Titolo: L’Inquisizione spagnola e gli Ebrei
Note: Opuscoli provvisori N. 85
Prima edizione: agosto 2015
SKU: opuscoli-000085
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Nota introduttiva

In tempi perbenisti, tipici del gesuitismo francescano (non si tratta di un bisticcio di parole), è bene rileggere alcuni accadimenti del passato, più o meno antico. Che la vergogna e l’obbrobrio non si cancelli tanto facilmente, con un colpo di spugna e qualche parola caritatevole. L’attuale papa Francesco è un continuatore dei massacratori del passato, non dimentichiamolo, anche con tutte le sue aperture al dialogo e con la ramazza che sembra tenere saldamente in pugno. Nessuna illusione.

Oremus et pro perfidis Judaeis ut Deus et Dominus noster auferat velamen de cordibus eorum… Che si può tradurre così: Preghiamo anche per gli Ebrei infedeli…, affinché il Signore e Dio nostro tolga il velo dai loro cuori…, ma che il popolo, nei secoli, non conoscendo bene il latino, comprendeva come “perfidi”, cioè infidi, capaci delle peggiori nefandezze, inaffidabili, ecc.

L’epiteto “perfidi”, non proprio gradevole alle orecchie moderne, scompare nel 1959, regnante Giovanni XXIII, ma restava la questione del “velo” e quindi il riferimento all’impossibilità di conoscere la verità. Questo riferimento cade nel 1962 con il Concilio Vaticano II.

Ora, tenendo presente che la formulazione iniziale parte dal VII secolo, si può avere un’idea di quanto danno abbia causato, in tredici secoli, la propaganda della Chiesa e quanto questa abbia contribuito a sviluppare il razzismo di ogni genere.

Il problema della “purezza del sangue” è ancora più specifico e importante. Non si trattava di una esortazione generica a convertirsi alla verità, ma di una ricerca casa per casa, antenato per antenato, discendente per discendente, anche nei riguardi di coloro che si erano convertiti per scampare a persecuzioni e condanne senza fine.

Ed in ultimo il razzismo oggi, un razzismo di ritorno. I perseguitati che diventano persecutori. La storia che si capovolge.

Senza fine, sempre.


Trieste, 18 maggio 2014

Alfredo M. Bonanno

* * * * *

Normalmente la filosofia confina il problema del male nell’ambito dell’etica, la quale in verità è una sfera troppo ristretta per una questione così immane e sconvolgente, e la cui riflessione appare del tutto inadeguata a un argomento così centrale e decisivo. Il male inteso come alternativa all’opzione morale o come disvalore riscontrabile su un piano assiologico è un incidente anche gravissimo nel cammino pur arduo della virtù; e il dolore inteso come impedimento a quella felicità ch’è inseparabilmente connessa con la virtù razionalmente concepita è un’avversità da domare e da vincere con un difficile esercizio di ascesi e di imperturbabilità. Ma una trattazione che si fermasse a questo livello sarebbe ben lontana dall’essere esauriente e profonda, e anzi si lascerebbe sfuggire il centro stesso del problema.

Luigi Pareyson

Gli Ebrei e la “limpieza de sangre”

L’Inquisizione spagnola è un problema tanto ampio che non può essere trattato qui, avendo per altro sue caratteristiche di efferatezza e di autonomia, come pure, per quel che concerne il nostro assunto, di intenzioni razionalizzanti. Basta tenere presenti alcune cifre: dal 1481 al 1498, sotto Tomás de Torquemada, vennero arse vive 10.200 persone, vi furono 8.840 condanne in effige e 97.361 condanne al carcere o ai remi; dal 1498 al 1508, sotto Diego Deza, arse vive 2.592, 992 in effige, 32.952 al carcere o ai remi; dal 1508 al 1517, sotto Juan Lopez de Cisneros, 3.564 arse vive, 2.232 in effige, 48.059 al carcere o ai remi. Poi le cifre vanno lentamente a decrescere. Dal 1700 al 1746, 1.600 arse vive, 760 in effige, 9.412 alla prigione o ai remi; dal 1746 al 1759, 9 arse vive, 4 in effige, 176 alla prigione o ai remi; dal 1759 al 1788, 5 arse vive, nessuna in effige, 57 alla prigione o ai remi; dal 1788 al 1808, nessuna arsa viva, 1 in effige, 52 alla prigione o ai remi. Da questi conteggi vanno però esclusi: Sicilia, Sardegna, Americhe e Indie. (Cfr. Anonimo, Arciconfraternita dei Bianchi per l’assistenza de’ condannati, Catania, s.d. [1610 circa], p. 16).

Lasciò scritto de Maistre nella sua apologia: «Mancherebbe qualcosa d’importante all’apologia dell’Inquisizione, se non facessi rimarcare l’influenza di questa istituzione sul carattere spagnolo. Se la nazione ha conservato i suoi princìpi, la sua unità e questo spirito pubblico che l’ha salvata, lo deve unicamente all’Inquisizione. Che cosa ha fatto la turba di uomini formatasi alla scuola della filosofia moderna: male, nient’altro che male». (Lettres a un gentilhomme russe sur l’Inquisition espagnole, Lyon-Paris 1871, ns. tr., pp. 97-98). Il che, sotto un certo aspetto, che ci affrettiamo a descrivere, è anche vero.

Le forme caratteristiche che l’Inquisizione spagnola ebbe a prendere, più che nella sua attività corrente, che per altro non mi è possibile documentare essendomi stati sottratti, nel corso di una delle tante perquisizioni poliziesche subite nella mia vita, i documenti che avevo preparato, si può indirettamente cogliere dal suo comportamento riguardo al problema centrale, per la storia spagnola dall’inizio del XV secolo in poi, della purezza del sangue, della “limpieza de sangre”. Facendo di necessità virtù è quindi questo problema che seguiremo, il quale, sia pure nel suo parziale sviluppo, ci aiuterà a gettare alcune luci sul processo di razionalizzazione attuato dall’Inquisizione spagnola in generale.

Alla fine del Trecento cominciano le massicce conversioni degli Ebrei spagnoli. Come in altri posti, e come sempre, queste conversioni furono precedute da una recrudescenza delle persecuzioni antiebraiche. Comunque, la Chiesa, agli inizi del Trecento, forse perché preoccupata delle frequenti esplosioni di furia popolare contro gli Ebrei, forse perché attenta a salvaguardare la purezza della fede cristiana, precisa in più riprese la necessità di isolare gli Ebrei e di limitare i rapporti con loro a quanto poteva essere necessario in materia finanziaria. Alla fine del Trecento, non restava altra speranza agli Ebrei spagnoli, di fronte all’incalzare della furia della propaganda antiebraica dell’Arcivescovo di Ecija, diffusa in tutto il paese, che convertirsi al cattolicesimo. Una vasta opera in questo senso fu condotta da Vincenzo Ferrer, il quale partendo da Valencia battezzò più di 35.000 Ebrei e si guadagnò l’appellativo di Angelo dell’Apocalisse.

Davanti all’alternativa di venire uccisi o, nella migliore delle ipotesi, di perdere tutti i propri beni, tutt’altro che modesti, gli Ebrei scelsero in massa la strada della conversione. Quanto questa potesse essere, o sembrare, credibile, non è dato sapere, in quanto conversi vennero accettati nella società, fecero opportuni matrimoni, entrarono nei principali ordini ecclesiastici. Solo le masse popolari sembravano meno disponibili ad accettarli, forse memori delle precedenti vessazioni finanziarie alle quali gli Ebrei, senza discriminazione, finivano per essere identificati.

Qualche decennio dopo comincia una sottile propaganda antiebraica, condotta da ecclesiastici che non potevano accettare la tesi di una serie di conversioni ottenute sotto la minaccia delle insurrezioni popolari. Da parte sua, la rapidità con la quale, appunto in pochi decenni, i Conversi avevano fatto carriera nella società spagnola, collocandosi ai più alti gradi, eccitava ancora una volta la rabbia degli strati più poveri, sobillati perfino da alcuni libellisti, Conversi essi stessi, che denunciavano probabili persistenze degli antichi riti, credendo in questo modo di mettersi al sicuro, o di fare opera di convincimento della propria nuova fede di fronte alle autorità. A meta del Quattrocento altre sommosse si verificarono, a partire da Toledo, contro i Nuovi Cristiani. L’alcade della città, Don Pedro Sarmiento, invece di rimettere l’ordine preferì prendere un’altra soluzione, quella cioè di fare approvare una sentenza-statuto, in base alla quale si dichiaravano indegni i Conversi di occupare incarichi privati o pubblici nella città di Toledo e in tutto il territorio sotto la sua giurisdizione, e ciò perché non si erano affatto convertiti, continuavano ad adorare Dio e il Salvatore come un uomo della loro razza, e tutti gli altri dettagli dei riti giudaici, diretti ad impressionare negativamente l’uditorio.

Gli Ebrei non avevano nessuna possibilità di controbattere sul piano di una resistenza militare alla situazione che si ripresentava, questa volta come caccia ai Conversi, né pensarono, a quel che sembra, di organizzarla. Ci furono comunque delle difese sul piano teorico e storico, dirette a provare la possibile convivenza tra Ebrei e cristiani, e la fondatezza della fede dei Nuovi Cristiani. Autori di queste difese furono sia vecchi che nuovi credenti, sia ecclesiastici che laici. Sotto questa controversia, apparentemente legata alla questione della “limpieza”, e soltanto a questa, si nasconde una feroce lotta per l’autonomia tra i ceti popolari e borghesi più abbienti e il dominio reale. Tanto che Giovanni II è costretto ad ammettere che sotto le intenzioni della ribellione al re, per lui evidenti in quanto non si erano volute sottoscrivere delle richieste di finanziamento alla corona, si collocavano anche tendenze verso l’eresia. Un plateale ma comodo ribaltamento della situazione.

Verso il 1467, le ostilità contro i Conversi ricominciarono, ancora una volta originate anche da motivi economici riguardanti concessioni che la Chiesa di Toledo aveva fatto agli Ebrei per lo sfruttamento di alcuni diritti di servitù. Dagli Ebrei si passò ovviamente anche ai Conversi. Furono proprio questi che di fronte al pericolo di subire una nuova ondata di antiebraismo, forti del loro presunto diritto in quanto cristiani, anche se Nuovi, si rivolsero al Tribunale dell’Inquisizione. Furono essi a chiedere l’identificazione e la condanna dei falsi convertiti e ad operare le prime denunce. Ciò determinò una maggiore attenzione riguardo agli Ebrei rimasti nella loro antica religione, i quali a quanto sembra in quest’ultima ondata di odio popolare non vennero inquietati. E la cosa è comprensibile, in quanto essi erano ormai tagliati fuori da molti interessi e commerci ai quali avevano finito per attendere i Nuovi Cristiani. Furono quindi proprio i Conversi a sostenere la necessità di espellere gli Ebrei della Spagna allo scopo di non contaminare i Nuovi Cristiani. Questi crearono inoltre una sorta di polizia al loro interno per impedire debolezze anche minime nei riguardi dell’antica confessione, perché la ricaduta di uno soltanto di loro avrebbe determinato il sospetto nei riguardi di tutti.

L’attività dell’Inquisizione negli anni 1486-1488, perviene alla scoperta di un forte inquinamento di Conversi giudaizzanti, come vengono definiti, all’interno dell’ordine di S. Girolamo, almeno nel monastero di La Sisla. Qui si era venuta a creare una strana possibilità di culto, con la tolleranza del priore, per cui si erano ripresi i culti ebraici precedenti. Questa vicenda, studiata da Fritz Baer, venne considerata importante perché da un lato permise all’Inquisizione di stabilizzarsi meglio sul problema, e dall’altro gettò nel panico tutti gli ordini religiosi, spingendoli ad un attento controllo al loro interno. (Cfr. F. Baer, Die Juden im christlichen Spanien, Berlino 1929-1936, pp. 30-40).

L’Inquisizione condanna a morte cinquantadue persone, non solo dell’ordine di S. Girolamo, ma anche laici, donne e uomini, collegandoli allo stesso cosiddetto disegno criminoso. I Gerolimitani si affrettano a ordinare un’inchiesta in tutti i monasteri, ma in fondo sono convinti che molti Conversi erano entrati nell’ordine proprio per sfuggire all’Inquisizione per cui stabiliscono che nessun nuovo converso poteva essere accettato, almeno fin quando nel regno non fosse scomparsa ogni possibilità di presenza eretica. Viene quindi approvato uno statuto di “limpieza” giustificandolo col fatto che pur non avendo nessun disprezzo per gli Ebrei, lo stesso si rendeva necessario a causa del disonore che i processi inquisitoriali a carico di appartenenti all’Ordine avevano provocato.

L’Inquisizione, chiamata si può dire in causa dai Nuovi Cristiani per mettere in regola la loro posizione dando la caccia ai falsi convertiti, aveva finito per regolarizzare la situazione ben al di là delle speranze di quest’ultimi e aveva portato alla totale esclusione dei Conversi, e ciò a causa del fatto che il Tribunale, una volta messo in moto, aveva trovato le prove di una grande diffusione dell’infedeltà religiosa. Sarà un papa spagnolo, Alessandro VI, ad approvare lo statuto dell’Ordine di S. Girolamo con una bolla del 22 dicembre 1495, dove è specificato come l’Inquisizione aveva trovato colpevoli di apostasia ed eresia alcuni Nuovi Cristiani che invece erano considerati ferventi cattolici all’interno dell’Ordine di S. Girolamo.

Gli Statuti della purezza del sangue non nascono certo a causa dell’Inquisizione, perché come si è detto si radicano in una situazione secolare di antagonismo e di incertezza tipica della Spagna, ma trovano razionalizzazione immediata da parte dell’attività del Tribunale. Difatti a partire dal 1480 essi si diffondono dappertutto, a causa degli spettacoli offerti da Torquemada e compagni con i loro autodafé sempre più numerosi e affollati. Lo stesso Torquemada chiede la ratifica di uno statuto del genere per il monastero domenicano di S. Tommaso d’Aquino, fondato da lui ad Avila. Comunque i Domenicani approvarono i loro statuti della purezza del sangue solo nel 1531 mentre i Francescani l’avevano approvati nel 1525. In queste date il papa Clemente VII autorizzò l’esclusione da ogni carica e da ogni dignità di questi Ordini, dei discendenti degli Ebrei e dei discendenti dei colpevoli puniti.

Questa insistenza dell’Inquisizione, diretta a fare approvare gli statuti di purezza del sangue aveva, come è facile capire, lo scopo di tagliare alla radice il problema, come sempre è possibile vedere nell’attività di questa istituzione, estremista per sua natura, la quale raggiunse proprio in Spagna livelli di fanatismo altrove forse sconosciuti. Ma questa attitudine doveva incontrare una certa resistenza proprio alla corte dei Re Cattolici, i quali avevano anche interessi economici e politici da tutelare, interessi che spesso si intrecciavano pericolosamente con quelli di Conversi autorevoli, basta pensare che all’inizio del XVI secolo il ministro delle finanze del regno spagnolo è un ebreo. Neanche sotto Carlo V ci sarà una politica chiara da parte della Corona. Solo con Filippo II si avrà il riconoscimento definitivo degli statuti di purezza del sangue.

L’Arcivescovo di Toledo, Juan Martínez Silícao, approfittando delle richieste di un certo canonico Jiménez che voleva dei benefici, dimostra che questi era figlio di un converso sfuggito all’Inquisizione e rifugiato all’estero, dove era tornato all’antica religione. Da questo esempio trova fondamento la sua proposta di uno statuto di purezza del sangue per la Chiesa di Toledo. Egli arriva anche ad affermare che gli inquisitori dovevano allo stesso modo sottomettersi all’indagine per la prova di “limpieza”. Precisa inoltre che molti Conversi, per sfuggire alle ricerche dell’Inquisizione, si sposavano con famiglie di vecchi cristiani, in modo da confondere le tracce, per cui bisognava arrivare a vietare questi matrimoni che avviliscono la nobiltà del sangue e della razza. Davanti a questo attacco anche un illustre studioso di Erasmo, Juan de Vergara, che pure si era difeso bene davanti all’Inquisizione, tace preferendo non esporsi. (Cfr. M. Bataillon, Erasmo y España, vol. II, Mexico 1950, pp. 13-52).

Riconosciuto da Roma, questo statuto toledano scatena una grossa polemica, ma alcuni suoi avversari, come un certo converso Alfonso Lobo, predicatore, sono costretti dall’Inquisizione ad abiurare. Nell’abiura specifica di questo predicatore, pronunciata in data 11 novembre 1572 davanti all’Inquisizione romana, su interessamento diretto del papa Gregorio XIII, vengono condannate le affermazioni che consideravano lo statuto come un’eresia e anche quelle che affermavano che se un simile statuto era stato approvato dal papa, questo aveva approvato un’eresia. Come si vede, con avversari del genere, l’Inquisizione ha buon gioco. La polemica continua per cercare di frenare quella che ormai è una pratica razionalizzante inarrestabile. Uno dei critici più feroci degli statuti, in particolare di quello di Toledo, è frate Domingo de Baltánas. Ma l’Inquisizione nel 1572 aveva vietato qualsiasi polemica su questo problema, per cui il frate è condannato al carcere perpetuo.

Dopo lo statuto della Chiesa di Toledo, e per oltre un secolo, si sviluppa in Spagna una ideologia della razza e della purezza del sangue, sostenuta in trattati poderosi e appoggiata dal braccio armato dell’Inquisizione. Diego Simancas, di cui si conosce il De catholicis institutionibus, scrive di essersi impegnato quando era necessario, come devono fare tutti i cristiani, per ottenere la conversione degli Ebrei, ma aveva sempre rifiutato assolutamente di considerare i Conversi come uguali per quel che riguarda le candidature alle distinzioni e alle dignità di cui possono godere solo i vecchi cristiani spagnoli. Tutto ciò fermo restando l’uguaglianza dei Conversi in materia di fede, di religione, di diritti naturali e di giustizia.

Malgrado questa distinzione, la realtà dei fatti era diversa. Gli Spagnoli diventavano sempre più preoccupati della propria razza e sempre più avversari degli Ebrei. Anche dare dell’ebreo a qualcuno, senza fondatezza, fatto assai comune anche in Sicilia per indicare una persona esosa o tirchia, era considerato reato dal Tribunale inquisitoriale e passibile di punizione. In effetti l’Inquisizione qui ebbe la funzione di coordinare, in un’unica pratica di controllo dell’eresia, una miriade di casi singoli sparsi in tutto il territorio spagnolo, casi attraverso i quali si documentava la falsa conversione di alcuni Nuovi Cristiani, e quindi si giustificava l’applicazione degli statuti di purezza del sangue da parte di una religione che si richiamava alla possibilità per tutti di redimersi. Un decreto universale, valido per tutti, forse non sarebbe stato possibile approvarlo subito per l’opposizione laica, ma una serie di statuti che venivano a coprire tutto il territorio senza il coordinamento razionale dell’Inquisizione, sarebbero stati allo stesso modo inefficaci.

Il pensiero cattolico spagnolo cercherà in tutti i modi di difendere queste concezioni riguardanti la purezza del sangue, ritenendo indispensabile separare gli Ebrei in base alla loro nascita, in quanto religione e razza in questo caso non si potevano separare, o almeno non si poteva esseri sicuri di una effettiva separazione. Per altro il Simancas sosteneva in generale il principio che a nulla giova una dichiarazione pia se poi con i fatti si dimostra il contrario, e faceva valere questa fondatissima tesi nei processi contro gli eretici in generale, ma qui, nei riguardi degli Ebrei, veniva da lui considerato un fatto, quello che di regola fatto non è. Egli scrive in un’opera destinata proprio a difendere lo statuto di Toledo: «Bisogna riconoscere che questi statuti sono in contraddizione con le considerazioni generali espresse in certi canoni e in certe leggi. Ma essi non vi sono opposti che nella misura in cui le eccezioni e le limitazioni si oppongono alla regola generale; per cui, allo stesso modo in cui le regalie e le loro eccezioni sono ugualmente giuste, così le leggi che favoriscono i Nuovi Cristiani in generale e questi statuti che per molti motivi li escludono da alcuni benefici, sono giusti entrambi; in quanto si verifica che allo stesso modo in cui le leggi comuni furono promulgate dal Sommo Pontefice, questi statuti sono stati anche essi ratificati dalla Santa Sede». (Defensio statuti Toletani a Sede Apostolica saepe confirmati, pro his, qui bono & incontaminato genere nati sunt, ns. tr., Antverpiae 1575, p. 44).

Girolamo de la Cruz riporta tutto all’autorità del papa, quindi segue lo stesso Simancas, in quanto «rifiutare il potere al papa di legiferare come con questi decreti, solo perché non l’ha detto Cristo, significa ricadere nel medesimo errore dei Valdesi, di Huss e di Wyclif, i quali sostenevano che il potere di fare delle leggi per amministrare la Chiesa era un’invenzione dei preti». (Defensa de los estatutos y noblezas españolas, ns. tr., Zaragozza 1637, foll. 84a-85b). Ma questa tesi si mantiene, come è evidente, ai margini del problema, come quella parallela di Juan Escobar del Corro, il quale scrive: «Queste misure hanno natura eccezionale, trattandosi infatti di statuti e non di leggi». (Tractatus bipartitus de puritate et nobilitate probanda, Lugduni 1637, ns. tr., fol. 25a).

Ma il Vangelo non contiene quasi niente che possa essere utilizzato per una difesa del genere. Per cui questi campioni della purezza del sangue si dovettero rivolgere all’Antico Testamento, il che aveva delle affermazioni come quella di Mosè che ordina a Giosuè di scegliere per il sacrificio uomini eccellenti che fossero senza macchia. Ma non si potevano usare queste citazioni del patrimonio culturale ebraico per combattere gli Ebrei. Fu proprio un giudice anonimo del Tribunale dell’Inquisizione che sollevò il problema che non si potevano applicare contro gli Ebrei le norme severe prescritte dalla loro legge, e che queste non potevano servire per giustificare il trattamento cui erano sottoposti in Spagna. D’altro canto c’era il problema che gli statuti della “limpieza” impedivano di fatto o scoraggiavano le conversioni degli Ebrei al cristianesimo, in quanto questi non potevano logicamente abbracciare una confessione che li considerava per sempre uomini di seconda categoria.

In effetti, gli statuti, come ogni legge razzista, si dibattevano di fronte a ostacoli insuperabili, che bisognava nascondere o far finta che non esistessero. Ad esempio, c’era il problema dell’efficacia del battesimo. Questo sacramento imprime un carattere, per cui lava dal peccato originale e fa diventare cristiano, cioè un uomo nuovo. Ma come poteva considerarsi tale un converso davanti all’esistenza degli statuti di purezza del sangue? Simancas ha un attimo di prudenza e fa un passo indietro dicendo che gli statuti punivano l’origine depravata degli Ebrei che si trasmetteva nelle abitudini e nella mentalità, non nel peccato originale, tanto è vero che spesso venivano condannati dall’Inquisizione. (Cfr. De catholicis institutionibus, op. cit., p. 99). E qui il sacro tribunale serviva da giustificazione esterna, quindi da razionale sistemazione d’una pratica spuria in cerca di regolamento.

E l’origine ebraica del Cristo? Il problema era anche qui difficile. Simancas lo risolve affermando che c’era una grande differenza tra i convertiti attuali e gli antichi Ebrei che si convertirono alla Chiesa Primitiva. (Ib., p. 93). In effetti una soluzione credibile la fornisce sempre il nostro giurista affermando che i Conversi avevano poco da lamentarsi in quanto erano trattati meglio dei discendenti degli eretici, i quali del tutto innocenti subivano le colpe dei loro padri allo stesso livello, appunto, dei Conversi, cioè esclusione dalle cariche, e così via. (Ib. p. 59). Così si trovava una giustificazione riguardo al trattamento a seguito di una colpa, ma non si trovava il motivo che aveva dato origine alla colpa.

Ha scritto Albert A. Sicroff: «Verso la fine del XVI secolo, la discussione sugli statuti prese un nuovo andamento. Gli argomenti pro e contro il principio di discriminazione lasciarono il posto ad un’inquietudine crescente di fronte alle conseguenze disastrose che derivavano dall’applicazione sempre più abusiva di questi decreti. Si riconosceva quasi unanimemente che una riforma era diventata necessaria. Ma in qual senso?». (Les controverses des statuts depureté de sangen Espagne du XVe au XVIIe siècle, Paris 1960, ns. tr., p. 181).

Le conseguenze dell’applicazione degli statuti erano notevoli. Si trattava della difficoltà di pervenire ad una prova assoluta di “limpieza” se si aveva la pretesa di arrivare al “tiempo immemorial”, e poi si trattava di evitare gli abusi inevitabilmente connessi a questo genere di indagini. I nobili più in vista erano anche i più esposti, in quanto per loro l’indagine diventava quasi un fatto pubblico, e si risaliva ai tempi più remoti e tutti vi mettevano interesse. Inoltre le denunce anonime gettavano nel panico, mentre testimonianze dubbie venivano prese per buone. In questo modo anche i vecchi cristiani si trovavano davanti a difficoltà quasi insormontabili. Una persona che pretendeva accedere ad una carica pubblica, a una nuova dignità, come si sa in Spagna questa tendenza era naturale e invincibile a quasi tutti i livelli, era obbligata ogni volta a sottostare a queste inchieste che si allargavano sempre di più, comprendendo anche i parenti più lontani. Nessuno poteva essere sicuro della purezza del proprio sangue, perché da un giorno all’altro qualcuno si poteva presentare con una falsa testimonianza e metterlo nei guai.

Ne deriva, verso la fine del XVI secolo, un movimento di riforma degli statuti di purezza del sangue. In questo senso il lavoro di Antonio de Cordova, Quaestionarium Theologicum, che afferma impossibile escludere i Nuovi Cristiani in base alla sola appartenenza di razza, in quanto il Vangelo dà a tutti e allo stesso modo i vantaggi temporali e spirituali stabiliti da Cristo e dalla Chiesa, per cui «gli Ebrei non sono esclusi per la loro origine, ma per evitare il rischio della loro idolatria». (Edizione Veneta, 1604, fol. 442 b). Da ciò si deduce che l’esclusione di un gruppo di persone, come nel caso in questione i Conversi, stabilita da un documento, cioè gli statuti, diventa regolare in quanto esistono «presunzioni sufficienti di una loro tendenza a ricadere nei peccati dei loro antenati». (Ib., fol. 437 a). Un altro autore è il domenicano Agustín Salucio che afferma la necessità di una revisione degli statuti. Egli sviluppa la tesi seguente. Se qualcuno afferma che si può fondare la “limpieza” del sangue sull’ipotesi che gli Spagnoli erano cristiani fin dai tempi più remoti, senza che vi siano mai stati miscugli di razze, la testimonianza della storia è là per smentirlo. Che ne è stato dei numerosi Mori ed Ebrei che si convertirono in tempi molto remoti al cristianesimo? Essi si videro accordare dai re dell’epoca tutti gli onori e i privilegi che possono spettare ad un cristiano. Inoltre, quando i cristiani tornarono in Spagna trovandovi i Mori, vi furono certamente delle commistioni di sangue, in quanto i cristiani non furono così fermi nelle loro convinzioni nel confronto e nel contatto con l’invasore musulmano. Se ne deduce da tali considerazioni che queste lontane apostasie e conversioni segnano il lignaggio dei cosiddetti vecchi cristiani. Per cui gli statuti che hanno la presunzione di escludere tutti i discendenti degli Ebrei e dei Mori da molti anni a questa parte, non arrivano neanche a rintracciare i convertiti più recenti, forse risalendo a 500 o a 200 anni, ciò perché una volta i discendenti dei convertiti erano meno sottoposti alle discriminazioni razziali di ora e non vi erano statuti di purezza del sangue nei Tribunali dell’Inquisizione per stabilire l’identità, per cui l’oblio ha coperto le tracce e questi sono ora considerati come vecchi cristiani. Ma questa misericordia che il tempo ha avuto per i vecchi cristiani, la si rifiuta adesso. Naturalmente le conseguenze peggiori si hanno per i nobili, perché presso la gente di nascita modesta il ricordo dell’infedeltà d’un membro della famiglia dura raramente al di sopra di cinquant’anni, per cui si dissimulano rapidamente tracce di antenati musulmani, Ebrei o eretici condannati dall’Inquisizione. (Cfr. A. Salucio, “Discurso acerca de la justicia y buen gobierno de Espagña en los estatutos de limpieza de sangre”, in “Semanario Erudito”, vol. XV, Madrid 1788, p. 136). Per cui non si poteva concludere che gli Ebrei erano un popolo infame in quanto questa infamia era voluta proprio in base al rigore degli statuti stessi. (Ib., p. 149). Non si può affermare quindi nessuna teoria della cattiva razza, in quanto questa cosiddetta cattiva razza si era ormai mescolata da molti secoli con quella che si chiama l’ascendenza dei vecchi cristiani, ed inoltre era veramente incredibile che una presenza del genere, magari risalente a tredici generazioni prima, potesse macchiare in modo disonorevole la purezza d’un cristiano. (Ib., p. 150).

La posizione del Tribunale si manifesta tramite un testo di un inquisitore anonimo cui fa riferimento Albert A. Sicroff in questo termini: «L’Inquisitore è d’accordo con il pensiero di Salucio secondo il quale era venuto il momento in cui i decreti della purezza del sangue, prima stabiliti su di una solida base, dovessero modificarsi. Egli accetta il principio degli statuti di purezza, che in ogni repubblica bene ordinata deve esistere una certa differenza di condizioni, e la gente d’origine infame deve essere scartata dagli onori e dalle dignità [...]. Per quanto collochi la gente d’origine ebrea nella categoria dei paria, l’Inquisitore non è disposto a fare discriminazioni di sangue, come unico fondamento degli statuti. Egli pensa che si devono accordare onori e dignità in ricompensa del merito personale piuttosto che per ragioni di ascendenza». (Les controverses des statuts depureté de sangen Espagne du XVe au XVIIe siècle, op. cit., p. 212).

Filippo IV con una prammatica del 1623 riforma gli statuti di “limpieza”. Vengono fissate le validità di tre indagini documentate per ogni linea ascendente, che una volta attuate non potevano più essere messe in discussione. Vengono anche revocate le passate condanne di eretici pentiti, fatte su autodenuncia nel cosiddetto periodo di grazia, in quanto presumibilmente eseguite da persone che se pure innocenti non volevano correre il rischio di una denuncia e un processo successivi da cui era praticamente impossibile venire fuori, anche se innocenti.

Ma l’ossessione persisteva. Scrive Sicroff: «Nel XVII secolo in Spagna, ci si rendeva sempre di più conto degli effetti disastrosi del sistema della purezza del sangue in tutte le sfere della vita del paese. Ma, malgrado la sensibilità di questa presa di coscienza, sembrava impossibile liberare la Spagna da questa ossessione della “limpieza de sangre”. La presenza degli Ebrei in Spagna non era ormai che un ricordo e il numero degli Spagnoli praticanti i riti ebraici era insignificante. Ma l’idea della purezza del sangue, lanciata all’origine contro questi falsi cristiani, sembrava aver preso una vita propria e ipnotizzato gli spagnoli. Erano asserviti a questa esigenza sociale della quale pareva avessero fatto un articolo fondamentale della fede cristiana». (Ib., p. 221).

Naturalmente il Santo Uffizio non poteva lasciare le cose in questo modo. Nessuna incertezza o tolleranza in materia di fede e d’eresia, era il suo motto. Cominciò facendo notare che i consigli dei vari Ordini insistevano perché almeno uno di questi tre atti positivi, di cui alle indagini stabilite dalla riforma di Filippo IV, fosse emanato dall’Ordine stesso, inoltre si disse molto meravigliato dal fatto che venissero disconosciute le decisioni dei propri Tribunali come elementi costitutivi di questi atti positivi. Era impossibile ottenere una revoca della riforma, nei riguardi della quale, comunque, fin dal primo momento avevano avuto il più alto disprezzo. Anzi, per rincarare la dose, con uno dei provvedimenti specificamente terroristici di cui andava fiero il tribunale inquisitoriale, decise di non ritenere valida la procedura adottata negli ultimi tempi, precedenti alla riforma del 1623, in base alla quale esso Tribunale risaliva nelle indagini di purezza del sangue fino a cento anni indietro, e di tornare alle vecchie consuetudini che imponevano di risalire ai tempi immemorabili.

Nella tesi di Escobar del Corro, inquisitore, il problema non sono gli atti ma il sangue. In questo modo non c’è scampo per gl’impuri che non possono essere mai considerati uguali ai puri. Sul problema relativo alla posizione dei figli concepiti prima del peccato dei loro genitori, l’inquisitore afferma che essi vanno considerati intaccati da questo peccato successivo, anche se concepiti prima, in quanto al momento del concepimento il feto prende le tendenze morali dei genitori. (Cfr. Tractatus bipartitus de puritate et nobilitate probanda, op. cit., fol. 71a). L’indagine del Tribunale doveva basarsi maggiormente sui testimoni del luogo di nascita, poi sui documenti e le dichiarazioni dell’interessato. Chi si era trasferito da una città all’altra faceva nascere sospetti sulla propria purezza. La genealogia presentata dal candidato al momento dell’inizio dell’inchiesta non poteva essere da questi successivamente modificata. In base a questi princìpi, e a queste indagini che andavano rinnovate ogni volta il candidato aspirava a qualche incarico, ne derivava che non si era mai certi, perché un puro di ieri poteva diventare impuro oggi. Ma queste indagini, anche per la loro aleatorietà e le contraddizioni cui inevitabilmente davano luogo, finirono per far concludere a Girolamo de la Cruz che la purezza del sangue si poteva considerare provata in base agli atti e alle indagini, anche se potevano sempre esserci delle impurità nelle ascendenze che non potevano sottoporsi a prove positive.

La situazione spagnola era quindi governata da questa ossessione della purezza del sangue. Le persone che sospettavano di avere un’ascendenza ebraica dovevano fare attenzione a tutto quello che facevano, e siccome la certezza assoluta non l’aveva nessuno, ne derivava un clima generalizzato di sospetto e d’inquietudine sociale. D’altro canto questa grande importanza data alla razza e al sangue, agli antenati e tutto il resto, contribuì a costruire quei valori ristretti della nobiltà e dell’onore tipici della fine del secolo XVI in Spagna. Valori che passarono anche nel secolo successivo e fecero sentire i loro effetti non certamente positivi anche dopo.

Frederick Copleston ha scritto, a proposito della filosofia di Schopenhauer: «La filosofia di Schopenhauer ha quindi una conclusione religiosa. Egli fu sempre alla ricerca della verità e, verso la fine, alla ricerca di Dio: solo diede al suo Dio un altro nome o meglio non ne diede nessuno. Infatti egli riconobbe il valore delle religioni, le quali non fanno che travestire miticamente e rendere accessibili a tutti le verità sublimi della negazione della volontà, che la filosofia si sforza di rendere nella loro purezza. La filosofia è sempre cosa di pochi: non vi è una filosofia adatta a tutte le intelligenze. Alla mentalità comune servono le religioni: che sono metafisiche popolari, le quali debbono la loro origine alle intuizioni geniali dei “veggenti” delle età antiche. Esse velano la verità di allegorie, pure essendo persuase di possedere la verità sensu proprio: “ciò che nelle cose profane è detto allegoria, nella religione si chiama mistero”. In questa rappresentazione allegorica della verità sta la giustificazione delle religioni. Ma ciò non giustifica la loro intolleranza e la loro pretesa di imporsi a tutti come una fede cieca ed esclusiva. La religione dovrebbe sempre serbare la coscienza del suo carattere allegorico e permettere un libero svolgimento della religione individuale. La conclusione di tutto il dialogo sulla religione inserito nei Parerga und Paralipomena – che è un’opera meravigliosa di attualità – è che la religione ha due facce: essa ha un alto valore ed è necessaria; ma i suoi abusi hanno condotto a conseguenze immorali terribili. La vita come la conosciamo è la manifestazione della volontà di vivere, dice Schopenhauer, e, dal momento che la manifestazione della volontà implica sofferenza male e conflittualità, dobbiamo concludere che la volontà stessa, che tende costantemente ad una vita sempre più intensa, è legata alla frustrazione, è presa, nella sua intima essenza, nelle maglie della sofferenza e dell’autodistruzione. Per l’essere umano perciò, che è la manifestazione della volontà nel suo grado più alto, l’unica via di salvezza può essere solo una via che porti fuori dalla vita, una via che porti a por fine all’esistenza. Se desideriamo chiamare la filosofia di Schopenhauer una filosofia della vita, essa si configura come una condanna della vita. In un certo senso Schopenhauer ammette e anche sottolinea fortemente certi valori, la virtù e la “santità”, ma nella sua filosofia essi possono essere concepiti solo negativamente, perché se l’esistenza è male, ne segue che il valore deve essere cercato nell’allontanarsi dall’esistenza. Così il valore supremo sarà paradossalmente il nulla. In questo modo Schopenhauer reagì al suo odiato nemico Hegel. Invece dell’ottimismo, il pessimismo è il peggiore dei mondi possibili: invece della ragione, la volontà irrazionale, invece della manifestazione dell’idea, il fine del nulla». (A. Schopenhauer, Philosopher of Pessimism, London 1947, ns. tr., pp. 188-190). E a una profonda disillusione nei riguardi della religione ha contribuito certamente anche l’Inquisizione, sia pure come elemento esterno di regolamentazione del problema. Ed è questo il vero significato da dare alle parole con cui l’apologeta de Maistre conclude la sua opera: «Ho voluto provare che l’Inquisizione e stata un’istituzione salutare che ha reso i più importanti servizi alla Spagna, e che è stata ridicolmente e vergognosamente calunniata dal fanatismo settario e filosofico». (Lettres a un gentilhomme russe sur l’Inquisition espagnole, op. cit., p. 158). Nessun commento.


[Pubblicato in Alfredo M. Bonanno, L’Inquisizione. La tortura in nome di Dio, Trieste 2013, pp. 381-399]

Il razzismo

Il razzismo può essere definito in molti modi, la maggior parte dei quali tende a giustificare un atteggiamento di difesa e di attacco contro altri uomini che si pensa possano, nell’immediato o in un prossimo futuro, danneggiare i nostri interessi. Alla base del razzismo, e sotto le sue coperture mitiche, c’è sempre un fondamento economico alla cui difesa s’indirizzano, opportunamente sollecitate, le paure e le fantasie che tutti abbiamo nei riguardi del diverso. In questi ultimi anni Ottanta c’è stato un largo risvegliarsi del razzismo in Italia. Voglio approfondire in modo inattuale questo aspetto del problema con qualche riferimento in più, tenendo conto dei limiti del luogo dove mi trovo a lavorare in questo momento [Londra, 1991], luogo che m’impedisce una documentazione più approfondita. Il razzismo è uno dei motivi che si colgono lungo le vicende umane, in qualsiasi epoca, ed è sempre legato alla paura del diverso, disegnato nei modi più incredibili e fantastici. La metamorfosi di Gregor Samsa dà uno spaccato preveggente della realtà che sarebbe dilagata qualche anno dopo. Il diverso è un insetto, l’insetto scatena l’isterismo e il sadismo collettivi. Il totalitarismo, di qualsiasi specie, ma in primo luogo quello fondato sulla fede in qualcosa, regolamenta questa isteria generalizzata, la trasforma in moneta corrente per il tiranno, in possibilità di vita per l’istituzione. In questi casi, dobbiamo inventarci giustificazioni alle nostre paure, dobbiamo vestire il diverso con gli abiti degli oppressori. Gli Ebrei sono sempre stati diversi e i cosiddetti normali li hanno vestiti sempre col Sanbenito o con l’abito e la stella. Ma anche loro possono diventare normali e vestire altri diversi con l’abito della anormalità. Un tragico gioco che speriamo di potere illuminare sia pure per un attimo.

La Chiesa cattolica è stata non solo lo strumento del razzismo violento e distruttore per diversi secoli, e dell’esempio spagnolo veniamo per l’appunto di renderci conto, ma è stata con il suo forte impulso alla normalizzazione il fondamento stesso del potere laico, la base dello Stato. Lo scientismo dell’Ottocento, nella medesima lotta contro la Chiesa e le sue teorie, lotta che ha appunto le contraddizioni specifiche del positivismo ottocentesco, di cui abbiamo parlato altrove, inserisce un filone teorico, da Houston Stewart Chamberlain risalendo fino a Joseph Arthur Gobineau, che recupera le tesi sul sangue e la condanna atavica degli Ebrei e le utilizza per la costruzione d’una sorta di evoluzionismo determinista, su cui trova ancora oggi fondamento un residuo della teoria razzista ortodossa moderna, quella sostenuta in poche parole dalle frange naziste.

Ma queste teorie sarebbero rimaste nel cassetto degli orrori storici del pensiero umano se non avessero, di volta in volta, trovato una base economica su cui esercitarsi, interessi da tutelare, paure di possibili espropriazioni da esorcizzare. All’origine, come abbiamo visto, la preoccupazione della “limpieza” era dovuta alla necessità di frenare la dilagante offensiva economica dei Conversi all’interno delle istituzioni spagnole, non per nulla queste preoccupazioni vennero punteggiate da veri e propri moti popolari in cui si esprimevano primariamente gli interessi della nascente borghesia preoccupata di non trovare spazio. Le vicende della repressione e del genocidio degli Ebrei da parte nazista sono conosciute, come pure la giustificazione economica accampata, dove venivano utilizzati fatti concreti ed elementi mitici. In effetti era vero che il governo tedesco, dopo la sconfitta, aveva fatto ricorso all’inflazione anche su pressione dei gruppi economici a forte maggioranza ebraica, ed era vero che la decisione aveva prima di tutto danneggiato i piccoli risparmiatori e i salariati; ma non era vera la tesi che gli Ebrei agissero come una nazione estranea, almeno non tutti in blocco, per cui andavano tutti in blocco sterminati. In questo modo, trovarono la morte non poche decine di grossi industriali, ma milioni di poveracci la cui sola colpa era di essere Ebrei.

Allo stesso modo il problema dei Giamaicani in Gran Bretagna si basa sul fatto che sono diventati un peso per lo Stato. Fatti affluire a decine di migliaia subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, per sostenere la ricostruzione del paese, adesso [1991] li si vorrebbe far tornare da dove sono venuti, non tenendo conto che la maggior parte dei giovani, che costituiscono l’elemento più irrequieto, sono nati in Gran Bretagna e non vogliono tornare in un posto a loro sconosciuto, da cui non sono mai partiti.

Il razzismo israeliano ha il medesimo fondamento economico, gli interessi sionisti adesso non possono tollerare una riduzione di territorio e neanche una coabitazione che a lungo andare si rivelerebbe distruttiva con un possibile Stato palestinese, capace di diventare la punta di diamante economica di un mondo arabo potenzialmente molto ricco. Il razzismo arabo, che si concretizza in continue dichiarazioni di guerre sante, ha anch’esso un fondamento economico ed è diretto sempre ad impedire l’isolamento politico e lo sfruttamento da parte di altre nazioni del periodo limitato dell’estrazione del petrolio.

Il razzismo italiano ha avuto in passato le sue espressioni consistenti e significative, non solo teoriche ma anche pratiche. Nulla da paragonare alla capacità dell’ordine teutonico, ma sempre a un buon livello. La rivista italiana “La difesa della razza”, negli ultimi anni della sua pubblicazione, raccolse tanti nomi di quella che sarà poi la cultura ufficiale antifascista e democratica. Queste sono minuzie paragonate ai massacri dell’esercito italiano in Libia, in Etiopia, in Jugoslavia. Ognuno fa quel che può.

Adesso l’uomo nero sta facendo la sua comparsa sul territorio sacro della nostra patria e comincia a diventare visibile. Fin quando si trattava di poche decine di neri la cosa poteva essere tollerata, anzi stuzzicava la superficiale verniciatura democratica di qualcuno, spingendo a dichiarazioni avventate di antirazzismo. Lo stesso per qualche accampamento di zingari e per le comunità di cinesi, filippini, slavi, polacchi, ecc.

Molti si ripetono continuamente che questa gente è come noi, anche se ha la pelle di un diverso colore, mangia altre cose, si muove diversamente, parla un’altra lingua, ma non possono fare a meno di pensare che con tutta questa nostra tolleranza loro devono collaborare restando al loro posto. Il nostro antirazzismo è tutto qua. Il nero, che riassume in sé tutte le caratteristiche più estreme della diversità razziale, è come noi, un uomo anche lui, non è una bestia, ma deve capire il bene che gli stiamo facendo, dandogli l’occasione di godere delle briciole che cadono dalla nostra tavola ultracarica di ogni bene consumistico. Deve imparare a lavorare, a lungo e bene, sopportare i lavori più duri, essere gentile ed educato, fare finta di non capire, abituarsi a subire un supplemento di sfruttamento: lavoro però saltuario, piccolo commercio ambulante irregolare, prezzi alti per un letto in una stanza piena di topi. E deve infine imparare la nostra lingua, visto che noi siamo tanto ignoranti da parlare solo l’italiano, una lingua periferica.

Ma questo decalogo dell’antirazzismo di casa nostra era valido prima che l’afflusso di immigrati divenisse consistente. Con l’arrivo in massa è scattata un’altra molla, diversa da quella del danno economico, la molla della vera e propria paura dell’uomo nero. Per quanto possa sembrare strano, ho idea che il vero problema in questo momento non venga da qualche sparuto gruppo di picchiatori nazisti, ma da un ben più profondo e radicato sentimento di pericolo avvertito irrazionalmente da larghe fasce sociali. Non si tratta soltanto dei bottegai, che si vedono danneggiati dal venditore ambulante, ma anche della borghesia impiegatizia, dentro cui si colloca tutta la struttura poliziesca di ogni ordine e grado, e perfino di fasce salarizzate e instabili del vecchio proletariato che ha visto in questi ultimi anni condurre una battaglia sindacale per i residui posti di lavoro.

Che in qualche caso vengano fin d’adesso assoldate delle squadre è un segno, pericoloso certo, ma ancora un segno. Più grave invece il comportamento razzista costante di chi forse si crede antirazzista. È questo comportamento che potrebbe domani trasformarsi in pochi attimi in vero e proprio razzismo cosciente e suscitare una catastrofe. Il pericolo è costituito da milioni di razzisti che non sanno di esserlo. Ecco la mia riflessione inattuale. Io sono siciliano, quindi in Italia vengo considerato diverso, e ho avvertito, non solo a livello di pelle, come questa mia diversità venisse colta, e quasi desse fastidio, da chi è abituato a vivere in ambienti settentrionali, a sentirsi superiore perché figlio di una cultura pensata come superiore, di una condizione economica certamente superiore e perfino depositario di una lingua considerata superiore. Ho avvertito questa latente ostilità alla fine degli anni Cinquanta nell’ambiente culturale di Torino, dove la mia testardaggine nel sottolineare continuamente il mio accento siciliano, mi veniva rinfacciata come incapacità o provincialismo. Ho fatto conferenze e comizi, sia fuori che nell’ambito del movimento anarchico, un po’ dappertutto in Italia, e ho trovato le maggiori resistenze a Firenze e in Toscana. Chi parla in pubblico sa a cosa mi riferisco. Una struttura del linguaggio e una forma del dire che l’uditorio rifiuta in massa, cosa che l’oratore sente nel raggelarsi delle attese di chi l’ascolta, nelle difficoltà di inserire le varie tecniche retoriche di riscaldamento, di cattura dell’interesse e dell’attenzione. Qui non voglio dire che i toscani siano peggiori degli altri. Ho amici toscani e compagni toscani che sono le persone migliori del mondo, ma c’è in loro, inavvertito, il cattivo convincimento di parlare italiano, di essere direttamente depositari della lingua madre, senza avere l’ostacolo del filtro di un’altra lingua da eliminare, come accade al siciliano. Questo errato punto di partenza, che li fa non solo parlare male, ma anche scrivere peggio, sempre con le dovute eccezioni, è un elemento di razzismo latente. Una conoscenza la si acquista attraverso lo studio, non per dote naturale legata al fatto di nascere in un posto. Questo è un concetto pericoloso. L’italiano è una lingua artificiale, composta da molti elementi in corso di trasformazione, come tutte le lingue.

Mi sono sempre rifiutato di impostare il mio accento in modo corretto, proprio per non venire colonizzato, come accade a coloro che prendono la cosiddetta aria del continente, e che dopo una permanenza a Milano, tornati alla natia Canicattì, sembrano milanesi purosangue. La difesa della propria identità, accompagnata da una certa consistenza operativa, intellettuale e pratica, suscita sempre una reazione di fastidio e di paura, così ci accade con l’omosessuale, che la nostra cultura democratica considera diverso, ma tollera, purché sia comunque riconoscibile, cioè assuma quegli atteggiamenti da donna fallita che ci consentono di individuarlo e tenerlo a distanza. Ma l’omosessuale, che appare uomo come noi, ci mette in difficoltà, ci impaurisce, ed è quello che temiamo di più. Tutti, chi più e chi meno, ci siamo fatti un mondo ordinato, con certezze e luoghi di tutto riposo. Non possiamo consentire che un diverso arrivi e sconvolga tutto in pochi attimi.

Allo stesso modo c’è un razzismo latente e quindi inconsapevole, in tutti i tentativi di difesa localistica che si fondano sull’importanza e la validità di una realtà etnica senza collegarla con le altre, facendo notare nello stesso tempo l’intrinseca diversità ma anche la profonda comunanza con le altre realtà. Quando, molti anni fa, sollevai la tematica della lotta di liberazione nazionale, ci furono due reazioni, ambedue sbagliate, almeno a quel che penso ancora oggi. Da un lato, coloro che dissero che quelle tematiche erano di destra, con buona pace del grande lavoro di Bakunin e di quasi la totalità del movimento anarchico internazionale prima della seconda guerra mondiale. Dall’altro lato, coloro che raccolsero quelle tematiche ne fecero una faccenda localistica, diretta ad approfondire le caratteristiche di un contesto sociale, etnico, senza contemporaneamente collegarle al contesto internazionale nel suo insieme.

Un altro elemento sotterraneo del razzismo è costituito dalle chiacchiere antirazziste, con le quali ci si dichiara sostenitori di questa o di quella lotta di liberazione, dei neri sudafricani, dei Palestinesi, dei neri inglesi, dei Kanaki, ecc. La solidarietà internazionale, fatta solo a parole, è un altro aspetto del razzismo latente. Difatti essa viene sottoscritta anche dai governi illuminati e dai gruppi di benpensanti che diffondono la buona novella nel mondo. Quando si tratta, in concreto, di danneggiare gli interessi economici degli Stati razzisti, allora le cose cambiano, le distanze vengono subito prese. Anche i lavoratori possono essere con facilità convinti di un pericolo vero, costituito da questi immigrati venuti a togliere loro quel poco lavoro rimasto. In tali casi, le rappresentanze sindacali e politiche sono quasi senza difesa, in quanto hanno impostato le rispettive strategie soltanto sull’elemento della salvaguardia economica e normativa. La chiacchiera umanitaria di oggi verrebbe così a rimbalzare loro addosso, per cui sarebbero in breve costretti a farsi difensori di una fascia di lavoro istituzionalizzata, distinta da una sottopagata e garantita in modo ridotto, con salari minimi, insomma una specie di apartheid. Una simile logica, apertamente, è applicata negli Stati Uniti, e solo in questi ultimi anni le condizioni differenziate di tutela si stanno alleggerendo a causa dell’imponente crescita della rabbia dei ceti immigrati, portoricani, cubani, messicani, ecc.

Al fondo di questo problema, solo apparentemente risolvibile, ci sta un ostacolo senza soluzioni: l’antirazzismo vero, concreto, deve potersi fondare su di una reale uguaglianza di tutti, uomini e donne, di qualsiasi provenienza, cultura o religione. Nessuno Stato potrà mai realizzare, e nemmeno ipotizzare, un’uguaglianza concreta, tutti gli Stati sono condannati a diventare focolai di conflitti razziali, più o meno camuffati dal perbenismo antirazzista.

Tornando agli Ebrei, devo aggiungere alcuni aspetti che mi sembrano interessanti. La loro condizione di perseguitati proviene ovviamente dagli altri, da tiranni e comunità che si sono fatti prendere dalla paura e dalle preoccupazioni economiche, ma trova anche una corrispondenza nel loro modo di concepire la religione, il loro rapporto con Dio. I campi di concentramento furono oggettivamente e vennero vissuti drammaticamente, una grande tragedia per tutto un popolo, ma nella religione ebraica questa tragedia era in un certo senso implicita. Anche le camere a gas furono un’anticamera di Dio, una prova del particolare rapporto che gli Ebrei hanno con Dio, il loro Dio. I morti sono morti, e i vivi sono vivi, ma entrambi testimoniano Dio e la sua volontà, ognuno a modo loro, i morti la collera di Dio, i vivi la sua benedizione. Nell’Esodo (4, 24) si legge che Dio cercò di uccidere Mosè. Le interpretazioni sono inutile esercizio. Certo che c’è una componente coscientemente tragica nella religione di questo popolo. Sempre nell’Esodo (33, 22-3), si legge di un rifiuto di Dio a mostrare la faccia al suo popolo, e questo vede solo le sue spalle. Dio volge le spalle agli Ebrei, ed è allora il genocidio. Nulla riesce quindi a sorprenderli nelle persecuzioni. Scrive George Steiner, ebreo anche lui: «Da Dreyfus a Oppenheimer, tutte le esplosioni di nazionalismo e di isterismo patriottico hanno attirato i sospetti sugli Ebrei. Statistiche del genere non hanno probabilmente alcun vero significato, ma può darsi benissimo che la proporzione di Ebrei implicati effettivamente in slealtà ideologiche o scientifiche sia stata alta. Forse perché sono stati vulnerabili al ricatto e alla minaccia clandestina, perché sono dei mediatori naturali con un’antica predisposizione all’esportazione e l’importazione delle idee. Ma più sostanzialmente, a parer mio, perché sono dei paria il cui senso di nazionalità è stato reso critico e instabile». (Linguaggio e silenzio, op. cit., p. 177).

Ecco su cosa si fonda questa concezione religiosa del popolo-paria. Ciò si traduce, nella tradizione complessa e turbolenta, nel mito e nella storia degli Ebrei, in una identificazione con l’idea di un popolo ospite, segregato ritualmente e in contrasto con l’ambiente circostante. Ciò derivava da molte cose, ma anche dal fatto che fondamento della promessa era il rovesciamento della condizione attuale. Nell’avvenire il popolo ebraico avrebbe avuto ruolo di dominatore degli altri popoli. La condizione presente del mondo è una conseguenza delle decisioni prese da Dio a seguito della condotta del suo popolo privilegiato. Questa condizione può essere quindi di sofferenza, in quanto il popolo ebraico si è reso responsabile di qualcosa nei riguardi del suo Dio. La strada per arrivare alla promessa permane quindi quella del rispetto dei rituali e del mantenimento della segregazione, cioè della profonda differenziazione dagli altri popoli.

La grandiosa operazione paolina è stata di recuperare il Vecchio Testamento al nuovo cristianesimo, eliminando proprio tutte quelle parti che riguardavano la particolare condizione del popolo ebraico, e facendone pertanto uno strumento di possibile diffusione della dottrina cristiana, la quale senza una base storica tanto vasta e importante si sarebbe limitata a una minuta schiera di settari. Ecco perché, in altro luogo, parlando di questo problema, abbiamo considerato centrale la figura di Paolo, non tanto quella del Cristo, nello sviluppo del cristianesimo primitivo.

Alla base della religione ebraica ci sta il patto che venne stabilito tra Dio e il popolo ebraico. In questo modo Israele si viene a trovare in una condizione unica al mondo. L’accordo tra un Dio e il suo popolo non ha difatti tracce nelle altre religioni che non posseggono questa concezione giuridica come fondamento. Naturalmente il patto venne contratto reciprocamente, quindi partendo da promesse, attraverso il grande compito di Mosè, l’intermediario e il realizzatore del contratto divino. Il popolo promise il suo particolare impegno nei confronti di Dio, questo promise di considerare il popolo ebraico il suo popolo prediletto. Ogni comportamento non idoneo da parte degli Ebrei può comportare pertanto l’ira di Dio, e il loro Dio ha ben poco di misericordioso. Ma non sta qui il problema. L’interpretazione che gli Ebrei danno alla loro tradizione religiosa non è così importante, come il fatto semplicissimo, che essi si considerano effettivamente un popolo diverso dagli altri popoli. Quindi essi per primi sono intimamente razzisti nei riguardi degli altri popoli, in quanto la promessa li assegna al dominio non alla fratellanza. «Anche il pensiero della filosofia appare di nuovo rivolto al mito, all’ultimo mito prima della grande svolta, diverso da quanti mai ne apparvero finora, a quel mito di Utopia che per sua essenza scosse fino dalle origini ebrei e filosofi, rendendo questi inquieti adoratori del Dio invisibile e della pura assolutezza sospetti a ogni teologia del perfetto e allegorico essere fatto. Chi tende alla verità è costretto in questa monarchia, ma non come se il campo misterioso contenesse in ogni oggetto grandiosi svolgimenti e documenti, come accadeva anticamente, quando era ancora fornito un immenso imballaggio con ogni profondità, e dèi, cieli, potenze, dominazioni, troni, erano per esso ritenuti essenziali». (E. Bloch, L’Ateismo nel cristianesimo, Per la religione dell’Esodo e del Regno, tr. it., Milano 1972, p. 25).

A questa tesi si potrebbe obiettare che secondo il Deuteronomio (7, 7), Dio ha scelto Israele solo sulla base del giuramento, perché questo si è impegnato, e non per una sua qualche superiorità sugli altri popoli. Ma per gli Ebrei, almeno a livello popolare, non c’è altro motivo per la scelta di Dio nei loro riguardi, se non la loro effettiva superiorità. Al contrario l’inferiorità degli altri popoli si basa sul fatto primario, che si comportano diversamente, cioè hanno rituali e abitudini di vita che nessuno applicherebbe fra gli Ebrei. Ora, siccome l’impegno, almeno uno degli impegni, del patto è costituito proprio dal mantenimento di questi rituali, i popoli che non li compiono e non li osservano devono per forza essere inferiori. Com’è naturale, tutte le volte che gli Ebrei si sono trovati in difficoltà risorge con maggiore forza questa dottrina del patto con Dio. Quando si trovano in una situazione di tranquillità, e nella storia di Israele ci sono stati di questi periodi, e ci sono anche oggi, questa dottrina passa in secondo piano. «Questo atteggiamento non lo si riscontra solo fra i primitivi. Ogni volta che gli antichi Ebrei avevano un periodo di pace e di prosperità abbandonavano Yahweh per i Baal e le Astarti dei loro vicini. Solo le catastrofi storiche li costringevano a rivolgersi a Yahweh. “Gridarono allora al Signore e dissero: ‘abbiamo peccato, perché abbiamo abbandonato il Signore e reso culto ai Baal e alle Astarti; ora liberaci dalle mani dei nostri nemici e ti serviremo’”. (Samuele, 12, 10). Gli Ebrei tornavano dunque a Yahweh dopo le catastrofi storiche e sotto la minaccia di un annientamento determinato dalle vicende storiche; i primitivi si ricordano dei loro Esseri Supremi in occasione di catastrofi cosmiche. Ma il significato di questo ritorno al dio celeste è il medesimo in entrambi i casi: in una situazione estremamente critica, in cui è in gioco la sopravvivenza stessa della comunità, le divinità che in periodi normali assicurano e promuovono la vita vengono abbandonate a favore del dio supremo. Apparentemente, è questo un grande paradosso. Le divinità che per i primitivi presero il posto degli dèi celesti furono – come i Baal e le Astarti per gli Ebrei – divinità della fertilità, dell’opulenza, della pienezza della vita; in breve, divinità che esaltavano e arricchivano la vita, sia cosmica – vegetazione, agricoltura, bestiame – sia umana. Queste divinità sembravano forti, potenti; la loro attualità religiosa era spiegata proprio con la loro forza, con le loro illimitate risorse vitali, con la loro fertilità. E tuttavia coloro che le veneravano – sia i primitivi sia gli Ebrei – sentivano che tutte queste grandi dee e tutti questi dèi della vegetazione erano incapaci di “salvarli”, cioè di garantire la loro esistenza nei momenti veramente critici. Questi dèi e dee avevano unicamente il potere di “riprodurre” e “incrementare” la vita e solo in periodi normali. In breve, erano divinità che governavano mirabilmente ritmi cosmici ma che si dimostravano incapaci di “salvare” il cosmo o l’umanità nei momenti di crisi (crisi storiche per gli Ebrei). Le varie divinità che avevano preso il posto degli Esseri Supremi erano titolari dei poteri più “concreti” e appariscenti, i poteri della vita. Ma proprio per questo si erano “specializzate” nella procreazione e avevano perduto i poteri più puri, più nobili, più spirituali degli dèi creatori. Scoperta la sacralità della vita, l’uomo si lasciò trascinare sempre più dalla sua stessa scoperta; cedette alle ierofanie vitali e rifuggì dalla sacralità che trascendeva i suoi bisogni immediati e quotidiani. Si deve aggiungere che la transitoria riattualizzazione religiosa dell’Essere Supremo in periodi di crisi esistenziale non è un fenomeno frequente, né potrebbe esserlo; l’abbiamo nondimeno ricordato perché è associato a un tipo generale di comportamento umano, riscontrabile perfino fra i popoli monoteisti della nostra epoca. Per un cristiano del XX secolo altri “idoli” prendono il posto dei Baal e delle Astarti, come l’interesse appassionato ed esclusivo per la sfera economica o per i problemi sociali, politici e culturali. Salvo rare eccezioni, il cristiano si rivolge a Dio in modo sincero, totale ed esclusivo solo quando è imminente qualche catastrofe». (M. Eliade, voce Religione, Enciclopedia del Novecento, Milano 1982, p. 130).

Oggi, il miracolo israeliano, di uno Stato forte e militarmente potente, uno Stato capace di vendicare le passate offese, è sotto gli occhi di tutti, ed è un miracolo triste, perché è un miracolo razzista. I carnefici hanno cambiato veste, adesso hanno la stella di Davide cucita sulle uniformi. Il massacro ha sempre lo stesso ritmo d’una volta. L’orrore non è mai alle nostre spalle, sta sempre davanti a noi, sotto i nostri occhi. Solo che non vogliamo vederlo per non farci coinvolgere, per non alimentare l’idea terribile che noi siamo corresponsabili oggi, allo stesso modo in cui lo furono coloro che non fecero niente contro i nazisti quando si diffusero le prime notizie clandestine su Auschwitz, perché si rifiutavano di credere che cose del genere potessero succedere in pieno ventesimo secolo.

Quando l’Inghilterra cominciò ad indirizzare gli Ebrei verso la Palestina, a partire dal 1917, di già nelle dichiarazioni contenute in un memorandum di Lord Balfour si poteva leggere come fossero di gran lunga più importanti gli interessi del sionismo internazionale di fronte alla sorte di “70.000 Arabi con tutti i loro desideri e pregiudizi”. Da quel momento, cominciò l’occupazione della terra palestinese e la costituzione di una patria nazionale ricostruita sulle tracce storiche e religiose. Nel 1935 gli Ebrei erano di già 400.000, di fronte a 900.000 Arabi. Quando, nel 1948, si costituì lo Stato israeliano vero e proprio, cominciarono gli esodi di massa degli Arabi. A tutti gli immigrati ebrei veniva promessa non soltanto la nazionalità, ma anche una delle case lasciate dagli Arabi nella loro fuga.

La nuova politica repressiva, impostata dallo Stato di Israele veniva a sostituirsi alla precedente politica dell’Havlagh (limitazione) e aveva bisogno di una giustificazione morale, anche per convincere gran parte degli Ebrei che ancora ricordavano sulla propria pelle la repressione nazista. Questa giustificazione venne trovata nel concetto di shoah (catastrofe), non solo quella subita ad opera dei nazisti, ma anche quelle altre che attraversano la storia del popolo ebraico. Si collegava così la catastrofe più recente, lo sterminio ad opera dei nazisti, con la nascita di uno Stato israeliano: shoah vetekumah (catastrofe e rinascita).

Un altro mito venne anche rimesso in circolazione: quello dell’eroismo (vagevurah), il cui simbolo restava l’insurrezione del ghetto di Varsavia. Si collegava in questa maniera, apologeticamente, la ribellione contro una nuova, possibile, catastrofe, cioè il ritorno degli arabi nelle loro case, con la ribellione, e si otteneva il nuovo concetto di shoah vagevurah (catastrofe e eroismo). Questi elementi si mischiarono poi per ottenere quella miscela esplosiva, alimentata dalla propaganda degli estremisti di destra e dei fanatici religiosi, che doveva spegnere gli entusiasmi egualitari della più gran parte degli immigrati nella terra d’Israele.

Una volta liberatisi dai Turchi, gli Arabi palestinesi non volevano essere dominati né dagli Inglesi né dai sionisti, nuovi arrivati. Ma questo loro rifiuto, riguardava, e riguarda anche oggi, la gestione della loro vita da parte di uno Stato britannico o israeliano. Essi volevano costituire una comunità palestinese con l’insieme delle diverse componenti arabe dislocate nel territorio. Ma non avevano nulla da obiettare all’inserimento di comunità diverse dalla loro, come era avvenuto nel 1920 con gli Armeni fuggiti alla persecuzione turca. Quello che non volevano, e che non vogliono, era ed è uno Stato israeliano, o britannico, che li domini. Per tale motivo, i Palestinesi non si opposero subito all’insediamento degli Ebrei, fin quando questo non prese la forma di un movimento politico sionista avente lo scopo di instaurare lo Stato israeliano. E questa opposizione araba divenne tanto più dura, quanto più diventava chiaro il progetto statale ebreo, dietro le teorizzazioni egualitarie delle comunità agricole libere e federate.

All’interno del movimento sionista vi fu sempre, e sotto certi aspetti continua anche adesso come opposizione interna in Israele, una tendenza verso la costituzione, in Medio Oriente, di una forma di socialismo libertario, tendenza corrispondente al parallelo rifiuto della costituzione di uno Stato ebraico. Questa tendenza partiva da una possibile collaborazione tra arabi e Israeliani, suggerendo una contrapposizione di classe molto più reale di quella astratta, ma purtroppo produttrice di funeste conseguenze, basata su differenti nazionalismi. Si trattava della contrapposizione tra il modello di una società collettivista e libera, almeno in prospettiva, fondata sulla struttura produttiva del kibbutz, e il modello della società oppressiva fondata sul capitalismo di Stato di tipo sovietico. La scelta delle collettività, mi sembra oggi [1991] l’unica strada verso la soluzione del problema. Il misticismo giocava la sua parte. «Il carattere di autorità dell’esperienza mistica è legittimo, ma deve essere inteso diversamente: è l’autorità del futuro stadio di evoluzione della coscienza, che si annuncia in esso. Anche se dal punto di vista scientifico attuale le esposizioni di Bucke appaiono ingenue e insostenibili, io le ritengo tuttavia illuminanti e istruttive per ogni considerazione dell’autointerpretazione mistica. Sono una preziosa testimonianza a favore di quell’infinita capacità di interpretazione che è insita nell’amorfa esperienza mistica». (G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, tr. it., Torino 1980, pp. 23-24).

In Europa non possediamo un adeguato livello di conoscenza del problema. Riguardo ai Palestinesi non si hanno notizie che non siano filtrate dai rappresentanti ufficiali che parlano e agiscono come il governo di uno Stato, quindi hanno un’attendibilità alquanto dubbia. Che l’arrivo degli Ebrei sia stata un’operazione diplomatico-militare, è fuori discussione, ma è anche da sottolineare il fatto che i Palestinesi, prima della guerra, erano sotto il dominio turco e non furono, all’inizio, del tutto contrari a questo arrivo che poteva sembrare un aiuto contro la dominazione. Certo, tutto ciò non giustifica il comportamento dello Stato israeliano, le sue pretese necessità di espansione militarista e di occupazione violenta, ma fa capire meglio il desiderio dei Palestinesi di liberarsi dal dominio, quale che esso sia, ieri quello dei Turchi, oggi quello di Israele.

Anche sulla comunanza semitica si è molto giocato, ma bisogna ammettere che ciò vuol dire poco al di là del fatto che questi popoli sono linguisticamente imparentati, cosa addirittura trascurabile oggi, visto che l’ebraico moderno viene da tutti pronunciato con forme gutturali molto attenuate, quindi all’occidentale, e coloro che lo pronunciano con forme gutturali classiche, quindi vicine all’arabo, ad esempio gli ebrei provenienti dallo Yemen, vengono considerati come terroni e sottosviluppati, in base allo stesso meccanismo razzistico fondato sulla pronuncia di cui si è detto prima.

Per gli Ebrei vale anche lo stesso discorso della conoscenza superficiale. In Italia, ad esempio, conosciamo poco e niente la cultura ebraica. C’è stata una cresciuta attenzione verso l’ebraismo, ma si è trattato di un movimento superficiale. Ad esempio, la cultura ebraica occidentale si può dire sia una scoperta recente. Autori come Heine, Roth, lo stesso Freud, difficilmente vengono posti in relazione con l’ebraismo. La religione di questo popolo è stata rimossa dalla presenza viva nei paesi occidentali, ed è stata rinchiusa nei luoghi di culto. Ora, essendo inseparabile la religione dalla cultura ebraica, ne è derivato che anche questa è stata rimossa. «Infine dobbiamo ancora ricordare un altro modo in cui l’autorità religiosa – soprattutto nelle religioni monoteiste – cercava di prevenire il conflitto coi mistici. Si tratta del tentativo di addossare ai mistici responsabilità sociali, di costringerli ad agire nella comunità dei non illuminati, anzi del semplice popolo, anziché respirare l’aria settaria delle comunità pneumatiche degli “illuminati”. Nel cristianesimo, dove è sempre esistita la possibilità di un’organizzazione degli pneumatici, a partire dagli inizi del monachesimo, questo momento non è sempre così evidente come nell’ebraismo. Fin dall’età talmudica vi troviamo, in quest’ultimo, una spiccata riluttanza a lasciare il mistico solo con i suoi simili, e ad assicurargli proprie possibilità di organizzazione. Si sottolinea continuamente che l’esperienza del mistico, l’“amore di Dio”, si deve confermare nel rapporto con la comunità degli uomini e nell’attività al suo interno, e non nell’illimitato flusso della corrente spirituale fra l’individuo e il suo Dio. Qui mi limiterò a indicare in generale questa prospettiva, che si dimostra molto fruttuosa per la considerazione e la fenomenologia del misticismo nelle grandi religioni, mentre rinuncio a sviluppare più dettagliatamente la dialettica di questo rapporto e le diverse forme del suo influsso storico. Comunque rappresenta un momento decisivo per l’“addomesticamento” del mistico e il suo contenimento entro i confini dell’autorità religiosa. Ma in un rapporto di contrasto preciso e inconciliabile con tutti questi tentativi di compromesso, o comunque intesi a risolvere la tensione fra il mistico e l’autorità religiosa, sta il fenomeno limite del nichilismo mistico, della distruzione di ogni autorità in nome dell’esperienza mistica o della stessa illuminazione». (Ib., pp. 36-37). Sappiamo poco del rapporto tra religione e potere politico, della funzione dei rabbini, del cuore della tradizione che ha tanto spazio nella coscienza del popolo israeliano. Non è un caso, ad esempio, che i trattati della Mishnah e i due Talmud non siano mai stati editi in Italia [almeno fino al 1990]. In questo modo, l’idea che ci facciamo dell’ebreo, anche a livello di massa, è quella fornita dalla iconografia antisemita. Continua Scholem: «Insistono sempre sul punto che la prima grande rivelazione è anche stata quella che ha il rango più elevato. Successivamente il rango e il livello a cui una rivelazione può essere ancora accettata come legittima espressione dei contenuti fondamentali di tale religione diventano sempre più bassi – più deboli e meno autorevoli. Quest’idea, che pare costitutiva delle religioni monoteistiche, pone naturalmente un grosso problema per il mistico, poiché per lui la propria esperienza religiosa è viva e intatta, ed è accompagnata dalla coscienza di un valore estremo. Qui erano inevitabili compromessi, almeno nel senso di riconoscere differenze di grado, che dovevano anche influire sulla terminologia religiosa. Ad esempio nell’ebraismo rabbinico, da cui si sviluppava il misticismo cabbalistico, si riconosceva l’autenticità e l’autorità, di tipo diverso, di diverse esperienze di rivelazione possibili, vale a dire di quella di Mosè, dei profeti, dello Spirito Santo (che ha parlato negli autori dei Salmi e di altre parti della Bibbia), di coloro che hanno udito la “Voce celeste” (la bath Kol, che si sarebbe potuta udire nell’età talmudica), e finalmente delle rivelazioni del profeta Elia. Ognuno di questi stadi rappresenta un grado di autorità rivelativa inferiore a quelli precedenti». (Op. cit., pp. 26-27).

Una delle prime e più fortunate operazioni militari israeliane si chiamò “fatto compiuto” e lascia bene capire la mentalità di questi pionieri. Era gente che aveva poco da perdere e molto da guadagnare. Si sentivano, e alcuni di loro si sentono ancora, fieri del fatto di non essere più disposti a farsi massacrare e sono, tristemente, diventati massacratori. L’orrore del passaggio, da una parte all’altra di questa barricata, non li sfiora nemmeno. C’è da precisare, almeno secondo la mia idea, che il popolo israeliano ha acquisito il diritto naturale a vivere indisturbato nel suo territorio, quali che siano state le origini del costituirsi di questa entità numerica e demografica come popolo e di questo medesimo territorio. Da questa consolidazione naturale di un diritto, emerge la valutazione da dare ad un’occupazione avvenuta, in massa, intorno al 1947 e negli anni successivi, e il modo di differenziarla da un’occupazione avvenuta dopo, cioè dei territori della Cisgiordania e di Gaza. La propaganda dello Stato israeliano tende invece ad accomunare queste due occupazioni, permettendo così agli eredi del sionismo di assumere gli atteggiamenti dei padri fondatori e di continuare a diffondere l’equivoco del “Eretz Israel”. I sionisti di oggi, che si consideravano consegnati dalla storia alla nostalgia, si ritrovano colonizzatori. Quale potrebbe essere, secondo questa gente, la differenza tra l’occupazione di Jaffa e quella di Hebron? A me sembra che ci sia una differenza fondamentale. Le prime occupazioni, a prescindere dalle intenzioni sioniste, per altro di una parte del sionismo ufficiale, di costruire subito lo Stato centralizzato, le prime occupazioni, dicevo, furono più che altro l’arrivo di masse di Luftmensch, di uomini erranti, obbligati durante l’esilio a fare lavori marginali e professioni pagate male, i quali, arrivati nella loro terra promessa, potevano di fatto limitarsi a vivere accanto agli arabi, coltivando la terra in comunità e in collettività socialiste libertarie. Si trattava quindi, pur nei limiti e con le contraddizioni di un afflusso di grandi masse, di un’occupazione di lavoratori che, da se stessi, si dedicavano al lavoro della terra, per poi estendere la produzione anche agli altri settori delle attività umane. L’occupazione della Cisgiordania e di Gaza è cosa diversa. I nuovi occupanti non hanno la scusa dell’ideale dei loro padri, per quanto discutibile quello poteva essere. Essi sono attratti dalla seduzione prosaica di grandi appartamenti a basso prezzo, che dopo tutto si trovano ad appena venti minuti da Gerusalemme e a un’ora da Tel-Aviv; dalla disponibilità di mano d’opera a basso prezzo e illimitata, costituita dagli abitanti dei ghetti arabi; dalla possibilità di non lavorare più e di diventare non più halutzim (pionieri), ma colonizzatori, sfruttatori del lavoro altrui, della povera gente, senza risorse e senza niente.

E tutto ciò viene giustificato con la situazione di necessità. “Ein Brera”: non abbiamo altra scelta! Si tratta di una scelta del governo israeliano, giustificata ideologicamente attraverso il pessimismo di fondo della cultura ebraica. Anche la sinistra israeliana ha fatto propria questa scelta. Il sottile veleno di un’antica possibile maledizione, pesa sul destino d’Israele, questa volta in modo rovesciato. Il popolo-paria resta comunque nel suo tradizionale isolamento.

Israele è il paese che oggi [1991] sostiene il peso militare più alto al mondo per abitante. Ciò dice di già tanto. I prezzi salgono ogni anno, la bilancia commerciale è sempre in debito di miliardi di dollari e si avvicina alla metà del prodotto nazionale lordo, il bilancio dello Stato è quasi uguale al prodotto nazionale, quando non lo supera di molto. Lo Stato israeliano può fare fronte ai suoi impegni solo grazie ai capitali esteri. L’impossibilità di pagare le importazioni ha reso impossibile fin dall’inizio ogni autonomia. Da qui la dipendenza totale dagli Stati Uniti. Dopo la guerra del giugno 1967, e poi sempre di più a partire da quella dell’ottobre 1973, la dipendenza è aumentata. L’inflazione del periodo 1977-1978, ha bruciato praticamente tutte le risorse del paese.

In base alle scelte sioniste, Israele è obbligato a dare non solo una patria a tutti coloro che in quanto Ebrei si recano nel suo territorio, ma anche un lavoro e un minimo di tenore di vita, assistenza sociale, medica, ecc. Ciò comporta spese immense, assolutamente non proporzionate alle reali possibilità. Le motivazioni ideologiche passano quindi avanti alle decisioni di razionalizzare l’economia. La sicurezza del paese è un altro dei motivi che impediscono scelte strettamente economiche. Essendo sempre sull’orlo di una guerra, Israele non può prendere misure economiche troppo rigide che metterebbero in maggiore evidenza le componenti di classe della società israeliana, le quali esistono ma devono essere tenute costantemente sotto controllo ideologico. Le spese militari sono il 30 per cento della produzione totale. L’esercito consuma il 15 per cento del prodotto industriale ed impiega il 20 per cento della mano d’opera. Ogni uomo è obbligato, da 22 a 55 anni, a compiere il servizio di un mese ogni anno nell’esercito, nelle unità di riserva, pratica di cui non è possibile misurare il danno in termini di costi industriali e produttivi. Oltre agli Stati Uniti, Israele riceve aiuto dai fondi privati della diaspora ebrea. Si calcola che questo afflusso di denaro è di circa 500 milioni di dollari all’anno [fine anni Ottanta]. Vi sono poi le sottoscrizioni del prestito internazionale israeliano, che sono collocate in massima parte negli Stati Uniti.

Per quanto Stato teocratico, quindi provvisto di fortissime motivazioni ideali e ideologiche, Israele ha un crinale interno basato su di una discriminante di classe, allo stesso modo di tutti gli altri Stati, ed è questa una delle ultime realtà che esso è disposto ad ammettere. La differenza di fondo e quella tra ebrei Sefarditi ed ebrei Askenaziti. I primi, chiamati anche neri, in opposizione ai bianchi, sono quelli venuti dal Marocco, dall’Egitto, dall’Algeria, dall’Iraq, dalla Tunisia, dalla Siria, dall’Etiopia, dallo Yemen ma anche dal sud dell’Europa. Nei loro confronti esiste una discriminazione razzista, imposta dagli ebrei Askenaziti, che sono quelli provenienti dall’Europa continentale, i quali si fanno forti, per prima cosa, del fatto di essere stati quasi i soli ad avere subito la catastrofe dell’olocausto.

I Sefarditi sono cresciuti di numero dopo l’arrivo di quelli costretti a fuggire dai loro Paesi d’origine a seguito dell’acuirsi del conflitto arabo-israeliano. Di culture diverse, questi in fondo sono più portati per una socializzazione della produzione e per un’accettazione di valori comunitari. Arrivarono però in un momento in cui questi valori stavano rapidamente venendo meno, soppiantati dalle nuove necessità della militarizzazione e dell’urbanizzazione forzata. Vennero quindi inseriti nelle città, subirono un’occidentalizzazione obbligata e rapida, dovettero sottostare anche a discriminazioni riguardo il livello culturale e la lingua. Adesso costituiscono la fascia più povera e inquieta della società israeliana, e anche la base oltranzista contro gli arabi, e i Palestinesi in particolare, di cui temono le ritorsioni, sull’esempio delle aggressioni subite nei paesi da loro abbandonati. La più grande paura di molti neri sefarditi è quella di essere rispediti nei paesi di provenienza, dove non hanno più radici e dove verrebbero rinchiusi nei campi di concentramento o semplicemente massacrati.

La classe dominante si colloca quasi del tutto fra gli Askenaziti e riassume le elite dei diversi settori che vanno assumendo sempre più un comportamento da falchi. È contro di loro che si rivolge lo slogan molto efficace, scandito nel corso delle manifestazioni contro la politica del governo, di Askenaziti=Askenazisti. Data la struttura del paese e l’ideologia dominante a fondamento religioso e mistico, un sollevamento sociale di tipo industriale avanzato non è pensabile. Esistono manifestazioni di lotta anche clandestina, sabotaggi realizzati dalla “Ma’atz”, ma ciò che si coglie nei quartieri della capitale è il senso della frustrazione, della inutilità della vita.

Sono contrario allo Stato israeliano, ma anche allo Stato palestinese suggerito continuamente. Sono per la costituzione di una federazione di comunità di lavoratori, palestinesi ed israeliani, libera di darsi i propri programmi, di fare le proprie scelte organizzative e produttive al di fuori delle ingerenze interessate dei grandi Stati imperialisti. Sono per una collaborazione pratica e ideale, produttiva e culturale, tra il popolo palestinese e quello israeliano, unico mezzo per porre fine ad un conflitto nazionale, e di razze, che non ha ragione di esistere in quanto, in quella terra, c’è posto per tutti e due i popoli, conservando ed arricchendo le differenze di cultura, di religione, di tradizione. In queste faccende occorre dire le cose come stanno, e dirlo ad alta voce. «Non la Professione di fede in Adolf Hitler e nello Stato nazionalsocialista (titolo sotto il quale venne diffusa l’allocuzione di Heidegger alla manifestazione elettorale degli scienziati tedeschi tenuta a Lipsia l’11 novembre 1933) sfida il giudizio dei posteri, i quali non possono sapere se in una situazione analoga non avrebbero commesso lo stesso errore. Ciò che inquieta è la riluttanza e l’incapacità del filosofo, dopo la fine del regime nazionalsocialista, ad ammettere anche con una sola frase il suo errore gravido di conseguenze». (J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, tr. it., Roma-Bari 1987, p. 158).

«Ma nel fondo dell’orrore, non so quanto spazio possa avere la parola, o se anche questa non venga presa nella morsa di una possibile collaborazione coatta. Denunciare non basta. Limitandosi a ciò si comunicano apparenti verità, approssimazioni dozzinali, semplificazioni che il lettore sofisticato dall’educazione democratica di massa finisce per illudersi di capire, mentre tutto sfuma nella degradazione e nella corruzione di ogni concetto. Penetrando nei moventi si sistemano cimiteri facendo posto ad altri cadaveri. Ci si conforta reciprocamente aspettando di cogliere la predizione esatta, quella capace di fornirci l’andamento della storia, la decodificazione conclusiva. Sminuzziamo il materiale e lo pestiamo nel crogiuolo dell’ideologia, mettendoci al sicuro da pessime sorprese. Che ingenua illusione! “Discorso del metodo per ben guidare”: è veramente, letteralmente, un metodo per evitare il disguido, la cattiva condotta. E allora, se si vuole, non è nulla, perché si è sempre voluto evitare il disguido in materia di pensiero; e se si vuole è tutto, perché è una delle tre o quattro grandi scosse che mai si siano prodotte nella storia del pensiero. Se si vuole è nulla, perché sempre si era trattato di evitare il disguido in materia di pensiero. E se si vuole è ancora meno che nulla, perché non lo si è evitato più dopo che prima, e Descartes non lo ha evitato più di chiunque altro (e, in questo senso, ho detto che Bergson è un bergsoniano infinitamente migliore di quanto Cartesio sia cartesiano). E tuttavia, se si vuole è tutto: perché è il cartesianismo. E in questo stesso discorso del metodo non c’è che una parte su sei, la seconda, che sia di regole del metodo. In tutto sette pagine e mezza. E in questa stessa seconda parte, non c’è che il nocciolo, venti righe in tutto, che siano le regole del metodo. Sono queste venti righe quelle che hanno rivoluzionato il mondo e il pensiero. Anche Valmy è una piccola battaglia, un duello d’artiglieria scatenata con piccole forze, anzi, non scatenata affatto, senza quasi morti e feriti. Un pregiudizio, del resto, assolutamente non sradicabile vuole che una ragione rigida sia più ragione che una ragione agile; o, meglio, vuole che un ragionare rigido ragioni meglio che un ragionare agile. È un pregiudizio che ha corso e fiorisce su tutto il fronte. Regna, è inestirpabile in tutte le discipline che abbiamo elencate al principio di questa nota. È lo stesso pregiudizio che vuole che una logica rigida sia più una logica che una logica agile. E che un metodo scientifico rigido sia più un metodo, e più scientifico, che un metodo scientifico agile. E, soprattutto, che una morale rigida sia più una morale, e più morale, che una morale agile. È come se si dicesse che le matematiche della retta sono più matematiche che le matematiche della curva. È evidente, al contrario, che appunto i metodi agili, le logiche agili, le morali agili, sono le più severe, essendo le più aderenti. Le logiche rigide sono infinitamente meno severe che le logiche agili, essendo infinitamente meno aderenti. Le morali rigide sono infinitamente meno severe che le morali agili, essendo infinitamente meno aderenti. Una logica rigida può lasciar sfuggire pieghe di errore. Un metodo rigido potrà lasciar sfuggire pieghe di ignoranza. Una morale rigida può lasciar sfuggire pieghe di peccato; mentre una morale agile ne afferrerà, ne denuncerà, ne inseguirà le sinuosità di fuga. Solo la logica agile, il metodo agile, la morale agile seguono, colgono, delineano le sinuosità di errori e mancanze. Solo una morale agile esaurisce le sinuosità dei cedimenti. Solo in una morale agile tutto traspare, tutto si denuncia, tutto si porta in giudizio. In un incasellamento rigido possono esservi, inavvertitamente, lacune e fessure e false pieghe. La rigidezza è essenzialmente infedele, solo l’agilità è fedele. L’agilità denuncia. Contrariamente a quanto si crede, a quanto si insegna comunemente, quella che bara, quella che mente, è la rigidezza. L’agilità, non solo non bara, non solo non mente, ma non lascia barare e non lascia mentire. La rigidezza, al contrario, permette tutto e non segnala niente. In un baule moderno potete impilare tutti i veli di lino della supplicazione antica: se, dentro il baule, questi veli fanno cattive pieghe, nulla apparirà sul coperchio». (Ch. Peguy, Notes sur H. Bergson et la philosophie bergsonienne, ns. tr., Paris 1958, p. 1290). La legge storica non ha salvato la storia. Prima di tutto perché non poteva salvare se stessa in quanto legge, né nessuna altra illusione camuffata da legge. Nessuna necessità, nessuna predittività. È straordinario come un popolo in fuga dalla realtà, come il popolo ebraico, abbia questo senso di totalità della parola, nell’estrema complicanza dei suoi significati, perché nel più profondo delle tenebre sta il nome di Dio. Per non concludere nel silenzio, continuano a chiudersi in attesa della luce, quella definitiva. Torturati e torturatori, per sempre.

L’ombra lunga dell’Inquisizione ha da tempo smesso di fare paura. Ma sotto i vestiti dei preti cattolici potrebbero entrare sempre nuovi personaggi. Gli Ebrei non sono indenni, anzi stanno dimostrando di essere candidati con buone possibilità. Ha scritto Max Weber a proposito della segregazione che gli Ebrei s’impongono come popolo-ospite ritualmente separato: «La diffusione generale dell’“anti-semitismo” nell’antichità è un fatto. È anche vero però che questo rifiuto dei Giudei, che dapprima si è solo lentamente intensificato, andava di pari passo con il rifiuto sempre più rigido dei rapporti comunitari con non-giudei da parte degli stessi Giudei. L’antica avversione per i Giudei era ben lontana dall’essere un’antipatia di tipo “razziale” [...]. L’elemento decisivo per i rapporti reciproci è stato piuttosto l’atteggiamento di rifiuto degli stessi Giudei [...]. Se si guarda al nocciolo della questione, la “misantropia” dei Giudei tornava continuamente ad essere l’accusa ultima e definitiva: cioè il loro rifiuto di principio del connubio, della commensalità, e di ogni sorta di fratellanza o di comunanza più stretta [...]. L’isolamento sociale dei Giudei, questo “ghetto” nel senso più profondo del termine era prima di tutto fondamentalmente scelto e voluto da loro stessi». (Sociologia delle religioni, vol. II, op. cit., pp. 1271-1272). Il che si attaglia con particolare pertinenza alla situazione attuale d’Israele.


[Pubblicato in Alfredo M. Bonanno, L’Inquisizione. La tortura in nome di Dio, Trieste 2013, pp. 401-430]

 
 

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