Titolo: Colpo su colpo
Autore: Henry, Émile
Data: 1977
Note: Coup pour coup. Textes établis par Roger Langlais, Ed. Plasma, Paris 1977
Prima edizione italiana: Casa editrice Vulcano, Bergamo 1978
Traduzione di Isabella de Caria
seconda edizione: novembre 2013
Opuscoli provvisori n. 36
SKU: opuscoli-000036
Dimensioni: cm 10 x 10,5
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Nota introduttiva

Chi alza la mano contro i dominatori e contro i loro servi paga con la vita. Ecco l’insegnamento che si trae dalla lettura di questo libro dedicato alla vicenda di Émile Henry, l’anarchico che decise, sul finire dell’Ottocento, di attaccare con le bombe il nemico di classe.

Lo tengano presente i compagni che si illudono di mettere paura. Chi gestisce il dominio non si impaurisce facilmente. Serra i ranghi e va avanti. Anzi, non appena si accende qualche fuocherello, qui e là, immediatamente invoca leggi speciali e provvedimenti esemplari. Normale amministrazione.

Spetta a noi decidere che fare. Stare a guardare, aspettando che tutto vada a soqquadro per scendere dal marciapiede su cui siamo fermi, oppure attaccare per primi. Anche a costo di trovare schierati contro – chi poteva immaginarselo – una buona parte dei nostri stessi compagni. Malatesta, a suo tempo, altri ai giorni nostri.

Questo libretto, uscito la prima volta per le edizioni Vulcano nel 1978, e subito da me recensito su “Anarchismo” dette vita a una polemica ben più astiosa e indigesta delle righe sopratono ma, in fondo, genericamente bonarie, di Malatesta (qui riportate in Appendice). Chi volesse leggerla la troverà nel mio libro: Gianfranco Bertoli e Alfredo M. Bonanno, Carteggio 1998-2000, Trieste 2003, pp. 450-480. Qui di seguito mi limito a riportare la mia recensione che dette origine a tanto squallore. E riprendo questo mio scritto perché lo ritengo tutt’ora valido per chiarire i motivi dell’attacco di Henry, i quali rimangono sempre l’obiettivo primario di ogni anarchico che vuole guardarsi la mattina allo specchio senza ridersi in faccia vedendo riflessa la maschera di un buffone.

Con buona pace di tutti i distinguo filosofici.


Trieste, 30 ottobre 2011

Alfredo M. Bonanno

* * * * *

Una raccolta contenente una biografia di Henry, due sue lettere, il resoconto del processo, alcuni aforismi, e un’appendice con una interessante lettera di Malatesta.

Il volumetto, occorre dirlo subito, presenta un problema che supera di gran lunga lo stupido barcamenarsi degli storici, anche degli storici dell’anarchismo: il gesto di Henry fu qualcosa di spaventoso, qualcosa che scosse non soltanto la cosiddetta “opinione pubblica”, ma anche i compagni. E la lettera di Malatesta, inserita nell’appendice, è un esempio di queste perplessità, colte dall’anarchico italiano e giustificate in un certo modo, mettendo avanti la solita cautela, quella stessa cautela che pochi anni prima aveva fatto gridare al “provocatore” nei confronti di Ravachol a gente come Grave e come Kropotkin.

Ma, andiamo con ordine.

Non è per nulla vero che il gesto di Henry si inserisce nella catena di attentati e di attacchi che gli anarchici “fine secolo” realizzarono contro le istituzioni e i loro rappresentanti. Il gesto di Henry opera un “salto di qualità” che venne colto, seppure nebulosamente, anche dai compagni che in quel momento si trovavano a lottare contro la repressione.

Questo giovane, colto e intelligente, opera con freddezza una decisione che altri avevano maturato e compreso, ma non realizzato: attacca la borghesia, non questo o quel rappresentante dell’istituzione Stato, questo o quel poliziotto, magistrato, carnefice, aguzzino, spia o traditore, no: tutta la borghesia. Egli colpisce nel mucchio, senza discriminazioni. Sceglie con cura uno dei posti che questa classe frequenta, vi si reca con il suo ordigno infernale, accende la miccia, lancia la bomba e se ne va.

Di più, cerca anche di sfuggire alla cattura. Non è un martire, è un guerrigliero, non vuole sacrificarsi, vuole continuare nella sua lotta, vuole continuare a colpire nel mucchio. Per far questo fugge, cerca di coprirsi la ritirata, spara per difendersi, finché non cade prigioniero nelle mani del nemico. E qui, una volta preso, non chiede pietà, non si chiude in un mutismo del resto anche giustificabile: fa del processo una tribuna per spiegare e illustrare il suo gesto contro tutti (compagni compresi) e contro tutto. Non cerca attenuanti, non parla di “errori”, ma dice chiaramente che ha inteso colpire proprio nel mucchio, senza preventiva discriminazione, perché proprio nel mucchio si annidano quei colpevoli dello sfruttamento che sono meno individuabili, i rappresentanti di quella classe bottegaia, perbenista, codina, sanfedista, pronta ad accorrere nelle piazze dove si ghigliottina, pronta a battere le mani a qualsiasi sottoprodotto napoleonico, pronta a mettere il proprio sostegno sotto i piedi del dittatore di turno.

Nel gesto di Henry è inclusa un’analisi del concetto di classe. Non tanto nelle sue lettere o nello stesso dibattito processuale, ma proprio nel gesto in se stesso. Il comportamento collettivo della classe borghese comprende, in forme ben delineate, in quanto classe al potere (o diretta sostenitrice del potere) una coscienza di classe ben adeguata alle reazioni specifiche dei rapporti di forza (ideologici ed economici). La classe borghese sa quello che vuole, e la frangia bottegaia lo sa anche meglio della media e alta borghesia. E questa coscienza di sé la estrinseca anche nel passatempo, nel divertimento, nello scegliere un caffè, un ristorante, un bordello, una crociera, un luogo di vacanza. La selezione che si opera in questi posti non è solo determinata dal prezzo dei prodotti, dei servizi e di quello che occorre avere con sé per recarvisi, ma è determinata dalla stessa aria che vi si respira, dall’atmosfera che vi è stata creata “apposta”, dalla scelta delle bardature, dei ninnoli, dei quadri, degli specchi, dei bicchieri e della moquette. Un proletario – anche oggi, con tutto l’inquinamento che è stato causato dal consumismo imperante – raramente metterebbe piede al Caffè Greco a Roma, e se per errore vi capitasse dentro ne fuggirebbe ben presto, non tanto perché spaventato dai prezzi che vi si praticano, quanto perché estraniato da quell’atmosfera che vi è stata creata e che si sente come qualcosa di solido, un’atmosfera che solo con una valutazione superficiale può essere riportata alla necessità del capitale di “vendere”. Qui non si tratta di quei luoghi di massa dove si sacrifica al dio “merce”, si tratta di altri luoghi, più intimi e raccolti, dove il sacrificio alla religione della “merce” è fatto in forma più raffinata, in forma accessibile solo a pochi, in forma che opera una selezione automatica e che trova riscontro – quasi perfetto – nell’adeguarsi della coscienza di classe borghese alla situazione dei rapporti di forza oggi in campo.

Non si venga a dire che la situazione storica di fine Ottocento era diversa della presente e che allora questi posti erano ben più precisamente “isolati” di quanto non accada oggi, proprio perché la borghesia ancora all’apice dello sfruttamento coloniale si sentiva sicura di sé e voleva autogratificarsi anche con bordelli e caffè oltre che con chiese e monumenti alla vittoria. Anche oggi, in fase di profonde trasformazioni sociali, la borghesia mantiene una certa coscienza di sé, almeno quelle fasce che non sono state risucchiate irrimediabilmente nel baratro della criminalizzazione a seguito delle difficoltà, per il capitale, di mantenere un livello sufficientemente sicuro di occupazione. Ma quelle altre fasce, quelle garantite, quelle che si sono anche ingrossate con l’accesso di altri gruppi – prima proletari – oggi sono il nucleo reazionario più coerente e più difficile a smuovere. E questo nucleo, questo coacervo d’interessi e di squallore, di linguaggio gergale e di stucchevoli imitazioni di passati splendori, questo nucleo si ritrova ancora negli stessi posti, negli stessi caffè, negli stessi bordelli.

Ecco. La cosa più umoristica (e tragica, nello stesso tempo) è che questo nucleo reazionario ha assunto gli atteggiamenti del progressismo parolaio della cosiddetta sinistra, e per meglio solidificare la coscienza del proprio status sociale ha rigettato le vesti sorpassate di una reazione che si vestiva di nero (e che oggi farebbe ridere) per indossare le vesti di una reazione che si veste di rosso e che non fa più ridere ma mette paura.

Ecco. Colpire nel mucchio, oggi, a tanto tempo dal gesto di Henry, non solo sarebbe un gesto valido ma sarebbe anche un contributo teorico al movimento, ancora una volta, un salto qualitativo.

Malatesta scriveva: “Una cosa è comprendere e perdonare, un’altra è rivendicare. Questi non sono atti che possiamo accettare, incoraggiare, imitare. Noi dobbiamo essere risoluti ed energici, ma dobbiamo cercare di non oltrepassare mai il limite segnato dalla necessità. Noi dobbiamo fare come il chirurgo che taglia quando è necessario, ma evita di infliggere inutili sofferenze: in una parola, dobbiamo essere ispirati dal sentimento dell’amore degli uomini, di tutti gli uomini”.

Amore o odio. L’alternativa è errata. Nello scontro di classe non si può sentire amore per il proprio nemico, i sentimenti che possono stimolare questo amore sono quelli della reazione comune agli stessi stimoli della classe, cioè il sentirsi non solo partecipi della stessa classe del nemico ma il sentirsi interessati alle stesse cose e agli stessi ideali, in caso contrario, quando il nemico si vede come tale – come nemico di classe – e i suoi interessi e i suoi ideali non si condividono, ma anzi suscitano disgusto e sdegno, il risultato può essere uno solo: l’odio.

Ed Henry rispondeva: “È vero che gli uomini non sono che il prodotto delle istituzioni; ma queste istituzioni sono cose astratte che esistono solo fintanto che ci sono uomini in carne ed ossa per rappresentarle. Non c’è quindi che un modo per colpire le istituzioni; cioè colpire gli uomini; ed accogliamo con felicità tutti gli atti energici di rivolta contro la società borghese, perché non perdiamo di vista il fatto che la Rivoluzione non sarà che la risultante di tutte queste Rivolte particolari”.


[Recensione a E. Henry, Colpo su colpo, Edizioni Vulcano, Bergamo 1978, pagine 174, pubblicata su “Anarchismo” n. 23-24, 1978]

“La Java des bon enfants”

Dans la rue des Bons-Enfants,
On vend tout au plus offrant.
Y avait un commissariat,
Et maintenant il n’est plus là.

Une explosion fantastique,
N’en a pas laissé une brique,
On crut qu’c’était Fantômas,
Mais c’était la lutte des classes!

Un poulet zélé vint vite,
Qui portait une marmite,
Qu’était à renversement,
Il la retourne imprudemment.

Le brigadier, le commissaire,
Mêlés au poulet vulgaire,
Partent en morceaux épars,
Qu’on ramasse sur un buvard.

Contrairement à ce qu’on croyait,
Y’en avait qui en avait,
L’étonnement est profond:
On peut les voir jusqu’au plafond.

Voilà bien ce qu’il fallait,
Pour faire la guerre au palais,
Sache que ta meilleure amie,
Prolétaire, c’est la chimie.

Les socialos n’ont rien fait,
Pour abréger les méfaits,
De l’infamie capitaliste,
Heureusement vient l’anarchiste.

Il n’a pas de préjugés,
Les curés seront mangés,
Plus de patrie, plus de colonie,
Et tout le pouvoir il le nie.

Encore quelques beaux efforts,
Et disons qu’on se fait fort,
De régler radicalement,
Le problème social en suspend.

Dans la rue des Bons-Enfants,
Viande à vendre au plus offrant,
L’avenir radieux prend place,
Et le vieux monde est à la casse.

“La Giava des bon enfants”

In Rue des Bons Enfants,
Si vende tutto al miglior offerente.
Una volta c’era un commissariato
E adesso non c’è più.

Un’esplosione fantastica
Non c’è rimasto un mattone
Si è pensato fosse stato Fantômas,
Ma era la lotta di classe!

Un pollo zelante arrivò subito
Portando una pentola
Che era girata sottosopra
E che lui rigirò imprudentemente.

Il brigadiere, il commissario,
Mischiati a dei volgari polli
Si sparsero dappertutto in pezzi
Che poi vennero ramazzati via.

Contrariamente a quel che si crede,
Hanno avuto quel che si meritavano
La sorpresa è profonda,
La si può vedere fino alle fondamenta.

Questo è ciò che serviva
Per far la guerra ai palazzi,
Sappiate che il vostro migliore amico
Proletari, è la chimica.

I socialisti non hanno fatto niente,
Per ridurre il danno
Del capitalista infame
Fortunatamente arriva l’anarchico.

Non ha pregiudizi,
I preti verranno mangiati,
Niente più patria, e nemmeno colonie,
E qualsiasi potere, lui lo nega.

Ancora un piccolo sforzo,
E potremo dire che saprà
Liquidare radicalmente
Il problema sociale in sospeso.

In Rue des Bons Enfants,
Si vendono bistecche al miglior offerente,
Si vede un avvenire radioso
E il vecchio mondo s’è rotto.

[Sul disco della prima registrazione (1973, Pour en finir avec le travail. Chansons du prolétariat révolutionnarie, con musiche di Francis Lemonnier e la voce di Jacques Marchais) questa canzone è stata attribuita a Raymond Callemin, detto Raymond la Science (un membro della “Banda Bonnot”), 1912. In verità il brano fu scritto negli anni Sessanta da Guy Debord]

Biografia

1872-1887

Nasce a Saint-Martin Provensals (Spagna), il 26 settembre 1872, di Constant, Joseph, Émile, Félix Henry, secondo figlio di Rose Caubet-Lasale e di Fortuné Henry Mausel, condannato a morte in contumacia per la sua partecipazione attiva alla Comune.

La famiglia Henry è originaria di Nîmes, dove il nonno di Émile era pellicciaio. Fortuné Henry era stato redattore capo del “Panurge”, giornale pubblicato a Carcassonne verso il 1860: “In seguito ad articoli di una violenza straordinaria, ebbe a sostenere numerosi processi che portarono alla morte del suo giornale”. (“Le Petit Journal”, 17 febbraio 1894). Colonnello durante la Comune, esercitò in seguito le professioni di capomastro di cave, poi di ingegnere. Dopo l’amnistia, va a Parigi con la sua famiglia (1882).

Suo padre muore poco dopo per le conseguenze di un avvelenamento da vapore di Mercurio.

Émile Henry studia alla scuola municipale Jean-Baptiste Say dove è allievo brillante ed ottimo compagno (anno scolastico 1884-1885: 2° premio; 1885-1886: 1° premio; 1886-1887: 2° premio; 1887-1888 – anno preparatorio alla École Polytechnique: 5° attestato).

Uno dei suoi professori dirà più tardi di lui: “Era un ragazzo perfetto, il più onesto che si possa incontrare”.

Durante l’anno scolastico 1884-1885, fa parte della terza compagnia del battaglione scolastico e ottiene a fine anno l’ottavo attestato di merito. Al momento del processo, quando lo si accuserà di aver rifiutato il servizio militare, dichiarerà: “Avevo fatto tre anni di battaglione scolastico ed è tutto quello che potevo fare come militare”.

Gli anni 1884-1887 vedono lo sviluppo dalla propaganda anarchica: oratori come Tortelier o Fortuné Henry, [1] fratello di Émile, intervengono in riunioni pubbliche.

Nel settembre 1886, Charles Malato di ritorno da Numea dove aveva accompagnato il padre, comunardo deportato, partecipa alla rinascita della stampa anarchica: con Léon Ortiz, Schiroky, Gérendal e Pausader [2] – che Émile Henry incontrerà qualche anno più tardi – fonda “La révolution cosmopolite”, “giornale rivoluzionario socialista indipendente”.

12 gennaio 1887. “Clément Duval [3] è condannato a morte per aver espropriato il palazzo di una riccastra e aver fatto qualche asola nella pellaccia dello sbirro Rossignol. Non osando accorciarlo, la governanza lo spedisce alla Guyana”. (“Almanach du Père Peinard”, 1894).

1888-1891

Émile Pouget, Ricard e Constant Martin fondano un quindicinale anarchico, il “Ça ira” (maggio 1888).

Ammesso alla École Polytechnique lo stesso anno, Émile Henry rinuncia agli studi. “Per non essere militare e non essere costretto a tirare sulla gente come a Fourmies”, dichiarò al suo processo, riferendosi al 1° maggio 1891 quando la truppa sparò sulla folla, uccidendo dieci persone tra cui due ragazzi di 11 e 13 anni.

Lascia la scuola Jean-Baptiste Say nel novembre 1890 ed entra, il mese seguente, nella ditta di un parente, il signor Bordenave, che accompagna a Venezia per cooperare ai lavori pubblici di cui quest’ultimo è incaricato. Dopo qualche mese lascia questa occupazione, in seguito ad un malinteso (Émile Henry credeva che ci si aspettasse da lui una “sorveglianza occulta” del personale).

24 febbraio 1889. Primo numero de “Le Père Peinard” di É. Pouget.

Tornato a Parigi, Émile Henry rimane tre mesi senza lavoro, poi trova un impiego poco remunerato in una ditta di commercio.

“La guerra agli uffici di collocamento sta prendendo un andamento pratico: la baracca di un collocatore della rue Chénier viene fatta saltare con la dinamite, i danni si limitano ad un pezzo di muro buttato giù, ma la paura degli sfruttatori diventa enorme”. (“Almanach du Père Peinard”, 1894). Qualche settimana più tardi, il 10 novembre 1888, “saltano in aria due covi di collocatori, in rue Boucher e rue Française”. (Ibidem).

8 aprile 1890. “A Roubaix, un proletario, Vanhausen cacciato dalla galera Vanoutryve, buca la pancia del direttore e dopo si suicida”. (Ibidem).

1° maggio 1891. L’esercito spara sulla folla a Fourmies (Nord): 10 morti. A Clichy, violenti scontri tra anarchici e polizia. Decamps e Dardare, due compagni arrestati, vengono selvaggiamente picchiati condannati a cinque e tre anni di carcere. Il presidente Benoît, che dirigeva il dibattimento, ed il sostituto Bulot, che aveva richiesto la pena di morte, saranno i primi bersagli di Ravachol, l’anno dopo.

Il 5 maggio Zo d’Axa [4] pubblica il primo numero de “L’Endehors”. È questa l’epoca in cui, secondo le proprie affermazioni, Émile Henry si lancia nel movimento rivoluzionario.

Nello stesso anno, fa la conoscenza della signora Gauthey, moglie di un amico di suo fratello, alla quale egli scrive il 14 settembre : “Io che ho tanto bisogno di affetto, di consolazione, di carezze, di amore, mi vedo solo e isolato, perso in questo ampio turbine dgli egoismi umani; e talvolta la vita mi sembra orribile e vorrei scomparire, annullarmi per sfuggire alle angosce perpetue che stringono e spezzano il cuore e il pensiero! Amarvi e non essere riamato!”. (Questa lettera fu pubblicata su “Le Journal”, 17 maggio 1894).

1892

All’inizio dell’anno Sébastien Faure lancia una campagna contro il Primo Maggio e i “tre otto”, rivendicazione giudicata riformista e antirivoluzionaria. Pouget, Malato, Prolo, Martin, Tortelier, Brunet, Schiroky e Émile Henry, di cui ha usato i nomi senza averli consultati, esprimono il loro disaccordo in una dichiarazione comune:

“I compagni sottoscritti protestano contro l’uso del loro nome fatto senza il loro consenso, e dichiarano di essere invece contrari ad una campagna contro il Primo Maggio per le seguenti ragioni:

“1. Ogni volta che il popola abbandona l’officina per scendere in piazza, l’interesse di tutti gli anarchici, qualunque siano le tendenze del movimento, deve essere di partecipare, per cercare di farlo deviare in favore della rivoluzione sociale.

“2. Gli anarchici non sono un partito di cospiratori, che cerca di fare una rivoluzione di sorpresa, non contano più sul Primo Maggio che su un’altra data; ma poiché il popolo in quella data ha delle tendenze di rivolta, sarebbe assurdo, anzi meschino, consigliarli di rimanere a riposo in quel giorno.

“3. Il congresso della rue Rochechouart, fissando il Primo Maggio come data di una manifestazione, aveva in prospettiva unicamente fini politici. Sperava di far manovrare a perfezione le masse irreggimentate dai suoi amici. Ma, come sempre, il popolo è andato oltre quello che i suoi pretesi rappresentanti avrebbero voluto.

“Invece di essere una sfilata internazionale dell’esercito socialista elettorale, è successo che, grazie all’intervento degli anarchici, i proletari hanno agito...

“4. Il timore da parte di qualche compagno che le manifestazioni periodiche impediscano all’azione di prodursi all’infuori delle date fissate non ha fondamento...”.

Il 10 febbraio, “garottamento a Xeres di quattro persone arrestate, venti giorni prima, nell’insurrezione anarchica dei contadini che avevano preso d’assedio la città”. (“Almanach du Père Peinard”, 1894).

Primi attentati anarchici: esplosione al ristorante Véry (2 morti) il 25 aprile, che segue quelle del boulevard Saint-Germain (11 marzo), della caserma Lobau (15 marzo) e della rue de Clichy (27 marzo).

Nel corso di un meeting di solidarietà a Ravachol, tenuto nel quartiere del Temple, Fortuné Henry prende la parola ed estrae dalla tasca un oggetto che degli informatori prendono per una pistola. Arrestato l’indomani, viene imprigionato. Viene arrestato anche Émile Henry. “Aveva già una notorietà nel partito, era conosciuto dalla famiglia Reclus e amico di Sébastien Faure”. (“Le Petit Journal”, 16 febbraio 1894).

Fortuné, giudicato, viene assolto. Qualche mese più tardi sarà condannato dalla Corte d’Assise di Bourges, per incitamento all’omicidio, a tre anni di carcere.

Non essendoci alcuna prova seria contro Émile, viene rilasciato. Tuttavia il suo padrone, un commerciante della rue du Sentier, che non apprezza la propaganda che egli svolge con i suoi compagni, lo licenzia. Egli scopre, nell’ufficio che Émile Henry occupava, dei manoscritti relativi alla fabbricazione di esplosivi.

Eppure, a sentire Malato, Émile Henry, sarebbe stato ostile, in quell’epoca, agli atti di Ravachol; dopo aver condannato l’assassino dell’eremita di Chambles ed il profanatore della tomba (“Dovremmo finirla con questa gente che disonora il nostro partito; vogliono sfruttare gli altri e vivere confortevolmente nello stile borghese, non pensano a sacrificare la loro vita per delle idee”, frase attribuita a Émile Henry da Malato, cfr. “The Fortnightly Review”, 1° settembre 1894), si sarebbe opposto anche alla dinamite: “Tali atti (...) ci fanno un gran male... Un vero anarchico (...) abbatte il suo nemico; non fa saltare case in cui ci sono donne, bambini, lavoratori e domestici”. (Ibidem).

Dichiarazioni sorprendenti se nell’agosto dello stesso anno, rispondendo ad un articolo di Errico Malatesta (“Un peu de théorie”, “L’Endehors” n. 68, 21 agosto 1892. Vedi Appendice) scrive: “I futuri Ravachol, prima di rischiare la loro testa nella lotta, dovranno forse sottomettere i loro progetti al beneplacito dei Malatesta, eretti a Grande Tribunale, che giudicheranno l’opportunità delle azioni?”. (“L’Endehors” n. 69, 28 agosto 1892). Henry deporrà la sua prima bomba meno di tre mesi dopo.

Per un periodo fu amministratore de “L’Endehors”: “Émile Henry, la cui costante preoccupazione fu di lavorare per l’idea, s’incaricava, senza alcun profitto, del noioso lavoro di amministrazione, della corrispondenza con i distributori de ‘L’Endehors’. Per quanto il lavoro fosse modesto, riservato, egli ci teneva a collaborare al lavoro comune. E lo faceva, benché esistessero delle divergenze fra noi: ma l’anarchia non è forse parente prossima della mia concezione individualistica, affermatrice dell’orgoglio di essere, fuori dalle regole restrittive, fuori dalle tenaglie delle leggi?

“Lo sento ancora, quasi un bambino, ma già serio. Deciso, settario perfino come lo diventano obbligatoriamente coloro ai quali nessun dubbio turba la fede, coloro che vedono – ipnotizzati, potrei dire – il fine, e, allora, ragionano, giudicano e sentenziano con una matematica implacabile. Credeva fermamente nell’avvento di una società futura, costruita logicamente, armoniosa e bella”. (Zo d’Axa, Da Mazas a Gerusalemme). E Zo d’Axa aggiungeva più avanti: “Si stupiva che avendo compreso la bassezza di un’epoca, ci si potesse ancora trovare qualche gioia”.

11 luglio. Esecuzione di Ravachol.

Émile Henry è segnalato alla polizia “perché si dedica a studi di chimica sospetti” (secondo uno degli atti di accusa letti dal cancelliere Wilmès al processo di Henry).

In agosto, i minatori di Carmaux scendono in sciopero e occupano gli uffici e gli edifici della miniera. Malgrado il rapido intervento dei socialisti, che presto controllano il movimento e organizzano delle sottoscrizioni, il lavoro riprenderà solo il 3 novembre.

Incorporato nel 148° Reggimento di linea, Émile Henry si sottrae alla chiamata del servizio militare.

In settembre, cerca lavoro presso un orologiaio, poi entra, dietro raccomandazione di Léon Ortiz che vi ha lavorato per tre anni, come impiegato presso Dupuy, scultore-decoratore in rue Rocroi. Abita al 31 di rue Véeron, non lontano dalla rue Lepic dove sta Ortiz.

Ai primi del mese di novembre, Émile Henry si procura un astuccio di metallo, tre chili di clorato di potassio e un flacone di sodio. Possiede anche venti cartucce di dinamite. Con l’aiuto di un detonatore e di una marmitta acquistata in rue Lepic, fabbrica una bomba a rovesciamento.

L’8 novembre, lascia il suo ufficio verso le 10 per fare due commissioni per Dupuy. Prima si reca da un liquidatore giudiziario di rue Tronchet, in vettura, poi in place Blanch. Da qui, raggiunge rue Véron, prende dall’armadio la bomba già pronta e si fa condurre con un’altra vettura in avenue de l’Opéra. Depone l’ordigno all’interno del numero 11 che ospita gli uffici della miniera di Carmaux, e va subito da un architetto di boulevard de Courcelles, sempre in vettura. Fatta la seconda commissione, torna a piedi in rue Rocroi. Intanto, la bomba è stata scoperta da Simon Garnier, portinaio della casa, e da un fattorino della compagnia di nome Garin. Trasportata al commissariato di polizia di rue des Bons-Enfants, non appena posata, esplode, uccidendo cinque persone: il vigile Réaux, il sotto-brigadiere Formorin, il fattorino Garin, il segretario del commissariato Pousset – che stava per essere nominato commissario – e l’ispettore Troutot. D’altronde Henry aveva previsto la possibilità che la bomba fosse scoperta prima di esplodere: “Secondo i miei esperimenti, supponevo che la marmitta sarebbe scoppiata cinque o sei minuti dopo essere stata posta davanti agli uffici della compagnia di Carmaux, ma non ignoravo che se si fosse presa la marmitta prima dell’esplosione, sarebbe stata portata al commissariato di polizia del quartiere, di modo che, nel caso in cui i ricchi dell’avenue de l’Opéra fossero sfuggiti alla sorte che destinavo loro, ero certo di colpire i poliziotti, ugualmente miei nemici”.

Loubet, allora ministro dell’Interno, Quesnay de Beaurepaire, procuratore generale, e Goron, capo della Pubblica Sicurezza, accorrono sul posto. Mentre visitano il commissariato distrutto, il sotto-brigadiere Henrion, che torna dalla Prefettura, cade morto stecchito di fronte allo spettacolo:

“La porta d’ingresso era stata completamente strappata e proiettata a pezzi per le scale. L’ingresso era cosparso di detriti di legno, vetro e carta. La porta, che dall’ingresso si apriva sull’ufficio degli ispettori, non esisteva più; ma sulla soglia per traverso un cadavere sdraiato sul ventre”. Era quello del vigile Réaux. “Le due gambe erano tagliate all’altezza dei ginocchio. Il busto rimaneva coperto da brandelli di vestiti mezzo bruciati e stracciati, mentre le cosce erano completamente nude. La faccia era appoggiata contro il suolo. Il pavimento della stanza era un mucchio di detriti di tutti i tipi, legno, gesso, carta, pezzi di carne e di vestiti, il muro che divideva l’ufficio degli ispettori da quello del segretario era stato completamente portato via e proiettato contro il muro, di fronte alla porta d’ingresso. Nell’angolo dell’ufficio, entrando a destra, giaceva un tronco totalmente carbonizzato, ricoperto di detriti: era quello che rimaneva del signor Garin, l’impiegato della compagnia delle miniere di Carmaux. Vicino a lui, contro il muro, di fronte alle finestre, si trovava un altro cadavere, sdraiato sulla schiena, le gambe tagliate e coperto anch’esso di detriti. La mano destra, in un gesto istintivo, era stata portata davanti al viso. Era il sotto-brigadiere Formorin. Infine, dove si trovava il muro divisorio, giaceva, in uno stato orribile, quasi una poltiglia, il corpo del signor Pousset, segretario del commissario di polizia. L’ispettore Troutot, che si trovava anche lui negli uffici al momento dell’esplosione, era stato portato via ancora in vita. Fu prelevato da una vettura delle Ambulanze urbane e portato all’ospedale. Dopo aver subito l’amputazione di una gamba, spirò verso le cinque di sera, tra spaventose sofferenze”. (“Le Petit Journal”, 20 novembre 1892).

La casa sarebbe interamente crollata se, sopra il commissariato, non si fosse stato il deposito della libreria Dentu, quattrocentomila volumi, il cui peso (80 tonnellate) fece resistenza.

Secondo alcune testimonianze, Henry era accompagnato da una donna quando posò la sua bomba: “La sua complice, ‘la donna della mantella’ dell’avenue dell’Opéra, è stata fermata nei giorni scorsi in un albergo di rue de la Seine. Si chiama Adrienne Chailley, età ventotto anni, conosciuta nel quartiere latino, di cui frequentava alcune birrerie. Appartiene ad un’eccellente famiglia ed ha ricevuto una certa istruzione. Ha fatto spesso delle conferenze sull’emancipazione della donna. È una donna bruna, dal viso largo e corto, il naso camuso, gli occhi tondi a fior di testa. I capelli sono tagliati corti: tipo volgare dell’ubriaca. Il signor Espinas, giudice istruttore (...) ha interrogato a lungo l’imputata in questi ultimi giorni. Non vuole rispondere alle domande del giudice e non si lascia estorcere che generiche affermazioni”. (“Le Petit Journal”, 23 febbraio 1894; cfr. anche J. Maitron, Le Mouvement anarchiste en France, Parigi 1975, tomo I, nota p. 243). Sembra più verosimile che si fosse egli stesso travestito (cfr. A. L. Zevaès, “Sous le signe de la dynamite. E. Henry”, “Vendémiaire”, 30 dicembre 1936 – 6 gennaio 1937; per Jean Paulhan, sarebbe stato Félix Fénéon a dare a Henry un vestito di sua madre, cfr. “La Quinzaine Littéraire”, luglio-agosto 1966).

10 novembre: Émile Henry lascia il suo padrone alle quattro e dichiara di recarsi dalla madre a Brévannes. In effetti va in Inghilterra. La madre di Émile Henry aveva ereditato questa casa da una cognata la cui influenza sui fratelli Henry, al loro ritorno dalla Spagna, è presentata in questi termini da “Le Petit Journal” del 16 febbraio 1894: “Li viziava quanto poteva, mentre discuteva con loro della necessità di riformare la società massacrando una parte di coloro che la compongono”. La signora Henry gestiva con il figlio più giovane un negozio di vini con l’insegna “Alla Speranza!”, frequentato principalmente da operai scavatori.

Fa allora pervenire al suo padrone la lettera seguente:

“Parigi, 11 novembre 1892

“Signor Dupuy,

“La signora Dupuy le ha senz’altro fatto sapere che, leggermente indisposto, avevo lasciato l’ufficio alle quattro.

“La notte che ho trascorso, essendo stata molto cattiva, mi ha fatto decidere di passare un giorno o due da mia madre in campagna.

“Mi dispiace lasciarla solo in questo momento, in cui avrebbe bisogno dei miei servizi, ma la prego di considerare che sono stato già molto malato qualche mese fa e mi preoccupo di una grave ricaduta.

“Non passo in ufficio questa mattina, perché mi reco direttamente da casa mia a casa di mia madre.

“Suo devotissimo

“Émile Henry”.

Due ore più tardi, il signor Dupuy riceveva una seconda lettera:

“Signor Dupuy,

“In primo luogo, la prego di scusarmi se le ho nascosto la verità quando, giovedì sera, ho lasciato il suo ufficio col pretesto di un’indisposizione.

“In realtà temevo le conseguenze delle investigazioni poliziesche che non dovevano mancare di provocare gli ultimi avvenimenti anarchici. È confessarle che O... non è l’unico anarchico che abbia avuto il piacere di prestare il proprio lavoro ad un padrone quale è lei.

“Ho già avuto a che fare con la polizia. Arrestato il 30 maggio, senza alcun pretesto, ho avuto l’insigne onore di dormire al fresco e di abitare una cella graziosamente messa a mia disposizione al grande carcere. Rilasciato qualche tempo dopo (e senza nessun altro motivo), fin dall’indomani mi sono visto congedato dal mio padrone, il signor Vanoutryve, 32 rue du Sentier, con l’unico pretesto che avevo delle idee sovversive.

“Infine, dopo numerosi tentativi infruttuosi per ritrovare un posto che mi permettesse più o meno di vivere, il mio amico O... mi ha proposto di entrare da lei, e lei mi ha assunto come impiegato.

“Se racconto tutti questi dettagli, che possono anche non interessarla, è per mostrarle che avevo ben qualche motivo di temere la polizia, che colpirà a tutta forza i rivoluzionari che conosce, attivi o no.

“Non ho intenzione di fare settimane, forse mesi di carcere preventivo, prima dell’arresto dei veri autori dell’esplosione dell’8 novembre. (L’esempio di Bricou e di sua moglie, incarcerati dal mese di maggio, non è rassicurante).

“Creda al mio più sincero dispiacere.

“Émile Henry”.

Tra i detriti viene trovato un frammento di giornale in cui si parla dei fratelli Henry. Fortuné può dimostrare che il giorno dell’esplosione era a Bourges. Per quanto riguarda Émile, una perquisizione al suo domicilio, ordinata da Cavard, capo delle Brigate di ricerca, non dà nessun risultato e l’inchiesta abbandona questa pista, tanto più che la polizia, dopo aver verificato il suo orario, giudica impossibile che Émile abbia potuto deporre l’ordigno ed effettuare le commissioni affidategli quel giorno.

Intorno al 20 dicembre, in seguito ad una lettera del suo ex padrone indirizzata ad Ortiz (al domicilio londinese di Matha), Émile Henry si presenta da Dupuy per incassare una somma che gli era ancora dovuta al momento della partenza.

1893

Émile Henry viaggia: soggiorna in Inghilterra, in Belgio (cfr. “Le Petit Journal” del 16 febbraio 1894: “... un agente della polizia belga lo avrebbe riconosciuto sotto il nome di Meurin”), forse in Germania (in marzo, sua madre riceve una lettera di Émile Henry imbucata a Berlino).

In maggio è nuovamente a Parigi e si installa al n. 10 del boulevard Morland, con il nome di Louis Dubois. Lavora come apprendista – non salariato – da un fabbro, impiego che manterrà fino alla fine del mese di giugno. L’8 luglio, lascia boulevard Morland. Sembra che in quel periodo sia in relazione con Ortiz e “la sua banda di ladri” (la formula è di Maitron). Al processo dei Trenta (agosto 1894), Léon Ortiz sarà accusato di aver partecipato con tre complici, tra cui Émile Henry, ad un furto commesso a Ficquefleur (Orne) nel 1893. In assenza di prove formali, l’accusa si ridurrà a supposizioni. Tuttavia Ortiz sarà condannato a quindici anni di lavori forzati. Senza preoccuparsi dei dinieghi di Ortiz e di Émile Henry, Jean Grave, con la sua proverbiale scorrettezza scrive in Le Mouvement Libertaire sous la III République (Parigi 1930, p. 133): “Tra i testimoni sfilarono i notabili di Ficquefleur, dove Émile Henry ed i suoi complici avevano fatto un così bel colpo”.

13 novembre. Un calzolaio anarchico, Léon-Jules Léauthier, che ha deciso di “bucare un borghese” (“Se avessi avuto la dinamite, avrei potuto fare meglio”), si reca in un ristorante dell’avenue de l’Opéra e colpisce col suo trincetto il signor Georgewitch, ministro della Serbia.

Qualche giorno dopo, l’agente Colson trova la morte nel corso dell’arresto di un altro anarchico, Marpeaux, ricercato per furto e ricettazione. Marpeaux sarà condannato ai lavori forzati a vita malgrado si proclami innocente.

9 dicembre. Vaillant getta la sua bomba al Palais-Bourbon.

20 dicembre. Émile Henry si reca a Belleville e affitta una camera, al 48 di villa Faucheur (rue des Envierges), sempre col nome di Louis Dubois.

18 gennaio. La Prefettura di polizia è avvisata dell’arrivo a Parigi di quattro anarchici, tra cui Émile Henry. Cinque giorni dopo, questi eludono la sorveglianza degli ispettori incaricati di pedinarli (cfr. “Le Petit Journal”, 15 febbraio 1894).

1894

5 febbraio. Esecuzione di Vaillant.

Matha, [5] che si trovava a Londra per sfuggire a diverse condanne, è tornato anch’egli a Parigi. Sa che Émile Henry prepara un attentato e cerca di dissuaderlo. L’11 febbraio, Émile Henry gli dichiara: “La tua amicizia m’importuna”. Tuttavia prende appuntamento con lui per l’indomani. Di ritorno a Belleville, confeziona una bomba munita di una miccia da minatore la cui lunghezza è calcolata per bruciare quindici secondi.

12 febbraio. Émile Henry avverte il custode della villa Faucheur che non tornerà per qualche giorno. Lascia nella sua camera tre chili e mezzo di acido picrico, materiale per fabbricare ancora una quindicina di bombe, e si porta via quella che aveva preparato. Con una pistola carica, di cui aveva morsicato le pallottole – “Per fare più male”, dirà in seguito – e con un pugnale di cui ha avvelenato la lama, si dirige dapprima verso l’avenue de l’Opéra, poi va alla Gare Saint-Lazare. Sono le otto e mezza quando si siede all’interno del Café Terminus. Alle nove, avvicina il suo sigaro acceso alla miccia, si alza, fa qualche passo in direzione della porta, e, prima di fuggire, lancia la sua bomba verso un palco dove suonano dei musicisti.

“Ci si lanciò subito all’inseguimento, e si riuscì a raggiungerlo. Allora, si voltò, tirò fuori dalla tasca una pistola e fece fuoco. Due inseguitori, il signor Maurice, garzone di parrucchiere, e il signor Etienne, impiegato alla gare de l’Ouest, furono colpiti. In quel momento, arrivarono di corsa delle guardie. Una di loro, di nome Poisson, raggiunse il fuggitivo e gli gridò: ‘Ferma!’. Il criminale fece nuovamente fuoco, e tre pallottole colpirono la sventurata guardia. Ma, benché gravemente ferito, egli ebbe la forza di prendere il suo assassino e di tenerlo fino all’arrivo dei suoi colleghi; poi, mentre si tratteneva il fuggitivo, cadde al suolo, in preda ad orribili sofferenze. Era accorsa la folla. Si voleva mettere a morte il criminale. Fu con grande fatica che le guardie riuscirono a proteggerlo conducendolo al commissariato di polizia”. (“Le Petit Parisien”, 25 febbraio 1894). La polizia sospetterà più tardi Ortiz, Matha e Chericotti di avergli dato aiuto al momento del suo arresto.

L’esplosione ferisce una ventina di persone (una sola morirà). Octave Mirbeau, che vede nell’atto di Henry una “provocazione poliziesca”, dichiara: “Un nemico mortale dell’anarchia non avrebbe agito meglio di quell’Émile Henry, quando lanciò la sua inspiegabile bomba, in mezzo a tranquille e anonime persone, venute in un caffè, per bervi un bicchiere prima di andare a dormire... È di moda, oggi, fra questi criminali, il dichiararsi (anarchici), quando hanno fatto un bel colpo... Ogni partito ha i suoi criminali ed i suoi pazzi, perché ogni partito ha i suoi uomini”. E, da Londra, Malato aggiunge: “Condivido pienamente il giudizio di Octave Mirbeau: l’atto di Émile Henry, che pure è un anarchico di grande intelligenza e grande coraggio, ha colpito soprattutto l’anarchia... Approvo la violenza che mira all’ostacolo, che colpisce il nemico, non quella che colpisce ciecamente”.

Per vari giorni, Émile Henry cerca di ingannare la polizia sulla sua persona e sul suo domicilio, il che permette a tre compagni – Matha, Ortiz e Millet — di “traslocare” il suo materiale: nella mattinata del 14 febbraio, il guardiano della villa Faucheur constata il furto, ma il commissario di polizia chiamato sul posto scopre solo una miccia Bickford, due palle di piombo e delle ceneri.

17 febbraio. Perquisizione a casa della signora Henry, a Brévannes. Roulier, procuratore della Repubblica, e un giudice istruttore di Corbeil, sequestrano lettere e documenti appartenenti ai fratelli Henry. Tra questi documenti, una foto di gruppo in cui compaiono Émile e Fortuné. “Uno dei personaggi tiene una bandiera nera sulla quale si distinguono queste parole: ‘Morte ai borghesi’. Questa fotografia è stata scattata a Dijon, il 9 aprile 1892”. (“Le Petit Journal”, 19 febbraio 1894).

19 febbraio. Numerose perquisizioni ai domicili degli anarchici conosciuti dalla polizia. Arresto di Sébastien Faure. Un’operazione dello stesso genere era stata condotta il 1° gennaio.

20 febbraio. Due nuove esplosioni in rue Saint-Jacques e faubourg Saint-Martin. Entrambe sembrano essere state opera dell’anarchico Amedeo Pauwels, detto Rabardy, conciatore, nato il 29 gennaio 1864 in Belgio. Amico di Paul Reclus, era stato arrestato ed espulso in seguito ai violenti scontri del 1° maggio 1891 a Clichy. Rifugiatosi in Lussemburgo, poi in Spagna, Pauwels morirà il 15 marzo 1894 nella chiesa della Maddalena, ucciso dall’esplosione della bomba che vi aveva appena deposto: “Era facile prevedere che gli anarchici se la sarebbero presa un giorno con la Chiesa. L’attentato di questa settimana allontanerà ancora di più da questi assassini coloro le cui idee si avvicinano maggiormente alle loro, i socialisti. Il portavoce di questi ultimi, Jaurès, in un eloquente appello, ha rimproverato al partito di governo di aver eliminato la preghiera, questa vecchia canzone che cullava la miseria umana”. (“Le Petit Journal”, supplemento illustrato, 26 marzo 1894). Da Londra, dove si è rifugiato poco prima del processo dei Trenta, Émile Pouget dirà di Pauwels che era “spinto dall’idea di smentire una porcheria, raccontata dai giornali borghesi, quella secondo cui gli anarchici sarebbero pagati dai preti”. (“Le Père Peinard”, serie londinese, n. 1, settembre 1894).

23 febbraio. Diverse persone, sospettate di essere gli autori dell’esplosione della rue des Bons-Enfants sono messe a confronto con Émile Henry. Egli allora rivendica l’attentato. Oltre ad Adrienne Chailley, tre persone almeno erano accusate di aver partecipato all’attentato: “Innanzitutto un tale Bonnard, di trentadue anni, calzolaio, amico di Émile Henry, che abitava a Grenelle. Sarebbe stato lui ad aiutare il giovane anarchico a confezionare la bomba. È stato arrestato nel mese di dicembre, qualche giorno dopo l’attentato di Vaillant al Palais-Bourbon. Aveva tre anni di galera da scontare. Touny, il commissario di divisione, fece una perquisizione nella sua camera e vi scoprì diverse marmitte a cui erano stati levati i manici e vari oggetti che dimostravano che si occupava della costruzione di bombe. (...) Un altro complice è pure sotto chiave. È Auguste Crétaud, di ventun’anni, operaio lattoniere. Avrebbe aiutato i suoi complici nella confezione della bomba. L’anarchico Joseph Mérigeaut, recentemente condannato per detenzione di materie esplosive, è anche compromesso in questo delitto. (...) Alla Procura si spera di far presto completa luce su questo spaventoso attentato”. (“Le Petit Journal”, 23 febbraio 1894).

24 febbraio. La signora Henry, convocata dal giudice istruttore Meyer, incontra suo figlio. Dupuy, ex-padrone di Émile Henry, assiste all’incontro. Secondo “Le Petit Journal” del 26 febbraio 1894, Émile Henry avrebbe dichiarato a Dupuy: “Signore, ho appreso che mi avevate reso giustizia. Malgrado la corrente dell’opinione pubblica, avete osato dire forte la mia probità; ve ne ringrazio. Se, dal vostro punto di vista, ho commesso dei crimini, la mia coscienza mi assolve: è tutto quello che mi importa”. Il signor Dupuy rispose: “Il mio compito era semplice: dire la verità”. – “Non tutti hanno questo coraggio, e, ancora una volta, vi ringrazio di averlo avuto”.

Mentre l’inchiesta prosegue, per tutta la Francia si moltiplicano le perquisizioni e gli arresti di anarchici.

26 febbraio. Émile Henry viene condotto al suo vecchio domicilio di rue Véron da Espinas, giudice, e Clément, commissario di polizia alle delegazioni giudiziarie. Lo sorvegliano diversi ispettori: “... il prigioniero indicò in quale armadio era venuto, l’8 novembre 1892, a prendere la sua macchina infernale. Poi, aprendo le tende, disse ai magistrati: ‘Che panorama avevo da qui, eh! E nemmeno caro, 170 franchi all’anno’”. (“Le Petit Journal”, 28 febbraio 1894).

27 febbraio. Émile Henry scrive al direttore della Conciergerie, dove è incarcerato. Nella sua cella, annota le opere di Jean-Jacques Rousseau.

“Gli arresti di anarchici continuano senza soste a Parigi. Ogni mattina, al sorgere del sole, un certo numero di commissari di polizia, accompagnati da agenti della brigata di ricerca, si presentano al domicilio dei compagni e, dopo la perquisizione fatta alle loro abitazioni, li mandano in galera con l’accusa di affiliazione ad una associazione di malfattori”. (“Le Petit Journal”, 1 marzo 1894). Ogni giorno, la maggior parte dei giornali non manca di comunicare ai suoi lettori nomi ed indirizzi dei “compagni” arrestati.

28 febbraio. Émile Henry viene condotto “da numerosi agenti delle brigate di ricerca” alla sede della compagnia delle miniere di Carmaux per una ricostruzione dell’attentato dell’8 novembre 1892.

12 marzo. Ernest Borde, ferito durante l’attentato al Café Terminus, muore in seguito alle ferite riportate.

18 marzo. Arresto a Parigi di L. Ortiz, “presunto complice di Émile Henry”. “In tasca, aveva una pistola bulldog che non ha fatto in tempo ad usare”. (“Le Petit Journal”, 20 marzo 1894). Lo stesso giorno, durante una processione religiosa a La Coruña (Spagna), José Vasquez tira due colpi di fucile sull’immagine del Cristo gridando: “Viva l’anarchia!”.

4 aprile. Bomba al ristorante Foyot. Diversi feriti, tra cui Laurent Tailhade che perderà un occhio in seguito alle ferite. Poco dopo viene arrestato Matha: non si può dimostrare la sua colpevolezza e ci si accontenterà di farlo comparire al Processo dei Trenta, quattro mesi dopo. Meunier, al quale la polizia attribuisce l’esplosione al ristorante Véry, e che era stato condannato a morte in contumacia dalla corte d’Assise della Seine, viene arrestato a Londra.

18 aprile. L’avvocato Hornbostel, difensore di Émile Henry, scrive al ministro della giustizia per chiedergli di accordare a Émile Henry, detenuto a Clairvaux, un permesso di tre giorni per presentarsi alle Assise e prendere la difesa di suo fratello.

27 aprile. Émile Henry compare alla corte di Assise della Seine. Il ruolo di Pubblico Ministero è coperto dal procuratore generale Bulot, “a cui Ravachol, prendendosela con lui al boulevard Saint-Germain, e mancandolo, aveva assicurato la carriera”. (A. Salomon, La Terreur noire. Chronique du mouvement libertaire, Paris 1959). Gran parte dei dibattimenti, presieduti dal consigliere Pelletier, viene dedicata all’attentato contro la compagnia delle miniere di Carmaux. Malgrado le lezioni di dizione prese per l’occasione presso l’attore tragico Silvain della Comédie-Française, l’avvocato Hornbostel si rende ridicolo e non riesce ad evitare a Henry la pena di morte. Dopo il verdetto, Émile Henry viene ricondotto alla Conciergerie dove, malgrado le istanze del suo avvocato, rifiuta di firmare il suo ricorso in Cassazione. Vestito con la camicia di forza, viene messo nella cella n. 11. L’indomani, viene trasferito alla Grande-Roquette, cella dei condannati a morte. Legge (Herzen, Cervantes...) e scrive aforismi.

2 maggio. Nuovo rifiuto di Henry di firmare il ricorso.

“Émile Henry attese la morte tranquillamente; rifiutò di firmare la domanda di grazia; il presidente Carnot – che un soprannome popolare indicava come il papà Ammazza Sempre – aveva giudicato di ‘lasciare che la giustizia seguisse il suo corso’. Henry fu ghigliottinato il 21 maggio 1894”. (S. Faure, “Le Libertaire” n. 50, 24-30 ottobre 1896).

“Come per Ravachol, condotto al supplizio con i genitali legati alle braccia incrociate dietro la schiena, Henry fu legato dagli stessi esecutori nell’identico modo. Le caviglie si toccavano, impedendogli di avanzare: ‘Per Dio! queste corde sono troppo strette, non si può camminare, gridò, dopo aver lanciato lo stesso grido urlato in Corte di Assise: ‘Compagni, coraggio. Viva l’anarchia!’. Tutti gli spettatori erano stupefatti del modo in cui quelle corde lo stringevano: Henry rotolava più che camminare, tanto erano strette”. (E. Lephay, “Un précurseur”, in “Le Libertaire” n. 28, 23-29 maggio 1896).

Lo stesso giorno, sei anarchici sono fucilati a Montjuich (Spagna) per l’attentato contro il maresciallo Martinez Campos.

24 maggio. Dopo una falsa inumazione nel cimitero di Ivry, i resti di Émile Henry sono inumati a Brévannes. “Nel momento in cui la bara stava per essere posta nella fossa, Michaut, commissario di polizia di Gentilly, incaricato della constatazione legale, si era avvicinato e pronunciò le parole: ‘Poiché nessuno vi si oppone, il corpo sarà donato alla Facoltà di Medicina’. L’autopsia fatta dai medici della Facoltà ha dato luogo ad osservazioni che sono state comunicate alla stampa”. (“Le Petit Parisien” 3 giugno 1894).

Conviene qui citare quell’avvoltoio di Henri de Rothschild che, sotto il prudente pseudonimo di André Pascal, ha fornito la spiegazione di questa storia: “(...) Paul Poirier era stato nominato professore di anatomia alla Facoltà di Medicina, quando un’altra sventura, di tipo criminale, apportò qualche scossa nel laboratorio del maestro (...). Era nel 1894. Era stato trasportato alla Facoltà di Medicina il corpo di un anarchico, Émile Henry, emulo del celebre Ravachol, ghigliottinato la mattina stessa sulla piazza della Roquette. Il professor Poirier lo richiese per il suo laboratorio, come si era prenotato quello di Pranzini, qualche anno prima. Immediatamente, insieme a tre miei compagni, fui incaricato di prelevare sul cadavere dei frammenti anatomici di ogni tipo, destinati a dissezioni e preparazioni, che dovevano arricchire il museo della Facoltà. Già da due buone ore, eravamo occupati ad un lavoro abbastanza singolare, quando una comunicazione venne a disturbare il ‘Capo’. La prefettura di polizia lo informava che la famiglia del ghigliottinato aveva richiesto il suo corpo e che occorreva rinviarlo immediatamente all’obitorio, dove lo si doveva mettere nella bara. Poirier si era precipitato nel laboratorio dove stavamo lavorando: ‘Alt, ragazzi!’ disse col suo tono di comando, ‘dobbiamo restituire Henry alla sua famiglia!’ e ci diede l’ordine di aggiustare tutti i danni che avevamo fatto, procurandoci su altri cadaveri quello che mancava già al corpo dell’anarchico. Per due ore, dovemmo dedicarci ad un vero lavoro di rammendo per fare scomparire il saccheggio commesso con i nostri scalpelli. Fu così che restituimmo alla sua famiglia il corpo di Henry, aggiustato in modo così brillante che nessuno poté immaginarsi gli oltraggi che aveva subito. Sic itur ad astra!”. (A. Pascal [Henri de Rothschild], Pranzini: le crime de la rue Montaigne, Paris 1933). Aggiungiamo che questo Poirier, che organizzava per la Scuola Pratica di Anatomia un museo, in particolare una collezione di tatuaggi prelevati sui cadaveri destinati all’insegnamento, aveva pensato, nel 1887, “di resecare trenta o quaranta centimetri quadri della pelle della schiena di Pranzini, per trasformare questo cuoio umano in portafoglio”. (Ibidem).

Meno di un mese dopo l’esecuzione di Henry, il 18 giugno, il prefetto di Lione riceve dal Ministero dell’Interno un telegramma confidenziale: “Si apprende che è stata ora conclusa una tacita intesa tra anarchici e socialisti per fare una contro-manifestazione al momento del passaggio del presidente della Repubblica a Lione. Si tratterebbe anche di accogliere il presidente con le grida di ‘Viva Henry’ e il canto della Carmagnola”. Sei giorni dopo, a Lione, “Carnot l’Assassino” o “l’iningrassabile pecari dell’Eliseo” (“La Revue Libertaire”) è liquidato da Caserio. Un manifesto pubblicato all’indomani dell’esecuzione Valliant si intitolava appunto “A Carnot l’Assassino”: “Questo manifesto contiene le ingiurie più volgari nei confronti del presidente della Repubblica”. (“Le Petit Journal”, 20 febbraio 1894).

Lettera ai compagni de “L’Endehors”

Compagni de “L’Endehors”,

Leggo nel vostro ultimo numero un articolo del compagno Malatesta, intitolato “Un po’ di teoria”. [Vedi Appendice].

Vi prego di voler inserire queste poche righe di riflessioni personali in merito.

Il compagno Malatesta, dopo aver sviluppato l’imminenza e la necessità di una rivoluzione violenta, e considerato che il ruolo degli anarchici è di contribuire alla sua prossima venuta, dice che “ogni atto di propaganda o di realizzazione, con la parola o con il fatto, individuale o collettivo, è bene quando serve ad avvicinare e facilitare la Rivoluzione...”.

Parlando poi di atti di rivolta ispirati dall’odio risultante da lunghe sofferenze subite dal proletariato, Malatesta aggiunge che comprende e perdona questi atti, ma che: “Una cosa è comprendere e perdonare, un’altra rivendicare. Questi non sono atti che possiamo accettare, incoraggiare, imitare. Dobbiamo essere risoluti ed energici, ma dobbiamo cercare di non oltrepassare mai il limite imposto dalla necessità. Dobbiamo fare come il chirurgo che taglia quando è necessario, ma evita di infliggere inutili sofferenze...”.

Farò osservare al compagno Malatesta che questa parte del suo articolo è per lo meno strana per la penna di un anarchico.

In effetti, cosa vogliono gli anarchici? L’autonomia dell’individuo, lo sviluppo della libera iniziativa, che, sole, potranno assicurargli la felicità; se diventa comunista, è per semplice ragionamento, perché comprende che solo attraverso la felicità di tutti, liberi e autonomi, come lui, troverà la sua propria.

E tuttavia, cosa vuole Malatesta?

Restringere questa iniziativa, intaccare questa autonomia, dichiarando che gli atti di un uomo – per quanto sincero e convinto egli sia – non sono da accettare, né rivendicare, quando superano il limite imposto dalla necessità.

Ma chi dunque può giudicare quando il limite è stato superato? Chi può garantire che tale atto è utile alla Rivoluzione, mentre tale altro le nuoce?

Dovranno forse i futuri Ravachol, prima di rischiare la propria testa nella lotta, sottomettere i loro progetti all’accettazione dei Malatesta eretti a Gran Tribunale, che giudicheranno l’opportunità o l’inopportunità degli atti?

Diciamo al contrario questo:

Quando un uomo, nella società attuale, diventa un ribelle cosciente del suo atto, – e tale era Ravachol – è perché il suo cervello ha fatto un lavoro di deduzione che abbraccia tutta la sua vita, analizzando le cause delle sue sofferenze; lui solo può giudicare se ha ragione o torto di provare odio, di essere selvaggio, “e perfino feroce”.

Noi stimiamo, per quanto ci riguarda, che gli atti di rivolta brutale come quelli che si sono verificati, e che sono all’origine della polemica esistente tra “anarchici” e “terroristi” – stile Merlino – stimiamo, dicevo, che questi atti sono giusti, perché risvegliano la massa, la scuotono come una violenta frustata, e le mostrano il lato vulnerabile della Borghesia, ancora tutta tremante al momento in cui il Ribelle cammina verso il patibolo...

Capiamo perfettamente che tutti gli anarchici non abbiano il temperamento di un Ravachol.

Ognuno di noi ha una fisionomia e delle attitudini speciali che lo differenziano dai suoi compagni di lotta.

Perciò non ci stupiamo di vedere dei rivoluzionari fare ogni sforzo su un punto preciso per esempio, come i compagni Merlino e Malatesta, sul raggruppamento dei proletari in associazioni bene organizzate.

Ma non riconosciamo loro il diritto di dire: “Solo la nostra propaganda è quella buona; fuori da essa non vi è salvezza”. È un vecchio rimasuglio di autoritarismo che non vogliamo sopportare, e faremmo presto a dividere la nostra causa da quella dei pontificatori o aspiranti tali.

Inoltre, il compagno Malatesta ci dice che l’odio non genera l’amore.

Noi gli rispondiamo che è l’amore che genera l’odio.

Più amiamo la libertà e l’eguaglianza, più dobbiamo odiare tutto ciò che si oppone al fatto che gli uomini siano liberi ed eguali.

Sicché, senza perderci nel misticismo, poniamo il problema nel campo della realtà e diciamo:

È vero che gli uomini non sono che il prodotto delle istituzioni; ma queste istituzioni sono cose astratte che esistono solo fintanto che ci sono uomini in carne ed ossa per rappresentarle. Non c’è quindi che un modo per colpire le istituzioni; cioè colpire gli uomini; ed accogliamo con felicità tutti gli atti energici di rivolta contro la società borghese, perché non perdiamo di vista il fatto che la Rivoluzione non sarà che la risultante di tutte queste Rivolte particolari.

Compagni, l’argomento comporterebbe lunghi sviluppi, ma spero che queste poche righe basteranno per far riflettere i compagni capaci di farsi influenzare da un nome conosciuto come quello di Malatesta.

A voi e all’Anarchia!

Émile Henry

[Pubblicato su “L’Endehors” n. 69, 28 agosto 1892]

Lettera al direttore della Concergerie

Signor Direttore,

Nel corso della visita che avete fatto nella mia cella domenica 18 corrente, avete avuto con me una discussione, d’altronde molto amichevole, sulle idee anarchiche.

Vi siete molto stupito; mi avete detto, di conoscere le nostre teorie sotto un aspetto nuovo per voi, e mi avete chiesto di riassumervi per iscritto la nostra conversazione, al fine di ben conoscere ciò che vogliono i compagni anarchici.

Vi sarà facile comprendere, Signore, che in poche pagine non si può sviluppare una teoria che analizza tutte le manifestazioni della vita sociale attuale, le studia come un medico ausculta un corpo malato, le condanna perché sono contrarie alla felicita dell’umanità e, al loro posto, costruisce una vita tutta nuova, basata su princìpi completamente antagonisti di quelli sui quali è costruita la vecchia società.

D’altronde, altri hanno già fatto ciò che mi chiedete di fare. I Kropotkin, i Reclus, i Sébastien Faure, [una riga illeggibile] le loro idee, e hanno portato avanti il loro sviluppo il più lontano possibile.

Leggete Evoluzione e rivoluzione di Reclus [Libreria Editrice Sociale, Milano s.d.]; La morale anarchica [La Fiaccola, Ragusa 1994], Parole di un ribelle [Edizioni Anarchismo, Trieste 2012], La conquista del pane [Edizioni Anarchismo, Trieste 2008] di Pëtr Kropotkin; Autorità e libertà, Il macchinismo e le sue conseguenze di Sébastien Faure; La società morente e l’anarchia di Grave [F. Serantoni Editore, Firenze-Roma 1907]; Fra contadini di Malatesta [La Fiaccola, Ragusa 1972]; leggete ancora quei numerosi opuscoli, quegli innumerevoli manifesti che, da quindici anni, sono apparsi volta per volta, ognuno sviluppando idee nuove, secondo quanto lo studio o le circostanze suggerivano ai loro autori.

Leggete tutto ciò, e allora potrete farvi un giudizio più o meno valido sull’Anarchia.

E tuttavia, guardatevi bene dal credere che l’Anarchia sia un dogma, una dottrina inattaccabile, indiscutibile, venerata dai suoi adepti come il Corano dai musulmani.

No, la libertà assoluta che noi rivendichiamo, sviluppa incessantemente le nostre idee, le eleva verso orizzonti nuovi (secondo i cervelli dei vari individui) e le getta fuori dai quadri stretti di ogni regolamentazione e di ogni codificazione.

Noi non siamo dei “credenti”, noi non ci inchiniamo né davanti a Reclus, né davanti a Kropotkin, noi discutiamo le loro idee, noi le accettiamo quando sviluppano nei nostri cervelli delle impressioni positive, ma le respingiamo quando non fanno vibrare niente in noi.

Noi siamo lungi dal possedere la fede cieca dei collettivisti [All’epoca, venivano chiamati “collettivisti” i socialisti parlamentari, ndr], che credono in una cosa, perché Guesde ha detto che dovevano crederci, e che hanno un catechismo di cui sarebbe sacrilegio discutere i paragrafi.

Avendo ben stabilito questo, cercherò di svilupparvi, brevemente e rapidamente, ciò che intendo, io, per Anarchia, senza per questo impegnare altri compagni che, su certi punti, possono avere opinioni diverse dalle mie.

Voi non contesterete il fatto che oggi il sistema sociale è cattivo, e la prova è che ognuno ne soffre. Dallo sventurato vagabondo senza pane, e senza casa, che conosce la fame in modo costante, fino al miliardario, che teme sempre una rivolta di morti-di-fame che turbi la sua digestione, tutta l’umanità prova l’angoscia.

Ebbene! su quali basi riposa la società borghese?

Fatta astrazione dai princìpi di famiglia, di patria e di religione, che ne sono solo dei corollari, possiamo affermare che le due pietre di volta, i due princìpi fondamentali dello stato attuale sono l’Autorita e la Proprietà.

Non voglio dilungarmi maggiormente su questo argomento. Mi sarebbe facile dimostrare che tutti i mali di cui soffriamo derivano dalla proprietà e dall’autorità.

La miseria, il furto, il crimine, la prostituzione, le guerre, le rivoluzioni, altro non sono che le risultanti di questi due princìpi.

Quindi, essendo cattive le due basi della Società, non c’è da esitare. Non bisogna cercare un mucchio di palliativi (vedi socialismo) che non servono ad altro che a spostare il male; occorre distruggere i due germi viziosi, ed estirparli dalla vita sociale.

È per questo che noi, anarchici, vogliamo sostituire la proprietà individuale col Comunismo, e l’autorità con la Libertà.

Quindi, non più titoli di possesso né titoli di dominazione: eguaglianza assoluta.

Quando diciamo eguaglianza assoluta, non pretendiamo che tutti gli uomini debbano avere uno stesso cervello, stessa organizzazione fisica; noi sappiamo benissimo che vi sarà tra gli uomini sempre la più grande diversità di attitudini cerebrali e corporali. È proprio questa varietà di capacità che realizzerà la produzione di tutto ciò che è necessario all’umanità, e contiamo anche su questa per mantenere lo spirito d’iniziativa in una società anarchica.

Ci saranno ingegneri e manovali, è evidente, ma senza che l’uno abbia una qualunque superiorità sull’altro; perché il lavoro dell’ingegnere non servirebbe a niente senza il concorso del manovale, e viceversa.

Essendo ognuno libero di scegliere il mestiere che farà, non ci saranno altro che esseri che obbediranno senza costrizioni alle inclinazioni che la natura ha posto in loro (garanzia di buona produzione).

Qui si pone una questione. E i pigri? Ognuno vorrà lavorare?

Noi rispondiamo: sì, ognuno vorrà lavorare, ed ecco perché:

Oggi, la media della giornata di lavoro è di 10 ore.

Molti operai sono occupati in lavori assolutamente inutili alla Società, in particolare agli armamenti militari di terra e di mare. Molti sono anche colpiti dalla disoccupazione. Aggiungete a questo un numero considerevole di uomini validi che non producono nulla: soldati, preti, poliziotti, magistrati, funzionari, ecc.

Si può quindi affermare, senza essere tacciati di esagerazione, che su cento individui capaci di produrre un lavoro qualunque, cinquanta solamente forniscono uno sforzo veramente utile alla Società. Sono questi cinquanta che producono tutta la ricchezza sociale.

Da qui la deduzione che se tutti lavorassero, la giornata di lavoro, invece di essere di 10 ore, scenderebbe a 5 solamente.

Consideriamo inoltre che, allo stato attuale, il totale dei prodotti manufatti è di quattro volte più alto, e il totale dei prodotti agricoli tre volte più considerevole della quantità necessaria ai bisogni dell’umanità; cioè un’umanità tre volte più numerosa sarebbe vestita, alloggiata, riscaldata, nutrita, in poche parole avrebbe soddisfatti tutti i suoi bisogni, se lo spreco e altre molteplici cause non venissero a distruggere questa sovrapproduzione.

(Troverete questa statistica dei prodotti nel piccolo opuscolo: I prodotti della Terra e i prodotti dell’Industria).

Da quanto precede possiamo quindi dedurre la seguente conclusione:

Una società in cui ognuno collaborasse al lavoro comune, e che si accontentasse di una produzione che non superasse enormemente i suoi consumi (l’eccesso del primo sulla seconda dovrebbe costituire una piccola riserva), dovrebbe chiedere ad ognuno dei suoi membri validi uno sforzo di sole due o tre ore, forse anche meno.

Chi allora rifiuterebbe di dare una cosi piccola quantità di lavoro? Chi vorrebbe vivere con la vergogna di essere disprezzato da tutti e considerato un parassita?

La proprietà e l’autorità, che vanno sempre insieme, si sostengono una con l’altra, per tenere schiava l’umanità!

Che cos’è il diritto di proprietà? È un diritto naturale? È legittimo che uno mangi mentre l’altro digiuni? No, la Natura creandoci, ci fece degli organismi simili, e uno stomaco di manovale esige le stesse soddisfazioni di uno stomaco di finanziere.

E tuttavia, oggi, una classe ha accaparrato tutto, rubando all’altra classe non solo il pane del corpo, ma ancora il pane dello spirito.

Sì, in un secolo che viene chiamato di progresso e di scienza, non è doloroso pensare che milioni di intelligenze, avide di sapere, si trovino nell’impossibilità di sbocciare? Quanti figli del popolo, che sarebbero forse diventati uomini di alto valore, utili all’umanità, non sapranno mai null’altro che le poche nozioni indispensabili inculcate loro dalla scuola elementare!

La proprietà, ecco il nemico della felicità umana perché crea la diseguaglianza e, perciò, l’odio, l’invidia la rivolta cruenta.

L’autorità, dal canto suo, non è che la sanzione della proprietà. Essa viene a mettere la forza al servizio della spoliazione.

Ebbene! essendo il lavoro un bisogno naturale, convenite con me, Signore, che nessuno sfuggirà alla domanda di uno sforzo tanto minimo come quello di cui abbiamo parlato più sopra.

(Il lavoro è un bisogno così naturale che la Storia ci mostra uomini di Stato che si tolgono con felicità dalle preoccupazioni della politica per lavorare come semplici operai. Per citare solo due esempi ben noti: Luigi XVI faceva il fabbro; ai nostri giorni, Gladstone, “the great old man”, approfitta delle sue vacanze per abbattere egli stesso alcune querce delle sue foreste, come un semplice boscaiolo).

Vedete dunque bene, Signore, che non sarà necessario ricorrere ad una legge per evitare la pigrizia.

Se, per un caso straordinario, qualcuno volesse tuttavia rifiutare l’aiuto ai suoi fratelli, sarebbe sempre meno costoso nutrire quello sventurato, che mantenere legislatori, magistrati, poliziotti e guardiani per domarlo.

Molte altre questioni si pongono, ma sono di ordine secondario; l’importante era stabilire che la soppressione della proprietà, la “presa nel mucchio”, non porterebbe ad un arresto della produzione in seguito ad uno sviluppo della pigrizia, e che la Società anarchica saprebbe nutrirsi e soddisfare tutti i suoi bisogni.

Tutte le altre obiezioni che si potrebbero sollevare saranno facilmente confutate ispirandosi a questa idea: un ambiente anarchico svilupperà in ognuno dei suoi membri la solidarietà e l’amore dei suoi simili, perché l’uomo saprà che lavorando per gli altri lavorerà contemporaneamente per sé.

Un’obiezione che pare più fondata è questa:

Se nessuna autorità esiste più, se non c’è la paura del gendarme per arrestare il braccio dei criminali, non rischiamo di vedere i delitti ed i crimini moltiplicarsi in proporzione spaventosa?

La risposta è facile:

Possiamo classificare i crimini commessi oggi in due categorie principali: i crimini per interesse e i crimini passionali.

I primi scompariranno da sé, perché non ci sarà più motivo per questi delitti, legati alla proprietà, in una società che ha soppresso la proprietà.

In quanto ai secondi, nessuna legislazione può impedirli. Lungi da questo, la legge attuale, che assolve il marito che assassina sua moglie colpevole di adulterio, non fa che favorire la frequenza di questi crimini.

Al contrario, una società anarchica eleverà il livello morale dell’Umanità. L’uomo comprenderà che non ha nessun diritto su una donna che si dà ad un altro, poiché questa donna non fa che obbedire alla propria natura.

Di conseguenza i crimini, nella futura società, diventeranno sempre più rari, fino a che scompariranno completamente.

Vi riassumo, Signore, il mio ideale di una società anarchica.

– Non più autorità, molto più contraria alla felicità dell’umanità di qualche eccesso che si potrebbe produrre agli inizi di una società libera.

Al posto dell’organizzazione attuale, raggruppamenti di individui per simpatia ed affinità, senza leggi e senza capi.

– Non più proprietà individuale; messa in comune dei prodotti; lavoro di ognuno secondo i suoi bisogni, consumo di ognuno secondo i suoi bisogni, cioè, secondo volontà.

– Non più famiglia, egoista e borghese, che rende l’uomo proprietà della donna, e la donna proprietà dell’uomo; che esige da due esseri che si sono amati un momento, di essere legati l’uno all’altro fino alla fine dei loro giorni.

La Natura è capricciosa, chiede sempre nuove sensazioni. Vuole l’amore libero. Ecco perché vogliamo l’unione libera.

– Non odio tra fratelli, non più patrie, che gettano gli uni sugli altri degli uomini che non si sono nemmeno mai visti.

Sostituzione dell’attaccamento gretto e meschino dello sciovinista alla sua patria, con l’amore ampio e fecondo dell’Umanità intera, senza distinzione di razza né di colore.

– Non più religioni, forgiate dai preti per degradare le masse e dar loro la speranza di una vita migliore, mentre essi stessi godono della vita terrestre.

Al contrario, sviluppo continuo delle scienze, messe alla portata di ogni essere che si sentirà attratto verso il loro studio, portando a poco a poco tutti gli uomini ad una coscienza del materialismo.

Studio particolare dei fenomeni ipnotici che la scienza comincia ora a constatare, al fine di smascherare i ciarlatani che presentano agli ignoranti, sotto una luce meravigliosa e soprannaturale, dei fatti di ordine puramente fisico [“Egli (Fortuné Henry, fratello di Émile) ci raccontò che lui e suo fratello erano stati spiritisti prima di diventare anarchici”. (J. Grave, Le Mouvement libertaire sous la III République, Paris 1930)].

– In un parola, niente più intralci al libero sviluppo della natura umana.

Libero sviluppo di tutte le facoltà fisiche, cerebrali e mentali.

Che una Società con tali basi arrivi subito all’armonia perfetta, non sono abbastanza ottimista per sperarlo. Ma ho la profonda convinzione che due o tre generazioni basteranno per strappare l’uomo all’influenza della civiltà artificiale che subisce oggi, e per riportarlo allo stato di natura, che è lo stato di bontà e di amore.

Ma per fare trionfare questo ideale, per creare una società anarchica su basi solide, occorre incominciare col lavoro di distruzione. Occorre gettare a terra il vecchio edificio tarlato.

È quello che facciamo.

La borghesia sostiene che non arriveremo mai al nostro scopo.

L’avvenire, un avvenire ben vicino, glielo dimostrerà.

Viva l’Anarchia!


(27 febbraio 1894)

Émile Henry

Il processo

Giustizia Criminale – Corte di Assisi della Senna

Presidenza del signor Potier, consigliere


Attentati dell’Hotel Terminus e della rue des Bons-Enfants

Assassinii – Distruzione di edificio con l’aiuto di materie esplosive

Udienza del 27 aprile

Le misure di ordine, abituali per i grandi processi criminali, sono state prese sia all’interno che all’esterno del Palazzo di giustizia. Numerosi agenti stazionano nelle piazze circostanti l’edificio; altri si tengono vicino ad ogni porta, ispezionano con cura ogni persona che entra.

Il fatto che il collegio dei giurati della Senna è chiamato oggi ad ascoltare presenta una gravità eccezionale. I crimini imputati all’accusato hanno provocato la più legittima e la più profonda emozione. Forse più di tutte le altre imprese dello stesso tipo, sottoposte precedentemente ai tribunali di repressione, queste costituiscono ciò che si chiama l’attentato anarchico, cioè la violenza odiosa quanto terribile ispirata dall’odio cieco della società, perpetuata senza discernimento né ragione, portando ferite e morte a caso, tra una folla di gente sconosciuta, di donne e di bambini, con l’aiuto di strumenti di distruzione di una potenza inaudita.

Questa volta l’accusato non è un uomo volgare, la cui educazione elementare sia stata trascurata. È intelligente, istruito. Fin dalla sua infanzia si è visto circondato della benevolenza di tutti: borsista alla scuola J.-B. Say, ammesso all’École Polytechnique. Ci si domanda quale deplorevole miraggio lo abbia fatto rinunciare all’avvenire assicurato che si apriva davanti a lui, per farne un adepto delle detestabili dottrine che disonorano la nostra epoca.

Alle undici e mezzo, il settore dell’aula d’assise riservato al pubblico è invaso da un pubblico elegante, nel quale vi sono molte signore. I testimoni, i membri del foro e i giornalisti occupano i posti a loro destinati.

Dietro la corte sta un gran numero di magistrati.

L’aula offre un aspetto insolito. Il tavolo riservato ai corpi di reato è carico di pacchetti di vestiti e biancheria macchiati di sangue che sono appartenuti sia all’accusato Émile Henry che alle vittime delle esplosioni.

Dei tovaglioli annodati contengono dei detriti provenienti dai rivestimenti di legno e dai pavimenti del Café Terminus. Si notano anche diverse marmitte in ghisa simili a quella deposta presso la sede amministrativa delle miniere di Carmeaux, avenue de l’Opéra.

Intorno al tavolo vi sono delle sedie, dei tavoli in marmo spaccati al momento dell’esplosione del Café Terminus. Una piccola scatola contiene dei pezzi di ghisa estratti dalla ferita del signor van Herrenweghen, una delle persone colpite al Café Terminus.

A mezzogiorno meno un quarto, la Corte entra in seduta. Su richiesta dell’avvocato generale signor Bulot, ordina l’aggiunta di un consigliere assessore e di due giurati supplementari.

Dopo una breve sospensione dedicata al sorteggio dei giurati, l’udienza si apre a mezzogiorno.

Le guardie portano l’accusato. È un giovane di ventidue anni, dalla fisionomia fine e dolce, dal colorito pallido e smunto. I capelli castani sono tagliati a spazzola. Una leggera barba bionda orna il mento. Seduto al banco degli accusati, la schiena appoggiata contro la balaustra, ostenta un sorriso indifferente. È vestito di nero.

L’avvocato generale signor Bulot occupa il posto del pubblico ministero.

L’avvocato Hornbostel è seduto al banco della difesa.

Alle domande d’uso, che gli sono poste dal presidente, l’accusato dichiara di chiamarsi Henry (Émile-Joseph-Félix), nato il 26 settembre 1877 a Saint-Marin presso Barcellona (Spagna), impiegato, domiciliato alla Conciergerie.

Per i due crimini distinti addebitati a Émile Henry, sono stati redatti due atti di accusa.

Il cancelliere signor Wilmès ne dà lettura. Questi documenti sono cosi formulati:

Il Café Terminus

L’accusato è nato in Spagna, dove suo padre si era rifugiato dopo gli avvenimenti del 1871, ai quali aveva partecipato attivamente.

Nel 1882, dopo l’amnistia, i suoi genitori tornarono in Francia.

Ricevette un’educazione completa, si presentò agli esami dell’École Polytechnique ma non riuscì nella seconda parte della prova. Entrò allora nella ditta di un ingegnere-costruttore che lo inviò a Venezia per cooperare a dei lavori pubblici di cui era imprenditore. Dopo soli tre mesi, lasciò una posizione che poteva assicurare la sua carriera.

Tornato a Parigi, trovò in una ditta di commercio un impiego a 125 franchi al mese. In quel periodo divenne, secondo la sua espressione, un anarchico deciso. La superiorità della sua istruzione gli fece acquisire in poco tempo una certa notorietà tra i “compagni”. Il 30 maggio 1892, in seguito ai primi attentati anarchici, fu arrestato, ma non tardò ad essere rimesso in libertà.

Poco tempo dopo, il suo padrone, che lo vedeva fare propaganda tra i suoi colleghi, decise di licenziarlo. Dopo la sua partenza, scoprì nel suo ufficio dei manoscritti relativi alla fabbricazione degli esplosivi e una specie di manuale intitolato: Anarchia pratica, che iniziava con questa parole: “Preghiamo i compagni di esercitarsi in queste fabbricazioni”. Dopo aver collaborato per qualche tempo all’amministrazione del giornale “L’Endehors”, l’accusato entra come impiegato alle scritture presso il signor Dupuy, scultore-decoratore.

All’indomani dell’esplosione della rue des Bons-Enfants, scomparve. Malgrado questa coincidenza stupefacente, nega di aver partecipato a questo attentato. “È partito quindi, disse, per l’Inghilterra, temendo di essere nuovamente arrestato”.

Si perdono le sue tracce da quel periodo fino al 20 dicembre scorso. A questa data, si presentò alla Villa Faucheur, rue des Envierges, e affittò una stanza sotto il nome di Louis Dubois.

Là si procurò le sostanze necessarie alla fabbricazione di ordigni esplosivi, in particolare dell’acido picrico, e si occupò a preparare una bomba.

In una piccola marmitta di metallo, a cui tolse il manico e il bottone che sormontava il coperchio, introdusse un involucro cilindrico di zinco.

Tra questo involucro e le pareti svasate della marmitta pose, come dichiarò, 120 palle.

Nel cilindro di zinco, ne dispose un altro sensibilmente più piccolo, e riempì di una sostanza esplosiva lo spazio che li separava.

Infine, nel più piccolo, mise una cartuccia di dinamite con un innesco al fulminato di mercurio.

A questo innesco arrivava una miccia da minatore la cui lunghezza calcolata per bruciare in quindici secondi.

Il 12 febbraio, lasciò la sua stanza, dopo aver avvertito il guardiano della villa che non sarebbe rientrato per qualche giorno. Vi lasciava, secondo la sua dichiarazione, tre chili e mezzo di acido picrico. Portava con sé la bomba, secondo l’esempio di Vaillant, nella cintura dei pantaloni.

Era munito di un revolver carico di cui aveva masticato le pallottole, al fine, disse, di fare più male, e di un pugnale, di cui aveva cercato di avvelenare la lama.

Così armato, si diresse verso l’avenue de l’Opéra, gettò un’occhiata al ristorante Bignon, poi al Café Americano, poi al Café de la Paix, ma in nessuno di questi locali trovò un numero sufficiente di vittime, e continuò la sua strada.

Al Café Terminus, dove arrivò verso le otto e mezzo, la folla era particolarmente stretta intorno ad un palco dove l’orchestra suonava.

Entrò, si sedette davanti ad un tavolino posto molto vicino alla porta e chiese una birra che pagò in anticipo.

Se ne fece servire presto una seconda con un sigaro che pagò ugualmente appena gli furono portati. Attendeva che il pubblico fosse ancora più numeroso.

Alle nove, avvicinò il suo sigaro acceso all’estremità della miccia, poi si alzò e raggiunse la porta da cui una piccolissima distanza lo divideva.

Allora si girò e lanciò la bomba in direzione dell’orchestra.

L’ordigno incontrò il lampadario, ruppe uno dei tulipani di cristallo, e cadde a terra spandendo un fumo spesso e acre.

Qualche secondo dopo, scoppiò con una detonazione sorda, sfondando il pavimento e ferendo diciassette persone.

L’assassino prese la fuga gridando: “Ah! Il miserabile, dov’è?”.

Fu immediatamente rincorso dal cameriere Tissier e da due consumatori che lo avevano visto lanciare l’ordigno.

Il vigile urbano Poisson, che era di servizio al rifugio posto di fronte al caffè, si lanciò anch’egli dietro di lui.

All’angolo della rue du Havre e della rue d’Isly, un impiegato della Compagnia dell’Ovest, il signor Etienne, lo raggiunse e gli mise la mano sulla spalla dicendogli: “Ti tengo, canaglia!”.

“Non ancora!”, rispose l’accusato, che gli tirò un colpo di pistola in pieno petto.

La pallottola fortunatamente si schiacciò su un bottone e non penetrò, ma Etienne cadde, svenuto.

Il signor Maurice, parrucchiere, lo prese a sua volta, un po’ più lontano. Un secondo colpo di pistola lo gettò a terra, procurandogli una ferita delle più serie.

In quel momento arrivava il vigile urbano Poisson. L’accusato lo prese di mira ma lo mancò e continuò la sua corsa. Poisson tirò fuori la sciabola e riprese l’inseguimento. Guadagnava terreno, quando un colpo d’arma da fuoco lo raggiunse al petto. Rimasto in piedi, alzò il braccio per colpire, ma l’accusato scaricò su di lui gli ultimi due colpi della sua pistola. Una delle pallottole colpì il fianco destro; l’altra si perse nel portafogli dell’agente.

Questi si precipitò sull’accusato e cadde con lui.

Altri agenti sopraggiunsero nel momento in cui Poisson perdeva conoscenza. Si impadronirono di Henry, che dovettero proteggere contro il furore dei presenti.

Nel corso dell’interrogatorio, Henry, che aveva prima preso il falso nome di Breton, non ha manifestato nessun pentimento per questa serie di atti criminali.

Egli ha, al contrario, espresso davanti ad una delle sue vittime, il signor Etienne, il rimpianto di aver fatto uso di un revolver difettoso e di aver diminuito la forza della sua bomba chiudendo male il coperchio della marmitta.

L’esperto incaricato dal giudice istruttore ha dichiarato che l’ordigno progettato da Henry era “combinato e costruito in modo tale da dare la morte cadendo in mezzo alla folla, e da distruggere parzialmente l’edificio nel quale sarebbe stato lanciato”.

Come tutti gli anarchici, afferma di aver agito sotto la spinta di una decisione puramente personale.

Tuttavia, nonostante l’atto istruttorio non stabilisca alcuna complicità legalmente caratterizzata, risulta che altri anarchici conoscevano i suoi progetti.

Infatti, nella mattinata del 14 febbraio, il guardiano della Villa Faucheur constatò che la porta della stanza di Henry era stata aperta con scasso.

Il commissario di polizia, chiamato sul posto, scoprì una miccia da minatore, delle pallottole di piombo e una piccola quantità di polvere verde. Nella stufa si trovavano ceneri di carte bruciate.

Ora, secondo le dichiarazioni di Henry stesso, aveva lasciato nel suo alloggio tre chili e mezzo di acido picrico che gli dovevano servire per fabbricare dodici o quindici altre bombe, se, come egli contava, sfuggiva alla giustizia, dopo la prima esplosione.

È perciò evidente che gli autori dello scasso avevano lo scopo di portar via il resto delle sostanze esplosive che avevano preparato.

La rue des Bons-Enfants

Gli uffici della Compagnia delle miniere di Carmaux occupavano l’ammezzato di una casa al n. 11 dell’avenue de l’Opéra. Una seconda porta dà sulla rue d’Argenteuil. L’8 novembre 1892, tra le undici e le undici e mezzo del mattino, il signor Bernick, volendo parlare al capo della contabilità, il signor Bellois, salì le scale senza incontrare nessuno. Nell’angolo a sinistra del pianerottolo, contro la porta, vide un oggetto abbastanza voluminoso che dovette scavalcare per entrare.

Qualche istante più tardi, il signor Bellois, che lo riaccompagnava, notò lo stesso pacchetto, constatò che era molto pesante e chiamò il signor Augenard, cassiere, e il fattorino Garin. Si strappò il giornale che lo avvolgeva e che era tenuto da uno spago, e si vide una marmitta di ghisa il cui coperchio capovolto era fissato con una striscia di latta o reggetta attaccata ai due manici. Era posta sul coperchio, col fondo per aria. Il custode Gamier e il fattorino la portarono con precauzione nella rue d’Argenteuil e la deposero sul marciapiede. Un assembramento abbastanza numeroso si formò intorno all’ordigno e varie persone notarono una polvere bianca di cui una parte, molto fine, era sfuggita dagli interstizi del coperchio. Il fattorino chiamò il vigile urbano Cartier, che era incaricato di far attraversare l’avenue de l’Opéra ai bambini che uscivano dalla scuola della rue d’Argenteuil. Cartier, trattenuto dal suo servizio, non poté egli stesso portare via la marmitta, ma in quel momento arrivarono il sotto-brigadiere Formorin e l’agente Réaux, e li mise a conoscenza di quanto avveniva. Il custode diede una borsa, l’ordigno vi fu posto, e Garin, accompagnato da Formorin e Réaux, lo portò verso il commissariato del quartiere del Palazzo Reale.

La casa in cui era installato il commissariato è situata in rue des Bons-Enfants. Si compone di un cortile, questo si apre sulla via con un portone. Gli uffici erano al primo piano dell’ala sinistra

Erano esattamente le 11,35 quando il sotto-brigadiere, il vigile urbano e Garin entrarono nel cortile. Attraversandolo Garin disse a Réaux: “È pesante, non faresti male a darmi una mano!”. L’agente venne in suo aiuto e tutti e tre presero le scale. Erano passati appena due minuti quando risuonò una detonazione formidabile.

Quando si penetrò nel commissariato, ci si trovò davanti ad uno spettacolo di un orrore inesprimibile. Nell’ingresso un cadavere giaceva in mezzo ai detriti, faccia contro terra; i vestiti erano quasi completamente scomparsi; le carni avevano preso un colore grigiastro. Era il vigile Réaux, con le due gambe staccate sotto le ginocchia, le cosce stritolate, il viso e le mani come carbonizzati.

Nella sala del pubblico, che seguiva l’ingresso, la distruzione era completa. Là era scoppiato l’ordigno. Il pavimento era sfondato. Era un mucchio di detriti tritati, di pezzi di legno dilaniati, di vestiti e pezzi di carne. Da un lampione a gas fissato al soffitto pendeva un pacco di budella.

I muri erano schizzati di sangue. Vicino alla finestra, si camminava letteralmente sui brandelli di carne, di fegato e di polmone. L’esplosione aveva fatto in quella sala quattro vittime: il sotto-brigadiere Formorin, il fattorino Garin, il segretario del commissariato Pousset, il cui corpo aveva appena conservato una forma umana, e l’ispettore Troutot che, malgrado le sue orribili ferite, agonizzava ancora. Morì nel corso della giornata.

I primi elementi per l’indagine furono forniti dal giornale che avviluppava l’ordigno. Era il numero del “Temps” del 1° giugno 1892. Si poteva supporre che l’assassino non l’avesse conservato senza motivo, forse conteneva qualche informazione che poteva avere per lui un interesse speciale. Ora, questo numero riportava l’arresto dei fratelli Henry, arresto che aveva avuto luogo il 30 maggio e che era stato mantenuto. L’istruzione stabilì presto che di questi due anarchici uno, Fortuné, era a Bourges, l’8 novembre. I sospetti si fermarono perciò su Émile Henry.

Nel mese di luglio, era stato segnalato come dedito a studi di chimica sospetti. L’8 novembre, era uscito dalla casa del suo padrone, il signor Dupuy, verso le dieci e un quarto del mattino, e non vi era tornato che a mezzogiorno. Secondo la signora Dupuy, aveva mostrato un violenta emozione quando il suo padrone era tornato, portando un giornale che rendeva conto della catastrofe. All’indomani, si era detto ammalato, e, il 10 novembre, alle quattro, lasciava l’ufficio col pretesto di andare a farsi curare da sua madre. Invece di andare a Brévannes, partiva per Londra, da dove incaricava due o tre giorni dopo di imbucare, a Orléans, una lettera destinata al signor Dupuy. In questa lettera dichiarava che, benché estraneo al crimine della rue des Bons-Enfants, “non aveva affatto intenzione di fare mesi di detenzione preventiva prima dell’arresto dei veri autori dell’esplosione”.

Malgrado tutte queste circostanze sospette, non esistevano contro di lui indizi positivi. E anche le prime verifiche, alle quali si era proceduto sul suo orario durante la mattinata dell’8 novembre potevano essergli favorevoli. Partito verso le dieci dalla rue de Rocroi, vi era di ritorno verso mezzogiorno, dopo aver fatto le commissioni di cui era stato incaricato, in rue Tronchet e boulevard de Courcelles; le distanze sono notevoli e, a meno di una rapidità del tutto eccezionale, si poteva pensare che, in questo intervallo di due ore, gli sarebbe mancato il tempo per portare la bomba in avenue de l’Opéra.

Arrestato dopo il delitto del Café Terminus, invocò questo alibi e persistette nei suoi dinieghi fino al 23 febbraio. Ma in quella data, messo a confronto con altri anarchici sospettati di aver partecipato all’attentato dell’8 novembre, rinunciò a questo sistema e dichiarò di essere il solo colpevole. Diede in seguito delle spiegazioni dettagliate sulla progettazione ed il compimento del suo delitto.

Aveva deciso di provare ai minatori di Carmaux, sfruttati da ambiziosi, che solo gli anarchici erano capaci di dedizione. Una sera, si recò al n. 11 dell’avenue de l’Opéra e si assicurò, leggendo l’iscrizione incisa su una targa, che la Compagnia aveva lì i suoi uffici. La porta era chiusa e non poté entrare nell’edificio per studiarne la disposizione. Poco dopo, vi ritornò in pieno giorno e salì fino ai piani superiori. Così informato, si occupò della costruzione dell’ordigno.

Possedeva venti cartucce di dinamite di cui rifiuta di far conoscere la provenienza e decide di fabbricare una bomba a rovesciamento. Per fare il detonatore, si procurò dalla signora Colin, cartaia, 107, rue La Fayette, un astuccio di metallo del prezzo di 1,50 F. Il 4 novembre, alle sette di sera, comprò nella ditta di prodotti chimici Billaut, place de la Sorbonne, 4 chili di clorato di potassio a 4 F. il chilo. Otteneva uno sconto del 10 per cento dicendosi assistente in una scuola di Saint-Denis, e pagò solo 14,40 F. Aveva chiesto contemporaneamente 100 grammi di sodio, ma per quest’ultimo prodotto non potendo essere maneggiato alla luce, lo si pregò di tornare all’indomani. Il 5 novembre a mezzogiorno, venne a prendere il flacone che pagò 2,65 F.

Fabbricò il detonatore secondo un sistema conosciuto. Il rovesciamento dell’ordigno metteva dell’acqua in contatto con il sodio il quale, prendendo fuoco, doveva a sua volta far detonare tre inneschi al fulminato di mercurio. Fatto ciò, comprò dal signor Comte, chincagliere in rue Lepic, una marmitta da 3,30 F. Nel centro, mise il detonatore che circondò con venti cartucce di dinamite, poi riempì lo spazio vuoto con 4 chili di clorato di potassio, mischiati a una eguale quantità di zucchero in polvere. Adattò il coperchio con una reggetta, avendo cura di girarlo. Grazie alla concavità del coperchio, poteva passare la mano sotto la striscia di latta che formava così un manico.

L’8 novembre, lasciò il suo ufficio poco dopo le dieci e prese una vettura, per andare in rue Tronchet, dove arrivò verso le dieci e un quarto. Fece in un momento la commissione di cui era incaricato; prese, una seconda vettura e si fece condurre in place Blanche. Erano allora le dieci e mezzo. Raggiunse rapidamente la rue Véron a piedi, prese in un armadio la bomba già pronta, tornò in place Blanche, salì su una terza vettura e si fece condurre in avenue de l’Opéra. Scese ad una certa distanza dal n. 11, ma, siccome era ancora accaldato per la corsa, si fermò davanti ad una boutique dopo aver deposto la bomba sul marciapiede.

Dopo un momento, credendosi notato da un custode e avendo fretta di finire, la riprese ed entrò nel vestibolo del n. 11. Incrociò due persone che non gli fecero caso, salì le scale e ridiscese quasi subito dopo aver piazzato l’ordigno all’ingresso degli uffici, il coperchio sotto. Uscito dalla casa, prese una quarta vettura, andò in boulevard de Courcelles, dove arrivò verso le undici e mezzo e, fatta la sua commissione, tornò a piedi in rue de Rocroi.

Aveva previsto il caso in cui l’ordigno fosse stato tolto dalla polizia: “Secondo i miei esperimenti, disse nel corso del suo interrogatorio del 24 febbraio, supponevo che la marmitta sarebbe scoppiata cinque o sei minuti dopo essere stata deposta davanti alla porta degli uffici della compagnia di Carmaux, ma non ignoravo che se si fosse presa la marmitta prima dell’esplosione, sarebbe stata portata al commissariato di polizia del quartiere, di modo che, nel caso in cui i ricchi dell’avenue de l’Opéra fossero sfuggiti alla sorte che destinavo loro, ero certo di colpire i poliziotti, ugualmente miei nemici”.

Certo è che Henry conosceva la disposizione interna della casa. L’ha descritta molto esattamente e, condotto sui luoghi, si è diretto senza esitazione verso il punto in cui la bomba è stata trovata.

La descrizione minuziosa che ha dato dell’ordigno concorda esattamente con l’analisi degli esperti, i signori Vieille e Girard.

Non è riconosciuto dal personale della chincaglieria Comte, ma tutte le indicazioni che ha fornito sul negozio, sulla marmitta che ha comperato e sul prezzo sono conformi alla realtà. Lo stesso vale per l’acquisto dell’astuccio di metallo. In quanto ai suoi acquisti fatti in place de la Sorbonne, è provato che alla data e all’ora indicate da lui, la ditta Billaut ha ricevuto un pagamento di 14,40 F. Infine, è dimostrato che l’itinerario seguito da Henry, l’8 novembre, può facilmente essere percorso nelle condizioni che ha precisato. La prova della sua colpevolezza si trova così nettamente stabilita. Essa esce con evidenza dalle constatazioni dell’indagine, che confermano in tutti i punti le dichiarazioni dell’accusato.

Il Presidente Potier procede all’interrogatorio dell’accusato.


Presidente: Accusato, alzatevi. Come vi chiamate?

Henry: Émile, ho ventun anni e mezzo.

P. Il vostro domicilio?

H. Alle Carceri della Conciergerie.

P. Il 12 febbraio scorso verso le otto siete andato al Café Terminus?

H. Sì, alle otto, non alle otto e mezzo come dice l’atto d’accusa.

P. Nascondevate una bomba nella cinta dei calzoni...

H. No. Nella tasca del mio soprabito. Volevate che mi sbottonassi i calzoni in pieno caffè?

P. Perché avete scelto il Café Terminus?

H. Perché è un caffè frequentato dalla borghesia. La mia prima intenzione era di buttare la bomba in altro ritrovo, sono stato da Bignon e al Café de la Paix, ma non v’era che poco pubblico; l’ora dell’aperitivo di questi signori era già passata.

P. Avevate detto all’istruttoria che ne volevate ammazzare il più gran numero possibile.

H. E lo confermo anche qui.

P. Al Terminus vi siete seduto ordinando una Bock e avete aspettato: quanto, all’incirca?

H. Un’ora buona.

P. Perché aspettavate?

H. Perche vi fossero più avventori.

P. E poi?

H. Ma lo sapete bene; non ve l’ha anche pochi minuti or sono rammentato l’atto d’accusa quel che è avvenuto di poi?

P. Ai giurati voi dovete dirlo perché essi vi giudicheranno.

Crollando il capo, quasi a dire che la commedia l’annoia, Henry comincia con aria svogliata: Ho preso dalla tasca la mia bomba e me la sono collocata sulle ginocchia togliendone il giornale che l’avviluppava. Ho acceso al sigaro la miccia e quando ho constatato che prendeva mi sono diretto verso la porta e ho lanciato la bomba nel mezzo della sala.

P. Voi, che avete tanto disprezzo della vita degli altri...

H. Dei borghesi soltanto, se vi piace...

P. Avete tutto calcolato per salvar la vostra e metterla al sicuro...

H. È naturalissimo; come avrei potuto coltivare la speranza di ricominciare e di fare magari più vaste applicazioni, se alla prima mi fossi lasciato cogliere?

P. Avevate dunque calcolato, meditato ogni circostanza per sfuggire alle conseguenze del vostro attentato?

H. E seriamente. Ero nel vano della porta d’entrata quando scagliai la bomba nel bel mezzo della sala. Di lì, a girare inosservato nelle gallerie della stazione di Saint Lazare, montare alla sala d’aspetto, prendere un biglietto qualunque, perdermi tra la folla dei viaggiatori e scendere in rue d’Amsterdam tranquillo, sicuro di poter ricominciare più gagliardamente, non mi pareva né impossibile né difficile. Farla franca per ricominciare subito, non avevo altra preoccupazione.

P. I vostri calcoli non sono tornati. Alla porta un cameriere vi ha veduto, e voi slanciandovi innanzi gridando: “Il miserabile, eccolo lì!”, come se voleste dell’attentato inseguire un autore immaginario, avete indarno cercato di ingannarlo.

H. Non so che importanza possa avere nel vostro piano d’accusa questo dettaglio, so però che è assolutamente fantastico.

P. Vedremo dopo: certo voi fuggivate. Girato l’omnibus che passava vi siete lanciato per la rue du Havre attingendo la rue d’Isly, mentre alle vostre calcagna montava inseguendovi la folla. Un cittadino coraggioso, un impiegato della Compagnia dell’Ovest, vi afferra, vi mette la mano sulle spalle gridandovi: “Ti tengo alla perfine, canaglia!”.

H. Un eroe insomma...

P. “Non ancora!”, avete risposto voi...

H. Niente, niente. Nulla di vero nella risposta che mi prestate.

P. Gli avete tirato un colpo di rivoltella. Fortunatamente il proiettile s’è schiacciato su di un bottone della giacca, e allora il barbiere Meurice...

H. Secondo cittadino eroe...

P. Meurice cerca di arrestarvi a sua volta e voi...

H. Gli tiro un secondo colpo di rivoltella.

P. Erano l’uno e l’altro lavoratori, questi due...

H. Me ne dispiace, ma la colpa è tutta loro. Che c’entravano essi? Perché venivano ad immischiarsi in cose che non li riguardavano?

P. Avete detto in istruttoria che se la vostra rivoltella fosse stata migliore li avreste spacciati.

H. Ma sicuramente.

P. In fondo alla rue d’Isly aveste un po’ d’esitazione.

H. Non ho esitato affatto. Ero chiuso in un cerchio, mi sono fermato e quando il poliziotto Poisson, la daga sguainata, mi si è lanciato addosso ho sparato le mie cartucce fino all’ultima.

P. Non dico certo che abbiate esitato nell’assassinio. Soltanto nella fuga vi siete indugiato, e l’agente che v’inseguiva dal Terminus vi ha potuto raggiungere. Avete scaricato la rivoltella, ma gli agenti erano diventati moltitudine e hanno coordinato ogni loro sforzo a proteggervi contro l’indignazione della folla.

H. Già, già, contro l’indignazione della folla che ignorava il mio attentato. Quando si dice!

P. Vi hanno trovato addosso un “pugno americano” e una scatola di cartucce col proiettile scanalato. Con che scopo?

H. Tò! Per fare il più gran male possibile.

P. Difatti è un pregiudizio antico dei soldati d’Africa.

H. Scusate, ma è un’altra cantonata. Non sono mai stato soldato.

P. Ne riparleremo tra poco. Avevate anche indosso un pugnale che si credette avvelenato.

H. Lo era. L’avevo avvelenato l’anno scorso per colpire un agente provocatore, un sedicente anarchico che aveva denunciato alla polizia e fatto mandare in galera un bravo compagno. Le circostanze non mi hanno favorito, ma dopo dieci o dodici mesi non è da meravigliarsi che il veleno se ne sia andato.

P. Se vi fosse riuscito avreste colpito Poisson? All’istruttoria avete deplorato che il colpo vi sia mancato.

H. Ho deplorato semplicemente di non aver potuto opporre resistenza più energica.

P. Se le circostanze ve lo avessero consentito vi sareste servito del pugnale?

H. Senza uno scrupolo né un indugio.

P. Veniamo ora all’attentato, Henry; vi sono dettagli che è bene siano precisati. Voi avete lanciato la bomba mirando al centro dell’orchestra.

H. Ma l’ho buttata troppo alta e l’ho mandata contro il lampadario facendola cadere in tal modo troppo vicino, dove c’era meno pubblico.

P. È vero, più in là avrebbe fatto un maggior numero di vittime, ma venti persone sono state attinte.

H. Non ne avete fin qui contate che diciassette nel vostro atto d’accusa.

P. Venti, di cui alcune gravemente, una, il signor Borde, rimasta uccisa.

H. E vada per venti.

P. Avete voluto uccidere?

H. Certamente.

P. Avete difatti allestito la vostra bomba con cura meticolosa. Vaillant aveva dichiarato che se si fosse proposto d’uccidere non avrebbe caricato di chiodi ma di proiettili la sua macchina infernale. Voi nella vostra avevate caricato centoventi palle.

H. È che io non volevo ferire, volevo uccidere.

P. Al commissariato di polizia avete detto dapprima di chiamarvi Breton negando di essere l’autore dell’attentato, ma avete soggiunto subito di essere anarchico: “Di borghesi più ne creperà, meglio sarà” avete cinicamente commentato. Davanti al giudice istruttore l’indomani, nelle carceri della Conciergerie avete confessato il delitto, avete descritto minutamente la vostra bomba, ne disegnaste i particolari da vero artista.

H. Troppo buono, signor Presidente, non valgo davvero le vostre felicitazioni, perché l’apparecchio era riuscito manchevole, il coperchio non chiudeva bene.

P. L’esito non v’ha appagato? Che cosa volevate di più?

H. Contavo su una ventina di morti ed una trentina di feriti. La lezione voleva essere severa.

Passa un brivido nel pubblico, mentre il Presidente spiega come scoperto il domicilio di Henry la polizia recatasi a perquisirlo l’abbia trovato svaligiato. I compagni dovevano esser passati ben avanti agli sbirri ed aver asportato gli esplosivi rimastivi.

P. Molti ne avevate in camera vostra?

H. Da confezionare una dozzina di bombe uguali, per lo meno.

P. E non avete idea degli amici che sono andati a sottrarli?

H. La domanda è indiscreta. Cercateli, quando li avrete scovati e li porterete qui, vi dirò se li conosco.

P. Si sta cercando, e si troveranno, forse si è già trovato...

H. Con tutto il rispetto che vi debbo mi permetto di dubitarne.

P. Voi siete un cinico.

H. Non è cinismo, è convinzione.

P. Quanto a convinzione voi siete convinto... d’aver perpetrato dei delitti.

H. Come spirito non c’è male, ma non potete chiamare cinismo quello che è convinzione.

P. Al nodo: avete voluto assassinare Etienne che v’inseguiva?

H. Sì.

P. Avete voluto assassinare Meurice e Poisson che si sforzavano d’arrestarvi?

H. Sì.

P. Avete voluto uccidere i consumatori al Café Terminus?

H. Sì.

P. Avete voluto distruggere il Terminus?

H. Veramente, la vecchia baracca non mi interessava.

P. Ebbene, le cinque domande a cui avete risposto comportano cinque volte la pena capitale.

H. Lo so, lo so. E ne basta una, vero?

P. Basterebbe, anche se il vostro nome, le vostre generalità rimanessero ignorate e voi non foste che “l’X di Pechino”, come vi siete qualificato al commissario di polizia. Ma è gloria della nostra giustizia rispettare le forme di rito anche sotto l’impeto travolgente della pubblica indignazione, anche in cospetto del criminale più perverso. E la preliminare di queste forme impone la ricerca dell’identità dell’accusato, e la Corte dirà chi sia l’assassino di tanti innocenti.

H. Di tanti borghesi, e badate bene, di borghesi innocenti non ve ne sono, comunque vi piaccia qualificarli.

P. Era gente in ogni caso quella del Café Terminus verso la quale non avevate personalmente ragione di rancore, voi deplorate soltanto di non averne potuto accopparne di più.

Il presidente rintraccia e mette in luce i precedenti di Henry e ad un certo punto gli domanda: ‘Che cosa faceva vostro padre?’

H. Non vi riguarda e non ve lo dirò.

P. Era proprietario di cave a Brevanne. Trascinato nella rivoluzione comunalista del 1871 e condannato a morte, emigrò in Spagna donde tornò nel 1881, dopo l’amnistia. Morì l’anno di poi, nel 1882, lasciando vedova vostra madre con tre bambini. È esatto?

H. Non vi riguarda.

II presidente ricorda che Émile Henry alla scuola Jean-Baptiste Say vinse nel 1888 una borsa di studio che lo ammetteva al Politecnico.

P. Non avevate che diciotto anni...

H. Oh, per questo, non ne avevo che sedici e mezzo; ma è un dettaglio senza importanza.

P. Non avete persistito: la carriera militare non si confaceva alle vostre aspirazioni...

H. Potete dire che le urtava, intollerabilmente.

P. Avete rinunciato alla brillante carriera...

H. Brillante prospettiva davvero: un giorno o l’altro m’avrebbero ordinato di mitragliare un branco di affamati come al tenente Chapu i poveri lavoratori di Fourmies. Grazie tante, preferisco ancora essere qui.

Il presidente passa in rassegna diversi impieghi tenuti da Henry. Uno dei suoi zii, il signor Bordenave, lo vuole nella grande industria che egli dirige e lo manda rappresentante della Casa a Venezia con un primo stipendio di milleduecento franchi.

P. Avevate dinnanzi a voi un magnifico avvenire nella Casa e la speranza di guadagnare la vita lavorando.

H. Cosa in sé così onorevole, quanto sono spregevoli i vostri onestissimi borghesi che la vita vivono magari con tutte le lussurie, ma di lavorare non vogliono sapere, anzi! hanno di chi fatica orrore e disprezzo.

P. Lasciaste il posto in seguito ad un attrito senza importanza, e tornato a Parigi avete potuto collocarvi presso un grande mercante di panni di Roubaix a cui vi avevano raccomandato parecchi vostri condiscepoli della Jean-Baptiste Say. E la raccomandazione doveva essere autorevole, se per farvi posto si è creato per voi un impiego speciale.

H. Onore insigne davvero, ottocento franchi all’anno per un diciottenne licenziato dalla scuola Jean-Baptiste Say!

P. Ve ne sono molti a Parigi che un posto simile 1’invidierebbero...

H. Questa è la disgrazia!

P. Gli è piuttosto che a quel tempo incominciavate a subire l’influenza del vostro fratello maggiore Fortuné, che è anarchico. Avevate con lui assistito già ad un meeting convocato in onore di Ravachol nel corso del quale vostro fratello parlò così violentemente che fu arrestato; anzi foste arrestato anche voi.

H. Già, cercavano mio fratello ed hanno arrestato me che di propositi violenti non avevo avuto altra colpa che di ascoltarne; ma si sono mai trovate d’accordo la decenza, il buon senso e la polizia?

P. Qualche ragione dell’arresto potrebbe trovarsi, Henry. Il vostro padrone Veilleux dopo d’avervi congedato ha rinvenuto nel vostro scrittoio un manuale d’anarchia pratica. Trovò pure la traduzione da voi iniziata di un foglio italiano dal titolo: “Viva il furto!” il quale concludeva con l’utilità pratica delle bombe a rovesciamento con cui si possono mandare all’aria i poliziotti che le sequestrano. Vi siete di poi impiegato presso un orologiaio con l’intento di impratichirvi nell’applicazione dei movimenti d’orologeria alle vostre bombe.

H. Ma è inarrivabile, signor Presidente, la fantasia audace delle vostre deduzioni.

P. Alla fine siete entrato a far parte del giornale “L’Endehors” del quale era gerente il compagno vostro Matha, di cui vi si è trovata indosso al momento dell’arresto la fotografia. Sapete che è arrestato anche lui?

H. So che ne sono stati arrestati tanti, che sarebbe più facile numerare quelli rimasti fuori che non quelli razziati dai vostri mammalucchi in queste ultime settimane.

P. Non avete voluto esser soldato, vero? Dal momento, del resto, che vi eravate ricusato ad esser ufficiale era ingenuo sperare che vi sareste acconciato ad essere un fantaccino.

H. No. Ho fatto tre anni di battaglione scolastico, e come dose di militarismo è tutto quello che potevo sopportare.

P. Ed eccovi così renitente. Ma è cosa legittimamente dovuta codesta imposta del sangue...

H. ...che voi non l’avete pagata.

P. Che la vostra stessa famiglia vi biasima, quantunque al biasimo rispondiate che l’affare non la riguarda.

H. Infatti del dovere mio sono il solo giudice.

P. Vostra madre stessa...

H. Oh lasciatela un po’ stare, che la vostra intrusione è villana! Mia madre soffriva di vedermi espatriare, e soltanto ad ovviare a questa sventura convergeva le sue preghiere che furono sul punto di farmi arrendere ai suoi voleri. Ma sono innanzi tutto anarchico, e per me il sentimento dell’anarchia è superiore ad ogni altra considerazione.

P. Vostro ultimo padrone è stato lo scultore Dupuy. Non fu Ortiz, l’anarchico ladro, che vi trovò questo posto?

H. Sta bene, ma poiché siete così meticoloso anche nei dettagli più minuti, perché non dite pure che a quell’epoca Ortiz era anarchico e non era ladro, anche se, dopo, l’aver osato l’espropriazione non gli toglie come anarchico proprio nulla? La verità che è ingrata, che vi mortifica, non la volete a questo banco, e non trova eco nei vostri interrogatori irosi, decisamente!

Si arriva cosi alla sparizione di Henry due giorni dopo l’esplosione della rue des Bons-Enfants.

P. È un delitto che avete personalmente confessato in istruttoria, volete dirne ai giurati le ragioni?

H. I motivi li dirò domani, i fatti subito e volentieri.

E con una lucidezza, con una precisione matematica in uno stile fermo e breve – dice un cronista giudiziario che la deposizione raccolse – Henry fa la storia delle peregrinazioni sue di quel giorno, la corsa alla rue Veron per cercarvi la bomba, quella più lunga all’avenue de l’Opéra per deporvela, e l’ultima, forsennata, per rientrare in ufficio senza che Dupuy, il suo padrone, avesse a giudicar soverchiamente prolungata la sua assenza per le poche commissioni sbrigate.

H. V’assicuro che non ho perduto il mio tempo pur prendendo in due ore quattro vetture. Ero in missione, come un buon borghese, e non ho camminato a piedi.

Il presidente, a completare i dettagli dell’attentato, ricorda come la bomba trasportata dagli uffici della Compagnia di Carmaux al Commissariato di polizia della rue des Bons-Enfants scoppiasse nell’ufficio del commissario facendovi la strage orrenda che è nota. Quando alla detonazione la folla invase gli uffici della rue des Bons-Enfants l’orrore dello spettacolo la fece allibire. Erano dappertutto grumi di sangue e di cervello, lembi di carne e di intestini. Al becco del gas, che al soffitto scende nel centro della sala, era un gomitolo di budella. Intorno Garin, Formorin, Réaux, il comissario, i vice-commissari erano cadaveri disfatti; mutilato orrendamente il segretario Pousset, agonizzante in un angolo ancora un ispettore di polizia, Grouteau. La polizia, la magistratura hanno sempre sospettato di Henry, debbo dirlo, ma Henry era scomparso.

Poi rivolgendosi ad Henry subitamente, gli chiede: Ma con voi era un complice, non è vero?

H. No, ero solo – ribatte vivamente.

La fretta e l’energia con cui Henry respinge l’ipotesi di un complice nell’attentato della rue des Bons-Enfants confermano, in luogo di eliminare, nella Corte e nel pubblico il sospetto che un complice egli lo abbia avuto. Certo Henry aveva allestito la marmitta: era manifesta la diligenza e la accuratezza di un tecnico nella preparazione; certo Henry era stato sui luoghi che aveva esplorato con cura dal momento che al giudice istruttore aveva potuto disegnarne, da artista, la pianta topografica. Ma aveva da solo potuto trasportare la pesantissima marmitta dalla rue Veron all’avenue de l’Opéra? E nel breve tempo di due ore aveva potuto andare, tornare, e far nel contempo le commissioni del suo padrone Dupuy?

L’ipotesi di un complice non è temeraria, ma chi è, dov’è questo collaboratore misterioso che tutte le indagini della polizia non sono riuscite a identificare? né trarre dalle tenebre tutte le ricerche sagaci dell’istruttoria?

Il complice?

Per quante indagini abbia fatto la polizia giudiziaria e per quanto se ne sia arrovellata l’istruttoria non sono riusciti a identificarlo. Non potrebbe chiarire il mistero che Henry, ma il Presidente che contro la decisa e irremovibile fermezza dell’imputato si è indarno urtato durante il tormentoso interrogatorio rinuncia disperato all’impresa.

Alcuni testimoni hanno ben deposto di aver veduto, nell’ora in cui Henry doveva trovarsi alla rue Veron per prendervi la bomba, uscire di casa una donna con un paniere sotto il braccio. Henry stesso aveva dichiarato al giudice che, scendendo dalle scale, codesta donna aveva egli pure veduto, ma quando il giudice convinto che quella donna misteriosa avesse accompagnato Henry fino agli uffici della Compagnia Carmaux all’avenue de l’Opéra, ha chiesto all’imputato qualche ragguaglio sulla fisionomia, sulla figura, l’età probabile, l’acconciatura della donna sospetta, non gli ha cavato più una parola.

La polizia, il giudice istruttore, il presidente vorrebbero ora concordemente rifarsi di questo mutismo di Henry buttandogli addosso una badilata di letame e vituperi.

Col pretesto di ricercare come e dove Henry sia vissuto durante il tempo che intercorre tra l’attentato alla Compagnia di Carmaux e quello al Terminus, essi si sforzeranno di dimostrare che egli è vissuto di scrocchi, alle spalle di Ortiz che, come vedremo a suo tempo, è stato al famoso “Processo dei Trenta” convinto di non aver soverchio rispetto per quello che i comandamenti di santa madre chiesa e del codice penale chiamano la roba degli altri.

Non sarebbe una rivincita per poter gabbare al pubblico come un ladruncolo o un manutengolo codesto giovane che sulle soglie della prima giovinezza ha la fierezza irriducibile e sdegnosa di uno stoico maturo?

E il Presidente vi si butta a corpo morto, ma non resta a lui l’ultima parola. Henry lo mette a segno con una scudisciata sanguinosa che lo guarisce repentinamente dalla fregola dei sospetti e delle insinuazioni.

P. Siamo ormai alla fine, Henry; non ho più che una domanda da farvi e voi sapete qual è, dal momento che alla Conciergerie mi sono sforzato di mettervene in rilievo la gravità. Scomparso il 10 novembre del 1892 dall’ufficio del vostro padrone, il signor Dupuy, non vi ritroviamo che nel dicembre del 1893, alla rue des Envierges, sotto il nome di Dubois. Che cosa avete fatto durante questi tredici mesi di intervallo?

H. Potrei rispondervi che sono affari miei, in cui non avete nulla a vedere; ma ho detto in istruttoria che nell’aprile ho fatto un viaggio in Belgio. Potete accertarvene domandando se a Bruxelles non ho durante due mesi abitato al 10 Boulevard Morland donde uscivo alle sette del mattino vestito da lavoro e non rientravo dall’officina meccanica in cui ero impiegato che ogni sera verso le sei.

P. Verificheremo, quantunque è la prima volta che voi ci parliate del vostro soggiorno a Bruxelles.

H. Vuol dire semplicemente che la vostra domanda era indiscreta e la mia risposta sarebbe stata inopportuna.

P. Converrete però che a magra risposta dar conto di due mesi su tredici. Come avete vissuto durante il resto del tempo?

H. Come sempre: del mio lavoro.

P. La vostra prima bomba avrete potuto prepararla con lo stipendio che guadagnavate presso il Dupuy, ma la seconda che deve esservi costata abbastanza come avete potuto prepararla, come ve ne siete potuto procurare i mezzi?

H. Lavorando.

P. Dove e come?

H. Siete curioso!

P. E debbo esserlo.

H. E allora cercate; debbo farvi io stesso le spese della curiosità?

P. E di tacere avete torto, tutto facendo credere che durante questo tempo siate vissuto con l’Ortiz o sovvenuto dall’Ortiz, vostro compagno antico divenuto un complice mariuolo.

H. Tutto, induce? Ma non v’è l’ombra di un’apparenza che vi autorizzi a codesta insinuazione, a meno che vi illudiate che i sottovoce della sbirraglia irresponsabile si possano francamente gabellare per atti di fede.

P. Vi hanno confrontato con Ortiz e avete dichiarato che non lo conoscevate.

H. Perché io non sono né poliziotto né spia.

P. Una donna arrestata insieme con Ortiz ha dichiarato di avervi veduto con lui in un bar a Londra.

H. In un bar avrebbero potuto vedermi anche al fianco vostro. Quanta gente e quanto diversa s’accomuna dinanzi al banco di un liquorista?

P. Un altro testimone dichiara di avervi veduto a Parigi nel 1893 e che le vostre mani candidissime gli erano parse quelle di un uomo che non lavora, e noi ci domandiamo se voi non siete un po’ come Ortiz, l’amico vostro, un ladro come molti altri anarchici. Vaillant ha dichiarato che per preparare la sua bomba ha ricevuto cento franchi da un ladro. È il ladro Ortiz che ha fatto le spese della bomba per l’attentato del Café Terminus? Siate cauto!

H. Ho poche cautele da prendere, perché dalla Corte uscirò soltanto per passare nelle mani del boia, e non me ne dimentico.

P. Non alludo a questo, alludo a una confessione che torna amara alla vostra fierezza: fino ad essere un assassino voi convenite senza sforzo; ma non volete dire che a un ladro voi avete teso le mani che si sono inzuppate di tanto sangue.

H. Non parlate del sangue di cui si sono macchiate le mie mani perché il pubblico non veda quello in cui avete tuffato avidamente, recidivamente le vostre e di cui avete tinto in rosso la vostra toga di consigliere?

L’udienza sospesa alle due e mezzo, è ripresa alle tre e un quarto.

Vengono interrogati i testimoni.


Agelon, ventisette anni, cameriere al Café Terminus: Verso le otto meno dieci, un cliente si è seduto vicino alla porta, mi ha chiesto una birra e mi ha pagato; alle nove, mi ha chiesto un’altra birra e un sigaro. Un attimo dopo, avviene l’esplosione.

Presidente: Il consumatore, era l’accusato?

Agelon: Sì, signore.

P. Siete stato ferito?

A. Sì, alla gamba.


Paquet, cameriere al Café Terminus: Verso le nove camminavo nel caffè quando ho visto l’accusato fare un movimento; un globo mi a caduto in testa.

Presidente: Siete stato ferito?

Paquet: Sì.

Pr. Avete visto il movimento del braccio?

Pa. Sì, la bomba doveva, secondo il movimento del braccio, cadere vicino al palco.

Pr. C’era più gente da quella parte?

Pa. Sì, signore.


Lousteau, ventiquattro anni, cameriere al Café Terminus: Ho notato l’accusato, che si è seduto, ha chiesto una birra, poi un’altra birra e un sigaro, che ha pagato subito. L’ho perfettamente riconosciuto.

Presidente: Siete stato ferito?

Lousteau: Sì, alla caviglia.


Frugier, ventun’anni, cameriere al Café Terminus: Ero sulla terrazza e sentii un rumore, quello del lampadario che si rompeva; sono stato urtato da Henry che diceva: “Il miserabile, dov’è?”. Sono entrato nel caffè.

Henry: È falso.

Frugier: Confermo la mia dichiarazione.


Tissier (Louis): Ho sentito il rumore di un lampadario che si spezza ed ho visto fuggire un uomo: venne preso. È partito un colpo d’arma da fuoco.


Etienne (Gustave), ventotto anni, impiegato alla compagnia dell’Ovest: Verso le nove di sera, arrivando in rue d’Isly, mi sono precipitato su di lui, dicendogli: “Ti tengo canaglia”. – “Non ancora”, ha risposto. Mi ha sparato a bruciapelo. Sono svenuto e non so niente altro.

Henry: Riconosco l’atto, ma le parole non le ho pronunciate.


Maurice (Léon), parrucchiere: Verso le nove, ho sentito uno sparo, poi ho visto un giovane che correva. Una folla lo seguiva; l’ho inseguito, e mi ha sparato a bruciapelo con la pistola; sono caduto soffocato dal sangue.

Presidente: A che distanza ha sparato?

Maurice: A bruciapelo.

P. Quali sono le conseguenze?

M. Non ci vedo più bene e non sento più; e tutti i giorni sputo sangue e soffro terribilmente.


Poisson, brigadiere dei vigili.

Presidente: Siete stato decorato recentemente e tutti salutano con rispetto questa onorificenza.

Poisson: Ho inseguito l’accusato; mi ha sparato tre volte in successione; alla quarta, quando lo minacciavo con la mia sciabola, si è fermato, sono stato colpito e ho perso conoscenza: avevo una pallottola nel petto.


Contet (Jules), vigile: Il 12 febbraio, stavo finendo il servizio quando ho sentito un colpo di arma da fuoco e Poisson che inseguiva Henry, l’ho fermato mentre tentava di estrarre il suo pugnale.


Lenoir, vigile: Il 12 febbraio, stavo finendo il servizio quando sento una detonazione; mi precipito e vedo un individuo che fugge. Gli corro dietro e, in rue d’Isly, sento due detonazioni; in fondo alla via sento vari colpi di pistola e vedo Henry sparare tre volte su Poisson.


Petit, quarantaquattro anni: Ero al caffè, nella rue de Rome, verso le nove; il cameriere mi dice che c’è battaglia in rue d’Isly. Ho visto Henry sparare gli ultimi due colpi sull’agente Poisson. Ci siamo precipitati per fermarlo e ho ricevuto un colpo di bastone sulla testa; non so da chi venisse, ho supposto che vi fosse un complice, è una semplice impressione.

Van Herreweghen, quarant’anni, disegnatore (il testimone avanza zoppicando faticosamente): alle otto e mezzo, ero con il mio amico signor Borde; parlavamo di disegni; stavo andando via e mi ero fermato al Café Terminus. Quasi subito siamo saltati in aria.

Presidente: Il signor Borde era vostro amico?

Van Herreweghen: Amico intimo; era disegnatore.

P. Quali sono le conseguenze delle vostre ferite?

Van H. Ora, cammino meglio; l’arteria è stata recisa. Ho avuto diciassette ferite nella gamba.


Signora Emmanuel: Ero al caffè e attendevo degli amici quando ho notato Henry; ho creduto che lanciasse la sua birra per aria. Ho visto presto che era una bomba. Sono stata ferita così come mio marito.


Signora Leblanc: Ho visto lanciare un oggetto in aria; ho creduto che fosse il bicchiere lanciato da un consumatore. Sono stata ferita alla mano e alla gamba; sono stata a letto diciotto giorni.


Beck (Albert-Jules), architetto, piazza Vintimille: Ero al Café Terminus, al momento dell’esplosione; sono stato ferito alla mano da una scheggia di metallo; ho avuto, inoltre, cinque ferite.


Michel, funzionario delle poste: Sono stato ferito, al Café Terminus, e sono rimasto circa due mesi senza poter far nulla; sono stato venti giorni senza dormire.


Signora Kingsbourg, un’altra vittima ancora troppo sofferente, non si presenta.


Garnier (Eugène): Sono stato ferito in quattro punti; ho ricevuto quattro centimetri di scatola di sardine nel tallone e una pallottola nel polpaccio. (All’accusato): Sembrate indifferente a questa sfilata.

Henry: Sono completamente indifferente, come voi lo siete delle miserie che ho conosciuto e visto da vicino.


Villevaleix (Pierre), ex-ministro di Haiti a Parigi: Ero al Café Terminus quando sento un rumore secco causato dal rumore del lampadario. Mi alzai, avvenne l’esplosione e fui ferito alla gamba. Sono completamente guarito.


Baronessa di Eichstedt: Sono stata ferita al Café Terminus, il 12 febbraio, al fianco sinistro.

Presidente: La signora è ancora in preda a gravi disturbi nervosi.


Signora Hadamla: Sono stata ferita al piede sinistro e molto impressionata dall’esplosione.


Descaves, perito-architetto, rue de Miromesnil: Nel caffè, il lampadario era rotto. L’ordigno è caduto sotto un tavolo e ha rotto il piede di ghisa. C’erano ventotto fori di pallottole sotto il tavolo e un buon numero sul soffitto. Gli specchi erano a pezzi. Se l’ordigno fosse stato lanciato più dritto, avrebbe colpito l’orchestra. Alcuni frammenti di uno specchio sono stati proiettati fino a dieci metri.


Girard, capo del laboratorio municipale: Il 12 febbraio, sono stato chiamato al Terminus; ho constatato soprattutto l’odore acre del fumo; ai piedi di un tavolo il pavimento era sfondato e macchiato di una sostanza gialla, è acido picrico. Il pavimento e il bitume erano polverizzati. I tavoli di marmo sono stati perforati dai proiettili. Gli specchi che dividevano il caffè dal ristorante erano crivellati di fori rotondi e regolari. Nei detriti ho trovato dei pezzi dell’ordigno di latta e di zinco. Era una piccola marmitta nella quale si trovava dell’acido picrico, della dinamite e una miccia Bickford.

A villa Faucher, ho trovato il manico della marmitta che deve essere servita per l’esplosione. C’erano dei giubbetti di flanella impregnati di acido picrico e della sabbia che serviva a fondere l’acido picrico. C’era anche dell’amianto e delle pallottole deformate, simili a quelle che abbiamo ritrovato al Terminus. Abbiamo esaminato un pugnale, ma non era avvelenato.

L’ordigno aveva un piccolo difetto...

Henry: Abbiamo discusso, il signor Girard ed io e siamo rimasti d’accordo su questo difetto.

Girard: È esatto.

Avvocato Hornbostel: Henry correva qualche pericolo?

G.: Trasportandolo, no; ma dandogli fuoco, rischiava la morte.


Descout, dottore in medicina, perito: Ho visitato i signori Etienne, Poisson e Maurice. Poisson aveva una contusione al petto e tracce di ferite alle mani e al torace. Il signor Maurice era più gravemente colpito. Il signor Etienne è stato colpito, ma ha riportato una semplice contusione. Ho visitato vari feriti: il signor Villevaleix era stato colpito con tre proiettili alle gambe; il signor Garnier ha ricevuto tre ferite alle gambe; si sono cicatrizzate in una ventina di giorni; la signora Kingsbourg a stata ferita nello stesso modo; questa signora, molto anemica, è ancora molto sofferente.


Vibert, dottore in medicina: Ho fatto l’autopsia del signor Borde. Le ferite, molto numerose, hanno prodotto dei focolai di suppurazione che hanno portato la morte. Si è dovuto amputare la gamba, ma questa operazione non ha salvato il paziente. La baronessa di Eichstedt e sua sorella, la signora Hadamla, erano molto doloranti, e soprattutto sotto shock per l’incidente. Il signor Van Herreweghen è stato colpito molto gravemente; può appena camminare.


Socquet, dottore in medicina: Ho esaminato diciassette persone; nessuna è stata colpita gravemente e non ho constatato nessuna infermità permanente o temporanea.


Peigné, custode della villa Faucher: Il 20 dicembre, Henry ha affittato una camera sotto il nome di Louis Dubois. L’ha lasciata, al momento del suo arresto. Aveva dichiarato di assentarsi per qualche giorno. La seconda notte dopo il suo arresto, ho constatato che la sua camera era stata svaligiata.


Signora Petit, villa Faucheur: Nella notte tra martedì e mercoledì, dal 14 al 15, è stata svaligiata la camera di Dubois.

Presidente: Lo riconoscete?

Petit: Perfettamente.

Avvocato Hornbostel: Henry riceveva visite?

Petit: No, nessuna.


Presidente (all’accusato): In un’altra istruzione dite di aver abitato in boulevard Morland n. 10. Il custode della casa lo dichiara infatti; e dice che lavoravate in rue de Turenne, da un fabbro. Ma nessuno dei fabbri di rue de Turenne vi conosce.

Henry: Ero impiegato dal signor Durand, 155 rue du Temple; rivolgetevi a lui. Ho imparato il mestiere di fabbro e potevo con quel mestiere guadagnarmi da vivere.

P. Farò verificare la cosa.


Le Fraper, studente di diritto: Posso affermare di aver visto, in avenue de l’Opéra, una donna che portava una borsa nella quale si trovava un oggetto ricoperto da un giornale. Erano circa le undici di mattina, e lasciavo la Società delle Miniere di Carmaux.

Henry: Non ho visto il testimone. Ci vorrebbe una borsa enorme per portare un simile ordigno.


Bernick, dentista: Sono andato, alle undici, alla Società di Carmaux, ho notato l’ora in place de Théâtre-Français. Ho visto un oggetto avvolto nella carta. Il signor Bellois, che ho avvertito, ha sollevato l’oggetto. È stato portato via subito.


Bellois: Ho notato, davanti alla porta della società di Carmaux, un pacchetto che ho constatato essere molto pesante; ho tolto la carta che lo avvolgeva; ho visto allora un oggetto di forma sferica; ho fatto avvertire il signor Augenard, poi il custode. Il fattorino Garin ha portato via la marmitta. L’oggetto mi è parso semisferico e bluastro; credo che fosse qualcosa simile a queste marmitte qui sul tavolo dei corpi del reato.


Augenard, impiegato della società di Carmaux: Sono uscito col signor Le Fraper, verso le undici, e non c’era nulla all’ingresso. Poco dopo, il signor Bellois mi ha chiamato e mi ha mostrato un oggetto. Ho creduto fosse un pacco deposto da una lavandaia. Ha strappato il giornale e abbiamo visto uno strumento estremamente pericoloso, del tutto diverso da quanto vedo sul tavolo dei corpi di reato. Era un ordigno di ferro battuto, con viti di rame, fatto con molta cura.

Avvocato Hornbostel: L’ordigno era più leggero o pesante di quello che è qui?

Augenard: Era meno alto di questa marmitta e più largo.


Garnier, custode, avenue de l’Opéra 11: Sono stato chiamato da Garin per vedere quello che c’era all’ingresso: ho visto l’oggetto e l’ho portato via. Sulla marmitta c’era un’etichetta grattata e una cifra scritta col gesso; l’ho portata giù, sul marciapiede della rue d’Argenteuil, poi, Garin ed io abbiamo messo l’oggetto in un tovagliolo. Era una marmitta di ghisa, una pentola, come quelle che sono qui. Sono stato io ad aprirla.

Presidente: Siete custode; sapete bene che cos’è una marmitta?

Garnier: Certamente.

Avvocato Hornbostel: Il custode ha visto entrare Henry?

G. No, l’abitacolo è in una rientranza.


Signora Garnier, custode, avenue de l’Opéra 11: Ho visto una marmitta di ghisa come quella che è qui.

Avvocato Hornbostel: La custode ha visto Henry?

Signora Garnier: No; c’è un gran movimento di persone nella casa, e ci sono due ingressi.


Cartier, ex-vigile urbano: Ho visto, quando ero vigile urbano, in rue d’Argenteuil, la bomba dell’avenue de l’Opéra. C’erano alcune persone. L’ordigno somigliava ad una pentola; una marmitta di ghisa, ben fatta e molto ben confezionata; c’era un’etichetta grattata.


Gung’l (Nicolas), segretario del giornale “Le Matin”: L’8 novembre vidi, in rue d’Argenteuil, un assembramento di persone e scorsi una marmitta di ghisa. L’indomani pubblicai su “Le Matin” la descrizione dell’ordigno che avevo visto.

Mi è stata presentata una marmitta su un tavolo, dal signor Espinas, subito non l’ho riconosciuta: mi è sembrata più alta. Poi è stata posta per terra ed ho riconosciuto, nell’oggetto che mi veniva presentato, l’ordigno che avevo visto in rue d’Argenteuil.


Denis (Léon), custode, rue des Bons-Enfants: Ho visto arrivare, verso mezzogiorno e mezzo, tre persone che portavano una marmitta; Garin ha chiesto all’agente Réaux di aiutarlo.

Lo spettacolo dell’esplosione era orribile; ho camminato, senza rendermene conto, sul corpo del segretario del commissario di polizia, ridotto in briciole e mescolato ai detriti.


Sauvage, vigile urbano: Il 12 novembre, ho sentito una detonazione in rue des Bons-Enfants. Entrando nel commissariato, ho visto quattro persone morte e una sul punto di spirare... Gli abbiamo prestato soccorso.


Cacheux, vigile urbano: Sono entrato in rue des Bons-Enfants dopo l’incidente; era uno spettacolo orribile; ho aiutato a trasportare una persona morente.


Le Louvrier: Ho visto l’esplosione, sono arrivato ed ho scorto, nel commissariato, dei cadaveri, una melma sanguinante. Una delle vittime viveva ancora; ho dato un aiuto a trasportarlo.


L’udienza è tolta alle sei e rinviata al giorno dopo per continuare le deposizioni, i dibattimenti, e formulare la sentenza.



Udienza del 28 aprile


Il pubblico è numeroso quanto ieri e le misure di ordine pubblico hanno lo stesso vigore.

L’udienza viene aperta a mezzogiorno.

L’accusato Émile Henry conserva la sua aria indifferente. Mentre continuano le deposizioni dei testimoni, rimane appoggiato alla balaustra, e gira verso la folla il suo volto sul quale si nota un sorriso forzato.

Presidente (all’accusato): Vi ricordo che ieri avete dichiarato che, durante l’anno 1893, abitavate a Parigi. Avete dato indicazioni nuove a questo riguardo. Abbiamo fatto verificare queste informazioni. Il capo della polizia ci fa sapere che il fatto si trovava descritto in un altro incartamento. L’abbiamo trovato, infatti; ho fatto cercare il fabbro di cui ci avete parlato.

Per approfondire più completamente il dibattimento, farò ascoltare, in virtù del nostro potere discrezionale, il signor Henri Meyer, giudice istruttore presso Tribunale della Senna, che deporrà su quanto concerne le ricerche alle quali si è proceduto a vostro riguardo.

(Al giudice Meyer): Siete stato incaricato dell’istruttoria sull’esplosione al Café Terminus, e dal signor Espinas di quella sull’attentato della rue des Bons-Enfants?

Meyer: Sì.

P. Henry sostiene di aver abitato in boulevard Morland e di avervi dichiarato... Vogliate dirci se, all’infuori dei due procedimenti di cui si sta trattando, avete avuto occasione di occuparvi dei domicili di Henry.

M. Ho istruito diverse azioni giudiziarie dirette contro duecentottanta anarchici, credo; ho cercato i vari domicili di Henry. È andato via il 22 novembre 1892; disse di recarsi in Germania e poi in Inghilterra. Dal maggio al luglio 1893, ha abitato in boulevard Morland e avrebbe lavorato presso un fabbro, in rue de Turenne; non è esatto. Mi sono occupato di lui in occasione di un furto commesso a Ficquefleur, a danno di una signora: quattro malfattori mascherati sona entrati a casa sua; l’hanno terrorizzata e anche cloroformizzata. L’hanno costretta con le minacce a indicare dove erano i suoi valori. Ma hanno trovato solo le ricevute. Ora, la descrizione dei ladri somiglia molto a quella di quattro persone scese a Ficquefleur; uno di loro diceva di essere ingegnere al servizio di un ricco inglese. Sono stato colpito dalla somiglianza delle descrizioni di queste persone con quelle di Ortiz e di Henry. L’altro ieri, ho fatto un confronto tra questi individui e il sindaco del comune di La Riviére-Saint-Sauveur; mi ha detto che quello che diceva di essere il figlio del ricco inglese era Henry. Quest’ultimo ha protestato.

Henry: Protesto energicamente: non so di che cosa si tratta.

M. Il sindaco ha affermato con fermezza di riconoscere Henry. Gli stranieri dissero che dovevano impiantare una fabbrica nella zona. Il sindaco li ha ricevuti a casa sua, hanno preso il tè. È un commerciante importante di Le Havre.

H. Nego assolutamente.

Avvocato Hornbostel: Il signor giudice istruttore si occupato di Henry e dell’attentato di Barcellona?

M. Assolutamente no.

Avvocato H. Non si è forse accusato Henry di un furto di un milione, e di aver fermato delle diligenze sulle strade?

M. Non ho mai sentito parlare di questo.


Weber, quarantanove anni, negoziante: Mi ero istallato al numero 13 di avenue de l’Opéra, e vendevo vaselina e prodotti di profumeria. L’etichettatura e la presentazione dei flaconi somigliavano a quelli di una farmacia.

Avvocato Hornbostel: Il testimone ha visto l’accusato?

W. No.

Dupuy (Alphonse), trentacinque anni, scultore: Ho dato lavoro a Henry fino al 10 novembre 1892. Ero molto contento di lui e gli ho aumentato lo stipendio. Poi, l’11, è andato via; l’ho rivisto in dicembre. È venuto a prendersi l’ultimo mese, che gli dovevo. Avevo ricevuto una lettera di Ortiz, da Londra, che non mi dava il suo indirizzo esatto; gli scrissi che avrei dato alla persona che sarebbe venuta in nome di Henry la somma che gli dovevo. Dopo questa lettera, è venuto Henry stesso.

Henry: Non è la lettera che mi ha fatto venire; è la perquisizione fatta a casa mia; sono venuto a sentir notizie dal signor Dupuy.

D. Nella mattinata, Henry doveva ricopiare un conto molto lungo dove c’erano degli errori; ho dovuto farlo ricominciare. Verso le dieci e mezzo sono partito, mi ha accompagnato. Poi, è ritornato un momento a mezzogiorno. Mi ha chiesto i soldi dell’omnibus. Ora, è stato dimostrato che non si potevano fare in omnibus, né tanto meno a piedi, le commissioni, e fare l’attentato.

Avvocato Hornbostel: Quale era l’atteggiamento di Henry quel giorno?

D. Si è occupato in modo continuo di lavori di scrittura; ho qui questi lavori.

Il Presidente, dopo aver preso visione dei registri portati dal signor Dupuy, li fa presentare all’accusato, poi passare sotto gli occhi dei signori giurati. Sono copie di lettere, scritte dopo l’attentato da Émile Henry, prima che si conoscesse il delitto della rue des Bons-Enfants. Il signor Presidente ordina il sequestro di questi testi e la loro aggiunta ai corpi del reato.

Avvocato H. Come ha accolto Henry la notizia dell’attentato?

D. Si è dimostrato estremamente scosso e in modo sincero.

Avvocato H. Il testimone crede, in sua fede e coscienza, che Henry ne sia l’autore?

Presidente: Non porrei la domanda. Il signor Dupuy non è un giurato.


Bernard, commissario di polizia: Il 27 febbraio, ho fatto il percorso che Henry dichiara di aver fatto. Ho proceduto esattamente secondo le indicazioni di Henry; ed ero, alle dieci e cinquantasette, sulle scale della casa dell’avenue de l’Opéra. Avevo preso come lui quattro vetture. Il percorso che indicava poteva essere fatto, al limite; io l’ho fatto.

Presidente: Signori giurati, ho appena ricevuto le informazioni del signor Durand.

(All’accusato): Il signor Durand dichiara che vi siete presentato da lui per imparare a limare, allo scopo di essere ammesso nelle compagnie degli operai militari; non pretendevate alcun salario.

Henry: Vivevo miseramente.

P. Ma insomma vivevate.

H. Vivevo meno bene di voi, è evidente.

P. Da dove venivano le vostre risorse? Ve lo chiedo ancora una volta.

H. Ripeto che non voglio dirvi niente.


Signora Colin: Hanno comperato un astuccio di vetro per mettere i portapenne. Ne ho venduti fino al 1893; poi ho cambiato modello.

Avvocato Hornbostel: La testimone riconosce l’accusato?

Signora Colin: Non riconosco l’accusato.


Comte, chincagliere: Non ricordo di aver venduto una marmitta all’accusato; ma egli ha descritto con precisione il negozio; anche il prezzo è esatto: era segnato col gesso.

Avvocato Hornbostel: Il testimone riconosce l’accusato?

Comte: Tutti possono entrare. Henry certamente vi è entrato.


Guyot, commerciante di prodotti chimici: Abbiamo venduto, nella nostra ditta, del clorato di potassio all’accusato che aveva dichiarato di essere assistente in uno stabilimento di Saint-Denis. La vendita è stata fatta di sera; ultima della giornata.


Vieille (Paul), ingegnere delle polveri e salnitri: Ho verificato i residui della bomba della rue des Bons-Enfants; ho ritrovato dei pezzi di ghisa corrispondenti a quelli di una marmitta; sopra si distinguono le nervature di queste marmitte; inoltre, ho ritrovato dei pezzi di ferro a reggetta. Questi pezzi provengono dalla chiusura.

Nel 1892, avevamo trovato che si trattava di una marmitta di ghisa con una reggetta. Abbiamo notato che ci doveva essere della dinamite o un detonante analogo. Abbiamo pensato che non ci fosse miccia. Doveva essere un innesco meccanico, un congegno ad orologeria, o un innesco chimico. Si trattava di quest’ultimo, l’altro avrebbe lasciato delle tracce, come le spire di molle, che non abbiamo ritrovato.

Il testimone indica la composizione della miscela detonante ed il processo di innesco. Dichiara che le indicazioni date da Henry sono molto plausibili e molto esatte.

Presidente: Le vostre ricerche concordano con le dichiarazioni di Henry?

Vieille: Completamente.

Avvocato Hornbostel: quali erano le proporzioni della miscela?

P. Le proporzioni indicate da Henry possono dare un’esplosione?

V. Incontestabilmente: le si adopera generalmente per gli inneschi.

P. Un urto poteva far scoppiare l’ordigno?

V. Se il detonatore avesse fallito, l’apparecchio non avrebbe funzionato. Ma può darsi che un tale ordigno posto violentemente su un tavolo scoppi per il semplice urto; o il movimento può far funzionare il detonatore o far avvenire un’esplosione. Poiché è stato posato poco tempo prima dell’esplosione, abbiamo supposto che il fatto di essere stato posato abbia potuto provocare l’esplosione.


Girard, capo del laboratorio municipale: Sono stato chiamato il giorno dell’esplosione della rue des Bons- Enfants. Era orribile; camminavo letteralmente su resti di carne umana. Tra le rovine, abbiamo trovato dei pezzi di ghisa che avevano delle forme particolari: quelle di una marmitta casalinga. Il 12 novembre abbiamo comprato varie marmitte. Abbiamo constatato che la marmitta doveva essere chiusa con una reggetta. Quando ho visto Henry, gli ho detto se la marmitta era chiusa con del filo di ferro; subito ha risposto: “No, con una reggetta”. Ho portato una marmitta nella sua cella, con un tubo e il necessario per chiudere la marmitta. Ha fatto l’operazione; ma ha rifiutato di piazzare il tubo. Ho considerato che aveva contribuito a fare l’ordigno, ma ho la convinzione che non fu solo nel momento di chiuderlo. Le reggette erano dure. Ha fatto fatica a torcerle e a passarle nei manici.

Il signor Girard prende una delle marmitte simile a quella dell’ordigno e spiega la sua conformazione.

Girard: Henry ha dichiarato di aver messo otto chili di polvere di clorato; aveva un volume troppo grande; ma mi ha anche dichiarato di aver mischiato più intimamente i prodotti; così ha potuto inserire tutto; era esatto. Sono certo che egli ha collaborato alla confezione dell’ordigno; ma non ha potuto farlo da solo. Inoltre, aveva messo venti cartucce di dinamite. Dove le aveva prese?

Henry (vivamente): Vengono da una fabbrica borghese.

Avvocato Hornbostel: I due ordigni, quello del Terminus e quello della rue des Bons-Enfants, erano simili?

G. No.

Avvocato H. Quale era il più pericoloso dei due per Henry?

G. Tutti e due; uno accendendolo, l’altro confezionandolo

H. Un fabbro ha dichiarato che un uomo solo poteva chiuderlo.

G. Sì, quando l’ordigno non è carico! Ma quando lo è, è un’altra cosa.

Il sostituto procuratore generale: La fabbricazione dell’ordigno poteva lasciare delle tracce nell’appartamento?

G. No; poteva benissimo non lasciare alcuna traccia.

Bordenave (Jean), ingegnere edile: Non ho mai conosciuto Henry padre. La madre di Émile mi ha chiesto di facilitarle la riacquisizione del suo immobile di Brévannes.

Henry è entrato da me nel 1889. Prima veniva a casa mia. Lavorava molto bene. Lo portai a Venezia per fargli vedere dei lavori. Volevo portarlo con me e assicurargli un avvenire. A Venezia, incontrò cattive compagnie e mi lasciò bruscamente col pretesto che non voleva fare la sorveglianza degli operai; sorveglianza necessaria, ma che non doveva per niente essere fatta in modo occulto.

Avvocato Hornbostel: Nel corso dell’istruttoria il signor Bordenave ha abbracciato l’accusato?

B. Dal giudice istruttore si è gettato al mio collo e mi ha abbracciato.

Henry: Desidero dire una parola.

Presidente: Fate una domanda.

H. Voglio dire qualcosa.

P. Dite.

L’accusato (vivamente): Non voglio più; me lo avete rifiutato.


Vielleur, negoziante: Henry è stato portato da me da una persona di tutta fiducia. Non avendo nessun impiego da offrirgli, stava andando via, quando sulle sue istanze, e constatando la sua intelligenza, gli ho creato un impiego. Sono stato estremamente soddisfatto di lui. Solo due mesi dopo il suo licenziamento ho saputo che era anarchico. A fine maggio, è stato arrestato, come suo fratello, ed ho dovuto licenziarlo. Gli pagai il mese per permettergli di vivere. Mi sono informato, e ho appreso che scriveva molto, ho trovato delle note relative all’anarchia: erano dei consigli agli anarchici.

Avvocato Hornbostel: È stato l’arresto a causare il licenziamento?

Vielleur: Certamente.


Descaves, perito architetto: Sono stato incaricato di esaminare una pianta, tracciata a mano e a memoria da Henry, della scala della casa del n. 11 dell’avenue de l’Opéra. Era esatta, tranne un piccolo particolare.


Il presidente dà lettura di un processo verbale di accertamento che riguardava la riproduzione esatta della scena della deposizione della marmitta. Henry è stato lasciato libero di seguire la strada che voleva. È arrivato senza esitazione e senza nessuna ricerca.

Si sentono poi i testimoni della difesa.


Brémant, capo d’istituto a Fontenay-sous-Blois: Émile Henry è stato mio allievo; era un modello. Aveva maturità straordinaria, una grande dolcezza. Mi ha lasciato a dodici anni, ed ho conservato eccellenti rapporti con lui. Una volta mi ha anche dedicato un componimento in versi.


Le Fermous: Sono stato collega di Émile Henry alla scuola J.-B. Say. Era un ottimo compagno, un amico molto indulgente; avevo molto affetto per lui.


Boutin (Charles), studente: Ho conosciuto Henry alla scuola J.-B. Say. Era un allievo brillante, e un ottimo compagno. Da allora l’ho rivisto, ma solo per un momento.


Philippe, istitutore alla Scuola Politecnica: Sono stato professore di Henry alla scuola J.-B. Say; era un ragazzo perfetto, il più onesto che si potesse incontrare; prima di presentarsi all’École Polytechnique, mi ha chiesto quel che doveva fare; gli ho risposto che lo ritenevo perfettamente capace di accedervi.

Presidente: Avrebbe potuto, con le sue conoscenze, crearsi un’esistenza onorata e agiata presso un costruttore che si fosse interessato di lui?

Philippe: Avrebbe potuto crearsi un’ottima esistenza sotto la direzione del suo parente. Conosceva poco la vita, meno dei ragazzi della sua età.


Brajus, sessantacinque anni: Ho conosciuto molto il padre, la madre, i figli Henry. Si sono sempre comportati bene, e la mia casa a stata sempre aperta per loro.

Ho sempre seguito Émile. Nel 1893, è venuto a trovarmi due o tre volte.

Avvocato Hornbostel: Il testimone ha dato del denaro ad Henry?

Brajus: Sua madre mi ha chiesto qualche volta di anticiparle del denaro che mi ha restituito.


Gauthey (Jules-François), operaio battilastra: Ho conosciuto Henry nel 1891, veniva a trovarmi.

Presidente: L’avete visto nel 1893?

Gauthey: L’ho visto una volta; ma è venuto in mia assenza più di una volta, vestito da operaio.

P. Aveva le mani bianche?

G. Mia moglie l’ha visto e mi ha detto che era fabbro. Nel 1891, stimavo Henry. Amava molto i bambini.


Presidente (rivolgendosi al testimone per fargli prestare giuramento): Alzate la mano destra.

Goupil, dottore in medicina, pone la mano destra dietro la schiena.

Presidente: Alzate la mano destra.

Goupil: Rifiuto di prestare giuramento per rispetto alla vostra religione che non ho la gioia di praticare né di conoscere.

Non essendo la citazione data dal testimone notificata alla Procura, il Procuratore generale si oppone al giuramento del dottor Goupil, per permettere che possa essere sentito a titolo di informazione.

G. Ho conosciuto Henry padre. L’ho anche avuto come mio segretario. L’ho curato alla fine della sua vita. Émile ha avuto una gioventù eccellente; è un giovanotto molto nervoso; l’ho già detto davanti a molti di voi, signori giurati, parlo di coloro che hanno voluto ricevermi.

Henry: Non sono pazzo.

G. Ho raccolto delle note che ho rimesso al difensore, e che indicano lo stato mentale dell’accusato.

H. Vi ringrazio; ma sono cosciente di ciò che ho fatto; non sono pazzo. I risultati che ho ottenuto in collegio, li ho conseguiti dopo il tifo. Mio padre è morto in seguito ad un avvelenamento da vapori di mercurio. Ancora una volta vi ringrazio; ma non sono un pazzo; sono responsabile dei miei atti.


Ogier d’Ivry (conte): Sono parente acquisito di Émile Henry. L’ho conosciuto giovane, ottimo allievo, sognatore, squilibrato. Aveva come patrono, come genio protettore, san Luigi; poi seguì le orme di suo padre. C’è negli uomini un sentimento di rivolta straordinario; viene dagli antichi camisardi, il padre era nella Comune. Questi saranno più anarchici dell’anarchia o più monarchici del re sotto la monarchia. Sempre all’opposizione e nella rivolta. L’avevo spinto a entrare all’École Polytechnique.


Presidente: Signori giurati, prima di far ascoltare l’ultimo testimone, tengo a domandare all’accusato e al suo difensore se non rinunciano a sentirlo.

Avvocato Hornbostel: No.

P. Tengo allora a spiegare in quali condizioni questo testimone è stato citato. Ho ricevuto da Henry la seguente lettera:

“Signor Presidente,

“Mia madre ha manifestato il desiderio di assistere al mio processo; ho cercato invano di dissuaderla. Temendo a giusta ragione che le emozioni di due giorni di udienza le riescano troppo penose, ho l’onore di pregarla, signor presidente, di rifiutare qualunque autorizzazione che potrebbe chiederle per assistervi.

“Vogliate accettare, signor presidente, i miei sinceri saluti. Émile Henry.

“25 aprile 1894. Conciergerie”.

Questa lettera mi è stata trasmessa dal difensore. Del resto, era apparsa nei giornali prima di essergli trasmessa. L’avvocato mi ha chiesto il permesso di far entrare la madre dell’accusato all’udienza. Mi sono rifiutato energicamente, dichiarando che non avrei mai permesso ad una madre di venire qui e sentire il Procuratore generale chiedere la pena capitale per suo figlio. Ho aggiunto che c’era un solo modo di farla entrare, cioè citarla come teste. Se questo testimone viene chiamato, la legge mi obbliga a sentirlo.

Henry: Ignoravo che mia madre fosse citata... Non voglio qui vedere il suo dolore.

P. È precisamente quello che avevo voluto evitarvi. Rinunciate a sentire il testimone?

H. Vi rinuncio assolutamente.

Avvocato H. Anch’io vi rinuncio.


Essendo esaurito l’elenco dei testimoni, l’udienza è sospesa alle due e mezzo; viene ripresa alle tre.

Il Procuratore generale Bulot pronuncia la sua requisitoria. Si esprime in questi termini:

Signori, questo caso, secondo i dibattimenti, non comporta né una lunga esposizione, né una lunga discussione dei fatti. Intendo esaminare molto rapidamente le accuse contro Émile Henry. Esaminare i fatti nell’ordine in cui sono stati considerati dall’accusa.

Il 12 febbraio scorso, un giovanotto percorreva con lo sguardo (e quale sguardo!) i caffè e i ristoranti; va prima sul boulevard, poi in un caffè, dove va molta gente, vicino alla gare Saint-Lazare. Là, entrava e si sedeva.

Un’orchestra suonava. Essendo poca la clientela attendeva per circa un’ora. Alle nove, il caffè era gremito soprattutto intorno all’orchestra. C’erano dei borghesi, ma ancor più degli artigiani, che vivono del prodotto del loro lavoro, abitanti del quartiere; venivano a passare la serata o ad aspettare un treno.

II giovanotto tira fuori dalla sua tasca la bomba, una piccola marmitta; avvicina il suo sigaro alla miccia, si assicura che il fuoco abbia preso, si avvicina alla porta che dà sulla strada e getta l’ordigno nella parte più gremita di gente, vicino all’orchestra. Era stato notato. I signori Emmanuel e il signor Leblanc credettero che un consumatore scostumato lanciasse un bicchiere contro il lampadario. Anche i camerieri lo avevano visto. Fugge, urta un cameriere che rientrava; e allora, per ingannare, grida: “Ah! il miserabile; dov’è?”. Ciò turba il suo orgoglio e lo nega.

Henry: Non mi turba affatto.

Presidente: Non interrompete.

Procuratore generale: Prendo solo, di quanto dice Henry, quello che è dimostrato. Non deve pensare di intimorire nessuno qui. Viene inseguito; il cameriere Tissier si ferma; prende la rue du Havre e la rue d’Isly. Coraggiosamente, inseguendolo, il signor Etienne si precipita su di lui, lo afferra e riceve un colpo di pistola in pieno petto: un bottone para il colpo. Un parrucchiere, il signor Maurice, accorre; e una pallottola lo raggiunge; cade e la caduta è ancora più grave della ferita.

L’agente Poisson arriva alla testa degli inseguitori. Riceve colpo su colpo altre tre pallottole e cade sull’accusato. Quest’ultimo viene arrestato, con l’aiuto del signor Petit, un coraggiosissimo cittadino; viene condotto al Café Terminus. Questa scena si è svolta ad una velocità inaudita. Egli ha ferito, con sei colpi di pistola, due persone. Rimpiange solo di non aver ucciso le sue vittime, e di non aver potuto adoperare il suo pugnale. Questi delitti sono gia sufficienti per comminare la pena capitale.

Al Café Terminus, la bomba era scoppiata, rompendo il pavimento, spezzando gli specchi, i tavoli, i rivestimenti e riempiendo la sala di fumo. Si sentivano le urla delle vittime. Conoscete la composizione dell’ordigno, la sua forza; ve ne è stato parlato sufficientemente. Tuttavia, ricordate che c’era nella bomba dell’acido picrico e centoventi pallottole che dovevano, secondo l’intenzione stessa dell’accusato, fare un gran numero di vittime.

Henry prima nega tutto; questo è il primo impulso di tutti i criminali. Anche lui ci tiene alla vita, lo ha detto; ha detto perché: per fare altre vittime! Altri ci tengono per venire in aiuto alla loro famiglia, ai loro figli, a una madre...

Henry: Non occupatevi di mia madre; ve lo proibisco.

Procuratore generale: Sono felice di vedere l’accusato uscire dalla sua impassibilità. Rispetto vostra madre e la compiango; ma voi non rispettate abbastanza le vittime che, anche loro, hanno una madre. Ne riparleremo; vuole salvarsi per ricominciare nuovi attentati.

Cinque testimoni lo avevano visto; non poteva negare a lungo; allora, assume quell’atteggiamento arrogante che non ha più abbandonato. In quel momento, alla villa Faucheur, veniva svaligiata una camera; si scoprì che era la camera di Henry; quanto a lui, confessò di avere a casa sua di che confezionare quindici bombe; ma la maggior parte era scomparsa.

Appena fu arrestato Émile Henry, fu interrogato sull’attentato della rue des Bons-Enfants. Per dieci giorni ha negato; questo non fermava l’istruttoria. Erano state arrestate diverse persone con le quali fu posto a confronto. Allora confessa. Fa delle rivelazioni di cui accetto solo la parte che è dimostrata, il resto non l’accetto.

Avendo meditato a lungo su quanto avrebbe detto, con un’apparente sincerità, dichiarò di essere l’autore dell’attentato della ditta delle miniere di Carmaux. Spiegò l’istallazione degli uffici della Société de Carmaux. Lo ha fatto con una precisione estrema, ha segnalato a quindici mesi di distanza che una targa sulla strada portava il nome della Compagnia e sotto le parole “nell’ammezzato”, dettaglio che gli impiegati della compagnia non avevano notato. Ha fatto inoltre uno schizzo delle scale, provando così di averle salite. Ha dichiarato di aver visitato il fabbricato, che c’erano delle modiste.

Fatte tutte queste constatazioni, ha inoltre indicato come ha fatto il suo ordigno. Sappiamo che cos’è un ordigno: la stampa ce ne ha descritti molti, ma era necessario indicare quale era esattamente l’ordigno che era servito al delitto. Era una marmitta speciale, che portava un’etichetta, un prezzo segnato; e ha indicato dove ha acquistato la marmitta, esponendo la topografia del negozio e il posto occupato dalle marmitte. I testimoni hanno confermato queste dichiarazioni.

È stato trovato il tubo destinato a servire da detonatore, o, per lo meno, un tubo identico, dalla signora Colin. Ha comprato del clorato di potassio alla ditta Fontaine. Henry sostiene di aver portato da solo l’ordigno in avenue de l’Opéra. Qui non sono d’accordo con lui, credo che non abbia potuto fabbricare da solo il suo ordigno, soprattutto per mettere le reggette. Ci volevano almeno due persone, una per mantenerlo, l’altra per mettere la reggetta. E così, sono stati in due a portarlo; ha confezionato il suo ordigno aiutato da Lambert; perché, se Lambert fosse un ragazzo onesto, si sarebbe presentato da quando si parla di lui. Per portare l’ordigno, ha trovato una “compagna” (credo si dica cosi nell’ambiente). Ammetto che ha fatto tutte le commissioni che ha detto; ma per quello che riguarda avenue de l’Opéra, non siamo più d’accordo. Era pericoloso per un uomo trasportare quell’enorme pacco. Arrivato al n. 13, davanti al negozio del signor Weber, ha messo la marmitta nella borsa della donna che attendeva alla porta, là, ha incontrato il signor Le Fraper.

Henry: Dite il nome.

Presidente: Vi avverto che posso farvi espellere dall’aula; ascoltate il Procuratore generale; ascolteremo il vostro avvocato.

Procuratore generale: Il signor Le Fraper aveva visto una donna portare l’ordigno, Henry lo sapeva e risponde “sì, ho incontrato una donna e un uomo giovane che ho salutato col cappello e che mi hanno ricambiato il saluto”, e allora tutto si spiegava. Ma il signor Le Fraper ha visto la donna, ma non il giovane che portava la marmitta. L’accusato ha voluto dimostrare troppo e non dimostra niente. Quando ha visto che era stata ricostruita la forma della marmitta e che era stato ritrovato il numero del giornale “Le Temps” che la avvolgeva, giornale conservato per cinque mesi, ha supposto che fosse prudente evitare ricerche lunghe e serie. Allora ha deciso di confessare, per salvare i suoi complici, affinché possano circolare liberamente; sono quelli che hanno preso le quindici bombe della villa Faucheur e di cui numerose sono forse già servite da allora.

La Stampa, che ha pubblicato tante lettere, credo senza il consenso di Henry, ma non senza quello del suo difensore, pubblica oggi una lettera di un compagno di Londra che parla della compagna, dei complici, e della generosità di Henry per essersi assunto tutte le responsabilità.

Con questi mezzi di difesa portati da noi, che non mi preoccupano affatto, sono state chieste delle attenuanti, da tutti i punti di vista. Si è detto del problema, occorre che io ne discuta.

Henry dichiara di non essere pazzo, ma il dottor Goupil attribuisce la debolezza del suo cervello al troppo lavoro; l’intelligenza che egli ha dimostrato da allora ne conferma il contrario. Il padre era morto per una congestione cerebrale. Ma Henry ve l’ha detto: è un caso. Aveva il tifo: “Si può morire, dicono, o rimanere idioti”. Ma da allora ha dato prove della sua intelligenza. Se avessi il minimo dubbio, non verrei mai a chiedere la pena capitale. Il dottor Goupil ne vede la traccia nella stessa atrocità del crimine, ma questo non ci potrebbe fermare, perché è l’anarchia. Abbiamo avuto anarchici gloriosi, particolarmente Ravachol; Vaillant, invece, cavillava sulle sue intenzioni; non era un glorioso.

Abbiamo avuto Willis, povero vecchio pazzo, condannato a qualche anno di galera. Abbiamo avuto Léauthier; e dopo aver letto le sue memorie, ho sentito la sua debolezza, e sono stato preso da un senso di pietà. Abbiamo avuto Gross e, in una notevole arringa, l’avvocato Saint-Auban ci diceva: “Lasciate che il pensiero umano si sviluppi, l’attentato non riflette il libro”. Qui l’attentato riflette il giornale. Il suo attentato, quello della rue des Bons-Enfants, riflette bene le indicazioni del giornale. Questo giornale indica il tempo necessario affinché il liquido attraversi il tampone; nel frattempo il compagno può procurarsi un alibi. Il giornale dichiara che occorre far saltare i borghesi nel loro palazzo, pensando che la bomba può sempre scoppiare tra le mani dei poliziotti.

Henry è la prova vivente del pericolo della propaganda con lo scritto, altrettanto pericolosa di quella del fatto.

L’uomo che ha compiuto questi fatti non è un pazzo. Li ha preparati a lungo ed eseguiti freddamente. Ora, come è diventato anarchico questo giovane borghese? Qui siamo in presenza non di Ravachol, Léauthier e altri, ma in presenza di un borghese. Suo padre era proprietario; è una nota singolare per un anarchico; era imprenditore di cave, poi ingegnere; e la sfortuna lo ha colpito facendolo ammalare. Come è stato educato l’accusato? Ai nostri tempi, ci si è molto impietositi per certi anarchici, per una ragazzina, dimenticando gli orfani che gli attentati avevano potuto fare. Ci si è impietositi anche per la sorte di Émile Henry; ha avuto una borsa di studio, si è diplomato, è stato ammesso all’École Polytechnique, era un piccolo borghese. Entrò dal signor Bordenave, a sedici anni e mezzo gli dà un posto e vuol costruirgli il suo avvenire.

Inizia con 75 franchi al mese; non potevano bastare al suo orgoglio, era insufficiente, avrebbe voluto iniziare dove gli altri finiscono.

È orgoglioso e crudele. Dopo l’affare Terminus, dichiara di chiamarsi Breton, di arrivare da Marsiglia o da Pechino, come volete. Vedete quanto è freddo e ironico. Aggiunge che rimpiange di non aver ucciso più persone e di non aver fatto uso del suo pugnale: “Ho ucciso troppa poca gente! Altri verranno dopo di me, e riusciranno meglio”. Ecco quello che dichiara. Avete visto il suo atteggiamento, ieri, in presenza delle vittime. Quando il signor van Herreweghen deponeva, mostrava la sua indifferenza di fronte a questa vittima ancora impotente che piangeva la morte del suo amico.

Dopo l’attentato della rue des Bons-Enfants di cosa ha vissuto? Dichiara di aver lavorato da un fabbro, lavorava ma senza essere pagato. L’anarchia pura non predica solo la violenza, ma anche il furto. È legato ad Ortiz, che è un ladro, e a molti altri. Si fanno ricerche, e quarantotto ore fa, lo si confronta con una persona che non è un testimone qualunque, che ha ricevuto a casa sua la visita di due individui spariti dal paese dopo aver commesso un furto abominevole da una vecchia donna, dove non hanno potuto trovare niente. Questo testimone riconosce Henry e non si sbaglia. Se non potete far conoscere le vostre fonti di sussistenza, tutti i sospetti sono permessi.

Vi devo parlare delle vittime: sono pieno di pietà per la signora Henry, e il suo lutto non comincerà col vostro verdetto; il suo lutto è iniziato il giorno del delitto: la signora Henry, vostra madre, è la vostra prima e più dolorosa vittima.

Cinque vittime sono morte in rue des Bons-Enfants; la sesta, poco tempo fa, è spirata dopo orribili sofferenze. I feriti: il signor van Herreweghen, ancora inabile; il signor Maurice, parrucchiere; queste signore atterrite che si nascondono nel loro terrore, e molti altri. Henry sghignazza davanti a queste vittime! Garin, il fattorino della Société de Carmaux, lascia una vedova incinta e due figlioletti; vive con una piccola pensione. Réaux aveva ventotto anni; lascia una vedova e una bambina. Formorin lascia una vedova e un bambino.

Troutot lascia una vedova e tre figli. Pousset lascia due figli e una vedova.

Ecco il bilancio dell’anarchia: Pousset era figlio di un ufficiale; allievo a La Flèche, era andato a Saint-Cyr, era diventato ufficiale; amava una donna senza dote, l’ha sposata e ha dovuto spezzare la sua carriera; ha fatto un poco di tutti i mestieri; ha studiato diritto, si è laureato in legge, segretario del commissario di polizia, e doveva presto diventare commissario di polizia. L’assurda bomba della rue des Bons-Enfants ha spezzato tutto ciò. Ecco quello che ha fatto. È la soluzione della questione sociale alla maniera degli anarchici.

I delitti di Henry sono delitti atroci; l’opinione pubblica ha per loro solo odio e vendetta. Stava per essere fatto a pezzi dalla folla. La giustizia è più fredda, calma; quello che la folla avrebbe fatto sotto l’impulso della collera, fatelo col sangue freddo necessario alla giustizia. Pensate che solo la pena capitale può eguagliare i suoi crimini.

In caso contrario, evaderebbe in qualunque condizione, la vita di una guardia carceraria non lo fermerebbe. Ed è la morte di molte persone che voi pronuncereste colla vostra indulgenza. La vostra debolezza sarebbe senza scuse.

Per quanto riguarda delitti ordinari, ho già richiesto la pena capitale; anche per i delitti anarchici ho dovuto già richiederla. Nel 1891 ho chiesto, in questa sala, una condanna capitale per un anarchico. I vostri predecessori si sono mostrati indulgenti; è stato condannato a cinque anni di carcere. Da quel giorno sono cominciati gli attentati anarchici. È per vendicare quest’uomo che Ravachol ha commesso i suoi crimini. Chi vuole vendicare quest’ultimo? È Vaillant; è l’attentato da Foyot; è ogni giorno un attentato nuovo. Le attenuanti costituirebbero un atto di debolezza. Vi conosco abbastanza per non temerlo.

L’udienza sospesa alle cinque meno un quarto è ripresa alle cinque e dieci minuti.

Émile Henry chiede la parola, che gli viene accordata. Si alza e voltandosi verso i signori giurati, si esprime in questi termini:

Signori giurati, [Questa versione della dichiarazione di Émile Henry a stata ripresa integralmente da: L. Galleani, Il processo di Emilio Henry, Genova 1956, Collana Anteo. La versione della “Gazette des Tribunaux” e la “Declarations d’Émile Henry”, “Documents d’histoire”, Aiglemont 1907, a cura di Fortuné Henry già discordanti tra di loro, si differenziano per alcuni passaggi da questa che abbiamo adottato].

Voi conoscete i fatti di cui sono accusato: dell’esplosione della rue des Bons-Enfants che ha ucciso cinque persone e cagionato la morte d’una sesta; dell’esplosione del Café Terminus che ha ucciso una persona e cagionato la morte di una seconda e ferito un certo numero di altre, e finalmente di sei colpi di rivoltella tirati da me contro coloro che mi inseguivano dopo quest’ultimo attentato. Il corso del processo vi ha dimostrato come io mi riconosca l’autore responsabile di questi atti. Non presento dunque la mia difesa, poiché in nessun modo io cerco di sfuggire alle rappresaglie della società che ho attaccato.

Del resto, io non riconosco che un solo tribunale, me stesso; il verdetto di ogni altro mi lascia indifferente. Io voglio semplicemente darvi la spiegazione dei miei atti e dirvi in qual modo io sono stato condotto a compierli.

Da non molto tempo io sono anarchico. Non è che verso la metà dell’anno 1891 che sono entrato nel movimento rivoluzionario. Prima io vi aveva vissuto in ambienti completamente imbevuti della morale odierna. Ero stato abituato a rispettare e anche ad amare i princìpi di patria, di famiglia, di autorità e di proprietà.

Ma gli educatori della generazione attuale, scordano troppo spesso una cosa, ed è che la vita, colle sue lotte e colle sue discussioni, colle sue ingiustizie e colle sue iniquità, s’incarica bene, l’indiscreta, di aprir gli occhi agli ignoranti, e di aprirli alla realtà. Ed è ciò che accade a me, come accade a tutti. Mi avevano detto che la vita era facile e largamente aperta alle intelligenze e alle energie, e l’esperienza mi dimostra che solo i cinici e gli arruffoni possono trovare un buon posto al banchetto della vita.

Mi avevano detto che le istituzioni sociali erano basate sulla giustizia e sull’eguaglianza, ed io non constatai invece intorno a me che menzogne e furberie. Ogni giorno che passava, mi toglieva un’illusione. Dovunque andassi, ero testimone degli stessi dolori presso gli uni, degli stessi godimenti presso gli altri; e non tardai a comprendere che le grandi parole le quali mi avevano insegnato a venerare – onore, abnegazione, dovere – non erano che un maschera buttata sulle più vergognose turpitudini.

L’usuraio [Nella “Gazette des tribunaux” e nella “Declarations d’Émile Henry” vi è usinier (industriale)] che accumula una fortuna colossale alle spese del lavoro degli operai i quali, invece, mancano di tutto, è un signore onesto. Il deputato, il ministro, le cui mani sono sempre aperte alle offerte di corruzione, sono gente devota al bene pubblico. L’ufficiale che esperimenta il futile nuovo modello su dei fanciulli di sette anni compie il suo dovere, e in pieno Parlamento, riceve le felicitazioni del Presidente del Consiglio.

Tutto questo che vidi mi nauseò, e il mio spirito si diede a criticare l’organizzazione sociale. Questa critica è stata fatta troppo spesso perché io la ricominci. Mi basterà dire che divenni il nemico di una società che giudicai criminale.

Attirato per un momento dal socialismo non tardai ad allontanarmi da questo partito. Avevo troppo amore per la libertà, troppo rispetto per l’iniziativa individuale, troppa ripugnanza per l’irreggimentazione per diventare un numero nell’esercito matricolato del Quarto Stato. Del resto, mi avvidi che in fondo il socialismo non cambia nulla all’ordine attuale. Esso mantiene il principio autoritario, e questo principio, malgrado ciò che ne possano dire taluni pretesi liberi pensatori, non è che un vecchio residuo della fede in una potenza superiore.

Degli studi scientifici mi avevano gradualmente iniziato al gioco delle forze naturali. Ora, io era materialista e ateo; avevo compreso che l’ipotesi Dio era scartata dalla scienza moderna, la quale non ne aveva più bisogno. La morale religiosa e autoritaria basata sul falso, doveva dunque sparire. Qual era allora la nuova morale in armonia con le leggi della natura che doveva rigenerare il vecchio mondo e creare l’umanità felice?

Fu a tal momento che entrai in relazione con alcuni compagni anarchici, i quali io considero ancora oggi come i migliori che abbia mai conosciuto. Il carattere di questi uomini mi sedusse di primo tratto. Apprezzai in loro una grande sincerità, un’assoluta franchezza, un disprezzo profondo di tutti i pregiudizi, e io volli conoscere l’idea che rendeva questi uomini così differenti da tutti coloro che avevo visto sino allora.

Questa idea trovò nel mio spirito un terreno reso adattissimo a riceverla da osservazioni e riflessioni personali. Essa non fece che precisare ciò che era in me di vago e indeciso. Divenni a mia volta anarchico.

Non mi spetta sviluppare qui la dottrina dell’Anarchia. Solo voglio accennare al suo lato rivoluzionario, al suo lato distruttore e negativo per il quale io compaio innanzi a voi. In questo momento di lotta acuta tra la borghesia e i suoi nemici, io sono quasi tentato di dire col Souvarine del Germinal: “Tutti i ragionamenti sull’avvenire sono delittuosi, perché impediscono la distruzione pura e semplice e ostacolano il cammino della rivoluzione”.

Dacché un’idea è matura e ha trovato una formula, bisogna senza più tardare cercarne la realizzazione. Io ero convinto che l’organizzazione attuale è cattiva e ho voluto lottare contro di essa per affrettarne la sparizione. Io ho portato nella lotta un odio profondo, ogni giorno ravvivato dallo spettacolo nauseante di questa società in cui tutto è basso, [tutto è losco, tutto è brutto – unicamente nella versione di L. Galleani], in cui tutto è di ostacolo all’espansione delle passioni umane, alle tendenze generose del cuore, al libero slancio del pensiero. Io ho voluto colpire tanto fortemente e tanto giustamente quanto ho potuto.

Passiamo dunque al primo attentato che ho commesso, all’esplosione della rue des Bons-Enfants.

Avevo seguito con attenzione gli avvenimenti di Carmaux. Le prime notizie dello sciopero mi avevano colmato di gioia: i minatori parevano disposti a rinunciare finalmente agli scioperi pacifici e inutili, nei quali il lavoratore attende pazientemente che i suoi pochi soldi trionfino dei milioni delle compagnie. Essi parevano entrati in una via di violenza che si affermò risolutamente il 15 agosto 1892. Gli uffici e gli edifici della miniera furono invasi da una folla stanca di soffrire senza vendicarsi: giustizia stava per essere fatta dell’ingegnere così odiato dagli operai, quando le solite persone s’interposero.

Chi erano costoro? Gli stessi che fanno abortire tutti i movimenti rivoluzionari, perché temono che, una volta slanciato, il popolo non obbedisca più alla loro voce; gli stessi che spingono migliaia di uomini a soffrire privazioni per mesi interi, allo scopo di crearsi una popolarità alle spese delle loro sofferenze e così ottenere una candidatura – voglio dire i capi socialisti [voglio dire i... non appare nella “Déclarations d’Émile Henry”]. Questi uomini infatti presero la direzione del movimento.

Si vide d’un tratto precipitarsi sul paese una nuvolaglia di signori, bravi chiacchieroni, i quali si misero a disposizione intera dello sciopero, organizzarono sottoscrizioni, fecero conferenze, rivolsero per ogni parte appelli di fondi. I minatori abdicarono ogni loro iniziativa nelle loro mani. Ciò che accadde lo si sa.

Lo sciopero si prolungò eternamente, i minatori fecero una più intima conoscenza con la fame, loro abituale compagna; esaurirono il piccolo fondo di riserva del loro sindacato e quello delle corporazioni che vennero loro in aiuto; poi, in capo a due mesi, con le orecchie basse, tornarono alla loro galera più miserabili di prima. E pur sarebbe stato così semplice, dal principio, attaccare la Compagnia nel suo solo lato sensibile, nel denaro; bruciare il deposito del carbone, spezzare le macchine di estrazione, demolire le pompe di prosciugamento. Certo, la Compagnia avrebbe capitolato rapidamente.

Ma i grandi pontefici del socialismo non ammettono questi sistemi che sono sistemi anarchici. A questo gioco si rischia la prigione e, chi sa? forse una di quelle palle che fecero meraviglie a Fourmies. Né c’è da guadagnare alcun mandato legislativo.

In breve, l’ordine per un istante turbato regnò di nuovo a Carmaux. La Compagnia continuò più potente che mai il suo sfruttamento e i signori azionisti si felicitarono del risultato dello sciopero. Via, i dividendi sarebbero ancora buoni da riscuotere.

Fu allora che mi decisi a mescolare a questo concerto di accenti felici, una voce che i borghesi avevano già intesa, ma che essi credevano morta con Ravachol: la voce della dinamite.

Ho voluto dimostrare alla borghesia che ormai non vi sarebbero più per essa gioie complete, che i suoi trionfi insolenti sarebbero turbati, che il vitello d’oro tremerebbe sulla sua base, sino alla scossa definitiva che lo getterà giù nel sangue.

Nello stesso tempo ho voluto far comprendere ai minatori come non vi sia che una sola categoria di uomini, gli anarchici, i quali sentono sinceramente le loro sofferenze e sono pronti a vendicarle. Questi uomini non siedono al Parlamento come i signori Guesde e compagnia, ma vanno alla ghigliottina.

Preparai dunque la mia bomba. Per un momento mi ritornò alla mente l’accusa che era stata lanciata a Ravachol. E le vittime innocenti? Ma io risolsi presto la questione. La casa in cui si trovano gli uffici della compagnia di Carmaux non era abitata che da borghesi; non vi sarebbero state dunque vittime innocenti. La borghesia tutta quanta vive dello sfruttamento dei disgraziati; essa deve tutta quanta espiare i suoi delitti.

Con questa certezza assoluta della legittimità del mio atto, io deposi la mia bomba innanzi alle porte dell’ufficio della Società.

Nel corso del dibattimento ho spiegato in qual modo io sperassi, nel caso che la mia macchina fosse stata scoperta, che essa scoppiasse all’ufficio di polizia, colpendo sempre così i miei nemici. Ecco dunque i moventi che mi hanno fatto commettere il primo attentato che mi si rimprovera.

Passiamo al secondo, quello del Café Terminus. Io ero venuto a Parigi all’epoca dell’attentato di Vaillant. Avevo assistito alla repressione formidabile che succedette a quell’attentato. Fui testimone delle misure draconiane adottate dal governo contro gli anarchici. Da tutte le parti si esercitava lo spionaggio, si facevano perquisizioni e arresti. In quelle razzie operate a casaccio una quantità di individui erano arrestati e gettati in prigione. Che avveniva delle mogli e dei figli di questi compagni durante il loro incarceramento? Nessuno se ne preoccupava. L’anarchico non era più un uomo, era una bestia feroce cacciata da tutte le parti e di cui la stampa borghese, questa vile schiava della forza, domandava su tutti i toni lo sterminio.

Nello stesso tempo, i giornali e gli opuscoli libertari venivano sequestrati, il diritto di riunione proibito. Peggio ancora: quando la polizia voleva sbarazzarsi di un compagno, una spia deponeva una qualche sera nella camera di lui un pacco contenente tannino, cosi egli diceva; il giorno seguente aveva luogo una perquisizione, in forza di un ordine datato due giorni prima, e si trovava invece una scatola riempita di polvere sospetta. Così il compagno veniva processato e gli si affibbiavano tre anni di galera. Chiedete se ciò non è vero al miserabile denunciatore che si introdusse presso il compagno Mérigeaut [Joseph Mérigeaut, condannato nel 1894 per detenzione di materie esplosive. Per un periodo era stato sospettato di aver partecipato all’attentato della rue des Bons-Enfants].

E, come coronamento a questa crociata, non fu udito il signor Raynal, ministro dell’interno, dichiarare alla Camera che le misure prese dal governo avevano ottenuto un buon risultato, in quanto avevano gettato il terrore nel campo anarchico? Ma non se ne aveva ancora abbastanza. Si era condannato a morte un uomo che non aveva ucciso nessuno. Bisognava dar prova di coraggio sino all’ultimo: un bel mattino lo ghigliottinarono.

Ma, signori borghesi, voi avevate un poco troppo contato senza il vostro ospite. Voi avevate arrestato centinaia d’individui, avevate violato numerosi domicili; ma eranvi ancora degli uomini da voi ignorati, rimasti nell’ombra, che assistevano alla vostra caccia all’anarchico e che non aspettavano che il momento favorevole per dare a loro volta la caccia ai cacciatori.

Le parole del signor Raynal erano una sfida gettata agli anarchici; il guanto fu raccolto. La bomba al Café Terminus è la risposta a tutte le vostre violazioni della libertà, a tutti i vostri arresti e perquisizioni in massa contro gli stranieri, alle vostre condanne, alla vostra ghigliottina.

Ma perché, direte voi, prendersela con pacifici consumatori che stanno ad ascoltar la musica e che, forse, non sono né magistrati né deputati né funzionari?

Perché? La cosa è semplice. La borghesia non ha fatto che un mucchio degli anarchici. Un uomo solo, Vaillant, aveva lanciato una bomba; i nove decimi dei compagni non lo conoscevano neppure. Ma ciò non valse a nulla. Le persecuzioni infierirono in massa. Fu data la caccia a tutti coloro che avevano relazione con anarchici. Ebbene, giacché voi rendete così un partito [Questa parola, usata all’epoca, assumeva un significato simile a movimento. Non stava ad indicare l’organizzazione politica strutturata in modo gerarchico, che invece l’attuale termine partito indica (ndr).] tutto quanto responsabile degli atti di un sol uomo e colpito in massa, anche noi colpiamo in massa!

Dobbiamo noi prendercela soltanto coi deputati che fanno le leggi ai nostri danni, coi magistrati che le applicano, coi poliziotti che ci arrestano? Io non lo credo.

Tutti questi uomini non sono che strumenti i quali non agiscono in loro proprio nome, essendo state le loro funzioni istituite dalla borghesia in sua difesa; essi non sono dunque più colpevoli degli altri. I buoni borghesi i quali, senza pur essere rivestiti di nessuna funzione, riscuotono le rendite dei loro titoli, i buoni borghesi che vivono oziosi dei benefici del lavoro degli operai, debbono avere anch’essi la loro parte di rappresaglie. E non soltanto essi, ma tutti coloro che sono soddisfatti dell’ordine attuale, coloro che applaudono agli atti del governo e si fanno suoi complici, questi impiegati da 300 a 500 franchi al mese che odiano il popolo più ancora dei grossi borghesi, questa massa stupida e pretenziosa che si schiera sempre dal lato del più forte, e forma la clientela abituale del Café Terminus e degli altri grandi caffè.

Ecco perché io ho colpito nel mucchio senza scegliere le mie vittime.

Bisogna che la borghesia comprenda che coloro i quali hanno sofferto sono finalmente stanchi delle loro sofferenze, e mostrano i denti e colpiscono tanto più brutalmente quanto maggiore brutalità si è usata con loro. Essi non hanno alcun rispetto della vita umana, perché i borghesi stessi non se ne occupano. Non spetta agli assassini della Settimana Sanguinosa e di Fourmies di trattare gli altri da assassini.

Se i ribelli non risparmiano né le donne né i fanciulli borghesi, è perché neppure vengono risparmiate le donne e i fanciulli di coloro che essi amano. Non sono forse vittime innocenti quei fanciulli che, nei sobborghi, muoiono lentamente di anemia, perché il pane è scarso in casa; quelle donne che nei vostri laboratori impallidiscono e sfioriscono per guadagnare quaranta soldi al giorno, felici pur anco quando la miseria non le costringe a prostituirsi; quei vecchi di cui avete fatto macchine da produzione per tutta la vita e che gettate sul lastrico e all’ospedale quando le loro forze sono esaurite? Abbiate almeno il coraggio dei vostri delitti, o signori borghesi, e convenite che le nostre rappresaglie sono grandemente legittime.

Certo, non m’illudo. Io so che i miei atti non saranno ancora ben compresi dalle folle insufficientemente preparate. Anche fra gli operai, per i quali ho lottato, molti, traviati dai vostri giornali, mi credono loro nemico. Ma questo poco importa. Io non mi preoccupo del giudizio di nessuno. Non ignoro nemmeno che vi sono individui sedicenti anarchici, i quali si affrettano a rinnegare ogni solidarietà coi propagandisti del fatto.

Essi tentano di stabilire una distinzione sottile fra teorici e terroristi. Troppo vili per rischiare la loro vita, rinnegano coloro che agiscono; ma l’influenza che essi pretendono di avere sul movimento rivoluzionario è nulla. Oggi il campo appartiene all’azione, senza piegare né indietreggiare.

Alexander Herzen, il rivoluzionario, ha detto: “O l’una cosa o l’altra: o levarsi a giustiziere e camminare innanzi, o far grazia e vacillare a mezza strada”.

Noi non vogliamo far grazia né vacillare, e procederemo sempre innanzi finché la rivoluzione, scopo degli sforzi nostri, venga finalmente a coronare l’opera nostra, rendendo il mondo libero.

In questa guerra senza pietà che abbiamo dichiarata alla borghesia, noi non domandiamo alcuna pietà. Noi diamo la morte, noi sapremo subirla. Così attendo con indifferenza il vostro verdetto.

So che la mia testa non sarà l’ultima che mozzerete; altre ne cadranno ancora, perché i morti di fame cominciano a conoscere la strada dei vostri caffè e dei vostri grandi ristoranti Terminus e Foyot. Altri nomi voi aggiungerete alla lista dei nostri morti. Voi avete impiccato a Chicago, decapitato in Germania, garrotato a Xeres, fucilato a Barcellona, ghigliottinato a Montbrison e a Parigi, ma ciò che non potrete mai distruggere è l’Anarchia. Le sue radici sono troppo profonde; essa è nata nel seno stesso di una società putrida che si sfascia; essa è una reazione violenta contro l’ordine stabilito. Essa rappresenta le aspirazioni egualitarie e libertarie che battono in breccia l’autorità odierna; essa è dappertutto e ciò che la rende inafferrabile finirà coll’uccidervi.

Ecco, o signori giurati, ciò che dovevo dirvi. Ascolterete ora il mio avvocato. Siccome le vostre leggi impongono un difensore, la mia famiglia ha scelto il signor Hornbostel.

Ma, qualunque cosa egli possa dirvi, non modifica in nulla ciò che io ho detto. Le mie dichiarazioni sono 1’espressione esatta del mio pensiero. Ad esse mi attengo integralmente.


Dopo questa dichiarazione, l’avvocato Hornbostel presenta la difesa dell’accusato:

Non è senza una certa emozione che sono in questa sede, nuova per me, per presentare la difesa del mio giovane e sventurato cliente.

Esponendovi come sia arrivato all’anarchismo, egli ha svolto metà del mio compito. Mi ha permesso di evitare fastidiose apologie non condividendo altro che la sua compassione per certe miserie.

Oggi l’emozione è passata, l’eccitazione è spenta e questi dibattimenti si svolgono in mezzo all’apatia generale. Oggi si manifesta per lui un sentimento di misericordia; uno dei suoi carcerieri, sottoposto all’attrazione ch’egli esercita intorno a sé, si è fatto destituire per la sua indulgenza.

Avete sentito le deposizioni di questi testimoni, di queste persone onorate. Ed io, che cosa sono qui, se non un altro testimone che la legge gli impone?

Non possiamo renderci conto qui del suo delitto; lui che va così, in un luogo sconosciuto per colpire degli sconosciuti.

Non è un volgare ambizioso: ha creduto di essere predestinato, di essere il propagatore di una idea che doveva presto germinare e svilupparsi. Vi è stato incitato dagli atti del padre, non si segue forse sempre la carriera del proprio padre? Io, figlio di avvocato, mi sono dato all’avvocatura; figlio di insorto, è diventato un ribelle. Suo padre, massone militante al momento della guerra del 1870, ha fatto di tutto per evitare spargimenti di sangue e mettere in opera uno dei più bei princìpi della massoneria. Vi ricorderete di questi fatti quando dovrete deliberare la sentenza. Non credete che i sentimenti del padre possano passare nell’animo del figlio? Henry è stato concepito durante quelle orribili notti della Comune, in mezzo al sangue della lotta, delle esplosioni, mentre il padre stesso partecipava ardentemente a questa insurrezione. Questo è il segreto del suo stato d’animo, l’unica causa del suo delitto.

Chi ci dice che l’anarchia non è l’aurora di qualche nuova religione? Il giudaismo, l’islamismo sono stati fondati così. Sono i precursori di Émile Henry: l’anarchia si fonderà sul sangue degli anarchici, non su quello di coloro che essi faranno versare; come quello del maresciallo Ney e di Baudin che fecero sorgere nuove ere.

Avete visto i pellegrinaggi sulla tomba di Vaillant; che cosa si farà per Henry, di quale aureola sarà circondata la sua fronte e di quale culto sarà avvolta la sua memoria? Forse i suoi compagni della Scuola Say andranno ad inchinarsi devotamente sulla sua tomba e i passanti si chiederanno quale Dio viene così onorato!

Volete fare questo nuovo martire, dare all’anarchia questa nuova forza?

Henry disprezza, come me, coloro che vendono le proprie idee; disprezza coloro che sognano l’opposizione al governo; opposizione simile a quella tanto poco fruttuosa che fu fatta sotto l’Impero. Si dà interamente e senza ripensamenti alla difesa delle sua idee.

La borghesia si è commossa ed è pietà ciò che oggi tutti sentiamo per questo giovane sognatore. Il procuratore generale vi chiede di salvare la società; essa ha i suoi difensori naturali: le corti marziali. Voi, siete dei giurati incaricati di giudicare secondo la vostra coscienza. Si istituiscano corti marziali ma non si venga a sottomettere a pacifici cittadini dei delitti di questa natura e vecchi di tre mesi!

Potete condannare Henry alla pena di morte come un Anastay, un Pranzini, un Prado? Henry non è né un Prado, né un Gamahut [L’avvocato Hornbostel evoca qui degli “affari criminali” dell’epoca: François Louis Anastay, ufficiale condannato a morte nel 1892 per l’assassinio, il 4 dicembre 1891, della baronessa Dellard; Henri Pranzini, condannato a morte nel 1887 per un triplice omicidio commesso nello stesso anno, ecc.]; il suo atto differisce dal crimine, come un delitto di stampa differisce dal furto. Qui si tratta di un ragazzo onesto che è stato spinto solo dalla passione politica. Farete questa differenza. Durante le poche ore in cui è stato innanzi a voi, avete potuto giudicare Henry solo in modo imperfetto. È una intelligenza giovane e brillante; piena di illusioni.

Questa è la prima di tutte le attenuanti.

Voi conoscete la sua famiglia, sua madre, i suoi parenti. Debbo parlarvi di sua madre? Quando si ha una madre e ci si lascia difendere per poterla abbracciare ancora una volta, non c’è rigore che possa resistere!

È un ribelle, non un criminale incallito. Nessuno dei sui conoscenti più intimi si è vergognato di lui o dei suoi atti. Sarebbero arrossiti se avesse compiuto un furto.

Henry era un asceta e viveva di pane e acqua; l’atto che ha compiuto era completamente disinteressato. È il Gavroche che sale sulle barricate per ridere degli assalitori. Qual era l’interesse di Henry? Nessuno: non poteva credere all’esito immediato dell’anarchia e non poteva sperare niente da un prossimo successo. Questo atto si allinea tra i delitti passionali, e mai avete visto ergersi il patibolo per tali delitti. Il fanatismo, ecco la sua passione! Non voglio fare qui il processo al fanatismo. È stato il fanatismo a prenderlo come una piovra, come un virus rabico e lo ha preso interamente. Henry, che amava il popolo, odiava la folla, questa caricatura del popolo; ed è ciò che lo ha guidato al Café Terminus.

Il fanatismo ha guidato Émile Henry; è il vandeano che si nasconde per uccidere il soldato del re. È il bersagliere che colpisce il nemico.

Henry poteva essere solo un criminale politico o un pazzo; merita la pietà, come un bambino trascinato in questo terribile ingranaggio del fanatismo politico.

Vi è stata una quantità di crimini politici i cui autori sono oggi liberi; ciò che crea il delitto politico è l’antagonismo politico e la sconfitta. Quanti uomini, un tempo ribelli, membri della Comune, sono oggi nelle cariche più elevate! Henry ha seguito un’idea politica che presenta una certa grandezza, gente come lui vi si dedica fino alla morte.

Se Henry è innocente per il delitto della rue des Bons-Enfants, se confessa un delitto di cui è innocente, per discolpare gli altri, questo dà un esempio della virtù di cui i più grandi non possono che contestarne l’elevazione. Non vorrete che una condanna capitale venga a dare all’anarchia una nuova rinascita. Essa si spegne, scompare, si incomincia a riderne, viene presa in giro; non fatela rivivere facendo un martire. Non si colpisce il colpevole con la pena capitale alla sua prima infrazione ai regolamenti sociali. Non si ghigliottina un ragazzo che ha una madre e che ha compiuto un atto fatale. Pensate che concedendo le attenuanti a Henry, colpite forse mortalmente l’anarchia.

L’udienza, sospesa alle sei e trentacinque, viene ripresa alle sette e mezzo.

La giuria si accorda per un verdetto affermativo su tutte le questioni e muto sulle attenuanti.

Su domanda del Presidente, se non abbia qualcosa da aggiungere in sua difesa, Henry risponde di no: “Accetto, aggiunge, la condanna qualunque essa sia”.

La Corte condanna Henry alla pena di morte.

Uscendo, Henry grida: “Compagni, coraggio! Viva 1’anarchia!”.

L’udienza è tolta alle otto meno un quarto.

Poco dopo, quando la folla si fu dispersa e il Palazzo rimase vuoto, tre donne vestite a lutto uscivano dalla porta della Place Dauphine: una di loro singhiozzando, avanzava faticosamente appoggiata alle altre due. Era la madre di Émile Henry.


(Vedi la “Gazette des Tribunaux” 28 e 29 aprile 1894)

Aforismi

Una volta, il chiostro si apriva per le anime stanche o disgustate dagli spettacoli del mondo, oggi noi non abbiamo altro rifugio che negli ospedali e nelle carceri.

Cosa vogliono gli anarchici? L’autonomia dell’individuo, lo sviluppo della sua libera iniziativa che, soli, potranno assicurargli tutta la felicità possibile. Se l’anarchico ammette il comunismo come concezione sociale, è per semplice deduzione, perché comprende che è solo nella felicità di tutti, liberi e autonomi come lui, che troverà la sua stessa felicità.

Quando un uomo, nella società attuale, diventa un ribelle cosciente della propria azione – e tale era Ravachol – è perché ha fatto nel suo cervello un lavoro di analisi doloroso le cui conclusioni sono imperative e non possono essere eluse se non per vigliaccheria. Lui solo tiene la bilancia, lui solo è giudice della ragione o del torto di odiare e di essere selvaggio, “persino feroce”.

Ritengo che gli atti di brutale rivolta siano giusti, perché svegliano la massa, la scuotono come una violenta frustata e le mostrano il lato vulnerabile della Borghesia ancora tutta tremante al momento in cui il Ribelle sale al patibolo.

Ognuno di noi ha una fisionomia e delle attitudini speciali che lo differenziano dai suoi compagni di lotta. Così, non siamo stupiti dal vedere i rivoluzionari tanto divisi nella direzione dei lori sforzi. Ci si domanda quale sia la buona tattica: essa è ovunque proporzionale alla somma di energia che si apporta all’azione. Ma non riconosciamo a nessuno il diritto di dire: “Solo la nostra propaganda è quella buona; fuori di essa non v’è salvezza”. È un vecchio residuo di autoritarismo nato dalla vera o falsa ragione che i libertari non devono tollerare.

Fa’ ciò che credi sia meglio e fallo con amore.

A coloro che dicono: “L’odio non genera l’amore”, rispondete che è l’amore, vivo, che spesso genera l’odio.

L’odio che non poggia su una bassa invidia, ma su un sentimento generoso, è una passione sana e potentemente vitale.

Più amiamo il nostro sogno di libertà, di forza e di bellezza, più dobbiamo odiare ciò che si oppone al suo avvenire.

Nella storia del progresso umano c’è un solo partito, è il partito del movimento.

I socialisti non vogliono capire che la libertà dell’individuo è necessaria alla vera libertà del popolo.

Nella dedica del suo libro, Dall’altra sponda, Alexandre Herzen precisa un atteggiamento veramente rivoluzionario ed efficace quando dice: “Noi non costruiamo, noi demoliamo; noi non annunciamo affatto delle nuove rivelazioni, noi sopprimiamo la vecchia menzogna”. Questo libro di Herzen è pieno di sprazzi e di rivelazioni, ma non vi mancano nemmeno le osservazioni mordaci: è un buon libro per il carcere; e lontano dalla strada mi piace prenderlo come un’eco: “I Francesi non possono liberarsi dall’idea dell’organizzazione monarchica; hanno la passione della polizia e dell’autorità; ogni francese è nel suo animo un commissario di polizia; egli ama l’allineamento e la disciplina; tutto ciò che è indipendente, individuale, lo irrita; comprende l’uguaglianza solamente come livellamento e si sottomette volentieri all’arbitrio della polizia purché tutti vi si sottomettano. Mettete un gallone sul cappello di un francese ed egli diventa un oppressore, comincia ad opprimere chiunque non porti quel grado; egli esige il rispetto nei confronti dell’autorità.”

Vi è un diritto che prevale su tutti gli altri, è il diritto all’insurrezione.

L’uomo libero è colui agli occhi del quale i filosofi sono superstiziosi, e i rivoluzionari conservatori.

I liberali sono in politica della stessa odiosa razza dei protestanti.

La società moderna è come una vecchia nave che affonderà nella tempesta per non aver voluto sbarazzarsi del suo carico accumulato durante il viaggio nel corso dei secoli; vi sono delle cose preziose, ma che pesano troppo.

Tutti i partiti politici sono logori, ecco perché noi appariamo.

L’operaio che si ubriaca almeno una volta a settimana non fa cosa diversa da chi cerca illusioni. Se io fossi un filosofo scriverei qualcosa sulla necessità di ubriacarsi per addormentare la volontà che ci fa soffrire.

Quanti esseri hanno attraversato la vita senza mai svegliarsi! E quanti altri si sono accorti che stavano vivendo solo per il monotono tic-tac degli orologi!

Tra la beatitudine dell’incoscienza e l’infelicità di sapere, io ho scelto.

Finora i popoli hanno inteso la fratellanza solo come hanno fatto Caino ed Abele.

Che dire di quei rivoluzionari che sono solo dei vili ragionatori e che riflettono quando invece bisogna colpire? La sfera delle idee generali ha rimpiazzato in loro il mondo della contemplazione.

C’è un’asserzione di Proudhon che, al suo tempo, è stata ritenuta immorale e che oggi sarebbe criminale. Vale a dire che la Repubblica è fatta per gli uomini e non gli individui per la Repubblica.

L’uomo ha bisogno talvolta di credere alla potenza della propria volontà; è allora che entra nella lotta.

Tra gli economi di se stessi e i prodighi di se stessi, credo che i prodighi siano i migliori calcolatori.

Più amiamo la libertà e l’uguaglianza, più dobbiamo odiare quanto si oppone alla libertà e all’uguaglianza degli uomini. Così, senza perderci nel misticismo, poniamo il problema sul terreno della realtà, e diciamo: È vero che gli uomini sono solo il prodotto delle istituzioni; ma queste istituzioni sono cose astratte che esistono solo in quanto vi sono uomini in carne ed ossa per rappresentarle. C’è quindi un solo mezzo per colpire le istituzioni: colpire gli uomini.

Una volontà che si spinge fino al suicidio può generare atti di dedizione definitivi e senza speranza.

Uno dei primi insegnamenti dell’anarchia è questo: “Sviluppa la tua vita in tutte le direzioni, opponi alla ricchezza fittizia dei capitalisti, la ricchezza reale degli individui possessori di intelligenza ed energia”.

Amo tutti gli uomini nella loro umanità e per quello che dovrebbero essere, ma li disprezzo per quello che sono.

Inoltre, ho ben il diritto di uscire dal teatro quando la recita mi diventa odiosa, ed anche di sbattere la porta uscendo, pur col rischio di turbare la tranquillità di quelli che ne sono soddisfatti.

Grande Roquette, maggio 1894


[Questi “aforismi postumi” sono stati pubblicati la prima volta col titolo di “Pensées” su “Le Libertarie” n. 28, 23-29 maggio 1896. Sono poi apparsi nel n. 7 dei “Documents d’histoire” (febbraio 1907) che Fortuné Henry pubblicava a Aiglemont (Ardenne)]

Appendice. Errico Malatesta: “Un po’ di teoria”

La rivolta minaccia ovunque; qui è l’espressione di un’idea, là il risultato di un bisogno; più spesso, la conseguenza dell’intrecciarsi dei bisogni e delle idee che si generano e si rafforzano reciprocamente. Essa attacca le cause del male o colpisce di fianco, è cosciente o istintiva, umana o brutale, generosa o strettamente egoista, ma cresce e si estende sempre più.

È la storia che cammina; inutile attardarsi per lamentarsi delle vie che sceglie, poiché queste vie sono state tracciate da tutta l’evoluzione anteriore.

Ma la storia è fatta dagli uomini; e poiché noi non vogliamo rimanere spettatori indifferenti e passivi della tragedia storica, poiché vogliamo concorrere con tutte le nostre forze a determinare gli avvenimenti che ci sembrano più favorevoli alla nostra causa, ci occorre un criterio per guidarci nella valutazione dei fatti che si producono, e soprattutto per scegliere il posto che vogliamo occupare nella lotta.

Il fine giustifica i mezzi. Si è molto sparlato di questa massima. In realtà, essa è la guida universale del comportamento.

Si potrebbe dire meglio: ogni fine comporta il suo mezzo. La morale occorre cercarla nello scopo; il mezzo è fatale.

Dato lo scopo che ci si prefigge, per volontà o per necessità, il grande problema della vita è trovare il mezzo che, secondo le circostanze, conduce il più sicuramente e con il minimo spreco di energie possibile allo scopo desiderato. Dal modo in cui si risolve questo problema dipende, per quanto ciò possa dipendere dalla volontà umana, il raggiungimento, per un uomo o un partito, del suo scopo, utile alla sua causa e che non serva, senza volerlo, la causa nemica. Aver trovato il mezzo buono: ecco il segreto dei grandi uomini e dei grandi partiti, che hanno lasciato le loro tracce nella storia.

Lo scopo dei gesuiti è, per quelli mistici, la gloria di Dio; per gli altri, la potenza della compagnia. Essi devono quindi cercare di rimbecillire le masse, di terrorizzarle, di sottometterle.

Lo scopo dei giacobini e di tutti i partiti autoritari, i quali credono di essere in possesso della verità assoluta, è di imporre le loro idee alla massa dei profani. Essi devono per questo tentare di impadronirsi del potere, di assoggettare le masse e fissare l’umanità sul letto di Procuste delle loro concezioni.

Per quanto ci riguarda, vogliamo un’altra cosa: ben diverso è il nostro scopo, quindi ben diversi debbono essere i nostri mezzi.

Noi non lottiamo per prendere il posto degli sfruttatori e degli oppressori di oggi, e non lottiamo nemmeno per il trionfo di un’astrazione. Noi non siamo come quel patriota italiano che diceva: “Che importa se tutti gli Italiani muoiono di fame, purché l’Italia sia grande e gloriosa!”. E nemmeno, come quel compagno che confessava che gli sarebbe indifferente massacrare i tre quarti degli uomini, purché l’Umanità fosse libera e felice.

Noi vogliamo la felicità degli uomini, di tutti gli uomini, senza eccezione. Noi vogliamo che ogni essere umano possa svilupparsi e vivere nel modo più felice possibile. E noi crediamo che questa libertà e questa felicità non possono essere date agli uomini da un uomo o da un partito, ma che tutti gli uomini devono scoprirne da sé le condizioni e conquistarle. Noi crediamo che solo l’applicazione più completa del principio di solidarietà può distruggere la lotta, l’oppressione e lo sfruttamento; che la solidarietà non può essere che il risultato del libero accordo, l’armonizzazione spontanea e voluta degli interessi.

Per noi, tutto ciò che tenta di distruggere l’oppressione economica e politica; tutto ciò che serve ad elevare il livello morale ed intellettuale degli uomini, a dar loro la coscienza dei loro diritti e delle loro forze e a persuaderli a prendere le loro cose in mano essi stessi; tutto ciò che provoca l’odio contro l’oppressione e l’amore fra gli uomini, ci avvicina al nostro scopo e quindi è bene: soggetto solamente ad un calcolo quantitativo per ottenere con un dato sforzo il massimo risultato utile. Ed è al contrario male, perché in contraddizione con lo scopo, tutto quanto tende a conservare lo stato attuale, tutto quanto tende a sacrificare un uomo, contro la sua volontà, al trionfo di un principio.

Noi vogliamo il trionfo della libertà e dell’amore.

Ma rinunciamo per questo all’impiego di mezzi violenti? Niente affatto. I nostri mezzi sono quelli che le circostanze ci permettono e ci impongono.

Certo non vorremmo strappare un capello a nessuno; noi vorremmo asciugare tutte le lacrime e non farne versare alcuna. Ma è pur necessario lottare in questo mondo per non rimanere sterili sognatori.

Verrà il giorno, e noi lo crediamo fermamente, in cui sarà possibile fare il bene degli uomini senza far del male né a se stessi né agli altri. Oggi questo non è possibile. Anche il più puro ed il più dolce dei martiri, colui che si farebbe trascinare al patibolo per il trionfo del bene, senza resistenza, benedicendo i suoi persecutori come il Cristo della leggenda, costui ancora farebbe molto male. Oltre al male che farebbe a se stesso, che pure è importante, farebbe spandere lacrime amare a tutti coloro che lo amano.

Si tratta dunque, sempre, in tutti gli atti della vita, di scegliere il minor male, di cercare di fare il meno male per la più grande somma di bene possibile.

L’umanità si trascina stentatamente sotto il peso dell’oppressione politica ed economica; è abbruttita, degradata, uccisa (e non sempre lentamente) dalla miseria, dalla schiavitù, dall’ignoranza e dalle loro conseguenze.

Per la difesa di questo stato di cose esistono potenti organizzazioni militari e poliziesche, che rispondono con la galera, il patibolo, il massacro ad ogni serio tentativo di cambiamento. Non ci sono mezzi pacifici, legali, per uscire da questa situazione; ed è naturale, poiché la legge è fatta appositamente dai privilegiati per difendere i privilegi. Contro la forza fisica che ci sbarra il cammino, c’è solo l’appello alla forza fisica, solo la rivoluzione violenta.

Evidentemente la rivoluzione produrrà tanta infelicità e tante sofferenze; ma se ne producesse cento volte di più, sarebbe ancora una benedizione in confronto a quanto si patisce oggi.

Si sa che in una sola grande battaglia si uccide più gente che nella più sanguinosa delle rivoluzioni; si sa che milioni di bambini in tenera età muoiono ogni anno per mancanza di cure; si sa che milioni di proletari muoiono prematuramente del male della miseria; si conosce la vita stentata, senza gioia e senza speranza, che l’immensa maggioranza degli uomini conduce; si sa che anche i più ricchi e i più potenti sono molto meno felici di quel che potrebbero essere in una società di eguali; e si sa che questo stato di cose dura da un tempo immemorabile, durerebbe per un tempo indefinito senza la rivoluzione – ma una sola rivoluzione, che attaccasse risolutamente le cause del male, potrebbe mettere per sempre l’umanità sulla via della felicità.

Venga dunque la rivoluzione; ogni giorno che tarda è una quantità enorme di sofferenze inflitte agli uomini. Lavoriamo affinché venga presto e sia tale da liquidare ogni oppressione ed ogni sfruttamento.

È per amore degli uomini che siamo rivoluzionari: non è colpa nostra se la storia ci ha costretti a questa dolorosa necessità.

Quindi, per noi anarchici, o per lo meno (poiché in fondo le parole sono solo convenzioni) per coloro tra gli anarchici che vedono le cose come noi, ogni atto di propaganda o di costruzione, con la parola o con il fatto, individuale o collettivo, è bene quando serve ad avvicinare e facilitare la rivoluzione, quando serve ad assicurare alla rivoluzione il concorso cosciente delle masse e a darle questo carattere di liberazione universale, senza il quale si potrebbe sì avere una rivoluzione, ma non la rivoluzione che noi desideriamo. Ed è soprattutto in fatto di rivoluzione che occorre tener conto del principio del mezzo più economico, perché qui la spesa si calcola in vite umane.

Noi conosciamo abbastanza le orribili condizioni materiali e morali nelle quali si trova il proletariato, per non spiegarci gli atti di odio, di vendetta, perfino anche di ferocia che si potranno produrre. Noi comprendiamo che ci sono degli oppressi i quali, essendo sempre stati trattati dai borghesi con la più ignobile durezza, avendo sempre visto che tutto era permesso al più forte, un giorno, quando si troveranno per un momento i più forti, si diranno: “Facciamo, anche noi, come i borghesi”. Noi comprendiamo che possa succedere che nella febbre della battaglia, delle nature originariamente generose, ma non preparate da una lunga ginnastica morale, molto difficile nelle condizioni presenti, perdano di vista l’obiettivo da raggiungere, prendano la violenza come fine a se stessa e si lascino andare a impeti selvaggi.

Ma una cosa è comprendere e perdonare, un’altra rivendicare. Questi non sono atti che possiamo accettare, incoraggiare, imitare. Noi dobbiamo essere risoluti ed energici, ma dobbiamo cercare di non oltrepassare mai il limite segnato dalla necessità. Noi dobbiamo fare come il chirurgo che taglia quando è necessario, ma evita di infliggere inutili sofferenze: in una parola, dobbiamo essere ispirati dal sentimento dell’amore degli uomini, di tutti gli uomini.

Ci pare che questo sentimento di amore sia il fondo morale, l’anima del nostro programma: a noi pare che solo concependo la rivoluzione come il grande giubileo umano, come la liberazione e la fraternizzazione di tutti gli uomini, a qualunque classe o partito essi abbiano appartenuto, il nostro ideale si potrà realizzare.

La rivolta brutale si produrrà certamente, ed essa potrà anche servire a dare una grande spinta che deve scuotere il sistema attuale; ma se essa non trovasse il contrappeso dei rivoluzionari che agiscono per un ideale, si divorerebbe da sé.

L’odio non produce amore; con l’odio non si rinnova il mondo. E la rivoluzione dell’odio, o fallirebbe completamente, oppure porterebbe ad una nuova oppressione, che potrebbe anche chiamarsi anarchica, come si chiamano liberali i governi attuali, ma sarebbe ugualmente un’oppressione e non mancherebbe di produrre gli effetti che ogni oppressione produce.


[Pubblicato su “L’Endehors” n. 68, 21 agosto 1892]

[1] Joseph Jean-Marie Tortelier, 1854-1925. Uno dei creatori della Lega degli Antipatrioti (agosto 1886). Partecipa nel 1887 alla manifestazione del 9 marzo all’Esplanade des Invalides a fianco di Louise Michel e di Émile Pouget, il che gli vale tre mesi di carcere. Partigiano dell’azione diretta, è uno dei primi a diffondere in Francia l’idea dello sciopero generale rivoluzionario. Partecipa al Congresso di Londra (1896). Si unisce alle posizioni di Pouget durante l’affare Dreyfus. Tortelier non ha lasciato nessuno scritto. Jean Charles Fortuné Henry, nato a Limeil-Brévannes il 3 agosto 1869. La sua azione rivoluzionaria gli vale la condanna a vari anni di prigione (tredici anni in tutto). Nel 1903 fonda una colonia anarchica a Aiglemont (Ardenne), l’”Essai”, che animerà fino al 1908. Con Georges Yvetot, E. Janvion, Girault, Francis Jourdain, Miguel Almereyda (pseudonimo di Eugène Vigo) e Delalé, rappresenta gli antimilitaristi francesi al Congresso di Amsterdam (1904). Ha scritto tra l’altro: Ravachol anarchiste? Parfaitement (1892), L’Essai (1903), Communisme expérimental (1905), Lettres de pioupious (1906), Grève et sabotage (1908).

[2] Pausader, detto Jacques Prolo, collaboratore di alcuni giornali anarchici, de “L’Eveil” (con Georges Yvetot e A. Salmon), finirà come redattore capo del “Bollettino municipale” della città di Parigi. Ha pubblicato Le communisme devant le parti ouvrier (VIII Congres) (1887) e Les Anarchistes tomo X della Histoire des partis socialistes en France, pubblicato sotto la direzione di A. Zevaès (1912).

[3] Clément Duval, 1850-1935. Uno dei fondatori, nel 1882, del gruppo anarchico “La Panthère des Batignolles”, frequentato da Joseph Tortelier, di cui divenne amico. Condannato una prima volta a un anno di prigione per furto, è condannato a morte l’11 gennaio 1887 per l’incendio e il saccheggio dell’albergo Lemaire. Poco dopo, la sua pena sarà commutata ai lavori forzati a vita. Nel 1901, evade dalla Guyana con alcuni compagni e arriva a New York dove, nel 1929, appaiono le sue Memorie autobiografiche (Biblioteca de l’Adunata dei Refrattari, Newark-New Jersey; ora in 4 voll. per le edizioni dell’Arkiviu-Bibrioteka “T. Serra”, Guasila 1996-2002).

[4] Zo d’Axa, pseudonimo di Galland, 1864-1930. “L’Endehors” ebbe numerosi collaboratori: P.N. Roinard, Félix Fénéon, Tabarant, C. Meunier, Georges Darien, Octave Mirbeau, L. Descaves, Louise Michel, S. Faure, Émile Henry, Errico Malatesta, Malato, ecc. Ricercato per istigazione all’omicidio, Zo d’Axa, “ventisette anni accusato di associazione di malfattori” fu incarcerato a Mazas e messo in segreta come Pouget e Grave. Posto in libertà provvisoria, lasciò subito la Francia (cfr. il suo libro De Mazas à Jérusalem, Chamuel éditeur, 1895, disegni di Lucien Pissaro, Steinlen, Félix Valloton; tr. it. Gratis, Firenze 2006). Visita l’Inghilterra, l’Italia, la Turchia, la Palestina. Estradato, viene riportato a Parigi dove è incarcerato a Sainte-Pélaigie con i detenuti politici. Tra il 1897 e il 1899, pubblica “La Feuille”, giornale dreyfusardo illustrato da Willette, Luce, Steinlen, Léandre, Hermann-Paul, Couturier e Anquetin. Poi, parte per l’America da cui porta le Note di viaggio che usciranno su “L’Ennemi du Peuple”. Muore a Marsiglia nel 1930.

[5] Armand Matha, detto Louis, 1860-1930. Ex garzone di parrucchiere di Casteljaloux (Loire-et-Garonne) venuto a Parigi nel 1891. Amico di Émile Henry da diversi anni, collaboratore del “Falot Cherbourgeois”, del “Libertaire” e de “L’Endehors”, di cui fu il gestore. Uno degli accusati del processo dei Trenta: “Quando mi vedo in presenza di un anarchico come Matha, che era sparito da diciotto mesi e torna tutt’a un tratto; quando ritrovo da Fénéon i detonatori e il flacone di mercurio di Émile Henry, ho il diritto di dire a Matha: ‘Se non riuscite a provare di essere venuto in Francia per fare qualcosa di confessabile, vi riterremo l’emissario della banda di Londra, di questa associazione di malfattori che noi ricerchiamo’”. (Requisitoria dell’avvocato generale Bulot, udienza dell’8 agosto 1894). Libertad e “L’Anarchie” prenderanno le sue difese, nel 1907, quando sarà compromesso in un affare di valuta falsa montato della polizia (vedi Albert Libertad, Le culte de la charogne, Paris 1976, p. 38; tr. it. Edizioni Anarchismo, Catania 1987, testo non presente nell’edizione italiana).

 
 

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