Titolo: Il messaggio nella bottiglia
Note: Opuscoli provvisori N. 88
Prima edizione: agosto 2015
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Nota introduttiva

Questo libretto è il lancio di una pietra contro le chiacchiere. Libretto, comunque, mi si potrebbe ribattere, dandomi sulla voce, non pietra. Bisogna vedere.

Non è un caso che aggiungo le mie riflessioni su Machiavelli, redatte in un posto indegno senza pari, il carcere di Amfissa, un ex sanatorio, diventato poi un crematorio, collocato in uno dei luoghi più belli di tutta la Grecia, non molto distante dal santuario di Delfi, e Machiavelli è stato un uomo fra i più remoti alle chiacchiere.

Il dire, di per sé, non appartiene per forza alla congerie di scuse che di solito accampiamo per evitare di agire, può essere, come in questo caso, un rammemorare l’azione, un riflettere su quello che sta al di là del semplice fare, di cui la parola è a volte serva sciocca, a volte guardia armata.

L’azione non necessita della parola, essa è qualcosa di diverso, sulla sua eccezionalità non so che dire, perché la diversità non ha regole da cui misurare le distanze per definirsi eccezionale. La sollecitazione a coinvolgersi è parte fondamentale dell’agire, ma non è frutto della volontà, non è il gesto bello dell’epoca bella, è una condizione che quando arriva non riesco a scorgere da dove è arrivata. La sua potenza non è data da ciò che determina o dalla fonte da cui sgorga, ma dalla capacità che ha di mettermi in piedi. Io vedo tutto questo movimento, ma avendo abbandonato la volontà che me lo farebbe inquadrare nella logica del dare e dell’avere, non lo vedo, sono privo di casa e di riparo, essendomi alzato in piedi sono esposto al rischio con tutto me stesso. L’eccezionale condizione dell’oltrepassamento, che mi mette in contatto con la desolazione dell’azione, non è sottoponibile a spiegazioni o distinzioni, è un movimento totale del tutto insolito nel senso corrente del termine, e mi coglie sempre alla sprovvista. L’enormità del progetto che intuisco non può commisurarsi con l’antica esperienza immediata dove la parola navigava a piccolo cabotaggio.

La rammemorazione ricama con le parole, a volte non intenzionalmente, all’interno del senso di agonia che mi prende alla gola non appena l’azione è conclusa, una sensazione nuova, di rilassatezza, di piacere e di paura della morte. Solo dopo riesco a rimettere ordine in questa condizione della coscienza immediata, condizione profondamente sconvolta dalla mia esperienza attiva. Fronteggio adesso il segnale possibile che mi viene dal destino, cerco di leggere, di tradurre in parole questo segnale, ma non è facile trovare le tecniche adatte. La volontà fa precipitare immediatamente il suo controllo e cerca di insistere perché io torni a considerare il mio destino come facevo una volta, il frutto del caos.

Intensa è la lotta per la conquista della parola, e dura e irta di pericoli. Ma si tratta di movimenti interni al campo di delimitazioni contrassegnato dal dominio. La maggiore intensità dei pericoli che voglio contrastare è di natura immaginaria e apparente. Me li prefiguro tali perché non amo la fatica e la pena, ma non c’è possesso senza sofferenza, non c’è conquista conoscitiva senza dolore. Sia leggendo il grande libro della realtà, immergendosi fino al collo nel liquame che caratterizza le condizioni date, sia sognando utopici sistemi, è con le parole che devo dapprima fare i conti, e parole e regole sono armate fino ai denti.

Perché non più parole? Perché a un certo punto la lotta per il possesso delle parole risulta insoddisfacente, i rituali che l’accompagnano scadono di fascino, non hanno più spinta, non mi fanno innamorare, mentre l’ignoto diventa noto scopro che la trama è sempre la stessa. E scopro anche una mancanza, l’impossibilità della connessione perfetta, della completezza. Posseggo conoscenze e tecniche, ma ho un me stesso dimidiato dalle stesse procedure di specificazione. Ho nostalgia di qualcosa che non c’è nella conoscenza e che non ha caratteristiche lessicali. Questa inquietudine fa venire avanti la paura del tremendo, di ciò che non posso afferrare e che mi sfugge malgrado la mia caccia sia sempre più serrata, qualcosa che mi indica come non è nella quantità quello che cerco e quindi vengo gettato in uno spaesamento che corre il rischio di elevarsi a delirio. Mi interrogo su questa potenza dell’assenza e non ho risposte. Silenzio. La quantità non rivela che le sue origini interne, le sue interne relazioni con il molteplice, ma della qualità non ho notizia. C’è stato un orientamento percettivo, ma dove è andata a finire?

Solo il silenzio.


Trieste, 30 maggio 2014

Alfredo M. Bonanno

Il messaggio nella bottiglia

Figli dell’epoca che poteva legittimamente definirsi appartenente al libro, caratterizzata dal libro, ci avviamo ad assistere alla rapida scomparsa di quest’oggetto. Faccenda sconvolgente per chi ha posto al centro della propria vita la carta stampata, o almeno un’attività che non poteva dissociarsi dalla carta stampata, trovando da questa alimento e impulso. Come disillusione, non c’è male. Il declino l’abbiamo davanti a noi, nell’atmosfera che respiriamo, per quanto non molti riescano a coglierne il profumo di cimitero.

Il silenzio. Ecco l’alternativa. Adesso che le case e le strade sono ingombre di macerie, mi sembra stupido parlare ancora di Werther. Potremmo farlo, ma forse siamo troppo smagati per questi giochi. Non possiamo impedirci di ascoltare la sofferenza della porta accanto, il ritmo delle decisioni giornaliere, cui dovremmo pur dir qualcosa, non solo dare cenno della nostra bancarotta. Il cerchio si sta per chiudere. Dopo, di cosa parleremo? Qui, non solo tutti i libri sono stati letti, e non solo la carne è triste, ma anche tutti i libri sono stati scritti. L’insistenza tenace e stupida nella fede alla carta stampata potrebbe nascondere un secondo fine, meno glorioso ma più pratico, quello di fuggire davanti alle condizioni immediate, ai contorni della realtà, per cercare il grembo accogliente di sentimenti immaginari, costruzioni ipotetiche, comunque docili e ragionevoli anche quando balzano con repentini slanci irosi.

La contraddizione c’è stata sempre, nel dividersi in parti diseguali tra letteratura e vita, tra scritto e azione. Va bene, nell’ambito del finalismo che malgrado tutto entra di soppiatto nella migliore delle analisi non c’è differenza, ma nella realtà la differenza invece c’è, e come, per chi subisce le condizioni di una dicotomia ineliminabile. La teoria abita un pianeta, la pratica ne abita un altro. Poi, entrambe, entrano in comunicazione. Niente di inventato nell’una, niente nell’altra, la realtà vi domina incontrastata. Ma a quale prezzo? La rigidità, il rigorismo, in base ai quali la virtù oltraggiata, in nome di millenni di sfruttamento, osa alzare la mano giudicante. Anche in questo caso, repentinamente, i due pianeti si incontrano di nuovo.

Bene o male abbiamo abitato questi due pianeti, e nel modo corretto. Corretto, non migliore. Quindi, non cedendo né alle sollecitazioni letterarie, né a quelle politiche. Abbiamo le carte in regola. Niente carriera, in nessun campo, né giornalistico, né universitario, né editoriale, né partitico. La purezza prima di tutto. E va bene, possiamo costruirci un monumento con tutta la purezza che ci aleggia attorno. Ma qui il problema è diverso. Consegnando i libri ai livelli più avanzati dell’approntamento, mi accorgo che adesso corrono il rischio di non trovare destinatario. La cosa era prevista, almeno fino a un certo punto, ma non nella dimensione che minaccia di prendere. Un crollo come quello che si prospetta per i prossimi decenni era impensabile. Ma è anche la cosa più giusta cui pensare, se non si vuole gettare in mare la bottiglia vuota, senza neanche l’ipotetico messaggio al futuro. Quale futuro? Quale messaggio?

Lo scritto, comunque sia, si indirizza a un’ipotesi di vita umana, una vita probabile, non sicura, ma immaginabile. Un contesto sociale in cui lo stimolo ha ancora la sua funzione, il suggerimento, il chiarimento e perfino la propaganda e la risibile testimonianza, hanno la loro funzione. Ragionevole programma, che per altro è entrato fin dal primo giorno in contrasto con se stesso e quindi ridimensionato. Ma un fondo di contatto c’era. La proposta sovvertiva, si immaginava cioè di arrivare a sovvertire, le condizioni storiche della ragione, questo ampio mantello sotto cui si sono commesse le peggiori mostruosità del mondo, quindi riversava anche su di sé gli effetti dissacratori delle proprie elementari intenzioni. Tutto era previsto, formulari e tutto il resto, espedienti, ingenuità e sviluppi originali. Tutto in regola, almeno secondo i gusti, e perfino secondo i mezzi. Ma qui l’argomento è altro ancora.

Crolla il libro, qualsiasi possibile libro. Nelle condizioni attuali del mondo, con i grandi sconvolgimenti che si attuano tutti i giorni, con la veloce riscrittura mensile della storia e della geografia, si guarda ad altri mezzi di espressione. Non più a un mezzo, non solo vecchio e superato, ma anche compromesso con la dottrina che ha giustificato, e in parte continua a reggere, questo e l’altro mondo, ogni tipo di dominio e prevaricazione, sotto ogni bandiera.

La gente è stufa di biblioteche e depositi d’obitorio, è stufa della storia, è stufa di ogni cosa che ricordi anche lontanamente il passato sostenuto dalle ideologie. Non sa che anche questa è un’ideologia, ma nessuno può dirglielo, non ascolterebbe. Non ha ascoltato in passato le poche voci sparse, poi sommerse dalla marea uniformante della dialettica marxista. Non ascolta oggi. Non possiamo fingere, scrivendo, che in questi ultimi anni non sia successo niente. Cercando di spiegare quello che è successo, proprio nel mentre lo spieghiamo, cerchiamo di farlo apparire come se non fosse mai successo. Il compito dell’analisi, di ogni analisi, è sempre questo. Sigillare la realtà nel non accaduto.

Nuove coperture ideologiche si rendono necessarie, e c’è chi sta provvedendo a fabbricarle. Nuovi mezzi, adeguati agli attuali sviluppi della comprensione, si stanno approntando, una nuova analisi dei princìpi e delle applicazioni pratiche, meccanismi e accumulazioni, istituzioni e idee. Normale lavoro di manutenzione, se non fosse per la rimessa in causa di un mezzo che sembrava stesse eterno al centro dell’attenzione comunicativa. Ma era evidentemente una illusione dei chierici, tutti intenti al loro classico parlottio. Una tradizione fittizia, che di sghembo arrivava oltre il ghetto, filtrata dai grandi organismi editoriali, cui rispondevano pattuglie isolate di produzione periferica, dirette a scimmiottare condizioni e forme di quel proficuo somigliarsi.

L’umanesimo di fondo viveva alle spalle di un equivoco mai portato all’incasso. La neutralità del sapere, o comunque la possibilità di mantenerlo in frigorifero, in attesa che la realtà facesse il resto. Un galoppo sotto le frasche, altro che neutralità. L’ombra della foresta non protegge, espone. Non potendo far altro, qualche volta espone al ridicolo. Al ridicolo dell’esperimento minimale, del rumoreggiare della tempesta in un bicchiere.

Il rifiuto delle cerimonie altolocate della macchina culturale, anche al più modesto livello dell’impegno universitario, ha avuto un senso nella vita di molti di noi, e non sarò io qui a rimetterlo in discussione. Ma, considerandolo adesso, dalla sponda del non ritorno, mi sembra che in esso sia mancata una risposta positiva. Ci si è accontentati solo dell’aspetto negatorio. Avremmo dovuto svilupparlo noi quel sapere, che spesso vent’anni fa era ancora da costruire, sulle spoglie teoriche e storiche di un passato impreciso che due decenni di distanza dalla fine della guerra non riuscivano a trasformare in cosa viva. E avremmo dovuto usarlo nelle nostre cose, e nei nostri strumenti. Senza la macchina e senza le sue garanzie, questo è ovvio.

Siamo stati capaci di fare questo lavoro? Penso di no. Quali sarebbero oggi le condizioni del crollo se quel lavoro fosse stato fatto? Non è dato saperlo. Certo, potevano anche essere differenti. Ma non è questo il punto. La verità è che non abbiamo saputo fare il nostro lavoro, che non era solo quello di dire, ma di dire sapendolo dire, trovando il modo di dirlo, non accantonando problemi di metodo di fronte all’urgenza dei contenuti, i quali, strano a dirsi, adesso che vediamo le cose con la dovuta chiarezza della distanza, potevano anche aspettare. Abbiamo alimentato in questo modo il terrorismo dei contenuti, l’anima nera del senso dilagante, perché della loro sostanza si pascessero inappagabili visceri provvisori. Così, ci siamo mutuati a nostro esclusivo beneficio, nostro di piccoli fogli cosiddetti alternativi, un’autorevolezza cerimoniale, proveniente dal riciclaggio degli oggetti prodotti in accomandita col nemico.

La rivoluzione frattanto si scambiava le parti col potere, terminologie in primo luogo. Forniva e riceveva, bilancio altamente attivo, quindi in perdita. A vendere molto di questa roba, tipo “qualità della vita” per intenderci, ci si rimette. Meglio comprare. Ma nell’acquisto bisognava presentarsi con impegni tecnici che ormai nessuno sapeva assolvere, vista l’improvvisa, e predatata, riduzione dei flussi. A leggere un “comunicato” rivendicativo vengono i brividi, e si può capire meglio oggi come questi comunicati giocarono il loro triste ruolo nel travestire un’energia realmente rivoluzionaria, agghindandola per come venne mostrata, e quindi spettacolarizzata e uccisa, nel corso di quindici anni. Ci si facevano i complimenti, reciprocamente. Si mostravano muscoli intellettuali prefabbricati a un pubblico di dementi, racchiuso nelle roccaforti accademiche, quindi anche politiche, che imparava a leggere ideologia liquida.

Si doveva approfittare di più delle dissonanze, approfondire fino in fondo i disequilibri e gli sconcerti teorici, non averne quasi paura, un timore reverenziale derivante dalle mancate congratulazioni dei gestori dell’ordine culturale vigente. Per cui non ci si allontanava mai abbastanza dalla carreggiata comune, anche a costo di diventare, questa volta con un buon motivo, veramente illeggibili. Si mantennero idilli che oggi appaiono sconcertanti, scambi che avremmo potuto evitare, segni di riconoscimento delle altrui pietà compromissorie, che in fondo indicavano un’incerta coscienza della propria rigidità.

Solo adesso comprendiamo fino in fondo l’infondatezza dell’ipotesi scientifica su cui abbiamo giurato in passato, la superiore validità dei dati di fatto. Il nuovo potere è stato costruito su questi dati di fatto, e noi abbiamo lavorato bene in questa direzione. Razionalizzando siamo stati razionalizzati, da perfetti razionalisti. Andando in cerca della verità abbiamo trovato quella degli altri, usata da loro a perfetto uso e consumo delle migliori intenzioni gestionarie. La certezza di trovare la verità per tutti, quella di tutti, la verità che è rivoluzionaria, ci ha impedito di guardare dove mettevamo i piedi. Quel poco che abbiamo indicato, criticamente, in questa direzione, non è stato sufficiente.

Avessimo teso al rigore metodologico, almeno adesso avremmo potuto piangere con un occhio. I frutti porcini, nei loro limiti, avremmo potuto sgranocchiarli lentamente nei secoli a venire. Neanche qui siamo stati all’altezza del compito che ci attendeva. Gli altri, poveri dementi, dietro le loro sacrosante vicissitudini dialettiche, non potevano anche volendo venire a capo di nulla, sembravano, e per molti aspetti, pur nel generale frastornamento attuale, continuano a sembrare, teologi legati alla categoria del dogma. Del loro rigore, che per certi versi era diamantino più di quello degli altri, cioè dei depositari della precedente tradizione accademica, non è rimasto nulla. Quel poco che c’è risulta inutilizzabile. Ma il nostro, dov’è?

Non ci siamo castrati a favore del lettore, e abbiamo fatto bene, ma non l’abbiamo neanche portato con noi, verso un’orientazione diversa, verso possibilità di letture intertestuali. Fornendo sbocchi e aperture alle formalizzazioni imperanti, non siamo andati al di là delle battute di spirito, quelle dei migliori, non certo dei peggiori, che gli imbecilli non sono mai mancati, e anche questo bisogna dire, ma con le arguzie non ci si indirizza verso l’approfondimento. Il saggetto lieve e apparentemente succoso, capace di dare l’impressione di conoscere a fondo la realtà, cotta e cruda, tanto da passarci sopra a volo d’uccello, è rimasto l’ideale apodittico cui ci siamo sempre attenuti, tranne qualche rara eccezione, per altro subitamente messa in sospetto. C’erano le premesse, ma non abbiamo saputo costruire una Gaia scienza. Nessuno di noi ha avuto una sufficiente leggerezza di piede.

Adesso la parola è messa in crisi da un insieme di risposte tecnologiche alle urgenze del dominio. Scade d’importanza, tende ad atrofizzarsi, a incasellarsi in gerghi settoriali. Fine di un’epoca, di un miraggio, ma anche di uno strumento. Il protocollo passa al computer, che abbisogna di una struttura sintattica differente. Tramonta lo stile, viene fuori un uomo nuovo, le due cose non sono state mai separate. La fede classica nella pagina stampata tramonta con esso. Non tanto lo sostituisce la parola parlata, quanto il gergo espressivo, il rumore denso di contenuti potenziali, esplicitabili, forme inesauribili, la costruzione automatica dell’immagine, che il cervello esegue alla perfezione, senza bisogno del modello, anzi allontanandosi sempre più da questo. Quando finalmente il percorso sarà compiuto, vedendo una casa in campagna, smarrita e dimenticata fra le colline, ci chiederemo cos’è quel rudere. Il libro è stato un lungo episodio? Comincia un ritorno a riduzioni medievali dell’espressione, forse più dense? Non lo possiamo sapere, nessuna risposta presuntiva reggerebbe al riscontro velocissimo e implacabile dei decenni. Il millennio potrebbe chiudersi con una sentenza di morte.

Non è vero che solo l’analisi ha bisogno dello scritto. O della formula matematica. Anche l’inquietudine che distilla dall’intuizione, ne ha bisogno. L’angusta dimensione dello scritto è disciplina, quindi costrizione a esprimersi. Si paga una tassa, questo è vero, ma si può contrattare sull’ammontare. Nel corso delle trattative qualcosa viene fuori, anche di vivo. Per carità, niente di eccezionale. Un libro, bene o male, in questo modo lo si può ancora ipotizzare. Un insieme di occasioni, nient’altro.

Si badi bene, fornire occasioni non vuole essere una sorta di versione nichilistica della Werk, ma un tentativo di recuperare l’espressione senza pretesa di completezza, senza delimitare il mondo che ci circonda, codificandolo strettamente nei limiti necessariamente armonici di un libro. Così il nichilismo, salvato dalle ingenuità di una aspettativa autentica, ridiventa nichilistica attesa di una conclusione che non può esserci avendo negato il fondamento certo da cui partire. Per la parola, l’ammissione scritta è ineluttabile come il dogma. Quando vogliamo disperderla per paura di ubbidire a quest’ultimo, dobbiamo ritagliare episodi unilaterali, incapaci, per quanto li riguarda, di fotografare il nostro lavoro in una sbiadita immagine di immobilità. Le occasioni si forniscono e ci vengono fornite, senza che la nostra scelta, per altro sempre provvisoria, costituisca un filo da cui partire per sigillare il sarcofago. Prendiamo su di noi nuove e differenti responsabilità, prendiamo con noi anche la paura, l’antica compagna di viaggio, che la convenzione dello scrivere esorcizzava fin dalle prime righe, gettando le basi del metodo comunicativo attraverso cui far passare i contenuti. Adesso, improvvisamente, ci sembra insostituibile l’impegno di accogliere espressioni come tentativi di rifiuto. Rifiuto di esprimere sentenze, giudizi, assoluzioni e condanne. Rifiuto del mondo costituito e sigillato, cui la parola afferisce, in ogni caso, in qualsiasi modo venga confezionata. Un continuo rifiutare e un continuo accettare. Dire fuori della verità, coscienti finalmente dello scarto irrecuperabile, senza preconcetti per il non adatto, l’inesprimibile. Interloquire con la maschera. Un programma incerto, che nel realizzarsi si programma per ulteriori mancate realizzazioni.

Meno timidezza, infine. La ricerca dell’interlocutore, al di là delle rovine, è manifesto bisogno di appoggio. Ci vuole coraggio a sigillare la bottiglia prima di gettarla in mare. Il coraggio delle fede, brutta faccenda per degli atei. Fede nella ragione incombusta, capace di attraversare i territori del silenzio. Fede nella parola occhio di fuoco, capace di far nascere la bellezza e la morte. Fede nella coscienza occhi obliqui, che scintilla nella sua luce innaturale. E, ancora, dignità, rifiuto del riflusso angelicante. Così, ogni domanda ottiene la sua risposta, anche dal vuoto dell’altra sponda. Tutti si sono rifiutati di traghettare, il viaggio è andato via inutilmente. Sgravato dei suoi compiti, occhio di fuoco ha deposto il remo. Adesso lo scritto fluisce lievemente, privo di complesse motivazioni giustificatrici.

Oggi comunque non si può contribuire a riaffermare, e poi per quanto tempo?, il primato della parola, con tutta la tradizione giudaica e cristiana che si porta dietro. In quanti modi si possono leggere, e sono state lette, le vicissitudini di Odisseo e di Enea? Esse sono sempre là, catturate da un testo, ma la molteplicità le accompagna, dettata dalle condizioni affioranti dalle proprie peripezie. Il discorso può intricarsi quanto si vuole, ma il lettore sente la vicenda come sua, presente, perché quel destino si ripete continuamente, l’obbligo della vendetta, l’ineluttabilità morale della coerenza, l’ordine fondato sull’uomo e non sulle istituzioni, prima di tutto. Oltre il libro, quindi, ritroviamo il contenuto, disperso in mille frammenti letterali, coperto dalle ingiurie delle espressioni commerciali, raccolto e respinto cento, mille volte.

Avremmo dovuto rafforzare il mestiere di lettore? No, non di questo siamo responsabili. Niente che diventi professione e abilità statutaria può interessarci, al contrario, se questo è andato al diavolo, tutto va per il meglio. Ma ci sono molti modi per leggere un libro, e chi non ha più questa possibilità perde una parte di se stesso, della potenza che avrebbe potuto avere, della sensibilità che lo avrebbe potuto rendere diverso. Chi non ha letto le pagine di Stendhal in cui Julien stringe per la prima volta, protetto dalle foglie del tiglio agitate dal leggero vento notturno, le mani della donna desiderata, avrà perduto una delle poche occasioni per capire cos’è il desiderio. E chi non ricorderà quella pagina quando l’occasione della vita gli presenterà lo stimolo e il fremito della carne, avrà letto invano quelle pagine e forse ricevuto invano qualsiasi altra lezione sulla natura umana. Allo stesso modo, gli resterebbero muti l’incontro di Priamo e Achille nell’Iliade e l’apprendimento della morte in uno dei Saggi più belli di Montaigne. E lo scandalo della lettura sarebbe per lui passato inutilmente. La registrazione cronologica degli avvenimenti di una vita si manterrebbe così a debita distanza da qualsiasi guizzo di vitalità, e questa potrebbe essere una ricetta per sopravvivere e, alla lunga, inavvertitamente morire.

La banalità della lettura può attribuirsi a colpa degli scrittori, al loro amore per il successo e il denaro. Il mercato commerciale del libro produce il paperback usa e getta, questo riduce la lettura al livello del quotidiano. Il contenuto prima di tutto. Vogliamo sapere come va a finire. Non facciamo che ci fate pensare troppo? Così ci siamo ingaglioffiti tutti. Adesso assistiamo alla processione dei simboli riflessi, cui non possiamo porre rimedio. La spigliata politica di produzione e consumo obbliga a scrivere poche pagine, e a leggerne di meno, sempre dietro il filtro della pubblicità redazionale, svergognatamente definita recensione. Ma questo per la crema della lettura, per quel raro animale in via di estinzione che con uno slancio di desiderio continuiamo a chiamare lettore. Poiché anche nel campo del paperback, riguardo la lingua italiana, siamo lontanissimi dai livelli produttivi dell’inglese, tanto per fare un esempio. E qui, in mancanza d’altro, il raffronto quantitativo s’impone.

Le necessità del controllo dissuadono dalla lettura, favorendo la superficialità dell’impressione, dell’approssimazione, insomma di quella capacità duttile e flessibile che adegua l’individuo a conoscere sempre di meno ma a risultare sempre più in grado di avere risposte idonee di fronte a situazioni ben precise, in genere codificabili a priori, sia pure per grandi linee.

Con le dovute eccezioni, un controllo attraverso la lettura è più difficile di uno tramite la musica, le arti visive e la televisione in particolare. Educando e strutturando la domanda di un certo prodotto, si può anche ridurre la pericolosità del libro, ma non la si può eliminare del tutto. Può anche darsi che la scomparsa della parola stampata si accompagni a una definitiva separazione degli esclusi. La compagnia di un breve scritto, poco impegnativo, distrae. La frequentazione di una grande opera, tiene occupati. Certo, non garantisce nessun risultato positivo, non mette niente a disposizione che sia facile raccogliere con un gesto e portare via, ma apre grandi possibilità non sempre accessibili in altro modo.

Non c’è dubbio però che la riflessione, per sua natura, provvede alla razionalizzazione della vita, quindi a una categorizzazione che spesso risente di quanto si è andato accumulando nella cultura che i libri persistono qualche volta a mummificare. Ma c’è anche da dire che una possibile apertura sostitutiva, una diversità, nasce nel medesimo territorio, in quelle zone amplissime della cosiddetta sapienza dimenticata, nascosta da quell’accumulazione che la polvere delle biblioteche ha provocato. La vita è altrove, questa è la prima affermazione che viene in mente, ed è vero, ma può anche essere uno scongiuro per non assumersi responsabilità, per rinunciare a strumenti che una volta posseduti non ci consentono più di sottrarci all’azione. E può anche essere di no, molto più semplicemente forse può essere che bastano i muscoli e quel poco di cognizioni che riusciamo a raccattare qui e là, prestando una superficiale attenzione a quello che procura il potere. L’attore che recita la sua parte conosce questa incertezza, questa paura. Forse è questa veste che conviene indossare. Dopo tutto non sappiamo se veramente questa vita sia un sogno. Ci sentiamo trascinati da un flusso incomprensibile, cui bisogna bene o male dare un nome, e nominandolo crearlo a immagine delle nostre possibilità e delle nostre abitudini, se non dei nostri desideri. Nessuno si sottrae a questo fiume che tutti ci porta via. La lettura non facilita direttamente la vita, spesso l’ostacola pesantemente. Anche nell’ipotesi della razionalizzazione, che poi è la più sicura, costruisce un catalogo nominalista, una identificazione estraniante, una fede oggettuale. Tutto ciò a volte si paga in maggiore desiderio di concretezza, in un terribile bisogno di arrivare alle conclusioni, perfino in pedanteria.

E siamo stati pedanti. In passato abbiamo spesso voluto presumere nel lettore un adeguamento di contenuti che non era reale. Da qui l’ipotesi di un semplice complemento a quei contenuti, telegrafica trasmissione di altri contenuti, a loro volta resi indifferenti alle condizione esplicative. La teoria, dichiarata presente, come lo spirito oggettivo, veniva in questo modo considerata superflua. Nessuno ormai si ricorda dove sia andata a finire. Svalutata la funzione, anche lo strumento doveva inaridirsi.

L’artificialità di tanti suggerimenti, la legnosità di tante articolazioni pratiche, non sono state alternative all’accademia, il più delle volte ne hanno rappresentato la semplice decomposizione. L’estraniamento dei comunicati si trasferiva, fornendo linfa mortale, nei testi interpretativi, prospettati alla storia. Come mai non si sono avuti né romanzi, né poesie degni di questo nome, ma solo intrecci avventurosi di bassa lega sociologica? Una risposta ovvia sarebbe quella che non c’è produzione artisticamente significativa se tutto viene filtrato attraverso l’ottica populista. Con il volere attingere direttamente alla radice del male, mostrandone il funzionamento in maniera scoperta, si uccide il contenuto stesso, violentato nella rarefazione dell’atmosfera politicizzata, dove ogni causa appare nella nettezza brutale della plausibilità. Le didascalie impediscono una vera e propria fruizione, imponendosi come unica alternativa possibile, come occhio vigile dell’autore che richiama all’ortodossia prima di tutto, costringendo il lettore ad adeguarsi, sotto pena di futilità e perbenismo.

Così abbiamo costruito legioni di indifferenti. Sostanzialmente d’accordo con le tesi esposte, ma indifferenti a un reale approfondimento, il quale non può non passare anche attraverso una rimessa in questione del modo di espressione e del contesto in cui questo si realizza. Siamo stati capaci di fornire un ritmo diverso della vicenda? L’indignazione morale era il massimo dell’intensità retorica che i più provveduti cercavano coscientemente di ottenere. In altri casi, anche quando le tesi di fondo reggevano, mancava loro un riferimento anti-naturalistico, quel gioco opportuno in grado di fare uscire l’evidenza dal discorso indiretto, quell’abilità nel saper far parlare gli attori del dramma e non solo l’autore, evitando quindi una pesantezza gessosa che ha finito per farci complici di un rigetto programmato nelle stanze del potere. Non abbiamo saputo far venire avanti i meccanismi dello sfruttamento e della violenza statale, ne abbiamo solo parlato, anche a lungo, e ci siamo impantanati in una massa di dati.

Le rovine fra cui scrivo sono prodotte principalmente da questa coscienza nuova, che sento svilupparsi dentro di me, coscienza che la gestione della cultura nelle mani solidissime del potere è collaborazione al terrore e alla morte. Come può uno strumento che sembrava essere la strada verso la libertà, diventare strumento e giustificazione della barbarie? La cosa è possibile perché la barbarie è fra di noi, non sta alle nostre spalle, non appartiene ai sotterranei dell’Inquisizione, ma vive con noi. Belsen non è un ricordo, un monumento e qualche fotografia. È un’esperienza sempre rinnovata, anche nella terra di coloro che vennero messi dentro i forni. La cultura non cancella, anzi esalta la barbarie, la raffina, la rende logica e razionale.

Come continuare a scrivere libri in queste condizioni?

Il misterioso universo culturale che ci sta di fronte non può più essere attaccato con strumenti positivisti. Le più evidenti inutilità vanno quindi mantenute, non soppresse in nome di una superiore armonia razionale. Ciò lascia la parola scritta, e non solo questa, ma qualsiasi opera dell’uomo, senza sviluppo orientato, afflitta da contraddizioni, ma proprio per questo in grado di contrastare la strada alla storia del potere, da cui emerge, come un frutto polposo, la cultura dominante, strumento e prodotto nello stesso tempo, causa ed effetto. Ma l’uomo è anche questa cosa qui, questa oscenità storica, questa produzione del potere che bisogna scrostare, liberare, e ciò non può essere fatto che traendo alla superficie tutto quello che sta sotto, simulacro compreso. La via della ragione non è praticabile come una strada maestra, conosciuta da tutti. Il potere ne ha sviluppato le estreme conseguenze, piantando dovunque il suo contrassegno. Adesso non possiamo ripercorrerla se non accettando la ratio degli altri, di coloro che gestiscono la verità. Ma noi che siamo prima di tutto distruttori, finiamo per essere in cattiva compagnia.

L’istinto rivoluzionario di pulizia, la distruzione innanzi tutto, è certo componente essenziale dell’azione trasformativa della realtà, ma non può considerarsi, di per sé, custode e portatore della verità. La realtà è sempre più complessa di come la si riesce a pensare, e ciò vale per qualsiasi condizione ipotizzabile, non solo per lo sfruttamento. Ribellandosi a quest’ultimo, si deve avere intuito e colpo d’occhio per ribellarsi anche alla obiettivazione riduttiva che ogni espropriatore tende a mettersi in tasca.

La realtà è sempre avvolta in veli che dobbiamo scoprire, interpretare, squarciare, ma non possiamo considerare questo compito come un elenco soddisfacente e completo di cose da fare. La cultura gestisce questi veli, naturalmente per conto del potere, ma il rapporto non si chiude lì, non c’è un territorio separato, almeno non fino a oggi e non in modo netto. La nostra vita abita due luoghi che possiamo ancora unificare, solo che ci devono apparire se non altro come tracce. La riappropriazione è processo molteplice. Farlo coincidere con una semplice riduzione all’evidente mi sembra pericoloso, perché estremamente semplice. L’evidenza è la condizione a più alto contenuto ideologico, basti pensare alla pubblicità, al linguaggio dei giornali sportivi, al turpiloquio del ghetto.

Ma per cogliere l’esistenza del velo, della copertura, si deve essere coscienti del possibile strumento culturale che li realizza. Se non si è se stessi velo, non si può svelare l’altro, perché non se ne ha nemmeno cognizione elementare. L’ipotesi della copertura è qualcosa di più del semplice argomentare teorico, è creazione pratica capace di distanziarsi da ogni contingenza ideologica, condizione ineliminabile per rimuovere veramente quel velo. Ogni via diretta è ancora una volta ripresentazione del divieto, assunzione e giustificazione.

L’unico modo di parlare della tortura, due secoli dopo Beccaria e Voltaire, per chi è stato torturato, è quello di evitare il discorso diretto. Solo che il sospetto sulle capacità progressive dell’uomo emerge continuamente, riportando davanti agli occhi il gelido mestiere dei torturatori, la loro spassionata professionalità, e questo finisce per gettare un sospetto sulle possibilità stesse della cultura di sconfiggere la barbarie. Perfino potrebbe affacciarsi l’atroce idea di una collaborazione tra cultura e barbarie in nome della comune matrice ragionevole. Niente fino a questo momento garantisce l’infondatezza di quest’ultima inquietante ipotesi.

È tempo quindi che cessi l’illusione che ci siamo costruiti intorno al libro e alla sua funzione. È tempo che, se lo scrivere vuol farsi strumento dell’agire, si vada incontro ad altre soluzioni.

Ma quali?

Un libro, una volta pubblicato, cammina sospinto di vita propria, habent sua fata libelli, e sarebbe bene non dimenticare: pro captu lectoris. Proprio quello che adesso ci pare necessario rimettere in discussione.

Bisogna quindi costruire libri che tali non sono, oppure che lo sono solo in via provvisoria. Una sorta di work in progress, un’occasione di intervento e non solo di riflessione, di intervento attivo, capace di modificare il testo stesso, di riprendere dalle mani dell’autore il filo del discorso per continuarlo, non solo per ascoltarlo.

I libri che proponiamo sono quindi vere e proprie prove di stampa, mantenendosi incompleti e provvisori. Non possono andarsene in giro con una loro proposta conchiusa, sigillata nella formula sacramentale dell’arte tipografica. Nulla di quanto è contenuto in queste “prove” deve essere considerato definitivo. Un’occasione non è certezza, una possibilità può svilupparsi e fiorire su sentieri imprevedibili, ma può anche soffocare nell’inattività, nel rifiuto. Abituati al silenzio religioso delle loro stanze, legioni di lettori devono rendersi conto che qualcosa sta cambiando, che il mondo viaggia più velocemente del sottile fascino della parola scritta che arriva a loro attraverso il libro.

Ecco perché su queste nostre prove di stampa suggeriamo al lettore di scrivere, di annotare tutte le riflessioni che vengono in mente, di progettare ricerche e sperimentazioni, connessioni e ripensamenti. La nostra speranza è che in questo modo il testo possa rivivere in collaborazione con il lettore, costruendo, di volta in volta, decine di libri diversi, capaci di modificarsi nel tempo, capaci di adeguarsi al cangiar dell’umore e delle esperienze.

Per questo motivo e nella pretesa forse infondata di contribuire a mettere in moto il volano dell’altrui interesse, inserisco aggiornamenti dei testi, precisazioni destinate a meglio collocarli nel contesto teorico e pratico in cui vennero redatti, progetti personali di ulteriori letture, ricerche, valutazioni. Mi rendo conto che questa parte aggiuntiva potrebbe essere vista come un tentativo di prevedere le possibili reazioni attive dei lettori, e prevedendole, sostituirle, sigillando ancora una volta, in maniera indiretta, l’univocità del libro, sia pure mascherata sotto la forma della provvisorietà. Ma l’avere qui messo in luce questo pericolo, che comunque esiste in ogni caso, anche quando ci si limiti a lasciare i testi da soli a galleggiare nel loro antico brodo, penso possa ridurre le sue conseguenze.

Il tentativo che qui si cerca di realizzare è quello di invertire i ruoli del testo, inteso quest’ultimo come coagulazione della parola scritta in irrimediabili modi definitivi. E con questa inversione, articolare quei ruoli in convergenze di significati, non più intenzioni programmatiche, confini e territori da difendere. Il lettore non può venire a capo di queste rappresentazioni se non trasportando se stesso nel movimento che le riassume, convertendole in possibilità molteplici, quindi incontrollabili fino in fondo. Ma immaginare questa eventualità attiva come compito del lettore, significa portarlo con noi da questa parte del lavoro in corso, in modo che anch’egli possa partecipare all’impossibile completamento.

Così, potremo essere in tanti a gettare in mare il messaggio nella bottiglia.


[Opuscolo (stampato su carta gialla) allegato a Alfredo M. Bonanno, Anarchismo e società post-industriale, Catania 1993, pubblicato anche in Alfredo M. Bonanno, Palestina, mon amour, terza ed., Trieste 2007, pp. 190-208]

Annotazioni di Amfissa

Ho tante volte letto e riletto, negli ultimi sessant’anni, il libro essenziale di Machiavelli che sopra tutti gli altri mostra come egli non sapesse fare bene i suoi conti. I conti della serva sono tutte le volte al di qua o al di là di un uomo del genere.

Alleanze a progetti organizzativi, pratiche politiche e sotterfugi di cancellerie gli erano congeniali, essendo il suo pane quotidiano, ma l’uomo era oltre, abitava in cuore suo un altro territorio, non quello del sogno o dell’utopia, non quello dei sentimenti, della personale amicizia o inimicizia, della vita insomma.

E nel mettere mano al libro maledetto la sua convinzione è una, la necessità della forza, nella malignità politica e nella dabbenaggine dei più solo la forza può opporre, se non un rimedio, almeno un freno temporaneo per trovare altre soluzioni. Farsi pecore impreparate e matte è consegnarsi al nemico. Alla fine nemmeno un ordine militare nuovo, fondato su cittadini consapevoli e non su prezzolati mercenari, sembrava accontentarlo.

In questa coscienza amaramente realistica stanno i massacri che i suoi occhi avevano visto, il dolore e la morte padroni non solo di Firenze ma di tutta l’Italia, la disfatta di Venezia, la ferocia del papato.

Un fantoccio gli viene tra le mani, anzi due fantocci: Cesare Borgia e il suo boia, don Micheletto. Li studia e li usa, di quest’ultimo, lordo di sangue e di nefandezze, ne sollecita l’assunzione nella milizia fiorentina, come una sorta di spauracchio per fare paura a coloro che mettevano paura. Ma l’uomo Machiavelli e il suo piccolo, micidiale libro, sono al di qua, stanno rintanati nell’amarezza di lotte sistematicamente portate alla sconfitta. Sconfitta propria, non quella altrui e perfino della città simbolo del suo teorizzare politico, la sua Firenze. È la sconfitta propria il tema implicito del libro, nessuna guida alla ribalderia tirannica, o a un supposto nuovo principe collettivo capace di guidare il popolo ai suoi migliori destini.

La sconfitta arriva quasi senza accorgertene, anche se l’hai perseguita per tutto il tuo operare, alla fine nel vederla nei panni suoi, presentarsi quasi con naturalezza e cortesia, ti scuote nel midollo delle ossa. È un incontro che stenti a riconoscere e reagisci quasi pretendendo una sorta di clandestinità logica, un chiamarti fuori, mentre è proprio quello che volevi da tempo e che da tempo costruivi. Machiavelli tesse nel suo piccolo libro il fluido essenziale dell’epoca che gli appartiene, la ferocia bruta della forza, respira l’aria che i suoi contemporanei respiravano, impura e nebbiosa, e ce la fa respirare. Non so se avesse veramente voglie manualistiche, i suoi lettori – e sono legione – l’hanno avute e continuano ad averle. Credo invece che ci fosse in lui la fredda determinazione filosofica di aprire il cuore dell’uomo per mettervi a nudo se non proprio il boia Micheletto, almeno il suo padrone. Il fatto è che in questo cuore, nel vostro come nel mio, albergano distese sterminate pullulanti di fantasmi ordinati ed effimeri. La visione della perdita nella prospettiva della rammemorazione è difficilmente cicatrizzabile, rimane comunque una lacerazione che tutte le spiegazioni riguardo al vero significato delle illusioni non possono modificare. L’azione spiegata non è l’azione agita, ciò, che può sembrare banale, è carico di conseguenze e di ferite nella immediatezza, più di quello che si possa immaginare.

Machiavelli è l’immediato fattivo, entra nelle cose, non se ne tiene lontano, non si mette in salvo. Se avesse parlato in nome di una teologia o di una ideologia qualsiasi, sarebbe stato un noioso precettista, non avrebbe detto nulla, sarebbe finito ormai nella polvere della storia morta, dove giacciono una a fianco all’altra tante buone intenzioni. Ma non è delle buone intenzioni che abbiamo bisogno. Migliaia di libri sono stati scritti partendo dalla bontà dell’uomo, ora pascolano allo stato brado nelle praterie del nulla. Quel libretto è invece ancora là, e con esso continuiamo a fare i conti perché possiede il miracolo della immediatezza, ci parla ancora in maniera integra dell’orrore e della morte, ma anche dei colpi mancini della fortuna che possono azzerare la forza sino a rinchiuderla in catene in una qualsiasi prigione spagnola. Ho vissuto gli orrori di un palazzo simile, piccolo e nascosto, essi sono conosciuti, sia pure da pochi addetti ai lavori. Non è un segreto. Ogni abitante stritola e viene stritolato, servitù e paura. Orrore. Per molti sopravvivere non ha senso, nessuna implorazione ha spazio, né viene espressa. La mano delle tenebre finisce per seppellire palazzo e abitanti. La vergogna resta, ma dei sopraffattori ormai non c’è traccia. Passeggiando nei dintorni, qualche giorno fa [2010], mi era sembrato di riconoscerne uno, ma devo essermi sbagliato. I fantasmi non esistono. Salvarsi, cercare di salvarsi davanti a un pericolo è un ottimo sistema per aumentare i rischi.

L’implicito riferimento che circola continuamente nei capitoli del libretto di Machiavelli può essere colto e anche perduto, molti lettori hanno vissuto queste alternanze, infatuazioni e disillusioni, per poi, a volte in maniera improvvisa, riaffiorare con dolorosa sensazione di malessere. Può essere che in ognuno di noi ci sia un assassino? Non è possibile, è certo. Possiamo tenerlo a bada, educarlo al rispetto degli altri, di alcuni altri, non di tutti gli altri, ma la violenza è sempre là, non la si può esorcizzare col ricorso a un ideale pacifista o naturalisticamente buono. Non appena ci imbattiamo in uno sproloquio del genere, ecco dolorose e repentine ricomparire le parole di Machiavelli, e con le sue parole il quadro intatto dei massacri che costellano la storia dell’uomo.

Certo, l’amore è là e regge il mondo, gli soffia nel meccanismo biologico e lo sollecita ad andare avanti, ma non appena sorgono gli interessi dei pochi a contrapporsi agli interessi dei molti, il libretto di Machiavelli torna a farsi avanti.

Non sto parlando spinto dall’immaginazione febbricitante di qualche imbecille reazionario, parlo da amante della libertà, e come portatore di libertà sono andato nei cimiteri e ho visto i morti e i moribondi, le crudeltà inanellate con passione, direi quasi con arte, ho visto la miseria immensa dell’uomo rintoccare con la solita campana dell’irrimediabilmente di già compiuto. Il pigolio di un passero sembra a volte un miracolo e la sua abilità a volare fra il filo spinato continua a sbalordirmi, ma la foresta umana porta corpi appesi ai rami, impiccati, squartati, stuprati. Le buone parole sono solo quelle che in frettolose preghiere meccanicamente gli stessi massacratori recitano, per passare in fretta al prossimo massacro.

Machiavelli non è un suggeritore, è un provocatore. Non alleggerisce, appesantisce. Non illude, disillude. Certo, non parla per orecchie ovattate, per cervelli ottusi, eppure dice la parola giusta al momento opportuno, cioè quando uno meno se lo aspetta. Per una umanità attardata su filastrocche confortanti, è un impatto troppo forte, le sue parole non sono sufficienti a sollevarla dalla desolazione – ma quali parole lo sono? – però costituiscono lo stesso una sfida beffarda che continua a sciamare da quelle poche pagine. La conclusione è sempre rinviata, non è un libro che fornisce una tesi e conclude con una soluzione, è una colluttazione, un corpo a corpo.

Il movimento Machiavelli continua a sgorgare vivo da quelle pagine, non è possibile dichiararlo esaurito una volta per tutte. Ne veniamo investiti e a volte siamo quasi certi di riuscire a dominarlo, cioè a farcene una ragione di quelle tesi che scavano dentro il nostro buon senso e perfino dentro le nostre speranze progressive di un futuro migliore. Poi, aprendo il giornale, ogni mattina, ci accorgiamo di esserci sbagliati. Le nostre illusioni si ridimensionano e si imbrogliano, anzi sprofondano nel nulla. Così, restando sorpresi di noi stessi, facciamo l’esperienza del male, questa condizione umana, e dobbiamo essergli grati di averci permesso a buon mercato questa esperienza che, in altre condizioni, poteva costarci cara.

A volte il passo è perfino contraddittorio, e tale appare a una lettura sprovveduta, come nel caso della malattia di Cesare Borgia, ma si tratta di entrare dentro le motivazioni essenziali, e qui, nel caso in specie, è della fortuna che si parla, della fortuna che si vendica, riassunta nella evenienza della malattia. Eppure il messaggio è puntuale. Nemmeno l’estrema crudeltà è in effetti estrema, c’è sempre qualcosa di più estremo, cioè il caso o, per meglio dire, il caos che caratterizza le umane vicende.

E mai queste vicende sono tanto crudeli quanto appaiono nella contorta e deambulante illusione politica. Machiavelli lo sa e lo ricorda nei Capitoli “ciascun fuggir le corti e stati debbe”, che è ben strana e contorta considerazione per un uomo che frequentazioni ebbe, e continue, con i maggiori del suo tempo, governanti e massacratori compresi. Ma era fatto così, quest’uomo che rabbrividiva a Verona di fronte agli orrori della guerra vera e propria e poi non si peritava di accettare l’uso programmatico di don Micheletto. Separare non è possibile il flusso umorale che attraversa tutta la sua opera, non solo il libretto, che tanta brava gente ha fatto fremere, dal valore filosofico e metodologico delle sue riflessioni, a volte improvvise – qua e là – sempre taglienti, lame di coltello che penetrano e slanci e analogie impensabili, rischiosi e a volte perfino contraddittoriamente capovolti, per il semplice piacere dello scrivere e, perché no, dell’aggirarsi confuso (apparentemente, ma non troppo) e incerto, in attesa della metamorfosi decisiva. Ci sono riflessioni che si attardano nella crudezza dei tempi e degli uomini, meditate fino in fondo e poi subitamente messe via, come se nello stesso sbarazzarsene ci fosse una conclusione ancora più profonda e umorale di quelle prime mosse abbandonate a se stesse. Scrive Cioran: “Fallire è un desiderio riuscito”. L’agente passivo insito nella produttività dà vita a una sorta di autosservazione degli scopi, del tutto infondata, almeno riguardo alla corrispondenza dei protocolli. Lo sforzo del fare si divide tra sollecitazione all’accumulo e resistenza alle conseguenze di inglobazione. Del resto, la pratica liberatoria dell’inganno e dei camminamenti labirintici non è solo dilatoria ma intende porre un freno vero e proprio nei riguardi degli automatismi fattivi.

Le vicende della fortuna, che poi è malignità degli uomini e non più cattivo volere degli dèi, sono aperte in sequenze disordinate di immagini, che si contrappongono alle misure ordinate degli uomini, con le quali questi ultimi si illudono a quelle di porre valido riparo. I momenti della vita di grandi uomini sono ondeggiamenti di fili d’erba in balia del vento, mentre la logica muta dello scorrere del tempo azzera e ricompone in nuovi mosaici l’eterno e medesimo gioco del caos.

Ecco perché in Machiavelli non ci sono dimostrazioni, o premesse e conclusioni logicamente legate assieme in maniera indissolubile. La sua parola si muove grazie a una spinta endogena alle cose di cui parla, non alla corrispondenza fra ciò che è e ciò di cui egli insiste a parlare. Non ci sono soste in questo flusso, non si ammettono riprove, ripensamenti sì, contraddizioni e strane scoperte fatte per caso (o così sembra) e lasciate lì, a luccicare al sole. Quest’uomo aveva fretta, scrivendo per sé non sospettava di scrivere per tutti, muoveva il mondo che lo attorniava staccando il putridume politico da quello morale e dichiarandoli entrambi infondati, ma ridendo dentro di sé di ogni tentativo di fondare questi due letamai in maniera incontrovertibile.

Il pupazzo Cesare Borgia è simile al teschio che i padri della Chiesa tenevano sul tavolo dove scrivevano i loro poderosi tomi per ricordarsi, prima di ogni cosa, della insensatezza del proprio lavoro. L’intreccio con il massacratore e il suo boia è stupefacente di per sé, mai furono accoppiati macellai di simile lordura, e Machiavelli siede in mezzo a questi due, entra nelle loro vicende e ne esce non per esperienza retorica ma per la naturale via delle cose. Gli accadimenti si accavallano alle riflessioni, e queste a quelli. Si entra in un progetto di assassinio e si esce con un massacro in piena regola. Le vicende umane sono altro? Forse. Ma il procedere bieco e frastagliato della vita umana nei suoi rapporti collettivi è forse qualcosa di diverso? Ci sono digressioni tenere tra un assassinio e un altro ma non costituiscono da sole un ritmo rassicurante, non acconsentono a divagazioni pedagogiche, almeno fin quando il fatto stesso del vivere insieme non sarà stato cambiato. E chi darà il via a questa interruzione e all’inizio del vivere comune basato su regole fraterne, prive di violenza e di dominio? Machiavelli non lo sa e non se ne cura. Il progetto italiano – qualsiasi cosa ne pensino gli esegeti in carica – è risibile utopia, in ogni caso legata sempre alla forza, all’organizzazione di una forza militare prima di tutto, una forza non necessaria. Noi, che su questo punto, se non altro per motivi temporali, ne sappiamo più di lui, non vi vediamo che una mutazione dei procedimenti di massacro. Un boia entra, uno esce. La storia è sempre quella. Voglio dire che Machiavelli non è mai paradossale, non gli occorre esserlo. Ancora Cioran: “Il nemico è quello che mi somiglia di più”. Il saluto sull’apertura è uno dei punti più difficili da cogliere, non ancora oltrepassamento non è più immediatezza, eppure queste contrapposizioni sono troppo radicali in quanto il coinvolgimento comincia prima nel fare, non si è ancora liberato dal fare, ed è in parte elemento dell’agire, cioè consolida la puntualità dell’azione. Conosco il fare, rammemoro l’agire, non conosco né rammemoro in modo adeguato il saluto, il passaggio tra le due coscienze. Come mi porto dietro qualcosa? In che modo ne faccio a meno? Domande ancora con risposte non del tutto soddisfacenti. Il saluto è una esperienza transizionale di già privata di spazio. La soglia si configura fisicamente come apertura e posso agghindarla con le maschere delle mie intuizioni più complesse, ma non è più uno spazio vero e proprio a causa del suo carattere paradossale. La vitalità dell’azione non è ancora ravvivata dalla qualità e il ricordo del possesso come unica esperienza possibile è troppo vicino per non bloccare il contatto di già in corso col territorio della realtà. Alla fine, se non propriamente nel salto, evento traumatico quasi sempre troppo eccessivo e abbastanza raro, a intervenire è uno stacco deciso, un violento passaggio coinvolgente fornito non solo da un carattere paradossale ma anche creativo. È questa diversità che contrassegnerà la condizione attiva.

È nella natura dell’uomo essere tanto pernicioso a sé e agli altri? Machiavelli non se ne cura più di tanto, non è di un credo qualsiasi che va in cerca, guarda quello che gli sta davanti e lo commisura con i tempi andati e vi scopre parallelismi e differenze, non apparizione di un nuovo movimento di liberazione dalla schiavitù che costringe a uccidere e ad essere uccisi. L’ironia e il cinismo sono armi terribili se bene impiegate e Machiavelli sa come usare la prima per parlare del secondo, e non è certo parco di capacità per vedere bene e cinicamente come conciare per le feste le pietose debolezze degli uomini.

Collegare, e quindi restringere il libretto malefico di cui ci occupiamo alle vicende della casa medicea in quel di Firenze, o a Roma, è operazione storiografica pertinente anche se resta miope. L’ariosa ansia di questo inestricabile scritto vuole tutt’altra attenzione di lettura, e altri lettori cerca, proiettato, forse malgrado il suo autore, nei secoli avvenire. Impertinente e spregiudicato lui, l’autore, come di chi ne ha di troppo delle incombenze d’ufficio e non vuole di certo annoiarsi fra le proprie poco sudate carte. Egli ha fretta, si è detto, e non lo nasconde, anzi lo sottolinea, e proprio qui, in queste forti pagine maledette, non lo preoccupa nemmeno l’alto impegno dell’analogia, del paragone colto e adunato intorno alle cose come sostegno e salvaguardia. Qui l’assimilazione dei fatti è immediata e non sottoposta al fastidioso tedio della costruzione metodologicamente corretta del trattato di teoria politica, come se ne vedranno molti nei secoli a venire, sui quali però è calata silenziosamente la polvere del tempo. La fretta di Machiavelli è dovuta all’ansia di fare presto di fronte al periglioso evolversi, e fortunoso, degli accadimenti. Non ha tempo da perdere chi ama il proprio tempo personale e di questo ne fa il quadro pubblico di un tempo collettivo. Assimilazione diretta e immediata per passione, non per necessità o dovere d’ufficio. Questa simbiosi tra uomo d’azione e filosofo è fatto raro e posso documentarlo personalmente avendo scritto la maggior parte delle mie pagine seduto su di una pietra puntuta. Non dico nulla delle condizioni in cui scrivo la presente pagina, potrebbero sembrare impossibili, invenzione di un vecchio pietoso di sé e delle proprie piaghe.

Andiamo oltre.

Lo stile è di Machiavelli, è l’uomo Machiavelli tutto per intero. È uno dei rari casi in cui non è materialmente possibile ricostruire un percorso di prestiti o saccheggi. L’occhio di tanti scrittori politici (o storici, che all’epoca era più plausibile definizione) guarda la superficie delle cose, quello di Machiavelli scende con rapidità nei tratti inconfondibili di connessioni e cause, effetti e stacchi prepotenti o distinzioni inavvertite e per questo motivo inarrestabili. Questo modo di scrutare con occhio svelto e attento, disilluso, le cose, non rende conto delle minuzie, attacca i fili più importanti con rapidità e non indietreggia mai, quali che siano le conseguenze a cui arriva. Non è la logica, in qualsiasi maniera scientifica, che glielo impedisce, ma è il suo essere uomo, il suo modo di essere uomo, uomo Machiavelli non filosofo Machiavelli che tesse con comodo la sua rete di cause ed effetti. Risibile e povera cosa sarebbe allora stato questo libretto. Tale modo di essere il proprio verbo, di dire quello che si è parlando delle cose e degli uomini, ha qualcosa di terribile e fosco, non alletta ma serve più frequentemente a creare nemici. L’occhio dell’imbecille è sempre acquoso e indirizzato verso terra, non può accettare un vivido bagliore, anche se passeggero, la sua visione deforme è perfettamente adeguata alla propria imbecillità.

Machiavelli non commette questo errore pur sposando la tesi della stretta corrispondenza con le cose. Il riflesso empatico derivato dall’intuizione segna profondamente il contraddittorio mondo del fare, entra, ogni singolo movimento intuitivo, nei recessi più remoti e interstiziali dell’accumulo e mette a repentaglio connessioni e corrispondenze dapprima considerate al sicuro dal punto di vista protocollare. Niente altro si muove con questa capacità compenetrativa, nemmeno la stessa rammemorazione, anche se i due movimenti, come quello diretto alla costruzione dei camminamenti, finiscono necessariamente per incontrarsi. In ognuno di questi incontri o intersecazioni il fare segna una condizione di disagio in cui accumula l’inquietudine. Sullo sfondo la paura di non riuscire non solo nella completezza, che qualsiasi fare metabolizza in breve tempo, ma di sublimare alcuni motivi mitici in una organizzata, e ridicola, parodia religiosa allo scopo di sostituire la completezza con una rielaborazione dei piani conoscitivi, divisi in questo modo tra spirituale e positivo. Non si può parlare di scarsa considerazione dell’accumulo come luogo della conoscenza. Questo rimane sempre un punto di riferimento costante, anche se la validità delle corrispondenze che lo reggono deve essere ogni volta criticamente revocata in dubbio. Di fronte a una pretesa crescita monolitica lineare, contrappongo un dissidio permanente in grado di penetrare, conoscendoli fino in fondo, negli interstizi che la superficialità della codificazione culturale non vede.

Ebbene, di questi dettagli, che tanto hanno angustiato la mia vita e continuano a farlo nei miei tardi giorni, Machiavelli non si cura. Sono per lui fastidi passeggeri a paragone di quelli derivatigli dall’idiozia dei grandi, che pure sfiora e con i quali ha commercio. Nel libretto principesco avanza con brio, con il taglio dell’uomo “di basso stato” come sentiva di essere, conscio della propria forza di pensiero. Affronta problemi che fanno tremare le vene e i polsi e che hanno intralciato tutta la speculazione filosofica e politica successiva, e non se ne cura, brio e leggerezza di tono che non arretrano neanche davanti all’ignominia palese. Il gesto dell’azione mi lascia stupito, mi libera dell’affollato isolamento del fare e mi proietta nella condizione diversa dell’agire. Non posso nemmeno balbettare, della grande familiarità con la parola, adesso il silenzio si è assiso accanto a me e ascolta la nuova morsa che ci sigilla insieme, siamo nel territorio della realtà e la mia puntualità non è altro che l’azione, l’attacco contro il nemico. È questa assenza di sollecitazioni all’accumulo che mi fa nascere a vita diversa, che dilata la mia coscienza proprio nell’estremo livello della concrescenza, della compenetrazione, della interpretazione. Lo spazio è remoto, anche nel senso di Erwin Straus. L’azione non mi contiene, non è uno spazio contenitore, non è una scatola, e non è altro se non la somma non quantitativa delle mie risorse conoscitive messe in atto. Questa è una somma molto strana che non accetta divisioni o spartizioni relazionali. Gelosa della propria puntualità è con l’uno che è che si confronta, accettandone la voce e il volto, misteriosi entrambi e remoti, viventi senza modi di essere o modulazioni riscontrabili qui e ora e non più dopo e oltre. Se questo è un delirio bisogna che io l’accetti, è in nome di questo delirio che ho fatto tesoro delle mie accorte accumulazioni, che ho soggiornato così a lungo nei pressi dell’archivio.

Nello scontro di fondo tra popolani e ottimati, il laico Machiavelli parteggia per i primi e parla così di un principe che da questi ultimi si guardi, fosse pure un principe teocratico che attorno a sé aduna baroni e cardinali. Altro, assolutamente altro, dei piagnoni savonaroliani, altre le sue parole, altre da quelle dettate dalla petulanza dei potenti. Non c’è in esse una promessa risolutiva, non l’indicazione di uno sbocco rivoluzionario affidato a un capopopolo di cui si avevano esperienze non certo positive, non il segno del sacrificio terreno – sul piano politico – per guadagnarsi la felicità in un paradisiaco altrove. Le sue parole grondano sangue ma non travalicano nel grottesco che ogni intellettuale corre il rischio di incontrare quando di buzzo e buono si mette a tagliare teste nei suoi scritti. Le sue parole fondano una tesi politica e sono immerse nella melma com’è giusto che sia, trattando di melma. Nessuna luce utopica, sarebbe stato un suicidio del libro e del suo autore. Riflettendo oggi su queste pagine antiche, il vuoto non mi fa paura, è il falso pieno del fare che mai si riempie che mi atterrisce, la vanga e la piccola pala del mio secchiello di latta con cui giocavo in riva al mare con Agostino. Le semplici relazioni dimenticate, che dormono ormai assuefatte sotto la persistente tensione del controllo protocollare, una volta risvegliate a nuova vita dall’appello dell’oltrepassamento, risveglio involontario perché non si presenta mai come un richiamo all’ordine, non sono semplici come appaiono nella confusione accorpata dell’accumulo. Al di là del loro frantumarsi in elementi di fondo, avvertiti ma non intesi completamente, c’è una sorta di accelerazione allucinatoria che mi porta a indirizzarmi verso la volontà con una presunzione alleggerita, con domande di accumulo che spesso risultano prive di senso. La risposta razionale a queste domande può perfino apparire ridicola, mentre, se ci faccio attenzione, può corrispondere perfettamente a una impalpabile intuizione altra, una segnaletica in ombra, per il momento del tutto indecifrabile.

Nella melma si agitano le figure della melma, e il popolo soffre conseguentemente delle azioni che da queste figure vengono realizzate. In Machiavelli non c’è nessuna concupiscenza della malvagità, egli è complice altrove, nella pratica di media levatura, nelle carte di segreteria, nei legati e nelle relazioni, ed è ben contento di questa complicità, che ha così modo di vedere da vicino la melma agitarsi e ribollire. Mai occhio di scrittore politico fu più avido del suo, registrava per ricordare e ricordava per riferire. A chi? Ai suoi committenti istituzionali? Certo, in piccola parte anche a quelli, ma prima di tutto a se stesso, nell’ininterrotto dialogo con se stesso. E qui, nel chiuso di un cerchio perfetto, non c’era che lui e il suo pensiero costante, come munire della forza necessaria un principe capace di liberare Firenze, prima di tutto, e poi il resto d’Italia, sottraendoli alle prepotenze degli ottimati, cioè dei suoi nemici personali e di classe.

Certo, c’è qualche spirito affine a cui confidare quel subbuglio che doveva esserci di continuo nella sua mente, ma sono pochi e non condividono questa visione caotica e globalmente riottosa nei riguardi di ogni ordine divino, scandalizzandosi o attribuendo lo stesso libretto malefico allo spirito bizzarro dell’autore e non alle sue intenzioni politiche, filosofiche in primo luogo. In ogni caso a isolarlo era ancora di più il suo rifiuto di un municipalismo a ogni costo, perché la sua italiana visione politica – che tanti petti tisici di idee ha fatto a lungo battere – era prima di tutto Firenze e Roma, forse al di là delle contingentali fortune medicee. E ciò è riflessione valida anche considerando i discepoli e gli amici degli Orti per altro con passato politico contrastante se non in termini di dominio, almeno di partito.

Riorganizzare la produzione dei fatti significa interiorizzarli, cioè introdurre nella coscienza immediata non solo meri fatti ma anche altri fatti che a quelli si aggiungono sotto forma di riflessioni. Questo permette una più idonea approssimazione critica alla fase interpretativa, da un lato, e dall’altro permette l’approfondimento della presenza coatta della volontà e delle conseguenze limitative che ne derivano. L’homo faber resta sempre avvolto nell’illusione di una possibile completezza, ma persegue più strade. L’incandescenza della compresenza attiva dell’uno che è e della mia puntualità, non è esprimibile. In sede rammemorativa la parola parla, e confusamente non determinatamente, dell’azione, non si sofferma mai in maniera intenzionale sulla compresenza citata. L’esasperazione e l’implacabilità dell’uno induriscono la concretezza della puntualità ma, nello stesso momento, la feriscono crudelmente, mi feriscono, nella immaginaria compattezza del mio corpo. Il trauma dell’oltrepassamento non merita immedesimazione, sono portato a lasciarmelo alle spalle. Saluto sul rogo dell’apertura, e via, non posso continuare a tastarmi con le mie dita incerte gli organi interni che nemmeno conosco e che se li vedessi mi farebbero ribrezzo.

In fondo Machiavelli era imprevedibile. Lancia un terribile strale contro il gonfaloniere Soderini morto, eppure era sotto di lui che aveva lavorato, portandosi dietro perfino l’assunzione del massacratore di professione Micheletto. Ma negli Orti, compagni e amici più giovani lo guardano come maestro, eppure è lui che, ormai in altri lavori impegnato, alacremente come sempre, considera sé e il proprio impegno teorico come di un altro pianeta. Il filo del suo tessere è sempre quello del libretto malefico, anche se l’argomento nei Discorsi si allarga o nelle Commedie divaga. Parte dalle cose, non da scorci o fantasmi appena intravisti da qualche parte, o semplicemente letti o sentiti in trasferimenti di riflessioni o pensieri altrui. L’occasione è sempre plasticamente presente, la si può vedere in azione e nel lettore, perfino in quello superficiale, facendo cogliere l’essenza del problema e dimenticare la miseria dell’oggetto che sfuma sul fondo. Perderebbe di vista la filosofia di Machiavelli chi dimenticasse, sia pure per un attimo, che il suo lavoro è mettere le cose al posto che loro compete, brutalmente a volte, cinicamente, sempre però tenendo conto che il tiranno va colpito con la mano di Bruto. Chi ha pensato a una scuola per tiranni futuri si è bendato gli occhi da se stesso, non ha voluto vedere né leggere bene. Non è un caso che l’antimachiavellismo nasce con Alamanni, discepolo e frequentatore degli Orti Oricellari.

Machiavelli è in fondo un ospite di questa accademia e ospite contraddittorio, opera una indiscussa influenza ma non se ne cura, va diritto per la sua strada, raccoglie consensi e allievi ma sa bene che tutto si basa su di un equivoco di fondo, nessuno è in grado di scrutare la sua molteplice prospettiva umana e filosofica. Monumentale contraddizione, la politica esige l’insignificanza della trattazione e la falsità dell’oggetto. Machiavelli invece lavora nella melma, e non c’è cosa più concreta se si riflette sulle conseguenze che la politica ha per tutti coloro che non hanno i mezzi per difendersi e contrattaccare. Gli ottimati, la classe dominante, in quella melma trova la fonte e la forza per continuare il proprio dominio. In questa faccenda da bassifondi, anzi da cloache, la fantasia è lo strumento peggiore, e gli scrittori politici, specie quelli che si reputano rivoluzionari, ne sono ricchi e ne abusano. Accedere alle variazioni fantastiche avrebbe avuto una conseguenza puerile e meschina, nella migliore ipotesi uno scadimento cronachistico, mentre il passo è quello del filosofo che disprezza la politica, anche se ci sono in circolazione molti animali ibridi che si definiscono filosofi politici. Non è il caso di Machiavelli. Nelle sue analisi, anche quelle terribili del malefico libretto, emana una luce che investe le cose senza deformarle, mettendole in condizione di essere comprese dal lettore, perfino da quello distratto, senza cavarle fuori dalla loro naturale oscurità che le caratterizza e le rende umane, elementi che costituiscono il mondo umano compresa la politica, niente escluso. Gli elementi di contrasto sono trattati con naturalezza fino ad apparire quasi inessenziali, poi improvvisamente appaiono le cause che quegli elementi hanno messo in moto, la fortuna cieca, madre del caos delle vicende umane, e la ferocia che delle umane cose è perenne compartecipe.

La puntualità stessa, nel suo concrescere di fronte all’uno che è, è abbagliante desolazione, riflessa dal territorio della realtà. Prima di tutto è silenzio, silenzio privo di accesso alla voce dell’uno. Ma è anche caduta a precipizio di quella regione del senso che aveva accompagnato il viaggio fino all’oltrepassamento. La nave è ormai in mare aperto e io vedo bene davanti ai miei occhi l’ondata gigantesca che sta per abbattersi su di me e ho piena in me la sensazione di non essere capace di farvi fronte. Ho alleggerito troppo la mia imbarcazione, mi dico, oppure l’ho alleggerita troppo poco? Non so. Non c’è salvezza per me se non rafforzando la velatura e indirizzandomi proprio verso questa spaventosa ondata. E questa ondata è l’uno che è. Io sono libero di fare e nello stesso tempo non sono libero. Tra queste oscillazioni l’inquietudine si insinua e mi rode il cuore, ogni oscillazione del pendolo mi sembra più vicina, più pericolosamente vicina, mentre sono sopraffatto dalla concretezza dei protocolli che mi controllano, guardiani della mia custodia coatta. La prospettiva di liberazione grazie al possesso della conoscenza è confusa, evanescente e a ogni atmosfera che si crea con le ulteriori acquisizioni, si intorbida sempre più. C’è alle soglie dell’apertura un passaggio stretto, una notte oscura, un profondo risucchio indietro, un assedio a qualcosa di impalpabile, una vergognosa impotenza che improvvisamente mi pietrifica. Quell’io così pieno e consistente, adesso è malinconicamente incerto, sia pure per un attimo, incertezza che resta componente residua del mio corpo. Non sono nella realtà e non sono nella immediatezza fattiva. Lo spezzarsi dell’unità temporale mi dà i brividi, ogni balenio delle desolazioni che mi attende, non ancora puntualità, è premonizione sigillata di lande aride ancora soltanto immaginate. La mia puntualità mi guarda dall’esterno, mentre il mio non essere ancora ciò da cui vengo guardato, mi proietta verso una fine incombente, la fine del mondo da me creato.

La monotona e tenebrosa condizione delle cose è racchiusa in questo loro essere caoticamente oscure, incomprensibili, indifendibili. Machiavelli vi penetra con un andamento apparentemente incerto, ma con affermazioni insopprimibili. Lontano dalla filosofia prima, aristotelicamente intesa, lo era sempre stato, come lontano era dal greco che amici suoi in carcere esercitavano a fondo. Filippo Strozzi traduceva Polibio e ne commentava i passi più difficili con Francesco e Piero Vettori. Niente tradizione ellenica quindi, con l’illusione dell’identità dei corpi e della comunicazione sociale democratica, per ricordare Pericle e la guerra del Peloponneso. Distante la greca filosofia come distante l’utopia neoplatonica di un Antonio Brucioli, che parla di un viaggio con Magellano alle isole Molucche, in particolare alla fantastica isola di nome Matthieu. Se nel discorso di Ciompo nelle Istorie fiorentine ci può essere un ricordo dell’utopia in questione, nulla c’è in Machiavelli di quello che allora metteva in questione l’Europa sulla scia di Erasmo e di Moro, e sulle discussioni più o meno teoriche riguardanti il tirannicidio.

I modelli valgono per quel che sono, riferimenti transitori, poche note udite senza continuità logica, un improvviso sollevarsi di pulviscolo di stelle nell’immensità dello spazio. Se si risolvono in margini, ingombrano la visuale e fissano la parte nuova di quelle poche note in una intera sinfonia che è altro, pur grande che sia il suo valore, da quello che cerco di dire. Machiavelli non ha modelli, meno che mai li ha quando li indica come esistenti, palpabili davanti a sé, quando quasi si limita a fare commentari attorno ad essi, anche in questo caso tradisce e scivola via, come condotto altrove dal caso. Qualche accenno monco, come se si fermasse un attimo a riflettere, ma poi appare evidente che non di una riflessione si tratta né di un po’ di respiro nella corsa rompicollo che lo caratterizza. Eccolo fermarsi davanti a qualcosa di sottinteso, ma sottinteso per chi?, per noi di certo, non per i suoi contemporanei – e fiorentini – maestri di giochi di parole e di sapido discorrere, per nulla intimoriti davanti alla cruda realtà delle cose.

La morte è nel fare, nel mondo dell’accumulo, e il destino la ignora, non può indicarmela o propormela, la volontà l’impedisce o vuole l’esclusivo controllo della sua gestione. Quando il tempo è finito, e l’ora della morte ha ucciso tutte le sue sorelle e i giorni futuri, se sono nell’azione essa è un bruciare tutte le mie carte subitamente, una rinuncia totale senza angoscia o titubanza. Se sono nel fare non voglio bruciare tutto in una volta e interrogo il destino e tento di scongiurare gli aruspici per un verdetto positivo. Da un lato la monade imbattibile che nella realtà incontra la fiammeggiante falce della morte, dall’altro un povero straccio di vecchio che nel fare ingoia con disgusto dieci pillole al giorno per darsi l’illusione di vivere. L’azione, anche se sembra pericolosamente consanguinea della morte, anche se convive con la mia morte, di fatto l’allontana, manca del tutto in essa quell’apparato archeologico che porta con sé il corteggio mortale dominante nel fare coatto. L’inquietudine regna sovrana su quest’ultimo meccanismo oleato che raccoglie il sangue che cola dal patibolo, svolge il suo compito e distribuisce i suoi avvertimenti fino alla soglia dell’apertura, gettando lo sguardo al di là ma non riuscendo a capire come si possa morire diversamente. L’accumulo, la stessa conoscenza iperproduttiva, è contro natura. Tutta la vita ho cercato di acquisire, di possedere, di essere quello che gli altri non sono, quindi di essere diverso da quello che sono io stesso. Ora che sono vecchio e che continuo a ricevere pugni in faccia dalla realtà, che potrei rispondere al me stesso che avverte l’enorme distanza che mi separa dalla natura?

Non ci sono riferimenti duplici, cioè resi trasferibili altrove grazie alla copia procurata analogicamente. Solo accidentalmente, ed è infortunio di scrittura e non volontà o metodo analitico di riflessione. La realtà è talmente oscena e coperta di melma che appare inattendibile all’odio riposato dell’uomo dabbene, poco vigorosa, ed ecco la fortuna dei romanzi, fino ai nostri attuali massacri televisivi quotidiani. Per Machiavelli la chiave per entrare nella realtà, e nei suoi meccanismi produttivi, è la stretta osservazione della realtà stessa, obbligandolo a parlare in modo che siano le cose a dire le cose, senza nessun espediente analogico, espediente di cui erano piene le pagine dei suoi acculturati contemporanei. La scienza è nelle cose, non si trova in una sintesi che determina a priori le condizioni in cui le cose devono essere non solo capite ma anche semplicemente esistere di per sé. La lingua deve adattarsi alle cose, farsi dura, inflessibile, memorabile, dominare l’immaginazione incanalandola nel compito del dire e non in quello del dire-sopra, cioè del sopraffare dicendo. Se l’immagine ricreata delle cose è troppo ridondante, sarà forse (non è certo) grande lo scrittore, ma di una grandezza guadagnata a scapito delle cose. Essa deve quindi proporre la connessione universale delle cose, dove si tratta di un universo i cui confini sono segnati dalle cose stesse, le quali si estendono fin dove hanno ragione intrinseca di estendersi, in quella correlazione che tutte insieme le lega. Cogliere questa corrispondenza è precisamente il compito primo e ultimo della filosofia di Machiavelli, non c’è un’altra e più pettoruta concezione filosofica in lui, ecco perché sono stati in tanti a parlare di questa filosofia, cercandola in metafisici confini poco praticabili, e in pochi ad approdare a qualcosa di concreto.

Da giovane, anzi da giovanissimo, mi imbarazzava molto questo problema, c’è o no una filosofia nelle opere di Machiavelli? Domanda, insieme a tante altre, della mia verde età. Adesso che sono vecchio non me la pongo più. Bambinate. Pensando in molti a una funzione ornamentale della filosofia, come di gigantesco bubbone floreale ingigantitosi poi a dismisura – era questo più o meno l’arroccamento dei professori della mia gioventù – non potevano ovviamente rinvenire questa universalmente nota fioritura nel rigido e scomodo Machiavelli. Vi trovavano invece annotazioni politiche, didascalie per futuri dominatori, partiti rivoluzionari e quant’altro. La filosofia no. Il terreno troppo impervio avrebbe favorito filosofi come Leopardi o Schopenhauer, ma questo sarebbe stato scorretto. Chi parla di melma deve restare nella fogna. Nessuna letteratura “contro” qualcuno è tanto sterminata quanto l’antimachiavellismo. Afferma Darius Milhaud: “Le teorie sono soluzioni innumerevoli di un problema indeterminato”.

C’è nel modo di procedere di Machiavelli un profondo senso dell’intenzione, al di là della semplice osservazione o dello studio, per quanto si vuole esteso, delle cause. Andando all’essenza intima della realtà, non si cura di dare conto del paesaggio che circonda e in fondo giustifica il suo percorso di ragionamento. Non diletta né impartisce lezioni, scarnifica l’orrendo, sonda la melma, mette le mani nel ventre della bestia umana, le sue non sono operazioni dilettevoli. Anche se provviste di un tessuto speculativo queste operazioni non per questo ne danno conto, lo mettono in mostra, se ne dilettano a sottolinearlo come qualcosa di autonomo in se medesimo completo e autodefinito. Quest’ultima pomposa operazione è sistematicamente denunciata come mancante dai rifacitori di Machiavelli, i quali avrebbero voluto un trattato di filosofia, non un pericoloso libretto tra le mani, un trattato di cui discutere fra specialisti ma che tutti gli altri non avrebbero mai preso in mano. Ciò di cui Machiavelli non si cura è proprio di questa filosofia dell’esattezza, cacciatrice di minuziose scoperte e quindi in grado di incappare meglio di altre in pericolose esitazioni e colpevoli sviste. Egli procede libero nell’individuare cause ed effetti, reciprocità e corrispondenze. Non tiene conto di nessuna gabbia metodologica, spesso è proprio la contraddizione a rivelare l’entità e la portata di una convinzione significativa, e ancora più spesso le cose denunciano rapporti rivelatori proprio quando sono contrastate dall’approccio teorico piuttosto che favorite dal tecnicismo indagativo. L’orrido apre la strada al possibile altro, a una felice convivenza umana? No. Non è questo che suggerisce Machiavelli. Eppure molto si dovrebbe dire in questa direzione.

Estranee alle frequentazioni di Machiavelli le esercitazioni retoriche sulla società perfetta del futuro, progressivo o subitaneo che sia quest’ultimo, dovuto alla savia composizione dei dissensi o alla radicale distruzione del potere. Sono anarchico e di tali conforti me ne intendo, sognatore come tutti gli anarchici non ho mai voluto dare il mio personale contributo a ingrassare simile granaio. Il pane che ne deriva non l’ho mai cotto né mangiato. Di architetture a tutto tondo, sul come l’umanità liberata reggerà nel futuro le sue sorti, non me ne intendo. Sono più basso di statura e i miei occhi, ormai occhi di vecchio, non arrivano a vedere tanto lontano. Per la verità i miei occhi anche quando erano giovani non avevano di mira contabilità utopiche, i vari livelli stratificati in maniera libera di una società perfetta mi sono sempre parsi esercitazioni per spiriti deboli, incapaci di guardare fisso in faccia la bestia peggiore che esiste in natura, l’uomo. Se lo si guarda bene si scopre sempre l’assassino, anche se poi con questo brutto ceffo si possono fare meravigliose realizzazioni, perfino generose e alternative, ma sempre pronte a precipitare nel baratro dell’orrido.

Tutto appare grigio e umbratile se mi volgo indietro fermandomi nel punto dell’apertura, l’abbandono favorisce l’intuizione ma il problema vero è che la seconda deve per forza precedere il primo. Nel meccanismo ripetitivo del fare coatto non c’è modo di rispecchiare il mondo da me creato, quello che confusamente riesco ad intuire, la volontà lo impedisce e lo soffoca. L’abbandono deve prendere il sopravvento perfino al di là della stessa interpretazione. Muovere dal tema della separazione, per un desiderio di totalità nell’uno e attraverso la realtà, non è direttamente comprensibile, difficilmente può costituire la base per un articolato progetto produttivo, difatti non si rispecchia in niente che non sia un rinvio all’infinito, un desiderio prostrato di completezza. Detronizzare la ragione è solo apparentemente difficile, in fondo nasconde terreni friabili su cui non è possibile costruire. La continuità tra immediatezza e coscienza diversa è una idea controintuitiva, dipende da un simultaneo svolgersi di costruzione accumulativa nella fattività coatta e di frangenti distruttivi che radicalizzano l’interpretazione critica negativa fino a renderla inutilizzabile per il fare stesso. L’intenzione si articola in sollecitazioni contestuali specifiche che fronteggiano la produzione di senso, mentre prende corpo, di fronte a un’articolazione volontaria che cerca di sfuggire alle regole e ai protocolli, una diversificazione fortemente intuitiva. Molto viene perso dall’accumulo e dalla specificazione intuitiva, una sorta di apoptosi o caduta delle foglie. L’apertura verso la realtà e l’oltrepassamento sarebbero incomprensibili e quindi inaccessibili senza questo scremarsi ambivalente che prelude a saldature ignote, concessioni qualitative unitarie e irripetibili.

La condanna di chi cerca la libertà è quella di ricominciare sempre daccapo, in modo circolare, ricorrente, senza inizio e senza fine, senza guida e senza fantasime di definitezza. Le cose evolvono caoticamente, un misto di logica e di fortuna direbbe Machiavelli, un caos concreto, che presenta continuamente un paradigma diverso, mai uguale a quello che volonterosi scriba hanno registrato in passato. Non c’è un orientamento valido per sempre. La libertà per prima agisce su se stessa rendendo presto inaccettabili le sue realizzazioni per carenza di libertà, inabissandole nel caos delle cose, dove tocca agli amanti suoi, della libertà, trovare un nuovo e a volte radicalmente diverso orientamento. Machiavelli cerca la sua strada e non la trova, da amante della libertà, non certo da ottimate, non la trova e se ne angustia, per quanti tentativi possa avere fatto e strade tentate, alcune inconcepibili per uomini dal palato debole. E la ricerca deve continuare testarda, come la sua, incidendo sulle cose, entrando nelle cose, fisicamente, non solo a chiacchiere, rendendosi parte delle cose, che queste non sono un amalgama indistinto, per l’appunto ci sono il popolo e ci sono gli ottimati, la qualcosa significa, in altre parole, prendere la parte degli esclusi per portare avanti la ricerca di sempre nuovi orientamenti nelle cose. Affermava Furio Jesi: “Almeno in qualche circostanza un po’ di manicheismo sarebbe opportuno; se non altro nella misura in cui costringerebbe a pesare (non diciamo subito ad accettare) ciò che Nikolaj Berdjaev trasse dalla concezione di Dostoevskij: La libertà dell’uomo non può essere accolta se viene da un ordine forzato, come un suo dono. La libertà umana deve precedere tale ordine e tale armonia. Che cos’è la rivolta, se non l’affermazione di questo principio?”. Non rispondendo alla domanda fondamentale, tutto qui?, metto in dubbio la qualità nel suo insieme, il massimo livello compenetrativo che è quello della libertà. Apro allora le mie ali e plano sul mondo da me creato, indifferente come un mendicante che si è servito alla tavola del re. Riprendo il mio fare coatto e nello stesso tempo, essendo adesso temporalizzato il mio essere a scadenza, guardo con occhio più attento e più indagatore al mio destino. Anche se mi sento un traditore della libertà, so che sono portatore di una scompensazione che solo il destino può capire, non la realtà così banalmente attaccata al suo essere produttiva di forze oggettuali. L’estremità oggettuale del destino può cogliere la mia inutilità, nuova e diversa contraddizione inquieta che si è venuta a collocare nella mia immediatezza, e dialogarci. Di fronte al mio dire rammemorabile, rivolto al destino, e che solo il mio destino coglie in pieno come parola, anche se dimessamente presentata come guazzabuglio semantico, io non sto bene nel corpo della mia immediatezza. Quasi niente di questo nuovo dire permane nelle collocazioni garantite dai protocolli, questa mossa immensa, che qualcuno insiste a osservare semanticamente, mi è estranea, solo la voce del destino, filtrando attraverso di essa, arriva fino a me e mi fa riflettere, conoscenza permettendo, sul dire che concerne l’agire, l’esperienza terribile nel territorio desolato della realtà. La saggezza non agisce, non ne è in grado, ma sa e lo dice alla parola col suo silenzio diafano, e la parola lo dice nella forza della rammemorazione. Accetto in ogni caso questa condizione che mi fa visitatore della saggezza, ne ammiro i limiti e lo svuotamento, so che contemporaneamente un mondo complesso, quello che da me creato, continua a muoversi dentro e fuori di me, e che i miei svuotamenti per gli altri sono tutt’altro che convincenti. Ma io non voglio convincere nessuno, mi basta riuscire a ritornare in me nella scomparsa della conoscenza, nella saggezza, guardando la parola in silenzio, aspettando la sua apertura, il suo dischiudersi a mille livelli incontrollati.

In Machiavelli l’osservazione si acuisce man mano che scema e viene penalizzata la sua attività politica professionale. Forse anche prima in lui si erano aperti i vasti orizzonti della motivazione filosofica e la decisione di non accettare né la lezione di Ficino né quella di Poliziano. Insomma nessun neoplatonismo filosofico e nessuna direzione univoca di ragionamento, al contrario una rete, anzi una ragnatela di corrispondenze, racchiusa in circa tre lustri di intenso spazio culturale, indicazione di una molteplicità di segni intervenuta a raccogliere gli stimoli di un ambiente letterario e perfino editoriale (Giunti), ma più di tutto di una sua tendenza a porsi al centro di una scena immaginaria certo, eppure concreta, dove le cose, le vicende politiche che immergono nella melma le cose, in mancanza di un criterio stabile, di un orientamento univoco, danzano esacerbando il caos che le produce senza sosta. Per cui l’apparire del nuovo trova questo straordinario filosofo-pratico immerso nel vecchio di cui attende ancora la realizzazione pratica, come se l’arsura del deserto dove le cose deambulano senza tregua confondesse vecchio e nuovo in un unico ballo osceno provvisto di musica dissonante con ogni passo o ogni approccio rappacificante. Il nuovo sfugge alla sua prosa diretta e si traveste di vecchio, ma la sensibilità del filosofo coglie questo camuffamento perché per primo è lui a metterlo in atto nel momento in cui lascia che il nuovo gli scivoli tra le dita.

La parola che innesta il processo rammemorante sviluppa percorsi quasi sempre trascurati, automaticamente, a volte, gli stessi labirintici contorcimenti datati attorno alla volontà, vengono ripercorsi senza produrre le vecchie significazioni, come se i solchi precedentemente scavati siano stati coperti dal processo attivo di trasformazione senza predilezione per questa o quella traccia di protocollo. Lo scontro tra questi percorsi semantici, apparentemente simili, dà vita a scontri di identità che possono essere risolti solo liberandosi dai condizionamenti del fare come presupposto del dire. Tutto ciò non è una garanzia contro la cecità e l’intolleranza nei riguardi di una rottura possibile delle mura che garantiscono la coazione. Non appena intravedo l’apertura verso la realtà, sulle prime la paura mi rigetta indietro, tra le braccia della volontà coatta, e ciò per proteggere proprio quel patrimonio conoscitivo che mi aveva portato a interpretare in senso attivo la disponibilità conoscitiva a cogliere il mondo. Non appena sono sul punto del saluto questo desiderio di garanzia e protezione si affievolisce e la mia capacità di dire parimenti si attenua o scompare. Lo sguardo lungo dell’uno che è mi fa improvvisamente intuire che è il vuoto, il suono che da quel vuoto proviene non è avvertito nel campo, e ridonda cristallizzando e sedimentando una proiezione del fare che la volontà cerca in tutti i modi di cancellare. Questo universo fattivo non interviene che raramente nel fare immediato, ma si acuisce quando l’inquietudine cerca di prendere il sopravvento. Il risultato è uno sciogliersi del fare dall’interno, un logorio inaspettato delle sue difese, un distacco dai risultati e dallo scopo dapprima essenziale della completezza.

Il non dire, il mancare di dire, è il genio nascosto del dire, l’arcana esplosione di splendori che nessuno saprebbe ripetere perché non appartengono alla parola ma alla sensibilità di chi è nelle cose, raccolto nel raccogliere, fermo nel procedere, veloce e violento. Ciò per prima cosa significa sacrificio del sistema. Machiavelli è scrittore che lotta contro le giustapposizioni sistemiche, eppure forse nessun altro filosofo come lui è stato sottoposto ai bombardamenti di coloro che a ogni costo volevano, e vogliono, racchiuderlo in un sistema. La sua era falsa modestia, quella dei tanti machiavellisti è pretesa dettata da superbia ottusa e scolasticamente rinforzata. Machiavelli potrebbe rispondere di essersi accontentato di agire anche quando l’azione gli era stata tolta di mano. E questo spiegherebbe quelle tante volte in cui il suo dire sembra adombrato di moti dell’anima non proprio gradevoli. Chi agisce opera quindi ben al di là delle pie intenzioni dei suoi critici, ha quasi sempre pazienza limitata, si muove in maniera discontinua, accelera e rallenta secondo ciò che gli passa per la testa, non osserva le regole ortopediche di chi osservando guarda in orizzontale.

Il contrasto non può essere che feroce, e comico a volte. L’azione è filosofia in fieri, non accetta riconoscimenti dinastici, non vuole spartire le proprie responsabilità con chi non sa nemmeno che vuol dire mettere in gioco la propria vita. Per gli astanti, i benefacenti contemplatori dell’ombelico, il proprio non quello del mondo, pensare l’azione significa perdere il sonno, e a nessuno garba non riuscire a dormire. Per converso nessuno può insegnare a un altro come mettere a rischio se stesso, se vuole vivere, e in che modo il simulacro di vita della cancelleria, che pure, e contraddittoriamente, allettava Machiavelli, non sia che un non vivere. E, in effetti, le prime stille di concentrazione filosofica caddero su Machiavelli proprio mentre l’agire politico ufficiale volgeva al termine. E siccome è proprio degli uomini del suo stampo non distribuire la propria vita per compartimenti stagni, eccolo che le cose della melma oscena entrano nella sua filosofia, e di questo se ne compiace, anzi ne ravviva i colori e perfino le estremizza, non si nasconde dietro il dito di un rifiutare da rinnegato.

Il silenzio sgradevole della realtà devo affrontarlo con il coraggio del coinvolgimento, non posso rivolgermi a tutto quello che come zavorra ho abbandonato sul molo di partenza. O sono capace di affrontare l’estrema solitudine dell’agire, o devo seguire la scia della rinuncia, quello che mi riconduce al fittizio mondo dell’abbraccio cautelativo. Più mi faccio risucchiare indietro dalla freddezza del cuore, che così si chiude alle fortune alternate e controverse dell’intuizione, e più vengo divorato in fretta dal desiderio di concludere. La mia impazienza fattiva mi serve da falso obiettivo e da effervescente distrazione intesa in senso pascaliano. Sono così pietrificato e non voglio ammetterlo, pallide ombre in fondo alla caverna mi passano davanti agli occhi e io continuo a vederle come la sola realtà possibile. Che mi indica la presenza intuita dell’uno che è? Che mi dice la sua intrasferibilità da questa parte, in quella immediatezza che mi imprigiona? Questo senso che mi ottunde le orecchie fino ad assordarle, come può ascoltare, senza pregiudizio e senza parentesi fortunate ma incostanti, quel flebile segnale? Quando molte dolorose occasioni di esperienza modificativa si affacciano nella mia coscienza immediata, occasioni del fare stesso e delle sue incomprese contraddizioni, non è forse la follia di quel segnale che si fa viva? Non sono forse i modelli e i confini della quotidianità che vengono clamorosamente sfondati?

Non è certo audace la sua speculazione filosofica, metodologicamente parlando essa quasi non esiste, è audace il suo restare nelle cose, non aggirarle o spacciarle per quello che non sono. Le stesse lontananze o separazioni – famosa quella tra politica e morale – sono a sprazzi, coagulate in poche righe, quasi incisi più che dimostrazioni, mai tediose o tendenziose, esse dicono e vanno avanti, oppure e meglio, esse fanno dire le cose e non vi si soffermano più del necessario. Non resta mai fermo sul colpo, non raddoppia, è troppo lento il ritmo del ritornare su ciò che si è detto, la sua morbosità altezzosa glielo impedisce, la pagina stessa sembra bruciare sotto la sua penna veloce e non certo per l’intersecarsi di realtà e immaginazione, intendendo quest’ultima nella limitata prospettiva della banale invenzione. Egli ha una forza fulminea che gli fa cogliere quello che sono le cose, il resto stenta ad apparire nei non molto affettati capitoli del libretto malefico. Quale che sia l’argomento preso in esame, che sempre di melma si tratta, le sue parole risuonano da un capo all’altro della pagina e producono nel lettore quello che lo scrittore esattamente voleva che producessero, cioè la diretta apprensione delle cose, non la loro interpretazione o condanna o giustificazione. Machiavelli non sorprende mai fino in fondo, lo si conosce subito per quello che è, non è da scoprire in lui la riflessione che era sfuggita nel grande mare delle dimostrazioni, tutto ciò non esiste, si scoprono invece le cose come non si poteva immaginare che fossero, e si rimane folgorati. I piani della realtà sono molteplici e si scoprono tutti in una volta in quel piccolo libro maledetto, ma qualcuno può sempre sfuggire, ed è allora ritrovamento prezioso. Mi accade da sessant’anni.

Quale il significato? È veramente quel verminaio che è stato descritto da una inarrestabile legione di antimachiavellici? Certo è un libro per pochi, ma non per nessuno, come quello di Nietzsche. Dico subito che non è libro per politici e nemmeno per filosofi, è un libro per uomini d’azione, consiglia ma non conclude, impartisce suggerimenti ma non vincola, non rivela segreti, non risponde a ipotesi astratte. È un piccolo libro compatto e forte che parla delle cose dell’uomo, e le cose dell’uomo, a causa del suo inevitabile vivere in società, sono radicate nella melma. È un libro che parla di politica, quindi di melma. A causa della sua durezza, poche righe di questo malefico libretto valgono quanto un intero trattato di Hobbes. Dieci righe non giustificano, non ne hanno la possibilità, o sono efficaci o non lo sono, non si prestano a diventare monumenti filosofici, sono un lampo memorabile che si ricorda per il suo splendore e per la tragica scena che è riuscito a illuminare. L’incisione sanguinante che la volontà riesce a descrivere con precisione toponomastica su di me grazie al fare coatto è la mia solitudine, alla quale posso rinunciare abbassandomi fino ad immergermi nella sofferenza urlante che mi circonda, anche qui, ora, in carcere [2010]. Il muro che costruisco è prodotto dal fare, mi salva la vita, ma mi espone a sempre più impensabili provvedimenti dell’imprevisto. Devo abbandonarlo o eseguirlo fino in fondo, finisco per dare la mano alla volontà. Alla fine, all’angolo, alla svolta radicale, che così appare davanti al mio occhio stanco, trovo sempre la guardia armata sugli spalti. Se rifiuto il fare, riconoscendo nel dominio della ragione volitiva l’emblema coatto del carcere dove vivo, alimento un’aspirazione inarrestabile al rifiuto della conoscenza, come se questa potesse aumentare a dismisura le mura che mi circondano e divorarmi nella sua terribile significazione rendendomi evanescente, insignificante, dissolvendomi. Tutto quello che mi circonda, l’oggettualità tangibile di una istituzione totale diventa esistenza enigmatica, imprevedibile. La consistenza mortale del mondo mi si rivela senza mezzi termini, senza sfumature. Lo spazio si contrae dentro di me e non è l’occhio l’artefice di questi spasmi di paura. Continuo a vedere porzioni di spazio, ma i significati si sovrappongono fino a scontrarsi uno con l’altro. Il fare è la riproduzione simbolica di questo spazio, caricato di senso, senza che mai risulti possibile un movimento che lo cristallizzi definitivamente in oggetto. Il meticoloso ripresentarsi del prodotto si carica di un altro genere di significati e non prepara la realtà, anzi se ne allontana titubante e timoroso. Il prodotto non è l’oggetto, questo è stato tagliato per potere essere percepito, l’antico referente, ciò che dovrebbe rappresentare è ormai remoto. Quello che ho qui, che mi circonda a portata di mano, eminentemente espresso dalla prigione che mi ospita è una sommatoria cinicamente abominevole di pezzi staccati, che la paura mi suggerisce come mettere insieme.

Singoli personaggi e accadimenti, Cesare Borgia o una progettazione di massacri, sono stati isolati e anatomizzati, perdendo in questo modo quella connessione con il tutto che nel piccolo libro costituisce un capolavoro. Questo intreccio è il vero contenuto filosofico che importa a Machiavelli e che dovrebbe importare anche a noi, altrimenti tutto si disperde nella riprovazione morale o nella valutazione dei guadagni e delle perdite. Così è accaduto che provveduti esegeti abbiano lasciato ristagnare la filosofia che sta sotto perdendone il senso, facendola sfiorire in una puntuale trattatistica di costume, magari scritta a bellaposta per sbalordire l’inaccorto lettore. Non è certo compito degli esegeti di mestiere mettere le mani a mollo nella melma, loro rimangono di solito al sicuro in attesa della pensione, ma è compito nostro, di coloro che dell’azione hanno fatto metodo e sostanza di vita. Molti lettori di Machiavelli hanno evitato questa discesa agli inferi, ignorando bellamente l’intreccio in questione. Così hanno trattato Machiavelli come letterato e non come filosofo e uomo d’azione, rimanendo da parte invece di entrare dentro una giungla di corrispondenze che li avrebbe tramortiti. E questa omissione ha svalutato il loro lavoro e gettato su Machiavelli la luce sinistra di un facitore di parole in vena di estremismi.

L’intreccio di cui parliamo è verticale, cioè produce e si produce nel senso della profondità. E questa condizione nel piccolo libro non è mai un fatto accidentale, è presenza costante dal primo all’ultimo capitolo. Bisogna caso mai notare i rari momenti in cui la tensione si abbassa, quasi gangli di un reticolo di cambiamenti che accedono a tematiche e moduli riflessivi contrastanti se non proprio antitetici. Non è qui il migliore Machiavelli, ma non è nemmeno il più trascurabile. Ogni esercizio di profondità, specie nella melma, richiede capacità speculative enormi in grado di spezzare la piattezza asfissiante delle cose umane, processo che non può essere esente da momenti di cambiamento di ritmo. L’esattezza dei contorni tende ad aumentare in questi casi, ed è cattivo segno in operazioni di profondità. Poi torna il tagliente ritmo consueto, torna il risalto globale, la scarna considerazione del particolare, ed è ancora una volta il migliore Machiavelli che ricompare. Uscendo da simili accidenti ritmici si avverte che il suo sentimento del proprio compito è potentemente accresciuto, la lena riprende inalterata. Un desiderio mi può travolgere come il mare in tempesta senza che lo scrosciare delle onde riesca ad avvertirmi in tempo del pericolo. Una rammemorazione senza fine non mi riporta a un qualche splendore desolato, solo la realtà può farlo, con la mia personale complicità. La puntualità nell’azione è oscura e luminosa nello stesso tempo, non resiste all’identificazione forzata di una dimensione temporale, se insisto va via con un rapido dietrofront inatteso e imprevedibile. Andata via un’altra ne ricostruisco, una fenice nuova risorge dalle ceneri vecchie. Cercare di fissarla in un movimento circoscritto non è possibile, e quando la rammemoro viene fuori una sorta di esaltazione appassionata che il fare prende per la realtà della desolazione specifica del territorio attivo. Il permanere del silenzio nella puntualità dell’agire è al di fuori del tempo, quindi non può essere misurato né come intensità né come estensione. Il riferimento è l’uno che è.

Machiavelli non attende questi incroci privilegiati in senso negativo, non fa nulla per riposare la sua vivace capacità di osservazione, si limita a lavorare ininterrottamente, il resto lo fa la profondità della sua penetrazione nelle cose. Occorre che certi rapporti politici, sopiti nella melma consuetudinaria, si risveglino alla presa di coscienza, non quella di chi li osserva da lontano, ma di chi li vive dall’interno. Il popolo prima di tutto, che soffre le conseguenze di una sperequazione feroce e inalterata nella storia. Così Machiavelli nell’approfondire qualifica, cioè fa parlare le cose e queste rivelano la loro essenza interna, rapporti di forza, dove i più forti dominano e i deboli soccombono. A chi osserva questo processo non appare visibile nessun disvelamento, non c’è un aprire finalmente gli occhi alla realtà politica che è immersa nella melma, tutto sembra che scorra via normalmente, come è normale che accadano i massacri nelle vicende della bestia umana, come è normale il mestiere del boia di Cesare Borgia. Non è amarezza quella di Machiavelli, che mette a nudo queste atrocità, è sguardo attento, profondo, pieno di quella nettezza che viene solo dalle cose stesse.

Occorre insistere su questo straordinario incontro fra le cose, materia politica, e quanto Machiavelli di questa materia riesce a fare entrare nel suo libro. C’è un limite fisiologico nello scrivere ed è l’ovvia interpretazione di quello che viene detto. Machiavelli non può fare eccezione, ma la snellezza e la spregiudicatezza di questa dimensione interpretativa è la sua particolarità, come se le cose, la materia melmosa di cui si occupa, sgorgassero ininterrottamente dal suo pensiero, quindi dalla sua vita, che non è possibile questo genere di separazione. Così, l’interpretazione sfuma sullo sfondo man mano che Machiavelli procede nelle cose, per cui queste ultime e i loro rapporti si stagliano nettamente – materia adesso capace di dettare le condizioni della propria esistenza – e informano con la loro forza primordiale ciò che nel volgere dei secoli sono state, simbolo e oggetto simboleggiato, rimescolamento del tutto che nella parte si trova e viceversa. La profondità della prospettiva attuale, nata con il respiro stesso della filosofia di Machiavelli, diventa molteplicità dei piani temporali, sovrapposizione di esempi e occasioni per andare altrove, per conto proprio.

La pulizia del dire, da sola, non basterebbe a frenare l’implicita interpretazione, c’è il riscontro temporale che affronta e dimensiona a suo piacimento il muoversi autonomo delle cose. La filosofia è qui, in questo passaggio che conduce al di là della contingenza, che impedisce al libretto di Machiavelli di restare nei limiti tradizionali della trattatistica.

L’intero coinvolgimento riduce fino ad azzerarla la mia capacità produttiva e interpretativa. Prima dell’apertura, o se si preferisce, del salto, c’è un attimo di sospensione dove tutto sembra contrarsi nel calore della vita, della condensazione estrema, della solitudine. Ma come dire questo calore? L’interpretazione è un veicolo che fa l’eterno viaggio dall’oggettualità alla parola e ritorno. I punti di riferimento sono protocolli che di volta in volta vengono scelti come indirizzo peculiare della critica negativa. L’interpretazione non pensa alla realtà, allo stesso modo in cui la rammemorazione non parla della realtà. L’archetipo del fare è il movimento percettivo, la separazione tra quantità e qualità. Non riesco mai a chiudere il prodotto nelle indicazioni programmatiche dell’archetipo, devo ricorrere alle mie capacità di fromboliere dalla inesausta vena inventiva. Lo stimolo interpretativo allarga gli atteggiamenti interiori del produttore, crea linguaggi paralleli a quello asfitticamente sclerotizzato del fare. Entra nelle dissolvenze emotive e nella persistente aridità del controllo volontario. Il linguaggio delle immagini e quello del corpo si concentrano nella interpretazione raggiungendo tensioni non facilmente riconducibili ai protocolli. Le geografie della normalizzazione sono sempre riproducibili dal costante controllo della volontà. Nella puntualità che raggiungo nell’azione realizzo nel territorio della realtà un alto livello di slancio vitale, una vera e propria inconoscibilità contestuale del mondo da me creato, una penetrazione approfondente che scava in me stesso, nel più intimo della familiarità di me stesso e qui si trova l’uno che è, il contrappeso e il punto di riferimento della mia puntualità. Tra di loro non c’è un punto di collegamento, solo un fronteggiarsi reciproco, un continuo estraniarsi e compenetrarsi. L’apparente immobilità è solo quello che non è possibile vedere come fare, che sarebbe visibile nel fare come semplice vedere. Le risonanze interiori alla mia puntualità sono ripristini e dissolvenze continue, concrescenza di liberazioni e intuizioni. Quello che manca è l’apparente e falso calore comunicativo che l’oppressione volontaria trasmette.

Filosoficamente parlando, gli accadimenti passati – sia pure anche essi immersi nella melma umana – sono materia del profondo. Quello che assicura questo scambio è la mano ferma di fronte all’interpretazione, il freno che non cessa mai di operare, mentre le cose parlano da sole e intessono un discorso implicito e in corso d’opera con i tempi passati e con quelli a venire. C’è più di quanto si pensi dei Discorsi nel libro capitale di Machiavelli, c’è più di un isolato fantoccio come Cesare Borgia. Sarebbe difatti risibile un paragone solo, campeggiante su un cumulo di cadaveri. I secoli e l’enorme spettacolo cruento delle vicende umane sono i veri protagonisti, e con essi il loro accavallarsi mostruoso, che nessuna sensibilità di cuore può tollerare se non assistita dal polso fermo dell’uomo d’azione. E Machiavelli non solo tollera questa visione apocalittica, evidente nelle cose e parallelamente nascosta e misteriosa, ma ne trae riflessione e pensamento, prima di tutto per se stesso, poi per coloro che sanno ascoltarlo. Ecco quello che le cose profonde dicono, continua ad accrescersi la mostruosità mentre, per converso, sul piano della presa di coscienza di questo limite, l’uomo sembra sordo a qualunque insegnamento e continua a pascersi di melma.

Senza paura di irriverenza Machiavelli è ancora, in età matura, ché il volumetto malefico è prodotto maturo, scanzonato e scomposto come era in gioventù, naturalmente dal punto di vista strettamente letterario. Certo, lo era anche nella quotidianità, e questo conta in quanto avrebbe potuto mettere per redigere i suoi testi i panni curiali che dopotutto metteva nel proprio ufficio. Egli era invece per una lezione libera proveniente dalle cose e per una vita meno servile. E questa realtà pesa senz’altro sul rifiuto delle scelte filosofiche ellenizzanti, diffuse a Firenze nella sua gioventù, rifiuto che mantenne per tutta la vita. Fuori di dubbio che questo distanziarsi non aveva motivi religiosi, solo che non condivideva le scelte e le stesse critiche della teocrazia dei neoplatonici, da Ficino in giù. Anche se questa corrente aveva una risonanza europea, la prospettiva non lo allettava, cercava nelle cose, più in basso di quelle altezze dove avevano fissato la loro dimora i critici filosofici della tradizione biblica e cristiana. Gli interessava il groviglio degli intrighi e il sangue della bestialità politica, non la visione contemplativa, e questo per tutta la vita non solo nella giovinezza. In fondo per Machiavelli la scelta di Roma al posto di Atene dimostra un interesse per la politica, cioè per l’uso della forza, e nessun interesse per la filosofia greca rivissuta in Italia, a partire dal secondo Quattrocento, in chiave neoplatonica.

La ricerca della realtà è abbandono del circolo vizioso della produttività, il che potrebbe a volte essere facile, ma è anche fuga dal controllo della volontà, il che è certamente difficile. Nella prima parte occorre una forte critica negativa, nella seconda questa non è sufficiente e occorre costruire quei percorsi ingannevoli che portano in strade false la volontà. Ricercare, attuare, fallire e ricominciare a cercare, sono itinerari complessi e non sempre realizzabili. A volte dolorosamente mi arrendo e il posto dove scrivo non facilita certo il mio progetto. La straziata immanenza che mi circonda mi porta via con sé, a volte, non è mai estranea alle mie resistenze e alle mie difese. Devo comunque dare costantemente una risposta al dolore e al male che qui vagolano liberamente e ingigantiscono e diventano nocciolo e tema di tutte le quotidianità. Mi accorgo a stento della estrema potenza di un autoconcentrarmi fatale e terribile di fronte alla solitudine della realtà, di fronte all’azione. Mi accorgo che le cautele di cui sono comunque portatore involontario, sono incontrollabili e imprevedibili, non mi trattengono, mi sfiorano soltanto. La mia puntualità rifiuta ogni forma di aiuto nella profonda oscurità della solitudine in cui sto agendo. Mi sono trovato spesso in queste condizioni e ho cercato di costringere il silenzio a dirmi qualcosa, a gridare all’interno della notte oscura del silenzio stesso, niente. Posso immaginare e pensare quanto voglio la mia esperienza diversa, ma prima di tutto devo concretamente viverla in me, non come qualcosa fuori di me che posso osservare e studiare da lontano. Se mi trincerassi dietro la dimensione insondabile dell’assolutamente altro, avrei solo la ridondanza delle risposte confortanti la mia fedeltà ai protocolli. Devo irrevocabilmente andare in un’altra direzione.

La pratica dottrinaria e profetica non era fatta per Machiavelli, meno che mai ogni atteggiamento religioso o divinatorio di stampo savonaroliano. Era incapace di intenerirsi davanti ai grandi sogni prodotti da ideali collocati nell’al di là, ogni religione, peggio ancora ogni teocrazia, lo rendeva vigile e ribelle, ogni intenerimento metafisico lo faceva sferzante e beffardo. Considerava questi modi di porsi di fronte alle cose come una fuga o, peggio ancora, come una menomazione di pensiero. Vedeva in essi, nello stesso tempo, uno strumento per attrarre proseliti al partito degli ottimati, sia quest’ultimo nella versione principesca che repubblicana. Non aveva di fronte una innocua versione dei flussi e dei riflussi della filosofia greca in Italia, ma l’egemonia culturale fiorentina di fronte alla pregnanza politica romana molto più incisiva sul piano concreto della politica europea. Insomma, la ricerca del bene, intesa filosoficamente, non era fatta per lui, temeva che questa potente patina offuscasse l’amara realtà delle cose, producendo modelli astratti al posto della conoscenza e mettendo in circolazione una massa di emozioni nobili quanto fantastiche e illusorie.

Prendere le distanze – anche senza dirlo a parole, ma registrandolo nelle scelte di campo – da uomini come Pico o Ficino, o dallo stesso Marcello Virgilio, suo capoufficio, non era facile, ma era in gioco una lotta ben più importante di qualsiasi disputa filosofica, la visione concreta e reale della politica, cioè delle cose melmose che si adagiano sul fondo del cuore degli uomini per condurli alle mete che la loro bestialità indica come eccellenti. Un nuovo bigotto era alle porte e non aveva neanche il coraggio o la spudorata fermezza di un Savonarola. Atene era trasportata a Firenze, e viceversa, almeno politicamente, ma la lotta non era solo letteraria, Roma non aveva le legioni di un tempo ma le ambizioni erano ancora forti. Bisognava leggere in queste e in altre ambizioni senza farsi soggiogare dal culto delle idee neoplatoniche, dai sogni utopici di un possibile mondo perfetto. E se c’era un uomo che poteva accostarsi alle cose in maniera disincantata, questo era Machiavelli, e se c’erano strumenti a portata di mano per rendere intelligibili quelle cose, sia pure attraverso il velo deformante della melma, questi erano in possesso di Machiavelli, sia dal punto di vista delle scelte culturali e letterarie che da quello della pratica attiva. In più, a far da partito per Machiavelli, c’era una sua radicale discordanza con ogni orpello e ogni eleganza di stile, l’uomo era crudo e tagliente – lo si vede nelle lettere personali – e il suo stile era esattamente come lui. Buffon aveva ragione.

La catastrofe del fare è ineluttabile, o si concretizza in un oltrepassamento, o sigilla i limitari della tomba e i contrassegni onirici del cimitero. La solitudine della realtà consegna alla puntualità attiva la compattezza insondabile dell’uno che è, questa è una diversa esperienza del vuoto dove si muovono fantasmi e ombre che ricordano, deformandole, le false certezze del fare. Dilato la mia puntualità ma non posso che agire trasformando il mondo da me creato evitando di farmi risucchiare. La volontà è una forza cieca che attira verso di sé ogni fare, ogni movimento modificativo della coscienza immediata. Lasciata a se stessa costruisce muri sempre più alti e controlli sempre più dettagliati. Le armi della ragione sono il vero collante che la regge, anche se all’occhio intuitivo esterno può sembrare spinta solo dalla cieca forza di tutto comprendere e sottomettere. Attenersi al fare, racchiudersi nel presunto guscio della salvaguardia, è un attenersi al programma della propria morte. Il fare travolge e spezza tutto, ma non può spezzarsi, per ottenere questo occorre un processo e una forza esterni al fare stesso. Per dare spazio all’intuizione della qualità occorre disincarnarsi, spezzare ogni equilibrio, ma non con la forza del fare che spezza e ripristina, ma con l’abbandono al coinvolgimento che coraggiosamente va verso l’apertura. Ci vuole una punta di abbandono vero e proprio in questa tipologia di coraggio, anche se non è mai dato sapere se a prevalere sia l’abbandono o il coinvolgimento, ammesso che si possano fare distinzioni di questo tipo e di questa sottigliezza. Le lontananze sono in sostanza movimenti circolari.

A ben pensare, nell’utopia ricreativa, che tanto ci consola oggi come ieri (forse oggi meno di ieri), c’è qualcosa di affligente. Nessuno ignora infatti che si tratta di una invenzione, di una maschera, di una barba posticcia, ma tutti fanno seriamente finta di credere possibile ciò che è possibile solo nella fantasia. La viltà umana è mista al coraggio, la melma al sublime, l’uomo è più profondo di quello che i filosofi hanno immaginato, ma queste cose sono mischiate insieme e se si toglie il bene per renderlo vivente e agente da solo, capace di espandersi fino a coprire tutto il mondo, non si cancella per questo la viltà e la melma, anzi queste sopravanzano qualsiasi ciancia e fanno in modo di apparire esse stesse la significanza umana più alta. Machiavelli sceglie da solitario di parlare di questa parte malvagia, che poi è parte predominante se non proprio esclusiva nel campo del vivere in società, e non si cura di dare conto del sublime, del bene, di quello che a volte l’uomo riesce a realizzare di grande e di buono, lascia che di questa parte, qualora ci fosse qualcosa da dire, se ne occupino altri, i partigiani del bello e del perfetto. Il suo carattere e la sua coscienza di sé non gli permettono altra scelta. Approva quindi a viso aperto questo scontro con la melma e non indietreggia di un passo, e non perché, come a volte gli è stato rimproverato, faccia una scelta parziale e partigiana. Eppure è proprio questa parte che si rivela nelle cose sotto le sue mani, che vibra in tutte le sue fibre, orride, d’accordo, Machiavelli sarebbe stato il primo ad ammetterlo.

L’altra parte sta seguendo strade ormai nuove nei percorsi letterari veneziani di Bembo e napoletani di Sannazaro. Il che significa la nascita di una lingua volgare diversa e più articolata del fiorentino, una lingua che ormai mette conto chiamare italiana. A Machiavelli sarebbe parsa sprecata nelle esercitazioni letterarie, in lui infatti ribolliva l’idea nuova di una corrispondenza intima e segreta tra lingua e cose che con una lingua specifica – non col latino o meno ancora col greco antico – possono essere dette. La melma non ammette artifici, risponde con la chiusura più netta a qualsiasi tentativo di farla diventare una categoria filosofica suscettibile di essere catalogata e giustapposta in adiacenze universitarie. Machiavelli si ribella alla letteratura fine a se stessa, ama divertirsi, spirito caustico e irriverente, ma l’oggetto dei suoi studi non ammette che venga agghindato per apparire diverso da quello che è. Le esercitazioni lo esasperano, lui corre al concreto e non crede nella politica come categoria dello spirito, non la considera argomento simile all’amore o all’odio, ai sentimenti che balenano e scompaiono nel cuore degli uomini. Le cose di cui si occupa, le cose politiche che vengono fuori dal vivere in società, non sono sentimenti, né belli né brutti, sono melma umana, entrano in quella caverna che esiste nel profondo di ognuno di noi, dove nascondiamo le atrocità di cui siamo capaci e che spesso solo il caso ci impedisce di compiere. Per converso, come non c’è un uomo naturale, buono come il successivo selvaggio di Rousseau, non c’è nemmeno un uomo politico, e Machiavelli è un uomo politico meno del suo fantoccio Cesare Borgia. La sua capacità di fare emergere i livelli massicci di melma di cui l’uomo è capace non significa che questi lo entusiasmino, anzi lo angustiano. Ma non si arresta, non cessa il suo impegno. Il potere è questa bestia scatenata, il boia e il freddo calcolatore, ambedue costruiscono Stati e opprimono uomini riducendoli in schiavitù. Aspirare a un idillio in questo clima e in queste condizioni è pura fantasia da letterato, complice volontario a volte perfino mal pagato. Questa complicità, che si nasconde negli anfratti della cultura umanistica, per arrivare in alcuni alla delazione vera e propria, stomaca Machiavelli.

La non certezza ha avuto considerevoli ondeggiamenti nella immediatezza fattiva, ma nei limiti della contingenza e della casualità, elementi che non contraddicono radicalmente le ipotesi protocollari. L’azione non è una emancipazione dal fare, in fondo neanche il salto lo è, perfino al di là del punto di non ritorno. Non mi interessa lottare per la conquista di un metodo, questo lo posseggo facendo e riflettendo, conoscendo e tornando a dire di questa conoscenza. Eppure è anche questo stesso metodo che può sigillare la mia bara fattiva. La ragione è processo lineare che al proprio fondo sviluppa controcorrenti subdole, difficili da conoscere e quasi impossibili da controllare. La ragione collabora, l’intuizione distoglie, svia, argomenta ambiti sconosciuti, che possono sempre essere riportati sotto il suo dominio, ma che non sono direttamente impiegabili per la segregazione. Il chiostro ragionativo produce materiali che contribuiscono all’azione, ma non è questo il suo vero scopo. In fondo quei materiali sono semplicemente stornati dalla destinazione originaria per la quale erano stati prodotti. L’ascolto indifferenziato della voce dell’uno che è avviene per ridondanza, quindi grazie a un flusso ininterrotto che la puntualità dell’azione non è in grado di identificare come trascorrere temporale. Solo l’esperienza diversa, quindi il vivere la qualità nell’azione, propone precise intuizioni linguistiche che si avventurano in ricezioni approssimative, alcune volte veri balbettii, altre volte semplici lallazioni, che poi saranno elementi della rammemorazione, forse senza mai raggiungere la forza di una configurante unità semantica. Non si può parlare di completamento tra immediatezza e diversità, anche se senza la prima non c’è la seconda, e ciò perché la prima può morire soffocata senza raggiungere la seconda, come accade nella eventualità del mancato coinvolgimento.

Arranca per contro il letterato di questi primi decenni del Cinquecento, arranca e cerca di accaparrarsi protezioni e prebende. Il tema politico è trattato così in modi non diversi dagli altri temi della letteratura, dal mito alle fantasie dell’Arcadia, dalle vicende del ciclo della Chanson de geste alla trattatistica più trita e ottusa. Machiavelli resta in disparte, non ammette questa compartecipazione, anche se doveva per forza esserne cosciente, se non altro per motivi d’ufficio, dove la tradizione più rigida perdurava al cambiare di regimi. Poi l’esclusione e la svolta operativa, il pauroso libretto e i Discorsi, le cose finalmente cominciano a parlare e noi le ascoltiamo ancora a bocca aperta, seduti sui pioli delle nostre scale bibliografiche, sempre timorosi di non scandalizzarci abbastanza.

Sarà il letterato Benjamin ad affermare che nel campo della politica bisogna avanzare menando colpi d’ascia a dritta e a manca senza guardare in faccia nessuno. È tipico di queste affermazioni radicali l’atteggiamento massimalista, au-dessus de la mêlée, spesso senza neanche preoccuparsi della portata concreta di quello che si afferma. Machiavelli non avrebbe mai sottoscritto una frase del genere, era troppo uomo d’azione a perdersi in simili banalità. I suoi colpi d’ascia sono concreti e vengono inferti facendo venire fuori le cose che giacciono accucciate in quella caverna profonda di cui dicevamo prima. E quando queste cose vengono fuori il colpo d’ascia non è affidato alle mani deboli dello scrittore, sia pure Machiavelli stesso, ma al popolo che insorge. E allora sono lacrime e sangue, e spesso in questa forza collettiva che si sveglia non c’è modo di distinguere e prendere le distanze dalla forza precedente, che nella melma opprimeva.

L’intuizione mi fa cogliere una parte forse minima e trascurabile di ciò che mi sta cogliendo nel movimento intuitivo, sono io stesso questo movimento nel suo complesso, ma non perciò avverto nei suoi dettagli questo accadere dentro di me, i miei piedi, potrei dire, sono ancora troppo radicati nella condizione immediata. Anche se non colgo una mia personale, e volontaria, resistenza nel cogliere che mi porta via, a causa della pochezza della mia intuizione, sono certo che non posso essere estraneo a questo viaggio appena iniziato. Il fare nell’agire è distante e immobile, non più voci, solo detriti di ricordi che tardano a scomparire e che insistono per occupare un non luogo che non è il loro. Sono infradiciato e immerso nel fango fino ai fianchi, ma sono io anche se respiro in un modo che non conoscevo. Figure si muovono davanti a me e mimano noncuranza solo perché non mi hanno visto, fluttuano nell’aria e camminano inoffensive o incuranti delle tante offese procurate prima. Solo io sarò veloce nel fango. C’è una qualche mancanza cruciale nei rapporti protocollari, ma non me ne avvedo, lo so e non me ne importa niente, adesso sono nel fango che presenta increspature bianche, come se fosse una mousse. Io sono vivo. Più forte il mondo conoscitivo del fare e più forte la potenza diversa che si scatena nell’oltrepassamento. Mantenere aperto l’accesso al territorio della realtà è impossibile, ogni ricominciamento è rammemorazione e ripristino delle condizioni protocollari. La percezione continua nel suo compito separativo e le relazioni misurano conferme o dissonanze con i protocolli, mentre l’oggetto totale viene prodotto comunemente come qualsiasi altro oggetto, come espressione oggettuale, espressione della propria vulnerabilità temporale e del proprio distacco dal destino intuito nell’esperienza altra. Il centro della produzione coatta torna ad essere quello conoscitivo, cioè possessivo, da cui deriva la consapevolezza che solo la sicurezza del fare può darmi le garanzie sufficienti alla sopravvivenza.

Il grande lavoro dei topi bibliotecari ha portato alla luce un ambiente umanistico che potrebbe avere influenzato il libretto di Machiavelli, esultando poi, per quel che riguarda i Discorsi, di riferimenti e modelli. Ma di quale Livio parlano? Non lo so. Quello che so è che gli sforzi di Machiavelli si integrano a vicenda e sono opere originali sotto ogni aspetto. Nessuna opera che si collochi, nascondendovisi, sulla scia di maniera può aspirare a essere letta come quella di questo autore esecrato dai più, capito da pochissimi, elogiato da pochi. Il fondo oscuro dell’uomo, la caverna dei desideri di massacro e delle spaventose aspirazioni di dominio, non sono luoghi di netta separazione, la melma affiora continuamente, anche in forme molteplici e complicate la cui elaborazione elegante e sobria è affidata quasi sempre a letterati di professione che si mettono al servizio dei massacratori. Il nefasto e il disgustoso si veste così di una patina accattivante, la politica riceve la cresima dell’istituzione religiosa e l’investitura del cavaliere medievale. Il tanfo di sordido e di marcio sembra attenuarsi, ma è solo una impressione. Dura poco. Le cose che si agitano sul fondo hanno bisogno di prendere corpo e verniciarle continuamente le rende più feroci e bestiali. Meglio prenderle di petto, affrontarle direttamente per quello che sono.

Machiavelli non corteggia la bestia né la colora di sfumature ancora più nefande. Si limita a fissare corrispondenze tra fatti e condizioni oggettive dell’essere uomo che vive in società, null’altro. È questa cosa qua la politica, questa melma, non occorrono interventi per peggiorarne l’aspetto e meno che mai, questo è ovvio, per migliorarlo.

Ma qual è la fonte della melma? Da dove arriva questa immane bestialità? Dall’uomo, certamente, ma solo da lui? Può essere che questa bestia in fondo trascurabile nell’universo abbia il monopolio del male? E poi, che ruolo giocano i sentimenti non politici, quelli che possiamo riassumere nell’imprecisa parola “amore”? Senza l’uomo la realtà sarebbe priva di melma? Non si può rispondere a questa triste domanda, perché ogni risposta sarebbe sospetta provenendo comunque dall’uomo, sia pure il migliore degli uomini. La risposta è nella necessità di vivere in collettività. Costruirne di migliori è certo un compito necessario, anche se arduo e poco remunerativo, ma solo a condizione di non accettare questa prospettiva progressista come una soluzione definitiva. Non ci sono soluzioni del genere nelle ipotesi filosofiche che gettano lo sguardo nel baratro della politica.

Le condizioni imprevedibili e desolate della realtà sono quasi sempre caratterizzate da relazioni estreme che alla luce del recente fare potrebbero sembrare patologiche. Sensazioni comuni, vista, udito, olfatto, si trovano trasformate di fronte a una improvvisa assenza di spazio o di fronte a quello che sulle prime mi appare come un immenso territorio desolato. La realtà mi suggerisce subito il bisogno di aggrapparmi a qualcosa di certo. La funzione della conoscenza, la sua funzione attiva, comincia qui. Il fare è possesso e accumulo, forza e materiale da costruzione, ma è anche una sponda a cui aggrapparmi quando prevaricano l’inquietudine e la paura. Ma aggrappandomi al fare nego la spinta propulsiva verso l’oltrepassamento che questo potrebbe darmi. Il fare si adatta e può continuare all’infinito a padroneggiare il mondo da me creato se non interviene una rottura altrettanto fattiva. Però questa sottodeterminazione non può durare a lungo, non ci sono energie neutre e prive del conflitto iniziale di natura percettiva. Il fare non si presenta mai realmente svuotato di energia produttiva e di iniziative paradigmatiche.

Machiavelli lo sa e va avanti quasi da solo. Maestro – contro l’opinione di alcuni – non lo fu mai, non negli Orti e neppure fra gli amici più fidati, troppo alta la sua prospettiva riguardo alla lingua, quindi tagliata fuori dall’umanesimo fiorentino boccheggiante, troppo profonda la sua pretesa riguardo alle cose della melma, nessuna concessione. Egli fu solo, pur nel commercio dialogico ed epistolare, praticamente solo. È da questa solitudine che gli venne la tensione del libretto di cui ci occupiamo, tensione che può sembrare rugginosa ma è soltanto forte, tensione che non si inceppa, che non accetta di essere studiata come un congegno a orologeria. Leggerlo a volte è sgradevole e non ricorda lo scrittore delle commedie, la sua prosa può sembrare malfatta, ma è il riflesso opaco della melma, non è la struttura del discorso. Quelle cose non potevano essere dette altrimenti, non è una esercitazione letteraria, devono lasciare un solco nel lettore e glielo lasciano. Il suo lavoro di scrittura ci interessa poco qui ma si deve tenere presente se si guarda alle cose che ne costituiscono l’oggetto primario. Nella massa dello scritto, di più nei Discorsi, ci sono di certo allentamenti, come capita a tutti coloro che usano la penna, ma non annebbiano il resto, anzi rendono più vivido il senso delle forti espressioni che segnano fino in fondo il tracciato dalla caverna profonda dell’orrore alla superficie, dove ogni altro modo di dire potrebbe solo servire a coprire e a deformare le vergogne umane.

L’uomo uccide, straordinaria attitudine di questo strano animale, e quasi sempre toglie la vita dell’altro per imporre la propria volontà, è come l’irraggiungibile ala della morte che passa e lascia una cosa senza vita e a chiamarla, a darle capo e necessaria forza, è l’uomo stesso contro l’altro uomo. Questa spaventosa possibilità è intrinseca alla forza che si agita all’interno della caverna dove bolle la melma. I riferimenti di Machiavelli sono a volte lampi improvvisi, staffilate irresistibili, ed hanno in ogni caso una vernice grigia che riflette perfettamente le cose di cui parla, le sue fatiche, le sue disillusioni, i suoi isolamenti. Raramente la materia fecale politica ha trovato tanta corrispondenza di dire, quasi sempre gli scrittori politici sono tutt’altro. Storicamente condizionati, titubanti, prudenti, benpensanti, idealisticamente stupidi, non mancano mai di pensarsi come maestri di vita, quando non sono altro che le proprie insonnie che ci raccontano. Machiavelli si erge invece sulla mediocrità della politica e di chi di politica si occupa, sprofonda in temi scabrosi disertati dai più, non impallidisce di fronte all’orrido della caverna, non sembra subire la stanchezza che prende tutti coloro che non vedono diradarsi le nubi nel cielo plumbeo delle agitazioni di potere, non si lascia distogliere dalle insipide prospettive di conquista e di gestione del potere, non acconsente però alle molteplici complicità, non è mai meschino, non si lascia invadere dalla natura che affronta, anzi ogni ostacolo rinnova la sua forza e il suo ardore.

L’azione mi sconvolge la vita nella sua accezione più semplice e più ampia. Dà improvvisamente una svolta necessaria ai miei moduli e li priva di senso. O, meglio, questi continuano a essere stracarichi di senso, ma sono io che non lo tengo più in mano fino a disperare di continuare nel processo produttivo lineare. Il sapere mi circonda e mi alletta, nell’ambito immediato, con le sue baluginanti spezzettature. Ma l’esperienza altra, in questi ghirigori, resta muta, non è l’astrazione che può commuoverla, occorre l’inequivocabile intuizione. Verificare l’esistenza dei protocolli è vano, questi si presentano e accampano i loro diritti in modo catastroficamente autonomo. Non c’è che una passione contrastante, quella che mi proietta verso la diversità. È in questo modo, proprio nell’accingermi a cogliere intuizioni assolutamente altre, che la tetra realtà dei protocolli mi colpisce come un pugno in faccia. Verso l’altro, l’assolutamente altro, il mio rapporto col mondo da me creato continua ad esistere, ma è come destrutturato, calato in quella circumnavigazione della realtà che mi moltiplica le possibilità sotto gli occhi. L’azione è il mondo nella puntualità dell’agire. Il fatto è il mondo nella molteplicità del fare, non si tratta, come qualcuno ha malamente supposto, di nichilismo e solipsismo, ma solo di lettori ciechi o preconcetti. Il fare inteso come universo completo e autonomo ha la medesima logica dei cimiteri, è solo una condizione impoverita, una formulazione asettica che usa uno dei tanti rasoi filosofici per paura di scoprire più di quello che si possa immaginare.

Un maestro della prosa nuova, il volgare ormai non più soltanto fiorentino, che ha di già il sopravvento sul latino e sul greco dei dotti. Appuntita, questa prosa, è certo un modello difficile da seguire, difatti non è stato seguito, non è un sismografo adeguato ai movimenti tellurici delle cose che affronta, non ha l’esaltazione pseudoeroica dei letterati, non lascia intravedere la disillusione sofferta del suo autore. Le cose sono così nella nuova prosa di Machiavelli in una loro vita concreta, pesantemente concreta, maturata con la necessaria pregnanza dei tempi che non ammettevano duplicazioni o chiarimenti suppletivi. O si diceva la cosa oscena che corrisponde esattamente alla politica o non si diceva, ricamandoci sopra qualcosa di Cicerone o di Polibio. Machiavelli dice senza ingorghi o addensamenti, fluidifica l’immenso materiale umano che affoga nella melma, ci mette in condizione di avere notizia di un pianeta di solito lasciato all’oscuro per paura o per pietà. Quello che questa prosa porta con sé è il contenuto della caverna, con una elaborazione filosofica di questo contenuto. La filosofia sta prima non dopo, sta nella melma di cui parla non nelle parole che parlano della melma. Ed è quindi filosofia della politica, non oscuro sostegno di manutengoli che lavorano per un padrone avaro, ma elogiatore libero di esprimersi fuori e dentro le righe, senza lasciarsi abbattere dalla ferocia con cui gli uomini difendono la loro melma.

Ecco, se considero la politica, la vedo come una malattia che l’uomo respira quando è obbligato a condividere l’aria con gli altri, un appestarsi costante che non ha neanche la capacità di puzzare. Per cogliere la puzza della politica bisogna avere il naso adatto, e forse Machiavelli l’aveva. Viveva fra politici e poi, nella solitudine, ambiva a tornare fra i politici, ma non era un politico, lo si vede da quello che della politica dice e da come lo dice. Le cose della caverna bruciano nelle sue pagine e scendono nel lettore impietrito come annunci di morte. Machiavelli parla di qualcosa di fisicamente palpabile, per questo è filosofo, non letterato o perdigiorno. È filosofo perché arrischia se stesso parlando del contrario di quello che l’uomo dovrebbe essere, cioè di come l’uomo è. Solo che l’uomo in generale (nel suo minuscolo mondo di sopravvivenze fasulle) e il politico in particolare, non vogliono arrischiare nel gioco che cerca di vedere che c’è nella melma di cui Machiavelli parla, di vedere fino in fondo, per cui inalberano un sorriso stereotipato e vanno avanti incuranti degli spasimi che dovrebbero avvertire e che non avvertono, incalliti come sono dall’uso (sia pure minimo) della finzione e del potere. La melma taglia a fette il corpo dei politici prima ancora della loro morte, li incartapecorisce nell’orrido, li abitua all’osceno, li gonfia di stupido orgoglio, scatena le reazioni dei loro fittizi interessi, li chiude nella caverna e li sommerge. Machiavelli descrive questi movimenti alternativamente, in positivo e in negativo. Li fa vivere nel loro venire in essere e li inquadra nel loro triste condursi fino in fondo, fino alla morte. L’allentamento del controllo coatto sperato dalla volontà attesta anche le inibizioni e i blocchi che producono la standardizzazione del fare. Ne viene fuori una conoscenza più aperta che affronta, proprio nel campo e sotto l’occhio vigile della volontà, il problema del senso e dei limiti del desiderio. La barriera contro la paura, l’ansia, la ricerca delle nicchie di garanzia, non possono essere individuate soltanto nel fare. Insistente, senza prospettive radicalmente diverse, mi sento prigioniero della mia stessa oggettualità, ogni specificazione mi fa capire meglio quello che sono e, nello stesso tempo, mi fa desiderare di non esserlo. L’ambivalenza della conoscenza accumulata raggiunge a volte tensioni insostenibili. Ribadire la propria identità fattiva è un difficile relazionarmi con me stesso, destinato a frantumarsi prima o poi. Alla lunga i protocolli si usurano proprio a causa della loro eccessiva rigidità, il fare cerca di sostituirli ma si tratta di una esperienza di salvazione che non sempre riesce. Tagliare di netto è non solo indispensabile ma costituisce l’unico propellente utopico da impiegare, e le conseguenze mettono in luce tutte le rughe di maturità di ogni corrispondenza.

Aggirarsi nel deserto umano è il lavoro di Machiavelli. Per questo riprende e collega fili che la riflessione del passato aveva lasciato pendenti nel vuoto, un lavoro sordo a ogni lusinga letteraria, ed è proprio non riservando sonorità stravaganti che viene fuori un capolavoro. Altrove lavori l’ingegno o il mestiere. Nelle parole del libretto malefico c’è una durezza che non suppone indugi, un presentarsi non al giudizio dei posteri – che questo è diviso in maniera equidistante – ma al fare rivoluzionario, o meglio all’agire. Ecco pertanto la necessaria perentorietà del dire, l’affermazione al posto dell’ipotesi. Non perché Machiavelli si ritenesse in possesso di una verità evocabile a piacere, col semplice gioco delle parole, al contrario, spesso appare dolorante e triste, forse più della materia che è costretto a maneggiare. Atrocità e morte, ecco cosa giace dietro la politica, dietro l’ordine degli Stati e la dottrina dei sapienti. Come potrebbe la sensibilità dello scrittore, e perfino la sua indole caustica, farsi strada fra i cadaveri, dialogando con un massacratore? Non potrebbe. Difatti in Machiavelli c’è solo la verità delle cose, per quello che lo sforzo di un uomo come lui poteva produrre. È naturale che nessuno può salire sulle proprie spalle, ma lui non cerca nemmeno di immaginare una eventualità del genere, si interessa d’altro. Avere rispetto perfino per la melma e farla parlare per come può e deve, ecco il segno della forza e della pietà. È questa misera cosa l’uomo, non ciò che luccica sotto le luci del potere, quest’ultima è una crosta che viene via non appena si forza il gioco e si costringe il potere a farsi avanti.

Non è facile smascherare chi alle maschere è aduso, occorre metterlo alle corde, provocare la sua reazione vasta e scomposta. Machiavelli mette a mal partito lo schieramento logico e filosofico della politica, e lo fa costringendo a venire avanti le cose che di solito operano nella melma ma non costituiscono la facciata perbenista del politico. Ciò produce un contrasto feroce e senza mezzi termini come una catastrofe che sconvolge da cima a fondo il tessuto segreto della caverna delle miserie umane. Ogni affondo produce una risposta, le cose non restano inerti, contrattaccano venendo alla luce, e la luce indagativa del piccolo libro di cui ci occupiamo, le chiama a una nuova disposizione fuori del complice segreto. E questo continuo movimento tra il contesto del libro unico nel suo genere e le cose è forse il motivo più spettacolare che il lettore provveduto finisce prima o poi per rinvenire e fare proprio. E questo, tutto questo meccanismo, non è artificio di composizione, è nelle cose stesse e nella sollecitazione provocatoria. Questa non risiede in un piano perfettamente architettato ma piuttosto nel fluire stesso del dire di Machiavelli, nello svolgersi del suo pensiero filosofico. Ciò significa che se il progetto nel suo complesso può essere uno dei tanti, il dettaglio è micidiale, opera in profondità per ogni singolo momento in cui si sviluppa. Sono i dettagli la vera materia geniale dell’opera, si sente nei singoli strali lanciati a colpo sicuro e micidiale che scopre la sostanza della politica, cioè la forza bruta che la regge, le ragioni della forza vincente, nient’altro. Il lampo di questi strali è percepibile come un temporale in corso di svolgimento. Non è un agglomerarsi a tratti ma uno scatenamento continuo. William S. Burroughs: “Imbroglioni di tutto il mondo, c’è solo un allocco che non potete fregare: quello che c’è dentro di voi”. L’accesso alla follia non è contrassegnato solo dal salto oltre il punto di non ritorno, ma anche dalla individuazione di presenze non regolari all’interno delle cosiddette regolarità della ragione. Le fantasie di onnipotenza nascono nei meandri protocollari e sono cariche di senso, ne sanno qualcosa tutti coloro che hanno lottato in banali ambiti ristretti, contro qualsiasi tipo di conformismo. Il coinvolgimento può essere seriamente danneggiato e perfino impedito da movimenti del fare diretti a produrre un anticonformismo d’accatto legato a simboli e apparenze, più che a disponibilità di strumenti conoscitivi da interpretare e mettere a frutto nell’oltrepassamento. Coinvolgersi e partecipare non sono sinonimi, spesso costituiscono l’inizio di due strade che si indirizzano in luoghi lontani tra loro. Un mondo pulsante di colori, di vibrazioni, di ritmi primari che si possono confondere con l’assenza temporale delle intuizioni, sono spesso prodotti del fare, spacciati per autenticità e contrapposti, globalmente, all’artificiosità fattiva. Anche qui la carenza conoscitiva può ricoprire di grigio e tornare a irreggimentare sotto altri aspetti quello che appariva come un accostarsi all’oltrepassamento.

Sono le cose a costituire il tessuto della politica con la sua trama di richiami, di connotazioni implicite, di riverberi che si spiegano vicendevolmente. La registrazione di Machiavelli non fa che attendere al varco quelle rivelazioni della politica e dare loro corpo organico leggibile in maniera essenziale. Il lusso che le cose si permettono nella profondità della melma è qui, nella registrazione, schema e rigidezza privi di qualsiasi civetteria. La costruzione sta altrove non è opera dell’ingegno metafisico, non alberga nella filosofia, quindi non respira i miasmi del dogma, è nelle cose e qui sarebbe rimasta, rintanata sul fondo, priva di solidità di rapporti e continuamente metamorfosando se stessa nella pratica quotidiana della miseria e dell’orrore. Machiavelli dà vita alla costruzione vera e propria che si sostituisce alla prima, fluida e inconsistente, e fissa una volta per sempre un quadro che non è banale insieme di espedienti da tagliagole ma forza filosofica in atto senza con questo giustapporre nulla alle cose, facendo loro dire quello che altrimenti non avrebbero mai potuto dire. L’artificio geniale sta in questo dichiararsi compartecipe di nefandezze che altri non solo non avrebbero rivendicato come normale tessuto dell’agire umano in società, ma avrebbero accuratamente nascosto.

Che lo voglia o meno questa condizione triste del vivere in società, con me stesso in balia di uomini da niente che la politica sospinge in alto sull’onda del potere, è impressa sulla mia pelle a fuoco. È un marchio che perdura nel tempo e ci contraddistingue tutti come schiavi, esseri succubi, quasi diventati insensibili, capaci solo di porre il capo sotto la mannaia. Tutto quello che facciamo, se non alziamo la testa ribellandoci, è correre il rischio di ripetere un modello ottuso e melanconico. L’impressione incisa sul nostro corpo è il riscontro della melma politica e ci fa riconoscere a quale categoria di schiavi apparteniamo. Machiavelli, pur provenendo dalla pratica politica attiva, era radicalmente altro, ospite dell’epoca sua, rispondeva come poteva, con ragionamenti ma più ancora con strali e frecciate, impietosi questi due mezzi, irripetibili se non per amore filologico. Questo ospite del suo tempo era però uno dei più attenti e pronti nel comprendere quello che si andava raccogliendo di nefando. Ma non si limitava ad aborrirlo, sarebbe stato uno dei tanti umanisti che nella tradizione classica non vedevano solo un modello ma più di tutto un rifugio. È invece nel nuovo che si produce, nella caverna di ognuno di noi, nella profondità oscura che lui fa incidere la propria filosofia. Ne risulta un incedere continuo e scabro, nervoso come la materia stessa che è oggetto dell’incisione. Tutto in Machiavelli è nervoso e veloce, non c’è tempo – né nella sua vita né nel suo scrivere – ma non è un fenomeno filologico, piuttosto è un modo di accostare la realtà prescelta, non qualsiasi realtà. Il sogno politico repubblicano, alimentato fin dall’epoca cancelleresca, è dietro le quinte, non appare, quindi non qualifica il libretto – come sconsideratamente è stato creduto – né in un senso né nell’altro, non c’è l’ideale, quale che sia, non l’utopia o il lasciarsi andare a una sorta di sogno a occhi aperti, c’è il mistero delle cose, l’evolversi profondo di sommovimenti che lo attraggono irresistibilmente. Così Günther Anders: “Non c’è nulla che sia altrettanto caratteristico di noi, uomini d’oggi, quanto l’incapacità di rimanere up to date, al corrente con la nostra produzione, dunque di muoverci anche noi con quella velocità di trasformazione che imprimiamo ai nostri prodotti e di raggiungere i nostri congegni che sono scattati avanti nel futuro (chiamato “presente”) e che ci sono sfuggiti di mano”. La creatività, pescando nel torbido e oscuro mondo del fare, dove io creo ciò che mi sta di fronte in quanto mondo, procura una consistente soddisfazione personale che spesso corre il rischio di giocare un ruolo surrogato riguardo al desiderio vero e proprio di completezza e di oltrepassamento. Niente è più delittuoso del nascondersi sotto il mantello del fare creativo, capace di cambiare la realtà. Il segno remoto dell’uno mi coglie come una sorta di desiderio impensabile, mi permette di aprire una porta dietro la quale rumoreggia un oceano in tempesta. Non so ancora se sarò in grado di oltrepassarla quella porta, so che comincio ad avvertire qualcosa di assolutamente diverso della mia immediatezza, e ciò come se si trattasse di qualcosa già visto. Un qualcosa che mi sta davanti e mi fronteggia, mi aggredisce, mi offende se non mi muovo nella sua direzione, qualcosa che tocca strati della mia intimità immediata che credevo al sicuro. La ragione è attaccata dalla voce remota dell’uno e viene quindi a scontrarsi con i movimenti interni alla produzione, che intendono collocarla su di un piedistallo di garanzie protocollari. Faccio in questo modo un passo indietro di natura prospettica e organizzativa, mi inoltro in un antagonismo che non è tanto contro la ragione, quindi tutto interno alla immediatezza e ai suoi protocolli, ma è contro la volontà. Si tratta di riflessioni conoscitive che cercano nuovi indirizzi e strade non battute per mettere in difficoltà i controlli coatti.

Dare conto delle infamie che brulicano nel mondo sotterraneo della politica necessita di polso fermo e cervello sano, si corre altrimenti il rischio di farsi trascinare da questi sommovimenti pensandoli come fantasmi non come cose vive e concretamente operanti. Ogni considerazione bandisce volutamente tutti gli aspetti caricaturali dell’orrido, sia quelli che lo esacerbano nel grottesco, sia quelli che lo travestono nella favola consolatoria. Leggere questo libretto guarisce da ogni velleità utopica, da ogni astratta fantasia che si annida nel cervello di coloro che si pensano intellettuali. Ecco il punto, o meglio, ecco uno dei punti. La genia malefica degli intellettuali è anch’essa immersa – e compartecipe in primo grado della sua produzione – nella politica, ma non vuole ammettere l’esistenza recuperatoria dei tanti animaletti retorici che si infiltrano come subdoli ragni nel suo ragionamento. Per cui si ritrovano, gli intellettuali, brulicanti di supposte soluzioni, di geniali alternative, insomma una baldoria di funerali. Incapaci di pulizia e di nettezza, sono proprio quelli per i quali la lettura di Machiavelli è sfortunata vicenda destinata a più sfortunata conclusione.

L’intellettuale è recalcitrante per convinzione e convenienza, il suo reale modo di essere lo porta a nascondere la realtà non a portarla alla luce, farla parlare, ma vuole nasconderla con frasi cariche di effetto, fulminanti, amalgamate in maniera di venire alla luce a spese delle cose e in modo diverso da ogni altro tentativo del genere fatto da un esemplare qualsiasi della medesima specie. Non c’è occasione in cui questa attitudine non venga alla superficie, fosse pure un breve necrologio, essa è irrefrenabile. Sottolinea Goethe: “L’oscurità si oppone all’azione della luce, e la luce si oppone all’azione dell’oscurità. In entrambi i casi il colore sorge. Il buio è un fenomeno, così come lo è la luce: non si tratta di un nulla. Se il buio fosse il nulla, guardando nel buio non si avrebbe la percezione della sensazione delle tenebre”. L’immediatezza non può essere considerata un propulsore attivo, la sua è una condizione fattiva che ricorda il problema dello specchio. L’autoconservazione è un indirizzo primario garantito attraverso la produzione ma attraversa la fase essenziale dell’inquietudine, della mancanza di completezza. È il vuoto che si riflette nello specchio, il vuoto del fare per il fare, il terrore che nessuna scoperta dietro l’angolo fattivo può produrre quella costruzione immaginaria capace, alla fine, di profilarsi allo specchio e fornire un minimo di garanzia. Posso anche cristallizzare percorsi alternativi, ma alla fine devo concludere che questa strada, interna all’immediatezza, è senza via d’uscita. L’apertura non ha un impianto fisso nell’immediatezza, le perturbazioni del fare non corrispondono ai suoi segnali perturbativi, le contraddizioni del fare non sono le stesse dell’apertura. L’interpretazione non chiarisce queste ultime che restano fuori della sua sfera d’azione ancora unitaria e utilitarista. L’unità del produrre si spezza continuamente ma non nega l’ideale di se stessa come processo completabile. L’apertura invece non ha niente di unitario e non è mai in grado di considerare se stessa come una porta aperta verso la completezza. Che la parola parli non è una grande scoperta, anche se penso che un approfondimento in questa direzione moltiplichi di svariati piani la rammemorazione, spesso troppo strettamente sigillata in modo monotematico. Questo parlare non lo sento ponendomi semplicemente davanti alla parola, ma facendo attenzione, sempre all’interno delle condizioni protocollari, a come si riferisca o riesca a farmi intuire un movimento totale, il battito dell’uno che è. L’azione è rammemorata nei suoi dettagli, fra i quali si insinuano le ridondanze dell’uno, non sulle mie occasioni di ripensarla attraverso la lente deformante del fare. Non ho mai desiderato una guida, anche se ho sempre avuto la certezza che mi avrebbe risparmiato un mucchio di lavoro. Se sono quello che sono, però, lo devo proprio a quel mucchio di lavoro, che poi ho spesso buttato via, o mi sono illuso di buttare via. Che farmene dei miei studi di segni, di accadimenti linguistici, di gerghi, di duplicazioni significanti? Sono soltanto apparenze.

Machiavelli è l’opposto esatto. Parla delle cose della melma e lo fa in profondità con espressioni che possono stagliarsi isolate e con valutazioni che tagliano contropelo, cioè non hanno nulla di aforistico. Rivela i segreti più sanguinosi della politica, quelli di cui tutti avrebbero vergogna e lo fa schiettamente rifiutando ogni gioco di parole, ogni imprecisione verbale, che potrebbe farli sembrare momenti esoterici della condizione umana e invece non sono altro che questa stessa condizione nella sua banale oscenità. Una volta detti questi segreti, che dapprima rimbalzano sulla faccia attonita di chi li ascolta da non pochi secoli, dopo diventano parte della melma di cui sono in fondo composti, e qui ritrovano il loro posto e possono tornare alle macabre usate faccende. Non ho la pretesa di pensare possibile, una volta per tutte, uno svelamento attuato dal libro malefico, per cui una lettura si pone e il lettore ne viene sconvolto per sempre, sarebbe assurdo, voglio però sottolineare la capacità di irradiare attorno a sé, tipica del lavoro di Machiavelli, una diversa consapevolezza della politica. Poi, ed è inutile ribadirlo, gli interessi personali del lettore prevalgono sulla lettura e tutto potrebbe tornare a ricoprirsi della patina dell’indifferenza.

Incastonandosi improvvisamente in tutt’altre riflessioni l’effetto Machiavelli tende a svanire e tornano le chiacchiere con il gesto letterario che nella finzione vuole apparire solenne ed è solo grottesco, dato che sempre della melma intende parlare. La miseria e l’orrido squallore dell’assassinio esplodono nelle parole e le deformano. Non c’è modo di accostarsi a queste modulazioni profondamente umane se si eccettua quello usato da Machiavelli, il resto sono cianfrusaglie retoriche. Dietro lo splendore fittizio delle parole, perfino dietro l’assetto paludato di una coerente (con se stessa) costruzione filosofica, sta la noia e la truffa, ci si prende in giro reciprocamente – scrittore e lettore – per passare il tempo o per darsi un abito convenevole alla materia trattata. Ma quale potrebbe mai essere questo abito se non le stilettate di Machiavelli? L’immensità dell’abisso dove si dibatte la miseria umana non è esorcizzabile con nessuna formula proveniente dall’alchimia retorica, essa è un velo di oscena ottusità che copre la visuale di tutti noi, nessun escluso, in quanto di questo immane delitto siano tutti complici. Scrive Cioran: “Quando si è divorati da un tale appetito di sofferenza che per soddisfarlo occorrerebbero migliaia e migliaia di esistenze, si riesce a immaginare da quale inferno sia dovuta sorgere l’idea della trasmigrazione”. L’intuizione fornisce un flusso continuo alimentando l’immaginazione e il mio modo di creare il mondo. Ma questa metafora è ingannevole, in quanto potrebbe fare pensare a un rifornimento univoco e rigido, bene identificabile. Non è così. Non è possibile identificare una visione unitaria di questo tipo. I risvegli intuitivi non sono un vento che gonfi le vele della mia nave, l’orizzonte è ancora quello chiuso del posto che mi cattura, le vele al contrario restano flosce e il sartiame pendente. Il destino si nasconde nella conoscenza, non potrei vederlo venirmi incontro se non fossi io stesso quella conoscenza e quel destino. Esso non si nasconde veramente, anzi si disvela a volte in maniera evidentissima, sono io a essere cieco e sordo, intontito dalla paura e dalla conformità ai protocolli. Quando lo colgo, ecco occhi blu che mi guarda, è lui che si avvicina alla mia immediatezza stanca, è lui che mi porge una mano, che mi tira la barba, che mi immerge in un lungo soliloquio senza fine. Non ho risposte adeguate che non mi sembrano difesa a oltranza più che vera e propria apertura. Scandagliare le mie resistenze, camaleonticamente nascoste negli interstizi, è compito produttivo prima, cioè fattivo di conoscenza, e interpretativo poi, cioè decifratore di enigmi e oscure malinconie. Risposte che sembravano chiare in prima battuta, alla fine risultano attese velate di malinconia, di ripetizioni e ridondanze ossessive, dissociazioni completamente impossibili.

Nessun mistero è tanto profondo quanto quello che circonda l’assassinio. Di colpo, ma sempre premeditatamente, un uomo soccombe e un altro impone la propria forza, o la forza della protesi in suo possesso, e gli strappa via la vita. Questo genere di orrore popola e qualifica la politica di cui discute Machiavelli, e allo stesso modo oggi questa melma ci soffoca tutti. L’assassinio dilaga e uccide con mille accorgimenti, impara a strappare e a portare via la vita, la dignità, l’orgoglio, la volontà, la speranza, la bellezza, la bontà, la sapienza, tutto è ucciso, a poco a poco o in massa, e il mistero – a parte le parole di Machiavelli e la sua filosofia a colpi di accetta – persiste indisturbato.

Il taglio che interrompe, a partire dall’asfissia della schiavitù lavorativa, è nel fango che fa riferimento, una costellazione sommersa che amiamo definire politica. Quante vite stroncate da una legge o da una sentenza? E non parlo di esecuzioni di Stato, parlo di irradiazioni di conseguenze. Il politico non se ne avvede, seduto com’è su di un cumulo di teschi. Lo stesso accade al rivoluzionario che preme il grilletto per fare crescere quantitativamente la propria organizzazione. Diversa la situazione non politica del vendicatore che spegne l’esistenza di un oppressore o di un provveditore di oppressori e quella di chi difende la propria libertà. Solo in questi casi l’assassinio – che tale resta – non fa parte della melma a cui ci riferiamo. Non esiste modo di parlare di questi problemi, le parole non sono adatte, le azioni veramente liberatorie hanno un linguaggio non dicibile, Machiavelli si mantiene al di qua, parla di ciò che è rivestibile di parole, e proprio per questo attira le attenzioni occhiute dei letterati. Sottolineiamo qui, ancora una volta, quello che è il suo lavoro che qualcuno considera limitato e che invece dilaga su orizzonti che la filosofia raggiunge difficilmente. Carlo Michelstaedter: “Vorrei dirvi: Sono nato nella pianura morava e correvo come una lepre per lunghi solchi, levando le cornacchie crocidanti. Mi buttavo a pancia a terra, sradicavo una barbabietola e la rosicavo terrosa”. L’inciampo intuitivo arriva all’improvviso, contro ogni speranza per quanto incandescenti possano essere le sollecitazioni fattive. La sensibilità alle condizioni di controllo, il rigetto ora flebile ora temerario della volontà, produce modulazioni del fare che nonostante tutto, cioè malgrado l’accomodamento protocollare provvisorio, restano in attesa di un radicale rigetto critico negativo. Sfuggire al controllo volontario causa a volte uno slittamento semantico che mette fuori sesto anche lo sforzo interpretativo. Il territorio della realtà mi circonda e circoscrive, additando alla incomprensione assoluta la mia puntualità attiva. Non sfigurata da assurdi tentativi di spiegazione, questa puntualità è remota a ogni risposta frenetica, a deliri di onnipotenza o allucinazioni ritardanti e riduttive. Semplicemente è, con quella carica di energia che la qualifica e la rende in grado di entrare in una coscienza diversa, dove le vecchie stigmatizzazioni sono ormai inafferrabili. La puntualità è un distretto oscuro dove le meditazioni antiche, le antiche conoscenze, trovano tout court nuova e inimmaginabile collocazione.

Ma da cosa ricava Machiavelli questa sua capacità? Dall’esposizione pericolosa e sprezzante alla vita politica stessa, con le mani nella fanghiglia, non per sentito dire. Qui trova il materiale già pronto, quello che deve mettere di suo è il coraggio e la straordinaria capacità di sintesi. Ne deriva un complesso articolarsi che resiste al tempo e al volgere delle epoche. La consistenza del suo dire procede intatta ed è questo che continua a stupire. Altrove, nei Discorsi a esempio, c’è una sorta di concessione all’impresa nel suo insieme, direi un sottofondo architettonico, qui, nel Principe, tutto è giocato nella volontà dell’immediato e nella dismisura caotica delle cose.

La dismisura è il ritmo del libretto malefico, non ci sono digressioni superflue, solo improvvise aperture a possibili – ma incredibili – riferimenti. Ogni movimento eversivo che viene proposto risulta alla fine incongruo, ma è là a costruire una sorta di movimento interno al sottofondo poltiglioso della caverna politica, dove non c’è modo di cogliere le differenze a partire dal buono e dal cattivo, oppure dal bello e dal brutto. La piatta compattezza melmosa accorpa tutta la realtà sotto la cappa uniforme dell’infamia e non accetta contrasti se non riconducibili a nuove ricomposizioni. Machiavelli è indefettibile, non ricompone, apre e lascia aperta la breccia, caso mai vi infila dentro un altro contrasto, ancora più feroce. Cogliere la maledizione politica non è facile, non ci sono respiri o radure metafisiche dove riposare, si va avanti travolti da un fascio di onde fangose, e occorre chiedersi perché si è scelta questa lettura e non si è rimesso nel cantuccio dove giaceva il libretto di Machiavelli.

C’è una regione estrema dell’agire dove il taglio con ciò che è stato oltrepassato è più radicale. L’apertura è alle mie spalle, davanti a me la desolazione, sono io stesso l’azione, la scheggia che strazia dopo avere negato tutte le modulazioni del compromesso e della corrispondenza. Sono senza inquietudine, sono al di là di ogni possibile inquietudine, ricordo del mondo angosciante da cui provengo. Sono al di là di ogni immagine crudele del mondo. Di fronte all’uno che è, perfino la mia coraggiosa puntualità è nulla, non sono Farinata, sono un venticello di aprile del tutto trascurabile in queste latitudini. Il deserto della realtà corrisponde con la solitudine emozionale della mia mano alzata, pronta a colpire con un gesto condizionale portatore di inesorabile aggressività. I miei occhi sono due fessure invisibili, sformati e sfigurati dalla concentrazione dovuta al coinvolgimento, vedo solo l’angoscia lancinante e imprevista negli occhi del nemico che ha attinto il suo stupore mortale, la disperazione e l’impotenza.

Il fatto è che tutti abbiamo contratto debiti con le cose della mota e quindi tutti veniamo presi e trascinati via dal violento acquazzone che sconvolge il nostro perbenismo più o meno peloso. Avevamo sognato una vita indifferente, seppure amara? Ora sappiamo che quel sogno era inconsistente perché in un luogo maledetto, il luogo dove giacciono le cose della politica, qualcuno sta rimescolandole, e leggendo questo rimescolio non possiamo che tacere e abbassare la testa o alzarla gridando la nostra passione per la libertà. Ma essendo tutti, senza eccezione, compartecipi di quell’assassinio continuo che è la politica, siamo come prigionieri di noi stessi, della nostra stupida malvagità, delle promesse non mantenute, del lavoro che ci strangola. Così siamo freddi ed estranei uno all’altro, chiamiamo amore il possesso e non sappiamo cosa sia il dono. Ogni turbolenza all’orizzonte ci inquieta e ci induce a rincantucciare il capino sotto la piccola ala del nostro essere galline da cortile. Machiavelli ci rende infelici, e la lettura del libretto malefico anche di più. Vi sentiamo un’atmosfera fredda ed estranea, l’agitarsi di un vento che minaccia di diventare impetuoso, e quasi vorremmo che questa denuncia della nostra oscenità non fosse mai stata scritta. Alcuni continuano a leggere questa trappola per topi ma lo fanno con cautela, mentre furtivamente assentono al recupero, da ogni lato proveniente, del suo autore. Essere antimachiavellici oggi sa di stantio, ma quanti hanno capito le condizioni delle cose politiche di cui Machiavelli parla? Non molti. Questa è la sua filosofia, una dura denuncia contro una potenza nemica, agente nelle tenebre della melma.

Le titubanze che alimentiamo da sempre nei nostri cuori riguardo all’uso della forza hanno origini remote. Sappiamo tutti della potenza nemica opprimente, ne abbiamo visto le conseguenze e abbiamo esaminato le cause, eppure non facciamo che malvolentieri il passo successivo. Che ci succede? È che anche noi risentiamo dell’abiezione, anche le idee di libertà e di uguaglianza devono fare i conti con quelle cose della politica. Il rigetto il più delle volte si mantiene a livello epidermico. Il nemico va bene, sappiamo dov’è, e a volte sappiamo perfino come potremmo colpirlo, ma procurarci i mezzi per attaccare con la forza necessaria, ebbene questo è un altro discorso. La bestia melmosa penetra nella nostra decisione, perfino risale al nostro convincimento, e ci fornisce gli alibi della titubanza, dichiarandosi, in quanto bestia, motrice della Storia e forse anche delle nostre motivazioni più profonde.

Così ci disarmiamo prima di armarci, accettiamo gli alibi che i promotori intellettuali della nostra vergogna ci propongono, ci universalizziamo appiattendoci, affratellandoci al nemico ci limiamo le unghie per paura di fargli male. Nulla è chiaro in questo modo, ogni progetto si ridimensiona da solo nella mediocrità, si appiattisce fino a esalare l’ultimo respiro. L’assassinio – nelle sue varie forme – lo perpetriamo o collaboriamo con coloro che lo perpetrano, ma non lo vogliamo ammettere. Noi siamo i liberi e i portatori di libertà, la politica non ci concerne. E invece no, Machiavelli lo dice senza mezzi termini. Gli assassini siamo noi. Il potere siamo noi che lo rendiamo possibile.

Gli artigli del fare, spietatamente mi circondano e mi convincono che la mia realtà, vera, è questo moncone artefatto, il resto non deve interessarmi, devo fare di tutto per diventare altro da quello che sono, migliore, superiore e ciò mentre pregiudizi di ogni tipo negano nei fatti stessi quello che il fare predica possibile, la completezza. La catastrofe la intravedo nella nullità intrinseca di quello che riesco a stringere tra le braccia, i miei possessi disseccano al sole le loro vane membra, mentre terrificanti sentenze di condanna vengono emesse contro ogni tentativo di andare verso qualcosa di diverso. La desolazione della realtà è affollatissima se paragonata al deserto delle relazioni immediate, dove ogni connotazione qualitativa viene fatalmente falsificata. La puntualità dell’azione è sequenza infinita tutta interna a se medesima, interminabile, crudele separazione del mondo da me creato. Nel coinvolgermi in essa perdo la mia identità da sempre catturata e cancellata dalla volontà, mentre i miei occhi restano aperti al deserto e dal deserto disperatamente traducono una voce ignota, quella dell’uno che è. Sono suoni morenti nella loro fragilità, impervi alla chiarificazione, intensi, carichi di un peso che è esattamente quello della completezza che nulla può alleggerire. Sono pronto a scattare nell’azione proprio perché sono pietrificato a qualsiasi movimento governato dalle idiosincrasie del fare.

I promotori della bestialità umana siamo anche noi, con il nostro estremismo parolaio, con il nostro attendere che l’agire venga a bussare alla nostra porta mentre sbucciamo piselli. Almeno l’intellettuale puro, e quindi bestia per eccellenza, sa che nessuno mai busserà alla sua porta, ma gli altri, che fanno costoro per non sentirsi morire? Che fanno per illudersi di vivere? Niente. Accettano una distorta rifrazione dei primi e ne raccolgono gli escrementi, fanno dilagare le misere esegesi di quelli in ripetitività asinine, ragliando contenti della propria subalternità. Sono questi che formano la parte intrinseca degli ingranaggi della politica, forse ne costituiscono la parte più sommersa nella corruzione, e noi con loro, se restiamo silenziosi per malintesa fraterna connivenza. Machiavelli non appartiene a questa schiera di bertucce ghignanti, ecco perché la sua parola mantiene sempre la medesima compattezza misteriosa e alchemica delle cose della politica. La sua coraggiosa immersione nel profondo della caverna dei massacri, gloria e forza della sua parola, è bestiale come bestiale è la melma che copre le cose di cui parla. Tutti i capolavori sono quello che devono essere, niente può spostarsi in loro o sostituirsi senza che decadano a faccenduole da esercitazione retorica. Stanno là e non li si può smuovere, è la filosofia che ruota attorno ad essi, non viceversa. Machiavelli non tratta della bestialità politica come di una mostruosità del profondo. Ne parla qui, sul desco dove si discutono le vicende della quotidianità, dove ne va della vita di tutti. L’oscura profondità della bruttura è costretta a venire a galla, a rimescolarsi, a capovolgersi in maniera che le cose dell’assassinio non siano più altrove, nella bestialità mostruosa di cui l’uomo è capace, ma qui, fra noi, ed ecco perché non ne arrossiamo, anzi cerchiamo di giustificare quelle cose come necessarie alla vita in società. Machiavelli, al contrario, le denuda, non le mette da parte e non ne prende le distanze. Il fatto è che la mostruosità, più che la bontà, è l’ornamento più comune e smagliante dell’uomo. Deprecarlo è stupido come lamentarsi del maleodorante e nerastro ribollire del fango. L’incontro, tra chi attende speranzoso la sua porzione di melma e chi soggiace al gioco oleoso della profondità avviene nella comune passione per la bestialità. Il luogo di questo incontro è nelle cose di cui parla Machiavelli.

Perché la lettura di Machiavelli, in particolare del suo libretto malefico, è fondamentale, tanto da potere avvertire subito in chi si occupa di problemi sociali l’ignoranza o la familiarità con quel testo? Perché Machiavelli è uno scrittore adulto, privo di remore e di scrupoli, non è un navigatore nel mare delle ingenuità, la melma politica la esamina con una vocazione irresistibile, non essendoci costretto se non nella pratica di cancelleria, dove attraverso le sue relazioni non appare l’intento veramente suo se non per barbagli occasionali. Egli guarda avanti, non vuole essere un qualsiasi raccoglitore di cognizioni attorno a dei fatti che sono grandi come montagne per le conseguenze che provocano, mentre le cognizioni rimangono piccoli spauriti topolini. Scrive disgustato disgustando, e questo perché è filosofo e non mestatore politico, non è né falso né esagerato, quello che in lui può sembrare eccessivo o stravagante, è solo l’insieme delle cose politiche, l’agitarsi continuo della poltiglia. Essendo uno scrittore del futuro, anche parlando di cose che il futuro conoscerà in correlazioni diverse, sono sempre le medesime cose immerse nella medesima melma che il futuro conserverà, ed ecco perché la filosofia di Machiavelli è filosofia attuale ed ecco perché di lui non si è perso il ricordo e neppure il fascino. Questa filosofia è oggi traducibile con facilità nella nostra condizione presente solo apparentemente più complessa, mentre è soltanto più caotica. Ma Machiavelli è signore del caos, il suo procedimento diretto alle cose mette in moto effetti obliqui, meditazioni sull’assassinio che fanno paura oggi, forse più che all’epoca sua.

Nell’azione non riesco a sentire come mio il mio essere puntuale, né lo posso sentire come estraneo. Non sono io a possedere quella realtà che è la sua solitudine e la sua desolazione, io sono la puntualità, non quest’ultima è un mio possesso. Sono contagiato dalla realtà, abbagliato, calamitato, terrificato, ma non sono altro di questa diversa condizione e questa condizione diversa non è altro da me. La grande solitudine dell’agire ha una corrispondente, quasi sempre trascurata, la piccola solitudine del fare, annegata, quest’ultima, nella radicale mancanza di alternative alla conoscenza protocollare. O mi assoggetto al controllo, o mi getto nelle braccia del silenzio e della incomprensione. Non posso sostenere questa lacerazione per arenarmi nella sorgente stessa dell’inquietudine scambiandola per la soluzione radicale del mio desiderio di completezza. Dominata dalla realtà, l’azione è vertigine complessa e articolata in mille contraddizioni, senza più gli equilibri e le disillusioni del fare. Non c’è nulla da comprendere, agire è esattamente il contrario. L’azione esce dal fare ma non ne mostra alcuna conseguenza effettuale, non posso identificare nel fare la causa dell’azione. Milioni di persone fanno più di quello che dovrebbero fare. Interrompere la parola nel suo compito estremo richiede una sufficiente fiducia nelle proprie capacità, e ciò accade o nell’estremo rigoglio delle ridondanze o nella stringatezza altrettanto estrema che prelude al silenzio. Costringere a parlare la parola è compito estemporaneo e rapsodico, non potendo legarsi a nessuna norma retorica artificialmente costruita a questo scopo.

Niente nel suo modo di dire le cose della politica fila liscio, ogni momento la filosofia propone un nuovo modo di lavorare in profondità, proiettato verso il futuro. Non ci sarà più occasione né per Machiavelli né per i suoi tanti lettori di accostarsi alle cose della melma fino a penetrarle nella loro spaventosa profondità. Il distacco dell’occhio svagato dell’umanesimo appare qui più evidente. Sono messi a nudo i nervi dell’uomo, di qualunque uomo, non dell’uomo cattivo che l’uomo buono può guardare con supponenza a distanza di sicurezza.

Nel libretto che ci occupa, malvagio o meno che sia – deponiamo alfine questo luogo comune – è messa sotto la potente luce filosofica l’inclinazione dell’uomo verso la malvagità, la sua pratica costante e coerente dell’assassinio. Questa è una passione, così almeno appare a Machiavelli, la passione della forza, strumento primario del potere, da un canto, ma anche della liberazione dal potere. Antitesi irrisolvibile che anime candide rinviano continuamente ma non affrontano. Forse si potrebbe chiamare vizio questo bisogno di vivere in società, ma è vizio che si ripresenta sempre più consistente e abbarbicato al desiderio e al bisogno dell’altro, che tutti avvertiamo. Nella pulsione verso la società c’è il lato avvincente dell’amore, segreto o rivelato a chiare lettere, ma non resiste a lungo, un movimento per quanto lieve della mota collettiva lo precipita nella misteriosa caverna della politica. Si può distinguere qui quanto si vuole fino ad arrivare alla sottigliezza, ma è impresa vana. Il più tenero degli uomini è sempre a un passo dalla fossa melmosa. Machiavelli lo sa e ne fa oggetto della sua filosofia.

La puntualità dell’agire pulisce il colpo d’occhio da tutte le stucchevolezze alle quali sono stato educato dal fare. Mi tuffo in me stesso ed è da me stesso, con i miei occhi soli, che progetto la puntualità attiva. Quello che regge qui il vero e proprio confronto con l’uno che è, è proprio l’improbabilità puntuale, la sua consistenza mitica, così travolgente da fare passare lo stesso oltrepassamento in secondo piano. L’ispirazione di questo contrasto e di questa commisurazione si trova nella realtà, nel suo desolato territorio. L’intuizione, se cade in un terreno fattivo fertile, cioè rinvigorito da produzioni accettabili della volontà e da contraddittorie produzioni che la volontà è costretta a combattere, produce conseguenze interpretative di grande portata, tali da sconvolgere i ritmi e le modalità consequenziali che governano le corrispondenze relazionali. Di fronte a certi costrutti volontari fortemente concentrati sui vincoli del possesso, si arena ogni tentativo di accesso alla diversità. Si tratta di condizioni realmente patologiche che assumono l’aspetto della più banale delle normalità. Si vive e si muore così franando continuamente in ogni progetto che si presenta sempre sotto l’aspetto tetro di ultima soluzione. Le illusioni si sovrappongono alle passioni e queste a quelle, cancellandosi a vicenda. Le intermittenze intuitive, che si posseggono come gli scatti di umore o le aritmie nei battiti del cuore, alla fine registrano solo molteplici scacchi crudeli.

A volte non c’è neanche modo di precisare l’oggetto del contendere, le modulazioni del potere, il mezzo – l’assassinio – fa da padrone allo scopo – il potere – e lo condiziona facendo apparire il secondo termine, lo scopo, come impregnato dell’inconveniente del mezzo. In poche pagine Machiavelli si sbarazza però del suo problema. Il potere è forza, quindi è assassinio. I politici si illudono di nascondere le loro mani sporche di sangue, ma non ci riescono. Ogni discorso adulatorio, o anche semplicemente riduttivo, riguardo a questa affermazione, non riesce a nascondere la coda. Machiavelli non ammette queste titubanze, le considera difetti del dire non del fare, nell’azione politica, condanna quest’ultima come inane tentativo. Gli uomini, delle piccole offese si vendicano delle grandi non possono – cito a memoria – ed è un sasso lanciato nello stagno del perbenismo. Chi attacca il nemico deve colpire, ogni titubanza, ogni tentennamento, ogni incertezza sono altrettanti errori e si pagano a caro prezzo. Il nemico si vendica. Nessuno meglio di me che scrivo queste righe [2009] lo può testimoniare dal fondo del peggiore carcere che esiste in Grecia. Una debolezza la si paga e il rivoluzionario non mette in gioco solo se stesso, ma anche il proprio progetto. Il potere sa bene la verità di questa frase di Machiavelli, e se qualche volta accetta di mostrarsi debole lo fa perché non può farne a meno, il suo calcolo politico gli suggerisce che la strada migliore è quella della debolezza. Su questo punto ci sarebbe molto da dire riguardo alla gestione democratica del potere.

Lo sguardo puntuto della mia penetrazione nel territorio della qualità fronteggia la ferma presenza dell’uno che è, anche se non ha la forza di interiorizzazione che la coscienza immediata aveva prima dell’oltrepassamento. Quello che manca adesso, alla enorme potenzialità attiva, è la capacità di introspezione. Io sono l’attore agente, non la coscienza mutila che guarda agire me stessa di fronte al prevedibile scontro con le corrispondenze e i protocolli. La defaillance dell’oltrepassamento, se reiterata, a lungo, produce una sensazione di naufragio. Si tratta di una categoria forse troppo sfruttata, ma il viaggio di una nave naufragata è per forza di cose impossibile a riprendere se prima il relitto non è trascinato al molo di partenza. L’eccesso, se insisto a restringerlo nei panni dismessi del fare, è assurdo. È un produrre in più, di più del più, un azzerarsi in se stesso programmando l’ulteriore incredibile aggiunta. Rafforzo in questa maniera la separazione della produttività modificativa, la bizantineggio, l’antropomorfizzo, la completo nel pieno della sua possibilità di incompletezza.

Non è un accumulo di parole che ci si aspetta accostandosi a Machiavelli, quanto uno stratificarsi delle cose dove le parole si addentrano costruendo concetti che sono cose essi stessi, non semplici superfetazioni. Scarseggiano gli aggettivi di sorpresa e di incitamento, tutto è affidato quasi sempre ai sostantivi, difatti le cose non sono mai misteriose ma è il mistero che le costituisce nel fondo della caverna. Solo per un intellettuale ozioso le cose della politica possono essere avvincenti, per chi è nelle cose stesse e in esse si muove furtivamente, l’assassinio è pane quotidiano, non cessando per questo di essere l’estrema bestialità umana, il segno costante e immutato dei tempi che pure avanzano inevitabilmente verso una conclusione, se non altro quella della nostra propria morte. Scrivo in un posto infernale che sarebbe eufemistico definire prigione, i muri lordi di fango alto tre dita, il pavimento quasi inesistente, gli insetti di ogni genere che banchettano al posto mio con quello che resta di me stesso, tutto ciò mi dà una piccola idea della caverna degli assassini che covo e nascondo dentro di me. Che filtra attraverso queste mura al di là dei quali, in lontananza, riesco a vedere il Parnaso? L’essenza estrema del pensiero filosofico, la confusione concorde dei sistemi che hanno avuto tanta parte nella mia vita e che ora, a un passo dalla morte, in questi tardi anni, sono come lande sconfinate e sconosciute. A volerne parlare non saprei che dire, con Machiavelli non mi accade tutto ciò, mi resta vicino. Lui vedeva tutto questo e non se ne meravigliava, scelta che stento a seguire come un discepolo pauroso. Qui l’uomo è nudo, senza orpelli o giustificazioni, qui è politica tutto, anche la gavetta sporca dove mangio perché non posso lavarla mancando l’acqua da tre giorni. Non sono note di colore, è solo una piccola parte di quello che mi circonda mentre mi affatico su queste pagine.

Il dire rammemorativo può dilagare nelle estensioni variopinte del precedente scavo labirintico che aveva come propria ragione sufficiente l’accerchiamento della volontà, oppure può intensificarsi all’estremo, dove il segno perde ogni superfluo significato. La Pietà Rondanini, a esempio. Questa capacità di intensificazione è un avviso del destino, che sta mandando segnali precisi, la vita tossisce i suoi ultimi palpiti e in questo c’è quella sorta di frivolezza di cui parlava Proust. La puntualità nell’azione ha qualcosa della visione panoramica di cui ha parlato Bergson, anche se il punto di morte è solo un accidente secondario. Qui non sono più ammessi i deliri immaginativi, quel sentimentalismo che guarda e deforma, a proprio uso e consumo, i momenti del fare. La puntualità può avere, nella realtà, un’aridità inconsueta, un taglio del tutto sconosciuto al fare coatto, agli accomodamenti rituali tipici del mondo delle attese dove un fare pietrificato accumula conoscenza da utilizzare per scopi bene individuati. Che poi questa apparente fluidità e ricchezza di obiettivi si riveli una patetica illusione, questo è un altro problema.

Perché scriveva Machiavelli? Non per un committente, come nelle Istorie, non per amici o nemici, non per i discepoli degli Orti. Scriveva prima di tutto per se stesso, come si è detto, poi per qualche uomo d’azione, qui e là nel corso dei secoli, che tale era la sua acuta vista. Non che questi pochi rivoluzionari hanno o avranno perso i loro giorni nelle pagine del libretto malefico, ma il modo di porsi di fronte alle cose era quello, era il loro esattamente come per Machiavelli. Un messaggio spedito al futuro (o al passato passando per il futuro). Perfino la condizione losca del libretto può avere giocato il suo ruolo, chi a esso si accosta deve prima fare i conti con questa periferia balorda che nel migliore dei casi suggerisce indifferenza e allontanamento se non condanna vera e propria. Il fatto è che nel Machiavelli di queste pagine c’è un aut-aut a cui non si può sfuggire, una sfida a vedere diversamente le cose della caverna dei massacri nella loro profondità, a svolazzare lontano e remoto come un uccello. Machiavelli sa che ciò non è possibile al lettore che non sia un provato tartufo, ma il lettore non lo sa e annaspa cercando una ciambella di salvataggio per nuotare meglio, fosse anche quella dell’infamia che chiude gli occhi per non vedere l’orrore.

Al contrario, nel piccolo libro dinamitardo non ci sono appigli, non c’è niente di tonico, tutto è radicale e sconvolgente, come la vista di un uomo a bocca e occhi spalancati, abbandonato da poco dalla vita. Una imprevedibile sorpresa sembra scritta nella sua faccia sgomenta, la sorpresa di avere capito, alla fine, quanto tenue sia il filo che tiene in piedi questo pupazzo che chiamiamo uomo. La sibilante certezza di Machiavelli è un sigillo sulle cose, queste non verranno mai più dette altrettanto chiaramente. Essa prevede i tempi futuri e chiude i tempi passati, collegamento e crocevia, un unico movimento all’insegna dell’infamia umana e della pratica dell’assassinio. È la sua voce a scandire questa mancanza di cesura tra passato e presente, tra quello che è accaduto e quello che continua ad accadere, e nella voce si avverte l’asprezza della novità e lo stremo delle forze di chi sa di ripetere la stessa tragedia infinite volte detta in altrettante guise. La solitudine del suo dire è nelle parole stesse, nella lingua che impone al lettore preferendola al latino dei trattati, è nella spavalderia di scoperchiare un antro degli orrori che nessun perbenismo idealistico potrà ricoprire più come prima. L’uomo è l’animale che tortura, che penetra nell’altro uomo uccidendo, maneggiando senza curarsene troppo quella gracile cosa che è la vita. E questa non è una prerogativa della tirannia ma nostra, di noi tutti che ci portiamo tale contrassegno nella solitudine del cuore.

La parola con cui cerco di dare conto qui della puntualità non è parola rammemorante, che prende in considerazione l’esperienza diversa, essa è fragile navicella per attraversare con grandi stenti il mare immenso della incomprensione, goccia a goccia, scintilla a scintilla. Eppure questa inconsistenza foggia i miei strumenti, li leviga passandoli sulle mie ferite sanguinanti, per farli diventare duri come il cristallo, capaci di dire e bruciare senza lasciare traccia. Ma dire che cosa? Dire la puntualità che si riflette nell’uno che è. In questa riflessione c’è una insistenza che ricompone continuamente se stessa, priva di scopo, in quanto quello annunciato, il riflettersi nell’uno, è chiaramente un espediente e un modo di fare sentire l’odore di bruciato che si sprigiona dallo svanire di questa parola nel fuoco stesso di una testimonianza impossibile, in modo straziante fuori portata. Ogni domanda di accesso rivolta all’uno che è, diretta, resta ovviamente senza risposta. Sarebbe tutto troppo facile se non fosse così. Ogni groviglio di pensieri che faticosamente costruisco con la mia abilità fattiva, è sistematicamente respinto e disseminato in immagini e monconi di parole. Ogni momento questo guazzabuglio si frange e si ricompone assumendo forme insondabili e oscure, negazioni che la stessa critica negativa stenta a riconoscere o a interpretare. L’uno che è, è inattaccabile da questo lato, il fare che cerimoniosamente chiede, non lo intacca né lo coinvolge, la sua estraneità è assoluta. Le mie domande si distruggono da per se stesse e, non conducendo da nessuna parte, si infrangono non sull’uno che è, ma su se stesse, distrutte dal loro medesimo senso segreto, ignoto perfino a me che le pongo. Soffermarsi sull’apertura e guardare indietro accennando al saluto, l’ho paragonato al gesto di addio del suppliziato. È il momento in cui temo che non ci sia via di scampo al precipitare nel coinvolgimento più cieco, disperatamente negatorio di ogni conoscenza fattuale. È il momento in cui cerco in fondo al mio cuore quel motivo per cui l’umana incomprensione si erge come idra dagli abissi o suona come diapason insostenibile per le mie orecchie. Sono salpato con grande energia e mi perdo nel cercare una qualche zattera di salvataggio.

Machiavelli taglia in modo irreversibile il mondo della melma politica interpretato in mille occasioni, quel mondo però non può essere interpretato e quelle interpretazioni non sono altro che fantasie collaterali, senza contatto con la caverna umana dove la mota bolle continuamente. Un contesto edulcorato è come una caramella, non può mai sostituire un pasto vero e proprio, serve solo come passatempo. Alimentare languori sulla povertà politica della società è tempo perso oppure, se opera ben fatta, progetto letterario di altra natura. Niente di più lontano dalle intenzioni di Machiavelli di costruire un sarcofago sopra la caverna degli orrori umani, nemmeno una scala di servizio. Non ci sono ricami o damaschi che non finiscano prima o poi per tradire quello che nascondono pudicamente. I tagli delle diverse corrispondenze sono sempre sorprendenti, Machiavelli non si smentisce mai, non mette baldacchini o colonne alle proprie intenzioni, le deposita semplicemente davanti alle cose, senza graduare l’approccio in modo artificioso. Trascurare un singolo dettaglio del misterioso mondo della fanghiglia significa per lui tradire la propria concezione filosofica, come se volesse condannare qualcuno e assolvere qualcun altro. La politica ha tombe riverite e coperte di alloro, ma sempre della stessa melma si tratta, uguale a quella che copre le più trascurate. Machiavelli lascia che l’erba cresca sui trattati elogiativi e giustificativi, le cose che vivono al di sotto della melma, nella loro nauseabonda condizione, non sono giustificabili né elogiabili. Molte di queste cose, anche l’assassinio, forse in primo luogo l’assassinio, non sono quasi mai state al centro dell’attenzione né degli assassini né dei loro elogiatori più o meno retoricamente provveduti. Tutto si è svolto nell’antro delle dimenticanze. Ci si dimentica facilmente di ciò che è sgradevole non appena si è riusciti a mettere un velo sufficiente a coprirlo. Machiavelli non dimentica. Il suo dire persiste anche oggi con la stessa affilata capacità di penetrazione e tutto è pregnante non conoscendo incuria o trascuratezza, ma nemmeno perdono.

I competitori ostili e i facili elogiatori – in fondo quale la differenza se non riescono entrambi a cogliere la filosofia dell’orrore umano? – sono legione, si estendono come una vegetazione tropicale e ripetono una musica più o meno simile che sembra venire da un loggione isolato non udibile se non vi si presta attenzione. In fondo è l’amore che vince il tempo o l’insegnamento che sconfigge l’empietà umana. Balocchi per orecchianti di politica.

C’è qualcosa di lacerante in questa banale constatazione. In breve non c’è modo di sfuggire a Machiavelli. Il tempo va via veloce e sembra non avere potere su quel malefico libretto, ciò è conseguenza dell’essere l’uomo sempre uguale a se stesso, lupo per l’altro uomo. Naturalmente questo non è un giudizio di Hobbes, banale trascriverlo qui, è la pratica della vita e delle illusioni educative e tradizionalmente dicotomiche. La società nuova costruita su una montagna di cadaveri potrà far vivere l’uomo libero? L’anarchia è metodo di lotta, qui e ora, cristallizzata in un luogo ideale, dove l’uguaglianza alla fine riposerebbe su guanciali di piume, potrebbe non avvedersi della caverna che l’uomo alberga in se stesso, così com’è individuata da Machiavelli. L’occhio acuto dell’anarchico potrebbe svagare subito su di un panorama di putti e pecorelle, Arcadia nuova, dove ci sarebbe comunque la morte nascosta dall’edera e dal fogliame secco ai piedi della quercia. I radiosi incontri libertari sono sogni che aiutano a vivere con i piedi nel fango.

Nel coinvolgimento metto in gioco la totalità di me stesso, quantitativamente intesa, questo è ovvio, ma senza riserve mentali e senza inganni. In caso contrario non faccio altro che avvoltolarmi nella fanghiglia che ospita da tempo immemorabile i miei pavidi tentativi di oltrepassamento. La rinuncia alla lotta, anche se si dipana su molteplici piani di mancato intervento, è morte interiore, interruzione di contatti con la vita, raggomitolarmi nella paura della notte e negli incubi del giorno. Torno a un’accettazione platonica di ombre e simulacri, eppure mi sento portatore di una camaleonticità fattiva. Ho avuto paura, sono un vigliacco, ho cercato di guardare negli abissi e nemmeno sono stato capace di restare con gli occhi aperti. Il mio gesto inatteso era atteso da qualche cosa che l’ha bloccato. Le convenzioni protocollari e le illusioni di sicurezza che le accompagnano misurano non solo gli equilibri della mia creazione del mondo, ma anche, e principalmente, le mie distrazioni e le mie indifferenze, il mio lasciarmi vivere e il mio lasciarmi morire. Ogni riflessione appena appena altra, si limita a lambire l’orlo dell’abisso, non si accorge neanche del magma che vi bolle dentro. Le mie fragili parole si limitano a volte a singhiozzare sui danni della perduta qualità e non dicono nulla delle quantità che posseggo e su cui potrei puntare i piedi non per una radicale e razionale inversione di rotta, ma per un semplice istante di sbalordimento.

La sconfitta è il destino dell’uomo, la morte lo personifica con tutta semplicità. Arriva sempre come l’amante segreta, che nessuno ha mai visto in faccia. L’anarchico deve amare la sconfitta – evidentemente non la morte – perché tutti i suoi tentativi si concludono sempre in qualcosa di diverso dall’anarchia, qualcosa contro cui deve prima o poi lottare nuovamente. Ecco perché l’insegnamento delle cose di cui parla Machiavelli è fondamentale. L’uomo è una bestia politica e tanto basta. Si possono escogitare metodi e progetti molto articolati ma soltanto la sconfitta anarchica li caratterizza nel loro contenuto di libertà. Il loro implicito mettere ordine è un appello al potere, quindi ripresenta l’antica melma da cui l’anarchico si era allontanato sulle ali della fantasia. Qui non ci sono eccessi o salti qualitativi, Machiavelli è leggibile in questa direzione. Non fornisce, come sappiamo, una soluzione, anche se indica l’astuzia e la forza come strumenti indispensabili. Preso in sé questo suggerimento è banale. Perde la propria banalità una volta immerso nella politica delle cose.

Nessuno è maturo per uccidere, come nessuno è maturo per essere ucciso. Eppure la politica procura questa maturità a buon mercato. Qualsiasi imbecille è capace di giocare questo infame gioco, e di esservi giocato. La ricostruzione delle cose della politica svela queste corrispondenze allo stesso tempo in cui svela il modo per accostarsi a loro con la filosofia, cioè con un metodo per capire, non con un insieme letterario di chiacchiere utili alla gestione del potere.

Tutto questo sta all’interno dell’uomo e si proietta all’esterno, atteggiamenti, idee, oggetti, tutti convenientemente immersi nel putridume politico. Le figure che descrivono questo complesso sono considerevolmente approfondite dal lato che si potrebbe definire oggettivo, di meno Machiavelli si addentra nel lato soggettivo ma il raccordo è lo stesso comprensibile per noi oggi, uomini dell’epoca psicoanalitica.

Nel fatto, in ogni singolo fatto, è inserita la morte, la prospettiva e l’esperienza della morte. Ci sono fatti che respingono, un divertimento, questa presenza ai margini, ci sono fatti, come il rumore di fondo che mentre scrivo mi raggiunge di una chiave che chiude la porta di una cella vicina alla mia, che la pongono a una vicinanza che non sarebbe errato definire angosciosa. L’inquietudine mi insegue fino alla soglia dell’apertura, mi dà la vertigine e mi continua a tenere in un vortice inarrestabile che a poco a poco erode il senso di quello che ho fatto e contro cui combatte un’epica lotta il mio coraggioso coinvolgimento. Se restassi esternamente in bilico sarei morto. La morte è la solitudine della realtà, quindi è la vita assoluta, negazione di ogni apparente vita coatta. Nell’agire immerso nella totalità dell’uno che fronteggio con la mia puntualità, vivo e agisco perché sono in fondo una parzialità che affronta la qualità fino a un certo punto, il punto di non ritorno. Il salto mi porterebbe a una morte sconosciuta, indeclinabile anche per la stessa qualità. Quando la spinta all’oltrepassamento si dirada, quando si affievoliscono i motivi critici di rigetto dei colpi inferti dalle condizioni fattive protocollari, avanza la decifrazione della morte, non parlata dal destino ma fatta dalla produzione coatta e controllata nei minimi dettagli dalla volontà. È la morte mia e del mondo da me creato, il crollo della fiducia in me stesso, la fine di ogni fuga in avanti, verso l’assolutamente altro. È la morte incombente, la vita che raccoglie le sue povere carabattole e se ne va.

Al centro della caverna sta un nucleo imprecisabile e continuamente obbligato da strane variazioni. Questo nucleo mostruoso ognuno lo vive e lo vede a modo suo, tante sono le facce che presenta quanti gli uomini che lo prendono di fronte come un nemico. Il resto dell’umanità convive col mostro e non se ne avvede. Matura così nella sua ombra e si acconcia a respirare il suo alito fetido. Nessun sospetto ha questa umanità restante del fatto, palese di per sé, che il mostro produce e gestisce le cose della politica e che queste cose ci ospitano tutti, anche coloro che sanno e che hanno il coraggio di guardalo in faccia senza tremare.

Machiavelli mi dice tutto questo movimento, delle cose e degli uomini che quelle cose rendono fanaticamente insopportabili, e rivela in questo suo dire l’impronta unica di una filosofia che non ha paura di accettare l’impegno estremo, fare parlare quello che tutti preferiscono resti in silenzio. Siamo qui agli antipodi del trattato dove tutto va detto per tutto tacere, qui al contrario si tace di tutto il resto, i giri di parole e le dimostrazioni autoreferenti, e si parla solo di ciò che è essenziale, cioè delle cose della politica, dove l’uomo mette a nudo la propria bestialità indubitabile. Tendere a distinguersi da tale condizione umana rende la vita, fino all’estremo limite della spossatezza fisica, una sequenza di avventurose scelte – qualcuno direbbe avventate – e nello stesso tempo richiede una lucidità fuori misura. Non il malanimo di chi si ritiene dalla parte giusta della vita, quale che sia questa parte, ma la profondità di coscienza di chi sa di lavorare alla propria sconfitta e che ha torto chi pensa di avere ragione da solo, di essere il solo portatore della verità. Machiavelli è sarcastico come non mai quando attacca il misticismo che lascia da parte le cose e si affida a qualcosa di superiore nominando questo qualcosa proprio paladino. La sconfitta è il punto di arrivo che Machiavelli intravede ma non accetta, la sconfitta dell’uomo è la sua sola possibile conquista che non gli si rivolta contro azzannandolo come farebbe la bestia della melma, che non gli apre le braccia perché essa è orribile megera e rischierebbe di spaventarlo, ma è scopo e meta, se questi due concetti avessero un senso, nella vita, non essendo inglobabili nella medesima abiezione e restando necessariamente fuori della caverna.

Non sono un fiore che fiorisce solo una volta e muore, sono per più stagioni, sempre diverso e fiorisco come nient’altro fiorisce, anche se qualcuno mi scambia volentieri per un cardo spinoso. Su questo cardo si è posato lo sguardo di occhi blu e l’ha fatto diventare una rosa rossa. Adesso la fragilità che si profila all’orizzonte e la scheggiata pochezza potrebbero scalfire il mio coraggio. Tornare graffiante e altero, sdegnoso dell’altrui incolumità e della mia, uno scatto di reni ormai stanchi. Temerario, non ho paura di essere risucchiato negli abissi dove soggiornano i lugubri rintocchi delle campane a morto. Mettere a dormire i miei sogni, è tempo di andare via verso un ulteriore infinito ignoto. Non posso che ascoltare la voce di fondo del braccio dove mi trovo, voci e allucinazioni, rumori di chiavi e bestemmie, una vasta area tematica che cerca di aggredirmi. Insisto nel fronteggiare l’uno che è, una dissolvenza mortale. È come una tensione che segna i vari livelli del proprio concrescere con il dare vita a tutta un’altra serie di tensioni. Ogni conoscenza si riassume in se stessa e riassume in sé tutte le altre. Posso guardare dall’esterno questo confrontarsi e restare disperato e interdetto. Dicono, queste concrescenze, qualcosa che non è nel mondo da me creato, anche se sono io quella puntualità confrontante, solo che non è immediatezza ma diversità e io non so che dire a questa forza trasformatrice che l’azione farà vivere.

Acquisire per perdere è progetto antitetico a quello politico, non si mischia con tutto ciò che pittorescamente si rimescola nel fondo della caverna, viaggia in senso inverso, capovolge i valori e nasconde quanto di positivamente accumulabile è necessario alla vita. L’antipolitico è uomo che ha pur sempre, come ho ricordato, i piedi nella melma, ma è alieno ai diritti e ai poteri che i propri stessi possedimenti gli permetterebbero. Non rinuncia alla politica a parole, ma la guarda con l’occhio disincantato di Machiavelli, puntigliosamente azzera quello che acquisisce, anche se la mancata acquisizione di una conoscenza sarebbe per lui – questo sì – un vero fallimento e non una sconfitta. La differenza è fondamentale. Fallire è un volere acquisire senza riuscirci, una sorta di dandismo, rimanere sconfitto è la conclusione necessaria di un progetto ricco di acquisizioni.

Ma cos’è veramente una sconfitta, o meglio una vita sconfitta? Essere catturato in un paese straniero nel corso di una rapina in banca andata male a più di settant’anni? Non necessariamente. Questo fatto è un accidente, ma si inserisce nelle realtà che caratterizzano una vita impolitica, sia pure con i piedi nella melma delle acquisizioni. Quello che c’è di irrinunciabile in questo accidente è non il suo accadere – al contrario, tutto poteva andare bene – ma il suo essere implicito nelle stesse acquisizioni precedenti, nelle altre sconfitte non conclusive per banale faccenda cronologica. Uno non può sapere quando la sua vita avrà termine ma a settantatré anni non può illudersi con un’attesa troppo lunga e in ragionevoli condizioni fisiche. Ecco perché guardo il luogo incredibile dove mi hanno rinchiuso, sommario ed elevazione a potenza di tutte le nefandezze che ho visto in vita mia, e mi accorgo che è questo il volto vero della sconfitta. Non avevo pensato a qualcosa di comodo o di gradevole, nel restare sul terreno quasi colpito a morte c’è poco di piacevole, ma non immaginavo questa mostruosità che lacera senza che nessuno batta ciglio, quotidianamente, duecentocinquanta giovani corpi e il corpo di un vecchio.

È inarrestabile l’accerchiamento della volontà, anche se nella immediatezza emergono solo a tratti i segnali lasciati dai frammenti delle tecniche impiegate nell’aggiramento. Questi camminamenti, a volte segreti, a volte scoperti, lasciano intendere uno spaesamento progressivo che può condurre anche a un feroce ripristino dell’ordine, non solo all’oltrepassamento. La straordinarietà dell’esperienza diversa, per quanto debolmente filtrata dalla rammemorazione, non può arrivare a dare luce creativa straordinaria al mondo che faccio tutti i giorni. Lo sconvolgimento radicale, affievolito nel ripristino dell’ordine delle corrispondenze, anche se non torna più all’appiattimento originario non per questo può dirsi buono a interpretare correttamente le illusioni della caverna. La separazione conoscitiva, prima di tutto percettiva, conduce a una dissociazione costituzionale del percepito. La linea su cui si rafforza questa fascia produttiva non può essere risanata, nel campo, che dal più assoluto ebetismo, rinuncia patologica a percepire il mondo, anche una piccola parte di esso. Questa mancanza di autoriferimento è quindi da escludersi dalle mie considerazioni, per quanto estemporanee possano essere le lacerazioni prodotte dal fare coatto.

Non avendo nessuna tendenza per l’esaltazione mistica me ne dolgo fisicamente, anche se filosoficamente riconosco il crocevia finale della mia vita con una certa neutralità, e colgo anche la distanza che mi separa dalla politica, che mi ha separato per tutta la vita. Agli antipodi della scuola anarchica del passatempo suggerisco di dedicare migliore studio alle miserie dell’uomo e minore impegno al banale fare quotidiano. Quest’ultimo potrebbe alla lunga rivelarsi un alibi per l’esistenza delle miserie in questione. Alla fine sarebbe una sorta di rescissione con l’amata società benpensante o malpensante che sia, un isolamento recalcitrante e apparentemente odioso, sempre meglio però della insipienza politica.

Non sto suggerendo un modello, Machiavelli con il suo fantoccio fa lo stesso, sto misurando le distanze tra l’essere e l’apparire. Eppure so che volendo essere, quindi possedere quelle conoscenze necessarie a poterlo fare, non si può evitare di tenere i piedi nella politica, conoscere è convivere con i tempi propri e col mondo che ci ospita, quel mondo che si conosce, e ciò produce ai bordi della caverna la schiuma della mota che attira tanta gente. Non conoscere non salva affatto dal baratro, anzi si diventa stupidamente sempre più pesanti fino a precipitare sul fondo alimentando il nucleo duro della bestialità umana.

L’apparire è squisitamente politico. Nella mente di chi gestisce con parsimoniosa attenzione la propria vita, spendendo sempre meno di quello che acquisisce, la politica occupa un posto di primo piano. Chi appare è bene accolto, è visto ed è in vista, ha accesso alle occasioni giuste, dice la cosa che gli altri vorrebbero ascoltare e che di fatto così ascoltano. Costoro fanno ma non agiscono, per tornare qui a una mia prediletta distinzione. L’essere è sovranamente impolitico, non è ricevuto bene da nessuna parte, dà fastidio, sollecita distinzioni e riflessioni scomode, fa vedere la coda che ognuno si porta dietro, non accetta l’abiezione della melma.

Sull’apertura vedo, davanti a me, il sentiero emozionale che mi porterà a racchiudermi nella mia puntualità, lo vedo e vedo anche la sua incommensurabile distanza dall’abisso dell’uno che è. Infrangere l’ultima barriera, l’ultimo velo trasparente, richiede una enorme forza contraria a qualunque nostalgia di ordine e sicurezza. La vita dell’uno che è provoca una radicalizzazione della puntualità, emozionalmente è questa la profonda diversità di una nuova forza intuitiva. La punta estrema in cui mi sono concentrato estende e amplia le mie capacità intuitive, non le fa solo straordinariamente diverse. Ho una visione puntuale dell’azione e quella visione sono io che mi confronto con l’uno che è, non qualsiasi contrapposizione provvisoria. Drasticamente inquadro l’azione che di per sé è flusso estremamente complesso e fluido, ma non per me che sono la punta estrema più vicina all’uno, non per me che sono radicato nella mia interiorità.

Machiavelli è per l’essere e contrasta l’apparire. Questa conclusione potrà sembrare paradossale ma è l’unica deducibile da un libretto che in molti hanno maledetto senza capirlo. L’estrema rarefazione del suo porsi di fronte alla politica è essere che nega l’apparire, e ciò spiace alla quasi totalità dei lettori. Da qui l’aria malfamata che per costoro sembra venire dagli scritti di Machiavelli, in particolare dal Principe. Sarà questo ad avermi reso, sessant’anni fa, un assiduo lettore di quelle poche pagine? Non lo so, ma all’epoca leggevo anche Croce, che mi facevo prestare dalla biblioteca della scuola, con scandalo e sconforto dei miei insegnanti che consideravano quei libri non adatti alla mia età. E Croce era stato, fin sul letto di morte, un attento lettore di Machiavelli, anche se non lo aveva capito, immergendolo nel suo ginepraio di distinzioni. Le mie attenzioni erano invece dirette al testo e, sconoscendo la storia di Firenze e dell’Italia del Quattrocento e Cinquecento, non mi rimaneva che l’impressione diretta. All’inizio c’era forse una certa sollecitazione scandalistica, poi svanita questa, almeno una decina d’anni dopo, la presa diretta con l’universo Machiavelli, un’impressione determinante per il mio futuro modo di vedere l’impegno e la lotta rivoluzionaria.

Seminata questa passione, oltre che nel terreno poco fertile di Croce, in quello più ampio delle crescenti letture, non scomparve del tutto la sensazione di disagio, come se le letture di Machiavelli, e le considerazioni scritte su di lui che andavo accumulando, fossero una sorta di malattia di cui vergognarmi. Penso che tutti i lettori veri di Machiavelli – quelli veri non quelli occasionali – abbiano avuto questa sensazione e l’abbiano dovuta superare.

Per fare un esempio, avevo studiato come tanti il suo metodo ma i miei risultati mi apparvero subito modesti, non certo superiori a ciò che passava il convento. Il fatto è che i filosofi hanno sempre considerato questo grande filosofo come uno scrittore politico, quindi non filosofo. Conclusione ridicola ma ferrea. Stato di minorità sancito da santa accademia.

Il fare sente il bisogno dell’agire, la sua incompletezza patologica lo sollecita all’inquietudine. L’agire ha bisogno concreto del fatto, ma non sente bisogno del fare. Ma questo volgersi al mondo da me creato non è uno sconvolgimento, uno smentire l’azione, è un prepararsi ad andare avanti attraverso la rammemorazione. La pienezza dell’azione non può essere detta, questo è ovvio, ma mille fili si dipartono dal ritorno all’azione nell’ambito del dire che è parte preponderante del fare. La contemplazione della bellezza, a esempio nel caso di un’opera d’arte, è una spinta rassicurativa contro l’angoscia persecutoria causata dall’inquietudine. Cerco un conforto contro il fallimento della completezza, da cui il successo delle corrispondenze armoniche. Solo la presa di coscienza di questo fatto, da Aristotele in poi fuori discussione, in un’epoca seguente alla generale crisi dei valori ottocenteschi della scienza, ha arruolato la dissonanza sotto l’insegna della medesima funzione. Il fare è dominato da imperativi concreti, produrre è produrre secondo corrispondenze protocollari precise, l’agire è assente da questo genere di concretezza misurabile e temporalizzata, esso è ancora più denso e concreto, si riassume in un unico momento inscindibile, dove ogni particolare entra nell’altro in una sorta di implosione fino a costituire una punta che penetra la realtà nel più intimo della sua desolazione. Sono solo col ginocchio sinistro immobilizzato, mi manca lo sfondo del cielo quando si confonde col deserto. Beethoven e l’Appassionata.

Il fatto è che per leggere e capire Machiavelli, in particolare il libretto malefico di cui parliamo, bisogna avere intenzioni proprie tutt’altro che lodevoli nei riguardi di questa società e di ogni altra società che getta le sue fondamenta nella politica. Ognuno può, nel proprio cantuccio caldo, tenere questo libretto in mano come faceva France, e sognare una società diversa, con i piedi per aria. I baloccamenti sono gradevoli, aiutano a vivere e anche a morire. Queste intenzioni bisogna averle nella pratica non nelle millanterie dei sogni. Ogni adoratore di fanfaluche potrebbe allora essere un buon lettore di Machiavelli. Non è così.

Avere una cattiva fama, tenere a distanza di sicurezza gli adulatori, depistare i partigiani pronti a voltare gabbana, i cacciatori di gloria e quelli che l’hanno acquisita la gloria, disprezzare i benpensanti e il loro esatto contrario, evitare, fare all’occasione i commedianti per sapere smascherarli quando si atteggiano a fustigatori dei costumi. Un programma ambizioso.

Dopo tutto, cos’è la rivoluzione se non una colossale beffa giocata ai padroni della politica?


Finito nel carcere di Amfissa


[Pubblicato in Alfredo M. Bonanno, Machiavelli filosofo, Trieste 2013, pp. 217-345. In questa stesura semplificata non vengono riprodotte le citazioni].

 
 

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