Titolo: I seguaci dell’amianto
Autore: Duval, Michèle
Note: Opuscoli provvisori N. 89
Titolo originale: Considérations sur les Causes de la Grandeur des Sectateurs de l’Amìante et de leur Décadence, Editions Champ Libre, Paris 1977
Traduzione di Tito Pulsinelli
Prima edizione: gennaio 1979
Seconda edizione: settembre 2015
SKU: opuscoli-000089
Dimensioni: cm 10 x 10,5
i-s-i-seguaci-dell-amianto-x-cover.jpg

Nota introduttiva alla seconda edizione

Il massacro è adesso visibile a livello mondiale. Sono perfino arrivate le condanne giudiziarie, per quel che valgono. I morti di cancro si contano a migliaia e i malati in procinto di morire sono altrettanti.

Non sono tanto l’ottusità e la limitatezza degli scienziati che colpiscono – queste si conoscevano da sempre – quanto il cinismo dello sfruttamento senza limiti e senza pudore.

Si pensava scomparso per sempre il massacro dei bambini e delle donne nelle fabbriche dell’Ottocento, e invece continua. Non sono soltanto gli operai buttati al macello ma anche le loro famiglie, comunità intere corrono il rischio di morire per il guadagno tradizionale del 3%, senza pietà, fino all’ultimo uomo.

In una società che innalza il pavese della democrazia e del perbenismo, persistono sacche di pirateria all’interno del meccanismo di sfruttamento. La responsabilità di questi estremismi non è soltanto della smania di guadagno di qualche esoso capitalista, ma è dell’intero sistema che rende possibile l’ipocrisia e l’imbroglio di cui il testo che presentiamo è un considerevole esempio. Basta pensare che è stato pubblicato nel 1977. La denuncia del massacro dovuto all’amianto quindi è tutt’altro che una faccenda di oggi, è stata tollerata e resa possibile per decenni, sotto gli occhi di tutti.

Nessuna pietà.


Trieste, 28 maggio 2014

Alfredo M. Bonanno

* * * * *

Dileguare lontano, dissolvermi e dimenticare del tutto
ciò che tu tra le foglie non hai mai conosciuto,
la stanchezza, la febbre e l’inquietudine
qui, dove gli uomini siedono e odono l’uno il gemito dell’altro,
dove il tremito scuote pochi, tristi, ultimi capelli grigi,
dove la gioventù si fa pallida e spettrale, e
muore.

John Keats

Considerazioni sulle cause e la grandezza dei seguaci dell’amianto e della loro decadenza

Il 17 novembre 1976, una pubblicità “a proposito dell’amianto” compariva sui giornali. Gli scopi della pubblicità sono molteplici, ma l’amianto non è uno dei numerosi prodotti destinati prevalentemente alla vendita al dettaglio. La “Camera Sindacale dell’Amianto” e il “Sindacato dell’Amianto-Cemento” avevano dunque delle ragioni per volerci istruire maggiormente sull’amianto.

A questo proposito, già dal titolo d’una eleganza discreta “a proposito dell’amianto”, la diffidenza si desta. In generale la pubblicità parla con una sicurezza più chiassosa, e rivela molto bene dove vuole condurci. Questo titolo è anodino perché l’amianto è anodino? Forse cercano di rendere grazioso un argomento che non lo è poi tanto? Oppure pensano che devono solo sfiorare il soggetto, guardandosi bene dal delimitarlo? Perché qui non si può parlare di uno studio esaustivo. Forse pensano che questo ci soddisferà per sempre? Forse pensano che non meritiamo un discorso serio sull’amianto? Ma perché adesso meritiamo che ci facciano con condiscendenza qualche breve confidenza sull’argomento? Dall’alto della loro scienza i padroni dell’amianto si degnano di concederci qualche attenzione, ma niente di più. Quali che siano le loro ragioni, nessuna di esse ci è favorevole: in ciò essi assomigliano ai governi.

Le forme del discorso sono sempre portatrici d’un significato, più o meno conosciuto da coloro la cui professione è impiegarle a certi scopi, e che dovrebbero conoscere – come la legge! – i consumatori o gli elettori ai quali questo discorso è destinato. Forse prevedono che questo genere di contratto sarà firmato senza che tutte le righe saranno lette. Perché, ai nostri giorni, la forza principale di un discorso, sta soprattutto nel fatto che sia tenuto: alcuni parlano in pubblico, davanti altri tacciono. Che il discorso sia buono o cattivo ha poca importanza; il solo fatto che è stato tenuto, gli dà ragioni per esistere. Vedremo che questa sorta di legittimità essenziale che una volta stabilita poco si preoccupa dei piccoli problemi che possono sussistere, è quella dell’amianto stesso nell’attuale produzione industriale.

Prendiamo dunque in considerazione la retorica dell’amianto. Il titolo “a proposito di” serve evidentemente sempre ad introdurre un’informazione secondaria su un soggetto secondario. Se si scopre un aspetto fondamentalmente nuovo nella vita di un tale, per esempio se Giscard d’Estaing diventasse scrittore, o se il vostro fornitore di vino si convincesse di essere un avvelenatore, i giornali non porterebbero di certo la notizia alla conoscenza del pubblico con un semplice “a proposito di”. È come se si scopre un’inezia su qualcosa la cui importanza è largamente riconosciuta: per esempio, se qualche dotto professore del Movimento di Liberazione della Donna domani stabilisse che l’opera di Shakespeare deve essere attribuita ad una donna, la trovata non sarebbe sicuramente presentata col modesto titolo: “A proposito di Shakespeare”.

Sembra che oggi l’amianto sia molto importante per la vita di tutti, e che i suoi errori di gioventù e le sue scappatelle – variamente criminali – abbiano superato di molto i timori e i calcoli irresponsabili dei suoi tutori legali; ed anche le responsabilità che essi saprebbero assumersi a questo riguardo. Francamente non è più il tempo di pubblicare un “Elogio dell’Amianto”, ma coloro che, a conti fatti, credono che l’amianto è ancora abbastanza positivo per voi, non arrivano fino a intitolare il loro libello: “Terrore e miseria dell’Impero dell’Amianto”. Hanno quindi scelto un titolo la cui dolce neutralità postula l’innocuità dell’oggetto stesso.

Vediamo che ne è del rimanente:


“L’amianto è un materiale naturale”.

E beh? Dire questo o niente è la stessa cosa. In che senso bisogna intendere “naturale”? Un bambino, un vino, un canale radiofonico come “Europe I” possono a pari titolo definirsi naturali, ed è evidente che non lo sono come l’amianto: non li troviamo nella crosta terrestre. È senza dubbio in questo senso che bisogna capire (visto che non è chiaramente detto) che l’amianto è un materiale naturale? Ad ogni modo questo non chiarisce nulla, perché tutti i materiali sono – in questo senso – naturali. Esiste forse un solo materiale che non provenga più o meno direttamente dalla crosta terrestre?


“È un minerale indispensabile”.

Per chi? Questa è nuova perché bisogna riconoscere che finora non abbiamo sentito bisogno dell’amianto. Non ci sono, forse, ben altre cose che ci sono indispensabili senza che noi lo sappiamo? o è indispensabile per gli interessi di pochi renderlo indispensabile per tutti? Ora vengono a dirci che l’amianto è indispensabile. Ce lo dimostreranno?


“Ma può essere pericoloso...”.

Quanta prudenza! Avanzano a piccoli passi, esitano nello svelare il mostro, e commettono un errore: quando c’è pericolo bisogna sottolineare, non minimizzare. Perché non osano? Forse perché lo conoscono male? Hanno paura anche a parlarne? Tentano di nasconderlo?


“Come possono esserlo: il gas carbonico dell’aria, il sale di mare”.

Perché dell’aria e del mare? Il gas carbonico al di fuori dell’aria, il sale fuori dal mare non sarebbero pericolosi? Questa distinzione è strana. Perché non hanno scritto addirittura che l’aria e il mare sono pericolosi? Abbiamo sbagliato pianeta o abbiamo sbagliato sviluppo industriale?


“La maggior parte dei prodotti chimici indispensabili alla vita dell’uomo”.

Quali? Nessuna coerenza! Hanno scelto i due primi termini di paragone con una bizzarra precisione e adesso fanno ricorso all’impreciso, al vago. Per di più, come osano paragonare l’amianto naturale ai prodotti chimici? Dove vogliono portarci? Aggiungere l’aggettivo “indispensabile”, ancora una volta non fa che dire qualcosa che si suppone dimostrato, e costituisce solo una petizione di principio.


“Il fuoco che gli permette di alimentarsi e riscaldarsi”.

Il fuoco! Adesso sono alle chiacchiere! Sono anche sprezzanti verso i lettori. Tutti sanno a cosa serve il fuoco, e ne conoscono anche altri usi. Perché questo elenco si blocca a mezza strada? Avevano trovato un filone inesauribile. Tutto, assolutamente tutto, può essere pericoloso sulla terra, anche ciò che non è indispensabile. Allora perché questa scelta?


“I pericoli dell’amianto...”.

Quali pericoli? Siamo sempre in attesa di conoscerli. Hanno tentato un gioco di prestigio, ma l’hanno fallito. È evidente che tutto quello che ci stanno dicendo non chiarisce nulla dell’argomento. Che possiamo ricavarne, visto che bisogna fare tutto da soli? Secondo la scelta fatta sopra, sembrerebbe che l’amianto provochi avvelenamento e asfissia. Sorprendente!


“... sono essenzialmente legati alla sua messa in opera...”

In cosa consiste la “messa in opera” dell’amianto? Non siamo che all’inizio di questo lungo pensum, e con un colpo di mano si permettono di scartare i pericoli di questo primo stadio nascondendoceli, cercando di dare ad intendere che l’amianto non presenterebbe che pochi pericoli: vedremo i pericoli (che non sono affatto minimi) insiti negli stadi successivi. Allora avremo modo di immaginare cosa possono mai essere i pericoli della “messa in opera”.


“... e riguardano in primo luogo gli operai che lo lavorano”.

E una volta detto ciò, forse che questi pericoli non ci riguardano più? Invece sì! Non fosse altro perché questo fa parte dell’argomento, anche se “essenzialmente” e “in primo luogo” stanno ad indicare che i pericoli dell’amianto non sono circoscritti alla fase della “messa in opera”. Chi credono di rassicurare stabilendo, già dall’introduzione, la contrapposizione fra operai dell’amianto e i lettori di questa pubblicità? Sono gli stessi.


“I professionisti dell’amianto...”.

Chi sono esattamente? Sono tutti quelli che partecipano alla sua “messa in opera” o i firmatari di questa pubblicità? Diciamo di più: chi fino a ieri conosceva l’esistenza di una “Camera Sindacale dell’Amianto” e di un “Sindacato dell’Amianto-Cemento”? Tanto occulti quanto il prodotto che hanno immesso così discretamente sul mercato, cosa possono essere se non una lobby che – per la circostanza – raggruppa tutti gli industriali che hanno fatto lega per la diffusione di questa inquietante merce?


“...Vi hanno detto su questo giornale – la settimana scorsa – le decisioni che hanno preso a questo proposito”.

Queste decisioni non si prendono neanche il disturbo di ripeterle, non certo per evitare le ripetizioni, che d’altronde non mancano. Evitano di ridirle perché senza dubbio non ne vanno fieri.


“Ma per quel che concerne voi e la vita di tutti i giorni...”.

La pesantezza dello stile, da parte di coloro che prendono i lettori per imbecilli, si rivela qui pienamente. Si unisce alla bassezza dell’intenzione di dividerci facendo appello all’egoismo, con la scusa di porsi alla portata di ognuno di noi. Pretendono di raccontarci la nostra vita ma stanno ben attenti a raccontarci la loro.


“... Ecco le risposte alle domande che vi siete poste”.

Che pretesa! Come poi vedremo, non rispondono alle domande che mi pongo bensì a quelle che vorrebbero che io mi ponessi. E rispondono male.


“Che cos’è l’amianto?”.

Cominciamo bene! pretendono dire che cos’è l’amianto in poche righe. Senza nessuno scrupolo, fanno finta di fare uno studio esaustivo, fingono che diranno tutto, e col pretesto che non hanno spazio, non diranno nulla.


“È un prodotto naturale?”.

Ancora! La sostituzione della parola “prodotto” alla parola “materiale” non cambia proprio nulla. Queste vane sottigliezze non fanno che dimostrare la loro debolezza: in altri tempi, non si sarebbero presi neanche la briga di spiegarsi così male.


“... Una fibra minerale composta di silicato molto diffuso in natura (quasi un quarto della crosta terrestre è costituito da silicati cristallini). Una trentina di questi si presentano allo stato fibroso e sono conosciuti col nome generico di amianto”.

Che confusione! Cosa rappresenta l’amianto in rapporto all’insieme della crosta terrestre, o anche solamente in rapporto a questo quarto (chissà cosa ci riservano gli altri tre quarti?) costituito da silicati cristallini? In fin dei conti non ce lo dicono. Cos’è il silicato? Qual è la differenza tra silicati e silicati cristallini? Non esitano a ripeterci che l’amianto è un prodotto naturale, a spiegarci a cosa serve il fuoco, come se si rivolgessero ai pitecantropi, ma per quel che riguarda i silicati, danno la cosa per scontata, si rifugiano dietro un linguaggio pseudo-scientifico, fingendo di attribuire al lettore un sapere universale. Cosa credono di mascherare rifugiandosi dietro l’apparenza d’un lavoro serio?


“Queste fibre sono presenti dappertutto: nella terra e nell’aria”.

In che proporzioni? Conviene non trascurarle, non fosse altro per poter verificare che non sono cambiate; e sono cambiate. Perché non ci danno questi dati? Forse non hanno fiducia?


“Da quando mondo esiste”.

È evidente che l’amianto esiste da prima dell’uomo! Non è l’unico. Tuttavia questo gli darebbe un diritto sopra di noi? In generale, quando qualcuno dice: “Ero qui prima di voi” è una minaccia. Quando l’amianto esisteva solo in natura, dov’erano i padroni dell’amianto e i loro sindacati?


“L’uomo li utilizza da millenni”.

Perché no, da decine di millenni, visto che ci sono? E che cosa ne ha fatto quest’uomo che non muore mai? Quanto ne ha utilizzato? È forse una buona ragione per continuare ancora oggi? Perché, allora, non essere rimasti all’età della pietra? Visto che non ci siamo rimasti, non li impieghiamo, – forse – in un modo molto diverso rispetto a tre o quattro millenni fa, o soltanto rispetto a tre o quattro decenni fa?


“Vi sono diverse qualità di amianto sfruttate industrialmente”.

Lo sfruttamento industriale di un prodotto, su una scala che è impossibile paragonare a quella dell’utilizzazione artigianale, genera conseguenze la cui utilizzazione in passato – di quel prodotto – non può dare che una vaga idea. Oggi, quando ci viene detto che l’amianto è presente dappertutto, dobbiamo domandarci se questo è un fatto naturale o, invece, causato dallo sfruttamento industriale.


“I principali paesi produttori sono: URSS, Canada, Africa del Sud e Italia”.

Il gioco è fatto: abbiamo visto tutto. È il proseguimento di una pessima lezione di geografia. Dove sono, per esempio, le cifre di produzione? È vero che se ce le dessero, non potremmo certo fare dei grossi paragoni. E quali sono i principali paesi consumatori? Forse non sono così lontani da noi. Cosa ne è della Francia?


“A casa mia, ce n’è? e dove?”.

Che domanda idiota! Chi credono di prendere in giro? Hanno appena detto che l’amianto è dappertutto, che bisogno c’è – adesso – di parlare di ambiente specifico? Si tratta dello stesso amianto? Il semplice fatto che abitiamo sulla crosta terrestre può essere ammesso senza che i padroni dell’amianto abbiano bisogno di spendere in pubblicità rassicurante anche la più piccola parte dei profitti che ricavano dalla trasformazione di questo interessante materiale naturale.


“Può essere in diversi posti, allo stato puro o frammisto ad altri materiali”.

Tutto è chiaro: esiste, puro o no, sotto forma concentrata. Con quali mezzi, questo amianto concentrato, ha potuto introdursi in un ambiente dove non era stato invitato? Chi ha detto che vogliamo l’amianto? Saranno quelli stessi che asseriscono che l’amianto è indispensabile? L’amianto ha abbandonato la terra per venire ad insinuarsi a casa nostra, a nostra insaputa.


“A causa del suo formidabile potere isolante e della sua totale incombustibilità, lo troverete per lo più vicino alle fonti di calore...”.

“Formidabile”, deve essere inteso nel suo significato figurato – nel cui caso quest’aggettivo è impreciso per definire una proprietà dell’amianto – oppure nel senso originario, e cioè “temibile”? L’impiego della locuzione “a causa di” fa propendere per la seconda interpretazione, visto che se vogliamo capire qualcosa di questo testo è necessario interpretare.


“... Placche isolanti per ferri da stiro, giunture per le porte dei forni, isolante per forni, tostapani, apparecchi per riscaldamento elettrico o a gas, guanti di protezione, ecc.”.

Ecco alcuni paraventi dietro i quali si nasconde l’amianto. Non possiamo più né cucinare, né stirare i panni, né riscaldarci senza avere a che fare con l’amianto, e l’elenco non è completo. Ma siamo abbastanza soddisfatti, per la prima volta danno qualche indicazione utile.


“Ogni volta che l’amianto – nei suoi usi – è isolato con una placca di protezione o con la carrozzeria di un apparecchio o ancora avvolto in un altro prodotto (cemento, bachelite, materie plastiche, tessili, caucciù, ecc.)...”.

Facciamo un indovinello: qual è il colmo per un isolante?

Risposta: Essere isolato.

Ma chi ci isolerà dagli isolanti?


“... Esso non può porvi nessun problema”.

Che faccia tosta! Come è possibile essere sicuri di questi materiali, quando non lo si è neppure dell’amianto, come abbiamo visto più sopra, eppure a parlarci sono dei professionisti! Questa risposta evita di abbordare un problema delicato già eluso: l’utilizzazione dell’amianto è pericolosa.


“Lo troverete ancora vicino a voi:

– sui tetti in amianto-cemento,

– in certe canalizzazioni,

– in certi rivestimenti murali,

– in alcuni oggetti stampati (vasi, vasche, ecc.)”.

Inutile continuare l’elenco. Abbiamo capito. Si farebbe prima a citare gli ambienti o gli oggetti senza amianto. Sembrerebbe che non ce ne siano più. “Vi piace il prezzemolo? C’è dappertutto”. Dato che non sono fonti di calore, a cosa serve l’amianto sui tetti, nelle canalizzazioni, sui muri o nei vasi da fiore? Viene da chiedersi come abbiamo potuto vivere prima dello sfruttamento industriale dell’amianto. La società detta dell’abbondanza, come tutti hanno cominciato ad accorgersi, manca di molti elementi necessari alla vita. In compenso è abbondantemente provvista di molte materie che essa ha giustamente scelto di avere. Notoriamente è la società dell’abbondanza di amianto.


“In queste utilizzazioni l’amianto è completamente imprigionato nel cemento, e generalmente in piccole quantità (1/8 di amianto per 7/8 di cemento); non presenta, di conseguenza, alcun pericolo perché non potrebbe sfuggire in quantità apprezzabili”.

L’amianto è completamente imprigionato, eppure riesce a fuggire. Ma non potrebbe uscire in quantità apprezzabili (immaginiamo un direttore di carcere che si esprimesse in questo modo: non sarebbe preso sul serio). Come possono provare ciò? Pretendono che l’amianto è “in piccolissima quantità” perché non ve ne sarebbe che un solo ottavo. Non è che una proporzione. Chiamano una proporzione quantità, e questa diviene – non c’è più ritegno – persino una piccolissima quantità. Come possono dire che alcune quantità sono, volta a volta, piccolissime, apprezzabili o no, se non partono da una proporzione che non è definita globalmente? Possono farlo per ingannarci.


“Ce n’è, e dove, intorno a me?”.

Ormai qui diventa chiaro che non è più possibile parlare di amianto allo stato naturale, presente ovunque. Altrimenti questa domanda non avrebbe più significato, come non lo ha la precedente.


“Nella vostra macchina, le guarnizioni dei vostri freni sono a base di amianto...”.

“Vostra macchina”, “vostri freni”, forse vorrebbero con questa insistenza identificarci a queste macchine, confondere i nostri corpi con le loro carcasse? È un’impertinenza che poggia su molti spiacevoli precedenti, che noi abbiamo avuto il torto di lasciar correre. Suppongono che un cittadino della nostra epoca, sentendo evocare la sua macchina, tollererà tutto.


“... Non è possibile farli in altro modo se non diminuendo l’efficacia della frenata”.

Mettono avanti le mani. In altre parole – nelle condizioni attuali – i costruttori di automobili sono degli incapaci. Se nelle vetture c’è l’amianto, è colpa loro. Nello stesso tempo rivelano – senza esplicitarlo – sempre più la nocività dell’amianto. Perché non lo dicono chiaramente? Dimenticano che è regola generale che chi denuncia altri, senza esplicita richiesta, diventa sospetto? D’altronde a cosa serve questa tattica del capro espiatorio momentaneo, consistente nel designare per un istante il responsabile particolare di un abuso generale, che verrà poi assolto dalla colpevolezza di mille altri particolari? Fra compari, il gioco è evidentemente truccato: i fabbricanti di automobili non partecipano alla campagna difensiva di questa “Camera Sindacale dell’amianto”, come del resto anche i fabbricanti di tostapane?


“Si ha modo di osservare: quando si frena si produce un importante riscaldamento che converte l’amianto di superficie in “forsterite”, materia non fibrosa, inerte e inoffensiva. Di modo che la polvere d’usura delle guarnizioni contiene meno dell’l% di amianto”.

Con quale miracolo potremmo trovare dell’amianto in questa polvere? Bisogna sapere di cosa si parla. Dunque la frenata non sprigiona solo questa sostanza inoffensiva (che rischia di non rimanerlo a lungo, se ne viene saturata l’atmosfera) detta “forsterite”. Sprigiona amianto. In che quantità, per parlare concretamente, oltre questa percentuale? È un mistero. Raramente è dato potere assistere a un miracolo e a un mistero contemporaneamente.


“Quando invece si smontano le guarnizioni usate, il garagista spesso pulisce i freni con un ‘colpo di soffietto’. Non bisogna procedere così: uno straccio umido o un aspiratore assorbe la polvere senza proiettarla nell’ambiente”.

Cosa significa questo “invece”, che designa il garagista come colpevole della dispersione dell’amianto? Osserviamo che dopo i costruttori di automobili, adesso – nell’elenco dei responsabili della propagazione dell’amianto – è il turno del garagista, del suo colpo di soffietto e della sua ignoranza. Osserviamo, ancora una volta, che le proposte sostitutive suggerite sono del tutto inconsistenti. Uno strofinaccio umido si asciuga, un aspiratore pieno dev’essere svuotato. A questo punto, cosa bisogna fare? Se hanno da consigliare solo queste trovate, meglio che tacciano. Il colpo di soffietto è più rapido e i garagisti non hanno tempo da perdere.


“Le analisi dell’atmosfera nelle grandi città (impolverate da mille fonti di inquinamento) rivelano infine proporzioni di fibre di amianto...”.

Guarda un po’, parlano di inquinamento! Così ci sarebbe un nesso tra inquinamento e amianto? E hanno atteso così tanto per parlarne, proprio loro che non ignorano la gravità di questo problema. È il colmo. E che poi si permettono di classificare l’amianto dietro mille altre fonti di inquinamento, come l’ultimo della famiglia, non sistema le cose. Da tutto ciò vien fuori una forte determinazione a minimizzare i pericoli dell’amianto: l’inquinamento è sempre colpa degli altri. Qui non si tratta di nient’altro che della nostra sopravvivenza. Non hanno diritto di ignorare che non insistendo a sufficienza su questo pericolo, ovunque risieda, ci danneggiano. Questo modo di procedere costituisce un crimine imperdonabile. Cominciamo a capire il perché di questa sistematica scelta di basse percentuali, e del silenzio sulle cifre significative. Volevano evitare, il più a lungo possibile, di evocare questo problema da cui i proprietari dell’amianto sono sopraffatti.


“... 100.000 volte meno che nei laboratori i cui sistemi di protezione sono considerati soddisfacenti”.

Chi ha mai considerato i sistemi di protezione dei laboratori soddisfacenti? Senz’altro i professionisti dell’amianto! Allora su cosa si basano le decisioni che asseriscono di aver preso, e che riguardano gli operai che lavorano l’amianto? Se queste decisioni non mirano a ridurre la percentuale di fibre d’amianto respirate dagli operai, o sono state prese per far fronte ad un altro pericolo – di cui non parlano assolutamente – o non sono altro che un bluff.


“C’è pericolo per mio marito che fa i lavoretti di casa?”.

E per gli altri? Le spose, i celibi che fanno i lavoretti in casa non avrebbero nulla da temere? Questi non meritano nessuna attenzione. E poi perché non rivolgersi direttamente a chi esegue i lavori in casa? Se è vero che questo marito non è che un bricoleur, deve anche essere un analfabeta, ossia un ritardato incapace di capire questa pubblicità, magari perché affaticato dal lavoro.


“No, basta prendere qualche semplice precauzione:

– evitate di fare polvere di amianto

– evitate di respirare la polvere di amianto”.

Scorretto! La logica e la cortesia più elementare esigono che queste risposte siano date a colei che avete immaginato vi ponesse la domanda. Dopo aver disprezzato il marito, ora disprezzate anche la moglie.

Le risposte giuste sarebbero:

– evitate di fargli fare la polvere d’amianto

– evitate di fargli respirare la polvere d’amianto.

Come possiamo vedere, queste sono “semplici precauzioni”!

Abbiamo appena visto che tutto ciò che hanno detto prima le rende impossibili.


“A casa vostra: a) bagnate il pezzo se pensate che farete molta polvere: la polvere bagnata non si alza e non può essere respirata”.

Deve essere proprio facile lavorare l’amianto inumidito, o completamente bagnato, poiché bisogna fare della polvere bagnata! D’altronde è tutto ciò che è possibile fare in simili condizioni. Così, “a casa vostra”, cioè a casa di tutti, visto che la pubblicità si rivolge a tutti, bisogna disporre di una piscina e di uno scafandro: sono le uniche precauzioni efficaci, tanto peggio per l’inquinamento dell’acqua!


“a) Raccogliete e chiudete ermeticamente in un sacco questa polvere prima di buttarlo”.

Errore! Non buttarlo, ma buttarla: non è il sacco bensì la polvere nel sacco che bisogna buttare. Di questa polvere che il famoso marito deve evitare accuratamente di respirare, cosa ne è una volta che si trova nella pattumiera e che si essicca? In fin dei conti a chi la vogliono servire? È vero che la parola “ermetico” suggerisce l’idea che non si tratti di una qualsiasi polvere.


“b) Lavorate in luogo ben arieggiato, e se possibile fuori, quando segate, forate o limate”.

Da una semplicità all’altra! Il marito deve andare a fare la sua polvere di amianto in un ambiente arieggiato. Dove sono questi luoghi nelle grandi città gravemente inquinate? Deve andare nella strada, o più esattamente in una piscina scoperta? Tenuto conto delle intemperie, questo ha almeno il vantaggio di abbreviare considerevolmente il tempo di lavoro; così ancora una volta, ognuno avrà la sua porzione garantita di polvere di amianto.


“c) Utilizzate possibilmente una sega o un trapano a mano: producono meno polvere degli apparecchi elettrici”.

È il trauma dei modernismi: l’amianto, materiale indispensabile, esclude il progresso. Richiede il ritorno alle pratiche del passato, nel contempo però, ci cantano le lodi dello sfruttamento industriale dell’amianto. Non è nient’altro che una contraddizione.


“d) Sostituite gli isolanti usati o in fase di sgretolamento: giunture delle porte dei forni, isolanti delle placche di riscaldamento, supporti dei ferri da stiro, ecc”.

La litania ricomincia. Si era detto che l’amianto isolato non presentava alcun problema. È falso: l’amianto può presentarne, per esempio, quanto gli isolanti sono usati. Visto che l’amianto è dappertutto, dovremmo forse passare il resto dei nostri giorni a sostituire gli isolanti? È una schiavitù senza fine.


“e) Ritagliate e spedite il tagliando in basso a questa informazione”.

Così dunque, questo testo sarebbe un’informazione, quando non è che una sequela di contraddizioni, di falsi ragionamenti, di omissioni e di menzogne. Non dobbiamo farci alcuna illusione sulla qualità del rimanente.


“Riceverete l’opuscolo edito dai professionisti dell’amianto che vi consiglia sul modo giusto di utilizzare l’amianto o i prodotti a base d’amianto”.

Non potrebbero provare meglio che le precauzioni suaccennate non sono “il modo giusto” di utilizzare l’amianto. Che cosa aspettano per dircelo, posto che esista? Che ci scomodiamo noi? Questo opuscolo può diventare il primo di una ricca biblioteca man mano che i vari professionisti pubblicheranno “Il Modo Giusto di Mangiare il Piombo” o “L’Arte di Utilizzare il Resto di Creolina nel Vitello e nel Pollo”. Questa bibliografia del futuro è illimitata.


“Se abito (o lavoro) in un palazzo in cui è stato utilizzato l’amianto, corro pericoli?”.

Chi potrebbe porre ancora una domanda simile? Vogliono forse farci credere che esistono luoghi privilegiati in cui l’amianto industriale non esiste, mentre ci hanno dimostrato che è dappertutto. La sola risposta che trovano a questa domanda è proprio la più inattesa, la più impudente, la più imprudentemente categorica, quando si sono ripetutamente contraddetti: “No, stiamo calmi”. Forse potevamo esserlo prima di leggere questa pubblicità, adesso non è più possibile; inoltre, dopo averci trattato in così malo modo, si rivolgono a noi come un tempo si usava con i collegiali isterici. Sarà perché si rendono conto che questo testo che vorrebbe essere rassicurante, non fa che allarmare ulteriormente?


“Se il vostro palazzo è stato costruito con buoni criteri, voi siete – invece – più sicuri. I palazzi moderni a struttura metallica sarebbero pericolosi in caso d’incendio se non ci fosse l’amianto a sopperire all’abbassamento di resistenza meccanica dell’armatura”.

C’era da aspettarselo! Se c’è il pericolo non può che provenire dalle carpenterie metalliche; la colpa ricade quindi sugli architetti e sui muratori. C’è l’amianto a salvarci da questa incuria. Siccome tutti sanno che non esiste un solo edificio che sia stato – da trent’anni a questa parte – “costruito con buoni criteri”, il valore rassicurante di questo “se” è quasi nullo. Viene da domandarsi, ancora una volta, come hanno potuto durare così a lungo le case di altri tempi, prima dell’arrivo dell’amianto. Non è il genere di domande che costoro hanno il coraggio di porsi; e, siccome sono veramente dei vili, non esitano a denigrare i costruttori del passato (si tratta naturalmente di un passato vicino, del passato precedente l’amianto, e non quello dei costruttori delle cattedrali; ma sappiamo che la produzione moderna, che vanta di fare sempre meglio della precedente, si arroga – per questo – il diritto di sputare nel piatto che ci ha venduto ieri. Quel piatto che ieri era il nec plus ultra, quando si trattava di pagarlo).


“Se i lavori sono stati eseguiti male, come poteva accadere in passato, bisogna ricoprire lo strato di amianto con un prodotto che lo fissi definitivamente, e che impedisca la dispersione delle fibre nell’atmosfera”.

Decisamente, bisogna fare tutto da sé. Questo prodotto definitivo non è dunque sottomesso alla legge generale dell’usura. Se questa meraviglia esistesse, perché non impiegarla a posto di questi isolanti che si usano e si sbriciolano?


Se avete un dubbio, interpellate il vostro proprietario, il gerente o l’architetto o, se preferite, scriveteci fornendoci il nome di queste tre persone...”.

In caso di pericolo, non è una procedura un po’ troppo lunga? Cosa potranno dirci più di quanto non hanno detto in questo testo? Non ci sono 36 casi o più da prendere in considerazione. Non si tratta di cercare gli ambienti in cui l’amianto è presente o meno. Se non è qua, è là, ed è la medesima cosa: su questo non abbiamo alcun dubbio. L’amianto non solo è pericoloso ma ci costringerebbe a pratiche burocratiche, a suonare ai campanelli, a perdere il nostro tempo. E forse a firmare rispettose petizioni indirizzate ai Poteri Pubblici, per esempio, al Ministero per la Qualità dell’Amianto?


“... E soprattutto: non dimenticate che l’amianto – impedendo la deformazione della carpenteria metallica in caso d’incendio – salva migliaia di vite ogni anno. Se l’amianto fosse stato utilizzato al CES Pailleron, le cose sarebbero andate sicuramente in un altro modo”.

Che miseria! Ecco l’unico esempio che sanno fornirci per difendere la tesi dell’amianto, nuovo salvatore supremo. Un esempio col quale pretendono dimostrare che l’amianto non era stato utilizzato – badate bene – nella costruzione dell’edificio, perché per quel che riguarda il resto... Dunque, da questo ragionamento, l’assenza dell’amianto proverebbe la sua efficacia contro l’incendio. Dove vanno a cercarle tutte queste cazzate? Eppure devono averlo scelto con cura questo esempio! Il trucco sta nel commuovere seriamente per poter rifilare più facilmente la loro merce. Fin dove arriveranno per difendere la loro causa, e per giunta così male? Troia sarebbe andata in fiamme se i suoi palazzi fossero stati costruiti con l’amianto? E Napoleone si sarebbe risparmiato la disastrosa ritirata del 1812 se Mosca fosse stata costruita con amianto. Il califfo Omar sarebbe stato beffato se i libri della biblioteca d’Alessandria fossero state incisi su placche d’amianto.


“È vero che il vino può dare il cancro? No”.

Già dall’Introduzione ci hanno detto che l’amianto è pericoloso, più avanti che bisognava manipolarlo con precauzioni quasi simili a quelle necessarie per gli esplosivi; ora che il pericolo emerge nitidamente, e che infine apprendiamo che c’è rischio di cancro, costoro fanno bellamente marcia indietro. L’amianto che è pericoloso dappertutto, non lo sarebbe più nel vino: e noi dovremmo crederci? Quanto segue ha la pretesa di esserne la dimostrazione.


“La prova è che i filtri d’amianto utilizzati per filtrare i liquidi alimentari... trattengono perfettamente le fibre d’amianto. Risultato: siccome l’amianto è presente dappertutto (in quantità infinitesimale), ce ne è meno nei vini filtrati con l’amianto che negli altri”.

Vorremmo che parlassero in modo più dettagliato di questi filtri d’amianto che trattengono perfettamente le particelle d’amianto... ma che ne lasciano sempre passare. Essere e non essere, tale è l’affermazione dell’amianto. Ma c’è un altro problema: la logica dell’innocuità della presenza dell’amianto nel vino. Ci ritorniamo su, non per riassumerla, ma per renderla intelligibile. Dunque, non c’è rischio di cancro a causa dell’amianto nel vino. Perché?

– perché non c’è amianto nei liquidi alimentari, di conseguenza neppure nei vini;

– perché ci sono meno particelle nei vini filtrati con amianto che negli altri.


“Anche se si trovano 40 milioni di fibre in un litro di vino, e questo vi sembrerà tanto, sappiate che ciò non rappresenta che 40 nanogrammi (0,00000004 gr), e ci vorrebbero 68 anni per un uomo che beve un litro al giorno per assorbire 1 milligrammo di amianto! Egli avrebbe d’altronde assorbito nello stesso periodo di tempo 2.200 Kg d’alcol puro. Cosa sicuramente più pericolosa”.

Falso! Fingono di ignorare che l’alcol si elimina, e che un uomo in 68 anni non accumulerà mai 2.200 Kg d’alcol puro bevendo un litro di vino al giorno. Purtroppo la stessa cosa non si può dire per l’amianto, altrimenti non avrebbero mancato di dircelo. Questa differenza è essenziale. D’altra parte, ognuno di noi sa che non è pericoloso bere un litro di vino al giorno, mentre l’amianto e i suoi effetti sono molto meno conosciuti. E se ne approfittano. Poco ci interessa questa valanga di cifre infinitesimamente piccole, questi 1%, questi 1/8, questi nanogrammi di amianto: conosciamo bene la storia dei granelli di sabbia che non formano mai un mucchio, e del mucchio di sabbia che non è mai un granello. Ci interessa soltanto se un milligrammo di amianto, per esempio, può provocare il cancro o altre malattie. Esistono veleni di cui sono sufficienti appena 400 grammi per eliminare l’intera umanità.


“Si trovano concentrazioni di fibre dello stesso ordine nell’acqua sorgiva, prima e dopo la distribuzione realizzata con – o senza – tubazioni in amianto-cemento”.

Si è detto che l’amianto incorporato nel cemento, fuoriusciva? Questa non è un’invenzione. Dunque – e questo non possono negarlo – c’è sempre più amianto nelle acque distribuite con tubi in amianto-cemento che negli altri. Ciò non vuol dire che non crediamo alla presenza di amianto nell’acqua della fonte in quanto potrebbe essere già passata benissimo in questi tubi. Ma quando vi ripasserà, ne conterrà sempre di più. E così di seguito. In altre parole, questi signori mentono.


“Le più alte autorità, quali l’Organizzazione Mondiale della Sanità e il Centro Internazionale di Ricerche sul Cancro, come tutti sanno, sono concordi nell’escludere che l’amianto – nell’acqua o nelle altre bevande – faccia correre pericoli alla popolazione”.

Le più alte autorità possono sbagliare. Se quello che qui ci dicono è vero, sembra proprio che stiamo sbagliando: come possiamo definirlo – quando parliamo dell’amianto – se non un rischio? Tentano di trovare altri paraventi per l’amianto, ma non sono più efficaci degli altri. Bisogna anche dire che “le più alte autorità” sbagliano continuamente in una società che sbaglia sempre su ogni cosa; proprio perché sono “le più alte autorità” di questa determinata società. Esse mentono più di quanto sia loro richiesto, in una società che produce soprattutto menzogna, e usano la menzogna ovunque, più dello stesso amianto, e questa non è cosa da poco.


“Cosa concludere?”

Ovvero “La Realizzazione di un gioco di prestigio”; concludere che cosa? Non hanno detto niente! Non abbiamo avuto neanche l’antipasto e già parlano di servirci il caffè, forse per arrivare più in fretta alla presentazione del conto?


“Come in molti altri casi, gli uomini si trovano – per ciò che concerne l’amianto – nella necessità di impiegare prodotti che possono essere pericolosi ma che sono indispensabili”.

Non fanno che riprendere la stessa idea dell’Introduzione, e dicono che è la conclusione, e viceversa. Il cerchio sembra finalmente chiuso: se non accettiamo l’amianto – questo prodotto “naturale” – poco importa, vogliono farcelo passare come “indispensabile”, e il gioco è fatto, eppure niente è stato dimostrato, salvo il disprezzo che hanno dimostrato per i lettori. Ci hanno messo di fronte non alla necessità di utilizzare l’amianto bensì ad una informazione priva di senso. Persone ignote ma sicuramente potenti, ritengono che questa specifica utilizzazione dell’amianto sia una necessità ineluttabile, ma si guardano bene dal metterci a conoscenza delle loro ragioni (interessi) particolari.


“Così, per esempio, alcune medicine che sono efficaci solo se sono attive, di conseguenza possono essere pericolose se vengono impiegate senza discernimento. Così i raggi X che possono essere pericolosi ma salvano migliaia di vite ogni anno”.

Se non è sorprendente incontrare la medicina sul cammino dell’amianto, lo diviene quando assimilano le pratiche della medicina a quelle dell’amianto, e raggiunge un livello ignobile quando – nella conclusione – con questo modo di procedere si permettono di sorvolare i problemi nuovi, come quello posto dall’utilizzazione e dagli utilizzatori dell’amianto. E questo non è il minore, è il problema.


“Da quando è sulla terra, l’uomo vive con i veleni. La natura ne è piena. Ma le speranze di vita non hanno mai cessato di aumentare, e gli uomini sono sempre più numerosi e dispongono di ‘comfort’ piacevoli e necessari”.

Confondono i veleni con l’aumento della possibilità di vivere: su questo argomento Socrate e qualche altro avrebbero molte cose da dirci. Nel momento in cui essi hanno vissuto “con i veleni” sono morti. Nella misura in cui è possibile, gli uomini li evitano. Quanto alle comodità è falso dire che gli uomini ne dispongono in misura sempre maggiore: per quelli che vi accedono, quale che sia il loro numero, lo fanno perché costretti non per scelta, e sono i professionisti dell’amianto o le loro comparse che le impongono come necessarie e le rappresentano come piacevoli. Tutta questa pubblicità ci da la prova che è esattamente il contrario. Il comfort che si paga assorbendo veleni non è affatto confortevole. Per riprendere lo slogan di un medico-poliziotto che ha fatto una carriera da vedette nella repressione della droga: “Non ci sono mangiatori di amianto felici”. Ci vengono a raccontare che l’amianto rappresenta il prezzo da pagare per l’esistenza piacevole e felice che conduciamo nelle città moderne. Da un lato l’amianto è lontano dall’essere la parte maggiore di questo prezzo che paghiamo in termini di tempo e qualità delle nostre vite. Dall’altro, anche senza amianto, una tale esistenza non avrebbe manifestamente niente di piacevole e tantomeno felice. Basta guardare le facce della gente in quel che rimane delle strade di città.


“L’uomo delle caverne pativa il freddo durante l’inverno. Il fuoco gli ha consentito di sopravvivere. Ma quanti problemi gli ha creato!”.

Con la logica di queste tre asserzioni si capovolge la realtà: mettono in evidenza i “problemi” che il fuoco ha posto all’uomo ed eludono quelli che invece gli ha risolto, sorvolando rapidamente sul fatto che il fuoco fu – letteralmente – essenziale per la sua sopravvivenza. Nel frattempo, l’amianto era nella natura e l’uomo ne faceva benissimo a meno.


“Egli ha saputo superarli ed è proprio questo a distinguerlo dall’animale”.

Non è una buona ragione per proporgliene dei nuovi, che invece di stimolare la sua evoluzione rischiano – per le loro caratteristiche di insormontabilità – di ridurlo allo stato minerale. Questi banditi insinuano che noi ci distingueremmo dagli animali solo nella misura in cui siamo disposti a mangiare il loro amianto; questa è tutta la libertà che hanno la bontà di lasciarci.


“I problemi posti dall’amianto sono niente di fronte agli immensi servizi che ogni giorno rende, senza che neppure lo sapete. Questi problemi sono e saranno separati”.

Sembra che parlino a dei bambini, rivolgendosi loro così: questa cosa va fatta e dev’essere fatta “senza che neppure lo sapete”. La confessione è tremenda. È proprio così, qui come in tutti gli altri problemi: l’amianto è arrivato come un ladro a nostra completa insaputa. Se oggi ce ne parlano – o meglio, se fingono di parlarne – è unicamente perché i funesti risultati della sua utilizzazione non possono più essere nascosti dai suoi proprietari e dai loro esperti. Questa gente aveva calcolato molto bene i profitti e male i rischi.


“Impariamo a vivere con l’amianto”.

No, grazie! Non ne abbiamo voglia.

C’è un dettaglio dimenticato che merita di essere preso in considerazione perché sicuramente è il centro del problema: noi non abbiamo scelto l’amianto. Io non l’ho scelto e non conosco nessuno che l’abbia scelto. Non ho sentito parlare di nessun paese in cui la gente l’avrebbe scelto con una decisione veramente democratica, quella di una comunità che dibatte e decide quali saranno gli inconvenienti e i vantaggi di una deliberata modifica del quadro della sua vita. E non vedo neppure che questa scelta sia stata fatta in nessun luogo – del mondo detto democratico – a conclusione di un dibattito di un’assemblea parlamentare, cioè della rappresentazione fittizia delle libertà democratiche dei cittadini. Non si sono dati questa pena. Non hanno neppure dovuto corrompere i nostri “rappresentanti”. Il “programma comune” dell’Unione della Sinistra è naturalmente muto sull’amianto, come del resto sulla totalità delle trasformazioni augurabili. L’amianto, al pari della polizia moderna, prima spara e poi eventualmente discute. L’amianto non aveva bisogno di essere amato, gli era sufficiente essere sul mercato. In ciò assomiglia in tutto alla società dell’oppressione spettacolare. Rappresenta da solo il suo specchio rivelatore in cui compaiono tutti i tratti menzogneri, laidi e spaventosi che riscontriamo ovunque su ogni genere di merce. Non si correggerà l’amianto senza correggere tutto il resto.

Oggi vengono a parlarci dell’amianto solo perché la sua decadenza è già cominciata. L’abile discrezione che assicurava la sua completa impunità non può più durare, perché il fallimento di questo mondo è totale.

Da quando so che l’amianto esiste, e che è anche diventato tanto importante, scopro anche che non l’amo e che non lo voglio. Cosa mi risponderà l’amianto o i fantocci che si presentano insolentemente come suoi portavoce? Abbiamo appena visto, in tutta la loro canzonetta, il talento molto limitato di questi uomini dalla voce d’amianto, come si dice di altri cantanti che hanno una voce d’oro o di velluto. Essi sanno parlare come sanno costruire. Ma chi è il portavoce e di chi? I diplomatici redattori di una così inaccettabile proposta di alleanza tra l’amianto e noi, sono visibilmente e notoriamente al servizio dei proprietari dell’amianto come la logica del profitto economico parrebbe mostrare? O piuttosto non sono diventati i servitori dell’amianto e degli imperativi del suo imperialismo cieco? L’amianto ha una sua propria logica, e – dopo aver letto il suo manifesto – potremmo anche dire: ha un suo humor speciale. Questo imprevedibile amianto sembra che conosca i capricci di Nerone, l’umanismo di Hitler, il giuridismo di Stalin. E vuole essere ben servito dai suoi “professionisti”. Il tiranno che distribuisce così grandi ricchezze ai suoi familiari, un giorno o l’altro li ucciderà. E l’amianto non è che un’infamia particolare della gestione demenziale della società mercantile contemporanea. Gli uomini che sono totalmente sfuggiti al nostro controllo ora ci rivelano che le cose di cui si sono appropriati – e alle quali si identificano con fierezza – a loro volta sono fuggite al controllo di costoro. Dovremmo forse accordare loro ancora fiducia, e proprio perché sono colpiti dalla sfortuna che può abbattersi anche su di noi? Datelo ad intendere ad altri!

L’amianto ci arringa come un qualsiasi stato che tranquillamente – per concludere – dichiara: “Questi problemi sono e saranno superati”. Nessuna persona sensata crede ad uno Stato o a uno stato maggiore quando emette un simile comunicato rassicurante. È proprio quando un pericolo non è stato superato, e non potrà esserlo, che il comando si rivolge in questi termini alla truppa.

Lo slogan gioioso che i proprietari dell’amianto hanno la pretesa di lanciare come filosofia di una così disastrosa situazione, e come programma minimo indispensabile è: “impariamo a vivere con l’amianto”. Se si tratta proprio di imparare, un’epoca può scegliere di iscriversi allo studio di materie con ben altre attrattive. È difficile imparare a vivere, e la storia della società attuale ce lo dimostra ampiamente, ma se ci aggiungiamo anche l’amianto, è cosa ancor più fastidiosa. Bisogna respingere questa fraudolente petizione di principio. Se impariamo a vivere non avremo più bisogno di amianti che ci dominano, né di ogni altro prodotto naturale trattato in maniera tale da trovarsi nella condizione di dominarci. Non c’è dunque alcuna ragione di ritornare alla scuola di simili educatori che devono – loro stessi – essere rieducati. Era compito di chi ci ha imposto l’amianto far si che ci piacesse. Hanno fallito.

Sono già, parecchi secoli che tentiamo di imparare a vivere col capitalismo. Tutto ci dimostra che è impossibile.

Qualità della vita
L’amianto e i suoi pericoli
Secondo i medici di diversi paesi i rischi del cancro sono certi

Lione. Una persona esposta dalla sua professione ad inalare particelle d’amianto corre il doppio dei pericoli di morire di cancro di un qualsiasi altro individuo. Questa constatazione figura tra le conclusioni finali del rapporto che un gruppo di lavoro, formato da specialisti internazionali, ha depositato venerdì 17 dicembre al Centro Internazionale di Ricerche sul Cancro (CIRC) che ha sede a Lione. Questo gruppo formato da una ventina di medici lavora dal 1968 alla sintesi delle ricerche che sono condotte nel mondo sull’amianto e il cancro. Le loro conclusioni saranno comunicate ai governi dei paesi che aderiscono al CIRC.

Il 17/12/1976 il dottor Irvin Selikoff, professore dell’Università di New York, commentando questo rapporto ai giornalisti del Club della Stampa di Lione, ha tracciato un quadro molto inquietante: “Negli Stati Uniti, dove si conta un milione di lavoratori nell’industria dell’amianto, si può stimare, ha detto, che duecentomila tra di loro moriranno nei prossimi anni per cancro ai polmoni, sessantamila per mesotelioma – cancro della pleura, specifico dell’inalazione di particelle di amianto – e inoltre qualche decina di migliaia per cancri diversi (laringe, tubo digerente, ecc.) di cui non è possibile dire oggi, se sono o meno, realmente collegabili con l’ingestione di microfibre di amianto”.

Se si applicano le conclusioni di questo rapporto all’organico dei salariati che in Francia lavorano in questa industria – 14.500 secondo i dirigenti di questo settore – sono circa 3.000 i lavoratori minacciati dal cancro generato dalla nocività professionale. Il dottor Selikoff ha precisato che queste cifre non comprendono i lavoratori dei cantieri edili, dei cantieri navali, dei garage, che hanno contatti più o meno prolungati con le polveri di amianto, in più o meno grandi quantità – e neanche le famiglie e i vicini di queste diverse categorie.

Il professor Jean Bignon, pneumologo, insegnante alla facoltà di medicina di Créteil ha – dal suo canto – effettuato analisi dei vini che hanno rivelato che, su 16 campioni, la metà era contaminata dall’amianto.

Quale quantità di fibre microscopiche di questa materia il consumatore deve ingurgitare per rischiare il cancro al fegato o allo stomaco? Le esperienze in corso, soprattutto negli Stati Uniti, un giorno lo riveleranno. Per ora, spiega il dottor Bignon, conviene se non proibire l’amianto, per lo meno regolamentarne l’utilizzazione. Alcuni decreti sono in preparazione, e dovrebbero essere approvati entro il 1977. In questo campo, la Francia ha “un ritardo da Medioevo”, ha affermato. Negli USA, per esempio, il plafonaggio (proiezione di un rivestimento a base di amianto durante la costruzione di un edificio) è stato proibito nel 1971.

Bernard Elie
“Le Monde”, 19-20 dicembre 1976

Appendice
L’acqua sporca e il bambino

Il palazzo dei fantasmi

È vezzo corrente battersi con i fantasmi. Non che non esistano avversari concreti e ben individuati, solo che gli avversari stanno (per definizione) fuori di noi, mentre i fantasmi sono anche dentro di noi, nello scongiurare quelli degli altri, gettiamo sale e aglio anche sui nostri.

Ognuno di noi ha il suo bravo gruzzolo teorico da mettere a profitto. In tempi di svalutazione della teoria, il gruzzolo si è molto ridotto. I più ricchi hanno qualche idea meno peregrina e si vantano come di un tesoro da petrolieri, facendo spuntare, qua e là, dietro le quinte, affermazioni, citazioni, mazzate storiche e frustate analitiche. Ognuno giura sul proprio corano e non gli importa nulla di scendere un gradino più sotto, di verificare i fondamenti dei postulati teorici su cui giura, di indagare sull’origine degli stessi e sulla loro maggiore o minore validità. Basta assestare il colpo nel modo più netto, avanzare la propria tesi con la maggiore sicurezza possibile, e quindi esprimere una condanna senza appelli e un verdetto senza processo. Chi non è con noi è contro di noi. Ed è contro di noi non perché vuole esserlo veramente, ma perché non ha saputo cogliere fino in fondo la verità delle nostre analisi ed è finito per perdersi in posizioni “oggettivamente” errate. Da ciò deriva che essendo certa la coincidenza di verità e rivoluzione, le posizioni errate devono per forza essere controrivoluzionarie.

L’insieme di questi postulati, che si aggirano senza posa nelle nostre analisi, abita in un palazzo metafisico dove tutto è ora bianco e ora nero, non esistono colori sfumati, mezze tinte, e gli stessi colori fondamentali sono sconosciuti. I fantasmi non hanno mai dubbi sulla propria identità. Sono la verità, l’astratta verità del nulla che non trova mai modo di avere contraddizioni o ambasce.

Prendiamo il fantasma della politica. Lo si fa muovere come si vuole. Si hanno prigionieri “politici”, strutture “politiche”, movimenti “politici”, comitati “politici”; si ha la “politicizzazione” di alcuni soggetti che prima non lo erano, e si ha anche la “politica-in-armi” che intende egemonizzare il movimento per realizzare una rivoluzione “politica”.

Con lo stesso procedimento si costruiscono altri fantasmi. Ad esempio, ciò è accaduto con la lotta armata, che qualcuno ama scrivere “lottarmata”, che è anche meglio per chi si interessa di progetti fantastici. Questo fantasma ha avuto una sua vita assai curiosa. Ha rappresentato qualche volta una tendenza del movimento rivoluzionario, oppure una cosa oggettiva, altre volte invece si è trattato solo di un’ideologia, una visione politicamente inquinata della lotta di classe. In qualche altro caso ha anche rappresentato l’aspetto insurrezionale o della sovversione generalizzata. Spesso si è ridotto solo alla clandestinizzazione, al partito armato. Nel palazzo dei fantasmi le mascherature sono ininterrotte e sempre differenti.

Un altro bel fantasma è il “movimento” rivoluzionario che si muove secondo come vuole il burattinaio di turno. Ora è un povero infermo che ha bisogno della tutela della minoranza specifica, ora è un onnipotente demiurgo che mangia tutto come il sommo padre Urano. Ora, invece, è astioso alibi con il quale si vogliono rigenerare tutte le organizzazioni specifiche rivoluzionarie dando loro il crisma della purezza e la forza del senno proletario.

C’è poi la vicenda romantica del fantasma della “vita quotidiana”, misura di tutte le cose, di quelle che sono perché sono e di quelle che non sono perché, tanto, non sono. Questo fantasma ha un aspetto mondano, ma si tratta sempre di una maschera. Gioca e si diverte, ma ha l’occhio costantemente fisso sul quadrante storico della rivoluzione. Così finisce per avere un’aria bieca e contorta. Viene però presentato come lo strumento di misura dell’intensità rivoluzionaria. Guai a fare qualche cenno alla tragicità del quotidiano e del suo lasciarsi vivere, il fantasma rifiuta opportunamente simili complicanze e ripresenta la propria maschera, stereotipo contrapposto a quello della eccezionalità della clandestinizzazione, fantasma anche questo e non meno buffamente mascherato.

Inoltrandoci nelle sale del palazzo facciamo poi conoscenza con uno strano personaggio fantastico, si tratta del fantasma di un fantasma, bipolare creazione della fantasia di alcuni letterati in vena di ricostruzioni storiche. La ricetta per usare questo personaggio è facilissima. Si prende un dato concreto, storicamente accertato, ad esempio il dato della “rappresentazione”, e lo si prende nei due aspetti, specularmente contrapposti: quello di “rappresentazione della realtà” e quello di “mistificazione nella rappresentazione della realtà”, ambedue aspetti ugualmente lontani dalla trasformazione, che poi sarebbe il giusto luogo dello svolgimento della conoscenza. Una volta messi insieme i due aspetti, si accede al concetto di “spettacolo”, che è poi il fantasma (spettacolo) di un fantasma (la rappresentazione della realtà). Questo concetto può essere usato in diversi modi, come mistificazione che fa il potere per deformare i processi rivoluzionari di trasformazione della realtà, come struttura della stessa realtà nei termini imposti dal potere, e anche come struttura di quei processi che hanno la pretesa di liberare dal potere partendo da una dimensione sempre di potere (partito armato, ecc.). Viene accuratamente vietato l’uso del concetto di spettacolo nell’unico senso logico possibile, quello di visione parziale della realtà, e quindi come rottura del flusso complessivo delle contraddizioni del sociale. Sarebbe proprio quest’uso a impedire la proliferazione del fantasma spezzando uno degli specchi che ne riflettono l’immagine all’infinito. Si dovrebbe ricordare al situazionismo letterario (ma è mai esistito un situazionismo non letterario?), che il senso di “parzialità” è ineliminabile dalla dimensione dello spettacolo, proprio perché solo chi assiste da spettatore ad un aspetto della realtà non viene coinvolto se non appunto nei termini cristallizzati di spettatore. Se lo spettacolo da parziale dovesse diventare totale lo coinvolgerebbe in veste di attore e cesserebbe di essere spettacolo per diventare realtà.

Continuiamo il nostro viaggio nel palazzo dei fantasmi.

In un simile fantastico miscuglio fa bella figura il fantasma della “critica”, fantasma loquace e di molti interessi. Mette becco dappertutto, su tutto impone la propria opinione, taglia su misura e scorcia a occhio. È amico stretto di un altro fantasma – più dimesso e più schivo – il fantasma del “metodo”, che gli serve quasi da segretario, reggendo il moccolo di una pretesa complicità teorica, palleggiando una conoscenza reale che, appunto per i fantasmi, non ha significato, essendo fuori del mondo della concretezza. Il fantasma della critica è spesso indicato come “critica critica”, ma si tratta dello stesso personaggio che si vuole mettere in parte in cattiva luce illudendosi di riqualificarne solo l’aspetto della semplice critica. È un fantasma molto attivo, certe volte s’interessa di armi, ammazza, fa saltare in aria qualcosa, sequestra e giustizia, allora lo si definisce come “critica delle armi”, indicando un passaggio – all’interno sempre dello stesso ectoplasma – da alcune pretese “armi della critica” alla “critica delle armi”.

Al fantasma della “critica” viene attribuita la straordinaria facoltà di chiarire tutti i problemi, di penetrare in tutte le questioni, la realtà non ha segreti per questo profondo indagatore. Sa anche benissimo come essere “in sé” e come essere “altro da sé”. Sa, ad esempio, come rifiutare ogni identificazione con una certa realtà che si vuole negare. Per fare ciò gli basta negarla in modo “radicale” e la realtà scompare di colpo, come per incanto. Quale grande potenza hanno le facoltà critiche dei fantasmi!

Un tipico atteggiamento del fantasma della “critica” è quello di pretendere di sapere trovare subito il punto di vista “radicale” da cui esercitare la sua funzione. Di regola questo punto di vista ha una collocazione spaziale che lo vuole “al di fuori” della cosa su cui esercita la sua attività critica. Poniamo, la critica dell’economia è veramente “radicale” – secondo il modo di procedere di questo fantasma – solo quando viene esercitata “dal di fuori” dell’economia stessa, purché si sia sempre “al di dentro” delle esigenze e delle necessità dell’uomo. Questo essere “al di fuori” o “al di dentro” di qualcosa è comportamento tipico dei fantasmi che, come si sa, passano anche attraverso i muri e non hanno difficoltà a deambulare nello spazio. Le concretezze, invece, hanno da sempre grossi problemi per collocarsi “al di dentro” o “al di fuori” di qualcosa, in quanto hanno bisogno di un punto di riferimento che li individualizzi e non basta loro un astratto “essere in sé”.

Considerando nel suo insieme il palazzo dei fantasmi e riflettendo sulle caratteristiche dei suoi abitanti, c’è da dire che la regola prima di convivenza è che tutto quello che è reale deve tenersi lontano per essere “interpretato” alla luce della logica fantastica dell’impalpabile. Per far ciò lo si deve uccidere, anatomizzare, trasformare in un rudere di concretezza, in una realtà disfatta e molle, qualcosa che comincia a rassomigliare a quella materia inconsistente di cui, si dice, siano fatti i fantasmi.

Per questo risultato esiste un metodo universale.

Il metodo del macellaio

Il macellaio ha un metodo suo, che gli consente di vendere carne a piccoli pezzi, secondo il taglio e la qualità, soddisfacendo i gusti dei vari acquirenti. A chi chiede filetto egli serve filetto e a chi chiede dietrocoscia egli serve dietrocoscia. Di regola si astiene dal tenere ai singoli acquirenti una conferenza sull’origine e il significato dei vari pezzi di carne che affetta e incarta, una volta che si trovavano nell’insieme vivente chiamato bue. La cosa, difatti, susciterebbe scarso interesse nei clienti e non farebbe alzare le vendite. Il metodo del macellaio, di squisito stampo bottegaio, è altamente razionalista. Si basa infatti sulla ragionevolezza del senso comune, non ha pretese rivoluzionarie e incontra il consenso della gente che preferisce non avere problemi e portarsi a casa un pezzo di carne invece di una riflessione filosofica.

Bisogna tenere nel massimo conto lo spirito costruttivo della gente dabbene. La loro logica trascina il mondo, costituisce la base del progresso, scrive la storia e garantisce lo sfruttamento. È stupefacente la disposizione di spirito con cui la quasi totalità della gente si dispone a mangiare una bistecca: trasformata in cosa, in oggetto ben definito, di forma più o meno codificata, non ricorda per nulla il cadavere da cui si è dipartita, la gente si rifiuterebbe di mangiare pezzi di cadavere, e il macellaio chiuderebbe bottega.

Il ragionevole filisteo fonda il proprio senso comune sulla “verifica”, sulla disponibilità a correggersi degli errori e a fare meglio. Per far ciò gli serve una sola cosa, che la realtà gli sia approntata davanti a pezzettini, possibilmente avvolti in carta pulita, senza che nulla ricordi il duro travaglio che hanno sopportato per essere strappati alla totalità del reale e trasformati in cose.

La logica dell’approssimazione progressiva, della verifica e dell’aggiustamento parte dal dato fondamentale che il mondo esterno è conoscibile per gradi. La sua unità di fondo – seppure viene ammessa – resta assolutamente inefficace. La conoscenza è strumento progressivo e corrisponde all’interpretazione (rappresentazione) che ci si fa del mondo della realtà. Questa è costituita da “fenomeni” e da “cose”. I primi sono dati dagli effetti che le cose determinano nei loro reciproci rapporti. Le seconde sono e basta, ma di questo non ci si preoccupa molto.

Le tecniche (scientifiche) della conoscenza intervengono nella realtà e la “conoscono” attraverso un processo di approssimazione che corrisponde a una parcellizzazione del reale. Questo viene sezionato, classificato, diviso, catalogato e interpretato. Gli strilli dei materialisti contro questo procedimento sono arrivati lontano ma non sono stati elemento sufficiente a trasformare le cose.

Prendiamo i marxisti e tutti coloro che si sono allontanati dall’antica ortodossia per approdare a lidi interpretativi sempre più confusi. Il fatto fondamentale che l’unica conoscenza possibile della realtà è data dalla sua trasformazione e non dalla sua interpretazione, è stato annegato in un mare di frazionamenti (ad esempio, le colossali stupidaggini sull’economia marxista, sulla metodologia marxista delle scienze, sulla sociologia marxista, ecc.). Non solo, ma anche quando è stata rifiutata la classificazione accademica per una “critica” più globale, insistendo sulla pericolosità di un “conoscere” che intenda dividere la realtà, si è finito sempre per cercare un punto fermo nella divisione stessa, nel particolare. Basti pensare alla funzione del concetto di “proletariato” e alle sue recenti [1979] vicissitudini in materia di “fabbrica diffusa”.

Il particolare serve come punto di riferimento per darci notizie sul globale, sulla realtà. In quanto tale, il particolare annuncia la fine di ogni buona volontà rivoluzionaria per darci la strada dell’accumulazione progressiva, dell’esperienza che si misura con l’esperienza, del mosaico che si pretende ricostruire pezzo per pezzo, come ogni uomo ragionevole ha fatto da quando mondo è mondo e non, pazzamente, pretendendo gettare a mare tutti i pezzi e insistendo per avere il mosaico tutto in una volta.

Su questo gravissimo problema ci sarebbe molto da dire. La dialettica, nella forma hegeliana come in quella marxista, presenta il pericolo di contrabbandare una falsa totalità per legittimare quei processi di frazionamento che rendono “assennato” il comportamento del “rivoluzionario” che invoca la “dittatura del proletariato”. In che altro modo, infatti, si poteva giustificare la “fase di transizione”? Col metodo del tutto e subito si correva il rischio dell’anarchia ora, e sono ben pochi coloro che se la sentono di assumersi questa responsabilità.

Nella logica hegeliana si assiste al travaso all’interno del ceppo secolare della filosofia filisteo-accademica, della fiorente e viva tradizione popolare e alternativa della logica del tutto e subito, quella logica che aveva da un lato alimentato le insurrezioni contadine in Germania, nel sud della Francia, in Vandea e in mille altre contrade e, dall’altro, aveva segnato le caratteristiche essenziali di quei contributi culturali che erano stati emarginati e distrutti fisicamente dal potere in carica, oppure squalificati (alchimia, magia, stregoneria, ecc.). In questo travaso la dimensione della totalità rivoluzionaria che aveva attraversato i secoli come un fiume sotterraneo, viene alla luce ed è fatta affluire nel pensiero canonico delle università, arrivando fino a razionalizzare la suprema vergogna dell’uomo, lo Stato. È in questa veste che la logica hegeliana viene rielaborata da Marx per servire da fondamento alle rivoluzioni autoritarie di domani. Senza il lavoro intermedio di Hegel non sarebbe stato possibile un utilizzo diretto della logica del tutto e subito in una prospettiva autoritaria.

Infatti, mentre la dimensione popolare dell’anarchia e del comunismo immediati, assume la realtà come un tutto che non può essere migliorato ma deve essere distrutto di sana pianta se si vuole la fine dello sfruttamento, la dimensione mediata della rivoluzione, quella che vive l’esperienza dell’avanguardia, assume la realtà come un processo di avvicinamento alla liberazione, processo caratterizzato, a volte, da fatti distruttivi, ma solo in senso progressivo e sempre parziale. La fine dello sfruttamento sarà il concludersi di questo processo, non la realizzazione di qualcosa ora e subito.

Il metodo del macellaio si insinua dappertutto. La sua negazione porta dentro il problema della logica della rivoluzione ora e subito, dell’anarchia oggi e non dell’avvicinamento per gradi a un ideale che si allontana sempre più. Ciò corrisponde a una negazione dell’aggiustamento ragionevole, del compromesso logico.

Tutto e subito

Cosa vuol dire accettare la logica della totalità rivoluzionaria e negare quella dell’aggiustamento progressivo, quella del buon senso filisteo?

In un mondo che della ragionevolezza si è fatta una garanzia per lo sfruttamento, la metodologia più accettabile è quella che pretende l’impossibile, la realizzazione della totalità nell’immediato.

A questa prospettiva metodologica di massima, che serve come indicazione di comportamento, allo scopo di evitare equivoci e speranze mal fondate, si aggiunge la valutazione metodologica degli strumenti di trasformazione della realtà. Questi strumenti hanno una capacità d’azione molto diversa se vengono impiegati nella prospettiva del tutto e subito o nella prospettiva del progressivismo.

Nella valutazione dell’impiego di questi strumenti, nelle considerazioni riguardanti la loro consistenza e la loro validità, non deve mai essere persa di vista la dimensione globale della realtà. Se è possibile individuare diversi strumenti d’intervento nella realtà (modi diversi di considerare la lotta rivoluzionaria), ognuno di questi strumenti può sempre entrare in contraddizione con la realtà senza che ciò significhi per forza una impossibilità di ulteriore utilizzo. Salvo che non si voglia seguire la singola azione dello strumento (astrattamente considerato) e dividere la sua contraddittorietà dall’insieme del reale in cui si trova ad agire. Occorre quindi prendere gli strumenti di trasformazione della realtà, in modo diverso che a uno a uno, cioè collocarli in una dimensione globale nei confronti dello scontro di classe. Ciò è possibile solo nella prospettiva logica del tutto e subito.

Fatto ciò appare con grande evidenza che solo dalla reciproca interazione di tutti questi strumenti nasce la contraddizione con la realtà (nel senso già approfondito). La contraddizione che appare può essere vissuta come inadeguatezza, e spesso può anche portare ad esasperazioni efficientiste nell’uso dello strumento, ma tutto ciò si può correggere facilmente con un approfondimento critico. Essa non è mai un vuoto da riempire con progressivi miglioramenti o con “aggiunte”, ma resta una differenza qualitativa leggibile esclusivamente dall’interno dell’insieme dei diversi strumenti d’intervento. Una conseguenza della interrelazione dei singoli strumenti all’interno della loro globalità e dei diversi rapporti, continuamente in via di modificazione, che si determinano sempre in seno alla stessa globalità.

Il fatto serio, produttore di conseguenze notevolissime, è che noi, nel momento in cui ci accingiamo a “riflettere” sul problema dei singoli strumenti, noi stessi, noi come individui singoli, la nostra vita, la nostra attività, non possiamo essere considerati come qualcosa di estraneo allo strumento d’intervento che prendiamo in “esame”. Insomma, noi non possiamo chiamarci fuori dalla realtà. Quando lo facciamo, come avviene nelle migliori tradizioni accademiche, quando accettiamo il metodo cosiddetto “obiettivo” di una falsa scienza al servizio dei padroni, non facciamo altro che permanere dentro, fornendo sostegni a quelle forze che reprimono e distruggono gli strumenti di cui ci occupiamo.

In un modo o nell’altro non possiamo venire fuori dal nostro essere dentro. L’unica cosa da fare è porre con chiarezza e onestà le condizioni di questo essere dentro. Quelle che sembrano le strettoie di un obbligo che ci soffocava, risultano allora gli elementi essenziali della comprensione. Se la realtà è soffocante, il mezzo per trasformarla non è quello di “immaginarsi” la realtà liberata, ma quello di cominciare a riconoscere le condizioni che ci fanno partecipi della soffocazione. Bisogna vedere in che modo noi stessi siamo la soffocazione di cui ci lamentiamo, e in che modo il nostro non volerla vedere o il nostro immaginarci una liberazione fantastica sia, anche questo, un ulteriore espediente per essere la nostra stessa soffocazione.

Se la mia capacità critica non vuole essere un abitante del palazzo dei fantasmi, essa, sia come generica facoltà di comprendere, sia come specifica capacità di selezionare i contenuti della realtà in funzione di un fine, deve essere anche nella realtà, deve essere non solo me ma anche “altro da me”. Ma questo “altro da me” non può essere il luogo astratto di riappacificazione tra me e la realtà (superamento fittizio delle contraddizioni), per arrivare alla tacitazione di quello che mi bolle dentro, delle mie paure e delle mie frustrazioni. In questo modo non solo la mia capacità critica sarebbe fuori della realtà, ma anche me stesso. Sarei io stesso ad essere la vera contraddizione con la realtà, con la mia contemporanea volontà di cercare e sfuggire davanti alla trasformazione. Sarei l’incarnazione dello spirito bottegaio che vorrebbe (a parole) mettere a ferro e fuoco il mondo intero, senza oltrepassare la soglia della bottega.

Inoltre, se la mia capacità critica, uscendo dal palazzo dei fantasmi, si riconosce come elemento della realtà, ed è quindi essa stessa reale, ciò non è ancora sufficiente perché io possa farla diventare una componente effettiva del mio modo di agire, almeno non definitivamente. In altre parole, non posso rubare il fuoco sacro una volta per tutte. Come elemento della realtà, la mia capacità critica è un fenomeno complesso che viene colto solo quando riesce a diventare “altro da sé”, cosa questa che richiede ulteriormente il mio intervento critico, sia per riconfermare la realtà di quello che faccio, sia per darmi un orientamento nel palcoscenico delle mistificazioni. Solo così la mia capacità critica e la realtà sono entrambi elementi di una possibile trasformazione, non baloccamenti di interpretazioni eternamente contraddittorie. Solo così esse sono, nello stesso tempo, la mia realtà è la realtà obiettiva, la mia identità e la mia alterità, l’identità della realtà e la sua alterità.

Ma la realtà, nel suo complesso svolgersi, non ha cognizione della mia realtà e del fatto inoppugnabile che questa mia realtà costituisce elemento insopprimibile della sua alterità. La mancanza di questa cognizione trasforma il suo svolgersi in un apparente dominio del caso che assume ora l’aspetto del preteso meccanismo deterministico della natura, ora l’aspetto relativistico della probabilità. Però questo apparente dominio non riesce completamente a nascondere a un’analisi più approfondita, l’unità completa dei due elementi e la loro partecipazione all’unità con tutte le altre realtà a sé stanti e pur tuttavia indissolubilmente legate in un rapporto costante. Lo stesso concetto che siamo in grado di farci della realtà, l’interpretazione che spesso, inevitabilmente, siamo portati a dare, non è altro che una componente di quell’insieme di cui cerchiamo disperatamente di avere cognizione.

La realtà è quindi l’unità di questi rapporti, nel senso della loro compresenza e della loro interrelazione. È questa la realtà che possiamo trasformare, in quanto possiamo conoscerla, anche senza arrivare ad avere cognizione dei suoi dettagli e senza potere superare la rete di contraddizioni che la costituiscono.

Così la realtà ci sta davanti allo stesso modo in cui noi stiamo davanti alla realtà. Questo stare l’uno di fronte all’altra non è il risultato di uno svolgimento, di un processo per gradi, o per livelli (meccanismo dialettico), è invece il solo modo di avere cognizione della realtà e, nello stesso tempo, è la realtà stessa. Si spiega così il dilemma del progresso che non progredisce e quello della staticità che si muove. L’avere cognizione non è più il semplice “interpretare”, ma diventa trasformazione. Il lottare per la liberazione non è più pacificazione delle contraddizioni, ma è liberazione esso stesso, liberazione e basta.

La realtà è pertanto il campo delle lotte ed è anche il luogo di resistenza alla lotta, il luogo della reazione e dell’inganno. Ogni strumento d’intervento, pure agendo nella prospettiva rivoluzionaria, sfugge alla calma e all’obiettività esclusivamente illusorie dei fantasmi ed entra nella critica complessiva degli strumenti del reale. Diventa coltello a doppia lama, che bisogna sapere usare bene se non ci si vuole tagliare una mano. Solo nelle fantasie del fittizio sono esistiti strumenti perfetti ed esenti da pericoli, solo nelle chiacchiere della dottrina filistea sono esistiti, ben collocati nel tempo, i luoghi della rivoluzione e quelli della reazione, i buoni e i cattivi, i falsi e i veri, i bianchi e i neri.

Ciò non significa che la realtà sia fusione di contrasti, riappacificazione interclassista, notte oscura che fa apparire grigie tutte le vacche. Non significa che non sia possibile individuare una linea di delimitazione, anzi solo dalla cognizione profondamente vissuta della compresenza del nero e del bianco emerge la coscienza di essere nero o bianco, se si avesse solo la “notizia” dell’esistenza del nero separato dal bianco non si avrebbe mai una vera coscienza di essere questo o quello, ma solo la notizia di essere “come questo” o “come quello”, ripetizione di simboli astratti e niente di più. Il nemico non lo individuiamo perché qualcuno ci dice che sta qui o là, perché abbiamo letto in un libro che indossa tale uniforme o si schiera sotto tale bandiera. Il nemico lo individuiamo perché sta accanto a noi, insieme a noi, dentro di noi. Lo conosciamo perché è come noi, vive le stesse nostre sensazioni, non è “altro” da noi. Solo quando abbiamo capito ciò abbiamo finalmente capito ogni azione del nemico e possiamo colpirlo, altrimenti colpiremo il simbolo del nemico, un “quasi-nemico” indicatoci dal fantasma della critica.

Il fatto che l’“altro da noi” possa essere determinato da noi stessi, perché siamo, nello stesso tempo, noi e altro da noi, ha, come conseguenza, che solo nella condizione spettacolare possiamo operare una frammentazione, per cui l’altro da noi lo vediamo separato e lontano, luminosamente diverso. Ciò fa capire come molte volte bellissime analisi o bellissime azioni, siano assolutamente spettacolari proprio perché pretendono indicare l’esistenza di un “altro” senza affermare la contemporanea compresenza del “noi” all’interno dell’altro e viceversa. In questo senso, come abbiamo detto, lo spettacolo è il momento della negazione dell’unità del reale.

La possibilità del “tutto e subito” e quindi anche quella dell’anarchia ora e subito, è legata a questa dimensione del reale. Come negazione della spettacolarità (e quindi della parcellizzazione), è negazione del concetto simbolico di progresso, di aggiunta, di miglioramento, di aggiustamento razionale e di ogni altra panacea del genere che i filistei hanno accumulato nei secoli. In senso positivo essa è poi il primo gradino della logica della liberazione, è liberazione in atto.

L’acqua sporca e il bambino

La critica è un’arma notevole ma presenta pericoli. Quando diventa unilaterale e cerca di porre chi critica al di là del criticabile, in una zona fuori discussione, diventa non solo “critica critica” (espediente verbale di scarsa consistenza), ma principalmente diventa strumento di deformazione della realtà. Svendendo la propria capacità di penetrazione, si abbassa al livello di descrizione astratta di un avvenimento. Nella fretta di gettare l’acqua sporca, butta pure il bambino.

La situazione presente [1979] permette un largo ricorso ai fantasmi e quindi un’analisi che non faccia attenzione a questo pericolo finisce per diventare un inutile sforzo.

I processi di massificazione che il capitale sta perfezionando, realizzando un controllo attraverso l’apparente ripristino della legalità costituzionale dappertutto, passano in seconda linea davanti ai problemi che ci colpiscono più direttamente. Ieri era la lotta armata, oggi i compagni in carcere. Ieri ci si schierava contro o a favore dello scontro armato, oggi ci si schiera contro o a favore delle richieste di amnistia, dissociazione, dichiarazioni di perbenismo democratico, e altre amenità inventate dal potere.

Dello scontro reale che invece avviene nessuno dice qualcosa. Appena qualche balbettio indistinto. Lo sfruttamento persiste. I lavoratori sono davanti alla possibilità di restare senza lavoro. Il meccanismo repressivo si avvia al perfezionamento cibernetico. Il consenso sembra dilagare irrefrenabile. Noi siamo contrari alla resa. Certo siamo anche contrari agli orrori possibili di un irriducibilismo stalinista che non ammette critiche all’ipotesi del partito, del contropotere, del potere rosso, della centralità operaia, ecc. Ma questa posizione non è sufficiente. La realtà è dilatata in una precaria atmosfera di attesa. Non possiamo chiamarci fuori dichiarandoci estranei ai possibili svolgimenti futuri di una situazione che si mantiene esplosiva. La strada per la liberazione è liberazione essa stessa solo a condizione di riconoscere che è la strada che porta verso l’eliminazione dello sfruttamento. Se, viceversa, pensiamo che la sospensione della lotta è il solo indirizzo possibile da prendere, sigilliamo noi stessi le nostre catene.

La funzione della volontà è di primaria importanza in quanto garantisce il mantenimento di quella direzione, di quel processo di distruzione delle strutture autoritarie, mentali e sociali, che non può mai dirsi concluso ma che deve essere sempre vissuto come un movimento in atto, che si sviluppa per gradi spesso contraddittori.

Se la critica ha fatto bene a sottolineare i limiti dello strumento della lotta armata, minoritaria e clandestina, ciò non vuol dire ancora che questo strumento sia diventato inutilizzabile. Allo stesso modo la medesima critica ha sottolineato l’importanza dell’insurrezione di massa generalizzata, ma ciò non vuol dire che bisogna aspettare di vedere il popolo in armi per muoversi. Le due cose, se prese in modo parcellizzato, sono contraddittorie e si escludono a vicenda. Diventano fantasmi, balocchi nelle mani di chi vuole semplicemente continuare a far nulla.

Le organizzazioni specifiche armate libertarie sono strumenti indispensabili per costruire le condizioni rivoluzionarie. Allo stesso modo i tentativi insurrezionali, anche realizzati da minoranze e di modeste dimensioni.

Ma questo è tutto un altro problema.


[Cfr. “L’acqua sporca e il bambino”, in “Anarchismo” n. 29, settembre-ottobre 1979, pp. 260-269. Pubblicato in Alfredo M. Bonanno, La rivoluzione illogica, seconda ed., dicembre 2013, pp. 197-214]

 
 

Questo sito, oltre a informare i compagni sulle pubblicazioni delle Edizioni Anarchismo, archivia in formato elettronico, quando possibile, i testi delle varie collane.

L’accesso ai testi è totalmente libero e gratuito, le donazioni sono ben accette e servono a finanziare le attività della casa editrice.

Prossime uscite
Rudolf Rocker, Nazionalismo e cultura William Godwin, Ricerca sulla giustizia politica e sulla sua influenza su morale e felicità Alfredo M. Bonanno, Dal banditismo sociale alla guerriglia Luigi Lucheni, Come e perché ho ucciso la principessa Sissi Carlo Cafiero, Anarchia e comunismo Luigi Galleani, La fine dell’anarchismo? Bakunin, Opere vol. II – La Prima Internazionale e il conflitto con Marx A cura di Alfredo Bonanno, Estetica dell’anarchismo