoforte una volta per tutte, come ho fatto io.

La critica, oggi, non ha più nemmeno il diritto di portare questa etichetta, viste le condizioni di assoluta distretta in cui ci troviamo. Faremmo bene a non parlarne nemmeno. Il programma è una ideologia che va bene per schiavi emancipati fino a un certo punto, ai quali viene fatta balenare la remota possibilità di emanciparsi completamente. Per chi sa che la libertà non può essere concessa da nessun meccanismo o uomo che sia, il progresso è un elemento dell’apparenza, prodotto dal campo. Molti progressisti si lasciano affascinare dal progresso e vi si consegnano mani e intelligenza, vogliono che lui lavori al loro posto, approfittando di una forza motrice, simile alle tante che la tecnologia mette a disposizione a pagamento. Ma non si chiedono qual è il prezzo da pagare. La mia ribellione è proprio nel disastro, si nutre della miseria e della ineluttabilità di essa, è allattata dal convincimento che un miglioramento a poco a poco è un veleno mortale, rifiuta di entrare in compromessi con chi ha catturato e fatto prigioniero il mio animo. Non riesco a godere dell’ottimismo dei pezzenti che rosicchiano un osso buttato loro distrattamente.

Lo facciamo perché alcuni aspetti possono illuminare il rapporto tra esistenza e vita, che da non poco tempo è al centro dell’attenzione di molti. Il mondo che creo è lacunoso e improbabile, la conoscenza sviluppa cosmogonie simboliche che pretendono, suicidandosi, di fondarsi sul pragmatismo, così mi imprigiono sempre di più nella specificazione e nella parzialità senza però riuscire a dimenticare la mia aspirazione alla totalità dell’uno che è. Vasti sistemi filosofici inconciliabili ingombrano la mia mente e perseverano nel darmi l’illusione della completezza, ratificando invece la miseria. Il desiderio e la forza che sono in me si sperdono così in mille rivoli di apparente interesse, un vuoto dove si accumulano nozioni e fatti privi di una vera capacità di sintesi. La mia paura mi sollecita a invocare idoli scientifici, princìpi di corrispondenza o di indeterminazione, come moderni sostituti del vecchio Dio, ma non ci sono meccanismi che vegliano su di me.

Non si tratta qui soltanto dell’antico ruolo consolatorio, ma della gestione in proprio da parte del potere, che sostituisce qualsiasi ruolo pensato come separato. A suo modo razionalizzante, lo scritto del passato non ha più ragione d’esistere in un mondo che ha fatto della ragione il proprio fulcro propulsivo. Il vecchio apporto dissonante potrebbe ancora essersi nascosto fra le pieghe di un nuovo paludamento, ma non avrebbe più quel significato di rottura. La grande ragione dominante lo recupererebbe pascendosene come ulteriore livello di sicurezza. Il gestore della conoscenza non ha sussulti e incertezze, è vivo solo a metà, vive nelle contraddizioni e sogna di superarle o almeno di smussarle. Non vi riesce, ovviamente, ma non è in grado di soffrirne. Nel migliore dei casi, quando il suo animo è puro e l’atmosfera dei suoi fantasmi poco turbolenta, si sente vagamente inquieto. In fondo è un poveretto che cerca la cuccia dove riposare. Per me la conoscenza è stata sempre un desiderio, un amore mai interrotto, ma che mi sono trovare fra le mani?, un mucchio di carte ingiallite, un cervello forse appena più acuto, che non potrà frenare la decisione folle di affogare questi ostacoli nell’onda sovrumana dell’eccesso. Certo, qualcuno ha detto che si può essere colti ed eccessivi, forse, ma si riferiva a un’altra conoscenza, che da queste parti non alberga, alla sapienza del cuore, quella che io chiamo coraggio del coinvolgimento e che esclude la sicurezza, la garanzia. Ogni certezza mi tappa le orecchie, mi chiude gli occhi, mi fa reagire negativamente, affilo tutte le armi per reagire, se ho piaghe ulcerate smetto di curarle, se conto i giorni della vita che mi restano cerco di accorciarli. La nefasta certezza mi uccide, è la chiave del carceriere che tintinna attaccata alla sua cintola. Vivo pertanto nel disagio e nello stupore di come tutto questo mondo immerso nell’utilità produttiva possa produrre l’idea, la sola idea dell’incompiutezza? Forse è un segno del crollo vicino? Non lo so, non vedo balbuzienti attorno a me, non vedo molti compagni di viaggio che non siano in preda a finzioni e remore, o che non lavorino al proprio epitaffio. Lavoratore del lato notturno, aspetto la luce del giorno per rammemorare le mie azioni.

L’inganno centrale, funzionante a tutti i livelli, svelato, con potenza di mezzi, dava vita alla critica di tutti i valori, alla dissoluzione di ogni intenzione forte capace di “credere” nel meccanismo inconcusso della storia. Nessuno sviluppo poteva essere preso in considerazione, almeno non al di là di corte speranze e cortissimi risultati. La disillusione coglieva proprio alla radice la cultura a causa della sue particolare natura, proponendogli una falsa liberazione da tutti gli ostacoli del passato, fra cui in primo luogo la mancata corrispondenza con la realtà. Ognuno possiede oggi, con uguale larghezza e facilità, gli strumenti della propria nientificazione, si limita soltanto a smentire il fondamento di quello che accade, il ricorso allo scritto è un’eventualità non proprio necessaria. Le parole cedono alla contraddizione, sono intrise di una umidità malata che le svuota e le priva di sostanza. Non sono un fanatico, per questo sono andato oltre le parole, oltre l’apparenza dei fatti che di parole si veste e di parole vive.

L’uniformazione di aquile e pecore riduce qualsiasi portata realmente nichilista. Ciò accade con qualsiasi tesi, in quanto tutte arrivano alla medesima lunghezza d’onda. Quelle che per rara eventualità dovessero nascere e perfino prodursi su lunghezza d’onda diversa, non avrebbero accesso alla fruizione, sarebbero praticamente incomprensibili, considerate illeggibili, quindi inesistenti. Non si deve pensare che questo progetto abbia caratteristiche repressive. La gente non l’accetterebbe, almeno non direttamente. Una collaborazione, un accordo per facilitarsi la vita. Dopo tutto, dovendo usare le macchine, che senso ha ancora tollerare complessità linguistiche? Tagliare, bisogna, e ridurre. Gli dèi sono stanchi di fronteggiare l’avanzata dell’eccesso, non si trovano più a loro agio in un empireo che traballa sotto le possibili nuove occupazioni. Non è l’indifferenza atea e illuminata che li ha sfibrati ma, al contrario, sono stati stanati da una fede ancora più forte, da un coraggio più sostanzioso, dall’eccesso di fiducia che ho in me, che mi permette di coinvolgermi nell’avventura desolata della qualità. Nel deserto gli dèi sono smunti e disidratati, solitari, non sanno più combattere e siedono in attesa di una folla di eccessivi che non li guarda in faccia, che non li riconosce. Non si fanno illusioni, la mia ricerca della qualità non è comprensibile per loro, non possono gestirla e incanalarla. Tremano di fronte a un avanzare di forze naturali che scateno dentro di me e che impongono alla desolazione di farmi sentire la sua voce. Una volta anche loro avevano una voce, oggi non più, è stata cancellata dalla negatività critica, dalla tecnica modificativa, ma io non sono là in virtù di qualsiasi tecnica, sono là per me stesso e non ho intenzione di installare polemiche con chi è solo un fantasma moribondo.

Ridurre sempre maggiori quantitativi di persone al silenzio, questo è un progetto globale, in atto d’esecuzione, saporoso in una critica diversa. Il lettore è stato sempre considerato come riferimento ipotetico, massa da uniformare all’avvertimento, sia pure rivoluzionario. Ieri disinformato, oggi finalmente illuminato della propria ineffabile stupidità. Schematismi opportuni, di cui erano pieni gli scaffali, indicavano ieri verso quale direzione bisognava agire per soddisfare bisogni di conoscenza, innanzi tutto, poi anche quelli dello stomaco. Si suggeriva, in modo generico, di adeguarsi a questa massa, di non essere troppo difficili, di rispecchiarne gli stimoli, quindi gli interessi. Reazionari di ogni pelo e rivoluzionari, tutti concordi, senza considerare sfumature di parte e di partito che qui è inutile precisare, tutti concordi nell’indicare la ricetta della chiarezza. Nello scritto il rispetto verso la grammatica veniva prima di qualsiasi sollecitazione creativa, e la cosa non dava sospetti perché la grammatica è un crivello significante che garantisce certi risultati se non altro minimali. Nell’agire non c’è parola se non quella della prudenza e della conservazione. Posso di certo studiare e conoscere, interpretare e avviarmi all’azione, ma in questi casi sono prima, in una preparazione che ha come scopo unico la remotizzazione della volontà. Nell’azione al contrario non c’è parola che posso dire o che può essere stata detta. Non c’è nulla da sperare o da ricordare, tutto è dissipato nella sua essenza leggera, la nuova inutilità che l’avvolge come una nube. L’invadenza della qualità diventa pressante ed è solo la voce dell’uno che mi sembra di potere udire, ma solo nella forma essenziale che le è propria, quella che sono portato a chiamare silenzio. Il resto sta nell’azione stessa, non in me che la realizzo, nell’azione che parla la sua essenziale desolazione qualitativa, senza deformazioni, diretta e assoluta. Ogni spiegazione è impossibile dall’interno della qualità e la rammemorazione non è una spiegazione ed è interna al fare non all’agire, anche se potrà, forse, avere conseguenze sulla futura capacità di coinvolgimento e di trasformazione.

Tutto ciò era ovviamente falso, ma funzionava. In pochi, innalzandosi, potevano indicare col dito accusatore la nudità del meccanismo storico, l’ultimo dio sulla terra ancora fortemente aggrappato al trono supremo. Adesso, un’altrettanto falsa condizione viene fatta funzionare. Anche ora si dà per scontato un fatto che sarebbe da provare fino in fondo, cioè l’appiattimento della fruizione, base per garantire che l’appiattimento del messaggio funzioni realmente. Per il momento tutto lascia intendere che le reazioni vivaci nell’aspettativa dei soliti generosi non ci sono e non ci saranno. Si stanno organizzando i luoghi del silenzio, per ora, insituabili ma ben presto attivi, con qualche rettifica o provvidenza del destino. Non posso andare all’infinito negando e affermando, soffrendo, apparendo e dileguando, alla fine devo appesantirmi di fronte a me stesso, puntare i piedi e cercare un luogo certo di riferimento. Non posso aspettare eternamente la rivoluzione storica, gli eventi che marciano sotto la mia finestra, finirei per sparare su di loro o consentire a qualcuno di farlo in vece della mia paura, come Schopenhauer. Quella la massima richiesta di sicurezza, l’appesantimento mortale che nota l’atteggiamento odioso dell’empirico sanfedista e non se ne scandalizza più, preferisce non accettarlo e neppure contrastarlo. Fa semplicemente finta di non vederlo. L’indecenza di questa condizione così comune non ha bisogno di spiegazioni. Ogni fibra del mio corpo si ostina a rifiutarla se non altro come conclusione di pessimo gusto. Devo ingaggiare battaglia, anche unico e indefinito combattente, devo mettere da parte le attese infiorettate e le buone maniere, le apologie soverchiate e le agiografie di vecchi distruttori in gibus. Da parte, è ora la mia vita a essere in gioco, l’amore e l’odio di cui parlo sono ora la mia vita.

Meglio di ieri però adesso si adegua il messaggio alle condizioni medie, ritenute ottimali, di ricezione, considerando però la ricezione l’abbandono del ricevente nel messaggio stesso. Lo scritto deve quindi potere accogliere il suo possibile destinatario, trasformarlo secondo i canoni che giustificano il messaggio, anche sotto l’aspetto del gusto. La presenza di spostamenti dalla media troppo frequenti poteva rendere difficile questo eguagliamento, indispensabile dal momento in cui ogni prodotto deve corrispondere alle condizioni complessive di produzione, sia lo scritto che il lettore. Riguardo lo scrittore, il problema è secondario trattandosi di animale in via d’estinzione. In un futuro d’appiattimento, tra scrivere una lettera commerciale e scrivere un romanzo non farà differenza. Ho insistito tanto sulla perdita da sembrare un reprobo, un agiografo ritardatario della rinuncia. Lettura degli stupidi? Non so. In effetti se devo concedermi un lettore, sia pure uno solo, perché scegliermelo stupido? No, chi alza la voce cercando di malmenarmi è stupido non perché mi rimprovera, ma perché lo fa senza avermi letto, e se mi ha letto, senza avermi capito. La perdita è l’unico sbocco possibile dell’esperienza nella qualità, l’unico obiettivo dell’azione.

Innalziamo lo straccio nero della rivolta. Ancora e sempre, visto che non c’è altro da fare. Ma è una rivolta che deve riconoscere l’annientamento della materia per cui ci si ribella. Mi rivolto più che altro perché sono un rivoluzionario e non accetto imposizioni dal potere, neanche quando riconosco che dopo tutto non c’è altro da fare. Mi rivolto per dignità verso me stesso. Per non morire con la morte nel cuore. Ma non posso approntare uno scritto supponendo, con questo solo e semplice fatto strumentale, di ribellarmi veramente al potere. Verrei schiacciato senza neanche riuscire a fare apparire una parola. Peraltro, che senso avrebbe insistere, a prescindere dal fatto che la rivolta ha sempre un senso, nel proporre qualcosa che è di già in rovina? Uno strumento che non è più tale? Sarebbe inutile passatismo, tradizionalismo contrario al mio modo di pensare e vivere la vita. Poiché non ci sono innocenti, sono anche io in apprensione. Mi sono liberato completamente dai codici morali vigenti? Non ne sono tanto sicuro. Certe volte mi sembra di stare per riprendere sonno dopo una breve interruzione, quando cerchi di non pensare più a quello che avevi sognato cosa che ti impedirebbe di riaddormentarti. Ci sono momenti in cui vorrei conoscere a fondo l’arte dell’obbedienza, il rifiuto di sé, l’obbedisco. Ho mosso qualche passo in questa direzione, al prezzo di costruire barriere e steccati, ma l’arte di cui parlo è l’esatto contrario, l’obbedire senza regole e senza sanzioni. C’è un profondo orgoglio in tutto ciò, ed è proprio questo che impedisce l’abbandono, o comunque che l’ostacola. Anche il ribelle ubbidisce alla sua ribellione, peggio ancora, a volte, perfino alla sua causa, ma non lo sa che si tratta di ubbidienza, e in fondo l’attrattiva della coerenza è proprio questo caricare qualcosa d’altro delle proprie responsabilità.

Perché mai lo scritto, prima ancora di riuscire a indicare la nudità del dio, non dovrebbe arrivare alla sue conclusioni naturali, cioè morire, come tutti gli oggetti? Perché gli dobbiamo attribuire un’eternità da operetta? Forse perché incarna tanto bene i nostri meschini bisogni? Nemmeno questo, per la verità, riusciva a fare. Oppure perché abbiamo paura a pensare mortale la magica parola? Con in più l’altra magia aggiunta del vederla riprodotta sulla carta. Il fatto che io voglia comunque completare questo libro, e pubblicarlo, e consegnarlo in questo modo agli altri, e pensare che verrà letto, e anche capito, se c’è qualcosa da capire, e perfino usato come strumento, tutto questo insieme di pensieri, desideri, sogni, aspirazioni, è una parte di me stesso e come tale non voglio che muoia. Non per questo non dovrà comunque morire questa parte di me stesso, o un’altra parte, o il tutto in una volta, o in epoche differenti. Che cosa cambia? Rammemorare è ritorno con altri mezzi nell’azione, il tentativo, maldestro quanto si vuole, di ricordare, ricostruire con mezzi inadeguati quello che la vita ha proposto come reale trasformazione. Rifletto così sul nulla che mi circonda o sul tutto che ho appena lasciato? Non è facile capire, alla luce della conoscenza, la differenza tra i due poli, forse nessuna? Di certo, ognuno a loro modo, procreano delusioni, io non abbraccio realmente né l’azione né il fare, per questo problema bisognerebbe frequentare di più i cimiteri. Si capisce così tutta la portata epocale del coinvolgimento.

Poiché, evidentemente, cambia molto, eccomi a costruire un progetto di resistenza, se non di ribellione dichiarata, che avrebbe soltanto una partecipazione di bandiera. Di resistenza. Nella prospettiva nichilista, fondata sull’impossibilità della piena comprensibilità del mondo, voglio contrastare il progetto, anche a partire da questo stesso libro. E poiché non posso farlo a lungo, o almeno non posso farlo senza lasciar vedere qual è il meccanismo impiegato, e pertanto consentire possibili correzioni di lettura, condenso tutto in quest’ultimo libro, approfittando anche dell’argomento che involontariamente permette alcune riflessioni tecniche.

Ma non soltanto per questo. Cambiamenti nella progressione espositiva, come a esempio alternare il progresso lineare degli argomenti con un movimento circolare, non possono restare senza conseguenze anche sul discorso scritto. Lo stesso con i riferimenti, occasioni per divagare altrove, non supporti meramente didascalici. Se non c’è meccanismo solido su cui contare, non c’è nemmeno metodo solido e solida ottusità su cui fare assegnamento. Perfino l’imbecillità è merce rara, ovviamente guardando la cosa con l’occhio di bue dell’imbecille. Non mi riguardano le diversificazioni fittizie, snaturano le capacità della conoscenza e rendono la logica un gioco stupido.

La maniera di dire è parte del dire stesso, è calarsi nell’intimo della realtà. E la coscienza di modificazioni nel dire non può non condurre a una più profonda attenzione nella maniera di dire, viste le conseguenze che ne derivano. Non si tratta di inventare, si tratta solo di portare alla luce quello che di già c’è, non tanto i “fenomeni originari”, quanto la vita concretamente intesa, nella sua inesausta forza. Ma la distribuzione è stata sempre una finzione, un accedere alle cose sulla base d’un giudizio preventivo di maggiore o minore importanza. Mettendo prima quelle meno importanti le si supponeva più facili, così si costruiva un castello ideologico, chiamando poi ad abitarlo tutte le figure che indossavano il vestito di maggiore complessità. La parola può farmi evadere dal mondo, condurmi in luoghi fantastici eludendo tutti i controlli, ma se resto qui, legato alla catena, quella evasione illusoria è un altro dei giochi di prestigio del dire, sono sempre prigioniero in una piccola cella anche se scrivo e leggo di mondi oltre misura. Non posso riflettere senza tremito su questa calamità a cui contrappongo silenzi e monologhi. Spezzare questo malessere è possibile solo raccogliendomi nel punto estremo dell’oltrepassamento, mostrandomi candido quando sono un vecchio massacratore, abbandonandomi quando sono sempre all’erta, addolcendomi quando sono teso e aspro. Come posso accedere alla semplicità se porto sulle spalle millenni di cultura, di conoscenza, di logica, di corrispondenze e misure?

Una gradazione d’importanza c’è sempre, perché è nella realtà. Non tutte le relazioni sono d’uguale intensità. Una diversa partecipazione al processo produttivo determina modificazioni nella oggettualità dell’oggetto. L’intensità può essere cambiata e quindi modificare anche il risultato. Ciò finirà per sollevare difficoltà all’interno del meccanismo produttivo. Prima di tutto il fatto ovvio che la realtà non è gerarchicamente fissa. Ciò infastidisce considerevolmente la volontà e i suoi meccanismi di controllo. La coscienza immediata reagisce, a suo modo, ma reagisce. Portare alle conseguenze estreme, logicamente comprensibili, il fare, questo è il compito della critica negativa, lasciare che la geometria che regge il mondo si sfoghi in tutti i suoi aspetti per mostrare la fragilità che costituisce la base di ogni certezza fondata sulla logica dell’a poco a poco. Nella linea retta della corrispondenza, nella prevedibilità circoscritta ma ritenuta indefettibile, si annida la putrefazione e la morte. Qui inizia l’eccesso e qui si forgia il coraggio. Andare avanti nella modificazione con lo scopo di oltrepassarla, questa è una difficoltà veramente notevole, perché essa estenua l’impegno della percezione, martirizza con le condizioni impervie imposte dalla conoscenza e, a occhi attenti e a cervelli lucidi, mostra continuamente il baratro dell’impossibile conclusione. Nemmeno il cinismo del possessore basta a convincerlo della bontà del prodotto. Lui stesso arretra, a volte, nei momenti di particolare splendore dell’immediatezza, per chiedersi che stia facendo, il senso del fare e quello dell’accumulo. La risposta deve essere gestita o la sua presenza, anche per il più incallito speculatore di borsa, diventa intollerabile.

Fin qui non c’è relazione diretta tra questa decisione e le condizioni in cui, secondo me, si viene a trovare uno scritto, più o meno consistente e impegnativo. Non c’è connessione visibile, almeno sulle prime, in quanto la modificazione nella distribuzione opera comunemente con il materiale medesimo che si sarebbe impiegato in una distribuzione classica. L’esperienza dell’azione contrasta radicalmente con la vita che necessita della garanzia e del riparo, e questo confronto la fa considerare come se fosse una esperienza limite, fatta la quale ogni altra perde di interesse. In effetti questo è un ulteriore segno di debolezza. Il coraggioso deve ritrovare la dimensione del fare e qui scoprire il proprio destino nella possibilità che arriva direttamente dall’esperienza diversa dell’agire. La più piccola regola del fare diventa per lui, a questo punto, non più una sfida ma una amara consolazione. Pure se non sa in che modo questa amarezza viene fuori dalla rammemorazione, che non è dato conoscere l’azione in termini logici se non come fatto fra i fatti, intuisce che ha vissuto qualcosa che ora è assente, che è l’assenza per eccellenza, la condizione esasperata della qualità, strappata al silenzio della cosa, alla pienezza dell’uno, alla vertigine della desolazione. Egli sa di essere diverso, anche se continua nei gesti di una volta, o deve accontentarsi di un’acutizzazione della critica negativa, sente che in questo apparato radicale scricchiola qualcosa ed è proprio il suo apparente radicalismo che lo fa sorridere mentre il resto delle regole, sia pure criticate, rimane muto sullo sfondo. Egli sa che è là che si collocano i confini dell’apparenza, dove può tornare, se si lascia andare al coinvolgimento ancora una volta, ma sa che nel fare ormai c’è poco di cui possa continuare a vivere senza avvertire un continuo e mai esausto desiderio di salto nel nulla. Qualcosa delle certezze del fare, delle corrispondenze assolute e ridicole della logica dell’a poco a poco, è andato bruciato per sempre. La salvezza non può più venire dal possesso, il mondo è troppo circoscritto e frammentario per ospitarlo, lui, il cercatore dell’uomo e l’amante della solitaria qualità.

L’ipotesi di riflessione che qui propongo è quindi più vicina alla morte di quanto non pensasse Adorno, riflettendo su Baudelaire. La realtà sta per sentenziare la conclusiva condanna dello scritto, sarebbe ridicolo limitarsi a ballare il valzer in un’altra parte della città. Ma si tratta di riflessione obbligata. Una via a senso unico. Non ci sono scelte, non c’è quindi nessuna sperimentazione. Non posso consegnare il mio lavoro a una committenza che non esiste, neppure a livello fantastico, come mi accadeva in passato. Devo pertanto sigillarlo. Se avessi velleità artistiche di sperimentatore fuori tempo, potrei limitarmi a ignorare la realtà così com’è, o i suoi imperscrutabili princìpi (se ciò mi dovesse fare comodo). Ma insistere con tenacia su di un modello scritturale, ormai privo di riscontro, significa, per un altro verso, veramente cancellarlo definitivamente, con abile gesto di prestidigitazione. L’intensità acuisce l’intuizione della desolazione, regna nel deserto perché corrisponde alla voce dell’uno. Questa intensità si riflette nel mio coinvolgimento e lo rende, a sua volta, più intenso, è la condizione primaria dell’azione. Non c’è residuo di equilibrio, o calcolo umanistico di diritti e doveri, che possa reggere a questo vento del deserto. L’azione non si può intuire se non come essa è, non c’è in essa nulla da aggiungere. Alla luce della rammemorazione mille errori possono essere visti, analizzati e scongiurati, ma è operazione quantitativa, ovviamente fatta a posteriori, nell’azione è tutto compresente, tutto qualitativamente perfetto, essa mi coglie perché io sono finalmente diventato così come sono, non è possibile modificazione alcuna. Essere nella qualità vuole dire essere quello che si è, senza armonia e senza accondiscendimenti, non ci sono più né possibili aggiunte né speranze di sistemazione. Questa esperienza diversa mi prende e mi vive, io la vivo nella relazione di coinvolgimento, cioè salpando via da qualunque terraferma possa ancora allettare le mie paure. L’eccesso vive qui, nella perfezione dell’intensità che si acuisce ma non si modifica nel senso dell’aggiunta. L’assoluto che così sperimento con una coscienza diversa è, proprio perché assoluto, assolto da qualsiasi assommazione. La nostra reciproca partecipazione è totale e sfuma nella rammemorazione, per quanto è qui che posso capire qualcosa di quello che è accaduto. Questa esperienza qualitativa non sopporta, nella stessa rammemorazione, un’analisi qualitativa, chi volesse intraprenderla finirebbe per arrivare al paradosso di una insanabile e non identificabile contraddizione.

I miei scritti devono riuscire a imporsi respingendo ogni possibile allettamento alla lettura. Devo costruire mille occasioni negative, espedienti della tecnica, che in questo campo, contrariamente a quello sperimentale che cerca disperatamente di fare leggere il prodotto, sono alle prime armi. Devo interrompere qui il contatto con il flusso normale e normalizzante della chiacchiera filosofica e scientifica. E devo farlo con un intervento radicale e, nello stesso tempo, insufficiente. Su questi due movimenti, un poco di riflessione. Non posso raccontare ed effigiare la qualità vissuta come azione, quindi incisa nel mio sangue e nel sangue di altri, nemici o amici, non è questo il punto. Ho detto in altri luoghi la radicalità del mio pensiero e non mi corre l’obbligo di ridirla adesso. Nel pieno della pienezza sta un senso di vuoto, il bisogno dell’apparenza torna trattenuto male e mi sommerge. Sono un figlio della logica e mi chiedo dove è andato a finire il suo sottile trattamento. Eppure è necessario, anzi assolutamente indispensabile, che questo vuoto non lo avverta, in modo che possa riprendere la corsa. Il pervasivo piacere di continuare è la mia vita, e questo lo noto di più quando tutto intorno a me è un invito alla resa, commistione terribile di struggimento e nostalgia. Anche altre volte benevoli fantasmi hanno agitato i miei viaggi dell’anima, ma non ci sono mai state perlustrazioni capaci di arrivare così in profondità, passo dopo passo. Ho attraversato labirinti che avevo costruito e ancora altri che non conoscevo, descritto magici, inattuali sforzi per andare più oltre, entusiasmi quasi adolescenziali, rifiuti di scetticismi troppo sofisticati, e danze rischiose e rutilanti baracconi, e fogliami e pagliuzze, orrori e meraviglie, palingenesi involontarie e rinvenimenti volontari di catastrofi. Ma ora è diverso. Mi resta poi la forza, o l’abitudine alla forza, per riprendere la strada delle antiche rammemorazioni, nella realtà presente e assente che mi circonda. Una inopinata riflessione mi allontana da questo bazar di sensazioni, e così riprendono lo slancio per il giorno che continua ad arrivare puntualmente.

La contemporanea trattazione di due ordini logici: quello dell’a poco a poco e quello del tutto e subito, determina una deformazione affascinante dell’andamento espositivo. Ciò assegna alla contemporaneità di avvenimenti e riflessioni anche la possibilità di svilupparsi nel divenire storico, senza che tra i due ordini logici ci sia contrasto, se non apparente. In effetti, noi viviamo questi due momenti in modo continuo a sipario chiuso, accedendo ora alla constatazione immediata di un passato e di un futuro e intuendo, senza soluzione di continuità, gli aspetti protocollari di quest’immediatezza. Ciò comporta una negazione dichiarata e radicale della riproducibilità. Lo scritto non consente unità logica, se non accettando gli aspetti qualitativi della duplice deformazione, quella immediata riflessa nell’inquietudine e quella diversa riflessa nell’oltrepassamento. Cogliere la voce dell’uno, sia pure in maniera puntuale, contrassegna l’oltrepassamento. Sono così colpito da questa diversa condizione di sensibilità che riesco a risalire alla mia radicale assenza dal mondo delle apparenze e delle mistificazioni. È un processo di costituzione inversa che recepisce qualcosa dell’ebbrezza e del tripudio per la nuova condizione di ascolto e, nello stesso tempo, si prepara ad accettare il nuovo incomprensibile messaggio.

Una trattazione didascalica avrebbe separato nettamente i due ordini, collocando la coscienza immediata alla base e prospettando la diversità come sviluppo successivo, o comunque superiore, e pertanto separato. Ne sarebbe derivata un’accessibilità logica e una conseguente cristallizzazione espositiva che avrebbero favorito la degradazione a fatto scolastico, rendendo possibile con facilità il lavoro e gli equivoci a cui si dedica ogni laida normalizzazione del potere. La presenza di questo contrasto consente invece di rilevare, di volta in volta, una dissonanza sorprendente, che risulta una sorta di indicazione delle qualità o comunque sospetto e sorpresa per la possibile presenza di un movimento che si indirizza verso la qualità. Quello che cerco, adesso che sono vecchio, è qualcosa di indefinito, e ho il coraggio di ammetterlo. Restando abbastanza concreto certo un’assenza che qui non è dato conoscere, che nessuno degli strumenti logici per la conquista dei quali ho tanto lavorato, possono darmi. La mia ricerca respira un’aria totale, cosmologicamente totale, per cui tutti gli scopi che qui attorno fioriscono, nel migliore dei casi mi danno l’impressione di vomito di imbecilli. La sostanza qualitativa che mi manca la posso trovare nella presenza di questa assenza, ma devo mettermi in mezzo io, con le mie modeste possibilità, mentre suonano ironiche le fedi e gli dèi che mi sono lasciato alle spalle. Ma non sono un portatore di morte, anche se ho lavorato nel ramo. Cerco la vita per vendicarla delle aggressioni mortali alle quali io stesso l’ho esposta, ma non posso distruggere il mondo, che è il contesto di quelle aggressioni, se non voglio azzerare la qualità, non avendo più i mezzi per andare oltre. Cerco la vita e vivo nella prospettiva della morte. Sono prigioniero e cerco la libertà nell’unico posto dove questa non c’è, nel mondo.

Certo, anche questa lettura potrebbe costituire un suggerimento e una spinta a cristallizzare un modello altrettanto protocollare di quello scolastico. In nessun modo di cogliere la realtà, procedendo per tentativi strutturali, ci può essere definitiva sistemazione e certezza di non essere raggiunti dalla sagacia investigativa dell’immediatezza. Ma si può verificare un sano spiazzamento, un ritardo nella lettura e nella relativa, indispensabile, codificazione. Per il momento, in tempi brevi, questo spiazzamento è quello che mi interessa. Non pretendo di presentare un oggetto di cui non sarà possibile scardinare la combinazione. Nella lunga pratica della critica negativa l’agire comincia a profilarsi grazie a un venire meno della fede classica nelle parole. Non tutto si può dire. A volte resta una specie di guscio semiotico che rimbalza ma non comporta significati che non siano apparenza, solo velocità di modificazione. Oggi ballo sulla corda e vedo il mondo fare altrettanto. Tutto è tirato all’estremo, sollecitato alla produzione, in corso di cancellazione progressiva, di sostituzione priva di senso. La vita nel mondo è un continuo rimpianto di averla mancata. Ogni parola che insisto a usare è una ripresa ossessiva di un riferimento conoscitivo che ormai sta perdendo di contenuto, sfoggia l’ennesima struttura armonica ma è un gioco linguistico, gli manca la voce e viene avanti, una puttana tinta malamente, vistosa e triste come un pagliaccio. Quello che non è possibile adesso è dare alle parole un tono ingenuo di verità, la stessa apparenza è venuta meno, almeno in parte, e rimane solo la monotonia, la ripetizione da balbettante idiota, la scoloritura dei contorni, le pallide decorazioni marginali. Un ragionamento può ancora essere fatto, ma non sfugge alla mentalità imperturbata della mediocrità dominante. Schiavi che ragionano al posto di schiavi che non hanno più il modo di ragionare. Quando pervengo al coinvolgimento è un avvenimento epocale che mi mette in gioco ma che può essere messo in gioco e perduto per paura, vano atteggiamento, consapevole passo indietro. La critica negativa non è la ricerca dell’estremo, è l’offesa radicale portata all’apparenza del mondo, un movimento di smontaggio e montaggio, che allude alla distruzione e affronta le bene orchestrate corrispondenze del mondo. Di regola non suscita scalpori, lavora a una interpretazione che il mondo contiene di già come sofferenza e se a volte ha in vista effetti truculenti, si tratta di apparenza anche in questo caso, di scandalo fatto in casa, non di azione trasformativa.

Tenendo conto che in questo campo il mezzo di presentazione non è mai separabile dal fine della fruizione, bisogna anche provvedere che questo fine non si mangi il mezzo, rendendolo in brevissimo tempo una cattiveria inoffensiva. Rendere più difficile la fruizione non è cosa impossibile, basta procedere nel cammino inverso che di regola viene seguito per ottenere il consenso degli altri. Fra le tante idiozie, Cocteau ha detto almeno una cosa intelligente: “In realtà, il pubblico ama riconoscere. Detesta che lo si disturbi. La sorpresa lo urta. La sorte peggiore di un’opera è che non le si muova nessun rimprovero, che non si obblighi il suo autore ad assumere un atteggiamento d’opposizione”. Discorso sensato, da buon fabbricante in serie di occasioni sovversive. Ma anche troppo semplice per non essere un’affettazione.

Nell’inversione suddetta c’è un ostacolo che bisogna superare. Si tratta del limite di significatività imposto dai meccanismi di controllo della ragione. Infatti, distribuendo diversamente il materiale, si sganciano, una dopo l’altra, le connessioni lineari, quelle che impropriamente chiamiamo di causa ed effetto. Spesso siamo rassegnatamente legati a queste connessioni perché garantiscono un certo riposo all’esposizione. Basandosi una sull’altra, esse costruiscono un aspetto sufficiente a convincere chiunque, specie chi non ama porsi troppi problemi. E, in sostanza, un certo potere di convincimento, se non altro per la loro familiarità, lo posseggono malignamente anche nei riguardi di chi le mette in campo, come tanti soldatini, uno dietro l’altro. Il rispetto è un ostacolo, eppure non posso farne a meno. Ho rispetto degli altri, per questo non posso abbandonarmi all’assolutamente altro che non saprei come rispettare. Finisco così per accettare le regole con le quali elevo il rispetto a legge universale. Alimento in questo modo una mia debolezza che mi consente di accettare come retribuzione pelosa quello che gli altri mi danno, il loro riconoscimento. Se non amassi farmi riconoscere per l’apparenza che offro, non avrei rispetto per gli altri, ammesso che questo rispetto non fosse, come in effetti è, che la regola che riassume in sé tutti i limiti e tutte le corrispondenze. Forse è percorribile il procedimento inverso, quello della critica negativa, minare i limiti e le logiche dominanti e arrivare poi a una riduzione per il rispetto degli altri, individuando in quasi tutti quel servilismo che rende ebeti. Ma così si percorre una strada in discesa, l’umanità in astratto si salva e merita rispetto, sia pure ridotta a qualche individuo. Ma dove trovare il coraggio per ripercorrere a ritroso questa strada in discesa? Il convincimento della infondatezza del rispetto per gli altri passa per la rielaborazione del concetto di egoismo. Per altro, anche non volendo affrontare questo aspetto, su cui mi sono dilungato altrove, resta il coraggio del coinvolgimento. Un’azione non può partire da un limite, sia pure il rispetto degli altri, altrimenti diventa un fatto come tutti gli altri, una modificazione. Con ciò non voglio affermare che un’azione deve necessariamente non tenere gli altri da conto, ma solo che le considerazioni da cui partire nel coinvolgimento sono di differente natura.

Staccata la connessione, significa innestarne un’altra, che deve essere individuata a priori e costruita, ora, nella complessità dei movimenti e degli spostamenti di significato. Questo lavoro è solo apparentemente facile. Influendo ogni spostamento su tutti gli altri, in pratica non è possibile rendersi conto di tutto quello che si modifica, di ogni singola combinazione nuova, che viene a emergere. Man mano che si procede, come in una selva, la registrazione dei significati, non potendo contare su di un protocollo esterno rigido, finisce per relazionarsi in sviluppi talmente complessi da risultare ingovernabile. Ne viene fuori un’indeterminatezza che si può colmare di volta in volta, nella pratica, cioè verificando in che modo quella connessione corrisponde ai movimenti generali dello scritto, alle sue idee più importanti, se così si preferisce. Come si vede, ancora una volta si ritorna all’orientamento verso il contenuto, che si dà per certo non è stato smarrito nel dispositivo labirintico utilizzato. Anche qui, c’è da dire, che la connessione di salvaguardia, con quello che si pensa siano le idee portanti, che in fondo non sono mutate di molto, dà vita a possibili complicazioni a seguito del mutato dispositivo analitico. Ciò fa scadere d’importanza le stesse idee di fondo e perfino l’insieme del progetto, almeno d’importanza nell’ottica dominante del materiale munito di logica dell’a poco a poco, quindi correttamente individuabile e utilizzabile. La repulsione per il protocollo mi impedisce di riposare, mi stimola e mi costringe a restare sotto pressione. Non posso indietreggiare, mi sento troppo sicuro di me per accettare un patto, so che è un limite e forse un errore imperdonabile, ma è un residuo dei supplizi patiti per millenni. Ciò non mi impedisce di vedere gli aspetti positivi dell’apparenza, del possesso, un divertimento è sempre ironicamente accettabile, non sono un bacchettone. Ma non accetto il ghigno dell’accumulatore di prebende e riconoscimenti, mi dà il voltastomaco. Non ho bandiere se non la mia, e questa è nera perché riassume tutte le tonalità, tutte le esperienze, tutte le debolezze e tutte le speranze, anche le più infondate. Non voglio impantanarmi nell’attesa, nella sospensione del giudizio, lo azzero questo giudizio, lo metto sotto i miei piedi senza aspirare a nessuna sottigliezza.

Non ho trovato corrispondenza migliore tra argomento e modo di trattarlo. L’assenza di una studiata profondità, la sfiducia nei destini della tecnica, il rifiuto della “fede”, sotto qualsiasi aspetto la si voglia prendere in considerazione, non potevano essere affrontati con la certezza dell’idillio tradizionale tra contenuto e scrittura. Questo progetto impiega pertanto una prima linea, che è quella di non considerare le risposte alle domande che mette sul tappeto come involtini al prosciutto. Anche quando le domande si presentano, per così dire, spontaneamente, sollevano risposte provvisorie, spesso dichiaratamente fuorvianti, vere e proprie digressioni che preparano il terreno a svolgimenti successivi di cui non si presuppongono neanche le problematiche minimali. Per cui il movimento procede quasi sempre secondo un orientamento a spirale, che penetra malignamente nel singolo problema, senza mostrare un centro di gravità. Le indicazioni conclusive, i giudizi, sono espressi in modo indiretto, pertanto figurativo, cercando di ottenere significati dalle analogie contenute nei riferimenti. L’azione si condensa velocemente sulla punta di uno spillo, ed è una impertinente risposta al lungo lavoro del fare, alle sue realizzazioni, alla profondità delle sue conoscenze, ai disastri che non ha mai saputo evitare. L’azione è lucidamente in grado di rifiutare qualsiasi promessa fallace fatta in nome di un futuro progressivamente migliore, senza più imbrogli e obiettivi da raggiungere a qualsiasi costo. L’azione è costruzione di un destino diverso con mezzi non più voluti dalla volontà ma indirettamente realizzati con l’abbandono. L’azione non interpreta e non posso dire nemmeno che faccia un uso adeguato dell’interpretazione del fare, viaggia su un’altra lunghezza d’onda. L’azione vede il destino operare liberamente senza l’oppressione della volontà, ma può anche intuire che questo destino riesce a schiacciarla invece di esaltarla. Solo la trasformazione realizzata, la qualità attiva rende presente una possibilità nuova nel destino, e questa non può essere né prevenuta né sollecitata, nasce dall’azione ma si presenta autonomamente nel mondo, ed è qui che l’incontro, ed è a essa diretto il mio rammemorare.

Qui il tema si presta, da qualche tempo è proprio questa la strada che mi appare congeniale al progetto che mi fronteggia. Tutte le posizioni di arresto, con passaggio ad altri problemi, connessi sempre bilateralmente con quello trattato prima, sono segnali precisi di sviamenti singolari, i quali tuttavia non interrompono il movimento a spirale, che può continuare a restringersi o iniziare ad allargarsi ulteriormente. La bilateralità dipende dall’innesto sistematico, a ogni posizione di arresto, di una variante che persegue il movimento precedente senza collegarsi con il movimento che segue, così che se la continuazione prosegue nel restringimento della spirale, la connessione bilaterale neanche si nota, pur eseguendo il suo compito di collegamento con il movimento precedente. L’inevitabile non è quindi nell’agire ma nel fare. È qui che mi rassegno e mi nutro di disillusioni, è qui che coltivo la mia indolenza e il segreto della necessità per cui mi illudo di lottare. È qui che sommuovo mondi in una tazza di terracotta. È qui che sto attento alle apparenze e garantisco di conservarle intatte perché possano continuare a cullare la mia inquietudine. Questa fantastica galoppata nella modificazione è un eterno gioco delle tre carte, serve a nascondere la mia viltà e a tenere a bada i miei rimorsi. Nel fare è la mia vita di cui so tenere il conto, ma i giorni passano e non me ne avvedo. Alla fine, il lungo allenamento all’apparenza darà il suo frutto indigeribile, la morte.

Questi movimenti sono quindi molto flessibili e quasi sempre funzionano come indicazioni d’orientamento, qualche volta però possono anche servire per la costruzione di falsi avvertimenti, ciò avviene di regola nelle citazioni. In questo caso, facendo attenzione si viene a capo del problema, perché la deviazione non è mai assoluta, né potrebbe esserlo, in questo caso infatti si annullerebbe nella sua stessa radicale inversione. Questi movimenti riadattano liberamente sensibilità rappresentative delle quali bisogna cogliere la flessibilità non la singolarità del luogo di provenienza. Non dimentichiamo che essi costituiscono relazioni di affievolimento, non rispecchiamenti o testimonianze in tribunale. Lo stupore è l’effetto primo del coinvolgimento, corrisponde alla scoperta di una dimensione diversa, che nemmeno la mia attitudine critica aveva potuto individuare. Ora sono lontano e mi stupisco di questa mia capacità di essere dove sono. Non ho scappatoie e nemmeno le cerco, non intendo sospendere la corsa. Lo stupore rispecchia la coscienza diversa che guarda il territorio desolato dell’azione e vede scomparire tutte le apparenze che non l’avevano assillato prima, ma neanche confortato. Spalancare gli occhi del bambino, non rammentare remote spiegazioni ormai inutili. L’ingenuità di ciò che è oltre ogni misura è la sola misura. Vola il sogno della totalità.

La costruzione delle presenze è pertanto sempre contraddittoria, portando con sé più di quello che sarebbe legittimo accettare, specialmente in un testo personalissimo com’è giusto che sia ciò che state leggendo. Da qui la necessità della deviazione, tra quello che tali presenze qui rappresentano e quello che la struttura originariamente segmentata dei riferimenti aveva come contenuto di senso. La linea astratta, immaginaria, quella che originariamente era consentita, viene quindi suddivisa in movimenti via via differenti, leggibili solo nel contesto preciso, difficilmente in altro modo. Il lavoro, in questi casi, non permette superficialità, in quanto di ogni condizione estranea, ma significativa, quindi sufficientemente intensa per essere colta, ci sono due possibilità immediate, una che non si può toccare con mano, che originariamente proviene da quella condizione estranea, che agisce comunque nel contesto in cui vogliamo condurla, e un’altra che prende vita secondo le nostre determinazioni, solida e circoscritta, spesso lontana da quell’originaria suggestione. Liquidare l’innocenza pelosa del mondo è operazione dura e dolorosa. La paura è innestata nella materialità del produrre e continuamente fa eco con se stessa. Per mettersi in gioco occorre eliminare questo cerchio vizioso. Il cinismo del produrre copre questa paura, allo stesso modo delle imprecazioni e delle preghiere, scongiuri contro un ostacolo che non si sposta di un millimetro se pretendo muoverlo standomene a casa. L’ingenuità dell’abbandono è arte difficile del coraggio ed è amica della solitudine, non cresce nel bailamme delle apparenze. L’occhio pubblicizzato la considera una mediocre espressione dell’animo, un ripiegamento di fronte all’obbligo del fare, ma al contrario questa ingenuità scava più a fondo e si presenta nel coinvolgimento sradicata dalle antiche pretese di possesso. Le avversità del mondo demoralizzano, gli ostacoli della desolazione, il suo stesso mancare di contenuto nel senso del campo, rafforza. Mi inoltro ogni volta in un territorio nuovo ma non ho in mano la fiaccola che illumina. Qui non è la luce il mio punto di riferimento, ma le tenebre. La luce è madre degli inganni, le sue esitazioni sono dei pretesti per meglio vestire la sposa, le tenebre non hanno pretesti, sono di una perentorietà simile all’uno che è.

Con questo non voglio suggerire un risparmio nel concedersi, ma proprio uno storno, un richiamare volutamente l’attenzione altrove, un voluto occultamento, infine, un vero mascheramento. L’urgenza del momento l’impone, se non si vuole lavorare per conto del re di Prussia. Non si può avere la presunzione di superare la barriera del contesto relazionale semplicemente con un atto di volontà, un desiderio o una scarica d’adrenalina. Ma si può fare qualcosa in questa direzione, lasciando stare la struttura, se ne possono modificare gli assetti. L’illusione risiede invece in una vera impossibilità, cioè nel volere riportare lo scritto a un modello a esso esterno, considerato comunque garantito per la sua appartenenza a una classificazione ideologica. Non sono sazio e nemmeno spossato dalla fame, sono indenne da quelle erosioni che esplodono tutte in una volta e che per lungo tempo non si vedono. Se guardo indietro alle mie povere conquiste e alle perdite, orgoglio queste ultime della mia vita, non ho disgusto che per il fare a cui lunga consuetudine mi lega, forte volontà, nostalgia. Ma la mia ansia di azione è legata al crollo di tutto questo, all’anchilosi di un meccanismo che sembrava non avere tregua. Io so che posso lottare contro tale avidità di possesso che morbosamente innalza la sopravvivenza apparente sulla vita, ne sento la forza nel mio desiderio di eccesso, nella rabbia, nell’amarezza che provo di fronte alla pusillanime fuga di tanti vanagloriosi, nelle stesse aberrazioni che sento crescere dentro di me e di cui non ho paura ma che anzi mi stimolano a indicare la distanza che mi separa dai timorati di Dio e dalle loro giaculatorie ideologiche.

Penso che oggi si possa porre un rapporto quasi preciso tra univocità dello scritto e sua possibilità d’essere recuperato, appiattito. Non che lo sperimentalismo non venga compreso immediatamente dal potere, non dico questo, solo che uno scritto non univoco, non per questo deve essere sperimentale. Le due cose sono differenti. Nello sperimentalismo c’è un’ansia di essere capiti proprio perché si esprime un malessere comunicativo che corrisponde esattamente alle condizioni date. Il mascheramento deliberato è tutt’altra cosa. Sotto un altro aspetto, corrisponde al rifiuto della danza imposta dal potere, al rifiuto di muoversi al ritmo del compromesso. Dichiararlo direttamente questo rifiuto, può diventare un’occasione offerta al nemico. Allo stesso modo, proprio quando un testo, espressione della riduzione a oggetto del pensiero, viene sviluppato secondo tutte le regole dell’arte trattatistica, diventa veramente incomprensibile per coloro i quali si aspettano uno strumento per trasformare la vita, non per modificarla a rate. Si finisce quindi, accettando la logica espositiva dell’a poco a poco, per risultare incomprensibili esattamente a quelli che si vorrebbe comprendessero, e perfettamente comprensibili al nemico. La rammemorazione non strappa via la qualità o una parte di essa, ma ne ricostruisce l’esperienza nell’ambito e con le tecniche del fare. Parla, con le parole dell’immediatezza, dell’uno che è e dell’essenziale manifestarsi del suo richiamo, del cuore scosso e dell’animo sconvolto di chi abbandona le comodità delle dimenticanze e si appresta a salpare per le avventure della desolazione. Non può ricostruire i percorsi e i modi dell’esperienza diversa, ma sa che coinvolgendosi, improvvisamente nuovi orizzonti si esprimono senza remore e permettono presenze di cui non è possibile nemmeno sospettare l’esistenza. Nuovi tratti e sensazioni impensabili ricevono nuova denominazione, l’apparenza li ricopre di splendori e chiarezze fasulle che non possono appartenere loro, ma che per me sono la costanza leggibile del loro ripetersi, non la testimonianza remota e irricostruibile della loro unicità. Non sono di fronte a una nuova forzatura dell’intuizione, non voglio salvare a qualsiasi costo l’azione che mi ha trasformato e che ho visto trasformare la realtà. Voglio solo che la volontà mi dia una mano diversa, sempre nell’ambito del controllo, a conservare una straordinaria esperienza che in caso contrario andrebbe perduta. Chi mi passa accanto, e legge questa rammemorazione, non è neanche sfiorato dal suo contenuto reale, dalla desolazione e dalla paura, dall’alternarsi di un coraggio da operetta con una inquietudine che procura soltanto incertezza, ha una conoscenza superficiale, per sentito dire, non sa che cosa vuole veramente dire affrontare il drago, lasciare che le fiamme della sua gola pestifera lambiscano i fianchi e arrossino gli occhi di chi lo sfida. Molti aspettano solo che qualcosa accada prima di morire. Ma nel mondo da me creato, accadendo di tutto, non accade mai niente.


Trieste, 21 aprile 2001

Alfredo M. Bonanno

* * * * *

“Pólemos, padre di tutte le cose, gli uni svela come dèi, gli altri come uomini”.

(Eraclito, fr. B53)

“L’‘inizio’ è ciò che in quel primo pensiero è da pensare ed è pensato. Per ora lasciamo nell’oscurità l’essenza di questo pensato. Posto che il pensiero dei pensatori si distingue in tutti i sensi dal conoscere delle ‘scienze’ e da ogni sorta di conoscenza pratica, allora anche il riferimento (Bezug) del pensiero al suo pensato è essenzialmente diverso dal rapporto (Verhältnis) del pensiero ‘tecnico-pratico’ e ‘pratico-morale’ abituale con ciò che pensa. Il pensiero abituale, sia esso scientifico, prescientifico o non scientifico, pensa l’ente, e lo pensa secondo i suoi singoli settori, i suoi piani separati e le sue prospettive delimitate. Questo pensiero è un intendersi dell’ente, un conoscere che in modi diversi lo padroneggia e lo domina. A differenza del padroneggiamento dell’ente, il pensiero dei pensatori è il pensiero dell’essere. Il loro pensare è l’arretrare di fronte all’essere. Ciò che è pensato nel pensiero dei pensatori lo chiamiamo l’inizio, il che ora significa: l’essere è l’inizio. Tuttavia, non ogni pensatore che deve pensare l’essere pensa l’inizio. Non ogni pensatore, e nemmeno ogni pensatore all’esordio del pensiero in Occidente, è un pensatore iniziale, vale a dire un pensatore che pensa espressamente l’inizio”.

(M. Heidegger, Parmenide)

Capitolo I

Si ammette quasi senza discussione che le cose chiare siano anche vere o, almeno, siano più facilmente comprensibili, dando al concetto di comprensibilità il significato di immediatamente utilizzabile per il fare. Quando i dati della realtà, o più semplicemente le nostre opinioni, o le sensazioni, si fanno oscure, non possiamo agire che in modo confuso e contraddittorio. Su queste affermazioni solo apparentemente c’è poco da dire. In effetti, la realtà non è così. Le regole della chiarezza analitica furono per la prima volta, nel senso moderno, formulate da Cartesio, nel seguente modo: «1) Non raccogliere mai nulla per vero che non conoscessi esser tale con evidenza, e non comprendere nei miei giudizi nulla di più di quello che si presentava così chiaramente e distintamente alla mia intelligenza da escludere ogni possibilità di dubbio. 2) Dividere ogni problema in parti minori. 3) Condurre con ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili a conoscere, per salire, a poco a poco, come per gradi sino alla conoscenza dei più complessi. 4) Far dovunque enumerazioni così complete e revisioni così generali da essere sicuro di non aver omesso nulla». (Discorso sul metodo, I). La chiarezza è certo un elemento indispensabile dell’analisi e, dovendo quest’ultima contribuire a rendere più comprensibile la realtà, non può fare a meno di ricorrere a procedimenti che siano quanto più chiari e semplici. Ma un procedimento semplice non per questo, se applicato alla realtà, deve per forza dare come risultato una semplificazione di quest’ultima e quindi una sua migliore comprensibilità per noi che dobbiamo agire. Scrive Karl Jaspers: «Infatti la chiarezza dell’analisi dell’esserci consiste nel far avvertire ai suoi limiti che la coscienza, nella sua immanenza, mi esclude assolutamente, nonostante io sia consapevole di essa. Pertanto l’analisi dell’esserci diventa, per la chiarificazione dell’esistenza, una costruzione-limite. In un senso più ampio, tutto il filosofare può essere chiamato chiarificazione dell’esistenza; infatti, nell’orientazione filosofica nel mondo e nella metafisica essa non è meno presente di quanto non lo sia nel pensiero chiamato specificatamente chiarificazione dell’esistenza. Quando mi dirigo verso la totalità e mi perdo nel suo orizzonte inconcluso vengo rigettato su me stesso; in questo ritorno l’accento non cade sull’esserci che discende dal tutto, ma su me stesso nella mia libertà. Se nella metafisica ho fatto esperienza che nessuna delle sue oggettività è valida per tutti, il ritorno mi riconduce di nuovo a me stesso, per cui nell’esser-me-stesso si chiarisce il mio essere per la trascendenza. Se dunque non c’è alcun filosofare che nel suo svolgimento non chiarisca l’esistenza, allora si può parlare della chiarificazione dell’esistenza in un senso specifico, e precisamente come di quel linguaggio che si esprime in quei segni e simboli costituiti dall’origine e dalle possibilità di me stesso, per far avvertire l’incondizionato di fronte al relativo, la libertà di fronte alla mera universalità, l’infinitudine dell’esistenza possibile di fronte alla finitezza dell’esserci. Ma l’oggettività che così emerge nel pensiero non può fare a meno di rinviarmi di nuovo a me stesso. Questo rinvio è però diverso da quello determinato dalla totalità e dalla trascendenza. Se là l’esistenza è relazione ad altro, qui è relazione all’ipotizzata possibilità di se stessa. È il ritorno del pensiero chiarificante a se stesso, per cui la chiarificazione dell’esistenza è in circolo con se stessa. Il pensiero che chiarisce l’esistenza, se da un lato non è in grado di conoscere l’essere, dall’altro ne produce la certezza quando si fa pensiero attivo nella vita stessa, e la rende possibile quando, mediandosi nel linguaggio filosofico, si fa udire negli appelli che invia, si arrischia senza riserve nella sospensione raggiunta nell’orientazione filosofica nel mondo, mentre con la chiarezza che, in tutta l’estensione possibile del filosofare, anima la libertà dell’esistenza, non fa che manifestare più decisamente la sua trascendenza. Tutte le sue vie conducono alla metafisica. Finché l’uomo potrà elevarsi al di sopra del suo esserci, il filosofare lo sospingerà verso lo slancio metafisico. Per l’esistente la metafisica è la chiarificazione in cui dal mondo, in comunicazione con le altre esistenze, parla la trascendenza». (Filosofia, tr. it., Torino 1978, pp. 145-146). Come possa inserirsi una chiarificazione che trascenda la realtà, questo è un mistero che l’essere non riesce ancora a spiegare.

Può verificarsi il caso che quanto ci occorre per meglio comprendere, per agire, sia una trasformazione della realtà, cioè una conoscenza della realtà su di un livello diverso dell’effettualità, non una sua banale semplificazione. Può darsi infatti che questa semplificazione si presenti a noi sotto le vesti di una grossa mistificazione rendendoci assolutamente impossibile l’azione, se non sul piano pratico almeno sul piano della sua reale capacità di trasformazione. Indirettamente Gottlob Frege: «Il botanico intende asserire qualcosa di altrettanto effettivo, sia quando accenna al numero dei petali di un fiore, sia quando accenna al colore di essi. L’una cosa non dipende dal nostro arbitrio né più né meno dell’altra. Qui vi è dunque, certamente, una qualche analogia tra numero e colore; ma non per il fatto che numero e colore siano entrambi proprietà degli oggetti percepibili coi sensi, bensì per il fatto che sono entrambi oggettivi. Io faccio una netta distinzione fra ciò che è oggettivo, e ciò che è palpabile, reale, e occupa uno spazio. Per esempio, l’asse terrestre e il baricentro del sistema solare sono oggettivi, eppure non potrei dire che sono reali come lo è la terra. Si afferma non di rado che l’equatore è una linea ideale, sarebbe però erroneo asserire che è una linea immaginaria. Essa infatti non viene creata dal pensiero, non è l’effetto di un processo psichico il pensiero serve soltanto a riconoscerla, ad afferrarla. Se il suo nascere coincidesse col suo essere conosciuta, noi non potremmo affermare nulla di essa, riferendosi la nostra affermazione a un tempo precedente a tale pretesa nascita». (Logica e aritmetica, tr. it., Torino 1965, pp. 257-258). Tutto l’insieme dei problemi che si sviluppano in merito al rapporto con la realtà, in primo luogo i movimenti di apertura della coscienza verso la diversità, coinvolgono una particolare concezione dell’idea di chiarezza, di distinzione, di semplicità, ecc.

Alla base delle illusioni sulla chiarezza ci sta l’idea molto diffusa che vi siano cose evidenti, cioè realtà che si presentano con un aspetto particolare che si definisce evidenza, e che proprio per questo non possono essere messe in dubbio. L’evidenza sarebbe quindi una specie di caratteristica a priori di alcune relazioni. Grosso modo nella storia del pensiero si delineano due posizioni in merito a questo problema. Una prima, si preoccupa della percezione della realtà in modo chiaro e distinto e cerca di fondarla sull’esistenza possibile di oggetti chiari e distinti. Una seconda si limita a ricercare forme linguistiche semplici, quindi chiare e distinte, capaci di esprimere fatti, sensazioni, idee e oggetti che si possono considerare elementi anch’essi chiari e distinti. Così Hegel: «La misura è il quanto qualitativo e dapprima essa è una quantità immediata che ha un’esistenza determinata o una qualità. Siccome la misura riunisce la qualità e la quantità in un’unità immediata, la differenza tra qualità e quantità si produce così, nella misura, in un modo ugualmente immediato. Da una parte il quanto specifico è un semplice quanto e può essere diminuito o aumentato senza che la misura, in quanto regola, sia per questo distrutta; ma dall’altra, il cambiamento del quanto comporta anche cambiamento della qualità». (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, par. 107, 108). La differenza dipende non tanto da una diversa considerazione data al concetto di chiarezza, quanto dalla conclusione a cui è arrivato l’empirismo moderno che il linguaggio è il solo strumento della conoscenza.

Oggi, parlando di chiarezza, di necessità di chiarezza, si ha in mente quasi esclusivamente la chiarezza del linguaggio, o della parola, cioè la chiarezza dello strumento. Così John Barrow: «La scienza esiste perché il mondo naturale sembra algoritmicamente comprimibile. Le formule matematiche che noi chiamiamo leggi di Natura sono riduzioni economiche di enormi sequenze di dati sui cambiamenti di stato del mondo: ecco che cosa intendiamo per intelligibilità del mondo. Dato che il mondo fisico è algoritmicamente comprimibile, la matematica è utile per descriverlo: è infatti il linguaggio dell’abbreviazione delle sequenze. La mente umana ci permette di entrare in contatto con quel mondo perché il cervello possiede l’abilità di comprimere sequenze complesse di dati sensoriali in una forma più breve. Queste abbreviazioni fanno sì che esistano il pensiero e la memoria. I limiti naturali di sensibilità che la Natura impone ai nostri organi sensori ci impediscono di sovraccaricarci di informazioni sul mondo. Questi limiti funzionano come valvole di sicurezza per la mente». (Perché il mondo è matematico?, tr. it., Roma-Bari 1992, pp. 95-96). È questa la tesi estrema dell’essenzializzazione linguistica, di regola ottenuta facendo ricorso allo strumento matematico. Più esattamente: «Il mondo esterno esibisce strutture che si ripetono e che in quanto tali possono essere catturate come forme. La stessa forma può apparire in differenti modi concreti, e può così essere effettivamente descritta in modo astratto, senza far riferimento ad alcuna realizzazione concreta. Una tale considerazione astratta è ciò che rende possibile dedurne le varie proprietà, indipendentemente dai modi diversi in cui appare. La matematica consta di tali deduzioni». (S. Mac Lane, The Reasonable Effectiveness of Mathematical Reasoning, in R. Mickens, Mathematics and Science, ns. tr., Singapore 1990, p. 115). Il concetto di chiarezza della realtà è quasi sempre scontato in partenza. La realtà viene considerata chiara mentre siamo noi che la rendiamo confusa perché vogliamo che sia così in base a interessi nascosti e non sempre confessabili o perché non sappiamo renderla in modo chiaro.

Diciamo subito che per quanto si possa penetrare a fondo nell’analisi non si potrà mai arrivare alle proposizioni semplici, cioè a quelle proposizioni che non danno luogo a possibili equivoci perché si presentano in forma chiara e diretta. Ironicamente, Schopenhauer: «Ognuno chiama dettami della ragione certe proposizioni che ritiene vere senza indagarle e delle quali si crede così saldamente convinto che, perfino se volesse, non riuscirebbe a sottoporle a rigoroso esame, in quanto dovrebbe per un momento dubitarne. Esse hanno acquistato presso di lui un così saldo credito perché, quando egli cominciò a parlare e a pensare, gli furono continuamente dette e così inoculate da altri; perciò la sua abitudine di pensarle è antica quanto l’abitudine di pensare in generale; sicché avviene che egli non è più in grado di separare le due cose; anzi quelle proposizioni sono cresciute insieme con il suo cervello. Quello che si dice qui è tanto vero che sarebbe da una parte superfluo, dall’altra poco raccomandabile, dimostrarlo con esempi». (Sulla filosofia e il suo metodo, in Parerga e paralipomena, vol. II, tr. it., Milano 1983, p. 21). Per lo stesso motivo, per quante operazioni si possano realizzare nella realtà, non si potrà mai arrivare all’entità isolabile in modo certo, priva di modificazioni continue, separata dal flusso relazionale. Operazioni del genere sono realizzabili nell’astrattezza delle ipotesi, solo nell’ambito di relazioni apparenti. Infatti, basta riflettere un poco e ci si accorge che quando un’idea viene isolata proprio perché considerata chiara e distinta dalle altre idee, essa resta pur sempre legata a queste condizioni di chiarezza, e distinzione, o di semplicità, distante dalle quali non regge più in quanto idea, sciogliendosi solo nella categoria astratta di chiarezza. La totalità delle relazioni presenta sempre un insieme di elementi sensibili, elementi sociali, biologici, ideologici, ecc., che in pratica non sono separabili. Come si può parlare di chiarezza in queste condizioni?

Consideriamo le seguenti affermazioni che possono anche essere definite chiare e distinte: 1) Il reddito complessivo dell’agricoltura aumenterà se tutti gli agricoltori lavorano bene e la natura fornisce buoni raccolti. 2) Per un’industria vendere sottocosto i propri prodotti non è conveniente. 3) Se un paese riduce le tariffe doganali e gli altri paesi non lo fanno il primo subisce un danno economico. 4) Tutte le persone troveranno lavoro se lo cercano con costanza e se sono disponibili ad accettare un salario meno alto di quello corrente sul mercato. 5) Durante i periodi di depressione il risparmio dei singoli individui aumenta e quindi aumenta anche il risparmio complessivo di un Paese. Tutte queste affermazioni, apparentemente chiare e distinte, sottoscrivibili per la maggior parte delle persone di buon senso, sono errate. Una conoscenza anche soltanto parzialmente approfondita dell’economia dimostra la loro inconsistenza e quindi non è la loro elementarità o semplicità a fornire indicazioni analitiche sulla realtà, ma un livello di maggiore difficoltà e penetrazione. Ludovico Geymonat e Giulio Giorello scrivono: «Occorre subito aggiungere qualche precisazione sui difetti riscontrati a partire dal secolo XIX negli Elementi di Euclide. Questi possono riassumersi nel fatto che Euclide ammette senza discussione taluni postulati, come per esempio quello famoso delle parallele, che danno luogo a molti dubbi, inoltre fa uso di concetti, come quello di continuità, senza averli esattamente definiti. Non fu difficile scoprire che la causa di questi difetti va ricercata nell’introduzione entro il discorso formale usato da Euclide, di frequenti appelli all’evidenza, onde il suo sistema risulta in realtà non esattamente formale ma preformale. Ne sorse un movimento generale incentrato sulla critica dell’evidenza (e quindi dell’intuizione, che dovrebbe costituire la via maestra per cogliere le proposizioni evidenti) considerata come incompatibile con l’autentico rigore che si esige da una scienza formale». (Le ragioni della scienza, Bari-Roma 1986, pp. 8-9). Retrocedendo verso la fondatezza, la serietà progettuale e la logica modificativa, finisco per ridimensionare per eccesso di prudenza. In ogni geometra o ragioniere c’è un debole per il nulla, la vacuità elevata a unica concretezza. Più mi affido alle mie stesse scorie di vita e più non vedo altro che il mio schema razionale, resto affascinato dalla mia capacità di fare, tutto mi sembra risolvibile e a portata di mano. Sono diventato tanto piccolo e minuscolo da non meritare la mia stessa attenzione, mi sento così concluso e al sicuro, accasciato nell’ovvietà, infinocchiato davanti alla sacralità dell’evidenza. Nell’intimo più recondito di me stesso cerco di risalire alla superficie, di garantirmi una più intensa sensibilità, ma sono sordo e muto, legato, carico di catene, remoto alle palpitazioni della vita. Devo levare dai miei occhi i moduli che mi hanno reso un abitudinario del ragionamento. Devo ritornare all’antico balbettio.

In pratica, ciò che ci spinge al conforto dell’evidenza è anche una non corretta interpretazione del momento psicologico-riflessivo, cioè la relazione con cui la coscienza presiede al processo meccanico di accumulazione. «La “ragione” è la causa del nostro falsificare la testimonianza dei sensi. In quanto i sensi ci mostrano il divenire, lo scorrere, il cangiamento, non ingannano». (F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, La “ragione” nella filosofia, 2). Nell’ambito degli interventi modificativi, la coscienza vuole che si instauri una condizione di chiarezza. Cioè che ci si mantenga nei confini conosciuti del processo stesso e non si travalichi in territori che sono estranei al senso, o comunque posti con quest’ultimo in relazioni contraddittorie. Va da sé che questi confini non sono assoluti e non resistono a un ulteriore approfondimento critico. Interessante l’approccio di Nicolai Hartmann, ma non la sua conclusione: «Sono proprio gli errori che costringono a un maggiore approfondimento, la loro insostenibilità incita alla correzione. Nella scienza, gli errori sono esperienze che lo spirito obiettivo fa con se stesso. E i suoi errori gli sono utili. Questo accade già nella vita dell’individuo, dove la conoscenza cresce nella misura degli errori fatti e della loro correzione. L’uomo fa progressi, ma le lezioni sono a pagamento. E cosi accade anche nel processo conoscitivo “in grande” che, in quanto è storico, poggia su quello individuale e lo comprende nel proprio movimento. L’uno dipende dall’altro: come ogni risultato del sapere muove e sostiene la conoscenza individuale, così quest’ultima, coi suoi risultati dà impulso al progredire complessivo del sapere. Nella scienza dunque il movimento dello spirito obiettivo sottostà a una legge sua propria che non ha pari in nessun altro campo: esso può singolarmente condurre di errore in errore ma, nel risultato complessivo, porta inevitabilmente alla verità – e ciò indipendentemente dal fatto che raggiunga o no la verità su una questione determinata. La ragione di ciò è la seguente: l’errore, non potendo reggere al progredire della ricerca e dovendo cadere, provoca un contraccolpo il quale, sia pure errato quanto si vuole (di regola, infatti, cadrà nell’estremo opposto) è già tuttavia una correzione del precedente e va quindi al di là di esso. Al secondo errore però tocca la stessa sorte del primo. E così ininterrottamente, finché l’errore sia compensato e, nell’avvicendarsi stesso degli errori si delinei la conquista di un nucleo di pura verità. Questa legge, da Hegel in poi, è stata spesso chiamata legge dell’antitesi». (Il problema spirituale, tr. it., Firenze 1971, p. 520). Gli errori sono come i fantasmi, i pensieri li animano ma non li possono controllare. Di solito i fantasmi si danno appuntamento a una certa ora sotto la luna. Perché non ho paura? C’è un’alleanza tra me e i fantasmi, un gioco che siamo adusi a fare assieme e che continuiamo a fare da anni, che non abbiamo mai smesso di fare mentre i miei capelli lentamente si incanutivano. Qualche volta un fantasma più lesto degli altri mi mostra un volto senza nome, conosco quel volto ma non saprei chiamarlo, costringerlo a rispondere ai miei perché. Lui lesto si copre e continua a giocare con me, come se la questione non lo riguardasse.

Di regola, ci risulta più chiaro tutto ciò a cui siamo maggiormente abituati. L’abitudine si presenta quindi come la causa della chiarezza della realtà e non come una pretesa semplicità dell’oggetto o dell’apparato strumentale con cui ci accingiamo a conoscerlo. Con la solita precisione, Georg Simmel: «Forse, è soltanto l’avidità pratica che non si accontenta di nessuna quantità data di beni, e per la quale ogni valore risulta quindi troppo scarso, che ci trae in inganno e non ci permette di vedere che non è la rarità, ma uno stadio intermedio tra rarità e non rarità a costituire nella maggior parte dei casi la condizione del valore. Il momento della rarità deve essere inquadrato nel significato della sensibilità alla percezione delle differenze, come dimostra un semplice ragionamento, se pensiamo al momento della frequenza nella formazione dell’abitudine. La vita viene sempre determinata dalla proporzione di due elementi, nel senso che da un lato abbiamo bisogno della differenza e del mutamento dei suoi contenuti, e dall’altro abbiamo bisogno dell’abitudine a ognuno di essi. Analogamente, questa generale necessità si presenta qui in una forma specifica, nel senso che il valore delle cose da un lato ha bisogno della rarità, quindi di differenziazione e specificità, mentre, dall’altro lato richiede una certa ampiezza, frequenza, durata, affinché le cose possano varcare la soglia del valore». (Filosofia del denaro, tr. it., Torino 1984, p. 112). Il fare ha un suo modulo eterno che viene continuamente riprodotto nella modificazione, si tratta dell’apparenza. Non è una questione di immagine, anche se questo aspetto gioca un ruolo sempre più importante, ma proprio di sostanza. Nel fare, il produttore per possedere il prodotto deve mettere da parte i suoi moti più essenziali e spontanei, deve allontanare da sé ogni intuizione che gli faceva sospettare la possibilità di staccare gli ormeggi, nessuna esuberanza, nessun eccesso. Costituzioni, disagi e proporzioni vigilate, ecco la discrezione da esercitare nella prospettiva della immediatezza. L’anemia del fare è prudenza condensata e chiusa nelle casseforti del potere. La si trova in circolazione come moneta spicciola a inquinare il mondo. Chi mangia a questa mensa si guasta il palato.

Per chi entra per la prima volta in un ambiente ostile, poniamo una prigione, tutto è confuso. Le mura, il colore dominante, gli odori violenti, i rumori assordanti, il senso di chiuso e separato, l’atteggiamento noncurante degli altri, la routine dei gesti e delle pratiche. L’aggressione che si subisce non è data da questo o da quell’oggetto, da questa o da quella persona, da questo o quel modo di fare. È l’insieme delle cose, degli atteggiamenti, degli oggetti, delle sensazioni che si solidifica in un tutto inscindibile e che costituisce l’ambiente ostile. La prigione non è data soltanto dalle mura, ma si personifica anche nel modo in cui si può o non si può chiedere che ti spengano o ti accendano la luce della tua cella d’isolamento. Poi il tempo comincia a scorrere. Col passare dei giorni ci si accorge che la compattezza della segregazione non è mai assoluta. Dietro il colore grigio uniforme si scoprono chiazze sempre più ampie di colore vivido, sui muri incrostati della cella d’isolamento c’è registrata una storia di uomini. Le loro sofferenze si presentano come fatti diversi dal monotono grigiore della prigione, come elementi d’umanità che continuano la loro lotta e finiscono per vincere riaffermando la gioia della vita. Gli odori si distinguono meglio, i rumori non sono più assordanti e inesplicabili. Corrispondono a una vita autonoma, forse non del tutto nemica, una vita di cui si cominciano a intendere i palpiti e i significati. L’informe massa oscura del braccio diventa più chiara, distinguiamo le altre celle. i piani sovrapposti, il tetto. Stabiliamo un rapporto con l’ambiente, cerchiamo di imporci a esso, cerchiamo di sopravvivere circoscrivendo l’angoscia di quell’ostilità che agli inizi avevamo sentito totale e senza speranza. Vediamo più chiaro e conosciamo più distintamente, in pratica facciamo l’abitudine a una certa realtà. E il fare l’abitudine corrisponde alla nostra tendenza naturale a cedere alla logica dell’a poco a poco, la sola che in fondo consente di sopravvivere e di affrontare molte avversità che in caso contrario ci distruggerebbero in breve tempo. In cima sta Cartesio: «Da tutte queste cose comprendo che la facoltà di volere che mi viene da Dio, considerata in sé, non è causa dei miei errori, giacché è vastissima e, nel suo genere, perfetta; né lo è la facoltà di intendere, poiché, visto che ho ricevuto l’intelletto da Dio, è certo che quel che intendo lo intendo rettamente e che a suo proposito non può accadere che mi inganni». (Meditazioni metafisiche sulla filosofia prima, tr. it., in Opere filosofiche, vol. I, Torino 1994, pp. 702-703). Tra i due estremi della libertà e della schiavitù, della realtà e dell’apparenza, si colloca la vicenda dell’uomo. È possibile ipotizzare un rallentamento di questo movimento pendolare. Penso di no, ci sarà sempre un’aspirazione alla libertà e una paura della libertà, un’aspirazione alla sicurezza e alla conservazione e un desiderio di aria più pulita da respirare. Le atrocità del fare si succedono una dopo l’altra e gli aspetti positivi, la conoscenza in primo luogo, spesso sono impiegati per coprirle, per renderle accettabili, per obbligarci all’abitudine.

Ma la logica del tutto e subito è quella che permette di cogliere il vero significato delle cose, è la folgorazione che fa capire, il duro impatto che non consente compromessi e cedimenti. In qualsiasi modo arriveremo a scoprire i colori della vita dietro l’uniforme grigiore della prigione, quale che sia la strada attraverso cui comprenderemo che l’umanità si può scoprire anche dentro una cella d’isolamento, non dobbiamo dimenticare che la prigione è realmente grigia e monotona e che la cella d’isolamento è realmente disumanizzante. Non dobbiamo dimenticare che la realtà più viva e completa della prigione è proprio l’ostilità compatta e totale che proviamo nel primo momento in cui ci trascinano dentro, non la rassicurante atmosfera di chiarezza, o di familiarità, che finiamo poi per rintracciare al suo interno. Il vigore e la forza di spezzare la paura e l’abitudine concorrono a creare fratture in una struttura mondana che, con tutti i suoi alti e bassi, anzi prepara proprio quelle, mentre sembra destinata all’eterno. Invece il fare non tollera bene queste fratture e le ripercussioni che ne derivano. La condizione dell’uomo è ogni volta rimescolata, riproposta ai princìpi, anche se sono pochi quelli che se ne accorgono. Il sovvertimento dei fondamenti logici e morali della civiltà avviene sempre più velocemente. Spesso si tratta di semplici modificazioni, ma non è facile cogliere dall’esterno le vere trasformazioni, ognuno ha una certa cognizione, sempre a posteriori, solo delle proprie azioni, e solo fino a un certo punto.

Personalmente non sono un partigiano delle difficoltà per le difficoltà. Ho però un certo gusto per le cose difficili, non prendo mai la via più breve per affrontare un problema e mi piace andare alla radice delle cose. Non mi impaurisco a priori davanti a una difficoltà tecnica e penso sempre che non sia difficile la cosa che mi sta davanti ma, al contrario, che sia io a non avere una sufficiente capacità tecnica per capirla. Ne concludo che mi debbo dare questa capacità, anche per potere decidere sulla reale difficoltà di ciò che mi trovo davanti e che non capisco. Riflettendo su Schopenhauer, così Vittorio Mathieu: «Il male dev’essere una qualche affezione del positivo da parte del negativo: perché, se fosse negatività pura, sarebbe nulla; dunque neppure male. Ma affinché quest’affezione sia reale, il male non può appartenere alla sfera pura e semplice della rappresentazione; deve incidere sulla volontà. Ed esso vi incide negativamente, come sofferenza, solo in quanto la volontà è lacerata, solo, cioè, in quanto ci poniamo nel mondo come rappresentazione. Ciò stabilisce tra la volontà e la rappresentazione un rapporto tutto particolare che è, appunto, quello per cui soffriamo. Ma stabilendosi così un rapporto in senso negativo, non è inevitabile ammettere per lo meno la possibilità anche di una relazione in senso positivo? Anche dal punto di vista della realtà vera la rappresentazione non sarà un puro nulla, se la sua molteplicità può incidere così intimamente sulla cosa in sé da farla soffrire. Ma se la rappresentazione non è un puro nulla, se è qualcosa anche dal punto di vista della volontà, la relazione dovrà potersi leggere, almeno sotto qualche aspetto e in qualche misura, anche in senso positivo; la rappresentazione dovrà positivamente contenere qualcosa della cosa in sé, avere una realtà non meramente fenomenica (nel senso soggettivo che Schopenhauer dà a questa parola); sicché la positività assoluta del nirvana non potrà consistere, puramente e semplicemente, nel cancellarla. Tale relazione positiva tra la cosa in sé, o volontà, e la rappresentazione è stabilita, in Schopenhauer, dalla dottrina delle idee. Questa dottrina viene ad avere, perciò, una funzione tutt’altro che marginale nel sistema, e, studiandola, potremo entrare nel nodo più stretto della problematica schopenhaueriana, potremo vedere la tecnica di ricerca metafisica di Schopenhauer alle prese con la difficoltà più importante che le avvenga d’incontrare. Può darsi che essa non ci si riveli del tutto sufficiente allo scopo; però, quand’anche rimanesse molto lontana dal superare la difficoltà, il suo studio ci avrà dato, dal punto di vista storico, il vantaggio di sbloccare la concezione di Schopenhauer dal pessimismo di maniera a cui la coscienza di un secolo fa l’aveva, per lo più, legata. Il senso che Schopenhauer ha della presenza del negativo nel mondo ci apparirà più terribile e più efficace, appunto perché accompagnato da una sensibilità per ciò che il mondo può avere anche di positivo: per quello, cioè, che siamo soliti chiamare “valore”. È difficile sottrarsi all’impressione che tra i due gradini della liberazione dell’uomo dalla volontà di vivere, trattati, rispettivamente, nel terzo e nel quarto libro del Mondo come volontà e rappresentazione, vi sia, più che passaggio graduale, un’opposizione di natura. L’ascesi è rinunzia alla volontà di vivere, negazione di essa; l’arte ne è, piuttosto, rappresentazione vera e purificata. Se il distacco dalla volontà consistesse nel passare alla sua negazione pura e semplice, l’ascesi rappresenterebbe questo passaggio molto più opportunamente dell’arte, poiché si limiterebbe a cambiar di segno ai valori mondani, e a dire (ma in senso opposto a quello delle streghe), fair is foul, and foul is fair. Ma dato che, se davvero i due termini fossero la negazione assoluta l’uno dell’altro, non si potrebbe neppure sostenere che siano in rapporto, la teoria dell’arte, o qualcosa di analogo, dovrà adempiere a una funzione indispensabile: stabilire un rapporto anche positivo tra cosa in sé e fenomeno, in modo da dare una qualche consistenza a quella volontà obiettiva e incorporata che si ha da negare. Sennonché, in questo modo, si viene inevitabilmente a stabilire almeno la possibilità di un genuino valore; senza il quale, del resto, non potrebbe intendersi neppure quel radicale disvalore del mondo che rende necessario rovesciare il modo di vedere dell’intelletto comune, e cercare la vera realtà là dove esso vede il vuoto». (“La dottrina delle Idee in A. Schopenhauer”, in “Filosofia”, Ottobre 1960, pp. 544-545). Il mondo produce tristezze in serie che ci aiutano a sopportarlo. Proporre un accenno di diversità, manifestarlo nella sua individuale realizzazione, è indicato come peccato capitale e follia. La condizione di automi è la regola, nessuno può svegliarsi dal sonno dogmatico. Kant meno di tutti. I sogni e i segreti dei sogni sono accuratamente rasi al suolo e sostituiti con le apparenze che mimano i sogni sulla base di regole di gradimento sempre più adeguate al mercato. Il senso della pienezza è ormai perduto, non ha da dove sgorgare, manca ormai la fonte della felicità dove si abbeveravano gli dèi. Gli automi producono e battibeccano armati fino ai denti e non possono capire, non è loro concesso, di essere in balia di una deriva senza fine. Nessuno si dichiara apertamente paladino della menzogna perché la menzogna non è più distinguibile dalla verità in un mondo che è impastato con la menzogna soltanto. Così continuo a inseguire un mio sogno anche qui, nella mia cella [2004], mentre tutto intorno sventolano le bandiere dell’apparenza e dell’ignominia.

Pretendere che il problema che mi si pone venga reso chiaro e distinto, cioè facile, significa, almeno mi pare, delegare agli altri il compito di tradurre a un livello comprensibile, per me, il problema stesso. Si tratta di dare ad altri una delega che si conclude sempre con un loro intervento arbitrario sulle condizioni del problema, intervento che, nella migliore delle ipotesi, è diretto in buona fede a semplificarmi le difficoltà. Il tentativo di sottrarmi all’impegno di descrivere l’itinerario verso l’azione, la distruzione dei legami col mondo, apre il discorso a una possibile oggettualità che non riesce a fare a meno di regole e misure, essendo essa stessa regola e misura, meccanismo determinatamente segnato come regolativo. Pensare possibile l’azione come qualcosa di meccanico, all’interno della quale gli individui giocano un ruolo di marionette, è il sogno di tutti i politici e dei loro servitori paludati, gli studiosi di politica. Ma è il mio destino che raccoglie e propone la mia vita, ed è il suo risultato, acquiescente o meno, a contribuire a una illusione di mondo che avanza come un fantasma decidendo al posto dei singoli col convincimento della forza militare. La convinzione che tutto questo apparato sia la superfice coprivergogna di un elemento reale che fa al di sotto il mondo e senza il quale il mondo non ci sarebbe, mi porta a considerarmi un appestato che alza le mano contro un destino apparentemente ineludibile. La lotta è qui, nel rifiutare quello che molti accettano, non nell’accettare quello che molti rifiutano. I negatori critici sono di già un piccolo numero, chi agisce è un numero ancora più piccolo e non può sostenere questo impeto distruttivo per molto tempo. Chi non coglie questa condizione ferocemente balbettante, si aggira fra le parole e implora la chiarezza conoscitiva, un programma oggettuale, ma queste implorazioni sono sempre parole che muoiono sulle labbra non appena pronunciate. Avere paura è giusto, cercare di oltrepassarla è indispensabile, altrimenti la paura diventa putrefazione, rassegnata convivenza col brivido e, alla lunga, piacevole esercizio di mutilazione. Scriveva Albert Camus (Actuelles, 1950/1958): “Quelli che scrivono con chiarezza hanno dei lettori, quelli che scrivono in modo ambiguo hanno dei commentatori”. Con questo non so bene se intendesse una valutazione positiva dell’avere lettori. Il suo amico Sartre ne aveva di certo più di lui, e non per merito di quello che andava scrivendo.

Purtroppo esistono infiniti problemi e moltissimi settori della conoscenza umana che resteranno sempre tagliati fuori dalla possibilità di comprensione dell’individuo singolo. La confortante posizione di Jules Henri Poincaré non è più condivisibile: «Alcuni hanno esagerato l’ufficio della convenzione nella scienza; essi sono arrivati a dire che la legge ed il fatto scientifico stesso sono creati dallo scienziato. È questo un andar troppo lontano sulla via del nominalismo. No, le leggi scientifiche non sono creazioni artificiali, non abbiamo alcuna ragione di considerarle contingenti, benché ci sia impossibile dimostrare che non lo sono. Questa armonia che l’intelligenza umana crede scoprire nella natura esiste al di fuori dell’intelligenza stessa? No, senza dubbio: una realtà completamente indipendente dallo spirito che la concepisca, la veda a la senta, è un’impossibilità. Un mondo esterno come questo, anche se esistesse, ci sarebbe sempre inaccessibile. Ma ciò che noi chiamiamo realtà obiettiva è, in ultima analisi, ciò che è comune a più esseri pensanti, e potrebbe esser comune a tutti; questa parte comune, come vedremo, non può essere che l’armonia espressa dalle leggi matematiche. Questa armonia è la sola realtà obiettiva, la sola verità che possiamo attingere». (Il valore della scienza, tr. it., Firenze 1947, pp. 29-30). Oggi la specializzazione della scienza produce teorie in tal numero che è assolutamente impossibile conoscerle tutte. Basta pensare alla matematica. Venticinque anni fa per una discreta preparazione matematica occorreva un lavoro non superiore a sei mesi. Oggi, anni e anni di sforzi sarebbero insufficienti. La stessa notazione è diventata un problema a se stante su cui gli specialisti medesimi non riescono a mettersi d’accordo. Ciò non toglie però che sia valido, da un punto di vista metodologico, il porsi davanti al problema con il presupposto che non sia difficile esso stesso ma semplicemente incompleta la nostra capacità tecnica di capirlo. Non resta altro da fare che mettersi a lavorare, e spesso a lavorare duramente, per capire il problema. Solo a un santo poteva venire un pensiero come questo: “Colui che parla chiaro, ha chiaro l’animo suo”. (Bernardino da Siena, Prediche volgari, 1427).

Esistono ovviamente problemi con una notevole componente astratta, e qui ne trattiamo diversi, i quali sono significativi solo in modo indiretto. Ma vi sono problemi di interesse immediato, cioè direttamente attinenti a fenomeni sociali, economici, politici, filosofici, ecc., che possono essere affrontati solo con un minimo di preparazione, diciamo così, istituzionale, minimo che, per la verità, diventa ogni giorno più grande. Scrive Mario Piazza: «Per contare occorre assegnare agli oggetti un contorno, o un confine, proprio come in alcuni quadri di Cézanne gli oggetti sono contornati da tratti turchini: per questa ragione è così difficile contare le onde, le amebe, le nuvole e anche i nostri pensieri». (Intorno ai numeri. Oggetti, proprietà, funzioni utili, Milano 2000, p. 35). Aspettarsi che qualcuno ci traduca questi problemi in forma chiara e distinta, magari con la bellezza e l’evidenza dei dialoghi malatestiani è vana speranza che si assottiglia sempre di più. Non è cattiva volontà, è semplicemente che le cose sono complicate, maledettamente più complicate di quando il vecchio anarchico svolgeva la sua attività di propagandista.

C’è da chiedersi se sia valida l’ipotesi di ridurre la conoscenza all’essenzialità necessariamente mistificatoria della propaganda. E ciò per rendere in modo “chiaro” e “semplice” i problemi, finendo poi per tralasciare quelli che non sono riconducibili a questa artificiosa riduzione. Ancora Simmel: «I princìpi costitutivi, che esprimono la natura delle cose una volta per sempre, si traducono in princìpi regolativi, che costituiscono soltanto punti di vista nel procedere della ricerca. Sono proprio le astrazioni ultime, le semplificazioni e le sintesi del pensiero più elevate a dover rinunciare alla pretesa dogmatica di porre fine alla conoscenza. Al posto dell’asserzione che le cose si comportano in questo e questo modo soltanto, si deve piuttosto affermare, quando si affrontano le concezioni più ampie e generali, che la nostra conoscenza deve procedere come se le cose si comportassero in questo e questo modo. Si dà cosi la possibilità di esprimere molto adeguatamente il tipo e la rotta della nostra conoscenza, il suo vero rapporto col mondo. La multiformità della nostra natura e l’unilateralità di ogni singola espressione concettuale del nostro rapporto con le cose corrisponde al fatto, da cui nasce, che nessuna espressione di questo tipo risulta alla lunga e in generale soddisfacente, ma è in genere storicamente compensata da una opinione contraria. Ciò produce, molto spesso, un’oscillazione continua e indeterminata, una commistione contraddittoria o la tendenza a negare del tutto l’utilità di princìpi generali. Se le asserzioni di base che vogliono determinare la natura delle cose, si traducono in asserzioni euristiche che vogliono determinare soltanto il percorso della conoscenza indicando delle mete ideali, ciò consente chiaramente di ammettere la validità di princìpi opposti; ora, se il loro significato è puramente metodologico, tali princìpi possono essere utilizzati alternativamente senza contraddirsi, cosi come non vi e contraddizione usando di volta in volta un metodo induttivo o deduttivo». (Filosofia del denaro, op. cit., p. 167). Non è certo di catechismi che abbiamo bisogno, ma di approfondimenti critici, di strumenti per l’azione, di mezzi per la trasformazione della realtà. Ma questa preparazione è una cosa seria e difficile. Non può essere fatta esclusivamente su accenni e riassunti facilitati. Deve andare oltre. Deve potersi fare anche costruendo a breve o a lungo termine le capacità che forse oggi ci mancano. Scrive Niklas Luhmann: «È vero che sappiamo pochissimo dei rapporti che corrono fra la complessità cognitiva e le strutture di potere, ciò nonostante una trattazione del problema del potere dal punto di vista della teoria sociale può dare per acquisita l’esistenza di limiti della capacità decisionale, i quali diventano a loro volta fonti di potere. Ciò accade in un duplice senso, e cioè da un lato nella forma di un “potere di blocco” all’interno delle concatenazioni di potere, il quale, non potendo né promuovere alcunché né rispondere di alcunché, è tuttavia in grado di impedire molto; dall’altro nella forma di un potere delle non-decisioni all’interno delle istanze investite di determinate responsabilità. Nelle condizioni da noi descritte aumenta dunque la probabilità dei casi in cui il potere trasmette prestazioni di segno negativo, mentre diminuisce la probabilità dei casi in cui il potere trasmette prestazioni decisionali di segno positivo». (Potere e complessità sociale, tr. it. Milano 1979, p. 98). Le trasformazioni del potere in senso democratico, di cui Luhmann fa vedere l’aspetto della risposta di interdizione, comportano un aumento delle difficoltà di comprensione, difficoltà che tornano utili – se non chiarite – proprio al potere stesso, che così abbandona definitivamente la vecchia strutturazione umanistica che lo vedeva esercitare le proprie prerogative in modo specifico, chiuso all’interno di una classe, rigidamente solidificato in un rapporto di comando e di obbedienza. Solo che le complessità del reale sono difficilmente attingibili da parte dell’individuo, che tende all’addomesticamento, alla scelta della via più facile. «In fondo certamente anche l’uomo più oggettivo si trova d’accordo nel suo intimo con quel ch’è stato esposto, ch’è giusto cioè che l’uomo sapiente comprenda anzitutto la stessa cosa come la comprende l’uomo semplice, e si senta obbligato alla medesima cosa a cui si sente obbligato il semplice – e allora soltanto gli è permesso di passare alla considerazione della storia universale. Quindi, prima la cosa semplice. Ma naturalmente questo è così facile da capire per il sapiente (perché altrimenti si chiama sapiente?), che la comprensione è cosa di un momento, e che nello stesso momento egli è già in pieno galoppo con la storia universale – e la stessa sorte hanno avuta lestamente quelle mie semplici osservazioni: le ha comprese in un momento e nello stesso momento si trova già molto lontano. Se però mi fosse concesso di poter parlare ancora per un momento col nostro sapiente, perché io vorrei con piacere essere l’uomo semplice, vorrei che si fermasse a riflettere su questo semplice dubbio: Chissà che ciò che per il sapiente è la cosa più difficile da capire, non sia precisamente la più facile! Il semplice comprende la cosa semplice direttamente: ma quando la deve comprendere il sapiente, allora la cosa diventa infinitamente difficile. Sarebbe mai un’offesa contro il sapiente questo modo di attribuirgli tanta importanza che la cosa più semplice diventa la più difficile, soltanto perché è lui che deve occuparsi di essa? Niente affatto!». (S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia, tr. it., vol. I, Bologna 1962, pp. 353-354). Mi dispongo diversamente nei riguardi dell’intuizione di quello che faccio nei confronti della conoscenza. Non cerco di impadronirmi di qualcosa ma lascio che l’intuizione mi prenda con sé, mi abbandono a essa. Non ho cioè un atteggiamento utile ma, al contrario, un atteggiamento inutile, che rifiuta la praticità del possesso. L’intuizione non ha un suo riferimento ai limiti conoscitivi, sia pure diverso, o più esteso. Semplicemente non possiede concordanze e riflessi di ritorno che indicano l’esistenza di confini. Si allarga all’infinito, sempre settori sconosciuti della conoscenza, e ne abbatte i confini senza tradurli in conoscenza pratica vera e propria, non padroneggia, non domina. Chiedere qualcosa d’altro alla parola è andare via dalla parte che abitualmente frequento. Quello che è detto nella intuizione non è lo stesso di quello che circola nel mondo come dominio del dire. Ciò che penso nell’intuizione è altrove, non resta immobile nel pensato che le condizioni logiche tengono fermo. Non penso per procedere a conclusioni possessive, ma globalmente penso l’abbandono, quindi anche l’abbandono del pensare. Certo, non ogni intuizione è semplicemente abbandono, il coinvolgimento è conquista che realizzo con un intensificarsi del mio rapporto con l’assenza della qualità. Ogni intuizione è comunque l’intuizione dell’assenza.

Ma c’è anche un altro aspetto della questione, un aspetto radicalmente diverso. La conoscenza non è solo acquisizione, sia pure difficile e complessa, è anche coinvolgimento. Ed è di questo che intende parlare Kierkegaard. È su questo livello che si colloca la frattura della coscienza, l’emersione dello scarto e della diversità. Ed è di questa diversità che bisogna pure dar conto all’interno di un discorso sulla chiarezza. Ancora Luhmann scrive, in un altro testo: «Quanto maggiore è il numero di possibilità di esperienze e di azioni – così noi definiamo la complessità – offerte dal mondo o da un sistema nel mondo, tanto più problematico diviene l’accesso a tali possibilità. L’attuale potenziale di esperienza del singolo è limitato, e soltanto poche possibilità di esperienza e di azione possono essere colte direttamente e senza difficoltà in una certa situazione. Tutto il resto rimane a distanze spesso assai grandi e incalcolabili e perde infine le proprie possibilità di realizzazione. È possibile vietare i monopoli, autorizzare la costruzione di una casa di vacanza in un parco nazionale, reintrodurre la pena di morte, semplificare l’amministrazione, aumentare i sussidi per la casa, ecc., ma cosa posso fare io per provocare tali decisioni? Si pretende da me che consideri contingente l’ambiente sociale e addirittura quello materiale. Tutto potrebbe essere diverso, ma quasi nulla io posso modificare». (Complessità e democrazia, in Stato di diritto e sistema sociale, tr. it., Napoli 1978, pp. 81-82). Uno degli aspetti più forti del potere è quello di garantire ai privilegiati una sorta di freno contro i cambiamenti, che per essere accettabili devono non modificare che gli aspetti compositivi del problema sociale, evitando di toccare quelli essenziali, cioè i rapporti di forza e i flussi di privilegi. La mia adeguata risposta al fare è un atteggiamento, uno spettacolo recitato conoscendo a priori il copione di tutte le movenze e i particolari. Fino all’ultimo respiro non faccio altro che seguire il cerimoniale di quello che va fatto, la scenografia di ciò che è premurosamente necessario alla reciproca convivenza e al mutuo riconoscimento. Tutto ciò è essenziale alla mia vita nel mondo e mi riallaccia ogni giorno di più all’idea di coerenza e di dignità. Eppure qualcosa non va. Qualcosa nello stile, quindi nell’uomo. Se mi adeguo muoio un poco a rate e un poco tutto in una volta. Devo smetterla di salvare la faccia e la reputazione, le abitudini di corte e le eccezioni. Non posso ossequiare le convenienze e lamentarmi di non attendere alla vita, di essere soltanto in attesa della morte.

In fondo, il dibattito sulla complessità è tutto interno a una logica dell’a poco a poco e se per noi ha un senso qui, c’è l’ha in quanto apre il discorso sul risparmio e sulla minore fatica, una linea tangenziale di intervento. Semplificando, Ernst Mach: «La scienza è un affare. Essa si propone, con il minimo di lavoro, nel minimo tempo, con il minimo sforzo di pensiero, di appropriarsi della massima quantità possibile dell’infinita, eterna verità». (Letture scientifiche popolari, tr. it., Torino 1900, p. 14). Emerge il concetto di “efficacia”. Niente verità assolute, ma solo risposte adeguate alla realtà, in maniera da potere gestire al meglio le situazioni che via via vengono proposte dal modo in cui è strutturato il mondo che ci circonda. Un empiriocriticismo d’occasione, che comunque riduce le possibilità del coinvolgimento vero e proprio. Chi risparmia la propria fatica addirittura nell’accumulo, in che modo potrà coinvolgersi totalmente nella diversità? La risposta non deve essere per forza deludente, comunque le premesse in questo caso sarebbero certo negative. Il fare, nella modificazione, si chiude e si avvita in se stesso, non ha prospettive se non quella illusoria dell’accumulo. L’agire si apre a una via, questa si estende nella trasformazione che apporta nuove condizioni di vita, profondamente diverse. La rammemorazione fissa queste trasformazioni modificandole nelle parole, ma la loro venuta in essere è precedente alla mia capacità di rammemorare e si riversa indirettamente sul mondo da me creato senza che io ne abbia conoscenza. Lungo il mio avanzare nella coscienza diversa della qualità non ci sono stazioni di sosta, non posso mandare messaggi o indicazioni, non ho nemmeno cognizione del mondo che mi sono lasciato alle spalle. Il mio stesso andare avanti è segno di qualità, mentre nel fare mi aggiravo indeciso nell’ambito della modificazione. Ora sono nella qualità e questa mi rivela a me stesso, non posso imbrogliare nella nuova situazione. Se sono un vigliacco il responso sarà preciso e dettagliato, andrà diritto al mio cuore così come io vado diritto verso la desolazione della cosa. Non c’è ostacolo se non un possibile ritorno della parola, l’antica domanda che nasconde la volontà dell’accumulo fuori posto, tutto qui?

Nell’apertura alla diversità si realizza l’inizio di un modo differente di conoscere, un modo all’interno del quale il discorso sulla chiarezza assume tutto un altro significato. Annota Søren Kierkegaard: «Qualora l’Ignoto (Dio) resti soltanto un limite, quell’unica idea della differenza si confonde in molti pensieri sulla differenza. L’Ignoto è allora in una diaspora, e l’intelletto può scegliere a suo agio fra ciò ch’è a portata di mano e ciò che può inventare l’immaginazione (il mostruoso, il ridicolo, ecc.). Ma questa diversità non è possibile mantenerla. Ogni volta che ciò succede, si tratta in fondo di un atto arbitrario, e nel fondo più intimo del timor di Dio sonnecchia pazzesco un arbitrio capriccioso, conscio di esser stato lui a produrre Dio. Se ora la differenza non si lascia mantenere, perché qui manca ogni criterio di distinzione, tanto la diversità come l’uguaglianza hanno la stessa sorte di tutte e siffatte opposizioni dialettiche: esse sono identiche. La differenza, attenendosi saldamente all’intelletto, ha confuso questo in modo che esso non conosce se stesso e finisce del tutto logicamente per scambiare se stesso con la diversità». (Briciole di filosofia, ovvero una filosofia in briciole, tr. it., Bologna 1962, p. 135). Con la differenza venutasi a determinare nel meccanismo di controllo instaurato dalla coscienza, il coinvolgimento si materializza come elemento di disturbo, inversione dell’orientamento, rifiuto del progressivo accumulo del senso, aspirazione a una qualità ben più consistente dei miseri residui accantonati.

Il precipitarsi fuori è anche un andare incontro alla morte, un ricostituire l’etica grandiosa dell’uomo antico, capace di proporsi la scalata all’inaccessibile, senza calcolare i costi e i ricavi, senza proporsi uno scopo immediatamente fruibile, forse nemmeno in termini di consapevolezza recondita. «Coro: Nei doni concessi non sei magari andato oltre? Prometeo: Sì, ho impedito agli uomini di vedere la loro sorte mortale. Coro: Che tipo di farmaco hai scovato per questa malattia? Prometeo: Ho posto in loro cieche speranze». (Eschilo, Prometeo incatenato, vv. 247-250). Nella febbre c’è un’avventura inaccessibile per altra strada, un desiderio di distruzione dei limiti attuali, anche quelli dai quali ci si attendava la comprensibilità, la semplicità, la decrittografazione di quanto non pare immediatamente comprensibile. La verità, come dice ancora Eschilo, « [...] sfolgora dappertutto, anche nella tenebra, con vicissitudini oscure per le genti mortali». (Le supplici, vv. 88-90). L’inquietudine che spezza il cerchio rompe anche i limiti vicini e lontani, presenti e futuri, propone un riflesso nuovo alle vecchie chiarezze, rende confuso quello che prima era limpido e fa diventare chiaro proprio il superfluo, ciò che adesso, con evidenza e distinzione, ci appare inutile. In questo modo «[...] fa volgere chi soffre verso la conoscenza che mostra il futuro». (Eschilo, Agamennone, vv. 250-251). Quello scarto, costituendo un intralcio al processo di catalogazione, libera nuovi movimenti e ci rende partecipi in un modo che prima, nel chiuso dei controlli e delle sicurezze, non potevamo nemmeno immaginare. Per la grande abilità del giocoliere le difficoltà diventano semplici. E la rottura inquieta ci fa diventare giocolieri destri e astuti, desiderosi solo di preparare una nuova intrapresa, assolutamente ignota, lontana dalle vie dell’abitudine. Adesso non abbiamo più paura della mancanza di chiarezza. Se le mie attitudini, dico per esprimere un modello, naturali, sono state esaltate da una preparazione tecnica specifica, ciò non può essere pensato in termini di progressione assoluta, ma come un evitare, un poco a tentoni, le cristallizzazioni e i manicheismi classici di cui il mondo continua a essere pegno. Lo straordinario stimolo liberatorio che questo movimento comporta, a sua volta, non ha mai un carattere assoluto. Anche nel frammentario contatto con l’intensificazione qualitativa c’è sempre un andare oltre che segna la mancanza di ogni segno, ma che comunque segna. Se non ho più parole mantengo il senso della parola, altrimenti il mio balbettio andrebbe subito oltre il punto di non ritorno e tutto finirebbe lì, senza nessuna rammemorazione. La pulsazione dell’uno, per come l’avverto grazie alla sua voce, per me incomprensibile in termini di parole, non corrisponde mai a questa mia condizione sospesa. Ogni esperienza diversa corrisponde a una immediatezza resa illusoria dalla riflessione, la vertiginosa crescita dell’intensità non può essere capita e catturata nei moduli riproduttivi. Di quelle vette si condensano pochi residui di infinito che stridono e si dibattono col progetto assennato dentro cui li voglio racchiudere. Lo spazio di questa cattura rammemorativa è considerevole, ma non c’è nessuna immanenza obbligatoria, tutto scorre via come acqua fra le dita e la ragione resta come allocco mentre vorrebbe imporre dottrina e coerenza. Una resistenza eccessiva a questa ineluttabile conclusione, un irrigidirsi, un troncare nettamente il rapporto con la parola nel vano tentativo di ripristinare qui, nel mondo, in questo buco dove scrivo [2005] le condizioni del deserto, mi porterebbero alla follia.

La condanna della chiusura accumulativa non è causa dell’inquietudine, ma ne è effetto e giustificazione insieme. «D’altra parte – precisa Giorgio Colli – bisogna capire che così il mondo delle cose non sarebbe altro che il prodotto di un meccanismo conoscitivo “quello che precede il linguaggio”. L’equivalenza tra il nascosto e il palese è simile a quella fra un testo originale e la sua traduzione, o meglio, poiché diversa è la qualità, fra una musica e la sua traduzione in parole. È la sua natura rappresentativa che condiziona la realtà di questo mondo manifesto, limitazione che non tocca al mondo nascosto. Il carattere di ciò che è manifesto è di esistere come rappresentazione, cioè di essere un oggetto per un soggetto. Non si tratta di una limitazione grossolana, nel senso che, soppresso un soggetto empirico (o universale) di conoscenza, venga perciò soppresso il mondo. (Questo perché il soggetto come tale non esiste). Di più, il mondo delle cose non è arbitrario, un sogno capriccioso, ma il suo nesso con ciò che è nascosto risulta necessario, insopprimibile. Se dunque non esistesse un soggetto in generale, il mondo della rappresentazione non ci sarebbe; ma un soggetto dev’esserci per una necessità che ha le sue radici nel mondo nascosto: questo spettacolo è perciò necessario, ma pur sempre uno spettacolo. Noi chiamiamo illusoria questa realtà perché siamo avvezzi ad intendere per realtà qualcosa per sé, indipendente da un qualsiasi soggetto. Per contro ciò che soltanto ha diritto di chiamarsi realtà è appunto questa realtà illusoria. Al mondo nascosto non spetta l’attributo di realtà, poiché non spetta nessun attributo: gli attributi sono di pertinenza della rappresentazione. E così l’universo della natura, il cielo e le stelle con le loro presunte leggi, l’uomo e la sua storia, con i suoi pensieri più sottili e i suoi prodotti più corposi, la materia e lo spirito, il cervello e la tragedia greca, tutto ciò non è altro che rappresentazione, retta dal vincolo del necessario, ed è lecito interpretarla soltanto come un dato conoscitivo, come espressione di un qualcosa di nascosto». (La ragione errabonda, Milano 1982, p. 306). La rottura si ha per un plateale disequilibrio tra l’enorme materiale accumulato in termini di senso e l’esiguità e la poca importanza dei residui di qualità. Ciò consente la continuazione del meccanismo accumulativo e il rifiuto di dare valore a tutte le procedure che pretendono di estendere il controllo della conoscenza bloccando ogni diversa reazione della coscienza. Non appena fuori, la pulsione vitale comincia il suo lavoro interpretativo facendo pervenire i primi effetti sulla stessa capacità di dare valore all’esistenza quotidiana. C’è costantemente una riorganizzazione dei processi produttivi dell’esistenza.

Si può essere insoddisfatti di questi movimenti. Spesso si è anche perplessi, non riuscendo a capire fino in fondo lo scarto tra le condizioni interne alla coscienza immediata, che affoga nel ripetersi dell’esistenza, e quelle dell’apertura verso la vita che si è venuta a creare con tutte le sue possibilità di riverbero verso la qualità. Ma queste incertezze fanno parte del gioco, costituiscono la realtà effettuale che si fa più chiara man mano che procede dai livelli modificativi a quelli trasformativi. È questa nuova chiarezza che si sostituisce alla precedente, cambiando i protocolli in esperienze, le identità in possibilità.

* * * * *

“Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo logos”.

(Eraclito, fr. B45)

“In tal modo quel che è nominato dalla parola ‘svelatezza’, vale a dire ciò che, pensando adeguatamente, dobbiamo pensare nel nome àlétheia, non viene ancora esperito, e tanto meno custodito, in un pensiero rigoroso. È possibile che la parola Enthergung, ‘svelamento’, da noi appositamente coniata, si approssimi all’essenza dell’alétheia greca più che l’espressione Unverborgenheit, ‘svelatezza’, la quale, nondimeno, e per diverse ragioni, appare in un primo momento adatta quale parola guida per la meditazione sull’essenza dell’àlétheia. Si ponga però attenzione al fatto che in seguito il discorso verte su Unverborgenheit e Verbergung, ‘svelatezza’ e ‘velamento’, mentre l’ovvia espressione Unverbergung, ‘non-velamento’, verrà evitata, nonostante fornisca la traduzione più ‘letterale’. Ogni tentativo di tradurre ‘alla lettera’ parole fondamentali come ‘verità’, ‘essere’, ‘parvenza’, ecc. rientra ben presto nell’ambito di un progetto che va essenzialmente oltre l’abile allestimento di formazioni di parole adattate in termini letterali. Potremmo rendercene conto meglio e in modo più serio se prestassimo attenzione a che cos’è ‘tradurre’. Consideriamo dapprima questo procedimento dal di fuori, in termini tecnico-filologici. Si ritiene che il ‘tradurre’ sia la trasposizione di una lingua in un’altra, della lingua straniera nella lingua madre o viceversa. Non ci accorgiamo tuttavia che, costantemente, noi traduciamo già anche la nostra stessa lingua, la lingua madre, nella parola che le è propria. Parlare e dire sono in sé un tradurre, la cui essenza non può esaurirsi nel fatto che la parola da tradurre e la parola tradotta appartengono a lingue diverse. In ogni colloquio e soliloquio domina un tradurre originario. Con ciò non intendiamo il procedimento con il quale sostituiamo una locuzione con un’altra della medesima lingua, servendoci di ‘perifrasi’. Il cambiamento nella scelta delle parole è già la conseguenza del fatto che per noi ciò che c’è da dire si è tradotto in una verità e in una chiarezza diverse o anche in una diversa problematicità. Questo tradurre può avvenire senza che l’espressione linguistica muti. La poesia di un poeta, la trattazione di un pensatore stanno nella loro parola propria, che è unica e singolare. Esse ci costringono a percepire sempre tale parola come se la udissimo per la prima volta. Queste primizie della parola ci ‘tra-ducono’ ogni volta su una nuova sponda. Il cosiddetto tradurre (übersetzen) e perifrasare è sempre solo successivo al tradurre (übersetzen) la nostra intera essenza nell’ambito di una verità mutata. Soltanto se siamo già stati trasmessi in proprietà (übereignet) a un simile tradurre siamo nella cura della parola. Solo in base a un rispetto della lingua fondato in tal modo, e non prima, possiamo assumerci il compito, solitamente più facile e più limitato, di tradurre una parola straniera nella nostra”.

(M. Heidegger, Parmenide)

Capitolo II

La diversità rompe con l’universo controllato della coscienza e quindi con la concezione di chiarezza accessibile all’interno di questo universo. Con la stessa rottura dà il via a un processo conoscitivo diverso, proiettato agli antipodi dell’accumulazione, verso una regione sconosciuta. «Sembra che ci sia – dice Platone – un sentiero che ci porta, mediante il ragionamento, direttamente a questa considerazione: fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata in un male siffatto, noi non raggiungeremo mai in modo adeguato quello che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità. Pertanto, nel tempo in cui siamo in vita, come sembra, noi ci avvicineremo tanto più al sapere quanto meno avremo relazioni con il corpo e comunione con esso, se non nella stretta misura in cui vi sia imprescindibile necessità, e non ci lasceremo contaminare dalla natura del corpo, ma dal corpo ci manterremo puri fino a quando il dio stesso non ci avrà sciolto da esso. E così, liberati dalla follia del corpo, ci troveremo, come è plausibile, in compagnia di esseri simili, e conosceremo, da noi stessi, tutto ciò che è semplice, ossia ciò che, con ogni probabilità, è la verità stessa». (Fedone, 66b-67a). Anche non accettando questa distanza dal corpo, inteso come “esistenza”, che poi non è nemmeno l’esatta valutazione da dare al concetto greco di “natura”, non si può non condividere la separazione fissata da Platone. Ancora siamo fermi a questo punto. Più propriamente, adesso si può parlare di conoscenza come di scoperta, cosa che non si poteva fare, a rigore di termini, nel caso dell’orientamento verso la banale modificazione produttiva. Il riflesso di questa nuova situazione permane all’interno fedelmente, dove per interno si deve intendere non tanto la coscienza immediata, quanto il tracciato dell’esistenza quotidiana, in altre parole della logica e della ragione. Ma, in realtà, non tutto è chiaro in questa direzione. «Dal momento che tutto è denominato luce e tenebra e queste, secondo le loro attitudini sono applicate a questo e a quello, tutto è pieno ugualmente di luce e di oscura notte, uguali ambedue, perché né con l’una né con l’altra c’è il nulla». (Parmenide, fr. 22B). La realtà comincia a trasformarsi fin dalle prime battute critiche, non appena iniziamo a considerarla in modo distruttivo. Qui si scopre una nuova capacità di desiderare, una voluttà di muoversi, come potrebbe fare un fiume verso la foce.

Ma la critica negativa può anche apparire, vista con il senno dell’a poco a poco, come una macchina cieca che non riesce a trovare la sua strada. La mancanza di chiarezza qui viene fuori palese non tanto nei riguardi dell’obiettivo sconosciuto, quanto a causa dei metodi che improvvisamente si impiegano: nascondimenti, trappole, duplicazioni, riflessi distortivi, ambiguità. Muovere verso la qualità, come ha visto bene Mario Perniola, «[...] è un errare senza fine, un abbandono definitivo dell’ambizione di essere tutto, luogo di traviamento e di non senso, risolutamente contrario a ogni idea di perfezione metafisica, ontologica o etica». (George Bataille e il negativo, Milano 1977, p. 16). In effetti, questo modo di avvicinarsi alla qualità, modo che può essere complesso e notevolmente creativo, presuppone un’attesa che diventa sempre più inquietante. «Il sorgere del per-sé non è soltanto un avvenimento assoluto per il per-sé, ma è pure qualche cosa che avviene all’in-sé, la sola avventura possibile dell’in-sé. L’in-sé, nella sua impermeabilità e compattezza assoluta, ha come legge che l’affermazione è impastata dall’affermato, senza uno spiraglio. Nel conoscere avviene come se il per-sé, con la sua stessa nullificazione, si costituisse in coscienza di… sfuggendo all’impastamento dell’in-sé e realizzandosi come affermazione (per-sé) d’un affermato (in-sé). L’in-sé non potrebbe affermarsi senza distruggersi. La sua affermazione si realizza col per-sé. Si hanno quindi due e-stasi: l’e-stasi passiva dell’in-sé per il fatto che esso è l’affermato dal per-sé e l’e-stasi attiva del per-sé per il fatto che è l’affermazione dell’in-sé. Il conoscere importa sempre un fuori: dell’in-sé di fronte al per-sé, e viceversa. È qui la trascendenza». (J.-P. Sartre, L’être et le néant, ns. tr., Paris 1950, p. 269). Le sollecitazioni dell’assenza, che man mano diventano più pressanti, trasformano questa attesa in qualcosa di creativo, momenti e movimenti di avvicinamento all’azione, ma non riescono a fare filtrare i termini di una chiarezza differente. Nel percorso del mascheramento, spesso, le regole logiche apprese nell’ambito del controllo, stentano a riconoscersi superate, mentre dall’attesa tardano a venire fuori indicazioni riguardo nuove regole. Il campo si adatta più velocemente di noi, mentre si moltiplicano i passaggi e le disponibilità all’accesso nella qualità del reale.

La nuova chiarezza, se proprio vogliamo insistere in questa direzione modellistica, si dovrebbe rintracciare in questi processi, cioè nel passaggio tra le primitive condizioni modificative vere e proprie (il fare coatto) e le interpretazioni preparatorie alle future trasformazioni (la critica negativa). Tutto un universo fremente si apre davanti all’ipotesi negativa, e di questo universo arrivano segnali più chiari e meno chiari. Come ha notato Franco Volpi, «[...] ciò subentra quando viene meno la forza vincolante delle risposte tradizionali al “perché” della vita e dell’essere, e ciò accade lungo il processo storico nel corso del quale i supremi valori tradizionali che davano risposta a quel “perché” – Dio, la Verità, il Bene – perdono il loro valore e periscono, generando la condizione di “insensatezza” in cui versa l’umanità contemporanea». (Il nichilismo, Roma-Bari 1996, p. 45). L’abbandono, senza dubbio, è uno di questi segnali di chiarezza, o almeno è anche uno di questi segnali. «[Il simulacro è] il segno di uno stato istantaneo che implica sempre soltanto un’adesione fuggitiva a ciò che può essere dissociato dalla coscienza individuale e reso vacante: esso implica la soppressione dell’Io». (M. Perniola, George Bataille e il negativo, op. cit., p. 74). Con l’abbandono affermiamo coraggiosamente una disponibilità a perdere, un’assenza di controllo, un avvio verso la parte desolata della realtà, in cui sappiamo che la notte non tarderà a calare.

Ma è una chiarezza che si smarrisce non appena ci si focalizza su di un punto preciso, esattamente come accadeva nel caso di quell’altra chiarezza, quella analitica, in cui l’apparente procedere nell’identificazione dei dettagli e dei contenuti, tramontava in breve tempo nella triste conclusione di un rinvio all’infinito o di un arresto nella piena incompletezza. Su questa esperienza, riguardo la documentazione rammemorata da Proust, ha scritto Elvio Fachinelli: «Nell’esperienza proustiana prevale dunque un riferimento forte e finale alla presenza del creatore, che non è più evidentemente un Dio esterno, ma una potenza interna, situata al di là dell’io di facciata, di rappresentanza. La preparazione alla creazione, al contatto con il creatore interno, è per Proust la vita intera, in tutti i suoi innumerevoli istanti apparentemente perduti. Le più futili frequentazioni mondane, lo snobismo – o l’amore e le sue sofferenze – si rivelano allora parte di un’implacabile ascesi per la creazione. E la costrizione che Meister Eckhart voleva esercitare su Dio, per farlo entrare nell’anima vuota, diventa in Proust costrizione su di sé e sul proprio creatore interno, contro la dispersione di un io abbandonato all’abitudine». (La mente estatica, Milano 1989, pp. 56-57). Il passo intuitivo porta il mio coinvolgimento nel territorio della cosa, ma non raggiunge una intensità sufficiente a cogliere la diversità qualitativa nella sua pienezza. Si trova, questo passo, dall’altro lato dell’uno, per usare una metafora spaziale, e inizia completo nella sua partecipazione, io, proprio io, non una parte di me, una parte che osserva guardinga e impaurita, ma tutto me stesso senza tremare e senza potere essere fermato se non a causa della mia stessa inquietudine. L’uno resta escluso da questa apertura alla diversità, ma può farsi sentire con la sua voce che si diffonde nell’universo, non so però a che grado di intensità io sarò in condizione di cogliere questa manifestazione dell’uno che è, questo suo essere. Solo la mania, figlia del dio dell’eccesso, può cogliere ancora più oltre, non c’è prudenza logica che guidi o regga questo tragitto, l’azione tiene in mano il principio di se stessa, la fine e il mezzo, entra nella realtà e sfugge all’apparenza del mondo perché è qualitativamente in grado di significare quello che io sono a prescindere dalle icone che circolano nell’ambito della coscienza immediata. L’avventura comincia spezzando la misura della conservazione, giocando col rischio di se stessi. L’eccesso potrebbe spezzare, per ipotesi estrema, ciò che è, ma l’infinito accadere delle intensificazioni qualitative rende ciò impossibile nella realtà. Il mondo da me creato nuota nella modificazione, e nuovi mondi nascono e muoiono, ma la qualità è oltre, quindi non nasce e non muore. Diventa così inevitabile che insistere sull’assenza qui, in questo mondo, produca, in un modo o nell’altro, il processo di oltrepassamento conseguente a quello di coinvolgimento.

Nel caso in cui si è pressati da compiti di natura esclusivamente funzionale ci si accontenta. C’è da chiedersi in che modo si possa apprendere ad accontentarsi in modo diverso, cioè abbandonandosi al flusso dell’orientamento verso la vita, disposizione che fa allargare via via la prospettiva invece di restringerla. Così Giorgio Colli: «L’epoca [la Grecia antica] si può determinare con una certa precisione, dall’inizio del secolo VI alla metà del V; alquanto fluttuante il termine più antico, piuttosto netto quello più recente. Le fonti storiche non sono molto numerose, e neppure coerenti. Un approfondimento della loro conoscenza rende assai difficile una visione unitaria, per la straripante ricchezza di motivi vitali, in stridenti contrasti. Infinita l’epoca omerica, l’esistenza si complica, l’aristocrazia va perdendo la sua serenità, l’agonismo diventa frenetico. Premuti dall’esterno, i Greci si espandono all’interno, in convulsioni di reciproci scontri privi di senso. Crescono i concorrenti, l’impulso di dominazione è contagioso, e la potenza disponibile rimane costante. Essi sono coscienti dell’assurdità e se ne compiacciono, contemplando la loro stessa mischia, che testimonia un’inebriante qualità indomabile. Questo arricchirsi della vita, connesso a notevoli mutamenti sociali, a contatti barbarici, alla possibilità di variegate esperienze offerta ad una più vasta cerchia di individui, dà modo al popolo greco di svelare la sua congenita disposizione filosofica. Il senso del distacco, l’essere sempre al di fuori di fronte a ciò che si presenta, l’opporsi ad ogni trascinamento e ad ogni livellamento, costituiscono la radice della grandezza greca. Tutto ciò sarebbe ancora poco, se non fosse unito paradossalmente alla coscienza della fatalità incrollabile del divenire cosmico». (La natura ama nascondersi, Milano 1988, pp. 22-23). In tutti i casi, il concetto stesso di chiarezza è accettabile con ogni genere di precauzione: non può fondare nessuna certezza, non fornisce garanzie. È nella nostra individuale drammatizzazione che troviamo la necessità della chiarezza, quando ci poniamo al centro di un rapporto con situazioni esterne che ci sembrano oscure e che vogliamo illuminare conoscendole. L’antica paura ci spinga a sollecitare questa illuminazione, la quale riflette condizioni sempre diverse, a loro volta sconvolte dall’intervento chiarificatorio, mai sufficientemente stabili per darci quella pace che ci sembra sempre a portata di mano. L’eccesso nell’insistere verso la desolazione dell’assenza è uno zelo senza limiti, una passione che rasenta la follia. L’azione non si offre a chi la chiama a mezzo servizio, pretende la totalità del coinvolgimento, non suggerisce un’aureola visibile ma un entusiasmo poco vistoso, che quasi nessuno coglie per quello che è. I più pensano solo a verificare le lontananze e le incomprensioni, non si accorgono nemmeno delle aurore che vive chi opera nella diversità dell’assenza, la bestialità del mondo secerne un veleno a lunga durata, rende i più inconsapevoli della coda che sta nascendo loro e così hanno ormai fatta l’abitudine a mettersela tra le gambe. Il mondo non capisce le temperature elevate dell’oltrepassamento, l’arida oggettività qualitativa, è troppo preso dal possibile dinamismo modificativo che tocca il parossismo nella sommatoria tiepida di tutti i possessi. Così tutto ciò che appare come insolito viene attaccato e condannato, ribadendo l’insufficienza del mondo a tracciare un vero e proprio percorso di miglioramento. I mediocri sono i pilastri di tutto questo, cuociono a temperatura bassa e sono gli applicatori ortodossi della regola, i custodi indefessi dei tempi delle concordanze, non sono malvagi necessariamente, quasi sempre sono solo stupidi.

Il dibattersi del nostro coinvolgimento penalizza con sistema e puntualità ogni tentativo di pianificare la conoscenza, riducendo a un evolversi di protocolli e approssimazioni l’ideale di una pace con l’ignoto, da cui ricaveremmo un fondamento e una stabilità indispensabili per nuove avventure. «Ma è libero da ogni legame non solo l’evento imprevisto che smentisce un certo grado di conferma della prova, ma anche tutti gli eventi che hanno concorso a stabilire quel grado. Ognuno di questi eventi è infatti un incominciare ad essere, essendo stato un niente assolutamente imprevedibile e quindi irraggiungibile da qualsiasi legame. L’accertamento dell’esistenza di eventi che confermano la prova non è l’accertamento dell’esistenza di un legame, cioè di una legge cui essi siano sottoposti – se per “legge” si intende qualcosa di più del puro sopraggiungere di una serie di eventi che vengono interpretati come conferma della prova, e cioè se per “legge” si intende l’inevitabilità del sopraggiungere di questa serie». (E. Severino, Legge e caso, Milano 1980, pp. 31-32). Ciò riduce a zero la possibilità stessa di metterci in discussione, di giocarci, di rischiarci, elementi che sono, come ognuno capisce da sé, indispensabili all’ipotesi stessa di avventura.

Fuori dei problemi della chiarezza, è il discorso sulla conoscenza che qui è rimesso al centro dell’attenzione. Due modelli, due strade, due modi di vivere, due attività, forse due illusioni, due processi, due progetti. Antitetici tra loro, ma complementari, mai veramente separabili, mai scindibili in momenti realmente distanti o privi di comunicazione. Continua Severino: «Il niente è imprevedibile e quindi l’unico prevedere possibile è quello ipotetico che di fatto ottiene il grado maggiore di conferma quando prova ad assumere ciò che è accaduto in certe condizioni come simile a ciò che accadrà con l’accadere di condizioni simili. L’ipotesi non prescrive alcuna legge al niente, ma condiziona il proprio contenuto alla conferma casuale di ciò che viene da niente. In questo modo, le due componenti della sintesi a priori si scindono e mentre la componente sintetica acquista carattere ipotetico, l’assolutezza epistemica della componente a priori diventa la semplice assolutezza della tautologia della logica analitica, l’assolutezza cioè che esprime la semplice adeguazione della proposizione alle regole d’uso delle parole che la compongono». (Ib., pp. 33-34). Di fronte all’accumulazione che cresce continuamente, e continuamente cambia fisionomia, con continue aggiunte che apportano contenuti, ma che aggiungono senso ben al di là del singolo apporto contribuendo indirettamente alle diverse riorganizzazioni interne, di fronte a questo serbatoio di archivio, praticamente inesauribile ma muto, privo di vita, schiacciato sotto il proprio stesso meccanismo ripetitivo, di fronte si trova una prospettiva che realizza anch’essa degli accumuli, se tali vogliamo considerare i diversi interventi nell’ambito della critica negativa, delle fratture dell’inquietudine, delle tecniche dell’abbandono o, ancora più oltre, del salto vero e proprio nella qualità, ma si tratta di una prospettiva in cui ogni proiezione è costretta a riconsegnare totalmente il proprio coinvolgimento senza poterne tesaurizzare una sia pur minima particella. «Per la loro stessa natura i simboli esprimono qualcosa che non ha espressione nel mondo dell’esprimibile. Ma questo loro lato per così dire introverso non è tutto. I simboli hanno anche altre funzioni nella sfera della comunità umana. Si può dire che è addirittura una delle funzioni centrali dei simboli religiosi, quella di operare in un ambiente tradizionale e conservatore. La ricchezza di significato che essi sembrano emanare infonde nuova vita nella tradizione, che corre sempre il rischio di cristallizzarsi e irrigidirsi – fino a quando gli stessi simboli non muoiono o si trasformano». (G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, tr. it., Torino 1980, p. 30). La riconsegna è rilancio sempre più alto della posta, un gioco dal rischio sempre più intenso, fino a un estremo limite sfuggente, desiderato ma continuamente sottratto.

Nella direzione del senso il taglio della conoscenza può avvenire per un improvviso e forte affievolimento strumentale. Crolla la fede nella certezza, alcuni elementi d’indagine si fanno carenti non tanto come quantità ma come valutazione operativa. Per esempio, cosa molto facile, un flusso munito di alcuni contenuti si pone in relazione affievolita con la coscienza a causa di una carenza di quest’ultima, una semplice mancanza, la non praticabilità di componenti linguistici, la lontananza di dati di fatto. Un simile flusso si interrompe o rende difficile il movimento conoscitivo. Una improvvisa estraneità si genera, avvertita come un elemento oggettivo, sia pure con tutti i limiti visti prima. Sappiamo bene, com’è ovvio, che un taglio assoluto non è mai possibile, perché il flusso della percezione conoscitiva continua ininterrottamente, ma l’affievolimento è fenomeno che sconvolge il processo conoscitivo, fino a stornarlo o deturparlo profondamente. Ha scritto Karl Jaspers: «Le forme in cui si compie il tradimento dell’esistenza nelle oggettività conducono all’assolutizzazione dell’universale. Nella sua universale validità, l’oggettività vale per l’universale coscienza in generale. Ma già l’idea, nella molteplicità dei modi in cui personalmente si realizza, possiede un principio del proprio esserci; essa reclama l’esistenza che la sostiene. Ma se l’oggettività storica, svuotata dell’idea, degrada a mero “interesse per la generalità”, allora anche l’esigenza dell’uguaglianza degli uomini diventa di un’evidenza assolutamente aproblematica per cui vale il principio: un grande uomo è una calamità pubblica. Il tradimento del se-stesso nelle oggettività conduce a un travisamento delle oggettività stesse. Nella scienza, ad esempio, c’è la tendenza ad impiegare l’universalmente valido come mezzo per le pretese delle masse nella loro generalità. La scienza mostra allora quelle validità in cui la massa crede, anche se, con la propria intuizione, non giunge a comprenderle nei loro particolari. La scienza diventa allora una vetrina di interessi, la cui problematizzazione consente di coglierne l’equivocità quando il suo impiego è in funzione della generalità. La scienza conosce e sa che cosa si desidera e come lo si desidera. Essa deve rispondere alla forma vincolante della sua universale validità ed essere utile a tutti; in queste condizioni sembra dimostrare tutto quanto non si attiene con una disciplina aristocratica, ai propri metodi, che sono poi quelli che rispondono al senso del sapere. Come fenomeno di massa, quindi, la scienza non può continuare ad essere ciò che sarebbe se a limitarla fosse la veracità esistenziale. Se l’esistenza ha tradito se stessa per assolutizzare la presunta validità oggettiva, non c’è più alcuna possibilità di concepire la reale validità scientifica. Si giunge cosi a confondere tutto ciò la cui netta separazione è invece condizione della chiarezza del sapere; si confonde ciò che per la coscienza in generale è veramente vincolante con le convinzioni che nascono dalle idee, con la fede, e tutto questo con i condizionamenti sociali che determinano il modo di pensare. Nella singola persona è psicologicamente comprensibile come fissazione delle validità oggettive diventi un tradimento nei confronti dell’esistenza. L’accentuazione dell’oggettività è di fatto correlata a un’egoistica volontà solipsistica. Io appaio come rappresentante della “cosa”, trasformo il mio ambiente in funzione di essa e, senza intaccare il mio me stesso, conferisco al mio esserci un certo valore. Il solipsismo non si supera nascondendosi dietro l’oggettività, ma con la comunicazione tra esistenza ed esistenza. La motivazione che sta alla base dell’isolamento tra le cose non può essere a lungo mantenuta, perché, fin dall’inizio, è sofistica se nessuna volontà di comunicazione la sostiene». (Filosofia, op. cit., pp. 832-833).

Nella direzione della qualità si possono ripresentare condizioni analoghe, il non sapere è qui, sotto un certo aspetto, una delle condizioni fondamentali complessive e non solo, diremmo, un’aspirazione finale, un desiderio dell’azione. Di più, con la rottura della differenza alcune condizioni abitudinarie del controllo linguistico vengono rimesse in questione, ci si trova quasi davanti alla necessità di rinnegare quel vecchio e ripetitivo svolgersi della parola, una diversità nella differenza, una frattura interna alla rottura stessa. «Se ci fosse un ente qualsiasi, dalla cui natura organica prescindiamo in virtù della riduzione, che partecipasse soltanto al sapere (come pensiero e intuizione) e agli atti, specificamente teoretici, appartenenti a questa sfera, in una parola un ente di pura ragione (così ci sia concesso di chiamarlo), in tal caso non ci sarebbe il problema della persona, poiché non esisterebbe la persona. Simili enti sarebbero sempre soggetti (logici), capaci di compiere atti razionali, ma non sarebbero persone. Non lo sarebbero, anche se, partecipando alla percezione interna ed esterna, avessero la conoscenza della natura e dell’anima e trovassero l’“io” in sé e negli altri, con la conseguente attitudine a vedere, descrivere ed esplicare le esperienze, possibili e reali, proprie ed altrui. La stessa cosa varrebbe per enti, i cui unici contenuti fossero progetti di volizioni. Essi sarebbero soggetti (logici) di un volere, ma non persone. Poiché la persona è quell’unità che sussiste per atti di ogni diversità possibile, in quanto tali atti vengono pensati come compiuti. Dunque: il fatto che i diversi soggetti logici delle diverse categorie di atti possano esistere soltanto in una unità di forma, ci permette di affermare che all’essenza dei diversi atti appartiene di sussistere in una persona e soltanto in una persona. In questo senso possiamo formulare la definizione essenziale: persona è la concreta, essenziale unità dell’essere di atti di essenza diversa, che in se stessa (non dunque) precede tutte le differenze di atti (e in particolare anche la differenza di percezione esterna ed interna, di volere interiore ed esteriore, dell’interiore ed esteriore sentire, amare, odiare, ecc.)». (M. Scheler, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, tr. it., Milano 1943, pp. 163-164). Ciò rende felpato il passo di chi si muove in nuovi territori.

Il coinvolgimento ha tratto fuori dalla coscienza quanto era possibile, linguaggio compreso, ma non ha portato con sé tutta la coscienza. Questo è un problema d’indole quantitativa che viene continuamente posto e rinviato per poi rivelarsi alla fine del tutto fuori luogo, quando cioè si comprenderà che la coscienza e le sue modificazioni hanno quasi esclusivamente una caratteristica qualitativa. Per il momento, comunque, c’è questa diversità operativa in marcia verso un territorio inesplorato, con mezzi esclusivamente di bordo, incompleti e spesso inadatti, che si muove in modo nuovo, esso stesso diverso, un movimento estremamente mobile e tuttavia circospetto, alternato con esaltazioni e paure, con slanci di coraggio e incertezze, con visioni di possibilità future e ricordi appassionati e malinconici di antiche certezze. «Anche quelle [istituzioni e tradizioni] che sorgono come risultato di azioni umane coscienti e intenzionali sono, di regola, i sottoprodotti indiretti, inintenzionali e spesso non voluti di tali azioni». (K. Popper, La società aperta e i suoi nemici, tr. it., vol. II, Roma 1973, p. 112). Una velleità estrema spesso si contrappone al desiderio di semplicità, che il lento e sicuro dispiegarsi della realtà ingenera immancabilmente. Ancora Severino: «L’Occidente ha preso la strada che gli consente di difendersi da Parmenide. Certo, oggi il sapere scientifico crede per lo più di poter procedere indipendentemente dalla filosofia greca e dal “parricidio” compiuto da Platone. Ma questo dipende dall’ingenuità che ancora avvolge la scienza. La scienza può però maturare. E ha bisogno della maturazione della sua memoria storica (che è memoria delle sue radici filosofiche) perché solo con questa maturazione la civiltà della tecnica può, assumendo una fisionomia profondamente diversa da quella attuale, dispiegare tutta la potenza che le è propria: la potenza liberata dai legami dell’epistème che ne impediscono l’espansione. Solo conoscendo il sogno dell’epistème può liberarsene». (E. Severino, Il destino della tecnica, Milano 1998, pp. 256-257). In questo movimento complessivo, nuovo ma non del tutto privo di un senso capace di servire da guida, si colgono i nuovi momenti di chiarezza, violente emozioni, scoperte di identità tra pensiero e realtà, relazioni sconosciute che si trasformano in conosciute e viceversa. A questo livello di compenetrazione la parola perde le sue possibilità espressive, diventa rauca, seguendo lo stesso destino del senso e della struttura. «Il principio del silenzio è eliminare ogni rumore che disturba la profondità dell’anima. Il suo fine consiste nel non temere i rumori di disturbo e restare insensibili di fronte a essi». (Giovanni Climaco, La scala del Paradiso, 27, 5). Nel regno della qualità si parla poco. La qualità non ha apparenze, è desolazione e solitudine, si raccoglie in un punto essenziale, un istante astorico che soffoca in me qualunque tentativo nostalgico di riconnetterla al mondo. Essa è incontaminata e non posso ridurla a oggetto di comunicazione. Mi interrogo sul suo significato, nella rammemorazione, ma è, a volte, esercitazione metafisica, a volte può anche essere frammento sfuggito all’oblio, quasi sempre in grado di comunicare solo sensazioni non atti, che l’agire non si può capire nei fatti ma solo cogliere nelle sensazioni. Ciò può essere capito, ecco la qualità che qui riassumo nell’azione e nel suo territorio desolato. Ma tutto ciò può essere intuito. Si possono intuire il coinvolgimento totale, l’eccesso demoniaco, l’esplosione di dinamismo, ma anche l’abbandono dell’ottica e dell’inerzia, dell’infiacchimento e della falsa forza che illude ma insiste nell’inquietare. L’agire è un’ossessione complessa, lucida, capace di utilizzare il fare al di là di quello che il semplice possesso può significare. Segrete connessioni si aprono nell’agire ed emancipano dalla ristretta idea contabile dell’assommazione. È il mio destino la materia di cui parlo.

* * * * *

“Il dio è giorno notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come il fuoco, quando si mescola ai profumi e prende nome dall’aroma di ognuno di essi”.

(Eraclito, fr. B22)

“Il tentativo di approssimarsi, pensando, all’essenza dell’àlétheia, allo scopo di esserne toccati, ci obbliga, noi che siamo ancora più lontani da tale essenza di quanto già non fossero i Greci, a percorrere d’ora in poi vie indirette e a considerare vaste prospettive. Ciò risulta però necessario se vogliamo pensare anche soltanto un poco della parola di Anassimandro, di Eraclito e di Parmenide, in modo che venga pensato, a partire dalla dimensione in cui si mostra, ciò che per quei pensatori è il da-pensare (das Zu-denkende) e che anche in futuro, per quanto velato, rimane tale. Ogni sforzo di pensare l’àlétheia anche soltanto lontanamente, in termini, seppure in qualche modo, adeguati, è destinato però a fallire fintanto che non osiamo cimentarci nel tentativo di pensare quella léthe cui presumibilmente l’àlétheia rinvia. I Greci chiamano àlétheia ciò che noi siamo soliti ‘tradurre’ con la parola ‘verità’. Ma se traduciamo ‘letteralmente’ la parola greca, essa dice: Unverborgenheit, ‘svelatezza’. Sembrerebbe quindi che il ‘tradurre letteralmente’ consista soltanto nel riprodurre la parola greca tramite il termine corrispondente della nostra lingua. Con ciò comincia, o meglio già finisce, la trasposizione (Übertragung) letterale. Tuttavia il tradurre (übersetzen) non si esaurisce in una simile riproduzione di ‘vocaboli’, che poi spesso nella nostra lingua risultano artificiosi e sgradevoli. Se ci limitiamo a sostituire il termine greco àlétheia con il nostro ‘svelatezza’, non stiamo ancora traducendo. Ciò avviene solamente quando la parola che traduce ‘svelatezza’ ci traduce (übersetzt) nell’ambito e nella modalità di esperienza da cui la grecità – e nel nostro caso il pensatore iniziale Parmenide – proferisce la parola àlétheia. Rimane dunque un futile gioco di ‘vocaboli’ se, com’è ultimamente di moda nel caso della parola álétheia, rendiamo sì alétheia con ‘svelatezza’, ma al tempo stesso al termine ‘svelatezza’, che ora deve sostituire la parola ‘verità’, attribuiamo un qualche significato che proviene a noi direttamente dal successivo uso corrente della parola ‘verità’, oppure ci si offre quale ragguaglio fornito da un pensiero posteriore”.

(M. Heidegger, Parmenide)

Capitolo III

La molteplicità dei movimenti che si generano a partire dall’intuizione totale della differenza tra la vita e l’esistenza potrebbe permettere una considerazione quantitativa capace di sovrapporsi al meccanismo dell’accumulazione. Ciò in pratica non avviene, l’abitudine ha sempre il sopravvento anche nell’individuo più attivo. In più, la somma di percezioni totali non ha una determinazione in crescita, essa resta sempre uguale, per quanto sempre diversa, sempre uguale alla totalità percepibile. Diciamo che ha poca possibilità di essere ridotta a dimensioni quantitative una percezione, per esempio, della gioia. Quando questa si presenta, è determinata dall’insieme delle condizioni che stanno attorno all’apertura della coscienza, alla differenza che si è intuita, la quale sta procedendo in un territorio sconosciuto. «L’esistenza autentica – dice Martin Heidegger – non è qualcosa che si libri al di sopra della quotidianità, esistenzialmente, essa è soltanto un afferramento modificato di questa». (Essere e tempo, par. 38). L’esperienza di questo territorio sarà sempre totale e non potrà essere misurata in modo da ricavarne una qualsiasi crescita di ordine numerico. Per ricavare indicazioni approssimative su questa crescita occorrerà retrocedere ancora una volta verso il senso e misurare qui, all’interno del meccanismo di catalogazione, le conseguenze di quanto sta succedendo altrove in termini di avvicinamento alla qualità. Così Georg Simmel: «Possiamo pensare ad un qualsiasi oggetto soltanto in base alle sue determinazioni e alle sue connessioni, senza chiederci minimamente se questo complesso ideale di qualità sia dato o possa essere dato come esistenza oggettiva. Evidentemente, nel momento stesso in cui tale fattualità viene pensata, essa stessa è rappresentazione e in quanto tale una formazione soggettiva. Il soggettivo è in questo caso soltanto l’atto dinamico della rappresentazione, la funzione che assorbe quel contenuto; l’atto stesso viene pensato proprio come qualcosa di indipendente da questa rappresentazione. Il nostro spirito ha la peculiare capacità di pensare contenuti come indipendenti dal loro essere pensati, questa sua capacità primaria non è passibile di ulteriore riduzione; tali contenuti hanno le loro determinazioni e i loro rapporti concettuali o concreti, che possono sì venire rappresentati, ma che non si risolvono in ciò; al contrario, valgono indipendentemente dal fatto che la mia rappresentazione li abbia o non li abbia accolti e così analogamente, che la realtà oggettiva li abbia o non li abbia accolti: il contenuto di una rappresentazione non coincide con la rappresentazione del contenuto». (Filosofia del denaro, op. cit., p. 101). Importante segnalare qui che questa distanza costituisce la “differenza possibile” di cui abbiamo parlato in termini di apertura. C’è sempre qualcosa da fare, sempre un interstizio dove collocare la nostra carica distruttiva. Il muro più liscio e impenetrabile (se visto da lontano), da vicino manifesta piccole crepe e sconnessure logiche che è sempre possibile attaccare. Conclude lo stesso Simmel: «Soggetto e oggetto nascono nello stesso atto, logicamente, quando da un lato il contenuto fattuale puramente concettuale e ideale viene dato come contenuto della rappresentazione, e dall’altro lato come contenuto della realtà oggettiva, psicologicamente, quando la rappresentazione, ancora priva dell’Io e nella quale persona e cose esistono in stato di indifferenziazione, si frammenta, e quando tra l’io e il suo oggetto si crea una distanza mediante la quale ognuno dei due termini acquista la sua essenza distinta da quella dell’altro». (Ib., pp. 101-102).

L’itinerario verso la qualità può essere più o meno travagliato in base alle condizioni interne della coscienza, del meccanismo di accumulazione, del campo, del coraggio dell’individuo, ecc. Per quanto possa essere stata sottolineata a lungo, nell’agire e nel relativo coinvolgimento, non è mai questione di impeccabilità. «La scienza non è limitata all’essere a-spirituale ed a-storico, alle cose materiali, alla natura e ai suoi processi, agli organismi, ai fenomeni vitali. Scienza è, altresi, la conoscenza dell’essere spirituale e storico e, per quasi tutti gli oggetti di quest’ultimo tipo, essa è scienza dello spirito oggettivo. Dunque, nel campo dello spirito non c’è nulla che per principio le sia sottratto. Per principio, le spetta di comprendere e chiarire tutto ciò che incontra, da qualunque parte si volga. D’altro lato, se è nella sua essenza di tendere alla verità, di poter separare l’autentico dall’inautentico, non dovremo attenderci che essa sia chiamata, oltre che ad illuminare lo spirito obbiettivo, anche a scoprire via via nella sua vivente attualità l’inautentico e a rilevarne l’autentico in tutta la sua purezza? La missione che in tal caso le toccherebbe, sarebbe della massima portata, una specie di compito costante nella storia dell’umanità: quello di essere la pura rivelazione dell’attualità vivente dello spirito obbiettivo, anche e proprio là dove esso spazia nella più vasta attualità della vita pubblica e vi si espone alla falsificazione. La scienza potrebbe così diventare un’istanza capace di riempire quella coscienza morale dello spirito vivente che sta dietro a tutto il movimento oscillante dell’inautenticità, quasi monito costante alla sua propria e vera essenza, che lo distolga dalla falsificazione e lo riporti a se stesso». (N. Hartmann, Il problema spirituale, op. cit., p. 528). Le variabili sono molteplici. Chi lotta avverte meno il freddo dell’esistenza e, in genere, qualsiasi altra pressione esterna. Si può avere una proiezione poco movimentata, con una consapevolezza profonda del coinvolgimento, con una disposizione all’apertura che si avvicina a qualcosa di simile alla contemplazione. In ogni caso chi lotta non perde la coscienza dei propri affetti, e quanto questi ultimi influiscano nei progetti e nelle realizzazioni. Atteggiarsi ad automi produttivi non salvaguarda nessuna libertà interiore.

In certe nature l’acquisizione si compie con dolcezza, con un’attesa delle conseguenze che si mantiene fiduciosa e sicura, senza grosse preoccupazioni o sbalzi di umore. In altre tutto è tempestoso, precario, labile, con una considerevole eredità di inquietudine, per cui la stessa godibilità della conoscenza reale, risulta contraddittoria, continuamente soggetta a ripensamenti, a scavi interiori, a titubanze. Non si può dire cosa sia preferibile. Henri Bergson ha scritto: «Se infatti l’intelligenza tende a fabbricare, si può prevedere che ciò che c’è di fluido nel reale le sfugga in parte, e ciò che c’è di propriamente vitale le sfuggirà del tutto». (L’évolution créatrice, ns. tr., Paris 1907, p. 625). In queste cose non c’è possibilità di scelta, magari ci si può dannare l’anima cercando di essere quello che non si è, e la propria vita si conclude come la rincorsa di un cane dietro la propria coda. Meglio essere, o meglio cercare di diventare, quello che si è, conclusione che combacia con quella niciana.

La logica del tutto e subito cerca di spiegare questo diverso modello di chiarezza, non solo nei termini di quello che si conosce, ma anche del modo in cui si conosce e delle reazioni che questo conoscere scatena. Il gioco resta sempre un efficace termine di paragone. «Il gioco è imitazione nello spazio dell’immaginato. In ogni caso nell’imitazione ludica non può essere disconosciuto il carattere di una ristrutturazione creativa, di una variazione fantasiosa sul tema della vita seria; il gioco non si esaurisce in una riproduzione servile, apporta anche motivi del tutto nuovi, fa balenare possibilità che noi non conosciamo nella cornice della nostra vita seria. Come parafrasi il gioco è creativo – ma la sua forza produttiva si può spiegare solo nell’inutile campo dell’“irreale”. La non-serietà del gioco non sta come sfera indipendente “accanto” all’ambito della vita seria. Certo c’è una quantità di azioni che si producono nello specifico campo del gioco e come tali non hanno alcun carattere “parafrasante”». (E. Fink, Il gioco come simbolo del mondo, tr. it., Roma 1969, p. 94). Sullo sfondo l’illuminazione che si può riassumere nel profondo cambiamento determinato dall’inversione di tendenza, cambiamento che mette al posto dell’abitudine la più assoluta imprevedibilità, con il suo contesto tormentoso, con le sue folgoranti acutezze, con le sue storture raddrizzate a forza, con la prospettiva finale del silenzio. La chiarezza, così capovolta, torna ad apparire lontana, inaccessibile, frutto di una momentanea impressione. Solo quando vedremo le trasformazioni realizzate, il rigoglio della realtà vivificato dall’afflusso della qualità, quando vedremo finalmente gli strumenti al lavoro, anche quelli dell’accumulazione, quando vedremo il fallimento del controllo e la nascita, dalle sue spoglie, di una società libera, solo allora potremo guardare alla chiarezza realizzata, compiuta, sia pure in minima parte, e solo allora smetteremo di avere bisogno della logica, proprio perché non avremo più bisogno della sicurezza che ci dà la guida.

Naturalmente, l’apertura causata dalla diversità non garantisce che una tendenza soltanto conservatrice si trasformi subito e radicalmente. Ancora non conosciamo bene i meccanismi dell’inquietudine, quindi non possiamo approfondire con un minimo di sicurezza la formazione della diversità, però il coinvolgimento non può garantire più di quello che la sua presenza riesce a fare. Continua Fink: «Niente è più difficile da cogliere e da esprimere di tale senso fluttuante, in cui ci muoviamo, che di solito non cogliamo concettualmente con sufficiente acutezza. Formare un concetto di ciò che è senza concetto ed esprimerne il “senso” è quasi impossibile. Noi usiamo però l’espressione “mondano” in una naturale disinvoltura, ne facciamo uso, ma di solito non la consideriamo a fondo. Quel che significa “mondano” si spiega da solo, il suo significato è incontestabile, ognuno lo conosce e ne fa uso. Se noi abbiamo appunto rilevato i tratti di questo significato anche troppo ovvio, ciò è stato fatto da una posizione di distanza, avendo usato delle distinzioni prese dal vocabolario filosofico. In termini filosofici abbiamo formulato la conoscenza pre-filosofica della mondanità delle cose». (Ib., p. 263). Ci sono livelli diversi di coraggio e ci sono illusioni che fanno sembrare coraggioso un atto che è soltanto dettato dall’insofferenza o dalla noia. A priori non c’è modo di capire quando un uomo si dibatte, i motivi perché lo fa possono essere diversi. L’inevitabile mi scorre davanti e non potrei negarlo senza negare me stesso. Mille sono i segni della memoria che me lo riconfermano, eppure la vita è la negazione per eccellenza di questa feroce determinazione verso la morte. Spesso però la vita stessa prende le forme passive dell’inevitabile e io l’accetto per paura o desiderio di garanzia, e così il cerchio si chiude, il panico apparentemente è fatto tacere, ma risorge quando mi chiede il senso di questi muri di cinta, di questi zombi che vi passeggiano sopra enigmatici, e non mi è facile convincermi che tutto questo, zombi compresi, è una banale apparenza e che i mille vantaggi di cui posso godere, oltrepassando l’apparenza, nessuno me li può togliere. Sono io stesso a limitarmi, nelle mille contorsioni e smorfie con le quali garantisco per l’apparenza, a foggiare fisionomie accettabili, petti gonfi di fierezza casalinga, mentre una semplice sosta e qualche pensiero appropriato mi dovrebbero fare vomitare. Potrebbe essere l’occasione buona, ma non è con una riflessione che posso spossessarmi di quanto ho più caro, la mia cultura, la mia capacità di conoscenza che tanto mi hanno affascinato, sono strame per la prossima sconfitta. Certo, è da questo futuro strane che debbo partire per coinvolgermi, per fondare il coraggio della lotta, per non sospendere tutti i tentativi e tornare in grembo alla garanzia. Ma non c’è misura umana che possa commisurare il salto tra la conoscenza e l’intuizione. A un certo punto è di una convulsione vera e propria che si tratta, di un moto sconvolgente di tutto me stesso, non di un residuo metafisico per quanto sofisticato.

La disposizione contemplativa presuppone un certo coraggio e non può emergere in assenza del coinvolgimento, comunque sviluppa una specie di presa di distanza. La soddisfazione di avvolgersi in una nebbia che rende sconosciuti, è salvaguardia, quindi calcolo e misura. Ciò ha conseguenze non solo nel modo complessivo di fruizione della conoscenza, ma anche nell’orientamento verso il senso che si presenta meno affievolito. Dentro certi limiti si ha qui una specie di inversione. Anziché aversi un passaggio dalla qualità al contenuto si ha una persistenza del contenuto nell’itinerario verso la qualità. La manifestazione più chiara è la trasformazione della messa in gioco in possesso da utilizzare contro il pericolo che ci arriva dal futuro, o meglio il vivere della qualità con un residuo di accumulazione, una vera e propria esperienza contraddittoria che finisce per perderci, per ridimensionarci in una ripresentazione del processo accumulativo. Ha notato René Guénon: «Poiché si è voluto costruire una scienza tutta quantitativa, è inevitabile che le applicazioni pratiche derivate da tale scienza rivestano lo stesso carattere; sono queste le applicazioni il cui insieme è denominato generalmente “industria”, e si può ben dire che l’industria moderna, sotto tutti i riguardi, rappresenti il trionfo della quantità, non soltanto perché i suoi procedimenti fanno esclusivamente appello a conoscenze d’ordine quantitativo e perché gli strumenti di cui si serve, cioè le macchine, sono fatti in modo da far intervenire il meno possibile considerazioni qualitative, mentre gli uomini che le mettono in azione sono essi stessi ridotti ad una attività del tutto meccanica, ma anche perché, nelle stesse produzioni di questa industria, la qualità è interamente sacrificata alla quantità». (Il regno della quantità e i segni dei tempi, tr. it., Milano 1982, pp. 55-56). Scomparse le commisurazioni è davanti all’azione che mi trovo, a un territorio vuoto di relazioni significative, relazioni capaci di riconoscermi e rassicurarmi. L’indegnità dell’antico commercio mi appare in tutta la sua pregnanza di catastrofe, ma altri pericoli devo affrontare, più consoni forse al mio genio, ma non per questo più facili. La desolazione è ora considerata luogo di raccoglimento, dove colgo il significato ulteriore della preventiva interpretazione che mi aveva accompagnato. Quella antica critica, ora è più importante per me, non si accanisce più sul meccanismo del fare, ma mi indica, silenziosamente, le rovine e le tracce che contrassegnano l’azione, dove tutto è reale, quindi scarnificato e rachitico se rapportato ai colori smaglianti dell’apparenza. È come un disapprendimento, ma istantaneo, non progressivo, un urlo di spavento e di liberazione, l’avvento improvviso di un’amnesia che azzera le pesantezze dell’antico sapere. Ora sono libero di balbettare finalmente, ascolto la voce dell’uno e non la comprendo, ma nulla di quanto mi circonda comprendo, non ho più complici né manutengoli, e neppure estatici ascoltatori. Gli strumenti utilizzati ora sono inutili, la ragione è stata uccisa dagli dèi che si sono risvegliati dentro di me, e ne sento la forza e la ferocia battere irregolare nel mio petto. Il nuovo è monotono, ma la monotonia reale è molto più sorprendente della fantasia apparente. Scomparse le modulazioni delle chiacchiere è tempo che sorga il mattino in cui raccoglierò l’azione indicibile, libera e uguale, con cui andrò avanti senza fermarmi, fino al punto massimo per me raggiungibile, dove verrò tagliato fuori per tornare alle mie divagazioni rammemorative, trasfigurazione della parola, a volte orribile e banale commedia, a volte capace di fare intuire attrattive remote non di libera circolazione nel mondo dell’apparenza.

Prendendo possesso ci si illude di esorcizzare l’ulteriore pericolo dell’inaccessibile territorio dell’azione. La diversità, non appena uscita, cerca di ricostruire le condizioni di controllo interne alla coscienza, lo fa senza quasi volerlo, pur sapendo e accettando tutte le condizioni della diversità, ma non potendo, nello stesso tempo, rigettare quegli elementi conservativi che erano pur presenti dal primo istante dell’apertura. Se ci facciamo prendere dalla necessità di garantire qualcosa non possiamo arrestare l’avvento della garanzia. Possiamo inventare sempre nuovi nomi per chiamare questa garanzia in altro modo, ma la sostanza resta sempre quella della tutela e della protezione. La diversità tramonta di fronte al bisogno di un tetto. Così si arriva all’impossibilità concreta di superare la fase critica e ci si perde in un rinnovato meccanismo chiuso, incapace di controllo, in grado soltanto di mordere se stesso. C’è chi si accontenta di questi morsi e li sfrutta, come stimoli alla persistenza di una situazione non gradevole ma comunque immodificabile, almeno nel senso di un ritorno netto all’intimità della coscienza. Chi sceglie questa strada riesce anche a godere del proprio possesso o a illudersi di goderne. Penso che questa situazione di stallo sia foriera di piccole vittorie, acquisizioni miserabili o scarsamente apprezzabili, mentre non sia capace di promuovere un progetto di vittorie seriamente diretto a una sconfitta conclusiva. Il territorio della qualità resterà così eterna desolazione. Con precisione, Günther Anders: «La nostra illimitata libertà prometeica di creare sempre nuove cose (costretti come siamo a pagare senza sosta il nostro tributo a questa libertà) ci ha portati a creare un tale disordine in noi stessi, esseri limitati nel tempo, che ormai proseguiamo lentamente la nostra via, seguendo di lontano ciò che noi stessi abbiamo prodotto e proiettato in avanti, con la cattiva coscienza di essere antiquati, oppure ci aggiriamo semplicemente tra i nostri congegni come sconvolti animali preistorici». (L’uomo è antiquato. Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale, tr. it., Milano 1963, p. 24). La coerenza non vuole dire restare se stessi, ma diventarlo. Ciò prevede una profonda trasformazione di sé, essendo impossibile essere se stessi se non attraverso una dura disciplina conoscitiva e una coraggiosa messa a rischio, quindi una trasformazione della coerenza stessa, ciò di quello che commisuro e valuto nel mondo, in altri termini di quello che faccio. L’azione mi infiamma per un attimo, ma la condizione diversa della coscienza non può essere la mia condizione di vita per lungo tempo, le fiamme mi avvolgono e mi distruggono. Tutto, alla fine, si riduce a imparare a morire, e lo si fa di malavoglia.

Può capitare, in altre occasioni, che le vicende ricognitive della critica negativa non ripropongano un’identità con il passato. Si tratta di proiezioni intermedie, capaci di generare nuove figure relazionali, secondo una ragnatela che appare generata dal caso ma che con un poco di attenzione si scopre legata intimamente con la trasformazione qualitativa ormai diretta verso la decifrazione di territori realmente sconosciuti. La chiarezza residua, capace di manifestarsi anche in situazioni di assoluta novità, viene fuori da una sorta di familiarità molto lontana dalla vecchia abitudine, familiarità che è certo concordanza ma non duplicazione del tutto simile a quella che si produce nel quotidiano meccanismo accumulativo. Il coraggio merita sempre più una riflessione. L’epopea e il mito muscoloso lo hanno soffocato, ne hanno tratto alla luce un abbozzo deforme e ridicolo, facendo scomparire la componente intuitiva e favorendo la crescita della componente volontaristica. L’ipertrofia della volontà esplode quasi sempre nel ridicolo perché gonfia il petto di chi restando seduto si immagina assalti e barricate che ha visto solo nelle iconografie delle rivoluzioni. Il coraggio non è un vaneggiamento metafisico, sarebbe una sciocchezza affermarlo, ma è un’accettazione di sé che sgombra l’orizzonte di ogni futile orpello. Il coraggio non ha bisogno di muscoli ma usa quelli dell’avversario e non può quindi permettersi di cadere nelle trappole costruite dai dominatori, fra i quali il mito del cavaliere cortese o del gigante buono. Mettersi a rischio è ammissione di totalità, quindi non mi concedo a me stesso nel coinvolgimento con la presunzione della bontà e nemmeno, per essere coerente, lo faccio perché so come andare oltre, e questo sapere l’ho intuito non l’ho trovato nell’accumulazione della conoscenza.

Nella fase della critica negativa si possono trovare pertanto elementi di conservazione o di reminiscenza che riportano atteggiamenti tipici dei processi di controllo della coscienza. «L’istante del sopravvivere è l’istante della potenza. Ogni desiderio umano di immortalità reca in sé la brama di sopravvivere. La forma più bassa del sopravvivere consiste nell’uccidere. Chiunque sia stato in guerra conosce questa sensazione di superiorità sui morti». (E. Canetti, Massa e potere, tr. it., Milano 1988, p. 274). Non si tratta più di un dominio centralizzato e oggettivante, ma di un riferimento creativo che però riassume in sé, o pretende di riassumere, una forza interna al processo stesso, forza che prima o poi recupera le condizioni persistenti del flusso orientato verso la quantità, spesso ritardando l’arrivo liberatorio della qualità. Così Giorgio Colli: «Un immenso fiume ci circonda e ci trascina, è quello che noi chiamiamo vita, natura, storia, [umanità]. Sentimenti, opinioni e pensieri ci vengono dati e poi ripresi da questa vorticosa corrente. Chi non soggiace al trascinamento, e qualche volta almeno sa cavare solo da se stesso un pensiero, è un individuo (come già Nietzsche ha inteso questo vocabolo) – nel senso migliore. Con parole modeste, che hanno il vantaggio della concretezza, si può definire così il filosofo. Tale individuo è per i suoi simili “terribile”, come dicevano gli antichi, ma i moderni sembrano non conoscere questa paura, forse perché assai di rado è loro concesso di imbattersi in un filosofo. Oggi la parola filosofo non stimola l’animo con violenza, induce piuttosto allo sbadiglio. Il concetto stesso è stato così dibattuto dalla pedanteria di molti secoli, che alla fine si è volatilizzato in un’indifferente astrattezza. Tra i personaggi della cultura, oggi il filosofo è il più legato ai libri dove sta sepolta la sua sapienza. Ed è proprio dai libri che tutti, anche inconsapevolmente, vanno invece allontanandosi. Lo scienziato è visto con simpatia, perché lo si immagina immerso in esperimenti, nell’incertezza di un agire, con i muscoli in moto. L’artista si trasforma sempre più in un attore, che anzitutto si preoccupa di poter vivere la sua vita, anche se con il pretesto di raccontarla agli altri. Il filosofo invece è tagliato fuori dalla vita, e non gli rimane altro che scrivere e stampare libri». (La ragione errabonda, op. cit., pp. 301-302). Sono un insensato, anche se non sono un folle. Insensato per come ho posto in atto la mia vita, anche se spesso ho applicato la ragione più del dovuto, anche se ho costruito molto più di quello che ho distrutto. Il mio personale caos è sufficientemente rammemorato, anche se lo stimolo radicale all’eccesso mi porta sempre a continuare. Non so che farmene di quello che appaio, e nel mondo ho solo questo, ma mi interessa esclusivamente quello che sono, è a questo che lavoro, come al contenuto del marmo, non al marmo, al pezzo di marmo che gli altri vedono e tengono o non tengono in considerazione. Pretendo a volte di saltare, ma non l’ho mai fatto, perché è qui, nel mondo, la radice alla quale voglio parlare. Vorrei scorrere come fiume o torrente impetuoso, e non so che parlare, anche agire, a volte, ma più che altro parlare, fare, la futilità mi prende alla gola e mi impedisce di dormire, ma la lucidità della spietatezza mi porterebbe lontano, troppo lontano. Dove trovare un equilibrio senza sentirmi un verme? L’eccesso mi sollecita ad allontanarmi dalla luce, qui si annida un tragico equivoco, l’equivoco della certezza. Preferisco gli arabeschi della qualità, gli incomprensibili suggerimenti ai quali posso rispondere con i miei balbettii. Nessuna rinuncia, mai.

L’avvicinarsi alla qualità è movimento molto complesso e prevede una duplice attività: da un lato la proposizione del lavoro critico, via via sempre meno sporadico e sempre più capace di dare un assetto alla diversità in termini di orientamento verso la vita, dall’altro lato, e contemporaneamente alla precedente attività, la ripresentazione di certezze felici, come ricordi, certezze separate e distinte, certezze che portano un attimo di oblio facendo avvertire un contrasto molto forte col lavoro insistente della ricognizione critica. Occorre però precisare che questo rimembrare non può essere confuso con la memoria specifica, per come questa agisce nel meccanismo accumulativo, ma piuttosto con la capacità, sempre crescente, di una riorganizzazione della coscienza immediata, una sorta di rinascita critica. Ancora Simmel: «Soltanto dissolvendo le rigidità dogmatiche nel processo vitale e continuo della conoscenza si arriva alla vera unità, nella quale questi princìpi ultimi diventano operanti non più nella forma della reciproca esclusione, ma nella forma della dipendenza reciproca, della mutua implicazione e della complementarietà. Lo sviluppo della visione metafisica del mondo si muove, ad esempio, tra l’unità e la pluralità della verità assoluta, sulla quale si fondano tutte le percezioni particolari. Il nostro pensare è fatto in modo da mirare a entrambi come se fossero uno sbocco definitivo, senza però fermarsi a nessuno dei due. Soltanto quando tutte le differenze e le diversità delle cose vengono riconciliate in un unico concetto, l’impulso, intellettuale ed emotivo, all’unità, trova pace. Ma appena questa unità viene raggiunta, come nella sostanza di Spinoza, essa si rivela illusoria per la comprensione del mondo, in quanto richiede almeno un secondo principio per risultare feconda. Il monismo conduce al dualismo e al pluralismo, dopo di che, però, inizia di nuovo a farsi sentire il bisogno di unità». (Filosofia del denaro, op. cit., p. 168). Da queste ambivalenze, capaci di sentire nel territorio ricognitivo, vengono fuori gli effetti di riflessione tipici del mascheramento. Di una modificazione in corso si costruiscono, a poco a poco, tutti gli elementi della interpretazione.

L’ultimo segnale della chiarezza ci suggerisce di fare attenzione anche all’altra strada, quella dove la coscienza sposa le pulsioni del cuore, quelle della totalità. Non dimentichiamo che il territorio d’esplorazione, per quanto ben circoscritto (sappiamo la labile resistenza dei confini), è sempre una selva fitta. In queste condizioni il coraggio fa presto a trasformarsi in paura. «Nella Bibbia, Dio crea il mondo dal nulla. Sin dal big bang, contiguità inquietante tra il puro essere e il nulla. Nel “passaggio dal nulla all’essere” nota Hegel “vi è un punto in cui l’essere e il nulla coincidono e la differenza loro sparisce”. È in questa coincidenza di essere e nulla, “puro vuoto” carico di tensione, che vive per un tempo non numerabile l’estatico (e in cui sprofonda l’angosciato)». (E. Fachinelli, La mente estatica, op. cit., p. 37). Ma la qualità che si coglie è il risultato di un duplice evento, accanto a una perseveranza che si fonda sul coraggio e l’astuzia, si colloca l’accadimento meraviglioso di una porta che improvvisamente si schiude, e si ha la chiara e distinta coscienza di essere nella qualità. L’avvicinamento è un processo ma non ha l’aspetto lineare che la frequentazione della quantità ci fornisce con grande strepito. La luce che si schiude illumina qualcosa che era dietro a noi, che custodivamo dentro di noi, anche nel momento della massima oscurità. Saldando in questo modo i due orientamenti si ha una presa di contatto diretta tra vita e esistenza, una conoscenza totale del flusso, una capacità di trasformazione. Insistere “in vista di” produce una concentrazione limitata, che a sua volta produce limiti e cause. Togliendo lo scopo si può andare avanti verso un altro tipo di concentrazione, dove predomina la memoria e l’immaginazione, e dove, quasi sempre, il riflesso che si coglie per primo è il silenzio. «Il possibile non esiste come una pura rappresentazione, fosse pure negata, ma come una reale privazione d’essere che, a titolo di privazione, è al di là dell’essere. Ha l’essere d’una privazione e, come privazione, esso manca di essere. Il possibile non è, il possibile si possibilizza nell’esatta misura in cui il per-sé si fa essere». (J.-P. Sartre, L’être et le néant, op. cit., p. 147). Pur trattandosi di una gioia fuggitiva, il momento della qualità è fra i più fecondi della vita e fa dimenticare il tragitto spesso umile e sotterraneo che si è percorso, i piccoli accadimenti che si sono in uno strano modo sommati senza tuttavia accumularsi, le antiche sensazioni, i vecchi progetti sfumati, le speranze e le ansie. Tutto viene profondamente trasformato in una nuova prospettiva di azione. La totalità raggiunta ha un aspetto dimesso, le diverse cose, quelle medesime della vita quotidiana, le antiche roccaforti dell’estraneità, una volta aperte, si rivelano per quello che sono, un possibile ricettacolo del senso, di un senso quasi sconosciuto, attivato dall’innesto con la qualità. L’esperienza diversa può inghiottirmi totalmente nell’agire, posso sentire crollare dentro di me l’implosione del mondo, tanto deboli erano le sue vantate strutture. Avverto i segni indistinti della voce che l’uno cerca di farmi pervenire, come sentirmi sprofondare nel vuoto verso profondità senza fine. Qui sento risuonare le dissonanze di quella voce che mi affascina, avverto il sortilegio da cui mi faccio cogliere, l’espansione dell’intensità dentro di me, la vecchia paura è ormai lontana, sono del tutto nell’azione, sono io stesso l’azione, anche se non so spiegare né voglio spiegare come tutto ciò sia stato possibile. Mi accorgo del dolore che mi circonda, di ciò che genera distruzione e morte, ma non sono io il tiranno della sofferenza, io sono il liberatore, eppure vivo su di me con più alta intensità quel dolore, sono la sua generalizzazione provvisoria, la sua intensificazione perché venga fuori il marcio, ma spesso questo sforzo si dilata, assume forme mostruose, si adusa a governarsi a suo modo, si amplifica senza giustificazione. È il momento in cui avrei bisogno delle antiche parole, ma non le posseggo, se le possedessi sarei un prete come un altro, la tonaca è un accessorio, non essendo un prete spingo l’eccesso al suo punto di rottura, fino a quando la tensione si fa insopportabile.

Che cosa rendeva impossibile la chiarezza nella dimensione accumulativa? Proprio la parzialità dell’orientamento verso la quantità e la sua caparbia esclusione della qualità, obbligata a presentarsi solo come residuo. Il ripristino del collegamento ricompone la totalità conoscitiva attraverso l’azione distruttiva. Ne viene fuori una percezione differente, che è essa stessa qualitativamente diversa proprio perché si è trasformata nella qualità. La coscienza immediata, in quanto relitto del senso, non poteva realizzare questa totalità. Ne siamo sicuri proprio perché l’abbiamo visto cercarla nel controllo e nell’accumulazione, luoghi eminenti della parzialità. «Colui che fa la verità si avvicina alla luce senza timore che appaiono manifeste le sue opere». (Giovanni 3, 21). Il movimento così ricostituito rientra nelle condizioni normali dell’insieme delle relazioni, in altre parole della realtà nella sua più semplice espressione, ma questa normalità è un acquisto, una conquista, certamente destinata a perdersi nuovamente, ma proprio per questo motivo unica strada per afferrare l’inafferrabile. «Vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore saggezza». (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, III). La rinnovellata chiarezza ci arriva, ancora una volta, attraverso un’astuzia della critica e un’improvvida e meravigliosa forzatura dell’insieme delle condizioni disponibili di fronte alla ragione del cuore, nello stesso tempo contraddizione ed estrema consequenzialità.

Di già nell’originario abbandono c’era la certezza nuova di andare incontro a differenti distinzioni e chiarezze, senza per questo considerare la prospettiva di un accrescimento come una conclusione dell’abbandono, un porto d’arrivo. Spezzare la condanna a cui tutti dobbiamo sottostare. Il non porre ostacoli riesce a catturare una nuova chiarezza anche quando questo movimento può sembrare gratuito o fuor di luogo. Così, imprigionata in un dedalo di astuzie e di mascheramenti, la qualità non può più sfuggire, mentre il progetto umano si allunga e supera i ristretti confini del campo. Naturalmente tutto tacerà di lì a poco. «Ogni individuo è condannato a essere una marionetta dell’Alterità, a impersonare un ruolo ripetitivo del cui senso non è affatto consapevole». (R. Bodei, Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, Torino 1987, p. 217). Scendere nell’orrore significa dimettere la maschera dell’obiettività, compartecipare nel coinvolgimento e quindi non avere più nascondigli di fronte allo squilibrio della desolazione, lasciare che l’intenzione scortichi viva la propria pelle di coinvolto. La qualità intacca la certezza di sé, affascina ma accusa per quello che nel fare è distorto e ingiusto. Adesso sono io stesso l’indignazione e la cieca rabbia, sono alla fine vivo e quindi ogni alito di vento mi incide la pelle come una pugnalata.

La trasformazione della ricerca in salto nella qualità non vuol dire interruzione del processo relazionale che abbiamo definito come criticamente ricognitivo. La coscienza, nel corso di questo movimento, non perde del tutto le sue connotazioni, diventa in grado di cogliere tutti gli elementi relazionali di se stessa, quindi diventa diversità al massimo del proprio potenziale, diversità totale. Consegnandosi all’inverosimile si possiede perfino l’adeguatezza conservativa con cui tuteliamo qualsiasi nostro possesso. Così scrive Carlo Sini: «Stranamente, l’atto che vuol conservare, per altro verso proietta in un irrecuperabile e indifferente passato, che non è più cura vivente di nessuno, che nessuno più rianima alitandogli giorno per giorno il calore dell’aurora e il respiro del cuore. È così che il passato diviene passato, distanza ed estraneità consapevolmente misurata, vita per sempre perduta e infine dimenticata». (Filosofia e scrittura, Roma-Bari, 1994, p. 49). L’antico movimento inquieto della coerenza adesso è balzato nella qualità, e qui, attraverso la pienezza della trasformazione concreta, elabora tutte le potenzialità che restavano in quiete quando si trovavano nella coscienza immediata, da quelle più vicine all’esistenza a quelle che più si accostavano alla vita. La diversità si riorganizza al termine della propria ricerca e comprende che il salto nella qualità non è definitivo, ma si apre a ulteriori imprevedibili possibilità, sia verso il delirio, sia nella qualificazione dei contenuti, cioè nel processo che dà diversa considerazione dell’esistenza stessa. L’antica negletta coscienza si ritrova quindi tutt’altro che abbandonata e impoverita. L’avventura la vivifica e la esalta in nome della qualità che adesso scatena un’azione profondamente trasformatrice nei riguardi della struttura.

Nell’ambito delle fasi dell’effettualità si prospettano livelli non eguali di movimenti relazionali, cioè la diversità opera possibili proiezioni in ogni prospettiva con risultati che possono produrre effetti di avvicinamento o di allontanamento alla qualità. È il linguaggio che qui mostra le sue limitatezze estreme. La comunicazione può diventare impossibile. La chiarezza diversa tardare a venire. L’oscurità farsi più pressante, fino al panico completo. Ha sottolineato Emmanuel Lévinas: «Nella sua funzione di espressione, il linguaggio mantiene proprio l’altro cui si rivolge, che interpella o invoca. Certo, il linguaggio non consiste nell’invocarlo come essere rappresentato e pensato. Ma è per questo che il linguaggio instaura una relazione irriducibile alla relazione soggetto-oggetto: la rivelazione dell’altro». (Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, tr. it., Milano 1971, p. 71). Lo stesso avveniva all’interno della coscienza e delle sue relazioni privilegiate con il senso. Il meccanismo accumulativo, pur essendo fortemente ripetitivo, non raggiungeva mai l’assoluta ripetitività. Produrre e possedere è l’effetto della modificazione, ma per quanto questo effetto metta in moto la mia cupidigia esso è qualcosa di secondario, il bisogno primario è di diventare non un produttore o un possessore, ma me stesso. Potrei dispensarmi di prendere parte al gioco del produrre e del possedere, e qualcuno ci riesce, ma sarebbe molto più difficile cominciare la via verso me stesso. Ecco che sono intento ad affastellare gratificazioni nella speranza che servano a qualcosa, se i miei sensi sono puri, alla sola prospettiva che dovrebbe interessarmi, il diventare me stesso. Ma questo bisogno, che dovrebbe essere imperioso, si affievolisce. Non attingo alle mie vere forze, che ho provveduto ad accumulare, ma ad accumuli di apparenze, a cui suggerisco agli altri di fare riferimento. Conquisto e non spiego che quello che faccio è solo in vista della perdita, e non spiegandolo mi convinco io stesso che riuscirò a mantenere le mie conquiste. È l’esaltazione delle apparenze che mi fa arrivare a questa contraddittoria conclusione che inquina il corso della mia esistenza nel mondo, rendendomi ora burattino, ora burattinaio, senza merito e senza gloria.

Allo stesso modo, la diversità, pur non essendo meccanismo e non essendo fondamentalmente ripetitiva, non raggiunge mai l’assoluta differenza. Il motivo è presto spiegato. Non esiste l’assoluta identificazione relazionale. Si tratta di un concetto che ho chiamato “cattiva totalità” e che capovolge in modo erroneo la totalità vera e propria, la quale parte sempre dall’insieme delle relazioni possibili e non dalla singola relazione. È certo che nel singolo momento, nel singolo punto, anche ipoteticamente relazionato, possiamo cogliere la totalità del reale, allo stesso modo in cui per un punto passano tutte le linee che compongono il piano, ma questo si può cogliere solo partendo dalla totalità del piano non partendo dal singolo punto. Precisa Jean Hyppolite: «Possiamo considerare la certezza sensibile, da cui parte la coscienza, la sua verità e insieme il suo più grande errore. Tale coscienza crede di possedere la conoscenza più ricca, più vera e più determinata; ma là dove essa immagina che sia la più vera è la più falsa, e – soprattutto – là dove essa si illude che sia la più determinata, è la più indeterminata. Ciononpertanto tale ricchezza, verità, determinazione completa non sono pura illusione sono solo mire, opinioni, sono una doxa. La prova di questa opinione rivelerà il rovesciamento dialettico, ma sussisterà il movimento dell’opinare e attraverso il calvario della mediazione la coscienza ritroverà come verità certa di sé l’identità da cui è partita». (Genesi e struttura della “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, tr. it., Firenze 1972, p. 103). Se capovolgiamo l’ipotesi trasformativa di totalità, desertifichiamo il territorio dove la trasformazione sta agendo. In un grado di minore intensità e importanza questa desertificazione avviene anche nel livello critico negativo e perfino in quello del catalogo.

Per meglio capire quest’ultimo problema basta fermarsi a riflettere sul fatto che il territorio della qualità ci appare realmente tale soltanto nel momento in cui ci fissiamo esclusivamente sul punto in cui siamo arrivati con il coinvolgimento – dopo che ci siamo lasciati alle spalle i nostri interessi quotidiani e quantitativi –, punto che tanto avevamo sognato e che ci sta dando i primi cenni della qualità cercata. La qualità in questo caso può bruciarci impedendoci di andare avanti, trascinandoci poi nel bivio cieco del delirio. In questo senso l’immagine di Hegel riguardante il “calvario”. L’immagine del viaggio periglioso non è qui scelta a caso, rappresentando l’esempio più consono del movimento, almeno quando si intenda per viaggio uno spostamento da qualcosa di noto a qualcosa di ignoto. E la conoscenza è sempre un’avventura verso l’ignoto. «La tragedia è il sapere dell’uomo che ha accettato lo spaesamento, dell’uomo che si espatria dal suo linguaggio e dalle sue pratiche cognitive abituali: che si sradica da tutto per aprirsi alla dimensione cosmogonica di uno sguardo fisso sul mistero». (F. Rella, Le soglie dell’ombra. Riflessioni sul mistero, Milano 1994, p. 46). L’eccesso comporta inevitabilmente una diversa considerazione di ciò che considero peggio del male presente. Non posso accettare la composizione dello scontro, per un risultato quale che sia di accomodamento, ne deriverebbe una disgregazione dell’eccesso, quindi una sorta di degrado morale. Se affronto l’ignoto della diversità debbo caricare al massimo la caldaia, non posso ridurre la pressione, ciò lascerebbe intendere che prevedo un viaggio sufficientemente lungo, quando per quello che mi riguarda questo viaggio può finire nelle stesso istante in cui comincia. Non ho nulla che possa implorare per sollecitarmi la mano, sono io stesso la mia sollecitazione, getto lo scompiglio solo in me stesso, mentre gli altri forse neppure si avvedono del mio abbandono e di come ho rinunciato a ogni tipo di rassegnazione. L’eccesso ha la propria fine in sé nel momento del rilancio, non pone in dubbio la posta, va oltre, non ha nulla da cui trarre profitto, pure sembrando simile nell’aggiunzione maniacale, è l’antitesi dell’accumulo. Occorre polso fermo per resistere all’eccesso e ironia sulla sorte della propria vita, mentre i colpi dell’accumulo, nel migliore dei casi, sono contraddistinti solo dal sarcasmo, virtù subalterna e odiosa.

La chiarezza non abita ovviamente in questo viaggio, ma improvvisamente può affacciarsi in diversi movimenti, sia nell’ambito interpretativo e critico, che nell’ambito della trasformazione qualitativa. «È questo il momento magico della ragione. Qualcosa di nuovo è stato scoperto, che si addice all’atmosfera tersa in cui vivono gli efebi della scultura arcaica. Il sognare epico o lirico, nella contemplazione apollinea dell’apparenza o della passione, non porta con sé un distacco sufficiente dal dolore e dalle miserie quotidiane, e soprattutto dalla banalità e dalla pochezza dei desideri ristretti, nella sfera politica e agonistica. Il distacco dell’ebbrezza, la rottura degli argini individuali, che dilagherà più tardi, con il salire dell’onda democratica, nel sentimento tragico, è sin d’ora presente, ma visto con sospetto, come un’evasione, un moto femminile, che travolge anche ciò che dell’individuo non deve essere travolto, e che nel suo manifestarsi collettivo porta un segno di volgarità. Parmenide ha rotto il caleidoscopio del pensiero umano e ne ha estratto le pietruzze e i vetri colorati. Li ha chiamati “ciò che è” e con questo nome ha voluto arrestare ieraticamente tutti i moti. L’astratto è fermo, ma carico di energia compressa, è un vincolo che tiene unite tutte le cose, è il dominio del grande legislatore della natura. Appena scoperto, l’astratto non è ancora tale, è “un cuore che non trema”. A questo modo Parmenide ha creduto di dare concretamente all’uomo, come possesso interiore raggiante, la giustificazione della sua bellezza plastica, la sovranità su di sé e sulle altre cose. Ha inventato l’anima della statua greca, ciò senza di cui questa non sarebbe tale. (È lui che ci dà la chiave per aprire le statue greche e guardarle di dentro). E quelle statue difatti si fecero in quel tempo». (G. Colli, La ragione errabonda, op. cit., p. 256). Come sappiamo, una specie inferiore di chiarezza (con la matematica, per esempio) si può raggiungere anche nell’ambito modificativo, ma questo è un altro discorso, ormai di già archiviato. Riguardo la chiarezza di cui parliamo qui c’è da sottolineare infine il suo aspetto incerto, chiaro ma incerto. E questa incertezza non viene dalla sua minore o maggiore distinzione nei riguardi di un altro tipo di chiarezza (quella analitica, per intenderci), quanto dalla sua mancanza di fondatezza, di accumulabilità. Credo che la forma migliore che la chiarezza riesce a raggiungere in questo caso è quella che si esprime nel presagio.

Attraverso la chiarezza del presagio, poniamo nell’ambito della ricognizione, si possono individuare con sufficiente dettaglio i prossimi movimenti. Il procedere della diversità comincia a diventare un qualcosa di più vicino al progetto, non proprio al progetto accumulativo, ma certo abbastanza vicino a una consequenzialità operativa. Qui siamo all’interno della “tragica ambivalenza” di cui ha parlato Ferruccio Masini. (Cfr., Il travaglio del disumano. Per una fenomenologia del nichilismo, Napoli 1982, p. 203). Improvvisamente siamo in grado di collocare il nostro nascondimento in modo da non caderci dentro al prossimo passo. Anche se questi singoli movimenti mantengono un rapporto di estraneità fra loro, per quel che riguarda la nostra proiezione e solo per questa in quanto sappiamo benissimo che essi, fra loro, possiedono un senso che per il momento non cogliamo più in quanto abbiamo abbandonato il vecchio processo catalogativo. Anche di fronte a questa estraneità, per noi più che sufficiente, siamo in grado di intendere un contatto diverso, una vicinanza, una visione del territorio che prima ci sfuggivano. «Affermare questa presenza [la diversità, spesso vista come “male” dai sostenitori dell’equilibrio fondante l’accumulo] significa alludere all’ambiguità divina, ch’è poi la duplicità della libertà, sempre al tempo stesso positiva e negativa, donde l’inseparabilità degli opposti e quindi una dialettica originaria, diversa da quella hegeliana, nel cuore della realtà». (L. Pareyson, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino 1995, p. 181). Lo stesso, in forma più accentuata, accade nel territorio vero e proprio della qualità. Qui abbiamo il presagio della sconfitta, e ciò nel momento in cui ogni passo ci fornisce nutrimento qualitativo, non più conquista e gloria, non più vittoria della conoscenza, e nemmeno l’esaltazione di una conoscenza diversa, finalmente riabilitata nel pieno della propria completezza. La sconfitta finale ci attirerà qui, come una centralità del reale, al termine della strada. L’esaurirsi del territorio in uno con la nostra stessa possibilità di sperimentazione. Così l’inesauribile Hegel: «La via che conduce alla meta – al sapere, cioè allo spirito che si sa come spirito – è la memoria degli spiriti così come essi sono in se stessi e compiono l’organizzazione del loro regno. La loro conservazione, secondo il lato della loro esistenza libera che si manifesta nella forma dell’accidentalità, è la storia; secondo il lato della loro organizzazione concettuale, invece, è la scienza del sapere fenomenico; tutti e due insieme, cioè la storia concettualmente intesa, formano il ricordo e il calvario dello spirito assoluto, la realtà, la verità e la certezza del suo trono, senza il quale esso sarebbe la solitudine priva di vita». (Fenomenologia dello spirito, tr. it., vol. II, Napoli 1988, p. 305). Ma tutto ciò non si esaurisce mai, continua sempre, ininterrottamente. Solo che più andiamo avanti, al suo interno, meno sentiamo il richiamo del ritorno indietro, verso la fondatezza, sia pure fittizia, di quel senso che abbiamo abbandonato inquieti in merito alla nostra sorte. Ma perché tornare indietro? La bruttezza del mondo che ho creato trapela, a tratti, attraverso l’apparenza. I tanti belletti non la coprono, anzi ne mettono in risalto la disumana caratteristica dei tratti fondamentali. Niente è qui carico di qualcosa che sia reale, tutto è affascinante e agghiacciante nello stesso tempo, mi opprime e mi attrae. Non lascia mai che i miei pensieri possano liberarsi dalla cattura, sono posseduto dalla mia stessa volontà di possesso. Per spezzare tutto questo devo diventare smisurato e deforme, devo essere quello che sono, non quello che appaio e che gli altri sono felici di applaudire. Gli orpelli siano maledetti, dicono i sacrificatori di sé e del genere umano, ma scavano in questo modo le viscere di un cadavere. La pena non produce che mostri, sia pure santificati. La mia gioia è più forte della pena che gli altri, tanti altri, hanno pensato di infliggermi per piegarmi. Non sarà questa banalità che potrà piegarmi. Altri sono i miei terrori, e non riguardano me di sicuro. Anche la fonte continua della mia gioia è fragile, estremamente fragile, e questo è il limite, il livello possibile della pazzia, il potere che mi schiaccerebbe come un moscerino. Il mio ordine non è triste, ma sono sempre seduto sull’orlo di un abisso, non posso fare un balzo indietro.

L’orrore di questa estrema carenza di senso deriva dalla resistenza della ragione. La desolazione è quindi un oggetto della ragione, che la coglie come chiarezza estrema, come assenza di quelle condizioni di complicanza che possono determinare ambasce e perplessità, ma che costituiscono il sale della vita. E questo sale non ha importanza alcuna che si riveli il più delle volte come l’assoluto fittizio, dominato dall’incredibilità dell’assenza. Il contenuto di senso è di già rassicurante, da per se stesso, anche se poi si rivela non del tutto sicuro e meno che mai fondante. La sicurezza non è quasi mai data dal fondamento reale, il quale, se si riuscisse a capirlo fino in fondo, più che altro metterebbe paura.

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“Di questo logos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia prima di averlo ascoltato, sia subito dopo averlo ascoltato; benché infatti tutte le cose accadano secondo questo logos, essi assomigliano a persone inesperte, pur essendo possibile addurre prove in parole e in opere tali quali sono quelli che io spiego, distinguendo secondo natura ciascuna cosa e dicendo com’è. Ma agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo”.

(Eraclito, fr. B1)

“Ma, ovviamente, anche l’essenza del conflitto resta in un primo momento controversa. Con ogni probabilità ‘conflitto’ significa in Parmenide qualcosa di diverso sia dal semplice litigio e dalla disputa, sia dal cieco dissidio, così come dalla ‘guerra’ e dalla ‘competizione’. Forse tutte queste sono soltanto metamorfosi e denominazioni superficiali di quel conflitto la cui essenza iniziale possiamo supporre presente nell’essenza della verità nel senso dell’àlétheia, e che un giorno conosceremo. Forse la parola stessa di Eraclito che recita: ‘Pólemos pánton... patér èsti’, nella formulazione: ‘La guerra è la madre di tutte le cose...’, così spesso usata a sproposito e riportata sempre e soltanto in modo storpiato, ha ormai in comune con il pensiero greco solo una vuota risonanza verbale. Tuttavia anche circa l’essenza del pólemos, che secondo il vocabolario significa alla lettera pure ‘guerra’, come potremmo sapere qualcosa di esatto, o anche solo presagire l’essenza del ‘polemico’ qui nominata, fintanto che non sappiamo nulla di un conflitto che abita addirittura l’essenza della verità? Come potremmo conoscere il carattere inizialmente conflittuale del conflitto nell’essenza della verità fintanto che non ne esperiamo l’essenza in quanto svelatezza, mentre la nostra conoscenza dell’àlétheia inerisce ancora tutt’al più a un significato verbale svolazzante qua e là? L’essenza conflittuale della verità è già da lungo tempo estranea sia a noi sia al pensiero occidentale. Viceversa, ‘la verità’ vale come ciò che sta oltre ogni conflitto e che quindi deve rimanere come ciò che non conosce conflitto. Non comprendiamo pertanto in quale misura l’essenza stessa della verità sia in sé un conflitto. Eppure, se nel pensiero iniziale dei Greci viene esperita l’essenza conflittuale della verità, non c’è da stupirsi se nei ‘detti’ del pensiero iniziale percepiamo espressamente la parola ‘conflitto’. Grazie all’interpretazione della grecità elaborata da Jacob Burckhardt e da Nietzsche abbiamo imparato a prestare attenzione al ‘principio agonale’ e a riconoscere nella ‘competizione’ un ‘impulso’ essenziale nella ‘vita’ di quel popolo. Ci si deve domandare però dove il principio dell’‘agone’ abbia il suo fondamento e da dove l’essenza della ‘vita’ e dell’uomo riceva la sua determinazione in modo da svolgersi in senso ‘agonale’. Il ‘competitivo’ può sorgere soltanto là dove il conflittuale viene già dapprima generalmente esperito come l’essenziale. Se invece si afferma che l’essenza agonale della grecità riposa su una corrispondente predisposizione del popolo greco, tale ‘spiegazione’ non è meno superficiale di quanto lo sarebbe se, a chi ci domandasse su che cosa riposa l’essenza del pensiero, rispondessimo: sulla capacità di pensare. Finora abbiamo notato che, da un lato, la svelatezza rientra in un ambito in cui accadono velatezza e velamento, dall’altro, la dis-velatezza mostra un’essenza conflittuale, vale a dire che essa è lo svelamento nella misura in cui qualcosa in essa è in conflitto con il velamento. Una terza indicazione ci viene fornita dalla ‘svelatezza’ riguardo al fatto che la verità, in virtù della sua essenza conflittuale, si situa in relazioni ‘contrastanti’. La teoria corrente conosce come opposto della verità unicamente la ‘non verità’ nel senso della falsità. Qualcosa è o vero o falso. Non v’è dubbio peraltro che nell’epoca del primo compimento della metafisica occidentale – nella filosofia di Schelling e di Hegel – il pensiero giunge alla conoscenza del fatto che qualcosa può essere al tempo stesso, sebbene sotto riguardi diversi, sia vero sia falso. Anche qui, e precisamente nella forma della ‘negatività’, viene in luce qualcosa di discorde nell’essenza della verità. Eppure, l’idea che quanto detto in precedenza circa l’essenza conflittuale della verità coincida con le dottrine di Schelling e di Hegel, ovvero possa venire ricompreso con l’ausilio di una metafisica siffatta, sarebbe ancora più funesta della scoperta ignoranza di tutte queste connessioni. Per la metafisica moderna di Schelling e di Hegel, infatti, il tratto fondamentale dell’essenza della verità non è mai l’àlétheia nel senso della svelatezza, bensì la certezza nel senso di quella certitudo che, da Descartes in poi, caratterizza l’essenza della veritas. Una cosa come l’autocertezza del soggetto cosciente di se stesso è estranea alla grecità. Viceversa, è ben vero che nell’essenza moderna della ‘soggettività dello spirito’ – la quale, correttamente intesa, non ha nulla a che fare con il ‘soggettivismo’ – risuona ancora l’essenza mutata dell’àlétheia greca. Tuttavia nessun risuonare eguaglia il suono originario. L’iniziale si rivolge solo all’iniziale. L’uno non coincide con l’altro, e nondimeno entrambi sono lo Stesso (das Selbe), anche quando sembrano allontanarsi l’uno dall’altro nell’inconciliabile. Ciò vale per la seguente quarta indicazione che il dire greco circa l’àlétheia è in grado di fornire alla meditazione che gli presta ascolto”.

(M. Heidegger, Parmenide)

Capitolo IV

Alla base delle illusioni sulla chiarezza ci sta l’idea molto diffusa che vi siano cose evidenti, cioè realtà che si presentano con una forma speciale che si definisce evidenza, e che proprio per questo non possono essere messe in dubbio. L’evidenza (che non è la stessa cosa della chiarezza) sarebbe quindi una specie di caratteristica a priori di alcune cose o di alcune idee. La critica negativa distrugge le certezze e annebbia la chiarezza dell’apparenza, con questo fa venire fuori non la vera realtà, ma le condizioni preparatorie della qualità. Mi distruggo l’antica visuale confortevole e la sostituisco con un orizzonte sconosciuto, desolato ma reale, non più apparente. L’assoluta desolazione mi consente di intuire quello che sono veramente, non ci sono più alibi o scuse, nemmeno la coerenza può fare da paravento alla mia paura, tutto adesso può essere reale nella sua nudità, mi dispongo finalmente all’azione.

Per quanto si possa considerare un luogo comune il problema dell’evidenza è stato per primo considerato da Descartes e posto a fondamento della propria teoria della conoscenza. Così scrive il filosofo francese: «Moltissimi uomini in tutta la loro vita non percepiscono proprio nulla così abbastanza bene da poterne dare un giudizio sicuro. In realtà si richiede infatti alla percezione, su cui si possa fondare un giudizio sicuro e indubitabile, non solo di esser chiara, ma di esser anche distinta. Chiamo chiara la percezione presente e manifesta allo spirito che vi rivolge l’attenzione: come diciamo di vedere chiaramente cose che sono presenti all’occhio che le fissa, muovendolo abbastanza apertamente e fortemente. Chiamo, invece, distinta quella percezione che, essendo chiara, è separata da tutte le altre, e precisa così da non contenere nient’altro se non ciò che è chiaro». (I princìpi di filosofia, XIV). Praticamente questo concetto viene ripreso da Locke con un approfondimento riguardo il senso della confusione: «Come un’idea chiara è ciò di cui lo spirito ha una percezione piena e evidente, che riceve da un oggetto esterno il quale agisce nella maniera dovuta su un organo ben disposto, così un’idea distinta è quella di cui lo spirito percepisce la differenza da tutte le altre; e un’idea confusa è un’idea tale da non essere sufficientemente distinguibile da un’altra, dalla quale dovrebbe essere differente». (Saggio sull’intelletto umano, II, XXIX, 4). Leibniz sviluppa a fondo il problema trasferendo la chiarezza dal fatto soggettivo della percezione al fatto oggettivo di una determinata categoria di oggetti particolarmente semplici: «Le nostre idee semplici sono chiare quando sono tali gli oggetti medesimi dai quali derivano, rappresentandoli o potendoli rappresentare con tutte le circostanze richieste per una sensazione o percezione ben ordinata». (Nuovi saggi sull’intelletto umano, XXIX, 2).

Sulla stessa linea si pongono gli empiristi moderni, i neopositivisti e i loro precursori. Tutti questi pensatori sostengono possibile un progressivo avvicinamento alla realtà attraverso una chiarificazione corrispondente, più o meno, a una ricerca degli stati elementari o semplici della realtà stessa. Scrive Wittgenstein: «Il senso della proposizione è la sua concordanza o discordanza con le possibilità del sussistere e non sussistere degli stati di cose. La proposizione più semplice, la proposizione elementare, asserisce il sussistere d’uno stato di cose. È manifesto che, nell’analisi delle proposizioni dobbiamo pervenire a proposizioni elementari che constano di nomi in nesso immediato. Anche se il mondo è infinitamente complesso, così che ogni fatto consta d’infiniti stati di cose ed ogni stato di cose è composto d’infiniti oggetti, anche allora vi devono essere oggetti e stati di cose». (Tractatus logico-philosophicus, 4, 2). In questo stesso senso scrive Moritz Schlick: «Per trovare il senso di una proposizione noi dobbiamo trasformarla mediante successive definizioni, finché da ultimo non compaiano in essa che delle parole, il cui significato non può più esser definito, bensì direttamente mostrato. Determinando questo, si determina tutto quello che è asserito dalla proposizione, e quindi si apprende quale senso essa abbia». (Positivismo e realismo, in Il Neoempirismo, tr. it., Torino 1969, p. 271). In Rudolf Carnap, per essere giusti, sorgono dei problemi in merito all’identificazione di proposizioni semplici tali da potere dare cognizione del “dato”, quelle definizioni che vengono definite “protocollari” nei trattati di logica formale. Egli scrive: «La questione circa il contenuto e la forma delle proposizioni primarie (protocolli), che finora non ha trovato una risposta definitiva, possiamo lasciarla del tutto fuori della nostra analisi. Nella gnoseologia, si è soliti dire che le proposizioni primarie si riferiscono al “dato”, ma non sussiste alcun accordo circa quel che debba poi considerarsi come un dato». (Il superamento della metafisica, in Il Neoempirismo, op. cit., p. 508). Tra le diverse proposte per identificare questo tipo di proposizioni c’è quella che le considera le espressioni del fatto semplice, della semplice sensazione avvertita, appunto, in modo chiaro e distinto.

Sarà stata notata, nel paragrafo precedente, una diversa impostazione del problema tra il primo e il secondo gruppo di citazioni. In effetti, i filosofi del primo gruppo si preoccupano della percezione della realtà in modo chiaro e distinto e cercano di fondarla sull’esistenza possibile di oggetti chiari e distinti. I filosofi del secondo gruppo si limitano a ricercare forme linguistiche semplici, quindi chiare e distinte, capaci di esprimere fatti, sensazioni, idee e oggetti che si possono considerare elementi, quindi anch’essi chiari e distinti. La differenza non dipende da una diversa considerazione data al concetto di evidenza, ma dalla conclusione a cui è arrivato l’empirismo moderno che il linguaggio è il solo strumento della conoscenza. Le devastazioni dell’empirismo sono senza paragone più ampie del sogno chiaroveggente. Molte illusioni sono apparenti altrettanto delle illazioni scientifiche, ma non pretendono di costruire piedistalli per alcuni e sotterranei per altri. Contemperare le due tendenze non è un vano eclettismo, ma un concreto riconoscimento strumentale. La cultura esiste ed è mezzo, non può diventare terreno di coltura per pretese completezze. Con i suoi strumenti in tasca bisogna poi andare oltre, oltrepassare i limiti e i muri del carcere logico e ineccepibile che mi racchiude. La qualità mi sollecita e io non me ne avvedo.

Oggi, parlando di evidenza (e quindi anche di chiarezza), della necessità dell’evidenza, si ha in mente quasi esclusivamente l’evidenza del linguaggio (o della parola), cioè dello strumento. Il concetto di “realtà evidente” è quasi sempre scontato in partenza. La realtà viene considerata evidente (e chiara) mentre siamo noi che la rendiamo confusa perché vogliamo così (interessi nascosti e non sempre confessabili ci guidano in tal senso), o perché non sappiamo renderla in modo chiaro.

Diciamo subito che per quanto si possa penetrare a fondo nell’analisi non si potrà mai arrivare alle proposizioni “semplici”, cioè a quelle proposizioni capaci di cogliere il vero significato delle cose. In effetti, è la folgorazione che ci fa capire, il duro impatto che non ci consente compromessi e cedimenti. In qualsiasi modo arriveremo a scoprire i colori della vita dietro l’uniforme grigiore della prigione, quale che sia la strada attraverso cui comprenderemo che l’umanità si può scoprire anche dentro una cella d’isolamento, non dobbiamo dimenticare che la prigione è realmente grigia e monotona e che la cella d’isolamento è realmente disumanizzante. Non dobbiamo dimenticare che la realtà più viva e completa della prigione è proprio quell’inutilità compatta e totale che proviamo nel momento in cui ci trascinano dentro, non la rassicurante atmosfera di chiarezza (o di familiarità?) che finiamo poi per rintracciare al suo interno. Ogni garanzia è ingannatrice, ogni parola consola e inganna, matrice e corpo fatto dell’apparenza, ogni rifugio nel di già conquistato normalizza mentre gli avvenimenti dell’immediatezza incalzano e sollevano nuove inquietudini. Insistere nel possedere è non solo ingannevole ma stupido, la stessa cultura mi respinge indietro, non capisco il motivo di continuare a sapere, sempre di più, sempre di più, con una compulsione maniacale che rende idioti. Certo ci sono limiti anche qui, tutto nel mondo è contrassegnato da limiti, moduli nuovi è necessario saperli, conoscerli, perché sono strumenti e rendono più facile la vita, ma anche indorano le catene che mi tengono prigioniero, come la chiave della porta del buco dove mi trovo in questo momento [2005], è dorata, ma è contrassegnata col n. 205. Così esorcizzo la diversità, colleziono stupide fierezze di me stesso e metto in scena uno degli spettacoli più odiosi che ci siano, recitare per scimmie ammaestrate che restano a bocca aperta. Insisto per salvarmi la vita? Ma che me ne faccio di questa vita? Occhi blu è altrove, è diverso e la grande maggioranza non lo capisce. Si chiede, a suo buono e corretto diritto, come mai un vecchio ha avuto l’arroganza di fare un bimbo? E la fortuna di farlo così bello? La mamma è quella che l’ha fatto, senza dubbio, ma la mamma, quella mamma e mio figlio, occhi blu, quel figlio, sono io che li ho progettati insieme nel mio destino, non mi sono stati regalati una notte di novembre da qualche parte del mondo. E quel progetto non è una civetteria qualsiasi, o un carpire e gestire le segrete intenzioni di qualcuno, ma viene da lontano dove non c’è indulgenza per la letteratura, ma tutto è duro e desolato e nulla può prosperarvi che non sia realmente presente, lontano da ogni apparenza, forte e reale convincimento. Agire significa distruggere le convenzioni e le immagini, le apparenti e ricorrenti concordanze, balbettare, non tenere conferenze. Nell’azione non c’è più buonsenso o eleganza, ma inciviltà, singolarità del coinvolgimento. Io sono unico, nel momento in cui mi coinvolgo abbandono le specchiate coordinate del consorzio umano, le turpitudini che vengono spacciate per buone azioni mi danno il voltastomaco, non perché turpitudini, ma perché buone azioni. I richiami alle ragioni superiori dell’umanità hanno un senso nel mondo, ma qui, dove si sono conquistate un contenuto col sangue di milioni di oppressi e di qualche oppressore, quei richiami mi deludono, mi infastidiscono perché rinviano a una conclusione, spesso sempre meno benefica, comunque a una conclusione che non può essere tenuta in considerazione perché apparente, velo e mistificazione.

Esiste una teoria fisica che sostiene la tesi della semplicità della natura. “Sulla base dell’esperienza fin qui raccolta abbiamo il diritto di credere che la natura sia la realizzazione di ciò che di più matematicamente semplice è immaginabile”. Ha scritto Einstein. Non a caso riporto qui questa opinione idealista di Einstein. Sarebbe infatti quanto mai strano che uno affermasse che può conoscere una data cosa proprio perché la sua conoscenza è difficile. È molto più naturale affermare che può conoscerla proprio perché si tratta di una cosa semplice e chiara.

Che la realtà si possa ricondurre sotto l’egida di pochi princìpi semplici e chiari è una classica illusione positivista che sopravvive in molte forme e sotto molti aspetti anche nelle moderne formulazioni della fisica indeterminista. Nella sua corrispondenza con Max Born, Einstein precisava: «Se, indipendentemente dalla teoria dei quanti, ci chiediamo che cosa caratterizzi il mondo concettuale della fisica, viene subito alla mente il fatto che i concetti della fisica si riferiscono a un universo esterno reale, ossia che le rappresentazioni degli oggetti (corpi, campi, ecc.) stabilite dalla fisica aspirano a un’“esistenza reale” indipendente dai soggetti della percezione; d’altra parte queste rappresentazioni sono messe in relazione nel modo più certo possibile con le impressioni sensoriali. Inoltre, è caratteristico degli oggetti fisici l’essere concepiti come disposti in un continuo spazio-temporale; in questa disposizione, appare essenziale il fatto che in un dato istante gli oggetti considerati dalla fisica reclamino un’esistenza singola autonoma in quanto “collocati in regioni distinte dello spazio”. Fuori dell’ipotesi di una simile esistenza autonoma (di un “essere così” [il dasein] dei singoli oggetti spazialmente separati – ipotesi che deriva in primo luogo dalla riflessione quotidiana – non sarebbe possibile un pensiero fisico nel senso per noi abituale; né si vede come potrebbero essere formulate e verificate delle leggi fisiche senza una netta distinzione di questo tipo. La teoria dei campi ha portato alle estreme conseguenze questo principio, localizzando negli elementi spaziali infinitesimi (quadridimensionali) sia gli oggetti elementari – esistenti indipendentemente gli uni dagli altri – posti a base della teoria, sia le leggi elementari postulate per essa. Caratteristico della reciproca indipendenza tra due oggetti spazialmente separati (A e B) è il seguente principio, applicato in modo coerente solo nella teoria dei campi: un influsso esterno esercitato su A non ha alcun influsso diretto su B. La rinunzia radicale a questo “principio di contiguità” renderebbe impossibile l’idea dell’esistenza di sistemi (quasi) chiusi e quindi l’enunciazione di leggi empiricamente verificabili nel senso per noi abituale». (A. Einstein-M. Born, Scienza e vita. Lettere 1916-1955, tr. it., Torino 1973, p. 201). Si tratta di un bisogno che abbiamo tutti di pensare l’insieme della realtà, ad esempio l’universo, come un tutto ordinato e regolare, sottoposto a regole fisse semplici e chiare come, ad esempio, la legge della proporzionalità inversa della forza al quadrato delle distanze. Che il mondo sia carico di un senso ottuso e parziale, lo sperimento ogni giorno. I miei continui andirivieni per modificare la mia creazione, tutti destinati a crollare miseramente, ne sono la prova. Quello di cui devo stare alla larga è l’idea che la ricerca della qualità, sperimentazione a rischio, coinvolgimento che richiede coraggio e determinazione, sia di per sé un possesso accumulabile. Non è così. Non posso fare dell’oltrepassamento un mestiere da specialisti. La rinuncia all’ordine e alle regole imposte dalla ragione, non può supplire alla completezza, il mio movimento lascia indifferente la cosa e il mondo continua a restare col senso dimidiato che aveva prima. Fluttuare in mezzo a intuizioni inaccessibili nel loro vero contenuto, produce solo un avvicinamento alla intensificazione non mi rende intensificato alla stessa maniera. Queste considerazioni sollecitano le mie aspirazioni anarchiche, ma queste devono restare appunto quello che sono, aspirazioni, nell’azione si concretizzano e muoiono per ripresentarsi nella versione impoverita della rammemorazione, come fatti. L’esperienza dell’uno non assolve del ritorno alla normalità del fare, escluso l’alternativa folle che, se si guarda fino in fondo, non è neanche un’alternativa.

Questo preconcetto viene confortato dal comportamento abbastanza costante degli eventi fisici nel mondo di tutti i giorni. Qui, infatti, le semplici leggi della meccanica spiegano un sacco di cose. Lo stesso sembrerebbe per il movimento dei corpi celesti che viene spiegato dalle leggi molto semplici del sistema copernicano, le quali, se si paragonano con quelle complicatissime del sistema tolemaico, rappresentano una grossa semplificazione dal punto di vista della conoscenza. «Sembra dunque che l’impresa della fisica non possa aver inizio prima che si siano stipulati quelli che conteranno, per convenzione, come i sistemi fisici che miriamo a descrivere; il che vuol dire che dobbiamo avere qualche criterio di individuazione per i sistemi fisici che costituiscono l’ontologia fondamentale di una teoria. La condizione di separabilità fornisce un tale criterio di individuazione: due sistemi saranno distinti come due, invece che uno, se occupano regioni spazio-temporalmente separate dello spazio-tempo, e questo indipendentemente dalla loro storia di interazione. In altre parole, il principio di separabilità dice che si possono tracciare le linee tra le parti dell’universo dovunque si voglia – vi sono “correlazioni” ovunque. La teoria dei campi lo fa nella maniera più estrema possibile, considerando ogni infinitesimale regione dello spazio-tempo (ogni punto-evento nella varietà spazio-temporale della relatività generale) come un sistema separato caratterizzato dal suo stato separato (la grandezza del tensore metrico a quel punto nel caso della relatività generale). Il principio di località aggiunge semplicemente che lo stato di uno di questi sistemi separati non può essere influenzato da eventi in regioni di spazio-tempo separate dalla regione data da un intervallo di tipo spazio; il che equivale a dire che tutte le influenze sono influenze locali». (D. Howard, Einstein fu davvero un realista, tr. it., in Realismo/Antirealismo, Firenze, 1995, pp. 136-137). La qualità non è mai un permanere estatico, ma uno scaraventarsi continuo in avanti, verso un orizzonte desolatamente illimitato, è l’esempio più concreto di quello che penso sia l’anarchia priva di qualsiasi freno inibitorio, di ogni fase di evoluzione che nel suo prodursi estenua a causa dell’attesa. Essendo slancio continuo non può consumarsi ma può interrompersi. La tensione può spezzarsi a causa di una versione dell’eccesso che fa entrare per la finestra quello che la porta aveva messo fuori come preoccupazione di possesso. La venuta meno della parola è il segno di questa straordinaria tensione, di questo sconfinato fluttuare desolato che non ha più alcuna cognizione del tempo e dello spazio. L’interruzione non spegne di colpo questa esaltazione parossistica, e permette una rammemorazione vivida anche a distanza di decenni, a condizione che il desiderio di libertà non si sia spento. In fondo è questo che vogliono uccidere in me, ed è questo che malgrado tutto continuamente si amplifica in me, mentre le forze fisiche, considerate in senso stretto, mi vanno abbandonando. Rifiutare il senso codificato del mondo è certo un segno di questo desiderio, esercitare la critica è un altro segno, ma tutto questo può soltanto limitarsi a un rammemorare, a una categoria della negazione portata avanti come qualsiasi altro canone categorico.

Le cose si complicano non appena pensiamo ai fenomeni elettrici che non possono essere spiegati con uno schema meccanico, e si complicano ancora di più scendendo ai fenomeni ancora più piccoli relativi, per esempio, al comportamento di un elettrone. E sarebbe anche interessante chiedersi come mai Einstein possa sostenere la tesi della semplicità della natura (salvo che non si ammetta, come abbiamo fatto, che quella tesi diventa necessaria per giustificare il sottostante idealismo conoscitivo) se è stato proprio lui a sconvolgere uno dei concetti più semplici che sembravano a base della spiegazione dei fenomeni, il concetto di simultaneità di due eventi distanti nello spazio. “Il pensiero che nega improvvisamente la semplicità dell’idea di simultaneità parte in quarta; lascia il rifugio dei pensieri familiari; rompe con la città scientifica del suo tempo!”, ha scritto Bachelard. Approfondendo il concetto di semplice, così Percy Williams Bridgman: «Dobbiamo anzitutto osservare che “semplice” significa semplice una volta espresso in termini dei nostri concetti. Ciò è di per sé sufficiente a suscitare diffidenza contro questo atteggiamento generale [quello di attribuire alla natura una predilezione per le leggi semplici]. È evidente che il nostro pensiero deve seguire le linee imposte dalla natura del nostro meccanismo mentale: vi sembra probabile che tutta la natura accetti le stesse limitazioni». (La logica della fisica moderna, tr. it., Torino 1952, p. 180). Non si tratta, questa di Bridgman, di una voce sospetta. Il creatore dell’operazionismo cerca di dimostrare che l’uomo ha uno schematismo mentale appunto di tipo operazionista, quindi che tende alla semplificazione dei processi conoscitivi, ma questo suo preconcetto non gli impedisce di restare sorpreso davanti all’indebita estensione alla natura nel suo insieme. Eppure sarebbe stato molto logico per lui passare dalla semplicità dei meccanismi ragionativi (in quanto limitazione umana) alla semplicità della natura. Non fa questo passo perché non è un idealista come Einstein. Qui ci interessa mettere in risalto che proprio Einstein come la sua critica della simultaneità, non poteva arrivare al concetto di semplicità della natura, mentre ci poteva tranquillamente arrivare Bridgman.

Nell’insieme delle teorie che affermano la fondamentale necessità della chiarezza per arrivare a una conoscenza certa e sicura si pone l’idea di una economia del pensiero, sviluppata dalla filosofia empiriocriticista di Mach e Avenarius. «Possiamo supporre che a questa generalizzazione [convenzionalistica] Mach sia pervenuto mediante un’applicazione conseguente di questo punto di vista. In ogni caso le idee filosofiche di questo scienziato non rimasero senza influenza. Per Mach l’intero mondo “fisico” e “psichico” consiste di “elementi”, cioè di colori, odori, suoni, ecc., in una parola di atomi, che secondo il punto di vista adottato possono avere natura fisica o psichica. In un mondo di atomi frantumato sino a questo punto, in questo caos, la “cosa” è già un simbolo economico, le leggi a loro volta un grado superiore dell’inquadramento concettuale, ecc. In altre parole, tutto ciò che non è sensazione (ovvero, elemento), è già strumento della conoscenza di quest’unica realtà, uno strumento che va considerato, come qualsiasi altro, sotto il profilo dell’utilità. Per Poincaré il mondo esiste “in dipendenza dell’intelletto conoscente” e soltanto in questa misura. Resta quindi una questione di comodità il credere o no agli oggetti esterni, alla rotazione della Terra, ecc., e quel che è più, l’ammettere, col riconoscimento della comodità di una concezione, che essa è vera ed esprime un effettivo rapporto intrinseco». (J. Metallmann, Zasada ekonomii myllenia, citato da A. Schaff, La teoria della verità nel materialismo e nell’idealismo. Questioni generali, tr. it., Milano 1959, p. 253). Anche qui siamo davanti a formulazioni idealistiche. Le parole misurate e scelte con calma calano come sudari sui fatti, servono a imbalsamarli meglio. Di già una parola incerta, scarna ma non povera, piena di rughe non per l’uso ma per il disuso, cala sul fatto come un colpo bene assestato. Potrebbe costringerlo a rispecchiare quello che sta nascondendo, nella rammemorazione contribuire a dare un ultimo colpo agli antichi luoghi comuni. Anche se non costituirà mai una parola ideale, metalinguistica, potrà meglio indicare dove si sta aprendo la crepa nella diga, dove inserire il cuneo che consentirà l’alluvione della diversità, l’avvento del sogno, la fine dei trucchi che ci hanno sedotto abbastanza per millenni. Spesso se non è la parola stessa a contenere ciò, è il suo tono, il suono di una voce, anticipo e promessa di un’altra voce, ancora più remota.

La realtà obiettiva viene sottomessa al dominio soggettivo, non si pone nessun rapporto di reciproca azione, il canone fondamentale della conoscenza è dettato dalle esigenze del soggetto, dalle sue limitazioni e dalle sue costituzioni. La nostra conoscenza si realizza solo quando applichiamo il principio dell’economia del nostro pensiero, cioè quando troviamo una formulazione che sia la più semplice e la più chiara. Scrive Ernst Mach: «L’idea di una economia del pensiero si sviluppò in me nel corso dell’esperienza pedagogica dell’insegnamento. Essa mi appariva ormai chiara all’epoca in cui cominciai i miei corsi come libero docente nel 1861, e pensavo allora di esserne anche l’unico possessore, ciò che forse si troverà scusabile. Ora sono persuaso, al contrario, che almeno una vaga intuizione di questo pensiero deve esser sempre stata nel patrimonio comune di tutti i ricercatori che in qualche misura hanno fatto oggetto delle loro riflessioni la ricerca come tale. L’espressione di un pensiero siffatto può avvenire in molte forme, assai diverse fra loro; così il leitmotiv della semplicità e della bellezza, che si presenta tanto chiaramente nelle opere di Galileo e di Copernico, mi sembra possa venire inteso non solo come un motivo estetico, ma anche economico». (Der Mechanik in ihrer Entwicklung, ns. tr., Leipzig 1921, p. 469). E conferma Richard Avenarius: «Non solo un’organizzazione che opera adeguatamente secondo fini deve poter eseguire in generale il compito che le è proprio, ma, in secondo luogo, essa deve effettuarne l’esecuzione con lo sforzo relativamente più piccolo, ovvero i mezzi relativamente più ristretti, che sono possibili nelle condizioni poste di volta in volta al suo operare. Una data soluzione del compito posto varrà per noi come tanto più rispondente al fine, quanto minor forza viene sprecata nella sua esecuzione, e quanto più forza viene dunque risparmiata per altre opere. Una data forza si troverà tanto più opportunamente applicata, ossia applicata secondo il fine, quanto maggiore è il risultato che si è ottenuto col suo uso». (Philosophie als Denken der Welt, ns. tr., Berlin 1917, pp. 11-12). Quello che voglio evitare che mi piombi addosso è qualcosa di diverso. Costruisco il mio destino oltrepassando il fare, ma non sono capace di descriverlo. Lo colgo, via via nell’azione, a volte in modo che sembra quasi tangibile, ma vivendolo, nel suo realizzarsi possibile, come fare, arretro e lo considero sempre una prova che potrò evitare. Nascondo a me stesso le azioni che me lo hanno consentito e ciò per non identificarlo fino in fondo, altrimenti gli conferirei una scadenza e perfino un volto e questo potrebbe distruggermi. Appartenendo al mondo anche lui è un’apparenza, ma io so che questa apparenza nasconde un fondamento principale che sta altrove.

Anche questa tesi ha un fondamento idealista che consiste nel tentativo di “adattare” la realtà alle condizioni di funzionamento del pensiero. In base a questa teoria si vede la contraddizione a cui fa pervenire il criterio della semplicità portato alle estreme conseguenze. A esempio il sistema copernicano prevalse su quello tolemaico non perché si avvicinava di più alla verità, ma perché era più semplice come esposizione scientifica. Ma cosa c’è di più semplice del fatto di constatare che il sole si muove? E non bisogna cadere nell’equivoco che dato che la prima impressione è che sia il sole a muoversi, tutto ciò che apprendiamo in seguito sul suo comportamento sia un’applicazione della logica dell’a poco a poco e quindi da mettersi in relazione con quella nostra prima conoscenza intuitiva. L’approfondimento successivo ci pone davanti a ulteriori livelli conoscitivi che possono avere anche loro un elemento intuitivo e globalizzante. A parte questo fatto c’è da aggiungere che il senso del movimento del sole, del farsi del mattino e del farsi della sera, dello scorrere dei giorni e del tempo, del passare della vita, non è soltanto un fenomeno astronomico, ma ha aspetti di grande importanza nella situazione individuale, ed è a questo livello che sarebbe dannoso sclerotizzare la primitiva intuizione con l’oggettivo andamento del rapporto tra il sole e i suoi pianeti. Per me, molte volte, è proprio il sole a muoversi, e quando ho questa sensazione, viva e fortissima, mi importa poco della teoria di Copernico. Il tempo è un prodotto del fare e appartiene al mondo, come il concetto di inizio e di fine. Nascita e morte fissano parametri che reggono in piedi una vita che non riesce a uscire dai confini immediati. L’azione stacca questa dipendenza e la sospende nell’attimo collegandola con l’intensità che esprime le sensazioni qualitative. Se cerco di sfuggire a questa pulsione intuitiva, se mantengo i piedi a terra, mi ritrovo ossessionato da ogni segno che persiste nell’immediatezza e cerco di evitarli, ma è una lotta persa in partenza. Una soluzione sarebbe la rinuncia a vivere, come peraltro fanno moltissimi. Questi rinunciatari, fantasmi da operetta, si danno arie di possedere il segreto della vita, tengono stretto il loro possesso e ivi trasferiscono lo scopo di tutto quello che fanno. Incurabili. Vedo da decenni feroci distruttori distaccarsi a poco a poco dai loro sogni e trasformarsi in preti e corifei di tutti coloro che vogliono andare oltre. Modificano con invidiabile costanza i loro schemi ma non sanno sbarazzarsene.

Nell’arte il fascismo e il nazismo sono stati d’accordo con il leninismo e lo stalinismo riguardo la condanna degli aspetti creativi, sperimentali, innovativi e, quindi, non troppo direttamente comprensibili dell’attività produttiva nei diversi campi artistici. L’iniziale connubio tra futuristi italiani e fascismo si sciolse poi per manifesta scarsa utilizzabilità dei prodotti futuristi ai fini della propaganda statale. Lo stesso accadde ai futuristi russi a causa dei loro sopravvenuti dissidi con lo stalinismo. Il becero Farinacci aveva ragione di rimproverare all’intelligente Bottai la sua eccessiva tolleranza per i poeti ermetici che risultavano incomprensibili al popolo. Inaugurando la “Casa dell’Arte tedesca” il 18 luglio 1937 Hitler affermava: “Nel popolo tedesco noi vediamo che va lentamente prendendo forma l’estremo risultato di quello sviluppo storico che si è determinato con la mescolanza delle varie razze ariane, e quindi desideriamo un’arte che tenga conto sempre più della unificazione di questo complesso di razze e venga ad assumere perciò stesso un carattere chiuso e unitario. E se ci domandiamo che cosa significhi esser tedesco, ci piace di rispondere con una definizione che non sia tanto una spiegazione quanto una legge: esser tedesco significa esser chiaro”. Mentre il caos produce nel proprio crogiuolo forze sempre nuove di qualità, nel mondo la modificazione si rafforza come meccanismo ma prepara la fossa al singolo individuo, e questo senza sorprese, tutto è nel gioco, dall’immane catastrofe alla morte per assideramento del vecchio clochard all’angolo della strada. I rassegnati banchettano come i passeggeri del Titanic e aspettano la morte sperando solo di non essere calpestati, sviliti, annientati, mentre è proprio questa la loro fine. Il critico negativo, che ferma a metà la sua scure, vede questo disgustoso spettacolo e non agisce, si nutre così anche lui di queste deformità, e si fa crescere la gobba per non apparire diritto davanti al futuro, segnale di pericolo e di incoscienza. Se si diletta di utopie, queste restano nel fare, e si riempiono di parole, riempiendo i cimiteri dove la tomba del loro autore a volte è pure senza nome. Invocando la forza deterministica del meccanismo, questa nel fare risponde al fascismo, stritola e avvinghia, ed esaspera ogni decisione che parte come conato liberatorio, nel rafforzamento del dominio e delle catene. L’apparenza conclude presto queste peregrinazioni utopiche nel fondo delle prigioni.

L’esigenza di un’arte comprensibile a tutti, un’arte di massa che serva da strumento di educazione delle masse è sostenuta dal fascista Ardengo Soffici: “Il popolo non ama né gli artifici raffinati, né le astruserie, né le morbose complessità... tutto ciò è appannaggio del borghese invertito ed ebraizzato”. Per nulla diversa la posizione del marxista Anatolij Lunaciarskij: “Anche a noi interessa molto la creazione di una letteratura rivolta alle masse, che le riconosca come fondamentali sorgenti di vita, e perciò teniamo in grandissima considerazione questo principio. Tutte le forme di isolamento ermetico, tutte le forme artistiche tagliate su misura per ristrette cerchie di esteti specializzati, tutte le forme di raffinatezza e di convenzione artistica, devono essere energicamente combattute dalla critica marxista [...]. Onore e gloria allo scrittore che riesce a esprimere un contenuto sociale importante, complesso, multiforme, in uno stile semplice, artisticamente valido e tanto vigoroso da far presa su milioni e milioni di lettori”. Mi faccio un mondo che non posso completare, ma che desidero completare. Se tolgo questa seconda asserzione mi resta davanti un mondo finto ma bene orchestrato. Tutto va perfettamente alla rovescia. Campanella scrive un meraviglioso sonetto su questa volgare intrusione, e lo scrive in un luogo non molto dissimile da quello dove mi trovo adesso [2004]. Perché i peggiori vengono innalzati? Qualcuno che non mette conto ricordare ha parlato di una legge sociologica, ma queste leggi sono tutte ridicole fandonie. I peggiori si trovano a loro agio nel fango, di fango si nutrono e lo digeriscono bene. In un mondo di apparenza e futilità è giusto che in circolazione e in primo piano ci siano fantasmi. Se si rivela uno scarto, colgo appena che dietro il fantasma e le sue pompe pubbliche c’è il nulla, sono di già nell’inquietudine che mi conduce verso l’oltrepassamento. Lascio così che i merdoni rimastichino la merda, non mi concedo più nemmeno il lusso di smascherarli, che vale tanto spreco, come ho fatto in un tempo ormai lontano? Dietro il potere c’è la nudità del miserabile che ne gioca il ruolo. Questa banale constatazione non lo esime dalle sue responsabilità, ma non mi può obbligare a occuparmene in termini critici, altro richiederebbe la bisogna.

Certo l’arte rivoluzionaria è un’arte per il popolo, ma come prospettiva finale, non come produzione di una merce immediatamente utilizzabile per indottrinare le masse. All’artista non può essere chiesto di “suonare il piffero” per la rivoluzione. Se gli si chiede questo, ora, nel mentre si svolge lo scontro sociale, lo si deve costringere ad accettare canoni realistici (di chiarezza e oggettività) che sono praticamente estranei all’arte. Scegliendo i valori giusti egli potrà essere magari un buon propagandista ma non sarà mai un artista, proprio perché le necessità immediate del suo compito l’avranno portato a uccidere la propria creatività.

Gli anarchici non chiederanno mai a un compagno artista di “suonare il piffero” per la rivoluzione. Quindi non gli chiederanno mai “di essere chiaro” nelle sue cose, di produrre in tal modo e a tali condizioni. Lo lasceranno libero di esprimere la propria creatività secondo le condizioni dello scontro di classe e secondo lo sviluppo della propria situazione individuale. E se egli è veramente un artista non si affretterà a farsi violenza in nome di un ideale, senz’altro bellissimo e giustissimo, ma che suonerebbe artefatto una volta tradotto a forza nei versi, nelle note, nelle figure, nei colori, negli spazi, nei ragionamenti, nelle realizzazioni di oggetti, nei canti, nei pensieri dettati dall’arte. La rivoluzione ha certamente bisogno dell’arte che sia arte per il popolo, ma non ne ha bisogno nelle condizioni di una fruizione immediata che costringa l’artista a collocarsi all’attuale livello del popolo. Man mano che la rivoluzione si produce, grandi forze creative nascono e si sviluppano nel popolo e saranno queste forze che porranno il popolo in condizioni di capire l’artista e quest’ultimo in condizioni di adeguarsi alle esigenze del popolo. Non sarà più un problema di “chiarezza”, ma un problema di creatività.

Parte Seconda. Contro l’oggettività

“Il vischioso è senz’altro l’omogeneità e l’imitazione della natura liquida. Una sostanza vischiosa, come la pece, un fluido aberrante. Il vischioso si rivela come essenzialmente losco, perché la fluidità esiste in lui allo stato fermo. Il vischioso è l’agonia dell’acqua. Questa instabilità congelata del vischioso scoraggia il possesso. Il vischioso è docile. Però al momento stesso in cui credo di possederlo ecco che, per un curioso capovolgimento, è lui che mi possiede”.

(J.-P. Sartre, L’être et le néant)

“È chiaro che per Lenin il riconoscimento dell’esistenza obiettiva del mondo esterno, che stabilisce la linea di separazione tra la concezione materialistica e l’idealismo soggettivo puro, non è che un lato solo del problema: contemporaneamente, viene sottolineata la conoscibilità della realtà obiettiva – tesi fondamentale per il materialismo, e che lo separa da un’altra forma di idealismo soggettivo, l’agnosticismo. La fondazione della teoria del rispecchiamento riposa sull’unione di questi due elementi costitutivi: obiettività e conoscibilità del mondo. Si comprende come in quest’opera [Materialismo ed Empiriocriticismo. Note critiche su una filosofia reazionaria], che è la più ampia trattazione della teoria del rispecchiamento nella letteratura marxista, Lenin debba offrire una soluzione della questione centrale della gnoseologia, la questione della conoscibilità del mondo. Egli mostra, servendosi del classico esempio engelsiano della produzione di alizarina dal catrame di carbon fossile, tutta la debolezza della tesi della non-conoscibilità della ‘cosa in sé’. Ieri – dice Lenin – non sapevamo che il catrame di carbon fossile contiene alizarina, oggi questo ci è noto. Ma era l’alizarina contenuta nel catrame di carbon fossile anche ieri – quando noi l’ignoravamo affatto? La risposta è: sì, senza dubbio. Da ciò derivano queste conclusioni: primo: esistono oggetti indipendenti dalla nostra coscienza; secondo: non vi è nessuna diversità di principio tra fenomeno e cosa in sé, ma solo la differenza fra ciò che è conosciuto e ciò che non lo è ancora; terzo: la conoscenza è un processo che si muove dal non-sapere al sapere. La generalizzazione dell’analisi del fatto in esempio e di altri simili porta alla conclusione”.

(A. Schaff, La teoria della verità nel materialismo e nell’idealismo. Questioni generali)

Nota introduttiva alla prima edizione

L’oggettività ammette senz’altro l’esistenza dell’esteriorità. Il fatto stesso di fare questa ammissione indica che esiste qualcuno che la fa e un’esteriorizzazione in merito alla quale essa viene fatta. La differenza tra questi due punti è anch’essa ammessa quasi senza discussioni: la realtà è fatta di cose, come le pere contenute in un canestro. Le relazioni vengono così cristallizzate in una cosalità mummificata, capace di trasmettere una fissità mortale, del tutto diversa dall’intensa semplicità della cosa reale. In questo modo si costruisce un insipido mondo di fatti e di oggetti, come un gioco infinito di scatole cinesi. Anche la coscienza alberga in questo strano mondo, pieno di fissità intenzionali, e produce movimenti che sono altrettante cose, pensieri come oggetti – “io penso dunque sono” è un poggiapiedi d’avorio – individui oggetto, oggetti che non sono cose e cose che non hanno qualità. I limiti del fare sono prodotti dal fare stesso, per cui si rimuovono ogni volta raggiunti. Questo non suggerisce al mondo una montagna da scalare, o un precipizio dove annientare le sue illusioni, ma un meccanismo ripetitivo senza speranza. Non ci sono tramonti, né in Occidente né in Oriente. Il fatto che ci si mantiene a debita distanza dalla barbarie non significa che da qualche parte non ci sia una barbarie. La questione, come al solito, è di parole. Sono barbari, concretamente nel pieno senso del termine, tutti coloro che accettano passivamente lo stato di oppressione in cui si vive continuamente, che non si ribellano, che non si coinvolgono nell’agire che spezza, sia pure temporaneamente, una vita barbaramente utile e operosa di misfatti. Ma loro non chiamano barbarie tutto ciò, al contrario lo chiamano civiltà. Io che mi ribello sono barbaro, e ribellandomi smetto di parlare, in quanto nella desolazione della cosa non c’è parola, sono barbaro, veramente e fino in fondo, proprio per questo. Se pretendessi, come sto facendo, di ribellarmi continuando a parlare, sarei un barbaro da operetta. Potrei smettere e basta, andare oltre il punto di non ritorno, ma non voglio finire così, quindi sono un barbaro a metà, e ne soffro tutte le conseguenze. Nell’azione che mi coglie nella qualità, voglio tornare al fare, e nel fare che mi fa conoscere la quantità, aspiro ad aprirmi all’azione. Ma arriva il momento in cui questo bailamme è calpestato dalla trasformazione, mille avvertimenti mi convincono che non è più il tempo di tergiversare, la rammemorazione è un canto intimo, non diretto agli altri, occasionali spettatori che non ne possono cogliere il lamento che esprime e si fermano all’apparenza delle parole. Quel lamento fa ridondare nel mondo, per poco che duri, la voce dell’uno. Non ha punto d’inizio né di conclusione, è la favola della vita.

L’oggettività è data dall’avvenuto dispiegarsi della realtà, ormai imprigionato in un orientamento verso il fare, in un destino cristallizzato dall’accumulazione. Ho pensato anch’io che lo statuto della realtà fosse la sua natura di oggetto, la sua oggettività, poi mi sono dovuto ricredere. Per quanto si possa affermare che un viaggio nel territorio della qualità sia impossibile fino in fondo, proprio per l’assenza di questo fondo e per una continua ripresentazione di prospettive sempre nuove, di tutte le operazioni possibili nel commercio con la qualità, nessuna può costruire sul posto un meccanismo che stia altrove, dalla parte della quantità. Il luogo in cui troviamo, o sarebbe meglio dire ritroviamo, l’oggettività è proprio nel processo di accumulazione, agli antipodi orientativi della relazione, ed è qui che, sia pure nei limiti delle cose che facciamo “secondo le regole”, si esalta la reale possibilità della struttura, la sua funzione, il suo circoscritto ma ineliminabile destino. Ma questo ritrovamento gode di una complicità intermediaria, quella della coscienza. Una prima intuizione appare spesso filiforme, scarna e fantastica, bisognosa di ritocchi e rimpolpamenti. Le linee del ragionamento si smarriscono in un altro genere di sottigliezze che aumenta fino a diventare inconsistente. Rafforzare le connessioni logiche nell’avvicinarsi del processo intuitivo è in sostanza utile solo ad arginare il pericolo di perdere la quantità. L’immaginazione può essere lasciata a se stessa solo se, abbandonandomi, non mi faccio prendere dalla paura, allora si innalza verso vette insostituibili, paesaggi ipotetici del tutto remoti alla semplice modificazione produttiva. La compenetrazione nella prospettiva della cosa mi conduce via velocemente dal ritmo che scandisce i miei obblighi quotidiani. Capto così tensioni che prima non avvertivo, enigmi si chiariscono aprendo con le loro risposte imprevisti giganteschi labirinti, ogni corrispondenza si fa spettrale, non sono più gli oggetti a governarmi ma io a sentire il procedere dell’abbandono. Di tutto quello che avevo caro e stringevo nel possesso, a volte mi resta solo un ascolto incerto, remoto, un occhio che non sa più rispondere alle prospettive codificate che diventano tracce sempre più flebili, segni di un passato di cui non ho più interesse a ritrovare i passi.

Fuori di ogni dubbio l’oggettività è una pretesa o un dono. Bisogna distinguere. Nel primo aspetto, essa è una nostra illusione, con cui cerchiamo di fermare un movimento altrimenti capace di distruggere ogni pretesa oggettivante. Nel secondo aspetto, è l’occasione improvvisa, inaspettata e quindi tanto più gradita, la sorpresa davanti all’estrema semplicità dell’accadere, la cognizione intensa del suo dispiegarsi. Anche in quest’ultimo caso è proprio la nostra incapacità a spiegarci in modo più adeguato la realtà, che si fa avanti e ci sollecita a una definizione oggettivante, comoda sotto molti aspetti ma insoddisfacente. In ogni caso, la giacenza di una relazione non è mai staccata da un contesto che nega, o fa di tutto per negare quella pretesa immobilità. Possiamo scegliere tra una concessione di fiducia alla giacenza o al contesto, possiamo lavorare ad approfondire una scelta di argomenti o dati di fatto, non fa molta differenza, a favore dell’una o dell’altro, ma finiremo sempre per dovere concludere che un distacco sufficientemente accettabile non è concesso, si resta sempre incerti. La torpida indifferenza copre il mondo come un manto di neve, lo tiene sempre nel tepore delle case dove si raccolgono gli abbandonati al loro destino. Carichi di amuleti almanaccano su chi andrà avanti nel proprio lavoro o sul seno della vicina di casa. Bombe ad altissimo potenziale, pronte a esplodere, giacciono allineate finché l’assurdità della vita e l’assuefazione non le disinnescano. Nel momento della massima presa di coscienza imprecano tutti a bassa voce, poi, riflettendoci bene, sono tutti per la pena di morte. Non credono a quello che pensavano prima, se qualcosa pensavano, né a quello che dicono dopo, effetto più che altro della forza fittizia che conferisce il sentirsi all’interno di un gruppo. Non ho mai capito che miscuglio malefico ha convinto tante persone della propria esistenza in vita, potevano con la stessa forza ottusa e immalleabile convincersi di essere morte. Se faccio domande, e ora ne faccio sempre meno, trovo lo stesso guazzabuglio di risposte e riflessioni confuse, meschine, boriose, ottuse. Se affermo che siamo tutti responsabili e che nessuno è innocente, tutti si chiamano fuori, aspettano la catastrofe come se fosse colpa del vicino di casa. Ognuno si arrabatta come può. Io non ci sono riuscito e venendo allo scoperto ne sono stato sconvolto.

Anche rinchiudendosi nell’ambito riproduttivo, cioè scegliendo l’orientamento genericamente indicato come movimento verso la concretezza del fare, non abbiamo maggiori speranze. Un lavoro sulla quantità, con tutto il suo untume, è proprio quello che più attira l’animo produttivo, nella speranza di una immediata, e facile, rimunerazione. Ma il prodotto, pur assumendo la forma apparente dell’oggettività, non possiede gli elementi reali che dovrebbero caratterizzare quest’ultima, primo fra tutti una sufficiente lontananza dalla coscienza. Se l’impianto di controllo e di ordinazione è prevalente all’interno della coscienza, il meccanismo di modificazione messo in moto non produce oggetti muniti di una loro autonomia oggettiva, ma soltanto parti di un meccanismo accumulativo, pezzi di un qualcosa di più complesso e diffidente che richiama sempre a un altro meccanismo, ecc., sia per dare senso che per ricevere senso. Nell’interruzione di questo meccanismo accumulativo, interruzione anche accidentale o momentanea, come potrebbe anche essere quella del classico naufragio o della catastrofe, la mancanza di oggettività irrompe in quanto viene tagliato quel mutuo prestito di senso che forniva impieghi e utilizzi, funzioni e logiche ai pezzi staccati di un improbabile mosaico mai completabile. Questo taglio riconsegna all’oggetto il suo statuto di cosa. Se arrivo oltre mi sembra di non pensare più, sono nel luogo della desolazione, dove il pensiero delle parole è assenza, duplice riflesso di quell’altra assenza, anch’essa priva di parole. Scopro poi che anche questa esperienza diversa diventa parola, quindi viene ricatturata dal pensiero, ma entra nel mondo da me creato per la porta di servizio della rammemorazione, non è frutto dell’orientamento percettivo primario. L’intuizione mi fa cogliere qualcosa che non è pensiero solidificato, non è parola. È per questo che ammutolisco. Ci sarà oltre una parola ma non è la mia, non posso nominare la qualità mentre l’esperienza di essa mi colpisce come un’onda di contraccolpo. Nella cosa il rapporto è con la qualità, frutto della desolazione. La separazione che ha oggetti non c’è più, e quindi non c’è l’oggetto parola, ma la sensazione silenzio. Ascolto la voce dell’uno che è unica nella qualità, anche se le sensazioni della diversità sono di differente intensità. La qualità è una ma ha intensità diverse, nella rammemorazione chiamo libertà la massima intensità. Questa condizione intuitiva è atemporale, balla sulla punta di uno spillo. Posso parlarne? No, di certo. Eppure ci provo aggirandomi nelle tenebre e con la sofferenza nel cuore. A volte mi sembra di riuscire a seguire le tracce di un suono, forse una musica fatta di parola, ma poi questo suono diventa irresponsabile, non posso sistemarlo meglio nel mio registro conoscitivo rimasto aperto, vivo l’esperienza di un graffio, di un fiato, nemmeno più di una voce.

Non che la realtà possa accampare un proprio diritto all’oggettività nel senso logico del distacco e della disponibilità a qualsiasi costo, ma siamo di già in un ambito del tutto diverso, quello che spesso ho indicato con il concetto di dono. Nell’interpretazione critica si sviluppano le condizioni per cogliere questo dono. Non si tratta ancora del salto vero e proprio, ma di un’aumentata capacità di percepire il dispiegamento della realtà, che poi sarebbe in sostanza quello che più di tutto si avvicina all’oggettività. In ogni fase dell’avventura verso la realtà, fin dal primo movimento della diversità, c’è quasi un’attesa di questo dispiegarsi, un’attesa alimentata da quel desiderio incontrollabile che le complicazioni e le contraddizioni tipiche della coscienza ci hanno gabellato per semplicità del reale. L’abbandono della terra delle certezze apparenti mi avvia lontano, nella desolazione. Tutto quello che sento, a partire dall’oltrepassamento, ha un effetto su di me che non conoscevo e che non posso ricondurre a canoni di equilibrio. Intuisco una forza nuova che mi spinge verso quello che sono abituato a considerare pericolo e che invece è la vera realtà della vita. Ho una grande fortuna se riesco a liberarmi di queste condizioni paurose e se mi faccio prendere dal convincimento che l’abbandono è il migliore modo di procedere di fronte all’intuizione. Un nuovo orizzonte, un nuovo viaggio del vecchio Ulisse, una nuova Odissea. I miei occhi, adesso, guardano l’anima buia della desolazione, si devono abituare a scendere nelle intensità non a sorvolare le quantità. Sto tutto nel coinvolgimento eppure mi manca un significato solido, del genere di quelli che abbondano nell’apparenza. Ciò dipende dal fatto che l’apparenza ha una falsa certezza che nella certezza non esiste, per cui tutto fluttua e sembra evanescente ma non lo è. Il dio dell’eccesso non mi suggerisce limiti.

Nel primo travaglio della diversità c’è quindi, intuitivamente conosciuta, la prefigurazione del reale l’immaginazione del dispiegamento. La diversità è quasi obbligata a muoversi nell’ambito della ricognizione critica, percorso che gli costa fatica ed espedienti, spesso una vera e propria ossessione, per ritrovare alla fine, nella qualità, a livelli di intensità sempre maggiori, quello che aveva fin dall’inizio a portata di mano, se non altro sotto la specie ridotta del residuo. Il passaggio che segna l’oltrepassamento mi colloca in una condizione diversa, ma questa diversità non è solo una radicale trasformazione del mondo esterno che mi circonda, il territorio della cosa, ma è anche un mio coinvolgimento, sono io destinato a trasformarmi nella desolazione. Il deserto non può lasciare indenni. Gli esploratori inglesi che si portavano dietro la teiera, dopo qualche tempo la buttavano via o tornavano indietro. Quello che incontro nella intuizione altra è un contesto cosmico del tutto estraneo al mondo fattuale della modificazione. La possibilità di cogliere la qualità in un luogo dove non c’è nulla, mostra in atto una mia forza che prima non pensavo di possedere. Si tratta di esperienze al limite che mostrano sfumature impensabili. La concretizzazione possibile della precedente concezione della qualità come residuo, non può essere presa in considerazione, cade quindi il dire come segno di quella mineralizzazione forzata. Subentra l’ascoltare, la voce circola nel territorio incomprensibile e mi allerta di fronte al nuovo procedere delle intensificazioni qualitative. Sono modulazioni della voce che mi costringono a inventare nuovi approcci e a sviluppare nuove energie e irrefrenabili fioriture. Cogliere la qualità è certo un avvenimento totale, quindi non può racchiudersi in una coscienza immediata che dice a se stessa qualcosa di diverso, è essa stessa a essere diversa, quindi agisce ed è, questi aspetti sono un momento solo dell’intenzione della qualità. L’emergere dell’azione evidenzia la forza dell’intuizione e viceversa. Il connubio si fonde nell’assenza della parola, unito dalla voce dell’uno che è. Nessuna sincronia fonica o ritmica, ma una presenza non comprensibile che scandisce a modo suo l’unicità dell’azione.

Non siamo davanti alla verità, quindi non possiamo considerare l’oggettività come una qualità, un elemento della vita, ma siamo davanti a movimenti della coscienza che si esprimono in un modo più o meno vicino alla esteriorità. Sul piano relazionale, nel suo insieme, questi movimenti non hanno molta importanza, venendo a fondersi in relazioni più complesse che li assorbono quasi completamente, ma sul piano logico, quindi nell’ambito del fare quotidiano, consentono di fissare alcune convenzioni che opportunamente sfruttate consentono funzioni, misure, operazioni, ecc.

Occorre una grande abilità per trasferire questa illusione oggettiva che ci viene dal dispiegamento della realtà, o da quello che riusciamo a capire di questo movimento, direttamente in una certezza logica. Normalmente acquisiamo questa abilità manipolando oggetti e concetti, mischiati insieme, senza con ciò riuscire a darci una spiegazione sufficientemente valida. Ci convinciamo che ipotesi operazionali, come la precisione, la sicurezza, l’abilità, il colpo d’occhio, siano elementi che facciano aumentare la possibilità di pervenire, in un modo o nell’altro, a una obiettività del giudizio. Non credo che sia questa una strada munita di sbocco, almeno non più del profumo di un bosco o della beatitudine postprandiale. Ma, dato che dobbiamo usare alcuni strumenti e non altri, in quanto siamo come la nave di Carnap in avaria in alto mare, non possiamo che immaginare i risultati benefici di ciò che non possiamo fare e rammaricarci per i risultati brillanti, fino a un certo punto, che riusciamo ad agguantare. Si tratta di accontentarsi e poi si fa l’abitudine. Cogliere la cosa nell’intuizione che permette l’oltrepassamento non è condizione di libertà consolidata, non fornisce garanzie o sicurezze, non è l’uno ma un bagliore remoto che nella desolazione conforta più dei vivi colori della vita coronata dalla morte. Le diverse intensità delle esperienze sono tutte riconducibili a una sola esperienza diversa, si tratta di distinzioni puramente intuitive che non corrispondono con quanto accade nella coscienza immediata, dove la nettezza apparente della separazione rende ciechi a tutto quello che connette e mantiene uniti. L’intuizione della qualità è un dono e, allo stesso tempo, un gioco. Non ci sono possessi che possono essere goduti e conservati, tutto è là, visto e goduto e perduto nello stesso fiato. È proprio nell’intuizione perduta che maturo la nuova sapienza della rammemorazione. Ogni movimento nella desolazione è così intenso nella qualità da risultare sbiadito di fronte ai dettagli tagliati con l’accetta che fanno il mio costume nel mondo modificativo. Questa maggiore intensità mi fa meno visibile. Non ho un volto della verità a cui riferirmi, che mi resta impresso grazie alla rammemorazione, ma un sentimento profondo che come tale mi commuove ma mi impedisce di conoscere possibili specificazioni. Più veloce di una freccia la qualità passa e non resta fisso nella mia esperienza che il suo soffio, il quale corrisponde a una ridondanza lieve dell’antica voce dell’uno. I miei indugi non fanno che attestare l’intensità, le mie residue pause l’azzerano. Torpido e codardo colgo ancora qualche tratto, mentre tutto sfuma sempre più velocemente, fino a svanire completamente di fronte alla mia domanda, tutto qui?

Nella ricerca della qualità non possiamo partire dall’ipotesi di oggettività, nemmeno dal suo semplice desiderio. Possiamo limare per giorni e giorni lo stesso oggetto senza riuscire veramente a penetrarlo. Eccolo che si esibisce nudo davanti a noi e ci guarda con un occhio freddo, opaco, metallico, legnoso, spalancato con profonda ironia e sufficienza. Questa improvvisa e perdurante lontananza ci mette a disagio, come se i nostri sforzi risultassero improvvisamente spropositati, ingiusti. Come se ci fossimo illusi che la totalità delle relazioni possibili passi proprio attraverso quell’oggetto, ma solo a condizione di strapparlo dalla sua staticità. Ma è mai possibile l’esistenza di un oggetto statico? Sappiamo perfettamente che non è possibile. Solo che proviamo imbarazzo proprio ad ammettere il suo movimento, la sua capacità di risposta alle nostre pretese, alle nostre illusioni. Solo nel momento che lo abbandoniamo possiamo cogliere, per un attimo, la sua riposta natura di cosa e la sua disponibilità al dispiegamento, come se si trattasse di una caduta della tensione muscolare, un sospiro di sollievo. L’uno è la fine di ogni oltrepassamento, non posso andare oltre, ma non posso nemmeno raggiungerlo, mi interrogo su di lui e mi ritrovo vuoto. Ciò che sono è sempre disparato, anche nel tentativo totale di integrarlo nella qualità. L’azione è mia, ma io sono estraneo a essa. Posso rispondermi in modo sconcertante, aderire alla presunzione di avere la tensione nelle mie mani, ma alla lunga devo ammettere la mia cittadinanza di origine.

La proiezione minima, in cui si potrebbe risolvere l’oggettività, porta con sé tutti i problemi dell’identificazione progressiva, della possibile separatezza del senso all’interno di un flusso, discrezione e continuità, un miscuglio che forzatamente vogliamo, e qualche altra volta dobbiamo, ricondurre al gesto uniforme e certo codificato da un bando provinciale. Esistono programmi ambiziosi che della propria minimalità si fanno una giustificazione per risolvere la totalità in un oggetto singolo, isolato, immediato, coglibile, descrivibile. Ma restano ipotesi da tabella, spesso orgogliose, pur nel nascondimento di una finta umiltà. Ogni frammento del programma può diventare oggettivo solo a condizione di accettare la forza di una scelta, limitante, strettamente operazionista, quindi circoscrivibile e utilizzabile, una compilazione decente. Ma allora l’oggettività viene a trovarsi defraudata di tutto il suo presunto carisma probante. Tutto sta ad accontentarsi, sono d’accordo, ma bisogna dire le cose per come sono, non per come vorremmo che fossero. C’è qualcosa di indomito in me che si rinfocola continuamente di fronte a ogni abbattimento, a ogni repressione che mi colpisce. Non colgo bene se dietro tutto ciò c’è un meccanismo genetico, so che sono fatto così, dico fatto nel senso specifico del termine perché appartiene al fare questa inarrestabile spinta a lottare. È qui che ritrovare la forza è sempre possibile, se non si accettano le illusioni e le apparenze che vi sono connaturate. In altre parole questo significa dire di sì, anche nella condizione più miserabile, qual è quella in cui mi trovo mentre scrivo queste righe. Dire sì è un potenziamento della vita proprio a partire da dove la vita è latitante, nel mondo che ho creato e che sono costretto a creare di nuovo. Dire di sì è un ricorso continuo all’eccesso, alla selvaggia messa in discussione di tutte le regole. Ma il dire di sì matura solo nel coinvolgimento, cioè è un cogliere e un farsi cogliere dalla diversità, dalla desolazione della cosa. Questo movimento non ammette riposo, sarei un buffone insipido se pensassi di riposare. Il mondo insegna il non attaccamento, la distanza, il non lasciarsi prendere neanche in dono. Al contrario, il coinvolgimento rovescia tutta questa cautela e mi prende alla gola.

Se riflettiamo bene su questo problema, scopriamo che la presunta, anzi imposta, oggettività, quasi ci sovrasta, imponendoci valutazioni e comportamenti che altrimenti non accetteremmo come modelli. È la nostra debolezza davanti al senso comune che ci fa accettare l’imposizione dell’evidenza oggettiva, della forza di convincimento di questo concetto. L’indagine critica negativa, una volta avviata ci mette davanti a scoperte incredibili. Questa critica comporta un periodo iniziale di fatica e spesso di scoraggiamento. È il periodo oscuro della persistenza degli idoli quando gli elementi della radicale incertezza della realtà non sono ancora in grado di operare un livello diverso di convincimento. Poi, procedendo oltre, le scoperte si susseguono, una dopo l’altra. Non solo i parametri hanno effetti contrastanti e reciprocamente controproducenti, ma anche l’indagine su ogni singolo parametro finisce con la mesta ammissione che ci si deve fermare a un grado più o meno alto di approssimazione, mai sufficiente per parlare di oggettività. Il fare produce possesso e dolore, due aspetti della medesima esperienza, non posso possedere se non gioendo di quello che possiedo, ma poi mi accorgo che questo possesso è parziale, è il possesso di un oggetto, perché possa essere mio devo metterci una pezza per nascondere la ferita che mi ha procurato la sua irrimediabile parzialità. A possedermi è la qualità che chiude il cerchio e mi svela la gioia dietro il dolore, la forza dietro la ferita sanguinante. È il momento del sole nero, dell’abbandono, del sentirmi portare via, rapire da una condizione in cui non sono più io ad avere fra le mani il controllo. Tutto ora è diverso, sento il vento del deserto fischiare nelle orecchie e mi sento libero di nessuna libertà, non sono più il saggio che si è liberato ma ha conservato da qualche parte le sue catene, sono libero. Certo, è libertà di una punta di spillo, ma è coscienza diversa, sull’orlo della sconfitta, per questo è avvicinamento alla vera e propria perdita, all’uno che è.

Comunque si ponga il problema, il risultato è sempre deludente. Dal punto di vista della logica dell’a poco a poco, l’oggettività è un mito lontano considerato raggiungibile per via di successive approssimazioni, ma ogni operazionista, anche il più incallito, sa che queste approssimazioni sono praticamente infinite e che la determinazione è un fatto di comodo, cioè un’intesa intorno a certe percentuali di misurazione, un modello. Dal punto di vista della logica del tutto e subito, l’oggettività si smarrisce in una rete infinita di relazioni che tendono a cogliere il flusso e l’orientamento nel modo sempre più ampio, per cui c’è un tentativo di coinvolgere quanto più senso è possibile in questa oggettivazione, senza potere essere certi di arrivare a un risultato concreto. Passi avanti, in questa direzione, vengono fatti con l’elaborazione dei residui di qualità e, com’è ovvio, con la ricerca della vita che riporta un completamento qualitativo nell’ambito dell’orientamento verso la quantità. Ma anche e quando, cosa di per sé difficile e contraddittoria, questa seconda aspirazione raggiunga il suo scopo, non siamo mai davanti a un risultato e tanto meno a un risultato effettivo. L’esperienza diversa non la si costruisce pezzo per pezzo, la si trova, come si trova un diamante, lavorando duramente. Affiora mentre continuo a pensarla senza vederla e nel desiderio si rafforza altrove, riempiendo l’assenza che mai si cancella e passando oltre, scena simbolo di un morire che non muore. La morte abita altrove e per questo tipo di viaggiatore esattamente all’altro capo del mondo. Sono un uomo primigenio, adesso, selvaggio e assoluto, sono la forza che fa crescere l’albero e il filo d’erba, gonfiarsi l’uragano e la tempesta, le onde del mare e i fiumi con la loro piena foriera di disastri. In queste condizioni non ascolto più il ronzio cosmico che prima mi assordava, sono libero perché la mia forza è tutta qui con me. Non c’è altrove nulla che insista a specchiare la mia immagine.

Nella proiezione della differenza non accade nulla di meglio. Non c’è mai un momento in cui la diversità si possa porre in modo netto e oggettivo nei confronti della coscienza, la relazione è sempre complessa e comprende vaste persistenze di orientamenti antitetici. Anche nel salto e nella pienezza del dispiegamento non c’è una sicurezza certa. Il territorio della qualità può espellerci in qualsiasi momento, penalizzarci, attirarci oltre il punto di non ritorno, in un delirio tutt’altro che oggettivo. Possiamo avere intuizioni e percezioni acutissime, sensazioni e pensieri molto penetranti, ma non possiamo concludere per la loro oggettività, nemmeno quando sono là davanti a noi e ci servono da sollecitazione per continuare. La solitudine è una forza propulsiva, mi sospinge su di una pietraia spoglia, arsa, verso un silenzio austero, ostile. Eppure è qui che posso ascoltare la voce dell’uno, una nuova vitalità che mi porta via. Qui scarico come da un vecchio sacco la mia paura antica e smetto di tremare. La solitudine è compagna rissosa, ma non priva di generosità, ha le sue formule magiche e le sue occasioni disperate. Non mi accetta subito e non mi respinge, attende il mio moto interiore di coinvolgimento. Sente a naso la paura e se la sente si ritrae e invita a tornare indietro, a interessarsi d’altro. Il coraggio è anche quell’urlo nero che emerge dal fondo del cuore quando la paura sta avendo quasi il sopravvento. Poi emerge la qualità, mi viene incontro con i colori del temporale, mi annienta con la sua intensità, non c’è niente in essa che ricordi i guanciali alti della mia infanzia, la muraglia di protezione dietro cui mi nascondevo, le lenti spesse con cui osservavo e distinguevo. Sono un disperato in fuga che avanza verso il colore della morte, ed è da tutto questo pallido riflesso che viene fuori l’azione, il movimento libero del mio corpo nel vento.

L’unica oggettività possibile è la totalità del reale, ma sarebbe pleonastico ridurre questa totalità a una simile definizione, che non posso non ritenere restrittiva. Nel cogliere la totalità del reale noi viviamo una forma di esplosione oggettiva all’interno stesso della conoscenza, una illuminazione che non può definirsi come somma della nostra conoscenza precedente a livello di parametri d’intervento o di ricerca ricognitiva, ecc. C’è una qualità sopraggiunta che possiamo considerare come un segnale di pulsione vitale che ci proviene dal movimento complessivo delle relazioni. Spesso viviamo questo arrivo, come dono suppletivo ai nostri sforzi, come elemento nuovo dotato di tale intensità da vivificare tutto quello che prima si è fatto, per prima cosa lo stesso coinvolgimento. Questo dono potrebbe essere una traccia di oggettività nell’orientamento verso la pulsione vitale. In senso inverso l’arrivo di questo segnale si affievolisce, fino a smarrirsi in pieno nel senso. Il luogo dove approdo, nella desolazione, non è un asilo che mi salva da mari in tempesta. È una landa a cui provengo da certezze e garanzie, infondate, va bene, ma della cui infondatezza avrò cognizione soltanto nella solitudine. Non sono un fuggiasco o un ammutinato, meno ancora un ribelle, sono un sovvertitore della sicurezza, un vero e proprio rivoluzionario. Non è necessario che io abbia cognizione e coscienza di essere tale, lo sono a causa della spinta che l’intuizione di un mondo diverso mi fornisce sollecitandomi alla purezza e alla libertà. Non porto con me parte del bagaglio, quindi non sono né un liberatore né un ideologo, sono io in carne e ossa, sto per diventare, nell’impresa paradossale in cui abbandono la secolarizzazione spietata, quello che sono, non quello che appaio. Con il mio coinvolgimento alzo alte grida di condanna contro la razionalità e il sogno illusorio e incantevole di un orribile mondo che si avvia inesorabile verso il proprio perfetto completamento. L’orrore di cui è pervaso questo gesto è generato dalla frenesia dell’inquietudine, ma si materializza nello stritolamento continuo e inarrestabile di quello che la vita avrebbe potuto darmi e non ho voluto avere, per paura e per brama di possesso. La volgarità, la prosaicità, l’utilità che mi hanno soffocato, le lascio alle spalle. Vedo, nell’intuizione di una solitudine oggettiva nella cosa, morire il vecchio mondo che ho creato e rinascere una speranza. So che non riuscirò a sbarazzarmi del mio fantasma, ma il mio è un tentativo totale, quindi non ammette incertezze. Sono avanti, scolta di un processo che non potrà attuarsi se non per punti infinitesimali, negatori di quella fittizia continuità che continua ad albeggiare nella storia indicando un meriggio di funesti presagi. Anche nel coinvolgimento non posso negare l’esistenza di una sorta di irreparabilità. Potrebbe avere una forza ironica se ne avessi io per primo la capacità, ma spesso cerca di antropomorfizzare la qualità ed è alla radice della domanda fondamentale, tutto qui? Fare naufragio nella terra di nessuno è il destino possibile che costruisco con le mie mani, ritrovandomelo davanti nel mondo mi sbalordisco e alzo le mani al cielo, mentre il fondamento reale, l’azione, continua a restare inesplicabile. In questo viaggio circolare non si tocca mai il fondo. Non c’è un punto di partenza e uno di arrivo. Sono coordinate false che assegnano ruoli e preminenze che fanno presto a cancellarsi.

Non esiste una certezza sulla possibilità del distacco conoscitivo. In un modo sia pure confuso, siamo davanti a un complesso reticolo relazionale che coinvolge sia la coscienza, con i suoi progetti, sia la diversità con le sue aperture, sia i due orientamenti antitetici, quello verso l’esistenza e quello verso la vita. Il lavoro interpretativo, meglio ancora di quello modificativo, avverte i limiti e i bisogni di questa ricerca dell’oggettività, ricerca di cui sembra che la coscienza immediata non possa fare a meno. Questa infatti si muove in una prospettiva quantitativa, accumulativa, ordinatrice, regolativa, ma cerca di comprendere, in un processo in fondo chiuso e circoscritto, un’aspirazione alla qualità, all’intensità, alla sconvolgente intuizione. Il profumo di mirra si confonde con quello dei fiori di loto. Questa aspirazione è causa di ulteriori difficoltà nella determinazione, in quanto precipita all’interno di relazioni che pur presentandosi come oggetti, non sono oggetti, e nemmeno cose, ma elementi in movimento di un complesso relazionale. Il rifiuto del rischio è la base della conservazione, ma può assumere aspetti multiformi che si estendono dalla rinuncia della felicità alla paura di soffrire. Può diventare una forma ossessiva di camuffamento rancorosa che vede la vita come un pugno nella pancia. Avvolto nella massima dei piedi per terra, questo rifiuto è una zavorra in movimento che prima o poi sfonderà la stiva. Lo sbocco folle della qualità è una soluzione? Forse sì. Ma come tutte le strade, per intraprenderle bisogna prima vederle. Ai ciechi, in un mondo di ciechi, occorrono indicazioni particolari, fulminanti, le parole sono morte.

È quindi nell’interpretazione critica che si possono cogliere meglio i tentativi, spesso veramente appassionanti, di questa riduzione all’oggettività. Il rito che viene svolto appartiene totalmente alla descrizione analitico-causale, ed è un esempio delle tecniche di mascheramento. In fondo, a essere ridotta al livello di una possibile oggettivazione è proprio la coscienza incerta, più capace di permanere in condizioni apparentemente vicine all’oggetto, di gestire una realtà mascherata, o mimata, se si preferisce. Non si costruiscono quindi gli oggetti, tanto meno nella fase critico-ricognitiva, che come sappiamo non modifica, ma si oggettivano processi e proiezioni della coscienza che sono capaci di risultare molto più oggetti dell’oggetto stesso. A fare questo sono ovviamente le cautele e le riparazioni continue che la coscienza inquieta fornisce alla propria proiezione, cosa che invece fa esattamente in modo contrario nel lavorare alla modifica o alla produzione dell’oggetto in quanto tale.

L’amore per la splendida donna dalla bellezza severa, oscura, prende il giovane professore di chimica travolgendolo in semplici strette di mano, in appassionati sguardi, in brevi abbracci. In lunghe lettere questo amore dilaga fino a diventare argomento di discussione col restauratore di mobili, marito e inflessibile ricercatore di oggettività. Dal momento della separazione, con la moglie che raggiunge l’amato e il marito che si tiene i due figli, comincia il lungo lavoro di identificazione, separazione e cristallizzazione dell’oggetto smarrito. Si potrebbe parlare di vera e propria restaurazione. Il quadro ordinato al pittore, un quadro di famiglia, austero e circospetto, con la moglie riprodotta attraverso vecchie fotografie, il dono oltre al pagamento pattuito, la geniale intuizione di Georges Perec di questa arborescenza fantastica ricavata riempendo con un miscuglio semi liquido di piombo, allume e fibre di amianto, il percorso disegnato da un tarlo all’interno di un antico piede di tavolo, e poi distruggendo il legno e salvando, finalmente oggettivato, l’elemento necessario a fissare per sempre il ricordo della moglie. In questa ricostruzione è l’impressionante serietà dell’ebanista che resta fissa nell’attenzione del lettore, la sua inflessibilità, il suo metodo, la sua forza nel resistere davanti alla diversità. E questo resistere oggettiva tutta la sua vita, anche quella dei figli e perfino quella della moglie e dell’amante della moglie. Tutto ciò ipotizzato semplicemente in quel segreto, ma oggettivo, percorso sotterraneo del tarlo. Il largo uso di pretese e inattendibili oggettività, oltre a tutte le deformazioni che vengono fatte in merito, rende forse poco coglibile il senso profondo di questa vicenda che si riflette in mille vicende simili, piccole vicende di tutti i giorni, a cui non abbiamo né la capacità, né la forza di fare attenzione. Eppure, in queste vicende c’è il germe di quel bisogno di oggettività e di ordine che la coscienza tradita, dall’interno del suo cerchio ormai violato, dall’apertura che è stata operata con violenza nel suo corpo, davanti al comportamento differente, cerca di imporre senza interruzione. Spesso in questi atteggiamenti, guardando bene, c’è qualcosa di estremamente violento, di più del vuoto in quanto tale, una violenza che è al di là dell’orgoglio e dell’odio, una violenza e un’aggressività che diventano paura e panico. L’oltrepassamento non è esperienza per tutti, questo penso sia ormai evidente. Ma che cosa caratterizza questa condizione? C’è un sigillo particolare sulla fronte di quest’uomo che annuncia i cavalieri portatori di morte e distruzione? No, non l’ho mai visto. A volte spunta un segno, perché la vecchia disabitudine alla violenza mi fa pensare che sia proprio il distruttore a essere contrassegnato, ma non è così. La distruzione di cui parlo non riguarda il fare ma la coscienza, e le sue conseguenze sul fare sono sempre effetto di questa trasformazione della coscienza nell’azione. A volte è il pacifico che mi suggerisce un segno, ma non mi sono mai convinto fino in fondo. Di certo il pacifico, capace di arrivare al limite della desolazione, è in grado di oltrepassare il fare, ma è ancora condizione e modulo più raro del violento. Qui è questione di coraggio, coraggio vero, non di bamboleggiamenti del carattere o del modo di essere. Si tratta di coraggio che punta a distinguersi senza accampare diritti. Il coraggio dell’oltre, di avanzare dove gli altri hanno paura delle pustole e delle proscrizioni, dove non c’è più neanche la paura perché coloro che normalmente la incutono sono scappati via, oltre, dove non c’è più la parola, solo il balbettio.

Gli effetti della pulsione vitale, se di effetti possiamo parlare, una volta immessi nell’orientamento verso la qualità, si traducono in apporti qualitativi nuovi, profondamente diversi dai residui precedenti, e quindi filtrano attraverso la coscienza una urgenza di trasformazione, un nuovo impulso verso la diversità. Ciò comporta una crescita nella capacità di agire, intesa in senso stretto, ma anche una riduzione inevitabile della capacità di costruire oggettivazioni. Queste diventano sempre più rare e sempre più difficili. Chi agisce si trova a disagio di fronte al desiderio, sempre risorgente nella coscienza, di produrre l’oggettività. Il meccanismo, per come è visibile nel processo di ricognizione critica, diventa quasi più complicato, più difficile. Eppure la tecnica dovrebbe essere migliorata. Invece la stessa capacità di mascheramento è ridotta, come se fosse venuta meno, o si fosse affievolita, l’aspirazione al tranello, il sottile gioco della doppia faccia, la mimica dell’imbroglio intelligente, dell’ironia che penetra e ferisce. In questa fase si potrebbe sentire il bisogno di riscoprire validità impensate riguardo il metodo oggettivante della logica dell’a poco a poco. Quest’ultima illusione potrebbe diventare una sorta di promessa per soddisfare il bisogno della coscienza e sostituire uno stanco processo interpretativo. La diversità qualitativa è talmente estranea e controversa per l’esperienza immediata che sono portato a incorporarla prima possibile nel fare. Essa mi allarma e mi interroga sulla sua verosimiglianza con l’apparire a cui il mondo mi ha abituato. Non appartenendomi come possesso, la desolazione mi spaura e mi sbalordisce, non posso pensarmi nell’azione senza un moto repulsivo di salvaguardia che mi riporta indietro, nella salvezza o in ciò che considero tale. Nella rammemorazione riappare così una logica rassicurante, una intenzione più o meno nascosta di rimettere a posto ciò che è stato sconvolto, un nascondere ciò che mi pare si sia deteriorato. L’ascolto e il parlare, prima di tutto. Nell’azione tacevo e il mondo era scomparso, mentre la qualità non aveva parole da fornire alla mia intraprendente avanzata. Escluso o espulso, non so bene come, ma di certo a causa della mia fame di completezza e dalla mia inveterata abitudine al possesso, sento la nostalgia di quella solitudine, ma anche il senso glaciale di lontananza e di estraneità. Un tormento che però non ho vissuto come sacrificio da ridurre al minimo, ma come desiderio da estendere al massimo. Nel rammemorare ritrovo l’azione, assaporo nella nostalgia quel momento in cui il mio eccessivo desiderio danzava sulla punta di uno spillo, ma anche le mie presenti miserie, le mie domande senza risposta.

Finendo con l’accettare questa sollecitazione ci si sposta verso il senso, abbandonando man mano la zona della critica negativa. La logica fittizia finisce per sostituire l’amore diretto per le cose, anche l’amore diretto per l’illusione sfrangiata delle cose, che è sempre meglio di una illusione ordinatrice, se non altro perché ammette una possibilità di differenza, uno scarto. Il gioco senza fine della diversità comincia a mettere in dubbio le proprie regole, non sa più nemmeno quale sia la posta, diventa un incubo, un enigma insolubile. La lezione della quantità richiama a un altro genere di oggettività e penalizza l’idea stessa di una oggettivazione diversa, altrettanto irrisoria, se vogliamo, ma comunque diversa. Prima o poi dell’antica ansia, incapace di condurre fino in fondo, fino alla sua legittima aspirazione alla qualità, resta ben poco. Innaturali immagini disintegrate, sogni rabbrividenti, ricordi confusi, l’idea di un percorso che si cristallizza in concretezze spettrali, crepe, crolli, ammucchiarsi stanco di effetti ormai inutili, esercizio forse prestigioso, a volte considerato perfino scientifico, ma sostanzialmente grottesco. La diversità non è l’altra faccia della medaglia, è proprio l’inaudito, ciò di cui ho un solo sospetto, quello lasciatomi dall’assenza, un vuoto del fare che niente potrà riempire. La condizione emozionale alla quale accedo con il coinvolgimento, una esistenza di qualità che non mi dice nulla di tutto quello che sono stato abituato ad ascoltare. Non posso affermare che questa nuova esperienza desolata sia maggiormente lucida o proponga prospettive e speranze che altrove non potevo neanche immaginare, neppure che le mie modeste origini fattive mi rendano inadatto a quello che sto per affrontare. La critica negativa poteva non accettarmi o io non essere in grado di svilupparla, perché è sempre da considerarsi come una estremizzazione conoscitiva, ma la diversità no, è l’assolutamente altro che quando viene rammemorato appare più follia che convincimento. L’agire non è che il culmine del ridicolo, il coraggioso che si mette totalmente a rischio solo se spiega il suo gesto in termini di fare è comprensibile e perfino ammirevole, nell’agire resta un folle che non vuole avvertire il mondo del pericolo che corre, per lui il mondo non esiste più.

La logica dell’a poco a poco, in quanto logica della settorializzazione, cristallizza i diversi momenti e copre con un velo ideologico la realtà complessiva delle relazioni, indirizzando ora verso un aspetto e ora verso un altro, ma evitando accuratamente di aprire la strada alla comprensione totale del movimento. Questa logica cerca, con tutte le cautele possibili, di sviluppare le condizioni perché la conoscenza si svolga in modo oggettivamente neutro, cioè in modo privo di inquinamenti soggettivi. Le procedure per sedare la gazzarra sono veramente ridicole. I cosiddetti preconcetti vengono denunciati come elementi di disturbo, come se fosse possibile individuare e isolare i preconcetti dai giudizi che si basano sull’uso di altri preconcetti. Lo stesso linguaggio, la scelta di determinate parole, i processi ragionativi, il vivere bon et propre, sono particolari preconcetti con cui si cerca di impedire l’uso di altri preconcetti, magari più squalificati nella circolazione delle idee dominanti. Questa situazione non è caratteristica soltanto dei problemi cosiddetti sociali, ma si estende con pari effetto ai problemi della eticità, ai problemi storici, ai problemi artistici e a ogni altra capacità conoscitiva della coscienza nel momento che si interseca con la realtà nel suo insieme. L’azione, a furia di mettere la ragione da parte, non l’accetta più come metro di valutazione. Posso fare dei tentativi, ma questi vengono sistematicamente frustrati. La qualità non mette in conto discutere né vuole condividere quello che è con qualcosa che appartiene all’apparenza. Alla lunga le mie proposte, se persistono, appaiono insensate. Io sono la sorgente da cui sgorga la diversità, dal mio petto messo a rischio vengono fuori le sensazioni che intuitivamente mi indirizzano verso la qualità, non ho più punti iniziali o mete finali, non ci sono più zone illuminate e zone oscure. Tutto è adesso concretizzato nella solidità della desolazione, non c’è niente di volubile o di cangiante, niente è impaziente di sfoggiare quello che non gli appartiene, non ci sono metafore ma tutto è diretto e statico come il silenzio. L’insolito dilata la sua forza e converge su di me, mi assedia e io rispondo producendo non più il mondo e le sue corrispondenze, ma l’incredibile e meravigliosa azione che non può essere spiegata e che la mente non può concepire, una produzione di diversa fattura che non è più produzione ma compresenza nell’altro. Tutto si condensa sulla punta di uno spillo, nell’eternità di uno sguardo.

La disarmante ammissione di Moritz Schlick che il lavoro della filosofia non può consistere nell’asserire delle proposizioni, in quanto la determinazione del senso di queste non può farsi che ricorrendo ad altre proposizioni e così via, conclude per una radicale differenza tra parole e azioni. Difatti, chiarendo il significato di un concetto mediante altre proposizioni esplicative o definizioni, cioè tramite altre parole, bisogna poi chiarire queste ultime e così fino ad arrivare alla semplice esibizione concreta di ciò di cui si sta parlando. Dietro ogni problema della logica dell’a poco a poco, ci sta la relativa determinabilità dell’oggetto o, e qui ci sarebbe molto da dire, dell’azione. Del lungo discorso che potrei aprire ricavo solo la seguente notazione, che l’azione è faccenda molto più complessa di quanto può contenere la rigidità schematica della logica del quantitativo, per cui a questa parola si deve sempre, nell’ambito del fare, sostituire un sinonimo apparente, sostanzialmente invece riduttivo, come fatto, operazione, dato, ecc.

Il processo analitico si presenta pertanto come un andare indietro, verso le cose più semplici, con la certezza tipicamente analitica che le cose più semplici siano anche le più facilmente comprensibili. Tutte le chiacchiere correnti sulla necessità di chiarezza si basano proprio su questo luogo comune della logica dell’a poco a poco. Nella realtà non è detto per niente che le cose elementari siano anche le più semplici. Ad esempio, non è detto che i fatti siano proprio gli elementi atomistici dell’indagine conoscitiva, elementi che non hanno bisogno di spiegazione. Potrebbe essere invece vero che sono gli elementi che non possono essere spiegati in modo analitico, il punto di apertura verso una spiegazione che sia capace di diventare diversa. Il fare non scompare con la cancellazione del mondo che realizzo per conto mio nell’agire. Lo ritrovo non appena le condizioni modificative sono ripristinate e lo ritrovo con l’azione ricondotta a semplice fatto che sono obbligato a rammemorare nei suoi contenuti qualitativi se non voglio che si sperda, fatto fra i fatti, e non diversità della coscienza convivente, adesso, a fianco dell’immediatezza. Nuovi fatti nasceranno di cui cercherò, senza successo, di rintracciare le connessioni con quell’azione, puntando sull’ottusità della causa e dell’effetto e non vedendo la luna, limitandosi i miei occhi a guardare il dito, e la luna è la possibilità nuova che mi viene incontro dal destino, dal mio destino, ora diverso da quello di prima. Non piccole speranze cresciute all’ombra e al calore della sicurezza casalinga, ma vestigia e ruderi caotici dell’atroce esperienza del deserto, riflessi del coinvolgimento e dell’eccesso senza limiti e senza richieste di perdono.

Bisogna certo aggiungere che questo processo, dal più complesso al più semplice, ha una sua utilità pratica, consente di orientarsi meglio in alcuni problemi specifici, di mettere ordine e di fare in modo che si possano anche avere previsioni approssimative valide ricorrendo alla costruzione di modelli molto semplici di ragionamento. Se poi si ricorre all’uso del simbolismo matematico, in alcuni casi e con le debite limitazioni per evitare un inutile e fastidioso tecnicismo, si hanno anche risultati di maggiore chiarezza nei processi accumulativi. Occorre però confermare che non si raggiunge con ciò né una comprensione completa della realtà, né la verità né l’obiettiva conoscenza. In molti casi la ricerca ansiosa della diversità produce sotterfugi, mi trovo a evadere da quella che sembrerebbe la strada maestra, preferisco tattiche meno impegnative ma, alla fine, l’alternativa è tra la fuga e il coinvolgimento. Non ci sono vie di mezzo. Salto oltre la barriera del fare, e posso perdermi nell’incomprensibile infinito, allora è la follia della intensità che mi brucia completamente e non sono più in grado di porre domande. Resto un vegetale vagante in una realtà senza tempo. Oltre a questa eventualità senza ritorno, non c’è la scomparsa nell’assenza ma il ritrovamento di un altro me stesso nell’oltrepassamento, un me stesso che è in grado di intuire, in sé, una coscienza diversa. Non arrivo così stabilmente all’oggetto del desiderio, non lo divento io stesso quell’oggetto, che sarebbe la forma estrema della perdita, la rinuncia alla possibilità di avere un destino mio, delineato dal mio agire, ma ci vado vicino, raggiungo livelli di intensità qualitativa inattingibili altrimenti. Nell’azione vedo, con tutti i limiti della mia capacità di coinvolgimento, dove potrei arrivare senza con ciò riuscirci, e mi approssimo improvvisamente, tutto e subito, al livello massimo di questa intensità, azzerando ogni paura e ogni cognizione del pericolo, ogni ostacolo temporale si condensa allora sulla punta di uno spillo.

Il ricorso a modelli logici schematici, come quello matematico, consente di snellire le procedure perché questi modelli, di per sé, non sono altro che canovacci ragionativi, con un contenuto ridotto al minimo. Il fatto che io abbia sempre considerato l’analisi, e in primo luogo l’analisi matematica, con un minimo di sufficienza, non mi ha mai impedito di apprezzarne i suoi lati positivi, ma senza da ciò derivare illusioni progressive, di conquiste capaci di arrivare, sia pure in via ipotetica, alla spiegazione di tutto. I teoremi matematici sono utili, e sono utili proprio perché sono vuoti, cioè sono l’esempio più facile a capirsi del funzionamento del meccanismo di catalogazione. L’uso appropriato dello strumento matematico non produrrà mai una trasformazione del meccanismo in qualcosa di diverso, in qualcosa di vero. Il meccanismo resta quello che è: un protocollo, tramite il quale ci assicuriamo il passaggio del significato quantitativo, uno dei tanti protocolli, certamente uno dei più efficaci. L’errore sarebbe quello di riportare la matematica a compiti che non le competono, dopo averla cacciata indietro nel suo reale ed esclusivo significato di struttura logica adeguata, più o meno, alle necessità dell’esistenza che ci ospita coattamente. E questo portarla avanti, errato e pericoloso, potrebbe consistere nel pensare che tramite suo si possa arrivare a conclusioni oggettivamente valide. La solitudine della desolazione, vista dal fare, è fenomeno di natura prettamente quantitativa. Nel coglierla mi soffermo su una considerazione tarda, in essa non c’è quello che sono abituato a vedere nel mondo, la qualità è infatti rarefazione estrema dell’oggetto. Ma la caratteristica della cosa non è il sottrarre l’oggetto alla mia apprensione, ciò era avvenuto di già nell’orientamento, quando mi si forniva una presenza meramente oggettuale dell’oggetto, cioè una sua apparenza. La cosa spoglia il mondo di tutto il superfluo e mi coglie nel coinvolgimento mettendomi di fronte all’essenziale qualità. Proprio la desolazione è la guida della qualità, fondata sull’estrema intensificazione. L’assenza dell’oggetto non può essere vista come l’altro lato dell’assenza che si conosceva nel mondo, l’assenza della qualità. I due vuoti sono differenti, asimmetrici tra loro e non si sostituiscono reciprocamente. La desolazione mi guarda attraverso l’occhio dell’uno e mi penetra, l’assenza della qualità è ora presenza che sconvolge e mi mette a disposizione della sconosciuta coscienza diversa.

Il lavoro conoscitivo non può essere isolato in pratiche o in comportamenti, cioè ridotto a registrazione degli stati della coscienza e della realtà a essa esterna. A parte che il concetto duplice di interno-esterno è relazionale, quindi incontra difficoltà di determinazione assoluta, restano altre difficoltà legate sia al progetto verso la qualità che a quello verso il meccanismo accumulativo. Comunque, essendo necessaria un’astrazione più o meno attendibile in merito al processo conoscitivo, bisogna fare in modo che almeno questa astrazione non sia troppo lontana dalla realtà, per cui il discorso si riduce a un problema di limiti e di cautele. Di regola ciò viene ipotizzato per fissare i meccanismi dell’approccio scientifico, le tecniche sperimentali, le teoriche che li sostengono. Altre volte, si avanzano ipotesi per le esercitazioni filosofiche o psicologiche, come pure per valutare condizioni specifiche in cui si trova un corpo: caldo, freddo, vicino, lontano, rotondo, verde, fluido, solido, ecc. Sono futile se ho di fronte il muro del possesso, mi arrendo alle pretese della concretezza che mi vorrebbe più aggressivo. Non ho però molto da proporre in contraccambio se non una imitazione di serietà. Spesso in qualche sorriso spunta un canino in più.

Questo riguarda il problema della conoscenza fino a un certo punto, più che altro si tratta di un problema di confine. Si cerca di stabilire in che modo alcuni preconcetti, tipo lo stato dei corpi, l’unità, lo spazio, la misura, l’intensità, ecc., siano ordinabili sulla base di criteri validi per un certo numero di persone sufficientemente in contatto tra loro per conoscere e applicare un codice comune di catalogazione.

Da un punto di vista più generale si ritorna necessariamente alla considerazione dei due orientamenti antitetici, quello verso la vita e quello verso l’esistenza del fare coatto. Il primo ha in prospettiva la qualità, il secondo il contenuto (la quantità), ma dietro queste prospettive ci sta, nel primo caso, la forma, nel secondo, la struttura. Ma, trattandosi di flussi, la presenza, poniamo, della struttura non si può dire estranea ai più remoti e desolati problemi di forma, come non si può affermare estranea la forma nei più stantii problemi di accumulazione. Lo studio di queste componenti, che si muovono in direzione di una maggiore intensità o di un aumento dell’affievolimento, richiederebbe un approfondimento di tipo specialistico, per il momento è importante tenere presente che non si può mai prescindere da una componente inversa alla realtà che si sta osservando, componente che gioca il suo ruolo, sia pure affievolito. Noi siamo attirati, e questo è evidente, dall’intensità, mentre ci adeguiamo con tristezza davanti all’affievolimento, ma con ciò non modifichiamo la realtà relazionale. Anche quando la vorremmo statica, per meglio poterla afferrare, catalogare, descrivere, questa si sta muovendo. La desolazione della cosa è il luogo dove incontro la qualità. È qui che mi dispongo a essere colto da questo incontro, dove prendo per mano me stesso per andare verso l’uno. Il più profondo sentimento della desolazione lo avverto nell’uno che è, nel suo essere quello che è nella sua impossibilità di essere diversamente. Ma questa impossibilità si rovescia nella possibilità del mondo che so creare e ricreare, che è, nei riguardi dell’uno, ciò che si contrappone alla diversità. Ecco che è proprio l’uno la diversità, proprio la sua assoluta immobilità è ciò che contraddistingue quell’assenza che nel mondo sembrava incolmabile. Più avanzo nella qualità e più seppellisco le diatribe del mondo. Adesso voglio soltanto affacciarmi dal davanzale sulla qualità.

La coscienza presenta quindi una caratteristica più accentuata in un senso o nell’altro, non è mai questo o quello in modo netto. Nel suo svilupparsi, fino all’estrema conclusione, la più disperata possibile, proietta con persistenza una luce qualitativa e una solidità quantitativa, in un miscuglio sempre differente a giammai eliminabile. Ecco perché esiste sempre il sospetto, o la speranza, di un capovolgimento di fronte, perché anche nel meccanismo più oleato della catalogazione arriva a penetrare la speranza di una luce qualitativa che la vita arriva a proiettare, come pure nella vicenda delirante dell’estremo punto di non ritorno nel territorio della qualità, arriva una traccia che la quantità continua a inviare, una traccia strutturata, un piccolo, esile filo di buon senso che si fa sempre più invisibile. La qualità non è una garanzia, non mette al riparo dell’apparente. Se il bravo fattore ha il dubbio su ciò che fa, cioè se si comincia a rendere conto di potere essere vittima di una illusione, sia pure parziale, non è che con questo è disposto a mettere a rischio la propria sicurezza. Continuerà a vivere col suo dubbio, alla fine sarà proprio questo tarlo a fortificarlo nel convincimento del fare e la sua ossessione si tramuterà in buonsenso. Non bisogna fare troppo assegnamento sulla critica negativa, anche se essa appare indispensabile fornitrice di strumenti. La qualità mette a rischio tutto questo e fa piazza pulita di ogni puzzolente mistero fattivo. Si alza davanti a me se smetto di dare la stura alle mie smancerie odiose e infatuate di se stesse, se azzero la barriera che mi separa dal puro e semplice coinvolgimento. Ciò significa diventare straniero al mondo che finora mi ha ospitato. Dalle mille ipotesi fattuali che hanno pesato su di me, devo allontanarmi in fretta, abituarmi a una verifica priva di sfondo, la desolazione non ha orizzonte, non ti prende per mano per suggerirti un ulteriore esercizio da saltimbanco, è là nella sua splendida sospensione, mentre la voce dell’uno si sente e non si sente, non avendo alcuna intenzione di comunicare qualcosa a qualcuno.

In questo modo, anche il concetto accumulativo di oggettività non è inerte. Reagisce in modo diverso a seconda del modo di muoversi della coscienza. Non si presenta mai come la struttura del concetto, una specie di involucro oggettivo, una specie di cosa del pensiero, o pensiero pensato. A parte il fatto, fuori discussione, che questo punto del desiderio, improvvisamente inseritosi all’interno di un flusso, può a sua volta essere il centro di un orientamento diverso, una qualità che viene colta da altri flussi operanti in campi diversi, situazione questa che deve essere sempre tenuta presente. A parte ciò, c’è da dire che la stessa, pretesa, oggettività è una relazione, quindi è movimento. Anche svolgendo il ruolo semplicemente modificativo, come accade nella catalogazione, ne viene fuori una incidenza qualitativa assolutamente non trascurabile.

La non inerzia dell’oggettività produce un flusso verso la coscienza, attraverso cui vengono orientate strutturazioni di diverso tipo, dalle deformazioni imposte dall’uomo alla natura, all’uso difforme che si viene sviluppando di uno strumento nelle diverse situazioni, quindi contenuti nuovi e sempre diversi, strutture non sempre ben definite, non sempre conosciute e spesso assolutamente incomprensibili. La logica dell’a poco a poco presuppone una inerzia che deve essere colta nel corso stesso dell’indagine conoscitiva. Il fatto che questa indagine contribuisca a modificare ogni possibile traccia di quell’inerzia, puramente teorica, non sposta l’ipotesi di partenza su cui si faceva tanto affidamento. Il fatto è che qui ci si affida a regole costruite altrove, a modelli ritenuti validi a seguito di osservazioni fortemente condizionate, realizzate in prospettive specifiche e circoscritte, ma fornite alla cosiddetta pubblica fede come se fossero al di sopra di ogni sospetto. L’aspirazione all’oltrepassamento, sia pure in condizioni di intensità differenti, è invece costante, e attraversa tutta la vita. Di regola si traduce in un lamento inattivo e in un imprecare sui mali del mondo. Ma può anche scatenare l’inconcepibile dell’azione. La realtà è capace di fare scoprire parti di sé, sempre alla potenza fattiva, che poi possono funzionare come molle propulsive per il superamento dell’assenza. Non sempre, trattandosi di sfumature, ma abbastanza spesso. La qualità non si svela mai completamente nella desolazione della cosa, ma mi coglie e nel cogliermi mi consente di cogliere il suo aspetto meno segreto, quello che a sua volta raccoglie e trasmette la remota voce dell’uno. Nel cogliere che la qualità fa di me non c’è solo un movimento penetrativo, ma compenetrativo. Io vengo accettato dalla qualità, violentemente accettato, ma anche io la colgo e l’accetto, mettendo da parte il mondo e le sue false sicurezze. Adesso sono completamente fuori, allo scoperto, e senza isole di riserva dove riparare in caso di pericolo. Non si tratta però di una decisione, la volontà non c’entra, anzi è espressamente aggirata e tratta in inganno. Lo sguardo della desolazione mi accoglie e mi spoglia di ogni residuo di paura. Non mi preoccupo più di ciò che sta dietro le mie spalle, sono completamente nell’azione, non ci sono conseguenze positive o negative, c’è solo lei a cui appartengo completamente.

In questo modo, non si fa altro che imporre all’ipotesi oggettivante, che come sappiamo, dentro certi limiti, può rispondere ad alcuni bisogni e perfino ad alcuni desideri, un movimento classificatorio da cui si ricavano generalizzazioni valide solo a rafforzare il meccanismo accumulativo, l’ordine generalizzato, non certo a fondare meglio le funzionalità circoscritte di cui si è detto prima. Così facendo, non si conosce l’oggettività prima, non la si conosce dopo, si afferma soltanto la sua presenza e la sua possibile individuazione, producendo un’immagine duplicata della realtà e un effetto di solidificazione del processo conoscitivo.

Penso che si dovrebbe mettere definitivamente da parte questa pretesa oggettiva, elaborando squarci di conoscenza capaci di partire dalla contemporanea considerazione del maggior numero di flussi relazionali, arrivando certamente a una ipotesi circoscritta e sempre piuttosto rudimentale, ma inserita in un campo sempre più ampio e differenziato, cioè capace di cogliere e vivificare il maggior numero di diversità. L’insieme di questi movimenti non è contraddittorio, nel senso di come se lo immagina la dialettica, quindi non viene disposto in fasi compensative all’interno di un processo più o meno lineare. La ricerca dell’insensato ha per molla l’eccesso e per fine l’inutilità. Ogni desiderio di qualità è assurdo e il mondo me lo ripete quotidianamente, mettendomi sotto il naso surrogati di ogni tipo che ottundono la mia lucidità e, alla fine, l’appannano. Per intraprendere vie nuove occorrono stimmate diverse, non è faccenda che si possa facilmente collettivizzare. L’ho tentato per anni, per decenni, ne venivano fuori incredibili antropomorfismi, non potendo accedere di persona al coinvolgimento, per paura o altro, molti si godevano il giulivo coinvolgimento dell’apparenza o quello più serio rammemorato da me o da altri. Ma essendo restio, personalmente, a godere del racconto altrui, alla fine, era del mio che facevo spaccio, con le dovute cautele, come per altro continuo a fare anche in queste pagine. Ma loro restavano avvinghiati allo scoglio del sensato, non riuscivo certo a staccarli con le chiacchiere, forse con una coltellata, ma per che farne? Per calpestare le loro ritrosie? Per il banale ghiribizzo di contraddirli e metterli a nudo? In fondo erano credenti che pregavano il loro dio, a modo loro, il dio del dubbio, forse, oppure nemmeno quello, semplici naufraghi della vita, paurosi di non trovare la salvezza a portata di mano.

La conoscenza è certamente un movimento, ed è un movimento complesso con diversi livelli relazionali, ma non è riconducibile a una ipotesi unitaria capace di riassumere tutti i flussi del fare in livelli ben graduati riunificabili in un tutto fornito di significatività oggettiva. La totalità di questi movimenti coesiste e si fonda sulla totalità di tutti i movimenti precedenti per costituire, a sua volta, la base per la totalità dei movimenti futuri. Tra questi momenti esistono relazioni precise, solo che possiamo individuare queste relazioni staccandoci dai rapporti che siamo soliti fissare tra vicinanza e intensità, o lontananza e affievolimento, almeno intendendo i concetti di vicinanza e lontananza in senso temporale e spaziale. Esistono relazioni che permangono con una intensità di flusso inalterata e una capacità imprevedibile di estendersi al di là del campo dentro cui hanno assunto precise caratteristiche di struttura. Di queste relazioni, a volte, risulta agevole tracciare la storia – ricorrendo al lume oscuro di Eraclito, fino ai brividi di Gregorio di Nazianzo e Agostino – senza per questo pensare tale traccia come oggettivamente capace di rispecchiare la relazione stessa. In effetti, la traccia ha soltanto la capacità di costituire nuove relazioni che non solo cercano di convogliarsi verso la relazione di maggiore intensità, ma hanno anche l’intenzione di operare modifiche sempre più profonde nella relazione stessa.

Che il ricorso ai processi di cristallizzazione dell’oggettività abbia un effetto riduttivo e semplificatorio sulla conoscenza, questo è un fatto che possiamo dire sufficientemente fondato. Dopo tutto, la logica, in qualsiasi modo la si volti, è uno strumento destinato ai bisogni della quotidianità, mentre al di fuori, o nelle situazioni di oltrepassamento, deve essere confrontata con problemi che finiscono per snaturarla o renderla inadatta alle necessità che si vanno presentando. Non voglio dire che questo sia un male, o una cosa da evitare. Come la malattia o il carcere, la riduzione e la semplificazione possono essere potenti molle capaci di fare scattare livelli di comprensione altrimenti inattingibili. Non ho esperienze dirette di malattie serie, tranne una lontana esperienza con il tifo, durante la quale lessi quasi per intero i tredici volumi della Storia della letteratura italiana nella vecchia edizione vallardiana. Sicuramente, se non fossi stato obbligato a letto per tanto tempo, intorno ai tredici anni, con tutte le cose che all’epoca pensavo di fare bene, non avrei mai trovato la forza per un impegno simile. Ma del carcere ho una più ampia esperienza e mi sono reso conto che la riduzione ha un’importanza pratica di grande momento. Dovremmo arrivare a ottenere la concentrazione necessaria anche non appoggiandoci ad accidenti come la malattia o il carcere, per non ricordare il vecchio strumento alfieriano della corda e della sedia, ma l’autodisciplina di cui oggi siamo mediamente capaci, e in questo non mi sento di escludermi né in positivo né in negativo, non lo consente.

Attraverso questo prisma, l’oggettività sfugge alla propria minacciosa fissità per diventare non tanto lo scopo di un processo di separazione, quanto lo strumento di un progetto di apertura. Un’apertura modesta, se vogliamo, ma capace di testimoniare un andamento in corso di realizzazione. Nella riduzione si realizza così una varietà forse più articolata di quanto accade nelle deduzioni ingegnose, ma troppo scolastiche, dell’astrazione logica generalizzata. In altri termini, so perfettamente che l’oggettività, comunque impostata, è sempre artificiale e riduttiva, ma in questa artificialità, una volta riconosciuta in quanto tale, si può individuare una vita in grado di sopportare con malagrazia catalogazioni nette e precise. La destinazione verso l’assolutamente altro non è frutto di una crisi della coscienza immediata. L’inquietudine non è capita dalla condizione modificativa, è vissuta e intuita come malattia connaturata al mondo da me fatto, non come un evento contraddittorio che può cessare di essere. Mi convinco che è assurdo percorrere questo calvario e avverto che posso andare oltre, ma non sono in grado di discettare sui motivi di questo convincimento. Non sono certo un profittatore di qualche particolare sensibilità, sono solo incapace di sostenere a lungo una dissimulazione e quindi preferisco mettermi in gioco, andare oltre il sorriso ipocrita della certezza, il contentino ottenuto senza fatica. Fanfaroni di ogni risma, redentori da baraccone, umili che non riuscivano a nascondere la superbia che li accecava, mi sono passati davanti, tutti convinti di essere più veloci di me, la lumaca coraggiosa che non arretrava davanti al pericolo. Li ho poi visti tornare indietro, ognuno lamentando i propri tormenti e i difetti delle proprie scelte e tutti considerandomi ancora la medesima lumaca di prima, troppo lenta per gli sprint di ritorno come lo era stata per quelli di andata. Non riuscendo a catalogare le loro intuizioni, mancando del coraggio necessario, tutti finivano per diventare fantasmi ambigui, intenti a guazzare nella mota caritatevole delle umiliazioni, pure e semplici fantasie prive di realtà. Alla fine restavano stupefatti di fronte ai propri conflitti interiori, e questo aspetto del loro andirivieni mi è sempre parso comico, una occasione per risollevare il mio spirito triste. Questo spettacolo meriterebbe un palcoscenico.

Nei vasti confini della ricognizione critica le considerazioni più o meno esatte, come quella del rifiuto dell’oggettività, si ripropongono come facenti parte del territorio in cui si sviluppa l’interpretazione, con tutte le sue tecniche di nascondimento. Improvvisamente l’occhio critico diventa sospettoso e attento, non si limita più alla pura e semplice letteralità, diventa desideroso quasi di restringere ulteriormente l’orizzonte del flusso, di rinchiudersi ancora di più di quanto non possa fare il carcere o la malattia. L’esasperazione del rifiuto dell’oggettività apre spiragli nuovi, denudando anche la circoscrizione dello strumento, il suo affacciarsi sulla questione dell’impiego, della funzionalità. Si rivela sotto sempre nuove prospettive, il progetto provocatorio della diversità. Dal cadavere mummificato dello strumento oggettivo, si apre una differenza, un ulteriore e imprevisto scarto. È proprio in carcere che ho capito bene, dopo molto tempo, che lo schema non funziona mai, né da questa né da quella parte. Non funziona nemmeno come parapetto per evitare le cadute. Non c’è un confine netto tra colpa e innocenza, tra bontà e ferocia. Tutte le volte dobbiamo ricostruire metodo di misura e oggetto da misurare. Niente resta fermo al suo posto, nemmeno noi stessi. Perché mai dovrebbe restare ferma l’obiettività? Combattente per natura non mi dichiaro vinto. Spesso mi trovo davanti a una sconfitta, ma sono io che l’ho costruita nel tempo, con ottusa pertinacia. Allo stesso modo avrei potuto costruire la vittoria? Non lo so, ho vinto spesso, superando stupidi imbecilli che si credevano quello che non erano, ma la tecnica era diversa e il risultato sempre privo di gusto. La vittoria ha un cattivo sapore.

Siamo davanti a quelle che definiamo relazioni di apparenza, complessi movimenti che si caratterizzano per un esiguo, per quanto non trascurabile, territorio della forma. Scavando appena dietro questa apparenza, viene fuori un esaurirsi affrettato della struttura, un’incapacità di prolungare l’effetto produttivo che in un primo momento era stato sollecitato. Certo, ci si può coinvolgere anche in queste relazioni di apparenza, ma con la buona volontà non si creano le montagne, al massimo le si immaginano. Il riflesso di questa apparenza è anche interno alla coscienza che lo rielabora e lo riflette nella serie infinita delle sue inquietudini. Così l’oggettività svolge la sua funzione non solo nell’orientamento classificatorio, ma anche in quello diretto alla qualità, operando qui come stimolo della diversità. L’unico ostacolo reale è, in fondo, la capacità di riconoscimento dei limiti dell’apparenza. La coscienza ha una sua particolare ritrosia di fronte a quello che pensa sia l’oggetto, cioè davanti alla proiezione oggettivante dell’accumulazione, essa cerca in tutti i modi di evitare gli innesti dell’orientamento inverso, le qualificanti spinte della vita, e ciò allo scopo di evitare i perturbamenti che questa sollecitazione determina nel meccanismo di controllo.

Così identifichiamo l’oggettività nei termini di una tenacità a isolare un’apparenza. Metodo e scopo di superare una barriera che non esiste, che è essa stessa apparenza, pur assolvendo al compito di tutti i confini, di essere stimolo a qualcosa di diverso. Proiettiamo l’oggetto fuori di noi, in un mondo di oggetti, proprio perché possiamo anche noi essere proiettati da qualcun altro in quanto oggetti. La paura che la coscienza ha di perdersi in quanto soggetto è tipica dei residui religiosi che alimentano la condanna di quell’apparenza che è l’oggetto, riducendola a elemento tipico degli strati più bassi della gradazione ipotetica presieduta dall’uomo come principe del creato. Chi agisce è avverso a chiedere, la sua balbuzie glielo impedisce. Essendo escluso dai raffinati meccanismi del convincimento si sentirebbe improvvisamente impoverito se ritrovasse nel proprio bagaglio il pesante fardello della logica. Il suo volto pallido non è tale per la macerazione della coscienza, ma per l’essenzializzazione dell’agire, incompatibile con qualunque fronzolo diversivo. Qui forse sta la chiave della qualità, questa comincia a fluire prima ancora di essere colta dalla coscienza diversa. L’insuccesso è insaziabile, scopre via via nuove occasioni di perdita, di elementi non accumulabili, respira il rischio del progetto e lo evita, non si lascia avvolgere nel sudario del di già fatto. L’azione è sempre possibilità aperta, successo imminente, perdita di già consolidata. C’è in essa una insania che non è accessibile verbalmente, balbetta grandi disegni ma non può realizzare che intuizioni della qualità, pienezze insostenibili se non nell’abbandono, ma impossibili alla luce fredda del fare.

Certo, è molto difficile decidere di diventare oggetti, mentre di regola accade con grande facilità che qualcuno ci riduca al ruolo di oggetti. Il fare diventare oggetti gli altri è molto più facile di diventarlo noi stessi, per nostra spontanea decisione, come un’avventura di cui si conosce l’inizio ma che non si sa come va a finire. La difesa della nostra soggettività in base alle regole della dignità corrente, in base alle leggi del ghetto in cui ci troviamo, non è altro che comoda verniciatura di una facciata omogenea, fatta allo scopo di non perdere il diritto alla cittadinanza del ghetto stesso, le briciole del banchetto. Gli altri ci considerano in base alla nostra facciata di soggetti. Quello che conta è non perdere questo aspetto esteriore, questa relazione di apparenza. Quindi occorre difendersi dalla riduzione a oggetto. Ma non siamo pienamente convinti del perché, in realtà occorre mantenere la propria soggettività. La legge del ghetto ce lo impone, ma in fondo i primi sostenitori della nostra squallida esistenza di oggetti siamo noi stessi, nel momento in cui strilliamo tanto forte per difendere la nostra soggettività fatta in serie, affidata ai luoghi comuni del momento, codificata nelle parole d’ordine del progressivismo imperante.

In nome della luminosa inutilità si può affondare il bisturi nella carne troppo tenera dell’oggettività, senza per questo dimostrare eccessiva sicurezza di essere dalla parte vincente. Anzi, questo essere completamente e drasticamente contrario alle apparenze, mi ha fatto spesso capire la loro debordante corposità, il loro alito persuasivo, rappacificante, la loro alterità geometricamente corrispondente, l’ingenuità della loro disponibile difesa, l’inarrestabilità del loro perforare e sanare. Tutte le ragioni della funzionalità si racchiudono all’interno di una simile programmazione involontaria. Tutte le ragioni dell’inutilità si racchiudono nella critica negativa, la cui efficacia distruttiva si fa forza di una sorta di terribilità del reale di fronte alla debole esistenza della proiezione apparente. La forza che sembrerebbe emanare da questo genere di operazioni mi ha sempre attirato e insospettito, nello stesso momento. Nel mondo senza una nuvola la ragione fonda l’avere ragione, con tutte le conseguenze di implacabile freddezza che ne derivano. La conoscenza e la critica diventano referto, giudizio, irreparabile condanna. Il pericolo l’ho sempre visto nella stessa possibilità che il giusto travalichi nell’ingiusto, l’inconsistenza di una piattaforma di azione basata sulla virtù è tutta qui, la sua tragedia storica è sotto gli occhi di tutti. L’abbandono non si improvvisa da un giorno all’altro, occorre un convincimento riguardo la necessità di andare oltre la conoscenza codificata, di immolarla a qualcosa di più intransigente e risoluto, di conquistare una perdita e di chiudere il ciclo delle vittorie apparenti. È privo di senso apprendere a balbettare, bisogna tagliare alla radice e questo taglio non ci sono pessimi maestri a insegnarlo. Devo dare vita, nella mia vita, a un’atmosfera di distacco e devo predisporla nei suoi particolari. Questo è il lavoro, lungo e sotterraneo, della critica negativa. Non devo rassegnarmi alle avvisaglie di conquista che la volontà non manca di farmi pervenire. Mi si vuole servo e non devo accettare, senza neanche accorgermene, l’antico orrore per le catalogazioni che rinasca finalmente in me e mi conduca ancora una volta lontano. Intuisco che tutto è ancora possibile in mare aperto mentre attorno alla casupola sulla collina fioriscono piccoli fiori anonimi. Sono sazio di menzogne e di edificanti miti della forza, così restando legato mi impoverisco e muoio come una pianta che si inaridisce. Sogno il deserto e lo schiaffo del vento, lo sogno ogni notte.

Non c’è conoscenza possibile, se non tautologica e fittizia, al di là della differenza, dello scarto. Una coscienza monolitica sarebbe sempre identica, quindi o sarebbe Dio o sarebbe nulla. Né l’uno né l’altro, questa è la realtà, l’essere che non è Dio e non è nulla, la conoscenza che è altro dalla coscienza identica a se stessa, altro dalla verità assoluta, altro dall’obiettività circoscritta e santificata. La conoscenza si origina da una separazione nel corpo del mondo, che come inizio di una futura trasformazione, quanto si vuole lontana, fonda e giustifica ogni reale attività. Se non consideriamo possibile questa separazione, sempre in modo relazionale blocchiamo l’azione in una serie infinita di rinvii, di attese, di approfondimenti illusori. L’oggettività entra di certo, a suo modo, in questa separazione, ma come elemento di un movimento complesso, che si accumula all’infinito e all’infinito si destruttura, un processo in cui alcune cose vengono dimenticate e altre ricordate, alcune sono presenti e danno il loro contributo relazionale, altre sono tanto lontane da potersi dire assenti e danno il loro contributo proprio per questa sostanziale assenza.

Non si tratta però di una separazione mediata cioè di una separazione relativa che mantiene punti di contatto per poi operare stacchi veri e propri, attraverso i quali passare a riassunzioni a livelli superiori o, comunque, differenti. La separazione di cui parliamo è certo apertura ma è anche, proprio nel momento del suo essere apertura, elemento puntuale attraverso il quale passano tutte le relazioni possibili, nella loro totalità, nessuna esclusa, quindi anche quelle relazioni che fanno parte dell’insieme da cui la separazione si è separata. È proprio questo concetto di separatezza, capace di mantenere i contatti ridotti o comunque riassumibili a livelli diversi, che si pone in modo differente nei riguardi dell’assetto logico della realtà, almeno per come ci appare coglibile all’interno del fare quotidiano. L’intuizione dell’uno mi propone un accoglimento dove stento a entrare per paura. Antichi ostacoli basati sulle tracce del mondo da me creato, e ora oltrepassato, restano ancora là a ostacolarmi. Questa presenza non ha più la consistenza pallida dell’apparenza modificativa, ma propone un tipo di ostacolo molto più grave, quello degli incubi e dei terrori notturni, delle mostruosità che risplendono nel proprio interno con promesse che sembrano minacce di morte. Convivere con l’insolito richiede considerevole forza d’animo, l’inappariscente sfianca gli sforzi di ricondurre tutto alla consuetudine conservativa. La volontà è ormai lontana e le garanzie del calcolo non ci sono più. Lo schiudersi della cosa non è pratica quotidiana, non si accumula nella manualità che fa sentire paghi di se stessi. Mi confronto con la profonda verità che in me stesso si nasconde e teme di venire alla luce. La connaturazione di questo me stesso con le apparenze e le danze propiziatorie e mistificatrici che imbastisco per ingannare, è talmente compenetrata che non so mai separare i due movimenti. A volte ascolto il demone che mi ditta dentro e lo trovo stupido, fanciullo ma stupido, poi mi accorgo che sono io a essere stupido.

La struttura risente di tutta la glaciale capacità di massacro che proviene dalla coscienza, accentuata dal medesimo meccanismo dell’accumulazione. Ma nemmeno in questo modo possiamo considerarla primaria, con tutte le concessioni di riguardo che si possono avere per il negativo, se non altro per le cautele che è necessario avere nei suoi confronti, non possiamo giurare sulla struttura o meglio sulla sua oggettività. La crescita e lo sviluppo della struttura e la sua prevaricazione metodica nei riguardi della qualità, prevaricazione che si traduce nell’apparente maggiore attendibilità del certo, del definitorio, dell’ordinato, non possono avere altro effetto che impressionare le capacità stesse della struttura, in ordine al controllo specialmente, ma non possono costituire elemento fondante, primario.

La mentalità classificatoria è una condanna che si incarna nella struttura in maniera tangibile, per quanto non meno apparente. Si tratta della logica operante dell’a poco a poco, la ragionevole mania omicida del bottegaio. Purtroppo è una condanna umana nel senso che appartiene all’uomo, non al disumano, una condanna alla perfettibilità, alla ricerca della colpa originaria, alla giustificazione riparatoria capace di mettere a tacere le recriminazioni. Siamo davanti a deformazioni della realtà, a persistenze di tentativi diretti a razionalizzare il diverso, lo scarto. La visione delle condizioni intuitive che fanno intendere la remota presenza dell’uno che è, non è uno stare a vedere, come accade nel fare, ma un essere partecipato. Il mio cogliere intuitivo viene colto dall’uno, particolarmente dalla sua voce, e mi ritrovo nel luogo desolato della cosa, dove sono io la qualità. Io mi offro a questa visione e da essa sono visto e portato via in modo che le condizioni dell’esperienza diversa si rivelano tutte in una volta, come è ovvio trattandosi della totalità del reale. Io guardo ma non vedo, guardo la desolazione della cosa ma sono visto, ascolto la voce dell’uno ma non la capisco, la mia realtà è quella di essere visto e udito, ma non parlo né il mio coinvolgimento costituisce una presenza tale da sconvolgere l’assetto dell’uno, che è assolutamente identico a se stesso sempre. Il mio essere eretto là, di fronte al rischio, nelle nuove condizioni del pericolo, il mio essere coinvolto nel mostrarmi privo delle solite sicurezze e garanzie, rende possibile un vedermi e un cogliermi da parte della qualità che mi viene incontro e mi prende con sé nel momento dell’abbandono, senza gli ostacoli e le difese che caratterizzano il mio fare. Qui, le mie condizioni di ripiego, riducevano il guardare a fare venire alla luce l’apparenza.

Nella struttura opera la coazione di un certo modo di modificare la realtà in simbolo codificato, privandola ormai delle sue possibilità di apertura, o sognando di riuscire a privarla in modo definitivo. Così la realtà estraniata entra nel processo di accumulazione, diventa elemento produttivo di modificazioni, strumento di insoddisfazioni e di appagamenti ideologici. Spesso lottando contro questi snaturamenti della realtà, come nel caso della proiezione oggettivante, facciamo di tutte le erbe un fascio. Condanniamo la realtà stessa e la trasciniamo verso un’interpretazione che la vuole invariabile e fissa, tragica maschera di un’apertura verso la qualità. Il feticcio risale all’origine della relazione e la trasforma in rapporto simbolico, strumento per altre relazioni, filtro sempre valido proprio perché ormai del tutto privo di contenuto. Inutile riconfermare che non si tratta più di una possibile affascinante avventura verso la qualità, ma di schiavitù, di odiosa violenza che si subisce e che ancora una volta si cerca di addebitare totalmente a una ipotesi oggettivante.

Fra le più interessanti concezioni del problema che ci sta occupando c’è quella di Gaston Bachelard, che si fonda su di un tentativo di privilegiare l’errore di fronte alla verità, la rettifica di fronte all’accumulazione. La conoscenza, su queste basi, diventa una forma di regolamentazione delle devianze, una rettifica. Nel caso in cui la diversità venisse considerata tale, essa verrebbe subito ricondotta sotto la cupola dell’errore e progressivamente eliminata. Così il rapporto tra la diversità e la coscienza, secondo questa tesi, verrebbe a porsi come due estremismi da concordare, tramite l’intermediarità del soggetto e grazie a una progressiva riduzione di questa intermediarità. Si tratta di una concezione ammodernata del concetto di misura. Applicata al problema, fondamentale, della coscienza, essa fa vedere subito i suoi limiti. Ci si può chiedere infatti come farebbe la coscienza a porre se stessa come altro da sé e come elemento di intermediarietà. Mistero.

La posizione di Adorno è incapace di rendere conto dell’insieme dei movimenti tra soggetto e oggetto. La loro differenza infatti, secondo questa posizione, interseca le due estremità per cui il pensiero dovrebbe evitare ogni estremismo, sia l’eliminazione di questa differenza, sia la sua assolutizzazione. Così la gnoseologia tradizionale può essere pensata come forma soggettiva solo come momento della forma oggettiva e non senza di questa, in qual caso diventa impensabile. A me è sembrato impossibile, in questa tesi, un reale avvicinamento all’oggettività che non sia progressiva eliminazione della separazione in una totalità fittizia, ottenuta attraverso la composizione degli opposti. Il meccanismo dialettico assolve i due peccati della logica, ma non produce un effettivo oltrepassamento se non in chiave intenzionale. La realtà continua a ripresentare i suoi movimenti non saldati, ininterrottamente contraddittori. Non fissando bene le relazioni, affidandosi a un meccanismo che esalta lividamente solo il recupero del contenuto, si diventa implacabili nell’osservare un reciproco affermarsi e negarsi di due apparenti diversità: la coscienza da un lato, l’oggettività dall’altro.

Inutilmente perseguita dalla strada dialettica, l’oggettività trova un diverso approccio nell’esistenzialismo dove è notevole la posizione di Karl Jaspers. L’esistenza si manifesta sempre in modo scisso, tra soggetto e oggetto. Per cui tende verso l’oggettivo, dove vuole annullarsi e tende pure verso il soggettivo in quanto la semplice oggettività è troppo vuota. Solo quando l’oggettività si rende presente nella soggettività, attraverso l’azione di ogni individuo, l’esistenza si manifesta come totalità. Qui il problema non è il soggetto e non è nemmeno la conoscenza in vista dell’azione, ma semplicemente l’esistenza. Un qualcosa a mezz’aria tra oggettività e soggettività. L’oggettività non può dare di fronte a qualcosa che si presenta come la coscienza in generale in quanto non può essere diversamente soggettiva, in un rapporto di totale identificazione reciproca. Questa coscienza qui, precisa e circoscritta, è pur sempre soggetto, ma se è tale non è che il morto simbolo di una coscienza in generale, come questa realtà qui, circoscritta, è pur sempre oggettivabile come vuota struttura, e quindi non può entrare in rapporto che con altre vuotaggini e con altri simboli. Qui la totalità avrebbe un suo senso operativo nel mondo dei fantasmi, mentre nel senso concreto si rifletterebbe soltanto nei cascami del fare coatto e della costruzione ideologica. L’uno non offre nessuna occasione di esame, non può essere guardato, cioè esaminato e distinto, ma può insistere nel guardare lui verso di me se io mi metto nelle condizioni di visibilità. Offrirmi alla visione dell’uno è venire fuori dalla custodia in cui sono avvolto e mettermi a rischio, coinvolgermi. Ma quello che io sono nel coinvolgimento non è la faccia della quotidianità, anche in particolari che qui non mette conto notare. Gli occhi, a esempio, si fanno due sottili fessure e acquisiscono una freddezza glaciale perché sono andati oltre lo spettacolo che di solito osservano e stanno aspettando di essere osservati. Tutto me stesso è in condizioni diverse, remote nei riguardi di quello che sono avvolto nella coperta della garanzia quotidiana. L’uno non vede e non guarda, in fondo la sua voce non è un parlare, ma tutto ciò, questa chiusura costituisce non solo la desolazione della cosa, ma anche il rigurgitante e indaffarato mondo del fare, anche questo è nell’uno, che lo assorbe riducendolo al silenzio di sempre, quello che non riesco a nascondere dentro di me malgrado il frastuono di cui inutilmente cerco di circondarmi.

L’oggettività non è il luogo della chiarificazione del soggetto, non è l’occasione dell’oltrepassamento del cerchio magico della coscienza. Il sollevatore del masso torna a distruggere la rocca delle Amazzoni. Non possiamo appoggiarci su questa illusione per fare di noi qualcosa munito di significato. Non possiamo diventare noi oggetti per il semplice motivo che non sappiamo che altro mettere nella nostra coscienza. Così, la realtà ci tradisce. La paura ci prende alla gola e nella fretta accumuliamo per non scivolare via verso il basso, per non scomparire. Nessun ritorno alle Madri, la nostra accumulazione è il segno della chiusura della coscienza e del tradimento dell’ideale oggettivo. Quest’ultimo può essere esatto quanto si vuole, può essere il luogo dell’ordine e della classificazione, può essere fatto a pezzi dal bisturi dell’anatomista maniaco del dettaglio, ma non risolve il problema. Non sappiamo cosa farne. La fame che urge dentro di noi finisce per ingigantire. Non la soddisfa di certo il sapore amaro delle belle collezioni di luoghi comuni e di certezze in carta patinata. Lo splendore desolato della qualità mi attira affascinandomi per la sua assenza di contenuti, di riferimenti. Non ci sono punti fermi o possessi. Questo risplendere arriva presso di me solo se io lo colgo nell’abbandono, cioè mi rendo disponibile a essere colto. Nel caso contrario, nella modificazione, vedo solo la sua remotizzazione percettiva, l’indispensabile separazione che alimenta il mondo da me creato. Ciò che risplende nell’uno è la realtà nella sua massima intensificazione. Gli accadimenti della vita e della morte, sono affievolimenti trascurabili di questa spaventosa essenza che il mio animo pauroso non può cogliere. Mi dispongo solo alle immediate periferie desolate dell’azione, alla qualità, che sono certamente riflessi demoniaci dell’uno, e concentrati altissimi della realtà, ma sono anche una marginalizzazione della puntualità estrema per me incomprensibile. La gioia dell’azione è anche orrenda e spaventosa desolazione, se la penso dall’interno dell’apparenza, mentre nella sua realtà che mi ospita, nel caso in cui ciò accada, è la mia più intensa esperienza di vita.

Un’altra importante posizione è quella di Max Weber che riallaccia l’intervento del soggetto a una ipotetica decisione fondata su di una scala di valori. Si tratta di una teoria che taglia nettamente in due il problema dell’oggettività per quanto poi fornisca un ingegnoso alibi al ritorno discriminatorio del soggetto, appunto, l’alibi dei valori. L’oggettività, secondo questa tesi, in quanto caratteristica della conoscenza empirica, poggia sul fatto che la realtà è ordinata in base a categorie soggettive, le quali sono il presupposto della conoscenza stessa e sono, a loro volta, vincolate a un presupposto di valore che solo la ricerca empirica può dare. Il riferimento al valore, nella formulazione originale di Weber, non dovrebbe intaccare la validità empirica della ricerca e della classificazione dei fatti, per quanto non possa essere esclusa una specie di convinzione intima, del soggetto ricercatore, che trova fondamento proprio nei valori per andare avanti e non sui risultati precedenti dell’indagine empirica. La contraddizione è molto evidente, non si riesce a mettere a tacere il fondamento soggettivo della validità delle scelte di ricerca, mentre non si vuole concedere troppo a una svalutazione dell’oggettività dei dati ottenuti.

In definitiva, l’oggettività fuori di noi, guadagno e conservazione in terra pietrosa, non esiste se non come lo scudo di Pallade con sopra la testa della Gorgone, una difesa per mettere paura, ma che, dopo tutto, può sempre essere sciolto dai suoi legamenti e messo da parte, lasciando nuda la dea, sul far della sera, mentre la nottola comincia a volare.


Trieste 28 aprile 2001


Alfredo M. Bonanno

* * * * *

“Il nulla è la messa in questione dell’essere attraverso l’essere, cioè precisamente la coscienza o per-sé. È un avvenimento assoluto che viene all’essere attraverso l’essere e che, senza aver l’essere, è perfettamente sostenuto dall’essere. Essendo l’essere-in-sé isolato nel suo essere in base alla sua totale positività, nessun essere può produrre essere, e niente può avvenire all’essere attraverso l’essere, se non il nulla. Il nulla è la possibilità propria dell’essere, la sua unica possibilità. Il nulla, essendo nulla d’essere, non può venire all’essere che attraverso l’essere stesso. E senza dubbio esso viene all’essere attraverso un essere singolare, che è la realtà umana. Ma questo essere si costituisce come realtà umana in quanto è nient’altro che progetto originale del suo proprio nulla. La realtà umana è l’essere in quanto è nel suo essere e per il suo essere fondamento unico del nulla in seno all’essere”.

(J.-P. Sartre, L’être et le néant)

“Fondandosi su verità che si suppone abbiano caratteri a-priori, la teoria dell’evidenza e quelle che ne derivano giungono a ‘poggiare l’intera questione sulla testa’. In primo luogo: non è difficile mostrare che l’accentuazione del momento della convinzione soggettiva, che spesso si accompagna ai giudizi veri nella forma del sentimento dell’evidenza, conduce a una falsa interpretazione di questo sentimento. Stabilita la sua esistenza, non ci si dice nulla sulla sua genesi: non si vede, che proprio il sentimento dell’evidenza sorge in questi casi dalla molteplice e frequente ripetizione dell’esperienza, dal fatto che ci siamo abituati, in una parola, a certi fatti, rapporti e conoscenze. Se questo momento dell’abitudine viene meno, l’evidenza come fatto di esperienza psicologica scompare: verità, che per noi sono del tutto evidenti (per esempio, talune verità logiche), non lo sono per i membri di una comunità primitiva. Tuttavia, non esitiamo un istante ad asserire queste verità come tali: se non lo facessimo, dovremmo ridurci alla squallida posizione del soggettivismo e relativismo estremo. In effetti, questi giudizi non sono veri perché ci appaiono evidenti: ma al contrario: perché sono veri (ossia conformi alla realtà obiettiva, oggetto del nostro conoscere), l’insieme delle nostre esperienze conferisce loro valore di evidenza. In secondo luogo: giudizi notoriamente falsi possono essere ovvi, e quindi veri in base al criterio dell’evidenza; e ciò accade ogni volta. La nostra critica di questa teoria, e la dimostrazione che essa costringe ad attribuire la verità a giudizi falsi, e viceversa, non è condotta ‘dall’interno’, – cioè muovendo dalla sua definizione della verità: al contrario, essa mira qui precisamente a mostrare l’insostenibilità e l’inservibilità di questa definizione. Condurre la critica già sulla base della concezione materialistica è tanto più necessario, in quanto i sostenitori di queste definizioni ammettono tacitamente o anche esplicitamente (come lo stesso Cartesio), che ‘verità’, compete ai giudizi in accordo con la realtà: cosicché quel che essi chiamano definizione della verità, è per loro, di fatto, il suo criterio”.

(A. Schaff, La teoria della verità nel materialismo e nell’idealismo. Questioni generali)

Capitolo I

Ogni uomo dabbene è ragionevole. Ascolta gli altri, ne valuta le opinioni, educatamente espone le proprie, agisce di conseguenza, non attraversa mai la strada senza guardare a destra e a sinistra, non si getta in mare se non sa nuotare. (Cfr., “Critica della ragionevolezza e spunti per un’analisi del coinvolgimento”, in “Anarchismo” n. 40, 1983, pp. 13-19).

Contro quest’uomo non si riesce a far valere le ragioni del cuore, che pure sono valide e forti e reggono il mondo. Quando lo vediamo aggirarsi come un fantasma senza testa in preda ai sentimenti, alle voglie, ai tabù e ai preconcetti, vorremmo dirgli qualcosa, ma la nostra voce non arriva fino a lui. Un labirinto di luoghi comuni, di ragionevolezze e obiettività circonda proprio quegli stimoli e quelle sensazioni che finiscono così per non riuscire a diventare elementi di una possibile diversa visione della realtà e si solidificano come elementi di disturbo che bisogna rimuovere al più presto. Ragiona Giorgio Colli: «Geneticamente almeno, la preminenza va concessa al conoscere; sino alla costituzione dell’oggetto, al compiersi della rappresentazione, appare soltanto la conoscenza. L’azione, per intervenire, presuppone un oggetto che la indirizzi. Chi vuol giudicare l’agire umano, deve prima dedicarsi al meccanismo del conoscere: avvertimento per i moralisti. Se la considerazione dell’agire va posposta e se il presente, come contenuto di coscienza, appare a noi sotto la forma del conoscere, si può ben dire che la vita umana, come complesso di esperienza, si risolva tutta in termini di passato. La sua immediatezza è allora illusoria, anche se in ogni uomo rimane la nostalgia dell’immediato, del contatto diretto. Un aspetto positivo del nostro tempo è lo sguardo di scherno con cui si considera il passato. Quella nostalgia ha ora il coraggio di se stessa. Il metro volgare del giudizio non conta; lo stimolo in profondità di quello scherno è di buona lega. Ciò che viene detto del passato lo si giudica prima di tutto falso, anzi una cosciente mistificazione, e per di più come irrilevante. Dunque il crescere della conoscenza (e quello che è chiamato civiltà si fonda su ciò) significa un’invadenza sempre più ingombrante del passato nella nostra esistenza, nel nostro presente. Oppressi dal passato, in realtà non viviamo neppure più l’oggi che ci è toccato. Che fare per recuperarlo? Troppo grande è il peso da portare, e poiché esso è destinato ad aumentare senza posa, la prospettiva sull’avvenire pare priva di scampo. La sola via di uscita sembra essere quella alle nostre spalle: procedere a ritroso, nell’esperienza e nella storia, per affrontare il passato al suo apparire. Assalirlo nel suo cuore, nel suo rapporto con l’immediatezza, e giudicare il valore di quella accumulazione. Così si saprà distribuire presente e passato nella nostra esistenza, perché questa non riesca distorta». (G. Colli, La ragione errabonda, op. cit., p. 272). L’eccesso non ha mezze misure perché non ha misure nemmeno intere, non è una delle passioni che mi scuotono il cuore dentro un bicchiere d’acqua. L’eccesso non ha confronti e neppure deficienze, non è un’agonia che si spegne a poco a poco, mentre impazzisco per cercare una via di uscita. L’eccesso è il compagno dell’abbandono. I due movimenti trapassano continuamente uno nell’altro, senza bisogno di un urlo di incoraggiamento, di gesti o simboli per andare all’attacco, non sono pagliacci piumati e non vogliono atterrire il nemico. Non temono neanche di essere risucchiati nella normale condizione produttiva, se questo accade riproveranno perché non possono fare altrimenti. La bestia apocalittica del fare, in fondo, è meno feroce di quello che sembra, manca di midollo spinale, cioè di quel meccanismo che gli storicismi si erano inventati, è come un cane senza testa, il cui progetto mortale rimane continuamente fra lampi e tuoni, un mostro da operetta. Oggi mi sento tenebra, domani mi sveglio luce, ma sono soltanto apparenza, non sono né tenebra né luce, in me si estingue e rinasce continuamente lo stimolo al possesso e questo è ben rappresentato dalla micidiale potenza della parola che continua a definire e specificare.

Ma il bottegaio apprende anche a codificare le sue irragionevolezze. C’è chi promulga per lui i canoni di una lettura diversa della realtà, una lettura allucinata e fittizia, strumentalmente costruita con mezzi tecnici che possono andare dal giornale al cinema, dal sesso alla droga. Con il ricorso a questi canoni il suo bisogno di diverso si alleggerisce, resta racchiuso all’interno della bottega, si acuisce o scompare a comando. «Sentivo un oscuro disagio – nota Hugo von Hofmannsthal – soltanto a esprimere le parole “spirito”, “anima”, “corpo”! Trovavo impossibile, nel mio intimo, esprimere un giudizio». (Lettera di Lord Chandos, tr. it., Milano 1974, p. 41). Vuotando di pericoli la realtà delle esperienze dirette, il nostro uomo dabbene ripiega nell’illusione del contrasto, smonta pezzo per pezzo un meccanismo che è stato costruito apposta per essere smontato e il cui solo mezzo di utilizzo è proprio la sezione in parti staccate del suo insieme. Così, egli ha l’illusione di andare oltre il muro che lo circonda, di sentirsi scarcerato e non si accorge di leccare la mano del carceriere che gli chiude la porta in faccia. Ecco perché Walter Benjamin accusa: “Hofmannsthal ha rinunciato al compito che compare nella lettera di Chandos. Il suo ‘mutismo’ era una sorta di punizione. La lingua di cui Hofmannsthal si è privato, potrebbe essere proprio quella che all’incirca nello stesso momento venne data a Kafka. Kafka si è assunto infatti il compito di cui Hofmannsthal si è mostrato moralmente e anche poeticamente incapace”. (Lettera ad Adorno del maggio 1940). Mi sono sempre considerato un combattente del bene, ma mi sono scelto da me il campo e i mezzi di lotta. Ciò ha spesso comportato escursioni nel campo del male e gli aspetti comici di questa situazione non mi sono sfuggiti. Ho fatto il pagliaccio per la rivoluzione, ma non mi sono mai abituato a questi abiti da commedia. In fondo la mia natura è profondamente tragica. Non so se riesco a capire Penteo e nemmeno il dio che lo perseguita, ma questa titanica lotta mi affascina.

Molte altre cose avvengono dall’altra parte, spesso non differenti in modo radicale, ma con un semplice accento spostato, ma è questo banale accento che spiazza l’intero rapporto. Ne denuncia i limiti, traducendo il contenuto in banalità quotidiane coinvolgendo in tutto ciò non solo l’acutezza psicologica di tanti superpagati, ma anche le riflessioni antropocentriche di coloro che, in moneta sonante, non ricevono indennizzo, eppure si credono lo stesso rimunerati. «Alle dimostrazioni palpabilmente sofistiche di Leibniz, che questo mondo sia il migliore fra tutti i mondi possibili, si può al contrario opporre con serietà ed onestà la prova, che esso è il peggiore fra i mondi possibili. Giacché possibile significa non quello che può fantasticarsi, ma quello che può realmente esistere e sussistere. Ora questo mondo è così fatto, come doveva esserlo, per potere sussistere con tanta precisa miseria: se invece fosse un po’ peggiore, allora non potrebbe più sussistere. Orbene, dato che un mondo peggiore, non potendo sussistere, non è possibile, esso stesso allora è il peggiore fra i mondi possibili». (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 46). L’improbabile diversa sensazione di chi cammina tutto il giorno alla ricerca della sua dose, si allinea così al metodico affaticarsi del ragioniere al suo tavolo di lavoro, del professore alla sua cattedra, del politico al proprio posto in Parlamento. E tutto ciò si adatta all’interno di una giustificazione razionale, di un progressivismo condiscendente e pretesco, perbenista come le paure che popolano le notti dell’ordine costituito.

Qui bisogna intendersi bene. Lavoro prestando il fianco a colpi che non possono essere tutti facilmente previsti e parati. Sono perfettamente conscio di questo e non ho paura. Sono convinto che bisogna procedere oltre su questa strada, al di là degli schemi codificati, esteriori o interiori che questi siano. E procedere oltre significa entrare in zone etichettate in modo pericoloso, inquinate con i segni più evidenti e caratteristici dell’idiozia. Ora, per me, queste zone sono state sempre oggetto di grande attrattiva, non luogo in cui andare a riposare il fisico stressato da dubbi o incertezze, un grembo ipoteticamente materno dove adagiare il capo, al contrario luogo dove incontrare altre incertezze e inquietudini, anche paurose, luogo della compromissione irriducibile, nel senso dell’entrata dentro, nel male come nel bene, o meglio al di là del bene e del male, e anche al di là dell’elenco, per il vero un po’ noioso, di cui parlava Nietzsche. «Da dove gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’un l’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo». (Anassimandro, fr. B1). Pericolo come percezione, come odore di una situazione diversa, come ascolto di un richiamo lontano e per questo quasi desiderato, come attesa e ricordo, nello stesso tempo, di un più alto coinvolgimento, ancora più difficile, sempre più difficile. Agire anche a costo di diventare percepibile solo da una parte degli uomini, e non tanto allo scopo di tradurre l’azione in briciole disseminabili tutt’intorno alla tavola per sopperire ai desideri del povero, ma ancora prima di ogni altra cosa per arricchire me stesso di sensazioni, lontano da quell’accumulazione che tutto sequestra in un’atmosfera da obitorio ben ordinato e asettico. Di fronte al pericolo della morte, improvvisa e forse evitabile, ma presente, si potrebbe dire attualmente in corso, il coinvolgimento deve avere avuto di già i suoi effetti, in caso contrario ho visto gente perdere non solo il controllo dei propri nervi, ma anche quello dei propri muscoli. L’intuizione è cogliere la realtà oltre l’apparenza, per realizzarla occorre essere dentro la realtà. Il mondo brucia, occorre essere fra le sue fiamme, non rabbrividire guardando la foto di una casa che brucia.

L’uomo ha cercato da sempre di mettere ordine nelle sue idee pensando, ingenuamente, che ciò lo portasse per forza a mettere ordine nella realtà. «Che cos’è il “conoscere”? – si chiede Nietzsche –. Il riportare qualcosa di estraneo a qualcosa di noto, di familiare. Prima proposizione: ciò a cui siamo abituati non viene più da noi considerato un enigma, un problema. Smussamento del sentimento del nuovo e dello strano: tutto ciò che accade regolarmente non ci sembra più problematico. Perciò quello di “cercar la regola” è il primo istinto di chi conosce, mentre naturalmente per il fatto che si sia trovata la regola niente ancora è “conosciuto”! – di qui la superstizione dei fisici: dove possono perseverare, cioè dove la regolarità dei fenomeni consente di applicare formule abbreviate, credono che si sia conosciuto. Sentono “sicurezza”, ma dietro questa sicurezza intellettuale sta l’acquietamento della paura: vogliono la regola, perché essa toglie al mondo il suo aspetto pauroso. La paura dell’incalcolabile come istinto segreto della scienza». (Frammenti postumi 1885-1887, tr. it., in Opere, vol. VIII, tomo I, Milano 1975, p. 108). In fondo, quello che appare disorganizzato e confuso, in preda al caos, impaurisce praticamente tutti. Ed è anche giusto che sia così. La natura possiede un suo modo di esistere. L’uomo resterebbe annientato se cercasse di adeguare ciecamente le sue possibilità di vita a quelle della natura. In questo senso, il significato positivo che un progressivismo di maniera ha da sempre dato al termine naturale è un altro dei luoghi comuni di cui è piena la storia.

L’uomo ha bisogno di un suo modo di disporsi verso la realtà, che poi sarebbe il suo modo di agire, cioè di vivere, ma questo suo modo non è per nulla quello della crescita progressiva, del movimento ordinatamente in avanti, dell’accumulazione del quantitativo. «Il futuro non è più intenzionato e prospettato come finalità, ma come tappa da bruciare: esiste soltanto per essere consumato il più rapidamente possibile e depositato alle spalle del margine pericolosamente minimo lasciato all’esperienza». (G. Marramao, Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo, Roma 1983, p. 48). Quello di cui l’uomo ha bisogno non è neppure il modo di un artefatto e velleitario ritmo da costruirsi tra qualitativo e quantitativo, tra razionale e irrazionale, tra essere e nulla, o altre contraddizioni più o meno immaginabili. «Lo spirito dell’utopia non vuole liberare l’umanità dal peccato, ma dall’imperfezione e dal difetto: in questa prospettiva il passato diverrà la malattia, la redenzione scienza, la salvezza progresso. Lo spirito dell’utopia guarda a un futuro lungo ma continuo, a progetti fallibili e revocabili, ma tuttavia sempre riproponibili. In questa prospettiva l’etica dei moderni è un’etica terapeutica: il male si rimuove per limitazione, in sostanza i difetti si eliminano tramite il controllo razionale degli effetti». (S. Natoli, Télos, skopós, éschaton. L’idea di politica nell’età classica, in Vita buona vita felice, Milano 1990, p. 49). La ragionevolezza che tutti individuiamo nella comune accettazione di un modo graduale di avvicinarsi all’ignoto, nasconde proprio l’elemento che spinge a chiudere gli occhi, nasconde la nostra paura, il terrore da cui ci facciamo prendere non appena mettiamo i piedi sull’orlo di un abisso che non conosciamo e che, nello stesso tempo, ci attira come cosa che ci appartiene, perché identica a noi. Senza una buona dose di follia, nessuno agisce, nessuno lascia la casa del padre. Fino a quando tutto precipita nel tempo, ascoltando la ninna nanna del palpito del cuore, tutto corrisponde, distanze e somiglianze, ogni elemento del mondo si modifica e fa la sua parte. Poi un guasto interviene, ed è l’azione, il vaneggiamento che oggi non intimorisce più gli astanti sospettosi, ma che una volta li sollecitava al rogo o al sacro rispetto, in ogni caso all’allontanamento dagli altri. Nel fare c’è un abisso inesplorato, quando la dannazione che vi soggiorna viene alla luce, grido dalla gravità umana: ma quei mostri sono miei fratelli. I mostri storici sono figli della storia, dal più grande al più piccolo. Dall’assassinio al minuto al genocidio di massa. Sono nell’ambito del fare. Il loro fare non è eccesso ma routine computerizzata. Pensate alla meticolosa organizzazione teutonica dei campi di sterminio, al bombardamento di Dresda e alle bombe atomiche sul Giappone. Una spaventosa capacità di calcolo scientifico all’opera. Senza l’IBM la schedatura degli Ebrei non sarebbe stata così efficace e milioni di persone si sarebbero forse salvate. Ognuno mette il muso nel suo truogolo, fa il proprio mestiere meglio che può, spetta sempre a qualcuno che non si conosce, posto in alto nella scala gerarchica, decidere il da fare. Questo volere si giustifica con il non volere, e così si continua a sguazzare con sollievo nella stessa melma.

In fondo, sappiamo benissimo che noi siamo quell’abisso, e che la sua profondità corrisponde esattamente alla capacità immensa del nostro cuore, dei nostri desideri, delle nostre speranze, dei nostri bisogni reali, delle nostre passioni, della violenza che è in noi, dell’amore. «Si paga caro il pervenire alla potenza. La potenza ristupidisce». (F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, Quel che i Tedeschi non hanno, 1). E sappiamo altrettanto bene che l’altro versante, quello che ci sta alle spalle, il versante della sicurezza, il luogo del parapetto, su cui appoggiamo le mani per gettare rassicurati lo sguardo ormai miope verso l’abisso, è sì il versante della ragionevolezza, ma è anche il versante della monotonia e della morte. Palmo dopo palmo, la guerra sporca imbestialisce l’anima, inevitabile violenza per chi è venuto da fuori, altri lidi, altri sogni, comune desiderio.

Per questo motivo restiamo un po’ impacciati davanti a un agire diversamente proiettato fuori della coscienza. Non sappiamo come giudicarlo, eppure dobbiamo giudicarlo, se non altro per continuare a vivere la nostra vita tranquilla, se ne abbiamo una. Spesso ci rifugiamo nel considerarlo un modo di agire poco comune e ne attribuiamo le cause a particolari qualità non ben definite, appunto perché poco conosciute, della coscienza, come se l’eccezionalità di una situazione si potesse circoscrivere e incasellare, estraendola da un complesso di relazioni che ci raccoglie tutti insieme e nei confronti del quale non abbiamo giustificazioni. «La ragione – scrive Kant – vede solo ciò che lei stessa produce secondo il proprio disegno, e che, con i princìpi dei suoi giudizi secondo leggi immutabili, essa deve fare entrare innanzi e costringere la natura a rispondere alle sue domande; e non lasciarsi guidare da lei, per dire così, con le redini; perché altrimenti le nostre osservazioni, fatte a caso e senza un disegno prestabilito, non metterebbero capo a una legge necessaria, che pure la ragione cerca e di cui ha bisogno. È necessario dunque che la ragione si presenti alla natura avendo in mano i princìpi, secondo i quali soltanto è possibile che fenomeni concordanti abbiano valore di legge, e nell’altra l’esperimento, che essa ha immaginato secondo questi princìpi: per venire, bensì, istruita da lei, ma non in qualità di scolaro che stia a sentire tutto ciò che piaccia al maestro, sebbene di giudice, che costringa i testimoni a rispondere alle domande che egli loro rivolge». (Critica della ragion pura, tr. it., Bari 1959, pp. 18-19). Se un modo di porsi, di pensare, di agire, turba la nostra tranquillità, la verità è che sappiamo che quello stesso modo avrebbe potuto essere anche nostro, che anche noi ne saremmo stati capaci, solo che una piccola variante ha consentito di trovarci altrove, di scegliere altre strade, di inconiglirci senza troppi problemi, ecc. In fondo sappiamo che quello che consideriamo diverso, quindi anche la stessa apertura della coscienza, la stessa inquietudine, è un semplice movimento relazionale, non una vera e propria tempesta in mare aperto. La normalità che culla in modo dolce i sogni tranquilli di tanti bottegai, è legata a un’ipotesi di difesa, non a una concreta differenza.

Nella realtà relazionale, considerata nel suo insieme, questi movimenti hanno tutti una loro individualità che li rende, nello stesso tempo, dissimili l’uno dall’altro e identici nel momento in cui sono espressioni della medesima totalità. Mentre nella riflessione logica, su cui ci stiamo fermando in questo momento, è bene approfondire queste differenze, per quanto esse ci possano portare lontano, verso un’illusione che potremmo senza volerlo fabbricare attorno alla logica del tutto e subito, un’illusione di concreta diversità. Non dimentichiamo mai che questa logica appartiene sempre al movimento della ragione, come quella dell’a poco a poco e che solo sfumature di grandissimo valore qualitativo ne fissano i contrasti e ne disegnano le possibili conseguenze nel modo di trattare il senso. La logica dell’a poco a poco di cui qui tracciamo la critica negativa, è sempre una parte del movimento della ragione, strumento che costruiamo per il fare, prodotto del laboratorio. Non possiede, considerata in se stessa, tensioni particolari. Può essere talmente approfondita da trasformarsi nel suo esatto contrario, cioè nella logica del tutto e subito, solo se la critica negativa riesce a farci capire che tutto questo lavoro è diretto a costruire uno strumento migliore, sia pure più pericoloso a maneggiarsi. In caso contrario, bisognerebbe ritornare mestamente all’uso della logica dell’a poco a poco che almeno consente di orientarsi fino a un certo punto e poi via, ognuno per conto proprio, alla ricerca dell’improbabile soluzione adatta alla propria vita. Così Adam Schaff: «Ma non indica il nome stesso della teoria del rispecchiamento che la conoscenza vi è intesa come un riflesso speculare? Non è affermato nelle opere stesse dei marxisti, che la conoscenza rispecchia, ritrae, la realtà oggettiva? E non è dunque giustificata la critica che si appunta contro l’analogia del rapporto tra la conoscenza ed il suo oggetto, e tra il riflesso e l’oggetto rispecchiato? La teoria del rispecchiamento, nel presentare la tesi dell’analogia di questi rapporti non sostiene minimamente che essi siano identici. Contro il realismo ingenuo, in determinati casi, la critica è giustificata, e precisamente nella misura in cui esso tende a identificare qui la funzione concettuale dell’analogia con quella dell’identità. Ma abbiamo visto che nulla giustifica la messa sullo stesso piano di queste teorie e della teoria marxista del rispecchiamento. L’analogia col rapporto di copia a originale, di riflesso speculare a oggetto rispecchiato, ha nella teoria marxista la funzione di una metafora, sia come termine di designazione, che come strumento della dimostrazione. Quest’uso metaforico dell’analogia è pienamente consapevole: ne abbiamo già indicato il fine e la portata nella differenziazione radicale, storicamente necessaria, dalle posizioni agnostiche. L’analogia serviva perfettamente a questo scopo, in quanto sottolineava apertamente che non vi è alcun misterioso confine tra “fenomeni” e “cose in sé”, e che la nostra conoscenza, lungi dall’aver a che fare con fantasmi, rispecchia precisamente la “cosa in sé” nella misura in cui è conoscenza valida. La tesi, secondo cui la teoria marxista del rispecchiamento non implica alcuna speciale identificazione del rapporto tra la conoscenza e il suo oggetto col rapporto del riflesso speculare con l’oggetto rispecchiato, è corroborata da queste semplici riflessioni. In primo luogo, e più importante di tutti, sta il fatto che la gnoseologia marxista, mettendo in risalto l’impossibilità di ricondurre i processi di pensiero alle sole impressioni sensibili, ciò che confuta ogni interpretazione meccanicistica del conoscere, solleva vigorosamente l’istanza dell’elemento specifico dei processi di pensiero stessi. Lo specchio è un oggetto morto, altrettanto che un quadro dipinto: e dunque il rapporto, che si ricollega a questi oggetti, di copia e originale, pur potendo essere utile a determinate riflessioni gnoseologiche come analogia, non può in alcun modo essere identificato (né mai il marxismo lo ha identificato), con il rapporto del soggetto vivente e pensante all’oggetto conoscitivo. Non meno importante è una seconda, riflessione, che non ha tuttavia forse lo stesso valore di principio della precedente. Un vero e proprio rispecchiamento dell’oggetto da parte del soggetto si verifica solo nella visione, dove la formazione dell’immagine di un dato oggetto sulla retina è la condizione del suo esser veduto. Ma l’analisi del rapporto conoscitivo non può limitarsi al campo di una categoria di sensazioni: anche prescindendo dai complessi fenomeni conoscitivi del pensiero astratto, si dovranno pur prendere in considerazione anche le sensazioni del tatto, dell’udito, ecc., alle quali pure, attribuiamo un valore conoscitivo, e di cui pure diciamo che rispecchiano la realtà. Anche qui è del tutto chiaro che questo concetto costituisce un’analogia, non un’identificazione. Quando si parla del rispecchiamento della realtà attraverso i sensi e il pensiero umano si intende dunque porre l’accento sulla conoscíbilità del reale, negare che vi sia una barriera tra “fenomeno” e “cosa in sé”, definire la conoscenza come un processo attraverso cui ci si rivelano progressivamente in modo sempre più completo, le leggi di sviluppo della realtà. In ciò sta il senso della teoria marxista del rispecchiamento». (La teoria della verità nel materialismo e nell’idealismo. Questioni generali, op. cit., pp. 41-43).

Poiché sono convinto che una strada ci sia e che questa strada non può passare attraverso le indicazioni catalogate della logica dell’a poco a poco, cerco di costruire un percorso che si basi sulla logica del tutto e subito, producendo, nello stesso tempo, una critica del precedente tipo di ragionamento e un approfondimento della realtà nel suo insieme. Due cose molto lontane tra loro, ma che non possono non influenzarsi reciprocamente. Nella considerazione degli elementi di un problema riesco sempre a cogliere l’aspetto contingente, la presenza quantitativa, il lavoro di attenta o disattenta catalogazione fatto fino a quel momento ma, nello stesso tempo, come se la cosa non fosse importante, la mia attenzione divaga, si sposta, ricorda il desiderio incredibile con cui la libidine di Pasifae si appresta a cogliere le attenzioni del toro, lo scontro con cui il peso della mia cultura contrasta con la circoscritta e pure immensa possibilità offerta da una carezza femminile, un seno piccolo e eretto, il movimento delle cime del grano primaverile. Spostamenti che non possono essere ricacciati nel limbo da dove provengono, perché quel luogo è proprio il primario territorio della realtà, pronto ad accogliere un ospite, mai in modo amichevole o semplicemente acquiescente, ma in modo altero e intrepido, un modo che ti fa raccogliere tutte le forze e ti fa capire di stare per cominciare un lungo viaggio.

Pur non essendo soltanto questione di coraggio, questa condizione dell’animo non può essere messa da parte, né sottovalutata, in caso contrario è molto più conveniente accogliere fra le braccia, questa volta amichevolmente, il benvenuto riformista, che parla alle nostre orecchie con la voce suadente dell’antico paternalismo pacioccone e ributtante. Io voglio alzare un muro contro la logica dell’a poco a poco, ma so perfettamente che non c’è modo di isolare per sempre la ragionevolezza, cacciata da un anfratto la riscopri in un altro. Voglio però essere l’ospite inatteso in un territorio in cui c’è da combattere.

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“La presenza a sé costitutiva della coscienza fa sì che essa non sia assolutamente un sé. La presenza è una degradazione dell’identità, perché suppone la distinzione o la separazione”.

(J.-P. Sartre, L’être et le néant)

“È falso in primo luogo che un pensiero erroneo ‘non rappresenti nulla’, cioè che non stia in rapporto ad alcunché nella realtà obiettiva. Pensieri siffatti sul reale non esistono, e non potrebbero esistere. Ogni nostro pensiero è un pensiero sulla realtà: ‘pensiero su (o di) nulla’ è espressione intrinsecamente contraddittoria. La correttezza di un pensiero consiste poi nel fatto che noi vi pensiamo su ‘qualcosa’ così, come quel ‘qualcosa’ in realtà è: ma l’oggetto del nostro pensiero, sia esso corretto o erroneo, è sempre questo oggettivo ‘qualcosa’, la realtà oggettiva cui il nostro pensiero può ‘corrispondere’ (nel senso del rispecchiamento) o anche no. Non vi è però alcun passaggio logico dall’affermazione che un pensiero rispecchi male la realtà, a quella, che esso non corrisponda a nessun ente di questa realtà, assolutamente – e perciò possiamo dire che oggetto del pensiero erroneo è pur sempre il ‘qualcosa’ oggettivo, e non un ‘niente’. Nel linguaggio comune diciamo bensì, talvolta, che al pensiero erroneo non corrisponde nulla in realtà: ma intendendo soltanto che l’oggetto reale, correlato di quel pensiero, è altro da ciò che quel pensiero ne afferma. Né l’idea che un tal pensiero non stia in rapporto con nulla (nel senso che non abbia alcun oggetto, quindi che un siffatto ‘pensiero di niente’ sia di fatto un non-pensiero); né idea, che esista un ‘qualcosa’ che sia un ‘niente’, e quindi una realtà negativa. Dire ‘realtà negativa’ trova però fondamento in alcune espressioni del linguaggio comune – si tratta piuttosto di semplici artifizi concettuali, di ‘trucchi’ logici – e caratterizzano unicamente la condizione deplorevole della filosofia che si vede costretta a far loro ricorso. La fallacia logica delle conseguenze, che si crede di poter ricavare da queste premesse, è altrettanto fondamentale che facilmente percepibile. Quando un termine viene usato nelle premesse in un senso diverso da quello in cui appare nella conclusione, la logica parla di violazione del principio d’identità: ed è questo l’errore in cui cade il ragionamento in questione. Pensare erroneamente, significa, nel senso della ‘teoria della corrispondenza’, non pensare in accordo con la realtà: ma allora, pensiero erroneo significa pensiero di nulla. Termine medio di questo ragionamento è: pensare non in accordo con la realtà significa non pensare la realtà”.

(A. Schaff, La teoria della verità nel materialismo e nell’idealismo. Questioni generali)

Capitolo II

Per i motivi visti prima, la considerazione critica dei limiti della ragionevolezza non corrisponde a un dissennato brancolare nel buio, inconsapevoli di sé e del mondo che ci circonda, delle cose che bisogna fare e di ciò che si può fare. Affidarsi al sogno può essere altrettanto ragionevole della fede in una programmazione centralizzata o periferica. «Attenzione: non si parla del “vuoto” in modo “pieno”. Non si possiede il “vuoto”. Nel fallimento della tensione estatica, quando si sono tagliati i ponti precedenti e non si trovano i collegamenti cercati, caduta in un tempo-spazio di dispersione, granulare, polveroso. Mescolanza del sogno e della veglia». (E. Fachinelli, La mente estatica, op. cit., p. 33). L’azione, in quanto trasformazione, è sempre momento presente, lotta con le contraddizioni che la lacerano, avvio penoso e stentato verso una progettualità sia pure circoscritta al campo, la quale però indirettamente partecipa del movimento complessivo delle relazioni. Noi vediamo solamente gli elementi di una parzialità che è specifica dell’uomo, della sua storia, delle sue vicende, ma l’azione è veramente tale solo se tiene conto del totale dispiegarsi delle condizioni, della situazione individuale e delle sue relazioni, fino ad arrivare alla cosa. «Un’eco di quest’intensità anche nelle parole di uno scienziato. Nel conoscere intensivo, dice Galileo, l’uomo conosce alcune proposizioni matematiche con la stessa certezza di Dio. Dio le conosce tutte (sapere estensivo) e “a guisa di luce” le “trascorre in un istante”. Differenza rispetto all’uomo, il cui sapere è limitato e discorsivo. Ma anche il modo divino di comprendere “la moltitudine degli intelligibili”, “né anco all’intelletto umano è del tutto incognito”, anche se oscurato da profonda caligine». (Ib., p. 36). Anche dall’interno del campo, nell’incombente minaccia delle strutture istituzionali e nello stentato avviarsi delle forme sociali, nello specifico di una parzialità che comunque non è mai definitivamente altro, la totalità non è un alibi per contrabbandare una crescita parziale affidata a meccanismi oggettivi, così come cerca di fare la dialettica marxista, rassicurando il rivoluzionario e mettendolo a braccetto con il riformista. La totalità è tensione ricompresa nel senso della vita, non come operazione di recupero residui, ma come coinvolgimento di se stessi nella differenza prodotta dal movimento di controllo e accumulazione della coscienza. Ciò permette una singolarità delle relazioni, nel momento in cui non le affida alla staticità ipotetica del processo meccanico di conservazione, ma le sconvolge costantemente, insieme a ogni residuo di certezza e luogo comune.

Ogni rielaborazione è sempre costruzione centralizzata, cioè struttura che pone al centro qualcosa. Il tempo, poniamo, che si pretende freddamente accertabile e che invece vediamo dilatarsi o contrarsi, vibrare nella febbre della conoscenza, dell’esperienza coinvolgente, privo di centro e non in grado di fornire elementi per un qualsiasi centro da costruire. Altra l’esperienza temporale della velocità come costrizione indotta, come tragedia del mancato respiro. Scrive Reinhart Koselleck: «Nei limiti in cui il proprio tempo è stato esperito come un tempo sempre nuovo, “moderno”, la sfida del futuro è diventata sempre più forte. Si pone quindi specificamente il problema del tempo che, di volta in volta, è il presente, e di quello che era stato il suo futuro, che nel frattempo è diventato passato. Se nel bilancio soggettivo dell’esperienza dei comportamenti il peso del futuro cresce, ciò è certamente dovuto anche alle enormi trasformazioni introdotte nel mondo dallo sviluppo tecnico e industriale, il quale impone agli uomini tempi sempre più brevi, per raccogliere nuove esperienze e adattarsi ai cambiamenti sempre più rapidi». (Futuro Passato. Per una semantica dei tempi storici, tr. it., Genova 1986, p. 5). Allo stesso modo l’ordine che regola il fare coatto, la produzione coordinata che ci soffoca. L’importanza di una cosa nei confronti di un’altra, per cui quella sta sopra e quell’altra sta sotto, in relazione a una ipotetica scala di valori. Importanza ed essenzialità, per cui alla mancanza di quest’ultima tutto crolla, organi vitali che si deformano nella lunga attesa di un evento che non accade perché di già accaduto, perché non è possibile un prima e dopo, e di questo loro attutirsi di vitalità se ne fanno una forza, un nuovo strumento di penetrazione. «Una causa rispettabile, al pari di un uomo rispettabile, non porta le sue ragioni in mano a questa maniera. È sconveniente mostrare tutte e cinque le dita. Quel che si limita a lasciarsi dimostrare ha poco valore». (F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli. Il problema Socrate, 5). Alla fine, quello che conta è l’importanza di non essere importanti o essenziali, la capacità di potere essere centro e periferia nello stesso tempo, nello stesso momento.

Da qui l’inutilità come centro di una progettualità che è priva della pretesa di strutturare, inutilità che ridiventa zona insensibile e opaca dopo essere stata zona chiarita, definitivamente provata. Quello che prima era vibrante di vita adesso stenta a essere riconosciuto, ma è lo stesso, eppure è diverso. «Hanno più contribuito alla umana felicità, le cose reali o quelle immaginarie? Certo è che l’ampiezza dello spazio tra la massima felicità e la più profonda disgrazia è stata prodotta solo con l’ausilio delle cose immaginarie. Questa specie di senso dello spazio si è in seguito, sotto l’influsso della scienza, sempre più rimpicciolito: così come noi abbiamo imparato e impariamo ancora a percepire la terra come piccola, anzi a percepire lo stesso sistema solare come un punto». (F. Nietzsche, Aurora, 7). Le sfumature trascurabili, le inutilità, diventano ulteriormente fondamentali in un mondo che della fondamentalità delle sue pretese ha fatto sempre il punto di partenza per ulteriori controlli e distruzioni.

La centralità dell’importanza è tipica del modo di essere della coscienza che cerca di subordinare tutto a se stessa, in un complesso processo di controlli e fortificazioni, attraverso i quali l’inquietudine scava prima o poi una differenza. È l’inquietudine a riproporre il problema dell’importanza, quindi della centralità, oltre naturalmente a una serie di altri movimenti che la coscienza cerca, senza molto successo, di recuperare. La parola prima di tutto. Ha scritto Claudio Magris: «Tutta l’opera di Borges è pervasa dalla malinconica consapevolezza che la letteratura non può salvare la vita e che un poeta, in una poesia sulla tigre, riesce solo a dire “parole, parole, parole”, una tigre di sillabe e di carta e cerca invano l’altra tigre, quella che non sta nel verso ma nella foresta». (“La letteratura non salva la vita”, in “Corriere della Sera”, 15 gennaio 1986, p. 3). La tristezza della stupidità. In questo modo, la razionalità imprigiona se stessa in un circolo vizioso di cautele, per quanto possa cercare di indicare il modo in cui questa stessa inadeguatezza si possa rappresentare. Ogni dimostrazione, alla fine, dimostra se stessa, la propria esistenza, non l’esistenza di quello che voleva dimostrare. Ciò che risulta evidente è la sua medesima ripetizione, un’esistenza tautologica che ha il respiro corto dello scongiuro. La gelosia fa muovere il mostro con tutte le cautele del caso, ma ogni suo progetto di controllo non riesce mai a sottomettere l’esterno, piuttosto qui fallisce in modo più o meno evidente, mentre all’interno non fa altro che stringere sempre di più in una morsa soffocante l’oggetto del suo amore. L’atto, visto da un occhio non coinvolto, può sembrare un fatto, ma le conseguenze sulla realtà, attraverso la rammemorazione, non consentono dubbi. Se taglio la gola del nemico è un uomo che muore, un assassinio che porto a compimento, ma l’azione lo cancella e lo esalta, lo trasfigura. Non uccido per devastare ma per colpire chi sta per colpirmi, per difendermi dall’offesa patita. Nell’ambito delle regole, il fare renderebbe questo atto un fatto, lo rinchiuderebbe in un evento giuridico. Ma l’atto è in sé qualitativamente diverso, è un eccesso. Non è l’occhio per l’occhio, ma è più vicino al voltare l’altra guancia, come nebulosamente e inesplicabilmente capì Stirner. L’eccesso dell’atto è privo di senso ecco perché non è un assassinio e non è nemmeno una ritorsione, che dovrebbe commisurare e pesare, almeno in certi casi. Va avanti, colpisce anche amando il nemico, e questo sconvolge l’assetto del fare in maniera sovversiva, ed è anche a volte più facile tagliare la gola al nemico che amarlo. Io non saprei amare i nemici, anche se a volte ho avuto le avvisaglie della sindrome di Stoccolma, ma ciò non dimostra niente. Nell’agire, in realtà, non c’è proprio niente da dimostrare.

L’indagine e l’approfondimento sono penetrazione ma non devono essere visti nella prospettiva esclusivamente maschile, quindi parziale, della specificità, nel senso cioè di un corpo estraneo che, organico a se stesso, penetra in un terreno sconosciuto. «La relazione dell’Io con il mondo, il rapporto soggetto e oggetto è infatti, in certo qual modo, una riproduzione del rapporto tra l’uomo e la donna in una sfera superiore e piú estesa, o meglio, quest’ultimo è un caso speciale dell’altro». (O. Weininger, Sesso e carattere, tr. it., Milano 1978, p. 256). Una visione esclusivamente chiusa risulta troppo paziente con se stessa, troppo precisa e delineata nei contorni, troppo sicura. Un mutamento contemporaneo consente, invece, una visione anche femminile della conoscenza, un doppio rapporto. Quindi non più penetrazione soltanto ma anche ricezione. Non è possibile separare i due momenti, che sono sostanzialmente uno solo, senza correre il rischio di una specificità mal posta, un modo come un altro per sfuggire al coinvolgimento, il rifiuto dell’azione camuffato sotto l’aspetto creativo. L’azione, dall’esterno, è priva di contrassegni, solo inserita in un contesto complessivo del fare tornerà dopo ad arricchirsi di significati. Ma il mio rammemorare non deve porsi questo scopo, devo lavorare per me stesso non per gli altri, non sono un poeta ma un uomo d’azione, quello è il mio collocamento naturale, prima e dopo cerco di adattarmi come tutti. L’azione non si nostra ma si lascia dietro una evidenza per chi vuole capirla, per chi ama capirla. Capirla vuole dire tradurla in termini di fare, conoscerla, possederla, quindi svilirla, ma è sempre qualcosa, un andare avanti, un inceppare il lineare meccanismo dell’accumulo. Nell’azione non si manifesta contenuto alcuno, né significato, ma la qualità e la forza trasformativa. Per questo motivo il senso dell’azione è sempre una lettura nell’ambito del fare. Il significato è ancora una volta un orientamento, io percepisco l’azione e la traduco in termini di fatto. Ma l’agire, essendo qualcosa di diverso, mena con sé un altro qualcosa che non può essere caricato di senso, di significato, e quest’ultimo qualcosa è la qualità in quanto tale, che resta fuori anche se residui e rammemorazione ne favoleggiano all’infinito.

L’ammissione di un’impossibilità di coerenza assoluta, di identità univoca, conduce all’accettazione di un sistema aperto, disponibile a considerare l’inquietudine come condizione dell’apertura, non come situazione di emergenza da cancellare riconfortandosi con la natura. Ha scritto Schelling, all’epoca del suo ritorno all’insegnamento dopo la morte di Hegel: «Di passaggio potete parimenti inferire quanto sia meramente formale e propriamente insignificante quella definizione secondo cui la natura in genere è pensata solo come forma dell’esteriorità, dell’alterità. La natura non può esser spiegata solo con l’alterità. Il principio dell’alterità, l’altro sé, sarebbe il nostro B, che tuttavia, finché è ancora puramente positivo oppure è nella semplice possibilità di essere sormontato, non è ancora effettivamente natura, ma il semplice presupposto della natura. Ciò che noi effettivamente possiamo chiamare natura non si trova sulla via del primo fuoriuscire, ma già sulla via del nuovo rivolgimento, della nuova spiritualizzazione. Tutta la corporeità è già di fatto una materialità spiritualizzata, interiorizzata. Nel corporeo si parla già di un’interiorità. Non si può tuttavia intendere per questo interno già ciò che è interiore solo in modo relativo o accidentale, che io posso rendere un esteriore con una separazione meccanica. Tuttavia il corporeo è in ciascun punto soggetto e oggetto in questo senso, attrae e viene attratto; la vera coerenza non è dunque essa stessa una connessione corporea ma puramente spirituale. La vera coerenza e propriamente concrescenza, ma non già di parti corporee o molecole, ma di potenze spirituali (ossia spirituale nel senso di opposto al già concreto). Ciò che comunemente si chiama coerenza si dovrebbe chiamare solo divisibilità». (Filosofia della mitologia, tr. it., Milano 1990, pp. 104-105). Un taglio netto, ragionevolmente chiaro, è il primo punto da cui partire per la difesa del di già acquisito. Sotto questa linea di difesa si nascondono e si palliano i metodi di controllo più totalitari, pensata in quanto separatezza, espressione primaria dell’offesa, espressione brutale di quella forza della virilità in nome della quale sono stati commessi tanti errori e causato tanti guai senza che si sia levata una critica negativa fondamentale. Ciò causa la continua ridiscussione di un fondamento non appena trovato, quindi la giusta conclusione che non è possibile considerare definitiva né una stesura né una sistemazione, nemmeno quella che siamo soliti assegnare alla diversità. Contraddizione del controllo, sua apertura volontaria, espressione della coscienza che satura se stessa? Non lo sappiamo. Prima di lasciarle al loro destino, mi soffermo sulle singole parole con rimuginazioni non sempre riproducibili in discorsi comprensibili. Ho spesso risposte che non corrispondono alle mie domande, qualcosa è cambiato, in me o nelle parole? Cado a volte in contraddizione con mie precedenti affermazioni, o susseguenti, e con ciò? Anche i fiori appassiscono e muoiono, perché non dovrebbero farlo i pensieri appuntati sulla carta come una collezione di farfalle? Dovrei registrare all’anagrafe dell’accumulo ogni mio pensiero, e sarebbe un peccato di orgoglio, ma io sono spesso al di là dell’orgoglio, il mio eccesso lo trova troppo circoscritto e infantile.

La complicità con il meccanismo dell’accumulazione addormenta non solo la vita, ma anche le possibilità della sua ricerca, perché spegne il gioco, l’astuzia del ricercatore, l’audacia del rischio di chi guarda nell’abisso, il desiderio di saltare oltre. Invece il gioco dovrebbe andare avanti, come dice Eugen Fink: «L’interpretazione del gioco come mimesis, come imitazione, e l’ulteriore definizione dell’imitazione come copia – e la spiegazione della copia come riflesso – questi erano i passi essenziali che aveva compiuto la filosofia metafisica già nei suoi fondatori, per formare i concetti e per determinare la posizione del gioco e del bello: il gioco viene associato al bello e il bello al gioco ed entrambi diventano una prefigurazione del vero e si rapportano al vero veritiero come l’apparenza all’essere. Il rango ontologico del gioco e del bello viene determinato in base alla distanza dall’essere autentico dell’idea, il suo significato positivo viene visto soltanto nella mediazione, nel carattere transitorio della bella apparenza, nel rinvio all’ente vero e proprio. La formulazione metafisica della transitorietà del gioco e del bello rimane essa stessa in qualche modo transitoria, oscilla irrequieta fra riconoscimento e rinnegamento, accentua una volta la lontananza, un’altra volta la vicinanza alla verità. Il gioco bello e il bello giocoso vengono intesi come indizi. Un indizio ha però una pericolosa ambiguità: può indicare e può dissimulare – indica, quando rimanda al di là di sé quando indica qualcos’altro più essenziale e si annienta nell’atto stesso di indicare; dissimula, quando si dà per la cosa vera. Il gioco nel bello può essere preannuncio della filosofia come la guida dell’anima, quasi come l’“ancella del Signore”, l’ancilla philosophiae, ma può anche essere proterva avversaria, demonicità seduttrice e potenza opposta al pensiero. L’interpretazione metafisica del gioco gira sempre attorno al suo carattere di rimando, al superamento del gioco al di là di se stesso, al momento di una singolare trascendenza, ma interpreta questa trascendenza nel senso della paideia pensata filosoficamente come il tratto che educa e conduce verso l’essere veritiero dell’idea. E per questo viene usato il campo visuale del modello della techne». (Il gioco come simbolo del mondo, op. cit., p. 137). Trattare il gioco come qualcosa di pericoloso da tenere a distanza, incasellato nel rito dell’imitazione, è segno di grande prudenza. Allo stesso modo l’azione viene ricondotta alla meticolosità del fare, alla sua puntigliosità, viene fatta affluire in una corrente predeterminata, dove nuotare è facile. Così si smontano controlli che poi vengono semplicemente ripristinati un po’ più in là, si smantellano limiti che si conoscono da sempre e che si sa non eliminabili in questo modo, cioè direttamente, come fossero paletti confinari. La logica dell’a poco a poco può andare avanti all’infinito in questa direzione, con metodo e sistematica vacuità. Anch’essa riesce a essere demolitrice, ma si porta dietro una squadra di costruttori sempre al lavoro, che ripristina, racconcia, ricodifica. Interminabilmente e con calma.

Penso che lo spezzarsi della coscienza, da cui il consentimento all’inquietudine, per non dire subito alla diversità, sia una riduzione di controllo. Non saprei precisare esattamente in che modo la riduzione di controllo determina l’inquietudine e viceversa, ma il rapporto è evidente. «Confronto tra questo tempo di riempimento e il fuori tempo dell’attimo di cui parla Platone nel Parmenide (156 d): “strana cosa”, “transizione tra due mutamenti inversi”, “assisa nel mezzo tra il moto e la quiete, pur non essendo in alcun tempo”». (E. Fachinelli, La mente estatica, op. cit., p. 31). Poiché non esiste un livello normale di controllo, in cui la coscienza possa acquietarsi, ne viene fuori una contraddizione che continua a crescere o a muoversi in modo da produrre instabilità. L’allentamento delle chiusure conduce a un passaggio dalla logica dell’a poco a poco a quella del tutto e subito. “La poesia sostiene i mari e l’altezza della notte”. (G. Benn, Intorno alla natura della poesia). Molti sono caduti nell’equivoco di considerare questo fatto esattamente al contrario e ne hanno avuto come ricompensa l’immersione nel mare della complicità modificativa a oltranza, dove ogni suono viene ovattato, compresi i lamenti degli sfruttati e le urla dei moribondi. La certezza dell’accumulazione conduce necessariamente verso un lento progredire, se non altro come fede nel quantitativo. A questa realtà si adatta benissimo la logica dell’a poco a poco. Dopo tutto, come ha notato Emanuele Severino: «Tutta la cultura dell’Occidente, e dunque tutta la cultura “ottimistica” dell’Occidente, ha al proprio fondamento il “pessimismo”, la fede nell’oscillazione delle cose tra l’essere e il nulla e, nonostante ogni suo tentativo di mascherarsi, è questa fede la matrice dell’angoscia che avvolge l’Occidente». (La follia dell’angelo. Conversazioni intorno alla filosofia, Milano 1997, p. 244). La coscienza che controlla il meccanismo dell’accumulazione può guardare semplicemente con sospetto alle possibilità modificative di questa logica, ma ben presto si rende conto della sua funzionalità al progetto di controllo. Nella condizione di frattura, la differenza che viene fuori non accetta programmi progressivi, essa si pone come la condizione della diversità, l’elemento trasformativo nuovo che sconvolge l’assetto interno del controllo e le sue proiezioni esterne. E in nome di questa rottura, chiede un ragionamento che tenga conto, qui e subito, di tutte le possibili conseguenze, di tutte le implicazioni relazionali, ben al di là dei paletti di confine fissati nel campo, e quindi contro ogni interdizione codina nei riguardi del libero fantasticare.

Non è sufficiente un impegno nell’individuazione della diversità se questo deve ridursi a un isolamento o, il che non fa differenza reale, a una semplice interpretazione. Di già questo secondo livello effettuale è molto più aperto, presentandosi nella duplice forma del fare e del disfare, dell’indicare e del mascherare. Ha notato ancora Fink: «L’interrogativo che ci si pone è quello di sapere se l’interpretazione del gioco secondo il modello dell’immagine, anche se evitassimo la cattiva scelta platonica dell’immagine riflessa, può provocare una comprensione originale. Evidentemente qui tutto dipende da come noi intendiamo l’“irrealtà” del mondo ludico – se la consideriamo partendo dalla distanza fra la parte e l’attore reale, e quindi dal punto di vista dello smascheramento, ovvero partendo dal rapimento dell’attore, che diventa dio, cioè dal punto di vista dell’incantesimo. In un caso l’“irreale” è ciò che resta dietro le cose del mondo e ha un essere assai rimpicciolito, impotente e quasi nullo; nell’altro caso l’ambito del mondo ludico irreale potrebbe essere la sfera misteriosa e ambigua, dove in mezzo alle cose appare ciò che è più esistente e più potente di tutte le cose. Già la critica platonica del gioco identifica il gioco in una tarda forma di civiltà, in un gioco di culti a cui già non si crede più, in una ironica distanza di vita, in un comportamento scherzoso di una spiritualità sublime. Sicuramente questi sono tratti che appartengono anche al gioco. Ma ne esauriscono l’essenza? E soprattutto, le categorie ottenute dal fenomeno dell’immagine ci permettono di formulare validamente il concetto di gioco?». (Il gioco come simbolo del mondo, op. cit., p. 136). Nell’interpretazione e, meglio ancora, nella sua fase più acuta, la ricognizione critica, il senso dell’ambivalenza si allarga facendo capire fino a quale livello le differenze logiche siano sostanziali, pur restando, in qualsiasi modo si possa considerare il problema, all’interno dello steccato della razionalità. Da qui il rischio dell’incomprensibilità di un approccio, che vuole imporre un tessuto estraneo all’interno di qualcosa che quel tessuto considera illogicità o inutilità banale. Tutte le riflessioni su questo argomento portano alla medesima esigenza di interrompere e mettere tutto via, da un lato, e di continuare fino all’assurdo, dall’altro lato. Non bisogna avere paura di allontanarsi troppo. Le condizioni della logica non hanno quella rigidità che un mal riposto spirito di coerenza ha voluto trovarvi da sempre. La coerenza è nella presenza, nella nostra presenza (coinvolgimento), non nella rigidità delle formule e dei codici. In maniera pungente, Giorgio Colli si chiede: «Che senso ha additare l’affermazione dionisiaca, la follia, il giuoco, contro ogni astrazione e mummificazione, ogni finalismo languente, spossato, e intanto consumare la vita nello scrivere, cioè nella commedia, nel travestimento, nella maschera, nella non vita?». (Dopo Nietzsche, Milano 1981, pp. 140-141). Un viandante si profila all’orizzonte desolato, e apparentemente libero, e forse lo è anche, ma dietro di lui la lunga ombra del possesso si abbassa fino a raggiungere il fortino difeso e assediato da cui è andato via. È ancora prigioniero della desolazione? Mi sono posto tante volte questa domanda nella mia vita. I sogni e i fatti si assomigliano, come la prigionia somiglia alla morte. Se sorgono sensazioni di altissima tensione davanti a me, se sono capace di coglierle nella solitudine assoluta, che conferisce peso e consistenza fisica alla qualità, ciò deve volere dire che non sono né morto né prigioniero. Ma il mio agire è inesplicabile, parla da solo ma io non lo comprendo, non parla per me, parla alla cosa e parla con la voce dell’uno. C’è un arbitrio nell’azione che incarna la qualità con vesti straordinariamente diverse da quelle dell’apparenza, sono ossessionato da questa intensità, guardo negli occhi il vecchio seduto in fondo alla bettola, col suo piccolo bicchiere di rosso, e odo le parole di Zeus, le stesse parole di Dioniso, ma non le capisco. Una bramosia di abbandono circola nell’aria, impregna la mia presenza nella bettola e conferisce un senso attivo a quello che ho in mano. Nessuno comprende che sono un benefattore, per il semplice fatto che non lo sono, un massacratore non beneficia che il becchino. Il sogno libertario sta partorendo l’azione, ma io non sono un liberatore, nessuno può esserlo, se qualcuno è liberato è un liberto, uno schiavo dipinto di bianco, pronto a diventare un padrone di schiavi. Nessuno può essere liberato se non si libera da sé, se non diventa quello che è, cioè libero. Io sono in carcere in questo momento [2004], ma sono libero, e so che molti al di fuori di queste sbarre non sono liberi, ma carichi di catene che li legano al loro inferno interiore.

Di questa presenza si può parlare a lungo e in molti modi. Lo si è fatto in passato e lo si continua a fare. Qui voglio comunque riferirmi a un significato quasi riduttivo, se non subordinato, quello che concerne il coinvolgimento, quindi il sentirsi di già nel problema, non al di qua del problema, nel fare del problema un momento e un’esperienza della vita, non un’attesa più o meno tecnica in vista della soluzione. «Non sembra esservi nessun caso in cui l’anima possa ricevere e produrre affezioni senza il corpo: tali la collera, l’audacia, il desiderio, in una parola la sensazione. Essere attiva senza coinvolgere il corpo sembra piuttosto una proprietà della mente. Ma se anche la mente è una specie di immaginazione o non si ha senza l’immaginazione, ne segue che neppure essa potrebbe esistere indipendentemente dal corpo». (Aristotele, De Anima, 403a 5-10). Non una presenza che sta a guardare imparando, ma un imparare che è presenza di se stesso, impossibilità di tirare fuori le mani dall’acqua. Prima si poteva restare sospesi, tra parentesi, per il semplice fatto che non si era fuori, non si era nel senso della diversità, ma nel senso del controllo. Movimento, questo sì, ma circolazione interna, munita di senso, ma con residui di qualità assolutamente trascurabili. «È una conseguenza della costituzione del nostro intelletto, [scaturito dalla volontà,] che noi non possiamo fare a meno di concepire il mondo o come scopo o come mezzo. La prima cosa vorrebbe dire che l’esistenza del mondo è giustificata dalla sua essenza, e quindi sarebbe decisamente da preferire al suo non essere. Ma il riconoscere che il mondo è soltanto un’arena di esseri che soffrono e muoiono priva di consistenza questa idea. D’altro lato, l’infinità del tempo già trascorso non permette di concepire il mondo come mezzo, mediante il quale ogni fine da raggiungere avrebbe già dovuto essere stato raggiunto da molto tempo. – Ne consegue che quell’applicazione del presupposto naturale per il nostro intelletto alla totalità delle cose, o al mondo, è un’applicazione trascendente, tale cioè che ha valore nel mondo ma non per il mondo; il che si spiega per il fatto che quel presupposto discende dalla natura di un intelletto, il quale, come ho dimostrato, è nato al servizio di una volontà individuale, cioè per raggiungere gli oggetti di tale volontà, e perciò è esclusivamente calcolato tenendo di vista gli scopi e i mezzi, sicché non conosce né comprende altro». (A. Schopenhauer, Sulla filosofia e il suo metodo, in Parerga e paralipomena, vol. II, op. cit., pp. 26-27). Il fatto di non essere una data relazione non vuol dire, come sappiamo ormai per certo, essere niente, ma vuol dire altro, e questo altro può anche essere la penalizzazione estrema del senso, la sua riduzione a circuito chiuso, a codificazione. In questo modo, il concetto di chiamarsi fuori si trasforma in quello equivalente di restare dentro, al chiuso, ben difesi, protetti dall’ipotesi di controllo di cui va tanto fiera la coscienza. L’abbandono è un lasciare che sopraggiungano sensazioni ed emozioni senza sottoporle al controllo della volontà. Questi movimenti in arrivo restano traducibili in parole, quindi catturabili da parte dei significati correnti nella immediatezza, ma possono essere lasciati andare in direzioni meno controllate, dove è più facile accedere alle capacità intuitive quasi sempre addormentate sotto la coltre del possesso violento della realtà. L’urgenza della traduzione in termini logici nega e cancella questi movimenti verso l’abbandono, non sempre riuscendoci. Il segreto di questa disposizione non è quello di conquistare vette assolute, primati inarrivabili, ma solo quello di mettere in difficoltà le convenzioni. Il viaggio che qui è l’allegoria più pregnante, inizia qui, ma il battello non è ancora ubriaco e non ha ancora lasciato il porto. Le barriere delle mode e dei possessi, le misere vicende delle corrispondenze che si modificano fa restare sempre alla base del controllo, la propaganda che vuole vincere e sopraffare, tutte le espressioni che caratterizzano l’avanzare della vita, devono essere scalzate, ed è lavoro lungo.

* * * * *

“L’essere è un’immanenza che non può realizzarsi, un’affermazione che non può affermarsi, un’attività che non può agire, perché esso è impastato di se stesso”.

(J.-P. Sartre, L’être et le néant)

“Come notavamo i teorici borghesi mascherano talora il loro idealismo proclamando l’‘indifferentismo metafisico’ ecc., o ammettendo addirittura l’insostenibilità dell’idealismo soggettivo, ciò che vela con successo la sostanza della questione al lettore meno provveduto. E tuttavia proprio nella teoria della verità la distinzione in due campi è più chiara e netta che altrove, e la mistificazione filosofica più difficile: ed è possibile vedere tutti gli ‘antiidealisti’, che sono poi idealisti nascosti, levarsi come un sol uomo contro la teoria materialistica della verità obiettiva. Chiediamoci che cosa rappresenti questa teoria dal punto di vista dell’idealismo, e quali tesi filosofiche essa porti necessariamente con sé. Dopo tutto ciò che si è detto, è facile rispondere alla seconda domanda: il riconoscimento dell’esistenza di una verità obiettiva implica: (i) l’esistenza obiettiva della realtà, che è oggetto della conoscenza; (ii) l’idea che la conoscenza sia un rispecchiamento di questa realtà, la quale ha dunque non solo il carattere dell’obiettività, ma anche quello della conoscibilità; (iii) la definizione della verità come proprietà del giudizio che rispecchia fedelmente il reale (ovvero, si accorda con esso). Insomma: una presa di posizione conseguente per la teoria della verità obiettiva presuppone che la realtà materiale sia la sola realtà obiettiva, e porta con sé la soluzione materialistica delle questioni fondamentali della filosofia. La risposta alla prima domanda è ora altrettanto facile: in tutte queste conseguenze l’idealismo si vede negato radicalmente, e deve quindi contrapporre alla teoria della verità obiettiva le c.d. concezioni non-classiche della verità – che noi chiameremo semplicemente idealistiche. L’analisi più affrettata di tutte queste concezioni mostra infatti senza difficoltà un tratto comune, che le unisce al di là di molteplici differenze: e questo tratto comune è identificabile proprio nella generale tendenza idealistica, e nella negazione implicita delle tesi materialistiche che si ricavano dalla teoria della verità obiettiva. La negazione della tesi che riconosce la verità del giudizio nell’accordo con la realtà si presenta come conseguenza coerente della negazione della realtà obiettiva, o della sua conoscibilità. Anticipando su quel che sarà detto più avanti intorno al carattere di classe della teoria della verità obiettiva, osserviamo che l’opposizione idealistica a questa teoria non è priva di radici sociali. Il contrasto del materialismo con l’idealismo non è una disputa su questioni teoriche accademiche e isolate in se stesse, prive di rapporto con la vita e la prassi, ma riguarda problemi i cui riflessi toccano ampiamente le scienze sociali e la prassi stessa, in particolare la prassi della lotta politica. Proprio questo legame della teoria con la prassi, questo ruolo pratico della teoria nelle lotte di classe, che nel sapere borghese è negato o velato, spiega l’asprezza della lotta ideologica condotta in rapporto a questioni teoriche apparentemente astratte; e spiega anche il carattere della lotta che si muove intorno alla teoria della verità obiettiva. Le conseguenze filosofiche di questa teoria riguardo all’esistenza e alla conoscibilità del reale hanno a loro volta conseguenze di carattere sociale”.

(A. Schaff, La teoria della verità nel materialismo e nell’idealismo. Questioni generali)

Capitolo III

Di pari passo il ragionamento sulla logica del tutto e subito, non una formula taumaturgica, ma un modo di proporre la presenza dirompente, un modo che possiamo chiamare necessario, per fornirci di uno strumento capace di indicare i percorsi attraverso cui l’inquietudine fluisce fuori dalla coscienza. «Colpisce il fatto che alcune delle più sottili considerazioni sul tempo (Eraclito, Parmenide, Platone) siano all’inizio del nostro tempo, o meglio nella transizione a esso. Chi cammina su una cresta vede i due versanti del monte. Ora, parlando di un “vuoto” che diventa “pieno”, io stesso, come molti altri, faccio uso di metafore o di “generi” platonici, per riferirmi a un ribaltamento che accade in una frana del tempo solito, o in un’esclusione del tempo. Ritorna quindi la problematica di Platone – alla fine del nostro tempo?». (E. Fachinelli, La mente estatica, op. cit., pp. 32-33). L’estraneità della vita, almeno per il progetto compiuto della coscienza, impone a quest’ultima un atteggiamento sospettoso verso tutte quelle indicazioni relazionali che propongono elementi qualitativi. È un accoglimento negativo, cui fa riscontro un accoglimento positivo che l’orientamento relazionale verso la vita ha nei riguardi dell’inquietudine della coscienza. Scrive Giorgio Colli: «L’origine greca della ragione è stata poi dimenticata, non si è più compresa questa funzione allusiva, espressiva in senso metafisico, della ragione, e si è considerato il “discorso” come se avesse un valore autonomo, fosse lo specchio, il perfetto equivalente di un’idea o di un oggetto perciò chiamati razionali, o addirittura fosse esso stesso una sostanza indipendente». (Filosofia dell’espressione, Milano 1982, pp. 184-185). Non appena si capisce bene la differenza tra questi due modi di accogliere la proiezione conoscitiva, si è di già in grado di contrapporre alla logica dell’a poco a poco un’altra logica, quella del desiderio irrefrenabile, scatenato, sconvolgente ma, nello stesso tempo, irrimediabilmente condannato alla circoscritta leggibilità della ragione. Qui non è più questione di codici, ma di sentirsi più o meno vivi, capaci di vivere, di scendere nelle cose. «D’altra parte, la civiltà della tecnica è la forma culminante della Follia perché è la forma più radicale del nichilismo, cioè della persuasione che le cose e innanzitutto le cose del mondo sono nulla. Nella storia dell’ontologia dell’Occidente Parmenide è il primo angelo della Follia». (E. Severino, Il destino della tecnica, op. cit., pp. 249-250). L’inquietudine deve essere figlia del rischio reale, fisico, non solo una ipotesi della mente, un crogiolarsi nella parvenza del male metafisico. Questa sostituzione è molto comune e funziona come surrogato. L’inquietudine non è un dono o una maledizione di natura, nasce e si sviluppa parallelamente alla conoscenza, reagisce alle lezioni positive e negative di quest’ultima, si esalta e si riassetta, alla fine comincia a crescere in maniera più coerente con se stessa, in procinto ormai di rispondere adeguatamente ai risultati della critica negativa. Le parole confortano e annacquano l’inquietudine in disagio, insofferenza, ma come fare affidamento alle promesse da marinaio? Dal fascino all’orrore il passo è meno lungo di quanto si creda. La follia del dio può dare una spinta decisiva all’eccesso, ma il salto è una eventualità qui messa tra parentesi a bella posta. L’eccesso nell’inquietudine può essere sperimentato fino in fondo accerchiando la volontà, allontanandone i meccanismi di controllo e garanzia, esponendosi perfino al ridicolo, che è frattura considerevole di ogni genere di schermo protettivo. L’apparenza comincia a farsi più chiara, è il momento dell’abbandono.

Torno ancora una volta a sottolineare la portata circoscritta del lavoro sulla logica. Qui non si tratta di aprire le fantastiche porte dell’inconoscibile. Tutt’altro. «Il passo verso la Follia è più deciso di quello verso la Non-Follia. L’“Essere” di Parmenide – come esso è inteso lungo la storia del pensiero filosofico – è il Semplice, è soltanto la pura luce; non i colori: gli essenti – le differenze del mondo, le cose molteplici – sono Non-Essere, cioè nulla. L’“Essere” di Parmenide è il Semplice perché ha le differenze al di fuori di sé. La variopinta ricchezza, la differenziata molteplicità delle cose è illusione: in verità essa è nulla. Solo l’“Essere” è. In questo modo di comprendere il senso dell”Essere” lo scontro tra la Follia e la Non-Follia nel pensiero di Parmenide, determina una contraddizione ulteriore alla contraddizione costituita dalla Follia del nichilismo. Lo stesso pensiero di Parmenide, in questa contraddizione ulteriore, è costretto a dire l’opposto di ciò che intende dire, perché non resta fedele alla propria affermazione dell’illusorietà del mondo e della semplicità dell’“Essere”. Esso infatti deve affermare che l’illusione non è un nulla assoluto, ma che l’illusione è. È costretto ad affermarlo, perché altrimenti esisterebbe soltanto la via della verità e non la via dell’errore, percorsa dai “mortali” che “vanno errando, gente dalla doppia testa”. L’illusione è il mondo molteplice e diveniente della cui esistenza essi sono convinti. L’illusione è il loro sapere. Il loro sogno è, e non è un nulla: è come sogno. Il contenuto di questo sogno, per Parmenide, è nulla; ma il sogno, in cui il nulla assume la parvenza di un essere, è, e non è un nulla». (Ib., pp. 250-251). Ho la sensazione di lavorare su tre livelli: quello del fare quotidiano, quello della logica prescrittiva e quello della totalità delle relazioni possibili, ma che senso ha tutto ciò? Come posso pensare valida una sensazione del genere in una realtà relazionale? È la nostra limitatezza strumentale che ci impone un comportamento simile, a cui in seguito si finisce per aderire anche per pigrizia mentale o per semplice comodità di catalogazione. Ma non è mai sprecata una sosta con indicazione di pericolo.

Non avrebbe fondamento un’accettazione semplicemente spontanea di una pretesa logica alternativa. Con un convincimento fuori del comune, Luigi Pareyson: «Ho detto più volte che l’universo non è una realtà ma una vicenda, una grande vicenda narrabile solo in un racconto, non teorizzabile in un sistema filosofico né teologico. Ebbene, che cos’è questo racconto, questa storia? È il racconto della libertà. È la storia della vittoria dell’essere sul nulla, del bene sul male. Storia non più divina che umana, non più protologica che escatologica. È la storia del coinvolgimento di Dio nella natura e nell’uomo, è la storia della tragedia cosmoteandrica ...e combinazione! È la biografia del male: nascita, crescita, morte del male. È la grande peripezia del bene, l’odissea del bene, il difficile avvento del bene». (Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Torino 1995, pp. 78-79). Noi abbiamo esperienza sufficientemente certa sia dell’instabilità che della relazionabilità, da cui derivano i concetti di movimento e di totalità del reale. Questi concetti restano validi anche all’interno del fare coatto e vengono continuamente ridimostrati da una notevole quantità di esperienze. Anche in settori che prima pretendevano accettare una stabilità, sia pure relativa, adesso ci si orienta verso una continua modificazione. Prima, a esempio, si pensava che i ricordi, una volta stabilizzati, fossero fissi, immutabili. Mentre oggi si ammette che essi si modificano riorganizzandosi in continuazione, in modo sempre diverso. «L’uomo chiese una volta all’animale: perché non mi parli della tua felicità e soltanto mi guardi? L’animale dal canto suo voleva rispondere e dire: ciò deriva dal fatto che dimentico subito quel che volevo dire – ma subito dimenticò anche questa risposta e tacque; sicché l’uomo se ne meravigliò. Ma egli si meravigliò anche di se stesso, per il fatto di non poter imparare a dimenticare e di essere continuamente legato al passato per quanto lontano, per quanto rapidamente egli corra, corre con lui la catena». (F. Nietzsche, Considerazioni inattuali, II, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, I). La memoria è quindi un processo di continua rielaborazione in base al quale i ricordi vengono sottoposti a generalizzazioni e categorizzazioni, e ciò sulla base di un continuo modificarsi relazionale. In questo modo va cadendo la precedente tesi che voleva la formazione del ricordo come la costruzione di un fotogramma non modificabile. Il continuo relazionarsi degli elementi della memoria è dovuto quindi a un movimento che ha i suoi orientamenti sia interni all’organismo stesso, che poi sarebbero le sostanze prodotte dal cervello, sia esterne, cioè l’azione sull’organismo esercitata da elementi diversi. Ci sono dei casi in cui si pensava che l’azione diretta sul cervello fosse impossibile in quanto la sostanza prodotta nell’organismo, poniamo l’adrenalina, come risposta a stimoli esterni, non poteva arrivare direttamente. Adesso si è capito che alcuni recettori periferici permettono, attraverso la propria attivazione tramite l’adrenalina, di fare arrivare, attraverso i nervi, certi segnali al cervello, modificando la composizione della memoria.

Riflessioni del genere ci fanno concludere per una ipotesi di totalità, in effetti non si può andare al di là dell’ipotesi. «Il concetto di “mondo” si presenta ora al plurale, prima nel dualismo del sensibile e dell’intelligibile e poi nella speculazione sulla possibilità di molti mondi possibili, dei quali uno solo è realizzato e che dovrebbe avere una ragione sufficiente per questa sua particolarità. Il tema “mondo” diviene un tema particolare nella cornice di un problema ontologico generale, diviene un interrogativo speciale della metafisica – come per esempio in Kant, per il quale mondo significa solo il tutto del fenomeno che bisogna pensare come totalità, ma non il tutto dell’ente in sé. Lì si comprende il mondo in base al fenomeno, non il fenomeno in base al mondo, il che significa un rovesciamento del problema del mondo. Nondimeno, Kant nella storia sotterranea del problema del mondo rappresenta decisamente un apice». (E. Fink, Il gioco come simbolo del mondo, op. cit., p. 266). Ma è un’ipotesi che conferma e promuove il passo successivo, che spetta alla filosofia. A questo punto non resta che vedere una totalità negata anche nella parzialità, per cui approfondendo la logica dell’a poco a poco vi si dovrebbe scoprire un desiderio represso di totalità, come, approfondendo il dramma della chiusura della coscienza vi si scopre sempre un bisogno di abbracciare quanto più possibile la totalità del reale. Il bisogno di riconoscersi come centro del reale, come produzione del reale, ecc.

E difatti un risultato del genere sarebbe possibile, solo che dovrebbe fermarsi davanti all’ammissione che è proprio il rifiuto del coinvolgimento a determinare la differenza. Ecco perché ho parlato di desiderio di totalità come qualcosa di negato. «Nel punto in cui svanisce il confine tra il soggetto e l’oggetto, emerge il senso di un tutto che è insieme nulla. Esperienza del tuttonulla, del pienovuoto». (E. Fachinelli, La mente estatica, op. cit., p. 33). Quando l’aspirazione legittima alla totalità si cambia in desiderio di difesa di quello che si possiede e speranza di un’accumulazione progressiva che possa accrescere questo possesso, in vista di un’acquisizione utopicamente globale, allora si è davanti a un tutt’altro discorso sulla totalità. «Il falso attaccamento alle cose non è che l’autodifesa dell’esserci egoista, la cui apparente oggettività si trasforma in una radicale soggettività». (K. Jaspers, Filosofia, op. cit., p. 833). In questo caso tutta la realtà viene ridotta agli strumenti di difesa, come tutta la ricchezza del ricco è ridotta alla portata della sua cassaforte. Nella desolazione il tempo è sepolto sotto la distesa assoluta del nulla, ma è sempre in agguato per avere la sua rivincita. È il mio modo di appartenere al mondo che ho creato e da cui sono creato, che si nasconde dietro questo agguato. Nessuna analisi spietata, preventivamente costruita come un baluardo, può aiutarmi ad andare avanti, le difese qui offendono più che gli attacchi. Il veleno della modificazione è in angusti anfratti della mia mente, dorme a fianco dell’abbandono, e comunica a mia insaputa con la volontà, spia e quinta colonna. Nella desolazione colgo l’intensità, ma questa è qualità non oggetto. Devo farmi forza per convivere con questa esperienza mortale. L’azione mette in gioco la mia vita e le antiche illusioni onniscienti sono andate a dormire.

Continuo a parlare di due logiche quasi in senso improprio, ma ormai è inutile attardarsi nel dare spiegazioni. La difesa e l’apertura sono momenti diversi che possono essere, a loro modo, ambedue globali, ma solo l’aprirsi consente una possibilità che sia capace di dirigersi verso la totalità, anche brancolando. «Il dio è giorno e notte, inverno e estate, guerra e pace, sazietà e fame, e muta come il fuoco quando si mischia ai profumi odorosi, prendendo di volta in volta il loro aroma». (Eraclito, fr. B 67). Difatti nessuno può pretendere impunemente di aprirsi con metodo e ordine, il prezzo da pagare per una simile pretesa sarebbe una chiarezza da obitorio. «Questo non è il momento di svelare il segreto, ma occorre tenerlo nascosto il più possibile». (Eschilo, Prometeo incatenato, vv. 522-524). Da qui l’ineluttabilità di una ricerca labirintica, anche in materia di logica, di una critica che sia capace, nella sua impostazione negativa, di non perdere di vista la limitatezza degli strumenti a disposizione, per non travalicare nel gratuito, nel generico. L’incertezza come metodo, l’indeterminazione come risultato. «Lotta, sofferenza e tedio si avvicinano all’uomo, per rammentargli ciò che in fondo è la sua esistenza – qualcosa di imperfetto che non può essere mai compiuto. E quando infine la morte porta il desiato oblio, essa sopprime insieme il presente e l’esistenza, imprimendo in tal modo il sigillo su questa conoscenza – che l’esistenza è solo un interrotto essere stato, una cosa che vive nel negare e del consumare se stessa, del contraddire se stessa». (F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, I). Ciò comporta un abbandono di tutta la terminologia e di tutta la mentalità di origine prettamente militare, su cui si basa il ragionamento difensivo e tutta la logica dell’a poco a poco. Il contrario della difesa, difatti, non è l’attacco, che è la forma migliore di difesa, ma l’apertura, negazione critica, cioè negativamente approfondita, della difesa e di ogni intenzione di chiusura e di controllo. Basta quindi con la difesa, passiamo all’apertura, all’abbandono. L’azione è lotta e contrasto, coglie e abbatte il nemico, ma in sé, nel suo intimo coinvolgersi, non è conflitto, è determinata quietezza. Nella desolazione non ho dentro di me un qualcosa che mi ostacola, l’intensità qualitativa fluisce liberamente. L’abbandono esteriorizzato dell’apertura coinvolgente, ora è interiorizzato. Nell’agire non ci sono dubbi o accessi di collera nel mio profondo me stesso che agisco, non potrei essere nell’azione se non fossi me stesso, e tutto il percorso precedente è un itinerario per diventarlo. L’azione è l’assoluto che si sta realizzando e di cui io sono lo strumento realizzato, non posso smontarla in pezzi per portarmela a casa. La rammemorazione è un misero accenno a qualcosa del genere, che tollero perché sono un povero uomo vecchio e stanco, innamorato delle parole. Ma di questa residua frivolezza non c’è traccia nell’arco continuo ed entusiasmante dell’agire.

La logica dell’a poco a poco è data dall’insieme dei tentativi ragionevoli, cioè mai discosti dal senso comune, di costruire una razionalità dei processi reali, che si cerca di circoscrivere attraverso l’impiego di concetti più o meno chiari i quali, a loro volta, sono considerati come elementi di una costruzione scientifica complessa diretta a consentire l’accesso alla realtà e a fondare la stessa razionalità dei processi reali. Il fare viene così ricondotto all’interno di questi processi reali, un processo fra i tanti, e studiato sempre a partire dalla sua presunta razionalità. Lontano, dolorosamente lontano, il povero Abbagnano, e me ne dispiace: «Se per intelligenza della razionalità intendiamo la realizzazione concreta della razionalità nell’uomo e nel mondo, dovremo dire che l’intelligenza della razionalità è l’intelligenza stessa dell’esistenza, cioè la realizzazione autentica dell’esistenza sul fondamento della problematicità. Il ritorno alla problematicità originaria fa dell’uomo un’unità, un io; e tale unità diventa la norma e il criterio direttivo della valutazione e della ricostruzione dei concreti atteggiamenti umani e delle concrete espressioni del mondo». (N. Abbagnano, Introduzione all’esistenzialismo, Torino 1957, p. 88). Per converso, la conoscenza blocca ogni possibilità di avvicinarsi all’intuizione dell’uno che è, essa è fondamentalmente relativista e non ammette che il relazionismo possa aprire brecce significative, cerca l’equilibrio e la progressione e non vuole riconoscere che ambedue queste prospettive sono fittizie. I sapienti dominano il mondo dall’alto della loro folcloristica furfanteria, non è possibile metterli al tappeto perché non ci sono armi che possano contrastarli in nome della certezza, in fondo siamo tutti ciechi.

Un uso critico non negativo della razionalità porta a una riforma della logica dell’a poco a poco e a un tentativo di innestarla nella logica del tutto e subito. «Il sistema logico non dev’essere una mistificazione, un ventriloquio, in cui il contenuto dell’esistenza scivola via in modo astuto e surrettizio». (S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia, vol. I, op. cit., p. 306). Questo tentativo è quello realizzato dalla dialettica marxista. La vicenda dell’uomo è attraversata costantemente dalla logica del tutto e subito. Questa non deve essere confusa con un regolamento interno della realtà, una sorta di spiegazione segreta o chiave occulta capace di chiarire tutti i misteri che si pongono davanti all’immaginazione negativa. Precisa Marx: «Hegel cadde nell’illusione di concepire il reale come risultato del pensiero automoventesi, del pensiero che abbraccia e approfondisce sé in se stesso, mentre il metodo di salire dall’astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria il concreto, lo riproduce come un che di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso». (Per la critica dell’economia politica, tr. it., Roma 1969, p. 189). La logica è sempre una creazione dell’uomo, strumento per intendersi al di qua del campo, e quella a cui cerco di rifarmi, la logica del tutto e subito, continuamente coartata e continuamente risorgente nelle vicende dell’uomo, è semplicemente uno sforzo in più per cercare di comprendere quanto sta al di là del campo, in un’unione relazionale assolutamente non eludibile. Questa è la logica che nella pratica di liberazione gli sfruttati hanno realizzato continuamente, mentre dall’altra parte, in nome della logica dell’a poco a poco si realizzava il recupero.

Il vero punto di partenza della logica dell’a poco a poco è la teoria della verità. «Verità è, come vi dirà qualunque vocabolario, una proprietà di certe rappresentazioni. Essa ha il significato di “accordo” con la realtà, e altrettanto, falsità significa non-accordo con la realtà. Questa definizione vale come qualcosa di ovvio ugualmente per i pragmatisti e gli intellettualisti. La loro divergenza comincia non appena si solleva la questione di che cosa voglia dire propriamente “accordo” e “realtà”, quando cioè si vuole intendere per realtà qualcosa cui le nostre idee dovrebbero essere conformi». (W. James, Pragmatism, ns. tr., New York 1955, p. 132). Sia nella prospettiva di una verità assoluta che in quella di una verità relativa, sia nel sogno di un dogma di certezza su cui costruire la nostra conoscenza che nell’illusione non meno fantastica di un modesto procedimento di misurazione del grado di attendibilità della conoscenza stessa, si possono cogliere gli elementi dell’approssimazione, dell’accumulazione e della cauta verifica dei risultati ottenuti. La critica negativa solleva dubbi ed è degna erede degli antichi dubitanti illuminati. Ma non è tollerante come questi ultimi, si sente forte e non ricorre al vanto della propria forza. Usa la maschera ma solo come ogni modello ermeneutico. Mette in difficoltà la fede produttiva nel possesso e nell’accumulo, i pregiudizi e gli idoli della completezza, dèi tardivi e stanchi, mai morti. La sua fisionomia è contratta, non sa rispettare un’apparenza, una ritualità, un ripetersi superstizioso di cui il fare è zeppo, ciò la rende non solo negativa ma anche limitata, alla lunga, se non intervenisse il colpo di coda dell’apertura alla cosa, ricostruirebbe il mondo così com’è, solo rovesciato, negativo. Ma la negatività non è l’altro polo della quantità, è una condizione essa stessa quantitativa, è conformista e conservatrice, insiste sulla negazione stessa. L’eccesso, il desiderio che spezza le convenzioni, gli sono estranei. L’incoscienza che fa intuire il momento in cui mi coinvolgo gli è incomprensibile. L’agire è remoto incubo, sfida e follia. In fondo il critico si aggiusta ogni giorno le calze a puntino e regola il proprio orologio.

Dallo studio degli antichi miti si vede come sia stata costante la preoccupazione di spezzare il cerchio vizioso dell’identità, per accettare sicurezze minori, magari meno qualificanti ma che davano la certezza di potere intraprendere una strada costruttiva verso la conoscenza. «Una teoria che spieghi le rappresentazioni mitologiche solo isolatamente e approssimativamente, senza mostrare parimenti la loro connessione vasta e profonda, e senza restituirle nella loro specificità, mostra già solo per questo di non essere né storica né filosofica. La vera storicità è tutt’uno con la vera scientificità. Rispetto ad oggetti del tipo di quello che abbiamo in esame, un’opposizione tra storico e filosofico è del tutto inammissibile. Infatti la vera storicità non consiste nel fatto che si aggiungano singoli fatti alle proprie asserzioni (chi non lo fa, soprattutto nella ricerca sull’antichità? Non è molto che un uomo non ignorante ha scoperto fatti con cui attestare che il paradiso si trovava nel regno di Prussia). La vera storicità consiste nello scoprire il fondamento oggettivo, dunque interiore, dello sviluppo dello stesso oggetto; appena questo principio dello sviluppo è trovato nell’oggetto stesso, allora è necessario sconfessare tutti i personali propositi precedenti; da quel punto in poi è necessario seguire puramente l’oggetto nel suo stesso svolgimento». (F. W. J. Schelling, Filosofia della mitologia, op. cit., p. 9). All’origine si presenta quasi sempre un principio di identità che insiste sulla concezione di totalità come tutto chiuso e ripetitivo, assolutamente identico a se stesso, nel tempo e nello spazio. Il mistero del mito, in queste fantasie, si accresce in potenza. Quanto più risulta lontana dalla comune comprensibilità, tanto più una formula del genere affascina e si presta alle elaborazioni religiose. Il possesso come fine in sé allontana da sé, assume consistenza e valore formale che avvolge qualunque ragionamento critico in un’aura comprensiva e tollerante che ammette i limiti ma ne giustifica le conseguenze. Il possesso è quindi diventato un fine in sé, come l’antico sapiente che, pervenuto al culmine della conoscenza, dimentica perché aveva cominciato a conoscere, e se ne ammala e muore di crepacuore non sapendo il motivo per cui si era caricato di un simile fardello. L’armonia del fare è assicurata da corrispondenze assonanti che non hanno niente di compiuto, si risolvono sempre in un tragico rinvio. Il possessore è legato da una unione organica con la morte, in ogni tassello della sua via crucis oggi urge qualcosa di più preciso della fantasia di una fine che metterà fine a tutto. Cessando di essere me stesso divengo possessore, cioè schiavo di ciò che non è me stesso, perfino della cultura che mi appesantisce il cuore e il braccio, perfino della parola che a volte odo parlare attraverso la mia bocca, ripetendo i concetti che solo in parte ho elaborato criticamente, ma che per il resto è lei a vestire di vita propria, vita che non posso frenare come se fossi un automa a cui hanno dato la carica e questa non si sia ancora esaurita. Nel possesso muore l’ingenuità e con essa l’accesso al sentimento intuitivo del coinvolgimento. La mia forza di volontà domina il mondo e io sono il suo servo sciocco che ne attua i capricci o i progetti. Questi piani artificiali si inseriscono perfettamente nel meccanismo modificativo e anche se indossassi la casacca del galeotto, gli altri lo capirebbero e mi saluterebbero chinando il capo. Basta una inflessione della voce o uno sguardo per quantificare il peso culturale che porto, e gli altri non vedono di chi sono, l’irriducibile balbuziente, e si accampano nei pressi di quello che sono diventato per raccattarne le briciole. Io imperterrito continuo ad aprire tremendi barricamenti che mi sono costruito, traditore di me stesso e della mia stessa causa, derisore dell’ideale possessivo che altri pensano mi appartenga e con cui credono io abbia contrassegnato la mia vita. Invece, della realtà che il mondo mi mette continuamente sotto il naso, non mi curo affatto.

Stranamente, la strada verso l’analisi e la generalizzazione classificatoria, cioè la strada verso la scienza per come noi la conosciamo, inizia proprio con il rifiuto eretico di questo modo di considerare la totalità, un modo chiuso, asfissiante, ripetitivo, identico continuamente a se stesso. Ha scritto Platone: «Dobbiamo ora rivolgere l’attenzione alla presente condizione dell’anima che vediamo incrostata da mali innumerevoli, come Glauco, il dio del mare, la cui forma originaria può a mala pena esser distinta, perché parti del suo corpo sono state spezzate o corrose o completamente sfigurate dalle onde. Si sono poi aggiunte incrostazioni, erbe, pietre e conchiglie, per cui ora Glauco assomiglia a qualunque altro essere e non più a se stesso». (Repubblica, X, 611d). Ma non bisogna credere che questa sia la sola strada verso la verità. La logica dell’a poco a poco, proponendosi come eresia nei confronti di una falsa e cattiva totalità, spezza il cerchio magico di una chiusura che rigettava al di fuori il pensiero e la costruibilità del futuro, ma paga questo progetto eretico con una immediata codificazione delle sue regole in termini assoluti. Un doppio passaggio, ottimamente descritto da Aldo G. Gargani: «Non per quello che dicono e credono gli uomini raggiungono quell’istante unico e memorabile; per quello che dicono e credono gli uomini non sanno mai quando è questo istante. Non dunque per quello che dicono e vogliono dire gli uomini si salvano dalla follia e dall’estinzione, bensì per il fatto che essi stessi vengono raccontati, che c’è una scrittura che si fa carico di loro. Nessuna frase che un uomo possa dire potrà salvarlo, ma la scrittura che è la narrazione della sua frase avrà il potere di proteggerlo dalla pazzia e dalla morte». (La frase infinita. Thomas Bernhard e la cultura austriaca, Roma-Bari 1990, p. 61). Nuovi sacerdoti si affrettano a indossare le tuniche smesse dai vecchi. La storia è tutto un succedersi di queste vestizioni alternate. La logica dell’a poco a poco avrà in breve i suoi teorici, i suoi esegeti, i suoi storici. Il parossismo dell’eccesso rasenta la disperazione, le difese della conoscenza, limiti e procedure, crollano una a una e mi ritrovo di fronte alla pericolosa realtà dell’intuizione. Non c’è nulla che più profondamente attacchi e metta in pericolo l’insieme delle mie difese dell’organizzazione strutturale dell’ordine. La critica negativa, che esamina il mondo al vetrino della scientificità, è nulla al paragone. L’intuizione è una presenza bestiale che scava dentro di me, penetra e sconvolge ogni fibra e mi procura spasmi di reazione che sono capaci di indurmi a rinunciare, ad allettarmi in cento modi verso la realtà del fare, la morbida sicurezza dell’ordine. Alla fine vengo colto e mi sento come trasformato, devo trasformare ma posso agire per trasformare solo dopo essere stato trasformato, la disperazione è così sorella della purezza e della lucidità. L’assenza è ora una presenza desolata ma è presenza, il caos ha sostituito l’ordine, sfugge alle mie capacità di comprensione che per altro si vanno assottigliando, ma è lì di fronte a me e sta intensificandosi. La condizione della solitudine è un mondo nuovo che mi tempra all’azione, la storia è remota, essa è ormai svuotata dal mondo da me creato. Sono libero di essere io la libertà. Ciò aumenta la tensione della qualità e mi porta nell’azione, una percezione agonica unitaria, un pallore e un alterarsi fisico delle membra, un acuirsi della vista e dell’udito. Agisco in condizioni assolute in cui la percezione è vertigine abissale e seduzione infinita, può inghiottirmi nella sua desolata intensificazione, ma io agisco in lei, mi apro alle possibilità del destino, sono qui, proprio qui, sono soggetto attivo, padrone della mia vita e del mio destino, e lo sono perché finalmente ho rinunciato a tutte quelle apparenze di possesso che mi facevano illudere di essere padrone di qualcosa, anche della sapienza, mentre ero il burattino del meccanismo modificativo. Qui il destino non è più fatalità ma possibilità che realizzo nel caos della diversa realtà qualitativa. L’estremo abbandono, il parossismo iniziale si è quietato e sono solo al mondo, in un mondo diverso, sono io nell’azione, la dolcezza della voce che l’uno che è mi fa arrivare potrebbe farmi perdere la via del ritorno, ma la perfezione è solo un attimo di me stesso, il battere del ciglio di un gigante dell’Etna, l’espressione di uno stile di vita che mi vede ospite e nei cui riguardi, dopo essere stato l’attore, tornerò a essere lo scriba. Torno alla mia inquietudine ma il mondo non se ne accorge.

La costruibilità della logica in senso tecnico dipende proprio da questo fallimento della rivolta contro la falsa totalità. Come una gallina cieca il pensatore saltella a destra e a manca alla ricerca di un metodo che gli fornisca quel senso di orientamento che la mancanza della vista, e la conseguente lacerazione della propria unità originaria, gli hanno negato. Qualcosa di simile dice Severino: «Ma questo dominio del consenso si rivela impotente, perché il modo imprevisto in cui si realizza il dissenso altrui travolge il monarca e insinua il dubbio nelle certezze possedute dal singolo intorno al mondo che gli è dato. Come la legge morale, così il “dato a me” deve essere accettato anche se ciò conduce al fallimento pratico più radicale. Ma la legge morale e il concetto epistemico del dato remunerano il fallimento nel mondo con il dominio in quella che viene considerata la “vera” dimensione dell’esistenza». (Legge e caso, op. cit., pp. 40-41). La verità diventa in questo modo una qualità del giudizio, un metodo d’indagine e una procedura conoscitiva, cose che per non annullarsi in contraddizioni evidenti, devono avere successo, cioè devono essere capaci di risolvere problemi, faccende poco chiare, fenomeni incomprensibili, in una parola devono essere in grado di mettere in moto il processo analitico. In pratica, una finzione. Il successo di una teoria è dovuto sempre al grado di finzione in essa racchiuso: «Oltre a quel generale principio cautelativo, che mette in guardia dallo scambiare le finzioni con la realtà, si può comunque ancora dimostrare che ogni finzione deve potersi giustificare, vale a dire che essa deve essere giustificata da quel che fa per il progresso della scienza. In ogni singolo caso si deve dimostrare che la forma è conveniente, la struttura è conveniente, non è superflua, ma che effettua servigi, e si deve determinare altresì quanto sia grande l’estensione della sua competenza. Si deve sempre far riferimento alla frattura tra realtà e finzione, e si deve badare a non mutare la finzione stessa, o le conseguenze da essa immediatamente deducibili nella realtà. Secondo tutte queste regole cautelative, una finzione può valere come un “errore legittimato”, cioè una forma di rappresentazione finzionale, che debba necessariamente rivelare il diritto della sua esistenza. Al contrario è falso, dal successo di una tale attività logica, arrivare ad inferire la purezza logica o la reale validità della stessa, perché restano sempre perifrasi e stratagemmi del pensiero, che non possono valere come reali, in quanto logicamente contraddittori, e che quindi non possono essere validi solo perché conducono allo scopo. Comunque l’errore più frequentemente biasimato è proprio quello di derivare dal successo logico un’inferenza della purezza logica. Un risultato essenziale della nostra indagine è dato proprio dalla scoperta del fatto che la contraddizione è lo stimolo del pensiero, che senza di essa il pensiero non può raggiungere i suoi fini, che infine essa è immanente al pensiero discorsivo, ed è anzi addirittura un suo elemento costitutivo. È stato, inoltre, più volte notato come non vi sia alcun confine rigido fra la verità e l’errore, e si è mostrato che quel che si chiama abitualmente verità è precisamente, per così dire, un mondo delle rappresentazioni, che si accorda al mondo esterno, e che questa verità è quindi soltanto l’errore più opportuno». (H. Vaihinger, La filosofia del come se, tr. it., Roma 1967, pp. 111-112). L’uomo del fare corteggia la morte, la produce e la gestisce, ma la tiene a distanza, la teme. Industrializza la morte degli altri ma non dà mai un carattere definitivo alla propria. Gli equilibri e le corrispondenze ordinative della modificazione impediscono una considerazione reale della propria morte, la quale interviene sempre inaspettata come un ladro che ti toglie la vita nel corso di una rapina. Non accedendo alla diversità, non opera trasformando la realtà e quindi suggerendo possibili intenzioni diverse al proprio destino, è schivo, quest’uomo, di quello che deve accadere, non agisce su di lui, lo attende inconsapevole e tremante. Si illude che la sua vita nel mondo non abbia una fine, una brusca interruzione, oppure si augura che sia quanto più lontana possibile. Molti uomini del fare sono pieni di risorse e di attenzioni, diete e chimica li sorreggono, ma se una tegola vacilla sulla loro testa non possono saperlo. Non sapendo agire sono schiavi dell’ottusità del loro destino e della rapacità dei loro possessi. Quasi sempre cominciano a morire per tempo, ma non se ne accorgono, il loro mondo cade a pezzi e pensano solo a come salvare il salvabile, cioè niente, quando esalano l’ultimo respiro sono già morti da un pezzo.

La verità in quanto momento critico del rapporto con la totalità, patrimonio che si acquista e si perde continuamente, inquietudine della coscienza, ricognizione critica e salto nella qualità del reale, questa verità che non è accumulabile, né catalogabile, l’unica strada per fissare una relazione con la realtà, per mettere in contatto i due versanti che si contrappongono sul piano dell’effettualità, questa verità non può essere intesa che come insieme delle esperienze possibili del singolo e della collettività, come azione e lotta, come eresia e rivolta, come altro dell’ordine costituito. «Il giudizio di valore: “io credo che questo e quello sia così” come essenza della “verità”. Nei giudizi di valore si esprimono condizioni di conservazione e di crescita. Tutti i nostri organi e sensi conoscitivi si sono sviluppati soltanto in vista delle condizioni di conservazione e di crescita. La fiducia nella ragione e nelle sue categorie, nella dialettica, quindi l’attribuire valore alla logica, dimostra soltanto la loro utilità, provata dall’esperienza, per la vita, non la loro “verità”. Che debba esistere una massa di credenze; che sia concesso giudicare; che manchi il dubbio riguardo a tutti i valori essenziali: – è questo il presupposto di ogni essere vivente e della sua vita. Quindi è necessario che qualcosa debba essere tenuto per vero – ma non che qualcosa sia vero. “Il mondo vero e il mondo apparente” – questa antitesi viene da me ricondotta a rapporti di valore. Noi abbiamo proiettato le nostre condizioni di conservazione facendone dei predicati dell’essere in generale. Muovendo dalla necessità di esser stabili nella nostra fede per prosperare, abbiamo fatto sì che il mondo “vero” non sia un mondo che muta e diviene, ma un mondo che è». (F. Nietzsche, Frammenti postumi 1887-1888, in Opere, vol. VIII, tomo II, op. cit., pp. 14-15). Una verità quindi capace di essere diversa, cioè fuori della coscienza, ma anche fuori della norma e della codificazione, una verità come sintesi che non si contrappone all’analisi ma la oltrepassa vivendo un’ampia esperienza ben prima dell’analisi e traendo da questa soltanto elementi per meglio consolidare la propria conquista. Infine, una verità come sofferenza e perfino come desolazione, la desolazione della realtà, al limite, la verità come delirio, come nocciolo della vita.

Un modo di concepire la verità che è tutto da ricostruire, pezzo per pezzo. I libri di logica, i camici bianchi dei pensatori e degli anatomisti, le sale asettiche della ricerca scientifica, l’hanno estromessa senza discussioni. In fondo, la verità continua a far paura. «L’uomo – precisa Maurice Blanchot – è legato alle cose, è al centro di esse, e se rinuncia alla sua attività realizzatrice e rappresentativa, se si ritrae apparentemente in se stesso, non è per congedare tutto ciò che non è lui, le umili e caduche realtà, ma piuttosto per trascinarle con sé, per farle partecipi di questa interiorizzazione in cui esse perdono il loro valore d’uso, la loro natura falsata, e perdono anche i loro stretti limiti per penetrare nella loro vera profondità». (La comunità inconfessabile, tr. it., Milano 1984, p. 30). Molti sostengono che le condizioni attuali della realtà rendono inesperibile la sua conoscenza da parte dello strumento fornito dalla logica dell’a poco a poco. Io penso che questo non è un problema post-moderno, ma una condizione essenziale della conoscenza, oltre a essere una delle condizioni principali dell’azione. «O pensieri mortali, o vano errare degli uomini, che fanno essere a un tempo e il destino e gli dèi. Perché se c’è il destino, che bisogno c’è degli dèi? E se il potere è degli dèi, il destino non è più nulla». (Euripide, Ipsipile, fr. 3).

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“L’essere è opaco a se stesso precisamente perché è ripieno di se stesso”.

(J.-P. Sartre, L’être et le néant)

“Ci sono tre significati diversi del termine assoluto in relazione alla verità: in primo luogo, si è intesa l’assolutezza della verità come obiettività o indipendenza del contenuto conoscitivo dal soggetto conoscente; in secondo luogo, abbiamo designato come verità assoluta la verità compiuta; finalmente, abbiamo parlato della verità assoluta come di una conoscenza adeguata, quindi eterna e immodificabile, dell’intera realtà, ossia come verità assoluta compiuta e onnicomprensiva – concetto che esclude la dinamica e lo sviluppo reale del conoscere. [Il pragmatismo] identifica ora nel modo più semplice il problema del carattere assoluto della verità con questo terzo significato della ‘verità assoluta’, e avanza i suoi argomenti contro la verità assoluta in questo senso (contro la quale non è certo difficile trovare argomenti), come se ciò equivalesse a distruggere una volta per tutte l’assolutezza della verità in genere, e quindi anche la sua obiettività. L’argomentazione antiassolutistica costituisce quindi tutta la suggestione della teoria [pragmatista], che, appoggiandosi ad essa e quasi traendone credito, tende a suggerire che poiché l’avversario è in errore, la teoria che gli viene contrapposta dovrà essere valida. Formalmente, come è ovvio, il passaggio è infondato, poiché dall’opposizione a una teoria falsa non deriva necessariamente una teoria vera; è altrettanto possibile il contrario, che la nuova teoria non sia meno falsa della prima, ed è quello che si verifica qui, nonostante l’opposizione puntuale delle nuove tesi rispetto alle vecchie. Ma tant’è: [il pragmatismo] appare tanto più ‘comprensibile’ e ‘ragionevole’ quanto più i suoi attacchi contro la teoria della verità assoluta sono efficaci e precisi. La differenza fra le due verità consiste innanzitutto in questo: la verità umana, ossia la conoscenza vera, con cui noi operiamo, è sempre parziale; la verità assoluta, invece, è totale”.

(A. Schaff, La teoria della verità nel materialismo e nell’idealismo. Questioni generali)

Capitolo IV

Quando, in passato, poniamo nell’Ottocento, ci si entusiasmava per i successi del determinismo scientifico si aveva soltanto l’impressione di una conoscenza, l’aspetto esteriore di una risoluzione definitiva dei problemi. Puntualizza bene l’epistemologo Mario Calderoni: «Oggi si parla molto di previsione, e “previsione” tende a diventare un termine di moda nel vocabolario filosofico. La nuova voga di tale parola è specialmente dovuta a quella corrente di pensiero designata col nome di pragmatismo, e il punto di vista, per così dire, da cui la previsione è considerata è alquanto diverso. Non si tratta infatti di sapere fino a che punto si possano prevedere i fatti avvenire e in particolare le azioni degli uomini: la questione del determinismo, la questione della profezia è fuori dal nostro scopo per il momento. Il pragmatismo insiste, almeno in una delle sue più importanti concezioni, sul principio che il “significato” di una dottrina, di una teoria, di un’affermazione qualsiasi sta nelle “conseguenze pratiche” alle quali in essa implicitamente o esplicitamente è fatta allusione, e sulla necessità di svolgere e considerare tali conseguenze per esaurire e fissare il significato medesimo. In questo principio che ha dato occasione a non pochi malintesi, – per “conseguenze pratiche” vanno intese le esperienze particolari che la dottrina o l’affermazione in questione ci permette di prevedere; esperienze che costituiscono il criterio, non solo della verità o falsità delle dottrine e delle affermazioni stesse, ma anche del loro avere un senso o non averlo. Due dottrine od asserzioni, le quali portano a prevedere le stesse conseguenze, e fin tanto che portano a prevedere conseguenze, sono da considerarsi come la stessa identica asserzione sotto forma diversa; una dottrina od asserzione, della quale possa escludersi ch’essa metta capo a previsioni di sorta, e dovunque questo possa escludersi, è da qualificare come irrilevante e vuota di significato». (Scritti, vol. II, Firenze 1924, pp. 1-2). In fondo, col determinismo si era lontani dalla verità, allo stesso modo in cui lo si è adesso, solo che ora sappiamo che esiste una piccola strada, difficile da percorrere ma ormai sufficientemente chiara, una strada che parte dal coinvolgimento e non dall’esclusione, dal coinvolgimento di chi è all’interno dell’accadere conoscitivo. Il destino aspetta prima di pronunciarsi in modo chiaro, le sue possibilità vengono offerte spesso camuffate in modo inestricabile. Cercare di capire conseguenze di fatti precisi, in base a leggi che sono confortanti ma di certo non sono fondate, è una fede come un’altra, il determinismo ha accecato intelletti potenti non meno della fede in un qualsiasi dio. Studiando questi messaggi si riconfermano le apparenze del mondo, le vicissitudini esteriori, mentre le possibilità reali permangono misteriose. È l’agire che mi dà la forza di costruire il mio destino, ma non me ne fornisce la conoscenza fattiva. Se non sono capace di cogliere i segni di quello che si sta trasformando nella cosa e in me stesso, sono condannato a restare nella stessa ignoranza.

Dall’iniziale difesa magica contro l’incomprensibile mondo della natura, alla costruzione di un insieme scientifico di norme da impiegare per comprendere la realtà si assiste al dibattito tra due orientamenti: il primo, tecnico, in cui c’è una stretta relazione tra parola e oggetto a cui la parola si riferisce, il secondo, magico, in cui la parola finisce per staccarsi dall’oggetto e assumere significati autonomi e anche contrari a quelli specifici dell’oggetto stesso. Esattamente Elvio Fachinelli: «Rarità e isolamento, in fondo, dell’estasi mistica nel monoteismo, in quanto rapporto singolo con un dio creatore unico, e perciò fatalmente separato dalle sue creazioni. Nel politeismo, in rapporto con un divino diffusivo, status naturae, ecco un pullulare di situazioni estatiche, molto diverse tra loro e però sempre vicine. Pan, dio dei pastori, ama le fonti, i luoghi freschi; sorgenti e luoghi ombrosi sono sede del dio. Il dio è percepibile. E così per le altre divinità. Le religioni di un solo dio (ebraico-musulmano) come religioni del deserto, del roveto ardente dove la molteplicità del reale si riduce fin quasi all’abolizione. Da ciò unificazione del creato, con soppressione dei numinosi. Superiorità del monoteismo sul politeismo: puramente astratta, violenta». (La mente estatica, op. cit., pp. 34-35). Tenendo conto che il linguaggio costituisce il solo mezzo per intraprendere una costruzione di strumenti di indagine analitica, si può capire il significato e la profondità dell’impegno iniziale di coloro che si dedicarono alla formazione dell’apparato teorico della conoscenza.

Nel periodo iniziale, quello caratterizzato dalla riflessione cosmologica, man mano che si esce dal clima della cattiva totalità, si ha una parallela uscita dalla situazione caratterizzata dalla paura del nume. Ancora Fachinelli: «Perché la religione è stata finora il luogo deputato dell’estatico, tanto da esserle assegnato o da farne quasi un suo attributo esclusivo? Religione come spazio riservato alla meditazione dell’uomo su di sé, sul suo destino. Dove si ha di fronte l’angoscia della morte, distacco estremo, che i più cercano di cancellare attraverso una garanzia di salvezza, mentre alcuni attraversandola giungono all’estasi. Nel momento in cui la religione, pur tra sempre nuove efflorescenze, non è più un’interpretazione accettata universalmente, si assiste a un doppio movimento. Da un lato, l’estatico è perso, dimenticato, insieme al contesto di cui faceva parte. Dall’altro, esso evade dal suo tradizionale ricettacolo religioso e affiora altrove. Di qui l’incontro frequente, negli ambiti più diversi, con situazioni estatiche effettive e insieme misconosciute». (Ib., p. 38). Si tratta di uno sviluppo positivo in quanto con esso si spezza il cerchio magico della totalità identica a se stessa, ma anche negativo in quanto la costruibilità fornita dall’ipotesi analitica non viene riallacciata al grandioso contenuto precedente, il quale viene in questo modo perduto all’interno della nuova prospettiva. In un certo senso, si getta l’acqua sporca con tutto il bambino.

Il pensiero della totalità si sviluppa pertanto in un patrimonio sensibile su cui sempre meno si getta lo sguardo quantitativo dei raccoglitori e dei nuovi preti. Gli si contrappone ormai un patrimonio astratto, frutto all’inizio di riflessioni arditamente eretiche e via via svilitosi in rimestamenti e sistemazioni. «Io ho bisogno dell’immortalità della mia anima; ho bisogno della persistenza indefinita della mia coscienza individuale: senza di essa, senza fede in essa non posso vivere e mi tormenta il dubbio, l’incredulità di poter conquistarla. E poiché mi è necessaria la mia passione mi porta ad affermarla e ad affermarla arbitrariamente, e quando cerco di farvi credere ad altri e a me stesso violento la logica e mi servo di argomenti che i pover’uomini senza passione, che si rassegnano a dissolversi del tutto un giorno, chiamano ingegnosi e paradossali». (M. de Unamuno, Sobre la europeización, in Obras completas, vol. III, ns. tr., Madrid 1966, p. 936). Il primo, il reale patrimonio della ricchezza sensibile, viene invece coltivato in modo sotterraneo come desiderio non esaudito né esauribile, spesso anche dall’animo popolare, quando non viene sovraccaricato e sommerso dal prevalere del senso comune, e in questa sua realtà trova, nello stesso tempo, il proprio limite e la propria significatività. Ha scritto Remo Bodei: «[Nel soggetto] c’è un vuoto parlante che, nel suo vitreo nitore, custodisce un invisibile Altro. L’io diventa tanto più rarefatto e la sua voce tanto più estranea, quanto più la natura prima riassorbe la natura seconda. La via della conoscenza di sé attraverso se stessi è bloccata. Dietro l’evidenza del cogito c’è solo un’eco, che ripete con timbro non suo, Io, Io, Io. L’Io stesso si popola di fantasmi, ospita in casa sua l’alterità, quella stessa volontà di vivere, che è più intima a noi di quanto lo siamo noi a noi stessi. Rispetto a essa gli individui sono “sogni fugaci”, un’apparenza che pretende di avere realtà». (Scomposizioni. Forme dell’individuo moderno, op. cit., p. 217). L’altro patrimonio coglie sempre più l’abilità dei processi riflessivi, fino ad arrivare a una definitiva preponderanza di questi ultimi nella costituzione dello scibile fondato sulla riflessione e la catalogazione. Al contrario, l’ingenuità del coinvolgimento è paradossale, coglie la totalità di me stesso e, nello stesso tempo, non vede i pericoli e le incongruenze a cui va incontro. La putredine del mondo gli fa talmente schifo da non essere in grado di esplorare fino in fondo tutte le infondatezze di ciò verso cui si avvia. Mi sono reso conto che la cecità alle condizioni calcolanti del mondo produce due effetti, ne fa scoprire il marcio che nascondono e fa indirizzare verso l’assolutamente altro.

Cercare l’altro, il primitivo concreto, la sensibilità del cuore che si contrappone alla riflessione della ragione, diventerà ormai faccenda pericolosa e marginale, opera di esclusi in continuo pericolo di vita. «Se la soggettività, l’interiorità è la verità, allora la verità determinata oggettivamente è il paradosso, e il fatto che la verità determinata oggettivamente è il paradosso mostra precisamente che la soggettività è la verità, poiché l’oggettività respinge, e la respinta dell’oggettività ovvero l’espressione per la respinta dell’oggettività è la tensione e la misura dell’interiorità. Il paradosso è l’incertezza oggettiva, che è l’espressione per la passione dell’interiorità quale è per l’appunto la verità. Così il principio socratico. La verità eterna, essenziale, cioè quella che si rapporta essenzialmente ad un esistente per quel che riguarda essenzialmente l’esistere (ogni altro sapere è, dal punto di vista socratico, accidentale; il suo grado e il suo ambito, indifferente), è il paradosso. Però la verità eterna essenziale in se stessa non è affatto il paradosso, ma lo è col rapportarsi all’esistente. L’ignoranza socratica è l’espressione dell’incertezza oggettiva, l’interiorità dell’esistente è la verità. Per anticipare subito, si osservi quanto segue. L’ignoranza socratica è un analogon della determinazione dell’assurdo: soltanto che, nella respinta da parte dell’assurdo, c’è ancora meno certezza oggettiva, perché allora c’è solo la certezza ch’esso è assurdo, e quindi una tensione infinitamente maggiore nell’interiorità». (S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia, vol. II, op. cit., p. 17). Salvo poi, quando la pressione di queste forze marginali si rende forte e non più circoscrivibile, a impiegare i classici metodi del recupero per riportare tutto nell’alveo eterno della ragionevolezza e dell’a poco a poco. Il senso assoluto del tempo calcola i ritmi del mondo, per questo mi impedisce di sognare. In galera è possibile provare la fondatezza di questa paradossale affermazione. Sogno ciò che può sfuggire al tempo, beffarsene e restare davanti a me, non come guida o segno, ma come riflesso di un’assenza che non posso colmare.

La scelta irragionevole appare quindi un po’ ridimensionata. Chi la vive sa perfettamente quanto possa essere sconvolgente, ma non può essere proposta come una via di fuga. «In sé muggica il fiume. / O se fiume non era, un getto di forme / un giuoco di febbri, assurdo / e la fine ad ogni margine». (G. Benn, Intorno alla natura della poesia). Chi fugge ha sempre paura di qualcosa, e ha paura perché ha deciso di non farsi coinvolgere. La messa in dubbio delle capacità della ragione, pur restando nel territorio logico della razionalità, è pur sempre una scelta irragionevole, ponendosi come scelta critica contro la ragione. Nell’ambito della logica del tutto e subito non è possibile chiedere di più. La vicenda di Proust è una guida per la riflessione su questo problema della fuga. Ecco come la vede Fachinelli: «Angoscia, abbattimento; fuoriuscita dall’angoscia attraverso un lento penoso avvicinamento alla figura di creazione; assimilazione a questa figura. Il percorso di Proust è accostabile al lavoro di un mistico, ma perché il lavoro del mistico è accostabile alle peripezie, agli erramenti e ai ritrovamenti del creatore. Da ciò si comprende come a Georges Bataille l’opera proustiana potesse riuscire “lontana”. Il possesso delle cose della vita, realizzato nell’opera, lasciava secondo lui sfuggire la parte di “inaccessibile” che c’è in ogni “impressione”, ciò che sempre si sottrae, e impediva così a Proust di raggiungere il fondo, il “vuoto oscuro” cui egli stesso tendeva. Proust era per Bataille nella posizione dell’anima devota che possiede il divino di cui gode; possedeva la sua opera, e in ciò si poteva vedere il compimento del suo “voler far uso e abuso degli oggetti che la vita propone”. Ma per giungere a questa conclusione, Bataille doveva svalutare la parte avuta nella creazione dell’opera proustiana dalla vittoria sul tempo». (E. Fachinelli, La mente estatica, op. cit., pp. 57-58). Il campo non può essere rimesso continuamente in discussione, o abbandonato del tutto. Le condizioni del fare sono destinate a perpetrarsi nella loro modificabile decrepitezza, sono sempre differenti e sempre perpetuano una caducità irrimediabile. Carico l’accumulo di quello che conosco e lo connetto con le mie vaste cognizioni, ma tutto permane all’ombra di un cogente rimbambimento. Sono vecchio a dismisura fin dal momento in cui affacciandomi creo il mondo immaginando di trovarlo bello e fatto. Sono vecchio e inaccettabile, do il voltastomaco come processo e come meccanismo che cerca di sloggiare da sé ogni approssimazione e ogni paura. Usurpo la vita dandomi arie di sovversivo, ma fino a quando queste resteranno confinate nel di già visto, sarò un sedizioso da operetta, per cui il fare, assistito dal suo complemento necessario, il parlare, mi serve per provare a me stesso che esisto e che non ho di già esalato l’ultimo respiro. Convincermi che questo è il mio mondo, il mio reale possesso, e stringermi a esso come garanzia di successo e di conservazione, è il massimo dell’ignominia. Tradisco senza saperlo la vita e ne ricevo piattonate in faccia. Lo stupore dell’incomprensibile che riesco solo a intuire in parte mi rimane estraneo, allontano da me gli inauditi gemiti della cosa che si tramutano qui in assenza, in rigetto platonico dei clamori empirici di chi vuole misurare e incasellare. Quando mi accorgo di quello che ho avuto la disavventura di rifiutare e cerco di correre ai ripari, ecco la volontà che mi si mostra davanti, armata come la dea vergine e mi annuncia le nuove dissolutezze che potrebbero cogliermi nell’abbandono. Il rumore di ferraglia di questi avvertimenti turba un poco le mie rimuginazioni, ma poi torno al tepore del caminetto casalingo. La mancanza di coraggio contamina lo spirito di avventura, insozza perfino le supposte purezze della realtà senza essere capace di chiedere la rivincita. Le catastrofi hanno più senso di un assennato filosofo.

Nel caso si vada avanti con scelte di questo tipo la conclusione non può essere diversa da quella del delirio. Sulla positività del delirio si possono dire molte cose, e alcune le sto dicendo qui, come pure sui limiti delle sue pretese del genere “ultima frontiera”, ma tutto ciò deve poi essere riproposto al senso, quindi alla coscienza e ai suoi progetti di controllo e catalogazione, anche per scatenarvi altre inquietudini e ulteriori protezioni di diversità. Nel caso in cui si faccia l’esperienza del territorio della desolazione assolutamente in proprio, come si trattasse di una personale ed esclusiva sperimentazione, anche il delirio sarebbe privo di significato. Scrive Roberto Esposito: «È proprio la rottura dell’identità soggettiva – dell’ipse, ma anche dell’alter ego – la condizione della comunità. Essa non è formata da una serie di soggetti, ma dalla loro esposizione alla perdita della soggettività. Ciò che si condivide è esattamente questa perdita che fa del soggetto – della sua intenzione inevitabilmente appropriante – semplice esistenza. Esistenza condivisa, partagée, nella sua finitezza». (Categorie dell’impolitico, Bologna 1988, p. 307). Io penso, per quel che può essere la mia personale esperienza, che una riduzione nell’ambito strettamente personale dell’esperienza “altra” o della qualità, è segno di debolezza e di incerto coinvolgimento. Di regola questi processi iperattivi si dirigono in senso inverso proprio nei confronti dei meccanismi di accumulazione, e ciò nel disperato tentativo di fare fiorire la quantità, ed è quindi più difficile trovarli nel territorio della cosa.

Cogliere la totalità nello sforzo estremo verso la qualità del reale, e questo va bene, ma bisognerebbe essere capaci anche di presentirla al di qua, nel progetto ricognitivo, dove meno gli altri sono disposti a concederci questa possibilità, e progettarla tramite la mascheratura, il gioco dell’imprevisto, l’insospettabile e stupefacente deformazione delle antiche concordanze. È una fede nell’interpretazione che qui dichiaro, una fede nella capacità critica negativa, nell’immaginazione negativa. «Molte sono le cose inquietanti, ma nessuna più dell’uomo». (Sofocle, Antigone, vv. 332-333). Certo, ci potrebbe essere il rischio dell’accontentamento, tanto rumore per nulla, il disegno dell’ipotesi ben più vasto e accogliente della modesta casa della realizzazione, la trappola dove racchiudere il mondo, l’acquietarsi nella medesima assiduità da cui si era fuggiti, con appena la formula cambiata. Può l’interpretazione accumularsi? Di regola non potrebbe, di fatto può accadere. L’assaporamento del tutto e subito può determinare una fascinazione come una repulsione, furtivamente accettabili entrambe, per quanto diversamente solleciti verso la differenza da cui ci aspettiamo tanto. L’oltrepassamento è un avvenimento intimo, un movimento della coscienza, questo è certo, ma ha anche dimensioni cosmiche, è un’esplosione dell’immobile monotonia modificativa, una rottura dell’automatismo che cattura e invischia senza fornire spiegazioni, spezza tirannie che entrano nel sangue e esautorano il potere liberatorio del fare, sia pure circoscritto alla conoscenza. La visione intuitiva permette un allargamento che oltrepassa le dimensioni ristrette dei dannati al fare e scatena la voce dell’uno, la potente desolazione della cosa, l’irradiamento della qualità. Non si tratta di un soprassalto di saggezza, un ripensamento profondo dello scopo e dei mezzi conoscitivi, ma dell’assolutamente altro. L’intuizione non corregge il fare e i suoi limiti, è lacerazione profonda e radicale, incide la cerne che sonnecchiava nell’assenza del dolore, e propone orizzonti funesti e furenti nelle loro possibili conseguenze, se paragonati al pacifico ritmo della modificazione.

Il lavoro interpretativo è quindi, ancora una volta, chiamato a mettere a fuoco le intenzioni sovradimensionate. Solo a questa condizione sono criticabili le presunzioni tecnologiche occidentali, per definizione, come pure le attese estatiche orientali. Il desiderio di impadronirsi della realtà restandone al di fuori è, in entrambe le ipotesi, diversamente formulato, questo è vero, ma coincidente con la mancanza di fondatezza critica. Dobbiamo entrare nella qualità, la strada per la realtà passa attraverso questa porta stretta, davanti alla quale saremo costretti a depositare una gran parte del tradizionale bagaglio delle presunzioni culturali. Così Franco Rella: «È necessario che nessun possibile, nessuna eventualità, neanche quella che non ha trovato la via per diventare forma e realtà, sia definitivamente cancellata, cassata, sacrificata al potere della ragione, o alla ragione dei potenti». (Limina. Il pensiero e le cose, Milano 1987, p. 161). La soglia della qualità non consente il contrabbando di residui qualitativi o di antiche illusioni d’ordine, ma non è raggiungibile se non dopo un lungo tirocinio che partendo dal laboratorio si conclude nella ricognizione critica, quindi anche il percorso elaborativo della logica del tutto e subito, tirocinio che consente di puntualizzare situazioni in cui, in modo rapinoso e sconvolgente, se vogliamo, si realizza una intuizione della vita. Lo stesso Rella, poco prima aveva scritto: «L’indeterminato abita dentro la determinatezza della cosa: è l’invisibile che si rende visibile nei suoi limiti, portando la cosa stessa a un punto di massima tensione e di oscillazione. Esiste infatti una “fluttuazione” fra gli opposti, fra io e non io, fra libertà e non-libertà che costituisce lo spazio desituato e atopico della cosa, in quanto è il suo luogo medio, il suo limite interiore, il fra-mondo». (Ib., p. 45). Non so se posso scoprire il segreto della qualità. Gli dèi sono arcigni custodi della desolazione, naufrago spesso su lidi serenamente inospitali, dove oltre a una brezza leggera non c’è altro che la mia attesa spasmodica. Ma quest’ansia è un relitto dell’antica arroganza, forse sopravvissuto all’abbandono e in lotta con quello che quest’ultimo presupponeva di ottenere. L’atto è ancora lontano, non ci sono segni o indicazione, né la voce dell’uno è udibile in queste condizioni. Ho un grande desiderio di tornare a casa e invece sprofondo sempre di più nell’intuizione, mi mantengo incorrotto ed eretto, la mia sfida si estende da me alla cosa e coinvolge la qualità come esperienza possibile. Vedo ora che è veramente il sole nero della diversità, e il piovere giù delle stelle e del sangue. La morte di un uomo, di un solo uomo, è una catastrofe che avvolge tutta l’umanità e che nessuno può commettere l’imprudenza di considerare un fatto più o meno complesso. E l’azione, mano a mano che risale alla sua radicale capacità di trasformazione, consente di intuire che è proprio là la fine della parola, dove smetto di sentirmi infeudato a un potere che consente un ponte comunicativo col mio nemico. La totalità è fine della parola, fine del processo, riassume in sé ogni schema col quale cerco di modellare sulla conoscenza le nuove esperienze intensive della qualità. Basta con la ragione, le tenebre della qualità sono il sole nero della nuova intuizione, il lampo definitivo che acceca.

L’uomo può essere anche questo, cioè una forza capace di vivere una vita piena e qualitativamente esaltante, ma lo deve agendo, non può prepararsi all’infinito, in caso contrario riammetterebbe quella sospensione del coinvolgimento, sia pure in attesa di un più alto momento di rischio, che è proprio la prova di tutt’altre intenzioni. La nostra cultura ha una profonda avversione verso questo modello di ragionamento in quanto intuisce che esso prelude a un pericoloso richiamo verso l’ignoto. «La scienza avanza per congetture e confutazioni e progredisce da problemi ad altri problemi di profondità sempre crescente». (K. Popper, Congetture e confutazioni. Lo sviluppo della conoscenza scientifica, tr. it., Bologna 1972, p. 380). Preferisce, come ha sempre fatto, l’accostamento progressivo, la chiarificazione graduale. Il desiderio di comprendere la totalità del reale è intrinsecamente dissolvente. La logica dell’a poco a poco ha sempre messo in guardia contro questa incompatibilità e ne ha tratto sommo beneficio, risultando utile ai potenti, per i loro progetti, e anche ai deboli, per farli continuare a coltivare le proprie illusioni.

La complicità del potere, nel suo distendersi onnicomprensivo, cerca di ridurre questo impulso verso la totalità all’espressione circoscritta del bisogno estetico di qualità. Ma questa sollecitazione a chiudere gli occhi è una delle molteplici trame attraverso le quali si realizza il recupero sociale e il controllo. «Quella che nel sogno era soltanto una possibilità fra le tante viene, quindi, trasformata nell’unica possibilità, in quanto considerata una tappa intermedia del processo che deve necessariamente portare all’esito finale, cioè alla conclusione del sogno, al suo epilogo narrativo. La struttura arborescente, ricca di ramificazioni e di percorsi differenti, del “sogno-evento”, a livello del “sogno-racconto”, dopo la scelta operata dal narratore, si attenua fino a svanire del tutto, ed entra in scena l’irreversibilità. Benché di fatto non ci sia stata nessuna scelta, il sogno viene ripensato e rivissuto come scelta e movimento diretto verso uno scopo: in seguito a ciò l’esplosione perde la sua imprevedibilità e si presenta, nella coscienza degli uomini, sotto forma della prevedibilità della dinamica da essa generata». (S. Tagliagambe, Epistemologia del confine, Milano 1997, p. 231). Al massimo si accetta, o meglio si tollera, una estensione di questo impulso all’ambito della cosiddetta commozione. Il resto, l’irragionevolezza che esplode nel desiderio, esteso, quello che corre lungo tutte le espressioni della vita, con tutta la sua carica di sconvolgente eversione, viene messo da parte mentre, da ogni lato si solleva un invito, un’esortazione verso la ragionevolezza, verso la morbida accettazione della logica dell’a poco a poco.

Il rifiuto di accettare un ridimensionamento del bisogno di totalità, conduce inevitabilmente a una considerazione particolare della differenza. Quale che sia l’apertura della coscienza, anche come proiezione verso uno specifico dichiarato, immediato, fruibile, se essa esiste, in quanto tale, di già determina una differenza e questa, a sua volta, determina conseguenze di grande portata nella stabilità della coscienza stessa. «Al pari del sogno, noi svalutiamo con nuove esperienze tutte le esperienze precedenti che non concorrono nel processo unico dell’individualità della autocoscienza. L’esperienza è misura di se medesima, né può attingere d’altronde il criterio del proprio giudizio. Ma la svalutazione che il pensiero fa di se medesimo, non è mai svalutazione assoluta che sarebbe l’affermazione di un pensiero assolutamente impensabile, d’un mistero non operabile né pur come mistero. Cosa impossibile. Svalutare un pensiero è trovarlo non insussistente, ma deficiente; non distruggerlo, ma compierlo. Il sogno è realtà storica come sogno, integrato dalla consapevolezza, propria della veglia, che si tratta d’un sogno. E di ogni errore si scopre la ragionevolezza e la verità, se ci si mette dal punto di vista di chi ha sbagliato; ed è verità, se si accompagna con la consapevolezza dei limiti di cotesto punto di vista, ossia di quel che vi manca. Questo svalutare come tutto e far rientrare come parte nel tutto è il superare che l’esperienza fa sempre se medesima: il suo svolgimento. E la stessa esperienza, la quale non è altro che il suo svolgimento. La realtà è l’esperienza nella sua immanente consapevolezza. Si può anche dire, se si può evitare ormai ogni malinteso dualistico, l’oggetto dell’esperienza. E questo oggetto è la storia: unica realtà pensabile, e unica scienza in quanto consapevolezza di se stessa. Che cosa rimane fuori di essa? Nulla deve rimanere, perché nulla è fuori della realtà. Pure, dentro alla stessa storia sono discriminati fatti storici e immaginari: ci sono reali accadimenti, e miti, immaginazioni, sogni; poiché a volta a volta un fatto appartiene all’una o all’altra categoria secondo il diverso titolo con cui entra a far parte dell’esperienza: titolo, che è esso stesso un giudizio, cioè una funzione, un momento dell’esperienza». (G. Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Firenze 1975, pp. 258-259). L’emergere della diversità non è mai ragionevole. La logica impositiva, per come la conosciamo, suggerisce un altro modo di dare sfogo alle proprie inquietudini: l’attesa, il ricorso all’accumulazione, perché dal crescere della quantità emerga, come per miracolo, la nuova dimensione qualitativa. La voce dell’uno mi è estranea, non posso né ricordarla né collegarla ai rumori che mi assillano nel mondo. La sua assoluta mancanza di negazione mi sconvolge. Un urlo disumano, quello che solleva il moribondo, a volte, quando ne ha modo, è sempre compresente a un rifiuto, la voce dell’uno mai, è affermativa come nessuna parte di me lo è, oppure solo questa parte che non riconosco come mia e che appunto appartiene all’uno. Un cadavere è un ottimo ricevitore di quella voce, ma non trasmette, è impassibile. La possibilità di dire di no è costante in me, mi salva dalle continue aggressioni del possesso, anche se so che costituisce una risibile barriera è il segno della futura perdita e così non mi sento scavalcato.

Invece la diversità viene fuori come un colpo di mano, un rapimento della statica fermezza ragionevole, la quale si trova a essere travolta dall’inquietudine, dalle contraddizioni, dal desiderio, dalla stessa ragione, infine, se questa si ferma per un attimo a riflettere sulle immense possibilità non esplorate dal riduttivo e pauroso metodo dell’a poco a poco. «Nell’esperienza estatica – e in primo luogo nell’esperienza mistica – disponibilità, apertura, volontà d’impregnazione. “Lì mi dette il suo petto – lì una scienza mi infuse saporosa – ed io a lui mi detti, senza tralasciar cosa – e gli promisi allor d’esser sua sposa”. (San Giovanni della Croce). Parlare qui di un fantasma di godimento femminile è facile; ma presuppone il ricondurre l’intera esperienza a quella erotico-sessuale, ricondurre l’estasi all’orgasmo, o derivarla da esso. Così si elimina o riduce nettamente la specificità di ciò che vive il mistico. D’altra parte, altrettanto facile e insoddisfacente è fare di queste immagini, come di quella del bambino al seno, altrettanto frequente, una metafora per qualcosa che appare in sé assolutamente indicibile. Con quest’impostazione, ci si allontana troppo da quel corpo desiderante che nel caso precedente è invece troppo vicino. Tra estasi e orgasmo vi è parentela, contiguità – una singolare “affinità elettiva” o rapporto di risonanza, non una connessione causale stretta. È questo tipo di rapporto che giustifica un movimento inverso a quello del mistico e di fatto molto più frequente. Il movimento per cui i termini dell’esperienza mistica vengono fatti valere per l’erotismo. Per esempio, in un testo di Roland Barthes dedicato al discorso d’amore, l’innamoramento è “rapimento”, e non si distingue esplicitamente in nulla da quello provato da Paolo sulla via di Damasco. E così per “ascesi”, “appagamento”, “abbraccio”, “unione”: il discorso d’amore sembra inglobare in sé senza alcun residuo il discorso della “mistica antica”». (E. Fachinelli, La mente estatica, op. cit., pp. 40-41). Da qui una rottura che è nuova unione, una unione che è sconvolgimento, rimessa in gioco, rischio. La differenza misura i limiti della ragionevolezza e ne denuncia il progetto egemonico, filtro apparentemente asettico del corrispondente progetto di controllo della coscienza.

La spinta verso la vita è un desiderio di qualità che la coscienza avverte continuamente, ma che tiene sotto controllo surrogandolo con i residui della lavorazione del senso. Nella rottura, causata dalla differenza, questa sostituzione non è più possibile, mentre per la coscienza stessa diventa sempre più difficile frenare con lo strumento dell’analisi il flusso della diversità. Diventando sempre più consistente, quest’ultimo risulta, alla fine, comprensibile per la coscienza ma assolutamente indicibile con gli strumenti di cui essa dispone. Solo la domanda regge. «Domandare – scrive Emilio Garroni – è in linea di principio più necessario che rispondere. Una domanda è sempre un ottimo modo di esprimersi, soprattutto in assenza di risposte. Senza dubbio, si corre il rischio di fare domande insensate e improponibili. Ma proprio le domande insensate e improponibili sono ottimi modi di esprimersi, nel senso che restano e non dileguano. Infatti una domanda che può ottenere una risposta non è più una domanda quando l’ottiene, e anzi è come se non fosse stata mai formulata, dato che al suo posto c’è un’altra cosa: una risposta. È un niente. Potrebbe non esserci stata e non se ne accorgerebbe nessuno. Invece una domanda che non può ottenere una risposta è sempre qualcosa o almeno un niente dentro cui c’è qualcosa in generale». (Racconti morali o Della vicinanza e della lontananza, Roma 1992, pp. 5-6). Non ho vie di fuga, se mi immetto nella condizione diversa dell’agire. Se vado avanti ne sostento tutto il peso, come un acrobata che danza sul filo, non può fuggire, può solo andare avanti con piena fiducia in se stesso. Posso saltare via ponendo la domanda fondamentale, tutto qui?, ma in questo caso l’azione è già conclusa, non il mio coraggio è morto, perché questo non può morire mentre agisco, ma l’eccesso che è in me è diventato alla fine inopportunamente eccessivo. La putredine del mondo non mi accoglie a braccia aperte, ha preparato una sua risposta, questo mondo, una risposta repressiva, dilaniante. Conosce questo linguaggio e la putredine che lo alimenta, io rispondo con la mia forza di rammemorazione, eppure in fondo io sono innamorato di una carogna, ho fatto il naso alla sua puzza e conosco mille meditazioni che mi riducono le sofferenze per sopportarla. Il mondo sono io che lo creo e che lo critico, che lo abbandono e che lo ritrovo. A volte staziono in lui come se venissi da un altro pianeta e non temessi nessuna cronologia, a volte il mio cuore piange. Non mi ci consacro mai interamente.

La ragionevolezza è il giudizio che la ragione esprime contro ogni critica, non contro la semplice e assoluta sua negazione. «È inconcepibile che un essere, che è piena positività, contenga e crei fuori di sé un nulla d’essere trascendente. Pertanto l’essere, per cui mezzo il nulla avviene al mondo, deve nullificare il nulla nel suo essere, ma non come un trascendente l’essere o come cosa, perché altrimenti il nulla sarebbe essere, piuttosto bisogna dire che l’essere, attraverso cui il nulla esiste nel mondo, è un essere in cui, nel suo essere, è questione del nulla del suo essere; l’essere attraverso cui il nulla viene al mondo deve essere il suo proprio nulla». (J.-P. Sartre, L’être et le néant, op. cit., p. 59). Ne deriva che su questo termine c’è spesso confusione, generata ad arte proprio dal supporto propagandistico dell’ordine costituito. Frasi famose, del genere di quella che mette in rapporto la nascita di mostri con il sonno della ragione, sono un aspetto di questa propaganda di sostegno, nient’altro. Di regola i mostri sono meccanismi estremamente perfezionati e tutt’altro che irragionevoli. Il fare ha una pretesa oggettualità che per certi aspetti soddisfa ai bisogno dell’uso. Questa possibilità è di una virulenza inaudita, mi porta con sé facendomi mostro a me stesso, rapace e violento con la conoscenza, quando questa andrebbe fatta fluire liberamente come occasione perduta, non come banale possesso da cautelare. L’abbandono cerca di applicare questo suggerimento, l’accetta e rifiuta la conoscenza l’accetta perché essa è me stesso e non posso toglierla via, la rifiuta perché l’allontana come possesso separato da me, con l’abbandono mi dispongo verso il mondo non contrastandone le condizioni, criticandole negativamente ma non facendole mie in una lotta contraddittoria a vita e a morte. Porto con me la conoscenza che non posso allontanare e allontano la volontà che non posso conoscere. L’abbandono non può essere genuino fino in fondo, ma mi prepara al rifiuto, all’ostilità insonne della desolazione, alle spine della solitudine. Ma l’abbandono è un espediente per il coinvolgimento, raccoglie le forze per la diversa confrontazione con l’azione, non è una rinuncia all’assenza o un’accettazione taoista della vita quieta. Chi gode della sofferenza può capire nel mondo le condizioni della qualità, ma si tratta sempre di una comprensione non intuitiva. I suoi sforzi per un eventuale oltrepassamento sono uguali a quelli di chi nel soffrire riconosce uno splendore che non gli appartiene. Lo stesso per l’obbedienza che sembra incenerire la gioia dei superficiali ma che potrebbe aprire loro orizzonti insospettati se solo avessero un minimo di intelligenza e di coraggio. Il pericolo è un’ottima scuola, ma fa paura agli stupidi che vi vedono solo una messa a repentaglio di se stessi, della propria vita, come se tutto si risolvesse in questo. Del resto, della totalità che il pericolo parzialmente fa intuire, il pauroso non coglie nulla, troppo preso a nascondersi e a mettersi in salvo. Nel pericolo cominciamo a diventare quello che siamo, i paraventi cadono e le apparenze appassiscono vergognose di essersi mostrate. Non temere il pericolo è condizione essenziale dell’amare. Non è capace di amare chi ha paura, l’amore è essenza intimamente pericolosa, spezza l’indifferenza e l’apatia che stanno alla porta della conservazione e garantiscono la sicurezza. Chi ama si mette e rischio, e questo vuole dire affrontare il pericolo a viso aperto, altrimenti non ama ma solo dice di amare, ama le parole dell’amore, le sue apparenze. La tensione della qualità è un continuo esercizio di perfezione che aspira alla totalità dell’uno, come potrebbe aprirsi al pauroso? La prospettiva della desolazione non consente parole di giustificazione.

Bisogna evitare pertanto di confondere irragionevolezza con logica del tutto e subito, quest’ultima pur puntando in altra direzione, appartiene di necessità all’universo della ragione. Ne deriva che, pur essendo indispensabile per capire alcuni movimenti, come a esempio l’inversione di tendenza tra l’orientamento verso l’esistenza e quello verso la vita, non è per questo in grado di assisterci nella comprensione dei movimenti interni alla qualità. Gli avanzamenti nel delirio gli restano estranei. Più che di una logica, in condizioni di questo genere si ha bisogno di una specie di impregnazione, un’aderenza alla realtà che consenta la partecipazione al territorio della qualità, una disponibilità senza riserve che sia di già qualcosa in più del semplice coinvolgimento e qualcosa in meno del completo disinteresse tipico del superamento del punto di non-ritorno.

La follia è una condizione priva di sicurezza, la vertigine della diversità ha un ruolo secondario, a determinarla è la mancanza del fare. Venendo a mancare le certezze manca pure il sostegno che queste forniscono. Certi ribelli non si accorgono che la loro libertà è libertà da carenza di fare, si astengono perché molto di quello che li circonda appare contrario ai loro princìpi. Hanno solo aggiornato le catene, quelle vecchie e rugginose dell’ordine, allo scoperto hanno fatto venire quelle nuove, ma altrettanto robuste, del rifiuto dell’ordine. Ma il rifiuto è solo l’inizio, una critica negativa nel migliore dei casi. Non avvia a qualcosa di diverso, non chiama alla totalità del coinvolgimento, ma taglia via la parte più odiosa, il peso della conoscenza, aspettando che altre vie forniscano quello che non possono fornire. Nella diversità sono sempre l’uomo della conoscenza, anche se l’ho oltrepassata, se non l’ho mai posseduta non posso oltrepassare altro che la mia ignoranza. Anche di fronte alla qualità l’inquietudine della completezza mi soffoca e non accetto quello che penso sia una nuova forma di catena, non accetto la verità e meno di tutto la libertà, salto via, libero come sasso lanciato oltre un muro, cado dall’altro lato e qui giaccio per sempre. Folle, e inutile, completo ma assente, senza più terrori ma terrore io a me stesso. I nuovi bagliori della desolazione non aprono nuove possibilità nel mio destino, ma mi procurano un turbamento continuo, mentre una serie ininterrotta di fantasmi si presenta ai miei occhi ormai ciechi. Vivo ma sperimento nel salto definitivo la perdita della vita. Le mie funzioni essenziali e materiali a volte continuano ancora, ma io sono partito per terre troppo lontane, senza ritorno, per capirle. Non ci sono più mondo e specificità, non più orientamenti, non più quantità. Sono io l’assenza e non posso rammemorarla, ma nemmeno dolermi di questa impossibilità. Eventuali messaggi, colti qua e là, balenii del mondo ormai perduto, se ci sono, residui rovesciati della quantità, rendono la follia ancora più remota e inarrestabile. Troppa l’oscurità, la desolazione, la solitudine, troppo vicino l’abbraccio dell’uno, troppo forte l’intensità qualitativa e troppo assordante la voce dell’uno che riempie le mie orecchie. Molti affermano che i folli hanno perso la ragione, se questa affermazione fosse vera significherebbe che tutti i ragionevoli non sono pazzi. Errore. La follia di cui parlo è nella diversità, ed ha quindi abbandonato la ragione, ma non è follia per questo abbandono, il che sarebbe semmai segno di saggezza qualitativamente arricchito, ma è andata oltre, cioè ha voluto abbandonare ogni legame con la quantità, non ha inteso porre la domanda fondamentale, tutto qui? Ha ritenuto di saltare in avanti, verso la sconosciuta landa deserta della cosa dove nessuno si è mai inoltrato facendone ritorno. Questa è una condizione disperata? Forse, almeno per chi mantiene ancora una fiducia nella parola che rammemora e pertanto nell’azione. Ma occorrerebbe salutare col massimo amore questi nostri compagni che si sono perduti in territori sconosciuti e di cui, come accade in tutti i deserti, a volte si trovano tracce improvvise fra la sabbia e gli sterpi e gli arbusti. Non è detto che la loro follia sia stata una ossessione, o almeno che lo sia stata per loro, potrebbe essere stato un salto felice e gioioso, senza problemi, nel buio desolato. Estasi, non rifiuto, accettazione, non paura. Leggerezza estrema del gesto con cui si sono avvicinati alla qualità, incantesimo che li ha catturati in una trasparenza assoluta. Adesso galleggiano in un mondo che non è un mondo per tutti, ma solo per loro e sono felici.

L’ordine appesantisce la vita e la facilita, i limiti la fanno fiorire ma la sottopongono a condizioni ortopediche le quali, alla lunga, spengono tutte le pulsioni verso la qualità, attutendo perfino le vaghe intuizioni di una condizione diversa meramente possibile.

Nel deserto della cosa non ragiono più in termini di guadagno, l’esperienza in corso non è assommabile con quello che ho fatto prima, neppure con le precedenti rammemorazioni. Lo slancio che mi proietta verso la qualità non è una delle molteplici possibilità del fare, è una intuizione che non specifica modulazioni, ma che si intensifica in se stessa, che propone una visione insidiosa dell’uno, ma non una banale personificazione antropomorfica della totalità. La tensione è così elevata, nell’intensificarsi, che ogni persistenza della pensosa gravità riflessiva, Ercole della conoscenza, viene bruciata come paglia. La realtà con cui ho manipolato il mondo scade d’importanza, affievolisce sullo sfondo, l’eternità dopo avere abolito il tempo e lo spazio si contrae ancora in se stessa come attimo che non ammette la cittadinanza delle parole, che lascia sorgere dal profondo dell’uno la voce di quest’ultimo che parla alla mia coscienza diversa senza che questa lo capisca. Una qualità vive nel momento in cui la colgo e in cui riesce a cogliermi, nell’incrocio di questo duplice movimento di intensificazione intuitiva, e quando questo si verifica c’è una ferita aperta in me, una esposizione nel mio coinvolgimento. Una gratuita messa a nudo della mia carne. Nell’azione è questa carne che agisce, non una astrazione o uno squilibrio che si sono sostituite alla pacificazione precedente sovvertendola. Certo, l’accesso critico ha avuto la sua parte, ma è sempre la mia carne ad agire, a contrapporsi all’organica qualità che mi sta davanti come attimo pieno di sé, massima intensificazione, non come oggetto sparso fatto prigioniero per sempre dal sortilegio specificativo.

Amo l’eccesso che mi spezza la vene, che mi esalta nelle mie forze cerebrali, che mi fa urlare di gioia o di disperazione, amo la vita che mi viene avanti fra le urla di sofferenza e le smanie della bramosia. Amo la qualità, l’assolutezza della libertà che si intensifica fino a farmi balbettare, mentre tutto intorno crollano le vestigia di realtà e i residui che hanno fatto il loro, e il mio, tempo. Amo sentirmi esposto al vento del deserto che annienta e isola, ma porta via verso una verità che niente altro può materializzare. Amo la follia e l’ingresso nel caos, l’apertura che mi ferisce profondamente facendomi sanguinare verso l’interno senza che la mia lucidità, unita alla mia cultura, possano farci qualcosa. Amo non avere alle spalle un riparo, bruciare le navi, tutto nello spazio di un lampo.

L’esperienza della desolazione mi fa capire, una volta fatta, cioè finita e inglobata nella possibilità di dirla, quale livello di agghiacciante lucidità devo raggiungere per esperimentare la qualità. L’uno è inaccessibile, ma posso registrare le sue vibrazioni nelle feconde intuizioni dell’assenza. Il deserto è ricco di pericoli, se sono solo posso parlare con me stesso, devo riuscire a farlo e non è facile raccogliere una risposta che non sia rifiuto o tautologia. Una fiamma interiore mi spinge all’azione ma può, nello stesso tempo, distruggermi impedendo qualunque fioritura della diversità. Frenando, controllando, intimorendo. Vivo questa condizione nell’eccesso senza che la riduca al rango quotidiano della sopportabilità. Sono ingenuo e spontaneo, refrattario alle astuzie.

Se l’inquietudine è ospitata dentro di me, come posso scalzarla e sostituirla con l’assenza? Senza l’assenza non posso abbandonarmi, non posso lasciarmi cogliere dal vento del deserto. Cento amplificazioni critiche negative e cento basi conoscitive accumulate e continuamente rielaborate, non possono avere la forza di mettermi di fronte alla loro sostituzione con l’assenza. Il problema, ancora una volta, non è quantitativo, non mi posso accontentare di aumentare la lunghezza delle catene. Se sono stupido riesco anche a convincermi che ciò sia un bene, come ottenere un paio di catene colorate e più efficienti, se non sono del tutto stupido, se l’utilità non mi ha bruciato il cervello completamente, continuo ad avanzare, affronto l’abbandono con il coinvolgimento. Con la nuova disciplina di mettermi a rischio che cancella ogni efficacia. Più cerco strumenti e più mi avvicino a capire la mia condizione di schiavo, ma a un certo punto quegli stessi strumenti che mi avevano fatto conoscere la mia condizione riservata all’infelicità, se continuo ad accumularli, diventano zavorra e mi allontanano dalla possibilità di intuire dove si trova l’apertura all’abbandono. È proprio la conoscenza che mi presenta il conto più salato. Essa tenta di giustificare il mondo con l’amore filiale più pertinace, non vi riconosce un solo difetto che non si possa sistemare, non ammette possibilità di errore, non vede le catene e delega alla volontà, nella sua veste di poliziotto, il ripristino dell’ordine. Chiude così un cerchio che mi cattura, e che devo spezzare se voglio liberarmi. Non c’è nessuna generosità nella conoscenza, nessuna disponibilità ad ammettere che proprio il riconoscimento dei propri limiti è il limite che l’uccide e che colloca il suo cadavere nell’accumulo.

L’assenza mi attira fisicamente come mille fili legati assieme, una sollecitazione intima e impalpabile mi trasmette un messaggio che stenta a farsi strada in mezzo alle mille strade da fare e che contrasta con l’espansione modificativa che continua inarrestabile a tenermi bloccato il desiderio di andare oltre. L’assenza è per me una presenza misteriosa ed esaltante, contrassegnata da dissonanze imprevedibili che mi esaltano e mi respingono mentre resto prigioniero della conoscenza che ragionevolmente decide della mia vita. Nell’assenza riscopro una lontananza che è nell’intimità mia, nel mio più intrinseco dialogare mai interrotto, una verginità di desideri che non sono mai stati corrotti, mai venduti, mai depressi, mai lasciati soli. Costruire la perdita nella desolazione vuole dire portarsi dietro una lunga preparazione modificativa riassunta però nell’abbandono, nella ricerca, dapprima conscia poi intuitiva, dell’assenza.

Il profumo della desolazione non è un regalo ma una conquista speciale, e ogni conquista che rifiuta l’idea di possesso aspira al dono, cioè rompe tutti i legami della misurazione. Tra regalo, che appartiene al fare, e dono, che appartiene all’agire, c’è un abisso. La perdita è un dono della sconfinata distesa della desolazione, mi perdo e perdo quello che ho nel sogno concretizzato, fisicamente reale, dell’azione, mentre avanzo sempre più avanti, verso una maggiore intensità qualitativa.

Sono stanco di organizzare la mia vita nei minimi particolari, minuto dopo minuto, disgusto dopo disgusto. Non c’è una riflessione più approfondita che possa rendere criticamente dubbia questa condizione regolativa. Se qualcosa deraglia è solo per passare nel binario successivo, parallelo, dove riprende la medesima regola da un punto di vista leggermente modificato. La stanchezza e l’eccesso sono antitetici, quest’ultimo è alimentato da una innocenza radicale che non avverte i limiti e agisce non tenendoli più come coordinate di riferimento. Il coinvolgimento è totale adesione all’abbandono, respinta l’analisi multiforme che riprende ogni volta daccapo i potenti motivi che producono la stanchezza e l’inquietudine nel mondo.

L’abbandono è profonda capacità di fare e rinuncia a farlo, se avesse un rammarico, una zona del fare che non fosse stata per lui una vittoria, o almeno una vittoria certa ma non conseguita, non potrebbe essere come è necessario che sia, un abbandono calato nell’eccesso. L’abbandono, prima di essere tale è stato fare costruttivo, ha modificato e creato e poi ancora modificato il mondo, non lo lasciava perché incapace ma, al contrario, perché capace di farlo, di prospettarlo nel fare, e poi anche, senza volerlo, capace di intuirlo nell’accesso dell’intuizione, al di là di qualsiasi ragionevole giustificazione contraria. Non c’è modo di classificare l’abbandono, o c’è o non c’è, se c’è è tutto intero, se non c’è è una illusione, un’apparenza del mondo del fare, una fabbricazione in serie, una protesi chimica. L’oltrepassamento non può essere in parte assistito dalla volontà, sarebbe impossibile, nel migliore dei casi produrrebbe un blocco sulla soglia dell’apertura, come l’impiccato che non riesce a morire e aspetta dibattendosi che la corda lo soffochi lentamente.

L’apertura alla diversità comporta una considerevole dose di coraggio, ma non è possibile con una decisione della volontà. Qui ogni potenza è impotente. Non c’è nessuna decisione razionale, queste decisioni sono tutte più o meno legate all’abbraccio sicuro, alla manutenzione della catena dell’àncora, ed è un motivo organico che bisogna oltrepassare, l’amore per me stesso, anche per le mie miserie. La propria merda puzza sempre meno di quella degli altri. L’abbandono all’intuizione è talmente eccessivo che non può essere contraddetto da nessuno dei soliti argomenti razionali, li cancella tutti in nome della inutilità. La desolazione del territorio della cosa deve potere corrispondere con la solitudine della consapevole coscienza diversa che si coinvolge, ogni pulviscolo residuale di origine quantitativa è un granello di sabbia che bloccherebbe l’apertura. L’eccesso non è un semplice palpito di vita, è l’affermazione assoluta della vita, quindi è andato oltre la miriade delle giustificazioni a cui la vita si attacca per affermare se stessa di fronte alle incongruenze che vorrebbero giustificarla, al contrario, in nome di uno scopo quantitativo.

Nessuno ha il monopolio delle limitazioni del fare, queste sono sotto gli occhi di tutti, quindi anche le sofferenze che ne derivano, ma di fronte al decidere di affrontare energicamente queste limitazioni sono solo con me stesso. Una domanda atroce è quella di quanto io abbia paura di mettere in gioco me stesso, cioè di convivere per un certo periodo critico, e per un attimo di tensione, con la morte, con la mia morte. La profonda bestialità della vita rende comprensibile l’attaccamento, tengo molto a parti del mio corpo che se le vedessi staccate da me mi farebbero vomitare. L’insieme del mio essere mi procura a volte, nella sua globalità fattiva, più dolore di una eventuale separazione totale o parziale, ma non ha importanza, preferisco dolere e continuare a vivere. Non può essere pertanto una fuga l’andare oltre, ma una sfida. Non sono obbligato a vivere fra le catene della quantità e posso sempre andare via, salpare verso lidi diversi, desolati e difficili da capire, o meglio impossibili, nei confronti dei quali imparo a farmi cogliere mettendo da parte le ragioni immanenti del mondo, tutte fondate sulla modificazione che appare e illude nel suo continuo rotolare via.

Occorre decidersi nello scontro, sapere in quale modo e con quali mezzi attaccare, non accontentarsi del proprio dovere, chi si mantiene nei limiti di sicurezza è colpevole per la propria neghittosità come chiunque altro. È per questo che non ci sono innocenti. Nessuno può dirsi staccato dal contesto in cui vive, anche se la vita gli ha risparmiato episodi spiacevoli lo ha comunque posto davanti alle possibilità di capire. Se non ha capito, continuando per la sua strada, pensandosi neutrale, la punizione si è incarnata nella sua stupidità, dandogli in sorte un mondo incomprensibile. Uno straccio di causa agglomera e rende apparentemente forti, ma la disgregazione naviga sotto il pelo dell’acqua e affiora alla minima occasione.

La solitudine è nello stesso momento tragica esperienza e grottesco rammarico di quello che poteva essere differente. Ma nel mondo la solitudine non esiste, anche in questo buco [2005] dove mi trovo adesso, sembra a me di essere solo, ma cento e cento rumori che ho perfettamente decodificato da tempo, mi dicono che non lo sono. La parola, prima di tutto, sia pure l’urlo bestiale di sofferenza, mi dice che quello che mi appare come solitudine è il solito mondo che un muro di cinta ha semplicemente delimitato. La vera solitudine è quella dell’azione nella cosa, del mio essere assolutamente coinvolto nel momento puntuale in cui opero nella qualità, in cui le piaghe dei millenni, la miseria del sangue versato, le fiamme delle distruzioni, si aprono davanti ai miei occhi. Se non dovesse reggermi il polso, se dovessi solo per una frazione di quell’attimo, avere paura, sarei indegno di agire e quello che mi coinvolge non lo coglierei più, né mi coglierebbe, e il suo rifiuto mi metterebbe di fronte a un fare e a oggetti freddi e bene specificati, pronto a dare un nome a ognuno di essi. La solitudine della qualità si popolerebbe di fantasmi della quantità.

Se adotto un altro ritmo spezzo le condizioni vitali del mondo e mi devo preparare all’inevitabile. Il resto mi riguarda come dissennato e dissonante ospite maleducato che sputa nel piatto. La civiltà stagna e si autodistrugge per modificarsi nelle nuove strutture produttive che ripercorrono gli eterni sentieri della prevaricazione e dell’odio. Oggi tutto ciò è soltanto più febbrile. Non posso chiamarmi fuori da questo massacro se non fronteggiandolo con tutto me stesso, non c’è modo di mettermi in salvo. Un impulso indomabile mi ha sempre spinto in avanti, ad affrontare il fantasma e la morte, reali espressioni della demenza umana, ma essere l’esempio, me stesso, della distruzione non mi ha reso capace di cogliere appieno il mistero. La desolazione della qualità non permette riflessioni che richiedono calma e ponderatezza. Estenuato non ho mai evitato di insistere, di giocarmi la vita, la stanchezza non mi ha mai bloccato il desiderio veramente folle di andare oltre i limiti, anche i miei limiti fisici.

Un passero è caduto sul selciato, stecchito, non conosco il motivo della sua morte, approfondirla sarebbe per me un problema più complesso della morte di una civiltà. Adesso giace sul pavimento del passeggio, non lontano dal muro di cinta, fra poco un lavorante lo scoperà via. Da qui, dietro le sbarre, non posso vederlo bene, non so neanche se è morto davvero e, in fondo, nemmeno se è veramente un passero. Che importa? È qualcosa di vivente che non è riuscito a stare al gioco paradossale della vita.

 
 

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