Prima edizione: maggio 2015
Pierre-Joseph Proudhon
Dimostrazione della inesistenza di Dio
Nota introduttiva
Leggere Proudhon è un’esperienza fuori del comune, sono pochi gli scrittori che mettono insieme la verve polemica con l’approfondimento teorico, la stringatezza dell’esposizione con la radicalità concreta del proprio modo di vedere il mondo.
Il tempo sembra non intaccare le sue cose, anche se, da parte del lettore, occorrono due disponibilità: la mente sgombra dalle solite chiacchiere a cui una superficialità a noi contemporanea ci ha abituati e la volontà di andare oltre, anche al di là di quello che le necessità polemiche e teoriche della metà dell’Ottocento mettevano avanti, come ostacolo, alle tesi di Proudhon.
Questi estratti, che tali sono, dell’opera sua maggiore, rappresentano bene la necessità di sgombrare la propria visuale dai fantasmi, in primo luogo dal fantasma della divinità. In fondo il potere si fonda su Dio, ogni potere viene da Dio, anche se oggi lo leggiamo in termini diversi e la religione è diventata la serva scema, o se si preferisce l’assistente sociale di riserva, quando le strutture forti della repressione cominciano ad accusare difficoltà.
C’è in questo schieramento di orrori una sostanziale mutua disponibilità di servizio che, osservata bene, sgomenta. Le chiacchiere dei vari pagliacci vestiti di bianco che si alternano in Vaticano, per quel che riguarda le esperienze a noi più vicine, stanno diventando sempre più paradossali.
Un poco di sano ateismo non può fare che bene, come una buona purga quando lo stomaco è ingombro.
Buona lettura.
Trieste, 10 aprile 2014
Alfredo M. Bonanno
Introduzione alla Filosofia della miseria
Un’“operazione” Proudhon, oggi [1975], presenta non poche difficoltà teoriche e pratiche, sia per chi si accinge, come noi, alla stesura di una guida per il lettore, sia per chi si assume l’onere della lettura.
Le difficoltà teoriche restano affidate alla ricchezza di un testo che, proponendosi come indagine economica, costantemente è diretto alla visione della realtà sociale nel suo insieme, visione per forza di cose molto più ricca e complicata di quanto non sia l’astrazione economica nelle sue coagulazioni teoriche.
Le difficoltà pratiche si individuano nella strategia diffamatoria e tipicamente chiesastica di una lettura che tende a fare di Proudhon il “banale” supporto di un’analisi accettata dalla chiesa rivoluzionaria in auge e, quindi, anche solo per questo, indiscutibile e veritiera.
Ma i due tipi di difficoltà vanno affrontati separatamente, non dimenticando di fare cenno a difficoltà marginali che si innestano in questi due filoni centrali.
Ad accrescere le dimensioni delle difficoltà teoriche contribuisce lo stesso Proudhon. “Io sono – egli scrive – un rivoluzionario, non sono un voltagabbana”. (Lettera del 4 marzo 1842). Scrittore focoso, esuberante, ricchissimo, produttivo come pochi, spesso indulgente nella polemica, a volte noioso per le continue ripetizioni, a volte dilettevole per lampi di ottima prosa e arguta verve nella migliore tradizione dei moralisti francesi, autore di qualcosa come 38 grosse opere, 14 volumi di lettere, 3 raccolte di articoli, 6 volumi di appunti. Lui stesso si rese conto della necessità di fare chiarezza in questo grande mare tumultuoso dove non pochi vecchi filibustieri pescarono e pescano pesci di ogni sorta. In una lettera a Bergmann (14 maggio 1862), pochi anni prima di morire scriveva: “Penso che sarebbe opportuno che riassumessi in poche pagine, con chiarezza e semplicità, ciò che voglio, ciò in cui credo, ciò che sono”. In un’altra lettera: “Si predicano in questo momento non so quanti Vangeli nuovi. E non ho voglia di aumentare il numero di questi pazzi”. (Lettera del 27 luglio 1844).
Alla base di questa grande costruzione si identifica una logica ordinatrice spietata, ma di tipo diverso della solita che regge la visione del mondo dettata dalla prospettiva statalista. “Sistema non ne possiedo, respingo formalmente la supposizione di averne uno. Il sistema dell’umanità non sarà conosciuto che alla fine dell’umanità. Quello che mi interessa, è di riconoscere la sua strada, e se posso, di contribuire a tracciarla”. (“Le Peuple”, 21 marzo 1849). Alla base del lavoro di Proudhon si colloca il pluralismo sociale, centro di tutte le contraddizioni, “pluralismo e contraddizioni che garantiscono la vita e il movimento dell’intero universo”.
Il filo conduttore della sua critica sociologica della realtà apparentemente contraddittoria, è proprio questo pluralismo di dottrine, di istituzioni, di mentalità, di strutture, che costituisce l’essenza della società. All’interno di questa scelta di campo si inserisce il processo critico nei confronti dei punti di riferimento costanti del potere.
Le difficoltà teoriche sono quindi eliminabili con un’attenta lettura diretta a cogliere i momenti critici del passaggio dall’individuale al collettivo, momenti in cui vengono individuati i punti di contatto tra i diversi livelli di contraddizioni e le istituzioni “costanti” che pretendono condizionare l’uomo in nome di valori cosiddetti “superiori”: la proprietà capitalista, l’assolutismo dello Stato, lo spiritualismo idealistico. Spiegando le sue scelte di metodo, eccolo scrivere a Williaumé: “Trovai che la società, in apparenza comprensibile, regolare, sicura di se stessa, era abbandonata al disordine e all’antagonismo; che era anche sprovvista di scienza economica e di morale; lo stesso per i partiti, le scuole, le utopie e i sistemi. Cominciai allora, o meglio ricominciai, su nuove basi, un lavoro di riconoscimento generale dei fatti, delle idee e delle istituzioni, senza partito preso, e senza altra regola d’apprezzamento che la stessa logica”. (Lettera del 29 gennaio 1856).
Restano le difficoltà pratiche. I testi di Proudhon in lingua italiana, a parte il tanto noto Che cos’è la proprietà? sono di difficile reperimento. Qualche antologia come quella curata da Mario Bonfantini nel 1957 e le edizioni della Utet. Le critiche sono improntate a due correnti ben precise: la marxista e la liberale. Un modello della critica del primo genere sono le brevi parole che Gian Mario Bravo fa precedere alla parte dedicata a Proudhon nell’antologia Il socialismo prima di Marx (Roma 1970). Vi si ripetono i giudizi di Marx. La condanna suona in questo modo assoluta e senza ricorso. Proudhon appare come un confusionario, mezzo economista e mezzo filosofo, in sostanza né economista né filosofo. Troppo poco sistematico per essere economista, troppo poco rispettoso dei padri della chiesa filosofica tedesca per essere filosofo. In questo modo si costruisce l’alibi che chiude una lettura produttiva dei testi di Proudhon e, in particolare, una lettura diretta a scontrarsi con la concezione deterministica di un certo marxismo, funzionale soltanto alla visione precostituita del partito.
Da canto suo il morente liberalismo ha ravvisato, specie in Italia e in questi ultimi anni [1975], un filone non trascurabile nel pensiero anarchico (Proudhon e Merlino sono i due pensatori di cui ci risulta con certezza questo tipo di operazione), filone sfruttabile per alimentare una prospettiva teorica che, contraddetta dalla realtà e dall’accentuarsi delle contraddizioni produttive, trova il proprio campo d’attività nell’ambiente rarefatto delle elucubrazioni universitarie. È in questo senso che va letta l’Introduzione di Vittorio Frosini al volume curato da Aldo Venturini Il socialismo senza Marx (Bologna 1974), che è una ricca antologia di scritti di Francesco Saverio Merlino.
Questa brava gente non si preoccupa per nulla di chiarire la base essenziale del pensiero di Proudhon. Essi prendono il lettore per mano conducendolo con più o meno maestria filistea attraverso un labirinto di luoghi comuni e di citazioni erudite, per dimostrare come la posizione di Proudhon sia importante dal punto di vista scientifico (sociologico) e come ciò non abbia nulla a che vedere col piano delle lotte reali (tesi avanzata dai liberali), oppure come Proudhon sia importante quale confuso ripetitore di teorie molto diffuse all’epoca, eminentemente esposte e cristallizzate dalla grande opera marxiana (tesi avanzata dai marxisti, neo dominatori delle nostre aule universitarie).
È logico che il povero Proudhon finisce per sopportare il supplizio di Damiens. Tirato da tutte le parti le sue membra stentano a staccarsi e deve intervenire il caritatevole carnefice per tagliare i tendini con un grosso coltello. In pratica sia l’operazione mistificatoria marxista, sia la patetica operazione dei liberali non riescono a smembrare il robusto corpo teorico proudhoniano e si accaniscono senza risultati evidenti. La conclusione più logica è il colpo di coltello: evitare di mettere in circolazione le opere nella loro totalità, tagliando le parti pubblicate in tutto quello che potrebbero avere di controproducente per il sostegno della tesi avanzata.
Il capostipite di questo modo di ragionare è proprio Engels. Nella sua Introduzione del 1884 alla Miseria della filosofia di Marx, non si prende per niente cura di dare indicazioni e chiarificazioni sull’opera di Proudhon, contro cui il lavoro di Marx era diretto, ma sposta il problema su Rodbertus. Lo stesso Marx non centra il problema della ricerca di Proudhon e, nella sua intenzione essenzialmente polemica, non rende giustizia a una visione rivoluzionaria della realtà che, in ultima analisi, fatte le dovute proporzioni riguardo la concezione autoritaria della lotta, non era molto diversa dalla sua e verso cui aveva contratto non pochi debiti. Da parte sua Proudhon aveva precisato in una lettera a A. Gauthier: “Tu mi chiedi spiegazioni sul modo di ricostruire la società. In due parole: abolire progressivamente e fino alla sua estinzione l’eredità, ecco il passaggio. L’organizzazione risulterà dal principio di divisione del lavoro e della forza collettiva, combinato con il mantenimento della personalità nell’uomo e nel cittadino”. (Lettera del 2 maggio 1841).
Sgombrato il terreno dalle vere o pretese difficoltà ci resta il problema di spiegare, in breve e chiaramente, il nocciolo del pensiero proudhoniano, condizione essenziale per comprendere le “contraddizioni” che si pongono quale momento di una ricerca complessiva considerata come unità indissolubile. Che cosa occorre per la rivoluzione? Proudhon ha le sue ricette, che cambierà via via nel corso della loro preparazione: “Un saggio che sappia fondare la scienza economica, una scienza con i suoi assiomi, le sue determinazioni, il suo metodo, la sua propria certezza, una scienza né matematica, né giuridica. Non occorre meno di questo per produrre la rivoluzione. Dopo la scienza economica, una filosofia della storia che cammini verso l’avvenire e poi una filosofia generale”. (Lettera a Charles Edmond del 10 gennaio 1852).
Il pluralismo sociologico costituisce la base della sua critica sulla proprietà capitalista, come critica di un individualismo atomistico che contrasta con l’essere collettivo, con la pluralità delle persone e dei gruppi sociali. Per Proudhon l’individualismo capitalista negando l’esistenza degli organismi collettivi autonomi intende impadronirsi in proprio del surplus produttivo. Allo stesso modo, il pluralismo sociologico consente la critica dell’assolutismo dello Stato, visto sia sotto l’aspetto fascista che sotto quello di un totalitarismo di sinistra. Per Proudhon lo Stato non risulta da un insieme di gruppi sociali, ma dal dominio esercitato da un gruppo sugli altri tramite l’appropriazione dei poteri appartenenti a tutta la collettività. Alla base stessa del pluralismo sociologico sta una critica filosofica dello spiritualismo dogmatico, che poi sarebbe una forma di idealismo integrale non dissimile dal materialismo visto attraverso la lente determinista tipicamente hegeliana. Proudhon indica il pericolo di un integralismo dogmatico che diventa il mezzo ideologico di un principio dominatore agente nel campo sociale.
Il tema centrale del pensiero di Proudhon è quindi la critica del potere, considerato assolutista anche quando ama darsi l’atteggiamento democratico, anche quando pretende dare la libertà. La lotta contro l’assolutismo è condotta in nome di una realtà pluralista che si oppone a ogni sistema semplificante che cerca di mummificare la realtà sociale nelle sue libere manifestazioni.
Una possibile conclusione sarebbe stata il conservatorismo eterodosso alla Victor Cousin diretto a un eclettico stato di disorganizzazione, copertura pretestuosa della spontaneità e della volontà. Secondo il modo di lavorare di Proudhon: “Io dimentico i miei vecchi libri e non li leggo più. Con questa abitudine, deve frequentemente succedere nei miei scritti che ci siano cose difficilmente conciliabili”. (Lettera a Clerc del 4 marzo 1863). È proprio nelle Contraddizioni economiche, in questo difficile e complesso compendio della problematica sociale a carattere contraddittorio, che Proudhon cerca di studiare la realtà nella ricca varietà che la contraddistingue, senza nulla perdere e senza nulla sacrificare a un preteso altare della semplicità o dell’efficienza. Eppure il suo discorso non scade mai nel pluralismo individuato e quindi ineliminabile, simile a una condanna, ma si mantiene costantemente nel pluralismo visto come metodo d’indagine e quindi come mezzo efficiente di conoscenza. In questa vasta opera Proudhon studia le lotte del lavoro, della produzione, della circolazione delle ricchezze. Ma la lotta del lavoro, derivante dalla divisione parcellare, e la sua contrapposizione al capitale, così come emerge dal sistema di sfruttamento realizzato storicamente dalla classe dominante, non trova la sua mummificazione nel quadro di una indagine esclusivamente economica, essa al contrario viene continuamente rinviata al problema della divisione e dell’alienazione generale della società sottoposta alla gestione del potere a forma capitalista. Per Proudhon non esiste una divisione netta tra analisi economica e analisi sociologica, quindi morale. La sua riflessione si svolge nel campo delle istituzioni economiche ma anche in quello dei rapporti sociali che vengono da quelle istituzioni caratterizzati e che contribuiscono a caratterizzare, via via, nello svolgimento delle modificazioni storiche, le istituzioni stesse.
La struttura esteriore delle Contraddizioni economiche lascia a desiderare. Ed è proprio in questo senso che si diresse per prima cosa la critica distruttiva di Marx. Le contraddizioni sono individuate a due livelli: tra i termini economici che vengono anche chiamati “epoche” e all’interno di ogni singolo termine. Le epoche individuate sono dieci: divisione del lavoro, macchine, concorrenza, monopolio, imposta, bilancia di commercio, credito, proprietà, comunità, popolazione. Da un punto di vista generale ogni termine è in contrasto con quello precedente.
Certo, il metodo è piuttosto approssimativo. In una lettera a Clerc Proudhon scrive: “Vi sarebbe senza dubbio più di una espressione scorretta da rimpiazzare se facessi una edizione completa delle mie opere e se tenessi che tutto fosse in armonia. Eppure sono dell’idea che tutto vi si sostenga segua e si giustifichi”. (Lettera del 14 marzo 1863). Eppure, malgrado questa limitazione, Proudhon riesce a scoprire in modo efficace le contraddizioni, denunciandole violentemente, mettendo in risalto l’interessato contributo degli economisti ufficiali a una gestione di potere fondata sullo sfruttamento. Ogni termine assume l’aspetto della necessità, il monopolio è altrettanto necessario della libera concorrenza, per cui i difensori dell’uno e dell’altra, accanitamente in contrasto, finiscono per dimostrare l’inutilità della scienza economica e la sostanziale brutalità del potere che perpetua lo sfruttamento, accontentandosi, tramite i suoi giullari prezzolati, di darsi una patina superficiale di scientifico perbenismo.
Se la rivoluzione francese del 1789 determinò la liberazione dagli ostacoli feudali riguardo la produzione e il commercio, dette vita a una serie di conflitti che resero indispensabile l’emersione del monopolio, termine contrario della liberalizzazione. Il sistema capitalista viene costretto a una lotta costante che finisce per renderlo contraddittorio e logico nello stesso tempo. A proposito della proprietà, ecco le famose parole: «Se dovessi rispondere alla domanda seguente: Che cos’è la schiavitù? E se in una parola io rispondessi: è l’assassinio, il mio pensiero sarebbe subito compreso. Non avrei bisogno di un lungo discorso per dimostrare che togliere a un uomo il pensiero, la volontà, la personalità, è un potere di vita e di morte, per cui fare di un uomo uno schiavo, è assassinarlo. Per quale motivo dunque a quest’altra domanda: Che cos’è la proprietà? Non potrei rispondere allo stesso modo: è il furto! Senza avere la certezza di essere frainteso, per quanto questa seconda proposizione non sia altro che la prima trasformata». (Qu’est-ce que la Propriété? Ou Recherches sur le principe du Droit et du Gouvernement. Premier Mémoire, ns. tr., Paris 1840, p. 5).
Ogni “livello” corrisponde a un principio economico, ogni principio genera conseguenze di due tipi: positive e negative. A esempio, la divisione del lavoro determina l’aumento della produzione, lo sviluppo delle capacità professionali e forse la creatività, ma al contrario la stessa divisione del lavoro causa un regresso nelle capacità professionali e trasforma l’uomo in un automa. L’artigiano padrone della propria arte creativa si trasforma nell’operaio generico. La macchina determina una riduzione degli sforzi lavorativi umani, esprime l’intelligenza creatrice e il dominio che esercita sulle cose ma, nello stesso tempo, degrada il lavoratore trasformandolo in semplice manovratore, diminuisce per lunghi periodi le possibilità stesse di lavoro, aumenta la subordinazione del lavoratore alle forze che lo sfruttano.
Non bisogna dimenticare che la lotta di Proudhon è, almeno sul piano teorico, diretta contro quella specie di filosofia del “migliore dei mondi possibili” che fu il liberalismo francese dell’epoca di Frédéric Bastiat. Le sue critiche in questa direzione sono fortissime. Gli strali densi di una sottile ironia non si contano in tutto il libro. In effetti, specie nelle ultime pagine, si vede come il suo lavoro è diretto a provare che, in contrapposizione alle “armonie” di certi servi del potere, si può ricostruire un’analisi sociale che indichi con esattezza le disarmonie e le contraddizioni che costituiscono la vera essenza della società, disarmonie e contraddizioni che non possono essere superate con accorgimenti e con panacee, con riforme e con lotte “democratiche”, in quanto a ogni mossa, per quanto diretta dai migliori intendimenti, corrispondono effetti in eguale misura positivi e negativi. Quindi, a ogni tentativo di spingere in un certo senso la costruzione sociale si mettono in moto forze che hanno una sola possibilità reale: quella di inserire nel già molto complesso e contraddittorio tessuto economico e sociale altri elementi altrettanto contraddittori e subitamente pronti a generare ancora infiniti altri elementi non differentemente contraddittori. L’alternativa evidente resta la rivoluzione, cioè la radicale eliminazione del gioco delle parti, il salto qualitativo che fa cessare il computo aritmetico delle quantità, computo nientificato dall’algebra delle contraddizioni.
Scrive a questo riguardo Pierre Ansart: «La divisione della società in due classi antagoniste corrispondenti al Capitale e al Lavoro non cessa di costituire sia il quadro sociale delle antinomie come le loro conseguenze. In pratica, i princìpi economici, si sviluppano in una società in cui il principio generale è quello del furto e dello sfruttamento del lavoro, i quali incessantemente hanno come conseguenza il rafforzamento dell’antagonismo sociale. In ogni epoca del sistema economico viene confermata la distinzione della società in due classi antagoniste e lo sfruttamento sociale ed economico del proletariato. Socialmente, i meccanismi dell’economia costringono irrimediabilmente il proletariato in una situazione di subordinazione: la degradazione, l’abbrutimento, la sottomissione alle gerarchie strappano all’operaio la partecipazione che in epoche passate aveva nella produzione artigianale. Economicamente, l’estorsione operata sui salari dal furto capitalista impedisce radicalmente alla classe lavoratrice di consumare ciò che produce». (Sociologie de Proudhon, ns. tr., Paris 1967, pp. 43-44). Il punto finale dell’indagine proudhoniana non è quindi il tentativo di una soluzione, punto significativo per coloro che intendono vedere nel futuro la strutturata condizione di una prospettiva in corso di formazione oggi ma in aderenza a canoni precisi e precisi interessi. Ogni visione autoritaria è assente dal progetto di ricerca di Proudhon. Questo ha spinto molti studiosi – come lo stesso Ansart – anche favorevoli in linea di massima alla tesi di Proudhon, a chiedersi perché accanto alla costante analisi sulle contraddizioni non si trovi un’analisi o, almeno, qualche indicazione, riguardo la probabile evoluzione dell’economia capitalista. Leggendo in questo modo il testo di Proudhon si deve concludere che esso è parziale, manchevole, incapace di darci una chiave per comprendere il senso delle crisi del capitale. Se ogni parte del sistema è contraddittoria, se tutto il sistema nel suo insieme è sconvolto da un doppio movimento contraddittorio (positivo e negativo), che cosa cambia nel corso degli avvenimenti? Aumentando il numero delle contraddizioni, proliferando gli intrecci e gli imbrogli, non si ha altro risultato che quello di mettere al lavoro le teste vuote degli economisti e dei filosofi per dare una sistemazione più o meno logica a tanto materiale.
Gli schemi classici del marxismo devono qui essere messi da parte. Ma non bisogna dimenticare che Proudhon è materialista, sebbene il suo modo particolare di scrivere e la terminologia del tempo rendano questa scoperta non sempre agevole. Il suo materialismo emerge chiaramente quando parla del problema della miseria e ci dice che il progresso della miseria è e resta adeguato e parallelo al progresso della ricchezza. Egli non dice che l’impoverimento sarà crescente man mano che crescerà l’accumulazione del capitale, ma al contrario che si avrà un arricchimento “relativo” delle classi più povere e che la miseria resterà sempre come punto di riferimento relativo nei confronti del capitale.
Chi avrà la bontà di soffermarsi un attimo su questo pensiero comprenderà non solo la profondità dell’analisi di Proudhon, ma i motivi teorici che la differenziano – anche dal punto di vista formale – dall’analisi marxista.
Il povero resta povero finché vi sarà una differenza di classe, anche se non esisterà un impoverimento crescente commisurabile al tasso di accrescimento dell’accumulazione capitalista. E questa sua povertà sarà fenomeno non soltanto salariale, sarà fenomeno non soltanto aritmetico, ma ben più profondamente sarà fenomeno sociale nel senso più ampio del termine. Il persistere della contraddizione tra ricchezza e miseria svilupperà l’allargarsi delle contraddizioni nei diversi livelli. Il salario verrà sempre più nominalizzato mentre lo sfruttamento si scatenerà a livelli del tutto sconosciuti prima.
Per chi è a conoscenza delle moderne problematiche rivoluzionarie relative ai processi di liberazione e ai corrispettivi processi di sfruttamento, la profondità dell’intuizione di Proudhon è chiarissima. Il consumismo oggi ci insegna con grande evidenza che la miseria del lavoratore non deve necessariamente assumere l’aspetto tradizionale del passato, ma può presentarsi come “forma” relativa, come riappropriazione dei margini salariali concessi, attraverso un processo di inserimento in zone di consumo fasulle e artificiali. Non solo, lo stesso discorso deve potersi fare anche a livello di equilibri contraddittori mondiali tra zone sviluppate e zone non sviluppate. Gli scompensi tra miseria e ricchezza sono individuabili solo a condizione di chiarire il concetto di sviluppo “relativo”, sia in senso positivo che in senso negativo. Allo sviluppo relativo dei popoli sottosviluppati sono infatti molto interessati i paesi sviluppati, questo determina un notevole aumento nel consumo dei prodotti di questi ultimi e la contemporanea possibilità di ottenere a prezzi vantaggiosi (perché si sono attuate migliori condizioni di produzione) le materie prime che vengono prodotte dai primi. In altri termini, almeno ci pare, la pregiudiziale di un aumento costante della miseria in relazione all’aumento della ricchezza (accumulazione capitalista) non è un dato indispensabile per impostare il discorso rivoluzionario. E questa conclusione può anche venirci attraverso l’analisi fatta da Proudhon.
In una cosa Marx aveva ragione: lo schema dialettico è estraneo a Proudhon. La sua utilizzazione è spesso superficiale e quasi mai funzionale alla dimostrazione della vera realtà del suo pensiero. Il fatto non è, a nostro avviso, accidentale. La ricchezza del pensiero di Proudhon – a prescindere dall’uomo e dalle sue esperienze – è, nello stesso tempo, causa ed effetto della sua formulazione teorica, dello scopo analitico perseguito durante tutta la sua vita. Il campo indagato appare a Proudhon troppo ricco e troppo eterogeneo per poterlo racchiudere dentro la scatola di un meccanismo logico condizionante lo svolgimento stesso della realtà. Chi ha presente la Fenomenologia dello Spirito [1807] hegeliana si ricorderà di come la realtà venga costretta ad adeguarsi al ritmo del metodo logico, fino a essere snaturata, fino a trasformare l’alterna vicenda dell’uomo alla ricerca di se stesso in un itinerario romanzesco di gradevole lettura ma di scarsa validità per un’azione liberatoria. Proudhon ci appare quindi contraddittorio non solo come giudice di una situazione contraddittoria, ma anche come indagatore utilizzante un metodo contraddittorio, nella piena coscienza dei limiti del metodo stesso. La verità è che quel metodo gli serve come supporto per un ragionamento più ampio e non ha alcuna pretesa di servire per cose alle quali non può prestare aiuto alcuno. Al contrario, per Hegel, per Marx, il metodo dialettico non è un metodo, è la realtà nella sua essenza più intima. In Proudhon questa tesi, pur nella grande confusione di elementi, non è mai rintracciabile. La contraddizione regna sovrana, il metodo fornisce una strada, anche un poco pesante e tortuosa, ma sempre una strada. In altre situazioni, altri potranno utilizzare altre strade, altri metodi. Ma la realtà resta là, davanti al ricercatore, estranea al metodo, ricca delle proprie contraddizioni, incapace di prestare una logica perché priva di logica valida per tutti i tempi e per tutti i luoghi. La chiave interpretativa delle contraddizioni sarà individuata, di volta in volta, nella situazione storica, perché in quella prospettiva le singole “figure” avranno un certo grado contraddittorio, perché certe scelte (e non altre) sono state fatte e perché certe contraddizioni (e non altre) sono state messe in moto. In una nota poco conosciuta Proudhon scrive a questo proposito: «Rinnovo qui l’osservazione fatta su Hegel – nel Programme de Philosophie populaire – sull’esempio del quale avevo adottato l’idea che l’antinomia dovesse risolversi in un termine superiore, la sintesi, distinta dai due primi, la tesi e l’antitesi: errore di logica quanto di esperienza, dal quale mi sono oggi corretto. L’antinomia non si risolve; in ciò è il vizio fondamentale di tutta la filosofia hegeliana. I due termini di cui essa si compone si bilanciano, sia fra di loro, sia con altri termini antinomici; ciò conduce al risultato cercato. Una bilancia non è affatto una sintesi come l’intendeva Hegel e come io avevo supposto dopo di lui: fatta questa riserva, per puro interesse logico, mantengo tutto ciò che ho detto nelle mie Contraddizioni». (La giustizia nella rivoluzione e nella chiesa [1858], tr. it., Torino 1968, pp. 446-447).
Non vogliamo parlare della famosa polemica e del libello marxiano, tanto se ne è parlato con tutti i condimenti che le cucine marxiste hanno saputo preparare. Oggi, la critica marxiana del testo di Proudhon non ha molto valore per servire da guida, sia pure limitativa, alla lettura di Proudhon. Al contrario, il notissimo libro di Marx è indispensabile per servire da guida allo svolgimento del pensiero maturo di Marx, maturo almeno in senso filosofico se non economico. Si è ripetuto, con la Miseria della filosofia, lo stesso fenomeno de L’ideologia tedesca [1845-1846], in particolare della critica a Stirner. Scarsamente valida per comprendere Stirner oggi, quell’analisi è di grande importanza per comprendere Marx. Non è un caso, a nostro avviso, che i due testi che servirono a Marx per situare la propria posizione teorica nei confronti del materialismo storico siano due libelli contro due teorici anarchici. La cortina fumogena dei partiti marxisti non potrà mai nascondere del tutto i debiti e i crediti di queste operazioni.
Il fondo vero del problema è sempre lo stesso. Se il processo dialettico così com’è visto da Marx non è accidentale ma è precisamente diretto a costruire il sostegno teorico del “partito guida del proletariato”, della “dittatura del proletariato”, dello “stato proletario” e simili aberrazioni, l’utilizzazione chiaramente marginale in Proudhon del metodo dialettico è altrettanto precisamente diretta a dimostrare che la realtà è troppo ricca per qualsiasi metodo che non sia il “pluralismo sociologico” e che, pertanto, solo una corrispondente ricchezza di esperienze e di solidarietà, di collettività agenti in modo molteplice, di esseri sociali capaci di trasformarsi anche in forma contraddittoria ma di emergere dalla contraddittorietà proprio per il riconoscimento della validità delle esperienze, può validamente interpretarla senza che tutto ciò abbia nulla a che vedere con la costrizione mentale e fisica dell’uomo, sia pure con scopi rivoluzionari.
Volendo mettere da parte il confronto polemico, e in questo senso si possono leggere con profitto le Note di Proudhon alla sua copia della Miseria della filosofia, dove si riscontrerà la sorpresa e la calma con cui Proudhon lesse il libello di Marx, si deve ammettere che Proudhon e Marx seguono un ragionamento in un certo senso parallelo, almeno riguardo gli obiettivi della lotta. Denunciano l’individualismo nell’economia che causa la separazione tra produzione e società. Denunciano il fondamento repressivo delle dottrine idealiste, della confusione tra organismo e società, tra scienza e verità. Denunciano il ruolo di sostegno della religione a favore della repressione e dello sfruttamento. Eppure, nonostante tutto (e il discorso si potrebbe ancora una volta identificare in quello riguardante Stirner), i marxisti (a cominciare dallo stesso Marx) hanno sempre insistito nel considerare Proudhon come un teorico piccolo-borghese. La realtà non può smentirsi. Chi progetta la conquista del potere deve necessariamente darsi un programma ben preciso, delimitato, apparentemente logico (non ha importanza se sostanzialmente assurdo), deve dare, a coloro che intende utilizzare, sia come agenti attivi che come soggetti passivi della propria azione, l’impressione che tutto sia risolto e, non potendo ovviamente fare questa paradossale affermazione, deve utilizzare l’espediente di dire che tutto è risolvibile in quanto le eventuali cose non risolte trovano risoluzione nella logica stessa della realtà che, prima o poi, finisce per costringere alla razionalità anche le cose apparentemente contraddittorie. In questo modo agisce il processo oggettivante della Chiesa cattolica, che impone il carisma della parola per garantire se stessa, i propri agenti, e i soggetti passivi che ricevono l’azione, contro eventuali critiche. Chi si confessa con un prete cattolico non s’interessa se il soggetto che riceve la confessione sia una “degna persona”, se moralmente sia all’altezza del compito affidatogli dai suoi superiori o se, al contrario, sia un volgare ladro o un assassino. Quello che conta è che vesta quell’abito, che abbia ricevuto quell’investitura, che pronunci quelle precise parole. Il mistero è grande garanzia di forza per il potere. Più le cose sono oscure, più è facile oggettivarle, più in questo modo vengono strappate alla corrosiva critica di coloro che si domandano: perché?
Non diversamente il metodo dialettico consente al partito autoritario di garantire una validità costante all’azione dei suoi agenti e una logica costante all’aspettativa delle masse. Non è importante che queste si dispongano criticamente verso la realtà, anzi ciò sarebbe un male notevole, quello che conta è che la visione della realtà sia esattamente quella fornita dall’organizzazione, tanto ci saranno sempre quei centri di potere che elaboreranno interpretazioni della realtà da fornire in pasto alle masse, come pure, garantendo la persistenza dello sfruttamento, ci saranno sempre le masse disposte ad accettare questa elaborazione come cosa “sacra” perché proveniente dall’autorità carismatica.
Uscendo da quest’atmosfera asfissiante, respirando l’aria movimentata e spesso tempestosa della realtà, si ha l’impressione di trovarsi nel caos e nell’impossibilità di comprendere qualcosa. La realtà, dapprima ordinata e sistematica, appare priva di significato. Quanto più agevole il dolce tepore del grembo materno, quanto più gradevole il mormorio delle parole del prete che ci assolve dei nostri peccati mettendoci nella condizione di ricominciare di nuovo a cuor leggero sicuri di trovare sempre nuova protezione e comprensione, quanto più sicuro il partito politico rivoluzionario che ci protegge e ci illumina, ci dice quello che è giusto e quello che è sbagliato, che è depositario delle chiavi del meccanismo intrinseco della realtà e come tale sa quando occorre scendere in piazza per farsi ammazzare e quando, invece, occorre andare a recitare la farsa elettorale. Fuori di tutto ciò: pericoli e confusione.
Un senso di smarrimento si prova leggendo Proudhon, specie per il lettore contemporaneo abituato alle “tranquillità” marxiste. Ancora una volta, più che per altri scrittori anarchici, la lettura di Proudhon è per uomini di buona volontà.
[Introduzione a Pierre-Joseph Proudhon, Sistema delle contraddizioni economiche. Filosofia della Miseria, tr. it., Catania 1975, pp. 7-15, pubblicata anche in Alfredo M. Bonanno, Potere e contropotere, II ed., I ristampa, Trieste 2012, pp. 232-250]
Dimostrazione della inesistenza di Dio
Io sono certamente, meno di molti atei, proclive al meraviglioso, ma non posso impedirmi di pensare che le storie dei miracoli, delle predizioni, degli incantesimi, ecc., non sono altro se non narrazioni alterate di effetti straordinari prodotti da certe forze latenti, o, come si diceva una volta, da potenze occulte. La nostra scienza è ancora così brutale e piena di malafede e nei nostri dottori trovi così poca scienza insieme a tanta burbanza, negando essi i fatti che li impacciano onde proteggere le opinioni di cui si giovano, che io diffido di questi spiriti forti non meno che dei superstiziosi. Sì, ne sono convinto; il nostro razionalismo grossolano inaugura un periodo che, a forza di scienza, diverrà veramente prodigioso; l’universo agli occhi miei è un laboratorio di magia nel quale ce da aspettarsi tutto... Ciò detto torno al mio tema.
Si cadrebbe in inganno dunque se si pensasse, dopo la rapida esposizione da me fatta delle evoluzioni religiose, che la metafisica abbia detta ormai l’ultima parola sul doppio enigma espresso da queste parole: esistenza di Dio, immortalità dell’anima. Qui, come altrove, le conclusioni più ardite e meglio fondate della ragione, quelle che sembrano aver troncata per sempre la questione teologica, ci riconducono al misticismo primordiale ed implicano i dati novelli d’una filosofia inevitabile. La critica delle opinioni religiose ci fa oggi sorridere di noi e delle religioni, e pure il riassunto di questa critica è semplicemente la riproduzione del problema. Il genere umano, nel momento in cui scrivo, è alla vigilia di riconoscere e di affermare qualcosa che equivarrà per lui all’antica nozione della divinità; e questo non più, come un tempo, con un moto spontaneo, ma per riflessione e in virtù di una dialettica invincibile.
Cercherò di spiegarmi in poche parole.
Se v’è un punto sul quale i filosofi abbiano, a loro malgrado, litigato per mettersi d’accordo, è senza dubbio la distinzione tra l’intelligenza e la necessità, tra il soggetto del pensiero e il suo oggetto, tra il me e il non-me; o, come volgarmente si dice, tra lo spirito e la materia. So benissimo che tutte queste parole non esprimono nulla di reale e di vero, che ciascuna di esse indica una scissione dell’assoluto che, solo, è vero e reale, e che prese separatamente, implicano tutte a pari una contraddizione. Ma non è meno certo altresì che l’assoluto ci è completamente inaccessibile, che noi non lo conosciamo altrimenti che per i suoi termini opposti, i soli che cadano sotto il nostro empirismo e che se l’unità sola può ottenere la nostra fede, la dualità è la prima condizione della scienza.
Così, chi pensa e chi è pensato? Cos’è un’anima? Cos’è un corpo? Sfido a sfuggire questo dualismo. È delle essenze come delle idee; le prime si mostrano separate nella natura, come le seconde nell’intelletto. – E nella stessa guisa che le idee di Dio e dell’immortalità dell’anima, malgrado la loro identità, si sono collocate successivamente e contraddittoriamente nella filosofia; così appunto, malgrado la loro fusione nell’assoluto, il me e il non-me si offrono separatamente e contraddittoriamente nella natura e noi abbiamo esseri che pensano e, nello stesso tempo, esseri che non pensano.
Ora, chiunque si sia data la pena di rifletterci sopra, sa ormai che una distinzione simile, per quanto sussista in realtà, è ciò che la ragione può incontrare di più inintelligibile, contraddittorio e assurdo. Non si può concepire un essere qualsiasi senza le proprietà dello spirito o senza le proprietà della materia. Di modo che, se voi negate lo spirito, perché, non trovando posto in nessuna delle categorie di tempo, spazio, moto, solidità, ecc., vi sembra privo di tutti gli attributi che costituiscono il reale, io negherò alla mia volta la materia, la quale, non offrendomi di notevole altro che la sua passività e d’intelligibile altro che le sue forme, in nessuna parte si manifesta come causa (volontaria e libera) e si nasconde del tutto come sostanza. Così si giunge all’idealismo puro, cioè al nulla. Ma il nulla ripugna a quei non so che i quali vivono e ragionano, riunendo in se medesimi, in uno stato (non saprei dire quale) di sintesi incominciata o di scissione imminente, tutti gli attributi antagonisti dell’essere. È obbligatorio dunque iniziare con un dualismo i cui termini sappiamo perfettamente che sono falsi. Ma esso è per noi la condizione del vero e ci s’impone invincibilmente. In breve dobbiamo, come Descartes, come il genere umano principiare dal me, cioè a dire, dallo spirito.
Ma dopo che le religioni e le filosofie, disciolte dall’analisi, sono venute a fondersi nella teoria dell’assoluto, non siamo riusciti meglio a sapere cosa sia lo spirito e differiamo dagli antichi non per altro che per la ricchezza del linguaggio di cui ammantiamo l’oscurità che ci circonda. Solamente, mentre per gli uomini dei tempi andati l’ordine attestava una intelligenza fuori del mondo, per i moderni sembra piuttosto attestarla nel mondo. Ora, si metta dentro o fuori, dal momento che la si afferma in grazia dell’ordine, bisogna o ammetterla ovunque l’ordine si manifesta, o non ritrovarla in nessuna parte. Non c’è più ragione di attribuire l’intelligenza alla testa che produsse l’Iliade che a una massa di materia cristallizzata in ottaedri. E reciprocamente è tanto assurdo riferire il sistema del mondo alle leggi fisiche, senza tenere conto del me ordinatore, quanto l’attribuire la vittoria di Marengo a combinazioni strategiche, senza pensare al Primo Console. Tutta la differenza che si può fare è che in quest’ultimo caso il me pensante è circoscritto nel cervello di Bonaparte, mentre, riguardo all’universo, il me non ha sito speciale e si diffonde ovunque.
I materialisti hanno creduto di trionfare dell’opinione contraria, dicendo che l’uomo, avendo assomigliato l’universo al proprio corpo, compì il paragone accordando a cotesto universo un’anima simile a quella che egli supponeva essere il principio della propria vita e del proprio pensiero. In tal modo tutti gli argomenti in favore dell’esistenza di Dio si riducevano ad un’analogia tanto più falsa in quanto il termine di confronto era esso medesimo ipotetico.
Certo non vengo qui a difendere il vecchio sillogismo. Ogni combinazione supera un’intelligenza ordinatrice; ma nel mondo esiste un ordine ammirabile; dunque il mondo è opera d’una intelligenza. Questo sillogismo tanto ripetuto da Giobbe e Mosè in poi, lungi dall’offrire uno scioglimento, è soltanto la formula dell’enigma che si vuol decifrare. Noi conosciamo perfettamente cosa è l’ordine, ma ignoriamo nel modo più completo cosa intendiamo dire con la parola Anima, Spirito, Intelligenza; come dunque logicamente dalla presenza dell’uno concludere in favore della esistenza dell’altro? Io dunque rigetterò la pretesa prova dell’esistenza di Dio tratta dall’ordine del mondo, sino a che s’abbiano più ampie informazioni, né ci vedrò altro, se non tutt’al più, una equazione proposta alla filosofia. Dal concetto dell’ordine all’affermazione dello spirito c’è tutto un abisso di metafisica da colmare e mi guardo bene, lo ripeto, dal prendere il problema per una dimostrazione.
Ma non si tratta di ciò ora. Ho voluto mettere in chiaro che la ragione umana era fatalmente e invincibilmente condotta a distinguere l’essere in me e non-me. Spirito e materia, anima e corpo. Chi non vede come l’obiezione dei materialisti provi proprio quel che essa cerca di negare? L’uomo che distingue in se stesso un principio spirituale e un principio materiale, cos’altro è se non la natura medesima che proclama via via la sua doppia essenza e rende testimonianza alle proprie leggi? E notiamo l’inconseguenza del materialismo; esso nega ed è costretto a negare che l’uomo sia libero: ora meno libertà ha l’uomo, più importanza mostrano i suoi detti e devono considerarsi come espressioni della verità. Quando odo questa macchina che mi dice: io sono anima, io sono corpo, sebbene una rivelazione simile mi stupisca e mi confonda, pure essa agli occhi miei riveste un’autorità incomparabilmente più grande di quella del materialista, il quale correggendo la coscienza e la natura pretende che dicano: io sono materia e null’altro che materia; l’intelligenza è semplicemente la facoltà materiale di conoscere.
Cosa avverrebbe se, prendendo alla mia volta l’offensiva, dimostrassi come sia insostenibile l’esistenza dei corpi, o, in altri termini, la realtà di una natura puramente corporea? – La materia, si dice, è impenetrabile. – Impenetrabile a che? domando io. Senza dubbio a se medesima, perché nessuno oserebbe dire che è tale per lo spirito; sarebbe ammettere ciò che si vuole rigettare. A tal riguardo io propongo una doppia questione. Cosa ne sapete voi? che significa ciò?
1° – L’impenetrabilità, mercé la quale si pretende di definire la materia è una pura ipotesi di fisici disattenti, una conclusione grossolana dedotta da un giudizio superficiale. L’esperienza mostra nella materia una divisibilità all’infinito, una dilatabilità all’infinito, una porosità senza limiti immaginabili, una permeabilità al calore, all’elettricità, al magnetismo, del pari che una proprietà di ritenerli, entrambe indefinite. E poi affinità, influenze reciproche e trasformazioni innumerevoli; cose tutte poco compatibili col concetto d’un aliquid impenetrabile. L’elasticità che meglio di qualsiasi altra proprietà della materia poteva condurre, mediante l’idea di molla o di resistenza, a quella d’impenetrabilità, varia secondo mille circostanze e dipende interamente dall’attrazione molecolare. Ora, cosa v’è che meno di quest’attrazione si concili con l’impenetrabilità? Del resto c’è una scienza che a rigore si potrebbe definire scienza della penetrabilità della materia: è la chimica. Difatti, in che differisce dalla penetrazione quella che chiamano composizione chimica? – Insomma, noi conosciamo le forme della materia, in quanto alla sostanza, niente. Com’è dunque possibile d’affermare la realtà d’un essere invisibile, impalpabile, incoercibile, che cangia sempre, sempre sfugge, ed è impenetrabile solamente al pensiero, al quale non lascia vedere di sè altro che i travestimenti? Materialisti! io vi prometto di attestare la realtà delle nostre sensazioni; in quanto a ciò che dà loro occasione d’essere, tutto quel che voi ne potete dire implica questa reciprocità: qualche cosa (che voi chiamate materia) dà occasione alle sensazioni che si manifestano in una qualche altra cosa (che io chiamo spirito).
2° – Ma donde viene questa supposizione, che nulla giustifica nell’osservazione esteriore e non è punto vera, della impenetrabilità della materia e quale ne è il senso?
Qui appare il trionfo del dualismo. La materia è dichiarata impenetrabile, non come i materialisti e il volgo si figurano, non dalla testimonianza dei sensi, ma dalla coscienza. È il me, natura incomprensibile, che sentendosi libero e incontrando fuori di se stesso un’altra natura ugualmente incomprensibile, ma distinta anche e permanente, malgrado le sue metamorfosi, pronunzia, per virtù delle sensazioni e delle idee, da questa essenza suggeritogli, che il non-me è esteso e impenetrabile. L’impenetrabilità è una parola metaforica, una immagine sotto la quale il pensiero, scissione dell’assoluto, ci rappresenta la realtà materiale, altra scissione dell’assoluto. Ma codesta impenetrabilità, senza cui la materia svanisce, è, in ultima analisi, un giudizio spontaneo del senso intimo, un a priori metafisico, una ipotesi non accertata... dello spirito.
Finché l’uomo vive sotto la legge d’egoismo, accusa se stesso; quando s’eleva al concepimento d’una legge sociale, accusa la società. Nell’uno e nell’altro caso, è sempre l’umanità che accusa l’umanità; e fino ad ora ciò che risulta di più evidente da questa doppia accusa, è la facoltà strana, che non abbiamo ancora segnalata, e che la religione attribuisce a Dio come all’uomo, del pentimento.
Di che cosa si pente l’umanità? Per che cosa ci vuol punire Iddio, che si pente così di noi? Poenituit eum quod hominem fecisset in terra; et tactus dolore cordis intrisecus...
Se dimostro che i delitti, dei quali si accusa l’umanità, non sono la conseguenza dei suoi disturbi economici, quantunque questi risultino dalla costituzione delle sue idee; che l’uomo compie il male gratuitamente e senza violenza, nello stesso modo in cui s’onora degli atti d’eroismo che la giustizia non esige; ne seguirà che l’uomo, al tribunale della coscienza, può benissimo far valere alcune circostanze attenuanti; ma non può mai essere liberato interamente dal delitto; che la lotta è nel suo cuore come nella sua ragione, che ora è degno di lode ed ora di biasimo, ciò che sempre è una prova della sua condizione non armonica; infine, che la natura dell’animo è un perpetuo compromesso tra opposte attrazioni, la morale un sistema ad altalena, in una parola, e questa parola dice tutto, un eclettismo.
Dio, nell’ipotesi teologica, è l’essere sovrano, assoluto, altamente sintetico, l’io infinitamente saggio e libero, per conseguenza infallibile e santo; è certo che l’uomo, sincretismo della creazione, punto d’unione di tutte le virtualità fisiche, organiche, intellettuali e morali manifestate dalla creazione; l’uomo perfezionabile e fallibile, non soddisfa punto alle condizioni di Divinità che è della natura del suo spirito esprimere. Né egli è Dio, né lo saprebbe divenire, vivendo.
A più forte ragione il cane, il leone, il sole, l’universo stesso, divisioni dell’assoluto, non sono Dio. Col medesimo colpo, l’antropolatria e la fisiolatria sono atterrate.
Si tratta ora di fare la controprova di questa teoria.
Abbiamo esaminata la moralità dell’uomo dal punto di vista delle contraddizioni sociali. Ci accingiamo ora ad apprezzare dal medesimo punto di vista, la moralità della Provvidenza. In altri termini, Dio, quale la speculazione e la fede lo danno all’adorazione dei mortali, è possibile?
1° – Dio, dicono i credenti, non può essere concepito che come infinitamente buono, infinitamente saggio, infinitamente potente, ecc., tutta la litania degli infiniti.
Ora, l’infinita perfezione non si può conciliare col dato di una volontà indifferente o reazionaria al progresso; dunque, o Dio non esiste, o l’obiezione dedotta dallo sviluppo delle antinomie, è prova dell’ignoranza in cui noi siamo dei misteri dell’infinito.
Rispondo a questi ragionatori che se, per legittimare un’opinione del tutto arbitraria, basta basarsi sulla profondità dei misteri, io amo tanto il mistero d’un Dio senza Provvidenza, quanto quello d’una Provvidenza senza efficacia. Ma, alla presenza dei fatti, non vi è mezzo d’invocare un simile probabilismo; bisogna attenersi alla positiva dichiarazione dell’esperienza. Ora, l’esperienza ed i fatti provano che l’umanità, nel suo sviluppo, obbedisce ad un’inflessibile necessità, le cui leggi si svolgono, ed il cui sistema si realizza a misura che la ragione collettiva lo scopre, senza che nulla, nella società attesti un’esterna istigazione, né un provvidenziale comandamento, né alcun sovrumano pensiero. Ciò che fece credere alla Provvidenza, è questa necessità stessa, che è come il fondo e l’essenza dell’umanità collettiva. Ma, questa necessità per sistematica e progressiva ch’essa appaia, non costituisce per ciò, né nell’umanità, né in Dio, una Provvidenza; basta, per convincersene, ricordarsi le infinite oscillazioni, ed i dolorosi tentativi coi quali si manifesta l’ordine sociale.
2° – Altri argomentatori vengono a traverso e dicono: con qual scopo queste ricerche astruse? Non vi è più intelligenza che Provvidenza; non vi è né io, né volontà nell’universo, eccetto l’uomo. Tutto ciò che accade, di male come di bene, accade necessariamente. Un insieme irresistibile di cause e di effetti stringe l’uomo e la natura nella stessa fatalità; e ciò che chiamiamo in noi stessi coscienza, volontà, giudizio, ecc., non sono che particolari accidenti del tutto eterno, immutabile, fatale.
Questo argomento è il rovescio del precedente. Consiste nel sostituire all’idea d’un autore onnipossente e saggio quella d’un coordinamento necessario ed eterno, ma incosciente e cieco. Questa opposizione ci fa presentire che la dialettica dei materialisti non è più solida di quella dei credenti.
Chi dice necessità o fatalità, dice ordine assoluto e inviolabile; chi al contrario dice perturbazione o disordine, afferma tutto ciò che vi è di più ripugnante alla fatalità. Ora, vi è disordine nel mondo, disordine prodotto dalla fuga di forze spontanee che non incatena potenza alcuna; come può darsi ciò, se tutto è fatale?
Ma chi non scorge che questa antica polemica del teismo e del materialismo proviene da una falsa nozione della libertà e della fatalità, due termini che furono considerati come contraddittori, mentre che in realtà non lo sono? Se l’uomo è libero, si dice da alcuni, Dio, a più forte ragione, è anche libero, e la fatalità non è che una parola; – se tutto è incatenato nella natura, soggiungono altri, non vi è né libertà, né Provvidenza; ed ognuno s’accinge ad argomentare a perdita d’occhio, secondo la direzione presa, senza mai comprendere che questa opposizione della libertà e della fatalità non era che la distinzione naturale, ma non antitetica, dei fatti dell’attività da quelli dell’intelligenza.
La fatalità è l’ordine assoluto, la legge, il codice, il fatum della costituzione dell’universo. Ma lungi che questo codice escluda per se stesso l’idea di un legislatore sovrano, la suppone così naturalmente, che tutta l’antichità non ha esitato ad ammetterlo; e tutta la questione oggi consiste nel sapere se, come l’hanno creduto i fondatori delle religioni, nell’universo il legislatore abbia preceduto la legge, cioè se l’intelligenza sia anteriore alla fatalità, o se, come vogliono i moderni, sia la legge che abbia preceduto il legislatore, in altri termini, se lo spirito sia nato dalla natura. Prima o dopo, questa alternativa riassume tutta la filosofia. È minor male che si disputi sulla posteriorità o anteriorità dello spirito; ma che lo si neghi in nome della fatalità, è una esclusione per nulla giustificata. Basta, per confutarla, ricordare il fatto stesso sul quale si fonda, l’esistenza del male.
Essendo date la materia e l’attrazione, il sistema del mondo ne è il prodotto; ecco quel ch’è fatale. Essendo date due idee correlative e contraddittorie, deve seguire una composizione; ecco ancora che cosa è fatale. Ciò che ripugna alla fatalità non è la libertà, la cui destinazione al contrario è di procurare, in una certa sfera, il compimento della fatalità; è il disordine, è tutto ciò che impedisce l’esecuzione della legge. Esiste, sì o no, disordine nel mondo? I fatalisti non lo negano, poiché, per il più strano errore, è la presenza del male che li ha resi fatalisti. Ora, dico che la presenza del male, lontano dall’affermare la fatalità, rompe la fatalità, fa violenza al destino, e suppone una causa il cui effetto erroneo, ma volontario, è discorde dalla legge.
Questa causa, la chiamo libertà; ed ho provato che la libertà, nello stesso modo che la ragione, che all’uomo serve da fiaccola, è altrettanto grande e perfetta quanto meglio s’armonizza con l’ordine della natura, che è la fatalità.
Dunque, opporre la fatalità all’attestazione della coscienza che si sente libera, e viceversa, è provare che si prendono le idee al rovescio e che non si ha la minima conoscenza della questione. Il progresso dell’umanità si può definire l’educazione della ragione e della libertà umana con la fatalità; è assurdo riguardare questi tre termini come escludendosi l’un l’altro ed inconciliabili, quando in realtà si sostengono, la fatalità servendo di base, la ragione venendo dopo, e la libertà coronando l’edificio. La ragione umana tende a conoscere ed a penetrare la fatalità; la libertà aspira a conformarsi; e la critica, alla quale ci diamo in questo momento, dello sviluppo spontaneo e delle credenze istintive del genere umano, in fondo non è che uno studio della fatalità. Spieghiamo ciò.
L’uomo, dotato d’attività e d’intelligenza, può smuovere l’ordine del mondo, del quale fa parte. Ma tutti i suoi traviamenti sono stati previsti, e si compiono in certi limiti che, dopo un certo numero d’andate e ritorni, riconducono l’uomo all’ordine.
È da queste oscillazioni della libertà che si può determinare il giro dell’umanità nel mondo; e poiché il destino del mondo è legato a quello delle creature, è possibile risalire alla legge suprema delle cose, e fino alle fonti dell’essere.
Così non domanderò più: come mai l’uomo ha il potere di violare l’ordine provvidenziale, e come mai la Provvidenza lo lascia fare? Pongo la questione in altri termini: come mai l’uomo, parte integrante dell’universo, prodotto della fatalità, può rompere la fatalità? Come mai un’organizzazione fatale, l’organizzazione dell’umanità, è avventizia, antilogica, piena di tumulto e di catastrofi?
La fatalità non dipende da un’ora, da un secolo, da mille anni: perché la scienza e la libertà, se è deciso che debbano arrivare, non giungono più presto? Per ciò che soffriamo per l’attesa, la fatalità è in contraddizione con se stessa; col male, non vi è né fatalità né Provvidenza.
In una parola, perché ad ogni istante una fatalità smentita dai fatti che succedono nel suo seno? Ecco ciò che i fatalisti debbono spiegare, come i teisti debbono spiegare ciò che può essere un’intelligenza infinita, che non sa né prevedere né prevenire la miseria delle sue creature.
Ma ciò non è tutto. Libertà, intelligenza, fatalità, in fondo sono tre espressioni adeguate, che servono a designare tre facce differenti dell’essere. Nell’uomo, la ragione non è che una libertà determinata, che sente il suo limite. Ma questa libertà è, nel cerchio delle sue determinazioni, fatalità, una fatalità viva e personale. Dunque, quando la coscienza del genere umano proclama che la fatalità dell’universo cioè la più grande, la suprema fatalità, è adeguata ad una ragione come ad una libertà infinita, essa non fa che emettere un’ipotesi in ogni modo legittima, la cui verificazione si impone a tutti i partiti.
3° – Attualmente gli umanisti, i nuovi atei, si presentano e dicono: l’umanità, nel suo insieme, è la realtà perseguitata dal genio sociale sotto il nome mistico di Dio. Questo fenomeno della ragione collettiva, specie di miraggio nel quale l’umanità, contemplando se stessa, si crede un essere esteriore e trascendente che lo guarda e presiede ai suoi destini, questa illusione della coscienza, diciamo, è stata analizzata e spiegata: e d’ora innanzi è meglio ritornare indietro nella scienza che riprodurre l’ipotesi teologica. Bisogna attaccarsi unicamente alla società, all’uomo. Dio in religione, lo Stato in politica, la proprietà in economia, tale è la triplice forma sotto la quale l’umanità, divenuta straniera a se stessa, non ha cessato di lacerarsi con le proprie mani, e che deve oggi rigettare.
Ammetto che l’affermazione o l’ipotesi della Divinità proviene da un antropomorfismo, e che Dio non è dapprima che l’ideale, o, per meglio dire, lo spettro dell’uomo. Ammetto di più che l’idea di Dio è il tipo e il fondamento del principio d’autorità e d’arbitrio, che il nostro compito è di distruggere od almeno di subordinare dovunque si manifesti, nella scienza, nel lavoro, nella città. Così non contraddico l’umanismo, ma lo prolungo. Impadronendomi della sua critica dell’essere divino, ed applicandola all’uomo, osservo:
– Che l’uomo, adorandosi come Dio, ha posto da se stesso un ideale contrario alla propria essenza, e si è dichiarato antagonista dell’essere creduto sovranamente perfetto, in una parola, dell’infinito.
– Che l’uomo non è di conseguenza, a suo giudizio, che una falsa divinità, poiché affermando Dio, nega se stesso; e che l’umanismo è una religione tanto detestabile quanto tutti i teismi d’antica origine.
– Che questo fenomeno dell’umanità che si prende per Dio non si spiega coi termini dell’umanismo, e reclama una ulteriore interpretazione.
Dio, secondo il concetto teologico, non è solo l’arbitro sovrano dell’universo, il re infallibile ed irresponsabile delle creature, il tipo intelligibile dell’uomo; è l’essere eterno, immutabile, presente dovunque, infinitamente saggio, infinitamente libero. Ora, questi attributi di Dio contengono più che un ideale, più che un’elevazione a potenza degli attributi corrispondenti dell’umanità; dico che ne sono la contraddizione.
Dio è contraddittorio all’uomo; nello stesso modo che la carità lo è alla giustizia: la santità, ideale della perfezione, alla perfettibilità; la dignità regia, ideale della potenza legislativa, alla legge, ecc. Di maniera che l’ipotesi divina rinasce dalla sua risoluzione nella realtà umana ed il problema di un’esistenza completa, armonica ed assoluta, sempre allontanato, ritorna sempre.
Per dimostrare questa antinomia radicale, basta mettere i fatti in paragone delle definizioni.
Di tutti i fatti, il più certo, il più costante, il più indubitabile, è certamente che nell’uomo la conoscenza è progressiva, metodica, riflessiva, in una parola, sperimentale; a tal segno che tutta la privata teoria della sanzione dell’esperienza, cioè della costanza e della serie delle sue rappresentazioni, manca per ciò stesso di carattere scientifico. A questo riguardo, non si saprebbe sollevare il minimo dubbio. I matematici stessi, qualificati puri, ma assoggettati alla serie delle proposizioni, per ciò stesso rivelano esperienza, e riconoscono la loro legge.
La scienza dell’uomo, partendo dall’osservazione acquistata, progredisce e avanza in una sfera senza limiti. Il termine al quale mira, l’ideale che tenta di realizzare, ma senza mai poterlo raggiungere ed anzi tornando indietro senza posa, è l’infinito, l’assoluto.
Ora, che cosa sarebbe una scienza infinita, una scienza assoluta, determinando una libertà pure infinita, come la speculazione la suppone in Dio? Sarebbe una conoscenza non solo universale, ma intuitiva, spontanea, pura da ogni esitazione come da ogni obiettività, quantunque abbracci in una volta il reale ed il possibile; una scienza certa, ma non dimostrativa; completa, non seguita; una scienza che, essendo eterna nella formazione, sarebbe spoglia d’ogni carattere di progresso nel rapporto delle sue parti.
La psicologia ha raccolto numerosi esempi di questo modo di conoscere: le facoltà istintive e divinatorie degli animali; l’intelletto spontaneo di certi uomini nati calcolatori ed artisti, indipendentemente da ogni educazione; infine, la maggior parte delle istituzioni umane e dei monumenti primitivi, prodotti d’un genio incosciente e indipendente dalle teorie. Ed i movimenti così regolari, così complicati dei corpi celesti; le meravigliose combinazioni delle materie; non si dirà che tutto ciò è effetto di un istinto particolare, inerente agli elementi?...
Dunque, se Dio esiste, qualche cosa di lui ci appare nell’universo ed in noi stessi; ma questo qualche cosa è in opposizione flagrante con le nostre tendenze più autentiche, col nostro più certo destino; questo qualche cosa si cancella continuamente dall’anima con l’educazione, ed ogni nostra cura è di farlo sparire.
Dio e uomo sono due nature che si fuggono, da quando si conoscono; non si riconcilieranno a meno d’una trasformazione dell’uno o dell’altro o di tutti e due? Come mai, se il progresso della ragione ha per scopo di allontanarci sempre dalla Divinità, Dio e l’uomo, nella ragione, sarebbero così identici? Come mai, in conseguenza, l’umanità con l’educazione potrebbe diventar Dio?
Prendiamo un altro esempio.
Il carattere essenziale della religione è il sentimento. Con la religione, l’uomo attribuisce a Dio il sentimento, come gli attribuisce la ragione; di più afferma, seguendo il cammino ordinario delle sue idee, che il sentimento in Dio, nello stesso modo che la scienza, è infinito.
Ora, solo ciò basta per cambiare in Dio la qualità del sentimento, e farne un attributo totalmente distinto da quello dell’uomo. Nell’uomo, il sentimento deriva da diverse sorgenti; si contraddice, si turba, si tormenta da se stesso; senza di ciò non si avvertirebbe. In Dio, al contrario, il sentimento è infinito, cioè pieno, fisso, limpido, al disopra delle tempeste, e non avente alcun bisogno d’inasprirsi col contrasto per arrivare alla felicità. Facciamo noi stessi l’esperienza di questo modo divino di sentire, allorché un unico sentimento, togliendoci tutte le facoltà, come nell’estasi, impone silenzio momentaneamente a tutti gli altri affetti. Ma questo rapimento non esiste che per mezzo del contrasto e con una specie di provocazione avvenuta altrove; non è mai perfetto, dove arriva alla pienezza, è come l’astro che raggiunge il suo apogeo in un istante indivisibile.
Così, non viviamo, non sentiamo, non pensiamo, che per una serie d’opposizioni e di scosse, per una guerra intestina; il nostro ideale non è un infinito, ma un equilibrio; l’infinito esprime una cosa diversa.
Si dice: Dio non ha attributi che gli siano propri; i suoi attributi sono quelli dell’uomo; dunque, l’uomo e Dio, fanno una sola e medesima cosa.
Tutto al contrario, gli attributi dell’uomo, essendo infiniti in Dio, sono per ciò stesso propri e specifici; è il carattere dell’infinito di diventare specialità, essenza, per ciò che esiste il finito.
Dunque si neghi la realtà di Dio, come si nega la realtà di un’idea opposta; si respinga dalla scienza e dalla morale questo fantasma incomprensibile ed insanguinato, che più si allontana, più sembra perseguitarci; ciò può, fino ad un certo punto, giustificarsi, ed in ogni caso non può nuocere. Ma non si faccia di Dio l’umanità, poiché sarebbe calunniare l’uno e l’altra.
Si dirà che l’opposizione tra l’uomo e l’essere divino è illusoria, e che proviene dall’opposizione che esiste tra l’uomo individuale e la natura dell’umanità intera? Allora è necessario sostenere che l’umanità, poiché si deifica, è infinita in tutto; ciò che è smentito non solo dalla storia, ma dalla psicologia.
Non è così che bisogna intenderla, esclamano gli umanisti. Per avere l’ideale dell’umanità, bisogna considerarla non nel suo sviluppo storico, ma nell’insieme delle sue manifestazioni, come se tutte le umane generazioni, riunite in un medesimo istante, formassero un sol uomo, un uomo infinito e immortale.
Vuol dire che si abbandona la realtà per cogliere una proiezione, che l’uomo vero non è l’uomo reale; che per trovare il vero uomo, l’ideale umano, bisogna uscire dal tempo ed entrare nell’eterno, che dico? abbandonare il finito per l’infinito, l’uomo per Dio! L’umanità, quale la conosciamo, quale si sviluppa, quale in una parola può esistere, è diritta; ci si fa vedere l’immagine al rovescio come in un cristallo, e poi ci si dice: Ecco l’uomo! Ed io rispondo: Non è più l’uomo, è Dio. L’umanismo è il più perfetto teismo.
Cosa dunque è questa provvidenza, che suppongono in Dio i teisti? Una facoltà essenzialmente umana, un attributo antropomorfico, col quale Dio è creduto guardare nell’avvenire secondo il progresso degli avvenimenti, nello stesso modo che noi uomini guardiamo al passato, seguendo la prospettiva della cronologia e della storia.
Ora è manifesto che come l’infinito, cioè l’intuizione spontanea ed universale nella scienza ripugna all’umanità, così la provvidenza ripugna all’ipotesi d’un essere divino. Dio, per cui tutte le idee sono eguali e simultanee; Dio, la cui ragione non separa la sintesi dall’antinomia; Dio, cui l’eternità rende tutte le cose presenti e contemporanee, non ha potuto, creandoci, rivelarci il mistero delle nostre contraddizioni; e ciò perché non vede la contraddizione, perché la sua intelligenza non va soggetta alla categoria del tempo e alla legge del progresso, che la sua ragione è intuitiva, e la sua scienza infinita.
La provvidenza in Dio è una contraddizione in un’altra contraddizione; è per la provvidenza che Dio fu veramente fatto ad immagine dell’uomo; togliete questa provvidenza, Dio cessa d’essere uomo, e l’uomo a sua volta deve abbandonare tutte le pretese alla divinità.
Forse si domanderà che cosa serve a Dio avere la scienza infinita, se ignora ciò che accade nell’umanità.
Distinguiamo. Dio ha la percezione dell’ordine, il sentimento del bene. Ma quest’ordine, questo bene, lo vede come eterno ed assoluto; non lo vede in ciò che offre di successivo e d’imperfetto; non ne comprende i difetti. Noi soli siamo capaci di vedere, di sentire e d’apprezzare il male, come di misurare la durata; poiché siamo capaci di produrre il male e la nostra vita è temporanea. Dio non vede, non sente che l’ordine; Dio non comprende ciò che accade, perché ciò che accade è al disotto di lui, al disotto del suo orizzonte. Noi, al contrario, vediamo in una volta il bene ed il male; il temporaneo e l’eterno, l’ordine ed il disordine, il finito e l’infinito; vediamo in noi e fuori di noi; e la nostra ragione, finita, oltrepassa il nostro orizzonte.
Così, con la creazione dell’uomo e lo sviluppo della società, una ragione finita e provvidenziale, la nostra, è stata messa in opposizione alla ragione intuitiva e infinita, Dio; di modo che, Dio, senza perdere nulla della sua infinità in ogni senso, pare, per il solo fatto dell’esistenza dell’umanità, diminuito. La ragione progressiva risultando dalla proiezione delle idee eterne sul piano mobile ed inclinato del tempo, l’uomo può intendere il linguaggio di Dio, perché egli viene da Dio, e la sua ragione è simile nel principio a quella di Dio; ma Dio non ci può intendere, né venire fino a noi, perché è infinito, e non può rivestire gli attributi del finito, senza cessare di essere Dio, senza distruggersi. Il dogma della provvidenza in Dio è dimostrato falso in fatto ed in diritto.
È facile ora vedere in che modo la stessa argomentazione si rivolge contro il sistema della deificazione dell’uomo.
Affermandosi dall’uomo fatalmente Dio come assoluto ed infinito nei suoi attributi, in quanto egli stesso si sviluppa in senso inverso a questo ideale, vi è disaccordo tra il progresso dell’uomo e ciò che l’uomo accetta come Dio. Da una parte, è manifesto che l’uomo, col sincretismo della sua costituzione e con la perfettibilità della sua natura, non è Dio, né lo potrebbe diventare; dall’altra, è certo che Dio, l’Essere supremo, è l’antipode dell’umanità, la sommità ontologica da cui essa si allontana indefinitamente.
Dio e l’uomo essendosi distribuite, per così dire, le facoltà antagoniste dell’essere, paiono giocare una partita della quale il prezzo è il comando dell’universo: all’uno la spontaneità, l’immanenza, l’infallibilità, l’eternità; all’altro la previdenza, la deduzione, la mobilità, il tempo. Dio e l’uomo si tengono a bada continuamente e si fuggono senza posa, mentre che questo cammina, senza mai riposarsi, con la riflessione e con la teoria, il primo, per la sua provvidenziale incapacità, pare trarsi indietro con la spontaneità della sua natura. Vi è contraddizione tra l’umanità ed il suo ideale, opposizione tra l’uomo e Dio, opposizione che la teologia cristiana aveva posto in allegoria e personificata col nome di Diavolo o Satana, cioè contraddittore, nemico di Dio e dell’uomo.
Tale è l’antinomia fondamentale della quale trovo che i critici moderni non hanno tenuto conto, e che, se la si trascura, dovendo arrivare alla negazione dell’uomo-Dio, per conseguenza alla negazione di tutta questa esposizione filosofica, riapre la porta alla religione ed al fanatismo.
Dio, secondo gli umanisti, non è altro che l’umanità stessa, l’io collettivo al quale si sottomette, come ad un padrone invisibile, l’io individuale. Ma perché questa singolare visione, se il ritratto è calcato fedelmente sull’originale?
Perché l’uomo, che dalla nascita conosce direttamente e senza telescopio il corpo, l’anima, il capo, il prete, la patria, lo Stato, ha dovuto vedersi come in uno specchio, e senza conoscersi, sotto l’immagine fantastica di Dio? Dov’è la necessità di questa allucinazione? Cos’è mai questa coscienza torbida e losca, che, dopo un certo tempo, si purifica, si riordina, ed invece di prendersi per un’altra, si prende definitivamente come tale? Perché per parte dell’uomo questa confessione trascendentale della società, allorché la società stessa era là, presente, visibile, palpabile, volente ed agente; allorché infine era conosciuta come società e chiamata per nome.
Si dice: no, la società non esisteva; gli uomini erano agglomerati, ma non associati; la costituzione arbitraria della proprietà e dello Stato, come il dogmatismo intollerante della religione, lo provano.
Pura retorica: la società esiste dal giorno in cui gl’individui, comunicando col lavoro e con la parola, hanno acconsentito ad obbligazioni reciproche e dato luogo a leggi e costumi.
Senza dubbio la società si perfeziona a misura del progresso della scienza e dell’economia; ma in nessuna epoca della civiltà il progresso implica metamorfosi come quelle che hanno sognato i facitori di utopie; e per quanto debba essere eccellente la futura condizione dell’umanità, essa non sarà che la continuazione naturale, la necessaria conseguenza delle sue anteriori posizioni.
Del resto, nessun sistema d’associazione escludendo per se stesso, come feci vedere, la fratellanza e la giustizia, l’ideale politico giammai ha potuto essere confuso con Dio, e si vede in effetti che presso tutti i popoli, la società s’è distinta dalla religione. La prima era presa per fine, la seconda solo riguardata come mezzo; il principe fu il ministro della volontà collettiva, mentre Dio regnava sulle coscienze, attendendo al di là della tomba i colpevoli sfuggiti alla giustizia degli uomini. L’idea stessa di progresso e di riforma non ha fatto difetto in alcuna parte; infine nulla di ciò che costituisce la vita sociale è stato presso alcuna nazione religiosa interamente ignorato e disconosciuto. Perché, ancora una volta, questa tautologia della società-Divinità, se è vero, come lo si pretende, che l’ipotesi teologica non contiene che l’ideale della società umana, il tipo preconosciuto dell’umanità trasfigurata dall’uguaglianza, solidarietà, lavoro ed amore?...
Certamente, se è un pregiudizio, un misticismo il cui inganno mi pare oggi temibile, non è già più il cattolicesimo, che se ne va, sarà piuttosto questa filosofia umanitaria, che fa dell’uomo, sulla fede d’una speculazione troppo sapiente per non essere mista all’arbitrio, un essere santo e sacro; proclamandolo Dio, cioè essenzialmente buono ed ordinato in tutte le sue potenze, malgrado le testimonianze disperate ch’egli non cessa di dare della sua moralità incerta; attribuendo i suoi vizi alla violenza nella quale ha vissuto, e promettendosi da se stesso, con una libertà completa, gli atti della più pura devozione, poiché nei miti in cui l’umanità, seguendo questa filosofia, s’è dipinta essa stessa, si trovano rappresentati ed opposti l’uno all’altro, sotto il nome d’inferno e di paradiso, un tempo di violenza e di pena ed un’era di felicità e d’indipendenza! Con una simile dottrina, basterà, cosa inevitabile, che l’uomo riconosca che non è né Dio, né buono, né santo, né saggio, perché si abbandoni subito nelle braccia della religione; così che in ultima analisi, tutto ciò che il mondo avrà guadagnato con la negazione di Dio, sarà la risurrezione di Dio.
Secondo me, non è questo il senso delle favole religiose. L’umanità, riconoscendo Dio quale suo autore, suo padrone, suo alter ego, non ha fatto che determinare con un’antitesi la propria natura; natura eclettica e piena di contrasti, emanata dall’infinito ed opposta all’infinito, sviluppata nel tempo e aspirante all’eternità, per tutte queste ragioni, fallibile, quantunque guidata dal sentimento del bello e dell’ordine. L’umanità è figlia di Dio, come ogni opposizione è figlia d’una posizione anteriore; è per ciò che l’umanità ha scoperto Dio simile a sé, che gli ha prestati i propri attributi, ma dando sempre loro un’immagine di carattere specifico, cioè definendo Dio contrariamente a se stessa. L’umanità è uno spettro per Dio, come egli è uno spettro per l’umanità; ciascuno dei due è per l’altro causa, ragione e fine d’esistenza.
Non era sufficiente aver dimostrato, con la critica delle idee religiose, che il concetto dell’io divino si riconduce alla percezione dell’io uomo; era necessario controllare questa deduzione con una critica dell’umanità stessa, e vedere se questa umanità soddisfaceva alle condizioni che la sua apparente deità supponeva. Ora, questo è il lavoro che abbiamo solennemente inaugurato, allorché, partendo in una volta dalla realtà umana e dall’ipotesi divina, abbiamo cominciato a svolgere la storia della società nei suoi stabilimenti economici e nei suoi pensieri speculativi.
Abbiamo constatato, da una parte, che l’uomo, quantunque provocato dall’antagonismo delle sue idee, quantunque fino ad un certo punto scusabile, con il male gratuitamente e con lo sfogo bestiale delle sue passioni, ciò che ripugna al carattere d’un essere libero, intelligente e santo. Abbiamo fatto vedere, dall’altra parte, che la natura dell’uomo non è costituita armonicamente e sinteticamente, ma formata da agglomerazioni di virtualità specializzate in ogni creatura, circostanza che, rivelandoci il principio dei disordini commessi dall’umana libertà, ha finito di dimostrarci la non-Divinità della nostra specie. Infine, dopo aver provato che in Dio la provvidenza non solo non esiste, ma è impossibile; dopo avere, in altri termini, separato nell’Essere infinito gli attributi divini dagli attributi antropomorfici, abbiamo concluso, contrariamente alle affermazioni della vecchia teodicea, che relativamente al destino dell’uomo, destino essenzialmente progressivo, l’intelligenza e la libertà in Dio soffrivano un contrasto, una specie di limitazione e di diminuzione risultante dal loro carattere d’eternità, d’immutabilità e d’infinità; di modo che l’uomo invece di adorare in Dio il suo sovrano e la sua guida, non poteva e non doveva vedere in lui che il suo antagonista. E quest’ultima considerazione sarà sufficiente a farci rigettare anche l’umanismo, come tendente invincibilmente, con la deificazione dell’umanità, ad una restaurazione religiosa. Il vero rimedio al fanatismo, secondo noi, non è identificare l’umanità con Dio, ciò che viene ad affermare, in economia sociale, la comunanza, in filosofia il misticismo e lo status quo; ma di provare all’umanità che Dio, nel caso che vi sia un Dio, è suo nemico.
Quale soluzione più tardi uscirà da questi dati? Dio alla fine si troverà forse ad essere qualche cosa?
Non lo so. Se è vero, da un lato, che io non abbia oggi più ragione di affermare la realtà dell’uomo, essere illogico e contraddittorio, che la realtà di Dio, essere inconcepibile e non manifesto, so almeno, per la radicale opposizione di queste due nature, che ho nulla a sperare né a temere dall’autore misterioso che involontariamente suppone la mia coscienza; so che le mie tendenze le più autentiche m’allontanano ogni giorno dalla contemplazione di questa idea; che l’ateismo pratico deve essere in avvenire la legge del mio cuore e della mia ragione; che è osservabile fatalità che debba apprendere incessantemente la regola della mia condotta; che ogni comandamento mistico, ogni diritto divino che mi sarà proposto, deve essere respinto e combattuto; che il ritorno a Dio con la religione, la pigrizia, l’ignoranza o la sottomissione, è un attentato contro me stesso; e che se un giorno dovessi riconciliarmi con Dio, questa riconciliazione, impossibile finché vivo, e nella quale avrei tutto da perdere, niente da guadagnare, non si può compiere che con la mia distruzione.
Ma se la proprietà, spontanea e progressiva, è una religione, essa è come la monarchia e il sacerdozio, di diritto divino.
Similmente l’ineguaglianza delle condizioni e delle fortune, la miseria, è di diritto divino; lo spergiuro e il furto sono di istituzione divina: l’usufrutto dell’uomo dall’uomo è affermazione, manifestazione di Dio. I veri deisti sono i proprietari; i difensori della proprietà sono tutti gli uomini che credono in Dio; le condanne a morte e alla tortura, che essi eseguono gli uni sopra gli altri in seguito a malintesi sulla proprietà, sono sacrifici umani offerti al Dio della forza. Quelli, al contrario, che annunciano la prossima fine della proprietà, che provocano con Gesù Cristo e Paolo l’abolizione della proprietà; che ragionano sulla produzione, il consumo e la distribuzione delle ricchezze, sono gli anarchici, e gli atei; e la società che marcia visibilmente all’eguaglianza e alla scienza, la società è la negazione continua di Dio.
Dimostrazione dell’ipotesi di Dio con la proprietà, e necessità dell’ateismo per il perfezionamento fisico, morale e intellettuale dell’uomo, tale è lo strano problema che ci resta da risolvere. Poche parole basteranno: i fatti sono conosciuti, la nostra prova è fatta.
L’idea dominante del secolo, l’idea oggi più comune e più autentica è l’idea di progresso. Dopo Lessing, il progresso, divenendo la base delle credenze sociali, fa nello spirito la stessa parte che altre volte la rivelazione, che si direbbe da esso negata, mentre non fa in realtà che tradurla.
Il latino revelatio, come il greco apokalypsis, significa, parola per parola, sviluppo, progresso: ma l’antichità religiosa vedeva questo sviluppo in una storia raccontata, prima dell’evento, da Dio stesso, mentre la ragione filosofica dei moderni la vede nella successione dei fatti compiuti. La profezia non è l’opposto, essa è il mito della filosofia della storia.
Lo sviluppo dell’umanità, tale è dunque, ma con una coscienza di più in più larga, la più profonda e più comprensiva nostra idea; sviluppo del linguaggio e delle leggi; sviluppo delle religioni e delle filosofie; sviluppo economico e industriale; sviluppo della giustizia, per la forza, l’astuzia e le convenzioni; sviluppo delle scienze e delle arti. E il Cristianesimo, che abbraccia ogni religione, che si oppone ad ogni filosofia, che si appoggia da una parte sulla rivelazione, dall’altra sulla penitenza, cioè che crede all’educazione dell’uomo mediante la ragione e l’esperienza, il Cristianesimo, nel suo complesso, è il simbolo del progresso.
In faccia a quest’idea sublime, feconda e altamente razionale del progresso, persiste e sembra ravvisarsi ancora un’altra idea, gigantesca, enigmatica, impenetrabile ai nostri strumenti dialettici, come sono al telescopio le profondità del firmamento: è l’idea di Dio.
Che cosa è Dio?
Dio è, ipoteticamente parlando, l’eterno, l’onnipotente, l’infallibile, l’immutabile, lo spontaneo; in una parola, l’infinito in ogni facoltà, proprietà e manifestazione.
Dio è l’essere in cui l’intelligenza e l’attività, elevate ad una potenza infinita, diventano adeguate e identiche alla fatalità stessa: Summa lex, summa libertas, summa necessitas. Dio dunque è per essenza antiprogressista, antiprovvidenziale: Dictum factum, ecco la sua divisa, la sua sola e unica legge. E come in lui l’eternità esclude la provvidenza, così pure l’infallibilità esclude la percezione dell’errore, e per conseguenza la percezione del male: Sanctus in omnibus operibus suis. Ma Dio, per la sua qualità di infinito in tutti i sensi, acquista una specificazione propria, per conseguenza una possibilità d’esistenza risultante dalla sua opposizione all’essere finito, progressivo e provvidenziale, che lo conosce come suo antagonista. Dio, in una parola, non avendo nel suo concetto niente di contraddittorio, è possibile, bisogna verificare questa ipotesi involontaria della nostra ragione.
Tutte queste nozioni ci sono state fornite dall’analisi dell’essere umano, considerato nella sua costituzione morale e intellettuale, esse si sono presentate, in seguito ad una dialettica irrefutabile, come il postulato necessario della nostra natura contingente, e della nostra funzione sul globo.
Più tardi, ciò che abbiamo dapprima riconosciuto come semplice possibilità di esistenza, si è elevato, per la teoria del dualismo irriducibile e della progressione degli esseri, all’importanza d’una probabilità. Abbiamo constatato che il fatto, d’ora innanzi acquisito alla scienza, d’una creazione progressiva, che si svolge su una sostanza dualista, e la cui ragione e l’ultimo termine ci sono già dati, implicava alla sua origine un altro fatto, quello di un’essenza infinita in spontaneità, efficacia e certezza, di cui tutti gli attributi, per conseguenza, sarebbero inversi di quelli dell’uomo.
Resta dunque da mettere in luce questo fatto probabile, questa esistenza sine qua non che la ragione esige, che l’osservazione suggerisce, ma che niente ancora ci dimostra, e che, in tutti i casi, la sua infinità e la sua solitudine ci tolgono ogni speranza di comprendere. Resta da dimostrare l’indimostrabile, da penetrare l’inaccessibile, da mettere, in una parola, sotto lo sguardo dell’uomo mortale, l’infinito.
Questo problema, irrisolvibile a primo colpo d’occhio, contraddittorio nei termini, si riduce, se si prende la pena di riflettervi, al teorema seguente, nel quale ogni contraddizione scompare: fare l’equazione fra la fatalità e il progresso, in tal modo che l’esistenza infinita e l’esistenza progressiva, adeguate l’una all’altra, ma non identiche, e tutto al contrario inverse, che si penetrano, ma non si confondono, servendosi mutualmente di espressione e di legge, ci appaiono a loro volta, così come lo spirito e la materia che le costituiscono, ma su un’altra dimensione, come due facce inseparabili e irriducibili dell’essere.
Si è visto, e abbiamo avuto cura di farlo più d’una volta notare, che nella scienza sociale le idee sono tutte egualmente eterne de evolutive, semplici e complesse, aforistiche e subordinate. Per un’intelligenza trascendente, non c’è nel sistema economico né principio, né conseguenza, né dimostrazione, né deduzione: la verità è una e identica, senza condizione di concatenamento, perché essa è verità dappertutto, sotto una infinità di aspetti, e in una infinità di teorie e di sistemi.
È solamente nell’esposizione didattica che la serie delle proposizioni si manifesta. La società è come un sapiente che, avendo la scienza posta nel suo cervello, l’abbraccia nel suo insieme, la conosce senza inizio né fine, la prende simultaneamente e distintamente in tutte le sue parti, e trova in ciascuna evidenza e priorità eguale. Ma questo stesso uomo se vuole produrre la scienza è costretto a svolgerla in parole, proposizioni e discorsi successivi, cioè a presentare come una progressione ciò che gli appare come un tutto indivisibile.
Così le idee di libertà, di eguaglianza, di tuo e di mio, di merito e demerito, di credito e di debito, di servo e di padrone, di proporzione, di valore, di concorrenza, di monopolio, d’imposta, di cambio, di divisione del lavoro, di macchine, di dogane, di rendita, d’eredità, ecc., tutte le categorie, tutte le opposizioni, tutte le sintesi indicate dall’origine del mondo nel vocabolario economico, sono contemporanee nella ragione. E tuttavia per costituire una scienza che ci sia accessibile, queste idee hanno bisogno di essere disposte secondo una teoria che ce le mostri generandosi tra loro e che abbia il suo principio, il suo mezzo e la sua fine. Per entrare nella pratica e realizzarsi in una maniera efficace, queste stesse idee devono posarsi in una serie di istituzioni oscillanti, accompagnate da mille accidenti imprevisti, e da lunghi tentativi. In una parola, come nella scienza si ha la verità assoluta e trascendentale e la verità teorica, così nella società si ha nello stesso tempo fatalità e provvidenza, spontaneità e riflessione e la seconda di queste due potenze lavora costantemente a soppiantare la prima, ma non fa sempre in realtà che il medesimo lavoro.
La fatalità è dunque una forma dell’essere e dell’idea: la deduzione, il progresso, un’altra forma.
Ma fatalità, progresso, sono astrazioni di linguaggio ignote alla natura, in cui tutto è realizzato o non lo è. Esistono dunque nell’umanità l’essere fatale e l’essere progressivo, inseparabili, ma distinti, opposti, antagonisti, ma sempre irriducibili.
Quali creature dotate d’una spontaneità irriflessiva e involontaria, sottomesse alle leggi d’un organismo fisico e sociale, ordinato per tutta l’eternità, immutabile nei suoi termini, irresistibile nel suo insieme, e che si compie e si realizza mediante sviluppo e crescita; in quanto viviamo, diventiamo grandi e moriamo, lavoriamo, scambiamo, amiamo, ecc., noi siamo l’essere fatale, in quo vivimus, movemur et sumus. Noi siamo la sua sostanza, la sua anima, il suo corpo, la sua figura, allo stesso titolo, e né più né meno che gli animali, le piante e le pietre.
Ma in quanto osserviamo, riflettiamo, apprendiamo e operiamo in conseguenza, sottomettiamo a noi la natura e diventiamo padroni di noi stessi, siamo l’essere progressivo siamo uomini. Dio, natura naturans, è la base, la sostanza eterna della società; e la società, natura naturata, è l’essere fatale in perpetua emissione di se stesso. La fisiologia rappresenta, quantunque imperfettamente, questa dualità, nella sua distinzione così conosciuta della vita organica e della vita di relazione. Dio non esiste solo nella società; ma solo nella società Dio è conosciuto, per la sua opposizione con l’essere progressivo; è la società, è l’uomo che con la sua evoluzione fa cessare il panteismo originale, ed è per ciò che il naturalista, il quale s’immerge e s’assorbe nella fisiologia e nella materia, senza studiare mai né la società né l’uomo, perde a poco a poco il sentimento della divinità. Tutto è Dio per lui, cioè, non c’è Dio.
Dio e l’uomo, diversi di natura, si distinguono dunque per le loro idee e i loro atti, in una parola, per il loro linguaggio.
Il mondo è la coscienza di Dio. Le idee o i fatti di coscienza in Dio sono l’attrazione, il movimento, la vita, il numero, la misura, l’unità, l’opposizione, la progressione, la serie, l’equilibrio: tutte queste idee conosciute e prodotte eternamente, per conseguenza senza successione, previdenza né errore. Il linguaggio di Dio, i segni delle sue idee, sono tutti gli esseri e i loro fenomeni.
Le idee o i fatti di coscienza presso l’uomo sono l’attenzione, il paragone, la memoria, il giudizio, il ragionamento, l’immaginazione, il tempo, lo spazio, la causalità, il bello ed il sublime, l’amore e l’odio, il dolore e la voluttà. Queste idee, l’uomo le produce per segni specifici: lingue, industria, agricoltura, scienze ed arti, religioni, filosofie, leggi, governi, guerre, conquiste, cerimonie allegre e funebri, rivoluzioni, progressi.
Le idee di Dio sono comuni all’uomo, che viene da Dio come la natura; che non è altro che la coscienza della natura; che prende le idee di Dio per princìpi materiali di tutte le sue, e converte nel suo essere, e s’assimila incessantemente la sostanza divina. Ma le idee dell’uomo sono straniere a Dio, che non comprende il nostro progresso, e per cui tutti i prodotti della nostra immaginazione sono mostri, sono nulla. È per ciò che l’uomo parla la lingua di Dio come la propria, mentre Dio è impotente a parlare la lingua dell’uomo; e nessuna conversazione, nessun patto fra essi è possibile. È per ciò che tutto quanto nell’umanità viene da Dio, si arresta a Dio o ritorna a Dio, è ostile all’uomo, nocivo al suo sviluppo ed alla sua perfezione.
Dio crea il mondo, scaccia, per così dire, l’uomo dal suo seno, perché è potenza infinita, e sua essenza è generare eternamente il progresso Pater ab ævo sed videns, Parem sibi gignit Natum, dice la teologia cattolica. Dio e l’uomo sono dunque necessari l’uno all’altro, e l’uno dei due non può essere negato senza che l’altro sparisca nello stesso tempo. Che sarebbe il progresso, senza una legge assoluta ed immutabile? Che sarebbe la fatalità, se essa non si svolgesse al di fuori? Supponiamo, cosa impossibile, che l’attività in Dio cessi ad un tratto: la creazione rientra nell’esistenza del caos; essa ritorna allo stato di materia senza forma, di spirito senza idee, di fatalità inintelligibile. Dio cessa d’agire, Dio non è più.
Ma Dio e l’uomo, malgrado la necessità che li incatena, sono irriducibili; ciò che i moralisti hanno chiamato, con una pia calunnia, la guerra dell’uomo contro se stesso, non è, in fondo, che la guerra dell’uomo contro Dio, la guerra della riflessione contro l’istinto, la guerra della ragione che prepara, sceglie e temporeggia, contro la passione impetuosa e fatale, ne è la prova irrecusabile. L’esistenza di Dio e dell’uomo è provata dal loro antagonismo eterno: ecco ciò che spiega la contraddizione dei culti, che ora supplicano Dio di risparmiare l’uomo, di non indurlo in tentazione, come Fedra che scongiura Venere di strappare dal suo cuore l’amore d’Ippolito; ora domandano a Dio la sapienza e l’intelligenza, come il figlio di Davide salendo sul trono, come facciamo ancora noi nella nostra messa dello Spirito Santo.
Ecco ciò che spiega, infine, le guerre civili e di religione, la persecuzione delle idee, il fanatismo dei costumi, l’odio per la scienza, l’orrore del progresso, cause di tutti i mali che affliggono la nostra specie.
L’uomo, come uomo, non può mai trovarsi in contraddizione con se stesso: egli non sente molestia e strazio che dalla esistenza di Dio che è in lui. Nell’uomo si riuniscono tutte le spontaneità della natura, tutte le istigazioni dell’essere fatale, tutti gli dèi e i demoni dell’universo. Per sottomettere queste potenze, per disciplinare quest’anarchia, l’uomo non ha che la sua ragione, il suo pensiero progressivo; ed ecco ciò che costituisce il dramma sublime, le cui peripezie formano, nel loro insieme, la ragione ultima di tutte le esistenze. Il destino della natura e dell’uomo è la metamorfosi di Dio: ma Dio è inesauribile, e la nostra lotta eterna.
Non siamo dunque sorpresi se tutto ciò che fa professione di misticità e di religione, tutto ciò che rileva o si reclama da Dio, tutto ciò che si sforza di regredire verso l’ignoranza primitiva, tutto ciò che preconizza la soddisfazione della carne ed il culto delle passioni, si mostra partigiano della proprietà, nemico dell’uguaglianza e della giustizia. Siamo alla vigilia d’una battaglia in cui tutti i nemici dell’uomo saranno contro di lui, i sensi, il cuore, l’immaginazione, l’orgoglio, l’accidia, il dubbio: Astiterunt reges terrae adversus Christum!... La causa della proprietà è la causa delle dinastie e dei sacerdoti, della demagogia e del sofisma, degli improduttivi e dei parassiti. Nessuna ipocrisia, nessuna seduzione sarà risparmiata per difenderla. Per trascinare il popolo, si comincerà per impietosirsi della sua miseria; si ecciterà in lui l’amore e la tenerezza, tutto ciò che può illanguidire il coraggio e piegare la volontà, si eleverà al disopra della riflessione filosofica e della scienza il suo fortunato istinto. Poi gli si celebreranno le glorie nazionali; si riscalderà il suo patriottismo; gli si parlerà dei suoi grandi uomini, e poco a poco al culto della ragione, sempre proscritta, si sostituirà il culto degli usufruttuari, l’idolatria degli aristocratici.
Il popolo, come la natura, ama realizzare le sue idee: alle questioni teoriche, preferisce le questioni di persone. Se esso si rivolta contro Ferdinando, è per obbedire a Masaniello. Gli bisogna un Lafayette, un Mirabeau, un Napoleone, un semidio.
Non accetterà la sua salvezza da un commesso, a meno che non sia vestito da generale. Così vedete come il culto degli idoli prosperi! Vedete i fanatici di Fourier e del buon Icaro, grandi uomini che vogliono organizzare la società, e non hanno mai potuto stabilire una cucina; vedete i democratici, che fanno consistere la grandezza e la virtù in un successo alla tribuna, sempre pronti a correre sul Meno, come gli Ateniesi a Cheronea, alla voce di qualche Demostene, che il giorno prima avrà ricevuto l’oro da Filippo, e getterà il suo scudo nella battaglia.
[Tratto da Pierre-Joseph Proudhon, Sistema delle Contraddizioni Economiche. Filosofia della Miseria, tr. it., Anarchismo, II ed., Trieste 2015]
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