Titolo: I fondamenti di una teoria filosofica dell’indeterminazione
Sottotitolo: Seconda edizione
Note: Pensiero e azione N. 35
Prima edizione: Studi e ricerche, Catania dicembre 1968
Seconda edizione: Edizioni Anarchismo, Trieste maggio 2015
SKU: pensiero-000035
Dimensioni: cm 15 x 21,5
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    Introduzione alla seconda edizione

    Introduzione alla prima edizione

    Limiti e possibilità di una collaborazione filosofia-scienza

      La dissoluzione del determinismo

      Difficoltà di separazione

      Connessioni e interdipendenze

      Il rifiuto della collaborazione

      Heisenberg e la sua conferenza di Ginevra del 1958

      Pierre Auger e la sua conferenza di Givenvra del 1952

      L’opinione dei filosofi

    + e –

      Kant e Newton

      Kierkegaard

      Nietzsche

      La nuova geometria

      Il vitalismo

      Matematica e logica

      La reazione posthegeliana

      Dilthey

      Spengler

      Troeltsch

      Max Weber

      Mannheim

      Universalismo americano

      L’economia politica

      Husserl

      L’esistenzialismo

      Heidegger

      Jaspers

      Sartre

      Abbagnano

      La nuova fisica

    Princìpi essenziali di logica

      Il metodo come strumento e come struttura

      L’unità della logica

      Il concetto di problema

      La rispondenza logica

      Il problema della conoscenza

      L’idea di ordine

      Il principio di causa ed effetto

      Il principio di incertezza

      Le leggi probabilistiche

      La giusta valutazione della tendenza probabile

      La misurazione

      La logica a tre valori

      I limiti della conoscenza

    L’indeterminazione filosofica

      Al termine della discesa

      La stabilizzazione

      I fondamenti della realtà

      L’indeterminazione e l’uomo

      Libertà e indeterminazione

      La realtà come compromesso

      La temporalità

      La forma

      La relazione

      Il ritmo della temporalità

      Il ritmo della forma

      L’indeterminazione filosofica

      Sostanza e indeterminazione

    Appendice: Questioni da discutere

A mio figlio Antonio

Introduzione alla seconda edizione

Dopo quasi mezzo secolo esce la seconda edizione di questo libro. Altri tempi e altre urgenze si muovevano nel mio orizzonte. Nuove pratiche stavano per schiudersi e precedenti ricerche concludersi senza per ciò propormi un accomodamento che facesse tacere le mie inquietudini.

Proprio mentre la prima edizione era in tipografia nasceva mio figlio Antonio, ed è per questo che voglio dedicare a lui il tardo ritorno di questi scritti sulla carta stampata.

Allora dirigevo una industria farmaceutica, lavoro che finirò per lasciare nel maggio del 1972.

Nel 1967 in Grecia i Colonnelli prendevano il potere: “Apofasisomen kai diatasomen”, “abbiamo deciso e ordiniamo”.

Datano dal 1969 i miei viaggi in Grecia da clandestino, in motoscafo insieme al compagno Rosario, e le mie prime esperienze di guerriglia urbana.

Nel frattempo queste pagine dormivano il sonno dei dimenticati e i problemi qui aperti venivano destinati a trovare, quasi sempre, altra soluzione teorica. Non me ne dolgo. La distanza tra questi due punti di riferimento la si può misurare nell’Appendice, pensata come elenco di domande da approfondire, redatte sostanzialmente intorno ai primi anni Sessanta, e qui pubblicata con i sostegni di letture durate decenni e concluse con gli appunti redatti nel carcere di Trieste nel 2004.

Pro captu lectoris habent sua fata libelli.


Trieste, 7 febbraio 2014

Alfredo M. Bonanno

* * * * *

È nei periodi difficili che dobbiamo imparare di più,
e non di meno.

P. K. Feyerabend

Introduzione alla prima edizione

La presente ricerca è stata condotta, al limite tra filosofia e scienza, su interessi e problemi che, come è naturale, non sempre possono essere sufficientemente abbracciati da un solo ricercatore. Da qui le lacune, eliminabili, almeno me lo auguro, in futuro, ma alle quali ho cercato di porre rimedio, fin d’ora, dedicando un’Appendice alle “Questioni da discutere”, nella quale entrano tutti quei cenni a problemi non affrontati nel testo e che restano vitali e decisivi per un approfondimento della ricerca intrapresa. Spero che dalla lettura dell’Appendice il lettore ricavi uno stimolo di ricerca, per cui potrebbe dirsi concluso lo scopo del mio lavoro, se poi la lettura del testo può aiutare nel portare avanti quella ricerca, la mia fatica non sarà stata del tutto inutile.

La mia ipotesi metodologica si fonda su di una necessità di collaborazione tra scienza e filosofia. Per quanto indigesta possa sembrare ai filosofi e agli scienziati, questa coabitazione non può rifiutarsi, salvo che non si voglia chiudere gli occhi ai problemi che la stessa ricerca scientifica viene proponendo e che sono problemi d’ordine filosofico, salvo che non si voglia ridurre la ricerca filosofica a un gioco tedioso e antiquato, mantenendola ancora sui vecchi canovacci ormai sbiaditi dall’uso.

Questa necessità di collaborazione è provata dallo stesso sviluppo del pensiero moderno, con il suo sottofondo di irrazionalità e con il suo continuo riferirsi a forze di rottura antitradizionali. Il positivismo e l’idealismo hanno entrambi fallito il proprio compito. La scienza moderna ha ridotto le illusioni del primo e la filosofia moderna ha distrutto anche l’ultima fioritura tra le due guerre.

Scomparsa la sicurezza romantica nei destini del mondo, è rimasta l’instabilità, l’insicurezza, la mancanza di garanzia. Su questo terreno hanno lavorato il neopositivismo, la fenomenologia e l’esistenzialismo. Dal loro insegnamento l’uomo ha appreso l’attenzione al proprio perché, all’essere che gli appartiene, ai valori di fondo della sua esistenza, alla misura del rischio e della sconfitta, alla eterna compresenzialità della possibilità negativa.

Ma il significato più recondito, quello che può ancora definirsi come motivo conduttore di tutta un’epoca, resta sempre l’instabilità. In tutti i campi dell’attività umana questa sensazione prende forma e viene analizzata fino a scomparire come sensazione di insofferenza per diventare principio e legge.

L’arte propone questo rifiuto del legame alla realtà, affermando l’inconsistenza di quest’ultima o, in ogni caso, la sua insufficienza a seguire e a valorizzare l’ispirazione e l’interpretazione. Da ciò una penetrazione della conoscenza artistica al di là dell’immediatamente intuitivo, nel pieno riconoscimento dell’instabilità di ciò che apparentemente vuole sembrare ordinato e determinato. In questo modo la narrativa contemporanea sovrappone al tipo ideale del passato il tipo moderno che presenta aspetti della vita di tutti i giorni, anche malsani o sconcertanti. In questo modo l’arte figurativa cerca di arrivare al fondamento della comunicazione percettiva, separando la sovrastruttura dalla infrastruttura del reale, lavorando soltanto su quest’ultima e stabilendo delle relazioni comunicative, affidate nella maggior parte dei casi, ancora al messaggio visivo, ma limitate soltanto al sottofondo infrastrutturale. In questo modo la musica riconosce l’intrinseca libertà e indeterminatezza del contesto musicale, facendone il fondamento dell’armonia. In questo modo la poesia si scioglie dal tradizionale vincolo sintattico e metrico per comunicare l’intima instabilità della sua interpretazione della realtà.

La psicanalisi ci ha fatto conoscere come la fondamentale struttura dell’uomo non sia soltanto razionalità, ma vi giochi un emittente ruolo anche la sessualità, venendosi pertanto a rendere evidenti forti contrasti con una concezione della vita legata a un tradizionale determinismo di fattura razionalistit

Anche in manifestazioni meno importanti della vita, o almeno non valutabili intellettualmente alla stessa stregua delle precedenti, si manifesta questo stesso sottofondo di instabilità.

Di fronte a questo stato di cose si rendeva necessaria una prima presa di posizione nei confronti della logica tradizionale. In ogni caso andava modificato il vecchio concetto di causalità. L’applicazione di una teoria fondata su relazioni non sempre riscontrabili con misurazioni dirette, o almeno non riscontrabili nella totalità dei termini che le pongono, conduce infatti a una sostituzione del principio di causalità. Una logica di tipo nuovo ci serve pure per potere comprendere il principio fisico di indeterminazione, che altrimenti resterebbe un puro concetto operazionistico e, pertanto, non generalizzabile in casi diversi da quello tradizionale della misurazione contemporanea della posizione e della velocità di una particella atomica.

L’applicazione in filosofia della teoria fisica dell’indeterminazione, trasformata in principio di indeterminazione, dà luogo a una serie di problemi di grande difficoltà che spero di avere almeno delineato con un minimo di compiutezza. Manca ogni riferimento al problema della storia e a quello dell’arte che ritengo sia opportuno trattare in uno studio a parte, proprio perché presentano interessi di ordine specifico, particolarmente se portati a un notevovole grado di approfondimento.

La novità dell’argomento, la difficoltà di giungere alla conoscenza dello stato attuale della ricerca scientifica, la stessa nebulosità della riflessione filosofica contemporanea, possono essere tenute presenti come limiti, a volte insormontabili, del mio lavoro, sebbene non possono, ovviamente, considerarsi come scusanti alle mie imprecisioni o manchevolezze.


Catania, 7 gennaio 1968

Alfredo M. Bonanno

Limiti e possibilità di una collaborazione filosofia-scienza

La dissoluzione del determinismo

Attuare, o per lo meno prevedere, le possibili aperture di orizzonte della scienza contemporanea, potrebbe non essere compito legato strettamente a quello del filosofo. Si potrebbe sempre augurare l’avvento di compartimenti stagni che impongano una specializzazione, se non altro, organizzante l’ambito dei problemi e delle questioni.

Ma, onde ben si consideri, una teorica fisica, matematica, biologica, psicologica, economica o filosofica, una che ponga a giustificazione di se stessa, il credo neopositivista, pragmatista, spiritualista, idealista, esistenzialista, neorazionalista, operazionista o empirista, deve varcare la cerchia limitativa delle proprie formulazioni tecniche, per arrivare a un’autorizzazione più vasta, arrecando il proprio influsso in altri campi, e da altri interessi traendo linfa per il proprio progredire. Difatti si potrebbe misurare la validità di una teoria, poniamo economica, dalla retroazione di questa teoria non solo sull’economia precedente e in corso ma sulle altre divisioni della ricerca umana.

Con queste affermazioni non intendo ridurre l’attività filosofica a una raccolta meramente quantitativa, di queste relazioni di ingerenza. Rilievi condotti in questo senso, hanno solo valore programmatico e strumentale, mai carattere speculativo.

Volgendo uno sguardo di insieme alla situazione filosofica contemporanea, dal punto di vista militante, si può rilevare un processo di dissoluzione, tutt’ora in corso. La certezza della determinabilità dei fatti naturali, con l’intervento dell’organizzata ricerca scientifica, si è rifugiata in una serie di sospensioni di giudizio e, successivamente, in un nuovo metodo di svolgimento, fino a scomparire quasi del tutto, nella preparazione di ogni studioso serio. Si può dire che nessuna corrente filosofica contemporanea ha mancato la proposizione del problema della scienza. Per primi lo spiritualismo e l’idealismo pur nell’estremo parallelismo di tante loro manifestazioni si sono mostrati abbastanza concordi nel rifiutare valore agli assunti positivisti sulla scienza. Non prospettando una impalcatura critica ben sviluppata, ma premettendo la necessità di questo rifiuto, in nome della originaria libertà d’azione dell’uomo, e in forza di quella sostanzializzazione che intravedevano al di là dello stretto fenomeno empirico. Evidentemente le cause che favorirono lo sviluppo dello spiritualismo e dell’idealismo (correnti filosofiche, per altro, vecchie quanto la filosofia) non possono risolversi tutte in questo sforzo di rifiutare autorità alla scienza. Però resta ugualmente valido il merito di questi uomini difensori e assertori di un avvenire più alto, anche se, per altro verso, ugualmente utopistico. Si è cercato di trovare in queste filosofie degli spunti che preannuncino la possibilità di rifiutare valore assoluto alle leggi scientifiche, negando la caratteristica di verificabilità e di sicurezza. Ma si tratta di tentativi falliti. Il rifiuto è globale, non specificato, e quindi non valido in sede tecnica, spetterà a altri interessi filosofici, imbastire una vera e propria critica della scienza.

Difficoltà di separazione

La strada percorsa dalla scienza per uscire dal vicolo cieco del positivismo, non passa soltanto attraverso le negazioni filosofiche, ma si vale pure di alcuni contributi positivi, come quello fornito dal pragmatismo. Il principio di molteplicità delle rilevazioni esperienziali, come fondazione prima della ricerca, è stato elaborato da questa corrente filosofica, e assunto in pieno dalle nuove forze vive della scienza. Da questo principio è stato possibile derivarne un altro, dubitativo: non si possono riconoscere veritiere e assolute leggi che difficilmente si assoggettano a restare valide per più esperimenti e per diverse condizioni. Ma questa deduzione è maturata all’interno stesso dell’indagine scientifica, perché ogni presa di posizione chiaramente definita, da parte del pragmatismo, si è arenata in un affannoso progredire per limitazioni e rinunce. Il rifiuto del nominalismo, quello delle categorie, quello delle serie individuabili. Contraffazioni della realtà non sostenute da nessuna schietta pretesa alla generalizzazione. Eppure, nonostante tutto, anche il pragmatismo è stato molto utile al dipanarsi della ricerca scientifica. Il volto impassibile del positivismo ha subito una nuova contrazione: oltre a registrare fatti oggettivi, la scienza deve lavorare a una strutturazione umana, condotta nei limiti della sua riconosciuta parzialità.

Le indagini fenomenologiche e la filosofia dell’esistenza, sebbene si siano mantenute, per lo meno nelle proposte teoriche, al di qua di ogni valutazione del problema della scienza, sebbene l’abbiano voluto considerare come un atteggiamento dell’uomo per nulla differente di quante altre attività della vita, hanno, lo stesso, contribuito a modificare le basi del vecchio concetto positivista della scienza. Tanto per le prime quanto per la seconda, ciò è derivato da una certa idea di instabilità e di precarietà, che neppure la famosa sospensione fenomenologica o la soluzione strutturalizzante dell’esistenzialismo, sono riusciti a cancellare. Ciò è derivato dal clima particolare in cui queste speculazioni hanno trovato origine. È caratteristico di tutta la filosofia contemporanea il rifiuto di credere a una realtà compatta, limitata e circoscritta in tutte le sue parti, senza possibilità di dispersione o di ripensamenti, senza scosse e senza problemi. Lo schema caro all’Ottocento, di una realtà trovante origine da un gioco determinato di cause, e capace di produrre un altrettanto determinabile gioco di effetti, viene nettamente respinto. Sebbene indirizzati su di un piano logico od ontologico, questi dubbi sulla validità dei mezzi conoscitivi (e pertanto anche scientifici), non hanno mancato di agire, sia pure come semplici componenti di tutto un clima, nelle premesse filosofiche causanti i profondi rivolgimenti dell’atteggiamento scientifico contemporaneo.

Per ultima la moderna filosofia della scienza ha contribuito, più delle altre correnti filosofiche, a fissare i limiti e la validità dei concetti scientifici, al di qua di ogni superba pretesa di determinazione. Più che una semplice epistemologia, questa filosofia, ha reso grandissimi servigi al complesso valutativo della realtà, non limitandosi a un puro discorso sulla scienza, ma valicando i confini di un ristretto tecnicismo, per cercare il nocciolo centrale di ogni problema. Dai primi tentativi di Ernst Mach e Richard Avenarius, all’energetismo di Wilhelm Ostwald, dal vitalismo di Hans Driesch, alla metafisica della scienza di Émile Meyerson, dalle sorprese che nascondevano i postulati di Euclide, alla stabilizzazione delle geometrie nuove, dalle intuizioni di Henri Jules Poincaré, alla fisica atomica, dalla logica di Bertrand Russel e Alfred Whitehead, alla logica di Ludwig Wittgenstein, Otto Neurath, Rudolf Carnap, Hans Reichenbach, Alfred Tarski. Il fatto comune a tutte queste correnti filosofiche, che il determinismo naturale non sia altro che una estrapolazione causata dall’imprecisione dei nostri mezzi di osservazione, ha posto in crisi la fisica classica, e con essa tutta l’impalcatura positivista della scienza. Di certo si potrebbe porre dei limiti a questa interpretazione a carattere generale. In effetti non possiamo dirci sicuri di riscontrare nella filosofia di Avenarius, Mach, Ostwald, Driesch e perfino in Meyerson, delle formulazioni precise di quest’idea. In Avenarius lo sforzo di annullare le entità separate del fisico e dello psichico, conduce a una contaminazione metafisica del reale, e a una costruzione illusoria dei rapporti io-mondo, ma, come ha fatto giustamente notare Guido De Ruggiero, svolgendo alle estreme conseguenze l’equivoco iniziale causato da Avenarius (cosa che ha fatto il suo scolaro Joseph Petzoldt), si ottiene una assurda condizione di equilibrio di qualsiasi problema, come se tutto – la scienza compresa – si dovesse ridurre all’annullamento per mancanza di contrasto. Pertanto le proposizioni di Avenarius, anche se non manifestano chiaramente una tendenza critica nei confronti della scienza, si pongono su di un terreno nuovo alle illusioni precedenti, e quindi pericolosamente instabile. In Mach l’allontanamento dal positivismo si fa più accentuato. Eppure da un canto ammette la possibilità di formulazione di una legge scientifica dall’esperienza diretta dei fatti riscontrabili, stabilendo un dominio di questi fatti sulla legge stessa, mentre dall’altro rimane legato a una interpretazione scientifico-romantica, quando afferma essere possibile la formulazione di una legge, da un semplice esperimento, o da una semplice intuizione. Ma tutto questo ha un carattere marginale. Il fondo è interamente mutato. La scienza viene considerata come un complesso immane da ridimensionarsi, per restare valido, per non vedere troncato il proprio sviluppo, dalla incomoda compresenza di illusioni e di pesi morti. In Ostwald e Driesch si ripresenta il pericolo di metafisicizzazione della scienza, da cui il risultato chiaramente negativo per la filosofia, ma egualmente distruttivo per la scienza. Quest’ultima, difatti, viene interpretata in termini positivisti, cioè come un tutto prevedibile nello svolgimento futuro, dall’analisi della situazione presente. Ma l’autorizzazione a questa speranza viene spostata dalla scienza stessa alla logica tradizionale, da cui il terreno che funge da fondamento appare subito più friabile e meno adatto. Infatti non si assiste più a quel determinismo rigido del positivismo, ma a una nuova forma, soltanto in aspetto parziale: forma che consente una certa autonomia all’intervento direttivo dell’uomo. In Meyerson si ripresenta il vecchio motivo dell’esigenza della spiegazione dei fenomeni, motivo che costituiva la vecchia impalcatura scientifica, prima non solo del positivismo ma pure dell’illuminismo. Questo motivo rappresenta la fase infantile della scienza, e il fatto che un uomo della cultura e della preparazione di Meyerson si sia fermato in esso, costituisce una delle sorprese più grandi della speculazione filosofica sulla scienza. In ogni modo, il suo contributo è stato egualmente valido, nel ribadire la sempre necessaria affermazione del principio dominante della scienza, principio che può smarrirsi nelle elaborazioni metafisiche, che può camuffarsi in quelle positiviste, ma che finisce sempre per uscire alla luce dell’instabilità e dell’incertezza. Solo con l’avvento delle nuove geometrie, si dette inizio a una chiara rielaborazione della scienza, sostituendo al modello di macchina assoluta e perfetta quello di un tutto in evoluzione, in modificazione e, pertanto, ammettendo l’impossibilità di previsione sicura. Compito, come si vede, molto più modesto, ma forse più raggiungibile, visto che i mezzi a disposizione non sono così eccelsi, come la vecchia inquadratura della scienza, pretendeva che fossero. Le vecchie teorie difendevano dei fatti posti in prospettiva, staccati dalle umane possibilità, le nuove, invece, espongono tentativi di determinazione dei fatti, ma sempre dietro un’impostazione probalista.

Dalle osservazioni che precedono appare chiara la difficoltà di tracciare una linea netta nell’ingerenza reciproca tra filosofia e scienza, malgrado che nella storia della filosofia esistano non pochi esempi di questa pretesa scissione. Ma nei sistemi nei quali si rifiuta valore alla scienza, o nei quali si cerca di costringerla dentro limiti definiti, quasi a ridurla a una semplice tecnologia, appare subito la necessità di trasferire l’autorità e il metodo della scienza stessa, al di dentro del sistema filosofico che dovrebbe dettare le condizioni di condanna. D’altro canto nei sistemi che apertamente si rifanno a un procedimento epistemologico, non può sussistere, o se sussiste è priva di forza, l’elaborazione di un metodo, in quanto sarebbe un pallido riflesso delle teorie scientifiche che, dall’alto, reggono le fila del discorso epistemologico. Da ciò: sia nel caso di un rifiuto netto della validità della scienza, come nell’accettazione più completa, la filosofia non riesce a operare un distacco valido metodologicamente, ma si mantiene in un’illusione tanto più grave quanto più a fondo mina l’impalcatura logica che la costituisce.

Connessioni e interdipendenze

Omettendo di trattare dei sistemi filosofici che si riducono a evidenti postulati esplicativi di concetti scientifici, e restando nell’ambito di una più armoniosa visione del compito filosofico, risulta evidente lo sforzo di queste dottrine di dare alla loro organizzazione, un rigore e una deduttività, di chiaro stampo scientifico. E ciò sia sviluppando la metodologia, anzi arrivando fino al punto di considerarla una scienza a se stante, degna di cultori propri e di proprie formulazioni, sia costringendo la libertà della speculazione negli angusti limiti di un empirismo gratuito, perché nato fuori tempo. Eppure, nonostante tutti questi sforzi, la filosofia non è diventata una scienza, anzi possiamo dire che non possiede una sola affermazione verificabile, con i metodi (vecchi e nuovi) cari al procedimento scientifico. Anche nel caso di rimandi a leggi scientifiche, la possibilità di verificazione resta peculiare delle dottrine che produssero le leggi ma non entra necessariamente nell’ambito della filosofia che li prese in prestito.

Possiamo restare sorpresi davanti alla meravigliosa completezza del sistema filosofico di Tommaso o di Kant, possiamo considerare perenne la speculazione di Aristotele o di Platone ma non possiamo chiudere gli occhi davanti all’evidenza dei problemi che questi sistemi lasciano continuamente risorgere, problemi che sempre si rinnovano in una miriade di domande e risposte trovanti origine le une dalle altre. E non vale cercare di circoscrivere ogni presenza filosofica nell’ambito del tempo e dell’intelligenza che la produsse, perché così, pur venendo a limitare il numero di problemi che restano insoluti, si tradisce il significato più alto della filosofia stessa: l’eternità della sua parola, la perenne contemporaneità dei suoi sforzi e delle sue aspirazioni. La stessa cosa accade per la storia della scienza. Questa mia asserzione potrebbe suonare falsa a una gran parte di lettori, abituati a vedere un’apparente stratificazione nel continuo modificarsi dell’aspetto militante della scienza: vediamo di chiarire il pregiudizio. La scienza non è data soltanto dagli esperimenti o dai ritrovati che man mano, durante gli anni, si sovrappongono gli uni agli altri, venendosi a elidere reciprocamente, per il semplice motivo che la vita dell’uno nasce dalla morte dell’altro. Se la scienza si riducesse a ciò sarebbe mera tecnologia, un’arida esposizione di risultati e di dati di fatto, privi di logica connessione, staccati e isolati nel tempo, strettamente dipendenti dall’autorità che nel tempo seppe produrli. Ma la scienza, oltre a essere un insieme di esperimenti e di catalogazioni, è anche una fucina di teorie, tal quale la filosofia, e di teorie validissime anche se disinnestate dal tempo e dalla persona che le produsse, e inserite in un tempo affatto diverso, a contatto con esigenze e problemi fondamentalmente nuovi. Difatti non potrebbe sussistere la moderna fisica se le si sottraesse di colpo il lavoro di Newton, anche se tutti gli sforzi della prima convergono a distruggere l’autorità del secondo. A questo punto il nostro discorso rischia di scantonare, ma non si può fare a meno di concludere che, nell’esempio precedente, nell’opera chiaramente determinista di Newton esiste un’apertura all’indeterminismo, quando propone un tempo e uno spazio fuori della realtà. Questa potrebbe fare pensare a una base incerta e erronea. Ma dovendo parlare di errore, propendo nel trovarlo nella sua illusione della trascurabilità delle divergenze che sarà compito della fisica successiva mettere in chiaro, portando a compimento quella nascosta indeterminazione che, apparentemente di peso a tutto il sistema newtoniano, adesso salvaguarda la perenne validità del suo discorso.

Questa parallela considerazione della scienza e della filosofia, questo loro incontrarsi sul piano di una comune instabilità, ci deve fare riflettere sulla connessione interdipendente tra problemi scientifici e problemi filosofici. Non che si possa pensare a una utilizzazione di metodi diversi, onde ottenere una uniformità di risultati, ma mi sembra auspicabile un lavoro fianco a fianco, senza sacrifici metodologici per nessuno.

Da sempre la filosofia ha anticipato il lavoro della scienza, anche se non ha esaurito tutto il suo compito in questo aspetto programmatico. Da ciò deriva un blasone che sembrerebbe autorizzarla, anche oggi, a un compito direttivo, contrapposto a tutto il restante della ricerca umana. Certo è molto amaro il calice dell’abbandono di una simile concezione. Ma non credo si abbassi la considerazione della filosofia, una volta che venga staccata dalla posizione di predominio. Finché si rimaneva nell’ambito di uno sforzo assolutizzante, era logico attendersi qualche cosa di eccezionale, di particolare, ma una volta posta la parità di tutte le ricerche iniziate dal pensiero, non deve sembrare assurda una simile considerazione della filosofia. Solo impedendo illusioni o mistificazioni l’uomo può incentrarsi in una posizione speculativa che gli apra gli orizzonti di un’atmosfera speciale, non accessibile per altre vie, ma talmente necessaria alla esistenza della comunità, da giustificare non solo il sacrificio del proprio tempo, ma della propria vita.

Questa purificazione del concetto di filosofia deve procedere oltre l’eliminazione di un’autorizzazione scientifica, per arrivare a altre, non meno profonde, illusioni, che si sono sempre più presentate durante i secoli del suo svolgimento. Se si considera la filosofia come la famosa luce che rischiara le tenebre, non si tarderà molto a incontrare una formidabile illusione. Essa non mitiga i dolori terreni, e resta indifferente a alcune necessità d’ordine pratico. La felicità e la saggezza, la morale e la conoscenza, restano precluse dall’ambito della sua azione, come ogni dogmatica definizione di assoluto o di eterno. D’altro canto il dubbio e la disperazione, l’ignoranza e l’immoralità, resteranno lo stesso fuori dalla sua permanenza, perché legate a un determinismo che li rende estranei a ogni vera filosofia. Suo compito potrebbe definirsi quello di chiarire all’uomo la strada verso il perché di se stesso, ma non è il solo compito, né il più rilevante. Il fatto stesso di riscontrargli una strumentalità, implica un tentativo di svalutazione, da cui si è costretti a sostenere una ipotesi di prospettabilità strumentale, in vista di una utilizzazione organizzata, che non dia, da per se stessa, una valutazione della filosofia, ma la ottenga solo per via indiretta. In altre parole, intraprendere direttamente una considerazione della filosofia come insieme di teorie utili all’uomo, nel suo rapporto con la realtà, significa negare alla filosofia un’esistenza propria, indipendente dal soggettivismo valutativo. Mentre sarebbe più ammissibile sostenere una libertà di formulazione, affiancata a una parallela possibilità di utilizzazione, cosa che renderebbe immune la strutturazione filosofica, nel momento in cui viene elaborata, da contaminazioni utilitaristiche.

La filosofia deve sempre rivolgersi all’uomo, in un discorso a carattere intimo, piano, reciproco. Deve evitare di condurlo fuori dall’atmosfera che gli è congeniale, come, invece, puntualmente fa la religione. La filosofia non garantisce la conoscenza di un dio, ma intraprende la lotta per la chiarificazione dell’uomo, la cui cosa, credo, sia di gran lunga più importante. Eppure, nel passato come nel presente, essa è stata considerata come una sorta di pratica cabalistica, ben difficilmente comprensibile e di nessuna utilità immediata alla vita pratica. Nessuna attività umana, nemmeno la magia, ha talmente incontrato l’ostacolo degli uomini e dei loro pregiudizi. Nulla, d’altro canto, li appassionò così strettamente, ma nulla, anche, profondamente li disilluse come la filosofia. Nulla valse maggiormente quale linguaggio universale di comprensione, quale intelligenza reciproca e, pertanto, quale fondamento di ogni impresa e di ogni lavoro umano. Certamente questo è dipeso dall’essersi, la filosofia, staccata nel passato dagli interessi più immediati dell’uomo, e dall’essersi ripiegata in problemi remoti e astratti, circoscrivendo la propria entrinsecazione di ogni oscurità inaccessibile, come se fosse destinata solo a un esiguo gruppo di iniziati. Ma questo motivo, sebbene fondamentale, non costituisce che un lato della questione. La filosofia è sempre arrivata alla media normale delle persone, di seconda mano. E il male non sarebbe stato così grave se al rifacimento non si fosse aggiunta la malafede. Il filosofo è assai di rado un uomo d’azione. Anzi, possiamo dire che, quasi sempre, il pensiero non si accompagna all’azione. Eppure i più grandi rivolgimenti della storia, rivolgimenti causati e voluti da uomini d’azione, sono stati originati dal pensiero filosofico. Ovviamente nell’applicazione pratica di una teoria si modificano profondamente le basi che la rendevano accettabile in sede programmatica, per cui si assiste a risultati straordinariamente imprevedibili, specie se a ciò si somma la malafede e la rielaborazione di seconda mano. Ora la media normale degli uomini è in grado di valutare la portata immediata degli eventi macroscopici della storia, ma non è ugualmente in grado di valutare le origini microscopiche di quegli eventi. Basta pertanto accennare, come alcuni studiosi di oscura fama hanno fatto, alle origini filosofiche di questi rivolgimenti storici, per avvantaggiare il discredito della filosofia o, per lo meno, per porre questa vasta categoria di persone, in una posizione pregiudiziale nei confronti della stessa. Si potrebbe accennare all’esempio del comunismo, della rivoluzione francese e a altri ancora, ma non si farebbe che ripetere delle cose ormai note a tutti.

Ma le critiche alla filosofia sono giunte non solo da intellettuali superficiali, ma da uomini di una indiscutibile preparazione dottrinale, specie se legati a stimoli di ricerche miopi, troppo vincolate in ristretti limiti d’organizzazione che, abusando del nome di scienza, non sono altro che delle vuote tecnologie. E sempre si rinfocolò la discussione intorno alle possibilità della filosofia e, conseguentemente, alle speranze che su di essa l’uomo e il suo avvenire fondavano.

Effettivamente potrebbe sembrare assurdo, specie in un’epoca come la nostra, che alcune astrazioni di pensiero, prendendo la forma di semplici atteggiamenti dottrinali, possano avere influenza nella vita dell’uomo. Ma così procedendo si nasconde a malapena un errore di principio. Come prima si correva il rischio di confondere la scienza con la tecnica, adesso si cerca di confondere l’impulso alla ricerca dell’uomo, con le estrinsecazioni formali che questo impulso assume di volta in volta, estrinsecazioni che tradiscono un’approssimazione tanto meno valida, quanto più collaterale allo sforzo creativo della ricerca.

Dopo quanto si è detto, parlare di un distacco tra filosofia e scienza, non sembra più possibile, in quanto i limiti di questo distacco risulterebbero coercitivi di una libera ricerca. Ci resta, pertanto, la collaborazione reciproca, quella comune organizzazione dei problemi che si regge in vista del fine comune da raggiungere. Resterebbe molto da dire sul modo di interpretare questa norma precedente. Gli scienziati e i filosofi che la condividono non manifestano un’unità di indirizzo, da cui si possa ricavare una previsione compatta degli sforzi. Le discussioni sono state molteplici, ma con le discussioni non si distruggono i pregiudizi e non si sconfigge l’ignoranza e la presunzione: occorrono fatti, e queste pagine cercheranno, nei limiti che mi sono concessi, di esaminarli.

Il rifiuto della collaborazione

Per quanto possa sembrare strano gli scienziati sono i più irriducibili avversari di questa collaborazione scienza-filosofia. È vero che ve ne sono abbastanza propensi, specie fra i fisici e i biologi, a favorirla, ma solo raramente abbiamo esempi di chiara coscienza di questa necessità. Nella maggior parte dei casi si assiste a un travalicamento in campo filosofico, attuato dagli scienziati, senza tener conto dei contributi operati dai filosofi, con conseguente scapito per l’organizzazione logica delle loro teorie. Da che cosa può avere avuto origine questo fenomeno? La risposta non può darsi con certezza. Forse perché hanno visto legate da troppo tempo le loro risultanze, alle prospettive della filosofia, e adesso, che la posizione risulta svincolata, non vogliono scendere a concessioni o compromessi. Forse perché distolti da un deprecabile pregiudizio di astrattezza, che suona falso alle loro orecchie abituate al concreto della riprova sperimentale. Ma vediamo di prendere in esame, direttamente, l’opinione di alcuni tra i maggiori.

Ecco come si esprime Max Born: «La rappresentazione fisica del mondo (nella quale io comprendo, come ho già detto in principio, tutte le scienze naturali che hanno che fare col mondo inorganico, cioè anche la chimica, la cristallografia, l’astronomia, ecc.) si forma attraverso riflessioni sull’esperienza, sulle dure cose che sono nello spazio. Spesso invece le idee filosofiche si dispongono le une vicino alle altre con facilità, soprattutto quando si presentano come potenti sistemi connessi logicamente. Molto di quello che pensa la fisica è stato anticipato dalla filosofia. Noi fisici gliene siamo grati [...]». (Il potere della fisica, tr. it., Torino 1962, p. 100). E più avanti continua: «Eppure questo diritto [di critica alla filosofia] deriva dal fatto che noi siamo diventati scettici sulle idee filosofiche per la nostra esperienza fisica, e che con le nostre sole forze abbiamo dato forma a nuove rappresentazioni e a nuovi concetti, nei campi in cui quelli ricevuti non erano sufficienti». (Ib., p. 101). In queste righe si può vedere facilmente l’azione delle due forze accennate prima: la dipendenza passata, di cui ha fatto cenno apertamente Born, e l’arroganza presente. Evidentemente questo scienziato non è andato, in filosofia, al di là dei sistemi dell’assoluto. Il fatto stesso che auspica l’avvento di una fisica filosofica, sussistente senza l’ausilio «[...] dell’autorità di grandi pensatori, si chiamino essi Platone o Aristotele, Tommaso o Kant, Hegel o Marx [...]» (ibidem), è una prova di ciò. Le nuove forze filosofiche, agenti in seno a un clima generale che coinvolge anche la scienza, restano chiuse alla sua comprensione, malgrado che, come tutti, Born ne subisca le conseguenze e le direttive. Difatti non potrebbe trovare differente spiegazione l’aperto contrasto verso il positivismo e il materialismo, non corroborato da base alcuna fondata sui nuovi concetti filosofici. Ma Born è un grande fisico, uno dei creatori della fisica nuova, e come tale, malgrado le presunzioni filosofiche di indipendenza, deve essere tenuto in ascolto, anche quando esula dalle limitazioni tecniche della propria specialità. E il suo discorso è contro il determinismo, sotto qualsiasi veste o mistificazione, esso trovi sembiante. Una battaglia condotta disordinatamente, se si vuole, ma sempre una battaglia, e tanto più valida, perché ci viene da un uomo di scienza.

Nell’opera di Norbert Wiener, si assiste a una continua, taciturna polemica contro i valori superiori dello spirito e, necessariamente, contro ogni filosofia che prescinda da una concezione meccanica comportamentista. Come a dire che i richiami alla filosofia empirista, quando non sono espliciti, come nel caso di Locke, sono sottintesi. Eppure si è molto lontani dall’euforico clima positivista. Il fatto di essere riusciti a mettere su un perfetto giocatore di scacchi, uno strabiliante cervello elettronico, una tartaruga meccanica, il fatto che l’automa giocatore riesca a battere il campione del mondo, che il cervello elettronico riesca a portare a compimento calcoli che una intera legione di aritmetici non compirebbe in un anno, che una tartaruga meccanica aggiri gli ostacoli e trovi la strada verso una sorgente luminosa, avrebbe fatto montare la testa a qualsiasi scienziato del secolo passato. Invece il discorso di Wiener, è amaro. Troppe nuove concezioni gravano su di lui, e troppe dolorose esperienze. La bomba atomica, lo scadimento della cultura, il pericolo di meccanizzare l’iniziativa umana. Al solito questo discorso viene intrapreso in completa indipendenza dalla filosofia, e trattandosi di un campo di ricerca comune, in uno sviluppo autonomo che continuamente rischia di trovarsi posto fuori dalla realtà delle cose. Difatti ne scaturisce uno svolgimento irregolare, molto rilevante, per fare un esempio, nel volume The Human Use of Human Beings, (Boston 1950). Ma l’intima connessione dei problemi, l’interesse per i rilievi che avanza, per le ipotesi che distrugge, per le illusioni che mitiga, non si può disconoscere. In particolar modo riescono a salvare Wiener dall’accusa di nuovo empirista o meccanicista, le seguenti parole: «Ho parlato di macchine, ma non soltanto di macchine che possiedono cervelli di ottone e muscoli di ferro. Allorché le persone umane sono organizzate nel sistema che li impiega non secondo le loro piene facoltà di esseri umani responsabili, ma come altrettanti ingranaggi, leve e connessioni, non ha molta importanza il fatto che la loro materia prima sia costituita da carne e da sangue. Ciò che è usato come elemento in una macchina, è un elemento nella macchina». (Introduzione alla cibernetica, tr. it., Torino 1961, pp. 228-229). Quindi più che di una conclusione si tratta di una premessa, più che di un risultato, di una speranza. Wiener non può lavorare alla costruzione di un mondo migliore che addossandosi la responsabilità di lavorare intorno a quelle organizzazioni che potrebbero distruggerlo: ma in questo agisce con prudenza e cautela, tanto più ammirevoli, quanto più grandi e impressionanti si fanno i risultati. Spetterà a altri, possibilmente alla stessa filosofia, trarre profitto da questi sforzi, nell’ambito di quella generalizzazione, di cui il lavoro di Wiener, non costituisce che un appello.

Heisenberg e la sua conferenza di Ginevra del 1958

Importantissima, nello svolgimento che ci siamo prefissi, la discussione seguita a una conferenza di Werner Heisenberg, organizzata dai “Rencontres internationales de Genève”, nel 1958 dal titolo “La scoperta di Planck e i problemi filosofici della fisica atomica”. Il tema in se stesso della conferenza non è di grande rilievo, perché non arriva a chiarire a pieno le idee di Heisenberg sulla relazione possibile tra scienza e filosofia. Inoltre si limita a concetti già espressi fin dal 1937, in studi e discorsi di varia mole, relativi al rapporto tra filosofia antica e fisica moderna. La prima obiezione viene espressa da Albert Picot (cito da Discussione sulla fisica moderna, tr. it., Torino 1959 p. 22 e sgg.): «All’incontro con le nuove scoperte e sopratutto coi quanti e con la relatività, noi siamo arrivati al concetto di cui Heisenberg è il protagonista, il concetto di indeterminazione, un concetto che mette in forse la teoria generale della causalità, che mette in forse il determinismo. Parallelamente, nei secoli decimottavo, decimonono e ventesimo, una schiera di grandi filosofi ha proclamato la libertà dell’uomo, anche indipendentemente dalla scienza. Tre fra questi si presentano come i protagonisti della libertà: Kant, Charles Secretan, Karl Jaspers. Ed ecco la mia domanda [...]. Trovano quei filosofi un appoggio nella teoria dell’indeterminazione, nel nuovo orientamento della scienza che riconosce una parte di libertà nella natura? [...]. Si tratta di un nuovo elemento per mettere in luce la libertà dell’uomo, o semplicemente di una tappa momentanea della scienza, tale da far rintracciare un giorno la causalità nei quanti?». La risposta di Heisenberg: «Non si può dire che il principio di indeterminazione apra più largamente la porta alla libertà. Bisogna tentare di avvicinarsi al problema della relazione tra indeterminazione e libertà attraverso la teoria della conoscenza, nel modo come essa è impiegata anche da Kant. La domanda riguardante ciò che “io posso fare o non fare” è tuttavia differente dalla domanda riguardante ciò che un altro deve fare o non fare. E con questi problemi sono collegate sempre domande a facce multiple. Quando si ha a che fare con domande in apparenza identiche, si ottengono risposte assai differenti, ciò dipende dal modo nel quale ci accostiamo a tali questioni. E quando si ha a che fare con problemi in apparenza del tutto diversi, ma che spesso non sono che le differenti facce di uno stesso problema, si ottengono talvolta risposte analoghe. Riassumendo, io non penso che il principio di indeterminazione abbia una relazione diretta col concetto di libertà. La relazione è piuttosto indiretta. L’avere introdotto l’indeterminazione, nella fisica, ci mette in guardia contro una presa di posizione troppo perfettamente definita». Queste due battute, sebbene manifestanti tutta l’imperfezione di un rapporto discorsivo non meditato, e quindi da considerarsi valido con un largo scarto di imprecisione, sono abbastanza chiarificatrici sui rapporti che possono intercorrere, e che intercorrono a dispetto di tanti scienziati e filosofi, tra scienza e filosofia. L’indeterminazione, pura deduzione sperimentale, ha tutti i crismi per diventare un valido presupposto speculativo, al di là del solo problema della libertà, come nell’affermazione di Picot, e al di là della stessa limitazione prudenziale auspicata da Heisenberg. Per altro nella risposta del fisico tedesco, è chiara la risoluzione del problema. La libertà, negli schemi che la tradizione ci ha formulato, poteva continuare a esistere fin quando era possibile riconoscere alla scienza una necessità di schematizzazione, che proprio la teoria dell’indeterminazione ha profondamente sconvolto. Adesso la situazione è cambiata. Un discorso sulla libertà che non tenga presente questa modificazione di origine scientifica è destinato a restare oscuro e incomprensibile.

La discussione continua con l’intervento di Giacomo Devoto di cui sono costretto a rilevare la seguente affermazione da me non condivisa: «[...] è molto differente dire che i progressi della fisica hanno conseguenze sulla filosofia, oppure che i progressi della fisica hanno dato al rapporto tra scienza e filosofia un nuovo aspetto. Nel primo caso non dobbiamo mai dimenticare che la filosofia è qualche cosa che precede la scienza. Da secoli essa oscilla tra una visione realistica e una visione idealistica del mondo. Le scoperte della scienza la possono influenzare in un senso o nell’altro, ma esse non sono mai decisive». Il fatto di considerare la filosofia come un semplice gioco di equilibrio, come una esercitazione che non veda sostanziale differenza tra soluzione realistica e soluzione idealistica, e il fatto di ammettere che una scoperta scientifica possa far pendere la bilancia in un senso o nell’altro di questo assurdo gioco, non credo possa entrare coscientemente a far parte delle opinioni ragionate di uno studioso, sia esso filosofo che scienziato. Lo scetticismo nella ricerca del pensiero, è sempre deleterio, specie quando si accampa sull’amara constatazione dell’impossibilità della perfezione. Il fatto, infine, che la filosofia ha sempre preceduto la scienza, non autorizza la continuità di questa precedenza, specie negli ultimi decenni, in cui quest’ultima ha preso il sopravvento, sia nella impostazione dei dati sperimentali, che nella formulazione delle teorie generalizzanti. In tutti i casi l’affermazione di Devoto, nell’ambito della discussione che veniamo commentando, non è posta in termini di domanda, e quindi non ha suscitato reazione alcuna da parte di Heisenberg.

Concludendo è necessario esaminare l’importantissima questione sollevata da Umberto Campagnolo sulla pertinenza di un discorso filosofico imbastito da scienziati. «Mi domando se un fisico possa veramente parlare da filosofo e le sue considerazioni possano avere il rigore che un filosofo deve osservare nella sua disciplina. Io credo che il grande pericolo della presente discussione risieda proprio qui. Vi è un’ambiguità, di cui la responsabilità è da ascriversi, almeno esteriormente, ai ravvicinamenti tra scienziati e filosofi. Il problema che si pone un filosofo è sempre di una natura radicalmente diversa da quello che si pone lo scienziato. Lo scienziato suppone che ci sia sempre la possibilità di arrivare alla quantità e alla misurazione, ai calcoli e all’equazione. I filosofi, al contrario, cercano delle categorie, che essi procurano di collegare una con l’altra per mezzo di un processo – se mi è lecito impiegare questa parola – che non ha nulla di comune con quello della scienza, vale a dire per mezzo della dialettica. In conclusione, io penso che avremmo molto da guadagnare nelle nostre discussioni eliminando, qui, i riferimenti alla filosofia, perché il pensiero filosofico è molto differente dal pensiero scientifico. Spesso gli scienziati hanno la tendenza a concepire la filosofia come un prolungamento della scienza, come una maniera generale di considerare i loro problemi sotto un aspetto particolare. Ma credo che essi s’ingannino, sono i filosofi coloro che sono e restano responsabili della filosofia». In risposta, Heisenberg: «È evidente che il passaggio dalla scienza alla filosofia ha già dato luogo a moltissimi malintesi. Ma non credo che sarebbe utile voler separare queste due sfere d’azione in modo assoluto, e dire: qui, è l’uomo di scienza che è competente, qua, è il filosofo. Credo, al contrario, che sia utile che l’uomo di scienza parli di filosofia e che talvolta il filosofo parli di scienza anche a rischio di creare nuovi malintesi. Il risultato può essere tanto utile che vale la pena di correre questo rischio». Ci troviamo come ognuno può vedere, all’incontro di due opinioni chiaramente all’opposto. Da un canto Campagnolo asserisce l’utilità di una separazione tra scienza e filosofia, dall’altro Heisenberg propende per una collaborazione. A chi dei due la palma della ragione? Non occorre vestire la toga del giudice, come non occorre essere uno spaccacapelli, per accorgersi dell’enorme differenza che possa tra le due affermazioni. Campagnolo dichiara necessaria una separazione del lavoro scientifico da quello filosofico in base a una pretesa differenziazione tra scienza e filosofia, che non possiamo riconoscere esatta. Il fatto che lo scienziato presupponga di pervenire alla misurazione non è più implicito in una teoria come quella dell’indeterminazione, che detta i limiti proprio di questa possibilità di misurazione. I nuovi concetti fisici vanno al di là della formulazione matematica, per assumere veste di impostazione filosofica. Come giustifica una simile convivenza Campagnolo? E, d’altro canto, con quale autorizzazione si assegna alla filosofia il compito di cercare le “categorie” e, per giunta, con un “processo dialettico”? Teme forse Campagnolo che una volta svincolata la filosofia dall’esteriore schematismo, ci si trovi nella necessità di tentare la strada della misurazione, come la scienza? Egli desidera una divisione in compartimenti perché crede ancora nella ricerca tradizionale della filosofia: l’assoluto, e perché non concede alla scienza un’indipendenza teorica. Solo in questo modo si fa della filosofia una scuola di iniziati, preclusa all’umanità, e oscura. Solo in questo modo si lavora ai pregiudizi e all’incomprensione. Invece la risposta di Heisenberg e molto più calma e chiaramente mette in mostra il superato ostacolo della ricerca assolutizzante. Ben vengano i possibili malintesi, l’umano pensiero avrà la forza di superarli e di scartare il maturo dal marcio. Questa di Heisenberg è senz’altro l’opinione più aperta verso una reciproca collaborazione tra scienza e filosofia, che esista tra gli uomini di scienza, ed è molto istruttivo notare che ci viene proprio dal fondatore del principio di indeterminazione.

Pierre Auger e la sua conferenza di Givenvra del 1952

Pierre Auger nella sua conferenza sui “Metodi e limiti della conoscenza scientifica”, del 1952, organizzata dai “Rencontres Internationales de Genève” (vedi Discussione sulla fisica moderna, op. cit., pp. 125-126), mette in chiaro la propria convinzione sui i limiti della filosofia. «Si tratta – egli dice – di idee del tipo scientifico che hanno perso questa qualità, perché sono state accettate per troppo tempo senza discussione e che si è finito per non mettere più in dubbio. Esse sono divenute rispettabili e belle, come vegliardi, ma vegliardi da cui non si riceve e non si aspetta più nessun insegnamento nuovo [...]. I valori sono in generale informazioni fossili. Sono idee del tipo morale e perfino idee del tipo razionale, che sono invecchiate in noi stessi dall’epoca della nostra giovinezza e invecchiate anche nel nostro gruppo sociale dall’epoca in cui furono introdotte. Esse sono diventate rispettabili, indiscutibili, ecc. Poiché non si può più rintracciare la loro origine, esse si presentano senz’altro come trascendenti [...]. Forse bisogna che noi guariamo di certi valori, trovandone chiaramente l’origine. Del resto noi li sostituiremmo immediatamente con altri, che la nostra informazione attuale ci indurrebbe a costruire per guidarci nelle nostre azioni. Se i nostri discendenti dimenticheranno quelle informazioni, quelle ragioni attuali che noi avevamo per scegliere una tal via o una tal altra, e se accetteranno le ingiunzioni senza rendersi conto da dove provenivano, essi avranno ricostituito valori incomprensibili, a cui obbediranno per rispetto di ciò che è sacro». Come è facile vedere, questo rifiuto d’autorità alla filosofia, e al suo metodo particolare di impostare i problemi in forma di valori, deriva da uno dei pregiudizi più diffusi, anche fra uomini di indiscussa preparazione dottrinale. Pregiudizio di inutilità e di tautologia, molto grave perché intacca la base stessa della ricerca filosofica: il motivo da dove trova origine questa ricerca e gli scopi che si prefigge. Pregiudizio voluto e alimentato da tanti filosofi che della loro attività ne fanno un misticismo per iniziati. Ora, gli scienziati, davanti alla necessità di trattare problemi che resterebbero sterili impostati nei modi tradizionali della scienza, si sono rivolti alla filosofia, accettandone la logica, ma rifiutandone l’elaborazione. Il fatto che uno scienziato come Auger cerchi di mettere da canto la tradizione filosofica, come se fosse un rudere da demolirsi, non significa che egli stesso, nell’espletamento del proprio compito di indagatore, non utilizzi e non tenga presente una logica e un modo di intendere le cose, che trovano origine dalla stessa tradizione filosofica che, a priori, pretende di far passare per superata e stantia. Più che altro, io credo che il rifiuto netto, debba intendersi in termini di impossibilità, per la filosofia, di tenere dietro alla scienza, sul terreno delle nuove indagini. Come a dire che Auger propenda per una divisione dei compiti tra filosofia e scienza, lasciando alla prima il suo mondo fantastico e sperduto in un’aria senza tempo, e alla seconda il doppio aggravio di aprire la strada e di completarla. Non vorrei scendere in particolari, ma anche il più superficiale conoscitore dello stato attuale della filosofia, è consapevole dell’abbandono di tutte quelle posizioni che, legittimamente, potevano far sorgere le battute di Auger. Oggi, in filosofia, non si accettano idee senza discuterle, non esistono tautologie, si cerca di evitare i giudizi ritenibili validi per testimonianza tradizionale e non per diretta deduzione logica, oggi, in altri termini, è finito il tempo in cui della filosofia si poteva parlare come di una esercitazione dottrinale, priva di contenuto umano e quindi fossilizzata. Ma gli scienziati non ammettono facilmente questa convivenza di metodi. Scoperta la strada per la vera ricerca, fuori dalle illusioni dell’assoluto e della predicibilità, questi uomini non vedono di buon occhio che altri uomini, da sempre dannati a un lavoro senza scopo né gloria, passino dalla loro parte. O, quanto meno, pretendano di esaminare a fondo se hanno del tutto abbandonato il loro precedente modo di intendere.

Infatti non è detto che in fisica (tanto per citare la branca della scienza che più di ogni altra si trova all’avanguardia della ricerca), non esistano teorie di impostazione chiaramente filosofica. A esempio il principio di complementarietà di Bohr che, tanto per fare qualche nome, non viene condiviso da uomini come Schrödinger e Max von Laue. Mette conto, a questo punto, vedere come Born, di cui abbiamo notato le opinioni contrarie a una collaborazione tra scienza e filosofia, risponda a una conferenza di Erwin Schrödinger, nella quale si metteva in dubbio, appunto, la validità scientifica del principio di complementarietà: «[…] il problema filosofico [relativo alla questione onde-corpuscoli] è stato, se non risolto, almeno avviato a soluzione dal principio di complementarietà di Bohr. Questo è effettivamente il punto di partenza di una nuova filosofia, più profonda, che lentamente prende radice. In confronto a essa il punto di vista di Schrödinger appare reazionario. Non si può risalire la corrente della storia». (Discussione sulla fisica moderna, op. cit., p. 59). Di certo in perfetta buona fede, il fisico Born, qui, accenna all’avvento di una nuova filosofia, senza porre mente al fatto che un simile principio rassomiglia in modo preoccupante al principio dialettico, senza averne l’ampio respiro e la possibilità di fusione degli opposti. Ma anche volendo prescindere da testimonianze storiche, mi sembra palese, la necessità, per il creatore di questo principio di complementarietà, di avere tenuto presente una logica non scientifica, di avere sovvertito i metodi tradizionali di indagine, di avere, in una sola parola, irrazionalizzato la scienza. ed è appunto questo il rimprovero di Schrödinger. Princìpi di questo tenore non possono considerarsi patrimonio esclusivo della scienza, perché mal si costringe in una sola sezione ciò che tende alla generalizzazione e al compendio.

L’opinione dei filosofi

Dai pochi esempi di opinioni di scienziati, riguardo il problema di una collaborazione tra scienza e filosofia, si ricava una sensazione di intransigenza. Sono ben pochi quelli che, come Heisenberg, accettano questa collaborazione, e si battono per un suo sempre più largo sviluppo. Il resto è altezzosamente trincerato dietro le conquiste recenti di una indipendenza logica che non sempre riesce a mascherare la persistente necessità di maggiore autorizzazione. Resta da vedere come si svolgono le cose nel campo avverso.

Nel prendere in considerazione questo argomento bisogna andare molto cauti per due motivi. Primo, se il guardare nel piatto del proprio vicino è diventata una moda seguita soltanto ora dagli scienziati, la stessa cosa per i filosofi, è una tradizione vera e propria. Tradizione, per altro, giustificabile, se si pone mente al fatto, ovvio, che nel passato non esisteva questa specializzazione tra materie scientifiche e materie filosofiche, per cui in uno stesso intelletto si fondeva e trovava applicazione tutto lo scibile. Poi, con l’evolversi della tecnica scientifica, si andò concretizzando la figura dello scienziato sperimentatore, troppo preso dal suo grave compito, per potersi proporre altri problemi, di indole più generale o filosofica. Per altro, il filosofo rimase fermo a quel mitico desiderio di abbracciare tutto il conoscibile, vedendosi ridurre, giorno per giorno, il campo del comprensibile, fino all’estremo limite dell’incomunicabilità. E anche oggi, sebbene si sia venuti definitivamente fuori dallo schema stereotipato del filosofo “puro”, ci è dato assistere agli ultimi tentativi sistematici. Ma, volendo mettere da parte le eccezioni, come norma possiamo dire che oggi lo scienziato ha necessità di avvicinarsi alla filosofia, per dare veste armonica alle proprie ricerche, e il filosofo, dal canto suo, ha necessità di rivolgersi a altri interessi. Che poi lo scienziato non creda alla validità indiscussa delle teorie semi-filosofiche che propugna, o che il filosofo non s’illuda di trovare una formula capace di comprendere tutta la realtà è una questione di principio importantissima, ma da tenersi separata dalla ricerca effettiva, perché una simile vicinanza finirebbe per contaminarla definitivamente. L’uomo deve sapere della parziale inutilità dei suoi sforzi verso la conoscenza, ma deve lo stesso cercare di arrivare alla verità, altrimenti la vita diverrebbe senza scopo, e il viverla sarebbe un gioco banale e assurdo. Da quanto si è detto, risulta evidente che, come primo ostacolo alla valutazione delle opinioni dei filosofi, sulla collaborazione scienza-filosofia, è da tenere presente il fatto che non tutti quei filosofi che trattano di scienza, intessono un discorso scientificamente valido. La loro opera viene portata avanti come complemento di un’idea schiettamente filosofica, assumente, a volte, aspetti epistemologici, ma solo apparentemente, perché legati a un preteso predominio logico, giustificato per il passato, ma assolutamente inadatto per il presente.

Il secondo motivo che ci deve esortare alla cautela interpretativa, è fondato sull’esperienza del passato, che ci insegna a scartare tutta quella produzione filosofica che si dimostra ipercritica nei confronti della scienza. Il più delle volte il fondamento di questi atteggiamenti, non è da riscontrarsi nella scienza, in errori o travisamenti di quest’ultima, piuttosto è possibile scoprirlo nella filosofia che dirige la critica, in alcune posizioni che vengono messe in pericolo dalle formulazioni scientifiche criticate. Ovviamente questo comportamento nuoce sia alla filosofia, perché chiude le porte a nuove concezioni che poi potrebbero vivificarla, come alla scienza, perché soffoca sul nascere ogni contributo teorico, che in seguito, in sede sperimentale, potrebbe vedere la propria dignità dottrinale.

Prendiamo il caso di Karl Jaspers. Alla domanda: “Che cos’è dunque la scienza? Che cosa essa può? Dove sono i suoi limiti?”, la risposta non tarda a farsi attendere, ed è una risposta amara, di nessuna utilità per lo scienziato, perché preclude la strada alla germinazione dell’idea sul tessuto dell’esperienza. “[...] la scienza, se vuol meritare il suo nome, deve essere tale da imporsi con validità universale”, e riferendosi alle sue personali esperienze di medico e di psichiatra, continua: «La critica penetrante, la più chiara consapevolezza dei metodi, l’intendere in qual senso, in base a quali princìpi, in quale situazione di dubbio e di indagine, volta per volta, io so, ecco quello che, in primo luogo, esigeva l’autodisciplina dell’asserire [...]. Oltre a ciò mi appariva chiaro che c’è effettivamente una validità generale che s’impone a tutti, ma che il saperla ben distinguere e cogliere e rendersene conto a una prerogativa non comune negli uomini. Ma appariva anche ugualmente chiaro che una tale scienza, anche intesa così, è sempre soltanto particolarmente, non abbraccia il tutto dell’Essere, non è una conoscenza totale dell’Essere, ma una conoscenza particolare delle cose, non offre mete alla vita, non ha nessuna risposta per quei quesiti fondamentali che agitano l’uomo. Mi appariva chiaro che nella scienza non c’è niente che illumini e chiarisca il suo significato, e dica all’uomo se ha senso o non ha senso rivolgersi a essa. Scambiare le convinzioni di cui vivo con un sapere che dimostro, rende perplesso l’intero atteggiamento dell’uomo nella vita». (La mia filosofia, tr. it., Torino 1948, pp. 20-21). Non a caso ho scelto come primo esempio un’opinione di Jaspers. Nessuno meglio di lui avrebbe potuto occupare un posto di bivio tra scienza e filosofia, integrando le due discipline con un’esperienza diretta di ricercatore e di innovatore. Eppure, come è facile constatare dalle righe che precedono, si mantiene lontano, pretendendo dalla scienza un’assolutezza sull’Essere, che solo la filosofia, e in particolare una determinata filosofia, può dargli, o storcendo l’analisi dell’asserire su viete discussioni scettiche, che male suonano in bocca a uno studioso che è pure un grande scienziato. In altri termini egli sarebbe potuto riuscire utile alla scienza passando alla filosofia, ma l’aria nuova gli ha scombussolato le premesse pragmatiste che gli servirono al momento del passaggio, in modo da impedirgli di vedere chiaramente il motivo predominante del suo atteggiamento antiscientifico. Per cui cade l’alta meraviglia di alcuni studiosi della filosofia contemporanea, per la delusione cocente che Jaspers ha loro riservato, col disinteressarsi in pieno dei risultati più recenti e più rivoluzionari della ricerca scientifica, e degli eventuali influssi sulla filosofia. L’interesse di Jaspers è tutto diretto alla filosofia, e ogni suo ragionamento sulla validità della scienza, viene condotto dall’interno delle puntualizzazioni filosofiche. In questo modo appare logico come non riesca a intravedere nella scienza niente che “[...] illumini e chiarisca il suo significato, e dica all’uomo se ha senso il rivolgersi a essa”. Il suo è un semplice errore di prospettiva e di posizione. Errore che persistendo, conferisce alla scienza una possibilità organizzativa indipendente e tirannica sui destini del mondo e dell’uomo. Se ci si scorda di seguire, passo passo, l’evolversi di un qualsiasi processo, per guardare direttamente alla sua fase conclusiva, irrimediabilmente questo processo ci apparirà granitico, insormontabile, ci opprimerà con una compattezza, che non avrebbe manifestato se ci fossimo posti in altre condizioni d’osservazione. Il fatto che la nuova scienza abbia saputo sconvolgere i piani di tanti secoli prima, il fatto che ponga l’uomo davanti all’alternativa di una scelta decisiva tra due mondi diversi e in opposizione, il fatto, infine, che rinunciando a quei canoni che si ritenevano indiscutibili, venga a formare uno strato di grave incertezza, costituiscono motivi di imprecisione in una valutazione obiettiva del problema “scienza”, se non sono esaminati nel loro svolgersi nei problemi di fondo che li hanno provocati.

Accanto a questa paurosa pressione di una necessità che non può dirsi scientifica, si pone l’altra necessaria conseguenza: la necessità di una metodologia che tenga conto dell’universalità dell’essere. Problema che intacca ancora più a fondo il limite d’azione tra filosofia e scienza, problema che se resta allo stato chiuso, minaccia di inaridire, la prima nell’assurdo tentativo di coinvolgere in se stessa, interessi di pertinenza della seconda.

Né la situazione assume contorni più netti nella filosofia di quegli esistenzialisti che si definiscono “positivi”. Nicola Abbagnano, la personalità di maggiore spicco, così si esprime sulla possibilità di integrazione dei problemi filosofici da parte di tentativi di soluzione scientifica. «Problemi come le verità eterne e le categorie della ragione, del mondo esterno, della materia e dello spirito, della finalità, della contingenza e della libertà, – recano in sé la pretesa di essere avviati alla soluzione dalla considerazione scientifica del mondo. Ora di fronte a essi, la scienza attuale è inesorabilmente muta [...] questi problemi non sussistono per essa. La logica matematica non nega le verità eterne e le categorie della ragione: le ignora e non se ne propone il problema. La fisica ignora completamente il problema se ci sia oppure no un mondo esterno, e che cosa sia la materia, se è energia o corpo, e se energia fisica o spirituale: tali problemi sono estranei alle sue finalità e al suo metodo. Essa ha bensì espunto dal mondo la necessità, ma non perciò si è pronunciata o può pronunciarsi per la contingenza o la libertà; si limita a stabilire esattamente il grado di probabilità delle sue previsioni». (Filosofia, religione, scienza, Torino 1947, pp. 161-162).

Ora io chiederei ad Abbagnano di prendere in esame partitamente l’elenco di problemi da lui proposto alla scienza di oggi, e da lui considerati insolubili, per la stessa. Per primo egli ha fatto cenno al problema delle verità eterne e delle categorie della ragione, io non so in quale considerazione egli tenga problemi di questa sorta, se si esclude la sola ancora valida: quella storica. Può darsi oggi una “verità eterna”? può dettarsi una serie di “categorie della ragione”? Quando sappiamo che simili concezioni, disinnestate dalle particolari filosofie che le produssero, ci suonano strane e contraddittorie. E poi non ha sempre considerato Abbagnano l’idea di problema come “[...] un modo d’essere fondamentale del soggetto che se lo propone”, venendo a negare in questo modo originale individualità a un qualsiasi problema, presentato dalla tradizione, come staccato dagli uomini che lo proposero? Concezione, quest’ultima, che non riesco a vedere molto lontana dai risultati sperimentali della fisica atomica, i quali ci ammoniscono contro ogni presa di posizione non corroborata da un sostrato relativistico che tenga presente l’essenziale costituente probabilista. E il problema del mondo esterno, della materia, dello spirito, della finalità, della contingenza, della libertà, esaminati attraverso questa lente, non assumono un particolare significato di indeteminazione? comunanza d’orizzonte che diventa quanto mai ammonitrice, se si considera l’accostamento di materia e spirito, di finalità e di libertà? Ma l’esistenzialista Abbagnano non può ammettere questa costante di incertezza nel suo discorso, altrimenti ridurrebbe vano ogni tentativo di trattare l’essere al di fuori di ogni necessità conoscitiva. Una netta divisione tra scienza e filosofia comporta, nel suo ragionamento, una relativa distinzione tra problemi conoscitivi e problemi non conoscitivi, per cui ridiventa facile mettere a nuovo tanti vecchi strumenti metafisici, ormai posti in soffitta da anni. In questo modo non si rende un servigio alla causa scientifica, come non lo si rende a quella filosofica, poiché ambedue vengono staccate: l’una in un clima di completo disinteresse per le sorti dell’uomo, l’altra in un’attesa dell’illuminazione che mai potrà arrivare.

Difatti soltanto uno degli aspetti dell’eventuale relazione scienza-filosofia, viene preso in considerazione, quello che riguarda i tentativi di soluzione scientifica del problema metafisico della spiritualità. “E sarebbe privo di senso – continua Abbagnano nella pagina più sopra citata – a esempio, il tentativo di utilizzare gli spazi a n dimensioni per dimostrare la possibilità dei fenomeni medianici o di utilizzare gli elettroni o i fotoni per dimostrare la spiritualità (o la corporeità) dell’universo”. Ma questo costituisce la più banale possibilità di collaborazione tra scienza e filosofia, possibilità che non disconosco sia stata tentata, ma da scienziati e filosofi di parte, cioè da studiosi in cui l’urgenza della dimostrazione della veridicità della propria tesi, aveva contribuito a mistificare la nettezza del procedimento ragionativo. Difatti indulgono in questa possibilità coloro che tendono a rendere scientifica (e quindi – per loro – sacrosanta) una interpretazione spiritualista o materialista del mondo. Ogni altra possibilità di collaborazione, resta esclusa dagli interessi di Abbagnano.

Ben altri sono gli spunti e gli interessi che la nuova scienza propone all’attenzione degli uomini. Concetti come quello dell’indeterminazione o della complementarietà, non possono venire limitati a un preteso campo di ingerenza. Lo stesso Abbagnano ha avvertito il conseguente cambiamento di indirizzo che simili princìpi producono in filosofia, ma, complessivamente, non si è dimostrato propenso a una effettiva collaborazione. E questo riduce l’interesse per un lavoro, quanti altri mai, avviato sulla strada del riconoscimento della validità di questa collaborazione.

La scuola del “senso comune”, in modo particolare nei suoi rappresentanti inglesi, non ci dà maggiore conforto. «La moderna interpretazione delle leggi naturali come asserenti non delle necessità ma delle probabilità altissime – dice Gilbert Ryle – talvolta acclamata quale fonte del desiderato elemento di non-rigorosità: finalmente, si sente dire, possiamo esser scientifici e tuttavia riservarci quel tanto di imprevedibilità che lascia vivere l’elemento umano. Questa sciocca tesi assume che una azione non possa esser criticata come meritevole o biasimevole se non quando è sottratta alla generalizzazione scientifica». (Lo spirito come comportamento, tr. it., Torino 1955, pp. 78-79). Se fosse possibile superare in queste parole l’ostacolo del più completo disincantarsi del concetto filosofico, si vedrebbe chiaramente la povertà del concetto di “uomo della strada”. In questo modo si viene quasi a fare torto all’“uomo della strada”, pretendendo che pensi in siffatta maniera. Siamo d’accordo che, il più delle volte, un pubblico digiuno di filosofia o di scienza, resti più sbalordito che convinto, davanti a un serrato ragionamento filosofico o scientifico, ma questa meraviglia non travalicherà mai in un’organizzata (e quindi dolosa) spoliazione della dignità del ragionamento stesso. Nella filosofia di Ryle non c’è posto per il problema della scienza, per il semplice motivo che in essa non si trova posto per alcun problema. E si troverebbe una maggiore profondità di valutazione umana e logica, nell’eloquio semplice di un contadino della mia Sicilia, che in cento pagine di uno di questi filosofi.

A ogni buon conto è bene sottolineare lo sforzo condotto contro l’incubo meccanicistico. Ryle avverte giustamente l’errata interpretazione che tanta parte della cultura contemporanea indulge a costruire, su di una pretesa possibilità di strutturare il futuro su dati deducibili dal presente. Da notare che questa illusione è tra le più persistenti, in quanto si presenta sempre sotto forme diverse, ma sostanzialmente parallele, per quanto riguarda l’uniformità del loro scopo. Ryle si schiera contro questa illusione non in nome della stessa scienza, ma in nome di una pretesa impossibilità – per la stessa – di prestabilire o preordinare il futuro accadibile. Ora questo non è esatto, anche se più comodo, da un punto di vista esplicativo. Di per se stesso non ha senso dire che l’uomo ha un diritto d’opzione sulla scelta di uno scopo, scelta da condursi nel pieno sentimento della vita e dell’intelligenza. Come non avrebbe senso dire che l’uomo ha il proprio destino già fissato, in tutti i minimi particolari, perché facendo parte di una organizzazione più complessa non consentirebbe la vita della stessa organizzazione, se non avesse un programma d’azione già stabilito. Evidentemente le due soluzioni, sul piano di una riprova extra-sentimentale, sul piano di un ragionamento schietto, si bilanciano e si equivalgono. da cui appare chiaro come la riprova della fallacia della seconda soluzione, debba riscontrarsi al di fuori dell’uomo stesso, nelle leggi che governano questa organizzazione più complessa, da cui dipende la vita. Giustamente Ryle afferma che le leggi non potranno mai pianificare l’accadere, ma ciò non in virtù di qualche forza particolare che è insita nell’uomo, ma semplicemente a causa della loro strutturazione. Le leggi scientifiche, non sono meccanicistiche ma solo probalistiche, da ciò deriva l’impossibilità di una programmazione dell’accadibile, in base a una formulazione dell’accaduto. In altri termini, ritornando al caso specifico del filosofo inglese, possiamo dire che Ryle, volendo sfuggire al mito del meccanicismo è caduto in un altro peggiore: l’animismo. Da cui è possibile notare la scarsa rilevanza che un simile discorso filosofico ha avuto nei confronti del problema che veniamo trattando. Utilizzando in questo modo i mezzi della filosofia, si lavora maggiormente alla costruzione delle incomprensioni e dei tabù, quando, invece, si dovrebbe lavorare alla loro chiarificazione e distruzione.

Il neocriticismo, nella tarda manifestazione della scuola di Marburgo, trova il mezzo di rivolgersi energicamente verso la scienza, apportandole quell’onesto contributo epistemologico che, da una vera filosofia, è naturale attendersi. Questo è il caso di Ernst Cassirer che nel volume del 1910: Substanzbegriff und Funktionsbegriff, riconosce valido l’operato della filosofia nell’organizzare le fondamenta della conoscenza scientifica, accettando e sviluppando il concetto di esperienza pragmatica e inserendolo nel piano complessivo dell’intuibilità della realtà. Purtroppo il presupposto criticista, precipuo del neokantismo, nuoce all’andamento di questa prima organizzazione del pensiero di Cassirer. Presupposto che una volta pervenuto alle estreme conseguenze, negli ultimi anni della vita del filosofo, sbocca in un’amara constatazione. Eccolo come parla nel IV vol. della sua Storia della filosofia moderna, Introduzione, tr. it., Torino 1961, pp. 36-37: «Ormai la filosofia non può e non vuole arrogarsi gli stessi diritti che aveva preteso di conservare costantemente nelle epoche anteriori. Essa non assume più la parte direttiva, non rappresenta, con le sue proprie forze e sotto la propria responsabilità, un determinato ideale del vero, essa si lascia piuttosto guidare dalle scienze particolari e si fa imprimere da ognuna di esse un determinato indirizzo. Ci sono quasi altrettante tendenze particolari sulla teoria della conoscenza, quante sono le discipline e gli interessi scientifici particolari». Ecco quindi scomparire, come sabbia tra le dita, quello che era stato tutto il programma delle nuove forze del kantismo: tutta la conoscenza sta per cambiare proprietario, e il nuovo padrone pare che sia addirittura una società, una molteplice serie di indirizzi, non sempre ben identificati, ma sicuramente localizzati nella scienza. Alla filosofia spetterebbe il compito di spettatrice, alle volte chiamata in causa a fare da interprete su argomentazioni che abbisognano di una impronta scolastica, alle volte completamente tagliata fuori dal vivo della disputa e dei problemi. Ma Cassirer, intimamente, rifiuta un simile stato di cose, facendo un passo che nessun neo-kantiano avrebbe avuto il coraggio di fare: «Lo storico del problema della conoscenza deve tener presenti tutte queste cose, se non vuole arrestarsi ai movimenti periferici, ma studiare i risultati risalendo fino al loro centro spirituale. Noi scegliamo dunque, per la presente trattazione, una via diversa da quella che avevamo seguita nella ricerca precedente. Non vogliamo studiare i risultati ottenuti dalla teoria della conoscenza in base alle principali opere filosofiche dell’epoca, vogliamo, al contrario, tentare di penetrare fino ai motivi che hanno condotto a tali risultati. Solo in questo modo ci si può emancipare dalle divergenze che sembrano essere, a prima vista, il contrassegno e, per così dire, lo stigma della teoria della conoscenza dell’ultimo secolo». (lb., p. 38). In questo modo, credo per la prima volta, Cassirer annuncia la sua decisione di svolgere il vecchio problema della conoscenza, nel campo delle nuove forze agenti, intuendo la possibilità di dare, in questa maniera, una soluzione più armonica, a differenza di quei frammentari prodotti che si ottengono da uno studio di questo problema nei secoli tradizionali della filosofia. Rivolgendo i propri sforzi di indagine alla matematica, alla geometria, alla biologia, alla storia, e abbandonando ogni residua illusione di dare compimento al grande sistema che sappia incastonare tutte le parti della realtà, si può sperare di arrivare molto vicino al significato più intimo dell’era che è nostra, un significato quanto si vuole asistematico ma che rappresenta lo scopo più concreto che ogni indagine filosofica si possa prefiggere.

Come si vede il caso di questo filosofo e un’altra faccia del problema di come intendere, nella giusta misura, l’opera di coloro che alla scienza volgono gli sforzi filosofici. Se ci è dato di trovarne alcuni per i quali, come abbiamo visto, il problema si riduce essenzialmente a una presa di posizione direi egoistica, in un arroccarsi in se stessi su vecchi canovacci fuori del tempo e dell’uso, per altro, è possibile trovarne liberi da pregiudizi e da fantomatiche divisioni valide al di là di ogni sforzo e di ogni ricerca.

Naturalmente non bisogna pensare a una possibilità di netta separazione tra l’opera di coloro che propendono per una unificazione degli sforzi della scienza e della filosofia, e l’opera di coloro che vi si schierano contro. Queste pagine valgono a titolo di indicazione, e non pretendono di passare per ciò che non sono. Anche perché non è sempre possibile vedere chiaro nel pensiero di uno stesso autore, avendosi spunti ora favorevoli ora contrari al problema dell’unificazione.

+ e –

Kant e Newton

Positivo e negativo sono gli estremi insolubili della possibilità, tesi in un discorso senza prospettiva, eppure costituente la realtà, nel pieno della sua manifestazione. L’uomo ha sempre cercato una via d’uscita da questa cerchia rigida di duri contrasti, ma non ha potuto fare a meno di decidersi per una o l’altra delle soluzioni.

Il nascere della filosofia critica corrisponde a uno dei momenti più chiari dell’affermarsi della possibilità positiva. Non si deve dimenticare che per Kant la conoscenza deve restare nei limiti dell’esperienza possibile, e non nei limiti degli oggetti possibili, come prima avevano fatto Wolff, Crusius, Tetens, Knutzen, Lambert, Baumgarten e altri. E questo tentativo venne a inserirsi nel profondo rivolgimento che l’opera di Newton, produsse in tutta la scienza.

Al di là dei risultati immediati, e delle esperienze come furono condotte a termine dallo scienziato inglese, quello che maggiormente ebbe valore, fu il principio meccanicistico dell’universo, costruito a metà strada, tra le risultanze di tremila anni di astronomia e gli ostacoli di altrettanti anni di superstizioni mitografiche.

Quindi abbiamo da un lato il massimo sforzo che la storia della filosofia ricordi, in senso positivo, e dall’altro l’inizio della costruzione positiva della scienza. Non a caso Kant nello scritto pre-critico: Untersuchung über die Deutlichkeit der Grundsätze der natürlichen Theologie und der Moral, del 1763, a p. 286 (cfr. E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, tr. it., vol. II, p. 642), così si esprime: «Il vero metodo della metafisica è in fondo identico a quello che Newton ha introdotto nella scienza naturale e che qui si è mostrato così fecondo di risultati. In questo campo si debbono ricercare, attraverso esperienze sicure, e tutt’al più con l’aiuto della geometria, le regole secondo cui determinati fenomeni si svolgono nella natura. Anche se non si riesce a scorgere la ragione prima di tutto ciò nei corpi, è tuttavia certo che essi agiscono secondo questa legge, si possono cioè spiegare i complicati avvenimenti della natura, quando si mostri in modo evidente come essi siano contenuti e impliciti in queste regole ben dimostrate. Lo stesso si dica per la metafisica: cercate attraverso una sicura esperienza interna, cioè attraverso una coscienza immediata e evidente, gli attributi che certo sono compresi nel concetto di un qualche stato o qualità generale, e per quanto non verrete a conoscere l’essenza completa della cosa, pure potrete servirvi di tali attributi, per dedurre molte conseguenze riguardanti l’oggetto». Questi concetti, in forma prematura e appena percettibile, rivelano la confluenza, verso un medesimo indirizzo, degli sforzi di due tra i più grandi ingegni della nuova era: Newton e Kant. Naturalmente nell’elaborazione vastissima della loro opera, non si manifesta in modo così aperto questo indirizzo verso la ricerca di una possibilità positiva della vita, anzi non è facile apertamente sostenere che i loro sforzi nacquero diretti a questo scopo. Il movente newtoniano fu di sostituire al metodo puramente empirico, una generalizzazione capace di fronteggiare possibili eventi futuri, non ancora sperimentati. In seguito, la nuova costruzione causale che ne venne fuori, si adattò magnificamente al mondo come noi lo constatiamo nella sua realtà, così come la geometria di Euclide ricavata dagli assiomi si adatta alla realtà. Il movente kantiano fu di trovare un solido punto di appoggio alla speculazione. “Nella speculazione, peraltro, è un destino consueto della ragione umana, il condurre a termine quanto prima è possibile il suo edificio, e l’indagare soltanto in seguito se anche il fondamento di questo, è stabilito bene”. Come si vede da queste parole introduttive alla Critica della ragione pura, il campo dell’indagine si sposta dalle cose al giudizio sopra le cose, quello che prima costituiva il metro di identificazione della realtà, adesso serve come giustificazione di validità.

Quindi da un lato uno scienziato che fonda le sue tesi su di un concetto di spazio e tempo assoluti, e proprio per questo concedenti un certo rapporto di slittamento allo spazio e al tempo reali. Dall’altro lato un filosofo che getta le basi dell’idealismo assoluto, ma da un punto di vista critico. Come a dire che il principio di causa ed effetto, pilastro centrale della dottrina di Newton, risulta fondato su di una astrazione concettuale riguardante lo slittamento della valutazione più intima della realtà (atomi, forze interatomiche), e l’opera di Kant, con il principio della formulazione trascendentale, è da considerarsi come il contributo più notevole alla designazione dei confini della possibilità positiva della ragione umana. Eppure, come spesso accade, gli immediati contemporanei non compresero la lezione. Per cui si dice che fino a Laplace il determinismo non era ancora nato, e fino all’avvento dei grandi sistemi post-kantiani, l’idealismo assoluto era solo una prospettiva non attuata. Solo con Laplace si assiste alla formulazione estrema delle tesi di causa ed effetto, così come sono giunte ai nostri giorni, fino alle rivoluzioni della fisica atomica, mentre solo con Hegel si consolida il primato della logica, al di là dell’aspetto formale, in una sintesi di contenuto e di contenente. “Il regno della logica è la verità, la verità senza veli e esistente da per se stessa”, come afferma nella Introduzione alla Scienza della logica.

Ma gli assertori stessi della filosofia di Hegel, i suoi più vicini e immediati eredi, non seppero ritrovarsi d’accordo, sul conciliante meccanismo che il maestro aveva loro lasciato. Infatti si sviluppò, e non fu breve, la reazione. Lasciando da parte gli esponenti di questa corrente antidealista che, come Herbart, si rifanno al realismo, o come Marx fanno valere l’istanza economica e politica, è opportuno prendere in considerazione quel movimento nato alla morte di Hegel e che da allora ha proceduto diritto come una spada, producendo infinite storture e disastri, ma sviluppando contemporaneamente nuovi aspetti delle umane possibilità, non esplorati prima. Con l’avvento di questa dottrina, si affaccia nella storia della filosofia, la forma definitiva di un irrazionalismo organizzato, manifestatosi in modi diversi, ma sicuramente riscontrabile al di là di camuffamenti esteriori o di precauzioni dettate da motivi contingentali. Questa corrente è stata fatta risalire agli spunti polemici del tardo Schelling, e poi fatta proseguire attraverso Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche, Dilthey, Spengler, Troeltsch, Heidegger, Jaspers, fino alla sociologia di Max Weber e Mannheim e fino alle teorie sul razzismo di Chamberlain, Krieck, Rosenberg. Questi uomini, nell’ambito degli interessi particolari che li condizionano, mettono in luce una vera e propria rinuncia all’illusione assolutistica, alcuni propugnano un irrazionalismo relativistico, altri capovolgono il primitivo assolutismo della ragione in un altro di aspetto diverso ma di risultati ben peggiori. Più che di una vera tendenza verso la possibilità negativa – se si esclude il misticismo di Kierkegaard – l’irrazionalismo presenta la forza incoercibile della realtà nel suo continuo verificarsi, libera da quell’energico tentativo di catalogazione che era stata la filosofia di Hegel. Ora ponendo, per il momento, da canto Schelling, che malgrado i suoi sforzi rimane nell’ambito della concezione idealistico-hegeliana dell’infinito, della natura e della storia, e evitando di parlare di Schopenhauer, perché troppo legato a un’acredine minuta e personale, e troppo poco informato delle fonti dirette della speculazione di Hegel, ci resta il “fenomeno” Kierkegaard. Riprenderemo il discorso su Schelling, Schopenhaner e il neokantismo, quando si tratterà di chiarire il rapporto diretto dello svolgimento negativo delle posizioni kantiane, con il problema della storia.

Kierkegaard

Due sono i motivi per cui Kierkegaard, ignorato o quasi fino al periodo tra le due guerre, si trova adesso [fine anni Cinquanta] a sostenere tanta parte della contemporanea speculazione. Il primo, di ordine storico, riguarda la sua importante azione nella polemica contro l’idealismo hegeliano. Per questo si può dire che la sua opera resta inserita nell’arco: Feuerbach-Marx-Ruge-Kierkegaard, sviluppante nelle sezioni, l’antropologia di Feuerbach, il comunismo di Marx, il concetto morale del lavoro di Ruge e la possibilità negativa di Kierkegaard. L’irrazionalismo del filosofo di Copenaghen non è ancora dello stampo di Nietzsche e successori, egli non volta decisamente le spalle alla discussione e alla riprova teorica, profondo conoscitore del sistema del grande idealista, si accorge della mistificazione che sorge alla base della identità soggetto-oggetto, dialettica-realtà. L’uomo non può contentarsi di un semplice “sillogismo conclusivo”, il suo discorso esistenziale deve procedere oltre, il “pathos” lo spinge alla “decisione” che in se stessa scorge l’antitesi col metodo, tutto proteso a riconoscere all’interno di sé ogni sorta di autorizzazione. In effetti lo sforzo dialettico hegeliano giaceva come ammantato sotto la vigile attenzione del sistema completo, nella compresenza di tutte le sue parti. Ma dinanzi all’urto della viva realtà, dell’esistenza nella molteplice varietà delle sue forme e delle sue possibilità, davanti alla più completa gratuità del perché della vita, la dialettica non può non venir fuori come inadatta ad assorbire tutto e tutto nuovamente rifondere. Anche volendo prescindere da un’indagine minuta di tutti gli spunti polemici diretti contro Hegel, non si può fare a meno di notare un punto fondamentale: Kierkegaard nega recisamente, più che cerchi di dimostrare con ordine, l’assunto hegeliano della relazione quantitativo-qualitativa della realtà, definendola semplice “superstizione”. Da questo rifiuto appare lo stacco netto (qualitativo) che si verifica nel suo procedere sulla realtà, stacco (o salto) che viene inferito, appunto, dalla caratteristica di immediatezza della “decisione”.

Il secondo motivo che rende attuale Kierkegaard si deduce immediatamente da questa sua posizione nuova: l’avvenuta consapevolezza della pregnante realtà dell’esistenza, svincolata dai cardini di sicurezza, ai quali era stata legata da Hegel. Sia la considerazione del problema della conoscenza storica, che il procedere della stessa ricerca scientifica, restano avulsi da un determinismo idealista. La realtà nel complesso organico del suo manifestarsi viene tenuta per irraggiungibile, e tutti gli sforzi diretti in questo senso, alla stregua di una corsa verso il nulla più gratuito. Da cui il rifugiarsi in un soggettivismo che minaccia di valicare i confini della mistica e della poesia. E poeta più che filosofo, Kierkegaard si considerò per tutta la vita. Venuto fuori dalla necessità di spiegare tutto, anche quello che non poteva essere spiegato, egli si accontenta di parlare dell’essere, con quegli accenni potentemente autobiografici, che fanno della sua opera una sofferenza di vita, più che una speculazione dottrinale. La caduta della necessità, genera la disperazione, come intimo riconoscimento della nuova categoria: la possibilità. In La malattia mortale, Kierkegaard esamina proprio i rapporti dell’uomo col mondo, col proprio io, e la stessa possibilità di questo rapporto. «La personalità è una sintesi di possibilità e necessità: perciò la sua esistenza somiglia alla respirazione che consiste nel tirare e nel lasciare andare il fiato. L’io del determinista non può respirare, perché è impossibile respirare esclusivamente la necessità, la quale, quando è nuda e pura, soffoca l’io dell’uomo». (I, A, a2).

Di certo una simile concezione non può stendersi sul piano teorico di una tranquillità soddisfatta. Lo sforzo filosofico qui trascende l’ambito delle possibilità immediate dell’uomo Kierkegaard, il quale si vede costretto a portare avanti una costruzione religiosa improntata su di una dialettica della qualità che non convince nessuno.

Ma è proprio questo il motivo che rende vitale, oggi, la speculazione di Kierkegaard: il mancato esaurirsi dell’indirizzo aperto alla possibilità negativa, il non completo svolgimento delle aperture esistenziali dell’uomo posto davanti al perché di se stesso, davanti alla solitudine del proprio intimo.

È necessario, per altro, non dimenticare che ci troviamo in pieno clima idealista. La realtà ci perviene attraverso il filtro della dialettica e, sebbene con forza irrazionalista, Kierkegaard non mostra che l’altro lato della medaglia. E mi sembra assurdo il tentativo di coloro che pretendono far parlare Kierkegaard come parlerebbe oggi Sartre o Camus. Più che il nulla, ineffabile in tutte le sue modificazioni, egli trova il suo Dio al di dentro della soggettività: un Dio da solitario, forgiato in maniera strana, col temperamento di un poeta, la freddezza dell’analisi di un filosofo, il calore di un credente. Un Dio da ateo, se mi si consente il bisticcio, in quanto non so come vedere tradizionalmente il concetto religioso di Kierkegaard, ma sempre qualche cosa di ben definito, sia pure come semplice imitazione di un evento accaduto, quando che sia nel tempo, ma pur sempre definito: «Un io di fronte a Cristo – così si esprime nel ragionamento sul problema del peccato – è un io elevato a potenza per un’immensa concessione da parte di Dio, elevato a potenza per l’importanza immensa che gli viene data dal fatto che Dio anche per amore di quest’io si fece partorire, diventò uomo, soffrì e morì. Come si è detto sopra, più idea di Dio, più io, così bisogna dire qui: più idea di Cristo, più io. Ma io è qualitativamente ciò che è la sua misura. Nel fatto che Cristo è la misura, si esprime, ribadita da parte di Dio con la massima evidenza, l’immensa realtà posseduta dall’io, perché soltanto in Cristo è vero che Dio è meta e misura, misura e meta dell’uomo. Ma più io, più intensivo il peccato». (II, B, b). Si tratta di un notevole passo di rafforzamento idealistico. La tecnica è la solita: cercare di prendere a prestito quante più fondamenta è possibile, e delle più resistenti, in modo da potere poi mostrare con una certa (relativa) tranquillità, gli eventuali punti deboli dell’impalcatura, fidando che, come media, il tutto si regga sufficientemente bene in piedi. Ma, come quasi sempre accade in Kierkegaard, il contesto del discorso apparentemente si dirige verso uno scopo ben definito, in effetti sono deducibili più significati, alcuni chiaramente voluti, altri forse nemmeno pensati, sono saltati fuori man mano che la configurazione logica prendeva forma. Ciò forse dipende dall’essere Kierkegaard – giova ripeterlo – più un poeta che un filosofo. E nel passo che ci occupa la regola non si smentisce. Sono parole che gridano fede, e in fondo malamente nascondono un pauroso nichilismo. Come può la ragione fondarsi soggettivamente al di fuori della propria esistenza? Come ci si deve regolare sull’indirizzo da dare a questo impulso? Così procedendo ateismo e religione si equivalgono, sul piano della soggettività, ambedue schemi invalicabili di una entità non ben conosciuta, manifestata ora sotto l’aspetto negativo ora sotto quello positivo. E non suona franca la diana della “imitazione” di Cristo. Quanto lontani ci troviamo dalle scolastiche meditazioni! Siamo penetrati ben dentro a un sistema che si riteneva assolutamente inattaccabile. Vi si è trovato il vuoto, come un riflesso del bagaglio che ci siamo portati dietro nella nostra opera di effrazione: la presenzialità della possibilità del negativo, come eterna compresenza, come blocco inflessibile di ogni strada verso l’ottimismo di un sistema perfetto in tutte le sue parti.

Con Kierkegaard si raggiunge lo stadio estremo di questa consapevolezza, sebbene non esaurita in tutte le sue forme. Dopo, nel procedere dello sforzo irrazionalistico, con la figura di Nietzsche, si penetra in un tutt’altro clima, libero dalle trame idealiste e da ogni necessità teologica.

Nietzsche

Come per Kierkegaard abbiamo visto l’incompatibilità della sua filosofia a rendere l’anima del mondo, se non dietro l’autorizzazione soggettiva, anche per Nietzsche si deve parlare di una interpretazione intimista della realtà, vista attraverso la lente del nichilismo e della decadenza.

Il tempo delle riprove teoriche è trascorso definitivamente. Nietzsche è il filosofo profeta. L’uomo che sconvolge con la profondità del suo pensiero, tanto da farci riflettere sulla duplice possibilità della sua o della nostra follia. “Io descrivo ciò che viene – dice nella Introduzione alla Volontà di potenza – che non può fare a meno di venire: l’avvento del nichilismo. Questa storia può già ora essere raccontata, perché la necessità stessa è qui all’opera. Questo futuro parla già per mille segni, questo destino si annuncia dappertutto, per questa musica del futuro tutte le orecchie sono già in ascolto. Tutta la nostra cultura europea si muove da lungo tempo in una torturante tensione che cresce di decenni in decenni, come protesa verso una catastrofe, simile a una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più e ha paura di riflettere”. Ora non si farebbe fatica a riconoscere nel modo di procedere del ragionamento che precede, lo sforzo di un esaltato. Come è possibile parlare della “storia del futuro”? Ma ciò non deve meravigliare: il merito principale di Nietzsche è quello di avere avuto la grande sensibilità di percepire il momento conduttore dell’epoca sua e di avere lavorato col cuore di un poeta a indagarne l’origine e il significato. Posto ciò cade la meraviglia più che legittima, per il passo precedente. Solo da questo punto di vista si comprende come in Nietzsche sia possibile osservare quella perenne sintesi e rinascita della tradizione, quella linfa vitale che pare scorrere ininterrotta, in lui, dalla forza dell’eternamente classico.

I miti della storia valsero ben poco per lui, ancor meno per la sua notevole possibilità di analisi. Egli rifiutò sempre di sottomettersi, inerte, al peso della loro presenzialità. Siamo davanti non solo al profeta di un futuro terribile, ma pure all’indagatore di un passato pernicioso. E non disdegnò nemmeno l’amoroso disegno di una soluzione, incentrata sul mito, proprio per porla lontano e in salvo da tutti gli altri miti, contro i quali continuamente lottava. Si tratta di una soluzione definita nelle configurazioni marginali, viva di un organizzarsi a volte assurdo a volte sorprendente, conscia del compito arduo che le è proprio: la distruzione dei valori consacrati dalla tradizione. Zarathustra propone una cura forse più grave del male, ma non può esistere altra strada per venire fuori dalle anguste volute di secoli di religione, di morale e di filosofia. “Voi dovete essere di coloro il cui occhio è sempre intento a scovare un nemico, il vostro nemico. E in qualcuno di voi l’odio divampa al primo sguardo. Dovete cercarvi il vostro nemico, dovete fare la vostra guerra, e ciò per le vostre idee! E se la vostra idea soggiace, la vostra lealtà deve tuttavia trionfare! E amare la pace breve più che la lunga. Non al lavoro vi animo, ma al combattimento. Non alla pace ma alla vittoria”. Ecco la nuova moralità, la nuova religione, la nuova filosofia. Da dove abbia origine non è sempre chiaro, e quanti hanno pontificato su questo passo, avevano davanti più che le cause che lo hanno condizionato, gli effetti che esso ha prodotto. Sembrerebbe quasi un voltafaccia, piuttosto che una critica progressiva, un raccogliere affrettato le fila di un ragionamento al fine di stabilire un dogma su cui improntare tutto lo svolgimento ulteriore del discorso, al fine di evitare possibilità negative di dispersioni e travisamenti. Comunque riesce a gettare una luce vivissima sul pericolo principale dell’uomo: il rifiuto della consapevolezza dell’impossibilità di un equilibrio stabile.

È la nascita dei nuovi miti, più duraturi di quelli del passato, di foggia diversa, partoriti dalla distruzione caotica e discontinua di una linea di ragionamento saldamente ancorata al caposaldo della “ragione”. Lo sforzo è diretto a uscire fuori dal nichilismo e dall’ineluttabilità del meccanico volgere delle cose umane, ma è troppo in là, troppo sbilanciato nel lirismo e, a volte, troppo cristallino per non apparire privo di intima aderenza alla realtà. Lottare non significa sempre chiudere gli occhi e buttarsi a capofitto nella mischia, l’organizzazione e il senso stanno pure nella lotta, che diviene sistema e norma, superamento del caos dell’assenteismo e della rinuncia.

Con Nietzsche cade la volgarizzazione del pensiero che si rivolge al popolo, agli operai, alle masse. La sublimazione avviene lentamente in solitudine. Ma questo rinchiudersi in se stesso, questo fuggire le forze vive e intatte del popolo, produce un progressivo inaridimento dello sforzo filosofico. Il tema a cui si dirige il pensatore tedesco, non è quello di salvare la casta, del “nobile signore”, residuo malinconico di un arroccamento che suona scapito e condanna. La fine è troppo vicina per potere parlare di apporto migliorativo, e le nuove forze anche se agiranno in questo senso, sarà per imporre una figura ben diversa da quella lumeggiata da Nietzsche, una figura trista e sconfortante, che speriamo non possa più cavalcare l’onda della storia.

Con Nietzsche cade il litanieggiante concetto di cristianesimo. In lui è la consapevolezza dei nuovi orizzonti, e con lui si attua una delle più notevoli affermazioni della possibilità di autodecisione della scelta religiosa. “Il nostro tempo è consapevole [...] ciò che una volta era semplicemente malato, diventa oggi indecoroso: e una cosa indecorosa l’essere oggi cristiano”, dice con aperta analisi nell’Anticristo. Cadono le ultime barriere filosofiche dell’ottimismo. Filosofi come Strauss, Meyer e altri, vengono bollati dalle taglienti parole di Zarathustra. Cadono i teologi, i metafisici e tutte le loro ricercate mistificazioni della realtà. E a poco a poco si delinea un nuovo mito. Nietzsche combatte le dottrine materialiste in uno con le dottrine spiritualiste, contrapponendovi una teoria nichilista, che pur abbisognando di un ideale, cerca disperatamente di farne a meno. È il paradosso del Superuomo. Vivere al di là del bene e del male, in se stesso, prima di se stesso, dopo di se stesso, vivere sognando mondi fantastici contrapposti a realtà anche più assurde, stroncando a uno a uno i legami con il tangibile e l’organico. Ma il gioco finale della solitudine è un tradurre in termini negativi, l’utopia assolutistica del positivo e la perigliosa vicenda del determinismo. Inconsapevolmente Nietzsche si dispone a scardinare l’ultimo baluardo del materialismo: la religione. Proprio nel proclamare la “morte di Dio” sta lo sforzo maggiore contro il materialismo, dato per certo che questo presupponendo un processo all’infinito, non poteva dare che come semplice atteggiamento transitorio, la propria indipendenza da una matrice, quale essa sia. Nietzsche compie invece l’ultimo passo, tanto importante che ci sembra un pallido riflesso, il suo tentativo di ricostruire le fattezze di Dio, nel volto del Superuomo.

Venuta a mancare una morale di tradizione, diventa necessario costruirne una d’accatto, adatta a sopportare gli attacchi su due fronti, salda di una debolezza tipicamente passionale. I vanitosi si contrappongono ai dotti, i malvagi ai puri, ed è grande il rammarico di non trovare la vanità e la malvagità umana, al grado giusto in cui sarebbe morale deprecarla con fermezza. È la totalità del male che giace supina, in attesa d’essere svegliata dal bacio dell’azione. Nietzsche è un povero uomo mite e gentile, desideroso solo della pace di una esistenza tranquilla, lontana dalle beghe e dalle meschinerie che si nascondono dietro la vita accademica e dietro la presuntuosa facciata dottrinale dei professori. Eppure è quest’uomo che ha smosso tanta azione di quanta non ci avremmo augurato che riuscisse a smuoverne. Gli strali contro la filosofia dell’ottimismo, forse un poco sulle tracce di un illuminismo francese d’altro stampo perché più pacato e più sicuro, sono apparentemente diretti a mostrare i pericoli dell’acquiescenza alla classe privilegiata. In effetti trovandosi questa alla fine della sua vicenda storica, quell’insegnamento non servì che a sfoderare gli istinti brutali e selvaggi di una classe di ben altro genere.

Sarebbe utile, ma non ai fini che ci siamo proposti, seguire le conseguenze teoriche dello sfaldamento morale e filosofico prodotto dall’opera di Nietzsche, in modo particolare ci sarebbe caro provare l’affanno e la contingenza che stanno alla base dei pretesti intellettuali coi quali si svolse e sui quali si fondò il sadismo interessato della Germania nazista, pretesti che, comunque, non riescono a nascondere la brutale immediatezza di interessi d’ordine personale e passionale.

Ma non è del dilettantismo delle opere dei vari Chamberlain, Gobineau, Rosenberg e confratelli che intendiamo parlare. Ben altra tempra di studiosi si impongono all’attenzione. Prima di passare alla prosecuzione irrazionalista di Dilthey è bene prendere in esame il lavoro degli scienziati.

La nuova geometria

Dall’altro lato della barricata, poiché così siamo costretti a identificarla, gli scienziati lavorano a indorare il loro idolo: il determinismo. Ciò non toglie che oggi [fine anni Cinquanta], a distanza di tanto tempo, ci sia possibile individuare tante correnti, tanti sforzi, tante intuizioni che fanno chiaramente vedere come questa dedizione al determinismo non fosse assoluta o convinta. Si lavorava su schemi prestabiliti, ben sapendo che al di là di quei sostegni non c’era che il vuoto metafisico – e quando mai la filosofia è stata interpretata in modo diverso dalla scienza positivista? – o il vuoto religioso: manifestazioni entrambi di un atteggiamento della umana ragione che veniva scambiato per assenteismo e mancanza di azione. Eppure su questi stessi schemi, su questo terreno arido e senza orizzonte nacque la nuova geometria.

Nei lavori di Lobacevskij, nelle previsioni di Gauss, e più ancora nell’esposizione sistematica di Riemann, si osserva un lento ma formidabile scuotimento delle basi della geometria euclidea. È proprio il concetto di assioma che viene preso di mira. In altri termini: il procedimento geometrico (o metodo assiomatico), consiste nello sviluppare delle dimostrazioni compatibili con la logica, da alcune proposizioni stabilite in precedenza. Lasciando stare, per adesso, la questione della legittimità di queste proposizioni, occorre aggiungere che questi assiomi, per avere validità universale, debbono riferirsi a sezioni determinabili dello spazio. Ora, fin dagli immediati successori di Euclide, ci si rese conto dell’impossibilità di riprova pratica dell’assioma delle parallele. Difatti, tutte le rette riscontrabili in natura, non ammettevano in se stesse la peculiarità di infinite. Ma il concetto aprioristico del criticismo contribuiva a giustificare la compresenza di questo assioma accanto agli altri, e quanti come Lambert si posero – quasi per gioco – alla formulazione dell’assioma delle parallele all’incontrario, non seppero uscire dall’apparente assurdità dei risultati.

Occorreva che si uscisse fuori dall’autorità kantiana, in un clima di forze nuove, a volte manifestate in forme estreme, ma lo stesso dotate di una fiorente intrinsecità di azione, per arrivare alle formulazione di Riemann o di Bolyai. Evidentemente qui non occorre scendere in questioni di carattere tecnico, che ci porterebbero a chiarire le differenze tra la geometria non euclidea di Lobacevskij-Bolyai e quella di Riemann, oppure che ci farebbero rilevare la possibilità di parecchie geometrie non euclidee esistenti contemporaneamente, oppure che ci permetterebbero di puntualizzare l’affinità di risultanze tra geometria euclidea e non euclidea, oppure che ci farebbero includere insieme all’assioma delle parallele, anche quello della “retta esistente tra due cose”, come motivo di localizzazione di una nuova geometria non euclidea. In questa sede ci basta fare rilevare due concetti fondamentali. Il primo è che con l’avvento di queste nuove idee, si pose in discussione il nocciolo stesso del problema della matematica, la sua autorizzazione a esistere come logica, e quindi come verità.

Uno sguardo alla filosofia passata ci potrà illuminare sul concetto che i filosofi possedevano della geometria. Basta pensare al lavoro di Spinoza per rendersene pienamente conto. Naturalmente bisogna mettere da canto Leibniz, per i forti dubbi esposti sulla dimostrabilità degli assiomi geometrici, e quindi sulla loro legittimità a esistere come punti di partenza per un ragionamento deduttivo. Ma il grande filosofo e matematico non poteva essere capito dai suoi contemporanei, e quindi non fece scuola.

Il secondo concetto fondamentale è che le nuove idee geometriche ridimensionarono la formulazione di “spazio” data da Newton, gettando il primo colpo di piccone alle basi della grande costruzione del determinismo. Passo senza dubbio notevole ma non molto chiaro, neanche oggi, dopo tante esperienze e delucidazioni. Vediamo di chiarire il perché.

La compresenza di parecchie geometrie (euclidea e non euclidee) presenta il pericolo gravissimo che si cela dietro la formulazione di un’allettante gradazione tendente alla generalizzazione del concetto di rappresentazione. Come a dire che si ricade nel presupposto assolutistico di un riflesso della verità sui postulati geometrici, solo che – cambiando posizione cambia l’aspetto delle cose ma non la sostanza – in quest’ultima versione l’assoluto anziché trovarsi dietro la geometria, le si trova davanti. Ovviamente tutto ciò non deve intendersi come portato al limite estremo dell’ultima formulazione tecnica, ma come qualche cosa che va tenuta presente, quando che sia. E come potrebbe reggersi diversamente questa sorta di scala graduata? non finirebbe per non avere Ia forza di restare in piedi?

Ora vorrei riproporre diversamente la questione che ci occupa. Ferma restando la compresenza di più geometrie, tutte ugualmente verificate e quindi “esistenti”, come si può procedere alla ricerca della giustificazione della loro compresenza, o se si vuole della loro presenza e successiva compresenza?

La risposta non è da cercare in una gerarchia posta all’interno di esse, e neppure in una speranza di conclusione, posta al di sopra. Si è cessato da un pezzo di credere in una “verità assoluta”. Se si necessita di una giustificazione, è bene cercarla nell’applicazione pratica di queste geometrie, a esempio nel campo fisico. La teoria della relatività presuppone l’esistenza di una geometria non euclidea (Riemann) e non potrebbe estrinsecarsi in una geometria non euclidea come quella proposta da Klein o da Poincaré, o addirittura, nella geometria euclidea. E qui sta la prova più alta della definitiva caduta dell’idea direttrice di ordine nella scienza. Il sogno di un principio unico, valido universalmente, tale da poterci fare dedurre futuri eventi, da un esame delle condizioni presenti, in modo da potere in conseguenza regolare le nostre azioni, è da ritenersi infondato. La scienza contemporanea può porre mano alla utilizzazione di più geometrie con coscienza tranquilla, perché ha chiarito, preventivamente, ogni istanza di legittimità. Qualsiasi ulteriore insistenza in questo campo, resterebbe in un vuoto metafisico, ormai fuori del tempo, come è stato posto fuori delle cose.

Naturalmente la caduta del concetto di ordine prestabilito, avvenuta in un momento non ancora del tutto maturo, dette vita a interpretazioni non sempre felici della portata e delle conseguenze della nuova scoperta, sia in campo filosofico che nello stesso campo scientifico. L’inserirsi della nuova geometria nella vecchia relazione matematico-geometrica della realtà, fu cosa troppo ardita per non sconvolgere più che organizzare.

Il vitalismo

Nato proprio quando le nuove teorie scientifiche andavano minando i miti del positivismo, quando si chiudevano gli occhi definitivamente al sogno di arrivare all’individuazione della materia che vive, quando si stabilivano i concetti fondamentali del principio di conservazione dell’energia, il vitalismo seppe venire fuori da basi sperimentali piuttosto deboli e, sebbene esternato in forma scientifica, pose mano a risolvere uno dei problemi filosofici più gravi del momento: la legittimità dell’idea di ordine in seno alla scienza (in questo caso si tratta della biologia). Come spesso capita gli effettivi risultati non furono quelli auspicati dai propugnatori. (Parlo al plurale, ma è bene tenere presente l’opera fondamentale di Driesch, il resto, in genere, non supera la vana polemica e l’inutile profezia). Costoro credettero di solidificare il terreno positivo su cui si ergeva l’imponente castello di Kant, ma procedendo nell’indagine dei fenomeni organici, non tennero presente che proprio in quel punto Kant aveva avanzato delle riserve sulla possibilità di utilizzare la legge di causa e effetto.

Lo scoglio è superato in modo a dir poco fantasioso. I filosofi del vitalismo intrecciano l’uso di una concezione astratta, posta a metà strada tra la monade e la “specie” in senso platonico, con l’indiscussa oggettività di una serie di rilevazioni scientifiche. Come conseguenza questa concezione, di ben diverso stampo di quelle caratteristiche del criticismo, rimase un poco sospesa a mezz’aria, a dimostrazione ulteriore, se ve ne fosse bisogno, del pericoloso terreno verso cui, man mano, andava procedendo una scienza di recente origine e di tante speranze.

Più che semplice il compito della critica di fronte a un simile schieramento male assortito. Si fece presto a trovare i punti chiave e a mettere in luce i difetti di passaggio della mal digerita lezione kantiana. Ma non è questo il nostro compito, ci basta avere delineato, sia pure per brevi cenni, una ulteriore dissoluzione del lato positivo della filosofia.

Ma questa vicenda non deve meravigliare. Ogni tentativo dl riportare la biologia a una fase pre-vitalistica deve passare, anche ora, attraverso le braci di un materialismo ottocentesco, tronfio di quella baldanzosa sicurezza nel futuro della ricerca scientifica che ci fa un poco sorridere, alle risultanze di quanto ci viene passando sotto gli occhi giorno per giorno. Si potrebbe far cenno a fermenti nuovi, propri di questo ultimo decennio [anni Cinquanta], tali da fare prevedere un completo superamento della sbornia del vitalismo, ma per adesso si tratta solo di tentativi, capaci comunque di una prosecuzione non avara di risultati.

Esiste un modo di intendere questa vicenda strana del vitalismo che apparirebbe, a una prima analisi, abbastanza ben piantato e significativo, se non convogliasse più scorie che gemme. Come al solito lo sposalizio scienza-filosofia non è mai una unione felice, ma non per questo è da condannarsi, anzi possiamo auspicare che questi matrimoni si moltiplichino nel tempo, anche se saremo costretti a una dura fatica di scelta e di orientamento. Questo procedimento di indagine è abbastanza sufficientemente rappresentato da Beppino Disertori, medico, psicologo e filosofo. L’esigenza speculativa e particolarmente viva nel volume De anima, Milano 1959, nel quale tratta un argomento che, in parte, costituisce uno dei fondamenti della stessa nostra esigenza di lavoro. L’indeterminazione, così come è espressa dalla fisica, viene tenuta presente nel rapportare gli accadimenti biologici e psicologici alla compresente necessità metafisica. In effetti poi la trama principale della ricerca è un’altra, ma comunque l’assunto iniziale è quello che abbiamo riportato.

Il sogno indiscusso è quello di fissare le basi di un nuovo tipo di determinismo, sogno senza il quale la biologia sembrerebbe la danza dei folletti impazziti, e Disertori, da buon biologo e scienziato, s’imbarca sulla tranquillizzante tesi che definisce la vita come una violazione del principio dell’indeterminazione. Questa è la vera trama del libro, come si vede si tratta di un tentativo che non può in alcun modo abbandonare il terreno tradizionale del vitalismo, anche se sente vivamente pregnanti le nuove idee e i nuovi fermenti. Driesch è più compresente di un Ralph Lillie, Arthur Eddington serve a dare quella nota di strana impostazione filosofica che caratterizza questo genere di produzione speculativa, Constantin Monakow e Raoul Mourgue giustificano a sufficienza il valico biologia-filosofia bergsoniana, e in lontananza, le pallide figure di Planck e Einstein poste lì come geni tutelari più che come correttori di una teoria che manca in pieno il nocciolo fondamentale del nuovo indirizzo della scienza.

L’altro lato del problema è quello più schiettamente metafisico, nel significato più contorto e involuto di quest’ultimo termine. Alla metafisica viene riconosciuto il dovere di occuparsi di problemi come la conoscenza, la libertà, la responsabilità, solo a condizione che si ponga e risolva problemi come la sopravvivenza dell’anima e altri come la materia e la vita.

Ma qui si naviga in piena fantasia filosofica, e prima di provare il perché di questa affermazione vogliamo riportare un passo della Introduzione del citato studio di Disertori (p. 29), appunto per dare ai lettori un’idea di dove può arrivare il lavorio delle parole, posto in mano a uno studioso che per la specializzazione che ha scelto dovrebbe possedere un maggiore senso della realtà. «Un sostrato psichico è la causa permanente dell’universo, cioè dei fenomeni energetico-materiali nello spazio-tempo: il cosmo non è che pensiero pensato da questo sostrato mentale, conforme all’ipotesi di fisici quali Jeans o Eddington. Il quid psichico di vita, che opera negli organismi in qualità di principio teleologico interiore ed è atto a fare scelte nel protoplasma tra taluni eventi subatomici possibili, cioè capace di realizzare singole probabilità, in un mondo fenomenico non rigorosamente deterministico, così come il sostrato con il suo pensiero creativo attua eventi in tutto il cosmo, proviene quale emanazione da quel sostrato medesimo, che potremmo chiamare pitagoricamente divina pampsiche o anima del mondo. In quanto lo contiene, ma anche Dio, in quanto lo trascende».

Vediamo di mettere in chiaro quanto precede. Innanzi tutto alla filosofia non possono essere poste condizioni di indagine nemmeno sotto le spoglie di un metafisicismo assurdo e fuori del tempo. Il lavoro del filosofo, occorre ripeterlo anche qui, non è mai una catalogazione di problemi e di soluzioni, è un dialogo aperto alle possibilità della riprova e del fallimento e, proprio per questo, alle possibilità della verità e della creazione. Il problema della conoscenza può essere saturo di risultati costruttivi, può innalzarsi a significato e strumento di un processo speculativo verso le cose e dalle cose all’uomo, come può pure inaridirsi in schemi freddi e tecnici, anelanti al palpito della vitalità, ma condannati all’impotenza perpetua. Proprio per questo, “le singole visioni e metafisiche possono essere innumerevoli e diverse per i singoli pensatori o artefici di mondi filosofici”, proprio per questo dopo duemila anni di sforzi, siamo ancora qui a discutere di mezzi e di possibilità, piuttosto che di risultati definitivi, e il problema della conoscenza a un problema che si mantiene sotto le spoglie del problema tecnicamente trattabile, è facile capire come le cose possano complicarsi, senza per altro permettere una soluzione neanche approssimativa, nel caso di problemi – come quello del principio teleologico di vita – che solo apparentemente assumono l’aspetto di problemi solubili. Occorre fare una grande attenzione per non riportare il principio teleologico in seno a un antropomorfismo che finirebbe per tradurre in favole per ragazzi ogni sforzo diretto a individuare piani e schematismi nell’azione di unicellulari, piante o altro. È proprio questa la strada che conduce alla necessaria affermazione che il seme trasportato dal vento faccia parte di un piano prestabilito e diretto all’estensione della specie organica originaria. Ed è pure questa la strada più breve per la filosofia del determinismo.

Premesso tutto questo è anche necessario avvertire che il tentativo di Disertori di interessare ai problemi biologici la filosofia, non avviene nel senso che noi dettammo all’inizio di queste pagine. Lo scopo è quello comune di tutti gli studiosi dell’argomento, da Darwin in poi, e si potrebbe pure dire da Lamarck stesso in poi. Ora la sterilità di simili indagini, per la filosofia, è più che evidente, si potrebbe solo porre in discussione l’utilità per la biologia, ma, tutto sommato, il fondamento tecnico di questa scienza è tale da potere sopportare con vigore qualsiasi bardatura filosofica mal digerita. Da canto suo la filosofia elaborata in simili condizioni assume la forma di una cosmogonia di nuovo conio, acconciata in modo adatto alle moderne esigenze, ma in tutto simile per sostanza e significato ai primitivi rudimentali tentativi di ricerca della verità.

È tempo che la scienza e la filosofia apprendano la più grande lezione che l’età contemporanea è in grado di dare: non è possibile (o non è necessario?) dare a tutto una risposta definitiva. Potremmo dire che non è nemmeno vergognoso. Non sappiamo da che cosa ha avuto origine l’universo. Non sappiamo che cosa sia questa forza cieca che ci spinge testardamente a giocare la nostra partita di vita senza speranza alcuna, non sappiamo chi è Dio, non sappiamo che cosa sia la vita. E con questo? Tentare delle rispose sarebbe fare un lavoro di fantasia che soltanto apparentemente risponderebbe a quei requisiti di rigorosità e di logica che l’abitudine al nostro lavoro ci ha resi familiari. Ecco come Reichenbach conclude su questo argomento: «Il filosofo moderno si comporta diversamente. Evita di suggerire soluzioni definitive, le quali emanciperebbero lo scienziato dalla propria responsabilità: tutto quello che può fare è chiarire che cosa sia sensato chiedere e tracciare varie risposte possibili, lasciando alla scienza il compito di stabilire un giorno quale sia la vera. In effetti la fisica moderna ha fornito molto materiale per questa chiarificazione logica, e suggerirà nuove soluzioni, se quelle attualmente prospettate dovessero rivelarsi insufficienti». (La nascita della filosofia scientifica, tr. it., Bologna 1961, p. 200).

Cercare di contravvenire a questi limiti, volere a tutti i costi dare delle risposte, in se stesso non è un male tanto grave. In fondo ogni illusione può essere utile ai deboli di spirito, per aiutarli a superare il loro travaglio terreno. Di ben altra entità è il pericolo che ne consegue. Pericolo che possiamo vedere in atto anche nell’opera che veniamo esaminando. Disertori si serve della psicologia per dimostrare la tesi dell’immortalità dell’anima, tesi che peraltro non potendosi reggere da sola, utilizza in ultimo l’avallo supremo del “rischio metafisico”. Comunque volendo sorvolare sulle vicende di questo svolgimento vogliamo puntualizzare le conseguenze. Poggiando su di una simile base è più che logico produrre un castello ben delineato di false risoluzioni di problemi, risoluzioni che non sono come le illusioni di cui sopra, semplice balocco di spiriti indecisi o paurosi, ma perniciosa base per azioni pratiche e tecniche. Risulta chiaro a tutti la profonda differenza che passa tra l’illusione sulla immortalità dell’anima e l’illusione sulla possibilità di “costruzione di una umanità libera e fraterna”.

Matematica e logica

Al sorgere delle nuove esigenze si assistette a una vera e propria corsa all’esame di coscienza. Tutti i matematici del momento si proposero dei problemi d’ordine epistemologico, provvedendo con grande urgenza alla loro risoluzione, in un senso o nell’altro, onde potere sgomberare il terreno dagli ostacoli nuovi che sorgevano davanti alla prosecuzione del loro compito. Ora se si eccettuano i filosofi che, pur manifestando una completa inadattabilità tecnica al problema (Stuart Mill), si accinsero lo stesso alla sua risoluzione, ci restano due indirizzi ben distinti: da un canto il tentativo di dare indipendenza e legittimità ai concetti matematici in se stessi, mettendo in chiaro la logicità intrinseca di ogni conoscenza matematica in modo originario o riportandola a possibili connessioni con la realtà fenomenica, dall’altro i residui tentativi di un mal digerito interesse psicologico, tuttavia in forma non molto chiara e, comunque, non molto degna di considerazione. Quindi, se si scarta l’indirizzo di interpretazione psicologica, il nostro interesse deve incentrarsi sugli sforzi di “aritmetizzazione della matematica”, come, con un termine non molto preciso, ma chiaro, è stata definita la somma delle soluzioni approntate da quanti, una volta posti davanti al pericolo di non ritrovarsi più con un solido fondamento ragionativo, si affrettarono a procurare.

Il fermento non è affatto nuovo in filosofia. La prima fusione del problema ontologico con quello logico risulta già in Platone, come culmine degli sforzi greci di dare organizzazione e senso alla conoscenza. Spetterà poi al Rinascimento rinsaldare questo concetto in una sfera disancorata dai residui mitologici, ma non ancora convinta dell’insita problematicità che si nasconde dietro l’apparente stabilità del rapporto mente umana natura. Solo con Kant il precedente postulato diventa problema, conscio della propria forza e capace di dettare i limiti del possibile fondamento filosofico dell’indagine conoscitiva. Ed è proprio nella grande rivoluzione dell’intendimento positivo della vita, nel capovolgimento totale di quanto fino ad allora si era prodotto in filosofia, che troviamo l’inizio del nuovo metro logico.

Grande fu l’impegno con cui Kant si accinse all’opera sua. Rifiutata ogni considerazione normativa dell’io e ogni sua relazione possibile con le cose, egli si rivolse alla formazione di una struttura logica dell’esperienza. Prima di arrischiare una qualsiasi affermazione sulla realtà o sulla verità, Kant volle illuminare la scena nella quale, confusamente, per secoli, io e cose avevano rappresentato la commedia dell’origine comune. La filosofia non può essere indirizzata all’io o alle cose, ma deve darci dettami di chiarezza, con i quali ci sia possibile postulare giudizi di verità. Spetterà poi all’applicazione pratica del giudizio “a priori”, fare fruttificare l’autenticità del duplice carattere della impostazione critica della filosofia. Mentre, a esempio, per Platone la matematica costituiva la sintesi di princìpi superiori reali, per Kant forma soltanto un mezzo per analizzare oggetti concreti. Infatti tacciò di “semplici fantasticherie” l’indagine sullo spazio geometrico, se viene eseguita a mezzo di una serie di enunciazioni astratte e non tenendo presente un’esperienza possibile.

Ma questa necessità di concretezza non venne rettamente interpretata dai suoi successori, i quali non seppero vedere chiaro nella via da lui indicata. Impadronendosi del meccanismo critico, provvedettero immediatamente a ridisegnare la regione, allargandone a dismisura i confini e abbattendo ogni sorta di restrizione piombarono in quell’idealismo di forma pseudo-platonica che nel pensiero puro vede il regno della logica. “La Logica è ovviamente da considerarsi come il sistema della pura ragione, come il regno del pensiero puro. Questo regno è la verità, la verità senza veli e esistente da per se stessa”: così Hegel nella sua Scienza della logica. Ma Hegel non è Kant, più che un filosofo è un riformatore, egli è un uomo d’azione, assurdo nella manipolazione dei particolari – se si vuole – ma di indubbia genialità nel porre le idee fondamentali del suo sistema. E una di queste è la sua idea di porre la storia a cardine dello spirito dell’uomo, come la scienza della natura, e grandissimo fu lo sforzo di applicazione di questa intuizione.

Certo non bisogna pretendere di rinvenire in Hegel i presupposti matematici di Platone e nemmeno quelli dubbiosamente affermati da Kant, se si pretende questo, non si può fare a meno di rifiutare in blocco il contributo logico del filosofo di Stoccarda. Comunque la strada per la grande apertura matematica del nostro tempo, sia pure come semplice parte di un clima, passa anche attraverso il suo contributo. Infatti fu proprio attraverso uno spiraglio causatosi nell’idealismo di stampo hegeliano che le generazioni successive, riuscirono a rielaborare un piano di studio dei mezzi logici a disposizione.

I filosofi e i tecnici della situazione filosofica dell’epoca, proclamarono infatti il famoso “ritorno a Kant”, ma più che nell’opera di Hermann Helmholtz o di Eduard Zeller, il nuovo fermento bisogna cercarlo altrove. Di decennio in decennio si fece sentire sempre più pressante la sostanziale differenziazione tra filosofia e scienze particolari, e le prospettive brillanti che un reciproco accostamento avrebbe potuto dare. È il momento dei grandi sogni, è l’avvento della verità assoluta. La filosofia s’illude di riuscire a illuminare un complesso organico e unico di scienze, diretto alla ricerca sistematica della realtà.

In questo convulso momento di transazione s’innesta il rigoglio della nuova matematica. Momento, come è facile notare, che nell’estensione dei suoi particolari è compresente al verificarsi di tutti gli altri fermenti generatori di nuove idee e nuove forze. Ma per la matematica il discorso merita un supplemento storico. Accanto al profilo, brevissimo, che abbiamo tracciato sopra, da Platone al neokantismo, è possibile vedere una vena di differente fattura. È la grande figura di Aristotele che campeggia altissima, per secoli fino al lavoro introduttivo di Leibniz, col quale entriamo – se si tiene presente una parentesi di quasi due secoli – in pieno clima contemporaneo.

La posizione logica assunta da Aristotele comprende una trattazione delle “Categorie”, e ha come presupposto la “metafisica della sostanza”. Da un lato, quindi, si limita a darci uno schema di comportamento di classi, schema che conduce al giudizio e quindi alla costruzione sillogistica, dall’altro presuppone la necessitante idea di sostanza. Il principio che informa questa logica è il “principium identitatis”, e non ci si poteva attendere altro da un metodo che insegna la conoscenza dell’ente in quanto ente. Eppure un dissidio sussiste. Per prima cosa un principio di identità esposto scheletricamente (a esempio: A è A) non potrebbe mai dare vita alla catena sillogistica, che, come sappiamo, prevede tre “figure”, per cui si parlò dell’esistenza del principio di contraddizione, in cui si aveva “A non è non A”, come complemento del principio di identità e preparazione al sillogismo. Così si giustificò l’esistenza del termine medio e la sua modificabile qualità che ripete le modificazioni nella figura sillogistica. Ma questo superamento del dissidio iniziale non ci mostra se effettivamente il principio di identità sia da considerarsi un mezzo di ricerca della verità, oppure un mezzo per conservare nelle argomentazioni la giusta via di reciproca comprensione, e in effetti non credo che Aristotele lo mostri chiaramente. Più che nel sillogismo, la sua fede di scienziato lo conduceva all’induzione, come unico mezzo per uscire dall’esame dei casi possibili, verso il più ampio respiro della generalizzazione.

Comunque, nonostante lo scetticismo dei moderni studiosi davanti al principio di identità, non credo che lo si possa rifiutare per la sua intima costituzione, piuttosto per quello che presuppone. Osserviamo, innanzi tutto, che il principio di identità si riferisce a un rapporto tra “cosa e cosa”, come dire a un rapporto tra sostanza e sostanza. Ora questo rapporto non può essere identico perché se così fosse si autoannullerebbe come rapporto nella ritrovata identità di sostanza fondante. Come dire che se si hanno due sostanze separate, e in rapporto tra di loro, non si può parlare di identità, perché una delle due sostanze sarà una determinazione dell’altra e viceversa. Insomma il fatto stesso di avere alcunché fuori di sé, toglie alla sostanza il privilegio di entrare in rapporto con questo alcunché. Quanto precede risulta più chiaro se si pone mente al fatto che per Aristotele la logica, come teoria della sostanza, è a fondamento di ogni verità.

Per quanto strano possa sembrare, il contributo dato dallo stagirita alle dottrine logiche, è il primo e il solo per quasi duemila anni. Lo stato di sviluppo è rimasto intatto al punto in cui il fondatore lo aveva lasciato, senza che sensibili miglioramenti si maturassero parallelamente al vasto diffondersi degli studi filosofici. E lo stupore potrebbe aumentare se si pensa che nelle “Categorie” esiste la quarta specificazione che riguarda la “relazione”. Eccoci a un principio logico altrettanto fondamentale, quanto quello dell’identità, ma completamente negletto da Aristotele, e per niente ripreso dai suoi seguaci. Il fenomeno del silenzio della dottrina della logica, per tutti questi secoli, è stato spiegato in vario modo. Alcuni ritengono che trattandosi di uno strumento del pensiero, non si vide la necessità di modificarlo e di perfezionarlo, fin quando questo strumento continua egregiamente nell’opera sua. Altri citano tutti i lavori di logica, da Aristotele agli albori della nostra epoca, e non si accorgono di rigirare sempre gli stessi concetti. Una soluzione ragguardevole è quella proposta da Reichenbach: «Più di ogni altro capitolo della filosofia, la logica richiede un trattamento tecnico dei problemi. Per risolvere le questioni logiche non basta infatti il linguaggio metaforico, ma occorrono formulazioni rigorose come quelle della matematica: la stessa enunciazione del problema è spesso impossibile senza l’ausilio di un linguaggio tecnico quanto il linguaggio matematico. Aristotele e i suoi discepoli furono i primi a abbozzare il linguaggio tecnico della logica, mentre nel Medioevo vi si apportarono limitate integrazioni. Ma questo è tutto quello che fu fatto al riguardo nei duemila anni seguiti alla morte di Aristotele. Nel periodo in cui grandi matematici vennero affinando profondamente la tecnica della propria scienza, la tecnica della logica fu quasi del tutto trascurata. In effetti, la logica tradizionale offre il poco lusinghiero spettacolo di una scienza che non è mai diventata fucina di grandi uomini: gli ingegni nati con la vocazione del pensiero astratto, anziché essere attratti dalla logica, furono attirati dalla matematica, che, evidentemente, dischiudeva loro migliori possibilità [...]. Senza l’aiuto del pensiero matematico, la logica sarebbe stata condannata a rimanere in uno stato infantile. Kant, benché incapace di dar vita a una logica migliore, giudicò correttamente la situazione quando espresse il proprio stupore per il fatto che la logica fosse l’unica scienza che non aveva compiuto alcun progresso dopo la sua genesi». (La nascita della filosofia scientifica, op. cit., pp. 210-211). Come dire, in definitiva, che la logica aristotelica non valeva la logica matematica di Pitagora e di Euclide, difatti solo con una impostazione matematica e non metafisica si è potuto, ai giorni nostri, fare rivivere il tronco rinsecchito dell’antica logica.

Prima di puntualizzare la nostra attenzione sul momento dell’affermarsi della logica matematica moderna, è bene chiarire il concetto che presiede al principio di “relazione”, di cui prima abbiamo fatto cenno. Nel principio di “identità”, abbiamo visto porsi il rapporto tra due sostanze che pretendevano imporre la loro origine unitaria, in base a un’autorizzazione metafisica. Come abbiamo visto, ciò non si può coerentemente accettare, quindi ne scaturisce che le due sostanze sono diverse, e che nel porsi in rapporto, stabiliscono una relazione. Non bastano le sole “Categorie” per contenere tutti i casi possibili, come non basta un solo principio di identità per accordare tutto l’universo. Una volta che due sostanze in rapporto tra di loro, non si dimostrano identiche, né in se stesse e neppure in un ulteriore possibile rapporto, se non si vuole cadere nella più completa incoerenza, occorre che non solo rinunciamo all’accordo intimo fondamentale, ma che istauriamo una relazione logica, prevedente un rapporto di specie diversa, in quanto riflettente un momento temporale differente. Così si viene a rovesciare il problema, ma non se ne dimostrano, a pieno, le cause di modificazione. Mentre il principio di identità presuppone la necessità logica della sostanza, il principio di relazione presuppone la necessità logica della relazione. Il segreto sta all’interno della considerazione temporale. Il principio di relazione è dinamico, mentre il principio di identità è statico. Quando diciamo: “Carlo è più ricco di Giuseppe”, stabiliamo una relazione (fenomeno rilevato, come si è detto, anche da Aristotele) ma non tra due sostanze statiche, bensì tra due modificazioni temporali o spaziali. Insomma si deve tenere presente un concetto di “processo logico” che manca nella postulazione del semplice “principium identitatis”.

È facile, comunque, prevedere le grandi aperture che un simile principio logico, causerà in campo speculativo.

Ed eccoci all’altro grande sforzo della logica, prima di entrare nel clima contemporaneo: Leibniz. Si può ben dire che è l’altro grande momento di questa scienza, se si vuole immaturo, ma lo stesso carico di raccordi con la matematica, tanto più interessanti perché smarriti e poi ritrovati, in un clima di gioiosa riscoperta.

Nel porre mano alla sua trattazione della “Logica”, Leibniz preludia una distinzione tra “verità di ragione” e “verità di fatto”. Le prime sono necessarie, ma non investono la realtà, le seconde sfuggono al principio di identità – in quanto ammettono il loro contrario – e sottostanno a un nuovo principio: quello di “ragione sufficiente”. Sappiamo che lo spirito della filosofia di Leibniz è essenzialmente armonia, in controsenso con la necessità geometria di Spinoza: armonia che afferma un ordine spontaneo non vincolato a alcunché di necessitante. In una lettera del 1696 diretta a Gabriel Wagner (cfr., E. Cassirer, Storia della filosofia moderna, op. cit., vol. II, p. 174) leggiamo: «Io ritengo peraltro certo che quest’arte della ragione dovrà essere incomparabilmente perfezionata e penso anche di aver previsto in qualche modo la sua strada, a tal punto tuttavia sarei giunto ben difficilmente senza la matematica, e in seguito, a vent’anni, avevo già pubblicato qualcosa in proposito, tuttavia, anche più tardi, dopo di aver constatato come le strade di questa indagine fossero chiuse, ho visto quanto sarebbe stato difficile trovare una soluzione e un passaggio attraverso quegli ostacoli senza l’aiuto intimo della matematica». Con la formulazione del principio di “ragione sufficiente”, Leibniz esce fuori dal cerchio della causa necessitante, stabilendo la fondazione della sua analisi sul metodo del pensiero. Tutto potrebbe dissolversi in una impossibilità di percezione, dice Leibniz, di tutto potremmo dubitare, perfino delle esperienze e dei risultati di queste esperienze, ma di una sola cosa non si potrà mai dubitare: delle forme pure del pensiero. Dove per queste forme si intende l’estensione e il movimento che il pensiero attua nel creare dalle forme semplici le forme complesse. Anche nella dimostrazione del concetto tradizionalmente necessitante dell’atto creativo di Dio, Leibniz porta il contributo del nuovo principio. Dall’esame delle forze contingenti non troviamo niente di necessario, e quindi nemmeno la ragione delle cose stesse. Questa ragione deve ricercarsi all’esterno, in Dio, nell’atto della creazione, non inteso come atto necessario, ma come atto di volontà. Evidentemente qui si nasconde una stortura metafisica, perché il concetto di libertà dell’atto divino è basato sulla perfezione di Dio, e quindi sulla sua praticamente inesistente possibilità di agire diversamente da come in effetti ha agito nella creazione.

Partendo dalla geometria Leibniz procede alla costruzione di una “matematica universale” comprendente tutte le attività razionali. Purtroppo la geometria mal si prestava a una esemplificazione della teoria del “continuo”. Sia come estensione spaziale che come movimento, nella struttura geometrica si risolve compiutamente la figura geometrica, venendo a tradire in una vera e propria antinomia, il filone principale, procedente dalla linea di principio della continuità spaziale convertibile in analisi di fattori costitutivi.

Una prima risoluzione del problema Leibniz la dette in forma filosofica, riportando il continuo divenire all’emersione di un’attività divina. Come a dire che il movimento non si deve intendere come passaggio da uno spazio a un altro successivo, ma come passaggio da una creazione a un’altra e così via. Ma lo scienziato e il matematico non si potevano accontentare di questa spiegazione. Ed eccoci al calcolo differenziale con cui risulta possibile un’impostazione logica del problema. Per prima cosa bisogna riaffermare la caratteristica della geometria che tratta di relazioni qualitative e non quantitative, non potendo riferirsi a grandezze simili, ma restando vincolata ai “punti”. Dalla parte opposta, l’algebra viene riconosciuta come la scienza specifica delle grandezze. Ora applicando il concetto metodologico di funzione al campo delle grandezze si ottiene una relazione che continuerà a esistere anche quando saranno venuti meno, per un motivo qualsiasi, gli estremi delle grandezze messe in relazione. A esempio risulta impossibile mettere in relazione una retta con una curva, perché estremamente eterogenee tra di loro. Eppure se si passa dal campo qualitativo a quello quantitativo, se si considera la retta come composta da una serie di punti, e altrettanto si fa con la curva, si viene a stabilire un rapporto che non cessa, nemmeno quando si saranno modificate (sempre in senso qualitativo) le basi di partenza. Adesso l’antinomia del continuo viene a essere risolta. Mentre prima si partiva dal numero per costruire una grandezza, e poi si era costretti a fare a meno del numero (se non si voleva entrare in piena incongruenza) e affidarsi alla forma. Adesso si è in possesso di una teoria, puramente logica, che ci consente di determinare il numero e la forma. Questo strumento foggiato da Leibniz, della “funzione”, concetto prettamente matematico, viene sviluppato, nei limiti che la filosofia del suo tempo consentiva, per l’indagine etica e metafisica. Si può dire che, per la prima volta, la logica matematica è entrata, forse in punta di piedi, nel regno della filosofia.

Una introduzione del genere presenta comunque due problemi che vanno chiariti a priori. Il primo è propugnato da chi pretende di mantenere separati gli sforzi di coloro che dalla matematica giunsero alla logica, dagli sforzi che si attuarono in senso inverso. Il secondo consiste nel pretendere una naturale confusione tra queste due discipline, in nome della logica.

Il lavoro di uomini come Dedekind, Russell, Withehead, ecc., si sviluppa su necessità di ordine organizzativo, di fronte alla grande massa di disordinate conquiste che la matematica aveva compiuto. E fu prima nell’assiomatizzazione e poi nella logicizzazione che si concluse questa fase che alcuni vogliono vedere staccata dal contesto della fase maggiore, che da Leibniz in poi (con la parentesi già nota del Settecento e di quasi tutto l’Ottocento), tende a lavorare più direttamente sulla logica, inserendovi i procedimenti matematici. Qui troviamo studiosi come George Boole, che dette inizio alla fioritura che anche oggi vediamo, e quella vasta corrente d’oltre Atlantico che continuamente ci investe con i suoi prodotti di calibro non sempre accettabile. È in questa pretesa separazione che troviamo un notevole contrasto. I tempi erano sufficientemente maturi perché si lavorasse alla revisione dei vecchi concetti della deduzione. E questa forza vitale di ricerca la dobbiamo vedere intrinseca ad ambedue le fasi precedenti, e in suo nome soltanto possiamo parlare di un’unica fase generale.

All’interno di strutture ragionative, via via sempre più complesse, è possibile scorgere l’intima soddisfazione che provarono questi cultori della nuova disciplina logica, quando dalla formulazione dicotomica riuscirono a passare alla impostazione tricotomica. Fu proprio in funzione di questi nuovi orizzonti che si produsse e prese consistenza, la pretesa di fondere la logica e la matematica sulla comune giustificazione logica. Ma si tratta di sovrastrutture a un complesso in formazione. L’avvento della logica non aristotelica si può tranquillamente riportare al processo generale che veniamo esaminando. È qui il punto di unione, uguale a quello che possiamo riscontrare tra biologia e geometria, oppure tra sociologia e filosofia. In definitiva si tratta di un difetto di prospettiva, dettato dagli interessi tecnici di coloro che l’hanno formulato.

Questo secondo problema, a cui il primo può servire da preparazione, non è stato ancora del tutto risolto, e indice di questo stato di sospensione di giudizio è la posizione critica assunta dai contemporanei nei confronti del pensiero di Charles Sanders Peirce.

Questo studioso è rimasto sempre incerto sulla risoluzione in senso accomunativo del rapporto logica-matematica. Anche volendo prendere la questione all’in grande, non si può andare più in là di una identificazione di un qualche rapporto particolare. La logica viene separata accuratamente dalla matematica, la prima come scienza del come dedurre, la seconda come scienza del dedurre. Certo su questa sua opinione dovettero influire i tentativi rudimentali dell’epoca di costruzione della logica a due valori, ma comunque è abbastanza valido il suo coraggio nell’affermare un principio che pareva contraddetto da tutti i risultati, anche da quelli che lui stesso aveva portato a compimento. Quello che importa, adesso, non è fare la storia del progressivo disamoramento dal sogno di una logica matematicizzante, con conseguente rottura di un embrione di raccordo tra logica e matematica, piuttosto importa osservare il risultato di questa posizione che allora (e purtroppo anche oggi [1960]), tanto facilmente viene scambiata per cocciutaggine. Peirce non poteva pensare a un passaggio tra la logica dicotomica e la logica tricotomica, non è che non abbia voluto farlo. Non lo poteva pensare perché troppo legato al significato operativo che il suo mestiere di matematico gli aveva fatto (tanto opportunamente) scoprire nella matematica. Non lo poteva pensare perché troppo occupato a lottare per evitare che il pensiero puro della matematica s’immeschinisse in processi troppo elementari e troppo disarmati per riuscire interessanti in un’applicazione logica dello stesso grado di intensità di quella matematica. Ma tutto ciò non toglie che riuscisse lo stesso a vedere l’esatto inserimento dei suoi sforzi e della “sua” disciplina, in un movimento di indole più vasta, un movimento in cui includeva (e non deve sembrare troppo poco), la geometria. Ne fa fede una lettera diretta a Francis C. Russell, e pubblicata da Paul Carus sul “Monist”, nel 1910 (cfr., Nynfa Bosco, La filosofia pargmatica di C. S. Peirce, Torino 1959, p. 282).

È tempo ora di penetrare maggiormente in questo nuovo terreno che risulta modificato dalle aperture della logica e della matematica. Ci troviamo sempre più nella strada che si allontana dal positivismo, con un movimento lento e discontinuo, perché non ancora del tutto nitidi risultano i rapporti tra matematica e filosofia, e non del tutto conciliabili risultano i metodi della logica nuova con quelli della filosofia vecchia.

Occorre osservare con attenzione il tipo di lavoro che viene portato a termine, anche se tutto si può includere in un contesto più vasto e di indole generale. A esempio gli sviluppi matematici degli studi di Dedekind non possono situarsi sullo stesso piano con quelli dovuti a Russell, come l’opera di Frege, di Peano, dello stesso Peirce, non può dirsi direttamente compresente in quella di Cantor.

Cerchiamo di chiarire questo concetto. Osserviamo lo sforzo matematico di Dedekind. Egli è uno degli esponenti più notevoli del tentativo di ridare nuova linfa alla matematica, corroborandola di un sostegno logico e filosofico. Il numero non ha bisogno della compresenza di alcune grandezze riscontrabili per potere sussistere. Basta una semplice astrazione del pensiero per raggiungere l’estremo lembo del razionale e dell’irrazionale. Ed ecco la creazione delle sue “sezioni”, conseguenza logica di una massima libertà di limite alla legge matematica. Eppure risulta facile prendere nota del nuovo tipo di terreno su cui si è incamminata la tesi di Dedekind. Riappare una sorta di fantasma ontologico, che rispetta pesantemente tradizioni che non sarebbe poi tanto assurdo riportare ai pitagorici. Ma Dedekind è pur sempre un matematico di prim’ordine, onde il suo contributo pratico allo sviluppo di questa scienza risulta tra i più notevoli del finire dell’Ottocento, anche se le sue idee epistemologiche non vanno al di là di una nebulosa idea d’astrattezza, tenuta con le pinze lontano dalla pregnante compresenza della realtà.

Ed è proprio questa realtà a gettare una luce non sempre chiara nello sforzo logico di Russell. In effetti le figure di questi due studiosi si potrebbero riunire nella comune tendenza al ringiovanimento della matematica. Ma il discorso presenterebbe troppi punti deboli e troppi accomodamenti. Se il discorso del matematico puro (Dedekind) può non risultare valido dal punto di vista di un’autorizzazione filosofica, la stessa cosa accade al discorso del matematico-filosofo Russell, una volta portato davanti a un rendiconto matematico. In forma rovesciata si presenta quello che Peirce, dal suo punto di vista, ebbe a temere per tutta la vita.

L’opera di Russell, e ovviamente in questo giudizio possiamo comprendere quanti lo precedettero e lo collaborarono nella gigantesca messa a punto di un disegno tanto vasto, diretta a allargare i confini di una scienza striminzita (la logica) e a mostrare un punto di appoggio a una scienza in cattive acque (la matematica), ha finito per tradire i presupposti su cui si credeva fondata. Comunemente si ritiene grande merito di Russell l’avere saputo ridare vigore alla matematica, sotto l’aspetto dei processi logico-operativi, rendendola atta a diventare lo strumento della ricerca scientifica. Che poi questo merito sia di ordine speculativo e non piuttosto contingentale, è discussione che esula da queste pagine. Comunque la logica, come scienza autonoma, non si può dire che se ne sia eccessivamente giovata, a meno che non si consenta con le asserzioni russelliane di una impossibilità operativa dei processi logici, al di là degli schemi prestabiliti della logica-matematica. La ricerca filosofica coinvolge interessi molteplici e di ordine quanto mai vario, e non può essere costretta in anguste strettoie di carattere strumentale. Per altro Russell è una tempra d’uomo e di studioso, ben lontana dalle leziosaggini di un accademismo fine a se stesso, da cui la necessaria apertura verso un pensiero filosofico e sociologico, denso di problemi umani, quasi da “filosofia privata”, pervaso di una signorilità di temi e di problemi che si potrebbe definire “di altri tempi”. Quindi la nascita di un contrasto: da un canto l’uomo Russell proteso alla vivificazione di quelle questioni che lo allettano per la loro pregnante attualità e per la loro fondamentale importanza, dall’altro lo studioso, il sognatore di teoremi e di assiomi, il matematico e il logico, il continuatore dell’annoso anelito dello schema assoluto e onnicomprendente. Da questo contrasto nasce una filosofia povera, troppo esile in eccesso e in difetto, troppo necessitante di interventi, troppo speciosa in quella sorta di novella monadologia che non può più convincere nessuno.

Di certo per i fanatici della tecnica filosofica ha maggior valore il contributo di Russell che non quello di Dedekind. Ma questo maggior valore assume un aspetto assai trascurabile, se si prende in considerazione l’effettivo beneficio che le dottrine di Russell hanno dato alla somma globale delle posizioni di autochiarimento della cultura contemporanea.

È un fatto degno di nota che ambedue gli sforzi di ricerca che veniamo considerando, finiscono per ottenere risultati quasi opposti agli scopi originari per cui furono impostati. Lo strumento approntato da Russell si rivela ben presto assai approssimativo e difettoso, onde appare in pieno risalto, sia pure per contrasto, l’effettiva incompatibilità della conoscenza umana a restare vincolata in canoni prefissati. Dedekind compie un passo nel terreno proibito dell’assoluto matematico, promuovendo in sordina istanze positiviste, ma i tempi sono cambiati, il terreno comincia a vacillare, gli stessi mezzi intrinseci della ricerca matematica non tardano a mostrare la loro intima strutturazione di incertezza. Quello che appena qualche decennio prima si sarebbe tramutato in un caloroso plauso all’infinita possibilità della scienza, serve adesso per uno scopo contrario, cioè per mettere a nudo l’instabilità della stessa stabilità, l’incertezza in quello che era sempre stato considerato come uno dei capisaldi meno discutibili della conoscenza positiva.

Un ultimo raffronto dell’opera di questi studiosi è utile farlo con le posizioni del criticismo, anche per osservare i mezzi e i procedimenti, coscienti e involontari, con cui si estrinseca il tentativo di allontanamento dalla concezione positiva della matematica. Si tratta soltanto di un esempio, ma valido per tutti gli sforzi che si indirizzarono in quella direzione.

Ovviamente non si può parlare di un’antitesi ben definita, ma piuttosto di un continuo accavallarsi di ripensamenti, nuove opinioni, vecchie teorie spacciate per nuove, originali interpretazioni di vecchi temi ormai fuori del tempo, e altro. La posizione filosofica di Dedekind e di Russell, la si può vedere come una trasformazione dei concetti fondamentali proposti da Kant. Per il primo si può parlare di vera trasformazione del concetto kantiano di sintesi matematica, in quanto la creazione delle sezioni presuppone – sempre ragionando con i mezzi del criticismo – una “apriorità” indipendente da quella necessaria all’esistenza del numero semplice, e quindi non si può ragionevolmente includere il complesso degli irrazionali in quello degli interi. Questo risultato, forse appena avvertito dall’autore stesso, è stato preso in considerazione in questi ultimi decenni (Cassirer) [fine anni Cinquanta]. Per Russell si deve parlare di una vera dissoluzione delle premesse kantiane. Come abbiamo detto la posizione di questo studioso, precipuamente tecnica per quanto riguarda lo svolgimento del problema logico, resta immersa in un’aria priva di tempo nelle altre manifestazioni, sebbene l’indagine si estrinsechi con larghezza di mezzi. Più che di soluzione negativa – nel senso opposto alla soluzione positiva approntata da Kant – si deve parlare di divagazione e, se si vuole, di modificazione del tracciato originale della ricerca filosofica.

Il problema della matematica e, in un aspetto più generale, i problemi della logica, assumono una importanza che sarebbe vano non riconoscere, specie come mezzi operativi a disposizione della nuova fisica. Nelle pagine che precedono abbiamo cercato di tracciare le linee di uno sviluppo che, passo passo, risente meno il peso di una tradizione vincolante, naturalisticamente legata a un criticismo ormai sbiadito e povero di sostanze vitali. Vediamo adesso di formulare – nei limiti che ci sono concessi – un giudizio, forse non del tutto giustificato, ma per lo meno introdotto da quanto precede. La matematica e la logica nel tentativo di consolidare la loro giustificazione fondamentale, hanno messo a nudo una costituente di incertezza che prima sembrava illogico soltanto supporre. E questa scoperta non è venuta dai colpi violenti della geometria o della biologia, ma è stata la naturale conseguenza di un procedimento lineare di autovalutazione. Ovviamente non tutte le campane hanno lo stesso suono. Studiosi come Cassirer (Storia della filosofia moderna, vol. IV, op. cit., p. 115) non sono d’accordo. «[…] noi possiamo lasciar cadere certe condizioni valevoli nel sistema dei numeri interi e che hanno l’apparenza di far parte della natura del numero come tale, senza cadere nell’indeterminazione, si acquista, al contrario una determinazione di specie diversa e più generale. Usando questo procedimento in modo progressivo, affiorano, per così dire, i veri e propri strati fondamentali e profondi del concetto di numero, ciò che è permanente, costante e necessario, si separa dal relativo e contingente». Tenendo presente la posizione filosofica di questo grande storico della filosofia, non si deve fare eccessiva fatica a riconoscere tra queste righe l’autore di Substanzbegriff and Funktionsbegriff. Ma come si può partire con prudenza nell’esame di un discorso che parla di “necessità”, impiegando parole come “fondamentale”, “profondo”, “permanente”, o altro? Anche mettendo da parte questo argomento delle parole che potrebbe suonare stentato, resta evidente il fatto che cercando di puntualizzare l’attenzione all’interno del concetto, arrivando addirittura a accontentarsi di un’astrazione e scambiandola per l’effettiva realtà, si negano le basi sperimentali e concrete del concetto stesso. Non che questo comporti una sentenza di nullità, come se non si dovesse trovare scampo alla tremenda tagliola della presenzialità del fatto empirico: solo procedendo con cautela dalla realtà verso i concetti e non dai concetti alla realtà, si è sicuri di non dare inizio a fantasiose costruzioni in aria, di facile sviluppo ma di assai difficile coronamento. L’indeterminazione, insita nella realtà, si traduce in forza vivificatrice del concetto che da essa promana, concezione sana e robusta perché fondata sulla conoscenza di ben precisi limiti. Da canto suo il concetto, come puro prodotto del pensiero, può fare a meno dell’indeterminazione, può sognare fantastiche “sostanze” dotate di quell’indipendenza che amaramente pallia la estrema relazionalità dell’essere e del mondo. Nel campo dell’astratto tutto diventa possibile o, se si preferisce, niente non è possibile. La tremenda probabilità che qualche cosa non accada come prestabilito, che un misero fiocco di neve provochi l’immane valanga, che l’evento assegnato con matematica previsione a un futuro più o meno remoto, si maturi istantaneamente, nello svolgimento astratto di un ragionamento possono essere sospesi. Solo la realtà ci impartisce quell’insegnamento di gioco e di sventura, di incertezza e di serietà, che nessun accademico discorso potrà mai trasformare in un procedere uniforme e prestabilito.

Come abbiamo cercato di dimostrare, la strada che si dipartisce dalle concezioni basilari di Kant è molto tortuosa. Il ritmo del positivo e del negativo, si svolge con frequenti sbilanci che intaccano tutti i campi della cultura. Sia lo sviluppo idealista, inteso come estrema dissoluzione, che l’accanimento mostrato dai polemici contraddittori, inteso come l’altra faccia della medaglia, si rifanno a un pulsare parallelo della scienza. Il determinismo, figlio inaspettato di Newton, procede indisturbato, fino al sorgere delle rivoluzionarie idee in geometria, biologia e matematica. Ma il coronamento di tutto si ha, come vedremo, nella fisica sperimentale, la più adatta, per certe sue caratteristiche di concretezza e di empiricità, a mostrare i punti fondamentali di ogni ragionamento conosciuto. Eppure nonostante la vastità di questi campi di ricerca e di studio, non si esaurirono in essi le modificazioni dell’eterno problema del positivo e del negativo.

La reazione posthegeliana

Eccoci davanti alla necessità di riproporci la situazione filosofica come si venne a determinare in Germania, dopo la parentesi hegeliana. Quando abbiamo parlato di Kierkegaard, in questo stesso capitolo, abbiamo tralasciato di proposito Schelling, Schopenhauer e il realismo, per arrivare più velocemente all’estremo negativo dell’irrazionalismo, di cui i predetti filosofi e la corrente realista costituiscono soltanto una introduzione non sempre giustificata. In questa sede, invece, chiarire le impostazioni di Schelling o di Schopenhauer, per arrivare fino a Johann Friedrich Herbart, significa penetrare direttamente in quella particolare fase del neokantismo che vede in Wilhelm Dilthey il proprio rappresentante più autorevole.

Alla morte di Hegel si scatenarono in pieno e presero novelle forze, vecchi e nuovi contrasti filosofici. Da una parte Schopenhauer, nel pieno della sua speculazione, riaccese una lotta fitta e a volte meschina, che datava dai tempi della tesi di dottorato. Dall’altra il vecchio Schelling sembra risorgere dalle sue carte e ritrovare lo scomparso coraggio, una volta che il terribile genio di Hegel non poteva più nuocergli. In un campo del tutto diverso, sebbene possano sempre considerarsi alla stessa stregua dei primi, agivano Herbart, Jacob Fries e Friedrich Beneke, in nome della non mai doma corrente realista tedesca. Di intonazione diversa risulta il discorso dei vari discepoli di Hegel, di coloro che vissuti per tanti anni all’ombra del grande uomo, una volta lasciati a se stessi, si videro costretti a respirare coi propri polmoni. Questa ubriacatura di indipendenza causa una profonda scissione in seno al gruppo, da cui si distinse, sulle orme del parlamento francese, la destra conservatrice e la sinistra estremista e innovatrice.

Prendendo le fila della trama dalle mani di Kant, Schopenhauer insiste sul potere determinante della “volontà” e sulla caratteristica irrealtà del fenomeno in termini kantiani, da cui la relativa raggiungibilità del noumeno, tramite il ponte di una volontà infinita. Ma queste concezioni più che contro Kant, fermo ormai da anni nella inoperosità della morte, si rivolgevano verso Hegel, vivo e dominante, verso questo “professore di filosofia” che rappresentava da solo l’intellettualità della nazione tedesca. Il modo con cui il giovane Schopenhauer attacca Hegel rimarrà lo stesso per tutta la vita, fin dopo la morte dell’avversario. «I Tedeschi – così si esprime nella Quadruplice radice del principio di ragione sufficiente, tr. it. Torino 1959, pag. 75 – sono abituati a accettare parole, invece di concetti: fin dalla gioventù, noi il addomestichiamo a questo, guarda solo la hegelianeria, che cosa è se non una filastrocca vuota, senza senso, e per giunta disgustosa? E nondimeno, quanto fu brillante la carriera di questa ministeriale creatura filosofica! Bastò qualche venale camerata per intonare la gloria di quel briccone, e la sua voce trova nella vuota cavità di mille imbecilli un’eco che continua tuttora e ancora durerà: ecco, in questo modo una testa volgare, anzi un ciarlatano volgare, fu cambiato in un grande filosofo». Contrasto apertissimo, questo tra Schopenhauer e Hegel, ma in ultima analisi il substrato filosofico su cui disputano ambedue, non possiede notevoli differenze. Li accomuna principalmente il fatto di considerare l’infinito come l’unica realtà. E non deve eccessivamente stupire il fatto che dallo stesso punto di partenza, Hegel giunga all’ottimismo e Schopenhauer al pessimismo, anzi ciò deve servire da ulteriore monito, se ancora se ne sentisse il bisogno, sulla debolezza delle fondamenta di ogni formulazione filosofica che si prospetta l’infinito per trovare giustificazione e senso al finito. In definitiva con Schopenhauer non si respira aria nuova, i vecchi problemi postkantiani sono ancora troppo vivi per essere superati, specie se si tiene presente che Schopenhauer, da canto suo, ha tutto l’interesse a non spostarsi da essi, sia per incompetenza propria che per continuità consequenziale della propria speculazione.

Sullo stesso piano si sviluppa lo sforzo di reazione condotto da Schelling alla morte di Hegel. Tutta la Filosofia positiva, sebbene condotta su di una falsariga di malcelata soddisfazione nel cogliere i punti deboli della speculazione hegeliana, in definitiva non ci dice niente di nuovo. Il principio motore, al di là delle elucubrazioni mitologiche e teologiche, è sempre quello peculiare di tutta la filosofia postkantiana: l’infinito gravante con tutto il peso della propria presenzialità. È ormai troppo vecchio il filosofo di Leonberg, per potere dare nuova linfa ai germogli della sua ultima dottrina. Si potrebbe, come è stato detto, trovare un filone di originalità, solo ponendo mente al fatto che il “dato” assume una sua “consistenza” positiva e abbandona l’apparenza del nulla solo pretendendo una propria indipendenza dal dispotismo del “concetto logico”. Purtroppo i suoi sforzi immediati per dare vita a questo concetto, si rivolsero all’illusorio mondo della fede e della mitologia e ben lunga sarebbe stata la strada per arrivare al mondo concreto della natura. Contrasto di reazione, questo del vecchio Schelling, e come tale privo di effettiva possibilità costruttiva. Troppo legato a un mondo filosofico e culturale che incentrava in determinati canoni fondamentali tutta l’organizzazione speculativa, Schelling non poteva uscirne definitivamente, sebbene da quello spirito sottile che egli era, riuscisse a intravedere la possibilità dl nuove aperture.

Il discorso intrapreso da Herbart in nome del realismo potrebbe fare pensare a una nuova aria in filosofia, addirittura a un vento di bufera, che riesca a smuovere le acque, per la verità ormai stagne, dell’idealismo. Tirando le somme i risultati non sono degni delle promesse. Fondata su basi completamente opposte a quelle idealiste, la speculazione herbartiana viene incontro al reale riconoscendo alla filosofia il potere di mettere luce nelle contraddizioni dell’esperienza, con l’utilizzo appropriato del concetto logico. Herbart sente che una volta imbarcatosi su questo legno deve necessariamente tenere presente lo scoglio della “cosa in sé” quell’ostacolo che era stato tanto orgogliosamente superato dall’idealismo. Ed eccolo, di concessione in concessione, accettare una logica che chiamiamo pre-kantiana per non definirla semplicemente aristoletica o scolastica. Ecco permettere l’accrescersi di tanti ostacoli, gli stessi contro cui aveva combattuto Kant. Ecco la necessità di accettare il procedimento dialettico di Hegel, onde dare svolgimento necessitante all’alternarsi dei dati empirici e dell’esperienza.

Evidentemente l’impiego della dialettica in Herbart è profondamente diverso che in Hegel, da qui la grandezza effettiva di questo filosofo, che ci ha permesso di osservare come ogni atto percettivo comprende in se stesso il proprio opposto, e quindi la propria contraddizione. In un certo senso qui si possiede un nuovo modo di intendere le possibilità della filosofia, nuovo modo che purtroppo non venne sufficientemente sfruttato da Herbart, come vedremo, ma che adesso ci permette di vedere i suoi sforzi sotto una luce diversa. Secondo le testimonianze della metafisica precedente si intendeva per “dato” una sensazione presenziale, una ineliminabile sensazione astratta. Per Herbart non si può concepire il concetto logico in modo avulso dall’esperienza reale, in modo staccato da una serie di rapporti di carattere contraddittorio che concorrono a chiarirlo e a renderlo effettivamente “reale”. Nella Allgemeine Metaphysik, assegna all’esperienza il compito di scelta delle modificazioni della conoscenza e il compito di indirizzare queste modificazioni verso le sostanze reali. Tutto il procedimento si fonda su di una regola: l’esperienza, nessuna concessione alle categorie, all’intelletto o ad altra partizione metafisica, ma solo l’esperienza, non tutta l’esperienza nel suo complesso, ma l’esperienza parziale delle forme date. Eccoci al risultato culminante della filosofia herbartiana: l’astrazione del pensiero permette di staccare gli elementi della realtà, che a una pura considerazione empirica risultano talmente connessi tra di loro, da non potersi individuare. Purtroppo questa vasta apertura filosofica viene sprecata da Herbart, con la pretesa di volere ancorare in “dati assoluti”, quell’astrazione possibile che soltanto se mantenuta in quei termini poteva avere validità speculativa. Concludendo, come si è visto, malgrado le grandi possibilità che si offersero a Herbart, egli non riuscì a staccarsi definitivamente dalla tremenda presenzialità della filosofia postkantiana. Contrasto si ebbe, ma non dell’intensità di quelli che sorgeranno a opera degli stessi discepoli di Hegel.

Con lo psicologismo di Fries e di Beneke, inizia quella necessità che, qualche decennio più tardi, sfocerà nel “ritorno a Kant”. Non che questi filosofi prendano spunto dal pensiero criticista, tanto è vero che piuttosto che a Kant, preferiscono riferirsi ai primi svolgimenti che del pensiero kantiano ebbero a sviluppare Salomon Maimon, Karl Reinhold, Jacob Beck, ecc. Tuttavia è importante constatare come ignorano nel modo più assoluto lo sforzo idealista o lo considerano una stortura filosofica indegna di ogni mente umana bene organizzata.

Dilthey

Di gran lunga di maggiore importanza invece il lavoro condotto da Dilthey, sia per quella sua intrinseca possibilità di presentare una tesi irrazionalista in seno allo stesso storicismo, sia perché ha reso possibile l’apertura al pensiero di Max Weber. Ovviamente presentare un simile svolgimento, anche nel clima filosofico odierno [1960], non è compito che possa considerarsi di pacifica accettazione. Se da un canto troviamo gli strascichi di uno storicismo idealista non ancora del tutto digerito, dall’altro non è difficile cadere nell’opposto di una critica all’idealismo che si traduca in una negazione dello storicismo stesso. A questo si aggiunga la non mai ben definita concezione storica di coloro che pongono un rapporto brutale dell’individualità con la trascendenza, di tanta parte dell’esistenzialismo, di tanta parte del neopositivismo logico. Comunque questa possibilità di travisare il significato di quanto diremo, resta circoscritta all’eventualità che fosse necessario impostare uno svolgimento dettagliato del problema dello storicismo, ma per noi, data la particolare indole della presente ricerca, se esiste, non dovrebbe causare danno eccessivo.

Innanzi tutto occorre intendersi sull’irrazionalismo di Dilthey, sotto certi aspetti diverso da quello che assai chiaramente Lukács ha delineato nella sua Distruzione della ragione. Dilthey non può venire considerato un irrazionalista per quella sua certa aria di inconseguenza che trapela dalla non mai chiarita relazione tra esperienza e esistenza, tra interezza di vita e realtà esteriore. Ponendo il problema in questi termini si rischia di ridurre il suo contributo pratico a una modificazione del concetto di scientificità della filosofia, modificazione avvenuta per altro contro la sua volontà, e scaturente da una ridda di contraddizioni e di scrupoli, tale da fare pensare a un fallimento di tutto il suo lavoro filosofico. Se impostiamo nel modo visto prima il “caso Dilthey”, facciamo cadere la sua pregnante contemporaneità, cristallizzandolo in un periodo di transizione, semplice cardine di un movimento che vede svolgere le proprie trame verso un ulteriore sfaldamento del fondamento razionalistico della tradizione filosofica procedente da Cartesio in poi.

Invece Dilthey manifesta chiaramente la propria cittadinanza di contemporaneo, anche se non è difficile ammettere la sua origine kantiana e positivista. Vediamo come si estrinsechi questa pretesa e quale fondamentale insegnamento è possibile trarre dai tentativi di questo filosofo.

Per rendersi conto del primo punto bisogna valutare con esattezza la portata della “connessione strutturale psichica” posta a base di tutto il discorso conoscitivo. Ecco come si esprime nella Critica della ragione storica (tr. it., Torino 1954, pp. 77-78) (il brano si trova in Studien zur Grundlegung der Geisteswissenschaften, in Gesammelte Schriften, vol. V, Lipsia e Berlino, 1921): «Ogni sapere intorno a oggetti psichici è fondato nell’Erleben. L’Erlebnis è anzitutto l’unità strutturale tra forme di atteggiamento e contenuti. Il mio atteggiamento di osservazione insieme alla sua relazione con l’oggetto è un Erlebnis, al pari del mio sentimento di qualcosa o del mio volere in riguardo a qualcosa. L’Erleben è sempre cosciente di se stesso. E poiché l’Erleben forma il fondamento giustificativo per l’intera connessione del mio sapere intorno a oggetti psichici, io debbo prendere in esame l’Erleben in rapporto alla certezza che esso implica. Contenuti come un rosso o un blu, al pari dell’apprendimento del rosso o del piacere relativo, esistono per me. Questo esistere – per me – può venir indicato come esser-conscio o come Erleben – quando questo termine sia riferito non tanto al processo vitale medesimo quanto al suo modo d’essere. Per me esiste sia una qualità sensibile racchiusa nella rappresentazione che un sentimento di dolore o una tendenza, sia un rapporto matematico che la mia coscienza ha di un legame contrattuale. L’espressione esistere-per-me è già una riflessione sull’elemento di fatto esistente, poiché qui esso è già determinato come appartenente a un io. Certo la relazione di un Erlebnis a un io cui appartiene può essermi presente come un elemento di fatto al pari della relazione di un complesso sensibile con un oggetto esterno: ma ciò di cui ora parliamo, non è questo o quel contenuto entro l’Erlebnis, ma ciò che è comune a tutti in quanto mi sono presenti coscientemente e esistono per me. Ogni Erlebnis ha questo aspetto. Se nella vissuta esperienza di un contenuto viene affermato che esiste un oggetto, essa implica pure ciò che gli è comune con ogni Erlebnis, che questa asserzione sull’oggetto e sulle sue determinazioni di contenuto è cosciente e come cosciente sussiste. Il rumore, che un febbricitante riferisce a un oggetto dietro alle sue spalle, forma un Erlebnis che è reale in tutte le sue parti, nell’aver luogo del rumore come nel suo riferimento all’oggetto. E non importa affatto a questa realtà dei fatti di coscienza che l’affermazione di un oggetto dietro al letto sia falsa». Come è possibile cercare altrove l’effettiva irrazionalità del pensiero di Dilthey? Secondo la nostra interpretazione essa risiede nel tentativo di incentrare ogni realtà nello sforzo comparativo dell’Erleben, e nell’assegnare a questo nuovo coefficiente tutti i crismi del divenire. In questi termini la realtà diventa tremendamente soggettiva, altrimenti rischia di non ritrovarsi come realtà, di sperdersi poveramente in fantasmi senza costrutto, pure nella piena coscienza di quanto miserabile sia una realtà di tale sorta.

Occorre rendersi conto della natura del terreno su cui ci troviamo a lavorare. In fondo si tratta degli stessi temi del neokantismo, però utilizzati come premessa a una futura modificazione trascendentale, pronosticata dalla medesima relazione procedente dall’oggetto esterno all’interpretazione psichica dello stesso. La realtà riceve, man mano che si procede, autorizzazione e vita. Dall’intimo di noi stessi, con un rapporto strutturale che denuncia l’intima unità degli estremi, si procede all’indietro verso regioni sempre più remote, fino al fondamento finale che si rivela di origine psichica. Tutto ciò trova legittimità e forza nel concetto stesso di vita, dettato in forma di autosufficienza e non abbisognante del “tribunale della ragione”. E la vita è storia, in quanto concorda pienamente col procedere dinamico che ne scaturisce: “La possibilità di ciò sta nella riproduzione di questo corso in un ricordo che si riferisca non all’individuo singolo ma alla connessione stessa e ai suoi stadi”. E nella storia è possibile la conoscenza oggettiva. Pure necessitando di una partenza dal particolare, il nostro procedimento verso la totalità deve comportare una presenzialità del concetto direttivo, peculiare della totalità stessa, in modo da rendere univoco lo sforzo di ricostruzione e, quindi, valida la conoscenza che ne deriva.

Come si può facilmente notare, ci troviamo in pieno clima soggettivistico. Si naviga verso la possibilità negativa, col pieno convincimento di approdare, quando che sia, a una ulteriore conferma della positività delle basi kantiane. Purtroppo la negatività e la compagna indissolubile di ogni ragionamento che dal finito prende le mosse per la conoscenza del finito stesso, intesa in termini di coabitazione e compatibilità con l’infinito, e in Dilthey questa tendenza si manifesta in forma tanto più accentuata, quanto maggiore diventa il predominio dell’Erleben sul costruttivo concetto di storia-vita. Curiosa situazione di cui si rese conto anche lo stesso Dilthey, che non seppe risolversi mai a abbandonare questo circolo vizioso e a superare le sempre risorgenti antinomie dell’oggetto-soggetto e della daità-realtà. Autocoscienza di un limite che risultò tanto più penosa e sentita in quanto Dilthey fu un uomo dotato di vasta preparazione scientifica e di notevole serietà di studioso, presupposti che non mancarono di fargli pesare maggiormente l’inadeguatezza del suo metodo speculativo, a affrontare problemi di ordine estraneo alla cerchia abbastanza ristretta, in cui continuava a aggirarsi senza trovare possibilità di autosuperamento, nel tentativo di costruzione di una scienza della storia. Da ciò il sapore finale di fallimento, e l’interpretazione tanto spiacevolmente diffusa di fattura spiccatamente idealista, che tende a vedere nell’opera di Dilthey soltanto il malinconico tentativo di tracciare una storia universale dello spirito, col risultato – positivo – di rendere chiaro, ancora una volta, l’impossibilità di un simile delineamento.

Ed eccoci al secondo punto: quale fondamentale insegnamento è possibile trarre da questi “tentativi”? Trattarne adesso significa fare scaturire logicamente la legittimazione alla contemporaneità di questo filosofo in uno con la prova della parzialità dell’interpretazione di cui sopra.

Dilthey ha rifiutato a priori la comoda soluzione di una sistematicità che garantisse da sola le parti separate di un’analisi e che mascherasse l’eventuale discordanza dei risultati in seno a un ordine più vasto e più autorevole. Si è trattato di un rifiuto dettato dalla propria coscienza di studioso di cose storiche, agguerrito nella ricerca della verità e del significato, fedele al proprio schema di parzialità, sebbene intimamente convinto di potere raggiungere una totalità di natura più elevata. Da ciò la necessità di riproporre in discussione temi e problemi di già discussi e che qualsiasi altro filosofo avrebbe considerato come dei punti fermi, da cui procedere alla costruzione di un sistema completo. Da ciò, per noi, il più alto insegnamento: la ricerca. Eccoci giunti al fondamento ultimo dello sforzo diltheyano di penetrare nel mondo storico e di tradurne in chiaro le leggi e le ricorrenze, eccoci davanti alla sua muta meraviglia per un mondo da sempre estraneo alla storia, troppo accartocciato in se stesso, eppure custode della chiave di volta del sistema storico, eccoci davanti ai suoi tentativi di effrazione, alle sue disillusioni, alle sue amarezze. Per un figlio del lato positivo della vita, non ci si poteva attendere maggiore contributo al chiarimento di quella base di irrazionalità che nella vita stessa sussiste e vi si mantiene.

Con Dilthey si chiuse l’ultimo spiraglio delle tendenze caratteristiche del neokantismo. I problemi da lui aperti vedono continuazione e dissoluzione nella filosofia di Georg Simmel, Oswald Spengler, Ernst Troeltsch, anche loro figli di Kant, ma di una generazione successiva, di un’epoca sempre più tesa alla definitiva rottura con la tradizione e con la ragione. Tra questi uomini e Dilthey, corre lo stesso parallelo che è possibile ricavare tra Nietzsche e i rappresentanti della polemica contro l’idealismo. In questa sede non mette conto procedere a un esame particolareggiato delle loro esposizioni. Ci basta sottolineare alcune affermazioni di Spengler e qualche idea metodologica di Troeltsch, onde chiarire la loro posizione in seno alla corrente della possibilità negativa.

Spengler

Nel concetto della storia costruito da Spengler, onde si riesca a venire fuori dalle continue affermazioni gratuite e paradossali, onde si legga bene quello che si trova al di là dell’apparente soggettivismo a oltranza, si può localizzare l’eterno presente, l’abolizione del progresso storico inteso in termini hegeliani: è la fondazione del dogma dell’irripetibilità storica che vede una prima formulazione caotica. Evidentemente si tratta di un tema che ci è dato trovare altrove nella speculazione di filosofi che comunemente vengono raccolti sotto l’etichetta dello storicismo tedesco. Ma in Spengler, anche se in forma disordinata, assume la massima evidenza possibile, e la più grande apertura pratica a una diffusione di concetti e teorie normalmente ritenuti tipici di una categoria ben ristretta di studiosi. L’attacco notevole è quello contro il principio di causalità, intravisto attraverso la lente kantiana, condizione, quest’ultima, indispensabile all’andamento dottrinale di Spengler. Si tratta di colpi durissimi che riconfermeranno ulteriormente la vasta eco pratica dell’attività di questo filosofo. È la stessa situazione economica e politica che matura questi princìpi. Le novelle forze sociali fremono alla porta della storia e non intendono sostare nell’anticamera di un qualsiasi concetto predeterminato.

Non solo la storia viene innalzata al rango di unica conoscenza possibile, ma viene contrapposta alla natura. Il rapporto è uguale a quello tra il divenuto e il divenire. Dove il divenuto (natura) si consolida in termini di causa ed effetto, il divenire (storia) sfugge a ogni sorta di costrizione, perché irreversibile e personale. Da ciò è facile notare una inadeguatezza di puntualizzazione del concetto di irreversibilità una volta che lo stesso si estranei dalla natura. Spengler non aveva gli interessi di uno scienziato, onde non ci si deve stupire della sua ottusità a una simile apertura verso nuove concezioni. Gli bastava fondare la storia su di un concetto soggettivistico di infinite possibilità, e anzi gli necessitava l’appoggio di un mondo in controsenso, onde non vedersi costretto a abbandonare per sempre le premesse del suo discorso.

Troeltsch

Sullo stesso piano dell’opera di Spengler si muovono i motivi speculativi di Troeltsch: individualismo, eterno divenire della storia, mancanza di una idea di ordine progressivo, isolamento delle singole individualità storiche (uomo, collettività, Stato, idea e altro). Eppure mette conto notare come Troeltsch sia pervenuto a questa cerchia di problemi. Il suo punto di partenza è la religione, con tutto quell’ormai assurdo corteggio di necessari riferimenti al rapporto finito-infinito, alla presenzialità del secondo nel primo e alla trascendenza del primo nel secondo. Dal quale punto di partenza si passa attraverso una sorta di nuova monadologia (Leibniz sembra essere ritornato di moda), che cerca di giustificare la possibilità di comunicazione reciproca tra le individualità – altrimenti isolate – in nome di quell’essenza universale di cui la monade è figlia illegittima. Ma tutta questa impalcatura è soltanto esteriore. Troeltsch, per il fatto stesso di avere avuto presente il problema della religione nell’indagine storicistica, ha superato di colpo tutte queste premesse. Se la storia, proprio per avere trovato fondamento nella soggettività, manifesta le precedenti caratteristiche di instabilità e di possibilità la stessa cosa deve accadere alla religione e alla morale, che parlano allo spirito umano e all’ordine vuoto della natura, da cui si giustifica il posto di preminenza assegnato alla religione nella puntualizzazione dell’individualità storica.

Da questo punto risulta logico un passaggio graduale alla sociologia prima e all’economia dopo, persistendo nella prima buona parte dei temi che abbiamo visto svolgersi nello storicismo e nella seconda qualcuno dei temi propri della sociologia.

Max Weber

Con le ricerche economico-sociologiche di Max Weber, il campo d’espansione della tendenza dissociativa che veniamo esaminando, si estende al massimo grado. Weber, partendo dai presupposti dello storicismo, distrugge completamente il concetto di determinismo, utilizzando gli stessi mezzi che avevano contribuito a farlo trionfare nella scienza. Ecco come in un saggio del 1905, capovolge il famoso principio di Laplace: «Posto il caso che si pervenga un giorno, sia per mezzo della psicologia sia per altre vie, a analizzare in base ad alcuni semplici “fattori” ultimi tutte le connessioni causali di processi finora osservate, e inoltre anche quelle pensabili in qualsiasi tempo futuro, e che si possa quindi abbracciarle in maniera esaustiva in un’immensa casistica di concetti e di regole formulate su base rigorosamente causale – quale rilievo avrebbe il risultato di tutto questo per la conoscenza del mondo culturale? Esso varrebbe come mezzo conoscitivo né più né meno di un lessico delle combinazioni chimico-organiche per la conoscenza biogenetica del mondo animale e vegetale». (L’oggettività conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale, in Il metodo delle scienze storico-sociali, tr. it., Torino 1958, pp. 53 e sgg.).

Ecco un caso tipico di come dubbi avanzati in altre scienze penetrano, per vie non sempre facili a scoprirsi, in orizzonti che la tradizione vuole isolati, in atmosfere esenti da contatti empirici con la natura. Nel concetto di Versteben, Weber incentra l’interpretazione della civiltà in termini di valore, e come tale la sottopone a un particolare grado di imprecisabilità, necessaria conseguenza di una tale premessa. Della molteplicità dei fenomeni culturali soltanto alcuni assumono rilievo valido socialmente, e quindi entrano a fare parte dell’ambito della ricerca sociologica, il resto viene preso come un semplice dato di fatto, escluso in una infinita graduatoria posta al di là della realtà effettiva. Ora questa scelta di significato può trovare riscontro in apparenze esterne, riportabili a leggi pianificatrici, ma – afferma Weber – si tratta di coincidenze che non possono nascondere l’intrinseca “eterogeneità di principio”.

A questo proposito non possiamo concordare con l’opinione che Jay Rumney e Joseph Maier hanno espresso nel volume Sociologia: la scienza della società, tr. it., Bologna 1962, p. 194, a proposito del significato che assume in Weber il problema del compito del sociologo. «La sociologia non copre l’intero campo dei rapporti umani, essa si occupa, in modo specifico, degli atti che corrispondono a un comportamento di altri. Di più, essa tende a scoprire e a definire i tipi, le ricorrenze, e le forme abituali di questi atti, sulla base di che possiamo pervenire a formulare delle generalizzazioni statistiche, o probabilità del corso del comportamento umano». Impostata in questo modo l’indagine di Weber assume un rilievo ben diverso da quello che a noi sembra più evidente e può sostanziale. In questo studioso vi è una forza diretta alla generalizzazione del concetto astratto, completo in tutte le sue parti, che lo fanno più storico che sociologo, e poi ancora più filosofo che storico. Il lavoro da lui condotto, poniamo in seno all’“Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik”, si viene snellendo man mano dalla farraginosa compresenza metodologica di un sistema, per presentare i risultati scheletrici, netti nella loro riassuntiva potenza, testimoni di uno spirito capace di valutare orizzonti ben più vasti e relazioni tra partizioni culturali mai intraviste in precedenza. Gli basta soltanto rimettersi all’autorità di Wilhelm Windelband, di Simmel o più ancora di Heinrich Rickert, per dirsi soddisfatto di questa parte propedeutica. Il lavoro è oltre, alla luce dei grandi problemi culturali. Se i due compilatori americani di cui sopra, avessero posto mente a questa universalità del pensiero di Weber, non avrebbero formulato un concetto limitato a una presunta organizzazione tecnica di questo stesso pensiero. Che in genere la tecnica e le partizioni scarseggiano in uno che di preoccupazione nutre solo quella di parlare ai suoi simili, tutti insieme, e non a una sparuta schiera di specialisti. L’ultimo punto, poi, possiamo intenderlo come un pio desiderio, che vuole chiudere gli occhi alla realtà più grande della sociologia di Weber: la consapevolezza dell’incertezza, non intaccata da sogni pseudoscientifici o da fantasticherie romantiche.

Altrettanto valido e importante è il discorso che Weber rivolge allo studio del substrato di incertezza che fonda l’economia. Se in passato (specie nei tentativi razionalisti del primo Ottocento), l’economia è stata una tecnica, adesso è tempo che scopra i suoi fondamenti problematici. Ogni illusione di pervenire, quando che sia nel futuro, a una conoscenza estensiva di tutte le compresenti sezioni della cultura, deve essere abbandonata perché morta. La tradizionale speranza di un totale conoscibile dal particolare, non ha più sufficienti ragioni che facciano desiderare la sua permanenza alla direzione delle ricerche scientifiche. Innanzi tutto la finitezza dello spirito umano non potrebbe mai formulare una simile pretesa, senza per questo dovere ricorrere all’assurdo di una compresenza nel finito e di tutte le svariate conseguenze che da ciò se ne potrebbero trarre. Inoltre si deve tenere presente che ogni impostazione determinista vive su leggi astratte, aprioristicamente ritenute verificate. Ora bisogna intendersi su questi concetti generali di Weber. Egli non annuncia l’avvento di un nuovo metodo di indagine economico-sociale, si limita a fissare i canoni in cui questa indagine assume piena validità, e a distinguere i casi in cui questa validità diventa fittizia o scompare del tutto. L’ammissione della problematicità e dell’individualità non sfocia in una negazione della possibilità di conoscenza. Il fatto che si muova dal soggetto all’oggetto, non implica una invalidazione dei risultati dal punto di vista oggettivo. Purché resti indiscusso il presupposto di organicità e di compresenza della cultura (storia, economia, sociologia, scienza), nel momento di immissione della bruta realtà oggettiva, all’unico tribunale presieduto dal soggetto.

Resta inteso che il punto di approdo più considerevole del tentativo di Weber è quello di avere negato attendibilità al processo di causa e effetto. Non di averlo negato in blocco, senza soppesare gli opportuni pro e contro, ma di avere chiarito l’effettiva impossibilità di venire a conoscenza di tutte le infinite cause di un singolo evento. Solo operando con discernimento, e in base a schemi variabili e individuali forniti sempre dalla cultura, si può procedere all’identificazione di alcune cause e imputarle all’effetto considerato.

Eccolo come si esprime in Economia e società, tr. it., Milano 1961, p. 7: «È quindi possibile che la ricerca futura rintracci pure – per quanto ciò non sia finora avvenuto – uniformità non intelligibili di un determinato atteggiamento dotato di senso. Per esempio, la sociologia dovrebbe assumere come dati di fatto le differenze di eredità biologica (delle razze) – se e nella misura in cui venisse recata la prova statistica conclusiva della loro influenza sul comportamento rilevante per la sociologia, e in particolare sull’agire sociale nel suo riferimento di senso – nello stesso modo in cui assume i fatti fisiologici, a esempio, del bisogno di nutrizione o dell’effetto dell’invecchiamento sull’agire e il riconoscimento del loro significato causale, naturalmente, non verrebbe a modificare in nessun modo il compito della sociologia (e delle scienze concernenti in genere l’agire), che è quello di intendere, in virtù di un procedimento di interpretazione, le azioni orientate in base a un senso. Essa si limiterebbe infatti a inserire in determinati punti, entro le proprie connessioni di motivazioni, interpretabili in maniera intelligibile, dei fatti non comprensibili in cui già oggi ci si imbatte (quali a esempio connessioni tipiche di frequenza di determinate direzioni di scopo dell’agire, o del grado della sua razionalità tipica, con l’indice cranico o con il colore della pelle o con qualsiasi altra qualità ereditaria di carattere fisiologico)».

L’indicazione esemplificativa è abbastanza sufficiente, oltre che per l’aspetto generale della sua dottrina della comunione degli intendimenti culturali, anche per l’interpretazione personale che inferisce al risultato statistico, interpretazione che potrebbe, ancora una volta, rendere nullo il giudizio già citato di Rumney e Maier.

Comunque il punto di massima sintesi si raggiunge nel tentativo di dare ancora una volta conto di una ideale tipologia, trama che è possibile riscontrare in tutta l’opera di Weber, ma che raggiunge la compiutezza della maturità solo in Economia e società. Dalla consapevole impossibilità di utilizzare nel senso tradizionale questo corredo tipologico scaturisce una ulteriore, e definitiva, apertura verso la negatività della ricerca. Tale situazione di fatto, con il suo corteggio soggettivistico, finirà per danneggiare notevolmente la parte tecnica della dottrina economica di Weber, ma questa lamentela potrà essere levata da coloro che non hanno a cuore le sorti di una scienza, che nata come tale, si rifiuta continuamente di sottoporsi alla morsa mortificatrice della tecnica. E in questo Weber raggiunse traguardi che avrebbero fatto gola a molti economisti.

Mannheim

In Karl Mannheim si esauriscono le residue possibilità della sociologia di costruire un mondo inteso in termini di storia, valido sia da un punto di vista individuale, che da uno qualitativamente collettivo. Nella sua opera, malgrado le solite premesse distintive di tutti gli sforzi dello storicismo tedesco, si assiste a un solo interesse in gioco: l’individuo, inteso in termini di “singolo essere vivente”, posto in una determinata situazione e avente solo alcune determinate possibilità di “pensare” in un determinato modo. La sostanza del pensiero si modifica con la situazione che la condiziona. Non si può parlare di pensiero in generale, ma solo di uno specifico indirizzo di pensiero che assume una strutturazione definita dall’individuo, a sua volta strutturato dall’ambiente.

Ma queste premesse non vengono inserite, come era avvenuto in Weber, in un contesto organicamente azionato da leggi economiche. Con Mannheim, si discredita questa posizione di favore concessa all’economia: «[...] l’insistenza sulla dottrina della supremazia assoluta del principio economico è già in gran parte superata e serve soltanto a ostacolare la nostra indagine sulla importanza delle altre sfere e del loro rapporto con il progresso della tecnica. Oggi è più saggio essere inizialmente pluralistici, tener presente ciascuno dei vari principia media del progresso tecnico e studiare empiricamente il loro intervento così come si presenta». (L’uomo e la società in un’età di ricostruzione, tr. it., Milano 1959, p. 233). Da questa considerazione si giunge alla validità generale di tutte le categorie culturali, nel discorso intrapreso dalla sociologia, ma si giunge anche alla pretesa di una risoluzione di tutte queste categorie nella sociologia stessa. E questo concetto, che da alcuni critici è stato considerato una notevole stortura di tutta l’organizzazione del pensiero di Mannheim, è basilare nell’interpretazione dell’opera sua.

Una volta che l’impulso intimo del fenomeno quantitativo viene riscontrato nel singolo, e posta la coesistenza del fenomeno qualitativo nella totalità, si deve necessariamente allargare a dismisura il campo dell’indagine, con un raggio via via sempre più grande. Psicologia, psicanalisi, comportamentismo, costituiscono la base minima di partenza, il resto della costruzione è affidato alla storia e solo in modo marginale all’economia.

E a una vera e propria analisi del comportamento del singolo, si riduce la sociologia in Mannheim. Analisi condotta in vista di una organizzazione scientifica della politica e della pianificazione della società. Ma quello che rende particolarmente importante il contributo di questo studioso, al di là dei risultati immediati, è la consapevolezza dell’impossibilità di arrivare a una conoscenza totale dei fenomeni sociali. Va bene che alle volte si trascina dietro un fantasma di unità direzionale degli scopi sociali, via via più affievolito, man mano che le singole sfere sociali finiscono per autoelidersi, fino a restare individuate in qualche cosa di irrazionale: ma ciò non significa che voglia effettivamente porlo al centro del suo discorso e a giustificazione della vita sociale.

«Ogni metodo di indagine ha i suoi particolari criteri di precisione, come ho rilevato altrove, e nulla potrebbe essere più errato dall’indiscriminato trasferimento di questi criteri da un problema all’altro. Quando si tenta di analizzare oggetti individuali isolati e il modo in cui essi emergono e funzionano, probabilmente è meglio ridurre il fenomeno concreto ai suoi elementi più astratti e esprimere questi elementi in una forma quanto più possibile misurabile. Quando si tratta di determinare una “direzione” concreta o qualche altro principium medium, si può conseguire soltanto molto gradualmente questo tipo di precisione quantitativa e forse mai in modo completo. Quale prima approssimazione del problema si può fare un’analisi qualitativa di questi principia media, distinguere i vari fattori e tendenze e tradurre il caos dei fatti in una corretta descrizione della complicata interazione delle forze. Sarebbe assolutamente sbagliato rinunciare a questa analisi qualitativa per il solo motivo che essa non arriva, o per lo meno non è ancora arrivata, all’ideale della misurabilità. L’imposizione forzata di metodi matematici e quantitativi ha portato gradualmente a una situazione in cui alcune scienze non ricercano più ciò che è degno d’esser conosciuto, ma considerano come degno d’esser conosciuto soltanto ciò che è misurabile». (Ib., p. 175).

Queste parole aprono un orizzonte metodologico ben più vasto di quello cui ci avevano abituato i sociologi precedenti. Lo stesso Weber, adesso, ci appare ermetico, nel non sapersi decidere a affermare decisamente l’impossibilità di arrivare a una conoscenza oggettivamente e soggettivamente valida del mondo dei fenomeni sociali. Ma non bisogna dimenticare che il peso idealista in Weber è di gran lunga maggiore di quello che è possibile riscontrare in Mannheim. Inoltre occorre notare che quest’ultimo è un uomo nuovo, formatosi alle dure prove di una guerra tremenda, e consapevole dello sfacelo generale di strutture che la tradizione pareva aver consacrato in modo definitivo nella storia. Per notare come sia maturata in lui l’esperienza di quegli anni, e come sia diventata parte integrante del suo pensiero, basta la semplice riflessione che in Ideologia e utopia, libro eminentemente fondato sul problema della crisi e della dissociazione sociale, non si trova nessun rinvio, neanche velato, alla scomparsa della repubblica di Weimar e al rimpianto di quegli anni tranquilli e laboriosi.

Il disegnarsi in forma parabolica delle forze sociali agenti nel complesso spirito europeo, viene da Mannheim trasformato in rottura definitiva. È la fine del processo dialettico, il chiudersi di una età di storia e di speculazione, l’aperto riconoscimento dell’irrazionale. «Nel processo che la società moderna viene attraversando ci sono, come s’è già detto, dei momenti in cui i meccanismi escogitati dalla borghesia per risolvere i conflitti di classe (ad es. il parlamentarismo) si dimostrano insufficienti. Sono i periodi in cui il progresso sembra venire meno per il presente e la crisi diventa acuta. Le relazioni e le differenze di classe si fanno aspre e anormali. La coscienza di classe delle parti in lotta si avvia a divenire confusa. In tali periodi è facile per certe formazioni prevalere, mentre si afferma la presenza della massa, avendo gli individui perduto o dimenticato le direttive che erano specifiche della loro classe. A questo punto una dittatura diventa del tutto possibile. La visione fascista della storia e l’intuitivismo che è alla base dell’azione immediata finiscono col tramutare quella che era soltanto una situazione parziale in una concezione totale della società. Con il ritorno dell’equilibrio che segue la crisi, le forze storico-sociali organizzate tornano a essere efficaci. Anche se la elite che è venuta al potere durante la crisi è capace di adattarsi alla nuova situazione, le forze dinamiche della vita sociale si riconsolidano nella vecchia maniera [...]. Nondimeno l’esistenza di tali esplosioni rivoluzionarie, per brevi che esse siano, porta l’attenzione a concentrarsi su quei profondi fenomeni dell’irrazionale, che non sono stati ancora spiegati e che non sono comprensibili con i normali criteri storiografici». (Ideologia e utopia, tr. it., Bologna 1957, pp. 143-144).

Da quanto precede all’aperta ammissione di una necessità imperialistica, o a una vera e propria paura della democratizzazione, la strada è lunga, comunque non si può negare che alcuni critici abbiano messo veramente il dito sulla piaga, affermando l’impossibilità della dottrina di Mannheim di dare conto dell’azione del ceto intellettuale in seno alla società. Così Lukács: «Che questo ceto abbia l’illusione di trovarsi al di sopra delle classi e delle lotte di classe, è un fatto ben noto, non solo più volte descritto dal materialismo storico, ma anche dedotto dall’essere sociale di questo ceto. Mannheim avrebbe dovuto dimostrare che quella dipendenza del pensiero dall’essere sociale, dalla “situazione”, che, secondo la sua teoria gnoseologica, determina il pensiero di ogni uomo vivente in società, non sussiste in questo ceto, o sussiste in modo diverso. Ma egli non intraprende neppure il tentativo di una siffatta dimostrazione, e si appella semplicemente alle note illusioni dell’“intellettualità libera nei suoi movimenti”, in cui questo ceto cade riguardo a se stesso». (La distruzione della ragione, tr. it., Torino 1959, pp. 645-646). Il tronco principale dell’impostazione tecnica dell’irrazionale risulta in questo modo mozzato. Mannheim ha sorvolato sull’utilissima (ma possibile?) dimostrazione di questa posizione di favore della classe intellettuale, da cui sarebbe scaturita automaticamente la legittimazione di quella sorta di intuizione alla quale finisce per ridursi la sua sensibile coscienza di uomo solo, di fronte all’accadimento di eventi straordinari, e chiamato dal proprio compito di sociologo a darne un’interpretazione.

Desideriamo adesso mostrare, con una pratica applicazione, questo negativo assunto teorico che, a ragione, concordiamo a identificare in Mannheim, insieme alla critica di Lukács. La mancanza di una pianificazione degli strati sociali e la completa saturazione del vecchio principio del laissez-faire, fecero – secondo la sua analisi – raggiungere l’acme del fallimento a tanti princìpi della società prebellica, portandoci direttamente alla compresente necessità di rinnovamento delle basi. Assunto questo che per grandi linee non si può negare, specie perché con il termine pianificazione si intende un’azione sociale talmente vasta da sommare ogni sorta di atteggiamento tipologico. Solo nel concretizzarsi del procedimento ragionativo si finisce per rendere palese la profonda inconsistenza delle sue teorie dirette a fare reggere la struttura di una classe sul proprio isolamento, presentandola come staccata dalle altre e incaricata di sublimare le energie psichiche che la società, nella lotta quotidiana per l’esistenza, non esaurisce completamente.

Anche le giustificazioni accumulate dallo stesso Mannheim non soddisfano del tutto, in modo particolare se afferenti al problema che abbiamo scelto come riferimento: la pianificazione. Primo, l’aumento quantitativo delle elite in difetto dell’intensità qualitativa, che se in un primo momento arreca utilità alle elite stesse, per l’apertura a campi sociali più vasti, una volta superata la saturazione, causa il dissanguamento unitariamente qualitativo e conduce alla dispersione delle forze direttive. Da questa dispersione scaturisce l’impossibilità della formazione di un gusto orientato verso un’interpretazione della cultura nella sua totalità, conseguentemente un’azione parziale di questa ultima sulla elite, da cui un progressivo isolamento della stessa dal substrato ideologico in cui si trova a estendersi.

Secondo, la mancanza di un’applicazione totale del principio di inclusione nella elite, in base a meriti personali, che costituisce il vero principio di organico progresso, contrapposto a quelli statici del sangue e della ricchezza.

In fine, Mannheim adduce un terzo motivo: la sempre maggiore tendenza a disintegrare la vera tradizione culturale di un paese, in favore di coloro che non sapendo includersi in questa tradizione, vivificandola, si pongono al di là, pretendendo di spacciare la loro posizione come un superamento e un miglioramento delle tesi precedenti.

Ora, dai motivi addotti, prescindendo dalla peculiarità del problema, risulta chiaro che l’analisi non approda a niente di positivo. Mannheim non riesce a trovare la strada per dimostrare l’eccezionalità degli interventi che risultano empiricamente riscontrabili nella struttura formativa delle elite direttive. Egli comprese, come abbiamo visto, tutta l’orrenda realtà della dottrina fascista, e seppe individuare i capisaldi che consentivano il suo sviluppo. Ma nel tracciare una linea di condotta che fosse in grado di combattere questo stato di cose, o costituisse veramente il fondamento di una “ricostruzione”, manifestò in pieno il lato negativo della sua dottrina.

Malgrado l’apparenza di una continuità organica, questa tesi delle elite, conduce sempre nel vicolo cieco dell’individualismo, posizione che potrà essere superata – se si vuole superarla apparentemente e si rinuncia alla concreta efficienza di una risoluzione pratica – solo in sede metafisica. Difatti non sono pochi i richiami all’esistenzialismo. Richiami programmatici semplicemente (in particolare al binomio Jaspers-Heidegger), ma che rendono chiaro l’estremismo di incertezza che trapela dalle pagine di Mannheim.

Da quanto precede possiamo dedurre il concetto di individualismo sociologico, inteso in termini di compresenza strutturale della cultura. Ora questo individualismo si contrappone, per fare un esempio, all’uomo integrale di Marx, o all’uomo interpretato in termini di simbolo di Cassirer. Concezioni, quest’ultime, di netto stampo idealistico e che trovano ostacolo, sebbene per vie diverse, nell’impossibilità di una riprova empirica. Però abbiamo visto, come anche da un punto di vista più strettamente sociologico, non si arriva a una vera impostazione scientifica del problema “personalità”. È questo il campo di lavoro di questi ultimi decenni [1950-1960], in cui tanto si è dibattuta la cultura americana.

Universalismo americano

Per prima cosa bisogna riportare questa tendenza a una linea direttrice più vasta, che trova origine nella necessità di organizzazione interna di tutte le scienze. Fenomeno che, come abbiamo rilevato, costituisce il fulcro centrale della dottrina ottocentesca del determinismo. Da questa necessità primaria, e di sostanza essenzialmente teorica, si passa a una zona di applicazione strumentale, che si concretizza nell’universalismo della cultura. Ovviamente questo universalismo è di forma diversa da quello che abbiamo riscontrato nella sociologia tedesca, sebbene mantenga le medesime giustificazioni alla persistenza. Un esempio di questa ammodernata integrazione culturale potrebbe risultare valido per tutti: le Foundations of the Unity of Science. Uomini come John Dewey, Meyer Schapiro, Ernest Nagel, Charles Morris, Russell, Bohr, Neurath, Carnap e altri, pongono i frutti delle proprie ricerche, l’uno a fianco all’altro, onde favorire questa unificazione della cultura. In linea diretta questo concetto si potrebbe riallacciare all’opera che nei primi anni del secolo alcuni filosofi, giuristi e economisti americani intrapresero in comune su vari campi della scienza, per ricercare appunto questo famoso concetto d’ordine univoco. (Tra questi uomini troviamo Thorstein Veblen, Andrew Holmes, Joan Robinson, lo stesso Dewey e altri).

Ora è diventata una moda tessere le lodi di questo metodo americano di strumentalità scientifica, metodo che partendo dal concetto di individualità storicistica dell’uomo e corroborando questa posizione con il principio di universalità delle scienze (cultura), propone una interpretazione bilaterale del rapporto conoscitivo della realtà. Da un lato l’individuo con la sua adattabilità all’ambiente culturale, dall’altro la cultura con la sua totale compresenza nella struttura psichica dell’individuo. Ma quali potrebbero essere i contributi pratici o sperimentali che una formulazione del genere potrebbe produrre? Io credo ben pochi in senso positivo. Piuttosto propenderei a considerare questi sforzi, come una sempre maggiore conferma dell’impossibilità di una conoscenza integrale dell’uomo sociale, e di una esposizione universale della cultura in tutte le sue manifestazioni. E questo mio assunto può essere facilmente provato da due puntualizzazioni del problema. Primo, il concetto di uomo, così come viene esternato dalla moderna sociologia americana, ci è completamente estraneo, non ci dice niente di umano. Quante pallide giustificazioni metafisiche cercano di servire da fondamento a un castello di carte, buono per rovesciarsi tutto in una volta, al semplice apparire di una leggerissima brezza!

L’uomo sociologizzato è un fenomeno teorico affatto estraneo all’uomo reale, come lo era l’uomo del cristianesimo e l’uomo del nazionalsocialismo, e di ogni impostazione astratta che cerca le nuvole dell’alto o il fango della terra. Come secondo rilievo basta pensare alla premessa teorica che costituisce la base d’autorizzazione scientifica della cultura americana contemporanea. L’estrema limitatezza del neopositivismo logico fa luce pienamente sul significato intimo di questa pretesa universalizzazione della scienza. E non fa conto intraprendere un’altra volta il discorso fatto per Russell in sede di giustificazione epistemologica. Si dovrebbe fare una maggiore attenzione in Italia a non aprire troppo di frequente la bocca in senso di meraviglia, a quanto giunge da oltre Atlantico, che non siano ritrovati tecnici e procedimenti sperimentali. Il popolo americano per tradizione e costituzione sociale è portato alle grandi realizzazioni pratiche. In esso persiste, in forme modificate, lo spirito del pioniere e dell’avventuriero. E non possiamo nemmeno arrivare a giustificare delle iniziative come la Foundation for Integrated Education, che si preoccupa – con i soldi di Rockefeller – di programmarsi problemi come quello di dare una teoria alla biologia, che possa organicamente inquadrare, prevedere, e una volta portati a compimento, interpretare, i risultati sperimentali. E della lezione del vitalismo che ne facciamo? L’abbiamo forse dimenticata? o un biologo come Thomas Kunz spera di foggiare un modello capace di mangiarsi tutti i risultati già acquisiti?

Concludendo possiamo dire che l’amara constatazione della incertezza fondamentale di ogni discorso che dell’uomo fa il proprio centro, ha una sola via d’uscita: spostare proprio questo centro e porlo al di fuori, sulle cose, rinunciando contemporaneamente a ogni sublimazione culturale delle cose stesse. Ma questa scorciatoia sarebbe una ben misera trovata. L’uomo se tiene al proprio impegno di vita, deve mostrarsi uomo e non retrocedere in posizioni di attesa o di rinuncia. La lotta, come somma di tutte le attitudini vitali, allo schema dinamico dell’apprendimento delle cose. E come lotta, questo apprendimento non è mai progressivo, mai completo, mai sicuro. Frequentemente sulla scena del mondo, appaiono fantasmi illusori – uomini o idee – che ci conducono per mano, fino al limite estremo di un fallimento clamoroso, fino alla scoperta improvvisa di quanto di falso o di errato si nasconde al di sotto di un aspetto allettante o coerente.

L’economia politica

Addentriamoci ora in seno allo sviluppo della scienza economica, per osservare i risultati causati dal processo culturale.

L’economia non ha mai saputo recitare alla perfezione il ruolo di “tecnica” che non pochi suoi cultori hanno voluto affidarle. Essa si è rivoltata costantemente, in nome di un suo insito carattere problematico, sulla linea di interpretazione che la corrente classica volle darle. È questo concetto che non bisogna perdere di vista, quando anche ci si trovi davanti ad accentuazioni specialistiche, alle cosiddette matematicizzazioni. Il più delle volte – con ciò non si vuole asserire nulla di dogmatico o di assoluto – si tratta di svolgimenti in estensione, ma che qualitativamente o in originalità, ben poco aggiungono alla costruzione centrale, la quale, a sua volta, può anche assumere forma tecnica, ma solo come presentazione, che la sostanza della logica economica non si può confondere con i procedimenti strumentali, impiegati nella sua estrinsecazione.

In effetti però questa impalcatura tecnica non sta su senza uno scopo ben fissato. Schumpeter mostra di non avvedersene quando limita la sua osservazione, in merito al problema in questione, alla parità di utilizzazione del metodo matematico e del metodo tradizionale, facendo propendere la preferenza, infine, per il metodo matematico. «[...] gli economisti matematici non formano una scuola in nessuna accezione significativa del termine, più di quanto non la formino gli economisti che leggono l’italiano: tutte le differenze di opinione che si può concepire esistano tra gli economisti eccettuata soltanto una certa categoria di errori – possono anche esistere tra gli economisti matematicamente preparati [...]. Ma poiché gli elementi essenziali della teoria dell’utilità marginale e della produttività furono elaborati anche da economisti che erano completamente estranei alla matematica “superiore”, era naturale che questi e la maggioranza non matematica della professione nel suo complesso pensassero che, a parte forse alcune inutili raffinatezze, il ragionamento matematico nell’economia non aggiungeva nulla a ciò che si poteva provare senza di esso [...]. Non meno comprensibilmente, essi razionalizzarono questo atteggiamento e produssero in sua difesa un certo numero di argomentazioni metodologiche, come quella secondo cui il tentativo di applicare la matematica, lo strumento della fisica, alle scienze sociali, era un errore logico di principio». (Storia dell’analisi economica, vol. III, tr. it., Torino 1959-1960, pp. 1173-1175). La speranza recondita è sempre quella conoscenza di tipo monistico, perseguita dal lato positivo della ricerca, che veniamo individuando in queste pagine. È la determinazione che detta le sue leggi dure a morire, in forma caratteristica, adatta alla scienza economica, la quale risente di una sua particolare rigidezza a usufruire del complesso culturale che la circonda. In effetti questo procedimento matematico di analisi economica, avrebbe dovuto essere posto in atto, per lo meno un trentennio prima, alla luce degli ultimi sforzi positivisti, di dare compiutezza a un sogno, rivelatosi in breve senza grandi frutti. Ma, in quell’epoca, la scienza economica aveva ben altro da fare. La sua fase di creazione, e di superamento di un classicismo che minacciava di arenarla su aperture via via sempre meno riconoscibili come “economiche”, aperture che afferivano con eccessiva facilità alla sociologia e alla storia, impedirono e ritardarono questa fase. La ritardarono fino al punto in cui i tempi avevano subito un profondo cambiamento, che forse non giustificava più una rielaborazione – con buona pace di Schumpeter anche nelle rielaborazioni possono riscontrarsi originalità di pensiero, di metodo e di risultati concreti. Comunque essa si ebbe, e se ci si consente un piccolo “se”, potremmo aggiungere che in ben altra posizione sarebbe adesso la scienza economica, se invece di segnare il passo con queste rielaborazioni, si fosse avvicinata maggiormente alla realtà dinamica della cultura.

Non si discute qui sull’utilità, o meno, sulla genuinità, o meno, sulla sostituibilità, o meno, della tecnica matematica applicata all’analisi economica, si afferma soltanto – ed è bene metterlo in chiaro in quanto conosciamo di quali cavillosità siano capaci gli economisti in genere – la sua stretta dipendenza da un’idea di “ordine”, che la scienza ha, ormai da tanto tempo, espunto dal suo contesto vitale.

Il motivo centrale, per cui trattiamo qui di problemi generali attinenti alla scienza economica, è quello di gettare luce, per quanto ci è possibile, sulle sue relazioni con l’atmosfera generale della scienza e della cultura del periodo che veniamo esaminando [gli anni Cinquanta]. E, come abbiamo detto, queste attinenze sono piuttosto scarse. Sia prendendo in considerazione il lavoro del periodo classico dell’economia, come osservando la parte più vicina a noi, è possibile vedere una compattezza di intenti, per quanto riguarda la pretesa di rendere universalmente validi i risultati dell’indagine. Il primo periodo è troppo legato alle fasi costruttive del capitalismo per potere penetrare a fondo nelle trame di una vicenda economica tanto complessa e ricca di futuri sbocchi, pertanto, finisce per cozzare duramente contro l’impossibile problema della produzione. Il secondo, invece, abbastanza edotto della compresenza di forze nuove agenti in campo economico, oltre alla classica “domanda-offerta”, forze di tale entità che causano perturbamenti soggettivi in seno all’oggettività della teoria del valore, da cui la necessità di una interpretazione psicologica di queste forze.

Ma il mondo della cultura è ben lontano da queste formulazioni. La loro cadenza altera e sicura, ricorda con amarezza il piglio della scienza ottocentesca. I più recenti sviluppi, ancora non ben studiati, forse potranno dire qualche nuova cosa sull’argomento e riportare l’economia al giusto posto che le compete tra le sue consorelle.

Questa curiosa situazione causa disagi notevolissimi, e a volte inspiegabili per gli stessi economisti, in alcuni problemi di indole quanto mai varia. Ne forniremo due esempi che riteniamo sufficientemente validi.

Arthur Pigou, nelle pagine introduttive del suo lavoro più importante, con un acume che ricorda quello di Pareto, pone un paragone tra la situazione della geometria e la situazione dell’economia, affermando che «[...] si avrebbe così senza dubbio, fra le tante altre, una economia politica smithiana in cui a x si attribuirebbero i valori degli impulsi dell’uomo economico, o dell’uomo normale, e una economia politica non smithiana equivalente alla geometria di Lobacevskij, secondo la quale gli x consisterebbero di amore al lavoro e di odio verso i guadagni. Dal punto di vista dell’economia pura ambedue questi tipi di economia sarebbero veri e non avrebbe nessun interesse ricercare quali sono i valori effettivi di x per gli uomini reali che vivono nel mondo d’oggi». (Economia del benessere, tr. it., Torino 1960, p. 12). In questo modo dimostra di avere coscienza di un mondo culturale ben diverso da quello solitamente utilizzato dall’economia.

Ma le sue attese dalla scienza sono essenzialmente tradizionali. È la generalizzazione che gli pretende, una legge capace di spiegare i casi singoli e di consentire di prevederne di futuri. Si tratta di una pretesa assoluta, che non ammette possibilità negativa, non di una speranza che consente o comunque si ingegna di prospettarsi – una eventuale disillusione. «[...] si deve dire che ogni scienza attraverso un esame e riesame dei fatti singoli che essa riesce a stabilire, cerca di scoprire le leggi generali di cui quei fatti particolari sono soltanto esempio. Il moto dei corpi celesti è chiarito dalla legge di Newton, e l’allevamento del pollame blu dell’Andalusia dalla legge di Mendel». (lb., pp. 12-13).

È l’idea di “ordine” che lo affascina maggiormente nella scienza, e che lo porta a invidiare la posizione di stabilità della fisica, per cui non esistono differenti rapporti da stabilire: «[...] la gravità costante, che esprime la relazione fra la distanza e la forza di attrazione, è uguale per ogni genere di materia». (Ib., p. 14). A ciò contrappone la situazione della scienza economica, alle prese con un numero grandissimo di differenti rapporti da regolare, variabili nel tempo, e praticamente privi di una possibilità di preventiva sperimentazione diretta.

Con queste premesse, sulla cui validità verremo a discutere poco più innanzi, egli fonda una limitazione del compito della scienza economica, indirizzandola allo studio del benessere economico. Ora, non potendo utilizzare significati troppo vasti di questo termine, si limita a ciò che in esso vi è di misurabile a mezzo della moneta, riconoscendo comunque l’impossibilità di operare una separazione netta «[...] perché la parte che può essere misurata monetariamente, sarà diversa a seconda del come noi intendiamo procedere a questa misura». (Ib., p. 16).

Non ci si deve meravigliare di questo compromesso, anche la ricerca fisica che apparentemente s’indirizza su canoni di rigorismo assoluto, finisce poi per proporne anche di peggiori, ma bisogna tenerlo sempre presente, e non dimenticarlo appena voltate le pagine iniziali dell’introduzione e iniziata la ricerca vera e propria. Pigou ne soffre, come di un riconoscimento del difetto principale dell’attività che lo occupa, e ne trae scorno e mortificazione, sognando dei felici fisici alle prese con le loro leggi eterne e immutabili. È, purtroppo, la situazione generale della scienza economica, questa, e viene qui a gettare una luce di difettosa impostazione, in un lavoro che dovrebbe considerarsi tra i migliori della sua epoca.

L’economia, come pure la sociologia, si trova nella necessità di studiare l’aspetto macroscopico dei fenomeni economici e sociali, e a trarne leggi e conseguenze. Il processo di liberalizzazione di questa fase macroscopica, e il successivo indirizzo verso l’aspetto microscopico, abbiamo visto, si può identificare con l’avvento delle nuove idee economiche, come sono state formulate da alcuni isolati studiosi prima del 1870 e dalla massima parte degli studiosi di economia dopo quell’anno. Ma il fondamento epistemologico che reggeva la prima indagine, di fronte alla sostituzione della teorica della produzione con quella dell’utilità marginale, non ha subito cambiamenti, per la semplice ragione che le sue linee principali, più che ufficialmente riconosciute e elaborate, si trovavano a essere intuite nelle opere dei maggiori “classici”. Praticamente non c’è niente di grave, o di insuperabile, di fronte al fatto denunciato da Pigou che la scienza economica debba rendere conto di un numero vastissimo di differenti rapporti da regolare, o debba seguire le diverse variazioni di questi rapporti in funzione del tempo, senza potere procedere a una preventiva sperimentazione. È la situazione di buona parte della scienza contemporanea. Anche la tanto decantata fisica (decantata da Pigou), è stata costretta a risolvere problemi del genere e a spartirsela con quella statistica che sembra essere diventata compagna inseparabile della scienza economica (ciò per il semplice motivo che dovrebbe considerarsi come compagna inseparabile di qualsiasi altra scienza).

Ed eccoci al secondo esempio.

Fritz Machlup, nei suoi Monopoli, prepone nella parte quinta (p. 547 della tr. it., Torino 1956), un riesame dei vari schemi concettuali seguiti durante tutto il suo lavoro, e, tra l’altro, a p. 562, tratta della possibilità di predizione della scienza economica.

Argomento “classico” di quel lato positivo dello svolgimento scientifico che veniamo seguendo, limitato curiosamente – e quando mai non si pretende di vedere qualche cosa di particolare nei metodi economici – a predizioni di carattere generale, accettabili dentro limiti di approssimazione piuttosto notevoli.

Machlup comincia col rifiutare qualsiasi differenza logica nel cercare di prevedere determinati effetti da cause già conosciute, dal cercare di risalire da effetti già noti alle cause che il hanno prodotti. Comunque anche tralasciando di confutare questa pretesa, che ci condurrebbe molto lontano, possiamo fermare la nostra attenzione a ciò che questo studioso definisce “previsione ipotetica”. Egli si interessa del valore pratico di queste previsioni, infatti finisce per porre una notevole differenza pratica in ciò che aveva asserito non esservi differenza logica. «Il valore pratico di tali previsioni condizionate da “se”, dipende dal numero di “se” che esse includono e dalla difficoltà di scoprire se esse si sono effettivamente realizzate». (Ib., p. 563). In definitiva, se ho ben capito, si tratta di considerare la previsione sotto due aspetti: uno anteriore, che tende a limitare, quanto più possibile, l’alea delle condizioni e il loro numero, e uno posteriore che s’interessa di scoprire dentro quali limiti le previsioni stesse si sono attuate, e la possibile azione modificatrice delle condizioni previste.

Ma tutto ciò non è scienza economica, non si può pretendere da una scienza il dettare norme di comportamento, o regole più o meno circoscritte, capaci di prevedere avvenimenti futuri. E non occorre insistere, crediamo, ulteriormente su questa necessità di purificazione del compito della scienza.

La scienza non può prevedere. Essa deve constatare. Spetta alla tecnica, all’applicazione pratica dell’impostazione dottrinale e, nel caso nostro, ai tecnici economici e agli uomini d’affari, prevedere l’andamento futuro dei prezzi di un prodotto, allorquando si attuerà un provvedimento di restrizione doganale. Il fatto che questa previsione possa essere utile, anche se si dimostrerà non esatta al 100%, è una prova ulteriore che non bisogna chiederla alla scienza, per la quale, anche un’approssimazione del 99,9999% sarebbe sempre un disastro. Bisogna poi aggiungere che questa valutazione a posteriori della previsione, si trova in uno stadio non ben definito di intervento qualitativo-quantitativo, che finirebbe per rendere addirittura ridicolo ogni tentativo scientifico di venirne a capo.

La previsione è l’arte della tecnica. Solo perché questa agisce in campo macroscopico o, se si preferisce, in un campo che riesce bellamente a fare a meno di imprecisioni d’ordine inferiore alla immediata percezione di strumenti normali e dei sensi umani, per cui può industriarsi con la realtà e la sua materiale immediatezza. Se dovesse, come la scienza, scendere continuamente a esami di coscienza o a generalizzazioni del particolare, non vi sarebbe civiltà e progresso. Anche in economia le cose non stanno diversamente. I tecnici attuano le teorie economiche ai loro casi concreti, e fanno dell’economia pura il presupposto e la giustificazione della politica economica, ma, d’altro canto, i teorici, questi scienziati sempre perduti in mezzo alle loro formulazioni astratte e valide nella generalità dei casi, sono uomini come gli altri, e pretendono di fare valere questa loro umanità, trattando anche loro di politica economica e di casi particolari. Tutto sta nel sapere mantenere sempre questa linea di demarcazione tra scienza e tecnica. E Machlup, malgrado sia da considerarsi incontestabilmente uno dei tecnici economici più validi, ha, nelle pagine che abbiamo esaminato, preteso di fare la strada all’inverso, penetrando nel regno della economia pura, portandovi il concetto spurio della previsione. Ancora una volta vecchi fantasmi, che sarebbe logico ritenere ormai sepolti da tempo, fanno delle fugaci apparizioni, senza riuscire a spaventare nessuno.

Evidentemente l’esposizione condotta in queste poche pagine deve essere intesa in termini esemplificativi e non può ritenersi, in alcun modo, esauriente. Come ognuno vede, i problemi sono appena sfiorati e subito tralasciati. Occorrerebbero migliaia di queste pagine per arrivare a un punto di approssimazione maggiore. Il problema stesso, sollevato da Machlup, andrebbe trattato da un interessantissimo punto di vista, strettamente indeterministico, al fine di valutarne i risultati alla luce tecnica di questa legge trasversale di imprecisione. Forse in questo modo, parecchi punti dell’impostazione data da Machlup, e parecchi altri della mia confutazione, subirebbero un chiarimento definitivo.

Per non parlare del lavoro particolare di studiosi come Ludwig von Mises, Corrado Gini, Pareto, non pienamente studiati nel loro apporto “originale” a un intendimento diverso del compito e delle possibilità dell’economia politica, e infine tutto un lavoro di rivalutazione e di ammodernamento, lavoro che ci sta particolarmente a cuore e che speriamo di condurre a buon fine in altra sede.

Deposta finalmente la trattazione dello storicismo contemporaneo, con le sue propaggini sociologiche e economiche, osservato, nei limiti che ci sono concessi, il lungo travaglio della irrazionalità e della disgregazione dei cosiddetti “valori eterni”, rilevata, sempre di passaggio, l’incompleta valutazione metodoIogica di certi problemi che ben altra sorte meritavano, non ci resta che affidarci alla speranza di non avere svolto troppo male il programma che ci eravamo imposti.

Husserl

Prima di esporre alcuni brevi cenni sull’esistenzialismo, è giusto fare precedere un riferimento all’opera di Husserl, sia per l’implicita derivazione di buona parte della sistematica esistenziale dalle impostazioni di questo filosofo, sia pure perché i risultati acquisiti dalla critica non sono assolutamente definitivi, tanto da far pensare a un nuovo Husserl, del tutto diverso, che potrebbe uscire da un momento all’altro, dall’archivio di Lovanio. In nome di questa possibilità, e bene tenere presente, nella nostra attenzione, questo filosofo.

L’indagine fenomenologica di Husserl si presenta, a tutta prima, come una rivalutazione della tradizione ontologica della filosofia tedesca. Il suo rifiuto della natura e in particolare del psicologismo, come empiristica traduzione della natura esistente, viene condotto in nome della scientificità della ricerca filosofica, compromessa appunto da una pessima considerazione delle leggi formali che regolano l’indagine psicologica della realtà. Ma questo rifiuto assume proporzioni ben più vaste, man mano che dalle opere giovanili si passa a quelle della maturità. Husserl, stabilito il limite della sua logica, si preoccupa di giustificarne le basi metodologicamente. È questa preoccupazione, senza dubbio, l’essenza più certa della sua filosofia, da cui si può dire che in lui si concretizza uno degli ultimi più potenti tentativi di organizzazione scientifica della ricerca speculativa. Ora, tenendo presenti le forze del criticismo operanti in Germania, prima della corrente romantico-idealista, ci si accorge come quest’ultima costituisca una parentesi che con chiusura più o meno ermetica, seppe presentare questa necessità, avvertita adesso da Husserl. E il punto più interessante della dottrina di questo filosofo è appunto lo sforzo di fondazione di una “filosofia come scienza rigorosa”, in ripristino di queste forme idealiste forse non mai del tutto sopite. Ma i tempi sono profondamente cambiati, decenni di nuove teorie in tutti i campi dell’attività intellettuale, non potevano passare sotto silenzio. La ripresentazione di queste necessità, in Husserl, assume forma sostanzialmente differente. Egli è cosciente della crisi della filosofia contemporanea, come di quella della scienza. Ma nel dettare le origini di questa crisi, non manifesta quella stessa lucidità che lo aveva condotto – e dal suo punto di partenza stupisce per davvero – alla diagnosi precedente. Per la filosofia egli imputa la crisi allo psicologismo e all’empirismo che vincolano la conoscenza alla presenzialità del dato di fatto. Per la scienza invece, stigmatizza trattarsi dell’involuzione in senso tecnico dei presupposti scientifici, insomma una sorta di carenza teoretica. Di certo anche a chi fosse superficialmente informato dello stato attuale delle cose in filosofia e nella scienza, questa spiegazione non può soddisfare. Ma mostrare il contrario esula dal nostro compito presente. Adesso ci interessa utilizzare il motivo della crisi come premessa alla sua intenzione di fondare la filosofia come scienza rigorosa. E con il ritrovato tecnico fornitogli dal concetto di epoché, pone mano alla costruzione. Ogni attimo della nostra vita, ogni decisione, ogni atteggiamento, viene a essere considerato come una posizione transitoria e inammissibile nella coscienza responsabile di un uomo posto di fronte al resto dell’umanità tutta. Non si deve partire dai dati esistenti per arrivare alla generalizzazione teorica, per il semplice motivo che risulterebbe scientificamente difficile provvedersi di altri dati. Il lavoro fenomenologico è indirizzato proprio a questo. Formulare in termini di ricerca a-esistenziale quello che in precedenza era stato tentato solo come ricerca psicologica e quindi come compresenza dell’io e del mondo. Solo in questo modo, quello che prima restava valido nell’ambito del singolo, come decisione, atteggiamento o altro, adesso riesce a conseguire un valore assoluto. E da questo punto in poi, la teoria scientifica di Husserl, comincia a manifestare la propria inadattabilità costruttiva. Ammettendo possibile un metodo come quello propugnato da Husserl si avrebbe la riduzione della filosofia alla stregua di una scienza come la fisica o la matematica, riduzione che trasformerebbe di fatto in scienza la ricerca speculativa, ma che non addurrebbe giustificazione epistemologica al procedimento di trasformazione. E questo, nel complesso dell’opinione di Husserl, nei confronti delle esperienze filosofiche trascorse, opinione che non risulta davvero lusinghiera (Philosophie als strenge Wissenschaft). Infine non possiamo non notare come anche questo tentativo della fenomenologia cominci con un se, come cominciava tutta la tirata determinista di Laplace. Se fosse possibile attuare nel filosofo la sospensione della vita come esistenza, se fosse possibile porlo in uno stato estatico di contemplazione, se fosse possibile... ma come ben sappiamo, tutti i discorsi di questo genere è ben difficile che possano attuarsi.

Alcuni studiosi hanno voluto dimostrare l’infondatezza della tesi di Husserl sostenendo (Abbagnano) che lo stesso contemplare è vivere: «Come se il contemplare la vita non fosse una forma di vita e come se l’atteggiamento dello spettatore disinteressato non fosse un particolare rapporto col mondo che perciò viene presupposto esistente». (Storia della filosofia, vol. III, Torino 1946, p. 642). Ma in questo modo si viene implicitamente a ammettere che la contemplazione – anche sotto la forma di vita – è possibile, invece di asserire in modo decisivo che nella vita non è possibile altra forma di vita che la vita stessa, e che la vita è lotta, impegno, competizione, sacrificio, e non contemplazione. Il concetto dell’astensione è da ritenersi posto al di là della vita, nel regno delle utopie, facilmente realizzabili nel mondo astratto che tanti filosofi continuamente ci propinano. Se queste teorie non fossero delle illusioni, si arriverebbe alla conoscenza della totalità, mentre persistendo il rapporto antitetico uomo-mondo, questa conoscenza deve scendere nel compromesso della parzialità e dell’indeterminazione.

L’esistenzialismo

Ed eccoci alla logica conclusione della corrente irrazionalista che abbiamo esaminato per vie diverse: l’esistenzialismo. Si può dire di essere giunti alle ultime formulazioni dell’interpretazione negativa della possibilità dell’uomo. Al di là ci attende o la vuota ripetizione di temi e figurazioni, o l’intrapresa di nuove trame, non del tutto dimentiche di quanto l’esistenzialismo ha chiarito, ma ben coscienti dei suoi limiti e delle sue debolezze.

Prima di continuare a inoltrarci in questo campo, è bene rendere evidente che la posizione dell’esistenzialismo, almeno nelle sue formulazioni più genuine e non in autori che possiamo definire di transizione, viene assunta in base a premesse ben diverse da quelle che vedremo successivamente valide per la fisica, qui, ad agire, è quella presenzialità dell’individualismo che, comune a tante filosofie dell’irrazionale, come abbiamo visto, assume l’aspetto dell’altro lato della moneta, nell’indirizzo positivo voluto da Kant.

La scienza ha rigettato le posizioni del positivismo, in nome di una revisione teorica dei dati empirici. La filosofia ha rigettato le posizioni del criticismo, in nome di una rivalutazione delle possibilità costruttive dell’uomo, anche nel pieno riconoscimento della negatività insita nella vita. Ovviamente questi energici rifiuti hanno una correlazione, anzi ciò costituisce uno dei motivi principali delle pagine che precedono, e ha sempre formato una delle mie più profonde convinzioni personali.

Ma ciò non toglie che queste forze, nella scienza e nella filosofia, manifestino un processo indipendente e, a volte, antitetico. Sostanzialmente ritengo che sul piano dei risultati pratici si equivalgano, sebbene ognuno cerca di vedere le cose nel modo, per lui, più favorevole. In fondo l’individualismo della filosofia può essere riportato all’indeterminazione della scienza. Ma un processo di questo genere, operato per via diretta, sarebbe oltre che ingiustificato, ben facilmente contraddicibile. Non basta individuare nell’indeterminismo scientifico una rinuncia al tracotante empirismo del secolo passato, come, viceversa, non ci si può accontentare di accennare ad alcuni punti di collegamento tra rivolta scientifica e ripensamento filosofico. Il problema è di maggiore portata, e queste pagine, cercano di chiarirne le delimitazioni.

La scienza ha fatto la grande rinuncia. Ha sacrificato tutti i suoi ideali di potenza e di stratificazione, in nome dell’uomo, per potere salvaguardare l’incondizionata libertà umana, messa in pericolo da un continuo incastrarsi di opinioni non sempre valide scientificamente, ma perniciose, lo stesso, psicologicamente. Di certo questa rinuncia è avvenuta dall’esterno, e sarebbe puerile trovarle giustificazioni apologetiche. Ma i risultati pratici sono sempre validi, posto come non bisogna dimenticare che gli scienziati sono uomini e non macchine, e che, quindi, nel loro lavoro tecnico, applicano un enorme bagaglio culturale e, specialmente, epistemologico. D’altro canto l’indeterminazione della scienza si può riportare alla filosofia, oltre che per lo stesso motivo precedente, anche per la caduta delle illusioni romantiche sulla presenzialità dell’infinito nel finito, e sulla conseguente posizione privilegiata dell’uomo, posto al centro di ogni attenzione creativa. Dalla quale caduta si possono fare originare la consapevolezza del dolore, del male, dell’incertezza. Certo quest’ultima posizione filosofica è stata approntata molto lentamente. Non è accaduto, come per l’indeterminazione della scienza, che secoli di incubazioni, ma pochi decenni di scoperte, hanno formulato e stabilizzato.

L’esistenzialismo è riuscito a centrare la sostanza di incertezza del clima filosofico contemporaneo, all’epoca delle grandi scoperte scientifiche che distrussero il determinismo, senza venire a capo dei motivi generatori del clima stesso. Fenomeno non raro a ogni ricerca ontologica, su qualsiasi terreno essa si adagi. Ma il compito di una vera filosofia è di gran lunga diverso. Quando cade un’illusione, è la stessa vita che scende a sfidarci sul nostro cammino. e allora sostiamo spaventati, coscienti come non mai della limitazione delle nostre forze, immemori dei sogni di grandezza e di assoluto. È proprio quello il momento di sostare e riflettere. Ma chi si sente tanta forza? Chi potrebbe mai possedere il coraggio di interrogare la morte in punto di morte? E, in un secondo momento, quando ci troviamo ormai fuori dell’agone, scambiamo la sopravvenuta presunzione, per obiettività e poniamo mano al lavoro di ricostruzione: è una nuova illusione che nasce. Così sorsero le grandi illusioni idealiste, così sorsero le altrettanto imponenti costruzioni dell’esistenzialismo. Sistemi completi in tutte le loro parti, ma freddi e assenti, come se trattassero di un marziano e non di un uomo come noi, con le nostre stesse necessità e i nostri stessi problemi.

Di certo non saremo noi a proporre un intendimento dell’essenza della vita e dell’uomo, legato al possibile fantasma di una realtà statica, cristallizzata in schemi privi di significato e antistorici. Questa interpretazione ci è stata troppe volte fornita come la sola possibile, e non occorre ripetere ancora la sua totale infondatezza. La vita (quanto difficile e l’uso delle parole, ma credo di essere lo stesso capito), è da per se stessa, non come un in sé – sostanza compresente e congiustificante – ma come un in sé che nell’in sé vede la propria negazione. Quindi rimane indifferente a ogni tentativo necessitante operato dall’esterno. La necessità opera in presupposizione di una cosa determinata, e in vista di un effetto previsto. Ora non esiste motivo alla sopravvivenza, né come origine né come scopo. O, per lo meno, nei motivi logici di nostra conoscenza, questo – che potrebbe essere benissimo sussistente, tanto che la vita continua nell’esistere – non è compreso. Allora affiora il dubbio della gratuità di ogni nostro atto, e la susseguente angoscia, come disperdimento del senso univoco della vita nella mancanza di una presenza attiva capace di produrlo.

Allo svolgimento di questo motivo è diretta l’opera degli esistenzialisti, purtroppo in un senso che potremmo definire romantico. Come vedremo, la sublimazione costruttiva non potrà aversi per questa strada, e ciò sarà l’ultima parola valida di questi filosofi.

Una volta ammessa la possibilità negativa come intimo costituente dell’esistenza umana, la vita scapita di interesse prospettico, a beneficio di una modificazione del concetto di presente, da cui risulta facile notare l’estrema sottigliezza delle basi su cui si fonda una simile concezione, con conseguente facilità di accesso alla disperazione e al nulla. Questa la trama ininterrotta. Praticamente vedremo come in alcune manifestazioni esistenzialistiche, a esempio in Abbagnano, è possibile notare la speranza verso qualche cosa di positivo su cui basare tutta l’impalcatura dell’esistenza. Ma nelle correnti speculative più accreditate, le resistenze negative assumono tale forza ed estensione da mettere in pericolo l’ipotesi positiva e da fare temere che si fondi su di una illusione.

Heidegger

Nella posizione di questo pensatore confluiscono motivi svariati come potrebbero essere la fenomenologia e lo storicismo. Difatti la sua indagine non riesce sempre a separarsi dalle premesse fenomenologiche, condizione che resta valida anche per gli altri esistenzialisti. In questa sede, come dicemmo, non potrà avere luogo una discussione di tutta la filosofia di Heidegger, ma saremo costretti a limitarci alla sola considerazione del concetto di “possibilità”.

Con un procedimento di intuizione che giustamente è stato definito irrazionale (Lukács), Heidegger muove a darsi una strutturazione dell’esistenza come essenza e quindi come possibilità in senso kierkegaardiano. Ma questo tentativo rimane testardamente ancorato alla tradizionale corrente ontologica della necessità. Per cui ci appare curiosa la posizione di questo filosofo, eternamente combattuto fra la consapevolezza della problematicità dei singoli punti del sistema, e la contemporanea necessità di amalgamare il tutto in una organica costruzione metafisica. E quest’atmosfera di paradosso trapela dalla interpretazione del concetto di possibilità.

Se assumiamo come punto di partenza della necessità (ricerca ontologica), la negatività (spunto esistenziale), logicamente ne deriva non una possibilità negativa, ma una necessità negativa, cioè una impossibilità certa. In questo modo il fatto viene a assumere una consistenza fittizia, come un’ombra, ma valida e da tenersi sempre presente, in qualsiasi progetto autocomprensivo dell’essere. È l’amara conclusione di quanti, come Hegel o come i moderni idealisti, hanno preteso garantirsi dal nulla, attaccandosi al piede una palla da galeotto.

Heidegger dimostra i suoi limiti nel problema della morte, limiti che, a loro volta, dimostrano il capovolgimento effettivo della categoria della possibilità in quella di impossibilità effettiva. Prima di tutto perché, nell’andamento generale del sistema filosofico di Heidegger, un problema del genere è scontato in partenza. Il discorso viene portato sulla morte dell’uomo, sul concetto del “si muore”, sulla possibilità dell’essere di profilarsi un modo di essere per la morte. Ma tutto questo lavoro, mirabilmente condotto da un punto di vista tecnico, è semplicemente sprecato. Il discorso di Heidegger non tiene conto dell’uomo concreto, e quindi non potrebbe a rigore definirsi un esistenzialismo (da notare come lo stesso autore rifiuti in più punti della sua opera questa etichetta). Egli si mantiene costantemente al di qua di una linea operativa, come pura formulazione fenomenologica, e in questa zona da giardino di Epicuro, può sussistere un rapporto tra Esserci e Essere, un rapporto che vede in se stesso la compresenza della morte, come simbolo della finitudine, anzi come costituente principe del dialogo tra Esserci e Essere. Ora il cercare di trasportare di peso questi concetti nel mondo reale, comporta tutte quelle preoccupazioni che ogni buon idealismo porta con sé. Heidegger ha voluto riproporre, operando su di un terreno quanto mai inadatto, la vecchia gloria della metafisica: l’assoluto. Ma pretendere oggi di spacciare questo prodotto, come il nocciolo stesso della filosofia, significa essere passati indenni attraverso un secolo di sofferenze e di trasformazioni. E questa lezione è stata appresa più che dai suoi ammiratori (che ancora plaudono all’ambizioso disegno metafisico iniziale), dallo stesso Heidegger, che negli svolgimenti più recenti della sua opera, ha dato chiari segni di avviarsi verso un’apertura empirica. Di certo non si può parlare di modificazioni essenziali, ma è già qualche cosa riuscire a venire fuori da formulazioni programmatiche rigide, riconoscendole inadatte.

Potrebbe essere molto utile, a questo punto, fornire qualche notizia circa i motivi che portarono Heidegger alla stabilizzazione delle formulazioni iniziali. L’acuirsi di una condizione sociale tendente al livellamento delle masse, dovette formare una prima necessità di revisione del bagaglio fenomenologico di partenza, da cui si spiega, in un certo senso, la diretta comunanza con Dilthey, nei confronti del problema della storia. Heidegger, malgrado la sua posizione scomoda di metafisico, manifesta una consapevolezza dei problemi d’ordine contingente (economico, politico, sociale, artistico), che ci consente di stabilizzare in questa consapevolezza il motivo principale dell’ineluttabile sbocco alla revisione finale. L’estrema concretezza e variabilità di aspetti e manifestazioni difficilmente catalogabili in strettoie metafisiche, portano l’uomo un passo avanti del filosofo. Lo scopo è quello di dimostrare una dissoluzione (non so perché ma alcuni parlano di risoluzione) del concreto problematico, nell’assurdo necessario, il risultato è l’elevarsi continuo e indiscutibile del concreto: di volta in volta monumento e testimonianza di una inadattabilità del necessario. La conferenza romana del 1936 e la successiva produzione su Hölderlin, indipendentemente da presunti sotterranei motivi speculativi – quale a esempio l’esclusiva estensione a Rilke – costituisce uno degli esempi più tangibili di questi contrasti tra costruibile teorico e costruito pratico. Il linguaggio si erge pauroso, con la presenzialità tipica dell’ostacolo metafisicamente insuperabile, una volta formulato in termini di esistenza. Lo stridore è notevole, e i tentativi di superamento molto mediocri.

Mentre da un canto la poesia ha bisogno del linguaggio come veicolo di informazione, dall’altro è la poesia stessa che rende possibile l’essenza ultima del linguaggio, con un riflessivo movimento dall’essere, o rivelazione che dir si voglia. Da cui l’inscindibile necessità esistenziale della poesia. Queste tesi, anche non tenendo presenti le posizioni che in merito abbiamo di già delineato nelle pagine precedenti, sono per lo meno oscure, e legate a una consequenzialità logica di tipo forzato, in uso nei vecchi stampi metafisici, per fortuna da tempo in soffitta. Però servono lo stesso a stornare lo sforzo speculativo di Heidegger da quelle assurdità tipiche delle primitive programmazioni.

In Heidegger accade quello che, per altri motivi, abbiamo rilevato in Mannheim. Il bisogno di proporre un freno a uno stato oggettivo che non si fa fatica a riconoscere inadatto, contrapposto all’amara constatazione che solo scendendo a un compromesso di illogicità, si può ottenere un avvolgimento ontologico dell’esistenza del giorno per giorno. «Di certo il sì impersonale è così poco presente come l’esistenza intesa in senso generale. Quanto più il sì impersonale assume l’atteggiamento di evidente, tanto più resta intraducibile o nascosto, ma d’altro canto tanto meno è nulla». (Sein and Zeit, ns. tr., Halle 1927, p. 127). Con Mannheim ci si era imbarcati in un’avventura sociologicamente utopistica. Con Heidegger lo stesso fenomeno viene ripresentato in forma filosofica.

Jaspers

I temi precedenti vengono presupposti nella dottrina di Jaspers. Estesa su grandi linee, con la pretesa più o meno nascosta, di darci una nuova edizione dei grandi sistemi filosofici del passato, la filosofia di Jaspers ha significato moltissimo per l’Europa del periodo tra le due guerre, e per l’Italia dell’immediato dopoguerra. Jaspers parla in nome dell’uomo dai confini molto limitati, pauroso e ostile a ogni rinascita di ceti che non gli sono collaterali intellettualmente, astioso verso l’incognito rivoluzionario, e anelante a una pace di compromesso, anche se necessitante di una valutazione affrettata e sommaria di valori che restano fuori dai confini predetti. E su queste basi deve essere studiata la sua idea di possibilità esistenziale.

Prima di chiarire questo problema è bene, però, tenere presente quanto Jaspers ebbe a dire a modo di conclusione del suo pensiero su Max Weber: «Quel che veramente è essenziale in una esistenza filosofica è, in ogni caso, la coscienza dell’assoluto. Essa è un agire e un reagire, due cose che, incondizionatamente, esprimono l’azione e la forza viva dell’assoluto. E una singolare caratteristica veramente notevole di Max Weber era questa: la coscienza dell’assoluto, che irradiava da lui senza ch’egli lo conoscesse in senso oggettivo o comunque vi facesse riferimento». (La mia filosofia, op. cit., p. 101). Quindi un presupposto di assolutezza fondato in nome della tradizione, valido più che per l’uomo Weber, per l’uomo Jaspers, tutto proteso a accampare diritti al suo concetto di “esistenza possibile”. Da cui scaturisce il sentimento necessitante della storia, intesa come proseguo di determinate sezioni, già stabilite, nelle quali l’uomo viene gettato con tutto il proprio impegno alla decisione e alla possibilità. Però questa possibilità di flettere la necessità della storia, resta immersa in un’atmosfera di attesa illusoria. L’uomo crede di modificare quello che costantemente lo determina, ma la sua azione si limita a una interpretazione del significato. E questo ripiego viene contrabbandato da Jaspers come la vera possibilità, come l’unica via per la libertà.

«L’Esistenza non può senz’altro rivelarsi nell’esserci. Senza la resistenza della materia, essa non potrebbe realizzarsi, allo stesso modo che un uccello non potrebbe volare in uno spazio vuoto. Essa, senza l’esserci, si lascerebbe consumare nel fuoco del suo fondo. Nel trovarsi vincolata, ha luogo la sua manifestazione storica nel tempo, nella quale ci sono, volta per volta, delle necessità date e acquisite, che non vengono messe in dubbio a ogni istante. Tanto la necessità assoluta delle cose date in senso puramente oggettivo, quanto la libertà senza alcun ostacolo, vengono eliminate e ridotte, nella consapevolezza storica, alla situazione originaria che consiste nell’appoggiarsi sul proprio fondamento, e che viene realizzata da chi è veramente se stesso». (Ib., p. 162).

Queste formulazioni, come è facile vedere, conservano quella caotica artificiosità della metafisica tradizionale, costretta a misurarsi con i problemi insolubili dell’essere e dell’esserci, dell’autofondamento e dell’autocomprensione. Ogni considerazione statica, o di equilibrio che dir si voglia, presuppone un riconoscimento metafisico, da cui riceve attestazione e forma, con la vecchia favola del divenire temporale e del divenire come coscienza. La più trita interpretazione dell’idea dell’assoluto, dall’incenso degli altari al ridicolo di un blasfemo ateismo, è tutta racchiusa in questo concetto, della cui presenzialità l’uomo potrà ben difficilmente liberarsi. Tutta l’opera umana risulta appesantita da questa sorta di intollerabile prigionia, continua minaccia alla produzione e al miglioramento. Eppure in queste estreme trattazioni del negativo come possibilità, ci si aspetterebbe di vedere una luce migliore, sia pure in forma pessimistica, ma decisamente propensa a venire fuori da inutili ripensamenti e ripetizioni. Ma non bisogna farsi illusioni. Il limite di demarcazione e quanto mai incerto. Da un lato la presenzialità fenomenica dell’oggetto, dall’altro la possibilità teorica di presentarsi alla gratuità del nulla: risultato, una situazione limite intravista nebulosamente nel concetto di autofondamento, cioè nell’utilizzazione piena del presupposto necessitante, e nel correlativo capovolgimento della teorica base di possibilità.

Il verbo scegliere è sostituito dal dogma “dovere”. Ma questa sostituzione non viene operata in riferimento a qualche cosa di intrinseco al soggetto decidente, piuttosto trova giustificazione in un adagiarsi supino del soggetto dinanzi al corso ineluttabile delle cose. In un certo modo si assiste, in forma differente, all’aspetto contemplativo della dottrina di Heidegger.

È la perenne veste dell’intellettuale intransigente, costretto a ridimensionare i suoi sogni, davanti alla spaventosa potenza d’azione di un mondo apertamente riconosciuto inadatto alle funzioni che compendia, ma ugualmente accettato e sostenuto.

In Jaspers la strada verso un chiarimento definitivo di questa insostenibile situazione che veniamo indicando, era quella che attraversava il problema del tempo, nella pregnante compresenza dei suoi svariati aspetti, e non nel semplice rivestimento di un fantasma di contenuto dialettico. Il rapporto esistenza-ragione, inteso in termini temporali, sulla scia di un idealismo non sempre chiaro e sempre mal digerito, finisce per impedire definitivamente la proposizione del problema del tempo.

Non ci si può rifiutare di assumere a base del nostro discorso di vita, o per lo meno, per essere più precisi e non prestarci a equivoci, a fondamento di una ricerca filosofica, quindi a fondamento alimentante un’autorizzazione logica, il futuro. Non ci è consentito, come fa Jaspers, disinteressarci del divenire universale, solo perché sappiamo che non può essere conosciuto a fondo. Non possiamo rassegnarci a dire che non è “la sola cosa che conta”. Il nostro compito di esseri nel tempo è quello di pervenire a una conoscenza sistematica di questa approssimazione al divenire. Dobbiamo acquisire una perfetta coscienza di quanto siano determinabili queste impossibilità che si ergono davanti alla conoscenza totale del divenire. Jaspers teme l’incontro con la resa dei conti di una situazione limite. Resta al di qua, nell’arco della parola generica, della valutazione per grandi linee. Egli ha bisogno di sentirsi sicuro, circondato da basi salde e da schemi universalmente comprovati dalla esperienza sociale. Quello che in Kierkegaard era lotta e dissidio, diventa in lui borghese rappacificazione, compromesso senza gloria, e ancora più logorante e terribile, perché operato in seno al terreno, fertilissimo, della possibilità negativa. È caratteristica la sua posizione favorevole alla Chiesa, ed è altrettanto caratteristica la sua difesa, spudoratamente indifferente alla impossibilità dell’assunto, della libertà che dalla Chiesa promana.

L’altra faccia della medaglia, la costruibilità dell’avvenire, giace gravemente impacciata da queste premesse assurde e contraddittorie. Guardando al presente, anche non tenendo conto della impossibilità pratica di attuare un’oggettivazione positiva partendo dai presupposti nichilisti di un Heidegger, senza possedere la fede in qualche cosa che deve venire, ma che al momento attuale non è ancora, come abbiamo visto in Nietzsche, guardando al presente, dicevo, l’essere sfugge al raccordo del tempo, svuotandosi di ogni significato. D’altro canto se ci limitiamo a una considerazione della temporalità, in termini di rifiuto della ricerca, cioè in forma passiva o abitudinaria, cessa il rapporto coscienza-essere-divenire, per cadere nell’idea meramente meccanica del tempo.

Proprio nel pieno riconoscimento di questo particolare significato del tempo, Jaspers avrebbe potuto liberarsi da questa presenzialità assoluta che lo costringe a aggirarsi infagottato nelle vesti disadorne del borghese. Il fondamentale egoismo di una simile impostazione, non può trovare in se stesso che ragione di assurdità e di noia. L’indifferenza si avvicina al tempo, attraverso la lente della rinuncia, staccando gli eventi dalla personalità creatrice, fornendo una errata interpretazione e sostenendo una emancipazione che solo apparentemente si libra netta e assoluta, ma che solo a pochi sprovveduti riesce a nascondere il fondamento instabile e irto di pericoli. La possibilità perde il suo potere liberatorio restando imprigionata dalla fittizia oggettività di un semplice presupposto teorico, trasformatosi da pura supposizione logica in manifestazione evidente e tangibile.

A questo punto si è sufficientemente certi della consistenza del tentativo di Jaspers: un ramo abortito, una deviazione abbozzata appena, e non del tutto completata della vicenda multiformemente assurda dell’assoluto.

Resta da chiedersi: può modificarsi questo involucro necessitante che coatta tutte le iniziative di impulso, in una organicità, sia pure fino a un certo punto, capace di condurre a una libertà tangibile, anche in un non sempre chiaro fondamento logico? Il filosofo è costretto a rispondere negativamente, e Jaspers da filosolo non ha altra soluzione che mistificare l’essenza dell’esserci con l’affermare la possibilità impossibile del suicidio. L’apertura è a portata di mano, ma la si vuole raggiungere in un colpo solo, senza pagare il dazio d’entrata, senza accettare limitazioni e compromessi. Questo è possibile solo in quel vacuo regno metafisico, che tanti sogni ha creduto di trasformare in realtà. Per avvicinarsi all’apertura della libertà occorre accorgersi dell’indeterminazione, prospettarsi un esame di coscienza capace di valutare nella loro essenza oggettiva le imbarcate idealiste, entrare con umiltà in rapporto di compromesso con l’oggetività che ci accusa continuamente di non comprenderla e che sfida con la propria presenzialità i nostri sforzi. E allora non occorre servirsi del suicidio che come esempio tra gli esempi, e non come unica soluzione limite possibile.

Jaspers propone una duplice via. La prima è fondata sulla conseguenza logica dettata dalla sua stessa impostazione filosofica generale: il suicida non ha via di scampo, non può portarsi all’estremo limite della situazione di libertà, per poi tornare indietro. La sua è una strada segnata. Fin quando non vede quell’orizzonte sconosciuto, non ha realizzato l’autofondamento del proprio esserci, egli naviga ancora al largo, in situazioni preconcludenti, che possono assumere aspetti diversi, se diversi risultano i piani di impostazione psicologica. Solo quando raggiunge la situazione limite, la sua scelta assume il crisma dell’autocostitutivita, e quindi diventa necessaria.

L’altra strada è quella della realtà, nell’appassionante ritmo della sua presenzialità. «Chi vive assolutamente come un solitario, mentre le persone che gli sono più vicine nella sfera dello esserci gli fanno comprendere chiaramente che esse vivono in altri mondi, mentre gli è negata ogni attuazione di se stesso e non può più raggiungere in se stesso la piena integrità della propria coscienza personale, e vede ch’egli va a perdersi, allora se può si toglie la vita senza aria di sfida e di dispetto, ma con tutta calma e dopo matura riflessione, dopo che ha regolato e messo in ordine tutte le sue cose, bisogna forse dire ch’egli possa farlo, come se egli si votasse come una vittima, al sacrificio? Suicidio diventa per lui l’ultima libertà della vita. In tale suicidio si scorge un pieno affidamento, la sincerità e la fede vengono salvate, non c’è persona viva che ne venga danneggiata, nessun vincolo di affetto nella comunicazione con altre persone viene troncato, nessun tradimento viene perpetrato. Egli si trova sulla soglia dell’impossibilità di attuarsi. E nessuno ci perde nulla». (Ib., p. 222). Il pezzo che abbiamo riportato è stupefacente, tanto da permetterci di notare che, nella sua unità, potrebbe essere stato scritto in qualsiasi tempo e luogo, e da qualsiasi altro autore di cose umane – forse escludendo soltanto la penultima proposizione visto che si mantiene completamente aliena da quelle stesse formulazioni che, poche pagine più avanti, accompagnano questo problema del suicidio. Ma sarebbe ingenuo imputare quella discordanza alla difettosa formulazione di un pensiero unitario. La realtà è che Jaspers si sperde, in questo punto, come altrove, tra interpretazione esistenziale e interpretazione umana, facendo risaltare ancora di più l’impossibilità, per una teoria dell’assoluto, di dare conto della multiforme varietà della vita. L’evidenza di un tale assunto, unitamente al carattere esemplificativo delle nostre considerazioni, ci consigliano di non soffermarci oltre sull’argomento.

Ci basta avere puntualizzato la sostanziale equivalenza di possibilità e impossibilità. Siamo in pieno clima romantico, malgrado la forma esteriore e i continui riferimenti a una realtà che persiste nel non combinare con la premessa teorica, promettendo soltanto di uscire a respirare aria più pura.

Sartre

E l’atmosfera necessitante che abbiamo visto in Heidegger e in Jaspers, possiamo trovarla nella filosofia di Sartre. Partendo da posizioni fenomenologiche Sartre ha inteso aprirsi la strada a un esistenzialismo cosciente del principio di autodeterminazione della libertà intesa in termini di possibilità. Ma questo processo, per altro scarsamente consistente in vastità di analisi, se si toglie Essere e nulla e L’esistenzialismo è un umanesimo, presenta solo l’urgenza di giungere a uno scopo prestabilito, più che la cosciente consapevolezza di operare in un terreno difficile, e quindi necessitante di continue riprove parziali, sui singoli problemi via via affioranti, più che di una dirittura unilaterale e, perciò stesso, non sempre attuabile. Da questa situazione di fatto, sorgono importanti implicazioni filosofiche, per cui possiamo dire che la costruzione definitiva, o quanto meno approssimativamente definitiva, non si è ancora concretizzata. Fortissima l’influenza fenomenologica, tanto che alcuni lo hanno considerato ancora immobile sulle mosse di partenza. Anche a noi sembra determinante quella fase iniziale, anche se non possiamo disconoscere una certa dissoluzione dei presupposti nel proseguo della sua dottrina.

In linea con quanto è stato detto prima, terremo presente questa fase iniziale, e le opere letterarie, piuttosto che gli scritti esistenzialisti, su cui esiste una di già troppo vasta letteratura.

Il concetto di coscienza inteso in termini di presenzialità dell’essere a se stesso, è costruito da Sartre su di una strutturazione delle diverse modificazioni possibili della psiche. La coscienza, vista in questo orizzonte, manifesta una pienezza totale e una profonda inadattabilità all’emersione fenomenica, per cui non è difficile ridurla al semplice vuoto. In altri termini la coscienza non è mai autocoscienza, perché manca nel proprio costituirsi, di quell’ontologica ammissione alla trascendenza interiore. Anche qui l’ubriacatura metafisica incanala testardamente lo sviluppo filosofico verso l’unica soluzione della necessità. Sia questa una soluzione negativa o positiva non ha soverchia importanza, basta affermare l’esistenza di una forza superiore che coordina il tutto. Lo sforzo di Heidegger di fondare una metafisica positiva, viene capovolto da Sartre nel fondamento di una metafisica negativa. Il fatto stesso che l’essere venga posto in contrasto con l’in sé, è la prova tradizionale più sostanziosa addotta da Sartre, in uno con l’appiattimento della eccezionalità e della personalità, a dimostrazione della non esistenza in sé. Ora questa tesi, sebbene sostenuta in forma diversa, non si allontana eccessivamente dalle impostazioni iniziali. Intravediamo appena una consapevolezza: il tentativo di una ontologia non può prolungarsi a lungo, come il gioco del superamento dell’esistenza nella negazione, esso presuppone un circolo chiuso che ricusa il concetto di libertà e di costruzione. Difatti il simbolo della libertà sartriana è una catena. Una dura condanna a uno stato di cose, fondamentalmente scelto da me, e che forma l’orizzonte concluso della mia esistenza. Ora, come si vede, queste formulazioni non presentano un grande interesse, come del resto l’intera filosofia sartriana non potrà essere valutata, nel futuro, al di là di una caratteristica d’urto e di contingenza.

Eppure due motivi valgono una discussione.

Il primo riguarda l’impostazione differenziale che Sartre appronta tra immagine e oggetto. «[...] la carne dell’oggetto non è la stessa nell’immagine e nella percezione. Intendo per “carne” la struttura intima. Gli autori classici ci presentano l’immagine come una percezione meno vivida, meno chiara, ma affatto simile alle altre nella sua carne. Sappiamo ora che è un errore. L’oggetto della percezione è costituito da una molteplicità infinita di determinazioni: quelle precisamente di cui abbiamo coscienza. Tali determinazioni possono, d’altronde, rimanere senza rapporti fra loro, se noi non abbiamo coscienza che implichino tali rapporti. Di qui, nell’oggetto della immagine, una discontinuità nel più profondo della sua natura, qualcosa di sconnesso, delle qualità che tendono verso l’esistenza e si fermano a mezza strada, una povertà essenziale». (Immagine e coscienza, tr. it., Torino 1960, p. 32). Il passo che precede ci mette a parte di una non ben digerita valutazione delle nostre possibilità di determinazione. Porre una differenza tra oggetto e immagine sul piano della maggiore o minore approssimazione determinante, significa spostare il problema, dal piano ragionativo a quello tautologico. Difatti, come è possibile notare, Sartre giunge ad ammettere che questi rapporti “determinanti” possono non essere coscienza, cioè possono annebbiarsi man mano, fino a arrivare al punto di non riuscire a manifestare la loro presenzialità, fino a fare arrestare il processo esistenzializzante della realtà.

Il secondo motivo interessante in Sartre è quello che riguarda la posizione assunta nello scritto L’existentialisme est un humanisme, Paris 1946, nei confronti della religione. Egli stabilisce gli estremi di un ateismo filosofico proveniente dall’abolizione di Dio, in antitesi alla daità di una essenza compresente al di là della fenomenica esistenza. Certo così facendo si risvegliano tutti quegli istinti molesti che fanno dell’etica il campo minato dei tabù della storia. Ogni concetto di apriorità deve cessare di esistere, perché manca l’essenza che solo può reggerlo una volta scartata l’ipotesi di una esistenza che lo attualizzi. L’uomo è costretto a vivere giorno per giorno, ogni grandiosità scompare per dare accesso alla malinconica opacità di una perenne inventiva incapace di inventare. Nessun indirizzo, nessuna direttiva, nessun presentimento. Eppure lo stesso una necessità di fede nell’azione, una ricusa dell’abbraccio alla ineluttabilità dell’amorfo, un impegno dell’uomo per l’uomo. Evidentemente queste premesse sono molto sature di svolgimenti prolifici. Partire da una base pulita di ogni concetto irrazionale di religiosità è da considerarsi un vantaggio filosofico. E Sartre è un uomo da non sprecare un simile punto di appoggio. Eppure se il filosofo si aspetta grandi cose dallo sviluppo di questi concetti, il meccanismo del sistema lavora, a sua insaputa, a impedirgli il compimento naturale di questi sviluppi. L’infinito getta una luce trasversale, non direttamente assimilabile, ma perniciosa. L’ateismo di Sartre è un tentativo di fondare l’infinito sull’umano, non dimentico degli ideali e delle illusioni romantiche. Data l’incondizionatezza della libertà e l’assoluta compresenza della scelta fondamentale, l’uomo è libero di tentare di essere Dio, e in questo vede rovinare tutte le possibilità di apertura a un ateismo costruttivo, inteso in termini di chiarificazione dei vecchi postulati scolastici, non più validi in una atmosfera pregna di nuove certezze. L’ateismo di Sartre manca il segno per un difetto speculativo di impostazione, ma il numero di problemi che coinvolge, la disistima – a volte intima ed efficace – che opera della società moderna, i rilievi acuti che propone, lo rendono degno di attenzione e di studio.

Abbagnano

L’opera di Abbagnano costituisce l’ultima valida metamorfosi dell’esistenzialismo, e la sola a prospettarsi come filosofia del costruibile. Ultima non in ordine di tempo, ma in ordine logico, perché si può intendere come compresenza e superamento delle maggiormente note correnti tedesche e francesi. È la filosofia dei benpensanti, tipica derivazione del pensiero del possibile positivo, unilaterale nella sua decisione di ricercare a tutti i costi un puntello – anche immaginario – capace di rendere conto della realtà delle cose. “Se il cuore (dice Abbagnano nello scritto incluso da Sciacca in Filosofi italiani contemporanei, Como 1946), ha ragioni che la ragione non comprende, si tratta di trovare una ragione che faccia valere come sue le ragioni del cuore”. Ecco, pertanto, il progetto di costruzione di una metafisica, che trovi in se stessa autorizzazione e senso logico. Quindi l’interpretazione in senso raziocinante del concetto astratto di pensiero, liberato dal paradigma stagnante della tradizione: ragione, intelletto, coscienza, o altro. E, in controsenso, la puntualizzazione di una pura logicità, come unica strada all’intendimento dell’uomo concreto, colto nei momenti della sua vita umana, e non astratto in sfere inattaccabili ai bisogni e alle necessità tipiche della sua natura. Ma questo ambizioso progetto non è nuovo alle delusioni. Da cui risulta evidente la necessità di apertura verso una ontologia dell’esistenza. Da questo punto inizia la vera e propria speculazione esistenziale di Abbagnano, riassunta in brevi ma efficaci parole nella prefazione all’Introduzione all’esistenzialismo, Torino 1957, pp. 8-9. «Queste posizioni [dell’esistenzialismo] non possono essere che tre perché non possono che ricavarsi dalla natura stessa dell’esistenza in quanto rapporto con l’essere. La determinazione di quelle tre posizioni rende immediatamente possibile il loro confronto valutativo e soprattutto l’esame comparativo delle loro capacità costruttrici. Un esistenzialismo che non voglia risolversi a essere la negazione dell’esistenza, non può che far leva sul rapporto con l’essere in cui l’esistenza consiste, e definire perciò l’esistenza autentica come consolidamento di tale rapporto. Il consolidamento del rapporto porta al riconoscimento e alla fondazione della possibilità del rapporto stesso (possibilità trascendentale), e si ritrova così il nucleo sostanziale e originario dell’esistenza che è nello stesso tempo la sua norma costitutiva. Con ciò le determinazioni esistenziali escono dall’indifferenza valutativa alla quale le riducono le impostazioni negative dell’esistenzialismo e si stabiliscono nella loro gerarchia ai fini del costituirsi di una esistenza autentica, cioè della possibilità offerta all’uomo di realizzarsi come unità propria in un mondo ordinato e in una comunità che gli offra garanzia di solidarietà e comprensione».

Da quanto precede risulta sufficientemente chiara la impostazione data da Abbagnano dell’esistenza in termini di progettualità col rapporto con l’essere. Egli ha inteso staccare l’esistenza da un rapporto con qualche cosa che è al di là e con qualche cosa che è prima, proponendola per il conferimento di una sicurezza positiva, lontana dalle arrischiate formulazioni negative. In tal modo l’esistenza viene trasferita in termini di problematicità, cioè di sostanza indeterminata, in un campo reso adatto dal consolidamento stesso del rapporto con l’essere, inteso in termini di norma valida interiormente e esternamente, come criterio del valore. Il compito dell’uomo sembrerebbe, allora, un cercare di mantenersi in equilibrio, fondandosi consapevolmente sulla indeterminazione problematica, mentre il compito della filosofia sarebbe quello di evitare le soluzioni possibili verso il nulla e verso l’essere. Solo la possibilità positiva è l’aspetto concreto della realtà, in contrappunto con la tradizionale interpretazione necessitante. Ma come sorge il concetto di possibilità positiva? Abbagnano parte dalla considerazione della realtà come possibilità. L’uomo non è l’animale necessitante che la tradizione filosofica ci continua a ammannire, egli è problema, rischio, instabilità, incertezza. Considerazione veramente fondamentale, fatta senza secondi fini, con animo fermo e sguardo sicuro. Punto di partenza di indiscutibile valore produttivo, perché alieno da quell’irrazionalismo distruttivo tipico dell’esistenzialismo francese e tedesco. Il fatto, poi, che a questo punto di partenza Abbagnano sia pervenuto per una strada da noi non condivisa, non turba a nostro avviso, il valore intrinseco della sua formulazione.

Purtroppo le concretizzazioni di questo principio non potevano essere aliene da quelle caratteristiche di indirizzo generale, di una filosofia che non ha potuto rendersi conto della nascita di nuovi valori. Tutte le possibilità, in forza della loro compresenza, manifestano una totale uguaglianza di valore: un orizzonte amorfo che si schiera prospetticamente all’uomo. Eppure l’uomo non si abbandona al flusso uniforme delle possibilità, vive, e vivendo, impone la sua volontà, la sua scelta, il suo giudizio, alle possibilità. La spiegazione di come avvenga questa modificazione attiva è la chiave di volta del sistema filosofico di Abbagnano. «Una possibilità esistenziale può avere i carattere più diversi, ma il carattere proprio e fondamentale è indubbiamente quello che fa di essa una possibilità autentica. Una possibilità che si presenti coi colori più smaglianti, ma che, una volta decisa e fatta propria da un uomo, gli si dissolva o capovolga tra le mani, sottraendogli o negandogli proprio quello che gli prometteva, non è una possibilità autentica, perché è una impossibilità invece che una volta scelta e decisa si consolidi nel suo essere di possibilità, sicché renda di nuovo e sempre possibile la sua propria scelta e decisione, è una possibilità autentica, una possibilità vera e propria. Una simile possibilità si ripresenta immediatamente di fronte a chi l’ha scelta con un carattere di normatività che rende obbligatoria la scelta. La possibilità della possibilità è il criterio e la norma di ogni possibilità. Si può indicare la possibilità della possibilità col nome di possibilità trascendentale, la possibilità trascendentale è allora ciò che giustifica e fonda ogni concreto atteggiamento umano, ogni scelta e decisione. Una scelta infatti non si giustifica perché è stata fatta, ma perché e ancora possibile farla». (Esistenzialismo positivo, Torino 1948, p. 37).

Questa mirabile costruzione ha tutte le autorizzazioni logiche per l’acquisizione di una validità di procedimento all’infinito. Abbagnano ha iniziato a lavorare in quello stesso campo in cui Kant ci aveva avvertito del pericolo di costruzione. E difatti il palazzo non regge dalle fondamenta. Che cosa ci dicono questi concetti, dottrinariamente concatenati in una prosecuzione che la logica tradizionale ci dice esatti? Possono mai tradurci il disincantato mondo della realtà? O, piuttosto, sono destinati a crollare al minimo vento che provenga da terra? È stato tenuto presente l’uomo concreto, oppure ci si è riferiti a un “ente” filosofico, che solo in veste di transizione accetta di impersonare malamente l’uomo? Sembrerebbe che il professore abbia preso la mano al filosofo, che non è difficile rilevare pieno di acume e di umanità. Che cosa è mai questa possibilità dai “colori smaglianti” che una volta “decisa e fatta propria da un uomo”, “gli si dissolva o capovolga tra le mani”? Tutte le possibilità manifestano questa peculiarità e non vedo motivo perché si debba dare per “dato” il concetto di una possibilità che faccia eccezione. Quale sarebbe stata la sorte di questi concetti portati sul concreto di una esemplificazione fenomenica? Non è il caso di entrare in questioni del genere, ma non è difficile comprendere lo stesso come questo causerebbe il completo disintegrarsi del bel castello in aria. Perché il prospettare all’uomo una possibilità costruttiva, fondata sul concreto della realtà, riservandosi l’azione della sublimazione del pensiero, è una cosa, e cercare di mistificare questa dura realtà, con un processo logico che reputi possibile travalicare oltre questa durezza, ridotta al rango di “dato”, cioè di fondamento positivo, è ben altra cosa.

La nuova fisica

È proprio nel campo degli studi fisici che si concentrano gli sforzi ampi e disarticolati dell’irrazionalismo. La vecchia scienza ottocentesca, pur mantenendosi valida nei mezzi, china il capo nell’assegnazione dei fini.

È proprio qui che la logica dello sviluppo delle forze speculative che vennero a abbattere il determinismo, diventa estremamente palese. Max Planck distrugge per sempre l’idea vecchissima che la natura non procede per salti, Einstein trasforma in relativi il tempo e lo spazio che avevano assunto sempre l’aspetto di grandezze immobili, Ernest Rutherford, Niels Bohr dividono l’indivisibile, e infine, Heisenberg codifica l’indeterminazione. Si tratta di uno sviluppo entusiasmante e rapidissimo, favorito dall’incentrarsi a Gottinga di un numero notevolmente alto di “cervelli” attirati in quella Università dall’insegnamento di luminari come Felix Klein, David Hilbert, e più tardi Max Born e James Franck.

La fisica di quegli anni, la cosiddetta nuova fisica, quelle intuizioni geniali che oggi ci sembrano tanto familiari, è la scienza che più di ogni altra si avvicina ad alcune formulazioni filosofiche. Si potrebbe dire che Einstein fu il primo a tradurre in formule alcuni concetti filosofici, e a sbalordire il mondo, per le modificazioni che questi ultimi, nella loro nuova veste sistematica, causavano nei vecchi schemi deterministi.

Ma quello che riveste maggiore importanza, dal nostro punto di vista, è il principio fisico dell’indeterminazione.

Esso parte da una critica del principio classico della causalità, che viene riconosciuto disadatto a giustificare un esatto svolgimento delle manifestazioni della natura. Questa scoperta (che si potrebbe in un certo senso attribuire a Boltzmann, per avere trovato che il secondo principio della termodinamica è dato da leggi statistiche), ha avuto riconferma matematica, quando si pose in relazione la pretesa regolarità degli eventi macroscopici con l’effettiva irregolarità degli eventi microscopici. Da ciò un primo ridimensionamento del principio di causalità. La natura è retta da leggi particolari che possono venire delucidate mediante analisi sempre più approfondite dei fenomeni, analisi che permettono man mano che si avanza nei gradi di approssimazione, di ridurre le probabilità di errore a entità trascurabili.

Ovviamente questo non era ancora il principio di indeterminazione, però era sufficiente per fare cadere il concetto a priori della causalità, patrimonio indiscusso della fisica e della filosofia precedenti. Da questo punto, e grazie a osservazioni condotte sugli esperimenti della teoria cinetica dei gas, Heisenberg arriva alla formulazione del suo principio di indeterminazione.

La causalità era caduta nel momento in cui ci si accorse che i valori simultanei dei parametri non determinano in modo esatto i valori delle grandezze che da esse dipendono, considerando pure i valori degli stessi parametri in momenti successivi. Nelle leggi della fisica classica, era possibile una costruzione di catene di cause, perché queste ultime si disponevano nella direzione del tempo, infatti le leggi della fisica classica sono tutte leggi longitudinali al tempo, come a dire che enunciano rapporti tra grandezze in istanti differenti.

Ci serviremo adesso delle stesse parole di uno dei maggiori studiosi di questo problema, Hans Reichenbach, parole che ci sembrano ancora più chiare di quelle dello stesso Heisenberg, cosa che non deve stupire se si tiene conto della indiscutibile preparazione filosofica di Reichenbach, in aggiunta alla sua preparazione fisico-matematica. «[...] è anche possibile ammettere la esistenza di leggi trasversali rispetto al tempo, ossia di leggi che stabiliscono una correlazione diretta fra i valori simultanei di grandezze fisiche, senza che tale correlazione possa venire ricondotta agli effetti di cause comuni. Ed è proprio una legge trasversale di questo tipo che Heisenberg ha posto con la sua relazione di incertezza. Questa legge trasversale assume la forma di una limitazione di misurabilità. Essa stabilisce che i valori contemporanei dei parametri indipendenti non possono venir misurati con esattezza tanto grande quanto vogliamo. Possiamo solo misurare una metà di tutti i parametri con il grado voluto di precisione, mentre l’altra metà deve restare parzialmente indeterminata. Troviamo qui un accoppiamento dei valori contemporaneamente misurabili tale che una maggiore esattezza della determinazione di una metà di essi, comporta una minore esattezza nella determinazione dell’altra metà, e viceversa. [...] Questa legge trasversale conduce a una speciale formulazione della critica della causalità. Se i valori dei parametri indipendenti sono conosciuti in modo inesatto, non possiamo aspettarci di essere in grado di fare delle previsioni rigorose circa le osservazioni future. Per queste osservazioni possiamo dunque stabilire soltanto delle leggi statistiche. L’opinione che “dietro” queste leggi statistiche esistano delle leggi causali, che determinino esattamente i risultati delle osservazioni future, è destinata in tal modo a rimanere un’affermazione non verificabile, la sua verifica è esclusa da una legge fisica: la legge trasversale ora menzionata». (I fondamenti filosofici della meccanica quantistica, tr. it., Torino 1954, pp. 22-23).

Da quel momento è diventata necessaria una rivalutazione non solo della filosofia, ma della scienza. Infatti, da un punto di vista metodologico non è possibile porre distinzione di sorta tra queste due attività di ricerca. Il determinismo viene combattuto sia come formulazione di una costituente di sostanzialità necessaria, sia come teoria meccanicistica della natura.

È caro agli studiosi di questo argomento il vezzo di non distaccarsi dagli esempi tratti dalla fisica dei quanti, rilegando in una zona possibile ma oscura l’eventualità di una estensione della teoria fisica dell’indeterminazione, alla generalità del campo filosofico. A questo stato di cose rimangono legati anche studiosi di scienze sociali e filosofi stessi. Tanto per fare un esempio, l’economista Demaria, nei suoi scritti di logica, accenna alla possibilità di utilizzare la teoria di Heisenberg in economia, ma non va al di là del classico esempio delle particelle influenzate dallo stesso atto di osservare. E su questo stesso tono si potrebbe discutere di psicologia, filosofia, storia, ecc.

Il motivo fondamentale che ha impedito il formarsi di una interpretazione indeterminista della logica sociale, filosofica, ecc. è dato dalla riluttanza filosofica a servirsi di un prodotto speculativo non ortodosso, definito e posto in atto da una scienza che non ha ancora ricevuto l’investitura classica a agire nel campo speculativo: la fisica. A questo preconcetto che, pure nella sua apparente banalità, deve lo stesso darci modo di porre mente all’annoso problema della collaborazione fra scienza e filosofia, si aggiunge la mancanza di una vera teoria filosofica dell’indeterminazione.

Princìpi essenziali di logica

Il metodo come strumento e come struttura

Il metodo è l’organizzazione dei mezzi logici che una scienza possiede e che viene via via perfezionando per rendere possibile la sua attività di ricerca.

Si tratta di uno strumento indispensabile e, nello stesso tempo, di un fondamento necessario a ogni processo mentale che non intenda cadere nel vago e nel gratuito.

Nel lavorare attorno al metodo, nella sua accezione di strumento, lo studioso compie un’astrazione che lo conduce direttamente nel regno della logica, nell’affrontare un problema specifico deve tenere presente fondamentali princìpi metodologici i quali diventano sostanza dello svolgersi del ragionamento, ne costituiscono cioè la struttura.

È naturale quindi che esaminando lo studio condotto su di un determinato problema particolare si possano ricavare i princìpi metodologici seguiti dall’autore e, viceversa, tenendo presente le regole dettate da uno studioso di metodologia si possa correttamente condurre a buon fine l’esame di un problema concreto e determinato. Nel primo caso dalla struttura si ricaverà lo strumento, nel secondo sarà lo strumento che, nel momento stesso della sua utilizzazione, prenderà la forma di struttura.

In altri termini appare chiara la necessaria presenza dello strumento metodologico per pervenire a risultati scientificamente validi. Purtroppo, in molti casi, la scelta dello strumento non viene fatta coscientemente, cioè esaminando le diverse possibilità di impiego dello stesso mezzo logico oppure la possibilità di scegliere tra mezzi logici diversi. In questo campo, anche tra studiosi agguerriti, sono ben pochi quelli che hanno le idee chiare. Il problema della scelta non si pone, i mezzi vengono impiegati via via che si presentano alla mente dello studioso seguendo una struttura sillogistica disarticolata e eclettica.

L’unità della logica

I rapporti tra filosofia e singole scienze possono assumere aspetti assai diversi, ma è sul campo logico che i termini del problema comune della collaborazione e del mutuo soccorso si capovolgono. Quando una scienza particolare, come a esempio il diritto, l’economia, la matematica, la fisica, ecc., indaga intorno al proprio strumento di ricerca, compie un lavoro di logica, allo stesso modo in cui lo compie la filosofia quando restringe il proprio orizzonte a quello della logica, e non a titolo minore o superiore.

Ci sembra sufficientemente provato, e non è questo il luogo per discutere del fallimento delle pretese metafisiche della filosofia, che tra tutte le scienze esiste una parità metodologica. Se qualcuna di esse si trova più avvantaggiata per motivi particolari, come è accaduto in altri tempi per la meccanica e come accade oggi [1960] con la fisica quantistica, oppure si trova a essere avvantaggiata per motivi intrinseci di struttura, come accade per la matematica, ciò non deve autorizzare a credere a una loro supremazia, quali depositarie della verità.

Il concetto di problema

Comune l’idea che per problema si debba intendere una situazione di dubbio intorno a qualche cosa accompagnata da una necessaria prospettabilità di soluzione. Da un lato si avrebbe quindi l’incertezza temporanea circoscritta in un numero più o meno esteso di relazioni con altre entità note, dalle quali, in base a una legge logica indiscutibile – di regola la legge della causalità – si dovrebbe derivare la soluzione. È un poco la teoria crociana della compresenza di problema e soluzione, comodo superamento di una intrinseca problematicità del pensiero, che ci è dato trovare in tanti modi di intendere il concetto di problema.

Il problema non può intendersi come una situazione di fatto, legata più o meno gratuitamente a un’altra situazione di fatto, avendosi nella prima la proposizione del problema e nella seconda la soluzione, il problema è un modo di essere, di disporsi alla conoscenza, di concretizzare l’intrinseca problematicità del pensiero. L’assurdo della proposta crociana appare evidente quando si ponga mente al fatto che non si può giungere a una formulazione esauriente dei dati. Infatti nella tesi crociana questa formulazione completa è data come presupposto necessario alla possibilità della compresenza della soluzione.

Quello che ci preme affermare in questa sede è l’impossibilità materiale di giungere a una simile concezione del significato di problema. Anche se in sede strettamente filosofica l’interpretazione potrebbe avere dei punti di validità, proprio in forza di determinate concezioni di partenza che personalmente non condividiamo, in sede pratica, sia in campo sociale che fisico, non risulta applicabile. Non ha molta importanza affermare, come è stato fatto, che una simile impostazione finirebbe per negare la problematicità del pensiero umano nel momento stesso della soluzione, avendosi quest’ultima solo nell’assenza del pensiero stesso. Infatti essendo il pensiero eminentemente problematico la soluzione dovrebbe essere non pensata o, il che non fa grande differenza, trovandosi a essere nello stesso momento della proposizione del problema, sarebbe il problema stesso a non essere problematico e quindi pensato.

Più importante ci pare invece la sostanziale impossibilità di giungere a una formulazione completa dei dati, il che può considerarsi una delle conquiste più notevoli che la riflessione delle scienze fisiche ha raggiunto in questi ultimi decenni.

Quindi non possiamo ammettere la compresenzialità della soluzione nel momento della proposizione del problema, né possiamo ammetterla come conseguente, come diretta risultante dello sforzo di ricerca e di lavoro, altrimenti tutta la scienza si ridurrebbe a un inutile brancolare nel buio. In verità anche su questa necessità, che ci appare come indiscutibile, si potrebbe parlare a lungo, infatti molti dubbi si possono avanzare sulla effettiva sostanza di verità che alcuni princìpi scientifici hanno, o se, all’opposto, non sono simboli di un buio che continuiamo a scambiare per certezza luminosa, comunque in questa sede ci importa stabilire il rapporto che passa tra proposizione del problema e soluzione.

La prima fase assume caratteristiche strutturali. Essa può prendere dimensioni quanto mai diverse, quantitativamente e qualitativamente, può andare da una immediata intuizione del problema, che può raggiungere intensità qualitative elevate ma che quantitativamente si mantiene di regola a un livello rudimentale, per giungere a un vero e proprio processo all’infinito nella raccolta dei dati utilizzabili alla proposizione del problema. Infatti anche se i dati conosciuti sono limitati niente ci impedisce di pensare a una futura scoperta di ulteriori dati utilizzabili e così via, senza limiti. È ovvio che questa strada conduce direttamente nei vuoti meandri dell’erudizione e della ricerca settoriale. Infatti quello che qualitativamente si aveva nell’immediatamente intuitivo può perdersi – e molte volte in pratica si perde – nella ricerca erudita, la quale rimane lettera morta fino a quando un ulteriore sforzo di compendio e di sintesi non riporti al giusto livello l’intensità qualitativa, utilizzando un certo numero dei dati ottenuti.

Questa utilizzazione costituisce la seconda fase la quale assume aspetti valutativi. Senza questa fase il pensiero si ridurrebbe al semplice atto passivo dell’apprendimento di qualche dato, invece esso è sforzo, insoddisfazione continua, problematicità. La soluzione che è possibile separare per fini esclusivamente di carattere tecnico, è un momento non precisamente determinabile di questa seconda fase, momento in cui la valutazione della scelta di dati disponibili a seguito della fase strutturale è più soddisfacente della valutazione della scelta di dati disponibili al momento di dare inizio alla proposizione del problema.

Riassumendo abbiamo un concetto di problematicità che si può intendere come il modo d’essere del pensiero. Poi abbiamo da un lato il lavoro di ricerca che dispone i vari dati in un certo ordine tecnico che li rende utilizzabili, in questa continuità di lavoro il problema trova la sua proposizione e la sua soluzione le quali non costituiscono rispettivamente l’inizio e la fine di un problema specifico – se non in via del tutto particolare, cioè dal punto di vista delle tecniche operative – ma possono costituire l’inizio di un nuovo problema e nello stesso tempo la soluzione di un problema precedente.

La rispondenza logica

Esistono leggi che assicurano la validità logica del processo ragionativo.

La prima è quella detta comunemente (ed erroneamente) di non-contraddizione. Si può individuare una contraddizione oggettiva, tipica della fase strutturale inerente alla proposizione di un problema. Il più delle volte si tratta di contraddizioni relative a qualità fondamentali degli elementi logici che costituiscono il dato. A esempio, conoscendo la duttilità e l’ottima coniabilità dell’oro e dell’argento, affermare il contrario costituirebbe una contraddizione oggettiva. Esiste ancora una contraddizione valutativa in cui il contrasto si manifesta nel corso del processo di scelta, tra una scelta attuale e una scelta operata in passato.

Occorre tenere presente che questa regola non può porsi come assoluta in termini di verità logica. Io posso benissimo contraddirmi e dire la verità, anzi contraddirmi proprio per dire la verità (o quello che reputo costituisca la verità), niente potrebbe distruggere questa possibilità di modificare quello che si è detto. L’accusato che alla fine del lungo interrogatorio confessa non si potrà certo imputare anche di contraddizione, così come lo scienziato che denuncia i suoi errori valutativi del passato e cerca di porvi rimedio. Il canone logico costituito dal principio di non-contraddizione è utile nella prassi e nella teoria, come canone organizzativo del discorso. Infatti la contraddizione, sia oggettiva perché viene a porsi immediatamente in evidenza, sia valutativa perché finisce per rendere invalido il proseguo del ragionamento, quando si trova nello stesso contesto discorsivo costituisce un grave ostacolo alla rispondenza logica. Chi pretendesse di fare valere il principio ora esaminato come misura della verità e non come semplice canone organizzativo, finirebbe per cadere nell’illusione in cui ci sembra caduta tanta parte del neopositivismo contemporaneo.

La seconda è la legge della coerenza intrinseca dell’intero processo ragionativo. Mentre la legge della non-contraddizione si riferiva ai singoli momenti di questo processo, la legge della coerenza intrinseca si riferisce al processo nel suo insieme. È ovvio come un ragionamento possa essere esente da contraddizioni e, nello stesso tempo, restare privo di coerenza intrinseca. A esempio, se noi esaminiamo il fenomeno della circolazione monetaria il nostro procedere deve evitare, per quanto possibile, le contraddizioni nell’organizzazione dei dati che ci servono per dare senso alla descrizione del fenomeno. Ma questa perfetta discriminazione dei dati, questa continua operazione di scelta deve essere condotta in piena aderenza all’oggetto del fenomeno reale della circolazione della moneta, così come in effetti esso avviene. Se questa aderenza viene meno, s’incomincia una costruzione nel regno dell’illusorio che ha tutto l’aspetto di una costruzione logica (cioè manca di contraddizioni) ma è, nello stesso tempo, priva di coerenza.

È facile capire come questa coerenza intrinseca sia ottenuta senza sforzo quando l’oggetto “reale” della nostra ricerca è appartenente al mondo dell’immediata intuizione, purtroppo una volta che ci si allontana da questo mondo elementare ci si addentra sempre più in un mondo strutturale che, come abbiamo visto, può essere affrontato solo attraverso problemi conoscitivi, nei quali diventa più difficile mantenere in atto il principio della coerenza intrinseca.

Nemmeno questa seconda legge della rispondenza logica ci può dare una misura della verità. Infatti la richiamata necessità di aderire alla “realtà” non mette in chiaro il modo di potere giungere a una valutazione di questa realtà. Sul piano della coerenza logica la perfetta aderenza alla realtà viene raggiunta indipendentemente da un riscontro della veridicità di quest’ultima. Sostanzialmente si può mantenere la stessa coerenza logica trattando di un fenomeno che non ha riscontro nella realtà come di un fenomeno effettivamente esistente. Nella scienza economica, a esempio, i fenomeni di mercato possono essere studiati attraverso una impostazione matematica la quale presuppone esistente una “realtà” che in effetti non esiste, comunque l’intrinseca coerenza dello svolgimento matematico dell’indagine non può venire meno se non si vuole negare, in modo assoluto, valore a questa forma di interpretazione dei fenomeni. Si tratterà di una coerenza che si traduce in una perfetta aderenza alla realtà della costruzione ideale, da prendersi come misura limite di ben altre realtà, effettivamente riscontrabili in pratica.

La terza legge della rispondenza logica è la legge dialettica. Come abbiamo visto tenendo presente le norme della non-contraddizione si può assicurare una sufficiente validità organizzativa al processo ragionativo, una corrispondenza tra le singole sezioni che lo compongono: si tratta quindi di una identità, la quale trova poi riconferma nella legge più ampia della coerenza. Con la legge dialettica si riafferma la necessità di tenere conto dell’altro, cioè di tutto ciò che restava escluso nell’applicazione rigorosa del principio di identità. È facile capire l’importanza di una simile legge pensando al problema del tempo. La struttura della staticità del presente, diventa impensabile se non si contrappone al passato e al futuro.

Anche in questo caso non si può dire di possedere uno strumento indicatore della verità, ciò che si possiede è più modesto, ma lo stesso di grande validità. Come non è possibile pensare un oggetto fuori dello spazio o un evento fuori del tempo, così non è possibile, nella logica, pensare un oggetto o un evento fuori di un nesso possibile con altri oggetti e altri eventi. In definitiva questi nessi possibili sono i fatti della logica, e sono fatti dialettici. Che poi a volte l’applicazione in forma dialettica di alcune risoluzioni organizzative possa dare sostegno a dubbi e ripensamenti, come di fatto accade nelle scienze del comportamento sociale, ciò non toglie che le relazioni possibili siano valutabili in forma dialettica.

Il grande insegnamento della legge dialettica è dunque la “struttura” della forma, come esistere, cioè come venire fuori, verso la conoscenza dell’“altro”. In questo tragitto non può accadere nulla di accidentale, si tratta di un vero percorso obbligato, eppure non “vero”, almeno nel senso che la logica dell’identità ama dare a questo termine. Ed è proprio nell’obbligatorietà di questo tragitto che aveva trovato sostegno la tesi del “dominio universale” della dialettica, per cui sembrava logico supporre che la strada per la “verità” assumesse il ritmo del principio dialettico. Niente di più errato.

Il problema della conoscenza

Conoscere è essenzialmente un modo di disporsi del pensiero nei confronti della realtà. Si tratta quindi di una relazione che può andare dalla semplice sovrapposizione del pensiero alla realtà, alla interpretazione, alla inferenza, alla divagazione idealista.

È naturale che il primo stadio, quello del semplice adagiarsi sulla realtà, riproducendone i contorni e la sostanza, non può soddisfarci. La misura segreta di autolegittimazione all’impiego di questo procedimento è nascosta nella pretesa che la realtà, nella necessaria limitatezza della nostra osservazione, sia tutta la realtà e non solo, ma che sia tutta la verità.

In pratica le cose non stanno così. La realtà deve avere una sua consistenza, la qual cosa potrebbe non interessarmi direttamente, invece ciò che mi conforta nel fatto che la realtà ha veramente una consistenza è l’altro principio che la realtà deve essere in una zona dello spazio. Ma da questa iniziale base di partenza non si può giungere a una verifica pura e semplice della sovrapposizione. Un oggetto non può non avere un certo peso, un suono una certa intensità, ecc., ma da ciò alla misura di quel peso o all’altezza di quel suono, la percentuale di certezza subisce una notevole riduzione.

Se ben si considera questa sovrapposizione del pensiero alla realtà si pone sempre come una interpretazione della realtà. La soggettività interviene anche nelle esperienze fisiche che si trovano a fondamento delle cosiddette “scienze esatte”. Per principio in queste scienze non si ammettono risultati che non siano dovuti a esperienze riproducibili, quindi a esperienze che pongono una verità assoluta, non condizionata alla personalità dell’esecutore. Ciò, in un certo senso, è vero. In pratica ha poca importanza che l’esperienza venga riprodotta da una persona o da un’altra, in un momento diverso del tempo o in un diverso luogo, il risultato deve essere identico. Ma la soggettività era intervenuta prima, nel determinare il numero di interessi che hanno dettato la ricerca che, a sua volta, ha condotto all’esperienza finale, che viene dichiarata indiscutibile. Su questo argomento si sono fermati fisici di grande fama come Heisenberg e Schödinger.

Si tratta quindi della maggiore o minore consapevolezza di determinati problemi che si pone a fondamento dell’inizio di una ricerca: l’esperienza sarà la parte finale di quella ricerca ma condurrà, inevitabilmente, con sé l’originaria impronta soggettiva.

L’interpretazione è un modello della realtà, e in questo non si pone a grande distanza dall’esperienza sensibile o scientifica, come si è detto. Gli oggetti e i fatti corrispondono agli elementi dell’interpretazione, sono questi ultimi a trovarsi in una data relazione tra di loro, relazione che può avere un dato riscontro – più o meno preciso – con gli oggetti e i fatti, i quali trovano, in questo modo, rappresentazione nell’interpretazione. Da canto suo l’interpretazione costituisce un fatto, quando che sia utilizzabile per mezzo di rappresentazione, come elemento in una ulteriore interpretazione.

La forma che l’interpretazione viene ad assumere è data dalla maggiore o minore possibilità che i fatti e gli oggetti siano nella stessa relazione degli elementi dell’interpretazione stessa, è questo il perché l’interpretazione si dispone in una data relazione con la realtà, costituendone un mezzo di misura del valore.

È naturale che questa strutturazione del processo conoscitivo possa sperdersi in una concezione trascendentale della conoscenza. L’insoddisfazione dell’interpretazione empirica della realtà ha condotto in passato a considerare la conoscenza scientifica come un primo stadio di conoscenza al di là del quale è possibile procedere, a mezzo della ragione, per giungere a una conoscenza intellettuale più ampia e veritiera, quasi esistesse un diaframma, da superarsi appunto a mezzo della riflessione, tra le cose come appaiono e come sono effettivamente.

Ma in questo modo si vengono a sopravvalutare le relazioni che intercorrono tra oggetti e fatti e l’interpretazione di questi oggetti e di questi fatti. Limitandosi, invece, a dedurre dalle nozioni acquisite con l’osservazione, conseguenze su fatti e oggetti non osservabili, si attua un tipo particolare di interpretazione che prende il nome di inferenza.

L’idea di ordine

Un’idea, ovviamente inadeguata, della scienza e del compito che da essa ci si aspetta, è quella di ordinare le esperienze sensibili e i concetti relativi, allo scopo di poterne ricavare un’organizzata classificazione da cui procedere a intuizioni sempre più ampie. In questo modo l’idea di ordine viene a essere considerata qualcosa come il metodo interno della scienza, riducendo il significato del termine “metodo” alla sola accezione strumentale.

È naturale che il lavoro cronachistico, di classificazione, di archivio, ha il grande merito di risultare utile alla scienza, ma non si può considerare scienza esso stesso, come non possono considerarsi argomentazioni, poniamo, di scienza economica le varie decine (o centinaia) di definizioni di “economia” che alcuni studiosi si sono affaticati a mettere insieme.

L’idea di ordine è stata un notevole prodotto della mentalità scientifica del XVIlI secolo, infatti è di quell’epoca la classificazione di Linneo che può considerarsi come una delle più durature.

Il punto della questione è proprio qui. Non ha tanta importanza perdersi in faccende speculative di chiaro sapore dialettico, come ha fatto poniamo Calogero, per dimostrare l’intrinseca vacuità del concetto di ordine, quando può dirsi, assai più semplicemente, che ogni ordinazione di concetti e di esperienze sensibili, è valida fino al momento in cui non se ne ottiene un’altra che risponde meglio allo scopo.

Ogni altra considerazione che dell’ordine facciano gli studiosi finisce per ritorcersi contro gli sviluppi stessi della scienza in cui la classificazione si trova a operare. Ciò è accaduto, a esempio, per le idee degli epicurei sugli atomi, circa duemila anni fa, come per le ricerche condotte in economia dalla “scuola storica” nell’Ottocento.

Il principio di causa ed effetto

Si tratta del vecchio metodo di Newton, per la precisione quello dei meccanismi e delle previsioni concepibili con grande esattezza. Quello stesso metodo che valse a gonfiare d’orgoglio gli scienziati vittoriani grazie ai quali esso venne utilizzato come principio coordinatore dei differenti campi della conoscenza. L’origine era sempre la formulazione dettata da Newton delle leggi che reggono la forza di gravitazione.

Questo principio di causa e effetto regge il discorso di Darwin, rendendo accettabile a tutti la teoria dell’evoluzione che, vecchia di quasi un secolo, minacciava di sciogliersi nel nulla senza una giustificazione intrinseca che la ricollegasse al generale convincimento per le formulazioni newtoniane: la giustificazione venne col meccanismo evolutivo. Lo stesso accadde in economia a opera di Smith e in molte altre scienze.

Laplace si limita a estendere il presupposto di Newton, limitato alla meccanica celeste, al complesso totale degli atomi, dei quali se fosse possibile conoscere posizione e velocità, si riuscirebbe a prevedere esattamente il destino dell’universo.

Tutte le critiche che furono mosse alla superba affermazione di Laplace si fondarono sulla concreta impossibilità di giungere a una conoscenza attuale di tale vastità e precisione da consentire lo sviluppo di quelle serie di equazioni capaci di darci, come risultato definitivo, il futuro del mondo. Infatti si pose in rilievo il fatto che non sempre il rapporto quantità-qualità resta costante e che spesso un mutamento di quantità si traduce in un mutamento, sia pure nello stesso senso, di qualità. Ma tutto ciò poteva venire contraddetto dal semplice presupposto laplaciano, il quale pretendeva la conoscenza delle posizioni e delle velocità, in un dato istante, di tutti gli atomi dell’universo, conoscenza che avrebbe senz’altro potuto prevedere anche queste brusche variazioni di rapporto.

Nessuna critica, invece, al fondamentale concetto di partenza: quello fondato sul principio di causa e effetto. La grande autorità di Newton, autenticata dai sempre più ampi consensi riscossi da quel grande meccanismo di precisione in cui si era tradotta la meccanica degli astri, rendeva assai improbabile la possibilità di attaccare in questo modo il positivismo scientifico.

Eppure oggi il fantastico castello della precisione e della prevedibilità del comportamento dei corpi celesti è crollato miseramente, davanti all’evidente fenomeno che Mercurio rallentava sensibilmente la sua corsa non si è trovato nessun altro pianeta da scoprire, capace di spiegare, con l’attrazione esercitata dalla sua presenza, quel ritardo. Il grande successo scientifico della previsione dell’esistenza del pianeta Nettuno, effettuata solo in base all’irregolarità del comportamento di Urano, non si è ripetuto.

È naturale che questo venire meno delle leggi di gravitazione universale, sostituite assai più appropriatamente dalla teoria di Einstein, non può consentire un perdurare delle leggi di causalità nelle altre scienze, dove restavano intoccabili grazie a quel prestigio adesso scomparso.

Il principio di incertezza

Il modello di Einstein è sempre un modello causale, fondandosi su di una teoria meccanica. Tra l’altro Einstein fu uno dei pochi fisici “moderni” che rimasero legati al principio di causalità. Ma quello che è più importante è il fatto che Einstein rilevò l’astrazione su cui si fondava il concetto newtoniano di tempo e di spazio. Infatti nella premessa alla legge di gravitazione universale quei dati erano in senso assoluto, mentre in pratica dovendo confrontare il tempo in due differenti luoghi bisogna collegare tra di loro questi luoghi con un segnale, il quale impiega un certo tempo per giungere a destinazione, venendo così a rendere impossibile la misurazione di un “ora” in due posti diversi. In altri termini si avrebbe soltanto un tempo in relazione a un dato luogo, cioè una stretta interdipendenza tra tempo e spazio.

Ma da un altro lato, e in gran parte a opera dello stesso Einstein, si era giunti alla scoperta dei quanti, entità minuscole di materia, di grandezza definita. Alle soglie del nuovo secolo Planck aveva dettato i termini della formulazione quantistica della energia come materia.

Per quasi venti anni si cercò di fare entrare a viva forza gli eventi fisici relativi a questo meraviglioso mondo del minuscolo, negli schemi tradizionali della fisica, finché ci si accorse che gli sforzi erano inutili. Era il 1927, l’anno della formulazione del principio di incertezza o di indeterminazione o di Heisenberg.

Il grande insegnamento – almeno in termini strettamente fisici – che si riceve da questo principio è che il futuro non è prevedibile. Di ogni particella possiamo conoscere sempre più approfonditamente o la sua posizione o la sua velocità, mai tutte e due le cose. Ogni tentativo di aumentare le conoscenze relative alla sua posizione si traduce in una diminuzione delle notizie pertinenti alla velocità e viceversa. In questo modo, anche dando per scontata l’assurda pretesa di Laplace, il futuro dell’universo diventa una grande incognita.

Le leggi probabilistiche

Le leggi causali si reggevano su di una affermazione categorica, non suscettibile di modificazione a seguito del prevalere, in una più o meno ampia misura, del preesistente margine di incertezza. Così la legge di “equilibrio parziale del consumatore”, secondo la quale il soggetto economico tende sempre a acquistare di una merce tante dosi finché il suo prezzo di domanda si adegui al prezzo vigente nel mercato, così la legge dell’irreversibilità o secondo principio della termodinamica, sebbene sia proprio da qui che si è aperta una delle strade più importanti che conducono alla riformulazione delle leggi causali in leggi statistiche.

Infatti non è assolutamente necessario che immergendo un cubo di ghiaccio in un bicchiere d’acqua, l’acqua si raffreddi e il ghiaccio si sciolga. Il cubo non è alla temperatura assoluta dello zero ma contiene un certo calore che potrebbe benissimo passare nell’acqua, aumentandone la temperatura e facendo abbassare la temperatura del cubo di ghiaccio. Ciò in pratica non avviene e, per quanto si possa aumentare il numero delle prove, non sono poi tante le probabilità che avvenga, ma in linea di principio non si può escludere. Seguendo la spiegazione che Boltzmann dette del calore di un corpo e osservando che esso dipende dalla maggiore o minore velocità delle molecole, se ne ricava che venendo a contatto due corpi con differenti temperature, vengono a contatto due corpi con moti molecolari differenti, per cui si ha una vera e propria commistione, fino a arrivare a un moto uniforme. Una vera e propria mescolanza non dissimile da quanto avviene nelle prove statistiche di un fenomeno o, assai più semplicemente, nel mescolare un mazzo di carte.

Certo che una legge enunciante un evento che si verifica sempre, date certe premesse, è molto più rassicurante di una legge che detta una certa percentuale su di un certo numero di casi. Una legge che fissa il verificarsi dell’evento A sei volte su dieci lascia molto perplessi – in quanto non sappiamo se l’evento A si verificherà la prossima volta, ma conosciamo soltanto la percentuale di probabilità che si verifichi.

Lasciando da parte, per il momento, il contenuto di verità di una legge causale o probalistica, è importante il fatto che quest’ultima contiene un altro tipo di limitazione, che la rende addirittura inutilizzabile se non tenuta presente. Il numero degli esperimenti deve essere ragionevolmente grande. Ma come si può stabilire la grandezza di un numero se a un qualsiasi numero, per quanto grande, può essere fatto seguire un numero ancora più grande? Come si può stabilire il punto in cui il totale degli esperimenti condotti può rendere significativo il rapporto statistico ottenuto? È quasi certo che se ci limitiamo a poche serie di dieci prove la probabilità che l’evento A si presenti si discosterà dalla percentuale di sei su dieci. Ma portando le serie a qualche centinaio si dovrebbe notare un ravvicinarsi al rapporto predetto in quanto, se questo ravvicinamento non si osserva, si può senz’altro concludere che il rapporto è sbagliato. Naturalmente questa conclusione può essere rafforzata se portando a qualche migliaio le serie di dieci prove il risultato non presenta raccostamenti notevoli al rapporto iniziale. Inversamente il rapporto statistico verrà confermato, e la legge dichiarata vera e utilizzabile se, aumentando ragionevolmente le serie delle prove, il rapporto iniziale si dimostrerà effettivo.

La giusta valutazione della tendenza probabile

Giunti alla conclusione che oggi, più che di rapporti di cause e di effetti, si deve parlare di interdipendenza tra le variazioni di due fenomeni, bisogna intendersi sugli scopi che vuole raggiungere una legge probalista.

L’iniziale orientamento statistico denuncia una uniformità venutasi a determinare col crescere del numero delle prove. Siamo di fronte a una tendenza probabile che, sebbene in linea di principio, non rifiuta che possa essere, da un momento all’altro, negata in pieno. L’aria presenta un miscuglio di particelle di ossigeno e di azoto disposte in una composizione valutabile statisticamente, ma ciò non toglie la possibilità che possano anche disporsi tutte le particelle di ossigeno da una parte e quelle di azoto dall’altra. Si tratta di una probabilità molto difficile ad attuarsi, ma non da potersi escludere in modo assoluto. Allo stesso modo può darsi che un mazzo di carte mescolate presenti distribuiti in ordine progressivo i quattro semi, si tratta sempre di una probabilità difficilissima ma non da potersi escludere a priori.

La determinazione della tendenza probabile di un fenomeno, da cui si ricava la legge probalista, è da effettuarsi eliminando, per quanto possibile, le fluttuazioni marginali. Non si tratta di studiare una causa e di stabilire che al ripresentarsi di quella causa l’effetto diventa inevitabile, ma di tracciare un modello di comportamento degli eventi della natura.

Certo stabilire la tendenza probabile di una corrente di gas sottoposta a una certa pressione è molto più facile che stabilire la tendenza probabile di una società. Però non ci sono fondati motivi per fare credere, oggi, che il procedimento probalistico impiegato nel primo caso non possa dare ottimi frutti anche nel secondo.

Al cospetto di grandi problemi, come il futuro della storia, non si può non rimanere per un attimo interdetti, abituati come siamo a discutere di libero arbitrio e di determinismo. Ma la volontà e la costruzione possono agire solo dentro limiti marginali che non spostano la progressione generale, di cui può rendersi nota la configurazione con un notevole grado di certezza statistica.

Famoso un esempio di valutazione errata della tendenza probabile. Marx nei suoi attacchi contro il regime capitalista aveva affermato che l’andamento dei profitti e della ricchezza avveniva simultaneamente a una diminuzione dei redditi della classe operaia. Questa tendenza era stata dedotta da Marx da alcune affermazioni non molto chiare di Gladstone, dal numero dei morti per inedia in Inghilterra durante la depressione economica e dai dati ufficiali riguardanti, però, un dato periodo di tempo e non rapportati a movimenti in un proseguo di tempo.

Una misura più esatta, condotta da alcuni statistici tedeschi (cfr. G. Lasorsa, Schemi di metodologia statistica, Napoli 1961, p. 18-19) porta ad accertare che in base ai dati risultati da rilevazioni dirette all’accertamento dei redditi per l’applicazione delle imposte generali, con l’incremento dei redditi anche i piccoli crescevano. Non tenendo conto invece delle possibili divergenze causate dai piccoli redditieri che, per aumento del proprio reddito erano passati nella classe di redditieri più alta, si aveva un apparente diminuire del reddito della classe più bassa.

Altri esempi famosi e ancora più paradossali sono: il tentativo di Lagrange di calcolare il consumo alimentare di una nazione, partendo da una sola persona (a esempio, un soldato), il tentativo di Necker di abolire i censimenti in quanto si poteva calcolare il numero degli abitanti partendo da quello dei nati in un anno, il tentativo di Lavoisier di calcolare l’estensione delle terre dal numero degli aratri.

Si tratta di errori di valutazione che possono fare scaturire dati solo apparentemente significativi per sviluppare delle tendenze probabili che hanno tutta l’apparenza di leggi statistiche ma che non sono che prodotti di un errore di principio.

La misurazione

Non tutti i fenomeni sono direttamente misurabili. Di regola i caratteri quantitativi lo sono, quelli qualitativi possono ridursi in forma misurabile ma presentano maggiore difficoltà.

I metodi quantitativi sotto stati anche applicati nelle scienze sociali che, meno di tutte, si prestano a misurazioni. Adolphe Quetelet ha indagato quantitativamente la demografia, Léon Walras l’economia. Altri hanno portato scienze come la sociologia e la biologia da un primo stato qualitativo, fondato su astrazioni volute dalla logica, a un secondo stato quantitativo, fondato su misurazioni dirette dalla matematica.

Ma questa strada non è priva di difficoltà. L’impiego della misurazione nelle scienze morali non deve fare gridare al miracolo. Anche quando ci sembra di essere in grado di potere studiare un fenomeno sotto una modalità quantitativa, cioè quando ci sembra di avere operato una netta scissione tra qualità del carattere (parte qualitativa) e intensità del carattere (parte quantitativa) ci dobbiamo rendere conto che buona parte della scissione è avvenuta per un nostro arbitrio. Infatti le modalità qualitative di un carattere non sono mai esprimibili nel discreto. I numeri naturali sono estranei alla qualità, questa si presenta sempre sotto l’aspetto del continuo da cui la necessità di operare delle frazioni discrete che non possono essere attuate che con un notevole intervento arbitrario, a esempio quale è il limite al quale i capelli di un individuo sono castani e non più biondi?

Per rendere accettabile la misurazione si può costruire una scala astratta di intensità, di regola crescente, facendo in modo che alle qualità così disposte si sostituiscano i numeri di una progressione aritmetica.

È ovvio che trattandosi di un procedimento legato a un arbitrio di partenza, la tendenza probabile risulti offuscata da una zona più o meno ampia di fluttuazione irregolare. Quanto più piccola è quest’area di incertezza, tanto maggiormente avallata sarà la tendenza probabile.

Veniamo, adesso, alla misurazione di quantità, o di qualità ridotta alla forma valutabile quantitativamente.

Siano da determinarsi a e b. Sappiamo, in base a quello che abbiamo detto finora, che questa determinazione non è possibile se non in forma probalista. A tale scopo è necessario impiegare delle distribuzioni di probabilità:

d (a) e d (b)

con le quali sappiamo quale è la probabilità che per ogni valore a o b si verifichi proprio il valore stesso.

Trattandosi di due funzioni coordinate tra loro la probabilità risultante da tali funzioni non è mai un valore esatto a o b, ma un intervallo da o db, per cui diventa necessario ricorrere alle espressioni

d (a) da e d (b) db

per ottenere una esatta rappresentazione della probabilità, in quanto le due precedenti funzioni rappresentavano soltanto una densità di probabilità.

L’enunciazione più completa ci appare quindi:

d (a) da e d (b) db

dove gli integrali indicano la probabilità di trovare un valore di a tra a1 e a2, oppure un valore di b tra b1 e b2.

Le distribuzioni di probabilità possono ottenersi tramite delle misure. Intendendo per misure non un solo intervento sull’oggetto, che non potrebbe ridursi che a una fallace impressione superficiale, ma una serie di rilevazioni, possibilmente di tipo diverso, sempre però ripetibili nello stesso sistema fisico. Ogni fascio di misure viene quindi a descrivere una curva che presenta la caratteristica forma gaussiana.

L’ipotesi fondamentale della fisica classica era che questa curva potesse assumere una maggiore o minore rigidità a seconda della maggiore o minore precisione nella misurazione. Da cui si aveva la conseguenza che rendendo più rigida possibile la curva esponenziale si otteneva una misura “precisa”.

Oggi, specialmente a seguito delle ricerche condotte dalla meccanica quantistica, sappiamo che l’assunto della fisica classica non è vero, o per lo meno non è vero nella forma assolutizzante in cui è stato espresso. La misura di a, da cui una prima curva gaussiana d (a), non può postularsi come indipendente dalla seconda curva gaussiana d (b). A tal proposito esiste la legge di indeterminazione, la quale si pone come legge trasversale-temporale, che indica la limitazione di misurabilità.

In conseguenza di quanto abbiamo fin qui esposto, possiamo indicare questa legge di indeterminazione derivando entrambe le due curve d (a) e d (b), in un dato istante t, da una stessa funzione f (a). Da questa derivata si osserva che esiste una certa connessione tra le forme delle due curve originarie tale che, derivando in funzione di a la curva d (a) risulterà molto ripida mentre l’altra apparirà molto appiattita, e viceversa.

In altri termini ciò significa che non si può procedere indipendentemente a misurare a e b, in quanto ogni sforzo diretto a ottenere con sempre maggiore approssimazione a riduce la precisione di misura accordabile a b.

La logica a tre valori

È naturale che la logica ordinaria a due valori non può adeguarsi a giustificare fenomeni di imprecisione o di “sospensione di giudizio”. Occorre risolvere il caso di un valore di verità intermedio, tra vero e falso, come appunto potrebbe essere il valore indeterminato. Da tenere presente che questo terzo valore non deve confondersi con la semplice affermazione di non conoscenza, come si trova anche nella tradizionale logica a due valori.

L’esempio classico che si propone, nel campo macrocosmico, è il seguente: Tizio afferma che gettando un dado uscirà sei, mentre Caio afferma che gettando lui il dado uscirà due. Tizio getta il dato e esce quattro. In questo modo l’affermazione di Tizio si è rivelata falsa ma quella di Caio non si può definire parimenti falsa in quanto egli non ha gettato il dado al posto di Tizio, non sappiamo infatti se gettando il dado Caio si sarebbe verificata l’uscita del quattro, in quanto questo lancio sarebbe venuto in una situazione del tutto differente. Siamo di fronte a un terzo valore logico.

I limiti della conoscenza

La teoria dell’indeterminazione si presenta dal punto di vista logico come una legge di limitazione alla conoscenza, imponendosi con la sua forza di legge fisica fondamentale. Il fatto che la misurazione perturbi l’oggetto non può eliminarsi, trattandosi di un sussistere di stati di cose, cioè di una componente ineliminabile della realtà.

Come conseguenza alla predetta limitazione si ha che alcune affermazioni riguardanti la misurazione di entità complementari, come appunto i termini di una relazione, si devono tradurre sotto forma di definizioni. È naturale che queste non possono scambiarsi per diretti interventi sulla realtà, ma ricevono lo stesso la loro validità dalla realtà. Se nel futuro risultasse inesistente la “realtà” atomo, non sarebbe un grande male, un’altra entità per definizione prenderebbe il suo posto, però a condizione che soddisfi tutte le esperienze già condotte a termine e qualcuna in più.

Giunti a questo punto non si deve credere che si sia abbandonato il punto fermo della “dura realtà”. Ogni costruzione metafisica che abbiamo sbattuto fuori dalla porta non deve potere rientrare dalla finestra. Tutte queste “entità per definizione” che pullulano il fondo della fisica atomica, come l’atomo, il campo elettrico, l’interno dei corpi solidi, ecc., sono “realtà” anche nel senso tradizionale della parola, proprio perché noi le consideriamo tali, non sono facenti parte di un mondo diverso da quello nostro, di tutti i giorni, non costituiscono una idealità camuffata. Nel caso poi che subiscano delle smentite vengono sostituite da altre “realtà”, sia pure sempre per “definizione” ma parimenti lontane da assurdità metafisiche.

L’indeterminazione filosofica

Al termine della discesa

Un tentativo di bilancio dell’indagine condotta fin qui non può nascondere l’andamento decrescente delle possibilità che si ritenevano a portata dell’uomo. Naturalmente a mitigare questa depressione concorre il fatto che alcune di quelle possibilità non erano altro che semplici illusioni, comunque non ci si può ingannare sul fatto che l’irrazionalismo, colpendo il senso positivo della vita, minaccia di trasportare il rapporto dei valori in una dimensione negativa, altrettanto pericolosa che la trascendentale dimensione positiva.

L’esistenzialismo nullista rappresenta il fallimento della metafisica, come un giorno, ma per un altro verso, l’idealismo di Hegel, seppe rappresentarlo. Ponendo l’uomo alla base del ragionamento filosofico, lo ha caricato di tutte le sue responsabilità, non illudendosi su prospettive facili (da cui la vena di schietto ateismo) ma, nello stesso tempo, facendolo piombare nella tautologia del concetto di libertà (da cui il simbolo della condanna e del cerchio chiuso). La categoria del necessario ha trasformato l’esistenzialismo tedesco in una filosofia dell’equivalenza di tutte le soluzioni, indifferente sia al lato positivo della vita che a quello negativo. Da cui non possiamo prendere una posizione logica di interpretazione sul compito dell’uomo. Abbiamo una totalità che non può essere totalità, e un concetto del nulla che minaccia di tramortire l’essere, non riuscendo a farlo manifestare nel pieno delle sue estrinsecazioni. In questo modo si è tolta sostanza alla speculazione filosofica, perché la si è voluta astrarre dalla vita concreta, dai problemi diretti con la realtà dell’uomo nel mondo, per porla in un grado più elevato, più consono alle alte linee tradizionali del passato. Né la considerazione della quotidiana inautenticità, può darci un’idea di che cosa si possa veramente fare in favore dell’autenticità, oltre che stare lì, come sospesi a mezz’aria, in attesa di uno sforzo decisivo verso un ente che solo nebulosamente si profila all’orizzonte: ora garantito, ora misconosciuto dal nulla. Né la considerazione di una scelta libera nel nulla, può condurci a una esclusione della necessità, come catalizzatore compresente in tutte le scelte: per cui il naufragio non appare che come salvezza e affermazione mentre a noi parla sotto le specie del fallimento gratuito e della rinuncia a priori. Solo Abbagnano si mantiene al di sopra di queste tautologie per presentarsi nell’intatta possibilità di un’esistenza positiva. Le tendenze vengono sospese a mezz’aria, tra la spinta verso un essere che non è essere, perché indifferente e lontano, e il pericoloso richiamo verso un nulla però negato dal positivo della situazione possibile in quanto possibile. Eminente posizione speculativa come ognuno vede, tanto più difficile a mantenersi, quanto più si tiene presente che nella storia delle presenze filosofiche, sempre dal razionale si è passato all’irrazionale, con subitanei sbalzi, e mai con un decrescere che preferisca le posizioni centrali e di equilibrio. Ma questa posizione non ha un significato valido per l’uomo. Abbagnano ha cambiato la terminologia delle sue prime pubblicazioni, in cui parlava di un “ente”, per parlare, adesso, dell’uomo, ma la sostanza non è di molto cambiata. Davanti all’uomo si presentano infinite possibilità di vita, ma non tutte parimenti manifestano lo stesso valore esistenziale, e fin qui possiamo dirci d’accordo con lui, proprio perché anche in sede di constatazione fenomenica, avviene proprio così. Ma tra queste possibilità l’uomo non può operare una scelta autentica, una scelta che tenga presente la possibilità della persistenza della scelta stessa, cioè che lo venga ad autorizzare a una possibilità futura – non ancora presentatasi – di nuovamente scegliere. Questa è semplice utopia, meravigliosa utopia, ma soltanto utopia. Anche volendo scendere nello stesso campo di ragionamento di Abbagnano, e non volendo intavolare un discorso sul sistema che elide l’uomo sicuro di non tentare invano questa ricerca, non possiamo trovarci d’accordo col pensatore italiano: «[...] risulta evidente che non ogni scelta è libera, ma solo quella che include la garanzia della propria possibilità. Se ho deciso liberamente ciò che ho deciso posso incessantemente continuare a deciderlo, perché la mia decisione garantisce se stessa». (Esistenzialismo positivo, op. cit., p. 40). Procedendo in questo modo la scelta della possibilità autentica verrebbe a porre un fine all’indeterminazione problematica dell’esistenza, ascrivendola al passato, in una zona ormai fuori dal rischio e dall’imprevisto. Se io sono nella possibilità di continuare “incessantemente” a decidere, con tutta fiducia nell’avvenire delle mie decisioni, non vedo perché debbo mantenere al mio fianco l’ombra dell’angoscia, e il fantasma dell’incerto. Come se io sono nel timore perenne di un errore, di una modificazione della possibilità, non vedo perché debbo considerare diversa dalle altre future, la possibilità iniziale. Abbagnano dice che «[...] la via della libertà è per l’uomo la più difficile, e l’uomo la imbrocca di solito solo dopo molti tentativi, smarrimenti e errori». (Ib., p. 41). Ma questo significa dare alla libertà il compito di fungere da catalizzatore, se si vuole per via indiretta, o meglio per via positiva, ma sempre in veste di necessità. Con questo procedimento Abbagnano ha proposto il giro del cerchio tautologico prospettato da Sartre. Se per il filosofo francese la libertà è una condanna, per l’italiano la libertà è una necessità, quindi un suicidio della problematicità dell’esistenza, e un annullamento dei valori possibili dell’individuo.

La stabilizzazione

Come si può uscire da un processo che minaccia di protrarsi all’infinito? Come si possono dimostrare inutili e dannosi i ragionamenti che propongono problemi di per se stessi insolubili e lontani dalla realtà? Il modo non è poi tanto difficile. Basta accostare questi processi, questi problemi, alla realtà, se il rapporto sussiste e si mantiene, senza stridori e senza forzature, allora il processo è soltanto apparentemente “all’infinito”, cioè si tratta di un banale errore di impostazione metodologica, quando che sia da eliminarsi, mentre il problema è senz’altro risolvibile mediante una semplice riformulazione dei dati.

In altri termini noi possediamo un metro infallibile per venire a capo di assurdità metafisiche e baloccamenti accademici: la “dura realtà”. La speculazione filosofica può arrogarsi il superbo diritto di dettare i termini di una visione generale, d’ordine intuitivo, con i vari punti dell’insieme legati da un eterno presente. La filosofia può credere di potersi fondare sulla categoria della necessità, può pretendere di spacciare per vero l’assioma che l’essere e il dovere essere coincidono, ma non può superare il rendiconto con la realtà.

L’empirico, il temporale, il contingente costituiscono i limiti di una indagine che cerca di collocare l’uomo in una sfera particolare dalla quale vedere con distacco il mondo e le sue miserie. Infatti sono proprio quelle manifestazioni più terribili della realtà, quelle che una filosofia dell’idealità vuole ignorare e mimetizzare, che sorgono tanto più evidenti quanto più li si vuole respingere.

La realtà è problema, da cui un aspetto problematico della riflessione che si contrappone all’aspetto necessario. Anche l’aspetto necessario non poteva rifiutare il problema stesso del perché pensiamo, cioè la stessa considerazione pensante, ma cercava di collocarlo nell’arco più ampio dell’annullamento di tutti i problemi: la risoluzione del finito nell’infinito. In definitiva si aveva quindi una risoluzione legata alla negazione assoluta della persistenza del problema.

La grande compiutezza di questa interpretazione è soltanto apparente. Non appena ci si accorge dell’incongruenza che sta alla base, tutto minaccia di dissolversi e di cadere in un dualismo tra reale e razionale, tra pensato e pensabile, tra finito e infinito.

Fuori di questa instabile situazione giunge una considerazione che dal pensiero scientifico riprende i temi del riconoscimento della parzialità. In questo modo diventa possibile pervenire a una stabilizzazione della riflessione filosofica.

I fondamenti della realtà

Eliminata la pesante categoria della necessità, si può lavorare alla fondazione problematica della realtà. Questo è importante in quanto, mentre da un lato si utilizzano mezzi di indagine approssimativi, come sono appunto le osservazioni empiriche e le catene di deduzioni oppure le induzioni corroborate dalle osservazioni empiriche, dall’altro si programmano risultati approssimativi, in armonia con la realtà osservata. Invece la precedente posizione filosofica cercava di giungere, usando del solo mezzo disponibile: la fantasia, a indagare zone presupposte esistenti, dando per scontata una certa quale relazionalità al mondo della realtà concreta, da cui la successiva esposizione in termini di linguaggio comune (mezzo di comunicazione che può avere un certo significato solo trattando di qualità, quantità e relazioni o proprietà tipiche della realtà concreta, ma che perde ogni valore comunicativo quando si superano i limiti conoscitivi della predetta realtà) cercante in tutti i modi di giungere a conclusioni “necessarie”.

Perché si parla di una fondazione problematica della realtà? Il fatto che il problema viene a essere considerato come una fase transitoria da superarsi in vista del raggiungimento di una “verità assoluta”, ci può trarre in inganno sul fondamento da dare alla realtà. Come se questa ultima fosse soltanto in una fase transitoriamente problematica, diretta al raggiungimento di una stabilità quando che sia nel tempo. Invece la problematicità è un elemento fondamentale della costituzione della realtà. Un oggetto viene condizionato dal problema che lo riguarda in una prima fase che abbiamo definito strutturale. È ovvio che si tratta di un’apertura condizionante, non di una catalogazione delle soluzioni possibili con in più una scelta fondata sull’esclusione arbitraria. Nella fase strutturale del problema l’oggetto rimane imprecisato, non viene in essere tecnicamente, sebbene sia sufficientemente determinato dal processo filosofico della strutturazione. In una successiva fase, detta da noi valutativa, avviene il compromesso con la strutturazione, rendendo possibile l’utilizzazione concreta dell’oggetto. In stretto rapporto con questa problematica impostazione della realtà si viene a trovare anche il soggetto pensante, sottratto definitivamente al sogno della “ragione assoluta” e affidato alle singole proposte di strutturazione dei diversi oggetti che costituiscono la “realtà” di quel soggetto. Tenendo presente, infine, come la strutturazione della realtà non sia necessariamente un presupposto della sua valutazione ne consegue, escludendo la didattica delle tecniche operative, che la problematicità (insieme strutturazione e valutazione) è un modo d’essere del pensiero.

La filosofia non può, pertanto, identificarsi con la fase problematica della valutazione, come non può risolversi nel crudo significato strutturale. Essa è contemporaneamente struttura e valutazione proprio perché è problema. Ovvio quindi che nella riflessione sul proprio campo d’azione la filosofia diventi problema del problema.

Se la filosofia fosse soltanto valutazione aprirebbe di colpo la strada al necessitante significato dell’infinito, in quanto basterebbe una valutazione soggettiva di quest’ultimo perché, quasi per un miracolo, il finito venga assorbito nell’ampio ventre dell’infinito. Se la filosofia fosse soltanto strutturazione mancherebbe la posizione del soggetto pensante, riducendosi a pura catalogazione di tecniche operative.

I fondamenti della realtà sono i termini propri della finitudine, cioè l’essenza problematica e la parzialità. Infatti la realtà non si scorge subito come finita e parziale se non si tiene presente l’intima essenza problematica, solo dal problema sorge il senso dell’indeterminazione, oltre il quale è inutile spingere gli sforzi.

Questi fondamenti della realtà conducono a una considerazione problematica della conoscenza, non perché si affaccia l’ipotesi limite della non-conoscenza, come ha preteso tanta parte dell’esistenzialismo, ma perché la riducono a conoscenza parziale. Per cui si può considerare parallelo il significato di parzialità e di problematicità.

L’indeterminazione e l’uomo

La caratteristica per cui l’uomo assume particolare evidenza è che può porsi come soggetto pensante, quindi come soggetto finito che ripercorre i termini della sua finitudine, cioè della sua problematicità.

Cercare di fissare limiti esatti alla finitudine umana significa cercare di bloccare la problematicità in un contesto determinato. In un certo senso equivale a dettare il dogma dell’infinito potere della ragione. In effetti l’uomo non è mai un certo tipo, questa tipologia esiste per amore didattico, ma già nel momento che è cristallizzata diventa estranea all’uomo, pura estrinsecazione tecnica della fase strutturale del problema uomo. Vi possono essere fasi problematiche valutative che orientano un dato uomo verso un dato tipo di comportamento, arrivando in questo modo anche a potere dettare, a posteriori, una misurazione quantitativo-qualitativa di quel comportamento, ma ciò non disturba minimamente il concetto iniziale che l’uomo è problematicità.

Nel porsi come soggetto pensante l’uomo manifesta l’intenzione di estrinsecare un interessamento nei riguardi della realtà, quindi in primo luogo nei riguardi della “sua” realtà. È naturale che anche qui intervenga la problematica della finitudine. Inserire l’alternativa dell’esistere e del non esistere, come ha fatto l’esistenzialismo, significa dare corporea realtà a un continuo che resta, nella migliore delle ipotesi, una eventualità probabile ma non riscontrata. Nel rapporto tra soggetto pensante e realtà, l’esistenza del primo è garantita dalla relazionalità alla seconda, si tratta di una esistenza che può sperdersi nella banalità e nel rifiuto, che non può negarsi come effettivamente reale. L’uomo nel riflettere su di se stesso inizia a vivere come uomo, mettendo insieme le varie strutturazioni del suo grande problema, fino alla fase valutativa, oltre la quale altre strutturazioni e altre valutazioni porteranno avanti la problematica della finitudine umana.

Ecco perché l’uomo non può dare importanza particolare all’evento della nascita e della morte, come avviene nella tradizionale impostazione romantica dell’esistenzialismo. La problematicità dell’esistenza è data dal fatto che essa è pensante, cioè si pone in relazione con la realtà, quindi con l’espressione massima della finitudine e della problematicità.

Il problema della mia nascita o della mia morte non può avere senso “reale” per me, quale soggetto pensante, può avere soltanto un senso metafisico ma, evidentemente, non è questo significato che mi interessa. L’inizio della mia vicenda terrena non può essere strutturato, quindi non può porsi come problema, diventa un accadimento estraneo alla mia possibilità di diretta indagine e quindi resta sordo anche alla fase valutativa. La morte può mantenersi come problema di grande importanza metafisica, ma non risulta ammissibile una sua eventuale strutturazione.

La problematicità della finitudine dell’uomo non è fissata dalla nascita e dalla morte, ma solo dalla non determinabile essenza della finitudine stessa. L’esistenzialismo, partendo dalla problematicità dell’esistenza e fondando quest’ultima sul finito, aveva la necessità improrogabile di una possibilità “certa” e ha scelto la morte, da cui le belle pagine di Heidegger, di Abbagnano, di Jaspers, dedicate a questo problema, ma il punto più dubbio, quello su cui debbono incentrarsi gli sforzi degli indagatori, è proprio il concetto di finitudine. È qui, infatti, che dobbiamo espungere, sulla scorta delle più recenti indagini fisiche, il preconcetto di determinatezza. Il fatto è problematico perché indeterminato. Tutto qui. Il resto e vana metafisica.

Libertà e indeterminazione

Fissati i termini del rapporto finito-esistenza, resta da risolvere il grave compito di assegnare completa autorizzazione alla rottura dell’iniziale fase di strutturazione. Come si può giungere a sottrarre al vano arbitrio e alla frettolosa approssimazione quello che invece deve autenticamente restare legato a un compromesso cosciente e, tutto sommato, apportante un netto miglioramento alla situazione problematica di partenza?

La risposta non è facile. Si tratta di studiare il rapporto che passa tra libertà e indeterminazione. Sia nella fase di strutturazione che in quella valutativa il soggetto pensante è libero, per cui si potrebbe ritenere che questa libertà finisca, prima o poi, per causare uno scadimento del processo indagativo. Invece è proprio l’indeterminazione intrinseca alla finitudine del problema studiato che salvaguarda e rende possibile un risultato concreto.

La libertà nell’azione conoscitiva non può confondersi con l’intima struttura indeterminista del reale. La libertà si deve ridurre al suo significato originario di modalità, cioè di punto di partenza di ogni azione diretta ad affrontare un problema. Nella fase strutturale la problematica del finito non può distaccarsi dal canone obbligatorio della razionalità, da cui il significato di libertà ridotto a quello di utilmente conseguibile, cioè di migliore soluzione tra le diverse possibili. Significato lontano da assurdi metafisici e molto approssimato a quello che viene di continuo applicato dalla ricerca scientifica.

A tende a B, A è libero di tendere a B, in questa proposizione il concetto di libertà si presenta allo stato “atomico”, cioè spoglio da qualsiasi ingerenza di carattere pragmatico. Ora ragionando in questo modo si vede che l’essenza di questa libertà ha un suo riposto significato dinamico. Infatti nel dire: A tende a B non si detta un fatto storico, non si traccia il diagramma di una indagine compiuta, ma si puntualizza un fenomeno che diviene, un complesso di rapporti problematici che si concretizzano nel tempo e che dal tempo trovano logicità di espressione. A, nel suo tendere a B, non ha nessuna particolare proprietà che lo differisce da B, questo suo programma di libertà non lo pone in una posizione differente da quella assunta dal punto verso cui dirige le proprie attenzioni. Il fatto di avere davanti un piano di libertà non ha rilievo filosofico se non considerando la posizione di B. Infatti quest’ultimo deve potere ammettere una relazione che potrebbe essere formulata in questo modo: B riceve la tensione di A, B è libero di riceverla.

Quindi abbiamo da un lato un rapporto dinamico soggetto-oggetto, dall’altro abbiamo un rapporto inverso, sempre di natura dinamica, oggetto-soggetto. La libertà non è una costituente di A o di B, si rivela come misura del rapporto, come determinante della tensione che altrimenti sarebbe senza senso, senza significato.

All’atteggiamento del soggetto pensante necessita una direzione, un indirizzo stabilito, un catalizzatore che metta ordine nella stessa problematicità, ma che non concorra, con mosse sbagliate, o con la pretesa di accentrare tutto in se stesso, a cambiare l’indeterminazione in confusione e caos. Questo catalizzatore è la libertà.

La realtà come compromesso

Il fatto che la realtà venga di frequente presentata come ciò che deve per forza esistere, cioè che non può fare a meno di esistere, non significa che la categoria della necessità si ponga come insuperabile. La realtà, come abbiamo visto, è legata essenzialmente al concetto di finito, quindi è problematica, da ciò la relativa concezione del finito come possibilità. Anche questa soluzione presenta delle incongruenze.

Il finito è una possibilità che può permanere oppure dissolversi, ma tutto ciò può accadere senza l’intervento determinante del libero agire dell’uomo. Anzi l’empirismo è giunto più oltre: la realtà si dissolve nel niente, cioè si lascia assorbire dalla sua intrinseca possibilità negativa, se non viene a contatto con le premesse percettive dell’uomo.

Ora, anche non volendo arrivare a questa posizione limite, non possiamo non ammettere che la realtà rappresenta ben poca cosa se non viene posta in relazione all’atto creativo dell’uomo. La problematica della conoscenza con la sua iniziale strutturazione e la finale valutazione è legata a questo fenomeno della appercezione.

Abbiamo quindi una sorta di condizionamento della realtà da parte del soggetto pensante, come se quest’ultimo la facesse rifiorire di volta in volta dall’assurdo mondo delle tenebre e del niente. Certo le cose non stanno propriamente così.

L’azione è un succedersi di compromessi, un venire meno all’originaria tendenza al sogno primordiale della perfezione e della compiutezza che getta le ultime ombre anche nel più aperto riconoscimento della naturale indeterminazione. Questi compromessi possono pure prendere il nome di stati di cose. Ci troviamo, in definitiva, davanti a correlazioni di oggetti, per cui possiamo considerare il compromesso come l’arresto dell’azione diretta a accertare i limiti dell’indagine in vista di assegnare alla cosa una sua particolare peculiarità in forza della quale trova posto nella correlazione e quindi viene ad assumere un suo proprio status. Da quel momento, dall’avvenuto arresto indagativo, dal sorgere del compromesso, l’oggetto resta indissolubilmente legato al suo stato, da cui è possibile iniziare catalogazioni e rapporti scientifici, è possibile accedere al mondo della tecnica.

Ovviamente l’attuarsi del compromesso avviene liberamente, ma qui il significato di libertà resta legato all’iniziale posizione vista prima, costituendo una forma avanzata di strutturazione.

Il mondo come divenire non può confondersi con la realtà. Il mondo è alieno dal compromesso e dalla libertà d’azione. Il mondo è l’insieme di ciò che sta per accadere, che non è ancora accaduto, che resta ancora legato all’originaria indeterminazione. Ecco perché il mondo non è prevedibile, almeno nei limiti segnati dall’altezzosa posizione positivista come è esposta nella proposizione di Laplace.

Il mondo non può essere affrontato e risolto dalla ricerca scientifica, il mondo è la ricerca scientifica, come è qualsiasi altra azione del soggetto pensante diretta a intervenire nelle correlazioni tra le cose.

Il mondo contiene la possibilità di diverse correlazioni, la realtà invece è data dall’emersione dei fatti. Il fatto è sempre semplice, solo l’insieme di più fatti costituisce una complessità, la complessità è sempre problematica perché forma la sostanza della realtà.

La temporalità

La misura del tempo si giustifica nella parzialità del finito e nella sua intima costituente di incertezza. Le filosofie della identità e del necessario sono state sempre filosofie atemporali. Ecco perché sono state anche considerate come filosofie della solitudine, mentre una filosofia che parte da una retta considerazione del tempo deve considerarsi come una filosofia della comunicazione.

La comunicazione è possibile, come le teorie cibernetiche ci hanno provato, solo scendendo a un grado più o meno elevato di imperfezione e di parzialità. Una comunicazione perfetta, anche se immaginabile, non darebbe corso ad alcuna relazione, restando per sempre incomunicabile.

La temporalità è la logica della storia, in quanto presenta le caratteristiche dell’irreversibilità, della novità, della continua emergenza. In questo modo il finito abbandona la sua tradizionale veste di sostanzializzazione. Ogni momento si rivela per quello che intimamente è: una forma relazionabile situata in una strutturazione spazio-tempo.

La materia non presenta più quelle caratteristiche di presenzialità che la rendevano insuperabile all’analisi materialista, essa diventa un campo nel quale l’energia ha situato una determinata relazione.

Il principio che veniva isolato nel passato e che assumeva la posizione di dominante, sia sotto l’aspetto di spirito che sotto quello di materia, quello stesso principio che ha portato alla creazione delle idolatrie religiose, non ha più ragione di esistere.

La forma

Il processo del continuo temporale, pure permanendo nel suo senso dinamico di movimento, pure presentando l’aspetto essenziale del continuo mutamento, dà vita a delle forme. Una forma non può essere che una alterazione del continuo, una unione della permanenza con l’emergenza.

Grazie a questa “forma” ci è possibile la tecnica, ci sono possibili le stesse misurazioni, anche se non è possibile il ripresentarsi di un momento del passato, anche se non è più possibile (o almeno statisticamente altamente improbabile) che la “forma” del passato si presenti nella stessa, identica composizione particellare.

Ma quando si sia accettato il compromesso con questa parzialità, quando il finito si sia veramente compreso con tutti i limiti che lo circondano, le forme possono essere utilizzate.

Pertanto la “forma” non si ripresenta mai nella sua identità, ma la ripetizione delle misurazioni può dare risultati altamente attendibili, perché i gradi di utilizzazione dei valori ottenuti sono contenuti in classi di una certa ampiezza.

La relazione

Come si è detto, in una filosofia della necessità l’intimo isolamento non ammette la relazione. La sostanza finisce per risultare identica a se stessa.

In realtà una nuova posizione filosofica deve cercare di porre delle relazioni tra differenti situazioni spazio-temporali, dando origine a delle esperienze. Queste esperienze abbandonano l’assoluta metaformalità che li legava a un rapporto illusorio di identità per inserirsi in un processo, diventando semplici punti di incontro tra l’emergenza di un futuro non ancora attuato e il trasformarsi di un passato già risolto. Si tratta di veri e propri centri di raccolta delle relazioni o, per usare la nomenclatura già chiarita, si tratta di “forme”.

La relazione contribuisce a determinare la forma ma, nello stesso tempo, mantiene possibile quell’apertura all’indeterminazione che traduce la forma stessa in un elemento relazionabile per la costituzione di un ulteriore centro di raccolta delle relazioni, cioè di una ulteriore forma.

La determinazione della forma è sempre un compromesso non un processo all’infinito che rinnega la scelta e rincorre una determinazione impossibile. Dal compromesso scaturisce la utilizzabilità delle relazioni e quindi delle forme.

Il ritmo della temporalità

Il limite segnato dall’irreversibilità dell’esperienza stabilisce il ritmo della temporalità. Non ci è possibile ritornare sui nostri passi, rivivere un’esperienza negli stessi termini nei quali l’abbiamo vissuta in passato. Ogni tentativo di ripetizione resta alla semplice fase di desiderio. La vita continua a svolgere le sue trame, dando inizio sempre a nuove forme che ben presto scompaiono per lasciare sussistere nuove relazioni e nuove possibilità di forme vitali. Il ritmo della temporalità è segnato da questa continua aspirazione al futuro.

Ma l’uomo ha bisogno del passato. Il suo non è un semplice desiderio, si tratta di una vera necessità. È per questo che disperatamente ricerca una misura, una formula, un simbolo che lo possa ricollegare e che possa fare rivivere quello che per definizione è irripetibile.

Questi simboli sono con maggiore approssimazione toccati dai poeti: Kafka, Proust, Eliot, Joyce, Brecht, scandiscono con chiarezza un ritmo di avvicinamento a una ripetizione che diventa a volte paurosa e maniaca, ma che manifesta nei suoi tempi, nelle sue tensioni, nelle sue pause, una inquietante realtà.

Certo, tentare di esprimere ciò che non può essere espresso, tentare la ripetizione di ciò che non può essere ripetuto, tentare l’evocazione di ciò che non ha presenza, può risultare gratuito, ma la filosofia deve dare conto anche di questi lati del problema apertosi con la distruzione della metafisica dell’identità. In caso contrario correrebbe il rischio di chiudere gli occhi davanti a ciò che, sebbene adesso sotto l’aspetto di fantasma, può di momento in momento trasformarsi in una “dura realtà”.

La vita si mantiene e si giustifica perché può riacquistare forme sempre nuove, svolgendo un processo di consumo e di rigenerazione. La schiacciante presenzialità entropica del consumo riduce le possibilità di giungere a una netta sensazione dell’emergenza per il futuro. Eppure la vita sussiste, l’universo non si dirige verso un gratuito nulla, ma si prospetta una costruibilità e una modificabilità che trovano fondamento nella dimensione del futuro.

La ripetizione di ciò che non può tornare indietro avviene proprio nell’andare avanti, e in questo sta il ritmo essenziale della temporalità.

Il ritmo della forma

Stabilita l’infinita possibilità delle relazioni non si è chiarito il fondamento dell’emersione della forma, considerando questo fondamento come la tecnica del ripetersi, il ritmo della forma.

Per comprendere questa “produzione” della forma bisogna tenere presente il senso della relazione. La natura di una relazione contiene organicamente i termini che la giustificano, in modo che questi senza la relazione non hanno significato (o ne hanno uno molto diverso), mentre il concretarsi della relazione stessa senza di essi diventa impossibile. Ecco perché la relazione non può confondersi con la sostanza, mentre i suoi termini, anche loro, non possono essere ridotti a sostanza.

Ogni termine presenta una sua fisionomia determinata dalla relazione, questa, a sua volta, risulta determinata dai termini che la pongono. Ogni isolamento non ha senso, distrugge la relazione e impedisce il nascere della forma. Tutto risulta legato senza punti di predominio. Tutti gli elementi sono necessari al complesso della relazione e questa è altrettanto necessaria ai singoli elementi.

Da qui la chiara mancanza di una causa. Se uno dei termini venisse assolutizzato, si stabilirebbe un processo di causa ed effetto, all’infinito, senza significato concreto. Ma non bisogna dimenticare che una relazione instaurata tra termini diversi, dovendosi programmare una forma, non si pone come relazione possibile, nell’arco vastissimo di tutte le equivalenze immaginabili, piuttosto abbandona il sogno assolutizzante della sostanza e lavora alla costruzione di relazioni effettive e concrete.

Il ritmo della forma si può considerare, quindi, come lo svilupparsi di una strutturazione di complessi di relazioni. Esso si riassume ulteriormente in un venire meno dell’assoluta libertà delle relazioni, per l’azione di una scelta significativa, operante e disposta a segnare l’ampiezza del passo di ogni singola forma, designandone i vari contorni, stabilendo limitazioni, sacrifici, sconfitte e dolori.

Quello che vogliamo chiarire definitivamente, affinché non emergano equivoci di sorta, è che nella relazione non può operarsi nessun processo di sostanzializzazione, né del termine di partenza e neppure del termine finale di conclusione. Da ciò l’inutilità di tutti i discorsi che si atteggiano a spiegazioni di un principio primo o discutono di un qualsiasi risultato.

Si tratta di un movimento procedente verso il futuro, ritmato dalla legge della irreversibilità, costituente un vero e proprio processo di nascita, sviluppo e metamorfosi. In queste tre fasi non cessano le relazioni tra le forme, relazioni giustificate e rese riscontrabili nel tempo e nello spazio da contorni che non isolano le forme ma le delimitano per renderne possibile il processo direzionale. Infatti è proprio nel persistere di queste delimitazioni, malgrado la sostanziale modificazione delle relazioni di fondo, che si mantiene la persistenza generale delle forme, rendendo possibile il lavoro tecnico di catalogazione e l’automatico sviluppo degli organismi in armonia con le leggi evolutive.

L’indeterminazione filosofica

Una considerazione del mondo, analogamente a una considerazione del rapporto io-realtà, deve fondarsi sull’indeterminazione. Non si tratta di uno stato transitorio, così come viene tanto frequentemente proposto dalle istanze positive dell’esistenzialismo. L’indeterminazione è lo stato definitivo della realtà, l’unico modo possibile in cui può concretizzarsi la strutturazione delle relazioni, l’unica garanzia all’emersione delle forme e alla loro continua metamorfosi.

Il momento creativo dell’azione, quando la forma prende transitoriamente il suo sembiante, quando s’interrompe il processo di trasformazione di una forma precedente per aversi la costituzione di un nuovo gruppo di relazioni, da cui una nuova forma, non può considerarsi una sorta di trascendimento dell’indeterminazione. La forma viene in essere, assume contorni apparentemente definiti, si giustifica come entità utilizzabile tecnicamente, eppure, nonostante tutto questo apparato che invita al determinismo e alla presunzione, in realtà essa non ha superato la fondamentale indeterminazione.

Anche nel campo più vasto assegnato all’azione dell’uomo, quando le scelte diventano numerosissime, il concetto precedente si regge e si giustifica. Esistere non può avere lo stesso significato di superare un imprecisato nulla precedente, anche volendo concordare sul plausibile significato di “venire fuori”, non significa che si voglia intendere: “venire fuori dall’indeterminazione iniziale”.

L’esistere è il punto più delicato dell’indeterminazione, prima dell’esistenza e dopo l’esistenza, il valore potenziale di una serie più o meno ampia di relazioni non è facilmente valutabile in termini di indeterminazione. Ogni indagine statistica in questo senso assume proporzioni grandemente dubitative. Ma intendendo puntualizzare l’esistenza come l’assenza dell’indeterminazione, solo per il fatto che essa è, bisognerebbe chiarire in modo molto più convincente di quanto non sia possibile, in che cosa consiste l’indeterminazione dei momenti in cui l’esistenza non è.

L’indeterminazione non può venire utilizzata come fondamento di se stessa, diventando in tal modo una sorta di principio necessario, senza l’apparato smagliante con cui veniva presentata in passato questa sorta di filosofia della sostanza. L’indeterminazione non è l’essere ma un modo dell’essere, il solo modo con cui l’essere può essere ridotto all’azione della conoscenza. Quando che sia, la finitudine della realtà manifesta una sua propria forza di impenetrabilità alle nostre modeste forze, ciò non toglie che il meccanismo delle forze ci sia noto, ciò non toglie che lo spauracchio del principio di casualità sia stato definitivamente debellato, ciò non toglie che si possa rifiutare con tutta tranquillità ogni sorta di preminenza a qualsiasi termine di qualsiasi relazione, sia esso iniziale o finale, sia essa isolata per amore di studio o strutturata per necessità tecnica.

Vestire, come avviene nell’esistenzialismo positivo, l’indeterminazione dei panni smessi dal principio deterministico, significa rilanciare all’infinito un processo che può avvicinarsi all’effettivo meccanismo della realtà.

L’uomo svolge le trame della sua esistenza secondo la caratteristica della propria natura: l’indeterminazione. Ma questa sua natura appare solo sullo sfondo, il più direttamente immediato. Quello che risulta utilizzabile in maniera da non creare continui problemi di decisione, è fondato su di un apparente determinismo. In effetti il fatto di pensare che il sole sorgerà domani è una ipotesi, in quanto potrebbe benissimo non sorgere affatto, ma l’uomo regola le cose minute della sua vita come se fosse certo del fatto che il sole si delinei all’orizzonte all’alba del giorno dopo. E non vale affermare, almeno in questa sede, che la sua è una certezza scientificamente provata, perché l’esperienza ripetutasi innumerevoli volte che il sole sorge al mattino vuole così, come proverebbe una legge statistica che, come è noto, lascia sempre adito a un margine di ragionevole dubbio.

Nell’osservazione di un oggetto colorato metà in verde e metà in rosso, l’uomo non si pone problemi di carattere particolare, per lui l’oggetto presenta una colorazione nettamente separata. In effetti questa separazione non è netta così come appare, in quanto la linea di stacco viene continuamente assalita dalle molecole del rosso che cercano di sopravanzare quelle del verde e viceversa. Questa vera e propria linea di combattimento non viene rilevata a occhio nudo e a ben poco vale dimostrarla al microscopio, per l’uomo della strada che deve utilizzare l’oggetto bicolore, poniamo per farsene un ventaglio per le giornate afose, il problema è quanto mai peregrino.

L’esistenza dell’uomo affronta però problemi anche più complessi in cui interviene una scelta direzionale. Il bene e il male. Questo eterno dilemma getta una luce sinistra nella storia, avvelena i sogni del credente, turba la coscienza del giusto forse più di quanto non riesca a smuovere quella del cattivo. E l’uomo decide per quello che è il bene. Ma come è possibile determinare questo bene, se non sappiamo nulla intorno alla sua costituzione intrinseca, intorno al suo significato per noi, intorno al suo significato per gli altri? Ciò che e “ bene” per me, in un dato momento, non lo è più in un momento successivo. Ciò che “bene” per me può non esserlo per un altro. Ciò che è “bene” per un italiano non lo è per un giapponese. Ciò che è “bene” per un uomo del 2000 non lo era per un uomo del diciassettesimo secolo. Come fare? Come uscire da questo circolo vizioso?

L’imprecisione e l’incertezza sussistono perché non vi può essere mezzo alcuno per eliminarle. Ogni tentativo di giungere ad approfondire i motivi che giustificano un’azione nel senso del “bene”, si traduce, immancabilmente, nella minore possibilità di approfondire la misura in cui quell’azione può essere considerata come “bene” dagli altri o, in un momento successivo, dallo stesso soggetto di partenza. L’etica viene a essere, quindi, limitata nella precisabilità dei termini della relazione che pone, anche se, e non diversamente da quanto avviene negli altri campi dell’attività e del giudizio, il suo strutturarsi in forma circoscritta può risultare direttamente utilizzabile per il comportamento.

L’atto subiettivo della decisione si fonda su di un semplice riflesso dell’indeterminazione di base, preferendo adagiarsi su di un apparente – e fortemente stratificato – determinismo. È naturale quindi che una presa di coscienza del problema della fondamentale indeterminazione giunga a trasformare tale atto subiettivo, elevandolo al rango di vera e propria decisione, quasi nel senso che a questa parola viene dato dalla corrente esistenzialista, comunque in un senso di gran lunga diverso dal semplice “lasciarsi decidere”, ma ciò non può in nessun modo confondersi con un “trascendimento” dell’indeterminazione stessa, con la realizzazione di una particolare “possibilità” metafisica. L’indeterminazione resta sullo sfondo e, immancabilmente, si ripresenta in ogni occasione che abbiamo di scendere nel perché delle cose, di cercare i motivi e le recondite risonanze, di parlare di valore e di prospettabilità futura, di valutare il passato e le sue testimonianze.

La natura dell’uomo non può essere compresa con un semplice atto di apparente superamento dell’indeterminazione, come la sostanza non poteva dirsi definitivamente giustificata con un semplice gioco di parole.

Sostanza e indeterminazione

La sostanza e l’indeterminazione hanno un rapporto che li lega insieme, inseparabilmente, non essendo possibile discutere della prima in forma assoluta, come non è possibile discutere della seconda senza tenere presente che ciò di cui si parla è sempre la sostanza. Ma ciò che non è possibile è ridurre la seconda alla prima semplicemente sovrapponendole, giustificando la persistenza della prima, nella sua nebulosa cortina di tronfie affermazioni, con la presenza della seconda.

Non vediamo il perché si debba ancora permanere nella tradizionale teoria di porre la sostanza per prima e di discutervi intorno nella ricerca di una giustificazione alla sua persistenza. Il mondo esiste, ma esso non è soltanto ciò che è, anzi esso è molto meno ciò che è di quanto sia ciò che sta per accadere. Precisamente, come si è detto, il mondo è l’insieme di ciò che è sul punto di accadere, ma che ancora non è accaduto. Il mondo è, pertanto, l’insieme delle strutturazioni di una totalità di relazioni che si pongono e si risolvono per tornare a porsi nuovamente. La realtà è data dalla emissione di questi “fatti” o “relazioni”, per cui le forme che si strutturano ne risultano circoscritte anche se non è mai possibile parlare di un fatto preminente che ha dato origine a una forma in senso specifico.

La sostanza è quindi questo procedere delle relazioni, irreversibilmente, nel senso univoco dettato dal ritmo della temporalità. Questo ritmo non è indeterminato. Tutto il resto lo è, ma il principio dinamico della strutturazione delle relazioni e della emersione delle forme, non lo è.

La mia sostanza è ciò che io sto per divenire, non quello che in verità sono. Da un lato la mia sostanza riceve una prima determinazione dal fatto che non potrà essere mai più quella che stava per divenire in un momento del passato, dall’altro la mia sostanza viene sottratta al caos e alla gratuita parità delle scelte, dalla stessa mia libertà di decisione. Ogni tentativo di arrivare a determinare la mia sostanza, come fondamento del perché del mio agire nel mondo, è destinato a fallire, perché non risulta possibile localizzarla staticamente. Una fedeltà all’avvenire non può soggiacere a misurazioni o valutazioni.

Solo in questi termini la sostanza può ancora una volta diventare un principio di ragione sufficiente, ma solo del mio divenire, senza, per altro, significare che ciò possa condurre a una stabilizzazione dei miei sforzi di conoscerla. Tutto quello che può diventare oggetto di conoscenza è sempre indeterminato, ciò che è veramente determinato non può conoscersi.

Appendice: Questioni da discutere

1) Libertà e indeterminazione. La teoria fisica dell’indeterminazione, introducendo una notevole parte di libertà nel meccanismo naturale, crea rapporti particolarmente complicati tra il principio tradizionale di libertà e la riconosciuta impossibilità di giungere a un chiaro approfondimento della nostra azione nel mondo. Ciò non toglie che non bisogna farsi molte illusioni su di una eventuale nuova direzione da attribuire all’antico compito della libertà. Caso mai le nuove teorie ci possono evitare la rigidezza nelle affermazioni e nei risultati delle nostre ricerche o speculazioni.

Così Nicola Abbagnano: «Appena il filosofare viene sottratto ad una sfera circoscritta, che dovrebbe rimanersene astratta e lontana dalla vita, appena viene riconosciuto vitale ed efficiente nella vita stessa dell’uomo, subito esso definisce in un senso preciso l’essere dell’uomo: ne fa l’essere che è il problema di se stesso; ne fa l’essere che ricerca l’essere; e perciò domanda e dubita e teme e agisce per dominare il futuro. All’uomo soltanto appartiene l’essere in questa forma problematica; la quale definisce perciò l’esistenza propriamente umana. Io (ognuno di noi può parlare soltanto in prima persona) compio un atto importante della mia esistenza: inizio o compio, ad esempio, un lavoro a cui è legata buona parte della mia vita e dei miei interessi; lego il mio destino a quello di un’altra persona; affronto un danno o un pericolo in vista di un interesse che ritengo superiore. In tutti questi casi il mio atto – che chiamo decisione, ma che non è soltanto un atto di volontà perché impegna tutto il mio essere e che meglio perciò può dirsi atto esistenziale – il mio atto esistenziale, in tutti questi casi, implica una indeterminazione reale nella sua portata e nel suo risultato e perciò anche un rischio per me. Il lavoro che ho iniziato dovrà essere condotto a termine e potrà riuscire più o meno, quello che ho terminato può incorporare veramente l’interesse vitale che me l’ha suggerito, o può riuscire una delusione; il legame che ho contratto può avere su me e sulla persona che mi è cara l’influenza più diversa; il mio atto di coraggio può essere inutile o irrilevante. E in tutti questi casi io posso perdere tutto ciò che mi sta a cuore e che costituisce per me il senso della vita. Questa indeterminazione reale, questa fondamentale problematicità è propria di tutti gli atti esistenziali. Più importante è la decisione, maggiore rilievo essa ha per la mia esistenza, più netta si rivela l’alternativa in essa implicita». (Introduzione all’esistenzialismo, op. cit., pp. 16-18).

La mia capacità intuitiva trova dentro di me il contenuto concreto di un’assenza, un guscio vuoto, un residuo di qualità, e percorrendo all’incontrario il cammino dell’orientamento, si indirizza verso l’apertura alla qualità. Qui la qualità è l’assolutamente diverso, la forma che domina sulla struttura, il concetto che cede alla voce indistinta dell’abisso. Non c’è lontananza dall’uno, ma la mia puntiforme esperienza si ribalterà bene o male in poco tempo. Se si considera a fondo il problema dell’uno, e qui è questo che sto cercando di fare, non c’è una definizione forte che possa consentire un accesso oltre la qualità, ancora più oltre. La riunificazione rammemorativa, di cui queste pagine costituiscono un esempio, è povera faccenda linguistica. L’estremo pensiero dell’uno resta sempre al di qua dell’uno che è. Pensando l’uno non posso farlo diventare altro che quello che è, ma lo maschero nell’equivoco di una dicibilità che è sempre manifestazione più o meno condivisibile, ma vera. L’uno è, quindi non è altro che sé colto in se stesso, la mia dolorosa esperienza nella cosa punta all’estremo limite della libertà, ma questo limite è ancora al di qua dell’uno, anche quando la sua massima tensione, di fronte alla mia domanda radicale, tutto qui?, mi espelle dalla cosa stessa. La visibilità di questa esperienza diversa non è chiara della chiarezza del campo, ma proprio per questo, essendo parte dell’assolutamente altro, posso coglierla. L’uno non posso coglierlo, non posso essere in esso per essere espulso. Nella qualità che sperimento nella cosa non vivo l’interezza assoluta, nemmeno nella qualità rammemorata, dico queste esperienze, le illustro alla luce di logiche contrastanti in molti aspetti, ma non sono la loro interezza, non sono la loro verità. L’uno non è vero perché non posso sperimentarlo alla logica estrema del tutto e subito, la sua non è verità, non è qualità, esso semplicemente è, non chiedo di consentirmi una appartenenza che mi annienterebbe. Non come il folle della cosa, che corre via nel vento della desolazione, ma come il nulla per me, il nulla che concreta l’uno che è e che non può non essere. Eppure nell’apparente pienezza del mondo, quando sono immerso nel pericolo e nell’inquietudine, posso andare incontro a una critica negativa da costruire nell’interpretazione. Questa forza negativa, al di là del suo manifestarsi nel mio destino come possibilità, e al di là della mia stessa esperienza diversa, è l’in sé dell’uno, il semplice è che l’uno non distingue in forza negativa e forza positiva, ma che nemmeno respinge. Sono io che ho bisogno di distinguere per avere qualcosa di negativo, e questa necessità mi colpisce come una maledizione fino al punto massimo dell’esperienza diversa della libertà, non l’uno, che non ha questo tipo di problema. Io creo il negativo del mondo che ho creato in positivo, e lo creo nella critica, ma tutto questo è nell’essere dell’uno, dove la stessa libertà assoluta, che sperimento nella cosa è libertà e negazione della libertà, qualità e quantità, negazione dell’una e dell’altra. La distinzione, specifica del mondo, non vive nella cosa se non come indirizzo dell’interpretazione, mai come apparizione semplice e diretta. Non è una figura determinata ma deve essere staccata dalla volontà, fatta valere a prescindere della decisione di operare distinzioni fra qualità. Questo genere di distinzioni, che non attende l’impulso volontario di specificazione, è distinzione in sé, quindi non si distingue mai da sé. Non ci sono gradi di qualità perché non ci sono livelli o possibili accumuli. Ma ci sono possibili relazioni diverse di intensità qualitative che danno vita a distinzioni che non dipendono dalla volontà.


2) È cambiato lo scopo della ricerca fisica? Sia nel diciannovesimo che nel ventesimo secolo i fisici intendono trovare, con le proprie ricerche, soltanto delle descrizioni della natura, corroborate da opportune leggi oggettive. Questo compito non è cambiato. Soltanto, mentre nel diciannovesimo secolo, come afferma Heisenberg, ci si limitava a un tentativo di “fotografare” la natura, adesso ci si è accorti che quello che si riteneva fosse fotografato, in gran parte, era solo immaginato. Da qui la necessità di operare delle correzioni, corroborando le descrizioni della natura con leggi statistiche.

Ecco, nella riflessione di Ludovico Geymonat: «Ebbene, allora la domanda che io ponevo – e che anche i miei stessi allievi mi ponevano – era la seguente: “questa nuova disciplina che non si vale più del metodo newtoniano e del “modello newtoniano”, ma che applica un altro “modello” (per esempio un “modello ondulatorio” e non più un “modello particellare”) è scientifica o non è scientifica?”. L’introduzione di un nuovo modello “caccia” – per così dire – il vecchio modello, ma in realtà non lo “caccia” del tutto, perché lo conserva per un certo settore di ricerche (sia pure non per tutti). Quindi non è il modello della ricerca fisica in generale, ma il modello di quella particolare ricerca di fisica. Questo rilievo è importantissimo, però l’importante è sapere che si tratta, appunto, di un modello parziale. Questa è, direi, una grande scoperta della epistemologia del nostro secolo: esistono dei modelli parziali, dei modelli che non valgono in generale. Quando mi trovo di fronte ad un nuovo campo di problemi, certamente cercherò di applicare prima di tutto i modelli che conosco già. Perché? Perché li conosco, perché li padroneggio abbastanza bene, perché i libri sono pieni di esempi di quei modelli e in molti casi questi ultimi “riescono”, conseguono cioè dei risultati positivi. Però in altri casi non riescono e in altri casi, allora, verrà l’uomo di genio che escogiterà una nuova soluzione, un nuovo modello. Per decidere del valore della nuova soluzione ci si rivolgerà alla pratica: andiamo a vedere quello che ha successo e lo accettiamo come scientifico perché ha successo». (Dialettica scientifica e libertà, in L. Geymonat e G. Giorello, Le ragioni della scienza, Roma-Bari 1986, pp. 28-29).

Andare via dal fare, distaccarsi, lasciare la casa dove mi sento sicuro, dividere, insistere nella distinzione che allontana i giochi dell’infanzia e avviarsi verso la realtà, non accontentarsi di una pace falsa e insidiosa che prima o poi presenta il conto. Questo porsi davanti al mondo come negatore del mondo non è un’accettazione del mondo ma una riduzione della sua prospettiva a semplice strumento da utilizzare altrove. Nella nuova direzione non ci sarà la pace ma una nuova guerra, non più per il possesso ma per la liberazione dalla schiavitù del possesso. Ora questa non è rinuncia ma sconfitta, ammissione di incompletezza e accettazione di un itinerario diverso. Nuove pene al posto della vecchia e generalizzata inquietudine. La critica negativa smonta uno per uno i feticci e li getta nella polvere, solo gli imbecilli guardano attoniti e si immaginano chissà quali trame nascoste e quali intendimenti. Ma sono quelli di cui fa nulla tenere conto. Questi carnefici colpiscono e feriscono, racchiudono e insultano il mio corpo, ma non possono limitare le mie intuizioni di libertà, nessuno può fare ciò. Eppure anche loro, a modo loro, hanno ragione, forse, a essere esatti, solo i carnefici hanno ragione nel cercare di ridurmi a carne consenziente, a farmi carne, perché subdolamente capiscono il pericolo che rappresento. Il rifiuto di fare governare all’infinito la volontà, l’affrontarla criticamente, il lungo e incerto tentativo di aggirarla con l’abbandono, l’esperienza della qualità nella cosa, non sono certo prove di innocenza, caso mai attestazioni di colpevolezza, la colpa più grave è sempre quella di avere voluto affermare la vita, la vita vera.


3) Democrito e il principio d’indeterminazione. Il paragone può essere affascinante. Democrito ammette l’esistenza di un meccanismo puro rifiutando di credere in ogni sorta di finalità. La fisica moderna ha provato che gli atomi non posseggono delle traiettorie definitive, quindi si è ritornati sulla grande intuizione del filosofo di Abdera. Un’altra osservazione, avanzata allo stato di ipotesi, ma non sviluppata da Schrödinger, è il paragone tra il “rischio del gioco delle danze atomiche” e la teoria fisica dell’indeterminazione.

Nello stesso senso Francis Herbert Bradley: «È tempo di riesaminare una distinzione che noi abbiamo tralasciato. Abbiamo visto che qualche conoscenza era assoluta, e che in contrasto con essa ogni verità finita era soltanto condizionale. Ma, se l’esaminiamo più da vicino, questa differenza sembra difficile a mantenersi; perché come può la verità essere assolutamente vera se rimane un abisso fra essa e la Realtà? Ora in ogni verità sulla Realtà la parola “nulla” dice troppo; vi rimane sempre qualche cosa di esteriore al predicato, per cui ciò che è esteriore al predicato può essere chiamato condizionale. In breve, la differenza fra soggetto e predicato, una differenza essenziale alla verità, non è spiegata. Essa dipende da qualche cosa non inclusa nel giudizio stesso, un elemento esteriore e per ciò in un certo senso sconosciuto. Il tipo e l’essenza in altre parole non possono mai realizzare la realtà; l’essenza realizzata, noi possiamo dire, è troppo per essere verità, e non realizzata e astratta è troppo poco per essere reale. Anche l’assoluta verità infine sembra essere erronea. Deve infine affermarsi che nessuna possibile verità è del tutto vera; è una parziale e inadeguata traduzione di ciò che essa cerca di rendere concreto. E questa interna discrepanza è propria indubbiamente del carattere della verità. La differenza fra assoluta e parziale verità deve nondimeno essere mantenuta. L’assoluta verità non è in una parola intellettivamente correggibile. Non vi è nessun mutamento intellettivo che come generale verità possa avvicinarsi alla Realtà definitiva. Abbiamo visto che ogni affermazione di questo genere è contraddittoria, e che ogni dubbio su questo punto è letteralmente un nonsenso. L’assoluta verità si corregge solo andando oltre l’intelletto. Essa è modificata solo dai rimanenti aspetti dell’esperienza, ma in questo passaggio la propria natura della verità è trasformata e scompare. Ogni verità finita d’altra parte rimane soggetta alla correzione intellettiva. Essa è incompleta, non semplicemente come essere limitato dalla sua generale natura, come verità, in un parziale aspetto del Tutto. È incompleta avendo nel suo proprio mondo intellettivo una zona che rimane fuori. Vi sono verità attuali o possibili che sono contro di essa, e che possono stare fuori di essa come un Altro. Ma nell’assoluta verità non vi è intellettualmente nulla di esteriore; non vi è nessun predicato che possa determinare il suo soggetto o che condizioni o limiti la sua affermazione. L’assoluta conoscenza può essere condizionale se vi piace; ma la sua condizione non è un’altra verità attuale o possibile. La dottrina che io cerco di affermare è veramente semplice. La verità è un aspetto dell’esperienza, ed è perciò imperfetta e limitata da ciò che essa non può includere. In quanto è assoluta, essa possiede comunque il tipo generale ed il carattere di tutto ciò che ha la possibilità di essere vero o reale, e l’universo in questo generale carattere è completamente conosciuto. Esso non è e non può mai essere conosciuto in tutti i suoi particolari, non è e non può mai essere conosciuto come Tutto nel senso che la conoscenza sia la stessa cosa dell’esperienza o della realtà. Poiché conoscenza e verità, se noi supponessimo che abbiano quell’identità, sarebbero per ciò assolute e diverse. Ma d’altra parte l’universo non esiste, e non può probabilmente esistere come verità e conoscenza in un modo tale da non essere contenuto e incluso nella verità che noi chiamiamo assoluta. Per ripeterlo una volta ancora, una tale possibilità è fatale. E noi possiamo forse dire che, se questo impossibile fosse possibile, noi non potremmo probabilmente averne l’idea; perciò una tale idea svanisce nei suoi opposti o in un non senso. L’assoluta verità è errore solo se voi attendete da essa più che la semplice generale conoscenza; essa è astratta e non può supplire ai suoi propri subordinati particolari. Essa è unilaterale e non può rendere concretamente tutti i lati del Tutto, ma d’altra parte nulla può esistere fuori di essa. Essa tutto include e contiene tutto ciò che anticipatamente può svolgersi come contrario, nulla le può essere contrario che non diventi intelligibile, ed essa entra come vassallo nel regno della verità. Così anche quando voi andate oltre, non potete mai arrivare fuori di lei e quando aggiungete qualche cosa di più siete obbligati ad aggiungere qualche cosa di più della stessa specie. L’universo come verità, in altre parole, conserva una sola caratteristica, e di quella abbiamo una conoscenza infallibile. E se considerate la cosa da un altro aspetto, non vi è nessuna opposizione fra Realtà e verità. La Realtà per essere completa deve prendere e assorbire questo aspetto parziale di sé: e la verità stessa non sarebbe completa se non includesse tutti gli aspetti dell’universo. Così nel superare la differenza fra il suo soggetto e il predicato, essa manifesta l’esigenza della sua propria natura, e io posso forse sperare che questa conclusione sia stata sufficientemente fondata. Per ripetermi, nella sua generale caratteristica la Realtà è presente nella coscienza e nella verità, è quella assoluta verità che è distinta e affermata dalla metafisica. Ma questa caratteristica generale della Realtà non è la Realtà stessa; non è altro che il carattere generale della verità e della conoscenza. Così in quanto vi è una verità e una conoscenza, questo carattere è assoluto; la verità è condizionale, ma non può essere trascesa dall’intelletto. Realizzare le sue condizioni sarebbe passare in un tutto oltre il semplice intelletto». (Apparenza e realtà, tr. it., Milano 1957, pp. 571-572).

Il fuoco della critica negativa brucia l’affermazione superba del mondo in uno con le sue illusioni di concretezza. Ma alla fine minaccia di presentarsi come possibile conciliazione. Il negativo del negativo è che non può mangiare il mondo all’infinito, a un certo punto lo deve affermare. Salvo a saltare altrove, in quell’altro in cui l’assenza si avvertiva come messaggio sul mondo stesso. La critica negativa è così abbandonata alla sua rinuncia e la coscienza diversa la saluta sull’apertura come il condannato al rogo, nel proprio corpo che si contorce fra le fiamme, saluta gli astanti e gli stessi carnefici, dai quali finalmente si dipartisce. Così la morte del mondo avviene fatalmente nel momento dell’intuizione qualitativa della cosa. L’esperienza diversa è del tutto estranea al mondo, scandalosamente incomprensibile, priva di logica, solo una lettura a posteriori, la rammemorazione, le conferirà una sua logica, diversa per l’appunto, quella del tutto e subito. L’azzeramento del mondo nella desolazione della cosa è reale, morte e distruzione, per questo motivo non può essere detto. La mia presenza nella cosa e la morte del mondo sono elementi puntuali che si intensificano ancora una volta nell’uno. Quest’ultimo mostra quello che è, solo quello che è e non può non essere. A rompere questa perfezione desolata e muta sono sempre io con una creazione del mondo ulteriore, un’espressione della mia eterna umanità, cioè della mia debolezza. La morte del mondo e la sua resurrezione sono opera mia, la sua scomparsa e la sua ricomparsa puntuali sono effetti della mia fattività potenziata da ciò che riuscirò a fare nella rammemorazione. Questa operazione del dire cerca di attenuare la disperazione della perdita. Per un attimo mi sono sentito libero, totalmente libero, poi una miriade di frammenti di stelle ricadono sul mondo, ogni pezzetto è come un grosso diamante, un grande possesso, praticamente un grande valore, cioè assolutamente niente.


4) Può la chimica introdurre nella fisica la causalità? Anche lo stesso Heisenberg sembra perplesso a questo proposito. In fondo però il fisico tedesco non è un filosofo, anche se le innumerevoli implicanze d’ordine filosofico del suo principio lo hanno costretto a discutere lungamente di filosofia. In effetti, dopo la perturbazione di un atomo di idrogeno vi saranno moltissime possibilità di stati differenti, ciascuno stato risulterà individuabile dentro un arco di differenti probabilità. Ma nel caso che si voglia vedere se, dopo la perturbazione, l’atomo, poniamo di idrogeno, sia ancora dello stesso elemento, l’osservazione diventa inutile in quanto una perturbazione non può fare modificare l’elemento chimico. Questo semplice fatto ha portato a concludere che la chimica, specie dopo il suo recente avvicinamento alla fisica, può condurre quest’ultima verso un il ritorno al principio di causalità o, addirittura, verso una restaurazione del finalismo.

Cautamente William James: «Presentata in modo così crudo, l’ipotesi può certo essere accolta con incredulità. Tuttavia le considerazioni necessarie per mitigare il carattere paradossale di questa affermazione e per produrre, possibilmente, la convinzione della verità di essa non sono né molte né molto recondite. Anzitutto, nessuno vorrà dubitare del fatto che gli oggetti suscitano modificazioni organiche per mezzo di un meccanismo preorganizzato o dell’altro fatto che le modificazioni sono tanto indefinitamente numerose e sottili, da poter chiamare l’organismo un risonatore che può essere messo in vibrazione da ogni modificazione, anche lievissima, della coscienza». (Aspetti essenziali del pragmatismo, tr. it., Lecce 1967, pp. 59-60).

L’uno che è e non può non essere, quiete e immobilità, è tutto ciò che si pone come contrario alla quiete e alla immobilità, altrimenti ci sarebbe da qualche parte, nel mondo da me creato, per esempio, qualcosa di diverso non esistente nell’uno. L’assoluta quiete nell’uno è assoluta attività, come l’assoluta immobilità è assoluto movimento. Queste non sono distinzioni che si correlano, ma assoluti che possono essere pensati perché l’esperienza diversa ne rende possibile il concetto. La distinzione assoluta è lo stesso uno che è unità assoluta. Tutti questi assoluti sono assolti, cioè sono concetti che prendono corpo dalle parole, danno vita fittizia a una realtà che non può essere né detta né sperimentata, la coscienza diversa non è coscienza dell’uno ma della qualità che si trova nella desolazione della cosa. L’uno così inteso è già separazione e relazione, dove l’uno non c’è ma c’è la modificazione, il mondo che parla di tutto e quindi anche dell’uno. L’uno parlato è già negazione dell’uno, distinzione, ma non più assoluta separazione. Il gelo dell’uno si scioglie nella cosa e nel mondo, ma la somma di queste due condizioni contrastanti non dà l’uno, il quale non è il risultato di una somma, ma semplicemente è e non può non essere. Non sarebbe possibile la mia creazione del mondo se questo non fosse negabile criticamente in un anelito di completezza qualitativa, e questi due momenti non sarebbero possibili se non coincidessero insieme nella perfetta assolutezza dell’uno che è. Il movimento è uno solo che si sviluppa nella modificazione che sembra finalizzata a se stessa e si salda nella rammemorazione. Tutto ciò è sempre uno che è.


5) Possono nella fisica moderna utilizzarsi concettia priori”? Heisenberg ha dichiaratamente espresso la necessità di includere nella fisica concetti “a priori”, quali a esempio il concetto di spazio. Certo la questione non può concludersi così. Le indagini sull’emersione della forma, come delimitazione di un flusso di relazioni, impediscono di ammettere una simile conclusione. L’assenza dell’assolutizzazione di uno qualsiasi dei termini che rendono possibile la relazione, evidentemente sfuggita a Heisenberg, rende inutilizzabile un concetto di spazio “a priori”.

Esattamente Henri Poincaré: «Ogni geometria suppone delle premesse; queste o sono evidenti di per se stesse, e non hanno bisogno di dimostrazione, o possono essere stabilite solo appoggiandosi ad altre proposizioni; e poiché non si può andare così all’infinito, ogni scienza deduttiva, e in particolare la geometria, deve fondarsi su un certo numero di assiomi indimostrabili. Tutti i trattati di geometria cominciano dunque con l’enunciato di tali assiomi. Ma vi è tra gli assiomi una distinzione da fare: alcuni, come questo per esempio: “due quantità eguali a una terza sono eguali tra loro”, non sono proposizioni di geometria, ma proposizioni di analisi. Io le considero come giudizi analitici “a priori”, e non me ne occuperò. Ma devo insistere su altri assiomi, peculiari alla geometria. La maggior parte dei trattati ne enunciano esplicitamente tre: 1° Per due punti può passare solo una retta; 2° La linea retta è il più breve cammino tra un punto e l’altro; 3° Per un punto non si può far passare che una sola parallela a una retta data. Benché ci si dispensi generalmente dal dimostrare il secondo di questi assiomi, si può tuttavia dedurlo dagli altri due e da quelli, molto più numerosi, che vengono ammessi implicitamente senza enunciarli [...]. Per lungo tempo si è cercato invano di dimostrare il terzo assioma, noto sotto il nome di postulato di Euclide. Gli sforzi fatti in questa chimerica speranza sono veramente inimmaginabili. Finalmente, al principio del secolo, e all’incirca nello stesso tempo, due scienziati, un russo e un ungherese, Lobacevskij e Bolyai, stabilirono in maniera irrefutabile che tale dimostrazione è impossibile; essi ci hanno quasi liberati dagli inventori di geometrie senza postulati; da allora, l’Accademia delle Scienze non riceve più che una o due dimostrazioni nuove ogni anno. La questione non era però esaurita; essa non tardò a fare un gran passo con la pubblicazione della celebre memoria di Riemann intitolata: Über die Hypothesen, welche der Geometrie zu Grunde liegen. Questo opuscolo ha ispirato la maggior parte dei recenti lavori [...], fra i quali bisogna citare quelli di Beltrami e di Helmholtz. Egli suppone al principio che si possono per un punto condurre più parallele a una retta data, e conserva, invece, tutti gli altri assiomi di Euclide. Da questa ipotesi deduce una serie di teoremi, tra i quali è impossibile rilevare alcuna contraddizione, e costruisce una geometria, la cui logica impeccabile non cede in nulla a quella della geometria euclidea. I teoremi di tale geometria sono, si capisce, molto differenti da quelli a cui siamo abituati, ed essi in sul principio ci disorientano un poco. Per esempio, la somma degli angoli di un triangolo è sempre minore di due retti, e la differenza tra questa somma e due retti è proporzionale alla superficie del triangolo». (H. Poincaré, La scienza e l’ipotesi, tr. it., Firenze 1949, pp. 49-50).

La qualità non è solo l’assolutamente altro, ma è anche il corrispettivo dell’assenza che vivo nel mondo. La pienezza di questa corrispondenza è l’esperienza che faccio nella cosa. La desolazione non può essere riempita con i miei prodotti carichi di quantità, eppure non è del tutto estranea alla produzione immediata. Se resto immerso nella modificazione mi avvolgo in un indistinguibile insieme, che proprio per la sua grande capacità di distinzione, alla fine non riesce a completare la sua nomenclatura. La trasformazione apre lo spiraglio diverso e mi indirizza verso la possibilità sconosciuta del mio destino. L’uno è perno di questi due movimenti, in esso tutto è nel punto estremo dell’intensificazione.


6) Principio d’identità e logica formale. Nella teoria logica che tende alla costruzione del discorso logico verificato, può presentarsi a volte una notevole vicinanza con il tradizionale principio d’identità. In questo modo sembrerebbe che si sia introdotta, quasi senza avvedersene, una metafisica della sostanza.

Bene Gottlob Frege: «Non vi è alcuna contraddizione, se un fatto è vero mentre tutti lo ritengono falso. Per leggi logiche io non intendo le leggi del ritener vero, ma le leggi dell’essere vero. Se è vero che io scrivo questo nella mia camera il 13 luglio 1893, mentre fuori soffia il vento, ciò rimane vero anche se più tardi tutti gli uomini dovessero ritenerlo falso. Se l’essere vero non dipende dall’essere ritenuto tale da chicchessia, allora anche le leggi dell’essere vero non possono risultare leggi psicologiche, ma sono pietre basilari, poggiate su una roccia eterna, pietre che possono forse venir sommerse ma non scosse dal nostro pensiero, se esso vuole raggiungere la verità. Le leggi logiche non stanno col pensiero nel medesimo rapporto in cui stanno le leggi grammaticali con la lingua; e quindi non rivelano l’essenza del nostro pensiero umano né si mutano con esso». (I princìpi dell’aritmetica, Premessa, in Logica e aritmetica, tr. it., Torino 1965, pp. 487-488).

Il fare è ineludibile per me, ché senza di esso sarei un uomo privo di vita. Ma non diventa manifesto a me stesso se non quando ne scopro i limiti e le misure. Se prima non è fare per me, lo posso considerare un modo di essere della vita, invece è la vita stessa che potrebbe catturarmi per sempre, fino a una morte sconosciuta che, da parte sua, metterebbe fine a una vita mai vissuta. Invece, quando questo fare è fare per me, esso si rivela insoddisfacente, non mi appaga, mi inquieta. Se fino a quel momento le contraddizioni dell’incompletezza le rinviavo al futuro completamento, adesso le innesto in un rifiuto attuale, in una critica negativa che mi fa scoprire una via diversa verso la mancanza, che era visibile anche prima ma che ero portato a rimuovere. La conoscenza si acuisce, seleziona i suoi strumenti, non si limita più a catalogarli, adesso li impiega criticamente, interpreta il fare e scopre la funzione dell’assenza come contraltare della presenza. Tutto questo sollecita l’intuizione della cosa, che nel frattempo è arricchita da intensità qualitative via via diverse per me, ma sempre uguali dal punto di vista della totalità dell’uno. Mi chiarisco l’intuizione, divento ospite della desolazione qualitativa, senza più nessuna determinatezza, senza prigioni e senza misure. La qualità cacciata dal fare è ritrovata nell’agire. Oltrepasso la finitezza della specificazione, non ne avverto la falsità, ma ne colgo la limitazione e l’infondatezza di un’attesa di completamento. La qualità, come perfezione, non è coglibile se non come presenza intuita, che non posso né misurare né portare con me. Essa è oggettiva, ma io non posso affrontare l’oggettività, i miei occhi si rifiutano di guardarla, essi sono costruiti per l’approssimazione del completabile, per quello che ho chiamato oggettualità. Nella estrema intensificazione qualitativa, la libertà, richiamo tutta l’esperienza diversa nella domanda fatale, tutto qui? E in questo modo ricado nel mondo del fare.


7) Si può instaurare un raffronto tra la Scuola di Marburgo e il meccanicismo newtoniano? Quasi certamente il principio unitario, identificabile nella teoria tradizionale, può essere rinvenuto, con un poco di buona volontà, anche nella formulazione dell’aspetto trascendentale della Scuola di Marburgo, specie se quest’ultima viene vista attraverso la modificazione che subisce lo stesso principio unitario in termini di legge regolante il meccanismo della ragione.

Sul rapporto tra sostanza e funzione sono significative le riflessioni di Renato Cristin: «Nel solco che Descartes ha aperto nella metafisica tradizionale, frattura da cui è nato il pensiero moderno, Leibniz ritrova una prima e fondamentale funzione della sostanza: l’autonomia e la separazione rispetto ai fenomeni. Nella filosofia antica, e in parte anche in quella medievale, la sostanza pensante è integrata in un ordine ontologico che non la separa del tutto da quella corporea. Come sottolinea Gadamer, nel pensiero greco “il soggetto è ancora immerso nella sostanza, non è ancora risvegliato al suo essere-per-sé”. Il filtro cartesiano rende invece la sostanza soggettiva coscienza pura, autocoscienza. Secondo Descartes, sostanza è ciò che per esistere non ha bisogno di nient’altro se non di se stessa. Qualcosa di talmente fondamentale e autosufficiente, da non richiedere alcun altro rapporto all’infuori di quello con se stessa. A questa definizione Leibniz oppone una versione che potremmo definire relazionale: “non credo che la definizione [cartesiana] della sostanza [...] si adatti a qualche sostanza creata a noi nota [...]. Infatti non solo abbiamo bisogno di altre sostanze, ma soprattutto dei nostri accidenti”, Descartes avrebbe precisato l’autonomia della sostanza in modo unilaterale: egli “ci ha dato solo belle ouvertures, senza essere arrivato al fondo delle cose”. La critica leibniziana offre un punto di contatto tra Husserl e Heidegger: entrambi si oppongono all’isolamento cartesiano del “cogito”, riprendendo, sia pure in forme diverse, il pensiero monadologico. Secondo Heidegger, Descartes avrebbe escluso l’energia dalla sostanza, rendendola una capsula chiusa e priva di mondo, mentre Leibniz l’avrebbe dinamizzata: grazie a lui è possibile “sottoporre la determinazione cartesiana dell’essere della natura a una critica essenziale, in connessione con l’introduzione della vita”. Anche Husserl, pur stimando Descartes, vede nella sostanza individuale leibniziana la possibilità di recuperare il deficit comunicativo e relazionale dell’“ego cogito”: ciò che è mancato a Descartes è stata la comprensione dell’intersoggettività, che Husserl vede sviluppata, se non proprio risolta, nella coesistenza intermonadica pensata da Leibniz. Per quest’ultimo la sostanza non può riprodurre il dualismo cartesiano, ma deve imporsi come elemento unificante tra “cogito e varia a me cogitantur”. Attraverso l’idea di sostanza passa il tentativo di mediazione tra universale e singolare. La sostanza si afferma come nucleo della fisica e della metafisica, autentico perno dell’intero sistema. Senza giungere all’eccesso interpretativo di Heimsoeth, secondo cui nella “conoscenza a priori della vera essenza della sostanza” Leibniz risolverebbe tutti i problemi metafisici, possiamo tuttavia dire, con Janke, che “per Leibniz la determinazione e l’assicurazione della sostanzialità rappresenta il punto di partenza fecondo della filosofia”. Ci introduce cioè nel centro strutturale del suo pensiero: nella dottrina della monade. Ecco dunque il mezzo con cui Leibniz ritiene di poter raggiungere il “fondo delle cose”: avere determinato il concetto di sostanza e averlo collegato a quello di individuo. Il passo decisivo della correzione leibniziana della metafisica consiste in una sostanzializzazione del soggetto e in una soggettivizzazione della sostanza. In un certo senso Leibniz ha cercato di compiere, agli inizi della filosofia moderna, il “passo indietro nel fondo della metafisica” che Heidegger, nel momento culminante della modernità, ha visto come “possibilità di superamento e approfondimento della metafisica stessa”. La tensione che spinge Leibniz a dare fondamento, nella sostanza, all’ente rappresenta per Heidegger il “plus”, non pienamente pensato, della filosofia leibniziana: è ciò che nella sesta lezione di Der Satz vom Grund avrebbe definito “il movimento più interno del pensiero leibniziano”. Questo doppio movimento, in cui ontologia e teoria pura della sostanza si incrociano, corrisponde a un momento fondativo: la metafisica evolve impersonando non solo, come per esempio nella scolastica medievale, una visione del mondo, ma anche una matrice comune per tutte le scienze. Leibniz collega pensiero e individualità in una sintesi dotata di forza attiva, che costituisce il “principio interno” della monade. Questa attività della sostanza “può essere definita Appétition”, impulso, tensione a passare da una situazione percettiva a un’altra. Per le monadi “queste Appétitions sono i princìpi della loro trasformazione”. Il principio della vitalità rinnova l’aristotelismo, modificandolo, e apre la via alla filosofia moderna della soggettività. In questo modo la sostanza “esce” dal puro categoriale per mescolarsi con l’esistenza del soggetto. Certo Leibniz non procede con risolutezza su questa strada: non arriva a pensare la sostanza singolare nella sua fatticità e finitezza, ma arresta la sua ontologia alle monadi, che, “non avendo parti, non possono essere né generate né annientate”, costituendo così una sostanza generata da “fulgurations continuelles divine”. Per quanto coinvolta nei problemi del vitale e del concreto, questa teoria “viene fatta ruotare fuori – ha osservato Fink – dal campo dei fenomeni sensibili [...] e dislocata sul piano supremo della metafisica speculativa, onto-teologica”. Nonostante un residuo di separazione ontologica, la metafisica leibniziana cerca di sviluppare un’immagine organicistica da cui emerga la trama delle relazioni tra le monadi. La differenza tra sostanza e fenomeno non impedisce dunque di pensarne reciprocità e rapporto. Fragilità e rilevanza di questa connessione sembrano esprimersi in una proposizione leibniziana del 1711: “Le sole sostanze corporee sono indipendenti da tutte le altre sostanze create [...] il corpo non ha affatto un’unità vera, non è che un aggregato, che la scolastica chiama ‘per accidens’ [...], la sua unità viene dalla nostra percezione. È un essere di ragione, o piuttosto d’immaginazione; un fenomeno”. La frase contiene alcuni problemi decisivi, quali per esempio: la ricerca dell’essere autentico, l’essere della sostanza; la separazione tra sostanza e fenomeno e la questione dei rapporti intramondani; il nesso tra fenomeno e mondo alla luce della soggettività conoscente e costituente. Per ridurre la complessità ad alcuni elementi terminologici semplici, possiamo valerci di tre metafore leibniziane che, come parole-chiave, ci proiettano nell’intimo dei problemi. La “monade”, sempre che si accetti di leggere in questa parola una metafora, come simbolo del soggetto concreto. L’“eco”: metafora acustica e naturalistica dell’incessante rimando fra gli individui e fra loro e il mondo. L’“arcobaleno”: metafora naturale, visiva, della struttura dei fenomeni: evanescenti, policromi e metamorfici, precari, instabili e inafferrabili, ma dotati di realtà propria. Le metafore di Leibniz ci servono come “titoli per problemi centrali” nelle riflessioni di Husserl e Heidegger». (“La monade, l’eco, l’arcobaleno. Heidegger, Husserl e il concetto leibniziano di sostanza”, in “Aut aut”, nn. 223-224, 1981, pp. 232-235).

Nel fare il movimento è il fare stesso ma non possiede una sua necessità intrinseca, un meccanismo forte come qualcuno pretende di avere individuato all’interno della storia. Il fare manifesta solo se stesso, la reiterazione della quantità sembra rinviare a una completezza a portata di mano, che comunque non si realizza mai. L’apparire del mondo è questo continuo manifestarsi che trova la sua origine individuale nella percezione che orienta, ma si può considerare nel suo insieme relazionale come campo, dove diverse figure si distinguono e si confondono. L’inconcludenza di queste procedure, il dolore che ne deriva, l’inquietudine e lo scoramento, sono compagni della immediatezza. La logica dell’a poco a poco governa il mondo e lo presenta come la sola soluzione possibile alla domanda di esistenza. Il processo logico viene così presupposto dal produrre modificativo e prodotto nella modificazione stessa. Una logica più rigida rischierebbe di spezzarsi o di spezzare quello che deve reggere. Così, in un rinvio sempre possibile mi accomodo ad accettare un filo che sembra non riesca a spezzare, se non nell’evento terminale della morte. Ma la morte non fa morire il mondo, almeno questa è l’esperienza che ne faccio quotidianamente, è solo la mia morte che lo fa morire. Con al mia morte, e solo con essa, interrompo la mia complicità con l’accettazione e non do più per sottintesa la fruizione immediata della realtà. La mia volontà è sempre colta di sorpresa dalla mia morte e a essa si arrende. Ma per quale motivo non potrebbe esserci un altro modo di interrompere o di sospendere il controllo della volontà? Perché l’immediatezza non potrebbe liberarsi di ciò che la rende immediata e protrarsi verso la diversità? Nella distinzione della quantità, cioè ad orientamento eseguito, nella perpetuazione del corso degli eventi, c’è lo stesso nome dell’uno. L’uno che è è anche distinzione, altrimenti dovrei pensare a un uno parziale, dimidiato dall’esistenza della distinzione che altrove allarga il suo dominio. Quindi non posso distinguere all’infinito se non smarrendomi nella foresta impenetrabile e impietosa della conoscenza. A un certo punto il me stesso che distingue e separa, intuisce l’importanza della diversità di cui ha cognizione critica come assenza. Questa intuizione era implicita nella distinzione stessa che è il fare dell’orientamento, cioè della percezione. Non posso percepire se non nello stesso tempo rendendomi conto, nebulosamente, di quello che si sta allontanando, perdendosi nell’assenza. Nella distinzione non colloco la fine se non come apparenza o illusione, la conclusione dell’orientamento è lo sforzo verso la qualità, il tradimento del possesso, che come quantità sembrava avermi imprigionato per sempre, è implicito nel gesto di controllo. Nessuno può seriamente pensare alla conquista, il destino dell’uomo è la perdita, ed è qui che opera la mia ricerca.


8) Il concetto aristotelico dipotentiae la moderna legge probalistica. Se l’azione è legata a una certa serie d’incidenza probabile, se l’atto singolo non può valutarsi in termini di effetto, se l’estrinsecarsi delle forme avviene costantemente ma non completamente, come si può evitare di ridurre l’atto a semplice “potentia” nel senso aristotelico? La questione può condursi alla risoluzione tenendo presente che la legge probalistica non informa sull’oggetto cui si riferisce, ma soltanto ne enuncia le strutture logiche che rendono possibile la relazione di fondo.

Ha notato Alfred Edward Taylor: «Se non vi è realmente alcun mezzo di trascendere la particolarità dell’occasione particolare, anche la mia affermazione che due più tre fa cinque può essere null’altro che la documentazione che ho, in questa circostanza, fatto un conto con questo risultato. Io posso non avere alcuna garanzia che il risultato sarà lo stesso la prossima volta che effettuo lo stesso conto. Tutto ciò che ho il diritto di dire è che, nel momento presente, sento una “propensione” a considerare la faccenda in questa luce. Né sarebbe di alcun vantaggio introdurre una distinzione tra i dati particolari della sensibilità e gli “universali” che pervadono i dati, nella speranza di preservare in qualche modo la conoscenza scientifica delle interrelazioni degli “universali”: poiché, se tutti gli eventi sono sconnessi e separati, può non esservi alcuna giustificazione per asserzioni circa elementi “pervasivi” presenti in essi. Lo stesso tentativo di un’analisi già trascende implicitamente la supposta mancanza di connessione degli eventi. Whitehead mi sembra completamente nel giusto quando insiste sul fatto che la “induzione” indispensabile alla scienza non deve essere considerata come un processo di generalizzazione, bensì come un processo in cui si “intuiscono” alcune caratteristiche di un futuro particolare: eccetto che per la leggera svista che gli ha fatto parlare della conclusione dedotta come se dovesse essere “futura”. Nessuno, penso, conosce meglio di Whitehead che l’inferenza può andare da un’occasione particolare del passato a un’altra occasione egualmente passata. Ma, certamente, proprio l’ammissione che è un procedimento legittimo il prevedere ciascuna delle caratteristiche di una data circostanza da ciò che conosciamo di un’altra occasione, richiede la rinuncia all’assunto che le “occasioni” siano semplicemente sconnesse e separate; o, in altre parole, che l’“esperienza” sia la mera consapevolezza di una serie di “eventi” privi di connessione, “collegati” solo esternamente. Non posso soffermarmi su questo argomento; voglio solo far presente che, in linea di principio, questo deve significare che una visione scientifica della natura deve assomigliare molto di più a quella di Leibniz che a quella di Hume. Lungi dall’essere soltanto “congiunti”, come prima e dopo, gli avvenimenti devono avere una configurazione in virtù della quale ciascuno porti con sé tracce di ciò che è avvenuto prima, e sia gravido di ciò che sta per avvenire. Ammettere questo significa ammettere che, alla fine, il corso degli eventi, preso come un tutto, ha un modello supremo che appare, con le modificazioni necessarie, come il fattore preminente nel determinare la configurazione delle sue parti. Che cosa sia il modello dominante nei suoi particolari non possiamo, naturalmente, dirlo, poiché non ne vediamo mai più che frammenti. Ma possiamo, supponendo che un tale modello vi sia, fare delle “anticipazioni” che sono più o meno fedeli allo schema principale; e queste anticipazioni, senza le quali la deduzione non potrebbe avanzare d’un solo passo, sono i presupposti metafisici (di solito inconsci) che ci guidano nei nostri giudizi di probabilità. Essi forniscono le premesse senza di cui non avremmo alcuna giustificazione logica per affermare che una anticipazione dell’esperienza sia più e meno probabile di una qualsiasi altra. Se fosse vero che la “connessione” non è, come supponeva Hume, “presagita”, ma semplicemente “finita”, l’induzione non sarebbe neanche quello che una volta disse Bertrand Russell: un metodo per rendere “plausibili” le congetture. Sarebbe un congetturare senza alcun metodo, e non vi sarebbe alcun significato nel dire una qualunque congettura più plausibile di una qualunque altra». (David Hume and the miraculous, ns. tr., Cambridge 1927, pp. 42-43).

Il momento dell’oltrepassamento è qui assunto nella sua espressione più estrema, culmine della critica negativa, ma coronamento e compresenza del fare in tutte le sue espressioni, anche quelle più possessive e accumulative. Sarebbe un gioco della immaginazione, se non revocasse in dubbio la mia intera vita, se non mettesse insieme, nell’atto intuitivo, l’immediata negazione e l’affermazione diversa che rinnega i limiti del fare e si indirizza verso l’assenza dei limiti, la dimensione desolata della qualità. Non c’è conciliazione possibile tra questi due movimenti, la critica negativa rode il fare e lo svuota di quella eccessiva importanza che sono solito dargli. Se la diversità fosse una variante del fare, un fare più ardito, più coinvolgente, più ampio e generoso, perfino un fare eticamente più corretto, sarebbe un’altra apparizione mondana, un altro fantasma. La diversità è una tragica esperienza che rade a zero ogni interesse per il fare, almeno fino a quando dura, e potrebbe prolungarsi oltre il limite del non ritorno, nella follia. È tragica perché non ammette comprensione concettuale se non a posteriori, quando ormai la tempesta si è calmata. Non si può venire a patti con la propria coscienza una volta che la si è risvegliata a nuova vita, se non morde si autodistrugge. La vita riceverà un impulso di grande significato solo in maniera indiretta.


9) Può la fisica risolvere l’implicito dualismo del principio di complementarità ricorrendo alla filosofia? Certamente sì. A nostro avviso la domanda ha questa sola risposta. Il principio di complementarietà si presenta come un assurdo logico in quanto ammette la coesistenza di due teorie che si eludono a vicenda sul piano logico mentre, al momento della riprova pratica, gli strumenti continuano a registrare la loro separata validità. I fisici hanno avuto bisogno di una giustificazione filosofica (in fondo quindi si tratta di una lacuna non ancora colmata nella logica moderna) e hanno fatto ricorso al principio di contraddizione, così come è stato impiegato a esempio da Léon Rosenfeld. È naturale che i risultati non potevano essere floridi tirando in ballo il vecchio meccanismo della dialettica hegeliana che, come una mummia imbalsamata, continua a fare bella mostra di sé, anche fuori dai testi scolastici. In quel modo non si ottiene niente. Il problema dovrebbe essere riproposto utilizzando i nuovi mezzi logici del relazionismo e i nuovi mezzi psicologici della teoria della forma.

Ancora Geymonat: «Non esiste, da un lato, la pratica e, dall’altro, la teoria, ma pratica e teoria sono dialetticamente legate fra di loro. Ora, che cosa vuol dire sono “dialetticamente” legate fra di loro? Questi sono tutti problemi che sono sorti, in particolare, nell’epoca moderna e, più ancora in particolare, nel nostro secolo. Direi che una delle ragioni per cui la ragione è diventata così smaliziata, così critica e così autocritica è perché si è trovata di fronte a difficoltà di questo tipo: che cosa è la scienza? che cosa è il metodo scientifico? che cosa è la fantasia? qual è la funzione della fantasia? e qual è la funzione, invece, della creazione di modelli seri? Badate: usiamo la parola “serio” che è, in verità, una parola che possiede diverse implicazioni. Noi pensiamo che sia “serio” un certo modello, per esempio il modello atomico di Bohr-Rutherford, perché questo ha avuto successo. Successi buoni o cattivi, successi che ci mettono anche di fronte a problemi morali gravissimi, perché oggi la fisica atomica è diventata una delle vie per cui l’umanità può giungere alla propria auto-distruzione. Ora: è bene o è male la propria distruzione? Tutti ammettiamo, vagamente, che sia un male. Ma perché allora ammettiamo che questi metodi si possano chiamare scientifici se poi ci portano a delle conseguenze pratiche e a delle tecnologie che ci conducono alla distruzione? Analogamente, oggi, nell’ambito della biologia (e nella genetica, in particolare) abbiamo la possibilità di manipolare il gene in modo che non sappiamo bene se poi siamo effettivamente in grado di creare una nuova specie umana. Tuttavia se ci riferiamo alla tradizione teologica ci accorgiamo che in quella prospettiva le specie erano una cosa molto seria: il “Padre Eterno” aveva infatti fissato queste specie. Ma queste specie erano modificabili o non-modificabili? Indubbiamente la modificazione avveniva solo per ispirazione del “Padre Eterno”. Oggi invece noi siamo forse in grado di manipolare il gene umano in modo da determinare una trasformazione radicale di quella che è la specie umana. Questo è lecito o non è lecito? Ecco che sorgono dei problemi morali che la vecchia scienza non conosceva. In modo analogo possiamo chiederci: è lecito o non è lecito sviluppare sempre di più l’energia atomica e l’energia nucleare ponendo l’uomo in condizione di distruggere la terra stessa, di distruggere l’umanità e di distruggere, quindi, anche la nostra storia? Oppure è lecito o non è lecito modificare in modo radicale la specie umana? Questi sono solo alcuni dei nuovi ed inquietanti problemi che nascono direttamente dallo sviluppo della scienza. Ma è bene o è male questo sviluppo? Inoltre: è vero che questo sviluppo è uno sviluppo scientifico o non è vero che sia uno sviluppo scientifico? Merita veramente il titolo di “scientifico” questo sviluppo di discipline che ci possono portare alla distruzione della civiltà umana? Queste sono tutte domande nuove che nell’Ottocento non potevano formularsi. Oppure, se si formulavano, venivano avanzate solo ed esclusivamente nell’ambito della fantasia». (Dialettica scientifica e libertà, in L. Geymonat e G. Giorello, Le ragioni della scienza, op. cit., pp. 30-31).

La negazione del fare è morte del mondo modificativo, è la più alta affermazione della volontà di potenza che, riconosciuto il limite del possesso, vi si rivolta contro. Ogni determinatezza finita è così revocata in dubbio, ogni certezza scientifica scende dal suo piedistallo. L’aria nuova che si respira nella cosa libera dalle ristrettezze delle relazioni produttive, fa vivere un’esperienza puntuale diversa, ma non è l’azzeramento di tutto. L’unità è sempre remota e irraggiungibile. L’uno partecipa fino della più piccola briciola della immediatezza, ma solo nella rarefazione desolata della cosa la sua voce si fa sentire meglio. Non le sue parole, che non esistono, l’uno non ha bisogno di parole, ma la sua voce. Ogni lacerazione del mondo, ogni dolore e ogni inquietudine è presente in quella voce e risuona con maggiore insistenza nella cosa, ma non sono in grado di articolarne l’esistenza in parole. Non è la mia esistenza nel mondo che viene avvertita da questa voce ridondante, ma la mia esperienza nella cosa, la mia domanda fondamentale, tutto qui?, che in questo modo viene annichilita.


10) Le connessioni tra teoria fisica e fenomeni naturali. Una teoria fisica si assume il compito di descrivere i fenomeni naturali impiegando dei modelli matematici. Fino a che punto l’intensità d’informazione della teoria fisica si può definire soddisfacente riguardo quello che ci occorre sapere intorno ai fenomeni naturali relativi? La questione è molto complessa. Infatti il termine modello non può più essere inteso come espediente meccanico per tentare una concreta esemplificazione della teoria, quasi una “visualizzazione”, oggi la maggior parte dei modelli è costituita soltanto da equazioni matematiche. Possiamo accontentarci del fatto che una teoria diviene accettabile in prima istanza quando non viene in contrasto con i dati di fatto disponibili, mentre diventa definitivamente accettabile quando spiega fenomeni naturali che in precedenza avevano ricevuto solo spiegazioni contraddittorie, confuse o erano stati del tutto ignorati? Oppure diventa necessario cercare di studiare le giustificazioni allo stesso diritto di rappresentanza della teoria fisica.

Così Geymonat e Giorello: «Va notato che l’indiscutibile successo del convenzionalismo in matematica ha favorito l’estendersi di una simile concezione anche alle scienze fisiche, dove però la mentalità convenzionalistica non si trovò a combattere contro il preteso appello all’evidenza, ma contro la presunzione che i princìpi di tali scienze siano direttamente ricavabili dall’esperienza. La battaglia combattuta dal convenzionalismo dovette qui avvalersi, oltreché di una sottile critica dei presunti princìpi delle teorie fisiche, anche di un accurato esame del metodo sperimentale (in generale e nelle sue applicazioni particolari), e parimenti dei presupposti (spesso inconsapevoli) della cosiddetta matematizzazione dei fenomeni naturali. L’accettazione del convenzionalismo in riferimento alle teorie fisiche incontrò, come è ovvio, resistenze assai maggiori che quella del convenzionalismo matematico, ma finì anche qui per imporsi soprattutto quando ci si accorse che talune teorie tradizionali dovevano venire sostituite da altre, basate su princìpi nettamente diversi, per potere rendere conto dei nuovi fenomeni osservati. Quanto ora spiegato apre la via a due quesiti di notevole importanza filosofica. Il primo riguarda la cosiddetta chiusura della teoria scientifica; il secondo invece riguarda i criteri, se esistono, che possono venire invocati per distinguere una teoria scientifica assiomatizzata da un mero gioco. Il primo di questi due quesiti è semplice da spiegare. Abbiamo detto che in una teoria rigorosamente assiomatizzata i termini non hanno alcun significato intuitivo: essi sono implicitamente definiti dagli assiomi della teoria e cioè sono delle entità qualsiasi sottoposte all’unica condizione di soddisfare a tali assiomi. Ne segue che, se modifichiamo anche un solo assioma (ben inteso non sostituendolo con uno equivalente), muterà il significato esatto di tutti i termini della teoria e quindi la nuova teoria non parlerà più dei medesimi enti di cui parlava la precedente. Le conclusioni cui esse pervengono non avranno nulla a che vedere fra loro, anche se formulate con le stesse parole. Non avrà pertanto alcun senso rivolgersi a una teoria assiomatizzata per risolvere i problemi lasciati aperti da un’altra teoria assiomatizzata; ciascuna dovrà articolarsi per proprio conto a partire unicamente dai suoi assiomi. Diverso è il caso se una sola delle due teorie è assiomatizzata; allora l’altra potrà dare qualche spunto alla prima o da essa riceverlo. Ma questo scambio dovrà essere preceduto da un’opera di traduzione, che necessariamente tradirà, almeno in qualche misura, il significato della teoria assiomatizzata. Anche il secondo quesito ci conduce a riconoscere l’importanza del problema della traduzione. In effetti la risposta che più comunemente gli viene data è la seguente: una teoria assiomatizzata non si può confondere con un mero gioco se trova delle applicazioni pratiche che hanno successo. Ciò accade ad esempio per la meccanica quantistica assiomatizzata da von Neumann, e questo dimostra che essa è un’autentica scienza. Ma è noto che il mondo della pratica non può venire descritto e analizzato fuorché nel linguaggio comune, e quindi il criterio testé accennato esige anzitutto che la teoria in esame venga tradotta in tal linguaggio. Anche qui, dunque, ci si trova di fronte al problema di tradurre la teoria assiomatizzata in un linguaggio diverso da quello usato per esporla in forma assiomatica. Possiamo così comprendere perché il problema del linguaggio e della traduzione da un linguaggio all’altro è diventato così centrale nella moderna epistemologia. Esso pone in luce che il rigore formale, pur costituendo uno dei fattori principali che distingue la scienza dalla “non scienza”, non è certamente l’unico costituente della scienza stessa. Potremmo dire che proprio l’avere spinto il rigore formale al suo limite estremo, costituito dall’assiomatizzazione, ha fatto emergere la necessità di superarlo, facendoci constatare che la scienza non può ridursi ad una somma di teorie assiomatiche strutturalmente chiuse e perciò isolate l’una dall’altra, e parimenti isolate dalle teorie preformali trattate dal linguaggio comune». (Le ragioni della scienza, op. cit., pp. 12-13).

La storia che costruisco giornalmente è turbata a volte da intuizioni della qualità che le imprimono svolte incomprensibili perfino a me stesso. Io opero sulla possibilità che il destino mi invia, ma non nel senso medesimo della produzione di senso. Questa possibilità mi possiede, è totalmente compenetrata nella mia condizione immediata, ma io non la posseggo, mi è offerta in dono dal destino e ne capisco il significato profondo, e le sue infinite implicazioni, in funzione del mio impegno nell’apertura alla diversità. Il ruolo archetipo del destino resta ugualmente incomprensibile per tutti.


11) L’interpretazione della realtà nei diversi momenti storici. La razionalità nel considerare sotto un determinato aspetto il complesso dei fenomeni naturali non è sempre stata assicurata da uno stesso principio. Quello che noi riteniamo profondamente radicato nella mentalità corrente, il cosiddetto principio di causalità, per l’abolizione del quale si incontrano tutt’ora non pochi ostacoli e perplessità presso gli studiosi non interessati particolarmente alle nuove vie della scienza, era del tutto estraneo, poniamo, alla mentalità di Aristotele. Lo stesso fatto di affermare la “continuità della natura” è una credenza che è stato possibile localizzare nel periodo che va da Newton a Planck. Dello stesso genere transitorio è stato il principio meccanicistico della realtà, sul quale il determinismo elevava l’idea della causalità a nesso necessario dello svolgersi dei fenomeni.

Utile la lettura del passo di Friedrich Schelling: «Se si vogliono spiegare questi tratti dell’antichità, si devono spiegare a partire da tutte le circostanze concomitanti. Erodoto non dà alcun appiglio per una tale spiegazione; al contrario, se si legge tutto il passo, esso contiene la confutazione più categorica di quella spiegazione superficiale. La sua narrazione suona all’incirca così: a nessuna donna è consentito di sottrarsi allo straniero che presentandosi a lei (durante la festa di Militta) le getti in grembo del denaro dicendo: ti chiamo nel nome straniero di Militta. Non può sottrarsi anche se il denaro è poco o il meschino è miserabile; ella segue dunque il primo che la chiama; una volta che egli abbia fatto ciò che vuole, ella può tornare a casa, riconciliata e consacrata alla dea. Da quel momento in poi, continua Erodoto – il che sembra esser stato trascurato – da quel momento in poi non ci sarebbe prezzo, per quanto alto, con cui sarebbe possibile ottenerne i favori. Inoltre dice espressamente Erodoto, che la donna babilonese credeva di aver in tal modo soddisfatto la dea Militta e di essersi consacrata a lei. La Prostituzione era dunque di fatto secondo l’opinione dei Babilonesi effettivamente un’azione religiosa, per quanto orribile possiamo trovare tale abuso del termine. Come dobbiamo pensare tuttavia l’elemento religioso in quest’uso? Ricordiamo dunque che l’intera manifestazione di questa divinità femminile fu spiegata come apparizione del primo farsi femminile della coscienza rispetto al dio superiore, anzi, dello stesso dio che prima era esclusivamente posto in essa. Riflettiamo inoltre che alla coscienza che fuoriesce dal rigore e dall’esclusività del primo dio, il nuovo dio, il secondo che per la prima volta le si presenta le si dovette annunciare come completamente straniero; infatti in tutte le religioni e presso tutti i popoli in cui si può riscontrare solo una notizia di questo secondo dio – così vogliamo per brevità chiamarlo provvisoriamente – dal Caucaso al sud America, da là fino all’estremo nord della Scandinavia, in breve ovunque se ne abbia solo una notizia, questo dio che istituì costumi umani al posto della prima vita animalesca fu visto come lo straniero venuto da lontano. Se consideriamo tutto questo non sbaglieremo nel reputare che in questo tratto di una coscienza religiosa orrendamente traviata, in tutto questo comportamento non si scorge altro che l’espressione del primo, oscuro sentimento del dio ancora straniero, che appunto sta sopraggiungendo per la prima volta, colto nel suo avvento. Infatti il dio “poteva” apparire dapprima alla coscienza solo come un dio che viene e nel suo avvento. Non era ancora sviluppato, egli infatti si sviluppa la prima volta quando B è effettivamente vinto nella prima coscienza ma fin qui la coscienza ha un rapporto con lui solo in generale, la coscienza è per lui fin qui solo vincibile ma non effettivamente vinta. Fin qui egli era dunque appunto solo il dio che viene all’essere, e da un lato un estraneo per la coscienza (infatti fin qui essa era stata completamente riempita dal primo dio ed era appartenuta esclusivamente a questi), dall’altro un dio a cui non ci si può sottrarre, da cui la coscienza non può difendersi, non può rifiutarglisi, tanto quanto la donna babilonese non poteva rifiutarsi allo straniero secondo la narrazione di Erodoto. Il sentimento della coscienza in questo stato, dunque, in questo primo rapporto col nuovo dio non poteva essere certo diverso dal senso di esser venduta contro la sua volontà e con suo disgusto. Ciò dovrebbe essere ora del tutto evidente. Tuttavia non potrei che dare ragione a chi fosse però ancora poco esperto nella ricerca su tratti etici e religiosi sorprendenti, in particolare nel carattere della più remota antichità, se mi dicesse che è comprensibile che la coscienza percepisse il dio come un estraneo che viene da lontano e che non si può respingere, e che sentisse la prima irruzione del dio (già questo termine tedesco Anwandlung – irruzione – indica il farsi avanti), che la coscienza sentisse questa prima irruzione come una richiesta di prostituirsi al dio superiore, ma che non è affatto evidente, né in generale né in tale circostanza, questa conseguenza pratica, ossia che a causa di questo sentimento le donne babilonesi si prostituivano agli stranieri. Chi tuttavia, per spiegarci innanzitutto riguardo all’aspetto pratico (che si esprime in azioni) di rappresentazioni religiose, abbia imparato a riconoscere da un gran numero di esempi l’estrema ingenuità sensualistica, la cruda e spregiudicata naturalezza in tutto ma in particolare nelle usanze religiose dell’antichità da un lato, dall’altro le premure e le molestie pratiche e grossolane che le idee mitologiche instillavano nell’umanità primitiva, questi comprenderà bene anche questo tratto di una religione depravata. Appunto perché quelle rappresentazioni mitologiche non erano produzioni libere della coscienza, ma cieche, diventavano subito pratiche, la coscienza era obbligata da esse all’azione, e necessitata ad esprimerle attraverso l’azione; e del resto è un’esperienza psicologica generale, che quelle rappresentazioni dell’uomo che sorgono in lui spontaneamente, che, egli non può dominare con lo spirito, non può renderle oggettive, le esprime tramite l’azione». (Filosofia della mitologia, tr. it., Milano 1990, pp. 84-85).

La differenza radicale tra la cosa e l’immediatezza, tra l’agire e il fare, è nella forma del processo, la presenza della qualità conferisce una capacità di trasformazione che il fare non possiede, costringe l’immediatezza a ricominciare daccapo a ricontrollare le concordanze che potrebbero essere andate per aria. Il contenuto è così rivisitato dalla tensione che si era allontanata grazie al mio coinvolgimento e alla mia capacità di rammemorazione. Il modello del mondo non regge, crollando all’interno delle sue incomponibili distinzioni, vi sostituisco il modello dell’uno, per come posso coglierlo io nell’ambito del conoscibile. L’uno che è, regola, nella sua immutabile esistenza che non può non essere, il rapporto straordinariamente fecondo tra tensione e contenuto, tra azione e fatto. Ogni intenzione divergente, tentativi di completezza nel fare accumulativo e tentativi di perdita totale nella desolazione, follia pura, ricordano l’abbaglio hegeliano, la vecchia negligenza di fronte alla lezione dell’uno.


12) La limitazione dell’oggettività matematica. Una separazione tra soggetto che percepisce e oggetto che viene percepito è necessaria a qualsiasi indagine epistemologica. Comunemente viene accettata l’ammissione che la simbolistica matematica raggiunge il maggiore grado di oggettività estraneandosi completamente dal soggetto che percepisce. In effetti questa ammissione deve fondarsi anche su di un altro fatto: l’indagine deve restare nella zona di relazioni previste e stabilite da una organizzazione logica compiuta. Ma di fronte alla “realtà”, di fronte al susseguirsi dei fenomeni fisici che possono presentarsi in modo da costituire nuovi fatti, la possibilità di potere sempre ricorrere all’ausilio della simbolistica matematica ci pare alquanto dubbia.

Ludovico Geymonat e Giulio Giorello affermano: «Proprio la trattazione matematica di un fenomeno è ciò che ci avvia a comprendere il significato del concetto di “approfondimento” del fenomeno stesso. Infatti la trattazione matematica in questione riesce a inquadrare il fenomeno esaminato in uno schema più astratto che ci permette di farcene un’idea più generale, meno legata alla contingenza: e proprio in ciò consiste l’approfondimento scientifico del fenomeno. Così per es. noi diciamo che la teoria generale della relatività ha approfondito il fenomeno già noto dell’identità numerica fra massa gravitazionale e massa inerziale perché è riuscita a inquadrarla in una teoria generale ove essa perde il suo carattere contingente (puramente fattuale) per renderla necessaria. Per lo scienziato ordinario approfondire un risultato significa spiegarlo, il che equivale a dire dedurlo all’interno di una teoria più generale, e questo giustifica il fatto che i due concetti di approfondimento e di matematizzazione siano strettamente collegati fra loro. I capitoli della matematica che oggi si applicano per matematizzare i fenomeni vanno molto al di là dei pochi che venivano usati una volta a questo scopo (che erano principalmente la geometria e l’analisi infinitesimale); ma qualcosa li accomuna: la traduzione del fenomeno stesso in simboli astratti e dei princìpi fisici che regolano il decorso del fenomeno in equazioni fra tali simboli. Il fenomeno si dirà spiegato se la ritraduzione inversa dalla soluzione di tale equazione darà luogo alla descrizione dell’esito del processo fisico preso in esame. Ciò non significa, ben inteso, che a ogni singola operazione fra quei simboli corrisponda una precisa fase del processo fisico, ma che vi è una corrispondenza globale. Da notarsi che il fatto stesso che possa esservi questa corrispondenza globale senza una corrispondenza passo passo fra tutto il decorso del fenomeno e lo sviluppo del calcolo, sta a dimostrare che il fenomeno non è opera nostra mentre lo è la teoria matematica in cui il fenomeno viene matematizzato. Tanto è vero che la teoria adoperata per matematizzare un campo fenomenico può venire di volta in volta riplasmata e corretta per renderla più idonea al suo scopo, e questo riconferma la differenza fra fenomeno preso nella sua oggettività e fenomeno simbolizzato». (Le ragioni della scienza, op. cit., pp. 16-17).

Posto l’uno non c’è modo di negarlo. L’immediatezza che ama circoscrivere non lo annulla determinandolo fisicamente nella logica del dire, è un passaggio come un altro, non c’è la necessità che conduce alla negazione se non l’ovvia chiusura della presunta via verso la completezza. L’oltrepassamento del rapporto tra affermazione e negazione non supera l’esistenza di un taglio che nasconde il peso incolmabile di un’assenza. Non ci sono distinzioni che mi soddisfano, ognuna muore prima di darmi un significato che sia degno della propria tensione. A nessuna specificazione il processo si ferma, va avanti, ciò nega ogni completezza, ma anche ogni anima rigida interna al processo stesso. L’assenza di completezza è l’essenza del processo, e difatti l’uno ha nella propria assolutezza l’assenza di completezza. Se l’uno si dovesse completare per essere uno, non lo sarebbe ora, quindi non si potrebbe nemmeno parlare di un uno che è e non può non essere. L’uno non è incompleto, ma è al di là della completezza, ecco perché la sua presenza è nell’assenza e nell’altro assolutamente presente. Il fare si libera da ciò che non gli riesce di conquistare, come lo scultore scarta il marmo superfluo dalla statua che scolpisce, ma non riesce a scartare l’uno che lo comprende, lo stesso per la critica negativa e per l’esperienza nella cosa. I livelli di intensità sono certamente differenti, ma la presenza dell’uno è ugualmente identificabile. Essa risuona dal principio alla fine di ogni movimento. Più si intensifica la tensione, la qualità e la desolazione, moduli linguistici per dire lo stesso aspetto della realtà, e più l’uno emerge con maggiore evidenza. La libertà nella cosa, la qualità estrema, è possibile coglierla con uno sforzo intuitivo e di coinvolgimento, ma la presenza dell’uno non posso coglierla, la deduco, sempre a posteriori, per ragionevolezza logica.


13) Soggettivismo e oggettivismo. Con la teoria della relatività si è affermato il principio del soggettivismo dell’intera ricerca fisica, in quanto tutti i concetti, via via introdotti dopo la teoria dei quanti, risentivano del loro carattere soggettivo. Nonostante ciò, almeno in apparenza, la stessa teoria della relatività persisteva nella rigorosa considerazione oggettiva della realtà sottoposta a osservazione. Questo intimo contrasto che, per quanto ci si trovi in un campo che adotta per costituzione soltanto sviluppi matematici, ripresenta i termini di una contrapposizione filosofica vecchia di millenni, sembra sia stato superato dalla meccanica fondata sul quanto d’azione, con la quale si è ammesso il principio che l’ideale di oggettività, nell’osservazione dei fenomeni e nella loro misurazione, non può essere pienamente raggiunto. Quale è stato l’insegnamento che la ricerca filosofica ha tratto da tutto ciò?

Così Karl Jaspers: «L’oggettività e la soggettività abbracciano di volta in volta un mondo di forme e direzioni. L’oggettività è equivoca quanto la soggettività. Lo schema della loro polarità è quindi indeterminato. Oggettività. Oggettivo è, innanzitutto, ciò che sta di fronte a un io, in quanto si contrappone all’oggetto, si chiama soggettivo. Ciò che sta di fronte è l’esteriorità che si differenzia dall’interiorità del soggetto. Esteriore è l’altro, l’estraneo che però è anche determinato e chiaro. Interiore è l’indeterminato e l’oscuro, di ciò non è possibile averne un’autentica coscienza se non si chiarisce nell’oggettività. Il soggetto non solo diventa consapevole di sé nell’oggettività, ma si rende conto che l’oggettività è, in secondo luogo, validità. Essa non è qualcosa di impensato che dimora nella cieca confusione di un esserci, ma è l’oggettività che scaturisce dalla separazione del soggetto, è l’oggettività in sé in cui l’essere-oggetto e l’esser-pensato si identificano. Come pensato, l’oggettività è l’universale validità, sia nel senso dell’esattezza che accompagna la valida conoscenza dell’esserci, sia nel senso della giustezza di un dovere che, con le sue esigenze, determina l’azione del soggetto. Oggettive sono le leggi della natura che consentono di comprendere la causale necessità degli eventi che effettivamente accadono in conformità alle leggi che così sono state concepite, oggettive sono le leggi del dover-essere che enunciano in termini universali ciò che si deve fare, anche se poi non viene fatto. Ha invece una validità consistente l’alterità che non esiste per sé, ma per il soggetto. Il soggetto, che è relazione con sé e che sussiste per sé nell’autocoscienza, si contrappone ad ogni universale validità. Nella sua universalità, la validità è indefinita e mai conclusa. Nella sua autocoscienza il soggetto si rifiuta di vedere in essa la verità pura e semplice, nonostante l’aspetto granitico della sua insuperabile validità. Nella sua verità l’oggettività è, in terzo luogo, la totalità di cui la giustezza è solo una componente. Nella sua oggettività e nella sua validità, la cosa è solo la sua struttura morta, perché, come totalità vivente, la cosa è l’idea. Il soggetto, infine, non sta di fronte agli oggetti, ma vive in un mondo. Questo mondo è per il soggetto qualcosa di scisso, in cui gli oggetti gli si presentano nella loro indefinita molteplicità; in relazione al suo esserci, invece, il mondo è una totalità, e l’oggettività è la sostanza di una realtà penetrata dall’idea. Ognuno di questi tre gradi, l’oggettività come esteriorità, la validità come universalità e l’idea come totalità, presuppone il grado precedente e quello successivo. L’oggettività presente in ciascun grado è il correlato di un soggetto. Soggettività. Come coscienza in generale, il soggetto è, innanzitutto, l’esser-io astratto e non-individuale di un pensiero rivolto all’esteriorità e all’oggettività che, come un ambito onnicomprensivo, include tutto ciò che ci si presenta. Come coscienza individuale, il soggetto è, in secondo luogo, un esserci empiricamente determinato nella sua singolarità, che possiede una volontà arbitraria e un impulso vitale impenetrabile. Come coscienza di ciò che è valido, il soggetto è, in terzo luogo, quell’essere razionale che si sottomette alla conoscenza logicamente vincolante, e, come personalità, colui in cui si realizza l’idea. Ognuno di questi tre gradi, lo stato di coscienza in generale (interiorità), quello della coscienza individuale (casualità, arbitrio e volontà propria) e quello della coscienza della validità (ente razionale e personalità), presuppone quello precedente e quello successivo. Per ognuno di essi l’oggettività assume una forza specifica: per la coscienza in generale la forma dell’oggettività in generale, per l’esserci individuale quella della molteplicità indefinita, per l’ente razionale quella della validità, per la personalità quella dell’idea. Indissolubilità di soggettività e oggettività. Nell’orientazione nel mondo occorre riconoscere il condizionamento soggettivo di tutta l’oggettività. Le qualità percettibili del mondo dei sensi sono condizionate dalle proprietà psicologiche dell’organismo, mentre gli oggetti della conoscenza sono condizionati dalla coscienza in generale per cui esistono. Se, con Kant, considero la soggettività come il principio che dà forma a ogni cosa, allora ogni forma ha i propri limiti nella materia corrispondente. Non si può concepire il mondo come qualcosa di puro, cioè di logico, che si lascia dedurre dalla forma e dalle forme delle forme, perché esso è originariamente dualistico, in quanto la sua oggettività è quella totalità che nasce dalla forma che procede dal soggetto e dalla materia impenetrabile. Il soggetto in questione, ovviamente, non è il soggetto individuale, ma la coscienza in generale. Già qui è possibile una depravazione del pensiero in un cattivo soggettivismo. Quando si afferma, ad esempio, che ogni oggettività è creata dal soggetto, che di sicuro c’è solo il proprio esserci, e che persino gli altri uomini, nella realtà del loro esserci, per me sono problematici, allora occorre notare che quell’io, che non ritrova la via per accedere alla realtà del mondo esteriore, è una falsa astrazione; non c’è un io del genere, perché, dovunque c’è un io, lì ci sono anche degli oggetti per lui, oggetti che non sono solo dedotti, ma immediatamente certi, come certo crede di essere quell’io di sé. L’io che si sa nel suo esserci e la realtà degli oggetti sono tutt’uno, l’uno non esiste senza l’altra e non è più reale dell’altra. Certo, la percezione delle oggettività è legata a condizioni soggettive; le cose non sono in sé come sono per il soggetto, ma la loro formazione ad opera del soggetto e la loro manifestazione per il soggetto hanno, come loro fondamento, qualcosa che è stato dato, qualcosa a cui si può dar forma, qualcosa che si manifesta nell’oggetto e nel soggetto empirico. Completamente diversa dalla costruzione trascendentale kantiana della soggettività come condizione dell’oggettività è l’analisi storico-psicologica della soggettività dell’uomo come creatore di prodotti spirituali. Ciò che emerge storicamente nelle opere dello spirito, nei miti e nei contenuti metafisici, lo si indaga verificandone le origini, e lo si deduce da determinate forze, condizioni e situazioni. Il problema della genesi, che è oggettivamente determinabile, ha un suo senso all’interno dell’orientazione nel mondo solo se in quest’ambito si sono avuti dei risultati empirici determinati. Senza questa soggettività creatrice, non c’è oggettività che possa entrare nell’esserci. Ma ci si inganna se si afferma che questa soggettività creatrice si risolve interamente in queste connessioni. Anche nel caso di fatti ben stabiliti, ciò che si indaga oggettivamente è solo un aspetto; ciò che c’è di vero e di sensato nel prodotto, ciò che d’oggettivo s’è in esso appreso, non lo si può comprendere per il solo fatto che se ne conosce la genesi. Tanto l’affermazione dell’evento che conduce necessariamente a questi risultati spirituali, quanto quella della sua creazione ad opera della soggettività non sono tesi che si possono sostenere nella loro generalità. Piuttosto, in ogni creazione è percepibile qualcos’altro che in essa si annuncia. Il fatto che questa percezione non si accompagni all’evidenza di una contemporanea percezione sensibile, ma esige, come sua condizione e presupposto, che la persona sia posseduta dall’idea, è sufficiente perché la si ponga su un altro piano che è inaccessibile a ogni percezione della coscienza in generale. Ciò che per l’indagine che orienta nel mondo è un esserci che come individuo empirico mette capo a determinati prodotti per cause psicologiche o d’altro genere, ciò che appare come creazione della personalità posseduta dall’idea è originariamente legato all’esistenza che si manifesta in questo insieme di soggettività e oggettività. Se in seguito si pensa all’esistenza come a quel soggetto per il quale esistono i prodotti metafisici, allora, anche qui, l’esistenza è origine e condizione perché nell’ambito della coscienza in generale appaiano tali prodotti». (Filosofia, tr. it., Torino 1978, pp. 822-826).

Non è pensabile una libertà perfetta, cioè una qualsiasi qualità ridotta a residuo della immediatezza, che possa andarsi perfezionando fino ad attingere la completezza. Ciò segna una irreparabile distanza tra una libertà e la libertà, difatti è solo col mio coinvolgimento che colgo una condizione altrimenti non rintracciabile. Eppure questa irreparabilità per costituirsi in quanto fatto deve rintracciare in se stessa il senso che la collega a una qualità ormai remota, e questo rintracciare è la voce dell’uno, che parla anche nella lontananza più remota. Lo stesso non è pensabile in una negazione perfetta. La perfezione negativa si adagia sull’affermazione di quanto criticamente si è conquistato, un possesso anche questo, accidentale come qualsiasi possesso, ma non esente, nella sua accidentalità, del richiamo dell’uno. L’indifferenza dell’uno è ancora più avvertibile nella cosa, dove la mia esperienza diversa si risolve nella sua negazione, nel suo azzeramento, semplicemente per un insistere nella domanda fondamentale. Di queste vicissitudini, solo a posteriori si capiscono i motivi della loro insistenza, quello che nel campo chiamo ragione. Ogni movimento può essere e anche può non essere, ma il mondo procede in senso facilmente modificabile e non facilmente trasformabile.


14) Personalità unitaria e fluidità della facoltà associativa. Si tratta di un contrasto che potrebbe essere utilmente rapportato al contrasto non meno grave che esiste in fisica tra teoria ondulatoria determinante l’andamento delle particelle di materia e la realtà indistruttibile della particella stessa la quale non può essere svestita da una propria individualità.

È bene ricordare James Clerk Maxwell: «In parecchie parti di questo trattato si è tentato di spiegare i fenomeni elettromagnetici ricorrendo all’azione meccanica trasmessa da un corpo all’altro tramite un mezzo che occupi lo spazio tra loro interposto. La teoria ondulatoria della luce ipotizza pure l’esistenza di un mezzo. Dobbiamo ora dimostrare che le proprietà del mezzo elettromagnetico sono identiche a quelle del mezzo in cui si propaga la luce. Nella teoria dell’elettricità e del magnetismo sostenuta in questo trattato si riconoscono due forme di energia, l’elettrostatica e l’elettrocinetica, e si suppone che esse abbiano sede non solo nei corpi elettrizzati o magnetizzati, ma in ogni parte dello spazio circostante, in cui si osservi l’azione della forza elettrica o magnetica. Perciò la nostra teoria concorda con la teoria ondulatoria nel supporre l’esistenza di un mezzo che è in grado di diventare ricettacolo di due forme di energia». (Trattato di elettricità e magnetismo, tr. it., Torino 1973, p. 576).

La mia creazione del mondo è subordinata alla mia volontà di volerlo e di tenerlo in piedi accettandone le coordinate e le corrispondenze. Non è una creazione libera perché non sono libero, sono io stesso questa creazione e le regole che pongo, nello stesso tempo, mi pongono. In che modo questa creazione risenta dell’assenza, e in che modo questa assenza riproduca in negativo, per altro tutto da approfondire, la presenza altra, l’immediatezza non lo sa, quello che conosce, poco e male, le è tuttavia sufficiente per andare avanti nella produzione modificativa. Sia la produzione quantitativa, sia l’essenza qualitativa, mancano del reciproco completamento, rimandano cioè a una condizione reciprocamente diversa. L’esperienza immediata rimanda all’esperienza diversa e questa si conclude nella rammemorazione che prende corpo un’altra volta nell’esperienza immediata. Nell’uno queste figure non si pongono in maniera distinta, mancando la distinzione, ma il loro azzeramento renderebbe muto l’uno. Quindi l’uno che è e non può non essere è perché esistono le mie due esperienze e la differenza tra di loro è un modo di ricordare il modo diverso con cui si può avvertire il richiamo dell’uno. La mia creazione è una falsa creazione, come tutte le creazioni, ma nella sua falsità ribalta la pari falsità della percezione che separa qualità e quantità, rende possibile il pensiero dell’unità, genera un ascolto che altrimenti resterebbe sordo per sempre.


15) È possibile oggi una nuova Weltanschauung? La formazione di una nuova illusione è sempre possibile, ma comunque da evitarsi con tutte le forze. Oggi una nuova metafisica che si ponga come fondamento non più la sostanza ma il “relativo”, potrebbe forse causare più storture di quante non ne abbia causato in passato. Ogni atteggiamento nei confronti della realtà, una volta che viene accettato universalmente, corre il rischio di essere trasformato in vane parole e assurde deduzioni.

Attentamente Jean-Paul Sartre: «Se l’uomo è ciò che è, la malafede è assolutamente impossibile, e la franchezza cessa d’essere il suo ideale per diventare il suo essere; ma l’uomo è ciò che è, in linea generale, come si può essere ciò che si è, se si è come coscienza d’essere? Se la franchezza o sincerità è un valore universale, va da sé che la massima “bisogna essere ciò che si è”, non serve unicamente da principio regolatore per i giudizi ed i concetti con i quali io esprimo ciò che sono. Essa pone non soltanto un ideale del conoscere, ma un ideale d’essere, propone un’adeguazione assoluta dell’essere con se stesso come prototipo d’essere. In questo senso bisogna che ci facciamo essere ciò che siamo. Ma che cosa siamo dunque se abbiamo l’obbligo costante di farci essere ciò che siamo, se siamo nel modo d’essere del dover essere ciò che siamo? [...] In tali condizioni, che cosa significa l’ideale di sincerità, se non un compito impossibile da adempiere ed il cui significato stesso è in contraddizione con la struttura della coscienza? Essere sincero [...] è essere ciò che si è. Ciò presuppone che io non sia all’origine ciò che sono. Qui, naturalmente, è sottinteso il “tu devi, dunque puoi” di Kant. Posso divenire sincero: ecco ciò che implicano il mio dovere ed il mio sforzo di sincerità. Ora, precisamente, constatiamo che la struttura originaria del “non essere ciò che si è” rende anticipatamente impossibile ogni divenire verso l’essere in sé o “essere ciò che si è”. E questa impossibilità non è nascosta alla coscienza; è invece proprio il fondo della coscienza, la pena costante che si prova, è l’incapacità stessa a riconoscerci, ad organizzarci ad essere ciò che siamo, è la necessità che esige che, dopo aver posto noi stessi come un certo essere mediante un giudizio legittimo, fondato sull’esperienza interna, o correttamente dedotto da premesse a priori od empiriche, con questa stessa posizione superiamo noi stessi – e non verso un altro essere: verso il vuoto, verso il niente. Come dunque possiamo biasimare altri di non essere sincero e compiacerci della nostra sincerità, se nello stesso momento la sincerità ci appare come impossibile? [...] Il vero problema della malafede proviene evidentemente dal fatto che la malafede è fede. Essa non può essere né menzogna cinica né evidenza, se l’evidenza è possesso intuitivo dell’oggetto. Se si chiama credenza l’adesione dell’essere al suo oggetto, quando l’oggetto non è dato o è dato in modo indistinto, la malafede è credenza ed il problema essenziale della malafede è un problema di credenza. Come si può credere in malafede ai concetti che ci si forgia espressamente per persuadersi? Bisogna notare, infatti, che il piano di malafede deve essere anch’esso in malafede; io non sono in malafede soltanto al termine del mio sforzo, quando ho costruito i miei concetti anfibolici, e me ne sono persuaso. A dire il vero, io non mi sono persuaso; per quanto potevo, lo sono sempre stato. Nel momento stesso in cui mi disponevo a mettermi in malafede, dovevo già essere in malafede nei confronti di tali disposizioni. Rappresentarmi queste disposizioni come in malafede, sarebbe stato cinismo: crederle sinceramente innocenti sarebbe stato buona fede. La decisione di essere in malafede non osa dichiararsi, si crede e non si crede in malafede, si crede e non si crede in buona fede. Ed è essa che, dal momento della nascita della malafede decide di tutta la condotta ulteriore e, per così dire, della Weltanschauung della malafede. Perché la malafede non conserva le norme ed i criteri di verità, che sono accettati dal pensiero critico in buona fede. Infatti essa decide anzitutto della natura della verità. Con la malafede appare una verità, un metodo di pensare, un tipo di essere degli oggetti; e questo mondo di malafede, da cui il soggetto si trova circondato, ha per caratteristica ontologica che l’essere in esso è ciò che non è, e non è ciò che è. Conseguentemente appare un tipo di evidenza singolare, l’evidenza non persuasiva. La malafede coglie delle evidenze, ma è già prima rassegnata a non essere riempita da queste evidenze, a non essere persuasa e trasformata in buona fede; si fa umile e modesta, non ignora – dice – che la fede è decisione e che dopo ogni intuizione bisogna decidere e volere ciò che è. Così la malafede fin dal suo piano originario, dal suo sorgere, decide dell’esatta natura delle sue esigenze, si delinea intera nella risoluzione che prende di non chiedere troppo, di considerarsi soddisfatta quando sarà poco persuasa, di forzare con decisione la propria adesione alla verità incerta. Il primo progetto di malafede è una decisione in malafede sulla natura della fede. Non si tratta – s’intende – di una decisione riflessiva e volontaria, ma di una determinazione spontanea dell’essere. Ci si mette in malafede come ci si addormenta e si è in malafede come si sogna. Una volta realizzato questo modo d’essere, è altrettanto difficile uscirne, come svegliarsi; gli è che la malafede è un tipo di essere nel mondo come la veglia ed il sogno, che tende per se stesso a perpetuarsi, quantunque la sua conformazione sia del tipo metastabile. La malafede è cosciente della sua conformazione ed ha preso le sue precauzioni, decidendo che la struttura metastabile sarà la struttura dell’essere e la non-persuasione la struttura di tutte le convinzioni. [...] La buona fede vuole sfuggire il “non-credere-ciò-che-non-si-crede” (riparando) nell’essere; la malafede fugge l’essere nel “non-credere-ciò-che-si-crede”. Ha disarmato anticipatamente ogni credenza; quelle che vorrebbe acquistare e, insieme, le altre che vuole sfuggire. Volendo questa auto-distruzione della credenza, da cui la scienza evade verso l’evidenza, demolisce le credenze che le si oppongono, che si rivelano anch’esse non essere che credenze. [...] Nella malafede non c’è cinica menzogna né sapiente preparazione di concetti ingannatori. Ma il primo atto di malafede è (posto) per fuggire ciò che non si può fuggire, fuggire ciò che si è. Ora, lo stesso piano di fuga rivela alla malafede un’intima disgregazione in seno all’essere, ed essa vuole essere proprio questa disgregazione. Gli è che le due attitudini immediate che possiamo prendere di fronte al nostro essere sono condizionate dalla natura di questo essere e dal suo rapporto immediato con l’in-sé. La buona fede cerca di sfuggire alla “disgregazione intima” dell’essere (riparando) verso l’in-sé che essa dovrebbe essere e non è. La malafede cerca di sfuggire all’in-sé (riparando) nella disgregazione intima dell’essere. Ma questa disgregazione, la nega nello stesso modo, come nega di essere malafede. Fuggendo, attraverso il “non-essere-ciò-che-si-è”, l’in-sé che io non sono nel modo d’essere ciò che non si è, la malafede, che si rinnega come malafede, mira all’in-sé che non sono nel modo del “non essere ciò che non si è” [...]. Se la malafede è possibile, è perché essa è la minaccia immediata e permanente di ogni progetto dell’essere umano, è perché la coscienza nasconde nel suo essere un rischio permanente di malafede. E l’origine del rischio è che la coscienza, nel suo essere e contemporaneamente è ciò che non è, e non è ciò che è». (L’essere e il nulla, tr. it., Milano 1968, pp. 110-114).

La realtà del mondo è nel negativo del suo produrre, come la realtà della conquista è nella sua perdita. Ciò conduce alla cosa, al territorio della qualità. Ciò è anche l’uno che è, non qualcosa di esterno che può non essere. Quello che genera l’intuizione dell’esperienza diversa è certamente l’inquietudine dell’incompletezza, ma è anche l’insieme del processo orientativo, dal suo proporsi percettivo fino alla conclusione rammemorante, dall’interno della percezione avverto l’esistenza della mancanza, dell’assenza, specchio dell’assolutamente altro. Questo insieme rinvia all’uno che è e non può non essere.


16) Il mondo delle particelle. Una delle conseguenze più importanti del principio fisico d’indeterminazione è quella relativa a come considerare in particella atomica e il mondo immediatamente relativo alle particelle atomiche. In effetti la nostra impossibilità di conoscenza si traduce in una impossibilità di oggettivazione che non è sempre di origine soggettiva, cioè non dipende dalla necessaria approssimazione dei nostri mezzi di misurazione e di descrizione, ma ha anche un fondamento obiettivo. È proprio questo che ha indotto Heisenberg a definire il mondo della particelle come un mondo di “potenzialità e di possibilità, piuttosto che un mondo di cose e di fatti”. Il che ha una importanza filosofica grandissima, salvo che non si voglia rinunciare a considerare le particelle come esistenti e ripiegare nella trattazione dei fenomeni del macrocosmo, affermando che soltanto questi sono significativi per la ricerca filosofica, che sarebbe un poco come lasciarsi morire di fame per non avere la fatica di masticare.

Ancora Sartre: «Senza dubbio, io sono sempre le mie possibilità, al modo della coscienza non-etica e (di) queste possibilità; ma, nello stesso tempo, lo sguardo me le porta via: finora io coglievo teticamente le possibilità sul mondo e nel mondo, a titolo di potenzialità degli utensili; l’angolo scuro del corridoio mi rimandava la possibilità di nascondermici come una semplice qualità potenziale della sua penombra, come un invito della sua oscurità; questa qualità o utensilità dell’oggetto apparteneva ad esso solo e si presentava come una proprietà oggettiva ed ideale, la cui caratteristica era l’appartenenza reale a quel complesso che abbiamo chiamato situazione. Ma, con lo sguardo dell’altro, una nuova organizzazione dei complessi viene a sovrapporsi alla prima. Cogliermi come visto vuol dire cogliermi come visto nel mondo ed a partire dal mondo». (L’essere e il nulla, op. cit., pp. 326-327).

Conseguenza di questa voce dell’uno che si avverte sia nel campo che nella cosa, è che spesso essa è vista come voce della cosa stessa. E restando nell’ambito dell’esperienza diversa, la voce della cosa non può distinguersi da quella dell’uno, come non potrebbe distinguersi nemmeno nell’ambito dell’esperienza immediata se qui cessasse per un attimo il baccano della produzione modificativa. L’intero processo che io distinguo e che scompare perfettamente nell’uno, ha il punto massimo di intensità qualitativa proprio nella cosa, dove la tensione raggiunge il livello più alto. Traducendo in termini più vasti queste considerazioni si arriva alla puntualità dell’uno, dove non ho accesso e di cui non posso rammemorare nulla. La vita dell’uno non esisterebbe se io non creassi il mondo, di quest’ultimo posso parlare del primo ne posso fare cenno solo perché posso parlare del secondo. Ne deriva che l’uno che è è nel mondo, quindi segue le regole logiche del mondo, quelle dell’a poco a poco, ma per questo motivo resta inaccessibile a qualsiasi conoscenza. Mi ostino, e sono obbligato a ostinarmi, a usare una chiave sbagliata per aprire la sua serratura.


17) Arte e fisica. Certamente la questione non può racchiudersi in un banale paragone. Gli argomenti da chiarire sono praticamente illimitati. Comunque, in questa sede, basta notare che l’asistematicità tipica delle armonie che l’arte riesce a suscitare si adattano molto di più al carattere definito della fisica moderna che non alle vecchie concezioni deterministe. In definitiva l’artista, pure muovendo dall’ispirazione e non dall’osservazione utilizza gli stessi mezzi linguistici e si limita a tracciare una intensità di comunicazione, allo stesso modo dello scienziato che deve mantenere una intensità di comunicazione che renda valido il suo lavoro di ricerca.

Indiretto il contributo di John Dewey: «La natura della generalizzazione della relazione fra “princìpi primi” e conclusioni (in matematica e in fisica) può esser lumeggiata considerando il significato che hanno i princìpi primi in logica, nella loro formulazione tradizionale di princìpi d’identità, non contraddizione e terzo escluso. Da un certo punto di vista essi rappresenterebbero immutabili proprietà fondamentali degli oggetti su cui si esercita la ricerca, e ai quali la ricerca deve conformarsi. In armonia con le vedute qui espresse, essi rappresentano, invece, quelle condizioni di cui nel corso di un’indagine continuativa si è accertata la presenza nel suo stesso fecondo svolgimento. Teoreticamente, v’è una radicale differenza fra le due concezioni, malgrado possa sembrare che si equivalgano. Infatti la seconda posizione comporta, come già s’è precisato, il generarsi dei princìpi nello stesso processo di controllo dell’indagine continuativa, mentre in armonia con l’altro punto di vista bisognerebbe concepirli come princìpi a priori fissati anteriormente alla ricerca e condizionanti questa ab extra. Giacché, inoltre, gli abiti operanti possono essere più o meno estesi quanto al loro ambito, le formulazioni di metodi risultanti dalla loro osservazione possono avere una più limitata o più estesa validità. Peirce illustra il tipo d’abito di validità più ristretta per mezzo dell’esempio seguente: una persona ha visto un disco rotante di rame arrestarsi quando viene piazzato in mezzo a due magneti. Ne inferisce che un altro pezzo di rame si comporterà analogamente in condizioni simili. Da principio tali illazioni vengono compiute senza che venga formulato un principio. La disposizione che opera in tal caso ha un campo limitato. Essa non va al di là dei pezzi di rame. Ma quando si trova che vi sono abiti insiti in ogni illazione, malgrado la disparità della materia trattata, e quando tali abiti vengono osservati e determinati, allora tali formulazioni costituiscono dei princìpi guida o direttivi. I princìpi enunciano abiti operativi validi per ogni illazione che tenda a produrre risultati stabili e fecondi in ulteriori indagini. Non essendo connessi con nessuna particolare materia, essi sono formali, non materiali, sebbene siano forme del materiale sottoposto a una reale indagine. Ogni abito è una via o modo d’azione, non un atto o gesto particolare. La sua formulazione costituisce, in quanto accettata, una regola, o più in generale, un principio o una “legge” d’azione. Difficilmente può negarsi che esistono abiti d’illazione e che essi possono essere formulati in forma di regole o princìpi. Se esistono poi abiti tali da riuscire necessari alla condotta di ogni feconda indagine illazionale, deve ben dirsi che le formulazioni che le esprimono costituiscono princìpi logici di tutte le indagini. In questa affermazione “fecondo” significa capace di operare in modo tale da portare alla lunga, ossia nella continuità della ricerca, a risultati suscettibili di conferma nell’ulteriore ricerca o di rettifica mediante l’uso degli stessi procedimenti. Tali princìpi-guida logici non sono premesse dell’illazione o del ragionamento. Essi sono condizioni che devono essere rispettate in quanto la loro conoscenza fornisce un principio di direzione e di prova. Sono formulazioni dei modi di trattare una materia, che si sono trovate capaci di portare a determinare così bene, per il passato, conclusioni corrette, da essere assunte a regolare l’ulteriore indagine, finché non vengano scoperti positivi elementi di dubbio. E sebbene siano tratte dall’esame dei metodi precedentemente usati con riguardo alla natura dei risultati ai quali condussero, esse sono operativamente a priori rispetto all’ulteriore indagine». (Logica. Teoria dell’indagine, tr. it., Torino 1949, pp. 44-45).

Ogni ipotesi che parla della specificazione come effettiva e duratura separazione è destinata a contraddirsi. Assolutizzare l’uno in quello che è e non renderlo partecipe della cosa o dell’oggetto significa ridurlo in uno stato di sudditanza, stato in cui genera ma non esce da sé. Ogni generazione è compartecipazione, l’uno non genera se non presenziando al fatto, all’agito generato. E in questa presenza si riassume il suo distacco, la sua differenza e il suo essere tutto. La risoluzione dei movimenti non è nell’uno, in quanto non esisterebbero in questo caso, ma essi sono risolti in me che li rendo possibili, sia come produzione, sia come interpretazione, sia come trasformazione. Dell’uno, che scivola sotto tutti questi movimenti, io posso dire che è la parola che individua una ipotetica regione della cosa e dell’uno, ma è regione che non segue le regole fittizie del mondo da me creato. In quanto è e non può non essere, l’uno non è creato da me ma mi contiene rendendomi capace di creare modulazioni che gli sono estranee e quindi capaci anche di parlare di lui come realtà esistente.


18) La non individualità delle particelle e la posizione di due filosofi. Ernst Cassirer l’accetta rifacendosi al princìpium individuationis e al rapporto spazio-tempo, così come è stato definito da Hertz a proposito del problema della massa: “un contrassegno mercé cui associamo a ogni punto del tempo un punto nello spazio”. Da notare che su questa stessa interpretazione del rapporto spazio-tempo si erano fermati in passato filosofi come Locke e Schopenhauer. Émile Meyerson la rifiuta in modo assoluto trovandosi a dovere accettare la tesi di abbandono del determinismo, anche se tutta la sua posizione filosofica resta legata alla difesa della “ragione” dalle pretese “istanze razionali” del filosofo positivista. In questo modo Meyerson riconosce una ingerenza dell’irrazionale nella realtà, proprio per non potersi svincolare dalla necessità dell’oggettivazione. Il raffronto di queste due tesi, specie tenendo presente l’“apriori” kantiano e l’impossibilità scientifica di ritenere plausibile un “pensato”, potrebbe dare notevoli frutti.

Interessante ricordare l’inizio del problema con le parole di Newton: «Scolio generale. Fin qui ho spiegato i fenomeni del cielo e del nostro mare mediante la forza di gravità, ma non ho mai fissato la causa della gravità. Questa forza nasce interamente da qualche causa, che penetra fino al centro del Sole e dei pianeti, senza diminuzione della capacità, e opera non in relazione alla quantità delle superfici delle particelle sulle quali agisce, ma in relazione alla quantità di materia solida. La sua azione si estende per ogni dove ad immense distanze, sempre decrescendo in proporzione inversa al quadrato delle distanze. Qualunque cosa, infatti, non deducibile dai fenomeni va chiamata ipotesi; e nella filosofia sperimentale non trovano posto le ipotesi sia metafisiche, sia fisiche, sia delle qualità occulte, sia meccaniche. In questa filosofia le proposizioni vengono dedotte dai fenomeni, e sono rese generali per induzione. In tal modo divennero note l’impenetrabilità, la mobilità e l’impulso dei corpi, le leggi del moto e la gravità». (Princìpi matematici di filosofia naturale, tr. it., Torino 1965, pp. 795-796).

Il fanciullo cresce e acquista, possiede, sviluppa forza e potenza, ma ha in sé un limite, un limite che col tempo si accresce e contraddice quella crescita. Non può raggiungere la pienezza e la perfezione, è creatura destinata a desiderare e attendere, ma anche a perire. Se fosse bello di una plotiniana vita felice non perirebbe, e per molti aspetti la sua esperienza qualitativa non perisce mai, ma non lo è in maniera completa.


19) L’intrinseco fondamento filosofico dell’indeterminazione fisica. Tutti i problemi che sono derivati dalla teoria dell’indeterminazione in fisica, sono problemi che vanno affrontati dal punto di vista filosofico, o per meglio dire, epistemologico. La prova di ciò è data dal fatto che anche prima del sorgere delle teorie quantistiche, quando si trattava di affrontare l’essenza del determinismo, furono i filosofi a porsi al lavoro, utilizzando le leggi scoperte dai fisici. Tale può definirsi il rapporto Kant-Newton o, per essere più precisi, Laplace-Kant. Sarebbe interessante raffrontare i lavori passati dei filosofi che tentarono la difesa del determinismo, con i lavori presenti dei filosofi che cercano di superarlo e di giustificare l’indeterminazione. A titolo di esempio proponiamo come i filosofi newtoniani furono costretti a chiarire l’ipotesi fisica di forze istantanee operanti a distanza, ipotesi che aveva tutto l’aspetto di una formulazione irrazionale. Oggi i filosofi relazionisti sono costretti a giustificare, almeno dal punto di vista metodologico, gli sforzi dei fisici diretti a portare avanti lo studio dei fenomeni particellari, anche se in contrasto con l’evidenza.

Con grande chiarezza Parmenide:

«Essendo ingenerato è anche imperituro,
tutt’intero, unico, immobile e senza fine.
Non mai era né sarà, perché è ora tutt’insieme,
uno, continuo. Difatti quale origine gli vuoi cercare?
Come e donde il suo nascere? Del non essere non ti permetterò né
di dirlo né di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare ciò che non è».

(I presocratici. Testimonianze e frammenti,tr. it., Roma-Bari 1990, p. 276).

Pensare l’uno è possibile solo dal profondo della lontananza, dalla modificazione che si illude e progetta impossibili completezze. Quello che in queste condizioni riesco a pensare non è certo il perfettissimo uno, ma una immagine di esso che allontana le condizioni minime dell’attuale. Il che significa, sotto un altro aspetto, che l’uno è incatenato alla sua realtà, remota e inaccessibile, ma da me vista nelle condizioni del mondo da me generato, mondo che comunque ha in sé quell’uno che è, sia pure non potendolo conoscere né comunicare. Il viaggio verso la cosa, la piena esperienza diversa, non è un avvicinamento all’uno, ma un altro modo di cogliere, con mezzi diversi, l’intensità che nella modificazione mancava, restando fermo che anche nella cosa non è possibile affermare l’uno pure se la sua presenza è innegabile. L’inizio o fondamento di questi due movimenti antitetici è da collocare nella mia personale decisione di coinvolgermi, con tutti i tentativi necessari a ridurre criticamente e negativamente l’influenza e il controllo della volontà. Io sono pertanto il creatore di queste significatività, le quali si intensificano dal punto di vista quantitativo nella coscienza immediata e viceversa si intensificano dal punto di vista qualitativo nella coscienza diversa. Che l’uno ha una vita propria e per me inaccessibile è del tutto indifferente al mio possesso del mondo e al suo conseguente rifiuto. Non sono il creato ma il creatore. Nei termini di una immagine conoscibile sono creatore dello stesso uno, ma si tratta dell’illusione di chi, fornito di un codice, pensa di interpretare il mondo su quel solo metro a lui comprensibile. Tenendo conto di questo limite tecnico posso approfondire il problema.


20) Hegel e la moderna riflessione sulla scienza. Il contrasto potrebbe essere istruttivo. Hegel pretendeva un’interpretazione dei fenomeni della realtà ponendoli sulla linea d’identificatione “a priori” che il soggetto poneva in atto con il suo stesso sviluppo, nel quale la realtà si poteva dire “creata” di pari passo con il “crearsi” dello sviluppo soggettivo. Si tratta di una linea di identificazione che, definita da Hegel come “movimento logico”, a noi è sembrata sempre piuttosto oscura, non riuscendo a chiarirsi né con il meccanismo fenomenologico della dialettica e neppure con le tesi della filosofia della natura. Oggi la riflessione sulla scienza, e in particolare sulla ricerca fisica, ammette l’esistenza di un sistema complesso di fenomeni reali, sistema che può svilupparsi con una progressione non direttamente misurabile, comprendente una serie vastissima di rapporti stabiliti subiettivamente con l’oggetto, cioè con i dati della realtà, la quale si estende secondo una sua propria progressione non direttamente misurabile.

Ecco l’indimenticabile pagina di Hegel sulla concretezza del reale: «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale. Ogni coscienza ingenua, del pari che la filosofia, riposa in questa persuasione; e di qui appunto procede alla considerazione dell’universo spirituale, in quanto universo naturale. Se la riflessione, il sentimento, o qualsiasi aspetto assuma la coscienza soggettiva, riguarda il presente come cosa vana, lo oltrepassa e conosce di meglio, essa allora si ritrova nel vuoto; e, poiché soltanto nel presente v’è realtà, essa è soltanto vanità. Se, viceversa, l’idea passa per essere soltanto un’idea, una rappresentazione in un’opinione, la filosofia al contrario garantisce il giudizio che nulla è reale se non l’idea. Si tratta allora di riconoscere, nell’apparenza del temporaneo e del transitorio, la sostanza che è immanente e l’eterno che è attuale. Invero, il razionale, il quale è sinonimo di idea, realizzandosi nell’esistenza esterna, si presenta in un’infinita ricchezza di forme, fenomeni e aspetti; e circonda il suo nucleo della spoglia variegata, alla quale la coscienza si sofferma dapprima e che il concetto trapassa, per trovare il polso interno e per sentirlo appunto ancora palpitante nelle forme esterne. Ma i rapporti infinitamente vari, che si formano in questa esteriorità con l’apparire dell’essenza in essa, questo materiale infinito e la sua disciplina, non è oggetto della filosofia. Altrimenti, essa s’immischierebbe in cose che non la riguardano; essa può risparmiarsi di dare in proposito un buon consiglio. Platone poteva tralasciare la raccomandazione alle balie di non star mai ferme coi bambini, di dondolarli sempre sulle braccia; ugualmente, Fichte il perfezionamento del passaporto di polizia, sino a costruire, come si disse, che, dell’individuo sospetto, devono essere, non soltanto messi i connotati nel passaporto, ma dipinto in questo il ritratto. In simili particolari, non è più da vedere alcuna traccia di filosofia; ed essa può tanto più abbandonare simile ultrasaggezza, in quanto, sopra questa infinita quantità di argomenti, può certo mostrarsi liberalissima. In tal caso, la scienza si mostrerà molto lontana anche dall’odio che la vuotaggine della saccenteria concepisce per una quantità di circostanze e di istituzioni; – odio, del quale si compiace soprattutto la piccineria, poiché essa solo in tal modo giunge ad avere qualche coscienza di sé. Così, dunque, questo trattato, in quanto contiene la scienza dello Stato, dev’essere null’altro, se non il tentativo d’intendere e presentare lo Stato come cosa razionale in sé. In quanto scritto filosofico, esso deve restar molto lontano dal dover costruire uno Stato come dev’essere; l’ammaestramento che può trovarsi in esso non può giungere a insegnare allo Stato come deve essere, ma, piuttosto, in qual modo esso deve esser riconosciuto come universo etico. Hic Rhodus, hic saltus. Intendere ciò che è, è il compito della filosofia, poiché ciò che è, è la ragione. Del resto, per quel che si riferisce all’individuo, ciascuno è, senz’altro, figlio del suo tempo: e anche la filosofia è il proprio tempo appreso col pensiero. È altrettanto folle pensare che una qualche filosofia precorra il suo mondo attuale, quanto che ogni individuo si lasci indietro il suo tempo, e salti oltre su Rodi. Se la sua teoria, nel fatto, oltrepassa questo, se si costruisce un mondo come dev’essere, esso esiste bensì, ma soltanto nella sua intenzione, in un elemento duttile, col quale si lascia plasmare ogni qualsiasi cosa. Con una piccola variazione quella tal frase suonerebbe: Qui la rosa, qui danza. Ciò che sta tra la ragione come spirito autocosciente, e la ragione come realtà presente, ciò che differenzia quella ragione da questa ed in essa non lascia trovare l’appagamento, è l’impaccio di qualche astrazione, che non si è liberata, e non si è fatta concetto. Riconoscere la ragione come la rosa, nella croce del presente, e quindi godere di questa – tale riconoscimento razionale è la riconciliazione con la realtà, che la filosofia consente a quelli, i quali hanno avvertito, una volta, l’interna esigenza di comprendere e di mantenere, appunto, la libertà soggettiva in ciò che è sostanziale, e, al modo stesso, di stare nella libertà soggettiva, non come in qualcosa di individuale e di accidentale, ma in qualcosa che è in sé e per sé». (Lineamenti della filosofia del diritto, tr. it., Roma-Bari 1979, pp. 16-19).

Il disinganno della radicalità del differire la conclusione non arriva presto, e non è nemmeno una conseguenza di un maggiore approfondimento conoscitivo. Ogni contingente non può trovare parentela in un sistema interno alla stessa materia della contingenza, il che sarebbe riconoscimento positivo di una crisi della ragione. La parentela è certo nell’assenza che sprofonda nell’abisso della ragione stessa, mai soddisfatta dell’identità con se stessa, ma non del tutto. Al di sotto c’è il riferimento a una comunità antica, dove trovavano quiete le angustie della percezione, e questo riferimento è all’uno che è. La declinazione causale che regge il metodo produttivo dell’accumulo, non ostacola questo riferimento non detto, non solo sottinteso ma proprio non detto, perché una volta detto, come accade qui, in un dire che sta nella logica dell’a poco a poco racchiuso e custodito, compare nella massa del fatto circoscritto e definito più o meno bene. Non dire l’uno lo cattura nel non ancora detto, il quale lascia spazio all’intuire che tace davanti al meraviglioso implicito nella produzione stessa, nella sequenza modificativa che cessa, senza scomodare riferimenti più avanzati, solo nell’essenzialità desolata della cosa, dove quei riferimenti riescono ad apparire più evidenti.

21) Montesquieu e la definizione di legge naturale. Interessante, anche oggi, lo studio della posizione di Montesquieu nei confronti dei trionfi newtoniani del suo tempo. In pratica il filosofo francese rimane sempre fedele alle teorie di Descartes, venendo a rendere confusa e inattendibile, anche per quell’epoca, la sua indagine sulla funzione del clima, in quanto infastidita dal presupposto fisiologico cartesiano. Più importante invece la definizione di legge naturale: “relazione necessaria che deriva dalla natura delle cose”, nella quale si estende l’applicazione del determinismo dal tradizionale campo fisico alla vita sociale e politica.

Attenta e puntuale la riflessione di Martin Heidegger: «L’analitica ontologica dell’Esserci, come ostensione dell’orizzonte per l’interpretazione (Interpretation) del senso dell’essere in generale. Nella delineazione dei compiti relativi alla “posizione” del problema dell’essere, è venuto in chiaro che non è sufficiente stabilire quale sia l’ente da interrogarsi per primo, ma che occorre anche il possesso esplicito e la sicura garanzia della giusta via d’accesso a questo ente. Abbiamo già discusso quale sia l’ente che gioca il ruolo principale in seno al problema dell’essere. Ma dobbiamo chiederci come questo ente, l’Esserci, possa riuscire accessibile e, per così dire, esser preso di mira nell’interpretazione comprendente. Il primato ontico-ontologico che si dimostrò proprio dell’Esserci potrebbe sviarci nella falsa opinione che questo ente sia anche il primo a esser dato in sede ontico-ontologica, non solo nel senso di una afferrabilità “immediata” di questo ente stesso, ma anche nel senso di una altrettanto “immediata” accessibilità del suo modo di essere. Certamente l’Esserci, non solo ci è onticamente vicino, anzi più vicino di ogni altra cosa, ma noi stessi lo siamo sempre. Nonostante ciò, o proprio per ciò, esso è ontologicamente ciò che vi è di più lontano da noi. Certo rientra in ciò che il suo essere ha di più proprio di avere una comprensione di tale essere, nonché di mantenersi già sempre in un certo stato di interpretazione del proprio essere. Ma con ciò non si vuole assolutamente dire che questa più prossima interpretazione pre-ontologica di se stesso possa fungere da filo conduttore adeguato, quasi fosse accertato che tale comprensione dell’essere debba scaturire da una riflessione tematicamente ontologica della più propria costituzione d’essere. L’Esserci, piuttosto, a causa di un modo di essere che gli è proprio, tende a comprendere il proprio essere in base all’ente a cui si rapporta in linea essenzialmente costante e innanzitutto, cioè in base al “mondo”. Fa parte dell’Esserci, e perciò della comprensione d’essere che gli è propria, ciò che noi mostreremo come il riflettersi ontologico della comprensione del mondo sulla interpretazione dell’Esserci. Il primato ontico-ontologico dell’Esserci è dunque la causa del fatto che all’Esserci resta nascosta la sua specifica costituzione d’essere, intesa nel senso della struttura “categoriale” che è propria di esso. L’Esserci è, onticamente, “vicinissimo” a se stesso, ontologicamente lontanissimo, ma pre-ontologicamente tuttavia non estraneo. Con ciò non si è voluto che far vedere provvisoriamente come un’interpretazione di questo ente incontri particolari difficoltà, che si fondano nel modo di essere dell’oggetto tematizzato e nello stesso comportamento tematizzante e non in una difettosa dotazione delle nostre facoltà conoscitive o nella mancanza – apparentemente facile a eliminarsi – di un apparato concettuale adeguato. Ma poiché l’Esserci, oltre a implicare la comprensione dell’essere, è tale che questa comprensione si sviluppa o fallisce col mutevole modo di essere dell’Esserci stesso, viene ad essere disponibile un ricco patrimonio di interpretazioni. La psicologia filosofica, l’antropologia, l’etica, la “politica”, la poesia, la biografia, la narrativa storica hanno indagato, per vie diverse e con ampiezza mutevole, i comportamenti, le facoltà, le forze, le possibilità e i destini dell’Esserci. Ma resta da vedere se queste interpretazioni furono condotte con quella originarietà esistenziale che può darsi posseggano sul piano esistentivo. Le due cose, anche se non si escludono, non vanno necessariamente assieme. L’interpretazione esistentiva può esigere un’analitica esistenziale solo se la conoscenza filosofica è stata intesa nella sua possibilità e nella sua necessità. Ciò che è stato finora raggiunto in fatto di interpretazione dell’Esserci potrà ottenere la sua giustificazione esistenziale solo quando le strutture fondamentali dell’Esserci saranno state sufficientemente analizzate in un orientamento esplicito secondo il problema dell’essere stesso. L’analitica dell’Esserci resta dunque l’esigenza prima nel problema dell’essere. Ma, in questo caso, il problema del reperimento e della assicurazione della via d’accesso all’Esserci incomincia a diventare veramente scottante. Esprimendoci negativamente: non è lecito far ricorso a un’idea casuale dell’essere e della realtà, per “ovvia” che essa sia, e poi applicarla all’Esserci con procedimento costruttivo e dogmatico; non è lecito costringere l’Esserci a sottostare a “categorie” desunte da quell’idea, senza un appropriato esame ontologico. Le modalità di accesso e di interpretazione debbono piuttosto essere scelte in modo che questo ente possa mostrarsi da se stesso e in se stesso. E in verità l’ente dovrà mostrarsi così com’è innanzitutto e per lo più, nella sua quotidianità media. Di essa non verranno poste in luce strutture qualsiasi e accidentali, ma quelle essenziali cioè quelle che si mantengono ontologicamente determinanti in ogni modo di essere dell’Esserci effettivo. Con riferimento alla costituzione fondamentale della quotidianità dell’Esserci, avrà quindi luogo la chiarificazione preparatoria dell’essere di questo ente. L’analitica dell’Esserci così intesa è completamente orientata nel senso del compito conduttore dell’elaborazione del problema dell’essere. Con ciò si determinano anche i suoi confini. Essa non pretende di offrire un’ontologia completa dell’Esserci, ontologia che deve certamente esser costruita se qualcosa come un’antropologia “filosofica” deve poggiare su basi filosoficamente sufficienti. In vista di un’antropologia possibile o della sua fondazione ontologica, l’interpretazione che segue non offre che alcuni “frammenti”, anche se tutt’altro che inessenziali. Ma l’analisi dell’Esserci, oltre che incompleta, è anche provvisoria. Essa incomincia col porre semplicemente in luce l’essere di questo ente, ma non offre l’interpretazione del suo senso. Essa deve piuttosto preparare l’ostensione dell’orizzonte dell’interpretazione dell’essere più originaria di tutte. Una volta assolto questo compito, l’analitica dell’Esserci di carattere preparatorio richiede la sua ripetizione su basi ontologiche più alte ed autentiche. La temporalità sarà dimostrata come il senso dell’essere dell’ente che chiamiamo Esserci. Questa dimostrazione dev’essere comprovata mediante la ripetizione dell’interpretazione delle strutture dell’Esserci, provvisoriamente esibite, come modi della temporalità. Ma l’interpretazione dell’Esserci come temporalità non costituisce, come tale, la risposta al problema conduttore, che concerne il senso dell’essere in generale. Essa appronta però il terreno per trovare questa risposta. Sopra abbiamo fatto osservare che fa parte dell’Esserci, come costituzione ontica, un essere pre-ontologico. L’Esserci è siffatto che, essendo, comprende qualcosa come l’essere. Tenendo ferma questa interconnessione, occorre far vedere che ciò a partire da cui l’Esserci comprende e interpreta inesplicitamente qualcosa come l’essere, è il tempo. Il tempo deve esser posto in chiaro e determinato concettualmente in modo genuino come l’orizzonte di ogni comprensione e di ogni interpretazione dell’essere. Perché tutto ciò sia chiaro, occorre un’esplicazione originaria del tempo come orizzonte della comprensione dell’essere a partire dalla temporalità quale essere dell’Esserci che comprende l’essere. L’esecuzione completa di questo compito esige anche che il concetto di tempo così ottenuto sia delimitato rispetto alla comprensione ordinaria del tempo, la quale è divenuta esplicita in una interpretazione del tempo depositatasi nel concetto tradizionale del tempo quale è prevalso da Aristotele a Bergson e oltre. Qui bisognerà far vedere come questo concetto del tempo – e l’interpretazione ordinaria del tempo in generale – scaturiscono dalla temporalità. Al concetto ordinario del tempo sarà così restituito il suo buon diritto, contro la tesi di Bergson che il tempo qui inteso sia spazio. Il “tempo” ha svolto a lungo la funzione di criterio ontologico – o, piuttosto, ontico – della distinzione ingenua delle diverse regioni dell’ente». (Essere e tempo, tr. it., Torino 1978, pp. 70-74).

La meravigliosa opera dell’oltrepassamento sarebbe impossibile se nel fare non fosse presente l’impenetrabile radice dell’uno. Questa potenza, che a volte viene fuori nelle realizzazioni della volontà, incomprensibili allo stesso fare, sono più visibili nelle possibilità proposte dal destino, perfette spesso nella loro assoluta incomprensibilità. C’è una forza nel fare che ammalia e che spesso consente di dimenticare i limiti e le condizioni di controllo dietro a cui questo procedere si dibatte. Fra le apparenze che nel loro apparire sembrano remote al nascondere, si celano trappole che a intenderle bene, cioè a dirle fino in fondo, risvegliano a un fare sempre più complesso e facilitano la coscienza immediata nella sua nuova convinzione di abbandono. Le parole svettano e si inseguono una con l’altra, cantano il sonno degli dèi che addormenta nella inconcludenza lasciando l’illusione della completezza dietro la porta. Non tutto è possesso e cupidigia, a volte un semplice sguardo è dono da incontrare nel sogno, premonizione intuitiva.


22) Lo spazio e la sua rappresentazione matematica. Lo spazio fisico ha una propria geometria la cui conoscenza può attuarsi solo in via del tutto approssimativa. La rappresentazione visiva di questa geometria deve essere per sua natura, e per la natura stessa dello spazio che rappresenta, di carattere approssimativo. I postulati che il matematico ricava dalla intuizione geometrica devono essere necessariamente esatti. Su quest’ultimo punto ci sembra plausibile un dubbio. A prescindere dall’approssimazione dell’intuizione dello spazio fisico e della sua rappresentazione, il postulato matematico ricava la sua necessità dalla struttura logica del pensiero, la quale struttura non ha poi, come si è visto, quella caratteristica di necessità che qui si vuole intendere. E allora come si può giustificare questa differenza tra l’intuizione geometrica del matematico, l’intuizione dello spazio e la sua relativa rappresentazione?

Ancora fondamentale l’intervento di Hedegger: «L’ente che è sempre nel modo dell’essere-nel-mondo. In esso è cercato ciò che indaghiamo col problema del “Chi?”. Attraverso una dimostrazione fenomenologica dobbiamo determinare Chi sia l’Esserci essente nel modo della quotidianità media. L’in-essere come tale; bisogna chiarire la costituzione ontologica dell’inessenza come tale. La considerazione di ognuno di questi momenti implica, nello stesso tempo, la considerazione di tutti gli altri, cioè la visione dell’intero fenomeno. L’essere-nel-mondo è certamente una costituzione dell’Esserci necessaria a priori, ma è tutt’altro che sufficiente a determinarne esaurientemente l’essere. Prima dell’analisi tematica dei singoli tre fenomeni in questione, dobbiamo tentare una caratterizzazione orientativa dell’ultimo di essi. Cosa significa in-essere? Di primo acchito completiamo l’espressione con: in-essere “nel mondo”, e tendiamo ad intendere questo in-essere come un “esser dentro [...]”. Con questa espressione si denota il modo d’essere di un ente che è “dentro” un altro, come l’acqua è “dentro” il bicchiere o la chiave “dentro” la toppa. Con questo “dentro” intendiamo il rapporto d’essere di due enti estesi rispetto al loro luogo nello spazio. Acqua e bicchiere, chiave e toppa, sono, tutti e nello stesso modo, “nello” spazio e “in” un luogo. Questo rapporto d’essere può venir esteso; ad esempio: il banco è nell’aula, l’aula è nell’università, l’università nella città, e così via fino a: il banco è “nello spazio universale”. Questi enti, di cui si può così determinare l’esser-l’uno-dentro-l’altro, hanno il modo di essere delle semplici-presenze in quanto sono cose-presenti “all’interno” del mondo. L’esser-presente “in” una cosa-presente, l’esser-compresente con qualcosa che ha il medesimo modo di essere (inteso come un determinato rapporto di luogo) sono caratteri ontologici che noi diciamo categoriali, in quanto propri di enti aventi un modo di essere non conforme all’Esserci. L’in-essere, al contrario, significa un esistenziale, perché fa parte della costituzione dell’essere dell’Esserci. Perciò non può essere pensato come l’esser semplicemente- presente di una cosa corporea (il corpo dell’uomo) “dentro” un altro ente semplicemente-presente. L’in-essere non significa dunque la presenza spaziale di una cosa dentro l’altra, poiché l’“in”, originariamente, non significa affatto un riferimento spaziale del genere suddetto. “In” deriva da inan-abitare, habitare, soggiornare; an significa: sono abituato, sono familiare con, sono sòlito ... esso ha il significato di solo, nel senso di habito e diligo. L’ente a cui l’inessere appartiene in questo significato è quello che noi abbiamo indicato come l’ente che io sempre sono. L’espressione “sono” è connessa a “presso”. “Io sono” significa, di nuovo: abito, soggiorno presso ... il mondo, come qualcosa che mi è familiare in questo o quel modo. “Essere” come infinito di “io sono”, cioè inteso come esistenziale, significa abitare presso [...], aver familiarità con [...] L’in-essere è perciò l’espressione formale ed esistenziale dell’essere dell’Esserci che ha la costituzione essenziale dell’essere-nel-mondo. L’“esser presso” il mondo, nel senso dell’immedesimazione col mondo – senso da chiarire ulteriormente – è un esistenziale fondato nell’in-essere. Poiché in queste analisi ne va della visione d’una struttura originaria dell’essere dell’Esserci, struttura secondo il cui contenuto fenomenico debbono essere articolati i concetti ontologici, e poiché questa struttura non risulta comprensibile mediante le categorie ontologiche tradizionali, il fenomeno dell’“esser presso” richiede ulteriori chiarimenti. Scegliamo ancora una volta il metodo della contrapposizione ad un rapporto d’essere del tutto diverso – cioè categoriale – che viene però espresso coi medesimi strumenti verbali. Queste chiarificazioni fenomeniche di distinzioni ontologiche, fondamentali ma confondibili, devono essere esplicitamente compiute, anche se si corre il rischio di discutere di cose “ovvie”. Lo stato attuale dell’analitica ontologica attesta infatti che noi siamo ancora ben lontani dall’aver sufficientemente “in pugno” queste ovvietà, e tanto più dall’averle interpretate nel senso del loro essere, lontanissimi poi dal possedere i corrispondenti concetti strutturali nel loro significato genuino. L’“esser-presso” il mondo, come esistenziale, non può in alcun modo significare qualcosa come l’esser-presente-insieme, proprio delle cose che si presentano dentro il mondo. Non c’è qualcosa come un “essere l’un accanto all’altro” di un ente detto “Esserci” e di un altro detto “mondo”. È vero che a volte cerchiamo di esprimere la vicinanza di due semplici-presenze, dicendo, ad esempio: “La tavola sta “presso la porta”, “La seggiola tocca la parete”. Ma non si può, a rigor di termini, parlare di “toccare”; e non certo perché un’ispezione accurata accerterebbe sempre la presenza di un interspazio fra sedia e parete, ma perché la sedia non può assolutamente toccare la parete, anche nel caso che l’interspazio sia nullo. Il “toccare” presuppone che la parete possa essere incontrata “dalla” sedia. Un ente può toccare cose semplicemente-presenti-nel-mondo solo se, sin da principio, ha il modo di essere dell’in-essere, cioè solo se, già nel suo Esserci, gli è svelato qualcosa come un mondo in base al quale l’ente possa rivelarglisi al tocco e renderglisi così accessibile nel suo esser semplicemente-presente. Due enti che siano semplicemente-presenti nel mondo e siano inoltre in se stessi senza-mondo, non si possono “toccare”, e nessuno dei due può “essere” “presso” l’altro. L’aggiunta: “Ma siano inoltre in se stessi senza mondo” non poteva mancare, perché anche un ente come l’Esserci, che non è senza-mondo, è tuttavia semplicemente-presente “nel” mondo; o, per essere esatti: con un certo diritto ed entro certi limiti, può esser considerato come soltanto semplicemente-presente. A tal fine è necessario dimenticare, o non aver mai riconosciuta, la costituzione esistenziale dell’in-essere. Non bisogna però confondere questa considerazione possibile dell’“Esserci” come semplice-presenza, o solo più come semplice-presenza, con una modalità della “semplice-presenza” propria esclusivamente dell’Esserci. A questo tipo di “semplice-presenza” non si accede prescindendo dalle strutture specifiche dell’Esserci, ma solo attraverso una preliminare comprensione di esse. L’Esserci comprende il suo essere più proprio nel senso di un certo “esser semplicemente-presente di fatto”. Ma la “fatticità” del fatto specifico dell’Esserci ha una natura ontologica fondamentalmente diversa dal presentarsi di fatto di un dato minerale. La fatticità di quel fatto che è l’Esserci, fatticità che ogni Esserci costantemente è, noi la chiamiamo effettività. L’aggrovigliata struttura di questa determinazione d’essere è accessibile, già come problema, soltanto previa delucidazione degli elementi esistenziali apparsi finora come costitutivi fondamentali dell’Esserci. Il concetto di effettività implica: l’essere-nel-mondo di un ente “intramondano” tale da poter comprendersi come legato, nel suo “destino”, all’essere dell’ente che incontra all’interno del proprio mondo. Limitiamoci per ora a vedere con chiarezza la distinzione ontologica tra l’in-essere come esistenziale e l’“esser dentro” come categoriale proprio delle semplici-presenze. Determinando a questo modo l’in-essere, non vogliamo negare all’Esserci ogni sorta di “spazialità”. Al contrario, anche l’Esserci ha un suo proprio “essere nello spazio”, che è però possibile solo sul fondamento dell’essere-nel-mondo in generale. Perciò l’in-essere non può essere definito in base a una caratterizzazione ontica che su per giù dica: l’in-essere in un mondo è una qualità spirituale e la “spazialità” dell’uomo è una proprietà della sua corporeità specifica, “fondata” nella sua corporeità materiale. Infatti, in questo caso, si è di nuovo dinanzi all’esser-semplicemente-presenti-insieme di una cosa qualificata come spirituale e di una corporea, lasciando, daccapo, all’oscuro l’essere dell’ente risultante dalla composizione. Solo la comprensione dell’essere-nel-mondo come struttura essenziale dell’Esserci rende possibile la comprensione della spazialità esistenziale dell’Esserci. Questa comprensione ci garantisce dalla cecità o dalla trascuratezza di principio nei riguardi della struttura dell’essere-nel-mondo, trascuratezza che è motivata non ontologicamente ma “metafisicamente”, con l’ingenua dottrina che l’uomo è innanzitutto una cosa spirituale, successivamente confinato “in” uno spazio. L’essere-nel-mondo proprio dell’Esserci, in conseguenza della sua effettività, si è già sempre disperso o addirittura sperduto nelle varie maniere dell’in-essere. Ecco qualche esempio di queste maniere di in-essere: avere a che fare con qualcosa, approntare qualcosa, ordinare o curare qualcosa, impiegare qualcosa, abbandonare o lasciar perdere qualcosa, intraprendere, imporre, ricercare, interrogare, considerare, discutere, determinare [...]. Queste modificazioni dell’in-essere hanno il modo di essere (da caratterizzarsi, più avanti, con precisione) del prendersi cura. Modi di prendersi cura sono anche i modi difettivi dell’omettere, trascurare, rinunziare, riposare, tutti i modi del “solo più” rispetto alle possibilità del prendersi cura. Il termine “prendersi cura” ha in primo luogo un significato prescientifico e può voler dire: condurre a termine, concludere, “venir a capo” di qualcosa. L’espressione può anche significare: prendersi cura di qualcosa nel senso di “procurarsi qualcosa”. In senso più largo, l’espressione viene usata anche come equivalente a: preoccuparsi che un’impresa fallisca. “Prendersi cura” significa qui qualcosa come temere. In contrapposizione a questi significati prescientifici e ontici, l’espressione “prendersi cura” è usata, nelle presenti indagini, come termine ontologico (esistenziale) indicante l’essere di un possibile essere-nel-mondo. Il termine non vuol significare che l’Esserci sia innanzitutto e prevalentemente economico e “pratico”, ma che l’essere dell’Esserci dev’essere chiarito come Cura. Questo termine è, a sua volta, da assumersi ontologicamente come concetto strutturale. Esso non ha nulla a che fare con la “tribolazione”, la “tristezza”, le “preoccupazioni” della vita, quali si rivelano onticamente in ogni Esserci. Al contrario, queste cose sono onticamente possibili – come, del resto, la “serenità” e la “gaiezza” – proprio perché l’Esserci, ontologicamente inteso, è Cura. Poiché all’Esserci appartiene, in linea essenziale, l’essere-nel-mondo, il suo modo di essere in rapporto col mondo è essenzialmente prendersi cura. L’in-essere non è quindi una “proprietà” che l’Esserci abbia talvolta sì e talvolta no e senza la quale egli potrebbe essere com’è né più né meno che avendola. Non è che l’uomo “sia” e, oltre a ciò, abbia un rapporto col “mondo”, occasionale e arbitrario. L’Esserci non è “innanzitutto”, per così dire, un ente senza in-essere, a cui ogni tanto passa per la testa di assumere una “relazione” col mondo. Questa assunzione di relazione col mondo è possibile soltanto in quanto l’Esserci è ciò che è solo in quanto essere-nel-mondo. Questa costituzione d’essere non sorge perché, oltre all’ente avente il carattere dell’Esserci, è presente anche l’ente difforme dall’Esserci e l’Esserci lo incontra. Quest’altro ente può “incontrarsi” “con” l’Esserci solo perché è tale da poter manifestarsi da se stesso all’interno di un mondo. L’affermazione, oggi molto in uso, che “l’uomo ha il suo mondo-ambiente”, non significa nulla ontologicamente finché questo “avere” rimane indeterminato. Quanto alla sua stessa possibilità, l’“avere” è fondato nella costituzione esistenziale dell’in-essere. Soltanto perché in possesso di questa essenziale costituzione, l’Esserci può scoprire esplicitamente l’ente che incontra nel mondo-ambiente, saperne qualcosa, disporne e avere il “mondo”. L’affermazione ontica e comune che l’uomo “ha un mondo-ambiente” costituisce, dal punto di vista ontologico, un problema. La sua soluzione richiede in primo luogo la determinazione ontologica dell’essere dell’Esserci. Il fatto che anche la biologia (di nuovo, soprattutto dopo K. E. v. Baer) faccia uso di questa costituzione ontologica non significa che il suo uso filosofico comporti un “biologismo”». (Essere e tempo, op. cit., pp. 122-127).

L’abbandono non è sonno o spossatezza, ma vigile rifiuto critico che accompagna la negazione. Esso rende ancora più acuto il bisogno che la notte del fare, anche tra i suoi lampi di rara preveggenza, stende sul mondo da me creato. Non è ancora il coraggio cosciente di sé, la nuova coscienza che prende veste diversa, ma non è più offuscato, questo abbandono da quella luce che pretendeva rischiarare il mondo. Non è ancora capace di dire con accento di verità, ma diventando sempre più esperto nell’abbandonarsi alla critica negativa, elabora un nuovo lessico che continua a infrangersi sugli scogli qualitativi dell’apertura, ma almeno ne disegna i contorni, mi mette a nudo, non mi consegna più paccottiglie di possesso, ma doni spinosi e acerbi, tutti da verificare, spesso da rigettare, ancora più spesso da interpretare. L’abbandono è ebbrezza dove il dio è ancora latitante ma è anche ricompensa per il coraggio del coinvolgimento. L’abbandono non è dimenticare l’inquietudine ma aggirare la volontà, ritornare fanciulli, imparare a essere fanciulli da adulti e perfino da vecchi.


23) L’atteggiamento dei fisici nei confronti della filosofia dopo la seconda guerra mondiale. Il fisico che nello svolgimento della propria attività pratica era costretto a porsi continuamente problemi di principio, cercava, in passato, di risolverli pervenendo a un più diretto contatto con la realtà osservata e rigettando ogni desiderio di rifarsi a programmi metafisici, per quanto allettanti questi fossero. Da ciò la grave e diffusa critica di tutti i fisici verso i colleghi che indulgevano a trattare di problemi di principio, sempre relativi alla loro attività, ma utilizzando tecniche tipiche della metafisica. Dopo la seconda guerra mondiale il numero dei fisici che affrontano problemi di metafisica, o sia pure problemi di filosofia in senso generale, è grandemente cresciuto, tanto da potersi dire, senza pericolo di smentita, che tutti i grandi fisici moderni si pongono, più o meno coscientemente, questo genere di problemi. Da che cosa è derivato questo cambiamento di posizione? Forse da una più ampia considerazione dei valori morali attuata dopo la seconda guerra mondiale?

Con precisione, ancora Geymonat: «Una volta si parlava della distinzione fra disciplina scientifica e disciplina non-scientifica. Questa convinzione è ancora ben presente nel linguaggio comune quando, per esempio, si dice “questo è matematico, quindi non si discute”, mentre poi noi epistemologi diciamo invece che la matematica si discute, perché è costruita tutta su postulati, più o meno arbitrari. Questa domanda: “è scientifica o non è scientifica?”, è precisamente la domanda che caratterizza la filosofia della scienza del nostro secolo, contro quella filosofia della scienza del secolo scorso in cui si affermava, invece, per esempio, che “la psicologia ha raggiunto il livello scientifico, che prima non aveva”, oppure che “la sociologia ha raggiunto il livello scientifico, che prima non aveva”. Nell’Ottocento questo rilievo era alquanto diffuso. Ma cosa vuol dire esattamente l’espressione “ha raggiunto il livello scientifico”? Una volta questa frase aveva un senso preciso perché voleva dire: “oggi questa disciplina è in grado di applicare rigorosamente il metodo scientifico”. Ma se questo metodo è fluttuante, se questo metodo non è determinato e non è lì, davanti a noi, ben stabilito da Galileo, che significato preciso possiamo allora noi attribuire a questa espressione? Si dice, per esempio, “questo studioso ha applicato il metodo galileiano”, senza dire però che il metodo galileiano [...] non esiste. Per la verità esiste, semmai, un indirizzo, una corrente di ricerche che, più o meno, si rifà a Galileo, ma in Galileo non troviamo l’esposizione di questo metodo e, tantomeno, poi, il rispetto di questo metodo. Anche le persone che noi diciamo “sono galileiane”, hanno effettivamente seguito il metodo che noi possiamo ricavare per astrazione dalle opere di Galileo, oppure no? In verità vediamo che nessuno segue mai un metodo preciso, un metodo “galileiano”. Per esempio nella matematica e nella fisica usiamo “modelli matematici” che sono “modelli” che si distaccano molto dal rigore che Galilei possedeva. Del resto oggi nella scienza si riconosce un ruolo alla fantasia che una volta non si riconosceva poiché non si dava affatto largo spazio alla fantasia. [...] Naturalmente esiste poi la pratica che è importantissima, ma questa pratica si svolge nei nostri laboratori, ma molte volte si svolge anche solo su una lavagna perché questi “modelli matematici” sono modelli teorici che non si realizzano in laboratorio, si realizzano prevalentemente nella fantasia: “io suppongo che questo vada così, tu supponi che vada diversamente, ma allora quale è poi il criterio per distinguere se la mia ipotesi vale più della tua o viceversa?”. Sapete che la risposta che è stata data è una sola: andiamo alla pratica e andiamo a vedere chi ha avuto successo. Ha avuto successo un certo tipo di modello, e allora noi accettiamo quel modello come scientifico, oppure, non ha avuto successo, e allora noi respingiamo quel modello come non-scientifico. D’altra parte questa conclusione risulta essere particolarmente grave soprattutto rispetto ad alcune nuove discipline che stanno appena crescendo e che stanno appena mettendosi in vista nella grande famiglia delle scienze. Pensiamo, per esempio, alla psicoanalisi o, ancora, alla sociologia: queste discipline sono scienza o non sono scienza? rispondono ai criteri scientifici o non rispondono ai criteri scientifici? Tuttavia, indipendentemente da queste stesse domande, tutti noi siamo anche disposti a riconoscere che, globalmente, la psicanalisi ha inciso in modo profondo sulla cultura della nostra epoca. Allora si comincia a distinguere l’azione globale, dall’azione singola. Perché la “globalità” è veramente un criterio: “globalmente tu non puoi dire che oggi la psicanalisi non abbia conseguito dei risultati. Li ha. Perché li ha? Mah! Perché è scientifica? Ma che cosa vuol dire che è scientifica?”. Conseguentemente questa esigenza critica di domandarsi: “questa nuova scienza, questa nuova disciplina, è scientifica o non è scientifica?”, possiede oggi un nuovo valore che non aveva nell’Ottocento. Nell’Ottocento, direi, si era sicuri che certe discipline, certi settori del sapere, erano scientifici. Per esempio, si era aperto un nuovo campo nell’ambito della fisica (si pensi all’elettrologia) che era radicalmente diversa dalla fisica galileiana-newtoniana. Si introduceva così un modo di pensare che è qualificabile come scientifico o non-scientifico? In realtà, non si badava tanto a questa domanda, poiché sembrava abbastanza naturale ammettere che le equazioni di Maxwell e le equazioni di Hertz fossero scientifiche. I loro risultati dimostravano che erano scientifiche e pertanto non possiamo negare la scientificità della elettrodinamica. Non solo: tutta la realtà quotidiana ci dimostra questa conclusione poiché noi abbiamo la verifica continua di queste equazioni non in laboratorio, ma nella vita sociale: le luci, i motori elettrici e i mille altri differenti ritrovati tecnologici, sono tutte “prove” della scientificità di queste teorie». (Dialettica scientifica e libertà, in L. Geymonat e G. Giorello, Le ragioni della scienza, op. cit., pp. 24-27).

Abbandonarmi è attendere con fiducia l’intuizione giusta, distinguendola in un intrigo di vie. La voce dell’uno si coglie in lontananza ma si coglie, un po’ come il canto delle Sirene potrebbe distogliermi dalla via che voglio percorrere, ma potrebbe anche porre al fare una barriera che invece di ostacolarmi mi consentirebbe di uscire dal labirinto. Non posseggo la parola efficace, in grado di tradurre qui questa straordinaria voce, ma so che il richiamo all’unità è anche segno per la via, equivalente di silenzio e oblio nella desolazione della qualità. Non suono che può essere tradotto, ma suono che ridonda se stesso nella solitudine.


24) La provvisorietà del nostro momento storico. Le conseguenze sperimentali sulla realtà dei quanti diventano sempre più contrastanti con le tradizionali esperienze del passato e sempre più difficili a esprimersi con le forme ordinarie di pensiero. Tutto ciò comporta un rapido acutizzarsi di una situazione di precarietà sia nell’indagine scientifica sia nella riflessione filosofica che di regola l’accompagna. Siamo coscienti che alcune espressioni del presente lavoro avrebbero potuto meglio seguire l’andamento della ricerca di questi ultimi anni, ma le abbiamo volute lasciare immutate, sia perché quando si incominciò, nel 1960, erano valide, sia perché le idee di fondo, almeno a nostro avviso, non sono cambiate di molto. Comunque non possiamo nascondere il fatto che una visione sistematica del pensiero scientifico moderno non esiste e non è stata possibile seguirla in questa sede. Esistono risoluzioni di casi particolari, donde teorie anche filosofiche che riprendono in considerazione tutta la realtà dal punto di vista limitato di quelle risoluzioni. Forse solo il principio d’indeterminazione, proprio per il suo intrinseco sforzo rivoluzionario, potrebbe addursi a fondamento di tutta la realtà, come di fatto abbiamo tentato di concretare, ma ciò non toglie che in futuro un altro principio riesca meglio a rappresentare ciò che oggi non si può evitare che cada in parte nell’ombra o nel dubbio. Se poi questo persistere dell’ombra parziale e del dubbio metodico, è la nostra stessa possibilità di ricerca e di pensiero, come in sintesi noi crediamo, allora non reputiamo probabile l’avvento di un simile principio riassuntivo.

Aldo Masullo ha così studiato il problema del fondamento: «Il problema critico preliminare alla rigorosa determinazione del concetto di “storia” è da chiarire non tanto come una presupposta unità dell’io, sia pure soltanto formale e “trascendentalmente dedotta” dalla struttura dell’esperienza, s’incarni nella pluralità degli effettivi individui, bensì come gl’individui corpi e i loro particolari bisogni e sensazioni assurgano a pluralità di io “distinti” pur nell’“identità” della forma. È il problema d’illuminare il senso profondo dell’espressione di Marx, secondo cui “mangiare, bere e procreare sono anche funzioni schiettamente umane”. Si tratta insomma di mettere a nudo le condizioni della possibilità della storia come ragione, e quindi della stessa ragione storica. Se la storia non fosse originariamente ragione, non potrebbe darsi storiografia, lavoro ermeneutico. Non ha senso dialogare con il non-dialogico. Solo la metafisica si azzarda a proiettare sul non-dialogico l’ombra della dialogicità: ma il suo resta inevitabilmente un monologo. [...] I fatti della storia sono dei “vissuti” i quali, ormai esauriti, irrevocabili, non mutano tuttavia di competenza logica, non cessano di essere oggetto di conoscenze contingenti, a posteriori, per diventare oggetto di conoscenze necessarie, a priori. Non è che essi esistano ancora, ed abbiano intanto cessato di essere “progetti”. Semplicemente non esistono più. Nel momento però in cui sono esistiti, la loro esistenza è consistita nel “progettare”: sono stati “vissuti” come prospettive di oggetti possibili e presenti solo nella dimensione del “non-ancora” e “non-garantito”, “sperato”, “voluto”, “esposto-allo-scacco”, “valore” e non “fatto”, oppure “temuto”, “fuggito”, “capace-di-averla-vinta”, “disvalore” e non “fatto”. Il fatto è storico nella misura in cui è progettazione vissuta di un valore o vissuta contro-progettazione di un disvalore. I fatti della storia sono particolarità, la cui contingenza sta nel loro essere possibilità vissute dell’universale e necessario. Ogni universale è in se stesso necessario, totalità significativa le cui parti non possono essere diverse e tra loro diversamente rapportate da come devono. Si tratta però di un’universalità ipotetica. Un universale, se è, è come deve essere, secondo una sua “logica” necessità; ma che sia, non è necessario: se lo fosse, la sua sarebbe una necessità non puramente “logica”, bensì metafisica. Che un certo universale sia, è solo possibile: dipende dall’umana empiria, la quale può progettarlo oppure no, e progettarne invece un altro, ma comunque, nel progettare questo o quell’universale, si determina storicamente come possibilità». (Antimetafisica del fondamento, Napoli 1971, pp. 16-17)).

La desolazione della cosa mi avvicina all’uno, la mia esperienza diversa si raccoglie, oltre le sue vicissitudini, nella puntualità che la contraddistingue come esperienza libera. Uscito dalla dimora della presenza altra, precipitato ancora una volta nel regno della parola, riprendo la costruzione rammemorativa, in attesa di una nuova possibilità. Ma questa esperienza si presenta spesso come dono, dal sapore benefico con cui la dea della conoscenza elargisce comprensioni non adatte a lei a stretto rigore di termini. Il dono ha in sé nascosta una profonda intenzione di spostamento, non cerca cioè di avanzare una risposta, ma sopravanza, spiazza, prende di sorpresa. La parola della rammemorazione è muta di fronte a questa nuova prospettiva, si compiace di ricongiungimenti a volte perfino iperbolici, ma finisce per tacere definitivamente e rientrare nella normale procedura se non riesce a essere esaltata dalla sopravveniente unione con il coinvolgimento. La rammemorazione persuade solo se riesce a presentarsi anch’essa come dono e non come riflesso allo specchio di un’azione che una volta agita non si può rivivere che come fatto.


25) Per un nuovo tipo diassoluto”. Tenendo presente l’inesistenza di un tempo assoluto o di una quiete assoluta o di un moto assoluto, conseguenza questa del fatto che in fisica ogni concetto del genere è legato a un atteggiamento operativo, non possiamo parlare di una permanenza, in senso tradizionale, dell’assoluto. Tuttavia può utilizzarsi ancora questo concetto? In un certo senso sì, almeno crediamo, cioè nel caso che una cosa, sottoposta a una misurazione, dia un risultato numerico identico, indipendente dagli osservatori che hanno effettuata la misurazione. È naturale che questo nuovo genere di “assoluto” si ritrovi legato al concetto di esperienza, donde diventa una sorta di assoluto-relativo.

Con precisione e approfondimento, così Heidegger: «I problemi di Husserl e di Scheler determinano il perfezionamento autentico della fenomenologia, la precisa esplicazione del problema relativo alla delimitazione e alla fondazione del campo tematico della fenomenologia. Come dire: l’analisi degli studi fondamentali successivi dovrà attenersi a queste due cerchie di problemi. Entro questo perfezionamento concreto del lavoro fenomenologico sono stati fissati anche gli orizzonti operativi, dapprima in modo puramente tradizionale secondo le singole discipline; si lavora in senso fenomenologico nell’ambito della logica, nell’etica, nell’estetica, nella sociologia, nella filosofia del diritto: gli orizzonti problematici rimangono identici a quelli della filosofia tradizionale. In seguito però, in base e all’interno dell’orientamento verso il fenomeno dell’intenzionalità, nella misura in cui si differenziano fenomenologicamente intentio, intentum e correlazione tra essi, sono emerse tre direzioni di lavoro, sempre reciprocamente necessarie sono: la fenomenologia degli atti, la fenomenologia della cosa e la correlazione tra le due. La medesima separazione si riscontra in Husserl sotto il titolo di noesi, che è la struttura specifica del dirigersi-su, e di noema, che è la cosa intenzionata nell’intenzione. Secondo Husserl non c’è alcuna correlazione particolare, perché essa è già data e conchiusa nel noema e nella noesi. In questo atteggiamento naturale in cui ritroviamo tali oggetti, continuiamo a persistere e volgiamo lo sguardo sulla connessione di Erlebnisse che ci è propria e che defluisce realmente. Questo dirigersi sulla nostra propria connessione di Erlebnisse è un nuovo atto, che viene caratterizzato come riflessione. Negli atti della riflessione troviamo un elemento oggettuale che ha il carattere di atti, di Erlebnisse, di modi della coscienza di qualcosa. In questa riflessione, in cui osserviamo atti, possiamo descriverli come abbiamo fatto in precedenza con l’analisi della rappresentazione, della coscienza d’immaginatività e dell’intenzionare vuoto. Se viviamo negli atti della riflessione, siamo naturalmente diretti su atti. Si manifesta qui l’elemento assolutamente peculiare: l’oggetto della riflessione – gli atti – appartiene alla medesima sfera d’essere della considerazione riguardo all’oggetto. Riflessione e oggetto riflesso appartengono a una e identica sfera d’essere: l’oggetto, ciò che è considerato, e l’azione del considerare sono realmente inclusi l’uno nell’altro. Oggetto e forma di coglimento appartengono alla medesima corrente di Erlebnis. Il fatto che l’oggetto colto sia effettivamente incluso nel coglimento stesso, nell’unità della medesima realtà, è designato come immanenza. Immanenza ha qui il senso dell’effettivo essere-insieme di elemento riflesso e riflessione. Si delinea quindi una particolare molteplicità di un ente, e cioè dell’essere di Erlebnisse e atti. “La coscienza e il suo oggetto (riflessione e atto come oggetto della riflessione) formano allora una unità individuale costituita puramente da Erlebnisse”. È chiaro che la situazione è completamente diversa per quanto riguarda le cosiddette percezioni trascendenti, le percezioni di una cosa. La percezione della cosa-sedia, in quanto Erlebnis, non contiene effettivamente in sé la sedia, per cui questa galleggia per così dire, in quanto cosa, sulla corrente di Erlebnisse. La percezione, come dice anche Husserl, si trova “fuori da ogni (peculiarmente) essenziale unità con essa”, con la cosa. Un Eriebnis può “connettersi in un tutto soltanto con altri Erlebnisse, dove l’essenza complessiva del tutto riassume le essenze dei singoli Erlebnisse e si fonda su di esse”. Per le sue caratteristiche, la totalità della coscienza, la totalità della corrente di Erlebnisse può essere fondata solo negli Erlebnisse come tali. L’unità di questa totalità, la connessione di Erlebnisse, è determinata puramente grazie all’essenza propria degli Erlebnisse. L’unità di un tutto è unificata tuttavia solo grazie all’essenza propria delle sue parti. Da questa totalità della corrente di Erlebnisse intesa come in sé conchiusa, bisogna escludere ogni cosa, vale a dire ogni oggetto reale, innanzitutto l’intero mondo materiale. Quest’ultimo, rispetto alla regione degli Erlebnisse, è l’estraneo, l’Altro. Lo rivela qualsiasi analisi di una semplice percezione. Al tempo stesso però fu chiaro fin dall’inizio nell’analisi, che la corrente di Erlebnisse, in quanto accadimento reale, è collegata con il mondo reale, con i corpi per esempio, per raggiungere un’unità concreta, nell’unità delle cose animali psicofisiche. Come titolo della totalità degli Erlebnisse, la coscienza è di conseguenza intrecciata in duplice modo nella struttura reale. In primo luogo la coscienza è sempre tale in un uomo oppure in un animale. Costituisce l’unità psicofisica di un oggetto animale che appare come oggetto dato e reale. (Essere e tempo, op. cit., pp. 113-116).

Il coinvolgimento richiede coraggio ma anche fantasia e immaginazione. Se mi immagino chiuso in me stesso, bisognoso di garanzie e protezione, lo stimolo alla lotta si acquieta, la musica più dolce è quella casalinga dell’acciottolio, non il delirio dello scontro. È ovvio che bisogna evitare di farsi incantare da questi due mostri, c’è chi combatte solo perché in questo modo riesce a sentire il proprio fare, e c’è chi non combatte perché il proprio fare stesso glielo impedisce. A volte la vita mente a chi la interroga, gli prospetta orizzonti confusi che gettano nel panico. A volte è più benevola e si mostra, nelle sue occasioni, come un ospite che porta doni con sé, ma occorre fare attenzione, questi doni sono sempre nell’ambito del fare e producono desiderio di possesso. Non c’è evento nel mondo del fare, occorre cercarlo altrove, ma nel mondo c’è una traccia del tutto, o dell’uno se si preferisce, e quindi anche della falsità dell’apparizione, altrimenti l’uno non potrebbe essere quello che è.


26) La mancatarealtàdi alcuni concetti fisici. Non bisogna pensare che sia prerogativa della filosofia prospettarsi concetti ideali e utilizzarli come se fossero effettivamente esistenti. Lo scopo per cui la filosofia compie quelle astrazioni, scopo per raggiungere il quale si attraversa una strada tanto pericolosa, è quello di giungere a una spiegazione della “realtà”. Sotto questo aspetto, pertanto, ogni scuola filosofica ha potuto dare il suo contributo ad una migliore tecnica della conoscenza. Anche in fisica esiste questa sostanziale astrazione di alcuni concetti, che vengono impiegati per migliorare e rendere a volte possibile la conoscenza di determinati fenomeni. Il comportamento degli oggetti non osservati non può considerarsi una realtà fisica, allo stesso modo del concetto di campo elettrico, o di corpo elastico, o di interno di corpo solido o di atomo. Sono semplici modelli mentali che vengono impiegati (e a volte purtroppo confusi) per interpretare determinati fenomeni della realtà che, senza quei concetti, non avrebbero senso univoco.

Importante la riflessione su altri orizzonti di Mircea Eliade: «Durante la cerimonia totemica annuale, l’intichiuma, gli Aranda australiani ripetono il viaggio percorso dal divino Antenato del clan nel tempo mitico (alcheringa, letteralmente il “tempo del sogno”). Si fermano presso tutti gli innumerevoli luoghi ove l’Antenato si fermò e ripetono i medesimi atti e gesti dà lui compiuti in illo tempore. Durante tutta la cerimonia digiunano, non portano armi ed evitano qualsiasi contatto con le loro donne e con membri di altri clan. Si immergono totalmente nel “tempo del sogno”. Le feste celebrate annualmente in un’isola polinesiana, Tikopia, riproducono le “opere degli dèi”, cioè gli atti con cui nel tempo mitico gli dèi formarono il mondo quale è oggi. Il tempo festivo in cui gli indigeni di Tikopia vivono durante le cerimonie è caratterizzato da taluni divieti (tabù): il chiasso, i giochi, le danze cessano. Il passaggio dal tempo profano a quello sacro viene indicato col taglio rituale di un pezzo di legno in due. I numerosi atti rituali compiuti durante le feste periodiche – e che, ancora una volta, sono solo la reiterazione degli atti paradigmatici degli dèi – non sembrano differenziarsi da quelli compiuti nel corso delle attività normali; citiamo tra gli altri la riparazione rituale di barche, i riti relativi alla coltivazione di piante alimentari (igname, taro, ecc.), la riparazione di santuari. Ma in realtà tutte queste pratiche cerimoniali si differenziano da attività analoghe compiute nel tempo ordinario anzitutto perché la loro esecuzione riguarda “solo alcuni oggetti” (che in qualche modo rappresentano gli archetipi delle rispettive classi), e anche perché le cerimonie si svolgono in un’atmosfera satura di sacralità. Gli indigeni cioè sono consci del fatto che stanno riproducendo fin nei minimi particolari gli atti paradigmatici degli dèi quali furono compiuti in illo tempore. Ciò equivale a dire che l’uomo religioso, periodicamente, diventa contemporaneo degli dèi nella misura in cui riattualizza il tempo primordiale nel quale le opere divine furono compiute. L’uomo religioso periodicamente rivive il tempo mitico e sacro, ritorna al “tempo d’origine”, al tempo che “non scorre” perché non partecipa della durata temporale profana, perché è un “presente eterno” recuperabile all’infinito. Durante la festa si recupera la dimensione sacra della vita, i partecipanti vivono la santità dell’esistenza umana in quanto creazione divina. Apprendono di nuovo come gli dèi o gli antenati mitici crearono l’uomo e gli insegnarono le varie forme di comportamento sociale e di attività pratica. Se l’uomo religioso sente la necessità di riprodurre all’infinito i medesimi atti e gesti paradigmatici, è perché desidera e si sforza di vivere vicino ai suoi dèi. “In origine”, gli esseri divini o semidivini operavano attivamente sulla terra. La nostalgia delle origini equivale quindi a una nostalgia “religiosa”. Il tempo mitico che si cerca periodicamente di riattualizzare è un tempo santificato dalla presenza divina; si potrebbe dire che il desiderio di vivere al cospetto della “presenza divina” e in un “mondo perfetto” (perfetto perché appena creato) corrisponde alla nostalgia del “paradiso terrestre”. Il desiderio di recuperare il mondo delle origini – forte, vigoroso, puro – è al tempo stesso sete del sacro e nostalgia dell’essere. Il mito narra una storia sacra: racconta un evento verificatosi nel tempo primordiale, il tempo favoloso delle “origini”. In altre parole, il mito racconta come, attraverso le gesta di Esseri soprannaturali, ebbe origine una realtà, si trattasse della realtà nel suo insieme – il cosmo –, o solo di un frammento della realtà : un’isola, una specie di pianta, un particolare tipo di comportamento umano, un’istituzione». (Voce Religione, Enciclopedia del Novecento, Treccani, Roma 1975, p. 123).

Le parole che dicono l’inganno non possono essere forzate a dire la verità. Posso circondare una corrispondenza, proporla come regola e attenermi a essa, ma né chiarezza né corrispondenza si avvicinano alla verità. Questo problema si fa più grave avvicinandosi all’assenza. La corrispondenza che permette l’apparizione grazie alla parola indica qualcosa di più di un gioco di prestigio, o di una copia che riproduce e rispecchia, indica una compenetrazione, ed è quanto si rende più evidente nell’avvicinarsi all’assenza, movimento che rende possibile l’intuizione di quello che non si vede, che non si tocca, che non si può dire con le parole. Quando produco non falsifico semplicemente, il mio dire è sì falsificazione ma è anche affermazione creativa del mondo, compreso il carattere ingannevole che a esso è connaturato. Sogni, ombre, profili confusi, duplicazioni incerte, miraggi cadono sotto la medesima ala del dio che tutela il dire. La tecnica fa e dice di fare anche quello che non fa. La sua capacità produttiva è forse inferiore a quella che discute sulla capacità e della produzione fa una proiezione nel futuro, del tutto diversa.


27) Leggi assolute e leggi statistiche. In passato le leggi naturali si ritenevano assolute, oggi si ammette l’esistenza di leggi naturali di composizione statistica. In effetti, però, sono pochi quelli che rinunciano a immaginare, dietro la legge statistica, una legge naturale di necessità, anche se, almeno per il momento, questa legge di tutta tranquillità non è ricavabile dall’esperienza. È probabile una simile concezione? Certo proporre l’esistenza di questo sottofondo assoluto è compito di coloro che ancora oggi credono fermamente in un meccanismo causale della natura e non di coloro che se ne sono liberati.

In maniera molto più ampia del semplice rapporto tra pretese assolute e intenzioni probabili, Hans-Georg Gadamer: «Anche in questo secondo tipo di esperienza da cui prendo le mosse, e cioè nella scienza storica, si esprime soltanto una parte di quello che per noi è autentica esperienza, e cioè l’incontro con la tradizione storica, e ce la fa conoscere soltanto in una figura estraniata. Tuttavia, per contrapporre a tale esperienza la coscienza ermeneutica come una possibilità più ampia che val la pena di sviluppare, occorre anzitutto superare la riduzione epistemologica con cui è stata incorporata nell’idea moderna di scienza quella che in forma tradizionale si chiama “scienza dell’ermeneutica”. Se ci volgiamo alla ermeneutica di Schleiermacher, dove si fa sentire la voce della coscienza storica del romanticismo e, insieme, non è mai persa di vista l’esigenza della teologia cristiana nella misura in cui l’ermeneutica come teoria universale del comprendere doveva soddisfare ai compiti specifici dell’interpretazione della Sacra Scrittura, risulta evidente che tale concezione dell’ermeneutica è stata limitata peculiarmente dalla nozione moderna di scienza. Schleiermacher definisce l’ermeneutica come l’arte di evitare i fraintendimenti. Certo non si tratta di una descrizione del tutto erronea dello sforzo ermeneutico di escludere con una riflessione metodica controllata ciò che è estraneo, ciò che porta a fraintendimenti in cui ci è facile cadere a causa della distanza di tempo, del mutamento delle abitudini linguistiche, del cambiamento di significato dei termini e del cambiamento dei modi di pensare. Ma anche qui si pone la domanda: il fenomeno del comprendere è definito in modo adeguato, quando si dice: comprendere significa evitare i fraintendimenti? In verità, ogni fraintendimento non presuppone qualcosa come un’“intesa che fa da supporto”? Quello che cerco qui di evocare è un momento di esperienza viva. Noi diciamo all’incirca: il comprendere e il fraintendere hanno luogo tra l’io e il tu. Ma già la formula “l’io e il tu” è segno di un’enorme estraniazione. Non c’è affatto una cosa del genere, non ci sono né “1’io”, né “il tu”, ma c’è il dire-tu di un io, e c’è un dire-io di fronte a un tu; ma queste sono situazioni che presuppongono già sempre un’intesa. Dare a qualcuno del tu – lo sappiamo tutti – presuppone una profonda intesa, comporta già qualcosa che è durevole. Anche nel tentativo di intenderci su un punto su cui abbiamo opinioni divergenti, è sempre implicito un tale supporto, anche se soltanto di rado ne diventiamo consapevoli. Ora la “scienza dell’ermeneutica” vuol farci credere che l’opinione che noi dobbiamo intendere sarebbe qualcosa di estraneo che cerca di portarci al fraintendimento e che, mediante un procedimento controllato di educazione storica, mediante la critica storica e un metodo controllabile unito alla capacità psicologica di compenetrarsi in quella opinione, l’importante sarebbe escludere tutti i momenti attraverso i quali può insinuarsi un fraintendimento. Questa, mi sembra, è una descrizione valida per un certo aspetto, ma tuttavia molto parziale, di un fenomeno assai più vasto che costituisce il noi che tutti siamo. Mi pare che sia nostro compito andare oltre i pregiudizi che stanno alla base della coscienza estetica, della coscienza storica e della coscienza ermeneutica, ridotta a una tecnica, per evitare i fraintendimenti e superare l’estraniazione intrinseca a tali forme di coscienza. Ma che cos’è allora quello che in questi tre tipi di esperienza ci è apparso esser stato omesso e perché si fa tanto sentire la loro particolarità? Che cos’è la coscienza estetica rispetto alla ricchezza di quello che già sempre ci ha appellati e che nell’arte chiamiamo “classico”? In tal modo non è già sempre determinato quello che ci parla e che troviamo significativo? Tutto ciò di cui diciamo con sicurezza istintiva – che può anche essere forse erronea, ma che in un primo momento è valida per la nostra coscienza –: “questo è classico, questo rimarrà”, ha già preformato la nostra possibilità di giudicare qualcosa esteticamente. E non sono stati certo criteri puramente formali a arrogarsi la pretesa di giudicare e approvare liberamente il livello figurativo o il grado di formazione in rapporto alla virtuosità artistica. È vero piuttosto che ci troviamo al centro di uno spazio di risonanza estetica della nostra esistenza sensibile-spirituale, uno spazio di risonanza evocato dalle voci che continuamente ci raggiungono – e ogni giudizio estetico esplicito presuppone questo spazio. Lo stesso vale per la coscienza storica. Anche qui, certamente, ci sono innumerevoli compiti della indagine storica che non hanno nessuna relazione con il nostro presente e con i livelli di profondità della sua coscienza storica. Ma mi sembra indubitabile che il grande orizzonte del passato, nel cui quadro si stagliano la nostra cultura e il nostro presente, influisce su tutto quello che noi vogliamo, speriamo o temiamo per il futuro. La storia ci accompagna, ma ci accompagna soltanto alla luce di questa nostra proiezione verso il futuro. Su questo punto siamo tutti debitori a Heidegger che ha mostrato precisamente il primato di questa proiezione verso il futuro per la possibilità di ricordare e conservare e, quindi, per la totalità della nostra storia. Di qui deriva quello che Heidegger ha insegnato a proposito della produttività del circolo ermeneutico ed è quanto io ho formulato dicendo che non sono tanto i nostri giudizi, quanto i nostri pregiudizi a costituire il nostro essere. Si tratta di una formulazione provocatoria, nella misura in cui con essa riabilito un concetto positivo di pregiudizio che l’illuminismo francese e inglese hanno espulso dal linguaggio. Si può infatti mostrare che il concetto di pregiudizio all’origine non aveva affatto il solo senso che noi vi ricolleghiamo. I pregiudizi non sono necessariamente ingiustificati ed erronei, tali da contraffare la verità. Invero, la storicità della nostra esistenza implica che i pregiudizi, nel senso letterale del termine, costituiscono l’orientamento preliminare di ogni nostra possibilità di esperienza. I pregiudizi sono le prevenzioni della nostra apertura al mondo e sono pertanto le condizioni perché noi abbiamo esperienza, perché ciò che ci viene incontro ci dica qualcosa. Certo questo non significa che noi, circondati da un muro di pregiudizi, lasciamo entrare da uno spiraglio soltanto ciò che può mostrare scritto sul suo passaporto: qui non è detto nulla di nuovo. Ospite gradito, invece, è proprio quello che promette qualcosa di nuovo alla nostra curiosità. Ma da dove riconosciamo che l’ospite ammesso alla nostra presenza ha da dirci qualcosa di nuovo? Anche la nostra attesa e la nostra disposizione ad ascoltare il nuovo sono già determinate dal vecchio che si è impossessato di noi. Questa immagine deve in qualche modo legittimare l’esigenza di una riabilitazione ermeneutica del concetto di pregiudizio che è profondamente connesso con il concetto di autorità. Come ogni immagine, anche la nostra è manchevole. Non è che nell’esperienza ermeneutica ci sia qualcosa che sta fuori e chiede di entrare: piuttosto siamo presi da qualcosa e con ciò stesso siamo posti in una disposizione di apertura al nuovo, all’altro, al vero. È una situazione che Platone ha illustrato con il bel paragone tra cibo corporeo e nutrimento spirituale: mentre si può rifiutare il cibo corporeo, per es. per consiglio del medico, il nutrimento spirituale lo si è già sempre ingerito. Il problema ermeneutico, come l’ho caratterizzato, non è affatto limitato ai campi da cui ho preso le mosse nelle mie ricerche. Si trattava soltanto di fissare anzitutto una base teoretica che fosse in grado di sorreggere anche il fatto fondamentale della nostra civiltà presente, la scienza e la sua utilizzazione tecnica e industriale. Un esempio utile del modo in cui la dimensione ermeneutica abbraccia l’intero procedimento della scienza, è la statistica. La statistica, come caso limite, insegna che la scienza è sempre soggetta a determinate condizioni metodologiche di astrazione e che i successi delle scienze moderne dipendono dalla scoperta di sempre nuove possibilità di porre domande. Nella statistica lo si può toccare con mano, perché, proprio per le prevenzioni insite nelle domande a cui risponde, è così adatta alla propaganda: quello che deve avere effetto propagandistico deve già sempre cercare di influenzare preliminarmente il giudizio delle persone a cui si rivolge e di limitarne le possibilità di giudizio. Quello che la statistica accerta si presenta come linguaggio dei fatti; ma a quali domande questi fatti diano risposta e quali fatti comincerebbero a parlare se venissero poste altre domande, questa è precisamente la questione posta dall’ermeneutica. Soltanto ponendo tale questione si legittimerebbe il significato di questi fatti e quindi le conseguenze che risultano dal loro sussistere. In tal modo ho anticipato il senso del discorso e ho involontariamente usato la frase: quali risposte a quali domande propriamente sono celate dentro i fatti. Questo, in effetti, è il fenomeno ermeneutico originario, per cui non c’è nessun enunciato possibile che non possa essere inteso come risposta a una domanda e nessun enunciato possibile può essere inteso se non così [...]. Vengo ora alle conseguenze. La funzione peculiare della coscienza ermeneutica che, dal principio ho definito soltanto da alcuni punti di vista determinati, è legata al fatto che si sia in grado di vedere ciò che è meritevole di esser messo in questione. Se consideriamo non soltanto la tradizione artistica e quella storica dei popoli, non soltanto il principio della scienza moderna nelle sue condizioni ermeneutiche preliminari, ma la totalità della nostra esperienza, allora arriviamo a collegare alla nostra propria esperienza di vita universale ed umana anche l’esperienza della scienza, perché ora abbiamo raggiunto quello strato di fondo che si può chiamare, con Johannes Lohmann, la “costituzione linguistica del mondo”. Questa costituzione linguistica si manifesta come la coscienza storico-effettuale che schematizza preliminarmente tutte le nostre possibilità di conoscenza. Prescindiamo pure dal fatto che lo scienziato, anche lo scienziato della natura, forse non è del tutto indipendente dalla moda e dalla società e da tutti i fattori possibili del suo ambiente; ma, credo, all’interno della sua esperienza scientifica non sono tanto le “leggi ferree del sillogismo” di cui parla Helmholtz, quanto piuttosto costellazioni imprevedibili a ispirargli idee feconde, si tratti della mela di Newton o di qualsiasi altra osservazione contingente, da cui scocca la scintilla dell’ispirazione scientifica. La coscienza storico-effettuale ha il suo compimento nell’elemento linguistico. Dalla riflessione filosofica del linguista possiamo imparare che il linguaggio, nella sua vita e nella sua storia, non deve essere semplicemente pensato come qualcosa che si trasforma, ma che in tale trasformazione opera una teleologia. Questo significa che le parole che si formano, i mezzi espressivi che si fanno avanti in una lingua per dire cose determinate, non si fissano in modo casuale – nella misura in cui non cadano nuovamente in disuso – ma in modo da costruire una determinata articolazione del mondo – un processo che opera come se fosse pilotato e che possiamo sempre osservare di bel nuovo nel bambino che impara a parlare [...]. L’imparare a parlare è certamente una fase di particolare produttività e, nel frattempo, in noi tutti la genialità dei nostri tre anni ha ceduto il posto a un talento scarno e parsimonioso. Ma nell’uso dell’interpretazione linguistica del mondo che, alla fin fine, viene pure a realizzarsi, rimane ancora vivente qualcosa della produttività dei nostri inizi. Ce ne accorgiamo tutti quando per es. nel tentativo di tradurre sia nella vita che nella letteratura o dove mai si voglia, proviamo un sentimento strano di inquietudine e di disagio fino a quando non abbiamo trovato la parola giusta. Quando la possediamo, quando abbiamo trovato l’espressione giusta (poiché non si tratta necessariamente sempre di una parola), quando siamo sicuri di possederla, diciamo che “regge”, che ne “siamo venuti a capo”, e abbiamo ritrovato un punto fermo in mezzo al fluire della lingua straniera che ci disorienta con il suo infinito variare. Ma quello che sto descrivendo è proprio il modo in cui l’uomo fa in generale esperienza del mondo e che io chiamo “ermeneutica”. Il procedimento così descritto si ripete continuamente negli ambiti più comuni ed usuali. Il mondo in cui l’esperienza entra come qualcosa di nuovo sconvolgendo quello che aveva guidato le nostre aspettative e attraverso tale sconvolgimento ordinandosi in modo nuovo, è sempre un mondo che già si interpreta e che già è ordinato nei suoi nessi. Punto di partenza non è il fraintendimento o l’estraneità per cui senza fallo si dovrebbe solo badare a evitare i fraintendimenti. Al contrario, solo perché siamo sorretti da ciò che è familiare, da ciò su cui vi è accordo, ci è possibile passare in ciò che è estraneo, ricevere da esso e quindi ampliare e arricchire la nostra esperienza del mondo». (Die Universalität des hermeneutischen Problems, in Kleine Schriften, ns. tr., Tübingen 1967, pp. 105-112).

L’inganno che la critica negativa mette in atto nei riguardi del fare è un progetto imitativo di qualcosa che la critica non conosce, la qualità. Propone alla quantità una modificazione che questa non può accettare senza mettere a rischio le proprie certezze. Nulla la critica sa di quello che propone, indica il buio oltre la siepe di confine, mano a mano che avanza si rende conto che la sua estraneità è minore di quella della immediatezza ma sa di restare nel regno fantastico che l’ombra produce e disvela a suo piacimento. La critica, che tanto mi ha affascinato, insegna inganni e labirinti che continuano ancora ad affascinarmi e atterrirmi. I movimenti della critica sono parole che persuadono ma che non permettono l’aprirsi di ciò che dovrebbe essere manifesto. Inafferrabili, queste parole mi convincono e tornano a farmi dubitare, abitano il mondo della certezza e quello dell’inganno, sono bestie con due teste e un corpo, ma prive di radicamento nella qualità, anzi sconvolgono le regole e rendono il mondo un luogo difficile in cui vivere. Si deve comunque convenire che la mente errante resta affascinata e così si apre, disponibile all’esperienza diversa. L’ordine del fare quello dell’inganno critico che minaccia lo svelamento ma non conclude quello che minaccia, nascono e crescono nel medesimo ambiente. Anche l’ordine è ingannevole perché l’inganno è latente all’immediatezza, ma quello della critica ha confini più complessi, meno visibili, capacità costruttive più complesse, labirintiche e, alla fine, antitetiche.


28) L’azione dispersiva della nuova fisica. Il fatto che non è possibile parlare di misurazione esatta, di per se stesso, non implicherebbe un pericolo di dispersione per quanto riguarda le possibilità conoscitive della ricerca empirica. Ma la fisica, come a suo tempo ebbe a fare la matematica, si è spinta più oltre. In passato Gauss dimostrò che lo spazio reale non è detto che sia euclideo, può essere anche diverso in quanto nessuno può provarlo empiricamente. Oggi la fisica rifiuta la nozione di oggetto. Infatti lo stesso significato che noi comunemente diamo al termine “oggetto” indica la persistenza di una certa forma nel tempo, precisamente per tutto il tempo necessario a prendere contatto con l’oggetto in questione. La fisica nega l’individualità dell’oggetto nel tempo, infatti nei diversi “contatti” diretti a conoscere l’oggetto questo non è mai lo stesso, modificandosi continuamente a causa dell’evaporazione e di altri fenomeni interni di organizzazione molecolare. Naturalmente questa zona di continua metamorfosi non si rileva nell’aspetto macroscopico, ma può dare notevoli ostacoli di principio per quanto riguarda le possibilità della conoscenza empirica.

Indirettamente, Giorello: «Immanuel Kant nella sua Logica (1800) salutava il nuovo secolo come “l’epoca della critica”. Nel Poscritto alla Logica della scoperta scientifica (1956, 1983) Karl Popper ha indicato a sua volta nella “discussione critica” l’unica ricetta per la crescita della conoscenza, chiarendo: “quella di discutere è una forma particolare dell’arte di combattere con parole anziché con spade”. Ma è il senso di tale combattimento che è sempre rimesso in questione. Nel primo saggio di questo volume Carlo Sini pone l’accento sulla pretesa imperialistica della critica: non sarebbe una forma di violenza costringere alla lotta tradizioni in cui lo “spirito critico” è assente o per cui, addirittura, esso è più esiziale che il filo della spada? E nel saggio che segue, Ludovico Geymonat ha riproposto la questione del carattere pervasivo della critica: oggi noi vogliamo essere critici: critici dei fondamenti della matematica». (Prefazione a L. Geymonat, La ragione, Casale Monferrato 1994, p. V).

Se il fare è inganno sono io stesso a creare questo inganno, a volerlo presente nel fare, il quale non sarebbe più tale senza l’inganno che lo propone come falso completabile. La mia volontà non può volere l’assenza del controllo, per questo necessita dell’inganno che richiede la misura di quanto si resta distanti dalla realtà vera. L’altro inganno, quello della critica negativa, attacca questo controllo, cerca di prenderlo di sorpresa, per quanto non ci riesca è un inganno che conduce con sé la potenza della volontà smascherandola come falsa volontà di potenza, e pure rinunciando ad arrivare a un risultato definitivo per amore del possesso immediato, prepara il terreno alla futura apertura.


29) Realismo e fenomenismo. Il senso limitativo della problematica del secondo indirizzo del pensiero scientifico può condurre a una eliminazione di una unitaria metodologia della ricerca. Non sappiamo ancora se ciò possa considerarsi un pericolo, comunque costituisce un dirottamento dalle tradizionali mire scientifiche che cercavano di ottenere notizie quanto più precise riguardo l’oggetto della loro ricerca, non ponendosi eccessivi problemi di ripensamento filosofico sulle proprie possibilità di conoscenza.

Riprendendo l’attivismo di Blondel, Armando Carlini scrive: «Il punto fondamentale ch’io presi da lui [Blondel], fu il senso nuovo d’interiorità in cui mi si presentò l’atto gentiliano: di un’interiorità che era drammatico problema di adeguazione di sé a sé, e tensione continua di raggiungere tale adeguazione attraverso il mondo dell’esteriorità. L’incantesimo dialettico dell’attualismo gentiliano era, così, rotto irreparabilmente. Tutto il mio lavoro posteriore sarà di giustificare quella rottura, ma il dado era tratto: io ne ero già fuori. Egli anticipò, a modo suo, il principio dell’attualismo gentiliano, in quanto pensò l’atto come la concretezza e la realtà vera del pensiero: come pensiero pensante, dirà il Gentile, che non si esaurisce mai nel pensato. Ma diversamente dal Gentile pose l’atto come diviso da sé, internamente a se stesso (non semplicemente per opposizione dialettica), e anelante perciò ad essere se stesso più veramente in virtù di un Atto che trascendesse la sua alterità e incompiutezza. E, così inteso, lo lanciò alla conquista di sé attraverso il mondo fenomenico dell’esperienza e di quello etico-religioso. Egli rifece, a modo suo, il cammino della dialettica hegeliana, salvo che per lui, la logica vera, concreta, era quella della vita morale, sì, che, non una astratta coincidenza del pensiero pensante con se stesso, ma la reale instaurazione della vita divina in noi, per mezzo della fede, illuminasse con il suo bagliore tutto il processo fenomenologico e desse un senso di vita spirituale alla vita tutta dell’uomo nel mondo. Non soltanto l’astrattezza della dialettica idealistica veniva, così, superata, ma anche quella della tradizione scolastica, di una filosofia separata dalla fede. [...] C’è, nel pensiero di Blondel, sin da principio, un difetto fatale: la mancata distinzione dell’esistenza pura di noi a noi stessi da quella del mondo, in cui pure l’esistenza nostra è inserita. Di qui, anche, la mancanza del vero e proprio problema gnoseologico, e il conseguente scivolamento in un cosmismo metafisico. Questo cosmismo porta, a sua volta, alla dispersione del principio, filosofico e religioso insieme, della personalità nella sua accezione puramente spirituale. Timore di cadere nel kantismo e nel fichtismo dando, alla personalità umana un valore assoluto? Ma non c’è bisogno di essere grandi filosofi, se si è cristiani, per vedere questo: che la personalità umana ha valore assoluto rispetto al mondo ad essa esteriore, non rispetto a Dio, dal quale ripete l’esistenza. È, invece, il “cosmismo”, ossia la mancata distinzione, su accennata, dell’esistenza del mondo come mondo, dall’esistenza di noi a noi stessi quel che ha traviato il pensiero blondeliano». (“Attualismo e fenomenismo teologico nel pensiero di M. Blondel”, in “Giornale di Metafisica”, 1963, n. 2, pp. 164-169).

La grande divisione tra quantità e qualità si origina nell’orientamento percettivo, quindi è afflitta fino dal primo momento da una sorta di apparenza originaria. C’è una indissolubilità più profonda, quella dell’uno, che rende superficiale la polarizzazione e ne impedisce, nello stesso tempo, una divisione netta vera e propria. L’uomo ha due teste e ambedue lo tirano via in due direzioni contrastanti. Nessuna delle due può negare l’altra fino in fondo, né tradirla veramente. Nessuna può conoscere veramente. La conoscenza che guarda alla logica dell’a poco a poco è solo apparentemente caricata di una forza persuasiva che la fa apparire indifferente alla intuizione della qualità. Così i due movimenti ingannano per dire il vero e dicono il vero per ingannare. La vita crede di esaurire se stessa nella produzione modificativa, ma si inganna e mi inganna proponendomi una disposizione verso la completezza che non può che essermi estranea. L’ordine del mondo esaurisce confusamente se stesso nella dominazione, e nel suo dire rimbombano le pretese del dominio della volontà e le illusioni del possesso che mai si esauriscono. Mi illudo di non avere limiti e, al contrario, non faccio altro che produrli.


30) Può parlarsi di contrasto tra principio di causalità e meccanicismo? Il proporsi tale questione non deve sembrare una banalità accademica. Anche oggi è importante potersi liberare dell’evidenza immediata che ci spinge continuamente verso un ragionamento causale, poterlo fare dopo una riflessione piuttosto complessa non significa che si sia per sempre eliminata una sovrastruttura che dobbiamo considerare veramente estranea alla realtà delle cose, significa che possiamo sempre ricadere nell’errore, quasi senza accorgercene. Ecco perché non è mai tempo sprecato studiare i fondamenti che resero tanto inattaccabile, in passato, il principio di causalità. Con Helmholtz e, ancora di più, con Wundt l’interpretazione meccanicistica della realtà fisica e il principio di causalità vennero legati come necessariamente conseguenti. Dobbiamo a Mach la dimostrazione che, persistendo la validità del principio di causalità, non si può ammettere alcun predominio di una categoria di fenomeni su un’altra, quindi non si può pensare che la categoria dei fenomeni meccanici debba essere “superiore” alle categorie degli altri fenomeni. Ciò è notevole in quanto, cadendo, come è caduto, il principio di causalità, cade l’importanza, che a torto, in passato si dava all’interpretazione meccanica della natura.

Parlando di Bergson, Jacques Maritain: «È facile osservare che la dottrina di un filosofo ha spesso un significato tutto diverso, a seconda che la si studi presso i discepoli o si cerchi di capirne la genesi nella mente del maestro. Ciò non è sempre imputabile alla mancanza di comprensione da parte dei discepoli, allo sfruttamento metodico e meccanico di formule che non hanno pensate essi stessi: talvolta richiede una interpretazione più profonda. La dottrina di un filosofo, in realtà, una volta che sia espressa e sistemata, assume un carattere d’oggettività, d’impersonalità, di universalità, che la stacca definitivamente dalle tendenze intellettuali, dai desideri, dalle certezze interiori e anche dalle esitazioni e inquietudini, insomma dalla storia individuale di colui che l’ha concepita. Essa ha lasciato, per dir così, l’atmosfera e il mezzo in cui è nata per intraprendere, ormai da sola, il suo cammino nel mondo. Da questo momento non può più essere giudicata, se non in rapporto all’immutabile e universale verità: in questo modo si determineranno le tesi essenziali del filosofo e il loro significato intrinseco. Al contrario, se fosse dato di indovinarla nel pensiero in cui si è formata e si è nutrita, noi la vedremmo, senza dubbio, disegnarsi secondo linee molto diverse, e dovremmo giudicarla in rapporto all’attività spirituale del filosofo, alle speciali difficoltà che ha dovuto superare, agli errori in cui si è trovato a tutta prima irretito e contro cui ha diretto il suo sforzo, e, infine alle aspirazioni più intime della sua mente e del suo cuore, per determinare così gli aspetti principali e le tendenze profonde della dottrina. Tutte queste cose, è vero, sono private, contingenti e caduche: moriranno con colui di cui raccontano la storia. Pertanto non possono servire direttamente, né alla pura scienza, né al bene universale delle menti. Per contro hanno per noi un interesse primordiale quando cerchiamo di discernere le vere affinità di un’intelligenza privilegiata e il luogo a cui essa realmente tende. Se ci si colloca da questo punto di vista, e si cerca di interpretare – in modo, a dire il vero, ipotetico e affatto schematico (pretendere di più sarebbe temerario) – il pensiero di Bergson, utilizzando le indicazioni che lui stesso ci dà nella sua opera, con i loro chiarimenti complementari, quali le lettere a De Tonquédec, o le conferenze di Oxford, o, ancora, la conferenza sull’anima e il corpo, si sarà senza dubbio condotti a conclusioni vicine alle seguenti. Condotto, quasi per forza, a cercare la realtà misconosciuta dal meccanicismo, non ancora nella scienza dell’essere – verso cui il gusto sperimentale, o gusto del senso, che pervade il nostro tempo, ispira ancor oggi a tante menti una invincibile diffidenza pregiudiziale – bensì in un ordine di fatti che ripugna ai metodi matematici, Bergson dovette accostare la psicologia: riconoscere, attraverso un esame più approfondito dei dati d’esperienza, la radicale insufficienza delle idee che gli scienziati generalmente si fanno sui rapporti tra il fisico e il morale; concludere, in seguito, alla realtà del libero arbitrio, alla negazione del parallelismo psicofisico, alla distinzione dello spirito dalla materia, all’esistenza di una diversità di natura tra l’uomo e gli animali, a una certa sostanzialità dell’anima e, forse, perfino alla sua immortalità; e arrivare così, alla fine, a problemi di metafisica generale, e quasi di teodicea, inclinando verosimilmente verso il riconoscimento di un Dio personale e lasciando, a poco a poco, che si facciano luce le inquietudini religiose e i bisogni della vita spirituale di un’anima portata istintivamente alla contemplazione, ma il cui progresso intellettuale è avvenuto fino al momento presente, su un terreno esclusivamente scientifico». (La philosophie bergsonienne, ns. tr., Paris 1948, pp. 309-310).

La rammemorazione rammemorerà l’esperienza diversa, ma non potrà mai ripresentare l’assetto fondamentale del cerchio che la stringe. Che c’è al di là della domanda limite non può essere rammemorato, nemmeno intuito, posto l’infinito svolgersi della libertà, infinito interrotto da un fremito di paura, ma al di sotto di questo cerchio che riconduce dalla qualità alla quantità e da questa a quella, nella vicissitudine della vita e dell’esperienza immediata e diversa, si intravede l’uno che è, l’indissolubile indifferenza alla quale mai posso sottrarmi. La produzione mi suggerisce quello che devo dire, la rammemorazione me lo arricchisce, ma la legge non oscilla, la legge dell’uno non quella risibile caricatura che osservo nel mondo con occhi sprezzanti. Io posso imporre la mia dominazione, ma così facendo ripongo da canto la mia possibile libertà, mi costruisco un mondo il cui massimo modello di perfezione è il carcere. Non c’è modo di trovare rimedio se non azzerando il mondo, follia. E la follia mi fa paura. Il coinvolgimento, che pure mi porta nella cosa, che mi permette la sperimentazione diversa, qualitativamente diversa, non è follia, mantiene la memoria e fugge dall’oblio.

 
 

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