Titolo: Anarchismo e insurrezione
Note: Prima edizione in opuscolo: novembre 2013
Opuscoli provvisori N. 51
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Nota introduttiva

Prima di tutto l’atto insurrezionale. Da che cosa si potrebbe cominciare il lungo cammino verso la rivoluzione anarchica? Non certamente solo dalle parole.

E poi sarebbe auspicabile che a parteciparvi siano le masse, sia pure con la presenza non proprio gradevole, ma non per questo eludibile, delle forze politiche cosiddette progressiste. Che in queste forze si nascondano gli stimoli verso l’accondiscendenza e, peggio ancora, il tradimento, è cosa che sappiamo, ma che non può essere affrontata e risolta a priori.

Quindi, eccoci nella lotta, con le masse, ma cominciando noi per primi, non aspettando l’avallo di nessuna “benedizione” popolare e nemmeno la presenza di possibili “compagni di strada”. Aspettare significa imputridire nel fango politico che ci circonda da ogni parte.

E poi, aspettare che cosa? Che i tempi siano maturi, che le nostre forze crescano, che il nemico si indebolisca, che le masse prendano coscienza, che i politici di professione deflettano dai propri tornaconti? Assolutamente no.

E, sperimentando l’atto insurrezionale, anche a partire da lotte intermedie che possono condurre a esperienze, sia pure parziali, si arriva alla rivoluzione. Da questo percorso, per nulla deciso deterministicamente, arriva solo il segnale di continuare nella lotta, impiegando metodi insurrezionali che – come dice Malatesta – hanno ampi e dettagliati aspetti tecnici e una loro capacità organizzativa specifica, adeguata al “segreto delle cose illegali”. Giusta annotazione che spesso viene dimenticata.

È il primo passo. I seguenti possono essere tanti e devono adeguarsi a molti fattori, non ultimi quelli strettamente politici. Ma gli anarchici sanno che questo percorso sarà lungo e difficile, non si fanno illusioni. Non sono i sostenitori di una insurrezione a ogni piè sospinto, ma sono per l’insurrezione nel momento opportuno, dopo ponderate decisioni e dopo la realizzazione di processi organizzativi ampi e dettagliati.

Che i chiacchieroni si tacciano, una buona volta.


Trieste, 7 novembre 2011

Alfredo M. Bonanno

Repubblicanesimo sociale e anarchismo
(Concordanze e differenziazioni)

Errico Malatesta, pur compiacendosi del formarsi di una psicologia rivoluzionaria che accomuna, oggi più che ieri, in uno stato d’animo di simpatia la corrente repubblicana più giovane con alcuni anarchici, cerca di spiegare questo fenomeno, anzi m’invita a contribuire a risolverlo.

Così accade che una situazione psicologica, uno stato d’animo apparentemente irriflessivo, ha da essere criticato e valutato alla stregua di un ragionamento e di un’indagine critica. Ciò che pure è possibile, purché nel ragionare seguiamo il metodo positivo e sperimentale.

Una discussione di questo genere avevo un tempo, che già pare lontano, con Pietro Gori; dirò meglio, era una specie di discussione abituale quando ci attardavamo per gli ondulati Lungarni della silenziosa Pisa e ci domandavamo: “Quale il perché di questa amicizia di repubblicani e anarchici per cui la psicologia degli uni e degli altri ha concordanza e cerca e trova vicendevoli integrazioni?”.

Ma allora la risposta – che avrebbe dovuto essere la spiegazione faticosa del “perché delle cose”, come un professore dell’Ateneo pisano definiva allora o non definiva l’oggetto della filosofia – non riusciva determinata e conclusiva: nell’idealismo commovente e nella umana e naturalistica poesia del Gori il problema si confondeva e vaniva in concordanze a armonie dolci come di arpa lontana.

Malatesta, che pure parte da un idealismo che tutto lo invade, ha tendenze di realizzatore e di ragionatore concreto e incisivo e anche polemico, che lo inducono a voler sezionare ogni fenomeno, a intravedere in ogni incertezza, a penetrare oltre la superficie delle cose.

V’è, nel suo atteggiamento, di rispetto e di critica insieme del repubblicanesimo, della benevolenza che non è fine a se stessa e soltanto “stato d’animo”, ma decisa, sospinta anche a chiarire situazioni e magari equivoci.

Una prima generica spiegazione di questo fenomeno, dirò, di simpatia, l’ha data il Malatesta stesso quando, insieme ai suoi fervidi amici, con gesto apparentemente irriflettuto e sentimentale, ma fatto di logica istintiva e di esperienza vissuta e di intuizioni profonde ha seguito il corteo mazziniano, insieme al popolo repubblicano. Egli vedeva in Mazzini il perseguitato della monarchia, l’assertore di un umanitarismo, pel quale Oriani scriveva che Mazzini aveva volentieri dimenticato l’Italia, l’apostolo assetato di giustizia e di libertà, il credente in una legge di progresso per cui l’umanità e l’individuo si ritroveranno un giorno affrancati da ogni cattività e coattività che ora li opprime e li prostra.

In queste idee vaste e generali, che non vogliono essere né metafisica letteraria né astrattismo di sorpassate rivoluzioni borghesi, in questo fluttuare di grandi idealità sociali e modernamente rivoluzionarie (che Roberto Ardigò pur adusato al metodo positivo, riguardava come le più valide forze psicosociali al servizio d’ogni movimento di civiltà) è la ragione di concordanze, che, pur sotto un primo aspetto critico ma sommario, possono apparire strane o addirittura assurde. Alle quali ragioni idealistiche si hanno da aggiungere ragioni che non possono essere formulate e sostanziate con una logica strettamente razionale: ragioni non dirò sentimentali, ma piuttosto, psicologiche, le quali rientrano nella psicologia rivoluzionaria, che può accomunare uomini che concretano la loro fede in sistemi e categorie diverse, ma che vivono attualmente una stessa passione sovvertitrice e innovatrice.

Quando i repubblicani ricorrono alla formula nuova di “repubblica sociale” intendono appunto di affermare il loro volontarismo rivoluzionario.

Ma Errico Malatesta vuole che il repubblicanesimo sociale sia di più che una formula vaga, che un romanticismo rivoluzionario, che un idealismo che, per essere ampio, può confinare con una forma di anarchismo intellettuale ed evanescente. E non è illogica la sua pretesa. Ora il repubblicanesimo, nel suo aspetto e nel suo movimento più nuovo e innovatore, tende proprio a questo: a provare la sua tempra dottrinaria e ideale nel confronto dei più grandi e urgenti problemi sociali; a determinare il suo concetto di rivoluzione, a trovare il suo assestamento, adatto all’orientamento nuovo che ha più energicamente assunto con la formula di “repubblica sociale”; una formula che, intanto, intende essere un atto di volontà e l’espressione di un deciso indirizzo.

Sono perfettamente d’accordo con Malatesta che se la repubblica dovesse essere una semplice formula di governo, non varrebbe la pena di torturarci in questa passione repubblicana e compiere lo sforzo di realizzare un simulacro di rivoluzione. Quando domani una cosiffatta pseudo-repubblica si attuasse, noi saremmo anche contro di lei, contro una menzogna sociale di più atta solo a fuorviare o rallentare il movimento verso una sola giustizia e libertà umana, cui tende il movimento repubblicano sociale. Tale movimento ha superato il concetto di repubblica “istituto borghese”; accetta anche, senza idealizzarlo, il metodo della lotta di classe, si oppone a concezioni di “Stato” sulla base di dittature di qualsiasi specie, e anche sulla base del parlamentarismo odierno, per accettare, invece, la concezione di una struttura sociologica sindacale.

Ma è sempre un tale movimento repubblicano-sociale un movimento statale, la tendenza cioè verso un regime restrittivo della libertà individuale e umana?

Questo par domandarci Malatesta, con l’intuizione di avere una risposta sollecita e definitiva.

Ora, pur non consentendoci il nostro metodo positivo formulazioni preventive e astratte, che contrastino a quel criterio di relatività oggi riconosciuto proprio della fenomenologia e della conoscenza, osservo che la dottrina repubblicana, nella sua tendenza odierna a ritrovare individualità psico-sociali e formazioni organiche che parevano superate, come l’autonomia (o comunità) regionale, ecc., dimostra il suo atteggiamento deciso verso la liberazione da oppressioni statali; ciò che è di più che un problema di decentrarnento burocratico, ma è un problema di libertà, la tendenza cioè ad affrancarsi dalla oppressione di coattività statale che non è il minimo di “Stato giustificabile” o spiegabile in un dato momento dei rapporti umani, ma è addirittura la creazione artificiale di un ente biologico-sociale o di classe, che intende opprimere determinate classi e individui.

La tendenza idealistica, ma non mistica, della dottrina repubblicana, sconfina in un anarchismo a cui il Bovio guardava come alla perfezione del repubblicanesimo. È per questa tendenza che il nostro repubblicanesimo sociale, quasi preparazione all’anarchismo, ci fa aspirare ad una umanità migliore e affrancata, la quale viva ed operi per impulso etico, fuori di ogni violenza giuridica.

La Legge del progresso, additata da Giuseppe Mazzini, ci dà anche cotesta fede: dalla quale, intanto, si proiettano raggi che illuminano il nostro pensiero e danno un orientamento alla nostra azione.

Carlo Francesco Ansaldi


Inutile dire con quanto interesse e quanta simpatia io osservo lo stato d’animo dell’Ansaldi e dei suoi giovani amici. Essi sono evidentemente animati dal più gran desiderio di giustizia e di libertà, e vista la larghezza di vedute con cui essi affrontano la questione, è chiaro che il dissenso tra noi e loro è destinato ad attenuarsi fino a spegnersi.

Del resto i repubblicani possono trovare nelle loro stesse tradizioni e nelle dottrine dei loro grandi i princìpi fondamentali dai quali noi siamo partiti. In Cattaneo ed in Ferrari, per esempio, vi è l’avviamento alla più radicale soluzione che gli anarchici danno del problema.

Ma perché la discussione non si perda nelle astrattezze filosofiche e si possa arrivare più presto a stabilire quali sono i punti che ci uniscono e quelli che ci dividono in quanto uomini e partiti di azione, mi sia concesso di portare, o di riportare, la questione sul terreno pratico.

Supponiamo quello che sarà il punto di partenza della nostra attività realizzatrice e che prima o dopo deve pure avvenire: supponiamo caduta la monarchia. L’esercito ha fraternizzato col popolo, o ha comunque cessato della resistenza, la polizia è stata fugata, le autorità, il re compreso, sono scappate od hanno altrimenti abdicato al loro potere.

Non occorre qui discutere come può cominciare e svilupparsi il movimento; o con un attacco diretto contro le forze armate dello Stato, o mediante la presa di possesso da parte dei lavoratori delle fabbriche, ecc., che porterebbe il conflitto violento in un secondo momento.

Il governo è caduto! Che cosa fare?

Il metodo dei repubblicani classici sarebbe: Costituire nella capitale un governo provvisorio, il quale convocherebbe gli elettori per la nomina della Costituente. Intanto il nuovo governo, che avrebbe assunto la tutela dell’ordine pubblico, aspettando il nuovo organamento sociale che deve essere stabilito dalla eligenda Costituente, governerebbe più o meno con le leggi preesistenti alla insurrezione, riorganizzerebbe l’esercito, riformerebbe i corpi armati di polizia e, pur cambiando il personale delle maggiori funzioni statali, si sforzerebbe di conservare in piedi tutto l’organismo dello Stato.

Poi verrebbe la Costituente, eletta da masse che dal movimento antimonarchico avrebbero sentito poca scossa e nessun benefizio, e comincerebbe il lavoro che han sempre fatto le assemblee parlamentari, e cioè di consolidare i privilegi, e distruggere, col pretesto di legalizzarle, quelle conquiste che nel momento dell’insurrezione una parte del popolo sarebbe riuscita a fare.

È questo il metodo che si è seguito in tutti i movimenti repubblicani, ed il suo valore è dimostrato dalle repubbliche borghesi, clericali, plutocratiche che ne sono risultate.

Il metodo nostro sarebbe un altro.

Debellate le autorità monarchiche, distrutti i corpi di polizia, sciolto l’esercito, noi non riconosceremmo nessun nuovo governo, specialmente poi se fosse un governo centrale con pretesa di dirigere e regolare il movimento. Spingeremmo i lavoratori a prendere possesso totale della terra, delle fabbriche, delle ferrovie, della navi, insomma di tutti i mezzi di produzione, ad organizzare subito la nuova produzione, abbandonando per sempre i lavori inutili e dannosi e provvisoriamente quelli di lusso, concentrando il massimo delle forze nella produzione dei generi alimentari e degli altri oggetti di prima necessità. Spingeremmo alla raccolta ed all’economia di tutti i prodotti esistenti ed all’organizzazione del consumo locale e dello scambio tra località vicine e lontane, conformemente alle esigenze della giustizia ed alle necessità e possibilità del momento. Cureremmo l’occupazione delle case vuote o poco abitate fatta in modo che nessuno resti senza abitazione e ciascuno abbia un alloggio corrispondente ai locali disponibili in rapporto alla popolazione. Ci affretteremmo a distruggere banche, titoli di proprietà e tutto ciò che rappresenta e garantisce la potenza dello Stato e del privilegio capitalista; e cercheremmo di creare uno stato di cose che renderebbe impossibile la ricostituzione della società borghese.

E tutto ciò, e quant’altro occorresse per soddisfare i bisogni del pubblico e lo sviluppo della rivoluzione, fatto per opera dei volenterosi, di comitati di tutte le specie, di congressi locali, intercomunali, regionali, nazionali, che provvederebbero alla coordinazione della vita sociale pigliando gli accordi necessarii, consigliando ed eseguendo quello che credessero utile, ma senza avere nessun diritto e nessun mezzo per imporre con la forza la loro volontà, e fidando solo per trovare appoggio, nei servizi che renderebbero e nelle necessità della situazione riconosciuta dagli interessati.

Soprattutto niente gendarmi, qualunque nome essi prendessero. Ma costituzione di milizie volontarie, senza alcuna ingerenza, in quanto milizie, nella vita civile, e solo per far fronte ai possibili ritorni armati della reazione o dagli attacchi dall’estero dei paesi non ancora in rivoluzione.

Questi i due metodi, prospettati nei loro estremi.

Certo nella pratica occorreranno dei temperamenti, poiché gli anarchici non sono la totalità della popolazione e non vorrebbero, nemmeno se potessero, imporre con la forza le loro concezioni. Ma in ogni modo, pur rispettando la volontà degli altri e cercando di accordarsi con gli altri per una pacifica convivenza, gli anarchici esigerebbero completa libertà di propaganda e di esperimentazione. Facciano gli altri quello che vogliono, noi in tutti i casi non vorremmo essere né sfruttati né comandati.

Che dicono i giovani repubblicani?


[Pubblicato su “Umanità Nova” n. 83 del 7 aprile 1922]

Da “Il programma anarchico”

La lotta contro il governo si risolve, in ultima analisi, in lotta fisica, materiale.

Il governo fa la legge. Esso dunque deve avere una forza materiale (esercito e polizia) per imporre la legge, poiché altrimenti non vi ubbidirebbe che chi vuole, ed essa non sarebbe più legge, ma una semplice proposta che ciascuno è libero di accettare e di respingere. Ed i ritorni questa forza l’hanno, e se ne servono per potere con leggi fortificare il loro dominio e fare gl’interessi delle classi privilegiate, opprimendo e sfruttando i lavoratori.

Limite all’oppressione del governo è la forza che il popolo si mostra capace di opporgli.Vi può essere conflitto aperto o latente, ma conflitto sempre; poiché il governo non si arresta innanzi al malcontento ed alla resistenza popolare se non quando sente il pericolo dell’insurrezione.

Quando il popolo sottostà docilmente alla legge, o la protesta è debole e platonica, il governo fa i comodi suoi senza curarsi dei bisogni popolari; quando la protesta diventa viva, insistente, minacciosa, il governo, secondo che è più o meno illuminato, cede o reprime. Ma sempre si arriva all’insurrezione, perché se il governo non cede, il popolo finisce col ribellarsi; e se il governo cede, il popola acquista fiducia in sé e pretende sempre di più, fino a che l’incompatibilità tra la libertà e l’autorità diventa evidente e scoppia il conflitto violento.

È necessario dunque prepararsi moralmente e materialmente perché allo scoppio della lotta violenta la vittoria resti al popolo.

L’insurrezione vittoriosa è il fatto più efficace per l’emancipazione popolare, poiché il popolo, scosso il giogo, diventa libero, di darsi quelle istituzioni che egli crede migliori, e la distanza che passa tra la legge, sempre in ritardo, ed il grado di civiltà a cui è arrivata la massa della popolazione, è valicata d’un salto. L’insurrezione determina la rivoluzione, cioè il rapido attuarsi delle forze latenti accumulate durante la precedente evoluzione.

Tutto sta in ciò che il popolo è capace di volere.

Nelle insurrezioni passate il popolo, inconscio delle ragioni vere dei suoi mali, ha voluto sempre molto poco, e molto poco ha conseguito.

Che cosa vorrà nella prossima insurrezione?

Ciò dipende in parte dalla nostra propaganda e dall’energia che noi sapremo spiegare.

Noi dovremo spingere il popolo ad espropriare i proprietari e mettere in comune la roba, ed organizzare la vita sociale da se stesso, mediante associazioni liberamente costituite, senza aspettare gli ordini di nessuno e rifiutando di nominare o riconoscere qualsiasi governo, qualsiasi corpo costituito, che sotto un nome qualunque (costituente, dittatura, ecc.) si attribuisca, sia pure a titolo provvisorio, il diritto di far la Legge ed imporre agli altri colla forza la propria volontà.

E se la massa del popolo non risponderà all’appello nostro, noi dovremo – in nome del diritto che abbiamo di esser liberi anche se gli altri vogliono restare schiavi, e per l’efficacia dell’esempio – attuare da noi quanto potremo delle nostre idee, e non riconoscere il nuovo governo, e mantener viva la resistenza, e far sì che le località, dove le nostre idee saranno simpaticamente accolte si costituiscano in comunanze anarchiche, respingano ogni ingerenza governativa, stabiliscano libere relazioni con le altre località e pretendano di vivere a modo loro.

Noi dovremo, soprattutto, opporci con tutti i mezzi alla ricostituzione della polizia e dell’esercito, e profittare dell’occasione propizia per eccitare i lavoratori delle località non anarchiche a profittare della mancanza di forza repressiva per imporre quelle maggiori pretese che a noi riesca d’indurli ad avere.

E comunque vadano le cose, continuare sempre a lottare, senza un istante di interruzione, contro i proprietari e contro i governanti, avendo sempre in vista l’emancipazione completa, economica, politica e morale, di tutta quanta l’umanità.


[Pagine di lotta quotidiana, II vol., Carrara 1975, pp. 235-236]

Le due vie
Riforme o Rivoluzione? Libertà o Dittatura?

I

Le condizioni attuali della società non possono durare in perpetuo – oramai si può dire non possono più durare a lungo.

Su questo convengono tutti – almeno tutti coloro che pensano.

Conservatori nel vero senso della parola non ve ne sono più.

Vi sono bensì di coloro che intendono profittare del momento, tirare innanzi il più a lungo possibile nel godimento dei loro privilegi e non si preoccupano se dopo di loro verrà il diluvio. E vi sono pure dei biechi reazionari che vorrebbero respingere il mondo indietro, soffocare nel sangue ogni conato di liberazione e sottomettere le masse al regime della sciabola. Ma tutto è inutile. La reazione può servire a tingere di più rosso sanguigno l’alba che sorge: non riuscirà ad impedire la catastrofe imminente.

Le masse non intendono più sottomettersi.

Fino a che si credeva che le sofferenze sono un castigo o una prova imposta da Dio e che in un altro mondo si sarà pagati a usura di tutti i mali sopportati quaggiù, era possibile la costituzione e la durata di un regime d’iniquità dove pochi impongono la loro volontà agli altri e li sfruttano e opprimono a loro piacimento.

Ma questa fede, che non è poi mai stata molto efficace perché non ha mai impedito che la gente curasse i suoi interessi terreni (e perciò la religione non è riuscita ad impedire le ribellioni ed a soffocare completamente il progresso) questa fede, dico, è diminuita di molto ed è in via di spegnersi. I preti stessi, per salvare la religione e salvare se stessi con essa, sono costretti a darsi l’aria di voler risolvere la questione sociale e lenire i mali del lavoratori.

Dal momento che i lavoratori comprendono la loro situazione nella società è impossibile ch’essi consentano per sempre a lavorare e a soffrire, a produrre durante tutta la vita per conto dei padroni e a non vedere innanzi a sé che lo squallore di una vecchiaia senza asilo e senza pane assicurati. È possibile che, essendo i produttori di ogni ricchezza, sapendo di poter produrre per soddisfare ampiamente i bisogni di tutti, vogliano rassegnarsi per sempre ad una vita miserabile sempre minacciata dallo spettro della disoccupazione e della fame. È impossibile che, meglio istruiti, affinati dal contatto della civiltà, anche se fatta a benefizio di altri, avendo già sperimentato la forza che possono dar loro l’unione e l’ardire, essi si contentino di restare classe inferiore e disprezzata e non pretendano una larga parte alle gioie della vita.

Oggi chi è proletario sa che è, come regola, condannato a restar proletario per tutta la vita, salvo che non vi sia un cambiamento generale nell’ordinamento sociale; sa che questo cambiamento non può avvenire senza il concorso degli altri proletari e perciò cerca nell’unione la forza necessaria per imporlo.

I borghesi, ed i governanti che li rappresentano e li difendono, lo sanno e veggono la necessità, per evitare di essere sommersi in un terribile cataclisma sociale, di provvedere in qualche modo, tanto più che non mancano borghesi intelligenti i quali comprendono che la presente costituzione sociale è assurda ed in fondo dannosa a coloro stessi che ne sono benefiziari.

Dunque, prima o dopo, a sbalzi o gradualmente, bisogna cambiare.

Ma quale sarà questo cambiamento e fino a che punto andrà?

La società attuale è divisa in proprietari e proletari. Essa può cambiare abolendo la condizione di proletario e facendo tutti comproprietari della ricchezza sociale, o può cambiare conservando questa condizione fondamentale, ma assicurando ai proletari un trattamento migliore.

Nel primo caso gli uomini diventerebbero liberi e socialmente uguali ed organizzerebbero la vita sociale conformemente ai desideri di ciascuno, e tutte le potenzialità della umana natura potrebbero svilupparsi in lussureggiante varietà. Nell’altro caso i proletari, bestie utili e ben pasciute, si adagerebbero nelle posizioni di schiavi, contenti di benigni padroni.

Libertà o schiavitù: anarchia o stato servile.

Queste due soluzioni possibili danno luogo a due tendenze divergenti che sono rappresentate, nelle loro manifestazioni più conseguenti, l’una dagli anarchici, l’altra dai cosiddetti socialisti riformisti. Con questa differenza; che mentre gli anarchici sanno e dicono quel che vogliono, cioè la distruzione dello Stato e l’organizzazione libera della società sulla base dell’uguaglianza economica, i riformisti al contrario si trovano in contraddizione con loro stessi, perché si dicono socialisti ed invece la loro azione tende a sistemare e perpetuare, umanizzandolo, il sistema capitalistico, e quindi nega il socialismo, che significa sopratutto abolizione della divisione degli uomini in proletari e proprietari.

Compito degli anarchici – e diremmo di tutti i veri socialisti – è quello di opporsi a questa tendenza verso uno stato servile, verso uno stato di schiavitù attenuata che castrerebbe l’umanità delle sue doti migliori, priverebbe la civiltà progrediente dei suoi fiori più belli – e serve intanto a mantenere lo stato di miseria e di degradazione in cui si trovano le masse, persuadendole ad aver pazienza ed a sperare nella provvidenza dello Stato e nella bontà ed intelligenza dei padroni.

Tutta la cosiddetta legislazione sociale, tutte le misure statali intese a “proteggere” il lavoro ed assicurare ai lavoratori un minimo di benessere e di sicurezza e così pure tutti i mezzi adoperati da capitalisti intelligenti per legare l’operaio alla fabbrica con premi, pensioni ed altri benefizi, quando non sono una menzogna ed una trappola, sono un passo verso questo stato servile che minaccia l’emancipazione dei lavoratori ed il progresso dell’umanità.

Salario minimo stabilito per legge; limitazione legale della giornata di lavoro; arbitrato obbligatorio; contratto collettivo di lavoro avente valore giuridico; personalità giuridica delle associazioni operate; misure igieniche nelle fabbriche prescritte dal governo; assicurazioni statali per le malattie, la disoccupazione, le disgrazie sul lavoro; pensioni per la vecchiaia; compartecipazione agli utili, ecc., ecc., sono tutte misure per far sì che i proletari restino sempre proletari ed i proprietari sempre proprietari, tutte misure che danno ai lavoratori (quando lo danno) un po’ più di benessere e di sicurezza, ma li privano di quel po’ di libertà che hanno, e tendono a perpetuare la divisione degli uomini in padroni e servi.

Certamente è bene, aspettando la rivoluzione – e serve anche a renderla più facile – che i lavoratori cerchino di guadagnare di più e di lavorare meno ore ed in migliori condizioni; è bene che i disoccupati non muoiano di fame; che i malati ed i vecchi non siano abbandonati. Ma questo, ed altro, i lavoratori possono e debbono ottenerlo da loro stessi, con la lotta diretta contro i padroni, mediante le loro organizzazioni, con l’azione individuale e collettiva, sviluppando in ciascun individuo il sentimento di dignità personale e la coscienza dei suoi diritti.

I doni dello Stato, i doni dei padroni sono frutti avvelenati che portano con loro i semi della servitù. Bisogna respingerli.

II

Riconosciuto che tutte le riforme, le quali lascian sussistere la divisione degli uomini in proprietari e proletari e quindi il diritto in alcuni di vivere del lavoro degli altri, non potrebbero, se ottenute ed accettate come benefiche concessioni dello Stato e dei padroni che attenuare la ribellione degli oppressi contro gli oppressori, e condurre alla costituzione di uno stato servile in cui l’umanità sarebbe definitivamente divisa in classi dominanti e classi soggette, non resta altra soluzione che la rivoluzione: una rivoluzione radicale che abbatta tutto l’organismo statale, che esproprii i detentori della ricchezza socile e metta tutti quanti gli uomini sullo stesso piede di uguaglianza economica e politica.

Questa rivoluzione deve essere necessariamente violenta, quantunque la violenza sia per se stessa un male. Deve essere violenta perché sarebbe una follia sperare che i privilegiati riconoscessero il danno e l’ingiustizia dei loro privilegi e si decidessero a rinunciarvi volontariamente. Deve essere violenta perché la transitoria violenza rivoluzionaria è il solo mezzo per metter fine alla maggiore e perpetua violenza che tiene schiava la grande massa degli uomini.

Vengano pure le riforme se possono venire. Esse possono essere di benefizio momentaneo e servire a stimolare nelle masse sempre maggiori desideri e maggiori pretese, se i proletari serbano vivo il sentimento che i padroni ed i governanti sono i nemici, che tutto ciò che cedono è strappato loro dalla forza o dalla paura della forza e sarebbe presto ritirato se la paura cessasse. Che se invece le riforme fossero raggiunte per accordi e collaborazione tra dominati e dominatori, non servirebbero che a ribadire le catene che legano i lavoratori al carro dei parassiti.

Del resto oggi il pericolo che le riforme addormentino le masse e riescano a consolidare e perpetuare l’organizzazione borghese pare superato. Non vi sarebbe che il tradimento cosciente di coloro, che colla predicazione socialista sono riusciti ad acquistare la fiducia dei lavoratori, che potrebbe dar loro valore.

La cecità della classe dirigente e l’evoluzione naturale del sistema capitalista accelerata dalla guerra han fatto sì che qualsiasi riforma accettabile dai proprietari è impotente a risolvere la crisi che travaglia il paese.

Dunque la rivoluzione s’impone, la rivoluzione viene.

Ma come si deve fare, come si deve svolgere questa rivoluzione?

Naturalmente bisogna principiare con l’atto insurrezionale, che spazzi via l’ostacolo materiale, le forze armate del governo, che si oppone a qualunque trasformazione sociale.

Per l’insurrezione è desiderabile, e può essere indispensabile, che si trovino unite poiché qui siamo in monarchia, tutte le forze antimonarchiche. È necessario prepararvisi il meglio che si può, moralmente e materialmente; ed è necessario soprattutto di profittare di tutti i moti spontanei di popolo e cercare di generalizzarli e trasformarli in movimenti risolutivi, per evitare il pericolo che, mentre i partiti si preparano, la forza popolare si esaurisca in fatti isolati.

Ma dopo l’insurrezione vittoriosa, dopo che il governo è caduto, che cosa bisogna fare?

Noi, gli anarchici, vorremmo che in ciascuna località i lavoratori, o più propriamente quella parte dei lavoratori che ha maggiore coscienza e maggiore spirito d’iniziativa, pigliasse possesso di tutti gli strumenti di lavoro, di tutta la ricchezza, terra, materie prime, case, macchine, generi alimentari, ecc., ed abbozzasse il meglio possibile la nuova forma di vita sociale. Vorremmo che i lavoratori della terra che oggi lavorano per dei padroni non riconoscessero più alcun diritto ai proprietari e continuassero ed intensificassero il lavoro per conto loro, entrando in rapporti diretti cogli operai delle industrie e dei trasporti per lo scambio dei prodotti; che gli operai delle industrie, ingegneri e tecnici compresi, pigliassero possesso delle fabbriche e continuassero ed intensificassero il lavoro per conto proprio e della collettività, trasformando subito tutte quelle fabbriche che oggi producono cose inutili o dannose in produttrici delle cose che più urgono per soddisfare i bisogni del pubblico; che i ferrovieri continuassero ad esercitare le ferrovie ma per il servizio della collettività; che comitati di volontarii o di eletti dalla popolazione pigliasse possesso, sotto il controllo diretto della massa, di tutte le abitazioni disponibili per alloggiare il meglio che per il momento si potesse, tutti i più bisognosi; che altri comitati, sempre sotto il controllo diretto delle masse, provvedessero all’approvvigionamento ed alla distribuzione dei generi di consumo; che tutti gli attuali borghesi siano messi nella necessità di confondersi nella folla di coloro che furono proletari e lavorare come gli altri per godere gli stessi benefici degli altri. E tutto questo, subito, nel giorno stesso o nell’indomani immediato dell’insurrezione vittoriosa, senza aspettare ordini di comitati centrali o di altre qualsisieno autorità.

Questo è quel che vogliono gli anarchici, ed è poi quello che naturalmente avverrebbe se la rivoluzione deve essere davvero una rivoluzione sociale e non ridursi ad un semplice cambiamento politico, che dopo qualche convulsione riporterebbe le cose allo stato di prima.

Poiché, o si leva subito alla borghesia il potere economico o questa ripiglierebbe in breve anche il potere politico che l’insurrezione le avrebbe strappato. E per poter levare alla borghesia il potere economico, bisogna organizzare immediatamente un nuovo assetto economico basato sulla giustizia e sull’eguaglianza. I bisogni economici, almeno i più essenziali, non ammettono interruzioni e bisogna soddisfarli subito. I “comitati centrali” o non fanno nulla o fanno quando non c’è più bisogno dell’opera loro.

III

Al contrario degli anarchici vi sono molti rivoluzionari i quali non hanno fiducia nell’istinto costruttivo delle masse, credono di avere essi, la ricetta infallibile per assicurare la felicità universale, temono la possibile reazione, temono forse più la concorrenza di altri partiti ed altre scuole di riformatori sociali e vogliono perciò impossessarsi del potere e sostituire al governo “democratico” di oggi un governo dittatoriale.

Dittatura dunque: ma chi sarebbero i dittatori? Naturalmente, pensano essi, i capi del loro partito. Dicono ancora, per abitudine contratta o per desiderio cosciente di evitare le spiegazioni chiare, dittatura del proletariato, ma questa è una burletta oramai sfatata.

Ecco come si spiega Lenin, o chi per lui (vedi “Avanti!” del 20 luglio 1920):

“La dittatura significa l’abbattimento della borghesia per opera di un’avanguardia rivoluzionaria [questa è la rivoluzione e non già la dittatura], in contrasto con la concezione che sia anzitutto necessario ottenere una maggioranza nelle elezioni. Per mezzo della dittatura si ottiene la maggioranza, non già per mezzo della maggioranza la dittatura”. [E sta bene; ma se è una minoranza che, impossessatasi del potere, deve poi conquistare la maggioranza, è una menzogna il parlare di dittatura del proletariato. Il proletariato è evidentemente la maggioranza].

“La dittatura significa impiego della violenza e del terrore”. [Per opera di chi e contro chi? Poiché si suppone la maggioranza ostile e non può trattarsi, nel concetto dittatoriale, di folla scatenata che prende nelle sue mani la cosa pubblica, evidentemente la violenza ed il terrore dovranno essere praticati contro tutti coloro che non si piegano ai voleri dei dittatori per mezzo di sgherani al servizio di essi dittatori].

“La libertà di stampa e di riunione equivarrebbe ad autorizzare la borghesia ad avvelenare l’opinione pubblica”. [Dunque dopo l’avvento della dittatura del “proletariato” che dovrebbe essere la totalità del lavoratori, vi sarà ancora una borghesia che invece di lavorare avrà i mezzi di avvelenare “l’opinione pubblica” e una opinione pubblica da avvelenare estranea a quei proletari che dovrebbero costituire la dittatura? Vi saranno del censori onnipotenti che giudicheranno di quello che si può o non si può stampare e dei questori a cui bisognerà domandare il permesso per tenere un comizio. Inutile dire quale sarebbe la libertà lasciata a chi non è ligio ai dominatori del momento].

“Soltanto dopo la espropriazione degli espropriatori, dopo la vittoria, il proletariato attirerà a sé le masse della popolazione che prima seguiva la borghesia”. [Ma ancora una volta, che cosa è questo proletariato che non è la massa che lavora? Proletario non significa dunque chi non ha proprietà, ma chi ha certe date idee ed appartiene ad un dato partito?].

Lasciamo dunque questa falsa espressione di dittatura del proletariato atta a produrre tanti equivoci e discutiamo della dittatura quale essa è veramente, cioè il governo assoluto di uno o più individui i quali, appoggiandosi su di un partito o su di un esercito, s’impadroniscono della forza sociale ed impongono “colla violenza e col terrore” la loro volontà.

Quale sarà questa volontà dipende dalla specie di persone che all’atto pratico riusciranno ad impossessarsi del potere. Nel caso nostro si suppone che sarà la volontà dei comunisti e quindi una volontà ispirata al desiderio del bene di tutti.

È già una cosa molto dubbia, poiché generalmente gli uomini meglio dotati delle qualità necessarie per arraffare potere non sono i più sinceri ed i più devoti alla causa pubblica e se si predica alle masse la necessità di sottomettersi ad un nuovo governo non si fa che spianare la via agli intriganti ed agli ambiziosi.

Ma supponiamo pure che i nuovi governanti, i dittatori che dovrebbero realizzare gli scopi della rivoluzione siano dei veri comunisti, pieni di zelo, convinti che dall’opera loro, dall’energia loro dipende la felicità del genere umano. Sarebbero degli uomini sul tipo dei Torquemada e dei Robespierre che, a fine di bene, in nome della salute privata o pubblica, soffocherebbero ogni voce discorde, distruggerebbero ogni atto di vita libera e spontanea: e poi, impotenti a risolvere problemi pratici da loro sottratti alla competenza degli interessati, dovrebbero per amore o per forza lasciare il posto ai restauratori del passato.

La grande giustificazione della dittatura sarebbe l’incapacità delle masse e la necessità di difendere la rivoluzione dai tentativi reazionari.

Se davvero le masse fossero armento bruto incapace di vivere senza il bastone del pastore, se non vi fosse già una minoranza sufficientemente numerosa e cosciente capace di trascinare le masse colla predicazione e coll’esempio, allora comprenderemmo meglio i riformisti, i quali temono la sollevazione popolare e s’illudono di potere poco a poco, a forza di piccole riforme, che sono poi piccoli rammendi, minare lo Stato borghese e preparare le vie al socialismo; comprenderemmo meglio gli educazionisti che non valutando abbastanza l’influenza dell’ambiente sperano di poter cambiare la società cambiando prima tutti gli individui; non potremmo comprendere affatto i partigiani della dittatura, che vogliono educare ed elevare le masse “colla violenza e col terrore” e dovrebbero elevare a primi fattori di educazione i gendarmi ed i censori.

In realtà nessuno potrebbe istituire la dittatura rivoluzionaria se prima il popolo non avesse fatta la rivoluzione, mostrando così a fatti la sua capacità di farla; ed allora la dittatura non farebbe che sovrapporsi alla rivoluzione, sviarla, soffocarla ed ucciderla.

In una rivoluzione politica in cui si mira solo a buttar giù il governo lasciando in piedi tutta l’organizzazione sociale esistente, può una dittatura impossessarsi del potere, mettere i suoi uomini al posto dei funzionati scacciati ed organizzare dall’alto il nuovo regime.

Ma in una rivoluzione sociale, dove sono rovesciate tutte le basi della convivenza sociale, dove la produzione indispensabile deve essere ripresa subito per conto e vantaggio dei lavoratori, dove la distribuzione deve essere immediatamente regolata secondo giustizia, la dittatura non potrebbe far nulla. O il popolo provvederebbe da sé nei diversi comuni e nelle diverse industrie, o la rivoluzione sarebbe fallita.

Forse in fondo i partigiani della dittatura (e già alcuni lo dicono apertamente) non desiderano subito che una rivoluzione politica, vale a dire che vorrebbero senz’altro impossessarsi del potere e poi gradualmente trasformare la società per mezzo di leggi e di decreti. In tal caso essi avrebbero probabilmente la sorpresa di vedere al potere ben altri che loro stessi; e in tutti i casi dovrebbero prima di ogni altra cosa pensare a organizzare la forza armata (i poliziotti) necessaria ad imporre il rispetto delle loro leggi. Intanto la borghesia che sarebbe restata sostanzialmente la detentrice della ricchezza, superato il momento critico dell’ira popolare, preparerebbe la reazione, riempirebbe la polizia di proprii agenti, sfrutterebbe il disagio e la disillusione di coloro che si aspettavano l’immediata realizzazione del paradiso terrestre... e ripiglierebbe il potere o attirando a sé i dittatori, o sostituendoli con uomini suoi.

Quella paura della reazione, addotta a giustificazione del regime dittatoriale, dipende appunto dal fatto che si pretende fare la rivoluzione lasciando sussistere ancora una classe privilegiata in condizione di poter riprendere il potere.

Se invece s’incomincia con l’espropriazione completa, allora borghesia non ve ne sarà più; e tutte le forze vive del proletariato, tutte le capacità esistenti saranno impiegate nell’opera di ricostruzione sociale.

Del resto, in un paese come l’Italia (per applicare il già detto al paese in cui svolgiamo la nostra attività), in un paese come l’Italia, dove le masse sono pervase da istinti libertari e ribelli, dove gli anarchici rappresentano una forza considerevole, più che per le loro organizzazioni, per l’influenza che possono esercitare, un tentativo di dittatura non potrebbe essere fatto senza scatenare la guerra civile tra lavoratori e lavoratori e non potrebbe trionfare se non per mezzo della più feroce tirannia.

Allora, addio comunismo!

Non v’è che una via possibile di salvezza: la Libertà.


[Pubblicato su “Umanità Nova” n. 136 del 5 agosto 1920, n. 142 del 12 agosto 1920, n. 145 del 15 agosto 1920]

La preparazione insurrezionale ed i partiti sovversivi

È curioso, o piuttosto è sintomatico, che, mentre noi predichiamo continuamente la necessità di prepararsi, non solo psicologicamente, ma anche tecnicamente per poter compiere quella insurrezione vittoriosa senza della quale non è possibile abbattere il regime borghese e cominciare la rivoluzione, vi sono sempre, tra i socialisti (i comunisti dittatoriali) che meglio sembrano disposti ad un’azione armata, di quelli che ci accusano di volere insorgere, così, alla carlona, sporadicamente, senza intesa generale e senza preparazione efficace.

È una scusa per poter frustare ogni nostro tentativo di approccio, per potere evitare ogni intesa impegnativa con noi?

Lo si potrebbe credere quando si vede coloro che alle preoccupazioni insurrezionali mischiano l’interessamento per... le elezioni amministrative o che mentre dicono di voler espropriare la borghesia e fare il comunismo domani, invitano poi gli operai a sottomettersi ai decreti governativi per l’assicurazione per la invalidità e la vecchiaia.

Ma vi sono certamente di quelli alla cui volontà rivoluzionaria si può prestar fede e fra questi pare che sia quell’Andrea Viglongo, che ora polemizza con noi a proposito degli insegnamenti che possono cavarsi dai fatti di Ancona. Ma allora, perché mai egli s’impegna ad equivocare ed a falsare il nostro pensiero?

Egli andò ad Ancona... e capì poco quello che era avvenuto. La sollevazione di Ancona non fu quello che poteva essere a causa della sorpresa, dell’insufficiente o appena incipiente preparazione, dell’assenza casuale di alcuni uomini che godono maggiore fiducia tra le masse e che meglio avrebbero potuto collegare ed utilizzare le forze proletarie disponibili – ma niente affatto perché gli anarchici “si rifiutarono di aderire alla costituzione di un Comitato di agitazione e di preparazione rivoluzionaria”. Il Comitato a cui si rifiutarono di aderire gli anarchici non doveva essere un Comitato insurrezionale, ma una Commissione che si proponeva di andare dal Prefetto ed intavolare trattative colle autorità.

Così pure il Viglongo non capì nulla della conferenza data a Torino da Malatesta, ch’egli cerca sofisticamente di trovare in contraddizione con Simplicio. La contraddizione non farebbe nulla, poiché “Umanità Nova” è libera palestra per l’espressione di ogni varietà del pensiero anarchico; ma fatto è che tra quello che Simplicio scrisse e quello che Malatesta disse a Torino vi è concordanza perfetta.

Si sarà espresso male il Malatesta?

Può darsi, quantunque è generalmente ammesso che il Malatesta scrive senza eleganza e parla senza eloquenza ma esprime sempre il suo pensiero in modo comprensibile a tutti e non suscettibile di equivoci.

Quando Malatesta diceva a Torino che la rivoluzione in Italia si potrà fare solo fidando nelle masse, sostenendole, lasciandole libere, ecc., non si trattava di preparazione insurrezionale: di certe cose sarebbe meglio parlarne meno nelle conferenze e nei giornali e farle di più. Si trattava invece della presa di possesso della ricchezza nel giorno della vittoria e della riorganizzazione della produzione e della vita sociale in genere. Era, insomma, l’azione diretta in mezzo alle masse, l’utilizzazione di tutte le capacità, di tutte le iniziative, la riorganizzazione libera fatta sotto la pressione dei bisogni e dietro la spinta della propaganda e dell’esempio, contrapposte alla dittatura che non potrebbe far altro, secondo gli anarchici, che organizzare la polizia e soffocare la rivoluzione.

L’insurrezione è un’altra cosa. Certamente sono le masse che la fanno, ma le masse non possono prepararla tecnicamente. Ci vogliono gli uomini, i gruppi, i partiti, legati da liberi patti, tenuti al segreto, provvisti dei mezzi necessari che possono creare quella rete di comunicazioni rapide indispensabili alla sollecita conoscenza di tutti gli avvenimenti atti a provocare un movimento popolare ed al suo rapido propagarsi.

E quando diciamo che l’organizzazione rivoluzionaria deve essere una organizzazione specifica fatta fuori dei partiti ufficiali si è perché questi hanno altri compiti che escludono il segreto necessario per le cose illegali; ma è sopratutto perché non abbiamo fiducia nella volontà rivoluzionaria dei partiti a noi affini, quali sono oggi costituiti.

Il Viglongo invece ha molta fiducia nel suo partito. “Noi riteniamo pregiudizialmente”, egli dice “che solo il Partito comunista potrà realizzare la preparazione tecnica del proletariato all’insurrezione vittoriosa”.

Ma esiste un partito comunista in Italia? Fino a che i comunisti italiani staranno nello stesso partito con i Turati, i Treves, ed altri Modigliani, fino a che essi saranno legati alla disciplina del Partito socialista italiano, essi potranno rappresentare una tendenza, una speranza, ma non sono un partito autonomo, sulle cui intenzioni si possa fare affidamento.

E perciò noi domandiamo che coloro che vogliono fare si uniscano ed agiscano al di fuori ed al di sopra dei partiti.


[Pubblicato su “Umanità Nova” n. 138 del 7 agosto 1920]

La “fretta” rivoluzionaria

Ritorniamo all’articolo di G. Valenti che “La Giustizia” di Reggio Emilia ha fatto suo.

Valenti si dilunga nell’enumerare tutte le masse che sono indifferenti alla propaganda dei sovversivi o vi sono ostili. E, parlando degli Stati Uniti, dice che vi sono colà 60 (?) milioni di cattolici organizzati in associazioni religiose che vanno in chiesa a pregare Iddio, ed invita gli anarchici ad andare a far propaganda fra quei 60 milioni se vogliono fare la rivoluzione più presto. Dice che su 40 milioni di produttori soltanto 4 milioni e mezzo sono organizzati in organizzazioni che poi, nella maggioranza, restano tuttora avverse al socialismo; ed invita i sindacalisti a mettersi al lavoro per organizzare gli operai nelle unioni sindacaliste se realmente vogliono affrettare la rivoluzione. Dice che su venticinque milioni di elettori nelle ultime elezioni appena un milione votarono per Debs, ricorda che nel Sud gli oratori socialisti sono bastonati e deportati fuori dei paesi dalle folle briache di patriottismo; ed invita i comunisti ad andare nel Sud a fare propaganda dei 21 punti, invece di “scocciare i socialisti ad accettarli”.

E tutto questo è vero e giusto se significa che bisogna far propaganda e adoperarsi in tutti i modi per conquistare alle idee di emancipazione quanti più individui, quante più masse è possibile.

Ma è completamente erroneo se significa che per abbattere il capitalismo bisogna aspettare che i 60 milioni di cattolici siano diventati liberi pensatori, che gli operai siano tutti (o in maggioranza) organizzati per la lotta di classe, e che Debs esca di prigione grazie alla maggioranza degli elettori.

Non equivochiamo. È una verità assiomatica, lapalissiana, che la rivoluzione non si può fare se non quando vi sono forze sufficienti per farla. Ma è una verità storica che le forze che determinano l’evoluzione e le rivoluzioni sociali non si calcolano coi bollettini del censimento.

I cattolici degli Stati Uniti e d’altrove resteranno numerosi come sono, e magari aumenteranno, fino a quando vi sarà una classe, potente di ricchezza e di scienza, interessata a tenere la massa nella schiavitù intellettuale per potere meglio dominarla. Gli operai non saranno mai tutti organizzati e le loro organizzazioni saranno sempre soggette a disfarsi o a degenerare fino a quando la miseria, la disoccupazione, la paura di perdere il posto, il desiderio di migliorare di condizioni alimenteranno la rivalità tra operai e daranno modo ai padroni di profittare di tutte le circostanze, di tutte le crisi per mettere gli operai in concorrenza gli uni contro gli altri. E gli elettori resteranno sempre montoni per definizione anche se qualche volta accade loro di tirar delle cornate.

È cosa provata che date certe condizioni economiche, dato un certo ambiente sociale, le condizioni intellettuali e morali della massa restano sostanzialmente le stesse e, fino a quando un fatto esterno, un fatto idealmente o materialmente violento non viene a modificare quell’ambiente, la propaganda, l’educazione, l’istruzione restano impotenti e non riescono ad agire che sopra quel numero d’individui che, in forza di privilegi naturali o sociali, possono vincere l’ambiente in cui sono costretti a vivere. Ma quel piccolo numero, quella minoranza cosciente e ribelle che ogni ordine sociale partorisce in conseguenza delle stesse ingiustizie a cui la massa è soggetta, agisce come fermento storico e basta, è sempre bastato, a far progredire il mondo.

Ogni nuova idea, ogni nuova istituzione, ogni progresso ed ogni rivoluzione è stata sempre l’opera di minoranze. È nostra aspirazione, è nostro scopo quello di far assurgere tutti quanti gli uomini a fattori effettivi, a forze coscienti della vita sociale; ma per riuscire a questo scopo occorre dare a tutti i mezzi di vita e di sviluppo, e perciò bisogna abbattere, con la violenza poiché non si può fare altrimenti, la violenza che questi mezzi nega ai lavoratori.

Naturalmente il “piccolo numero”, la minoranza, deve essere sufficiente, e ci giudica male chi pensa che noi vorremmo fare un’insurrezione al giorno senza tener conto delle forze in contrasto e delle circostanze favorevoli o meno.

Noi abbiamo potuto fare, abbiamo fatto realmente, in tempi oramai remoti dei minuscoli moti insurrezionali che non avevano alcuna probabilità di successo. Ma allora eravamo davvero in quattro gatti, volevamo obbligare il pubblico a discuterci ed i nostri tentativi erano semplicemente dei mezzi di propaganda.

Ora non si tratta più d’insorgere per far propaganda: ora possiamo vincere, quindi vogliamo vincere, e non facciamo tentativi se non quando ci pare di poter vincere. Naturalmente possiamo ingannarci e, per ragione di temperamento, possiamo credere il frutto maturo quando ancora è acerbo ma confessiamo la nostra preferenza per coloro che vogliono fare troppo presto contro quegli altri che vogliono sempre aspettare, che lasciano di proposito passare le migliori occasioni, e per paura di cogliere un frutto acerbo lasciano tutto marcire.

Insomma noi siamo perfettamente d’accordo con “La Giustizia” quando insiste sulla necessità di fare molta propaganda e di sviluppare il più possibile le organizzazioni proletarie di lotta ma ci stacchiamo recisamente da essa quando pretende che per agire bisogna aspettare di avere attirato a noi la maggioranza di quella massa inerte che non sarà convertita se non dai fatti, che non accetterà la rivoluzione se non dopo che la rivoluzione sarà iniziata.


[Pubblicato su “Umanità Nova” n. 125 del 6 settembre 1921]

Gli anarchici nel momento attuale

Vi è in una sezione del nostro movimento un gran fervore di discussioni sui problemi pratici che la rivoluzione dovrà risolvere.

Ed è questo un gran bene e di ottimo augurio, anche se le soluzioni proposte finora non sono né abbondanti né soddisfacenti.

È passato il tempo in cui si pensava che l’insurrezione bastasse a tutto, e che una volta vinto l’esercito e la polizia ed abbattuti tutti i poteri costituiti, il resto, che era poi l’essenziale, verrebbe da sé.

Basta, si diceva, che immediatamente dopo la rivolta vittoriosa tutti possano mangiare a sufficienza ed essere bene alloggiati e ben vestiti, perché la rivoluzione sia fondata sopra basi granitiche e possa procedere sicura verso ideali sempre più alti. E nessuno pensava ad assicurarsi se vi fosse poi roba sufficiente per tutti, e se la roba esistente si trovasse o no nei luoghi in cui più occorreva. Lo spettacolo dei magazzini cittadini ricolmi di merci illudeva e suggestionava le folle affamate e lacere, e gli agitatori, consci o no dell’errore, trovavano in quell’illusione un mezzo efficace di propaganda. Ma oggi si sa che se è vero che la produzione, se fatta da tutti a vantaggio di tutti e coll’aiuto che la meccanica e la chimica forniscono, può aumentare indefinitamente, è anche vero che col sistema attuale i capitalisti, come regola, fanno produrre solo quel tanto che possono vendere con profitto, ed arrestano la produzione lì dove il profitto cessa dall’aumentare. Se per errore, o per rivalità tra loro si produce di più, viene la crisi e riconduce il mercato a quello stato di relativa penuria che è più vantaggioso per gli industriali e per i commercianti. Si comprende quindi quale pericolo vi sia nel far credere che la roba sovrabbonda e che non vi sia urgenza di mettersi a lavorare.

E così è anche passato il tempo in cui si poteva dire che il compito nostro è di demolire e che a ricostruire penseranno i figli ed i nipoti. Era quella un’affermazione comoda, che poteva passare quando non v’era probabilità di rivoluzione imminente e che si mirava solo ad eccitare l’avversione e l’odio contro tutto il presente per rendere più viva la volontà del cambiamento. Ma ora che la situazione europea è piena di possibilità rivoluzionarie e che tutti i momenti ci potremmo trovare nel caso di passare dalla teoria alla pratica, dalla propaganda all’azione, bisogna ben ricordarsi che la vita sociale e quella individuale non ammettono interruzione e che dobbiamo mangiare e vivere tutti i giorni noi ed i nostri figli, prima che i figli ci possano pensare loro.

Siamo dunque d’accordo nel pensare che oltre al problema di assicurare la vittoria contro le forze materiali dell’avversario vi è anche il problema di far vivere la rivoluzione dopo la vittoria. Siamo d’accordo che una rivoluzione la quale producesse il caos non sarebbe vitale.

Ma non bisogna esagerare: non bisogna credere che noi si debba e si possa fin d’ora trovare una soluzione ideale per tutti i possibili problemi. Non bisogna voler troppo prevedere e troppo determinare, altrimenti invece di preparare l’anarchia faremmo dei sogni irrealizzabili, oppure cadremmo nell’autoritarismo e, coscientemente o no, ci proporremmo di agire come un governo che in nome della Libertà e della volontà popolare sottopone il popolo al proprio dominio.

Mi accade infatti di leggere le più strane cose: strane se si considera che sono scritte da anarchici.

Un compagno, ad esempio, dice che “le folle avrebbero ragione d’inveire contro di noi se dopo di averle invitate ai dolorosissimi sacrifizi di una rivoluzione si dicesse loro: fate ciò che la volontà vi suggerisce, raggruppatevi, producete, convivete come meglio vi aggrada”.

Ma come! non abbiamo noi sempre detto alle folle che non debbono aspettarsi il bene né da noi né da altri, che il bene debbono conquistarselo da loro stesse e che avrebbero solo quello che sapranno prendere e conserveranno solo quello che sapranno difendere? È giusto e naturale che noi, iniziatori e propulsori e parte della massa noi stessi, dobbiamo cercare di spingere il movimento nella direzione che ci sembra migliore e perciò essere preparati il più possibile per le cose che si debbono fare, ma resta sempre fondamentale il principio che la decisione spetta alla libera volontà degli interessati.

Leggo pure: “Creeremo un regime che se non sia del tutto libertario abbia l’impronta nostra e soprattutto dia adito alla progressiva attuazione dei nostri postulati”.

Che cosa è questo? Un piccolo governo, bono bono, che avrà cura di suicidarsi al più presto per far luogo all’anarchia!!!

Ma non eravamo già d’accordo nel pensare che ogni governo ha tendenza non a suicidarsi, ma a perpetuarsi e diventare sempre più dispotico? e che missione degli anarchici è quella di combattere, anche se obbligati a subirlo, qualunque regime non fondato sulla libertà piena e intera? E non dicevamo anche che gli anarchici al potere non potrebbero fare diversamente dagli altri?

Un altro compagno, tra quelli che più si preoccupano della necessità di avere un “piano” e che in sostanza non opera che nei sindacati operai, dice:

“A rivoluzione trionfata, si affidi alla classe lavoratrice – già da noi precedentemente educata a questa grande funzione sociale – la gestione di tutti i mezzi di produzione, di trasporto, di scambio, ecc.”.

Già da noi precedentemente educata a questa grande funzione sociale! Ma tra quanti secoli quel compagno vuol fare la invocata rivoluzione? E almeno bastassero i secoli! Ma il fatto è che non si educa la massa se essa non si trova nella possibilità e nella necessità di fare da sé, e che l’organizzazione rivoluzionaria dei lavoratori, utile e necessaria finché si vuole, non può estendersi e durare indefinitamente: arrivata ad un certo punto, se non sbocca nell’azione rivoluzionaria, o il governo la strozza, o essa da se stessa si corrompe o si sfascia – e bisogna ricominciare da capo.

Come è vero che gli uomini “pratici” sono spesso i più ingenui utopisti!

Ma tutta questa discussione non saprebbe forse alquanto di accademia se nel caso concreto si trattasse di un paese in cui la libera organizzazione dei lavoratori è distrutta ed interdetta, la libertà di stampa, di riunione, di associazione soppresse ed i propagandisti, anarchici, socialisti, comunisti, repubblicani sono o rifugiati all’estero, o relegati nelle isole, o chiusi in prigione, o messi altrimenti in condizioni di non poter né parlare né muoversi e quasi neppure respirare?

Si può ragionevolmente sperare che il prossimo rivolgimento, in un paese ridotto nelle condizioni descritte, sarà la rivoluzione sociale in tutto il senso ampio e profondo che noi diamo alla parola? Non sembra che oggi il possibile e l’urgente sia piuttosto la riconquista delle condizioni necessarie alla propaganda e all’organizzazione?

A me sembra che la ragione per cui si veggono tante difficoltà e si cade in tante incertezze e contraddizioni si è che si vuol fare l’anarchia senza anarchici, o perché si crede che la propaganda basti a convertire all’anarchia tutta o gran parte della popolazione prima che le condizioni ambientali siano radicalmente mutate.

Vi è chi suol dire che “la rivoluzione sarà anarchica o non sarà”. Ancora una di quelle frasi d’effetto che guardate in fondo o non dicono nulla o dicono uno sproposito. Infatti, se s’intende dire che la rivoluzione quale la vorremmo noi deve essere anarchica, si fa una vera tautologia, cioè un giro di parole che non spiega nulla, come se si dicesse, per esempio, la carta bianca deve essere bianca. Se poi s’intende dire che non vi può essere altra rivoluzione che quella anarchica, allora si dice uno sproposito perché vi sono stati e certamente vi saranno ancora nella vita delle società umane dei movimenti che, cambiando radicalmente le condizioni esistenti danno una nuova direzione alla storia successiva, e perciò meritano il nome di rivoluzioni. Ed io non saprei ammettere che tutte le rivoluzioni passate pur non essendo anarchiche siano state inutili, né che saranno inutili quelle future che non saranno ancora anarchiche. Anzi inclino a credere che il trionfo completo dell’anarchia, piuttosto che per rivoluzione violenta, verrà per evoluzione, gradualmente, quando una precedente o delle precedenti rivoluzioni avranno distrutti i più grossi ostacoli militari ed economici che si oppongono allo sviluppo morale delle popolazioni, all’aumento della produzione fino al livello dei bisogni e dei desideri e all’armonizzazione degl’interessi contrastanti.

In ogni modo, se teniamo conto delle nostre scarse forze e delle disposizioni prevalenti tra le masse e se non vogliamo prendere per realtà i nostri desideri, dobbiamo aspettarci che la prossima, forse imminente, rivoluzione non sarà anarchica, e perciò quello che più urge è di pensare a quello che possiamo e dobbiamo fare in una rivoluzione in cui non saremo che una minoranza relativamente piccola e mal armata.

* * *

Alcuni compagni, forse suggestionati ancora dalle vanterie socialiste e dalle illusioni che fece nascere la rivoluzione russa, credono che il compito degli autoritari sia più facile del nostro, perché essi hanno un “piano”: impossessarsi del potere e imporre con la forza i loro sistemi.

Ciò non è vero. Il desiderio di afferrare il potere socialisti e comunisti ce l’hanno certamente, ed in date circostanze, possono riuscirci. Ma i più intelligenti tra loro sanno bene che stando al potere potrebbero bensì tiranneggiare il popolo e sottoporlo ad esperimenti capricciosi e pericolosi, potrebbero sostituire alla borghesia attuale una nuova classe privilegiata, ma il socialismo non potrebbero farlo, il “piano” non potrebbero applicarlo. Come si può mai distruggere una società millenaria e fondare una nuova e migliore società con decreti fatti da pochi uomini ed imposti colle bajonette! Ed è questa la ragione onesta (delle altre meno confessabili ragioni non voglio occuparmi), è questa la ragione onesta per la quale in Italia socialisti e comunisti negarono il loro concorso ed impedirono la rivoluzione quando c’era la possibilità di farla. Essi sentivano che non avrebbero potuto dominare la situazione ed avrebbero dovuto o lasciar libero il campo agli anarchici, o farsi strumenti della reazione. Nei paesi poi dove al potere ci sono andati... si sa quello che hanno fatto.

Il compito nostro, se solamente avessimo la forza materiale per sbarazzarci della forza materiale che ci opprime, sarebbe di molto più facile, perché noi non pretendiamo dalla massa se non quello che la massa è capace e vogliosa di fare, limitandoci a fare tutto quello che possiamo per svilupparne la capacità e la volontà.

Dobbiamo guardarci però dal diventare noi stessi meno anarchici perché la massa non è capace di anarchia. Se la massa vorrà un governo, noi probabilmente non potremo impedire che un nuovo governo si formi, ma non dovremo meno per questo fare il possibile per persuadere la gente che il governo è inutile e dannoso e per impedire che il nuovo governo s’imponga anche a noi ed a quelli che non lo vogliono. Noi dovremo adoperarci perché la vita sociale, e specialmente la vita economica, continua e migliori senza l’intervento del governo, e perciò dobbiamo essere preparati il più possibile per i problemi pratici della produzione e della distribuzione, ricordandoci d’altronde che i più adatti ad organizzare il lavoro sono quelli che lo fanno, ciascuno nel proprio mestiere.

* * *

Noi dovremo cercare di essere parte attiva, e se possibile preponderante, nell’atto insurrezionale. Ma, abbattute le forze repressive che servono a tenere il popolo nella schiavitù, disfatti l’esercito, la polizia, la magistratura, ecc., armata tutta la popolazione perché possa opporsi ad ogni ritorno offensivo della reazione, indotti i volonterosi a prendere in mano l’organizzazione della cosa pubblica ed a provvedere, con criteri di giustizia distributiva, ai bisogni più urgenti servendosi con parsimonia delle ricchezze esistenti nelle varie località, dovremo adoperarci perché si eviti ogni sperpero e si rispettino e si utilizzino quelle istituzioni, quei costumi, quelle abitudini, quei sistemi di produzione, di scambi, di assistenza che compiono, sia pure in modo insufficiente e cattivo, delle funzioni necessarie, cercando bensì di far sparire ogni traccia di privilegio, ma guardandoci dal distruggere ciò che non si può ancora sostituire con qualche cosa che risponda meglio al bene di tutti. Spingere gli operai ad impossessarsi delle fabbriche, federarsi tra di loro e lavorare per conto delle collettività, e così spingere i contadini ad impossessarsi delle terre e dei prodotti usurpati dai signori ed intendersi cogli operai pei necessari scambi.

Se non potremo impedire la costituzione di un nuovo governo, se non potremo abbatterlo subito, dovremo in tutti i casi negargli ogni concorso. Negare il servizio militare, negare il pagamento delle imposte. Non ubbidire per principio, resistere fino all’ultima estremità ad ogni imposizione delle autorità, e rifiutarsi assolutamente di accettare qualunque posto di comando.

Se non potremo abbattere il capitalismo, dovremo esigere per noi e per tutti quelli che lo vogliono, il diritto all’uso gratuito dei mezzi di produzione necessari per una vita indipendente.

Consigliare quando avremo consigli da dare; insegnare se sappiamo più degli altri; dar l’esempio della vita per libero accordo; difendere, anche colla forza, se è necessario e se possibile, la nostra autonomia contro qualunque pretesa governativa... ma comandare mai.

Così non faremo l’anarchia, perché l’anarchia non si fa contro la volontà della gente, ma almeno la prepareremo.


[Pubblicato su “Vogliamo!” del giugno 1930]

 
 

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